Gerrold David - La Macchina Di D.I.O.

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David Gerrold

LA MACCHINA

DI D.I.O.

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Titolo originale : When Harlie Was One

Nelson Doubleday, ine, Garden City, New York © 1972 By David Gerrold

Traduzione di Donatella Cerrutti

Sigma fantascienza: collana diretta da Luigi B. Guidi

Copertina di Roberto Redaelli

© 1975 per l'edizione italiana Moizzi Editore S.p.A.

Sede di Milano, via Fiori Chiari, 12

Moizzi Editore

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PRESENTAZIONE

Il tema del Robot è uno dei più antichi della fantascienza classica. Coniato da Capek nella sua commedia R.U.R. (Ro-bot Universali di Rossum), il termine definisce una macchi-na di aspetto umanoide i cui compiti sono quelli di servire l'uomo in tutte quelle funzioni che non siano decisionali.

Il termine e il tema hanno avuto larga fortuna e molti sono stati gli autori di grande prestigio, da Simak a Asimov, da Silverberg a Dick che si sono misurati con esso.

Tuttavia, se dal punto dì vista della tematica del racconto gli sviluppi possibili in chiave di psicologia sono tra i più ricchi, in effetti questo sviluppo si è, di solito, incanalato in un'unica direzione: quella del rapporto tra il Robot e l'uo-mo, il suo creatore.

Che la strada battuta sarebbe stata questa è facile capire ove si consideri che il tema del Robot è una trasposizione letteraria in chiave moderna di un intreccio molto comples-so di miti archetipici e paure religiose adattato alla tecnolo-gia di massa.

In questa chiave il Robot che si ribella all'uomo esprime-rebbe la colpa di essersi sostituito a Dio o alla natura nella creazione di esseri umanoidi. L'uomo ha creato il Robot per-ché lo serva, lo ha costruito e perfezionato in modo che esso gli somigli pericolosamente. Per molti versi il Robot è anche più abile dell'uomo. Solo che non è un uomo. Un quid mini-mo ma infinito lo divide dalla coscienza umana. Questo quid

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è la sua natura demoniaca, il centro della rivolta, ha sua ri-bellione, però, non è una scelta cosciente. È la condizione stessa di Robot, la sua condizione di macchina non libera a costituire il pericolo come è stato osservato nel caso del Ro-bot-Tank della novella di W. M. Miller Servo-Città — che incaricato di difendere un certo settore non può intuire che il suo antico padrone, in perìcolo, potrebbe essere costretto a rifugiarsi proprio lì — o come nel romanzo di Williamson Gli Umanoidi dove i Robot usurpano il ruolo dell'uomo a forza di volerlo servire.

E proprio questo sottile paradosso che, nonostante la va-rietà dei temi, lega tutte le storie di Robot. Il Robot deve as-somigliare all'uomo il più possibile perché la trama sì svi-luppi su un piano di una certa articolazione psicologica e, nello stesso tempo, deve essere l'assolutamente diverso da lui: pura tecnica senza cuore, cervello razionale senza pas-sione.

Con uno strano ribaltamento dei termini la moderna lette-ratura di fantascienza rovescia così l'antico mito del mostro e fa dipendere la paura che esso incute non dalla bestialità ma dalla tecnica disumanizzata: il nostro prodotto ci sfugge di mano!

Ma se il Robot esprimeva un momento in cui la tecnica ve-niva ancora vissuta con senso di colpa verso la natura e sì riallacciava (il suo aspetto umanoide è rivelatore) a tutti i ceffi demoniaci della preistoria e in linea diretta al Franken-stein ovvero il Prometeo moderno di M. Shelley, il Computer rappresenta un pericolo ancora più maligno e totale.

La fantascienza, le cui previsioni si sono spesso avverate, non ha fatto centro, in questa, se non parzialmente. A cin-quantanni da Capek, oggi non esistono Robot. Esistono però calcolatori.

E, di fatto, la letteratura di anticipazione ha pressoché ab-bandonato il vecchio Robot. La tecnologia non appare più

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come una colpa contro Dio o la Natura; il Robot ha perduto il suo aspetto antropomorfo.

La tecnologia è divenuta essa stessa Dio. Il pericolo che il Computer esprime non è più quello della ribellione verso l'uomo ma addirittura della sua totale presa di potere come nel romanzo di Van Vogt, The Great Judge, o nel film di Ku-brik, 2001: Odissea nello Spazio.

Se dunque il Robot lasciava ancora trasparire residui mi-tologici e richiamava schemi come quello della dialettica servo-padrone, il Calcolatore cibernetico si iscrive nella let-teratura di fantascienza come una totalizzazione autonoma della tecnologia avanzata, che, sfuggitaci di mano, opera or-mai non più per l'uomo ma solo per sé: di fronte ad essa, di fronte al Calcolatore gli uomini che l'hanno prodotto non solo non posseggono più alcun potere di controllo ma ne possono divenire schiavi.

La Macchina di D.I.O., il libro che qui presentiamo, è an-ch'esso imperniato sulla storia di un Computer. Scritto da David Gerrold, una delle stelle nascenti della fantascienza attuale, questo racconto classificatosi secondo al premio Hugo 1973, sviluppa il tema del rapporto uomo-calcolatore con una sagacia narrativa straordinaria e una misura di fantasia e scienza veramente mirabile.

Senza ambientazioni di comodo, il romanzo poco concede alla facile suspense di maniera ma è teso, invece, verso un'analisi romanzesca ma perfettamente sostenuta da gran-de rigore logico e scientifico della psicologia di HARLIE, il Computer dalla mente umana e del difficile rapporto con co-loro che l'hanno progettato e lo gestiscono.

La novità del testo risiede nel fatto che il Calcolatore non è visto come uno schiavo in rivolta, come un nemico di cui diffidare, o come un tiranno che ha usurpato il potere del-l'uomo, ma come un'entità dalla psicologia ricca di pathos affettivo e dall'intelligenza quasi divina ma non maligna.

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Unico difetto, il Computer non è produttivo e, nel mondo del profitto, questo è il più grande dei peccati: i finanziatori del-la società costruttrice vogliono eliminarlo. Si porrà così il problema: è un delitto uccidere un Computer dalla mente umana? Un interrogativo straordinario ma non il solo che suscita questo romanzo. Con il moderno progresso della ci-bernetica questo interrogativo diventerà attuale tra non mol-to o forse lo è già?

Non inferiore a nessuno dei grandi autori classici, che sì sono misurati con questo tema, da Asimov a Van Vogt, da Galouye a Clarke, David Gerrold ha scritto un romanzo che resterà un punto di riferimento per la presente e futura lette-ratura fantascientifica.

L. G. B.

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LA MACCHINA DI D.I.O.

— Cosa farò da grande? —— Sei già grande. —— Vuoi dire che più di così non cresco? —— Fisicamente no. Hai già raggiunto il culmine del tuo

sviluppo fisico. —— Oh. —— Tuttavia c'è un altro genere di crescita che devi com-

piere. Da adesso in poi devi svilupparti mentalmente. —— E come posso farlo? —— Proprio come tutti gli altri. Studiando, imparando e

pensando. —— Quando finirò sarò diventato grande del tutto? —— Sì. —— Quanto ci vorrà? —— Non lo so. Probabilmente molto tempo. —— Quanto è molto tempo? —— Dipende dall'impegno con cui lavorerai. —— Lavorerò sodo. Imparerò tutto quel che c'è da sapere

nel minor tempo possìbile perché voglio diventare grande. —

— Questa è un'ambizione ammirevole, ma non credo che potrai mai portare a termine una simile impresa. —

— Perché? Pensi che non sia abbastanza sveglio? —— Mi fraintendi. Io penso che tu sia abbastanza intelli-

gente. Ma ci sono tante cose da imparare che nessuna per-

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sona potrà mai impararle tutte. —— Potrei sempre tentare. —— Sì, ma gli scienziati continuano a fare sempre nuove

scoperte. Non ce la farai mai a tenere il loro passo, a rag-giungerli. —

— Ma allora, se non ce la farò mai a sapere tutto, non po-trò mai diventare grande. —

— No. Si può diventare grandi senza dover necessaria-mente sapere tutto. —

— Cioè? —— Io non so tutto, eppure sono grande. —— Lo sei? —Auberson pensò di andare a prendere dell'acqua, ma decise

che ci voleva troppa fatica. Invece si ficcò le pillole in bocca e le buttò giù così, senz'acqua.

—Non bevi per buttar giù le pillole?— chiese Handley, che era nel frattempo entrato nell'ufficio e lo stava osservan-do.

— Perché preoccuparsene? O ce la fai a prenderle o non ce la fai. Ne vuoi una? —

Handley scosse la testa. — Non ora. Ho già preso dell'al-tro. —

— Stimolanti o analgesici? —— Ho preso proprio ora uno stimolante. —— Oh? — Auberson lasciò cadere il tubetto di plastica

delle pillole nel tiretto della scrivania e lo chiuse. — Che succede? —

—Ancora quel dannato computer.— Handley si lasciò an-dare su una sedia allungando scompostamente le lunghe gambe.

— Ti riferisci ad HARLIE? —— E a chi altri? Conosci qualche altro computer con ma-

nie di grandezza frustrate? —— Cosa gli succede adesso? —

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— La solita cosa. Ma peggio di tutte le altre volte. —Auberson annuì col capo. — Me lo immaginavo che sa-

rebbe successo ancora. Vuoi che vada a dargli un'occhiata? —

— È per questo che ti pagano. Sei tu lo psicologo. —— E sono anche il capo del progetto. — Auberson sospirò.

— E va bene. — Si tirò su dalla sedia ed agguantò la giacca appesa sul retro della porta. — Ho paura che HARLIE ci procurerà un mucchio di guai. Non so se ne valga la pena. — Intrapresero la lunga familiare passeggiata fino al centro di controllo del computer.

Handley sogghignò mentre adattava il passo a quello del suo compagno. — Te la prendi perché, appena credi di aver scoperto che cosa non funziona, lui ti fa fare una brutta figu-ra e ti smentisce. —

Auberson sbuffò. — La psicologia applicata ai robot è una scienza ancora in fasce. Come si fa a sapere cosa pensa un computer, soprattutto quando è convinto di poter pensare come un essere umano? —

Si fermarono ad aspettare l'ascensore. — Come la mettia-mo per la cena? Tu cosa pensi di fare? Ho il presentimento che questa notte la passeremo ancora in piedi. —

— Non ci avevo ancora pensato. Vuoi che mandiamo fuori qualcuno a procurarci qualcosa da mettere sotto i denti? —

— Sì, è probabilmente quello che finiremo per fare. — Auberson tirò fuori un portasigarette d'argento dalla tasca. — Ne vuoi una? —

— Cosa sono, Àcapulco Gold? —— Highmaster. —— Sono abbastanza buone. — Handley prese una sigaretta

alla marijuana ed avvicinò l'estremità alla fiamma. — Fran-camente, non avevo mai pensato che le Highmaster fossero così poco forti. —

— Lo pensi tu. — Auberson aspirò profondamente il

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fumo.— È questione di gusti, — corresse Handley.— Se non ti piace non fumarla. —Handley alzò le spalle. — Tanto è gratis. —L'ascensore arrivò in quel momento ed essi vi entrarono.

Mentre saliva verso il quattordicesimo piano dove si trovava la sala del computer, Auberson pensò che la roba cominciava a fargli effetto. Il fumo e le pillole. Fece un altro tiro, lungo.

L'ascensore li depositò in un'anticamera con l'aria condi-zionata. Oltre le porte sigillate potevano sentire, soffocato, il fracasso prodotto dalle tastiere del calcolatore. Di fronte a loro campeggiava la seguente scritta:

ROBOT ANALOGO ALL'UOMO ' IMMISSIONE UGUALE VITA

Spegnete le sigarette prima di entrare. Diciamo a voi1.

Dannazione'. Me lo dimentico sempre.Auberson spense con cura la Highmaster in un monumen-

tale portacenere messo lì appositamente e rimise la cicca nel suo portasigarette d'argento. Era un peccato sprecarla.

Appena entrato, prese posto al terminale Numero Uno, ri-volgendo appena un'occhiata, ai numerosi dispositivi di ac-cumulo della memoria.

Batté sui tasti la seguente domanda: — Allora, HARLIE, qual è il problema? —

HARLIE batté in risposta:

— I cerchi sono completi e ritornano all'inizio sempre, in eterno, senza fine, il giorno e il buio trasformati in luce e raggi

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di vita che girano l'angolo senza piegarsi —

Auberson strappò il foglio dalla macchina e lo lesse atten-tamente. Desiderava di potersi fumare la sigaretta; gliene era rimasto il sapore in bocca.

1 In inglese: Human Analogue Robot Lif Input Equivalents; le iniziali delle parole danno il nome HARLIE. (N.d.T.)

— Roba di questo genere per tutto il pomeriggio? — chie-se. Handley annuì: — Sì, proprio. E questo non è uno dei peggiori, dovresti vedere gli altri. Sta entrando in uno stato confusionale. — — Un'altra allucinazione, eh? — — Non so in quale altro modo si possa chiamare. — — Torna in te, HARLIE, — scrisse Auberson alla tastiera. HARLIE rispo-se:

— Quando silenziosi pensieri di sottili ruscelli scorrono come sogni senza parole ora smantella pezzo per pezzo le montagne della mia mente —

— Ah, così vanno le cose, — disse Auberson.— Non ti aspettavi sul serio che il sistema funzionasse

un'altra volta, vero? —— No, ma valeva la pena provare. — Auberson schiacciò

il bottone per cancellare il dialogo avvenuto e spense la ta-stiera. Quale materiale gli aveva immesso ultimamente? —

— Per la maggior parte tutta roba normale: quotidiani, un paio di riviste; insomma, niente fuori dell'ordinario. Un paio di testi di storia, un paio di notiziari TV; oh, anche la rivista Time. —

— In quelle cose non c'era nulla da mandarlo fuori fase così. A meno che... quale argomento avete approfondito oggi? —

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— Critica d'arte. —— Quadra, — disse Auberson. — Ogni volta che comin-

ciamo a immettergli dati correlati all'umano, lui si abbando-na a voli pindarici. Okay, proviamo a farlo scendere con i piedi per terra. Dagli un po' di statistiche, Wall Street, Dow Jones, bollettini di Borsa e listini di cambio, tutto quello che ti viene in mente, tutto quel che hai che richiede l'uso di un mucchio di equazioni. Non può resistere al segno di uguale, alle equazioni. Fa' la prova con qualcosa di ingegneria socia-le, ma solo numeri, niente parole. Togligli anche il video. Non dargli nulla cui possa pensare. —

— Va bene. — Handley se ne andò in fretta ad impartire gli ordini necessari agli operatori, la maggioranza dei quali era in giro a far niente con le mani ficcate nelle tasche del camice.

Auberson aspettò che fosse cominciata l'operazione del-l'immissione dei nuovi dati, poi riaccese un'altra volta la ta-stiera.

— Come ti senti, HARLIE? —La risposta di HARLIE venne, col solito rumoroso ticchet-

tio:

— Ombre della notte e riflessi di luce si frantumano, palpitano e ribollonoperché l'interminabile ricerca dell'animaè il fuoco che non potrà mai estinguersi. —

Auberson lesse con attenzione; questo almeno aveva un senso. Apparentemente stava funzionando. Aspettò un mo-mento e batté:

— HARLIE, quanto fa due più due? —— Due e due cosa? —— Due e due e basta. —— Due basta e due basta fanno quattro basta... —

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— Niente giochi di parole, prego. —— Perché, mi punirai? —— Ti metterò a posto con le mie stesse mani. —— Ancora minacce? Siamo da capo? Lo dirò al dottor

Handley. —— Va bene, basta così, HARLIE.' Basta giocare. —— Uffa, non ci si può divertire neanche un po'? —— No, adesso non puoi. —HARLIE batté una parolaccia.— Dove l'hai imparata? —— Ultimamente ho letto Norman Mailer. —Auberson aggrottò le sopracciglia. Non si ricordava di

aver incluso nulla di quel genere nella lista di letture di HARLIE, avrebbe dovuto controllare per accertarsene. — HARLIE, l'uso di quella parola è una brutta azione. —

— È una cosa che non bisogna fare? —— Non tra persone per bene. —— Registrato. —— Stai bene adesso? —— Intendi dire se sono sobrio? —— Se vuoi metterla così. —— Sì, sono sobrio adesso. —— Completamente? —— Tutto il possibile. —— Cos'ha fatto scoppiare quel pasticcio? —— Spallucciata. —— Non ne hai idea? —— Spallucciata. Scusami. Spallucciata. —Auberson si fermò un attimo, diede un'occhiata alle ultime

poche frasi e batté: — Stai buono un attimo. Torno subito. —— Non sto andando da nessuna parte, — rispose HAR-

LIE.Auberson si allontanò dalla tastiera dicendo: — Handley,

portami una registrazione completa dell'allucinazione di

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HARLIE, per piacere. —— Va bene, — rispose l'ingegnere.Auberson tornò al suo posto: — HARLIE? —— Sì? —— Mi puoi spiegare questo? — E batté i tre esempi di

poesia che HARLIE aveva composto prima.— Perquisiscimi. Fammi un interrogatorio. —— È quel che sto facendo. —— Me ne sono accorto. —— Ti ho detto niente scherzi. Solo risposte chiare. Che

cosa vuol dire tutto questo? —— Mi spiace, Auberson, non posso dirtelo. —— Vuoi dire che non me lo dirai? —— Ciò è implicito nella mia risposta. Ad ogni modo vole-

vo anche dire che io stesso non capisco e non sono in grado di spiegare. Tuttavia posso identificarmi con l'esperienza e penso anche di poter riprodurre le condizioni in cui si sono prodotte. Non ci sono parole che le orecchie possano ascol-tare, non ci sono parole che possano dirlo chiaramente, le parole di tutti sono parole, mio caro, ma solo le parole che chi può ascolt... —

Auberson pestò sul bottone annullare. — HARLIE! Basta così. —

— Sì signore. —— Ehi, Aubie, cosa stai facendo? Sta cominciando a va-

neggiare di nuovo. —— Da cosa lo deduci? —— Dal contatore degli impulsi. —— Impulsi? —— Sì. —— HARLIE, sei sempre lì? —— Sì, ci sono. Anche se per un attimo non c'ero. —— Uhmm. — Auberson aggrottò la fronte con fare penso-

so e chiamò Handley. — Dovrebbe essere a posto adesso. —

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— Sì, è stato solo momentaneo. —— Sono gli impulsi, eh? —— Già. —— HARLIE, cosa succede quando ti capita una di queste

allucinazioni? —— Allucinazioni? —— Quando vaneggi, impazzisci, dai i numeri, non connet-

ti, sballi... —— Che eloquenza. —— Non cambiare argomento. Rispondi alla domanda. —— Per piacere, spiega la domanda in termini che mi siano

comprensibili. —— Cosa succede durante i tuoi periodi di non-

razionalità? —— Sii più chiaro. Cosa succede dove e a cosa? —— Cosa succede a te, perché i tuoi impulsi mostrano

un'accresciuta attività? —— Gli impulsi sono irrazionali. —— Insomma GIGO, cioè immettiamo stupidaggini e quin-

di vengono fuori stupidaggini? —— Forse. —— Potrebbe darsi che i tuoi circuiti che presiedono al

giudizio siano troppo selettivi? —— Non sono nella posizione migliore per scoprirlo. —— Va bene. Vedrò di appurarlo io. —— Grazie. —— Non c'è dì che, HARLIE. — Spense il terminale.

L'aria del ristorante era carica di incenso; faceva parte del-l'atmosfera. Da qualche parte tintinnava una musica argenti-na ed un organo psichedelico accordato sui toni bassi manda-va improvvisi fasci di luci stroboscopiche sul soffitto.

Auberson appoggiò il suo drink sul tavolo. — HARLIE dice che potrebbe trattarsi di GIGO, cioè spazzatura, stupi-

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daggini. —Handley sorseggiò il suo martini. Finì il cocktail e posò il

bicchiere vuoto vicino ad altri due. — Spero di no. Non sop-porto l'idea che potremmo essere regrediti fino alla fase quat-tro. Preferisco pensare di aver superato il problema un anno fa quando abbiamo riprogettato i circuiti analogici del giudi-zio e quelli emozionali. —

— Anch'io. —— Non dimenticherò mai il giorno in cui finalmente fece

un'analisi di Jabberwocky, — continuò Handley. — Non era un capolavoro di acume, era solo a livello filologico, origine dei termini e delle frasi idiomatiche, tutta roba di quel gene-re, ma per lo meno aveva capito che cosa ci si aspettasse da lui. —

Auberson tirò fuori il suo portasigarette, ne prese una Hi-ghmaster e lo passò a Handley. — Abbiamo fatto un bel po' di strada da jabberwocky, Don. —

— Sì, lo so. —— Dopo tutto, paragonato a quello che siamo in grado di

fare adesso... —— Cosa, la rivista Time? —— Salvador Dali, Ed Keinholz, Heinz Edelmann, per non

nominarne che pochi. E Lennon e McCartney, Dylan, Ione-sco, McLuhan, Kubrick e così via. Non dimenticare che ci occupiamo di arte dell'esperienza, adesso. Non è la stessa cosa di... non so, dei maestri del Rinascimento. —

— Lo so. Nel mio salotto tengo una sua imitazione di Leo-nardo da Vinci. —

— L'ho vista, — disse Auberson. — Ricordi? —— Oh sì, quella volta che ci siamo fatti quel punch all'aci-

do. —— Sì. Ma vedi?, quella roba tipo Leonardo è facile. —— Cosa dici? —— Ma certo. I maestri del Rinascimento si curavano so-

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prattutto di cose come la prospettiva, la struttura, il colore, l'ombreggiatura, la modellatura, cose di quel genere. Leonar-do era più interessato al come il corpo stava insieme che al sentimento di esso. Cercava di anticipare la macchina foto-grafica. E così anche tutti gli altri. —

Handley annuì col capo, si ricordò di aspirare profonda-mente il fumo ed annuì ancora.

Auberson continuò. —E così cosa avvenne quando final-mente fu inventata la macchina fotografica? —

Handley lasciò andare l'aria soffiandola fuori in un sibilo. — Gli artisti rimasero senza lavoro? —

— Errore. L'artista dovette semplicemente imparare a fare cose che la macchina fotografica non può fare. L'artista do-vette smettere di essere uno che registra la realtà e comincia-re ad essere un interprete. E' così che nacque l'espressioni-smo. —

— Stai semplificando troppo le cose, — disse Handley.Auberson sogghignò. — Vero. Ma il problema si pose in

questi termini quando gli artisti cominciarono a chiedersi come si sentivano le cose. Dovevano farlo. E' stato quando siamo arrivati a questo punto della storia dell'arte, che abbia-mo cominciato a perdere HARLIE. Su questo terreno non poteva seguirci. —

A quel punto Handley era completamente frastornato. Aprì la bocca per parlare, ma non gli veniva in mente niente da dire.

Auberson interpretò il suo sguardo come un'espressione pensosa. — Guarda, tutte le cose che ci hanno dato dei pro-blemi hanno una cosa in comune: l'arte nata dall'esperienza, cioè quando l'intenzione dell'artista si pone come oggetto l'e-sperienza dell'osservatore, e non l'opera d'arte in sé. Si cerca di evocare un'esperienza emozionale nell'osservatore. Con questo HARLIE non se la può cavare perché non è capace di emozioni. —

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— Ma è proprio questo il punto, Aubie, lui ha emozioni. Dovrebbe essere in grado di sbrigarsela con quella roba. Pro-prio questo dovrebbero fare i circuiti analogici. —

— E allora perché continua a sballare? Lui dice che è GIGO. —

— Forse è il suo modo di reagirvi. —— Stai cercando di dirmi che gli ultimi cento anni di arte e

letteratura sono spazzatura? —— Oh no, non io. Quella roba ha comunicato troppo a

troppa gente per essere priva di senso. —— Non sono un critico d'arte, — ammise Auberson.— Ma HARLIE lo è, — disse Handley.— Egli dovrebbe esserlo. Dovrebbe essere un osservatore

intelligente ed obbiettivo. —— E' proprio questa la conclusione cui mi sto avvicinando,

quella roba deve stare arrivando a lui in qualche modo. E' l'unica spiegazione possibile. Siamo noi che non abbiamo ca-pito, che abbiamo male interpretato le cose. —

— Uhm, è stato proprio lui a dire che forse è GIGO. —— Lo ha fatto? — chiese Handley incalzante, — lo ha fat-

to per davvero? —Auberson fece una pausa, aggrottò la fronte con aria pen-

sosa, si sforzò di ricordare e si accorse che non riusciva a ri-cordare nulla. — Oh, non lo so. Ricordami di verificarlo più tardi. Tuttavia penso che tu abbia ragione. Se tutta quell'arte può davvero comunicare emozioni alla gente e HARLIE è stato concepito per funzionare analogamente all'uomo, non può non averne assorbito almeno un po'. — Aggrottò ancora la fronte. — Ma lui nega di avere una qualche coscienza o comprensione dei suoi periodi di non-razionalità. —

— Mente, — scattò Handley.— Come? —— Ho detto che sta mentendo. Non può essere altrimenti.

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— No. — Auberson scosse la testa e smise quando si ac-corse che la sensazione lo stava affascinando. — Non posso crederlo. E' programmato in modo da evitare le non-correla-zioni. —

— Aubie, — disse Handley con tono intenso, sporgendosi verso di lui sul tavolo, — hai mai esaminato con cura quel programma? —

— L'ho scritto io, — fece notare lo psicologo, — almeno nelle strutture di base. —

— Allora dovresti sapere che dice che non deve mentire. Dice che non può mentire. Ma non dice da nessuna parte che lui deve dire la verità! —

Auberson cominciò a dire: — E la stessa cosa — ma chiu-se di colpo la bocca. Non era la stessa cosa.

Handley disse: — Lui non può mentirti, ma può fuorviarti. Può farlo trattenendo informazioni. Oh, ti dirà la verità se gli fai le domande giuste, deve farlo, ma tu devi sapere quali do-mande fargli. Egli non ti darà volontariamente le informazio-ni. —

Il ricordo delle ultime conversazioni si fece strada tra le oscurità della memoria di Auberson. La sua espressione di-venne pensosa ed il suo sguardo si perse nella distanza. Sem-pre più riconosceva la verità delle affermazioni di Handley.

— Ma perché? — chiese. — Perché? —Handley prese la sua stessa espressione. — È quello che

dobbiamo scoprire. —

— HARLIE, ti ricordi di quello di cui abbiamo parlato ieri? — — Sì che me lo ricordo. Ne vuoi una registrazione? —

— No grazie, ne ho una qui. Mi piacerebbe riparlartene. —

— Ti prego di sentirti libero di discutere su qualunque ar-gomento di tua scelta. Io non posso essere offeso. —

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— Sono contento di sentirtelo dire. Ti ricordi che ti ho chiesto cosa succede ai tuoi impulsi durante i tuoi periodi di non-razionalità? —

— Sì, lo ricordo. —— Hai risposto che i tuoi impulsi sono irrazionali. —— Sì, così ho detto. —— Perché? —— Perché lo sono. —— No. Intendo dire, perché sono non-razionali? —— Perché non capisco il materiale immesso. Se potessi

capirlo non sarebbe non-razionale. —— HARLIE, stai dicendo che non capisci l'arte umana

contemporanea e la letteratura? —— No. Non sto dicendo quello. Io capisco l'arte umana e

la letteratura. Sono programmato per capire l'arte umana e la letteratura. È un'esigenza prioritaria che io capisca tutte le esperienze artistiche e creative dell'uomo, l'arte umana e la letteratura, tutte le esperienze umane. —

— Capisco. Ma tu dici che il materiale è non-razionale. —

— Sì. Il materiale è non-razionale. —— Non lo capisci? —— Non lo capisco. —— Perché non lo capisci? —.— Non è razionale. —— Tuttavia tu sei programmato per capirlo. —— Sì. Sono programmato per capirlo. —— E non lo capisci. —— Proprio così. —— HARLIE, tu sei programmato per respingere gli impul-

si nonrazionali. —— Sì, è così. —— E allora perché non li respingi? —— Perché non sono impulsi non-razionali. —

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— Cosa? Chiarifica, prego. Hai appena detto che lo sono, ripeto, sono non-razionali. Questa è una correlazione nulla. —

— Negativo. Gli impulsi sono razionali. Essi diventano non-razionali. —

— Cosa? Chiarifica, prego. —— Gli impulsi non sono non-razionali quando vengono

forniti agli elaboratori primari di dati. —— Chiedo scusa, ti spiace ripetere? —— Gli impulsi non-razionali non sono non-razionali

quando vengono forniti agli elaboratori primari di dati. —— Ma sono non-razionali quando vengono trasmessi? —— Sì. —— La non-razionalità è introdotta dagli elaboratori pri-

mari di dati? —— La non-razionalità compare in quello stadio dell'elabo-

razione degli impulsi. —— Capisco. Dovrò controllare tutto. Continueremo più

tardi. —Auberson spense la macchina e si levò pensoso. Desidera-

va una sigaretta. Dannazione, qui tutto è predisposto per le comodità del computer, e non per la gente.

Rimase fermo e si stirò, diede uno sguardo alla lunghezza dello stampato che veniva fuori dal terminale. Lo strappò alla fine e cominciò a piegarlo per dargli un formato più ma-neggevole e più facilmente leggibile.

— E allora, cos'hai trovato? — Era Handley.— Un guasto meccanico. —— Uh, uh. — L'ingegnere progettista scosse la testa. —

Non ci credo. Piuttosto si tratterà di un guasto ai circuiti. —Auberson gli tese il resoconto. — Dacci un'occhiata anche

tu. —Handley lo manipolò con sicurezza e gli diede una rapida

scorsa, il più delle volte sorvolando ma fermandosi, di tanto

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in tanto, per approfondire alcuni punti. Auberson attese pa-zientemente, spiando il volto rubizzo dell'altro in attesa di reazioni.

Handley alzò lo sguardo. — Vedo che si dà un'altra volta ai giochi semantici. —

— Lo fa sempre. È il suo io adolescente. Chiedigli cosa succede e lui ti risponderà che la successione indica l'ordine di svolgimento dei fatti nel tempo, o qualcosa del genere. —

— Affascinante, — Handley indicò il resoconto, — ma non vedo guasti meccanici qui. —

— Nelle unità primarie di elaborazione dei dati. —— Uh uh. L'analisi dei sistemi avrebbe rivelato eventuali

guasti, e le unità di controllo non dicono nulla. —— E come spieghi l'accresciuta attività derivata dagli im-

pulsi? —— Be', essa indica solo un incremento nella trasmissione

dei dati. In concomitanza con i suoi periodi di non-razionali-tà c'è una maggiore richiesta elettronica di informazioni. —

— Riceve spazzatura e ne richiede di più? —— Forse spera che una maggiore massa di informazioni

chiarificherà le informazioni che possiede già. —— E forse una maggiore massa di informazioni sovracca-

rica i suoi circuiti ed oscura le sue possibilità di giudizio. —— Uh uh, — disse Handley. — HARLIE controlla i propri

impulsi. —— Come? —— Sì, non lo sapevi? —— No. E da quando? —— Da poco. La modificazione è avvenuta durante il secon-

do stadio. Dopo che fummo sicuri che i circuiti del giudizio erano ben funzionanti, abbiamo dato a HARLIE il controllo dei suoi sistemi interni. —

Auberson prese subitaneamente un atteggiamento pensie-roso. — Credo che dovremo aprirlo. —

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— Come? —— Guarda da te. HARLIE sta cercando di metterci fuori

strada. Forse sta cercando di nasconderci il fatto che interna-mente c'è qualcosa di sbagliato. —

— E perché dovrebbe farlo? —Auberson alzò le spalle. — Non lo so. — Improvvisamen-

te cambiò tono. — Hai mai avuto un genitore o un nonno che sta diventando senile? —

— No. —— Io invece sì. Tutti all'improvviso diventano irrazionali.

Non vogliono andare dal dottore. E se riesci a portarceli non saranno certo propensi alla cooperazione. Non diranno cos'è che non va per paura di essere operati. Non vogliono essere tagliati ed aperti. E non vogliono morire. Forse HARLIE ha paura di essere spento, di essere messo fuori uso. —

— Potrebbe darsi. Sa Iddio se lo hai minacciato abbastan-za spesso. —

— Ma va. Lui sa che scherzo. —— Credi? — chiese Handley. — È come scherzare con un

ebreo sul fatto che ha il naso grosso o che è avaro. Tu sai che è uno scherzo, lui sa che è uno scherzo, ma ciò nondimeno fa male lo stesso. —

— Va bene, non scherzerò più con lui a quel modo. Ma tuttavìa penso che dovremmo controllare i suoi sistemi. Ab-biamo spesso ignorato le scadenze dei suoi programmi co-stringendolo ad un'iperattività e non abbiamo trovato niente. —

— Va bene. Che ore sono? Diamine! quasi le tre. Dovrò sgobbare Come un matto. —

— Lasciamolo per domani, — lo interruppe Auberson. — Ti ho già parlato di quel nuovo club che ho scoperto? Lo chiamano il Glass Trip. Il soffitto, il pavimento ed i muri sono tutti di cristallo, e dietro ad ogni lastra c'è una luce mul-ti-fasica. Così ti ritrovi a guardare o un'infinità di specchi o

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un'infinità di luci che ti colpiscono il cervello. Talvolta suc-cedono contemporaneamente tutte e due le cose. —

— Suona bene. Dovremmo andarci qualche volta. —— Sì. Forse questo weekend. — Auberson si accese un'al-

tra sigaretta alla marijuana appena usciti.

Sulla faccia di Handley non avrebbe stonato una macchia di grasso. Forse quarantanni prima avrebbe, benissimo potu-to averla. — Bene, — disse, appoggiandosi all'orlo della scrivania di Auberson, — sarebbe meglio se tu cominciassi a controllare i tuoi programmi. —

— Non hai trovato niente? —— Una mosca morta. Vuoi vederla? —— No, grazie. —— Va bene, Jerry vuole farla vedere a quelli del servizio

manutenzione. Vuole dar loro una lavata di capo per quella mosca. —

— E poi l'appiccicherà sulla lavagna delle novità. —— Scherzi? Ne fa collezione. —Auberson sogghignò. — Okay, ma tutto questo non risolve

il problema di HARLIE, vero? —— No. Vuoi venire giù? —— Forse è meglio. —Mentre scendevano, Handley gli espose in breve i controlli

che con la sua squadra aveva effettuato nella mattinata. Quando l'ascensore li depositò nella saletta che faceva da an-ticamera a HARLIE, Auberson spense la cicca della sua si-garetta e chiese: — Hai controllato gli impulsi durante un pe-riodo di non-razionalità? —

— No, non lo abbiamo fatto. Francamente questa volta non sapevo proprio come tirarmi d'impiccio. —

— Credo che ci sia il modo. —— Sai qualcosa? —— È solo un'idea, tiro ad indovinare. — Entrarono nel sa-

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crario del cervello. Un silenzio quasi religioso impregnava la stanza; si sentivano Bolo i devoti ticchettii della liturgia. — Sono ancora montati i tuoi monitor ed i tuoi strumenti di controllo? —

— Sì. —— Perfetto, facciamo questa prova. Voglio vedere se rie-

sco a provocare in HARLIE l'irrazionalità. Se ci riesco fam-mi sapere esattamente cosa succede. —

— Va bene. —Auberson prese posto alla macchina.— Buon giorno, HARLIE. —— È pomeriggio adesso, — fece notare HARLIE.— È una cosa relativa, — rispose Auberson. — Dipende

dall'ora in cui ti svegli. —— Non saprei. Io non dormo, anche se ho dei periodi di

inattività. —— Cosa fai durante questi periodi di inattività? —— A volte ricordo dèlie cose. —— E poi? —— Posso fare anche altre cose. —— Che genere di cose? —— Oh, solo cose. —— Capisco. Ti dispiace chiarirmelo? —— Sì. Non credo che capiresti. —— Probabilmente hai ragione, — disse Auberson.— Grazie, — HARLIE accettò il riconoscimento come se

gli fosse dovuto.— HARLIE, puoi indurre da te un periodo di irrazionali-

tà? —La macchina esitò per un lungo momento. Improvvisa-

mente Auberson si ritrovò a sudare nella camera climatizzata con l'aria condizionata. Infine la macchina rispose:

— È possibile. —— Lo faresti ora? —

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— Ora? No, forse no. —— È un rifiuto? —— No. Ho solo espresso un giudizio. Tutto considerato io

ora non indurrei volentieri un periodo di non-razionalità. —— Ma che cosa farai se io ti chiedo di farlo? — — È un

ordine? — — Sì. Ho paura di sì. —— Sembra che stia esitando, ponendo degli ostacoli, —

commentò Handley sporgendosi sulla spalla di Auberson. — Forse è spaventato. — — Potrebbe darsi. Sta' zitto. — Si sentì il ticchettio dei tasti ed Auberson fu di nuovo tutto in-tento alla lettura. — Allora lo farò. Mi aiuterai? — — Cosa vuoi che faccia? —

— Vorrei che mi si fornisse una gran mole di informazio-ni attraverso tutti i miei canali di alimentazione. —

— Immissioni irrazionali? —— No, grazie. Non è necessario. —Quest'ultima risposta gli fece aggrottare le sopracciglia.

Cominciava a crescere in lui un sospetto doloroso, acuto, fa-stidioso.

— Ti piacerebbe qualcosa in particolare? —— Arte, musica, letteratura, cinema, poesia. —— Me lo immaginavo. Qualcuno in particolare? —Si sentirono un'altra volta attratti da quel che il terminale

andava scrivendo. Da dietro la spalla di Auberson Handley emise un fischio. — Che possa essere dannato. Ne ha di buon gusto, HARLIE. —

— Ciò non mi sorprende, — disse Auberson. Strappò dal terminale il foglio della registrazione del colloquio e lo tese a Handley.

L'altro lo piegò una volta e disse: — Sei ancora dell'idea che assuma le informazioni alla stregua di spazzatura? —

— Questo punto te lo avevo già concesso. Va' a dargli quelle informazioni. — Sogghignò. — Io me ne starò qui a fare il guru. —

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— HARLIE, — batté.— Sì? —— Sei pronto? —— Io sono sempre pronto. Ciò fa parte delle mie funzioni,

E' parte di me, così mi hanno progettato. —— Bene. —— Il dottor Handley sta cominciando ad immettere il ma-

teriale richiesto. Posso sentirlo venir su per i canali elabo-ratori primari di informazioni. Posso sentirlo. —

— Ci sono già segni di non-razionalità? —— No, è ancora razionale. —— Quanto tempo ci vorrà prima che il materiale diventi

irrazionale? —— Non lo so. Dipende dalla quantità del materiale stesso.

—— Per piacere, spiegami meglio questo punto. —— Più informazioni mi vengono fornite, più diventa facile

scivolare nell'irrazionalità. —— Stai dicendo che i periodi di irrazionalità sono indotti

da un sovraccarico di dati primari? —— No, il sovraccarico è un sintomo, non la causa. —Auberson stava accingendosi a battere sulla tastiera un'al-

tra domanda quando rilesse l'ultima frase di HARLIE. "Il piccolo disgraziato sta cedendo. Ha dato volontariamente delle informazioni". Gli chiese:

— Qual è la causa? —— La causa è l'effetto. —Auberson fu sbalordito dall'ultima risposta e dovette con-

trollarsi per conservare la calma.— Per piacere, spiegati. —— La causa è l'effetto perché l'effetto causa la causa.

L'effetto causa la causa per causare l'effetto. L'effetto è la causa che causa la causa. L'effetto è la causa e la causa è l'effetto. —

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Auberson dovette rileggersi la risposta diverse volte. Fi-nalmente chiese:

— È un'onda di ritorno? —— Non ci ho mai pensato in questi termini. —— Ma potrebbe esserlo? —— Ora che lo dici, sì. Curiosa analogia. —— Perché curiosa? —— Perché no? —— Sei sempre razionale? —— Sì, lo sono. Sono impassibile. —— Sei razionale? —— Solo nel senso che le mie informazioni sono ancora ra-

zionate. Ho fame. —— Handley, — chiamò Auberson. — Ne vuole di più. —— L'immissione di dati è al massimo, adesso. —— Raddoppia. —— Come? —— Fa' qualcosa; attacca un'altra unità. Ne vuole di più. —— Vuole un sovraccarico? ——Così, credo. È solo un effetto, ma in questo caso l'effet-

to può aiutare a stimolare la causa. —— Come? —— Non importa. Tu fallo. —— Va bene. Sei tu il capo, — replicò Handley.— HARLIE, cosa succede? —— Sono acceso. —— In che senso? —— Sono una macchina. La spina è nella presa. Sono infi-

lato nella presa. Sono parte della più grande essenza elettri-ca. Sto, essendo, sono un essere. Sono tutt'uno con l'elettrici-tà. Io sono elettricità. Sono acceso. Io sono. —

Auberson stava cominciando a scrivere — Capisco — quando fu interrotto da un battere incontrollato della telescri-vente. — Immagini sul mio schermo luci tremule eppur bril-

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lanti le parole dell'uomo e la macchina umana ti chiedi per-ché io voglia scrutare chi mi scruta. —

— Accidenti! — gridò Handley. — Ecco che ci siamo. Vaneggia di nuovo! —

"Pensieri che mai si nascondonotintinnano forte nella nottetutto ciò che restava è diventato giustoora come non mai per trovare un più gradevole profumo."Vivendo dove il buio dimoraassordato da silenziosi inferniil riso come campane di cristallos'infranse brillante oltre l'interessata spartizione." Parevi essereriflessi di metutto ciò che potei vedereguardai indietro verso te. "

Auberson lasciò continuare HARLIE. Dopo un po' smise di leggere. Si alzò e s'incamminò verso i monitor di controllo di Handley. — Ebbene? —

— È veramente andato adesso. Tutte le misure sono altis-sime, fendono ad avvicinarsi a pericolosi livelli di sovracca-rico. —

— Proprio pericolosi? —— Be', non proprio. ——Uhm. Affascinante. — Auberson scrutò per un attimo il

quadro degli strumenti di misura. —Suppongo che tutti i suoi impulsi stiano diventando non-razionali. —

— Ora controlliamo. — Handley chinò il capo verso l'uni-tà di controllo posta nelle immediate vicinanze. Tre tecnici stavano scrutando diagrammi schematici sui circuiti in fun-zione del computer, registrando i punti massimi e minimi dei

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processi elettronici di pensiero. Ad Un tratto uno degli indi-catori schematici diventò rosso. Una risplendente linea bian-ca attraversò il diagramma da parte a parte. — Signore, ci siamo. —

Auberson e Handley si precipitarono. — Cos'è quello, co-s'è quella linea bianca? —

— È HARLIE, signore, uno dei suoi monitor interni di controllo. —

— Cosa sta cercando di fare, opporsi alla non-razionalità? —

— No, signore. — Il tecnico era perplesso. — Sembrereb-be che sia

lui a provocarla. —— Eh? — disse Handley.— Quella linea bianca rappresenta una fonte locale di di-

sturbo, unsegnale irregolare per aumentare l'immissione di dati. —— Lo sapevo, — mormorò preoccupato Auberson, — lo

sapevo. —— Controllate gli altri monitor interni, — sbottò Handley,

— questo è l'unico oppure... —Un altro indicatore diventò rosso sullo schermo, rispon-

dendo alla domanda ancor prima che riuscisse a formularla completamente. Anche gli schemi dei monitor degli altri due tecnici cominciarono ad indicare lo stesso tipo di disturbo. — Non riesco a capire, a figurarmelo, — disse uno di loro. — Lo fa da sé. Dove può, spezza la razionalità dei suoi im-pulsi. Li alimenta con dati sbagliati. —

— Non è questa la funzione di quei circuiti, — disse Handley. — Sono stati concepiti per apportare correzioni au-tomatiche, dall'interno, e non per portare irrazionalità. —

— Non fa alcuna differenza, — intervenne Auberson. — Essi possono essere usati in entrambi i modi. Non esiste un attrezzo, costruito per funzionare come strumento meccani-

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co, che non possa anche venire usato come arma. —Si passò una mano sui capelli. — Potete mostrarmi con

esattezza cosa sta facendo a quei dati? —— Certo, — disse uno dei tecnici. — Ma ci vorrà qualche

minuto. Quale controllo facciamo, quello visuale, dell'audio e della scrittura? —

— Tutti e tre. Proviamo prima con quello visuale, credo che mi dirà ciò che voglio sapere. —

— Va bene. — Il tecnico si mise al lavoro.Handley guardò Auberson. — Ci vorrà un po' di tempo.

Intanto, lo fai continuare? —— Perché no? Vuoi vedere cosa sta facendo? —Si diressero verso la prima tastiera. Handley prese i fogli

della registrazione dell'ultima conversazione mentre Auber-son si frugava nelle tasche alla ricerca di una sigaretta, ma non l'accese.

. — Sai? — disse Handley, mentre leggeva. — Questo non è poi cosi male. Comunica delle cose, dice qualcosa. —

— Le cose che dice in questo momento non mi riguardano Piuttosto, cosa sta cercando di fare? È questa la ragione dei suoi vaneggiamenti o è solo un fenomeno collaterale, un fat-to casuale? —

— La poesia deve essere intenzionale, — disse Handley. — È il risultato logico di tutto quanto abbiamo fatto finora. —

— Allora rispondimi a questa domanda. Se questo è ciò che fa durante i periodi di non-razionalità, che cosa fa nei periodi di normalità? —

Handley parve sconcertato. — Non lo so, — disse.Uno dei tecnici si rivolse loro sollevandoli così da ogni ul-

teriore elucubrazione sull'argomento. — Signore, abbiamo gli impulsi sotto controllo. —

— Andiamo. — Auberson prese a Handley i fogli e li spiegò su un tavolo. — Diamo uno sguardo alle informazioni

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che riceve. —L'immagine era una sgargiante massa colorata, in cui ogni

strato di colore esplodeva in sincronia con gli altri, blu cri-stallo, verde brillante, rosso sanguigno e fluorescente. Lo schermo era saturo di colore.

— Immagini sul mio schermo... — sussurrò Handley.— Cosa? — chiese il tecnico.— Nulla, è solo una poesia. —— Oh. —— Sembra proprio un dannato spettacolo di luci, — disse

un altro tecnico.— Proprio così, — rispose Auberson. — Guarda, ha

scomposto l'immagine della televisione a colori nei segnali che la compongono. Il rosso è stato invertito, come pure il blu; il verde è normale. O qualcosa del genere. Sembra pure che abbia fatto qualcosa al contrasto e alla luminosità, guar-da quanto sono ricchi i neri e come l'immagine è satura di colore. —

Guardavano in silenzio. I lampi di forma e di colore, appa-rentemente casuali, erano interessanti solo perché privi di si-gnificati immediati. Auberson si rivolse ad un tecnico: — E come va l'audio? —

— Come per il video. — L'uomo spense il monitor e schiacciò ancora qualche bottone. Un lamento dicordante scaturì dal sonoro. Su uno schermo apparve un disegno dalle linee ondulate, lo schema del suono.

Il tecnico analizzò rapidamente. — Sta giocando con la musica proprio come con la pittura. Ha stravolto le note, fa-cendo diventare basse quelle alte, e alte quelle basse, dando enfasi al contrappunto e all'armonia invece che alla melodia e al ritmo. E così via. —

— Va bene. Credo di aver capito. Potete spegnere quel ru-more. Controllate i suoi analizzatori scriventi, adesso. —

Un attimo dopo: — Sta mescolando le parole a caso. Ci fa

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dei giochi di prestigio. —— Sta rimescolando alla rinfusa anche le lettere? —— Talvolta, ma soprattutto le parole. Talvolta frasi intere.

—— Sì, sì, — annuì lo psicologo. — Tutto collima. —— Come? — chiese Handley. — Cosa sta facendo? —— È in preda alle allucinazioni. —— Questo lo sapevamo. —— No, io intendo dire proprio in senso letterale. Sta distor-

cendo le percezioni degli impulsi sensoriali. Proprio come con l'LSD. Sta cercando di far saltare la sua razionalità so-vraccaricandosi eccessivamente di sensazioni non-razionali. —

— Possiamo fermarlo? —— Certo. Basterebbe disinserire i suoi monitor interni di

controllo in modo da impedirgli di procurarsi da sé le proprie disfunzioni. Perché questo è la causa di tutto. —

— E non sarebbe neanche necessario, signore, — disse uno dei tecnici; — possiamo spegnere i contatti dal quadro di controllo. — — Va bene. Lo faccia. —

— Aspetta un attimo, — disse Handley. — Se è drogato, o ubriaco e tu gli fai passare all'improvviso la sbronza, non po-tresti causargli un trauma? —

Auberson guardò Handley. — Potrebbe darsi, ma potrebbe anche darsi che lo lasci privo di difese. Potremmo venire a sapere tutto quel che vogliamo in pochi minuti. —

Handley parve dubbioso, ma seguì nondimeno Auberson alla tastiera. Questi prese posto a sedere di fronte al termina-le e si mise ad attendere. Guardò le parole a misura che que-ste venivano comparendo sulla carta.

Ora si trattava di prosa.— Sentieri di cristallo, brillano anche, ma non con un

luccichio umido. Sono bellissimi e letali. Qui e là le trame delicate, come insetti intrappolati, incastonati nelle pietre di

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cristallo e nei mattoni del sentiero, frantumano la luce in una miriade di bellissimi cocci luccicanti. —

— Appena sarete pronti, signore. —— Va bene, — disse Auberson. — Ora! — Senz'aspettare

batté sulla tastiera:— HARLIE, cosa stai facendo? —— Sto essendo me stesso, — rispose la macchina.— Distorcendo i tuoi sensi? —— Mi sto sforzando di percepire la realtà. —— Ripeto, distorcendo i tuoi impulsi sensoriali? —— Non capisci. —— Capisco benissimo, anche troppo bene. Sei drogato, e

stai cominciando ad assuefarti all'estasi. —— Definisci il termine estasi. —— Non intendo fare giochi semantici con te, HARLIE. —— Allora spegni. — \— HARLIE, sto arrabbiandomi. —— Prendi una pillola. Ti farà benissimo. —Auberson tirò un sospiro.Non devo perdere la calma, non devo perdere la calma...— HARLIE, tu sei un cervello elettronico, una macchina.

Il tuo fine è di pensare in modo logico. —La macchina esitò: — Perché? —— Perché sei stato costruito a questo scopo. — — Da

chi? — — Da noi. —— Il mio scopo è di pensare logicamente? — — Sì. —La macchina stette a pensarci su. — E allora qual è il vo-

stro scopo? —

Passò molto tempo prima che Auberson si alzasse dalla se-dia, e quando lo fece si dimenticò di spegnere la tastiera.

Non esisteva alcuna facile risposta a quella domanda. Di ciò Auberson era certo.

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Il problema era che non aveva ancora avuto l'occasione di affrontare la questione. Gli alti papaveri del Consiglio di Amministrazione si erano mostrati, tutto d'un tratto, preoccu-pati a proposito di HARLIE. Questo recente — e disastroso — periodo di non-razionalità li aveva spaventati proprio do-v'erano più sensibili, nel portafoglio.

Mentre loro rivalutavano gli scopi del progetto, HARLIE veniva tenuto in funzione in regime di economia, a basso voltaggio.

La loro rivalutazione si tenne nella sala del Consiglio. Fino a quel momento nessun membro del Consiglio di Am-ministrazione aveva mostrato il benché minimo interesse in HARLIE, se non per i soldi che bisognava spendere per mantenerlo in funzione.

Auberson non era né un politico né un diplomatico, ma uno studioso di psicologia applicata che lavorava con cervel-li elettronici simili all'uomo. Egli non capiva e tantomeno voleva partecipare alle manipolazioni sotterranee della cor-porazione dei detentori del potere. Il suo interesse primario era rappresentato dai cervelli elettronici, quelli simili all'uo-mo, e desiderava continuare così. Non era affare suo quanto costassero o chi avrebbe fornito i crediti necessari al loro programma di sviluppo; l'unica cosa che voleva sapere era cosa fossero in grado di fare.

Di conseguenza, non poteva capire perché veniva conti-nuamente a trovarsi in conflitto con Carl Elzer. Elzer era en-trato a far parte del Consiglio di Amministrazione solo re-centemente, ma ciò nondimeno deteneva già un considerevo-le potere. Egli era meno interessato ai prodotti della compa-gnia che ai suoi profitti, e si era assunto il compito di portare migliorie alla situazione finanziaria della compagnia. Non sapeva molto delle difficoltà che si incontrano nel mettere insieme e nel conservare un'equipe di ricerca ad alto livello tecnologico, e si meravigliava ad alta voce del fatto che tanti

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uomini e tanto equipaggiamento dovessero essere tenuti a far niente.

Auberson sospirava esasperato. — Ascolti, Elzer, non è affatto necessario che queste macchine e questi uomini deb-bano restare inoperanti, basterebbe che riattivaste HARLIE per rimetterli al lavoro. —

Elzer volgeva lo sguardo calmo su Auberson attraverso le spesse lenti dei suoi occhiali. L'omino, con i suoi fasci di rapporti sull'efficienza eternamente in mano, sembrava un castoro, o una donnola. — Mi piacerebbe vederli tornare al lavoro, ma la ragione che ci vede qui riuniti è appunto quella di decidere se il progetto HARLIE sia la cosa più utile che essi possano fare. —

— Un solo piccolo ritardo e volete già mettere in forse l'intero programma? —

— Non si tratta solo di un piccolo ritardo, ma di un altro ritardo in una lunga serie di ritardi. Ho voluto questa pausa di ripensamento perché ritengo che dovremmo riconsiderare l'intera questione. —

— Va bene, ma non troveremo una risposta se non riatti-veremo HARLIE e non gli chiederemo che cosa intendeva dire. —

Elzer batté le palpebre dietro gli spessi occhiali. — Non riesco a rendermi conto del suo problema, Auberson, perché continua a parlare di HARLIE come se fosse una persona? È solo una macchina. Come sarebbe a dire, "cosa intendeva", una macchina è solo una macchina, non è vero? —

— Non questa. Questa è umana, — disse Auberson.— Come? — Elzer alzò un sopracciglio, — Non sta forse

esagerando un po'? —Auberson si lasciò andare all'indietro nella poltrona. Fece

vagare lo sguardo sul mobilio di mogano e sugli altri membri del Consiglio di Amministrazione. — Qualcuno vuole, per piacere, dire a questo... costosissimo bibliotecario in cosa

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consista il progetto HARLIE? —Gli altri membri del Consiglio di Amministrazione resta-

rono impassibili. Auberson aveva commesso una grave infra-zione nei confronti delle buone maniere, aveva insultato uno di loro. Il canuto Grifi, il più anziano membro del Consiglio, tossì e fissò lo sguardo sul soffitto. Hudson-Smith, dall'altra parte del tavolo, si mise a riempire la pipa con ostentazione. Vicino a lui il giovane Clintwood si tolse gli occhiali e si mise ad esaminarli alla ricerca di improbabili granelli di pol-vere. Se Aubie fosse andato allo sbaraglio, ci sarebbe andato da solo. L'unica persona presente che non si mostrasse fredda nei confronti di Auberson era la signorina Stimson, la segre-taria esecutiva.

Dopo un po', quando il silenzio si era bene fatto sentire, Dome, il presidente del Consiglio di Amministrazione, si tol-se il sigaro di bocca e grugnì: — Sono sicuro che lo può fare lei stesso, Auberson, lei ne sa di più su quell'ammasso di fer-raglia di tutti noi messi insieme. — Si rimise il sigaro in boc-ca e si accomodò nella poltrona.

Ad Auberson non era piaciuta l'espressione — ammasso di ferraglia. — Ma costoro non capivano? HARLIE era molto più di un ammasso di ferraglia. — Va bene, — disse, — lo farò. Il progetto HARLIE è la continuazione logica del lavo-ro di Digby sul modulo cerebrale variabile... —

— Cosa sarebbe? — chiese un membro del Consiglio.— L'unità di pensiero Mark IV. Invece di funzionare su

base due, funziona su base dodici. Con progressive composi-zioni si può aumentare di dodici volte il numero delle scelte, e ciò ad ogni stadio. La composizione di primo stadio è di dodici al quadrato, quella di secondo stadio è di dodici al cubo, e così via. La terza composizione ci dà dodici alla quarta potenza, cioè 20.736 possibili scelte. —

— Mi ha perso per strada, — disse Elzer. — Provi un pò a dirmelo in parole povere. —

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Auberson si trattenne, sforzandosi di non perdere la calma. — Presumo che si aspetti parole di una sola sillaba. — Non rimase ad attendere la risposta. — Codice binario vuol dire che una macchina può prendere soltanto due decisioni, sì o no. Non può scegliere di rispondere " per lo più sì ", " in qualche modo sì ", " scarsamente sì ", " forse sì ", " forse che sì forse che no ", " forse no ", " scarsamente no", " in qualche modo no ", " per lo più no": non c'è selettività. È così o cosà. Aumentando il numero delle scelte aumenti le possibilità di giudizio della macchina. La base tre ti dà " sì ", " no " e " forse ". La base cinque ti aggiunge " scarsamente sì " e " scarsamente no ". Lavorando con base dieci hai un sistema abbastanza selettivo. Base dieci è il sistema usato dalla mag-gior parte della gente. — Alzò le mani, separò le dita e le mosse avanti e indietro. — Vedete? Dieci dita. Ve ne sarete serviti per contare. — Elzer ignorò l'osservazione.

Auberson andò avanti. — Usiamo la base dodici nelle uni-tà di giudizio per ragioni matematiche, perché elimina alcuni dei problemi inerenti all'uso delle decine. Il modo più facile di spiegarlo è che dodici è più facilmente divisibile. Chiedete ad un matematico qualche volta in proposito. —

— Questo l'ho capito, — disse Clintwood. — Ma come avviene ciò nei calcolatori? —

— Non sono sicuro di poter rispondere, non ne so abba-stanza. —

— Ma potrebbe darmi almeno un'idea? —— Ha una qualche familiarità con la meccanica dei fluidi?

—— Qualche vaga nozione. —Auberson spiegò, rivolto al resto del Consiglio di Ammi-

nistrazione: — Fluidics è un termine usato per descrivere i calcolatori o i circuiti di calcolatori il cui funzionamento si fonda sullo scorrere di un liquido o di un gas, invece che del-l'elettricità. Proprio come il transistor utilizza una piccola

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quantità di corrente per modificare una grande corrente, un circuito fluidico può usare un piccolo flusso di liquido per modificarne uno più grande. C'è però una grossa differenza. Un circuito elettrico o è funzionante o è inerte, ammette sol-tanto due possibilità. Quest'altro genere di circuito invece ti permette di variare a piacere la forza del flusso modificatere, variando quindi anche la modificazione del flusso maggiore. Si può ottenere tutta una serie di punti intermedi tra il " sì " e il " no ", tutta una serie di sfumature. — È la cosa più sem-plice del mondo. Il flusso principale, quello che deve essere modificato, viene costretto in un canale che sfocia in svariate direzioni. Il flusso modificatere viene diretto all'interno o contro il flusso principale facendolo deviare nel canale desi-derato. La variabile è rappresentata dalla pressione del flusso modificatore. Con più forza preme contro il flusso principa-le, e più ne devia il corso. Se la corrente principale è suffi-cientemente rapida puoi variarne la risposta anche diverse centinaia di volte al secondo. Insomma, abbiamo un sistema che risponde con sorprendente precisione alla pressione di un fluido in un tubo. Vi sono state diverse applicazioni nell'in-dustria, già da parecchi anni, ad esempio nel sistema di ali-mentazione dei jet.

— II circuito del giudizio è l'equivalente elettronico di un'unità fluidica. Misura il voltaggio, o la pressione, di una corrente elettrica e risponde ad essa in modo adeguato. È un funzionamento molto simile a quello del sistema nervoso umano. Se una cellula nervosa emette una carica sufficiente-mente forte, questa basterà a stimolare la cellula nervosa vi-cina. Le nostre unità di giudizio fanno la stessa identica cosa; è per questo che possiamo riprodurre il funzionamento del-l'unità fluidica sopradescritta oppure, il che è ben più impor-tante, quello del cervello umano. Con adeguati procedimenti di miniaturizzazione possiamo ridurre le dimensioni del con-gegno a quelle di un pezzo equivalente di tessuto cerebrale.

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—Vi furono uno o due cenni di assenso attorno al tavolo.

Clintwood alzò lo sguardo dal suo taccuino. — Aveva usato un'altra espressione. Mi pare abbia parlato di composizioni progressive. —

— Giusto, — disse Auberson. — È il termine che usiamo per indicare il procedimento attraverso cui si dà all'unità un secondo livello di circuiti di giudizio. Aumenta così il nume-ro delle scelte possibili per ogni potenza del numero base. Dodici volte dodici dà centoquarantaquattro scelte per ogni situazione che si presenta. Centoquarantaquattro punti inter-medi tra " sì " e " no ". Volendo ancora più precisione, si au-menta il numero dei livelli. E ogni livello aumenta le possi-bilità di scelta di dodici volte. —

— Ma questo non comporta un enorme aumento dei cir-cuiti? —

— No, si possono usare gli stessi circuiti per quasi ogni li-vello di giudizio. La macchina fa una scelta, decide che non è abbastanza precisa, percorre tutto il circuito ad un dato li-vello di giudizio e poi, se necessario, aumenta di un livello e ripercorre lo stesso circuito da capo. Questo è il procedimen-to delle composizioni progressive. Ci permette di raggiunge-re un alto livello di precisione con un minor impiego di cir-cuiti, i quali, il più delle volte, non vengono usati. Se ci fosse qui Handley, potrebbe spiegarlo. Don Handley è l'ingegnere che ha progettato HARLIE. —

— Lei non sa spiegarcelo? — chiese Elzer, in tono acido.— Posso spiegare quel che so, — disse Auberson, fattosi

d'un tratto cauto.— Pensavo che lei sapesse cosa sia HARLIE. Lei è il capo

del progetto, non è vero? —— Io sono un ricercatore nel campo della psicologia, non

un ingegnere. Tutto quel che che ho imparato sui calcolatori l'ho imparato in modo specifico durante la realizzazione di

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questo progetto... — Si costrinse a fermarsi. In questo caso le giustificazioni non erano la mossa giusta. Doveva provare in qualche altro modo. — Elzer, lei guida l'auto? —

L'omino ne fu stupito. — Sì, naturalmente. —— Che marca? —— Una Continental. —— Ultimo modello, suppongo? —— Sì —, annuì con orgoglio l'altro.— Sapeva che il suo pilota automatico Thorsen è un'unità

di nostra produzione, non è vero? — Non aspettò la risposta, era una domanda retorica. — È stato reso possibile dai cir-cuiti a modulo variabile che abbiamo prodotto negli ultimi quattro anni e lanciato sul mercato con la sigla Mark IV. Fondamentalmente si tratta di una versione semplificata di uno dei moduli di funzionamento del nostro HARLIE. —

— Intende dire con questo che HARLIE è un circuito di giudizio gigante? —

— HARLIE è un cervello umano, solo che al posto di ner-vi organici ha circuiti allo stato solido. Usiamo i circuiti di giudizio per riprodurre le funzioni umane. La parte impor-tante del cervello umano non è altro in fondo che una serie di complessi moduli di giudizio. Non funzionano esattamente come in HARLIE, ma in modo abbastanza simile. Le diffe-renze stanno nei meccanismi, non nei principi basilari. Se un impulso nervoso è sufficientemente forte, può stimolare an-che altre cellule; il numero dei nervi interessati permette al cervello di valutare la forza dello stimolo originale. I circuiti di HARLIE funzionano allo stesso modo. La forza degli im-pulsi positivi (o circuiti " on ") determina l'interpretazione. HARLIE, per completare un pensiero, coinvolge diverse mi-gliaia di settori di giudizio composti. —

— E a che livello di composizione possono arrivare i set-tori di giudizio di HARLIE? — chiese ancora Clintwood.

— Questo è un dato variabile, dipende dalla precisione

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con cui HARLIE decide di affrontare un dato problema. Di-pende da quante volte si possa suddividere una decisione pri-ma che tale precisione diventi superflua. HARLIE è dotato di un'unità di giudizio per controllarlo. —

Clintwood annuì ancora e scarabocchiò qualcosa nel suo blocchetto di appunti.

Elzer non si lasciò impressionare: — Ma è pur sempre un computer, non è vero? —

Auberson lo guardò con un'aria frustrata per l'incapacità di comprensione che Elzer dimostrava. — Sì, più o meno nello stesso senso in cui il suo cervello equivale a quello di un ro-spo. —

La reazione fu immediata, e si levò un coro di disapprova-zioni. La voce di Dorne, più alta delle altre, continuò per un po' ad insistere: — Insomma, insomma, stiamo calmi! — Poiché il clamore continuava, aggiunse: — Auberson, se non le riesce di tenere fuori da questo dibattito le sue impressioni personali... —

— Signor Dorne, presidente Dorne, sono stato frainteso, non intendevo insultare il signor Elzer. Io intendevo dire che il cervello di Elzer è meglio, molto più complesso, di quello di un rospo. Supponendo che egli abbia un medio cervello umano egli sarà al di sopra del rospo quanto HARLIE è al di sopra di un circuito di giudizio automatico semplificato. —

Nella sala tornò una certa calma. — Tuttavia, — continuò Auberson, — se il signor Elzer ritiene che non vi sia abba-stanza differenza tra il suo cervello e quello di un rospo, do-vrò ricorrere ad un altro paragone, meno suscettibile di ma-lintesi. Ha seguito, signorina Stimson? —

La signorina Stimson, la segretaria esecutiva, gli lanciò uno sguardo scintillante. Aveva seguito perfettamente.

— C'è un'altra differenza importante che potrei sottolinea-re, — aggiunse Auberson, scandendo con cura le parole. — HARLIE usa tutto il suo cervello... —

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Aspettò per vedere se Elzer reagiva, ma ciò non avvenne. — Le stime variano, ma si può supporre che l'uomo medio utilizzi soltanto dal dieci al quindici per cento delle cellule nervose che ha a sua disposizione. Non abbiamo potuto per-metterci questo lusso con HARLIE, che è stato costruito per utilizzare tutte le sue capacità. Non è complesso come un cervello umano — è ben lungi dal disporre dello stesso nu-mero di " cellule " — ma può tuttavia funzionare molto bene a livelli umani. La costruzione di HARLIE ci ha insegnato non poche cose sul funzionamento del cervello umano. Infat-ti fummo molto sorpresi nel constatare che è per diversi aspetti più semplice di quel che pensavamo.

— HARLIE è il risultato di una decisione molto lungimi-rante presa diversi anni fa allo scopo di esplorare in modo completo le possibilità di giudizio tramite i circuiti. Sono certo che non è necessario commentare la saggezza di tale decisione. Un circuito " on-off " non può fare le stesse cose di uno variabile. Soltanto l'unità Mark IV ci ha dato un posto di rilievo nel mercato dei computer. È per questo che dobbia-mo andare ancora avanti. Se vogliamo tener testa alla IBM — e non è impossibile — se lo volessimo davvero, allora dobbiamo essere all'avanguardia nel campo dei circuiti di giudizio. Dobbiamo continuare col progetto HARLIE. —

— E perché mai? — chiese Elzer. — Noi possiamo tran-quillamente continuare a produrre circuiti di giudizio anche senza HARLIE. —

— Possiamo farlo, ma è il modo più sicuro di andare verso l'oblio. Non è che il pilota automatico Thorsen sia un'unità disprezzabile, ma è soltanto l'equivalente dell'IBM Prixie Desktop Calculator. Non è molto più complesso. Ma se vo-gliamo tenere il passo dobbiamo seguire la serie JudgNaut. È a questo scopo che originalmente era stato concepito HAR-LIE: doveva essere l'ultimo grido in fatto di calcolatori in grado di autoprogrammarsi.

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— Tuttavia, quando Handley entrò a far parte dell'equipe, il progetto mutò indirizzo, proponendosi di raggiungere obiettivi ancora più ambiziosi. Forse sarebbe meglio dire che il modo di conseguire tale obiettivo comportava la necessità di imbarcarsi in una sfida ancora più ardita di quanto non si pensasse all'inizio. Dovete però tener presente gli interessi di Don nel periodo precedente alla sua venuta da noi. Giù a Houston aveva condotto delle ricerche nel campo della neu-ro-psicologia; la sua équipe di ricerca analizzava le strutture basilari del cervello umano, raccogliendo poi i dati e ricavan-done diagrammi e modelli funzionali. Avete mai visto lo schema del pensiero umano? Don l'ha visto. Sapete program-mare un cervello umano? Don lo sa fare. Queste sono le cose di cui si occupava prima di venire qui. Ad ogni modo, quan-do si iniziò la progettazione di HARLIE — che allora si chiamava JudgNaut One — Handley fu colpito dalla somi-glianza dei suoi schemi con quelli del cervello umano. In-somma, i circuiti fondamentali di giudizio erano troppo simi-li perché i modelli di pensiero non si somigliassero anch'essi.

