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Copertina: Rachele Tognana (1889-1971),La bambinaia, anni Venti, olio su tela.Le foto sono state concesse dal F.A.S.T.(Foto Archivio Storico Trevigiano).In particolare le foto di pagina 6, 11, 16-17, 21,scattate nel 1888vale a dire negli stessi anni della vicenda narrata,provengono dal fondo Bertolini.Ritraggono il castello di Roncade (6),la chiesa parrocchiale di Roncade (11),ancora il castello di Roncade (16-17),l’interno della chiesa di Roncade (21)Le foto di pagina 8 e 25provengono dal fondo Conegliano.

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Gian Domenico Mazzocato

Il ritorno

La vita del popolo

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Trent’anni? Non ricordavo bene, mi pareva chefosse ergastolo. Un fantasma, un fantasma chetorna.Una breve di cronaca in prima, non è stato pos-sibile fare altro, il 5 gennaio. Treviso è un po’ stordita in questa vigilia di pove-ra redodesa. Attorno alla città si sta per appicca-re fuoco ai falò, grandi e piccoli. E l’attenzione ditutti è all’inaugurazione dell’Eden, il teatro nuo-vo, splendido e buono per tutto, in Borgo Cavour,proprio nel quartiere fatto bello da Graziano Ap-piani. L’Eden ospiterà spettacoli, conferenze, co-mizi, pattinaggio, balli e cinematografo. Questisono giorni di trionfo per Appiani. La nostra re-dazione è in subbuglio per stargli dietro.Una breve di cronaca.Poi, nei giorni successivi mi sono dato da fare. Horichiamato alla memoria, sono andato a vedere lemie note di allora, ho ricostruito il processo. Cor-rer Giovanni fu Giosuè, come dimenticare? Ero un ragazzino, appena arrivato nella reda-zione del Progresso, il giornale della sinistra tre-visana. La redazione a due passi da qua, dalGazzettino, in Calmaggiore. Mio Dio, quantotempo è passato.Facevamo le battaglie per le cucine economiche,come le chiamavamo allora, 10 centesimi un li-tro di minestra, per la gente martoriata dallapellagra.

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E la nuova legge elettorale che portava il numerodegli elettori a due milioni da 600mila che era-no. Bastava saper leggere e scrivere per votare: noia dire a tutti, a pubblicare ogni giorno che erasufficiente presentarsi davanti a un notaio e di-mostrare che si sapeva compilare la richiesta diiscrizione alle liste elettorali. La prova che si sa-peva leggere e scrivere, insomma. Una guerra,perché i moderati non volevano mollare su nulla. E il divorzio. Me ne ricordo bene perché, tra i so-stenitori di Cesare Parenzo che aveva presentatoil progetto di legge, c’era Domenico Giuriati, ildifensore di Correr.Una breve di cronaca, per trent’anni di carcereduro.Il telefono numero 127, qui al civico 12 del Cal-maggiore, ha cominciato a suonare tardi. Tuttagente incuriosita, che voleva sapere chi trasporta-va il furgone cellulare attraverso le vie di Treviso,in direzione del Duomo. Il mio primo caso, ulti-mi di gennaio del 1881. Ho sentito il bisogno, a cose concluse, di metterein ordine i miei appunti. Trent’anni, una vita.Correr doveva scontare ancora qualche giorno dicarcere, prima della liberazione. Quando è usci-to, il 25 gennaio di quest’anno, sono stato a lun-go con lui, l’ho intervistato. Ha un unico desiderio. Vedere il mare di notte.

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3 gennaio 1911, serastazione ferroviaria di Treviso

La motrice delle 18 e 32 proveniente da Vene-zia ha fermato i suoi tre vagoni, puntuale alminuto. È già buio da un pezzo, a Treviso, e freddo. Il vento tira da est, una bora triestina che por-ta neve marcia, mista a pioggia. Nel fascio diluce dei fanali corrono velocemente scagliebianche, di ghiaccio. Sotto le pensiline stazio-nano pochi viaggiatori intirizziti. Sono avvoltiin grandi tabarri neri o affondano il viso neicolletti alti dei loro paltò. Battono i piedi,sbuffano in nuvole di fiato.C’è qualcosa di strano, di diverso dal solito. Enon solo perché il treno è stato, eccezional-mente, fatto arrivare sul primo binario.Alcuni uomini in uniforme si dirigono conpasso deciso verso l’ultima porta del convoglio.Scendono altri due carabinieri col mantellosulle spalle, tirati in volto. Tra loro un uomoalto, magro, che li sovrasta entrambi. Ha lemani chiuse dai ferri. È tranquillo, sorridequasi. Ha il capo scoperto e così si notano i ca-pelli bianchissimi.Lo scambio di consegne è rapido, poche paro-le, giusto quanto serve. Qualche firma, salutifrettolosi e formali.Un po’ discosto il capostazione osserva la sce-na, nervoso. I due carabinieri col mantellochiedono dov’è il posto di ristoro. Tra qualcheora passerà il treno che li riporterà in Toscana.Viaggeranno tutta la notte. Il detenuto viene accompagnato all’esternodella stazione. Sale su un furgone che reca lascritta “Regie Carceri”, color oro su fondo ne-ro, praticamente una carretta con un tetto ditela. Due cavalli a trainare, un carabiniere acassetta, un altro dietro col detenuto. Unoschiocco di frusta e un incitamento stridulo,quasi un singhiozzo. Le ruote si muovono, ci-golano, traballano e pestano sul terreno. Subi-to prendono velocità. Qualche curioso osserva. Il furgone passa davanti alla barriera Vittorio

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Emanuele, poi prende a sinistra verso piazzadella Cavallerizza, infine piazza Duomo.Proprio dalle prigioni in centro di Treviso,trent’anni prima, subito dopo il processo e lacondanna, Correr Giovanni, fu Giosuè di an-ni 27, aveva cominciato il suo ramingare pertutti i penitenziari italiani. Condanna “peromicidio qualificato alla pena dei lavori forza-ti a vita”, come recitava il codice sardo. Di fat-to una pena capitale prolungata nel tempo,una morte consumata giorno dopo giorno. Edel resto, al processo, il pubblico ministero,Bartolomeo Favaretti, procuratore generaledell’Appello di Venezia, aveva chiesto espres-samente la pena di morte.Ma Giovanni è incredibilmente sopravvissutoa trent’anni di lavori forzati e nessuno saniente di quel suo arrivo e dunque nessuno loattende.Perfino il cronista del Gazzettino, sempre at-tentissimo a tutto, viene preso alla sprovvista.

