GIULIO ANGIONI A fogu aintru · co dentro – A fogu aintruè intimamente legato alla temperie...

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S C R I T T O R I D I S A R D E G N A GIULIO ANGIONI A fogu aintru A fuoco dentro

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Scrittori di Sardegna

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Giulio Angioni

A FOGU AINTRUA FUOCO DENTRO

nota introduttiva di Franco Manai

Stampa: Lito Terrazzi, Firenze

© Copyright 2008Ilisso Edizioni - Nuorowww.ilisso.it - e-mail [email protected]

ISBN 978-88-6202-023-7

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NOTA INTRODUTTIVA

A trent’anni dalla sua prima pubblicazione A fuoco den-tro – A fogu aintru è ormai un classico della letteratura regio-nale sarda non solo perché, come voleva Italo Calvino, non hamai finito di dire quel che ha da dire, ma anche per l’alto pro-filo che la figura del suo autore ha via via acquistato nel corsodi questi anni nel mondo letterario e culturale.

Questo volumetto, uscito per i tipi della Edes di Cagliari,casa editrice specializzata soprattutto in saggistica antropologicae a diffusione prettamente regionale, raccoglieva dei testi giàpubblicati in rivista tra il 1975 e il 1976 e proponeva a unpubblico più ampio alcuni altri testi letterari di un autore giànoto agli specialisti per i suoi saggi legati all’attività di docentedi antropologia culturale all’Università di Cagliari. Angioniha costantemente affiancato alle sue copiose pubblicazioni dicarattere scientifico quelle altrettanto numerose di segno lettera-rio, mantenendo beninteso ben distinti i due ambiti di scrittu-ra. È stato un modo di partecipare con le parole e con i fatti aldibattito internazionale (si pensi a Clifford Geertz e a JamesClifford) sulla natura della scrittura etnografica, cioè su comeparlare di modi di vita diversi. Tenendo separati i campi, An-gioni non riduce (o promuove) il rapporto etnografico a puroracconto, creazione retorica dell’etnografo, ma dimostra la suafiducia nel grande e comunque maggiore potenziale comunica-tivo della letteratura rispetto all’etnografia. Tutta l’opera di An-gioni gravita tematicamente sulla Sardegna, o meglio sul cam-biamento epocale e vertiginoso che vi ha avuto luogo a partiredagli anni Cinquanta del Novecento e che in parte continuaancora oggi. Ma il continente Sardegna è sempre per Angionila base e lo spunto per un discorso ben più ampio, che inseriscele tematiche propriamente sarde all’interno di un contesto na-zionale e soprannazionale.

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volumetto che contiene venti brevi “quadri”. Tale definizioneper i singoli pezzi della raccolta è dello stesso Angioni, che evi-dentemente avverte come problematici i termini racconto o no-vella. Se molti dei pezzi di A fuoco dentro – A fogu aintru po-trebbero tranquillamente essere considerati alla stregua di classiciracconti, molti altri sfuggono decisamente a questa definizione ed’altra parte non è possibile neanche farli rientrare nell’altra fat-tispecie tradizionale del bozzetto. Alla maniera dell’Acitrezza diVerga o della Mineo-Rabbato di Capuana, Angioni sceglie dirappresentare la vita sociale, durante il trentennio successivo allafine della seconda guerra mondiale, di un immaginario paesecontadino della Sardegna meridionale, cui dà il nome di Nu-raddei. Immaginario ma realissimo, improntato com’è sul paesenatale dello stesso Angioni, Guasila. A questo mondo Angioniintende rimanere fedele e non caricarlo di elementi allotri, senzaperò offrirne un’immagine stereotipa e sterilizzata, appunto boz-zettistica. Così inserisce tra i vari racconti di tipo tradizionaledei “quadri” che fungono da raccordo non tanto o non solo traun racconto e l’altro, ma soprattutto tra il mondo narrativo del-la raccolta nel suo complesso e la realtà sociale e politica di chinarra e di chi legge. In questi quadri cerniera (4 “Chi ha visto ilmondo”, 7 “Il reddito”, 8 “L’ultimo carrettiere”, 9 “Città e cam-pagna”, 10 “Voltaire e il gendarme”, 13 “Trent’anni dopo”, 18“A fuoco dentro”, 19 “Zicchirìa”, 20 “Controtempo”) viene nar-rativizzato, in diversi modi e a diversi livelli, il tema della figu-ra dell’intellettuale e del suo problematico ruolo nella società. Al-lo stesso tempo vi è introdotta la figura del narratore, che quindipresenta se stesso come qualcuno che per un verso fa parte diquel mondo rustico e contadino, subalterno e superato, per unaltro partecipa a tutti gli effetti della cultura urbana dal cuipunto di vista quel mondo è superato. In questo modo Angionievita il pericolo di presentare la sua narrazione come una descri-zione oggettiva, impossibile per definizione, senza con ciò rica-dere in un autobiografismo solipsistico, del tutto e solamente in-terno alla cultura dominante.

È significativo che nel titolo della raccolta, A fuoco dentrovenga immediatamente glossato col suo originale sardo A foguaintru e che poi il tutto sia nuovamente “glossato” da un racconto

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Come la successiva raccolta Sardonica (Edes, 1983), A fuo-co dentro – A fogu aintru è intimamente legato alla temperieculturale degli anni Settanta, e vi sono infatti evidenti i segni diquello che allora si chiamava lavoro intellettuale impegnato.Non solo i temi trattati sono quelli tipici di una letteratura chevuole analizzare la realtà per trovare il modo di cambiarla (con-dizioni di vita delle classi subalterne, dialettica città-campagna,problematiche dell’emigrazione), ma soprattutto il modo in cuiquesti temi sono trattati e in specie il linguaggio usato sono carat-teristici di una letteratura che rifiuta l’ortus conclusus degli ad-detti ai lavori e si pone come terreno di confronto per un pubbli-co potenzialmente vasto di lettori. In coraggiosa controtendenzaAngioni ritiene importante pagare un doveroso tributo ai model-li del verismo e del neorealismo, entrambi ormai lontani e fuorimoda. Il suo particolare problema, tuttavia, consiste nel trovareil modo di dare voce a un mondo in fase di trapasso, in cui luistesso e la sua storia personale erano strettamente implicati. C’erail rischio di dare di questo mondo, contadino e pastorale, unarappresentazione viziata dalla lunga e pervicace tradizione lette-raria del bozzettismo e dell’idillio agreste. È anche vero che il pa-norama letterario italiano offriva validi esempi di rappresenta-zioni per niente idilliache del mondo subalterno, dal calabreseSaverio Strati di Noi lazzaroni del 1972, ai sardi SalvatoreMannuzzu di Un Dodge a fari spenti del 1962 e Gavino Led-da di Padre padrone del 1975. Angioni può essere accostato atali scrittori per la volontà di descrizione antropologica di unarealtà sociale in via di estinzione, tuttavia non ne condivide lesoluzioni narrative, a cominciare dalla scelta dei personaggi nar-ratori, ovviamente determinante rispetto al linguaggio e allaprospettiva del testo.

Il carattere distintivo della scrittura di Angioni è l’ironia cheinveste e coinvolge tutto e tutti, autore e lettore compresi. Ancheautoironia dunque e, beninteso, senza compiacimenti. Un mo-dello forte di ironia è sicuramente costituito da Emilio Lussu, eAngioni dichiara il suo debito con uno dei maggiori scrittorisardi già nel titolo della raccolta, il cui significato viene spiegatocon il racconto eponimo A fuoco dentro, collocato, con eleganteunderstatement, in posizione debole, al diciottesimo posto del

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consapevolezza, senza cioè che venga formulata una condannadavvero esplicita contro chi quella violenza ha esercitato. Scrive-re in sardo significava per Angioni additare anche un’altra pos-sibilità di soluzione alla questione della lingua in Sardegna,presto diventata questione di identità. “Arrichetteddu” è la pri-ma novella a essere pubblicata in sardo, fino a allora linguaggioletterario riservato ai poeti. Incoraggiata dall’istituzione nel1979 del premio letterario Casteddu de sa fae a essa riservato,la narrativa sarda è poi fiorita e ha dato notevoli frutti, a co-minciare dal primo romanzo di Lorenzo Puxeddu, S’arvore desos tzinesos (1982) e poi con Sos sinnos (postumo, 1983) diMichelangelo Pira, Mannigos de memoria (1984) e A tem-pos de Lussurzu (1985) di Antonio Cossu, Pro cantu Bidda-noa di Benvenuto Lobina (1987) e tanti altri. Non ci si puònon rammaricare del fatto che Angioni non abbia voluto prose-guire egli stesso, certo accanto a quella che solum è sua dell’ita-liano letterario regionalizzato, quella strada sarda che avevatanto magistralmente indicato con la sua novella. Si può sempresperare che lo faccia in futuro.

Nel gioco a incastri che presiede alla composizione della rac-colta, tra sardo e italiano, tra narrare spiegato e “quadri” checontaminano scrittura documentaria e finzione, impegno politi-co e ripiegamento esistenziale, Angioni mette anche se stesso ingioco, come scrittore e come intellettuale che inevitabilmente fa-tica a svolgere il proprio ruolo, fatica cioè a individuare conchiarezza le linee di sviluppo della società all’interno della qualeegli sarebbe chiamato a svolgere opera di mediazione culturale.Come l’io poetico plurale di Montale, egli forse non sa ciò che è,ciò che vuole, ma di certo sa che, nonostante ogni fascinazione,il concentrare l’attenzione su particolari staccati del passato e delpresente, sui frammenti di una squallida modernità o sui relittisparsi di un’infanzia irrevocabilmente trascorsa, comporta l’im-possibilità di cogliere, insieme ai pericoli, le opportunità offerteda un contesto nuovo e in continua evoluzione. L’elegia arcadicae il pianto funebre sono le strade alle quali l’autore di A foguaintru caparbiamente si rifiuta.

Franco Manai

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in cui italiano e sardo sono amalgamati in una forma partico-lare di italiano. Tutta la raccolta, con una notevole eccezione, èscritta in questo linguaggio ricchissimo di calchi di luoghi co-muni, di espressioni idiomatiche, di regionalismi a tutti i livelli,dalla sintassi, al lessico alla morfologia. Numerosi sono anchegli inserti di espressioni o intere frasi in dialetto basso-campida-nese. Lo stile è piano, il periodare scorrevole, la lingua non ri-chiama con prepotenza l’attenzione su se stessa, anche quandomescola nel suo impasto moduli dell’italiano regionale o addi-rittura del dialetto. Non si vuole con questo dire che si tratti diuna scrittura banale e corriva. Al contrario, siamo in presenzadi una scrittura estremamente sorvegliata, che raggiunge altis-simi livelli di perspicuità senza per questo cedere in complessitàe suggestione.

L’eccezione linguistica cui si è fatto cenno è data dal raccon-to “Arrichetteddu”, l’unico scritto interamente in sardo (campi-danese), peculiare anche per la stretta aderenza alla strutturaclassica della novella, in cui ogni elemento, accuratamente scel-to, è finalizzato al raggiungimento di un obiettivo rivelato dal-la pointe finale. L’uso del sardo contribuisce a rafforzare la pe-culiarità della focalizzazione interna della voce narrativa. Chiparla è uno qualunque del paese e il modo in cui racconta lavicenda è quello in cui è verosimile ci si aspetti che la comu-nità l’abbia vista. È un discorrere piano, chiaro, che fa un lar-go uso di frasi brevi e di espressioni colloquiali ma non rifuggeall’occorrenza da un periodare un po’ più ampio in cui è co-munque privilegiata la paratassi. Man mano che ci si avvicinaalla tragica conclusione, questo periodare si fa più secco e mar-tellante, fino al climax dell’ultimo, asciuttissimo, drammaticocapoverso, in cui sembra risuonare l’ellittico finale del Werthergoethiano:

S’est cumprendiu ca Arrichetteddu est abarrau cassau ain-tru [ il locale della motocicletta]. In foras hant agattauunu bratzu suu cun sa maniga de fustainu. De cussa arro-ba dd’had connotu sa mamma.

Contro Arrichetteddu è stata esercitata una violenza spaven-tosa, che però è raccontata, perché così viene vista, quasi senza

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RICERCA SUL CAMPO

La vecchia lo guardava fissa e curiosa, come si divertis-se di lui e delle sue domande. Accoccolata per terra placidae comoda, una mano su un sasso piatto e l’altra su un gi-nocchio, le gonne tutt’attorno sulla polvere, stava badandoa un tubo lungo di plastica gialla che partiva dal rubinettodella fontana pubblica e oltre un muretto scompariva a in-naffiare verdure invisibili, dopo una ventina di metri diserpentine nella polvere.

Anche lei accennò a Sidoru Friarosu. Era già la terzapersona del paese che gli indicava ziu Sidoru Friarosu co-me il più capace di informarlo su come andavano le cose,prima, per la festa annuale di Sant’Isidoro. Non quello diSiviglia, ma anch’egli spagnolo, patrono dei contadini inSardegna come in Spagna.

Prima, in tutti i nostri paesi per questa festa si facevala benedizione e la processione degli animali da lavoro,ornati di collane ricamate, gutturadas, fiori, limoni e aran-ce piantate in punta delle corna dei buoi, specchietti sullafronte, briglie multicolori, puliti e strigliati dalla coda aglizoccoli, alle corna.

Decise di andare a trovare questo ziu Sidoru Friarosu,vicino alla chiesa, a fianco dell’officina meccanica dove staancora scritto fabro con una sola bi.

Si trovò di fronte un portoncino a steccato, una geccaa costallas, che lo separava da un cortile acciottolato, conmolte gibbosità e lordo di immondizie. Alcune galline virazzolavano e in un angolo grugniva un maialino che loguardò diffidente quando cercò di farsi sentire da qualcu-no di casa, sul lato opposto in fondo al cortile.

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Improvvisamente tacque e svelta abbandonò la scopain un angolo, senza dirgli nulla entrò in una delle tre stan-ze che davano nella lolla.

Riapparve poco dopo e lo invitò a seguirla, a entrarecon lei di là. Le tenne dietro, e si trovò subito in una stan-za buia, senza finestre.

A poco a poco distinse con sufficiente chiarezza un let-to con spalliere alte, di quelli che un tempo avevano la cor-tina, un comò con uno specchio e una sedia vicino al letto.La donna si avvicinò al capezzale e vi sistemò la sedia, chepulì con due colpi del grembiule.

Ubbidì impacciato al suo invito a sedersi e si trovò difronte un vecchio pallido, faccia di lucertola, con unachioma bianca scarmigliata, un fazzolettone a pallini rossiintorno al collo, riverso su due cuscini grigiastri.

Il malato lo guardava in tralice. Gli domandò se era ilfiglio di un tale, uno del paese. No, era forestiero, di unpaese vicino, venuto per vedere come stava. E se stava me-glio, come gli sembrava, era lì per sapere da lui qualcosasulla festa di Sant’Isidoro.

Si fece ripetere il motivo della visita. Lo guardò con at-tenzione, fisso, e poi senza badare più a lui si diede a bor-bottare a lungo cose incomprensibili, con gesti lenti e am-pi della destra, come a indicare vaghe lontananze.

Il borbottio del vecchio si bloccò di colpo, quando lamoglie intervenne per dire qualcosa. Divenne brusco: chec’entrava lei?

Ormai nella penombra ci vedeva bene. Sul volto di ziuSidoru scorse una lacrima che ogni tanto si detergeva coldorso della mano.

Improvvisamente, con voce altissima che lo fece sussul-tare, il malato gridò un «Peppinedda!». La moglie, ancora lìa trafficare col letto e coi cuscini, chiese rude e breve che co-sa volesse. Che andasse finalmente a prendere un po’ di mo-scato da offrire all’ospite, che diavolo, non le sembrava ora?

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Finalmente un femminile «e chi è sa genti?». Entrò e siavvicinò verso l’uscio scolorito e rugoso della lolla tuttachiusa. Aspettò finché apparve una vecchietta con unascopa di saggina in mano. Lo guardò anche lei placida-mente fissa, quando salutò, poi lo invitò a entrare, borbot-tando qualcosa su un certo dottorino nuovo.

Lo invitò a sedere su uno scranno e lei continuò ascopare lenta. In un modo strano: raccolta un poco d’im-mondizia, la spingeva con piccoli tocchi rapidi dentro gliinterstizi tra le lastre di pietra che formavano il pavimentodella lolla. Ogni tanto lo guardava attenta.

Si rese conto, imbarazzato, che lei stava aspettando chedicesse il motivo della visita. Voleva parlare con ziu Sido-ru, se era in casa, per sapere da lui ogni cosa sulla festa chesi faceva prima per Sant’Isidoro.

Suo marito stava a letto ammalato, gli disse conti-nuando a scopare. Uscì e tornò subito dopo con un catinoslabbrato da cui versò spruzzi d’acqua sul pavimento, pernon sollevare polvere scopando. Al marito era venuto uncolpo, una gutta, quattro giorni prima.

Allora era meglio che se ne andasse, per non disturba-re. Ma lei non era disposta a lasciarlo andare, quando an-cora non era nemmeno entrato in casa sua.

Incolpò del suo imbarazzo quei paesani che gli aveva-no indicato ziu Sidoru come informatore. Certamente sa-pevano della malattia del vecchio, e lo avevano ugualmen-te mandato in quella casa a parlare di feste.

Ma la vecchia scopava sempre pacifica e lenta.Certo che suo marito sapeva tutto della festa di Sant’Isi-

doro, diceva con orgoglio. Perché lui è stato priore diSant’Isidoro per una ventina di volte e obriere per più dicinquant’anni. E quando lui era priore la festa era sem-pre più bella delle altre volte: con spari di mine all’eleva-zione della messa grande, con sermone del miglior fratedel convento di Sanluri, e fuochi artificiali la sera nell’or-to grande del parroco, senza contare banchetti e rinfre-schi per i membri del comitato organizzatore.

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e variopinto. Avevano attaccate le campanelle dei buoi etante palline gialle, rosse e verdi. All’estremità pendevanofettucce verdi per legare le collane alle cervici dei buoi. Lostudente le prese sulle ginocchia e le osservò. Odoravanodi basilico secco.

Ziu Sidoru gli spiegava con tutti i particolari che ser-vivano per ornare i buoi per la benedizione e la processio-ne: davanti al santo i cavalli, dietro i buoi, il prete in mez-zo con la confraternita del rosario.

Il vecchio malato appariva sempre più stanco, ma nonlo lasciava andare. Voleva raccontare tutto, a volte congrande fatica, a volte con una rudezza che non capiva.Tutto, anche i bisticci coi vari parroci su come organizza-re la festa.

Ed ecco che scoppia in singhiozzi, gli afferra una ma-no, la tiene stretta a lungo e continua a raccontare, chia-mandolo figlio, di quando ai suoi tempi era meglio ed erapeggio, era peggio ed era meglio: come un ritornello.

D’un tratto cacciò un altro dei suoi urli, ma stavoltapiù irato, chiamando sua moglie che rientrò immediata-mente, questa volta preoccupata.

Le ordinò di porgergli subito i pantaloni perché vole-va alzarsi. Lei cercava di dissuaderlo: ma perché mai vo-leva alzarsi, in quello stato? Lo sapeva ben lui perché, ri-peteva scontroso. Bisticciavano, e ziu Sidoru cercava difarlo intervenire a suo favore, contro la donna testarda.

Ma infine capirono. Voleva andare ad accudire ai buoiche a quell’ora dovevano abbeverarsi, dopo aver mangiatopaglia e fave tritate.

Lo tenevano a forza in letto, mentre lui implorava eimprecava e minacciava la moglie. Finché ricadde dischianto sui cuscini.

Da quindici anni ziu Sidoru non aveva più buoi.

Mentre la moglie era via per un momento, ziu Sidorusi riscosse, gli fece capire di avvicinarsi di più a lui e gli

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La vecchia uscì sempre calma e lui ricominciò il bor-bottio di prima. Lo studente ritornò nel suo imbarazzo.

Di quel farfugliare non capiva né i suoni né il senso.La povertà della casa lo feriva.

Notò come le mattonelle del pavimento, in quellastanza buona, traballassero tintinnando sotto i passi dellavecchia che rientrava con una bottiglia e un solo bicchieredi vetro. Glielo mise in mano e lo riempì fino all’orlo.

Assaggiò il moscato. Avvertì l’attenzione compiaciutadel vecchio che lo guardava bere e lodò con entusiasmo,benché il moscato fosse piuttosto asprigno. Ambedue losollecitarono a bere ancora e la donna gli riempì il bicchie-re appena vuotato, con determinazione quasi minacciosa:poteva fidarsi del loro vino, fatto in casa dal vecchio, senzamedicine.

Ziu Sidoru incominciò a parlare con chiarezza. Che co-sa voleva sapere di preciso? Molte erano le cose che si face-vano per Sant’Isidoro. Lo studente incominciò con le do-mande previste dal questionario datogli dall’assistente delprofessore con cui aveva la tesi di laurea sulle feste tradizio-nali della nostra zona, su quelle religiose e su quelle profane.

Man mano che si intrattenevano, la confidenza di ziuSidoru aumentava. Rinunciò a fare mostra ogni tanto divolersene andare, perché ogni volta che lo faceva il vecchiosi eccitava e annaspava con le braccia per tenerlo sulla se-dia. Lo interrogò a lungo e lui rispondeva, spesso divagan-do sui tempi della sua gioventù, sul lavoro duro dei campie sui viaggi nel Sarcidano per comprare i gioghi di buoi.

Ancora del tutto inaspettato il vecchio cacciò un altrourlo, chiamando la moglie che non era più nella stanza.Ricomparve subito, calma, aspettando i desideri del mari-to. Che portasse subito lì le gutturadas che teneva conser-vate nella cassapanca di là. Perché doveva vederle il giova-notto studente.

Udì avvicinarsi un tintinnìo di campanelle e la vecchiarientrò nella stanza con due collane ricamate in modo fitto

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La vicina che stava seduta tenendo la mano di ziu Si-doru chiese di fare silenzio, guardò da vicino il malato,ascoltando, e sentenziò che rantolava.

Era lì già da più di tre ore quando si sentirono suona-re le campane: is agonias mormorarono le donne. La mo-glie di ziu Sidoru fece con le mani un gesto come di of-ferta. Si sistemarono intorno al letto e incominciarono apregare sommessamente. Una che gli stava più vicina dis-se allo studente che stava per arrivare il prete.

Non arrivò nemmeno il prete, prima che ziu Sidorumorisse, dopo un’oretta dall’arrivo delle vicine. Lo studen-te capì subito quando spirò, perché le donne incomincia-rono improvvisamente a piangere a voce alta.

Una disse che bisognava avvertire il figlio finanziere aGenova.

Ziu Sidoru ora giaceva col viso affilato, le gutturadas al-legre e multicolori sul petto. La moglie le prese, le campa-nelle tintinnarono un poco, prima che le sue mani soffo-cassero rapide quel suono di festa.

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domandò come in segreto perché mai, secondo lui, essen-doci un morto in casa, la moglie non accendesse le cande-le, non si dicessero le orazioni per i defunti.

E chi è questo morto? Lui era il morto, no? Non sivedeva?

E si mise lui stesso a recitare preghiere per i morti. Poiincominciò a implorare Sant’Isidoro, con uno scarto delcapo che diventava sempre più frequente e stanco.

Lo studente si levò e poggiò sul letto le gutturadas va-riopinte. Ziu Sidoru le afferrò e se le tenne strette al petto,grattandole con le dita magre.

Alla moglie chiese del medico e si offrì di andare achiamarlo. Lei spiegò che un dottorino nuovo stava nelpaese vicino, a sette chilometri, e doveva badare a quattropaesi, perché i due medici condotti erano in vacanza. Matanto era già stato avvertito. Quando era arrivato lo stu-dente, lei aveva creduto sulle prime che il dottorino nuovofosse lui. Ma gli passerà anche stavolta, lo tranquillizzò.

Rimase nella stanza a guardare, per la prima volta invita sua, un malato grave. Gli sembrava che ne fosse anchelui responsabile.

Due donne, due vicine di casa certamente, entraronosilenziose nella stanza, richiamate da chissà chi, o da chis-sà che cosa. Efficienti e svelte si diedero da fare col mala-to. Nella stanza si diffuse un odore forte di aceto.

Ziu Sidoru non mollava le gutturadas, le teneva stret-te con le due mani e resistette al tentativo di una delledonne di portargliele via.

Lo studente stava lì come messo da parte. Sulla seg-giola stava seduta ora una delle vicine e teneva nelle sueuna mano del malato.

In piedi dall’altra parte del letto, appoggiato al comò,stupidamente inutile guardava, con gesti insoliti in quellacasa, ora l’orologio, ora il malato, ora le carte dei suoi ap-punti sulla festa.

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rintracciare «le scaturigini di quel fiume profondo, cheoggi si interra per resistere al deserto che avanza in Sarde-gna dietro il nuovo Attila, e va ad aprirsi oltremare pollesorgive della nostra cultura pastorale, purificata nel trava-glio dell’ultima transumanza».

A volte è stato lì lì per precisare che si tratta del nuo-vo Attila petrolchimico, ma è riuscito sempre a trattener-si, per non compromettere il suo progetto, se avesse qua-lificato così male la Proprietà del suo giornale, nella tanadel lupo. Perché la proprietà del giornale è passata datempo dall’olio al petrolio, come si sussurra motteggian-do in redazione.

Distratto e straniero, ma ormai convinto, il direttoredel giornale ha commentato, come sempre a spropositodopo l’ultima sua perorazione, che sì, effettivamente, vabene: diciamo che è tempo di andare a vedere se è poi ve-ro che i pastori sardi sono come i cavoli, che vengono sumeglio quando trapiantati in terra diversa. D’accordo: set-tembre, andiamo, è tempo di migrare. Per il primo servi-zio ti prometto la foto a colori in prima pagina. Se non tilasci accecare dall’amor di patria, ci può scappare il Muflo-ne d’oro per il miglior servizio giornalistico dell’anno.

A Vetralla è riuscito a trovare un cavallo che potevaanche essere cavalcato, e lo ha preso in affitto per andareverso i suoi pastori. L’idea gli è venuta lì sul posto. Ma an-dare a cavallo alla ricerca dei pastori sardi è ovvio, anchesenza pensarci.

E un mattino, all’alba, è partito sulle tracce di alcunegreggi che sapeva già svernanti sulle colline spoglie del Vi-terbese.

Quel giorno, in Sardegna, usciva sul giornale il suoprimo articolo introduttivo sui nostri pastori emigrati al-l’estero con tutto il loro apparato produttivo. Vi sono defi-niti «vitali spore vaganti oltre i nostri spazi, che racchiudo-no in sé l’archetipo cosciente della sardità, quella coscienza

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L’ULTIMA TRANSUMANZA

Da molto tempo prima aveva progettato di iniziare lasua inchiesta nel Lazio, nel Lazio arido del Viterbese co-stiero, per andare gradualmente: poi sarebbe salito verso laToscana e la Liguria, sulle tracce dei molti pastori sardiemigrati con le loro greggi sul Continente. Anzi in Italia.Perché quando va sul continente italiano lui dice di andareall’estero, e anche quando va all’estero veste di velluto acoste color muschio e porta il bonete.

Ottenere quest’incarico dal direttore del suo giornalenon è stato facile. Si era dovuto fare una regola di ricordar-gli ogni settimana che è tempo ormai di informare e rende-re conto di questo modo nuovo di emigrazione sarda.

Il direttore ripeteva di andarci piano, di non esagerare.In Sardegna ci sono tante novità più grosse:

«Voi sardi siete come il sonnambulo che viene destatomentre passeggia sul cornicione. Vi accorgete di ciò chesiete stati quando siete diventati altra cosa. E vi fissate sucose vicine, per non guardare la distanza vertiginosa che visepara dal suolo… Ma non è che essere sardi sia più diffi-cile di una volta. Anzi, diciamo che lo è di meno adesso».

Lui capiva troppo bene che il direttore petrolifero face-va solo finta di non sapere che da più di due millenni emezzo non è mai stato agevole essere sardi, nel mezzo di unmare di guai. E tanto meno adesso, quando si vede chiaroe senza vertigini che è meglio puzzare di pecora che di pe-trolio. Ma certo, che un agente coloniale intenda questo, èpretendere troppo, si sa.

Ora finalmente c’era riuscito. Aveva progettato tuttoseriamente, con taglio scientifico, dopo aver convintotutta la redazione della grande importanza di andare a

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greggi non sarde. E non si sbagliava: certe cose o si sento-no o altrimenti non si capiscono.

Il sole del mattino autunnale gettava ombre lunghe delcavallo e del cavaliere su per il colle, verso il tintinnare deisonagli del gregge per lungo tratto invisibile. Il cavallo ten-deva da una parte, dove a un certo punto anche lui hascorto una buona strada asfaltata. Ma ormai era arrivato.

Alla custodia del gregge c’era un ragazzotto, che traffi-cava con la marmitta di una Honda enorme, e ascoltavamusica da un radioregistratore appeso in cima a una per-tica biforcuta, piantata al suolo.

«Sardu ses, o zovoneddu?» gli ha gridato tutto allegro.Il ragazzo l’ha guardato di sotto in su, intento alla

marmitta della moto luccicante al primo sole, e gli ha fat-to un rapido cenno affermativo, montando poi lesto sullasella dei suoi cinquanta cavalli.

«De Sardigna ses benniu?» ha insistito.«Eh…».«De cantu tempus ses in Continente?».«In Continente? A ’st’antro mese sarebbero du’ anni.

