giorni alterni

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silloge poetica

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Franco Pucci

giorni alterni

silloge

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Averti…

[ho combattuto contro un temibile rivale, la mia paura il lampo degli occhi raccontava una storia senza fine la fuga terminò inebriandosi nella tempesta dei sensi così il ruscello impetuoso sfociò in un fiume in piena] quattro passi tra ciuffi di bambagia sparsi nell’azzurro un oliva nel Martini questo tuo incollarsi al mio cuore un sapore che ogni volta rinnova il piacere dell’amore sognanti i versi che brindano a nuove mature stagioni …averti, ora come allora, è un cin cin alla vita…

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Baratti Ho venduto le ultime biglie di vetro colorato come perle autentiche di falso Murano a quattro cinesi in gita sulla laguna in cambio di paio di bacchette di bambù. Ho ceduto le bacchette al bar sul corso ad un oste dal sorriso mefistofelico in cambio di un bicchiere di Rosso Inferno in un amen l’ho bevuto, ho visto il fondo. C’era un numero di telefono impresso. Ci sto pensando. Vorrei indietro le mie biglie di vetro colorato.

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Cuore di maiolica sotto l’indaco dipinto dello smalto -tu cuore di friabile biscotto- cotto al sole di roventi primavere -indurito al gelo dell’inverno- appeso come falsa icona adorata -ninnolo d’antica cristalliera- indisponibile ai richiami dell’anima -ti culli nella tua apparenza- scivolano quasi lacrime di ghiaccio -sul blu diamantato le parole- non prova alcun fremito o passione -una corazza vitrea di smalto- ti spezzerai nonostante l’arroganza -l’acciaio forerà la tua difesa- quando l’amore colpirà improvviso -raccoglierò briciole d’amore- …dal cuore di biscotto

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Domani farà bello, hanno detto… "...i avarave ciamà belo per doman…" Quel repentino, lattiginoso strato di nebbia sembrava bambagia sfilacciata tra le dita che saliva silenziosa posandosi sulla laguna e come algido sicario ne affogava i colori. Testarda una lama di luce bucava la bruma, creando sull’acqua trasparenti arabeschi, mentre il peschereccio si perdeva nel limbo la sirena urlava il suo commiato dal molo. L’orizzonte m’apparve come sogno concreto che da tempo rincorrevo e protesi la mano, solo stracci di nebbia rimasero appesi alle dita. Con la voce arrochita dall’umido salmastro bestemmiai alla caligine la mia delusione. "…i avarave ciamà belo per doman…" Straziò la voce stridula ma ne riconobbi il tono, lo schioccar del becco e il frullar d’ali felpato lacerarono come artigli il velo dell’amarezza e nella laguna ovattata rispecchiai il mio sorriso. …come sempre avrai ragione tu amico mio.

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Eccomi eccomi accanto a te a capo chino guaisco le dolenti ferite aperte -cucciolo maldestro- in un gioco pericoloso eccomi davanti a te occhi di cane bastonato che implorano perdono -ingenuo protagonista- di un gioco sconosciuto eccomi dentro di te ora l’altalena dei fianchi blandisce il mio il dolore -l’acme è alla chiama- l’urlo si scioglie nel miele conosco il gioco eccomi

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Ho guardato la notte negli occhi albeggia… [abbandoni le coltri, ti alzi e il ricordo delle lenzuola svanisce nel brivido d’addio sui gradini conti i tuoi passi viepiù stanchi, circospetti] Nel buio che attende le mani ti muovi come un automa che ha fatto della sua paura una gelida compagna discinta guardiana del suo respiro. Sacrista in una chiesa di carta, come improvvisato scaccino che accende e spegne falsi ceri, sei custode che schiude cancelli e lacrima sul mazzo di chiavi. e albeggia… [l’eco dei passi s’è persa oramai nella luce immemore del buio l’alba che saluta i miei domani porta con sé la brezza del mare e dolce è il brivido tra le lenzuola] …ma ricordo quegli occhi…

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Il velo da sposa Gli argini del fiume quella mattina accolsero la bruma vestita da sposa l’acqua ammaliata dal candido velo ondulò dolcemente baciando la riva. Nel silenzio di canne dipinte di brina come algidi spettri riflessi nell’acqua il passo seppur cauto scalfiva l’idillio e il fiato sospeso lacerava il mantello. Trattenni il respiro sedendo in attesa del brusco risveglio d’incauti amanti mentre ammiravo l’emozione dipinta il vento spogliava pian piano la novia. La gallinella deflorò l’acqua correndo e le goffe ali presero il volo nel bianco il rumore di canne spezzate fu strazio del silenzio complice dello spettacolo. Il fiume rispecchiò un azzurro sorriso sull’acqua dondolava il velo da sposa.

