GINZBURG, Carlo. Folklore, Magia, Religione

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7/25/2019 GINZBURG, Carlo. Folklore, Magia, Religione http://slidepdf.com/reader/full/ginzburg-carlo-folklore-magia-religione 1/77 carlo ginzburg Folklore, magia, religione Sommario 1. L’Italia da evangelizzare 3 2. Costruzione gerarchica e sopravvivenze magiche 7 3. Laicato, riforma, eresie 10 4. Gli ordini mendicanti 14 5. Nuove devozioni e letteratura religiosa 19 6. «Reformare deformata» 29 7. La crisi del primo Cinquecento 36 8. Gruppi riformatori e ripresa di antiche superstizioni 43 9. La Controriforma 50 10. Il nuovo ruolo delle campagne 60 11. Chiesa e società nello Stato unitario 66 12. Mondo cattolico e vita politica nell’Italia del dopoguerra 70 Storia d’Italia Einaudi

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carlo ginzburg

Folklore, magia, religione

Sommario

1. L’Italia da evangelizzare 32. Costruzione gerarchica e sopravvivenze magiche 73. Laicato, riforma, eresie 104. Gli ordini mendicanti 145. Nuove devozioni e letteratura religiosa 196. «Reformare deformata» 297. La crisi del primo Cinquecento 368. Gruppi riformatori e ripresa di antiche superstizioni 439. La Controriforma 5010. Il nuovo ruolo delle campagne 6011. Chiesa e società nello Stato unitario 6612. Mondo cattolico e vita politica nell’Italia del dopoguerra 70

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2 C. Ginzburg - Folklore, magia, religione

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Da: Storia d’Italia, vol. 1, I caratteri originali, Giulio Einaudi Editore, Torino 1972.

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1 Cfr. c. nispi-landi, Storia dell’antichissima città di Sutri, Roma 1887, pp. 563-65; m. j. ver-maseren, Corpus Inscriptionum et Monumentorum religionis Mithraicae, I, Hagae Comitis 1956, pp.241-42.

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Prima di entrare in quella che è oggi la cittadina di Sutri, a un cen-tinaio di metri dalla via Cassia, c’è una grotta scavata nel sasso, coper-ta dagli alberi. In essa è stato riconosciuto un mitreo del secolo III d. C.,poi adattato a chiesa cristiana. Le pareti di questa specie di tana buia

sono coperte da affreschi molto corrosi, che vanno dal secolo vi al xviall’incirca. Non lontano c’è un sepolcreto etrusco1. Le memorie delladonazione di Sutri e delle lontane origini del potere temporale dei papiaffondano in un paesaggio che conserva le tracce di culti antichissimi.È un esempio tra i tanti, scelto a caso. Questo senso quasi palpabile del-la continuità della vita religiosa – una continuità vischiosa, vegetale, chesembra riassorbire in sé le fratture e le lacerazioni che pure ci furono –fa parte dell’esperienza di chiunque si accosti alla storia italiana. Comeil paesaggio della penisola, nelle forme dei campi, talvolta nel tracciatodei solchi, nella maggiore o minor frequenza delle boscaglie serba le trac-

ce del lavoro duro, ostinato di generazioni: cosí nei gesti delle preghie-re, nelle credenze, nei luoghi di culto, si possono scorgere in controlu-ce altri gesti, altri scongiuri, altri riti, molto piú antichi.

1. L’Italia da evangelizzare.

Anche per la storia religiosa l’invasione longobarda costituisce permolti versi una cesura. La grande figura di Gregorio Magno, cosí lega-ta, per ambiente familiare e per formazione, alla tradizione romana, einsieme cosí aperta verso il futuro, appare quasi emblematica. Il suo con-tributo all’esegesi biblica, alla liturgia, all’agiografia ebbe certo un’im-portanza incalcolabile. Ma per valutare il coraggio di queste scelte bi-

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2 Cfr. anche s. boesch gajano, Missione, cristianizzazione, conversione. In margine a un recenteconvegno, in «Rivista di storia della Chiesa in Italia», xxi, 1967, p. 152.

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sogna volgersi al suo epistolario. I rapporti con i feroci longobardi; laconvivenza con gli ebrei; l’importanza delle immagini per il culto; la ve-nerazione delle reliquie; le «sopravvivenze» idolatriche nelle campagne:su questi problemi e su molti altri Gregorio interviene con grande equi-librio e inventività. Manca ancora una tradizione cristallizzata, conso-lidata cui fare riferimento. Sereno, vescovo di Marsiglia, ha frantuma-to le immagini poste nella sua chiesa per impedirne l’adorazione: e allasoluzione intermedia propostagli da Gregorio – proibire l’adorazionedelle immagini, ma consentire che attraverso le pitture gli ignoranti ado-rino la storia sacra in esse narrata – reagisce con asprezza (M.G.H., Ep.II, pp. 195, 269 sgg.). Adriano, notario di Palermo ha perseguitato in-cantatori e sortilegi: ma poi è stato colto da un dubbio sulla legittimitàdella sua azione. Gregorio lo rassicura (ibid ., 1171). Ma l’esitazione diAdriano è sintomatica. Che atteggiamento assumere nei confronti di una

tradizione ancora cosí presente e vivace? Presente in forme diversissi-me a tutti i livelli: accanto agli abitanti della Barbagia, che vivono «co-me animali insensati» adorando legni e pietre (ibid., I, p. 262), accantoagli idolatri della Corsica (ibid ., 11, pp. 1-2), c’è Desiderio, vescovo diVienne, che si è dedicato allo studio della cultura profana, e viene du-ramente ripreso da Gregorio per aver mescolato le lodi di Cristo alle lo-di di Giove (ibid ., II, p. 303). La civiltà impersonata da Gregorio si co-stituisce e prende consapevolezza di sé mediante una serie di rifiuti.

Ciò non esclude un sapiente gradualismo nell’opera di conversione.I templi dedicati agli idoli – scrive Gregorio all’abate Mellito – non van-

no distrutti, ma trasformati in chiese cristiane, e provvisti di altari e re-liquie. Gli animali che venivano immolati al diavolo, ora verranno uc-cisi col pensiero volto a Dio: solo apparentemente i sacrifici saranno glistessi. Le menti ostinate non possono abbandonare di colpo l’antico er-rore: solo a piccoli passi, senza salti, riescono a accostarsi alla verità(ibid., II, p. 331)2. La conversione degli idolatri al cristianesimo pote-va essere vista con questa tranquilla fiducia. Ma quando la notizia delculto degli alberi e delle fonti giungeva non dalla Gallia, o dalla Corsi-ca, o dalla selvatica Barbagia, ma da una campagna non lontana da Ro-ma, da Terracina, allora la reazione di Gregorio era dura e angosciata.Che cosa aspettava Agnello, il vescovo, a intervenire, a reprimere, a pla-care Dio con la vendetta, porgendo insieme una correzione esemplare(ibid., II, p. 21)?

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3 Cfr. in generale j. le goff, Culture cléricale et traditions folkloriques dans la civilisation méro-vingienne, in «Annales E.S.C.», xxii, 1967, pp. 780-91.

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Nella profondissima crisi sociale e politica che agitava la penisola, lestrutture ecclesiastiche s’incrinavano. La chiesa di Minturno, ormai de-serta di clero e di fedeli, veniva unita da Gregorio alla chiesa di Formia(ibid ., I, p. 10). A Populonia, la mancanza di sacerdoti impediva di por-tare i soccorsi religiosi ai morenti e di battezzare gli infanti (ibid ., I, p.16). In Sicilia, si doveva ricorrere ai monasteri per sostituire i preti in-degni (ibid ., I, p. 24). Tra le maglie spesso allentate delle diocesi riaf-fioravano antiche credenze contadine, mai ben vinte. Questo mondonon ancora veramente cristianizzato è oscuramente presente nei Dialo- gi di Gregorio3. Un senso elementare, popolaresco del miracoloso affio-ra, per quanto filtrato e esorcizzato, in queste pagine. Una donna, cheaveva avuto rapporti col marito prima di recarsi all’inaugurazione di unoratorio, viene posseduta da un diavolo (l’incompatibilità tra la sessua-lità e il sacro viene presentata come cosa ovvia, anteriore ad ogni con-

siderazione canonica o teologica). I familiari cercano di farla guarire conarti magiche: viene condotta a un fiume, immersa nell’acqua, ma senzarisultato – un diavolo è cacciato, ne sopraggiungono venti. Arriva, inconcorrenza col mago, il vescovo del luogo, Fortunato, e guarisce la don-na (P.L., 201). La potenza dei rappresentanti del sacro cristiano è su-periore a qualsiasi magia. E i protagonisti di questa raccolta di raccontiagiografici son quasi tutti membri del clero: monaci, in grande maggio-ranza – a cominciare da san Benedetto; molti vescovi. Rari i laici: e so-prattutto, gente senza volto e senza nome, gruppi indistinti, come i qua-ranta contadini martirizzati dai longobardi (ibid ., 284).

Questa tendenziale bipartizione della società cristiana, questo pola-rizzarsi del modello di santità nelle figure dei monaci e dei vescovi, co-stituivano il punto d’arrivo provvisorio di un processo lungo e pieno dicontraddizioni. Queste contraddizioni, le vediamo incarnarsi, nei Dia-logi, nella straordinaria figura di Equizio. Era costui un monaco dellaprovincia Valeria (corrispondente press’a poco agli odierni Abruzzi) chegirava per le chiese, i villaggi, le case, gli accampamenti, malvestito, ingroppa a un giumento. Portava sulle spalle, in due sacchetti di pelle, unodi qua uno di là, i libri sacri: e dovunque arrivava, dice Gregorio, apri-va la fontana delle Scritture e irrigava i prati delle menti. Questo com-portamento suscita a Roma un certo scandalo: chi era questo contadino(Iste vir rusticus), che, pur essendo sprovvisto dell’ordine sacro, usurpa-va l’ufficio della predicazione? Viene mandato qualcuno a investigare:

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4 Cfr. c. rivera, Per la storia dei precursori di san Benedetto nella provincia Valeria, in Convegno storico di Montecassino, Roma 1932, pp. 25-49.

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ma quando arriva al monastero di Equizio, Equizio non si trova. Dov’èl’abate? È giú nella valle che taglia il fieno, dicono i monaci, sorpresinel loro lavoro di trascrizione di codici. Ed ecco, compare l’uomo di Dio:veniva avanti con ai piedi scarpe chiodate, in spalla la falce per tagliareil fieno. Agli inviati di Roma spiega di essersi chiesto piú volte egli stes-so se il proprio comportamento era legittimo: finché una notte gli eraapparso un giovane bellissimo, che toccandogli la lingua con un flebo-tomo, l’aveva incitato a uscire dal monastero e a predicare. Da allora,dice, non posso tacere di Dio. Poco dopo, un miracolo mostrerà all’in-viato di Roma che Equizio agisce secondo la volontà divina (Ibid ., 169sgg.).

Di fronte a questo monaco, anzi abate di un monastero, sempre ingiro a predicare, vestito come un contadino, confuso tra i contadini, in-tento ai lavori dei campi, lo stesso Gregorio, che pure gli è apertamen-

te favorevole e non condivide l’iniziale reazione negativa di Roma, la-scia trasparire un certo imbarazzo. È l’imbarazzo di fronte a una testi-monianza di un monachesimo ormai superato dai tempi: quelmonachesimo anteriore a san Benedetto, di cui sappiamo cosí po-co. Equizio era una figura di rilievo: una tradizione, raccolta an-che dal calendario benedettino, afferma che Benedetto era suo pa-rente per parte di madre – quasi a sottolineare la continuità tra ilnuovo monachesimo e l’antico4. Ora, Equizio non solo non aveva gliordini sacri (fatto allora tutt’altro che eccezionale) ma, pur non avendogli ordini, usciva dal monastero a predicare. Queste pagine aprono qua-

si inavvertitamente uno spiraglio su quella che dovette essere l’evange-lizzazione, tutta imperniata sulla predicazione della Scrittura, delle cam-pagne in questo periodo, da parte di monaci come Equizio. Da una par-te vediamo i contadini, e i monaci legati ad essi da un rapporto fatto diduro lavoro in comune e di predicazione: dall’altra, il clero. E il clero,il clero di Roma, reagisce. Perché acconsenta a riconoscere la legittimitàdel comportamento di Equizio, è necessario un miracolo.

Di fronte a questo monachesimo tutto proiettato nelle campagne,l’azione di san Benedetto, distillata e rielaborata nella Regola, apparegià molto diversa. Non c’è traccia nella Regola di preoccupazioni di evan-gelizzazione. Il mondo, il mondo esterno al monastero, e un’entità sol-tanto negativa, da tenere lontana con ogni mezzo. Di qui l’insistenzasull’autosufficienza economica del monastero, che deve disporre di ac-qua, di un mulino, di un orto, in modo da evitare ai monaci uscite che

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5 Cfr. g. penco, Il concetto di monaco e di vita monastica in Occidente nel secolo vi , in «Studiamonastica», 1, 1959, pp. 7-50.

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metterebbero in pericolo il loro equilibrio spirituale (cap. LXVI). Di qui,parallelamente, la chiusura psicologica verso il mondo esterno: i mona-ci tornati da un viaggio (e il viaggio è sentito sempre come un pericolo)non devono assolutamente riferire che cosa hanno visto o sentito, «quiaplurima destructio est» (cap. LXVII). L’altissimo ideale di perfezionedelineato da san Benedetto nella Regola può realizzarsi unicamente nelchiuso della comunità monastica. L’aspra polemica contro i monaci va-gabondi è ben sintomatica. Unica eccezione positiva prevista, quella de-gli eremiti (che tuttavia devono essere passati anch’essi attraverso l’espe-rienza del monastero).

Ma Gregorio va al di là della Regola. Egli riporta i monaci nel mon-do – ma in uno spirito molto diverso da quello che aveva animato Equi-zio. I monaci vengono assimilati ai chierici. Sempre piú spesso viene lo-ro impartita l’ordinazione sacerdotale. Gregorio, già monaco, ricorre,

come abbiamo visto, ai monaci per sostituire preti o vescovi. Soprat-tutto, ai monaci affida il grandioso compito di evangelizzare terre lon-tane come l’Anglia o la Sassonia. Inversamente, nello stesso periodo sitende a esaltare nei chierici qualità tipicamente monastiche come la de-dizione alle veglie notturne e al lavoro manuale5. Alla fine del secolo vi,chierici e monaci, avendo chiarito e specificato sempre meglio le propriefunzioni e i propri attributi, appaiono piú che in passato lontani dallamassa dei fedeli.

2. Costruzione gerarchica e sopravvivenze magiche.L’elaborazione della dottrina degli ordines diede una sanzione ideo-

logica a questo distacco. Di fronte all’ordine dei chierici (ordo predican-tium) e all’ordine dei monaci (ordo continentium) l’ordine dei laici (ordobonorum coniugum) appariva privo di una funzione specifica. Si tratta-va in realtà di un’ideologia di copertura: è solo apparentemente para-dossale che a questa costruzione gerarchica corrispondesse, nella realtà,una sempre piú accentuata subordinazione del clero e dei monaci allerealtà secolari. Proprio mentre i grandi monasteri consolidano la loroimportanza economica e sociale, e diventano elementi essenziali del si-stema curtense, i monaci propongono l’ordo monasticus come modello epunto di riferimento all’intera società. La progressiva feudalizzazionedella Chiesa si riflette perfino nei gesti della pietà dei fedeli. A partire

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8 C. Ginzburg - Folklore, magia, religione

6 Cfr. l. gougaud, Dévotions et pratiques ascétiques du Moyen Age, Maredsous 1925, pp. 1-42.7 Cfr. e. delaruelle, La pietà popolare nel secolo xi , in X Congresso internazionale di scienze

 storiche, Relazioni, vol. III, Firenze 1955, pp. 328-29; cfr. anche h. barrè, La royauté de Marie pendant les neuf premiers siècles, in «Recherches de sciences religieuses», 1939, pp. 129-62, 303-34.

8 Cfr. le goff, Culture cléricale cit.; a. frugoni, Momenti del problema dell’«ordo laicorum»nei secoli x-xii , in «Nova historia», XIII, 1961, pp- 3-22.

9 g. bonomo, Caccia alle streghe, Palermo 1959, p. 19.

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dal secolo IX si afferma il modo di pregare «more francico», cioè con lemani giunte (anziché con le braccia alzate al cielo o aperte in forma dicroce) sul modello del vassallo inginocchiato dinanzi al signore: sintomominimo ma eloquente di questa sempre maggiore compenetrazione direaltà religiose e realtà feudali6. L’insistente raffigurazione della mae-stà di Cristo – un Cristo giudice e severo, lontano e imperscrutabile –esprime la stessa tendenza7.

La costruzione gerarchica degli ordines, con l’implicita subordi-nazione dell’ordo laicorum, testimonia il sostanziale rifiuto da parte delclero della cultura irriflessa delle masse popolari8. È un rifiuto che si ac-compagna a una precisa volontà di cristianizzazione. Certo, la grandio-sa opera di evangelizzazione delle masse contadine compiuta dalla Chie-sa nell’età carolingia non spazzò via lo spesso strato di credenze e cultilegati alle vicissitudini dell’agricoltura e volti alla propiziazione della fer-

tilità. La menzione, ricorrente nei concili di questo periodo, dell’adora-zione «idolatrica» di pietre e fonti, ancora non sradicata, è di per sé elo-quente. E le superstizioni condannate dai penitenziali germanici di que-sto periodo erano diffuse, in forme press’a poco analoghe, anche nellapenisola italiana. La credenza nei poteri magici di Erodiade, biasimatada Raterio vescovo di Verona, era una propaggine delle tradizioni ger-maniche coagulate attorno a una misteriosa divinità femminile dai mol-ti nomi (Perchta, Holda, Diana) legata al mondo dei morti e della ferti-lità9. Ma non bisogna esagerare la gravità della dicotomia esistente trareligione ufficiale e religione «popolare». Da un lato, è evidente che nel-

la coscienza dei fedeli credenze superstiziose e pratiche magiche (amo-rose o di altro tipo) come quelle menzionate dai penitenziali, erano per-fettamente compatibili con le credenze e i riti della religione cristiana.Dall’altro, il clero, pur rifiutando le componenti magiche e superstizio-se della religione popolare, vedeva in esse semplicemente il frutto dellarozzezza delle plebi, quasi un limite inevitabile dell’opera di evangeliz-zazione. Le donnette che credevano alla cavalcata notturna di Diana era-no considerate, con caratteristica indulgenza, vittime di sogni e fanta-

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10 le goff, Culture cléricale cit.11 Cfr. g. arnaldi, Giovanni Immonide e la cultura a Roma al tempo di Giovanni VIII , in «Bul-

lettino dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo», 68, 1956, pp. 33-89 (con bibliografia).12 g. d. mansi, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, XIV, Venetiis 1769, col. 938.13 Cfr. v. lanternari, La politica culturale della Chiesa nelle campagne: la festa di s. Giovanni,

in «Società», xi, 1955, pp. 64-95.

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sticherie: povere donne ingannate dal demonio, non già suoi strumenticonsapevoli.

Ma il rifiuto della cultura folklorica da parte del clero implicava al-cune concessioni alla mentalità delle masse contadine. In primo luogo,l’accentuazione degli elementi meravigliosi (interventi soprannaturali,miracoli) presenti nell’agiografia. In un mondo in cui l’accesso alla Scrit-tura era riservato a pochi individui colti, prevalentemente chierici, le vi-te dei santi finivano con lo svolgere una funzione decisiva di tramite conle masse. Il meraviglioso cristiano dell’agiografia – eventualmente ri-calcato sui miracoli della Bibbia – si poneva quindi in diretta concor-renza con il meraviglioso folklorico10. Inoltre, un gran numero di ritua-li folklorici si erano innestati nella pratica religiosa ufficiale. Un testodel secolo IX come la Cena di Giovanni Immonide, rifacimento in versidella tardo-antica Cena Cypriani, fornisce una singolare testimonianza

su una tradizione romana allora in vigore11

. Il sabato dopo Pasqua, ilpriore della schola cantorum avanzava in groppa a un asino, portando intesta una corona di fiori ornata di corna, dinanzi a una folla riunita: ce-rimonia oscura, di cui tuttavia s’intravede l’origine folklorica. Talvoltaquesti innesti venivano respinti: cosí, il sinodo tenutosi nell’a Pavia con-dannava i chierici e i monaci che girovagavano spargendo molteplici er-rori e «inutiles questiones», mescolando alle cerimonie ecclesiasticheballi e canzoni oscene a somiglianza dei pagani, e ingannando cosí glianimi dei semplici12. Per secoli sinodi e concili si scagliarono (a quantopare, senza molto successo) contro cerimonie legate a una cultura av-

vertita ancora come una minaccia – basta pensare alle manifestazioni or-giastiche in occasione di feste religiose come quella di san Giovanni, cheriproponevano in un momento cruciale dell’annata agricola culti di fer-tilità piú o meno mascherati13. Ma si ha l’impressione che a poco a po-co esse finissero col diventare qualcosa di previsto e quasi di istituzio-nalizzato. La periodica irruzione di questo elemento folklorico, in sen-so lato carnevalesco, scaricava le tensioni latenti e agiva come un potentefattore di equilibrio sociale, oltre che religioso. Una festività come quel-la dei santi Innocenti, in cui, entro una cornice di deliberato sovverti-mento gerarchico, un fanciullo debitamente eletto (episcopellus, episco- pus puerorum) sedeva sulla cattedra episcopale e riceveva gli omaggi dei

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14 Cfr. il libro fondamentale di m. bachtin, che cito nella traduzione francese, L’oeuvre deFrançois Rabelais et la culture populaire au Moyen Age et sous la Renaissance, Paris 1970.

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presenti, aveva questo significato catartico e equilibratore. La dimen-sione carnevalesca, fatta di gioco, irrisione, licenza, inversione rituale,abolizione delle distanze, spiega inoltre la presenza massiccia nella cul-tura medievale di un filone solo apparentemente marginale, come la pa-rodia sacra14. La presenza contemporanea del sacro e del buffonesco,del sacro e dell’osceno, significava mescolanza non di sacro e profano,ma di livelli diversi di sacro. Le sacre rappresentazioni nacquero in que-sto contesto.

3. Laicato, riforma, eresie.

È probabile che nel corso del secolo x, che vide la crisi dell’autoritàpapale e imperiale e il faticoso ricostituirsi di una nuova autorità dal bas-

so, precaria e circoscritta, le componenti locali di questa religiosità si ac-centuassero. Finché non disporremo di ricerche coordinate sui culti e ledevozioni locali, sulle strutture delle diocesi e delle pievi, una storia re-ligiosa italiana su base regionale – quindi, una storia religiosa tout court  – sarà impossibile. Quel che è certo è che nel generale processo di rin-novamento – economico, sociale, politico – che investe la società italia-na del secolo xi, il laicato si fa avanti e pretende di partecipare in for-me nuove alla vita religiosa. È un movimento intimamente legato al ri-sorgere della vita della città, e le campagne ne sono toccate solomarginalmente. La stessa lotta contro il clero simoniaco e corrotto si

svolge prevalentemente tra le mura delle città. Uomini e istituzioni ven-gono vagliati e giudicati alla luce di un intransigente ideale religioso emorale, che si richiama sempre piú spesso alla mitica Chiesa primitiva,la comunità cristiana delle origini, simbolo di virtú e di perfezione. Crol-la la vecchia impalcatura degli ordines: a Milano, i patarini rivendicanouna funzione di supplenza nei confronti di una gerarchia che non è piúall’altezza dei propri compiti.

Era un principio potenzialmente rivoluzionario. Ma il movimentodel laicato cittadino non era che un aspetto di un movimento piú gene-rale di rinnovamento religioso, che metteva in discussione tutto – la su-bordinazione della gerarchia al potere politico, la feudalizzazione delmonachesimo, i modelli di santità. In questa volontà di rinnovamentoil laicato s’incontrava con gli ambienti eremitici, che, marginali per de-finizione, ma appunto perciò non compromessi con la gerarchia mon-

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15 Cfr. g. miccoli, Chiesa gregoriana, Firenze 1967.

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danizzata e corrotta, avevano riacquistato in questo periodo, dopo se-coli di stasi, peso e vigore. Ma proprio la pluralità di queste spinte pe-riferiche consentí in definitiva a Roma di porsi alla testa del movimen-to, servendosi anche dell’iniziativa, talvolta violenta, del laicato citta-dino, senza perderne mai il controllo. La riforma, che dal suo esponentepiú illustre fu detta gregoriana, fu quindi, in ultima analisi, una rivolu-zione dall’alto. D’altra parte, l’esigenza di dare una legittimità alla pro-pria azione indusse gli uomini della corrente riformatrice a insisteresull’autorità del pontefice, ponendola addirittura al di sopra – sono leparole del cardinale Umberto di Silva Candida – «delle sacre pagine edelle tradizioni avite». Cosí, una lotta che aveva visto il laicato in pri-ma linea, si concluse con un’affermazione senza precedenti della gerar-chia, e in particolare del primato pontificio15.

Ma l’intrecciarsi di queste diverse componenti – laicali da una par-

te, eremitiche e monastiche dall’altra – e l’effettiva subordinazione del-le prime alle seconde, lasciò la strada aperta a ulteriori sviluppi. La rifor-ma gregoriana, proprio perché aveva reciso i molteplici legami che vin-colavano il potere ecclesiastico al potere secolare, aveva finito col dareal laicato una consapevolezza nuova della propria importanza. In unasocietà caratterizzata da una crescente mobilità, dall’emergere di formeassociative e politiche nuove come i comuni, da una sempre maggiorevitalità economica, il laicato, soprattutto cittadino, non voleva piú ri-conoscersi nelle generiche prerogative assegnate nell’età carolingia all’or-do laicorum. È in questa situazione che riesce ad imporsi, come una sor-

ta di risarcimento, il mito della crociata. Grazie ad esso, le possibili fon-ti di tensione che minacciavano di distruggere la sistemazioneecclesiastica e dottrinale uscita dalla Chiesa gregoriana venivano devia-te verso l’esterno. La trasformazione del tradizionale pellegrinaggio ailuoghi santi in lotta armata contro gli infedeli, coronata dalla conquistae dal bottino (e dal massacro delle comunità ebraiche incontrate lungola strada) forniva al laicato una missione specifica. Nello stesso tempo,l’insistenza sulla dilatatio ecclesiae testimoniava la volontà di questa chie-sa purificata e rinnovata di identificarsi col mondo.

Ma l’inquietudine del laicato aveva anche altre radici, piú profonde.Il risultato della riforma gregoriana era stata una Chiesa fortemente cle-ricalizzata. Lo stesso rifiuto, compiuto dai laici nel vivo della lotta, diricevere i sacramenti dai sacerdoti simoniaci e corrotti aveva posto inprimo piano la figura di coloro che avevano il potere di somministrare

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16 Cfr. c. violante, Hérésies urbaines et hérésies rurales en Italie du II e au 13e, siècle, in Héré- sies et sociétés dans l’Europe pré-industrielle, II e-18e siècles, Communications et débats du Colloquede Royaumont présentés par J. Le Goff, Paris - La Haye, 1968 (ma 1970), pp. 171-97.

