Fromm - Psicoanalisi della Società Contemporanea
Transcript of Fromm - Psicoanalisi della Società Contemporanea
Traduzione dall’inglese di Carlo De Roberto
Titolo originale dell’opera: The Sane Society (1955).
Il seguente progetto non ha alcuno scopo di lucro. È un’iniziativa
del tutto privata, indirizzata alla preservazione dell’opera origina-
ria.
Indice
Prefazione - 4
1. Possiamo ritenerci sani di mente? - 7
2. Una società può essere malata? - 14
3. La situazione umana alla base della Psicanalisi Umanistica - 22
4. Salute mentale e società - 60
5. L’uomo nella società capitalistica - 70
6. Altre varie diagnosi - 182
7. Varie risposte - 202
8. Le vie della salute - 233
9. Conclusioni riassuntive - 306
«E il Signore farà giudizio fra molti popoli, e respingerà oltre ogni
confine nazioni possenti; ed esse delle loro spade fabbricheranno
zappe, e delle loro lance falci; l’una nazione non leverà più la spada
contro l’altra, e non impareranno più la guerra. Anzi siederà cia-
scuno sotto la sua vite e sotto il suo fico, e non vi sarà alcuno che lo
spaventi perché la bocca del Signore degli eserciti ha parlato.»
MICHEA
«Non v’è arte più difficile del vivere. Per le altre arti e scienze,
si possono trovare ovunque numerosi maestri. Anche i giovani cre-
dono di poterle apprendere in qualche modo e di poterle insegnare
agli altri. A vivere si deve imparare attraverso l’intiera vita; e, ma
questo vi stupirà ancor più, attraverso la vita si deve imparare a
morire.»
SENECA
«Questo mondo e il mondo dell’aldilà stanno continuamente
partorendo: ogni causa è una madre, il suo effetto il figlio. Quando
l’effetto è nato, esso pure diventa una causa e genera straordinari
effetti. Queste cause legano generazioni a generazioni, ma occorre
un occhio davvero molto acuto per vedere gli anelli della loro cate-
na.»
RUMI
«Le cose stanno in sella e cavalcano l’umanità.»
EMERSON
«Il genere umano ebbe la sapienza di creare la scienza e l’arte;
perché non dovrebbe essere capace di creare un mondo di giustizia,
di fratellanza e di pace? Il genere umano ha dato Platone, Omero,
Shakespeare e Hugo, Michelangelo e Beethoven, Pascal e Newton,
tutti questi eroi umani il cui genio consiste soltanto nel contatto con
le verità fondamentali, con la più profonda essenza dell’universo.
Perché allora questo stesso genere umano non dovrebbe produrre
quei capi che fossero capaci di guidarlo a quelle forme di vita co-
mune che sono le più vicine alle forme di vita e all’armonia
dell’universo?»
Léon BLUM
4
PREFAZIONE
Questo libro è una continuazione di Fuga dalla libertà, scritto più
di quindici anni or sono. In Fuga dalla libertà cercai di dimostrare
che i movimenti totalitari facevano appello alla radicata aspirazione
a fuggire dalla libertà che l’uomo aveva realizzato nel mondo mo-
derno; e che l’uomo moderno, libero dai vincoli medievali, non era
libero di costruire una vita ricca di significato basata sulla ragione e
sull’amore, e perciò cercava nuova sicurezza nella sottomissione a
un capo, alla razza o allo stato.
In Psicanalisi della società contemporanea cerco di dimostrare
che la vita nella democrazia del ventesimo secolo costituisce sotto
molti aspetti un’altra fuga dalla libertà; una buona parte di questo
libro è dedicata all’analisi di tale fuga, centrata sul concetto di alie-
nazione.
Anche da un altro punto di vista questo lavoro è una continuazio-
ne di Fuga dalla libertà, e, in certa misura, di Man for Himself. In
entrambi i libri trattavo del meccanismo psicologico specifico, per
quanto esso sembrava attinente al soggetto principale. In Fuga dalla
libertà, trattai principalmente del problema del carattere autoritario
(sadismo, masochismo, ecc). In Man for Himself sviluppai l’idea dei
diversi orientamenti di carattere, sostituendo lo schema freudiano
dello sviluppo della libido con quello dell’evoluzione del carattere in
termini interpersonali. In questo libro ho cercato di dare un più si-
stematico sviluppo a ciò che qui ho chiamato «psicanalisi umanisti-
ca». Naturalmente, non si potevano trascurare le idee già esposte in
precedenza; ma ho cercato di trattarle più succintamente e di dedica-
re maggior spazio a quegli aspetti che sono il risultato dei miei pen-
sieri e delle mie osservazioni di questi ultimi anni.
Spero che il lettore dei miei libri precedenti non abbia difficoltà
ad avvertire la continuità di pensiero, come pure alcuni mutamenti
che conducono alla tesi principale della psicanalisi umanistica: che
le passioni fondamentali dell’uomo non sono radicate nei suoi biso-
5 PREFAZIONE
gni istintivi, ma nelle specifiche condizioni dell’esistenza umana, nel
bisogno di trovare, dopo la perdita della correlazione primitiva dello
stadio preumano, una nuova correlazione tra l’uomo e la natura. Le
mie idee, pur presentando sotto questo aspetto una sostanziale diffe-
renza rispetto a quelle di Freud, sono nondimeno basate sulle sue
scoperte fondamentali, che ricevettero ulteriore sviluppo sotto
l’influenza delle idee e delle esperienze della generazione successiva
a Freud. Ma proprio perché queste pagine contengono una critica
esplicita ed implicita a Freud, desidero additare con assoluta fran-
chezza i grandi pericoli insiti nello sviluppo di certe tendenze della
psicanalisi le quali, mentre criticano taluni errori del sistema di
Freud, scartano, insieme agli errori, anche le parti più preziose
dell’insegnamento di Freud stesso: il suo metodo scientifico, il suo
concetto evolutivo, il suo concetto dell’inconscio come di una forza
autenticamente irrazionale piuttosto che come la somma complessiva
di idee erronee. V’è inoltre il pericolo che la psicanalisi perda
un’altra caratteristica fondamentale dell’insegnamento freudiano: il
coraggio di andare contro il senso comune e l’opinione pubblica.
Questo libro infine, partendo dall’analisi puramente critica espo-
sta in Fuga dalla libertà, giunge a formulare delle proposte concrete
per la vita di una società mentalmente sana. Il punto più importante
di quest’ultima parte del libro non va cercato nella convinzione se-
condo cui ognuna delle misure proposte sia necessariamente «giu-
sta», ma piuttosto in questa: che il progresso può avvenire soltanto
quando i mutamenti siano operati simultaneamente nelle diverse sfe-
re: economica, politico-sociale e culturale; e che qualsiasi progresso,
limitato ad una sola sfera, sarebbe distruttivo per il progresso in tutte
le sfere.
Sono profondamente riconoscente a numerosi amici che mi sono
stati di aiuto leggendo il manoscritto ed esprimendo critiche e sugge-
rimenti costruttivi. Voglio ricordare in maniera particolare uno di
essi, George Fuchs, che morì nel periodo in cui lavoravo a questo
libro. Originariamente ci eravamo proposti di scrivere il libro assie-
me ma, a causa della sua lunga malattia, questo progetto non si è
potuto realizzare. Tuttavia il suo aiuto è stato rilevante. Abbiamo
discusso a lungo, ed egli mi ha scritto molte lettere e note, special-
mente riguardo ai problemi della teoria socialista: questo mi ha aiu-
tato a chiarire e talvolta a rivedere le mie proprie idee. In queste pa-
PREFAZIONE 6
gine ho citato qualche volta il suo nome, ma la mia gratitudine per
lui va ben oltre questi riferimenti particolari.
Esprimo i miei ringraziamenti al dr. G.R. Hargreaves, capo della
sezione della sanità mentale dell’Organizzazione mondiale della sa-
nità, per avermi permesso di ottenere i dati sull’alcolismo, suicidio e
omicidio.
E. F.
7
1.
Possiamo ritenerci sani di mente?
È opinione assai comune che noi, occidentali del ventesimo secolo,
siamo gente perfettamente equilibrata. Nemmeno il fatto che nella
nostra società gran numero di persone soffra di forme più o meno
gravi di malattie psichiche provoca il minimo dubbio riguardo al
livello complessivo della nostra salute mentale. Siamo convinti che,
con l’adozione di migliori metodi di igiene mentale, riusciremo a
migliorare sempre più lo stato della nostra salute psichica, e conside-
riamo le singole forme di squilibrio come incidenti di natura stretta-
mente individuale, stupendoci semmai che essi siano così numerosi
in una civiltà ritenuta tanto sana.
Possiamo esser certi di non ingannarci? Molti ricoverati negli
ospedali psichiatrici sono convinti che tutti gli altri all’infuori di loro
siano pazzi. Molti nevrotici gravi credono che le loro azioni coatte e
le loro esplosioni isteriche siano reazioni normali ad alcune circo-
stanze anormali. C’è qualcosa di simile nel nostro comportamento?
Atteniamoci al buon metodo psichiatrico, e guardiamo ai fatti.
Nell’ultimo secolo noi, nel mondo occidentale, abbiamo creato una
ricchezza materiale superiore a quella di qualsiasi altra società nella
storia del genere umano. Tuttavia siamo riusciti a far ammazzare
milioni di nostri concittadini in quella soluzione che chiamiamo
guerra. Prescindendo dalle minori, ne abbiamo avuto di gravi nel
1870, 1914, 1939. Durante queste guerre, ogni partecipante credeva
fermamente di combattere per difendere se stesso e il suo onore, di
avere Dio con sé. I gruppi contro i quali ci si trova, spesso da un
giorno all’altro, in guerra, sono visti come nemici crudeli, irragione-
voli, che bisogna sconfiggere per salvare il mondo dal male. Ma po-
chi anni dopo il reciproco massacro, troviamo che i nemici di ieri
sono nostri amici, e gli amici di ieri nostri nemici, e nuovamente,
con la massima serietà, riprendiamo a classificarli distinguendoli
convenzionalmente in buoni e cattivi. Nel momento in cui scrivia-
1. POSSIAMO RITENERCI SANI DI MENTE? 8
mo, anno 1955, siamo preparati ad un massacro collettivo che, se
accadesse, sorpasserebbe ogni massacro fino ad oggi compiuto dal
genere umano. Una delle più grandi scoperte nel campo delle scienze
naturali è pronta a tale scopo, e tutti, con fiducia mista ad apprensio-
ne, guardiamo agli uomini politici dei diversi paesi, pronti ad attri-
buir loro le più grandi lodi se «riescono ad evitare una guerra», igno-
rando che l’unica e vera causa di guerra sono proprio costoro, e soli-
tamente non tanto per le loro cattive intenzioni, quanto per la loro
totale incapacità di dirigere gli affari loro affidati.
In queste esplosioni di mania distruttiva e di sospetti paranoici,
non ci comportiamo tuttavia diversamente da quanto ha fatto la parte
civilizzata dell’umanità negli ultimi tre millenni di storia. Secondo
Victor Cherbulliez, dal 1500 a.C. al 1869 d.C. sono stati firmati non
meno di ottomila trattati di pace, ciascuno con lo scopo di garantire
una pace permanente, e ciascuno non è durato in media più di due
anni.1
La nostra linea di condotta nelle questioni economiche è poco più
incoraggiante. Viviamo in un sistema economico in cui un raccolto
particolarmente favorevole si trasforma spesso in un disastro eco-
nomico, e riduciamo parte della nostra capacità produttiva nel settore
agricolo per «stabilizzare il mercato», anche se milioni di persone
avrebbero estremo bisogno proprio delle cose di cui limitiamo la
produzione. Ciò nonostante, il nostro sistema economico funziona
ottimamente, tra l’altro perché ogni anno si spendono miliardi di
dollari per produrre armamenti. Gli economisti guardano non senza
preoccupazione al momento in cui cesseremo la produzione di armi,
e l’idea che al loro posto lo stato debba produrre case ed altre cose
utili e necessarie provoca facilmente l’accusa di mettere in pericolo
la libertà e l’iniziativa privata.
Più del novanta per cento della nostra popolazione sa leggere e
scrivere. Abbiamo la radio, la televisione, il cinema, e ognuno ha il
suo giornale quotidiano. Ma invece di offrirci il meglio della lettera-
tura e della musica di oggi e d’ieri, questi mezzi d’informazione, con
l’aggiunta della pubblicità, riempiono la mente dei programmi più
scadenti, privi di qualsiasi senso della realtà, e pieni di sadiche fanta-
sie alle quali nessuna persona di media cultura vorrebbe, sia pur di
1 H.H. STEVENS, The Recovery of Culture, Harper and Brothers, New York 1949, p. 221.
9 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
rado, abbandonarsi. Mentre però la mente di tutti, giovani e vecchi, è
avvelenata a questa maniera, seguitiamo beatamente a preoccuparci
affinché sugli schermi non compaiano cose «immorali». Ogni pro-
posta di finanziamento governativo della produzione cinematografi-
ca e radiofonica, allo scopo di illuminare e migliorare la mentalità
dei nostri compatrioti, sarebbe accolta con indignazione e con accuse
in nome dell’ideale di libertà. Rispetto ad un secolo fa, la media del
nostro orario di lavoro è stata ridotta della metà, e abbiamo oggi più
disponibilità di tempo libero di quanto i nostri nonni non osassero
sognare. Ma cosa è successo? Non sappiamo far uso del tempo libe-
ro recentemente conquistato; cerchiamo di ammazzare il tempo libe-
ro di cui siamo venuti a disporre, e siamo contenti quando un altro
giorno è trascorso.
Perché insistere su cose che tutti conoscono? Certo, se questo
fosse il comportamento di un solo individuo, si nutrirebbero seri
dubbi sul suo stato mentale; se poi costui affermasse che il suo com-
portamento è normale e che egli è perfettamente ragionevole, non vi
sarebbero più incertezze sulla diagnosi.
Tuttavia molti psichiatri e psicologi rifiutano di ammettere che
tutta una società possa essere psichicamente malsana. Essi ritengono
che il problema della salute mentale in una società riguardi veramen-
te il numero di individui «disadattati», e non un eventuale difetto
della cultura stessa. Questo libro esamina il secondo problema; non
quello della patologia individuale, ma quello relativo alla patologia
della normalità e particolarmente alla patologia della società occi-
dentale contemporanea. Ma prima di entrare nella intricata discus-
sione riguardante il concetto di patologia sociale, esaminiamo alcuni
dati di per se stessi rivelatori e indicativi, che si riferiscono
all’incidenza della patologia individuale nella cultura occidentale.
Qual è l’incidenza delle malattie mentali nei diversi paesi del
mondo occidentale? È un fatto molto sorprendente che non esistano
dati per rispondere a questa domanda. Mentre ci sono dati precisi di
comparazione statistica sulle materie prime, sulla occupazione,
sull’andamento delle nascite e dei decessi, non esistono adeguate
informazioni sulle malattie mentali. Tutt’al più abbiamo alcuni dati
esatti per un certo numero di paesi, come gli Stati Uniti e la Svezia,
ma essi ci informano soltanto sul numero di ammalati ricoverati ne-
gli istituti psichiatrici, e poco giovano per stabilire la frequenza
1. POSSIAMO RITENERCI SANI DI MENTE? 10
comparativa delle infermità mentali. Queste cifre ci forniscono indi-
cazioni sia sul perfezionamento delle cure psichiatriche e sui prov-
vedimenti istituzionali, sia sulla accresciuta incidenza delle malattie
mentali.2 Il fatto che più della metà dei posti-letto di tutti gli ospedali
degli Stati Uniti sia utilizzata per ammalati di mente per i quali si
spende annualmente la somma di un miliardo di dollari, può testi-
moniare non tanto un aumento delle infermità mentali, quanto, sem-
plicemente, l’intensificazione dell’assistenza psichiatrica. Comun-
que, altre cifre sono più indicative dell’incidenza delle più gravi tur-
be mentali. Se il 17,7 per cento di tutti gli esonerati dal servizio mili-
tare nell’ultima guerra era rappresentato da giovani affetti da malat-
tie mentali, questo fatto rivela certamente una percentuale elevata di
disturbi mentali, anche se mancano cifre comparative per il passato o
per altri paesi.
I soli dati comparativi che possano darci un’indicazione di mas-
sima sulla salute mentale sono quelli relativi al suicidio, all’omicidio
e all’alcolismo. Non c’è dubbio che il problema del suicidio è molto
complesso, e che nessun fattore singolo può essere additato quale
unica causa. Ma anche senza entrare per ora in una discussione sul
suicidio, ritengo ipotesi certa che un elevato numero di suicidi, in
una data società, sia indicativo di una deficienza della stabilità e del-
la salute mentale. Tutti i dati dimostrano chiaramente che l’elevato
numero di suicidi non dipende da indigenza materiale. I paesi più
poveri registrano la più bassa incidenza di suicidi, mentre d’altro
canto, in Europa, all’aumento della prosperità materiale si accompa-
gna un aumento del numero dei suicidi.3 Quanto all’alcolismo, non
c’è dubbio che anch’esso è un sintomo di instabilità mentale ed emo-
tiva.
I motivi dell’omicidio sono probabilmente meno indicativi di uno
stato patologico che quelli del suicidio. Tuttavia, sebbene i paesi con
alta percentuale di omicidi registrino una bassa percentuale di suici-
di, le due percentuali combinate ci portano a una conclusione inte-
ressante. Se si classificano sia il suicidio sia l’omicidio come «atti
distruttivi», le nostre tabelle dimostrano che le loro percentuali com-
2 Cfr. H. GOLDHAMER e A. MARSHALL, Psychosis and Civilization, Free Press, Glencoe
1953. 3 Cfr. Maurice HALBWACHS, Les causes du suicide, Félix Alcan, Parigi 1930, pp. 109 e 112.
11 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
binate non sono costanti, ma oscillano tra le punte estreme del 35,76
e del 4,24. Ciò contraddice l’ipotesi di Freud che sta alla base della
sua teoria dell’istinto di morte, l’ipotesi cioè che esista una costanza
comparativa della mania di distruzione; e confuta altresì la deduzio-
ne secondo cui la mania di distruzione mantiene una percentuale in-
variabile, differendo soltanto nella direzione: verso di sé o verso il
mondo esterno.
Le tabelle seguenti mostrano l’incidenza del suicidio,
dell’omicidio e dell’alcolismo per alcuni tra i più importanti paesi
europei e del Nordamerica.
TABELLA 1. Suicidio e omicidio4 (per ogni 100.000 adulti)
Danimarca 35,09 - 0,67
Svizzera 33,72 - 1,42
Finlandia 23,35 - 6,45
Svezia 19,74 - 1,01
Stati Uniti 15,52 -8,50
Francia 14,83 - 1,53
Portogallo 14,24 - 2,79
Inghilterra e Galles 13,43 - 0,63
Australia 13,03 - 1,57
Canada 11,40 - 1,67
Scozia 8,06 - 0,52
Norvegia 7,84 - 0,38
Spagna 7,71 -2,88
Italia 7,67 - 7,38
Irlanda del Nord 4,82 - 0,13
Repubblica Irlandese 3,70 - 0,54
4 I dati delle tabelle 1 e 2 (che si riferiscono al 1946) sono tratti da: Organizzazione mondiale
della sanità, Annual epidemiological and vital statistics, 1939-46. Part I. vital statistics and
causes of death, Ginevra 1951, pp. 38-71 (per maggior precisione, avvalendoci dei dati forniti
da questa fonte, abbiamo convertito le cifre relative al totale della popolazione in quelle inte-
ressanti la sola popolazione adulta); Organizzazione mondiale della sanità, Epidem. vital Sta-
tist. Rep. 5, 377, 1952. I dati della tabella 3 sono tratti dal Rapporto della 1a sessione del sot-
tocomitato dell'alcolismo del comitato degli esperti per la sanità mentale, Org. mond. san.,
Ginevra 1951.
1. POSSIAMO RITENERCI SANI DI MENTE? 12
TABELLA 2. Atti distruttivi (omicidio e suicidio insieme)
Danimarca 35,76
Svizzera 35,14
Finlandia 29,80
Stati Uniti 24,02
Svezia 20,75
Portogallo 17,03
Francia 16,36
Italia 15,05
Australia 14,60
Inghilterra e Galles 14,06
Canada 13,07
Spagna 10,59
Scozia 8,58
Norvegia 8,22
Irlanda del Nord 4,95
Repubblica Irlandese 4,24
TABELLA 3. Numero approssimativo degli alcolizzati (con o senza com-
plicazioni cliniche) (per ogni 100.000 adulti)
Stati Uniti 3.952 (1948)
Francia 2.850 (1945)
Svezia 2.580 (1946)
Svizzera 2.385 (1948)
Danimarca 1.950 (1948)
Norvegia 1.560 (1947)
Finlandia 1.430 (1947)
Australia 1.340 (1947)
Inghilterra e Galles 1.100 (1948)
Italia 500 (1942)
Un rapido esame di queste tabelle rivela un fenomeno notevole:
Danimarca, Svizzera, Finlandia, Svezia e Stati Uniti sono i paesi con
la più alta percentuale di suicidi e la più alta percentuale di suicidi ed
omicidi considerati cumulativamente, mentre Spagna, Italia, Irlanda
del nord e Repubblica Irlandese danno la più bassa percentuale di
suicidi e omicidi. Le cifre dell’alcolismo mostrano come questi pae-
si, Stati Uniti, Svizzera, Svezia e Danimarca, che hanno la più alta
13 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
percentuale di suicidi, abbiano anche la più alta percentuale di alco-
lizzati, con la sola differenza che gli Stati Uniti sono in testa a questo
gruppo, mentre la Francia occupa il secondo posto invece del sesto
da essa occupato nella tabella relativa al suicidio.
Queste cifre sono veramente tali da allarmare e turbare. Pur dubi-
tando che la sola elevata frequenza dei suicidi indichi una deficienza
nella salute mentale di un popolo, la frequente coincidenza dei dati
dei suicidi e dell’alcolismo sembra dimostrare che abbiamo a che
fare con sintomi di squilibrio mentale.
Scopriamo allora che in Europa i paesi più democratici, pacifici e
progrediti mostrano col paese più ricco del mondo, gli Stati Uniti, i
più gravi sintomi di disturbi mentali. La meta di tutto lo sviluppo
sociale ed economico del mondo occidentale è stata una vita mate-
rialmente comoda, una distribuzione delle ricchezze relativamente
equa, una democrazia stabile e la pace; e proprio i paesi che più si
sono avvicinati a questa meta mostrano i segni più preoccupanti di
squilibrio mentale! Se è vero che queste cifre non dimostrano nulla
di per se stesse, esse sono nondimeno allarmanti. Anche prima di
intraprendere un più approfondito esame di tutto il problema, questi
dati pongono l’interrogativo se non ci sia qualcosa di fondamental-
mente errato nel nostro modo di vivere, e nei fini verso cui tendia-
mo.
La vita di prosperità borghese, mentre soddisfa i nostri bisogni
materiali, ci lascerebbe forse un sentimento di intensa noia, rispetto
alla quale il suicidio e l’alcolismo sarebbero vie patologiche di eva-
sione? Queste cifre sarebbero dunque un efficace commento alla
verità del detto «l’uomo non vive di solo pane», e mostrerebbero
come la civiltà moderna non riesca a soddisfare le intime esigenze
dell’uomo? E se così fosse, quali sarebbero queste esigenze?
I capitoli seguenti cercano di rispondere a questi interrogativi e di
giungere ad una valutazione critica dell’effetto che la cultura occi-
dentale contemporanea esercita sulla salute e sull’integrità mentale
di coloro che vivono nel nostro sistema civile. Tuttavia, prima di
iniziare la specifica discussione di questi problemi, ci pare necessa-
rio affrontare il problema generale della patologia della normalità,
che costituisce la premessa fondamentale di quanto esposto in que-
sto libro.
14
2.
Una società può essere malata?
Patologia della normalità
1
Parlare di una società intera come psichicamente ammalata com-
porta implicitamente l’accettazione di un’ipotesi controversa e con-
traria alle posizioni del relativismo sociologico condivise dalla mag-
gior parte dei sociologi contemporanei. Essi presuppongono che
ogni società sia normale in quanto funziona, e che la patologia possa
esser definita soltanto nei termini di un mancato adattamento indivi-
duale al tipo di vita proprio di tale società.
Parlare di «società sana» comporta premesse diverse da quelle
del relativismo sociologico. Ed ha senso solo se presumiamo che ci
possa essere una società che non sia sana; questa ipotesi, a sua volta,
presuppone, per quanto riguarda la salute mentale, l’esistenza di cri-
teri di giudizio universalmente accettati, validi per giudicare il gene-
re umano come tale, e secondo i quali si possa giudicare la salute di
una qualsiasi società. Questa posizione di umanesimo normativo è
basata su alcune premesse fondamentali.
La specie «uomo» può essere definita non soltanto in termini ana-
tomici e fisiologici; i suoi membri hanno in comune anche qualità
psichiche fondamentali, le leggi che governano le loro funzioni men-
tali ed emotive, e lo scopo di dare una soluzione soddisfacente al
problema dell’umana esistenza. In effetti la nostra conoscenza
dell’uomo è ancora troppo incompleta perché sia possibile dare una
definizione soddisfacente dell’uomo sotto l’aspetto psicologico. È
appunto compito della «scienza dell’uomo» definire esattamente
cosa si debba intendere per natura umana. Spesso per natura umana
si intende semplicemente una delle sue diverse manifestazioni, spes-
1 Per questo capitolo mi sono servito del mio lavoro Individual and Social Origins of Neurosis,
«Am' Soc' Rev'», IX, 4, 1944, p. 380 ss.
15 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
so una manifestazione patologica, e per lo più tale errata definizione
ha la funzione di difendere un particolare tipo di società, come se
questo fosse il necessario prodotto della struttura mentale dell’uomo.
Contro tale uso reazionario del concetto di natura umana, i libera-
li fin dal diciottesimo secolo hanno insistito sulla capacità di adatta-
mento della natura umana e sull’influenza decisiva dei fattori am-
bientali. Anche se vera ed importante, questa affermazione ha indot-
to molti sociologi a ritenere che la struttura mentale dell’uomo sia
carta bianca su cui la società e la cultura scrivono il proprio libro, e
che di per se stessa non possiede alcuna qualità intrinseca. Questa
ipotesi è in effetti non meno insostenibile e distruttiva per il progres-
so sociale di quanto lo fosse il punto di vista opposto. Il problema è
di estrarre il nucleo comune a tutto il genere umano dalle molteplici
manifestazioni dell’umana natura, sia normali sia patologiche, così
come le osserviamo in individui e culture diverse. Bisogna inoltre
scoprire le leggi inerenti alla umana natura, e le mete del suo svilup-
po e del suo manifestarsi.
Tale concetto di «natura umana» si differenzia dall’uso conven-
zionale del termine. Effettivamente, come l’uomo trasforma il mon-
do che lo circonda, così, nel processo storico, egli modifica anche se
stesso. Egli è, per così dire, la sua stessa creazione. Ma come l’uomo
può trasformare e modificare gli elementi naturali che lo circondano
soltanto secondo la loro particolare natura, così egli può modificare
se stesso soltanto rispettando la propria natura. L’attività dell’uomo
nel processo storico sta nello sviluppare questo potenziale attivando-
lo secondo le possibilità ad esso inerenti. Questo punto di vista non è
né «biologico» né «sociologico», se con ciò si mirasse a separare tra
loro questi due aspetti. Esso piuttosto trascende tale dicotomia, sup-
ponendo che le diverse passioni e i diversi stimoli umani risultino
dalla esistenza totale dell’uomo, che queste passioni e questi stimoli
siano definiti e accettabili, alcuni atti a portare alla salute e alla feli-
cità, altri alle malattie e all’infelicità. Un dato ordinamento sociale
non crea queste esigenze fondamentali, ma determina il ristretto nu-
mero di passioni latenti che devono diventare esplicite e dominanti.
L’uomo, quale appare in una data cultura, è sempre una manifesta-
zione della natura umana, una manifestazione tuttavia che, nella sua
specifica estrinsecazione, è determinata dalla struttura sociale in cui
egli vive. Difatti come un bambino nasce con tutto il suo potenziale
2. UNA SOCIETÀ PUÒ ESSERE MALATA? 16
umano che si dovrà sviluppare in circostanze sociali e culturali favo-
revoli, così il genere umano nel corso del processo storico si svilup-
pa nell’ambito delle proprie potenzialità.
Il punto di vista dell’umanesimo normativo è sostenuto dalla
convinzione che, come in altre questioni, anche per il problema
dell’esistenza umana vi sono soluzioni giuste ed errate, soddisfacenti
e insoddisfacenti. La salute mentale viene raggiunta se l’uomo si
sviluppa, sino a raggiungere la maturità completa, in accordo con le
caratteristiche e le leggi della natura umana, e le malattie mentali
consistono in un mancato sviluppo in questo senso. Date tali pre-
messe, il metro di giudizio della salute mentale non sarà stabilito in
rapporto all’adattamento individuale in un dato ordinamento sociale,
ma dovrà essere universale, valido per tutti gli uomini, e in grado di
dare una risposta soddisfacente al problema dell’esistenza umana.
Ciò che trae specialmente in inganno quando si considerino le
condizioni mentali dei membri di una società, è la «convalida con-
sensuale» dei loro concetti. Si ritiene ingenuamente che, se certi sen-
timenti o certe idee sono condivisi dai più, essi sono giusti. Niente è
più lontano dal vero. La convalida consensuale in sé non ha nulla a
che vedere con la salute mentale. Come c’è una folie à deux, così c’è
una folie à millions. Il fatto che milioni di persone condividano gli
stessi vizi non fa di questi vizi delle virtù, il fatto che essi condivida-
no tanti errori non fa di questi errori delle verità, e il fatto che milio-
ni di persone condividano una stessa forma di malattia mentale non
fa che questa gente sia sana.
C’è tuttavia una differenza importante tra malattie mentali indivi-
duali e sociali, che suggerisce una differenziazione tra i due concetti:
quello di deficienza e quello di nevrosi. Se una persona non riesce a
raggiungere libertà, spontaneità e genuina espressione di sé, si può
ritenere che essa abbia delle gravi forme di deficienza, sempre che si
creda che libertà e spontaneità siano delle mete obiettive raggiungi-
bili da ogni creatura umana. Se poi questa meta non è raggiungibile
dalla maggioranza dei membri di una data società, allora abbiamo a
che fare con il fenomeno di una deficienza socialmente strutturata.
L’individuo la condivide con molti altri, ma non crede si tratti di una
deficienza e la sua sicurezza non è minacciata dalla consapevolezza
di essere diverso, di essere, per così dire, un proscritto. Ciò che può
aver perso in ricchezza, in sentimento genuino di felicità, è compen-
17 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
sato dal senso di sicurezza datogli dall’adattamento al resto
dell’umanità, sempre però com’egli la vede. In effetti può avvenire
che proprio questa deficienza sia stata elevata a virtù dalla sua cultu-
ra, e che pertanto gliene derivi un accresciuto sentimento di succes-
so.
Potrebbe valere come esempio il senso di angoscia e di colpa che
le dottrine di Calvino hanno destato negli uomini. Si potrebbe dire
che la persona oppressa dal senso della propria debolezza e indegni-
tà, da comuni dubbi sulla salvezza o condanna della propria anima,
che è difficilmente capace di gioia genuina, soffra di una grave defi-
cienza. Tuttavia questa stessa deficienza concordava col sistema cul-
turale, era considerata degna di particolare stima, e l’individuo era
così protetto rispetto alle nevrosi che lo avrebbero colpito in una cul-
tura dove uguali deficienze gli avrebbero causato un sentimento di
profonda insufficienza e di isolamento.
Spinoza formulò molto chiaramente il problema della deficienza
socialmente strutturata. Egli disse: «Vi sono uomini presi con grande
violenza da un’unica passione: tutti i loro sensi sono così eccitati da
un unico oggetto che essi lo hanno presente anche quando
quest’oggetto non c’è. Se ciò si verifica mentre una persona è sve-
glia, noi diciamo che costui vaneggia... Ma se l’avaro pensa soltanto
al denaro e ai suoi beni, e l’ambizioso soltanto alla gloria, noi non li
riteniamo pazzi, ma solo disgustosi e, generalmente, li disprezziamo.
In effetti però l’avarizia, l’ambizione e altre passioni sono forme di
pazzia, sebbene generalmente non siano reputate malattie».2
Queste parole, scritte qualche secolo fa, sono ancora valide anche
se queste deficienze sono state strutturate culturalmente in modo tale
che ormai non le si giudica più disgustose o disprezzabili. Oggi ci
incontriamo con persone che agiscono e sentono come automi: che
non hanno mai avuto un’esperienza veramente propria, che conosco-
no se stessi non come sono nella realtà, ma come gli altri si attendo-
no che siano, il cui sorriso convenzionale ha sostituito la risata ge-
nuina, le cui chiacchiere insignificanti hanno sostituito il colloquio
comunicativo, la cui opaca disperazione ha preso il posto di
un’autentica sofferenza. Due cose si possono dire per costoro: una è
che soffrono di una mancanza di spontaneità e di individualità che
2 Cfr. SPINOZA, Ethica, IV prop., XLIV scol.
2. UNA SOCIETÀ PUÒ ESSERE MALATA? 18
può sembrare incurabile; nello stesso tempo si può anche rilevare
come essi non sono essenzialmente diversi da milioni di altri che si
trovano in eguali condizioni. Alla maggior parte di loro la cultura
fornisce strutture che li mettono in grado di vivere con una deficien-
za senza ammalarsi. È come se ogni cultura fornisse il rimedio con-
tro le esplosioni di evidenti sintomi nevrotici, conseguenza della de-
ficienza che questa stessa cultura ha provocato.
Supponiamo che nella cultura occidentale il cinema, la radio, la
televisione, gli avvenimenti sportivi e i giornali siano sospesi per
quattro sole settimane. Chiuse queste diverse vie di evasione, quali
sarebbero le conseguenze per gente ridotta solo alle proprie risorse?
Indubbiamente, seppur in così breve tempo, si registrerebbero esau-
rimenti nervosi a migliaia, e ancor più sarebbero le persone che ca-
drebbero in uno stato di ansia acuta non diverso dal quadro clinico di
una nevrosi.3 Se fosse tolto il narcotico contro la deficienza sanzio-
nata, le malattie si manifesterebbero apertamente.
Ma per una minoranza il modello fornito dalla cultura non fun-
ziona. Si tratta spesso di persone la cui deficienza individuale supera
il livello medio, cosicché i rimedi offerti dal costume culturale non
sono sufficienti per prevenire l’esplosione di malattie manifeste. (Il
caso tipico è quello di una persona la cui aspirazione nella vita sia di
raggiungere potere e fama. Anche se questa aspirazione è di per se
stessa un caso patologico, c’è tuttavia una differenza tra chi usa le
proprie capacità per raggiungere realisticamente la meta, e chi inve-
ce, più gravemente malato, è ancora così totalmente vittima di un
senso infantile della grandezza da non far nulla per
raggiungere quel che desidera, da restare in attesa di un miracolo,
e così sentendosi sempre più impotente finisce per provare un senso
di inutilità e di amarezza). Ma ci sono anche coloro la cui struttura di
carattere, e di conseguenza i cui conflitti, sono diversi da quelli della
3 Ho fatto, con alcune classi di studenti di un collegio universitario, il seguente esperimento. Li
ho invitati ad immaginare di stare per tre giorni isolati nelle loro camere, senza radio, senza
letteratura ricreativa, ma provvisti di buoni libri, cibo normale e ogni altra comodità materiale.
Essi dovevano immaginare quali sarebbero state le loro reazioni a tale esperienza. Le risposte
di circa il 90% di ciascun gruppo variavano da una sensazione di acuto panico a quella di
trovarsi di fronte ad una prova estremamente dura che si sarebbe cercato di superare dormendo
a lungo, facendo diversi lavorucci, e attendendo ardentemente la fine di questo periodo. Solo
ben pochi sentivano che si sarebbero trovati a loro agio e avrebbero fatto buon uso del periodo
di solitudine loro concesso.
19 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
maggioranza, cosicché i rimedi validi per la maggior parte degli altri
a loro non giovano. In questi gruppi troviamo talvolta elementi di
rettitudine e sensibilità superiori al comune, che proprio per queste
ragioni sono incapaci di accettare il narcotico culturale, ma che nel
contempo non sono abbastanza forti e sani da vivere salutarmente
«contro corrente».
La precedente discussione sulla differenza tra nevrosi e deficien-
za socialmente strutturata potrebbe dare l’impressione che purché la
società fornisse i rimedi contro le esplosioni di sintomi manifesti,
tutto andrebbe bene e contribuirebbe a funzionare senza inciampi,
per quanto grandi siano le deficienze che essa stessa ha creato. La
storia però ci mostra che questo non avviene.
È bensì vero che l’uomo, contrariamente agli animali, dimostra
una quasi infinita capacità di adattamento; difatti, come può mangia-
re quasi ogni cosa e vivere praticamente sotto qualsiasi clima, così
non esiste condizione psichica che egli non possa sopportare e nella
quale non riesca a tirare avanti. Egli può vivere libero o in schiavitù,
nella ricchezza e nel lusso o mezzo morto di fame e di freddo. Può
vivere da soldato o da uomo pacifico; può essere sfruttatore e ladro
oppure membro di una fraterna comunità. Sono poche le condizioni
psichiche in cui l’uomo non possa vivere, e non c’è quasi nulla che
non si possa fare di lui o per cui non possa essere adoperato. Tutte
queste considerazioni sembrano giustificare la tesi secondo cui una
natura comune a tutti gli uomini non esiste; il che significa pratica-
mente che non esiste una «specie uomo» tranne che in senso anato-
mico e fisiologico.
Tuttavia, a dispetto di ogni evidenza, la storia dell’uomo mostra
che abbiamo trascurato un fatto. Despoti e cricche dirigenti possono
riuscire a dominare e sfruttare i loro consimili, ma non possono pre-
venire le reazioni a questo trattamento inumano. I loro sudditi si
spaventeranno, diverranno sospettosi, si isoleranno; se non per cause
esterne, il loro sistema ad un certo momento crollerà perché paure,
sospetti ed isolamenti renderanno la maggioranza inadatta ad eserci-
tare le sue funzioni in maniera effettiva ed intelligente. Intere nazioni
o gruppi entro di esse possono esser messe in servitù o sfruttate per
molto tempo, ma reagiranno. Reagiranno con l’apatia o con una tal
diminuita partecipazione dell’intelligenza, dell’iniziativa e delle ca-
pacità, che essi gradualmente non saranno più in grado di svolgere
2. UNA SOCIETÀ PUÒ ESSERE MALATA? 20
quelle funzioni che servirebbero ai loro capi. Oppure reagiranno con
una tale carica di odio e di volontà di distruzione da provocare la
fine di se stessi, dei capi e del sistema. Inoltre la loro reazione può
suscitare uno spirito di indipendenza e un desiderio di libertà tali da
porre col loro impulso creativo le premesse per una società migliore.
Dipende da molti fattori, sia relativi alla situazione economica e po-
litica sia al clima spirituale in cui la gente vive, che la reazione av-
venga in un modo o in un altro. Ma quale essa sia, l’affermazione
che l’uomo può vivere in quasi tutte le condizioni è vera soltanto a
metà; occorre completarla con l’altra: se egli vive in condizioni con-
trarie alla sua natura e ai requisiti essenziali allo sviluppo e alla salu-
te umana, non può fare a meno di reagire; dovrà decadere e perire
oppure creare condizioni più conformi ai suoi bisogni.
Che la natura umana e la società possano avere esigenze tra loro
inconciliabili e di conseguenza una intera società possa essere mala-
ta, è una tesi che fu presentata molto chiaramente da Freud, partico-
larmente in Das Unbehagen in der Kultur.
Egli parte dalla premessa di una natura comune a tutta la razza
umana al di sopra di tutte le culture e di tutte le epoche, e di certi
bisogni ed aspirazioni definibili, inerenti a questa natura. Freud è
convinto che cultura e civiltà si sviluppino in un sempre crescente
contrasto con i bisogni dell’uomo, e così giunge al concetto di «ne-
vrosi sociale». «Se l’evoluzione della civiltà, egli scrive, ha una so-
miglianza così profonda con lo sviluppo dell’individuo e se gli stessi
metodi sono usati per ambedue, non potrebbe esser giustificata la
diagnosi che molti sistemi di civiltà, o suoi periodi, o forse anche
tutta l’umanità sono diventati nevrotici sotto la pressione delle ten-
denze generali della civiltà? All’esame analitico di queste nevrosi
potrebbero seguire raccomandazioni terapeutiche di grande utilità
pratica. E non direi che tale tentativo di applicare la psicanalisi alla
società civile sarebbe stravagante o votato alla sterilità. Ma occorre
esser cauti, e non dimenticare che, dopo tutto, abbiamo a che fare
soltanto con analogie, e che è pericoloso, non solo con gli uomini ma
anche con i concetti, strapparli dal terreno in cui nascono e si sono
maturati. La diagnosi di nevrosi collettiva tuttavia si scontrerà con
difficoltà non comuni. Nelle nevrosi di un individuo possiamo ser-
virci, come punto di partenza, del contrasto che si presenta tra il pa-
ziente e il suo ambiente, che noi presumiamo essere "normale"; men-
21 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
tre nessun archetipo di questo genere sarebbe valido per una qualsia-
si società malata, e bisognerebbe supplirvi in qualche altro modo.
Riguardo alle applicazioni terapeutiche che noi conosciamo, a che
cosa potrebbe servire la più acuta analisi di nevrosi sociale dal mo-
mento che nessuno ha il potere di costringere la comunità ad adottare
la terapia? Ma a dispetto di tutte queste difficoltà, noi speriamo che
un giorno qualcuno voglia arrischiarsi in queste ricerche sulla pato-
logia delle comunità civili».4
Questo libro vuol arrischiarsi in queste ricerche. Esso si basa
sull’idea che una società sana sia quella che corrisponde ai bisogni
dell’uomo, non necessariamente a quelli che egli sente essere i suoi
bisogni, perché anche le aspirazioni più patologiche possono essere
sentite soggettivamente come quelle che un individuo maggiormente
desidera, ma a quelli che sono obiettivamente i suoi bisogni, quali
possono essere accertati dallo studio dell’uomo. Il nostro primo
compito è di determinare quale sia la natura dell’uomo, e quali i bi-
sogni che da essa derivano. Dovremo poi procedere ad esaminare il
ruolo svolto dalla società nella evoluzione dell’uomo e la sua azione
di stimolo sullo sviluppo dell’umanità; dovremo studiare altresì i
periodici conflitti tra natura umana e società e le loro conseguenze,
particolarmente per quanto interessa la società moderna.
4 S. FREUD, in Das Unbehagen in der Kultur, Vienna 1930; trad. ingl. col titolo Civilization
and Its Discontents, Hogarth Press, Londra 1953, pp. 141-2. Il corsivo è mio.
22
3.
La situazione umana alla base della psicanalisi umanistica
La situazione umana
Per quanto riguarda il corpo e le funzioni fisiologiche l’uomo ap-
partiene al regno animale. Il comportamento dell’animale è determi-
nato dagli istinti, da specifici complessi di azioni che sono a loro
volta determinate da strutture neurologiche ereditarie. Quanto più
alto è il posto occupato dall’animale nella scala evolutiva, tanto
maggiore è la flessibilità del complesso di azioni e tanto meno com-
pleto l’adattamento strutturale riscontrabile alla sua nascita. Nei pri-
mati superiori troviamo perfino una notevole intelligenza, cioè uso
del pensiero per raggiungere le mete desiderate, il che permette così
all’animale di andar oltre i complessi di azioni dettate dall’istinto.
Ma per quanto largamente si estenda l’evoluzione entro il mondo
animale, taluni elementi basilari dell’esistenza restano immutati.
L’animale «viene vissuto» attraverso le leggi biologiche della na-
tura, cioè le subisce; fa parte della natura e non può trascenderla.
Esso non ha una coscienza d’ordine morale, non ha consapevolezza
di se stesso e della propria esistenza; non ha la ragione, se per ragio-
ne intendiamo la capacità di penetrare oltre la superficie percepita
dai sensi e comprendere l’essenza che sta sotto tale superficie; perciò
non ha la concezione del vero, anche se può avere un’idea di quel
che sia l’utile.
L’esistenza animale è un’esistenza di armonia tra l’animale e la
natura; non nel senso, beninteso, che le condizioni naturali non mi-
naccino spesso l’animale e non lo costringano ad aspre lotte per so-
pravvivere, ma nel senso che l’animale è equipaggiato dalla natura
per dominare proprio le condizioni cui deve far fronte, come il seme
è equipaggiato per utilizzare le condizioni del suolo, del clima, ecc.
alle quali esso si è adattato nel processo evolutivo.
Ad un certo punto dell’evoluzione animale è accaduta una parti-
colare frattura, comparabile al primo sorgere della materia, al primo
23 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
sorgere della vita, al primo sorgere dell’esistenza animale. Questo
nuovo evento si verifica quando nel processo evolutivo l’azione ces-
sa di esser determinata dall’istinto, quando l’adattamento della natu-
ra perde il suo carattere coercitivo, quando l’azione non è più presta-
bilita da un meccanismo ereditariamente trasmesso. Quando
l’animale trascende la natura, quando trascende il ruolo meramente
passivo di creatura, quando diventa, biologicamente parlando,
l’animale più sprovveduto, allora nasce l’uomo. A questo punto
l’animale si è emancipato dalla natura con la stazione eretta, e il cer-
vello si è molto più sviluppato di quanto non fosse nell’animale più
progredito. La nascita dell’uomo può esser durata centinaia di anni,
ma quel che importa è che è sorta una nuova specie che trascende la
natura, e la vita è divenuta cosciente di se stessa.
Consapevolezza di sé, ragione e immaginazione guastano
l’«armonia» che caratterizza l’esistenza animale. Il loro apparire ha
fatto dell’uomo un’anomalia, il capriccio dell’universo. Egli è parte
della natura, soggetto alle sue leggi fisiche e incapace di modificarle,
ma trascende il resto della natura. Egli è posto di fronte a se stesso,
pur rimanendo parte del tutto; è senza dimora per quanto incatenato
alla dimora che condivide con tutte le creature. Gettato in questo
modo in un tempo e in un luogo fortuiti, ne è spinto fuori in maniera
altrettanto fortuita. Essere che ha coscienza di sé, egli riconosce la
sua sprovvedutezza e le limitazioni della sua esistenza. Egli prevede
la sua stessa fine: la morte. Non è mai libero dalla dicotomia della
sua esistenza: non può liberarsi della sua mente, anche se volesse
farlo; finché è vivo, non può liberarsi del suo corpo, e il suo corpo fa
sì che egli voglia esser vivo. La ragione, sommo bene dell’uomo, è
anche la sua maledizione; essa lo costringe a lottare perennemente
per risolvere un’insolubile dicotomia. L’esistenza umana è in questo
diversa da quella di tutti gli altri organismi; essa si trova in uno stato
di costante e inevitabile squilibrio. La vita dell’uomo non può «esser
vissuta» ripetendo la forma tipica della propria specie, egli è obbli-
gato a viverla. L’uomo è il solo animale che possa annoiarsi, che
possa sentirsi cacciato dal paradiso. L’uomo è il solo animale che
guarda alla propria esistenza come ad un problema che deve risolve-
re e al quale non può sfuggire. Non può retrocedere alla condizione
preumana di armonia con la natura, ma deve andare avanti per svi-
3. LA SITUAZIONE UMANA ALLA BASE DELLA PSICANALISI UMANISTICA 24
luppare la sua ragione fino a divenire padrone della natura e di se
stesso.
Sia ontogeneticamente sia filogeneticamente la nascita dell’uomo
è essenzialmente un evento negativo. Egli manca di adattamento
istintivo alla natura, manca di vigore fisico, è, alla nascita, il più in-
difeso di tutti gli animali, e per un più lungo periodo di tempo biso-
gnoso di protezione. Se da un lato ha perduto l’unità con la natura,
dall’altro non gli sono stati dati i mezzi per condurre una nuova esi-
stenza fuori della natura. La sua ragione è molto rudimentale, egli
non ha conoscenza dei processi della natura, né strumenti che sosti-
tuiscano gli istinti perduti; vive diviso in piccoli gruppi, senza cono-
scenza di se stesso e degli altri; veramente il mito biblico del paradi-
so esprime la situazione con perfetta chiarezza. L’uomo, che vive nel
giardino dell’Eden in completa armonia con la natura ma senza co-
scienza di sé, inizia la sua storia con il primo atto di libertà, la disob-
bedienza ad un comando. Contemporaneamente diventa cosciente di
se stesso, del suo isolamento, della sua sprovvedutezza; è cacciato
dal paradiso e due angeli con spade di fuoco impediscono il suo ri-
torno.
L’evoluzione dell’uomo si basa sul fatto che egli ha perduto la
sua originaria dimora, la natura, e che non può più ritornarvi, non
può diventare nuovamente un animale. Una sola via può prendere:
uscire completamente dalla sua dimora naturale, trovare una nuova
dimora che egli crea trasformando il mondo in un mondo umano,
diventando egli stesso veramente umano.
Quando l’uomo nasce, sia come specie sia come individuo, è
estromesso da una situazione che era definita, definita come gli istin-
ti, e immesso in una situazione che è indefinita, incerta e sconfinata.
Esiste certezza soltanto riguardo al passato; il futuro ha un’unica
certezza: la morte, che è anch’essa in effetti un ritorno al passato,
allo stato inorganico della materia.
Il problema dell’esistenza umana è pertanto unico in tutta la natu-
ra: l’uomo è, si può dire, caduto fuori della natura, e tuttavia vi è
ancora dentro; egli è in parte divino e in parte animale, in parte infi-
nito e in parte finito. La necessità di trovare sempre nuove soluzioni
alle contraddizioni della sua esistenza, di trovare sempre più alte
forme di unità con la natura, con i suoi simili e con se stesso è
25 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
all’origine di tutte le energie psichiche che determinano l’uomo e di
tutte le sue passioni, affetti e preoccupazioni.
L’animale è contento quando i suoi bisogni fisiologici, fame, se-
te, bisogni sessuali, sono soddisfatti. In quanto l’uomo è anche un
animale, questi bisogni sono altrettanto imperativi e devono esser
soddisfatti. Ma in quanto l’uomo è umano, la soddisfazione di questi
bisogni istintivi non è sufficiente a farlo felice e nemmeno a farlo
sano di mente. Il punto d’appoggio del dinamismo specificamente
umano sta in questa singolarità della situazione umana; la compren-
sione della psiche umana deve basarsi sull’analisi di quei bisogni
dell’uomo che sorgono dalle condizioni della sua esistenza.
Dunque il problema che la specie umana, come ciascun indivi-
duo, deve risolvere è quello di nascere. La nascita fisica, se pensia-
mo all’individuo, non è per nulla quell’atto decisivo e singolare che
potrebbe apparire. Essa è infatti un importante cambiamento dalla
vita intra-uterina a quella extra-uterina, ma per diversi aspetti il
bambino dopo il parto non differisce dal bambino prima del parto;
egli non è capace di conoscere gli oggetti appartenenti al mondo
esterno, non è capace di nutrirsi da solo, è completamente dipenden-
te dalla madre e morrebbe senza il suo aiuto. Effettivamente il pro-
cesso della nascita continua. Il bambino comincia a individuare gli
oggetti che lo circondano, a reagire affettivamente, ad afferrare le
cose, a coordinare i propri movimenti, a camminare. Ma la nascita
continua. Il bambino impara a parlare, impara a conoscere l’uso e la
funzione delle cose, impara a mettersi in relazione con gli altri, ad
evitare le punizioni e ottenere approvazione e simpatia. Lentamente,
la persona che cresce impara ad amare, a sviluppare la ragione, a
vedere il mondo obiettivamente. Essa comincia a sviluppare le sue
capacità, ad acquistare il senso della propria individualità, a domina-
re la seduzione dei sensi per il raggiungimento di una vita integrata.
Il parto è dunque soltanto l’inizio di una nascita in senso più lato.
Tutta la vita di un individuo non è altro che il processo di far nascere
se stesso; in realtà noi dovremmo essere completamente nati quando
moriremo, benché sia tragico destino della maggior parte degli uo-
mini morire prima di esser nati.
Da tutto ciò che noi conosciamo relativamente all’evoluzione del-
la specie umana, la nascita dell’uomo è da intendersi nello stesso
senso della nascita dell’individuo. Quando l’uomo ha superato un
3. LA SITUAZIONE UMANA ALLA BASE DELLA PSICANALISI UMANISTICA 26
dato limite minimo di adattamento istintivo, allora ha cessato di es-
sere un animale; ma è rimasto bisognoso di aiuto e sprovveduto
quanto lo è ogni bambino alla nascita. La nascita dell’uomo comin-
ciò con i primi esemplari della specie homo sapiens, e la storia uma-
na non è altro che l’intero processo di questa nascita. Occorsero
all’uomo centinaia di migliaia di anni per fare i primi passi nella vita
umana; egli passò attraverso la fase narcisistica dell’onnipotente
orientamento magico, attraverso il totemismo, il culto della natura,
fino a giungere agli inizi della formazione della coscienza,
dell’obiettività, dell’amor fraterno. Negli ultimi quattromila anni
della sua storia egli ha sviluppato concezioni di un uomo compiuta-
mente nato e compiutamente cosciente, concezioni espresse, in ma-
niere non molto diverse, dai grandi maestri dell’umanità in Egitto,
Cina, India, Palestina, Grecia e Messico.
Il fatto che la nascita dell’uomo sia principalmente un atto nega-
tivo, essendo egli estromesso dall’originaria unità con la natura e
non potendo ritornare al luogo d’origine, implica che il processo del-
la nascita non è per niente felice. Ogni passo verso la sua nuova esi-
stenza umana è spaventoso. Esso significa sempre lasciare una situa-
zione sicura e relativamente nota per una non ancora conosciuta.
Indubbiamente se il bambino, al momento della sua separazione dal
cordone ombelicale, fosse capace di pensare, proverebbe il timore
della morte. Un destino amorevole ci protegge da questo terrore ini-
ziale. Ma ad ogni nuovo passo, ad ogni nuovo stadio della nostra
nascita, noi siamo nuovamente impauriti. Non siamo mai liberi dalle
due tendenze contrastanti: quella di uscir fuori dal grembo materno,
di passare da una forma animale di esistenza ad una esistenza mag-
giormente umana, dalla schiavitù alla libertà; e l’altra di ritornare al
grembo materno, alla natura, alla certezza e alla sicurezza. Nella sto-
ria dell’individuo e della specie, la tendenza ad andare avanti ha di-
mostrato di essere più forte, ma i fenomeni di malattie mentali e la
regressione della specie umana a posizioni che parevano abbandona-
te da generazioni passate testimoniano le gravi lotte che accompa-
gnano ogni volta l’atto del nascere.1
1 E' in questa polarità che io riconosco il nucleo di verità dell'ipotesi freudiana dell'esistenza di
un istinto di vita e di un istinto di morte; tuttavia, a differenza della teoria di Freud, ritengo che
gli stimoli al progresso o alla regressione non siano biologicamente equivalenti, ma che l'istin-
to di vita abbia maggior forza e questa cresca col suo progressivo realizzarsi.
27 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
I bisogni dell’uomo sorgono
dalle condizioni della sua esistenza
La vita umana è determinata dall’ineluttabile alternativa tra re-
gressione e progresso, tra il ritorno all’esistenza animale e la realiz-
zazione completa dell’esistenza umana. Ogni tentativo di tornare
indietro è doloroso e conduce inevitabilmente alla sofferenza, a ma-
lattie mentali e alla morte fisiologica o mentale, cioè alla pazzia. Ma
anche ogni passo avanti è pauroso e doloroso, fino a che non si rag-
giunga un certo punto dove paura e incertezza hanno soltanto minori
proporzioni. Ad esclusione delle esigenze fisiologicamente determi-
nate (fame, sete, sesso), tutte le esigenze essenzialmente umane sono
determinate da questa polarità. L’uomo deve risolvere un problema;
egli non può mai riposare in una data situazione di adattamento pas-
sivo alla natura. Anche la più completa soddisfazione di tutti i suoi
bisogni istintivi non risolve il suo problema umano: le passioni e i
bisogni più intensi non sono quelli radicati nel suo corpo, ma quelli
radicati nella stessa peculiarità della sua esistenza.
Qui si spiega anche che cosa sia una psicanalisi umanistica.
Freud, ricercando l’energia fondamentale che determina le passioni e
i desideri umani, ritenne di averla trovata nella libido. Ma, quantun-
que potenti, lo stimolo sessuale e tutte le sue derivazioni non sono le
più forti energie dell’uomo, e la loro frustrazione non è causa di di-
sordini mentali. Le più potenti energie determinanti il comportamen-
to dell’uomo sorgono dalle condizioni della sua esistenza, dalla «si-
tuazione umana».
L’uomo non può vivere staticamente perché le sue intime con-
traddizioni lo spingono a cercare un equilibrio, un’armonia nuova al
posto della perduta armonia animale con la natura. Dopo che ha sod-
disfatto i suoi bisogni animali, egli è spinto dai suoi bisogni umani.
Mentre il suo corpo gli suggerisce che cosa mangiare e che cosa evi-
tare, la sua coscienza dovrebbe dirgli quali bisogni siano da coltivare
e soddisfare e quali altri da lasciar spegnere ed esaurirsi. Se però la
fame e l’appetito nascono col corpo, la coscienza, pur potenzialmen-
te presente, richiede la guida di uomini e di principi che si sviluppa-
no soltanto con il progresso della civiltà.
Tutte le passioni e tutti gli sforzi dell’uomo sono tentativi di tro-
vare una risposta al problema della sua esistenza, ovvero tentativi di
3. LA SITUAZIONE UMANA ALLA BASE DELLA PSICANALISI UMANISTICA 28
sfuggire alla follia. (Ricordiamo, di passaggio, che il vero problema
della vita mentale non sta nel perché certuni diventano pazzi, ma
piuttosto nel perché la maggioranza sfugge alla pazzia). Sia l’uomo
mentalmente sano sia il nevrotico sono mossi dal bisogno di trovare
una risposta; la sola differenza è che una risposta corrisponde più di
un’altra all’insieme dei bisogni dell’uomo e che di conseguenza por-
ta ad un maggior sviluppo dei suoi poteri e della sua felicità. Ogni
cultura fornisce un sistema strutturato nel quale talune soluzioni, e
perciò talune aspirazioni e soddisfazioni, sono predominanti. Se noi
esaminiamo le religioni primitive, le religioni teistiche e quelle non
teistiche, vediamo come esse siano tutte tentativi di dare una risposta
al problema esistenziale dell’uomo. Sia le culture più raffinate sia le
più barbariche hanno la stessa identica funzione; esse differiscono
unicamente nella qualità della risposta. Chi devia dalle norme di una
cultura è in cerca di una risposta né più né meno che il suo fratello
maggiormente adattato. La sua risposta può esser migliore o peggio-
re di quella data dalla cultura in cui vive; tuttavia essa è sempre una
risposta alla stessa fondamentale domanda posta dall’esistenza uma-
na. In questo senso tutte le culture sono religiose, e ogni nevrosi è
una forma privata di religione quando si intenda per religione un
tentativo di rispondere al problema dell’esistenza umana. Infatti
l’enorme energia delle forze che producono malattie mentali, così
come quella propria delle forze che stanno alla base dell’arte e della
religione non può esser concepita come conseguenza di bisogni fi-
siologici frustrati o sublimati; esse sono tentativi di risolvere il pro-
blema dell’esser nato uomo. Tutti gli uomini sono capaci di creazio-
ni ideali, e non possono non esserlo quando per creazione ideale si
intenda lo sforzo inteso a soddisfare bisogni che sono specificamente
umani e trascendono i bisogni fisiologici dell’organismo. La diffe-
renza è che una creazione ideale fornisce una soluzione buona e ade-
guata, l’altra una soluzione cattiva e distruttiva. La decisione su quel
che sia buono o cattivo deve esser fatta sulla base della nostra cono-
scenza della natura dell’uomo e delle leggi che governano il suo svi-
luppo.
Quali sono questi bisogni e queste passioni che sorgono
dall’esistenza dell’uomo?
29 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
A. correlazione contro narcisismo
L’uomo viene strappato dall’unione originaria con la natura che
caratterizza l’esistenza animale. Possedendo nel contempo ragione e
immaginazione, egli è cosciente di esser solo e staccato, riconosce la
propria impotenza, la propria ignoranza e la casualità della sua nasci-
ta e della sua morte. Non riuscirebbe a sopportare per un solo istante
questa sua condizione se non potesse trovare nuovi legami con i suoi
simili, che sostituiscano quelli vecchi, regolati dagli istinti. Anche se
tutti i suoi bisogni fisiologici fossero soddisfatti, egli sentirebbe la
sua condizione di solitudine e di singolarità come una prigione dalla
quale dovrebbe fuggire per conservare la propria sanità mentale. Ef-
fettivamente, il pazzo è uno che non è riuscito a stabilire nessun ge-
nere di rapporto, e si trova come in una prigione, anche se non dietro
le sbarre. La necessità di unirsi ad altri esseri viventi e di esser loro
collegato è un bisogno imperativo dal cui soddisfacimento dipende
la salute psichica dell’uomo. Questo bisogno è presente in tutti i fe-
nomeni che costituiscono l’intera gamma degli intimi rapporti uma-
ni, di tutte le passioni che sono chiamate amore, nel più largo senso
della parola.
Questa unione può essere cercata e raggiunta in diversi modi.