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Pubblica un breve articolo, in prima pagina, il5 gennaio. Il titolo, su una colonna, è, a suomodo, un bentornato, quasi un augurio: Versola libertà, si legge. Forse, però, è qualcosa di diverso, una sorta diesorcismo. In città si respira un’apprensionediffusa, quasi paura. Treviso si appresta a risco-prire una pagina terribile della sua storia. Unavicenda dimenticata, di miseria e sangue, dipovertà morale, accaduta praticamente alleporte della città. Dimenticata e rimossa. La misura della rimozione è che nessuno saproprio nulla di questa vicenda. Si dice chel’ergastolo è stato commutato in trent’anni diprigione per grazia sovrana. Non è vero: l’en-trata in vigore del codice italiano che soppian-tava il vecchio codice sardo, aboliva la pena dimorte e dunque tutte le pene venivano ridottein proporzione. L’ergastolo diventava condan-na a trent’anni.Si dice anche che sia stato processato per averucciso con tre colpi di coltello un suo rivale.Nemmeno questo risponde a verità, si viene asapere presto. Ma bisogna verificare, andare aleggere le carte di allora, sentire dei testimonio magari qualcuno che ricorda bene.Poco a poco, in una Treviso vagamente allarma-ta, affiora qualcosa. Qualche particolare tornaalla memoria. Biancade, Biancade di Roncade.Correr, trent’anni fa, si è sbarazzato di un suo ri-vale in amore. Una coltellata, forse un colpo dipistola, la memoria è offuscata, confusa.Poi qualcuno va a vedere vecchie carte. No,non è un rivale che ha ammazzato, è una sto-ria molto più torbida, ben più intricata. E nonha usato né coltello, né pistola.Correr ha ucciso la sua amante con due colpidi roncola, forse di mannaia, al collo. È fuggi-to, in preda al panico. Forse non voleva ucci-dere davvero, forse era convinto di farla franca.Si è sbarazzato dei vestiti lordi di sangue.Ma la donna non è morta e quando, per caso,accorre il padrone dell’assassino (che di me-stiere fa il muratore), negli spasimi dell’atroce

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agonia, farfuglia il nome del colpevole. I carabinieri di San Biagio di lì a qualche oratrovano Correr ripulito e rivestito, col suo abi-to della festa. L’unico altro abito che possiede.Ma che ci fa un povero manovale vestito conl’abito buono, che si mette solo la domenicaper andare alla messa, in piena notte?Gli occhi di Correr tradiscono una inquietudi-ne che non sfugge allo sguardo indagatore deicarabinieri. Le sue mani hanno un tremito ac-centuato, balbetta. Sì è lui Giovanni Correr, diGiosuè detto Pin Scarper.Non devono far gran fatica i carabinieri. Ispe-zionano le vicinanze della casa del Correr erinvengono subito altri panni, tutti sporchi disangue. Glieli fanno indossare, così, già rigidiper le croste indurite. La taglia è giusta, i ve-stiti potrebbero essere i suoi. Ma non sonouna prova.E a questo punto è lo stesso Correr a dare unamano agli inquirenti. Quando si ritrova ad-dosso i panni luridi del sangue della sua vitti-ma, prende a vomitare. Piange e vomita, si ac-cascia per terra. L’effetto su di lui è terribile.Crolla e confessa.Nel 1881 i quotidiani limitavano la cronaca aqualche riga, di fatto non esisteva una cronacacittadina. La nera, poi, era trattata con estremacircospezione. A fare notizia in prima pagina, riferiti con do-vizie di particolari e seguiti assiduamente ognigiorno, sono i grandi delitti accaduti altrove.Come il processo Faella che si celebra alla cor-te di Assise di Bologna. Alessandro Faella haammazzato un prete e poi lo ha buttato in unpozzo col suo mantellino e il cappello a tricor-no. Nei giorni successivi al delitto ha presenta-to agli eredi due cambiali false per 52mila lire,vantando diritti sui lasciti del prete. Grandescalpore e grande risonanza: tra i periti di par-te, figura nientemeno che il celebre CesareLombroso. Quando il processo è girato al peg-gio il Faella si è ammazzato col veleno. Lo han-no trovato nella sua cella con ancora in manoun libro. Stava leggendo Il conte di Montecristo.

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Un quadro a tinte fosche, una vicenda a suomodo romantica, proprio giusta per essere en-fatizzata dai giornali.Ma nel delitto perpetrato da Giovanni Corrernon c’è nulla di romantico. Soprattutto è un delitto commesso alle portedella città, vicinissimo. Correr non è un uomocolto, un nobile, come il Faella. È un poveromanovale semianalfabeta e certamente nontrarrà tutti d’impaccio con un comodo suici-dio qualche ora prima della condanna. Il suo èun delitto che ha radici nella miseria, nell’i-gnoranza, nello sfruttamento, forse nell’alcol ein qualche tara ereditaria. Dunque un eventoda rimuovere in fretta, possibilmente con unapunizione esemplare. Ma in quella vigilia di befana del 1911, la me-moria pubblica e la memoria privata annaspa-no. Affogano nelle ciacole. Viene riesumata ladata della sentenza, il 9 febbraio 1882, un me-se e un anno dopo il delitto, e poco altro.Treviso vorrebbe sapere, è curiosa. Si recano a far visita a Giovanni Correr i tre fi-gli. L’incontro è commovente e il giornalistache staziona fuori del carcere raccoglie le im-pressioni dei famigliari. È stato un incontrostruggente, di lacrime e di braccia al collo. Si èparlato anche di perdono, perché è una colpa