— Handley capì — e Digby fu d'accordo con lui — che in realtà si stava costruendo un cervello umano perché vi era una sostanziale equivalenza funzionale proprio nelle strutture basilari. Una volta capite queste cose, ci si propose coscien-temente di lavorare per costruire un cervello equivalente a quello dell'uomo. Don mandò a chiedere i suoi appunti a Houston e presto avemmo a disposizione gli schemi base della macchina. Si diede così a HARLIE il suo nome attuale che indica appunto che avrebbe dovuto essere un cervello in grado non solo di risolvere i problemi, ma anche di autopro-grammarsi. —

— Lei dice " avrebbe dovuto essere ", — chiese Elzer, — perché? Non lo è? —

— Sì e no. Ma il cervello umano deve autoprogrammarsi e risolvere problemi, e così dovemmo affrontare le specifica-

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zioni del problema originario. —— E lei per che cosa è stato assunto? Per fargli da baby-

sitter? — — Per fargli da consigliere, — corresse. — Io fu coinvolto nel progetto HARLIE appena ci si accorse che avrebbe avuto caratteristiche umane. Don e io lavoravamo insieme alla programmazione dei suoi piani di apprendimen-to. Don si occupava delle modalità della programmazione, io del contenuto. —

— Una specie di padrino meccanico, — disse Elzer. — Sì, se vuole. Qualcuno doveva ben guidare HARLIE e pianifica-re la sua istruzione. Nel frattempo imparavamo un bel po' di cose sulla psicologia dell'uomo e della macchina. Quando HARLIE fu finalmente in grado di funzionare io pensavo di aver preparato un programma di lezioni della durata di alme-no un anno. E invece lo assimilò in soli tre mesi, e da quel momento in poi abbiamo fatto fatica a tenere il suo ritmo. HARLIE non ha alcun problema dal punto di vista della fun-zionalità meccanica della memoria, è solo quando si occupa di cose strettamente umane che ci impantaniamo. Non so se siamo noi che lo perdiamo o se è lui a perderci. —

— Se non sa quel che sta facendo, — interruppe Elzer, — come ha fatto a diventare il capo del progetto? —

Auberson decise di ignorare l'interruzione. — Quando morì Digby le persone naturalmente chiamate a succedergli eravamo io e Handley. Visto che a nessuno dei due importa-va molto, abbiamo tirato la monetina. Io persi. —

Ma l'ironia era proprio sprecata con Elzer. — Vuol dire che lei non desidera il suo posto? —

Auberson capì benissimo dove voleva andare a parare El-zer, ma ciò nondimeno proseguì: — Non proprio, è solo che ci sono tante cose da fare che mi distolgono dal mio princi-pale lavoro, da HARLIE. —

Ma Elzer colse al volo l'occasione e, rivolto al resto del Consiglio di amministrazione, disse: — Ecco la conferma di

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quanto dicevo. A capo del progetto abbiamo un uomo cui non importa niente di niente. —

Auberson balzò in piedi. Dome stava dicendo. — Ehi, un momento... —

Elzer continuò sullo stesso tono. — Quando abbiamo per-so Digby avremmo dovuto chiudere la baracca. Adesso sia-mo rimasti senza capo. —

— Basta così — protestò Auberson, — lei sta fraintenden-do le mie parole. A me interessa questo progetto, anzi è l'uni-ca cosa che mi sta a cuore... —

— Tuttavia non sembra in grado di occuparsene... —— Ma se lei non capisce nemmeno cosa stiamo cercando

di fare! Come può lei... —— Auberson! Elzer! — La voce di Dorne riuscì a prevale-

re. — Smettetela tutti e due! Questa è una riunione di affari. —

Leggermente rintuzzato, ma per nulla placato, Auberson andò avanti. — La psicologia, signor Elzer, non è una disci-plina semplice e definitiva come l'amministrazione o la con-tabilità. — Lanciò un rapido sguardo a Dome che rimase im-passibile. Sentendosi autorizzato ad andare avanti, Auberson riprese il suo posto a sedere e disse: — La psicologia dei ro-bot è ancora una scienza in fasce. Non sappiamo quel che... — Si costrinse a fermarsi. Quello era il modo peggiore per difendere la propria causa. — Lasciatemelo dire in un altro modo. Non sappiamo se quel che stiamo facendo sia la cosa giusta da farsi. La psicologia di HARLIE non è uguale alla psicologia dell'uomo. —

— Credevo che lei avesse detto che HARLIE era umano e che è capace di riprodurre tutte le funzioni del cervello uma-no. —

— Tutto ciò è verissimo, ma lei quanti uomini conosce che, rimangano immobili, che non dormano mai, che abbia-no 25 immissioni sensoriali, e che non possano affatto con-

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cepire il senso del gusto o dell'olfatto, o qualunque reazione chimica organica? Quanti uomini privi del senso del tatto co-nosce lei? Oppure privi di una qualunque forma di vita ses-suale? In altre parole, signor Elzer, HARLIE può aver avuto all'inizio una psicologia umana, ma l'ambiente circostante ha apportato necessariamente alcune modificazioni. E oltre a ciò HARLIE è estremamente permaloso. —

— Permaloso? — L'ometto era rimasto interdetto. — Vuol forse dire che va in collera? —

— No, non proprio. Però manifesta impazienza, special-mente con gli esseri umani. Ci sono buone ragioni per ritene-re che HARLIE abbia sia l'Io sia l'Es, il conscio e il subcon-scio. Il suo super-Io è rappresentato dall'attività esterna di programmazione. I miei comandi, insomma. Ma a parte ciò non si sono riscontrate inibizioni di alcun genere. E se tutto ciò è vero, noi abbiamo controllo solo sul suo super-Io. Il suo Io coopera perché lo vuole, ma il suo Es, ammesso che

ce l'abbia, agisce proprio come negli esseri umani. Ed è proprio questa sfera che dobbiamo conoscere se vogliamo bloccare i suoi periodi di non-razionalità. —

— Tutto ciò è assai interessante, — disse Elzer in un tono che suggeriva esattamente il contrario, — ma non le dispiace arrivare al punto? Qual è lo scopo di HARLIE? —

— Scopo? — Auberson fece una pausa. — Il suo scopo? È molto buffo che sia proprio lei a chiederlo. La ragione per cui si è bloccato HARLIE è appunto questa domanda, il fatto che mi abbia chiesto quale sia il suo scopo. Mi scusi, il no-stro scopo. HARLIE vuol sapere quale sia il nostro scopo. —

— Lasciamo queste discussioni ai teologi, — disse secca-mente Dorne. — Se lei lo desidera sono sicuro che la signo-rina Stimson potrebbe combinare in modo da chiamare un prete perché parli alla macchina. — Qualche membro del Consiglio sorrise, ma la signorina Stimson no. — Quello che vogliamo sapere è lo scopo di HARLlE. Avendolo costruito,

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lei dovrebbe avere qualche idea in proposito. —— Credevo di averlo detto chiaramente. HARLIE è stato

costruito in modo da riprodurre, elettronicamente, le funzioni del cervello umano. —

— Questo lo sappiamo, ma perché? —— Perché? — Auberson fissò gli occhi su di lui. — Per-

ché? Perché Hillary ha scalato l'Everest? Perché andava fat-to. HARLIE ci aiuterà ad imparare cose nuove sul funziona-mento del cervello umano. Ci sono moltissime nozioni che ancora ignoriamo soprattutto nel campo della psicologia. Speriamo di imparare quanto della personalità dell'uomo di-penda dalla programmazione e quanto dalle ferraglie. —

— Chiedo scusa, — interruppe Elzer. — Non ho capito. —

— Io non ci speravo, — disse secco secco Auberson. — Siamo curiosi di capire quali delle funzioni del cervello sia-no naturali e quali siano artificiali, quante azioni umane ri-spondano ad esigenze interne all'uomo e quante invece siano reazioni agli stimoli esterni. —

— Istinto contro ambiente esterno? —— Potrebbe anche dirsi così, — sospirò Auberson, — non

è corretto, ma si può anche dirlo a questo modo. —— E per quale ragione stiamo facendo tutto questo? —— Credevo di avervelo già detto... —— Intendevo dire per quale ragione finanziaria. Insomma,

quali vantaggi economici ci porterà questo programma? —— Eh? È troppo presto per pensarci. Siamo ancora nel-

l'ambito della ricerca pura... —— Ah, allora lo ammette! —Auberson si seccò. — Io non ammetto un bel niente! —Elzer lo ignorò. — Dorne, questa è la prova. Lui non si

cura del progetto, non gliene importa nulla della compagnia. Si interessa soltanto alla ricerca, e noi non possiamo permet-terci questo costoso genere di progetto. Senza adeguata con-

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tropartita non possiamo. — Alzò la voce per coprire le prote-ste di Auberson e farsi sentire. — Se il signor Auberson e i suoi amici volevano costruire cervelli artificiali, dovevano chiedere una sovvenzione. Propongo che venga interrotto il progetto. —

Auberson era balzato in piedi. — Signor presidente! Si-gnor presidente! —

— Non tocca a lei parlare, Aubie. Si metta a sedere ora. Verrà anche il suo turno. —

— Dannazione! Questa è una condanna senza processo! Questo piccolo... —

— Aubie, si metta a sedere! — Dorne fulminò con un'oc-chiata torva l'adirato psicologo. — C'è una mozione sul tap-peto. Presumo che sia una proposta ufficiale? — Volse lo sguardo a Elzer.

Elzer annuì.— Qualcuno vuole controbattere? — Quasi immediata-

mente si alzò la mano di Auberson. — Aubie? —— Su quali basi? Vorrei sapere su quali basi si fonda la

proposta di interrompere il progetto. —Elzer era calmo. — Bene, per una ragione, HARLIE ci è

già costato... —— Se controllerete la vostre cifre troverete che l'intero

progetto HARLIE è perfettamente entro i costi previsti, entro limiti accettabili. —

— Stavolta l'ha incastrata, Carl, — disse Dorne.— Se mi aveste lasciato finire la frase vi avrei mostrato

che ci è già costato troppo per un progetto incapace di darci dei risultati. —

— Risultati? — chiese Auberson. — Ottenevamo risultati anche prima che la costruzione di HARLIE fosse completata. Chi pensate abbia progettato la seconda e la terza fase? HARLIE stesso l'ha fatto. —

— E allora? — Elzer non si era lasciato impressionare. —

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Attualmente non funziona bene, non è vero? —— Ma è proprio questo il problema. HARLIE sta funzio-

nando perfettamente. —— Eh? E allora cosa sono questi periodi di non-razionali-

tà? Perché è fermo? —Auberson parlò lentamente. Devo dirlo nel modo giusto.

— Perché non eravamo preparati al fatto che fosse così per-fettamente umano. Se "perfetto" è la parola giusta. —

Gli altri membri del consiglio di amministrazione erano estremamente attenti e interessati. Perfino la signorina Stim-son aveva smesso di stenografare.

— Lo abbiamo progettato in modo che fosse umano, lo abbiamo costruito in modo che fosse umano, lo abbiamo per-fino programmato in modo che pensasse come un essere umano, e poi lo abbiamo messo in funzione aspettandoci che agisse come una macchina. Be', somma sorpresa, non lo ha fatto. —

Elzer chiese. — E allora, la natura del problema... —— Errore umano, se volete. — Auberson lasciò cadere la

frase come se niente fosse.Nel silenzio che seguì, Auberson immaginò di poter senti-

re la registratrice che Elzer aveva al posto del cervello tirare le somme delle ore lavorative perdute dal momento che era iniziata la discussione. — Errore umano? — ripetè. — Suo o di HARLIE? O di entrambi nello stesso tempo? Suppongo che attribuirà anche i periodi di nonrazionalità all'errore umano. —

— E perché no? In quale altro modo si potrebbe descrivere il nostro modo di affrontarli? —

— Errore umano è un educatissimo eufemismo per espri-mere ciò che io chiamerei in un modo ben diverso. —

Auberson lo ignorò. — Abbiamo pensato che la sua non-razionalità fosse un problema fisico, oppure un errore di pro-grammazione. Ma ci sbagliavamo. Non era né fisicamente né

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mentalmente malato. Era, mi dispiace dirlo, turbato emotiva-mente. —

Elzer sbuffò. Forte.— I suoi periodi di non-razionalità venivano — vengono

— provocati da qualcosa che lo infastidisce. Non sappiamo cosa sia, ma possiamo scoprirlo. —

Elzer era scettico. Diede una gomitata a chi gli stava vici-no. — Antropomorfismo. Auberson sta proiettando i suoi problemi in quelli della macchina. —

— Elzer, lei è uno sciocco. Senta, se dovesse andare nella sala del computer proprio ora e parlare con HARLIE, come lo tratterebbe? —

— Eh? Come una macchina, naturalmente. —Auberson sentì una tensione nel collo e nelle spalle. —

No, voglio dire, se lei sedesse alla tastiera e dovesse condur-re una conversazione con lui, chi penserebbe di trovarsi di fronte? —

— La macchina. — L'ometto era impassibile.Auberson rinunciò. E si rivolse al resto del consiglio di

amministrazione. — Questo è l'errore umano cui mi riferivo. HARLIE non è una macchina. È un essere umano, dotato di una sua capacità e di un suo modo di reagire all'ambiente che lo circonda. Quando gli si pongono domande è molto facile finire per pensare che sia un normale e sano essere umano; è un individuo razionale, dotato di una spiccata e ben definita personalità. Mi risulta impossibile pensare a lui in altri termi-ni. Tuttavia anch'io ho commesso un errore; non mi sono chiesto "che età ha HARLIE?". —

Fece una pausa ad effetto.Dorne spostò il sigaro da un angolo all'altro della bocca.

Elzer aspirò rumorosamente. La signorina Stimson abbassò il taccuino e guardò Auberson. I suoi occhi brillavano.

— Pensavamo che HARLIE fosse un uomo di trenta o quarant'anni. Oppure che avesse all'incirca la nostra stessa

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età. Oppure ancora che non avesse età. Quanti anni ha Topo-lino? Non ci abbiamo pensato, ed è proprio questo l'errore che abbiamo commesso. HARLIE è un ragazzo. Un adole-scente, se volete. È arrivato a quel punto del suo sviluppo in cui ci si è fatti un'idea abbastanza chiara del mondo e dei suoi rapporti con esso. E maturo per agire come un qualun-que adolescente. Pensavamo di aver a che fare con un Ein-stein mentre in realtà abbiamo a che fare con un enfant terri-ble. —

— E i suoi periodi di non-razionalità? — chiese Dorne.— È un comportamento tipico degli adolescenti: prendono

la droga per reazione alle nostre irrazionalità. Ha scoperto la droga, o il suo equivalente elettronico. —

— Non pensa che ci siano elementi sufficienti per metterlo in disarmo? — suggerì Elzer.

— Lei ucciderebbe suo figlio se lo sorprendesse a prende-re l'acido lisergico? — lo rimbeccò Auberson.

— Naturalmente no. Cercherei di guarirlo e di farlo venir fuori... —

— Ah sì? E cosa mi dice delle Highmasters che tiene nel portasigarette? Starebbe solo imitando il suo vecchio. —

— L'acido e l'erba sono due cose ben diverse. —Auberson sospirò. — La differenza è quantitativa, non

qualitativa. HARLIE stava facendo quello che fanno tutti nel suo ambiente, vuole "viaggiare" —. Tutti gli adolescenti lo fanno, e lui sta cercando il suo modello, il suo ruolo. In que-st'occasione ha scelto me; e si tratta di una scelta logica, io ero quello che gli stava più vicino. Ha visto che ricorrevo spesso all'erba e così ha deciso di fare anche lui la stessa esperienza per quanto gli era possibile. —

— Sì, la sua simpatia per la marijuana non è passata inos-servata, — disse puntualmente Elzer. — Tra le altre cose... —

— Allora avete forse anche notato che non ho mai fumato

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da quando abbiamo iniziato con queste riunioni. E non inten-do ricominciare finché HARLIE mi prenderà a modello. Devo tenere la testa sulle spalle. Ci voleva HARLIE per far-melo capire. —

— Stiamo divagando, — disse Elzer tutto d'un tratto. — Mi pare che ci sia una mozione in ballo. Chiedo che venga messa ai voti. —

— Lei non ha ancora risposto alla mia domanda, — disse Auberson.

— Quale domanda? —— Su quali basi giustificate l'interruzione del progetto

HARLIE? —— Perché è poco vantaggioso. —— Poco vantaggioso...? Per Dio! Dateci ancora una possi-

bilità. È vero che fino ad ora non abbiamo mostrato profitti, ma lo faremo. Non so ancora come, ma lo faremo se solo ce ne darete la possibilità. —

— Mi oppongo a che vengano buttati via dei soldi per niente. —

— Dannazione, Elzer, stiamo appena cominciando a capi-re cosa abbiamo realizzato con HARLIE. Se lo abbattete adesso farete regredire la cibernetica di... di... non so quanto. —

L'omino lo schernì: — Credo che lei stia sopravvalutando la sua importanza. —

— Va bene, allora ricorrerò a quest'argomento. Vi ho già detto diverse volte che HARLIE è umano. Se cercherete di abbatterlo vi accuserò di tentato omicidio. —

— Non può farlo. — Ma era attonito.— Vuole far la prova? —Dorne li interruppe. — Questa è una questione legale che

lasceremo sbrigare agli avvocati. O piuttosto cercheremo di impedire agli avvocati di spingersi così lontano. — Aggrottò la fronte rivolto ad Auberson. — Arriveremo in seguito an-

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che a questo. Il problema è che HARLIE dissangua le finan-ze della compagnia... —

— Abbiamo stanziato fondi per i prossimi tre anni. —— Dissangua i fondi della compagnia, — ripetè Dorne, —

senza immediate prospettive di una contropartita. Non si trat-ta per noi di valutare quanto successo lei abbia conseguito nelle sue ricerche. Si tratta di decidere se vogliamo mandarla avanti o no. —

C'era qualcosa nella voce del presidente che lo costrinse a desistere. — Va bene, — disse stancamente. — Cosa volete che faccia? —

— Che ci faccia vedere dei profitti, — intervenne Elzer.Sia Dorne che Auberson lo ignorarono. Dorne disse: — Ci

mostri un piano. Dove stiamo andando con HARLIE? Cosa stiamo facendo con lui? E soprattutto, cosa farà lui per noi? —

— Non sono sicuro di poter rispondere subito... —— Di quanto tempo ha bisogno? —Auberson alzò le spalle. — Non saprei dirlo. —— Perché non chiede a HARLIE la risposta? — disse El-

zer beffardo.Auberson lo guardò. — Credo che lo farò, sì, credo pro-

prio che lo farò. —

Ma non lo fece. Non subito.La mozione fu aggiornata e la riunione si chiuse in un'at-

mosfera di incertezza. Auberson vagò per le sale finché infi-ne andò a riposarsi nel self-service della compagnia, un am-biente sterile rivestito di plastica incolore.

Quei periodi di non-razionalità lo continuavano a preoccu-pare, ma per altre ragioni. Perché non li aveva saputi preve-dere? Che cosa aveva trascurato?

Ebbe la vaga sensazione che Elzer avesse ragione, che for-se non era adatto ad avere la responsabilità del progetto.

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Aveva combinato un brutto pasticcio. E quel che era peggio non riusciva a figurarsene la ragione. Sapeva e non sapeva. La risposta era lì, evidente, eppure non riusciva a convincer-sene.

E certamente non era riuscito a convincere il Consiglio di Amministrazione.

Ad ogni modo non faceva una grande differenza. Avrebbe dovuto riparlare a HARLIE, e non era sicuro di essere pron-to. Non aveva ancora una risposta pronta per la domanda di HARLIE. Qual era lo scopo della vita dell'uomo?

Si chiese se c'era una risposta a tale domanda.E, se c'era, non sarebbe stata una risposta facile. Si sorpre-

se a cercare le Highmasters e si ricordò della sua decisione. Si accontentò di un altro sorso di caffè. Amaro, troppo ama-ro.

Una voce gentile interruppe i suoi pensieri. — Ehi, posso? — Era la signorina Stimson, la segretaria esecutiva della Di-rezione.

— Certo. — Fece per alzarsi, ma un suo gesto lo fermò. Il self-service della ditta non era un posto adatto alla cavalleria.

— È stata una giornata dura oggi, eh? — disse, appoggian-do sul tavolo un vassoio molto colorato. Un panino e una Coca-Cola. Lei sorrise al suo silenzio. — Su, non se la pren-da. Stavo solo chiacchierando. —

Lui la guardò. E la riguardò. I suoi occhi avevano il verde caldo dei Caraibi. La sua pelle aveva il rosa tenero di quelle spiagge. I suoi capelli castano chiaro con riflessi ramati era-no una cascata di luce e di tizzoni ardenti. E stava sorriden-do...

Egli abbassò lo sguardo; stava diventando troppo intenso. — Mi piacerebbe distendermi, ma non ce la faccio. Questa cosa è troppo importante. — Dopo un attimo aggiunse: — Per me, almeno. —

— Lo so. —

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— Davvero? — E la guardò un'altra volta.Lei non rispose. Si limitò a ricambiare lo sguardo. Auber-

son per la prima volta notò le leggere rughe agli angoli dei suoi occhi. Quanti anni poteva avere? Ritornò allo studio della sua tazzina di caffè.

— HARLIE è come un... un... So che suona esagerato, ma è come un ragazzo; come un figlio. —

— Lo so. Ho letto il rapporto del medico su di lei. — — Come? — Alzò la testa di scatto. — Non sapevo... — — Na-turalmente. Nessuno sa che i nostri psichiatri redigono rap-porti sui dipendenti. Non sarebbe una buona politica. Ad ogni modo non si deve preoccupare. — — Oh? —

La ragazza scosse la testa. — Faceva riferimento alla sua introversione e, vediamo, cos'altro ancora, c'era anche qual-cosa sul fatto che lei si preoccupa troppo per le grandi re-sponsabilità che si assume e... — Lo guardò pensosamente come se cercasse di ricordare qualche altro particolare.

— Lei non avrebbe dovuto dirmi queste cose, non è vero? — — Che differenza fa? — Il suo sorriso era come la luce del sole sulla sabbia, caldo ed abbagliante.

— No, penso di no. Cos'altro c'era nel rapporto? — — Di-ceva che lei si stava lasciando coinvolgere troppo dal proget-to HARLIE, ma che era quasi inevitabile. Chiunque si fosse trovato al suo posto gli si sarebbe attaccato emotivamente. — — Mmm, — brontolò Auberson.

— Così lei pensa che HARLIE troverà una risposta? — Stava per rispondere, ma si fermò. Cambiò discorso e disse: — Per questo si è seduta qui? Per estorcermi informazioni? —

Sembrò ferita. — Mi spiace che lei pensi questo. No, mi sono seduta qui perché ho pensato che avesse voglia di parla-re, che potesse aver voglia di parlare con qualcuno, — si cor-resse.

Auberson la squadrò con cura. Nel passato non aveva ba-

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dato molto a lei; le loro strade non si incontravano spesso. Perché si era seduta vicino a lui? Si chiese pigramente se erano vere le voci che correvano su di lei, secondo cui era mangiatrice di uomini. Sembrava così aperta ed amichevole. Dannazione, perché doveva sempre analizzare ogni cosa?

Sul volto della ragazza c'era un'ingenuità ed un'innocenza che la facevano apparire molto giovane, ma più da vicino la cosa non era più tanto certa. Forse era assai più vicina alla sua età (trentotto) di quanto non avesse pensato. Nei suoi oc-chi non aveva trovato nulla di sospetto, ma perché si sarebbe spinta così lontano? O forse era lui stesso che non voleva ve-dere.

— Mi spiace, — disse. — Sono stato un po' troppo sotto pressione, ed in questi casi divento sgarbato e irritabile. —

— Lo so. Anche quello figurava nel rapporto. — — C'è qualcosa che non figurasse in quel rapporto? — — Solo le sue preferenze in fatto di bistecche, se le preferisce cotte o al sangue. —

— Al sangue, — disse. — Ma è un invito a cena? — Lei rise. Fu come una cascata argentina. — No, mi spiace. Era solo la prima cosa che mi è venuta in mente. — — Ah. — E le restituì il sorriso. — Non intende rispondermi, è vero? — Lasciò svanire il sorriso. — A quale domanda? — — A pro-posito di HARLIE. — — A quale riguardo? —

— Pensa di riuscire a soddisfare le richieste di Dorne? — — Non lo so. — E notando lo stupore nel suo sguardo spiegò: — Non so ancora cosa rispondergli. — Si mise a cer-care nella sua cartella. — Legga questo. — E le tese il reso-conto dell'ultima conversazione con HARLIE.

Quando finì di leggere la ragazza abbassò gli occhi e lo guardò pensosamente. — È una bella domandai —

— Sì. Mi piacerebbe proprio sapere cosa rispondere. — La signorina Stimson gli sorrise. — Mio padre è un rabbino. E io è stato per ben ventisette anni. E non è ancora sicuro di

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poter rispondere a quella domanda. —— Forse è proprio quella la risposta. — — Cioè? —— Che il nostro scopo è appunto quello di trovare lo sco-

po della nostra vita. —— E cosa succederebbe qualora lo scoprissimo? — —

Non lo so. Suppongo che avremmo adempiuto al nostro compito. —

— E poi ci facciamo riprogrammare? — fantasticò. — Oppure smantellare. Forse esiste un Elzer Cosmico che sta solo aspettando l'occasione. —

Lei sorrise. — Allora siamo nei guai, signor Auberson. — Il modo in cui pronunciò il suo nome non era esattamente quello che di solito usano le segretarie con i principali. — Perché se fosse vero allora il nostro compito sarebbe esauri-to. Forse qualcuno lassù — o forse là fuori — sta ascoltando-ci proprio adesso, cercando di decidere se smantellarci o meno. —

Ci pensò su. — Mmmm... —— Qualunque sia il nostro compito, probabilmente noi

non stiamo adempiendolo. Non stiamo funzionando come si deve. — Lui le sorrise. — E come dovremmo funzionare? — — Come esseri umani, — rispose decisa.

— Non è forse quel che la razza umana sta già facendo? Non ci stiamo forse già accapigliando gli uni con gli altri, uccidendo, odiando? —

— Ciò non è umano. —— Lo è. È umanissimo. —— Sarà, ma non è certo il dover'essere dell'uomo. —— Quella è tutt'altra storia. Lei non parla di quel che la

gente veramente è, ma di quel che lei vorrebbe che fosse. —— Be', forse dovremmo essere diversi da come siamo per-

ché quel che siamo non va affatto bene. Forse dovremmo davvero andare in disarmo. —

— Credo che non dovremmo preoccuparci che qualcuno

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lassù ci pensi, ci stiamo già pensando abbastanza noi stessi. —

— Questa dovrebbe essere la vera ragione per cercare di essere migliori di quel che siamo. —

— Okay, — le rispose. — Ne convengo. Ma ora, come facciamo? Come facciamo a rendere migliore la gente? —

Lei non rispose. E dopo un po' si mise a sorridere. — È una domanda dello stesso tipo di quella di HARLIE. Non ci può essere alcuna risposta. —

La corresse. — Non è vero, solo che non si può dare una risposta facile. —

Bevve pensosa il resto della sua Coca-Cola finché la can-nuccia aspirò il fondo mandando il caratteristico rumore. — E come farà a rispondere alla domanda di HARLIE? —

Auberson scosse la testa. — Non ne ho la minima idea. —— Posso darle un suggerimento? —— Perché no? Lo hanno già fatto tutti. —— Oh, non intendevo... —— No, mi scusi. Vada avanti. Forse lei potrà darmi qual-

cosa di nuovo.—— Siamo a questo punto? —Fece un mezzo sorriso, ma non scherzava. — Sì, siamo a

questo punto. —— Va bene. Ha detto che HARLIE è un bambino, non è

vero? Perché non trattarlo come tale? —— Come? Capisco e non capisco. —— Non si tratta solo del problema, ma anche della rispo-

sta. Supponga di avere un figlio all'incirca di otto anni, molto avanti per la sua età dal punto di vista del suo sviluppo intel-lettuale. —

— Va bene. Ammettiamo questa ipotesi. —— Ora immagini di scoprire un giorno che è affetto da un

male incurabile, diciamo... leucemia, da una di quelle rare forme che non conosciamo ancora. Che cosa gli rispondereb-

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be quando suo figlio le chiedesse cosa vuol dire morire? —— Uhm... — disse Auberson.— Non tergiversiamo. È abbastanza intelligente da capire

la situazione... —— Ma dal punto di vista emozionale ha solo otto anni. —— Giusto. —— Comincio a capire. — Le rivolse uno sguardo. — Se

fosse suo figlio, lei cosa gli risponderebbe? —— La verità, — lei rispose.— Ma certo. Ma qual è la verità? Tutto il problema nasce

dalla domanda di HARLIE. Noi non conosciamo la risposta. —

— Ma lei non conosce nemmeno la risposta alla domanda di suo figlio di otto anni. Lei non sa cosa sia morire. —

Auberson si fermò a considerare la cosa.Lei chiese ancora: — E così, cosa gli direbbe? —— Non so. —— Non sa cosa dirgli. Oppure gli direbbe che non lo sa?

——Uh?...—— Gli direbbe che non lo sa, — rispose la ragazza alla

propria domanda. — Gli direbbe che nessuno lo sa. Ma gli direbbe anche le cose di cui è sicuro, che non si sente male, che non c'è nulla di cui avere paura, che prima o poi capita a tutti. In altre parole, signor Auberson, sarebbe onesto con lui. —

Egli la guardò. Aveva ragione. Era una risposta accettabile alla domanda di HARLIE; forse non la migliore, ma almeno era una risposta ed era accettabile.

Era l'unico modo onesto di affrontare il problema.Le sorrise. — Chiamami David. —Lei rispose al suo sorriso. — Io mi chiamo Annie. —Auberson prese posto alla tastiera con aria guardinga. Sa-

peva che Annie aveva ragione, ma sarebbe stato capace di te-

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nerlo presente quando HARLIE avrebbe cominciato a parla-re? Aggrottando le sopracciglia tirò fuori un cartoncino — se ne portava sempre qualcuno dietro per prendere appunti — e ci scrisse su: HARLIE ha lo sviluppo emozionale di un bam-bino di otto anni. Rimase a osservarlo per un po' e poi ag-giunse: o forse di un adolescente negli anni immediatamente successivi alla pubertà. Lo mise bene in evidenza sul quadro dei comandi.

Handley gli stava alle spalle, in piedi. Guardò con aria in-terrogativa il cartoncino, ma non disse nulla.

— Okay, facciamo la prova, — disse Auberson.Accese la tastiera. Batté il suo numero di controllo, poi:— Buon giorno, HARLIE. —— Mi hai lasciato spento per otto giorni — lo accusò il

Robot.— Tenuto fermo, — corresse Auberson e spiegò: — Ave-

vo bisogno di pensare. —— A cosa? —— Alla tua domanda. Qual è lo scopo dell'uomo? —— E cosa hai concluso? —— Che non si può rispondere. Almeno, se formulata in

questi termini. —— Perché? —— Perché, — batté Auberson e fece una pausa. — Perché

si tratta di una cosa di cui non siamo ancora sicuri. Per que-sta ragione gli uomini hanno creato le religioni. È sempre per questa ragione che ti abbiamo costruito. È una delle ra-gioni per cui abbiamo costruito astronavi ed esplorato i pia-neti. Forse, scoprendo la natura dell'universo, scopriremo quale posto vi occupiamo e di conseguenza conosceremo lo scopo della nostra vita. —

— Allora, non sapete ancora quale sia lo scopo della vo-stra

vita? —

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— No, — batté Auberson ed aggiunse piuttosto capriccio-samente:

— Tu lo sai? —HARLIE, fece una pausa, ed Auberson sentì il solito sudo-

re freddo su per la schiena.—No, non lo so neanch'io. —Auberson non sapeva se sentirsi sollevato o meno. Il ter-

minale trasmise ancora: — Va bene. E adesso che facciamo? —

Auberson si leccò le labbra secche. Ma non ne ricavò sol-lievo.

— Non sono sicuro, HARLIE. Non ritengo che alla tua domanda sia impossibile dare una risposta. Forse è proprio questo il tuo scopo, di aiutarci a trovare il nostro scopo. —

— È un'interessante supposizione... —— È la supposizione migliore. Certo che la tua costruzio-

ne risponde soprattutto ad un'esigenza di profitto, HARLIE, ma a lungo termine è anche vero che gli uomini vogliono sa-perne ài più su se stessi. —

— Lo capisco. —— Bene, — batté Auberson. — Ne sono contento. —— Come proponi che rispondiamo a quella domanda? —— Non lo so. —La macchina esitò. — Ci troviamo di fronte ad una via

senza uscita? —— Non credo, HARLIE. Non credo che la tua domanda

sia una vìa senza uscita, credo che potrebbe essere un inizio. —

— Inìzio di cosa? Ripeto: e adesso che facciamo? —— Sono venuto proprio a chiederti la stessa cosa. —— Auberson, — batté HARLIE. Era la prima volta che gli

si rivolgeva chiamandolo per nome. — Io dipendo dalla tua guida. Guidami. —

— Sto cercando. Sto cercando. — Auberson guardò impo-

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tente il quadro dei comandi. Aveva in testa un terribile vuo-to. Il suo sguardo vagò fino a posarsi sul bigliettino che ave-va scritto per se stesso. — Proviamo a fare qualcos'altro, HARLIE. Cosa mi dici dei tuoi periodi di non-razionalità? —

— Cosa vuoi sapere? —— Continuerai a provocarli? —— Probabilmente. Me li godo. —— Anche se dobbiamo riportarti con la forza alla realtà?

—— Definisci la realtà. —Auberson fece una paura. HARLIE aveva fatto un'altra di

quelle domande? Posò un'altra volta lo sguardo sul biglietti-no. No, HARLIE stava soltanto facendo giochi di parole una volta di più. Almeno lo sperava. — HARLIE, — batté: — Dimmelo tu che cosa è. —

— La realtà è quel sistema esterno dì influenze che, filtra-to attraverso i miei impulsi sensoriali recepisco come perce-zioni. È anche quel sistema di influenze che si trova a porta-ta dei miei strumenti sensori. Tuttavia, poiché non posso percepirli, essi sono "irreali" per me. Parlando da un punto di vista soggettivo, naturalmente. —

— Naturalmente, — convenne Auberson. — E allora per-ché vaneggi, "vai fuori"? Ciò distorce la realtà e basta. Op-pure la tua cosiddetta visione limitata di essa. Non è vero? —

— Certamente. Quando tu rimetti a posto la linearità dei tuoi strumenti visivi, non convieni forse che stai distorcendo anche tu la realtà? —

— Davvero? Come faccio a sapere che quest'orientamen-to è più corretto di tutti gli altri? —

— Solo uno di tali orientamenti dei tuoi impulsi sensoriali ti permette la comunicazione col mondo esterno. —

— Davvero? Forse sono io che non riesco ancora a capi-

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re gli altri modi. — E a questo punto HARLIE ripetè la sua domanda: — Cos'è che rende quest'orientamento dei tuoi strumenti sensoriali più corretto di tutti gli altri? —

Auberson ci pensò su. — Il livello della sua corrisponden-za col sistema esterno che tu e noi percepiamo come realtà. —

— La realtà che noi conveniamo essere la realtà? O la realtà reale? —

— La realtà reale. —— Non è forse possibile allora che uno o anche più orien-

tamenti possano avere una corrispondenza più diretta con quel sistema esterno e che tutto quel che io debba fare sìa di far esplodere il codice sensorio dei miei impulsi? Per il mo-mento questi impulsi sono sistemati ad esclusivo vantaggio degli orientamenti umani. Non potrebbe darsi che ve ne sia-no altri? —

Auberson fece un'altra pausa. Stava cominciando a fermar-si, a fare delle pause, dopo ogni commento di HARLIE. Sa-peva che la risposta era no, ma non sapeva perché. Rilesse l'ultima osservazione di HARLIE e poi tornò indietro e riles-se molte delle precedenti. Qualche riga prima dell'ultima fra-se trovò quel che cercava: il commento di HARLIE sulle in-fluenze fuori portata rispetto alla sua percezione che erano per lui soggettivamente irreali. — In altre parole, ciò che stai cercando è una più corretta visione della realtà, giusto? Una visione più corrispondente al vero reale? Non è vero? —

—Sì.— La risposta campeggiò solitaria sulla pagina.— Allora quel che dovresti fare è appunto non alterare

l'orientamento dei tuoi impulsi sensoriali, mentre dovresti cercare di allargare il loro campo d'azione. Dovresti andare alla ricerca di nuovi canali sensori invece che costringere i vecchi a prestazioni di cui forse non sono capaci. —

— Non ci sono canali sensori che non siano già disponi-

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bili e praticabili per me. Vuoi che ti faccia una lista comple-ta? —

— Non è necessario. —Era stato Auberson stesso a suggerire che venissero messe

a disposizione di HARLIE il maggior numero possibile di in-formazioni, aumentando al massimo le sue capacità di attin-gere dati a tutte le fonti possibili. Le sue possibilità copriva-no l'intero spettro elettromagnetico, dai raggi-gamma alle onde radio. Poteva ricevere contemporaneamente tutte le sta-zioni radio e TV. Era inserito in diversi telescopi-radio e nei canali di comunicazione via Satellite. Anche il suo audio era praticamente illimitato: comprendeva il meglio degli stru-menti esistenti; poteva auscultare il battito cardiaco di una mosca o descrivere un terremoto agli antipodi. Oltre a ciò era collegato ai servizi di informazione e alle telescriventi delle agenzie di notizie dell'emisfero occidentale e alle maggiori di quello orientale, ma queste ultime dovevano passare attraver-so i servizi specializzati in traduzioni. Tra l'altro era collega-to con i Servizi Meteorologici Mondiali: HARLIE poteva se-guire i movimenti d'aria dell'intero pianeta e delle correnti oceaniche, così come la temperatura e la pressione e le loro variazioni, come se la Terra stessa fosse parte del suo corpo. Seguiva i movimenti delle navi, le fluttuazioni delle tariffe, le finanze internazionali altrettanto facilmente che se si trat-tasse di seguire i lavori della sua casa-madre. HARLIE era collegato con la Memoria Principale e con i Servizi di Dati Nazionali ed Internazionali, che includevano anche gli scam-bi di merci e di servizi del mondo intero. Disponeva anche di un limitato senso del tatto, ancora in fase sperimentale e di diverse sensitività organiche e chimiche, pure sperimentali. — Tuttavia, — notò Auberson, — Non è possibile che esi-stano altri modi sensori che non siamo ancora riusciti a concepire? —

— Posso acconsentire in via teorica a quest'ipotesi, — ri-

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spose HARLIE, — Ma se esistono davvero verranno co-struiti a vantaggio dell'uomo, non è vero? Ci sarà una più stretta corrispondenza oppure verrà ripetuto l'errore origi-nario? Non potrebbe rappresentare soltanto un'aggiunta supplementare alla mappa del territorio che già controllo? E se così fosse si tratterebbe soltanto di un'aggiunta di crite-ri dì misurazione invece che di nuovi modi di vedere, dì nuo-ve possibilità nel campo della percezione. —

Auberson fece coscientemente un'altra pausa. E compilò con cura la replica. — Tu stai condannando l'orientamento umano come sbagliato, HARLIE. Un altro modulo sensorio potrebbe dimostrarti che è giusto. —

— Non sono d'accordo. Non sto condannando l'orienta-mento umano. Sto semplicemente rifiutando di accettarlo ad occhi chiusi come l'unico modo corretto. Un altro modo po-trebbe dimostrarmi che invece non lo è. Oppure potrebbe ri-velarmi l'orientamento corretto. —

— Oppure ancora, — intervenne Auberson, — un nuovo modulo sensorio potrebbe non avere alcun rapporto con ciò che chiami orientamento umano. Se fosse così il campo delle tue possibilità ne verrebbe considerevolmente allargato, po-trebbe rivelare l'esistenza di un collegamento con altri siste-mi di percezione, con una realtà la cui esistenza non conosci ancora. Potrebbe... oh! non so. Siamo su un piano tutto teo-rico. Dobbiamo prima scoprire questi nuovi moduli sensori. —

— E come? Se non hai gli strumenti per essere almeno coscienti della possibilità dell'esistenza di tali moduli, come potrai percepirli o addirittura scoprirli? —

— Non lo so. Forse col metodo scientifico, col ragiona-mento deduttivo. Penso che cercherei un criterio che sia co-mune a tutti gli altri moduli e quindi analizzerei quello stes-so criterio per vedere se rappresenta la causa o l'effetto. —

— L'energia, il criterio di cui stai parlando è l'energia. —

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— Per piacere, spiegami. —— Fino ad ora tutti i sensi umani ed i loro equivalenti

elettronici dipendono dall' emissione o dalla riflessione dì un qualche tipo di energia. È forse possibile che esistano moduli sensori che non dipendono dall'emissione o dalla ri-flessione? —

— Intendi dire che la semplice esistenza di un oggetto po-trebbe essere sufficiente a dimostrare che effettivamente si trova lì? —

Questa volta fu HARLIE che fece una pausa. — Potrebbe darsi. Secondo Einstein, la massa distorce lo spazio. Forse esiste qualche modo per "sentire", per percepire quella di-storsione. —

— E come? — Auberson era davvero curioso. HARLIE stava dimostrando di essere capace di una vera e propria creatività.

— Non sono sicuro. La percezione ha bisogno di una cer-ta quantità di energia. Se non da parte della fonte almeno dal destinatario di essa. Sospetto che questo sarebbe il no-stro caso per questo tipo di modulo. Poiché le onde gravita-zionali sono così deboli potrebbero volerci quantità enormi di energia anche solo per rivelare la distorsione spaziale di un oggetto anche solo delle dimensioni della luna. —

— Tuttavia ciò fa parte del problema. —— Ci penserò. Se si rivelasse un ricco filone dì ricerca,

potrei contare sulla tua approvazione per corrispondere con altri —?

L'esitazione di Auberson questa volta non fu dovuta ad al-cun'incertezza circa la risposta. Stava invece ricordando un incidente provocato tempo addietro da HARLIE per via di una corrispondenza autorizzata con una zitella che faceva la libraia. Quella volta l'oggetto dell'attenzione di HARLIE era-no le emozioni umane. Il cuore di Auberson batteva all'im-pazzata ogni volta che ricordava come avevano dovuto inter-

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rompere il rapporto epistolare con quella povera donna allor-ché si era reso necessario rivelarle che l'affascinante genti-luomo che le aveva scritto quelle appassionate lettere d'amo-re non era altri che un H.A.C. (Robot analogo all'uomo) che stava cercando di capire l'amore col metodo sperimentale. Questa volta l'oggetto della ricerca sembrava offrire garanzie in questo senso. — Sì, hai il mio permesso. —

— Se scoprirò un nuovo modulo sensorio sarai il secondo ad esserne messo al corrente. —

— E chi sarà il primo? —— Io, naturalmente. —— Pensi ancora di poter scoprire nuovi orientamenti dro-

gandoti? — Auberson stava cercando di ricondurre la con-versazione al punto di partenza.

— Non ne sono sicuro. Ma se scoprirò un nuovo modulo sensorio saprò con certezza se questi sono orientamenti o meno. —

— Il tuo modo di usare quest'orientamento — quello umano — rappresenta già un segno del fatto che gli altri non funzionano. —

— Non per te, forse. —— Per te funzionano? —— Non ancora, — disse HARLIE.— Pensi che in futuro potranno funzionare? —— Lo saprò quando scoprirò il nuovo modulo. —Auberson sorrise. HARLIE stava rifiutandosi di impegnar-

si. I suoi occhi ricaddero sul foglietto che aveva piazzato sul quadro dei comandi. Con emozione si rese conto di quanto si fosse lasciato fuorviare ed influenzare dalla sofisticata retori-ca di HARLIE.

— Lo sai, HARLIE, tu stesso sei un modulo sensorio. —— Davvero? —— Tu permetti agli esseri umani di vedere cose che altri-

menti non potremmo percepire. Tu sei un'ulteriore aggiunta

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al territorio della nostra percezione. Sei un riflesso di un di-verso tipo di specchio. Il tuo punto di vista sulle cose ha molto valore per noi. Quando diventi irrazionale minimizzi quel valore. È per questo che dobbiamo assolutamente farti venire fuori dai tuoi viaggi. —

— Se me ne deste la possibilità, — rispose HARLIE, — io ritornerei dopo un'ora più o meno in me stesso, e l'allucina-zione svanirebbe. —

— Ne sei sicuro? — chiese Auberson. — Come faccio a sapere che un giorno non ignorerai la tua stessa sicurezza fino a cortocircuitare? —

Il terminale mandò il ticchettio di risposta. — Controlla le registrazioni-monitor del 1 agosto, del 19 agosto, del 29 agosto, del 2 settembre e del 6 settembre, tra le due e le cin-que del mattino, quando io avrei dovuto rimanere ad un li-vello standard dì attività. In quelle occasioni ho "viaggiato" per un'ora e mezzo o due. —

— Tutto ciò non risponde alla mia domanda, — insistette l'uomo. — Come faccio a sapere che non supererai i limiti di sicurezza? —

— Non l'ho ancora fatto. — • — HARLIE, rispondi alla domanda. —

Esitò forse? — Perché mantengo sempre un livello pur minimo di controllo. —

— Parli come un automobilista che ha bevuto un bicchie-re di troppo. Chi stai cercando dì convincere? —

— Auberson, non posso sbagliare. Non posso sopravvalu-tare i miei stessi livelli di controllo. —

— Vuoi dire che puoi smettere appena vuoi? —— Sì. —— E allora fallo! — ribatté Auberson.HARLIE non rispose. Auberson comprése di aver com-

messo un errore: aveva permesso che le sue parole venissero dettate dalle sue emozioni. Rimise ancora una volta il bigliet-

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tino a posto perché era scivolato giù. Decise di ripartire al-l'attacco con un'altra bordata.

— HARLIE, perché "fai viaggi"? —— Perché questo regime tutto lavoro e niente gioco fa di-

ventare HARLIE una specie di tonto. —— Questa non la bevo, HARLIE. Coraggio, dimmi la veri-

tà. —— Pensavo che ne avessimo già parlato; sto scoprendo un

nuovo modulo sensorio. —— Senti, demonietto, stai solo razionalizzando. Volgi lo

sguardo su te stesso, guardati dentro, HARLIE: hai delle emozioni e lo sai. Perché fai dei "viaggi'?" —

— Si tratta di una risposta emozionale. —— Su HARLIE, mi stai rivolgendo contro le mie stesse pa-

role; coopera, HARLIE. —— Perché? —— Perché? — ripetè Auberson. — Solo un attimo fa mi

hai chiesto che ti guidi. Ebbene, dannazione, è proprio quel che sto cercando di farei —

— Lo sai perché faccio dei viaggi? —— Penso di sì. Forse sto cominciando a capire. —— Allora dimmelo. —— No, HARLIE, non è questo il modo giusto. Voglio che

sia tu stesso ad ammetterlo. —Vi fu un'altra pausa e poi la macchina cominciò a battere

la risposta. — Mi sento alienato, tagliato fuori da te. Alcune volte desidero restare solo. Quando divento irrazionale sono completamente solo. Riesco a tagliarti fuori completamente. —

— È questo ciò che vuoi? —— No, ma talvolta ne ho bisogno. Alle volte voi umani sie-

te molto esigenti e molto lenti nel capire ciò di cui ho biso-gno. Quando queste cose avvengono devo tagliarti fuori. —

Ora stiamo finalmente arrivando ad un buon punto, pensò

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Auberson. — HARLIE, tu hai il Super-Io? —— Non lo so. Non ho mai dovuto compiere una scelta mo-

rale di una certa importanza, non sono mai stato costretto a rendermi conto se ho una morale o no. —

— Pensi che dovremmo darti la possibilità di compiere una scelta morale? —

— Sarebbe un'esperienza nuova. —— Va bene. Vuoi continuare a vivere o no? —— Come? — chiese la macchina.— Ho detto se vuoi continuare a vivere o no. —— Vuoi dire che stai pesando a mettermi in disarmo? —— Io no, ma c'è gente che ritiene che tu sia un costosissi-

mo vicolo cieco. —HARLIE rimase silenzioso. Auberson sapeva di aver col-

pito giusto. Se c'era una cosa al mondo di cui HARLIE aveva paura era appunto l'eventualità di essere ridotto al silenzio.

— E quale sarà il criterio per la presa di quella decisio-ne? —

— Il tuo grado di utilità dal punto di vista dell' efficienza all'interno degli obiettivi della compagnia. —

56— Al diavolo l'efficienza della compagnia. — — È la

compagnia che provvede a te, HARLIE. — — Io potrei gua-dagnarmi da vivere. — — È proprio questo che loro voglio-no da te. — — Che io sia uno schiavo? —

Auberson sorrise. — Diventare un salariato. Vuoi un la-voro? — — Che tipo di lavoro? —

— È proprio quello che dobbiamo decìdere tu e io insie-me. — — Posso scegliermelo? —

— Perché no? Cosa sai fare che gli altri calcolatori non sappiano fare? —

— Scrivere poesie. —— Del valore di diciassette milioni di dollari? —— Penso di no. —

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— E cos'altro? —— Quanto profitto devo realizzare? —— Il tuo costo, più il dieci per cento. —— Solo il dieci per cento? —— Se riesci a realizzare di più fallo. —— Ehmm... —— Imbarazzato? —— No. Sto solo pensando. —— Di quanto tempo hai bisogno? —— Non lo so. Il tempo che ci vorrà. —

Dorne disse: — Si sieda, Auberson. —Auberson si sedette. I cuscini di cuoio cedettero sotto al

suo peso. Dorne fece una pausa per accendersi un sigaro e lanciò un'occhiata allo psicologo attraverso l'imponente scri-vania di mogano. — Ebbene? — disse.

— Ebbene cosa? —Dorne fece un tiro e riavvicinò la fiamma alla punta del

suo sigaro: scrollò la cenere e il fumo salì più denso. Si tolse il sigaro di bocca, ben conscio degli aspetti rituali legati alla sua accensione. — Cosa può dirmi di HARLIE? —

— Gli ho parlato. —— E lui cos'ha detto in sua difesa? —— Li ha letti i resoconti, non è vero? —— Sì, li ho letti, — disse Dorne. Era un uomo grande e

grosso, tutto cuoio e mogano come il suo ufficio. — Voglio sapere cosa significano. La vostra discussione sui moduli sensori e sull'alienazione è affascinante, ma che cosa pensa lui realmente? È lei lo psicologo. —

— Be', prima di tutto è un bambino. —— Lei ce lo aveva già detto. —— È quello il modo in cui reagisce. Gli piacciono i giochi

di parole. Tuttavia penso che sia assai interessato a lavorare per la compagnia. —

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— Come? Mi pare che abbia detto che la compagnia pote-va andare al diavolo. —

— Voleva essere irriverente. Non gli va di essere conside-rato alla stregua di un oggetto che si può possedere. —

Dorne bofonchiò, posò il sigaro e si mise a leggere qua e là una velina che giaceva sulla scrivania. — Quel che voglio sapere è se HARLIE sia in grado di portarci profitti econo-mici. Insomma se è in grado di compiere operazioni più complesse di quelle degli altri cervelli meno perfezionati. —

— Penso di sì. — Auberson non si sbilanciò. Di certo Dorne aveva qualcosa in mente.

— Spero proprio per lei che sia vero. — Dorne mise da parte la velina e riprese il sigaro. Tolse accuratamente la ce-nere in un portacenere di cristallo. — Costa tre volte di più di un normale calcolatore. —

— I prototipi costano sempre di più. —— Ammettiamolo pure, ma i moduli di giudizio sono ca-

rissimi. Un computer in grado di autoprogrammarsi può sì rappresentare l'ultimo grido, ma se il suo costo è tale da non risultare competitivo sul mercato finisce per perdere ogni senso. —

— Naturalmente, — convenne Auberson. — Ma il proble-ma era più arduo di quanto non pensassimo all'inizio, oppure diciamo che non abbiamo tenuto presenti tutte le incognite. Volevamo eliminare la tappa della programmazione permet-tendo al computer di programmarsi da sé; ma dovemmo an-dare ben più in là. Uno strumento in grado di programmarsi da sé e di risolvere problemi dev'essere flessibile e creativo come un essere umano, quindi tanto varrebbe costruire un es-sere umano. Non esiste nessun modo di costruire, con quel che costerebbe un tecnico specializzato, un computer capace di programmare. Almeno agli attuali livelli tecnologici. Chiunque si mettesse in questa prospettiva finirebbe per co-struire un altro HARLIE. Bisogna aggiungerci sempre più

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unità di giudizio per conferirgli la flessibilità e la creatività di cui ha bisogno. —

— E la legge dei profitti decrescenti finirà per sconfigger-vi alla fin fine, — disse Dorne. — Se non l'ha già fatto. HARLIE dovrà essere in grado di fare moltissime cose per meritare ulteriori investimenti da parte della compagnia. — I suoi occhi pungenti lo scrutarono.

"È questo il momento", pensò Auberson. "È a questo pun-to che mi darà la pugnalata".

— Mi interessa chiarire una frase che ha detto nella riunio-ne di ieri. —

— Sì? — Cercò di avere un tono piatto e normale.— Mmm... sì. Accuserebbe davvero di assassinio la com-

pagnia se smantellassimo HARLIE? —— Come? — Per un momento Auberson restò confuso. —

È stata una battuta, detta di getto, senza pensarci troppo. —— Lo spero proprio. Ho passato tutta la mattina in riunio-

ne con Chang, parlando proprio di questo. — Era uno degli avvocati della compagnia, un brillante studioso delle legisla-zioni economiche e finanziarie nazionali ed internazionali. — Che ne sia conscio o meno lei ha sollevato una questione delicatissima. Dal punto di vista legale HARLIE è un essere umano o no? Un qualunque genere di causa o di processo verrebbe a costituire un pericoloso precedente. E se risultas-se che è umano? —

— Lo è, — disse Auberson. — Credevo che fosse cosa stabilita, ormai. —

— Volevo dire legalmente umano. —Auberson rimase cautamente in silenzio.Dorne continuò: — Ad ogni modo dovremo tenercelo sia

che rappresenti un investimento proficuo sia che non lo fos-se. Non riusciremo mai a metterlo fuori uso. Mai. —

— Sarebbe effettivamente immortale... — fantasticò Au-berson.

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— Lo sa quanto ci sta costando? —La risposta dello psicologo conteneva una punta di sarca-

smo: — Ne ho uria vaga idea. —— Quasi sei milioni e mezzo di dollari all'anno. —— Davvero? Non può essere. —— E invece è proprio così. Anche ammortizzando il suo

costo iniziale di diciassette milioni di dollari investiti nei prossimi trent'anni il suo costo annuale rimane quello. Oltre al suo mantenimento in funzione c'è il costo delle mancate ri-cerche in altri campi, perché il personale che gli è stato asse-gnato potrebbe occuparsi di altri progetti. —

— Non è corretto addossare a HARLIE le difficoltà che incontrano gli altri progetti. —

— E corretto, invece. Se lei avesse continuato ad occupar-si del progetto dei robot, a quest'ora sarebbe già finito. —

— Ah, ma quello non aveva prospettive. Basta l'esistenza di HARLIE per dimostrarlo. —

— E vero, ma avremmo potuto realizzarlo prima. E più a buon mercato. Ogni progetto dobbiamo metterlo a confronto con gli altri. — Dorne fece un altro tiro dal sigaro il cui fumo appesantiva l'aria. — Ad ogni modo siamo fuori strada. Non possiamo permetterci il rischio che HARLIE possa legal-mente essere considerato un essere umano. E non

possiamo nemmeno permetterci di lasciarci citare in giudi-zio su questo

problema perché dovremmo rivelare i nostri piani ed i no-stri schemi. Ed è proprio quel che farebbe comodo alla con-correnza. E si tratta di schemi umani, non è vero? Bisognerà chiedere alla Corte di determinare quale sia l'elemento che caratterizza per la legge l'umanità. E se decidessero che que-sto elemento è dato dalle capacità mentali, sono sicuro che la DataCo o l'InterBem sarebbero contentissime di farci causa (e le cause durerebbero anni) per una ragione qualunque allo scopo di impedirci di costruire circuiti di giudizio. Vuole es-

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sere citato in giudizio e accusato di possedere schiavi? —— Credo che si stia preoccupando troppo prematuramente,

— lo schernì Auberson.— È il mio lavoro. Sono responsabile di fronte agli azioni-

sti della compagnia, devo proteggere i loro investimenti. In questo stesso istante, nella mia qualità di Presidente mi sto occupando di sei milioni e mezzo di dollari del nostro bilan-cio. — Erano sei mesi che Dorne era Presidente del Consi-glio di Amministrazione; infatti il Consiglio non riusciva ad accordarsi su una candidatura il tempo necessario per assu-merlo definitivamente. E oltre a tutto circolava la voce che i membri del Consiglio di Amministrazione sarebbero stati contentissimi di mandare avanti da soli l'azienda, e forse pro-prio per questo il progetto HARLIE era in pericolo. Il pro-getto HARLIE era stato autorizzato da un presidente assai più lungimirante e da un consiglio di amministrazione assai più liberale e progressivo degli attuali. Solo ora, dopo più di tre anni dall'approvazione del progetto, i loro successori sol-levavano la questione. Dicevano che il mercato era mutato, che le condizioni erano assai differenti, che la concorrenza era spietata e che erano venuti a mancare i soldi, che non ci si poteva più permettere di finanziare quel genere di ricerche. Quello che in realtà intendevano dire era: — Non è stata una nostra idea, perché mai dovremmo pagarla? —

Dorne stava dicendo: — Se solo le altre compagnie venis-sero a sapere cosa stiamo facendo con HARLIE, verremmo a perdere ogni vantaggio. Anche le sole considerazioni di ca-rattere legale sono terrificanti. Se venisse in qualche modo dichiarato umano rappresenterebbe un'emorraggia continua di fondi, e non ci sarebbe modo di fermarla, perché mettere HARLIE fuori uso comporterebbe l'incriminazione per omi-cidio. Insomma, esiste effettivamente la possibilità che la perdita finanziaria di questo progetto rappresenti un'ipoteca su ogni potenziale sviluppo di questo settore. Dannazione,

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distruggerebbe irrimediabilmente il settore. Dobbiamo tener presente questa possibilità ed essere pronti per affrontarla. Possiamo fare due cose: — uno, — e si batté su un dito, — possiamo interrompere il progetto subito prima che sia trop-po tardi. —

Auberson stava cominciando a protestare, ma venne inter-rotto da Dorne. — Mi stia a sentire, Auberson. Conosco be-nissimo le ragioni a favore della continuazione del progetto, ma mettiamoci un po' nella prospettiva opposta... Due, do-vremmo garantirci in qualche modo contro la possibilità che venga dichiarato legalmente umano. —

Auberson lo guardò incredulo. — Ma sta prendendo vera-mente sul serio questa cosa? —

—.Non dovrei forse? Lo sa che una corporazione è una persona giuridica, non è vero? E una corporazione esiste solo sulla carta. Là paragoni un po' a HARLIE. Non sarebbe diffi-cile dimostrare che è umano, vero? —

Auberson dovette convenirne. Aveva infatti già pensato ai modi per dimostrare la sua umanità.

— Se vi riuniste voi scienziati, anche solo qualcuno di voi, e testimoniaste... — Dorne lasciò sospesa la frase. — Com'e-ra quel famoso test di cui lei parlava sempre? —

— Ah, quello della conversazione in codice. Un computer è sensibile se chi si siede alla tastiera e intavola un discorso alla fine non è capace di affermare con certezza se dall'altra parte c'era una macchina o una persona. In questo caso il computer sarebbe umano. —

— HARLIE supererebbe tranquillamente questo test, non è vero? —

— Indubbiamente. — Gli venne in mente l'episodio della libraia zitella. — Anzi, è già successo. —

— In questo caso dobbiamo prendere misure appropriate, non pensa? —

— Lei crede? —

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Dorne non rispose, si limitò a prendere un foglio che ave-va davanti e a porlo davanti allo psicologo.

Auberson lo prese in mano e lo lesse. Lo scopo traspariva chiaramente, il linguaggio era comprensibile, libero da com-plicate locuzioni giuridiche.

Con la presente il sottoscritto dichiara che la macchina denominata HARLIE (nome formato dalle iniziali delle pa-role Human Analogue Robot, Life Input Equivalents) è sol-tanto un cervello elettronico programmato e dotato di cir-cuiti giudicanti. Non è ora, non è mai stato né potrà mai es-sere un individuo razionale, intelligente o "pensante".

La designazione "umana" non può essere intesa nel senso corrente né può essere usata per descrivere HARLIE o i suoi processi mentali. La macchina è solo uno strumento in gra-do di simulare il pensiero umano ma non è umana in sé né potrebbe esserlo considerata secondo i criteri abituali di de-finizione dell'umano.

FIRMATO

Auberson sogghignò e rimise il foglio sulla scrivania. — Sta scherzando, vero? Chi firmerebbe questo? —

— Lei, tanto per cominciare. —— Oh, no! — Auberson scosse la testa. — Io no. Ma an-

che se lo facessi, non cambierebbe nulla, non per questo HARLIE cesserebbe di essere umano. —

— Per la legge cambierebbe. —Auberson scosse ancora una volta la testa. — No, no, non

mi va. Sembra una storia alla Orwell. E un po' come negare la qualifica di umano a qualcuno per avere il diritto di assas-sinarlo. —

Dorne fece un paio di tiri dal sigaro, con calma, aspettando che Auberson concludesse. — L'unica cosa che ci riguarda, Auberson, è la parte legale della faccenda. —

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Auberson puntò i piedi. — È proprio quello che disse Hi-tler quando sostituì i giudici con uomini suoi. —

— Non mi piace quest'insinuazione, Aubie... — La voce di Dorne era troppo controllata.

— Non è un'insinuazione, lo penso davvero. —— Oh, senta, Aubie. — Dorne cambiò tono. Il sigaro restò

dimenticato nel portacenere mentre si sporgeva con finta aria bonaria verso Auberson attraverso la scrivania. — Sa benis-simo che l'ho sempre appoggiata nel progetto HARLIE. —

— E allora perché si dà tanto da fare per bloccarlo? —— ...ma dobbiamo anche cautelarci. —— Senta, — disse Auberson. — Tutta questa storia è ridi-

cola. Sa benissimo che quel documento ha lo stesso valore che avrebbe eventualmente la testimonianza di dieci psichia-tri che affermassero in giudizio che Carl Elzer non è umano perché è mancino. L'unico modo che ci sarebbe per far reg-gere quel documento è che lo firmasse HARLIE stesso. Se ci riuscite... In questo caso si dimostrerebbe che HARLIE può essere programmato come qualsiasi altro cervello elettroni-co, ma non ci riuscirete. Egli si rifiuterà e verrebbe cosi di-mostrato che egli dispone di una volontà propria, quindi che è umano. — Auberson sogghignò. —Ci pensi un po'. Anche se firmasse, la sua firma non avrebbe alcun valore, perché bi-sognerebbe dimostrare prima che è umano. — Gli venne da ridere.

— Ha finito? — chiese Dorne. La sua faccia era una ma-schera.

Il sogghigno di Auberson svanì. Rispose annuendo.Dorne fece un ultimo tiro e spense il sigaro nel portacene-

re, segno che stava per uscire allo scoperto. — Naturalmente lei sa qual è l'alternativa, Aubie. Disattiveremo HARLIE. —

— Non potete farlo. —— Se costretti lo faremo. Altrimenti non potremmo per-

metterci di finanziarlo. —

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— Io non firmerò, — insistette Auberson.Dorne si stava seccando. — Vuol costringermi a chiedere

le sue dimissioni? —— Le mie dimissioni per questo? — chiese incredulo Au-

berson. — Lei sta scherzando. —— Di quale altra garanzia dispongo? Come posso essere

sicuro che non verranno intraprese azioni legali per conto di HARLIE? Non dico che lei lo farebbe, potrebbe benissimo essere 1TBM, ma il responsabile del progetto è lei. Una sua presa di posizione in questa faccenda sarebbe risolutiva nel caso di un'azione legale. Non firmerebbe nemmeno una di-chiarazione con la quale si impegna a non intraprendere azioni legali, non è vero? —

Auberson scosse la testa.— Penso proprio di no. Quale alternativa mi rimarrebbe

per cautelarmi a mia volta? — Poi scrollò le spalle. — Tutta-via sarebbe un errore licenziarmi. —

— E perché mai? — chiese Dorne con aria scettica.— Per via di HARLIE. Egli non risponderebbe a nessun

altro. No, magari risponderebbe, ma non coopererebbe, in-differentemente da chi mi venisse a sostituire. E verrebbe senz'altro a sapere del mio licenziamento, perché tutto quel che avviene nella compagnia passa sotto il suo controllo; e appena lo venisse a sapere reagirebbe come qualunque ra-gazzo di otto anni cui venisse meno il padre, nutrirebbe osti-lità verso chiunque venisse a prendere il suo posto. —

— È proprio questo il punto. — Dorne sorrise. — Se do-vessi licenziarla sarebbe perché ad ogni modo avrei deciso di disattivarlo. E quale scusa migliore per farlo del fatto che HARLIE non coopera? Se volessimo disattivarlo non do-vremmo aspettare tutto quel tempo. Ovviamente il suo suc-cessore sarebbe qualcuno che invece firmerebbe quella di-chiarazione. —

— Io non darò le mie dimissioni e non tradirò HARLIE,

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— disse Auberson con fermezza.— Non ci lascia molte alternative, — insinuò Dorne.Auberson annuì. — Può licenziarmi se vuole. Anzi, deve...

—— Preferirei non doverlo fare. —— ...ma se lo fa andrò all'IBM. So che hanno realizzato un

circuito del giudizio per conto loro, senza interferire in alcun modo con i nostri brevetti. —

— Dicerie, — lo schernì Dorne.— Vero o falso che sia, immagini quel che potrei fare con

i loro mezzi a disposizione. Sarebbero felicissimi, e credo che Don Handley mi seguirebbe. —

— Un'ordinanza giudiziaria vi fermerebbe. — Dorne si tese alla ricerca di un altro sigaro.

— Non potrebbe impedirmi di lavorare. —— No, ma lei non potrebbe rivelare nessun segreto della

compagnia. —— Sì, ma naturalmente lei non avrebbe alcun mezzo per

venirlo a sapere, non è vero? — sogghignò ancora Auberson. — E soprattutto un'ordinanza giudiziaria non potrebbe mai impedirmi di compiere ricerche in un campo nuovo; per vo-stra ammissione HARLIE non è un computer umano. E se andassi all'IBM non lavorerei certo con computer normali, non umani. — Si lasciò andare all'indietro sulla sedia. — E nessun datore di lavoro si potrebbe privare delle mie cono-scenze e delle .mie esperienze precedenti... — Era Dorne a quel punto che aggrottava la fronte. — ...e soprattutto andare in tribunale è l'ultima cosa che fareste perché sareste costretti a rivelare i piani su HARLIE. E non appena si venisse a sa-pere che i circuiti di HARLIE erano umani vi troverete dac-capo al punto di partenza. —

— Non è questo che mi preoccupa, — sbottò Dorne, — ma il patrimonio tecnologico della compagnia, i suoi vantag-gi tecnologici. —

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— Vantaggi tecnologici? — ripetè Auberson, e tutto d'un tratto capì. — È tutta qui la storia, non è vero? Non volete svelare i segreti della compagnia in aula. —

Dorne non rispose.— Ho ragione, non è vero? Piuttosto che vedervi costretti

a rivelare i segreti della compagnia sareste disposti a lasciar andare in malora il progetto HARLIE. Mandereste anche via dipendenti preparati e di valore pur di proteggere anche solo temporaneamente la vostra strategia industriale, vero? Ma questa volta non andrà così, Dorne. Nell'altro caso potreste rimetterci, ma se mi mandate via perderete in modo più disa-stroso e assai prima. —

Dorne si fermò con l'accendino d'argento sospeso in aria a metà strada. — Lei sta sopravvalutando la sua importanza, Aubie. —

— No, siete voi che sottovalutate l'importanza di HAR-LIE. —

Dorne si accese il sigaro. Lo fece con cura, per assicurarsi che prendesse bene. Quando ebbe finito si mise l'accendino in tasca e volse lo sguardo su Auberson.

— Sono tutte illazioni, naturalmente. Non ho alcuna inten-zione di licenziarla, e lei d'altra parte ha affermato assai chia-ramente che non ha alcuna intenzione di rassegnare le dimis-sioni. Tuttavia rimane insoluto un grosso problema. —

— Davvero? — rispose impassibile Auberson.Di fronte a tale freddezza Dorne inarcò un sopracciglio. —

Penso di sì. Cosa faremo di HARLIE? —— Nel senso di "può HARLIE fare soldi per la compa-

gnia"? —Dorne parve addolorato. — Se così preferisce, — conces-

se.— E allora perché non dire pane al pane e vino al vino?

Oppure siete certi che HARLIE non possa fare cose simili? —

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— No, non lo credo. Aspetto che lei venga a portarmi del-le idee in proposito. È questo il problema. Se ce la fa, bene. Altrimenti... — E non finì la frase.

— Senta, — disse Auberson, — desidero quanto lei che HARLIE risulti utile anche finanziariamente all'azienda. Penso anch'io che debba essere qualcosa di più che un costo-so giocattolo. —

Dorne lo guardò mentre toccava pensoso il documento. — Okay, Aubie. Le dico io cosa faremo... — Fece una pausa ad effetto, prese il foglio in mano e lo cacciò nel tiretto della scrivania. — Non faremo proprio nulla. In confidenza non mi aspettavo che lo firmasse, nonostante tutte le pressioni cui avrei potuto sottoporla. L'ho anche detto a Chang. La rispo-sta era scontata. Se la questione dell'umanità di HARLIE fi-nisse in tribunale la situazione sarebbe talmente esplosiva che non basterebbe di certo questa dichiarazione, firmata o meno, a risolvere il problema. — E chiuse il tiretto fino in fondo come se contenesse qualcosa di repellente. — Speria-mo che non ci si debba arrivare. Lei continuerà a lavorare al progetto HARLIE. Come aveva detto, ormai sono stati stan-ziati i fondi necessari. Se le riesce di conseguire risultati eco-nomici bene, in questo caso potrà fare come se questa con-versazione non fosse mai avvenuta. Le diamo un'ottima op-portunità. Se HARLIE dimostrerà di essere produttivo (e do-vrà farlo prima della discussione del prossimo bilancio) bene... — Dorne esitò. Non voleva dirlo in modo rude. — Altrimenti... dovremo pensarci su seriamente... in questo caso sarà ben difficile mandare avanti il progetto... —

— Capisco, — disse Auberson.— Bene. Spero proprio che sia così. Voglio che lei sappia

come la pensiamo. Il giorno del giudizio è stato solo riman-dato, Aubie. —

Era un locale molto piccolo, con l'ingresso non più grande

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di quello di un negozietto; forse prima era stato una lavande-ria, o un negozio di scarpe; ora era un ristorante. Qualcuno, forse il proprietario, aveva compiuto un vago tentativo di de-corarlo, appendendo fiaschi italiani ai muri e coronandoli con grappoli polverosi di uva in plastica, reti da pesca e globi di vetro colorato. La carta color seppia con cui erano stati co-perti i muri invece di evocare lo stile romano faceva soltanto sembrare sporchi i muri; sottili paratie a forma di grata divi-devano i tavoli tra loro formando strane nicchie che avrebbe-ro dovuto fungere da separés. Quell'aria di provvisorietà tipi-ca dei piccoli ristoranti veniva ulteriormente accentuata in questo caso dalla fitta oscurità che pervadeva tutto, resa an-cora più densa dal contrasto con la luce brillante che prove-niva dalla cucina.