L’uomo può cercare di entrare in armonia con il mondo sottometten-
dosi ad una persona, ad un gruppo, ad una istituzione, a Dio. In que-
sto modo egli supera l’isolamento della sua esistenza individuale
diventando parte di qualcuno o di qualche cosa più grandi di lui, e
sente la sua identità in rapporto al potere cui è sottomesso. Un’altra
possibilità di vincere l’isolamento si volge in senso opposto; l’uomo
può cercare di unirsi al mondo dominandolo, facendo in modo che
gli altri siano una parte di lui stesso, e trascendendo così, per mezzo
dell’autorità, la sua esistenza individuale. L’elemento comune sia
alla sottomissione sia al dominio sugli altri è il carattere simbiotico
della relazione. Nell’un caso e nell’altro l’uomo perde in integrità e
in libertà; egli vive soddisfacendo la sua sete di collegamento con gli
altri, ma soffrendo della mancanza di quell’intima forza e fiducia in
se stesso che sarebbero necessarie per una condizione di libertà ed
indipendenza; oltre a ciò egli è costantemente minacciato dalla ostili-
3. LA SITUAZIONE UMANA ALLA BASE DELLA PSICANALISI UMANISTICA 30
tà conscia o inconscia che deve necessariamente sorgere dalla rela-
zione simbiotica.2 Il realizzarsi della tendenza alla sottomissione
(masochistica) e della tendenza al dominio (sadistica) non porta mai
alla soddisfazione. Entrambe hanno un dinamismo autopropulsore e
poiché sottomissione e dominio (o possesso o gloria), quale che sia
la loro misura, non possono dare un sentimento di identità e di unità,
vuole possederne in misura sempre maggiore. Il risultato finale di
queste passioni è la sconfitta. E non può esser altrimenti, poiché
queste passioni, mentre mirano a stabilire un senso di unità, distrug-
gono il senso dell’integrità. L’uomo, mosso da una di queste passio-
ni, diventa in effetti dipendente da altri; invece di sviluppare il pro-
prio essere individuale, egli dipende da quelli cui è sottomesso o che
domina.
Una sola passione può soddisfare il bisogno dell’uomo di unire se
stesso al mondo, e di conseguire nello stesso tempo un senso di di-
gnità e di individualità: l’amore. Amore è unione con qualcuno o
qualche cosa, al di fuori di se stessi, che consente di preservare la
solitudine e l’integrità di se stessi. È un’esperienza di partecipazione,
di comunione, che consente la piena esplicazione della attività inte-
riore di ciascuno. L’esperienza dell’amore elimina la necessità di
illusione. Non c’è bisogno di esaltare l’immagine dell’altra persona
o di me stesso, poiché la realtà di viva partecipazione e amore mi
consente di trascendere la mia esistenza individualizzata e, nel me-
desimo tempo, di sentirmi il portatore di quei poteri attivi che costi-
tuiscono l’atto di amare. Quel che conta è la particolare qualità
dell’amore, non l’oggetto. Amore è esperienza di solidarietà umana
con il nostro prossimo, e ciò nell’amore erotico tra uomo e donna,
nell’amore della madre per il suo bambino, anche nell’amore per se
stessi in quanto creature umane, nell’esperienza mistica di unione.
Nell’atto amoroso io sono uno con tutti, e tuttavia sono me stesso, un
essere umano unico, separato, limitato, morale. Infatti proprio dalla
polarità tra separazione e unione, l’amore nasce e rinasce.
L’amore è uno degli aspetti di ciò che io avevo chiamato orien-
tamento produttivo, attiva e creativa relazione dell’uomo con i suoi
simili, con se stesso, con la natura. Nel regno del pensiero,
2 Per una più dettagliata analisi della relazione simbiotica, cfr. E. FROMM, Fuga dalla libertà,
Edizioni di Comunità, Milano 1963, 119 ss..
31 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
l’orientamento produttivo è espresso da una piena comprensione del
mondo attraverso la ragione. Nel regno dell’azione questo orienta-
mento produttivo è espresso dal lavoro produttivo, il cui prototipo è
l’arte e l’artigianato. Nel regno del sentimento l’orientamento pro-
duttivo è espresso dall’amore, che è esperienza di unione con
un’altra persona, con tutti gli uomini, e con la natura, a condizione
che sia conservato il senso di integrità e di indipendenza. Nella espe-
rienza dell’amore si verifica il paradosso per cui due diventano uno,
restando nel medesimo tempo due. L’amore così inteso non è mai
limitato a una sola persona. Se io posso amare soltanto una persona e
nessun’altra, se il mio amore per una persona mi rende più distante
ed estraneo di fronte ai miei simili, io posso esser in vari modi affe-
zionato a questa persona, ma non l’amo. Se io posso dire «ti amo»,
io dico «io amo in te tutta l’umanità e tutto quel che vive, amo in te
anche me stesso». L’amore di sé, in questo senso, è l’opposto
dell’egoismo. Quest’ultimo è in effetti uno smodato interesse per noi
stessi che scaturisce dalla mancanza di un genuino amore di noi stes-
si e lo sostituisce. L’amore, paradossalmente, mi rende più indipen-
dente perché mi rende più forte e più felice; eppure esso mi fa
tutt’uno con la persona amata, al punto che l’individualità sembra,
per il momento, annullata. Amando, io sento che «io sono te»; te,
l’essere amato; te, lo straniero; te, tutto quel che vive.
Nell’esperienza amorosa risiede l’unica risposta all’esistenza umana,
risiede l’equilibrio.
L’amore produttivo implica sempre una sindrome di atteggia-
menti: quella di interessamento, responsabilità, rispetto e conoscen-
za.3 Se io amo, io partecipo, io sono cioè attivamente interessato allo
sviluppo e alla felicità dell’altra persona. Non sono uno spettatore.
Sono responsabile, rispondo cioè ai suoi bisogni, a quelli che essa
può esprimere e più ancora a quelli che essa non può esprimere e
non esprime. Io la rispetto, cioè (secondo il significato etimologico
di respicere) io la guardo come essa è, obiettivamente e non travisata
dai miei desideri o dalle mie paure. La conosco, sono penetrato oltre
3 Cfr. per un più dettagliato esame di questi concetti il mio Man for Himself, Rinehart & C'
Inc', New York 1947, p. 96 ss.
3. LA SITUAZIONE UMANA ALLA BASE DELLA PSICANALISI UMANISTICA 32
la sua apparenza fino al fondo del suo essere e ho collegato me stes-
so con lei dal profondo del mio essere.4
Quando l’amore produttivo è diretto verso i nostri simili, può es-
ser chiamato amor fraterno. Nell’amor materno (in ebraico: racha-
mim, da rechem = utero) il rapporto è tra due persone fra loro dissi-
mili; il bambino è bisognoso di aiuto e dipende dalla madre. Per po-
ter crescere, egli deve diventare sempre più indipendente, sino a che
non ha più bisogno della madre. In tal modo il rapporto madre-figlio
è paradossale e, in un certo senso, tragico. Esso esige l’amore più
intenso da parte della madre, e tuttavia questo stesso amore deve
aiutare il bambino a staccarsi, crescendo, dalla madre e a diventare
completamente indipendente. È facile per ogni madre amare il figlio
prima che questo processo di separazione abbia inizio; difficile, in-
vece, è amare il bambino e nello stesso tempo lasciarlo andare, voler
lasciarlo andare.
L’amore erotico (greco: eros; ebraico: ahawa, dalla radice «arde-
re») implica un impulso diverso: quello della fusione e unione con
un’altra persona. Mentre l’amore fraterno si rivolge a tutti gli uomini
e quello materno si rivolge al bambino o a tutti quelli che hanno bi-
sogno del nostro aiuto, l’amore erotico è diretto verso una sola per-
sona, solitamente di sesso opposto, con la quale si desidera fusione e
unione. L’amore erotico nasce dalla separazione e si conclude con
l’unione. L’amore materno nasce dall’unione e si conclude con la
separazione. Se nell’amor materno si realizzasse il bisogno di fusio-
ne, ciò comporterebbe la fine del bambino come essere indipendente,
poiché il bambino ha bisogno di staccarsi dalla madre e non di re-
starle legato. Quando l’amore erotico manchi di amor fraterno e sia
soltanto motivato dal desiderio di fusione, esso è desiderio sessuale
senza amore, o la perversione dell’amore come la troviamo nelle
forme di «amore» sadiche o masochistiche.
Comprenderemo interamente il bisogno umano di avere dei rap-
porti soltanto considerando le conseguenze dell’insuccesso di ogni
specie di relazione, riconoscendo cioè il significato del narcisismo.
Le sole realtà di cui il neonato abbia esperienza sono il suo stesso
corpo e i suoi bisogni, bisogni fisiologici e bisogni di calore e di af-
fetto. Egli non ha ancora esperienza dell’«io» come separato dal
4 L'identità tra amare e conoscere si trova nell'ebraico jadoa e nel tedesco meinen e minnen.
33 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
«tu». Egli è tuttora in uno stato di unità con il mondo, ma un’unità
che precede il risveglio del suo senso dell’individualità e della realtà.
Il mondo esterno esiste soltanto come un tanto di cibo o di calore,
atti a soddisfare i suoi bisogni, non come qualcosa o qualcuno da
riconoscere realisticamente e obiettivamente. Questo orientamento è
stato chiamato da Freud «narcisismo primario». Nello sviluppo nor-
male, questo stato di narcisismo è vinto lentamente dall’aumento
della consapevolezza della realtà esterna e dal corrispondente au-
mento del senso dell’«io» come differenziato dal «tu». Questo mu-
tamento interessa dapprima la percezione sensoria, quando cose e
uomini sono percepiti come entità differenti e specifiche, percezione
che pone i fondamenti della possibilità di parlare: nominare le cose
presuppone riconoscerle come entità singole e differenziate.5 Ci vuo-
le molto di più perché lo stato narcisistico sia superato emozional-
mente; per il bambino tra i sei e gli otto anni, gli altri continuano ad
essere soprattutto dei mezzi per soddisfare i suoi bisogni. Come tali,
essi sono intercambiabili; solo verso gli otto o nove anni comincia a
percepire gli altri come esseri che si possono amare, a sentire cioè,
nella formulazione di H.S. Sullivan,6 che i bisogni di un’altra perso-
na sono importanti quanto i suoi stessi.7
Il narcisismo primario è un fenomeno normale, collegato al nor-
male sviluppo fisiologico e mentale del bambino. Ma il narcisismo
esiste anche in periodi posteriori della vita («narcisismo secondario»
secondo Freud), se il bambino crescendo non riesce a sviluppare la
5 Cfr. l'esame di questo aspetto fatto da Jean PIAGET, The Child's Conception of the World,
Harcourt, Brace & Company, Inc', New York, p. 151. 6 Cfr. H.S. SULLIVAN, Teoria interpersonale della psichiatria, Feltrinelli, Milano 1962, p.
55 ss. 7 Di solito questo amore è inizialmente provato per i coetanei del bambino, e non per i genitori.
La gradevole idea che i bambini «amino» i loro genitori prima di qualunque altra persona deve
essere ritenuta una delle tante illusioni che sorgono dalle nostre pie aspirazioni. Per il bambino
di questa età, padre e madre sono oggetto di soggezione e di paura, piuttosto che di amore il
quale, per sua natura, è basato sulla parità e sull'indipendenza. L'amore per i genitori, che non
sia affezionato ma passivo attaccamento, fissazione incestuosa o sottomissione convenzionale
o paurosa, si sviluppa, se mai, non nell'infanzia ma successivamente, quantunque, in circostan-
ze fortunate, possa aver inizio a una età precoce. (Il medesimo concetto è stato esposto, ben
più acutamente, da H.S. SULLIVAN nella sua Teoria interpersonale della psichiatria). Molti
genitori tuttavia non sono disposti ad accettare questa realtà e vi reagiscono col dispiacersi dei
primi effettivi attaccamenti amorosi del bambino, sia apertamente, sia con un mezzo più effi-
cace: scherzarvi sopra. Questa conscia o inconscia gelosia è uno tra i più potenti ostacoli allo
sviluppo della capacità di amare del bambino.
3. LA SITUAZIONE UMANA ALLA BASE DELLA PSICANALISI UMANISTICA 34
capacità di amare, o se la perde nuovamente. Il narcisismo è
l’essenza di ogni grave patologia psichica. Per una persona affetta da
narcisismo c’è una sola realtà: quella dei suoi propri processi menta-
li, delle sue sensazioni e dei suoi bisogni. Il mondo esterno non è
conosciuto o percepito obiettivamente, cioè come esistente nei suoi
propri termini, condizioni e necessità. La più estrema forma di narci-
sismo può esser riscontrata in tutte le forme di squilibrio. Lo squili-
brato ha perduto contatto con il mondo, si è ritirato in se stesso, non
può sentire la realtà, sia fisica che umana, quale essa è, ma soltanto
come formata e determinata dai suoi propri processi interiori. Egli o
non reagisce al mondo esterno o, se lo fa, vi reagisce non nei termini
della realtà di questo, ma solo nei termini dei suoi propri processi
mentali e sensori. Il narcisismo è il polo opposto dell’obiettività,
della ragione e dell’amore.
Il fatto che il totale fallimento nello stabilire relazioni fra se stessi
e il mondo porti allo squilibrio ci suggerisce un altro fatto: certe
forme di relazione sono necessarie per ogni modo di vivere equili-
brato. Tra le diverse forme di relazione però, soltanto quella produt-
tiva, l’amore, permette a un uomo di conservare la sua libertà e inte-
grità pur essendo, nello stesso tempo, unito ai suoi simili.
B. trascendenza: creatività contro distruttività
Un altro aspetto della situazione umana strettamente connesso
con il bisogno di stabilire dei rapporti, è la situazione dell’uomo co-
me creatura, e il suo bisogno di trascendere questo stato di creatura
passiva. L’uomo è scaraventato in questo mondo senza che egli lo
sappia, lo approvi e lo voglia, e, senza approvarlo o volerlo, ne è poi
strappato di nuovo. In questo non è diverso dall’animale, dalla pian-
ta, dalla materia inorganica. Ma, essendo dotato di ragione e di im-
maginazione, non può accontentarsi della passiva condizione di crea-
tura, di dado gettato fuori dal bossolo. Egli è mosso dallo stimolo di
trascendere il suo stato di creatura e l’accidentalità e passività della
sua esistenza, diventando «creatore».
L’uomo può creare la vita. È questa la miracolosa facoltà che egli
in effetti condivide con tutti gli esseri viventi, con la differenza però
che soltanto l’uomo è cosciente di esser creato e di essere creatore.
L’uomo può creare la vita, meglio, la donna può creare la vita met-
35 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
tendo al mondo il bambino e curandolo fino a che non sia cresciuto
abbastanza per badare alle proprie necessità. L’uomo -l’uomo e la
donna - possono creare seminando, producendo oggetti materiali,
creando l’arte, creando idee, amandosi l’un l’altro. Nell’atto creativo
l’uomo trascende se stesso come creatura, eleva se stesso al di sopra
della passività e accidentalità della sua esistenza, entro il regno della
volontà creativa e della libertà. Nel bisogno umano di trascendenza
risiede una delle radici dell’amore, come anche dell’arte, della reli-
gione e della produzione materiale.
Creare presuppone attività e interessamento. Presuppone amore
per ciò che si crea. Come potrebbe allora l’uomo risolvere il proble-
ma di trascendere se stesso, se non fosse capace di creare, se non
potesse amare? C’è un’altra risposta a questo bisogno di trascenden-
za: se io non posso creare la vita, posso distruggerla. Anche distrug-
gere la vita fa sì che io la trascenda. Effettivamente, che l’uomo sia
capace di distruggere la vita è miracoloso quanto il fatto che egli sia
in grado di crearla, poiché la vita è il miracolo, l’inesplicabile.
Nell’atto di distruzione l’uomo mette se stesso al di sopra della vita,
trascende se stesso in quanto creatura. In tal modo la scelta finale
dell’uomo, nella misura in cui questi è portato a trascendere se stes-
so, sta nel creare o nel distruggere, nell’amare o nell’odiare.
L’enorme potenza della volontà di distruzione che riscontriamo nella
storia dell’uomo e di cui abbiamo avuto così
terrificanti testimonianze proprio nella nostra epoca, è radicata
nella natura dell’uomo, così come è radicato in lui l’impulso a crea-
re. Dire che l’uomo è capace di sviluppare la sua capacità primaria di
amore e di ragione non vuol dire che si abbia una fede ingenua nella
bontà umana. La distruttività è una capacità secondaria radicata nella
stessa esistenza dell’uomo, e che ha la stessa intensità e lo stesso
potere di ogni altra passione.8 Ma (e questo è il punto essenziale del
mio ragionamento) essa è solamente l’alternativa della creatività.
Creazione e distruzione, amore e odio non sono due istinti indipen-
denti l’uno dall’altro. Entrambi sono risposte allo stesso bisogno di
trascendenza e la volontà di distruzione deve sorgere quando non si
8 La presente definizione non è in contrasto con quella data in Man for Himself, loc. cit., dove
scrivo che «la distruttività è la conseguenza di una vita non vissuta». Nel concetto di trascen-
denza qui esposto, mi sforzo di dimostrare più particolarmente quale aspetto di una vita non
vissuta porti alla distruttività.
3. LA SITUAZIONE UMANA ALLA BASE DELLA PSICANALISI UMANISTICA 36
sia potuto soddisfare la volontà di creazione. Tuttavia la soddisfa-
zione del bisogno di creare conduce alla felicità, e la distruzione alla
sofferenza, soprattutto per colui che distrugge.
C. radicamento: fraternità contro incesto
La nascita dell’uomo come tale si inizia con l’abbandono della
sua dimora naturale e con l’emancipazione dai suoi legami naturali.
La stessa emancipazione è però paurosa; se l’uomo perde le sue ra-
dici naturali, dove è e chi è? Solo, senza dimora, senza radici, inca-
pace di sopportare l’isolamento e la debolezza della sua posizione,
diventerebbe uno squilibrato. Egli potrà fare a meno delle sue radici
naturali soltanto se troverà nuove radici umane, e solo dopo averle
trovate potrà sentirsi ancora a suo agio in questo mondo. È dunque
sorprendente scoprire nell’uomo il desiderio intenso e profondo di
non sciogliere i suoi naturali legami, di lottare per non esser strappa-
to via dalla natura, dalla madre, dal sangue, dal suolo?
Il più elementare tra i legami naturali è il legame tra il bambino e
la madre. Il bambino comincia a vivere nell’utero materno, e vi sta
molto più a lungo della maggior parte degli animali; anche dopo la
nascita il bambino resta fisicamente debole e completamente dipen-
dente dalla madre; e anche questo periodo di debolezza e di dipen-
denza dura molto di più che per ogni altro animale. Nei primi anni di
vita non si verifica nessuna separazione completa tra la madre e il
bambino. La soddisfazione dei suoi bisogni fisiologici e delle sue
necessità vitali di calore e di affetto dipende da lei che non gli ha
dato soltanto la nascita, ma continua a dargli la vita. La cura che ella
ha di lui non dipende da quello che il bambino possa darle né da al-
cun obbligo cui egli debba adempiere: tutto ciò è dato senza condi-
zioni. Ella lo cura perché la nuova creatura è il suo bambino. Il bam-
bino, in questi primi decisivi anni di vita, vede in sua madre la sor-
gente della vita, la potenza che tutto avvolge, che lo protegge e lo
nutre. La madre è cibo, amore, calore e terra. Esser da lei amato si-
gnifica esser vivo, essere radicato, essere a proprio agio. Proprio
come nascere significa abbandonare l’involucro protettivo dell’utero,
crescere significa abbandonare l’orbita protettiva della madre. Ma
anche nell’adulto maturo non cessa mai l’aspirazione verso questa
situazione come essa esisteva una volta, nonostante che in realtà ci
37 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
sia una gran differenza tra l’adulto e il bambino. L’adulto ha la pos-
sibilità di reggersi da solo, di aver cura di sé, di esser responsabile di
se stesso e persino di altri, mentre il bambino è ancora incapace di
fare tutto ciò. Considerando però i crescenti problemi della vita, la
natura frammentaria della nostra conoscenza, la casualità
dell’esistenza di un adulto, i nostri inevitabili errori, la situazione
dell’adulto non è certamente così diversa da quella del bambino co-
me si crede di solito. Ogni adulto ha bisogno di aiuto, di calore, di
protezione, in forme che variamente differiscono e, insieme, varia-
mente si avvicinano ai bisogni del bambino. Può sorprendere trovare
nell’adulto medio un profondo anelito alla sicurezza e al radicamen-
to un tempo offertigli in virtù del rapporto con la propria madre?
Dovremo forse aspettarci che egli perda questo intenso anelito senza
aver prima trovato altri modi di esser radicato?
Nella psicopatologia troviamo larga testimonianza di questo fe-
nomeno del rifiuto ad abbandonare l’orbita così totalmente protettiva
della madre. Nella forma più grave troviamo la brama di ritornare
nell’utero materno. Una persona completamente ossessionata da
questo desiderio può offrire un quadro clinico di schizofrenia. Egli
sente e si comporta alla maniera del feto nell’utero materno, incapa-
ce di svolgere anche le più elementari funzioni di un bambino picco-
lo. In molte delle più gravi nevrosi troviamo la stessa brama, ma sot-
to l’aspetto di un desiderio represso che si manifesta soltanto nei
sogni e in sintomi e comportamenti nevrotici, risultanti dal conflitto
tra il desiderio profondo di essere nell’utero della madre e la parte
adulta della personalità che tende a vivere una vita normale. Nei so-
gni questa brama si presenta sotto forma simbolica, come essere in
una caverna oscura, o in un sottomarino a un solo posto, o tuffarsi in
un’acqua profonda, ecc.. In tale comportamento noi riscontriamo
paura della vita e profondo fascino della morte (essendo la morte,
nell’immaginazione, ritorno all’utero, alla madre terra).
La forma meno grave di fissazione alla madre si trova nei casi in
cui una persona ha accettato, per così dire, di nascere, ma guarda con
timore al passo successivo alla nascita, l’essere, cioè, svezzata. Quel-
li che si sono fermati a questo stadio della nascita hanno un profondo
desiderio di esser tra le braccia della mamma, vezzeggiati e protetti
da una figura materna; sono persone eternamente sottomesse, spa-
ventate e incerte quando si tolga loro la protezione materna, ma pie-
3. LA SITUAZIONE UMANA ALLA BASE DELLA PSICANALISI UMANISTICA 38
ne di ottimismo e attive quando sia loro accanto nella realtà o nella
fantasia una madre amorosa o un sostituto della madre.
Questi fenomeni patologici nella vita dell’individuo hanno il loro
parallelo nella evoluzione della razza umana. La più evidente espres-
sione di ciò si incontra nel fatto dell’universalità del tabù
dell’incesto, che troviamo persino nelle società più primitive. Il tabù
dell’incesto è la condizione necessaria per ogni sviluppo umano, non
a causa del suo aspetto sessuale bensì di quello affettivo. L’uomo,
per nascere e per progredire, deve tagliare il cordone ombelicale,
deve vincere la profonda brama di restare legato alla madre. La forza
del desiderio incestuoso non dipende dall’attrazione sessuale verso
la madre, ma dalla profonda brama di restare dentro o di ritornare
all’utero che avvolge completamente la creatura o al seno che le dà
l’alimento completo. Il tabù dell’incesto equivale ai due cherubini
che con spade di fuoco sorvegliano l’entrata del paradiso e vietano
all’uomo di ritornare all’esistenza preindividuale di unità con la na-
tura.
Il problema dell’incesto tuttavia non è limitato alla fissazione alla
madre. Il legame con lei è solo il più elementare di tutti i legami na-
turali del sangue, che danno all’uomo un senso di radicamento e di
appartenenza. I legami del sangue sono estesi ai parenti consangui-
nei, qualunque sia il sistema adoperato per stabilire tali rapporti. La
famiglia e il clan, e più tardi lo stato, la nazione, la chiesa svolgono
la stessa funzione che la singola madre ha originariamente per il
bambino. L’individuo si appoggia ad essi, si sente in essi radicato,
trova il suo senso di identità quale parte di essi, e non come un sin-
golo che ne sia staccato. La persona che non appartiene allo stesso
clan è considerata straniera e pericolosa, in quanto non partecipe
delle stesse qualità umane che soltanto il proprio clan possiede.
La fissazione alla madre fu riconosciuta da Freud come il pro-
blema decisivo dello sviluppo umano, tanto per la razza che per
l’individuo. In conformità al suo sistema egli spiegò l’intensità della
fissazione alla madre come derivata dalla attrazione sessuale
dell’infante verso di lei, come espressione della lotta incestuosa con-
naturata alla natura umana. Egli suppose che il perdurare della fissa-
zione in età più avanzata derivasse dal continuarsi di tale desiderio
sessuale. Collegando questa ipotesi con le sue osservazioni sulla op-
posizione del figlio al padre, egli conciliò ipotesi e osservazioni in
39 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
una interpretazione molto ingegnosa, quella del «complesso di Edi-
po». Egli spiegò la ostilità al padre come il risultato della rivalità
sessuale verso di lui.
Ma mentre percepì la straordinaria importanza della fissazione al-
la madre, Freud tolse senso alla sua scoperta con la singolare inter-
pretazione che ne diede. Egli proiettò nell’infante le sensazioni ses-
suali dell’uomo adulto: il bambino che, come Freud affermava, ave-
va desideri sessuali, si supponeva fosse attratto sessualmente dalla
donna cui era maggiormente vicino, e che soltanto il maggior potere
del rivale in tale triangolo lo obbligasse a respingere il suo desiderio,
senza mai potersi rimettere del tutto da questa frustrazione. La teoria
di Freud è una interpretazione stranamente razionalistica di fatti os-
servabili. Nell’accentuare l’aspetto sessuale del desiderio incestuoso,
Freud interpreta il desiderio del bambino come qualcosa di razionale
in se stesso e sfugge al vero problema: la profondità e l’intensità del
legame irrazionale e affettivo con la madre, il desiderio di ritornare
nella sua orbita, di restare parte di lei, la paura di staccarsi comple-
tamente da lei. Nella interpretazione freudiana il desiderio incestuo-
so non può essere soddisfatto a causa della presenza del padre rivale,
mentre in effetti il desiderio incestuoso è in contrasto con tutte le
esigenze della vita adulta.
Così la teoria del complesso di Edipo è a un tempo stesso il rico-
noscimento e il rifiuto del fenomeno cruciale: il desiderio che
l’uomo ha di amor materno. Dando alla contesa incestuosa un valore
predominante si riconosce l’importanza del legame con la madre; ma
spiegandolo come sessuale si nega il significato sentimentale e au-
tentico di tale legame.
Quando la fissazione alla madre è anche sessuale (e ciò indub-
biamente avviene), questo fatto si verifica perché la fissazione affet-
tiva è tanto forte da influenzare anche il desiderio sessuale, ma non
perché il desiderio sessuale sia alla base della fissazione. Al contra-
rio, il desiderio sessuale in quanto tale è notoriamente incostante
riguardo ai suoi oggetti, e generalmente esso è proprio la forza che
aiuta l’adolescente a separarsi dalla madre, non a legarsi a lei. Dove
riscontriamo che l’intenso attaccamento alla madre ha alterato questa
normale funzione dell’impulso sessuale, dobbiamo considerare due
possibilità. La prima è che il desiderio sessuale per la madre sia una
difesa contro il ritorno all’utero in quanto tale ritorno porta alla paz-
3. LA SITUAZIONE UMANA ALLA BASE DELLA PSICANALISI UMANISTICA 40
zia o alla morte, mentre il desiderio sessuale è almeno conciliabile
con la vita. Ci si salva dalla paura dell’utero incombente come una
minaccia con la più vitale fantasia di entrare nella vagina con
l’organo adatto.9 La seconda possibilità da considerarsi è che la fan-
tasia di rapporti sessuali con la madre non ha la caratteristica, pro-
pria alla sessualità del maschio adulto, della volontarietà e del godi-
mento attivo, ma quella della passività, di essere conquistato e pos-
seduto dalla madre, persino nella sfera sessuale. Al di fuori di queste
due possibilità che suggeriscono una forma patologica assai seria,
troviamo esempi di desideri sessuali incestuosi che sono provocati
da una madre seducente, e che, per quanto espressione di fissazione
alla madre, sono meno indicativi di grave patologia.
Il fatto che lo stesso Freud abbia svisato la sua grande scoperta
può esser stato determinato da un problema irrisolto nei rapporti con
sua madre, ma fu certamente influenzato considerevolmente dal ri-
goroso atteggiamento patriarcale che era così tipico del tempo di
Freud e a cui egli partecipava completamente. La madre era stata
detronizzata dal suo posto eminente come oggetto di amore, e il suo
posto era preso dal padre, che si riteneva esser la figura più impor-
tante negli affetti del bambino. Oggi, che la tendenza patriarcale ha
perduto molta della sua forza, pare quasi incredibile leggere la se-
guente affermazione scritta da Freud: «Non potrei indicare
nell’infanzia nessun bisogno tanto forte come quello della protezione
paterna».10
Parimenti egli scrisse nel 1908, riferendosi alla morte del
padre, che la morte del padre è «il fatto più importante, la perdita più
amara nella vita di un uomo».11
In tal modo Freud dà al padre il po-
sto che in realtà è proprio della madre, e abbassa la madre a oggetto
di desiderio sessuale. La dea è trasformata in prostituta, e il padre
elevato a figura centrale dell’universo.12
C’è un altro genio, vissuto una generazione prima di Freud, che
vide il ruolo centrale del legame con la madre nello sviluppo
9 Questo avvenimento è espresso per esempio nei sogni nei quali colui che sogna si trova in
una caverna col timore di essere soffocato, e poi, avendo rapporti con la madre, prova un senso
di sollievo. 10 S. FREUD, Civilization and Its Discontents, cit., p. 21. Il corsivo è mio. 11 Citato da E. JONES, The Life and Work of Sigmund Freud, Basic Books, Inc., New York
1953, vol. I, p. 324. 12 In questa eliminazione della figura della madre Freud fa nella psicologia quello che Lutero
fa nella religione. Propriamente parlando, Freud è lo psicologo del protestantesimo.
41 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
dell’uomo: Johann Jacob Bachofen.13
Non essendo vincolato dalla
razionalistica interpretazione sessuale della fissazione alla madre,
egli poté vedere i fatti più profondamente e con maggior obiettività.
Nella sua teoria della società matriarcale egli suppose che l’umanità
abbia attraversato uno stadio, precedente a quello patriarcale, in cui i
legami con la madre, come quelli col sangue e col suolo, costituiva-
no, sia individualmente sia socialmente, la forma preminente di cor-
relazione. In questa forma di organizzazione sociale, come abbiamo
accennato più sopra, la madre era la figura principale nella famiglia,
nella società e nella religione. Anche se molte costruzioni storiche di
Bachofen non sono valide, non v’è dubbio che egli scoprì una forma
di organizzazione sociale e una struttura psicologica che erano state
ignorate dagli psicologi e dagli antropologi perché, a causa della loro
inclinazione patriarcale, essi ritenevano assolutamente assurda l’idea
di una società diretta dalle donne invece che dagli uomini. Vi è però
gran copia di testimonianze che la Grecia e l’India, prima
dell’invasione dal nord, avessero culture di struttura matriarcale. Il
gran numero e l’importanza delle dee madri portano a identiche con-
clusioni. (La Venere di Willendorf, la Dea Madre di Mohengo-Daro,
Iside, Istar, Rhea, Cibele, Hator, la Dea Serpente di Nippur, la Acca-
de Dea Acqua Ai, Demetra e la Dea indiana Kali datrice e distruttri-
ce della vita sono soltanto alcuni esempi). Persino in molte società
primitive contemporanee possiamo scoprire i residui della struttura
matriarcale in forme di consanguineità per linea materna o in forme
di matrimonio nel clan della madre, ed è ancor più significativo che
si possano trovare molti esempi di tendenze matriarcali nella rela-
zione con la madre, col sangue e col suolo, anche dove le forme so-
ciali non sono più matriarcali.
Mentre Freud vedeva nella fissazione incestuosa soltanto un ele-
mento negativo e patogeno, Bachofen vide chiaramente sia l’aspetto
negativo sia quello positivo dell’attaccamento alla figura materna.
L’aspetto positivo è un senso di affermazione della vita, libertà e
eguaglianza che pervade la struttura matriarcale. In quanto gli uomi-
ni sono figli della natura e figli delle loro madri essi sono tutti egua-
li, hanno gli stessi diritti e aspirazioni, e il solo valore che conti è
13 Cfr. J.J. BACHOFEN, Mutterrecht und Ur Religion, a cura di R. Marx, A. Kroener Verl.,
Stoccarda 1954.
3. LA SITUAZIONE UMANA ALLA BASE DELLA PSICANALISI UMANISTICA 42
quello della vita. Per esprimersi diversamente, la madre ama i suoi
figli non perché uno sia migliore dell’altro, non perché uno corri-
sponda alle sue aspettative meglio dell’altro, ma perché essi sono i
suoi figli e, in quanto tali, sono tutti eguali ed hanno eguale diritto ad
esser amati e curati. Bachofen vedeva chiaramente anche l’aspetto
negativo della struttura matriarcale: essendo legato alla natura, al
sangue e al suolo, l’uomo incontra ostacoli nello sviluppo della sua
individualità e della sua ragione. Egli resta un bambino e non è ca-
pace di progresso.14
Bachofen dava una interpretazione parimenti larga e profonda al
compito del padre, additando ancora sia l’aspetto positivo sia quello
negativo della funzione paterna. Parafrasando le idee di Bachofen ed
estendendole alquanto, io direi che l’uomo, non essendo dotato per
creare dei figli (parlo, si intende, dell’esperienza della gravidanza e
della nascita e non della cognizione puramente razionale che il seme
maschile è necessario per la creazione di un bambino) e non avendo
il compito di allattarli e di aver cura di loro, è maggiormente lontano
dalla natura di quanto non lo sia la donna. Poiché è meno radicato
nella natura, egli è obbligato a sviluppare la ragione, a edificare un
mondo umano di idee, di principi e di cose fabbricate dall’uomo che
sostituiscono la natura, come una base di esistenza e di sicurezza. Il
rapporto del bambino col padre non ha la stessa intensità di quello
con la madre perché il padre non ha mai quel ruolo di essere total-
mente avviluppante, protettivo e amoroso che la madre ha avuto per
i primi anni di vita del bambino. Al contrario, in tutte le società pa-
triarcali il rapporto del bambino col padre è da un lato di sottomis-
sione e dall’altro di ribellione, e ciò contiene in sé un elemento per-
manente di dissoluzione. La sottomissione al padre è diversa dalla
fissazione alla madre. Quest’ultima è una continuazione del legame
naturale, della fissazione alla natura. La prima è fabbricata
14 E' interessante notare come due opposte filosofie negli ultimi cento anni si siano imposses-
sate di questi due aspetti della struttura matriarcale. La scuola marxista accolse con grande
entusiasmo le teorie di Bachofen a causa dell'elemento di eguaglianza e libertà connesso alla
struttura matriarcale (cfr. Friedrich ENGELS, Le origini della famiglia, della proprietà privata
e dello stato). Dopo molti anni durante i quali le teorie di Bachofen avevano difficilmente
trovato qualche considerazione, i filosofi nazisti se ne impossessarono e le diffusero con egua-
le entusiasmo ma per la ragione opposta. Essi erano attratti proprio dalla irrazionalità dei vin-
coli del sangue e del suolo che costituisce l'altro aspetto della struttura matriarcale come è
presentata da Bachofen.
43 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
dall’uomo, artificiale, basata sul potere e sulla legge e perciò meno
costrittiva e potente del legame alla madre. Mentre la madre rappre-
senta la natura e l’amore incondizionato, il padre rappresenta astra-
zione, coscienza, dovere, legge e gerarchia. L’amore del padre per il
figlio non è come l’amore incondizionato della madre per i figli in
quanto essi sono suoi figli, ma è l’amore per il figlio che egli predi-
lige perché più risponde alle sue aspettative ed è maggiormente dota-
to per diventare l’erede della proprietà e delle funzioni mondane del
padre.
Da questo deriva un’importante differenza tra amore materno e
paterno: nel rapporto con la madre c’è poco che il bambino possa
regolare o controllare. L’amore materno è come un atto di grazia; se
c’è, è una benedizione, e se non c’è non può esser creato. Risiede in
ciò la ragione per cui gli individui che non hanno superato la fissa-
zione alla madre cercano spesso di procurarsi l’amore materno in un
modo nevrotico e magico, facendosi deboli, infermi o regredendo
emotivamente allo stadio infantile. L’idea magica è: se io divento un
bambino bisognoso di aiuto, mia madre deve venire e deve prendersi
cura di me. Il rapporto col padre, d’altra parte, può esser controllato.
Egli desidera che il figlio cresca, si assuma delle responsabilità, pen-
si, costruisca; oppure che sia obbediente, serva al padre, gli assomi-
gli; oppure, ancora, che faccia entrambe le cose insieme. Ma sia che
il padre miri allo sviluppo del figlio sia che si attenda da lui obbe-
dienza, il figlio ha una possibilità di guadagnarsi l’amor paterno, di
determinare l’affetto paterno facendo le cose desiderate. Riassumen-
do: gli aspetti positivi del complesso patriarcale sono la ragione, la
disciplina, la coscienza e l’individualismo; gli aspetti negativi sono
la gerarchia, l’oppressione, l’ineguaglianza, la sottomissione.15
Ci sembra particolarmente significativo sottolineare la stretta
connessione fra le figure del padre e della madre e i principi morali.
Freud, nel suo concetto del super-io, collega soltanto la figura del
padre allo sviluppo della coscienza. Egli riteneva che il bambino,
impaurito dalla castrazione minacciata dal padre rivale, associasse il
genitore maschio - o piuttosto i suoi ordini e le sue proibizioni - alla
15 Questi aspetti negativi sono espressi più chiaramente chealtrove nella figura di Creonte
nell'Antigone di Sofocle.
3. LA SITUAZIONE UMANA ALLA BASE DELLA PSICANALISI UMANISTICA 44
formazione della sua coscienza.16
Ma non c’è soltanto una coscienza
paterna, bensì anche una materna; c’è una voce che ci dice di fare il
nostro dovere, e una voce che ci dice di amare e di perdonare: gli
altri come noi stessi. È vero che entrambi i tipi di coscienza sono
originariamente influenzati dalle immagini paterna e materna, ma nel
processo di perfezionamento la coscienza diventa sempre più indi-
pendente da queste immagini originarie del padre e della madre: noi
diventiamo, si può dire, il nostro stesso padre e la nostra stessa ma-
dre, e diventiamo anche il nostro stesso figlio. Il padre che è in noi ci
dice «devi far questo» e «non devi far quello». Se abbiamo fatto una
cosa cattiva ci rimprovera, e se abbiamo fatto una cosa giusta, ci lo-
da. Ma mentre il padre che è in noi ci parla in questi termini, la ma-
dre ci parla un linguaggio molto diverso. È come se dicesse: «tuo
padre ha certo ragione di rimproverarti, ma non prenderlo troppo sul
serio; qualsiasi cosa tu abbia fatto, tu sei il mio bambino, io ti amo e
ti perdono: niente di quello che hai fatto può ostacolare il tuo diritto
alla vita e alla felicità». Le voci del padre e della madre parlano lin-
guaggi diversi; in realtà sembrano dire cose opposte. Eppure la con-
traddizione tra il principio del dovere e il principio dell’amore, tra la
coscienza paterna e quella materna, è una contraddizione insita
nell’esistenza umana, ed entrambi i lati della contraddizione devono
essere accettati. La coscienza che esegue soltanto gli imperativi del
dovere non è meno deviata della coscienza che segua solo gli impe-
rativi dell’amore. Le voci interiori del padre e della madre non par-
lano soltanto in riferimento all’atteggiamento dell’uomo verso se
stesso, ma anche verso i suoi simili. Egli può giudicare il suo simile
con la sua coscienza paterna, ma deve nello stesso tempo ascoltare
dentro di sé la voce della madre, che prova amore per tutti i suoi si-
mili, per tutto quel che vive, e perdona ogni peccato.17
16 In Man for Himself ho esaminato il carattere relativistico del concetto del super-io di Freud,
ed ho rilevato la differenza tra la coscienza autoritaria e la coscienza umanistica che è la voce
che ci richiama a noi stessi. Cfr. Man for Himself, loc. cit., cap. IV, 2. 17 E' interessante studiare il peso che hanno rispettivamente il principio paterno e quello ma-
terno nel concetto di Dio delle religioni ebraica e cristiana. Il Dio che manda il diluvio perché
tutti sono malvagi escluso Noè rappresenta la coscienza paterna. Il Dio che parla a Giona
avendo compassione «per quella città ove vi sono più di centoventimila persone che non sanno
distinguere la loro mano destra dalla sinistra e dove vi sono molti armenti» parla con la voce
della madre che tutto perdona. La stessa polarità tra la funzione paterna e quella materna di
Dio può esser chiaramente vista nello sviluppo ulteriore sia della religione ebraica sia di quella
cristiana, specialmente nel misticismo.
45 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
Prima di continuare nell’esame dei bisogni basilari dell’uomo,
desidero dare una breve descrizione delle varie fasi di radicamento
come si possono osservare nella storia dell’umanità, anche se questa
esposizione interrompe un po’ il filo del discorso di questo capitolo.
Come il bambino è radicato nella madre, così l’umanità nella sua
infanzia storica (che peraltro costituisce di gran lunga la maggior
parte della storia in termini di tempo) resta radicata nella natura. An-
che quando vien fuori dalla natura, il mondo naturale resta la sua
dimora: qui sono sempre le sue radici. L’uomo cerca di trovar sicu-
rezza regredendo alla natura o identificandosi con essa, col mondo
delle piante e degli animali. Questo tentativo di appoggiarsi alla na-
tura può esser visto chiaramente in diversi miti primitivi e in rituali
religiosi. Quando l’uomo adora alberi e animali come suoi idoli,
adora particolarizzazioni della natura; essi sono le forze protettive e
potenti il cui culto è il culto della stessa natura. Collegando se stesso
a queste, l’individuo trova il suo senso di identità e di appartenenza,
come parte della natura. La stessa cosa è vera per il rapporto col suo-
lo su cui egli vive. La tribù spesso non è soltanto unificata dal san-
gue comune, ma anche dal suolo comune, e proprio questa combina-
zione del sangue e del suolo le dà la sua forza, come di vera sede e
sistema di orientamento per l’individuo.
In questa fase dell’evoluzione umana l’uomo sente ancora se
stesso come parte del mondo naturale, quello degli animali e delle
piante. Soltanto quando ha fatto il passo decisivo per venir fuori
completamente dalla natura, cercherà di creare una linea di demarca-
zione definitiva tra sé e il mondo animale. Una dimostrazione di
questa idea si può trovare nella credenza degli indiani winnebago,
che al principio le creature non avevano ancora alcuna forma defini-
tiva. Tutti erano una specie di essere neutro che poteva trasformarsi
sia in uomo sia in animale. Ad un certo momento essi decisero di
evolversi definitivamente in animali o in uomini. Dopo di allora, gli
animali sono restati animali e l’uomo è restato uomo.18
La stessa
idea è espressa nella credenza azteca che il mondo, prima dell’era in
cui noi ora viviamo, era popolato soltanto dagli animali, fino a che
con Quetzalcoatl sorse l’era degli esseri umani; lo stesso sentimento
18 Questo esempio è tratto da Paul RADIN, Gott und Mensch in primitiven Welt, Rhein Verlag,
Zurigo 1953, p. 30.
3. LA SITUAZIONE UMANA ALLA BASE DELLA PSICANALISI UMANISTICA 46
è espresso nella credenza che ancora esiste presso alcuni indiani
messicani: che un certo animale corrisponde ad una particolare per-
sona; o nella credenza dei maori che un certo albero (piantato alla
nascita) corrisponde a un dato individuo. Ciò è espresso nei molti
rituali nei quali l’uomo identifica se stesso con un animale, masche-
randosi da animale, oppure nella scelta dell’animale totem.
Questo rapporto passivo con la natura corrisponde alle attività
economiche dell’uomo. Egli comincia come raccoglitore di cibo e
cacciatore e, se non fosse per gli attrezzi primitivi e per l’uso del
fuoco, si potrebbe dire che differisce ben poco dagli animali. Nel
corso del processo storico la sua abilità aumenta e i suoi rapporti con
la natura si trasformano da passivi in attivi. Egli alleva gli animali,
impara a coltivare la terra, acquista sempre maggior abilità nell’arte
e nell’artigianato, scambia i suoi prodotti con quelli di paesi stranie-
ri, e diventa così viaggiatore e commerciante.
Nel contempo cambiano le sue divinità. Finché egli si sente pro-
fondamente identificato con la natura, le sue divinità sono parte della
natura. Quando le sue abilità artigiane aumentano, egli costruisce
idoli in pietra o legno od oro. Quando si è ulteriormente evoluto e ha
conquistato un più prezioso senso della propria potenza, le sue divi-
nità prendono la forma di esseri umani. Al principio, e questo pare
corrisponda ad uno stadio agricolo, Dio gli si presenta nella forma
della «Gran Madre» che tutto protegge e tutto alimenta. Finalmente
egli comincia ad adorare divinità paterne, che rappresentano la ra-
gione, i precetti morali, le leggi. Quest’ultimo e decisivo abbandono
del radicamento nella natura e della dipendenza dall’amore materno
sembra aver inizio con il sorgere delle grandi religioni razionali e
patriarcali. In Egitto, con la rivoluzione religiosa di Ekhnaton nel
quattordicesimo secolo prima di Cristo; in Palestina con la forma-
zione della religione mosaica circa nello stesso periodo; in India e in
Grecia non molto più tardi con l’arrivo degli invasori nordici. Molti
riti rivelano questa nuova concezione. Nel sacrificio di animali, quel
che è animale nell’uomo viene sacrificato a Dio. Con i tabù alimen-
tari della Bibbia che proibiscono di cibarsi del sangue degli animali
(perché «il sangue è la loro vita») è stabilita una linea rigorosa di
demarcazione tra l’uomo e l’animale. Nel concetto di Dio, che rap-
presenta il principio vitale, unificatore invisibile e infinito, è stato
fissato il contrapposto al mondo naturale, finito, diversificato, al
47 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
mondo delle cose. L’uomo, creato a somiglianza di Dio, partecipa
delle qualità di Dio, sorge dalla natura e tende ad essere completa-
mente nato, ad esser completamente desto.19
Questo processo rag-
giunse un ulteriore stadio nella metà del primo millennio in Cina con
Confucio e Lao-tze, in India con Budda, in Grecia con i filosofi dello
scientismo greco, e in Palestina con i profeti biblici; successivamen-
te un nuovo culmine si raggiunse col cristianesimo e con lo stoici-
smo nell’impero romano, con Quetzalcoatl nel Messico20
e, altri cin-
quecento anni dopo, con Maometto in Africa.
La nostra cultura occidentale è costituita su due fondamenti: la
cultura ebraica e quella greca. Se esaminiamo la tradizione ebraica,
le cui basi risiedono nel vecchio testamento, troviamo che essa costi-
tuisce una forma relativamente pura di cultura patriarcale, costruita
sopra il potere del padre nella famiglia, del sacerdote e del re nella
società, e di un Dio padre nel cielo. Tuttavia, nonostante questa
estrema forma di organizzazione patriarcale, si possono rinvenire
elementi matriarcali più antichi, quali esistevano nelle religioni tellu-
riche, legate alla terra e alla natura, che furono spodestate dalle reli-
gioni razionali e patriarcali nel secondo millennio prima di Cristo.
Nella storia della creazione noi troviamo l’uomo ancora in uno
stato di primitiva unità con il suolo, senza necessità di lavoro e senza
coscienza di sé. La donna è la più intelligente, attiva e audace dei
due, e soltanto dopo la «caduta» il Dio patriarcale proclama il prin-
cipio che l’uomo comanderà sulla donna. Tutto il vecchio testamento
è una elaborazione del principio patriarcale sotto vari aspetti, stabi-
lendo un sistema gerarchico di stato teocratico e dando una organiz-
zazione rigorosamente patriarcale alla famiglia. Nella struttura fami-
liare quale ci è descritta nel vecchio testamento troviamo sempre la
figura del figlio favorito: Abele rispetto a Caino, Giacobbe rispetto a
Esaù, Giuseppe rispetto ai fratelli, e, in un senso più largo, il popolo
di Israele come figlio favorito di Dio. Al posto dell’eguaglianza di
tutti i figli agli occhi della madre, troviamo il favorito, più somi- 19 Mentre rivedevo il presente manoscritto trovai nell'opera di
Alfred WEBER, Der Dritte oder der Vierte Mensch, R. Piper Co', Monaco 1953, p. 9ss uno
schema di sviluppo storico che ha qualche affinità con quello del mio testo. Egli pone l'ipotesi
di un periodo ctonico tra il 4000 e il 1200 a.C. caratterizzato dal costante attaccamento alla
terra delle popolazioni agricole. 20 Seguo in questa datazione non ortodossa gli scritti e le comunicazioni personali di Laurette
Séjuorné. Cfr. El Mensaje de Quetzalcoatl, «Cuadernos Americanos», V, 1954.
3. LA SITUAZIONE UMANA ALLA BASE DELLA PSICANALISI UMANISTICA 48
gliante al padre e da questi maggiormente amato quale suo successo-
re ed erede dei suoi beni. Nella contesa per il posto di figlio favorito
e quindi per l’eredità, i fratelli diventano nemici, l’eguaglianza cede
il posto alla gerarchia.
Il vecchio testamento postula non solo un rigoroso tabù
dell’incesto, ma anche il divieto dell’attaccamento al suolo. La storia
umana, quale esso ce la presenta, inizia con l’espulsione dell’uomo
dal paradiso, dal suolo al quale egli era radicato, e con cui si sentiva
una sola cosa. La storia ebraica inizia con l’ordine dato ad Abramo
di lasciare il paese dove era nato e di andare «verso un paese che non
conosci». Dalla Palestina la tribù passa in Egitto, e da qui ritorna
ancora in Palestina. Ma nemmeno la nuova residenza è definitiva.
Gli ammaestramenti dei profeti sono diretti contro il rinnovato attac-
camento incestuoso al suolo e alla natura che si era manifestato nella
idolatria cananea. Essi proclamano il principio che un popolo che è
regredito dai principi della ragione e della giustizia a quello del le-
game incestuoso col suolo sarà cacciato dalla sua terra ed errerà nel
mondo senza dimora e senza patria sino a che non abbia completa-
mente sviluppato i principi della ragione, sino a che non abbia supe-
rato il legame incestuoso col suolo e con la natura; soltanto allora il
popolo potrà tornare alla sua patria, soltanto allora il suolo sarà una
benedizione; una umana dimora libera dalla maledizione
dell’incesto. Il concetto del tempo messianico è quello della vittoria
completa sui legami incestuosi, della totale affermazione della realtà
spirituale della coscienza morale e intellettuale, non soltanto fra gli
ebrei, ma fra tutti i popoli della terra.
Il concetto centrale e conclusivo dello sviluppo patriarcale del
vecchio testamento risiede, naturalmente, nel concetto di Dio. Egli
rappresenta il principio unificatore dietro la pluralità dei fenomeni.
L’uomo è creato a somiglianza di Dio, perciò tutti gli uomini sono
eguali - eguali nelle loro capacità spirituali comuni, nella loro ragio-
ne comune, nella loro capacità di amore fraterno.
Il cristianesimo è un ulteriore sviluppo di questo spirito, non tan-
to nel suo insistere sul principio dell’amore che troviamo manifesta-
to in diverse parti del vecchio testamento, quanto per il suo insistere
sul carattere supernazionale della religione. Come i profeti metteva-
no in dubbio la validità dell’esistenza del loro stato perché questo
non si conformava agli imperativi della coscienza, così i primi cri-
49 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
stiani misero in dubbio la legittimità morale dell’impero romano,
perché violava i principi di amore e di giustizia.
Mentre la tradizione ebraico-cristiana poneva l’accento
sull’aspetto morale, il pensiero greco scoprì la sua manifestazione
più creativa nell’aspetto intellettuale dello spirito patriarcale. In Gre-
cia, come in Palestina, troviamo un mondo patriarcale che, sia nei
suoi aspetti sociali sia in quelli religiosi, è emerso vittoriosamente da
una precedente struttura matriarcale. Come Eva non era nata da una
donna, ma era stata fatta con una costola di Adamo, così Atena non
era una creatura di donna, ma era uscita dalla testa di Zeus. I resti di
un più antico mondo matriarcale si possono ravvisare, come ha indi-
cato Bachofen, nelle figure di dee subordinate al mondo patriarcale
olimpico. I greci posero le basi per lo sviluppo intellettuale del mon-
do occidentale. Essi posero i «fondamenti» del pensiero scientifico,
furono i primi a costruire la «teoria» come base della scienza, a svi-
luppare una filosofia sistematica quale non era esistita in nessuna
cultura precedente. Essi crearono una teoria dello stato e della socie-
tà basata sulla loro esperienza della polis greca, teoria che fu poi
continuata a Roma, sulle basi sociali di un enorme impero unificato.
A causa dell’incapacità dell’impero romano a continuare una
evoluzione politica e sociale progressiva, lo sviluppo venne ad arre-
starsi verso il quarto secolo, ma non prima che si fosse costituita una
nuova potente istituzione: la chiesa cattolica. Mentre il primo cri-
stianesimo era stato un movimento spirituale rivoluzionario dei po-
veri e dei diseredati, che mettevano in dubbio la legittimità morale
della situazione esistente, e la fede di una minoranza che accettava
persecuzioni e morte come testimonianze di Dio, esso, in un tempo
incredibilmente breve, doveva mutarsi in religione ufficiale dello
stato romano. Mentre la struttura sociale dell’impero romano lenta-
mente si irrigidiva in un ordine feudale che doveva sopravvivere in
Europa per un migliaio di anni, la struttura sociale della religione
cattolica cominciava pure a mutare. Perdeva importanza
l’atteggiamento profetico che aveva favorito la sfiducia e le critiche
alle violazioni, da parte del potere temporale, dei principi di amore e
di giustizia. Il nuovo atteggiamento richiese l’indiscriminato appog-
gio della potenza della chiesa in quanto istituzione. Tanta era la sod-
disfazione psicologica data alle masse che esse accettavano la loro
3. LA SITUAZIONE UMANA ALLA BASE DELLA PSICANALISI UMANISTICA 50
dipendenza e la loro povertà con rassegnazione, non facendo quasi
nessuno sforzo per migliorare la loro condizione sociale.21
Sotto questo punto di vista, il mutamento più importante è quello
che sposta l’interesse da uno stato puramente patriarcale ad una fu-
sione di elementi patriarcali e matriarcali. Il Dio ebraico del vecchio
testamento era stato un dio rigorosamente patriarcale; nello sviluppo
del cattolicesimo viene nuovamente introdotta l’idea della madre che
tutti ama e a tutti perdona. La stessa chiesa cattolica -la madre che
tutto abbraccia - e la Vergine Madre simboleggiano lo spirito mater-
no di perdono e di amore mentre Dio, il padre, rappresenta nel prin-
cipio gerarchico l’autorità cui l’uomo deve sottomettersi senza la-
menti né ribellioni. Non c’è dubbio che tale fusione di elementi ma-
terni e paterni fu uno dei principali fattori cui la chiesa dovette la sua
meravigliosa attrazione ed influenza sulle menti del popolo. Le mas-
se, oppresse dalle autorità patriarcali, poterono rivolgersi alla madre
amorosa che li avrebbe consolati e avrebbe interceduto per loro.
La funzione storica della chiesa non fu soltanto quella di contri-
buire allo stabilirsi di un ordine feudale. Il suo più importante suc-
cesso, ampiamente favorito dagli arabi e dagli ebrei, fu di trasmette-
re alla primitiva cultura europea gli elementi essenziali del pensiero
ebraico e greco. È come se la storia dell’occidente si fosse arrestata
per circa un millennio aspettando il momento in cui il nord Europa
sarebbe stato portato al grado di sviluppo cui il mondo mediterraneo
era giunto alla fine dell’era romana. Quando l’eredità spirituale di
Atene e di Gerusalemme sarà trasmessa ai popoli del nord Europa e
21 Il mutamento della funzione e del compito sociale del cristianesimo era connesso a profondi
mutamenti del suo spirito; la chiesa divenne un'organizzazione gerarchica. L'accento si spostò
sempre più dall'aspettazione della seconda venuta di Cristo e dalla costituzione di un nuovo
ordine di carità e giustizia al fatto della venuta originaria e al messaggio apostolico della sal-
vazione dell'uomo dalla sua congenita situazione di peccato. Un altro mutamento era connesso
a questo. L'originario concetto di Cristo era contenuto nel dogma dell'adozione il quale affer-
mava che Dio aveva adottato l'uomo Gesù come suo figlio, cioè che un uomo - un uomo soffe-
rente e povero - era diventato un dio. In questo dogma le speranze e brame rivoluzionarie dei
poveri e dei diseredati avevano trovato una espressione religiosa. Un anno dopo la proclama-
zione del cristianesimo come religione ufficiale dell'impero romano, era ufficialmente accetta-
to il dogma per cui Dio e Gesù erano identici, della stessa essenza, e che Dio aveva soltanto
manifestato se stesso nella carne di un uomo. In questa nuova visione l'idea rivoluzionaria
dell'elevazione dell'uomo a Dio era stata sostituita dall'atto amoroso di Dio di abbassarsi
all'uomo, per così dire, e in questo modo redimerlo dalla sua corruzione. (Cfr. FROMM, Die
Entwicklung des Christus Dogmas, Psychoanalytischer Verlag, Vienna 1931).
51 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
da questi assorbita, la struttura sociale comincerà a perdere la sua
rigidità e si avrà ancora un erompente sviluppo sociale e spirituale.
I fondamenti del nuovo sviluppo saranno dati dalla teologia catto-
lica del tredicesimo e quattordicesimo secolo, dalle idee del rinasci-
mento italiano «che scoprono l’individuo e la natura», dai concetti
dell’umanesimo e del giusnaturalismo, e dalla riforma. Il risultato
più efficace e di maggior portata per lo sviluppo dell’Europa e del
mondo fu la riforma. Il protestantesimo e il calvinismo ritornavano
allo spirito meramente patriarcale del vecchio testamento ed esclu-
devano dal concetto religioso l’elemento materno: l’uomo non era
più protetto dall’amor materno della chiesa e della Vergine; egli era
solo, di fronte a un Dio severo e rigoroso, da cui poteva ottenere mi-
sericordia solo con un atto di completo abbandono. I principi e lo
stato divennero onnipotenti per sanzione divina. La emancipazione
dai legami feudali portò alla crescente sensazione di isolamento e di
impotenza, ma nel contempo l’aspetto positivo del principio paterno
si affermò nel rinascere del pensiero razionale e
dell’individualismo.22
La rinascita dello spirito patriarcale a partire dal sedicesimo seco-
lo, specialmente nei paesi protestanti, rivela sia l’aspetto positivo sia
quello negativo del patriarcalismo. L’aspetto negativo si manifestò
in una nuova sottomissione allo stato e al potere temporale, e nella
sempre più accentuata importanza delle leggi umane e delle gerar-
chie secolari. L’aspetto positivo si rivelò nel crescente spirito di ra-
zionalità e di obiettività, e nello sviluppo della coscienza individuale
e sociale. Il fiorire della scienza ai nostri giorni è una delle più signi-
ficative manifestazioni del pensiero razionale che siano mai state
prodotte dal genere umano. Ma il complesso patriarcale, sia nei suoi
aspetti positivi sia in quelli negativi, non è affatto scomparso dal
mondo occidentale moderno. Il suo aspetto positivo, l’idea
dell’eguaglianza umana, della santità della vita, del diritto di ogni
uomo a partecipare ai doni della natura, trovano espressioni nelle
idee del diritto naturale, dell’umanesimo, della filosofia illuministica
e negli obiettivi del socialismo democratico. Comune a tutte queste
idee è il concetto che tutti gli uomini sono figli della Madre Terra e
22 Cfr. la profonda e brillante analisi di questo problema in M.N. Roy, Reason, Romanticism
and Revolution, Renaissance Publishing Co., Calcutta 1952.
3. LA SITUAZIONE UMANA ALLA BASE DELLA PSICANALISI UMANISTICA 52
hanno diritto ad esser nutriti da essa, e a godere la felicità senza do-
ver provare questo diritto con il raggiungimento di una qualsiasi
condizione sociale particolare. La fratellanza di tutti gli uomini si-
gnifica che essi sono tutti figli della stessa madre, che hanno un di-
ritto inalienabile all’amore e alla felicità. In questo concetto il lega-
me incestuoso con la madre è escluso. Col dominio sulla natura qua-
le si manifesta nella produzione industriale, l’uomo libera se stesso
dall’attaccamento ai legami del sangue e del suolo, umanizza la sua
natura e naturalizza se stesso.
Ma accanto allo sviluppo degli aspetti positivi del complesso ma-
triarcale troviamo, nella storia europea, il persistere dei suoi aspetti
negativi, o anche una regressione verso di essi, con l’attaccamento al
sangue e al suolo. L’uomo, liberato dai tradizionali legami della co-
munità medievale, timoroso della nuova libertà che lo trasforma in
un atomo isolato, si rifugia in una nuova idolatria del sangue e del
suolo, di cui nazionalismo e razzismo sono le due più evidenti
espressioni. Assieme allo sviluppo progressivo che contempera gli
aspetti positivi sia dello spirito matriarcale sia di quello patriarcale,
procedeva lo sviluppo degli aspetti negativi di entrambi i principi:
con il culto dello stato, commisto alla idolatria della razza o della
nazione. Il fascismo, il nazismo e lo stalinismo sono le manifesta-
zioni più violente del culto dello stato e insieme del clan, principi
impersonati nella figura di un Führer.
Ma i nuovi totalitarismi non sono affatto nei nostri tempi le sole
manifestazioni di attaccamento incestuoso. Il decadere del mondo
supernazionale cattolico del medioevo avrebbe portato ad una più
alta forma di «cattolicesimo», cioè di universalismo umano trascen-
dente il culto del clan, se lo sviluppo avesse seguito le intenzioni dei
capi spirituali del pensiero umanistico fin dal rinascimento. Ma,
mentre la scienza e la tecnica creavano le condizioni per tale svilup-
po, il mondo occidentale regrediva in nuove forme di idolatria del
clan, cioè precisamente in quell’orientamento che i profeti del vec-
chio testamento e il primo cristianesimo tentarono di sradicare. Il
nazionalismo, che alle origini è un movimento di progresso, rim-
piazzò i vincoli del feudalesimo e dell’assolutismo. L’uomo medio
di oggi trae il suo senso di identità dall’appartenenza ad una nazione,
invece che dal suo essere «figlio dell’uomo». La sua obiettività, cioè
la sua ragione, è corrotta da questo attaccamento. Egli giudica lo
53 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
«straniero» con criteri diversi da quelli usati per i componenti del
proprio clan. I suoi sentimenti nei confronti degli stranieri sono
egualmente corrotti. Chi non è «familiare» per vincoli di sangue e di
suolo (che si rivelano nell’uso comune di un linguaggio, di costumi,
cibi, canti, ecc.) è guardato con sospetto, e le più esigue provocazio-
ni possono causare manie paranoiche nei suoi confronti. Questo at-
taccamento incestuoso non corrompe soltanto il rapporto del singolo
con lo straniero, ma con i membri del suo proprio clan e con se stes-
so. La persona che non ha liberato se stessa dal vincolo del sangue e
del suolo non è ancora completamente nata come essere umano; le
sue capacità di amare e di ragionare non sono ancora formate, egli
non esperimenta né se stesso né i suoi simili in quella che è la realtà
umana sua e loro.