17 ch. thouzellier, Hérésie et croisade au XII e síècle, in «Revue d’hístoire ecclésiastique»,xlix, 1954, pp. 868-69.

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gli strumenti della salvezza. Il costituirsi di una dottrina sacramentalearticolata aveva innalzato il sacerdote addirittura al di sopra del mona-co. È probabile che agli occhi della maggioranza dei fedeli la capacità dicomunicare e di assolvere i peccati conferisse un alone quasi magico. Aquesta gerarchia consolidata e rafforzata si oppongono individui isolati(laici, per lo piú, ma anche monaci, come Arnaldo da Brescia) che in bre-ve raccolgono intorno a sé gruppi piú o meno cospicui, in nome del ri-torno alla verità del Vangelo. Miti già agitati nel corso della riforma gre-goriana, come quello della Chiesa primitiva, o carichi di significato nuo-vo, come quello della vita vere apostolica, venivano propostipolemicamente, quasi sempre con implicazioni pauperistiche16. Il cri-stallizzarsi dell’eresia era spesso lento. L’elemento che portava alla co-scienza del distacco, e quindi all’eresia vera e propria, era generalmen-te il rifiuto opposto dalla gerarchia alle pretese dei laici – prima fra tut-

te, la pretesa di predicare ai fedeli la verità del Vangelo riscoperto.Attorno alla protesta religiosa si coagulavano risentimenti e opposizio-ni politiche, in primo luogo contro i vescovi. Nel giro di qualche de-cennio, grazie all’intenso proselitismo di questi gruppi, composti in pre-valenza da artigiani itineranti, l’eresia si diffuse nelle principali cittàdell’Italia centrosettentrionale – da Milano a Cremona, a Firenze, a Or-vieto, fino addirittura a Viterbo, quasi alle soglie di Roma. Era un mo-vimento legato alla civiltà comunale, e quindi esteso anche, in parte, al-le campagne, dati gli stretti rapporti che legavano in questo periodo lecittà alle campagne circostanti. Ma proprio per questo, esso si arresta,

di fatto, all’Italia centrale (anche se possediamo una testimonianza suun tentativo di proselitismo cataro a Napoli)17 confermando cosí l’esi-stenza di una frattura ormai profonda nella penisola, anche al livello del-la storia religiosa, oltre che a quello della storia economica, sociale e po-litica. Nonostante la volontà dei pontefici di sostituire, grazie all’ap-poggio concesso agli invasori normanni, un clero dipendente da Romaa quello dipendente da Bisanzio, la storia religiosa del Mezzogiorno con-tinuerà per secoli a seguire vie proprie, diverse dal resto d’Italia, so-prattutto per la presenza massiccia di riti e tradizioni greche fino, si puòdire, alla Controriforma.

Il pullulare di questi movimenti ereticali indica che nel rapporto trala gerarchia ecclesiastica e le masse qualcosa si era incrinato. La netta

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18 Cfr. f. chabod, Per la storia religiosa dello Stato di Milano durante il dominio di Carlo V , No-te e documenti, in Opere, III, 1. Lo Stato e la vita religiosa a Milano nell’epoca di Carlo V , Torino1971, p. 314, n. 3.

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distinzione tra clero e laicato, perseguita consapevolmente dalla gerar-chia romana nel corso della riforma gregoriana, tendeva a rivolgersi con-tro la gerarchia stessa. La mobilità sociale, il progressivo affermarsi diun’economia monetaria facevano esplodere i vecchi e rigidi quadri isti-tuzionali. In questo senso, le rivendicazioni pauperistiche avanzate daquesti gruppi ereticali esprimevano senza dubbio la protesta di ceti eclassi legati a strutture sociali ormai in crisi, o che comunque faticava-no a adattarsi a una situazione sociale nuova. Era una protesta volta ver-so il passato, e costretta, per di piú, a prender consapevolezza di sé at-traverso il richiamo a un passato miticamente incorrotto, come quellodella comunità cristiana delle origini. Inoltre, la polemica contro la ge-rarchia ecclesiastica indusse la maggior parte di questi gruppi ereticali(con un’eccezione importante, che vedremo subito) a rifiutare di darsiuna struttura organizzativa qualsiasi, il che agevolò ovviamente la loro

repressione. E tuttavia, benché schiacciati e dispersi, essi lasciarono nel-la storia italiana una tradizione di dissidenza religiosa dura a morire.Anche se, allo stato attuale della documentazione, è impossibile stabili-re nessi precisi, sembra lecito supporre che l’ostinata sopravvivenza diconventicole ereticali – fraticellesche o di altro tipo – nell’Italia centra-le, addirittura sino alla fine del Quattrocento, fosse agevolata dal per-sistere di antiche sedimentazioni. E forse non fu un caso che nel Cin-quecento le dottrine riformatrici d’Oltralpe trovassero seguaci in Lom-bardia soprattutto in centri come Milano e Cremona, che – com’è statonotato – erano fin dal Medioevo focolai d’eresia18.

Nel variegato panorama di questi gruppi ereticali, il movimento ca-taro spicca per la sua originalità, non solo dottrinale. Attraverso la Lom-bardia e il Piemonte, i nuclei catari italiani avevano intrecciato rappor-ti precisi con le chiese catare del Delfinato e della Provenza. Stretti inuna rigida organizzazione settaria, i catari avevano trovato aderenti eappoggi soprattutto negli strati superiori della società (l’assenza di mo-tivi pauperistici, e l’insistenza su temi, come la polemica contro le im-magini, scarsamente comprensibili per la massa dei fedeli, spiegano in-dubbiamente questo tipo di proselitismo). Sfruttando verosimilmentela polemica antiromana dei gruppi ghibellini, i catari riuscirono ad assi-curarsi fin quasi alla fine del secolo XIII importanti centri di potere po-litico, come Orvieto (è il caso piú clamoroso) o la stessa Firenze. Era,per la Chiesa di Roma, una minaccia grave. Ma nel giro di pochi decenni

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19 Cfr. n. machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, l. III, cap. 1.20 Cfr. sempre p. sabatier, Vie de S. Francois d’Assise, Paris 1931. Vedi ora il succoso profilo

di j. le goff, Francesco d’Assisi, Milano 1967. Ma in complesso, su nessuna questione di storia re-ligiosa italiana la ricerca contemporanea è cosí gravemente inadeguata come su Francesco.

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questa minaccia si dileguò, e l’eresia catara scomparve, almeno appa-rentemente, dalla realtà religiosa della penisola.

4. Gli ordini mendicanti.

Lo strumento decisivo di questa controffensiva vittoriosa della ge-rarchia romana furono gli ordini mendicanti. Grazie ad essi, all’azioneoriginale e audace da essi perseguita, la gerarchia romana recuperò il ri-tardo storico accumulato nei confronti della nuova civiltà cittadina. Sen-za esagerazione Machiavelli poteva, in una celebre considerazione re-trospettiva, vedere nella fondazione degli ordini mendicanti un eventoche aveva salvato la Chiesa dalla rovina19. L’apostolato, la predicazio-ne, che i vecchi ordini monastici avevano abbandonato da tempo, furo-

no al centro dell’attività svolta, soprattutto nelle città, dagli ordini men-dicanti. Quest’opera di proselitismo non escludeva, tutt’altro, metodidi persuasione piú spicci: basta pensare al tribunale dell’Inquisizione.Ma è lecito supporre che la repressione pura e semplice non sarebbe sta-ta sufficiente a rinsaldare i legami allentati della gerarchia con le massedei fedeli. Era necessaria un’azione piú sottile, che si appropriasse, ren-dendoli innocui, dei temi religiosi agitati dai gruppi ereticali con il loropolemico richiamo alla scrittura tradita. Fu questa l’opera svolta – an-che al di là delle proprie intenzioni – da Francesco d’Assisi20.

Nonostante la sua apparente semplicità – o forse proprio per

questo – quella di Francesco è una figura profondamente enigma-tica. Per intenderla, bisogna forse partire dalla sua profonda ve-nerazione per la gerarchia, riaffermata enfaticamente nello stessoTestamento:

...Dominus dedit mihi et dat tantam fidem in sacerdotibus qui vivunt secundumformam sanctae Ecclesiae romanae propter ordinem ipsorum, quod si facerent mihipersecutionem, volo recurrere ad ipsos. Et si haberem tantam sapientiam, quantamSalomon habuit, et invenirem pauperculos sacerdotes hujus saeculi in parochiis qui-bus morantur, nolo praedicare ultra voluntatem ipsorum. Et ipsos, et omnes aliosvolo timere, amare et honorare, sicut meos dominos; et nolo in ipsis considerarepeccatum quia Filium Dei discerno in ipsis, et domini mei sunt.

Qui il distacco dell’atteggiamento di Francesco da quello dei gruppi ere-ticali era nettissimo. Nessuna prevaricazione di funzioni tradizional-

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mente riservate ai chierici: allorché i frati minori si lamentano perché ivescovi talvolta non li lasciano predicare, e chiedono a Francesco di ot-tenere al papa questo privilegio, Francesco risponde che devono esserei prelati stessi, scossi dall’umiltà e dalla santità della vita dei frati mi-nori, a concedere loro la facoltà della predicazione21. È chiaro il propo-sito di distinguersi da quanti, proprio su questo punto decisivo, eranoentrati in conflitto con la gerarchia fino a trovarsi sospinti su posizioniereticali: Pietro Valdo, per esempio, la cui vocazione religiosa presentaperaltro tanti punti di contatto con quella di Francesco. Proprio perchériprendeva, in un contesto profondamente diverso, motivi originaria-mente ereticali, a cominciare da quello, centrale, della povertà, France-sco non poteva non insistere sul dovere dei frati minori di obbedire al-la gerarchia.

Ma in che cosa consisteva questa «novità», che salta agli occhi ap-

pena ci si accosta alla figura di Francesco? In che senso egli propose unnuovo modello di santità, un nuovo «stile di vita» religiosa? Forse lamigliore caratterizzazione della sua esperienza è contenuta nell’epitetotradizionale – poi ripetuto in contesti cosí dolciastri e apologetici da per-dere quasi del tutto la propria carica paradossale – di «giullare di Dio».L’atteggiamento di Francesco di fronte al patrimonio folklorico recen-te o antichissimo – le leggende cavalleresche o il favoloso mondo deglianimali – è infatti di totale adesione. Il suo stesso stile di vita è tipica-mente carnevalesco. Carnevalesca è l’esortazione (sia pure temperata,talvolta, da affermazioni un po’ diverse) rivolto da Francesco al proprio

corpo: «Godi, fratello corpo». Carnevalesca è l’insistenza sull’allegria,che compare addirittura nella regola del 1221, sotto forma di esorta-zione ai frati minori: «Caveant fratres quod non ostendant se tristes ex-trinsecus nubilosos et hypocritas; sed ostendant se gaudentes in Domi-no, hilares et convenienter gratiosos». Carnevalesco è il comportamen-to che una cronaca pressoché coeva attribuisce a Francesco dinanzi aInnocenzo III: quando il papa esclama «Tu somigli piú a un porco chea un uomo: va dunque a predicare la tua regola ai porci» Francesco cor-re a rotolarsi per l’appunto in un porcile, poi ritorna tutto lercio e dice«Ora però ascoltami». Sublimemente carnevalesco è il bacio di France-sco al lebbroso. L’originalità del genio religioso di Francesco consisteproprio in questo: nel tentativo di identificare il paradosso carnevalescocon il paradosso cristiano. Con la sua sola presenza egli testimonia la fal-sità dei valori comunemente accettati. Il rovesciamento carnevalesco

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21 Cfr. Speculum perfectionis, a cura di P. Sabatier, Paris 1898, pp. 309-10, 86.

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delle consuetudini viene a coincidere con la sapienza cristiana che è fol-lia agli occhi del mondo. I lebbrosi vengono baciati; perfetta letizia ènon essere riconosciuti dai confratelli, essere picchiati e vilipesi, per-nottare fuori dal convento nel freddo e nella tempesta22.

Ma quella di Francesco è una mera testimonianza. Questa è la suagrande forza e la sua grande debolezza. Egli non lotta con gli eretici; vaalla crociata, e si rifiuta perfino di evangelizzare il sultano. Ma dice an-che: se gli altri ci fanno torto, dobbiamo subirli, e non cercare di far síche diventino buoni cristiani23. La stessa povertà francescana non ha,in origine, una reale carica polemica. Francesco non vuole redimere ilmondo, e tanto meno modificarlo. Vuole semplicemente riproporre nel-la sua nudità e semplicità l’esperienza di Cristo testimoniata dai Van-geli (donde l’esaltazione, ricorrente nella prima agiografia francescana,di Francesco come «alter Christus»). Era facile, perciò, trasferire que-

sta esperienza in un contesto diverso, tale da snaturarla. È ciò che fece,mentre Francesco era ancora vivo, la curia romana. Fu usato finché ser-viva, e poi messo in disparte. Poco prima di morire egli guardò con do-loroso distacco la realtà dell’ordine che aveva pur finito col fondare, esi sentí tradito. A torto, in un certo senso: date le premesse, l’esito sto-rico del francescanesimo era probabilmente inevitabile.

Ma la traccia che esso lasciò fu durevole. L’affermarsi di una nuovapietà religiosa, piú umana e affettuosa (fino a cadere, in certi casi, nellezio) venne incontro alle richieste profonde delle masse dei fedeli.L’identificazione con la figura di Cristo, vissuta drammaticamente da

Francesco nell’esperienza delle stimmate, fu proposta in varie formedall’arte religiosa di questo periodo. Si trattava di tendenze convergen-ti, come mostra l’enorme influsso esercitato sull’iconografia da un testocome le Meditationes de passione Christi attribuite a san Bonaventura (inrealtà del francescano Giovanni da San Gimignano), in cui la narrazio-ne evangelica è continuamente arricchita da particolari toccanti o gu-stosi24. Tuttavia, gli aspetti piú scandalosamente folklorici o parados-sali della tradizione francescana vennero eliminati o edulcorati. Attra-verso l’intervento di Bonaventura la storia dell’esperienza di Francescofu castrata, riscritta d’ufficio, riplasmata in un’immagine di comodo.

22 Cfr. anche un accenno di bachtin, L’oeuvre de François Rabelais cit., p. 66. Per il colloquiocon Innocenzo III, cfr. m. paris, Chronica majora, III, London 1876, p. 132.

23 Cfr. g. miccoli, Dal pellegrinaggio alla conquista: povertà e ricchezza nelle prime crociate, inPovertà e ricchezza nella spiritualità dei secoli xi e xii (15-18 ottobre 1967), Todi 1969, pp. 45-80.

24 Cfr. e. mâle, L’art religieux de la fin du Moyen Age en France..., Paris 19495, pp. 27 sgg.

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Gli accenti sarcasticamente macabri che ricorrono nelle laudi di Jaco-pone («Alegome en sepoltura | ventre de lupo en voratura, | e l’arliquieen cacatura...»; oppure, rivolgendosi al proprio teschio: «Or ov’è ’l ca-po cusí pettenato? | ... Fo acqua buffita, che ’l t’ha sí calvato?») unen-do echi della carnevalesca «umiltà» francescana ad anticipazioni di unasensibilità destinata ad affermarsi pienamente di lí a qualche decennio,costituiscono un’eccezione che conferma la regola25. In questa situa-zione, la volontà di ritorno alle origini dell’ala piú radicale dell’ordinesi caricò di implicazioni anticlericali e antigerarchiche che in Francescoerano, come abbiamo visto, del tutto assenti. Il tema della povertà, sucui si combatte la grande battaglia tra conventuali e osservanti, diven-ne la pietra di paragone dell’atteggiamento verso il mondo e verso laChiesa. La sconfitta dell’ala piú radicale fu definitiva: ma lasciò ai mar-gini della Chiesa una frangia di tensione e d’inquietudine destinata, co-

me si è detto, a perpetuarsi in forma piú o meno clandestina sino alla fi-ne del Quattrocento. La speranza degli sconfitti si coagulò in aspettati-ve apocalittiche, quasi sempre di derivazione gioachimitica.

Gli ordini mendicanti cominciarono a operare in una società caratte-rizzata da una profonda vitalità anche religiosa, e percorsa da iniziativee movimenti che partivano dal basso. È il quadro dell’Italia tra la primae la seconda metà del Duecento che emerge dalla cronaca di Salimbene.A volte sono fenomeni di religiosità popolare, prontamente fatti propridagli ordini mendicanti, come il movimento dell’Alleluia (1233), che cer-ca di comporre i contrasti e le lotte delle fazioni cittadine. Altre volte, si

tratta invece di sette come quella degli apostolici, che all’acuirsi delle dif-ferenziazioni economiche e sociali contrappongono un rigoroso evange-lismo comunistico, percorrendo per intero la parabola, consueta in que-sto periodo, dal letteralismo scritturale all’eresia. Ma tutti questi feno-meni hanno in comune una caratteristica – quella di erompere dal basso,dal vivo stesso della vita cittadina. Anche un episodio marginale comel’effimero, straordinario successo del culto di un portatore di vino di Cre-mona, Alberto, è sintomatico, perché testimonia la volontà popolare diimporre un proprio santo, estraneo alle gerarchie ecclesiastiche e alla pro-cedura, sempre piú rigidamente controllata dall’alto, della canonizzazio-ne. A Parma nel 1279 i fedeli «faciebant societates per vicinias et egre-diebantur ad vicos et plateas, ut pariter congregati processionaliter ve-nirent ad ecclesiam sancti Petri, ubi istius Alberti reliquie habebantur.Et portabant cruces et vexilla et cantando ibant, et donabant purpuras,

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25 Cfr. jacopone da todi, Laudi, trattato e detti, a cura di F. Ageno, Firenze 1953, pp. 194,92-93.

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xamitos et baldakinos et denarios multos». E ai frati dicevano polemi-camente: «Vos creditis quod nullus possit miracula facere nisi sancti ve-stri, sed bene estis decepti, ut nunc apparet in isto». Ed è con sarcasti-co compiacimento fratesco che Salimbene racconta l’esito della vicenda:una delle reliquie di Alberto comincia a puzzare, i fedeli del nuovo san-to rimangono sconcertati e confusi vedendo che il suo corpo non è in-corruttibile, «et sic fuerunt truffati et derisi Parmenses»26. Ma non sitratta di un aneddoto isolato: lo stesso Salimbene ricorda che poco tem-po prima a Padova e a Ferrara si erano verificati fatti analoghi. E certo,come dice Salimbene, all’origine di queste devozioni eterodosse c’era ilrisentimento contro gli ordini mendicanti, spesso sfruttato dai sacerdo-ti; oppure, il desiderio dei fuorusciti ghibellini di rientrare nelle città,nell’atmosfera di pacificazione suscitata dai miracoli dei nuovi santi. Mac’era anche (è sempre Salimbene che parla) il desiderio degli infermi di

riacquistare la salute, o la curiosità di gente bramosa di cose nuove – cioè,in definitiva, motivi religiosi, richieste che non venivano soddisfattenell’ambito della religione ufficiale.

La tensione escatologica e profetica (quanti profeti nelle pagine di Sa-limbene!) nasce e si sviluppa in questo clima di rinnovata, insistente ri-chiesta religiosa dal basso. Era una tensione che poteva assumere formeculte e elaborate, sorrette da un’approfondita esegesi scritturale, comein Gioacchino da Fiore e nel suo seguace Gherardo da Borgo San Don-nino, oppure forme rozze e immediate. Il risultato era lo stesso: un’in-quietudine, un’impazienza diffuse, che inducevano a guardare con oc-

chi duramente critici una Chiesa, un mondo destinati a una fine immi-nente. Ma le strutture ecclesiastiche, rafforzate dalla spregiudicata azionedegli ordini mendicanti, erano abbastanza flessibili da accogliere questespinte senza spezzarsi. Anche una devozione popolare cittadina comequella dei flagellanti, propagatasi nel corso del 1260 un po’ in tutta Ita-lia, nonostante le sue implicazioni escatologiche fu sin dall’inizio con-trollata dalla gerarchia, e anzi utilizzata in funzione antiereticale27. Co-sí, la grande fioritura di confraternite protette dagli ordini mendicanti,e legate piú o meno direttamente a questa devozione, forní un potentesfogo alle eventuali tensioni religiose del laicato. Tensioni religiose e so-

26 Cfr. v. fumagalli, In margine all’«Alleluia» del 1233, in «Bullettino dell’Istituto storicoitaliano per il Medio Evo», 80, 1968, pp. 257-72; salimbene de adam, Cronica, a cura di G. Sca-lia, Bari 1966, II, pp. 733 sgg.

27 Cfr. a. frugoni, Sui flagellanti del 1260, in «Bullettino dell’Istituto storico italiano per ilMedio Evo», 75, 1963, pp. 211-37.

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ciali: nelle confraternite, vero modello di organizzazioni interclassiste,padroni e artigiani si ritrovavano su un illusorio piede di parità.

All’inizio del nuovo secolo, il giubileo del 1300 suggellò la vittoriadella gerarchia su tutte le spinte eversive provenienti dal basso. In talmodo, la stessa tensione escatologica veniva incanalata e utilizzata perglorificare la potenza politica e religiosa della Chiesa, nella persona delpontefice Bonifacio VIII. Nasceva, debitamente sollecitata, quella de-vozione per il pontefice destinata a diventare una delle componenti piúcaratteristiche della società italiana. Cosí rafforzata, la Chiesa poté su-perare le crisi, non solo religiose, dei secoli successivi. Bisognerà arri-vare al Cinquecento perché si riproduca una situazione altrettanto pe-ricolosa di spinte incontrollate dal basso. E anche allora, soltanto a prez-zo di un profondo rinnovamento la Chiesa riuscirà a sopravvivere.

5. Nuove devozioni e letteratura religiosa.

L’elemento decisivo per l’affermazione della gerarchia erano stati gliordini mendicanti. Nel corso del Trecento la loro storia finí col diver-gere. Mentre i francescani dovevano fronteggiare le polemiche e le lot-te scoppiate nell’ordine a proposito della questione della povertà, i do-menicani intensificavano l’attività di apostolato, insistendo sui temi de-vozionali piú popolari: in primo luogo, quelli legati al culto mariano.

L’esigenza, vivissima in questo periodo, di un contatto il piú diretto pos-sibile con la sfera del sacro portava a dare un peso sempre maggiore al-la figura di Maria, «avvocata de’ peccatori», mediatrice per eccellenzaanche nei confronti di Cristo. A questa tendenza i domenicani diedero,con prediche e scritti, un consapevole impulso. In un testo diffusissimocome lo Specchio della vera penitenza di Jacopo Passavanti, si legge peresempio la storia, ripresa da Cesario di Heisterbach, di un cavaliere che,per riacquistare le ricchezze perdute, ricorre a un castaldo esperto di ne-gromanzia. Il diavolo, debitamente invocato, chiede al cavaliere di rin-negare Cristo: e il cavaliere obbedisce. Ma alla successiva, e suprema,richiesta di rinnegare la Vergine, resiste. Con l’aiuto di Maria riesce afuggire: entrato in una chiesa «dov’era la immagine della Vergine Ma-ria, col Figliuolo in braccio, di legname iscolpita», chiede perdono delpeccato commesso. Si svolge quindi un vero e proprio «contrasto» traMaria e Cristo. Maria intercede per il suo protetto: «alle quali paroleniente rispondendo il Figliuolo, rivolse da lei la faccia». Solo quandoMaria si getta in ginocchio, Cristo cede, esclamando che alla madre non

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può negare niente28. Maria, dunque, non Cristo, è vicina agli uomini,alle loro pene e alle loro miserie; e Maria può tutto, perché le sue pre-ghiere sono irresistibili.

La crescente fortuna del tema della Mater Dolorosa nel corso del Tre-

cento rientra anch’essa in questa tendenza a polarizzare la pietà attor-no a situazioni e motivi di facile presa, provvisti di una immediata ca-rica emotiva. Nelle terzine del Pianto de la gloriosa virgine Maria dell’ere-mitano Enselmino da Treviso, per esempio, di là dagli echi danteschi siscorge la volontà di agevolare l’identificazione psicologica del lettorecon la madre di Cristo, attribuendo ad essa risentimenti e recrimina-zioni che escono dal solito stereotipo di mitezza e mansuetudine. Dap-prima si rivolge alla croce:

Dond’as tu, dis’io, tanta chrudeltate,ch’el mio dolze fiol tu tegni fermo

choi piedi e chon le mane a ti fichate?Oimè, perché no naque qualche vermoche la radize t’avese roduta ... ?

Poi passa a lamentarsi dei profeti:Algun de lor mai no me dise chomeper lo mio fio io dovese vegnirea portar de grameze tante some.

e infine addirittura dell’angelo Gabriele:Poi me lamento, o agnol Gabriele,che me dizesti parole suave,le qual io truovo tute false e fele...Tu me dizesti ch’io era benedetafra le altre done, et anchuoi me reputosopra tute le done maledeta... 29.

Siamo a un passo dal teatro, dalle sacre rappresentazioni.Il tono quasi popolaresco di una parte di questa letteratura religiosa

obbediva a una precisa scelta stilistica e ideologica. Soprattutto tra i do-menicani c’era un’acuta consapevolezza del tipo di fedeli a cui volta a

volta ci si rivolgeva, e quindi la tendenza a proporre modelli di pietà re-ligiosa diversificati socialmente. In una predica tenuta a Pisa nella qua-resima del 1304, il domenicano Giordano da Rivalto ammoniva che «non

28 Cfr. j. passavanti, Specchio della vera penitenza, a cura di F. L. Polidori, Firenze 18632, pp.67 sgg.

29 Cfr. Plainte de la Vierge en vieux vénitien, texte critique a cura di A. Linder, Upsala 1898,pp. 34, 71-73.

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è commesso ad ogni uomo l’ufficio del predicare; ché, innanzi innanzi,a tutte le femine è vietato in tutto e per tutto; appresso, tutti i laici eidioti che non hanno lettere; onde niuno può essere predicatore, se nonè letterato e scientifico; e di questo è grave scomunicazione ed è gravepeccato; però che la Scrittura è grave, e profonda e sottilissima ad in-tendere, e non è da ogni persona»30. Non solo si respinge recisamentela richiesta, ricorrente nei gruppi ereticali, di concedere ai laici il per-messo di predicare, ma si ribadisce la difficoltà della Scrittura («grave,e profonda e sottilissima ad intendere»). Solo chi è dotto, chi è «lette-rato e scientifico» potrà dunque salvarsi? Naturalmente il domenicanopisano non vuole dire questo. La via della salvezza per il cristiano nonpassa attraverso il Libro – un libro, per di piú, di difficile comprensio-ne e neppure scritto in volgare. Come nei secoli dell’alto Medioevo, laBibbia rimane largamente ignota alla massa dei fedeli. Di qui l’impor-

tanza delle prediche e delle immagini. E in un’immagine – quella delcrocifisso – viene a concentrarsi, almeno per i «laici e idioti che non han-no lettere», tutto il messaggio cristiano: in essa è abbreviata l’interaScrittura. Come scrive un altro domenicano pisano, Domenico Caval-ca, nel suo Specchio de croce,

perho che Christo crucifixo ne mostra et insegna ogni perfectione et ogni scientiautile, possiamo veramente dire ch’egli è libro di vita nel quale ogni seculare idiotae d’ogni altra conditione può leggere e vedere la legge tutta abbreviata. Perho cheChristo in croce observò tutti gli comandamenti e compite e fece intendere tutte leprophetie, et adimpí tutte le promissione di lui facte a gli sancti padri e patriarchie misse in opera quello che predicò; e perho chi ben studia legiermente impara tut-

ta la Bibia.

