Frosina. Cronache del Bosco di Pruni

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Silvia Baleri, fantasy, young adults. Frosina è pura e innocente, una creatura dei boschi bellissima e libera come l’aria, vittima però di una terribile maledizione che la tiene prigioniera di una doppia vita: unicorno di giorno e ragazza di notte. Armata di tanto coraggio e con l’aiuto del Principe Lidio, che la ama e che per lei farebbe qualsiasi cosa, Frosina inizia un viaggio colmo di insidie e di pericoli attraverso il leggendario Bosco di Pruni, alla ricerca di un modo per spezzare la maledizione.

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In uscita il 29/4/2016 (14,50 euro)

Versione ebook in uscita tra fine maggio e inizio giugno 2016

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SILVIA BALERI

FROSINA CRONACHE DEL BOSCO DI PRUNI

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FROSINA. CRONACHE DEL BOSCO DI PRUNI Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-981-4 Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Aprile 2016 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

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CAPITOLO 1 C’era una volta, tanto tempo fa, in un regno lontano, un re sag-gio e potente che aveva due figli: Vittorio e Lidio. I due principi erano gemelli, venuti al mondo lo stesso giorno e perfettamente identici. I capelli di entrambi erano neri come le ali di un corvo, folti e morbidi. Entrambi avevano gli occhi scu-ri e profondi, e un portamento da nobili. Chi li conosceva poco sosteneva che fossero due gocce d’acqua quasi impossibili da distinguere; chi invece li conosceva bene sapeva trovare in loro ogni più piccola differenza. Vittorio era leggermente più basso di Lidio, con i capelli più corti e le braccia più muscolose. Inoltre aveva uno sguardo tru-ce, da uccello rapace, per nulla simile allo sguardo buono e u-mile del fratello. Lidio era un ragazzo tranquillo e leale. Di rado litigava con qualcuno, ed era sempre pronto ad aiutare il prossimo. Amava moltissimo gli animali e la natura, andava spesso a ca-vallo e si fermava a parlare con la gente del paese. Anche se era il principe, aveva un profondo rispetto per il suo popolo di con-tadini. «Non perdere tempo con quegli straccioni, fratellino!» escla-mava Vittorio, schernendolo. «Non sono straccioni» spiegava pazientemente Lidio. «Sono brava gente e sanno fare un mucchio di cose. Loro non sono come noi. Noi viviamo a palazzo e abbiamo tutto. Loro si sanno arrangiare, quello di cui hanno bisogno se lo procurano da soli. Sanno costruire, sono artigiani, boscaioli, agricoltori. Portano a pascolare le capre e sanno fare il formaggio». Vittorio sbuffava: «E allora?».

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«E allora penso che dovremmo trattarli con rispetto e imparare da loro molte cose». Vittorio alzava sempre gli occhi al cielo quando Lidio parlava in quel modo; non lo sopportava. Venne poi il giorno in cui i due fratelli compirono diciotto anni. Re Cornelio li mandò a chiamare e i due Principi si presentaro-no al cospetto del padre. Erano ormai due giovanotti alti e forti, belli da mozzare il respiro. Vittorio aveva la brace incandescente negli occhi, e un mantello rosso come il sangue. Tutto in lui strillava guerra, morte, di-struzione. Era un giovane uomo fiero e combattivo. Al suo fianco Lidio indossava un mantello blu notte, e i suoi occhi erano pieni di stelle. Fissò il padre, e quando parlò, la sua voce era calma come l’acqua sciaguattante di un lago: «Che succede papà?». Re Cornelio, seduto sul suo trono, si schiarì la voce e disse: «Sono vecchio, figli miei. Ho governato a sufficienza. Molto presto mi farò da parte, e uno di voi due prenderà il mio posto come nuovo Re». La brace negli occhi di Vittorio mandò scintille di bramosia: «Ti prego, papà. Lascia che sia io il tuo successore. Non te ne pentirai». Re Cornelio squadrò dall’alto in basso il suo ragazzo, uno splendido principe guerriero: «Ammiro molto la tua impazienza Vittorio; ma non dimenticare tuo fratello Lidio. Voi due siete nati insieme, lo stesso giorno, in una notte buia e piovosa come poche. La vostra povera madre patì le pene dell’inferno e morì, ma non prima di avervi messo al mondo. Non possono esserci due Re, così come non possono esserci due soli a illuminare lo stesso cielo. Andrebbe contro l’ordine naturale delle cose. Un solo principe deve essere incoronato, e poiché oggi avete en-trambi compiuto diciotto anni, dovrete superare una prova». Lidio si fece attento: «Che genere di prova?». «Dovrete recarvi nel bosco di pruni e catturare un unicorno».

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Cadde nella sala del trono un profondo silenzio. Vittorio e Lidio conoscevano bene il bosco di pruni, ma non ci erano mai stati. Sapevano che era popolato da strane creature mitologiche e pagane, disprezzate dalla chiesa. La maggior parte della gente non voleva mettere piede in quel bosco. Nessuno si fidava delle creature misteriose. I pochi che vi si erano avventurati raccontavano di fate minuscole come zanzare, streghe maligne, draghi ricoperti di foglie e persino di una casa di marzapane! Sugli unicorni si sapeva gran poco. I più li descrivevano come cavalli bianchi dotati di un alicorno in mezzo alla fronte. Era proprio l’alicorno a rendere questa creatura speciale e unica nel suo genere. L’alicorno, infatti, aveva poteri curativi; era in gra-do di guarire qualsiasi tipo di ferita. Nessuno era mai riuscito a catturare un unicorno vivo, e nessu-no aveva mai sperimentato i poteri curativi dell’alicorno. Gli unicorni erano troppo timidi per uscire allo scoperto, e se per caso avevi la fortuna di incontrarne uno, lo vedevi sparire alla velocità della luce. Qualcuno sosteneva che solo le vergini erano in grado di avvi-cinarli, ma il Principe Vittorio era convinto che fosse solo una diceria. Lidio ritrovò la voce e chiese: «Perché vuoi un unicorno, pa-pà?». «Perché ho sempre desiderato averne uno come trofeo» rispose Re Cornelio con un sorriso sognante. «Non sarà facile catturarlo» disse Vittorio, pensieroso. «Lo so» convenne il Re. «Per questo sarà la vostra prova. Chi di voi due riuscirà a catturare l’unicorno per primo, e a portar-melo vivo, diventerà il nuovo Re». Il Principe Vittorio si leccò le labbra con fare perfido: «Faccio preparare subito il mio cavallo. Avrai il tuo unicorno, papà. Te lo prometto».