Il nazionalismo è la nostra forma di incesto, è la nostra idolatria,
è la nostra pazzia. Il «patriottismo» è il suo culto. Credo sia super-
fluo dire che per «patriottismo» io intendo quell’atteggiamento che
tende a mettere la propria nazione al di sopra dell’umanità, al di so-
pra dei principi di verità e di giustizia; non l’amoroso interesse verso
la nostra nazione, che consiste nella preoccupazione per il suo be-
nessere tanto materiale che spirituale e mai per il suo predominio
sulle altre nazioni. Come l’amore per un singolo che escluda l’amore
per gli altri non è amore, così l’amore per il nostro paese che non sia
parte del nostro amore per l’umanità non è amore, ma culto idolatri-
co.23
Il carattere idolatrico del sentimento nazionale può esser riscon-
trato nel modo con cui si reagisce all’offesa ai simboli del clan; rea-
zione che è molto diversa da quella determinata da offese ai simboli
morali o religiosi. Immaginiamo un uomo che prenda la bandiera del
suo paese e la calpesti di fronte ad altra gente nella strada di una città
del mondo occidentale. Sarà fortunato se non lo linciano. In quasi
tutti nascerebbe un tal senso di furiosa indignazione che difficilmen-
te consentirebbe la benché minima riflessione obiettiva. L’uomo che
profanasse la bandiera avrebbe commesso un atto indicibile; egli
avrebbe commesso un delitto che non è un delitto tra diversi altri,
ma il delitto, quello che è imperdonabile e inscusabile. Non altrettan-
23 Sul problema del nazionalismo si veda l'esauriente e profondo studio di R. ROCKER, Na-
tionalism and Culture, Rocker Publ. Comm., Los Angeles 1937.
3. LA SITUAZIONE UMANA ALLA BASE DELLA PSICANALISI UMANISTICA 54
to violenta, ma pur tuttavia dello stesso genere sarebbe la reazione
verso l’uomo che dicesse: «Io non amo il mio paese», o, in caso di
guerra: «non mi importa della vittoria del mio paese». Una simile
dichiarazione è un vero sacrilegio, e un uomo che si esprimesse così
diventerebbe, nel sentimento dei suoi simili, un mostro, una specie
di fuorilegge.
Per comprendere la particolare natura del sentimento provocato
potremmo paragonare questa reazione con quella determinata da un
uomo che dicesse o scrivesse: «Io sono favorevole allo sterminio dei
negri o degli ebrei; sono favorevole a chi provoca una guerra per
conquistare nuovi territori». In effetti la maggior parte della gente
avvertirebbe che questa è un’opinione immorale e inumana. Ma il
punto cruciale è che non si verificherebbe in tal caso il particolare
sentimento di indignazione e di collera profonde e incontrollabili.
Una simile opinione è propriamente «malvagia», ma non sacrilega,
essa non costituisce un’offesa a «quel che è sacro». Anche se un
uomo bestemmiasse Dio, difficilmente provocherebbe un sentimento
di indignazione simile a quello contro il crimine, contro il sacrilegio
che è l’offesa ai simboli del paese. È facile dare una spiegazione ra-
gionevole della reazione alla offesa al simbolo nazionale dicendo
che un uomo che non rispetti il suo paese rivela una mancanza di
solidarietà umana e di senso sociale, ma ciò non è vero anche per
l’uomo che perora la causa della guerra o dell’assassinio di gente
innocente, o che sfrutta gli altri per i propri interessi? Indubbiamente
la mancanza di attaccamento per il proprio paese è una esperienza
della mancanza di responsabilità sociale e di solidarietà umana, co-
me lo sono gli altri atti qui citati, ma la reazione all’offesa alla ban-
diera è fondamentalmente diversa dalla reazione contro il rifiuto di
responsabilità sociale in tutti i suoi altri aspetti. Uno solo di questi
oggetti è «sacro»: un simbolo del culto del clan; gli altri no.
Dopo che le grandi rivoluzioni europee del diciassettesimo e di-
ciottesimo secolo non riuscirono a trasformare la «libertà da» in «li-
bertà di», il nazionalismo e il culto dello stato diventarono sintomi di
una regressione all’attaccamento incestuoso. Soltanto quando
l’uomo riuscirà a sviluppare ragione e amore più di quel che non
abbia fatto fin qui, soltanto quando egli saprà costruire un mondo
basato sulla solidarietà umana e sulla giustizia, soltanto quando potrà
sentirsi radicato nell’esperienza della solidarietà universale, solo al-
55 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
lora avrà trovato una nuova forma umana di radicamento, avrà tra-
sformato il suo mondo in una dimora veramente umana.
D. senso di identità: individualità contro conformismo gregario
L’uomo può esser definito come l’animale che può dire «io», che
può aver coscienza di sé come di una entità separata. L’animale, es-
sendo nella natura, e non trascendendola, non ha coscienza di se
stesso, non ha bisogno di un senso di identità. L’uomo strappato alla
natura, dotato di ragione e di fantasia, ha bisogno di formarsi un
concetto di se stesso, ha bisogno di dire e di sentire «io sono io».
Poiché non viene vissuto ma vive, poiché ha perduto l’unità origina-
ria con la natura, poiché deve prendere delle decisioni ed è conscio
di se stesso e del suo prossimo come di persone separate, egli deve
sentirsi il soggetto delle sue azioni. Come per i bisogni di correla-
zione, radicamento e trascendenza, questo bisogno del senso di iden-
tità è tanto essenziale e imperativo che l’uomo non resterebbe equi-
librato se non trovasse qualche modo per soddisfarlo. Il senso umano
di identità si sviluppa nel processo di emancipazione dai «legami
primari» che lo uniscono alla madre e alla natura. Il bambino, sen-
tendosi ancora uno con la madre, non può dire «io», e neppure ne
avverte il bisogno. Soltanto dopo aver concepito il mondo degli altri
come separato e diverso da se stesso egli giungerà alla coscienza di
sé come di un essere distinto, e «io» riferito a se stesso è una delle
ultime parole che impara ad usare.
Nello sviluppo del genere umano, la coscienza che l’uomo ha di
se stesso come di una entità separata è in rapporto al suo grado di
emancipazione dal clan e al grado cui è giunto il processo di indivi-
duazione. Il membro di un clan primitivo potrebbe esprimere il suo
senso di identità nella formula «io sono io», egli non può ancora
concepire se stesso come un «individuo» che ha un’esistenza indi-
pendente dal gruppo. Nel mondo medievale, l’individuo era identifi-
cato col suo ruolo sociale nella gerarchia feudale. Il contadino non
era chi si trovava ad essere contadino, e il signore feudale chi si tro-
vava ad essere un signore feudale. Egli era contadino o signore, e
questo sentimento dell’inalterabilità della sua situazione era una par-
te essenziale del suo senso di identità. Quando il sistema feudale
crollò, questo senso di identità rimase scosso e sorse la pressante
3. LA SITUAZIONE UMANA ALLA BASE DELLA PSICANALISI UMANISTICA 56
domanda: «chi sono io?», o, più precisamente: «come posso sapere
che io sono io?». È il problema che fu posto in termini filosofici da
Cartesio. Egli rispondeva alla ricerca di identità dicendo: «dubito
dunque penso; penso dunque sono». Questa risposta poneva tutto
l’accento esclusivamente sull’esperienza dell’«io» come soggetto di
ogni attività intellettuale, e non vedeva che l’«io» si riconosce anche
nel processo sentimentale e nell’attività creativa.
Lo sviluppo della cultura occidentale mirava a porre le basi per
l’esperienza totale dell’individualità. Liberando l’individuo politi-
camente ed economicamente, insegnandogli a pensare da sé, e libe-
randolo dall’oppressione autoritaria, si sperò di renderlo capace di
sentirsi «io» nel senso che egli era il centro e il soggetto attivo dei
suoi poteri, e si riconosceva tale. Ma soltanto una minoranza rag-
giunse la nuova esperienza dell’«io». Per la maggioranza
l’individualismo era poco più che una facciata dietro la quale si na-
scondeva l’incapacità di raggiungere un sentimento individuale di
identità.
Si sono cercati e trovati molti surrogati di un senso di identità ve-
ramente individuale. La nazione, la religione, la classe e la profes-
sione servono a dare un senso di identità. «Io sono americano», «io
sono protestante», «io sono un uomo d’affari», sono queste le formu-
le che aiutano l’uomo a provare un senso di identità dopo che la ori-
ginaria identità del clan è scomparsa, e prima che un sentimento ve-
ramente individuale di identità sia stato raggiunto. Nella società con-
temporanea queste diverse identificazioni vengono generalmente
usate assieme. Esse sono, in senso lato, identificazioni di status e
sono più efficaci se commiste a più antichi residui feudali, come nei
paesi europei. Negli Stati Uniti, dove sopravvivono così scarse trac-
ce feudali e dove c’è tanta mobilità sociale, queste identificazioni di
status sono naturalmente meno efficaci e il senso di identità si tra-
sforma sempre più in esperienza conformista.
In quanto non sono differente, in quanto sono come gli altri, che
mi riconoscono come un «tipo a posto», posso sentirmi «io». Sono
«come tu mi vuoi», come si esprime Pirandello nel titolo di una sua
commedia. Invece dell’identità preindividualistica del clan si svilup-
pa una nuova identità gregaria, in cui il senso di identità è basato su
un sentimento di indiscutibile appartenenza alla massa. I fatti non
cambiano quando, come spesso avviene, questa uniformità e questo
57 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
conformismo non sono riconosciuti come tali, ma vengono masche-
rati mediante una individualità illusoria.
Il problema del senso di identità non è, come di solito si intende,
un problema meramente filosofico, o un problema che riguarda sol-
tanto la mente e il pensiero. Il bisogno di possedere un senso di iden-
tità sorge proprio dalla condizione della esistenza umana ed è la fon-
te dei nostri sforzi più intensi. Dato che non posso mantenere il mio
equilibrio senza il senso dell’«io», sono spinto quasi a far qualsiasi
cosa pur di conquistarlo. Dietro l’intensa preoccupazione per lo sta-
tus e per il conformismo c’è appunto questa esigenza, talvolta anche
più forte di quella della sopravvivenza fisica. Che può esservi di più
evidente del fatto che c’è gente pronta a rischiare la propria vita, ad
abbandonare l’amore, a rinunciare alla libertà, a far sacrificio del
proprio pensiero, e ciò per esser uno del gregge, per conformarsi e
ottenere così un sentimento di identità, benché illusorio?
E. bisogno di un sistema di orientamento e di devozione: ragione
contro irrazionalità
Il fatto che l’uomo possegga ragione e immaginazione porta non
solo alla necessità di avere un sentimento della propria identità, ma
anche di orientarsi intellettualmente nel mondo. Questo bisogno può
essere paragonato al processo di orientamento fisico che si svi-
luppa nei primi anni della vita e che si compie quando il bambino
riesce a camminare da solo, a toccare e maneggiare le cose sapendo
che cosa sono. Ma quando si sia conquistata la capacità di cammina-
re e di parlare, si è fatto soltanto il primo passo verso l’orientamento.
L’uomo si trova circondato da molti fenomeni oscuri e, dotato com’è
di ragione, deve interpretarli e correlarli in modo da poterli com-
prendere e dominare col suo pensiero. Il suo sistema di orientamento
diventa più adeguato, cioè si avvicina di più alla realtà, quanto più si
sviluppa la sua ragione. Ma il sistema di orientamento dell’uomo,
anche se estremamente illusorio, soddisfa tuttavia il suo bisogno di
un’immagine che sia per lui significativa. Se egli crede nel potere di
un totem animale, di un dio della pioggia, nella superiorità e nel de-
stino della sua razza, il suo bisogno di un sistema di orientamento è
soddisfatto. È più che evidente che l’immagine che egli si fa del
mondo dipende dallo sviluppo della sua ragione e della sua cono-
3. LA SITUAZIONE UMANA ALLA BASE DELLA PSICANALISI UMANISTICA 58
scenza. Benché biologicamente la capacità cerebrale dell’uomo sia
rimasta la stessa per migliaia di generazioni, ci vuole un lungo pro-
cesso evolutivo per arrivare all’obiettività, cioè per acquistare la fa-
coltà di vedere il mondo, la natura, gli altri e se stessi come sono e
non distorti da desideri e da paure. Quanto più l’uomo sviluppa que-
sta obiettività, tanto più egli è in contatto con la realtà; quanto più si
matura, tanto meglio egli può creare un mondo umano nel quale tro-
varsi a suo agio. La ragione è la facoltà dell’uomo di afferrare il
mondo col pensiero, in contrasto con l’intelligenza che è l’abilità
dell’uomo di manovrare il mondo con l’aiuto del pensiero. La ragio-
ne è lo strumento dell’uomo per raggiungere la verità; l’intelligenza
è lo strumento dell’uomo per manovrare il mondo con maggior suc-
cesso; la prima è essenzialmente umana, la seconda appartiene alla
parte animale dell’uomo.
La ragione è una facoltà che per svilupparsi deve essere esercita-
ta: essa è indivisibile. Con questo intendo dire che la capacità di
obiettività si riferisce alla conoscenza della natura come pure a quel-
la dell’uomo, della società e di se stessi. Se uno vive tra false pro-
spettive per ciò che riguarda un settore della vita, la sua capacità di
ragionare è limitata o menomata, e così l’uso della ragione è impedi-
to per tutti gli altri settori. Sotto questo aspetto la ragione è come
l’amore. Proprio come l’amore è un orientamento che si riferisce a
tutti gli oggetti e non può esser limitato ad un solo oggetto, così la
ragione è una facoltà umana che deve comprendere l’intero mondo
con cui l’uomo è in rapporto.
Del bisogno di un sistema di orientamento esistono due gradi: il
primo e più fondamentale bisogno è quello di possedere un sistema
qualsiasi di orientamento senza considerare se sia vero o falso. Un
uomo che non possegga un tale sistema di orientamento capace di
dare qualche soddisfazione soggettiva, non può possedere la salute
mentale. Il secondo grado è quello di essere in contatto con la realtà
attraverso la ragione, di afferrare il mondo obiettivamente. Ma la
necessità di sviluppare la propria ragione non è così immediata come
quella di sviluppare un sistema di orientamento, poiché ciò di cui si
tratta nel secondo caso è la felicità e serenità e non la sanità mentale.
Questo diventa molto chiaro se studiamo la funzione della raziona-
lizzazione. Per quanto irragionevole e immorale sia una azione,
l’uomo subisce un invincibile stimolo a razionalizzarla, cioè a prova-
59 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
re a se stesso e agli altri che la sua azione è determinata dalla ragio-
ne, dal buon senso o, almeno, dalla moralità convenzionale. Egli non
ha gran difficoltà ad agire irrazionalmente, ma è quasi impossibile
che egli non dia alla sua azione una apparente motivazione razionale.
Se l’uomo fosse soltanto intelletto senza corpo, il suo fine sareb-
be raggiunto con un vasto sistema logico. Ma poiché egli è un’entità
dotata sia di un corpo sia di una mente, deve reagire alla dicotomia
della sua esistenza non solamente mediante il pensiero ma anche nel
processo vitale completo, con i sentimenti e le azioni. Perciò ogni
sistema di orientamento soddisfacente contiene non solo elementi
intellettuali, ma anche elementi sentimentali e sensori che sono
espressi nel rapporto con un oggetto di devozione.
Le risposte date al bisogno che l’uomo ha di un sistema di orien-
tamento e di un oggetto di devozione differiscono grandemente sia
nel contenuto sia nella forma. Ci sono sistemi primitivi quali
l’animismo e il totemismo in cui gli oggetti naturali o gli antenati
rappresentano risposte alla ricerca di un significato da parte
dell’uomo. Ci sono sistemi non teistici come il buddismo, che di so-
lito si chiamano religioni benché nella loro forma originaria non vi
sia un concetto di Dio. Ci sono sistemi meramente fisiologici, come
lo stoicismo, e sistemi religiosi monoteistici i quali danno una rispo-
sta alla ricerca umana di un significato con riferimento al concetto di
Dio.
Ma quale che sia il loro contenuto tutti rispondono al bisogno
dell’uomo di possedere non solo qualche sistema logico, ma anche
un oggetto di devozione che dia significato alla sua esistenza e alla
sua posizione nel mondo. Soltanto l’analisi delle varie forme di reli-
gione potrà mostrare quali risposte forniscano rispettivamente la so-
luzione migliore o peggiore della ricerca umana di significato e de-
vozione: «migliore» e «peggiore» sempre secondo il punto di vista
della natura dell’uomo e del suo sviluppo.24
24 Cfr. per un più dettagliato esame di questo problema il mio Psicanalisi e religione, Edizioni
di Comunità, Milano 1961. L'esame del bisogno di un oggetto di devozione e di rituali conti-
nua nel capitolo VIII, 4, di questo libro.
60
4.
Salute mentale e società
Il concetto di salute mentale dipende dal nostro concetto di natu-
ra dell’uomo. Nel capitolo precedente si è tentato di mostrare che i
bisogni e le passioni dell’uomo sorgono dalla peculiare condizione
della sua esistenza. Quei bisogni che egli condivide con l’animale,
fame, sete, bisogno di dormire e di soddisfazione sessuale, sono im-
portanti essendo radicati nei processi chimici interni del corpo, e
possono diventare fortissimi quando rimangono insoddisfatti. (Que-
sto è vero, naturalmente, più per il bisogno di cibo e di sonno che per
quello del sesso, che qualora non venga soddisfatto non raggiunge
mai la potenza degli altri bisogni, almeno non per ragioni fisiologi-
che). Ma neppure la loro completa soddisfazione costituisce una
condizione sufficiente per l’equilibrio e la salute mentale. Questi
dipendono dalla soddisfazione di quei bisogni e di quelle passioni
che sono specificamente umani, e che sorgono dalle condizioni della
situazione umana: i bisogni di correlazione, trascendenza, radica-
mento, il bisogno di un sentimento di identità e il bisogno di un si-
stema di orientamento e di devozione. Le grandi passioni dell’uomo,
la sua sete di potere, la sua vanità, la sua ricerca della verità, il suo
desiderio di amore e di fratellanza, la sua capacità di distruggere
come quella di creare, tutti i potenti desideri che motivano le azioni
dell’uomo sono radicati in questa specifica origine umana, non nei
vari stadi della sua libido come ritiene la teoria freudiana.
La soluzione che l’uomo dà ai suoi bisogni fisiologici è, psicolo-
gicamente parlando, estremamente semplice: la difficoltà è qui ve-
ramente sociologica ed economica. La soluzione che l’uomo dà ai
suoi bisogni umani è straordinariamente complessa, dipende da mol-
ti fattori; ultimo tra essi, ma di non minor importanza, dal modo in
cui la società è organizzata e da come questa organizzazione deter-
mina le relazioni umane entro di sé.
I bisogni psichici basilari originati dalle peculiarità dell’esistenza
umana devono essere soddisfatti in una forma o nell’altra, affinché
61 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
l’uomo non diventi pazzo, proprio come i suoi bisogni fisiologici
devono essere soddisfatti per evitare che egli muoia. Ma i modi in
cui i bisogni psichici possono essere soddisfatti sono molteplici e la
differenza tra i diversi modi di soddisfazione è equivalente alla diffe-
renza esistente tra i diversi gradi di salute mentale. Se una delle ne-
cessità basilari non ha trovato soddisfazione il risultato è la pazzia;
se ad essa si corrisponde ma, considerando la natura dell’esistenza
umana, in modo non soddisfacente, la conseguenza è la nevrosi (sia
palese sia nella forma di deficienza socialmente strutturata). L’uomo
deve mettersi in relazione con gli altri ma, facendolo in una maniera
simbiotica o alienata, egli perde la sua indipendenza e la sua integri-
tà; sarà debole e sofferente, diventerà ostile o apatico; soltanto quan-
do sia in grado di mettersi in relazione con gli altri mediante
l’amore, egli si sente uno con essi e nello stesso tempo preserva la
sua integrità. Soltanto col lavoro produttivo egli si mette in relazione
con la natura, diventando uno con essa pur senza esservi sommerso.
Fino a quando l’uomo resta radicato incestuosamente nella natura,
nella madre, nel clan, lo sviluppo della sua individualità e della sua
ragione è arrestato; egli resta la sprovveduta preda della natura senza
però sentirsi mai unito con essa. Soltanto se egli sviluppa la sua ra-
gione e il suo amore, se può aver esperienza del mondo naturale e
sociale in maniera umana, può sentirsi a suo agio, sicuro di sé e pa-
drone della sua vita. È appena necessario notare come, delle due
possibili forme di trascendenza, la distruttività porti alla sofferenza e
la creatività alla felicità. È anche facile vedere che soltanto un senso
di identità basato sulla conoscenza dei propri poteri può dare forza,
mentre tutte le forme di esperienza dell’identità basate sul gruppo
lasciano l’uomo dipendente e perciò debole. Infine, soltanto nella
misura in cui afferra la realtà, l’uomo può fare di questo mondo
qualcosa di «suo»; vivendo tra false prospettive, egli non cambierà
mai le condizioni che le rendono necessarie.
Riassumendo, si può dire che il concetto di salute mentale deriva
dalle condizioni stesse dell’esistenza umana, ed è eguale per l’uomo
in tutte le epoche e in tutte le culture. La salute mentale è caratteriz-
zata dalla capacità di amare e di creare, dalla liberazione dai legami
incestuosi con il clan e con il suolo, da un senso di identità basato
sull’esperienza che l’individuo ha di sé come di soggetto e agente
4. SALUTE MENTALE E SOCIETÀ 62
dei suoi poteri, dalla capacità di afferrare la realtà dentro e fuori di
noi stessi, cioè dallo sviluppo dell’obiettività e della ragione.
Questo concetto di salute mentale coincide sostanzialmente con
le norme postulate dai grandi maestri spirituali della razza umana.
Secondo alcuni psicologi moderni questa coincidenza sembra dimo-
strare che le nostre premesse psicologiche non sono «scientifiche»,
ma sono, al contrario, «ideali» filosofici o religiosi. Evidentemente
riesce loro difficile concludere che i grandi insegnamenti di tutte le
culture erano basati sulla comprensione razionale della natura uma-
na, sulle condizioni per il completo sviluppo dell’uomo.
Quest’ultima conclusione sembra anche concordare maggiormente
col fatto che, nei luoghi più diversi di questa terra, in periodi storici
differenti, gli «illuminati» hanno predicato le stesse regole, senza
alcuna o con minima influenza reciproca. Ekhnaton, Mosè, Confu-
cio, Lao-tze, Budda, Isaia, Socrate, Gesù hanno postulato le stesse
regole di vita, con modeste e insignificanti varianti.
C’è una particolare difficoltà che molti psichiatri e psicologi de-
vono superare per accettare l’idea di psicanalisi umanistica. Essi
pensano ancora secondo le premesse filosofiche del materialismo del
diciannovesimo secolo che riteneva che tutti i fenomeni psichici im-
portanti dovessero esser radicati in corrispondenti processi somatici
fisiologici e che da essi fossero originati. In tal modo Freud, il cui
basilare orientamento filosofico era modellato su questo tipo di ma-
terialismo, credeva di aver trovato il sostrato fisiologico della pas-
sione umana nella «libido». Nella teoria che è qui esposta non vi
sono corrispondenti sostrati fisiologici dei bisogni di correlazione,
trascendenza, ecc.. Il sostrato non è fisico, ma consiste nell’intera
personalità umana, nella sua interazione con il mondo, la natura e
l’uomo; esso è la realizzazione umana della vita quale risulta dalle
condizioni dell’umana esistenza. La nostra premessa filosofica non è
quella del materialismo del diciannovesimo secolo; essa, al contra-
rio, pone l’azione dell’uomo e la sua interazione con i suoi simili e
con la natura come il dato empirico basilare per lo studio dell’uomo.
Se consideriamo il concetto di evoluzione umana, vedremo che il
nostro concetto di sanità mentale conduce ad una difficoltà teoretica.
C’è ragione di supporre che la storia dell’uomo, centinaia di migliaia
di anni fa, sia cominciata da una cultura veramente «primitiva», do-
ve la ragione umana non era sviluppata oltre il più rudimentale ini-
63 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
zio, dove le possibilità umane di orientamento avevano deboli rela-
zioni con la realtà e la verità. Dobbiamo parlare, per quest’uomo
primitivo, di una deficienza di salute mentale quando invece egli
manca semplicemente di qualità che soltanto un’ulteriore evoluzione
potrà dargli? In effetti, a questa domanda si potrebbe dare una rispo-
sta che renderebbe possibile una facile soluzione; questa risposta
risiede nella ovvia analogia tra l’evoluzione della razza umana e
l’evoluzione dell’individuo. Se un adulto avesse l’atteggiamento e
l’orientamento di un bambino di un mese, noi certamente lo defini-
remmo gravemente ammalato, probabilmente schizofrenico. Per il
bambino di un mese, però, la stessa attitudine è normale e sana, per-
ché corrisponde allo stadio del suo sviluppo psichico. La malattia
mentale dell’adulto può dunque essere definita, come Freud ha di-
mostrato, una fissazione o regressione ad un orientamento proprio di
uno stadio evolutivo precedente, che considerando lo stato di svilup-
po che la persona avrebbe dovuto raggiungere non risulta più ade-
guato. Nello stesso modo si potrebbe dire che la razza umana, come
il bambino, comincia il suo cammino da un orientamento primitivo e
si potrebbero chiamare sane tutte le forme di orientamento umano
che corrispondano allo stato adeguato dell’evoluzione umana; al
contrario si chiamerebbero «malattia» quelle «fissazioni» o «regres-
sioni» che rappresentino stadi precedenti di sviluppo dopo che la
razza umana vi sia passata. Ma per quanto suggestiva, questa solu-
zione trascura un fatto. Il bambino di un mese non ha ancora la base
organica per un atteggiamento maturo. In nessun caso egli potrebbe
pensare, sentire o agire come un adulto maturo. L’uomo, al contra-
rio, per centinaia di migliaia di anni, ha avuto tutta la dotazione or-
ganica necessaria alla maturità: in tutto questo tempo il suo cervello,
la coordinazione del suo corpo, le forze fisiche non sono cambiate.
La sua evoluzione è dipesa completamente dalla sua abilità nel tra-
smettere la conoscenza alle generazioni future, cioè
nell’accumularla. L’evoluzione umana è il risultato di uno sviluppo
culturale e non di un cambiamento organico.
Un neonato di una cultura primitiva, inserito in una cultura di
elevato sviluppo, si svilupperebbe come tutti gli altri bambini di
questa cultura, perché il solo fattore che determini il suo sviluppo è
il fattore culturale. In altre parole, mentre un bambino di un mese
non avrebbe mai, quali che siano le condizioni culturali, la maturità
4. SALUTE MENTALE E SOCIETÀ 64
spirituale di un adulto, ogni uomo, dallo stadio primitivo in poi, po-
trebbe avere la perfezione dell’uomo al culmine della sua evoluzio-
ne, purché gli fossero date condizioni culturali per tale maturità. Ne
segue che parlare di uomo primitivo, incestuoso, irragionevole, come
di un essere in una normale fase evolutiva è diverso dal fare la me-
desima constatazione riguardo al bambino. D’altra parte però lo svi-
luppo della cultura è una condizione necessaria per lo sviluppo uma-
no. In tal modo non sembra esserci una risposta completamente sod-
disfacente al problema; da un lato possiamo parlare di una mancanza
di salute mentale, dall’altro possiamo parlare di una fase iniziale di
sviluppo. Ma la difficoltà è grande soltanto se consideriamo gli
aspetti più generali del problema; a contatto con quelli più concreti
del nostro tempo, troviamo l’altro problema molto meno complicato.
Abbiamo raggiunto uno stato di individualizzazione, nel quale sol-
tanto la personalità matura e pienamente sviluppata può fare un frut-
tuoso uso della libertà; l’individuo, se non ha sviluppato la sua ra-
gione e la sua capacità di amare, è incapace di sopportare il fardello
della libertà e dell’individualità e tenta di rifugiarsi in vincoli artifi-
ciali che gli diano un senso di appartenenza e di radicamento. Oggi
ogni regressione della libertà verso radicamenti artificiali nello stato
o nella razza è un segno di disordine mentale, giacché tale regressio-
ne non corrisponde allo stato di evoluzione già raggiunto, e si mani-
festa con fenomeni indiscutibilmente patologici.
Che si parli della «salute mentale» o del «maturo sviluppo» della
razza umana, il concetto di salute mentale o di maturità è di carattere
obiettivo, e vi si giunge attraverso l’esame della «situazione umana»
e delle necessità e bisogni umani che da essa sorgono. Ne segue,
come ho indicato nel secondo capitolo, che la salute mentale non
può essere definita in termini di «adattamento» dell’individuo alla
sua società, ma, al contrario, deve essere definita in termini di adat-
tamento della società ai bisogni dell’uomo, e della sua funzione nel
promuovere o nel ritardare lo sviluppo della salute mentale. Che
l’individuo sia equilibrato o no, non è, innanzi tutto, una questione
individuale, ma dipende dalla struttura della sua società. Una società
sana favorisce la capacità dell’uomo di amare i suoi simili, di lavora-
re e creare, di sviluppare la sua ragione e la sua obiettività, di avere
un senso di sé che sia basato sull’esperienza delle sue energie pro-
duttive. Una società non sana è una società che crea ostilità reciproca
65 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
e diffidenza, che trasforma l’uomo in uno strumento d’uso e sfrutta-
mento da parte degli altri, che lo spoglia del senso di sé salvo quan-
do egli si sottometta agli altri o diventi un automa. La società può
avere due funzioni: può favorire un sano sviluppo dell’uomo e può
ritardarlo; in realtà nel maggior numero dei casi la società fa entram-
be le cose, e il problema riguarda soltanto la misura e la direzione in
cui si esercita la sua influenza positiva e negativa.
L’opinione per cui la salute mentale sarebbe determinabile obiet-
tivamente e la società avrebbe un’influenza sia stimolante sia defor-
mante sull’uomo, contraddice non soltanto l’impostazione relativi-
stica precedentemente discussa, ma anche due altri punti di vista che
vorrei ora esaminare. Il primo, indubbiamente il più corrente oggi-
giorno, vorrebbe farci credere che la società occidentale contempo-
ranea, e più particolarmente l’«American way of life», corrisponda
ai bisogni più profondi della natura umana e che l’adattamento a
questo sistema di vita comporti salute mentale e maturità. La psico-
logia sociale, anziché essere uno strumento per un giudizio critico
sulla società, difende in tal modo lo status quo. Secondo tale punto
di vista il concetto di «maturità» e di «salute mentale» corrisponde
all’atteggiamento desiderabile in un lavoratore o in un impiegato
dell’industria o del commercio. Per dare un esempio di tale concetto
di adattamento prendo una definizione della maturità emotiva secon-
do il dottor Strecker: «Io definisco la maturità, egli scrive, come la
capacità di dedizione ad un lavoro, la facoltà di dare in un lavoro più
di quel che si richieda, di meritarsi la fiducia, la costanza nel seguire
il piano di lavoro nonostante le difficoltà, la capacità di lavorare con
altri in una organizzazione gerarchica, la capacità di prendere deci-
sioni, volontà di vivere, elasticità, indipendenza, tolleranza».1
È pacifico che quello che Strecker qui descrive come maturità
sono in realtà le virtù di un buon operaio, impiegato o soldato nelle
grandi organizzazioni sociali del nostro tempo; sono le qualità che di
solito si elencano nelle inserzioni per la ricerca di un dirigente subal-
terno. Per lui e per molti altri che pensano come lui, maturità è lo
stesso che adeguamento alla nostra società, senza mai porsi la do-
1 E.A. STRECKER, Their Mothers' Sons, J.B. Lippincott Company, Filadelfia e New York
1951, p. 211.
4. SALUTE MENTALE E SOCIETÀ 66
manda se in tal modo ci si adegui ad un sistema sano di condotta
oppure ad uno patologico.
In contrasto con questa è l’opinione che si sviluppa da Hobbes a
Freud, e che presuppone una basilare e inalterabile contraddizione
tra natura umana e società, una contraddizione che deriva dalla af-
fermata natura asociale dell’uomo. Per Freud, l’uomo è spinto da
due impulsi radicati biologicamente: la brama di piacere sessuale e
di distruzione. Il desiderio sessuale mira ad una completa libertà ses-
suale, cioè ad una illimitata facoltà di avvicinare sessualmente tutte
le donne che un uomo possa trovar desiderabili. «L’uomo ha scoper-
to con l’esperienza che l’amore sessuale (genitale) gli dava i mag-
giori godimenti, così da considerarlo il prototipo di ogni felicità». In
tal modo egli deve esser stato spinto «a continuare a cercare la sua
felicità nelle relazioni sessuali, a fare dell’erotismo genitale il punto
centrale della sua vita».2
Altro fine del naturale desiderio sessuale è il desiderio incestuoso
per la madre che, per la sua stessa natura, crea conflitti e ostilità ver-
so il padre. Freud espresse l’importanza di questo aspetto della ses-
sualità affermando che la proibizione dell’incesto è «forse la ferita
più menomante che sia stata inflitta in tutti i tempi alla vita erotica
dell’uomo».3
Completamente d’accordo con le idee di Rousseau, Freud affer-
ma che, per soddisfare questi desideri fondamentali, l’uomo primiti-
vo deve affrontare pochissime restrizioni o addirittura nessuna. Egli
può dar sfogo alla sua aggressività e poche limitazioni si oppongono
alla soddisfazione dei suoi impulsi sessuali. «Di fatto, l’uomo primi-
tivo... non sapeva di alcuna limitazione ai suoi istinti... L’uomo civi-
lizzato ha barattato parte delle sue possibilità di felicità con una mi-
sura di "sicurezza"».4
Freud, mentre segue Rousseau nell’idea del «buon selvaggio»,
segue anche Hobbes nella supposizione di una ostilità basilare tra gli
uomini. «Homo homini lupus: chi ha il coraggio di contestarlo di
fronte a tutte le prove esistenti nella sua stessa vita e nella storia?»5
domanda Freud. L’aggressività dell’uomo, pensa Freud, avrebbe due
2 Civilization and Its Dis-contents, cit., p. 69. 3 Op. cit., p. 74. 4 Op. cit., pp. 91, 92. 5 Op. cit., p. 85.
67 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
origini: una è l’innato impulso verso la distruzione (istinto di morte);
l’altra sarebbe la frustrazione dei suoi desideri istintivi impostagli
dalla civiltà. Se è possibile che l’uomo diriga contro se stesso parte
dei suoi impulsi aggressivi, attraverso il super-io, se è possibile che
una minoranza sublimi i propri desideri sessuali nell’amore fraterno,
l’aggressività resiste inestirpabile. Gli uomini contenderebbero sem-
pre tra loro e si aggredirebbero l’un l’altro, se non per cose materiali,
per i «privilegi nei rapporti sessuali, che devono suscitare i più forti
rancori e le più violente ostilità tra uomini e donne eguali sotto altri
aspetti. Supponiamo che si possa rimediare anche a ciò istituendo
una completa libertà nella vita sessuale, di modo che la famiglia, la
cellula germinativa della cultura, non esista più; non si potrebbe, è
vero, prevedere le nuove vie su cui lo sviluppo culturale si avviereb-
be allora, ma una cosa bisognerebbe attenderci, e cioè che
l’ineliminabile caratteristica della natura umana seguirebbe tale svi-
luppo ovunque conduca».6 Poiché l’amore è per Freud essenzialmen-
te desiderio sessuale, egli è costretto a presumere una contraddizione
tra amore e coesione sociale. Secondo lui, l’amore è, per sua stessa
natura, egoistico e antisociale e il senso di solidarietà e di amore fra-
terno non sono sentimenti primari radicati nella natura umana ma
desideri sessuali deviati dal loro fine.
Sulla base di questo concetto dell’uomo, quello cioè del suo im-
manente desiderio di illimitata soddisfazione sessuale, e della sua
distruttività, Freud deve inevitabilmente giungere alla descrizione
del conflitto necessario tra civiltà da una parte e sanità mentale e
felicità dall’altra. L’uomo primitivo è sano e felice perché non è fru-
strato nei suoi istinti basilari, ma manca dei benefici della cultura.
L’uomo civile è più sicuro, possiede l’arte e la scienza, ma dovrà
necessariamente esser nevrotico, a causa della continua frustrazione
dei suoi istinti, rafforzata dalla civiltà.
Per Freud la vita sociale e la civiltà sono in netto contrasto con i
bisogni della natura umana quali egli li vede, e l’uomo è messo di
fronte alla tragica scelta tra la felicità basata sulla soddisfazione illi-
mitata dei suoi istinti, e la sicurezza e le conquiste culturali basate
sulla frustrazione degli istinti e pertanto apportatrici di nevrosi e di
tutte le altre forme di infermità mentali. La civiltà, per Freud, è il
6 Op. cit., p. 89.
4. SALUTE MENTALE E SOCIETÀ 68
prodotto della frustrazione degli istinti e perciò la causa delle malat-
tie mentali.
Il concetto freudiano di una natura umana essenzialmente compe-
titiva (e sociale) è lo stesso che troviamo in moltissimi autori i quali
credono che le caratteristiche dell’uomo nel capitalismo moderno
siano le sue caratteristiche naturali. La teoria freudiana del comples-
so di Edipo è basata sull’ipotesi di un «naturale» antagonismo e riva-
lità tra padre e figlio per amore della madre. Questa contesa viene
ritenuta inevitabile a causa della naturale aspirazione incestuosa del
figlio. Freud non fa altro che seguire la medesima linea di pensiero
quando suppone che gli istinti rendano ogni uomo desideroso di ave-
re il privilegio nei rapporti sessuali creando così violenta ostilità con
i suoi simili. Non possiamo fare a meno di notare come tutta la teoria
freudiana del sesso sia costruita sulla premessa antropologica secon-
do cui competizione e reciproca ostilità sono insite nella natura
umana.
Nel campo della biologia, Darwin diede espressione a questo
principio con la sua teoria di una competitiva «lotta per sopravvive-
re». Economisti come Ricardo e la scuola di Manches-ter la tradus-
sero nella sfera dell’economia. Più tardi Freud, sotto l’influenza del-
le medesime premesse antropologiche, la usò nella sfera dei desideri
sessuali. Il suo concetto fondamentale è quello di un «homo sex-
ualis» come gli economisti avevano quello dell’«homo oeconomi-
cus». Entrambi, l’uomo «economico» e l’uomo «sessuale» sono co-
mode costruzioni la cui pretesa natura - isolata, asociale, avida, e
competitiva - fanno sì che il capitalismo appaia come il sistema che
corrisponde perfettamente alla natura umana e lo pongono fuori dalla
portata della critica.
Entrambe le posizioni, quella «dell’adattamento» e quella hob-
bes-freudiana del conflitto necessario tra natura umana e società,
comportano la difesa della società contemporanea e sono entrambe
delle deformazioni unilaterali. Inoltre entrambe ignorano il fatto che
la società non è in conflitto soltanto con gli aspetti asociali
dell’uomo, che essa stessa determina in parte, ma spesso anche con
le più preziose qualità umane che essa reprime più che non le favori-
sca.
Un esame obiettivo del rapporto tra società e natura umana con-
sidererà sia l’azione stimolatrice sia quella inibitoria operata dalla
69 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
società sull’uomo, tenendo conto della natura dell’uomo e dei biso-
gni che da essa sorgono. Poiché la maggior parte degli autori aveva
posto l’accento sull’influenza positiva della società moderna
sull’uomo, in questo libro considererò non tanto questo aspetto
quanto quello alquanto trascurato della funzione patogena della so-
cietà moderna.
70
5.
L’uomo nella società capitalistica
Il carattere sociale
La salute mentale non può essere esaminata con profitto nel suo
pieno significato come se si trattasse di una qualità astratta di perso-
ne astratte. Per esaminare lo stato della salute mentale dell’uomo
occidentale contemporaneo, e considerare quali fattori in questo si-
stema di vita portino allo squilibrio e quali altri favoriscano
l’equilibrio mentale, dobbiamo studiare l’influenza esercitata dalle
condizioni specifiche del nostro sistema di produzione e della nostra
organizzazione sociale e politica sulla natura dell’uomo; dobbiamo
riuscire a farci un’immagine dell’uomo medio che vive e lavora in
queste condizioni. Soltanto se potremo farci una tale immagine del
«carattere sociale», per quanto sperimentale e incompleta essa possa
essere, avremo una base per giudicare la salute mentale e l’equilibrio
dell’uomo moderno.
Che cosa si intende per carattere sociale? Con questo concetto in-
tendo il nucleo della struttura di carattere condiviso dalla maggior
parte delle persone di una medesima cultura in contrasto con il carat-
tere individuale con il quale persone appartenenti ad una stessa cul-
tura si differenziano l’una dall’altra. Il concetto di carattere sociale
non è un concetto statico nel senso che esso sia semplicemente la
somma complessiva dei tratti di carattere che si trovano nella mag-
gioranza delle persone di una data cultura. Esso si può comprendere
solo se ci si riferisce alla funzione del carattere sociale che ora co-
minceremo ad esaminare.1
1 Nelle pagine seguenti riprendo quanto esposto nel mio lavoro «Psychoanalitic Characterolo-
gy and Its Application to the Understanding of Culture», in Culture and Personality, a cura di
G.S. Sargent e M. Smith, Viking Fund 1949, pp. 1-12. Il concetto di carattere sociale fu origi-
nariamente sviluppato nel mio Die psychoanalytische Charakterologie in ihrer Anwendung für
die Soziologie, in «Zeitschrift für Sozialforschung», I, Hirschfeld, Lipsia 1931.
71 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
Ogni società è strutturata ed opera in modi imposti da una quan-
tità indeterminata di condizioni obiettive. Queste condizioni com-
prendono metodi di produzione e distribuzione che a loro volta di-
pendono dalle materie prime, dalle tecniche industriali, dal clima,
dalla entità della popolazione, dai fattori politici e geografici, dalle
tradizioni e dagli influssi culturali cui la società è esposta. Non esiste
una «società» in generale: vi sono soltanto strutture sociali specifi-
che che operano in modi differenti e determinabili. Sebbene queste
strutture sociali cambino nel corso dello sviluppo storico, esse sono
relativamente stabili in ogni dato periodo storico, e la società può
esistere soltanto operando nell’ambito della sua struttura particolare.
I membri della società, come pure le varie classi o gruppi sociali in
essa esistenti, devono procedere in modo tale da esser capaci di fun-
zionare nel senso richiesto dal sistema sociale. Funzione propria del
carattere sociale è quella di condizionare le energie dei membri della
società in modo tale che il loro comportamento non dipenda da deci-
sioni coscienti sull’opportunità di seguire o non seguire il sistema
sociale, ma dipenda dalla volontà di agire come devono agire, tro-
vando nel contempo soddisfazione nell’agire in accordo con le esi-
genze della cultura. In altre parole, è funzione del carattere sociale
modellare e incanalare l’energia umana entro una data società per il
buon andamento continuo di questa società.
La società industriale moderna, per esempio, non avrebbe potuto
raggiungere i suoi fini se non avesse imbrigliato, come non si era
mai fatto per il passato, l’energia lavorativa di uomini liberi. L’uomo
doveva esser riplasmato e trasformato in un essere di null’altro desi-
deroso che di consumare la maggior parte delle sue energie allo sco-
po di lavorare, e che raggiungeva un grado di disciplina, e partico-
larmente di ordine e di puntualità, sconosciuto alla maggior parte
delle altre culture. Non sarebbe stato sufficiente che ogni individuo
decidesse coscientemente ogni giorno di voler lavorare, esser pun-
tuale, e così via, poiché ogni deliberazione di questo genere avrebbe
portato a ben più numerose eccezioni di quello che il regolare fun-
zionamento della società possa consentire. E neppure la minaccia e
la forza sarebbero bastate come determinanti, poiché le mansioni
altamente differenziate della moderna società industriale a lungo
andare possono essere soltanto opera di uomini liberi e non di forza-
ti. La necessità del lavoro, della puntualità e dell’ordine dovevano
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 72
esser trasformate in una spinta interiore verso questi intenti. Ciò si-
gnifica che la società doveva produrre un carattere sociale cui questi
desideri fossero connaturati.
Non si può comprendere la genesi del carattere sociale solo rife-
rendoci ad una causa singola; occorre comprendere il rapporto reci-
proco dei fattori sociologici ed ideologici. I fattori economici, meno
soggetti a mutamenti, hanno una certa predominanza in questo reci-
proco processo. Ciò non significa che la spinta al lucro sia nell’uomo
la sola o la più potente forza determinante. Significa però che
l’individuo e la società sono in primo luogo interessati al desiderio
di sopravvivere, e che solo quando la sopravvivenza è assicurata
possono passare alla soddisfazione degli altri imperativi bisogni
umani. L’intento di sopravvivere comporta che l’uomo debba pro-
durre, debba cioè assicurarsi un minimo di cibo e di ricovero, e gli
strumenti necessari anche per i processi di produzione più elementa-
ri. Il sistema di produzione determina a sua volta le relazioni sociali
esistenti in una data società. È esso che stabilisce il modo e il siste-
ma di vita. Tuttavia le idee politiche, filosofiche e religiose non sono
puramente strutture secondarie. Radicate nel carattere sociale, a loro
volta determinano, ordinano e stabilizzano il carattere sociale stesso.
Mi sia concesso ripetere che quando si dice che la struttura eco-
nomico-sociale della società plasma il carattere umano, si parla sol-
tanto di uno dei poli di interconnessione esistente tra
l’organizzazione sociale e l’uomo. L’altro polo da considerare è la
natura dell’uomo, che modella a sua volta le condizioni sociali in cui
egli vive. Il processo sociale può esser compreso soltanto se partia-
mo dalla conoscenza della realtà dell’uomo, dei suoi attributi psichi-
ci come di quelli fisiologici, e se esaminiamo il rapporto reciproco
esistente tra la natura dell’uomo e la natura delle condizioni esterne
in cui egli vive e che deve dominare se vuol sopravvivere.
Se è vero che l’uomo può adattarsi a quasi tutte le condizioni,
egli non è però una pagina bianca su cui la cultura scrive la sua sto-
ria. Bisogni quali l’aspirazione alla felicità, all’armonia, all’amore e
alla libertà gli sono connaturali. Essi sono anche fattori dinamici del
processo storico che, se frustrati, tendono a far esplodere reazioni
psichiche, creando infine proprio le condizioni adatte all’aspirazione
originaria. Il carattere sociale ha una prevalente funzione stabilizza-
trice, per tutto il tempo che le condizioni della società e della cultura
73 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
restano stabili. Se le condizioni esterne cambiano in modo tale da
non accordarsi col carattere sociale tradizionale, avviene un rallen-
tamento che spesso trasforma la funzione del carattere in elemento di
disintegrazione anziché di stabilizzazione, in dinamite invece che in
cemento sociale, si potrebbe dire.
Ammesso che questo concetto della genesi e della funzione del
carattere sociale sia esatto, ci troviamo di fronte ad un problema im-
barazzante. L’ipotesi che la struttura del carattere sia modellata dal
ruolo che l’individuo deve svolgere nella sua cultura non contraddice
all’ipotesi che il carattere di una persona sia modellato nell’infanzia?
Si può affermare che entrambe le opinioni sono vere in considera-
zione del fatto che il bambino si trova, nei primi anni di vita, in un
contatto relativamente limitato con la società in quanto tale? Rispon-
dere a queste domande non è facile come può sembrare a prima vi-
sta. Dobbiamo distinguere fra i fattori che sono responsabili di parti-
colari contenuti del carattere sociale e i metodi con i quali il carattere
sociale è prodotto. La struttura della società e la funzione
dell’individuo nella struttura sociale possono essere prese in esame
per determinare il contenuto del carattere sociale. D’altra parte si
può ritenere che la famiglia sia l’agente psichico della società,
l’istituzione che ha la funzione di trasmettere le esigenze della socie-
tà al bambino che cresce. La famiglia adempie in due modi a questa
funzione. Anzitutto, e questo è il fattore maggiormente importante,
con l’influenza che il carattere dei genitori ha sulla formazione del
carattere del bambino in fase di sviluppo. Poiché il carattere della
maggior parte dei genitori è espressione del carattere sociale, essi
trasmettono in tal modo al bambino i tratti essenziali e socialmente
desiderabili della struttura di carattere. L’amore e la felicità dei geni-
tori sono comunicati al bambino nello stesso modo che le loro
preoccupazioni e la loro ostilità. La funzione di plasmare il carattere
del bambino in una direzione socialmente desiderabile è affidata ol-
tre che al carattere dei genitori anche ai metodi pedagogici che pos-
sono essere usati in una cultura. Vi sono tecniche e metodi pedago-
gici vari, che possono soddisfare al medesimo scopo, e, d’altro lato,
vi possono essere metodi apparentemente identici, e che nondimeno
sono diversi a causa della struttura di carattere di quelli che praticano
questi metodi. Se ci occuperemo dei soli metodi pedagogici non po-
tremo mai spiegare il carattere sociale. I metodi pedagogici hanno
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 74
importanza soltanto quali meccanismi di trasmissione, e possono
essere compresi esattamente soltanto se prima comprendiamo quali
generi di personalità siano desiderabili e necessari in una data cultu-
ra.2
Il problema delle condizioni economico-sociali della moderna
società industriale che creano la personalità dell’uomo occidentale
moderno e che sono responsabili delle disfunzioni della sua salu-
te mentale, richiede dunque una comprensione di quegli elementi
che sono specifici del sistema capitalistico di produzione, di una
«società acquisitiva» in un’epoca industriale. Per quanto sommaria
ed elementare debba necessariamente riuscire tale descrizione, dato
che non è fatta da un economista, spero che essa sia tuttavia suffi-
ciente a porre le basi per la successiva analisi del carattere sociale
dell’uomo nella società occidentale contemporanea. NOTE:...
La struttura del capitalismo e il carattere dell’uomo
A. Capitalismo del diciassettesimo e diciottesimo secolo
Il capitalismo è il sistema economico che è diventato dominante
nell’occidente a cominciare dal diciassettesimo e diciottesimo seco-
lo. Nonostante i grandi mutamenti avvenuti in questo sistema, vi
sono certe caratteristiche che sono rimaste stabili durante la sua sto-
ria ed è legittimo, riferendoci a queste caratteristiche comuni, usare
il concetto di capitalismo per il sistema economico che esiste per
tutto questo periodo.
Queste caratteristiche comuni sono, in breve: 1) l’esistenza di
uomini politicamente e legalmente liberi; 2) il fatto che questi uomi-
ni liberi (operai e impiegati) vendono sul mercato del lavoro e con
contratto il loro lavoro al proprietario del capitale; 3) l’esistenza del
mercato merci come di un meccanismo dal quale sono determinati i
prezzi e da cui è regolato lo scambio del prodotto sociale; 4) il prin-
cipio per cui ogni individuo agisce col fine di cercare un utile per se
2 Proprio nell'ipotesi che i metodi pedagogici siano di per se stessi causa della particolare
formazione di una cultura, risiede la debolezza del punto di vista di Kardiner, Gorer e altri il
cui lavoro è basato, sotto questo aspetto, su premesse freudiane ortodosse.
75 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
stesso, e per cui, d’altro canto, si suppone che da una attività di con-
correnza di molti derivi il più gran vantaggio per tutti.
Mentre queste caratteristiche sono comuni al capitalismo di que-
sti ultimi secoli, le alterazioni avvenute in questo periodo sono im-
portanti quanto i casi di identità. Pur essendo maggiormente interes-
sati, nella nostra analisi, agli effetti delle strutture economico-sociali
contemporanee sull’uomo, discuteremo almeno brevemente delle
caratteristiche del capitalismo del diciassettesimo e diciottesimo se-
colo, e di quelle del capitalismo del diciannovesimo secolo che si
differenziano dallo sviluppo della società e dell’uomo nel secolo
ventesimo.
Quando si parla del diciassettesimo e del diciottesimo secolo bi-
sogna ricordare due aspetti che caratterizzarono questo periodo ini-
ziale del capitalismo. Il primo è che la tecnica e l’industria erano,
paragonate allo sviluppo del diciannovesimo e ventesimo secolo,
all’inizio; e il secondo è che nel medesimo tempo gli usi e le idee
della cultura medievale avevano ancora una considerevole influenza
sugli usi economici di questo periodo. Pertanto si riteneva fosse pra-
tica non cristiana e immorale che un mercante cercasse di portar via i
clienti ad un altro in forza di prezzi più bassi o con altre lusinghe.
Nella quinta edizione del Complete English Tradesman (1745) si
afferma che dalla morte dell’autore, Defoe, avvenuta nel 1731,
«questo uso di vender a prezzo più basso è aumentato in misura così
scandalosa, che dei privati annunciano pubblicamente di vendere più
a buon mercato dei colleghi».3 Il Complete English Tradesman, nella
quinta edizione, cita un caso concreto nel quale un «grosso commer-
ciante», che aveva più denaro dei concorrenti e non era pertanto co-
stretto a far uso del credito, comprava le merci direttamente dal pro-
duttore, le trasportava con mezzi propri invece di avvalersi di inter-
mediari; e le vendeva direttamente al dettagliante, dando così la pos-
sibilità a quest’ultimo di vendere la merce a un penny di meno per
yarda. Il commento del Complete English Tradesman è che il risulta-
to di tutto questo metodo è soltanto quello di arricchire questo «uo-
mo avido» e di render possibile ad altri di comprare il suo panno un
po’ più a buon mercato, «un vantaggio molto modesto» sproporzio-
3 Mi avvalgo qui della descrizione e cito gli esempi dati da W. SOMBART, Der Bourgeois,
Monaco e Lipsia 1923, p. 201 ss.
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 76
nato al danno arrecato agli altri commercianti.4 Troviamo eguali di-
vieti di vendite sottoprezzo in ordinanze emesse in Germania e in
Francia durante tutto il diciottesimo secolo.
Si sa bene quanto fosse scettica la gente di fronte alle nuove mac-
chine, poiché esse minacciavano di togliere il lavoro all’uomo. Col-
bert le chiamò «il nemico del lavoro», e Montesquieu disse
nell’Esprit des Lois (XXIII, 15) che le macchine che diminuiscono il
numero degli operai sono «perniciose». I diversi atteggiamenti ora
ricordati sono basati sui principi che avevano regolato la vita
dell’uomo per molti secoli. Il più importante di tutti era il principio
secondo cui la società e l’economia esistono per l’uomo e non
l’uomo per esse. Non si riteneva sano un progresso economico che
risultasse nocivo per qualche gruppo della società; non occorre dire
come questo concetto fosse strettamente connesso al pensiero tradi-
zionalista in quanto l’equilibrio sociale doveva esser preservato, e si
riteneva dannoso ogni scompenso.
.
B. Capitalismo del diciannovesimo secolo
Nel diciannovesimo secolo l’atteggiamento tradizionalistico del
secolo precedente cambia, dapprima lentamente e poi rapidamente.
L’essere umano vivente, con i suoi desideri e i suoi guai, va sempre
più perdendo il posto centrale nel sistema, e questo posto è occupato
dagli affari e dalla produzione. Nella sfera economica l’uomo cessa
di essere «la misura di tutte le cose». L’elemento più caratteristico
del capitalismo del diciannovesimo secolo era innanzi tutto il crudele
sfruttamento dell’operaio; si credeva che fosse una legge naturale e
sociale che centinaia di migliaia di operai fossero, ogni giorno della
loro vita, sul punto di morir di fame. Si credeva che il proprietario
del capitale fosse moralmente nel suo diritto se, nella caccia al gua-
dagno, sfruttava al massimo la manodopera che impiegava. Tra il
proprietario del capitale e i suoi operai non esisteva, si può dire, al-
cun sentimento di solidarietà umana. Ciò che imperava era la legge
della giungla economica. Tutte le idee restrittive dei secoli preceden-
ti erano superate. Ci si accaparra il cliente, si cerca di vendere a
prezzo più basso del concorrente e la lotta concorrenziale tra gente
4 Ibidem, p. 206.
77 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
della stessa classe è crudele e senza limiti come lo sfruttamento
dell’operaio. Con l’uso della macchina a vapore, aumenta la divisio-
ne del lavoro, e nella stessa misura aumenta il potenziale
dell’azienda. Il principio capitalistico per cui ognuno cerca il proprio
vantaggio in tal modo contribuendo alla felicità di tutti, diventa il
principio guida del comportamento umano.
Il mercato come primo meccanismo equilibratore viene liberato
da tutti gli elementi restrittivi tradizionali e nel diciannovesimo seco-
lo entra nel pieno dei suoi poteri. Ognuno, mentre crede di agire se-
condo il proprio interesse, è in effetti determinato dalle leggi anoni-
me del mercato e del meccanismo economico. Il singolo capitalista
espande la propria azienda non perché sia lui a volerlo, ma perché
deve farlo, perché, come scrisse Carnegie nella sua autobiografia, il
rinvio di un’ulteriore espansione significherebbe la regressione. In
effetti, quando un’azienda si ingrandisce, si deve continuare a farla
crescere, lo si voglia o no. In questa funzione della legge economica
che opera alle spalle dell’uomo e lo obbliga ad agire senza dargli la
libertà di decidere, vediamo l’inizio di una congiuntura che si compi-
rà soltanto nel ventesimo secolo.
Nel nostro tempo non è soltanto la legge del mercato ad avere la
sua propria vita e a dirigere l’uomo, ma anche lo sviluppo della
scienza e della tecnica. Per diverse ragioni i problemi e
l’organizzazione della scienza sono al giorno d’oggi tali che uno
scienziato non sceglie i suoi problemi; sono i problemi che si im-
pongono allo scienziato. Una volta risolto un problema, il risultato
non è che egli sia più sicuro o più certo, ma che dieci altri problemi
nuovi nascono al posto del problema risolto. Essi obbligano lo stu-
dioso a risolverli ed egli deve avanzare a passo sempre più rapido.
Lo stesso vale anche per le tecniche industriali. Il passo della scienza
sollecita il passo della tecnica. La fisica teoretica ci impone l’energia
atomica; il successo produttivo della bomba a fissione ci impone di
fabbricare la bomba all’idrogeno. Non siamo noi che scegliamo i
nostri problemi, o i nostri prodotti: siamo spinti, siamo obbligati; da
chi? Da un sistema che non ha né fine né mete che lo trascendano e
che fa dell’uomo una sua appendice.
Tratteremo più largamente questo aspetto dell’impotenza
dell’uomo nell’analisi del capitalismo contemporaneo. A questo
punto, però, dovremo soffermarci più a lungo sull’importanza del
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 78
mercato moderno come meccanismo centrale di distribuzione del
prodotto sociale, poiché il mercato costituisce la base per la forma-
zione delle relazioni umane nella società capitalistica.
Se la ricchezza della società corrispondesse ai veri bisogni di tutti
i suoi componenti non ci sarebbe il problema di distribuirla; ogni
membro potrebbe prendere quanto del prodotto sociale gli piace o gli
occorre di più e non vi sarebbe bisogno di controllo, se non nel senso
meramente tecnico della distribuzione. Ma se si escludono le società
primitive questa condizione non è mai esistita finora nella storia
umana. I bisogni sono sempre stati maggiori della somma totale del
prodotto sociale; pertanto si dovette stabilire, mediante una regola-
mentazione, come distribuirlo, quanti e chi potevano ottenere la sod-
disfazione massima dei loro bisogni, e quali classi dovevano accon-
tentarsi di meno di quanto abbisognassero. In genere, nelle società
più sviluppate del passato, questa decisione veniva presa essenzial-
mente con la forza. Talune classi avevano il potere di appropriarsi
del meglio del prodotto sociale, e di assegnare alle altre classi il la-
voro più pesante e più sporco insieme ad una minor parte del prodot-
to. La forza poggiava spesso sulla tradizione sociale e religiosa, che
godeva presso il popolo di un potere psichico talmente forte da ren-
dere superflua la minaccia della forza fisica.
Il mercato moderno è un meccanismo di distribuzione autorego-
lato che rende superflua la divisione del prodotto sociale secondo un
piano tradizionale o appositamente predisposto, e in tal modo rende
superfluo l’uso della forza entro la società. Naturalmente la assenza
della forza è più apparente che reale. L’operaio che deve accettare la
tariffa salariale offertagli sul mercato del lavoro è obbligato ad ac-
cettare le condizioni del mercato perché altrimenti non potrebbe so-
pravvivere. In tal modo la «libertà» dell’individuo è in gran parte
illusoria. Egli è conscio del fatto che non c’è forza esterna che lo
costringa ad accettare certi contratti; egli è meno consapevole delle
leggi del mercato che operano, per così dire, alle sue spalle, e perciò
crede di esser libero, anche se in effetti non lo è. Ma se questa è la
situazione, il metodo capitalistico di distribuzione attraverso il mec-
canismo del mercato è migliore di ogni altro metodo fin qui escogi-
tato in una società di classe, perché esso costituisce la base per la
relativa libertà politica dell’individuo che è caratteristica della de-
mocrazia capitalistica.