Che, pure te sei sardegnolo?».Il ragazzotto ha approfittato del silenzio subitaneo

dello strano cavaliere per provare il tuono della marmitta.Il cavallo ha scartato e lui è caduto.

La sua prima e ultima intervista incomincia e finiscecosì.

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innata della propria identità che noi sardi abbiamo semprecontrapposto a tutti i civilizzatori d’oltremare».

Avrebbe voluto scrivere «vaganti oltre i nostri con fi -ni», se non fosse stato certo che il direttore petrolchimi-co l’avrebbe censurato e anche sgridato. Tuttavia non hanessuna vergogna a dichiararsi separatista. E siccome ècristiano e creazionista, fonda questa sua aspirazione le-gittima sulla volontà manifesta del Creatore, che la Sar-degna l’ha voluta separata.

Ma è più ragionata la sua certezza che una qualcheforma di indipendenza politica sia condizione necessaria,anche se non sufficiente, per conservare quanto ancoraresta del patrimonio culturale sardo. Per questo scopo sipuò scendere anche a compromessi e ad autocensure sulgiornale e col direttore, che al massimo sogna il trofeo delMuflone d’oro anch’esso sporco di petrolio.

Battaglia su fronti arretrati, quella di oggi in Sardegna,premette sempre nelle sue conferenze. Intanto, a edifica-zione di certa sinistra sarda refrattaria e poco patriottica,ha pronto un saggio inedito dove si dimostra come il sar-do Gramsci sia stato separatista fino al suo ultimo respiro(e un suo segreto motivo d’orgoglio è che il SID lo ha te-nuto d’occhio a lungo come persona pericolosa per l’inte-grità dello stato italiano).

E partecipa in prima fila alla «battaglia parziale» perpromuovere la lingua sarda, questa viva materializzazionedell’anima nazionale, a lingua ufficiale dei sardi nella vitaprivata e pubblica. Anche in quel primo articolo introdut-tivo sull’ultima grande transumanza, è riuscito a infilarcil’idea-forza che «la coscienza della propria identità e legrandi strategie di liberazione si aprono spazi espressivi so-lo col linguaggio ereditato dai padri» (autocensura: «e nonin quello dei patrigni e degli espropriatori d’Oltretirreno»).

Ha sentito un nodo alla gola quando lontano, su uncolle solitario, ha intravisto il primo gregge nostrano interra straniera: un gregge per lui inconfondibile con altre

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l’accelerata puzzolente del motorino, e un vecchio, su untram che passava, mettersi le mani nei capelli con la boc-ca aperta in un grido che lei non ha sentito.

Nel verbale c’è l’elenco delle cose rubate dentro la bor-setta: carta d’identità, cinquantamila lire, una foto di Ba-chisio… Efisietta si spaventa della sua sbadataggine, peraver ficcato in borsetta quelle cinquantamila lire vicino allafoto di Bachisio.

«Un Leonardo nuovo» aveva detto l’avvocato deposi-tando discretamente sul comodino tutti quei soldi chenon s’aspettava:

«Per il taxi per tornare a casa» aveva aggiunto accarez-zandola.

Le viene voglia di piangere, e l’agente se ne accorge:«Qualche volta si ritrovano perfino i soldi» dice indi-

candole dove firmare. «Anche se illusioni non bisognafarsene».

«Io quei soldi non li voglio» sbotta Efisietta, cercandoinvano il fazzoletto nella borsetta che è stata rubata.

«Come sarebbe, non li vuole?».«Non li voglio» ripete con meno forza.«Be’, anche se li volesse, ormai…» dice l’agente alzan-

dosi per accompagnarla alla porta. «Nel caso ci faremo vi-vi noi, non si preoccupi».

Solo appena in strada si rende subito conto della situa-zione. A piedi, senza un centesimo, dall’altra parte di Ro-ma. E alle cinque deve essere dalla sua Signora, al Villag-gio Olimpico.

Fin lì l’aveva portata l’avvocato sulla sua Jaguar.Si mette in cammino. Se tutto fosse capitato a un’altra

ci sarebbe quasi da ridere.Quella cosa con l’avvocato l’aveva fatta, ma solo la pri-

ma e l’ultima volta! l’aveva fatta per aiutare Bachisio a ver-sare finalmente l’acconto per la Cinquecento: per potersivedere più spesso, spostandosi su da Ciampino dove fal’aviere; e qualche volta uscire magari fuori Roma, il gio-vedì e la domenica pomeriggio.

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DOMINO

Senza la borsetta sente come il fastidio di essere nuda,e di mostrare le sue colpe di fronte alla giustizia, anchequelle che non ha.

La faccia impassibile del poliziotto mostra un’indiffe-renza al suo caso, che a Efisietta pare provenire dalla cer-tezza che è giusto che chi la fa l’aspetti. Il diavolo fa lepentole, ma non i coperchi, e la sua farina va in crusca.

Il verbale è finalmente terminato:«Senza che ci facciamo illusioni, non è vero, signori-

na… Murrù» dice l’agente di servizio estraendo il fogliodel verbale dalla macchina e sbirciandovi il cognome diEfisietta, ma pronunciandolo sbagliato, con l’accento sullau, come fanno sempre a Roma.

Ma Efisietta non sta lì a sforzarsi di capire quali sianole illusioni che non deve farsi.

«Vuole firmare il verbale, qui?».«Firmare, io, perché?».L’agente la guarda annoiato:«È lei che è stata scippata, no?».«Sì, io».«Ma sembra che lo scippo lo abbia fatto lei…».Efisietta ha un brivido. Adesso le sembra che quell’uo-

mo in divisa le stia ordinando di firmare la scrittura dellastoria vera di quelle cinquantamila lire.

«Vuole leggere, prima di firmare?».Prende il foglio. Mica l’ha voluto lei, di denunciare lo

scippo al commissariato. Passanti e un vigile urbano cel’hanno portata quasi di peso.

L’agente la guarda, tamburellando sul tavolo. Per gen-tilezza verso di lui si mette a leggere il verbale.

Ha potuto raccontare ben poco all’agente. Ricordasolo lo strappo violento, che l’ha fatta girare su se stessa,

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CHI HA VISTO IL MONDO

Il sindaco, in questo periodo, è molto indaffarato. C’èmolto lavoro arretrato, perché è stato in vacanza.

Quest’anno è andato all’estero, per due settimane, inmacchina con la famiglia. Ma una vacanza modesta, a bas-so costo, sul Mar Nero in Romania, dove la lira vale ancoraqualcosa. È stato anche un viaggio di studio, per lui ammi-nistratore e capo di una giunta di sinistra, per vedere unpoco le realizzazioni del socialismo reale. Non ha visto mol-to, bellissimi posti e quasi solo turisti tedeschi e francesi.

Qualche volta ha bisticciato con la moglie, che si la-mentava del servizio e dello stile dei camerieri romeni:non è questione di non ostentare servilismo, ma di farebene quello che c’è da fare, rispondeva lei alle sue spiega-zioni, che partivano da considerazioni molto generali, suigrandi passi avanti di un paese in via di sviluppo rapido.Ma tutto sommato son tornati contenti.

Ora ci sono di nuovo le preoccupazioni ingrate delquotidiano. Stasera c’è consiglio comunale. Il consigliosarà lungo, e non potrà essere a casa per la cena.

Prima che incominci la seduta del consiglio, il sindacofa una capatina alla bottega di Benniu, per mangiare unpanino al prosciutto.

«Che cosa ci preparate oggi al consiglio?».«Oggi ci sarà battaglia per il regolamento edilizio».«Già ti sei preso un incarico, fratello mio!» commen-

ta Benniu, abbondando col prosciutto cotto nel panino.«Ci sono le leggi fatte in alto. Non è come con te, che

mi dai sempre razione doppia di prosciutto, perché sonoil sindaco».

«Be’, ma ora che sei stato fuori, un po’ di rinnovamen-ti forestieri, di quelli buoni, li metterete anche qui».

Passandogli davanti riconosce il cancello del villinodell’avvocato. Solo due ore fa ne è uscita confusa e avvilita.

«Più siete giovani e fresche di campagna e più mi pia-cete, voialtre forosette» aveva detto l’avvocato. «Ciascunoha il suo debole, io ci ho questo».

Efisietta ritorna indietro. Ripassa per tre volte di fron-te al cancello del villino dell’avvocato e infine si decide asuonare: gli chiederà solamente i soldi per il bus.

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conoscerò anche quelli tedeschi, quando verrà in licenzamio figlio Peppinu. L’altro è venuto già due volte dall’Olan-da. Peppinu pare più risparmiatore, e viene poco».

«Starà risparmiando per tornare qua per sempre» diceil sindaco a bocca piena.

«Magari fosse. Ma che ci fa qui?».«A cercare lumache e germogli d’asparagi» dice Benniu.Ziu Mundicu si fa serio:«Se almeno non stessero così lontano. Col mestiere

che hanno imparato, forse, cercando, potrebbero trovarelavoro più vicino, in Italia, e forse anche in Sardegna, quia Villacidro in quelle fabbriche nuove».

«Ce ne sono di cani pronti per quei posti di Villacidro,come intorno a una macelleria» borbotta Benniu.

«I figli li allevi e poi se ne vanno lontano. È peggiodella guerra. Tutti scappano da casa, come se ci fosse il ter-remoto. E come il tempo passa, si dimenticano anche discrivere, almeno ogni tanto, come questi miei…».

«Qualcuno ogni tanto torna» azzarda il sindaco.«Pochini. Ma i miei stanno bene dove sono. Guai se

tornano qui, adesso. Anzi, io vi dico una cosa, che se avessiqualche anno di meno me ne andrei anch’io».

«E dove volete andare?» domanda Eugenio appena en-trato, come saluto.

«In Olanda magari. Mio figlio più grande dice sempreche non c’è da paragonare tra qui e l’Olanda. Lì le cosefunzionano, tutti hanno il necessario e anche di più. Le ca-se sono tutte di proprietà della regina, e lei le dà in affitto aprezzi giusti, stabiliti dal governo, che non è vigliacco comeil nostro. In Olanda anche le terre sono della regina, e lei ledà a gente che se non le fa fruttare come si deve, gliele por-ta via di nuovo».

«Ce n’è di posti migliori di qui» s’intromette Eugeniocon foga. «E se non fosse per quell’incidente che mi è ca-pitato con quell’autocisterna, sicuro che qui non sarei tor-nato nemmeno io. Anche se quando passavo con l’auto-treno vicino a Civitavecchia, e vedevo scritto sui cartelli

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«A poco a poco, piano piano, a forza di viaggi a Ca-gliari…».

Mentre mangia, entra ziu Mundicu, che si scappellasolennemente di fronte al sindaco nuovo:

«E allora, ce l’aggiustate presto la strada nostra?».«Se dipendesse solo da noi, anche subito. Ma c’è tutta

la burocrazia…».«Io lo dico così, per ricordarlo. È una cosa necessaria.

D’inverno bisogna passare a guado, quando piove».Il sindaco tira fuori i soldi per pagare il panino. Cerca

soldi spiccioli, altrimenti Benniu finge di non avere resto,e dice alla prossima volta, anche se sa che il sindaco si di-menticherà, con tutto quello che ha in testa.

Dalla tasca cade una moneta che rotola fra i piedi diziu Mundicu. Lui gliela raccoglie, ma la guarda sorpreso,dopo averla tastata un poco:

«Ma questa che cos’è? Non pare nemmeno antica, diquelle che si trovano nelle tombe».

«E già, guarda un po’. È una moneta romena, diecicentesimi della Romania. Rimasti in tasca per caso».

«Della Romania? Allora, aspetta… sono dieci bani,no?».

«Giusto, dieci bani. E come mai voi sapete queste cose?».«Eh be’, io non sono andato in vacanza in Romania…

Ma lo so. Prima non erano così le monete da dieci bani».«Prima quando?».«Prima, durante la guerra».«In guerra siete stato in Romania?».«Solo di passaggio. Ma con noi c’erano romeni, in Rus-

sia, i bani e i lei ce li avevano loro».«Ne sa di cose ziu Mundicu» scherza Benniu.«Aspetta, aspetta… C’erano anche ungheresi: quelli

avevano i pengö. E i volontari spagnoli avevano le pesetas».«Ognuno compra i ravanelli coi soldi suoi» fa Benniu.

«E ziu Mundicu può andare a comprarli dove vuole».«Eh, magari non le sapessi, queste cose. Adesso cono-

sco anche i soldi olandesi. Si chiamano gulden. E fra poco

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sindaco, «non coi cantieri di rimboschimento e basta, chedopo tre mesi il lavoro se lo mangia il fuoco».

«Ce n’hai di fuoco dentro, tu, Eugenio!» Benniu si ri-corda del suo dovere di bottegaio di fronte ai clienti, anchese sono focosi come Eugenio. «Ce n’hai di fuoco in petto,tu. Vieni che andiamo qui al bar tutti quanti, a berci unabirra: per me è ora di chiudere bottega».

«Ce ne vorrebbero di birrette per spegnere il fuocoche ci ho dentro» dice Eugenio quando saluta il sindaco,porgendogli la destra devastata e scolorita dopo l’inciden-te in cui ha rischiato di bruciare insieme con la sua auto-cisterna bolognese.

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Traghetti per la Sardegna, mi scendevano le lacrime comechicchi d’uva di pergolato. E dov’ero, in Emilia, c’è lagente più simpatica d’Italia».

«Che cos’hanno di speciale?» chiede Benniu.«Sono gente cordiale da quelle parti. E ti sanno aiutare

e consigliare, e poi non rompono sempre le tasche contutte le storie dei terroni e dei meridionali, che in molteparti non ci possono vedere. Quelli là, in Emilia e Roma-gna, sono veri compagni. Non è come qui. Io nemmenoci credevo che ci sono padroncini di autocarri, e anche pa-droni grandi, che sono compagni… Anche le donne lì so-no compagne, dicono pane al pane e vino al vino. E nonsono disoneste, come dicono certi ignoranti. Sono altrimodi di vivere. Qui le donne vanno ancora poco poco neibar, ma lì si fanno grandi bevute e grandi discussioni, tuttiinsieme, uomini e donne. E non c’è la gelosia che c’è qua.Forse anche in Russia dev’essere così, la stessa cosa».

«Tu la rovesci sempre in politica» ride Benniu un po-co agro.

«Tu non puoi parlare, che non hai visto mondo, e cono-sci solo la strada da casa tua alla bottega» replica Eugenio.

«Lasciamo perdere» dice ziu Mundicu per mettere pa-ce «che anche Benniu il suo mestiere lo sa fare. In Russia,quando c’ero io, le donne ci davano da mangiare a noiitaliani. Sì, erano proprio cordiali».

«Girare e vedere il mondo bisogna». Eugenio si stascaldando. «E io ti dico, Benniu, che se continua così, an-che tu un giorno ti metti un mazzo di lattuga sotto il brac-cio e te ne vai di là dal mare. Là almeno la verdura crescemeglio di queste schifezze che vendi tu».

«Ne deve girare di mondo il povero, legato alla catenadel ricco» s’intromette ancora ziu Mundicu, pacatamente,da anziano sensato.

«A poco a poco le cose si devono aggiustare anche qui»aggiunge il sindaco.

«Ma presto però, non con l’ordinaria amministrazio-ne» incomincia Eugenio tutto voglioso di discutere col

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Peggio era quando parlava al telefono. Ma per quantoriguardava il telefono, c’è stata la storia dell’apparecchio sulsuo tavolo. Il comune aveva allora un numero unico in du-plex con la segreteria della scuola media, e un solo apparec-chio sul tavolo del sindaco. Al ragionier Cavalla sembravauna grave menomazione del suo prestigio non avere ancheun apparecchio sul suo tavolo. Non perché dovesse alzarsi eandare a rispondere nell’altra stanza, ogni volta che il sinda-co non c’era, tanto era sempre qualche altro impiegato cheandava a rispondere. Ma perché era questione di importan-za delle sue funzioni di segretario comunale. E poi lui ognitanto doveva comunicare con Cuneo, mentre gli altri almassimo con Cagliari. Il sindaco, pro bono pacis, avevafatto piazzare sul tavolo del ragioniere un apparecchio diderivazione interna. Ma non bastava, era un contentinoquasi offensivo, per lui che per comunicare con Cuneo do-veva sempre spostarsi ugualmente nella stanza del sindaco.

Alla fine il ragionier Cavalla, di sua e illegittima inizia-tiva, ha fatto installare sul suo tavolo un apparecchio connumero autonomo. Ma con delibera della giunta, ratifica-ta all’unanimità dal consiglio comunale, accompagnata damozione di censura su iniziativa della minoranza, il ragio-nier Cavalla fu costretto a pagarsi le spese di quella instal-lazione. Il capo dell’opposizione avrebbe voluto o lo sman-tellamento dell’impianto nuovo, oppure che il segretariovanesio pagasse anche le bollette relative a quel suo nuovonumero di prestigio, oltre che di ogni telefonata a Cuneo.

Agli occhi del ragionier Cavalla fu un’offesa aggravatada misconoscenza. Perché lui veniva da quel Nord d’Italiache stava per accollarsi le spese del finanziamento del Pia-no di Rinascita della Sardegna.

Era venuto nel Sessanta come segretario comunale adinterim, nel periodo quando era in ballo la questione deimiliardi del Piano di Rinascita, e lui non perdeva occasioneper lamentarsi di quel progetto, come se i soldi li dovessesborsare tutti lui, soldi del Nord regalati al Sud.

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I CONTI DELLA RINASCITA

È sicuro che nessuno ha mai detto o pensato che il ra-gionier Cavalla era fesso perché continentale, o che si da-va arie perché piemontese. E benché lui fosse pieno dispirito di patate, solo qualche volta, ma non per offender-lo perché non ne valeva la pena, se lui la tirava troppo perle lunghe storpiando i nomi sardi del paese, qualcuno cer-cava di rimetterlo in sesto, e notava per esempio che quelsuo cognome qui da noi vuol dire puttana. Però lui crede-va di non potere accettare la rivalsa spiritosa, perché dallesue parti è la vacca che serve a significare puttana.

E benché non perdesse occasione per ricordare che luiveniva da Cuneo, e fin dal primo giorno avesse appeso nelsuo ufficio al comune un grande manifesto colorato conmontagne verdi e la scritta Visitate Cuneo e le sue valli, unavolta sola è successo che la donna addetta alle pulizie deilocali comunali gli ha detto che questo non era niente dispeciale, perché tutti siamo usciti da quel posto lì, per leg-ge di natura; e che non c’era bisogno di esporre un mani-festo con quella scritta, per invitare la gente di qua a visita-re quelle parti, perché è cosa che si è sempre fatta e quellisono luoghi noti e frequentati.

Siccome non capiva, dovette spiegarglielo il sindaco,che allora era un professore di scuola media. Gli fece unalezione di latino e di etimologia, prendendo a base gli eti-mi cuneus e cunnus, per poi passare ai relativi esiti italianie sardi. Ma per queste cose il ragionier Cavalla non avevail gusto.

Del resto il suo parlare lasciava molto a desiderare.Non era solo il sindaco a pregarlo di parlar chiaro, senzatroppe piemonteserie di pronuncia e di lessico, quandoapriva bocca in seduta di consiglio.

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LA STRATEGIA DI FEDELE SUCCU

Fin dal giorno della sua assunzione alla OPCV nelSessantacinque, Fedele Succu ha fatto di tutto per riuscirea farsi trasferire, dalla Macchina Continua numero uno alReparto Sfibratura, dal chiuso all’aperto, dall’umido alsecco. La Macchina Continua numero uno si chiama Bo-naria, come sua moglie, e molte volte le due Bonarie si as-somigliano. Ma dalle macchine non è peccato divorziare.

È stato sempre aiuto generico alla cassa d’entrata, l’an-ticamera di Bonaria.

Bonaria è fatta di due parti, umida e secca, così comela gente e la sua altra Bonaria è fatta di polmoni che fun-zionano a vento e di intestino e vescica che funzionano aspremitura d’acqua. Fedele Succu è addetto alla parte umi-da, dove l’impasto per la carta perde acqua per sgocciola-mento e per risucchio, sulla Tavola Piana.

Da un paio d’anni ha i reumatismi, per colpa dellaparte umida di Bonaria Meccanica. Ma l’acqua dei reu-matismi non si spreme né per sgocciolamento né per ri-succhio. Per questo ha impostato una sua strategia deltrasferimento, da Bonaria al Reparto Sfibratura, dove itronchi di legno assomigliano ancora a tronchi, non so-no ancora diventati un intruglio schiumoso, e dove nonsi sta al chiuso.

I giovani e gli operai continentali non vogliono anda-re al Reparto Sfibratura, perché si sta sempre all’aperto,anche quando il freddo si taglia a fette, o il caldo fa suda-re come gli spruzzatori orientabili del Parcolegno.

Molti sono finiti agli sfibratori per punizione. Gli in-gegneri triestini e molti operai credono che stare agli sfi-bratori non faccia per niente bene alla salute. Ci sono fu-mi di soda e polveri di caolino. Ma è gente che non sa

Faceva i conti sulla calcolatrice a manovella, dividevaquei quattrocento miliardi per vedere quanto ne spettava aogni sardo: duecentosessantaseimila a testa, grandi e picco-li. Poi lo moltiplicava per il numero degli abitanti del co-mune e stabiliva che in totale al paese spettavano duecen-tosessantaseimila per tremilaquattrocentotrentatré, ugualeottocentonovantadue milioni cinquecentottanta.

La volta che ebbe la pensata di calcolare di quanto au-mentava la cifra spettante in totale al comune, aggiungen-do il numero dei nuovi nati rispetto al suo calcolo prece-dente basato sul numero non aggiornato degli abitanti, fula guardia comunale a fargli notare che il suo modo dicalcolare non teneva conto del diminuire della quota procapite coll’aumentare del numero delle persone con cuispartire i quattrocento miliardi, che restavano semprequelli. E che si era anche dimenticato di sottrarre il nu-mero dei morti, senza contare quello degli emigrati cheavevano cambiato residenza, e che aumentava di giornoin giorno.

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antinfortunistiche, scritte su molti cartelli in tutti i reparti.Non è stata una scelta buona per ottenere il trasferimentoper punizione.

Chiederlo, il trasferimento al Reparto Sfibratura, vo-leva dire non ottenerlo. E forse forse avrebbe fatto la figu-ra del fesso davanti a tutti, a chiedere di lavorare nel postodei puniti e dei lavativi.

Ieri mattina, poco prima dello stacco del pranzo il ca-po turno gli ha detto:

«Succu, in Direzione».«In Direzione?».«Sì, ti vogliono in Direzione, l’ingegner Costa».«Vestito così ci vado o mi cambio?».«Non fare il tonto, già non ti deve fare gli auguri di

Natale».«E chi ci ha mai parlato a solo a solo col direttore?».«Stavolta ti ha fatto l’onore. Sbrigati che non ha tem-

po da perdere con te».

Il direttore ha incominciato a parlare guardando cartesul tavolo:

«Succu Fedele, bene bene, non ti piace più lavorare al-la Macchina Continua?».

«Col dovuto rispetto e col suo permesso, signor inge-gnere, io questo non l’ho mai detto. C’è qualcuno che glie-lo ha detto, a lei?».

L’ingegnere ha pigiato un tasto per parlare e ha ordi-nato chinandosi: «La signorina Pauletic!» e ha continuatoa leggere carte sul tavolo, tornato tranquillo e assente.

Fedele Succu è rimasto in piedi col berretto in mano,guardando per rispetto fuori dalla finestra. Anche se parevache si trattava di trasferimento dalla Macchina Continua,non voleva pensare che stava per divorziare da Bonaria perandare a servire uno sfibratore. Di mancanze fresche nonne aveva fatte.

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nemmeno che cos’è il vento, se non glielo dicono in televi-sione alle previsioni del tempo.

Fedele Succu le direzioni del vento, della pioggia, imoti delle ombre, in tutte le stagioni, le sa da quando haimparato da bambino a scegliere il luogo buono per ripa-rare pecore e uomini, a seconda della catena dell’anno, perl’ovile d’inverno e per l’ovile d’estate, sfruttando una forra,una quercia, un muso di monte o una grotta degli antichi.

Fino a ieri non c’era riuscito, perché il difficile è fare lamancanza giusta e farsi trasferire per punizione al RepartoSfibratura, magari agli scortecciatori del legname russo ecanadese. Se la mancanza è troppo piccola ti becchi la soli-ta punizione in denaro, se è troppo grande rischi il licen-ziamento, e addio sicurezza di lavoro e di salario, con unafamiglia di cinque bocche.

La prima mancanza tattica di Fedele Succu, provenien-za Arzana, pendolare, età anni quarantasette, terza elemen-tare, operaio di terza categoria, risulta ben documentata nelsuo dossier all’Ufficio del Personale: «Mancanza: fumavamaneggiando soda caustica; sanzione: sospensione inden-nità panino per giorni sei». Allo stesso modo risultano do-cumentate le altre tre mancanze: «Non teneva i calzoni al-l’esterno degli stivaletti essendo addetto alla manipolazionedi soda caustica; sanzione: sospensione indennità paninoper giorni dieci». La terza: «Teneva il grembiule sotto lacintura di sicurezza costituendo pericoloso intralcio; sanzio-ne: quindici giorni di sospensione indennità panino». Laquarta: «Non si agganciava alle strutture della carpenteriadurante lo spostamento lungo i ripiani; sanzione: ventigiorni di sospensione indennità panino».

Ogni giorno di sospensione indennità panino vuoldire settanta lire in meno: venti giorni, millequattrocen-to lire. A parte l’indennità panino, tutte le mancanzeerano state di un tipo che andavano a suo rischio, senzadanneggiare la produzione, tutte violazioni delle norme

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«E perché allora ti permetti di dare del tu alla signori-na Pauletic? E ti prendi la libertà di trattarla come se fossepari a te? E di discutere con lei, come se volessi insegnarleil suo mestiere di funzionario dell’Ufficio Personale?».

«Signor ingegnere, qui mi devono spiegare. Io il rispet-to non lo tolgo a nessuno. Se c’è da imparare, imparo».

«Insomma, lunedì scorso, quando io non c’ero, la si-gnorina Pauletic ti ha fatto chiamare nel suo ufficio, per-ché al tuo cartellino mancano molti timbri d’ingresso. Tiha fatto un favore, chiamandoti per chiarire, perché sulcartellino c’erano solo timbri di fine turno. Poteva consi-derarti assente per tutte intere le giornate. Ma ti ha chia-mato e ti ha chiesto se eri entrato in orario giusto. Perchélo sa che voialtri avete la testa in oca e vi dimenticate sem-pre di timbrare, come se foste a giornata a zappare».

Alla signorina Pauletic non è sembrato abbastanza eche bisognasse precisare meglio la mancanza di FedeleSuccu:

«E poi ha storpiato il mio nome, come lo fanno moltiqua dentro, di quelli come lui. Mi ha chiamato Pauledda,ha detto che una ragazzina come me deve avere altre coseper la testa, e non cartellini da timbrare. Insomma, signoringegnere…».

«Va bene, va bene, signorina Pauletic… Dunque, Suc-cu, come la spieghi?».

«Ma, io non saprei… Anche lei, anche la signorina midava del tu…».

«E io non ti do del tu? Perché allora non dai del tu an-che a me?».

«Ma, signor ingegnere, è diverso. Lei è più anziano dime… La ragazza, la signorina ha vent’anni meno di me,ha l’età di mia figlia maggiore… Se lei mi dà del tu, vuoldire che mi dà confidenza».

«Basta così, Succu. Tu le regole di buona creanza le de-vi imparare. Qui non è come a casa tua. Puoi andare. E al-la ripresa ti presenti agli sfibratori».

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La signorina Pauletic è entrata senza bussare, si è mes-sa dall’altra parte del tavolo a fianco dell’ingegnere, comese Fedele Succu non ci fosse nemmeno.

«Dunque, Succu, la signorina Pauletic dice che ti seistufato di stare alla Macchina Continua, e vuoi andareagli sfibratori. Non è vero, signorina Pauletic?».

La signorina Pauletic ha solo sorriso, ma era un risomalevolo. Fedele Succu non sapeva nemmeno se augurarleil riso della melagrana aperta. L’ingegnere firmava carte.Fedele Succu si è accorto che le sue scarpe stavano spor-cando il tappeto e ha mandato un accidenti al capoturno.

Ma che diavolo vuole l’ingegnere? Per una volta chelo chiamano, in Direzione, se ne deve stare lì come nessu-no, a rigirare il berretto in mano.

«Dunque, Succu, tu hai mancato di rispetto alla signo-rina Pauletic. Ti sei comportato con lei da vero cafone».

«Io? alla signorina Pauletic?».«Non fare l’indiano e sbrighiamoci. Intanto sei trasfe-

rito al Reparto Sfibratura, sezione Stacker, subito alla ri-presa dopo pranzo. E indennità panino sospesa per diecigiorni. E poi adesso mi spieghi perché hai mancato di ri-spetto alla signorina Pauletic. Dopo le chiedi scusa, altri-menti si provvede diversamente».

«Come vuole il signor ingegnere. Le scuse le chiedo atutti e due. Ma…».

«Ci sono ma? Secondo te la mancanza di rispetto nonc’è stata?».

«C’è stata, se lo dice lei, e agli sfibratori ci devo anda-re, ma a me…».

«Come sarebbe, se lo dico io? Vuoi peggiorare la tuasituazione o fai finta di non capire?».

«Come lei dispone, va bene. Ma io il rispetto non l’homai tolto a nessuno».