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Vittorio fece un bell’inchino al re e si congedò. Rimase solo il Principe Lidio, con un’espressione di disappunto dipinta sul volto. «Qualcosa non va, Lidio?» domandò il Re, fissando con affetto il suo ragazzo dal cuore d’oro. Lidio sorrise leggermente: «Non sono convinto di questa pro-va». «E perché mai?» chiese il Re. «Perché l’unicorno è un essere così puro e innocente! E poi ap-partiene al bosco di pruni. Catturandolo ne pagheremo il prez-zo, ne sono certo. Sempre se riusciremo a catturarlo, s’intende». Re Cornelio mise subito il broncio; era saggio e potente, ma anche molto permaloso: «È solo una creatura pagana senza a-nima. Hai paura di un essere senza anima, figliolo?». «No. Ho paura dell’ignoto». Il re sorrise cercando di essere comprensivo: «Sei bravo di spa-da ed eccelli nel tiro con l’arco. Non hai nulla da temere. Fa sellare il tuo cavallo e parti al più presto. Sarà una bella sfida, e sono proprio curioso di sapere chi vincerà». Il Principe Lidio annuì suo malgrado e dopo essersi congedato, andò a prepararsi. Quella notte non chiuse occhio; era molto agitato, e anche se sapeva che una buona dormita gli avrebbe fatto bene, non riuscì a prendere sonno. Si rigirò più volte nelle coperte fino a quando non giunse l’alba. Lidio si alzò finalmente dal letto, indossò i suoi abiti da caccia-tore e consumò una frugale colazione in compagnia di Vittorio che si divertiva un mondo a provocarlo: «Sarò io a vincere, fra-tellino!». «Non si parla con la bocca piena» fu l’unico commento di Li-dio; infatti, al contrario di lui, Vittorio si stava concedendo una colazione da re. Quando fu il momento di partire, i due giovani montarono sui loro cavalli e il re venne a dar loro un ultimo saluto: «Mi rac-

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comando. Fate molta attenzione e non deludetemi. Siate furbi e accorti. Avete imparato a combattere, a cacciare, a non avere mai paura. Portatemi l’unicorno e il trono sarà vostro». Quelle parole infervorarono il giovane Vittorio, che subito fece impennare il suo stallone e partì al galoppo verso il bosco di pruni. Lidio se la prese comoda. Diede della biada al suo cavallo, lo accarezzò a lungo e lo portò al trotto per farlo riscaldare. Il cavallo sbuffò felice; amava il suo padrone. Nel giro di mezz’ora Lidio arrivò ai margini del bosco di pruni e fermò il cavallo, tirando piano le redini. Tutt’attorno regnava una pace idilliaca, gli uccellini cinguetta-vano melodie incredibili e il profumo dell’erba bagnata era me-raviglioso. Il bosco di pruni non aveva nulla di minaccioso o inquietante; pareva il paradiso delle fate. Il verde luminoso delle foglie era quasi surreale, qualche raggio di sole forava il bosco dall’alto andando a creare macchie di lu-ce, poco lontano scorreva un ruscello, e uno scoiattolo rosso balzò agilmente da un ramo all’altro reggendo tra i denti una ghianda. Il principe smontò da cavallo e decise di proseguire a piedi, da solo, con il suo arco e le frecce. Il cavallo l’avrebbe aspettato, fedele come sempre. Lidio camminò adagio sul tappeto d’erba del bosco come se avesse paura di fare rumore. Rammentò alcune vecchie storie che la balia gli aveva raccon-tato da bambino su quel posto. Storie magiche e terribili di ra-gazze condannate a dormire per sempre, storie di draghi feroci, storie di orsi bruni che abitavano in case da umani e prendeva-no il tè nelle tazzine, storie di streghe che mangiavano i bambi-ni! Lidio rabbrividì, ma proseguì, silenzioso e attento.

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Passò lentamente un’ora e cominciò ad avere fame. Si sedette contro il tronco di un albero a sgranocchiare una mela. Gli par-ve di sentire l’albero sussurrare qualcosa, ma decise di non farci caso. In quel bosco gli alberi sapevano essere dei gran chiac-chieroni, gli aveva raccontato la balia, perciò la cosa migliore da fare era fingere di non sentirli, proprio come si fa a volte con certe persone. Lidio proseguì instancabile la sua ricerca. Non gli capitò d’incontrare nessuna delle creature misteriose di cui si parlava tanto. Nel bosco di pruni c’era vita, eppure sembrava disabitato. Lidio si fermò nei pressi di un lago per riposarsi. Camminava ormai da diverse ore e stava seriamente pensando che quella era un’impresa impossibile, quando all’improvviso lo vide: un uni-corno. Per poco non cadde a terra dallo stupore improvviso. L’unicorno distava una manciata di metri da lui e non si era an-cora accorto della presenza del principe. Osservandolo attentamente, Lidio arrivò presto alla conclusione che non somigliava per nulla a un cavallo; non del tutto alme-no. Aveva zampe snelle e sottili, una coda simile a quella del leone, un muso dolce da cerva e una criniera lunga fino a terra, riccia, come se fosse formata da tanti trucioli di legno. L’alicorno in mezzo alla sua fronte saliva a spirale e terminava in una punta acuminata. La creatura agitava con grazia le orecchie e si muoveva lieve come un fantasma. Emanava purezza e innocenza, ma allo stes-so tempo era uno spirito selvatico dei boschi, una potenza della natura. La sua bellezza toglieva il fiato e le forze. Era una fiera indo-mabile, libera. I suoi occhi erano umidi come se fosse sempre sul punto di piangere, e c’era un qualcosa di possente nella sua fragilità. Il principe prese una freccia, deciso a colpire la creatura.

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Ancora non ci credeva. Aveva trovato l’unicorno, ce l’aveva a pochi metri di distanza e ancora non era fuggito. La fortuna gli aveva sorriso e prima che facesse buio sarebbe stato il nuovo Re; ma più passavano i minuti e più il principe non si decideva a scoccare la freccia. Vide la creatura chinare il bel collo lungo e intingere la punta dell’alicorno nell’acqua cristallina del lago. Tra le increspature dell’acqua apparvero delle immagini e l’unicorno rimase chino con il collo a fissarle. Era bello e concentrato, e aveva un’espressione pacifica dipinta sul muso. Il Principe Lidio si sporse un poco oltre il cespuglio dietro cui se ne stava nascosto per cercare di vedere le immagini tremo-lanti nel lago, ma era troppo lontano e così decise di stare fermo per non far scappare l’unicorno. Era così bello che non voleva che fuggisse. Di colpo una freccia spuntò dal nulla e colpì l’unicorno in mez-zo al petto. Lidio sobbalzò, come se la freccia avesse colpito anche lui. Quello che si levò dall’unicorno non fu affatto un nitrito, bensì un grido, un fischio angosciato che ferì le orecchie e il cuore di Lidio. Il povero unicorno si piegò sulle zampe anteriori ed emise una serie di piccoli gemiti. Si accasciò tremante su un fianco e lì rimase, con la punta della freccia conficcata nel candido petto sanguinante. Vittorio saltò fuori dal suo nascondiglio con un urlo di gioia, e tenendo stretto l’arco, corse verso l’unicorno agonizzante. Anche Lidio uscì dal cespuglio, e non appena Vittorio lo vide, non riuscì a trattenere le risa di scherno: «Che cosa aspettavi a colpirlo? Potevi diventare il Re, Lidio, ma hai avuto pietà di questo volgare ibrido, e la pietà è solo una debolezza!». Lidio non ribatté in alcun modo. Fissò dall’alto l’unicorno splendente, mormorando: «Era così bello…».