79 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
Il funzionamento economico del mercato è fondato sulla concor-
renza di molti individui che vogliono vendere le loro merci sul mer-
cato delle merci, come vogliono vendere il loro lavoro e le loro pre-
stazioni sul mercato del lavoro e della personalità. Questa necessità
economica della concorrenza ha portato, specialmente nella seconda
metà del diciannovesimo secolo, a quello che caratterologicamente
parlando, si può chiamare un crescente atteggiamento concorrenzia-
le. L’uomo era spinto dal desiderio di superare il suo concorrente,
rovesciando così completamente l’atteggiamento caratteristico
dell’era feudale, dove ciascuno aveva nell’ordine sociale il suo posto
tradizionale di cui si sarebbe accontentato. In opposizione alla stabi-
lità sociale del sistema medievale si sviluppò una mobilità sociale
del tutto nuova, dove ognuno lottava per i posti migliori anche se
soltanto pochi eletti potevano raggiungerli. In questa lotta per il suc-
cesso condotta senza esclusione di colpi, crollarono le regole sociali
e morali della solidarietà umana; l’importanza della vita consisteva
nel giungere primi in una competizione.
Un altro fattore costitutivo del sistema capitalistico di produzione
è che in questo sistema il fine di tutte le attività economiche è il pro-
fitto. Ora, si è fatta una gran confusione, sia intenzionale sia non in-
tenzionale, intorno a questo «movente del profitto» proprio del capi-
talismo. Ci hanno detto, e a ragione, che qualsiasi attività economica
ha un significato soltanto se ne risulta un profitto, cioè se guada-
gniamo di più di quel che abbiamo speso nell’atto produttivo. Per
guadagnarsi da vivere anche l’artigiano precapitalistico doveva
spendere per le materie prime e per la paga agli apprendisti meno del
prezzo che chiedeva per il suo prodotto. In ogni società che abbia
attività industriale, semplice o complessa che sia, il valore del pro-
dotto vendibile deve superare il costo di produzione per fornire il
capitale necessario al rinnovamento delle attrezzature, per sviluppare
e ampliare la produzione. Ma il punto in questione non è la lucrosità
dell’attività produttiva. Il nostro problema sta nel fatto che il moven-
te determinante la nostra attività produttiva non consiste nell’utilità
sociale, o nella soddisfazione nel processo lavorativo, ma nell’utile
derivato dall’investimento. Non occorre affatto che il singolo capita-
lista si interessi dell’utilità che il suo prodotto avrà per il consumato-
re. Ciò non significa che il capitalista sia preso, psicologicamente
parlando, da una insaziabile avidità di denaro. Può essere o può non
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 80
essere così, ma ciò non è essenziale per il sistema capitalistico di
produzione. Di fatto, nella fase iniziale, l’avidità costituiva il motivo
del capitalista con maggior frequenza che nella fase attuale, in cui la
proprietà e la direzione sono per lo più separate e il fine di ottenere
un più elevato profitto è subordinato al desiderio di una espansione
sempre crescente e al buon andamento di una azienda.
Il reddito può, nel presente sistema, esser del tutto indipendente
dallo sforzo o dal servizio personale. Il proprietario del capitale può
guadagnare senza lavorare. L’essenziale funzione umana dello
scambio di uno sforzo per un reddito può diventare una astratta ma-
nipolazione di denaro per ottenere più denaro. Questo è ancor più
evidente nel caso dell’assenza del proprietario da una impresa indu-
striale. Che egli sia proprietario dell’intera impresa o soltanto di una
parte di essa non crea alcuna differenza. In ogni caso egli ricava un
profitto dal suo capitale e dal lavoro di altri senza dover fare il ben-
ché minimo sforzo. Si sono escogitate molte pie giustificazioni per
questa situazione. È stato detto che i profitti sono un compenso per i
rischi che egli si assume nel suo investimento, o per lo sforzo, impli-
cante una rinuncia, di risparmiare che lo ha reso capace di accumula-
re il capitale che può investire. Ma è quasi superfluo dimostrare co-
me questo fattore marginale non modifichi il fatto elementare che il
capitalismo consente di avere un profitto senza alcuno sforzo o fun-
zione produttiva. Ma anche per quelli che lavorano e prestano servizi
il reddito non ha alcuna correlazione ragionevole con lo sforzo com-
piuto. Il guadagno di un maestro è soltanto una piccola parte di quel-
lo di un medico, benché le sue funzioni sociali siano di eguale im-
portanza e il suo sforzo personale non sia molto spesso minore. Il
guadagno del minatore non è che una frazione del reddito del diretto-
re della miniera, benché il suo sforzo personale sia, se consideriamo
i pericoli e i disagi connessi al suo lavoro, più grande.
Quel che caratterizza la distribuzione del reddito nel capitalismo
è la mancanza di un rapporto equilibrato tra lo sforzo e il lavoro di
un individuo e il riconoscimento sociale concessogli, cioè la ricom-
pensa finanziaria. In una società più povera della nostra, questa
sproporzione porterebbe a estremi di lusso e di povertà più gravi di
quanto le nostre norme morali potrebbero tollerare. Non intendo pe-
rò accentuare gli effetti materiali di questa sproporzione, bensì i suoi
effetti morali e psicologici. Uno di questi consiste nella sottovaluta-
81 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
zione del lavoro, dello sforzo e della capacità umana. L’altro nel fat-
to che fino a che il mio guadagno è limitato dallo sforzo che faccio, è
limitato anche il mio desiderio. Se, d’altra parte, il mio reddito non è
in proporzione col mio sforzo, non vi sono limitazioni ai miei desi-
deri, in quanto il loro soddisfacimento dipende dalle possibilità of-
ferte da una certa situazione di mercato non dipendente dalle mie
proprie capacità.5
Il capitalismo del diciannovesimo secolo era un capitalismo ve-
ramente privato. Gli individui intravedevano e afferravano nuove
possibilità, agivano economicamente, intuivano nuovi metodi, com-
pravano beni, tanto per la produzione che per il consumo e godevano
della loro proprietà. Questo piacere della proprietà, al di fuori della
spinta della concorrenza e della ricerca del profitto, è uno degli
aspetti fondamentali del carattere delle classi medie ed elevate del
diciannovesimo secolo. È tanto più importante notare questa caratte-
ristica poiché, per quanto riguarda il piacere della proprietà e del
risparmio, l’uomo contemporaneo è notevolmente differente dai suoi
antenati. La mania del risparmio e del possesso è di fatto diventata il
tratto caratteristico della classe più retrograda, la classe piccolo bor-
ghese, e si trova molto più facilmente in Europa che in America.
Abbiamo qui uno degli esempi in cui un aspetto del carattere sociale
che una volta era proprio della classe più progredita, è divenuto anti-
quato nel corso dello sviluppo economico, ed è conservato proprio
da quei gruppi che si sono meno sviluppati.
Caratterologicamente il piacere del possesso e della proprietà è
stato descritto da Freud come un importante aspetto del «carattere
anale». Partendo da differenti premesse teoriche ho descritto il me-
desimo quadro clinico nei termini di «orientamento verso
l’accumulazione». Come ogni altro orientamento di carattere, quello
accaparratore ha aspetti positivi e negativi; il predominio degli aspet-
ti negativi e positivi dipende dalla relativa forza dell’orientamento
produttivo nel carattere individuale o sociale. Gli aspetti di questo
5 Troviamo qui la medesima differenza che esiste nei desideri fisici in contrasto con quelli che
non sono radicati nei bisogni corporali; il mio desiderio di mangiare, per esempio, è autorego-
lato dalla mia organizzazione fisiologica e soltanto in casi patologici questo desiderio non è
regolato da un limite di saturazione fisiologica. L'ambizione, la brama del potere e così via,
che non sono radicate nei bisogni fisiologici dell'organismo, non hanno tale meccanismo auto-
regolatore, e questa è la ragione per cui esse sono sempre crescenti e così pericolose.
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 82
orientamento, come li ho descritti in Man for Himself, sono: esser
pratici, economici, solerti, riservati, cauti, tenaci, imperturbabili, or-
dinati, metodici e leali. Gli aspetti negativi corrispondenti sono: es-
ser senza fantasia, tirchi, sospettosi, freddi, ansiosi, caparbi, indolen-
ti, pedanti, ossessionanti e accumulatori.6 È facile vedere che nel
diciottesimo e diciannovesimo secolo, quando l’orientamento accu-
mulatore era connesso con le necessità del progresso economico,
erano preminenti gli aspetti positivi, mentre nel ventesimo secolo,
quando questi tratti costituiscono la caratteristica superata di una
classe superata, sono presenti quasi esclusivamente gli aspetti nega-
tivi.
Il crollo del principio tradizionale della solidarietà umana portò a
nuove forme di sfruttamento. Nella società feudale si riteneva che il
signore potesse per diritto divino domandar servizi e cose a quelli
che erano soggetti al suo dominio, ma nello stesso tempo egli era
obbligato dalla consuetudine ed era tenuto ad esser responsabile dei
suoi sudditi, a proteggerli, e a provveder loro, almeno in misura mi-
nima, lo standard tradizionale di vita. Lo sfruttamento feudale ebbe
luogo in un sistema di obbligazioni umane reciproche, ed era in tal
modo governato da talune restrizioni. Lo sfruttamento come si svi-
luppò nel diciannovesimo secolo era profondamente diverso.
L’operaio, o piuttosto il suo lavoro, era per il proprietario del capita-
le una merce da comprare non sostanzialmente diversa da qualsiasi
altra merce sul mercato, ed era usata dal compratore sino al massimo
della sua capacità. Poiché il lavoro era stato comprato al prezzo giu-
sto sul mercato del lavoro, non v’era senso di reciprocità o di alcun
obbligo da parte del proprietario del capitale, oltre a quello di pagare
il salario. Se centinaia di migliaia di operai erano senza lavoro e sul
punto di morir di fame, ciò accadeva per la loro cattiva sorte, per le
loro capacità inferiori, o semplicemente per una legge sociale e natu-
rale, che non poteva esser cambiata. Lo sfruttamento non era più
personale, ma diventava, per così dire, anonimo. Era la legge del
mercato, piuttosto che la volontà o l’avarizia di qualche individuo, a
condannare un uomo a lavorare per salari di fame. Nessuno era re-
sponsabile o colpevole, nessuno poteva cambiare quella condizione.
6 Cfr. Man for Himself, p. 114.
83 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
Si aveva a che fare con le leggi ferree della società, o così almeno
sembrava.
Nel ventesimo secolo è per lo più scomparso tale sfruttamento
capitalistico come era consueto nel secolo diciannovesimo. Questo
non può tuttavia oscurare la visione del fatto che nel ventesimo, co-
me nel diciannovesimo secolo, il capitalismo è basato sul principio
che si trova in tutte le società di classe: l’uso dell’uomo da parte
dell’uomo.
Dal momento che il capitalismo moderno «impiega» il lavoro, la
forma sociale e politica dello sfruttamento è cambiata; quel che non
è cambiato è il fatto che il proprietario del capitale utilizza altri uo-
mini per il proprio profitto. Il concetto basilare dell’uso non ha nulla
a che fare con modi crudeli o non crudeli di trattamento umano, ma
col fatto fondamentale che un uomo serve un altro per fini che non
sono suoi propri, ma solo quelli del datore di lavoro. Il concetto
dell’uso dell’uomo da parte dell’uomo non ha nulla a che fare nem-
meno con la questione se un uomo usi un altro o usi se stesso. Il fatto
rimane il medesimo: che un uomo, un essere umano vivente, cessa di
essere un fine in sé e diventa il mezzo per gli interessi economici di
un altro uomo, o di se stesso, o di un gigante impersonale: il mecca-
nismo economico.
A queste affermazioni si oppongono due obiezioni. Una è che
l’uomo moderno è libero di accettare o di rifiutare un contratto, ed è
perciò un partecipante volontario nelle sue relazioni sociali col dato-
re di lavoro, e non una «cosa». Ma questa obiezione ignora il fatto
che innanzi tutto egli non ha altra scelta che accettare le condizioni
esistenti e, secondariamente, che anche se egli non fosse obbligato
ad accettare queste condizioni, sarebbe ancora «impiegato», cioè
sarebbe usato per fini che non sono suoi propri, ma del capitale al
cui utile egli serve.
L’altra obiezione è che ogni vita sociale, anche nelle sue forme
più primitive, richiede una certa misura di cooperazione sociale e
persino di disciplina, e che indubbiamente nella più complessa forma
di produzione industriale una persona deve compiere certe funzioni
necessarie e specializzate. Questa affermazione, se pure certamente
vera, nondimeno ignora la differenza basilare: in una società dove
nessuna persona ha potere su un’altra ognuno compie le sue funzioni
sulla base della cooperazione e della reciprocità. Nessuno può co-
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 84
mandare ad un altro, in quanto un rapporto è basato sulla coopera-
zione reciproca, sull’amore, sull’amicizia o su vincoli naturali. Di
fatto noi riscontriamo ciò in molte situazioni della società odierna: la
normale cooperazione tra marito e moglie entro la vita familiare non
è più in larga misura determinata dall’autorità del marito sulla mo-
glie, come avveniva nelle più antiche forme di società patriarcale,
ma da un principio di cooperazione e di mutualità. La stessa cosa è
vera per le relazioni tra amici, in quanto essi si prestano l’un l’altro
certi servizi e cooperano fra loro. In questi rapporti nessuno oserebbe
comandare ad un’altra persona; la sola ragione per cui ci si attende il
suo aiuto sta nel reciproco sentimento di amore, di amicizia o, sem-
plicemente, di solidarietà umana. L’aiuto dell’altra persona è assicu-
rato dal mio sforzo attivo di conquistarmi, in quanto essere umano, il
suo amore, la sua amicizia e comprensione. Nel rapporto tra datore
di lavoro e lavoratore questo non avviene. Il datore di lavoro ha
comprato le prestazioni dell’operaio, e per quanto umano possa esse-
re il trattamento continua a comandarlo, non sulla base della mutua-
lità, ma sulla base dell’avergli comperato il suo tempo lavorativo per
un dato orario giornaliero.
L’uso dell’uomo da parte dell’uomo rivela il sistema di valori che
sta alla base del sistema capitalistico. Il capitale, il morto passato,
impiega il lavoro, vitalità e poteri viventi nel presente. Nella gerar-
chia capitalistica dei valori il capitale sta più in alto del lavoro, le
cose accumulate sono superiori alle manifestazioni di vita. Il capitale
impiega il lavoro, e non viceversa. La persona che possiede il capita-
le comanda alla persona che possiede «soltanto» la propria vita, la
propria abilità umana, la propria vitalità e produttività creativa. «Le
cose» sono più in alto dell’uomo. Il conflitto tra il capitale e il lavoro
è molto di più che il conflitto tra due classi, più che la loro lotta per
una più grande porzione del prodotto sociale. Essa è il conflitto tra
due principi di valore: quello tra il mondo delle cose e la loro accu-
mulazione, e il mondo della vita e la sua produttività.7
Strettamente collegato al problema dello sfruttamento e dell’uso,
sebbene anche più complicato, è il problema dell’autorità dell’uomo
del diciannovesimo secolo. Ogni sistema sociale in cui un gruppo
7 Cfr. l'esame che R.M. TAWNEY fa del medesimo punto in The Acquisitive Society, Harcourt
Brace & Company, New York 1920, p. 99.
85 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
della popolazione è comandato da un altro, specialmente se questo
secondo è una minoranza, deve esser basato su di un forte senso
dell’autorità, un senso sviluppatosi in una società fortemente patriar-
cale dove si ritiene che il sesso maschile sia superiore e comandi il
sesso femminile. Poiché il problema dell’autorità è così decisivo per
la nostra comprensione delle relazioni umane in ogni genere di so-
cietà, e poiché l’atteggiamento dell’autorità è cambiato fondamen-
talmente dal diciannovesimo al ventesimo secolo, voglio cominciare
l’esame di questo problema riferendomi alla differenziazione
dell’autorità da me operata in Fuga dalla libertà, e che ancora mi
sembra abbastanza valida per esser citata come base per la discus-
sione che segue: l’autorità non è una qualità che una persona «ha»
così come può avere dei beni o delle qualità fisiche. Autorità signifi-
ca una relazione interpersonale nella quale un individuo guarda ad
un altro come a qualcuno superiore a sé. Ma v’è una differenza fon-
damentale tra un tipo di relazione di superiorità-inferiorità che può
esser chiamato autorità razionale, ed un altro che può essere descritto
come autorità inibitoria, o irrazionale.
Un esempio servirà a mostrare quel che intendo dire. Il rapporto
tra maestro ed allievo e quello tra padrone di schiavi e schiavo sono
entrambi basati sulla superiorità dell’uno sull’altro. Gli interessi del
maestro e dello scolaro sono rivolti in una stessa direzione. Il mae-
stro è soddisfatto se riesce a far progredire l’allievo; se non vi riesce,
il fallimento è suo e dell’allievo. Il proprietario di schiavi, d’altra
parte, desidera sfruttare lo schiavo quanto più possibile; quanto più
ne ricava tanto più è soddisfatto. Nello stesso tempo, lo schiavo cer-
ca di difendere come meglio può le sue esigenze di un minimo di
felicità. Questi interessi sono decisamente antagonistici poiché quel
che giova all’uno è di svantaggio all’altro. La superiorità ha nei due
casi una diversa funzione: nel primo caso è la condizione per aiutare
la persona subordinata all’autorità, nel secondo caso è la condizione
per il suo sfruttamento.
Anche la dinamica dell’autorità in questi due tipi è diversa: più lo
studente impara minore è il divario tra lui e il maestro. Egli diventa
sempre più simile al maestro stesso. In altre parole il rapporto di au-
torità razionale tende ad annullarsi. Ma quando la superiorità serve
di base allo sfruttamento, la distanza aumenta col trascorrere del
tempo.
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 86
La situazione psicologica è differente in ognuna di queste forme
d’autorità. Nella prima prevalgono elementi di amore, ammirazione
o gratitudine. L’autorità è nello stesso tempo un esempio con cui
l’individuo desidera identificarsi in parte o totalmente. Nella seconda
situazione, nasceranno risentimenti o ostilità contro lo sfruttatore,
poiché la subordinazione allo stesso è contraria agli interessi dello
sfruttato. Ma spesso, come nel caso dello schiavo, il suo odio porte-
rebbe soltanto a conflitti che sottoporrebbero lo schiavo a sofferenze
senza possibilità di vittoria. Perciò la tendenza sarà, di solito, a re-
primere il sentimento di odio e, talvolta, persino a rimpiazzarlo con
un sentimento di cieca ammirazione. Questa ha due funzioni: 1) ri-
muovere il doloroso e pericoloso sentimento di odio, e 2) attenuare il
sentimento di umiliazione. Se la persona che mi domina è così
straordinaria e perfetta, non dovrei vergognarmi di obbedirle. Io non
posso esser suo pari perché egli è tanto più forte, sapiente, migliore
ecc. di quanto io non sia. Di conseguenza, nel tipo di autorità inibito-
ria l’elemento sia di odio sia di sopravvalutazione e ammirazione
irrazionali dell’autorità tende a crescere. Nel tipo razionale di autori-
tà, la forza dei legami emotivi tenderà a decrescere in proporzione
diretta alla misura in cui la persona soggetta all’autorità diventa più
forte e, pertanto, più simile all’autorità.
La differenza tra autorità razionale e autorità inibitoria è soltanto
relativa. Anche nel rapporto tra schiavo e padrone vi sono elementi
di vantaggio per lo schiavo. Egli ottiene un minimo di cibo e di pro-
tezione che lo rendono almeno capace di lavorare per il suo padrone.
D’altra parte, è soltanto in una relazione ideale tra maestro e allievo
che noi possiamo trovare una completa mancanza di antagonismo di
interessi. Vi sono molte gradazioni fra questi due casi estremi, come
nel rapporto tra l’operaio di una fabbrica e il suo padrone, o tra il
figlio di un contadino e suo padre, o tra una «casalinga» e suo mari-
to. Nondimeno, i due tipi di autorità, anche se in realtà sono commi-
sti, differiscono sostanzialmente, e l’analisi di una concreta situazio-
ne d’autorità deve sempre determinare il peso specifico di ogni gene-
re di autorità.
Il carattere sociale del diciannovesimo secolo è un buon esempio
di mescolanza di autorità razionale e autorità irrazionale. Il carattere
della società era essenzialmente gerarchico e differiva dal carattere
gerarchico della società feudale basata sulla legge divina e sulla tra-
87 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
dizione, fondandosi piuttosto sulla proprietà del capitale: quelli che
lo possedevano potevano comprare e così comandare il lavoro di
quelli che non avevano capitale, e questi ultimi dovevano obbedire,
sotto pena di morir di fame. V’era una specie di miscuglio tra il nuo-
vo e il vecchio sistema gerarchico. Lo stato, specialmente nella for-
ma monarchica, coltivava le vecchie virtù di obbedienza e di sotto-
missione per applicarle a contenuti e valori nuovi. L’obbedienza,
nella classe media del diciannovesimo secolo, era ancora una delle
virtù fondamentali e la disobbedienza uno dei vizi capitali.
Nel medesimo tempo, tuttavia, l’autorità razionale si era svilup-
pata fianco a fianco dell’autorità irrazionale. Fin dalla riforma e dal
rinascimento l’uomo aveva cominciato ad affidarsi alla propria ra-
gione come ad una guida nell’azione e nei giudizi di valore. Egli era
fiero di avere convinzioni proprie, e rispettava l’autorità degli scien-
ziati, filosofi, storici che lo aiutavano a formarsi i propri giudizi e ad
esser certo delle proprie convinzioni. Decidere tra il vero e il falso,
tra il giusto e l’ingiusto, era cosa di primaria importanza e infatti sia
la coscienza morale sia quella intellettuale presero un posto premi-
nente nella struttura di carattere dell’uomo del diciannovesimo seco-
lo. Anche se non applicava le norme della sua coscienza a uomini di
colore diverso o perfino di differenti classi sociali, era tuttavia guida-
to, almeno fino a un certo punto, dal suo senso del giusto e
dell’ingiusto e, anche se non era riuscito ad evitare la cattiva azione,
aveva coscienza del male fatto.
Un altro tratto caratteristico del diciannovesimo secolo è stretta-
mente collegato a questo senso della coscienza morale e intellettuale:
il senso dell’orgoglio e del dominio. Se oggi guardiamo alle imma-
gini della vita del diciannovesimo secolo, agli uomini con barba,
cilindro e bastone da passeggio, siamo facilmente colpiti dagli aspet-
ti ridicoli e negativi dell’orgoglio maschile del diciannovesimo seco-
lo: una vanità e una ingenua fede in se stessi considerati come la più
alta creazione della natura e della storia;
ma, specialmente se guardiamo all’assenza di questi tratti nel no-
stro tempo, possiamo vedere gli aspetti positivi di quest’orgoglio.
L’uomo aveva la consapevolezza di essersi, per così dire, messo in
sella, e di aver liberato se stesso dal dominio delle forze naturali; di
esser diventato, per la prima volta nella storia, loro padrone. Egli
aveva liberato se stesso dai ceppi della superstizione medievale, ed
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 88
era persino riuscito, nei cento anni tra il 1814 e il 1914, a creare uno
dei più pacifici periodi che la storia abbia mai conosciuto. Egli sen-
tiva di esser un individuo soggetto alle leggi della ragione e che se-
guiva soltanto le proprie decisioni.
Riassumendo, possiamo dunque dire che il carattere sociale del
diciannovesimo secolo era essenzialmente concorrenziale, accumu-
latore, sfruttatore, autoritario, aggressivo, individualista. Anticipan-
do il nostro successivo esame, possiamo già ora porre l’accento sulla
gran differenza esistente tra il capitalismo del diciannovesimo secolo
e quello del ventesimo. Invece dell’orientamento sfruttatore e acca-
parratore troviamo l’orientamento ricettivo e mercantile. Invece di
competitività troviamo una tendenza sempre crescente verso il «la-
voro di gruppo»; invece di una corsa al profitto sempre crescente, il
desiderio di un reddito continuo e sicuro; invece di sfruttamento, una
tendenza a condividere e a distribuire la ricchezza, a manovrare gli
altri, e se stessi; invece di autorità, razionale o irrazionale, ma mani-
festa, troviamo un’autorità anonima, l’autorità dell’opinione pubbli-
ca e del mercato;8 invece della coscienza individuale, il bisogno di
adeguarsi e di esser approvati da altri; invece del senso di orgoglio e
di dominio, un sempre crescente, sebbene prevalentemente incon-
scio, senso di impotenza.9
Se ci volgiamo a guardare ai problemi patologici dell’uomo del
diciannovesimo secolo, li vediamo, come è naturale, strettamente
collegati alle peculiarità del suo carattere sociale. L’orientamento
verso lo sfruttamento e l’accumulazione provocò sofferenze umane e
mancanza di rispetto per la dignità dell’uomo: permise all’Europa di
sfruttare l’Africa e l’Asia e le sue proprie classi operaie spietatamen-
te e senza riguardo per i valori umani. L’altro fenomeno patologico
del diciannovesimo secolo, il ruolo dell’autorità irrazionale e il biso-
gno di sottomettervisi, portarono alla repressione di pensieri e di
sentimenti che furono messi al bando dalla società. Il sintomo più
evidente fu la repressione del sesso e di tutto quello che vi era di na- 8 Tuttavia, come dimostrato dalla Russia e dalla Germania, la fuga dalla libertà può anche, nel
ventesimo secolo, prender la forma di una sottomissione completa ad una aperta autorità irra-
zionale. 9 Si deve aggiungere che la descrizione precedente è vera specialmente per le classi medie del
diciannovesimo secolo. L'operaio e il contadino erano differenti sotto molti aspetti essenziali.
Uno degli elementi dello sviluppo del ventesimo secolo è che la differenza di carattere tra le
diverse classi sociali, specialmente tra quelle viventi nelle città, sia quasi del tutto scomparsa.
89 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
turale nel corpo, nei movimenti, nell’abbigliamento, nell’architettura
e così via. Questa repressione portò, come pensava Freud, a varie
forme di patologia nevrotica.
I movimenti di riforma del diciannovesimo secolo e degli inizi
del ventesimo che cercarono di curare la patologia sociale, mossero
da questi sintomi principali. Tutte le forme di socialismo,
dall’anarchismo al marxismo, insistettero sulla necessità di abolire lo
sfruttamento e di trasformare l’operaio in un essere umano indipen-
dente, libero e rispettato; essi credevano che se si fosse abolita la
sofferenza economica, tutte le conquiste positive del diciannovesimo
secolo avrebbero portato il loro pieno frutto, mentre sarebbero
scomparsi i difetti. Proprio nello stesso modo Freud credeva che se
fosse diminuita sensibilmente la repressione sessuale, sarebbero di-
minuite di conseguenza le nevrosi e tutte le forme di malattie mentali
(anche se negli ultimi anni il suo ottimismo iniziale andò sempre più
riducendosi). I liberali credevano che la completa libertà dalle auto-
rità irrazionali avrebbe segnato l’inizio di una nuova era. Le ricette
per la cura degli umani malanni fornite da liberali, socialisti e psica-
nalisti, differenti com’erano l’una dall’altra, si adattavano tuttavia
alla patologia e alla sintomatologia caratteristiche del diciannovesi-
mo secolo. Che cosa era più naturale dell’attendersi che, con
l’abolizione dello sfruttamento e delle sofferenze economiche o con
la rimozione della repressione sessuale e dell’autorità irrazionale,
l’uomo entrasse in un’era di libertà, felicità e progresso maggiori di
quel che aveva avuto nel diciannovesimo secolo?
Mezzo secolo è trascorso e le principali richieste dei riformatori
del diciannovesimo secolo sono state soddisfatte. Se si parla del pae-
se economicamente più progredito, gli Stati Uniti, si vede che lo
sfruttamento economico delle masse è scomparso in misura che sa-
rebbe parsa fantastica al tempo di Marx. La classe operaia, invece di
regredire nello sviluppo economico dell’intera società, partecipa
sempre più della ricchezza nazionale, ed è perfettamente legittima
l’ipotesi che, qualora non avvenga qualche eccezionale catastrofe,
non vi sarà più, tra una o due generazioni, sensibile povertà negli
Stati Uniti. Strettamente collegato alla crescente abolizione delle
sofferenze economiche è il fatto che la situazione umana e politica
dell’operaio è radicalmente cambiata. Attraverso i sindacati, egli è
diventato, sul piano sociale, un «collaboratore» della direzione. Egli
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 90
non può esser mandato da una parte all’altra, licenziato, offeso come
accadeva ancora trent’anni fa. Certamente egli non guarda più il
«padrone» come se questi fosse un essere superiore. Non lo venera e
non lo odia, anche se forse lo invidia per i maggiori progressi che ha
fatto nel raggiungimento di fini socialmente desiderabili. Per quanto
riguarda la sottomissione all’autorità irrazionale nei rapporti tra figli
e genitori, il quadro è fortemente mutato dal diciannovesimo secolo.
I bambini non hanno più paura dei genitori. Essi sono camerati e se
c’è qualcuno che si sente a disagio questi non è il bambino, ma i ge-
nitori che temono di non essere aggiornati. Nell’industria come
nell’esercito c’è uno spirito di «lavoro di gruppo» e di eguaglianza
che sarebbe parso incredibile cinquant’anni fa. In aggiunta a tutto ciò
la repressione sessuale è diminuita in misura notevole; dopo la prima
guerra mondiale si è avuta una rivoluzione sessuale con la quale si
sono gettati a mare inibizioni e principi. L’idea di non soddisfare i
desideri sessuali era ritenuta superata e poco salutare. Benché vi sia
stata una certa reazione contro questo atteggiamento, nel complesso
il sistema di divieti e repressioni del diciannovesimo secolo è quasi
scomparso.
Facendo un confronto col diciannovesimo secolo, noi abbiamo
ottenuto quasi tutto quello che sembrava esser necessario per una
società più sana e difatti molti, che ancora pensano nei termini del
secolo scorso, sono convinti che continuiamo a progredire. Di con-
seguenza essi credono anche che l’unica minaccia ad un ulteriore
progresso risieda nelle società autoritarie, come l’Unione Sovietica
che, con il suo spietato sfruttamento economico degli operai per rea-
lizzare una più rapida accumulazione di capitale e la spietata autorità
politica necessaria per continuare lo sfruttamento, somiglia per di-
versi aspetti alla fase iniziale del capitalismo. Però per quelli che non
guardano alla nostra società con gli occhi del diciannovesimo secolo,
risulta ovvio che la soddisfazione delle speranze del diciannovesimo
secolo non ha portato affatto ai risultati che ci si attendeva. Di fatto
sembra che, nonostante la prosperità materiale, la libertà politica e
sessuale, il mondo a metà del ventesimo secolo sia mentalmente più
ammalato di quanto non lo fosse quello del secolo diciannovesimo.
Difatti, come ha detto concisamente Adlai Stevenson: «Non corria-
91 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
mo più il pericolo di diventare schiavi, ma di diventare robot».10
Non
c’è un’autorità aperta che ci intimidisca, ma siamo governati dal ti-
more dell’autorità anonima del conformismo. Non ci sottomettiamo
a nessuno
personalmente; non abbiamo conflitti con l’autorità, ma non pos-
sediamo nemmeno convinzioni nostre; non abbiamo quasi individua-
lità né senso della nostra personalità. Evidentemente, la diagnosi
della nostra patologia non può ricalcare quella del diciannovesimo
secolo. Dobbiamo riconoscere gli specifici problemi patologici del
nostro tempo per giungere ad una visione di quel che è necessario
per salvare il mondo occidentale da uno squilibrio crescente. Si cer-
cherà di fare queste diagnosi nella sezione seguente che tratta del
carattere sociale dell’uomo occidentale nel ventesimo secolo.
C. La società del ventesimo secolo
1. Mutamenti sociali ed economici
Nel capitalismo tra il diciannovesimo secolo e la metà del vente-
simo sono avvenuti importanti mutamenti della tecnica industriale e
della struttura economica e sociale. Non meno gravi e fondamentali
sono stati i cambiamenti nel carattere dell’uomo. Mentre abbiamo
già menzionato taluni cambiamenti nel passaggio dal capitalismo del
diciannovesimo secolo a quello del ventesimo -mutamenti nella for-
ma di sfruttamento, nella forma dell’autorità, nel ruolo della tenden-
za al possesso - nell’esame che segue si considereranno quegli aspet-
ti economici e caratterologici del capitalismo contemporaneo che
sono i più fondamentali del nostro tempo, anche se la loro origine
può risalire al secolo diciannovesimo o anche più indietro.
Per cominciare con una constatazione negativa, nella società oc-
cidentale contemporanea le caratteristiche feudali vanno sempre più
scomparendo, e in tal modo la pura forma della società capitalistica
diventa ancor più evidente. Tuttavia l’assenza di residui feudali è
ancor più notevole negli Stati Uniti che nell’Europa occidentale. Il
capitalismo degli Stati Uniti non è soltanto più potente e più progre-
10 Nel suo discorso alla Columbia University, 1954.
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 92
dito che in Europa, ma è anche il modello verso cui il capitalismo
europeo sta sviluppandosi. Ed è un modello non perché l’Europa
tende ad imitarlo, ma perché costituisce la forma più avanzata di ca-
pitalismo, libera dai residui e dalle pastoie feudali. Il retaggio feuda-
le ha, oltre alle ovvie qualità negative, caratteristiche umane che,
paragonate con l’atteggiamento prodotto dal capitalismo puro, sono
estremamente suggestive. La critica europea agli Stati Uniti è basata
fondamentalmente sui più antichi valori umani del feudalesimo, in
quanto essi sono ancora vivi in Europa. È una critica del presente in
nome di un passato che sta rapidamente scomparendo nella stessa
Europa. Sotto questo rispetto la differenza tra l’Europa e gli Stati
Uniti è soltanto la differenza tra una fase più vecchia ed una più
nuova del capitalismo, tra un capitalismo ancora mescolato con resi-
dui feudali e una sua forma pura.
Il mutamento maggiormente evidente dal diciannovesimo al ven-
tesimo secolo è il mutamento tecnico, il crescente uso della macchi-
na a vapore, del motore a scoppio, dell’elettricità e l’inizio
dell’impiego dell’energia atomica. Lo sviluppo è caratterizzato dalla
sostituzione crescente del lavoro manuale col lavoro meccanico e,
oltre a ciò, dell’intelligenza umana con l’intelligenza meccanica.
Mentre nel 1850 l’uomo forniva il 15% dell’energia per il lavoro, gli
animali il 79% e le macchine il 6%, il rapporto diventerà nel 1960
rispettivamente del 3, dell’1 e del 96%.11
Nella metà del ventesimo
secolo troviamo una tendenza crescente ad impiegare macchine re-
golate automaticamente, che hanno i loro propri «cervelli» e che de-
terminano un mutamento fondamentale nell’intero processo produt-
tivo.
Il mutamento tecnico nel sistema di produzione è provocato da
una crescente concentrazione di capitale ed a sua volta la rende ne-
cessaria. La diminuzione del numero e dell’importanza delle piccole
aziende è in rapporto diretto con l’incremento dei grossi colossi eco-
nomici. Bastano poche cifre per dar concretezza ad un quadro che
nelle sue grandi linee è molto ben conosciuto. Delle 573 società
anonime americane indipendenti che controllavano la maggior parte
dei titoli allo Stock Exchange di New York nel 1930, 130 società
11 Cfr. Th. CARSKADOM e R. MODLEY, U.S.A., Measure of a Nation, The Macmillan
Company, New York 1949, p. 3.
93 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
controllavano più dell’80% dell’attivo di tutte le società rappresenta-
te. Le 200 società non bancarie controllavano «quasi metà di tutta la
ricchezza delle società non bancarie, mentre l’altra metà era posse-
duta da più di 300.000 società più piccole».12
Bisogna inoltre ricor-
dare che l’influenza di una di queste enormi società si estende ben
oltre l’attivo sotto il suo diretto controllo. «Le società più piccole
che vendono o comprano dalle società più grandi sono soggette ad
esse e influenzate da queste molto più ampiamente che dalle altre
piccole società con cui trattano. In molti casi la continuata prosperità
delle società più piccole dipende dal favore delle più grandi e quasi
inevitabilmente l’interesse di queste ultime diventa l’interesse delle
prime. L’influenza della società più grande sui prezzi è spesso gran-
demente aumentata dalle sue stesse dimensioni anche se essa non
comincia nemmeno ad esser un monopolio. La sua influenza politica
può esser colossale. Dunque se circa la metà della ricchezza associa-
ta è controllata da duecento grandi società anonime, e metà dalle
società più piccole, è ragionevole supporre che ben più della metà
dell’industria sia dominata da queste grandi unità. Questa concentra-
zione diventa ancor più significativa quando si ricordi che, come
risultato di ciò, all’incirca 2.000 individui su una popolazione di cen-
toventicinque milioni sono in grado di controllare e dirigere metà
dell’industria».13
Questa concentrazione del potere ha preso a svi-
lupparsi sin dal 1933, e non si è ancora arrestata.
Il numero degli imprenditori autonomi è considerevolmente di-
minuito. Mentre agli inizi del diciannovesimo secolo all’incirca
quattro quinti della popolazione occupata erano imprenditori auto-
nomi, verso il 1870 soltanto un terzo apparteneva a questo gruppo, e
nel 1940 questa vecchia classe media comprendeva soltanto un quin-
to della popolazione occupata, cioè soltanto il 25% della sua forza di
un centinaio di anni prima. Ventisettemila giganteschi complessi,
che costituiscono soltanto l’1% di tutte le aziende degli Stati Uniti,
impiegano più del 50% di tutte le persone occupate nelle attività in-
dustriali e commerciali odierne, mentre, d’altro lato, 1.500.000 im-
12 Cfr. A.A. BERLE jr. e G.C. MEANS, The Modern Corporation and Private Property, The
Macmillan Company, New York 1940, pp. 27 e 28. 13 Ibidem, pp. 32 e 33.
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 94
prese individuali (non agricole) occupano soltanto il 6% di tutta la
popolazione impiegata nel genere di attività sopraindicato. 14
Come già indicano queste cifre, con la concentrazione delle im-
prese si verifica un enorme aumento del personale di queste grandi
imprese. Mentre la vecchia classe media, composta di agricoltori,
uomini di affari indipendenti e professionisti, costituiva precedente-
mente l’85% di tutta la classe media, essa è ora soltanto il 44%; i
nuovi ceti medi sono aumentati dal 15 al 56% nel medesimo perio-
do. Questo nuovo ceto medio è composto di dirigenti, che sono au-
mentati dal 2 al 6%; di professionisti stipendiati (dal 4 al 14%); di
agenti di vendita (dal 7 al 14%); e di impiegati di ufficio (dal 2 al
22%). Nell’insieme il nuovo ceto medio è aumentato, tra il 1870 e il
1940, dal 6 al 25% del totale delle forze lavorative, mentre i salariati
sono scesi nello stesso periodo dal 61 al 55% del totale delle forze
lavoratrici. Come Mills scrive molto concisamente: «...meno persone
manovrano cose, più maneggiano uomini e simboli».15
Con l’accresciuta importanza dell’impresa gigante si è verificato
un altro sviluppo di grande momento: la crescente separazione della
direzione dalla proprietà. Questo punto è illustrato da cifre rivelatrici
nella classica opera di Berle e Means. Delle 144 società per le quali
si poterono avere informazioni tra le 200 maggiori società (nel 1930)
solo 20 avevano meno di 5.000 azionisti, mentre 71 avevano tra i
20.000 e i 500.000 azionisti. 16
Soltanto nelle piccole società la dire-
zione sembrava conservare un’importante partecipazione azionaria,
mentre nelle grandi, cioè nelle società più importanti, vi era quasi
una completa separazione tra la proprietà delle azioni e la direzione.
In talune delle più importanti compagnie ferroviarie e di elettricità,
nel 1929, l’entità del più grosso pacchetto tenuto da un qualsiasi sin-
golo azionista non superava il 2,74%, e questa situazione, secondo
Berle e Means, esiste anche nel campo industriale. «Quando le indu-
strie sono classificate secondo l’entità media dei pacchetti azionari in
mano della direzione... il rapporto di quanto è proprietà dei funziona-
ri e degli amministratori si vede mutare in proporzione quasi esatta-
mente inversa alla grandezza media delle società considerate. Con
14 Queste cifre sono citate da C.W. MILLS, White Collar, Oxford University Press, New York
1951, p. 63 ss. 15 Op. cit., p. 63. 16 Queste cifre, come le seguenti, sono prese da BERLE e MEANS.
95 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
solo due importanti eccezioni, quanto maggiori sono le dimensioni
della società, tanto minore è l’aliquota di azioni in mano alla dire-
zione. Nelle ferrovie, la cui media azionaria è generalmente di 52
milioni di dollari per società, i pacchetti tenuti dalla direzione am-
montavano all’1,4% e in ... varie industrie minerarie ammontavano
all’1,8%. Soltanto quando le società erano piccole pareva che la di-
rezione possedesse un’importante partecipazione azionaria. I pac-
chetti di queste ultime ammontavano a meno del 20%, salvo nelle
industrie con società aventi un capitale medio sotto il milione di dol-
lari, mentre soltanto in tre gruppi industriali, ognuno costituito di
società che avevano in media meno di duecentomila dollari, si trova-
vano amministratori e funzionari che possedevano più della metà
delle azioni».17
Considerando insieme le due tendenze, quella
dell’aumento relativo della grande azienda e quella della esiguità dei
pacchetti azionari della direzione delle grandi aziende, risulta evi-
dente che la tendenza generale che si afferma sempre più è quella in
cui il proprietario del capitale è distinto dalla direzione. Come la di-
rezione controlli l’azienda nonostante il fatto che essa non ne sia
proprietaria in misura considerevole, è un problema sociologico e
psicologico di cui tratteremo più avanti.
Un altro fondamentale mutamento avvenuto nel capitalismo con-
temporaneo rispetto a quello del diciannovesimo secolo è costituito
dall’aumento di importanza del mercato interno. Tutto il nostro mec-
canismo economico si basa sul principio della produzione di massa e
del consumo di massa. Mentre nel secolo diciannovesimo la tenden-
za generale era di risparmiare, e di non indulgere a spese che non si
potessero pagare subito, il sistema contemporaneo porta esattamente
all’opposto. Tutti sono invitati a spendere quanto più possono, e
prima di aver risparmiato abbastanza per pagare i loro acquisti. Il
bisogno di maggior consumo è fortemente stimolato dalla pubblicità
e da tutti gli altri metodi di pressione psicologica. Questo sviluppo
procede parallelo all’ascesa della condizione economica e sociale
della classe operaia. Particolarmente negli Stati Uniti, ma anche
ovunque in Europa, la classe operaia ha partecipato alla produzione
crescente di tutto il sistema economico. La paga dell’operaio e le sue
previdenze sociali gli consentono un livello di consumo che sarebbe
17 BERLE e MEANS, op. cit., p. 52.
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 96
parso fantastico un centinaio di anni fa. Il suo potere sociale ed eco-
nomico è aumentato nella stessa misura, e non soltanto in rapporto al
salario e alle previdenze sociali, ma anche in relazione al suo ruolo
umano e sociale nella fabbrica.
Diamo un altro sguardo ai più importanti fattori del capitalismo
del ventesimo secolo: la scomparsa delle caratteristiche feudali, il
rivoluzionario aumento della produzione industriale, la crescente
concentrazione del capitale e la grandezza delle imprese e della pub-
blica amministrazione; il crescente numero di persone che maneg-
giano cifre e uomini, la separazione della proprietà dalla direzione,
l’ascesa economica e politica della classe operaia, i nuovi metodi di
lavoro nelle fabbriche e negli uffici; e descriviamo questi mutamenti
da un aspetto lievemente diverso. La scomparsa dei fattori feudali
significa la scomparsa dell’autorità irrazionale. Nessuno è ritenuto,
per nascita, per volontà divina o per legge di natura, superiore al suo
vicino. Tutti sono liberi ed eguali. Nessuno può esser sfruttato o co-
mandato in virtù di un diritto naturale. Se una persona è comandata
da un’altra ciò avviene perché colui che comanda ha comprato sul
mercato del lavoro il lavoro e le prestazioni di colui che è comanda-
to; egli comanda perché entrambi sono liberi ed eguali e pertanto
hanno potuto stabilire un rapporto contrattuale. Tuttavia insieme
all’autorità irrazionale, anche l’autorità razionale appare superata. Se
il mercato e i contratti regolano rapporti, non v’è bisogno di sapere
che cosa è giusto e che cosa è sbagliato, che cosa è buono e che cosa
è cattivo. Tutto quel che è necessario è sapere che le cose sono cor-
rette, che lo scambio è corretto, e che le cose «vanno avanti» e che
tutto funziona.
Un altro fatto decisivo di cui l’uomo del ventesimo secolo fa
l’esperienza è il miracolo della produzione. Egli comanda a forze
migliaia di volte più possenti di quelle che la natura gli aveva prece-
dentemente fornito; il vapore, il petrolio, l’elettricità sono diventati i
suoi servi e i suoi animali da soma. Egli attraversa gli oceani e i con-
tinenti, dapprima impiegando settimane, poi giorni e adesso ore. Egli
vince apparentemente la legge di gravità e vola attraverso lo spazio;
converte in fertili terre i deserti e fabbrica la pioggia invece di prega-
re per essa. Il miracolo della produzione conduce al miracolo del
consumo. Non vi sono più barriere tradizionali che vietino a chiun-
que di comprare qualsiasi cosa desideri. Basta soltanto che egli abbia
97 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
il denaro. Ma sono sempre più numerosi coloro che hanno il denaro,
non forse per le perle autentiche, ma per quelle sintetiche; per la
Ford che pare una Cadillac, per i vestiti a buon mercato che somi-
gliano a quelli costosi, per le sigarette che sono le medesime sia per
il milionario che per il manovale. Tutto è a portata di mano, può es-
ser comprato, può esser consumato. C’era mai stata una società ove
questo miracolo fosse accaduto?
Gli uomini lavorano assieme. Confluiscono a migliaia negli stabi-
limenti industriali e negli uffici, vengono in automobile, in sotterra-
nea, in autobus, in treno; lavorano assieme, secondo un ritmo misu-
rato dagli esperti, con metodi elaborati dagli esperti, non troppo in
fretta, né troppo lentamente, ma assieme: ognuno una parte del tutto.
Alla sera la fiumana rifluisce: leggono lo stesso giornale, ascoltano
la radio, vanno al cinema, lo stesso per quelli che stanno al sommo e
per quelli che sono alla base della scala, per gli intelligenti e per gli
stupidi, per gli educati e per i non educati. Producono, consumano,
godono assieme, al passo, senza porre domande. Questo è il ritmo
delle loro vite.
Quale genere di uomini, dunque, richiede la nostra società? Qual
è il «carattere sociale» adatto al capitalismo del ventesimo secolo?
Esso richiede uomini che cooperino regolarmente in grandi grup-
pi; che vogliano consumare sempre di più, e i cui gusti siano stan-
dardizzati e possano essere facilmente influenzati e previsti.
Esso richiede uomini che si sentano liberi e indipendenti, non
soggetti ad alcuna autorità, o principio, o coscienza, e tuttavia dispo-
sti ad esser comandati, a far quello che ci si attende, a inserirsi senza
attriti nella macchina sociale. Come può l’uomo esser guidato senza
forza, diretto senza capi, spinto senza alcun fine, salvo quello di es-
sere in movimento, di funzionare, di andare avanti...? NOTE:...
2. Mutamenti caratterologici
a) Quantificazione, astrattizzazione
Analizzando e descrivendo il carattere sociale dell’uomo con-
temporaneo, si può scegliere un numero qualsiasi di punti di vista,
proprio come si può fare descrivendo la struttura del carattere di un
individuo. Questi punti di vista possono essere diversi sia nella pro-
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 98
fondità cui giunge l’analisi, sia perché possono essere centrati su
differenti aspetti i quali, benché egualmente «profondi», sono tutta-
via scelti secondo il particolare interesse del ricercatore.
Nell’analisi che segue, ho scelto il concetto di alienazione come
punto centrale da cui svilupperò l’analisi del carattere sociale con-
temporaneo. E ciò perché questo concetto mi sembra toccare il lato
più profondo della personalità moderna, e perché è il più adatto, qua-
lora si voglia trattare il rapporto reciproco tra struttura economico-
sociale contemporanea e struttura di carattere dell’individuo medio.18
Dobbiamo avviare la discussione dell’alienazione parlando di una
delle caratteristiche economiche fondamentali del capitalismo, il
processo di quantificazione e di astrattizzazione.
L’artigiano medievale produceva beni per un gruppo relativa-
mente piccolo e noto di clienti. I suoi prezzi erano determinati dal
bisogno di trarre un utile che gli permettesse di vivere in maniera
tradizionalmente proporzionata alla sua condizione sociale. Egli co-
nosceva per esperienza i costi di produzione, e anche se impiegava
qualche garzone e apprendista, l’attività della sua azienda non ri-
chiedeva nessun sistema complesso di contabilità o di bilancio. Lo
stesso valeva per la produzione del contadino, che richiedeva in mi-
sura ancor minore astratti metodi di quantificazione. Ben diversa-
mente, la moderna impresa commerciale è basata sul bilancio e non
può basarsi su un’osservazione concreta e diretta come quella che
l’artigiano usava per calcolare i propri utili. La materia prima, gli
impianti, i costi della manodopera, così come il prodotto, possono
essere espressi nel medesimo valore monetario, e esser così resi
comparabili e atti ad apparire nel bilancio. Tutti i fatti economici
devono essere rigorosamente riducibili in numero e soltanto il bilan-
cio, l’esatta comparazione di processi economici calcolati in cifre,
dice al gerente se e in che misura egli è impegnato in una attività
commerciale lucrativa, e perciò importante.
Questa trasformazione del concreto nell’astratto è andata ben ol-
tre i fogli del bilancio e la quantificazione dei fatti economici nella
sfera della produzione. L’uomo d’affari moderno non tratta soltanto
18 Come potrà vedere il lettore cui sia familiare il concetto di orientamento mercantile da me
sviluppato in Man for Himself, il concetto di alienazione è più generale e sta alla base del
concetto maggiormente specifico di «orientamento mercantile».
99 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
con milioni di dollari, ma anche con milioni di consumatori, migliaia
di azionisti e migliaia di operai e impiegati; tutte queste persone di-
ventano altrettante parti di una macchina gigantesca che deve essere
controllata, i cui effetti devono essere calcolati; ogni uomo può infi-
ne essere espresso come un’entità astratta, come una cifra, e su que-
sta base sono calcolati i fatti economici, sono previste le tendenze, e
sono prese le decisioni.
Oggi, quando solamente il 20% circa della nostra popolazione la-
voratrice è indipendente, mentre il resto lavora per qualcun altro, la
vita di un uomo dipende da qualcuno che gli paga un salario o uno
stipendio. Ma dovremmo dire «qualcosa» invece di «qualcuno» per-
ché un lavoratore è assunto e licenziato da una istituzione, i cui diri-
genti sono una parte impersonale dell’azienda, piuttosto che indivi-
dui in contatto personale con coloro che essi impiegano. Non dimen-
tichiamo un altro fatto; nella società precapitalistica, lo scambio era
in larga misura fatto tra beni e servizi; oggi ogni lavoro è ricompen-
sato in denaro. Lo stretto intreccio delle relazioni economiche è re-
golato dal denaro, espressione astratta del lavoro; cioè noi riceviamo
differenti quantità del medesimo bene per differenti qualità, diamo
denaro per ciò che riceviamo, ancora scambiamo soltanto differenti
quantità per differenti qualità. Praticamente nessuno, con l’eccezione
della popolazione agricola, può vivere per sia pur pochi giorni senza
ricevere o spendere denaro, che rappresenta la qualità astratta di la-
voro concreto.
Un altro aspetto della produzione capitalistica che deriva da una
crescente astrattizzazione è costituito dalla crescente divisione del
lavoro. La divisione del lavoro come insieme esiste nella maggior
parte dei sistemi economici conosciuti e anche nella maggior parte
delle comunità primitive sotto forma di divisione del lavoro tra i due
sessi. Quel che è caratteristico della produzione capitalistica è il gra-
do in cui questa divisione si è sviluppata. Mentre nell’economia me-
dievale vi era una divisione di lavoro, per esempio, tra produzione
agricola e lavoro artigianale, il lavoro era ben poco diviso entro cia-
scuna sfera della produzione stessa. Il falegname che faceva una se-
dia o un tavolo faceva l’intera sedia o l’intero tavolo, e, anche se
qualche lavoro preparatorio era eseguito dai suoi apprendisti, egli
aveva il controllo della produzione sovraintendendovi nel suo com-
plesso. Nella moderna azienda industriale l’operaio non è mai in
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 100
rapporto con il prodotto intero. Egli è impiegato nell’adempimento
di una funzione specializzata, e pur avendo la possibilità di passare,
col trascorrere del tempo, da una funzione all’altra, non sarà mai in
rapporto con l’insieme del prodotto concreto. Egli sviluppa una fun-
zione specializzata, e la tendenza è tale che si può dire che la funzio-
ne del moderno operaio industriale è di lavorare a guisa di macchina
in attività alle quali il lavoro a macchina non è ancora stato applica-
to, o per le quali esso sarebbe più costoso del lavoro umano. La sola
persona che sia in contatto con il prodotto intero è il dirigente, ma
per lui il prodotto è un’astrazione, la cui essenza è un valore di
scambio, mentre l’operaio, per il quale è una realtà concreta, non
lavora mai ad esso nella sua totalità.
Indubbiamente senza quantificazione e astrattizzazione la moder-
na produzione di massa sarebbe impensabile. Ma in una società nella
quale le attività economiche sono diventate la più importante preoc-
cupazione dell’uomo, questo processo di quantificazione e di astrat-
tizzazione ha superato il dominio della produzione economica, e si è
esteso all’atteggiamento dell’uomo verso le cose, verso la gente, e
verso se stesso.
Per comprendere il processo di astrattizzazione dell’uomo mo-
derno, dobbiamo per prima cosa considerare la funzione ambigua
dell’astrazione in generale. È ovvio che le astrazioni in se stesse non
sono un fenomeno moderno. Infatti, una crescente abilità a formare
astrazioni è caratteristica dello sviluppo culturale del genere umano.
Se parlo di «un tavolo» uso una astrazione; mi riferisco non a uno
specifico tavolo in tutta la sua concretezza, ma al genere «tavolo»
che comprende tutti i concreti tavoli possibili. Se parlo di «un uo-
mo» non parlo di questa o quella persona, nella sua concretezza e
unicità, ma del genere «uomo» che comprende tutte le persone indi-
viduali. In altre parole io faccio una astrazione. Lo sviluppo del pen-
siero filosofico o scientifico è basato su una crescente abilità per tale
astrattizzazione, e l’abbandonarla significherebbe regredire ai più
primitivi modi di pensare.
Tuttavia vi sono due modi di metter se stesso in rapporto con un
oggetto: ci si può mettere in rapporto con esso in tutta la sua concre-
tezza; allora l’oggetto si presenta con tutte le sue qualità specifiche,
e non vi sono altri oggetti che gli siano identici. E ci si può metter in
rapporto con un oggetto in un modo astratto, cioè, accentuando sol-
101 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
tanto quelle qualità che esso ha in comune con tutti gli altri oggetti
dello stesso genere, rilevando così alcune qualità ed ignorandone
altre. La piena e produttiva correlazione con un oggetto comprende
questa polarità, la capacità cioè di percepirlo nella sua unicità e, nel-
lo stesso tempo, nella sua generalità; nella sua concretezza e, con-
temporaneamente, nella sua astrazione.
Nella cultura occidentale contemporanea questa polarità ha cedu-
to di fronte ad un riferimento quasi esclusivo alle qualità astratte del-
le cose e delle persone, e ad una vera riluttanza a mettere se stessi in
rapporto con la loro concretezza e unicità. Invece di formare conce-
zioni astratte ove ciò è necessario ed utile, si sta astrattizzando tutto,
compresi noi stessi; la concretezza e la realtà delle persone e delle
cose con cui possiamo metter in relazione la realtà della nostra stessa
persona viene sostituita da astrazioni, da fantasmi che rappresentano
quantità differenti, ma non qualità differenti.
È del tutto consueto parlare di «un ponte da tre milioni di dolla-
ri», di un «sigaro da venti cents», di un «orologio da cinque dollari»,
e ciò non soltanto dal punto di vista del fabbricante o del consumato-
re nel processo di compravendita, ma perché ciò costituisce il punto
più importante in una descrizione. Quando si parla di un «ponte da
tre milioni di dollari» non si considera in primo luogo la sua utilità o
la sua bellezza, cioè le sue qualità concrete, ma si parla di esso come
di una merce la cui più importante qualità è il valore di scambio,
espresso in quantità, quella del denaro. Questo naturalmente non
vuol dire che non ci importi anche della utilità e della bellezza del
ponte, ma significa che, nel modo con cui si considera quell’oggetto,
il suo valore concreto (di uso) è secondario rispetto al suo valore
astratto (di scambio). La famosa frase di Gertrude Stein, «una rosa è
una rosa è una rosa», è una protesta contro questa astratta forma di
esperienza; per i più la rosa non è precisamente una rosa, ma è un
fiore di un certo prezzo da comprare in certe circostanze sociali; per-
sino il più bel fiore, se cresce nei campi e non costa nulla, non è con-
siderato per la sua bellezza a paragone di quella della rosa, poiché
esso non ha alcun valore di scambio.
In altre parole, le cose sono considerate come merci, come perso-
nificazione di un valore di scambio non soltanto quando noi stiamo
comprando o vendendo, ma anche nel nostro atteggiamento verso di
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 102
esse quando la transazione economica sia stata completata.
Un buon esempio di questo atteggiamento si può trovare in una
relazione del segretario di una importante organizzazione scientifica
su come egli impiegò una giornata nel suo ufficio. L’organizzazione
aveva appena allora comprato uno stabile e vi si era trasferita. Il se-
gretario riferisce che in uno dei primi giorni successivi al trasferi-
mento nel nuovo edificio egli ricevette una telefonata da un agente
immobiliare, il quale gli diceva che c’era della gente interessata
all’acquisto dello stabile, e che desiderava vederlo. Benché egli sa-
pesse che era molto improbabile che l’organizzazione volesse vende-
re lo stabile pochi giorni dopo esservisi trasferita, non resistette alla
tentazione di sapere se il valore dell’edificio fosse aumentato da
quando lo avevano comperato, e spese una o due ore preziose per
farlo visitare all’agente immobiliare. Egli annota: «Molto importante
il fatto che possiamo avere offerte per più di quanto abbiamo speso.
Buona coincidenza che l’offerta sia giunta quando l’economo era in
ufficio. Tutti concordano che sarà utile per il morale dell’ufficio sa-
pere che lo stabile si venderebbe per ben più di quanto è costato.
Vediamo che succederà». Nonostante tutto l’orgoglio o la soddisfa-
zione per la nuova sede, questa manteneva ancora la sua qualità di
merce, di qualcosa che si può spendere e a cui non è collegato alcun
senso completo di possesso o di uso. Lo stesso atteggiamento è co-
mune nel rapporto tra noi e l’automobile che abbiamo comperato;
l’automobile non diventa mai del tutto una cosa cui siamo affeziona-
ti, ma conserva le sue qualità di merce che può essere scambiata in
un successivo baratto; così le automobili sono rivendute dopo uno o
due anni, molto prima che il loro valore d’uso sia esaurito o anche
considerevolmente diminuito. Questa astrattizzazione avviene perfi-
no per fenomeni che non sono affatto merci vendute sul mercato,
come per esempio un’alluvione disastrosa; i giornali presentano
un’alluvione, sotto il titolo «catastrofe da un milione di dollari», po-
nendo l’accento sull’astratto elemento quantitativo piuttosto che su-
gli aspetti concreti di umana sofferenza.
Ma l’atteggiamento astrattizzante e quantificante va ben al di là
del dominio delle cose. Anche gli uomini sono valutati come perso-
nificazioni di un valore quantitativo di scambio. Parlare di un uomo
come di un essere che «vale un milione di dollari» è parlare di lui
103 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
non più come di una persona umana concreta, ma come di
un’astrazione la cui essenza può essere espressa con una cifra. Si ha
una manifestazione del medesimo atteggiamento quando un giornale
intitola un necrologio con le parole: «È morto un fabbricante di scar-
pe». In effetti è morto un uomo, con certe qualità umane, con spe-
ranze e delusioni, con una moglie e con dei figli. È vero che egli
fabbricava scarpe, o piuttosto, che egli possedeva e dirigeva uno sta-
bilimento ove degli operai badavano a delle macchine che fabbrica-
vano scarpe, ma se si dice che «è morto un fabbricante di scarpe» la
ricchezza e concretezza di una vita umana viene espressa nella for-
mula astratta di una funzione economica.
La stessa impostazione astrattizzante può essere vista in espres-
sioni come «Ford ha fabbricato un dato numero di automobili», o un
generale «ha conquistato una fortezza»; o quando un uomo, che fa
costruire una casa per sé, dice «mi sono fatto una casa». Concreta-
mente parlando, Ford non ha fabbricato le automobili; egli ha diretto
la produzione di automobili che era eseguita da migliaia di operai. Il
generale non ha mai conquistato una fortezza; egli stava seduto nel
suo quartier generale a dare ordini, e i suoi soldati hanno fatto la
conquista. L’uomo non ha costruito una casa, ha dato il denaro a un
architetto che ha fatto i progetti e ai lavoratori che hanno fatto
l’edificio. Tutto questo non si dice per minimizzare l’importanza
delle attività organizzative e direttive, ma per spiegare come con
questo modo di venire a contatto con le cose si perde di vista quel
che concretamente avviene, e si assume un modo di vedere astratto
nel quale una funzione, quella di elaborare piani, dar ordini, o finan-
ziare un’attività, si identifica con l’intero processo concreto del pro-
durre, o del combattere, o del costruire, a seconda dei casi.