«Perché a me non mi dai del tu, di’ un po’, eh? perché?».«Del tu all’ingegnere? E perché? Non me lo permette-

rei mai, io».

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IL REDDITO

Nella sezione del partito da parecchie sere c’è grandeafflusso di gente. È appena terminata la campagna deicontratti fra i bieticultori e l’Eridania: quest’anno 1975 icontadini che hanno scelto il sindacato democratico dellaCNB sono quasi raddoppiati, a scapito di quello padro-nale della ANB. Ma già la sezione del partito ognuna diqueste sere si riempie nuovamente di padri di famigliache devono essere aiutati a compilare il nuovo moduloper la dichiarazione dei redditi delle persone fisiche. Sonotutti un po’ preoccupati.

A me è stato affidato un altro compito, e nella confu-sione cerco di concentrarmi per scrivere un pezzo sul pro-blema della nettezza urbana per il bollettino della sezione.Quello della nettezza urbana è un servizio mancante maindispensabile nel nostro comune. È una questione spino-sa. Le disposizioni igieniche proibiscono di tenere bestia-me nell’abitato, ma qui si è sempre fatto così. Ora il pre-fetto ha proibito non solo di tenere greggi di pecore ebranchi di maiali dentro il paese, ma anche galline e i po-chi residui buoi da lavoro. E sono probiti anche i letamai.

I carabinieri hanno già fatto sapere che faranno rispet-tare le disposizioni. Il che significa che faranno pagaretante multe e basta, perché non c’è rimedio. Le disposi-zioni non sono mai su misura locale, ha imparato a direanche il sindaco, allargando le braccia.

Davanti a un tavolo, dove siedono tre compilatori deimoduli, sta una fila di una ventina di persone. Nell’unicolocale il mio trabiccolo fa angolo col tavolo dei compilato-ri delle dichiarazioni, e la fila dei contribuenti mi si sgrana

Succu se n’è uscito rinculando. Finalmente ce l’avevafatta. Doveva essere contento, però non ci riusciva.

«Succu, la porta, maledizione!» ha gridato da dentrol’ingegnere.

È tornato indietro per chiudere, ma già la porta la stavachiudendo la signorina Pauletic, con un sorriso di trionfo.

A casa, alla moglie Bonaria ha spiegato com’è che è riu-scito a farsi trasferire agli sfibratori. Le ha detto che è basta-to dire il fatto suo a una ragioniera dell’Ufficio Personale,perché gli aveva mancato di rispetto, a un uomo della suaetà. E che l’ingegnere, uomo sperimentato, lo ha trasferitoper premio.

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«Ah, io, caro signore, devo eseguire gli ordini e le di-sposizioni vigenti. Io di politica non mi interesso. Qui c’èl’ordinanza prefettizia. La legga, la legga…».

Chissà in che mondo vive, il nostro sanitario.

Uno degli attivisti della commissione cultura, chestanno compilando le dichiarazioni, si sta infastidendo:

«Ma che cosa vuoi dichiarare tu, i nove figli che hai?Tu non devi fare dichiarazione dei redditi. Sei esente».

Gli sta davanti Lichixeddu, berretto in mano come persfottere:

«Ascolta, giovanotto. Io questa dichiarazione la vogliofare. È giusta. Non sono evasore fiscale, io. E voglio far ve-dere quello che ho: i figli».

«E che cosa scriviamo come professione? Proletario?Padre di famiglia?».

«Per me scrivici quello che vuoi. Ma i figli devono es-serci tutti e nove».

«Lascialo perdere» s’intromette uno che attende. «Vuo-le solo fare lo spiritoso».

«Certo non assomigli a tuo zio per le trovate, eh, Li-chixeddu?» fa un altro.

«Se gli dai retta facciamo prima» consiglia uno deicompilatori.

Io non condivido l’insofferenza per la piccola trova-ta di Lichixeddu, che continua a sbracciarsi per convin-cere gli altri; cerco di ricordarmi chi sia questo suo ziospiritoso, ma mi perdo nei grovigli delle relazioni di pa-rentela.

Il compilatore spazientito più che divertito alza la voce:«Alla prossima riunione del direttivo io propongo l’isti-

tuzione di un consultorio matrimoniale» proclama in mo-do da farsi sentire.

Lichixeddu ride e non si smonta:«A me però il come si chiama in disoccupazione non

me lo mette nessuno, e nemmeno in cassa integrazione.Dacci sotto con la penna, che dopo vogliamo vedere se la

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di fianco. Ora tocca a un vecchio bracciante dichiarare isuoi redditi.

«Meno male che adesso ci siete voi che avete studiato»dice come per scusarsi.

«Qua nessuno è ignorante» ribatte sbrigativo il com-pilatore, capo della commissione cultura della sezione.Ma gli altri continuano a discorrere su questo tema.

«Quando abbiamo incominciato noi qui, dopo laguerra, tutto andava alla me ne fotto, perché non c’eranopersone istruite con noi. E tutti ci fregavano».

«L’ignoranza è cosa brutta».«Però molti che studiano, dei nostri figli, si dimentica-

no da dove sono venuti, o non capiscono nulla lo stessodelle cose nostre».

«Io quando vedo questi ragazzi che hanno studiato eche si mettono con noi, quasi quasi non ci credo, mi pa-re che giocano un gioco nuovo. Ma è che non me loaspettavo».

«Non era da aspettarselo, quando i nostri erano presia fischi e a sassate proprio dagli studentelli».

«Ora di teste fini ce ne sono anche dalla nostra parte».«E adesso quegli altri hanno anche paura di fare i co-

mizi, perché un liscio e busso se lo buscano sempre quan-do escono dalla loro tana come conigli impauriti».

«Ne fa di cose lo studio».«Anche di male, però. Perché quelli che sanno tenere la

penna in mano credono che le cose si cambiano a tavolino».«Come quei cervelloni che hanno inventato questo

modo nuovo di far pagare le tasse».«Però l’ignoranza è la cosa peggiore».

Ritorno ai miei tentativi di scrivere il pezzo sulla net-tezza urbana. L’altro ieri sono stato a parlare col medicocondotto, che è anche il nostro ufficiale sanitario, per do-cumentarmi meglio, perché devo anche riferire in consi-glio comunale, e prima ancora nella riunione del gruppodi maggioranza al comune.

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L’ULTIMO CARRETTIERE

Affonziu Mereu è stato l’ultimo carrettiere professio-nista del nostro paese. Quando lui viaggiava ancora conl’ultimo dei suoi cavalli, tutti non castrati e tutti di nomeBaieddu (era arrivato a Baieddu Sestu), gli altri del me-stiere avevano rinunciato da un pezzo, oppure avevanocomprato un camion. Settimanalmente faceva la spolacon Cagliari, distante cinquanta chilometri, per rifornirei bottegai locali di zucchero, candele steariche, sapone,conserva di pomodoro, qualche stoviglia e qualche pezzadi stoffa, e in città portava carichi di grano e di legumisecchi, prodotti in paese.

La gente pagava spesso i conti dell’annata ai negozian-ti, dopo il raccolto, coi prodotti locali, e ziu Affonziu eratramite fra i bottegai del paese, i grossisti di città e i mer-canti di granaglie. Un mestiere da furetto.

In gioventù era stato una specie di giramondo, uno diquelli che all’inizio del secolo «se l’erano presa in Napoli»,come si dice da noi, con doppio senso; cioè, nel suo caso,era andato a lavorare nelle fonderie della ILVA di Bagnoli,l’anno 1904.

Questo era allora quasi il solo modo di emigrare daoperaio, dalle nostre parti. La guerra del ’15-18 fece spo-stare più a Nord i nostri emigrati in divisa e poi rispedì inSardegna quelli che non sono finiti a Redipuglia. Ma do-po d’allora, e fino a questo dopoguerra, solo qualcuno sel’è presa altrove.

Come uno che prima della guerra è andato non si sacome nella legione straniera ed è tornato un paio d’anni fadal Vietnam del Nord, con moglie e quattro figli vietna-miti. Se le donne da quelle parti sono tutte come questanostra nuova compaesana, si capisce com’è che le hannosuonate agli americani.

testa non te l’ha scipita lo studio, e se li resisti nove bic-chieri, uno per ogni figlio. Allo spaccio ho già pagato».

Ormai ho appallottolato il foglio bianco e rinuncio ascrivere.

Chiedo a un vicino chi sia lo zio di Lichixeddu, famo-so per le trovate divertenti:

«Sei diventato così cittadino che non ti ricordi più diziu Affonziu Mereu!».

Non ricordare uno come ziu Affonziu significherebbe,per tutti, non avere veramente memoria e forse poca caritàdi patria. Era infatti una specie di uomo pubblico in pae-se, un inizio di intellettuale organico. Un ibrido strano eprecoce, fra il bello spirito, celebre per le sue arguzie, l’in-tellettuale tradizionale di queste parti, e l’ostetrico dellospirito di scissione, tutto proteso verso un futuro da mil-lennio, diventato socialista in una delle primissime ondemigratorie operaie, quella verso Napoli.

Ma non lo si ricorda solo per le sue celie famose. Neipaesi si parla più dello strano che del normale, come dap-pertutto, più dello scemo del paese che ne fa sempre unadelle sue, che del medico o del prete che fanno male il lo-ro mestiere.

Ziu Affonziu godeva di una celebrità di questo tipo,da giullare impunibile; ma anche di una sua autorevolezza,che senza alcun potere non poteva apparire molto di piùche simpatia popolare per la sua presenza di spirito, e fac-cia tosta per i suoi bersagli polemici.

Il guaio è forse che lui era il vero tipo da bozzetto ru-sticano, amante del bel gesto in mancanza di poter faremeglio. Ma se ha tanti fratelli, e tanto brutti, perché nondeve avere un esecutore testamentario?

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tabacchiera piena di tabacco da naso nel culo del cavallo,che partì al galoppo, e lui insieme attaccato alla stanga, la-sciando i banditi a respirare la polvere. Ed ecco il birbanteche gli faceva notare come il cavallo non potesse partire algaloppo proprio nella salita di Vangari, ma lui a commise-rarlo spiegandogli che l’animale era più svelto di lui, per-ché aveva capito che doveva prendere la direzione opposta,in discesa, per evitare di prendersela ancora nel didietro.

Dicono che molti carrettieri sono poeti e cantori. An-che la finezza di ziu Affonziu culminava nell’abilità di poe-tare, frutto delle nottate di viaggio solitario. Componevaanche in italiano, cosa molto rara, perché era stato diecianni a Napoli. E quando beveva (ma sua moglie dicevache era scipito sempre, perché stufa dei suoi scherzi) spes-so parlava napoletano, ancora più ostico filtrato dai suoipochi denti davanti. Raccontava di come fosse stato guap-po, con certi manigoldi napoletani, e di quando in guerrafaceva il portaferiti, e piangeva ricordando «quanti figli ’emamma hann’acciso, mannaggia aa morte, mannaggia»,confondendo nel pianto quei morti ammazzati e il suoprimo figlio morto di favismo a due anni.

Anch’io ricordo un paio di strofe di una composizio-ne politica di ziu Affonziu. Gliel’ho sentita cantare perore a un matrimonio di un parente comune, quando erosui sette anni. La cantava sull’aria di Lilì Marlen ancora invoga allora: una specie di contrasto fra Truman, Stalin,Churchill e l’Italia. Il Truman che minaccia dice a un cer-to punto così:

Compagno Stalin, se fermo non stai,Con la mia potenza ti metterò nei guai. Sai che l’atomica io ce l’ho. E se ci vuole la userò. Hai visto l’uccision Che ho fatto nel Giappon?

E l’Italia, piano e di testa, conclude:

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Lavora più lei di cinque uomini a scarada. Ha impa-rato sardo e italiano in un anno e qualche mese fa ha da-to una lezione a un mio cugino maestro elementare, checercava di farle dire male di Ho Chi Min perché lui èdemocristiano: gli ha spiegato che Bac Ho è come direZiu Ho e che per loro Bac Ho è come per noi GiuseppeGaribaldi.

Ziu Affonziu non è tornato con moglie napoletana,perché rientrava dal fronte. Si è sposato in paese e ha ten-tato di riprendere il mestiere di prima di prendersela inNapoli. Dopo un anno ha però deciso di smettere di fareil contadino e ha incominciato a fare il carrettiere. Perché,spiegava, il mestiere del contadino è il peggiore e il più po-vero, e lui odiava i poveri, non li poteva soffrire.

«E allora perché sei socialista?» gli chiedeva immanca-bilmente qualcuno che non conosceva la sua arte di im-provvisare facezie.

«Giusto perché voglio ripulire il mondo da questaschifezza della povertà».

Non lo si ricorda però solo come un tipo spassoso,che sapeva scherzare su molte cose, anche serie, a inco-minciare da se stesso. Per esempio, sulla disperazione dellamoglie e dell’intera famiglia paterna, quando decise di fa-re il carrettiere.

Le prime volte che era partito, all’alba, schioccando lafrusta, lasciava moglie e genitori piangenti, e lui se ne an-dava stornellando. Ma dopo un paio di settimane, dopo iprimi incassi, era la moglie che lo svegliava nel cuore dellanotte per farlo partire in tempo, perché aveva incomincia-to a sentire il suono di qualche spicciolo.

Un pezzo forte, che sfruttava molto con certi cittadinialtezzosi, era il racconto di come fosse riuscito a sfuggire aibanditi, subito dopo quest’ultima guerra, una volta che loassalirono di notte, nel tratto di mezzo della salita di Van-gari, vicino a Monastir. Era sceso dal carro, diceva, facen-dosi fesso e fingendo di avere una gamba addormentata.Ma mentre si appoggiava zoppicando alla stanga, ficcò la

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d’Ungheria. Il figlio del tabaccaio, erede della spocchia edella balordaggine del padre, un bel giorno di quel tristenovembre vuotò il cassetto del banco di bottega e partìverso il Nord, secondo lui a combattere volontario sulDanubio contro i russi, che usavano il grasso degli insortiungheresi per ungere i cingoli dei loro carri armati. Tornòdopo un paio di giorni, spiegando che non era riuscito apassare la cortina di ferro. Si seppe poi che alla frontierasvizzera fu rimandato indietro col foglio di via. Studentedi scienze naturali, non aveva forse ancora preparato l’esa-me di geografia politica.

E un giorno ziu Affonziu, entrato in bottega per por-tar via certe scatole vuote, con già pronte un paio di inso-lenze per il padre di tanto figlio, si trovò invece davantiproprio lui, il figlio, castigato dal padre a rifondere lavo-rando il mal tolto. Un figlio di Don Larenzu e la nipotedel prete, anch’essi studenti, lo assistevano nella disgrazia.Ma ziu Affonziu si adattò subito al nuovo caso. Li salutòmilitarmente, si precipitò ad abbracciare il reduce dallebattaglie per la libertà e stette lì a sfotterli finché non listese tutti e tre, dopo essere riuscito a provocarli nono-stante che avessero incominciato col far finta di non ac-corgersi nemmeno di lui.

Prima di andarsene, già sulla soglia, con una serietà chei tre studenti non gli conoscevano, proclamò che «hannofatto bene i russi. Là c’erano i signorini come voi che stava-no rimettendo la cresta e volevano rimontare sul pollaio.Eh no! Meglio i carri, signori miei. Molto meglio i carri ar-mati. Anche qui ci vorrebbe una bella passata di carri, madi quelli rossi fuoco, come dico io. Ci vorrebbe sì una bellapassata di carri, e carrista io» concluse fissando i tre chenon ebbero il coraggio nemmeno di increspare le labbra.

Ziu Affonziu è morto alla fine degli anni Cinquanta,di un tumore alla testa. Ma ha saputo trar partito anche daquella cosa terribile che gli mangiava il cervello, e ha conti-nuato a scherzare fino alla fine. Seduto sui gradini di casa,davanti alla porta, pallido e rinsecchito, a chi gli chiedeva

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Fra tanti grandi io sono il piccolin E spero la pace fra Truman e Stalín. L’Italia senza più cannon, Ma con miseria e distruzion, Vuol libera restar E in pace lavorar.

Ma ziu Affonziu poteva sfogare la sua passione politicaquasi solo facendo l’attaccabrighe coi ricchi locali. Nongliene perdonava mai una, sfruttando la sua arguzia. Il suoobiettivo polemico permanente era Don Larenzu, il piùricco del paese, e suo rivale anche come intellettuale. Nonpoeta ma appassionato di storia locale, Don Larenzu scri-veva perfino romanzi storici sulle vicende eroiche dei sardi.In un suo romanzo fiume sulle lotte contro gli invasori ro-mani durante la conquista della Sardegna (titolo: All’ombradei nuraghi e dentro l’urne) il duce sardo Amsicora terminacosì una sua arringa davanti alle schiere sardo-barbaricineprima della battaglia finale di Cornus: «E rammentate,miei prodi, nell’ora della pugna, che voi siete gli antenatidei gloriosi militi della Brigata Sassari».

Caduto il fascismo, tutte le volte che si metteva inviaggio, ancora buio, passando sotto le finestre di Don La-renzu, allora podestà e poi sindaco, ziu Affonziu gridavaschioccando la frusta:

«Sveglia, popolo, che non sei più bambino. Il sol del-l’avvenire sta sorgendo dalla parte della Russia».

A metà degli anni Cinquanta ziu Affonziu ha smesso difare il carrettiere perché ormai i camion avevano soppianta-to definitivamente i carri ed ha tentato da vecchio di rifareil contadino. Ma non ce l’ha fatta. Non gli piaceva. Così hafinito i suoi giorni facendo piccoli lavori per il nostro mer-ciaio-giornalaio-tabaccaio, un forestiero un po’ tonto che èdiventato il bersaglio degli scherzi di ziu Affonziu senza chelui se ne sia mai accorto, perché credeva di essere meglio diuno del paese, dato che veniva dalla città.

Dei suoi ultimi anni di beffe al tabaccaio è rimastaancora famosa quella dell’autunno del ’56, durante i fatti

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CITTÀ E CAMPAGNA

Dev’essere stata mia nonna a farmi ricordare meno re-centemente di ziu Affonziu Mereu. Lei era una sua ammi-ratrice, come molti altri.

Anche mia nonna, del tutto analfabeta, aveva capitoche gli studenti agli esami devono essere disinvolti, possibil-mente brillanti. E che anche una testa mantenuta in funzio-ne a base di pane abbrustolito e di minestra di frégula devecercare di funzionare allo stesso modo di una testa cittadinache funziona a base di polli arrosto e di caffè vero. È que-stione di saper fare la propria parte, una volta imparata. Co-me la sapeva fare ai suoi tempi l’avvocato Jago Siotto, cheanche se non andava per strada canta canta e si era allevatoa forza di ceci e di fave arrosto, il trallalero lo sapeva bencantare in tribunale, e quando scriveva sul giornale.

Sulla soglia di casa, in partenza per la città per sostene-re l’esame di storia, mentre mi metteva dentro il taschinodella giacca i soldi per un caffè, mia nonna anche quellavolta mi raccomandò di non essere bruncu in culu. Di es-sere volpe, non pecora, e di lasciare la vergogna ai ladri,che del resto non ce n’hanno.

Sono le pecore che se ne stanno bruncu in culu, mu-so in culo, sicure solo quando nel gregge formano massacompatta, col muso a ridosso del deretano delle compa-gne. Lei vedeva bene come io mi sentissi piuttosto comeun agnello impigliato in un cespuglio di cisto, mentreavrebbe voluto che avessi l’animo di un torello fuggitodal recinto.

«E tira almeno venticinque, questa volta» mi gridòquando ero già in strada. E subito dopo le sentii dire, ri-volta a zia Annetta Callella affacciata sulla soglia di casasua di fronte alla nostra:

nuove della sua salute rispondeva che gli andava sempremeglio. Che per esempio aveva il cinema gratis e a coloriogni volta che voleva: bastava girare una vitina nel cervelloe tac… vedeva come dal vero tutta la sua vita passata: glistabilimenti di Bagnoli, il Festival di Fuorigrotta, la guerra,i viaggi col carretto, le corse di Chilivani e i balli di SantaMaria d’agosto.

Forse gli credeva anche il medico condotto, se non sa-peva che questa era una conseguenza del suo male, dia-gnosticato solo all’ultimo stadio. Ma una conseguenzamolto meno spassosa di quanto lui volesse dare a intende-re agli altri. Solo che lui si credeva in obbligo di darla a in-tendere, sulle condizioni della sua testa, la risorsa miglioredella sua vita.

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annuiva solerte quando parlava lei, ma alzava al soffitto gliocchi dilatati sotto la fronte corrugata, con un ghignostanco, ogni volta che parlavo io. E questo sforzo sciocco siritorceva contro di me. Sbagliavo bersaglio come il somaroche prende a calci la mola perché non può prendersela colpadrone, come diceva mia nonna. Che a quell’ora stavacertamente recitando un Rosario per me, raddoppiando iGroria Patri ad ogni posta, con più sacra scaramanzia.

A me non sembrò affatto di aver riso, tutt’al più avròsorriso, quando a mio dispetto ricordai quel dove e quelquando, e mi interruppi, nel bel mezzo di un tentativo dirisposta a una domanda, che l’esaminatrice mi aveva postocon enfasi, intorno al riformismo sabaudo sette-ottocente-sco in Sardegna. Però, sia lei che il suo assistente mi feceronotare che nessuno aveva trovato ancora nulla di comicoin quel riformismo.

Mi affrettai a convenire che sì, avevano ragione. E quan-do mai? Soprattutto perché l’assistente mi invitava già, conaria divertita di sfida, a illustrare il lato comico.

Certo che non c’è nulla di comico, pensavo, perdendomio malgrado minuti preziosi per riuscire a «tirare» un buonvoto. Non c’è da ridere nemmeno se si considera l’idea chedei rapporti coi piemontesi si ha ancora nei nostri paesi.Dove a ogni ragazzo che visiti Cagliari per la prima volta sispiega che quel tale Carlo Felice se ne sta ritto in PiazzaYenne e impugna impettito la sua verga, puntandola perspregio verso la campagna, dopo aver dato le spalle al mareda cui è venuto. Oppure se è vero che il più famoso rifor-matore piemontese in Sardegna, il ministro Bogino, suBuginu, è scaduto fino a diventare per noi sardi l’unicomodo, senza sinonimi, per indicare il boia, su bugìnu – chiti sétzad in coddus, che ti si possa sedere sulle spalle sullaforca da cui pendi. Naturalmente non è vero, perché sitratta di una parola catalana che ha lo stesso significato.Anche se Don Larenzu, il nostro appassionato di storia lo-cale, giura che è questa l’etimologia giusta. Ma non c’è da

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«Se almeno assomigliasse un poco a uno come Affon-ziu Mereu buonanima, per cavarsela bene coi professoridove va a mettersi agli esami».

Mia nonna immaginava gli esami come una prova diastuzia e di destrezza, che i numeri dei voti si ottenesserocome al gioco del tresette. Oppure come quando un suoantico zio aveva saputo tirare un numero buono per nonandare soldato alla guerra di Crimea, a mangiare topi arro-stiti sulla punta della baionetta, avanti Savoia!, mezzo topotres arrialis. Lui e ziu Affonziu Mereu erano i suoi modellidi acume e di destrezza.

Già appena la vidi comparire sulla soglia della stanzadei tormenti per fare l’appello dei candidati, la nuovaprofessoressa mi parve persona conosciuta, chissà dove equando. Ma certamente altrove, in circostanza ben diver-sa. A lezione mai, non frequentavo.

E così come spesso succede agli esaminandi, massaanonima cementata dalla paura del giudizio, invece di rac-cogliere le idee e di ripassare la materia d’esame, incomin-ciò subito ad assillarmi l’urgenza di ricordare quel quandoe quel dove. Il bisogno coatto di ricordare diventò alloraun diversivo insolito per esorcizzare il timore di quell’atte-sa. Invece della solita conta delle mattonelle del corridoio,con l’impegno caparbio e stralunato di mettere i piedi giu-sto e solo all’interno di una mattonella ogni cinque. L’esor-cismo dovrebbe propiziare il buon andamento dell’esame,ma non riesce quasi mai per intero: richiede che il contodelle mattonelle torni sia all’andata sia al ritorno; ma se an-che questo conto quadra, bisogna poi farlo quadrare anchesottraendo il numero delle mattonelle comprese tra i vanidelle porte che danno sul corridoio.

Quando mi toccò entrare per l’esame, lo sforzo che miimpegnò maggiormente non fu quello di ricordare quantodovevo rispondere alle varie domande, ma invece quello diguardare in viso il meno possibile la professoressa. Mi con-centravo piuttosto sulla faccia annoiata dell’assistente, che

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che parlasse dal balcone del palazzotto di Don Larenzu, co-me avevano fatto sempre tutti i comizianti, eccetto natural-mente i comunisti, che allora riuscivano a stento a incomin-ciare a parlare, ma a basso livello, raso terra o al massimo suuna pietra liscia. Questa volta Don Larenzu rifiutò di met-terlo a disposizione, e ora se ne stava lassù, affacciato lui alsuo balcone, seduto su una sedia ridendo sotto i baffi.

«A te, quando vinciamo noi, ti mettiamo a raccoglieremerda secca di bue nelle aie. E ti chiederemo anche contodelle pietre di granito squadrato che hai fregato dal vec-chio monte granatico», gli gridò dal basso ziu Affonziu, ri-ferendosi all’usanza che consentiva ai più poveri di procu-rare così del combustibile, e a certe malefatte di quandoDon Larenzu era podestà.

Per tenere il suo comizio l’avevano piazzata su un tavo-lo, preso dalla bettola lì accanto alla piazza. Proprio all’al-tezza della situazione. Il padrone del cinema, che per i suoispettacoli aveva in affitto un magazzino di Don Larenzu,rifiutò anche lui di prestare il suo impianto di amplifica-zione, come invece aveva sempre fatto.

Il giovane militante socialista, che ebbe il coraggio dipresentarla al pubblico curiosissimo, si lasciò scappare unaformidabile gaffe finale, asserendo che la compagna avreb-be fatto sentire la voce del socialismo «anche senza min-chiofono». Un coro di nitriti si alzò dal gruppo di giovanot-ti che si consideravano avversari politici della comiziante, esi erano radunati al centro dell’adunata, giusto pronti a fa-re cagnara.

La signorina incominciò presentandosi, con nome ecognome. Risultò chiamarsi Almeriga, nome che tutti deci-frammo come America. Poi passò ai saluti. Ma nel salutaresi rivolse ai compagni… di un altro paese. Un avversariogridò, coprendo un inizio di rumoreggiare del pubblico:

«È qui che dobbiamo scoprire l’America, non a San-luri».

«Abbiamo diritto anche noi di scoprirla», aggiunse unaltro.

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fidarsi delle etimologie di Don Larenzu. Ciò che conta èperò che non era solo Don Larenzu a credere che il nostrobugìnu venga dal nome di quel riformatore illuminato.

Ma il mio ricordo era un altro, e ben preciso. E nem-meno a questo ricordo mi sembrò allora che fosse il caso diridere e che comunque avessi riso, al riemergere nella me-moria della figura di ziu Affonziu e di come lui aveva ap-prezzato e salvato il comizio che la professoressa aveva te-nuto una dozzina d’anni prima al mio paese.

Quando questa mia esaminatrice venne a fare il comi-zio, io avevo circa dieci anni, durante una di quelle campa-gne elettorali del dopoguerra, infuocate e pittoresche, per lepolitiche del ’48 o per le regionali del ’49. Lei era venutaper tenere un comizio socialista, giovanissima ed elegantenel suo insolito vestito cittadino. Con una di quelle gonnestrette, che allora sembravano tanto corte. E contro le qualituonava ogni domenica il parroco nelle sue prediche, soste-nendo che oltre tutta la loro indecenza erano anche scomo-de e assurde; tanto che le ragazze che osavano indossarle,secondo lui, pativano il freddo e non potevano muoverepassi sufficienti nemmeno per salire i gradini di casa, e nonpotevano inginocchiarsi in chiesa se non tirandosele ancorapiù su, vergogna e scandalo nella casa di Dio! Le manichecorte, poi, in paese non s’erano mai viste, e tanto meno ilrossetto e le calze velate trasparenti.

Veramente una volta c’era stata una signorina che vesti-va in un modo così scandaloso. Una maestrina delle ele-mentari, che però durò solo tre mesi e poi se ne andò per-ché trasferita, a portare la sua disonestà altrove, lontano dalgregge del canonico che reggeva la nostra santa parrocchia.

Ziu Affonziu quel giorno era lì sulla piazza subito do-po pranzo, e per ingannare l’attesa del comizio faceva ognitanto visita alla bettola vicina.

La nuova della signorina comiziante si sparse subito intutto il paese, il concorso fu straordinario. Ci si aspettava

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subito il discorso, che però nessuno forse capiva. Socialismo,democrazia, nozze tra l’uno e l’altra, il senso della storia.

Il parroco continuava a battere il granito del sagrato,seguito sempre più a stento dal capo degli uomini cattoli-ci. Certamente non capiva nemmeno Don Larenzu, sem-pre lassù a sogghignare, vecchio gufo che un tempo erastato falco, appollaiato in cima al suo palazzotto di aspettocittadino, con le iniziali del suo nome in ceramica blu alcentro del frontone ad arco. Forse, invece, stava ricordan-do le allocuzioni che faceva da podestà, quando costringe-va i suoi servi di campagna a radunare tutto il paese, perascoltarlo ripetere impettito gli slogan che Mussolini avevagià gridato al balcone di Piazza Venezia. O forse, in occa-sioni come questa, di festa per gli avversari dei suoi pari,rimpiangeva i tempi quando la sua casa era come un con-fessionale di venerdì santo, mentre adesso al massimo eracome di mercoledì delle ceneri.