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Vittorio alzò gli occhi al cielo, prese una fune e legò strette le zampe dell’unicorno, caricandolo sul dorso del suo cavallo. Non si preoccupò di togliergli la freccia dal petto; la lasciò con-ficcata dov’era. I due Principi fecero ritorno al castello. Per tutto il tragitto Vit-torio non fece che gridare e vantarsi, ridendo a crepapelle come un ragazzino. Re Cornelio aspettava i suoi figlioli all’ingresso del castello. Era impaziente e non vedeva l’ora di posare gli occhi sull’unicorno. I due Principi giunsero a destinazione, e in molti accorsero per vedere l’unicorno di persona. I bambini strillavano perché volevano toccarlo, ma le madri glielo impedivano: «È un essere malefico, porta sfortuna!». Molti uomini fissarono avidi il bellissimo alicorno a spirale, bi-sbigliando tra loro: «Con quello ci si può curare da ogni tipo di male, e riportare in vita i propri cari defunti». Vittorio e Lidio varcarono i confini del castello, e il re venne loro incontro con un sorriso raggiante. Volle per primo salutare e baciare il suo Vittorio: «Il trono è tuo, ragazzo. Domattina sa-rai incoronato in mezzo alla piazza, e si farà una grande festa, ma prima lasciami guardare il mio trofeo!». L’unicorno respirava piano, silenzioso; la freccia si alzava e si abbassava a ogni respiro, come se fosse ormai diventata parte di lui. Soffriva in silenzio, con gli occhi umidi e semichiusi. Era bellissimo anche da morente. Lidio si sentì struggere il cuore. «Avresti potuto colpirlo prima di me, fratellino, ma non l’hai fatto!» esclamò all’improvviso Vittorio. Re Cornelio strabuzzò gli occhi: «È la verità, figliolo?». «Sì, papà» rispose con calma Lidio. «Non voglio questa bestia sulla coscienza». Il re ammutolì. Sapeva benissimo che Lidio era sempre stato un ragazzo buono e sensibile, ma non per questo una donnicciola. Era perfettamente in grado di difendersi e combattere. Di colpo

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il re si domandò se fosse stato saggio cedere il trono a un ra-gazzo arrogante e vanesio come Vittorio invece di donarlo al buon Lidio; tuttavia non poteva rimangiarsi la parola data, così sorrise ai suoi figlioli e disse a Vittorio: «Porta l’unicorno nelle stalle reali. Entro domattina sarà morto e allora potremo strap-pargli l’alicorno dalla fronte». Lidio aveva sentito dire che sbriciolando l’alicorno si poteva ottenere una polvere finissima in grado di curare ferite e malat-tie. Vittorio trascinò tutto fiero la sua preda nelle stalle reali, ve la chiuse dentro e tornò al castello per rifocillarsi. Giunse la notte con il suo manto di stelle e un freddo da attorci-gliare le budella. Ancora una volta Lidio non riuscì a prendere sonno. Il fuoco nel camino era quasi spento, e il ragazzo balzò fuori dalle co-perte per tendere le mani verso i tizzoni ardenti e scaldarsi un po’. Con la mente ritornò all’unicorno rinchiuso nelle stalle rea-li. Sicuramente sarebbe morto prima che spuntasse il sole. Quel pensiero non gli dava pace e lo faceva sprofondare nello scon-forto più totale. Allora decise di andare a fargli visita. Voleva vederlo un’ultima volta prima che morisse. Si avvolse in un mantello e prese una lanterna. Uscì quatto quatto dalla sua stanza e percorse il corridoio senza fare alcun rumore. Per eludere la sorveglianza delle guardie, usò un pas-saggio segreto che portava direttamente alle stalle reali. Le stalle reali erano molto accoglienti, munite di stufa per tene-re al caldo gli animali durante il gelido inverno. Da quelle parti l’inverno mieteva vittime quasi quanto la peste. Il Principe Lidio posò a terra la lanterna e si guardò attorno. I cavalli del re dormivano pacifici; c’era persino una grossa muc-ca che faceva del buon latte e una gallina che si diceva depo-nesse uova d’oro. Ovviamente era solo una diceria del paese. A un tratto si udì un sussurro: «Aiutami». Il Principe Lidio quasi fece cadere la lanterna dallo spavento.

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Il sussurro tornò come uno spiffero: «Ti prego, aiutami». «Chi ha parlato?» chiese Lidio, spaventato a morte. Forse si trattava di un fantasma! «Sono qui» sussurrò di nuovo la voce misteriosa. Lidio prese coraggio e camminò in avanti, facendo luce con la lanterna. Quello che vide lo lasciò a bocca aperta. Lì, su un pagliericcio, giaceva una bellissima fanciulla comple-tamente nuda e con una freccia conficcata in mezzo al petto, tra due giovani seni candidi e sporchi di sangue. La fanciulla fissò il giovane con occhi umidi e azzurri, così az-zurri da sconvolgere. I suoi capelli erano lunghissimi, arricciolati come tanti trucioli, e biondi, così biondi da sembrare fili d’oro racchiusi nel cristal-lo. Le sue labbra erano rosse come le fragoline di bosco e la sua bellezza feriva gli occhi. «Aiutami…» supplicò di nuovo la ragazza, e questa volta Lidio non perse tempo. S’inginocchiò ai piedi del pagliericcio e prese la freccia tra le mani: «Ora devi stringere i denti. Non urlare o sveglierai tutto il castello». «Mi prometti che farai in fretta?» gemette la fanciulla, chiu-dendo gli occhi. Lidio annuì, profondamente addolorato per lei: «Te lo promet-to». Con uno scatto fulmineo, Lidio estrasse la punta della freccia dalle carni della ragazza, ed ella non emise un solo strillo. Serrò le palpebre e si lasciò sfuggire un lamento tra i denti. Premette le manine sulla ferita aperta e sanguinante e tornò a rilassarsi. Somigliava a un angelo. Lidio si rese conto che sa-rebbe morta molto presto. «La freccia ti ha trafitto il cuore» disse il principe. «Lo so» ammise la fanciulla. «Non sono stata molto fortunata. A ogni modo, grazie». «Per cosa?».