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Immemore cancello il ricordo è un serto spinoso che lacera il farisaico velo involucro ipocrita dell’anima emerso dal nulla della memoria è dolore che buca lo stomaco ricordare l’infamia degli uomini alleviare la falsa dimenticanza con alibi d’ignobile comodo oltre l’acciaio vagano anime perse in un girone lastricato d’odio arse nel fumo acre di camini accesi rinchiuse nel ventre della storia la memoria non ha cancelli

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Non sono Icaro …celava sotto la zimarra nera l’acciaio degli occhi, la signora e la bocca, ulcera menzognera socchiudeva al volgere dell’ora mellifluo il sorriso ammiccante nel gelido spirar di tramontana la vita era mercede in contante per saldar il conto alla puttana non era la mia ora, morì il nero l’ulcera tacque come d’incanto l’attesa accecò il suo pensiero la falce abbandonò lì accanto (usai ottima cera il sole non fu avverso sparì nella bestemmia la zimarra nera / di lei rimase il ghigno nell’aere disperso le ali regalarono una nuova primavera) …e fu un grande volo!

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Non svegliarmi del dolore che conosco parliamone domani oggi tienimi così, tra i seni come piccola cosa fasciata dall’amore come ninnolo dalla musica dolce sul petto del dolore che proverò parliamone adesso che hai occhi per vedere le lacrime che verranno come artigli rapaci ruberanno la via del cuore il dolore che non conosco mi attende all’angolo ma la vita ha perso tempo e non sono mai puntuale allora non parliamone oggi tienimi così, tra i seni non svegliarmi

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Sabbia e neve non ho memoria d’inverni sabbiosi ma la neve negli occhi graffia e lacrima come sangue bruciato nell’oblio dei tuoi/miei ricordi [a testa in giù nella rena, struzzi affogati nella neve] e testardo è il dolore nascosto accanto l’anima e il cuore attende estati nevose per sciogliersi tra lenzuola calde di luna piena tra sabbia e neve

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*Snake charmer (avanti, c’è posto) Una madre a Roma rinnega il bimbo appena nato affetto da una forma di possibile nanismo, rifiutandosi persino di vederlo. Credo che l’umanità intera abbia toccato il fondo, togliendo il tappo ad un verminaio senza fine. Non è il primo caso né sarà l’ultimo, ma stanotte non ho resistito. [fa strame di umanità, postriboli di coscienze, indifferenza e avidità scivolano come pioggia acida che non scalfisce la corazza dell’egoismo] -ouverture- neri pulcini rinnegati sparsi cocci uova reiette madri aliene da ricordi ventri ingordi in attesa di altro seme …e poi veleno… crotali immondi avviluppati alle note del bausari echi di morte seni inutili

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intonano Calcutta forever …e poi veleno… tragico carrozzone di guitti continua la vita traballa conscio dell’orrido comunque curva …cade ma incanta… *incantatore di serpenti

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Spine della memoria, per non dimenticare appese al recinto di filo spinato brandelli di carne come ombre dimenticate da Dio reclamano un perché nel campo carri bestiame vomitano nella polvere nuove vittime sacrificali da incenerire sull’ara dell’odio salgono al cielo disperdendosi nell’acre odore di fumo urla e simulacri di parole come bestemmie di dolore canti di bimbi che perforano le coscienze dei giusti e sguardi spenti di vecchi che recitano rassegnazione da stracci e mucchietti d’ossa rannicchiati tra la polvere s’alzano nenie alienanti di madri dai seni rinsecchiti mentre allattano straziate un fiore nato già morto con lacrime di un sangue odiato come la corona di Cristo Shoah, una spina nella coscienza degli uomini

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Tarsia [la mia vita è come una panchina in attesa di un’anima zingara eternamente indecisa pochi versi hanno dato raramente conforto a un legno errabondo in cerca di un porto] sole d’onice

gioiello che riflette intarsi d’oro fino nel blu della laguna

ruvida pomice cuore che non smette ma gioca a nascondino barando con la luna

potremmo allora

riposar lo sguardo che muore all’orizzonte tra mille e più parole

cielo non scolora nicchia, ma è in ritardo e l’anima dal monte non scende come suole

sposto cautamente

di un passo la panchina è ormai quasi trastullo sfogliar la margherita

sole finalmente infiamma la mattina

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sul legno torno fanciullo da sempre è la mia vita

[nomade d’amore vago col mio fardello spesso a testa insù nei sogni ho volato rubando la poesia ne ho fatto un gioiello il suo antico legno di sole ho intarsiato]

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Tra bistro e ciglia quattro braccia ad abbracciare la mia/tua paura non erano forti i verdi rami d’intrecciate mani e nodose nocche sulla schiena a premere il fiato [l’azzurro tra bistro e ciglia] inesperti semi dispersi sul bistro color del ventre nel batter di ciglia negarono radici al solco assetato [la paura inaridì l’azzurro]