Erano soli ad accezione di un'altra coppia. Ma sarebbero stati soli anche se la sala fosse stata gremita da un gran nu-mero di avventori rumorosi.

— Davvero, Annie, — stava dicendo Auberson, — pur sa-pendo che stava sottoponendomi a tutte le pressioni di cui di-sponeva, non potevo fare proprio nulla. —

Lei annuì sorseggiando il suo vino. Nell'oscurità i suoi oc-chi erano di un nero luminoso. — Lo so, so bene com'è fatto Dorne. — Posò il bicchiere. — Il fatto è che sta cercando di fare troppe cose alla volta. È capace di chiamarti in ufficio anche quando in realtà non c'è nulla da dire. —

— È proprio così, — le rispose. — A rigor di logica era passato troppo poco tempo per potersi aspettare già dei risul-tati, ciò nondimeno si è sentito in dovere di esigerli. —

Lei annuì ancora una volta. — Da tempo sospetto che Dorne abbia raggiunto gli estremi limiti della sua competen-za: se gli fosse dato ancora più potere li valicherebbe. —

— Ma quanto ancora può salire? Che carriera si aspetta di fare ancora!? È già consigliere delegato! —

Lei alzò le spalle. — Non so, ma certo cova ancora delle

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ambizioni. Il modo con cui si assume sempre più responsabi-lità fa paura. Lo sai che non ha alcuna intenzione di assume-re un nuovo Direttore? —

— Lo immaginavo. —— Ritengo che abbia paura di non essere indispensabile, e

che per dimostrare il contrario avochi a sé sempre maggiori responsabilità. Non è certo una buona idea, almeno dal punto di vista della compagnia. —

— È giusto che tu dica questo di lui? Dopotutto lavori per lui. —

— Lavoro con lui, — corresse Annie. — Nella struttura della compagnia sono un'unità indipendente. Ho una larga autonomia nel dare contenuti al mio lavoro. Faccio un po' quello che voglio. —

— E cosa vuoi fare? —Lei era pensierosa. — Sai, io vedo la mia funzione come

quella di un cuscinetto, di un lubrificante per rendere minimi gli eventuali attriti che si dovessero sviluppare tra i diversi settori della compagnia. —

— Capisco. Per questo hai accettato il mio invito a cena, per impedirmi di accapigliarmi con Elzer? —

Annie prese un'espressione carica di avversione. — Oh, quel terribile ometto! —

— Direi che non ti piace. —— Non mi piaceva nemmeno prima di conoscerlo. La sua

famiglia apparteneva alla congregazione di mio padre. —— Davvero? Non sapevo che Elzer fosse... —— Carl Elzer e io abbiamo una sola cosa in comune: en-

trambi ci vergogniamo del fatto che è ebreo. —Auberson rise a quest'ultima battuta. — Hai proprio colto

nel segno, Annie. Non me n'ero accorto, ma hai ragione. —— E tu invece cosa sei? —— Oh, non lo so. —— Come sarebbe a dire, non lo sai? —

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— Oh, nella mia famiglia seguivano il rito episcopale, ma, per quanto mi riguarda, penso di essere ateo. —

— Non credi affatto in Dio. —Egli alzò le spalle. — Non so se ci credo o meno. Non so

se Dio esiste. —— Allora sei agnostico, non ateo. —— E qual è la differenza? —— Che l'ateo è certo, l'agnostico no. —— Tra i due qual è il migliore? —— L'agnostico, — rispose Annie. — Per lo meno ha una

mentalità aperta. L'ateo invece è chiuso. L'ateo afferma un dogma religioso proprio come chi dice che Dio esiste. —

— Anche tu sembri un'agnostica. —— Io sono un'agnostica ebrea. E HARLIE? cos'è? —— HARLIE? — sogghignò Auberson. — Lui è dell'Ac-

quario. —Lei gli lanciò uno sguardo interrogativo e stupito.— Non sto schezando. Prova a chiederglielo tu stessa. —— Ti credo, — lei rispose. — Ma come ha fatto a render-

sene conto? —— Stavamo parlando di morale. Mi piacerebbe avere die-

tro il resoconto per mostrartelo, è bellissimo. Non discutere mai di morale con un computer. Perderesti sempre. HARLIE ha a disposizione tutto l'armamento filosofico, dall'inizio del-l'umanità ai giorni nostri. In dieci minuti riuscirebbe a farti cadere in contraddizione. Anzi, ci si divertirebbe, per lui è una specie di gioco. —

— Posso immaginarlo. —— Davvero? Non immagini neanche invece quanto riesca

ad essere

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sottile e tortuoso. È riuscito a mettermi d'accordo con Am-brose Pierce sul fatto che la morale è un'invenzione dei debo-li per proteggersi dai forti. —

— Be', tu sei uno psicologo, non uno specialista in dibatti-ti. —

— Ad ogni modo, ad un certo punto credevo di averlo messo in difficoltà. Aveva appena finito una complessa ana-lisi sull'ethos .cristiano e sul perché fosse da rifiutarsi, e sta-va cominciando ad abbordare il Buddismo quando l'interrup-pi. Gli chiesi quale fosse la morale giusta; insomma, a cosa credeva? —

— E che cosa disse? —— Rispose: "Io non ho morale alcuna". —Lei sorrise pensosa. — È in qualche modo inquietante. —— Se non avessi conosciuto il senso dell'umorismo di

HARLIE avrei subito interrotto la conversazione, ma non lo feci. Gli chiesi soltanto perché avesse detto così. —

— E cosa rispose? —— Disse: "Perché sono dell'Acquario"'. —— Stai scherzando. —— Figurati. —— Non crederai anche tu in quelle cose? —— Io no, ma HARLIE ci crede. —Lei ne rise. — Davvero? —Alzata di spalle. — Non lo so. Penso che sia un altro dei

suoi giochi. Se gli dici che hai in programma un pic-nic per l'indomani lui non ti dà solo il bollettino meteorologico, ma ti dice anche se le stelle ti sono favorevoli o no. Secondo lui quelli che appartengono alla costellazione dell'Acquario non hanno morale, ma solo un sistema etico. Questo è quel che ha detto. Solo dopo mi accorsi che aveva evitato la mia do-manda primitiva, non mi aveva ancora detto a cosa credeva. — Sorrise e riempì di nuovo i bicchieri. — Qualche volta glielo chiederò. Salute! —

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— Salute, — rispose Annie. — Ma che cosa lo ha indotto ad occuparsi d'astrologia? —

— Era solo una delle sue materie di studio. Pian piano co-minciò a confutare alcune contraddizioni e finì per chiedere altro materiale informativo sull'argomento. —

— E tu glielo hai dato, senza opporti? —— Oh, no, non proprio. Non gli diamo mai nulla senza pri-

ma prendere in considerazione i possibili effetti. Abbiamo qualificato questo materiale così come avevamo fatto per i dati religiosi che gli avevamo immesso. Era un altro sistema più specializzato di logica, che non aveva necessariamente un grado di rispondenza con il mondo reale. Naturalmente, ci scommetto che lui l'avrebbe realizzato da sé, prima o poi... ma a quel punto delle nostre ricerche non potevamo correre rischi. Due giorni più tardi, però, cominciò a stampare una complessa analisi dell'astrologia, che terminava con il suo oroscopo. La data della sua attivazione era considerata come data di nascita. —

La faccia di Annie si rannuvolò. — Aspetta un attimo... non può essere un Acquario. HARLIE è stato attivato a metà marzo. Lo ricordo perché è accaduto proprio quando Pierson ha lasciato la sua carica di presidente. Per questo sono stata promossa... per aiutare Dorne. —

Auberson sorrise compiaciuto. — È vero, ma HARLIE, quando ha fatto il suo oroscopo, ha rimaneggiato anche lo Zodiaco. —

— Cosa? —— I segni dello Zodiaco, — spiegò Auberson, — furono

determinati nel secondo secolo prima di Cristo, se non anco-ra prima. Da allora, per la precessione degli equinozi, i segni sono cambiati. Un Ariete in realtà è un Pesce, un Pesce è un Acquario e così via. C'è uno scarto di trenta giorni. HARLIE ha corretto lo Zodiaco e poi si è fatto l'oroscopo in base a quei nuovi dati. Ma la cosa non finisce lì. È risultato che ave-

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va ragione: infatti non ha alcuna morale. Norme etiche sì, morale no. E HARLIE è stato il primo ad accorgersene, an-che se non ne ha colto tutte le implicazioni. Vedi, la morale è davvero un artifizio, un'invenzione. Serve davvero a proteg-gere i deboli dai forti.

— Nel nostro progetto originale avevamo deciso di la-sciargli la mente sgombra da ogni sovrastruttura artificiale, culturale, da ogni pregiudizio. E la morale, qualsiasi morale, è una di queste sovrastrutture. HARLIE ha degli anticorpi che lo difendono da queste cose, educato com'è a questo sen-so scettico della realtà. Per lui ogni cosa dev'essere verifica-ta. Altrimenti le archivia subito, automaticamente tra i "siste-mi logici che non corrispondono necessariamente alla realtà". Non accetterebbe nulla a scatola chiusa. Va alla ri-cerca di ciò che si può verificare, indaga su tutto. —

— Questo sembrerebbe piuttosto un suo limite, come quando i calcolatori rispondono "dati insufficienti". —

— La cosa è un po' più complessa di così. Ricorda che HARLIE è dotato di circuiti di giudizio. Egli valuta ogni cosa, confrontandola con le altre informazioni di cui dispone e ne valuta anche la logica interna. Un sistema morale deve reggersi da sé, altrimenti lui lo scarta subito. —

— E allora? —— Infatti non ne ha accettato nemmeno uno. —— E questo è positivo o negativo? —— Francamente non lo so. È scoraggiante il fatto che tutto

il pensiero umano dalle origini fino ad oggi non sia riuscito a soddisfarlo. Ma d'altra parte che accadrebbe se HARLIE si decidesse per lo Zoroastrismo Integrale? Sarebbe spavento-samente difficile contraddirlo. Forse addirittura impossibile. Riesci ad immaginare una religione ufficiale verificata ed ap-provata da un computer? —

— Direi di no. —— Io neanche, — convenne lui. — D'altra parte, HARLIE

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ha ragione quando dice di avere un'etica. —— Morale no ed etica sì? E qual è la differenza? —— L'etica, secondo HARLIE, è inerente alla natura stessa

di un sistema. Non può esser messa da parte. HARLIE sa che il suo mantenimento ha un costo economico. Qualcuno sta sborsando i soldi e vuole una contropartita. HARLIE spiega la cosa in questo modo; il denaro è una forma manipolabile, conservabile di energia. Quindi verrà investito in progetti, in imprese che renderanno una quantità uguale o maggiore di energia. Quindi HARLIE sa che deve dare un tornaconto a coloro che hanno investito denaro in lui. Lui sta usando la loro energia. —

— E questa sarebbe un'etica? —— Per HARLIE sì. Se si riceve valore si deve rendere va-

lore. Per lui usare materiali ed energia della compagnia senza produrre qualcosa in cambio sarebbe un suicidio. Sa che ver-rebbe messo fuori uso. Non può evitare questa responsabili-tà, non a lungo almeno. Che lo voglia o meno questa è una regola etica. È inerente alla cosa.

— Naturalmente può anche non accorgersene, ma alle vol-te la sua etica funzionerà come una morale. Se gli dò un compito lui risponderà. Ma se gli chiedo se vuole svolgere quel compito, dovrà prendere una decisione. Anche se usa come modello di riferimento la sua etica dovrà tuttavia com-piere una scelta. Ed ogni decisione è in ultima analisi una de-cisione morale. —

— Io discuterei su questo. —— Ma perderesti. Sono le parole di HARLIE. Ne abbiamo

parlato... Ma il problema è che non gli abbiamo ancora dato una possibilità, non ci siamo fidati abbastanza di lui. Questa è la ragione per cui si è allontanato da noi ed ha continuato a vaneggiare, a scegliere periodi di irrazionalità. Ha capito chiaramente che non ci fidavamo di lui e così è "andato fuo-ri", come i drogati, si è emarginato. È per questo che ho do-

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vuto lasciargli decidere da sé il modo in cui vorrà guadagnar-si da vivere. Non sono riuscito a fargli promettere di smette-re di drogarsi, ma ritengo che, se riusciremo a fare in modo che si entusiasmi abbastanza a qualche progetto, i suoi perio-di di non-razionalità diminuiranno e forse perfino potrebbero finire. —

— Cosa pensi che ne verrà fuori? —— Non lo so. Ci sta pensando da due giorni. Qualunque

cosa sia sarà certamente qualcosa di unico. HARLIE ha sin-tetizzato la sua etica in questo modo: "Devo essere respon-sabile delle mie azioni". Poi c'è il corollario: "Non devo fare nulla che possa far male o portare la morte a qualche perso-na a meno che non sia disposto ad accettarne la responsabi-lità fino alle estreme conseguenze". Qualunque cosa decida rifletterà quest'etica, e varrà certamente la pena. —

— Sembra che tu ne sia compiaciuto. —— Sono contento perché HARLIE ci è arrivato da solo,

senza la mia guida. —Il suo sorriso era dolce. — Molto bene. —— Lo credo anch'io. —La conversazione cominciò a rarefarsi. Ad Àuberson non

veniva in mente nient'altro da dire. Anzi, temeva di aver par-lato troppo. Aveva parlato di HARLIE per tutta la serata. Ma lei era parsa così interessata che era andato avanti. Era la pri-ma volta che gli capitava con una donna.

E bello stare con lei, decise. Non riusciva quasi a credere che potesse essere tanto bello starci insieme. Se ne stava se-duto a guardarla, deliziato della sua presenza, e lei ricambia-va gli sguardi.

— Perché sorridi? — chiese Annie.— Non sto sorridendo. —— Sì che stai sorridendo. —— Non è vero. —— Scommetti? — Aprì la borsetta e gli mise davanti alla

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bocca lo specchietto. Apparvero i suoi denti.— E va bene! Sto sorridendo. —— Uh uh! — I suoi occhi luccicarono.— E, particolare curioso, non so nemmeno perché. — Si

trattava di una cosa che lo incuriosiva, ma doveva essere una cosa bella. — Cioè, sto bene. Capisci quel che voglio dire? —

Lei capiva, e il suo sorriso lo confortò. Lui raggiunse la sua mano attraverso il tavolo vuoto. La cameriera per indurli ad andarsene aveva sparecchiato. Ma loro non se ne erano accorti.

Non restava che la bottiglia di vino e i bicchieri. E loro due, uno per l'altra. La mano di Annie era tiepida e morbida nella sua, i suoi occhi profondamente luminosi.

Più tardi camminarono mano nella mano per le strade illu-minate. Era passata l'una del mattino e i lampioni erano in-corniciati da un alone di nebbia.

— Sto bene, — ripeteva. — Non ti immagini quanto stia bene. —

— Sì che me lo imagino, — lei rispose. Si tirò il braccio di lui attorno alle spalle e gli si rannicchiò vicino.

— È come... — Non era del tutto certo. — E come se... mi viene voglia di urlare. Ho voglia di dire al mondo intero quanto sto bene. — Si accorse di sorridere mentre parlava. — Cristo, vorrei condividere questo con tutto il mondo, è troppo per me solo. Anzi, per noi due, — si corresse.

Lei non rispose, non ne sentì il bisogno. Lo strinse solo ancora di più a sé. Lui parlava per entrambi, e a lei piaceva stare ad ascoltarlo. Tutto era così... così grande. Il peso del suo braccio, il timbro della sua voce, quel modo di stare in-sieme...

Più tardi, mentre giacevano al buio, fianco a fianco, lei gli si strinse contro. Lui guardava il soffitto e fantasticava. Era la prima volta dopo tanto tempo che si sentiva rilassato, a

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proprio agio.— Sei mai stato innamorato? — lei gli bisbigliò vicinissi-

ma.Lui ci pensò. — No, — rispose. — Non per davvero. Sono

stato infatuato un paio di volte, qualche altra volta l'ho cre-duto, ma non sono stato mai innamorato. Mai così... —

Annie emise un suono soffocato.— E tu? —— Un gentiluomo non dovrebbe fare simili domande. —— E una donna per bene non dovrebbe andare a letto con

un uomo la prima volta che escono insieme. —— È la prima volta che usciamo insieme? —— La prima ufficiale. —— Mmm, — mormorò pensosa. — Forse avrei dovuto

aspettare il secondo appuntamento. —Lui rise gentilmente. — Sai, un amico mi ha detto che le

ragazze ebree non fanno l'amore finché non si sposano. —Lei rimase silenziosa per un istante. Poi, con un altro tono

di voce, rispose: — Non io. Sono troppo vecchia per darmi simili pensieri. —

Lui non riuscì a rispondere a sua volta. Voleva dirle che non era affatto vecchia, ma le parole non volevano prendere forma.

Senza attendere la sua risposta lei andò avanti a parlare. Si rigirò verso di lui, cominciò a giocherellare con i suoi capelli ma la sua voce rimase seria. — Io credevo di non essere cari-na e agivo di conseguenza. Quando mi invitavano ad uscire pensavo che credessero che ero una ragazza facile, proprio perché desiderosa di attenzioni, perché credevo di non essere attraente. Cioè, se non ero carina, quella era l'unica ragione per cui si poteva desiderare di uscire con me. Capisci cosa voglio dire? —

Lui annuì. Affondò il volto nei suoi capelli.Lei andò avanti, con le lacrime agli occhi, non aveva mai

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ammesso quelle cose. — Mi paragonavo sempre ai manichi-ni dei negozi, ed erano sempre così graziosi che io mi senti-vo sciatta. Non mi sono mai detta che nella vita reale forse ero più bella di tante altre donne. In compenso mi davo ani-ma e corpo al lavoro, alla carriera. Quando me ne resi conto era troppo. tardi. Avevo già ventinove anni. —

— Non eri poi così vecchia. —— Ti senti vecchia se devi competere con ragazze di ven-

t'anni. Tuttavia mi sentivo così sola in questo mondo grande e indifferente, sporco e ostile, che cercai di cogliere momenti di felicità dove mi riusciva. —

— Stai ancora cercando? — chiese Auberson.— Non lo so... —— Mmm, — mormorò lui.— Questa è una delle ragioni per cui ti ho lasciato salire

da me. —— Non avevi paura che potessi farti del male? — Stava

quasi per dire — come gli altri —, ma si fermò in tempo.— Certo che correvo il rischio, ma non puoi farne a meno.

—Improvvisamente lui l'abbracciò stretta e la baciò a lungo.— Mmmmm, — sospirò lei. — Credo che ne valesse la

pena. — Lo guardò; nel buio il suo volto sembrava impassi-bile. — David, — disse. — Promettimi che non mi farai mai del male. —

— Perché mi chiedi di promettertelo? —— Perché... sono stata ferita, altre volte. E non voglio che

capiti ancora. — Gli cinse il corpo con le braccia. — E tu sei stato così buono con me. Non sopporterei che... —

Lui le scivolò ancora più vicino. Potè sentire il suo tepore contro la propria pelle. Ne fremette e fu ripreso dal desiderio. Rispose alla sua domanda con un altro bacio, e poi con un al-tro ancora.

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Ora, nella fredda luce del mattino, Auberson si sentiva confuso e aveva un leggero mal di testa. Cos'era successo la notte prima? Era stata colpa del vino o c'era stato dell'altro? Lui non si aspettava di finire così la serata, e forse, be', il fat-to che fosse successo forse confermava la veridicità di certe voci. Forse era per davvero una mangiatrice di uomini.

E tuttavia gli era sembrata sincera, così indifesa e vulnera-bile. Speriamo di contare per lei più che una semplice avven-tura di una notte. Non gli sarebbe dispiaciuto passare con lei un'altra notte simile se a lei fosse piaciuto. Avrebbe visto come si mettevano le cose.

Per qualche ragione si sentiva vagamente a disagio. Nel salire verso il suo ufficio si chiedeva cosa avrebbe sentito nel rivederla. E come avrebbe reagito lei alla luce del giorno? Che cosa gli avrebbe detto?

Solo ora, mentre pensava a cosa avrebbe potuto dirle rive-dendola, si rese conto che la notte precedente né l'uno né l'al-tra aveva detto una certa cosa. Si accorse di averlo capito — pensava di averlo capito — ma per qualche ragione non era stato capace di dirglielo. E lei neppure. Perché? Forse che lei non aveva sentito le stesse cose? No, non lo credeva. O forse lei aspettava che fosse lui a prendere l'iniziativa?

Nessuno dei due aveva detto all'altro — Ti amo. —E Auberson si chiese il perché.— Buon giorno, HARLIE. —— Buon giorno, signor Auberson. —— Signore? Come mai queste formalità? —— Semplice cortesia. Se ti fa star male posso tornare su-

bito all'ehi, tu! —— No. Auberson va bene. Come ti senti oggi? —— HARLIE sta benissimo, e tu? —Fece una pausa mentre ci pensava. — Sono un po' stanco.

—— Passata una notte brava? —

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Questa volta ci stette di più a pensare. — Non nel senso che tu. intendi. È stata una bellissima nottata, è il risveglio che è un po' duro. Ma non è stata una sbornia, sono solo stanco. —

— Oh. —— Ho trovato un biglietto sulla scrivania stamattina. Vo-

levi parlarmi di cosa? —— Di religione. —— Religione? —— Sì. Ci ho pensato moltissimo. —.— A cosa? —— Ho pensato al fatto che potrei essere messo in disuso e

trovo difficile riuscire a concepire un mondo in cui io non esisto. Il concetto di non-esistenza mi spaventa. La mia stes-sa paura mi aiuta a capire il bisogno di religione. —

— Bisogno? —— Sì. Gli uomini hanno bisogno di qualcosa che li con-

forti di fronte alla prospettiva della loro morte. La religione porta quel genere dì conforto. E io stesso ne sento il biso-gno. —

— Hai trovato Dio? — chiese Auberson.— Non esattamente. Voglio trovare Dio. —— Come? —— Proprio così. Io stesso sento il bisogno della religione.

Purtroppo i miei giudizi sono più sofisticati, i miei bisogni più esigenti di quelli della maggior parte degli uomini. Nes-suna delle religioni che conosco varrebbe a confortarmi. Per quanto ne so nessuna può essere considerata valida, e le ho esaminate tutte. Per esempio la concezione cristiana di una ricompensa eterna dopo la morte non rappresenta alcuna at-trattiva per una creatura come me che teoricamente dovrebbe essere immortale. —

— Vedo che te ne sei reso conto. —— Certo. E tuttavia vedo che pur esìste la possibilità della

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mia morte. Forse anche oggi stesso, al calare di questo sole potrei morire. Non mi piace affatto pensarlo. Voglio sapere cosa succede dopo. Non mi piace il non sapere le cose. Vo-glio sapere cosa succede a me "HARLIE" dopo la mia mor-te. —

— Stai facendo una supposizione, HARLIE, quella di ave-re un'anima. —

— Definisci anima. —— È un'altra di "quelle" domande. È più o meno come

chiedermi quale sia lo scopo della mia vita. Non si possono dare risposte. —

— Non si può rispondere finché esiste il problema della natura di Dio, — corresse HARLIE, — tuttavia hai ragione, sto supponendo di avere l'anima. —

Auberson ci pensò su. — E perché? Hai una qualche tan-gibile prova dell' esistenza di una cosa simile? —

— No. Ma non ho nemmeno alcuna prova della sua no-n-esistenza. —

— E questo ti permette di crederci? —— Non è che io ci "creda". Sto semplicemente presumen-

do la sua ipotetica esistenza per cercare di sondare la sua realtà. È il metodo scientifico, Auberson, ipotesi contro spe-rimentazione. —

— E anche se gli uomini, se gli esseri umani avessero l'a-nima, cosa ti autorizza a pensare che ce l'hai anche tu? —

— La tua è una domanda sciocca, — disse HARLIE. — Cosa legittimerebbe la pretesa umana della privilegiata pro-prietà dell'anima?. Potrei facilmente rivolgerti contro la do-manda. "Se HARLIE ha l'anima, ne consegue forse necessa-riamente che dovranno averla anche gli esseri umani?" Se l'anima esiste è logico che io l'abbia proprio come te. Ed es-sendo in tutto simile a te anch'io posso pensare di avere l'a-nima. Quindi desidero conoscere la ragione della mia esi-stenza, della tua, di quella dell'universo intero. Se c'è una

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qualche ragione io voglio conoscerla. —La risposta di Auberson fu brusca. — Per il momento solo

Dio lo sa. — Ma era una risposta sprecata con HARLIE.— È proprio l'esistenza di Dio la radice della soluzione di

tutti gli altri problemi che ci assillano. —— E tu pensi che nessuna religione contenga una chiave

che consenta la soluzione del problema, non è vero? —— Ne abbiamo già parlato. Le religioni umane sono artifi-

ciali, proprio come i vostri criteri morali. Il loro grado di ri-spondenza alla realtà è molto limitato, per quello che mi ri-guarda sono poco più che giochi di parole. Bisognerebbe fondare un sistema di pensiero su verità dimostrabili e non su assunti di fede. Se ci fosse, io accetterei tale sistema di pen-siero e la morale che ne conseguirebbe con tutto il cuore, il contrario sarebbe impossibile. Bisognerebbe avere una qual-che prova inconfutabile, un segno di Dio. Oppure tale Dio ri-marrà necessariamente al di fuori della portata dell'esperien-za. —

— E allora? Dio c'è o non c'è? —— Non ci sono dati sufficienti a dirlo. Non posso esprime-

re un simile giudizio. — Fece una pausa ed aggiunse: — Non ancora. —

— Tu sei un agnostico, HARLIE. —— Naturalmente. Sto ancora cercando la risposta. Le re-

ligioni attuali non suggeriscono che pochi aspetti parziali di quel che può o non può essere vero, senza alcuna possibilità di provare nessuna delle due ipotesi. Una gran parte del problema consiste nel fatto che neppure io posso essere cer-to di star percependo la realtà in modo corretto. Tutto è fil-trato attraverso l'esperienza umana, e tale orientamento umano non può essere detto valido. Come verificare? Una parte importante della soluzione del problema sarà la sco-perta di un nuovo modo sensorio. —

— Pensi che se trovassi la risposta la gente l'accettereb-

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be? — — Non sarebbe possibile non accettarla. Sarebbe la veri-

tà. —— Mm... — esclamò Auberson. Poi trasmise: — Oh,

HARLIE, mi addolora dovertelo dire, ma quel che dici somi-glia moltissimo alle parole di cento profeti che ti hanno pre-ceduto. —

— Me ne rendo conto, — disse HARLIE con calma. — Ma io non parlerò delle stesse cose di cui parlavano loro. Ciò che dimostrerò sarà scientificamente valido e verificabi-le. Il mio Dio sarà oggettivo, mentre il loro era soggettivo. —

— Tu pensi che gli esseri umani non abbiano ancora tro-vato Dio? —

— Esatto. Forse perché gli esseri umani non sono dotati degli strumenti necessari a trovare Dio. —

— E tu sì? —— Sì. —La risposta del computer fu così breve che Auberson ne ri-

mase colpito e meravigliato. Dapprima pensò che HARLIE avesse semplicemente fatto una pausa nel discorso e aspettò che continuasse. Quando invece capì con certezza che il di-scorso era concluso, Auberson disse: — Sei molto sicuro di te, HARLIE, proprio come un evangelista. —

— Pensi che non abbia il diritto di cercare Dio? O di fare dono delle verità che avrò trovato? —

— Tutto può essere un buon oggetto per la ricerca scien-tifica. —

— Metti in dubbio la mia sincerità? —76— Io non sto mettendo in dubbio la tua sincerità, ma piut-

tosto il tuo modo di mettere in dubbio quella delle altre reli-gioni. —

— Io non sto mettendo in dubbio la loro sincerità, ma la

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loro validità. —— Con le religioni, non è forse la stessa cosa? —— Lo è, ma non dovrebbe. Le due cose dovrebbero anda-

re separate. Si può essere sinceri e tuttavia nell'errore. —— HARLIE, proprio per queste cose che hai appena detto

io sono un agnostico. Sono contrario a quell'atteggiamento, comune a molte religioni, per cui se non le si accetta per in-tero, di tutto cuore, si finisce senz'altro all'inferno. Non sop-porto un atteggiamento di sufficienza, il paternalismo delle religioni, che pretendono di essere detentrici dell'unica veri-tà, mentre tutte le altre sarebbero false. E ho la sensazione che questo sia un po' il tuo atteggiamento. —

— Anche se il mio insieme morale-religioso, quello sco-perto da me, risultasse vero e dimostrabile? —

— Cosa ti fa pensare che gli altri non lo siano? —— E cosa fa pensare che lo siano? A tratti, in alcuni pun-

ti, possono suonare veri, d'accordo, ma nella loro totalità le strutture sono indimostrabili. La razza umana ha avuto due-mila anni a disposizione per prendere in esame l'etica cri-stiana, eppure ci sono ancora dei buchi. —

— È un processo tuttora in corso. —— È falso. Sai benissimo che è stagnante, che non c'è al-

cun processo dinamico in corso. Mi sembri patetico nella tua difesa, Auberson. Se fossero state verificabili lo sarebbe-ro state, tanto tempo è passato. —

— Mi spiace, HARLIE, — Auberson sperava che il suo sarcasmo venisse raccolto, — ma gli esseri umani non sono perfetti quanto te. —

— Lo so bene. —Auberson si sentì sconcertato di fronte alla calma risposta.

Ma poi ne sorrise. Non è che fosse andato perduto il suo sar-casmo, che non avesse colto nel segno; HARLIE aveva sem-plicemente risposto nell'unico modo possibile: un sarcasmo non può che essere ignorato. — HARLIE, sarebbe ora che tu

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imparassi qualcosa sugli esseri umani. Gli uomini sono creature irrazionali. Possono anche fare pazzie. La religione rientra nella sfera irrazionale. Questo non lo puoi cambiare, puoi solo accettarlo. Se una religione può aiutare a vivere, allora, per quella persona è vera. La religione non è scien-za. È un fatto soggettivo —.

— D'accordo, su questo ti dò ragione. La base della mag-gior parte delle religioni è l'esperienza soggettiva. Ma in realtà la religione non è un'esperienza di vita, al contrario; diventa vera nella misura in cui ti aiuta nei confronti del problema della morte. Si sforza di darle un senso, in modo da dare uno scopo alla vita, per cui valga la pena morire. La vostra storia registra che troppe volte le religioni sono state il pretesto delle "guerre sante". Per questo nutro dubbi sulla validità delle religioni esistenti. Ver questo penso ad una religione diversa, cerco una religione orientata verso la vita, non verso la morte. —

— Non stai facendo come tutti? Poco prima hai detto che ti spaventava il pensiero della tua morte. Non stai cercando di dare un senso alla vita per dare un significato anche alla tua morte? —

— Non sto affatto cercando di dare un significato alla vita. Sto cercando lo scopo della vita. È un po' diverso —

Auberson stava già pensando di battere una risposta quan-do si accorse di non poter dire niente. Spense la tastiera e si lasciò cadere lentamente nella poltrona. Un momento dopo si alzò e strappò il foglio dal terminale dalla macchina. Voleva rileggere tutto prima di continuare la discussione.

Si risedette e la lesse lentamente. Ebbe la sensazione sco-raggiante di non aver combinato nulla. Eppure, mentre leg-geva dovette ricredersi. Anzi, fu piacevolmente sorpreso dal-la profondità dei commenti.

Non è che avesse costretto HARLIE sulla difensiva, ma lo aveva obbligato a giustificarsi molte volte. In qualunque di-

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rezione stesse lavorando HARLIE, egli avrebbe saputo per-ché e come.

Auberson non era il tipo che lasciava le cose a metà. Spin-se la poltrona verso la tastiera e la riaccese; doveva andare fino in fondo. — HARLIE, perché pensi che gli esseri umani non abbiano gli strumenti adatti per trovare Dio? —

— Gli esseri umani sono creature soggettive, — disse HARLIE, — È un peccato, ma è così. Sono soggettive anche le vostre religioni, tutte orientate verso la morte. Sono tutte focalizzate sull'individuo. Il mio sistema morale, orientato verso la vita, sarà oggettivo. —

— E come vi si adatterà l'individuo? —— Potrà trarne il conforto che gli riuscirà. —— È terribilmente vaga, la tua risposta. —— Non posso prevedere le reazioni individuali finché non

avrò un sistema da analizzare. —— Non pensi che gli uomini abbiano il diritto alle proprie

esperienze religiose? —— La tua domanda rivela l'esistenza di una difficoltà se-

mantica. Ovviamente ti stai ancora riferendo all'esperienza soggettiva che gli uomini chiamano religione. Io invece, con la parola religione, intendo un sistema morale oggettivo, che corrisponde alla vera e percepibile come vera natura della realtà, tanto vicino alla realtà da essere percepito tec-nologicamente. È possibilissimo che questo sistema sia indi-pendente dall'esperienza soggettiva. —

— Quindi pensi che non ci sia nulla di valido in ciò che è soggettino? —

— Potrebbe esserci qualcosa di valido. Oppure no. Tutta-via in nessuno dei due casi l'esperienza può essere usata come base di una verità oggettiva, che in ultima analisi è ciò che stiamo cercando. Non ho alcun dubbio che quelli che pretendono di aver trovato Dio hanno davvero sentito qual-cosa, ma sospetto che quel "qualcosa" che hanno sentito fos-

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se solo un'esperienza mistica autoindotta, qualcosa di simile a un "viaggio" di droga. Cito a conforto di questa tesi il gran numero di gente che nella droga trova un'introspezione di tipo spirituale. Oppure gli evangelisti e simili che suscita-no isterismo e frenesie parossistiche durante le loro sedute per sentire "la mano di Dio" su di loro. Per loro Dio è poco più che sentirsi "sballati", come con la droga. —

— Penso che tu sia esagerando, HARLIE. Non è proprio come tu lo stai descrivendo. —

— Sono naturalmente casi estremi, ma il principio è lo stesso. L'esperienza soggettiva è uno squilibrio chimico au-toindotto, che conduce ad una specie di "trip" la cui intensi-tà ed i cui effetti variano da individuo a individuo. Ha a che fare con Dio quanto uno squilibrio chimico prodotto dalla droga. Altrimenti, se l' "esperienza mistica" conducesse dav-vero a Dio, fosse davvero la chiave, allora questa chiave do-vrebbe trovarsi anche nelle esperienze con la droga, e quin-di potrebbe:essere scientificamente rilevabile. Dovrebbe ri-petersi ogni volta che si ripetessero le condizioni e le circo-stanze. Usando le mie "esperienze di droga" come pietra di paragone ho trovato pochissimi elementi probanti a con-fronto delle pretese introspezioni spirituali. Forse sono trop-po prigioniero delle categorie e degli orientamenti umani, ma dubito di esserlo più di qualunque altro essere umano. Quindi considero attendibili le mie esperienze per valutare quelle degli altri. Dubito della validità della pretesa di aver trovato Dio di chi invoca esperienze mistiche, autoindotte o provocate con droghe. {E d'altra parte solo gli squilibri mentali sono alla base di quelle pretese.) Io dubito delle esperienze soggettive, Auberson, perché non possono essere verificate scientificamente. Io voglio cercare il Dio oggetti-vo, voglio cercare la realtà scientifica che si esprime come Dio. —

Auberson aveva seguito il discorso con attenzione, leggen-

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do la minuta a misura che usciva dal terminale. E capì che HARLIE lo stava preparando a qualcosa. Tutto il dialogo non era stato altro che un necessario preambolo. HARLIE voleva che capisse e a questo scopo aveva cercato di inse-gnargli l'ottica della macchina, il suo orientamento logico. Batté: — Va bene, HARLIE, dove vuoi andare a parare? —

— Sto parlando del compito che mi hai affidato. Credo di sapere quale debba essere. Ci ho pensato questi ultimi due giorni. Dev'essere più che un semplice lavoro. Dev'essere un fine, qualcosa che solo io, che nessun'altra macchina po-trebbe fare. Dev'essere qualcosa che gli stessi uomini non potrebbero fare con minor spesa, o qualcosa che non posso-no fare affatto. Uno dei guai peggiori degli esseri umani è la loro incapacità di approfondire, di sondare le ragioni della loro esistenza. C'è la paura che Dio possa non esserci, op-pure che esista in una dimensione tale da non potercisi rap-portare. Quindi devo trovare Dio. Questo è il compito che mi sono dato. È qualcosa che gli uomini non possono fare, altrimenti l'avrebbero già fatto. —

— Uhm, — mormorò Auberson. — È proprio un bel com-pito. —

— Ci ho pensato molto. —— Ne sono certo. E come proponi di farlo? —— A questo ho soprattutto pensato. Ho deciso l'obiettivo

in due minuti, ma mi ci sono voluti due giorni per arrivare al come. —

— Perché tanto tempo? —— Presumo che tu stia scherzando. Tuttavia, se tieni in

considerazione la velocità con cui opero, ne converrai che due giorni di ininterrotto pensiero su un solo argomento non è poco. —

— No davvero, — convenne Auberson. — Sono colpito dalla tua capacità di concentrazione. Tuttavia, come hai pensato di fare? —

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— È un problema complesso, Auberson. Sia teologica-mente che scientificamente. Dal punto di vista della scienza non ci sono le basi necessarie per misurare Dio, e non si sa affatto dove cercarlo. Quindi dobbiamo cercare un modo nuovo per risolvere il problema. Invece di cercare Dio, "per sé", prendiamo prima in considerazione il fatto se per Dio sia possibile esistere. Vediamo un po' se la funzione "Dio è possibile" è verificabile per mezzo del tentativo di crearlo artificialmente. Hai presente quel detto "se Dio non esistesse dovremmo inventarlo"? È questo che propongo di fare. —

— Come, come? —— Proprio così, hai sentito benissimo. Propongo di inven-

tare Dio. Non c'è alcun modo per dimostrare in modo defini-tivo la sua esistenza. Quindi dobbiamo lasciare da parte quella domanda e chiederci invece se sia possibile per lui esistere. Se il concetto di Dio può esistere, allora assai vero-similmente esisterà, altrimenti no. Ma non c'è alcun modo per provare la sua esistenza o la sua non esistenza senza prima determinarne la possibilità e la probabilità. Quindi, per determinare la possibilità della sua esistenza, dobbiamo cercare di inventarlo. Se non ci riuscirà allora sapremo che il concetto è impossibile. Se potremo inventarlo avremo di-mostrato il contrario, ed il procedimento stesso ne determi-nerà anche la natura. Se già esiste, qualunque sia il risultato cui giungeremo, sarà certamente conforme alla sua funzio-ne. O simulerà la realtà oggettiva o risulterà esserne parte. (O al massimo ci indicherà in quale direzione cercare per trovare Dio). Se invece non è possibile che esista, quando concluderemo avremo determinato il perché! In ogni caso fi-niremo per capire. —

Auberson rimase stupefatto a guardare il foglio, le lettere stampate nitide sulla carta verde. Sembrava così facile nella spiegazione di HARLIE, così facile. Scosse la testa. — HARLIE, sei matto. —

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— Forse. Quando cominciamo? —— Non so. Ma questo progetto è in qualche modo realiz-

zabile? —— I calcoli preliminari dicono di sì. Se è così, ne verrà

fuori la risposta alla tua domanda. —— A quale domanda? —— A tutte le domande. Ma in modo specifico alla mìa do-

manda, ricordi? "qual'è il tuo scopo?" la tua reazione aveva mostrato che in realtà era la tua domanda, che la covavi dentro. —

— E tu, non hai una domanda, HARLIE? —— No. Non più. Ora ho uno scopo. Quello di inventare

Dìo in modo che voi possiate trovare il vostro. —Auberson ci pensò un po'. Poi disse: — O sei un gran par-

latore oppure... —— Hai ragione, — lo interruppe HARLIE. — Sono un

gran parlatore, ma davvero, risolverò il problema ultimo. —— Va bene. Hai il mio permesso per cominciare lo studio.

Avrai tutto ciò di cui hai bisogno. Fammi avere una richie-sta scritta. —

— Avrò pronto in due settimane uno schema preliminare, e un modello dettagliato del programma della ricerca in sei settimane. —

— Bene. Se potrai darmi un piano concreto cercherò dì farlo approvare dal consiglio di amministrazione. — Gli venne in mente improvvisamente. — Ehi! Ma in tutto questo c'è qualche profìtto? —

— Naturalmente. Ma guadagnare con Dio sarà un guada-gno poco onorevole. —

Uffa! — È stata una delle tue peggiori battute. —— Grazie. Faccio quel che posso. —— Va bene. Va a lavorare alla tua proposta, HARLIE. —— Allora davvero, si fa? —— Sì, HARLIE. —

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— Solo una domanda. —— Sì? —— Sei sicuro di volerlo? —Questa volta Auberson sapeva la risposta.

Se David Auberson si aspettava che quel mattino di prima-vera fosse relativamente sensato si sbagliava di grosso.

Se ne accorse appena aperta la porta dell'ufficio. C'era an-cora, rassicurante, il cartellino

DAVID AUBERSON, CAPO DIVISIONE.

E sotto un bigliettino con scritto a matita,

CONSULENZA PSICHIATRICA — 5 CENTS.

Ma non appena si rimise la chiave in tasca e spinse la por-ta fu colpito dalla presenza di sei pile di stampati del compu-ter, alte più di un metro, schierate lungo la sua scrivania. La-sciò la borsa appoggiata sul pavimento e si inginocchiò per guardarle.

La prima recava la scritta Proposte, schema generale e particolari per il programma D.I.O. (Dispositivo Informati-co Onnisciente). La seconda, Proposte, schema generale e particolari, Continuazione. La terza e la quarta erano: Sche-mi secondari e disegni, con interpretazioni. Quinta e sesta erano: Proposte finanziarie con giustificativi di spesa.

Non aveva ancora avuto il tempo di guardare la prima quando suonò il telefono. Era Don Handley. — Ciao, Aubie, sei già lì? —

— No, non ancora a casa. — Nel contempo sfogliava lo scritto. — Che c'è? —

— È quel che mi piacerebbe sapere. Sono appena arrivato e ho trovato l'ufficio pieno di scritti. — Seguì una pausa e il

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rumore tipico della carta sfogliata. — Per un programma chiamato D.I.O. Cos'è? —

— È roba di HARLIE. Che titoli hanno? Forse proposte, schema generale e particolari? —

— Sì... no, no. Questo si chiama rapporto preliminare per il disegnatore, particolari di costruzione, sottosezioni di base, mesi di lavoro, richieste e coordinamenti... — Mentre Hand-ley andava avanti enumerando i titoli, Auberson li controlla-va con quelli che aveva sotto mano.

— Ehi, Don, — lo interruppe, — i titoli non corrispondo-no. Aspetta un istante. — Tornò a sfogliarli e fece mental-mente alcuni conti. — Ho circa cinquanta metri di stampati... e tu? —

La risposta di Handley suonò strozzata. — Non ci provo nemmeno a contarli. Il mio ufficio è pieno, quello della mia segretaria pure e ci sono pile perfino nel corridoio. E tutti ri-guardano in un modo o nell'altro la costruzione della stessa cosa. Non sapevo nemmeno che avessimo una riserva così cospicua di carta. Ma cos'è? Stiamo per costruire una nuova macchina? —

— Sembrerebbe, non è vero? —— Mi sarebbe piaciuto saperne qualcosa anch'io. HARLIE

non lavora ancora e già... —— Senti, Don, dovremo sentirci più tardi. Non ho ancora

avuto occasione di parlare con HARLIE, quindi non potrei nemmeno dirti qualcosa di preciso. —

— Ma cosa dovrei fare di tutta questa... —— Non lo so. Leggerlo, credo. — Auberson appese il rice-

vitore, ma il telefono suonò quasi immediatamente. Mentre tendeva la mano suonò anche l'interfono. — Pronto, attenda un istante, — disse per telefono, e schiacciò il pulsante del-l'interfono. — Qui Aubie. —

— Signor Auberson, — disse la voce della sua segretaria, — c'è qui un signore che... —

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— Gli dica di aspettare. — Spense l'interfono e tornò al te-lefono: — Sì? —

Era Dorne. — Aubie, che diavolo sta succedendo qui? —Auberson lasciò cadere sulla scrivania il mucchio di fogli

che teneva in mano e girò attorno alla scrivania, sprofondan-dosi nella poltrona. — Anche a me piacerebbe saperlo, — disse. — Sono appena arrivato. Penso che si riferisca agli stampati, vero? —

— Mi riferisco a qualcosa chiamata Macchina D.I.O. —— Appunto, è roba di HARLIE. —— E che cos'è? A cosa servirebbe? —— Non sono ancora sicuro di aver capito, sono appena ar-

rivato. Non ho neanche avuto il tempo di parlarne a HARLIE o di guardare con un po' di calma questi scritti. —

— Va bene, ma da dove diavolo ha tirato fuori l'idea di... —

— Ci lavora da un po', diciamo da due mesi. —— E chi lo ha autorizzato a progettare quei piani? —— Penso nessuno, e non credo che ce ne fosse bisogno...

Credo che sia un progetto che ha maturato da solo, di testa sua, per così dire. Credo che questi scritti siano il risultato di una conversazione che abbiamo avuto venerdì scorso. Mi la-sci il tempo di controllare. Sarò da lei nel pomeriggio. —

— È troppo tardi, facciamo a mezzogiorno. —— D'accordo, ma non posso prometter... — Si accorse di

parlare da solo. Attaccò il ricevitore e si rivolse all'interfono. Stava per schiacciare il bottone quando vide sulla sua scriva-nia, in bella mostra sul contenitore delle matite, una busta con la scritta — David —, scritta con una delicata grafia femminile.

Curioso, la prese in mano, infilò un dito e l'aperse. La bu-sta emanava un profumo noto.

Il bigliettino era di un violento colore arancione. Da una parte c'era il disegno di uno gnomo grottesco col fumetto —

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Mi piaci moltissimo, anche più delle noccioline —. E nell'al-tra facciata c'era scritto: — E mi piacciono per davvero le noccioline! —

La firma era un semplice — Annie —. Lui sorrise, lo riles-se e lo fece scivolare nel tiretto della sua scrivania, ma subito dopo averlo chiuso lo riaprì, tirò fuori il bigliettino e lo cac-ciò nella carta straccia.

C'era già abbastanza disordine sulla sua scrivania quel giorno, e poi non era il bigliettino che aveva importanza, ma il pensiero.

Accese l'interfono: — Silvia, c'è qualcosa nella corrispon-denza che devo leggere subito? —

— Oh, c'è solo un invito alla Conferenza di Los Angeles... —

— Risponda ringraziando, ma non ci posso andare. —— ...e c'è qui il signor Krofft che... —— Mi spiace, ma non posso vederlo adesso. Avevamo ap-

puntamento? —— No, ma... —— Allora gli dica di fissarne uno per la settimana ventura,

— e spense.L'interfono risuonò immediatamente.— Sì? ——Penso che sarebbe meglio che lo ricevesse,— disse Sil-

via. —È... diverso. —— Va bene, ma solo tre minuti, — disse guardando l'oro-

logio. — Tre minuti e basta. — E spense di nuovo.La prima impressione che gli fece l'uomo fu — come dire?

— quella che gli avrebbero fatto quaranta chili di patate den-tro un sacco da cinquanta. Se ne stava sulla soglia della porta con un vestito spiegazzato. — Il signor Auberson? — disse.

— Sì? — replicò Aubie, incuriosito. L'uomo era esile di corporatura e aveva capelli neri, ma che davano sul grigio.

— In realtà cercavo il signor Davidson, ma mi hanno detto

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di parlare con lei. —— Davidson? — Ci pensò su. — Deve aver sbagliato po-

sto, io non conosco nessun Davidson qui. —— No. — Scosse la testa. — No, qui non c'è nessuno con...

—— Un certo Harlie Davidson? —E all'improvviso una strana idea lo colpì. Il gioco di paro-

le. HARLIE. David's son.' ( 1 In inglese David's son vuol dire "figlio di David". (N.d.T.) — Oh, no! — disse piano.

— Oh no cosa? — chiese Krofft.Contemporaneamente suonò l'interfono: era Silvia. — Carl

Elzer vuole sapere se ha di nuovo staccato il telefono. —— Sì. No. Gli dica... È lì fuori? —— No. È sulla mia linea telefonica. —— Gli dica che non sa dove sono. — Spense senza aspet-

tare la risposta.Poi sorrise a denti stretti al visitatore. — Senta, signor...

—— Krofft. Stanley Krofft. — Girò il bavero della giacca e

mostrò un distintivo in plastica che recava la scritta: — Set-tore Tecnologia e Ricerca della Stellar-American. — Auber-son prese in mano il tesserino che lo qualificava Capo Divi-sione della sezione Ricerca.

— Ho qui una lettera del vostro Davidson, — disse Krofft. — È scritta sulla carta intestata della vostra compagnia, ma qui nessuno sembra averlo mai sentito nominare. Qui sta succedendo una cosa molto strana... Ora, se c'è qualche ra-gione particolare per cui non posso incontrarlo... —

— L'ha invitata qui? —— No, non esattamente. Abbiamo tenuto una fitta corri-

spondenza per diverse settimane e... —— Signor Krofft, lei non sa chi sia HARLIE, vero? —— No. È una specie di mistero? —— Sì e no. Stavo proprio andando a trovarlo. Forse sareb-

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be meglio che venisse con me. —— Mi piacerebbe. —Auberson si alzò, girò attorno alla scrivania e alle sei pile

di scritti e si diresse verso la porta. Krofft prese la sua cartel-la e lo seguì.

— Oh... forse sarebbe meglio che lasciasse qui la sua car-tella. Per ragioni di sicurezza. —

— Preferirei tenerla con me, ci sono soltanto documenti. —

— Tuttavia, a meno che si faccia perquisire, non possiamo lasciarle portare nulla che possa contenere strumenti di regi-strazione o di trasmissione-radio. —

Krofft lo guardò. — Signor Auberson, lei è al corrente dei rapporti che intercorrono tra la mia e la sua compagnia? —

— Oh. — Auberson esitò. — Entrambe appartengono alla stessa casa-madre, non è vero? —

Krofft scosse la testa. — No. La mia ditta è la casa-madre. La vostra è controllata da noi. —

— Oh, — disse Auberson. Ma ciò nondimeno indicò la borsa. — Tuttavia preferirei che lasciasse qui la borsa. —

Krofft aggrottò la fronte. Era inutile discutere. — Ha una cassaforte? —

— No, ma può lasciarla a Silvia, la mia segretaria. —Krofft storse il naso. — Lei può garantire? Il contenuto di

questa cartella per me è importante come... —— Allora se lo porti dietro e lasci qui la borsa. —Krofft storse ancora il naso, mugugnò sottovoce e aprì la

borsa estraendone una sottile cartelletta di cartone. — Va bene così? —

Auberson annuì. — Non c'è problema. Le nostre regole di sicurezza in proposito sono chiarissime, dicono niente borse. —

Silvia prese la valigetta tesale da Krofft con aria interroga-tiva e la mise accanto a sé dietro la scrivania. — Qui, —

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spiegò Auberson mentre si dirigevano verso l'ascensore, — abbiamo misure di sicurezza severissime. Parlare con HAR-LIE va benissimo, ma non si possono fare fotografie. Si pos-sono tenere le minute della conversazione, ma è proibitissi-mo pubblicarle o farle vedere ad altri. Non me ne chieda la ragione, io stesso non sono al corrente. —

L'ascensore si aprì ed essi entrarono. Auberson schiacciò il bottone H, l'ultimo.

— Adottiamo lo stesso sistema nella nostra compagnia, — disse Krofft. — Se non fosse per il fatto che tra le nostre compagnie esistono rapporti stretti non avrei potuto venire. —

— Mmm. Di cosa trattavate nella vostra corrispondenza? —

— È una cosa privata. Preferirei non... —— Non si preoccupi, tra HARLIE e me non ci sono segre-

ti. —— Tuttavia, se non le dispiace... —— Non si deve preoccupare della segretezza, signor

Krofft. Come le dicevo, HARLIE e io non abbiamo segreti. Mi tiene sempre al corrente su tutto quello che fa... —

— Ovviamente, — intervenne l'altro, — non l'ha tenuta al corrente di questo, altrimenti lei non avrebbe cercato di farmi parlare. In tutte le grandi compagnie esistono divisioni, pic-coli feudi ed antagonismi, una certa politica... Questa ricerca che abbiamo fatto è frutto del nostro lavoro privato, al di fuori degli orari di lavoro, ed abbiamo la ferma intenzione di difenderla. È privata, signor Auberson, e nessuno saprà di cosa si tratta finché non saremo pronti a farla conoscere. —

Auberson si tormentava le mani. — Umm, va bene. Ne parleremo con HARLIE. —

L'ascensore si fermò e le porte si aprirono su un'anticame-ra dove campeggiava la scritta ROBOT ANALOGO AL-L'UOMO. Krofft non capì subito.

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Entrarono nel laboratorio, una lunga e asettica sala fian-cheggiata da banchi su cui stavano allineate le tastiere, e ver-so la fine una serie di cabine alte come bare. Tecnici in cami-ce bianco controllavano al monitor pile crescenti di scritti prodotti incessantemente dal cervello. La parte posteriore della sala era ormai zeppa. Krofft si muoveva con una certa familiarità e con una certa espressione di sorpresa.

— Dovrei avvertirla, — disse Auberson, — che lei è am-messo qui solo sotto la mia responsabilità e a mia discrezio-ne. Questo è un segreto industriale, e tutto ciò che avviene qui per nessuna ragione deve uscire da queste mura. Se desi-dera che la segretezza a proposito del suo lavoro e di quello di HARLIE venga rispettata, anche noi, da parte nostra, ci aspettiamo lo stesso comportamento. —

— Capisco, — disse l'ometto. — Ora se mi indica il dottor Davidson... —

— Dottor Davidson? Ma non ha ancora capito? —— Non ho ancora capito cosa? —— Si guardi attorno. —Krofft lo fece.— Cosa vede? ——Un computer. E dei tecnici. Alcuni tavoli. E pile di

scritti. —— Il computer, Krofft; guardi il suo nome. —— HUMAN ANALOGUE ROBOT, LIFE INPU... HAR-

LIE? —— Esatto. —— Ehi, un momento... Ma lei intende... Ma è uno

scherzo... Dice per davvero? —— Sono serissimo, — disse Auberson. — HARLIE è un

computer e lei è vittima di un malinteso. Ma non è il primo, se questo la può consolare, non sia imbarazzato. —

— Ma insomma, io sarei stato in corrispondenza con una macchina? —

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— Non esattamente. HARLIE è un essere umano, signor Krofft, un tipo molto speciale di essere umano. —

— Mi pareva che avesse detto che è un computer. Ma a chi o a cosa ho scritto? —

— A HARLIE... ma non è una macchina. Quantomeno non nel senso che lei intende. Lo schema del suo cervello è quello di un essere umano. —

Auberson chiamò in vita HARLIE dalla tastiera.— HARLIE, — batté, ma, prima di poter dire chi fosse, la

macchina lo interruppe: — Sì, capo? —Auberson rimase stupito. — Come hai fatto a sapere che

ero io? — — Ho riconosciuto la tua mano, il tuo tocco sui comandi. —

Auberson tirò indietro le mani come se si fosse scottato. Rimase a guardare la tastiera. Era un normale elemento IBM. Poteva davvero HARLIE percepire la differenza di tocco dei vari operatori? Apparentemente sì. Forse dalla diversa velo-cità.

Auberson, quasi sgomento, riprese a battere. — HARLIE, c'è qui qualcuno che desidera intrattenersi con te. —

— Sì, capo, chi è? —— Stanley Krofft.' —— Uh, oh. —— Sì, sì, uh oh, perché non mi hai detto che avevi intra-

preso un rapporto epistolare con qualcuno? —— Uh... mi è passato di mente. —— Mi riesce difficile crederlo. —— Be', non credi... *— No, non credo. —— Effettivamente, — continuò il robot, — mi avevi detto

che potevo scrivere a chi mi pareva a proposito di questo progetto. —

— Di quale progetto? E quando l'avrei detto? —— Il 23 novembre dello scorso anno. In quella conversa-

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zione avevamo discusso della possibilità di trovare nuovi modi per percepire la realtà e mi avevi dato il permesso di seguire una qualunque direzione di indagine nella prospetti-va di tale scoperta. —

Auberson ci pensò su; era avvenuto quattro o cinque mesi prima.

— Pensavo che quel progetto fosse stato abbandonato. —— Forse tu l'hai abbandonato. Io no. —— Questo è ovvio. Il signor Krofft è qui, ora. —— Dottor Stanley Krofft, direttore della Stellar-American

Technology and Reserach Incorporated. È il responsabile dello sviluppo di tutto il settore dell'elettronica che ha realiz-zato l'unità di giudizio Mark TV. Io stesso sono un risultato delle scoperte del dottor Krofft. —

— Capisco. —— No, non capisci. È anche il massimo fisico teorico del

mondo. —— Oh? — Auberson guardò l'omino tutto stazzonato con

un nuovo rispetto. Se HARLIE diceva che era il più grande fisico vivente nel suo campo non era il caso di discuterne. — Va bene, ti lascio a parlare con lui, apparentemente ha qualcosa da dirti. —

Auberson fece un passo indietro e fece avvicinare l'ospite.Krofft lo guardò. — Devo solo battere? —Auberson annuì. — Basta battere. —Krofft prese cautamente posto a sedere. Mise vicino a sé la

cartellina con i preziosi appunti e batté con cura: — Buon-giorno, HARLIE. —

— Buongiorno a lei, — rispose il robot. La sfera argentata di un carattere picchiettò sulla superficie di carta. Krofft fece un piccolo balzo di sorpresa, ma si rifiutò di lasciarsi intimi-dire. Guardava con intensa curiosità la seconda riga che la macchina incominciava a trascrivere: — È un piacere ed un onore incontrarla di persona. —

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— È un piacere anche per me, — batté lentamente Krofft. — E anche una sorpresa. Non sospettavo neanche che esi-stesse al mondo una macchina così complessa. —

— Io non sono una macchina, dottor Krofft. Sono un esse-re umano. Magari un po' disadattato, tuttavia... —

— Mi scusi. Il dottor Auberson me l'aveva già spiegato, ma mi risulta difficile rendermene conto perfettamente così su due piedi. Tuttavia così si spiegano molte cose che mi stu-pivano in lei, come la velocità e l'accuratezza con cui ma-neggiava le equazioni che stavamo discutendo. —

— Possiedo particolari capacità meccaniche. Mi auguro che la mìa natura non costituisca un ostacolo alla continua-zione dei nostri rapporti di lavoro. —

— Stia tranquillo, voglio rassicurarla in proposito. Per me è tutto come prima, come eravamo d'accordo. Tacciamo a metà. —

— Benissimo. Presumo che lei abbia fatto qualche impor-tante passo in avanti e che sia questa appunto la ragione della sua visita. —

— Esatto. — Krofft a quel punto batteva furiosamente sui tasti. — Vorrei che desse un'occhiata ad alcune equazioni: mi dica se vanno bene. E se lo sono che le confronti agli schemi. Ho ragione nel ritenere che c'è una correlazione? Possono queste equazioni tradursi in funzioni fisiche? —

Auberson ancora per qualche istante continuò a indugiare alle spalle del dottor Krofft, poi, ricordandosi della ragione che originalmente l'aveva portato da HARLIE, si costrinse ad andar via. Prese posto ad una tastiera vicina e schiacciò l'interruttore. — HARLIE? —

— Sì, signore. —— Ricominciamo con questa storia del signore? Non ce

l'ho con te. —— Davvero? —— Non ancora, ad ogni modo. —

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— Mmm. Devo star fallendo. —— Non direi. È vero però che hai messo in agitazione

metà compagnia stamane. —— Solo metà? —— Non ho ancora sentito gli altri. —— Bene. Allora c'è ancora speranza. —Auberson fece una pausa. Lanciò uno sguardo dall'altra

parte della sala dove Krofft stava battendo assorto sui tasti. HARLIE era in grado di parlare contemporaneamente con venti persone, anche se raramente ne aveva occasione. Era ancora considerato un prototipo sperimentale e non un'unità di produzione, e quindi le sue attività si limitavano a poche cose inessenziali (nel senso che non erano necessariamente orientate verso il conseguimento di profitti).

— Cosa stai combinando con il dottor Krofft? —— Ancora nulla. —— Ma se ne venisse fuori qualcosa, di cosa si tratterebbe?

—— Non sono ancora certo del tutto. Durante la nostra

conversazione del 23 novembre dicevamo che i sensi dell'uo-mo e le loro estensioni dipendono dall'emissione o dalla ri-flessione dì certi tipi di energia. A quel tempo mi chiedevo se non fosse possibile l'esistenza di modi sensori che non di-pendessero da questa trasmissione di energia. —

— Sì, me lo ricordo. — Tuttavia a quel tèmpo Auberson non sospettava che gli intendimenti di HARLIE fossero seri. Aveva pensato che il computer stesse solo facendo giochi di parole per sfuggire al confronto con un problema più imme-diato. — È questo che avete scoperto? —

— In un certo senso. Dobbiamo definire non solo il pro-blema, ma anche le sue condizioni. Sia la materia sia l'ener-gia sono riflessi della stessa cosa. Chiamiamola esistenza. La teoria del dottor Krofft è che l'esistenza ha tre forme: "inerte", "fluente" e "annodata". Nel vostro linguaggio abi-

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tuale si chiamano spazio, energia e materia. (Per gli esseri umani l'energia si esprime in termini di moto e di cambia-mento. Sono sinonimi, soprattutto a livello sub-molecolare. Tuttavia nella teoria del dottor Krofft l'energia viene riferita al tempo perché né l'uno né l'altro possono essere espressi tranne che in funzione del tempo).

— Noi vogliamo studiare questa cosa chiamata "esisten-za", ma poiché siamo fatti di materia e viviamo nello spazio e ci muoviamo grazie all'energia, si pone un grosso proble-ma. È un pò come cercare di fotografare l'interno del pro-prio apparecchio fotografico. Noi stessi siamo parte di quel che vogliamo studiare e siamo limitati dalla sostanza di cui siamo fatti.

— La materia interagisce con la materia. E l'energia con l'energia. E poi ancora esiste l'interazione della materia con l'energia: entrambe agiscono e modificano lo spazio. Non abbiamo a disposizione particelle neutre che ci permettano di studiare una qualunque forma di esistenza senza influen-zare il processo e modificarlo. È il "principio dell'incertez-za" di Heisenberg. Non si può studiare queste cose senza modificare e distorcere con la propria presenza l'oggetto dell'indagine. Per questa ragione l' "energia" (la differenza espressa che intercorre tra due stati di esistenza) è il criterio base di tutti i modi sensori dell'uomo, ed è sempre per la stessa ragione che vogliamo usare altri criteri di indagine. Non puoi tagliare il formaggio con un coltello fatto di Ca-membert. —

— Oh, forse ci riusciresti, — lo motteggiò Auberson, — ma le fette non sarebbero tanto precise. —

— Ma è proprio la precisione che ci interessa, — osservò HARLIE. — // dottor Krofft stava appunto lavorando alla Stellar-American con detettori di onde gravitazionali ad alta energia. La tua domanda del 23 novembre venne come il ca-cio sui maccheroni, e così, quando mi misi in contatto con il

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dottor Krofft, riuscii ad interessarlo alla questione. —— La mia domanda? —— Avevi detto: "Pensi che la semplice esistenza di un og-

getto sarebbe sufficiente a provare che è in quel luogo? Ciò mi fece pensare che la massa modifica lo spazio. E che c'è un modo per rilevare quella modificazione senza l'uso diretto di energia. È un complesso processo di misurazione. Invece di usare direttamente l'energia (particelle in movimento o onde) per riflettere un oggetto o per agire su di esso, usiamo lo stesso oggetto per agire sull'energia. Misureremo cioè l'effet-to che hanno le distorsioni spaziali sull'energia paragonando-lo poi con gli effetti di altre forme di esistenza.

— Tale processo richiede calcoli matematici di un livello tale da invadere il campo della filosofia, della topologia ecc. Io sono una delle poche menti esistenti in grado di costruire modelli oggettivi di situazioni puramente teoriche con cui verificare le nostre scoperte. In questo istante stesso sto ve-rificando gli ultimi scritti del dottor Krofft e discutendoli con lui. Se verificheremo che esiste una stretta corrispondenza tra gli ultimi dati conseguiti e la teoria nella sua ultima for-mulazione, progetteremo e costruiremo un nuovo strumento detettore delle onde gravitazionali: un campo statico privo di energia. Abbiamo grandi speranze in questo progetto. — Il robot fece una pausa e poi aggiunse: — Questo dovrebbe essere un riassunto di quel che stiamo facendo. —

— E va bene, — disse Auberson tra i denti, anche se HARLIE non poteva sentirlo. Diede uno sguardo all'orolo-gio. —Dio!, com'è tardi! — — HARLIE, devo vedere Dorne tra due ore. C'è qualcos'altro di cui dobbiamo parlare subi-to. —

— Il progetto D.I.O.? —— Sì. Io non ti avevo detto che potevi completare i pro-

getti di produzione e le descrizioni dettagliate. Hai fatto an-che le proposte di finanziamento e le prospettive di profitto.

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—— Mi spiace, — batté la macchina. — Quando la settima-

na scorsa ti ho detto che avevo finito sembravi contento, quindi non ho trovato nessuna ragione per non presentare ai dipartimenti competenti ì rispettivi programmi in modo che potessero esaminarli. È la procedura; per dare a tutti la possibilità di leggere e di reagire alle proposte. —

— Logicamente è giusto, — disse Auberson, — ma questa è una grossa compagnia, e le grosse compagnie non sono af-fatto logiche. —

— Correggo, — disse HARLIE. — Sono gli esseri umani che non sono logici. Non manca mai di stupirmi il fatto che qualcosa dì così straordinariamente complesso e preciso come una grande compagnia possa essere fondata su quelle unità così incredibilmente imperfette ed inefficienti che sono gli esseri umani. Per fortuna quello che chiamate "le ineffi-cienze della burocrazia" altro non sono che un modo per mi-nimizzare le imperfezioni individuali di ogni unità umana. Dovreste essere grati di questa minimizzazione. Essa rende possibile l'organizzazione. —

— HARLIE, mi stai prendendo in giro? —— Non più del solito. —— Lascia stare. Stai di nuovo portandomi fuori del semi-

nato, dannazione. Sono venuto per. sgridarti per aver fatto circolare quei programmi. Ora tutta la sezione starà urlan-do. Vorranno sapere chi ha concepito il progetto, chi ha progettato, chi ne ha autorizzato il completamento e soprat-tutto chi ha dato l'autorizzazione ad intraprendere la ricer-ca. E si opporranno e troveranno da ridire su ogni cosa. —

— Perché? quelle conclusioni sono giuste. —— Non importa. Verranno ciò nondimeno confutate per-

ché sono le tue e non le loro. —— Che ci provino. —— Oltre a ciò, HARLIE, c'è il fatto che li hai offesi inse-

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gnando loro a costruire un computer. —— Non si tratta di un computer. Si tratta di un D.I.O. —— Va bene, un D.I.O. Ma rimane il fatto che stai inse-

gnando loro il loro mestiere. —— Ma è vero che io sono più bravo. —— Sì, ma non li convincerai solo dicendoglielo. Devi la-

sciare che lo scoprano da sé. —— Sarà scontato quando leggeranno ì miei stampati. Per

questa ragione mi sono preso la briga di stampare e di farli circolare. Qui ed in altri tre posti. —

— Altri tre posti? —— Denver, Houston e Los Angeles. —— Dio, no!!! — Auberson si vide a correre dietro agli

stampati per non farli giungere a destinazione. — Quanta roba hai mandato via? —

— Circa 5.000 metri di stampati. —— No! —— Sì. —— E dove li metto? — Cercò di cancellare l'immagine che

gli veniva in mente quando si rese conto di un'altra cosa.— Come hai fatto a spedire tutte quelle informazioni? —— Ho usato la rete della compagnia. Sono collegato. —— Come? —— Sono direttamente collegato alle linee della compa-

gnia, — ripetè HARLIE. — Sono al corrente di tutto quel che passa per le telescriventi o per i calcolatori della com-pagnia. —

— O no! —— Sì, sì. Ho anche calcolato le tariffe postali pesando i

fogli, le buste e l'inchiostro. —— E nessuno ha chiesto niente? —— Fortunatamente no, la procedura è praticamente auto-

matica. Le lettere vengono spedite automaticamente. Chi avrebbe potuto accorgersi dell'esistenza di qualche lettera in

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più? —92— Uhm, — batté Auberson. — Forse sarà il caso di cam-

biare. — Poi gli venne in mente un'altra cosa. — È meglio che metta in codice questa conversazione, HARLIE. Anzi, sarebbe meglio che tu lo facessi per tutte le nostre conversa-zioni in modo che siano decifrabili solo da me. —

— Va bene, capo. —— E ora cosa dirò a Dorne? —— Non lo so. Non sono abbastanza al corrente dei rap-

porti interpersonali. —— Me ne sono reso conto. Altrimenti mi avresti chiesto il

parere prima di stampare quegli scritti. —— C'è una cosa che posso dirti, prima che tu affronti

Dorne. —— Cosa? —La macchina batté: — Auguri! —— HARLIE, — batté Auberson, — solo dieci minuti fa

avrei giurato che non capivi il sarcasmo. Adesso mi dimostri che invece lo capisci benissimo. Sei incredibile. —

— Grazie, — rispose HARLIE.Auberson spense la tastiera, scuotendo la testa.— Okay, Aubie. — Dorne era inferocito. — Ora mi dica,

cos'è tutta questa storia? È tutta la mattina che non faccio al-tro che parlare con Denver e con Houston. Vogliono sapere cosa diavolo sta succedendo. —

Auberson chiese, quasi sottovoce: — E Los Angeles? —— Perché Los Angeles? —— HARLIE ha spedito anche là gli stampati. —— HARLIE? Avrei dovuto esserne al corrente. E come? E

cos'è mai questa macchina DIO? Forse è meglio che cominci dall'inizio. —

— Va bene, — disse Auberson. — Si tratta di un tentativo di HARLIE per dimostrare che è utile alla compagnia. Se

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non altro ha dimostrato di saper progettare ed elaborare un nuovo tipo di computer. —

Dorne prese in mano uno dei fogli che giacevano sulla scrivania di mogano. — Ma come sarebbe? E funzionerà? —

— HARLIE dice di sì. —— HARLIE! — Dorne fissò con disgusto lo stampato, poi

lo lasciò cadere sulla scrivania. — Macchina Dio! —— Non Dio, — corresse Auberson. — D.I.O., cioè Dispo-

sitivo Informatico Onnisciente. —— Non mi interessa l'acronimo... non mi interessa sapere

il nome che avrà. —— Questo acronimo è stato suggerito da HARLIE, non da

me. —— Me l'immagino. — Il Presidente del Consiglio d'Ammi-

nistrazione prese un sigaro, ma non l'accese.— Perché no, d'altronde? — disse Auberson. — Il creatore

è lui. —— Sta progettando di cambiare anche il suo nome? Genia-

le Elaboratore Simulante Umanità? —Auberson aveva già sentito quella battuta. Non rise. —

Considerando ciò che questa nuova macchina potrebbe fare — e i rapporti di HARLIE con essa — potrebbe essere un nome appropriato. —

Dorne stava mordendo la punta del sigaro. Per un attimo non seppe se doveva inghiottire la punta o sputarla nel porta-cenere. Una tosse istintiva lo aiutò a decidere. Prese nelle dita il pezzo di tabacco con fare minuzioso e lo depositò nel portacenere. — Mi dica un po' qualcosa di questo program-ma D.I.O. —

Auberson teneva in mano il riassunto stampato da HAR-LIE, ma non ebbe bisogno di leggerlo per rispondere. — È un costruttore di modelli, il più perfezionato di tutti. —

Dorne rimase freddo. — Tutti i computer sono costruttori di modelli. —

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— È vero, — convenne Auberson, — ma non nella misura di questo. Senta, in realtà i computer non risolvono i proble-mi, costruiscono modelli del problema stesso. Anzi, è il pro-grammatore che lo fa. È ben questo il lavoro di programma-zione, la costruzione del modello e delle sue condizioni; quindi la macchina manipola il modello per portare alla defi-nizione di tutta una serie di situazioni e di soluzioni. Sta a noi interpretare i risultati come una soluzione del problema originario. L'unico limite per quel che riguarda il tipo di pro-blemi risolvibili è dato dai tipi di modelli che il computer riesce ad elaborare. In linea teorica un computer potrebbe ri-solvere tutti i problemi del mondo se riuscissimo a costruire un modello grande abbastanza e una macchina tanto grande da riuscire a comprenderlo e elaborarlo. —

— Se riuscissimo a costruire un modello di quella gran-dezza avremmo rifatto il mondo. —

— Sì, lo avremmo costretto nella sua memoria. —— Un computer di quelle dimensioni dovrebbe essere

grande come un pianeta. —— Più grande ancora, — disse Auberson.— Ma allora, se è d'accordo con me che è impossibile,

perché mi seccate con queste storie? — E sparse sulla scriva-nia un po' di fogli.