Finalmente l’oratrice fu issata sul nuovo tavolo, e tuttitacquero, dopo un mormorio di approvazione. E in quelmomento un battimani lento e solitario scese dal balconedi Don Larenzu.

«Hai finito di scaldarti le grinfie, o Donna Elenettanon vuole più prepararti la borsa dell’acqua calda?», gligridò ziu Affonziu.

«Facci il sunto di quello che ha detto» gli rispose DonLarenzu.

«Non riesce a mandarla giù che loro una così nonl’hanno mai avuta» disse ziu Affonziu rivolto al pubblico.

«Lasciacene un po’ anche a noi del tuo socialismo»pregò qualcuno degli avversari per canzonarlo.

«Andate a cercarvela, una così, se la trovate» comiziavaziu Affonziu.

«Cane abbaia e maiale mangia» mormoravano gli scet-tici.

«Già si sapeva che tu non ti getti sul vinello, Affonziu»gli disse un simpatizzante, mentre lui si avvicinava al tavo-lo e invitava la ragazza a continuare.

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«Io preferisco coprirla», concluse un terzo.Il gruppo avversario nitriva sempre più forte. La signori-

na non capiva nulla di quel dialetto, ma appariva molto in-coraggiata dalla partecipazione delle masse contadine. E partìcon slancio, credendo sempre di rivolgersi a quelli di Sanluri,facendo così scoppiare ogni volta, come fuochi d’artificio, ibotti e i ribotti dei frizzi salaci, in gara estemporanea di argu-zie alternate, gara al rialzo in cui da queste parti ci si esercitafin da bambini, possibilmente in prosa, che vuol dire in rima.

Noi ragazzini, riuniti in bande rionali, punteggiavamocon alti strilli ogni pausa dell’oratrice.

Sul sagrato il parroco passeggiava nervoso, tallonatodal presidente dell’Azione Cattolica, senza degnare d’unosguardo la comiziante. Aveva appena finito la sua predicadomenicale pomeridiana; si era lasciato un po’ andare, eaveva terminato presentando ai fedeli i due corni del di-lemma di fronte al quale la coscienza di ognuno aveva dascegliere: «O Roma o Mosca».

Alcune donne, fermatesi in cappannello nell’angolopiù remoto della piazza, guardavano accigliate l’eccitazionedei loro uomini. Come ogni pomeriggio festivo, le ragazzepassavano e ripassavano nello spazio riservato al passeggio,ma stavolta invano. Nessun giovanotto badava a loro, e lo-ro facevano commenti acidi.

Un gruppo di ragazzini di un altro rione aveva inven-tato un modo nuovo per canzonarle: passavano di corsadavanti ai grappoli di ragazze, che camminavano lente ealtere tenendosi a braccetto, e urlavano la frase canzonato-ria Custa giài ca ’ndi porta de pìbiri in buciàcca, osàtrus scet-ti musca! Espressione che nel linguaggio locale significache questa sì, la comiziante, aveva in abbondanza ciò cheoggi si direbbe sex-appeal, mentre loro si davano solo arie.

La ragazza vacillò a un tratto sul tavolino che la innalza-va sull’uditorio. Troppi si precipitarono a sorreggerla e nes-suno la trattenne. Si decise di sistemarla su un tavolo piùgrande e più fermo. La bella Almeriga voleva riprendere

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VOLTAIRE E IL GENDARME

Le virtù di ziu Affonziu erano note e pubbliche e luistesso sapeva di essere un uomo pubblico, con una suafunzione. Ci sono anche le virtù occulte, tra il popolo, chevanno riconosciute. I casi della vita portano qualche voltaa riconoscimenti postumi anche qui.

Sapere come con ziu Tatanu Melis siamo diventatiamici non è interessante. Eravamo vicini di casa, ma la ve-ra ragione è forse che io per lui ero un intellettuale, un suosimile ma professionista, mentre lui si riteneva solo un di-lettante. Questo suo modo di considerarsi nei miei con-fronti aveva inconvenienti, per quanto mi riguardava. So-prattutto perché pretendeva che io dovessi sapere tutto,specialmente quello che non sapeva lui. Anche mio nonnoera così, con me, ma più tollerante con le mie ignoranze.

Io di regola badavo a non dare troppa corda a ziu Ta-tanu, e spesso ho cercato di evitarlo. Lui però conosceva estudiava le mie abitudini, e quando voleva parlarmi miaspettava seduto sul gradino di casa nostra, nella sua posasempre più meditativa man mano che invecchiava.

A bruciapelo mi faceva domande come: qual è il nomeitaliano della radice del ficodindia? Una volta mi fermòper strada, subito dopo che avevo tenuto il mio primo co-mizio in paese, e mi domandò se fosse vero che i russi ave-vano inventato come gettare un ponte fra la Sardegna e ilContinente, ma che gli americani non volevano perché aloro non conveniva. Era il tempo dei primi sputnik.

Ma problemini così erano cose da passatempo per lui.Forse perché era un outsider sul piano economico, con lasua pensione già dai quarant’anni, il suo grande problemafilosofico era quello dei bisogni, di come nascono e di co-me mutano. A forza di guardare vivere gli altri si era fatta

«Lasciatele riprendere il volo alla bella tortorella».Ci fu un applauso spontaneo, e lei ripartì con foga,

rossa in viso, con ampi gesti di quelle braccia nude, accen-tuando l’onda del seno.

Un ragazzotto del mio rione ci radunò per dirci qual-cosa. Aveva scoperto ziu Affonziu, che se ne stava lì davan-ti tutto estasiato, perduto in sue fantasie, e con una vistosaprominenza sul davanti dei pantaloni, molto sensibile al-l’oratoria della compagna cittadina. E alcuni più piccoli neapprofittarono subito per inventare il gioco della scopertadell’America, che consisteva nel passare nel breve spaziofra il tavolo dell’oratrice e la prima fila degli uditori, dovestava lui, e scoppiare rumorosamente a ridere, accennandocol braccio alla protuberanza della patta di ziu Affonziu,troppo occupato per accorgersi di sé e del loro gioco.

Finito il discorso, lui, raggiante, aiutò la signorina ascendere dal tavolo e si congratulò a lungo nel suo misto diitaliano e di napoletano: bellissima parlata, proprio quellagiusta. Poi si avviò con lei, aiutandola a fendere la folla.

«Falla salire sul tavolo la sorella del canonico» disse alsegretario dei democristiani locali, fratello del presidentedegli uomini cattolici, quando gli passò di fronte e quellosogghignava allo stesso modo di Don Larenzu. «Falla sali-re, così vediamo se oggi che è domenica i baffi se li è ta-gliati. Cittadine tutt’e due sono, no?».

«Bravo, Affonziu» gridò uno lì vicino, «già non ti beviun brodo a forchetta. Lasciateli passare!».

E passava glorioso, col suo trofeo cittadino, frastornatoe ignaro, simbolo del socialismo di città. Lui aveva capitosubito che la ragazzina entusiasta, se non ci si fosse messoanche lui, sarebbe stata solo un pretesto insolito per i frizzimordaci e scurrili dei paesani.

Senza ziu Affonziu, a quell’esame, a quel comizio cheforse era la sua prima uscita, tentata in campagna per cor-rere meno rischi, la signorina non avrebbe tirato un buonvoto, giusto come me.

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È la cosa migliore che ricorderò di lui: il rifiuto di fareil tabaccaio e la scelta di fare a tempo perso il pescivendolo.

Da noi l’alimentazione umana si è sempre basata sulpane di grano duro, e in tempi di carestia sul pane d’orzo.I tempi grami vengono ricordati come quelli del pane d’or-zo o del pane nero. Una volta che era caduto uno Stukatedesco nelle nostre campagne, prima del Quarantatré, fu-rono trovate delle provviste di Pumpernickel, che molti siportarono a casa credendo che fosse cioccolata. Ma nessu-no ne mangiò quando si scoprì che era una specie di panenero, il pane della miseria, che allora da noi non era anco-ra così nera come quel pane di segale della Westfalia, cheoggi invece i nostri emigrati incominciano ad apprezzaredopo anni di diffidenza.

L’alimentazione a base di pane veniva integrata dall’usodi legumi freschi e secchi, secondo lo schema millenario dialimentazione povera dei contadini mediterranei, dediti al-la cerealicoltura asciutta. Grano, leguminose, poca carne epochi grassi animali. Si è così sviluppata una sapienza ali-mentare che funziona, traendo le sue materie prime dallacerealicoltura, secondo un meccanismo perfetto, che pre-vede anche i margini di tolleranza. Pane e legumi corri-spondono sotto l’aspetto alimentare all’uso prevalente dellaterra per coltivare grano e alcune leguminose per l’alimen-tazione umana e degli animali da lavoro. Le macchie verdiestive, che rompono la monotonia gialla del paesaggio,suggeriscono quali sono stati, fino a pochi anni fa, i modidi integrare questa dieta a base di farinacei: qualche vigne-to (un po’ di calorie rapidamente utilizzabili bevendo ognigiorno un po’ di vinello); qualche orto ai margini dell’abi-tato (un po’ di vitamine dalle ortaglie); qualche piccolooliveto (un po’ di grassi vegetali). Infine quelli come ziuTatanu, che ogni tanto contribuivano a far mangiare unpoco più di quelle proteine, la cui mancanza spiega forsela taglia e la gracilità della nostra gente, dove lui era l’ecce-zione, selezionata dallo stato per farne uno strumento del-la sua forza.

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una sua filosofia, e certamente era per questo che il parro-co lo considerava un agguerrito miscredente, non soloperché era un anticlericale arrabbiato, come un carbonarod’altri tempi.

Tatanu Melis non era nato e cresciuto in paese, ma inun altro, un po’ lontano. Ci era venuto da carabiniere, edopo il congedo c’è rimasto. Si può dire però che ai mieitempi quasi nessuno si ricordasse più di quella sua profes-sione. Del carabiniere non aveva più nemmeno il passo,ma solo la statura, alta per le nostre parti.

Che avesse deciso di vivere solo della pensione e distarsene a guardare il mondo e la vita altrui non è proprioesatto, perché per un lungo periodo ziu Tatanu è stato ilpescivendolo del paese. Ogni martedì e ogni venerdì ven-deva un paio di cassette di gerri alla gente normale e alcu-ni chili di muggini ai benestanti. Per le feste qualche cas-setta di muggini in più, a volte anche un paio di cassettedi anguille, come la vigilia della festa dell’Assunta, che pri-ma era giorno di magro, ma da noi già festivo.

Durante il fascismo aveva fatto alcuni mesi di confinoin Calabria. Si era rifiutato di fare l’istruzione premilitareai ragazzotti del paese. Il segretario del fascio glielo avevachiesto perché era stato carabiniere. Non che si consideras-se antifascista. Solo che aveva già deciso da tempo che gliinteressava di più stare a guardare vivere il prossimo.

«Più fai, meno ci pensi» diceva. «Tutti corrono e briga-no. E quando arriva l’ora non sanno cosa hanno fatto edove sono andati. Sapere che si muore aiuta a vivere».

Ma, per quanto riguarda il suo rifiuto di giocare a farela guerra coi fucili finti di legno, c’è da pensare che il suofilosofare avesse già sviluppato in lui un certo senso del ri-dicolo, nonostante che fosse stato ventidue anni nell’arma.

Avrebbe potuto fare il tabaccaio, perché gli ex carabi-nieri allora erano preferiti dall’amministrazione dei mono-poli di stato. Ma non voleva vendere cose inutili in un po-sto dove manca il necessario, mi spiegò una volta.

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Gli piaceva formulare giudizi sulla gente, specialmentea caldo, dopo una morte o una disgrazia. Mi venne inmente di prestargli l’Antologia di Spoon River e ziu Tatanune rimase sconvolto. Fu così che un bel giorno mi diede daleggere un quaderno di suoi brutti sonetti in sardo sui mor-ti del nostro cimitero. Il sonetto è una forma metrica dellapoesia popolare tradizionale, in Sardegna, dai tempi in cuilo divulgarono certi poeti arcadi settecenteschi. Ultima-mente, da queste nostre parti il sonetto si è specializzato co-me forma delle lettere anonime di argomento politico.

Altri libri che lo affascinarono furono le favole di Fedroe le avventure di Bertoldo, cose per le quali aveva già l’orec-chio preparato. Non gli piacquero altri libri, come certestorielle di Brecht. Almeno così mi diceva restituendomeli.

Però nelle meditazioni di ziu Tatanu ha sempre conti-nuato a prevalere il problema del sorgere e del mutare deibisogni. Soprattutto il loro mutare gli è sempre apparsoun segno dell’umana debolezza, perché aveva deciso datempo che i bisogni vanno ingannati, il più possibile igno-rati, come la morte e le disgrazie che non sono ancora ve-nute, ma che uno deve sempre aspettarsi.

Degli ultimi anni del mio vicinato con ziu Tatanu è lasua scoperta dell’ecologia e il suo innesto sul tronco por-tante della vecchia problematica dei bisogni.

Lui pensava comunque che il mondo andasse di malein peggio, un po’ alla maniera dei vecchi, o forse, meglio,secondo un modulo del senso comune di quelle fasce socia-li che non sono mai state raggiunte da ideologie progressistecome l’illuminismo, il positivismo, il socialismo. Nei suoidiscorsi tornava ossessiva la nozione vaga di un «prima».

«Ma quando era questo prima?» gli chiesi una volta.Ci pensò su un poco:«Prima che io nascessi…» e rifletté ancora.«Nel medioevo» aggiunse. «Ma anche quando ero mol-

to piccolo io».«Nel medioevo?».«Sì, nell’antichità».

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Non ho mai notato che qualcuno lo considerasse stra-vagante. Ricordo però la volta che a casa mia, da ragazzi-no, i grandi a tavola parlarono di lui in termini di condan-na perché si era comportato male con un frate nostrocompaesano, venuto in vacanza dal Gabon dov’era missio-nario. A quanto ho capito, pare che tra il serio e il facetogli avesse detto che i preti vanno bene soprattutto là dovela gente ha più bisogni e paure. Il giorno che nessuno avràpiù tanta paura, non ci sarà più bisogno di preti e di frati.

Anche ziu Tatanu era noto come uno di quelli buoni amettere canzoni. Ce n’erano parecchi altri, e qualcuno c’èancora. Delle sue canzoni la più famosa è quella che com-pose per ziu Micheli Stasiu, che una volta, ubriaco perdu-to in una baracca, il giorno della festa di San PasqualeBaylon patrono dei pastori, aveva detto che con la moglie,adesso che stava invecchiando, ce la faceva solo se lei almomento buono gli diceva concitata «presto Micheli chesta arrivando mio babbo». Come i tempi quando l’amorelo rubava alla vigilanza dei suoceri.

Nel Quarantasei, quando si fece un grande carnevaleper celebrare la pace e il ritorno dei soldati, si era masche-rato anche lui (perché non era un misantropo) e sui tram-poli appariva come un gigante bello grasso che mangiavatutto ciò che gli capitava. Mangiare però non è la parolagiusta, perché apriva una specie di porticina sul petto e cibuttava dentro sassi, terra, erba, merda di bue e foglie difico d’India. Così rappresentava il suo ideale di liberazio-ne dal bisogno più imperioso.

Un po’ per caso divenni suo fornitore di libri. In unadecina d’anni gliene avrò prestato una ventina. Una serastava raccontando storielle alle donne del rione sedute alfresco sulla strada e mi sembrò di riconoscere la fonte diqualcuna nel Lazarillo de Tormes. Ma non l’aveva letto, eglielo prestai. Quelle avventure divennero a poco a pocoparte integrante della vita vissuta di ziu Tatanu, che certa-mente non sapeva più di raccontare frottole tanto ricono-scibili anche a me.

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E quando tornavo in visita mia madre mi informavaspesso che ziu Tatanu chiedeva di me, per parlarmi e farmileggere qualcosa. Ma io facevo quasi sempre finta di nien-te, temendo che il vecchio non intendesse smettere l’abitu-dine di usarmi come un perito giurato che stimasse la qua-lità delle sue produzioni scritte, per me sempre bassa,nonostante il progresso in quantità.

Ora Tatanu Melis da qualche mese sta in compagniadei personaggi dei suoi sonetti cimiteriali, nel campo san-to rimesso a nuovo. Tempo prima avevamo fatto la scom-messa che la nostra nuova amministrazione di sinistra loavrebbe rimesso a nuovo, perché lui diceva che non si sa-rebbe fatto nemmeno questo, tanto gli era estranea l’ideadel mutamento progressivo.

Qualche giorno fa sono ritornato in paese. Mentre eroin casa è venuta la vedova di ziu Tatanu a cercare di me.Aveva notato la mia macchina davanti al portone.

Dopo i convenevoli e le condoglianze, da sotto ilgrembiulone nero dove teneva le mani come per conser-varle calde, ha tolto fuori un librone decrepito col dorso inpelle. Veniva a restituirmelo, dato che la buonanima si eradimenticato di farlo. Apro il libro. Mai visto prima. È unavecchissima edizione del Dizionario filosofico di Voltaire, lepagine gialle e zeppe di annotazioni di pugno di ziu Tata-nu, e di una mano precedente sconosciuta. Chiedo alladonna se non si fosse mai accorta che la buonanima lopossedeva da tempo. Nemmeno lei l’aveva mai visto, finoal giorno che ha riordinato certe cose del marito morto.

Mi sono sentito tradito dal vecchio perdigiorno. Qua-le strana concezione stregonesca della carta stampata haindotto ziu Tatanu a tenere nascosta a tutti, come i segretidi un’antica arte magica, proprio quell’opera fondamenta-le dell’illuminismo?

Ma il lascito involontario di ziu Tatanu non aveva fi-nito ancora di sorprendermi. Recentemente ho curiosatotra le scartoffie di cui è imbottito il libro, ormai rimastoa me. Si tratta quasi solo di composizioni in versi sardi.

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E guardandolo tacere assorto mi parve di capire comequel prima fosse per lui un’oscura età iniziale, l’aldiquàdel caos primogenio, un tempo indeterminato, ma appe-na prima della memoria dei viventi, appena prima dellasua memoria, o il tempo quando non c’era tempo.

Mi posi il compito di aiutarlo a fendere questo velamefitto fra passato e presente, in modo che si formasse unqualche suo senso della storia. Ma non trovai letture adat-te a questo scopo.

Avevo già quasi dimenticato questa mia preoccupa-zione pedagogica nei suoi confronti, quando un giorno dipunto in bianco, avvicinando la faccia furba alla portieradell’auto che avevo fermato per salutarlo, mi disse:

«Se i contadini di qua sapessero la storia, si arrabbie-rebbero. Ma la questione più grossa è sapere contro chibisogna arrabbiarsi».

Non potei chiedergli nulla perché si accorse di mia mo-glie, che mi sedeva vicino, e le domandò se aspettasse unbambino. Lo domandava sempre. Lui non aveva avuto figli.

Una volta ebbi modo di ricordare a ziu Tatanu que-sta sua opinione sui contadini. Dapprincipio fece un’al-zata di spalle, poi disse:

«Chi lavora la terra è sempre l’ultima ruota del carro.Forse è sempre stato così. Figuriamoci poi quando uno èsempre l’ultimo in un posto come la Sardegna, che per glialtri di fuori sembra non essere nemmeno parte di questomondo. E invece il mondo è una cosa tutta d’un pezzo, esta insieme per questo. Solo che per capirlo bisogna guar-darlo dal punto giusto, come da un satellite…».

«E poi magari arrabbiarsi» aggiunsi per provocarlo an-cora.

«Di questo non c’è bisogno, per arrabbiarsi, perchétanto arrabbiati siamo da quando si incomincia a capirechi sono gli altri e chi siamo noi sulla terra».

Quando ziu Tatanu era nel pieno dei suoi interessiecologici, aiutato in questo dalla televisione, io me ne an-dai dal paese.

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IL CAMPIONE MONDIALE

Nel mare del Continente c’era una volta un pescecaneche era famoso come grande capitalista. Ma un giorno unaltro pescecane gli disse, per umiliarlo un po’, che per di-ventare il campione mondiale dei capitalisti bisogna riusci-re a vendere la cosa più inutile a chi ne ha meno bisogno.

Allora questo pescecane ha pensato di andare a vende-re una maschera antigas a un muggine di stagno.

Siccome anche da quelle parti si sa che i muggini mi-gliori sono negli stagni della Sardegna, questo pescecane èvenuto nello stagno di Cabras e ha offerto a un mugginela sua maschera antigas:

«Oggigiorno tutti i muggini stanno comprando ma-schere antigas» diceva.

«Qui l’acqua è buona e pulita» gli ha risposto il mug-gine di Cabras. E non se n’è fatto nulla.

Allora il pescecane è andato nello stagno di Marceddì,ma compratori non ne ha trovato nemmeno lì. È discesogiù fino allo stagno di Santa Gilla, ma nemmeno stavoltaha avuto fortuna.

Si è guardato bene intorno e ha pensato.Il giorno dopo ha mandato i suoi avvocati alla Regio-

ne per chiedere i contributi, e dopo meno di un mese haincominciato a fabbricare un grande stabilimento, proprioin riva allo stagno, a Macchiareddu.

Dallo stabilimento sono incominciati a uscire rifiutischifosi e i muggini non sapevano come difendersi.

Ma il muggine che aveva rifiutato la maschera del pe-scecane è andato a cercarlo:

«Ce l’hai ancora quella maschera antigas?».«Ce n’ho giusto una fiammante di prima qualità. Co-

sta tanto».

Quasi solo, perché in mezzo a tutta quella cianfrusaglia av-voltolata nei complicatissimi metri della nostra tradizionecantata e non cantata, su un foglio doppio protocollo hoscoperto un pezzo in prosa, in prosa italiana.

L’ho decifrato con la pazienza di un filologo che scopreil frammento d’un’opera perduta.

A fatica finita mi sono sentito davvero beffato da ziuTatanu.

Il titolo del pezzo suona: Il campione mondiale dei ca-pitalisti. Sottotitolo: Storia moderna alla moda antica, diMelis Gaetano.

Sfrondata di certo sovrappiù, rimessa solo un poco insesto e ripulita grammaticalmente (col permesso dei teoricimoderni della pedagogia linguistica), ne viene fuori unafavoletta brecht-esopiana. Questa che segue, che va pieto-samente divulgata, e resti a me il merito di lasciarne me-moria ai sopravvissuti e ai posteri, e forse documento peruna storia più accorta.

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MARTIRIO OSCURO

Dopo alcuni calci in pancia Luisicu continuava a dor-mire. Sognava di essere travolto da una motocicletta dellapolizia nelle terre dei Lampis. Ma ziu Fadaricu, il capo deiservi, insisteva colpendolo con tutte le forze, con le scarpechiodate. Luisicu non riusciva a uscire dal suo incubo.

Ziu Fadaricu prese un loru, una correggia di cuoio perlegare i buoi al giogo, e incominciò a frustare Luisicu sututto il corpo, con metodo:

«Alzati, demonio, e vieni a vedere la valentia che haifatto, disgraziato».

I colpi di loru sulla faccia lo risvegliarono e riconobbeil capo dei servi: perché ziu Fadaricu lo stava picchiandocosì, per svegliarlo? Era tempo di semina, i buoi mangia-vano nelle stalle, non doveva portarli più lui al pascoloprima dell’alba.

Luisicu si alzò a sedere sulla stuoia, proteggendo il visocon le braccia, appallottolato come un riccio riscosso d’in-verno.

«Vai alle stalle, figlio di puttana. Corri, demonio, cheieri ne hai fatto molto di pane bianco».

Luisicu si buttò fuori dal deposito degli attrezzi. Erabuio pesto e pioveva. Ziu Fadaricu lo raggiungeva ognitanto con un calcio.

Aveva le ossa rotte, come non le aveva sentite mai, equalcosa nel fondo della memoria che non ricordava ab-bastanza.

Nelle stalle dei buoi da lavoro avevano acceso una lam-pada a carburo.

«Guarda, disgraziato. Guardalo quel bue gagliardo,che cosa ne hai fatto, farabutto» gridava spingendolo ziuFadaricu.

Ma il muggine non aveva i soldi. Il pescecane gli hadetto:

«Tu vieni a lavorare nella mia fabbrica, io ti pago e co-sì puoi comprare la maschera antigas».

Così ha fatto e come lui molti altri muggini.Lungo le strade d’acqua dello stagno il pescecane ha

fatto mettere grandi fotografie di belle mugginesse conmaschere antigas.

Un giorno è venuto in visita a parenti un muggine diCabras e si è molto meravigliato della nuova moda. Ma imugginetti piccolini gli andavano dietro e lo canzonavanoperché era senza maschera. Anche lui allora ne ha compra-to una. Prima di andarsene ha chiesto ai parenti:

«A proposito, che cosa producete in questa vostra fab-brica?».

Nessuno lo sapeva. E tutti hanno incominciato a chie-derselo, specialmente quelli che ci lavoravano.

E un giorno il sindaco dei muggini è andato in delega-zione dal pescecane e ha chiesto di sapere che cosa si pro-duce nel grande stabilimento.

«Maschere antigas» ha risposto il pescecane. «Per la vo-stra salute».

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Solo una cosa era chiara. Che No ’ndi Fatz’Usu stavamolto male perché il giorno prima aveva mangiato quasiuno starello di fave, di fave intiere da seme, quando lui ePaulinu erano scappati all’arrivo della polizia sulle terre oc-cupate dei Lampis. E Luisicu ne aveva fatta di strada, insalita e in discesa, correndo alla disperata su per le costedel Monte.

Sul ponte di Riu Arai un lampo fece scartare la cavalla,che quasi metteva le zampe sul parapetto del ponte. Luisi-cu sentì il dolore per le ferite che il giorno prima gli aveva-no fatto le scarpe sui calcagni. Il rivo era in piena. Biso-gnava fare in fretta. Altrimenti gli toccava ripagare il bue,se moriva.

Ma di chi era la colpa?Che cosa era successo nemmeno lui lo sapeva bene.

Era tutta colpa della giustizia e della polizia, che rincorre-vano quelli che erano andati a occupare le terre dei Lam-pis, per seminarci i ceci.

Il veterinario non voleva venire e imprecava come se lovolessero portare via tutti i diavoli. Luisicu aspettava fuori,sotto la pioggia.

Quando stava per salire sul calesse, il veterinario notòil suo stato e lo fece sedere vicino a lui sotto il soffietto.La cavalla l’attaccarono dietro il calesse.

«Ma il malato sei tu o il bue?» chiese il veterinario.«Quanti anni hai?».

«Diciassette e mezzo».Il veterinario gli diede un sorso di acquardente da una

piccola borraccia.Quando arrivarono, No ’ndi Fatz’Usu respirava fi-

schiando. Il veterinario si fece dare un coltello e gli aprì unfianco per fargli uscire l’aria cattiva. Luisicu gridò breve-mente, poi ammutolì. Ziu Fadaricu gli mollò un calcio etutti lo guardarono. Aveva sempre addosso quel sacco diorbace, i piedi scalzi e tremava come se ballasse. Ziu Anto-nicu, il bastanti mannu, gli disse di tornare sulla sua stuoia,ma ziu Fadaricu ordinò, sempre arrabbiato:

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C’erano quasi tutti gli altri servi e il figlio maggiore delpadrone. L’ultima spinta di ziu Fadaricu lo fece quasi in-ciampare sopra No ’ndi Fatz’Usu, coricato fuori della lettie-ra, di traverso nella caminera, ma ancora legato alle corna.Soffiava e si lamentava, con la bava alla bocca.

«Visto, delinquente? Hai visto bene la giornata che ti seifatto ieri?» latrava sempre ziu Fadaricu. «Se muore questobue, nemmeno tre anni di lavoro ti bastano a ripagarlo».

Gli altri stavano tutti intorno a guardare. Poi ziu An-tonicu, il vicecapo, cercò di far bere al bue una tazza divino caldo. Non ci riuscirono in quattro.

«Bisogna andare a Guasila a chiamare il veterinario»disse il figlio maggiore del padrone a ziu Fadaricu. E lui ri-cominciò subito coi calci: «Vai e prendi la cavalla vecchia,demonio. A piedi dovresti andare, se non fosse la fretta perquesta povera bestia».

Luisicu scappò sotto la pioggia del cortile a prendere lacavalla vecchia. Ogni passo erano fitte. Mise i piedi in unapozzanghera e si accorse di essere scalzo. Ma non andò aldeposito degli attrezzi, dove dormiva, a cercare le scarpe nelbuio. Proseguì verso la scuderia, staccò la cavalla, le mise unmorso, una coperta di pelo d’asino sulla groppa e montò.

Sedersi in groppa era come sedersi sul fuoco.Vicino al portone lo aspettava nascosto Paulinu, il bo-

varo che dormiva con lui nella stanza degli attrezzi. Uscìdal buio con un sacco di orbace da pastore sul braccio:

«Mettitelo sulla testa. Altrimenti crepi tu prima delbue».

Luisicu lo prese e si coprì col sacco a capanna sullatesta.

«Rimani sullo stradone, non andare di traverso. È giàpiovuto molto».

Paulinu aprì il portone, poi tenne la cavalla per il mor-so e disse piano a Luisicu:

«Quello che è successo ieri, loro non lo sanno. Io laspia non la faccio».

Luisicu spinse la cavalla al trotto nel buio, sotto lapioggia.

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«Bravo, bravo», commentava il padrone. «Non c’èmale, incominci presto, tu, a buttarti dalla parte sbagliata.Non c’è male, non c’è male, incominci proprio bene».