E prosegue tracciando un minuto, capzioso paragone tra il Cristo cro-cifisso e il libro:

Tutti sapiamo che il libro non è altro se non pelle d’agnello bene rase, ligate fra doetavole e scripte quasi per tutto di lettere nere, ma gli principali capoversi sono let-tere grosse vermiglie. Per questo modo Iesu Christo in croce sta come libro, perhoche la sua pelle è la sua carne, la quale è agnello senza macula e senza peccato, chenon fu raso né purificato da altri, anci nacque tutto cosí puro... Questa pelle cosínuda e pellata fu non legata, ma confitta fra doi legni de la croce, et era scripta tut-ta di littere nere, perho ché fu tutta dilividita et anegrita per gli colpi e per le guan-

ciate, in tanto che dice la scriptura che baveva perduto ogni bellezza. Sonoci anco-ra le miniature e le lettere grosse di vermiglio, cioè le piaghe, principalmente del ca-po, che tutte colaveno sangue, e de le mane e di piedi e del costato, le quale sonovermiglie di sangue e sono molto grande e grosse...31.

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30 Cfr. Prosatori minori del Trecento, I: Scrittori di religione, a cura di G. De Luca, Milano-Na-poli 1954, p. 27.

31 d. cavalca, Incomincia il prologo nel devoto e morale libro intitulato Spechio de croce, s. l. n.d., cap. xxxvi.

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La meditazione sull’immagine dolorosa di Cristo crocifisso, «libronel quale è abbreviata tutta la scriptura», s’inseriva in un orientamen-to generale verso una pietà emotiva e drammatica. È anche troppo fa-cile scorgere un nesso tra questo tipo di pietà e la crisi che soprattuttonella seconda metà del Trecento scosse non solo la Chiesa, ma l’interasocietà a tutti i livelli. La stessa tragica esperienza della peste s’inserí,sia pure accentuandola e in parte modificandola, in una tendenza reli-giosa già esistente. Ma un confronto con la documentazione d’Oltralpemostra che in Italia l’irruzione dell’elemento, nuovo e scandaloso, delmacabro, avvenne in forme molto piú composte e stilizzate32. Anche glielementi folklorici e in senso lato carnevaleschi, che si mescolano spes-so al macabro d’Oltralpe (dall’accentuazione della finitudine corporeaalle sfumature grottesche e irridenti, sarcasticamente egualitarie, pre-senti nel tema della danza macabra) in Italia sono quasi assenti, o co-

munque molto smorzati. Tuttavia il dilagare di questa ossessione dellamorte fisica costituí, nonostante i tentativi di incanalarla nei modiespressivi della pietà tradizionale, una cesura importante. All’ansia perla fine del mondo era subentrata quella per la fine individuale, vista nel-la sua irrimediabile fisicità. La crisi dell’Impero e del papato, lo spez-zettamento del potere politico e religioso, impedivano ormai di riferir-si alla comunità cristiana nei termini tradizionali. In questo senso si puòforse vedere nel macabro l’espressione della crisi, ricca di elementi didisgregazione, ma anche di rinnovamento, che investe a metà del Tre-cento la società non soltanto italiana33. E alla splendida involuzione del-

la società italiana fra Trecento e Quattrocento corrispose in un certosenso il soffocamento delle potenzialità eversive della sensibilità maca-bra, esemplificato dalla fortuna del genere letterario dell’ Ars moriendi.Lo scandalo della morte fisica fu velato e trasformato in tema di edifi-cazione per i fedeli.

Ma la decadenza delle aspettative escatologiche era ormai evidente,nonostante la fortuna incontrata da voci isolate come Brigida di Sveziao Angela da Foligno. Ciò appare chiaro allorché si confronta la devo-zione popolare dei bianchi propagatasi nell’Italia settentrionale e cen-trale alla fine del secolo (1399), con il moto dei flagellanti di piú di unsecolo prima. I bianchi, scalzi, vestiti di abiti di lino candido, muove-vano a piccole tappe per le campagne, entravano nelle città accolti e be-nedetti dal clero, facevano paci, ponevano fine alle discordie cittadine;la flagellazione era ridotta a proporzioni quasi simboliche. Era certo una

32 Cfr. a. tenenti, Il senso della morte e l’amore della vita nel Rinascimento, Torino 1957.33 Cfr. r. romano, Tra due crisi: l’Italia del Rinascimento, Torino 1971, pp. 13-34.

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devozione eccezionale, che rompeva il ritmo consueto della vita quoti-diana – ma si trattava di un’eccezionalità controllata e priva di tensio-ni34. Dal minuzioso elenco delle spese per il vitto e per l’alloggio soste-nute al seguito dei bianchi, e dal «ricordo» redatto in quella occasionedal mercante pratese Francesco Datini, emerge addirittura l’immaginedi una pacifica scampagnata. Per un uomo come il Datini questo pelle-grinaggio era anzi un’occasione di fare sfoggio di liberalità e magnifi-cenza con amici e clienti, e quindi di consolidare il proprio prestigio.Dopo aver nominato coloro che l’avevano accompagnato al seguito deibianchi, concludeva infatti, compiaciuto:

Somma, in tutto, uomini dodici: i quali, come detto è, tutti vennono meco inmia compagnia per avere il perdono del detto pellegrinaggio: e io feci a tutti le spe-se di mangiare e di bere e di ciò che bisognava loro; come sarà iscritto ordinata-mente in questo libro innanzi. E per avere ciò che ci bisognava da vivere, io menaimeco le due mie cavalle e la muletta da cavalcare; in sulle quali bestie mettemmo

un paio di forzeretti piccoli da soma, in che furono piú scatole di tutte ragioni con-fetti, e gran quantità di ciera in torchietti e candele, e formaggio d’ogni ragione, epane fresco e biscottato, e berlingozzi zuccherati e non zuccherati, e piú altre coseche s’appartengono alla vita dell’uomo...35.

Certo, non tutti i bianchi si saranno recati al pellegrinaggio mangiandoberlingozzi zuccherati e non zuccherati; ma il tranquillo distacco con cuiil Datini parla della sua partecipazione è comunque degno di nota. Nonera, quella dei bianchi, una devozione che richiedesse preliminarmente undifficile rinnovamento interiore. Chi vi partecipava poteva raggiungeresenza fatica l’illusione di una pacificazione con se stesso e col mondo.

Eppure, tra l’etica, esplicita e implicita, di un uomo come FrancescoDatini e i valori fatti propri dalla Chiesa in questo periodo esisteva unmargine di conflitto. L’ascesa del ceto mercantile e la crescente mobi-lità sociale mettevano a dura prova strutture ecclesiastiche formatesinell’ambito di un’economia di tipo curtense. La lunghissima polemicasulla liceità dell’usura fu soltanto il sintomo piú esplicito di questa cri-si. Ma molto tipica è, per esempio, l’insistenza con cui il pio notaio La-po Mazzei rimproverava all’amico Francesco Datini il «troppo piaceredel murare», che lo portava a trascurare la salvezza dell’anima:

Do! pigliate questo murare con modo, e vinca la ragione; che se fate per Dio[ossia per i poveri], Iddio non ha bisogno siate in tutto manovale; ché gli basta l’in-

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34 Cfr. a. frugoni, Sui flagellanti del 1260 cit., e La devozione dei bianchi del 1399, in L’atte- sa dell’età nuova nella spiritualità della fine del medioevo, Todi 1960, pp. 232-48.

35 Ser lapo mazzei, Lettere di un notaro a un mercante del secolo xiv , a cura di C. Guasti, I, Fi-renze 1880, p. ci.

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tenzione buona, e l’ordine e ’l modo... Se fate per lo mondo, bene sareste da ri-prendere, perdendo il resto del tempo vostro in esercizii, che verrà prima la morteche si compiano; e poi non vi trovareste, d’uomo ricco, nulla in mano...36.

In questa passione del «murare» si concentravano il desiderio di presti-

gio e di fama, l’aspirazione a una sopravvivenza tangibile dopo la mor-te. A tutto ciò il mito umanistico della gloria darà consapevolezza e di-gnità culturale. E non è senza significato che proprio il piú tipico oppo-sitore del nascente culto dei classici, il domenicano Giovanni Dominici,scrivesse nella sua Regola del governo di cura familiare, indirizzata a Bar-tolommea degli Alberti:

Se vuogli spendere quantità di danari, piú ti consiglio rifacci una chiesa guastae abbandonata, o spedal rifiutato per povertà, dotandolo di quel che puoi, che fab-bricar di nuovo; però sarà maggiore onore di Dio avere una casa sofficiente, che duemendiche; e tu n’arai piú premio, perché arai minor fama nel mondo. Però che pre-suppongo, cosí faccendo tu fabbricherai in sull’altrui, e l’arme d’altri aranno fama;e cosí il nome del patronaggio rimarrà pure ne’ primi. E cosí non saprà la man man-ca quello fa la diritta, perché la limosina tua sarà in ascondito...37.

Apparentemente, era un contrasto molto netto. Il Dominici criticavacon durezza il modo in cui venivano educati i «moderni figliuoli», abase di letture di Ovidio, Virgilio e altri scrittori lascivi:

E che peggio è, quella teneruccia mente si riempie del modo del sacrificio fat-to agli falsi iddii, e riverenzie grandi, udendo di loro falsi miracoli e vane transmu-tazioni; prima diventando pagani che cristiani, e prima chiamando dio Iuppiter oSaturno, Venus o Cibeles, che il sommo Padre, Figliuolo e Spirito santo: donde pro-cede, la vera fede essere dispregiata, Dio non riverito, scognosciuto il vero, fonda-to il peccato.

Per lui, anche i giochi infantili dovevano essere imperniati sulle cose del-la religione:

Farai uno altaruzzo o due in casa, sotto titolo del Salvatore... alcuna volta sa-ranno occupati in fare grillande di fiori o d’erbe, e incoronare Iesu... fare cande-luzze... sievi la campanuzza... non vietar loro di giucare alle cappanelle, a dicci a pa-ri, a chi piú salta o meglio corre, se in casa si può fare o altrove nel conspetto tuo,ponendo per pegno che chi perde dica cotanti paternostri o avemmarie, o faccia in-nanzi a Cristo cosí le venie, o sia privato non entrare nella cappelluzza...38.

Ma di fatto questo contrasto si smorzava nell’esortazione a una pietàmoderata, priva di eccessi e di slanci, imperniata sulle virtú familiari tra-

36 Ser lapo mazzei, Lettere di un notaro a un mercante del secolo xiv cit., pp. 4, 139.37 g. dominici, Regola del governo di cura familiare, a cura di D. Salvi, Firenze 1860, p. 122.38 Ibid., pp. 135, 146-47.

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dizionali e sulla oculata salvaguardia del patrimonio. Cosí, dopo la tipi-ca esortazione, «la necessità della cura della famiglia non posporre allasoperchia orazione...», il Dominici ricordava che sant’Agostino rifiutòil lascito di un vescovo che aveva destinato l’intero patrimonio alla pro-pria chiesa, diseredando i figli. Accogliere amorevolmente i pellegrini,sí, ma «vagabondi e instabili non debbon tanto caritativamente esserericevuti». Anche i quadri da tenere in casa (sulla cui utilità, dal puntodi vista sia psicologico sia religioso, il Dominici insiste molto) doveva-no ispirarsi a un gusto sobrio e discreto:

Ti guardi da ornamenti d’oro o d’ariento, per non fargli [i figli] prima idolatriche fedeli; però che vedendo piú candele s’accendono, e piú capi si scuoprono, epongonsi piú ginocchioni in terra alle figure dorate e di preziose pietre ornate, chealle vecchie affumate, solo si comprende farsi riverenzia all’oro e pietre, e non allefigure o vero verità per quelle figure ripresentate39.

Non stupisce che un devoto seguace del Dominici, il mercante Giovan-ni di Pagolo Morelli, riuscisse – come mostrano i suoi Ricordi – a con-ciliare benissimo pietà religiosa e amore dei classici. La lettura e lo stu-dio di Virgilio, Boezio, Seneca, si pongono per il Morelli sullo stesso pia-no della lettura e dello studio dei profeti e della Scrittura. Dai primi,egli dice, apprenderai «quello hai a seguire nella presente vita e sí in sa-lute dell’anima e sí in utilità e onore del corpo», mentre dai secondi «sa-rai ammaestrato pienamente della fede e avvenimento del Figliuolo diDio, arai gran consolazione nell’anima tua, gran gaudio e gran dolcez-za, isprezzerai il mondo, non arai pena di cosa che t’avvenga»40. Sia gli

uni che gli altri contribuiscono alla «scienza», all’equilibrata valutazio-ne di uomini e cose. In quest’armonica visione della realtà la religioneha un suo posto, importante e circoscritto, fonte di certezze, piú che ditensioni o inquietudini. Certo, nel momento piú grave e tragico dellasua vita, il Morelli, dopo avere invocato Cristo, Maria e Giovanni perottenere la salvezza del figlio morto, sperimenta la tentazione del de-monio:

Assalendomi durissimamente mi cominciò a combattere e a molestare, metten-domi moltissime cose nella mente. Volea mostrare la mia fusse istata vana orazionee fatica indarno operata, e che l’anima fusse niente o un poco di fiato, che bene némale potea sentire se non come cosa impassibile, che non vede né sente né è da cal-do o da freddo o da alcuna passione o da alcuno diletto oppressata. E con questo, ilbene e ’1 male era quello che nel mondo s’acquistava, e che in questo i’ era igno-rante, però che mai me n’avea saputo dare [i.e. accorgere]; e che dalla fortuna i’ era

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39 g. dominici, Regola del governo di cura familiare cit., p. 133.40 giovanni di pagolo morelli, Ricordi, a cura di V. Branca, Firenze 1956, pp. 271, 273.

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istato molto oppressato e che in tutto m’era contraria. E che a questo non era altrorimedio se non disperarsi contro ad essa in questo modo: che s’ella ti toglie centofiorini, rubane altrettanti; s’ella ti dà infermità, quando tu se’ sano fa che ogni leg-ge sia rotta e contenta ogni tua voglia e spregia ogni altra cosa.

Questo scatto amaro e disperato trae origine da riflessioni in cui non èdifficile riconoscere l’eco di qualche centone di detti di filosofi dell’an-tichità («l’anima fusse niente o un poco di fiato, che bene né male po-tea sentire, ecc. ecc.»). Per un momento, l’armoniosa concordia tra fe-de cristiana e tradizione classica si rompe: ma la tentazione del «demo-nio» ha breve durata. Nella contemplazione del crocifisso il Morelli trovaconforto: pensa che non lui soltanto, ma tutti sono afflitti – «il perché,preso riposo nell’animo, m’addormentai». Nel sonno ha una visione dacui apprende che le sue preghiere sono state accolte e il figlio è salvo.Poi «isparí ogni visione; ed io mi destai tutto ispaventato e ’n parte al-

legro»41

.Si può parlare di religione non solo cittadina, ma mercantesca – enon solo per la diffusione in questo periodo di pratiche cultuali di tipoquasi contabile, come il rosario, ma anche, piú in generale, per il modoin cui la pratica del commercio s’innesta in una visione religiosa com-plessiva. Un testo come il ricordo redatto nel 1464 da Giovanni Rucel-lai e inserito nel suo zibaldone, sembra riepilogare un atteggiamento ver-so la realtà che abbiamo visto già testimoniato, per esempio, dal Dati-ni. Il Rucellai ringrazia Dio

in prima d’avermi dato l’essere et avermi facto creatura razionale e inmortale, ché

cosí arebbe potuto farmi una bestia mortale e sanza ragione. Secondariamente deb-bo ringraziarlo che m’à facto nascere in luogo dove è la vera fede, cioè nel Cristia-nesimo, e ppuosi dire nel mezzo della fede, cioè vicino a Roma, dov’è la residenziadel nostro sanctissimo signore papa e de’ suoi honorevoli fratelli cardinali, che ra-presentano Cristo cogli apostoli, ché cosí arebbe potuto farmi nascere turco, moroo barbaro, che saria stato perduto sanza rimedio... E piú lo ringrazio della buonafortuna che m’à conceduta nel mio traffichare, ché di poche sustanze che mi furnolasciate l’ò acresciute e multiplicate, e al dí d’oggi mi truovo bella richezza chon bel-lo aviamento e chon gran credito e buona fede. E non tanto m’à conceduto grazianel guadangnare, ma anchora nello spenderli bene, che non è minor virtú che il gua-dangnare. Et credo che m’habbi facto piú honore l’averli bene spesi ch’haverli gua-dangnati e piú chontentamento nel mio animo. E maximamente delle muraglie cheio ò facte della chasa mia di Firenze, del luogo mio da Quarachi, della facciata del-la chiesa di Sancta Maria Novella e della logia principiata nella Vigna dirinpetto al-la chasa mia...

Ritornano le «muraglie» care al Datini: ma questa volta si tratta di «mu-raglie» opera di Leon Battista Alberti. E con tranquilla serenità il Ru-

41 giovanni di pagolo morelli, Ricordi cit., pp. 492 sgg.

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cellai poteva scrivere, in un ricordo del 1474: «... non avendo mai fat-to altro da cinquanta anni in qua se non ghuadangnare e spendere... n’òpreso grandissima dolcezza e grandissimo chontentamento, e achordo-mi che anchora sia maggiore dolcezza lo spendere che il ghuadangnare».Poco tempo dopo il Rucellai, truffato da un dipendente, perdeva 20 000fiorini investiti nella compagnia di Pisa, e aggiungeva con apparente di-stacco nel suo zibaldone: «per modo che insieme con altra aversità di ri-cho sono diventato povero. Che Dio di tutto sia lodato»42.

Il coagularsi di questo tipo di religiosità si accompagna a un’accen-tuazione dell’interiorità, dell’importanza dell’esperienza religiosa indi-viduale. Il successo di una devozione popolare come quella dei bianchichiude in un certo senso tutto un periodo. Le devozioni popolari indif-ferenziate socialmente, di fatto si estinguono. Il Dominici, che era sta-to tra i piú caldi fautori del moto dei bianchi, al punto da finire in esi-

lio per avere voluto introdurlo a Venezia, consigliava nella sua Regoladel governo di cura familiare, rivolta, come si è detto, a fedeli di ceto ele-vato: «Come spesso pecchi, spesso t’accusa; e almeno una volta il dí ticonfessa da Dio, come se fussi a piè del sacerdote, e la penitenzia ne pi-glia, Miserere mei Deus o simile». Questo invito alla meditazione, addi-rittura slegata dalle occasioni della confessione sacramentale, non era ri-volto a tutti. Poco piú avanti, riprendendo con forza un motivo tradi-zionale, il Dominici scriveva:

Però che debbi sapere sono permesse e ordinate le dipinture degli Angeli e San-ti, per utilità mentale de’ piú bassi. Le creature son libri de’ mezzani, le quali con-

template e intellette guidano nella notizia del sommo Bene. Ma le Scritture revela-te son principalmente per li piú perfetti, nelle quali si truova d’ogni verità increatae creata quanto la mente è capace, tutto saporoso cibo per la vita presente43.

Il costituirsi di un ceto mercantile colto – e tra le sue letture c’era an-che, come abbiamo visto, la Bibbia – faceva sí che i testi scritturali fos-sero sempre meno patrimonio esclusivo dei chierici. Senza dubbio, lapossibilità di accostarsi al testo sacro ebbe profonde (anche se non im-mediatamente appariscenti) ripercussioni religiose.

Anche all’altro estremo della scala sociale del laicato, vediamo che

tra la fine del Trecento e la fine del Quattrocento si verifica una sortadi differenziazione religiosa. Lo strato di superstizioni, credenze, pra-tiche magiche che si era conservato silenziosamente per secoli grazie al-

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42 Giovanni Rucellai ed il suo Zibaldone, I: Il Zibaldone quaresimale, pagine scelte a cura di A.Perosa, London 1960, pp. 117-18, 121-22.

43 dominici, Regola cit., pp. 56, 132.

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la paradossale fissità della tradizione orale, emerge in piú punti, comeun magma sotterraneo affiorante attraverso una crepa del terreno. Dueprocessi svoltisi verso la fine del Trecento indicano che le antiche tra-dizioni, forse di origine germanica, imperniate su una divinità femmi-nile legata al mondo dei morti, dispensatrice di ricchezza e di fertilità,si erano mantenute sorprendentemente vive – e non in un ambiente con-tadino, ma in una città come Milano44. Il culto di questa divinità, orachiamata Diana, come nei processi milanesi, ora Erodiade (come ci te-stimonia, per Firenze, il Passavanti a metà del Trecento) aveva radiciremote. Difficile dire in che misura la loro ricomparsa fosse legata a unhumus ereticale piú o meno decomposto – non per nulla Milano, cele-bre come «fossa di eretici», era stata a lungo un centro di dissidenza re-ligiosa. La mescolanza di elementi magici e di motivi dualistici di origi-ne verosimilmente catara, evidente in un gruppo di processi provenzali

della metà del Trecento, non fu forse eccezionale. L’intreccio tra so-pravvivenze ereticali e motivi folklorici a sfondo magico dovette esserefrequente, come testimoniano forse anche le accuse rivolte ai fraticellidi darsi convegno sul Barlotto (piú tardi, nome tradizionale dei luoghidi riunione delle streghe) per commettere orge sessuali. Su un altro pia-no, il proliferare di istituzioni del tipo delle «abbazie degli stolti» pie-montesi indica che in questo periodo il mondo folklorico, carnevalescoaveva acquistato una nuova vitalità. Alla lunga, tutto ciò non mancò dipreoccupare la gerarchia. Le teorizzazioni dei demonologi, che descri-vevano nei loro trattati le credenze sopravvissute, soprattutto nell’arco

alpino, a ogni tentativo di evangelizzazione, cercando di comporle in untutto coerente mediante nozioni giuridico-teologiche come quella del«patto» col diavolo, ebbero alla fine del secolo una sorta di riconosci-mento ufficiale con la bolla Summis desiderantes affectibus (1484). La ge-rarchia lanciava una vera e propria offensiva – grazie soprattutto al tri-bunale dell’Inquisizione – contro questa cultura folklorica, a sfondo ma-gico, in cui ormai si riconosceva la manifestazione, la presenza tangibiledel demonio. Il versetto dell’Esodo «Maleficos non patieris vivere» cheSalimbene aveva applicato volta a volta a generici «ribaldi» o agli odia-ti eretici apostolici, diventò il motto terribilmente chiaro della persecu-zione diretta contro streghe e stregoni. Le superstizioni dall’apparenzapiú innocente erano sempre piú spesso considerate indizio certo di stre-goneria: e l’accusa di aver stretto un patto col diavolo evocava necessa-

44 Cfr. e. verga, Intorno a due inediti documenti di stregheria milanese del secolo xiv , in «Ren-diconti del R. Istituto lombardo di scienze e lettere», s. 11, vol. 32, 1899, pp. 165-88.

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riamente le terribili immagini del sabba – la profanazione dell’ostia con-sacrata, le orge, il cannibalismo rituale.

6. «Reformare deformata».

Questo polarizzarsi di tendenze nella vita religiosa italiana tra la fi-ne del Trecento e la fine del Quattrocento aveva un elemento comune:si trattava di movimenti centrifughi, che testimoniavano l’esistenza diuna crisi profonda nella Chiesa. Tale crisi ebbe la sua manifestazionepiú clamorosa al vertice, con lo scisma d’Occidente, e la presenza si-multanea di due o addirittura tre pontefici che si scomunicavano reci-procamente. Quali lacerazioni, nella pratica e nelle coscienze, tutto ciòprovocasse, ci viene detto per esempio dalla Cronaca del Corpus Domini

redatta al principio del Quattrocento da una suora legata al Dominici,Bartolomea Riccoboni. Una parte del convento parteggiava, col Domi-nici, per papa Gregorio XII, e un’altra, con i superiori dell’ordine, perpapa Alessandro. Il vicario generale dell’ordine domenicano intervenneper sanare il contrasto,

e comandò per obedientia soto pena de excomunication che tutte dovesse nominarne la oration papa Alessandro e che chi questo non farà lui le punirà ben come re-belle. De che erano in grande tribolation, per che si quelle de papa Gregorio obe-diva, li pareva ofender misier Domenedio per che ne la sua conscienza li pareva chepapa Gregorio fosse el vero pastor, e se le desobediva le incoreva nela excomuni-cation; e sopra zò el se feva de grandissime oration con gran lacrime et a questo mo-

do stevemo in grandissime angustie. Et in questo mezo, avanti che compisse l’an-no [1409], questo Alessandro morite, de che tutti quelli che tengiva da Gregorioerano molto contenti, sperando de remagnir in paxe.

Ma lo scisma continua: viene eletto un nuovo papa, Giovanni, e le au-torità veneziane impongono di prestargli obbedienza.

Per la qual cosa – scrive la Riccoboni – el se faceva de grandissimi pianti e lamentia vederse constrecti a dover dir contra la sua conscientia; era una grandissima com-passion a veder tanti servi de Dio afflicti et non sapeva che partito li dovesse pren-der, o de dir contra conscientia credendo peccar mortalmente, over andar ramen-ghi per el mondo...45.

Riflesse nel microcosmo del chiostro, queste lacerazioni assumevano cer-to forme particolarmente gravi: ma l’inquietudine suscitata dallo scismaera diffusa. Ci fu chi, come il domenicano Manfredo da Vercelli, vide

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45 Cfr. g. dominici, Lettere spirituali, a cura di M.-T. Casella e G. Pozzi, Friburgo 1969, pp.277-78.