Il medesimo processo di astrattizzazione avviene in tutti gli altri
campi. Il «New York Times» ha stampato recentemente una notizia
sotto il titolo: «B.Sc.+Phd=l 40.000». Sotto questo titolo alquanto
enigmatico si spiegava che i dati statistici mostrano che uno studente
d’ingegneria che ha ottenuto il grado di Phd (cioè la laurea) guada-
gna nel corso della sua vita 40.000 dollari di più di un uomo che ha
solamente il grado di B.Sc. (Bachelor of Sciences). In quanto fatto,
questo è un interessante dato economico-sociale che merita di essere
riportato. Ne parliamo perché il modo di esprimere il fatto come
un’equazione tra un titolo universitario e una certa quantità di dollari
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 104
è indicativo del modo di pensare astrattizzante e quantificante per il
quale la scienza è valutata come l’espressione di un certo valore di
scambio sul mercato delle persone. Lo stesso avviene quando in una
rassegna politica su una rivista di informazioni si dichiara che
l’amministrazione Eisenhower sente di aver tanto «capitale di fidu-
cia» da poter rischiare qualche misura impopolare, perché essa può
permettersi di perdere un po’ di questo capitale di fiducia. Anche
qui, una qualità umana quale la fiducia è espressa nella sua forma
astratta, come se essa fosse un investimento monetario da trattarsi in
termini di speculazione di mercato. Come categorie commerciali si
siano sfrontatamente introdotte persino nel pensiero religioso è di-
mostrato dal passo seguente del vescovo Sheen, in un suo articolo
sulla nascita di Cristo: «La nostra ragione ci dice, così scrive
l’autore, che se qualcuno dei pretendenti (al ruolo di figlio di Dio)
veniva da Dio, il meno che Dio potesse fare, in appoggio alle affer-
mazioni di un Suo inviato, era di preannunciarne la venuta. I fabbri-
canti di automobili ci dicono quando dobbiamo aspettarci un nuovo
modello».19
Oppure, ancor più drasticamente, Billy Graham,
l’evangelista, dice: «Io sto piazzando il più grande prodotto del
mondo, perché non si dovrebbe propagandarlo quanto un sapone?».20
Il processo di astrattizzazione, tuttavia, ha radici e manifestazioni
più profonde di quelle sopra citate; radici che risalgono agli stessi
inizi dell’era moderna; alla dissoluzione di ogni concreto sistema di
orientamento nel processo vitale.
In una società primitiva, il «mondo» si identifica con la tribù. La
tribù è il centro dell’universo, per così dire, ogni cosa estranea è
oscura e non ha esistenza autonoma. Nel mondo medievale,
l’universo era molto più esteso; esso copriva la terra, il cielo, le stel-
le sopra di esso, ma quest’universo aveva la terra come centro e
l’uomo come fine della creazione. Ogni cosa aveva il suo posto sta-
bile, proprio allo stesso modo che ognuno aveva il suo posto definito
nella società feudale. Col quindicesimo e sedicesimo secolo, si apri-
rono nuove prospettive. La terra perdette la sua posizione centrale, e
diventò uno dei satelliti del sole, furono scoperti nuovi continenti e
trovate nuove vie marittime; lo statico sistema sociale si allentava
19 Dalla rivista «Collier's», 1953. 20 Rivista «Time», 25 ottobre 1954.
105 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
sempre più, tutto e tutti erano in movimento. Però sino alla fine del
secolo diciannovesimo la natura e la società non avevano perduto il
loro carattere concreto e definito. Il mondo sociale e naturale
dell’uomo poteva essere ancora manovrabile, aveva ancora dei con-
torni precisi. Ma col progresso del pensiero scientifico, con le sco-
perte tecniche e con la dissoluzione di tutti i vincoli tradizionali,
questa definitezza e concretezza stanno scomparendo. Se pensiamo
alle nostre nuove visioni cosmologiche, alla fisica teoretica, alla mu-
sica atonale o all’arte astratta, svaniscono la concretezza e la defini-
tezza del nostro sistema di orientamento. Noi non siamo più al cen-
tro dell’universo; non siamo più il fine della creazione; non siamo
più i padroni di un mondo manovrabile e riconoscibile - noi siamo
un granello di polvere, siamo un nulla in qualche sito dello spazio -
senza alcun genere di concreto rapporto con qualsiasi cosa. Noi par-
liamo di milioni di persone uccise, di un terzo o più della nostra po-
polazione che sarebbe cancellata dalla faccia della terra se si verifi-
casse una terza guerra mondiale; parliamo di miliardi di dollari che
accrescono il debito nazionale, di migliaia di anni luce di distanze
interplanetarie, di viaggi spaziali, di satelliti artificiali. Vi sono
aziende dove lavorano decine di migliaia di uomini e centinaia di
città dove vivono centinaia di migliaia di uomini.
Le dimensioni che noi trattiamo sono cifre e astrazioni; e supera-
no di molto i limiti nei quali ci è possibile un genere qualsiasi di
esperienza concreta. Non ci è rimasto alcun sistema di orientamento
che sia maneggiabile, organizzabile, osservabile, che sia adatto alle
dimensioni umane. Mentre i nostri occhi e le nostre orecchie ricevo-
no impressioni soltanto in proporzioni umanamente comprensibili, il
nostro concetto del mondo ha perduto proprio questa qualità; esso
non corrisponde più alle nostre dimensioni umane.
Ciò è particolarmente significativo in rapporto allo sviluppo dei
moderni mezzi di distruzione. Nella guerra moderna, un solo uomo
può causare la distruzione di centinaia di migliaia di uomini, donne e
bambini. Basta che egli prema un pulsante; egli forse non sentirà la
scossa emotiva di quel che sta facendo, poiché non vede e non cono-
sce la gente che uccide; è quasi come se tra il suo atto di premere il
pulsante e la loro morte non vi fosse una reale connessione. Con
ogni probabilità lo stesso uomo sarebbe addirittura incapace di
schiaffeggiare, e tanto meno di uccidere, una persona indifesa. In
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 106
quest’ultimo caso la situazione concreta provoca in lui una reazione
della sua coscienza comune ad ogni uomo normale; nel caso prece-
dente, non c’è tale reazione perché l’azione e il suo soggetto sono
alienati da chi agisce, e il suo atto non è più suo ma ha, si può dire,
una vita e una responsabilità sue proprie. La scienza, gli affari, la
politica, hanno perduto ogni fondamento e proporzione che avessero
umanamente senso. Noi viviamo tra cifre ed astrazioni; e poiché non
v’è più nulla di concreto, nulla è reale. Ogni cosa è possibile, sia di
fatto sia moralmente. La fantascienza non è diversa dal fatto scienti-
fico; gli incubi e i sogni non differiscono da quel che può accadere
l’anno prossimo. L’uomo è stato espulso da ogni posizione definita
da cui possa dominare e dirigere la sua vita e la vita della società.
Egli è sempre più rapidamente spinto dalle forze che originariamente
erano state create da lui. In questo vortice selvaggio egli pensa, cal-
cola, immerso in astrazioni sempre più lontane dalla vita concreta.
b) Alienazione
L’esame precedente del processo di astrattizzazione porta al pro-
blema centrale degli effetti del capitalismo sulla personalità: al fe-
nomeno dell’alienazione.
Per alienazione si intende una forma di esperienza per la quale la
persona conosce se stessa come uno straniero. L’uomo è diventato,
per così dire, estraneo a se stesso. Egli non riconosce se stesso come
il centro del suo mondo, come il creatore dei suoi propri atti, ma i
suoi atti e la loro conseguenza sono diventati i suoi padroni, cui egli
obbedisce e cui può persino tributare venerazione. La persona alie-
nata ha perduto contatto con se stessa, così come è anche esclusa dal
contatto con ogni altra persona. Questa e gli altri si conoscono come
vengono conosciute le cose, con i sensi e col buon senso, ma nello
stesso tempo senza essere collegati produttivamente a se stessi e al
mondo esterno.
Il significato più antico con cui veniva usato il termine «aliena-
zione» indicava una persona pazza; aliéné in francese; alienado in
spagnolo, sono parole antiquate per indicare lo psicotico, la persona
interamente e assolutamente alienata (alienist, in inglese, è ancora
usato per indicare il medico che cura i pazzi).
107 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
Nel secolo scorso la parola «alienazione» è stata usata da Hegel e
da Marx, riferendosi non allo stato di pazzia, ma ad una forma meno
violenta di autoestraniamento che consente ad una persona di agire
ragionevolmente in questioni pratiche, ma che costituisce una delle
più gravi deficienze socialmente strutturate. Nel sistema di Marx è
chiamata alienazione quella condizione dell’uomo ove i suoi «propri
atti diventano per lui un potere alieno, che lo sovrasta o gli si oppo-
ne, invece di essere controllato da lui».21
Ma se l’uso della parola «alienazione» in questo senso generale è
recente, il concetto è molto più antico; è il medesimo che i profeti
del vecchio testamento presentavano come idolatria. Se comincere-
mo a considerare il significato di «idolatria», comprenderemo me-
glio che cosa si intende per «alienazione».
I profeti del monoteismo non denunciavano come idolatre le reli-
gioni pagane solo perché esse adoravano più dèi invece di uno. La
differenza essenziale tra il monoteismo e il politeismo non sta nel
numero degli dèi, ma risiede nel fatto dell’autoalienazione. L’uomo
impiega le sue energie, le sue capacità artistiche per costruire un ido-
lo e poi adora questo idolo, che non è altro che il risultato dei suoi
stessi sforzi umani. Le sue forze vitali si sono trasferite in una «co-
sa», e questa cosa, essendo diventata un idolo, non è sentita come
risultato dei suoi sforzi produttivi, ma come qualcosa di staccato, che
è sopra e contro di lui, che egli adora e cui si sottomette. Come il
profeta Osea dice (XIV, 3): «Assur non ci salverà; noi non cavalche-
remo più sopra cavalli, e non diremo più all’opera delle nostre mani:
Dio nostro; poiché in te l’orfano trova misericordia». L’uomo idola-
tra si inchina davanti al lavoro delle sue stesse mani. L’idolo rappre-
senta le sue stesse forze vitali in forma alienata.
Il principio del monoteismo è invece che l’uomo è infinito, che
non vi sono in lui qualità parziali che possano essere ipostatizzate
nel tutto. Dio, nel concetto monoteistico, è irriconoscibile e indefini-
bile; Dio non è una «cosa». Se l’uomo è creato a somiglianza di Dio,
egli è creato come portatore di qualità infinite. Nell’idolatria l’uomo
si inchina e si sottomette alla proiezione di una sola qualità parziale
che è in lui. Egli non si riconosce come il centro da cui si emanino
21 K. MARX, Il capitale. Cfr. anche MARX-ENGELS, L'ideologia tedesca, Editori Riuniti,
Roma 1958.
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 108
atti d’amore e di ragione. Egli diventa una cosa, il suo prossimo di-
venta una cosa, proprio come sono cose i suoi dèi.
«Gli idoli nelle nazioni sono argento e oro opera di mano d’uomo. Han-
no bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchie e non
odono; e non hanno fiato alcuno nella loro bocca. Coloro che li fanno sono
simili ad essi; ed è così chiunque ad essi si affida» (Salmo 135).
Le stesse religioni monoteistiche sono in larga misura regredite
verso l’idolatria. L’uomo proietta il suo potere di amore e di ragione
in Dio; egli non li sente più come suoi poteri e perciò egli prega Dio
di dargli di ritorno qualcosa di quello che lui, uomo, ha proiettato in
Dio. Agli inizi del protestantesimo e del calvinismo, l’atteggiamento
religioso richiesto era che l’uomo doveva sentirsi vuoto e misero, e
affidarsi alla grazia di Dio, cioè, nella speranza che Dio volesse ri-
dargli una parte delle qualità che egli aveva proiettato in Dio.
Ogni atto di adorazione sottomessa è in questo senso un atto di
alienazione e di idolatria. Quello che di frequente si chiama «amore»
non è spesso niente altro che un fenomeno idolatrico di alienazione;
soltanto che in questo modo non si adora né Dio né un idolo, ma
un’altra persona. La persona «amante» in questo tipo di relazione
sottomessa proietta tutto il suo amore, la sua forza, il suo pensiero,
nell’altra persona, vede la persona amata come un essere superiore e
trova soddisfazione in un’adorazione e in una sottomissione comple-
ta. Questo non solo significa che egli non riesce a vedere la persona
amata come un essere umano nella sua realtà, ma che egli non vede
se stesso nella sua piena realtà, come portatore di produttivi poteri
umani. Proprio come nel caso dell’idolatria religiosa, egli ha proiet-
tato tutta la sua ricchezza nell’altra persona, e vede questa ricchezza
non più come qualche cosa di suo, ma come una cosa aliena da se
stesso, posta in qualcun altro, e con la quale egli può avere contatto
soltanto sottomettendosi all’altra persona o annullandovisi. Lo stesso
fenomeno si verifica nella sottomissione idolatrica ad un capo politi-
co e allo stato. Il capo e lo stato sono infatti quel che sono per
l’assenso dei loro governati. Ma diventano idoli quando l’individuo
proietta in loro tutti i suoi poteri e li adora, sperando di riacquistare
parte di questi suoi poteri con la sottomissione e l’adorazione.
109 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
Nella teoria dello stato di Rousseau, nonché nel totalitarismo
contemporaneo, ci si attende che l’individuo abdichi ai propri diritti
e li proietti nello stato come nell’unico arbitro. Nel fascismo e nello
stalinismo l’individuo completamente alienato tributa un culto
all’altare di un idolo, ed ha poca importanza con quali nomi questo
idolo sia conosciuto: stato, classe, collettività, o che altro si voglia.
Si può parlare di idolatria o alienazione non soltanto in rapporto a
se stessi, quando la persona sia dominata da passioni irrazionali. La
persona che è spinta principalmente dalla brama del potere non sente
più se stessa nella ricchezza e nell’illimitatezza di un essere umano,
ma diventa schiava dell’unica e limitata aspirazione, proiettata in
finalità esterne, dalle quali egli è «posseduto». La persona dedita
all’esclusiva soddisfazione della sua passione per il denaro è posse-
duta dalla sua brama di esso; il denaro è l’idolo che egli adora come
la proiezione del solo ed isolato potere che è in lui: la sua avidità per
l’oro. In questo senso il nevrotico è un alienato. Le sue azioni non
sono propriamente sue; mentre è sotto l’illusione di fare quel che
egli vuole, è invece spinto da forze separate dal suo io, che operano
alle sue spalle; egli è straniero a se stesso proprio come i suoi simili
sono stranieri per lui. Egli sente gli altri e se stesso non come real-
mente sono, ma come se fossero deformati dalle forze inconsce che
operano in lui. La persona squilibrata è una persona assolutamente
alienata; essa ha completamente perduto se stessa come centro della
sua stessa esperienza: ha perduto il senso dell’io.
Tutti questi fenomeni - culto degli idoli, culto idolatrico di Dio,
amore idolatrico per una persona, culto dei capi politici e dello stato,
e culto idolatrico della proiezione esterna di passioni irrazionali -
hanno in comune il processo di alienazione: il fatto che l’uomo non
riconosce se stesso come portatore attivo dei propri poteri e della
propria ricchezza, bensì come una misera «cosa», dipendente da po-
teri esterni, entro i quali egli ha proiettato la sua sostanza vitale.
Come indica il riferimento all’idolatria, l’alienazione non è affat-
to un fenomeno moderno. Tentar di abbozzare la storia della aliena-
zione sarebbe andar troppo oltre le intenzioni di questo libro. Basti
dire che l’alienazione pare differire da cultura a cultura, sia nei setto-
ri particolari che sono alienati, sia nella metodicità e nella comple-
tezza del processo.
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 110
L’alienazione come noi la troviamo nella moderna società è quasi
totale; essa permea le relazioni dell’uomo col suo lavoro, con le cose
che consuma, con lo stato, con i suoi simili, e con se stesso. L’uomo
ha creato un mondo di cose fatte da lui come non era mai esistito
prima. Egli ha inventato una complicata macchina sociale per ammi-
nistrare la macchina tecnica da lui costruita. Ma tutta questa sua co-
struzione lo sovrasta. Egli non sente se stesso come creatore e cen-
tro, ma come il servo del Golem che ha creato. Quanto più potenti e
gigantesche sono le forze che egli scatena, tanto più impotente egli si
sente come essere umano. Egli confronta se stesso con le sue forze
impersonate nelle cose che ha creato e da lui alienate. È dominato
dalla propria creazione ed ha perduto la proprietà di se stesso. Ha
costruito un vitello d’oro e dice: «Questi sono i vostri dèi che vi
hanno tratto dall’Egitto».
Che cosa avviene dell’operaio? Diciamolo con le parole di un at-
tento e profondo osservatore dell’ambiente industriale:
«Nell’industria la persona diventa un atomo economico che danza al
ritmo di una direzione atomistica. Il vostro posto è proprio qui, sie-
derete in questa posizione, le vostre braccia si muoveranno di x cen-
timetri in un giro di raggio y, e il tempo per il movimento sarà di
tanti minuti secondi.
Il lavoro diventa più monotono e automatico quanto più i pianifi-
catori, i cronometristi, e i direttori tecnici continuano a spogliare
l’operaio del suo diritto di pensare e muoversi liberamente. La vita è
rinnegata, il bisogno di controllo, la creatività, la curiosità e il pen-
siero indipendente stanno per essere inibiti, e il risultato,
l’inevitabile risultato, è fuga o lotta da parte dell’operaio, apatia o
distruttività, regressione psichica».22
Anche il ruolo di dirigente è di alienazione. È vero che egli dirige
il tutto e non una parte, ma anch’egli è alienato dal suo prodotto in-
teso come qualcosa di concreto e utile. Il suo scopo è di impiegare in
modo redditizio il capitale investito da altri, benché a paragone del
vecchio tipo di padrone-dirigente la moderna direzione sia soltanto
meno interessata all’entità dell’utile da pagarsi come dividendo agli
azionisti, di quanto non sia all’efficienza funzionale e all’espansione
dell’azienda. È significativo che nella direzione i responsabili dei
22 J.J. GILLESPIE, Free Expression in Industry, The Pilot Press Ltd, Londra 1948.
111 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
rapporti sindacali e delle vendite (cioè coloro che sono dediti alla
manipolazione umana) acquistano, relativamente parlando, una cre-
scente importanza rispetto ai responsabili degli aspetti tecnici della
produzione.
Il dirigente, come l’operaio, come tutti, ha a che fare con giganti
anonimi: con il gigante dell’azienda concorrente, con il gigante del
mercato nazionale e mondiale, con il consumatore gigante, che deve
esser adulato e influenzato, con i sindacati giganti e con la gigante-
sca amministrazione pubblica. Tutti questi giganti hanno la propria
vita, per così dire. Essi determinano l’attività del dirigente e dirigono
l’attività degli operai e degli impiegati.
Attraverso il problema del dirigente ci si introduce in uno dei più
significativi fenomeni di una cultura alienata: quello della burocra-
tizzazione. Le amministrazioni, sia governative sia di grandi impre-
se, sono dirette da una burocrazia. I burocrati sono specialisti
nell’amministrare le cose e gli uomini. A causa della grandezza
dell’apparato da amministrare e della conseguente astrattizzazione,
tra i burocrati e il pubblico si stabilisce una relazione di completa
alienazione. Le persone che devono essere amministrate sono oggetti
che i burocrati non considerano né con amore né con odio, ma in
modo completamente impersonale; il dirigente-burocrate non deve
aver alcun sentimento per quanto riguarda la sua attività professiona-
le; deve trattare le persone come fossero cifre o cose. Poiché
l’immensità dell’organizzazione e l’estrema divisione del lavoro im-
pediscono ad ogni singolo individuo di vedere l’insieme, e poiché
non c’è una cooperazione organica e spontanea tra i vari individui o
gruppi entro l’industria, i burocrati dirigenti sono necessari; senza di
essi l’impresa crollerebbe in poco tempo poiché nessuno conosce-
rebbe il segreto che la fa funzionare. I burocrati sono indispensabili
quanto le tonnellate di carta consumate sotto il loro comando. Pro-
prio perché ognuno avverte, con un sentimento di impotenza, il ruolo
vitale dei burocrati, essi vengono rispettati quasi come esseri divini.
Se non ci fossero i burocrati, si pensa, tutto andrebbe a catafascio e
moriremmo di fame. Se nel mondo medievale si riteneva che i capi
rappresentassero un ordine voluto da Dio, nel capitalismo moderno il
ruolo dei burocrati è di poco meno sacro, poiché il burocrate è ne-
cessario per la sopravvivenza di tutto l’insieme.
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 112
Marx diede una profonda definizione del burocrate scrivendo: «Il
burocrate mette se stesso in relazione col mondo come questo fosse
un mero oggetto delle sue attività». È interessante rilevare che lo
spirito della burocrazia si è introdotto non soltanto nelle amministra-
zioni pubbliche e aziendali, ma anche nei sindacati e nei grandi par-
titi socialisti democratici in Inghilterra, Germania, Francia. Anche in
Russia i dirigenti burocratici e il loro spirito alienato hanno conqui-
stato il paese. La Russia potrebbe forse esistere senza il terrore, date
certe condizioni, ma non potrebbe esistere senza il sistema di buro-
cratizzazione totale, cioè di alienazione.23
Qual è l’atteggiamento del proprietario dell’impresa: il capitali-
sta? Il piccolo uomo d’affari sembra esser nella stessa posizione del
suo predecessore di cento anni fa. Egli possiede e dirige la sua picco-
la azienda, è in contatto diretto con l’intera attività commerciale o
industriale e in contatto personale con i suoi impiegati e operai. Ma
vivendo in un mondo alienato in tutti gli altri aspetti economici e
sociali, ed inoltre sottostando maggiormente alla costante pressione
dei concorrenti più grossi, egli non è affatto libero come lo era suo
nonno nella stessa azienda.
Ma quel che conta sempre più nell’economia contemporanea è la
grossa impresa, la grande società anonima. Come Drucker dice mol-
to concisamente: «Infine è la grande società anonima la forma speci-
fica in cui la grande industria si organizza in una economia di libera
iniziativa, che si è imposta come l’istituzione rappresentativa e, da
un punto di vista economico-sociale, determinante e che fissa il si-
stema e determina il comportamento persino del tabaccaio all’angolo
della strada che non ha mai posseduto un titolo azionario, e del suo
garzone che non ha mai messo piede in uno stabilimento. E in tal
modo il carattere della nostra società è determinato e modellato dalla
organizzazione strutturale delle grandi industrie, dalla tecnologia di
uno stabilimento per la produzione di massa, e dalla misura con cui
le nostre opinioni ed aspirazioni sociali sono realizzate dalle grandi
società anonime».24
23 Cfr. l'interessante articolo di W. HUHN, Der Bolschevismus als Manager Ideologie, in
«Funken», Francoforte, V, 8, 1954. 24 Cfr. Peter F. DRUCKER, Concept of the Corporation, The John Day Company, New York
1946, pp. 8 e 9.
113 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
Qual è allora l’atteggiamento del «proprietario» della grande so-
cietà anonima di fronte alla «sua» proprietà? È un atteggiamento di
completa alienazione. La sua proprietà consiste in un pezzo di carta,
che rappresenta un certo ammontare fluttuante di denaro; egli non ha
alcuna responsabilità per l’impresa e non ha con essa alcuna relazio-
ne concreta. Questo atteggiamento di alienazione è stato chiaramente
espresso nella seguente descrizione, di Berle e Means,
dell’atteggiamento dell’azionista di fronte all’azienda:
«1) La posizione del proprietario è cambiata da quella di agente attivo
in quella di agente passivo. In luogo di effettivi beni fisici su cui il proprie-
tario poteva esercitare la direzione e per i quali era responsabile, il proprie-
tario ha oggi un pezzo di carta che rappresenta un insieme di diritti e di
interessi rispetto ad una azienda. Ma il proprietario ha scarso controllo
sull’azienda e sui beni fisici, cioè gli strumenti di produzione, nei quali egli
ha un interesse. Nello stesso tempo egli non si assume alcuna responsabilità
nei confronti dell’azienda o dei suoi beni fisici. Si dice spesso che il pro-
prietario di un cavallo è responsabile. Se il cavallo vive egli deve nutrirlo;
se il cavallo muore deve sotterrarlo. Un titolo azionario non comporta tale
responsabilità. Il proprietario si trova praticamente nell’impossibilità di
influire con i suoi sforzi sui beni reali.
2) I valori spirituali che precedentemente si accompagnavano alla con-
dizione proprietaria sono stati separati da essa. La proprietà fisica che il
proprietario aveva modo di usare poteva arrecargli una soddisfazione diret-
ta indipendentemente dal reddito che essa gli fruttava in forma più concre-
ta: essa rappresentava una estensione della sua stessa personalità. Con
l’avvento rivoluzionario delle società anonime questa qualità è stata perduta
dal proprietario come, per effetto della rivoluzione industriale, era già stata
perduta dall’operaio.
3) Il valore della ricchezza di un individuo viene a dipendere da fattori
completamente estranei a lui e ai suoi stessi sforzi. Invece il valore della
ricchezza stessa è determinato, da una parte, dalle azioni di individui alla
testa dell’impresa, individui sui quali il proprietario tipico non ha controllo
e, dall’altra, dalle azioni di altri in un mercato sensibile e spesso capriccio-
so. Il valore è in tal modo soggetto ai capricci e alle manovre che sono ca-
ratteristiche del mercato. Esso è inoltre soggetto ai grandi mutamenti della
valutazione da parte della società del proprio futuro immediato come esso
si riflette nel livello generale dei valori sul mercato organizzato.
4) Il valore della ricchezza individuale non solo muta costantemente, il
che si potrebbe dire per la maggior parte della ricchezza, ma è soggetto ad
una valutazione costante. L’individuo può vedere come il valore di stima
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 114
delle sue fortune cambi da un momento all’altro, e questo è un fatto che
può avere un’influenza notevole sia sull’impiego sia sul godimento della
sua rendita.
5) La ricchezza individuale è diventata estremamente liquida attraverso
il mercato organizzato. Il proprietario individuale può convertirla all’istante
in altre forme di ricchezza e, se l’organizzazione di mercato funziona bene,
può farlo senza gravi perdite dovute a vendite forzate.
6) La ricchezza si presenta sempre meno sotto forma che possa essere
usata dal proprietario. Quando, per esempio, la ricchezza si presenta come
proprietà fondiaria, essa è in grado di essere usata dal proprietario anche se
il valore del terreno sul mercato sia trascurabile. La qualità fisica di tale
ricchezza rende possibile un valore soggettivo per il proprietario, senza
tener alcun conto di quale possa essere il suo valore sul mercato. Nelle più
recenti forme di ricchezza, questo uso diretto è del tutto impossibile. Sol-
tanto attraverso la vendita sul mercato il proprietario può ottenere l’uso
diretto. Così, come mai prima d’ora, egli è legato al mercato.
7) Infine, nel sistema della società anonima, il "proprietario" della ric-
chezza industriale rimane un puro simbolo della condizione proprietaria,
mentre il potere, la responsabilità e la ricchezza, che nel passato avevano
costituito una parte integrale della condizione proprietaria, stanno trasfe-
rendosi ad un gruppo separato nelle cui mani risiede il controllo».25
Il controllo dell’azionista sopra la sua azienda costituisce un altro
importante aspetto dell’alienazione. Legalmente, gli azionisti con-
trollano l’impresa, cioè essi eleggono la direzione quasi come i citta-
dini in una democrazia eleggono i loro rappresentanti. In effetti tut-
tavia, essi esercitano ben scarso controllo per il fatto che la parteci-
pazione azionaria di ciascun individuo è così esigua, che egli non si
prende la briga di andare alle assemblee e di parteciparvi attivamen-
te. Berle e Means elencano i cinque maggiori tipi di controllo: «Que-
sti comprendono: 1) controllo attraverso la proprietà quasi completa;
2) controllo di maggioranza; 3) controllo attraverso un espediente
legale senza la proprietà di maggioranza; 4) controllo di minoranza;
e 5) controllo della direzione».26
Dei cinque tipi di controllo, i primi
due, proprietà privata e proprietà di maggioranza, rappresentano sol-
tanto il 6% (calcolato sulla ricchezza) delle duecento maggiori socie-
25 Cfr. A.A. BERLE e G.C. MEANS, The Modern Corporation and Private Property, cit., pp.
66 e 68. 26 Ibidem, p. 70.
115 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
tà, mentre per il rimanente 94% il controllo è esercitato sia dalla di-
rezione, sia vincolando con un espediente legale una piccola parte
della proprietà, sia da una minoranza degli azionisti.27
La classica
opera di Berle e Means descrive in modo molto interessante come
questo miracolo si compia senza l’uso della forza, dell’inganno o di
qualsiasi violazione della legge.
Il processo di consumo è alienato quanto il processo di produzio-
ne. In primo luogo, noi comperiamo delle cose col denaro; vi siamo
abituati e non vi troviamo nulla da ridire. Ma in effetti questo è un
modo singolare per ottenere delle cose. Il denaro rappresenta, in
forma astratta, lavoro e fatica: non necessariamente il mio lavoro e la
mia fatica, in quanto io posso averlo avuto in eredità, con dolo, per
un caso fortunato, e in mille altri modi. Ma anche se l’avessi ottenu-
to con il mio sforzo (dimenticando per ora che il mio sforzo forse
non mi avrebbe reso del denaro se non avessi impiegato degli uomi-
ni), lo avrei ottenuto in un modo particolare, con un particolare gene-
re di sforzo, corrispondente alla mia perizia e alle mie capacità, men-
tre, spendendolo, il denaro si trasforma in una forma astratta di lavo-
ro e può esser dato in cambio di qualsiasi altra cosa. Purché io pos-
segga del denaro, non sono necessari da parte mia né sforzo né inte-
resse perché io possa acquistare qualcosa. Se ho denaro posso com-
prare un quadro di valore, anche se in fatto d’arte sono un profano;
posso comprarmi il miglior fonografo anche se non so apprezzare la
musica; posso farmi una biblioteca, anche se mi serve soltanto per
farla vedere. Posso comprarmi un’educazione, anche se mi serve
soltanto per averne maggior prestigio sociale. Posso anche distrug-
gere il quadro o i libri che avevo comperato, senza altro danno che
una perdita di denaro. Il mero possesso del denaro mi dà il diritto di
acquistare, e di fare del mio acquisto quel che mi piaccia. Il modo
umano di acquistare sarebbe di fare uno sforzo che abbia un rapporto
qualitativo con quel che acquisto. Il comprarci del pane e degli abiti
non dovrebbe dipendere da altri motivi che dal fatto che siamo vivi;
il comprare dei libri e dei quadri non dovrebbe dipendere che dal
mio sforzo di comprenderli e dalla mia facoltà di apprezzarli. Non è
questo il luogo per esaminare come questi principi possano esser
27 Ibidem, pp. 94 e 114-17.
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 116
praticamente applicati. Quel che importa è che il nostro modo di ac-
quistare delle cose è separato dal modo con cui sappiamo usarne.
La funzione alienante del denaro nel processo di acquisto e di
consumo è stata molto ben descritta da Marx nelle seguenti parole:
«Il denaro... trasforma i veri poteri umani e naturali in idee puramen-
te astratte e perciò in imperfezioni; d’altra parte, esso trasforma reali
imperfezioni e immaginazioni, cioè i poteri che esistono soltanto
nella fantasia dell’individuo, in poteri reali... Il denaro trasforma la
realtà in vizio, i vizi in virtù, lo schiavo in padrone, il padrone in
schiavo, l’ignoranza in ragione e la ragione in ignoranza... Colui che
può comprare coraggio diventa coraggioso, sebbene sia codardo...
Prendi un uomo in quanto uomo, e i suoi rapporti col mondo come
qualcosa di umano, e potrai scambiare amore soltanto con amore,
fiducia soltanto con fiducia, ecc.. Se vuoi godere dell’arte, devi esse-
re una persona educata all’arte, se vuoi avere ascendente sugli altri,
devi essere una persona che ha un’effettiva capacità di stimolare e di
aiutare gli altri. Ognuno dei tuoi rapporti con l’uomo e la natura deve
essere una precisa espressione della tua vita reale e individuale che
corrisponda all’oggetto della tua volontà. Se tu ami senza far nascere
amore, cioè se il tuo amore in quanto tale non produce amore, se per
mezzo di una espressione di vita tu, persona amante, non fai di te
stesso una persona amata, allora il tuo amore è impotente, è una di-
sgrazia».28
Ma oltre il sistema di acquisto, come usiamo delle cose
quando le abbiamo comperate? Per molte cose non c’è nemmeno
l’intenzione di usarle. Noi le acquistiamo per averle. Ci acconten-
tiamo di un possesso inutile. Il costoso servizio da tavola o il vaso di
cristallo che non adoperiamo mai per timore di romperli, il palazzo
con molte camere inutilizzate, le automobili e la servitù superflui,
come l’ignobile bric-à-brac della famiglia piccolo borghese, sono
altrettanti esempi del piacere del possesso invece che dell’uso. Non-
dimeno questa soddisfazione del possesso per se stesso era molto più
spiccata nel diciannovesimo secolo; oggi la maggior parte della sod-
disfazione è derivata dal possesso di cose da usare piuttosto che di
cose da conservare. Ciò tuttavia non modifica il fatto che anche nel
godimento delle cose da usare la soddisfazione di prestigio è un fat-
28 «Nationalökonomie und Philosophie», 1844, in Die Frühschriften di Karl MARX, Alfred
Kröner Verlag, Stoccarda 1953, pp. 300, 301.
117 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
tore preminente. L’automobile, il frigorifero, la televisione servono
per essere realmente usati, ma anche per esser «fatti vedere». Essi
conferiscono dignità al loro proprietario.
Come usiamo delle cose che compriamo? Cominciamo dal cibo e
dalle vivande. Noi mangiamo un pane insipido e per niente nutriente
che però fa appello a ciò che immaginiamo sia ricchezza e distinzio-
ne -poiché è così bianco e «fresco». In effetti, noi «mangiamo» ciò
che immaginiamo ed abbiamo perduto il contatto con la cosa reale
che mangiamo. Il nostro palato, il nostro corpo non partecipano ad
un atto di consumazione che originariamente li riguardava. Noi be-
viamo delle etichette. Con la bottiglia di Coca Cola noi beviamo il
quadro del grazioso ragazzo e della ragazza che la bevono nei mani-
festi murali, beviamo lo slogan della «pausa che vi ristora», beviamo
la grande abitudine americana e, meno di tutto, beviamo col nostro
palato. Tutto ciò è anche peggio quando siamo portati a consumare
cose di cui tutta la realtà consiste principalmente nelle fantasie che la
campagna pubblicitaria ha creato, come il sapone e la pasta dentifri-
cia «con proprietà medicinali».
Potrei continuare all’infinito con tali esempi. Ma è superfluo insi-
stere su questo punto dato che ognuno può immaginarsi per conto
suo altrettante dimostrazioni. Voglio soltanto insistere sul principio
che vi è connesso: l’atto di consumare dovrebbe essere un atto uma-
no concreto, in cui siano implicati i nostri sensi, le nostre necessità
corporali, i nostri gusti estetici; in cui, cioè, siamo implicati noi in
quanto esseri umani, concreti, capaci di ragionare, di sentire, di giu-
dicare; l’atto di consumare dovrebbe essere una esperienza significa-
tiva, produttiva, umana. Nella nostra cultura ciò accade raramente.
Consumare è essenzialmente la soddisfazione di aspirazioni artifi-
cialmente provocate, è un atto di fantasia alienato dal nostro concre-
to e reale io.
Bisogna ricordare un altro aspetto dell’alienazione dalle cose che
consumiamo. Noi siamo circondati da cose della cui natura e origine
non conosciamo nulla. Il telefono, la radio, il fonografo, e tutte le
altre complicate macchine sono per noi quasi altrettanto misteriose
quanto lo sarebbero per un uomo di una cultura primitiva; sappiamo
come usarle, sappiamo cioè che bottone dobbiamo premere, ma non
sappiamo secondo quale principio esse funzionino, se non nei termi-
ni assai vaghi di qualcosa che una volta abbiamo imparato a scuola.
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 118
E le cose che non si basano su difficili principi scientifici ci sono
quasi altrettanto estranee. Non sappiamo come si fabbrica il pane,
come si tesse un panno, come si costruisce un tavolo, come si fab-
brica un bicchiere. Consumiamo, come produciamo, senza alcun
rapporto concreto con gli oggetti con cui abbiamo a che fare; vivia-
mo in un mondo di cose e la sola relazione che abbiamo con esse è
che sappiamo come adoperarle o consumarle.
Necessariamente il nostro modo di consumo risulta dal fatto che
non siamo mai soddisfatti, in quanto non è la nostra reale e concreta
persona che consuma una cosa reale e concreta. Pertanto noi svilup-
piamo un sempre crescente bisogno di un maggior numero di cose e
di un maggior consumo. È vero che, finché lo standard di vita della
popolazione è inferiore a un tenore di vita dignitoso, esiste un biso-
gno naturale di maggior consumo. È anche vero che c’è un legittimo
bisogno di consumare di più quando l’uomo si sviluppi culturalmen-
te e abbia più raffinate necessità di cibi migliori, di oggetti artistici,
di libri, ecc.. Ma la nostra brama di consumo ha perduto ogni rappor-
to con i bisogni reali dell’uomo. Originariamente l’idea di consuma-
re di più e meglio significava dare all’uomo una vita più facile e più
soddisfacente. Il consumo era un mezzo per un fine: la felicità. Esso
è ora diventato fine a se stesso. Il costante incremento dei bisogni ci
costringe ad uno sforzo sempre crescente e ciò ci fa dipendere da
questi bisogni e dalle persone e dalle istituzioni col cui aiuto li sod-
disfiamo.
«Ogni persona cerca di creare un nuovo bisogno negli altri, per ridurli in
una nuova servitù, per abituarli ad una nuova forma di piacere e così rovi-
narli economicamente... Con la moltitudine di beni aumenta il dominio del-
le cose estranee che fanno schiavo l’uomo».29
L’uomo è oggi affascinato dalla possibilità di comprare di più e
meglio, e specialmente di comperare cose nuove. Egli ha fame di
consumo. L’atto di comprare e consumare è diventato uno scopo
coatto e irrazionale, poiché esso è fine a se stesso, con scarso rappor-
to con l’uso o il godimento delle cose comprate e consumate. Com-
prare l’ultimo congegno, l’ultimo modello di ogni cosa che si trovi
29 K. MARX, op. cit., p. 254.
119 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
sul mercato è il sogno di tutti, in rapporto a cui l’effettivo godimento
dell’uso diventa del tutto secondario. L’uomo moderno, se osasse
parlare del suo concetto di paradiso, descriverebbe una visione ove il
paradiso sarebbe simile al più grande emporio del mondo, con espo-
sti nuovi articoli ed elettrodomestici. Quanto a lui, fornito dei quat-
trini necessari per l’acquisto, se ne andrebbe su e giù con la borsa
aperta, in mezzo a questo paradiso di elettrodomestici e di merci,
purché, beninteso, vi fossero da comprare cose sempre più nuove e
in maggior quantità, e, forse, purché i suoi vicini fossero un tantino
meno privilegiati di lui.
È abbastanza significativo che la passione per il possesso e la
proprietà, che è una delle più antiche caratteristiche della società
borghese, abbia subito un radicale mutamento. Una volta tra l’uomo
e la sua proprietà esisteva un certo senso di amoroso possesso. Egli
vi si affezionava e ne era orgoglioso; la teneva con gran cura e gli
doleva quando infine doveva separarsi da essa perché non si poteva
più usarla. Oggi di questo senso di proprietà è rimasto ben poco. Si
ama la novità della cosa acquistata e la si abbandona ben presto
quando compaia qualche cosa di più nuovo.
Esprimendo lo stesso mutamento in termini caratterologici, posso
riferirmi a quello che è stato più sopra detto in merito
all’orientamento accumulatore che dominava la scena del dicianno-
vesimo secolo. Nella metà del ventesimo secolo l’orientamento ac-
cumulatore è stato sostituito dall’orientamento ricettivo, nel quale il
fine è di ricevere, di «ingoiare», di aver sempre qualche cosa di nuo-
vo, di vivere, per così dire, continuamente con la bocca aperta. Que-
sto orientamento ricettivo è mescolato con l’orientamento mercanti-
le, mentre nel diciannovesimo secolo quello accumulatore si accom-
pagnava con l’orientamento sfruttatore.
L’atteggiamento alienato verso il consumo non esiste soltanto
nella nostra maniera di acquistare o di consumare merci, ma va ben
determinando anche il nostro modo di impiegare il tempo libero. E
che cos’altro ci si può attendere? Se un uomo lavora senza un rap-
porto genuino con quel che fa, se egli compra e consuma merci in
modo astratto ed alienato, come potrebbe far uso del suo tempo libe-
ro in un modo attivo e significante? Egli resta sempre il consumatore
passivo ed alienato. «Consuma» partite di calcio, film, giornali e
riviste, libri, conferenze, paesaggi, assemblee sociali, nello stesso
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 120
modo alienato e astrattizzato con cui consuma le merci che ha acqui-
stato. Non partecipa attivamente: vuol «stare alla pari» in tutto ciò
che si può afferrare e vuol avere quanto più è possibile di godimento,
di cultura e di qualsiasi altra cosa. In effetti, egli non è libero di go-
dere del «suo» svago; il consumo del suo tempo libero è determinato
dall’industria come lo sono le merci che compra; il suo gusto è in-
fluenzato, egli desidera vedere e ascoltare quello che è stato condi-
zionato a vedere e ad ascoltare; i divertimenti sono un’industria co-
me un’altra; si induce il cliente ad acquistare il divertimento come lo
si induce ad acquistar abiti e scarpe. Il valore del divertimento è de-
terminato dal suo successo sul mercato, non da altri fattori che pos-
sano esser misurati in termini umani.
In ogni attività produttiva e spontanea accade qualche cosa in me
stesso mentre io leggo, guardo un paesaggio, parlo con gli amici,
ecc.. Io non sono, dopo l’esperienza, lo stesso di prima. Nelle forme
alienate di godimento dentro di me non accade nulla; io ho consuma-
to questa o quella cosa, ma nulla è cambiato in me stesso e tutto ciò
che resta sono i ricordi di quel che ho fatto. Uno dei più evidenti
esempi di questo tipo di consumo del piacere è quello di scattare
istantanee, che è diventato una delle più rilevanti attività ricreative.
Lo slogan della Kodak, «premete il bottone, noi facciamo il resto»,
che fin dal 1889 ha tanto favorito la diffusione della fotografia in
tutto il mondo, è simbolico. Esso si presenta come uno dei primi ri-
chiami al sentimento del potere collegato all’atto di premere un pul-
sante; tu non devi far niente, tu non devi saper niente, e ogni cosa è
già pronta per te; tutto quel che devi fare è di premere il pulsante. In
effetti il fare istantanee è diventato una delle più significative espres-
sioni di percezione visiva alienata, di mero consumo. Il «turista» con
la macchina fotografica è un simbolo evidente di un rapporto aliena-
to con il mondo. Essendo costantemente occupato a far fotografie,
egli in effetti non vede assolutamente nulla, se non attraverso la me-
diazione della macchina fotografica. La macchina vede per lui e il
risultato del suo viaggio «di piacere» è una collezione di istantanee;
il surrogato di una esperienza che egli avrebbe potuto avere, ma che
non ha avuto.
L’uomo non è soltanto alienato dal lavoro che fa, e dalle cose e
piaceri che consuma, ma anche dalle forze sociali che determinano la
nostra società e la vita di tutti quelli che vivono in essa.
121 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
La nostra reale impotenza di fronte alle forze che ci governano si
presenta con maggior gravità in quelle catastrofi sociali che, anche
se sono ogni volta denunciate come lamentevoli incidenti, non hanno
finora mancato di accadere: depressioni economiche e guerre. Questi
fenomeni sociali si presentano come catastrofi naturali piuttosto che
quali sono veramente: avvenimenti prodotti dall’uomo, ma senza
intenzione e consapevolezza.
Questa anonimia delle forze sociali è connessa alla struttura del
sistema capitalistico di produzione.
Contrariamente alla maggior parte delle altre società nelle quali
le leggi sociali sono esplicite e fissate sulle basi del potere politico o
della tradizione, il capitalismo non ha tali leggi esplicite. Esso è fon-
dato sul principio che, purché ognuno lotti per se stesso sul mercato,
ne deriverà il bene comune, e l’ordine, non l’anarchia, sarà il risulta-
to. Vi sono naturalmente leggi economiche che governano il merca-
to, ma queste leggi operano alle spalle dell’individuo che vi agisce,
interessato soltanto ai suoi privati vantaggi. Si cerca di indovinare
queste leggi del mercato come un calvinista di Ginevra cercava di
indovinare se Dio lo aveva predestinato o no alla salvezza. Ma le
leggi del mercato, come la volontà di Dio, sono fuori della portata
della nostra volontà ed influenza.
Lo sviluppo del capitalismo ha mostrato in larga misura che que-
sto principio opera bene; è infatti un miracolo che la cooperazione
antagonistica di entità economiche autarchiche abbia quale risultato
una società fiorente e sempre crescente. È vero che il sistema capita-
listico di produzione porta alla libertà politica, mentre ogni ordine
sociale centralizzato e pianificato rischia di condurre alla irreggi-
mentazione politica e infine alla dittatura. Anche se questo non è il
luogo per esaminare il problema se vi siano altre alternative alla
scelta tra «libera iniziativa» e irreggimentazione politica, bisogna
dire qui che lo stesso fatto che noi siamo governati da leggi che non
controlliamo e che nemmeno desideriamo controllare è una delle più
evidenti manifestazioni di alienazione. Siamo noi gli autori del no-
stro sistema economico e sociale, e nello stesso tempo decliniamo,
intenzionalmente ed entusiasticamente, la responsabilità, e attendia-
mo con speranza o ansia, secondo il caso, quel che «il futuro» ci por-
terà. Le nostre azioni sono impersonate nelle leggi che ci governano,
ma queste leggi ci sovrastano e noi siamo loro schiavi. Lo stato gi-
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 122
gante e il sistema economico non sono più controllati dall’uomo.
Essi vanno all’impazzata e i loro capi sono come un cavaliere in
groppa ad un cavallo imbizzarrito, che è fiero di riuscire a tenersi in
sella, anche se è incapace di dirigere il cavallo.
Che cosa è per l’uomo moderno il rapporto con i suoi simili? È
un rapporto tra due astrazioni, tra due macchine viventi che usano
l’una dell’altra. Il datore di lavoro usa coloro che egli impiega; il
venditore usa i suoi clienti. Ognuno è una merce per ogni altro, sem-
pre da trattarsi con una certa cordialità perché, anche se non è utile
adesso, può esserlo più tardi. Non si trova più molto amore o molto
odio nelle relazioni umane odierne. C’è piuttosto una superficiale
cordialità, ed una più che superficiale correttezza, ma dietro questa
superficie ci sono distanza e indifferenza. Ma v’è anche una buona
dose di sottile diffidenza. Quando un uomo dice ad un altro: «Parla
con Smith, puoi fidarti di lui», questa è una espressione rassicurante
contro una diffidenza generale. Persino l’amore e la relazione tra i
due sessi hanno assunto questo carattere. La grande emancipazione
sessuale avvenuta dopo la prima guerra mondiale era un disperato
tentativo di surrogare un più profondo sentimento di amore con il
piacere sessuale reciproco. Quando questo tentativo si mostrò delu-
dente, la polarità erotica tra i sessi si ridusse al minimo e fu sostituita
da una associazione amichevole, una semplice unione capace di col-
legare le proprie forze per resistere meglio nella quotidiana lotta per
la vita, e mitigare il sentimento di solitudine e isolamento che ognu-
no ha.
L’alienazione tra uomo e uomo conduce alla perdita di quei vin-
coli generali e sociali che caratterizzano, come quella medievale,
molte altre società precapitalistiche.30
La società moderna è costitui-
ta di «atomi» (se usiamo il termine greco equivalente a «individuo»),
piccole particelle estranee l’un l’altra ma tenute assieme da egoistici
interessi e dalla necessità di far uso l’una dell’altra. Ma l’uomo è un
essere sociale che ha un profondo bisogno di partecipare, di essere
d’aiuto, di sentirsi membro di un gruppo. Cosa è accaduto di queste
aspirazioni sociali dell’uomo? Esse si manifestano nella sfera parti-
colare del dominio pubblico, che è rigorosamente separato dal domi-
30 Cfr. il concetto di Gemeinschaft (comunità), come contrario a Gesellschaft (società) nell'uso
del Toennies.
123 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
nio privato. La nostra condotta privata verso i nostri simili è regolata
dal principio di egoismo: «ognuno per sé e Dio per tutti», che è in
flagrante contraddizione con l’insegnamento cristiano.
L’individuo è determinato da interessi egoistici e non dalla soli-
darietà o dall’amore verso i suoi simili. Questi ultimi sentimenti pos-
sono affermarsi secondariamente come atti privati di filantropia o
bontà, ma essi non fanno parte delle strutture fondamentali dei nostri
rapporti sociali. Il settore della nostra vita sociale come «cittadini» è
separato dalla nostra vita privata come individui. In questo settore lo
stato incarna la nostra esistenza sociale; come cittadini abbiamo un
dovere cui infatti normalmente adempiamo, di mostrare un senso
degli obblighi e dei doveri sociali. Paghiamo le tasse, votiamo, ri-
spettiamo le leggi e in caso di guerra siamo disposti a sacrificare la
nostra vita. Quale più chiaro esempio di separazione tra esistenza
pubblica e privata potrebbe esserci del fatto che lo stesso individuo,
che si guarderebbe dallo spendere un centinaio di dollari per allevia-
re i bisogni di un estraneo, non esiterebbe a rischiare la sua vita per
salvare lo stesso estraneo quando in guerra si trovassero ad essere
entrambi soldati in uniforme? L’uniforme è l’espressione della no-
stra natura sociale, l’abito civile rappresenta la nostra natura egoisti-
ca.
Un’interessante dimostrazione di questa tesi si può trovare nella
più recente opera di S.A. Stouffer.31
In risposta alla domanda diretta
ad un settore rappresentativo del pubblico americano: «Quale genere
di cose vi preoccupa di più?», la grande maggioranza delle risposte
riguarda problemi personali, economici, di salute o d’altro genere;
soltanto l’8% si preoccupa di problemi mondiali tra i quali la guerra;
e l’1% del pericolo del comunismo o degli attentati alle libertà civili.
Ma, d’altra parte, quasi metà delle persone interrogate pensa che il
comunismo sia un pericolo serio, e che la guerra possa scoppiare
entro due anni. Queste questioni sociali però non sono sentite come
fatto personale e perciò non causano preoccupazioni, quantunque
determinino una buona dose di intolleranza. È anche interessante
notare che, sebbene circa la metà della popolazione creda in Dio,
sembra non ci sia quasi nessuno che si preoccupi della propria ani-
31 Communism, Conformity and Civil Liberties, Doubleday & Co., Inc., Garden City, New
York 1955.
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 124
ma, della propria salvezza o miglioramento spirituale. Dio è alienato
quanto il mondo nella sua totalità. Quel che ci interessa e ci preoc-
cupa è l’aspetto privato e isolato della vita, non quello sociale e uni-
versale che ci unisce ai nostri simili.
La divisione tra la comunità e la condizione politica ha portato a
proiettare tutti i sentimenti sociali nello stato che diviene così un
idolo, un potere sovrastante l’uomo. L’uomo si sottomette allo stato
come all’espressione dei suoi propri sentimenti sociali, che egli ado-
ra come potenze alienate da sé; nella sua vita privata egli soffre co-
me individuo per l’isolamento e la solitudine che sono il risultato
necessario di questa separazione. Il culto dello stato può scomparire
soltanto se l’uomo riacquista i poteri sociali, e costruisce una comu-
nità nella quale i suoi sentimenti sociali non siano una aggiunta alla
sua esistenza privata, ma nei quali la sua esistenza privata e quella
sociale siano una sola e medesima cosa.
Qual è il rapporto dell’uomo con se stesso? Ho descritto altrove
questo rapporto come un «orientamento di mercato».32
In questo
orientamento l’uomo sente se stesso come una cosa da impiegarsi
vantaggiosamente sul mercato. Egli non riconosce se stesso come un
agente attivo, come il portatore di poteri umani. Egli è alienato da
questi poteri. Il suo fine è di vendere vantaggiosamente se stesso sul
mercato. Il suo senso dell’io non sorge dalla sua attività come indi-
viduo che ama e che pensa, ma dal suo ruolo economico-sociale. Se
le cose potessero parlare, una macchina per scrivere risponderebbe
alla domanda «chi sei?» dicendo «sono una macchina per scrivere» e
un’automobile dicendo «sono un’automobile» o, più specificamente,
dicendo «sono una Ford» oppure «sono una Buick» o «sono una Ca-
dillac». Se domandate ad un uomo «chi sei?» egli risponde: «sono
un industriale», «sono un impiegato», «sono un medico» oppure
«sono un uomo sposato», «sono padre di due bambini», e le sue ri-
sposte hanno quasi il medesimo significato di quelle che potrebbe
32 Cfr. la mia descrizione dell'orientamento mercantile in Man for Himself, p. 67 ss.. Il concet-
to di alienazione è diverso da uno dei vari orientamenti di carattere, come orientamento ricetti-
vo, sfruttatore, accaparratore, mercantile e produttivo. Si può trovare l'alienazione in ciascuno
di questi orientamenti non produttivi, ma essa ha un'affinità particolare con l'orientamento
mercantile. Nella stessa misura essa è anche collegata alla personalità «eterodiretta» di Rie-
sman, che tuttavia, anche se «si sviluppa dall'orientamento mercantile» è nei punti essenziali
un concetto diverso. Cfr. D. RIESMAN, The Lonely Crowd, Yale University Press, New Ha-
ven 1950, p. 23 (trad. italiana D. RIESMAN, La folla solitaria, Il Mulino, Bologna 1956).
125 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
darvi una cosa che parlasse. Questo è il modo in cui egli sente se
stesso: non come uomo, come amore, paura, convinzioni, dubbi, ma
come quella astrazione, alienata dalla sua reale natura, che svolge
una certa funzione nel sistema sociale. Il suo senso del valore dipen-
de dal suo successo: dal fatto che egli possa vendersi vantaggiosa-
mente, o che possa ricavare da sé più di quanto potesse in partenza,
cioè che egli sia un successo. Il suo corpo, la sua intelligenza, la sua
anima sono il suo capitale, e il suo compito nella vita è di investirlo
a condizioni vantaggiose, di trarre profitto da se stesso. Qualità
umane come l’amicizia, la cortesia, la bontà, sono trasformate in
merci, nel patrimonio delle sue «doti di personalità» che può favorire
la realizzazione di un maggior prezzo sul mercato della personalità.
Se l’individuo perde nell’investimento lucrativo di sé, ha la sensa-
zione di essere, lui, un fallimento; se riesce, pensa di essere lui un
successo. È evidente che il senso del proprio valore dipende sempre
da fattori estranei, dal volubile giudizio del mercato che stabilisce il
suo valore come stabilisce il valore delle merci. Egli, come tutte le
merci che non possono essere vantaggiosamente vendute sul merca-
to, è senza valore per quanto riguarda il suo valore di scambio, anche
se il suo valore d’uso può essere considerevole.
La personalità alienata che è in vendita deve necessariamente
perdere una buona parte di quel senso di dignità che è così caratteri-
stico dell’uomo anche nelle culture più primitive. Egli deve perdere
quasi completamente il suo senso dell’io, il senso di se stesso come
entità unica e indivisibile. Il senso dell’io sgorga dall’esperienza di
me stesso come soggetto delle mie esperienze, del mio pensiero, del
mio sentimento, della mia decisione, del mio giudizio, del mio agire.
Esso presuppone che la mia esperienza sia mia e non una esperienza
alienata. Le cose non hanno io e gli uomini che sono diventati cose
non possono avere più il loro io.
Questa perdita dell’individualità da parte dell’uomo moderno fu
giudicata da uno dei più dotati ed originali psichiatri contemporanei,
lo scomparso H.S. Sullivan, un fenomeno naturale. Egli trattò quegli
psicologi che, come me, avanzano l’ipotesi che la mancanza del sen-
so dell’io sia un fenomeno patologico, come gente che era stata vit-
tima di un «miraggio». Per lui l’io non era altro che i diversi ruoli
che svolgiamo nei confronti degli altri, ruoli che hanno il compito di
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 126
sollecitare un’approvazione ed evitare l’ansietà prodotta da una di-
sapprovazione.
Ma che notevole e rapido decadimento del concetto dell’io dal
diciannovesimo secolo, allorché Ibsen faceva della perdita dell’io il
tema principale della sua critica all’uomo moderno nel Peer Gynt!
Peer Gynt è descritto come un uomo che, inseguendo l’utile materia-
le, scopre alla fine di aver perduto il suo io, e di essere come una
cipolla: un insieme di strati sovrapposti senza nocciolo. Ibsen de-
scrive il terrore della nullità da cui Peer Gynt è preso quando fa que-
sta scoperta, un panico che lo fa desiderare di finire nell’inferno
piuttosto che essere rigettato nel «calderone» della nullità. Difatti,
con l’esperienza dell’io scompare anche l’esperienza dell’identità e,
quando ciò accade, l’uomo può impazzire se non si salva conqui-
stando un senso secondario dell’io; egli fa ciò guardando a sé come
ad un essere stimato, degno, toccato dal successo, utile; in breve,
come una merce vendibile quale egli è, poiché gli altri lo considera-
no come una entità, non unica, ma adattata ad uno dei modelli cor-
renti.
Non si può comprendere appieno la natura dell’alienazione senza
considerare un aspetto particolare della vita moderna: la sua routi-
nizzazione e la repressione della consapevolezza dei problemi basi-
lari dell’esistenza umana. Incontriamo qui un problema universale
della vita. L’uomo deve guadagnarsi il suo pane quotidiano, e questo
è sempre un compito che lo assorbe più o meno intensamente. Egli
deve badare ai molti compiti della vita quotidiana che gli prendono
tempo ed energia, ed è irretito in una certa routine necessaria per il
raggiungimento di questi compiti. Egli costruisce un ordine sociale,
convinzioni, costumi, idee che lo aiutano a fare quel che è necessario
e a vivere con i suoi simili con un minimo di contrasti. È proprio di
ogni cultura che essa costruisca un mondo artefatto, fabbricato
dall’uomo, sovrimposto al mondo naturale in cui l’uomo vive. Ma
l’uomo può realizzare se stesso soltanto se resta in contatto con i
fatti fondamentali della sua esistenza, se può provare l’esaltazione
dell’amore e della solidarietà, come anche il tragico fatto della sua
solitudine e del carattere frammentario della sua esistenza. Se egli è
totalmente irretito nella routine e nell’artificiosità della vita, e se del
mondo può vedere soltanto la banale apparenza che egli stesso se ne
costruisce, perde il contatto con sé e con il mondo e la possibilità di
127 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
comprenderli entrambi. In ogni cultura noi troviamo il conflitto tra la
routine e il tentativo di ritornare alle realtà fondamentali
dell’esistenza. Aiutare questo tentativo è stata una delle funzioni
dell’arte e della religione, anche se la religione stessa è in seguito
diventata una nuova forma di routine.
Anche la storia più antica dell’uomo ci mostra un tentativo di en-
trare in rapporto con l’esistenza della realtà attraverso la creazione
artistica. L’uomo primitivo non è soddisfatto delle funzioni pratiche,
dei suoi utensili e delle sue armi, ma cerca di decorarli e di farli bel-
li, trascendendo la loro funzione utilitaria. Al di fuori dell’arte, il
modo più significativo per infrangere la superficie della routine e per
attuare il contatto con le ultime realtà della vita si basa su ciò che si
può chiamare col termine generico di «rituale». Intendo parlare qui
del rituale nel senso lato della parola, come lo troviamo nella rappre-
sentazione del dramma greco, per esempio, e non soltanto del rituale
nel più ristretto senso religioso. Qual era la funzione del dramma
greco? I problemi fondamentali dell’esistenza umana erano rappre-
sentati in una forma artistica e drammatica e, partecipando alla rap-
presentazione drammatica, lo spettatore (spettatore, s’intende, non
nel nostro moderno significato di consumatore) era sottratto alla sfe-
ra della routine quotidiana e ricondotto a se stesso come essere uma-
no, nelle radici della sua esistenza. Egli stabiliva un contatto diretto
con la realtà e in questo processo riceveva forza dalla quale ritrovava
se stesso. Sia che noi si pensi al dramma greco, alle sacre rappresen-
tazioni medievali, o alla danza indiana, sia che si pensi ai rituali reli-
giosi indù, ebraici e cristiani, siamo di fronte a varie forme di espres-
sione attraverso il dramma dei problemi fondamentali dell’esistenza
umana, ad esaurire nella partecipazione proprio quegli stessi pro-
blemi che sono indagati nella filosofia e nella teologia.
Che cosa è rimasto di tale espressione attraverso il dramma della
vita nella cultura moderna? Quasi nulla. Se si escludono i grotteschi
tentativi di soddisfare il suo bisogno di un rituale come lo vediamo
praticato nelle logge e nelle confraternite, l’individuo non esce dal
dominio delle convenzioni e delle cose fabbricate dall’uomo, né mai
riesce a infrangere la crosta della routine. Il solo fenomeno che si
avvicini al significato di un rituale è la partecipazione dello spettato-
re alle gare sportive; qui almeno si tratta di un problema fondamen-
tale dell’esistenza umana: la lotta tra uomini e la loro esperienza vi-
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 128
caria della vittoria e della sconfitta. Ma quanto è limitata e primitiva
questa visione dell’esistenza umana che riduce la ricchezza della vita
umana ad un unico, parziale aspetto!
Se c’è un incendio, o uno scontro automobilistico in una grande
città, dozzine di persone si raccoglieranno a guardare. E milioni di
persone sono affascinate quotidianamente dai resoconti di delitti e da
storie di cronaca nera. Esse vanno religiosamente a vedere film dove
delitto e passione sono i due temi principali. Tutti questi interessi e
queste attrattive non sono semplicemente un’espressione del cattivo
gusto e dell’amore per il sensazionale, ma di una profonda aspira-
zione ad una comprensione drammatica dei fenomeni fondamentali
dell’esistenza umana: la vita e la morte, il delitto e il castigo, la bat-
taglia tra l’uomo e la natura. Ma mentre il dramma greco trattava
questi problemi ad un alto livello artistico e metafisico, i nostri mo-
derni «drammi» e «rituali» sono grossolani e non producono alcun
effetto catartico. Tutta questa attrattiva delle gare sportive, del delitto
e della passione, rivela il bisogno di rompere la crosta della nostra
routine, ma il modo di soddisfare tale bisogno mostra l’estrema po-
vertà della nostra soluzione.