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essere un padre che non esiste, che manca aisuoi per un numero d’anni lungo quanto unavita. È una colpa segnare i propri figli e tutta lafamiglia con il marchio del disonore. Si sonofatti discorsi di speranza.L’immagine pubblica che si cerca di accredita-re del terribile assassino di trent’anni prima, èlargamente positiva. Un assassino che tornanella terra che lo ha visto uccidere e nella cittàche gli ha inflitto una condanna terribile, vaesorcizzato, in qualche modo depurato dall’au-ra malvagia che si porta dietro.Si dice che parla in modo bonario e tranquil-lo, che è persona pacata, che durante il suosoggiorno in carcere si è sempre segnalato perbuona condotta, che ha fatto il muratore (cioèil suo mestiere) ed anzi è diventato caposqua-dra. Ha in tasca 330 lire, frutto dei suoi ri-sparmi. “Non molto, dirà nell’intervista fatta-gli subito dopo la sua liberazione, ma bisognaanche mangiare. E fumare, almeno qualchevolta”.I figli gli hanno regalato un abito nuovo, colorcenere. Un abito invernale, pesante. Il giorno in cui uscirà, il 25 gennaio, Trevisosarà immersa nel sole caldo di una primaveraprecocissima.Giovanni Correr sembrerà un uomo fuori sta-gione.

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La città chiede di sapere. E presto. È una città vivace, Treviso. Il giorno della re-dodesa, il 6 gennaio, è stato inaugurato il tea-tro Eden, in Borgo Cavour, appena fuori laporta in direzione delle sbarre di San Giusep-pe. Una sorta di miracolo, quel teatro costrui-to e progettato dall’architetto Modonesi e de-corato dalla mano abile del pittore Tempesta.Cinquecento metri quadri per i divertimentidella città.Sono cambiati, i tempi. Non c’è silenzio attor-no agli eventi delittuosi come trent’anni pri-

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ma. Ora la cronaca nera fa notizia, tiene ban-co. Proprio in queste ore a Miane un contadi-no uccide il seduttore della moglie. Tuttavia èquell’ergastolano misterioso a mantenere destal’attenzione di tutti.Così ai giornalisti del Gazzettino quasi non pa-re vero quando, nella mattinata del 9 gennaio,qualcuno fa pervenire un plico anonimo nellaredazione di via Calmaggiore. Una busta gial-la, con pochi fogli scritti a mano. Un pome-riggio febbrile di verifiche: raramente il centra-lino di Treviso aveva smistato tante telefonateper il numero 127. La busta contiene copia di un documento cheera girato per Roncade poche ore dopo il de-litto, il giorno successivo, 25 gennaio 1881.Almeno questa è la data che reca. Appare pro-babile che sia stato redatto nei giorni successi-vi e retrodatato. Ecco un primo interrogativo:perché?È un documento duro. Descrive con asprezzae non lascia spazio all’immaginazione tanto ècrudo.Dipinge l’assassino come un mostro e il delit-to come la culminazione di un calvario per lapovera donna. Naturalmente è anonimo. E così dettagliatoche pare perfino impossibile che abbia potutoessere stilato in poche ore. Chi aveva interessea tanto zelo, a tanta rapidità? Chi era in gradodi ricostruire così a caldo e in breve tempoeventi tanto terribili? Chi poteva collegare, ri-mettere in sequenza, esprimere valutazioni epareri precisi?Rimane un piccolo mistero che il processo, ilquale peraltro stabilì una verità in qualche mi-sura diversa, nemmeno si preoccupò di affron-tare. Tuttavia il documento rivela tra le righeche la sua circolazione era destinata ad un am-bito ben preciso: tutte le persone citate dove-vano essere ben note ai destinatari dello scrit-to. Doveva distribuire responsabilità e colpe.Prende le mosse da una sera di fine gennaio,quando l’inserviente dell’orfanotrofio dell’O-pera Pia Rossi si presenta, in preda all’ango-

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scia, alla porta di un casale di Biancade. L’orfa-notrofio ospita in questo periodo sei bambinealle quali insegna la maestra Enrichetta Man-tovani che in qualche modo viene citata nelloscritto clandestino e che sarà tra i testi al pro-cesso.Eccone qualche stralcio.“Era la sera del 24 gennaio 1881 e la solitacompagnia si trovava a cena in casa Bianchini,quando tutto ad un tratto si sentì picchiare al-la porta della sala. Si aprì e si presentò la ser-va dell’istituto, tutta tremante dicendo chepresto presto si accorresse in aiuto perché ungrave delitto era stato commesso nella casa at-tigua all’istituto, abitata da Adelaide vedovaMazzon.Senza perder tempo accorsero sul luogo. Vistaorribile! La povera Adelaide stava seduta ac-canto al focolare con a fianco la signora mae-stra che la assisteva, tutta insanguinata il viso.La cucina sembrava un macello perché pozzedi sangue eranvi in ogni canto.Esaminata la ferita si trovò che la mascella in-feriore era del tutto staccata e fratturata, rima-neva sostenuta dal solo labbro inferiore rima-sto incolume.A tal vista Alessandro Bianchini svenne.La presenza del medico era urgente, perciòMemi Bianchini e Memi Usoni, saliti in car-rettina affrontando il freddo ed il ghiaccio, di-vorando la via si portarono a Roncade e dopopochi minuti erano di ritorno col dottor Lam-prechet. In questo frattempo Filippo Usoni, assistitodalla maestra, dalla serva dell’istituto e daSchiavinato Girolamo trasportò la povera don-na nella sua stanza e la coricò sul letto. Il dot-tore esaminò accuratamente la ferita. Oltre laprincipale sopra descritta, ne rinvenne altredue alle mani e alla spalla sinistra e trovò chelo stato era assai grave, da esservi la necessitàdel prete. Allora i due Memi ed AlessandroBianchini che aveva recuperato energia e co-raggio, a passo di corsa si recarono dal cappel-lano che prontamente si unì a loro e venne sul