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in questi disordini il segno dell’approssimarsi della fine dei tempi. Maquesta predicazione apocalittica imperniata sul tema dell’Anticristo ri-mase un fatto isolato. Lo straordinario successo di Bernardino da Sie-na, che elargiva a un pubblico composto prevalentemente da artigiani ocommercianti un’oratoria semplice, facilmente pittoresca, attenta ai fat-ti minuti della vita quotidiana, incline alla morale pratica piú che all’il-lustrazione di grandi temi religiosi, è sintomatico. Altrettanto sintoma-tico lo scetticismo con cui Bernardino affrontava il tema dell’Anticri-sto:

Tu sai che molte volte è stato detto, insino quando era fanciullo udii che Anticri-sto era nato. Ma che dico io? insino al tempo delli Apostoli si disse che elli era na-to, e anco al tempo di santo Bernardo. E cosí anco oggi si dice, e poco tempo è chesi diceva fermamente. Doh, che pazzia è questa di coloro che vogliono sapere piúche Iddio non vuole che si sappia? Chi è colui che il sa? Non è creatura al mondoche il possa sapere, imperò che Iddio Cristo Gesú non volse dire alli discepoli, né

Cristo, in quanto uomo, nol seppe mai46

.Bisognerà aspettare la fine del secolo perché i temi apocalittici ripren-dano vigore.

Nella sua predicazione, Bernardino insisté moltissimo su una devo-zione elementare e facilmente comprensibile anche agli indotti comequella del nome di Gesú – attirandosi perciò l’accusa di favorire atteg-giamenti idolatrici. Per diffonderla, egli riprese quella predicazione iti-nerante che i francescani avevano di fatto abbandonato da tempo. Nonè un episodio isolato: nel corso del Quattrocento si assiste a una serie di

tentativi convergenti di ridar vigore agli ordini religiosi. Fin dal secoloprecedente il prestigio di questi ordini era fortemente diminuito, cometestimonia se non altro il sarcasmo corrente nei confronti dei frati ipo-criti e gaudenti. Si erano avuti tentativi come quello del mercante se-nese Giovanni Colombini, che aveva riproposto in termini di chiara de-rivazione francescana l’antico, e ormai scaduto ideale della povertà – ri-proposta che era stata smorzata e istituzionalizzata con la fondazione diun nuovo ordine, quello dei gesuati. Qualche decennio prima, semprenel Senese, un gruppo di nobili si era ispirato invece alla regola bene-dettina, finendo col dar vita a una nuova congregazione, quella di Mon-

te Oliveto47. Nel Quattrocento questi tentativi s’intensificano, si deli-nea un movimento mirante al ritorno all’osservanza delle regole primi-

46 Cfr. Le prediche volgari di San Bernardino da Siena dette nella piazza del Campo l’annomccccxxvii , ora primamente edite da L. Banchi, I, Siena 1880, pp. 68-69.

47 Cfr. c. gennaro, Giovanni Colombini e la sua «brigata», in «Bullettino dell’Istituto storicoitaliano per il Medio Evo e archivio muratoriano», n. 81, 1969, pp. 237-71; p. lugano, Inizi e pri-mi sviluppi dell’istituzione di Monte Oliveto, in «Benedectina», 1, 1947, pp. 44-81.

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tive: cosí, tra i domenicani, il Dominici fonda un convento dell’Osser-vanza a Venezia e poi a Fiesole. Anche iniziative aristocratiche e so-cialmente chiuse, come quella dei nobili veneziani che si erano riunitinel convento di San Giorgio in Alga per vivere poveramente in comu-ne, senza vincolo di voti, finiscono col confluire negli ordini esistenti,sia pure per rinnovarli: da San Giorgio in Alga prende le mosse Ludo-vico Barbo, fondatore della congregazione di Santa Giustina, basata sulritorno alla lettera della regola benedettina48. Per quanto decaduti, gliordini rimanevano realtà cospicue – non solo e forse neppure prevalen-temente dal punto di vista religioso – che era difficile ignorare. La loroforza d’inerzia spense o riassorbí le iniziative compiute in questo pe-riodo da piccoli gruppi di laici, di varia estrazione sociale. Partiti da unsilenzioso ma netto rifiuto delle istituzioni religiose esistenti, questigruppi finirono tutti inquadrati negli ordini – attraverso la fondazione

di conventi dell’osservanza o addirittura di congregazioni nuove, comequella dei canonici lateranensi.E tuttavia, queste iniziative dei laici, questa propensione a riunirsi

per vivere esperienze religiose in comune, sono significative. C’è un in-dubbio parallelismo con quanto si verifica nei Paesi Bassi, negli ambientidella Devotio moderna – anche se i rapporti di un personaggio come ilBarbo con la spiritualità della Devotio moderna sono stati indubbiamenteesagerati49. Si prenda per esempio un testo come il Libro devoto e frut-tuoso a ciascuno fedel christiano chiamato giardino de orationi attribuito aNiccolò da Osimo, redatto nel 1454, e poi piú volte stampato tra la fi-

ne del Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento. Avvertendo chese nel libro c’è qualcosa di men che benedetto, il lettore deve sottopor-lo alla correzione di «ciascaduno vero spirituale et servo di Dio special-mente a correttione della santa chiesia catholica», l’anonimo autore af-ferma che «sopra tutte le altre virtude singulare e specialissima è la vir-tude della oratione, però che essa è quella che fa parlar l’anima con Dio»;perciò, se «chi non ha la intelligentia di questa oratione» si dedica alle«abstinentie et altre fatiche corporale, bene che anche queste cose fac-cia per piacere a Dio, molto è dilongato dalla via spirituale». Svaluta-zione delle pratiche esteriori, insistenza sull’importanza della medita-zione: il tutto rivolto ai laici, anzi ai laici incolti, che tradizionalmentevenivano invece indirizzati verso forme di pietà elementari e semplifi-cate. Scrive infatti l’anonimo:

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48 Cfr. i. tassi, Ludovico Barbo ( 1381-1443), Roma 1952.49 Cfr. ibid ., pp. 118 sgg.

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della quale oratione, e della sua eccellentia et grandezza e utilità, molti hanno scrit-to copiosamente huomini prudenti esperti e spirituali; ma io indotto e grosso, con-siderando la indigentia di me stesso, et de molte altre persone, maschi e femine, lequale hanno poca scientia, e non possono intendere li libri litterali e scientifici, enondimeno anche lor cercano de accostarsi a Dio, e per lor anche è fatto il regno delcielo, e forsi piú tosto che per li superbi delle grande scientie, mi ho pensato di com-

ponere questa opera, et questo trattato de l’oratione in vulgare: acciò che questeanime idiote e simplice possano havere intendimento di questa oratione, e in essaesercitarsi […] volendo piú presto fare utilità che satisfare alla vanità e curiosità diquelli che cercano pur de haver parlamenti ornati, rhetorici et esquisiti...

Di fatto, il libro si dilunga soprattutto sull’orazione mentale: quella cioèche si fa «senza sono di voce e senza parola, ma con la mente sola e conlo spirito». Non è una strada aperta a tutti: «questa oratione è diffici-le, e senza difficultà non si può ad essa pervenire. E quando se è intra-to in essa è difficile et in essa perseverare [...] et tutto il corpo et il spi-

rito bisogna che ad essa si dia». Tutto il discorso è rivolto agli «spiri-tuali», contrapposti, secondo la terminologia paolina, ai «carnali»: masi tratta di spirituali laici. Ad essi l’anonimo consiglia di pregare in un«loco remoto e segregato dalli strepiti e romori delle gente». Perché «al-la oratione vocale la chiesia publica è lo loco proprio»; ma per l’orazio-ne mentale, «senza sono di voce e senza parola», le cose stanno in unaltro modo. Essa ha bisogno di una tecnica particolare, su cui l’anoni-mo si sofferma, riecheggiando temi già presenti nelle francescane Medi-tationes de passione Christi, il cui volgarizzamento era nel Quattrocentodiffusissimo. Cosí, per meditare sulla vita di Cristo, «utilissima e gio-

cunda meditatione», consiglia:habbi come uno specchio davanti dalli occhi della mente tua la vita sua. E sin-

gularmente havere nella mente la forma e l’habito del suo corpo sacratissimo [...]: equesto acciò che piú de lui ti possi inamorare, e piú caldamente nel suo amore ac-cendere et infiamare. Anchora ti serà utile formarti nella mente li luogi e le terre ele stantie dove lui conversava, e le persone che singularmente erano in sua compa-gnia, come era la nostra Madonna, santa Maria Maddalena, Marta, Lazaro e gli do-deci apostoli, formandoti nella mente alcune persone di santitade e vertú delle qua-le ti representino le sopraditte persone con le quale conversava messer Giesú Chri-sto frequentemente. E cosí essendoti representate quelle persone e quelli luogi perquesta memoria locale, piú facilmente reduchi a memoria tutti li fatti e le operatio-

ne che fece in questa vita messer Giesú Christo.E prosegue, intrecciando caratteristicamente la volontà di rapimento in-teriore e l’esigenza di rappresentarsi fisicamente gli oggetti della medi-tazione:

e cosí intrando nel tuo cubiculo incominciarai a pensare la vita de parte in parte,con indusia di tempo, non trascorrendo, ma con riposo e dimoranza, ogni cosa par-

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ticularmente ruminando, altramente non senteresti frutto della tua oratione. Et per-ché sopra tutto ti è bisogno continovamente havere nella memoria el tuo sposo, famistiero che nella mente tua ti formi uno huomo, el quale habbia la statura, l’habi-to, le fattezze, e gesti, e membri del corpo le quale havea messer Giesú Christo finche lui era in questa vita: le qual cose benché gli evangelii non porgano

tuttavia si trovano in un’epistola scritta da Lentulo, «canzeliero» di Ero-de – un’epistola naturalmente apocrifa, contenente una minuziosa de-scrizione dell’aspetto fisico di Cristo, redatta forse nel Trecento, e poiripetutamente stampata fino almeno agli ultimi anni del Cinquecento50.A questa tecnica della meditazione, a quest’uso della «memoria locale»darà una larghissima diffusione, di lí a qualche decennio, Ignazio diLoyola: e l’accostamento ha una base concreta, perché Ignazio si rial-lacciò proprio a quelle Meditationes de passione Christi con cui questoGiardino de orationi ha precisi punti di contatto. Dai gesuiti, questa tec-

nica introspettiva verrà naturalmente piegata a fini molto diversi. Qui,nel Giardino de orationi, essa mira a fornire ai laici – forse a gruppi dilaici, «maschi e femine»? – il modello di una pietà severa o appartata,lontana sia dalla «vanità e curiosità» dei dotti che dagli «strepiti e ro-mori delle gente». Questo filone di Pietà destinato alle «anime idiote esimplice» era destinato a arricchirsi di nuove implicazioni (e non si puònon sottolineare l’importanza della fortuna cinquecentesca del Giardi-no de orationi). Ma fin d’ora alcune caratteristiche sono evidenti: ac-centuazione dell’interiorità, indifferenza per i dogmi e le cerimonie, esi-genza di purificazione individuale, assenza di qualsiasi accenno all’esi-

genza della riforma della Chiesa.Quest’esigenza era invece al centro del movimento per il ritornoall’osservanza. La necessità di «reformare deformata» non era presen-te soltanto ai nobili veneziani riuniti a San Giorgio in Alga51. La con-danna della corruzione del clero e della mondanizzazione della Chiesa,ricorre con frequenza sempre maggiore nell’oratoria sacra quattrocen-tesca52. Sul finire del secolo essa si caricò di attese apocalittiche, in cuiconfluivano, a livelli diversi, calcoli astrologici e inquietudini religiose.Erano aspettative confuse, che andavano dalla predicazione, fondata su-gli scritti ermetici tradotti e messi in circolazione dal Ficino, di un’im-minente età dell’oro, al pronostico dell’Arquato «de eversione Euro-

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50 La stampa del Giardino de orationi da me consultata è quella apparsa a Venezia, per Pietrode’ Nicolini da Sabbio, 1535: cfr. cc. A ii v sgg., F iii r sgg., O viii r sgg.

51 Cfr. tassi, Ludovico Barbo cit., p. 15.52 Cfr. e. garin, Desideri di riforma nell’oratoria del Quattrocento, ora in La cultura filosofica

del Rinascimento italiano, Firenze 1961, pp. 166-82.

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pae», alla riscoperta dei grandi testi dell’escatologismo medievale53. Ladiscesa di Carlo VIII, l’inizio delle guerre d’Italia, la fine della «libertà»italiana furono avvertiti come eventi traumatici. Agli occhi di molti, lariforma della Chiesa doveva sfociare in un rinnovamento universale.

A queste tensioni, a queste aspettative le gerarchie ecclesiastiche nonriescono a far fronte. Tra la fine del Quattrocento e il principio del Cin-quecento molte città italiane sono percorse da predicatori improvvisatiche lanciano oscure profezie. La vicenda del Savonarola va vista su que-sto sfondo – anche se ovviamente la personalità del frate e l’ecceziona-lità della situazione fiorentina ne fanno un caso a parte. Ma anche do-po il supplizio del Savonarola l’atmosfera religiosa di Firenze rimane tu-multuosa. L’orafo Pietro di Bernardo, già capo dei «fanciulli»savonaroliani, rivendica il dono della profezia ai laici «indotti» e «idio-ti», affermando che essi comprendono gli arcani della Scrittura meglio

del clero. Divenuto capo della setta degli «Unti»,cominciò a sua seghuaci a dare nuovi precepti, dicendo che la Chiesa s’aveva collaspada a rinnovare, e che doppo la morte di fra’ Girolamo non era rimasto huomogiusto in terra; in perché non era piú necessario confessarsi, perché tutti e’ frati epreti della Chiesa d’Iddio erano tepidi; e per questo nessuno, se non facta la reno-vatione, se confexassi.

Di qui, l’insistenza sull’orazione mentale, il rifiuto di sentir messa, lascelta della povertà54.

Con gli «Unti» siamo in un ambito nettamente ereticale. Ma la pun-

gente, ansiosa preoccupazione per la salvezza individuale, cosí caratte-ristica di quest’età, portava anche coloro che non avevano alcuna vo-lontà di eterodossia a guardare con diffidenza e distacco i veicoli sacra-mentali offerti dalla Chiesa. Tra i confessionali del tempo, cosí minuziosinello sforzo di racchiudere e ordinare tutte le colpe, tutte le infrazionipossibili – dai vari tipi di contratti fraudolenti alle varie combinazionidi rapporto sessuale –, cosí sottilmente schematici, cosí fondamental-mente aridi, e la spasmodica tensione di Pietro Paolo Boscoli condan-nato a morte, che dopo aver allontanato come una distrazione le imma-gini sacre, si sforza di «unir lo spirito a Dio», e teme di non riuscirci, si

avverte uno scarto profondo55. Certo: l’esperienza del condannato a

53 Sull’Arquato cfr. e. garin, L’età nuova. Ricerche di storia della cultura dal xii al xvi  secolo,Napoli 1969, pp. 105-11 (con bibliografia).

54 Cfr. c. vasoli, L’attesa della nuova èra in ambienti e gruppi fiorentini del Quattrocento, inL’attesa dell’età nuova nella spiritualità della fine del Medioevo, convegni del Centro di Studi sullaspiritualità medievale, III, Todi 1962, p. 398.

55 La morte di Pietro Paolo Boscoli cit., p. 69.

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morte, o comunque di chi sa di dover morire, non è paragonabile a nes-sun’altra, e comporta una tensione (eventualmente anche religiosa) ec-cezionale. Ma proprio quest’esperienza diventò in questo periodo, sin-tomaticamente, oggetto di numerosi scritti di pietà. In primo luogo, le Artes moriendi. Lo sforzo di consolare il morente che si sentiva ango-sciato anche perché non aveva piú la possibilità di compiere opere buo-ne, induceva a sottolineare la centralità della fede in Cristo ai fini dellasalvezza. La dottrina della giustificazione per fede, cosí largamente dif-fusa nell’Italia dei primi decenni del Cinquecento, si affermò anche perquesta via56. Nella maggior parte delle Artes moriendi quest’esortazionealla fiducia era accompagnata dalla raffigurazione degli orrori della mor-te, del peccato e dell’aldilà, che dovevano indurre il morente al penti-mento. Ma in un testo come il Ricordo di fare il transito felice de la mor-te inserito dal minorita milanese Francesco da Mozzanica in calce a un

confessionale apparso al principio del Cinquecento, si trovano accentidiversi. A proposito della tentazione della disperazione che coglie gli in-fermi, si dice che

el diavolo, quando lo infermo sarà in angonia, tuti li peccati ge representa e portalí davanti, maxime quelli che non haverà confessati, aciò per questo modo il con-duca a desperatione. E nondimeno nullo per questo si desperi de la misericordia deDio, etiamdio se lo havesse ben comesso piú latrocinii, furti e homicidii e altri gran-dissimi e laydi peccati che non sono le gozze de l’aqua del mare e li granelli de l’are-na, etiamdio se in vita sua non havesse facto penitentia, né se ne fusse confessato,né etiamdio morendo non se ne potesse confessare, nondimeno non se debe despe-rare [...]. Solo il peccato de la desperatione he quello che non se po’ medicare [...].

E se caso fusse ch’el fusse certo e chiaro de essere nel numero de li dainnati, non-dimeno per questo non se debe desperare.

Rimedio alla disperazione, afferma Francesco da Mozzanica citando Ber-nardino da Siena, è la meditazione del Cristo crocifisso57.

Queste affermazioni non avevano nulla di eterodosso, ma estrattedal contesto, esprimevano senza dubbio una netta svalutazione dell’im-portanza della confessione, e in generale della mediazione ecclesiasticaai fini della salvezza. Portando all’estremo questi motivi, l’anonimo au-tore (quasi certamente un francescano) del Libro devotissimo della mise-

ricordia de Dio apparso a Bologna nel 1521, e dedicato anch’esso ai con-dannati a morte in generale e ai moribondi, arrivava a sostenere che lo

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56 Cfr. r. klein, La dernière méditation de Savonarole, in «Bibliothèque d’Humanisme et Re-naissance», 23, 1961, pp. 441 sgg.

57 francesco da mucianica, In nomine Iesu. Questo si è una brevissima introductione, Milano1510, cc. K viii – L r.

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stesso peccato contro lo Spirito santo, che nella Scrittura è dichiaratoirremissibile, può essere perdonato:

...Retorna adoncha, anima illaqueata e ligata da molti peccati, a Giesú Christo mi-sericordioso, benegno e pietoso, el quale è apparecchiato a remettere e perdonartetutte le tue iniquitade e sceleritade, se bene etiandio havesse peccato in Spirito san-

to, del qual se dice che non se remette né in questo mondo né in l’altro. Ma io te di-co cosí, che se tu havesse le migliara de millioni de peccati in Spirito santo, e tu tevoglie convertire a Dio, ello si è tanto benigno, caritativo e misericordioso che tut-ti te li remetterà, e perdonerà, se veramente ne serai bene contritto...58.

Qui si andava ben al di là della possibilità di un perdono divino del pec-cato contro lo Spirito santo, cautamente ammessa in circostanze ecce-zionali dallo stesso san Tommaso. Le affermazioni dell’anonimo autoredel Libro devotissimo anticipavano temi ereticali, che ricorreranno peresempio negli scritti di Ochino. Ma soprattutto riducevano il problemadella salvezza a un rapporto personale tra il fedele e il Cristo misericor-dioso.

7. La crisi del primo Cinquecento.

Questa pietà cristocentrica, dalle tonalità appassionate e sentimen-tali, era, nell’Italia del primo Cinquecento, comune agli ambienti piúvari, da quelli ortodossamente cattolici a quelli ereticali59. Era una pietàche erompeva fuori dai quadri tradizionali, perciò quasi inesprimibile –

e di fatto espressa, per una scelta stilistica che era anche una scelta re-ligiosa, con un ricorso, ora deliberato ora spontaneo, all’arcaismo. Ciòfu reso possibile dalla diffusione della stampa. Tra la fine del Quattro-cento e il principio del Cinquecento il pubblico dei lettori si trovò im-provvisamente a poter disporre di una quantità di testi religiosi – rac-colte di preghiere, scritti di pietà, commenti scritturali – risalenti a cin-quanta, cento, trecento anni prima. Non c’è dubbio che per il lettorecomune questi testi, per il loro carattere, e per il fatto di essere stati da-ti alle stampe, erano avvertiti come testi contemporanei. Gli scritti mag-giori di Gioacchino da Fiore, il commento all’Apocalisse redatto

dall’oscuro domenicano Federico Veneto nella seconda metà del Tre-cento, e la raccolta di incisioni apocalittiche ricalcate su quelle di Dürer– tutti libri stampati a Venezia tra il 1510 e il 1520 – furono letti o sfo-

58 Libro devotissimo cit., Bologna, per maestro Benedetto libraro, 1521, c. 14r.59 Cfr. d. cantimori, Le idee religiose del ’500, in Storia della letteratura italiana, diretta da E.

Cecchi e N. Sapegno, vol. V, Milano 1967, pp. 7 sgg.

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gliati come testi che rispondevano alle inquietudini del presente60. Que-sto rigurgito di un passato dimenticato contribuisce certamente a spie-gare certe caratteristiche arcaicizzanti della letteratura religiosa del pri-mo Cinquecento, in cui nuovo e antico creano spesso un intreccio stu-

pefacente. Ma l’arcaismo deliberato è ancora piú significativo. Si prendail caso delle Meditationes de passione Christi dello pseudo-Bonaventura –un testo, cioè redatto nella seconda metà del Duecento o al principio delTrecento, e volgarizzato durante il Trecento. Nel corso del Quattro-cento il volgarizzamento conobbe una straordinaria fortuna, che implicòampliamenti e rielaborazioni, tendenti, in un testo già ricco di notazio-ni patetiche, a rispondere a quelle richieste di maggiore emotività e im-mediatezza che caratterizzavano, come abbiamo visto, la pietà religio-sa di questo periodo. Cosí, il passo sul compianto del Cristo morto, chenel testo latino (qui ricalcato dal volgarizzamento) suonava semplice-

mente «Alii circumstant et omnes faciunt planctum magnum super eum:omnes enim plangunt eum amarissime, quasi unigenitum» diventò, inuna stampa delle Meditationi apparsa a Firenze verso il 1495: «...tantoamaro pianto facevano che pareva ben verificato el prophetico decto diHieremia: Lugebam unigenitum: fac tibi planctum amarum. Ma sopra tuc-te l’addolorata madre faceva piatoso lamento. O con quanta affetionericeveva et pigliava le pendente braccia del suo charo figluolo [...]. Etapena poteva pel dolore alchune parole proferire, ma sforzata dal ma-terno amore con pia voce gridava come poteva, dicendo: “Che hai com-messo, o dolcissimo figluolo, che in tanta acerba morte se’ stato con-demnato? Che farà da hora innanzi la tristissima et mestissima madretua? Oimè, amantissimo figluolo mio Giesú, in quante amaritudini misono convertite le dolceze che solevo da te havere” ... etc. etc.». Ma inun’edizione delle Meditationi apparsa a Venezia ai primi del Cinquecentoil passo subí un’ulteriore modificazione, attraverso l’inserzione (non iso-lata) di una lauda di Jacopone, che veniva a creare un singolarissimo im-pasto stilistico-emotivo:

... Et cosí sopra tutti li membri del fiolo piangendo et basandoli mo l’uno mo l’al-tro, faceva pianto tanto amaro che quasi haveria provocato al lamento etiam li saxi,s’el fusse stato possibile [...]. Et perché apena per dolore poteva parlare, pur sfor-zata da l’amore con pietosa voce gridava come poteva dicendo, et insieme con leiquello innamorato Jacopone:

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60 Su questa letteratura apocalittica cfr. in generale m. reeves, The Influence of Prophecy inthe Later Middle Ages. A Study in Joachimism, Oxford 1969. Per i testi citati, vedi in particolare Apocalipsis Iesu Christi... cum nova expositione in lingua volgare composta per el reverendo theologo et angelico spirito frate Federico Veneto ordinis predicatorum, Venetia, Alexandro de Paganini, 1515; Apochalypsis Ihesu Christi, Venetiis, Alexander Paganinus, 1516.

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El cortello del gran doloreM’ha passato fin al coreBen m’el disse SymeoneQuando al tempio io te hebi dato.O dolceza del mio coreO fonte pieno de dolore

O percosso mio splendoreO dolce mio viso rosato.Apri li ochii o vita miaRisguarda la trista de MariaL’anima già se parte viaDal mio corpo amaricatoetc. etc.

In questa complessa stratificazione – il testo, probabilmente duecente-sco; il volgarizzamento trecentesco; le sovrapposizioni quattrocentesche– si ricorreva a Jacopone per far corrispondere a un momento di massi-ma tensione emotiva una scelta stilistica che unisse insieme i valori del-la «semplicità» e della «schiettezza». Del resto, il proemio all’editio prin-ceps di Jacopone (Firenze 1490) avvertiva: «Siano adunque confortati lilectori a legere con attentione esse laude simplici quanto al stilo et pa-role, ma piene di sancta doctrina et de alti sentimenti...»61.

Non sappiamo se l’inserzione di testi di Jacopone in questa stampaveneziana delle Meditationi sia da attribuire a influssi di tipo fraticelle-sco62. Essa testimonia comunque una tendenza generale, riscontrabileanche nella pittura di questo periodo. Gli elementi deliberatamente ar-

caici, medievaleggianti, di uno dei capolavori del primo manierismo fio-rentino, la Deposizione dipinta nel 1521 dal Rosso per una confraterni-ta laicale controllata (si noti) dai francescani, la Compagnia della Crocedi giorno di Volterra, dànno luogo a un impasto stilistico composito cherichiama per analogia il passo già citato delle Meditationi apparse a Ve-nezia63. Anche l’emergere, negli stessi anni, di una pittura inquieta, agi-tata, anticlassica come quella del Pontormo, si spiega probabilmente al-la luce di queste esigenze nuove della pietà religiosa, e non di motiva-zioni esclusivamente formali.

61 Cfr. in generale sulla fortuna delle Meditationes, a. vaccari, Le «Meditazioni della vita diCristo» in volgare, in Scritti di erudizione e di filologia, I, Roma 1952, pp. 341-78.

62 Cfr. c. dionisotti, Resoconto di una ricerca interrotta, in «Annali della Scuola Normale Su-periore di Pisa, Lettere, storia e filosofia», s. II, XXXVII, 1968, pp. 264-65.

63 Cfr. a. cinci, La chiesa di S. Francesco e la Madonna di S. Sebastiano, Volterra 1884, pp. 8-9;il Cinci, contrariamente alla tradizione, afferma che il dipinto fu commissionato dalla contiguaCompagnia della Croce di notte che del resto era anch’essa legata alla chiesa di San Francesco. Sul-le connessioni della Deposizione del Rosso con l’arte medievale hanno insistito studiosi comeFriedländer, Kusenberg, Hartt.