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A perdifiato, nel sogno [stanotte il tuo respiro è rimbombo aritmico del cuore sibilo acuto, un frinire di sguaiate cicale nel cervello] corri, le gambe sono involucri di gesso e il fiato che cola nel polmoni come piombo fuso incenerisce i pochi scampoli anarchici d’anima desiderosi di azzurri respiri che il vento Caino strozza in gola nudo, mentre cristalli di neve come aghi roventi trafiggono i tuoi occhi accanto a te scorrono veloci le immagini accelerate di un film che ironici e arroganti lazzi stanno interpretando in tua vece assisti, nonostante le vergogne malcelate e consapevole della tua nudità, come pubblico non pagante agli inutili sforzi dei tuoi piedi che immobili, inchiodati al passato sotto di te corrono, corrono… a perdifiato, nel sogno

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Ad occhi nudi anche stanotte il sonno ha inscenato la sua acida danza lacerando veli, baloccandosi con la mia spossatezza e lasciandomi vestito di nudi occhi ad accarezzare i miei sogni dormienti a me accanto, mentre aliene figure danzano sul vetro in frammenti colorati che ratti svaniscono in un vortice di mille flash e feriscono i miei occhi così i pensieri che ora inseguono il ritmo di un cuore amante del sonno bastardo e gli occhi rincorrono parole inespresse che veloci s’insinuano in logiche nicchie tutto è più chiaro, anche la falsa luna sorride laggiù nella teca del lampione saluto i sogni che rotolano nella calle, raccolgo i veli persi dal sonno dimentico abbraccio la notte in uno sterile amplesso …e dormo, ad occhi nudi…

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All’ Università della terza età Ti scrivo perché ormai so dire solo nome cognome e codice fiscale, le parole sono frecce avvelenate e le intendono solamente i sordi. Avevo un bouquet di rose per te è sfiorito senza parlare. Mi avevano detto: ditelo con i fiori. Ieri finalmente ho parlato, ho detto sì. Hanno chiamato l’autombulanza era svenuta la commessa del negozio non aveva retto all’emozione. Ho chiesto a cenni un posto dove sedere non ho profferto parola, visti gli esiti. Mi hanno detto che qui non c’è il pack dove lasciare a svernare i vecchi loquaci. Mi avevano detto: ditelo con le mani. Prima o poi lo farò.

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Bianco Arcobaleno ti pare nulla… un colore assoluto,

una finestra sull’anima

dove intingere i colori, immagina -colori- un diario aperto… per pensieri colorati,

spazio infinito senza cornice

iridi spoglie da vestire, in libertà -e mani sapienti-

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“Buongiorno, come stai?” “Buongiorno, cara, come stai?” “Eh, la schiena…”-lamenti- Il lampo che attraversa i tuoi occhi vorrebbe declamare sofferenza, ma il sopracciglio inarcato rivela l’ironia delle tue parole nella recita, così il dolore si sgretola nel caffè. “Anch’io, sai…” –sussurro- Un attimo, due sorrisi, e il singhiozzo improvviso di una risata malcelata si trasforma in goccioline di caffè a macchiare il pigiama da carcerato. Mentre ti bacio. Così scrivo l’amore che vivo.

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Calce bianca e zinco tempera è grezza materia,

aliene visioni polveri e gesso

e mani artigiane è bianco su bianco,

inno alla follia oltre la ragione

nelle forme coatte è assoluta disciplina,

la geometria dispensatrice

nei brividi sottesi è incontro d’anime

di virginali palpitazioni

nel chiarore lunare © Franco Pucci 2012

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Ciondola le gambe, la luna puttana Ciondola la luna le gambe diafane sul colmo di una vasca di pece greca. Quaranta le gasse d’amante sulla fune calata di soppiatto per tornare a casa fuggo straziando di pelle il canapo lascerò sul cuscino tracce d’amore.

i sogni sanno essere cattivi nelle notti orbe di stelle

Dondola ironico il lume sul banco è pane azzimo il conforto dell’anima. Perso a rincorrere improbabili gemme, affamato d’amore nel vuoto pneumatico di un’apnea notturna, annaspo al colmo nella vasca lorda di nero mentre ti cerco. Ciondola le gambe, la luna puttana.

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Di grembiuli bianchi, aghi e occhi azzurri non ricordo il nome di quel grembiule bianco, sorridente non ricordo nemmeno se mai l’ho visto, davvero -arcani veli confusi alla vista- quei vetri su croci d’acciaio insulti di giallo veleno, tra gli aghi nell’azzurro meravigli gli occhi ricordando il nome, Anna* -forse- * 2005 - Day Hospital Clinica Ematologica di Padova

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…e sono ancora qui …e poi nella notte della ragione ho accarezzato sogni bastardi cavaliere in arme ho combattuto mulini a vento con parole inermi [cento secondi di furiose erinni hanno travolto anni di senno] negli angoli sperduti dell’anima ho raccattato i loro miseri resti crisalidi abortite, riarse nell’ira hanno perduto l’antica sicumera quanto sapeva di gesso quell’odio bevuto alla fonte della vendetta Don Chisciotte dai versi pugnaci ora disarcionato dal verbo letale …e sono ancora qui Pierrot sospeso in una bolla precaria d’onirico fiato

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Figlio di puttana sai cara potrebbe essere veleno quel verde lucore

[la goccia corrode]

voglia d’assenzio che sorride sulle tue labbra

[è onirico amore]

è falso orgasmo quel vibrare di verde cicuta

[che mente ai seni]

ma il tuo respiro danza ancora il ritmo del sogno… …figlio di puttana!