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«Per non avermi colpita». Lidio le posò una mano sulla fronte, accarezzandola: «Sei tu l’unicorno?». La fanciulla annuì debolmente. Il principe non voleva lasciarla morire, ma la ferita era molto grave; allora ricorse a una soluzione estrema: «Ti darò un pezzo del mio cuore. Sanerà il tuo cuore ferito e ti permetterà di con-tinuare a vivere!». La fanciulla spalancò gli occhioni azzurri e tristi: «Non sei co-stretto a farlo. Non voglio privarti di un pezzo del tuo cuore». «Tu l’hai già preso un pezzo del mio cuore» disse il principe. «Dal momento che ti ho vista». Fu così che il principe salvò la ragazza unicorno da morte certa; le donò un pezzo del suo cuore e con pazienza le ricucì la ferita. Poi corse a prendere una coperta e gliela avvolse intorno al cor-po nudo e infreddolito. La ragazza si sentì subito meglio. «Hai fame?» chiese il principe. La ragazza annuì. Allora il giovane prese uno sgabello e si se-dette a mungere la mucca, come gli avevano insegnato i conta-dini del paese. Mise il latte in una scodella di legno e la porse alla fanciulla: «Bevi. Appena munto è bello caldo». La ragazza sorrise dolcemente e prese la scodella tra le mani. Bevve il latte caldo e cremoso, mentre Lidio la fissava rapito. Non aveva mai visto in tutti i suoi diciotto anni una fanciulla così bella, pura e delicata. «A proposito. Io mi chiamo Lidio». La fanciulla non disse niente; posò la scodella vuota di fianco al pagliericcio e si fissò i piedini nudi, sporchi di terra. «Tu… come ti chiami?» azzardò Lidio. La ragazza attese un po’ prima di rispondere: «Frosina». Lidio trasalì. Era un nome delicato e spinoso come una rosa. Faceva pensare al tramonto rosso sulla neve, o ai frutti di bosco maturi, o ai ruscelli che scivolavano giù dalle montagne. Mai al

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mondo aveva udito nome più bello. Sulle prime l’aveva fatto sorridere, ma poi, continuando a ripeterselo nella testa, l’aveva trovato perfetto per lei. Era un nome fresco come un bocciolo su cui riposa la rugiada del mattino. «È bellissimo» commentò Lidio. «Grazie» disse Frosina. «Che ci facevi nel bosco di pruni?». «Io vivo lì». «Sei sempre stata un unicorno?». Quella domanda rattristò Frosina: «No. Non sono sempre stata un unicorno». Lidio si accorse di quanto fosse diventata improvvisamente in-felice, e si sentì invadere da una strana rabbia per chiunque a-vesse osato fare del male a una creatura tanto bella e dolce: «Che cosa ti è successo?». Frosina chinò lo sguardo triste a terra e si morse il labbro. Lidio avrebbe tanto voluto darle un bacio. «Ora devo andare» disse di punto in bianco Frosina, e si alzò dal pagliericcio, lasciando cadere ai suoi piedi la coperta. Il suo corpo nudo era candido e fragile come quello di una bambina, ma le forme erano tonde e morbide come quelle di una giovane donna. Lidio la fissò per pochi secondi, i secondi più lunghi della sua vita, prima di abbassare lo sguardo, imbarazzato. Non aveva mai visto il corpo nudo di una ragazza e non riusciva a spiegare il suo inaspettato bisogno di toccarlo, di sfiorare quella pelle candida, quei seni ancora in boccio, di sentire sotto le dita il ca-lore di lei, di averla vicina, di stringerla. Scacciò immediatamente tutti quei pensieri, arrossendo come un pazzo. «Ora tornerò nel bosco di pruni» annunciò Frosina. «Grazie per avermi aiutata». «Aspetta!» esclamò il Principe Lidio, disperato. «Ho bisogno di sapere che ti rivedrò».

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La fanciulla sorrise, intenerita: «Ma certo che mi rivedrai. Ora che mi hai fatto dono di un pezzo del tuo cuore, siamo una cosa sola. Tutte le notti canterò una melodia, e solo tu potrai sentirla. Io ti aspetterò nel bosco di pruni, sulle rive del lago dove tu per primo mi hai veduta e risparmiata. Vieni sempre da solo, non portare nessuno con te e non dire una parola su quanto hai visto stanotte». Il Principe Lidio annuì, serissimo. La fanciulla uscì nel freddo della notte, e in quel preciso istante venne l’alba. Un raggio di sole l’avvolse, e la ragazza si tra-sformò di nuovo nel bellissimo unicorno bianco come la neve e con la criniera riccia, lunga fino a terra. Emise un suono delica-to, simile a un canto, puntò i suoi occhi velati in direzione del principe, e trotterellò via, silenzioso e aggraziato come un cer-vo. Il principe si posò una mano sul cuore, letteralmente incantato. Di colpo ritornò con i piedi per terra; doveva lasciare immedia-tamente le stalle reali e correre in camera sua, come se nulla fosse accaduto. Doveva fingere di aver dormito profondamente tutta la notte. Raccolse la lanterna e ripercorse il passaggio segreto, desidero-so di stendersi sul suo letto dopo tutte quelle intense emozioni. I raggi del sole abbracciarono il paesello addormentato, la gente si risvegliò, pronta a cominciare una nuova giornata; il castello mandò bagliori folgoranti, e il Principe Lidio si coricò final-mente nel suo letto. L’urlo furibondo di Vittorio fu la prima cosa che udì quella mattina. Il fratello doveva essersi recato nelle stalle reali, sco-prendo che il suo unicorno era scomparso. Re Cornelio accorse subito insieme ad alcune guardie. Era co-me se non fosse mai stato lì. C’erano solo alcune gocce di san-gue sul pagliericcio.

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«Com’è possibile?» si chiese Vittorio, con le mani tra i capelli. «Dovrebbe essere qui! Dovrebbe essere morto! Io non capi-sco». «Com’è potuto accadere?» fece il Re, meditabondo. «Non può essere svanito nell’aria». «Forse è scappato!» esclamò Vittorio, speranzoso. «Sono certo che non ha fatto molta strada. Lo troverò e lo riporterò qui!». Il Principe Vittorio, più furioso che mai, prese con sé il cavallo più veloce e corse a cercare l’unicorno, ma non riuscì a trovarlo da nessuna parte. Sconsolato, ritornò al castello e il re lo con-vocò immediatamente, insieme a Lidio. Lidio si finse molto stupito quando il re annunciò la fuga dell’unicorno: «Quella bestia ci ha presi tutti per il naso. È scappata nel cuore della notte, mentre noi dormivamo. Per que-sto motivo l’incoronazione di Vittorio è annullata». «Che cosa?» sbraitò Vittorio. «Non è giusto! Io l’avevo pre-so!». «L’avevi preso, ma te lo sei lasciato sfuggire» disse il Re, seve-ro. «Non è colpa mia!» si difese Vittorio. «Non m’interessa. L’incoronazione è annullata. Ci sarà un’altra prova fra qualche giorno, e questa volta spero che non mi delu-derai». Profondamente offeso e ferito nell’orgoglio, Vittorio si conge-dò e uscì in fretta dalla sala del trono. Lidio fece per seguirlo, ma Re Cornelio lo chiamò: «Aspetta, figliolo. Non così in fret-ta. Prima ho da chiederti una cosa». Lido si volse a fissare il padre: «Sì?». Il re lo squadrò attentamente: «Tu non c’entri nulla con la spa-rizione dell’unicorno, giusto?». A Lidio cominciò a battere forte il cuore. Suo padre era sempre stato un uomo molto saggio e intuitivo, a cui non sfuggiva mai niente. «No, papà. Io non c’entro nulla».