Il figlio maggiore guardava Luisicu e rideva come untonto.

«Così impari a metterti con quei pazzi, con gli scomu-nicati, faccia di scemo!», concluse il padrone.

Era già da più di un mese che in paese stavano prepa-randosi per occupare le terre incolte dei Lampis, vicino alRiu Mannu. Terre buone, ma senza seme già da moltotempo prima che i Lampis se n’andassero a Roma, chissàda quanti anni. Non se ne ricordava quasi più nessuno.

La domenica prima i braccianti disoccupati avevanofatto un raduno nella piazza del municipio e poi erano sfi-lati con le bandiere, gridando:

«Pane e lavoro. Le terre a chi le lavora!».Ma se quelle terre non le lavora nessuno, dicevano

molti.«Veramente», spiegava ziu Antonicu, «le terre le posso-

no ottenere secondo la legge. La legge stabilisce che le terreincolte devono andare a quelli che non ce n’hanno e for-mano una società, una cooperativa. Sono i capi dei comu-nisti di Cagliari che li spingono a occuparle con la forza.Se quelli non li incitano, i giornalieri di qua non si muo-vono a fare queste cose».

Sono partiti in più di duecento a occupare le terre deiLampis. Volevano fare come quelli di Sa Zeppara, cheavevano occupato le terre incolte, erano riusciti a compra-re anche un trattore e facevano scioperi alla rovescia.

Luisicu stava già sulla collina de Is Corongius, a semi-nare le fave con Paulinu, il bovaro di dodici anni. Era unterreno scosceso, una costera piccola che bastavano duegiorni a un giogo per riempirla di seme. Ziu Fadaricu, ilcapo dei servi, aveva incaricato lui e Paulinu: lui arava ePaulinu gettava le fave a una a una nel solco, e ogni tanto

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«Non gli fa male vedere la fine della sua opera».Luisicu non staccava gli occhi dal bue morente. Il vete-

rinario se ne andò dicendo che non c’era più nulla da fare,e tutti restarono lì a vederlo morire come se fosse un cristia-no. Gli altri buoi muggivano e scalciavano impauriti.

Dopo che il bue fu spirato, ziu Fadaricu portò Luisicudal padrone, nella cucina grande. Il padrone era malato enon era potuto uscire nelle stalle. Lo teneva informato ilfiglio maggiore. Stava là davanti al fuoco del camino, inmutandoni bianchi e mantello, attizzando e soffiando co-me Lucifero.

«To’», disse quando lo vide comparire, ancora copertocon quel sacco gocciolante, «nomini il molente, e subitopresente!». Ma non rideva.

«Sissi, su meri», rispose Luisicu, affascinato da quelgrande fuoco di sarmenti. Ma il padrone non lo invitò adavvicinarsi.

«E adesso ci vai tu, quest’anno, alla fiera di Santa Lu-cia di Serri, a comprare un altro bue, eh? Oppure vuoiandare a quella di Isili, dove c’è più scelta? Ce li hai tu isoldi?».

«Nossi, su meri».«Certo che non li hai. Lo sai che ti devo scontare il

danno dalla paga dell’anno, disgraziato?».«Sissi, su meri».«Adesso il bue morto bisogna venderlo per bassa ma-

celleria. Tocca a te metterti d’accordo con un macellaio.Sono affari tuoi. Se ne ricavi almeno quarantamila lire,può darsi che per pagare il danno ti basti la paga in natu-ra e in denaro che ti spetta per quest’anno. Hai capito?».

«Sissi, su meri».«Stanotte sì che sei tutto sissi e nossi su meri, ma ieri al

tuo dovere non ci hai pensato, eh?».«Nossi, su meri».E Luisicu raccontò tutto per filo e per segno come era-

no andate le cose, pur di restare ancora in quel caldo.

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Hanno staccato i buoi dall’aratro, li hanno legati al carrel-lo e sono andati giù con la bisaccia delle cibarie. Quelli disotto li hanno ricevuti con grandi feste.

Ma la vera festa doveva incominciare.Mentre stavano ancora mangiando, a un certo punto

due che montavano di sentinella su due alture incomincia-no a sventolare i fazzoletti e a gridare. Stava arrivando lapolizia. Alcuni dicevano di restare lì, fermi, a difendere iloro diritti su quella terra. Ma quando apparve un nuvolo-ne di polvere e chissà quanti camion e motociclette, alloramolti si levarono e scapparono da tutte le parti. I poliziottisulle motociclette correvano a zig zag sui campi duri nonancora dissodati. Altri prendevano la gente e la buttavanodentro i cassoni come se caricassero bestiame.

Luisicu e Paulinu si trovarono la strada sbarrata. Lui-sicu ordinò al suo compagno di starsene lì fermo. A luinon avrebbero fatto nulla, era piccolo. Lui scappò verso ilMonte. Voleva arrivare lassù e aspettare che tutto fosse fi-nito. Poi riprendere a lavorare.

Un motociclista arrivò su una nube di polvere e gridòl’alt a Luisicu che scappò a correre disperatamente senzavoltarsi mai, finché non cadde come morto sul pendio.

Di sotto fu sparata una raffica in aria e Luisicu ripresela corsa.

Quando si fermò, dall’altra parte del Monte, non sa-peva dove fosse finito. Forse era uscito dal territorio delpaese, verso Gesico? Ma la bisaccia l’aveva ancora con sé.

Tanto così non ricordava di essersi mai stancato, nem-meno due anni prima, quando era scoppiato l’incendiodel grano e lui aveva lavorato per più di dieci ore a spegne-re, come se fosse stata tutta roba sua e non dei padroni.

Quando riuscì a ritornare sulla collina dov’erano i buoie gli attrezzi, il sole stava già per tramontare. Sulle terre deiLampis non c’era più nessuno.

Paulinu lo stava aspettando piangendo sommessamen-te. Lo vide arrivare e corse ad abbracciarlo. Disse subitoche nessuno lo aveva toccato. Ai poliziotti aveva detto un

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una spruzzata di nitrato. Incarichi così importanti Luisicune aveva avuto quell’anno per la prima volta. Non era piùbovaro, l’otto settembre era stato ingaggiato come servodi campagna. Per questo durante la semina riceveva per-fino un pezzo di formaggio, insieme col pane. Ma lui siportava anche un paio di fiammiferi per arrostire un po’di fave insieme con Paulinu. Tanto le fave non le avevacontate nessuno a una a una. Poi, d’estate, quell’annoLuisicu avrebbe mietuto, oppure avrebbe fatto il carrado-re. Da quando era bastanteddu ziu Fadaricu non lo avevanemmeno più preso a calci.

Ma quella notte di calci gliene aveva dato una razioneda ricordarsene per quanto campava.

Luisicu e Paulinu stavano già sulla collina a seminarele fave, quando hanno visto arrivare tutta quella gente,con bandiere, cantando pieni di entusiasmo. Avevano duegioghi di buoi e tre cavalli presi in affitto, per seminare iceci nelle terre dei Lampis.

Appena arrivati, divisa tutta la terra in quattro parti,per segno di divisione hanno piantato le bandiere rosse etricolori. Sembravano a una festa, come quando si andavaal monte a portare la legna per il falò di San Sebastiano.Solo che c’erano anche le donne, che camminavano tuttevicine, tenendosi a braccetto e cantando alla trallalero.

Gli animali per arare erano pochi. Allora uno, perscherzo, ha chiamato Luisicu e Paulinu che stavano lavo-rando sulla collina, e gli ha gridato di scendere con buoi earatro a lavorare le terre del popolo. Ma loro non sonoscesi, naturalmente. Se no, chissà che cosa sarebbe succes-so, col padrone e con ziu Fadaricu. Quel giorno dovevanofinire la semina su quel campo, che era a mezzadria colpadre di Paulinu.

Ogni tanto quelli di sotto li chiamavano. E li hannochiamati soprattutto quando si sono fermati per mangiarea mezzogiorno. Avevano portato del vino e stavano allegri.Allora Luisicu si è deciso, ha convinto Paulinu e sono scesiper mangiare il loro pranzo insieme con tutta quella gente.

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Al sorgere del sole Luisicu si stava già avviando di nuo-vo verso la collina de Is Corongius, con Paulinu, per finiredi seminare le fave.

Tre giorni dopo tornò dal macellaio, che gli diede ven-timila lire e gli disse di portarsi via la carne vecchia, che giàpuzzava:

«Se fosse stato almeno sabato o domenica, o giorno difesta», gli spiegò il macellaio, «si sarebbe potuto venderlaquasi tutta, la carne. Ma così, dentro la settimana, anchese a prezzo di bassa macelleria, chi la compra la carne?».

Luisicu non disse nulla, intascò le ventimila e le portòsubito al capo dei servi.

Tornò a casa sua a prendere il somaro con le ceste, do-po che ebbe tritato le fave in casa del padrone. Era giàbuio pesto. Caricò la carne fetida e andò a seppellirla incampagna, appena fuori dal paese. Riportò il somaro a ca-sa sua, lavò le ceste sporche alla fontana, conservò un cor-no del bue morto e si mise a letto.

«Non torni stanotte a casa del padrone, disgraziato?»,gli chiese il padre.

Luisicu non rispose perché stava aspettando che glivenisse su il vomito. Quel giorno era la terza volta.

Dopo quattro giorni che vomitava ogni volta che ten-tava di alzarsi, gli dava fastidio la luce e non riusciva più alevare la testa dal cuscino, sua madre andò a chiamare ilmedico.

«Per me questa è meningite», disse il medico. «Andate achiamare la macchina di Scarmonati e portatelo a Cagliari».

E scrisse il foglio per il ricovero urgente.Mentre lo caricavano sulla macchina di Scarmonati per

portarlo all’ospedale, passò il padrone che tornava dalla cac-cia, con una bella fila di lepri che gli pendevano dalla cintu-ra e dalla sella del cavallo. Tolse una quaglia dal carniere e ladiede alla madre di Luisicu, quasi senza fermare il cavallo.

«Se non guarisce presto, questo scriteriato ci perde l’an-no» disse come se stesse salutando.

«Deus si ddu paghid» gli gridò dietro il padre di Luisicu.

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sacco di storie col suo italiano porcellino. Uno gli avevadato una sigaretta e lui ad alcuni il vino che gli occupantiavevano lasciato scappando. A un tratto si fece serio e tristee mostrò a Luisicu il sacco delle fave da seme quasi vuoto.No ’ndi Fatz’Usu aveva rotto la corda, aveva raggiunto ilsacco e se le era mangiate quasi tutte. Adesso aveva già lapancia gonfia.

Attaccarono i buoi al carrello e si affrettarono verso ilpaese. Dovettero fare tutto il tragitto a piedi per non ap-pesantire il giogo. La strada era come arata dai mezzi dellapolizia. I buoi faticavano a tirare avanti.

Il bue di destra, No ’ndi Fatz’Usu, si fermò alcune vol-te e non voleva più proseguire. Sulla salita di Pedru Mur-riaxi il petto gli tremava come preso da attacco nervoso.

Arrivati alla sorgente di Pitzianti, Luisicu bagnò il sac-co vuoto delle fave e lo stese sulla groppa del bue gonfio.

Prima di entrare in paese tolsero via il sacco bagnatodalla schiena di No ’ndi Fatz’Usu, perché la gente e poi iservi a casa del padrone non capissero che il bue stava ma-le. Ci mancava solo questa.

Quella sera non toccava a Luisicu dare da mangiare aibuoi da lavoro. Era di turno a macinare le fave in magaz-zino. E non disse nulla agli altri.

Appena poté, andò a dormire sulla sua stuoia nel de-posito degli attrezzi e si addormentò subito.

Due ore dopo lo svegliò la tempesta di ziu Fadaricu.

Gli altri servi quella notte lo aiutarono a macellare ilbue. Luisicu era morto di stanchezza, quando la mattinaprima dell’alba andò a svegliare ziu Loi Carnazzeri percontrattare il prezzo di vendita della carne del bue:

«Io ti do tutto quello che ne ricavo, meno il mio gua-dagno», disse ziu Loi. «Porta qua in bottega la carne».

Luisicu andò a casa sua a prendere il somaro per tra-sportare la carne. Quando suo padre lo vide e seppe cos’erasuccesso, si mise a gridare che sembrava un «maiale punto».La madre gli preparò il somaro con due ceste sul basto.

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TRENT’ANNI DOPO

Eugenio per certe cose ha memoria tenace, e gusto perle belle frasi che riassumono i grandi avvenimenti. Gli av-venimenti belli e brutti degli anni duri del dopoguerra liha tutti ordinati secondo una sua gerarchia di importanza.E per tutti ha il suo frasario, fatto di brandelli dei discorsidi allora, cuciti insieme dalla sua passione.

Quelle parole pronunciate trent’anni fa dal dirigentevenuto di città, davanti alla bara di Luisicu avvolta nellabandiera rossa, ieri sera se le ricordava bene, a modo suo.E le ha ripetute tutte, per dare forza alla sua proposta,perché altri sembravano non capirne il significato.

Il problema era di dare nomi nuovi a strade nuove delpaese, nomi dei capi delle lotte popolari, nomi della resi-stenza, nomi del rinnovamento.

La proposta di Eugenio era di dare a una strada il no-me di Luisicu, che è morto giovane nella lotta per le terre.O che almeno bisognava chiamarne una con la data dellaprima occupazione delle terre dei Lampis: via VentottoSettembre. Non c’è forse in molte città una via Venti Set-tembre? E che cosa è mai questo Venti Settembre?

«Lascia perdere» ha detto uno studente.«Già, perché nemmeno tu lo sai. Ma questa data del-

l’occupazione la devono sapere tutti, se la scriviamo suuna targa di una via».

«Ma come diavolo la chiamiamo questa strada, secon-do te, la chiamiamo Via del Martirio Oscuro?» s’è messoa gridare Augusto col suo vocione da sergente.

Efisio, il segretario della sezione, per sdrammatizzareha cercato di spiegare che in fondo questa del MartirioOscuro non era una cattiva idea.

«Mi pare che suona molto bene» ha aggiunto Eugenio.

Lo stesso giorno che in paese tornarono di prigione gliarrestati per l’occupazione delle terre, con loro tornò an-che Luisicu, dentro una bara di zinco.

A Cagliari certuni avevano fatto una colletta per paga-re bara e trasporto.

Quel giorno in paese stazionavano, come per caso odi passaggio, autoblindo e camionette della Celere, che sene andarono senza far troppo rumore quando fu buio.

Da Cagliari, cogli arrestati accompagnati da alcuni di-rigenti di città, arrivò anche la maniera nuova di raccon-tare la storia della morte di Luisicu.

Luisicu si era ammalato alla testa di quella malattiamortale dopo le manganellate della Celere sulle terre deiLampis, mentre presidiava con gli altri contadini le con-quiste legittime del popolo e si opponeva alla prepotenzapoliziesca.

Per questo al funerale non c’era molta gente. Soloquelli che stavano dalla parte di ciò che significava ormaila morte di Luisicu.

Il prete fece funerale svelto.Appena il prete se ne andò dal cimitero con la confra-

ternita, uno degli arrestati tirò fuori una grande bandierarossa e l’avvolse intorno alla bara di Luisicu.

Il padre di Luisicu piangeva come muggendo aggrap-pato alla bandiera rossa.

Un dirigente venuto da Cagliari parlò del sacrificio diLuisicu. Parlò poco perché si mise a piovere. Disse dellavittima del braccio armato dei padroni assenteisti. E ter-minò dicendo che sulla tomba di Luisicu bisognava pian-tare i primi garofani rossi della Trexenta, perché il martiriooscuro di Luisicu sarebbe stato seme per la crescita dellacoscienza dei contadini e dei braccianti del suo paese.

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Si è fatto un poco di silenzio e quasi di raccoglimentosolo quando Paulinu, il bovaro che aveva dato il sacco diorbace a Luisicu, ha detto che a lui la proposta di Euge-nio sembrava giusta e non esagerata. Forse che i democri-stiani non hanno proposto di dare a una via il nome diMaria Goretti? Che differenza c’è tra Maria Goretti e Lui-sicu Pistis?

Ma Augusto ha ripreso per primo a fare casino. Cosìalla fine non è passata nemmeno la proposta di Via Ventot-to Settembre. In estremis Efisio ha tentato con molto tattodi riguadagnare il terreno fatto perdere da Eugenio con unbel predicozzo sull’istinto di classe, fase iniziale della co-scienza di classe, con riferimento a Luisicu.

Il colpo di grazia lo ha dato Carmelo, il professore dilettere siciliano, che a un certo punto se n’è andato dicen-do che era stufo di tutta quella agiografia rusticana.

Così, anche ieri sera è finita colla millesima replica delracconto di quei giorni di settembre di quasi trenta anni fa.

Era già notte alta quando ziu Barra, accompagnandoil segretario a casa, brillo, ha finito di raccontargli davantial portone come fischiavano le palle di fucile tra gli ulivi,la notte che alcuni proprietari avevano tentato, di nasco-sto, di tracciare un solco tutt’intorno a certe loro terre in-colte da millenni, per dimostrare che le coltivavano.

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«Già, e anche molto comunista, come quell’altra viadi Roma» s’è rimesso a predicare Augusto, sogghignandoperché lui è socialista.

Efisio ha cercato di riprendere le redini della discus-sione, per non lasciare l’iniziativa alla foga di Eugenio:

«Qui il problema principale è di riuscire a trovare dicomune accordo quattro nomi che richiamino momenti eidee progressisti. State tranquilli che i nostri avversari i lo-ro nomi bigotti e reazionari li hanno già tutti pronti. E si-curamente non hanno bisticciato per la scelta».

«Per forza, con tutti i santi che hanno» ha detto uno.È ritornata la concordia nell’antipatia per l’avversario.

Eugenio è tornato alla carica.«Io non ci sto. Punto e basta. E che siamo, al paese di

Don Camillo?» gridava Augusto.

La proposta di dare a una via del paese il nome di Lui-sicu Pistis, Eugenio l’ha fatta di punto in bianco, senzaconcordarla prima cogli altri, quando è diventato chiaroche stentava troppo a passare la proposta di dare il nome diVia Ventotto Settembre a una delle vie nuove. Quello è ilgiorno più importante dell’occupazione delle terre, quandoLuisicu scese dalla collina per mangiare cogli occupanti.

Come al solito Eugenio ha peggiorato la situazionecon la sua foga.

Il segretario aveva fatto una bella introduzione allaproposta, che comprendeva anche una Piazza AntonioGramsci, subito accettata, e una Via Giuseppe Di Vittorioriuscita in salita anche nella discussione. Efisio nella suarelazione aveva citato Gramsci sulla necessità di contrap-porre lo «spirito di scissione» al «complesso formidabile ditrincee e di fortificazioni della classe dominante», a «tuttociò che influisce e può influire sull’opinione pubblica di-rettamente o indirettamente…: le biblioteche, le scuole, icircoli e clubs di vario genere, fino all’architettura, alla di-sposizione delle vie e ai nomi di queste…».

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è restato sempre chiuso anche per i giochi di noi ragazzi-ni. E la stuffa dell’ammulatorio non l’hanno accesa mai.Certamente la popolazione sarda è aumentata un pocograzie agli sforzi personali dei presidenti regionali ma ve-ramente non è diventata più benestante, anzi s’è ne anda-ta via per guadagnarsi il pane in altri posti lontani dall’al-tra parte del mare e fuori di stato.

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COMPONIMENTO

Nuraddei, 23 aprile 1969.

Pistis Orlando, terza b, Scuola Media Statale G.M. Angioj.

Tema

«Nel ventennio di concreta esperienza dell’autonomiaregionale la nostra Isola si è trasformata profondamentesotto i più importanti punti di vista. Porta qualche esem-pio di cui sei stato testimonio».

Svolgimento

Della regione sarda se ne dicono di cotte e di crude,io ne voglio dire una nuda e cruda e senza tanti affreschi.Molti anni fa quando io avevo solo sei o sette anni a Nu-raddei è arrivato il presidente regionale assieme al vescovoper dare la benedizione all’inaugurazione del matatoio co-munale e anche del ammulatorio che era vecchio ma ciavevano fatto il riscaldamento con una stuffa bella di ter-racotta colore brocca nuova. Il presidente regionale era al-to moretto e coi baffi neri e ha detto davanti a tutti che ilmatatoio era una presa di misura per igiene e il riscalda-mento nell’ammulatorio era un ristorante per le poveremalate e per il dottore. E siccome siamo in tempi di con-testazione studentesca io mi rischio a scrivere una cosache di sicuro non mi fa vincere il premio della regione peril tema scritto meglio. Io dico che sono passati quasi diecianni e nel matatoio non hanno ammazzato mai nessuno,

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Il fatto però era semplice. Paolo Aramu la notte pri-ma aveva ucciso una guardia giurata dello stagno, Anti-mo Piras, che se ne stava di là nella lolla dentro una bara,fatto a pezzi dai dottori. Questa era la notizia, e non c’eranulla da aggiungere. Era chiaro che Paolo Aramu era sta-to colto a pescare di frodo. I giornali scrivevano e inven-tavano, di provocazione, di legittima difesa, di abuso dipotere, di cose che presto o tardi dovevano succedere dinuovo. Sta a vedere che finisce che la colpa di tutto se laprende il morto e il re di Spagna. Ma Paolo Aramu è no-to abusivo, e testa calda. Antimo Piras lo voleva fermare,sequestrargli il carico di muggini pescati di notte nellostagno. Tanto più grave se si trattava di novellame presovicino al canale, o nel canale, come ha detto Paolo Ara-mu ai carabinieri.

L’unica cosa strana era che Paolo Aramu si era presen-tato lui di persona alla casa di peschiera, con il morto inspalla, e al capo guardia, al pesargiu e a tutti quelli che sta-vano in peschiera aveva detto una cosa che nessuno deiservi di peschiera e dei pescatori a contratto e delle guardiegiurate, radunate lì nel cortile davanti a commentare, ave-va voglia di ripetere. Ma tutti ce l’avevano fissa dentro ilcervello quella cosa che aveva detto Paolo Aramu scarican-do il morto sui gradini della casa di peschiera.

Verso mezzogiorno è arrivata la vecchia zia Daffinacon un pentolino sotto il grembiale:

«Prendi, figlia, che Dio ci paga tutto» ha detto alla fi-glia maggiore del morto, mettendole il pentolino in mano,in un angolo della lolla. E non s’è fermata nemmeno a di-re le orazioni al morto, perché in quel momento c’eranoin visita quelli venuti da Oristano. Se n’è uscita più chinadi quando è entrata, senza dare le spalle al morto e a quellivenuti da Oristano.

«Bisogna dare garanzie a questa gente, che cose cosìnon capitino più» ha detto uno di quelli di Oristano,

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PESCA DI FRODO

Poca gente è andata in visita a casa del morto, anchese era morto giovane e morto di disgrazia, ammazzato persfortuna.

La casa è quasi fuori del paese, delle più vicine allostagno, di quelle ancora segnate dall’acqua dell’alluvionedel dicembre del Sessanta, l’anno del subbuglio per la leg-ge regionale trentanove.

A casa del morto c’è andato più il ricco che il povero,persino il sindaco nella sua qualità, e altre autorità, per co-se della giustizia e per cose loro, di gente che mangia dellostagno.

In mezzo alla lolla c’era la bara con dentro il morto.Dentro la bara e tutto coperto, perché gli avevano fattol’autopsia, si vedeva solo il volto, nero come quelli chemuoiono asfissiati. Poche donne giravano piangendo percasa, altre si davano da fare. Un bambino dormiva dentrouna carrozzella vecchia, fuori nell’orto sotto il fico.

Certuni, fatta la visita e date le «pazienze» alla vedova eai parenti, si fermavano nel cortile davanti, guardie giuratecolleghi del morto, servi di peschiera e pescatori a contrat-to. Gli altri uscivano dalla lolla e se n’andavano, senza fer-marsi con quelli che facevano gruppo nel cortile davanti eparlavano tra di loro:

«Ancora non l’hanno portato a Oristano Paolo Aramu».«Quello si busca galera a vita».«Fucilarlo bisognerebbe» gridò quasi il capo delle guar-

die dello stagno, che a ogni ripresa del processo contro gliabusivi è sempre il supertestimone, come scrivono i gior-nali. Ogni volta ha testimoniato anche contro Paolo Ara-mu, che prima stava nella cooperativa buona e poi si èmesso a capo di quella degli scioperanti e degli abusivi.

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Il vecchio s’è fatto più indietro:«Io ero là l’altra notte» ha detto senza guardare in fac-

cia il giornalista.Al giornalista è mancato il fiato e ha messo in tasca

penna e libretto:«Anche voi eravate là a pescare di frodo?».Il vecchio lo ha guardato, e s’è fatto ancora più indie-

tro verso la porta della cucina, a testa bassa e mani dietrola schiena.

«A pescare di frodo? A pescare stavo, fuori stagione,perché sono bogheri, e la stagione del bogheri è finita, que-st’anno. A pescare stavo, e ho visto tutto, con questi occhida vecchio, anche se non c’era luna».

Il vecchio bogheri è entrato in cucina, nella cucina delmorto, e il giornalista dietro:

«Sono parente stretto qui. Sono lo zio del morto, buo-nanima» ha detto offrendo una sedia al giornalista.

E seduti l’uno di fronte all’altro nella cucina del mor-to, il vecchio gli ha raccontato il fatto, come lui l’aveva vi-sto. Aveva visto e sapeva tutto.

Solo una cosa non sapeva il vecchio, perché il nipotequella notte fosse andato in perlustrazione da solo lungolo stagno, e non almeno in coppia, come usano le guardie,specialmente nelle notti senza luna. Ma su tutto quelloche ha raccontato c’è da credergli, perché uno zio non par-la a sfavore del nipote morto ammazzato, nella cucina dicasa sua, seduto al tavolo dove con moglie e figli ha fattola sua ultima cena.

Chi è Paolo Aramu nel paese lo sanno tutti, come losanno a Riola e a Santa Giusta e a Marceddì, e la giustiziadi Oristano e tutti quelli che mangiano dallo stagno. Per-ché Paolo Aramu, quello che ha ucciso la guardia, è statoper molto tempo pescatore a contratto, sciaigoteri; i padro-ni non gli hanno rinnovato più il contratto, da quando si èmesso a far funzionare una cooperativa nuova, per arrivareal riscatto dello stagno secondo la legge trentanove. Perquesto è uno che ride poco. Si sa come queste cose sono

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rivolgendosi al sindaco che li accompagnava. Il sindacoha fatto di sì con tutto il corpo.

«Bisognerà provvedere a dovere» ha detto un altro de-gli oristanesi.

I dipendenti di peschiera e i vagantivi dello stagnosono entrati in molti dietro quelli venuti da Oristano, emormoravano minacciosi dietro il sindaco. Il capo delleguardie giurate ha fatto due passi avanti e ha detto a vocepiù alta di tutti, rivolto a quelli di Oristano:

«Io lo sapevo che un giorno o l’altro quel Paolo Ara-mu doveva arrivare al sangue. Gli cuoceva la galera che hafatto per pesce rubato».

Questo l’ha detto chiaro, davanti al morto, e la vedovaha ricominciato a piangere forte. Lo ha detto chiaro ancheperché aveva riconosciuto tra i presenti un giornalista, eper dire la sua davanti a quelli venuti da Oristano. Ma tut-ti sono stati zitti, meno la vedova.

Solo un vecchio ha mormorato, proprio dietro il gior-nalista:

«Ma guarda che cosa si deve sentire da certe bocche»,e il giornalista si è voltato a guardarlo.

«Voi non siete d’accordo con quello che dice il capodelle guardie?» ha domandato al vecchio.

Il vecchio l’ha guardato un poco e non ha rispostonulla.

«Uno a un certo punto è pieno e ci vuole poco a farloscoppiare, come è scoppiato Paolo Aramu» ha mormora-to più tardi il vecchio, ancora alle spalle del giornalista,fuori nel cortile davanti, mentre il giornalista stava facen-do domande a quelli di Oristano e annotava le risposte inun libretto.

Il giornalista si è sbrigato con le sue domande e con lasua scrittura, è uscito fuori dal cerchio di quelli che stava-no coi venuti da Oristano:

«Voi sembrate saperne molto su questa disgrazia» hadetto al vecchio, con aria d’intesa, a voce bassa.

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dopo aver pescato chissà dove: per Antimo Piras potevaanche essere stato in mare vivo a pescare quel cesto dimuggini che portava sul portapacchi della bicicletta.

Antimo Piras si è piantato in mezzo al sentiero e hagridato senza togliere gli occhi dal cesto di pesci:

«Scarica e lascia tutto per terra».Paolo Aramu si è pulito il sudore col dorso della ma-

no, senza smettere di spingere la bicicletta:«Se invece di gridare saluti come si deve, dopo forse

si può anche ragionare, non ti pare anche a te, AntimoPiras?».

«Scarica ti dico, Paolo Aramu, altrimenti c’è anche de-nunzia».

«Lascia passare, non fare il fanatico, Antimo Piras.Non sarai tu a proibirmi di andare per questo sentiero fi-no a casa mia, stanotte».

La guardia ha fatto un gesto, verso la pistola, ma si ècontenuto:

«Ricordati che in galera ci sei già stato. Scarica, e poivai dove ti pare, lontano dallo stagno».

Paolo Aramu ha levato il capo alla luna, che un pocosi stava mostrando prima di tramontare, e gli occhi gli so-no diventati di brace. Si è fermato, appoggiato al manu-brio. Ma ha detto solo, conciliante:

«Lo sai anche tu, Antimo Piras, che i pesci li ho pe-scati dove Dio li ha messi per chi fa la fatica di prenderli».