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Ho ritrovato il mio palcoscenico [siamo entrati a spettacolo iniziato buio in sala, sul teatrino allestito Pulcinella schioccava le mani di legno ritmando in falsetto “Core Ingrato” due mascherine là, in prima fila, applaudivano la buffa scenetta] Oggi i miei nipotini mi hanno portato a vedere lo spettacolo dei burattini. Seduto quattro file più indietro, il mento appoggiato alle mani, nel buio della sala ho inumidito il velluto della poltroncina. Dio quanto tempo! E quanto mi sono mancati questi autentici interpreti della vita! Nel loro raccontare il mondo mi sono ritrovato, mi sono rivisto. Io, burattino dagli arti di legno con il cuore ridipinto di rosso, animato da un burattinaio monco ho interpretato tragedia e farsa su un palcoscenico sbagliato. Non ho divertito tutti, ma ho fatto del mio meglio.

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I colori di San Valentino Per San Valentino ti vorrei vestita di rosso un paio di scarpe lustre, leggere, ballerine come negli anni sessanta, la gonna a plissé e tra i capelli un cerchietto d’oro vanitoso. Fasciato come allora nei jeans blu indigo, agile ballerino dai neri capelli impomatati catturavo la luce della luna che ti donava riflessi multicolori nei giochi delle ciglia. Allacciati nello slow a misura di piastrella riempivamo gli occhi del colore della notte sulla terrazza il mare dipingeva coi pastelli il rosso delle guance che stingeva il vestito. [Ora nel baule dei ricordi la gonna a plissé e i jeans indigo stingono lentamente i colori, ma tra scarpe lustre, leggere e brillantina questa sera ho ritrovato l’antica tavolozza.]

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I conti alla fine tornano sempre Vorrei non saper far di conto per non misurare i passi mancanti. Quattro gambe su e giù ogni giorno e una croce a matita sul calendario. [basta un giorno di anno bisestile per mandare i piedi in confusione] Avrei fatto volentieri a meno delle dita, per non vederle smarrite nel rincorrere cifre improbabili dimentiche degli anni nelle nocche. Ho deciso porterò gli zoccoli, le orecchie conteranno i rintocchi. Sarà il tempo a tirare le somme.

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Lo zoccolo di legno col cinturino di cuoio rosso I balconi con le ringhiere di ferro ormai corroso si affacciavano sul cortile come protesi dentarie neglette dai dentisti, ma convenzionate all’Inam. L’immancabile gatto, signore delle cantine, orbo da un occhio, e dal mantello virgineo che tradiva scelleratezza, dominava le afose notti d’Agosto. [la notte suonò un solo tocco quando il lamento mutò in richiamo di felinei ormoni entusiastici, fu strazio lacerante e il sonno fuggì atterrito] La fuga e l’inseguimento risuonarono nella corte, fra moccoli e miagolii lo zoccolo si levò nell’aere planando fragoroso su damigiane di rubizzo vino. Non venne mai recuperato tra le vitree schegge, il battere ritmico del piede orbo di legno gemello fu compagno ai tocchi che ricondussero al sonno. Da allora il vino rosso mi dà acidità di stomaco…

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Mandorle amare È come se lo avessi sempre saputo -quel sapore rancido di mandorle amare retro gusto d’afrore di violenza bestiale- ritorna puntuale a bruciarmi la gola nei racconti di vita raccolti per le strade laddove il mandorlo vorrebbe essere fiore. È come se d’improvviso la notte celasse con pesanti coltri di Damasco gli orrori e tu, Perla d’Oriente ormai senza lucore stuprata, inaridita, dal ventre come pietra negherai il fiore di una nuova primavera. È amara impotenza che avvelena la vita.

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Nelle mani (in punta di dita) racconto a puntate frasi sbeccate sull’orlo, le labbra

le anche distanti, solo a momenti

e intese acquietate rincorrono capoversi, ansiose -in punta di dita, le pieghe- squaderno le pagine di questo amore rilegato, col refe

ora sigillano dorsi intarsiati

leggo la luna calante negli occhi giunta la fine, chiudo -nelle mani, gocce d’amore-

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Nelle mani (in punta di lingua) nel sottobosco, poi

lamponi, mirtilli dolcezze rapite

tra labbra incatenate e batuffoli di cielo

occhieggiano tra il verde

riflessi d’azzurro, noi - in punta di lingua la tavolozza- elfi giganti di passo lieve

tracciano scie sulla magica tela

a ruzzoloni nella controra -nelle mani coppe di fragola-

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Nelle mani (in punta di matita) pantaloni alla coscia calzini bianchi della prima comunione una lametta da barba e la matita tra le dita -gli occhi di mio padre- nelle mani in punta il dardo di grafite fierezza artigiana dei quaderni tra aste e fantasmi di lettere la mia vita il legno appuntito d’anima nera la lametta incartata nella stagnola e l’orgoglio nel taschino -negli occhi mio padre-