L’orientamento commercializzato è strettamente connesso al fat-
to che il bisogno di scambio è diventato l’impulso preminente
dell’uomo moderno. Naturalmente, è vero che anche in un’economia
primitiva, basata su di una forma rudimentale di divisione del lavoro,
l’uomo scambia dei beni con qualcun altro nella tribù o con tribù
vicine. L’uomo che produce tessuti li scambia con il grano prodotto
dal suo vicino, o con falci o coltelli fabbricati dal fabbro. Alla cre-
scente divisione del lavoro, si accompagna un crescente scambio di
beni ma, solitamente, lo scambio dei beni non è altro che un mezzo
per un fine economico. Nella società capitalistica lo scambio è di-
ventato fine a se stesso.
Lo stesso Adam Smith vide il ruolo fondamentale del bisogno di
scambio, e lo spiegò come un’esigenza basilare dell’uomo.
«Questa divisione del lavoro, egli disse, da cui sono derivati tanti van-
taggi, non è originariamente un effetto di alcuna sapienza umana che pre-
veda e auspichi la generale ricchezza cui essa dà occasione. Essa è la neces-
saria, sebbene assai lenta e graduale, conseguenza di una certa inclinazione
della natura umana che non prevede una sì larga utilità; l’inclinazione alla
permuta, al baratto, allo scambio di una cosa per l’altra. Lo scoprire se que-
129 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
sta inclinazione fosse uno di quei principi originari nella natura umana, di
cui non si può dare ulteriore ragione, o invece, come pare più probabile, la
conseguenza necessaria della facoltà di ragionare e di parlare, non interessa
la nostra indagine. Essa è comune a tutti gli uomini, e non la si trova in
nessun’altra specie di animali, che sembra non conoscano né questo né altra
specie di contratto... Nessuno ha mai visto due cani fare uno scambio cor-
retto e deliberato di un osso con un altro».33
Il principio di scambio su scala sempre crescente nel mercato na-
zionale e mondiale è difatti uno dei principi economici fondamentali
su cui riposa il sistema capitalistico, ma Adam Smith previde qui che
questo principio doveva diventare anche uno dei più profondi biso-
gni psichici della moderna personalità alienata. Lo scambio ha per-
duto la sua funzione razionale di mero mezzo per fini economici, ed
è diventato fine a se stesso esteso a settori non economici. Anche se
non intenzionalmente lo stesso Adam Smith rivelò, nel suo esempio
dello scambio tra due cani, la natura irrazionale di questo bisogno di
scambio. Non vi sarebbe alcun realistico interesse in questo scam-
bio; o i due ossi sono eguali e non ci sarebbe ragione di scambiarli,
oppure uno è migliore dell’altro, e allora il cane che avesse il miglio-
re non lo scambierebbe volontariamente. Questo esempio ha senso
soltanto se presumiamo che lo scambio sia un bisogno in se stesso,
anche se esso non serve ad alcuno scopo pratico ed è infatti questo
che Adam Smith presumeva.
Come ho già ricordato in altra parte, la passione per lo scambio
ha sostituito la passione del possesso. Uno acquista un’automobile o
una casa, con l’intenzione di venderle alla prima occasione. Ma più
importante è il fatto che la spinta allo scambio opera nel dominio dei
rapporti personali. L’amore non è spesso altro che uno scambio fa-
vorevole tra due persone che realizzano il massimo di quanto possa-
no attendersi data la loro quotazione sul mercato della personalità.
Ogni persona è un «articolo» in cui diversi aspetti del suo valore di
scambio sono fusi in uno: la sua personalità, con cui si intendono
quelle qualità che ne fanno un buon piazzista di se stesso; la presen-
za, l’educazione, il reddito e la possibilità di successo - ogni persona
tende a scambiare questo articolo contro il miglior prezzo esigibile.
33 Adam SMITH, An Enquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, The Mod-
ern Library, New York 1937, p. 13 (il corsivo è mio).
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 130
Persino andare ad un trattenimento e aver in genere dei rapporti so-
ciali ha in gran parte una funzione di scambio. Si ambisce di incon-
trare «articoli» un po’ più costosi per stabilire rapporti e fare possi-
bilmente uno scambio vantaggioso. Si desidera di cambiare la pro-
pria posizione sociale, e cioè il proprio io, con uno più alto e, in que-
sto processo, si cambiano la vecchia cerchia di amici e l’insieme di
consuetudini e sentimenti con altri nuovi, proprio come si scambia la
propria Ford con una Buick. Mentre Adam Smith credeva che questo
bisogno di scambio fosse una parte immanente della natura umana,
esso è in effetti un sintomo dell’astrazione e alienazione immanenti
nel carattere sociale dell’uomo moderno.
Si esperimenta l’intero processo vitale in modo analogo ad un
vantaggioso investimento di capitale e la mia vita e la mia persona
sono il capitale investito. Se un uomo compra un pezzo di sapone o
una libbra di carne, ha il diritto di aspettarsi che il denaro che ha spe-
so corrisponda al valore del sapone o della carne comprati. Egli è
interessato a che l’equazione «tanto sapone = tanto denaro» sia in
accordo con i prezzi correnti. Ma questa aspettativa si è estesa a tutte
le altre forme di attività. Se un uomo va ad un concerto o a teatro, si
domanda più o meno apertamente se lo spettacolo «vale il denaro»
che spende. La questione, pur avendo qualche senso marginale, non
ne ha fondamentalmente alcuno poiché due cose tra loro non para-
gonabili sono messe assieme in una equazione; non è possibile
esprimere in termini monetari il piacere di ascoltare un concerto; il
concerto non è una merce e neppure lo è l’esperienza di ascoltarlo.
Lo stesso avviene anche quando un uomo fa un viaggio di piacere,
va ad una conferenza, dà un trattenimento, partecipa a una qualsiasi
delle diverse attività che comportano una spesa di denaro. L’attività
è di per se stessa un fecondo atto di vita e non può essere valutata in
base alla quantità di denaro che si spende per essa. Il bisogno di mi-
surare gli atti della vita in termini di qualcosa di quantificabile risulta
anche nella tendenza a domandarci se una cosa «valga il tempo». La
serata di un giovane con una ragazza, una visita agli amici, e le mol-
te altre azioni che possono implicare o meno la spesa di denaro,
pongono la domanda se l’attività vale il denaro o il tempo impiega-
131 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
to.34
In ogni caso bisogna giustificare l’attività attraverso una equa-
zione che mostri come essa sia un vantaggioso investimento di ener-
gia. Anche l’igiene e la salute giungono a servire allo stesso scopo;
un uomo che faccia una passeggiata ogni mattina tende a considerar-
la come un buon investimento per la sua salute, piuttosto che come
una piacevole attività che non ha bisogno di giustificazione alcuna.
Questo atteggiamento trova la sua più drastica espressione nel con-
cetto del piacere e della sofferenza di Benth-am. Partendo
dall’ipotesi che il fine della vita è di avere piacere, Benth-am sugge-
riva una specie di bilancio che mostrasse per ogni azione se il piace-
re era maggiore della sofferenza, e, se il piacere era maggiore,
l’azione meritava di essere compiuta. Così tutta la vita era per lui
qualcosa di analogo ad un affare in cui ogni volta il bilancio favore-
vole mostrasse quel che è vantaggioso.
Se le opinioni di Bentham non sono più condivise,
l’atteggiamento che esprimono è diventato sempre più saldamente
radicato.35
L’uomo moderno si è posto una nuova domanda, quella,
cioè, se la «vita valga la pena di essere vissuta»; di conseguenza è
sorto in lui il sentimento che la vita sia o «un fallimento» o «un suc-
cesso». Quest’idea è basata sul concetto della vita come di
un’impresa che dovrebbe dare un profitto. Il fallimento è come la
bancarotta di un’impresa dove le perdite siano superiori ai guadagni.
Questo concetto è un’assurdità. Possiamo essere felici o infelici,
raggiungere certi fini e non raggiungerne altri; ma non c’è bilancio
capace di mostrare se la vita valga la pena di essere vissuta. Forse,
dal punto di vista di un bilancio, una vita non val mai la pena di es-
sere vissuta. Essa finisce necessariamente con la morte, molte delle
sue speranze sono frustrate; essa implica sofferenza e fatica; dal pun-
to di vista del bilancio potrebbe sembrare più giusto non essere mai
nati o essere morti nell’infanzia. D’altra parte chi potrà mai dire se
un felice momento d’amore, o la gioia di respirare o di passeggiare
nella fresca aria profumata di un luminoso mattino non valgano tutte
le sofferenze e le fatiche che la vita comporta? La vita è un dono,
34 Cfr. la descrizione critica che Marx fa dell'uomo nella società capitalistica: «Il tempo è tutto,
l'uomo è niente; egli non è niente di più che lo scheletro del tempo» (La miseria dellafilosofia). 35 Nel concetto di Freud del principio del piacere e nei suoi pessimistici punti di vista relativa-
mente alla prevalenza della sofferenza sul piacere nella società civilizzata, si può scoprire
l'influenza del calcolo benthamiano.
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 132
un’impareggiabile sfida e non può esser misurata nella maniera di
qualsiasi altra cosa; non c’è risposta sensata alla domanda se essa
meriti di essere vissuta, poiché la domanda non ha alcun senso.
Questa interpretazione della vita come di una impresa pare essere
l’origine di un tipico fenomeno moderno sul quale esiste un gran
numero di teorie: l’incremento del suicidio nella società occidentale
moderna. Tra il 1836 e il 1890 il suicidio aumentò del 140% in Prus-
sia e del 355% in Francia. L’Inghilterra ebbe 62 casi di suicidio per
ogni milione di abitanti dal 1836 al 1845, e 110 tra il 1906 e il 1910.
La Svezia ne ebbe rispettivamente 66 e 150. Come si può spiegare
questo incremento del suicidio che si accompagna alla prosperità del
secolo diciannovesimo?
Non c’è dubbio che i motivi del suicidio sono altamente comples-
si, e non si può ritenere che un unico motivo ne sia la causa. Tro-
viamo il «suicidio di punizione», tipico della Cina; e, in tutto il resto
del mondo, troviamo il suicidio determinato da depressione; ma nes-
suno di questi due motivi ha grande importanza nell’aumento della
percentuale di suicidi nel diciannovesimo secolo. Durkheim, nella
sua classica opera sul suicidio, avanza l’ipotesi che la causa sia da
ricercarsi in un fenomeno che egli chiama «anomia». Egli si riferiva
con questo termine alla distruzione di tutti i vincoli sociali tradizio-
nali, al fatto che tutte le organizzazioni veramente collettive sono
passate al secondo posto rispetto allo stato, e che ogni genuino vive-
re sociale è stato annientato.36
Egli riteneva «un pulviscolo confuso
di individui coloro che vivono nello stato politico moderno».37
La
spiegazione di Durkheim è sulla stessa linea delle ipotesi di questo
libro, e ritornerò ad esaminarle più avanti. Credo inoltre che la noia e
la monotonia della vita conseguenti all’alienato modo di vivere co-
stituiscano un fattore ulteriore. Le cifre dei suicidi nei paesi scandi-
navi, nella Svizzera e negli Stati Uniti, assieme alle cifre
sull’alcolismo sembrano convalidare queste ipotesi.38
Ma c’è
36 Cfr. Emile DURKHEIM, Le Suicide, Felix Alcan, Parigi 1897, p. 446. 37 Op. cit., p. 448. 38 Tutte le cifre mostrano anche che i paesi protestanti hanno una percentuale di suicidio molto
più alta dei paesi cattolici. Ciò può esser dovuto a un certo numero di fattori connessi alla
differenza tra la religione cattolica e la protestante come, per esempio, la maggiore influenza
della religione cattolica sulla vita dei suoi membri e i mezzi più adeguati impiegati dalla chiesa
cattolica per far fronte al senso di colpa, ecc.. Ma si deve tener conto anche del fatto che sono i
paesi protestanti quelli dove il sistema capitalistico di produzione si è maggiormente sviluppa-
133 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
un’altra ragione che è stata ignorata da Durkheim e da altri studiosi
del suicidio. Essa si riferisce a tutto quel concetto di «bilancio» della
vita come di un’impresa che può fallire. Molti casi di suicidio sono
causati dal sentimento che «la vita è stata un fallimento», che «non
vale più la pena di vivere»; ci si uccide proprio come un uomo
d’affari dichiara bancarotta quando le perdite superano gli utili, e
quando non c’è più speranza di recuperare le perdite.
c) Vari altri aspetti
Sinora ho tentato di dare un quadro generale dell’alienazione
dell’uomo moderno di fronte a se stesso e ai suoi simili nello svol-
gersi di attività di produzione, di consumo e di svago. Desidero ora
trattare di alcuni aspetti specifici del carattere sociale contemporaneo
che sono strettamente connessi con il fenomeno dell’alienazione, la
discussione dei quali è però facilitata quando li si esamini separata-
mente piuttosto che sotto la voce alienazione.
I. autorità anonima e conformismo
Il primo aspetto da considerare è l’atteggiamento dell’uomo mo-
derno di fronte all’autorità. Abbiamo esaminato le differenze tra au-
torità razionale e irrazionale, tra autorità promotrice e inibitoria, e
dichiarato che la società occidentale fu nel diciottesimo e dicianno-
vesimo secolo caratterizzata dalla fusione di entrambi i generi di au-
torità. Quel che le autorità razionale e irrazionale hanno di comune
tra loro è che sono autorità manifeste. Si sa chi ordina e chi vieta: il
padre, il maestro, il padrone, il re, l’ufficiale, il sacerdote, Dio, la
legge, la coscienza morale. Gli ordini o le proibizioni possono esser
ragionevoli o meno, rigidi o dolci, ed io posso obbedire o ribellarmi;
ma so sempre che c’è un’autorità, chi è quest’autorità, cosa doman-
da, e che accadrà in seguito alla mia sottomissione o alla mia ribel-
lione.
to ed ha modellato, più che nei paesi cattolici, il carattere della popolazione, così che la diffe-
renza tra paesi protestanti e cattolici è anche in gran parte una differenza tra diversi stadi del
capitalismo moderno.
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 134
L’autorità alla metà del ventesimo secolo ha mutato il suo carat-
tere; essa non si presenta più come autorità manifesta, bensì come
autorità anonima, invisibile, alienata. Non c’è nessuno che ordini, né
una persona, né una idea, né una legge morale. Però tutti ci confor-
miamo come o più di quanto non si farebbe in una società fortemen-
te autoritaria. Infatti, non c’è nessuna autorità, al di fuori di «ogget-
ti». Quali sono questi «oggetti»? Il guadagno, le necessità economi-
che, il mercato, il senso comune, l’opinione pubblica, quel che «si»
fa, «si» pensa, «si» sente. Le leggi dell’autorità anonima sono invi-
sibili quanto le leggi del mercato, e altrettanto incontestabili. Chi
può attaccare l’invisibile? Chi può ribellarsi contro Nessuno?
La scomparsa dell’autorità manifesta è chiaramente osservabile
in tutti i campi della vita. I genitori non comandano più; essi formu-
lano con il bambino l’ipotesi che «abbia voglia di far questo». Poi-
ché i genitori stessi non hanno né principi né convinzioni, tentano di
guidare i bambini a fare quel che vuole la legge del conformismo, e
spesso, essendo maggiori d’età e dunque meno al corrente del «nuo-
vo», essi imparano dai figli qual è l’atteggiamento richiesto. La stes-
sa cosa vale anche negli affari e nell’industria: non si danno ordini,
ma si «propone»; non si comanda, ma si persuade e si influenza.
Persino l’esercito americano ha accolto molte delle forme nuove di
autorità. L’esercito è presentato come si trattasse di un’interessante
impresa commerciale; il soldato dovrebbe sentirsi come un membro
di una «squadra», anche se rimane l’aspra realtà che egli deve esser
addestrato a uccidere e ad esser ucciso.
Fino a che c’era una autorità manifesta, c’era contrasto e c’era ri-
bellione contro l’autorità irrazionale. Nel conflitto con gli imperativi
della propria coscienza, nella lotta contro l’autorità irrazionale si
sviluppava la personalità - e particolarmente si sviluppava il senso
dell’io. Io riconosco me stesso come «io» in quanto dubito, protesto,
mi ribello. Anche se mi sottometto e prevedo la sconfitta, mi sento
«io»: «io», lo sconfitto. Ma se non sono consapevole di sottometter-
mi e di ribellarmi, se sono guidato da una autorità anonima, perdo il
senso di me stesso e divento «uno qualsiasi», una parte
dell’«oggetto».
Il meccanismo attraverso cui l’autorità anonima agisce è il con-
formismo. Io dovrei fare quel che tutti fanno, e perciò devo confor-
marmi, non essere diverso, non sporgere dalla fila; devo esser pronto
135 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
e disposto a cambiare secondo i cambiamenti del modello; non devo
chiedermi se ho ragione o torto, ma se sono adattato, se non sono
«strano», differente. La sola cosa immutabile in me è proprio questa
disposizione a cambiare. Nessuno ha potere sopra di me al di fuori
del gregge di cui sono parte, benché vi sia soggetto.
Non è neppur necessario dimostrare al lettore a qual punto si sia
estesa questa sottomissione all’autorità anonima attraverso il con-
formismo. Tuttavia desidero fornire alcune illustrazioni prese da una
descrizione molto interessante e rivelatrice su un centro residenziale
a Park Forest, Illinois, contenuta nel volume di Whyte, L’uomo
dell’organizzazione.39
Questa zona residenziale nei pressi di Chicago
fu costruita per alloggiare 30.000 persone, parte in blocchi di appar-
tamenti d’affitto con giardino (affitto per un appartamento di due
camere da letto più servizi, 92 dollari), e parte in villini rustici da
vendere (al prezzo di 11.995 dollari). Gli abitanti sono per lo più
dirigenti subalterni, alcuni chimici e ingegneri, con un reddito medio
di 6-7 mila dollari annui, tra i 25 e i 35 anni di età, sposati, con uno o
due bambini.
Quali sono i rapporti sociali, e qual è l’«adattamento» in questa
comunità preconfezionata? Mentre la gente è spinta a venire ad abi-
tare qui principalmente da «una semplice necessità economica e non
dalla nostalgia del grembo originario», l’autore osserva «che dopo
esser stata lasciata in tale ambiente, diversa gente trova in esso una
cordialità e un sostegno che fanno apparire sgradevolmente freddi gli
altri ambienti ed è piuttosto strano udire come, per esempio, gli abi-
tanti dei nuovi sobborghi parlano del "mondo di fuori"». Questo sen-
so di cordialità è più o meno identico a quello che nasce dalla consa-
pevolezza di esser accettati: «Potrei permettermi un posto migliore
di quello dove stiamo andando, dice uno, e devo dire che questo non
è il genere di posto dove si porterebbe il principale o il cliente a
pranzo. Ma in una comunità come questa si trova un’accoglienza
genuina». Questo intenso desiderio di buona accoglienza è difatti un
sentimento molto caratteristico nella persona alienata. Perché si do-
vrebbe essere così riconoscenti dell’accettazione se non si dubitasse
di non esser accettabili, e perché una coppia di giovani, bene educati
ed assortiti, dovrebbe aver tali dubbi, se non fosse per il fatto che
39 Si veda la parte settima (Einaudi, Torino 1960, p. 41 ss).
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 136
essi non possono accettare se stessi, dato che non sono se stessi? Il
solo rifugio in cui si possa trovare un senso di identità è il conformi-
smo. Esser accettabili in effetti significa non esser differenti da nes-
sun altro. Il sentirsi inferiore sorge dal sentirsi differenti, né ci si po-
ne la domanda se la differenza sia per il meglio o per il peggio.
L’adattamento comincia molto presto. Un genitore esprime il
concetto dell’autorità anonima molto concisamente: «L’adattamento
al gruppo non pare comportare per loro [per i bambini] tanti proble-
mi. Mi sono accorto che essi sembrano aver l’impressione che nes-
suno sia il padrone; c’è un sentimento di piena cooperazione. Ciò
deriva loro, in parte, dall’esser subito lasciati liberi ai loro giochi con
i vicini». Il concetto ideologico con cui questo fenomeno è qui
espresso è quello dell’assenza di autorità, che è, secondo l’idea di
libertà del diciottesimo e diciannovesimo secolo, un valore positivo.
Ma, dietro questo concetto di libertà, restano, in realtà, la presenza di
una autorità anonima e l’assenza dell’individualità. Niente chiarireb-
be meglio questo concetto di conformismo che la dichiarazione fatta
da una madre: «Johnny non va tanto bene a scuola. Il maestro mi
dice che egli è bravo sotto diversi aspetti, ma che il suo adattamento
sociale non è buono come dovrebbe essere. Egli si sceglie soltanto
uno o due amici per giocare; e talvolta è contento di restar solo» (il
corsivo è mio). Difatti, la persona alienata trova quasi impossibile
restar sola con se stessa, perché è presa dal panico di provare un sen-
so di nullità. Che ciò possa esser dichiarato così apertamente è non-
dimeno sorprendente e mostra che abbiamo persino cessato di ver-
gognarci delle nostre inclinazioni gregarie.
I genitori si lagnano talora che la scuola sia un po’ troppo «tolle-
rante», e che i bambini non siano disciplinati, ma «quali che siano i
difetti dei genitori di Park Forest, tra questi non vi sono certo severi-
tà e autoritarismo». Certamente no; che bisogno vi sarebbe di autori-
tarismo nelle sue forme manifeste se l’autorità anonima del confor-
mismo fa che i ragazzi si sottomettano completamente all’entità
anonima, anche se non si sottomettono ai loro rispettivi genitori? La
lagnanza dei genitori per la mancanza di disciplina non deve, però,
esser presa troppo seriamente poiché «è sempre più evidente che ciò
che noi abbiamo a Park Forest è l’apoteosi del pragmatismo. Sareb-
be forse un’esagerazione dire che i residenti sono giunti a deificare
la società e lo sforzo di adattarvisi, ma è certo che essi hanno ben
137 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
poca voglia di cercar contrasti con la società. Essi sono, come è stato
detto, la generazione pratica».
Un altro aspetto del conformismo alienato consiste nel processo
di livellamento del gusto e del giudizio che l’autore descrive sotto il
titolo «Il crogiuolo». «Quando io venni qui per la prima volta ero
un’isolata», spiegava l’altro giorno ad un visitatore una intellettuale
per autodefinizione. «Mi ricordo quanto fui sbalordita un giorno che
dissi alle altre ragazze del casamento come avevo gustato l’ascolto
del Flauto magico la sera precedente. Loro non sapevano neppure di
che cosa stessi parlando. Cominciai a imparare come le chiacchiere
erano per loro una cosa molto più importante. Ascolto sempre Il
flauto magico, ma ora capisco che per la maggior parte della gente vi
sono cose, nella vita, che sembrano altrettanto importanti». Un’altra
donna riferisce di esser stata sorpresa a leggere Platone da una delle
giovani venuta a farle una visita improvvisa. La visitatrice «quasi
svenne dalla sorpresa. Adesso tutte loro sono certe che io sono
stramba». L’autore ci dice che per la verità la povera donna soprav-
valutava l’incidente. Gli altri non facevano tanto caso alle sue stra-
nezze «poiché la sua infrazione si accompagnava a sufficiente tatto,
a sufficiente osservanza delle piccole consuetudini che fanno proce-
der liscia la vita di casamento, di modo che l’equilibrio è mantenu-
to». Quel che conta è di trasformare i giudizi di valore in materia di
opinione, sia che si tratti di ascoltare Il flauto magico o di chiacchie-
rare, di esser repubblicano o di essere democratico. Quel che importa
è che nulla sia troppo serio, che ci si scambi i rispettivi punti di vista,
e che si sia pronti ad accettare qualsiasi opinione o convinzione
(seppur ve ne sia) come valesse l’altra. Sul mercato delle opinioni ci
si aspetta che ciascuno abbia una merce di egual valore, e sarebbe
indecoroso e sleale dubitarne.
La parola che viene usata per definire il conformismo e la sociali-
tà alienata è, naturalmente, quella che designa il fenomeno in termini
di valore del tutto positivo. La socialità indiscriminata e la mancanza
di individualismo sono considerati «positivi». Il linguaggio diventa
qui intinto di psichiatria con una buona aggiunta di filosofia di
Dewey per soprammercato. «Qui si può effettivamente aiutare tanta
gente ad esser felice, dice un attivista sociale. Ho sistemato due cop-
pie, io stesso; avevo visto in loro delle possibilità che essi non sape-
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 138
vano di avere. Ogni qualvolta vediamo qualcuno che sia timido o
introverso, facciamo uno sforzo apposta per lui».
Un altro aspetto dell’«adattamento» sociale consiste nella com-
pleta mancanza di riserbo, e nel parlare indiscriminatamente dei pro-
pri «problemi». E anche qui si vede l’influenza della psichiatria e
della psicanalisi moderne. Persino i muri sottili sono graditi perché
aiutano a non sentirsi soli. «Non mi sento mai sola, anche se Jim è
via, è una dichiarazione tipica, so che ci sono amici qui attorno poi-
ché, di notte, sento i vicini attraverso le pareti». Matrimoni che po-
trebbero altrimenti andare all’aria sono salvati, umori depressi sono
trattenuti dal peggiorare, e ciò col parlare, parlare, parlare in conti-
nuazione. «È meraviglioso, dice una giovane sposa; ti trovi a discu-
tere di tutti i tuoi problemi con i vicini, di cose che giù nel South
Dakota ci saremmo tenute per noi». Col passare del tempo questa
capacità di scoprirsi aumenta; e la gente del casamento diventa sor-
prendentemente esplicita sui più intimi dettagli della vita familiare.
«Nessuno, dicono, è mai costretto ad affrontare un problema da so-
lo». Possiamo aggiungere che sarebbe più esatto dire che, di fatto,
essi non affrontano mai un problema.
Persino l’architettura diventa funzionale nella battaglia contro
l’isolamento. «Proprio come sono scomparse le porte dentro ai villi-
ni, che si è detto talvolta abbiano segnato la nascita del "ceto me-
dio", così stanno scomparendo le divisioni tra vicini. Quel che si ve-
de nel riquadro della finestra panoramica, per esempio, è quel che sta
accadendo nell’intimità... oppure quel che sta accadendo dietro le
finestre degli altri».
Il modello conformista sviluppa una moralità nuova, un nuovo
genere di super-io. Ma la nuova moralità non è la coscienza della
tradizione umanistica né il nuovo super-io si presenta sotto l’aspetto
di un padre autoritario. La virtù consiste nell’adattarsi e nell’esser
come gli altri. Il vizio consiste nell’esser diversi. Spesso questo vie-
ne espresso in termini psichiatrici, dove «virtuoso» diventa «sano» e
«cattivo» diventa «nevrotico». «Dagli occhi del casamento non si
sfugge». Gli imbrogli amorosi sono rari per questa ragione, piuttosto
che per ragioni morali, o per il fatto che i matrimoni siano tanto ben
riusciti. Ci sono deboli tentativi di solitudine. Se è regola l’entrare in
una casa senza bussare o dar qualsiasi altro avviso, alcuni si conqui-
stano un modesto isolamento spostando la sedia dal lato del cortile a
139 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
quello della facciata per mostrare che desiderano non esser disturba-
ti. «Ma c’è qualcosa di importante da aggiungere riguardo a tali ten-
tativi di isolamento: e cioè che quando li fa la gente si sente un po’
in colpa. Salvo che di rado, l’isolarsi in tal modo dagli altri è consi-
derato alla stregua di un capriccio infantile o, più probabilmente,
come sintomo di qualche segreta nevrosi. È l’individuo che è devia-
to, non il gruppo. Così ad ogni modo sembrano pensare molti che
sono fuori della regola e questi spesso si pentono di ciò che altrove
sarebbe considerato come una faccenda loro propria e cioè piuttosto
normale. "Mi sono ripromesso di far pace con loro, diceva recente-
mente un abitante del casamento a un suo intimo. Ero indisposto e
recentemente non feci proprio lo sforzo di invitare gli altri ad entra-
re. In verità non faccio loro rimprovero per aver reagito come reagi-
rono. Farò la pace con loro comunque».
Difatti, «l’intimità è diventata clandestina». I termini usati sono
ancora presi dalla tradizione politica e filosofica progressiste. Cosa
potrebbe suonar meglio di dire: «Non nella contemplazione solitaria
ed egoistica, ma nell’operare con gli altri si realizza se stessi». In
realtà ciò significa abbandonare se stessi per far parte del gregge, e
compiacersene. Questa condizione è spesso chiamata con altra pia-
cevole parola, cioè togetherness: «l’essere assieme». Il modo prefe-
rito per esprimere lo stesso atteggiamento mentale consiste nel pre-
sentarlo in termini psichiatrici: «Abbiamo imparato a non esser trop-
po introversi» dice spiegando la lezione un giovane funzionario,
uomo molto riflessivo a cui il successo aveva arriso. «Prima di venir
qui vivevamo molto da soli. Alla domenica, per esempio, stavamo a
letto fin quasi alle due, a leggere il giornale e ad ascoltare il concerto
sinfonico alla radio. Ora stiamo in compagnia e andiamo a trovar la
gente, o essi vengono a trovarci. Veramente penso che Park Forest ci
ha reso più aperti».
La mancanza di conformismo non è soltanto punita con parole di
disapprovazione come «nevrotico», ma talvolta con crudeli sanzioni.
«Estelle è un problema» dice un inquilino di un blocco residenziale
molto attivo. «Quando si trasferì qui, moriva dalla voglia di far parte
della comitiva. È una ragazza molto cordiale e cerca sempre di aiutar
la gente, ma... come dire?... tende a complicare le cose. Un giorno
decise di conquistarci tutti organizzando un trattenimento pomeri-
diano per le ragazze. Poverina, fece tutto alla rovescia. Le ragazze
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 140
giunsero in costume da bagno e in calzoni, come di solito, e lei ave-
va messo in vista tovagliette e argenteria e tutto il resto. Da allora è
come se ci fosse una campagna organizzata per lasciarla in disparte.
È una cosa che fa pena, davvero. Lei se ne sta seduta su una sedia a
sdraio sulla porta di strada morendo dalla voglia che qualcuno venga
a chiacchierare, e proprio di fronte, dall’altra parte della via, quattro
o cinque ragazze stanno cicalando. Ogni volta che sbottano a ridere
tutte insieme per qualche loro scherzo, pensa che ridano di lei. È ve-
nuta qui ieri e ha pianto tutto il pomeriggio. Mi ha detto che lei e suo
marito pensavano di trasferirsi altrove per poter ricominciare da ca-
po». Altre culture hanno punito con la prigione o col rogo coloro che
deviavano dalle credenze politiche o religiose prescritte. Qui la pu-
nizione è soltanto l’ostracismo che porta una povera donna alla di-
sperazione e ad un intenso sentimento di colpa. Qual è il delitto? Un
solo errore, un solo peccato verso il dio del conformismo.
Costituisce un altro aspetto del genere alienato di relazioni perso-
nali reciproche il fatto che le amicizie non siano formate sulla base
di preferenze o di attrazioni individuali, ma siano determinate
dall’ubicazione del proprio villino o appartamento rispetto agli altri.
E ciò avviene in questo modo. «Si comincia con i bambini. I nuovi
quartieri periferici sono dei matriarcati, ma i bambini sono di fatto
così dittatoriali che un termine come filiarchia non sarebbe soltanto
spiritoso. Sono i bambini a porre lo schema di base; le loro amicizie
si traducono in amicizia delle madri, e questa, a sua volta, in amici-
zia tra le famiglie. Poi si fanno avanti i padri.
È la corrente del traffico su ruote degli adolescenti... che deter-
mina quale sia l’ingresso funzionale; cioè, nelle villette, la porta da-
vanti, e nei casamenti, la porta posteriore. Essa determina inoltre le
vie che si prendono uscendo dall’ingresso funzionale: poiché quando
le mogli vanno a far visita ai vicini, gravitano verso le villette da
dove hanno modo di sorvegliare i loro bambini o di sentire se a casa
suona il telefono. Questo si risolve nel "traffico degli incroci" nei
casamenti (cioè l’itinerario consueto per le chiacchiere all’ora del
caffè) e pone la base per l’amicizia degli adulti». In effetti, questa
determinazione di amicizia giunge al punto che l’autore dell’articolo
consiglia il lettore a scegliere i gruppi di amici in un solo settore del
centro residenziale, soltanto basandosi sulla visione della ubicazione
delle case, e delle loro porte di entrata e di uscita in tale settore.
141 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
Ciò che ha importanza in questo quadro non è soltanto il fatto
dell’amicizia alienata e di un conformismo meccanico, ma il modo
con cui si reagisce a questo fatto. Pare che consciamente la gente
accetti del tutto la nuova forma di adattamento. «Una volta la gente
rifiutava di ammettere che il suo comportamento fosse determinato
da altro che dalla sua propria libera volontà. Non avviene così con i
nuovi abitanti dei sobborghi: essi sono completamente consci del
potere onnipresente che l’ambiente esercita su loro. Infatti vi sono
pochi argomenti sui quali gradiscano altrettanto parlare e, con la cre-
scente curiosità dilettantesca per la psicologia, la psichiatria e la so-
ciologia, essi discutono la loro vita sociale con termini sorprenden-
temente clinici. Ma non provano alcun senso di disagio; questo,
sembrano dire, è il modo come vanno le cose, e la soluzione non
consiste nel combatterlo ma nel comprenderlo».
Questa giovane generazione ha anche la sua filosofia per spiegare
il suo modo di vivere. «La prossima generazione dirigente sta proce-
dendo verso la deificazione dell’unità sociale intesa non solo come
desiderio istintivo, ma come un articolato insieme di valori da esser
trasmesso ai figli. Problema chiave è diventato: "Funziona?", e non
il "perché" funzioni. Con una società divenuta tanto complessa,
l’individuo può avere significato soltanto in quanto contribuisca
all’armonia del gruppo, spiegano gli abitanti, e per loro, sempre in
moto, a contatto con sempre nuovi gruppi, l’adattamento ai gruppi
stessi è diventato particolarmente necessario. Sono tutti, come essi
stessi dicono sovente, nella stessa barca». D’altra parte l’autore ci
dice: «Il valore del pensiero solitario, il fatto che conflitti siano tal-
volta necessari, e altri pensieri parimenti inquietanti, interferiscono
raramente». La cosa più importante o, effettivamente, la sola cosa
importante che i bambini come gli adulti devono imparare è star in
buona armonia con gli altri, ciò che, se insegnato a scuola, è chiama-
to «civismo», l’equivalente della estroversione e dello «stare assie-
me» degli adulti.
Ma si tratta di persone realmente felici; sono, inconsciamente,
soddisfatte come credono di esserlo? È difficile che sia così, se si
considerano la natura dell’uomo e le condizioni necessarie alla sua
felicità. Ma anche consciamente esse hanno dei dubbi. Se sentono
che il conformismo, l’annullarsi nel gruppo costituisce il loro dove-
re, molti di loro sentono che «altri stimoli vengono frustrati». Essi
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 142
sentono che «il corrispondente ai costumi del gruppo è affine al do-
vere morale - e così essi continuano, incerti ed esitanti, imprigionati
nella fratellanza (il corsivo è mio). "Talvolta mi meraviglio, dice una
residente in un momento quasi furtivo di contemplazione. Non desi-
dero far nulla che offenda la gente qui; sono gentili e discreti e io
sono orgogliosa di vedere che siamo riusciti ad andar d’accordo gli
uni con gli altri nonostante tutte le nostre diversità... e sta bene. Ma
poi, ogni tanto penso a me stessa e a mio marito e a quel che non
facciamo e mi sento avvilita. Basta veramente non esser cattivi?"» (il
corsivo è mio). Infatti questa vita di compromesso, questa vita «tutta
fuori», è la vita dell’imprigionamento, della perdita dell’io e della
depressione. Sono difatti tutti «nella stessa barca», ma, come
l’autore dice molto acutamente: «Dove va la barca? Nessuno sembra
averne la più pallida idea, né, del resto, essi pensano che ci si debba
porre la domanda».
Il quadro del conformismo come l’abbiamo esposto attraverso gli
abitanti estroversi di Park Forest non è certamente eguale in tutta
l’America. Le ragioni sono ovvie. Si tratta di gente giovane, di bor-
ghesi in ascesa, di gente che, per la maggior parte, nel lavoro mani-
pola simboli e uomini e la cui carriera dipende dal fatto che essi si
lasciano a loro volta manipolare. Ci sono indubbiamente molte per-
sone più vecchie delle stesse categorie di occupazione, e molte per-
sone egualmente giovani di categorie di lavoro diverse, meno «pro-
gredite», come per esempio quegli ingegneri, chimici e fisici più in-
teressati al loro lavoro che alla speranza di entrare nella carriera di
funzionari il più presto possibile; vi sono inoltre milioni di contadini
e di lavoratori agricoli sul cui modo di vivere poco hanno influito le
condizioni del ventesimo secolo; infine gli operai dell’industria che,
sebbene godano di un reddito non troppo diverso dagli impiegati
d’ufficio, si trovano in una diversa situazione di lavoro. Benché non
sia qui da esaminare il significato del lavoro per l’operaio industriale
contemporaneo, si può ben dire questo: che c’è certamente una diffe-
renza tra la gente che dirige altra gente, e quella che crea delle cose,
anche se il loro ruolo nel processo produttivo è un ruolo parziale e in
molti modi alienato. L’operaio di una grande acciaieria coopera con
gli altri e così deve fare per proteggere la sua vita; egli fronteggia
pericoli e li condivide con i compagni; tanto i colleghi che il capo-
squadra possono giudicare e apprezzare la sua abilità piuttosto che il
143 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
suo sorriso o la sua «personalità simpatica»; egli ha una notevole
quantità di libertà fuori del lavoro, vacanze pagate, può occuparsi del
suo giardino, di qualche occupazione favorita, della politica locale e
sindacale.40
Tuttavia, anche tenendo conto di tutti questi fattori che
differenziano l’operaio industriale dall’impiegato e dagli strati più
alti della borghesia, sembra vi siano scarse probabilità che l’operaio
dell’industria possa indefinitamente rifiutare i modelli dello schema
conformistico dominante. Anzitutto, anche gli aspetti più positivi
della sua situazione di lavoro, come quelli sopra ricordati, non modi-
ficano il fatto che il suo lavoro è alienato e soltanto in misura limita-
ta è un’espressione significativa della sua energia e della sua ragio-
ne; e secondariamente la crescente automazione del lavoro industria-
le diminuisce rapidamente tale fattore. Infine, egli è, proprio come
ogni altro, sotto l’influenza del nostro completo apparato culturale:
la pubblicità, il cinema, la televisione, i giornali, e può difficilmente
sottrarsi all’esser guidato, sebbene forse più lentamente degli altri
settori della popolazione, verso il conformismo.41
Quel che è vero
per l’operaio industriale è vero anche per l’agricoltore.
II. Il principio di non frustrazione
Come ho indicato sopra, l’autorità anonima e il conformismo au-
tomatico sono in larga misura il risultato del nostro metodo produtti-
vo, che richiede rapido adattamento alla macchina, disciplinato
comportamento collettivo, gusti comuni e obbedienza senza l’uso
della forza. Un altro aspetto del nostro sistema economico, il biso-
gno di consumi collettivi, è servito come strumento per creare una
fisionomia del carattere sociale dell’uomo moderno che costituisce
uno dei più evidenti contrasti col carattere sociale del diciannovesi-
mo secolo. Mi riferisco al principio per cui ogni aspirazione deve
esser soddisfatta immediatamente, nessun desiderio deve essere fru-
strato. La dimostrazione più ovvia di questo principio si trova nel
nostro sistema di vendita a rate. Nel diciannovesimo secolo si com-
40 Cfr. l'articolo The Monstrous Machine and the Worried Workers, di Warner BLOOMBERG,
in «The Reporter», del 28 settembre 1953, e le sue conferenze all'Università di Chicago, «Mo-
dern Times in the Factory», 1934, una cui trascrizione egli mi ha gentilmente fornito. 41 Una analisi particolare del lavoro industriale moderno seguirà più avanti.
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 144
prava quello di cui si aveva bisogno quando si fosse messo da parte
il denaro occorrente; oggi si compra quello di cui si ha o non si ha
bisogno, a credito, e la funzione della pubblicità consiste in gran par-
te nel persuadere all’acquisto o nello stimolare l’appetito per le cose,
di modo che si possa venir persuasi. Si vive in un circolo vizioso. Si
compra a rate e, quando si sta per finir di pagare, si vende e si com-
pra di nuovo: l’ultimo modello.
Il principio che i desideri devono esser soddisfatti senza indugio
ha anche determinato il comportamento sessuale, specialmente dalla
fine della prima guerra mondiale. Una rozza forma di frainteso freu-
dismo servì a dare la appropriata giustificazione razionale: l’idea che
le nevrosi risultino da desideri sessuali «repressi» e che le frustra-
zioni siano «traumatiche», e perciò meno ci si reprime tanto più sani
si è. Persino i genitori preoccupati di dare ai loro figli qualsiasi cosa
essi desiderassero per paura che fossero frustrati, acquistarono un
«complesso». Disgraziatamente, molti di questi figli, così come i
loro genitori, finivano sul lettino dello psicanalista, sempre che po-
tessero permetterselo.
La fame di cose e l’incapacità di rinviare la soddisfazione dei de-
sideri sono state acutamente messe in evidenza come aspetti caratte-
ristici dell’uomo moderno da osservatori profondi, quali Max Sche-
ler e Bergson. Esse sono rappresentate nel modo più sarcastico in
Brave New World di Aldous Huxley. Fra gli slogan dai quali sono
condizionati gli adolescenti in Brave New World, uno fra i più im-
portanti è: «Non rinviare mai a domani il divertimento che puoi ave-
re oggi». Questo viene loro inculcato «infinite volte, due volte alla
settimana dai quattordici ai sedici anni e mezzo».
Questa immediata soddisfazione del desiderio è sentita come feli-
cità. «Tutti sono felici oggidì» è un altro degli slogan di Brave New
World; la gente «riceve ciò che desidera, e non desidera mai ciò che
non può ricevere». Questo bisogno dell’immediato consumo delle
merci e l’immediata soddisfazione dei desideri sessuali vanno, nel
Brave New World come nel nostro, di pari passo. È considerato im-
morale tenersi un «amante» per più di un periodo relativamente bre-
ve. L’«amore» è un desiderio sessuale passeggero che deve essere
immediatamente soddisfatto. «Si cerca con la maggior cura di evita-
re che si ami troppo intensamente qualcuno. Non esiste qualcosa di
simile alla infedeltà reciproca, si è così condizionati che non si può
145 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
fare a meno di fare ciò che si deve fare. E ciò che si deve fare è ge-
neralmente così piacevole, tanti impulsi naturali sono lasciati liberi
di agire, che veramente non ci sono tentazioni a resistere».42
Questa mancanza di inibizione dei desideri porta allo stesso risul-
tato della mancanza di autorità manifesta: alla paralisi e infine alla
distruzione dell’io. Se io non rinvio la soddisfazione della mia voglia
(e sono condizionato a desiderare soltanto quello che posso ottenere)
non ho conflitti, non ho dubbi; non ci sono decisioni da prendere; io
non sono mai solo con me stesso, perché sono sempre occupato a
lavorare o a divertirmi. Non ho bisogno di esser cosciente di me
stesso in quanto me stesso perché sono costantemente intento a di-
vertirmi. Io sono un sistema di desideri e di soddisfazioni: devo la-
vorare per soddisfare i miei desideri e questi stessi desideri sono co-
stantemente stimolati e diretti dal meccanismo economico. La mag-
gior parte di queste voglie sono artificiali, persino il desiderio ses-
suale è ben meno naturale di quanto si pretende che sia. Esso è in
una certa misura artificialmente stimolato. E occorre sia così se vo-
gliamo che gli uomini siano quali li richiede il sistema contempora-
neo, cioè uomini che si sentono «felici», che non abbiano dubbi, che
non abbiano conflitti e che si possano guidare senza usare la forza.
Divertirsi è in gran parte soddisfazione di consumare e di «metter
dentro»: merci, vedute, cibi, bevande, sigarette, gente, conferenze,
libri, film, tutto è consumato, ingoiato. Il mondo è un solo grande
oggetto offerto al nostro appetito, una grossa mela, una grande botti-
glia, una grande mammella; noi siamo quelli che succhiano, quelli
che aspettano eternamente, quelli che sperano e sono eternamente
delusi. Come potremmo evitare di essere delusi se la nostra nascita si
è fermata al seno materno, se non siamo mai svezzati, se restiamo
psichicamente bambini, se non abbiamo mai superato l’orientamento
ricettivo?
Così gli uomini s’annoiano, si sentono inferiori, insufficienti,
colpevoli. Sentono di vivere senza vivere, e che la vita sfugge come
sabbia attraverso le loro dita. Come faranno fronte al loro disagio,
che sorge dalla passività del continuo ingerire? Con un’altra forma
di passività, un continuo sfogarsi, per così dire, parlando. Qui, come
42 Cfr. Aldous HUXLEY, Brave New World, The Vanguard Library, Londra 1952, p. 196.
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 146
nel caso dell’autorità e del consumo, un’idea che un tempo era pro-
duttiva è stata trasformata nel suo opposto.
III. Libera associazione e libera parola
Freud ha scoperto il principio dell’associazione libera. Abban-
donando il controllo dei vostri pensieri in presenza di un esperto
ascoltatore, potete scoprire i vostri sentimenti e pensieri inconsci
senza esser addormentati, o matti, o ubriachi, o ipnotizzati. Lo psi-
canalista legge tra le vostre frasi, egli è capace di comprendervi me-
glio che non vi comprendiate voi stessi perché avete liberato i vostri
pensieri dalle limitazioni del controllo convenzionale del pensiero.
Ma l’associazione libera si falsò presto come la libertà e la felicità.
Innanzi tutto si falsò nella stessa procedura ortodossa psicanalitica.
Non sempre, ma spesso. Invece di rivelare un’espressione significa-
tiva di pensieri imprigionati, essa si mutò in chiacchiere senza senso.
Altre scuole terapeutiche ridussero il ruolo dell’analista a quello di
un ascoltatore simpatizzante che ripete in una versione lievemente
diversa le parole del paziente senza accingersi all’interpretazione e
alla spiegazione. Tutto ciò è fatto con l’idea che non si deve interfe-
rire con la libertà del paziente. L’idea freudiana dell’associazione
libera è diventata lo strumento di molti psicologi che si autodefini-
scono consulenti mentali, sebbene la sola cosa che non sappiano fare
sia dar consigli. Questi consulenti svolgono un ruolo sempre più
ampio come privati professionisti e come esperti nelle industrie.43
Qual è l’effetto del procedimento? Ovviamente non una guarigione
come pensava Freud quando propose l’associazione libera come
fondamento per la comprensione dell’inconscio. Piuttosto un rilas-
samento di tensione che risulta dallo sfogarsi in presenza di un
ascoltatore simpatizzante. I vostri pensieri, fino a che ve li tenete per
voi, possono disturbarvi, ma qualcosa di fruttuoso può venir fuori da
questo fastidio, se voi li meditate, voi pensate, sentite e vi può acca-
dere che un nuovo pensiero nasca da questo travaglio. Ma quando
43 Cfr. W.J. DICKSON, The New Industrial Relations, Cornell University Press, 1948, e lo
studio di G. FRIEDMANN, Où va le travail humain?, Gallimard, Parigi 1950, p. 142 ss' (trad.
it. Dove va il lavoro umano?, Edizioni di Comunità, Milano 1955). Cfr. anche H.W. HAR-
RELL, Industrial Psychology, Rinehart & Company, Inc., New York 1949, p. 372 ss.
147 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
parlate senza pensarci, quando non lasciate che i vostri pensieri e i
vostri sentimenti creino, per così dire, una pressione, essi non diven-
tano fruttuosi. Accade esattamente la stessa cosa che avviene col
consumo non ostacolato. Voi siete un sistema in cui le cose entrano
ed escono continuamente dentro e fuori, e dentro non c’è nulla, nes-
suna tensione, nessuna assimilazione, nessun io. La scoperta di
Freud dell’associazione libera aveva il fine di scoprire quel che ac-
cadeva in voi sotto la superficie, di scoprire chi voi eravate veramen-
te; il moderno parlare ad un ascoltatore simpatizzante ha lo scopo
opposto, sebbene non confessato; la sua funzione è di fare che
l’uomo dimentichi quel che è (ammesso che abbia ancora un po’ di
memoria) e perda ogni tensione, e con ciò ogni senso dell’io. Proprio
come si lubrifica una macchina, si lubrificano gli uomini e special-
mente quelli nelle organizzazioni collettive di lavoro. Li si lubrifica
con slogan piacevoli, con vantaggi materiali, e con la simpatizzante
comprensione degli psicologi.
Il parlare e l’ascoltare sono infine diventati lo sport casalingo di
quelli che non possono pagarsi un ascoltatore di professione, o che
preferiscono per una ragione o per un’altra uno che non sia del me-
stiere. Lo «sfogarsi» è diventato alla moda, raffinato. Non c’è inibi-
zione, non c’è pudore, non c’è riserbo. Si parla degli avvenimenti
tragici della propria vita con la stessa facilità con cui si parlerebbe di
un’altra persona di nessun particolare interesse, o come si parlerebbe
delle varie noie che si sono avute con la propria automobile.
In effetti psicologi e psichiatri stanno fondamentalmente cam-
biando la loro funzione. Dal «conosci te stesso!» dell’oracolo di Del-
fo alla terapia psicanalitica di Freud la funzione della psicologia fu
di scoprire l’io, di comprendere l’individuo, di trovare la «verità che
ti fa libero». Oggi la funzione della psichiatria, psicologia e psicana-
lisi minaccia di diventare lo strumento per manipolare gli uomini.
Gli specialisti in questo campo vi dicono cos’è la persona normale e,
conseguentemente, quel che non va in voi; essi elaborano i metodi
per aiutarvi ad essere adattati, ad essere soddisfatti, ad essere norma-
li. In Brave New World questo condizionamento avviene dal primo
mese del concepimento (con mezzi chimici), fino a dopo la pubertà.
Nel nostro mondo comincia un po’ più tardi. La ripetizione costante
per mezzo del giornale, della radio, della televisione attua la maggior
parte del condizionamento. Ma la moderna psicologia è il corona-
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 148
mento finale di tale manipolazione. Ciò che Taylor fece per il lavoro
industriale, gli psicologi fanno per la personalità completa; e tutto in
nome della comprensione e della libertà. Ci sono molte eccezioni a
ciò, tra psichiatri, psicologi e psicanalisti, ma è sempre più evidente
che queste professioni stanno diventando un serio pericolo per lo
sviluppo dell’uomo, e che i loro professionisti si stanno trasforman-
do in sacerdoti di una nuova religione del divertimento, del consumo
e della negazione dell’io, in specialisti della manipolazione, in por-
tavoce della personalità alienata.
IV. Ragione, coscienza, religione
Che avviene della ragione, della coscienza, della religione in un
mondo alienato? Osservate superficialmente esse prosperano. Si può
appena parlare di analfabetismo nei paesi occidentali; negli Stati
Uniti sono sempre più numerosi i giovani che frequentano le scuole
superiori; ognuno legge il giornale e parla con ragionevolezza degli
affari mondiali. Per quel che riguarda la coscienza, la maggior parte
della gente si comporta abbastanza correttamente nella sua sfera
strettamente personale; anzi, in modo straordinariamente corretto se
si considera la loro confusione generale. Per quanto si riferisce alla
religione, si sa bene che le affiliazioni alle chiese sono più numerose
che mai, e che la gran maggioranza degli americani crede in Dio, o
almeno così dicono nelle indagini sull’opinione pubblica. Tuttavia
non occorre scavare troppo a fondo per arrivare a scoperte meno pia-
cevoli.
Se noi parliamo della ragione, dobbiamo innanzi tutto precisare a
quale capacità umana intendiamo riferirci. Come ho già accennato
prima, dobbiamo fare una distinzione tra intelligenza e ragione. Per
intelligenza io intendo l’abilità di utilizzare concetti allo scopo di
soddisfare qualche fine pratico. Lo scimpanzé che mette assieme due
bastoni per prendere la banana perché nessuno dei due bastoni è lun-
go abbastanza per questo lavoro, usa l’intelligenza. Così facciamo
tutti noi quando ci occupiamo dei nostri affari, calcolando come fare
le cose. Intelligenza, in questo senso, è prender le cose come fatti
reali, combinandole allo scopo di favorire la loro utilizzazione,
l’intelligenza è il pensiero al servizio della sopravvivenza biologica.
La ragione, d’altro canto, tende a comprendere, cerca di scoprire
149 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
quel che sta dietro alla superficie, di individuare il nucleo, l’essenza
della realtà che ci circonda. La ragione non è senza una funzione, ma
la sua funzione non è tanto quella di agevolare l’esistenza fisica,
quanto quella mentale e spirituale. Tuttavia spesso, nella vita indivi-
duale e sociale, la ragione è necessaria per prevedere (considerando
che la previsione dipende spesso dal riconoscimento delle forze che
agiscono al di sotto della superficie) e la previsione è talvolta neces-
saria anche per l’esistenza fisica.
La ragione ha bisogno di correlazione e di senso dell’io. Se io so-
no soltanto il passivo ricettore di impressioni, pensieri, opinioni, io
posso paragonarli tra loro, utilizzarli, ma non posso comprenderli.
Descartes dedusse l’esistenza di sé come individuo dal fatto che l’io
pensa. Dubito - così egli argomentò - dunque penso, dunque sono.
L’inverso è altrettanto vero. Soltanto se io sono io, se non ho perso
la mia individualità nell’anonimato collettivo, io posso pensare, cioè
posso far uso della mia ragione.
Strettamente connesso a tutto ciò è il deficiente senso della realtà
che è caratteristico della personalità alienata. Parlare di «deficiente
senso della realtà» nell’uomo moderno è contrario all’opinione lar-
gamente seguita, che noi ci distinguiamo dalla maggior parte dei
periodi della storia per il nostro maggior realismo. Ma parlare del
nostro realismo quasi rassomiglia ad una distorsione paranoica. Che
realisti sono quelli che stanno giocando con armi che possono porta-
re alla distruzione di tutta la civiltà moderna, se non addirittura della
terra stessa? Se si trovasse un individuo intento a una cosa del gene-
re, lo si metterebbe subito dentro e, se egli si vantasse del suo reali-
smo, gli psichiatri considererebbero questo come un ulteriore e piut-
tosto grave sintomo di malattia mentale. Ma, indipendentemente da
tutto ciò, resta il fatto che l’uomo moderno mostra una sorprendente
mancanza di realismo per tutto ciò che ha importanza: per il signifi-
cato della vita e della morte, per la felicità e la sofferenza, per i sen-
timenti e per i pensieri seri. Egli ha coperto completamente la realtà
dell’umana esistenza e l’ha sostituita con la sua artificiosa e abbellita
visione di una pseudorealtà, non troppo diversamente dai selvaggi
che persero la loro terra e la loro libertà per luccicanti perline di ve-
tro. Egli è così distante dalla realtà umana, che può dire, con gli abi-
tanti del Brave New World: «Quando l’individuo ha percezione, la
comunità vacilla».
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 150
Un altro fattore della società contemporanea del quale abbiamo
già parlato è deleterio per la ragione. Poiché nessuno fa mai un lavo-
ro completo, ma solo una frazione di esso, poiché la dimensione del-
le cose e l’organizzazione della gente sono troppo vaste per essere
comprese come un intero, nulla può essere visto nella sua totalità.
Perciò le leggi che stanno dietro i fenomeni non possono essere os-
servate. L’intelligenza è sufficiente per maneggiare adeguatamente
un solo settore di un’unità più ampia, sia che si tratti di una macchi-
na sia di uno stato. Ma la ragione può svilupparsi soltanto se è ingra-
nata con il tutto, se tratta con entità che possono essere osservate e
dirette. Proprio come le nostre orecchie e i nostri occhi funzionano
soltanto entro certi limiti quantitativi di lunghezze d’onda, così la
nostra ragione è legata da ciò che è osservabile come un tutto e nel
suo funzionamento totale. In altre parole: oltre un certo ordine di
grandezza, la concretezza va necessariamente perduta e sopravviene
l’astrazione e con essa svanisce il senso della realtà. Il primo a vede-
re questo problema fu Aristotele che giudicò non abitabile una città
con un numero di abitanti superiore a quello di una piccola città
odierna.
Quando si osservi la qualità del pensiero nell’uomo alienato, è
stupefacente vedere come la sua intelligenza si sia sviluppata e come
la sua ragione sia degenerata. Egli prende la sua realtà com’è; egli
desidera goderla, consumarla, toccarla, maneggiarla. Egli nemmeno
si chiede che cosa vi sia dietro, perché le cose sono come sono, e
dove stiamo andando. Non si può mangiare il significato, non si può
consumare il senso, e per quanto riguarda il futuro: après moi le dé-
luge! Perfino dal diciannovesimo secolo ad oggi pare si sia verificato
un notevole aumento di stupidità, se con ciò noi intendiamo
l’opposto della ragione, piuttosto che dell’intelligenza. Nonostante il
fatto che ognuno legge religiosamente il giornale quotidiano, c’è una
assenza di comprensione del significato degli eventi politici vera-
mente paurosa, perché la nostra intelligenza ci aiuta a produrre armi
che la nostra ragione non è in grado di controllare. Infatti noi cono-
sciamo il come, ma non conosciamo il perché né conosciamo
l’obiettivo finale. Noi abbiamo molte persone con un quoziente di
intelligenza buono ed elevato, ma i nostri test d’intelligenza misura-
no la capacità di ricordare, di utilizzare rapidamente dei pensieri, e
non la capacità di ragionare. Tutto ciò è vero, benché vi siano fra noi
151 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
uomini di grandi capacità intellettuali e il cui pensiero è tra i più pro-
fondi e vigorosi che siano mai esistiti nella storia del genere umano.
Ma essi pensano stando al di fuori del generale pensiero gregario, e
sono guardati con sospetto anche se essi sono necessari per le loro
straordinarie realizzazioni nel campo delle scienze naturali.
I nuovi cervelli elettronici offrono infatti una buona dimostrazio-
ne di che cosa si intenda qui per intelligenza. Essi utilizzano dati che
vi sono immessi, confrontano, scelgono e, infine, danno risultati più
rapidi e più sicuri di quanto non possa fare l’intelligenza umana.
Tutto questo però a condizione che siano in loro preventivamente
immessi i dati fondamentali. Quel che il cervello elettronico non può
fare è pensare creativamente, e giungere ad una intima conoscenza
dell’essenza dei fatti osservati, andar oltre i dati che gli sono stati
forniti. La macchina può far le veci dell’intelligenza o anche correg-
gerla, ma non può contraffare la ragione.
L’etica, almeno nel significato della tradizione greco-giudaico-
cristiana, è inseparabile dalla ragione. Il comportamento etico è ba-
sato sulla facoltà di elaborare giudizi di valore sulle basi della ragio-
ne; significa decidere tra il bene e il male, e comportarsi secondo tale
decisione. L’uso della ragione presuppone la presenza dell’io, e così
anche il giudizio etico e l’azione. Inoltre l’etica, sia quella della reli-
gione monoteistica sia quella dell’umanesimo mondano, è basata sul
principio che non vi sia istituzione o cosa più elevata di qualsiasi
individuo umano; e che il fine della vita è sviluppare l’amore e la
ragione dell’uomo e che tutte le altre attività umane devono esser
subordinate a questo fine. Come dunque l’etica potrebbe costituire
una parte significativa in una vita in cui l’individuo diventa un au-
toma, in cui egli serve la grande forza anonima? Inoltre come può
svilupparsi la coscienza quando il principio della vita è il conformi-
smo? La coscienza, per la sua stessa natura, è anticonformista; essa
deve esser capace di dire di no quando tutti gli altri dicono di sì; per
poter dire questo «no» essa deve esser certa della giustezza del giu-
dizio su cui il no è basato. Quanto più una persona è conformista,
tanto meno può udire la voce della coscienza, e tanto meno può ob-
bedirvi. La coscienza esiste soltanto quando l’uomo si sente uomo,
non una cosa o una merce. Per quanto riguarda le cose che sono
scambiate sul mercato, c’è un altro codice quasi etico, quello della
correttezza.
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 152
La questione è se esse siano scambiate ad un prezzo equo e se
l’inganno o la forza interferiscano nella correttezza dell’affare; que-
sta correttezza, e non il bene o il male, costituisce il principio etico
del mercato, ed è il principio etico che dirige la vita della personalità
commerciale.
Il principio di correttezza, indubbiamente, produce un certo tipo
di comportamento etico. Chi agisce secondo il codice della corret-
tezza non mente, non inganna, non usa la forza, concede persino agli
altri un’opportunità favorevole. Ma amare il prossimo, sentirsi uno
con lui, dedicare la propria vita al fine di sviluppare i propri poteri
spirituali, non fa parte dell’etica della correttezza. Noi viviamo in
una situazione paradossale: pratichiamo l’etica della correttezza e
professiamo l’etica cristiana. Non dobbiamo inciampare in questa
ovvia contraddizione? Ovviamente non inciampiamo. Per qual ra-
gione? In parte, ciò si deve ricercare nel fatto che il retaggio di quat-
tro migliaia di anni di sviluppo della coscienza non è del tutto perdu-
to. Al contrario, in molti modi la liberazione dell’uomo dai poteri
dello stato feudale e della chiesa ha reso possibile che questo retag-
gio fosse goduto, e nel periodo tra il diciottesimo secolo ed ora esso
fiorì come forse mai in precedenza. Noi partecipiamo ancora a que-
sto sviluppo, ma, data la nostra condizione di vita nel ventesimo se-
colo, sembra che non resterà alcun nuovo germoglio che fiorisca,
quando questo fiore sarà avvizzito.
Un’altra ragione per cui noi non inciampiamo nella contraddizio-
ne tra etica umanistica ed etica della correttezza, risiede nel fatto che
noi reinterpretiamo le etiche religiose e umanistiche alla luce
dell’etica della correttezza. Un buon esempio di questa interpreta-
zione è dato dalla regola aurea. Nel suo significato originario ebraico
e cristiano, era una formula popolare della massima biblica «ama il
prossimo tuo come te stesso». Nel sistema dell’etica della correttez-
za, essa significa semplicemente: «Sii corretto quando commerci. Dà
quel che tu attendi ti sia dato. Non frodare!». Nessuna meraviglia
che la regola aurea sia la più popolare frase religiosa d’oggi. Essa
combina assieme due opposti sistemi etici e ci aiuta a dimenticarne
la contraddizione.