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Il re meditò tra sé e sé, poi tornò a rilassarsi sul suo trono: «Ma certo. Che stupido sono stato a pensarlo. Tu non saresti mai ge-loso di tuo fratello a tal punto». «Io voglio bene a Vittorio» disse Lidio, ed era sincero. Non a-veva mai odiato il fratello per nessuna ragione al mondo, anche se con gli anni Vittorio era diventato arrogante e insopportabile. Lidio non osava immaginare cosa gli avrebbe fatto se avesse saputo che era stato lui ad aiutare e far fuggire l’unicorno. La ragazza unicorno! Frosina. Lidio chiuse per un istante gli occhi e provò a immaginarsela. La vide, bella e lucente come la luna. «Puoi andare, figliolo» disse il Re, scuotendolo dai suoi deli-ziosi pensieri. «Grazie, papà» disse Lidio, e dopo aver fatto un bell’inchino tornò nelle sue stanze, con l’immagine di Frosina ancora im-pressa nella mente. Rammentò le parole della fanciulla: loro due erano una cosa so-la. Tutte le notti lei avrebbe cantato una melodia e lui sarebbe arri-vato di corsa per stringerla tra le braccia, per averla vicina, per baciarla… A quel pensiero arrossì violentemente. «A che cosa stai pensando, fratellino?» fece Vittorio alle sue spalle. Il giovane Lidio sobbalzò dalla sorpresa: «Vittorio! Sei tu. Io… non ti ho sentito entrare». «Dovresti fare più attenzione» sorrise Vittorio. «Allora? A che cosa stavi pensando?». Lidio fece spallucce: «A niente di particolare. Certo, la faccen-da dell’unicorno mi ha sconvolto non poco». Vittorio si rabbuiò: «Già. Papà è stato davvero ingiusto con me. Praticamente mi ha dato dell’incapace!». «Sai che non lo sei. Papà esagera sempre».

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«Già. Comunque sono convinto di una cosa. L’unicorno non è fuggito da solo. Qualcuno lo ha aiutato a scappare». Lidio iniziò a sudare freddo mentre Vittorio serrava i pugni: «Giuro che lo ritroverò, e stavolta gli strapperò il cuore».

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CAPITOLO 2 Giunse così l’autunno. Le foglie si colorarono di oro e rame, e cadendo pitturarono il terreno. Era come se i boschi si stessero arrugginendo. Il cielo però era di un azzurro così pulito da non poterlo guardare, e il sole scaldava e illuminava il regno di Re Cornelio. A fissare quel cielo, Lidio ripensava ai bellissimi occhi di Fro-sina, e si struggeva di gioia e desiderio. Era ormai passata una settimana da quando l’unicorno aveva lasciato le stalle reali per tornare nel bosco di pruni, e ancora Lidio non aveva udito il canto della giovane. Cominciò seriamente a pensare che forse la ragazza gli aveva mentito e non l’avrebbe mai più rivista. Poi una notte, mentre stava per coricarsi, lo udì: un canto magnifico, una melodia piena di gioia, rabbia, tristezza e amore. Il ragazzo s’infilò gli stivali, agguantò il mantello e corse a sel-lare il suo cavallo. Il canto della fanciulla era bellissimo e risuonava dentro di lui come un battito. Lo poteva udire distintamente. Era come se la sua anima avesse preso improvvisamente fuoco, scaldandolo dall’interno, inebriandolo, rendendolo euforico. Senza essere visto, Lidio lanciò il cavallo al galoppo e in una manciata di minuti raggiunse il bosco di pruni. L’autunno era giunto anche lì, con la sua gerla di foglie rosse e d’oro, ma il buio della notte copriva i colori caldi per dare sfoggio al suo manto di stelle luccicanti. Lidio sapeva che quando la notte era così limpida e le stelle così tremolanti e ni-tide, il freddo raggiungeva la sua massima potenza.

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Spronò il cavallo affinché corresse più svelto, verso il lago do-ve sicuramente la fanciulla lo stava aspettando. Il canto diven-tava sempre più forte e il principe si sentì morire d’impazienza. Giunto in prossimità del lago, fermò il cavallo e scese a terra con un agile balzo. La fanciulla non gli aveva mentito; era sul serio là, seduta sulla sponda del lago, con i piedini immersi nell’acqua cristallina, ed era dannatamente nuda. Di nuovo! Lidio prese un bel respiro e si avvicinò, cercando di mascherare l’imbarazzo che lo attanagliava al viso, infuocandoglielo. La visione della fanciulla pallida e nuda, con i trucioli d’oro per capelli, e i piedini immersi nel lago, avrebbe incantato chiun-que, persino il più bestiale dei montanari. Frosina, non appena si accorse della presenza del Principe Li-dio, gli rivolse un gran sorriso. Lidio si domandò quanti anni potesse avere. Sicuramente era molto giovane. Forse aveva la sua età. «Ciao» salutò Lidio. «Ciao» ripeté Frosina. Aveva una luce diversa negli occhi. Lì nel suo mondo era molto più felice e sicura. Lidio si sedette vicino a lei, a gambe incrociate. Non sapeva co-sa dire per spezzare il silenzio. Il lago sciaguattava dolcemente, il grillo canticchiava la sua filastrocca nel prato, e le lucciole fluttuavano come minuscole anime. «Temevo che non ti avrei mai più rivista» mormorò Lidio. La fanciulla non disse niente. Fissò le lucciole e sorrise: «Le stelle sono birichine. Si annoiano a stare sempre lassù in cielo a giocare con le loro sorelle. Così, ogni tanto, qualche sprovvedu-ta scende quaggiù, rimane a giocare con i grilli e le fate, e così rimane intrappolata sulla Terra per sempre. Quando spuntano le sue sorelle nel cielo, la stellina perduta esce dai cespugli e dan-za nel bosco senza darsi pace. Cerca un modo per ritornare da loro. Con gli anni molte altre stelle sono scese sulla Terra e hanno smarrito la via del ritorno».