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Nelle mani (in punta di piedi) dietro il rovo le more

là sul greto riflesso lunare

a mezzogiorno, sul seno -in punta di piedi, le ciglia- quadretti scozzesi

rosso e blu cotone appeso

sui sassi ad asciugare, il giorno -nelle mani, il sorriso-

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Nero Notturno Bolero il cielo stanotte è un colabrodo di plastica nera insù rovesciato e mille fiammelle pretenziose facendo capolino dai forellini reclamano vanitosa attenzione esibendosi in una danza antica

[in quell’azzardato bolero ogni passo era al limite di un’incosciente slalom tra i buchi della plastica che, nera cappa, illudeva mentendosi falso gioiello]

ho ululato fuori tempo alla luna il mio sonno e scorticata la pelle sulle spine di un sogno bastardo sono crollato spegnendo i lumini tra le piume di un cuscino ribelle sgorbi di nero caffè sullo spartito

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Oggi ha nevicato…(ancora mi mancate)

Oggi ha nevicato. Poco. Il molo ha un aspetto cadaverico, algida rappresentazione di una pièce d’inverno inoltrato, atteso e incattivito. La laguna, come lastra di vetro incrinato, spezzetta i riflessi e i rari gabbiani in volo paiono frammenti di farfalle dislessiche in cerca di materno riparo, di un rifugio. Nel grigio che incombe e tutto soffoca con la sua indole indifferente e apatica, ogni rumore pare ovattato, lontano. Oggi ha nevicato. Poco. Le strade deserte rimandano echi e suoni secchi, come di vecchie canne spezzate da raffiche di bora inclemente. Anche i pensieri paiono grigi mentre prendono forma pigramente dentro di me. Poi esplodono. A fatica trattengo un gemito. E’ strano come, quando si pensa a chi ha terminato il suo viaggio, lo si immagini sempre solo lì, in una stazione, in attesa dell’arrivo di tutti o di nessuno, chissà. Oggi ha nevicato. Tanto. In quella stazione disadorna, al termine di quell’unico binario imbiancato vi ho visti, fianco a fianco, insieme come una volta, senza bagagli, liberi dalle inutili some della vita. Stretti stretti, col calore dei sorrisi negli occhi scaldavate serenamente l’attesa di un treno, in quella stazione senza tempo né orario.

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Quel treno non è ancora partito e il freddo che gela le ossa non è bora che frusta la laguna, bensì desiderio mai sopito del vostro calore . Oggi ha nevicato. Troppo.

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Onirico bianco del bianco parlai a tre sepolcri imbiancati rinchiusi tra mura di sorrisi compiacenti del bianco portai perché ogni mattone rivelasse l’ipocrisia della loro connivenza di bianco tinsero le mura di Gerico due farisei orbi entrambi d’anima mentirono il colore pel bianco d’orbite l’ultimo cieco non sentì mura prive di vita divennero sepolcri eterni

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Sarà tristezza? È un velo, una trina aerea. Cesello d’Aracne traspare negli occhi e trattiene la rugiada dell’anima. Pensieri si accavallano, si rincorrono. Il cassetto inghiotte i pochi attrezzi del mestiere di vivere rimastimi. [un sorriso esagerato dipinto nel rosso di labbra esangui, una risata chioccia e improbabile rubata allo specchio stamani, e un’anima da pagliaccio inquieto alla ricerca di arcobaleni materni] Tutto sparito, fagocitato dal canterano. Una stilla di rugiada dondola indecisa se aprirsi a cateratta o rinsecchire tra le ciglia nel rimpianto futuro. L’eco argentina che risuona dappresso strappa la tela e la tristezza svanisce. Sarà tristezza…?

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Senza titolo “Ciao.” -Ciao.- “Posso sedermi accanto a te allora…?” -Se proprio vuoi..- “Vedi, ho preparato anche la valigia…” -Ah, sì…?- “Sì, ci ho messo dentro di tutto, guarda qui: dodici tappi di bottigliette colorati… pensa c’è anche quello del Chinotto..rarissimo…” -Chinotto? Cos’è…?- “È una bibita dolce, lo sai? Beh, comunque ho anche un sacchetto di biglie di vetro colorate bellissime, il biglione ne vale 20… vuoi fare uno scambio?” -Uno scambio? E con cosa…?- “Io ti do il biglione e t u mi dai il tuo naso da pagliaccio…vuoi?” -Non se ne parla nemmeno!- “Beh ho messo dentro anche dei fumetti del Piccolo John, di Tex Willer,…ti piacciono i fumetti…?” -Sì, ma non quella roba lì…- “Pensa ho anche una fionda, ne ho prese di lucertole…ero un po’ malandrino da piccolo…” -Malandrino?...Che vuol dire..?- “Ehm…birbantello, indisciplinato…” -Ah…?!- “Allora non vuoi fare scambio, non ti piace niente di quello che ho?” -No…cos’è quel pezzo di carta lì in fondo? Sembra la lista della spesa..- “No, è una poesia…” -Poesia? E che roba è?...Mica vorrai scambiarla col mio naso da pagliaccio…- “No, a dire la verità è rimasta lì dentro dall’ultimo viaggio che ho fatto…”