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luogo. Il dottore intanto, assistito da Filippo edalla maestra, cucì le ferite.Anche Memi Bianchini non poté più resistere.Si fece accompagnare a casa più morto che vi-vo e non passò molto tempo che anche essorinvenne e ritornò sul campo di battaglia. Lapovera donna intanto aveva confessato cheaveva conosciuto il suo assassino e che era Gio-vanni Correr, conosciutissimo col nome di PinScarper di Ca’ Morelli, muratore.Questo nome destò le meraviglie di tutti poi-ché nessuno avrebbe dubitato che l’assassinofosse un giovinotto che fino ad ora non ebbeprecedenti rimarchevoli e tanto più essendo difamiglia abbastanza buona.Dopo qualche minuto di discussione sul fattoe sulle cause, il dottore disse che bisognavaportarsi subito dal sindaco per le opportuneindagini; difatti, saliti in una vettura si porta-rono a Roncade, trovarono il sindaco al caffè;il segretario comunale sopraggiunse dopo po-chi istanti, e raccolte le notizie compilarono un

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telegramma al procuratore del re.Intanto veniva chiamato un fratello della po-vera Adelaide ed informato in parte del fatto losi inviò presso la sorella.Accompagnato il dottore a casa gli altri ritor-narono a Biancade e trovarono l’ammalata ab-bastanza tranquilla.Filippo ebbe l’incarico di far la guardia in cor-tile fino a che arrivava il fratello della vedovaper predisporlo e tranquillizzarlo onde evitarealtre scene.Dopo una buona mezzora il povero diavologiunse ed allora, accompagnato dai due fratel-li Bianchini che si erano uniti a Memi Usoni,entrò nella stanza. Scambiate poche parole sul-lo stato del male, se ne partì tranquillo cono-scendo che l’inferma era assistita da persone dicuore ed esperte nel curare ferite.

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Erano le dodici e mezza di notte quando i fra-telli Bianchini, Memi Usoni e Memi Schiavi-nato, rientrarono in cucina. Fu stabilito il ser-vizio notturno: Filippo e la serva dell’istitutopresso l’ammalata; gli altri in letto pronti adogni chiamata.Era appena spuntato il giorno che tutti gli in-dividui summentovati si trovarono al loro po-sto, Alessandro Bianchini per soddisfare al de-siderio della povera ferita si assunse l’incaricodi accompagnargliela in camera e ciò avvenneintanto che Memi e Momi, accompagnati dalpovero Tonon, si posero a camminare intornoalla casa per rinvenire se vi fossero tracce cheindicassero la via di provenienza e di partenzadell’assassino.Tale indagine non riuscì infruttuosa poichéappena oltrepassata la siepe di cinta di detta

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casa trovarono la traccia sulla neve di un uo-mo che corse precipitosamente perché la dif-ferenza da un’orma ad un’altra era di circa me-tri 1, 20: per di più le prime orme erano lor-de di sangue e persuasero i tre perlustatori chenon si erano ingannati. Appena fatta tale sco-perta, ritornarono nel cortile ed unitisi ad uncarabiniere, al cursore Mantellato e a Bianchi-ni Alessandro e Memi Bianchini ritornaronosulla traccia dell’assassino che, attraversando icampi, li condusse fino sulla strada che dà aCa’ Morelli e precisamente di rimpetto all’in-gresso della chiusura tenuta da Bredariolo.Bisogna avvertire che l’assassino per cura delsindaco di Roncade era già fin dalle tre anti-meridiane nella mani della giustizia e condot-to alla stazione dei carabinieri di san Biagio.Alle sette circa il dottor Lamprechet tornò a vi-sitare l’ammalata e trovolla nel medesimo sta-to della sera precedente. Dichiarò essere in sta-to di poterla trasportare all’ospedale di Treviso,ciò che avvenne a mezzogiorno essendo anchein questo frattempo venuti in sopralluogo undelegato di P.S. e due guardie.Il colpevole per ben due volte cercò di fuggireai carabinieri. Non si poté scoprire l’arma col-la quale si è servito per ferire, ma ritiensi po-terla trovare nel pozzo dell’istituto avendo tro-vato delle gocce di sangue lungo il sentiero chedalla casa conduce al detto pozzo.Ora poi corre voce che il colpevole abbia giàconfessato la sua colpa: cioè di essersi recato incasa della vedova Mazzon per recuperare deldenaro da molto tempo datole a prestito edaver invece da essa ricevuto un colpo di forbi-ce nella mano, la qual cosa lo obbligò a difen-dersi non credendo però di recarle male sìgrande.Invece la verità sarebbe che la sua comparsa inquella casa era tutt’altro che per fini onesti, cheavendo colle minacce e poi colla forza soddi-sfatto i suoi malvagi desideri, per tema di esse-re perciò palesato, cercò di privare della vitacolei che prima fu il suo strumento di piacere,poscia la sua vittima”.