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Lidio l’ascoltava incantato: «Quindi… le lucciole in realtà sono stelle perdute?». «Sì» rispose Frosina. «Non lo sapevo». «Sono molte le cose che non sai, ma se vuoi te le insegnerò». «Sarebbe bello» rispose Lidio, che voleva passare più tempo possibile con lei. «Quanti anni hai?» domandò d’un tratto il ragazzo. «Diciassette» rispose Frosina. «Non hai freddo?». «No». Per un po’ nessuno dei due disse niente; fu Lidio a spezzare il silenzio: «Quando eri trasformata ti ho vista intingere la punta dell’alicorno nel lago, e sono apparse delle immagini sulla su-perficie dell’acqua. Che cosa mostravano?». La fanciulla attese qualche attimo prima di rispondere: «Mo-stravano te. Ti ho visto mentre tendevi l’arco per scoccare la freccia, ma poi cambiavi idea e mi risparmiavi». Lidio ammutolì. «Ho visto anche… tuo fratello» continuò Frosina. «Lui è mal-vagio. Un giorno porterà con sé il fuoco dell’inferno e allora tutto il regno brucerà». «Non è possibile» fece Lidio. «Conosco Vittorio molto bene. Ha manie di grandezza ma non è malvagio». «Forse» disse semplicemente Frosina, divenendo triste e to-gliendo i piedini dall’acqua. Si alzò in tutta la sua bellezza ed eleganza e Lidio ebbe un tuffo al cuore: «Non andartene!». «Devo» disse Frosina, con gli occhi fissi sull’orizzonte al di là degli alberi. «Fra poco sarà l’alba». «Non è possibile! Sono passati solo pochi minuti!». «Lidio, nel bosco di pruni il tempo scorre più velocemente. Fra poco sarà l’alba e io mi trasformerò di nuovo in unicorno». Lidio balzò in piedi, arrabbiato: «Dunque è così? Di notte una ragazza e di giorno un unicorno?».

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«Sì» rispose Frosina con fare severo, come se la rabbia del ra-gazzo non la toccasse minimamente. Lidio strinse i pugni: «Chi ti ha ridotta così?». «Non sono affari tuoi» rispose Frosina abbassando lo sguardo e mordendosi il labbro. Lidio la trovò ancora più bella e impossibile: «Non andartene, ti prego». «Sarò di nuovo qui domani notte, te lo prometto» si affrettò a rassicurarlo Frosina, intenerita. Il Principe Lidio non ce la fece più; si sporse con il viso e cercò di baciarla sulle labbra. Non l’avesse mai fatto! Frosina scattò all’indietro come una lepre spaventata, come un uccellino inafferrabile. Lo guardò per un istante con gli occhi umidi e spalancati e sparì nel folto, senza fare alcun rumore. Nel cuore del principe scese un gelido inverno di colpa e tri-stezza. Si sentiva rifiutato, e fu una strana sensazione, la più brutta che avesse mai provato sulla sua pelle. Si ripromise che mai più avrebbe tentato di baciare un’altra vol-ta Frosina. Mai più. Tornò al castello, dormì solo poche ore e si alzò con un terribile mal di testa. Scese a fare colazione e trovò Vittorio intento a lucidare la sua spada. «Che brutta cera, fratellino!» esclamò Vittorio appena lo vide. «Hai avuto gli incubi?». «Il mio unico incubo sei tu» ribatté Lidio con un mezzo sorriso. «Che bastardo!». I due fratelli scoppiarono a ridere e Vittorio lanciò la spada ap-pena lucidata a Lidio, esclamando: «Combatti, lumacone! È il modo migliore per svegliarsi!». Lidio prese la spada al volo, e Vittorio lo raggiunse quasi subi-to, armato di un’altra spada affilata. Ogni tanto duellavano e la maggior parte delle volte era Vittorio a vincere. Vittorio era

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molto agguerrito quando combatteva. Ci metteva tutto se stes-so, diventava un animale inarrestabile. Anche quella mattina i due fratelli duellarono per gioco, e Lidio non poté fare a meno di ripensare alle parole di Frosina: “Tuo fratello è malvagio. Un giorno porterà con sé le fiamme dell’inferno e allora tutto il regno brucerà…”. Con un improvviso e violento fendente, Vittorio disarmò Lidio: «Sei distratto, fratellino!». Lidio fu costretto ad ammettere che aveva ragione, e si chiese come avrebbe reagito se gli avesse raccontato della ragazza u-nicorno. Forse non si sarebbe arrabbiato, e avrebbe condiviso il segreto con lui. Ma poi si ricordò che Frosina gli aveva severamente vietato di parlare con qualcuno di lei. «Allora?» incalzò Vittorio. «Che hai per la testa? Una donna?». «No!» si affrettò a rispondere Lidio. «Certo che no». «Non mentirmi» sorrise quel briccone di Vittorio. «Da un po’ di tempo sembri scemo. Tu c’hai per la testa una donna, e co-noscendoti dev’essere senz’altro una dolce contadinella con le trecce e le guance sempre rosse. Una di quelle che si fanno montare nei fienili». Lidio arrossì. Non aveva mai fatto discorsi di quel genere con il fratello, e si sentiva profondamente imbarazzato: «Non riuscirei mai a montare una ragazza in un fienile…». «Beh, come darti torto?» fece Vittorio con l’aria di uno che la sa lunga. «Molto meglio il letto». «Ma tu… l’hai già fatto?». Vittorio ghignò, un ghigno bello e crudele: «Certo che sì. L’hanno scorso, con Bea». «B… Bea?». Bea era una serva che lavorava a palazzo. Aveva quindici anni ed era molto carina e gentile. Sapeva rammendare e preparava pranzetti squisiti. Svolgeva ogni tipo di faccenda domestica ed

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era perdutamente innamorata di Vittorio, sin dal giorno in cui aveva iniziato a prestare servizio a palazzo. Sfortunatamente per lei, Vittorio era un libertino oltre che il principe, e dopo averla portata a letto una moltitudine di volte, alla fine si era stufato e l’aveva lasciata perdere. Aveva iniziato a uscire dal castello di notte e dirigersi in paese, alla prima oste-ria che gli capitava. Quasi sempre era avvolto in un mantello e la gente lo scambiava per un viandante venuto da chissà dove. Qui Vittorio beveva e andava a donne. Gli piacevano quelle giovani e ingenue, con un seno abbondante. Lui le portava in un fienile o dietro l’angolo e le montava. Prometteva sempre di ri-tornare a trovarle, e le poverette innamorate gli credevano. Poi un giorno gli si era presentata davanti la dolce Bea con gli occhi pieni di lacrime e gli aveva detto che aspettava un bambi-no da lui. A Vittorio quella notizia non aveva fatto né caldo né freddo. Aveva scacciato la servetta in malo modo e le aveva riso dietro chiamandola puttana. Così Bea, al colmo della disperazione, si era recata da una vec-chia donna che abitava in paese e che era conosciuta da molte ragazze che andavano da lei per farsi levare il bambino indesi-derato. Il tutto avveniva di nascosto, in gran segreto. Quella povera diavola di Bea aveva deciso di abortire. La vec-chia sdentata l’aveva fatta sdraiare nuda su un tavolo di legno e le aveva infilato un ferro da maglia tra le gambe, ammazzando-le il figlio. Bea era poi tornata a palazzo il giorno dopo, piena di dolori, e aveva sbrigato tutti i suoi doveri nonostante il male violento dentro di lei. Vittorio non le aveva chiesto mai nulla, non si era più interessato alla ragazza, e dopo un anno Bea imparò final-mente a odiarlo. Nessuno a palazzo conosceva quella triste e squallida storia. Nessuno conosceva il lato crudele e senza cuore di Vittorio.