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-Va beh, non hai altro? Che fai qui allora?- “Non ti sono simpatico, vero?” -No, sei vecchio e i vecchi quando vogliono far ridere fanno piangere.- “Ho capito…È già passato il treno?” -No, e non passerà mai di qui!- “E perché?” -Perché è un binario morto…- “E allora tu che ci fai qui? I binari morti sono per i vecchi…” -Appunto, ciaoooo….!-

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Ti direi… ti direi… guardandoti, sorridi… poi mi sono accorto che già lo avevi negli occhi e allora mi sono perso inseguendo il tuo sguardo [sì, forse i pagliacci hanno il cuore dipinto e negli occhi il sorriso ma l’anima quella no, quella non tradisce, lassù imbroncia il cielo e gonfia le nuvole] ti direi… c’è l’azzurro nascosto tra quelle ciglia abbassate, sai, la tristezza non esiste, è invenzione di uomini che non sanno più giocare Ti direi…fammi posto… *dedicata a mia nipotina Agata

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Tic Tac Volevo fare l’orologiaio, da piccolo. Riempivo fogli a quadretti di minuziosi particolari. Aurei ingranaggi filigranati, bilancieri dispensatori d’imparziali briciole di tempo, ancorette guardiane. -tic tac- Il tempo annichilì velocemente tra bilancieri, ruote dentate, bariletti e rubini, piccole gocce di sangue incastonate che scandiscono la vita. La pazienza rimane, avvitata a piccole mani. Inconsueta dote di bimbo che calza la fretta di vivere e rincorre lancette dispettose andando controcorrente.

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-tic tac- S’è fatto tardi, c’è vento. Ho perso i fogli a quadretti e i rubini hanno macchiato briciole di tempo venduto. Incastrato tra le ruote della vita il bilanciere pulsa asincrono. Volevo fare l’orologiaio, da piccolo. Pazienza.

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Tienimi così, stretto tienimi così, stretto tra il respiro dell’anima e le labbra lascia che io ascolti ancora quella parola che ogni volta si rinnova in un patto inviolabile tienimi così, stretto tra il sorriso delle mani e le braccia come nella morsa di un’abile artigiano che crea da materia grezza un cesello sopraffino tienimi così, stretto tra il vermiglio del cuore e i seni lascia che io attraversi la valle del desiderio e scenda a placarne l’arsura alla fonte della vita tienimi così, stretto tra le parentesi di questo racconto lascia che chiuda alle mie spalle un mondo che ha lacerato gli spazi aumentando le distanze tienimi così

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Un vespaio di sogni coatti ho un grappolo di sogni incrostato nell’anima

anni insonni d’attese deluse

celle bugiarde che legano ore d’amore inespresso

infidi vespai privi di mieli

desideri abortiti nel sonno, sospiri piagati dal tempo

appesi al forse del domani

come in una pira l’amore brucerà il grumo inaridito

senza il veleno di notti mendaci

e i sogni finalmente liberi da arcigne vespe guardiane ..torneranno a volare…

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…e andavo come una Locomotiva* “Non so che viso avesse, neppure come si chiamava, Con che voce parlasse, con quale voce poi cantava…” Sul tavolo, dalla tovaglia di plastica antica a quadri rossi e bianchi, un cartoccio di fave pecorino e salame ad accompagnar il vino. La chitarra sulla panca attendeva voci roche dal troppo bere rosso di madre sconosciuta. Negli occhi acquosi e persi del compagno, seduto davanti a me, là nella cooperativa, il racconto aveva il sibilo del mantice stanco per tutte le speranze accese e andate in fumo e il canto strideva come acciaio sulle rotaie. “Ma nella fantasia ho l'immagine sua: Gli eroi son tutti giovani e belli…” Due tocchi del campanile della chiesa accanto erano il mio metronomo che scandiva il tempo ancora due accordi, un goccio di rosso veleno e il commiato fu un bofonchiar “ciao compagno” Ma l’Alfa era dura a morire quella sera e l’invito non giunse inaspettato per l’ultimo grappino. Non so come arrivai ai piedi del nostro letto e, mentre la luce della luna filtrando tra gli scuri disegnava sul tuo corpo un desiderio mai sopito, abbandonai chitarra e sonno e il canto fu perfetto. “Ma intanto corre, corre, corre la locomotiva E sibila il vapore e sembra quasi cosa viva…” *(grazie Guccini, ora come allora)

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19 Marzo (a mio padre) -sono sempre in ritardo, lo so- Mi avresti svegliato alle quattro del mattino “le canne sono pronte, andiamo è già tardi” Dopo la prima sigaretta, amara più del caffè, di corsa sull’autobus gli occhi pieni di sonno. In quel piccolo bar di Pavia sempre aperto l’ultimo caffè “corretto perché fuori è freddo” Trascinando gli stivali oltre il Ponte Nuovo il verderame dello stagno ci avrebbe salutato. Oggi il ricordo punge, è un amo conficcato e l’acqua che mi circonda non lava il dolore. Le canne sono pronte, aspettami.