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All’aspetto piú appariscente della crisi religiosa italiana, e cioè il pro-fetismo, la gerarchia cercò di porre rimedio con la condanna pronun-ciata nel V concilio lateranense (1516). E di fatto, dopo qualche annoquest’ondata sembrò placarsi – anche se filoni profetici riapparvero do-po qualche tempo, soprattutto in ambienti ereticali. In un certo senso,la condanna del profetismo non autorizzato chiudeva un periodo, in cuila riforma della Chiesa aveva assunto apparentemente i caratteri di unmoto incontrollato e tumultuoso, ricco soprattutto di iniziative dal bas-so: ora, con il Concilio lateranense, la gerarchia sembrava aver ripresosaldamente la guida della Chiesa. Appare perciò emblematica la letterascritta dal Contarini, proprio nel 1516, all’amico camaldolese Paolo Giu-stiniani, che gli chiedeva un giudizio articolato sul Savonarola – e cioèsu colui che, a torto o a ragione, aveva finito col simboleggiare, per lasua tragica morte, questo periodo di riforma della Chiesa condotta sot-

to il segno del profetismo. La risposta del Contarini era complessa. An-zitutto, sottolineava (per prudenza, in greco) che non bisogna ubbidireal papa se ordina qualcosa contro l’onor di Dio. Poi, parlava di Savona-rola con ironico distacco:

quando non vedessi in quello huomo una profondissima doctrina et non havessi in-teso della sua sancta vita, io di quelle revelationi ne haveria riso. Et dipoi il gran-de ingegno et gran doctrina mi danno sospecto di fictione; pure il fingere una cosacosí puerile mi pare da nuovo, in un tale huomo non so quello mi creda. Tamen cumdubia in meliorem partem sint trahenda, io non faria mai iudicio di questa cosa etcredo che solo Dio possi fare.

Certo, Savonarola non era un eretico («non ci è cosa alchuna contro allafede»); ma sulla sua figura, e su tutta la questione del profetismo, su cuiil concilio lateranense aveva assunto una posizione cosí recisa, il Contari-ni finiva col sospendere il giudizio. Ciò che gli premeva dire era altro:

Questa rennovatione della chiesa io non lla so per prophetia, ma la ragion naturaleet divina me la decta. La naturale perché le cose humane non vanno secondo una li-nea recta infinita ma vanno secondo una linea circulare; benché tutte non fanno elperfecto circulo et quando son venute a un certo termine di augumento vanno poiin giú. Applicate voi. La rag[i]on divina mi decta etiam che qualche volta Dio deb-ba regulare la sua chiesa, il che debba [essere] sommamente desiderato da tutti li ch-ristiani64.

La ragione naturale e quella divina erano cosí nettamente contrappostealla profezia. Con questa serena fiducia nella possibilità di condurre unariforma della Chiesa dall’interno, senza cataclismi, in un ambito circo-

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64 Cfr. f. gilbert, Contarini on Savonarola: An Unknown Document of 1516, in «Archiv fürReformationsgeschichte», 59, 1968, p. 149.

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scritto, il Contarini doveva condurre la sua battaglia, ed essere infinesconfitto, sia pure dopo un quarto di secolo.

Accanto al profetismo, e distinto da esso, un altro elemento di crisie quindi di preoccupazione per la gerarchia era dato dalla diffusione, inambienti colti, di dottrine eterodosse come quella della mortalitàdell’anima. La polemica contro Pomponazzi, che vide impegnato in pri-ma fila, tra gli altri, lo stesso Contarini, fu certo importante. Ma accantoagli opuscoli polemici di un Contarini e di un Bartolomeo Spina, scrit-ti in latino, con abbondanza di citazioni e di glosse aristoteliche, rivol-ti quindi ai soli dotti, troviamo anche reazioni piú elementari, che sem-brerebbero indicare una diffusione (o almeno il timore di una diffusio-ne) di queste dottrine anche tra un pubblico culturalmente menopreparato. Fin dal 1515, un certo Gerolamo da Bologna stampava a Ve-nezia una Operetta nova spirituale dedicata prevalentemente a una pole-

mica contro gli ebrei, che tuttavia conteneva un’appendice scritta «aconfusione... de li heretici christiani che dichano non essere altro vive-re che questo et che morto el corpo è cassato ogni cosa...» L’autore, chefin dal titolo si definiva «ispirato da Dio», dopo aver dichiarato aper-tamente la propria ignoranza («io non ho aperto libro né ho havuto com-pagno né maestro che me dicesse una parola, excepto lo scriptore chescriveva quello che Dio me inspirava... io non so parlare taliano...») silanciava in argomentazioni di questo genere:

Io te dico che la potentia del mantenimento con el quale l’huomo è mantenutonon è come quella potentia che è nel cavallo e l’asino: per quanto e l’homo è man-

tenuto da quello mantenimento della parte de l’anima che ha lui de homo, e l’asi-no è mantenuto in la parte del mantenimento asinale; e l’aquila è mantenuta dal’anima che ha essa. E certo, per tutto se dice mantenimento: e questo se intendein el partecipare del nome solamente, e non perché li casi siano uno in sé medesi-mo.

Infine concludeva: «Intendi bene questi casi che sono assai sotili, e mol-ti inzampano in esso, e specialmente di quelli philosophi antiqui». Mala polemica non era rivolta evidentemente contro i filosofi antichi, ben-sí, come avvertiva il titolo stesso dell’operetta, contro non meglio spe-cificati «heretici christiani». Che un frate ignorante come questo Ge-

rolamo da Bologna fosse indotto a occuparsi di tali argomenti, dà da pen-sare. È verosimile che questi atteggiamenti di miscredenza non fosseropiú limitati a conventicole ristrette, inclini magari a un culto estetiz-zante dell’antichità, come quella riunita a metà del Quattrocento attor-no a Pomponio Leto. Comunque, Gerolamo da Bologna finiva esortan-do il suo ipotetico lettore in questi termini:

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como el salvatore Christo Iesu benedetto per la sancta passione t’ha recomperato,per la sua sancta passione, la quale te priegho che tu con tua mente l’abbi inanti alconspecto tuo, e non sia ingrato de tanto grandissimo beneficio che lui te ha volu-to comperare per lo sangue suo; questo è quello che dice: Redemisti me domine deusveritatis65.

Ritorna la consueta pietà cristocentrica, l’enfatica accentuazione dell’ef-ficacia esclusiva, ai fini della salvezza, della passione di Cristo, qui ac-compagnata dall’espressione «beneficio di Cristo» destinata a tanta for-tuna, da Erasmo (che l’usò per la prima volta in quello stesso anno 1516)a Melantone, fino al Trattato utilissimo del beneficio di Giesu Christo, loscritto piú celebre e diffuso del movimento riformatore italiano66. Il ri-correre di quest’espressione in un testo come l’Operetta nova spiritualedi fra Gerolamo da Bologna sembra quasi simboleggiare i molteplici fi-li che congiungono gli atteggiamenti religiosi del primo Cinquecento,

ancora cosí poco studiati, a quelli, tanto piú complessi (e diversi) dellametà del secolo.In questa situazione inquieta e confusa cominciarono a arrivare in

Italia, verso il 1520, le prime notizie e i primi scritti dei riformatori d’Ol-tralpe. Le idee di questi uomini cominciarono a circolare prima ancorache si potesse parlare di gruppi organizzati su posizioni favorevoli allaRiforma. Nella generale incertezza sulla liceità di questa o quella dot-trina, gente che avrebbe respinto recisamente la prospettiva di abban-donare la Chiesa in cui era nata e vissuta prestava volentieri orecchio aitemi della propaganda dei riformatori. Questa situazione d’incertezza,

che favoriva oggettivamente la diffusione delle nuove idee, durò un paiodi decenni. L’alternarsi in una stessa città, a poche settimane di distan-za, di predicatori appartenenti magari allo stesso ordine che sosteneva-no tesi opposte non poteva non stimolare l’attenzione dei fedeli. Glistessi sotterfugi adoperati dai fautori delle dottrine riformate, il loro di-re e non dire, il loro parlare per accenni e implicazioni, accrescevano lasensibilità dell’uditorio67. Ma l’elemento di attrazione maggiore era da-to forse dalla lettura e dalla spiegazione della Scrittura. Si verifica inquesto periodo una vera riscoperta dei testi sacri, e in particolare di sanPaolo. Quando l’Ochino predica a Napoli sulle lettere di san Paolo, icuoiai discutono per le strade sui problemi della giustificazione e della

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65 gerolamo da bologna, Operetta nova cit., e. d 3 v sgg.66 Cfr. s. caponetto, Erasmo e la genesi dell’espressione «Beneficio di Cristo», in «Annali del-

la Scuola Normale Superiore di Pisa», s. II, vol. XXXVII, 1968, pp. 271-74.67 Cfr. a. rotondò, Atteggiamenti della vita morale italiana del Cinquecento: la pratica nicode-

mitica, in «Rivista storica italiana», LXXIX, 1967, pp. 1012 sgg.

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grazia. Questa passione diffusa si spiega in una situazione di privazio-ne scritturale come quella che si era creata non solo in Italia. Il testo bi-blico circolava sepolto dalle glosse, l’oratoria sacra tendeva spesso alladivagazione o allo sfoggio erudito. Soprattutto, la possibilità di dispor-re di testi maneggevoli e relativamente a poco prezzo, determinata dalprogresso della stampa, aveva creato un pubblico di lettori potenziali.Allorché, nel 1539, il Brucioli pubblicò la sua traduzione della Scrittu-ra, sottolineò nella dedicatoria l’importanza, sul piano religioso, dell’usodel volgare: Cristo aveva parlato ai pescatori, alle donne, alla poveragente, in un linguaggio piano e elementare; coloro che cercano di impe-dire la traduzione della Scrittura vogliono far sí che la parola di Dio nonarrivi alle persone a cui è realmente destinata68. Per molti, la riscoper-ta della Scrittura e l’adesione, magari inizialmente inconsapevole, alledottrine riformate furono una cosa sola.

Ma quest’adesione non significò accoglimento passivo. A tutti i li-velli, la situazione religiosa preesistente agí come una griglia, che lasciòfiltrare certi temi e non altri. Ciò è evidente in un caso come quellodell’umanista Lisia Fileno, che recatosi a Strasburgo spinto da precisiinteressi religiosi, entra in contatto con ambienti che verosimilmente lospingeranno ad assumere, al suo ritorno in Italia, posizioni radicali. Maquesto è, ovviamente, un caso speciale. Tuttavia, anche in individuiprovvisti di una consapevolezza molto minore si scorge la tendenza adaccentuare temi come la giustificazione per fede o il rifiuto della me-diazione ecclesiastica, accanto a una piú o meno accentuata indifferen-

za (o addirittura insofferenza) nei confronti delle sottigliezze teologi-che. Per questa via si arrivava spesso alla svalutazione dei sacramenti oalla loro interpretazione in chiave spiritualistica – e quindi a posizioniereticali, o a comportamenti nicodemitici, o a entrambe le cose.

Uno degli elementi decisivi dell’atteggiamento italiano nei confron-ti della Riforma sembra essere stato, quindi, la presenza di questo hu-mus religioso indifferenziato, comune a cattolici, riformati e eretici insenso proprio. Si può fare un esempio abbastanza caratteristico. Nel1536 apparve a Genova una traduzione in volgare delle visioni di An-gela da Foligno, intitolata Libro utile et devoto nel quale si contiene la con-versione, penitentia, tentatione, dottrina, visioni et divine consolationi del-la beata Angela da Foligni. L’opera era già stata stampata, nel testo lati-no, a Venezia verso il 1520 da Lucio Paolo Roselli, futuro corrispondentedi Melantone. L’anonimo curatore di quest’edizione genovese avverti-

68 Cfr. Il Nuovo Testamento di Christo Giesu signore et salvatore nostro, tradotto di greco in lin- gua thoscana da Antonio Brucioli, Venezia 1541, dedicatoria.

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va nella dedicatoria di aver voluto tradurre questi scritti in volgare per-ché fossero piú diffusi, senza però badare

ad ellegante parlare né a lingua tosca o cortigiana, ma solo a farlo intelligibile: peròsi eshorta ogniuno ad legerlo solamente per il suo utile et salute dell’anima, qualetanto piú gli ritroverà quanto piú consideratamente legendo lo masticherà, et il ma-

sticato et considerato metterà con la opera in essecutione. Perché non li lettori, mali fattori delle bone opere acquistano la gratia.

Quest’insistenza su un cristianesimo pratico e fattivo era ribadita subi-to dopo con forza ancora maggiore:

hora si pregha et eshorta ogniuno universalmente che non si fastidisca legere (perlo bene suo) questo utilissimo libro, ove ritroverà la via regia piana et facile a tro-var Dio (cioé della povertà, dolore, et disprezo) della quale nisciuno si puotrà scu-sare, come si potrebbe della contemplatione della incomprensibile trinità.

Difficile dire in quale ambiente nasca questo testo. Francescano, moltoprobabilmente; forse legato a qualche estrema propaggine di tipo frati-cellesco? In ogni caso, è anche partendo da contrapposizioni come que-ste (povertà, dolore, disprezzo / incomprensibile trinità) che si com-prende l’evoluzione di tanti eretici italiani – basti pensare all’Ochino.

8. Gruppi riformatori e ripresa di antiche superstizioni.

Un movimento riformatore organizzato in Italia non ci fu. Ci furo-

no comunità sparse, o, piú spesso, raggruppamenti dai confini mutevo-li o incerti. Troviamo, cosí, nuclei di artigiani o di mercanti che si riu-nivano per leggere insieme la Scrittura, o per celebrare la cena calvini-sta, riuscendo talvolta a sottrarsi per anni e anni alla vigilanzadell’Inquisizione. Mancavano tuttavia legami organizzati e stabili, talida superare la frammentazione delle situazioni locali, piú o meno favo-revoli. Certo, le idee e gli uomini circolavano, c’erano contatti, incon-tri; gli esuli religionis causa mantenevano spesso rapporti, economici odi altro tipo, con il luogo d’origine. Libri e fogli volanti venivano dif-fusi clandestinamente. La possibilità che avevano i membri degli ordi-

ni religiosi di spostarsi da un capo all’altro della penisola (cosí, il bene-dettino don Benedetto da Mantova passa da Mantova a Venezia, a Ca-tania, a Ferrara, allacciando rapporti con gli ambienti piú vari) eraeccezionale: ma in generale questi gruppi eterodossi appaiono caratte-rizzati da una grande mobilità e vivacità. In questo modo le idee dellaRiforma penetrarono largamente nella società italiana, toccando am-bienti colti e aristocratici, come il circolo riunito a Napoli attorno al

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Valdés, entrando nei conventi, arrivando fino agli strati artigiani dellecittà. Ma fu una penetrazione limitata ad ambienti cittadini: tranne tra-scurabili eccezioni, le idee, le inquietudini, le aspettative riformatricinon si diffusero nelle campagne. Se si pensa – è un accostamento rozzoma illuminante – a quella che era stata la parabola storica dei gruppi ere-ticali medievali, il contrasto è evidente. Nati nelle città, quei gruppi ave-vano mantenuto fino all’ultimo legami col mondo contadino (la dispe-rata resistenza di fra Dolcino in Valsesia si può considerare emblemati-ca). Nell’Italia del Cinquecento, caratterizzata da una profonda, e ormaiconsolidata frattura tra città e campagna, ogni tensione religiosa etero-dossa si esaurí nell’ambito urbano.

Cosí, nonostante l’ampiezza e la capillarità della loro penetrazione,le correnti riformatrici finirono con lo scontare un limite politico e re-ligioso che aveva origini antiche. Anche l’audacia degli intellettuali ita-

liani in materia di religione (un’audacia destinata ad alimentare, attra-verso l’azione e gli scritti degli esuli, il pensiero europeo di quasi due se-coli) si tradusse, in pratica, nell’incomprensione dell’importanza storicadelle chiese organizzate: la lucida intuizione di Machiavelli sull’effica-cia politica della religione, rimase isolata69. D’altra parte, la presenzaincombente nella penisola del dominio spagnolo rendeva impossibile unapolitica di alleanza tra i riformatori e i principi, quale si era avuta inGermania. In qualche decennio, con l’aiuto di efficaci strumenti re-pressivi come il tribunale del Sant’Uffizio, la Chiesa di Roma riuscí ariprendere il sopravvento, spegnendo uno dopo l’altro gli sparsi focolai

di dissidenza religiosa.L’unico gruppo che seppe darsi una base settaria organizzata fu quel-lo degli anabattisti. Di qui, oltre che dal radicalismo delle loro dottrine,essi derivarono quella consapevolezza di costituire un’entità inassimila-bile al resto del movimento riformatore, che non mancò di imporsi allestesse gerarchie cattoliche. Abituate a combattere con una imprecisatae indifferenziata «eresia luterana» (un opuscolo polemico specificamenteantizwingliano come l’Enchiridion del domenicano Gerolamo da Mono-poli, apparso postumo a Napoli nel 1539, è assolutamente eccezionale)70

esse scoprirono, verso la metà del secolo, l’esistenza di una setta netta-mente caratterizzata, sparsa un po’ per tutta la penisola. La repressio-ne, nei confronti di uomini che rifiutavano dogmi fondamentali del cri-

69 Cfr. d. cantimori, Niccolò Machiavelli: il politico e lo storico, in Storia della letteratura ita-liana cit., vol. IV, Milano 1966, pp. 7 sgg.

70 Enchiridion magistri Hieronymi Monopolitani ordinis predicatorum de necessitate bonorum ope-rum et veritate sacramenti eucbaristie adversus Zuinglium, Neapoli, Ioannes Sultzbacchius, 1539.

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stianesimo come la divinità di Cristo, e minavano le basi stesse del po-tere politico dichiarando l’illiceità del portare armi e di esercitare la ma-gistratura, fu durissima. Perfino la repubblica di Venezia, cosí gelosadella sua indipendenza nelle materie ecclesiastiche, collaborò in questaoccasione con la curia romana. Cosí l’anabattismo, che si era diffuso,grazie a una propaganda capillare condotta soprattutto tra i ceti arti-giani, dal Veneto, all’Emilia, alla Toscana, con propaggini che arriva-vano fino in Calabria e nelle Puglie, fu sradicato, cancellato dalla realtàitaliana. Rimasero soltanto poche tracce, che si spensero o furono spen-te nei decenni successivi. I semi del radicalismo religioso furono affida-ti, come si è detto, alla diaspora ereticale.

Ma anche l’anabattismo, e cioè lo sforzo piú coerente allora tentatodi mettere in discussione, su basi religiose, la religione e la società co-stituite, non era penetrato nelle campagne. Nella tumultuosa agitazio-

ne religiosa che percorre gran parte del Cinquecento italiano, i conta-dini appaiono in sostanza assenti. Un caso come quello della Calabrianon è generalizzabile, per la presenza di un’antica comunità eterodossacome quella valdese – del resto, destinata anch’essa a una brutale di-struzione71. La storia religiosa delle campagne italiane del Cinquecentosegue strade proprie, che vanno viste a parte.

Nella crisi generale della società italiana si assiste a una vera eruzio-ne di quel mondo folklorico che era stato compresso per secoli, e cheaveva cominciato a venire alla superficie già nella seconda metà del Quat-trocento. L’indebolirsi delle capacità di controllo da parte della gerar-

chia ecclesiastica, diede a questo mondo folklorico la possibilità di espri-mersi con una straordinaria ricchezza di forme. La quantità e varietà dicredenze superstiziose registrate nei confessionali del principio del se-colo, di solito sotto la rubrica «Trasgressioni del primo comandamen-to», dà un’idea della loro diffusione. Il già ricordato Francesco da Moz-zanica, per esempio, elencava:

De le superstitione. De uceli maxime de corvi. Animali. Che le strie se con-verteno in gatte. De farse guardare in su le mane. De la observatione de alcuni dío luna o altri pianeti... De dare fede alli soni. De voltare il crivello. De li brevi alcollo. De li incanti alla febre o animali o a fluxo de sangue o de denti o de ferite o

simile cose...72

.Erano credenze vecchie di secoli, verso cui tuttavia l’atteggiamento sta-va cambiando. La trasformazione delle streghe in gatte per recarsi al sab-

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71 Cfr. m. scaduto, Tra inquisitori e riformati, in «Archivum historicum Societatis Iesu», XV,1946, pp. 1-76.

72 In nomine Iesu. Questo si è una brevissima introductione cit., cc. a iii v – a iv r.

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ba, qui considerata ancora una mera credenza erronea (e condannata co-me tale) era ormai per quasi tutti gli autori dei trattati di demonologiauna realtà di fatto. Inoltre, Francesco da Mozzanica vedeva in questesuperstizioni delle deviazioni religiose, tant’è vero che nel mezzodell’elenco scriveva: «De havere qualchi errori contra la fede de la sanc-ta madre gesa. De li maleficii...» Ma in un confessionale apparso a Ve-nezia due anni prima, a cura di Antonio da Butrio, l’invocazione dei de-moni figurava, sulla traccia del codice giustinianeo, tra le manifestazio-ni di un particolare tipo di superbia, la ribellione:

Et confiteor de decimo gradu superbie, sive de rebellione: per quam superbia-ni ultra et praeter inobedientiam per quam maiores meos offendi, ego superbus cor-de lingua et opere contra eos egi, et precipue contra dominuni deum, invocando etreplicate nominando demonium, eius auxilium imploravi; et si fui rebellis ecclesieaut in aliquo favorem rebellibus dando, et e contrario rebelles in terra mea tenui etacceptavi, aut rebelles mee civitati vel comitatui defendi...73.

È chiaro dal contesto che questo confessionale era destinato a individuidi ceto superiore, addirittura a personaggi che detenevano un potere po-litico: ma proprio il diffondersi delle credenze magiche e demoniache alivelli sociali e culturali diversi, creava nelle gerarchie ecclesiastiche unindubbio sconcerto. Certo, il pullulare di questi motivi magici nella cul-tura del Quattrocento e Cinquecento non aveva un significato irreligioso– anzi, si conciliava benissimo con l’interpretazione dei dogmi cristianiin chiave neoplatonica, diffusa in determinati ambienti umanistici. Lamagia popolare sembrava invece, ed era in realtà, un fenomeno diver-

so, e potenzialmente piú pericoloso. Non per nulla la distinzione tra «al-ta» e «bassa» magia rimase netta: soprattutto ad opera di chi non vole-va confondere i propri calcoli e le proprie speculazioni sugli arcani del-la natura con gli intrugli delle donnette. Un caso come quello del poetae umanista modenese Panfilo Sassi, che si fece maestro di incanti amo-rosi alla strega Anastasia la Frappona, dovette essere del tutto eccezio-nale74. Piú esigui e incerti, invece, erano i confini tra preghiere e invo-cazioni superstiziose, tra incantesimi e esorcismi. Un libriccino come laConiuratio malignorum spirituum, di cui si ebbero, tra il 1477-78 e il 1500circa, ben 29 stampe, contiene testi come questi:

Obsecro te domine Ihesu Christe ut extrahas omnes languores ab omnibus mem-bris huius hominis, a capite, a capillis, a cerebro, a fronte, ab oculis, ab auribus, anaribus, ab ore, a lingua, a dentibus, a faucibus, a gutture, a collo... etc.

73 Confessionale domini Antonio de Butrio, impressum in alma Venetiarum civitate per Simo-nem de Luere, 1508, cc. b v.

74 Cfr. di chi scrive, Un letterato e una strega al principio del ’500: Panfilo Sasso e Anastasia laFrappona, in Studi in memoria di Carlo Ascheri, «Differenze», 9, 1970, pp. 129-37.

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Coniuro te diabole per patrem et filium et sanctum spiritum et per patriarchaset prophetas apostolos evangelistas martyres confessores virgines et omnes sanctoset sanctas dei... Coniuro te diabole per passionem domini nostri Iesu Christi quamrecepit pro humana generatione ut recedas ab hoc famulo dei N. Coniuro te diabo-le per sanctam crucem in qua dominus noster Iesus Christus fuit suspensus... Co-niuro te diabole per clavos domini nostri Iesu Christi... Coniuro te diabole per lan-

ceam quam habebat Longinus... etc. etc.75.

È difficile distinguere tra giaculatorie e scongiuri. Certo, la quantità diristampe testimonia una richiesta precisa. È un filone che continua, involgare, fino al Seicento inoltrato. Solo una piccolissima parte di que-sta produzione (L’oratione di san Jacopo Maggiore, La devota oratione deS. Elena...) viene messa all’Indice come superstiziosa. Si prenda un esem-pio tipico, la Devotissima et efficacissima [nei titoli viene vantata spessol’efficacia di queste preghiere] oratione detta le tanaglie d’oro:

Per l’immenso dolore che sentisti, quando in croce per forza ti furono tirate lebraccia, e le gambe al loco delli chiodi Dio habbi misericordia di me. Per il chiodo,col quale ti fu fitta in croce la man destra Dio habbi misericordia di me. Per il chio-do, col quale ti fu fitta la man sinistra in croce Dio habbi misericordia di me. Perl’asprezza del chiodo, che ti trafisse li nervi etc. etc.76.

Come si vede, è una preghiera che ricalca da vicino la Coniuratio citatapiú sopra. Ci si rivolge al diavolo o a Cristo con gli stessi termini e nel-lo stesso spirito: ciò che conta è l’efficacia intrinseca delle parole edell’iterazione. Al fedele non è richiesta nessuna forma di partecipazio-ne interiore, ma soltanto unmeccanica. Siamo in un certo senso all’estre-

mo opposto del tipo di preghiera mentale consigliato nel Giardino de ora-tioni piú di un secolo prima, tutto imperniato sull’interiorità, addirittu-ra sul rifiuto della «vocalità».

Questa produzione in cui confluivano magia e pietà religiosa circolòsenza dubbio anche nelle campagne. Ma il folklore contadino trovò il mo-do di esprimersi in forme originali e relativamente autonome. L’estra-neità dei contadini nei confronti della religione dei colti, di quelli chesanno leggere e scrivere, appare formulata senza mezzi termini in quelgrande testo che è l’ Alfabeto dei villani (chiunque ne sia stato l’«autore»):

La Santa Croce, l’Ave, el Pater nostro

Non se l’haom possú tegnir a menteNé littra fatta a stampa o con inchiostro.Arare e rampegare con gran stente

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75 Cito da un incunabulo conservato presso la Biblioteca Angelica, Roma (segnatura: Inc. 95[81]).

76 In Venetia, presso il Bonfadino, 1616.

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Questa è la nostra prima lettionChe n’ha insegnò i nostri mazorente.

Naturalmente non era uno sfogo irreligioso (allora, a questo livello, nonsarebbe stato possibile). Il Pater noster apparso insieme all’ Alfabeto espri-

meva in versi amari e burleschi, ricorrendo alla forma tipicamente folk-lorica della parodia religiosa, il lamento dei contadini oppressi e tor-mentati da «Francesi, Spagnoli et Alemani», e invocava l’intervento delDio vendicatore dell’antico testamento:

Summergeli Signor de passioneSí como summergesti PharaoneEt dalli in cielo la maledittioneEt in terra [...]Signore Dio tutti ingenoccioneNoi ti pregamo con devotioneChe da noi discazzi queste maledittioneEt ne nos inducas in tentationem.Liberaci Signor giusto clementeDa questa falsa dispietata genteChe ne consuma et guardaci al presente

 A malo. Amen.