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Il Gazzettino pubblica il documento il 10 gen-naio, con buon rilievo. Nessuno si pone il problema di ricostruire lemotivazioni di un documento simile. Volevacoprire qualcuno? Doveva, Correr, apparire unfolle isolato? Qualcuno doveva scaricare la co-scienza per non aver visto o non aver volutovedere qualcosa che si trascinava da moltotempo? Forse il delitto maturava lì, sotto gliocchi di tutti e nessuno aveva fatto niente perfar ragionare il Correr prima che commettesseuno sproposito? Ancora: fu così grande il disa-gio nella piccola comunità di Roncade da fariniziare, già poche ore dopo il delitto, il pro-cesso di rimozione?Probabilmente un po’ tutto questo. A suggerirlo ci sono due precisi indizi.Il primo. Il documento ad un certo punto sipreoccupa di spiegare perché “in questa avven-tura” non compare il nome Antonio Tonon,persona che non viene coinvolta nell’inchiestané in quel momento né in seguito. E motivadettagliatamente quell’assenza.“Al primo invito di aiuto tutti accorsero sulluogo e anche Antonio Tonon vi si era diretto.Ma appena entrato nel cortile dell’istituto, in-contratosi col servo di Bianchini che gli de-scrisse il fatto spaventevole ritornò dove erapartito dicendo: Ciò, che mi ghe vado altro”.Il documento riporta proprio questa frase, ab-bastanza incomprensibile, insensata. Perchépreoccuparsi di questo Antonio Tonon?Ma c’è anche un altro indizio inequivocabile:della difesa era stato incaricato il noto avvoca-to roncadese Giovanni Battista Radaelli, chequalche anno dopo sarebbe diventato anchedeputato nelle file degli zanardelliani, il qualepreferì chiamarsi fuori.Il Radaelli ha un fratello, Carlo, a sua voltabrillante avvocato e futuro sindaco di Ronca-de. Dunque ha un consolidato prestigio da di-fendere e tuttavia prega un ancor più illustrecollega, il grande Domenico Giuriati, di assu-mersi il patrocinio del Correr. Impresa dispe-rata perché, a norma del codice sardo in vigo-

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re, il delitto sembra destinato a portare sullaforca il reo.E c’è anche un altro elemento che salta agli oc-chi. A dispetto dei mille particolari riferiti chedocumentano una conoscenza dell’evento neiminimi dettagli, il documento propone unarealtà sostanzialmente diversa da quella cheemergerà dal dibattimento in tribunale. Anzi,un’altra realtà. Serve proprio fare un salto indietro di trent’an-ni e andare a riaprire le carte del processo.

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7 febbraio 1882, 379 giorni dopo il delittoTreviso, Corte di Assise

Un giorno di mercato, dunque di folla e di cu-riosi. In via Canova, dietro a piazza Duomo, è un gi-ro continuo, un avvicendarsi senza sosta, finoalla sera. La gente chiede, si informa, si trattie-ne un poco, poi va. Quelli che sono lì dalle pri-me ore del mattino e sono intenzionati a resta-re fino a tardo pomeriggio vengono quasi tut-ti da Biancade e Roncade. Anche da Spercenigo, perché questo è unmondo piccolo e Biancade fino a non moltianni fa apparteneva proprio al comune diSpercenigo, poi sparito come ente territorialeper le endemiche baruffe che agitavano il con-siglio comunale e immobilizzavano qualsiasiattività amministrativa.L’usciere del tribunale si chiama Eugenio DePrat ed è mingherlino, basso di statura. Quasinon si vede, dietro il muro di teste. Ma ha unavoce tagliente, dura e secca. In aula e fuori,perfino in strada si fa subito silenzio quandochiama la causa “in confronto di Correr Gio-vanni, detto Pin Scarper, del vivente Giosuè,di anni 27, coniugato con quattro figli, mura-tore, detenuto, incensurato”.L’attesa è grande, palpabile. L’istruttoria, con-dotta a ritmo serrato, è stata affidata ad un

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magistrato molto apprezzato, destinato a di-ventare consigliere di Cassazione, FerdinandoMunari.La corte è composta dal presidente Carlo Lom-bardini, da Bortolo Fontebasso, da Angelo DalColle Bontempi. La pubblica accusa è affidataad un sostituto procuratore generale della corted’Appello di Venezia, Bartolomeo Favaretti.La giuria è al completo, quattordici persone. Lapresiede Ettore Bianchi, un uomo alto e corpu-lento, con due baffoni grigi. Ha il viso arrossa-to e si deterge in continuazione il sudore.Lui, Giovanni Correr, siede tranquillo nel suogabbiotto. Ogni tanto gira lo sguardo attorno,ha occhi chiari, impenetrabili. Qualcuno giurache sul suo volto appaia a tratti un mezzo sor-riso. Un mostro, un mostro che ha ucciso permotivi abietti.Correr sa bene a cosa si riduce il processo: pe-na capitale od ergastolo. Sa di non avere possi-bilità di difesa.L’impresa di evitare la pena capitale all’assas-sino di Biancade spetta al miglior avvocato diTreviso, progressista ed irredentista. Intellet-tuale di punta, in prima linea per la soluzio-ne della drammatica questione montelliana,Domenico Giuriati sarà eletto deputato l’an-no dopo.

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L’uomo col prestigio giusto per evitare il cape-stro a Correr: sta per uscire, atteso da tutti, unsuo libro Le leggi dell’amore, in cui affrontaproprio le problematiche della famiglia. Inquesto processo la famiglia, come istituto civi-le e morale, reciterà un ruolo importante.Il cancelliere Tommaso Bertolini legge il capod’accusa. Veloce, senza alzare gli occhi dal fo-glio, con voce neutra. Si sforza di non far sen-tire l’emozione. Ma Bertolini è giovane, questoè il suo primo processo importante, la voce siincrina quando deve soffermarsi sui particolaripiù brutali. Correr è imputato del crimine di omicidio vo-lontario con premeditazione. Bertolini cita gliarticoli del codice penale, poi prosegue: “peressersi alle ore otto e mezza pomeridiane del24 gennaio 1881, in Biancade, con disegnopreviamente formato di togliere di vita Adelai-de De Vidi vedova Mazzon GB, introdottonella di lei casa, ed avere quivi, dopo essersi ac-coppiato carnalmente seco lei una prima volta,e nel mentre fingeva di adagiarsi sopra lei nuo-vamente per ripetere l’accoppiamento, traen-dola quindi in insidia colla simulazione dinuovi abbracciamenti, inferto alla medesimacon l’intenzione di ucciderla più colpi, parteper forte pressione contro il terreno e parte perazione di stromento tagliente, producendoleoltre ad altre lesioni di minor conto la fratturadoppia della mascella inferiore, con conse-guente morte, verificatasi alle ore 6, 30 delmattino del 13 febbraio 1881”.Solo ora Correr abbassa la testa, sembra avereun singhiozzo. Quasi venti giorni è durata l’or-ribile agonia della povera Adelaide. L’avvocatoGiuriati ha davanti una montagna. Un orribi-le delitto, un reo confesso, una vittima debolee in balia del suo carnefice, le lunghe, atrocisofferenze di questa, prima della morte. Venti giorni di agonia, un brivido attraversa ilpubblico. Adelaide aveva appena 37 anni.Bianchi gira gli occhi sugli altri membri dellagiuria, quasi a sincerarsi che si siano bene im-pressi in mente il particolare.