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Ciao Lucio, raccontami ho tante parole, ma la lingua attonita rifiuta potrei scriverle, ma le dita ammanettate negano piange il mare così piccolo per accoglierti, incredulo ma tu sai quant’è profondo, raccontami ciao Lucio *dedicata a Lucio Dalla

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Fiammiferi e frammenti [accantono ricordi per il viaggio] Nel veliero di fiammiferi che ho costruito per te, accanto ai barili stipati di neve e ragnatele di rime, stiverò quei frammenti d’inutili e mute malinconie. -schegge di sogni infranti- Ne farò tessere di mosaico, splendida tarsia di ricordi incorniciata di piccoli legni che accenderanno il cuore. [salperemo prima che il sole se ne avveda]

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Hypnosis [pillole di paura ipnosi di sonno che sopravviene]

metà… soldatino di piombo alla guerra senza gambe

metà… guerriero di terracotta e l’anima in fil di ferro

dormo? raccolgo cocci di me sparsi sul cuscino -là-

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Il compagno di viaggio La cartella piena di sogni sorrisi, giochi e ghiribizzi rubati a notti di fantastiche lune pittati, raccolti e confezionati con la cura di un abile artigiano, dondola al ritmo del pendolino e sobbalza al fischio improvviso. aveva la mia età o forse barava tra le rughe due spilli bucavano l’anima e il sorriso che si apriva intermittente con le luci della galleria non bastava a celare l’ironia dello sguardo Avrei venduto volentieri i miei sogni allo sconosciuto compagno di viaggio, ma alla fine del tunnel trovai solo un biglietto di ritorno e uno specchio. Ho riempito di nuovo la cartella.

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Nell’immediatezza che coglie Non fu subitaneo sentore di parole come primizie, ma reiterati tentativi di un cielo affatto diverso. Non fu l’immediato calore che sorprende gli occhi, le vene e il cuore. Furono versi appena colsi l’inizio della parola fine. Immediatamente.

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Ottomarzo tra le voci

Scrivere oggi di mimose e auguri -poche rime in cerca di consensi- è ipocrita ricerca di benevolenza per celare nel sorriso la vergogna. Scrivere di fiori, simboli irranciditi non serve a medicare le sofferenze se non t’accorgi che metà del cielo lacrima sangue e non son tramonti. -Basta!- Le voci siano allora questa parola urlata contro il muro dell’ignavia di chi è indifferente alla violenza, nell’ultima spiaggia della ragione. Ottomarzo, la mia voce. Anche.

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Per me Per me che ho atteso la vita all’angolo di vie sconosciute sigaretta spenta e calzoni cuciti a pelle senza tasche. Che ho azzannato la strada con i denti dell’incoscienza bevendo il fumo pungente della speranza che moriva. Che ho cantato lune asprigne nelle notti orfane d’amore mentre aspettavi sognando mari promessi oltre la nebbia. Per me sono questi versi scritti su un diario mai aperto. Li affido a te.

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Quattro mani di bianco gesso, spago e cotone nuvole di luce d’acrilico biaccate candide lenzuola tese come vele spiegate dai riflessi boreali per rinnovare l’azzurro dei vecchi cieli bastano quattro mani -di bianco-

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Senza Potrei tentare di misurare il vuoto in cui sprofonda il mio respiro o provare a contare le farfalle che frusciano nello stomaco o ancora lasciare che l’apatia rincalzi le mie coperte alla sera, mentre la mano orfana cerca inutilmente l’appiglio consueto. Potrei? Il solo pensiero blocca il respiro, annebbia la vista e ottunde la ragione. È un esercizio crudele, masochistico. Perché immaginare un simile calvario vorrebbe dire esistere, non vivere. E non ha senso vivere nel vuoto di te. Potrei senza di te?

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Sotto la parola, niente Oggi nevicano inquietudini se alzo lo sguardo al cielo, lassù un punto e virgola, una parentesi fugge via. L’incipit di una poesia d’amore che non ho mai scritto, migra in un’apatia sospesa tra nembi minacciosi. La parola che decide il cammino è la morale della favola, è la sintesi di giorni di volo, di ali spezzate al tramonto. Senza orpelli, nuda alla fine recita la poesia senza voce.