«Non preghiamo lo stesso santo, noi due. Io so il miodovere, tu non sai il tuo. Con me, lo devi rispettare. Scari-ca, ti dico».

Paolo Aramu ha ripreso calmo a spingere la bicicletta,spostandosi verso il ciglio del sentiero. Antimo Piras haperso i sentimenti:

«O scarichi qui e subito, o scarichi in caserma, coi fer-ri» ha gridato.

In quel momento bisognava vedere, per capire chi èPaolo Aramu e chi era Antimo Piras. Paolo Aramu è fortecome un bue e alto come un cipresso.

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andate a finire qui. Per non cedere, i padroni preferisconochiudere uno o anche due occhi sugli abusivi, tanto pernon far succedere quello che è successo anni fa, e conti-nuare a tenersi lo stagno. Ma chi può decidere chi è chepesca di frodo? Nemmeno i giudici in dieci giudizi sonoriusciti a stabilirlo. Le guardie ci sono, ma anche loro chiu-dono un occhio, uno solo, tanto perché non si possa esa-gerare, dicono loro. Solo che questo nipote del vecchio erauno che ci credeva troppo al suo mestiere. Lo faceva soloda quattro settimane, era una recluta, sapeva solo il regola-mento, nessuno glielo aveva ancora interpretato bene.

E Paolo Aramu è uno che fa presto a fare occhi difuoco. È ancora troppo giovane per aver già preso l’abitu-dine di inghiottire ogni torto. Quattro anni fa, i padronia Paolo Aramu non gli hanno rinnovato il contratto, pro-prio la settimana che si doveva sposare, come regalo dinozze, e per fargli capire che per il primo figlio non era ilcaso che cercasse uno di loro per padrino.

Ma il morto era uno anche più disgraziato, che capivapoco di come sono gli uomini, specialmente i pescatori,perché era stato contadino, ma capiva troppo di come de-ve essere una guardia dello stagno. Qualcuno gli avevariempito la testa col bisogno e col dovere di stare attenti,di essere duri con chi si fa prendere in flagrante. E il capodelle guardie, per farsi vedere di fronte ai padroni, fa co-me se fossimo come dieci anni fa, ai tempi del subbuglio.

Ogni volta che parlava il capo delle guardie, questopoveraccio morto faceva tre volte di sì con la testa, primache quello terminasse di parlare, e poi diceva che era giu-sto. Diventare guardia lo credeva la sua fortuna. Disgraziaha voluto anche che le altre guardie lo hanno messo sucontro Paolo Aramu, e Paolo Aramu le cose non le man-da a dire e nemmeno a fare.

Antimo Piras, che se ne stava là, dentro la bara col visonero, l’altra notte verso le tre era ben sveglio e fresco,quando faceva la posta a Paolo Aramu, che tornava a casa,

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ARRICHETTEDDU

Candu calencuna borta sa genti indi chistionad, custu-mad a nai ca Arrichetteddu fìad distinau, ca hìad arratzaua sa familia de sa mamma: tresi tzius mudus e una tziamacocca, su mesu futus e su mesu faddius.

Arrichetteddu puru, de cosa futa chi parìad, cumprìusis dex’annus si faid un’annettu de spidali. Malacadupu,hìant nau sa genti, sa propiu cosa de is fradis de sa mam-ma. De spidali indi torrad biancu che su nenniri, is ogussentza luxi, a lingua impastada, cun is sentidus de unupipìu de cinc’annus. Scimpru non si podid nai, cumenti euna criatura crèscia sa metadi de s’edadi sua. Ammanniaua crastu e pagu o nudda a conca.

«A istadu ’onu mi ’ndi se’ torrau, fillu miu» hìad nausa mamma a sa essida de su spidali. «Scimmillottau midd’hanti ’n Casteddu custu fillu».

E su babbu: «Mancai ti dda pòngia sa fracci ’n manu’custu istadi, ge’ ses a postu, scedadeddu» hìad nau sa di’ chisi ddu hìad biu beniu a su sartu, a in ca fìad pascendi, poddi portai pani e ingaùngiu po fintzas a sa di’ de quindixi.

E sa di’ de quindixi su babbu de Arrichetteddu fùrriada bidda e àndad a domu de su meri suu a pregontai, a bor-tas no dd’hessid pigau in accordiu po fai calencuna cosa.

«Dd’heus a provai» hìad nau su meri. «Podid èssi’ chiàndid beni po fai su boinargiu custu ’eranu. Su tempushad a èssi maìstu».

Arrichetteddu, cun su tempus, in cantu a traballu fìadsu mellus de tottus, sendu a essiri cun is atrus. A no ddufirmai, sighìad sempiri sentza mancu s’accinnu a s’abarrai.Palas gei ’ndi portàda, mancai no hessid tentu conca meda.E toccànt’ a issu sempiri is fainas prus bàscias e traballosas.In domu de su meri, s’arti de pinnigai donnia merda, de

«Rimaniti con Dio, Antimo Piras, e buon lavoro peril resto del tuo servizio. Lasciami passare» e gli è passatovicino a testa alta, spingendo nel fango la bicicletta pesan-te del carico di muggini.

Antimo Piras ha allargato le gambe attraverso il sentie-ro e ha fatto per togliere la pistola dal fodero.

«Stai attento con l’arma, Antimo Piras» gli ha dettoPaolo Aramu passandogli a fianco, voltandogli le spalle nelsuo cammino.

Questo è stato lo sbaglio, dargli le spalle. Antimo Pi-ras ha sparato un colpo che voleva essere in aria. E inveceha ferito di striscio la spalla di Paolo Aramu.

Ma la guardia non ha potuto fare altro, perché già Pao-lo Aramu lo teneva stretto al collo con la destra, e con la si-nistra gli fermava la mano armata. Dopo un poco AntimoPiras è crollato a terra come un sacco, tra gli stivaloni diPaolo Aramu, con gli occhi puntati verso un luogo vago.

Dalla spalla ferita di Paolo Aramu il sangue gocciola-va sul caduto.

Ha lasciato lì bicicletta e pesci sparsi sul sentiero. Pao-lo Aramu si è caricato il morto sulla spalla ferita e ha pre-so la strada verso la peschiera, a passo buono.

È arrivato alle prime luci. Il guardiano di turno gli hadato l’alt. Ma lui ha proseguito oltre il portone, fino allacasa dell’abitante, fra i latrati dei cani infuriati. E quandoa quello strepito il pesargiu e il capo guardia sono uscitidalla casa di peschiera, Paolo Aramu ha posato piano ilmorto sui gradini, ai piedi del capo guardia. Lo ha guar-dato in faccia e allora ha detto quella cosa che nessunodei dipendenti di peschiera vuole ripetere:

«Chi può prendere in peschiera non fa buona pescanello stagno».

Questo ha raccontato il vecchio. E quando poco dopoè entrato in cucina il capo guardia cercando fuoco, il vec-chio non l’ha nemmeno guardato, ha tolto di bocca il si-garo e se l’è rovesciato a fuoco dentro, resistendo alla vo-glia di sputare, per rispetto al giornalista.

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No est ch’in sa bidda hessid fattu burdellu meda, sem-piri in domu de su meri cumenti fìad. Ma una cosa ddascirìant totus: sa timoria manna chi tenìad Arrichetteddupo is motociclettas e po is divisas militaris. Bai e circaddue poita. Cosa chi si fìad postu in conca.

Una borta sceti hìad fattu abarrai genti meda timen-di, sa di’ fìad artziau fintzas a sa punta de su campanili aindi spiccai unu niu de tzrapadderis. Insandus tenìad giaidixiott’annus e si spassiàd’ ancora cumenti e is pippiusnotzentis.

Arribau a pitzus, bai e circa e cumenti, ddi pigad satremuina, s’imprassad a sa gruxi e no si cinnid prus. Deindi calai a basciu, mancu sa idea. Sa genti a itzerrius ecertunus accapiendi cun funis scalas a pari. Tziu Barracel-lu, guardia comunali e interramortus, artziad a su popoli-nu de cresia po apporri una funi a Arrichetteddu. Aiccidd’hessid fattu luegus. Apenas chi Arrichetteddu appùbadcuss’omini in divisa, mancu ddu càstiad e s’indi strobèd-dad che unu fusu, scarèscid sa timoria, ind’arrùmbulad abàsciu cumenti e una calixerta e fuid facci a su sartu cu-menti e unu lèpiri.

Hìad a timi, poberiteddu! Tziu Barraccellu andàdsempiri in divisa cun d’un’imponentzia de coronellu apitzus de sa moto Guzzi de su comunu. E po brullai, si-gund’issu, a Arrichetteddu ddu fadìad sempiri a timi.Cuaddu friau sa sedda si timid.

Duas dis apustis is carabineris de su cuartieri de Mandasdd’agàtant in su sartu de Gesigu, dormiu a s’umbra de unamatta. Is carabineris indi ddu sciumbuliant a furconadas depei e Arrichetteddu circad de si fuiri, disisperau, poi s’inge-nugad a manus giuntas in su pettus e si ponid a pregai:

«Sinniora giustitzia mia bella, no ddu fatzu prusu. Giu-ru ca isi tzrapadderi’ de su campanibi ddusu lassu ’n paxi».

A bortas, candu fiant traballendu in su sartu, calencu-nu po giogu fadìad:

«Ssst, citei pagu pagu: intendiu? Motocicretta’ de cara-bineris».

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pratza e de is istaddas; in su sartu, s’arti de su molenti, atragai donnia pesu; a s’ora de pappai, s’arti de su brentuxu,donnia arrefudu po issu, e prexau puru ca indi ddi toccàda.Tottus a ddu cumandai e issu a tottus a ponni in menti.

Su meri naràd’ ca ddu tenìad po caridadi, casi ca noportàd’ sali in conca. Ma Arrichetteddu fadìad su traballude tres ominis, candu fìad controllau, o si nou indi fadìadde prus puru.

Su spassiu suu fìad sa musica. Sempiri chiriellendi omurrungendi cumenti a unu gattu pappendi prumoni,donnia cosa chi hessid fattu. Prus de tottu ddi praxìad acantai muttettus, ma scirìad puru cantzonis a sa moda:Luna rossa, poi Verde Luna (sa canzoni chi cantàd’ RitaEgua in Sangue e arena s’annu chi hìant fattu su cinemato-grafu in pratza de sa cresia sa di’ de Santa Maria de Aùstu),cosas de cresia cumenti e su Santumergu e tottu is arratzasde Itemissaest, de sa prus curtza de sa missa de mortus a saprus longa de sa missa de pasca manna, cun tres alleluias; eacciungìad sempiri su Deogratias. A richiesta, Arrichetted-du movìad a ogus serràus: candu cantàd’ no arrescìad nim-mancu cun su fueddu.

Ma sa cosa chi ddi prazìad de prus, birendi is arterusarriendi intendendiddu, fìad a cantai sa torrada de is gog-gius de sa cenabura santa: «Sa mamma, sa mamma, dolo-rida; su fillu, su fillu, crucefissau», ma issu dda strupiàd’aicci: «Sa mamma, sa mamma, conca frida; su fillu, su fil-lu, scurtzu e pisciau». De cancunu contzillau, strambeccue fragellau, ma issu prexau che unu puxi.

Donnia dominigu e di’ nodida s’hìad pigau s’incarrigude tirai is marcis de su suadori de s’organu de cresia a samissa cantada. Una borta su sagrestanu dd’hìad tzaccauuna bella bussinada, poita ca fìad certendi cun piciocched-dus prus piticus, gherrigendi po biri a chi toccàd a tirai ismarcis de s’organu. E Arrichetteddu, po tìrria, hìad lassaus’organu sentza de suidu giustu a tretu de mesu de su Glo-ria de sa missa de s’Arrimediu.

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Arrichetteddu a custu fillu piticu de su meri ddu timìadche su dimoniu, poita ca fìad sempiri a trevessu a moto-cicletta.

E su merixeddu studenti a pagu a pagu arrennescid asi fai donai cunfiantza de Arrichetteddu poberittu, e in fi-nis a ddu cunbinci ca sa piciocca romana fìad inamoradade issu, de Arrichetteddu. Fattu fattu su merixeddu circàda Arrichetteddu in sa pratza de is bois e fadìad cumentichi ddi hessid portau novas de parti de sa romana:

«Oi puru sorresta mia ti faid isci’ ca ti pentzad e ’oidisci’ chi tui puru dda pentzas» ddi naràd’ seriu cussu fra-gellau, maschingannas.

A mengianu chitzi, apenas chi s’indi pesàd’ po is bois,Arrichetteddu andàd’ a iscusi in su giardinu de sa meri, insa pratza de aranti, e furàd’ unus cantu froris, arrosas egravellus, e poi muru muru artziàd’ a susu fintzas a sa ven-tana de sa romana, a ponnir is froris aranti de is birdis.

Una di’ a maigama Arrichetteddu fìad in s’ortu man-nu a palas de s’acorru de is brebeis, cumandau de su sotzua fai sonu cun d’una lamiera po isciuidai is pillonis a largude s’ortalitzia. Alloddu su merixeddu studenti, arrisu frassue manus in busciacca:

«Oioi, Arrichetteddu, tui scoffau che predi! Arrenne-sciu ci sesi. Sorresta mia m’a’ nau a di fai sci’ ca ti ’oi’ bi’».

Arrichetteddu si faid seriu.«Ti ’oi’ chistionai, t’appu nau, tontatzu! Femminarxu

mau sesi. E’ macca de tui».Arrichetteddu no arrespundid nudda, imbriagu perdiu

de cuntentesa.«Peus po tui si no mi creis, machillottu. Gras a meri’

issa t’aspettad innoi in s’ortu mannu, accant’ ’e sa matt’esa figu manna. Po ti chistionai, apustis chi ha’ allichidiu salolla e is istaddas».

Arrichetteddu citiu, ma sentza perdi unu fueddu de sumerixeddu.

Su mericeddu infattu faid allestru su doveri suu, aiscusi andad a domu sua, si pulid, si pettonad, si ponid sa

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E Arrichetteddu fuìad a sa disisperada a si culai in me-su de su trigu o a palas de unu muru a bullu.

Ma in su traballu no tenìad bisongiu de nisciunu con-trollu. Scetti in s’ora de pappai e buffai toccàd a donai at-tentzioni chi no s’hessid alluppau cumenti e unu pipiusuendi. Candu tenìad sidi fìad capassu de si buffai tottus’acqua de su barrili po cincu cristianus.

Tontidadis si podid nai ca no ’ndi naràd’ e ca no ’ndifadìad. Una vera tontidadi Arrichetteddu dd’ìad narada sadi’ chi si fìad mortu su babbu:

«Mottu babbu e mobent’ angiau: no heus ni pedriu niguadangiau».

Difattis, sa notti e tottu sa molenta insoru hìad angiaue fìad mortu su babbu.

Sintzillu che pipiu, tottus a s’ind’approffittai, poita caponìad in menti che unu cani e traballàd’ che unu burrincu.

«Tottu ddu fatzu?» domandàda. E fadìad sempiri tottusu chi ddi narànta, po una stoia in sa domu de is aìnas eunu mussiu de pani, sentza de una vera paga, cun sa scusaca su meri ddu tenìad po caridadi.

Un’annu, in s’istadi, giai passaus is bint’annus, Arri-chetteddu tottu in d’unu si faid cumenti a un’arteru, cu-menti chi fessid camibau, e s’ogu puru incumentzad a ddiluxi. Una piciocca, neta de su meri, fìad benida de Roma apassai is vacantzas in bidda. E Arrichetteddu, de su primumomentu chi dda biri, abarrad a bucca aberta, incantau, ede sa di’ a circai donnia modu po dda biri, sa picioccacontinentali de sex’annus, is ogus birdis e is pilus de oru.

Una borta arrennescid a si ddu accostai, a sa romana, esi ponid a fai una specie de dantza tottu a giru de issa, can-tendi unu chirielleisòn, e parìad in puntu de si bolai. Acaba-da sa dantza, artziad a pitzus de unu murixeddu e spiccadunu lillu aresti de un’arratza chi ddui crescìad a cresura.

Ma po disgratzia sua, de cust’amori de Arrichetteddus’ind’est acatau su fillu minori de su meri, studenti in Ca-steddu e insaras issu puru in bidda in tempus de vacantza.

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L’ESORCISMO

Meglio di tutti la storia del furto a Chettu Marrocu laconosce ziu Loi Petza. Nell’azienda di Chettu Marrocu èentrato a lavorare a undici anni, e ci ha fatto più di cin-quant’anni, trenta come capo dei servi di campagna, colgrado di sotzu. Quando è successo il furto ziu Loi era sot-zu, subito dopo questa guerra, comandava a cinque servifissi tutto l’anno e a molti giornalieri. Comandare è la pa-rola giusta, perché sapeva ordinare e fare rispettare gli ob-blighi di tutti sotto di lui.

Di questi servi di campagna, due erano giovanottinisui diciotto, quell’anno del furto. Il padrone e ziu Loi era-no contenti di Seppi e di Ceccu, buoni lavoratori, pensie-ri grossi non ne davano mai. Ma loro, sotto sotto, aveva-no un progetto per smettere di fare i servi.

Bene davvero l’avevano pensata, si lamenta ancoraadesso ziu Loi, quando racconta la storia. Perché l’impresaè incominciata proprio col coglionare lui. In trenta annisolo quei due pivelli gli hanno sporcato il luogo.

Seppi e Ceccu avevano organizzato tutto per la nottedella festa grande, quando la gente è radunata in piazza equasi tutti hanno la testa perduta nel vino. A ziu Loi toc-cava restare a guardare tutto. Il padrone con la moglie e laserva se n’erano andati in piazza ad ascoltare is cantadoris.Seppi e Ceccu dovevano dare il pasto al bestiame e abbe-verarlo, non erano di libera uscita.

Col suo toscanello a fuoco dentro, ziu Loi ufficiale dipicchetto cercava di ascoltare in lontananza is cantadoris,seduto sulla pietra liscia del cantone.

Canticchiando sul tono de is cantadoris ecco si avvici-na Seppi:

bistimenta bona de fustainu e sempiri a iscusi ci torrad adomu de su meri, si ponid aintru de sa domu de sa palla’e faa e aspettad chi tottus s’arretirint in logu issoru.

Fìad unu grandu lugori de luna prena candu Arrichet-teddu ind’est bessiu in sa pratza de is bois, cun in manustres gravellus biancus. Intrad in s’ortu mannu e impunnada sa figu manna, a bellu, cumenti chi hessid tentu timoria.

In su puntu de oberri bucca po tzerriai sa romana, dea palas de sa matta lompid unu stragatzu mannu de mo-tocicletta ponendi in motu, a isperrai sa paxi de su lugori.

«Alt, polizia! Fermo dove sei!» tzerriad una boxi.Arrichetteddu s’allullurad e fuid disisperau. In s’intenis

chi sa boxi de su merixeddu studenti fìad sighendi a itzer-rius, issu sartad su muru de s’ortu e poi a tottu fua facci asu sartu.

Su merixeddu ddu sighid a motocicletta, ddu ponid infattu cun s’arroda in carronis, sempiri aboxinendi.

Poi su merixeddu s’est fadiau e dd’had lassau andai.Po sa notti e po sa di’ infattu Arrichetteddu no si bid

e mancu sa notti e sa di’ apustis. Nisciunus indi scirìadmancu spera.

Sa terza est istetia notti curtza in domu de su meri.In puntu de mesu notti, unu scoppiu segad su sonnu atottus, meris e serbidoris.

Fogu asullu e fragu de gomma abbruxada essìad de sadomu de sa motocicletta de su merixeddu studenti, aportalittu sfundau. Hìad postu fogu a sa domu de is di-monius.

S’est cumprendiu ca Arrichetteddu est abarrau cassauaintru. In foras hant agattau unu bratzu suu cun sa manigade fustainu. De cussa arroba dd’had connotu sa mamma.

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parte nell’orto di casa, sotto un albero d’alloro, e Ceccuin un buco dell’incannucciata di cucina. Ritornano quattinel cortile del padrone, e se ne vanno nel pagliaio a finge-re di dormire.

Verso mezzanotte, ziu Loi ritorna a casa dei padroni.Si era buttato sulla stuoia, quando sente fuori la padronagridare: aveva visto la scala a pioli sotto la finestra dellastanza da letto.

Tutto il paese era ancora in piedi, i carabinieri sonoarrivati subito. Nessuno si arrischiava a entrare in casa, te-mendo che i ladri fossero ancora dentro, forse di quei pa-stori barbaricini che d’estate venivano a pascere nelle stop-pie. I carabinieri si guardavano attorno, nel buio, fiutandoe scrutando.

Ziu Loi è andato nel pagliaio a svegliare Seppi e Cec-cu. E subito loro si mostrano coraggiosi: uno con un tri-dente e l’altro con un picco entrano nelle stanze dei pa-droni, gridando e minacciando i ladri di infilzarli, loroavanti e i carabinieri dietro. E hanno scoperto il furto. Al-lora Ceccu, furioso, è sceso giù a cercare i ladri nel cortile,col tridente, e proprio nel pagliaio. È stato allora che a ziuLoi è venuto un dubbio, ma non ha detto nulla, fino algiorno del processo.

I carabinieri fanno un po’ d’indagini, poi tutto tace.Il padrone sembrava rassegnato. Tutti convinti che fosse-ro stati i barbaricini.

Intanto arriva l’otto settembre, quando scadono e sifanno i contratti dei servi. Seppi e Ceccu non cercano pa-drone, ma non rimangono nemmeno nell’azienda di Chet-tu Marrocu.

Passa un po’ di tempo, Seppi se ne va in Continente eCeccu a Cagliari. A fare acquisti straordinari. Una sorelladi Seppi, sartina, si è presa la clientela migliore, col suoferro da stiro elettrico regalato da Seppi. Le altre sartinehanno continuato per anni ancora a ravvivare il fuoco deiferri girando e rigirando, come il prete con l’incensiere,

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«I buoi sono a posto per stanotte. Rimane solo da abbe-verarli… Bravi quest’anno is cantadoris, cosa ne dite voi?».

«Anche se non ho più le tue orecchie, me ne sono ac-corto anch’io. Sono i migliori di questi tempi».

«Se io potessi, come potete voi, me ne andrei ad ascol-tarli da vicino, in piazza, invece di stare qui a fare la guar-dia alla luna, mentre tutti fanno festa».

«Ciascuno ha il suo dovere».«A me non pare giusto, che proprio voi non facciate

festa, dopo che vi siete rotto la schiena per tutto l’anno.Ma un bicchiere ve lo voglio invitare io, stasera, qui allabottega di Arritacca».

Sono andati a bere, e parla e parla, quel Seppi che sem-brava un adulto con tutti i sacramenti a posto, di bicchierine vanno giù molti, invitando a turno. E ziu Loi si lasciaconvincere a mancare alla consegna, ad andare in piazza adascoltare is cantadoris. In tempo di guerra c’era la fucilazio-ne, per una mancanza così. Ma quello sbarbatello era piùfurbo della tentazione. E sapeva dove voleva arrivare.

L’avevano pensata bene. Si erano messi d’accordo colfiglio di Coatrotta, che doveva fare il palo e smerciare aCagliari la refurtiva, siccome lui era pratico di queste cose,essendo venuto di città, da sfollato, e poi rimasto in paese.La famiglia di Coatrotta non tagliava la fame a fette moltogrosse, come gli altri sfollati; come quel vecchio impiegatodi città sfollato in casa del segretario comunale, che tuttele mattine si alzava presto per vedere andare al pascolo ibuoi di Chettu Marrocu, e si leccava le labbra, perché perlui i buoi erano solo bistecche che camminano. La fami-glia di Coatrotta invece viveva di mercato nero, un paio discarpe tre quintali di grano, e suole di cartone.

Coatrotta fa un fischio. Potevano incominciare l’im-presa. Seppi e Ceccu scassinano e frugano, trovano dolci ene mangiano, liquori e ne bevono; ma trovano anche tut-ti i soldi, e l’oreria e l’argenteria. Poi, passando giro giroattorno al paese, vanno a casa loro. Seppi nasconde la sua

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come sanno loro, a litri di acqua gasata giù con l’imbuto, escarabei stercorari nell’ombelico sotto un bicchiere. A que-sto punto confessano, dicono che i soldi e le cose preziosele avevano consegnate ai genitori.

E tutta la giustizia viene in paese, per confrontarli coigenitori, e anche ziu Loi di mezzo, e parecchi altri. Tuttiavevano paura della rete tesa dalla giustizia, ma c’era chistava dalla parte dei due, e chi dalla parte del padrone edella giustizia. I genitori non hanno rivelato nulla sul fattodei nascondigli. Le cose andavano per le lunghe.

E Chettu Marrocu non vedeva l’ora di riavere i benirubati, un giorno è andato a prendere la spiritata di Sa-massi e l’ha portata in paese, per trovare i nascondigli dellaroba rubata. Ha sistemato la spiritata in casa di una sua fi-glia, che abitava proprio vicino alle case dei due arrestati.

E adesso incomincia il gioco vero. Di notte un lungofischio frusciante passava nell’aria verso le case dei carcera-ti. In casa di Ceccu lo spirito della spiritata di Samassi ap-pariva come un grandissimo calabrone, un ronzio profon-do tormentava tutta la famiglia, una specie di busibusid’inferno, che faceva un colpo all’uno e un colpo all’altro.Finito il volo del calabrone, incominciava un grande ga-loppo di cavalli sul tetto di cucina. Il padre di Ceccu pren-deva il fucile, e pim pam sul tetto. Ma era peggio di prima.

In casa di Seppi lo spirito era ancora più potente. Lamadre di Seppi, una notte, stava in compagnia di una vici-na di buon cuore, a dire il Rosario, fino a tardi, recitandoper ogni grano un Pater Ave e Gloria, per tirarla per lelunghe e passare con Dio gran parte della notte. Fuori sisentiva lo spirito fischiare, che cercava di entrare, e il padredi Seppi recitava i brebus contro le cose cattive.

Ma appena le donne terminano il Rosario, il fischiopenetra nella casa. La madre di Seppi fa per gridare di spa-vento, e subito sente un nodo alla gola, lo spirito le entradentro gorgogliando. La donna incomincia a fremere, adimenarsi come presa dal mal caduco. La vicina, un po’

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davanti alla porta di bottega. Seppi aveva dato molti deisoldi in consegna a una sua zia, che così si è fatta la casanuova. A un’altra zia un’altra parte dei soldi, e anche leiben presto si piastrella di lusso tutte le stanze di casa,compresa la cucina.

E la famiglia di Ceccu, lo stesso, a un certo punto tut-to quel gregge di fratelli, da come andavano fin allora colfondo dei pantaloni rattoppato, ecco che di punto in bian-co incominciano a girare con pantaloni di saia buona, chesembravano figli di proprietari.

Chettu Marrocu, anche se non andava in giro vantan-dosi, di roba ne aveva in casa quell’anno: i soldi di più ditrecento starelli di fave, di più di cinquecento starelli di gra-no, le entrate delle pecore, degli affitti dei terreni e dellemezzadrie, e gli interessi dei prestiti pagati alla raccolta.

Ma non c’è che fare il pidocchio resuscitato, per lasciarcapire a tutti com’è che un poveraccio si rimette di colpodalla fame. La giustizia stava ancora all’erta, e teneva d’oc-chio anche i due giovanotti. Carabinieri in borghese glistavano dietro, controllando ogni passo e ogni soldo speso.Le cose così andavano maturando. E il padre di Seppi,malato da molto di male di testa e di nervi, ma una speciedi profeta che sentiva le cose a venire come un gatto lapioggia, una notte si sveglia tremando come una canna almaestrale, la bava a fiumi dalla bocca, e dice alla moglieche la giustizia stava per piombare nella loro casa. Un’altravolta, seduto in cortile, di colpo alza la voce e grida «Sep-pi, guardati le spalle!». E il figlio era in Continente.

Ma tutto è incominciato col tradimento di quel delin-quente di Coatrotta, che non era contento della parte avu-ta, e li ha denunciati alla giustizia.

Giusto a un anno dal furto, Seppi e Ceccu tornanoin paese per la festa grande, e la giustizia li lega e li porta ingalera.

Negavano tutto, dicevano che Coatrotta era matto efarabutto. Ma i carabinieri hanno incominciato a trattarli

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senza denti. Il bambino si teneva alle gonne della vicina,piangendo e gridando. Ma quella non aveva ancora capitonulla. E il bambino a stridere come una civetta, e a scap-pare disperato dalla cucina, tirandola per la gonna. Alla fi-ne ha incominciato a capire anche lei, ha pensato chequella era faccenda per il prete. E va a chiamare il prete.

La madre di Seppi faceva come se sentisse arrivare ilprete, più quello si avvicinava e più diventava furiosa, e in-vece che in sardo, parlava in italiano con la voce dei giudi-ci e dei carabinieri che perseguivano il figlio. Buttava fumodal naso.

Il padre di Seppi, otto anni che non camminava, si al-za e si avvicina al letto della moglie, si inginocchia e inco-mincia a cantare il Dies Irae, e in quel momento compareil prete e si sente anche il suono dell’organo. La madre bal-za a sedere sul letto, con una faccia non sua, apre la boccae sta per dire, accennando col braccio, che sotto l’alberod’alloro nell’orto c’è l’oro di Chettu Marrocu, ma il pretealza la mano destra e ordina silenzio. La donna si adagia enon dice più parola. Il prete le passa un dito sulle labbra,le fa il segno della croce sulla bocca. Poi se ne va e si portadietro i due fratellini minori di Seppi. Arrivati in chiesa,così nel cuore della notte, ha acceso le candele, ne ha datoquattro accese ai bambini, una per ogni mano, e ha dettola messa per le anime.