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Dalla folla viene un mormorio diffuso. Il pre-sidente Lombardini chiede silenzio, fulminan-do gli astanti con lo sguardo.

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Domenico Giuriati ha occhi neri, duri come ilghiaccio e mobilissimi, barba brizzolata che gliincornicia il volto e si appuntisce in un pizzoben curato, capelli radi. Parla scandendo le pa-role, guardando ora il presidente, ora il pub-blico ministero, spesso indugiando su questo oquel membro della giuria. Comincia a scalarela sua montagna processuale. Alza un po’ dipolvere, cerca senza speranza di togliere tensio-ne di dosso a Correr: chiede che il dibattimen-to, date le scabrose situazioni che propone, av-venga a porte chiuse.La Corte rigetta la richiesta e dà la parola al-l’imputato. Giovanni Correr racconta la suaversione dei fatti. Si capisce che ha imparato amemoria quello che deve dire, non convincenessuno. All’inizio parla con voce strascicata,poi prende coraggio: “Io sapevo come la DeVidi avesse pratiche illecite con altri ed io stes-so nel passato recente la colsi in un campomentre ella se ne stava con un uomo. Bisognasapere come a questa donna io avessi fatto unprestito di lire 24 che essa si era obbligata a re-stituirmi”.Ecco, salta fuori il famoso debito. La roccafor-te della difesa di Correr. Una roccaforte chesarà demolita dai testimoni.Quella sera (“la sera fatale” dice solennementeil semianalfabeta Correr e la gente sorride) Gio-vanni si è fermato a lungo in un locale di Cen-don, l’osteria Acerboni. Ha giocato, ha bevuto,ha perso. Gli viene in mente quel debito che laDe Vidi aveva nei suoi riguardi. Prima di fareritorno a casa, pensa di passare a riscuotere.La povera Adelaide non li ha quei soldi, e offrein cambio l’unica cosa che possiede. Se stessa.“Allora essa mi provocò ed ebbi commercio il-lecito con lei”.

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Quando ha finito, Correr torna a reclamare ilsuo credito. Lei si ribella, urla, vibra un colpocon le forbici che ha lì vicino. Correr si scan-sa a malapena, afferra un ronchetto che è sultavolo.“Con esso diedi un colpo senza sapere dovel’abbia colpita. Ella gridò e io fuggii. Protestoche io non ebbi l’intenzione di uccidere la DeVidi. La ferii solo perché provocato”.Correr chiude quasi con un urlo la sua difesa.Ancora un mormorio tra la folla, non gli cre-de nessuno. Comincia l’escussione delle partilese e dei testimoni.

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Adelaide lascia una figlia, Maria, di 16 anni eun figlio, Giacomo, di 10. Non intendono co-stituirsi parte civile. E non lo farà nemmenosuo cognato Carlo. Carlo ha il vestito di tutti igiorni, quello con cui lavora nei campi. Guar-da con occhi timidi, che sembrano due fessure.Poi i testimoni. Nicola Orgitio è il viceispetto-re di Pubblica Sicurezza che ha raccolto le di-chiarazioni della moribonda. Erano presentianche due guardie e Maria Zorzi, una contadi-na di Biancade sulla cinquantina. Il viceispettore parla concitato, con accentomeridionale. Riferisce le parole della vittima:“Siccome non volevo affatto accondiscenderealle di lui illecite brame, così mi afferrò, migettò a terra e mi stuprò”.Adelaide non aveva minacciato il Correr, nédi denunciarlo, né di vendicarsi in qualchemodo. Ma l’omicida era infuriato: spense illume, tirò fuori la roncola che aveva in tascae prese a vibrare un colpo dietro l’altro.Quando la vittima aveva cominciato a la-mentarsi, si era dato alla fuga. Giuriati è in difficoltà, cerca di controinterroga-re. Ma Favaretti, il pubblico ministero, è impla-cabile. Per tutto il giorno esibisce una serie di te-stimoni che confermano quanto ha detto il vi-ceispettore. Chiariscono qualche circostanza,

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ogni parola suona come una campana a mortoper Correr. La maestra Enrichetta Mantovaniracconta che Adelaide non aveva voluto dire anessuno come erano andate le cose, nemmeno ilnome del feritore. Aveva atteso che fosse il fun-zionario di Pubblica Sicurezza a interrogarla.