Ma a queste aspettative apocalittiche l’ Alfabeto dei villani sembravadare una sconsolata risposta. Dio non ascolterà le preghiere dei conta-dini:

Christo fu da vilan crucificòE stagom sempre in pioza in vento in neve

Perché haom fatto cosí gran peccò.La conclusione era senza speranza:

Martori semo, et martori saromA seom proprio la schiuma de sto mondo77.

L’ Alfabeto dei villani si riallacciava, riempiendola di contenuti nuovi, al-la tradizione, complessa e ambigua, della satira del villano78. Anche inquesti scritti s’insiste spesso sull’ignoranza religiosa del villano che è unodei tanti segni della sua inferiorità e brutalità. Ma uno di essi, la Santa

Croce dei villani dice di piú:

77 Cfr. e. lovarini, L’Alfabeto dei Villani in pavano nuovamente edito ed illustrato, in Studi sul Ruzzante e la letteratura pavana, a cura G. Folena, Padova 1965, pp. 411 sgg. Alle due stampedell’ Alfabeto menzionate dal Lovarini aggiungerne una terza, conservata presso la Biblioteca Va-ticana, da cui cito.

78 Cfr. d. merlini, Saggio di ricerche sulla satira contro il villano, Torino 1894, in particolarepp. 23 sgg.

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El villan non sa fareAlcun atto honesto,Non sa lege né testoNé alcun comandamento […]El te roba e va in striazo...79.

Lo «striazo», cioè il sabba, diventa in questo periodo il grande mito re-ligioso alternativo del folklore contadino. In esso confluiscono anchedue grandiose fantasticherie che proprio nel corso del Cinquecento tro-vano un’articolata (e piú o meno mediata) espressione letteraria: il mon-do alla rovescia, e il paese di Cuccagna. Sono miti carnevaleschi, in cuisi esprime l’aspirazione a un universo dominato dall’inversione rituale,dall’abolizione delle distanze, dall’esplosione dell’osceno e del burlesco.Il sabba è un mondo alla rovescia, cui si accede con invocazioni magi-che che sono preghiere invertite (il padre nostro detto all’incontrario),

in cui la messa viene parodiata, le ostie sono nere, i cibi sono insipidi,il coito è doloroso e non dà piacere, la divinità è il diavolo, cui si rendeomaggio baciandogli il sedere. Ma il sabba realizza anche, in forma al-lucinatoria, la terrestre utopia del paese di Cuccagna: si mangia a cre-papancia, si godono le donne piú belle, si indossano velluti e broccati,ci si riempie le tasche di monete d’oro – anche se naturalmente poi tut-to scompare e si ritorna alla vita miserabile di tutti i giorni. Il sabba, in-fine, è un mondo carnevalesco, in cui si è mascherati o travestiti da ani-mali, in cui si celebrano orge, in cui il diavolo spegne le candele a forzadi peti. Questa immagine del sabba non è di origine popolare. Debita-

mente istituzionalizzata e codificata nei trattati di demonologia, essa fudiffusa da predicatori e inquisitori nel corso di un secolo. Con l’aiuto diinterrogatori e di torture venne sovrapposta a uno strato molto piú an-tico di credenze contadine imperniate su culti di fertilità. La progressi-va cancellazione compiuta dagli inquisitori del culto di Diana, nel Mo-denese e altrove, e la trasformazione coatta dei benandanti friulani instregoni secondo tutte le regole, esemplificano chiaramente questo pro-cesso80. Ora, tra questi culti agrari prestregoneschi e il sabba diabolicoinquisitoriale esistevano indubbiamente delle analogie. Soprattutto ana-logie di carattere funzionale: entrambe le credenze fornivano una pro-tezione, una consolazione nei momenti critici, traumatici dell’esisten-za. Nel caso dei benandanti, e cioè di un culto saldamente radicato, eprovvisto di una forte coerenza interna, questi momenti critici erano le-gati alla vita dell’intera comunità, alle scadenze stagionali dell’annata

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79 Cfr. d. merlini, Saggio di ricerche sulla satira contro il villano cit., pp. 184-85.80 Cfr., di chi scrive, I benandanti, Stregoneria e culti agrari nell’Europa del ’500, Torino 1966.

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agricola – semina, raccolto, vendemmia. Nel caso di un culto molto piú.disgregato e artificiale come quello stregonesco, i momenti critici coin-cidevano invece con determinati traumi individuali: una mezzadra vie-ne cacciata dalla proprietà, si dispera, e le appare il diavolo; una donnarimane vedova, si aggira smarrita per la campagna, e anche a lei appareil diavolo81. Ma c’erano anche profonde diversità: anzitutto, nei cultiagrari prestregoneschi mancava il diavolo (che è una creazione cristia-na). C’erano invece i morti, le anime dei morti vaganti – ambigue figu-re, benefiche e malefiche insieme, oggetto di pietà e di terrore.

Questa cultura folklorica fu quindi sradicata due volte. Una primavolta, attraverso lo snaturamento dei culti agrari prestregoneschi in cul-ti demoniaci. Una seconda volta, attraverso la repressione e il soffoca-mento di questi ultimi. Perché anche in un culto tutto sommato impo-sto dall’esterno come quello diabolico, diffuso e perseguitato dagli in-

quisitori, trovavano sbocco sentimenti religiosi autonomi, talvoltavigorosissimi. Il caso di una contadina del Modenese, Domenica Bar-barelli, che dopo aver confessato di essersi recata di notte al «gioco diDiana», orina sul crocifisso che le è stato piamente donato dagli inqui-sitori, esclamando che preferisce el suo – la sua divinità, il demonio –«che vesti d’orro, cum la bacheta d’orro», è esemplare82. Il sabba ave-va finito col diventare l’espressione forse piú autentica della religiositàcontadina.

9. La Controriforma.

Il soffocamento di ogni manifestazione religiosa alternativa, o in gra-do di diventarlo, fu perseguito con impegno e sistematicità dalla Chie-sa uscita dal Concilio di Trento. Anche l’attività di chi, come il vesco-vo di Verona Gian Matteo Giberti, aveva cercato di giungere a un rin-novamento religioso per vie diverse da quelle poi sancite a Trento, fuirrigidita nell’astratta perfezione di un modello, e di fatto lasciata ca-dere83. Gli stessi tentativi di Carlo Borromeo di garantire un peso mag-giore alla figura del vescovo e di salvaguardare le particolarità – liturgi-che o di altro tipo – delle chiese locali, urtarono contro la volontà cen-

81 c. ginzburg, Stregoneria e pietà popolare: un processo modenese del 1519 , in «Annali dellaScuola Normale Superiore di Pisa», Lettere, storia e filosofia, s. II, XXX, 1961, pp. 269-87.

82 Cfr. I benandanti cit., p. 145.83 Cfr. a. prosperi, Tra evangelismo e Controriforma: G. M. Giberti, Roma 1969.

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tralizzatrice della curia, e furono sconfitti84. Saldamente subordinata alpontefice, riorganizzata nelle sue strutture diocesane, la gerarchia post-tridentina si dedicò all’opera grandiosa che va sotto il nome di Contro-riforma.

Ciò che colpisce soprattutto in quest’opera è la sua modernità (si po-trebbe sostenere che la Compagnia di Gesú, in particolare, è stata la pri-ma istituzione consapevolmente, deliberatamente «moderna»). Il pro-blema centrale era quello del rapporto con le masse dei fedeli. Bisogna-va saldare le fratture che si erano create, riguadagnare il terreno perduto– e nello stesso tempo, sottrarre al laicato, nei limiti del possibile, ognicapacità di iniziativa autonoma (di qui, la tensione crescente tra clero econfraternite). Già nel corso delle controversie antiprotestanti si era pa-lesata la tendenza – espressa anche esplicitamente – a non formulare inmaniera troppo particolareggiata gli argomenti degli avversari, perché

questo poteva essere pericoloso: il gregge dei fedeli indotti doveva re-spingere l’errore possibilmente senza conoscerlo85. Questo atteggiamentodi paternalistica sollecitudine verso la massa dei fedeli, continuò e si ge-neralizzò anche dopo il 1570, allorché ogni forma, o quasi, di dissiden-za religiosa si era ormai spenta. Non si insisterà mai abbastanza sulla im-portanza del divieto di accesso alla Scrittura in volgare. Era un divietoperfettamente coerente con la volontà di mantenere un netto distaccotra la fede colta, consapevole dei teologi e la fede immediata e irriflessadei laici ignoranti. A questi ultimi era riservato l’indottrinamento siste-matico delle verità fondamentali della fede, inculcate in maniera ele-mentare mediante il catechismo. L’opera svolta dalle compagnie delladottrina cristiana e dalle altre organizzazioni catechistiche (appoggiataufficialmente da Pio V con un breve del 1567) fu capillare. GiovanniBattista Eliano, autore di una diffusissima Dottrina cristiana illustrata(secondo una formula che ebbe molto successo), cercò di raffigurare que-sta diffusione del catechismo inserendo nel suo libretto un’incisione chemostra un gesuita intento a insegnare la dottrina; attorno a lui si vedeun gruppo di bambini seduti, e un po’ in disparte, in piedi per sottoli-neare la diversa posizione gerarchica, tre contadini rozzamente vestiti,

con sulle spalle gli strumenti di lavoro. È un’immagine che dà bene ilsenso di un fenomeno che ebbe conseguenze tanto profonde.La preoccupazione per le immagini, per il loro valore emotivo e infor-

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84 Cfr. p. prodi, Charles Borromée, archevêque de Milan, et la Papauté , in «Revue d’histoire ec-clésiastique», LXII, 1967, pp. 379 sgg.

85 Cfr. f. chabod, Per la storia religiosa dello Stato di Milano cit., p. 364, nota 1.

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mativo, fu vivissima durante la Controriforma (le discussioni su questoproblema svoltesi al Concilio di Trento sono note)86 come del resto intutte le fasi di grande proselitismo della storia della Chiesa. Ma nono-stante il fervore di tanta pittura sacra di questo periodo, è chiaro che es-sa non bastava a soddisfare le richieste religiose delle masse dei fedeli.Ad esse si cercò di far fronte con un torrente di opuscoli devoti che siriversò sull’Italia per piú di un secolo e mezzo, lasciando sedimenti chenon sono stati spazzati via definitivamente neppure oggi. Erano opu-scoli da pochi soldi, stampati su carta cattiva, adorni di rozze xilogra-fie: preghiere, vite di santi, narrazioni di miracoli, litanie. Nel giro dipochi anni, o a distanza di decenni lo stesso testo veniva ristampato aVenezia, Perugia, Macerata, Messina. È difficile valutare esattamentel’influsso esercitato da questo opuscolame devozionale. Senza dubbio,la maggior parte dei libriccini smerciati nelle campagne erano di questo

tipo – accanto agli almanacchi, le ricette, i cantari. E in questa lettera-tura devota – specialmente nelle vite dei santi – la gente trovava un po’di tutto. Esotismo e avventure in un testo come la Relatione della mor-te di un padre dell’Ordine di San Francesco, ch’è stato scorticato vivo in Al- gieri. Con la morte d’altri christiani impalati, brusciati et inancinati alla Tur-chesca. Caso veramente compassionevole et degno di grandissima ammira-tione, tradotta di Spagnolo in Italiano dal dottor Antioco Strada SardoCalaritano, in Fiorenza et di nuovo in Viterbo 1603. Amori e avventu-re in un testo come la Historia de santa Theodora, come fu ingannata dauna vecchia, e fecela peccare. Et come hebbe molte battaglie dal Demonio,

e fece grandissima penitenza, composta per Francesco Marinozzi, in Ron-ciglione, in ottave. Devozione e perversione sessuale in un testo comeLa oratione di S. Barbara vergine et martire di Nostro Signor Giesu Christo,in Siena et in Orvieto, con licenza de’ Superiori. Maliziosi indugi ero-tici nella Historia di Susanna et de due vecchi... nuovamente data in luce per Tommaso Filippini, stampata in Fiorenza con licenza de’ Superiori,et in Orvieto 1618. Si tratta di una letteratura in gran parte anonima,generalmente (ma non sempre) di infimo livello, di andamento popola-resco. Talvolta il tono è da cantastorie:

Huomini e donne io vi voglio pregareChe tutti quanti ci stiate ascoltareE chi ha de’ figlioli un bel esempio po’ pigliareCol nome di Maria io mi metto a cominciare

86 Cfr. p. prodi, Ricerche sulla teorica delle arti figurative nella Riforma cattolica, in «Archivioitaliano per la storia della pietà», iv, 1962, pp. 123-212.

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(Esempio bellissimo d’un peccatore chiamato Tito, divoto di san Girolamo, dove per mezzo di detto santo si rividde della vita pessima, che lui tenne molto tempo, si conver-ti lui, et molti altri suoi compagni. Cavato dal Giardino d’Esempi del R. P. F. SerafinoRazzi dell’Ordine Domenicano, composto in ottava rima d’Alessandro Parnino da Sie-na, in Macerata 1631).

Ma tutti questi scritti battono e ribattono su alcuni temi ben precisi. Ladevozione mariana, anzitutto: in generale il testo vero e proprio è pre-ceduto da una dedica a Maria, come quella ora citata. Nel frontespiziode Il prego alla gloriosa Vergine Maria nostra avvocata, stampata in Sienacon licentia de’ Superiori, e ristampata in Orvieto s. d., Maria appare(secondo un’iconografia tradizionale, ma comunque significativa) inco-ronata da Cristo e Dio padre, rispettivamente alla sua sinistra e alla suadestra, mentre lo Spirito santo in forma di colomba protegge la scena.Le lodi di Maria vengono dette in versi facili e cantanti:

O Maria che bionda testa,Li capelli son fila d’oro,Rimirando quel tesoro,Tutti gli Angioli ne fan festa,O Maria che bionda testa

(Laude della beatissima sempre Vergine Maria).

Questa devozione zuccherosa e bamboleggiante non risparmia né Cri-sto – che non è mai il Cristo giudice ma, quasi sempre, Gesú bambino– né misteri della teologia cristiana come quello dell’Incarnazione:

Verbum caro factum est,De Maria per dolce amor.[...] Verbum caro fantinello,Circonciso col coltello,Fu per noi con gran dolor.[...] Verbum caro in EgittoFu portato fanciullettoA fuggire il gran furor.[...] Verbum caro humilemente,Adorò cosí fervente,Che de sangue fé sudor.etc. etc.

(El verbum caro, in Venetia 1620).

Inoltre, si insiste di continuo sull’importanza dei sacramenti. La loro ef-ficacia è indipendente dalla virtú del sacerdote che li somministra, sot-tolinea, rispondendo evidentemente a un dubbio popolare diffuso, ilContrasto dell’angelo, et del demonio, e come l’angelo mostra la via de sal-vatione al peccatore di questa vita presente, per andare alla gloria di vita eter-

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na: il demonio sostiene che il peccatore è dannato pur avendo ricevutol’assoluzione, in quanto

Assolver non lo può giamai quel prettePerché quel prette fu homicidialeE tal confession giamai non vale,

ma l’angelo lo rimbecca duramente:...Se tutti peccati che fanno al mondoHavesse un prette in sua libertade,Il nostro Padre Dio Signor giocondoNon leva però a quel l’autoritadeChe lui non possa sempre confessareChi puramente Christo vuol perdonare.

La conclusione di un testo come La vera lygenda del Santiss. Corpo diChristo, converso in carne, sangue et hostia..., composta dal R.P.F. Tiberio

Franco del Monte S. Martino dell’ordine heremitano, in Venetia 1614, èquesta: Cristo apparendo miracolosamente «in hostia, in carne, in san-gue»,

Volse mostrarsi a chi fu ostinatoDella auttorità sacerdotaleQuanto sia grata a Dio, e quanto vale.

Il modello di vita religiosa proposto in questa letteratura devozionalepopolare della Controriforma, si riassume in sostanza nella devozioneverso Maria e i santi, nella pratica dei sacramenti, nella frequenza alla

messa. Sono le esortazioni rivolte dal morto al vivo nella Leggenda del vivo e del morto, utilissima ad ogni fedel Christiano, novamente ristampataet coretta, in Venetia 1607:

Prima, compagno mio, trovate un SantoChe avanti a Dio per te preghi ogn’oraA quel fagli riverentia in ogni canto,Ogni dí innanzi a lui si adora,A la Vergine Maria sopra tutte quante,Et ogni dí risguarda la sua figura,Lei ha possanza in Cielo et anche in terra,Quel che lei fa, il fa avanti a Dio.Ancora disse il morto, sii lealeA chi tu sei tenuto per ragione,Prima il matrimonio dei guardare,Perché gli è opera di salvatione.Con tutta la gente usa veritade,Va a la chiesa a vedere il Signore;Se havessi fatto questo in vita mia,L’anima mia in cielo salita saria.

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Il generico imperativo «con tutta la gente usa veritade» passa quasi inos-servato di fronte a quelli, ben piú precisi e circostanziati, di obbedire aisuperiori («...sii leale | A chi tu sei tenuto per ragione») e di partecipa-re alle devozioni e ai riti della Chiesa. La mera osservanza di queste pre-scrizioni è considerata sufficiente a garantire la salvezza.

Ma lo smercio di questa letteratura devozionale lasciava insoddisfattauna richiesta scritturale che pure esisteva. Sintomo evidente di ciò nonè solo la diffusione degli apocrifi, o di testi, per cosí dire, parascrittu-rali. Nel 1580 una compagnia di commedianti provenienti dalla Franciasi fermò a Pisa a recitare. Tra i canovacci messi in scena, ce n’era unointitolato Il figliuol prodigo. L’inquisitore intervenne, vietando la rap-presentazione perché sacrilega. I comici, interrogati, si difesero affer-mando di aver recitato il canovaccio incriminato anche a Milano, pre-via approvazione del vescovo Borromeo (la cui indulgente politica tea-

trale è del resto nota). Ma uno di essi, all’inquisitore che gli chiedeva seconoscesse la parabola evangelica del figliuol prodigo, rispose di no87.Questa risposta non doveva avere nulla di eccezionale. Non potendo leg-gere la Scrittura, la si metteva in scena, con l’aggiunta di qualche lazzoe di qualche capriola.

Ma la pietà controriformistica non si esauriva nelle forme meccani-che e elementari esaminate finora. C’era un filone, sottile ma tenace, ri-volto a un pubblico piú selezionato socialmente e culturalmente, che in-sisteva su motivi di tutt’altro genere – misticismo, annullamento dellavolontà, amore «unitivo» di Dio. Questo filone, che da un lato si ricol-

legava addirittura alla Devotio moderna, e dall’altro anticipava temi quie-tistici, può essere esemplificato da una raccolta come il Fruttuoso giardi-no di opere spirituali, fatti da alcuni servi di Dio per salute dell’anime, rac-colti per Gio. Battista Maringo, in Palermo 1619. In essa, brani delminorita Herp, morto poco dopo la metà del Quattrocento e legato agliambienti dei Fratelli della Vita Comune, erano accompagnati da slancicome questo:

E quando, Dio mio onnipotente, io sospirando dirò o Signor mio vivo e vero,unitemi perfettamente con voi, e senza piú dire rimanendo sospeso, io intendo contutto l’affetto e con tutti i desiderii che voi intendete potersi fare, di transfondere

perfettamente la mia volontà nel vostro beneplacito, e rinegando me stesso, senzaritrattatione alcuna divenire la mia volontà con la vostra, talmente che io non vo-glio havere, né volere, né non volere se non come volete e non volete voi etc. etc.88.

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87 Archivio Arcivescovile di Pisa, S. Uffizio, fasc. 1, cc. 626r sgg. (il fondo non è inventaria-to. Ringrazio l’archivista, don Virgili, che ha gentilmente facilitato le mie ricerche).

88 Fruttuoso giardino cit., pp. 86-87.

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Il relativo successo – ma limitato ad ambienti molto circoscritti, comepoi in seguito quelli toccati dal quietismo – di una meditazione interio-re come questa, tutta sospiri e fervori, si spiega come reazione alla con-temporanea larghissima diffusione della pietà di tipo gesuitico, insiemecontrollata e teatrale. Si veda un opuscolo come quello del prete Anto-nio Maria Cortivo dei Santi, Pugna spirituale per gl’incipienti e novelli soldati di Christo, overo regola pratica facilissima per finalmente risolver l’animo amatore del mondo, di darsi a Dio... la qual serve la mattina, fra il  giorno, la sera et notte, in Padova 1620, in cui, a parte il richiamo del ti-tolo al Combattimento spirituale dello Scupoli, erano rielaborati temi de-gli Esercizi ignaziani e degli scritti del gesuita Pinelli. Il Cortivo ammo-niva:

quanto poi al gusto spirituale che alle volte si prova nell’oratione, non lo devi sti-mar molto, se non in quanto mezzo alla perseveranza, per la debilità tua; perciò sta-rai sempre indifferente tanto al gusto, quanto all’aridità interiore. Non creder a lu-mi et visioni. Habbi te stesso in continuo sospetto...

Caratteristicamente, dichiarava la superiorità diquelle orationette giaculatorie da se stesse messe nel cuore, et fabricate senza in-dustria, dal solo et semplice buon animo, et accesa, giusta et retta volontà, che quel-le promosse per arte, et lette nei libri, se bene ancor queste vagliono assai.

E subito dopo, con un brusco passaggio:Quando non puoi esser udito, et che non sia alcun pericolo di scandalo, t’apporteràmirabil aiuto il proferire fuori con la lingua quei concetti che senti dentro nel cuo-

re, fortemente, con gridi amorosi, hor con gl’occhi al cielo, hor alla terra, hor chiu-si, hor lagrimanti, con le mani or gionte, hor insieme serrate in pugno, hor crocia-te al petto, hor sollevate e gionte, hor sollevate et estese, con allargate braccia informa di traversi di croce, o crociate insieme in modo di croce, o talmente uniteche eccitino il core a eccesso, o di dolore o allegrezza, etc. etc.89.

C’è un senso preciso della convenienza sociale: certe manifestazioni dipietà religiosa sono lecite (anzi auspicabili) in privato, non in pubblico.O meglio: sono lecite anche in pubblico, ma nella misura in cui non so-no piú un fatto individuale, bensí un fenomeno collettivo. Nelle loromissioni evangelizzatrici i padri gesuiti si servirono per l’appunto delle

forme di teatralità controllata descritte nell’opuscolo del Cortivo.Queste missioni, condotte in prevalenza, ma non esclusivamente, daigesuiti, sono il fenomeno piú caratteristico e importante della storia re-ligiosa italiana del Seicento. Proseguendo e ampliando un’iniziativa cherisaliva al secolo precedente, esse riuscirono a imporsi là dove il movi-

89 cortivo de i santi, Pugna spirituale cit., pp. 7r, 8v-9r.

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mento riformatore cinquecentesco era fallito: nelle campagne. In que-sto modo, una delle costanti della storia religiosa italiana – la separa-zione e contrapposizione tra città e campagna – veniva intaccata, e sicreavano le premesse del rovesciamento che avrà luogo nel corso del Set-tecento.

Ma ciò che rese ancora piú significativa quest’opera di cattolicizza-zione fu il fatto che essa fosse rivolta, soprattutto grazie ai gesuiti, indirezione del Mezzogiorno. La frase, tanto spesso citata, sulle «Indie diquaggiú» – e cioè l’Italia meridionale – non era un’espressione retorica.Nel momento in cui la Chiesa assumeva, non senza contraddizioni un’ot-tica missionaria mondiale, la penetrazione religiosa nelle campagnedell’Italia meridionale si configurava come un corrispettivo, su un altropiano, delle iniziative di evangelizzazione in Asia o nelle Americhe. Ilresoconto della memorabile campagna propagandistica condotta dai pa-

dri gesuiti nel Mezzogiorno, redatto da Scipione Paolucci S. J. ( Missio-ne de’ padri della Compagnia di Giesú nel Regno di Napoli, in Napoli 1651)era dedicato «al santo apostolo dell’Oriente Francesco Saverio dellaCompagnia di Giesú», con questa giustificazione: «Stimasi, et a rag-gione, questo impiego [i.e. nel regno di Napoli] poco inferiore alla vo-catione dell’Indie: posciaché toltane la speranza, che ivi si ha, di spar-gere il sangue per la Fede, qui le fatiche non son minori, et il fatto è for-se maggiore». E certo, l’inizio dell’unificazione religiosa della penisolanon era cosa da poco. Il dislivello economico, politico, civile tra l’Italiasettentrionale e quella meridionale – un dislivello che durava, in forme

diverse, fin dal secolo xi – aveva dato luogo a due storie religiose di-verse. Tutti i fenomeni religiosi piú importanti della storia italiana ave-vano avuto il loro epicentro al di fuori del Mezzogiorno: la riforma gre-goriana, le eresie medievali, la nascita degli ordini mendicanti, i movi-menti popolari come quello dei Flagellanti, o i movimenti partiti dallagerarchia come quello del ritorno all’osservanza. Solo con la Riforma lasituazione aveva cominciato a modificarsi, anche se a un livello social-mente molto circoscritto, con la comparsa di un gruppo come quello val-desiano a Napoli, e il diffondersi di atteggiamenti eterodossi in Sicilia.Alla fine del secolo, tuttavia, il tentativo insurrezionale a sfondo utopi-stico e astrologico di Campanella rifletteva, nella sua esasperazione e di-sperazione, una realtà di tremenda arretratezza. Ma nel corso del Sei-cento questa arretratezza in un certo senso si generalizza, diventa unfatto italiano, addirittura mediterraneo, di fronte a un’Europa setten-trionale che supera la crisi e imbocca la via dello sviluppo. La conquistareligiosa del Mezzogiorno ad opera dei gesuiti avviene in una situazio-ne di crisi, di degradazione sociale, in cui lo stesso scarto tra Italia set-

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tentrionale e Italia meridionale tende a cancellarsi. E assume, questaconquista, le forme di una regressione genialmente calcolata e control-lata.