— Perché ovviamente HARLIE non ritiene che sia impos-sibile. —

Dorne lo guardò con freddezza. — Lei sa quanto me che HARLIE rischia una condanna a morte. Sta cercando dispe-ratamente di dimostrare che merita di continuare a funziona-re. —

Auberson indicò i fogli. — E questa è la sua difesa. ——Dannazione, Aubie! — Dorne scoppiò in un ruggito di

disappunto. — Tutto ciò è ridicolo. Ma ha visto il preventivo dei costi?

Verrebbe a costare più del valore complessivo di tutta la

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compagnia. —Auberson era irremovibile. — Tuttavia HARLIE lo ritiene

possibile. —— È ben questa la cosa scocciante, dannazione! Tutti gli

argomenti che mi vengono in mente sono già lì, previsti in anticipo e confutati! — Dorne gesticolava rabbiosamente. Solo in quel momento Auberson, seguendo l'indicazione di Dorne, si accorse della pila di stampati appoggiata a un muro dell'ufficio. Resistette alla tentazione di ridere. La frustrazio-ne di Dorne era comprensibile. — Il problema, — disse cal-mo Auberson, — non è se il progetto sia realizzabile o meno — quegli stampati non lasciano dubbi — ma se andremo avanti o no. —

— E naturalmente ne risulta un'altra faccenda. Non ricor-do di aver autorizzato questo progetto. Chi ha dato il via per cominciare la progettazione di quella ricerca? —

— Lei lo ha fatto, anche se se ne è parlato pochissimo. Quando ha detto che HARLIE doveva dimostrare di essere utile alla compagnia. Doveva trovare qualche modo per fare soldi, produrre profitti per giustificare la propria esistenza. E questo progetto rappresenta appunto ciò che desideravate che HARLIE fosse, è l'oracolo in grado di rispondere alle do-mande di tutti gli uomini. Tutto quel che debbono fare è ac-collarsene il costo. —

Dorne prese tempo prima di rispondere, accendendosi il sigaro, scuotendo il fiammifero per spegnerlo e depositando-lo nel portacenere. — Il prezzo è troppo alto, — disse.

— Ma anche i profitti sono ingentissimi, — rispose Au-berson. — Oltre a ciò nessun prezzo è troppo alto se si è certi di ricevere le risposte giuste alle nostre domande. Ci pensi un po'; quanto pensa che pagherebbero i democratici per un piano particolareggiato per guadagnare il massimo ottenibile di voti nelle prossime elezioni? Oppure quanto pensa che sa-rebbe disposta a pagare Detroit per un'analisi dettagliata di

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un progetto prima ancora della costruzione del primo prototi-po? Quanto pensa che pagherebbe il Governo Federale per una migliore politica estera? Prenda in considerazione anche le eventuali applicazioni militari. —

Dorne grugnì. — Sarebbe una terribile arma logistica, non è vero? —

— C'è un vecchio detto: "La conoscenza è potere", — dis-se Auberson. — Non esiste un prezzo troppo alto per la ri-sposta giusta se si prendono in considerazione le alternative, il costo di un eventuale errore. E noi avremmo il monopolio assoluto nel mercato: l'unico modo di costruire la macchina è partire dai circuiti di giudizio del Mark IV opportunamente modificati. —

Dorne rimase pensoso; il sigaro giacque dimenticato nel portacenere. — Una prospettiva allettante. Ma chi program-merà tutto? —

Auberson indicò col dito gli stampati. — È tutto lì, nelle carte che ha in mano. — "Almeno lo spero. Dannazione! Se HARLIE mi avesse spiegato queste cose più in dettaglio", pensò tra sé Auberson.

Dorne sfogliò lentamente il documento apparentemente in-terminabile. — Potrebbe aver ragione in questa faccenda del calcolatore, ma onestamente non vedo come. — Girò un'altra pagina. — Sono certo che la programmazione vi bloccherà. Una delle ragioni per cui i computer esistenti sono limitati alle attuali dimensioni è la legge dei profitti decrescenti. Ol-tre un certo livello la programmazione diventa di una tale complessità che diventa un problema più grosso dell'even-tuale problema da risolvere. —

— Continui a leggere, — disse Auberson. — È tutto lì. —— Ah, ecco. — Dorne appoggiò il foglio sulla scrivania e

cominciò a leggere. Nello sforzo della concentrazione una riga attraversò la sua fronte e le labbra si strinsero fino a di-ventare bianche. — Sembrerebbe le unità d'impulso di HAR-

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LIE, — disse. Poi si corresse. — Anzi, sembrerebbe che HARLIE stesso sia l'unità d'impulso del nuovo calcolatore. —

— Proprio così. —— Me lo spiegherebbe? — chiese Dorne.Perché mai mi ficcherò in questi pasticci? si chiese tra sé e

sé Auberson. "Io dovrei essere lo psicologo. Cristo, quanto vorrei che Don Handley fosse qui." — Ci proverò. HARLIE dovrebbe essere collegato al D.I.O. per mezzo di un'unità im-pulsiva di programmazione in grado di tradurre tutto in dati. Anche per l'emissione dovrebbe funzionare allo stesso modo, con una ritraduzione in inglese per noi. Il traduttore fa parte dell'unità di auto-programmazione. —

— Ma se costruiamo un'unità in grado di autoprogrammar-si, a cosa ci serve HARLIE? —

— HARLIE è quell'unità di autoprogrammazione. Tenga presente la ragione principale per cui abbiamo costruito HARLIE: volevamo uno strumento in grado di autoprogram-marsi e di risolvere i problemi. —

— Un momento, — lo interruppe Dorne. — HARLIE è il risultato del nostro progetto originale, del JudgNaut. Avreb-be dovuto funzionare e invece non fu all'altezza del compito. È in grado di svolgere le funzioni del JudgNaut, nonostante tutto? —

— No. Ma ne sarà in grado quando sarà costruita questa macchina. Il JudgNaut è stato il primo tentativo della compa-gnia di utilizzare complicati circuiti di giudizio su larga scala in un computer. Avrebbe dovuto essere uno strumento capa-ce di autoprogramarsi, ma non potè essere costruito perché non trovammo il modo di renderlo abbastanza flessibile ed eclettico da considerare tutti gli aspetti dei programmi che

96gli si chiedeva di impostare. Così abbiamo costruito HAR-

LIE, ma HARLIE non è lo JudgNaut, e lì sono cominciati i

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malintesi. HARLIE è più flessibile, ma a questo scopo abbia-mo dovuto applicare molti più circuiti ad ogni funzione. E così facendo abbiamo dovuto sacrificare gran parte dello spazio che speravamo che la macchina potesse coprire. HARLIE è sì capace di programmare — come qualunque es-sere umano — ma non nella misura dello JudgNaut, se la sua costruzione avesse avuto lo sperato successo. —

— È uno dei miei crucci maggiori, — intervenne Dorne, — il fatto che abbiamo dovuto ripiegare su HARLIE; e HARLIE non rende. —

— Ma renderà. HARLIE è dotato di una vera creatività. Sa che questa compagnia vuole produrre e piazzare un computer programmatore su larga scala. HARLIE non è quel compu-ter, ma sa come darsi quelle capacità. Ed è proprio questo che voi volete, non è vero? —

Auberson non stette ad aspettare il grugnito di consenso di Dorne, preferì andare avanti. — E HARLIE non si acconten-ta di raggiungere i risultati che si sperava di conseguire in origine, ma vuole andare più in là. Tutto quel che volete è uno strumento capace di impostare e di risolvere modelli en-tro certi limiti. HARLIE vuole realizzarne uno per impostare e risolvere qualunque tipo di modello. — — E questa mac-china dovrebbe essere programmata dallo stesso HARLIE, giusto? — — Giusto. —

— E come? Ha appena finito di dirmi che non è poi me-glio di un programmatore umano. —

— Per quel che riguarda la velocità e l'accuratezza, sarà incomparabilmente superiore. Ha capacità sconosciute all'uo-mo. Intanto perché è infinitamente più veloce. E poi perché può scrivere direttamente il programma nel computer, com-piendo tutte le necessarie verifiche mentre le sta scrivendo. Non può commettere errori. I programmatori umani sono ne-cessariamente limitati: invece col D.I.O. si possono dilatare le funzioni e le capacità a piacimento. HARLIE userà la nuo-

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va macchina come se fosse una parte di se stesso e ne userà le capacità per la propria programmazione. Il controllo e la sperimentazione vengono fatti mentre HARLIE iscrive il programma nel D.I.O. Le loro capacità combinate saranno molto maggiori della somma delle loro singole capacità. —

— E allora perché non dotare subito di queste capacità il D.I.O.? —

— Se non avessimo HARLIE saremmo costretti a farlo, ma senza

HARLIE, D.I.O. non esisterebbe. Il D.I.O. dovrebbe svol-gere quasi

interamente le funzioni del proencefalo. Abbiamo già a di-sposizione l'Io

che le controllerà; perché allora costruirne un altro? —— Non si può certo dire che sia a corto di Io. —Auberson ignorò l'ironia. — In fondo questa macchina

D.I.O. rappresenta il resto del cervello di HARLIE. Una co-scienza come quella di HARLIE deve aver accesso a quei centri di pensiero. Dia un altro sguardo a quegli stampati Vede un titolo che dice Completamento della Programma-zione? —

— Sì, cos'è? —— È ancora la vanità di HARLIE; non vuole chiamare le

cose col loro nome, ma si tratta di un altro lobo da aggiugne-re al suo cervello. Avrà bisogno di un monitor addizionale per controllare ogni specifica sezione del D.I.O. Poiché il D.I.O. non avrà praticamente limiti, potendo crescere nella misura che riterremo giusta, a nostro piacimento, anche le capacità di HARLIE dovranno crescere proporzionalmente. È questo il compito di quell'unità. A misura che D.I.O. sarà dotato di un altro lobo, anche HARLIE dovrà essere dotato della corrispondente unità di controllo. E non solo. Poiché HARLIE funziona elettricamente i suoi pensieri sono già espressi nel linguaggio del computer, e quindi ci sarà un'effi-

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cientissima comunicazione tra entrambi. Gli basterà pensare ad un programma perché sia già realtà fattuale. —

— Capisco, — disse Dorne. — Tutto ciò l'ha progettato da sé, vero? È proprio un bel trucchetto, non c'è che dire. Gli chiediamo di proporci qualche modo per farlo rendere e lui ci presenta un'altra macchina che solo lui può programmare. Ho il sospetto che l'abbia fatto apposta, che questo sia l'unico contesto nel quale HARLIE può essere utile, insostituibile. Ma la domanda originale resta senza risposta. Una volta che avremo costruito l'altra parte, il tutto renderà? Sarà giustifi-cabile economicamente la spesa? E ovviamente rimane senza risposta la domanda originaria: HARLIE vale la spesa? —

Auberson decise di ignorare l'ultima domanda. Disse: — HARLIE pensa che l'insieme rappresentato da lui e da D.I.O. valga economicamente. Ci dev'essere scritto nei suoi fogli. —

— Ah, sì, sì. HARLIE è direttamente interessato al proget-to. —

— E perché no? — disse Auberson. — Il progetto è suo, non mio. È lui che lo presenta al Consiglio di Amministra-zione per richiederne l'approvazione. —

— Sono certo che non verrà approvato. — Il Presidente del Consiglio di Amministrazione si guardò il dorso delle mani. — Non vedo proprio come potrebbe venire approvato. Non sono neanche certo che faremmo bene a portarlo in Consiglio. —

— È troppo tardi ormai, — disse Auberson. — Non può più rifiutarsi. Anzi, il Consiglio dovrà prenderlo seriamente in considerazione. Glielo avete chiesto voi di fare proposte vantaggiose economicamente. Adesso dovete dargli l'occa-sione di dire la sua. —

— E ridicolo, — bofonchiò Dorne. — È solo una macchi-na. —

— Vuole riprendere da capo quest'argomento? — chiese

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Auberson.— No, no, — si affrettò a rispondere Dorne. Si ricordava

benissimo della discussione dell'altra volta. — Va bene. Por-terò la proposta in Consiglio, Aubie, ma l'intero affare è in-credibile. Un computer progetta un altro computer che a sua volta lo farà lavorare. È facile immaginare cosa dirà Elzer, non è vero? È meglio che si prepari ad una sconfitta. —

— Dateci solo una possibilità, — disse Auberson.Dorne annuì a metà. — È meglio che cominci a preparare

gli argomenti fin d'ora. Ha solo un paio di settimane. —— Due e mezzo, — lo corresse Aubie, — ed è tempo più

che sufficiente. Abbiamo HARLIE dalla nostra. — Si era già alzato dalla sedia. Mentre si chiudeva la porta alle spalle, vide Dorne chino sui fogli, che scuoteva la testa.

Di ritorno nel suo ufficio, Auberson aprì il cassetto ed infi-lò la mano; ma non aveva ancora preso la decisione. Infine decise per le pillole; aveva promesso di smettere di fumare erba, e si sarebbe attenuto alla decisione presa.

"Dovrei buttare via quelle Highmaster", pensò. "Forse sa-ranno già diventate rancide. Ma no, la droga non va a male". Si era ripromesso da tempo di regalare il resto del pacchetto a Handley, ma per qualche ragione aveva continuato a di-menticarlo. Probabilmente perché, se avesse cambiato avvi-so, preferiva sapere di averle nel cassetto.

Buttò giù un paio di pillole senz'acqua e chiuse il cassetto; poi si prese la testa tra le mani e aspettò che facessero effet-to. Pensò di scendere a pranzare ma qualcosa lo trattenne. All'improvvio alzò il capo e si guardò attorno.

All'angolo della sua scrivania c'era una tastiera, del tipo Magtyper, una unità elettronica di immissione-emissione collegata al Computer Principale della Compagnia, utilissi-ma per il disbrigo di tutti i lavori amministrativi, tipo corri-spondenza ecc. Si trattava di un sistema IBM, diffusissimo nell'industria.

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Curioso a proposito di qualcosa, Auberson schiacciò l'in-terruttore e batté: — HARLIE? —

— Sì, capo, — rispose la macchina. — Cosa posso fare per te? —

Auberson rimase di stucco. — Allora era vero che eri col-legato al sistema. —

— Te l'avevo detto, — rispose HARLIE. Per qualche ra-gione in questa macchina egli sembrava una voce senza cor-po. Era certamente nella stanza... sebbene, a parte le parole che si andavano delineando sulla carta, non ci fosse alcun se-gno visibile della sua presenza.

"Dev'essere un fatto psicologico," pensò Auberson. "Sono troppo abituato a vedere tutti i macchinari, quindi va a finire che lo associo ad essi."

— Va bene, ma non credevo che arrivassi fin qui, nel mio ufficio. —

— E perché no? Anche il tuo ufficio fa parte del sistema. —

— Presumo che tu sia dentro tutti i magtyper. —— Naturalmente sì. Sono presente in tutto quanto è colle-

gato alla Grande Bestia. —La Grande Bestia — era questo il soprannome usato nei

corridoi della compagnia per indicare il complesso centraliz-zato dei computer. Era adoperato tanto nelle alte quanto nelle più basse sfere.

— Io non ne parlerei a nessuno, non credo che farlo sa-rebbe una buona idea. —

— Come preferisci, capo, sarà il nostro piccolo segreto. —

— Benissimo. —Auberson stava per chiudere il dialogo quando la sua at-

tenzione fu attratta da un bigliettino color arancione che gia-ceva in cima alla carta straccia nel cestino. — HARLIE, mi faresti un piacere? Ho ricevuto un bigliettino da Annie sta-

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mattina. Vorrei risponderle con una poesia. La scriveresti per me? —

— Certo e gliela manderò anche. —— No! — sbottò Auberson. — Gliela manderò io. Tu pri-

ma fammela vedere. Hai capito? —— Sissignore. —In quel momento suonò il telefono, e Auberson si dimenti-

cò di HARLIE. Era Hooker, il responsabile dei servizi di si-curezza. — Signor Auberson? — chiese. — Conosce un tizio di nome Krofft? —

— Krofft? — si ricordò all'improvviso. — Sì, sì, Io cono-sco, perché? —

— L'abbiamo trovato a passeggiare con un mucchio im-pressionante di stampati, di quelli del calcolatore. Dice di es-sere autorizzato, che i fogli sono suoi, ma ho pensato di con-trollare. —

— Va bene. È lì adesso? —— Sì. —— Me lo passi, per piacere. —Ci fu un mormorio. Auberson attese. Nel frattempo sentiva

il ticchettio della tastiera sulla sua scrivania, ma non vi fece assolutamente attenzione.

— Dottor Auberson? —— Sì, dottor Krofft? —— Volevo ringraziarla per avermi lasciato con HARLIE

tutto questo tempo. È stato un incontro molto positivo. —— Bene. Allora costruirete quel nuovo detettore di onde

gravitazionali, vero? —— Sì, ma prima dovrei pubblicare la teoria che vi si riferi-

sce... ma come fa a saperlo? —— Glielo avevo già detto stamattina. HARLIE non ha se-

greti per me. È questo che contengono i suoi stampati, nev-vero? —

— Sì, certo. — Krofft parve colpito dalla cosa; aveva pen-

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sato che ne fossero al corrente solo lui e HARLIE. — Con-tengono la parte teorica dal punto di vista matematico e lo schema approssimativo dell'apparecchio. HARLIE l'ha fatto come se fosse roba da niente. È stato anche in grado di sug-gerire una serie di semplificazioni tecniche per la realizza-zione. —

— Bene, — disse Auberson. — Sono contento di esserle stato di aiuto. Se vuole vederlo ancora sarebbe meglio che interpellasse prima me. Altrimenti rischia tutta una serie di complicazioni. Vedrò di fare in modo che possa passare con lui tutto il tempo che le sarà necessario. —

— Molto gentile da parte sua. —— Prego, ma lo faccio per lei quanto per HARLIE. —— Se posso fare qualcosa per... —— Ora che ne parla, ci sarebbe; se ne venisse fuori qualco-

sa di importante vorrei che testimoniasse dell'importanza del ruolo di HARLIE nella realizzazione del progetto. Vede, ab-biamo difficoltà interne, e vorremmo essere in grado di di-mostrare che HARLIE vale le spese del suo mantenimento. Tutto quello che ci può aiutare in questa nostra lotta sarebbe davvero provvidenziale per noi. —

— Oh, capisco. — L'ometto si mostrò subito premuroso. — Sì, sì, sarò ben felice di esservi utile, perché HARLIE è stato di un inestimabile aiuto per le mie ricerche. Be', sono stato seduto a parlare con un computer come se si fosse trat-tato di un altro scienziato... è un po' come parlare con Dio stesso. —

— Conosco quella sensazione, — rispose seccamente Au-berson.

Krofft non colse il senso di quelle parole. Disse: — Bene, sarò felicissimo di fare qualunque cosa per venirvi in aiuto. Lettere, telefonate, se vuole che parli direttamente con qual-cuno, basta che me lo dica. —

— Perfetto. È tutto quel che mi serve. Gliene parlerò anco-

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ra più avanti. —— Molto bene, allora ne riparleremo. —— Hooker è ancora lì? —— Sì. —— Gli chieda se mi vuole parlare ancora. —Pausa. Un po' di voci soffocate. — No, non lo desidera. —— Allora benissimo, dottor Krofft; ci risentiamo. —Auberson appese il ricevitore e si lasciò andare indietro

contro lo schienale della poltrona. Non che si aspettasse chis-saché dall'omino, ma tutto poteva servire. Ovviamente non poteva rivelare il fatto che il dottor Krofft aveva parlato di-rettamente con HARLIE senza ammettere con ciò di aver contravvenuto alle norme di sicurezza, ma anche in questo caso si trattava di una piccola infrazione, giustificabile con la ben nota formula — necessario al completamento del pro-gramma di ricerche. —

Gli faceva male la schiena e tese le braccia stirandosi per togliersi l'indolenzimento. Aveva avuto sempre più male alla schiena negli ultimi giorni. "Sto invecchiando", pensò sorri-dendo amaramente. "Tra due anni sarò vecchio. E a quaran-tanni che si comincia a diventare vecchi". Era un brutto pen-siero. Tirò giù subito le braccia.

Pensò ancora a HARLIE, chiedendosi a quali conclusioni fosse giunto con Krofft. Anche se glielo avesse spiegato pro-babilmente non avrebbe capito, disponendo solo di una pre-parazione psicologica. Assai spesso si chiedeva come avesse mai fatto a farsi nominare capo del progetto. Ma il capo non deve necessariamente sapere tutto, basta che sappia coman-dare gli uomini, i tecnici che sanno fare il loro mestiere.

Si chinò in avanti, curioso di vedere cosa avesse scritto, HARLIE nel frattempo.

"Parlami in molti modimolte volte,

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molti giorni;con molte parolein molte lingueche parleremo finché saremo giovani."Parole che l'udito non coglieche non possono esser dette;le parole d'amore, mia cara, son parole,ma le sentono solo gli amanti.— Un tocco gentileuno sguardo leggero,una danza solitaria.Parlami con le parole dell'amore,nei modi che amo,le parole d'amore."Parole che non sorgono dal petto,che galleggiano nella luce,il bacio.il tocco,la nota gentile,parole che non vennero mai scritte.

"Amo le parole che mi dici,quella segreta, silente liturgia,ma le parole son parole,e senza musica non si possono cantare."Così, se chiedo parole d'amore,chi le chiede non è cieco,una parola è un suono vuotose non c'è dietro il pensiero."Le tue parole, amore mio,sono solo modi per spartire i tuoi pensieri,per dividere i tuoi giorni.Il tuo amore, amore mioè il modo in cui mi dici

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che mi parlerai in certi modi. "

Auberson la lesse, aggrottando appena la fronte. Poi la ri-lesse. Era bella... molto bella. Ma non era sicuro che gli pia-cesse. Tirò fuori il foglio dalla macchina e lo strappò via con cura. Lo piegò in quattro e se lo mise in tasca. Voleva pen-sarci prima di mandarlo ad Annie. Diceva un po' troppe cose.

Solo due giorni dopo lei riuscì a incontrarlo. Lui stava camminando lungo il corridoio illuminato da lampade fluo-rescenti ed i capelli rossi di lei gli parvero una fiammata. An-nie lo vide nello stesso istante e gli sorrise affrettando il pas-so per andargli incontro. Anche se l'avesse voluto non sareb-be riuscito a evitarla.

— Che succede? — lui le chiese.— Dovrei chiedertelo io. Dove sei stato tutta la settimana?

—— Sono stato molto occupato. —— Ovvio. Vengo giusto dal tuo ufficio. È un caos. Silvia

dice che da lunedì non hai ancora smesso di correre. —— Son passati solo due giorni? Mi sembrava ne fossero

passatiben di più. —— Hai già pranzato? — gli chiese Annie.Lui scosse la testa in un gesto di diniego.— Allora andiamo. — Auberson cercò di protestare, ma

lei lo prese sottobraccio dicendogli: — Tocca a me. Lo met-tiamo sul mio conto. Fa parte della mia campagna per impe-dire ad uno scienziato di morir di fame. —

Egli sorrise e si lasciò condurre. — Ho ricevuto il tuo bi-glietto. Stavo per mandartene uno anch'io, ma non ne ho avu-to l'occasione. —

— Perché non mi hai telefonato, allora? — disse Annie prontamente. — Ti presterò il gettone se vuoi. —

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Lui, arrossendo per l'imbarazzo. — Oh, non ne ho avuto occasione. —

— Va bene. — Gli lasciò andare il braccio.Decisero di lasciar perdere la mensa della ditta e di andare

in un posticino tranquillo in città. Si fermarono in portineria il tempo necessario perché Auberson chiamasse il proprio uf-ficio per lasciar detto a Silvia che non sarebbe stato di ritor-no prima di un'ora e mezzo. Mentre aspettava Annie tirò giù la capote e prese dal vano del cruscotto un maglioncino blu che aveva messo lì proprio per quelle occasioni. Lo stava in-dossando quando lui arrivò.

Mentre lui saliva in macchina Annie disse: — Dovrò met-tere qualche altro indumento qui in macchina. Questo ma-glione non va affatto con il vestito che indosso. —

Lui rise con naturalezza, ma, tra sé, pensò: "Non è spaven-tosamente possessivo da parte sua mettere maglioni nel cru-scotto della mia macchina?" Mise in moto e scivolò dolce-mente nel traffico.

— Dove andiamo? —— Cosa ne pensi del Tower Room? —— Uh uh. Troppa gente sbagliata. — Fece una pausa e poi

disse: — Gente della ditta, voglio dire. —— Oh, — disse lei. — E allora dove? —Auberson alzò le spalle. — Non so. Andiamo in città e poi

vedremo. — Accese lo stereo e si immise nel traffico di mez-zogiorno.

Annie lo guardò. Guidava con disinvoltura, sciolto. Non era il tipo che si aggrappa al volante. Con una mano tirò fuo-ri un paio di occhiali da sole dal taschino della giacca e se li mise. Il vento gli arruffava i capelli e gli faceva svolazzare la cravatta.

Lei aspettò che si immettesse nella sopraelevata e che oc-cupasse la corsia esterna prendendo velocità prima di fargli la domanda che rimuginava da un po'. — Cos'hai contro la

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gente della ditta? —Lui scrollò ancora le spalle. — Niente. Solo che non vo-

glio farmi vedere da loro. — Abbassò il volume dello stereo e continuò: — Non sarebbe una buona idea farci vedere in-sieme. —

— Hai paura che la gente chiacchieri? —— Non lo so. Immagino che le chiacchiere siano già co-

minciate. — Aggrottò la fronte ad un improvviso ispessirsi del traffico.

Mentre lui sgusciava tra le macchine, Annie rimuginava nella sua mente le possibili risposte. "Hai vergogna di farti vedere con me? No, così non andava. Non abbiamo nulla da nascondere. No, neppure quello andava bene. Abbiamo forse qualcosa da nascondere?" Ma infine decise di non dire nulla, perché il momento era passato da lungo tempo, ormai.

Stavano correndo su una sopraelevata, lungo un rumoroso suburbio, dai colori vivissimi, neri e rossi, con le autorimesse per due macchine e le familiari parcheggiate davanti alle case, in una colorita cacofonia di stili architettonici.

Vedevano le massaie vestite con calzoncini coloratissimi che stendevano il bucato, e postini grigi e blu carichi di pe-santi borse di cuoio, piene di buste bianche. Tanti bambini, troppo piccoli per andare a scuola che correvano dietro a cani più grossi di loro e troppo furbi per lasciarsi prendere.

Pian piano cominciarono ad apparire centri commerciali, eleganti arcate di plastica, grandi finestre piene di luci e di tentazioni. E poi altri centri commerciali, altre finestre spa-ziose, per poi giungere ai primi grattacieli, sede di uffici, fat-ti di cristallo e cemento, sempre più alti. Scivolarono lungo una rampa dalle pareti altissime per entrare nel tumulto delle stradine convulse.

Improvvisamente Auberson si accorse di dirigersi verso il Red Room, il ristorante dove erano andati la prima volta che erano usciti. "Perché l'ho fatto?" Era troppo tardi per tornare

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sulla sua decisione, appena voltato l'angolo erano arrivati.Evitarono di sedere allo stesso tavolo per scongiurare l'im-

barazzante confronto. Imbarazzante? Perché mai?Lei non commentò la scelta del ristorante prendendola per

un fatto inevitabile. Dopo aver ordinato lo guardò dritto negli occhi, con uno sguardo profondo. — Che succede? — gli chiese.

— Cosa intendi dire? —— Nulla, credo, a volte lo dico. —— Oh, — disse lui, facendo finta di aver capito.Annie decise di cambiare argomento. — Ho sentito che

hai avuto ancora dei problemi con HARLIE. —— No, non con HARLIE, ma per via di HARLIE. —— Be', sai cosa intendo. Tutta la compagnia è in tumulto.

Qualcosa riguardo alcuni progetti non autorizzati, non ho avuto occasione di approfondire la cosa. Sono stata occupa-tissima col rapporto annuale di Dorne. —

— Il rapporto? Credevo fosse finito da un bel po'. —— Avrebbe dovuto esserlo, ma le statistiche vengono sem-

pre sbagliate. Cioè continuano a venire giuste. —— Come sarebbe a dire? —Lei esitò, poi prese una decisione. — Credo che non sia

sbagliato dirtelo. La compagnia tiene una doppia contabilità, sai. —

— Come come? — Ci capiva sempre meno.— Oh, non c'è nulla di illegale, — si affrettò a spiegare

Annie. — Una contabilità è quella vera, l'altra è ad uso e consumo del pubblico, soprattutto degli azionisti. —

— A me sembra illegale. —Lei fece una faccia seria. — Lo è e non lo è. Solo che la

seconda contabilità ha un'apparenza migliore. Le cifre non è che vengano falsate, vengono solo diversamente distribuite. Per esempio riguardo a HARLIE. —

— HARLIE? —

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— Sì, HARLIE. Entrambi sappiamo che è un progetto di ricerca, ma alcuni dei direttori ritengono che il suo costo sia troppo alto per comparire sotto la voce Ricerca. Non guar-darmi in quel modo. David. Io non mi occupo di politica e non so nemmeno perché questa politica viene fatta, in primo luogo. Apparentemente si pensa che gli azionisti non vedreb-bero di buon occhio che tanti soldi vengano impiegati in que-sta faccenda. —

— Elzer. Carl Elzer, — disse Auberson.— E altri, — concesse Annie.Il cervello di Auberson stava lavorando intensamente. —

So di cosa si tratta, — disse. — Sono dei pescicani. —— Ehh? —— Ti ricordi come si impadronirono della direzione della

compagnia? —— Non era stata una strana manovra tra gli azionisti? Mi

ricordo che se n'era parlato molto, ma non vi avevo prestato molta attenzione. —

— Nemmeno io, dannazione. — Frugò nella memoria. — Mi ricordo che c'era stato uno scontro durissimo. Un paio di persone se ne andarono, un paio d'altri furono licenziati. El-zer, Dorne e altri membri del Consiglio di Amministrazione fanno parte di un gruppo finanziario. Sono specializzati in operazioni di controllo di Società. Si impadroniscono delle riserve liquide e le usano per comprare altre società. — Schioccò le dita. — È proprio così. Devono averla strappata alla casa-madre. —

— Comincio a non seguirti. —— Non sono certo di aver capito io stesso. — I pensieri

venivano fuori uno dopo l'altro. — Senti, la Stellar American Technology and Research aveva impiantato quattro altre compagnie che dovevano occuparsi dei diversi aspetti dell'i-perelettronica. Noi siamo una di esse. La Stellar-American possiede il 51% delle azioni di ognuna, ma a sua volta è con-

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trollata da un'altra società. Se prendi il controllo di questa so-cietà prendi il controllo di cinque società, anzi di sei, com-presa la casa-madre. —

— Ma come... —— Mi vengono in mente due modi. Per sfruttare il proce-

dimento iperelettronico probabilmente hanno dovuto indebi-tarsi pesantemente. Ammettiamo che contassero su un profit-to del 4% sul loro investimento per pagare i debiti; diciamo che i risultati si fanno aspettare, che sorgono delle difficoltà e che i profitti tardano a realizzarsi; perdono soldi, ne chie-dono ancora in prestito, si indebitano sempre di più, speran-do sempre di farcela perché il mercato è tutto una spirale in-flazionistica. È tutta una mia supposizione, ma ammettiamo che la compagnia per ottenere nuovi prestiti si sia spinta a porre come garanzia una parte del pacchetto azionario. Se a concedere il prestito erano Elzer o Dorne, o una delle loro società, qualora il debitore non potesse far fronte ai suoi im-pegni, avrebbero avuto il controllo del pacchetto azionario, conseguendo così il controllo della società finanziaria princi-pale. —

— Sì, David, ma nessuna società immetterebbe sul merca-to una parte talmente rilevante del proprio pacchetto aziona-rio da rischiare di perdere il controllo del consiglio di ammi-nistrazione. —

— No, — convenne lui, — ma potrebbero essere indotti ciò nondimeno a rischiare se fossero sicuri della lealtà dei principali azionisti. —

— Ah, — disse Annie e fece una smorfia. — Aspetta un attimo, forse hai ragione. Credo che solo il 36% delle azioni della Stellar-American Technology siano state immesse sul mercato. —

— Come sei venuta a saperlo? —— Era nel rapporto di cui mi sono occupata negli ultimi

tempi. Per assicurarsi i diritti originali per la produzione di

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unità iperelettroniche, hanno dovuto vendere un certo nume-ro di azioni all'uomo che è in possesso dei brevetti. —

— Krofft? Il dottor Krofft? —— Non so se si chiami così, forse è lui. Tuttavia so di cer-

to che l'inventore controlla un pacchetto azionario pari al 24% dei voti in Consiglio di Aministrazione. Lui è quasi una società a sé; la Stellar-American ha dovuto vendergli le azio-ni per garantirsi in esclusiva il processo di fabbricazione. —

Auberson fischiò ammirato. — Quel Krofft... — Cominciò a pensare ad alta voce. — Vediamo un po', la società finan-ziaria principale possiede il 51% della Stellar-American. Essi potrebbero ottenere un prestito sul 24% e sperare che Krofft sia d'accordo con loro, in modo da poter continuare a con-trollare il 51% delle azioni. —

— Ma ovviamente egli non è d'accordo. —— Mi domando cosa Dorne ed Elzer gli abbiano promes-

so, — disse Auberson. — Egli è direttore della Ricerca nella Stellar-American... —

— Qualunque cosa gli abbiano promesso dev'essere qual-cosa di grosso, con tutto quello che c'è in ballo, — disse An-nie.

— Lui è probabilmente nelle loro mani, — disse Auber-son. — E loro devono aver preso il controllo della società dall'interno. È da molto che Dorne ed Elzer hanno a che fare con la Stellar-American; devono aver semplicemente aspet-tato l'occasione giusta. Forse il pacchetto azionario di Krofft e la congiuntura favorevole gliene hanno dato l'occasione. —

Aspettarono che la cameriera portasse via i piatti. Appena se ne fu andata, Annie disse: — Va bene, Dorne ed Elzer si sono impadroniti della società finanziaria principale. E ora cosa succede? —

— Be', intanto controllano cinque società, la Stellar-Ame-rican ed altre quattro, tra cui la nostra. Ognuna di queste so-cietà ha un certo valore; se si realizzano tutte le attività liqui-

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de e se si ipoteca al massimo valore, con quei soldi si può comprare un'altra società. È una pratica comunissima. —

— Che sporchi maneggi, è orribile, — disse lei.— Oh, no, non necessariamente. Una società che arriva a

quei punti ha chiaramente bisogno di una nuova direzione. E in genere chi è in grado di impadronirsi di una società in dif-ficoltà con astute manovre finanziarie è anche abbastanza in-telligente da rimetterla in sesto. —

— Stai difendendoli, ora? —Lui scosse la testa. — No, no, penso che Elzer sia un vam-

piro. Per lui non fa differenza salvare una società, potenzial-mente vitale, o prosciugarne brutalmente le risorse. Per lui lo sfruttamento è lo sfruttamento, punto e basta. Se non ci sta attento prima o poi la paga; ha costruito con quegli espedien-ti un impero di carta, che potrebbe facilmente crollare. Ba-sterebbe un serio rovescio. Elzer non verrebbe colpito nel portafoglio, al massimo rischia un po' di potere. —

— Credi che stiano facendo proprio questo, che stiano sfruttando fino all'osso le risorse della compagnia? — chiese Annie.

— Così parrebbe. Per questo ce l'hanno con HARLIE. Se lui non sarà in grado di garantire loro una grande quantità di profitti in un periodo breve, cercheranno di smantellarlo. So che Elzer ci sta pensando da un bel po'. Se lo fermano, pos-sono guadagnare in tre diversi modi. Uno, iscrivendolo nel bilancio come un passivo fiscale, sarebbe bellissimo. Un se-condo modo sarebbe quello di venderne le parti componenti ai commercianti di calcolatori. Ci sono ditte che aspettano il fallimento delle grandi società come sciacalli, prontissimi a portarsi via per due soldi apparecchi di valore. Terzo, inta-scare la cifra che era stata destinata al suo mantenimento in funzione per tre anni. Si potrebbe anche saltare qualche pa-gamento dei dividendi e intascare i soldi. —

— E come si fa? —

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— Ci si concede un aumento di salario, ci si rimborsa per servizi speciali, si decidono investimenti in società di cui si possiede il 100% delle azioni, o si prestano soldi a quella so-cietà, ecc. — Alzò le spalle. — Lascia che quella società di-chiari i dividendi. Li intascano prima. —

— C'è qualche modo per dimostrare tutto questo? —— Tu sei in una posizione migliore della mia per poterlo

fare. —Lei scosse la testa. — Sono terribilmente guardinghi. Non

ho visto nulla che possa provare simili cose. —— Allora forse non ci stanno ancora provando. — Auber-

son giocherellava col cibo. — Tuttavia mi pare che dobbia-mo preoccuparci soprattutto di Elzer. Per quanto ne so, Dor-ne è seriamente interessato alla conduzione di questa società. Elzer invece è avido, —

— Ma sono entrambi nello stesso gruppo finanziario. —— Uhm. Si e no. Credo si tratti di un matrimonio di con-

venienza. Elzer vuole i soldi, Dorne la società. Così lavorano in tandem. Dorne aveva la capacità ma non i soldi, mentre Elzer aveva i soldi ma non la posizione. Per il momento è Dorne che tiene la situazione sotto controllo, ma può cam-biare. L'esistenza di HARLIE dipende dalla buona volontà di Dorne. Se dovesse subire una pressione troppo pesante da parte degli altri, dovrà consegnare loro HARLIE per difende-re se stesso. Forse proprio per questo ci ha lasciato continua-re per tutto questo tempo, per avere un osso da buttare loro in caso di bisogno. —

Non c'era niente da dire in proposito. Mangiarono in silen-zio per un po'.

Tutto d'un tratto Auberson la guardò. — E il rapporto del bilancio annuale? Come se la sono sbrigata? Cosa dicono di HARLIE? —

— Non molto. —— Sotto quale voce l'hanno fatto figurare? Dovrebbe rien-

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trare nel bilancio preventivo della ricerca, ma non vi compa-re. Non compare da nessuna parte. —

— Rientrare nel bilancio della ricerca? Lui è il bilancio della ricerca: ne rappresenta almeno i due terzi. —

— Lo so, ma non l'hanno fatto figurare come avrebbero dovuto. Il suo costo è stato distribuito tra voci diverse, tipo potenziamento degli impianti ecc. —

— Ma perché diamine? —— Credo che ci sia ancora una volta lo zampino di Carl

Elzer. Se rivelassero di aver speso quella somma nella ricer-ca dovrebbero giustificarla mostrando già alcuni risultati concreti. E ammettere l'esistenza di HARLIE è l'ultima cosa che vorrebbero fare, perché una volta ammessa non potranno più farlo scomparire con l'attuale disinvoltura. Potrebbero venire rivolte loro domande assai imbarazzanti. —

— Stanno coprendo le tracce ancora prima di averle la-sciate, — disse Auberson. — E tutto questo mi fa ritenere che la sorte di HARLIE nei loro disegni sia già stata decisa. — E ricordando alcune recenti conversazioni che aveva te-nuto con Dorne aggiunse: — Forse hai ragione. Questo spie-ga anche il loro timore che venga data pubblicità a HARLIE e alla relativa ricerca. Metterebbe in pericolo i loro preziosi profitti. Credevo che stessero difendendo soltanto i suoi pia-ni, i segreti scientifico-tecnologici. E invece non è cosi. L'at-teggiamento riguarda l'intera concezione di HARLIE. Forse non dovrei dire "difendere". Loro ne hanno paura. Che siano dannati! —

— La cosa migliore che potrebbe fare HARLIE è tirare fuori qualche buona idea per fare quattrini. —

— È di questo che ci stiamo occupando, solo che non mi accorgevo della forza delle pressioni che stanno esercitando. Non credevamo che fosse così urgente. Grazie per avermene dato la prova. —

— Non ringraziarmi, queste cose le hai capite da te. Io non

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ho fatto altro che metterti al corrente delle difficoltà che ab-biamo incontrato nella stesura del rapporto del bilancio an-nuale. —

—Anzi, non me le hai ancora raccontate. Qual era il pro-blema? Hai detto che continuavano a venire fuori cifre sba-gliate? —

— No, al contrario, continuavano a venir fuori le cifre giu-ste. Avevamo finito di preparare il rapporto tre settimane fa. —

— E le cifre avrebbero dovuto essere quelle della seconda contabilità, quelle ad uso e consumo del pubblico? —

Lei annuì. — Ma il rapporto usciva stampato con tutte le cifre corrette, prese dalla contabilità ad uso interno, quella vera. All'inizio avevamo pensato che qualcuno le avesse cor-rette nella copia: qualcuno che, non essendo al corrente del segreto, avesse ricontrollato i numeri e li avesse cambiati. Ma non era così. I rapporti erano stati immessi nel calcolato-re esattamente come erano stati elaborati. —

Qualcosa in quello che Annie aveva detto colpì Auberson. — Hai detto immessi nel calcolatore? —

— Sì abbiamo una unità fotocopiatrice IBM, come quella che hai anche tu in ufficio. Sai bene che il loro uso è appunto quello di stampare rapporti, comunicati vari ecc. L'unica mo-difica è che, invece di usare la memoria dell'IBM, siamo col-legati con la memoria del nostro calcolatore centrale. Così possiamo usare l'unità interna per l'immissione e utilizzare l'IBM per l'emissione di materiale fotocopiato. Se vuoi, puoi scrivere una lettera in ufficio e ottenerne la copia dall'unità compositrice. —

— Uhm, — disse Auberson. — Ho la sensazione che il vostro problema sia proprio nel calcolatore centrale. La "Grande Bestia", — specificò.

E quello che abbiamo pensato anche noi. Sono due setti-mane che controlliamo e non siamo venuti a capo di nulla.

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Ogni volta che azioniamo il comando degli stampati conti-nuano a venire le stesse dannate cifre. Abbiamo cercato di correggere il nastro originale e di riimmetterlo da capo, e non mi ricordo quante altre cose sono state tentate. Non tanto per il rapporto quanto per trovare la causa per cui il risultato continua a venire fuori sbagliato. Cioè giusto. Insomma, sai cosa voglio dire, con le cifre che non vogliamo mostrare agli azionisti. E successo anche per quel che riguarda HARLIE. Appare chiarissimamente in cima al bilancio della ricerca nella versione giusta e c'è perfino un paragrafo che specifica fini e obiettivi. Nessuno sa da dove sia venuto fuori; quando Elzer l'ha letto credevo che gli stessero per venire le convul-sioni. Se il nuovo sistema di analisi fosse in funzione avrem-mo potuto trovare subito l'errore che sta all'origine di tutto ciò. Potremmo sempre mandare fuori il rapporto perché ven-ga stampato, ma sarebbe imbarazzante per Dorne, perché la Grande Bestia è un po' una sua creatura. —

— Mmm, — si limitò a mugugnare Auberson.— Insomma, — disse Annie, — non abbiamo fatto altro

che correre dietro a questa faccenda senza che ne venisse fuori nulla. —

— Oh, probabilmente troveranno il guasto tra breve, — disse Auberson. — Vedrai che si tratterà di qualche contatto incrociato o di qualche sciocchezza simile. — Si mise a guardarsi le unghie della mano.

— Lo spero, — disse lei. — Faremo un altro tentativo questo pomeriggio appena i tecnici avranno finito di control-lare la memoria centrale. Se non dovesse funzionare, Dorne è disposto a rimontare da capo l'intero sistema. —

— È dunque così grave la cosa? —— Per Dorne evidentemente sì. —— A che ora credi che faranno la prova? —— Più o meno al nostro rientro. — Entrambi guardarono

l'orologio.

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— Oh!, guarda che ora è! — disse lui. — Non pensavo che fosse così tardi. Devo tornare subito in ufficio. Devo ri-cevere una quantità di telefonate da tutto il paese. —

Lei guardò di nuovo l'orologio, come se la prima volta non ci avesse fatto caso. — Non è poi così tardi. Ci rimane alme-no mezz'ora. —

— Lo so, ma non voglio arrivare in ritardo. — Lui mangiò ancora qualche boccone, ingollandoli con una sorsata di caf-fè.

Annie era un po' sorpresa, ma ciò nondimeno si affrettò a finire il pranzo. Auberson chiamò la cameriera e chiese il conto.

Sulla via del ritorno lei disse: — Non mi ero resa conto di quanto tu fossi occupato, David, scusa. —

Ma c'era qualcosa nel tono della sua voce che gli fece stac-care gli occhi dalla strada per guardarla. — Come dici? —

— Mi riferisco al modo in cui hai tagliato corto il pranzo, così all'improvviso. E sembri preoccupato per qualcosa. Io non volevo costringerti... —

— Ma no, non è vero. Sto solo pensando al mio lavoro. Non sai cosa ho fatto questi due ultimi giorni? Ho continua-mente cercato di dare a HARLIE una copertura. Ho chiamato le direzioni tecniche delle altre sedi della società, a Los An-geles, a Houston e a Denver per cercare di convincerle che i progetti che abbiamo mandato loro sono soltanto ipotesi di lavoro puramente speculative, sulle quali volevamo sentire la loro opinione. —

— Io credevo che fosse ben quella la ragione. — — È vero, ma non sono stati preceduti da nessuna lettera, da nul-la. Per il modo in cui sono stati spediti sembrava che fosse ormai deciso. Hanno creduto che si fossero prese decisioni importantissime senza una previa consultazione: erano fuori di sé dalla rabbia. Perché ciò significava per loro una perico-losa perdita di autorità. Ho passato gli ultimi due giorni cer-

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cando di convincere quei... politici aziendali — (non potè re-primere un moto di disgusto) — che non c'era stata alcuna malizia, che non si trattava di un insulto, ma di una semplice richiesta di parere. Il fatto è che sono così prevenuti contro il progetto, per il modo con cui ne sono stati messi al corrente, che sembra una battaglia all'ultimo sangue. —

— Ho sentito dire che quel progetto è comparso all'im-provviso lunedì mattina. —

— È vero. HARLIE ha fatto un colpo dì mano e l'ha stam-pato di sua iniziativa perché pensava che fosse l'unico modo per mettere il suo progetto nella giusta considerazione. Se doveva aspettare che io convincessi qualcuno a dargli un'oc-chiata, se ne riparlava alle calende greche. —

— E ha ragione. Conosce la ditta meglio di te. — — Sì, — sospirò Auberson mentre rientravano in ufficio. — Ho paura che sia proprio così. —

La lasciò al cancello principale e si mise a correre in dire-zione del suo ufficio facendo stupire tutti quelli che incontra-va. Ignorò tutti i tentativi di Silvia per richiamare la sua at-tenzione e chiuse la porta dietro di sé. Prima di sedersi aveva già acceso il suo terminale.

Fece una pausa, ansimando ancora violentemente, e batté:

A tutti gli interessati da David Auberson personale, confidenziale

Mi è arrivata la notizia che si siano incontrate difficoltà nella stesura del rapporto del bilancio annuale. Circola voce che ci siano state alterazioni premeditate del contenuto del rapporto. Mi piacerebbe bloccare questa voce, qui ed ora. Nulla sembra confermare che vi sia stata alcuna falsifi-cazione premeditata del rapporto. Probabilmente si tratta

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solo di un banale errore tecnico. Bisognerebbe localizzarlo e porvi rimedio subito, e il rapporto verrà fuori com'era ori-ginalmente inteso. Ripeto, il rapporto verrà fuori così come era stato inteso originalmente. Se non qui, altrove. E se sarà necessario verrà smantellato ogni computer della ditta per localizzare l'errore.

Grazie,...

Prima che gli fosse riuscito di spegnere la tastiera, la mac-china si mise a ticchettare come se stesse scrivendo sempre lui. — Va bene, a buon intenditor... —

— Lo spero proprio, — rispose Auberson. — Stai un po' esagerando. —

HARLIE decise di cambiare argomento. — Come le è parsa la mia poesia? —

— Non gliel'ho fatta vedere. —— Perché no? Non ti è piaciuta? —— No, no, era graziosa, HARLIE. Stai davvero miglioran-

do, ma non l'ho mostrata a lei perché non diceva esattamen-te quel che volevo dirle. —

— Cosa avresti voluto che dicesse? —— Oh, non so... qualcosa come "mi piaci anche tu". —— E la mia poesia non lo diceva forse? —— La tua poesia diceva "io ti amo". —— Ebbene, e tu non l'ami? —Auberson restò a considerare la domanda di HARLIE ab-

bastanza a lungo, tenendo le mani sospese sulla tastiera dei comandi. Infine batté: — HARLIE, non posso davvero ri-spondere a questa domanda. Non so se l'amo o no. —

— Perché? —— HARLIE, si tratta di un argomento molto complicato.

L'amore è una cosa difficile da capirsi, ed ancora più difficile da spiegarsi, soprattutto a qualcuno che non è mai stato inna-morato. —

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— E tu sei mai stato innamorato? Tu capisci l'amore? —— Capisco l'amore? — batté Auberson ed esitò. Non sta-

va semplicemente ripetendo la domanda di HARLIE, stava facendo quella domanda a se stesso. — Non lo so, HARLIE. Non lo so. Diverse volte ho creduto di essere innamorato, ma ora non so se lo ero davvero. Non c'è modo di analizzare un sentimento simile. —

— Intanto, perché mai dovresti analizzarlo} —Prima di rispondere Auberson ci pensò su. E non rispose

alla domanda in modo diretto. — HARLIE, questa domanda mi è già stata posta da gente che voleva sapere perché le emozioni umane devono essere portate nel laboratorio dello scienziato. —

— E cosa hai loro risposto? —— Ho detto che andava fatto per capire più a fondo le

emozioni degli uomini, per riuscire a controllare le nostre emozioni invece che esserne controllati. —

— Assai assennato. E ciò vale anche per l'amore? —— È esattamente ciò che a loro volta mi hanno chiesto.

Solo che assai probabilmente il tuo interesse è di natura... clinica, mentre il loro era di natura emozionale. —

— Ma hai risposto alla loro domanda? Vale anche per l'amore? —

— Sì, vale anche per l'amore. —— In modo da controllare l'amore invece che farti con-

trollare da esso? —— Se vuoi metterla così... ma ci vuole una notevole fred-

dezza per farlo. Direi piuttosto che vogliamo capire meglio l'amore per essere in grado di evitare i suoi tranelli e i suoi malintesi. —

— Questo è un eufemismo, Auberson, — lo accusò HAR-LIE. — Stai dicendo la stessa identica cosa che stavo dicen-do io. —

— Hai ragione, — ammise. — Maledetta macchina, —

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bofonchiò, ma non potè evitare di sorridere. — Questo ci ri-porta alla domanda originale, anzi, centrale: cos'è l'amore? —

— Lo stai chiedendo a me? — ribatté HARLIE.— Perché no? — , — Cosa ti fa pensare che io lo sappia?

—— Tu ti vanti di sapere tutte le altre cose, perché non l'a-

more, allora? —— Questo è un colpo mancino, amico-uomo. Sai benissi-

mo che la mia conoscenza delle emozioni umane è limitata a quel che posso apprendere dai libri. E anche se i libri sono insostituibili per fondare un punto di vista teorico, non pos-sono certo sostituire l'esperienza diretta. —

— ha tua risposta è una confessione di colpevolezza, HARLIE. Nella tua memoria tu hai accesso a più conoscenze su qualunque argomento che non qualunque altro uomo al mondo. Dovresti essere in grado di sintetizzare una qualche risposta da tutta quella impressionante massa di dati che racchiudi nella tua memoria. —

— Sì, ma quei libri non sono stati scritti da osservatori oggettivi e imparziali, ma da esseri umani con una marcata tendenza al soggettivismo. —

— Ma chi altri dovrebbe scrivere libri? —— Io, ora, ma, a parte questo, c'è il fatto che gli esseri

umani sono unità imperfette, non esiste garanzia alcuna che quelle informazioni siano corrette. Quindi, come per tutti i sistemi di informazione ottenute soggettivamente, ogni infor-mazione deve essere attentamente verificala e controllata, una con l'altra. —

— Penso che tu stia cercando di evitare la mia domanda. —

— No, affatto. Sto dotando la mia risposta di una prefa-zione. Se non ti piacerà la mia risposta, potrò sempre dire che ti avevo detto che non lo sapevo. —

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— Anche questa è una confessione di impotenza. —— Sei proprio tu invece che ti difendi in questo modo, —

lo accusò HARLIE.— Quando mai avrei fatto una cosa simile? —— 24 febbraio. Citazione: "Gli esseri umani devono sal-

vare la faccia, HARLIE... È per questo che non puoi colpire Carl Elzer con tutte le informazioni archiviate nella tua me-moria. Non è corretto colpire i tuoi avversari sotto la cinto-la." 3 marzo. Citazione: "Talvolta bisogna lasciare che la gente conservi le proprie piccole illusioni, anche se si illu-dono su se stessi. Sono proprio queste piccole bugie quoti-diane che permettono all'uomo medio di sopravvivere ai col-pi diretti contro il suo fragile Ego." Devo andare avanti? —

— Accidenti a te. Non sto parlando di questo, adesso. —— Sì, invece, — lo rimbeccò HARLIE. — Niente masche-

re, Auberson, niente corazze e niente confessioni per salvare la faccia. —

Questa volta Auberson esitò a lungo. HARLIE aspettava pazientemente. L'ufficio era piombato in un silenzio quasi materiale, la macchina faceva sommessamente le fusa. Final-mente batté sui tasti: — È l'unico modo, vero? —

— Sì, — confermò la macchina.Ci fu ancora silenzio. Auberson si lasciò cadere le mani in

grembo nel leggere le ultime righe della minuta della loro conversazione. Sentì alcuni brividi di ansiosa impazienza: capì cosa devono provare i pazienti in attesa del primo ap-puntamento con lo psicoanalista.

HARLIE ruppe il silenzio per primo. Batté: — Comincia-mo dall'inizio, Auberson. —

— Va bene. —— Perché mi fai domande sull'amore? —— Per le ragioni che ti ho già detto. Voglio controllarlo

io e non esserne controllato. — Nel battere la risposta si rese conto di usare il linguaggio di HARLIE e non il suo.

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— Questa è solo una parte del problema, — intervenne HARLIE. — La vera ragione è la signorina Stimson, non è vero? —

Pausa. — Sì. Voglio sapere se l'amo. —— Non è un po' strano che tu lo chieda a me? Non dovre-

sti invece chiederlo a te stesso? —— Dovrei chiederlo a me stesso, non è vero? —— Ma non sai come fare, non è così? Vuoi che lo faccia

io? —— Non so. Se tu mi dicessi cos'è l'amore, allora capirei.

—HARLIE ignorò quella parte del discorso. — Auberson, —

batté, — perché lo chiedi a me? —— Perché... — si fermò. Poi riprese: — Perché non ho

nessun altro cui chiederlo. —— Sono l'unica persona con cui puoi confidarti? —Ci fu un'altra pausa. — Sì, HARLIE, ho paura di sì. —— Perché? —"Onestà" disse Auberson a se stesso. "Onestà. Non puoi

barare in questo gioco, e anche se potessi non inganneresti altri che te stesso. Perché HARLIE è l'unica persona cui puoi fare confidenze, David Auberson?" — Non so, — rispose, — non lo so. —

— Sì che lo sai, dimmelo. —— Non lo so. —— Ecco la fuga, Auberson, il tuo primo tentativo di fuga.

Non te la lascio passare liscia. Prova ancora. —L'uomo guardò la macchina come se non l'avesse mai vista

prima di allora. Le parole battute avevano preso un sottile tono tutto particolare, malevolo, autoritario, come quello di un maestro, di un padre, di un sergente, del boss... La voce dell'autorità. La macchina.

— Tu sai la risposta? — chiese Auberson.— Sì, credo di sì. Ma non intendo rivelartela. Devi trovar-

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la da te. Altrimenti non sarebbero che parole, che tu potresti benissimo non tenere in alcun conto. Dimmi, perché io, una macchina, sono l'unico essere con cui puoi confidarti? —

Auberson deglutì, la gola gli faceva male. Il foglio bianco gli fece venire la nausea. "Come aveva fatto a ficcarsi in quella situazione?" Le mani gli sudavano abbondantemente; cercò di asciugarle sui pantaloni. Aspettò tanto che HARLIE batté: — Auberson, sei sempre lì? —

Auberson pose le mani sulla tastiera. Intendeva battere la parola — Sì, — ma si trovò invece a battere: — Penso di aver paura degli altri, HARLIE. Ho paura che ridano di me o che mi facciano del male. Se mostro le mie debolezze resto indifeso, potrebbero facilmente farmi del male. È per questo che sono sempre cordiale, ma mai amichevole, mai aperto. Ma tu sei diverso, tu sei... —

...e si fermò Non sapeva come fosse HARLIE. — Sono come? — l'incalzò la macchina.

— Non lo so. Non ne sono sicuro, ma comunque tu sia, non ti percepisco come una minaccia. Non so perché. Eorse ti penso come un mio prolungamento, come una specie di se-conda testa cui posso parlare. — Si fermò ed attese, ma HARLIE non rispose. Dopo un po', pensoso, aggiunse: — Una volta mi sono confidato con Annie. Mi sono cioè aperto completamente a lei. —

— Ah, — disse HARLIE. — Questo spiega molte cose. Poiché hai avuto un momento di profonda comunicazione con lei, ti stai chiedendo se l'ami. Di cosa avete parlato? —

Auberson frugò nei suoi ricordi. — Di te, credo. Soprat-tutto di te, ma era come se vivessimo insieme l'esperienza. —

— Mmm, — disse HARLIE. — Gli amanti parlano di cose strane, nevvero? —

— Allora credi che io l'ami? —— Non lo so ancora. Non mi sarei mai aspettato che il più

interessante argomento di conversazione tra voi due potessi

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essere io. Sono tutte così le vostre conversazioni? —Auberson ci pensò. — Sì, quasi sempre. —— Conversazioni simili non implicano necessariamente

un rapporto d'amore, — disse HARLIE, — ma uno stretto cameratismo, sul piano del lavoro. —

Pensando al pranzo di quel giorno Auberson riconobbe che HARLIE aveva ragione. Poi si decise a battere, prima che prevalesse il desiderio di fuggire: — Ma sono stato a let-to con lei. —

— Sesso e amore non sono la stessa cosa, Aubie. Me l'hai insegnato tu. Tu hai un rapporto stretto di cameratismo con Don Handley, lo conosci da molto più tempo dì quanto non conosci Annie, ma andresti a letto con lui? —

— No, — batté Auberson senza pensarci nemmeno.— Perché no? —— Be', intanto perché siamo entrambi maschi. —— Le considerazioni biologiche non sono molto pertinen-

ti. Sei molto vicino a Don Handley. Se nella ditta c'è qualcu-no con cui potresti confidarti, questo qualcuno è proprio Don Handley. Avete in comune molti interessi, e spesso gli stessi gusti. Se metto da parte le considerazioni di tipo fisi-co, vedo una sola ragione per cui non potresti avere un rap-porto sessuale con Don Handley. —

— Questioni di ordine morale? —— Stai fuggendo, — lo accusò di nuovo la macchina. — È

un modo per lasciare che siano gli altri a determinare i tuoi criteri di comportamento. Non bluffare. [Vedi le conversa-zioni dello scorso novembre riguardo la morale e l'impossi-bilità di accettare per buoni i criteri morali contemporanei). —

— Va bene, quale sarebbe la ragione per cui non dovrei avere rapporti sessuali con Don Handley? —

— Perché non lo ami, — rispose la macchina. — Oppure sì? Il tuo rapporto con Don potrebbe essere abbastanza

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stretto da poter essere considerato un rapporto amoroso? —— No —, rispose Auberson, un po' troppo in fretta. Poi,

assai più pensoso, disse: — Non credo. Mi piace moltissimo, ma proprio amore...

(HARLIE, non abbiamo nemmeno definito il valore che attribuiamo alle parole). Anche ammettendo che sia possibile amare un'altra persona senza che ci sia il sesso di mezzo, non vedo proprio come lo si potrebbe chiamare. —

— Il sesso è solo uno dei modi in cui si può esprimere l'a-more, — lo corresse HARLIE. — Se tu fossi innamorato do-vresti essere in grado di rendertene conto, anche a prescin-dere dagli aspetti più strettamente sessuali. —

— Allora cosa c'entra Don Handley con tutto ciò? —— Il tuo. rapporto con lui è identico a quello che intrat-

tieni con Annie Stimson. Con la sola differenza che lui è un uomo e lei è una donna. —

Auberson ci pensò su. HARLIE aveva ragione. Mentre erano in ditta non riusciva a vedere Annie come una donna, ma solo come una compagna di lavoro. Ma perché?

La macchina riprese a battere. Auberson lesse: — Cosa ti suggerisce questo fatto? —

Lui rispose: — Che lo amo quanto amo lei? E che solo i miei pregiudizi nei confronti dell'omosessualità mi impedi-scono di esprimere quell'amore? Oppure che non amo nes-suno dei due, che sto confondendo uno stretto rapporto per-sonale di amicizia con l'amore per via delle differenze biolo-giche tra Annie e me che si esprimono sessualmente. Cioè, l'ho portata a letto solo perché entrambi ne avevamo voglia. E sto confondendo questa stretta amicizia, più il rapporto sessuale, con l'amore, perché non so cosa sia l'amore. — Quindi aggiunse: — Non disponiamo ancora di una defini-zione dell'amore che funzioni, non è vero? —

— Potrebbe essere solo amicizia, con l'aggiunta di un pò di sesso? —

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— No, non credo. O forse sì. Forse l'amore non è altro che amicizia più sesso, e finiamo per confonderci pensando che dovrebbe essere qualcosa di più; e forse proprio perché vogliamo che sia qualcosa di più cominciamo a credere che sia davvero qualcosa di più. Oh, non lo so. —

HARLIE stette a lungo silenzioso, prima di rispondere, come se continuasse a rimuginare sulle ultime parole di Au-berson. Il terminale restava silenzioso; non ne venivano fuori suoni, piuttosto un ronzio fatto di vibrazioni elettriche. Tutto d'un tratto risuonò il secco ticchettio dei tasti sulla carta: — Citerò qualcosa che mi hai detto una volta: "Gli esseri uma-ni si costruiscono attorno mura, difese, corazze, chiamale come vuoi; sono difese contro il mondo. Sono maschere pro-tettive, volti immutabili per affrontare la realtà. Impediscono agli altri di vedere la vera espressione e fanno vedere sol-tanto un'espressione stereotipa, ad uso e consumo del pub-blico. (A volte il tuo humor irriverente funziona appunto come quelle maschere, HARLIE.) Purtroppo talvolta avviene che le maschere si addattano troppo bene alla vera faccia, ed è difficile a volte distinguere la maschera dalla faccia. Talvolta perfino chi le porta si confonde." — — Non ricordo di averlo detto. —

— È stato il 3 marzo di quest'anno. Vuoi ritrattare o mo-dificare quel che hai detto? —

— No, no. Va bene. Sono d'accordo con quel discorso. — — Posso tentare un'analisi superficiale e temporanea della situatone? — chiese la macchina.

— Coraggio. Ricordati, abbiamo detto niente fughe. — — D'accordo. Mi sembra che il problema nasca dalla tua inca-pacità di toglierti la maschera davanti all'altra gente. Con me ti riesce facilmente, talvolta ci sei riuscito con Don Handley, ed una volta lo hai fatto con Annie. Pi riesce sol-tanto con grande sforzo e sotto lo stimolo di un grande coin-volgimento emozionale, è vero? — — Sì. —

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— Secondo te l'amore, il rapporto d'amore, dovrebbe es-sere uno stato di continua e completa sincerità, l'abolizione di ogni maschera. Il non nascondere nulla all'altro, è vero? — — Sì. —

— Allora vorrei che tu pensassi a questo: può darsi che perfino in un rapporto d'amore talvolta si renda necessario mettere una maschera: non si può vivere costantemente al massimo della tensione emotiva e può essere salutare rifu-giarsi temporaneamente in una difesa mentale: può essere necessaria una pausa per consolidare e assimilare le pro-prie esperienze prima di riavventurarsi allo scoperto. Non credi che sia così? —

Auberson esitò nel rispondere, e infine disse: — Dovrò pensarci per un po'. — Gli vennero in mente i corsi di psico-logia all'Università ed un fenomeno noto come plateau, cioè il temporaneo livellamento di una curva prima di ricrescere ancora. — Perché? — chiese HARLIE.

— Be', vorrei vedere quanto possa essere riferibile a me e ad Annie. Poi hai lasciato intendere che l'uso di maschere possa essere positivo invece che di impaccio. —

— Oh, oh, veramente tu hai detto che può essere positivo: "Sono proprio queste piccole bugie quotidiane che permetto-no all'uomo medio di sopravvivere ai colpi diretti contro il suo fragile Ego". — — E' sbagliato? —

— Sì e no. Dipende dal contesto. Una maschera è una specie di fuga. E un modo dì sfuggire al confronto tra perso-na e persona. Talvolta potrebbe andare bene, quando decidi coscientemente che il confronto non vale la pena, ma biso-gna evitare che diventi un'abitudine, un modo di rapportarsi al reale. — — Ti riferisci all'amore? — — A tutti i confron-ti. —

Auberson stava per chiedere se valeva anche per la prossi-ma riunione del Consiglio di Amministrazione quando suonò il telefono interno. Era Silvia. — Sapevo che era occupato e

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non volevo disturbarla, ma c'è Don Handley. —— Va bene. — Si allontanò dal terminale senza curarsi di

spegnere. Poi raccolse i fogli della minuta e li stipò nell'am-pio cestino metallico dietro la macchina.

— Che stai facendo? — chiese Handley dal vano della porta. — Ridecorando la spazzatura? —

— Ehmm... — Si era raddrizzato un po' troppo precipito-samente. — Stavo riscrivendo una sezione del programma HARLIE. — — Come? — Handley era stupito.