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Lidio aveva sempre adorato Bea per i suoi modi semplici ed educati. Sapere che il fratello l’aveva portata a letto lo lasciò stupito e ancora più imbarazzato di prima. Ovviamente Vittorio non menzionò nulla riguardo al fatto di aver messo incinta la serva. Si dilungò invece a raccontare i particolari più vergognosi delle sue avventure, mettendo a disa-gio il dolce Lidio. «Non dirmi che non hai mai montato una ragazza!» fece Vitto-rio, sollevando le sopracciglia e sorridendo. Lidio scosse il capo: «No, mai». «Allora dovremo rimediare! Uno di questi giorni ti porto con me e ti faccio conoscere un’amica. Fidati, è bravissima!». Lidio fece una smorfia: «Non m’interessa. Non voglio montare una ragazza che non amo». Vittorio scoppiò a ridere: «Sei sempre il solito romantico! Le donne se li mangiano i ragazzini come te. Devi far capire loro chi comanda». «Da come parli, sembra che delle donne non ci si possa fidare». «Infatti è così. Non ci si può fidare di quelle puttane. Alla pri-ma occasione ti si piazzano davanti accusandoti di averle ingra-vidate. In realtà vogliono solo tenerti in pugno, vogliono che le mantieni, che le ricopri di vizi, regali, attenzioni. Sono tutte u-guali. Egoiste. Fanno tanto le regine ma sono solo delle cagne in calore. Fidati, fratellino. Le donne sono tutte uguali, e le peggiori sono proprio quelle che affermano di non essere come le altre». Lidio era sconvolto da tutti quei discorsi. Con il pensiero corse a Frosina. Lei non era, non poteva essere così! Per tutto il giorno non fece che domandarsi se fosse stato uno sbaglio donare un pezzo del suo cuore alla ragazza unicorno. Forse Vittorio aveva ragione; forse era davvero troppo romanti-co, e Frosina avrebbe finito con il prenderlo in giro. Del resto non aveva voluto nemmeno baciarlo.

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Tutti quei pensieri gli avvelenarono la mente, ma quando giun-se la notte e udì il canto della fanciulla nel cuore, si sentì inva-dere da un’incontenibile gioia e dimenticò tutti i discorsi de-primenti di Vittorio. Decise che non gli importava se le donne erano tutte egoiste e lui troppo romantico. Voleva rivedere Frosina più di ogni altra cosa al mondo. Tornò così al bosco di pruni e raggiunse la fanciulla sedendosi di fianco a lei, sulla riva del lago. Frosina, sempre nuda e candida come un fiore, gli sorrise con dolcezza, e Lidio si rifiutò di credere che fosse subdola ed egoi-sta. Parlarono a lungo mentre il tempo scorreva veloce, implacabile. Lidio volle sapere tutto sulle creature misteriose del bosco di pruni. «Hai mai visto un drago?» chiese il principe. Frosina sorrise: «Nel bosco di pruni capita spesso d’incontrare i draghi gialli. E una volta ho persino avuto la fortuna di vedere un drago bianco del cielo». Lidio era confuso: «Quanti tipi di drago ci sono esattamente?». «Solo cinque» rispose Frosina. «I draghi neri delle caverne, i draghi rossi, i draghi gialli, i draghi bianchi del cielo e i draghi marini». Il Principe Lidio era sempre più affascinato e Frosina cominciò a spiegare: «I draghi neri delle caverne sono la specie più pri-mitiva e solitaria. Ormai sono rimasti davvero in pochi. Hanno un brutto carattere e sono ciechi; in compenso però possiedono un udito e un olfatto eccezionali. E poi hanno le zanne avvele-nate! Si racconta che siano i custodi di antichi tesori». «Come sono fatti?» volle sapere Lidio. «Sono molto brutti» rispose Frosina. «Sono duri e viscidi come sassi melmosi, e puzzano. Hanno musi rincagnati e ali da pipi-strello. Le loro zampe terminano con artigli a uncino che per-

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mettono loro di rimanere appesi alle pareti rocciose a dormire. Hanno code lunghissime e sottili come quelle delle lucertole». «Che mi dici dei draghi rossi?». «Sono molto più numerosi dei draghi neri, ma anche loro hanno un brutto caratteraccio. Vivono vicino ai vulcani e sono talmen-te solitari e feroci che non gradiscono nemmeno la compagnia dei loro stessi simili. Sono terribilmente litigiosi e le femmine non si prendono neanche la briga di covare le loro uova. Le get-tano dentro i vulcani lasciando che sia il calore della lava a schiuderle». «Davvero bestiali!». «Già. Hanno squame lucenti come rubini e corna nere in cima alla testa. Sono dei grandi sputafuoco e volano di rado perché sono molto tozzi e pesanti». Lidio sorrise, sempre più emozionato: «I draghi gialli invece? Mi hai detto di averli visti qui, nel bosco di pruni». «Sì! Sono proprio belli, sai? Le loro squame sono come tante foglioline dorate. È come se fossero ricoperti di foglie autunna-li. Si aggirano per i boschi in cerca di more e funghi». «More e funghi?» ripeté Lidio, incredulo. Frosina comprese il suo disappunto: «Sono gli unici draghi che non sputano fuoco e sanno parlare la lingua umana. Sono molto pacifici e si spostano in branco. Non sono tanto grandi. Hanno le dimensioni di un asinello e i loro occhi sembrano fatti di miele». «Mi piacerebbe molto vederli» disse Lidio, sognante. «Un giorno li vedrai» sorrise Frosina, e continuò la sua spiega-zione. «I draghi bianchi del cielo sono quasi impossibili da vedere». «Come mai?» s’informò Lidio. «Anche loro sono rimasti in po-chi?». «Oh no! Sono in molti, a dire il vero, solo che sono furbi. Si mimetizzano tra le nuvole e di rado scendono a terra. Sono sempre in volo; nastri piumati nel cielo».

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«Nastri piumati?». «Sì. I draghi bianchi sono ricoperti di piume soffici, e sanno vo-lare anche senza ali. Hanno corpi lunghi e musi dolci, e si dice che portino fortuna!». Lidio si sforzò di immaginare un drago con le piume, ma non ci riuscì. «E infine ci sono loro» proseguì la fanciulla. «I draghi marini. Non si sa molto sul loro conto. Sono facilmente irritabili e at-taccano le navi con l’intento di farle affondare. Hanno scaglie e code da pesce, vivono dove il mare è più buio e profondo, e sanno respirare sott’acqua. Quando affondano un galeone se ne impossessano e lo usano come una sorta di nido. Ogni drago marino ha il suo galeone personale». «Comincio a credere ai racconti di certi marinai sopravvissuti» rabbrividì il Principe Lidio. Tutte quelle storie l’avevano affascinato. Non si capacitava di come Frosina potesse conoscere tutte quelle cose. Era bella e intelligente, e anche se al sorgere del sole si tra-sformava in unicorno e lui era costretto a lasciarla, l’amava o-gni giorno di più. Aspettava sempre con ansia che calasse la notte per poter senti-re il canto nel cuore e correre a raggiungerla. Rimanevano a parlare per ore. Spesso Lidio le portava qualcosa da mangiare, un pezzo di torta ai mirtilli, o un po’ di latte di capra. La fan-ciulla mangiava e beveva tutto quello che Lidio le portava. Il principe avrebbe tanto voluto portarle regali più costosi come una collana o un diadema, oppure un abito di broccato, ma non voleva sembrare troppo invadente; e poi non era tanto sicuro che la fanciulla avrebbe gradito i doni. Temendo un altro rifiu-to, il Principe Lidio si asteneva dal fare gesti e doni galanti. Però cresceva in lui ogni giorno di più il desiderio di baciare Frosina sulle labbra, di stringerla, di sentire i suoi minuscoli se-ni premuti sul suo petto.