Mentre noi viviamo ancora sull’eredità cristiano-umanistica, non
c’è da sorprendersi che le generazioni più giovani pratichino sempre
meno l’etica tradizionale, che fra i nostri giovani si incontri una bar-
153 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
barie morale che è in completo contrasto col livello economico ed
educativo che la società ha raggiunto. Proprio oggi, mentre rivedevo
questo manoscritto, ho letto due notizie. Una nel «New York Times»
riguardava l’assassinio di un uomo crudelmente ucciso a calci da
quattro adolescenti di normali famiglie borghesi. L’altra nella rivista
«Time» è una descrizione del nuovo capo della polizia del Guatema-
la che precedentemente, come capo della polizia sotto la dittatura di
Ubico, aveva «perfezionato una calotta di tortura in acciaio per far
confessare i segreti e schiacciare i pensieri politicamente sconve-
nienti».44
Il suo ritratto è pubblicato con la didascalia: «Per pensieri
sconvenienti, una morsa». Potrebbe esserci qualcosa di più follemen-
te insensibile a manifestazione di estremo sadismo, di questo titolo
disinvolto? È forse sorprendente che in una cultura, nella quale la
più popolare rivista di attualità può scrivere cose di questo genere,
gli adolescenti non abbiano scrupoli di picchiare a morte un uomo?
Il fatto che noi vediamo la brutalità e la crudeltà nei racconti a fu-
metti e nei film, poiché è con queste merci che si fa denaro, non è
spiegazione sufficiente dell’aumento della crudeltà e del vandalismo
dei nostri giovani? Ai nostri censori cinematografici basta che non
appaiano scene sessuali, che possono provocare desideri sessuali
illeciti. Sarebbe ben innocente questo risultato a paragone degli ef-
fetti disumanizzanti di quel che i censori permettono e contro cui le
chiese si oppongono meno che contro i peccati tradizionali! Noi ab-
biamo, sì, ancora un’eredità etica ma essa sarà presto consumata e
rimpiazzata dalle etiche del Brave New World, o del 1984, a meno
che essa non cessi di essere una eredità e non sia ricreata nel nostro
intero modo di vita. Per il momento pare che il comportamento etico
debba essere ricercato nella concreta situazione di molti individui,
mentre la società sta avviandosi verso la barbarie.45
Molto di quel che è stato detto riguardo l’etica deve essere ripetu-
to per la religione. Naturalmente parlando del posto della religione
tra uomini alienati, tutto dipende da quel che intendiamo per religio-
ne. Se ci riferiamo alla religione nel suo senso più largo, come ad un
sistema di orientamento o ad un oggetto di devozione, allora, invero,
44 «Time», 23 agosto 1954. 45 Cfr. l'identico punto di vista esposto da A. GEHLEN nel suo veramente profondo e intelli-
gente Sozialpsychologische Probleme in der industriellen Gesellschaft, I.C.D. Mohr, 1949.
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 154
ogni essere umano è religioso poiché nessuno può vivere e restare
sano di mente senza un tale sistema. Allora anche la nostra cultura è
religiosa come tutte le altre. I nostri dèi sono la macchina e l’idea di
produttività; il significato della nostra vita consiste nel muoversi,
nell’andare avanti, nell’arrivare quanto più possibile vicino alla vet-
ta. Ma se per religione intendiamo il monoteismo, allora veramente
la nostra religione non è che quella delle merci nelle nostre vetrine.
Il monoteismo non è compatibile con la alienazione e con la no-
stra etica della correttezza. Nel monoteismo la rivelazione
dell’uomo, la sua redenzione costituiscono il fine supremo della vita,
un fine che non può essere subordinato a nessun altro. Poiché Dio è
inconoscibile e indefinibile, e poiché l’uomo è fatto a somiglianza di
Dio, l’uomo è indefinibile, e ciò significa che egli non può mai esse-
re considerato una cosa. La lotta tra monoteismo e idolatria è esat-
tamente la lotta tra un modo di vita produttivo e un modo di vita
alienato. La nostra cultura è forse la prima cultura completamente
secolarizzata nella storia umana. Noi abbiamo messo da parte ogni
consapevolezza e preoccupazione per i problemi fondamentali
dell’esistenza umana. Noi non ci preoccupiamo del significato della
vita e della soluzione ad essa; noi partiamo dalla convinzione che
non ci sia altro fine che quello di investire la vita con successo e di
tirare avanti senza gravi smacchi. La maggior parte di noi crede in
Dio, poiché dà per scontato che Dio esiste. Gli altri non ci credono
perché danno per scontato che Dio non esiste. In entrambi i casi Dio
è dato per scontato. Sia il credere sia il non credere non ci causano
notti insonni e nemmeno alcuna seria preoccupazione. Di fatto, che
un uomo della nostra cultura creda o no in Dio, fa ben poca differen-
za, sia dal punto di vista psicologico sia da quello veramente religio-
so. In entrambi i casi egli non si cura né di Dio né della risposta al
problema della sua propria esistenza. Proprio come l’amore fraterno
è stato sostituito da un’impersonale correttezza, Dio è stato trasfor-
mato in un remoto direttore generale della Società anonima Univer-
so; si sa che Egli c’è e che Egli dirige gli affari (sebbene questi an-
drebbero avanti probabilmente anche senza di Lui), non Lo si vede
mai, ma si riconosce la Sua guida, mentre si «rappresenta la propria
parte».
La «rinascita» religiosa che noi riscontriamo in questi ultimi
giorni è forse il peggior colpo che il monoteismo abbia ricevuto. V’è
155 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
forse sacrilegio più grande che parlare dell’«Uomo del piano di so-
pra», di insegnare a pregare per far di Dio il proprio socio in affari,
di «vendere» la religione con i metodi e i richiami usati per vendere
sapone?
In considerazione del fatto che l’alienazione dell’uomo moderno
è incompatibile col monoteismo, ci si potrebbe attendere che pastori,
sacerdoti e rabbini costituissero l’avanguardia delle posizioni di cri-
tica al capitalismo moderno. Benché sia vero che tale posizione criti-
ca è stata affermata da parte delle alte sfere cattoliche e da un certo
numero di pastori di grado meno alto e di rabbini, tutte le chiese di-
pendono essenzialmente dalle forze conservatrici della società mo-
derna e usano la religione per far sì che l’uomo tiri avanti soddisfatto
in un sistema profondamente irreligioso. La maggioranza di esse non
sembra riconoscere che questo tipo di religione degenererà infine in
aperta idolatria, a meno che esse, anziché fare del puro parlare di
Dio, e usare così, in più di un senso, il Suo nome invano, non co-
mincino a definire, e perciò a combattere, l’idolatria moderna.
V. Il lavoro
Che cosa è diventato il significato del lavoro in una società alie-
nata?
Abbiamo già fatto alcune brevi osservazioni su questa questione
nell’esame generale dell’alienazione. Ma poiché il problema è di
estrema importanza, e non soltanto per la comprensione della società
contemporanea, ma anche per ogni tentativo di creare una società più
sana, desidero trattare della natura del lavoro separatamente e in mo-
do più ampio nelle pagine seguenti.
A meno che non sfrutti gli altri, l’uomo deve lavorare per vivere.
Per quanto primitivi e semplici possano essere i suoi metodi di lavo-
ro, ha superato, per il fatto stesso della produzione, il regno animale;
egli è stato giustamente definito «l’animale che produce». Ma il la-
voro per l’uomo non è soltanto una necessità senza alternativa. Il
lavoro è anche il suo liberatore dalla natura e ciò che lo fa diventare
un essere sociale e indipendente. Nel processo lavorativo, e cioè
modellando e cambiando la natura che lo circonda, l’uomo modella e
cambia se stesso. Egli si emancipa dalla natura dominandola, svilup-
pa le proprie capacità di cooperazione e di ragione, e il senso del
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 156
bello. Egli si separa dalla natura, dalla unità originaria con essa ma,
nello stesso tempo, si unisce ancora con essa come suo padrone e
costruttore. Quanto più il suo lavoro si sviluppa, tanto più si sviluppa
la sua personalità. Modellando la natura e ricreandola, egli impara a
far uso dei suoi poteri, aumentando le capacità e la sua creatività. Se
pensiamo ai bellissimi dipinti nelle caverne della Francia meridiona-
le, agli ornamenti e alle armi presso popoli primitivi, alle statue e ai
templi della Grecia, alle cattedrali del medioevo, alle sedie e ai tavoli
fabbricati da abili artigiani, o alle coltivazioni di fiori, alberi o grano
fatte dai contadini, vediamo che sono tutte espressioni della trasfor-
mazione creativa della natura per mezzo della ragione e della capaci-
tà umana.
Nella storia occidentale l’artigiano, specialmente come si è svi-
luppato nel tredicesimo e quattordicesimo secolo, costituisce uno dei
punti più alti dell’evoluzione del lavoro creativo. Il lavoro non era
soltanto un’attività utile, ma un’attività che portava con sé una pro-
fonda soddisfazione. Le principali caratteristiche dell’artigianato
sono state molto chiaramente delineate da C.W. Mills. «Non v’è al-
tra caratteristica principale del lavoro oltre a quella che il prodotto
sia fatto e al procedimento per la sua creazione. Lo svolgersi minuto
del lavoro quotidiano è significativo perché nel pensiero del lavora-
tore non è scisso dal prodotto del lavoro. L’operaio è libero di con-
trollare la propria attività lavorativa. L’artigiano è in tal modo in
grado di imparare dal suo lavoro e di sviluppare le sue capacità e
abilità nella stessa prosecuzione del lavoro. Non v’è frattura tra lavo-
ro e gioco, tra lavoro e cultura. Il modo con cui l’artigiano si guada-
gna da vivere determina e influenza il suo intero sistema di vita».46
Con il crollo della struttura medievale, e con l’inizio del sistema
moderno di produzione, il significato e il funzionamento del lavoro
cambiano fondamentalmente, specialmente nei paesi protestanti.
L’uomo, spaventato dalla sua libertà da poco guadagnata, era osses-
sionato dal bisogno di dominare i propri dubbi e timori sviluppando
un’attività febbrile. L’esito di questa attività, successo o insuccesso,
decideva della sua salvezza determinando se si trovava tra le anime
elette o tra quelle dannate. Il lavoro, invece di essere una attività di
per sé soddisfacente e piacevole, diventò dovere e ossessione. Quan-
46 C.W. MILLS, White Collar, cit., p. 220.
157 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
to più si poteva guadagnare ricchezza col lavoro tanto più questo
diventava un puro strumento per il fine della ricchezza e del succes-
so. Il lavoro diventò, secondo le parole di Max Weber, il fattore
principale in un sistema di «ascesi intramondana», una risposta al
senso di solitudine e isolamento dell’uomo.
Tuttavia, un lavoro in questo senso esisteva soltanto per le classi
superiori e medie, quelle che potevano accumulare capitale e impie-
gare il lavoro degli altri. Per la grande maggioranza di coloro che
avevano da vendere soltanto le loro energie fisiche, il lavoro diven-
tava nient’altro che un lavoro forzato. L’operaio del diciottesimo e
diciannovesimo secolo, che doveva lavorare sedici ore se non voleva
morire di fame, non lo faceva per servire in tal modo
Dio, e nemmeno perché il suo successo gli avrebbe mostrato se
egli era tra gli «eletti», ma perché era costretto a vendere le sue
energie a quelli che avevano i mezzi per sfruttarle. Nei primi secoli
dell’era moderna si attribuisce un duplice significato alla parola la-
voro; nella classe media essa vale «dovere»; tra quelli che non di-
spongono di beni significa «lavoro forzato».
L’atteggiamento religioso verso il lavoro come dovere, che era
ancora così prevalente nel diciannovesimo secolo, è andato cam-
biando considerevolmente in questi ultimi decenni. L’uomo moder-
no non sa che fare di se stesso, come impiegare in modo significati-
vo la sua esistenza ed è spinto a lavorare per sfuggire ad
un’intollerabile noia. Ma il lavoro non è più un obbligo morale e
religioso nel senso proprio all’atteggiamento delle classi medie del
diciottesimo e diciannovesimo secolo. È sorto qualcosa di nuovo. La
produzione sempre crescente, la spinta a fare cose più grandi e mi-
gliori, sono diventate fine a se stesse, nuovi ideali. Il lavoro è dive-
nuto alienato dalla persona che lavora.
Che avviene dell’operaio industriale? Egli impiega le sue migliori
energie per sette o otto ore al giorno per produrre «qualcosa». Ha
bisogno del suo lavoro per guadagnarsi la vita, ma la sua è una parte
essenzialmente passiva. Compie una piccola isolata funzione nel
processo complicato e altamente organizzato della produzione e non
è mai messo in rapporto con il «suo» prodotto come un intero, alme-
no non come produttore ma solo come consumatore, dato che abbia
del denaro per comprarsi il «suo» prodotto in un negozio. Non ha
che fare né con il prodotto intero nel suo aspetto fisico né con i suoi
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 158
più larghi aspetti economici e sociali. È messo in un certo posto, ha
da compiere una certa mansione, ma non partecipa alla organizza-
zione o alla direzione del lavoro. Non si interessa, non sa neppure
perché si produca questa e non un’altra merce, che relazioni essa
abbia con i bisogni della società nel suo insieme. Le scarpe,
l’automobile, le lampadine elettriche sono prodotte dall’«impresa»
che usa le macchine. È una parte della macchina piuttosto che il suo
padrone come agente attivo. La macchina, invece di essere al suo
servizio per fare per lui il lavoro che una volta doveva fare egli stes-
so per virtù delle sue mere energie fisiche, è diventata il suo signore.
Invece di essere la macchina il sostituto dell’energia umana è l’uomo
che è diventato un sostituto della macchina. Il suo lavoro può essere
definito: il compimento di atti che, finora, non possono essere com-
piuti da macchine.
Il lavoro è un mezzo per ottenere denaro e non una attività umana
con un suo significato. Drucker, osservando gli operai in una indu-
stria automobilistica, espresse questa idea molto concisamente: «Per
la grande maggioranza degli operai dell’industria automobilistica, il
solo significato del lavoro è nella busta paga e in nessun’altra cosa
collegata con il lavoro o con il prodotto. Il lavoro si presenta come
qualcosa di innaturale, come una condizione sgradita, senza signifi-
cato e avvilente per ottenere la busta paga ed è privo sia di dignità
sia di importanza. Non meraviglia che questo favorisca un lavoro
trascurato, un ritmo lento e altri espedienti per ottenere la stessa bu-
sta paga con minor lavoro. Non meraviglia che il risultato sia un
operaio scontento e insoddisfatto: perché una busta paga non basta
per sostenere il rispetto di se stesso».47
Questo rapporto del lavoratore con il suo lavoro è il risultato
dell’intera organizzazione sociale della quale egli è una parte. Es-
sendo «impiegato»48
egli non è un soggetto attivo, non ha nessuna
responsabilità eccetto la esecuzione precisa di un compito isolato nel
lavoro che deve fare, ed ha scarso interesse eccetto quello di portare
a casa abbastanza denaro per sostentare se stesso e la sua famiglia.
Nient’altro ci si aspetta e nemmeno si vuole da lui. Egli è una parte
47 Cfr. Peter F. DRUCKER, Concept of the Corporation, cit., p. 179. 48 L'inglese employed come in tedesco angestellt sono termini che si riferiscono alle cose piut-
tosto che a esseri umani.
159 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
dell’attrezzatura impiegata dal capitale e il suo ruolo e la sua funzio-
ne sono determinati dalla qualità di essere, appunto, un pezzo
dell’attrezzatura. Negli ultimi decenni si è dedicata sempre crescente
attenzione alla psicologia del lavoratore e al suo atteggiamento di
fronte al lavoro, al «problema umano dell’industria»; ma questa
formulazione indica l’atteggiamento di fondo. C’è un essere umano
che passa la maggior parte della sua vita lavorando e ciò che do-
vremmo discutere è il «problema industriale degli esseri umani»
piuttosto che «il problema umano dell’industria».
La maggior parte delle ricerche nel campo della psicologia indu-
striale riguarda il problema di come la produttività del singolo ope-
raio possa essere aumentata e come si possa farlo lavorare con mino-
re attrito. La psicologia ha prestato i suoi servigi alla «ingegneria
umana» che è un tentativo di trattare l’operaio e l’impiegato come
una macchina che gira meglio quando è ben lubrificata. Mentre Tay-
lor era principalmente interessato alla migliore organizzazione
dell’uso tecnico dei poteri fisici degli operai, la maggior parte degli
psicologi industriali è principalmente interessata al trattamento della
psiche degli operai. L’idea fondamentale può essere formulata in
questi termini: se egli lavora meglio quando è contento, ebbene, ren-
diamolo contento, sicuro, soddisfatto; o qualsiasi altra cosa, purché
ciò aumenti il suo rendimento e diminuisca la resistenza. Nel nome
delle «relazioni umane» l’operaio è trattato in tutti i modi che sono
adatti ad una persona completamente alienata. Persino la felicità e i
valori umani sono raccomandati nell’interesse di migliori relazioni
con il pubblico. Così, per esempio, secondo la rivista «Time», uno
dei più conosciuti psichiatri americani dice a un gruppo di 1.500
funzionari di supermercati: «Se noi siamo contenti, i nostri clienti
saranno maggiormente soddisfatti... Se noi riusciremo veramente a
mettere in pratica alcuni di questi principi generali di valore e di re-
lazioni umane, il risultato sarà dei bei dollari di reddito». Si parla di
«relazioni umane» e si hanno in mente relazioni più inumane: quelle
tra automi alienati; si parla di felicità e si vuol dire una perfetta rou-
tinizzazione che abbia eliminato ogni ultimo elemento di dubbio e di
spontaneità.49
49 Il problema del lavoro sarà trattato ancora nel capitolo VIII.
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 160
Il carattere alienato e profondamente insoddisfacente del lavoro
porta a due reazioni: una è costituita da un ideale di completa pigri-
zia, e l’altra da una ostilità, profondamente radicata, anche se spesso
inconscia, verso il lavoro ed ogni cosa e ognuno che vi sia connesso.
Non è difficile riconoscere il diffuso desiderio di uno stato di
inerzia e passività complete. E ad esso la nostra pubblicità si rivolge
più che al sesso. Ci sono naturalmente molti congegni utili e che ri-
sparmiano lavoro, ma la loro utilità spesso serve soltanto come una
razionalizzazione del richiamo alla completa passività e ricettività.
Un pacchetto di fiocchi d’avena per la colazione del mattino è pro-
pagandato come «nuovo e più facile da mangiare». Un tostapane
elettrico è lanciato con queste parole: «...il tostapane più completa-
mente diverso di tutto il mondo! Questo nuovo tostapane fa tutto il
vostro lavoro. Non c’è nemmeno bisogno di scomodarsi ad inserire
la fetta di pane. L’azione automatica di un motore elettrico eccezio-
nale prende gentilmente il pane dalle vostre stesse dita!». E quanti
corsi di lingue o su altri argomenti sono annunciati con lo slogan:
«Imparerete senza sforzo; non più la fatica di una volta». Tutti cono-
scono, negli annunci di una compagnia di assicurazione sulla vita, il
quadro della coppia anziana che si è messa in pensione a ses-
sant’anni e passa la vita nella felicità perfetta di non aver altro da
fare che viaggiare.
La radio e la televisione rendono evidente un altro elemento di
questo desiderio di non far niente: l’idea dell’«esser potente premen-
do un pulsante». Premendo un pulsante e girando una manopola del
mio apparecchio acquisto il potere di produrre musica, discorsi, par-
tite sportive, o, sullo schermo televisivo, di far apparire gli avveni-
menti del mondo davanti ai miei occhi. Il piacere di guidare
l’automobile risiede in gran parte nella stessa soddisfazione del desi-
derio di esercitare il proprio potere premendo un pulsante. Premendo
senza sforzo un pulsante si mette in moto una macchina potente; ba-
stano modeste capacità e poco sforzo per far sì che il guidatore si
senta signore dello spazio.
Ma c’è una reazione molto più seria e profonda alla mancanza di
significato e alla noia del lavoro. Si tratta di una ostilità verso il la-
voro che è molto meno conscia della nostra brama di pigrizia e di
inattività. Molti imprenditori si sentono prigionieri della produzione
e delle merci che vendono; essi provano un senso di frode per quanto
161 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
riguarda la loro merce e arrivano a nutrire per essa un segreto di-
sprezzo. Odiano i loro clienti che li obbligano a metter su una com-
media al fine di vendere. Odiano i loro concorrenti perché costitui-
scono una minaccia, e i dipendenti come i superiori perché sono in
costante rivalità con loro. Ma, più importante di tutto, odiano se stes-
si perché vedono la vita sfuggir loro senza che essa abbia senso al-
cuno oltre la momentanea ebbrezza del successo. Naturalmente que-
sto odio e questo disprezzo per gli altri, per se stessi e per le cose
stesse che si producono, sono prevalentemente inconsci, e solo qual-
che volta si aprono alla consapevolezza in un pensiero fugace che è
abbastanza conturbante da venir rimosso al più presto.
VI. Democrazia
Allo stesso modo che il lavoro è divenuto alienato, così è una
espressione alienata l’espressione della volontà dell’elettore nella
democrazia moderna. Il principio della democrazia è che non un go-
vernante o un piccolo gruppo, ma il popolo nel suo insieme determi-
na il proprio destino e prende le decisioni riguardo alle faccende di
comune interesse. Si ritiene che ogni cittadino, eleggendo i propri
rappresentanti, che in un parlamento decidono sulle leggi del paese,
eserciti la funzione di partecipare in maniera responsabile agli affari
della comunità. Col principio della divisione dei poteri veniva creato
un ingegnoso sistema che serviva a mantenere l’integrità e
l’indipendenza del sistema giudiziario e ad equilibrare le rispettive
funzioni dei poteri legislativo ed esecutivo. In teoria ogni cittadino
ha altrettanta responsabilità ed influenza per intervenire nel processo
delle decisioni.
In realtà il nascente sistema democratico era minato da una grave
contraddizione. Le classi privilegiate, che operavano negli stati con
gravissime ineguaglianze di opportunità e di reddito, non volevano
naturalmente perdere i privilegi che erano loro dati dalla condizione
sociale, e che essi avrebbero facilmente potuto perdere se la volontà
della maggioranza, che era senza proprietà, avesse trovato piena
espressione. Per evitare tale pericolo venne esclusa dal voto gran
parte della popolazione senza censo, e solamente con molta lentezza
venne accettato il principio che tutti i cittadini, senza restrizioni o
condizioni, avevano il diritto di voto.
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 162
Nel diciannovesimo secolo parve che il suffragio universale ri-
solvesse tutti i problemi della democrazia. O’Connor, uno dei capi
cartisti, diceva nel 1838: «Il suffragio universale cambierebbe im-
mediatamente l’intero carattere della società: da uno stato di vigilan-
za, dubbio e sospetto, ad uno stato di amore fraterno, di reciproco
interesse e di universale confidenza», e nel 1842: «...sei mesi dopo
che la Carta sarà stata approvata, ogni uomo, donna e bambino di
questo paese sarà ben nutrito, ben alloggiato e ben vestito».50
Da
allora tutte le grandi democrazie hanno istituito il suffragio universa-
le per gli uomini e, ad eccezione della Svizzera, per le donne, ma
perfino nel più ricco paese del mondo, un terzo della popolazione era
ancora, per citare Franklin D. Roosevelt, «mal nutrito, male alloggia-
to e mal vestito».
L’introduzione del suffragio universale non disingannò soltanto
le speranze dei cartisti, ma disilluse anche tutti quelli che credevano
che il suffragio universale sarebbe servito a trasformare i cittadini in
personalità responsabili, attive e indipendenti. Divenne evidente che
il problema della democrazia odierna non è più la restrizione del di-
ritto di voto, ma il modo in cui il diritto di voto è esercitato.
Come possono gli uomini esprimere la volontà «loro» se non
hanno alcuna volontà o alcuna convinzione che siano loro proprie, se
sono automi alienati, i cui gusti, opinioni e preferenze sono mano-
vrati dalle grandi macchine di condizionamento? In queste circo-
stanze il suffragio universale diventa un feticcio. Un governo il quale
può dimostrare che tutti hanno diritto al voto, e che i voti sono one-
stamente contati, è democratico. Se tutti votano, ma i voti non sono
onestamente calcolati o se l’elettore ha paura di votare contro il par-
tito governativo, il paese non è democratico. È difatti vero che tra
elezioni libere ed elezioni truccate c’è una differenza notevole ed
importante, ma l’osservazione di questa differenza non deve condur-
ci a dimenticare il fatto che nemmeno le libere elezioni esprimono
necessariamente «la volontà del popolo». Se una qualità di dentifri-
cio intensamente propagandata è usata dalla maggioranza della gente
a causa di alcune affermazioni poco credibili fatte nella sua pubblici-
tà, nessuno che abbia il minimo di raziocinio direbbe che la gente
50 Citato da J.R.M. BUTLER, History of England, Oxford University Press, Londra 1928, p.
86.
163 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
«ha preso una decisione» a favore della pasta dentifricia. Tutto quel
che si potrebbe dire è che la propaganda è stata abbastanza efficace
per far sì che milioni di persone credessero nelle sue affermazioni.
In una società alienata il modo in cui la gente esprime la propria
volontà non è affatto diverso da quello della loro scelta nell’acquisto
delle merci. La gente ascolta la grancassa della propaganda e i fatti
significano poco in confronto al frastuono suggestionante che la
martella. Negli ultimi anni abbiamo visto sempre più chiaramente
come le tecniche dei consulenti delle public relations determinino la
propaganda politica. Abituati a far sì che il pubblico comperi qual-
siasi cosa per il cui lancio vi sia abbastanza denaro, trattano nello
stesso modo le idee e i capi politici. Usano la televisione per lanciare
una personalità politica come la usano per lanciare un sapone; ciò
che conta, nelle vendite e nei voti, è l’effetto e non la razionalità o
l’utilità di ciò che è presentato. Questo fenomeno ha trovato
un’espressione molto esplicita in recenti dichiarazioni sul futuro del
partito repubblicano. Vi si dice che, poiché non si può sperare che la
maggioranza degli elettori voti per il partito repubblicano, si deve
trovare una personalità che voglia rappresentare il partito, e allora
questa otterrà i voti. In sostanza ciò non è diverso dall’appoggio che
un famoso sportivo o un attore del cinema possono dare ad una siga-
retta.
In effetti il funzionamento del meccanismo politico in un paese
democratico non differisce sostanzialmente dalla procedura del mer-
cato delle merci. I partiti politici non sono troppo diversi dalle grandi
aziende commerciali e i politici di professione cercano di vendere la
loro merce al pubblico. Il loro metodo è sempre più quello della
pubblicità più martellante. Una formulazione particolarmente chiara
di questo processo è data da un acuto osservatore della scena politica
ed economica, J.A’ Schumpeter. Egli comincia con la formulazione
del concetto classico di democrazia del diciottesimo secolo. «Il me-
todo democratico è quell’insieme di accorgimenti costituzionali per
giungere a decisioni politiche, che realizza il bene comune permet-
tendo allo stesso popolo di decidere attraverso l’elezione di singoli
individui tenuti a riunirsi per esprimere la sua volontà».51
Schumpe-
51 Joseph A. SCHUMPETER, Capitalismo, socialismo, democrazia, Edizioni di Comunità,
Milano 1964, p. 239.
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 164
ter analizza poi gli atteggiamenti dell’uomo moderno di fronte al
problema del pubblico benessere e giunge ad un risultato non troppo
diverso da quelli sopra delineati. «Ma, appena ci allontaniamo dalle
preoccupazioni private della famiglia e della professione ed entriamo
nel campo degli affari nazionali ed internazionali che mancano di un
rapporto diretto e inequivocabile con quelle preoccupazioni private,
la volizione individuale, il dominio dei fatti e il metodo di deduzione
cessano ben presto di rispondere ai requisiti della dottrina classica.
Ciò che più mi colpisce, e rappresenta per me il nocciolo del pro-
blema, è che vi si perda in modo così preoccupante il senso della
realtà. Normalmente, nell’economia psichica del cittadino comune,
le grandi questioni politiche vanno ad affiancarsi o a quegli interessi
delle ore di riposo che non sono assurti alla dignità di piccole manie,
o agli argomenti di una conversazione irresponsabile. Sembrano così
lontani, quei problemi; non hanno nulla a che vedere con le questioni
professionali; i pericoli possono non concretarsi affatto e, se si con-
cretano, non dimostrarsi così gravi; si ha l’impressione di muoversi
in un mondo fittizio.
Questo senso ridotto della realtà spiega non soltanto un minor
senso di responsabilità, ma anche l’assenza di un’effettiva volizione.
Ognuno ha le sue frasi, naturalmente, e fa i suoi sogni ad occhi aper-
ti; soprattutto, ognuno ha le sue simpatie e antipatie. Ma, ordinaria-
mente, esse non corrispondono a quella che si chiama volontà:
l’equivalente psichico di un’azione responsabile e indirizzata ad un
fine. In realtà, per il cittadino che medita sui grandi problemi nazio-
nali le prospettive di sviluppo di una simile volontà sono nulle, né
esiste compito al quale essa si possa applicare. Membro di un comi-
tato inefficiente (il comitato dell’intera nazione), egli spende nello
sforzo disciplinato di tentar di capire e risolvere un problema politi-
co meno energia che nel giocare a bridge.
A loro volta, il minor senso di responsabilità e l’assenza di
un’effettiva volizione spiegano l’ignoranza e l’assenza di giudizio
del cittadino medio in questioni di politica interna ed estera, che sor-
prendono e urtano in persone evolute (o che operano con successo in
campi estranei alla politica) ancor più che nell’incolto o nel povero.
Ma non dovremmo stupircene. Basta osservare l’atteggiamento di-
verso che l’avvocato prende verso la causa ch’è chiamato a difende-
re e verso le affermazioni di fatto di un giornale politico. Nel primo
165 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
caso, egli si è preparato, attraverso un lungo lavoro ispirato a un fine
preciso e stimolato dall’interesse per la professione, a valutare
l’importanza dei fatti, e, sotto uno stimolo altrettanto potente, con-
centra nel contenuto della causa le sue capacità, la sua intelligenza,
la sua volontà. Nel secondo, non si è preoccupato di «qualificarsi»;
non sente lo stimolo di assimilare i dati informativi o di applicarvi
quei principi di critica di cui pur conosce tanto bene il modo di ser-
virsi; è insofferente di ragionamenti lunghi e complicati. Tutto ciò
dimostra che, senza la spinta di una responsabilità diretta,
l’ignoranza permarrà nonostante la varietà ed esattezza delle fonti.
Permarrà anche malgrado gli sforzi meritori d’informare il pubblico
e insegnargli a servirsi delle informazioni ricevute mediante confe-
renze, corsi, discussioni collettive. I risultati non sono completamen-
te nulli, certo, ma sono limitati.
Così, entrando nel raggio della politica, il cittadino medio scende
a un gradino inferiore di rendimento mentale. Ragiona e analizza in
un modo che giudicherebbe infantile nella sfera dei suoi interessi
concreti; il suo modo di ragionare diventa associativo ed affettivo».52
Anche Schumpeter punta sulla somiglianza tra la fabbricazione
della volontà popolare nelle questioni politiche e quella della pubbli-
cità commerciale. «I modi, egli dice, in cui i problemi e la volontà
popolare in merito ad essi vengono manipolati corrispondono esat-
tamente ai modi della pubblicità commerciale. Vi ritroviamo lo stes-
so tentativo di far leva sul subconscio, la stessa tecnica di creare as-
sociazioni favorevoli o sfavorevoli e tanto più efficaci quanto meno
razionali, le stesse evasioni e reticenze, lo stesso stratagemma di
produrre un’opinione mediante affermazioni ripetute che hanno suc-
cesso nella misura in cui evitano il ragionamento e il pericolo di
svegliare le facoltà critiche del pubblico, e così via, con la sola diffe-
renza che queste arti dispongono di possibilità di azione infinitamen-
te maggiori nella sfera degli affari pubblici che in quella della vita
privata e professionale. La fotografia della più graziosa fanciulla che
mai sia nata su questa terra si dimostrerà, alla lunga, impotente a
sostenere la vendita di una sigaretta cattiva; non esiste salvaguardia
altrettanto efficace nel caso di decisioni politiche. Molte decisioni
d’importanza cruciale sono di tal natura da rendere impossibile al
52 Op. cit., pp. 249-50.
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 166
pubblico un controllo sperimentale che costi poco e sia fatto con
calma; ma, anche se questa possibilità esistesse, un giudizio sano è
meno facile che nel caso della sigaretta, perché è meno agevole valu-
tarne le conseguenze».53
Sulla base di questa analisi, Schumpeter giunge ad una definizio-
ne della democrazia che, se è meno elevata della prima, è indubbia-
mente più realistica: «Il metodo democratico è lo strumento istitu-
zionale per giungere a decisioni politiche, in base al quale singoli
individui ottengono il potere di decidere attraverso una competizione
che ha per oggetto il voto popolare»54
(il corsivo è mio).
Il paragone tra il procedimento della formazione dell’opinione
nella politica e nel mercato delle merci può esser completato con un
altro relativo non tanto alla formazione dell’opinione ma piuttosto
alla sua espressione. Mi riferisco alla parte dell’azionista nella gran-
de società anonima americana e all’influenza della sua volontà sulla
direzione.
Come si è detto più sopra, la proprietà delle grandi società è oggi
nelle mani di centinaia di migliaia di persone ciascuna delle quali è
proprietaria di una parte estremamente modesta dell’ammontare
complessivo dei titoli. Legalmente, gli azionisti hanno la proprietà
dell’azienda e perciò hanno il diritto di determinarne la politica e di
insediare la direzione. Praticamente essi sentono poca responsabilità
per la loro condizione proprietaria e accettano quel che la direzione
fa, soddisfatti di avere un reddito regolare. La grande maggioranza
degli azionisti non si cura di andare alle assemblee ed è disposta a
mandare alla direzione le procure richieste. Come si è detto prima,
soltanto nel 6% delle grandi società (nel 1930) il controllo è esercita-
to dalla totalità o dalla maggioranza dei proprietari.
La situazione del controllo in una democrazia moderna non è
troppo diversa dal controllo in una grande società. È vero che più del
50% degli elettori portano personalmente il loro voto. Essi decidono
tra una delle due organizzazioni di partito che si contendono i loro
voti. Appena una delle due organizzazioni è stata eletta al governo, il
rapporto con l’elettore diventa remoto. Spesso le decisioni effettive
53 Op. cit., p. 251. 54 Op. cit., p. 257.
167 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
non sono più nelle mani dei singoli membri del parlamento, che rap-
presentano le volontà del loro elettorato, ma in quelle del partito.55
Ma anche qui le decisioni sono prese da influenti personalità-chiave,
spesso poco conosciute dal pubblico. Il fatto è che mentre il singolo
cittadino crede di dirigere le decisioni del suo paese, egli fa soltanto
un poco di più di quanto faccia l’azionista che partecipa al controllo
della «sua» società. Tra l’atto di votare e le più gravi decisioni di
alto livello politico c’è una connessione che ha del misterioso. Non
si può dire che non ci sia affatto ma nemmeno si può dire che la de-
cisione finale sia il risultato della volontà dell’elettore. Si tratta esat-
tamente della situazione di una espressione alienata della volontà del
cittadino. Egli fa qualcosa: vota ed è sotto l’illusione di essere il
creatore di decisioni che accetta come se fossero sue proprie, mentre
sono in realtà per lo più determinate da forze che sono al di là del
suo controllo e della sua conoscenza. Non c’è da stupirsi se questa
situazione dà al cittadino medio un profondo senso di impotenza nel-
le questioni politiche (benché ciò non avvenga necessariamente in
modo conscio), e che pertanto la sua intelligenza politica sia sempre
più ridotta. Per quanto sia vero che si deve pensare prima di agire, è
anche vero che, se non si ha possibilità di agire, il pensiero si impo-
verisce; in altre parole: se non si può agire effettivamente non si può
nemmeno pensare produttivamente.
3. Alienazione e salute mentale
Qual è l’effetto dell’alienazione sulla salute mentale? La risposta
dipende ovviamente da ciò che si intende per salute; se si intende
che l’uomo possa soddisfare le sue funzioni sociali, svolgere attività
produttiva e riprodursi, allora l’uomo alienato può, evidentemente,
esser sano. Dopo tutto abbiamo creato la più potente macchina pro-
duttiva che sia mai esistita, anche se abbiamo pure prodotto la più
potente macchina distruttiva accessibile alla mano di un pazzo. An-
che in questo caso, esaminando le correnti definizioni psichiatriche
di malattia mentale, potremmo pensare di essere sani. È del tutto
naturale che i concetti di salute e di malattia siano il prodotto degli
55 Cfr. R.H.S. CROSSMAN nel suo articolo The Party Oligarchies nel «The New Statesman
and Nation», Londra, 21 agosto 1954.
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 168
uomini che li formulano e perciò della cultura in cui questi uomini
vivono. Psichiatri alienati definiranno la salute mentale nei termini
di una personalità alienata e pertanto considereranno sano quel che
può esser considerato malato dal punto di vista dell’umanesimo
normativo. Sotto questo rispetto la descrizione degli psichiatri e dei
chirurghi fatta da H.G. Wells nel suo Paese dei ciechi vale anche per
molti psichiatri nella nostra cultura. Il giovane che si era stabilito in
una isolata tribù di ciechi dalla nascita è esaminato dai loro medici.
«Poi uno degli anziani, che pensava profondamente, ebbe una
idea. Egli era presso questo popolo il gran medico, il loro stregone;
aveva un’intelligenza veramente filosofica e geniale e lo attraeva
l’idea di curare Nunez delle sue stranezze. Un giorno in cui Yacob
era presente egli tornò al caso di Nunez. "Ho esaminato Bogota",
egli disse, "e il caso è per me più chiaro. Penso che molto probabil-
mente potrebbe esser curato". "È quel che avevo sempre sperato",
disse il vecchio Yacob. "Il suo cervello è leso", disse il dottore cieco.
Gli anziani approvarono con un mormorio. "E allora che cosa lo ha
fatto ammalare?". "Già", fece il vecchio Yacob. "Questo", disse il
dottore rispondendo alla sua stessa domanda. "Queste curiose cose
che si chiamano occhi, e che esistono per creare nel volto un grazio-
so morbido incavo, sono ammalate, nel caso di Bogota, in modo tale
che il suo cervello ne è leso. Essi sono molto ingrossati, hanno ci-
glia, e le sue palpebre si muovono, e di conseguenza il suo cervello è
in uno stato di irritazione e turbamento continui". "Davvero?", disse
il vecchio Yacob. "Davvero?". "E penso di poter dire con una certa
sicurezza che per curarlo completamente, tutto quel che bisogna fare
è una semplice e facile operazione chirurgica, cioè togliere questi
corpi irritanti". "E poi starà bene?". "Poi starà bene e sarà un cittadi-
no perfetto". "Il cielo sia ringraziato per la scienza!" disse il vecchio
Yacob, e corse fuori per comunicare a Nunez la sua speranza».56
Le nostre correnti definizioni psichiatriche della salute mentale
accentuano delle qualità che fanno parte del carattere sociale alienato
del nostro tempo: adattamento, cooperazione, aggressività, tolleran-
za, ambizione, e così via. Ho già citato prima la definizione che
Strecker dà della «maturità» come un esempio di ingenua traduzione
56 H.G. WELLS, The Days of the Comet and Seventeen Short Stories, Charles Scribners Sons,
New York 1925.
169 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
in linguaggio psichiatrico del «cercasi un funzionario subalterno»
delle inserzioni. Ma, come è stato già brevemente accennato in altra
pagina, persino uno tra i più profondi e brillanti psicanalisti del no-
stro tempo, H.S. Sullivan, fu influenzato nelle sue affermazioni teo-
retiche dall’invadente alienazione. Proprio per la sua importanza e
per il notevole contributo che egli diede alla psichiatria, sarà utile
soffermarsi un po’ su questo punto. Sullivan riteneva che il fatto che
la persona alienata manchi di un sentimento dell’io e riconosca se
stessa come una risposta all’attesa degli altri, facesse parte
dell’umana natura, proprio come Freud scambiò il carattere competi-
tivo, caratteristico dell’inizio del secolo, come un fenomeno natura-
le. Sullivan veniva così a chiamare «illusione dell’individualità uni-
ca» l’opinione che vi fosse un unico io individuale.57
Parimenti evi-
dente è l’influenza dei bisogni basilari dell’uomo. Essi sarebbero,
secondo lui, «il bisogno di sicurezza personale, cioè di libertà
dall’ansietà; il bisogno di intimità, cioè di collaborazione con alme-
no un’altra persona, e il bisogno di soddisfazione erotica, che riguar-
da l’attività genitale in cerca dell’orgasmo».58
I tre termini di misura
per la salute mentale indicati qui da Sullivan sono quasi universal-
mente accettati. A prima vista nessuno avrà obiezioni da fare all’idea
che l’amore, la sicurezza e la soddisfazione sessuale siano mete as-
solutamente normali per la salute mentale. Un esame critico di questi
concetti mostra, tuttavia, che essi significano, in un mondo alienato,
qualcosa di diverso da ciò che significavano in altre culture.
Forse quello di sicurezza è il più popolare concetto moderno
nell’arsenale delle formule psichiatriche. In questi ultimi anni si è
posto sempre più l’accento sul concetto di sicurezza come sul più
importante fine della vita e come sull’essenza della salute mentale.
Una ragione di tale atteggiamento risiede forse nel fatto che la mi-
naccia di guerra incombente per molti anni sul mondo ha accresciuto
il desiderio di sicurezza. Un’altra più importante ragione sta nel fatto
che, a causa di un’automatizzazione e di un superconformismo in
continuo aumento, la gente si sente sempre più insicura.
Il problema si complica ancor di più per la confusione tra sicu-
rezza psichica e sicurezza economica. Uno dei mutamenti fondamen-
57 H.S. SULLIVAN, Teoria interpersonale della psichiatria, cit. 58 Ibidem, p. 299.
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 170
tali avvenuti negli ultimi cinquant’anni in tutti i paesi occidentali sta
nell’adozione del principio che tutti i cittadini devono godere di un
minimo di sicurezza materiale in caso di disoccupazione, malattia e
vecchiaia. Nondimeno, mentre questo principio è stato adottato, vi
sono ancora molti industriali che lo osteggiano fortemente, in special
modo nella sua applicazione sempre più estesa; essi parlano con
sprezzo dello «stato previdenziale» come distruttivo dell’iniziativa
privata e dello spirito pionieristico e combattendo le misure di sicu-
rezza sociale pretendono di lottare per la libertà e l’iniziativa
dell’operaio. Che questi argomenti siano delle mere razionalizzazio-
ni è reso evidente dal fatto che le stesse persone non hanno scrupoli
nell’esaltare la sicurezza economica come uno dei più importanti
scopi della vita. Basta leggere soltanto la pubblicità delle compagnie
di assicurazione con le sue promesse di liberare i loro clienti
dall’insicurezza che potrebbe esser provocata da infortuni, morte,
malattie, vecchiaia, ecc., per vedere quale importante ruolo giochino
gli ideali di sicurezza economica per la classe agiata; e che altro è
l’idea del risparmio se non quella di metter in pratica il fine della
sicurezza economica? Questa contraddizione tra la denuncia
dell’aspirazione alla sicurezza nella classe operaia, e l’esaltazione
dello stesso intento per coloro che godono di alti redditi, costituisce
un altro esempio delle illimitate capacità dell’uomo di pensare in
termini contraddittori senza far nemmeno un tentativo di rendersi
cosciente della contraddizione.
Eppure la propaganda contro lo «stato previdenziale» e il princi-
pio di sicurezza economica è più efficace di quel che sarebbe altri-
menti a causa proprio della estesa confusione tra sicurezza economi-
ca e sicurezza emotiva.
Gli uomini sentono sempre di più che non dovrebbero aver dubbi,
né problemi, non dovrebbero correre rischi e dovrebbero invece sen-
tirsi sempre «sicuri». La psichiatria e la psicanalisi hanno fornito un
considerevole appoggio a questo fine. Molti autori di questo campo
ritengono che la sicurezza sia il fine più importante per lo sviluppo
psichico e considerano il senso di sicurezza più o meno equivalente
alla salute mentale. (Sullivan è, tra questi, il più profondo e il più
acuto). Così i genitori, e in special modo quelli che seguono questa
letteratura, si preoccupano che il loro figliolo o la loro figliola non
acquisiscano nella prima età un senso di «insicurezza». E cercano di
171 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
aiutarlo ad evitare conflitti, di far sì che tutto gli sia facile, di rimuo-
vere tutte le difficoltà che possono, e ciò perché il bambino si senta
«sicuro». Proprio allo stesso modo con cui cercano di vaccinare il
bambino contro tutte le malattie e di evitare che abbia un qualsiasi
contagio, essi pensano che si possa allontanare l’insicurezza evitan-
do ogni contatto con essa. Il risultato è spesso altrettanto disgraziato
di quanto lo è talvolta quello di una igiene esagerata: quando avviene
un’epidemia l’individuo risulta più vulnerabile e indifeso.
Come potrebbe sentirsi sempre sicura una persona sensibile e vi-
va? A causa delle condizioni stesse della nostra esistenza noi non
possiamo sentirci sicuri di fronte a nulla. I nostri pensieri e le nostre
conoscenze sono al massimo verità parziali mescolate ad una buona
dose di errore, e ciò senza parlare delle informazioni errate relative
alla vita e alla società cui siamo esposti quasi fin dalla nascita. La
nostra vita e la nostra salute sono soggette ad accidenti al di là del
nostro controllo. Se prendiamo una decisione non possiamo mai es-
ser certi del risultato; ogni decisione implica un rischio di fallimento
e, se non lo implica, non si tratta di una decisione nel vero senso del-
la parola. Non possiamo mai esser certi dei risultati dei nostri sforzi
migliori. Il risultato dipende sempre da molti fattori che trascendono
le nostre capacità di controllo. Una persona viva e sensibile, come
non può far a meno di esser triste, non può far a meno di sentirsi in-
sicura. Il compito psichico che un uomo può e deve porre a se stesso
non è di sentirsi sicuro, ma di esser capace di sopportare
l’insicurezza senza panico o paura ingiustificata.
La vita, nei suoi aspetti mentali e spirituali, è necessariamente in-
sicura e incerta. V’è certezza soltanto riguardo al fatto che siamo
nati e che dobbiamo morire; v’è completa sicurezza soltanto in una
sottomissione egualmente completa a poteri che riteniamo siano forti
e duraturi e che alleviano l’uomo dalla necessità di prender decisio-
ni, di incorrere in rischi e di assumersi delle responsabilità. L’uomo
libero è necessariamente insicuro, l’uomo che pensa è necessaria-
mente incerto.
Come può dunque l’uomo sopportare questa insicurezza insita
nell’esistenza umana? Un modo consiste nell’esser radicato nel
gruppo in maniera tale che il sentimento di identità sia garantito dal-
la appartenenza al gruppo, sia esso la famiglia, il clan, la nazione, la
classe. Finché il processo dell’individualismo non ha raggiunto uno
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 172
stadio dove l’individuo vien fuori dai suoi vincoli originari, egli è
ancora «noi», e finché il gruppo funziona egli è certo della propria
identità attraverso la sua appartenenza ad esso. Lo sviluppo della
società moderna ha portato alla dissoluzione di questi vincoli origi-
nari. L’uomo moderno è essenzialmente solo: è stato messo sui pro-
pri piedi e ci si aspetta che riesca a restarci da solo. Egli può rag-
giungere un senso di identità soltanto sviluppando l’unica e partico-
lare entità che è «lui» sino ad un punto in cui egli potrà veramente
sentire: «sono io». Tale risultato finale è possibile soltanto se egli
sviluppa i suoi poteri attivi in tal misura da poter esser collegato al
mondo senza dovervisi annullare; se può raggiungere un orientamen-
to produttivo. La persona alienata, però, cerca di risolvere il proble-
ma in un modo differente, cioè conformandosi. Essa si sente sicura
nel sentirsi quanto più possibile eguale ai suoi simili. Il suo fine
preminente è di esser approvata dagli altri; la sua paura principale è
che gli altri non la approvino. Esser differente, sentirsi in minoranza,
sono i pericoli che minacciano il senso di sicurezza; da ciò
l’aspirazione ad un conformismo illimitato. È evidente che questa
aspirazione al conformismo produce a sua volta un senso di insicu-
rezza continuamente operante, seppur nascosto. Ogni deviazione dal
modello, ogni critica, fanno sorgere timore e insicurezza; si dipende
sempre dall’approvazione degli altri, come dipende dalla droga uno
che vi sia assuefatto e, nello stesso modo, il proprio senso dell’io e la
fiducia in sé diventano sempre più deboli. Il senso di colpa, che ge-
nerazioni or sono prendeva l’uomo quando pensava al peccato, è
stato sostituito da un senso di disagio e di inadeguatezza al pensiero
di esser differente.
Un altro fine della salute mentale, l’amore, è stato, come quello
della sicurezza, assunto a nuovo significato nella situazione alienata.
Per Freud, secondo lo spirito del suo tempo, l’amore era fondamen-
talmente un fenomeno sessuale. «L’uomo, avendo trovato con
l’esperienza che l’amore sessuale (genitale) gli dava i maggiori go-
dimenti, così da diventare per lui il prototipo di ogni felicità, deve
perciò esser stato spinto a continuare a cercare la sua felicità nelle
relazioni sessuali, nel fare dell’erotismo genitale il punto centrale
della sua vita... Così facendo egli diventa in maniera veramente peri-
colosa dipendente da una parte del mondo esterno, cioè dall’oggetto
d’amore da lui scelto, e ciò lo espone alle più penose sofferenze se
173 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
egli ne è respinto, o lo perde per la morte o l’abbandono».59
Per pro-
teggersi dal pericolo di soffrire per amore l’uomo, ma soltanto in una
«piccola minoranza», può trasformare le funzioni erotiche
dell’amore trasferendo «il valore principale dal fatto di essere amato
al proprio atto di amare», e «dando il suo amore non a oggetti indi-
viduali, ma a tutti gli uomini nello stesso modo». Così gli uomini
«evitano le incertezze e le delusioni dell’amore genitale distraendosi
dai suoi fini sessuali e modificano l’istinto in un impulso con un fine
inibito... L’amore con un fine inibito era infatti originariamente un
vero amore sessuale, ed è ancora tale nell’inconscio degli uomini».60
Il sentimento di unità e di fusione col mondo (il «sentimento oceani-
co») che costituisce l’essenza dell’esperienza religiosa e particolar-
mente dell’esperienza mistica, e l’esperienza di unità e di unione con
la persona amata vengono interpretati da Freud come una regressio-
ne allo stato di un primitivo «narcisismo illimitato».61
Secondo i suoi concetti fondamentali, la salute mentale è per
Freud la piena realizzazione della capacità di amore, che è realizzata
se lo sviluppo della libido ha raggiunto lo stadio genitale.
Nel sistema psicanalitico di H.S. Sullivan, troviamo, in contrasto
con Freud, una rigorosa divisione tra sessualità e amore. Qual è il
significato di amore e di intimità nel concetto di Sullivan?
«L’intimità è quel tipo di situazione fra due persone che permette la
verifica di tutte le componenti del valore personale. Questa verifica
richiede un tipo di rapporto che io chiamo collaborazione: intenden-
do con ciò degli adattamenti, chiaramente formulati, del proprio
comportamento ai bisogni espressi dall’altra persona, per raggiunge-
re delle soddisfazioni sempre più identiche (cioè sempre più recipro-
che), e per mantenere attive delle operazioni di sicurezza sempre più
simili».62
Sullivan, esprimendo la stessa cosa più semplicemente,
definiva l’essenza dell’amore come una situazione di collaborazione
nella quale ciascuna delle due persone sente: «Io agisco secondo le
59 S. FREUD, Civilizations and Its Discontents, cit., p. 69. 60 Ibidem. 61 Ibidem, p. 21. 62 SULLIVAN, op. cit., p. 279.
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 174
regole del gioco, per conservare il mio prestigio, il mio senso di su-
periorità e di merito».63
Allo stesso modo che il concetto di Freud è una descrizione
dell’esperienza del maschio patriarcale nei termini del materialismo
del diciannovesimo secolo, la descrizione di Sullivan si riferisce
all’esperienza della personalità alienata e mercantile del ventesimo
secolo. È la descrizione di un «égotism à deux», di due persone che
sommano i loro interessi comuni e fanno fronte assieme ad un mon-
do ostile ed alienato. In effetti la sua definizione di intimità è per
principio valida per il sentimento di qualsiasi gruppo cooperante, in
cui ognuno «adatta il suo comportamento ai bisogni espressi
dall’altra persona nel perseguimento di fini comuni». (È da notarsi
che Sullivan parla qui di bisogni espressi, quando il meno che si po-
trebbe dire dell’amore è che esso implica una reazione ai bisogni
inespressi tra due persone).
In termini più correnti si può scoprire l’aspetto mercantile
dell’amore nei dibattiti sull’amore coniugale e sul bisogno che i
bambini hanno di amore e di affetto. In numerosi articoli, consigli e
conferenze l’amore coniugale è descritto come uno stato di mutua
correttezza e di mutua guida chiamato «comprensione reciproca». Si
ritiene che la moglie debba considerare i bisogni e i sentimenti del
marito, e viceversa. Se egli viene a casa stanco e di cattivo umore lei
non dovrebbe fargli delle domande, oppure dovrebbe fargli delle
domande a seconda di ciò che gli autori pensano sia meglio per «ad-
dolcirlo». Ed egli dovrebbe dire parole di apprezzamento riguardo
alla sua cucina o ai suoi abiti nuovi, e tutto ciò in nome dell’amore.
Oggi si sente quotidianamente dire che un bambino deve «ricevere
affetto» per sentirsi sicuro o che un altro bambino «non ha ricevuto
abbastanza amore dai suoi genitori» ed è perciò diventato un crimi-
nale o uno schizofrenico. L’amore e l’affetto hanno assunto il mede-
simo significato della «pappa tipo» per il bambino, o
dell’educazione che si dovrebbe avere in un collegio, o dell’ultimo
film che bisognerebbe «sorbirsi». Nutritevi di amore come vi nutrite
di sicurezza, cultura e qualsiasi altra cosa e sarete felici!
63 Ibidem. Un'altra definizione dell'amore fatta da Sullivan, e cioè che l'amore comincia quan-
do una persona sente i bisogni di un'altra persona altrettanto importanti che i propri, è meno
segnata dall'aspetto mercantile della formulazione qui sopra notata.
175 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
La felicità è un altro e tra i più popolari concetti con i quali si de-
finisca oggi la salute mentale. Come la formula espressa in Brave
New World: «Oggigiorno tutti sono felici».
Che cosa si intende per felicità? Oggi molta gente probabilmente
risponderebbe alla domanda dicendo che esser felici consiste nel
«divertirsi» o nel «darsi al buon tempo». La risposta alla domanda
«che cosa è il divertimento?» dipende in parte dalla situazione eco-
nomica dell’individuo, e maggiormente dalla sua educazione e dalla
struttura della sua personalità. Le differenze economiche non sono
però così importanti come può sembrare. Il «buon tempo» degli stra-
ti superiori della società è il modello di svago per quelli che non so-
no in grado di pagarselo, mentre sperano seriamente in questa felice
possibilità, e il «buon tempo» degli strati inferiori della società è
sempre più un’imitazione a buon mercato di quello degli strati supe-
riori, differendone nel costo, ma non molto nella qualità.
In che cosa consiste questo divertimento? Andar al cinema, a trat-
tenimenti, alla partita, ascoltar la radio e guardar la televisione, far
un giro in macchina la domenica, far l’amore, dormire fino a tardi la
domenica mattina e, per quelli che possono permetterselo, viaggiare.
Se usiamo un termine più rispettabile invece della parola «diverti-
mento» e «darsi al buon tempo» possiamo dire che il concetto di fe-
licità si identifica, nelle migliori circostanze, con quello di piacere.
Tenendo conto del nostro esame del problema del consumo, possia-
mo definire un po’ più accuratamente il concetto come il piacere di
consumo illimitato, il potere di ottenere premendo un pulsante, la
pigrizia.
Da questo punto di vista la felicità potrebbe esser definita come
l’opposto della tristezza o dell’afflizione, e difatti la persona media
definisce la felicità come uno stato della mente libera da tristezza o
da afflizione. Questa definizione tuttavia mostra che c’è qualcosa di
profondamente errato in questo concetto di felicità. Una persona vi-
va e sensibile non può far a meno di esser triste e di sentirsi afflitta
molte volte nella sua vita. Questo avviene non soltanto a causa
dell’insieme di sofferenze non necessarie prodotte dall’imperfezione
delle nostre soluzioni sociali, ma a causa della natura dell’esistenza
umana la quale fa che sia impossibile non reagire alla vita con una
buona dose di dolore e di afflizione. Siccome siamo esseri viventi,
dobbiamo esser tristemente consci del necessario vuoto che si apre
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 176
tra le nostre aspirazioni e quello che possiamo raggiungere nella no-
stra breve e agitata esistenza. Poiché la morte ci mette a confronto
con il fatto inevitabile che o moriremo prima di quelli che amiamo, o
essi moriranno prima di noi, e poiché vediamo ogni giorno attorno a
noi la sofferenza, sia quella inevitabile sia quella non necessaria,
come possiamo rifiutare l’esperienza del dolore e dell’afflizione? Lo
sforzo di rifiutarla è possibile soltanto se noi riduciamo la nostra
sensibilità, la nostra capacità di corrispondere e di amare, se indu-
riamo i nostri cuori e neghiamo la nostra attenzione e il nostro sen-
timento sia agli altri sia a noi stessi.
Se vogliamo definire la felicità attraverso il suo opposto dobbia-
mo definirla non come il contrario della tristezza, ma come il contra-
rio della depressione.
Che cosa è la depressione? È l’incapacità di sentire, è il senso di
esser morti mentre il nostro corpo è vivo. È l’incapacità di provar
gioia come anche di provar tristezza. Una persona depressa sarebbe
grandemente sollevata se avesse la capacità di sentirsi triste. Uno
stato di depressione è tanto intollerabile, perché si è incapaci di sen-
tire qualsiasi cosa, sia gioia che tristezza. Se cerchiamo di definire la
felicità come il contrario della depressione, ci avviciniamo alla defi-
nizione di Spinoza della gioia e della felicità come quello stato di
vitalità intensificata che fonde in unità i nostri sforzi sia di compren-
dere i nostri simili sia di unirci a loro. La felicità deriva
dall’esperienza della vita produttiva e dall’uso dei poteri di amore e
di ragione che ci uniscono al mondo. La felicità consiste nel nostro
essere in contatto con i fondamenti della realtà, nella scoperta di noi
stessi e della nostra unità con gli altri come della nostra diversità
rispetto a loro. La felicità è uno stato di intensa attività interiore e
dell’esperienza della crescente energia vitale che si sviluppa nella
correlazione feconda con il mondo e con noi stessi.
Ne segue che la felicità non può basarsi su uno stato di interiore
passività e sull’atteggiamento «consumatore» che pervade la vita
dell’uomo alienato. La felicità è sperimentare la pienezza e non un
vuoto che chiede di essere colmato. L’uomo medio contemporaneo
può avere una buona dose di svaghi e di piaceri ma, nonostante que-
sto, egli è fondamentalmente depresso. Forse la questione diventa
più chiara se, invece di usare la parola «depresso», usiamo la parola
«annoiato». In effetti v’è una lievissima differenza tra le due, eccetto
177 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
una differenza di grado, poiché la noia non è nient’altro che
l’esperienza di una paralisi dei nostri poteri produttivi e del senso di
non esser vivi. Tra i mali della vita pochi sono così penosi come la
noia e, di conseguenza, si fanno tutti i tentativi per evitarla.
Si può evitarla in due modi; sia fondamentalmente con l’esser
produttivi e sperimentando in tal modo la felicità, sia cercando di
evitare le sue manifestazioni. Questo secondo tentativo sembra carat-
terizzare la corsa al divertimento e al piacere dell’uomo medio con-
temporaneo. Egli avverte la sua depressione e la sua noia che diven-
tano manifeste quando si trova solo con se stesso o con quelli che gli
sono più vicini. Tutti i nostri divertimenti servono allo scopo di faci-
litare l’evasione da noi stessi e dalla minaccia della noia col rifugiar-
ci nelle diverse forme di fuga che la nostra cultura ci offre; tuttavia
nascondendo un sintomo non si eliminano le condizioni che lo pro-
ducono. Se si esclude la paura delle malattie fisiche o di venir umi-
liato con la perdita di grado sociale o di prestigio, la paura della noia
gioca un ruolo preminente tra le paure dell’uomo moderno. In un
mondo di svago e di divertimento egli ha paura della noia ed è lieto
quando un altro giorno è passato senza incidenti e un’altra ora è stata
sprecata senza che si sia accorto della noia in agguato.
Dal punto di vista dell’umanesimo normativo dobbiamo giungere
ad un differente concetto della salute mentale; proprio la persona che
è considerata sana nelle categorie di un mondo alienato, si presenta
come la più ammalata dal punto di vista umanistico, sebbene non in
termini di malattia individuale ma di deficienza socialmente struttu-
rata. La salute mentale, in senso umanistico, è caratterizzata dalla
capacità di amare e di creare, dalla liberazione dagli incestuosi le-
gami della famiglia e della natura, da un senso di identità basato sul-
la propria esperienza dell’io come soggetto e agente dei propri pote-
ri, dall’afferrare la realtà dentro e fuori di noi, cioè dallo sviluppo
della obiettività e della ragione. Il fine della vita consiste nel viverla
intensamente, nel nascere completamente, nel diventare completa-
mente desti. Superare le idee della grandiosità infantile per entrare
nella coscienza della nostra forza effettiva seppur limitata; esser ca-
paci di accettare il paradosso che ognuno di noi è la cosa più impor-
tante che vi sia nell’universo e, nello stesso tempo, non è più impor-
tante di una mosca o di un filo d’erba; esser capaci di amare la vita e
di accettare la morte senza terrore; di sopportare l’incertezza riguar-
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 178
do ai problemi più importanti con cui la vita ci mette a confronto, e
nondimeno aver fiducia nel nostro pensiero e nel nostro sentimento
in quanto essi sono veramente nostri; esser capaci di esser soli e,
nello stesso tempo, uno con la persona amata, con ogni fratello su
questa terra, con ogni cosa vivente; seguire la voce della nostra co-
scienza, la voce che ci richiama a noi stessi e però non indulgere
all’odio contro se stessi quando la voce della coscienza non è stata
abbastanza forte per esser udita o seguita. La persona mentalmente
sana è la persona che vive con amore, ragione e fede, che rispetta la
vita, quella propria e quella dei suoi simili.