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8 febbraio 1882Treviso, Corte di Assise

Ma nemmeno al viceispettore Orgitio, Adelai-de De Vidi aveva detto tutta la verità. Lo rivela il giudice istruttore Ferdinando Mu-nari. Per vergogna aveva taciuto di essere in-cinta di cinque mesi. La realtà che emerge suo-na come una condanna anticipata per Correr,una realtà ancora più cupa, più terribile. Giovanni Correr aveva una relazione da qual-che mese con Adelaide. Quando aveva saputoche la donna era in attesa di un figlio da lui,era stato preso dal terrore che sua moglie e suopadre scoprissero la tresca. E aveva ucciso. Munari riferisce ancora parole della vittima:“Io credo che il Correr abbia inteso disfarsi dime e del nascituro. Io non domandavo nulla alui, perché vivevo del lavoro delle mie braccia

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andando ad opera da Alessandro Bianchini.Quello che dico è la verità. Sono sacramentatae presso a morire”.Un omicidio premeditato, freddamente pro-gettato. Ora Correr è un mostro agli occhi ditutti. Anche perché i testimoni descrivonoAdelaide De Vidi come una donna buona, ge-nerosa, dedita al lavoro, capace di sfamare conle sue braccia i due figli. E nessuno dubitavache fosse onesta: la scoperta della sua relazionecol Correr era stata una sorpresa per tutti.

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9 febbraio 1882Treviso, Corte di Assise

Il giorno della sentenza.Domenico Giuriati tiene una lunga, appassio-nata arringa. Profonde ogni sua abilità orato-ria. Sostiene che la premeditazione non è stataprovata. Correr ha solo ferito, senza intenzio-ne di uccidere. L’imputato ha la testa bassa, tra le mani, sem-bra piangere. Sa di non avere speranze.Alle 19 arriva la sentenza. I giurati non hannospeso molto tempo per decidere la piena col-pevolezza di Correr.Il delitto è avvenuto “con prodizione avendo ilCorrer simulati atti di amicizia e di amore pertrarre nella insidia la vittima e con premedita-zione”.Tuttavia i giurati riconobbero a Correr le atte-nuanti generiche e questo gli evitò la pena ca-pitale. Fu condannato ai lavori forzati a vita.Dopo aver pianto per tutto il giorno, Giovan-ni Correr ascoltò la sentenza freddo, quasi in-differente.Tre giorni dopo, il 12 febbraio, ricorse in Cas-sazione ma il ricorso fu respinto. Cominciò il suo pellegrinaggio in tutti i reclu-sori d’Italia. Alghero, dove rimase cinque anni,poi all’Asinara per nove. Quindi a Portoferraioper tredici anni e a Pianosa dove scontò gli ul-

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timi diciotto mesi. In questi luoghi il senso deltempo che passava e dell’espiazione era datodal peso della catena. Alcuni imputati trasci-navano anche dieci chili di ferraglia. Alla fine,a forza di farsi togliere anelli in virtù della suabuona condotta, Giovanni Correr arrivò a 600grammi. Un giornale scrisse che, in Italia, sol-tanto tre o quattro detenuti erano sopravvissu-ti negli ultimi tempi a trent’anni di lavori for-zati.Dall’Asinara chiese una commutazione dellapena, ma la sua richiesta fu respinta. Qualchetempo dopo riprovò dal reclusorio di Portofer-raio e questa volta la richiesta ebbe esito mi-gliore, perché intanto il codice penale era cam-biato. La pena fu commutata in trent’anni.Non ricevette mai una visita dei suoi famigliari.Ma durante la reclusione imparò a leggere e ascrivere quanto bastava per mantenere i con-tatti epistolari con i figli e la moglie. Può cambiare un uomo? Può cambiare davve-ro? In quelle lettere Giovanni Correr implorò mil-le volte il perdono. Ripeteva che aveva buttatovia la propria vita e rovinata quella dei suoiperché la sua testa era piena di fumi malvagi.Che quei fumi erano scomparsi e pregava Diodi tornare a rivedere i famigliari. Erano letterestruggenti, piene di verità profonda.

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Giovanni Correr esce dalle prigioni di piazzaDuomo alle 9 di mattina di mercoledì 25 gen-naio 1911. Lo attende un capannello di curio-si, i due figli maschi, Luigi e Antonio, e un co-gnato. Due agenti di Pubblica Sicurezza inborghese lo scortano per le ultime pratiche al-l’ufficio della questura, in Calmaggiore.Giovanni Correr ora ha 58 anni.Sorride tranquillo, risponde a coloro che glifanno un cenno di saluto. Indossa il suo vesti-to nuovo, color cenere. Fuori stagione.

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Il mare di notte, in tanti anni di isole e di colo-nie penali, Giovanni non lo aveva mai visto.Il mare di notte era solo un odore, come di mar-cio e putredine, che giungeva a folate, e il rumo-re dei marosi violenti sulle scogliere, era la brez-za gentile nelle notti afose d’estate. Alghero, Asinara, Pianosa, Portoferraio.Trent’anni a vagabondare da una colonia agri-cola all’altra, coi ferri ai polsi e alle caviglie, eaddosso gli sguardi curiosi e impauriti della gen-te. Contando gli anelli che gli venivano tolti dal-la catena, ogni anno di buona condotta un po’ dipeso in meno da tirarsi dietro.A testa bassa, i pugni sulle tempie, gli occhi fissisul pavimento sporco del ponte. I traghetti che loportavano da un penitenziario all’altro. Col so-le, con la pioggia, come capitava. Ma il mare dinotte mai. Lì, davanti a Portoferraio, si stagliava il castellodi Licari. Turrito, di pietra robusta, artigliatoalla scogliera.Quante volte, mentre metteva in fila i mattoni diun muro o misurava con l’occhio esperto di chi fail muratore da sempre, le dosi di calce e sabbia perfare la malta buona, Giovanni aveva sentito rac-contare delle cinque figlie del castellano. E le notti passate a sussurrare col suo compagno diletto. Li incatenavano a due a due per paura chescappassero. O magari per punire una infrazioneminima commessa durante la giornata. Così eraimpossibile dormire, trent’anni di notti bianche,di dormiveglia, di sonno sospeso. A Portoferraioaveva diviso il pagliericcio duro come una tavolacon un ergastolano più vecchio di lui, un pie-montese che in una notte di follia aveva ammaz-zato i suoi tre figli. Piangeva ogni notte e parlavadel nobile cavaliere che difendeva il castello di Li-cari ed era stato ucciso dagli incursori feroci delBarbarossa, un po’ guerrieri e un po’ pirati. Le sue bellissime figliole, per non cadere preda de-gli invasori, avevano scelto la fuga più ardua,quella degli scogli. Erano morte così, tenendosi permano, quando la più vecchia - ma aveva solo 15