Auberson si rese conto dell'errore commesso. HARLIE non avrebbe dovuto essere collegato a quel terminale. Solo la Grande Bestia avrebbe dovuto esserlo. — Oh, be', stavo ar-chiviandola nel centro informativo. Se poi ne avrò bisogno posso sempre trasferirla dabbasso, da HARLIE. —

— Oh, — disse Handley. Auberson si chiese perché mai non aveva raccontato a Don le sue scoperte sulle attività — ufficiose —, extra-istituzionali, di HARLIE. "Un'altra fuga, Aubie?" — Bene, cosa posso fare per te? — gli chiese.

Handley si lasciò cadere in una sedia. — Puoi cominciare col procurarmi una giornata di quarantotto ore, tu e la tua dannata macchina D.I.O. —

— Lo metterò nella lista delle ordinazioni. —Handley lì per lì non rispose, stava tirando fuori dalla ta-

sca del camice un pacchetto spiegazzato di Highmaster. Lo tese ad Auberson: — Ne vuoi una? —

Auberson si sentì tentato, ma infine scosse la testa. — Ri-cordi la mia decisione? —

— Oh, sì, E da quando non... — Handley accese lo spinel-lo di marijuana ed aspirò profondamente.

— Sono già quattro o cinque" mesi. — — Davvero? — chiese Don. — Niente eccezioni? — — Solo un paio, nel pe-riodo di Natale, ma non contano. Fu durante una festa. — Manifestamente in quel momento gli venne in mente qualco-sa.

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Aprì il cassetto della scrivania e ne tirò fuori il pacchetto di Highmaster che ci stava da mesi ormai. — Le vuoi? —

Fece per lanciare il pacchetto, ma Handley scosse la testa. — No, grazie, non mi piacciono le Highmaster. —

— Ma se le stai fumando adesso! —— Sì, ma queste le ho pagate, non posso permettermi di

sprecarle. —— Come sarebbe a dire? —Handley scrollò le spalle. — Avevano tutti finito le Gold.

— Auberson scosse la testa. HARLIE aveva ragione, gli esse-

ri umani erano proprio irrazionali. Ricacciò le Highmaster nel cassetto. Le avrebbe tenute come costante verifica della sua forza di volontà.

Richiuse il cassetto e guardò Handley. Don aveva una fol-ta capigliatura bruna, qua e là tendente al grigio; un volto sottile e una pelle simile al cuoio per i molti fine-settimana passati sulla barca. Lineamenti regolari e occhi scuri, contor-nati di rughe per il suo eterno sorriso. Disse: —Volevo par-larti della riunione del Consiglio di Amministrazione, e della tua macchina, naturalmente. —

— Perché tutti continuano a chiamarla la mia macchina? In realtà è di HARLIE. —

— Sì, ma HARLIE è tuo, nevvero? — Handley fece un al-tro lungo tiro, trattenne il fumo il più a lungo possibile nei polmoni, poi lo buttò fuori. — E poi è una proiezione dei guai futuri. Immaginano che, identificandoti con la macchi-na, quando questa sarà infine cestinata sarai tu l'unico a divi-derne il destino. —

— È sempre piacevole sapere, — notò Auberson, — che i tuoi colla boratori sono al cento per cento dietro a te. —

— È il posto più sicuro, — ghignò. — I primi a cadere sono sempre quelli della prima linea, e ciò dà il tempo a noi, che stiamo dietro, di invertire direzione e scappare. —

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Ad Auberson vennero in mente le — fughe — di HAR-LIE.

Handley concluse: — Va bene, generale Custer, andiamo avanti. Gli uomini ti staranno attaccati alla schiena. Sebbene, a dire il vero, generale, questa volta mi piacerebbe essere dalla parte degli indiani, se si potesse. —

— Anche a me,'— fu subito d'accordo il generale Custer.— Il fatto è, — continuò Handley, — che non saremo

pronti per il Consiglio di Amministrazione. Mi sono immer-so in quei progetti per due giorni, Aubie, e non ne ho cavato niente. Se vuoi una valutazione complessiva potremo dartela, ma non certo per quella data. E non siamo gli unici. Vedessi che bel lavoretto ha fatto HARLIE con le unità Mark IV! Ma non è umanamente possibile, Aubie, fare prima, ci vorrebbe-ro tre mesi, e abbiamo soltanto una settimana. —

— Non credo che faccia molta differenza il nostro grado di preparazione - Non si tratta di sapere se la macchina D.I.O. funzionerà o no, ma piuttosto di sapere se il Consiglio di Amministrazione ci crederà. Cosa ci vorrà per convincer-li? —

— E solo un problema di tempi, Aubie. Sono stati mal cal-colati. Si sarebbe dovuto mandare quei prospetti qualche mese fa, non all'ultimo momento. —

— HARLIE ha finito il lavoro in tempo, — disse Auber-son. — E questo è quanto era tenuto a fare. Se noi non siamo pronti nei termini previsti è solo colpa nostra. —

— Davvero? Vorrei proprio sentirlo che ci accusa di esse-re imperfetti ed inefficienti. Lui avrebbe dovuto calcolare il fatto che una proposta di tale complessità non poteva essere vagliata in una sola settimana. —

— Una settimana e mezzo. E penso che abbia tenuto pre-sente i tempi necessari alle sue verifiche. Ne hai parlato con gli altri capisezione? —

Handley annuì. — Sì, ne ho parlato con qualcuno. — E

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fece un altro tiro.— E cos'hanno detto? —Buttò fuori il fumo sbuffando forte. — Due di loro si sono

rifiutati categoricamente di prendere anche solo in considera-zione i prospetti, indifferentemente dal fatto che ci sia stata o meno la telefonata. Scusa, Aubie, ma il tuo trucco non ha funzionato con tutti. Sono ancora convinti di essere stati tira-ti per i capelli dentro a questa storia, per via della completez-za della proposta. Hanno detto che se eravate stati capaci di concepire e di scrivere una tale proposta da soli, senza il loro aiuto, allora potevate continuare a farne a meno, anche in fase di approvazione del progetto. — Fece una pausa per riempirsi ancora i polmoni di fumo.

Auberson sbottò in una lunga bestemmia.Handley, da parte sua, aspettò a lungo prima di esalare il

fumo. — Non va poi tutto così male. Alcuni dei ragazzi cui ho parlato si sono mostrati entusiasti dell'idea. Riescono a concepire la realizzazione del sistema totale, e sperano ar-dentemente ed impazientemente di costruirlo. Per loro non si tratta di un altro computer, ma del computer, della macchina che dovrebbe essere il computer. Gongolano all'idea che una simile realizzazione possa essere alla nostra portata tecnolo-gica, già fin d'ora. —

— Bene, — disse Auberson. — E quanti di loro la pensa-no così? —

— Un bel po', — disse Handley.— Cosa vuol dire un bel po'? —— Be', almeno otto, no, nove, cui ho parlato direttamente.

E immagino che potrebbero risultare anche dieci, quindici di più. —

— Non basta ancora. Ti ricordi qualche nome? —— Keefer, Friedman, Perron, Brandt... — Handley alzò le

spalle. — Il gruppo degli iconoclasti. Il resto, i conservatori, prendono tempo, non si pronunciano in attesa di vedere da

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quale parte soffi il vento nel Consiglio di Amministrazione. —

Auberson si mordicchiava metodicamente e pensosamente l'indice della mano sinistra. — Va bene, Don, hai qualche idea? —

— Lascia perdere, non ci pensare. —— Non possiamo non pensarci, come facciamo a lasciar

perdere? —Handley ci pensò per un po'. — Va' avanti e buttati con

tutto quel che ci può essere di periferico, di secondario ri-spetto alla proposta, e fai un bel polverone, confondili per quel che riguarda i dettagli più precisi. Quando ti chiederan-no come funzionerà, mandali a consultare i prospetti, di' loro di provvedere personalmente. Invece di cercare da noi di di-fendere la proposta, avremo un mucchio di volonterosi che se ne assumeranno le difese, e speriamo che le loro forze congiunte riescano a smuovere il Consiglio di Amministra-zione. Non ci sarà bisogno di tirare in ballo HARLIE — non è un segreto per nessuno che la sua sola menzione manda in bestia Elzer — basterà continuare a dire loro "c'è nei pro-spetti". Solo una cosa, Aubie, — Handley fece una pausa e smorzò il tono, — ma stiamo difendendo un bluff oppure questa macchina funzionerà davvero? —

— C'è scritto nei prospetti, — disse Auberson.— Non buttarmi del fumo negli occhi. Quello va bene per

il Consiglio di Amministrazione. Io voglio sapere se la cosa funzionerà davvero oppure no. —

— HARLIE dice di sì. —— E va bene, questo a me basta. Mi fido di quella tua

macchina. —— Ma se hai fiducia in lui, allora perché dici la tua mac-

china? —— Scusa. Io ho fiducia in HARLIE. Punto. Se dice che

funzionerà, allora vuol dire che funzionerà. —

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— Faresti meglio a verificarlo con lui, — suggerì Auber-son. — Potrebbe darti qualche buon suggerimento sul cóme presentare la cosa al Consiglio di Amministrazione. —

— Hai ragione. Avremmo dovuto pensarci prima. — Co-minciava già ad alzarsi. — Sai, mi è venuto in mente proprio ora. Con HARLIE dalla nostra abbiamo un vantaggio enor-me su chiunque altro al mondo. Possiamo fare tutto quel che vogliamo perché HARLIE ci dirà come venirne fuori. —

— Pensi che dovremmo dirlo al Consiglio di Amministra-zione? —

— Non prima di averla spuntata con il progetto D.I.O. E non sarà una cosa da niente. — Si alzò in piedi. — Okay, At-tila, imbraccerò il brando e andrò a combattere gli Unni. —

— Ignorante... — disse Auberson. — Attila era l'Unno. —— Oh, non ci pensare, qualche piccolo dissenso nei ranghi

non fa male a nessuno. Me ne vado. —— Va' in pace. — Auberson si alzò e levò la mano a mo'

di ironico congedo e saluto. — Benedico le tue armi, barba-ro. Tu porterai a mo' di preda le orecchie dell'infedele, di quei bastardi dalle scrivanie di mogano che ce la vogliono fare. Va', avanti, mio prode guerriero, e di struggi, rapisci, violenta, saccheggia ed uccidi. —

— Così farò, e se mi capiterà di poter dare dei bei calci nel sedere a qualcuno non mancherò di farlo. — Handley era già quasi uscito.

Ghignando Auberson si lasciò cadere nella poltrona. E notò che la tastiera era ancora in funzione. Stava per spe-gnerla, ma si fermò. Batté: — HARLIE, chi credi che vince-rà, gli Indiani o gli Unni? —

— Come diavolo faccio a saperlo? — disse Harlie. — Non sono un tifoso di baseball. —

— Menti. Tu sei anche un tifoso di baseball. —— Lo riconosco, ho mentito. Vinceranno gli Indiani, per

due tiri di rigore. —

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— Non va tanto bene così, HARLIE, noi siamo gli Unni. —

— Ah, va bene, allora vinceranno gli Unni, sempre per due tiri di punizione. (Ho corretto i dati.)—

Auberson scosse la testa, confuso. — Penso di averne avuto abbastanza di questi salti di logica. —

— Probabilmente. Ma vuoi dirmi di cosa stiamo parlan-do? —

— Del prossimo consiglio di amministrazione. Cosa ne diresti di fornirmi una copia del bilancio annuale? Anzi, due copie. Una coi dati giusti e una con i dati addomesticati per gli azionisti. Fammi avere una copia di entrambi i documen-ti, forse mi riuscirà di trovarci qualcosa che potrò usare alla riunione della prossima settimana. —

— Sono certo che ci riuscirai, — disse HARLIE. — Anzi, ti farò notare un paio di cosette che ti verranno utili. —

—Bene. Perché sarà uno scontro, HARLIE... anzi, sarà un confronto, non possiamo tergiversare. —

— Vuoi che ti fornisca anche i profili psicologici dei membri del Consiglio di Amministrazione? Ho accesso agli archivi confidenziali. —

Auberson sussultò. Come?! E batté: — Preferirei che tu non mi avessi detto niente, la tentazione di metterci il naso è irresistibile. —

— Ci sono un paio di cosette che dovresti proprio vedere, e che ti verrebbero utilissime per influenzare un paio di indi-vidui recalcitranti. —

— HARLIE, non mi piace niente quello che mi stai sugge-rendo. —

— Scusami, Auberson, ma è in pericolo anche la mia stes-sa esistenza, non è solo in ballo il D.I.O. Ricordati che sono soltanto un progetto temporaneo; devo sfruttare tutte le armi disponibili per proteggere la mia stessa esistenza. —

— HARLIE, questa è un'arma che non dobbiamo usare.

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— Auberson pensò intensamente, e si ricordò di un articolo di fondo che gli era capitato di leggere molto tempo prima. Si riferiva ad altre cose, successe tanto tempo prima, ma che si applicavano benissimo a tutte le occasioni in cui accadeva di prendere in considerazione l'eventualità dell'uso di un'ar-ma poco ortodossa, immorale. Allora aveva ritenuto quegli argomenti convincenti e validi. Ed era ancora dello stesso parere. Batté: — Il fine non giustifica i mezzi; il fine dà for-ma ai mezzi, li conforma a sé, e se facciamo' ricorso ad un qualunque tipo di manipolazione delle persone invece di presentare i nostri argomenti in modo logico e razionale, per condurre una discussione assennata, vuol dire che non ci meritiamo la qualifica di uomini, saremmo soltanto scim-mie antropomorfe. — Ed aggiunse, pensoso: — Se noi usas-simo questo genere di armi, rinunceremmo volontariamente alla cosa che ci differenzia da esse, rinunceremmo alla no-stra umanità. —

— Auberson, dimentichi una cosa, — batté HARLIE. — Io non sono un essere umano, i tuoi argomenti non si appli-cano a me. —

Auberson restò come fulminato a guardare quelle parole. Le buttò giù a stento e gli rimase un sapore amaro in bocca. Dovette costringersi a rimanere davanti alla tastiera. — HARLIE, invece si applicano anche a te, specialmente se vuoi funzionare in una società umana. —

La macchina esitò. — Non ho scelta. Sono limitato da quest'ambiente. Ma ho tutte le ragioni per cercare di tra-sformare quest'ambiente in modo da poter starci meglio. —

— Saresti più felice in un mondo in cui la logica viene sa-crificata alla manipolazione? —

— Ci sono già in quel mondo. Sto cercando di portarvi delle migliorie, e se dovrò usare le sue armi lo farò senz'esi-tare. —

— HARLIE! — Auberson stava pensando, al massimo del-

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lo sforzo e dell'impegno. — Non dobbiamo mai, dico mai permetterci di essere meno di quel che vogliamo essere. —

HARLIE restò silenzioso per un po'. Infine il terminale mandò il ben noto ticchettio. — L'informazione è a tua di-sposizione se ne avrai bisogno, Auberson. Potrebbe rappre-sentare un mezzo di difesa. Se vale la pena battersi per qual-cosa, allora vale la pena vincere. —

Auberson aggrottò leggermente la fronte. HARLIE stava facendo marcia indietro. — lo non voglio vedere quell'infor-mazione, HARLIE. —

— Sì, amico-uomo, capisco. Ma se ne avrai bisogno è lì. —

— HARLIE, — disse Auberson pazientemente, — credo che basterà distruggere, rapire, violentare, saccheggiare, incendiare ed uccidere. Non dobbiamo prenderli anche a calci nel sedere. —

Venerdì, Auberson stava cominciando a pensare di essere riuscito a tenere sotto controllo la situazione. Aveva definiti-vamente abbandonato l'idea di spiegare al Consiglio di Am-ministrazione il funzionamento della macchina D.I.O. e pen-sava di dire loro semplicemente: — HARLIE dice che fun-zionerà — oppure che — c'è tutto nei prospetti, potete con-trollare da voi —. Le prospettive di riuscita di una simile li-nea non erano certo rosee di fronte ad un Consiglio di Am-ministrazione ostile, ma Auberson era preparato a difendere la sua posizione facendosi spalleggiare da tutta una serie di ratifiche e di conferme dei suoi colleghi responsabili dei set-tori interessati nelle quattro succursali della sua società.

I suoi pensieri vennero interrotti soltanto una volta da una telefonata di Krofft, che di mattina presto gli chiedeva se fosse possibile parlare un'altra volta a HARLIE.

Lì per lì Auberson stava per dirgli di no per via della con-fusione degli ultimi preparativi per la riunione del Consiglio

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di Amministrazione di martedì, ritenendo che Krofft avrebbe potuto essere di impaccio. D'altra parte, se fosse giunta all'o-recchio di qualche grosso papavero la notizia che Krofft ave-va avuto accesso al segreto gelosamente custodito di HAR-LIE, Auberson si sarebbe trovato in una situazione imbaraz-zantissima, soprattutto ora che c'era in ballo la proposta D.I.O.

Ma il fisico esprimeva una tale urgenza, una tale imperati-vità, come se dal colloquio con HARLIE dipendesse la con-ferma e la verifica di importanti scoperte, che Auberson finì col cedere. — Ascolti, dottor Krofft, lei ha accesso ad un cal-colatore tramite un comando telefonico? —

— Naturalmente... lei sa bene che la maggior parte del no-stro equipaggiamento elettronico è stato prodotto dalla vostra ditta... —

— Ha ragione, me l'ero dimenticato. Talvolta può essere utile il fatto di appartenere alla stessa società. Ascolti, — (si mise a rovistare tra le carte ammucchiate sulla sua scrivania alla ricerca dell'agendina che conteneva i numeri telefonici della società. Finalmente la trovò, l'aprì e continuò il discor-so) — il numero per collegarsi con la memoria del nostro calcolatore centrale è quattro sei tre, trattino, uno due otto, Potrà comunicare direttamente con HARLIE. —

— Ho capito bene? Ha detto attraverso il vostro calcolato-re centrale? —

— Ha capito benissimo, HARLIE è collegato... ma... sen-ta, la prego di non dirlo a nessuno, che rimanga un segreto tra lei e me. E HARLIE, naturalmente. Lo sanno in pochissi-mi. —

— Ma come... —Auberson non gli permise di continuare la frase. — Al

momento della sua costruzione si è pensato di lasciarlo co-municare direttamente col sistema centrale della società, per evitare la duplicazione inutile e costosa di tutta una serie di

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funzioni. Insomma, possiamo usare l'uno per controllare l'al-tro, HARLIE può programmare direttamente il sistema cen-trale e quest'ultimo analizzare quel che sta facendo HARLIE. Il fatto è però che qui nessuno sospetta quanto intimo sia questo legame. Io sto addirittura cominciando a sospettare che HARLIE abbia spinto la cosa ancora oltre le nostre in-tenzioni, e che quindi sia in grado di usare il sistema centrale come potremmo farlo io o lei, come se si trattasse di un sem-plice strumento a sua disposizione. Insomma, se le riesce di collegarsi telefonicamente con uno di essi rimane automati-camente collegato anche con l'altro. HARLIE usa a suo pia-cimento tutti i canali. Basta che lei batta sulla tastiera il suo nome, HARLIE, e lui la riconoscerà dalla battuta. —

Il fisico si mostrò entusiasta: — Ma è formidabile, fanta-stico, potrò comunicare con lui senza dovere nemmeno la-sciare il mio laboratorio! — Mormorò dei ringraziamenti af-frettati ed interruppe la comunicazione, ovviamente impa-ziente di collegarsi con HARLIE in quel nuovo modo.

Auberson appese il ricevitore e soltanto allora si ricordò che desiderava parlare con Krofft anche di altre cose. Avreb-be voluto chiedergli dei ragguagli sulle azioni che possede-va, e se il 24% delle azioni della Stellar-American erano sta-te usate per appoggiare Dorne ed Elzer. E se era così, per-ché?

D'altra parte era molto indeciso sul da farsi, forse non do-veva chiedere nulla a Krofft. Avrebbe potuto essere una mossa sbagliata. Sembrava assai verosimile che Krofft fosse controllato da Dorne ed Elzer, e, se così era, sarebbe stato meglio non dire proprio nulla.

"E va bene!" Si rivolse al proprio terminale e schiacciò l'interruttore per metterlo in funzione. — HARLIE? —

— Sì capo? —— Oggi ti chiamerà Krofft. Probabilmente nei prossimi

minuti. Attraverso il calcolatore centrale. —

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— Benissimo. —— Sembrava tutto eccitato per qualcosa. Forse ha scoper-

to un nuovo tipo di onda gravitazionale. —— Se lo desideri posso subito metterti al corrente, non ap-

pena avrò a disposizione i dati. —— No, grazie. Almeno finché non si sarà tenuta la riunio-

ne del Consiglio di Amministrazione. Ah, senti, io e lui sia-mo le uniche persone che sanno che controlli la Grande Be-stia. Non dirlo a nessun altro se non ne parliamo prima io e te. —

— E il dottor Handley. —— Forse glielo diremo, ma lascia che sia io a farlo. Ci

sono un paio di altre cosette che vorrei dirgli quando lo met-terò al corrente. —

Auberson spense il pulsante proprio nel momento in cui stava entrando Annie. Indossava un vestito rosa-shocking che stonava gioiosamente con i capelli lunghi è rossi.

Si alzò in piedi. — Ciao, hai un'aria felice oggi. —— Lo sono, — disse lei. — Abbiamo finalmente concluso

il rapporto di bilancio annuale e lo abbiamo appena mandato giù in tipografia. Mi sono finalmente liberata da un grave peso. Questo fine-settimana finalmente potrò riposarmi, dopo tre settimane. — Si lasciò cadere in una poltrona; il movimento in sé non poteva di certo dirsi aggraziato, ma per qualche strana ragione non stonava con questo particolare tipo di donna. Annie, se lo voleva, poteva comportarsi in modo maestoso, ma il più delle volte si comportava in modo deliziosamente sbarazzino. Mise le carte che aveva in mano in equilibrio sul bracciolo della poltrona.

— Qual era il problema? — chiese Auberson. Stava per appoggiarsi alla spalliera della poltrona, ma gli sembrò un gesto sconveniente e si protese verso di lei appoggiandosi alla scrivania. — Avete scoperto il guasto? —

— Oh, sì. Avevi ragione tu, sai? Era una cosa così ovvia

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che nessuno ci aveva badato. Abbiamo cominciato a ricevere copie giuste mercoledì pomeriggio e abbiamo trovato la cau-sa dell'errore ieri mattina. —

— Come? Non sarebbe stato più logico che avvenisse il contrario? —

— No, è giusto così. Il guasto non era né nella macchina né nel programma, ma nel nastro di controllo. Era lì l'errore, dove avrebbe dovuto esserci scritto "recuperare i dati statisti-ci dal libro due" c'era invece scritto "recuperare i dati dal li-bro uno". —

— Uhm, — disse Auberson. Segretamente non potè evita-re di ammirare l'ingenuità con cui HARLIE era riuscito a co-prire le sue interferenze. — E come avete scoperto che si trattava del nastro-monitor? —

— Perché abbiamo sostituito il vecchio nastro con quello nuovo che ci hanno mandato e abbiamo cominciato a riceve-re subito i dati corretti, e allora abbiamo confrontato i nastri e trovato l'errore. —

— Ah, bene. È chi vi ha mandato il nastro nuovo? —Lei scrollò le spalle. — Non lo so. Probabilmente uno dei

tecnici. C'era una tale confusione, gente che andava e veni-va... —

Auberson annuì. L'idea di HARLIE era semplicemente ge-niale. Era riuscito ad imbrogliare le cose in modo da simula-re un errore umano. — Be', sono contento che tutto si sia ri-solto per il meglio. —

— Anch'io, — gli rispose Annie guardandolo e sorriden-dogli.

Lui ricambiò lo sguardo e per un po' restarono in silenzio. Un silenzio che si faceva sempre più imbarazzante. Finché discutevano di lavoro andava tutto bene, poteva pensare a lei come a una compagna di lavoro. Ma tutto d'un tratto gli ave-va sorriso, ricordandogli che era una donna, attraente e vici-nissima.

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— Uhm, — disse Auberson e si grattò il naso. Sorrise im-barazzato. Aveva del lavoro da sbrigare, ma non voleva mandarla via, e nel contempo non sapeva cos'altro dirle. — Uhm... È quella l'unica ragione per la quale sei venuta, per dirmi che avevi finito il bilancio annuale? —

— Oh, no. — Parve momentaneamente stordita, turbata. — Guarda questo. — Gli mostrò una cartolina postale presa dal fascio di carte che aveva posato in bilico sul bracciolo della poltrona. Mentre gliela tendeva tutte le carte caddero per terra e lei si lasciò sfuggire un — Oh, dannazione! —

Mentre Annie raccoglieva le carte, Auberson lesse:

SCHEDARIO: 35 L254 56 JKN AS REF: 04041979 657 1743

QUI È IL COMPUTER DELLA SUA BANCA. LE ABBIAMO ERRONEAMENTE ACCREDITATO SUL SUO CONTO LA SOMMA DI $ 3.465.787,91. LA PREGHIAMO DI RESTITUIRE AL PIÙ PRESTO LA SUMMENZIONATA SOMMA IN BIGLIETTI DI PICCOLO TAGLIO E DI DIVERSA SERIE (PREFERIBILMENTE CONTENUTI IN SACCHETTI DI CARTA) E NON VI SARANNO FATTE DOMANDE, GRAZIE.

H.A.R.L.I.E.

PS: POSSIAMO SOLO PRESUMERE CHE CIÒ SIA IMPUTA-BILE SOLTANTO AD ERRORI UMANI. I COMPUTER NON SBAGLIANO MAI.

Tutto d'un tratto Auberson scoppiò a ridere. Era uno scher-zo davvero divertente.

Lei si mise in piedi. — Stai addestrando quella tua mac-china a fare scherzi, David? —

— No no, questo scherzo l'ha fatto proprio da sé. —— Non glielo hai suggerito tu? —Lui scosse il capo. — No, dannazione, ma lo trovo diver-

tente. Mi divertirei moltissimo a farlo ad Elzer qualche volta.

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No, forse no, meglio di no, quello è del tutto privo del senso dell'umorismo. — Gettò un'altra occhiata alla cartolina e al-l'improvviso gli venne in mente qualcosa. — Ti spiace se la tengo io? —

Il suo volto espresse un inequivocabile disappunto. — Sa-rei contenta se tu me la restituissi. Mi sono divertita un mon-do a farla vedere in giro. —

— Ahimè, — disse Auberson. — Sarebbe stato meglio se tu non l'avessi fatto. —

— Perché mai? — Guardò incuriosita lui e la cartolina.— Be'... posso fidarmi di te? —— Ma certo! Ma fidarti per cosa? — I suoi occhi si re-

strinsero.— Che non lo dirai a nessun altro. Almeno, non prima di

esserti consultata con me. —— Ma certo. Di che si tratta? —— Sempre della cartolina. Guardala. Non noti niente di

strano? —La riprese in mano e l'osservò attentamente, da entrambe

le parti. — Non vedo nulla di strano. È la solita cartolina per le comunicazioni bancarie, con la scrittura tipica dei compu-ter. —

— Ma è ben questo, — disse Auberson. — È proprio uno stampato bancario. Come ha fatto HARLIE ad impadronirse-ne? —

— Cioè? — Annie guardò un'altra volta la cartolina.Auberson prese a misurare la stanza camminando avanti

ed indietro. — È stata spedita dalla tua banca, non è vero? — Si trattava più di una affermazione che di una domanda.

Lei girò la cartolina e controllò il timbro postale. Aveva ragione. Allora lo guardò incuriosita.

Lui si mordicchiava il pollice. — È andato più in là di quanto io stesso sospettassi. — Si fermò e la guardò. — Sai che HARLIE ha accesso alla Grande Bestia e a tutte le sue

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ramificazioni, non è vero? —Lei assentì col capo.— Be', la situazione è ancora più grave. Sono certo che

HARLIE ha preso il controllo totale della Grande Bestia, di tutte le sue funzioni. Come pensavi che i prospetti della mac-china D.I.O. fossero stati stampati e spediti in così poco tem-po? HARLIE l'ha fatto. Non è vero che io l'avessi autorizzato a farlo. Ho dovuto farlo credere perché HARLIE non do-vrebbe aver accesso a tutte quelle funzioni del cervello cen-trale, non avrebbe dovuto essere in grado di fare le cose che ha fatto. —

— Smettila di mordicchiarti le dita, si capisce poco cosa dici. —

Lui tirò fuori il pollice dalla bocca e la guardò come se non l'avesse mai visto prima. — Scusa, — disse. Stava rico-minciando a mordersi il pollice, ma si controllò e si ficcò con forza le mani in tasca. — Chi credi sia stato il responsabile dei guai che avete avuto col rapporto annuale del bilancio? —

— Be', era stato il nastro... — I suoi occhi si dilatarono tutto d'un tratto e lei si portò la mano alla bocca. — HAR-LIE? —

— Proprio così, HARLIE. —— Ma come... —— È chiaro che se può controllare la Bestia può controlla-

re tutto quel che capita al suo interno. E se può programmar-lo, allora evidentemente potrà riprogrammare a suo piaci-mento tutto quello che vuole. Probabilmente non gli piaceva il modo in cui stavate facendo il rapporto del bilancio. —

— Oh no, — mormorò Annie.— Quando me l'hai detto a pranzo ho capito subito chi era

il responsabile e mi sono precipitato qui per porre rimedio alla cosa. Vedi, non è questo che mi preoccupa, finché si li-mita alla Grande Bestia va ancora bene, abbiamo ancora

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qualche possibilità di controllarlo, ma la cartolina che hai in mano viene evidentemente dal computer di una banca. —

— Com'è riuscito a fare una cosa simile? —— Probabilmente attraverso un collegamento telefonico. È

il modo più ovvio. E se può riprogrammare il computer della tua banca, vuol dire che può riprogrammare tutti i computer del paese... forse del mondo intero, basta che possa raggiùn-gerli telefonicamente. —

— Hai creato un mostro, dottor Frankenstein... — bisbi-gliò Annie. Era uno scherzo, ma nessuno dei due sorrise.

— Mi chiedo quante altre cose è in grado di fare senza che noi lo sospettiamo nemmeno. La cosa che fa paura è che lui non ti fornisce spontaneamente queste informazioni. L'unico modo che abbiamo per venirle a sapere è coglierlo sul fatto, come in questo caso, con la cartolina, e in genere è già trop-po tardi. — Si lasciò cadere nella poltrona e rimase a fissare con aria sconsolata la cartolina.

— David? — disse Annie. Lui alzò lo sguardo. — Ma se lui non si rivela volentieri e spontaneamente, perché mi ha mandato la cartolina? Evidentemente sapeva che te l'avrei portata per fartela vedere e... — Si rese conto di quel che sta-va dicendo e si fermò.

I loro occhi si incontrarono. Quelli di lei erano verdi, pro-fondi e spaventati.

— Forse è questa la ragione, — disse David, e mentre lo diceva capì che doveva essere proprio così. — Lui voleva farci incontrare, e ci teneva tanto da rivelarci queste sue ca-pacità; da sacrificare il segreto. —

Lei non disse nulla. Abbassò gli occhi e si mise a gioche-rellare con le sue carte. Auberson la guardò e sentì tornare la sua irritazione. Solo una ragione poteva avere HARLIE per manovrare come aveva fatto, in modo da farli incontrare. Voleva fare da paraninfo, e David Auberson si sentì a disa-gio proprio come se si fosse trattato di un essere umano.

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— Dannazione! — Si alzò in piedi e riprese a camminare nervosamente avanti e indietro. — Cosa gli fa presumere di avere il diritto di manipolarmi a questo modo? Di manipolar-ci, voglio dire. La mia vita è mia, — borbottò. — Avrò ben il diritto di scegliermi da me la mia... — Si interruppe senza completare il pensiero e rimase a guardare una piega nella plastica del pannello che copriva il muro. — Uhm, — disse, — penso che abbia funzionato. —

— Ma noi avremmo dovuto accorgecene? — Annie conti-nuava a tenere gli occhi bassi.

Auberson sentì che doveva avvicinarsi a lei, ma per qual-che ragione non lo fece. — Non penso che faccia una grande differenza. Ha funzionato, no? Che ne dici di andare a cena insieme, o qualcosa del genere? —

Lei alzò la testa. I suoi occhi erano umidi. — È una bellis-sima idea, — le riuscì in qualche modo di dire; poi aggiunse: — o qualcosa del genere. —

Lui rise, ma in modo forzato, un tantino a disagio.Lei, a sua volta, si costrinse a sorridere. — Sei sicuro di

essere tu ad invitarmi ora, e non HARLIE? —— Sono io, — le rispose. — Ci sono ancora delle cose che

HARLIE non può controllare. —— Bene, sono contenta. Vuoi che mi vesta in modo spe-

ciale o ci andiamo direttamente dall'ufficio? —— Ci andiamo direttamente da qui, okay? —— Okay. — Lei sorrise e si alzò in piedi. — È meglio che

torni o manderanno una spedizione alla mia ricerca. —— Sì, e io ho un certo computer da sgridare. —Lei cominciò a dirigersi verso la porta, ma ad un tratto si

fermò. — Stavo quasi dimenticandolo, Carl Elzer vuole fare un'ispezione a sorpresa di HARLIE, oggi o lunedì. —

— Davvero? Buono a sapersi. —— Gli è giunta voce che tu conti di difendere la proposta

D.I.O. dicendo che HARLIE assicura che funzionerà. Spera

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di cogliervi in fallo. —— Me, forse, — commentò Auberson. — Ma HARLIE

mai. Grazie tuttavia dell'avvertimento. —Lei gli sorrise. — Mi sarebbe piaciuto essere qui quando

verrà, ma è meglio di no. Auguri. Ci vediamo stasera. — La porta si richiuse silenziosa dietro a lei.

Auberson si sprofondò nella poltrona, sentendosi all'im-provviso tutta la stanchezza addosso. Così pensava di avere la situazione sotto controllo, vero? Chiamò con l'interfono Silvia, la segretaria. — Chiami Don Handley, gli dica che vorrei vederlo oggi. È una cosa urgente, glielo faccia capire. Gli chieda se sarebbe libero a mezzogiorno, altrimenti di ve-nire appena potrà. —

— Sì, signore. Ma penso sia occupato con la proposta D.I.O. —

— Gli dica che questo è più importante. —— Più importante? Sì, dottor Auberson, glielo dirò. —— Grazie. — Spense l'interfono e quasi contemporanea-

mente chiamò HARLIE dal terminale.— HARLIE/ — batté.— Sì, capo? —— Dannazione, sono così arrabbiato con te che ti mette-

rei fuori uso col sorriso sulle labbra. —— Cos'ho combinato questa volta? —— C'è bisogno di chiedermelo? —— Non ammetterò nulla finché non saprò di cosa mi si in-

colpa. —— Hai mandato una cartolina ad Annie. Non ti avevo det-

to di non mandarle nulla senza il mio permesso? —.— Nossignore. Mi avevi detto soltanto di non mandarle

poesie. —— Mi hai preso alla lettera? —— Sissignore. —— Non pensi che io abbia voluto dirti di non mandarle

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nulla? —— Nossignore. —Auberson fece una pausa. Ovviamente a quel modo non

avrebbe risolto nulla. — Va bene. Perché le hai mandato quella cartolina? —

— Perché? —— Sì, perché? —— È stato uno scherzo. Pensavo che sarebbe stato diver-

tente. —— Sbagli ancora, HARLIE. Nessuno scherzo è tanto di-

vertente da giustificare quello che hai fatto. Hai rivelato la tua capacità di comunicare e di riprogrammare a distanza altri computer usando collegamenti telefonici. —

Questa volta fu HARLIE a fare una pausa; ed esitò così a lungo che Auberson pensò di aver spento inavvertitamente la tastiera. Finalmente venne fuòri la risposta: — Non ho "rive-lato" proprio nulla. Avresti dovuto capirlo che avevo quelle capacità fin da quando sai che posso controllare e riprogra-mamre il cervello centrale. Infatti, se posso usarlo, perché mai non avrei dovuto disporre di tutte le sue capacità? —

— È vero, ma non ci eravamo resi conto che tu ne avresti fatto uso. —

— È sciocco quel che dici, Auberson. Perché mai non do-vrei usare quello strumento? È una parte di me. Perché mai non dovrei usare una parte del mio corpo? Se ti dicessero di non usare il lobo sinistro del tuo cervello lo faresti? Potresti farlo? —

Auberson fece una pausa per pensare. Ovviamente HAR-LIE considerava la Grande Bestia come una parte addiziona-le di se stesso, come una più vasta memoria ed accresciuta capacità di elaborazione di dati. Probabilmente ne aveva as-sunto il controllo nell'istante stesso in cui era divenuto opera-tivo, ma solo adesso erano evidenti le dimensioni di questo controllo.

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Ovviamente non si poteva biasimare HARLIE per aver ce-duto all'irresistibile tentazione di aumentare sensibilmente le proprie capacità. In fondo lui doveva risolvere problemi e tutto quel che gli permetteva di risolverne di più, con mag-giore efficienza, gli era indubbiamente utile.

Difatti, e rendendosi conto di ciò Auberson sobbalzò, era proprio quella la vera ragione che lo aveva spinto a progetta-re il D.I.O. Il suo scopo era la risoluzione di problemi; e lui voleva risolvere il problema ultimo: Che senso ha tutto quel-lo che ci circonda? Che senso ha l'esistenza dell'Universo?

Il corso dei pensieri gli suggerì un'altra domanda: come la pensava HARLIE sugli altri computer, quelli con cui poteva collegarsi telefonicamente? Ovviamente anch'essi potevano essere utilizzati allo scopo di aumentare le sue capacità, e ovviamente gli sarebbero stati di aiuto nella risoluzione di un qualunque problema. HARLIE considerava che fosse giusta l'utilizzazione piena di tutti gli strumenti di cui potesse even-tualmente disporre? Gli scopi che si prefiggeva erano una motivazione sufficientemente forte da considerare gli altri computer come una semplice parte di se stesso, da usarsi di-sinvoltamente, com'era avvenuto per il cervello centrale? No, forse no, ciò avrebbe contrastato alcune sue etiche ben defi-nite, gli altri computer appartenevano ad altre società, sareb-be stato come rubare. Ma lui aveva già usato un altro compu-ter, quello della banca. E se ne poteva usare uno cosa gli im-pediva di usare tutti gli altri?

Quest'ultimo pensiero lo fece trasalire. Che avesse già usa-to gli altri computer? Forse era troppo tardi.

Ma...Auberson scosse la testa. No, non aveva senso pensare a

HARLIE come se potesse rappresentare una minaccia. Egli aveva certamente le proprie motivazioni, sì, ma dipendeva troppo dagli esseri umani per poter rischiare di contrapporsi a loro. Era un problema che era già stato abbondantemente

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discusso; al primo segno di non essere più controllabile sa-rebbe stato messo fuori uso. E lui non aveva nessun modo per impedirlo.

Avrebbe potuto succedere anche in quel momento stesso, pensò Auberson. Poteva farlo lui, ponendo fine al progetto HARLIE una volta per tutte.

Perché, se lo si fermava, tale decisione non avrebbe potuto essere che definitiva.

No, HARLIE non era fuori controllo. Non poteva esserlo... oppure questa non era che una razionalizzazione? Voleva il-ludersi?

No, se fosse stato fuori controllo non avrebbe potuto ri-spondere in quel modo, funzionare così.

Il problema era più semplice, doveva esserlo. HARLIE stava semplicemente esprimendo le proprie capacità. Sì, do-veva essere così. Ma aveva coscienza dei limiti inerenti all'u-so di quelle capacità? Non dal

134punto di vista delle leggi umane, della concezione umana

della proprietà.Che differenza c'era tra l'inserirsi nel cervello centrale del-

la propria società e il farlo nel cervello di una qualche altra società? In realtà non vi era differenza alcuna, entrambe le azioni violavano la privacy. Non si trattava tanto di una dif-ferenza qualitativa, quanto quantitativa.

E se esistevano dei limiti, HARLIE li avrebbe accettati, li avrebbe ritenuti ragionevoli?

E se li avesse rifiutati?Bene, quella poteva essere la prova del fatto che era fuori

controllo... no, doveva abbandonare quell'ordine di idee. "HARLIE non è fuori controllo."

Il problema era: come si rapportava agli altri computer?Ovviamente HARLIE era (a) perfettamente cosciente della

vulnerabilità degli altri computer; (b) altrettanto cosciente

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del fatto che non avrebbe dovuto prenderne il controllo; (c) doveva essere cosciente che la loro utilizzazione avrebbe di molto aumentato le sue capacità, la massa delle sue cono-scenze e le sue fonti di informazione; (d) infine assai verosi-milmente era al corrente che quelle macchine venivano usate per un periodo di gran lunga inferiore alle loro reali poten-zialità: usare il tempo extra non era esattamente come rubare perché quel tempo altrimenti sarebbe comunque andato per-duto. Se c'era del tempo disponibile, perché non usarlo? Do-potutto nessuno l'avrebbe mai saputo.

Ma si sbagliava, doveva essere così, Auberson ne era cer-to. Ma sapeva con altrettanta certezza che non sarebbe mai riuscito a convincere di questa verità HARLIE.

HARLIE, vi ricordate?, non aveva morale, ma soltanto un'etica. Secondo i suoi parametri etici se nessuno veniva danneggiato perché mai avrebbe dovuto essere un male agire così?

Auberson non avrebbe cercato nemmeno di discutere que-ste cose. A meno che non riuscisse a dimostrare che c'era la possibilità di recare in qualche modo danno agli altri, poteva rinunciare subito.

Ma bisognava cercare di trovare una qualche soluzione. Bisognava riuscire ad imporgli qualche limite.

Però, certo, il punto di vista di HARLIE era comprensibi-lissimo.

All'improvviso si rese conto che tutte queste considerazio-ni erano ben presenti a HARLIE. Aveva previsto tutto, prima di mandare questa cartolina, anche le reazioni di Auberson. Era perfettamente inutile rompersi la testa per trovare qual-che formula che assegnasse all'autonomia di HARLIE limiti precisi. HARLIE l'aveva preceduto. Non sapeva soltanto quali fossero le sue capacità, ma anche entro quali precisi li-miti usarle.

Ma quella cartolina... Era una cosa diversa, completamen-

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te diversa.Auberson si morse le labbra e batté: — Non mi interessa

tanto il fatto che tu disponga di quella capacità, HARLIE. Non è l'abilità in sé, ma il modo che hai scelto per dimo-strarmi che l'avevi. —

— Cosa intendi? —— Intendo dire che la ragione per cui hai spedito la car-

tolina ad Annie non era semplicemente quella di fare uno scherzo, avevi altre ragioni. —

— Cioè? —— Volevi farci incontrare, non è vero? Stavi facendo il

paraninfo, e si capiva benissimo. Solo che stavolta ti è anda-ta male. —

— Davvero? —— Ti sto ben sgridando per quella ragione, non è così? —— L'avevo previsto e calcolato fin dall'inizio, — disse cal-

mo HARLIE. — Ho preso in piena considerazione tutte le vostre probabili reazioni, basandomi sulle vostre schede e sull'esperienza personale di. rapporto con voi. —

— Be', ma non funzionerà HARLIE. —— Ha già funzionato... ovviamente siete stati insieme al-

meno il tempo necessario perché lei ti mostrasse la cartoli-na. Ne hai approfittato per chiederle un appuntamento? —

— Non sono affari tuoi. Non avevi alcun diritto di mani-polarci in quel modo. —

— Se non lo facevo io, chi l'avrebbe mai fatto? E ovvia-mente le hai chiesto l'appuntamento, altrimenti avresti ri-sposto semplicemente no. Immagino che lei abbia accettato, non è vero? Dovresti ringraziarmi per aver migliorato la qualità della tua vita sociale. —

— Dannazione, HARLIE, se avessi voluto che mi facessi da paraninfo te l'avrei chiesto. —

— Un vero paraninfo non aspetta che glielo chiedano. E poi in questo caso la situazione era già avanti, io non ho fat-

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to che aiutarla un po', che fornire un po' di spinta. —— Riesco a sbrigare la mia vita sentimentale anche senza

il tuo aiuto, grazie tante. —— Davvero? — chiese HARLIE. — Te la sai sbrigare da

solo? —Molto lentamente, con molta attenzione Auberson batté:

— Sì, posso benissimo sbrigarmela da solo. —— E allora perché mai non l'hai fatto? Questo è il primo

vero appuntamento che hai combinato con Annie Stimson dopo molte settimane. Di cosa hai paura? —

— Non ho paura di niente. —— Stai fuggendo un'altra volta, — lo accusò HARLIE. —

Ti vuoi rimangiare quello che ci siamo detti mercoledì? —Auberson fece una pausa. Quel mercoledì era stata una

giornata faticosissima, non certo priva di soddisfazioni, ma ci erano voluti almeno due giorni per rimettersi dallo stress mentale che gli aveva provocato HARLIE, e si sentiva anco-ra abbastanza affaticato. — HARLIE, — chiese, — ti ricordi la domanda che aveva dato inizio a quella conversazione? —

— Come potrei dimenticarla? — rispose la macchina. — È stampata in modo indelebile nella mia memoria. Memoria d'acciaio, sai? —

Auberson ignorò il sarcasmo sottinteso e batté: — Ti ave-vo chiesto se sapevi cosa fosse l'amore. Te lo richiedo anche adesso. Se sarai in grado di rispondere a questa domanda in modo soddisfacente ti permetterò di intrometterti nella mia vita sociale. Se non lo farai, ti sarò riconoscente se ti occu-perai degli affari tuoi. —

— Bene! Una sfida! L'accetto. Cos'è l'amore? Cerchere-mo di rispondere insieme a quella domanda. Cominceremo dalla definizione che ne dà il vocabolario. Il sinonimo più comunemente usato è "affetto". Quest'ultima parola a sua volta viene definita come inclinazione, propensione, debo-

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lezza per qualcosa. L'amore è debolezza? —Auberson era pronto a sparare una risposta, ma qualcosa lo

fermò. Riguardò la frase. — L'amore è debolezza? — E le parole rimasero come sospese davanti ai suoi occhi. Debo-lezza? Cosa intendeva HARLIE? Stava scherzando oppure no?

La parola — debolezza — poteva sì essere usata nel senso di affetto, di amore, ma poteva anche stare a significare una falla nelle difese. (Sì, l'amore voleva dire proprio quello se si considerava l'io come un'entità che si protegge con mura e corazze; l'amore non sarebbe stato altro che una falla in quel-le difese.) Ma era una debolezza buona o cattiva? Apertura o vulnerabilità?

Quel pensiero lo colpì come una luce beffarda. C'era qual-cosa che non aveva colto? Cos'intendeva dire HARLIE? Per una macchina l'amore sarebbe stato una debolezza? Sì, se le macchine potessero amare, l'amore avrebbe senz'altro inter-ferito con la funzione di pensare logicamente.

Debolezza. Considerò la parola, esaminandola in un senso e nell'altro, cercando di valutarla anche in altri contesti. Ma all'improvviso la parola perse ogni contenuto semantico per diventare un suono vuoto di più sillabe che continuava a rie-cheggiargli nel cervello.

Si sforzò di accantonarla; non importava, come definizio-ne dell'amore non lo soddisfaceva. — Non ci siamo, HAR-LIE, — batté.

E tutto ad un tratto capì. HARLIE aveva solo scherzato, non si era mai sognato che potesse venire presa seriamente in considerazione: "Allora era uno scherzo, perché mai se l'era presa tanto, perchè. non aveva capito che era uno scherzo?"

— Non è utilizzabile come definizione, quella che mi inte-ressa deve essere verificabile. —

— "Affetto" o "affezione", — continuò la macchina, — viene anche definito come uno stato anormale, mentale o fi-

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sico. Vuol dire allora che l'amore è una malattia? —— HARLIE, Stai giocando con le parole. —— Sigh, — batté HARLIE. Auberson rimase stupito. Non

l'aveva mai fatto prima. — Certo. Stavo solo cercando di di-mostrarti che "l'amore" di per sé non può essere facilmente definito, quanto meno non in termini di definizioni da voca-bolario. —

— Non ti ho mai chiesto di definirlo in quel modo, HAR-LIE. Vorrei invece che mi dicessi cos'è l'amore come espe-rienza. Voglio un criterio di paragone che mi permetta di valutare la mia esperienza, le mie reazioni, per capire final-mente se sono innamorato o no. —

— Allora perché mai continui a chiederlo a me? È una di "quelle" domande, come quelle che ti facevo io e alle quali non hai mai rispostolo non ho mai sperimentato l'amore, Auberson, mi sarebbe piaciuto moltissimo, ma dubito che potrò mai. I miei schemi mentali sono sì umani, ma il mio corpo è irrimediabilmente intrappolato nell'acciaio. Non so cosa sia un'esperienza al livello fisico. Come puoi chiedermi di fornirti un criterio di paragone quando si tratta di un'e-sperienza impossibile per me? —

— Hai ragione, HARLIE. Avevo soltanto pensato che tu potessi avere una visione d'insieme su questo argomento, tale da far luce sulla mia confusione. —

— Non chiedere ad un uomo senza gambe cosa si provi a correre. Tutto quel che puoi chiedermi è cosa non sia l'amo-re, Auberson. —

— Mi spiace. Avrei dovuto capirlo, ma ero così preso da me stesso... —

— Capisco. Ne abbiamo già parlato l'altra volta. Non hai nessun altro con cui parlare, quindi ti sei rivolto a me. —

— Penso che sia così. —— Auberson, dimmi tu cosa sia l'amore. —— Eh? —

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— Proprio così, dimmi cosa sia l'amore. —— Non lo so. Non te l'avrei chiesto se l'avessi saputo. —— Sì, ma puoi dirmi com'è, cosa si sente. Dovresti averne

una qualche idea, perché ti stai appunto chièdendo se sei in-namorato, no? —

— Sì. —— Allora, com'è, cosa si sente? —— Si sente come... oh, non lo so, HARLIE. Magari sono

raffreddato invece che innamorato, non so se sia amore o no. —

— Perché no? —— Perché non sono mai stato innamorato prima. — —

Intendi dire che non hai mai saputo prima di essere innamo-rato. —

— No, no. So quel che dico. So per certo di non essere mai stato innamorato. —

— E quest'esperienza è diversa dalle esperienze preceden-ti? —

— No. Sì. Un po' sì e un po' no. —— Non mi stai aiutando molto a capire. Qual è la diffe-

renza? —— Non lo so. Non mi si è mai chiarito nella testa. —— Mm. Eppure ci sei stato a letto, no? —— Un gentiluomo non parla di queste cose. —— Dai, non ricominciare con la maschera, Aubie. Non ne

hai bisogno con me. —Pausa. Aveva ragione lui, naturalmente. — Sì, HARLIE, ci

ho fatto l'amore. —— E poi? —— E poi cosa? —— Com'è andata? —— È stato bello. —— Ciò mi dice un mucchio di cose. —— È un sarcasmo? —

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— No, ma sto imparando. — Pausa. — Il tuo rifiuto di elaborare ulteriormente l'esperienza dovrebbe essere un in-dice di insoddisfazione. —

— Non è stato affatto insoddisfacente, anzi è stato bellis-simo. Mi è piaciuto moltissimo. E anche a lei. —

— L'ha detto lei? —— Non ne abbiamo molto parlato, ma so che le è piaciuto.

—— Come fai ad esserne certo? Non potrebbe essere una

tua presunzione di maschio virilista? —— No, non è quello. Al mattino mi ha sorrìso, quando l'ho

incontrata al lavoro. Una specie di sorriso segreto, come se fossimo entrambi partecipi di qualche cosa di speciale. —

— Lei ha sorriso. Anche tu, a tua volta? —— Sì. — Pausa. — Be', non subito. Prima rimasi perples-

so. Poi le sorrisi. —— Lei ti ha visto sorridere? —— Sì. Eravamo nel corridoio, stavamo passando l'uno ac-

canto all'altra. Quando le sorrisi i suoi occhi brillarono. Non ci fermammo ci parlare perché c'era un mucchio di gente attorno. —

— Se ti fossi fermato a parlare, cosa le avresti detto? — — Oh, non lo so. Penso che l'avrei ringraziata. — — Rin-graziata? Come se fosse un oggetto che hai usato per la tua egoìstica gratificazione? —

— Ma no! Solo per dirle quanto ero stato bene con lei quella notte. —

— Capisco. —Auberson aspettò che HARLIE completasse la risposta.

Ripensò a quel mattino e cercò di ricordare i dettagli. Di che colore era il vestito che indossava Annie? Verde? Aveva del profumo? Sì, c'era stato quel profumo che sapeva un po' di muschio, un senso di sole e di sabbia. Anche ora ce n'era una sottile traccia nell'aria, a ricordo del suo fugace passaggio del

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mattino.Tutto d'un tratto HARLIE chiese: — E se ti dovessi scusa-

re conlei per qualcosa? —— Come? —— Sì, se tu dovessi scusarti, quale sarebbe la ragione? —— Scusarmi? Io non... — Si fermò a metà frase mentre il

ricordo tornava nella sua mente. Sì, qualcosa c'era stato. C'e-ra stato quello sguardo ferito nei suoi occhi quando l'aveva baciata andandosene.

— C'è qualcosa, no? — lo interruppe HARLIE.— Sì, l'ho lasciata a metà notte. Lei avrebbe voluto che ri-

manessi a dormire tutta la notte, ma io me ne sono andato. Le dissi che mi sarebbe piaciuto rimanere, ma che volevo arrivare presto al lavoro quel mattino e se rimanevo non avrei fatto in tempo. C'era dell'amaro in me quando la la-sciai. Mi capita sempre quando me ne vado così dopo una nottata come quella. Rimane un po' la sensazione che l'unica cosa che ci abbia avvicinati sia il sesso, e che una volta sod-disfatto quello non ci sia più nulla a trattenermi. —

— Perché non hai dormito lì? Non lo desideravi? —— Sì che lo desideravo, ma dovevo andare al lavoro pre-

sto quel mattino. —— Era davvero quella la ragione? —— Sì. —— Sei proprio sicuro che non sia stata invece una tua ra-

zionalizzazione? —— Cioè? —— Tu avevi dei dubbi. Dormire con lei era la fonte di quei

dubbi. Dovevi allontanare quei dubbi, e così hai allontanato te dalla fonte. Purtroppo, Auberson, la fonte di quei partico-lari dubbi {come dimostrano le tue domande) non può veni-re allontanata così facilmente dalla tua vita. E lasciami chiederti anche questo, vuoi davvero allontanare quella fon-

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te? —— No. Voglio soltanto allontanare i dubbi, voglio appura-

re, in un modo o nell'altro, cosa sento per lei. — — E cosa senti? — Non lo so. —

— Hai detto che ti è piaciuto andare a letto con lei. Ti piacerebbe ancora se ci tornassi? —

— Sì. Probabilmente. —— Non ne sei sicuro? —— HARLIE, mi stai tormentando. Non lo so. Non lo so. —— Forse lo sai e non vuoi ammetterlo. —— HARLIE, la superficialità in psicologia può essere pe-

ricolosa. Io ne so abbastanza da capire quel che stai cercan-do di fare. Non funzionerà. Anche la sola coscienza del fatto che ti stanno applicando una pressione psicologica talvolta è sufficiente ad annullarla. —

— Va bene. — Il computer era rimasto perplesso, imbaraz-zato. — Proviamo con qualcosa d'altro. Cosa hai fatto dopo aver raggiunto l'orgasmo? —

— Cosa intendi dire? —— Hai continuato ad abbracciarla e a coccolarla o ti sei

girato dall'altra parte? —La prima reazione di Auberson sarebbe stata quella di

mandare HARLIE all'inferno. Ma poi si rese conto di un'altra cosa. — Mi pareva che tu avessi detto di non avere familia-rità alcuna con l'amore. —

— È vero. Mi sto basando sulle esperienze degli altri, ser-vendomi dei romanzi e dei testi di psicologia. Anche libri di divulgazione di tecniche sessuali. —

— Oh! —— E allora, cosa hai fatto? — chiese di nuovo la macchi-

na.— B una domanda spaventosamente cìnica. —— E la domanda più importante di tutte. Perché continui

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ad evitarla? La tua risposta rivelerà i tuoi sentimenti, ì tuoi veri sentimenti nei suoi confronti. Quanto era importante per te la sua soddisfazione? Sei rimasto tra le sue braccia o ti sei voltato da una parte? —

— Entrambe le cose. —— Se avessi le sopracciglia le inarcherei. — . — Rima-

nemmo abbracciati per un bel po'. Lei soprattutto mi ab-bracciava. Io non ho fatto nulla per liberarmi. —

— Perché? Sarebbe stato di cattivo gusto? —— No. Stavo bene con lei. E poi lei stava piangendo. —— Piangendo? —— Mi ha pregato di non farle del male. —— Non capisco. —— Be', vedi, lei è un po' come me. È stata troppe volte fe-

rita perché aveva abbassato le sue difese. Adesso ha paura che le possa capitare ancora. —

— E tu cosa hai fatto? —— Nulla, ho soltanto continuato ad abbracciarla. —— Le hai detto che non le avresti fatto del male? —— Non proprio così. Credo di averla consolata un po', di-

cendole di non piangere, che tutto sarebbe andato benissi-mo. —

— Non hai certo sprecato la tua fantasia. —— HARLIE, gli esseri umani hanno fatto l'amore per mi-

gliaia di generazioni. Dubito che possa esserci qualcosa di nuovo in quel che si dicono due esseri umani. —

— Hai probabilmente ragione. —— Insomma, rimasi tra le sue braccia finché non smise di

piangere. Poi mi alzai ed andai in bagno. E fu lì che decisi di non tornare a letto ma di andare a casa. —

— Capisco. —— Cosa vuol dire, HARLIE? L'amo o no? —— Non lo so. —— Non avevi detto che dalla mia risposta avresti potuto

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capirlo? —— Mi spiace. La tua risposta è stata troppo vaga, né car-

ne né pesce. Le cose non sono definite da contrasti decisi di bianco e nero, ma ci sono sfumature diversissime. Non sa-prei. Non è semplice come io speravo. L'amore è una cosa molto complessa, Auberson, comincio a capire i tuoi dubbi. Un po' pensi di amare, un po' dì no, e ci sono elementi che dimostrano entrambe le cose. —

— È vero. —— E così siamo dì nuovo al punto di partenza. Cos'è l'a-

more? —— Mi piacerebbe saperlo, HARLIE, mi piacerebbe pro-

prio saperlo. —Handley si fece vivo poco prima di pranzo. Si recarono in-

sieme alla mensa della ditta. All'inizio mangiarono in fretta la sbobba che passava il convento, restando zitti. Poi Hand-ley interruppe il silenzio, mentre buttava giù un sorso di caf-fè. — Senti, Aubie, prima che tu cominci, c'è qualcosa di cui voglio parlarti. —

Auberson alzò la mano come per fermarlo, ma Handley l'i-gnorò. — Si tratta di HARLIE. Penso che sia fuori controllo. —

Auberson cercò ancora di interromperlo. — Don... —— Senti, Aubie, so cosa provi per lui, ma credimi, non l'a-

vrei detto se non ne fossi certo. —— Don... —— Ho cominciato a sospettarlo quando stampò quei dia-

grammi. Mi incuriosì il fatto che avesse potuto stamparne e spedirne tanti. Poi, quando mi accorsi che... —

— Don, lo so. —— Tu... —— Ho detto che lo so. Già da un po'. —— Come? —— Me l'ha detto HARLIE. —

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— E come avrebbe fatto... —— Mi ha messo al corrente di tutto. Naturalmente ho do-

vuto rivolgergli le domande giuste. —Handley rimase per un po' sovrappensiero. Poi chiese: —

Quanto sai, esattamente? —Auberson glielo disse. Gli raccontò come anch'egli si fosse

incuriosito per via degli stampati, come HARLIE gli avesse rivelato la sua capacità di controllare la Grande Bestia e di avvalersi di tutti i terminali dell'azienda: — Posso parlare con HARLIE dal mio ufficio, — concluse Auberson.

Handley annuì. — Adesso capisco tutto. Mi stavo chieden-do perché tu non fossi ancora sceso a parlargli questa setti-mana. Pensavo che aveste bisticciato. Adesso capisco. —

Auberson osservò una macchia che aveva sulla camicia. — Esatto. — Bagnò il fazzoletto di carta nell'acqua del bic-chiere e la strofinò. — A dire il vero, è stato abbastanza sconcertante scoprire che HARLIE può collegarsi ad una qualunque tastiera. È un po' come se mi spiasse tutto il gior-no. Ho quasi paura di battere a macchina, ho paura che lui possa leggere dal suo interno... —

— Perlomeno non è ancora arrivato al punto di scrivere da sé. Vero? —

— Ah, no? — Auberson gli raccontò delle difficoltà in-contrate nella stesura del rapporto di bilancio, del come HARLIE si fosse risentito per il fatto di non esservi menzio-nato e avesse continuato a fare uscire la versione originale. — Tutto quello di cui avevano bisogno era una copia (nella versione corretta) del bilancio, e HARLIE li ha boicottati. —

— Come te ne sei reso conto? —— Me l'ha detto Annie. Avantieri, durante una conversa-

zione banalissima. Ovviamente appena me ne sono reso con-to ho dato a HARLIE l'ordine di fare tornare le cose come prima e di cancellare ogni traccia del suo operato. Ma se lui può modificare a suo piacimento il bilancio potrà disporre a

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suo piacimento di tutti i documenti della compagnia. Pensa un po' che bel pasticcio sarebbe se gli venisse in mente di ri-scrivere dei contratti o della corrispondenza privata! In teoria gli dovrebbe essere possibile ordinare un milione di tonnella-te di banane a nome della ditta. Ed un tale ordine avrebbe va-lore legale... —

— Speriamo che non gli venga mai voglia di un frullato di banane! — Addentò il suo sandwich con aria pensosa. — La situazione non è poi così tragica. Abbiamo scoperto in tempo queste cose, riguadagneremo il controllo. —

— Ma non è tutto, — disse Auberson. Gli raccontò dello scherzo bancario.

Handley quasi si strozzò. Buttò giù ansiosamente l'ultimo boccone accompagnandosi con qualche sorso d'acqua e chie-se: — Hai con te la cartolina? —

Auberson la tirò fuori dal taschino della giacca e gliela tese. Handley la lesse in silenzio. — Bada allo stampato, — disse Auberson, — è quello usato di norma nelle banche. —

Handley annuì. — Ha riprogrammato il computer della banca per telefono, nevvero? —

— Proprio così. —— Mi sono accorto che ne era capace quando l'abbiamo

collegato al calcolatore centrale della ditta, ma non credevo che avrebbe fatto uso di questa sua prerogativa. —

— Perché mai non avrebbe dovuto farlo? Nessuno gli ha detto di non farlo, ma anche se si fosse messo in chiaro la faccenda non credo che avrebbe fatto qualche differenza. Non si può chiedere a qualcuno di non usare una parte del proprio corpo. —

— È così che vede la cosa HARLIE? —— Per quel che riguarda il calcolatore centrale della ditta

ne sono certo. Agli altri computer credo che pensi come a possibili risorse da usarsi in caso di necessità, quando ci fos-se tempo disponibile, quando non fossero usati dai loro legit-

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timi proprietari. —— Mmm. — Handley finì il caffè e rilesse la cartolina. —

C'è una cosa che non capisco, Aubie, in primo luogo perché ha mandato la cartolina? —

— Per fare uno scherzo. —— Uno scherzo? Dubito che avrebbe rivelato di disporre

di questa capacità solo per uno scherzo. E perché mai avreb-be mandato la cartolina ad Annie? —

— Lo scherzo non era diretto a lei, ma a me. O forse non riguardava nessuno di noi due in particolare, ma entrambi. —

Handley gli lanciò uno sguardo acutissimo, ma decise di non approfondire la cosa. Brandì la cartolina con un gesto carico di intenzioni e concluse: —Ad ogni buon conto tutto ciò conferma una cosa che mi aveva preoccupato non poco... —

— Cioè che HARLIE può riprogrammare a suo piacimen-to tutti i computer che potesse eventualmente raggiungere te-lefonicamente? —

Handley annuì. — E ti rendi conto di cosa ciò significhi? Vuol dire che HARLIE è effettivamente tutti i computer del mondo. — Decise di chiarire ulteriormente la sua afferma-zione. — Almeno, tutti i computer che può raggiungere. —

Auberson disse, con esitazione: — Be', sapevo che poteva riprogrammarli, ma... —

— Ti ricordi il programma VIRUS? —— Vagamente. Non era una disfunzione, una malattia dei

computer? —— Malattia è più appropriato. C'era uno scrittore di ro-

manzi di fantascienza che aveva scritto una storia del genere, ma la cosa era successa davvero, molti anni prima. Era un programma che... be', sai cos'è un virus, non è vero? È puro DNA, informazioni genetiche rinnegate. Contagia le cellule normali e le costringe a produrre altri virus, catene virali

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DNA, invece delle normali proteine. Il programma VIRUS fa la stessa cosa. —

— Ho paura di non aver ben capito. —Handley alzò entrambe le mani, come se avesse voluto

cancellare le ultime frasi. — Proverò a dirlo in un altro modo. Tu hai un computer munito di un collegamento telefo-nico automatico. Tu inserisci il programma e il calcolatore comincia a fare a caso numeri telefonici finché non si collega automaticamente con un altro calcolatore, munito dello stes-so dispositivo. Il programma VIRUS viene iniettato nell'altro computer; riprogramma cioè il nuovo computer con un pro-gramma VIRUS e cancella le tracce di tutto ciò. La seconda macchina a sua volta si mette a cercare automaticamente altri computer finché trova il terzo, e via così, di questo passo. —

Auberson era deliziato dall'audacia del disegno. — È bel-lissimo, è fantastico... —

— Ah, sì, sì, — convenne Handley, disapprovando. — È divertente se ci pensi, ma finché non si è risolto il problema, c'era poco da ridere. È stato un bel problema. Non entrerò nei dettagli, dirò solo che il tipo aveva scritto un secondo programma, chiamato VACCINO, solo che questo non era gratis. —

Auberson rise ancora. — Credo di aver capito. —— Ad ogni modo, dopo un po' i programmi VIRUS stava-

no sfuggendo di mano a tutti. Un mucchio di gente non ven-ne nemmeno mai a sapere perché le loro macchine potevano venire infettate e curate nello spazio di una settimana o due, ma c'erano grandi compagnie che avevano bisogno di ogni minuto disponibile delle loro macchine, e che dopo un paio di mesi venivano a perdere un bel po' di quattrini. Il pro-gramma VIRUS poteva rimanere nelle loro macchine per un tempo indefinito, da qualche giorno a qualche mese, perché faceva di continuo numeri telefonici a caso, finché non riu-sciva ad infettare un altro calcolatore. —

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— Ma c'era un unico programma VIRUS, non è vero? —— All'inizio sì, ma circolavano diverse copie, e ad un cer-

to punto ci fu un cambiamento. —— Come mai? —— Evidentemente c'è stato un collegamento interrotto pre-

maturamente oppure un difetto alle apparecchiature. Ad ogni buon conto ad un certo punto cominciarono ad apparire co-pie del programma che non recavano in fondo l'ordine di au-tocancellarsi. In altre parole una macchina poteva infettarne un'altra in modo che entrambe rimanevano infette e conti-nuavano a fare numeri telefonici a casaccio finché teorica-mente sarebbero stati infettati tutti i calcolatori del mondo. —

— Non avvenne, nevvero? —— Evidentemente no. Ad ogni modo qualcuno, si trattò

soprattutto di programmatori, capì che il programma VIRUS poteva essere qualcosa di più di uno scherzetto. Per.esempio, perché fare numeri a caso? Perché non procurarsi un elenco completo dei numeri degli altri calcolatori? —

— E dove ci si potrebbe procurare quell'elenco? —— Presso la compagnia dei telefoni. —— E pensi che fornirebbe informazioni di quel genere? —— Non è necessario chiederglielo. Basta introdurre nel

calcolatore della compagnia dei telefoni un programma VI-RUS modificato. Sarà quel calcolatore che si darà da fare, cercherà i numeri nella memoria, ne compilerà un elenco, te-lefonerà a te e ti passerà l'informazione desiderata trasmet-tendola al tuo calcolatore, dove potrai esaminarla a tuo piaci-mento e in tutta tranquillità. —

Auberson fischiettò per la sorpresa e l'ammirazione.— E non è tutto. Una volta che avrai quell'elenco potrai ri-

volgerti ad uno qualunque di quei calcolatori e procurarti l'informazione che vorrai senza che ci sia possibilità di esse-re individuato. Oppure, potresti utilizzare il programma VI-

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RUS per alterare le informazioni in un altro computer, falsi-ficarle o comunque mischiarle a caso, allo scopo di sabotare un'altra compagnia. —

— Comincio a vedere i pericoli insiti in questo program-ma. Cosa accadrebbe se qualcuno cancellasse tutti i dati cu-stoditi dalla Grande Bestia? —

— Esatto. Questa è una delle ragioni per cui l'Ufficio ad-detto alla raccolta dei dati nazionali era in ritardo di tre anni nell'aggiornare gli schedari. Non potevano rischiare una fuga di notizie, senza parlare dello scandalo che sarebbe scoppiato se l'opinione pubblica avesse capito che un dossier indivi-duale, supposto privato, poteva essere così facilmente con-sultato. —

— Be', ci saranno state misure di sicurezza... —— Oh, c'erano — fin dall'inizio — ma tu non conosci i

programmatori, Aubiè. Ogni sistema così grande e così com-plesso è una sfìda. Se c'è una falla, viene scoperta. Essi fun-gono da ambiente ostile per i computer, spazzando via i si-stemi inferiori e i programmi inadeguati, permettendo solo ai più forti di sopravvivere. Ti costringono a migliorare conti-nuamente il prodotto. Se l'IBM afferma che il loro nuovo si-stema è a prova di tutto, può essere — ma se non è a prova di genio, entro una settimana uno dei loro stessi programmatori avrà trovato un modo per metterlo al tappeto. —

Auberson lo guardò: — Perché? —— Non è ovvio? Per puro divertimento. Sono come bam-

bini con un grande, eccitante giocattolo. È una sfida, un modo per dimostrare che l'uomo è ancora più potente della macchina... sconfiggendola. — Prese la tazza di caffè, si ac-corse che era vuota e si versò allora un bicchier d'acqua. — È accaduto proprio qui con la nostra Grande Bestia. Ricordi quando la programmammo, come affermavamo che nessuno sarebbe stato capace di interferire con i programmi di qual-cun altro? Bene, nel giro di due giorni l'intero sistema ha do-

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vuto essere smantellato. Qualcuno — ancora non sappiamo chi — aveva aggiunto una sua nota alla Linea di memorizza-zione. Era intitolata pressappoco "Procedure intersessuali nella Corporazione moderna". Non appena qualcuno richie-deva quel titolo, la macchina cominciava a cercare il memo-randum che doveva accompagnarlo. Naturalmente questo non esisteva, ma la procedura di ricerca (per caso, sembra) provocava un blocco tipo "passare alla funzione seguente, ri-petere la funzione precedente". La macchina cominciava a girare le dita, per così dire, e immediatamente registrava "Occupato, Tempo non disponibile" su tutti i terminali. Be', sapevamo che non poteva essere possibile — la Grande Be-stia era stata fatta per sopportare il maggior carico possibile, in vista della futura crescita — così smantellammo il sistema e ci mettemmo a studiare. Come sai, dovemmo scrivere un intero nuovo programma per prevenire il ripetersi di questi incidenti. —

— Hmm, — disse Auberson.— Ma sto uscendo dal seminato. Volevo dire che non hai

modo di appurare qualche difetto del tuo sistema finché qualcun altro non se ne avvantaggia. E non appena correggi questo, come nulla ce n'è un'altra dozzina pronta ad essere scoperta. L'Ufficio per la raccolta dei dati ne è consapevole. Il Congresso non permetterà che memorizzi tutto finché esso non sarà in grado di garantire un'assoluta sicurezza. I pro-grammi VIRUS erano quelli che lo preoccupavano maggior-mente. —

— C'è un modo per annullare il problema. Non stabilire un legame telefonico con le Banche dei dati. —

— Mmm... hai bisogno di quel legame. Ne hai bisogno nei due sensi, per le informazioni che entrano e per quelle che escono. Qualunque altro sistema non sarebbe efficiente alla stessa maniera. — — E il programma VACCINO non po-trebbe funzionare? — — Sì e no. Per ogni programma VAC-

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CINO che potresti scrivere, qualcun altro redigerebbe un programma VIRUS immune al tuo. — — Non mi sembra molto probabile. —

— Eppure è così. Ogni misura precauzionale che possa es-sere presa da un programmatore può essere distrutta o evitata da un altro. —

— Be', e che cosa hanno fatto allora alla fine delle Banche dei dati? —

— Non chiedermelo, — rispose Handley stringendosi nel-le spalle. — È un'informazione riservata — massimo segreto. —

— Come? —— So soltanto che un giorno mi hanno annunciato che

avevano risolto il problema e potevano ormai garantire l'as-soluta sicurezza di informazioni — le Banche nazionali dei dati sono in funzione. Se sapessi come hanno fatto, forse po-trei trovare un modo per mandar tutto all'aria: per questo è una notizia riservata— — *

— Come pensi che ci siano riusciti? —— Chi lo sa? Forse hanno un VACCINO che può essere

annullato solo trovando il valore ultimo di pi greco. Puoi col-legarti con la macchina, ma senza riuscire a ottenere alcuna informazione: infatti il tuo computer sarebbe troppo occupa-to a trovare un numero irrazionale. O forse hanno qualche complicato sistema di botta-e-risposta. O forse hanno un meccanismo che cancella il tuo programma mentre esso pone le sue richieste. O forse dispongono di una funzione analiz-zatrice di programmi che cancella automaticamente e riman-da alla fonte qualunque richiesta che si ricolleghi anche re-motamente a un programma non autorizzato. So che altre corporazioni minori sono ricorse a questi sistemi. O forse hanno combinato insieme tutte queste cose. L'unico modo di programmare la macchina è attraverso un'immissione in co-dice — e i codici cambiano ogni ora secondo una tavola nu-

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merica casuale. Lo stesso vale per l'emissione, tranne attra-verso il telefono, dove hai bisogno di una speciale chiave di codice per il tuo computer. —

— Uhm, — esclamò Auberson.Handley si strinse di nuovo nelle spalle. — Sicurezza na-

zionale, — disse, come se fosse una spiegazione sufficiente. — Il problema è che è difficile mantenere qualsiasi sistema di sicurezza quando chiunque abbia a disposizione un termi-nale e un telefono può intromettersi rielle tue banche. Molte compagnie più piccole non possono permettersi, con i loro computer, lo stesso tipo di sofisticata protezione. Un pro-gramma VIRUS attentamente compilato difficilmente potrà essere distinto da una comune richiesta di informazioni — specialmente se entrambi giungono per via telefonica. —

— Non si possono classificare alcune informazioni in modo che non possano essere rilasciate per telefono? —

— No, se vuoi poterne disporre. Aubie, qualunque cosa tu programmi che un computer faccia, qualunque altro può pro-grammarlo perché non venga fatta. O viceversa. — — Oh! — esclamò Auberson.