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La ragazza sembrava non accorgersi minimamente della pas-sione del principe, e narrava i suoi racconti con gioia ed entu-siasmo, standosene nuda e cruda come una neonata: «Le fate sono piccolissime, quasi non si vedono». «Sono tutte femmine!» ribatté Lidio, sdraiato con le braccia dietro la testa. «Come fanno a riprodursi?». Frosina sorrise: «Le fate non sono come noi. Nascono dai fiori, dai ricci delle castagne, dalle gocce di pioggia, dalle risate di un bimbo, dall’arcobaleno. Sono legate alla natura». «Sanno fare magie?». «Oh sì. Magie buone, come quella di cambiare il colore delle foglie o di far cadere dal cielo stelle di neve. Alcune fate però sono più ambiziose di altre, e allora imparano anche la magia nera, e diventano streghe». Lidio si drizzò a sedere: «Aspetta un momento! Streghe? Ma le streghe non sono minuscole, sono come me e te!». «Lo so» disse tranquillamente Frosina. «Le streghe una volta erano fate, fate piccole come l’unghia di un bambino. Devi sa-pere che quando una fata decide di imparare la magia nera non può farlo da sola, deve andare da un mago. I maghi non sono vecchi barbuti, bensì uomini belli e avvenenti, molto soli. Quando la fata si presenta da un mago dicendo di voler impara-re la magia nera, il mago pone una condizione: le insegnerà tut-to quello che c’è da sapere sulle arti oscure, ma in cambio lei dovrà diventare un’umana e rinunciare alle sue ali. Troppo spesso la fata accetta e il mago la trasforma in un’umana. Il mago è subdolo, alleato del diavolo, sempre bello perché si nu-tre delle anime dei giovani. Una volta mutata la fata in un’umana, il mago fa l’amore con lei e poi le insegna la magia nera. L’umana che un tempo era fata, diventa sua apprendista e impara a padroneggiare le arti oscure; ma tutte le notti il mago la monta e lei diventa sempre più vecchia e brutta. Le streghe che una volta erano fate, si pentono quasi sempre alla fine della loro scelta, e abbandonano la casa del mago che le ha istruite,

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montate e consumate, per andare a vivere da sole e sfogare la loro rabbia sul resto del mondo». «Per questo sono così cattive…» mormorò Lidio sovrappensie-ro. Frosina annuì lentamente e puntò i suoi bellissimi occhi azzurri in quelli scuri del giovane. Era la prima volta che si guardavano in quel modo così intenso. Lidio cominciò a sudare. Se avesse tentato di baciarla, lei sa-rebbe fuggita via come una volpe delle nevi, ed era l’ultima co-sa che voleva. Si limitò a contemplarle il volto candido e liscio, da cerbiatta furba. Era terribilmente innamorato di lei. A un tratto Frosina parlò, spezzando la quiete: «Sei tanto genti-le con me. Mi porti sempre roba da mangiare e ascolti le mie storie. Mi piace la tua compagnia, ma io non ho niente da rega-larti». Il cuore di Lidio batteva a più non posso: «Non fa niente! Io non ho bisogno di nulla». «Lo so, ma non posso lasciarti andare via anche stavolta senza niente di me. Non lo sopporterei». Il Principe Lidio stava per ripeterle che lui non aveva bisogno di nulla, che si accontentava di averla vicina tutte le notti, quando all’improvviso la vide staccarsi una ciocca di capelli. La fanciulla gli porse il truciolo di capelli d’oro, e Lidio lo pre-se, fissandolo. Era morbido come lino e se lo passò sulla pelle della guancia, chiudendo gli occhi. Era come essere accarezzati dalle ali di una farfalla. Quando riaprì gli occhi, vide che il sole era appena spuntato e che la fanciulla non c’era più. Con una stretta violenta al cuore mise il truciolo di capelli in una minuscola sacca che usava per la biada del suo cavallo, e tornò mogio al castello, con il cuore innamorato che gli faceva sempre più male.

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Nei giorni che seguirono, Lidio divenne inquieto e scontroso. Re Cornelio, a cui non sfuggiva mai nulla, lo notò immediata-mente; ma c’era chi l’aveva notato ancor prima di lui: Vittorio. Una sera in cui Lidio stava ad accarezzarsi tristemente la guan-cia con il truciolo di capelli d’oro, irruppe Vittorio a disturbar-lo: «Mi sto annoiando! Ti va una partita a scacchi?». Lidio si affrettò a nascondere la ciocca di capelli in una tasca e a simulare uno sbadiglio: «Sono molto stanco. Credo che andrò a letto presto». Vittorio corrucciò le sopracciglia, ponendo al fratello una do-manda agghiacciante: «Dove vai tutte le notti?». Lidio si sentì raggelare, come se una secchiata d’acqua fredda l’avesse investito in pieno. Com’era possibile che qualcuno l’avesse scoperto? Era sempre stato molto attento! Decise di non dare modo al fratello di sospettare di lui: «Credo di essere sonnambulo». Vittorio inarcò un sopracciglio e incrociò le braccia: «Non è una cosa carina da dire. Se papà lo scopre farà chiamare subito il prete a benedirti». «Beh, tu non dirgli niente» fece Lidio, sbrigativo. «Guarda che se vai a donne a me puoi dirlo». «Non vado a donne!» ringhiò Lidio, seriamente infastidito. «Io non sono come te. E ora lasciami in pace». Si alzò dalla sedia e piantò Vittorio in asso. Vittorio scosse la testa con un ghigno. Conosceva il gemello come le sue tasche e non gli credeva. Lidio non era mai stato bravo a inventare bugie e gli stava mentendo spudoratamente. «Ora ti sistemo io» biascicò il Principe Vittorio digrignando i denti. «Voglio sapere dove vai, e lo saprò molto presto». In quell’istante passò Bea a sparecchiare e riordinare il tavolo. Ignorò Vittorio come se fosse stato invisibile e si dedicò ai suoi doveri di serva. Vittorio sentì una voglia feroce di strangolarla a mani nude e poi montarla da morta su quel tavolo. Fine anteprima. Continua...