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anni - che era anche la più bella di tutte, era sci-volata in acqua ed era stata subito rapita daun’onda pietosa.Aveva occhi chiari e i suoi capelli avevano lo stes-so colore lucente delle ali dei gabbiani. Sapeva be-ne cosa sarebbe accaduto a lei e alle sorelline, sefossero state raggiunte dai feroci inseguitori, ecci-tati e infoiati. Si era lasciata andare di propositoe aveva trascinato le altre.In silenzio, solo il rumore della risacca e la lunaalta nel cielo.Ma ogni tanto, col plenilunio, tornavano a cor-rere sulle scogliere vicino al castello, e ridevano egiocavano. I lori strilli erano la stessa cosa del-l’urlo degli astori e del gheppio, unici abitatoriormai delle rovine del castello.Giovanni sentiva Ansaldo (questo era il nomedel suo compagno) piangere e ripensava alla suavita insensata, a Biancade, al nido della sua ca-sa. Ai suoi figli che non vedeva da tanti anni eche però gli scrivevano.La malinconia gli stringeva il cuore. E c’era inlui un dolore grande perché sapeva che mainiente, nessuna pena avrebbe espiato il delittoche aveva commesso. Troppo grande e orribile,troppo sangue. Il più vecchio dei suoi figli, Lui-gi, aveva tre anni quando lui era stato arrestato.Il secondo, Antonio, aveva ventinove mesi. E lapiù piccolina era nata da neanche venti giorni,che si poteva quasi dire che non l’avesse mai pre-sa in braccio.Mai, però, aveva ricevuto una loro foto. E lui,naturalmente, non aveva potuto inviare alcunaimmagine di sé. Perfetti sconosciuti, in un certo senso.Il mattino in cui uscì di prigione strinse il braccioa suo figlio Luigi. “Uno di questi giorni, gli mor-morò, mi porti al mare e mi lasci dormire sullaspiaggia. Torni a prendermi il giorno dopo”.Luigi disse sì, poco convinto. Non capì proprio.Giovanni pensava alla notte orribile del delittoe del suo arresto. A quei panni che gli erano sta-ti messi addosso dai carabinieri. A quello cheaveva fatto, alle sue mani sporche di sangue, alprocesso. Alla sua vita sciupata.

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Sono stato messo sulle tracce della vicenda di Giovanni Correr

da uno scartafacciorinvenuto in un archivio privato.

Forse il progetto di un libro mai scritto.Una cartellina spessa, coi nastri grigi,

di quelle che una volta servivano a conservare i quaderni di scuola.

Un’etichetta sopra, quasi un titolo: Come cambia un uomo.

Vi erano raccolti appunti e testimonianze che il giornalista Paolo B.

aveva messo insieme un po’ alla rinfusa. Giovanissimo cronista de Il Progresso

all’epoca del delitto,aveva seguito il caso,

come giornalista del Gazzettino, trent’anni dopo,

all’uscita dal carcere del Correr. In quell’occasione lo aveva intervistato.

Aveva (forse nei giorni successivi alla liberazione)

copiato anche alcune delle lettere scritte da Correr

dai diversi penitenziariin cui era stato recluso.

Gli era parso di cogliere il cambiamento profondo dell’uomo.

La sua solitudine,la sua voglia di sopravvivere,

la sua presa di coscienza del male recato ad una povera donna innocente.

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Gian DomenicoMazzocato (Treviso,1946) ha pubblicatole raccolte di liricheIl fuoco vecchio, Stra-niarsi è qui, Diapasoncon variazioni. Ha tradotto per laNewton Compton leHistoriae di Tacito ele opere minori dellostesso autore. Per lastessa casa editrice hacurato la traduzione

dell’intera opera storiografica di Tito Livio.Il suo primo romanzo, Il delitto della contessaOnigo (ed. SantiQuaranta) è un caso editoria-le: sette edizioni in pochi mesi, il prestigiosopremio Gambrinus Mazzotti, una pièce teatra-le di successo. Scrittori come Fulvio Tomizza e Luca Desiato(e un po’ tutta la critica) hanno sottolineatocome la narrativa di Mazzocato abbia avuto ilmerito di fondare una vera e propria saga dei“vinti” veneti. E un critico come Gianni Gioloha scritto che “Mazzocato si rivela come il piùgrande, fecondo, ricco e profondo scrittoredell’ultima generazione veneta”.Le altre opere di narrativa, tutte più volte ri-stampate: Il bosco veneziano (ed. SantiQuaran-ta, proprio in questi giorni in quarta edizione),Gli ospiti notturni (ed. SantiQuaranta), Il casoPavan (ed. san Liberale, finalista PremioChianti 2005), Delitto a filò (ed. san Liberale).Un’altra silloge di racconti, Crepuscoli, è inseri-ta nel volume di fotografie Alte Terre. Per il teatro ha scritto anche Mato de guera cheè attualmente la pièce drammatica più rappre-sentata di uno scrittore veneto.

Attività e scritti di Gian Domenico Mazzocatosono in www.giandomenicomazzocato.it

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Finito di stampare nel mese di dicembre 2005

Ideazione: La vita del popoloStampa: S.I.T. - Società Industrie Tipolitografiche

Dosson di Casier (TV)

Si ringrazia il personaledella Biblioteca Comunale di Treviso,in particolare il dottor Luigi Perino,responsabile della sezione manoscrittie libri rari. E inoltre lo storico Ivano Sartorper la consulenza relativa ai luoghie ai personaggi di Roncade e Biancadetra Ottocento e Novecento.Un ringraziamento anche alla dottoressaKatia Furia per la revisione del testoe al dottor Roberto Ros del F.A.S.T.