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Specchi deformanti nei riflessi delle vetrine gli occhi s’interrogano

sagome lontane d’ironico disappunto

tra schegge di luce bestemmiano commenti il rosario sgrana i ricordi -tacche sulle costole dell’anima-

cucite con refe di seta bugiarda

urlano ferite mai sanate nel gioco di specchi del tempo

siamo noi?

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Su e giù per le scale Vieni, appoggiati al mio braccio i gradini sono trappole sui nostri saliscendi, il tempo nasconde tra le pieghe il veleno dei sogni, il fiato è rimasto appeso a ieri.

[non mordi più i suoi fianchi lupo affamato, l’amore ormai è un flashback rubato agli anni]

Vieni, appoggiati al mio sorriso.

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Tracce di cinica albagia -mondo- ammantato da falso

velario di realismo

fagociti ogni verità l’acido delle parole

rode l’amore come ossa

reiette da sciacalli

[invano parlano gl’occhi di fame, ma vomita parole la cinica albagia]

cogli con una smorfia

nel disgusto pesti la vita

come merda di cane -tracce rimangono-

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Tsunami di cicale [una marea di cicale nella testa -il loro canto ottunde la mente- come tsunami travolge i giorni] Quale sole è sorto improvviso quale estate riarsa ha liberato nella testa il sibilo incessante di milioni d’insetti canterini? Ho dipinto oceani sulle pareti da giorni il frinire delle cicale è l’urlo che dimora nello spazio di un palmo tra follia e ragione. Nell’angoscia di notti stralunate il fruscio delle onde pare essere sola alternativa a chimiche oasi e il respiro è sincronia del mare.

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Unbreakable Non temere. Ho polsi fragili e mani piccole dita aduse a voli immaginari nell’aria, come frullo d’ali di falene al volger dell’occaso. Non si spezzeranno gli anelli della catena nonostante la ruggine degli anni piovosi, le aritmie di un cuore spaurito. È incatenato all’anima questo amore, è indistruttibile.

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Vademecum del buon cinico

1) salite su un balcone di nuvole e da posizione privilegiata guardate con distacco il formicaio impazzito che si agita senza costrutto apparente

2) carta e penna o un megafono un buon dizionario di velenose parole più una dose massiccia di arroganza e disprezzo malcelato dell’ umanità Non vi manca nulla, verrete osannati come indiscussi vati del realismo 2.0, sarete i guru del nuovo umanesimo incensati e amati dal Grande Fratello.

68

Verso sera Verso sera, quando la voce si vela della ragnatela degli anni e il tono si fa sussurro e il respiro emozione, vorrei leggerti una poesia. Verso sera, quando le ragnatele paiono ceselli dorati e i riflessi illudono le voci del mondo, in attesa dell’urlo della notte sorridono mantidi beghine. Verso sera il sussurro è per te.

69

Zo de cale Non è uno zefiro gentile quello che preme le spalle stasera e affretta i passi sotto i portici. Racconta l’antica storia del mare sui volti terracotta dei pescatori, sibila tra nasse stese ad asciugare. [non mettermi fretta, ho capito torno a casa, ecco, giro l’angolo] No, non è uno zefiro gentile. Mentre la calle muore nel canale folate irose bucano come spine. Il vento ha accartocciato la notte dai lembi briciole di stelle fuggono e il cielo pare avere il morbillo. [gocce di luce giocano a gibigiana sulla carta argentata della laguna] Zo de cale, il vento è magia. *(giù per la calle)

70

Blue jeans, rock’n’ roll e strelitzie [quelle strelitzie come un cancello parevano uccelli in procinto di volo, l’armonia dei colori era un insulto a un cielo insensibile alla bellezza] Guardiani di un cielo sprangato fiori del paradiso, onirici piumati, mi condussero là, dove l’amore di un giovane smaniava arrivare. Appassirono i fiori, morì la poesia forse fu solo incanto, confusione, perso nella bellezza delle strelitzie lasciai i jeans appesi al cancello. Poi fu rock’n’roll tutta la vita…

71

Respiri inarcati Scivola la mano, procede sicura ricorda i percorsi, rispetta le soste, se ora paziente indugia tra i seni, frenetica supera le curve dei fianchi. Conosco le regole di questo gioco che inganno ogni volta con il sorriso mentre negli occhi leggo l’assenso le reni inarcate accolgono l’approdo. Prendere il largo è respiro del mare, di nuovo la luna farà il suo dovere e l’alta marea comanderà le danze. …ma il desiderio rimane ancora ingabbiato tra respiri inarcati mentre pareti spoglie di cornici attendono nuovi giochi d’ombra…

72

Chioggia, esagerata femmina

ostenti la tua bellezza come una poesia sfacciata

aspra

pungi col salmastro delle reti stese sui bragozzi in sonno

impudica

ammicchi tra i gabbiani rubando il verde alla laguna

forte

sfidi il mare nell’attesa senza lacrimar i tuoi uomini

schietta

dichiari il tuo amore per la vita senza mezze misure

…donna!