L’azione dei gesuiti si svolse prevalentemente nelle zone costiere,senza inoltrarsi troppo nell’interno. Ma anche nelle zone meno remoteda traffici e comunicazioni, i padri s’imbattevano in situazioni stupefa-centi. Racconta il Paolucci:

Eranvi nella campagna d’Evoli da cinquecento guardiani d’armenti divisi in varieville e poderi di quel contado; huomini, che d’huomo non haveano che la figura,nella capacità e scienza poco dissomiglianti a quelle bestie medesime che custodi-vano: affatto ignoranti, non che dell’orationi, o altri misterii particolari della san-ta Fede, anche della stessa cognitione di Dio. E se non che la miseria di quei pove-racci meritava piú tosto compassione, fora stata cosa degnissima di riso l’udire lesproportionate e goffe risposte che davano a chi gl’interrogava de’ misterii chri-stiani. Domandati quanti Dei ci fossero, chi rispondeva cento, chi mille, chi altronumero maggiore, stimandosi piú saccente quanto piú ne cresceva il conto, come sesi trattasse d’accrescer il numero delle lor bestie. Richiesti, che cosa mai pensava-no che fosse Iddio, con inettie stravagantissime altri dicevano essere il papa, altriil lor padrone, altri quei stessi padri che gl’instruivano [...]. Hor la fatica nell’am-maestrare gente sí rustica fu senza dubbio grandissima; si ripetevano cento e millevolte l’istesse cose, si dichiaravano in comune, si spiegavano in particolare, si esa-minavano hor questi hor quelli; coll’esempio de’ piú capaci s’inanimavano gli altri;e si fé in fatti in modo, che coll’aiuto della divina gratia [...] s’impresse in quei cuo-ri sí rozzi tanta cognitione delle cose di Dio, che si poterono tutti, se bene in di-versi giorni, con molto divoto sentimento confessare e communicare. Corrisposeroanche essi i buoni huomini alle diligenze de’ padri, et accordandosi tra di loro la-sciavano a vicenda la guardia delle proprie gregi a’ compagni, et accorrevano ad una

vicina chiesa ove habitavano i padri, a farsi instruire; benché sovente andassero que-sti a trovarli dentro alle loro mandrie o capanne, sí per dare maggior fretta e calo-re all’opera, si per dubbio non si stancassero d’attendere a sí fruttuoso e necessarioesercitio. Riconosciuto il loro obbligo s’invitarono da se stessi a far delle penitenzeper sodisfattione de’ peccati commessi; et anco in queste comparve, unita colla lo-ro goffaggine, un’ottima volontà, cosí furono e rigorose e sciocche le maniere datormentarsi: si battevano con gli staffili da bovi o colle spine affasciate delle siepi;si davano delle gagliarde guanciate, o pure con sassi si percotevano il petto alla peg-gio. Non sapendo poi come sodisfare al molto che dovevano a’ loro instruttori, econ semplici ma affettuosi ringratiamenti, e con rustici ma cordiali presentucci te-stificarono il loro affetto, non mancando molti di spargere copiosissime lagrime pertenerezza della loro partita. Tanto seppe operare il Maestro divino in pochissimi

giorni con iscolari sí rozzi.Cosí Cristo arrivò a Eboli e vi si fermò per trecento anni.

La tecnica usata dai gesuiti durante le loro missioni è minutamentedescritta dal Paolucci. Anzitutto, il tipo di predicazione:

...hora con poche ma efficaci parole, quasi fulmini del cielo, che veloci sí, ma nonvani spariscono e feriscono in un punto; hora con vehementi schiamazzi e spaven-

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tose grida, quanto piú importune e fuor d’hora, tanto piú a tempo e giovevoli perispaventare gli uccellacci dell’Inferno; hora con sermoncini proportionati al biso-gno nelle piazze piú habitate, accioché alla fatica possa corrispondere il frutto, sirinfaccia a’ peccatori la miseria del loro stato, si minacciano vicini i gastighi etc. etc.

Poi, l’uso sottile e consapevole della situazione ambientale e dei mezzidi comunicazione:

Niente proibisce il praticare questo stesso modo anche di giorno, et ove le cir-costanze lo richiedevano, si è costumato; ma giovano non poco al compungimentode’ cuori le tenebre della notte, che coll’horrore natio intimorendo gli animi, gli di-spongono piú attamente a’ colpi del divino timore [...]. A tutto ciò aggiunge alcu-no ne’ luoghi ove commodamente si può, la compagnia d’una divota musica indi-rizzata alla compuntione e dolor delle colpe; riuscendo spesso il passare dall’armo-nia delle corde a quella delle passioni...

Infine, le processioni. Nelle processioni l’inventiva e la passione teatra-

le dei gesuiti trionfava. Con vera genialità essi recuperavano la dimen-sione folklorica del carnevalesco. La processione era un evento eccezio-nale, un evento nel corso del quale la comunità si purificava attraversouna serie di comportamenti eccessivi, abnormi, generalmente vietati dal-le convenienze sociali. Nella processione le gerarchie sociali erano ro-vesciate (i nobili vi partecipavano vestiti da penitenti) e le distanze so-ciali abolite (il povero vi camminava accanto al ricco). La presenza di in-demoniati e invasati introduceva un elemento di trasgressione oaddirittura di licenza. Soprattutto, la processione era una grande, car-nevalesca mascherata.

Sono in essa notabili – scrive il Paolucci – anzi eccessive sí le strane inventionie dolorose asprezze delle penitenze, come il numero e qualità de’ penitenti. L’in-ventioni, per cominciare da quelle, eccedono altre in genere di mortificationi, altredi tormento, benché quasi tutte accoppino l’uno e l’altro. Pongo nel primo luogol’andare huomini principalissimi, e per nobiltà o per officio riguardevoli, senza man-tello, senza cappello, senza collare o altro solito ornamento, et in vece di fregi, spar-gersi e ’l capo e le vesti di ceneri, con cenci logori in dosso, con corone di spine intesta, corde al collo, et in mano ossa o teschi di morti, o pure piccioli crocifissi, gi-rare lungo tratto di strada scalzi e mezzi ignudi [...]. E vi fu piú d’uno che al mododel caminare aggiunse anche quello del vestire, ammantatosi con una rozza et hi-spida pelle di porco, d’orso e simili; et altri, che con briglie e morsi da bestie, sti-mandosi meno che huomini s’uguagliavano a gli angioli...90.

Ma naturalmente quest’elemento carnevalesco era assunto per essere mi-stificato e compresso, deviato a fini penitenziali. Con esatto giudizio ilPaolucci distingueva le processioni dei Flagellanti («importune e mal re-golate penitenze») dalle moderne processioni dei gesuiti, condotte «con

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90 paolucci, Missioni de’ padri cit., pp. 21-22, 13-14, 29 sgg.

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regolato indirizzo de’ padri spirituali». Per quanto controllata dal cle-ro, la devozione dei Flagellanti era nata da un’iniziativa popolare, or-mai impensabile nell’età della Controriforma.

10. Il nuovo ruolo delle campagne

La penetrazione della Chiesa nelle campagne aveva inferto un colpodefinitivo al mondo magico contadino. Certo, esso non scomparve (nonè scomparso nemmeno oggi): ma la sua pericolosità per la gerarchia di-venne minima. Ormai le credenze magiche non potevano piú porsi co-me una cultura in qualche modo alternativa: potevano soltanto mesco-larsi alle credenze cattoliche, e sopravvivere in forme via via piú margi-nali. Già a metà del Seicento la stessa Inquisizione romana poteva

permettersi il lusso di diffondere un memoriale (poi dato alle stampe) incui invitava gli inquisitori locali a affrontare le cause di stregoneria e dimagia con cautela molto maggiore che in passato91. I processi non ces-sarono d’un tratto: ma ormai streghe e maghi non erano piú temibili.Un secolo dopo, gli scrittori illuministi ne condannarono la persecuzio-ne (che continuava, soprattutto nelle terre imperiali, per opera dei tri-bunali secolari) in nome della ragione92.

Naturalmente, la tendenza a giudicare con maggiore prudenza gli im-putati di stregoneria e di magia, non significava che le gerarchie catto-liche, e meno che mai l’Inquisizione romana, si fosse convertita al ra-

zionalismo. Anzi: proprio nella seconda metà del Seicento s’infoltisce laproduzione letteraria rivolta a confutare razionalisti e libertini, e a con-vincerli dei loro errori. Queste polemiche proseguirono nel secolo suc-cessivo, in forme sempre piú accese e allarmate, ma senza variazioni so-stanziali. In realtà, di fronte al diffondersi di atteggiamenti giurisdizio-nalisti, e al ristabilirsi dei contatti tra i ceti intellettuali italiani e lacultura europea – la cultura di Bayle, dell’Encyclopédie, dell’illuminismo– una parte della gerarchia cattolica aveva capito molto presto che le po-sizioni piú retrive erano destinate, di fatto, alla sconfitta, anche se erautile continuare a difenderle. In complesso, il centro dell’impegno del-la gerarchia si spostò dalle città alle campagne. Per secoli e secoli l’azio-ne della Chiesa in Italia era stata imperniata sulle città, e le campagneerano state considerate zone da evangelizzare, in cui perduravano l’igno-

91 Cfr. I benandanti cit., p. 135, nota 2.92 Cfr. f. venturi, Settecento riformatore. Da Muratori a Beccaria, Torino 1969, pp. 355-89.

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ranza e la superstizione. Ora tutto questo cambiò. Lo stereotipo del con-tadino rozzo e superstizioso venne sostituito da quello del contadino pioe probo, devoto alla religione degli avi. Anche l’ignoranza mutò di se-gno, non fu piú considerata un fatto negativo. Il contadino ignoranteera ben piú apprezzabile del cittadino colto, corrotto dalle pericolosenovità d’Oltralpe.

Gli strumenti di questa azione furono soprattutto le parrocchie e lemissioni. Nel desiderio di rafforzare l’istituto della parrocchia e la suapresa sui fedeli, si moltiplicano le Istruzioni ai parroci. Si vuole fare del-le campagne un contrappeso all’effervescenza delle città, un serbatoiodi conservazione religiosa e politica, di fronte al manifestarsi di tendenzegiurisdizionalistiche, spesso accompagnate da critiche alle forme reli-giose tradizionali. È tipico di questa volontà immobilistica il fatto chetra queste Istruzioni ai parroci settecentesche si trovino testi vecchi di

quasi due secoli, concepiti in una situazione completamente diversa. Co-sí, la Lettera pastorale e altri avvisi utilissimi per amministrare con frutto la parola di Dio alle genti rozze di campagna nuovamente dati in luce per usode’ parochi e predicatori della diocesi di Fiesole (in Firenze 1720) ripro-duce le istruzioni ai parroci redatte a metà del Cinquecento dal Paleot-ti, arcivescovo di Bologna – istruzioni che erano state ristampate pochianni prima a Padova e nella stessa diocesi di Fiesole. La sezione intito-lata Ragioni per acquietare le doglianze de’ Poveri invitava i parroci a ri-proporre ai propri fedeli l’eterna analogia di Menenio Agrippa debita-mente adattata in chiave religiosa («...siccome nel corpo umano varie

sono le membra, e vario il loro uso, tutte però si uniscono al servigio delcorpo medesimo; cosí nel mondo è stato necessario che vi sieno diversecondizioni e stati di persone, le quali servano all’istesso corpo, che è laSanta Chiesa, della quale è capo Gesú Cristo Salvator nostro») insiemea esortazioni a subire supinamente, o meglio con animo lieto le inegua-glianze sociali («Il fare che alcuno nasca povero e privo di lettere non èsegno di disamore, né di durezza nel Creatore, ma piuttosto di alta pa-terna sollecitudine e provvidenza. E come il medico ad alcuni infermileva il vino, ad altri le carni, e ad altri vieta l’uso di varie cose, secon-doché egli vede esser loro piú giovevole; cosí Iddio prevedendo le malenostre inclinazioni ci tiene scarsi di alcune cose ad oggetto di meglio sa-narci e farci bene»93. In ogni caso, comune a questo tipo di produzioneletteraria, finora ben poco analizzata, era la precisa consapevolezzadell’impossibilità di trasporre meccanicamente nelle campagne il tipo dipredicazione adoperato nelle città. Scriveva G. B. Guidi, nel suo Du-

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93 Lettera pastorale cit., pp. 73-5.

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 plicato annuale di parrocchiali discorsi per tutte le Domeniche, e Solennitàdel Signore, ad uso massime delle persone di campagna, in Venezia 1756:tutti i parroci devono soddisfare all’obbligo «di sminuzzare al popolo leverità della Fede, i dogmi sacrosanti dell’Evangelio», ma

parmi che [quest’obbligo] sia maggiore per quelli della campagna, mentre i popolidelle città, oltre ciò che imparano alle proprie chiese, s’imbattono anche altrove fre-quentemente in predicatori e catechisti; hanno maestri nelle scuole; padri spiritua-li negli oratorj; direttori nelle congregazioni, ed altre pie adunanze, in guisa tale,che da piú bocche odono spesso le massime della salute; laddove i nostri, per l’or-dinario, dal solo parroco apprender possono come credere ed operare per vivere cri-stianamente. Che se pur la Quaresima escono fuori i banditori evangelici, o vannoin giro a piú chiese, e l’affare si riduce a poche prediche per ciascheduna parroc-chia; o si fermano ad una sola, e quando abbiano cavata fuori una dozzina in circadi feste, negli altri giorni o non si predica, o pochi vengono ad ascoltarli, per doverattendere alle faccende dimestiche.

Di qui l’importanza della figura del parroco rurale, di colui che aveva ilcompito, come si esprimeva un altro di questi testi, «d’ammaestrare, di-rigere, e correggere le coscienze di quelle persone idiote, e semplici, checonsumano la loro vita fra gli stenti dell’aratro nelle campagne, e non diquelle che vivono fra gli agi, in mezzo alle comodità d’ogni bene spiri-tuale nelle cittadi»94. Ai parroci delle campagne si rivolgeva anche unmanuale come quello di Alfonso de’ Liguori (Confessore diretto per le con- fessioni della gente di campagna con gli avvertimenti ai confessori...) ri-stampato ancora nei primi decenni dell’Ottocento e condito di esorta-zioni bonariamente paternalistiche («[i buoni confessori] quando viene

uno di costoro, quanto piú quegli è lordo di peccati, tanto piú l’accol-gono con carità, affin di strapparlo dalle mani del Demonio, dicendogliper esempio: Orsú figlio mio allegramente, fatti una bella confessione. Ditutto con libertà. Basta che vogli mutar vita, Dio ti perdona. A posta t’haaspettato finora. Allegramente etc.»), che erano la spia psicologica dellasollecitudine, nata con la Controriforma, di accostarsi ai «rozzi»95. Eproprio i redentoristi, seguaci del Liguori, continuarono in nuove terredi missione – la Maremma toscana, la Sicilia – l’opera iniziata dai ge-suiti, divulgando una pietà facile e esteriore, in cui il fasto delle pro-cessioni e le commozioni suscitate,dalle prediche avevano una parte es-senziale96.

94 Cfr. g. malatesta garuffi, Il parroco all’altare, Venezia 1799, dedicatoria.95 Cfr. alfonso de’ liguori, Confessore cit., p. 327. Alle pp. 530 sgg. sono elencate le Domande

da farsi a’ rozzi.96 Cfr. per la Sicilia s. giammusso, Le missioni dei Redentoristi in Sicilia fino al 1800, in «Spi-

cilegium historicum Congregationis SS. Redemptoris», 1962, pp. 51-176. Per la Toscana, cfr. no-ta successiva.

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Anche contro questo tipo di religiosità reagirono i giansenisti. Ma laloro polemica, diretta nello stesso tempo contro l’eccessivo potere del-la curia e la diffusione di forme di pietà teatrali e esteriori, rimase unfenomeno circoscritto, che riuscí a coinvolgere tutt’al piú alcuni stratidel basso clero. Nonostante alcuni successi parziali, soprattutto in To-scana (cosí, nel 1777, nella diocesi maremmana di Soana veniva vietataespressamente la flagellazione, anche in forme attenuate), essi non riu-scirono a intaccare la massiccia sedimentazione della pietà popolare. Neitumulti annonari scoppiati a Livorno nel 1780, uno dei bersagli imme-diati furono proprio i giansenisti. Iniziava cosí quell’intreccio, tempe-stivamente notato da un osservatore contemporaneo, di «fame» e di «fe-de» che assumerà forme piú ampie e tragiche nel 179997. L’odio di clas-se del «popolo basso» contro i borghesi, contro i giacobini «nemici dellareligione», manovrato dalla reazione cattolica con un’impressionante

proliferazione di miracoli mariani, mostrò quali profonde radici avessela Chiesa nelle campagne. Tutti i nodi del riformismo settecentesco – inun certo senso, tutti i nodi della storia italiana – vennero al pettine inquest’offensiva delle campagne contro le città.

Quello delle bande dei «lazzari» al seguito del cardinale Ruffo ful’ultimo grande moto religioso della storia d’Italia. Nel corso dell’Otto-cento il rapporto del clero con il laicato cominciò lentamente a cambia-re. Fu un processo lento: dopo la frattura provocata dalla rivoluzionefrancese, la Chiesa assunse in un primo tempo una posizione sostan-zialmente difensiva, insistendo lungo vie collaudate da tempo. Da un la-

to, quindi, si ebbe uno sviluppo delle attività caritative e assistenziali(basterà ricordare la figura del Cottolengo); dall’altro, si cercò di perfe-zionare il controllo delle masse dei fedeli, esercitato capillarmente at-traverso le parrocchie. La voluminosa opera redatta da N. Abbate (Lo spirito del parroco esposto ad un giovane sacerdote chiamato alla cura delleanime, 2 parti, 4 tomi, Roma 1838-41) è, a questo proposito, estrema-mente eloquente. Dopo un rapido, prudentissimo accenno alla tesi –giansenistica – dell’istituzione divina dei parroci («giudico affatto fuo-ri di proposito simile questione») l’Abbate tracciava un minuzioso ri-tratto di «parroco ideale». Doveva essere colto:

infatti si abusano gli empii dell’astrologia [ sic], della geologia per tentare di to-gliere la cronologia sacra; si abusano della zoologia per eliminare la spiritualitàdell’anima; della metafisica per avviluppare gli incauti; della storia per frangere l’au-

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97 Cfr. c. giorgini, La Maremma toscana nel Settecento. Aspetti sociali e religiosi, Teramo 1968,p. 171; g. turi, «Viva Maria». La reazione alle riforme leopoldine (1790-1799); Firenze 1969.

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torità della Bibbia; per sino le cose proprie negano, i fatti stessi del giorno stravol-gono con impudenza sfacciata, affine di sostenere le tesi di Belial... Non sarà maitempo gettato quello che consumasi sui libri... nei remoti villaggi ed isolati, piú omeno serpeggia pure la pestilenza delle letture perverse, e dovunque vi ha od un no-taio principiante, od un farmacista or ora ritornato dalla città, od un flebotomo difresco patentato, o qualche altro filosofastro di moda, che tiene banco per far pom-

pa di moderne idee, et sermo eorum ut cancer serpit .

Ma questa cultura doveva permettergli di «stare al livello de’ conti-nui progressi dell’inferno, affine di scoprire i suoi strattagemmi», sen-za tradursi in ostentazione libresca nei confronti dei fedeli indotti. Adessi il parroco doveva predicare «come comunemente si parla»; e l’Ab-bate aggiungeva: «non abbiate il menomo scrupolo nelle ville e tra con-tadini di adoperare il loro dialetto». Accostarsi al popolo, dunque, pro-ponendogli un cristianesimo equilibrato e mediocre, accuratamente pur-gato da ogni elemento di scandalo e di paradosso. Certo, per l’Abbate

l’affermare che «dei novissimi piú non si debba predicare a tempi no-stri, perché sono cose troppo trite e dozzinali, le quali o per la cattivaindisposizione generale degli ascoltanti, ovvero per essersi tante voltesentite, sembrano dover cagionare noja a chiunque siasi», non era altroche «un’altra astuzia del libertino per distogliere ogni idea funesta chepossa frenare i suoi delirii». Tuttavia ammoniva:

né già abbiate timore d’infastidire il vostro uditorio col predicare la morte, ma sap-piate predicarla con vantaggio rallegrando il buono, sorprendendo il malvagio, e cer-cando di avvertire tutti onde nessuno cada all’improvviso sua vittima; affine poi dinon atterrire inutilmente chiunque siasi, lasciate pure certe immagini e descrizioni

che sanno di bassezza e d’indecenza.

Rifuggire dal macabro, non solo, dall’apocalittismo, dalle profezie:predicando però la morte o gli altri novissimi non state a contare favole, poiché ètroppo imponente e seria la materia, non narrate miracoli o storie apocrife né ap-provate dalla santa Chiesa, non ardite interpretare cosa alcuna in proposito della sa-cra Scrittura che non sia conforme al consenso unanime dei Padri, non ardite pro-fetizzare ai popoli avvenimenti di sorte alcuna, se non quelli assicurati dai savii in-terpreti e dai dottori della Chiesa.

Al centro della predicazione del savio parroco non vi sarà quindi né il

Dio corrucciato del Vecchio Testamento, né il Cristo giudice, ma il Cri-sto zuccheroso ed effeminato delle immaginette sacre (uno strumentodi propaganda tutto da studiare):

Guardatevi in oltre dall’associarvi al numero di que’ terroristi, i quali senza di-scretezza e senza cognizione parlano sempre del Dio vivente con un tuono sí spa-ventoso, che in vece di farlo amare, e renderlo ammirabile nella sua grandezza di

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sviscerato affetto per le creature, lo rappresentano sempre sotto la sembianza di unnemico implacabile e vendicativo.

Per questa pietà circoscritta ed esclusiva, anche le confraternite laicalisono viste come un elemento di disturbo, o addirittura un pericolo po-

tenziale:Per lo piú ogni compagnia o confraternita tiene un qualche esercizio di divo-zione speciale da adempiersi particolarmente nelle feste in cui si adunano i confra-telli per il santo loro officio; non sia questa l’occasione di inquietudine, né si per-metta che tali pratiche di pietà siano per divenire l’impedimento di quelle che com-piere si devono nella parrocchia; le confraternite devono sostenersi in edificazione,non mai in destruzione del bene maggiore; il loro obbligo è di formare il decoro el’ornamento della parrocchia e delle stesse sue funzioni: non mai pertanto loro saràlecito di innalzarsi per fomentare la contraddizione; all’onore della parrocchia edallo stesso di lei servizio pieghino piuttosto volentieri.

L’iniziativa religiosa spetta soltanto al parroco: ogni manifestazione au-tonoma del laicato è considerata con sospetto.Questa immagine del parroco ideale è indizio, come si è detto, di una

strategia sostanzialmente difensiva. Nonostante l’accentuazione, relati-vamente recente, dell’importanza della parrocchia come centro di vitareligiosa, si seguono vie che ricalcano in sostanza le indicazioni imme-diatamente post-tridentine. Questa visione anacronistica, della societàemerge in maniera involontariamente caricaturale da un opuscolo comeL’artiere cristiano, ovvero preghiere meditazioni orazioni e laudi spiritualiadattate ad una comunità di artieri cristiani (2 parti, Roma 1827). Per l’au-

tore, i pericoli maggiori che minacciano gli apprendisti (a cui il discor-so è rivolto) sono la diffusione della bestemmia e di «certe canzonet-taccie nulla meno infami di quello fossero quelle antiche inventate dapoeti pagani adoratori di divinità oscenissime». Perciò, soggiunge ri-volto ai lettori «perché voi non abbiate ad accusare mancanza di bellecanzoncine da cantare fra giorno di mezzo a’ vostri lavori, si è qui, co-me a coronar tutta l’opera, stampata una scelta di laudi spirituali di va-rio metro, alle quali potrete applicare le varie ariette, che già sapete, oche verrete in seguito apprendendo». Si proponeva cosí agli apprendi-sti artigiani di cantare «ariette» su versi di sant’Alfonso de’ Liguori, delpadre Pastorini, del padre Muzzarelli98. Era la stessa visione idillica edolciastra che ispirava versi come quelli, intrisi di populismo ante litte-ram, pubblicati da una tal Fanny Ghedini sul giornale bolognese Il po-vero il 13 marzo 1847:

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98 Cfr. L’artiere cristiano cit., II, pp. vi-vii.

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Sono artigiano! sono artigiano!Non ho altre rendite che il mio sudor.Ma il prego mioFervente e puroA’ piè di DioLevo sicuro;

Ché nella prece del popolanSperanza e fede congiunti stan99.

11. Chiesa e società nello Stato unitario.

Nonostante tutti i suoi limiti, l’età detta del Risorgimento rappre-sentò la fine di una situazione esasperatamente provinciale, caratteriz-zata da inverosimili chiusure. Per il rapporto tra Chiesa e società, in par-

ticolare, essa ebbe, fatte le debite proporzioni, un significato analogo aquello della rivoluzione in Francia100. La reazione immediata degli am-bienti dei cattolici intransigenti al trauma della fine del potere tempo-rale, che cercò di ricreare un nuovo 1799, dando grande pubblicità adapparizioni della Vergine e ad altri miracoli mariani, divulgando atteseapocalittiche per mezzo di profezie redatte da personaggi influenti co-me don Bosco, non ebbe seguito101. In un brevissimo giro d’anni il pro-fetismo apocalittico cessò (non, però, i miracoli mariani) e gli stessi in-transigenti si diedero ad attività di tipo diverso: fondazione di banchee di istituti di credito rurale, creazione di associazioni di laici comel’Opera dei Congressi. Contro le speranze iniziali, lo Stato italiano na-to dall’usurpazione minacciava di durare, e bisognava prepararsi a unalotta di lungo respiro, politica e religiosa. Si gettarono cosí le basi diquelle che sarebbero state le forme nuove d’impegno del laicato cattoli-co nella società: l’Azione cattolica e il partito cattolico.

Come succede spesso, erano i reazionari ad avere la vista piú lunga.In quell’incunabulo del populismo reazionario italiano che è il Portafo- glio d’un operaio. Libro di lettura e di premio, Cesare Cantú affrontavadi petto, già nel 1871, la «quistione operaja». L’industrializzazione ita-

99 Cit. in I periodici popolari del Risorgimento, a cura di D. Bertoni Jovine, I, Milano 1959, p.217.

100 Cfr. g. sofri, Sulla storia del partito cattolico. Osservazioni a proposito di due libri recenti, in«Studi storici», v, 1964, pp. 533 sgg.

101 Cfr. p. stella, Per una storia del profetismo apocalittico cattolico ottocentesco. Messaggi pro- fetici di don Bosco a Pio IX e all’imperatore d’Austria (1870-1873), in «Rivista di storia e letteratu-ra religiosa», iv, 1968, pp. 448 sgg.

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liana era ancora agli inizi: ma gli sviluppi d’Oltralpe erano eloquenti.Una scorsa ai titoli dei capitoli basta a testimoniare la tempestività del-lo sguardo del Cantú: Lavoro. Produzione. Uno per tutti e tutti per uno;La proprietà. L’eguaglianza. Ricchi e poveri; I salari, le macchine e cose si-mili; Gli scioperi; Rivoluzione; La politica dell’operajo, e cosí via. Il tut-to era dedicato «al senatore Alessandro Rossi industriale a Schio». Cer-to, il Cantú non mancava di inserire di tanto in tanto le tradizionali no-te mielosamente retoriche. Il capitolo Lavoro. Produzione. Uno per tutti,e tutti per uno termina cosí:

I migliori operaj che gli ascoltavano partirono cantando:

Lavoriam, lavoriam. Quanto ci mostraDi ricco il mondo, è passeggiero spettro.Il crin sudato è la corona nostra,Il piccone e la marra il nostro scettro.