Il giorno dopo il fratello grande di Seppi e il padre diCeccu sono andati dai frati di Sanluri e hanno regalatomolto oro al convento.

Per un paio di notti le cose si sono un po’ calmate. Trenotti dopo la spiritata riesce di nuovo a mandare gli spiritinelle case di Seppi e di Ceccu. In casa di Ceccu apparivauna grandissima strige con occhi di fuoco grandi comemezze angurie e ali come stuoie. In casa di Seppi sentivanoun fracasso, un macinare, un trebbiare per tutta la notte, eil mattino dopo trovarono l’orto tutto arato e forato, comeda una mandria di tori selvaggi in lotta.

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sorda e lenta, prende la poveretta e la distende sul letto.Ma il tremore non le passava, e la vicina ha pensato di av-visare il medico. Chiama altre donne del vicinato, chevengono con candele benedette a far compagnia alla mala-ta, e lei va per il medico.

Una delle vicine, vedendo la disperazione della madredi Seppi, le ha messo sul petto una medaglia della Madon-na. Non l’avesse mai fatto. La donna si raddrizza girandocome un fuso e rimbalza contro il soffitto, ululando comeun lupo alla luna. Una delle vicine corre a casa sua, ritornacon una boccetta di olio di San Salvatore da Horta, versa eunge la fronte della poveretta.

Quando arriva il medico, la trova un po’ calma.«Questa donna non ha nulla» dice, «fatele un po’ di

caffè e lasciatela dormire in pace. Non state qui a toglierlel’aria. Tornate a casa».

Il figlio maggiore è uscito nell’orto, a pescare dalla ci-sterna acqua per il caffè, con un rosario intorno al collo,recitando le Dodici Parole Sante di San Martino. Come faper ripescare il secchio pieno, un fruscio fischiante si levadal fondo della cisterna. Lascia cadere secchio e tutto escappa gridando «Maria Santissima mia».

La vicina che aveva chiamato il medico è andata in cu-cina ad accendere il fornello a carbone per bollire l’acqua,insieme col figlio minore della malata, per compagnia.Tutti avevano paura. Il padre di Seppi teneva gli occhi fissioltre le cose e la bava gli correva fino a terra.

Appena la donna e il bambino entrano in cucina, ac-cendono la luce e uno scoppio lungo come di scorreggiaesce dall’interruttore, con puzza insopportabile. In mezzoa una luce azzurrognola, proprio al centro del pavimentodella cucina, stava una campana, ritta con la bocca all’in-sù, dondolandosi in equilibrio sulla culatta, col battacchioche mandava rintocchi da morto.

E il bambino, solo lui, vedeva sotto il tavolo per fare ilpane una vecchiettina tutta raggrinzita e vestita di nero,con occhi rossi di carboni ardenti, e lo chiamava ridendo

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A FUOCO DENTRO

Ieri sera, a tre anni di distanza dalla sua morte, sonoandato a una commemorazione di Emilio Lussu.

Dei molti oratori, ciascuno lo ha dipinto a suo modo,ognuno lo ha tirato dalla sua parte. Io avevo ricordi miei,più vivi di letture di lui e su di lui.

Forse ricordi simili a quelli di molti altri delle partinostre.

Fino a una domenica di trent’anni fa io ho credutoche il nome Lussu fosse solo il soprannome di ziu Scanniu,e che significasse qualcosa di poco bello, se lo si usava co-me nomignolo di questo vecchietto un po’ strano. ZiuScanniu però non aveva l’aria di aversela a male. Quelladomenica ho capito anche perché.

Per quel mattino di festa, pascolati i buoi, mio padreaveva dato tre ordini, all’uscire di casa. Almeno ai primidue non potevo fare a meno di essere ubbidiente.

Per prima cosa andare in barbieria per farmi fare unabella umberta, non una mascagna, come avrei preferito ioper apparire più grande dei miei quasi nove anni.

Poi andare alla messa cantata a fare il chierichetto. E in-fine rientrare subito a casa, dopo la messa cantata, senzafermarmi per il comizio a fare gazzarra con gli avversari,con quelli che noi chiamavamo scomunigaus, mentre loro cichiamavano democretinus.

Questo ordine di mio padre era il risultato della miarissa di un paio di domeniche prima col figlio di Luigi-neddu Comunista, quando avevo partecipato alla sas-saiola per salutare la partenza del comunista Torrente cheaveva tenuto un comizio molto disturbato. Ero tornato acasa col naso sanguinante, credendo di essere una speciedi eroe.

Ma il prete s’era accorto che nel paese ci doveva esserequalcuno che comandava gli spiriti. E capiva anche perché.Per questo aveva ordinato silenzio e sigillato la bocca allamadre di Seppi. Incarica una donna pia di stare attenta ascoprire da dove partiva di notte il fischio degli spiriti. E ladonna l’ha scoperto. Allora il prete si mette i paramenti,prende un secchio d’acqua santa e un paniere d’incenso escende in quel vicinato. Incomincia a benedire, a pregare,a incensare intorno alla casa della figlia di Chettu Marro-cu, e alla fine riesce a far scappare la spiritata di Samassi.

L’odore d’incenso non andava alla spiritata.Da quel giorno nelle case dei carcerati non hanno più

né visto né sentito nulla. E sul posto della refurtiva nessu-no ha aperto bocca.

Al processo Seppi e Ceccu si sono presi ciascuno cin-que anni. E da allora al paese non li ha più rivisti nessuno.Ma certo poveri erano e poveri son rimasti. A lavorare so-no andati fuori, sotto altri padroni. Tutti, padrone, carabi-nieri e giudici, ladri, diavoli e anime dannate, il prete e laspiritata si sono dati tanto da fare. Ma le cose sono rimastecome prima. I ricchi ricchi e i poveri poveri.

Siccome questa è una storia vera, non finisce bene.Ma non finisce nemmeno male. Finisce e basta, concludeziu Loi.

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Proprio mentre ziu Albinu incominciava a sforbiciareper dare forma alla mia umberta, vidi nello specchio en-trare ziu Scanniu e lo udii salutare con un gagliardo Fortzaparis. Era allegro, e annunciò che per il sardismo avrebbeparlato Emilio Lussu, il suo capitano.

Incominciarono tutti a parlare di Lussu e del sardismo.Alcuni dicevano che il sardismo era per il Fronte Popolare,altri dicevano di no. Ma il più informato era ziu Scanniu,che a suo tempo era stato ordinanza del tenente Lussu,portava il pizzetto come lui e cercava di imitarlo a suo mo-do, scandendo slogan che dicevano di una Caporetto chenon tornerà più, della Brigata Sassari, di altre cose stranecome Bainsizza, e frasi belle e incomprensibili come «in-sorgere per risorgere».

«Roma doma! Italiani in piedi! Chi è fesso resti a casa»disse a voce alta ziu Gustinu Strupiau, per difendere il fa-scismo. Ma nessuno ci fece caso.

A me ziu Scanniu era simpatico, specialmente da quan-do l’estate prima mi aveva difeso contro certi miei com-pagni bovari, che mi avevano giocato lo scherzo bruttodi farmi sparire una bella cinghia ornata con venti stellettemilitari, un giorno che si stava pascolando i buoi da lavoronei campi di stoppie dopo il raccolto sui terreni de su par-du. Lui era un porcaro e stava coi suoi maiali da quelleparti.

Mi era simpatico, anche se una volta per colpa sua miero buscato un ceffone da mio nonno, perché avevo risomolto a una sua battuta, una mattina che stavamo andan-do a mietere.

Quella mattina ziu Scanniu stava mietendo un suocampicello, vicino a uno nostro che avevamo in affitto daDon Larenzu.

«E spigolatrice non ce n’hai?» gli chiese passando miononno, per salutarlo.

«Come no?» rispose lui. «È già per via la mia spigola-trice».

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Dal barbiere però mi conveniva andare, così avrei po-tuto ereditare un basco blu smesso da mio nonno, che ven-deva stoffe in giro col carretto e si poteva permettere copri-capi sempre buoni. In chiesa dovevo andarci, perché anchemio padre doveva andare alla messa cantata, e avrebbe po-tuto notare la mia assenza sui banchi dei fanciulli cattolici.

Veramente ero già così stufo di stare in chiesa, per tut-te le quarantore che si facevano quella primavera. Dal ve-nerdì prima avevo passato lì al chiuso troppo tempo, conla mia classe, colle fiamme verdi, con mia madre. A prega-re e cantare per salvare l’Italia e Roma dall’Anticristo.L’Anticristo era un maligno mascherato da Garibaldi, chediventava però Stalin se si guardava la figura a rovescio.

Certe volte invidiavo i figli di quelli che stavano conl’Anticristo, perché essere democristiano comportava que-sta grande seccatura, dover stare in chiesa tanto tempoper preparare il diciotto aprile, quando si doveva deciderela vittoria tra il bene e il male.

«Che cosa farai tu in paradiso, se stare qui davanti alSignore a pregare ti annoia?» mi aveva chiesto una voltasgridandomi la suora, perché mi ero appisolato. E io cercaidi consolarmi pensando che forse era questione di allena-mento anche il piacere del paradiso.

Ma andare dal barbiere era meno noioso. Qualche vol-ta era anche divertente. Gli uomini in attesa parlavano disport, di politica, raccontavano storie divertenti. Se qual-cuno ti scocciava perché piccolino gli si poteva risponderecon qualche parolaccia da grande, di quelle proibite in ca-sa nostra.

Le due panche lungo le pareti della barbieria erano giàtutte occupate e gli uomini stavano discutendo di politica,giusto perché era l’ultima domenica prima del diciottoaprile. Dicevano di un certo Cerioni, che di pomeriggiodoveva tenere un comizio democristiano, e di un comiziosardista dopo la messa cantata. Ma non si sapeva ancorachi avrebbe parlato per il sardismo.

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entrare a benedire nemmeno le case dei sardisti, non soloquelle dei socialcomunisti. La nuora di ziu Scanniu mi die-de un manrovescio, quando io scaraventai contro il murodi casa sua tre uova messe a forza nel cestino apposito, cheio come chierichetto portavo accompagnando il parroco abenedire le case. Si era avvicinata di nascosto dal prete eaveva detto che se non le benedicevamo la casa, voleva al-meno fare l’offerta per la chiesa. E fare il suo dovere, daparte sua, come tutti gli altri.

Pensavo di aver fatto bene a non cercare scuse per nonandare dal barbiere, quella domenica. Stavo imparandomolte cose ascoltando gli uomini nella barbieria. Che Lus-su era un capitano sardista, col pizzetto come ziu Scanniue medaglie d’oro, che aveva combattuto contro gli austria-ci e contro i fascisti nella Spagna. E pensavo alla bugia dadire in casa a mio padre, perché avevo deciso di stare asentire il comizio sardista di Lussu.

Gli uomini continuavano a parlare di lui e di politica.«Ma questo Lussu che cosa vuole adesso?» chiese a un

certo punto ziu Sarbadorangiu, proprietario grosso. «I co-munisti vogliono dividere tutto, ma Lussu che cosa vuole?».

Un giovanotto rispose che anche Lussu voleva divide-re. E aggiunse, serio, che a lui dividere conveniva: gli spet-tava di più di quello che aveva, al giovanotto. Una cosadisse ziu Scanniu a questo punto: che Lussu era un uomodi fegato che combatteva per la Sardegna. Ormai ero di-ventato tifoso di Lussu.

Ma poi scoppiò un bisticcio tra ziu Scanniu e GustinuStrupiau, che aveva perso tutt’e due le gambe nella guerradi Spagna, volontario coi fascisti, e per questo si chiamavaStrupiau. Capii che ziu Gustinu ce l’aveva con Lussu econ ziu Scanniu, perché Lussu aveva combattuto in Spa-gna contro di lui, insieme coi comunisti, che gli avevanorotto le gambe e non facevano altro che uccidere preti eincendiare chiese. Erano arrabbiati tutti e due, lo storpiocome un gallo e ziu Scanniu con un’aria di disprezzo.

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«E chi è questa tua spigolatrice poco mattiniera?» con-tinuò mio padre.

«Ma non lo andate a dire» confidò lui avvicinandosicome per dire un segreto: «è Donna Elenetta, e chi ha daessere?».

Donna Elenetta era la moglie di Don Larenzu, lei chedi spigolatrici ne aveva ogni anno una ventina sui suoicampi e le davano un quinto del grano spigolato. Ma sicu-ramente anche mio nonno e mio padre, nonostante loschiaffo, provarono piacere a quella irriverenza verso Don-na Elenetta, che ogni anno riceveva in casa l’affitto delleterre che noi lavoravamo. Coi brontolii e i mali auguri,dopo che lei augurava a atrus annus. Per lei l’annata erasempre sicura.

Ma la mia simpatia per ziu Scanniu era anche in con-traddizione col nostro essere democraticus, cioè democri-stiani e rispettosi della religione. Lui invece no. Non eramiscredente, ma non aveva la solita dimistichezza dellagente del nostro paese con le cose di chiesa: quelli dei pae-si vicini dicono che da noi siamo tutti bigotti perché pro-prio in alto, al centro del paese, c’è un chiesone che sem-bra una grande chioccia che tiene d’occhio i suoi pulcini.

Un anno il gelo si era portato via tutto, grano, fave,vigne e ulivi, mandorli e ortaglie. Il mattino di Pasqua,quando si fa la processione dell’Incontro, e si porta in gi-ro la Madonna alla ricerca del Figlio risorto, ziu Scanniuse ne stava là a guardare, mani in tasca e berretto in testa.Nel momento culminante, quando la Madre scorge il Fi-glio e quelli che la portano si piegano per farle fare un in-chino e si sparano i mortaretti, lui si rivolge serio ai vicini:

«Sua madre lo cerca qui. Ma voi lo sapete dove se n’èandato questo povero Cristo? Andate a vedere nei campi,che cosa ha combinato stanotte. Non è qui che lo devecercare sua Madre. È ancora in giro per le vigne di RiuArai, a portarsi via gli ultimi ceppi».

E poi, quell’anno delle prime elezioni politiche, pro-prio in campagna elettorale, il parroco non era voluto

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grandi che dovevano votare. C’era anche il racconto di Pi-nocchio che è indeciso per chi votare, se seguire i consiglibuoni del grillo parlante, la sua coscienza, oppure i cattiviconsigli di LuPCIgnolo, che lo vuole traviare col miraggiodel rosso paese degli Allocchi.

Ma fuori, sulla piazza, io non mi tenni alle consegne eme ne andai per conto mio, per vedere Lussu da vicino.

Gironzolai alla ricerca di un buon posto di osservazio-ne. Lussu stava parlando, ma si sentiva male a stare lontani.

A mezzogiorno il sagrestano suonò a lungo le campa-ne. Alcuni giovanotti sardisti volevano andare a tirar giù ilcampanaro, ma Lussu li tenne buoni. Aspettò che ziu Aro-niu Brigaderi si stancasse, chiacchierando coi vicini, e ziuScanniu era tra i più appresso al comiziante.

Quando il comizio riprese molti gridarono Fortza paris!E Lussu a un certo punto chiamò per nome e cogno-

me proprio ziu Scanniu, chiamandolo a testimonio dellaverità di una cosa che aveva appena finito di dire, qualcosasui combattenti della guerra del ’15-18, sui combattentisardi della Brigata Sassari.

Anch’io dal mio posto sentii ziu Scanniu gridare si-gnorsì, e lo vidi scattare sull’attenti. Se qualcuno rideva, ionon me ne accorsi, tutto mi sembrava molto bello e serio,come nelle storie di guerra.

Poi ziu Scanniu si dev’essere rimesso sul riposo, a fu-mare come al solito il suo mezzo toscano a fogu aintru.Perché a un tratto Lussu lo interpellò di nuovo. Gli do-mandò se avesse ancora come un tempo il vizio di fumareil sigaro a fuoco dentro, come i ladri di pecore e i guastato-ri della Brigata Sassari in azione notturna. È stato a questopunto che Lussu ha detto qualcosa che anche a me per laprima volta ha fatto sentire dalla parte sinistra il fuoco del-la passione politica. Alzando la voce, con una violenza cheanche a me sembrava adeguata a quello che voleva dire,Lussu diceva, fingendo di rivolgersi solo a ziu Scanniu, cheè tempo di tirarlo fuori quel fuoco che tutti noi sardi ciportiamo dentro, nascosto, a bruciarci dentro, come tutti i

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«Per lui la perdita delle gambe è stata la sua fortuna»disse ziu Scanniu rivolgendosi a tutti. «Strambo com’è,senza la pensione di mutilato che gli ha dato Mussolini,non se la sarebbe cavata bene come adesso, con un beltanto sicuro tutti i mesi. Fascista per la pensione è, fasci-sta per i soldi di Mussolini».

Ziu Gustinu gli si scagliò contro brandendo una stam-pella e riuscì a colpirlo con rapidità inaspettata, anche sealcuni si alzarono per trattenerlo.

La mia simpatia era già passata alla vittima dei comu-nisti di Spagna, ma ritornò tutta intera a ziu Scanniu, ri-masto immobile come a ricevere un castigo meritato. Poicercò di scusarsi col mutilato che continuava a inveire.

Intanto ero già stato servito e ziu Albinu barbiere mispinse fuori con una pedata, perché volevo restare a goder-mi ancora lo spettacolo.

Andai alla messa cantata a fare il chierichetto e sbagliaiquando mi toccò suonare la campanella dell’elevazione.Con la testa stavo ancora nella barbieria. E in Spagna, allabattaglia di Guadalajara dove ziu Gustinu aveva perso legambe. Lo immaginavo come Enrico Toti, e vedevo Lussucome Garibaldi. Era difficile decidere chi aveva ragione eda che parte stare.

Mentre ci stavamo svestendo dei paramenti, finita lamessa, in sagrestia entrò trafelato il delegato dei giovanicattolici, per annunciare al parroco che Lussu stava pertenere un comizio, per il Fronte, forse dal balcone diDon Larenzu.

Il parroco incominciò subito a dare ordini. Fece chia-mare in sagrestia Donna Elenetta, per dirle che Don La-renzu non doveva prestare il suo balcone per il comiziodi Lussu.

Intanto aveva proibito ai chierichetti di andarcene,perché aveva ordini anche per noi. Diede disposizioni aun seminarista, allora in paese in vacanza elettorale: di-sturbare il comizio e distribuire propaganda buona.

Il seminarista ci inquadrò e ci consegnò copie del gior-nalino dei fanciulli cattolici, stavolta fatto anche per i

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ZICCHIRÌA

Tutte le sere, dopo che se ne andava mio nonno conl’ultimo carico di covoni, e con lui le spigolatrici, ziaGiuannetta e la figlia Aléne, io potevo andarmene perconto mio, in cima alla collina di Mont’ ’e Craddaxius, inesplorazione tra i cespugli fitti di craccuri.

Era un accordo tacito con mio padre. Del resto nonera giusto che io spigolassi da solo, quando non c’erano lealtre due spigolatrici. Le spighe erano per tutti e tre, e ionon dovevo approfittarne.

In cima alla collina diventavo cacciatore. Cercavo distanare animali, sempre con la speranza di incontrare unaquaglia, una pernice, o magari una lepre. Per questo miportavo dietro Fonnesu, il cane di ziu Prameriu, e cercavodi insegnargli l’arte della caccia. Ma valeva anche meno dime. Saltellava brevemente dietro farfalle e cavallette, men-tre io speravo sempre di poter fare una bella figura conmio padre e con ziu Prameriu, se una volta fossi sceso dalassù con selvaggina da arrostire per la cena. Mio padre micanzonava, ma ziu Prameriu mi dava consigli di caccia.

Ziu Prameriu era il nostro mietitore, ingaggiato a sca-rada per la metà della quantità di grano seminato e mietu-to, e dormiva con noi in campagna, all’aperto.

Era un lavoratore terribile e mio padre me lo portavasempre ad esempio.

Anche se molti mietitori ormai lavoravano a giornata,per un salario in denaro, ziu Prameriu preferiva la scarada,forse perché poteva portarsi dietro due spigolatrici, ziaGiuannetta, sua moglie, e la figlia Aléne, che poi aiutava-no nei lavori sull’aia.

Ma in tutta quell’estate riuscii solo a portar giù dallacollina incolta un proiettile inesploso di mortaio. Quando

poveracci che devono abituarsi a tenersi l’inferno in corpo,senza che di fuori lo possano notare quelli che lo tengonoacceso: a foras su fogu, goppai, chi abbruxid tottu sa burrum-balla de su mundu.

Ci fu un boato d’approvazione, con nitriti e Fortzaparis!

Improvvisamente mi arrivò un cazzotto del tutto ina-spettato, a fund’ ’e origa. Mi voltai giusto mentre mio pa-dre mi afferrava per un orecchio, sempre quello destromaledizione! Allora mi resi conto che stavo gridando asquarciagola Fortza paris! Come facevano tanti altri, perapprovare quello che diceva Lussu. Seguii mio padre perqualche passo, poi mi liberai di scatto e scappai, mi infi-lai nel fitto dell’uditorio e andai a collocarmi proprio afianco di ziu Scanniu, che stava in prima fila, a pochipassi da Lussu, e piangeva come un agnello svezzato.

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sapevo dov’erano tutti i posti che lui aveva conosciuto inguerra, poi come guardia regia e infine come volontarioobbligato in Africa Orientale.

Ogni volta che si andava in paese, al termine della set-timana, io mi procuravo pezzi del Quotidiano sardo, coiresoconti del processo al generale Graziani, e glieli legge-vo. Così lui dopo si metteva a raccontare le sue avventuredi soldato, finché non si addormentava sotto il suo om-brellone verde, frugandosi il naso.

Una volta che ero stanco di trasportare covoni al muc-chio, e mi ero seduto su un sasso mentre loro continuava-no quel lavoro, mio padre mi sgridò duro per la mia pigri-zia. Ziu Prameriu mi chiese:

«Ti piace di più la massaritzia oppure lo studio?».«Questo lo sa anche Pipottu», risposi io imbronciato.

Pipottu era l’asino di mio nonno. E quella mia sentenzarimase celebre per tutta quell’estate. Era chiaro che preferi-vo lo studio.

Una mia aspirazione di allora era di poter scendereuna volta nella gola di Intra Montis. Non me lo permet-tevano perché era un luogo impervio. Quell’anno peròriuscii a farla franca. Alcune sere prima avevo scoperto ungregge di pecore che pascolavano giù per i fianchi di In-tra Montis, ed ero sceso a curiosare. Colle pecore c’erasolo un pastorello di Villamar, rosso e pieno di lentiggini.Da lui seppi che al suo paese le spighe si chiamano cabìt-za, non spiga, come diciamo noi. Tutti e due ci meravi-gliammo di questa diversità e di come era grande e diver-so il mondo. Ma non ci prendemmo in giro, come sifaceva coi ragazzini di Guamaggiore, dove si parla in mo-do diverso anche se siamo distanti meno di due chilome-tri. E per meravigliarlo di più io dissi, con importanza,che alla fine dell’estate sarei andato a studiare in Conti-nente, in Piemonte.

«E come fai ad arrivarci?».«Con la littorina, e poi con la nave».

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lo vide, mio padre impallidì, me lo prese adagio, lo posò alsuolo e mi mollò un ceffone. Con passo pesante andò aseppellirlo ai margini del campo, dove non passava mail’aratro, giù nel profondo. Quando feci per avvicinarmi milanciò un sasso. Finita l’operazione, tornò sfregandosi lemani. Io dissi per ridere:

«Nix kaputt!».«Non fare lo scemo di guerra» brontolò lui ancora spa-

ventato.Della ricerca di selvaggina però mi stancavo presto. Fi-

niva sempre che mi mettevo a sedere sul punto più alto aguardare come avanzavano, giù dalle colline intorno, leombre della sera, che sembravano nubi sulla terra. Stabilivopunti di riferimento, come l’ovile dei Simbula in Santa Bo-napasca, o il pianoro di Fraus, e scommettevo con Fonnesusu quale ombra sarebbe arrivata prima a scurirli. Ci sedeva-mo vicino, io e il cane, che a poco a poco smetteva di af-fannare con la lingua fuori, e diventavamo seri seri tutti edue, come le ombre della sera.

Come spigolatore non valevo niente, specialmente aconfronto con la furia di zia Giuannetta, che ogni giornoriempiva il sacco e la sacchetta fino a scoppiare, i gambitagliati col falcetto rasente alle spighe. Nemmeno messo inconfronto ad Aléne valevo molto, anche se lei si preoccu-pava molto di difendersi dal sole, per non abbronzarsi.L’abbronzatura allora non si usava, e una ragazza abbron-zata non avrebbe fatto bella figura a ballare per la festa del-l’Assunta. Aléne tutti gli anni il primo maggio faceva lamedicina contro l’abbronzatura: la mattina prima dell’albaandava a lavarsi con la rugiada dei campi, per rimanerebianca come il grano dei sepolcri del giovedì santo.

Non mi importava molto di non essere bravo in unlavoro di donne. Questo lo sapevano tutti. E ziu Prame-riu, per consolarmi, perché mio padre mi incitava gridan-do ogni volta che si raddrizzava per assestare i mannelli,ziu Prameriu diceva che però ero una buona testa. Infatti

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«Poi, dopo, se uno non vuole andare nelle Isole Filip-pine, può andare anche nel Messico, che è più vicino».

«Cos’è il Messico?».«Non lo sai? È il paese di Pancho Villa e di Pecos Bill».«Boh!».«Quello di paese, che c’è già da tre anni a studiare in

Piemonte, mi ha insegnato una canzone del Messico. Facosì:

Guadalajara es un llanoMéxico es una laguna.He de comer la tunaAunque me espine la mano».

«Bella. Assomiglia a un muttettu». Lui stava sminuzzando un fiore ispido di zicchirìa.«E tu la sai la canzone della zicchirìa?», chiese tutto al-

legro.«No. Cantamela».

«Zicchirìa zicchirìa, Candu femu in bidda miaCi fiad pìbiri e ganella, Moi ca seu in bidda allena Pappu donnia schivorìa».1

Il pastorello si mise a mangiare pane e formaggio e mene fece parte.

«Lo sai come si fa a tenere lontane le zanzare, quandosi dorme in campagna?», gli chiesi.

«Io no».«È facile. L’ho inventato io. Però funziona solo durante

la mietitura, perché allora si mangia bene, ciascuno col suopiatto di pastasciutta. Dopo mangiata la pasta, il piatto non

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1. «Fiore d’aneto, fiore d’aneto, / quando ero al mio paese / c’era pepee cannella. / Ora che sono in paese altrui / mangio ogni schifezza».

«Che cos’è la littorina?».«È un treno che porta solo gente. Per questo non fa

fumo. Parte da Senorbì e arriva fino a Cagliari, vicino allenavi del porto. Ma io poi vado fino a Olbia, per imbar-carmi. Tu lo hai già visto il mare?».

«No. E tu?».«Nemmeno io. Ma non ho paura lo stesso».«Perché vai a studiare?».«Perché mi piace di più».«E perché non vai a Cagliari a studiare?».«In Piemonte vado in un istituto di preti che non vo-

gliano soldi per studiare».«Perché non vogliono soldi?».«Perché noi abbiamo promesso a padre Rosa di fare i

missionari nelle Isole Filippine. Di paese ce ne vengonoanche altri».

«E tu vuoi fare il prete?».«No. Sei matto? Adesso sono anche fidanzato con una

di paese. Ma forse nelle Isole Filippine ci vado lo stesso.Là ci sono i selvaggi con le frecce, e i bambini neri dellaSanta Infanzia».

«A me diventare prete non mi piace. Portano la gonnacome le donne».

Quando era venuto padre Rosa, in paese, per reclutareaspiranti, molti ragazzini che stavamo per finire le elemen-tari ci eravamo radunati in casa di uno che a studiare daipreti c’era già da tre anni. Fu allora che venne fuori la fac-cenda che chi andava lì a studiare quasi gratis doveva pro-mettere di diventare prete e poi andare missionario. Mis-sionario, mi andava bene, ma prete, no. Quel giorno mirintanai dietro la cupola del forno del pane, dove le gallinesi nascondevano per fare l’uovo, e ci pensai su parecchieore. Bisognava stabilire se avevo la vocazione. Non riuscii astabilirlo, ma decisi intanto che era meglio andarci. PadreRosa, tra l’altro, aveva detto che si giocava al pallone; emagari con un pallone vero, di cuoio, le scarpe coi tac-chetti e le magliette coi numeri.

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Salii in cima per esaminare il nido e da lassù scorsi lonta-no, in direzione del paese, una colonna di fumo nero.

Scesi giù a rotta di collo, flagellandomi le gambe nude,verso mio padre e ziu Prameriu che stavano ancora mie-tendo.

«Hai stanato una lepre?», mi chiese ziu Prameriu.«O un topo?», mi canzonò mio padre.«Là c’è il fuoco. Il grano brucia vicino al paese».Ma loro non volevano credermi. Poi ci sembrò di

udire lontano le campane a martello. E infine incominciòa scorgersi la colonna di fumo, anche da laggiù.

Mi ordinarono di restare lì a custodire le nostre cose eloro scesero alla disperata verso il paese.

La notte venne giù dalle colline. Lontano, a sette chi-lometri, si scorgeva il chiarore dell’incendio. Anche il ca-ne se n’era andato con loro. Nella zona non si vedeva nes-suno. Ero proprio solo, ma non avevo paura per questo.Ero spaventato per quel fuoco che aveva messo le ali aipiedi già stanchi di mio padre e di ziu Prameriu.