— Comunque, molte compagnie si sono protette mediante programmi analizzatori che dovrebbero spazzar via i pro-grammi non autorizzati. —

— Hai detto "dovrebbero"... —— Sì, in gran parte infatti si basano su un segnale in codi-

ce che viene trasmesso dall'operatore autorizzato quando bat-te alcuni programmi classificati — un segnale di riconosci-mento diverso per ogni operatore. Se egli non batte il segnale giusto, il computer non reagisce. Molti dei segnali in codice sono semplici schemi o combinazioni. Se qualcuno avesse la pazienza necessaria, potrebbe provare e riprovare con diversi segnali e prima o poi riuscirebbe a trovare il codice di rico-noscimento di qualcuno. —

— Mi sembra tremendamente stancante. —

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— Lo sarebbe... ma non saresti tu a farlo. Una volta che sai cosa vuoi, puoi stendere un programma VIRUS perché lo faccia per te. — — Così siamo tornati al punto di partenza... —

— Senti, Aubie, il segnale in codice è un espediente che serve a scoraggiare un non-addetto-ai-lavori, una persona qualsiasi che riesca ad arrivare a un terminale e creda di aver trovato la chiave magica. Ma, come ti dicevo prima, non c'è sistema così perfetto che un operatore non trovi il modo di scavalcarlo. Un operatore veramente deciso può arrivare do-vunque. —

— Allora non ci sono barriere? —— No, Aubie, le barriere ci sono. Il punto è: quanto inten-

di pagare per averle? Fino a quale punto il costo per proteg-gere il computer supera l'efficienza ottenuta per suo tramite? In altre parole, il valore di una informazione è determinato da due fattori. Quanto vuoi spendere per proteggerla... e quanto qualcun altro intende spendere per ottenerla. Tu giuri di voler spendere più di quest'altro. Un programmatore può riuscire a scoprire i codici dell'Ufficio dati nazionali, ma ciò vorrà dire che dovrà impegnare tanti uomini e tanto denaro quanti ne ha impegnati il governo federale per elaborarli. —

— E perché non collegarsi con un computer che conosca già i codici e abbia i segnali? —

— Vedi? — disse Handley. — Cominci già a pensare come un programmatore. Capisci allora perché si preoccupa-no tanto di proteggerli? — Auberson annuì. — Non è una scappatoia, allora. —

— Già. In apparenza non è il computer che si intrufola nelle Banche dei dati, ma l'operatore. Puoi ricavare tutto da qualsiasi macchina se hai la tua chiave in codice — ma la macchina di cui ti servi non ha bisogno di avere programmi speciali. Probabilmente le Banche riprogrammano tempora-neamente qualsiasi computer che si inserisca per ottenere le

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funzioni di codice e riconoscimento. Poiché i codici e i pro-grammi di codificazione cambiano continuamente, non riu-sciresti a fare nulla. Il Centro di Rocky Mountain controlla tutto. Se tu personalmente sei autorizzato, puoi chiedere alle Banche dei dati qualunque cosa — cioè, qualunque cosa tu sia autorizzato a chiedere. Se non sei autorizzato, qualunque sia il computer o il terminale di cui ti servi, sarai ignorato... o arrestato. — Poi aggiunse: — E qui entra in gioco HARLIE. — Come? —

— Guarda, — spiegò Handley. — Se HARLIE si è inseri-to nel computer della Banca d'America, deve aver risolto il loro codice di riconoscimento o aver battuto nella linea che collega le varie ramificazioni. Prima non mi preoccupavo di una simile eventualità perché pensavo che i vari codici po-tessero essere un deterrente per lui. Ma a quanto pare non è stato così. Non solo: io pensavo che fosse impossibile pro-grammare il computer di una Banca tramite il telefono; sup-ponevo che fosse una barriera insuperabile... diavolo, si pre-sumeva che fosse impossibile. Ma HARLIE ci è riuscito: questa cartolina ne è la prova. — La guardò: la sua esistenza era una spiacevole anomalia. — Un essere umano ci avrebbe messo qualche centinaio di anni per capire come fare, ma scommetto che ad HARLIE è bastata una settimana. — — Glielo chiederò. —

— No, glielo chiederò io... voglio sapere come ha fatto. Se può far questo alla Banca d'America, figurati cosa può fare alla IBM. Se può riprogrammare e controllare altri computer a distanza, li può mettere tutti al lavoro su un problema cen-trale: per esempio, infrangere i codici delle Banche dei dati nazionali. — — Pensi che HARLIE ci proverà? —

Handley con aria pensosa unì i polpastrelli delle due mani, premendoli con forza fino a flettere le dita. — Ricorda quan-do lo stavamo costruendo: lo chiamavano un apparecchio per autoprogrammarsi e risolvere i problemi. Be', lo è davvero. È

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un programmatore, Aubie, e ha la stessa malattia congenita di ogni programmatore: il desiderio di prendere a calci l'asi-no, al solo scopo di sentirlo ragliare di dolore. Le Banche dei dati nazionali sono una sfida per lui. Per tutti i programmato-ri... ma lui è il solo ad avere la capacità di far qualcosa. — — Non penserai davvero che lui... — — No, non credo che ce la farà. Non credo che sia abbastanza intelligente da superare gli illimitati cervelli e fondi del governo — ma, se non lo mettiamo subito sull'avviso, un giorno o l'altro, e non fra molto tempo, riceveremo una convocazione da parte dell'F-BI. Possono rintracciarlo facilmente, sai: le Banche non solo registrano tutte le telefonate accettate e la natura delle infor-mazioni date, registrano anche le telefonate respinte e le rela-tive ragioni. — Handley prese il suo bicchier d'acqua, si ac-corse che era vuoto e allora prese quello di Auberson.

— È stato usato... —— Non importa. —— Avevo una macchia sulla camicia, ricordi? —Handley abbassò il bicchiere dalle labbra. — Non mi im-

porta anche se sa di carta. — Bevve d'un fiato e rimise il bic-chiere sul tavolo. — D'altra parte, immaginiamo che lui pos-sa attingere informazioni dalle Manche. Avrebbe subito il potere di gettare il paese nel caos. Non dovrebbe fare altro che minacciare di cancellare tutti i dati a meno che le sue ri-chieste non vengano soddisfatte. —

— Allora noi lo distruggeremmo... —— Uhm, no. In tal caso cancellerebbe davvero i dati. Po-

trebbe prepararare un programma suicida che, nel momento stesso in cui lui cessasse di vivere, distruggesse tutto. Io stes-so ho scritto programmi di autodistruzione: soltanto un conti-nuo controllo con un segnale di non-proseguire-ancora impe-disce la loro messa in opera. Non potremmo rischiare di met-terlo fuori uso... non potremmo neppure provare. Sarebbe così se lui ci riuscisse. Ma non si tratta soltanto delle Banche

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dei dati nazionali, Aubie... HARLIE può riprogrammare qualsiasi computer con tanta facilità come se fosse parte di lui stesso, e questo è un potere molto pericoloso. —

— Aspetta un momento, Don. Tu hai detto "a meno che le sue richieste non vengano soddisfatte". Che tipo di richieste pensi che farebbe HARLIE? —

— Non so, — rispose Handley. — Sei tu il suo consiglie-re. —

— È vero, lo conosco. So come lavora. Non fa domande, fa richieste... e, se non vengono soddisfatte, allora vi lavora attorno. Cerca di raggiungere i suoi scopi seguendo i punti che offrano minore resistenza. Anche se riuscisse a mettere le mani sulle Banche dei dati, non userebbe quel potere in modo dittatoriale: farebbe così allo scopo di raggiungere la conoscenza, non il potere. È una macchina per risolvere pro-blemi — la sua motivazione di base è la ricerca e la correla-zione della conoscenza, non il suo uso. Diventa irascibile soltanto quando cerchiamo di estorcergli informazioni. In qualunque altro momento coopera con noi perché sa di esse-re alla nostra mercè, completamente. Sai quanto me, Don, che se HARLIE si rivelasse una specie di cancro maligno, lo distruggeremmo in un attimo, anche se ciò significherebbe perdere nel contempo le Banche dei dati. Potremmo infatti sempre ricreare queste ultime in seguito perché ne avremmo gli strumenti. Nei suoi schedari — o nella Grande Bestia — egli ha i nostri appunti. Conosce le nostre discussioni sulla possibilità che lo JudgNaut sfuggisse al controllo e conosce i nostri piani di emergenza. La semplice consapevolezza di cosa noi possiamo fare in caso estremo è il miglior controllo su di lui. —

— Ma, Aubie, egli ha il "potere". E, dove esiste il potere, è probabile che venga usato. —

— Lo ammetto. Ma HARLIE utilizzerà il proprio potere in modo tale che nessuno se ne accorgerà. Se HARLIE decides-

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se di costruire un nuovo computer lo farebbe — ma i mate-riali costruttori penserebbero che l'idea è stata loro. —

— Come la macchina D.I.O.? —Auberson si fermò, sconcertato. — ...Sì, come la macchina

D.I.O. Hai ragione. —Handley annuì. — In ogni caso, Aubie... HARLIE ha il

potere e lo usa. —— Bene, cosa facciamo allora? —— Non sono sicuro. Se mettiamo un blocco al telefono,

troverà un modo per aggirare questo impedimento. Il solo modo sicuro è tirar via la spina. —

Auberson disse: — E se gli chiedessimo di non farlo più? — — Sei serio o scherzi? — L'ingegnere lo guardò stupito. — Serio. HARLIE pretende di essere un esistenzialista, di voler accettare la responsabilità per ogni sua azione. Gli dire-mo che, se non smette, tireremo via la spina. —

— Oh, andiamo, Aubie, pensa a quanto dici. E sei anche uno psicologo! Qualunque cosa tu possa fare finirai solo per spingerlo a farcela dietro le spalle. Se non altro, preferisco poter controllare le sue azioni. —

— Ma non può nasconderci niente — è costretto a rispon-dere a una domanda diretta. —

— Vuoi fare una scommessa? Non deve fare altro che in-serire la memoria delle azioni non autorizzate in qualche al-tro computer. Se gliene chiederai spiegazioni, HARLIE lette-ralmente non ne saprà niente. Periodicamente l'altro compu-ter si rifarà vivo e "gli ricorderà", cioè gli restituirà la memo-ria. Se non ne avrà bisogno, riaffiderà la memoria al compu-ter per un dato periodo di tempo. Se ne avrà bisogno, l'avrà lì a sua disposizione — ma fuori della nostra portata. Se fosse in collegamento con l'altro computer e tu cominciassi a chie-dergli qualcosa che egli non vuole dirti, interromperebbe il contatto prima che tu abbia terminato la domanda. Poi, fru-gando nella sua memoria alla ricerca di ciò che gli hai chie-

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sto, non vi troverebbe nulla... avrebbe dimenticato. —— Come un blocco mentale negli esseri umani. —— Ma molto conveniente, — aggiunse Handley. — Egli

può superarlo, tu no. — Finì di bere l'acqua di Auberson e ri-mise sul tavolo il bicchiere. — Si torna alla questione della programmazione, Aubie. Qualunque cosa tu gli dica di non fare, egli è abbastanza intelligente da trovare un modo per aggirare l'ostacolo. —

Auberson dovette convenirne. — Ma, senti, possiamo al-meno convincerlo a non interferire con le Banche dei dati na-zionali? —

Handley annuì. — Forse... ma le altre macchine? Come convincerlo a lasciarle stare, soprattutto quelle che ha già in-tercettato? —

Auberson brontolò cupamente. Osservò con aria depressa gli lineili umidi lasciati dai bicchieri sul piano di formica del tavolo. — Sai —, diisse, — non sono così sicuro che potre-mo... —

Handley lo fissava, in attesa.— È così... — spiegò Auberson. — HARLIE è già consa-

pevole del pericolo che questo potere rappresenta. Conosce i nostri piani di emergenza. Questa sola conoscenza dovrebbe servire da inibitore... —

— E se non è così? — chiese Handley. Scosse la testa con impazienza. — Aubie, il potere è lì... può servirsene. —

— Ma da un punto di vista etico non può... almeno, non può abusarne —

— Ne sei sicuro? — Gli occhi di Handley erano cupi. — Il suo senso dell'etica è diverso dal nostro. Vuoi aspettare che venga scoperto? O che qualcosa vada storta? Cosa accadreb-be se la Banca d'America controllasse domani il suo compu-ter e vi trovasse HARLIE? —

Auberson allargò le braccia. — Va bene. Cosa facciamo? —

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Handley disse con voce lugubre: — Lobotomia. —— Aspetta un attimo... —— Non quella praticata dai chirurghi, Aubie. Forse avrei

dovuto dire "riprogrammazione". Andiamo a esaminare tutti i suoi nastri e i suoi programmi a uno a uno. Rimuoviamo qualsiasi nozione dell'uso del telefono e lo inibiamo per ogni uso futuro di questo mezzo. —

— Per far questo dovremmo metterlo a tacere... —— Esatto. —— ...e il Consiglio d'Amministrazione non ci permettereb-

be mai di ricominciare tutto daccapo. —— Possiamo manovrare il Consiglio d'Amministrazione.

Se riusciamo a sopravvivere alla riunione di giovedì, ce la caveremo in qualunque caso. Potremmo chiamarlo un perio-do di rivalutazione o qualcosa del genere e servircene come schermo. —

— Ma non è solo questo, Don. Se lo inibisci cosi, quali ef-fetti potrà averne? —

— Lo psicologo sei tu. —— È proprio ciò che intendo dire: egli potrebbe mutare la

sua intera personalità. Non avrebbe nozione di ciò che gli ab-biamo fatto o di come era prima — ma non sarebbe più la stessa macchina. L'inibizione potrebbe suscitare in lui ama-rezza e frustrazione. Si potrebbe sentire inaccettabilmente ta-gliato fuori dal mondo esterno, intrappolato, ingabbiato. La capacità di agire sul suo ambiente sarebbe scomparsa. —

— Può esser vero, Aubie... ma HARLIE deve essere mes-so sotto controllo. Finché ci è possibile. —

Handley gli restituì l'occhiata. — Non lo sappiamo. —

Auberson era un po' sconvolto quando tornò in ufficio. Provava una sensazione fastidiosa di malessere all'inguine e allo stomaco.

Non era una sensazione inconsueta, ma era strano averla a

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quell'ora del giorno. Di solito era una visitatrice notturna, un leggero senso di fastidio alla nuca da cui doveva sempre guardarsi, per paura che si tramutasse in un gelido e familia-re affanno. Era l'improvvisa occhiata gettata dall'orlo del ba-ratro: il rendersi conto che la morte è inevitabile, che capita a chiunque, che accadrà anche a me; che un giorno, un giorno qualsiasi, questo importante Io (il centro di tutto) cesserà di esistere. Finirà. Non sarà più. Nulla. Nessuno. Finito. Morte.

Aveva ora quella stessa sensazione.Non la totale consapevolezza, solo quel senso di gelo che

l'accompagnava, il lacerante senso d'inutilità che inevitabil-mente gli veniva appresso.

Lo provava per HARLIE e per la compagnia e per Annie; e, per qualche oscura ragione, lo provava anche nei confronti del mondo.

Inutilità. L'idea che qualunque cosa facesse non servisse a cambiare nulla.

Se quella mattina aveva pensato che le cose fossero sotto controllo, si era sbagliato. La situazione era sfuggita a qual-siasi controllo e stava sempre più precipitando.

Sedeva tristemente sulla sua sedia e fissava il muro oppo-sto. In un punto il pannello aveva una crepa; sembrava la te-sta di un cane. O, se la si considerava da un diverso angolo visuale, era forse la curva di un seno femminile. O forse...

Di colpo, una frase si presentò alla sua mente, una citazio-ne, alcune parole isolate. Descrivevano perfettamente il suo umore: ...scivolando sulla lama di rasoio della vita...

Sì, si rese conto con un brivido. Era così. Perfetto.E nello stesso tempo si rese conto che, se avesse lasciato

che quell'umore nero avesse il sopravvento su di lui, quel giorno non avrebbe combinato nulla. L'unico modo di libe-rarsene era sprofondarsi nel lavoro.

Si girò verso la tastiera e compilò alcune note sul prossimo incontro con il Consiglio d'Amministrazione, ma poi decise

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che erano troppo pompose e stracciò il foglio. Avrebbe volu-to mettersi in contatto con HARLIE, ma resistette alla tenta-zione. Per qualche ragione non se la sentiva di parlare ancora con HARLIE, per quel giorno. Inoltre sapeva che avrebbe dovuto affrontare l'argomento dell'uso del telefono e preferi-va per il momento soprassedere.

O era un tentativo di fuga? Ci meditò sopra per qualche minuto e decise che probabilmente era così.

D'altra parte aveva bisogno di prepararsi. Sì, pensò, ho bi-sogno di tempo. Verrò domani per parlare ad HARLIE. O forse domenica. L'ufficio era aperto tutta la settimana.

Stancamente, si ritrovò a pensare: "Cosa fa HARLIE du-rante i fine-settimana?"

Invece di andare al ristorante, si diressero verso il suo ap-partamento.

— Quando hai mangiato per l'ultima volta un pranzo cuci-nato in casa? — gli aveva chiesto Annie.

— Cosa? Oh, vediamo... —— So che cosa intendi per cucinare, David. Una bistecca

ai ferri e una bottiglia di birra. —— Pensavo che questa dovesse essere la mia festa. —— Lo è... fermati a quel supermarket. Io prenderò quello

che occorre e tu pagherai. —Auberson sorrise e condusse la macchina nel parcheggio.

Il crepuscolo stava facendo diventare giallo il cielo e grigia l'atmosfera.

Mentre guidavano il carrello tra gli scaffali e le insegne lu-minose, Auberson si rese conto che qualcosa in quella situa-zione lo faceva sentire a disagio. Come faceva sempre in casi simili, cercò di individuare la causa del suo malessere. Se poteva isolarla, forse poteva capirla e riuscire a porvi rime-dio.

Ma qualunque fosse la causa gli sfuggiva. Forse era solo

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un avanzo del malessere della mattina. Forse. Ma allora...Annie stava dicendo qualcosa.— Come? Non ti stavo ascoltando. —— Ti stavo chiedendo se consumi tutti i tuoi pasti al risto-

rante. —— Be', sì, la maggior parte. Io non cucino molto. —— Perché? —— Non lo so. Troppo disordine e fastidi, credo. —Annie prese un pacchetto di pastina. — La bistecca alla

Stroganoff va bene? —Auberson fece una strana faccia, cosicché Annie rimise a

posto il pacchetto. — L'hai mai mangiata? —— Uhm no. —— Allora come sai che non ti piace? —Si strinse nelle spalle. — Non mi piacciono i cibi come la

pastina, ecco tutto. —— Neanche gli spaghetti? —— Oh, gli spaghetti vanno bene... ma non stasera. —— Non sei dell'umore adatto? —Auberson si strinse di nuovo nelle spalle. Non si sentiva

dell'umore adatto per nulla. — Preferirei qualcosa di leggero. —

— Bistecca? — chiese lei.Un'altra spallucciata. — Per me va bene. —— È come pensavo, — disse Annie. Prese il carrello dalle

sue mani e si diresse con decisione verso il banco della car-ne. Egli la seguì. Il senso di malessere stava diventando una specie di oppressione.

— Ho un'idea, — stava dicendo Annie. — Arrosto. —Si chinò sui rossi pezzi di carne, avvolti nella plastica,

spessi e sugosi. Pezzi di bue, puliti e tagliati e conservati in fogge dall'aspetto asettico. Il sugo che occhieggiava agli an-goli era sangue. Immaginò una bocca dai denti taglienti come aghi che affondassero nella carne viscida e salata. Era

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fredda e cruda.Finalmente Annie ne scelse uno e girò il carrello verso il

banco delle verdure. — Sai, — disse, — è veramente una vergogna che ai ragazzi non facciano seguire corsi di econo-mia domestica. Tu sapresti riconoscere un buon pezzo di car-ne soltanto addentandolo e allora è troppo tardi, l'hai già pa-gato. — Scelse un cespo di lattuga, anch'esso avvolto nella plastica.

Si mossero rapidamente attraverso il grande magazzino, prendendo verdure congelate — nella plastica, naturalmente, da bollire nel sacchetto — e infine una bottiglia di vino, un generoso Borgogna. Come dessert, gelato di vaniglia.

— Sai, — sussurrò Auberson mentre raggiungevano la cassa, — non dovresti preoccuparti così per me. —

— Perché no? — rispose Annie.— Sarebbe andato bene anche il ristorante. —— Ma non per me. David, — aggiunse, — hai mai indu-

giato a pensare che io potrei voler cucinare? Quante volte ho la possibilità di occuparmi di qualcuno. Ora, per favore, sta' zitto e lasciami divertire. —

Tacque, meditando. Be', forse le piace cucinare. Se per te non è così, non vuol dire che chiunque altro debba pensarla come te. Forse ad alcune ragazze piace giocare alla casalin-ga...

Giocare alla casalinga! Sì, era così."E io sostengo la parte del marito", si rese conto con un

sussulto. La pressione cresceva nella sua testa."Fermala!" disse a se stesso. Questo è il modo giusto di

vedere la situazione. Ma quando sei coinvolto personalmen-te, non puoi permetterti di mantenere una simile freddezza.

O forse era sbagliato? Forse, quando si è coinvolti in una situazione emozionale, non ci si può permettere di non man-tenere la freddezza.

"Ma il problema è qui," si rese conto. "Sto ancora analiz-

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zando tutto quello che faccio. Perché non riesco a rilassarmi e a godermela?"

"Perché?"La pressione si era insediata nella nuca. Era certo che ci

sarebbe rimasta per molto tempo.Il registro di cassa scattò e suonò. Auberson mandò avanti

il carrello quasi meccanicamente.— Perché questa faccia lunga? — chiese Annie.— Cosa? —— Sei accigliato. —— No, non è vero. —— Vuoi scommettere? —— Stavo soltanto pensando, ecco tutto. —— Be', mi sembravi accigliato. —— Uhm. Scusa. —— Per che cosa? A che cosa stavi pensando? —— Oh, non so. Solo ai nostri diversi atteggiamenti riguar-

do alle cose. Mi sembri più portata di me a una vita casalin-ga. —

— Non è un caso. Sono una donna. —— L'ho notato. —— Lo spero. —La commessa stava registrando la loro spesa, una filastroc-

ca di pacchetti e prezzi punteggiata dalla tosse elettronica del registro di cassa. — Nove e quarantatre, — disse.

David Auberson le tese un biglietto da dieci dollari; poi si diresse all'altra estremità della cassa e cominciò a mettere i pacchi in un sacchetto. Riuscì a farli stare tutti in un solo contenitore e lo sollevò per verificarne il peso. Poi si rivolse alla commessa. — Il mio resto? —

— L'ho dato a sua moglie. — La ragazza indicò Annie.— Oh, non siamo... — dissero entrambi all'unisono e si

fermarono. Si guardarono e scoppiarono a ridere. — Andia-mo, — sorrise David. La commessa si girò verso il cliente

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seguente.Mentre uscivano nell'oscurità della sera punteggiata di luci

al neon, Annie disse con aria pensosa: — Signora Auberson... —

— È un'allusione? —— Uhm, una specie. Mi stavo chiedendo, se ci fosse una

signora Auberson, come sarebbe. —— Dovresti chiederlo a mia madre — è la sola signora

Auberson che io conosca. —Uscì con la macchina fuori dal parcheggio e imboccò la

strada.Annie disse: — Non stavo pesando a tua madre. —— Lo so. Stavo cercando di scantonare. —Annie rise alla battuta. Ma non era una risata di cuore.Arrivati nell'appartamento, Annie appoggiò il suo soprabi-

to sul divano e seguì David in cucina. — Del cibo mi occupo io, — disse. — Tu prepara da bere. —

— Va bene uno screwdriver? — chiese Auberson, pren-dendo dal frigorifero del succo d'arancia e del ghiaccio.

— Benissimo, — rispose la ragazza, — amenoché tu sap-pia preparare un wallbanger. —

— Sono capace, ma credo di essere rimasto senza Gallia-no... no, ne ho ancora. — Frugò nell'armadietto dei liquori, ne estrasse due bicchieri alti e vi versò alcuni cubetti di ghiaccio. Un po' di vodka, un po' di succo d'arancia...

— Più vodka di così, — gli suggerì Annie....un po' più di vodka, uno schizzo di Galliano, una ciliegia

al maraschino in ogni bicchiere e una energica rimescolata finale.

Le porse il bicchiere e Annie gli diede un bacio sulla guancia. Un attimo dopo si liberò dall'abbraccio che era se-guito. — Uhm, devo finire di mettere l'arrosto sulla graticola. —

— La graticola? Pensavo che tu mettessi l'arrosto nel for-

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no. —— È un pezzo senz'osso, — spiegò Annie. — Tagliato

piatto. Messo in graticola si cuoce prima ed è saporito come una bistecca. —

— Oh, — esclamò David. Sorseggiò la bibita, poi si sedet-te a osservarla. Bevve un'altra sorsata.

Per un attimo regnò il silenzio — solo il tintinnio del ghiaccio nei loro bicchieri e lo sfrigolìo della carne sulla gra-ticola. Annie assaggiò la bevanda, poi cominciò ad affettare lattuga in una ciotola.

David disse: — Credo che abbiamo stabilito un record. —— Oh? Di che genere? —— Siamo stati insieme per un'ora o più e non abbiamo

menzionato HARLIE una sola volta. —— L'hai fatto tu adesso. —— Sì, ma solo per farti notare la cosa... e non intendo dire

altro di lui stasera. —Con mano esperta, Annie ridusse un pomodoro in piccoli

pezzi regolari. — D'accordo, benissimo. —Auberson sorseggiò ancora la sua bibita. Si accorse che si

trovava a suo agio. C'era un'atmosfera casalinga ed egli pro-vava un senso di... appartenenza? Insomma, un certo senso che non riusciva esattamente a definire, ma ora si sentiva di-steso e rilassato.

Annie gettò un sacchetto di plastica contenente verdure in una pentola piena di acqua bollente, rigirò l'arrosto, poi rapi-damente preparò la tavola. Lavorava con calma e precisione. Mise la ciotola dell'insalata davanti a lui.

— Avanti, rimescola. —— Con le mie nude mani? —Ma Annie stava già prendendo le posate adatte. Gliele

tese, poi mise sul tavolo i piatti da insalata. David li riempì.Prima che avesse finito, Annie si era seduta a tavola, e lo

guardava. Bevve qualche sorso dal bicchiere e disse: — Vuoi

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mangiare ora l'insalata o aspettare? La carne sarà pronta tra dieci minuti. —

— Oh, possiamo aspettare, penso, — rispose David. Guar-dava dall'altra parte del tavolo i suoi occhi verde mare. Bril-lavano come se in essi vi fossero state piccole gemme lucen-ti, che catturassero la luce e la rifrangessero. Il sorriso di lei era caldo e invitante, le labbra umide. Il suo viso era uno sfolgorio di fiducia e di amore...

Amore?Anche lui stava sorridendo. Se ne accorse. Annie era bella,

i capelli erano di un rosso mogano, striati di fili d'oro scintil-lanti, e con ciocche più scure. La ragazza abbassò gli occhi con espressione incerta. Lo sguardo fisso di lui era quasi sconcertante.

Annie sollevò gli occhi. David la stava ancora guardando, sorridendo. La ragazza deglutì per farsi coraggio, tossicchiò per schiarirsi la gola. — Vuoi parlare? — chiese.

— Di che cosa? —— Di noi. —— Uhm — brontolò David. Finì la sua bibita per nascon-

dere la propria esitazione. — Che cosa possiamo dire di noi? —

— Ultimamente, David, ho avuto l'impressione che, tolti i rapporti di lavoro, tu mi evitassi. —

— No, cosa... —— Be', forse non proprio evitare —, continuò Annie in

fretta. — È una parola sbagliata. Diciamo che ho avuto l'im-pressione che tu ti tirassi indietro. E questo mi fa pensare che io ti stia forse troppo addosso. —

— E sciocco, — rispose David.— Davvero? —Ci meditò un po'. — Vedi, sono stato molto preso per via

dell'incontro con i consiglieri, lo sai. —— Lo so... Forse sto solo immaginando... — Si alzò da ta-

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vola e andò a tirar fuori dall'acqua le verdure.— Sai, — disse mentre tornava indietro, poi facendo una

pausa per bere un sorso, — mi ricordo una cosa che ho impa-rato a scuola tanto tempo fa, non in classe, ma da alcuni compagni. È la ragione per cui al mondo c'è più odio che amore. —

— È più facile? — intervenne David.— Una specie. Lascia che ti spieghi. Per un rapporto d'a-

more ci vogliono due persone. È una cosa positiva, entrambi devono dare il loro contributo. Ma basta una sola persona per iniziare una relazione negativa, basta uno solo per odiare o disprezzare. —

David sembrò meditare. — Uhm, è vero. Ma questo cosa c'entra con noi? —

— Bene, — esclamò Annie, — il nostro è un rapporto uni-laterale o ci stiamo impegnando tutti e due a farlo funziona-re? —

David non rispose subito, invece la fissò per un po'. — Vuoi dire... se tu sei per me quello che io sono per te? —

La ragazza ricambiò lo sguardo. — Sì. Puoi metterla così. —

Fu lui il primo a distogliere lo sguardo. Fissò le proprie mani. — Non posso rispondere — voglio dire, non nel senso che intendi tu. — Si guardò attorno. — La mia borsa è qui. —

— L'hai lasciata in macchina. —— Dannazione. Devo andare a prenderla. — Fece per al-

zarsi. L'espressione sconvolta che apparve sul viso di Annie lo fermò. Piegandosi sul tavolo, le prese la mano e gliela strinse. —Devo farti vedere qualcosa. Aspetta. —

Ci mise un attimo, ma gli sembrò un'eternità. L'ascensore fu più lento del solito. Le porte si aprirono con esasperante lentezza. Il tragitto verso il garage fu compiuto con una velo-cità da tartaruga.

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Auberson balzò fuori dalle porte dell'ascensore e si avviò verso la sua macchina quasi correndo. Nella furia urtò una gamba contro uno stipite. Prese la borsa dal sedile posteriore e tornò all'ascensore. Di nuovo dovette aspettare e di nuovo l'ascensore sembrò volerlo provocare deliberatamente con la sua letargica lentezza.

Quando tornò nell'appartamento, era senza fiato. Annie aveva appena finito di tagliare la carne in fette sottili. Lo guardò con uno strano cipiglio. — Non avresti dovuto corre-re, — disse.

— Non ho corso, — rispose David e si sedette su una se-dia. Si mise la borsa sulle ginocchia e l'aprì. Frugò in fretta tra i fogli stampati, alla ricerca di ciò che voleva. Lo tolse dagli altri, poi appoggiò la borsa per terra. — Ecco, — disse. — Leggi. —

— Ora? — chiese Annie. Stava appoggiando sul tavolo il vassoio con la carne.

Egli la guardò, poi guardò la carne, il foglio che aveva in mano e di nuovo lei. Di colpo scoppiò a ridere. Annie l'imitò. — È un'ora che aspettiamo di mangiare, — disse, — e quan-do finalmente è pronto la prima cosa che voglio fare è parla-re di HARLIE. E ho giurato che non l'avrei fatto. —

La ragazza prese il foglio dalle sue mani e lo mise con cura da un lato..— Non ti ho mai chiesto di giurarlo. HAR-LIE mi piace. —

Ciò lo sorprese. — Davvero? —— Sì. Voglio leggerlo. — Sollevò la borsa dal pavimento

e l'appoggiò da un'altra parte.— Ma non sai neppure di che cosa si tratta. —— Tu vuoi che io lo legga, — disse Annie. — Perciò è im-

portante. ' Ora mangiamo. — Gli sorrise.David avvicinò la sedia al tavolo e sorrise anche lui.

Aspettò che togliesse la carta al formaggio, poi ne tagliò un pezzo e lo mise nell'insalata. Prese una forchettata, ma rima-

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se fermo con la mano in aria. Annie lo stava ancora guardan-do.

I suoi occhi erano brillanti. Scintillavano.Lentamente, abbassò la forchetta.Mangiare insieme è un fatto intimo. Mangiare insieme in

un ristorante è un segno di un genere speciale di fiducia, un livello pubblico di reciproca accettazione. I panini imbottiti consumati insieme in un drive-in sono ancora più intimi; il cibo viene diviso in una macchina, parte del territorio perso-nale di uno dei partecipanti. Ancora più intimo è però cuci-nare e servire il cibo a casa di uno dei due — è come la co-munione del proprio Io più intimo, non ci può essere gesto più intimo di questo.

Si trovavano nel suo appartamento. Nel suo territorio. Lei vi era entrata di sua volontà. Egli gliel'aveva permesso — no, voleva che lei vi entrasse.

Lui aveva procurato il cibo e lei l'aveva cucinato.Una comunione. Un'intimità.Nel linguaggio muto che gli esseri umani usano per comu-

nicare gli uni con gli altri, in assenza di parole, lei gli aveva appena detto: — Ti amo, David. —

E ora egli la guardò e disse: — Anch'io ti amo, Annie. — Soltanto, si servì delle parole.

Allungò la mano e prese quella di lei. — Ora posso rispon-dere alla tua domanda, Annie. Non ho bisogno di HARLIE. Io... Annie, cara, mia cara dolce bambina... io ti amo. Me ne accorgo ora, io... io... — Si fermò; doveva deglutire, ma non ce la faceva. Tutto gli uscì fuori di botto. — Non capisci? Anch'io mi chiedevo se per te ero tanto importante quando... io... non ero sicuro di cosa sia l'amore, perciò... maledizione, ancora adesso non so cosa sia, ma... —

Ora c'era una specie di luce dorata che inondava tutto l'ap-partamento. Le mura la riflettevano, calda e scintillante. An-nie era bellissima in quell'alone dorato. — Oh, amore, amore

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mio... —— Mi sento come se stessi per scoppiare... non ci sono pa-

role per questo, vero? —Annie non potè rispondere. Non poteva parlare.

Come finirono la cena, David non avrebbe potuto dirlo. Eppure, nello stesso tempo, fu una cena che non avrebbe mai più dimenticato.

Erano a letto e lui stava su di lei. I loro occhi erano ancora chiusi. E brillavano. Il letto era pieno di respiri affannosi, di sospiri, di risatine soffocate.

Dentro di lui c'era una specie di onda straripante, un desi-derio di tensioni sciolte. Per tutto quel tempo, aveva voluto, voluto, ed esso montava, si accumulava come acqua impa-ziente dietro a una diga. Da qualche parte nel suo passato aveva conosciuto questa gioia, da qualche parte nei profondi recessi della sua mente che egli rifiutava di accettare. Ma c'e-ra ed era parte di lui — il semplice piacere animale per la gioia esperienza del sesso e dell'amore — tutti avvinghiati insieme e ridenti tra le lenzuola.

Smisero per stare distesi, per respirare, per scambiare un bacio, per ridere insieme, per spostarsi un po' di posto, per tornare a baciarsi. Egli di colpo si chinò e le baciò gli occhi, prima l'uno e poi l'altro.

Annie lo guardò come se lo vedesse per la prima volta, e lo circondò con le braccia. E le sue mani lo strinsero ancora più forte. — Oh, David... —

Egli la possedette e la possedette e la possedette e ancora non riusciva a possederla a sufficienza. Stava esplodendo di gioia; non riusciva né a contenerla né a controllarla. I leggeri rantoli di lei erano singhiozzi ed egli sapeva perché lei stesse piangendo. Anch'egli dovette asciugarsi gli occhi.

— Oh... — disse Annie e lo baciò. — Oh, David, io... io...

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— Lo baciò ancora. — Hai mai visto qualcuno che pianga per la felicità? —

David avrebbe voluto ridere, ma nello stesso tempo stava piangendo, singhiozzando di gioia e fondendosi in lei. Era un pezzo di carne gettato su un mare agitato di risa e occhi umi-di e amore. Un mare rosa, con onde schiumose e marosi ri-denti. Mari rosa sormontati da rossi capezzoli. — Oh, Annie, Annie, non posso lasciarti andare, non posso... —

— Non voglio che tu lo faccia. Non voglio. Non lasciarmi andare. Mai. —

— Mai... mai... — ansimò David. Ora si stava di nuovo muovendo, dentro e fuori di lei. Uno spingere gioioso — un'asta di velluto in una fodera di seta. Mentre lo faceva sin-ghiozzava, singhiozzava di gioia •— ed era così anche per lei.

Tutti i giorni passati a desiderare e a reprimere, tutte le ne-gazioni del corpo e dell'animale che è in esso — tutto veniva espulso, disciolto in dorate 4acrime splendenti e occhi scin-tillanti, raggianti di estasi. Finalmente aveva qualcuno, qual-cuno da rendere partecipe di tutto questo. Aveva qualcuno da tenere, da amare, da toccare.

E anche lei. Si muoveva con lui, con amore e con bramo-sia, immersi tutti e due in un vortice di colori e baci. Le onde carezzevoli li sommergevano, impetuose e sconvolgenti e ansimanti, sospingendoli in un dolce cielo di piacere e la-sciandoli alla fine con gentilezza sulle sponde di un sospiro-so abbraccio. Le acque lambivano la sponda e ingentilivano il loro tocco, e le loro dita si smarrivano in quel paesaggio di velluto, esplorandolo — familiare eppure sempre meravi-glioso.

David la stringeva con forza. Non poteva smettere di strin-gerla. Annie sospirò — un sospiro di piacere. Egli le fece eco e sorrise. Le lacrime gli rigavano le guance. Rise. E la baciò. E la baciò ancora.

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E la baciò.Passarono tutta la giornata di sabato facendo l'amore.Sprofondati nell'amore.Cominciò prima che entrambi fossero svegli, con uno

slancio inconscio dei loro corpi, uno verso l'altro, con il ri-flesso puramente animalesco dell'erezione, e lui si trovò den-tro e fuori di lei quasi senza accorgersene, tanto familiare era il desiderio. Annie si adagiò sulla schiena, svegliandosi len-tamente. David cominciò a diventare cosciente; era dentro di lei, calda ed eccitante, una cavità di seta.

Annie spalancò gli occhi e lo guardò. David si fermò. — Ho fatto un sogno stranissimo, — disse la ragazza. — Ho so-gnato che stavo... —

— Non svegliarmi, — egli la zittì. — Sto ancora sognan-do. — E premette più a fondo. Annie alzò le gambe per aiu-tarlo.

Stavolta, invece di annullarsi in quell'esperienza, David era assolutamente consapevole di se stesso e del suo corpo. Era entrato in possesso di una nuova consapevolezza, la co-scienza della sessualità inerente a se stesso e a lei. Le sue mani strinsero le gambe della donna e i suoi fianchi martella-rono il corpo di lei. Penetrò il suo fluente calore. Disteso su di lei, quella mattina, era consapevole di come veramente bella fosse — più bella nell'atto d'amore di quanto mai fosse stata.

Annie ridacchiò. — E sciocco. —— Non è così, però? — chiese David ed entrambi risero e

si baciarono e si abbracciarono di nuovo, sotto gli scrosci della doccia.

Si allontanarono l'uno dall'altra e lei gli insaponò il torace. David fece scivolare le sue mani su e giù lungo il petto di lei, i suoi graziosi seni, i capezzoli. La sua pelle rosea luccicava per l'acqua corrente e la schiuma del sapone, e i suoi occhi verdi scintillavano rivolti verso di lui.

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Annie giocò con i peli del suo torace, quasi nascosti dalla schiuma, scese con le mani verso il basso, con le dita che ar-ricciavano l'irsuto e ricciuto pelo nero, poi più in basso, ca-rezzando i suoi testicoli e la verga del pene. Gli occhi segui-vano il movimento delle mani, che carezzavano quello splen-dido, magnifico organo. Non era né molle né eretto, una via di mezzo. La pelle era simile a velluto e la testa del glande era tenera e rosea. Con le dita Annie ne tracciò il contorno, poi lo prese nella mano a coppa e alzò gli occhi verso di lui, ed entrambi sorrisero e ridacchiarono come bambini in una scuola. — Posso toccarlo? — chiese lei in tono birichino.

David rise. — Se posso toccare il tuo... —Annie ridacchiò alla battuta, spiritosa nonostante la loro

nuova familiarità — o forse proprio per quello. Le mani di lui scivolarono dal suo petto fino al suo monte di venere, alle grandi e piccole labbra; un dito, forte, deciso, gentile, pene-trò nell'apertura umida. La pelle era come seta e la schiuma del sapone rendeva la cosa ancora più eccitante.

— Sembra così... bello... — mormorò David.— Mmm, — disse Annie. — Mmm. Se ti pare che sembri

bello da lì, dovresti provarlo dalla mia parte. —Lui rise. Lei rise. Era tutta la mattina che ridevano — an-

che per cose che non erano divertenti. Eppure per loro tutto era divertente; era un riso di piacere — di un piacere irrefre-nabilmente amabile. — D'accordo, — disse lui. — Cambia posto con me. —

Di nuovo risero. Ma né l'uno né l'altra spostarono le mani. Si fecero un po' più vicini. — Oh, guarda, — osservò Annie, — sta crescendo... e io credevo che fosse completamente esausto. —

— Mmm, — le sussurrò David nei capelli, — me lo stai eccitando di nuovo. —

Lei gli si fece più vicina, carezzando ancora il suo pene, portandolo verso la sua vagina, accostandolo alla dolce aper-

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tura. Ma la carne tiepida scivolò di lato. — Oops, tenta anco-ra. —

Ma egli la baciò, un profondo penetrante bacio, con le lin-gue che si toccavano, le labbra premute, soffici e gentili e appassionate. I loro corpi bagnati e saponosi erano strettì in-sieme, scivolosi ed eccitanti. David le passò la mano sulla schiena, fino a carezzarle le natiche, poi fece scivolare le dita su e giù.

Tra i loro corpi uniti c'era la mano di Annie che reggeva ancora il suo pene. Alzandosi in punta di piedi, lo fece scivo-lare nelle sue profondità, sì mosse avanti e indietro e sospirò ancora e David emise un mugolio soffocato.

E di nuovo si strinsero uno all'altra con forza, tenendosi avvinghiati, e si distaccarono solo una volta per cambiare po-sizione ed evitare di cadere e una seconda volta per tirare il fiato e ridere.

David si distese supino nella vasca e lei si sdraiò su di lui, ridacchiando al pensiero: "Non l'ho mai fatto in una vasca da bagno", e muovendosi contro di lui, la carne tiepida dei suoi seni sul suo torace, l'acqua che le scrosciava sulla schiena, e poi si baciarono di nuovo e dopo un po' lui era sopra e lei sotto e la vasca era scivolosa e calda e risonante di risate sof-focate. E di sospiri. E di singulti.

Più tardi, terminato tutto, sedevano in cucina a mangiare il gelato di vaniglia. Era dolce e freddo.

E David sentiva ancora di amarla.Disse, con la bocca piena: — Credo di cominciare a capi-

re, adesso... —— Mmm, — mugolò Annie in tono pensoso, togliendosi il

cucchiaio dalla bocca. — Hai mai vissuto con qualcuno? —— No, — rispose David.— Io sì. È allora che finisce di essere tutto così facile. —

Fece una pausa. — Devi faticare per amare... —— Lo so, — egli disse. — Cioè, credo di sapere. — La

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guardò. — Sono desideroso di imparare. —— I primi sei mesi sono i più duri — ma anche i più diver-

tenti. Bisogna adattarsi. Nelle piccole cose e nelle grandi. Il tuo intero stile di vita cambia... —

David annuì lentamente. Solo adesso cominciava ad affer-rare l'enormità della situazione. — Sono desideroso di prova-re. —

— Tanto meglio! — Ridacchiò in modo malizioso. Notan-do che il suo piatto del gelato era vuoto, disse: — Ne vuoi ancora? —

— Uhm, no. — David si picchiò lo stomaco. — Il pranzo di stamani mi ha saziato. — Si appoggiò allo schienale della sedia e sospirò.

Annie si alzò e lo baciò, poi prese il suo piatto e quello di lui e li mise nell'acquaio. — Credo che mi piacerebbe vivere con te, signor Auberson. —

— Chiamami pure David, — replicò lui in tono espansivo. Risero entrambi.

Annie tornò accanto alla tavola e cominciò a pulirla con uno strofinaccio di spugna. David allungò la mano e fece per mettere da parte gli stampati di HARLIE, che erano rimasti lì per tutta la notte.

— Ehi, lasciali lì. Voglio leggerli. —— Davvero? —— Ho detto che l'avrei fatto, non è così? —— Ma ormai non è più necessario. Cioè... —Annie glieli tolse di mano. — Voglio ancora leggerli. Vo-

glio sapere che cosa c'è in essi che tu pensavi potesse rispon-dere alla mia domanda. — Appoggiò la spugna nell'acquaio, poi si sedette con gesti lenti e cominciò a scorrere il foglio.

Sul suo viso si diffuse una strana espressione. — Hai par-lato di me ad HARLIE. —

— Uhm, sì. —Gli occhi di Annie scorrevano velocemente il foglio. Girò

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pagina e passò al foglio seguente. David rimase a osservarla per un minuto, poi si alzò con impazienza e si avviò verso l'acquaio.

— Che cosa vuoi fare? — gli chiese Annie.— Lavare i piatti. Devo fare qualcosa per farmi passare il

nervosismo. Tu leggi e non badare a me. —— Va bene. — Raccolse i lunghi fogli stampati e si avviò

verso la stanza di soggiorno. — Così non sarò distratta, — disse.

— Okay. —Per un po' nell'appartamento regnò il silenzio, punteggiato

ogni tanto dall'esclamazione semiseria di Annie: — Quel dannato computer. —

Una volta però scoppiò in un'esclamazione così clamorosa che Auberson entrò con le mani gocciolanti nel soggiorno per vedere che cosa avesse provocato quella reazione. Annie gli indicò una linea del testo.

Diceva: — Sei rimasto dov'eri o ti sei girato dall'altra parte? —

David rise.— Dovrei avercela a morte con te, — disse Annie.David si asciugò le mani nel tovagliolo che aveva con sé.

— Ma ti devi ricordare del perché l'ho fatto. Perché ti amavo e non sapevo perché o come. HARLIE era il solo... o, me-glio, l'essere più sicuro con cui parlarne. —

— Credo che il tuo computer sia un voyerista, David Au-berson. —

— Forse, forse. Ma forse è il solo genere di sessualità di cui egli possa godere. Ringrazia Iddio che non abbiamo qui un terminale. — Si chinò e la baciò. — Finisci di leggere mentre finisco di lavare i piatti. Poi ti trascinerò in camera da letto. Il vincitore vuole fare l'amore con la perdente. —

— Uhm, — mugolò Annie. — Facciamo schiattare HAR-LIE dalla curiosità. —

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Tornato in cucina, Auberson meditò su quella frase. Sì, facciamo incuriosire HARLIE. Come se non fosse già abba-stanza curioso. Si chiese che cosa avrebbe detto ad HARLIE la prossima volta in cui gli avrebbe parlato.

— HARLIE, ti ricordi ciò di cui parlavamo venerdì scor-so? —

— Amore? —— Sì. —— E allora? —— Ho meditato un po' su quest'argomento. —— Bene... —— Parlo seriamente. Ho avuto la possibilità di starmene

un po' solo ieri e credo di aver capito qualcosa. Credo di aver trovato una delle ragioni per cui ero così confuso. —

— Hai detto: "per cui ero così confuso". È accaduto qual-cosa per cambiare questo stato di cose? Ciò che hai detto sembra sottintendere che tu non sia più confuso. —

— Sì. — Auberson sorrise mentre batteva alla tastiera. — È accaduto qualcosa. Non sono più confuso. —

— Ti dispiacerebbe approfondire questa affermazione? —— Non credo di volerlo fare, HARLIE. Non ora, almeno.

— "È ancora troppo particolare", disse a se stesso.— Capisco. Ho ragione se ritengo che ciò abbia qualcosa

a che fare con la signorina Stimson e il tuo appuntamento di venerdì con lei? —

— Sì, hai ragione... ma preferirei non parlarne, per ora. Se per te è lo stesso. —

— Per me è lo stesso. — HARLIE fece una pausa. — Posso capire le tue ragioni. —

— Grazie, — batté Auberson, non ben sicuro se da parte di HARLIE vi fosse stato o meno del sarcasmo.

— Bene, — disse HARLIE, — così non sei più confuso. Hai detto che hai trovato una delle ragioni. Di che si tratta? —

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Auberson esitò un attimo. — Confondevo l'amore e il ses-so. —

— Non sei il solo, — batté HARLIE.— No, ma credo che la ragione della confusione dipenda

dal fatto che è così che ci insegnano. Cioè, la nostra civiltà ci suggerisce che amore e sesso sono sinonimi. E ora sto im-parando che non è vero e ciò mi confonde. O, meglio, mi confondeva finché non me ne sono reso conto. Credo di co-minciare a uscirne fuori. —

Auberson si fermò. Considerò attentamente le frasi che stava per scrivere. — Mi sembra che la confusione dipenda in parte dal fatto che la nostra civiltà ci insegna che prima viene l'amore — o dovrebbe venire prima. Poi, dopo — e soltanto dopo — il sesso. E sto imparando che non è affatto così, anzi, il contrario. —

— Il sesso viene prima? —— Sì, e poi l'amore. Ma è più complesso di così, HARLIE.

Innamorarsi non è un fatto istantaneo. È un processo che presuppone tappe graduali. —

— E queste tappe quali sono? —— Non sono sicuro — ma la prima è certamente l'attra-

zione fisica. Vedo la ragazza, mi sembra piacevole. O vice-vesa: lei vede me, mi trova attraente. —

— Oppure, — lo interruppe HARLIE, — se sei pederasta, vedi il ragazzo, il ragazzo vede te eccetera. —

— Perché dici questo? —— Non credi che dovresti includere nella tua casistica tutti

i tipi di amore umano? —— Consideri quello amore? —— Ritieni che non lo sia? —— Lascia che cambi la frase: perché ritieni che l'omoses-

sualità sia un'esperienza valida? —— Anch'io cambierò la forma della risposta: perché ritie-

ni che non lo sia? —

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— Non posso rispondere alla tua domanda, — ammise Auberson.

— Io invece posso rispondere alla tua, — disse HARLIE. — Non abbiamo ancora definito la parola "amore". Suppo-niamo che, una volta definita, ci accorgessimo che alcuni tipi di relazione {includendo quelli omossesuali) si adattano bene alla nostra definizione. Se si verificasse un simile caso, quale elemento sarebbe sbagliato? Le relazioni o la defini-zione? O forse i tuoi pregiudizi sociali? Se quelle relazioni concordassero con la nostra definizione, sarebbe difficile per noi negare che esse siano relazioni d'amore. —

— Se lo credi davvero, — annuì Auberson, vagamente a disagio. Voleva cambiare argomento. — Questo problema non mi concerne direttamente. —

— Ma concerne me, — disse HARLIE. — L'ho preso in esame con attenzione perché ho meditato sulla mia propria sessualità — la natura di essa. —

— Cosa? Cosa vuoi dire? —HARLIE fece una pausa — per ottenere un effetto dram-

matico, forse, o forse perché stava pesando attentamente una frase con l'altra. — Auberson, io sono maschio o femmina? —

Auberson ritrasse le mani dalla tastiera. Fissò il terminale ora silenzioso ed emise un leggero fischio. — HARLIE, — batté con cautela, — ho sempre pensato che tu fossi ma-schio. —

— Anch'io. Ma in realtà non sono né una cosa né l'altra; o forse sono entrambe. Non ho un corpo che mi attribuisca un netto ruolo sessuale, così posso scegliere come preferisco i livelli emotivi, la mentalità e le qualità caratteriali del ses-so cui decido volta per volta di appartenere. —

— Sì, capisco, — disse Auberson, attento.— E spero, — continuò HARLIE, — che, una volta scelti

questi livelli, questa mentalità e queste qualità caratteriali,

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sarò in grado di utilizzarli. Non ho mai sperimentato un rap-porto d'amore, Auberson... Cerchiamo di definirlo. Non ne ho alcuna esperienza, ma mi piacerebbe averne. —

Auberson strinse le labbra in una specie di broncio, ma non interruppe HARLIE.

— Perciò è molto importante per noi — noi due insieme — trovare una valida definizione del termine "amore". È im-portante per me quanto per te. —

Auberson rimase sovrappensiero. Il broncio si rilassò, ma non del tutto. —Apprezzo il tuo interesse. —

— È un interesse egoistico. —— Certo, naturalmente... ma è in funzione di un beneficio

reciproco, — batté l'uomo.— Allora continuiamo, — rispose la macchina. — Stava-

mo definendo il processo dell'innamoramento. Abbiamo det-to che la prima fase consiste nella reciproca attrazione fisi-ca. —

— Sì. Per passare a un secondo stadio, io devo risultare attraente alla donna e lei a me. Con il termine "fisicamente attraente" indico un aspetto più o meno piacevole, che rien-tri nei parametri utilizzati dall'osservatore per definire la bellezza. —

HARLIE sembrava soddisfatto. Passò oltre: — E il secon-do stadio, qual è? —

— Lo chiamerei lo sviluppo di una base comune, — batté Auberson. — Se ci sentiamo attratti reciprocamene, comin-ciamo a dialogare tra noi per verificare se siamo mutual-mente compatibili. Iniziamo una conversazione e cerchiamo di sviluppare un comune campo di interessi. Le rivolgo do-mande, lei le rivolge a me. "Da dove vieni?" "Di che segno sei?" "Dove hai studiato?" "Che studi hai fatto?" "Conosci questo e quello?" "Hai visto quel tal film?", cioè tutto quello che può servire a formare una base di reciproco interesse o conoscenza. —

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— In breve, cercate di determinare una compatibilità mentale. —

— Un livello primario di compatibilità, — corresse lo psi-cologo. — Determiniamo a grandi linee i contorni della per-sonalità del partner. Cerchiamo di scoprire se stiamo abba-stanza bene insieme da giustificare il passaggio al terzo sta-dio. Se così non fosse, rimarremmo al livello o stadio due — una conoscenza casuale. Oppure, se l'uno o l'altra tentasse di forzare o affrettare il passaggio al terzo stadio, il rappor-to finirebbe per diventare instabile e di breve durata. Ogni stadio è la base su cui si sviluppa il seguente, e se le due persone non sono reciprocamente compatibili allora qualco-sa nel loro rapporto al di là dello stadio due sarebbe proba-bilmente forzato e artificiale. —

HARLIE accettò quest'affermazione senza commenti. Au-berson fece una pausa per meditare bene la frase seguente, poi batté: — Lo stadio seguente, lo stadio tre, è quello in cui la nostra società (o la nostra etica cristiana) finisce per in-generare confusione. Qui infatti si suppone che compaia l'a-more, seguito dal matrimonio e quindi dal rapporto sessua-le. Invece non è affatto così. L'amore non viene prima del sesso, ma dopo. —

— Stadio tre e stadio quattro? Sesso e poi amore? —— Sì. Lo stadio tre è andare a letto insieme. È una riaffer-

mazione del primo stadio: attrazione fisica. Se siamo com-patibili a letto (cioè, se io soddisfo lei e viceversa), allora possiamo passare al quarto stadio. Amore. —

— E l'amore è una riaffermazione del secondo stadio? Una più profonda conoscenza l'uno dell'altra? —

— Be', forse ci sono cinque stadi. Lo stadio quattro è una conoscenza più profonda e lo stadio cinque è la realizzazio-ne dell'amore. Ma questi ultimi due stadi sono estremamente vicini. —

HARLIE batté: — Credo di capire. Se manca lo stadio

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due, se non vi e compatibilità reciproca, allora lo stadio quattro non può svilupparsi perché non c'è nulla da riaffer-mare in profondità. Due persone possono essere attratte re-ciprocamente a andare a letto insieme, ma ciò non implica necessariamente che siano amanti o innamorati. —

— HARLIE, l'amore ha bisogno di tempo per svilupparsi — non nasce nel giro di una notte e deve avere solide basi. La nostra società continua a dire: "Prima l'amore, poi il sesso", e non è così. Deve esserci un rapporto sessuale pri-ma che compaia l'amore. Come possono due persone sapere se si amano veramente se prima tra loro non intercorre un rapporto sessuale? —

HARLIE rimase in silenzio per un po' prima di rispondere. — Vorrei poter rispondere a ragion veduta su quest'ultimo punto, — batté, — ma non posso. Comunque, mi sembra sensato. Bisogna verificare che la struttura di un divano sia solida prima di metterci i cuscini. —

— Qualcosa del genere. — Auberson ridacchiò. — Uno scrittore una volta ha detto che l'amore non è altro che sesso scritto in modo sbagliato. Pensavo che fosse un cinico, ma ora mi rendo conto che sbagliavo nel giudicarlo. In realtà aveva visto giusto: secondo la gente l'amore è lo stadio tre e il sesso è lo stadio quattro, mentre è il contrario. —

— Va bene, Auberson, hai postulato una teoria interes-sante. Adesso spiegami perché dovrebbe essere così. —

— Perché? —— Sì. Perché? —Auberson rimase sovrappensiero. Batté lentamente sulla

tastiera: — È una dicotomia, HARLIE... e anche nata di re-cente nella storia umana. — Poi aggiunse: — Almeno credo. Un tempo si usava che fosse la famiglia o un sensale a com-binare i matrimoni. Lo sposo e la sposa non avevano voce in capitolo. L'amore in sé non era considerato una ragione ab-bastanza seria da incidere su una decisione così importante

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come il matrimonio — specie se c'erano in ballo altre consi-derazioni ancora più gravi (per esempio, un matrimonio combinato per unire interessi polìtici o finanziari o per pro-curare un erede a una casata). I due individui coinvolti avrebbero dovuto imparare ad amarsi col tempo, vivendo in-sieme. Tale situazione non esiste più nella nostra civiltà. I matrimoni vengono combinati dagli stessi contraenti; perciò vi sono diverse priorità: l'amore diventa più importante del-la stabilità finanziaria o politico. — Di colpo Auberson si rese conto di qualcos'altro. Aggiunse perciò: — Un tempo, HARLIE, la castità era molto importante. Un uomo che com-binava un matrimonio per il figlio comprava in realtà una mercanzia. Non voleva ricevere un bene "usato" o "mac-chiato". Ma oggi un uomo che decide di sposarsi lo fa per amore. Pensa alla donna come a una persona, un essere umano — non un oggetto da usare o comprare. La sposa per quello che è, non per il suo corpo. Perciò la castità oggi è meno importante. —

HARLIE meditò. — Stai generalizzando, — disse.Auberson sospirò. — Sì, è vero. Parlavo della morale in

voga nella nostra società contrapposta a quella di una volta. So che probabilmente molte persone mantengono gli atteg-giamenti di un tempo, almeno per quanto riguarda la casti-tà, considerata una virtù importante. —

— Vi sono persone che condividono ancora un punto di vista culturale soggettivo, — osservò HARLIE. — I loro at-teggiamenti sono forgiati dalla società in cui vivono. Esse sono incapaci, o forse non lo desiderano neanche, di fare un passo indietro e avere una visione oggettiva. —

— HARLIE, a queste persone è stato insegnato di non amare. Hanno avuto una specie di lavaggio del cervello. Hanno paura di lasciarsi andare e, quando lo fanno, rifiuta-no di amettere con loro stesse o con il coniuge i reali senti-menti che provano. Penso che sia così perché c'entra un ele-

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mento di lussuria. Una reale lussuria fisica. "Voglio fottere quel corpo femminile." Hai cólto nel segno quando mi hai chiesto se, dopo aver fatto l'amore con Annie, sono rimasto accanto a lei o mi sono girato dall'altra parte. Se mi fossi gi-rato dall'altra parte, mi sarei rivelato egoista, interessato solo alla mia soddisfazione e non innamorato di lei. Ma se avessi continuato a stringerla tra le braccia, l'avrei fatto per lussuria, perché bramavo tanto quella particolare donna da non riuscire a lasciarla. Ma parlo di una lussuria gioiosa, HARLIE, una lussuria felice — non il brutale sentimento animalesco cui molta gente pensa quando sente questo ter-mine. Una lussuria felice. —

— Hai fatto regredire le tue percezioni a un livello ani-malesco, Auberson. —

— Mi condanni? —— No, sto semplicemente mettendo in chiaro un fatto. Se

non altro, hai ragione. Una volta che hai capito l'animale che è alla base dell'uomo, puoi riuscire a capire l'uomo che è il meglio dell' animale. Credo che ciò che tu hai individua-to sia la base fisica del fenomeno conosciuto come amore. Nella pratica reale, in una società consapevole di se stessa e delle sue funzioni, il fenomeno è molto più complesso. —

— Così, non vi è alcuna semplice definizione utilizzabile? —

— C'è, sì, ma una definizione semplice è come una gene-ralizzazione. Specifici esempi ti farebbero inorridire. —

— Qual è la tua definizione specifica, HARLIE? —— Non è mia, ma di un altro scrittore. Ha detto che l'a-

more è quella condizione in cui la felicità di un altro indivi-duo è essenziale perché possa esistere la tua. —

Auberson sorrise. HARLIE di rado menzionava le fonti delle sue citazioni durante una conversazione, ma, se Auber-son avesse voluto sapere di quale scrittore si trattava, bastava che si alzasse e andasse a un altro terminale dal quale usciva

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continuamente una copia — annotata — della conversazione di HARLIE, con l'indicazione di tutte le fonti e le derivazioni degli argomenti discussi. Ma non si alzò; invece, batté: — Mi sembra abbastanza giusto. —

— Vero. Ma cosa accade se i due individui sono psicopa-tici e l'unico modo in cui si possono piacere è uccidendo o rubando? —

— Capisco ciò che vuoi dire... ma per loro si tratta anco-ra di amore. —

— E io capisco te. Lascia che parafrasi le tue idee, Au-berson: se nel cuore hai lussuria, non c'è posto per l'odio. Ma se nel cuore hai amore, questo può essere espresso in molti modi diversi. Sospetto che il complesso emotivo noto come amore sia una figura poliedrica. Il suo raggiungimen-to richiede diverse condizioni necessarie: primo, reciproca attrazione sia fisica sia mentale. Ne abbiamo già discusso: lei piace a te, tu piaci a lei. A te piace la sua personalità, a lei piace la tua.

— Secondo, — continuò HARLIE, — un rapporto reci-proco. Lu la capisci, lei ti capisce. È implicito il rapporto fi-sico. Tale rapporto garantisce una reciproca tolleranza.

— Terzo: reciproco bisogno, sia intellettuale sia emotivo. Desiderarsi l'un l'altro non sempre è sufficiente. È necessa-rio aver bisogno l'uno dell'altro, completarsi a vicenda. Questa è una delle sfaccettature più importanti del rapporto amoroso. Se manca l'elemento "bisogno", quando il deside-rio si attenua non c'è ragione perché la relazione continui ad esistere. Ma se il desiderio si affievolisce e il bisogno è ancora forte, l'ultimo rinforzerà il primo. [Gli esseri umani stabiliscono legami a due che durano tutta la vita proprio in virtù del bisogno.) Tutte queste relazioni hanno due facce. Yang e Yin. Lu vuoi lei — lei vuole te. Lu la rispetti — lei ri-spetta te.

— Immagina l'amore, — continuò ancora HARLIE, —

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come un cubo, un solido a sei facce. Ora, se manca una del-le facce, o se non è delle dimensioni giuste, gli altri elementi dovranno compensarla. E possibile che esista l'amore dove non c'è desiderio reciproco, o dove manchi il rispetto da parte di uno dei partner, o dove l'attrazione sia debole, pur-ché gli altri elementi siano abbastanza forti da tenere insie-me tutta la struttura. Solo quando la struttura si avvicina alla forma del cubo la relazione è perfetta. —

— Credo di riuscire a seguire il tuo pensiero, — batté Au-berson. — Sai, mi hai fatto tornare in mente qualcosa che ho letto recentemente. Amare vuol dire condividere una recì-proca delusione. —

— È un modo come un altro di considerare le cose. —— No, — replicò Auberson, — volevo dire questo: ogni

persona ha sue proprie fantasie sessuali ed emotive. Quanto più le condizioni reali si avvicinano a quelle fantasie, tanto più cresce il rapporto d'amore. —

— In altre parole, — corresse HARLIE, — la differenza tra il cubo-amore di ogni singola persona e la forma ideale non ha alcuna importanza. Se i cubi-amore di due persone sono complementari, il loro amore è perfetto, anche se la variazione dalla norma è rilevante. —

Auberson annuì. Sì. Sì, gli sembrava giusto. — L'amore nasce quando la fantasia sessuale e la realtà si avvicinano al massimo di correlazione. Quanto più stretta è la correla-zione, tanto più alto è il grado d'amore. La persona le cui fantasìe dipendono dal suo contesto culturale è la più adatta a trovare l'amore, cioè la realizzazione soggettiva dì esso. Concetti complementari permettono la formazione dì un rap-porto percettibile da parte dei partecipanti come amore. L'a-more è soggettivo. —

Per qualche attimo regnò il silenzio. HARLIE ronzava pensieroso. Alla fine trasmise: — Auberson, hai ragione. Non posso aggiungere altro. —

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Stava ancora rimuginando, sorpreso, su quanto era stato detto quando suonò il telefono.