Ma il Cantú capiva anche che per distogliere gli operai da scioperi, ri-voluzioni e simili abomini non bastava cantare in versi alati le lodi dellavoro, o esortare i padroni a comportarsi umanamente con i salariati.Solo la Chiesa poteva condurre efficacemente una politica di collabora-zione tra le classi: ma per far questo doveva abbandonare il suo prudenteimmobilismo, e far fronte alle situazioni nuove (ormai imminenti anchein Italia) con metodi nuovi. Non per nulla il Cantú citava con elogio ilfamoso vescovo di Magonza, Ketteler, e il suo «aureo libro sugli ope-raj». «Che cosa desidera l’operajo?» si chiedeva; e replicava:

pace, giustizia, trovarsi con uomini di buona volontà, convincere il ricco ch’egli pu-re è sotto l’occhio di Dio quanto il povero e sarà giudicato da Dio con eguale im-parzialità; con esso pregar nella stessa chiesa, sullo stesso panco; colle parole stessedomandare il pane quotidiano al padre di tutti; sentirsi dire: Rispettate l’autorità; la-vorate e siate fedeli; se anche non è presente il padrone, v’è in alto un occhio sempre aper-to sopra di voi (san Paolo agli Efesi): ma anche sentir intimare al ricco: Paga la mer-cede a chi lavora per te, se no il gemito dell’operaio salirà al cielo gridando vendetta (Ec-cli XXIII 13), e che al giudizio finale Iddio dirà: – Ebbi fame e sete, e non misaziaste; fui nudo e non mi copriste. Andate in eterno lungi da me.

La Chiesa deve riallacciarsi alla sua millenaria tradizione inter-

classista, come dice il vescovo nel capitolo Un vescovo dice l’ultima parola ( sic):Al tempo degli schiavi, invece di ammutinar questi contro i padroni, i primi cri-

stiani cercavano formare de’ padroni buoni. Cosí adesso al padrone intimano ch’egliè fratello dell’operajo; che deve ajutarlo a portare i pesi; che de’ suoi capitali puòvantaggiarsi, ma non arraffare senza volgersi a destra né a sinistra per non vedere ipatimenti de’ suoi simili.

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Ma la carità non basta:E deh il clero capisse l’importanza della quistione operaja, e vi applicasse non

solo la carità, ma le piú consentite dottrine; senza pregiudizj antiquati né utopiesovvertitrici, esaminasse la cagione dei mali e i rimedj; penetrasse nelle grandi fab-briche; ne trattasse in pulpito; ispirasse carità ai padroni, pace e accordo agli ope-

raj; il distacco dalle famiglie correggesse con istituzioni morali; e per quanto i go-vernanti ne attraversino la santa opera, perseverasse con zelo, rassegnandosi al nuo-vo martirio a cui lo sottopone il dominio d’una minoranza per niente nazionale, eimitatrice de’ forestieri.

E nel capitolo Il prete e gli operai, il Cantú arriva a ipotizzarel’ordine de’ cappellani degli operaj, che li seguissero ne’ loro lavori come i cappel-lani d’armata, ne studiassero le pene morali, gli isolamenti terribili, le sofferenzed’ogni guisa per ripararle o guarirle o alleviarle, e con buone aspirazioni dirigerli albene102.

A queste audacie proposte dal Cantú (che richiamano esperienzerecenti, del resto sconfessate) non arrivò certo la Rerum novarum,l’enciclica con cui, vent’anni dopo, la Chiesa cercò di sottrarre il movi-mento operaio al monopolio dei socialisti.

Accanto al manifestarsi della questione operaia (e ad esso almeno inparte legata) si ebbe dopo l’unità una notevole diffusione di atteggia-menti anticlericali, che non mancarono di preoccupare le gerarchie cat-toliche.

Ma l’anticlericalismo era da secoli una componente tradizionale del-la mentalità italiana, e anche se alla fine dell’Ottocento si caricò di im-

plicazioni politiche nuove, esso non era comunque che un sintomo, diper sé non molto rilevante. Piú pericoloso sembrò, per un certo perio-do, il proselitismo protestante, soprattutto valdese e metodista. I «col-portori» che giravano le campagne vendendo bibbie e opuscoli propa-gandistici impensierivano la gerarchia cattolica. Probabilmente esage-rando, il coadiutore del vescovo di Lodi, A. Bersani, nel suo diffusissimoCatechismo spiegato al popolo per via di esempi e di similitudini, parlava di«certe Bibbie adulterate che insieme coi romanzi son divenute un mo-bile necessario di quasi tutte le case». Ma poco dopo mostrava qual erail vero fondo delle sue preoccupazioni: i protestanti vendono la Bibbia«a tenuissimo prezzo, cosiché la può comperare anche l’uomo il piú po-vero [...] si presentano con questo libro ai contadini, alle donnicciuole,ai sarti, ai fruttivendoli, e dicono loro: Prendete e studiate, qui sta la

102 Cfr. Portafoglio d’un operajo ordinato e pubblicato da Cesare Cantú cit., pp. 87, 71-72, 288,283, 36.

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vostra fede. Non è un canzonarli?» La Bibbia è difficilissima a inten-dersi: soprattutto

vi sono certe parole, certe frasi che hanno un senso ambiguo; chi le interpreta in unamaniera, chi in un’altra, donde nasce la diversità delle opinioni e delle credenze. Peresempio, come spieghereste voi queste massime dell’evangelio: A colui che vuol muo-

verti lite, e toglierti la tunica, cedigli anche il mantello? ( Matth. V 40). Chiunque di voinon rinunzia a tutto quello che possiede, non può essere mio discepolo? (Luc. XIV 33).Dunque non si possono difendere i propri diritti?... Dunque il vangelo proibiscel’essere ricco?... Dunque si è obbligati a vendere tutto e ridursi all’asse per andarein paradiso?... Stando alla parola dell’evangelio sembrerebbe cosí.

Per questa ambiguità e oscurità molti «col loro corto e mattocervello» cavarono fuori «dei perniciosissimi errori, e degli spro-positi madornali». E finiva con quest’esortazione:

per voi che non avete fatti quegli studi che sono necessari, che non avete perciò unaparticolare licenza della chiesa, [le Scritture] possono essere un veleno di morte, aguisa di quel frutto vietato, cui il serpente offeriva alla povera Eva nel paradiso ter-restre. La chiesa vostra madre ve lo proibisce.

Altrove il Bersani spiegava a un fittizio interlocutore contadino la prov-videnzialità della disuguaglianza sociale:

È [...] questa disuguaglianza stessa un tratto della provvidenza di Dio. Se non vi fos-se questa varietà, sparirebbero di botto tutti i negozii, tutte le botteghe, tutte le in-dustrie, e la terra, con tutto il suo oro, si ridurrebbe a un vero deserto. Vedete checosa vuol dire parlare senza riflettere?

«Qualche cosa comincio a capire...» era la risposta del docile interlo-cutore103.

Questa esplicita, e frequentissima difesa dei privilegi sociali da par-te del clero non era certo, in sé, un fatto nuovo: tutt’altro. Ma la pre-senza di un movimento operaio che si veniva organizzando, anche poli-ticamente, e affrontava dure lotte, accentuò un fenomeno che era giàcominciato probabilmente nel corso del Settecento, ma che tra l’Otto-cento e il Novecento assunse forme sempre piú massicce, anche se inproporzioni molto diverse a seconda delle regioni: la diminuzione dellapratica religiosa. La scoperta che il clero «stava con i padroni» portava

in molti casi a un distacco dalla Chiesa, distacco che non era, di per sé,scristianizzazione, e che anzi era generalmente accompagnato da affer-mazioni del tipo «Gesú Cristo era il primo socialista», e cosí via. Cer-to, era difficile superare l’atteggiamento contraddittorio testimoniatodal vecchio proverbio siciliano «A preti e parrini [=frati] sentici la mes-

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103 bersani, Il catechismo cit., 5a ed. Lodi 1879, I, pp. 28, 384 sgg., 127.

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sa e stoccaci li rini»: l’anticlericalismo tradizionale si conciliava benis-simo col «sentir messa», con l’ossequio alle pratiche religiose tradizio-nali. Ma insomma, in molti casi si arrivò anche a questo: il censimentodel 1911 parla chiaro104.

12. Mondo cattolico e vita politica dalla Resistenza a oggi.

Questa tendenza al distacco dalla pratica religiosa di larghi settori del-la società italiana fu in parte bloccata da eventi come la prima guerramondiale, l’ingresso ufficiale dei cattolici nella scena politica, la Conci-liazione. L’appoggio concesso al regime fascista consentí alla Chiesa diattestarsi nella società italiana su posizioni abbastanza solide da offrirein un secondo tempo – allorché il regime cominciò a vacillare – la pos-

sibilità di un’abilissima operazione di sganciamento. Grazie alla parte-cipazione delle masse cattoliche alla Resistenza, il partito democraticocristiano poté presentarsi alla fine della seconda guerra mondiale comel’erede del vecchio moderatismo, un erede in cui la componente mode-rata era rafforzata dalla tradizione paternalistica e interclassista dellaChiesa, e dal prezioso appoggio fornito dalla gerarchia e dalle organiz-zazioni cattoliche. In questa situazione Togliatti sviluppò la propria po-litica, prudente fino alla rinuncia, di «mano tesa» verso la Chiesa. Erauna politica che inseriva un nucleo realistico, già presente nelle posizionidell’«Ordine Nuovo» – il riconoscimento delle masse cattoliche, so-

prattutto contadine, come una delle componenti fondamentali della so-cietà italiana – in una strategia complessiva guidata da un giudizioprofondamente scettico sulle possibilità di modificare la situazione po-stbellica in senso favorevole al proletariato. In questo modo, certo, To-gliatti garantiva al movimento operaio italiano la possibilità di tener du-ro in una fase difficile della propria storia. Ma la gerarchia cattolica, pro-prio perché abituata alle finezze della grande politica, capí che nel breveperiodo – e la politica è fatta anche di brevi periodi – la politica della«mano tesa» dell’avversario significava che era possibile passare all’at-tacco. Allorché gli effetti dello scossone impresso alla società italianadalla lotta armata e dall’insurrezione cominciarono a placarsi, la gerar-chia cattolica scatenò una crociata in piena regola, condotta però conmezzi tecnicamente aggiornati (non per nulla uno dei protagonisti di

104 Cfr. l. bedeschi, Il comportamento religioso in Emilia-Romagna, in «Studi storici», x, 1969,pp. 387 sgg.

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questa vicenda fu il gesuita padre Lombardi, detto «il microfono diDio»). In una crociata, l’avversario dev’essere raffigurato come l’incar-nazione stessa del male e della turpitudine, per poter diventare l’ogget-to di un odio cieco e fanatizzato; e proprio padre Lombardi riprendeva,per esempio, sulle colonne della «Civiltà cattolica» (1946) una sedicen-te «circolare riservatissima del Partito [comunista], recante Disposizio-ni segrete ai propagandisti comunisti», già apparsa su un giornale genove-se, e redatta – il rozzo candore dello stile è inconfondibile – da qualcheprete in vena di provocazione:

Compagno propagandista... eccoti un «decalogo»:... 2) Lottare contro quanto,specie gli ipocriti preti, vanno dicendo di meno vero sui nostri scopi; negare reci-samente quanto essi affermano; negare recisamente che noi non vogliamo religio-ne, patria, famiglia. 3) Mostrare con scherzi, sarcasmi e con condotta piacevole,contenta, che tu sei piú libero senza le pastoie della religione; far capire che si vi-ve bene anche senza religione, anzi si vive meglio se si è piú liberi. 4) Specialmen-

te è tuo compito distruggere la morale insegnando agli inesperti, creando un am-biente saturo di quello che i pudici [ sic] chiamano immoralità. Questo è tuo supre-mo dovere: distruggere la moralità! 5) Allontana sempre dalla Chiesa i tuoi compagnicon tutti i mezzi, specialmente mettendo in cattiva luce i preti, i Vescovi, ecc. Ca-lunniare, falsare; sarà opportuno prendere qualche scandalo antico o recente e but-tarlo in faccia ai tuoi compagni. 6) Altro grande ostacolo al nostro lavoro: la fami-glia cristiana. Distruggerla, seminando idee di libertà di matrimonio: eccitare i gio-vani e le ragazze quanto piú si può: creare l’indifferenza in famiglia, nellostabilimento, nello Stato: staccare i giovani dalla famiglia. 7) Portare l’operaio adamare il disordine, la forza brutale, la vendetta: a non aver paura del sangue.

Il «decalogo» terminava naturalmente cosí: «10) Lotta, lotta, lotta con-

tro i preti e la morale cattolica»105.Certo, mundus vult decipi: e questa «circolare riservatissima» è uncaso estremo, che tuttavia non stona nel contesto della propaganda po-litico-religiosa di quegli anni. Parlando ad Assisi, alla chiusura del IVCorso di studi cristiani, il solito padre Lombardi inserí, tra gli imman-cabili accenni giobertiani alla «missione d’Italia», questa vibrante apo-strofe dal tono tra escatologico e mussoliniano:

Italia di san Francesco, di santa Chiara, di santa Caterina, di san Bernardino Italiadi san Pio V, di san Luigi, di don Bosco, del Cottolengo, di santa Francesca Ca-brini, ancora una volta drizzati in piedi; ancora una volta ti guarda la storia, e date aspetta la nuova parola. Ricordati: a questo sforzo è connesso il tuo avvenire mo-rale e materiale; è connessa la fraternità nuova dei popoli, da riedificarsi sul tuo piúrecente martirio; è connesso l’esperimento della nuova età. Viene, la nuova età: saràcertamente nel nome di Cristo: noi la vogliamo sposata col nome d’Italia!

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105 Cfr. r. lombardi s. j., I l programma politico comunista, in «La Civiltà cattolica», 11, 1946,pp. 350-51, nota.

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Punto di riferimento dei cattolici italiani in quest’ora decisiva, dovevaessere naturalmente il papa:

Misureremmo insieme l’altezza vertiginosa dell’Uomo bianco che vive in Vati-cano, al di sopra degli spazi e dei millenni: l’unico che nella sua stabilità conti la sto-ria a secoli e non ad anni, onde può veder di lontano le conseguenze delle passioni

di un giorno...106.

Si avvicinava il 18 aprile, 1948, data delle elezioni politiche, e l’ora-toria dell’«Uomo bianco che vive in Vaticano» seppe essere all’altezzadi questo clima insieme agonistico e millenaristico. Parlando nel 1947agli uomini di Azione Cattolica, Pio XII esclamava:

6) Il tempo della riflessione e dei progetti è passato; è l’ora dell’azione. Siete pron-ti? 7) I fronti contrari, nel campo religioso e morale, si vengono sempre piú chiara-mente delineando: è l’ora della prova. 8) La dura gara, di cui parla san Paolo, è incorso; è l’ora dello sforzo intenso. Anche pochi istanti possono decidere la vittoria.Guardate il vostro Gino Bartali, membro dell’Azione Cattolica: egli ha piú volteguadagnato l’ambita «maglia». Correte anche voi in questo campionato ideale, inmodo da conquistare una ben piú nobile palma: Sic currite ut comprehendatis (1Cor .9.24)107.

Ma anche questo inverosimile miscuglio di Gino Bartali e san Paolonon era sufficiente: per mobilitare le masse bisognava ricorrere alla vec-chia, collaudatissima arma della devozione mariana. L’idea di lanciareuna devozione popolare imperniata sulla «Madonna Pellegrina» (la Pe-regrinatio Mariae) fu indubbiamente efficace. All’inizio del 1948 il ge-suita D. Mondrone trae buoni auspici dall’intervento di «colei che sal-

verà l’Italia» (dallo spettro del comunismo, s’intende) scrivendo:È consolante rilevare come la Madonna ha ancora tanto fascino sull’anima del

nostro popolo. Ondate d’indifferentismo e di miscredenza finora non son riuscitea strappare dal cuore degl’Italiani la stima e la fiducia nella Madre di Dio. I suoisantuari sono tuttora visitati da folle innumerevoli di popolo. Quello che abbiamovisto a Roma attorno alla Madonna del Divino Amore è indimenticabile. Quelloche si è veduto in questi ultimi mesi nella «Peregrinatio Mariae» nel Milanese, adAncona, in quel di Siena, ha superato ogni aspettazione. Anche nei Paesi piú de-vastati dalla propaganda comunista, socialista e comunque anticlericale, tolta qual-che rarissima eccezione, l’affacciarsi di Maria ha destato entusiasmi da far stupireanche i piú scettici. Tutto questo è bello, è grandemente significativo, è promet-

tente. In un paese dove la Madonna trova ancora tanti cuori che si lasciano pren-dere dal suo sorriso materno, Essa non permetterà che abbiano a prevalere i nemi-ci di Dio. Potranno venire i «giorni difficili» preannunziati dall’onorevole Scelba,

106 r. lombardi, L’ora presente e l’Italia, in «La Civiltà cattolica», 1, 1947, pp. 24, 21.107 Discorso di S. S. Pio XII agli uomini di Azione Cattolica, in «La Civiltà cattolica», iii, 1947,

p. 553 (la suddivisione in paragrafi numerati è nel testo).

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potremo soffrire un poco, vi potranno essere ancora delle vittime, ma la vittoriasarà sua108.

E questa insistente propaganda mariana partorí gli immancabilimiracoli. Nel ’48, l’«anno dei prodigi», se ne contarono a decine. In

stragrande prevalenza, per l’appunto, miracoli mariani (a parte episodiisolati come l’apparizione del volto di Cristo su un muro della casa del-lo «scienziato» razzista Nicola Pende): madonne lacrimanti, madonnesanguinanti, madonne sfavillanti apparvero a bambini, adulti, vecchi.Solo dopo il vittorioso esito delle elezioni questa febbre mariana a po-co a poco si calmò109.

Ma dietro quest’esaltazione, questo clima di fanatismo, c’era da par-te delle gerarchie cattoliche una volontà lucida e consapevole di pene-trare in tutti i gangli vitali della società e dello Stato italiani, per impa-dronirsene e trasformarli in strumenti di potere. Forse nessuno formulò

questo programma con la chiarezza di padre Lombardi, in un lungo sag-gio intitolato Vigilia di mobilitazione generale apparso a puntate sulla «Ci-viltà cattolica», tra il 1947 e il 1948.

Urge – scriveva – la mobilitazione generale dei cattolici italiani. Per un’arma-ta di pace, di ricostruzione e d’amore, ma per una vera armata.

E proseguiva, toccando via via i punti principali. I partiti:i cristiani intervengano, e sentano il preciso obbligo morale di intervenire, soprat-tutto mediante l’azione politica, organizzandosi in uno o piú partiti...

I sindacati:formazione delle masse dei lavoratori ai principî sociali del cristianesimo, perchénella vita del sindacato unico (che si è costituito per non indebolirli con divisioniideologiche) se ne facciano propugnatori coscienti ed efficaci... Bisogna formare icattolici all’attività sindacale...

I giornali:c’è il problema del giornale cattolico, da risolvere con vari quotidiani a carattere re-gionale, ma possibilmente anche con un grande giornale d’importanza nazionale,che non sia neppure cattolico per affermazioni troppo esplicite e frequenti, riveliperò in ogni giudizio una piena sanità d’ispirazione... C’è il problema della stampa

periodica non quotidiana...

L’università:

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108 d. mondrone s. j., Colei che salverà l’Italia, in «La Civiltà cattolica», 1, 1948, p. 25.109 Cfr. c. falconi, La Chiesa e le organizzazioni cattoliche in Italia (1945-1955), Torino 1956,

pp. 98-102.

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…necessità di mirare da parte cattolica anche in alto, molto in alto, alle fonti del-la pubblica istruzione: alla conquista delle cattedre in generale, e in particolare diquelle cattedre universitarie, che potrebbero considerarsi chiave, nella cultura cheriguarda direttamente la Chiesa: Filosofia teoretica, Filosofia morale, Storia delle re-ligioni, Storia del cristianesimo, Storia medievale e moderna, Filosofia del diritto, Di-ritto del lavoro ed altre simili. La bonifica delle idee non sarà mai profonda né defi-

nitiva in Italia, finché le aule dove si creano gli indirizzi speculativi delle nuove ge-nerazioni saranno quasi tutte infestate dalla malaria ...

La radio:Forse la radio potrebbe aiutare non poco la larga diffusione della verità, nella

duplice forma di istruzione ed esortazione, raggiungendo molti nelle loro case, e va-lorizzando al massimo le capacità espositive di alcuni apostoli piú adatti. Ma essastessa costituisce di per sé un nuovo problema, un altro compito del campo cattoli-co: entrarvi, saperla usare...

Il cinema:l’influsso del cinema si allarga, per l’efficacia impareggiabile con cui imprime leidee mediante semplici immagini, anche in gente che non sarebbe capace di ragio-nare...;

bisogna favorire la diffusione dei film migliori, farne fare di nuovi e piúattraenti, «acquistare o costruire belle grandi sale sorvegliate con spiri-to morale sicuro e insieme aperto, e non soltanto locali a carattere ri-stretto quale avranno sempre le sale parrocchiali...» Non mancava, allafine, un discreto accenno alla possibilità di fare «un censimento dei ca-pitali in mani cattoliche, che a parità di rendimento s’impiegherebbero

piú volentieri in opere cattoliche, anziché in altre»110.Questo minuzioso programma fu in sostanza coronato dal successo.Dieci anni dopo, un prete esiliato in una piccolissima parrocchia di mon-tagna, perché sospettato (quanto a torto!) di «sinistrismo», scrivevaamaramente:

Per un prete, quale tragedia piú grossa di questa potrà mai venire? Esser libe-ri, avere in mano Sacramenti, Camera, Senato, stampa, radio, campanili, pulpiti,scuola e con tutta questa dovizia di mezzi divini e umani raccogliere il bel fruttod’essere derisi dai poveri, odiati dai piú deboli, amati dai piú forti. Aver la Chiesavuota. Vedersela vuotare ogni giorno di piú. Saper che presto sarà finita per la fe-

de dei poveri. Non ti vien fatto perfino di domandarti se la persecuzione potrà es-ser peggio di tutto questo?111.

110 r. lombardi s. j., Vigilia di mobilitazione generale, in «La Civiltà cattolica», iv, 1947, pp.15 sgg.

111 l. milani, Esperienze pastorali, Firenze 1957, pp. 464-65.

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La contraddizione formulata drammaticamente da don Milani con-tinua in forme piú acute ancora oggi, dopo che il pontificato di GiovanniXXIII e il concilio hanno aperto un processo contraddittorio e certa-mente lungo (ma probabilmente irreversibile) di rinnovamento dellaChiesa. Fenomeni come quelli della crisi delle vocazioni del clero, e deldistacco dalla pratica religiosa delle masse soprattutto operaie, sono con-siderati dalla gerarchia con comprensibile inquietudine. D’altra parte,dichiarazioni come quelle sulla «fine dell’età costantiniana» sono anco-ra affermazioni teoriche, che faticano a tradursi in realtà.

In un certo senso questa contraddizione vale non solo per la Chiesacome istituzione, ma per la religione stessa. Da piú di dieci anni, a Ser-ra d’Arce, un paese vicino a Salerno, una donna, Giuseppina Gonnella,assume periodicamente la personalità del nipote morto, Alberto. Uomi-ni e donne si accalcano per vedere «Alberto», parlare con lui, chieder-

gli consigli, conforto, guarigioni miracolose; gli scrivono lettere (a «san-to Alberto», «al beato Alberto»), gli portano elemosine con cui è statoeretto una specie di tempio, comprano dischi con la «sua» voce112. Que-sti uomini e queste donne cercano e trovano conforto. Non chiedono al-tro, e «Alberto» non può dare loro altro. In una situazione miserabile,disgregata, la religione non può essere che questo, un aiuto a sopporta-re un po’ meglio una vita di per sé intollerabile. È forse poco, ma non èlecito disprezzarlo, sia che provenga da «Alberto», sia che provenga dal-la Madonna (che da questo punto di vista si equivalgono). Ma proprioperché proteggono dalla realtà e non incitano, né aiutano a prenderne

coscienza e a modificarla, questi culti popolari sono in ultima analisi unamistificazione: sopravvalutarli populisticamente (come è stato fatto) èassurdo e dannoso. (Anche le visioni del Lazzaretti, piú legate di quan-to non sembri all’ambiente in cui nascevano le contemporanee profeziedi don Bosco, non fanno eccezione alla regola, nonostante gli sparsi ac-cenni in esse contenute a una confusa palingenesi sociale113). A questolivello elementare, le sorti della religione appaiono legate al perpetuar-si o alla scomparsa di una situazione di sottosviluppo e di disgregazionesociale.

A un livello piú complesso, in cui la religiosità immediata, popolaree non, viene incanalata e filtrata da strutture ecclesiastiche efficienti e

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112 Cfr. a. rossi, Un nuovo culto, in «Conoscenza religiosa» 1, 1970 pp. 90-96, e in generale,della stessa, Le feste dei poveri, Bari 1970. [Nel gennaio 1972 Giuseppina Gonnella ha concluso tra-gicamente la sua vicenda: un «cliente» l’ha assassinata].

113 Cfr. a. moscato, Il movimento millenarista di Davide Lazzaretti, in a. moscato - m. n. pie-rini, Rivolta religiosa nelle campagne, Roma 1965, p. 60 (per l’incontro tra il Lazzaretti e don Bo-sco).

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capillari, le capacità di sopravvivenza della religione sono, è chiaro, in-finitamente maggiori. E tuttavia, anche qui sembra profilarsi una con-traddizione. Da un lato, la Chiesa, anche per effetto del movimento ecu-menico, tende lentamente a desacralizzarsi (ma i miracoli di san Gen-naro e i culti mariani rimarranno in piedi per chissà quanto tempo).Dall’altro, la società del capitalismo maturo, sempre piú ossessivamen-te razionalizzata, fa esplodere la spinta originaria alla liberazione car-nevalesca. È un bisogno, questo, che il carnevalesco coatto, il carneva-lesco spurio controllato dai detentori del potere (quello del pubblico del-le partite di calcio, per intendersi) non basta piú a soddisfare. Forse,diversamente che in passato, questa sete di carnevalesco non troverà sfo-go nella religione (anche se è subito comparso un furbissimo teologo ame-ricano alla moda, che ha teorizzato il cristianesimo come religione car-nevalesca, e Gesú Cristo come prototipo di Arlecchino114). Da certi in-

dizi, sembra che questa esplosione carnevalesca e liberatoria tendapiuttosto a invadere le sfere dell’arte (il nuovo rapporto col pubblicoproposto da certi spettacoli teatrali) o della politica (certi aspetti del«maggio» francese). Anche se, a proposito di quest’ultima, sarà forseopportuno ricordare l’osservazione di un illustre esperto, che la rivolu-zione è una faccenda «lunga e noiosa».

114 h. cox, The Feast of Fools, Cambridge, Mass. 19703.

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