Chissà dove stava bruciando. Forse nei campi di gra-no di Santu Milanu. Lì noi avevamo già mietuto, per pri-mi. Ma gli altri no. Mi sembrava di sentire l’odore dell’in-cendio, incendio di grano.

Il rumore dei grilli stava attorno assordante. Ma senti-vo anche il brontolio dei vermi sotto terra.

Molto tardi nella notte ritornò ziu Prameriu solo conFonnesu, morto di stanchezza.

«Che cosa è bruciato?».«Le aie vicino al ponte di Guamaggiore».«Anche il nostro grano?».«Tutto no».«E mio padre?».«È rimasto a finire di spegnere».Si buttò a terra.«E tu non potevi almeno preparare i giacigli di stoppie

per la notte?».

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si pulisce bene dal sugo, anche se è la parte più buona.Quando ci si mette a dormire, si piazza il piatto vicino allatesta, e allora le zanzare vanno sul piatto, rimangono ap-piccicate al sugo e lasciano dormire i cristiani. Ma questanon è arte da pastori».

«E tu lo sai come si fa a tenere la coda sporca delle pe-core lontano dal secchio del latte, quando si mungono?».

«No. Dimmelo».«Te lo faccio vedere io per bene».Acchiappò una pecora, chiamandola per nome, le si

mise a cavalcioni, con il dorso verso la parte anteriore del-l’animale; la spinse un poco con un paio di pacche sul de-retano, si fece la croce, sputò sul palmo delle mani e lesfregò un poco; si chinò con le mani verso le poppe, presela coda con la sinistra, l’appoggiò al fianco della pecora e latenne ferma col gomito destro, infine fece l’atto di munge-re dentro un secchio che non c’era.

«E tu sei buono a mietere dei veri mannelli grandi?».«No».«Io sì. Ci vuole molta arte. E se uno ci ha l’arte, non

conta avere le mani piccole. Bisogna saperli allacciare bene».«Tu ne hai visti di agnelli quando nascono?».«No. Tu ne hai viste di lepri, da queste parti?».«Molte. E anche conigli selvatici e pernici».«Ne hai presi, senza fucile?».«Io sì».«E come hai fatto?».«Al mio paese si fa così. Ci si avvicina piano piano, si

mette un po’ di sale sulla coda della lepre o della pernice,e si acchiappa».

Ridemmo.«Da noi così si prendono i tordi».

Anche quella sera io salii sulla cima di Mont’ ’e Crad-daxius, a snidare selvaggina con Fonnesu. Su un alberellodi pero selvatico trovai un nido vecchio di cornacchie.

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Così eravamo di più nelle sue mani. Lui era come il nostrodestino, che ci comandava in tutto, e noi zitti. Altro chevolontà di Dio».

Non avevo mai sentito ziu Prameriu parlare così. Maera come se non parlasse a me. Forse aveva veramente lafebbre della malaria.

«Io vado a studiare. Così non starò sotto un padrone».«Fai bene, te lo dico sempre. Vai e non tornare».«In vacanza ci torno. Quelli che ci sono già, tornano

d’estate».«…Tutta la settimana in campagna, senza vederci l’un

l’altro se non controllati dal padrone o dal sotzu. E la do-menica ti prende in consegna il prete per insegnarti la ras-segnazione, la fiducia in Dio, specialmente ai giovani chenon sono ancora rassegnati. Così è quando si entra sottopadrone per tutto l’anno. Tu hai scelto bene… Uno qua euno là, e per incontrarci solo la chiesa. Dal padrone alprete e poi, quando c’è guerra, sotto le armi. Gli altri fan-no sempre di te quello che vogliono, delle nostre braccia edella nostra testa».

«Anche il prete?».«Specialmente il prete, che sa come convincere: è il

suo mestiere. Ma anche ai preti insegnano così, la rasse-gnazione».

«Anche a me insegneranno a fare rassegnare la gente?».«In fondo è giusto, insegnare la rassegnazione. Ma io

non mi sono lasciato mettere sempre i piedi sul collo».«Come facevate?».«Il padrone ci fregava con la religione. E io, una volta

l’ho fregato io, a lui, con la religione… Ma queste cosenon devo dirtele».

Aspettai che riprendesse. Continuò:«Eravamo di settimana santa. Allora si faceva anche di-

giuno, oltre che magro, e il padrone ne approfittava perdarci da mangiare peggio del solito. Pentoloni di fave du-re, a volte senza nemmeno sale. Una sera mi toccava il ser-vizio nelle stalle, ma ero troppo stanco. Ci ho pensato un

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«Me ne sono dimenticato».Preparammo due giacigli e ziu Prameriu si sdraiò sul

suo. Subito incominciò a tremare violentemente, come semorisse dal freddo.

«Speriamo che non sia la malaria. Ci manca solo quel-la».

«È bruciato molto?».«Il nostro no. Ma il grano dei Demontis, dei Bertellini

e di molti altri se n’è andato quasi tutto».«Lo dicevo io che era fuoco di grano».«Già, fuoco maledetto».Non riuscivamo a dormire. Ziu Prameriu si prendeva

a schiaffi per le zanzare e io mi resi conto che eravamo ri-masti a digiuno.

«Ci avete pensato che non abbiamo cenato, stanotte?».«No. Perché non mangi tu?».«Non ne ho voglia. Mi dispiace solo che non possia-

mo farci le trappole per le zanzare, coi piatti».«Hai avuto paura quando sei rimasto solo nella notte?».«No, paura no. E voi avreste avuto paura?».«Io alla tua età avevo paura di portare i buoi al pasco-

lo, prima dell’alba, specialmente quando pioveva e c’eranotuoni e lampi».

«Dove eravate servo?».«Nell’azienda di Pisugù, la più grande che c’era allora».«Vi trattava male questo Pisugù?».«Come gli altri padroni».«Ci siete stato molti anni?».«Tra una guerra e l’altra, dopo il congedo e tolti gli an-

ni d’Africa. Pisugù aveva la specialità di essere molto reli-gioso, ma lo faceva per i suoi interessi. Però queste cose ionon devo dirtele. Tuo padre non vuole».

«Mio padre non fa mica le parti dei padroni comePisugù».

«Non è per questo. È per il modo di certi padroni diservirsi della religione. Pisugù diceva che tutto è volontàdi Dio, ma lo diceva solo quando gli faceva comodo.

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Alla fine della giornata avevo il mio sacco pieno, per laprima volta.

Mio padre tornò il giorno seguente. Con una facciacome quando aveva la malaria. Per fortuna avevamo anco-ra grano da mietere.

Ogni giorno riuscii ad avere anch’io il sacco pieno. Ave-vo fatto i miei calcoli. Adesso eravamo più poveri. Io vole-vo spigolare tanto grano da comprarmi scarpe nuove e far-mi un cappotto per l’inverno del Piemonte.

Quell’anno i buoi pascolarono più a lungo del solitonelle aie, dopo il raccolto. C’era tanto grano semibruciatoda mangiare per loro. Ma bisognava stare attenti che nonmangiassero anche cenere, perché si sarebbero ammalati.

Il cappotto per l’inverno del Nord riuscii a comprar-melo solo di roba americana, ma le scarpe me le feci nuo-ve, basse. Le mie prime scarpe non chiodate.

Il giorno che partii, anche le scarpe erano nella valigiadi cartone. Quando arrivai a Cagliari non riuscivo a cam-minare sulle strade asfaltate, con le mie solite scarpe chio-date. Ma avevo quelle buone per le strade del Piemonte.

Mio padre e mia madre mi avevano raccomandatomolto di badare sempre alla mia valigia. Nel Quarantaset-te, quando mio padre era andato a Roma per un conve-gno degli uomini cattolici, al ritorno sul molo di Civita-vecchia gli avevano rubato la valigia, coi ricordi di Roma ei ritratti del papa e di Luigi Gedda.

Ma io legai una cordicella per un capo al manico del-la valigia e per l’altro capo alla cinghia dei pantaloni nonpiù ornata di stellette militari.

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po’, poi sono andato dal padrone e gli ho detto che dove-vo andare a confessarmi e comunicarmi, per l’obbligo pa-squale. “Ci vai domani mattina”, mi dice lui. “Ma doma-ni mattina non c’è prete per confessarmi”, dico io, “oggic’è anche il prete di Ortacesus”. Lui cercava scuse, ma lìper lì non ne ha trovate. “C’è il tale che mi sostituisce”,dico. “E va bene”, termina lui arrabbiato. La stanchezzami è passata subito. Sono andato a casa, ho mangiato dueuova anche se allora in quaresima erano proibite, e hodormito con mia moglie, dopo due settimane, hai capito?Il mattino dopo ho poltrito in letto fino alle sette e versole otto tutto fresco e allegro sono andato a casa del padro-ne. Sia lodato Gesù Cristo, dico come se venissi di chiesa.E lui mi manda in cucina a prendere il caffè offerto dallapadrona in persona, come era l’usanza, tutti gli anniquando si faceva l’obbligo pasquale».

«E la comunione non l’avete fatta?».«Un’altra volta. Come facevo, se ho dormito fino alle

sette?».Prima di addormentarsi, ziu Prameriu, forse senza ac-

corgersene, mi disse anche che mio padre era rimasto inpaese perché si era sentito male per la furia di spegnerel’incendio, con rami di mandorlo e di fico.

Il mattino dopo ho voluto mietere anch’io, con la falcedi mio padre. Ziu Prameriu non voleva, ma poi mi diedele istruzioni. Mi allacciai il grembiule di panno azzurro dimio padre, me lo arrotolai per non inciamparci, e mi infi-lai le mezze maniche.

Ma quasi subito mi tagliai profondamente il mignolodella sinistra. Ziu Prameriu si mise a imprecare e mi ordinòdi pisciare sulla ferita. Non mi lasciò più mietere, e me neandai sotto l’ombrello verde a soffiare sul mignolo sangui-nante. Intanto riflettevo. Quando arrivarono zia Giuannet-ta e Aléne, mi misi con loro a spigolare con impegno. Ledue donne parlarono tutto il giorno dell’incendio nelle aie.Cercavano di non farmi capire ciò che io avevo già capito.

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specialmente se durano poco, in modo che sia solo un gio-co che non stanchi.

A casa c’era una novità che m’incuriosiva. Mentre erovia, mi avevano scritto che mio fratello Ottavio ha tiratosu le strutture della sua casa perché sta per sposarsi. Sapevogià del progetto: un parallelepipedo che avrebbe occupatotutto lo spazio del nostro vecchio cortile rustico, dalla stal-la vuota dei buoi da lavoro, al letamaio, al forno a cupola,fino al pozzo e al pagliaio.

Ottavio è l’unico, di noi dodici fratelli e sorelle, rima-sto a lavorare la terra. Terra degli altri. Ed è anche il solo,per ora, che metterà su casa in paese con una del paese.Gli altri siamo tutti sparpagliati in dintorni più nordici, daRoma a Stoccarda. Così, fra poco, mio padre e mia ma-dre, quando rifaranno l’elenco dei loro generi e delle nuo-re, dei coniugi dei propri figli, come fanno spesso con unpoco di tristezza, potranno annoverare anche una nuoradelle nostre parti, insieme con una del Varesotto, una bre-sciana, una calabrese e una della Romania; insieme con ungenero emiliano, uno cagliaritano, uno mezzo napoletanoe, come diciamo noi fratelli scherzando, insieme con «unodi tutte le parti», perché la nostra sorella maggiore è suorae perciò sposa del Cristo di tutti i posti.

Nell’ultimo tratto di viaggio, verso il paese, ho cercatodi immaginare l’effetto del non trovare più, in casa, cose eambienti di prima della nostra diaspora familiare, cancel-lati dalla casa di Ottavio. Una questione di affetti privatied esclusivi. Ma mi sentivo ancora in polemica verso certirimpianti di lusso, ambigui, pessimismi culturali neoarca-dici e forme morbose di rammarico: contro la coscienzadistorta del mutamento, sopravvenuto nel trentennio pas-sato, che ricerca salvezza nella riconquista di un’autenti-cità di comportamenti e di sentimenti, che sarebbe pro-pria di un mondo contadino, scomparso anche da noi inSardegna.

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CONTROTEMPO

Non sono stato via per anni di seguito, come un paiodi altre volte. Ma ho avuto ancora voglia di tornare a casa.E come le altre volte sono state buone le sensazioni del ri-torno, con un poco di pudore e di nuova meraviglia perquesto mio ritrovare tutto amichevole e armonioso, le cosee le persone. Al Brennero mi ha sorpreso un’eleganza, mainotata prima, dei nostri finanzieri, carabinieri, poliziotti,che so di non avere imparato da nessuno ad amare. E aCivitavecchia, in attesa del traghetto per il Golfo degliAranci inesistenti, ho impiegato la lunga attesa ammiran-do i modi e i visi dei sardi in transito verso il Natale di ca-sa, gli adulti maschi con la faccia lorda di barba non fatta,le donne e i giovani segnati in modo vario dalla mutazionedel trentennio, ma tutti riconoscibili e non trasfigurati.

Comunissima aria di casa, che ubriaca come vino do-po una lunga astinenza.

Però tutto si riproporziona a poco a poco, reimparan-do a respirare l’aria di casa. Fino al momento di ripartire,quando tutto diventa di nuovo buono, e si riscopre, comeall’arrivo, l’agio del metter mano nelle proprie tasche.

Il figlio di zia Ciccitta, da vent’anni in Olanda, l’ulti-ma volta che è venuto a Natale, arrivato il mattino della ri-partenza si è seduto un momento davanti al camino, e si èmesso a piangere in silenzio, mentre sua madre piangevacon lui e suo padre fingeva di canzonarli entrambi. Nonvoleva più ripartire, non perché non volesse tornare inOlanda, dove si sta meglio, ma perché non è possibile re-stare a casa, col meglio dell’Olanda.

Tornare a casa è una festa, non è la ferialità quotidianadi prima di andarsene. Le rimpatriate sono sempre dolci,

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assistenti e dottorandi di quell’istituto scientifico, sporchi epuzzolenti di stalla e di un ottimo formaggio danese, feti-do come gorgonzola, malvestiti e irsuti di barbe e di capel-li. Il medesimo fetore di stalla e di formaggio ristagnava intutti i locali dell’istituto. Le donne vestivano larghi e infor-mi calzoni di tela azzurra e vecchie camicie contadine sen-za colletto, arrivavano e se ne andavano sotto ombrelloniverdi come quelli dei contadini delle mie parti, chi conscarponi, chi con vecchi zoccoloni di legno, ma tutte lecalzature maschili e femminili erano ornate e profumate,apposta e ad arte diceva Rudolf, con resti di strame. Intel-lettuali travestiti da contadini che lassù non ci sono più aquel modo da ben più di mezzo secolo.

Ho domandato a uno di loro se tutti fossero di originecontadina. Nessuno lo era, ma tutti si erano trasferiti invillaggi intorno a Copenhagen, in ambienti agricoli ripor-tati alle condizioni del secolo scorso, prima metà. Un lororimpianto era non poter fare la spola tra fattoria e univer-sità a cavallo, o magari col carro a buoi e in slitta.

Mi hanno dimostrato molta simpatia, quando hannosaputo che sono sardo. Io li ho ricambiati ricordando unetnologo danese che è stato il miglior studioso dell’anticostrumento sardo a fiato, le launeddas. Però sembravano di-spiaciuti del mio modo di vestire normalizzato.

C’è del marcio in Danimarca, ripeteva Rudolf fra ilpuzzo di letame. Lui riusciva a divertirsi, mentre il miosentimento più benevolo era la meraviglia. Loro, i danesi,mi hanno sollecitato spesso a dire la mia, su questo mon-do che perde ogni dimensione umana. Ero tentato di par-tire da un’osservazione fatta in quei giorni in città: l’ab-bondare di porno-shops rusticani, dove si vende ai piùraffinati documentazione sul sesso villereccio di una volta.Ma sono riuscito solo malamente a richiamare la loro at-tenzione sul fatto che i prezzi che si pagano al progresso eal mutamento sono anche e soprattutto prezzi che si paga-no a forme distorte di progresso, non al progresso inquanto tale; che perciò non hanno molto senso i rimpianti

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Com’è che diceva a suo tempo Fontenelle? «… l’agré-ment des bergéries consiste à n’offrir aux yeux que la tran-quillité, dont on dissimule la bassesse: on en laisse voir lasimplicité, mais on en cache la misère». Se n’era accortoperfino uno come lui, e ai suoi tempi, figurarsi chi daquel mondo è uscito perché ci si stava male.

Ma in fondo temevo che tutte quelle dolci sensazionidel tornare a casa avrebbero potuto ingigantire e distorce-re questo mio sentire, verso dimensioni pubbliche e dicoscienza d’un’epoca, di crisi naturalmente. Mi preoccu-pava, insomma, il timore che la mia personale nostalgiadei tempi e delle cose passate, ora non più testimoniatinemmeno da ciò che la casa di Ottavio cancellava, diven-tasse rimpianto per tutto un mondo e una condizione chenon è più, che la mia infanzia divenisse la trasfigurazionedell’infanzia agreste del mondo. Sono temi e sentimentinuovamente di moda, e aspetti di nuovi conformismi.

Questo rimuginare aveva però anche una ragione re-cente. Qualche tempo prima, a Copenhagen, avevo in-contrato certi folkloristi bifolchi di quelle parti, e mi erotrovato costretto a dire cose che ora mi sembravano moltodure, contro il dilagare di vagheggiamenti di arcadie per-dute. E poi, in quell’autunno scandinavo, in una nordicacittà che non ricordo, avevo capito dai titoli dei giornaliche in Italia era stato ucciso Pier Paolo Pasolini, e avevosentito un senso di colpa, nonostante il mio alibi di ferro.

A Copenhagen ero capitato un po’ per caso, col mioamico Rudolf, studioso di cultura popolare europea, tede-sco, ma un tedesco notevole, perché il suo tema preferitodi studio non è l’amore germanico per i boschi e le belleche vi si addormentano, ma la sua idea che i tedeschi daqualche tempo a questa parte lavorano per rimorso, e chehanno tirato su quel bel po’ di Germania per dimostrareche non sono solo cattivi. Emigranti per lavoro essi pure.

Rudolf ha tenuto una serie di conferenze agli studiosidanesi di cultura popolare. Un uditorio singolare: professori,

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Con pudore istintivo stavo mimando il ritorno da unlungo girovagare, alla ricerca delle memorie dell’infanziacome memoria del mondo. In privato celebravo con par-tecipazione il rito stantio dell’estetica decadente, quasitutto dentro l’orizzonte mitico dell’infanzia stagione dellapoesia e delle esperienze basilari. Non poteva anche esse-re, questo, uno di quei momenti di grazia della maturitàin cui si riducono a chiarezza le rivelazioni prime delle co-se? Ma ecco qua, distrutti, trasformati, abbozzati, ma fusiinsieme, i segni del contrasto mio privato fra città e cam-pagna, tra infanzia e maturità, tra spontaneità primigeniae fredda ragione culta.

Uno scroscio di pioggia mi ha spinto dentro casa, lavecchia casa scuriosa dai muri panciuti che vorrei raddriz-zare a ogni rivederli, ma che stavolta ho amato così storti elordi di umidità, senza bisogni di pareggiare, adattare, cor-reggere, trasformare. E poi però, quando mia madre inso-litamente loquace ed eccitata, mi ha spiegato per bene co-me sarà, quando finita, la casa di Ottavio, allora ho capitocon sollievo che i miei sentimenti erano miei esclusivi. Leho chiesto se a lei non dispiacesse un po’ che tante cose diprima adesso non erano più. Lei mi ha guardato come chidice cose fuori luogo, forse con quella medesima meravi-glia con cui io guardavo i villani rifatti di Copenhagen.

Ho cercato di spiegarle che la cancellazione delle testi-monianze di quella parte della nostra vita passata mi face-va malinconia.

«Come sei tonto» mi ha canzonato. «Dio ce ne scampidal ritornare a quei tempi».

Ha riflettuto un poco e poi ha concluso:«Si vede che ti ricordi male, a forza di stare lontano da

qui».

Deus s’indi campid a torrai cussus tempus. Lo so anch’ioche vede giusto mia madre. Non perché lei partecipi diciò che chiamano saggezza contadina. Perché invece i suoipensieri e i suoi sentimenti si prolungano in sintonia dai

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per forme di vita definitivamente sostituite. Loro miascoltavano calmi e amichevoli, democraticamente dispo-nibili, mentre io inciampavo e m’indispettivo per la diffi-coltà di dover dire cose a loro tanto estranee in una lin-gua estranea.

Insistevano, una volta, che parlassi della Sardegna. Hodetto loro dell’atteggiamento di lamento e di ironia deicontadini e dei pastori sardi verso la loro esperienza di vi-ta, e invece delle nostalgie di drappelli di piccola borghesiaintellettuale, urbana e campagnola, per il mondo ruralescomparso. Reagivano con placidi cenni di assenso, anchequando mi lasciai scappare che per il mondo delle campa-gne non si fa nulla scimmiottandone usi e costumi.

Avrei voluto dire le stesse cose con quel loro stile.Uno con una barba bionda, che sembrava un Marx vi-chingo, commentava con soavità francescana che gli ita-liani, da Machiavelli in poi, vedono il mondo deformatodalla politica; e ricordava l’opinione di Marx che le tappedel progresso sono scritte negli annali dell’umanità a trattidi sangue e di fuoco. Già, ma una volta fatti certi sforzi epagati certi prezzi, per favore non chiedete a nessuno ditornare indietro, di rinunciare agli antibiotici per gli im-piastri e al frigorifero per il pozzo.

Ci ho dato sotto, anche se mi sembrava che loro miguardassero come un piccolo rimorchiatore asmatico checerca di tirare in porto il bastimento del capitalismo.

Rivincita degli affetti, vendetta della nostalgia, c’è statadavvero, a cominciare da quando ho visto scardinato emesso da parte il vecchio portone, che vent’anni primamio nonno e io avevamo dipinto di azzurro, come era dimoda allora; e troneggiare lo scheletro di un edificio cubi-co là dove prima era il cortile coi suoi annessi rustici e an-tichi, i luoghi delle scoperte della mia infanzia, gli archeti-pi del mio mondo. Senza farmi accorgere da nessuno incasa, ho girato più volte silenzioso attorno alla struttura inblocchetti di calcestruzzo.

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arretrate del fronte, agli occhi dei manovrati incomincia-no a risaltare i lineamenti delle strategie, dei lenti movi-menti di massa, non più solo le tattiche e gli espedientiper la sopravvivenza individuale nella precarietà quotidia-na. E mentre bizzarri capitani, sconfitti o a capo di nien-te, fanno i loro canti del cigno, la truppa si sta già muo-vendo per nuove strategie, con nuovi capitani, anche secontinuano a fare notizia le bravate degli sbandati e i beigesti degli irregolari.

Non so abbastanza quanto valga la pena di tentare, colmezzo antico del raccontare, un contributo a far crescere laconsapevolezza di ciò che siamo diventati. Siamo però cer-tamente in tanti, dentro quest’Occidente industriale, con-tadini di fatto o di estrazione, ma nuovi, senza molte buo-ne occasioni per considerare il senso di questa nostra storiaparticolare, l’importanza di un processo di cui siamo va-rietà specifiche di figli e di eredi. Ma eredi che dobbiamoaccogliere il lascito col beneficio dell’inventario. Anche seabbiamo mille ritegni solo a ricordare, perché lo facciamocol filtro di almeno un paio di conformismi, e la memoriasi offusca per il riemergere di sedimenti spessi di pudoreper il nostro essere venuti di campagna. E per chi ricordanarrando, la memoria si offusca anche per il riemergere disedimenti di popolarismo e di memorialistica rusticana,simplicia simplicissima. Soprattutto per colpe non nostre, lanostra terra d’origine è terra di molti rimorsi.

Forse è lecito versare un tributo ai molti vezzi del boz-zettismo di tono popolare, e alla moda della carità culturaleper il popolare rustico, ma riuscendo a pagare solo queltanto di pedaggio che autorizzi a tentare uno sberleffo acerte voghe, male invecchiate e rimesse a nuovo. I contivanno fatti comunque per trarne profitto, anche con du-rezze sgradevoli a molte orecchie, quando non è bene dareesca nuova ai ruralismi salvifici, ma è necessario far emerge-re il mondo contadino recente e remoto dall’idillio agreste

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pensieri e dalle preoccupazoni di tutti i suoi figli, che vi-vono le sollecitudini del presente e non hanno occasionedi rimpiangere un passato di maggiore miseria. Miseriaper lo meno materiale.

Ma chi non ha memoria storica non ha nemmeno ilsenso della fine, o degli inizi, o della crisi come transeun-te, e si appaesa sempre fuori dal presente storico? E fa suasempre la morale del servo hegeliano, il cui destino è divivere e di fuggire inutilmente dalla morte e da tutto ciòche la ricorda?

Certamente hanno ragione pure gli scettici, che nota-no come tutti i tempi sono di crisi. Ma, qui dietro, ci so-no trent’anni di storia che non sembra tumultuosa, cheinvece sono stati per tutta la nostra gente l’ingresso rapidoe definitivo nella storia moderna, la fase finale di unagrande trasformazione. Trent’anni che si aprono anchequi con le lotte per la terra, il pane e il lavoro, la riformaagraria, e per la democrazia e il progresso civile; e ora sichiudono, veramente sul calare di una parabola, con unritorno parziale e non voluto, come non era voluta la par-tenza in massa e dolorosa verso altri luoghi e altre dimen-sioni di vita. Un presente che non lascia molto tempo perfare conti di perdite e di ricavi, ma forse alla mente menooscuro del passato.

Ha ragione anche mia madre, quando dice che nonricordo bene, perché ricordo a modo mio, diverso forsemolto dal suo: navigando sugli stessi mari siamo approda-ti in porti diversi, con modi diversi di tenere un giornaledi bordo. Eppure sia lei che io ci sentiamo al termine diuna vicenda che ne genera un’altra, quando i casi degli in-dividui appaiono fatti anche di interi gruppi di uomini.Alle schermaglie ultime di una strategia secolare di conqui-sta di questo nostro mondo che dicono contadino, conpoche battaglie in campo aperto, ma di lunghe manovre diinfiltrazione e di accerchiamento, anche su queste porzioni

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nuovamente ricorrente; e bisogna deludere la simpatia tre-pida di molti per i buoni villici delle proprie contrade, resi-stendo alle nostalgie cosmiche della decadenza, alle speran-ze ingenue di ritorni e arresti impossibili, che da questeparti non si ha modo di sognare, senza rimpianti, ma conqualche rancore.

Difficile è alludere al futuro che si teme, ma è possibi-le usare il timore come forza positiva, per vincere la tenta-zione dell’anticipo, della fuga in avanti, sciocca come lafuga all’indietro, perché vuol dimenticare il peso del pas-sato e della continuità. È possibile, se è vero che questapaura di oggi è anche un bisogno stravolto di trasforma-zione e di novità.

Conti dell’inventario che dobbiamo fare, questi ventiquadri contano gli spiccioli, ma vogliono alludere allegrandi cifre del trentennio ultimo scorso.

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INDICE

5 Nota introduttiva

11 Ricerca sul campo

18 L’ultima transumanza

22 Domino

25 Chi ha visto il mondo

30 I conti della rinascita

33 La strategia di Fedele Succu

39 Il reddito

43 L’ultimo carrettiere

49 Città e campagna

57 Voltaire e il gendarme

65 Il campione mondiale

67 Martirio oscuro

77 Trent’anni dopo

80 Componimento

82 Pesca di frodo

89 Arrichetteddu

95 L’esorcismo

103 A fuoco dentro

111 Zicchirìa

122 Controtempo

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SCRITTORI DI SARDEGNA

Volumi pubblicati

1. D.H. Lawrence, MARE E SARDEGNA2. E. Costa, GIOVANNI TOLU3. G. Spano, PROVERBI SARDI4. S. Satta, CANTI5. G. Dessì, LEI ERA L’ACQUA6. Valery, VIAGGIO IN SARDEGNA7. S. Atzeni, PASSAVAMO SULLA TERRA LEGGERI8. O. Bacaredda, CASA CORNIOLA9. G. Fiori, VITA DI ANTONIO GRAMSCI

10. A. Bernardini, LE BACCHETTE DI LULA11. Montanaru, CANTOS12. C. Gallini, INTERVISTA A MARIA13. S. Cambosu, UNA STAGIONE A OROLAI14. B. Bandinu - G. Barbiellini Amidei, IL RE È UN FETICCIO15. A. Carta, ANZELINU16. B. Zizi, ERTHOLE17. P. Casu, LA VORAGINE18. A. Cossu, I FIGLI DI PIETRO PAOLO19. G. Pinna, IL PASTORE SARDO E LA GIUSTIZIA20. C. Nivola, MEMORIE DI ORANI21. P. Rombi, IL RACCOLTO22. P. Casu, GHERMITA AL CORE23. E. Lussu, IL CINGHIALE DEL DIAVOLO24. G. Deledda, CHIAROSCURO25. G. Dessì, I PASSERI26. A. Puddu, ZIO MUNDEDDU27. B. Zizi, IL PONTE DI MARRERI28. C. Bellieni, ELEONORA D’ARBOREA29. S. Mannuzzu, IL TERZO SUONO30. R. Puddu, PUEBLO31. B. Tognolini, CIÒ CHE NON LAVA L’ACQUA

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