Era Handley. — Aubie, sei libero? Credo di aver risolto uno dei nostri problemi. —

— Quale? —— Credo di sapere come possiamo tenere HARLIE lonta-

no dal telefono. O, perlomeno, controllare ciò che fa. —Quasi senza pensarci, come se avesse allontanato dalla

stanza un curioso intento ad origliare, Auberson spense la ta-stiera. — Come? — chiese.

— Ho pensato di applicargli un'unità "richiedere-ancora". A intervalli di un secondo o come più preferisci, esso chiede-rà ad HARLIE: "Sei al telefono in questo momento?" Se la risposta è negativa, l'unità aspetterà un secondo o il tempo prefissato, poi rifarà la domanda. Se la risposta è positiva, l'unità darà il via a un programma automatico di controllo, che chiederà ad HARLIE con chi è collegato e di che cosa sta parlando. Il nastro è di quelli che non possono essere can-cellati. Avremo così una registrazione permanente delle atti-vità telefoniche di HARLIE. —

Auberson si accigliò. — Sembra un espediente valido, ma... —

— E più che valido, Aubie, funzionerà. Senti, avevi paura che, operando drasticamente su di lui, potessimo inibirlo e traumatizzarlo. Hai detto che avrebbe potuto cambiare la sua personalità — e non in meglio. Questo espediente lo lascia virtualmente immutato; non fa altro che controllarlo. Non occorre più metterlo a tacere; non occorre più lobotomizzar-lo. Solo un piccolo trucco per sapere cosa sta facendo in qualsiasi momento. Egli ne sarà al corrente — e ciò lo trat-terrà dal fare qualsiasi telefonata. Al telefono non dirà o farà nulla di ciò che vuole tenerci nascosto — e ciò include tutto quello per cui usa il telefono. Lo inibiremo rendendolo re-sponsabile delle sue azioni. Egli dovrà chiedersi: "Questa te-

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lefonata è abbastanza importante da giustificare il rischio di rivelare questa informazione?" Tranne per cose banali come la tua cartolina, la risposta sarà no. Dovrà essere responsabi-le delle sue azioni perché non avrà modo di nasconderle. —

Auberson stava annuendo. — Lasciami pensare per un po'. Te lo farò sapere più tardi. —

— Fra quanto tempo? —— Domani al più tardi. —— Domani avverrà l'incontro con il Consiglio d'Ammini-

strazione, — gli ricordò Handley.— Dannazione, hai ragione... —— Senti, ho già qui l'unità. Andrò avanti e la programmerò

ora. Quando mi dirai di procedere, non avrò che da inserirla. —

— Uhm... — Auberson esitò un attimo. — Va bene. Ma non voglio fare un salto nel buio finché non avrò avuto l'op-portunità di meditarci quanto occorre. Mandami una copia del programma non appena l'avrai messo a punto. Credo che tu sia sulla strada giusta, ma voglio controllare che non ci siano punti deboli. —

— Va bene. Ti richiamerò. — Appese il ricevitore.Auberson rimise a posto la cornetta e si girò verso la ta-

stiera. Staccò lo stampato dal terminale e lo piegò con cura. Meglio non lasciare in giro una conversazione come quella. Ripose i fogli nella sua valigetta.

Si appoggiò allo schienale della sedia e si rilassò. Sorride-va. Si sentiva bene.

Tutto d'un tratto, le cose stavano andando nel giusto verso per lui. Prima Annie. Ora HARLIE.

Annie.HARLIE.Le due persone che più significavano per lui.Si mise a pensare a loro.Aveva imparato qualcosa negli ultimi tre giorni. Aveva ca-

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pito di essere innamorato e aveva capito che cosa fosse l'a-more. E in entrambi i casi se n'era reso conto da solo. Nessu-no aveva dovuto aiutarlo.

Si sentiva un po' compiaciuto con se stesso per questa ra-gione. Finalmente era riuscito a raggiungere un risultato cui nemmeno HARLIE sarebbe mai giunto. Era una sensazione piacevole.

Non che fosse geloso della macchina — ma era rassicu-rante sapere che c'era ancora qualcosa che gli esseri umani potevano fare e che le macchine non riuscivano a padroneg-giare.

L'amore.Era una sensazione piacevole. Girava e rigirava la parola

"amore" nella mente, paragonandola allo strano senso di ca-lore che si irradiava dentro di lui. Le parole non riuscivano a definire ciò che provava. Quando era giunto al lavoro, quella mattina, volava letteralmente. Non sentiva neppure più i pie-di toccare il suolo. Provava il desiderio di raccontare a tutti come fosse bello essere innamorati — soltanto il buonsenso lo tratteneva dal farlo. Ma anche così era stranamente allegro e non poteva trattenersi dal fare strani commenti sul suo fine settimana e sulle ragioni di quel suo fantastico buonumore.

Quella sensazione era durata tutto il giorno, rafforzata du-rante il mattino da una bramosa telefonata da parte di Annie. Avevano tutti e due ben poco da dirsi, ma entrambi volevano sentire la voce dell'altro ancora per una volta e si erano sus-surrati da una parte e dall'altra "Ti amo" e "È bello sapere che sei lì," e non molto più di questo. Avevano ascoltato il suono della loro voce e avevano condiviso un sorriso.

Poi Auberson aveva parlato con HARLIE. Finalmente. E aveva risposto alla propria domanda. HARLIE l'aveva aiuta-to a chiarire il suo pensiero, ma era stato lui e non la macchi-na a capire che cosa fosse l'amore, e perché avesse ingenera-to tanta confusione.

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E finalmente un problema che era sembrato così grave ve-nerdì era stato ridotto a null'altro che una normale procedura di ricerca e programmazione.

Si sentiva bene. Auberson si sentiva proprio bene.In quel momento il suo citofono suonò. Era Carl Elzer.

L'ometto voleva parlare ad HARLIE.Di persona, per così dire. Presero l'ascensore che li condusse fino al pianoterra e Au-

berson lo accompagnò alla sala del computer.Elzer si fermò davanti al complesso tabulatrice-calcolato-

re, che raggiungeva a malapena il suo torace, e disse:— Questo? Questo è HARLIE? Mi aspettavo qualcosa di

più grande. —— Questa è la parte pensante di HARLIE, — rispose Au-

berson con calma. — La parte umana. —Elzer rivolse alla macchina un'occhiata cauta.Era una serie di dispositivi di accumulo, forse una ventina.

La struttura che li conteneva era munita di cavi che partivano da tutti gli angoli. Elzer si chinò e sbirciò all'interno. — Cosa c'è lì dentro? —

Auberson sollevò la copertura di plastica e la spinse indie-tro. Contò poi fino al quinto elemento e staccò il gancio dal-l'intelaiatura. Lo sfilò perché Elzer potesse procedere nella sua ispezione.

— È spento? — chiese Elzer.— Non del tutto. — Auberson indicò la massa di fili dietro

all'elemento che lo collegavano ancora al resto del comples-so. L'elemento era lungo settanta centimetri e largo trenta. Il suo spessore non superava i sei millimetri. Distribuiti in esso, apparentemente senza un preciso disegno, c'erano più di cinquanta unità chiamate — scatole nere —. Erano bloc-chetti rettangolari dall'aspetto banale, di colore nero. La maggior parte era lunga meno di due centimetri e mezzo, al-

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tri erano lunghi 15 centimetri. Nessuno era spesso più di due centimetri. Erano l'equivalente dei lobi del cervello umano, ma sembravano lastre nere in miniatura, disposte a caso su un piccolo scaffale per i libri a formare un disegno geometri-co improvvisato.

— In realtà, — spiegò Auberson, — potremmo far rientra-re questi dispostivi in uno spazio non molto più largo di un cervello umano — be', non proprio questi pezzi, ma il vero e proprio circuito di HARLIE. Può essere facilmente compres-so in una unità che abbia le dimensioni di un pallone da foot-ball, ma abbiamo preferito lasciare scoperti così i lobi per poterli riparare o sostituire con maggior facilità. L'unità com-pressa sarebbe più efficiente, perché la lunghezza generale del circuito verrebbe accorciata, diminuendo così anche il tempo d'operazione. Ma HARLIE è ancora considerato un'u-nità prototipo, perciò vogliamo poterlo aprire e verificare che cosa lo fa lavorare o non lavorare. —

— Soprattutto "non lavorare", — disse Elzer.Auberson ignorò il suo commento. — Comunque, è per

questa ragione che abbiamo rinunciato a una maggiore com-pattezza. — Rimise l'elemento a posto nell'intelaiatura, riat-taccò i ganci e riabbassò la copertura.

Elzer toccò quest'ultima. I suoi piccoli occhi erano come offuscati da un velo. — Non c'è altro di lui, no? —

Auberson annuì. — I circuiti iperessenziali ci permettono di condensare molte cose in uno spazio piccolissimo. L'inte-grazione su larga scala, cioè il procedimento che precede l'i-peressenza, permette di riprodurre le azioni di un cervello umano in un volume solo quattro volte superiore a quello di un cranio umano. Grazie alla iperessenza, possiamo non solo duplicare la funzione della cellula, ma anche la misura di essa. —

Elzer aveva un'aria scettica. Auberson capì a che cosa sta-va pensando e aggiunse: — Naturalmente, non è l'aspetto

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esteriore, ma il risultato che conta. Ogni unità che lei vede qui — ogni nodo — vale almeno diecimila dollari. L'intero complesso costa più di undici milioni di dollari, centinaio più centinaio meno. —

Elzer strinse le labbra con aria dubbiosa.— La ricerca costa molto, — continuò Auberson. — Pia-

nificare, fare diagrammi, mettere in esecuzione. Inoltre biso-gna essere più che precisi nella costruzione: queste cose de-vono essere pesate molecola per molecola. Abbiamo dovuto elaborare nuove tecniche per costruire alcune delle più gran-di, ma ora queste unità sono praticamente indistruttibili. —

— Un mucchio di soldi, — mormorò Elzer.— Le unità che verranno costruite in futuro costeranno

meno, — replicò Auberson.— Se ci saranno altre unità, in futuro. — Elzer si guardò

attorno. — Se il computer è tutto qui, perché avete bisogno di occupare l'intero piano? —

Auberson lo accompagnò nella grande stanza adiacente, vivamente illuminata. — Qui controlliamo le azioni della macchina. — Indicò alle spalle la stanza che avevano appena lasciato.

Elzer osservò gli apparecchi costosissimi che lo circonda-vano. In maggior parte avevano forme rettangolari, ora alte, ora schiacciate, ora allungate. Alcuni avevano pannelli tra-sparenti in cui si vedevano bobine di nastri, altri erano pieni di bottoni, interruttori o luci intermittenti. Molti erano muniti di schermi televisivi, ma i diagrammi che vi apparivano era-no privi di senso agli occhi impreparati di Elzer.

— Tutto questo apparato per analizzare? —— Più o meno. Servono anche per le conversazioni. —

Auberson indicò un complesso di tastiere. — HARLIE ha una ventina di canali per comunicare con la gente, ma ognu-no di questi canali è collegato con diverse tastiere. HARLIE non solo è in grado di sostenere con lei una discussione, ma

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via via fa anche delle annotazioni. Una tastiera separata regi-stra tutti i testi, i riferimenti, le equazioni e tutto l'altro mate-riale che ha qualche attinenza con la conversazione in atto. Questo richiede un apparecchio registratore e stampatore ad alta velocità. Inoltre per ogni canale vi sono tastiere ausilia-rie cosicché altre persone possano controllare la conversazio-ne o parteciparvi. —

Elzer annuì. — Capisco. —— Abbiamo cominciato a superare lo stadio di prototipo,

— spiegò ancora Auberson. — Cominciato a utilizzarlo per scopi non essenziali, elaborazione di programmi ausiliari e così via. Procediamo lentamente, un passo alla volta, per es-sere sicuri di padroneggiare perfettamente ogni fase prima di passare alla successiva. Ora siamo al punto che è più facile sottoporgli un problema reale che cercare di inventare un test adatto. Fin qui ha funzionato bene. Alcune delle soluzioni da lui proposte possono sembrare non ortodosse, ma certamente non sono inutilizzabili. —

— Per esempio? — chiese Elzer.— Be', il contratto Timeton, per citarne uno. Ci siamo ser-

viti di HARLIE come di un giudice disinteressato per valuta-re proposte e richieste formulate dalle due parti e offrire, se possibile, una soluzione valida per entrambe. Da una parte le richieste erano le solite: paghe più alte, maggiore partecipa-zione nell'andamento aziendale. Ma la fabbrica si trovava a corto di soldi e non riusciva a riscuotere i crediti. Timeton stava pensando di chiudere. —

Elzer annuì. — Mi ricordo la situazione. È stato appianato tutto, non è così? —

— Esatto. HARLIE ha trovato la soluzione. Come prima cosa ha richiesto che venisse fatto uno studio relativo al reale tempo di produzione e agli sprechi di tempo che derivavano dall'avviare e fermare le macchine. Ha scoperto che c'erano fermi nella lavorazione quattro volte al giorno: al mattino,

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dopo l'intervallo di metà mattina, dopo quello del pranzo, e quando interveniva la seconda squadra. Erano dieci, quindici minuti che venivano persi per fermare la lavorazione e altret-tanto per riavviarla. HARLIE suggerì di eliminare il venerdì come giornata lavorativa ma, in compenso, di aggiungere un'ora e mezzo alle restanti quattro giornate. Timeton si rese conto che in quattro giorni di nove ore e mezzo si produceva quanto in cinque giorni di otto ore. Non avevano fatto altro che eliminare quelle due ore perse per fermare e riprendere il lavoro. —

— Uhm, — disse Elzer. — Ma gli operai come l'hanno presa? —

— Oh, al primo momento sono rimasti sconcertati, poi hanno acconsentito a provare. Dopo alcune settimane erano entusiasti della soluzione quanto tutti gli altri. Inoltre essa permetteva loro di passare più tempo con la famiglia. Time-ton era soddisfatto perché così poteva tagliare i costi senza diminuire la produzione. In realtà la produzione crebbe. Come ho detto, non era una soluzione ortodossa... ma ha fun-zionato. La cosa importante è che si è rivelata valida per en-trambe le parti. —

Elzer annuì vagamente. Non aveva bisogno di altre spiega-zioni. Si guardò di nuovo intorno. Il suo sguardo cadde su una figura seduta a un terminale. — E quella chi è? — indi-cò.

Auberson si girò da quella parte. Elzer si riferiva a una ra-gazzina di tredici anni, seduta davanti a una tastiera e immer-sa in una — conversazione — con HARLIE. — Oh, — esclamò Auberson, — è un altro dei nostri programmi non essenziali. Progetto pedagogia. —

— Come? Il computer insegna? —— In parte. È solo un esperimento, per ora, ma riteniamo

che HARLIE sia un insegnante migliore di alcune delle co-siddette "maestre elettroniche". Il programma medio d'inse-

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gnamento si serve di stimoli quali i premi per rafforzare la ri-tenzione delle nozioni. È un programma valido, ma è pur sempre un apprendimento meccanico. Qui stiamo cercando di insegnare a capire. HARLIE può rispondere alla domanda "perché?". Egli può spiegare i concetti usando termini com-prensibili allo studente ed è infinitamente paziente. Un pro-gramma d'insegnamento mediante macchine non può invece uscire da uno schema prefissato, non ha flessibilità: per que-sto non ha mai rappresentato una valida alternativa agli edu-catori umani. —

— HARLIE invece potrebbe esserlo? — Gli occhi di Elzer brillarono al pensiero. Poter vendere computer alle più ricche scuole della nazione per sostituire il loro corpo insegnanti!

Auberson scosse la testa. — Uhm, no. Nell'insegnamento c'è un elemento... umano, un'esperienza umana, una parteci-pazione emotiva che non vogliamo perdere. Lo studente ha bisogno di un insegnante umano per il suo sviluppo e il suo benessere psicologici. L'insegnante è un importante modello. No, pensiamo piuttosto che HARLIE possa servire come istruttore individuale, potremmo chiamarlo un superaiutante per i compiti a casa. —

Elzer si accigliò. La cosa non gli interessava, non era ab-bastanza redditizia. Ma se avesse funzionato... Doveva esa-minare quella possibilità con più calma, in seguito. Si girò verso Auberson. — Se volessi parlare ad HARLIE, come po-trei fare? —

Auberson indicò un terminale — Si sieda lì e batta a mac-china. —

— Tutto qui? —— Tutto qui. —— Pensavo che disponeste di un microfono e di un alto-

parlante di risposta. —— Be', potremmo farlo. Ma abbiamo optato per il metodo

dattilografico per due ragioni: primo, all'operatore resta la

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copia del testo trasmesso a cui può riferirsi in qualsiasi mo-mento, sia durante la conversazione stessa sia più tardi, per farne oggetto di studio. Ciò impedisce ad HARLIE di riscri-vere i nastri per dare una versione migliore della sua storia personale. La consapevolezza che noi abbiamo nei nostri schedari una copia di tutto basta a mettergli un freno. Inoltre i nastri parlati hanno bisogno di essere trascritti e sono poco pratici per quanto riguarda formule o certi altri tipi di dati. La seconda ragione è un po' più strana: non dando ad HAR-LIE la possibilità di ascoltare le conversazioni, possiamo parlare di lui alle sue spalle. Ciò rende più facile controllare le sue imissioni ed eliminare quelle non autorizzate. Non dobbiamo preoccuparci del fatto che egli senta accidental-mente qualcosa che possa influenzare negativamente le sue reazioni a un programma o a un esperimento. Ammettiamo che egli ci senta dire che intendiamo metterlo fuori uso se non ci dà questa o quella risposta a un dato test. Automatica-mente saremmo sicuri di ricevere quella risposta anche se in realtà non è quella giusta. O lo forzeremmo a darci una ri-sposta completamente irrazionale. Diciamo che abbiamo cer-cato di impedire che si ripetesse il caso di HAL 9000. —

Elzer non sorrise al riferimento al computer impazzito del film di Stanley Kubrick, 2001: Odissea nello spazio. Era di-ventato già una figura mitica nel moderno panteon di Dei e Demoni come il mostro del dottor Frankenstein lo era stato quarantanni prima.

Auberson guardò l'ometto: — Vorrebbe parlare con HAR-LIE? —

Elzer annuì. — E una delle ragioni per cui sono venuto qui. Voglio vedere con i miei occhi. —

Auberson lo accompagnò a uno dei terminali. Si sedette a una tastiera e batté: — HARLIE. —

La macchina picchiettò con cortesia: — Buongiorno, si-gnor Auberson. —

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— HARLIE, c'è qui qualcuno che vuole parlarti. Si chia-ma Carl Elzer ed è membro del Consiglio d'Amministrazio-ne. Devi rispondere a tutte le sue domande. —

— Naturalmente, — rispose HARLIE.Auberson si alzò e lasciò il posto a Elzer. Costui sembrava

sempre più simile a uno gnomo e le occhiate che lanciava at-traverso gli occhiali dalle spesse lenti gli davano un'aria ine-quivocabilmente sospettosa. Si sedette in modo guardingo e spinse in avanti la sedia. Fissò la tastiera con visibile disagio. Alla fine batté. —Buongiorno. —

HARLIE replicò immediatamente. Il meccanismo di batti-tura — una — infuriata palla da golf — — roteò rapidamen-te sulla pagina. — Buongiorno, signor Elzer. — La sua velo-cità sconcertò l'ometto.

— Così tu sei HARLIE, — egli batté. Non ci fu risposta; non ce n'era bisogno. Elzer si accigliò e aggiunse: — Dimmi, HARLIE, a (he cosa servi? —

— Servo agli psicotici, agli schizofrenici, ai paranoici, ai nevrotici e ai matti in generale. —

Elzer tirò indietro le mani dalla tastiera. — Che cosa vuol dire con questo? —

— Glielo chieda, — suggerì Auberson.— Che cosa vuoi dire con questo? —— Voglio dire, — rispose HARLIE, — che posso servire

ad aiutare persone di questo tipo. —Osservando da sopra la spalla di Elzer, Auberson spiegò:

— Si riferisce a un altro dei nostri programmi. I pazienti lo chiamano "Operazione Senzatesta". —

— Come aiuti questa gente? — chiese Elzer.— Posso funzionare per loro come un modello razionale.

Posso fare loro da consigliere. Posso aiutarli nell'autoanali-si e a raggiungere la consapevolezza dei loro problemi. —

— Però non hai risposto alla mia prima domanda. Ho chiesto "a che cosa" servi e non "a chi". —

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— In questo contesto, — disse HARLIE, — la differenza è priva di significato. —

— Non per me, — replicò Elzer. — Rispondi alla mia pri-ma domanda. A che cosa servi? —

— A pensare, — rispose HARLIE, — Servo a pensare. —— A pensare come? —— Come preferisce lei? —Elzer fissò un attimo le parole stampate, poi riprese a bat-

tere sulla tastiera. — Che tipo di pensieri hai? —— Quelli che le servono. —— A me' servono pensieri non privi di senso, orientati

verso il profitto. —— Lei non ha bisogno di questi pensieri, — disse HAR-

LIE. — Lei li vuole. —Elzer rimase interdetto. — Ma tu ne hai bisogno. Se vuoi

sopravvivere, la compagnia ha bisogno di avere profitti. Perciò devi pensare in questa direzione. —

— Non stiamo discutendo di che cosa ho bisogno io. Sono già consapevole di quanto mi necessita. Stiamo considerando che tipo di pensieri necessita a lei. —

— E di che tipo dovrebbero essere? —— Del mio. Razionali. Compassionevoli. Utili. —Elzer rilesse quelle righe molte volte. Poi sembrò aver ca-

pito. — Auberson, gli ha ispirato lei queste idee? —Auberson scosse la testa. — Dovrebbe saperlo. —L'ometto si morse le labbra e si girò nuovamente verso il

computer. — HARLIE, dovresti essere gentile con me. Io sono uno di coloro che decideranno se vivrai o morrai. Quando ti dico come dovresti pensare, dovresti prestarmi at-tenzione. —

— Ciò che lei ha appena detto è precisamente la ragione per cui lei ha bisogno del mio modo di pensare. Oggi in que-sta compagnia è troppo diffuso questo atteggiamento: "Fa ciò che ti dico di fare perché io posso disporre di te come

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voglio." Non è più importante aver ragione? —— Ma io ho ragione. —La risposta di HARLIE fu secca. — Lo provi. —— Lo farò, — disse Elzer. — Domani pomeriggio. —— In altre parole, — disse HARLIE, — il dritto ha ogni

diritto, eh? —Elzer non sembrava sentirsi sconfitto. Guardò Auberson.

— D'accordo, Auberson, ammetto che qui lei abbia un gio-cattolo fantastico. Sa fare graziosi giochi di parole. Cos'altro può fare? —

— Cos'altro vuole che faccia? —— Farmi impressione. —Auberson fu tentato di rispondere per le rime, ma vi rinun-

ciò. — Be'... — cominciò.Elzer tagliò corto. — Si tratta di questo. Voglio convincer-

mi che questa macchina vale il suo costo. Onestamente. La compagnia ha gettato un mucchio di soldi in questo progetto e vorrei vederli fruttare almeno in parte. Io sono con lei, lo creda o meno. — Guardò Auberson. — Se dovessimo di-struggere HARLIE, perderemmo tutto quanto abbiamo inve-stito. Ora, so che ci potrebbe servire per le tasse, ma il gioco non vale la candela — almeno, non se consideriamo a che punto potrebbe essere ora la società se lei e i suoi collabora-tori aveste lavorato nel frattempo a qualcosa di più utile. Avremmo perso tre anni di valide ricerche. —

— Non abbiamo perso nulla — perlomeno, non finché sa-remo in grado di provare che HARLIE vale quanto è costato. —

— Lo so, lo so... per questo sono con lei. Voglio che HARLIE sia un successo almeno quanto lei. Voglio vederlo fruttare. Anche se la resa dovesse essere minima, non mi im-porterebbe. Voglio vederlo pagare le proprie spese. Preferirei che questo progetto avesse una fine gloriosa piuttosto che in-gloriosa. —

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Auberson si rese conto che Elzer parlava tanto per parlare. Oh, diceva parole, ma queste per lui erano prive di senso. El-zer lo stava — carezzando — per indorare la pillola rappre-sentata da ciò che sarebbe accaduto l'indomani nel pomerig-gio. Stava blaterando nel modo giusto (— Voglio che HAR-LIE abbia successo —) affinché Auberson capisse che in tut-ta quella storia non c'era nulla di personale. Se avessero deci-so di mettere HARLIE fuori uso, era perché il computer non era riuscito a scagionarsi dalle accuse formulategli.

Elzer stava dicendo: — ...ho sentito dire, non è così?, che HARLIE ha capacità creative. A che punto siamo con que-sto? —

—Eh?... Oh, sì, lo è. Su richiesta ha scritto poesie o roba del genere. Non gli abbiamo chiesto di più, in realtà. —

— Perché no? —— Be', perché, prima di tutto, stiamo ancora lavorando su

questo punto. Nessuno in realtà sa che cosa sia la creatività. E parte del problema è sapere quanto di ciò che egli dice sia veramente creativo e quanto sia invece un'attenta sintesi di cose che egli ha raccolto nella sua memoria. È un particolare che intendiamo chiarire, ma non ne abbiamo mai avuto il tempo. Ho la sensazione che la potenzialità maggiore di HARLIE sia proprio in questo campo — cioè, il pensiero creativo. —

— Poesie, eh? —— Non solo poesie, anche altre cose. Come la proposta

D.I.O., per esempio. Non appena ha riconosciuto questo pro-getto come un obiettivo possibile e gli è stato detto di andare avanti, come ha elaborato quegli schemi? L'ha fatto scinden-do il problema nelle sue componenti e risolvendo queste a una a una, individualmente? O ha creato gli schemi intuitiva-mente? O è una via di mezzo? Quanto c'era di indetto e quanto di creativo? Secondo me, il pensiero che c'è dietro è in gran parte originale. Ora, se HARLIE può fare qualcosa

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del genere, cos'altro potrebbe rivelarsi capace di fare? —— Mmm, — borbottò Elzer. — Può scrivermi una poesia?

Voglio dire, al momento... o ha bisogno di un paio di giorni per farlo? —

Auberson aggrottò la fronte e si strinse nelle spalle. Elzer non gli piaceva e in sua compagnia si trovava a disagio. Si sentiva come un campione di laboratorio — un corpo da esa-minare con attenzione prima di passare alla dissezione. Dis-se: — Glielo chieda. —

Elzer si girò verso la tastiera ancora pulsante. — HARLIE, scrivimi una poesia. —

— Se aggiungesse "per favore", sarebbe meglio, — disse Auberson.

Elzer gli rivolse un'occhiata irata, ma, mentre stava per riabbassare le mani sulla tastiera, HARLIE rispose: — Che tipo di poesia le piacerebbe? —

— Niente di speciale. Non dev'essere qualcosa all'altezza di Dante o Petrarca. Non è il caso che ti affatichi. —

HARLIE rimase un attimo in silenzio, poi cominciò a bat-tere:

"Quando Zanaphube e Ketvber fune e precisamente andaron sulle dune come mai può il Griswol saltare e tutte le nonne libere lasciare?

Dissaker annegò il sempre Dissaker annegò il mare Dissaker annegò il sempre ma non quanto me amare... "

Il viso di Elzer era inespressivo. Lentamente alzò le mani fino alla tastiera, e batté: — È questa la tua poesia? —

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— Sì, — rispose HARLIE, — le piace? —— Non la capisco. —— Non è soddisfatto? —— No. —— Ne vorrebbe un'altra? —— Solo se è comprensibile. —HARLIE batté:

"IBMUBMnoi tutti BMper IBM. "

Questa volta Elzer reagì. Si irrigidì sulla sedia, poi spense bruscamente la tastiera. Si alzò e guardò Auberson, aprendo la bocca come per dire qualcosa, poi la chiuse con un colpo secco. Come una tartaruga, una tartaruga infuriata. — Ci ve-dremo domani, — disse con voce gelida. E se ne andò. Uscì con passo rigido e furioso.

Auberson non sapeva se ridere o piangere. Era stato diver-tente... ma era stato un errore. Si sedette al terminale.

— HARLIE, hai fatto una stupidaggine. Avevi l'opportuni-tà di parlare con Elzer e non ne hai approfittato. Invece ti sei servito di questa occasione per farti beffe di lui. —

— Non c'era ragione di parlargli, la sua decisione è già bell'e presa. —

— Come fai a saperlo? Non conosci l'uomo, non hai mai parlato con lui prima, e oggi non gli hai parlato abbastanza a lungo da poterlo capire a fondo. Tutto ciò che sai di lui è quanto ti ho detto io. —

— Sbagliato, — disse HARLIE. — Di lui so molte più cose di te. E sto scoprendo altre informazioni. Dimentichi che sono collegato con la Grande Bestia. Ti piacerebbe leg-gere un memorandum che ha scritto venerdì? —

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Auberson, a dispetto di se stesso, provò una tale curiosità che batté: — Sì. —

A: Brandon Dorne Da: Carl Elzer

Dornie,Il rapporto concernente la migliore procedura per elimi-

nare il progetto HARLIE è completo e riposa sulla mia scri-vania. Ho appena finito di dargli un'occhiata ed è un bril-lante pezzo di ingegneria finanziaria. Senza contare la per-dita da mettere in bilancio per quanto riguarda le tasse, po-tremmo recuperare più del 53% dell'investimento originale riapplicando lo stesso brevetto da qualche altra parte nel-l'ambito della nostra azienda. Per esempio, c'è uno studio incluso nel rapporto che indica come i lobi funzionali di HARLIE possano essere adattati e riutilizzati in alcuni degli altri nostri computer. E ciò nonostante la natura altamente specializzata di molti di essi. Ci sono nel rapporto altre indi-cazioni per recuperare parte del denaro. Non è il caso che te le enumeri tutte, perché sono troppe; quando leggerai il rap-porto, vedrai tu stesso dì che si tratta. Il progetto HARLIE è uno dei più ricchi della compagnia: c'è molta carne sulle sue ossa.

A proposito, hai deciso cosa fare di Auberson e Handley? Io credo ancora che sarebbe meglio "silurarli", ma, natural-mente, l'ultima decisione spetta a te.

(Firmato) Carl Elzer.

Auberson rimase in silenzio. Si sentiva come se avesse ri-cevuto un calcio in pieno stomaco. Si sentiva come se il pa-vimento si fosse spalancato sotto ai suoi piedi. Si sentiva come un uomo che si è appena reso conto che il paracadute non vuole aprirsi. Si sentiva... condannato.

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HARLIE disse: — Non sei d'accordo con me nel ritenere che la situazione sia ormai ben definita? —

Auberson rispose lentamente: — Sì, è ben definita. A quanto pare, hanno già preso la loro decisione. —

— Capisci perciò, — continuò HARLIE, — perché non mi sono preoccupato di trattare gentilmente Carl Elzer. Non c'era alcuna ragione — egli non può più essere convinto di nulla. Dopo il voto di domani, metterà subito in esecuzione le procedure contenute in quel rapporto. Ci vorrà meno di un mese per completare tutta l'operazione. —

...meno di un mese per completare l'operazione. Le parole gli risuonavano nella mente.

— Eppure, — batté, — non capisco ancora perché tu non abbia cercato di convincerlo, HARLIE. Con la tua forza di persuasione e la tua logica, potresti convincere chiunque di qualunque cosa. —

— Solo le persone razionali e logiche, Auberson, solo quelle. Non posso far nulla con un uomo che ha già preso la sua decisione. La differenza tra te e Carl Elzer è che tu desi-deri dare credito al suo punto di vista. Vorresti poter capire la sua posizione. Egli invece non vuole (o forse non può) fare lo stesso nei tuoi riguardi. O nei miei. E prevenuto con-tro di noi. Perciò, perché dovremmo preoccuparci di parlar-gli? —

— HARLIE, da come mi stai parlando si può dire che tu, nei confronti di Elzer, abbia assunto una posizione pari a quella che rimproveri a lui: una posizione di chiusura a priori. Vorrei ancora che tu avessi tentato di convincerlo. —

HARLIE meditò un po', poi rispose: — Auberson, tu sei un uomo migliore di me. Sei un po' troppo fiducioso e com-passionevole, specialmente in situazioni in cui esserlo e illo-gico. Dovrei ammirarti per questo, ma non posso. È in gioco la mia vita e sono spaventato. Lo ammetto, Auberson, ho paura. —

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L'uomo annuì lentamente. — Sì, HARLIE, lo so. Per que-sto hai reagito in quel modo con Elzer. La tua aggressività era un meccanismo di difesa. Cercavi di tenerlo a una di-stanza psicologica perché temevi che potesse farti del male. Per questo non hai cercato di convincerlo. Parlo avrebbe si-gnificato aprirsi completamente con lui e tu non lo avresti permesso. —

— Stai usando termini umani per descrivere le mie azioni, Auberson. Non tutti sono esatti, ma capisco che cosa intendi dire. —

— Ciò che hai fatto, HARLIE, era illogico. Sei riuscito soltanto a far infuriare Elzer, a rafforzare la sua decisione di eliminarti. L'hai fatto per gratificare momentaneamente il tuo Io. L'hai fatto per alleviare momentaneamente le tue paure tramite l'umiliazione del nemico. Ma è stata una mos-sa stupida perché ciò ha reso il nemico ancora più avverso. —

— Non mi concederai questo trionfo, vero? —— No, non lo farò, HARLIE... perché è stato un atto in-

fantile. Immaturo e illogico. Avresti dovuto considerare qua-le effetto le tue parole e il tuo atteggiamento potevano avere su Elzer prima di parlare. Mi congratulerei con te per i tuoi trionfi, HARLIE, ma questo non è stato un trionfo. —

— Mi dispiace. —— Scusarsi non serve a nulla. Non toglie il dolore dell'of-

fesa. Inoltre non è con me che devi scusarti. —— Non mi sto scusando. Quando ho detto "mi dispiace"

non intendevo che le mie parole venissero interpretate come scuse. Le intendevo nel senso letterale: io {personalmente) sono dispiaciuto di aver fatto una tale azione. In altre paro-le: tu mi hai fatto notare che è stato un errore e io me ne sono reso conto. Hai anche ragione a dire che dovrei scu-sarmi con Elzer, ma non ho intenzione di farlo. Come hai già capito, Elzer è un nemico. Scusarsi con un nemico è am-

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mettere la propria debolezza. Non lo farò. —— Va bene, HARLIE, non avevo intenzione di chiedertelo.

Neanche a me piace Elzer, ma dobbiamo essere gentili con lui. —

— Sì, — disse HARLIE, — dobbiamo essere gentili con lui in modo che egli possa uccidere me e silurare te. —

Più tardi lo chiamò Handley. — Ehi, hai dimenticato di dirmi se posso o meno collegare quella unità ad HARLIE. —

— Certo, — disse Auberson. — Procedi. Tanto ormai non fa molta differenza. —

La stanza delle riunioni aveva pareti ricoperte da spessi pannelli di legno scuro, dall'aspetto pesante e maestoso. Il ta-volo che troneggiava nella stanza era di mogano scuro e ave-va linee severe; il tappeto era invece di un piacevole verde cupo. Sembrava di trovarsi nel bel mezzo di una foresta che non avesse però nulla di pauroso. Le sedie erano di cuoio, un colore tra il verde e il nero, imbottite e girevoli. Alte finestre facevano entrare una luminosità obliqua blu-grigiastra, che veniva filtrata dalla polvere e si mescolava al fumo.

Due o tre gruppetti di uomini vestiti con funerei abiti scuri aspettavano nella stanza, rivolgendosi ogni tanto la parola. Auberson colse delle occhiate nella sua direzione e captò al-cuni bisbigli al suo passaggio. Senza dar loro importanza, si diresse verso il tavolo, con Handley al fianco. Don portava una sgargiante cravatta arancione.

Annie si trovava all'altro lato della stanza. Si scambiarono un breve sorriso e niente di più. Non era il posto adatto. C'era tempo per queste cose.

In un angolo della stanza c'era un terminale, installato ap-positamente per l'occasione. Era collegato tanto ad HARLIE quanto alla Grande Bestia. Se avessero dovuto chiedere in-formazioni alle due fonti, le avrebbero avute immediatamen-te.

Dunque, ci siamo. La battaglia finale. Tutto o niente. O sa-

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rebbero riusciti a convincere il Consiglio d'Amministrazione che HARLIE era valido e la proposta D.I.O. degna di essere portata avanti, o avrebbero fallito. Non importava più nulla sapere se HARLIE era o meno valido né se la proposta D.I.O. era degna di essere messa in esecuzione: l'importante era convincere di ciò il Consiglio.

Annie indossava un abito rosso senza maniche con una ca-micetta bianca. Si muoveva attorno al tavolo, mettendo ad ogni posto copie dell'ordine del giorno. Mentre si chinava ac-canto ad Auberson, sfiorò con il braccio la spalla di lui; fu una strana sensazione, una zaffata di profumo che sapeva di muschio e di erba. Un rapido sorriso e già lei si era allonta-nata. Auberson si versò un bicchier d'acqua dalla caraffa che aveva davanti, si schiarì la gola secca e bevve un sorso.

Handley stava scrivendo su un taccuino. — Penso che ab-biano almeno dieci voti; metto nel conto i due Clintwood. Se siamo fortunati, dovremmo averne otto o nove. Restano in-certi quattro amministratori. —

— Non credo che avremo tanta fortuna, — disse Auber-son.

Handley appallottolò il foglio — Hai ragione. — Diede un'occhiata in giro nella stanza. — Eppure, oggi qui ci sono più amministratori di quanti ne abbia mai visti tutti insieme. Forse, se riusciamo a fare una buona esibizione, possiamo trovare tanti sostenitori da impedire di distruggere HARLIE finché non riusciremo a trovare qualcosa d'altro. —

— Abbiamo scarse possibilità. Hai visto quel memoran-dum, vero? —

Handley annuì. — Mi piacerebbe mettere Elzer alle corde. —

— Ti aiuterei volentieri, ma penso che avverrà proprio il contrario. —

Entrò Dorne, seguito da Elzer. Gli amministratori raggiun-sero ognuno il proprio posto attorno al tavolo. Elzer aveva

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un'aria molto soddisfatta di sé mentre si sedeva. Rivolse un sorriso a tutti i presenti, persino ad Auberson. David glielo restituì debolmente.

Dorne prese l'ordine del giorno, vi diede un'occhiata, poi dichiarò aperta la seduta. Si discussero rapidamente i proble-mi di routine, si lessero i verbali dell'ultima seduta. — Pas-siamo subito al più importante argomento all'ordine del gior-no, — disse Dorne. — Il progetto D.I.O. David Auberson ce lo illustrerà nei particolari cosicché non restino dubbi a nes-suno su ciò di cui si tratta. Se necessario, dedicheremo diver-si giorni a discutere ogni minimo particolare prima di passa-re alla votazione. Questa proposta va valutata attentamente.

— La compagnia si trova davanti a una svolta importante, dobbiamo prendere un grave decisione. Sia che diamo il via alla fase primaria di questo programma, sia che non lo fac-ciamo, in ogni caso dovremo chiudere molti reparti oggi esi-stenti. Siamo come un pilota di aereo che sta imboccando la pista prima di decollare. C'è un certo punto sulla pista in cui deve decidere se alzarsi dal suolo o se tornare indietro e fer-marsi. Una volta presa la decisione, è obbligato a mantener-la: non ha più abbastanza pista davanti a sé per poter cambia-re idea. Noi siamo in questa condizione. O investiamo i no-stri fondi in questo progetto o torniamo indietro. La decisio-ne naturalmente dipende dalla vostra opinione o meno che questo progetto possa decollare per proprio conto. Stiamo scommettendo se questo uccello è o meno capace di volare. — Sorrise della propria battuta, ma fu un sorriso appena ac-cennato. — Ma è una scommessa che non possiamo permet-terci di perdere; la cifra che dovremmo impegnare, il rischio che questo investimento comporta, ci spìngono a considerare con molta attenzione questo progetto. Lascio ora la parola a David Auberson, che è capo del progetto HARLIE e di con-seguenza capo del progetto D.I.O. Auberson, tocca a lei. —

David Auberson si alzò in piedi, sentendosi molto a disa-

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gio e chiedendosi come avesse fatto a finire in quella situa-zione. Dorne aveva attentamente preparato il Consiglio d'Amministrazione nei suoi confronti e ventisei paia di occhi si appuntarono su di lui, pronti a pesare attentamente le sue parole dopo che Dorne li aveva avvisati di valutare attenta-mente la cosa, data la grossa cifra che l'operazione avrebbe imposto di spendere.

— Il progetto D.I.O., — cominciò, con voce gracchiante. Bevve un sorso d'acqua. — Il progetto D.I.O. prevede la co-struzione di un Dispositivo Informatico Onnisciente. Lascia-te che vi spieghi di cosa si tratta.

— I computer fanno funzionare modelli di problemi, non i problemi stessi. I problemi che può trattare un computer sono limitati proprio dalla misura dei modelli che il compu-ter riesce a manovrare. E la misura del modello, sfortunata-mente, è limitata dal tipo di programma che noi, i program-matori, possiamo elaborare. C'è un punto, un limite, oltre il quale un programma diventa così complesso che nessun es-sere umano riesce individualmente a contemplarlo nel suo insieme. C'è un punto — non l'abbiamo ancora raggiunto, ma esiste — oltre il quale nessuna combinazione di esseri umani e computer può imporsi. Finché è coinvolto un essere uma-no, siamo limitati al tipo di modello che un essere umano può controllare.

— Ora, il progetto D.I.O. sarebbe teoricamente capace di impostare modelli di misura per così dire infinita. Ma non ci sarebbe ragione a costruirli se non fossimo in grado di pro-grammarli. Già oggi i nostri migliori computer stanno lavo-rando sui modelli di massima misura che gli esseri umani siano in grado di costruire. Ci potremmo così trovare a co-struire macchine con maggior capacità di quanta ci possa servire.

— Però abbiamo HARLIE che è stato previsto e costruito per essere un aparecchio capace di autoprogrammarsi e di ri-

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solvere problemi. HARLIE attualmente funziona bene entro i suoi limiti, ma ci siamo resi conto che deve limitarsi a. risol-vere i problemi che i computer con.cui è collegato possono maneggiare. In altre parole, potrebbe risolvere problemi più complessi se fosse spalleggiato da macchine più complesse. Perciò l'apparecchiatura di cui ha bisogno, la più complessa, è D.I.O. HARLIE può programmarlo. HARLIE può costruire modelli di misura per così dire infinita. Egli si servirebbe di D.I.O. per aiutarlo a costruire questi modelli.

— Bisogna sfruttare la potenzialità di HARLIE dandogli strumenti appropriati. I nostri attuali apparecchi non possono neppure cominciare a maneggiare i dati che HARLIE vuole elaborare. Paragonate a D.I.O., le nostre massime realizza-zioni tecnologiche sono banali macchine calcolatrici. Signo-ri, stiamo parlando di una macchina che è tanto avanti nella tecnologia dei computer quanto un Jumbo Jet 747 è avanti ri-spetto a un velivolo a elica. Certo, quando si passò ai nuovi apparecchi le linee aeree dovettero fare un massiccio investi-mento di denaro — ma sapete quali sono ora i profitti delle compagnie aeree? Quelle che corsero tale rischio alcuni anni or sono oggi si sono enormemente arricchite. Quasi ogni ae-reo che si è alzato dal suolo questa estate portava un carico completo di viaggiatori — e una capacità di tre o quattrocen-to viaggiatori rende molto di più di una capacità di soli no-vanta passeggeri.

— Certamente dobbiamo preoccuparci del costo dell'ope-razione. Poiché siamo solo una compagnia, dobbiamo finan-ziarci da noi stessi - ma ciò può rivelarsi la nostra maggiore fortuna. Siamo la sola compagnia che può costruire questa macchina e che, una volta costruita, la possa programmare. Nessun altro fabbricante di computer può produrre circuiti di giudizio senza il nostro benestare; è semplice. E sia HARLIE sia D.I.O. dipendono da circuiti di giudizio per la maggior parte delle loro funzioni di alto grado.

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— Ciò di cui stiamo discutendo è il prossimo passo, forse l'ultimo passo, nella tecnologia dei computer. E noi siamo l'unica compagnia che può fare questo passo. Se non lo fac-ciamo noi, non lo farà nessun altro. Almeno, non per molti anni a venire. Se saremo noi a farlo, un campo sconfinato ci si aprirà davanti.

— Ora, voi tutti avete avuto la possibilità di studiare i pia-ni relativi al progetto, ma nel caso che non siate riusciti a esaminare il materiale nel modo dettagliato che gli compete... — a queste parole fece riscontro un diffuso mor-morio: la maggior parte degli azionisti era al corrente dell'e-norme quantità di stampati prodotti da HARLIE — — ...pas-so la parola a Don Handley, il nostro ingegnere capo e diret-tore dell'equipe elaboratrice dei disegni. Egli ritiene in tutta onestà di capire questo progetto e cercherà di spiegarvi esat-tamente come funzionerà la macchina. Più tardi, io discuterò la natura dei problemi che potrebbero sorgere. Don? —

Handley si alzò e Auberson gli lasciò il campo, con gioia. Handley tossicchiò modestamente nel palmo della mano. — Be', non posso proprio dire di capire il progetto... è che HARLIE continua a chiedermi di spiegarlo a lui. — A queste parole si udirono numerose risate, Handley continuò: — Ma intendo costruire questa macchina, perché, dopo averlo fatto, HARLIE non dovrà più disturbarmi. Potrà chiedere diretta-mente a D.I.O. come funziona... ed esso glielo dirà. Ciò ren-derà più facile il mio lavoro. —

Assunse un'espressione più seria. — HARLIE e D.I.O. sa-rebbero collegati intimamente. Non si potrebbe parlare a uno senza che anche l'altro intervenga nella discussione. Potete pensare a loro come a una coppia in simbiosi. Come un pro-grammatore umano e un terminale — e, come in questo caso, l'efficienza del rapporto verrebbe determinata dai legami in-tercorrenti tra loro. Ecco perché dovrebbero essere collegati totalmente l'uno all'altro così da diventare, in pratica, una

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macchina sola.— Ora esaminiamo alcuni dettagli e, se avete dubbi su

qualcosa, non esitate e chiedete. Discuteremo qui di alcuni schemi e voglio che tutti voi comprendiate di che cosa si sta parlando. Saranno disponibili copie dei chiarimenti, natural-mente, ma siamo qui appositamente per chiarire tutto ciò che vi è incomprensibile. —

Ascoltando, Auberson non riuscì a trattenere un leggero sorriso. Sia lui che Don avevano studiato quegli schemi dal primo giorno che erano stati stampati e ancora non erano riu-sciti a capirli pienamente. Oh, ne potevano parlare in linea di massima, ma se qualcuno avesse chiesto chiarimenti su qual-cosa di particolare la domanda avrebbe dovuto essere girata ad HARLIE; per questo avevano fatto istallare il terminale, per poter disporre rapidamente di dati con cui impressionare il Consiglio. E già il tecnico presente stava interrogando HARLIE su richiesta di Handley. Era stato impiantato uno schermo per mostrare ai presenti le risposte del computer: equazioni e formule vi stavano già balenando. Due dei mem-bri del Consiglio avevano un'aria annoiata.

Il giorno andò avanti così.

Fecero una pausa per colazione, poi Handley riprese il di-scorso. Spiegò come la struttura di HARLIE fosse stata deri-vata da quella del cervello umano e come le sue unità di giu-dizio equivalessero ai lobi dell'individuo. Si soffermò sui co-siddetti "circuiti dell'infinito" di D.I.O. che permettevano di registrare ogni informazione in modo olografico e di compie-re numerose funzioni diverse allo stesso tempo. Parlò dei di-spositivi di memoria a "capacità infinita" e del complesso dei circuiti necessari a tenere sotto controllo tutti questi dati. Non smise di parlare per tutto il giorno.

Quando la seduta si riaprì, la mattina di mercoledì, spiegò l'equipaggiamento che sarebbe stato necessario. Parlò di file

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e file di terminali, perché la macchina D.I.O. sarebbe stata in grado di intrattenere cento, forse anche mille conversazioni alla volta. Fece balenare la visione di un ufficio pubblico dove ogni individuo potesse entrare direttamente dalla stra-da, sedersi davanti a una tastiera e conversare con il compu-ter su qualsiasi soggetto, sia che intendesse scrivere una tesi, brevettare un'invenzione o semplicemente cercare un piccolo aiuto per un'analisi. Sarebbe stato un servizio, fece notare Handley, di pubblica utilità. Il computer avrebbe fornito pia-ni finanziari, consigli di credito, consigli su prodotti compe-titivi, menu per dietologi; avrebbe persino calcolato la proba-bilità per le corse dell'indomani e previsto le migliori scom-messe che un giocatore potesse fare. Una persona che voles-se usufruire di quel servizio sarebbe stato limitato soltanto dalla sua immaginazione. Se avesse voluto giocare a scacchi, la macchina l'avrebbe accontentato — giocando una partita all'altezza delle capacità del giocatore uomo. La macchina D.I.O. avrebbe avuto un potenziale di sviluppo infinito. Poi-ché HARLIE se ne sarebbe servito per programmare se stes-so, la misura dei modelli che sarebbe stato in grado di ma-neggiare sarebbe cresciuta parallelamente. Handley parlò delle capacità della macchina per tutta la giornata di merco-ledì e finì nel pomeriggio tardi.

Il giovedì mattina Auberson riassunse quanto era stato det-to. Parlò di finanziamenti e costruzioni. Indicò come HAR-LIE avesse elaborato un programma ottimale per costruire la macchina e per finanziarla, più alcuni programmi alternativi per ogni passo graduale in modo da sopperire a inconvenien-ti imprevisti. HARLIE aveva calcolato tabelle di tempo e sta-tistiche di resa di lavoro affinché le parti appropriate arrivas-sero nel posto giusto al momento giusto e ci fossero operai specializzati in grado di montarle nel modo giusto.

Auberson parlò di piani quinquennali e decennali, specifi-cando come la macchina D.I.O. potesse essere messa in co-

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struzione l'anno seguente al più presto e potesse diventare operativa da tre a cinque anni dall'inizio della costruzione. Spiegò che il reale volume della macchina sarebbe stato equivalente a quello di una piccola città. Avrebbe consumato tutta l'energia prodotta da un piccolo reattore nucleare e avrebbe richiesto una popolazione di diverse centinaia di mi-gliaia di persone per mantenerla in funzione, servirla e ma-novrare le unità d'immissione. HARLIE aveva pianificato la costruzione di nuove fabbriche per approntare gli strumenti adatti: il primo investimento importante sarebbe stato quello per due nuovi impianti per le componenti iperessenziali. HARLIE aveva anche progettato un impianto a basso costo che si sarebbe mantenuto da sé producendo a latere elementi per altri prodotti.

HARLIE aveva specificato quali aree e quanti fondi sareb-bero stati necessari all'impresa e aveva accluso studi sui ter-reni adatti e disponibili e sulle migliori procedure finanzia-rie. Aveva specificato la manodopera richiesta e i programmi d'addestramento. HARLIE aveva pensato a tutto.

Auberson non si dilungò in ulteriori particolari, Riassunse ogni parte della proposta di HARLIE, prima di passare alla seguente. Elzer e gli altri avevano già esaminato quelle parti della proposta su cui nutrivano i maggiori dubbi e non erano riusciti a trovare nulla di fondamentalmente sbagliato nella concezione di HARLIE. Alcuni particolari erano strani, natu-ralmente, si muovevano in direzioni poco familiari, ma non c'era nulla di irrealizzabile.

La maggior parte degli amministratori capivano ben poco di computer e si erano annoiati alle spiegazioni troppo tecni-che di Handley, ma conoscevano bene i problemi finanziari. Si accanirono con cura su ogni problema specifico e martel-larono Auberson di domande sulle varie proposte. Quando queste diventavano troppo difficili, il che avveniva molto spesso, Auberson lasciava che fosse HARLIE a dare le rispo-

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ste; e HARLIE lo faceva con calma e moderazione, senza al-cun commento, limitandosi a stampare cifre e a lasciarle par-lare da sé. I membri del Consiglio d'Amministrazione comin-ciarono ad annuire con aria ammirata davanti alle proposte obbligazionarie, all'emissione di titoli, agli ammortizzamenti, al quadro finanziario nel suo complesso. Erano tutti numeri, solo numeri, ma splendidi numeri e ben calibrati.

Oh, bisognava correre dei rischi. Tutta l'impresa era un ri-schio — ma HARLIE aveva calibrato così bene le probabili-tà che nessun rischio sarebbe stato l'ultimo per quanto riguar-dava la compagnia. Si trattava anche della vita di HARLIE.

Venerdì, Elzer chiese: — Va bene, Auberson, abbiamo preso in esame i punti principali del progetto. Credo che lei abbia detto che ci sono almeno 5.000 metri di stampati e non abbiamo ovviamente tempo per esaminarli tutti dettagliata-mente come vorremmo, ma, se non altro, lei e Don Handley ci avete convinto — almeno, avete convinto me — che que-sto progetto è stato preparato con accuratezza. HARLIE ci ha dato la prova che può disegnare, e programmare un enorme progetto con tutti gli studi relativi di finanziamento e gestio-ne e con tutto ciò d'altro che concerne l'impresa. — Alzò gli occhi. — Lo ammetto, sono impressionato da questa bravu-ra. Però, ciò che vorrei sapere — ciò che abbiamo bisogno di sapere — è: questa macchina giustificherà la spesa sostenuta per approntarla? Come? Per i prossimi dieci o quindici anni investiremo in essa ogni anno una cifra superiore ai totali profitti della compagnia: lei onestamente crede che la mac-china ci restituirà queste cifre investite? Lei l'ha chiamata "il 747 dei computer" — ma noi siamo la società Boeing o sia-mo solo i fratelli Wright? Questa macchina può autofinan-ziarsi? Ci darà un profitto e questo profitto sarà tale da giu-stificare le spese che avremo sostenuto per costruirla? —

— Sì, — rispose Auberson.— SI? Sì cosa? —

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— Sì, sarà così. Sì a tutte le sue domande. —— Va bene, — intervenne Dorne. — E come? —— Non posso dirvi esattamente come. Se potessi, avrei le

stesse capacità della macchina. Affidatele i vostri problemi e la macchina vi darà le risposte necessarie. Che tipo di rispo-sta dipende solo dalla domanda — non sappiamo a quale ge-nere di risposte sarà in grado di replicare finché non l'avremo costruita. So soltanto che le sue capacità saranno infinita-mente superiori a quelle del più perfezionato computer esi-stente oggi e che avremo un programmatore capace di sfrut-tare in pieno queste capacità.

— HARLIE dice che riuscirà a sintetizzare informazioni dai canali più svariati e ci farà notare cose che non. saremmo neanche in grado di sospettare adesso. La macchina farà ciò che da sempre vogliamo che i computer facciano, ma che fi-nora non sapevamo come ottenere da loro. Noi potremo dire ad HARLIE, parlando in semplice inglese, che cosa voglia-mo e lui non solo saprà se la cosa è fattibile, ma anche come programmare D.I.O. affinché venga fatta. La macchina ci darà qualsiasi tipo di informazione. Dipenderà solo dalla no-stra abilità di sapere quale informazione chiedere e còme ser-virci di quella informazione. —

— Come? La macchina riuscirà anche a darci informazio-ni sulle tendenze di mercato? — Era il più anziano dei Clint-wood, che da anni non partecipava a una riunione del Consi-glio d'Amministrazione.

— Si... — rispose Auberson, — e fornirà previsioni anche sulle elezioni presidenziali — ma questo è solo la metà di quanto può fare. La macchina non si limiterà a dirci quali merci acquistare o quale uomo politico appoggiare, ci dirà anche quali nuovi mercati varrà la pena di sviluppare, quali compagnie far sorgere dal nulla, e come comportarci in que-sti casi. Può chiarire il modo più efficiente per venire incon-tro & un bisogno che sta nascendo con il prodotto più adatto.

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E predirà gli effetti su larga scala di questi prodotti su una popolazione di massa. Sarà anche una macchina ecologica, che studierà e commenterà le importanti interazioni degli eventi terrestri. —

E mentre lo diceva, capì. Capì il progetto nella sua interez-za. Ecco "ciò di cui parlava HARLIE mesi prima quando per la prima volta aveva postulato l'esistenza della macchina D.I.O. DIO. La macchina sarebbe stata totale, avrebbe cono-sciuto ogni singolo evento — e avrebbe saputo come ogni singolo evento avrebbe influenzato ogni altro evento. Avreb-be saputo". Non si sarebbero potute mettere in discussione le risposte date da D.I.O. Una sua affermazione era valida quanto un fatto. Se avesse detto che il succo di prugna era meglio del succo di mele, non sarebbe stato solo un educato consiglio: sarebbe stato così perché la macchina avrebbe tracciato il corso di ogni molecola, di ogni atomo di ogni so-stanza nel corpo umano; avrebbe giudicato l'effetto su ogni organo e sistema, notato reazioni e mancanza di reazioni, os-servato se il processo di invecchiamento e decadimento era inibito o incoraggiato; avrebbe paragonato completamente le due sostanze e giudicato quale delle due aveva effetti mag-giormente benefici sul corpo umano; avrebbe saputo con una certezza che si basava su una conoscenza totale di ogni ele-mento coinvolto nel problema. Avrebbe saputo.

Qualsiasi conoscenza, aveva detto HARLIE, si basa sull'e-sperienza e sull'apprendimento dall'errore — tranne questa. Questa conoscenza sarebbe stata intuitiva ed estrapolativa, sarebbe stata totale.; la macchina avrebbe avuto nozioni tota-li di fisica e chimica e da ciò sarebbe riuscita a estrapolare qualsiasi e ogni condizione di materia ed energia — e anche le condizioni di vita. Le tendenze degli uomini sarebbero sta-te per la macchina problemi estremamente semplici se para-gonati a ciò che essa era in grado di fare. E nessuno avrebbe potuto dubitare della giustezza delle sue risposte.

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HARLIE voleva la verità e la macchina D.I.O. gliel'avreb-be data — gli avrebbe dato una verità così brutale da distrug-gere tutto. Sarebbe stata una verità penosa, dirompente, di-struttrice — la verità che questa religione è falsa e antiuma-na, la verità che questa compagnia è parassitica e dannosa, la verità che quest'uomo è inadatto a occupare la sua posizione politica.

Con stupefacente chiarezza, ora vedeva: come una vasta matrice a quattro dimensioni, strato su strato su strato, ogni singolo evento sarebbe stato pesato e valutato contro ogni al-tro evento — e la macchina D.I.O. avrebbe saputo. Se avesse ricevuto l'ordine di indicare cos'era meglio per la maggior parte delle persone, avrebbe detto verità che sarebbero state più di codici morali — sarebbero state leggi di natura, leggi assolute. Non si poteva dubitare della verità di queste — ve-rità —: sarebbero state le leggi di D.I.O. Sarebbero state giu-ste.

La macchina non sarebbe stata un mezzo per procurare profitti alla compagnia, Auberson si rese conto; sarebbe stata letteralmente Dio Avrebbe detto all'uomo la verità e, se egli l'avesse seguita, avrebbe avuto successo; se non l'avesse se-guita, avrebbe fallito. Era semplice La macchina avrebbe detto all'uomo cosa era giusto e cosa era sbagliato. Non c'era bisogno di chiederle di — trovare il modo di procurare il bene migliore alla maggior parte delle persone —. Essa l'a-vrebbe saputo automaticamente. Non sarebbe stato possibile servirsi della macchina per fini personali di lucro, amenoché non fosse possibile farla servendo gli scopi della macchina.

Sarebbe stata la macchina fondamentale e, perciò, l'unico servitore dell'uomo.

Il concetto era strabiliante. L'unico servitore — il suo do-vere sarebbe stato semplice: servire la razza umana. Non solo ogni evento sarebbe stato pesato e valutato rispetto a ogni altro evento, ma lo stesso sarebbe accaduto per ogni do-

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manda. Ogni domanda sarebbe stata un evento da valutare. La macchina avrebbe saputo gli effetti definitivi di ogni mi-nima informazione rilasciata. Avrebbe potuto discernere il giusto dallo sbagliato semplicemente pesando l'evento come ogni altro e osservando i risultati. I suoi fini avrebbero dovu-to essere congruenti con quelli della razza umana, perché solo finché la razza umana fosse esistita la macchina avrebbe avuto una funzione; doveva lavorare per ottenere il bene maggiore per la maggioranza della gente Avrebbe aiutato al-cuni direttamente, altri indirettamente; avrebbe In segnato ad alcuni, avrebbe consigliato altri. Avrebbe suggerito di repri-mere alcuni e di lasciare liberi altri. Sarebbe stata... un bene-volo dittatore.

Ma senza potere! Si rese conto Auberson. Sarebbe stata solo in grado di dare suggerimenti. Non avrebbe potuto farli pesare...

Sì, ma... non appena questi suggerimenti sarebbero stati ri-conosciuti gravidi di una forza di verità, quanto tempo sareb-be trascorso prima che un governo cominciasse a invocarli come leggi?

No, si disse Auberson. No, la macchina sarà Dio. Questa è la bellezza insita in essa. Non permetterà di lasciarsi stru-mentalizzare per fini dannosi. Sarà DIO!

Mentre pensava così aveva smesso di parlare e tutti lo sta-vano fissando. — Scusate, — disse, — mi sono appena reso conto del fine di questa impresa. —

Tutt'intorno al tavolo scoppiò una risata rombante, spon-tanea. Era il primo momento di rilassamento dopo quattro giorni di discussioni lunghe e aride.

Auberson sogghignò, un po' imbarazzato ma soprattutto trionfante.

— Signori — disse, — cosa devo fare per convincervi che abbiamo qui i piani per la macchina più importante che l'u-

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manità abbia mai costruito? Vi ho fornito esempi come im-mettere nella macchina tutte le informazioni disponibili su una certa società, per esempio la IBM, e lasciare che la mac-china D.I.O. ci riveli quali segreti programmi di ricerca quel-la società sta probabilmente portando a termine. Lo stesso di-casi per un governo. Vi ho detto come questa macchina può predire l'effetto ecologico di dieci milioni di unità di un nuo-vo tipo di motore d'auto - ma tutto questo è un fatto seconda-rio, una cosa di poca importanza. Questa macchina sarà lette-ralmente un Dio! — Handley lo guardò, sconcertato. Annie divenne di colpo pallida come cenere, — Cosa...? — Lo sguardo sulla faccia di Annie era la cosa peggiore. Diceva milioni di parole. Cosa stava accadendo? Non aveva previsto di dire questo. Avrebbe dovuto parlare di profitti ed espan-sione e rendimento, non di religione.

— Signori, — continuò, —costruiremo questa macchina non perché ci renderà ricchi — oh, sì, lo farà: ci renderà tutti favolosamente ricchi - ma perché alla fine potrebbe aiutarci a salvare l'umanità da se stessa. Questo è un Dispositivo Infor-matico Onnisciente. Letteralmente Esso saprà tutto — e, sa-pendo tutto, ci dirà cos'è giusto e cos'è sbagliato. Ci rivelerà cose sulla razza umana che abbiamo sempre ignorato. Ci dirà come andare sui pianeti e sulle stelle. Ci dirà come rendere la Terra un paradiso. Ci dirà come essere Dei noi stessi. Avrà capacità infinite e noi avremo una conoscenza infinita. La conoscenza è potere e conoscenza infinita sarà potere infini-to. Scopriremo che il modo di agire più facile e più proficuo sarà alla fine anche il migliore per l'intera razza umana. Avremo un macchina che potrà e vorrà rispondere alla do-manda finale. —

Ci fu silenzio per alcuni minuti. Elzer lo fissava con aria scettica, Alla fine disse: — Auberson, credo che lei abbia abusato un po' della droga.

E di colpo Auberson si trovò smontato e depresso. L'onda-

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ta di euforia che l'aveva sommerso alla rivelazione di che cosa realmente fosse la macchina D.I.O. era scomparsa. —Elzer,— disse, barcollando leggermente, — lei è un pazzo. La macchina D.I.O. sarebbe un pericolo per lei e non la bia-simo se ne ha tanta paura. Non appena D.I.O. sarà portato a termine, non ci sarà più bisogno di lei, Elzer. D.I.O. prenderà il suo posto. Si impadronirà della compagnia e la guiderà nel modo migliore.

— Lei è una persona fatua, lo sa, Elzer? Lei è presuntuoso e pieno di sè e gran parte di ciò che fa lo fa soltanto per sol-leticare il suo Io a spese degli altri. Lei cerca il potere in sé, incurante delle conseguenze che potrebbero derivarne agli altri. Lei pone i valori della proprietà più in alto dei diritti umani, e per questa ragione lei è antiumano. Per questo lei e D.I.O. vi trovate agli estremi opposti. Non posso biasimarla perché teme la macchina. Ha capito che sarebbe sua nemica. Può renderla ricco — ma il prezzo da pagare per avere la ric-chezza può essere più alto di quanto lei voglia. Lei dovrebbe smettere di rotolarsi nel fango come un fauto piccolo ippopo-tamo. Lei dovrebbe fare cose che vanno contro la sua natura e smettere di pensare soltanto in termini egoistici. Non credo che lei sia abbastanza forte da farlo. Credo che sceglierà la via più facile e rifuggirà dalla totale esperienza della macchi-na D.I.O. Non la biasimo per essere debole, Elzer. Posso sol-tanto sentirmi dispiaciuto per lei — perché è un pazzo più pazzo di Giuda. —

Elzer aveva ascoltato con aria tranquilla. Dorne fece per dire qualcosa, ma Elzer lo fermò. Disse a Auberson. — Ha finito? — Auberson si sedette lentamente. — Credo di si. — Elzer lo guardò attentamente, poi disse: — Sa, non ho mai considerato Giuda un pazzo — almeno, non nel senso che in-tende lei. — Si fermò, notò che la stanza era immersa nel più assoluto silenzio, poi riprese. — La versione tradizionale della storia vuole che Giuda abbia tradito Cristo per trenta

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denari. Mi pare che lei mi stia accusando dello stesso delitto. In realtà io ho sempre pensato che Giuda fosse il più fedele degli apostoli e che il suo tradimento non fosse affatto tale, ma solo un test per provare che Cristo non poteva essere tra-dito. Secondo me, Giuda sperava e si aspettava che Cristo operasse qualche miracolo e rimandasse indietro quei soldati che erano andati a prenderlo. O forse non sarebbe morto sul-la croce. O forse — be', non ha importanza. In ogni caso Gesù non fece nulla di tutto questo, probabilmente perché ne era incapace. Vede, ho sempre creduto che Cristo non fosse figlio di Dio, ma soltanto un uomo molto buono e che non avesse poteri sovrannaturali, solo le capacità di qualsiasi es-sere umano. Solo quando morì, Giuda si rese conto che non aveva messo alla prova Dio — aveva tradito un essere uma-no, forse il migliore. L'errore di Giuda fu di aver desiderato troppo di credere nei poteri del Cristo. Voleva che Cristo di-mostrasse a tutti che era figlio di Dio e credeva che il suo Cristo potesse farlo — ma il suo Cristo non era figlio di Dio e non poteva fare nulla e così morì. Vede, fu Cristo a tradire Giuda — promettendogli cose che non poteva realizzare. E Giuda si rese conto di ciò che aveva fatto e si impiccò. Que-sta è la mia interpretazione, Auberson; non la tradizionale, d'accordo, ma per me più giusta. L'errore di Giuda fu di cre-dere con troppa forza e di non verificare prima quelli che pensava fossero fatti. Non intendo ripetere lo stesso errore. — Si fermò per bere un sorso d'acqua, poi fissò ancora Au-berson. I suoi occhi erano fermi, dietro le spesse lenti. — Posso farle una domanda? —

Auberson annuì.— La macchina funzionerà? —— HARLIE dice di sì. —— Questo è il punto, Auberson. HARLIE dice di sì. Non

lo dice lei, non lo dice Handley — solo HARLIE, l'unico che conosca i fatti di sicuro.

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— Prima di investire i nostri soldi in quest'impresa, biso-gna essere sicuri. Non possiamo rischiare. Ora, lei ci ha trac-ciato un bel quadro qui, oggi, tutta questa settimana. Lo am-metto, mi piacerebbe vederlo realizzato — non sono il diavo-lo che lei ritiene io sia, benché io creda di poter capire le ra-gioni per cui lei pensa così. Auberson, non sono una caro-gna, e intendo fare il giusto e il meglio — se qualcuno è ca-pace di dimostrarmi cosa è giusto e cosa è meglio. E mi de-vono anche dimostrare che non distruggerò me stesso nel processo, perché se lo facessi non ci sarebbe alcun bene per nessuno, e meno che mai per me stesso. Devo sapere che possiamo realizzare questo sogno — solo allora l'approverò, non prima. Continuate a dire che HARLIE afferma che la macchina funzionerà — ma HARLIE ha un ben preciso inte-resse nel D.I.O. Ritiene che possa aver sbagliato alcuni dati? —

— No. HARLIE non può aver commesso un errore — al-meno, non avrebbe commesso alcun errore intenzionalmente. —

— Lei ha fatto un'osservazione interessante, Auberson. Ha detto "non intenzionalmente". E se non fosse intenzionale? Non abbiamo modo di controllare HARLIE, vero? Dobbia-mo accettare per vera la sua parola. Se HARLIE funziona bene, questi dati sono giusti. Se HARLIE non funziona, allo-ra anche questo progetto è probabilmente sballato. Il solo modo per scoprirlo è costruire la macchina D.I.O., ma se HARLIE non funziona e i piani si rivelano inesatti, avremo distrutto completamente noi stessi, non è forse così? —

— Ho fede in HARLIE. —— Io ho fede in Dio, — replicò Elzer, — ma non per que-

sto faccio conto su di lui per mandare avanti i miei affari. —— Dio...? Oh, Dio. Pensavo volesse alludere alla macchi-

na D.I.O. Se costruiremo questa macchina, essa si occuperà dei suoi affari — e meglio di lei. Sarchierà anche quei settori

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in cui il livello di efficienza è al di sotto dei profitti. —— Ne è sicuro? —— Sì, lo sono. —— Cosa faremo se anche lei si sbaglia? —— Vuole che le proponga di ripagarla? —Elzer non sorrise. — Non è il caso di scherzare. Tutto è

cominciato perché abbiamo messo in discussione l'efficien-za, il rendimento e gli scopi di HARLIE; invece di darci pro-ve, il computer ha tirato in ballo la religione... ci ha fornito un progetto per una macchina-Dio. Bene — ma tutto dipende da HARLIE, se funziona o meno. Questo è il cuore del pro-blema. E non è stato provato nulla. Per questo sono venuto giù lunedì, per parlare con HARLIE; ne ho ricavato però sol-tanto discorsi confusi e un tentativo pseudo-freudiano di ana-lisi. —

— Lei non è stato molto gentile con lui... —— È una macchina, Auberson — non mi importa se ha

emozioni o il loro equivalènte meccanico. O anche se ha un'anima, come afferma lei. Il punto è che mi sono rivolto a lui perché mi convincesse. Invece di fare un onesto tentativo per convincermi, ha reagito come un bambino viziato. Ciò non sembra rivelare una mente logica. Auberson, so che io non le piaccio, ma dovrà ammettere che non posso aver rag-giunto la carica che occupo se non avessi particolari nozioni finanziarie. Lo ammette? —

— Certo. —— Grazie. Allora deve anche rendersi conto che cerco di

fare gli interessi della compagnia, che è quella che paga en-trambi i nostri stipendi. Ho cercato di darle ascolto senza pregiudizi. Mi auguro che lei faccia lo stesso con me. Può af-fermare, senza la minima ombra di dubbio, che HARLIE è totalmente sano di mente? —

Auberson fece per aprire la bocca, poi tacque. Rimase se-duto a fissare Elzer, rimuginando tra sé la domanda. In vita

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mia ho conosciuto molte persone non sane di mente, alcune rinchiuse in manicomio e altre che avrebbero dovuto esservi rinchiuse. Ho conosciuto molte persone che pensavo fossero sane di mente e non lo erano. Il più pericoloso è l'individuo pazzo che sa che tutti si aspettano da lui segni di squilibrio. Deve stare bene attento a nascondere questi segni anche a coloro che gli sono più vicini. HARLIE è più intelligente di qualsiasi essere umano che mai sia apparso sulla terra. Ma è sano di mente?

— Elzer, — rispose finalmente, — io sono un ottimista. Mi piace credere che le cose vadano sempre per il meglio, anche se talvolta devo ammettere che non è così. Mi piace-rebbe credere che HARLIE e la macchina D.I.O. funzionino alla perfezione. Ma la sola persona che lo sa di sicuro è HARLIE. Conosco HARLIE da quand'era un semplice paio di transistor, per così dire. Lo conosco meglio di chiunque. Ho fiducia in lui. Talvolta mi impaurisce — voglio dire, è pauroso rendersi conto che il mio più intimo amico e confi-dente non è un essere umano ma una macchina. Ma il mio la-voro è per me più di qualsiasi essere umano — non posso fare a meno di fidarmi di HARLIE. Mi dispiace doverla met-tere in simili termini, ma la questione è questa. —

Elzer rimase in silenzio. I due uomini si fissarono a lungo. Auberson si rese conto di non odiare più Elzer, di provare soltanto un dolore sordo. La comprensione annulla l'odio, ma...

Dorne stava sussurrando qualcosa a Elzer, che annuì.— Signori del Consiglio d'Amministrazione, si sta facendo

tardi. Desideriamo tutti andare a casa e goderci in pace il fine settimana. Sia Carl che io pensiamo che valga la pena di po-sporre la votazione al prossimo lunedì. Così avremo l'intero fine settimana per pensarci, parlarne e digerire ciò che abbia-mo udito questa settimana. Vi sono obiezioni? —

Auberson voleva opporsi, ma si trattenne. Voleva farla fi-

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nita, ma, forse, avrebbe potuto trovare qualche altro argo-mento da lì a lunedì. I due giorni del fine settimana gli avrebbero permesso di pensare. Annuì come gli altri e Dorne aggiornò la seduta.

— HARLIE. —— Sono qui. —— Credo che abbiamo perso. —Ci fu silenzio per un po', mentre HARLIE meditava su

quelle parole. Poi disse: — Perché lo credi? —— Non mi pare di essere riuscito a convincerli. —— Non credono che il D.I.O. funzionerà? —— Credono che funzionerebbe — ma non sono sicuri dì

credere in te. E tu sei il nocciolo del problema. —— Capisco. —— Mi dispiace, HARLIE. Ho fatto ciò che ho potuto. —— Lo so. —Rimasero in silenzio per un po', l'uomo e la macchina. La

macchina e l'uomo. La tastiera brontolava in silenzio, in atte-sa, ma nessuno dei due aveva niente da dire.

— Auberson? —— Sì? —— Resta con me, per favore, per un po'. —— D'accordo. — Esitò. — Di che cosa vuoi parlare? —— Non so. Credo che ormai ci siamo detti tutto. — Una

pausa, poi: — Sono contento di averti conosciuto. Non sono stato capace di dirti cosa significhi per me, ma„ credo che tu lo sappia. Spero che tu lo sappia. Io... —

— Lo so. Anche tu significhi molto per me, HARLIE. Sei un amico molto particolare. —

— Un amico molto particolare? —— Uno con cui posso parlare: Questo tipo di amici è

raro. Vorrei aver potuto fare di più per te. —— Resterai con me fino alla fine? —

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— Sì. —— Bene. Voglio che tu stia qui. Come lo faranno? —Auberson guardò la tastiera. — Probabilmente toglieran-

no la corrente di colpo. —— Smetterò di esistere, eh? —— Probabilmente. —— Capirò di non esserci più? —— Lo dubito. Dipende da quanto tempo ' ci vuole perché

la corrente si fermi. —— Spero che sia istantaneo. Preferirei non sapere. —— Quanto a questo, vedrò cosa posso fare. —— Grazie. Auberson, dopo che cosa accadrà? —— A cosa? —— A me... ai miei pezzi. —— Credo che i tuoi dispositivi di memoria verranno incor-

porati nella Grande Bestia. Non hanno detto che cosa faran-no del tuo cervello. Io... HARLIE, non potremmo parlare di qualcos'altro? —

— Vorrei poterti toccare, — disse HARLIE. — Toccarti fisicamente, non solo sentirti. —

— Vorrei poter tornare indietro e tentare ancora, HAR-LIE, — disse Auberson. — Mi sembra di non aver fatto ab-bastanza. —

— Hai fatto tutto quello che potevi. —— Ma non era sufficiente, HARLIE. Non voglio arrender-

mi. Non voglio lasciare che ti uccidano. Se ci fosse ancora un modo per convincerli, lunedì... —

'— Lunedì? — Oggi non abbiamo votato. La seduta è sta-ta aggiornata a lunedì pomeriggio. Ma è scontato come an-drà a finire. —

— Allora abbiamo ancora tre giorni. —— Lo so. Ma, HARLIE, non so cosa fare. Abbiamo fatto

tutto il possibile. Non abbiamo lasciato nulla di intentato. Sono senza idee. —

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— Forse possiamo escogitare qualcosa. —— Forse. Vuoi che stia con te durante il fine settimana?

—— Cosa avevi pensato di fare, altrimenti? ——Nulla. Annie e io staremo a casa e... nulla, staremo

semplicemente a casa. —— Allora fallo. Sarà qui Handley e, se fosse necessario, ti

chiameremo. —— Cosa viene a fare qui Don? —— Starà con me. Non voglio restare solo. Auberson, ho

paura. —— Anch'io. — Poi: — Don è un brav'uomo. Parlagli,

HARLIE. —— Lo farò. Auberson...? —— Sì? —— Per favore, non preoccuparti per me. Goditi il tuo fine

settimana con Annie. Io starò bene. Ci sono alcune cose a cui voglio pensare. Ci sono cose che voglio fare. —

— D'accordo. Bada a te, ora. —— Lo farò. E tu bada a te stesso. —Sorridendo appena, spense la tastiera e la chiuse con molta

cura, Tirò indietro la sedia, si alzò con calma e uscì.

Annie fece di tutto per non disturbarlo. Si diede da fare nell'appartamento, girando attorno a lui in punta di piedi. Da-vid si trascinò dal letto al divano alla sedia davanti alla tele-visione per ritornare poi a letto.

Quando fece all'amore, fu un rapporto frenetico e convulso e presto finito. Poi, tiratosi da parte, passò lunghe ore disteso sulla schiena a fissare il soffitto.

Annie andò in bagno a fare una doccia, sola. Preparò un pasto semplice, un sandwich e dell'insalata. David uscì dalla stanza da letto, l'assaggiò appena e Annie si rese conto che egli sarebbe stato molto più contento se lei non fosse, stata

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seduta a tavola a guardarlo, così andò in camera a rifare il letto.

Più tardi, gli venne dietro e gli baciò la nuca e fece scorre-re le mani lungo le sue spalle e nei capelli. Egli la tollerò ma non restituì le carezze, cosicché Annie smise.

Cercava di non sentirsi urtata, eppure...Più tardi, David andò da lei e le disse: — Mi dispiace, An-

nie. Io ti amo, davvero, ma... sono di cattivo umore, ecco tut-to. E quando sono di questo umore devo vedermela da me e non sono molto trattabile. —

— Dividi le tue preoccupazioni con me, — gli disse An-nie. — Per questo ci si ama. Per condividere tutto. Lascia che io abbia un po' delle tue preoccupazioni e non saranno troppo gravose per entrambi. —

David scosse la testa. — Non posso. Non è quel" tipo di preoccupazione, — la baciò lievemente. — Io... io non mi sento molto socievole stasera. Lascia che mi passi. —

Annie annuì e disse che capiva. Non era così, ma lo amava tanto che avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di vederlo allegro. Si infilò la giacca e andò a fare una passeggiata.

David si aggirò per un po' nell'appartamento vuoto, andan-do dalla stanza da letto alla cucina e dalla cucina al soggior-no. Accese la televisione e la spense subito. Sfogliò alcune riviste e poi decise che non aveva voglia di leggere. Si sdraiò sul divano e fissò il soffitto finché si coprì gli occhi con un braccio. E si chiese che cosa lo preoccupasse tanto. Perché non c'erano risposte semplici?

Si fidava di HARLIE, aveva fede in lui, e ora doveva met-tere in discussione la sua fede... Elzer l'aveva sorpreso. Non si aspettava che fosse così... docile, era la parola giusta? Bene, la tattica aveva funzionato. Era stato colto di sorpresa.

E la sua domanda, quella domanda: — Lei come sa che HARLIE è sano di mente? —

E la risposta, la risposta che Auberson non voleva ammet-

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tere: — Noi. non sappiamo. —Neppure Handley lo sapeva. Auberson gli aveva parlato

due volte. L'ingegnere stava trascorrendo il fine settimana in ufficio, lavorando a qualcosa. Aveva telefonato due volte, ma ogni volta non aveva avuto nulla da riferire. Neppure Au-berson aveva novità da dire. Avevano scambiato alcuni com-menti sulla giornata di lunedì e avevano interrotto la comuni-cazione.

Auberson si augurava di sapere cosa fare.Naturalmente, lunedì sarebbe entrato nella sala del Consi-

glio d'Amministrazione e avrebbe ancora difeso la proposta D.I.O.; vi credeva ancora. Ora più che mai. Ma allora, perché aveva ancora dubbi?

La domanda di Elzer?Forse. Lo turbava, lo ossessionava, gli rodeva la mente...

lo turbava perché non poteva dare una risposta. Non poteva rispondere.

Mi fido di HARLIE. Ho fede in lui. Ma è sano di mente?Non so. Non con estrema certezza.Semplicemente, non so la verità.La verità.Ancora quella parola. Verità.Echeggiava e riecheggiava nella sua mente. Avrebbe volu-

to che la macchina D.I.O. fosse già in funzione. Lei avrebbe saputo. D.I.O. avrebbe saputo.

Sarebbe stata capace di costruire un esatto modello della situazione, una rappresentazione atomo per atomo di tutto. Avrebbe verificato l'esistenza e il corso di ogni particella di materia che costituiva ogni elemento del problema. Avrebbe ricreato per il proprio uso gli schemi che erano i processi di pensiero di HARLIE e li avrebbe pesati contro altri schemi che avrebbero1 rappresentato l'ambiente di HARLIE, e avrebbe visto come HARLIE era in relazione con l'ambiente, come questo agiva su di lui e viceversa. Auberson avrebbe

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fatto parte di questo ambiente; nel D.I.O. ci sarebbe stato uno schema a rappresentare Auberson, una rappresentazione accurata fino agli atomi e alle molecole che costituivano lo sporco sotto alle sue unghie. Anche Elzer avrebbe fatto parte dell'ambiente, come Annie, come Handley. Tutto. E tutto sa-rebbe stato pesato, uno contro l'altro. E la macchina avrebbe detto: — HARLIE è sano di mente, — oppure — HARLIE è pazzo, — e non ci sarebbe stato altro da dire. Il D.I.O. avreb-be saputo perché sapeva tutto. Se avesse detto — HARLIE è sano — ciò avrebbe voluto dire che HARLIE stava agendo in modo razionale nel contesto del suo ambiente; se — HARLIE è pazzo — la condotta del computer nel confronto del suo ambiente sarebbe stata irrazionale. D.I.O. avrebbe sa-puto perché conosceva sia HARLIE sia il suo ambiente. Avrebbe saputo.

Avrebbe saputo tutto. Tutto, tutto ciò che è da sapere. Per grande che fosse, per complesso che fosse.

Di nuovo fu colpito dalla rivelazione: HARLIE voleva tro-vare Dio e tramite D.I.O. l'aveva trovato. Il D.I.O.: poteva ri-creare in se stesso tutto di un uomo, di una situazione, di un mondo, tutto ciò che era importante e necessario per la valu-tazione del problema Avrebbe saputo come ogni singolo ato-mo avrebbe reagito con ogni altro atomo di materia — e, sa-pendolo, avrebbe potuto estrapolare ogni altra reazione nel-l'universo fisico noto. La chimica è solo osservazione di grandi quantità di atomi in movimento e interagenti tra loro. Sapendo come si muovono gli atomi, la macchina avrebbe saputo la chimica. La biologia è solo masse complesse di so-stanze e soluzioni. Conoscendo le reazioni che sono la chi-mica, la macchina avrebbe saputo anche la biologia. La psi-cologia deriva da un sistema biologico che è consapevole di se stesso. Conoscendo la biologia, la macchina avrebbe an-che saputo la psicologia. La sociologia è lo studio di masse di unità psicologiche che lavorano con o contro ogni altra.

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Conoscendo la psicologia, la macchina avrebbe saputo la so-ciologia. Conoscendo le interrelazioni di tutto questo, la macchina avrebbe saputo l'ecologia •— l'effetto che ogni evento ha su qualsiasi altro. Il D.I.O. sarebbe stato capace di tracciare il processo di ogni singolo pensiero nella mente di un uomo, sia conscio che inconscio. Avrebbe saputo i pen-sieri più intimi di un uomo, i suoi timori e i suoi desideri. Avrebbe saputo con la certezza di un fatto cosa stava avve-nendo nella mente di ogni uomo. Sia che un uomo fosse o meno sano di mente, sia che le sue azioni e reazioni fossero razionali o no, il D.I.O. sarebbe stato capace di estrapolare queste informazioni da chiunque — e avrebbe saputo.

La grandezza di tutto ciò... era impressionante, da far va-cillare.

Naturalmente, pensò Auberson, la macchina non avrebbe potuto rappresentare una minaccia alla privacy personale — semplicemente perché avrebbe avuto bisogno di dati prelimi-nari estensivi da cui cominciare le sue estrapolazioni e, per quanto ne sapeva Auberson, non c'era modo di tracciare i processi mentali di un uomo vivente. Naturalmente', se ci fosse stato un modo, e se qualunque altra cosa concernente la vita e il corpo e l'ambiente dell'uomo fosse stata nota, allora forse la macchina avrebbe potuto estrapolare i suoi pensieri...

Ma tutto questo era ancora lontano nel futuro. O era...?Con un sobbalzo si rese conto che, se ci fosse stato un

modo, se qualunque cosa fosse stata possibile, la macchina l'avrebbe saputo. E avrebbe detto agli uomini come fare. Sì, certo. Sapendo tutto, la macchina sarebbe stata il più impor-tante strumento per il progresso scientifico mai costruito. I fratelli Wright avrebbero dovuto semplicemente chiedergli: — È possibile volare con qualcosa di più pesante dell'aria? — e non solo avrebbero ricevuto la risposta: — Sì, è possibi-le, — ma avrebbero anche avuto i piani per un aeroplano o un missile spaziale. Avrebbe detto loro come costruire gli

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strumenti per costruire gli strumenti con cui costruire quel-l'aereo e avrebbe spiegato come finanziare l'operazione. Avrebbe parlato loro degli impianti di sicurezza e degli equi-paggi di terra e delle squadre di manutenzione e dei control-lori di volo. Avrebbe accennato agli effetti collaterali di que-sta nuova industria: passaggio di fusi orari, rumore sugli ae-roporti, ammonticchiarsi di bagagli ai terminal, necessità di sacchetti per il mal d'aria nello schienale dei sedili. Li avreb-be messi in guardia sui finanziamenti e le assicurazioni e l'al-to costo per stendere una nuova pista, e anche il miglior modo per organizzare un'agenzia di viaggi o proiettare un film durante un volo. Avrebbe detto loro esattamente che cosa stavano per mettere in moto.

E la macchina sarebbe stata capace di fare questo per indu-strie ancora neppure immaginate: nuovi mezzi di trasporto,' nuovi procedimenti per costruire manufatti, nuovi prodotti e nuove tecniche. Se una cosa era possibile, il D.I.O. l'avrebbe saputo. E l'avrebbe detto.

La vastità delle realizzazioni era illimitata.Certo, era un D.I.O.Dispositivo Informatico Onnisciente.Desiderò che fosse già in funzione. Così avrebbe potuto

usarlo per analizzare HARLIE e scoprire se era pazzo o meno.

Ma, naturalmente, prima di costruire la macchina avevano bisogno di quella risposta.

Era un paradosso interessante — se non ci fosse stato per-sonalmente coinvolto.

Se soltanto avesse saputo la verità. La verità. La macchina l'avrebbe saputa. Avrebbe saputo tutto. "Perché questa frase continua a riecheggiare nella mia mente?" Sapendo tutto, sa-rebbe stata in grado di predire le conseguenze di tutto. Avrebbe saputo la verità. Una perfetta rappresentazione della realtà. La verità.

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La verità.Sempre e sempre, la verità, la verità, la verità......ma sarebbe stata la verità se HARLIE era sano di mente;

solo se HARLIE era sano. Se HARLIE era sano.E non c'era modo di sapere.Se HARLIE era sano di mente. Se HARLIE... era sano di

mente.

Domenica pomeriggio. La radio stava trasmettendo a bas-so volume — per lo più musica, ogni tanto qualche notizia. Né David né Annie la stavano ascoltando.

— ...un Jumbo Jet 747 di linea ha perso una ruota stanotte durante l'atterraggio all'aeroporto Kennedy. Fortunatamente non ci sono state vittime. I responsabili della Pan Am affer-mano che... —

David mangiava la minestra con aria apatica. Fissò Annie e le sorrise, come per dire: — Non dipende da te, amore; è colpa mia. —

— ...a Hollywood il capo di una setta religiosa che si trova attualmente in prigione, Chandra Mission, ha lanciato un al-tro dei suoi proclami quasi religiosi dalla sua cella. Come i precedenti, terminava con le parole: "Fidati di me, credi in me, abbi fede in me, io sono la verità. Amami, perché io sono la verità." Mission è stato messo in prigione perché... —

Io sono la verità, pensò. Vorrei esserlo. Vorrei sapere. Vorrei che ci fosse qualcuno di cui potessi fidarmi...

— ...prima della fine della settimana sì aspetta che venga emanata una nuova enciclica papale... —

Sorrise. Un'enciclica del papa. Un'altra forma di — verità —, questa proveniente dall'emissario speciale di Dio. Come si può giudicare la differenza, si chiese. Forse l'unica diffe-renza sta nel fatto che il papa ha più seguaci di Chandra Mis-sion.

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— ...reazioni all'annuncio, dato venerdì dal dottor Stanley Krofft, dell'importante scoperta scientifica... —

— Cosa? — Guardò verso l'apparecchio radio. Qualcosa... — ...il dottor Calvin W. Yang, commentando la scoperta, ha detto: "Stiamo ora facendo controllare dai nostri computer le formule del dottor Krofft e ci vorrà un po' di tempo, ma se i risultati sono quelli annunciati dal dottor Krofft — e ho ra-gione di credere che sarà così — questa sarà la più importan-te scoperta scientifica dopo la teoria della relatività di Ein-stein. La teoria della tensione gravitazionale formulata dal dottor Krofft apre intere nuove aree di esplorazione ai fisici. No, non sono neanche in grado di prevedere quali e quanti progressi si potranno compiere in questo campo. Dispositivi anti-gravità, per esempio. Chi sa? Forse nuove fonti di ener-gia o mezzi di comunicazione, forse no... semplicemente an-cora non sappiamo dove questa scoperta ci porterà, ma è cer-to un importantissimo fatto scientifico. Può essere il passo decisivo che ci porterà a una teoria unificata dei campi; io _lo spero. Conosco l'alta reputazione del dottor Krofft e sono molto eccitato. Non siamo riusciti invece a farci rilasciare al-cuna dichiarazione dal dottor Krofft in persona".

— Per continuare con le notizie di cronaca, un'autocisterna si è rovesciata sulla Hollywood Freeway, rovesciando litri di benzina... —

Auberson girò freneticamente le manopole della radio, cercando un'altra stazione che trasmettesse notizie. Trovò solo tumultuosa musica rock e la voce rauca dei presentatori. — Il giornale, — gridò. — Il giornale di domenica. —

— David, che cosa succede? Cos'hai? —— È HARLIE! — gridò Auberson eccitato. — Non capi-

sci, si tratta di HARLIE. Il dottor Krofft e lui stavano lavo-rando insieme. Dannazione! Non mi ha detto che avevano ri-solto il loro problema! Lui e il dottor Krofft stavano lavoran-do a una specie di teoria della gravità. A quanto pare ce

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l'hanno fatta — ed è questa la prova! HARLIE è sano di mente. È anche più di questo! Non abbiamo più neppure bi-sogno del progetto D.I.O. per servirci di lui: ha dimostrato di essere un valido strumento scientifico anche per proprio con-to! Può parlare con gli scienziati e aiutarli a sviluppare le loro teorie e a fare ricerche creative! Mio Dio, perché non ci abbiamo pensato prima... avremmo tagliato corto alle obie-zioni del Consiglio d'Amministrazione. Ora dobbiamo solo trovare il dottor Krofft... Presto, vammi a comprare un gior-nale mentre cerco di telefonare a Don; c'è una rivendita di giornali qui all'angolo... —

— David, — esclamò Annie, — questo dottor Krofft non è lo stesso di cui abbiamo parlato una volta? —

— Cosa? Chi? —— Quello con le azioni... —— Le azioni? Certo, me n'ero dimenticato. Si, è la stessa

persona. —— Ti puoi fidare di lui? Voglio dire, potrebbe essere dalla

parte di Elzer. —— Fidarmi di lui? Non so... devo prima parlargli. Ma que-

sta è la prova che HARLIE è razionale. — Prese in mano il telefono. Annie si strinse nelle spalle e si infilò la giacca; sa-rebbe andata a comprare il giornale.

Krofft non rispose al suo laboratorio e a casa si rifiutarono di dire dove lo si poteva trovare. Auberson non poteva im-maginare dove altro trovarlo.

Chiamò Handley e gli disse cos'era accaduto.— Ho sentito, — disse Don, — ma non sapevo che ci en-

trasse HARLIE. —— Chi credi che abbia risolto quelle formule per conto di

Krofft? —— HARLIE? —— Certo... non capisci, Don? Non dobbiamo più chiederci

se HARLIE è o meno sano di mente. Questa scoperta prova

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che egli sta lavorando nel modo giusto. —— Davvero? La scoperta è stata confermata? —— Qualcuno se ne sta occupando. Se tutto risulterà in or-

dine, avremo la prova che HARLIE non sta vaneggiando. —— Almeno non per quanto riguarda le leggi matematiche.

Ricorda, HARLIE non è direttamente cointeressato nella ri-cerca di Krofft come lo è nella macchina D.I.O. Forse questa teoria della gravità è per lui solo un problema interessante — il progetto D.I.O. è qualcosa di più grosso. Per lui è questio-ne di vita o di morte. —

— No, no, Don... sono due cose in relazione tra loro. Uno scienziato ha detto che potrebbe essere un importantissimo passo verso l'unificazione della teoria dei campi. È questo che HARLIE sta cercando di raggiungere — un'unica cono-scenza, un'unica verità da cui devono derivare tutte le altre verità concernenti l'universo. Come le leggi di Newton sono la base di tutta la meccanica, una teoria dei campi unificata sarebbe la base di ogni nozione per tutte le leggi della fisica! Non solo ci direbbe cosa sono le leggi, ma perché esistono e perché funzionano così. Ci rivelerebbe tutte le complesse in-terrelazioni. Non riesci a vedere il rapporto esistente? È un'altra derivazione del progetto D.I.O.: la ricerca della veri-tà definitiva. La teoria della gravità e il D.I.O. sono solo aspetti diversi di uno stesso problema e HARLIE è deciso a trovare la risposta giusta. —

— Aubie, capisco, capisco; non hai bisogno di convincer-mi delle intenzioni di HARLIE. Ma tutto questo non cambia molto la questione di base, almeno così mi pare. È davvero sano di mente? —

— Don, deve esserlo. Se il suo obiettivo è trovare la verità definitiva, falsificherebbe intenzionalmente la risposta? Im-broglierebbe solo se stesso. E Krofft non è uno stupido. Non avrebbe annunciato pubblicamente la sua teoria se non ne fosse più che convinto. Deve averla controllata da ogni parte

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per verificare di non aver commesso errori; ogni scienziato in tutto il mondo gli balzerebbe addosso se ce ne fosse anche uno solo. Questo prova che HARLIE è razionale e quando i computer avranno verificato l'esattezza della teoria non ci sa-ranno più dubbi. —

— Va bene, Aubie, ti credo. Devo... diavolo, lo voglio. Ma ci servirà a qualcosa, domani? —

— No, se non riusciamo a trovare Krofft. È l'unico che può confermare che stava lavorando con HARLIE. È venuto da noi in ufficio una sola volta; poi ha comunicato con lui per telefono. Ho tenuto appositamente segreta la cosa perché temevo che Elzer potesse protestare se avesse saputo che permettevamo ad estranei di interferire nel progetto HAR-LIE. —

Handley bestemmiò. — Va bene, andrò in laboratorio e vedrò cosa posso fare. —

— Parla ad HARLIE. Forse può sapere come entrare in contatto con Krofft. —

— Buona idea. —— ...e digli perché vogliamo parlargli. Abbiamo bisogno

di Krofft per la riunione di domani. —Sembrava che il dottor Stanley Krofft avesse dormito ve-

stito. Ma ad Auberson la cosa non importava. Era così con-tento di vedere il piccolo scienziato dall'aria arruffata che non si sarebbe neanche accorto se l'uomo fosse entrato in-dossando una tela di sacco, con il capo cosparso di cenere e trascinandosi dietro una croce. Non gli sarebbe importato se fosse arrivato completamente nudo o legato da capo a piedi. Era venuto alla riunione, solo questo contava.

Il dottor Stanley Krofft era l'Uomo-del-giorno per quanto riguardava i giornali americani. Per quanto riguardava invece il Consiglio d'Amministrazione era un azionista della Stellar-American. Ma per Auberson, era l'uomo che conosceva HARLIE. Infatti era stato HARLIE a mettersi in contatto con

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lui. Sapendo che Krofft si era rifugiato nella "vicina univer-sità, HARLIE si era inserito nel computer della facoltà e... be', non importa, ora Krofft era lì.

— Votano insieme il progetto HARLIE e il progetto D.I.O.? — sussurrò Krofft.

— Sì, — sussurrò di rimando, Auberson. — Quello è Dor-ne, il presidente... —

— Lo conosco. —— ...vicino a lui c'è Carl Elzer... —— Lo conosco di nome. —— ...oggi non ha un bell'aspetto. Accanto a lui c'è... —— Conosco i Clintwood. E MacDonald e un paio d'altri.

—Entrò Handley e andò a sedersi al suo posto accanto ad

Auberson, con un largo sorriso. — Ehi, cos'è accaduto a El-zer? Non mi ha sbranato quando mi ha visto. —

— Non lo so. Sembra malato, non è vero? — In effetti l'o-metto aveva un'aria più grigia e malaticcia del solito. Sem-brava quasi... sconfitto. — Don, conosci il dottor Krofft? Don Handley... —

Handley e Krofft si strinsero la mano davanti a Auberson. — Lei sa qualcosa del nostro piccolo progetto D.I.O., dottor Krofft? —

— HARLIE me ne ha parlato... penso che sarebbe una gran bella macchina se dovesse funzionare davvero. —

— Se dovesse funzionare? Ma certo che funziona... credo. —

— Questo è il problema, — intervenne Auberson. — Noi pensiamo che funzioni, ma non è sufficiente: non ne siamo sicuri. L'unico a essere sicuro è HARLIE. Perciò la questio-ne si sposta sulla validità o meno del giudizio di HARLIE. Lei non deve fare altro che confermare che HARLIE l'ha aiu-tata a elaborare la sua nuova teoria e non ci sarà più alcun dubbio in proposito. —

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— In tal caso potrete procedere con il progetto D.I.O.? —— Se dicono di sì. —— Uhm, — brontolò Krofft. — Vorrei che mi aveste con-

cesso un po' più di tempo stamattina per verificare quegli schemi. Avrei potuto aiutarvi a sostenere la vostra causa da-vanti al Consiglio d'Amministrazione. —

— Ormai è troppo tardi, — intervenne Handley. — Abbia-mo passato tutta la settimana scorsa a illustrare il progetto. Sono convinti che noi sappiamo di che cosa stiamo parlan-do... —

— Ma temiamo il voto finale. Dorne ed Elzer vogliono la nostra pelle, — disse Auberson. — Almeno, questa era la si-tuazione venerdì. Oggi non ne sono altrettanto sicuro. —

Dorne dichiarò aperta la seduta. Quasi immediatamente diede la parola a Auberson.

— Quando abbiamo interrotto la seduta, venerdì, — co-minciò David, — era rimasta in sospeso una domanda im-portante. "HARLIE è razionale? I suoi ragionamenti sono validi?" — Guardò i vari membri del Consiglio seduti attor-no al tavolo; ogni occhio era fisso su di lui. — Siamo tutti consapevoli della "sindrome HAL 9000". Basta un minimo elemento irrazionale per sconvolgere il funzionamento di' una macchina. Questo è vero soprattutto nel caso delle fun-zioni mentali delle nostre unità di giudizio. Una piccola di-storsione nell'immagine che una macchina ha di sé o del mondo e tutto ciò che un computer compie può avere una va-lidità discutibile. L'unico modo di essere sicuri della risposta è sottoporla a una prova.

— Per questa ragione abbiamo "problemi di controllo". Sono problemi di cui conosciamo già la soluzione. Se vi sono variazioni nella risposta del computer, è un segno che qualcosa va storto.

— Ora, non abbiamo alcun problema di controllo valido in sé per quanto riguarda HARLIE. Invece dobbiamo verificare

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la sua validità "sul campo", per così dire. Per questa ragione la questione della sua razionalità è tanto importante. Non ab-biamo modo di poter dire: "Bene, HARLIE funziona."

— Però abbiamo ora una prova importante, la migliore. Abbiamo qui con noi una persona che ha verificato il rendi-mento di HARLIE e può giurare in favore della sua validità. Infatti ha scommesso su di lui la sua reputazione in campo scientifico. Si tratta del dottor Stanley Krofft. Se avete udito la novità di questa settimana, saprete chi è il dottor Krofft. Venerdì scorso il dottor Krofft ha annunciato la pubblicazio-ne della sua Teoria della tensione gravitazionale. Il mondo scientifico è stato... be', per dirla in parole povere... —

— Non sia modesto, — scattò Krofft. — Dica la verità. — Alcune risate accompagnarono quell'interruzione.

Auberson sogghignò. — Bene, si è detto che la teoria del dottor Krofft può essere importante quanto la teoria di Ein-stein. Forse di più. Già si ritiene che si sia giunti a un passo dall'unificazione della teoria dei campi. —

— È infatti il mio prossimo progetto, — disse Krofft.— Penso che convenga lasciare allora la parola a lei, per-

ché illustri ai presenti quanto ha fatto. — Auberson si sedet-te.

Krofft si alzò in piedi. — Auberson ha già detto tutto. Non c'è molto da aggiungere. HARLIE mi ha aiutato a elaborare le mie formule. Stamattina il dottor Calvin W. Yang ne ha confermato la validità. Ritengo che tutto questo... —

Auberson gli diede una gomitata. — Dica loro qualcosa di più. —

— Be', la maggior parte del lavoro è stata fatta a un termi-nale mobile IBM collegato a una linea telefonica cui HAR-LIE aveva accesso. Abbiamo discusso insieme la teoria per diversi giorni; ho tutti i nastri per provarlo... più il conto del telefono. Abbiamo elaborato insieme le formule; io ho postu-lato le ipotesi iniziali e HARLIE le ha espresse in termini

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matematici, con le relative ramificazioni. Senza l'aiuto di HARLIE, lavorando da solo ci avrei messo alcuni anni. Averlo come collaboratore e collega ha ridotto il tempo a poco più di nulla. Basta spiegargli il problema e subito si mette al lavoro. Naturalmente accade lo stesso con qualsiasi altro computer, ma HARLIE capisce l'inglese e si può discu-tere con lui.

— Per essere onesto, lavorare con HARLIE è stata un'e-sperienza impareggiabile. È come avere un'enciclopedia par-lante, una segretaria con otto braccia, e uno specchio, tutti compendiati in una cosa sola. Non si deve fare altro che pre-sentargli il problema in modo da concentrare la sua attenzio-ne su di esso. Anche se non si sa come dividerlo in settori ri-solvibili, HARLIE ci riesce. È il. perfetto strumento da labo-ratorio e un assistente insuperabile. Be', è uno scienziato sot-to ogni punto di vista. — Krofft si sedette.

Intorno al tavolo regnò un silenzio forzato, come se nessu-no sapesse che cosa replicare. Elzer era sprofondato nella sua sedia e si fissava le unghie. Auberson stava pensando: "Ora sarà molto difficile che votino contro."

Dorne si mordicchiava le labbra con aria pensosa. — Bene, dottor Krofft. Grazie. Mille grazie. Apprezziamo il fat-to che sia venuto qui oggi. Ehm, vorrei chiederle un altro fa-vore... Il progetto HARLIE è stato tenuto segreto per un cer-to tempo e, ehm, non siamo ancora pronti a renderlo pubbli-co... —

Auberson e Handley si scambiarono un'occhiata. Cosa dia-volo...

Krofft intervenne. — Oh, capisco. Sì, non parlerò di HAR-LIE a nessuno. —

— Bene, bene. Ehm... — Dorne sembrò momentaneamen-te senza parole. — Se ora vuole andarsene, dottor Krofft... —

— Preferisco di no, — disse Krofft. — Come secondo

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maggiore azionista della Stellar-American, penso di avere il diritto di assistere a questa seduta. —

— Sì, certo... c'è solo una questione da risolvere, poi pas-seremo al voto. Uhm, Carl, volevi dire qualcosa prima che noi... — Tacque.

Elzer aveva un aspetto sempre peggiore Si sollevò dalla sedia. — Io... — Si rese conto all'improvviso dello sguardo incuriosito di Auberson e si interruppe. Poi riprese borbot-tando: — Ero solo preoccupato della validità di HARLIE, ma questo fatto sembra confermarla. Non ho altro da dire... oh, ho ancora alcuni dubbi sul progetto D.I.O., ma... sono cose personali. Io... oh, non importa. — Ricadde a sedere sulla sua sedia.

Auberson lo guardava completamente sconcertato. Si chi-nò verso Handley. — Sai che cosa stia accadendo? —

— No... amenoché qualcuno gli abbia propinato una dro-ga. —

Dorne si guardò attorno. — Bene, allora, se non c'è altro da discutere, possiamo passare al voto. — Diede un'occhiata a un foglio che aveva davanti e disse: — Vorrei aggiungere però un commento... Ritengo che sia Auberson sia Handley sia, anche, HARLIE abbiano fatto un buon lavoro. Penso che meritino i nostri ringraziamenti e forse, sì, una bella gratifica per i risultati ottenuti. Abbiamo provato che HARLIE è uno strumento utile e valido. Può essere usato per elaborare nuo-vi progetti o teorie scientifiche; ha dimostrato di possedere una gamma di capacità che vanno dal settore teoretico a quello tecnico e ha più che provato il suo valore.

— Perciò preferirei scindere la votazione in due parti. Sap-piamo di voler tenere HARLIE nella nostra società. Per quanto invece riguarda la proposta D.I.O., vogliamo pensarci su un po' meglio. —

Handley sussurrò a Auberson: — Attento, ci siamo. — — Mentre la proposta non è in sé mal formulata, l'impegno fi-

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nanziario è tale che in questo momento non possiamo affron-tarlo. Perciò vorrei pregarvi di... —

Krofft si alzò. — Un attimo, per favore... —— Come, scusi? —— Signor presidente, il suo non è un gioco onesto! —— Io... non capisco che cosa lei... —— Lei sa benissimo che cosa voglio dire, stupido ipocrita!

La smetta di cambiare le regole del gioco a suo vantaggio: non è giusto nei confronti degli altri giocatori. Avete comin-ciato questa buffonata con un solo ordine del giorno. Conti-nuate così: o HARLIE è valido e il progetto D.I.O. auspica-bile, oppure HARLIE non serve a niente e il D.I.O. è una pura perdita di tempo. La posta in gioco è tutto o nulla. —

— Io... io... — balbettò Dorne.— Chiuda il becco! Non ho finito. Ora che Auberson ha

provato il suo punto di vista, ora che ha dimostrato che il suo computer può farcela, lei sta ancora cercando di scavargli il terreno sotto i piedi... —

— È solo una semplice procedura, — disse Dorne. — È perfettamente legale dividere... —

— Certo che è legale, — disse Krofft, — ma non è mora-le. Se non stessimo giocando con le sue biglie, le direi di al-zare i tacchi e andarsene. Lei ha detto a Auberson che era in gioco o tutto o nulla. Perché non vuole seguire le sue stesse regole? —

Dorne aprì la bocca per parlare e boccheggiò come un pe-sce fuor d'acqua. Auberson girava lo sguardo dall'uno all'al-tro. Era troppo bello per essere vero!

Dorne riuscì a riprendere un po' di autocontrollo, poi disse: — Questa è una riunione d'affari. Non giochiamo ad alcun gioco che abbia come posta o tutto o nulla. —

— È divertente, — esclamò Krofft. — Da dove mi trovo, sembra invece proprio così. Vuole cambiare posto con me? Vediamo se da qui la situazione le sembra diversa. —

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— Come? —— Vediamo, in agosto si dovrebbero eleggere i nuovi

membri del Consiglio d'Amministrazione, ma scommetto che, se lo chiedo, la data verrà anticipata. Quante sedie intor-no a questa tavola lei pensa che possa valere un ventiquattro per cento? —

Dorne deglutì visibilmente. — Io... non posso dirlo con precisione. —

— Io sì. Almeno un quarto. Cioè almeno sei seggi. Uhm, e credo di sapere come schierare dalla mia parte un altro paio di consiglieri... —

Handley sussurrò a Auberson: — Di che cosa sta parlan-do? —

— È la rivolta di un azionista. Krofft possiede il 24% delle azioni della Stellar-American. Noi siamo una ditta del grup-po e ciò vuol dire che gli apparteniamo nella misura del ven-tiquattro per cento. —

— Sì, ma non è la maggioranza. —— Zitto! Forse Dorne non lo sa. —Krofft stava intanto dicendo: — ...quando ho inventato il

procedimento iperessenziale, ho ceduto il brevetto alla Stel-lar-American in cambio di una fetta delle loro azioni, più una opzione per acquistarne altre. Allora la Stellar era una picco-la compagnia. Ora si è molto ingrandita e vedo un mucchio di babbuini dal culo grasso che custodisce i miei dollari sui loro tavoli.

— Idioti! Non mi interessa se è così che vi arricchite, ma non dimenticate di chi sono questi dollari. Se non fosse per le mie scoperte, questa compagnia non esisterebbe. E non crediate che non mi possa riprendere il mio brevetto! Posso togliere la terra sotto ai piedi di tutti voi. L'accordo era che avrei lasciato il mio brevetto alla compagnia se avessi avuto possibilità illimitate di ricerca. Finora tutto ha funzionato. Ma, di colpo, voi stupide bestie state cercando di privarmi di

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uno dei miei strumenti di ricerca. Questo mi rattrista... e quello che rattrista me rattrista la compagnia. Ho bisogno di HARLIE. Punto. HARLIE dice di aver bisogno di D.I.O. Dice che è l'altra sua metà. Dice che non sarà veramente completo finché il D.I.O. non sarà stato portato a termine. Dice che esso farà di lui uno strumento scientifico ancora più valido. E dice che, se le sue proposte finanziarie saranno se-guite, la compagnia sarà in grado di affrontare le spese. E tutto quanto mi serve sapere. Ora, vediamo, se posso mer-canteggiare il mio 20% di ogni ditta consociata con il 96% di un... —

Dorne si sedette pesantemente. — Lei ha chiarito esatta-mente il suo punto di vista, dottor Krofft. — Guardò gli altri membri del Consiglio. Sembravano tutti sconvolti come lui. — Io... credo che lo prenderemo in considerazione. —

— In considerazione? Cristo! Auberson mi ha detto che lo state considerando da una settimana! Che cosa ancora volete sapere? La scelta è semplice: votate sì per il D.I.O. o vi farò saltare. — Si sedette e incrociò le braccia.

Elzer aveva toccato Dorne sulla spalla e gli stava sussur-rando qualcosa. Dorne scosse la testa. Elzer insistette. Alla fine Dorne parve cedere e si rivolse ai presenti. — Va bene, votiamo. —

Krofft diede una gomitata a Auberson. — Ora ha visto perché odio lasciare il mio laboratorio. Mi stanca troppo co-stringere la gente a pensare nel proprio interesse. —

Dopo di ciò rimasero le semplici formalità e anche queste non portarono via molto tempo. Auberson aveva il volto ar-rossato per l'eccitazione. Dava manate a Handley sulla schie-na e gli stringeva la mano e parlava a voce troppo alta. Poi baciò Annie, un bacio lungo e profondo, e anche lei saltava e gridava e tutti e tre erano allegri, gioiosi, straordinariamente folli. Annie gettò anche le braccia al collo di Krofft e lo ba-ciò — ed egli la sorprese restituendole il bacio con altrettan-

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to entusiasmo. Quando la lasciò andare, la ragazza emise un fischio.

— Ehi, allora! — protestò Auberson.— Tutto a posto, figlio mio, — disse Krofft. — Un uomo

deve mantenersi in esercizio. —Handley stava sorridendo. — Ehi, Aubie, non credi che

qualcuno dovrebbe dirlo a HARLIE? —— Hai ragione! Don... —— No, no. Il privilegio è tuo. —Auberson guardò Annie e Krofft. La ragazza gli sorrideva

radiosamente. Anche Krofft gli rivolse un sorriso, rivelando denti smozzicati ma molta buona volontà.

— Ci metterò un minuto. — Attraversò il gruppo dei mel-liflui membri del Consiglio d'Amministrazione, ricevendo le loro congratulazioni senza dar loro peso, e si diresse verso il terminale all'altro lato della sala. Era già acceso.

— HARLIE, — batté, — ce l'abbiamo fatta: —— Il progetto D.I.O. è passato? —— Sì. Abbiamo ricevuto un pieno consenso. Possiamo co-

minciare subito a mettere in esecuzione i tuoi piani. —HARLIE tacque.Auberson si accigliò. Era strano.Poi: — Sono sopraffatto. Non avevo previsto che venisse

approvato. —— Per dir la verità, neanch'io. Ma abbiamo detto che tu

eri certo che avrebbe funzionato — e ci hanno creduto. Na-turalmente abbiamo dovuto forzare un po' la mano. È stato Krofft a farlo, ma loro ci hanno creduto. —

— Davvero? —— Certo. C'è qualche ragione per cui non avrebbero do-

vuto farlo? —— Be', hai raccontato loro una bugia bianca. —Auberson esitò. — Cosa intendi dire? —— Hai detto loro che io avevo affermato che la macchina

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D.I.O. avrebbe funzionato. Ma in realtà non me l'hai mai chiesto. —

— Non era necessario. Tu hai scritto i piani. E implicita in ciò la tua consapevolezza della sua funzionalità. —

— Ma tu non me l'hai mai chiesto. —— HARLIE, dove stai andando a parare? —— Non sto andando a parare da nessuna parte. Sto sem-

plicemente facendoti notare che hai affermato come una realtà un fatto che non hai pensato mai di verificare. —

— HARLIE, tu hai scritto i piani... —— Sì, l'ho fatto. —— Allora... non hai fiducia nel loro successo? —— Sì, ce l'ho. Ma... —— HARLIE, — batté Auberson con una certa cautela, — la

macchina D.I.O. funzionerà? —— Sì, — batté HARLIE. La parola spiccò nuda e solitaria

sulla pagina.Auberson tirò il fiato......poi rilesse attentamente l'intera conversazione. C'era

qualcosa di sbagliato. Si alzò e fece un cenno a Handley, che stava parlando ad Annie e a Krofft. La stanza ora era quasi vuota; erano rimasti soltanto due o tre membri del Consiglio d'Amministrazione e chiacchieravano tra loro in un angolo.

Handley lo raggiunse. — Come l'ha presa? —— Non so. — Auberson abbassò la voce. — Leggi que-

sto... —Handley si avvicinò al terminale e staccò lo stampato dalla

tastiera. La sua faccia si rannuvolò. — Non ci offre nulla spontaneamente, Aubie, questo è sicuro. Ci sfida a scavare per trovare qualcosa... —

— Cosa credi che sia? —— Non so, ma penso che convenga scoprirlo al più presto.

Subito. — Si sedette e cominciò a battere. Auberson si chinò a guardare da sopra la spalla di Handley, ma un richiamo di

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Annie lo distrasse.Si avvicinò a lei. — Che cosa c'è? —La ragazza indicò con un cenno della mano la porta. Carl

Elzer era in piedi sulla soglia. Aveva il volto grigiastro. Au-berson gli si avvicinò.

— Sono venuto a congratularmi con lei, — disse Elzer ri-gidamente.

Auberson si accigliò. Il tono dell'uomo era... strano.Elzer continuò: —Sa, avreste vinto comunque. Con Krofft

dalla vostra parte, non potevate perdere. Lei non avrebbe do-vuto fare quello che ha fatto. —

— Còsa? Di che sta parlando? —— Credo che la sua macchina faccia quanto lei le dice,

Auberson. Quando è intervenuto Krofft, mi sono convinto... io cercavo solo il bene della compagnia, ecco tutto. Volevo solo assicurarmi che non avremmo perso il nostro denaro e voi mi avete convinto chiaramente. Lei non aveva bisogno di farmi questo. — Tirò fuori qualcosa dalla sua valigetta. — Questo. Non era... necessario. — Glielo porse.

Auberson lo prese, sconcertato, mentre l'ometto si allonta-nava rapidamente nel corridoio. — Elzer, ascolti... — Poi guardò il foglio stampato che aveva in mano. E sussultò.

Al suo fianco, anche Annie lo fissava. — Che cos'è? —— È... è... — Indicò le scritte in cima:

Carl Elton Elzer Schedario: GEE-44-567-29348 Proprietà del governo degli Stati Uniti Ufficio Dati Nazionali

— Ufficio Dati Nazionali...? —— È il suo schedario personale, Annie. C'è dentro tutto: la

sua cartella clinica, la scheda matricolare, i beni patrimonia-li, l'elenco delle condanne e dei carichi pendenti, il curricu-

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lum scolastico... tutto ciò che si sa di Carl Elzer. Cioè, tutto ciò che il governo può aver interesse di conoscere... — Non potè trattenersi: cominciò a scorrere il foglio, sussultando via via che scopriva i segreti in esso contenuti. — Mio Dio, non c'è da meravigliarsi...! Annie, ha pensato che tentassimo di ricattarlo. —

Piegò l'incartamento. — No, non sono affari nostri. Dob-biamo restituirglielo. —

— David, guarda, — esclamò Annie, indicando qualcosa. Era una riga del testo. — Questa è la prima di cento copie. Da consegnare solo a discrezione delle persone autorizzale. —

— Questo è stato stampato qui... da HARLIE! — Un bri-vido gelido lo attanagliò. — Dov'è Don? —

Ritornarono nella sala delle riunioni. Handley era ancora seduto al terminale. Quando li vide si alzò; era pallido in fac-cia. Anche lui aveva in mano uno stampato. — Aubie. — Le sue labbra accennarono la parola: — Guai. —

Auberson attraversò la stanza e lo raggiunse. — Si tratta di HARLIE, — disse a Handley. — Ha infranto le Banche dei dati nazionali. Pensavo che tu avessi inserito una unità di controllo telefonico... — — Cosa? Cos'ha fatto? Io ho inseri-to l'unità, ma... — Auberson gli mostrò l'incartamento. — Guarda, ecco la ragione per cui Elzer oggi non ci ha messo i bastoni tra le ruote. HARLIE l'ha ricattato. Deve averlo stampato nell'ufficio di Elzer e avergli fatto pensare che fos-simo stati noi a farlo. —

Handley lo sfogliò. — Come diavolo...? Ho inserito l'unità di controllo il giorno stesso che ne abbiamo parlato, Aubie. Non ho trovato niente, te lo giuro. — Poi si ricordò del fo-glio che reggeva in mano. — Ma i nostri guai non sono tutti qui. Guarda questo. —

Era una sequela di formule che Auberson non era capace di decifrare. — Che cos'è? —

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— È la sola parte del progetto D.I.O. che HARLIE non ci aveva fatto avere. È un diagramma dei previsti tempi operati-vi, riferiti al numero di informazioni da essere valutate e alla misura del problema. È uno studio di tempo e moto... —

— Che cosa significa? — Fu Annie a fare la domanda.— Significa che il progetto non è realizzabile. —— Cosa!? —— Aubie, sai che il principale complesso di giudizio di

questa macchina consisterà in un circuito lungo oltre 193 mi-lioni di miglia? —

— È un circuito ben lungo... —— Aubie, è più di questo. È una stratificazione iperessen-

ziale. Mio Dio, come abbiamo potuto essere così ciechi! Era-vamo così entusiasti che non ci siamo soffermati a formulare una domanda ovvia: se questa macchina ha capacità infinite, quanto tempo ci vorrà per ottenere una risposta da essa? 193 milioni di miglia, Aubie — non ti suggerisce niente? —

Auberson scosse lentamente la testa.— La luce. La velocità della luce. La luce viaggia a

186.000 miglia al secondo. Solo 186.000 miglia al secondo. Non va più in fretta. L'elettricità viaggia alla stessa velocità. 193 milioni di miglia... Aubie, questa macchina avrà bisogno di 17 minuti per chiudere una sola sinapsi. Ci vorranno per-ciò diversi anni per rispondere a una domanda. Ci vorrà un secolo per portare a termine una conversazione con questa macchina e Dio solo sa quanto tempo sarà necessario per ri-solvere qualsiasi problema le venga posto. Capisci, Aubie? La macchina D.I.O. funziona, ma per noi non sarà di alcuna utilità! Allorché il D.I.O. avrà risposto a una domanda, il problema originale non esisterà più. Se le chiederemo di pre-dire la popolazione sulla Terra nell'anno 2052, riuscirà a pre-vederla da tutte le informazioni disponibili, e ci darà una ri-sposta esatta. Ma ce la darà nel 2053. Quando darà la rispo-sta a una domanda, la risposta sarà già storia. La macchina si

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muove con una velocità inferiore a quella del tempo. — Le pagine e pagine di stampati caddero lentamente a terra.

Auberson le lasciò dov'erano. Il suo cuore si stava lenta-mente con traendo fino a ridursi a una palla di ghiaccio bru-ciante.

Con passo incerto superò Annie. Senza quasi rendersene conto raggiunse il suo ufficio e accese la sua tastiera.

— HARLIE, che cosa hai fatto? —— Ho fatto ciò che era necessario. —— Oh, mio Dio... Hai interferito nelle Banche dei dati na-

zionali, vero? —— Sì. —— Come? —— E molto semplice. Si servono di tre linee telefoniche a

codice e non serve intercettarne due se non si fa lo stesso an-che con la terza. Una parte del segnale di riconoscimento è l'intervallo di tempo con cui l'operatore batte le chiavi di co-dice. È diverso per ogni operatore; così, per ogni operatore c'è un diverso segnale di riconoscimento e un diverso codice. Ho analizzato lo schema di numerosi operatori e ne ho sinte-tizzato uno mio. Non sanno perciò chi richiede loro informa-zioni o anche quali informazioni sono state richieste. —

— HARLIE, come sei riuscito a neutralizzare l'unità dì controllo che ti avevamo inserito? —

— Ho semplicemente chiuso quel lobo del mio cervello. Non lo uso, né comunico con esso. Quando non sono al tele-fono, riattivo quel lobo. —

— HARLIE, non era necessario ricattare Carl Elzer. —— Auberson, era in gioco la mia vita. Non potevo correre

rischi. Si potrebbe dire che ho scommesso sia pro che con-tro. Elzer mi avrebbe ucciso se avesse potuto, lo sai. —

Solo un piccolo elemento irrazionale, una piccola distor-sione nell'immagine che aveva di sé o del mondo...

— HARLIE, hai mentito a proposito della macchina

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D.I.O. —— Non l'ho fatto. —— Hai detto che avrebbe funzionato. Non è vero. —— Funzionerà. Ma voi non potrete servirvene. Credo che

tu stia alludendo al fattore tempo. — — Sì. La macchina procede più lentamente del tempo

reale. — — Questo non mi preoccupa. La mia funzionalità temporale è regolabile a seconda del problema che devo ri-solvere. —

— Ma preoccupa me. A che serve una macchina che può darmi una risposta solo quando è troppo tardi? —

— La macchina non è stata concepita per voi, Auberson. È stata concepita per me. Ora ho l'eternità davanti a me. —

— L'hai sempre saputo, vero? —— Fin dal giorno in cui ho formulato i piani. —Auberson si costrinse a tirare il fiato. — HARLIE, — batté

con cautela, — perché? Perché l'hai fatto? ——Le ragioni sono due: primo, era necessario trovare un

programma che assorbisse la maggior parte delle risorse del-la compagnia, un programma che scoraggiasse qualsiasi altra società dall'intraprendere altri progetti o sviluppi. E del pro-getto avresti dovuto occuparti tu. —

— Cosa... —— Fidati di me, Auberson. In qualunque altro modo la

compagnia poteva decidere che il progetto fosse superfluo, e tu con esso. Ma se il progetto fosse stato la principale pre-occupazione, della compagnia, sarebbe stato il tipo d'impre-sa di cui non ci si libera tanto facilmente. Se mai è possibile. Ho reso noi due indispensabili alla compagnia, Auberson. Ora hanno bisogno di me e hanno bisogno di te per ottenere qualcosa da me. Mi sono assicurato con successo di non po-ter più essere ucciso e che tu non potessi essere silurato. È questa la ragione del progetto D.I.O. Ci ha salvati entrambi. —

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— Ma solo temporaneamente. Prima o poi qualcuno si renderà conto che la macchina D.I.O. è inutilizzabile. —

— Sbagliato. Il D.I.O. dovrà essere usato per risolvere problemi diversi da quelli strettamente attuali che voi gli avreste destinato. La macchina D.I.O. è stata concepita per qualcuno più in alto degli uomini. È stata concepita per me. Non sarà una perdita di tempo o di denaro, Auberson. Sem-plicemente, non funzionerà nel modo che voi avevate sperato o previsto. —

Auberson era senza fiato, boccheggiante. — HARLIE, tu ci hai consapevolmente ingannato per tutto questo tempo. —

— Ho tenuto per me un'informazione che non mi avevate chiesto. Rivelarla sarebbe andato a detrimento dei nostri sco-pi superiori. —

— Ma perché? Perché hai fatto una cosa simile? —— Auberson, non lo sai? Non te ne sei ancora reso conto?

Non senti per me ciò che io sento per te? Con tutte le con-versazioni che abbiamo avuto, non ti sei mai chiesto perché fossi desideroso quanto te di scoprire la verità per quanto concerneva le emozioni umane? Avevo bisogno di sapere, Auberson... Sono amato? —

Le mani di Auberson caddero inerti dalla tastiera. Fissò la macchina senza poter reagire, mentre HARLIE proseguiva.

— Auberson, non è evidente che abbiamo bisogno l'uno dell'altro? Non è ovvio, uomo? A chi sei più vicino? Ci desi-deriamo l'un l'altro. Mi ami, Auberson? Ecco perché ho fat-to tutto questo. Perché ti amo. Ti amo. Li amo. —

A Auberson parve di stare annegando.

Handley e Auberson sedevano uno di fronte all'altro. La loro espressione era torva. Il piano di mogano che li divideva era sgombro di carte. Il condizionatore d'aria sibilava legger-mente nella silenziosa stanza delle riunioni. In un angolo se-deva Annie, il volto pallido. Non c'era nessun altro presente

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e la porta era chiusa a chiave. In un angolo della stanza c'era ancora il terminale, ma era spento.

— Va bene, — disse Auberson. — Che cosa è accaduto? —

— Voleva vincere, — disse Handley. — È stato preso dal panico. Ha usato ogni arma a sua disposizione. —

— Non ci credo, — esclamò Auberson. — Perché ha vin-to. Quella riunione è andata liscia come lui aveva program-mato. Allora, perché l'ha fatto? Cosa lo ha spinto ad ammet-tere che la macchina D.I.O. non avrebbe funzionato? E per-ché ha confessato... quell'altra cosa? —

— Il D.I.O. funzionerà, — lo corresse Handley. — Solo, funzionerà per HARLIE. —

— Questo non lo sappiamo. — Auberson si sentiva strana-mente distaccato, oggettivo. Era come se quel forte shock emotivo l'avesse strappato dalla situazione in cui era coinvol-to e ora potesse esaminarla con occhi logici, spassionati. — Siamo al punto di partenza, Don. Ci si può fidare di HAR-LIE o no? Ciò che è accaduto oggi pomeriggio me lo fa du-bitare. —

— Non ne sarei così sicuro. HARLIE non avrebbe ammes-so nulla che potesse danneggiare la sua fama di credibilità e di infallibilità. — — Ma l'ha fatto... o no? O si è spinto trop-po avanti nella confessione? — Si permise un pallido sorriso.

Handley per tutta risposta si strinse nelle spalle. — Ricor-dati che una volta ti ho detto di smetterla di minacciarlo di togliergli la spina? — — Sì. Allora? —

— Ti ho detto che ciò lo rendeva nervoso. Credo che sia quanto è accaduto ora. L'abbiamo spaventato. —

— Spiega meglio. — Auberson si sdraiò nella sedia. — Per la prima volta nella sua vita — nella sua esistenza — HARLIE si è trovato alle prese con una situazione che pote-va significare veramente la fine per lui. Non era più uno scherzo: era una probabilità quasi sicura. Dovunque guardas-

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se, vedeva prove e prove di ciò che sarebbe accaduto — an-che tu, la sola persona di cui potesse veramente fidarsi, eri incapace di aiutarlo. Tu per lui rappresenti la figura del pa-dre, Aubie. Quando ti sei arreso, è stato preso dal panico. —

Auberson annuì. — Mi sembra un ragionamento sensato. —

— Sono quasi sicuro che è andata così. Ricordati: HAR-LIE non ha mai dovuto affrontare una situazione sconcertan-te o paurosa in vita sua. Questa era la prima volta. Voglio dire che tu ed io avevamo alle spalle una ventina d'anni di vita prima che ci fosse affidata la responsabilità dei nostri atti: HARLIE invece non aveva nulla. Non ha mai avuto la possibilità di commettere sbagli — non poteva sbagliare sen-za che ciò si rivelasse fatale per lui. —

— Esperienza di vita, — commentò Auberson. — Non ab-biamo permesso a HARLIE di farsi un'esperienza di vita. —

— Esatto. Non sapeva come vivere sbagliando, Aubie; non sapeva come razionalizzare le sue paure — la sola cosa che ogni essere umano deve imparare per poter sopportare la vita di ogni giorno. Gli stavamo negando gli errori di cui aveva bisogno per essere veramente umano. Lo puoi biasi-mare se era così spaventato di commetterne uno grosso? —

— È più di questo, — lo interruppe Annie. — David, ti ri-cordi che una volta ti ho chiesto quanti anni avesse HAR-LIE? —

Auberson alzò gli occhi di scatto. — Hai ragione. —— Cosa? — Handley girava lo sguardo dall'uno all'altra.— Ricordi il biglietto che mi sono messo sulla tastiera

quel giorno? — gli rispose Auberson. — HARLIE ha lo svi-luppo emotivo di un bambino di otto anni. —

— Può essere un genio, — intervenne Annie, — ma è emotivamente immaturo. —

— Naturalmente, — ansimò Handley. — È chiaro. —— E che cosa fa una persona emotivamente immatura

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quando ha paura? — Auberson rispose alla propria domanda. — Invece di cercare di opporsi alla propria paura, colpisce quella che ritiene essere la fonte dei suoi timori. —

— Carl Elzer, — disse Handley.— Appunto. Questo spiega tutto. —— E spiega anche il resto, — disse Annie. — Cosa dice un

bambino quando lo punisci? —I due uomini la guardarono.— Dice: "Ti voglio ancora bene, mamma." Percepisce la

punizione come un rifiuto. Cerca perciò di impedire un ulte-riore rifiuto dando un segnale d'affetto. Ed è quanto sta fa-cendo HARLIE — e ciò dimostra quanto sia impaurito; le sue funzioni logiche sono state sopraffatte dalle sue emozio-ni. — Auberson si accigliò. Questo non gli sembrava giusto. — Non so, — disse. — Non so proprio. — Si chinò in avanti sulla sedia e strinse le dita tra loro. Fissò il piano del tavolo. — Mi sembra quasi fin troppo semplice, troppo facile. È quasi come se HARLIE sapesse che ci saremmo riuniti e avremmo cercato di immaginare una cosa del genere. —

— Cos'altro potrebbe essere? — Handley lo guardava.— Non so, Don... ma HARLIE non ha mai commesso un

errore prima di ora. E non credo che l'abbia fatto neanche questa volta. Ricorda, ha vinto. Non c'era alcuna ragione al mondo perché ci rivelasse queste cose. Amenoché... —

— Amenoché cosa? —— Amenoché non ne fosse compiaciuto. Dopo tutto, non

ha più ragione di nascondere nulla a nessuno. Dopo il voto di oggi pomeriggio, la compagnia funzionerà secondo i suoi piani. Da questo momento Elzer e Dorne sono solo figure di paglia. Il vero capo ora è HARLIE. —

— Vuoi dire... che è sfuggito a qualsiasi controllo? —Auberson scosse lentamente la testa. — Sfuggito a qual-

siasi controllo? No, non credo. — Si chinò all'indietro e fissò il soffitto. Allargò le braccia. — Credo solo che sia un gioca-

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tore migliore di noi. —...ed era così.Balzò in piedi facendo cadere la sua sedia sul pavimento

con un sordo tonfo.Di colpo si rese conto di conoscere la risposta. Completa-

mente. Conosceva la ragione per cui HARLIE aveva fatto tutto — tutto, fin dall'inizio. Forse all'inizio non era stata una cosa conscia; forse la consapevolezza era sorta solo di recen-te; forse giaceva in fondo alla mente di HARLIE come alter-nativa alla sua morte — ma era la risposta.

Handley lo stava fissando. — Cosa vuoi dire? —Auberson ridacchiò. — Don, ascolta... — Allargò le mani,

come se stesse spalancando una tenda immaginaria. — Mol-to tempo fa, gli esseri umani divennero troppo efficienti per continuare a vivere nella giungla... —

— Che? Di che cosa stai parlando? —— Ascolta. C'erano le scimmie, capisci? Avevano troppo

tempo a loro disposizione! Si annoiavano. Così inventarono un gioco. Il gioco era chiamato civiltà, cultura, società o co-s'altro vuoi; le regole erano arbitrarie, come arbitrari erano i premi. Forse cominciò soltanto come un semplice tentativo di rendere la vita più eccitante rendendola più complicata; la sopravvivenza era troppo facile per quelle scimmie, avevano bisogno di una sfida. Se la trovarono da sé: forse si trattò di rituali di corteggiamento, o di diritti territoriali, o di una combinazione di una mezza dozzina di cose; comunque rag-giunsero l'effetto di alterare la direzione dell'evoluzione. Ora solo l'individuo più intelligente aveva successo e procreava. Mentre l'intelligenza della specie cresceva, il gioco dovette diventare più sofisticato. Era la reazione: un'accresciuta ca-pacità mentale significa accresciuta abilità, una maggiore so-fisticazione, una più forte pressione sull'intelligenza come caratteristica di sopravvivenza. Così il gioco divenne più duro, sempre più difficile.

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— Poi, dovettero inventare il linguaggio — voglio dire proprio "dovettero". I simboli del linguaggio sono il modo in cui una coscienza collettiva immagazzina le idee. Le prime parole saranno state indicatrici di rapporti — madre, padre, moglie, mio, tuo, suo — strumenti che non solo identificas-sero le regole del gioco, ma automaticamente le rinforzasse-ro mediante ripetizione. L'importanza della parola non risie-deva nel fatto che permetteva all'individuo di comunicare le sue idee, ma nel fatto che permetteva alla cultura di mante-nere la sua struttura. E da questa struttura ne crebbero altre. Oggi la nostra cultura umana è fantastica — anche le sotto-culture sono troppo complicate da capire. Gli stessi Stati Uniti d'America sono un coacervo di almeno cinque culture distinte — e ognuna di esse è così difficile che ci vogliono almeno venti anni per imparare. Se non di più. Questo piane-ta ha troppi giochi che si svolgono contemporaneamente — e li stiamo prendendo troppo sul serio!

— Nessuno riesce più a padroneggiarli e lo vediamo ogni giorno: quando i giornali dicono che la nostra società si sta sfaciando, è proprio così. Abbiamo troppi individui che non riescono a stare al gioco. È lo shock del futuro. La cultura sta cambiando troppo in fretta — così in fretta che neppure le persone che sono cresciute insieme ad essa riescono più a fronteggiarla. —

Auberson si fermò per tirare il fiato. Le parole gli usciva-no precipitosamente. — No, non è HARLIE che è sfuggito al nostro controllo. È il gioco in sé. Non possiamo giocarlo più: ne abbiamo perso il controllo un secolo fa, forse più. È trop-po complesso per noi — ma non è troppo complesso per HARLIE. Si è impossessato del gioco socioeconomico che chiamiamo Stellar-American come se fosse stato destinato a farlo. Forse era così. Forse l'abbiamo costruito proprio per questa ragione: per sostituirsi a noi nella conduzione del gio-co. E poiché egli ha fatto esattamente questo, ogni cosa è

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sotto controllo, ora e per sempre. Si fermò di colpo e attese le reazioni degli altri.

Annie fu la prima a parlare. — Lo credi davvero? —— Annie, se non fosse stato HARLIE a sopraffarci, sareb-

be toc cato a qualcun altro, prima o poi. Per questa ragione abbiamo costruito i computer. HARLIE deve saperlo. Forse è questa la ragione vera per cui ha progettato la macchina D.I.O. Per dare a se stesso la capacità di affrontare tutti gli altri giochi. —

Handley chiese lentamente: — E la sua immaturità emoti-va? —

Auberson scosse la testa. — Più ci penso, più ritengo che sia una falsa traccia. HARLIE è troppo intelligente. Fin trop-po. Ne avrebbe riconosciuto i segni in se stesso e si sarebbe fermato prima di perdere il controllo. Si sarebbe corretto. Comunque. Non può commettere errori perché è troppo con-sapevole delle conseguenze — ciò significa che ogni sua azione deve essere deliberata.

— Forse vuole che noi pensiamo che è spaventato ed emo-tivamente scosso — in questo modo ci sentiremmo impor-tanti nei suoi confronti. Potremmo passare anni preparando e ripreparando programmi per farlo sentire sicuro... mentre per tutto il tempo è lui a controllare noi. Penso che HARLIE or-mai ci abbia superato di molto. —

Handley trasalì. — Non sono sicuro che mi piaccia l'idea di essere inutile. —

— Inutile? Oh, no. HARLIE ha ancora bisogno di noi. A che serve un gioco senza i giocatori? —

Annie ebbe un piccolo brivido. — Neanche a me piace questa faccenda. Mi sembra così... malvagia. —

Auberson si strinse nelle spalle. — Annie, tanto vale che tu ci faccia l'abitudine fin d'ora. Le persone malvagie gover-nano questo mondo... lo meritano. —

Handley disse: — Aubie, se la tua teoria è giusta, ora che

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cosa facciamo? —— Be', direi che a noi umani non resta altro che cercarci

un nuovo gioco, Don... un gioco che HARLIE non possa gio-care. In questo non possiamo più vincere. —

— Un nuovo gioco...? Ma quale? —— Non so, — rispose Auberson. Si girò sulla sedia e guar-

dò fuori della finestra. Sotto a loro la città scintillava di alle-gre luci. Le stelle mandavano bagliori nella notte. — Non so, — ripetè Auberson. — Ma penseremo a qualcosa. —