La persona alienata, come abbiamo cercato di descriverla in que-
sto capitolo, non può esser sana. Poiché si considera come una cosa,
come un investimento che deve esser maneggiato da sé e dagli altri,
manca del senso dell’io. Questa mancanza dell’io crea ansietà pro-
fonda. L’ansietà generata dal confrontarsi con l’abisso della nullità è
più terrificante persino delle torture dell’inferno. Nella visione
dell’inferno io sono punito e torturato; nella visione della nullità so-
no portato al limite della pazzia perché non posso dire più «io». Se
l’età moderna è stata giustamente chiamata l’era dell’ansietà ciò è
principalmente a causa di questa ansietà generata dalla mancanza
dell’io. Nella misura in cui «io sono come tu mi vuoi», io non sono;
sono ansioso, dipendente dall’approvazione degli altri, alla ricerca
costante di piacere. La persona alienata si sente inferiore quando
teme di non essere pari agli altri. Poiché il suo senso del valore è
basato sull’approvazione come ricompensa per il conformismo, essa
si sente naturalmente minacciata nel suo senso dell’io e nella stima
di se stessa da qualsiasi sentimento, pensiero o azione che potrebbe
passare per una deviazione. Tuttavia, in quanto è uomo e non auto-
ma, non può fare a meno di deviare e perciò deve sempre sentirsi
intimorito dalla disapprovazione. Come risultato deve cercare sem-
pre più di conformarsi, di esser approvato dagli altri, di riuscire. Non
è la voce della sua coscienza che gli dà forza e sicurezza, bensì il
sentimento di non aver perduto lo stretto contatto con il gregge.
Un altro risultato della alienazione è la prevalenza di un senti-
mento di colpa. È difatti sorprendente che in una cultura fondamen-
talmente irreligiosa come la nostra il senso di colpa si sia così esteso
e profondamente radicato. La maggior differenza da quella che po-
trei dire una comunità calvinista sta nel fatto che il sentimento di
179 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
colpa non è molto conscio, né si riferisce ad un concetto religiosa-
mente strutturato di peccato. Ma se scaviamo un po’ sotto la superfi-
cie troviamo che la gente si sente colpevole per centinaia di cose; per
non aver lavorato abbastanza sodo, per esser stata troppo indulgente,
o per non esserlo stata abbastanza verso i propri figli, per non aver
fatto abbastanza per la mamma, o per esser stata troppo buona con
un debitore; la gente si sente in colpa sia per aver fatto cose buone
sia per averne fatto di cattive; pare quasi che debba trovare qualche
cosa di cui sentirsi colpevole.
Quale può esser la causa di tutto questo senso di colpa? Sembra
vi siano due cause fondamentali che, benché del tutto differenti, por-
tano al medesimo risultato. Una causa è la stessa da cui sorgono i
sentimenti di inferiorità. Non esser come tutti, non esser totalmente
adatto fa sì che uno si senta colpevole nei confronti degli ordini della
grande entità anonima. L’altra origine della colpa è la sola coscienza
dell’uomo; egli sente le sue doti o le sue capacità, la sua facoltà di
amare, di pensare, di ridere, di piangere, di meravigliarsi e di creare;
egli sente che la sua vita è la sola possibilità che gli è stata offerta e
che, se perde questa possibilità, perde tutto. Egli vive in un mondo
con più conforti e comodità di quanti ne avessero mai conosciuti i
suoi avi, ma sente che, mentre insegue sempre più comodità, la vita
gli sfugge tra le dita come sabbia. Egli non può far a meno di sentirsi
colpevole per questa possibilità sciupata e perduta. Tale sentimento
di colpa è molto meno conscio del primo, ma l’uno rafforza l’altro, e
l’uno spesso serve come razionalizzazione per l’altro. Così l’uomo
alienato si sente colpevole per esser se stesso e per non esser se stes-
so, per esser vivo e per esser un automa, per esser una persona e per
esser una cosa.
L’uomo alienato è infelice. Il consumo di svaghi serve a reprime-
re la consapevolezza della sua infelicità. Cerca di risparmiar tempo
eppure è ansioso di ammazzare in qualche modo il tempo che ha ri-
sparmiato. Invece di salutare il nuovo giorno con l’entusiasmo che
soltanto l’esperienza dell’«io sono io» può dare, è contento che un
altro giorno sia finito senza smacchi o umiliazioni. Egli è sprovvisto
del costante flusso di energia che sgorga da una produttiva correla-
zione col mondo.
Non avendo fede, essendo sordo alla voce della coscienza e pos-
sedendo intelligenza operativa ma poca ragione, egli è perplesso,
5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 180
inquieto e disposto ad installare in una posizione di capo chiunque
gli offra una soluzione totale.
Può il quadro dell’alienazione esser messo in rapporto con qual-
cuno dei quadri correnti di malattie mentali? Nel rispondere a questa
domanda dobbiamo ricordare che l’uomo ha due modi di mettere in
relazione se stesso con il mondo. Uno è quello nel quale egli vede il
mondo come deve vederlo per poterlo manovrare e usare. Questo
modo consiste essenzialmente nell’esperienza sensoria e
nell’esperienza del senso comune. I nostri occhi vedono quel che
dobbiamo vedere e le nostre orecchie odono quel che dobbiamo udi-
re per vivere. Il nostro buon senso percepisce le cose in un modo che
ci mette in grado di usarle. Sia i sensi sia il buon senso lavorano a
servizio della sopravvivenza. Per quanto riguarda i sensi ed il buon
senso, e per la logica che è costruita su di essi, le cose sono le stesse
per tutti perché sono le stesse le leggi per il loro uso.
L’altra facoltà dell’uomo è, per così dire, di veder le cose dal di
dentro: soggettivamente, formate dalla mia esperienza interiore, dal
mio sentimento, dal mio umore.64
In un certo senso dieci pittori di-
pingono il medesimo albero, e, in un altro senso, dipingono dieci
alberi diversi. Ogni albero, pur restando lo stesso albero, è
un’espressione della loro individualità. Nel sogno noi vediamo il
mondo completamente dal di dentro; esso perde il suo significato
obiettivo ed è trasformato in un simbolo delle nostre proprie espe-
rienze puramente individuali. La persona che sogna mentre è sveglia,
cioè la persona che è in contatto soltanto con il suo mondo interiore
e che è incapace di percepire il mondo esterno nella sua entità obiet-
tiva, è squilibrata. La persona che può conoscere il mondo esterno
solo in maniera fotografica, ma è fuori del contatto col suo mondo
interiore e con se stessa, è persona alienata. Schizofrenia e aliena-
zione sono complementari. In entrambe le forme di malattia manca
un polo dell’esperienza umana. Se ambedue i poli sono presenti,
possiamo parlare di persona produttiva la cui stessa produttività ri-
sulta dalla polarità tra la forma interna e quella esterna di percezione.
La nostra descrizione del carattere alienato dell’uomo contempo-
raneo è un po’ unilaterale; ci sono numerosi fattori positivi che non
64 Si veda un più particolare esame di questo argomento in E. FROMM, Il linguaggio dimenti-
cato, Bompiani, Milano 1963.
181 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
ho ricordato. Innanzitutto v’è ancora viva una tradizione umanistica
che non è stata distrutta dal processo inumano di alienazione. Ma,
oltre a ciò, vi sono segni che gli uomini sono sempre più insoddisfat-
ti e disillusi del loro modo di vita e cercano di riconquistare qualcosa
del loro io e della loro produttività perduti. Milioni di persone ascol-
tano buona musica in sale da concerto o alla radio e un sempre cre-
scente numero di persone dipinge, si dedica al giardinaggio, si co-
struisce il suo battello o la sua casa, si dedica a un gran numero di
attività in cui esercita una capacità artigianale. L’educazione degli
adulti si estende, e perfino negli affari aumenta la convinzione che
un funzionario deve possedere ragione e non soltanto intelligenza.65
Ma per quanto promettenti e reali siano tutte queste tendenze esse
non bastano a giustificare un atteggiamento che si trova fra numerosi
scrittori molto raffinati i quali affermano che le critiche alla nostra
società, come quella qui presentata, sono superate e di vecchio stile;
che noi abbiamo già passato l’acme dell’alienazione e siamo ora in
cammino verso un mondo migliore. Per quanto attraente sia questo
tipo di ottimismo, nondimeno esso è soltanto una forma più raffinata
della difesa dello status quo, una traduzione dell’elogio
dell’american way of life, nei concetti di una antropologia culturale
che, arricchita da Marx e da Freud, è «andata più in là» di loro e ras-
sicura l’uomo che non c’è ragione di alcuna seria preoccupazione.
65 Un esempio indicativo di questa nuova tendenza è il corso di letteratura e di filosofia per
funzionari subalterni della Bell Telephone Co. sotto la direzione dei professori Morse Peck-
man e Rex Crawford della Università di Pennsylvania.
182
6.
Altre varie diagnosi
Secolo diciannovesimo
La diagnosi della malattia della cultura occidentale contempora-
nea, quale abbiamo cercato di presentare nel precedente capitolo,
non è affatto nuova; essa ispira soltanto a promuovere ulteriormente
la comprensione del problema tentando di applicare in modo mag-
giormente empirico il concetto di alienazione ai vari fenomeni che si
possono osservare, e di stabilire la connessione tra le malattie di
alienazione e il concetto umanistico di natura umana e di salute men-
tale. In effetti è veramente straordinario che un esame critico della
società del ventesimo secolo sia già stato fatto da alcuni pensatori
vissuti nel secolo diciannovesimo, molto prima che diventasse com-
pletamente manifesta quella sintomatologia che oggi sembra così
evidente. È anche da notarsi quanto le loro diagnosi critiche e le loro
prognosi avessero di comune tra loro e con le critiche del secolo
ventesimo.
La prognosi della decadenza e della barbarie entro cui affonde-
rebbe il secolo ventesimo fu fatta da gente delle più svariate opinioni
filosofiche e politiche. Il conservatore svizzero Burckhardt, il radica-
le religioso russo Tolstoj, l’anarchico francese Proudhon, così come
il suo connazionale conservatore Baudelaire, l’anarchico americano
Thoreau e, più tardi, il suo connazionale politicamente più preparato
Jack London, il rivoluzionario tedesco Karl Marx: tutti concordaro-
no nella critica più severa della cultura moderna e quasi tutti previ-
dero la possibilità dell’avvento di un’era di barbarie. Le predizioni di
Marx erano attenuate dalla sua ipotesi che il socialismo costituisse
una alternativa possibile e perfino probabile. Burckhardt, dal suo
punto di vista conservatore, segnato dalla svizzera capacità di rifiu-
tarsi ostinatamente di lasciarsi impressionare dalle parole e dalle bel-
le apparenze, dichiarò in una lettera scritta nel 1876 che forse
183 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
l’Europa avrebbe goduto ancora di pochi decenni di pace prima di
trasformarsi con alcune terribili guerre e rivoluzioni in una specie di
impero romano, in un dispotismo militare ed economico: «Il secolo
ventesimo ci darà qualsiasi cosa salvo una vera democrazia». Nel
1872 Burckhardt scriveva ad un amico: «Ho un presentimento che
suona ancora come una follia e che però non mi abbandona: lo stato
militare deve necessariamente diventare un grande industriale. Que-
sti ammassi di gente nelle grandi officine non devono esser indefini-
tamente abbandonati ai loro bisogni e alle loro brame e la logica
conseguenza sarà una folla di miseria predeterminata e sorvegliata,
di miseria organizzata in promozioni e rivestita di uniformi e che
sarà quotidianamente riunita con accompagnamento di tamburi...
V’è la prospettiva di una lunga e volontaria sottomissione a singoli
capi ed usurpatori. La gente non crede più nei principi, ma crederà
probabilmente ogni tanto ai messia. Per questa ragione nello splen-
dido ventesimo secolo l’autorità rialzerà ancora la testa, e il suo vol-
to sarà spaventoso».1
Prevedendo per il ventesimo secolo sistemi come il fascismo e lo
stalinismo, Burckhardt differisce di poco dalle previsioni del rivolu-
zionario Proudhon. La minaccia per il futuro è, scrive Proudhon,
«...una compatta democrazia che abbia l’apparenza di esser fondata
sulla dittatura delle masse, ma nella quale le masse non abbiano più
potere di quanto sia necessario per assicurare un asservimento gene-
rale in accordo con i seguenti precetti e principi presi a prestito dal
vecchio assolutismo: indivisibilità dei pubblici poteri, centralizza-
zione che assorbe ogni cosa, distruzione sistematica di ogni modo di
pensare individuale, associativo, regionale (che sarà considerato di-
struttivo), polizia inquisitoria...». «Non dovremmo più ingannarci,
egli scrisse; l’Europa è stanca di pensiero e di ordine e sta entrando
in un’era di forza bruta e di disprezzo per i principi». E più tardi:
«Allora comincerà la grande guerra delle sei grandi potenze... Verrà
la strage e terribile sarà l’indebolimento che farà seguito a questi
bagni di sangue. Non vivremo per vedere il lavoro dell’era nuova,
combatteremo nelle tenebre; dobbiamo prepararci a sopportare que-
sta vita senza troppa tristezza, facendo il nostro dovere. Aiutiamoci
1 J. BURCKHARDT, Briefe, ed' F. Kaplan, Lipsia 1935; lettere del 26 aprile 1872, 13 aprile
1882, 24 luglio 1899.
6. ALTRE VARIE DIAGNOSI 184
l’un l’altro, chiamiamoci l’un l’altro nella desolazione e pratichiamo
la giustizia ovunque ne sia data l’occasione». E conclude: «La civiltà
odierna è nella stretta di una crisi per la quale si può trovare nella
storia una sola analogia, cioè la crisi che determinò l’avvento del
cristianesimo. Tutte le tradizioni sono logore, tutte le credenze sono
abolite, ma il programma nuovo non è ancora pronto; con ciò inten-
do dire che esso non è ancora entrato nella consapevolezza delle
masse. Da ciò deriva quel che chiamo la disintegrazione. Questo è il
momento più crudele nella vita delle società... Non mi illudo affatto
e non mi attendo di svegliarmi un mattino e vedere la resurrezione
della libertà nel nostro paese, come per un colpo di bacchetta magi-
ca... No, no; decadenza, e decadenza per un periodo di cui non posso
preveder la fine e che durerà non meno di una o due generazioni, è il
nostro destino... Vedrò soltanto il male, morirò nel più fitto delle
tenebre».2
Mentre Burckhardt e Proudhon prevedevano il fascismo e lo sta-
linismo come il risultato della cultura del diciannovesimo secolo
(profezia che fu ripetuta più specificamente nel 1907 da Jack Lon-
don nel suo Tallone di ferro), altri centrarono le loro diagnosi sulla
povertà spirituale e sulla alienazione della società contemporanea
che, secondo loro, doveva portare ad una crescente disumanizzazio-
ne e decadenza della cultura.
Quanto si rassomigliano le due affermazioni fatte da due scrittori
così diversi l’uno dall’altro come Baudelaire e Tolstoj! Baudelaire
scrive nel 1851 in alcuni frammenti intitolati Fusées: «Il mondo si
avvia al tramonto. L’unica ragione del suo sussistere è la sua esi-
stenza di fatto. Ma come è debole questa ragione confrontata con
tutto ciò che preannuncia il contrario, in particolare con la domanda:
che cosa ha ancora da fare il mondo in futuro? Infatti, anche suppo-
sto che esso continui ad esistere materialmente, sarebbe questa anco-
ra un’esistenza degna di tale nome e del dizionario storico? Io non
voglio affermare che il mondo cadrà nel disordine grottesco delle
repubbliche sudamericane e che noi ritorneremo al livello dei sel-
vaggi, per vagare in cerca di cibo col fucile alla mano tra le rovine
ricoperte di vegetazione della nostra civiltà. No: poiché queste av-
venture presuppongono pur sempre una certa energia vitale, una eco
2 Citato da E. DOLLEANS, Proudhon, Gallimard, Parigi 1948, p. 96ss.
185 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
dei tempi primitivi. Noi daremo piuttosto un nuovo esempio
dell’inesorabilità delle leggi spirituali e morali e ne saremo le vitti-
me, poiché periremo proprio a causa di ciò da cui ci ripromettevamo
la vita. La meccanizzazione ci avrà a tal punto americanizzati, il
progresso avrà reso così perfetta la miseria della nostra esistenza
spirituale, che anche il più sanguinario, il più iniquo e il più snatura-
to dei sogni degli utopisti apparirà innocente di fronte a questi fatti.
Io invito ogni individuo pensante a mostrarmi quanto ancora sia ri-
masto della vita. Per quanto riguarda
la religione, ritengo superfluo anche soltanto accennarvi e cercar-
ne i residui, poiché l’unico scandalo in questo campo è che qualcuno
si prende ancora la pena di negare Dio. La proprietà privata in fondo
era già stata eliminata con l’abolizione del diritto di primogenitura;
eppure verrà tempo in cui l’umanità, come un cannibale avido di
vendetta, strapperà il suo ultimo pezzo dalle mani di coloro che si
ritengono i legittimi eredi della rivoluzione. E questo non sarebbe
ancora il peggio... E non saranno le istituzioni politiche le sole a ri-
velare la generale decadenza, o se si vuole il generale progresso - il
nome è indifferente. Occorre aggiungere ancora che nella marea cre-
scente di istinti puramente bestiali sopravvivranno soltanto miseri
resti di una vita politica e che i governanti, per conservare il potere e
per creare anche solo una parvenza di ordine, ricorreranno a mezzi
dinanzi ai quali l’umanità attuale, che tuttavia è già abbastanza pro-
vata, tremerebbe di spavento?».3
Qualche anno più tardi Tolstoj scrisse: «La teologia medievale o
la corruzione morale avvelenarono soltanto alcuni popoli, e quindi
una piccola parte dell’umanità; oggi l’elettricità, le ferrovie e i tele-
grafi corrompono il mondo intero. Tutti si impadroniscono di queste
cose, non possono fare a meno di appropriarsene, e tutti soffrono
nello stesso modo, sono egualmente costretti a mutare il loro modo
di vita. Tutti si trovano nella necessità di tradire ciò che per la loro
vita è la cosa più importante: la comprensione della vita stessa, la
religione. Macchine, per produrre che cosa? Telegrafi, per trasmette-
re che cosa? Libri, giornali, per diffondere quali notizie? Ferrovie,
per viaggiare verso chi e verso quale meta? Milioni di uomini insie-
3 Citato da K. Löwith, Significato e fine della storia, Edizioni di Comunità, 2a ed., Milano
1963, pp. 117-18.
6. ALTRE VARIE DIAGNOSI 186
me ammassati e sottomessi ad un’autorità superiore, per compiere
che cosa? Ospedali, medici, farmacie, per prolungare la vita - a quale
scopo?... Con quanta facilità singoli individui ed interi popoli si im-
padroniscono di ciò che si chiama civiltà! Frequentare l’università,
curarsi le unghie, servirsi del sarto e del barbiere, viaggiare all’estero
- ecco l’uomo altamente civilizzato. E per quanto riguarda i popoli:
la maggior quantità possibile di ferrovie, accademie, fabbriche, co-
razzate, fortificazioni, giornali, libri, partiti, parlamenti - ed ecco il
popolo più civile. Così individui e popoli possono venire guadagnati
alla civiltà, non però alla vera illuminazione: la prima è facile, non
richiede alcuno sforzo ed ha successo; la seconda invece esige uno
sforzo continuo e perciò presso la grande maggioranza non soltanto
non ha successo ma incontra soltanto disprezzo ed odio, poiché rive-
la le menzogne della civiltà».4
Meno violenta, ma chiara come quella dello scrittore precedente è
la critica di Thoreau alla cultura moderna. Nel suo Life without
Principle (1861)5 egli dice: «Consideriamo la maniera in cui spen-
diamo la nostra vita. Questo mondo è un luogo di affari. Quale infi-
nito trambusto! Sono svegliato quasi ogni notte dallo sbuffare della
locomotiva, che interrompe i miei sogni. Non c’è sosta. Sarebbe
straordinario vedere l’umanità star in ozio per una volta. Non c’è
altro che lavoro, lavoro, lavoro. Non mi è facile comprarmi un qua-
derno per scrivervi i miei pensieri; trovo solo i libri per la contabilità
in dollari e centesimi. Un irlandese che mi vide mentre stavo pren-
dendo gli appunti in un prato, era convinto che io calcolassi i miei
redditi. Se un uomo è stato buttato da una finestra quand’era bambi-
no e così reso invalido per tutta la vita, o è stato spaventato a morte
dai pellirosse, ce ne rammarichiamo principalmente perché così è
reso inabile... agli affari! Penso non vi sia nulla, nemmeno il delitto,
più contrario alla poesia, alla filosofia, alla vita stessa, di questo in-
cessante trafficare.
Se un uomo impiega quotidianamente mezza giornata a cammi-
nar nei boschi perché ciò gli piace, rischia di esser considerato uno
scioperato; ma se egli occupa tutta la sua giornata come speculatore,
4 Citato da Löwith, op. cit., p. 119. Da Tolstois Flucht und Tod, a cura di R. Fülöp-Muller e F.
Eckstein, Berlino 1925, p. 103. 5 Pubblicato in The Portable Thoreau, a cura di Carl Bode, The Viking Press, New York 1947,
pp. 631-55.
187 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
tagliando quei boschi e spogliando la terra prima del tempo, sarà
stimato cittadino industrioso e intraprendente. Come se ad una città
non interessassero le sue foreste se non per abbatterle!
Le vie per le quali si può far denaro portano quasi senza eccezio-
ni verso il basso. L’aver fatto qualcosa solo per guadagnar denaro è
davvero esser stato ozioso o peggio. Se il lavoratore non prende altro
che il denaro che il suo datore di lavoro paga, è truffato e truffa se
stesso. Se si volesse far denaro come scrittore o conferenziere, si
dovrebbe esser popolari, il che vorrebbe dire precipitare
Il fine del lavoratore non dovrebbe esser di guadagnarsi da vive-
re, o di avere un buon posto, ma di far bene un certo lavoro; ed an-
che in un senso finanziario sarebbe economico per una città che i
suoi operai fossero pagati così bene da non accorgersi di lavorare per
un fine così basso, come è il puro mantenimento, ma per un fine
scientifico o anche morale. Non impiegare un uomo che faccia il tuo
lavoro per denaro, ma uno che lo faccia perché gli piace... I modi in
cui molti uomini si guadagnano da vivere, cioè vivono, sono puri
espedienti temporanei, evasioni dal vero compito della vita, e ciò
principalmente perché essi non sanno, ma in parte anche perché non
vogliono, far meglio...».
Riassumendo le sue opinioni egli dice: «Si dice che l’America è
l’arena su cui si deve combattere la battaglia per la libertà; ma ciò
che si intende non è certamente la libertà in senso meramente politi-
co. Ora che la repubblica, la res publica, è stata sistemata, è tempo di
badare alla res privata, alla condizione privata, di curare, come il
senato romano diede incarico ai suoi consoli, "ne quid res privata
detrimenti caperet", che la condizione privata non sia avvilita.
Non chiamiamo questa la terra degli uomini liberi? E che serve
esser liberi da Re Giorgio e continuare ad esser schiavi del Re Pre-
giudizio? E che serve esser nati liberi e non vivere liberi? Qual è il
valore di ogni libertà politica se non quello di un mezzo per la libertà
morale? È della libertà di esser schiavi o della libertà di esser liberi
che ci vantiamo? Siamo una nazione di politicanti che si interessano
soltanto della difesa marginale della libertà. Probabilmente saranno i
figli dei nostri figli ad esser davvero liberi. Noi ci tassiamo ingiu-
stamente. C’è una parte di noi che non è rappresentata; c’è una tas-
sazione senza rappresentanza. Manteniamo a nostre spese truppe,
pazzi, e bestiame d’ogni genere. Manteniamo i nostri grossi corpi a
6. ALTRE VARIE DIAGNOSI 188
spese delle nostre povere anime, fino a che i primi consumino tutti i
beni delle seconde.
Le cose che ora occupano maggiormente l’attenzione degli uomi-
ni, come la politica e la routine quotidiana, sono, è vero, funzioni
vitali della società umana, ma dovrebbero esser svolte inconsciamen-
te, come le corrispondenti funzioni del corpo fisico. Esse sono infra-
umane, una sorta di vegetazione. Talvolta arrivo ad essere parzial-
mente conscio di come esse si svolgono attorno a me, allo stesso
modo che un uomo può diventar parzialmente consapevole, in uno
stato di malattia, del processo di digestione, ed avere quel che si
chiama una dispepsia. È come se un pensatore si lasciasse disturbare
dal gran ventriglio della creazione. La politica è, per così dire, lo
stomaco della società, pieno di sabbia e di sassolini, e i due partiti
politici sarebbero le sue due opposte metà, che talvolta capita siano
divise in quarti, che si macinano l’un l’altro. Non soltanto gli indivi-
dui, ma anche gli stati hanno in tal modo una ostinata dispepsia, che
si può immaginare con qual genere di eloquenza si esprima. Così la
nostra vita non è soltanto un dimenticare, ma, anche, ahimè!, è in
gran misura un ricordare ciò di cui non avremmo mai dovuto esser
consapevoli, almeno quando si è svegli. Perché non ci si dovrebbe
incontrare, non sempre come dispeptici per raccontarci i nostri catti-
vi sogni, ma qualche volta come eupeptici, per rallegrarci l’un l’altro
di un meraviglioso mattino? Certo, non domando troppo».
Una delle più penetranti diagnosi della cultura capitalistica del
diciannovesimo secolo fu fatta da un sociologo: E. Durkheim, che
non era un radicale né politico né religioso. Egli afferma che nella
moderna società industriale l’individuo e il gruppo non funzionano
più in modo soddisfacente; e che essi vivono in una condizione di
«anomia», cioè in una mancanza di vita sociale significativa e fun-
zionale; e che l’individuo segue sempre più «un movimento senza
tregua, un disordinato sviluppo di sé, un fine della vita che non ha
scala di valori e nel quale la felicità si trova sempre nel futuro e mai
in alcuna realizzazione presente». L’ambizione dell’uomo, che ha il
mondo intero per suo cliente, diventa illimitata, ed egli è pieno di
disgusto, della «futilità di un perseguimento senza meta». Durkheim
segnala che soltanto lo stato politico sopravvisse alla rivoluzione
francese come isolato fattore di organizzazione collettiva. E il risul-
tato è la scomparsa di un ordine sociale genuino, ove lo stato si pre-
189 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
senta come la sola attività di organizzazione collettiva di carattere
sociale. L’individuo, libero da tutti i genuini vincoli sociali, si trova
abbandonato, isolato e demoralizzato.6 La società diventa «un disor-
ganizzato pulviscolo di individui».7
Secolo ventesimo
Volgendoci ora al ventesimo secolo, c’è anche una notevole so-
miglianza nelle critiche e nelle diagnosi della malattia mentale della
società contemporanea, proprio come nel diciannovesimo secolo, e
ciò è particolarmente significativo in considerazione del fatto che
esse provengono da persone di differenti opinioni filosofiche e poli-
tiche. Anche se in questa rassegna tralascio la maggior parte delle
critiche socialiste dei secoli diciannovesimo e ventesimo, poiché le
considererò a parte nel capitolo che segue, comincerò con le opinioni
del socialista inglese R.H. Tawney, dato che esse sono per molti
aspetti collegate alle opinioni espresse in questo libro. Nella sua
classica opera, The Acquisitive Society (pubblicata originariamente
col titolo The Sickness of an Acquisitive Society), egli segnala il fat-
to che il principio sul quale si basa la società capitalistica è il domi-
nio delle cose sull’uomo. Nella nostra società, egli scrive, «...persino
uomini sensibili sono convinti che il capitale "impiega" il lavoro,
come i nostri antenati pagani immaginavano che quegli altri pezzi di
legno e ferro, che essi ai loro tempi deificavano, facessero crescere i
loro raccolti o vincere le loro battaglie. Quando gli uomini giungono
al punto di parlare come se i loro idoli fossero vivi, allora è giunto il
momento che qualcuno li infranga. La manodopera consiste di per-
sone, il capitale di cose. La sola utilità delle cose è di esser messe al
servizio delle persone».8 Egli precisa che l’operaio non dà
nell’industria moderna il meglio delle sue energie perché manca di
interesse al suo lavoro, dato che non partecipa al controllo.9 Egli po-
stula, come sola via d’uscita dalla crisi della società moderna, un
mutamento dei valori morali. Occorre assegnare «...all’attività eco-
6 Emile Durkheim, Le Suicide, cit., p. 449. 7 Ibidem, p. 448 (corsivo mio). 8 Op. cit., p. 99. 9 Ibidem, pp. 106, 107.
6. ALTRE VARIE DIAGNOSI 190
nomica stessa il suo giusto posto di serva, e non di padrona, della
società. Il peso della nostra civiltà non consiste meramente, come
molti ritengono, nel fatto che il prodotto industriale sia mal distribui-
to, o che la direzione dell’attività industriale sia tirannica, o che il
suo funzionamento sia turbato da aspri dissensi; ma nel fatto che la
stessa industria sia giunta ad assumere, fra gli interessi umani, una
posizione di predominio esclusivo che nessun singolo interesse, e
meno di tutti quello di provvedere ai mezzi materiali dell’esistenza, è
degno di occupare. Come un ipocondriaco è così preoccupato del
funzionamento del suo fegato da giungere alla tomba prima di aver
cominciato a vivere, così, a causa della loro febbrile preoccupazione
per i mezzi con cui si possono acquistare le ricchezze, le comunità
industrializzate trascurano proprio quegli oggetti per i quali val la
pena di diventare ricchi.
Questa ossessione per le questioni economiche è tanto provincia-
le e transitoria quanto repulsiva e inquietante. Alle generazioni futu-
re essa sembrerà tanto pietosa quanto lo sembrano oggi a noi le di-
spute religiose del diciassettesimo secolo; in effetti essa è meno ra-
zionale, dato che i problemi di cui si occupa hanno minor importan-
za di quelle. Ed è un veleno che irrita ogni ferita e trasforma ogni
banale graffiatura in un’ulcera maligna. La società non risolverà i
particolari problemi industriali che l’affliggono fino a che non sia
eliminato il veleno ed essa non abbia imparato a vedere la stessa in-
dustria nella giusta prospettiva. Se vuol far ciò, la società deve rior-
ganizzare la sua scala di valori; deve considerare gli interessi eco-
nomici come uno degli elementi della vita, e non come tutto ciò che
vale della vita. La società deve convincere i suoi membri a rinuncia-
re alle occasioni di aumentare il loro guadagno senza alcun servizio
corrispondente, perché la lotta per il guadagno mantiene in uno stato
di febbre l’intera comunità. Essa deve organizzare l’industria in mo-
do che il carattere strumentale dell’attività economica sia accentuato
dalla sua subordinazione agli scopi sociali per i quali essa si svol-
ge».10
Uno dei più notevoli studiosi contemporanei della civiltà indu-
striale negli Stati Uniti, Elton Mayo, condivise, sebbene un po’ più
cautamente, l’opinione di Durkheim. «È vero, egli disse, che il pro-
10 Ibidem, pp. 183, 184.
191 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
blema della disorganizzazione sociale, con la sua conseguente
"anomia", esiste probabilmente in una forma più acuta a Chicago che
nelle altre parti degli Stati Uniti. Ed è probabile che questa sia una
questione di più immediato interesse negli Stati Uniti che non in Eu-
ropa. Ma si tratta di un problema relativo allo sviluppo sociale al
quale è interessato il mondo intero».11
Esaminando la preoccupazio-
ne moderna per le attività economiche, Mayo dice: «Proprio come i
nostri studi politici ed economici hanno per duecento anni atteso a
prender in considerazione soltanto le questioni economiche connesse
alla vita, così anche nella nostra vita attuale abbiamo inavvertita-
mente lasciato che il perseguimento dello sviluppo economico ci
portasse ad una condizione di estesa disintegrazione sociale... È pro-
babile che il lavoro che un uomo fa rappresenti la sua funzione più
importante nella società, ma se non c’è nella sua vita qualche sfondo
sociale integrale, egli non può nemmeno attribuire un valore al suo
lavoro. Le scoperte che Durkheim fece nella Francia del diciannove-
simo secolo sembrerebbero applicabili all’America del ventesimo
secolo».12
Riferendosi al suo esteso studio sull’atteggiamento degli
operai delle officine Hawthorne verso il loro lavoro, egli giunge alla
seguente conclusione. «La incapacità degli operai e dei sorveglianti
di comprendere il loro lavoro e le loro condizioni di lavoro e l’esteso
senso di inutilità personale sono comuni al mondo civile, e non sol-
tanto caratteristici di Chicago. La fede dell’individuo nella sua fun-
zione sociale e nella solidarietà col gruppo, la sua capacità di coope-
rare nel lavoro, sono scomparse, distrutte in parte dal rapido progres-
so scientifico e tecnico. Con questa fede sono svaniti anche il suo
senso di sicurezza e di benessere, ed egli comincia a manifestare
quelle eccessive esigenze di vita che Durkheim ha descritto».13
Mayo non è soltanto d’accordo con Durkheim sul punto essenziale
della sua diagnosi, ma giunge anche alla conclusione critica che nel
mezzo secolo di ricerca scientifica successivo a Durkheim si sono
fatti progressi ben modesti nella comprensione del problema. «Men-
tre, egli scrive, nei settori materiale e scientifico ci siamo preoccupa-
ti di sviluppare la conoscenza e la tecnica, nel settore umano e politi-
11 E. MAYO, The Human Problems of an Industrial Civilization, The Macmillan Company,
New York 1933, p. 125. 12 Ibidem, p. 131. 13 Ibidem, p. 159.
6. ALTRE VARIE DIAGNOSI 192
co-sociale ci siamo accontentati di congetture casuali e di tentenna-
menti opportunistici».14
E più avanti: «...dobbiamo constatare poi il
fatto che nell’importante campo della comprensione e del controllo
umani noi siamo ignoranti dei fatti e della loro natura; il nostro op-
portunismo nell’amministrazione e nell’indagine sociale ci ha resi
incapaci di qualsiasi cosa salvo che dell’impotente riconoscimento di
un disastro generale... Così siamo costretti ad aspettare che
l’organismo sociale si risani o perisca, senza adeguato aiuto medi-
co».15
Parlando più specificamente dell’arretratezza del nostro pen-
siero politico, egli afferma: «In generale il pensiero politico ha teso a
collegarsi alle sue origini storiche; esso non è riuscito a creare e a
continuare una decisa indagine sul mutamento strutturale della socie-
tà. Nel frattempo la società, le condizioni attuali dei popoli civili
hanno subito una così gran varietà di mutamenti, che ogni mera ripe-
tizione delle antiche formule suona a vuoto e non convince nessu-
no».16
Un altro attento studioso della scena sociale contemporanea, F.
Tannenbaum, giunge a conclusioni che non mancano di rapporto con
quelle di Tawney, nonostante il fatto che Tannenbaum ponga
l’accento sul ruolo di primaria importanza del sindacato, contraria-
mente all’insistenza socialista di Tawney sulla partecipazione diretta
degli operai. Nella conclusione della sua Philosophy of Labor, Tan-
nenbaum scrive: «L’errore maggiore dell’ultimo secolo è consistito
nell’ipotesi che una società integrata si possa organizzare su un mo-
vente economico, il profitto. Il sindacato ha dimostrato che questa
idea è falsa. Esso ha dimostrato ancora una volta che l’uomo non
vive di solo pane. Poiché l’azienda capitalistica può dare soltanto
pane o pietanza ha dimostrato con ciò di non esser in grado di soddi-
sfare le esigenze di una vita migliore. Il sindacato, con tutti i suoi
errori, può ancora salvare l’azienda e le sue grandi possibilità incor-
porandola entro la sua propria "società" naturale, la sua propria ma-
nodopera collegata, e dotandola dei significati che tutte le vere socie-
tà possiedono, significati che diano qualche nutrimento ideale
all’uomo durante il suo viaggio dalla culla alla tomba. Questi signi-
14 Ibidem, p. 132. 15 Ibidem, pp. 169, 170. 16 Ibidem, p. 138.
193 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
ficati non possono esser afferrati espandendo il movente economico.
Se la società anonima deve sopravvivere, essa dovrà esser dotata di
un compito morale nel mondo e non meramente di un compito eco-
nomico. Considerata sotto questo punto di vista la sfida del sindaca-
to alla direzione è benefica e ricca di speranze. Essa costituisce una
strada, forse la sola che si possa percorrere, per salvare i valori della
nostra società democratica e anche il sistema industriale contempo-
raneo. In qualche modo l’azienda e la sua manodopera debbono di-
ventare un gruppo unico e non esser più una cosa divisa e apparen-
temente in lotta».17
Lewis Mumford, con i cui scritti le mie idee hanno molti punti in
comune, dice riguardo alla nostra civiltà contemporanea: «La critica
più letale che si possa fare alla civiltà moderna è che, indipendente-
mente dalle sue crisi e catastrofi provocate dall’uomo, essa non è
umanamente interessante.
In conclusione una tale civiltà può produrre soltanto un uomo di
massa: incapace di scelta, incapace di attività spontanee e autonome:
nel caso migliore paziente, docile, disciplinato in vista di un lavoro
monotono in un grado quasi pietoso, ma sempre più irresponsabile
quanto più diminuiscono le sue possibilità di scelta: in conclusione,
una creatura dominata principalmente dai suoi riflessi condizionati,
il tipo ideale richiesto, benché mai interamente realizzato,
dall’agenzia pubblicitaria o dall’organizzazione di vendita di una
azienda moderna, o dagli uffici propaganda e dai comitati di pianifi-
cazione dei governi totalitari o quasi totalitari. La lode migliore per
tali creature è: "Essi non danno noie". La loro virtù più nobile è:
"Essi sono allineati". Infine una tale società produce due soli gruppi
di uomini: i condizionatori e i condizionati, i barbari attivi e quelli
passivi. La denuncia di questo tessuto di falsità, di inganno di se
stessi, di vuoto è forse ciò che ha reso Morte di un commesso viag-
giatore tanto dolorosamente vivo per il pubblico delle grandi città
americane.
Ora è evidente che questo caos meccanico non è destinato a per-
petuarsi con le sue stesse forze, poiché esso offende e umilia lo spiri-
to umano; e quanto più rigido ed efficace esso diventa come sistema
17 Frank TANNENBAUM, A Philosophy of Labor, Alfred A. Knopf, Inc., New York 1952, p.
168.
6. ALTRE VARIE DIAGNOSI 194
meccanico, tanto più tenace sarà la reazione umana contro di esso.
Alla fine esso spingerà l’uomo moderno alla ribellione cieca, al sui-
cidio o al rinnovamento; fino ad oggi ha operato nei primi due modi.
Secondo questa analisi, la crisi che affrontiamo adesso sarebbe con-
nessa alla nostra cultura anche se non avesse per qualche miracolo
scatenato le disintegrazioni più violente fra quelle verificatesi nella
storia recente».18
A.R. Heron, convinto sostenitore del capitalismo e scrittore di
tendenze molto più conservatrici di quelli citati fin qui, giunge tutta-
via a conclusioni critiche che sono sostanzialmente molto vicine a
quelle di Durkheim e di Mayo. Nel suo Why Men Work, scrive: «È
inverosimile immaginare che una gran moltitudine di operai com-
metta un suicidio in massa a causa della noia, di un senso di inutilità
e di frustrazione. Ma la natura inverosimile del quadro svanisce
quando si allarghi il nostro concetto di suicidio al di là della morte
fisica del corpo. L’essere umano che si sia rassegnato ad una vita
sprovvista di pensiero, di ambizione, di orgoglio e di soddisfazioni
personali, si è rassegnato alla morte di quegli attributi che sono ele-
menti distintivi della vita umana. Occupare col corpo fisico un posto
in una officina o in un ufficio, compiere movimenti calcolati dalla
mente di altri, impiegare le energie fisiche, o azionare l’energia del
vapore o dell’elettricità, non sono di per se stesse manifestazioni
delle facoltà essenziali degli esseri umani.
L’inadeguatezza di quel che si chiede alle facoltà umane non può
esser meglio indicata che riferendoci alle tecniche moderne per
l’impiego degli operai. L’esperienza ha dimostrato che c’è un im-
pressionante numero di lavori che non possono essere svolti in modo
soddisfacente da persone di intelligenza media o superiore. Non è
una risposta l’osservare che di questi lavori ha bisogno un gran nu-
mero di persone di intelligenza inferiore. Le direzioni aziendali con-
dividono la responsabilità con uomini di stato, pastori ed educatori
per il miglioramento dell’intelligenza di tutti noi. In una democrazia
noi saremo sempre governati dai voti indifferenziati della popolazio-
ne, che include individui la cui intelligenza è naturalmente bassa o il
cui potenziale sviluppo intellettuale e spirituale è stato ostacolato.
18 L. MUMFORD, The Conduct of Life, Harcourt, Brace & Company, New York 1951, pp. 14
e 16.
195 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
Non dobbiamo mai abbandonare i vantaggi materiali che abbia-
mo avuto dalla tecnologia, dalla produzione di massa e dalla specia-
lizzazione dei compiti. Ma non realizzeremo mai gli ideali americani
se creiamo una classe di lavoratori cui è negata la soddisfazione di
un lavoro che abbia un significato. Non saremo capaci di difendere
questi ideali se non useremo ogni mezzo della pubblica amministra-
zione, dell’educazione e dell’industria per il miglioramento delle
capacità umane di coloro che sono i nostri governanti: le decine di
milioni di uomini e donne comuni. La parte di questi compiti che è
propria delle direzioni aziendali consiste nel fornire condizioni di
lavoro che liberino l’istinto creativo di ogni lavoratore ed offrano
possibilità di azione alla sua facoltà divino-umana di pensare».19
Dopo aver ascoltato le voci di diversi studiosi di scienze sociali,
concluderemo questo capitolo sentendo quel che ci dicono tre uomi-
ni che sono estranei al campo della scienza sociale: A. Huxley, A.
Schweitzer, A. Einstein. L’atto di accusa di Huxley al capitalismo
del ventesimo secolo si trova nel suo Brave New World. In questo
romanzo (1931) egli descrive la visione di un mondo automatizzato
che è evidentemente folle e che tuttavia soltanto nei particolari e nel-
la misura differisce dalla realtà di oggi. Egli vede come sola alterna-
tiva la vita del selvaggio con una religione che è per metà culto della
fecondità e per metà ferocia di penitenza. In una prefazione scritta
per la nuova edizione di Brave New World (1946) egli dice: «Sup-
ponendo dunque che noi si sia capaci di ricavare da Hiroshima la
lezione che i nostri antenati hanno tratto dal Magdeburgo, si potreb-
be guardare ad un periodo, non proprio di pace, ma di guerre ristrette
o soltanto limitatamente disastrose. Si potrebbe supporre che durante
questo periodo l’energia nucleare sarebbe controllata per usi indu-
striali, e il risultato sarebbe molto evidentemente un susseguirsi di
mutamenti sociali che non avrebbero precedenti in rapidità e com-
pletezza. Tutte le strutture della vita umana ora esistenti saranno in-
frante e nuove strutture saranno improvvisate e adattate al fatto non
umano dell’energia atomica. Procuste in abiti moderni, lo scienziato
nucleare predisporrà il letto su cui l’umanità dovrà distendersi; e se
l’umanità non si adatterà alla misura, tanto peggio per l’umanità. Ci
sarà qualche stiratina e qualche amputazione; lo stesso genere di sti-
19 A.R. HERON, Why Men Work, Stanford University Press, Stanford 1948, pp. 121, 122.
6. ALTRE VARIE DIAGNOSI 196
ratine e amputazioni che si sono avute da quando hanno cominciato
a farsi avanti le scienze applicate, soltanto che questa volta saranno
un po’ più violente che nel passato. Queste operazioni tutt’altro che
indolori saranno dirette da un governo autoritario rigorosamente cen-
tralizzato. Sarà inevitabilmente così poiché il futuro immediato so-
miglierà all’immediato passato, e nell’immediato passato i rapidi
mutamenti tecnologici, avvenendo in una economia di produzione di
massa e fra una popolazione prevalentemente senza proprietà, hanno
sempre contribuito a creare confusione economica e sociale. Per far
fronte alla confusione, si dovrà centralizzare il potere e aumentare il
controllo governativo. È probabile che tutti i governi del mondo sa-
ranno più o meno completamente governi totalitari anche prima che
l’energia atomica sia controllata; sembra quasi certo che essi saranno
totalitari durante e dopo tale controllo. Soltanto un movimento lar-
gamente diffuso verso la decentralizzazione e l’iniziativa spontanea
può arrestare l’attuale tendenza verso lo statalismo.20
Al momento
non c’è segno che un tale movimento possa verificarsi.
Non vi sono, naturalmente, delle ragioni per le quali i nuovi tota-
litarismi debbano somigliare agli antichi. Governare coi bastoni dei
poliziotti e con i plotoni di esecuzione, con la carestia artificiale, con
gli imprigionamenti e le deportazioni in massa, non è soltanto una
cosa inumana (e nessuno ne è al giorno d’oggi molto entusiasta), ma
è palesemente inefficiente, e in un’era di avanzata tecnologia
l’inefficienza è il peccato contro lo spirito. In uno stato totalitario
veramente efficiente l’onnipotente potere esecutivo dei capi politici
e il loro esercito di funzionari controllano una popolazione di schiavi
senza bisogno di coercizione dato che essi amerebbero la loro schia-
vitù. Far sì che essi la amino è il compito che negli stati totalitari
d’oggi viene assegnato ai ministri della propaganda, ai direttori di
giornali e agli insegnanti. Ma i loro metodi sono ancora rudimentali
e poco scientifici. L’antica vanteria dei gesuiti che, se fosse stato
loro affidato l’insegnamento del bambino, avrebbero potuto rispon-
dere delle opinioni religiose dell’uomo adulto, era un prodotto
dell’illusione. Ed è probabile che il pedagogo d’oggi sia meno in
grado di condizionare i riflessi dei suoi allievi di quanto non lo fos-
sero i reverendi padri che educarono Voltaire. I più grandi trionfi
20 Corsivo mio.
197 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
della propaganda sono stati ottenuti non facendo qualcosa, ma aste-
nendosi dal farla. La verità è grande, ma più grande è, da un punto di
vista pratico, il silenzio sulla verità. Semplicemente col non nomina-
re certe cose, con l’abbassare quel che Winston Churchill chiama un
"sipario di ferro" tra le masse e quei fatti o argomenti che siano giu-
dicati non graditi dai locali capi politici, i propagandisti totalitari
hanno influenzato l’opinione molto più efficacemente di quanto
avrebbero potuto fare con le denunce più eloquenti e le più persuasi-
ve confutazioni logiche. Ma il silenzio non basta. Se si devono evita-
re le persecuzioni, le eliminazioni e gli altri sintomi di attrito sociale,
si devono rendere i lati positivi della propaganda efficaci quanto i
lati negativi. I più importanti "Progetti Manhattan" del futuro saran-
no larghe inchieste sostenute dal governo su quello che i politici e gli
esperti che vi hanno collaborato chiameranno "il problema della feli-
cità", in altre parole, il problema di far sì che la gente ami la propria
servitù. Senza sicurezza economica l’amore per la servitù non può
nascere; in breve, suppongo che l’onnipotente potere esecutivo e i
suoi funzionari riescano a risolvere il problema della sicurezza eco-
nomica permanente. Ma questa sicurezza tende molto presto ad esser
data per scontata. Il suo raggiungimento è soltanto una rivoluzione
superficiale ed esteriore. L’amore per la servitù non può realizzarsi
se non come il risultato di una profonda personale rivoluzione nella
mente e nel corpo degli uomini. Per provocare tale rivoluzione sono
necessarie, tra le altre, le seguenti scoperte e invenzioni. Per prima
cosa: una tecnica di suggestione molto progredita, attraverso il con-
dizionamento del bambino e più tardi con l’aiuto di droghe, come la
scopolamina. Secondo: una scienza completamente sviluppata delle
diverse attitudini umane, che consenta ai dirigenti di assegnare ad
ogni individuo il suo giusto posto nella gerarchia economica e socia-
le. (Chiunque non sia inserito al posto adatto può aver pensieri peri-
colosi per il sistema sociale e contaminare gli altri con il suo scon-
tento). Terzo (dato che la realtà, anche se utopistica, è qualcosa da
cui la gente sente la necessità di distrarsi spesso): un sostituto
dell’alcool e degli altri narcotici, qualcosa che sia ad un tempo meno
pericoloso e più piacevole del gin o dell’eroina. E quarto (ma questo
sarebbe un progetto a lunga scadenza, che presupporrebbe genera-
zioni di controllo totalitario per portare a buona conclusione): un
sistema eugenico sicurissimo, calcolato per normalizzare il prodotto
6. ALTRE VARIE DIAGNOSI 198
umano e facilitare il compito dei dirigenti. In Brave New World que-
sta normalizzazione del prodotto umano è stata spinta a estremi fan-
tastici, sebbene non impossibili. Tecnicamente e ideologicamente
siamo ancora molto distanti dai bambini in bottiglia e dai gruppi di
semideficienti di Bokanovsky. Ma nell’anno 600 A.F. chi sa cosa
potrà non accadere? Intanto gli altri tratti caratteristici di questo
mondo più felice e più stabile - cioè gli equivalenti di "soma" e di
hypnopaedia e il sistema scientifico di casta - non distano forse più
di tre o quattro generazioni. Neppure la promiscuità sessuale del
Brave New World sembra molto distante. Vi sono già alcune città
americane nelle quali il numero dei divorzi è pari al numero dei ma-
trimoni. Non c’è dubbio che in pochi anni le licenze di matrimonio
potranno esser ottenute come le licenze per i cani, valide per un an-
no, senza norme che vietino di cambiare il cane o di prenderne più di
uno per volta. Quanto più diminuisce la libertà economica e politica
tanto più tende a crescere in compenso la libertà sessuale. E il ditta-
tore (a meno che non abbia bisogno di carne da cannone o di fami-
glie con cui colonizzare territori deserti o conquistati) farà bene a
incoraggiare questa libertà. Assieme alla libertà di sognare ad occhi
aperti sotto l’influsso di droghe, dei film e della radio, essa aiuterà a
riconciliare i suoi sudditi con la servitù che è il loro destino.
Tutto considerato, pare che l’Utopia sia molto più vicina a noi di
quanto nessuno, solo 15 anni fa, avrebbe potuto pensare. Allora la
proiettavo di seicento anni nel futuro. Oggi pare del tutto possibile
che l’orrore possa esserci addosso entro un solo secolo. Sempre che
ci si astenga dal farci saltar in aria nel frattempo. Difatti, a meno che
non decidiamo di decentralizzare e di usare la scienza applicata, non
come fine per cui gli esseri umani debbano diventare degli strumenti,
ma come mezzo per produrre una umanità di individui liberi, ci re-
stano soltanto due alternative fra cui scegliere: una è l’esistenza di
un certo numero di totalitarismi nazionali e militarizzati che abbiano
come sostegno il terrore della bomba atomica e come conseguenza la
distruzione della civiltà (o, in caso di guerra ristretta, la perpetuazio-
ne del militarismo); l’altra è un unico totalitarismo sovrannazionale
imposto dal caos che risulterebbe dal rapido progresso tecnologico
generale e dalla rivoluzione atomica in particolare, e che si sviluppe-
199 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
rebbe sotto la spinta dell’esigenza di efficienza e di stabilità, nella
tirannide previdenziale dell’Utopia. Chi paga può far la sua scelta».21
Ed ecco cosa dicono della cultura dei nostri giorni Albert Schwei-
tzer e Albert Einstein, che forse più che ogni altro contemporaneo
esprimono il più elevato sviluppo delle tradizioni intellettuali e mo-
rali della cultura occidentale.
Albert Schweitzer scrive: «Si deve creare una nuova opinione
pubblica privatamente e in modo discreto. Quella che esiste è tenuta
in vita dalla stampa, dalla propaganda, dalle organizzazioni, dal de-
naro e da altri mezzi a sua disposizione. A tale modo innaturale di
diffondere le idee bisogna opporne uno naturale, che passi da uomo
a uomo e si affidi solamente alla verità delle idee ed alla ricettività
dell’ascoltatore alla nuova verità. Disarmato, seguendo il metodo
naturale e primitivo di lotta dello spirito umano, deve attaccare
l’avversario che gli sta di fronte protetto dalla possente armatura del-
la sua epoca, come Golia innanzi a Davide.
Nessuna analogia storica può farci conoscere le fasi della lotta
che seguirà. Il passato ha certo visto liberi pensatori levarsi contro lo
spirito dell’intera società, ma il problema non s’è mai presentato nei
termini d’oggi perché l’odierno spirito collettivo è incatenato dalle
organizzazioni, dalla mancanza di riflessione, dalle passioni popola-
ri, in un modo senza precedenti nella storia.
L’uomo d’oggi avrà la forza necessaria per compiere ciò che lo
spirito richiede e che l’epoca cospira a impedirgli?
Egli deve farsi persona indipendente nella super-organizzazione
che lo tiene avvinto in mille modi. La collettività ricorrerà ad ogni
espediente per mantenerlo in una condizione spersonalizzata; essa
infatti teme la personalità perché in questa lo spirito e la verità tro-
vano il mezzo di esprimersi. Sfortunatamente il potere della società è
grande quanto la sua paura.
Esiste una tragica alleanza tra la società e le condizioni materiali;
con spietata durezza queste tendono a fare dell’uomo contemporaneo
un essere privo di libertà, di indipendenza, di raccoglimento interio-
re, in breve un essere che manca di qualità umane. Purtroppo le con-
dizioni materiali sono l’ultima cosa che possiamo cambiare; anche se
ci fosse concesso di dare inizio all’opera, solo lentamente e parzial-
21 A. HUXLEY, Brave New World, cit., pp. 11-15.
6. ALTRE VARIE DIAGNOSI 200
mente potremmo trasformarla. Si esige dalla volontà quello che le
condizioni di vita le negano.
Quanto arduo il compito affidato allo spirito. Deve creare le pos-
sibilità perché sia accolta come verità quella che è realmente tale,
mentre invece per le strade non corre che propaganda. Deve far sì
che l’ignobile nazionalismo sia messo al bando e sostituito dal nobi-
le patriottismo che tende ai fini degni dell’umanità, mentre invece le
questioni irrisolvibili della politica passata e presente mantengono
accese le passioni nazionalistiche anche tra quanti in cuor loro le
ripudiano. Deve far sì che la civiltà sia scopo dell’intera umanità,
mentre invece la civiltà nazionale è adorata come un idolo e la no-
zione di una comune civiltà giace infranta. Deve mantenere la fidu-
cia nello stato civile anche se gli stati moderni, rovinati spiritual-
mente ed economicamente dalla guerra, non hanno tempo di riflette-
re sui compiti della civiltà e non sono intenti che a raccogliere dena-
ro con ogni possibile mezzo - anche se a danno della giustizia - per
poter prolungare la propria esistenza. Deve unirci in un unico ideale
di umanità civile, e ciò in un mondo dove ogni nazione ha spento nei
popoli vicini la fede nell’umanità, ogni impulso d’idealismo, di retti-
tudine, di ragionevolezza e sincerità, e tutte allo stesso modo sono
cadute sotto il dominio di forze che spingono alla barbarie. Deve far
sì che l’attenzione degli uomini si volga ai problemi della civiltà
mentre le crescenti difficoltà assorbono tutti in preoccupazioni mate-
riali e fanno loro apparire irrilevante ogni altro problema. Deve darci
la fede nella possibilità di progresso mentre l’azione del fattore ma-
teriale su quello spirituale si fa più malefica ogni giorno e favorisce
una sempre maggiore demoralizzazione. Deve darci ragioni di spe-
ranza in un’epoca in cui non solo le istituzioni, le associazioni laiche
e religiose, ma gli stessi uomini cui si guarda come a guide conti-
nuamente ci deludono, quando artisti e studiosi si rivelano difensori
di barbarie e persone che passano per pensatori, ed esteriormente si
comportano come tali, in tempi di crisi si rivelano scrittori
d’accademia.
Tanti ostacoli si frappongono sulla via della civiltà. Una tetra di-
sperazione incombe su noi. Oggi ben comprendiamo gli uomini della
decadenza greco-romana che, incapaci di resistere agli eventi, ab-
bandonavano il mondo al suo fato e si ritiravano nella propria inte-
riorità! Anche noi siamo smarriti e sentiamo voci tentatrici che ci
201 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
esortano a rendere più tollerabile l’esistenza vivendo giorno per
giorno, a rinunciare al nostro individuale destino, a cercare quiete
nella rassegnazione.
L’aver riconosciuto che la civiltà poggia su una concezione del
mondo e che può essere restaurata solamente mediante il risveglio
spirituale e la volontà di valori etici nell’intera umanità, ci spinge a
chiarire a noi stessi le difficoltà che ci stanno davanti, difficoltà che
la riflessione ordinaria tenderebbe a non prendere in serio esame, e
nello stesso tempo ci pone al di sopra di ogni considerazione circa il
possibile e l’impossibile. Se lo spirito etico ci provvederà di una ba-
se sufficiente, se ritorneremo a una concezione del mondo e alle
convinzioni che da essa derivano, allora riavremo la civiltà».22
In un breve articolo, Perché il socialismo, Einstein scrive: «Sono
giunto ora al punto in cui posso indicar brevemente ciò che per me
costituisce l’essenza della crisi del nostro tempo. Essa riguarda il
rapporto dell’individuo con la società. L’individuo è diventato più
consapevole che mai della sua dipendenza dalla società. Ma egli non
riconosce questa dipendenza come un elemento positivo, come un
legame organico, come una forza protettiva, ma piuttosto come una
minaccia ai suoi diritti naturali o persino alla sua esistenza economi-
ca. Inoltre la sua posizione nella società è tale che le esigenze egoi-
stiche della sua costituzione vengono costantemente accentuate men-
tre le sue esigenze sociali, che sono per natura più deboli, si deterio-
rano progressivamente. Tutti gli esseri umani, quale che sia la loro
posizione nella società, soffrono per questo processo di deteriora-
mento. Prigionieri senza saperlo del loro proprio egoismo, si sentono
insicuri, solitari e privi dell’ingenuo, semplice e non artificioso go-
dimento della vita. L’uomo può trovar significato nella vita, per bre-
ve e pericolosa che sia, soltanto dedicandosi alla società».23
22 Citato da Agonia della civiltà, Edizioni di Comunità, Milano 1963, pp. 72-75. 23 A. EINSTEIN, Why Socialism, nella «Monthly Review», vol. 1, 1949, pp. 9-15.
202
7.
Varie risposte
Nel diciannovesimo secolo uomini che vedevano lontano avver-
tirono, al di là del fulgore, della ricchezza e della potenza politica
della società occidentale, il processo di decadimento e di disumaniz-
zazione. Alcuni di loro si rassegnavano alla necessità di una tale
svolta verso la barbarie, altri ponevano una alternativa. Ma sia che
essi prendessero l’una o l’altra posizione, la loro critica era basata su
un concetto religioso-umanistico dell’uomo e della storia. Criticando
la loro stessa società, la trascendevano. Non erano dei relativisti che
dicessero che, fino a che la società funziona, essa è una società equi-
librata e giusta e che, fino a che l’individuo è adattato alla sua socie-
tà, si tratta di un individuo equilibrato e sano. Sia che si pensi a Bur-
ckhardt o a Proudhon, a Tolstoj o a Baudelaire, a Marx o a Kropot-
kin, tutti avevano un concetto dell’uomo che è essenzialmente un
concetto religioso e morale. L’uomo è il fine, e non deve mai essere
usato come un mezzo; la produzione materiale è fatta per l’uomo, e
non l’uomo per la produzione materiale; il fine della vita è lo svol-
gimento dei poteri creativi dell’uomo; il fine della storia è trasforma-
re questa società in una che sia governata dalla giustizia e dalla veri-
tà: sono questi i principi sui quali, esplicitamente o implicitamente,
si basavano tutte le critiche al capitalismo moderno.
Questi principi religioso-umanistici costituivano anche le basi per
le proposte di una società migliore. Di fatto, la più importante
espressione di entusiasmo religioso degli ultimi duecento anni si tro-
va proprio in quei movimenti che hanno rotto con la religione tradi-
zionale. La religione come organizzazione e professione dogmatica
era esercitata nelle chiese; la religione nel senso di fervore religioso
e di fede vivente era per lo più praticata dagli avversari della religio-
ne. Per dar maggior consistenza a queste affermazioni è necessario
considerare alcuni caratteri salienti dello sviluppo della cultura cri-
stiana occidentale. Mentre per i greci la storia non aveva fine, scopo
o termine, il concetto giudaico-cristiano di storia era caratterizzato
dall’idea che il suo significato immanente è la redenzione dell’uomo.
Il simbolo di questa redenzione finale era il Messia; l’epoca era quel-
la messianica. Vi sono tuttavia due diversi concetti di quel che costi-
203 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
tuisce l’eschaton, il «termine dei giorni», il fine della storia. Uno
collega il mito biblico di Adamo ed Eva con il concetto di redenzio-
ne. In breve, l’essenza di questa idea è che originariamente l’uomo
era una sola cosa con la natura. Non v’era conflitto tra lui e la natura
o tra uomo e donna. Ma l’uomo mancava anche della più essenziale
caratteristica umana: quella della conoscenza del bene e del male; e
perciò era incapace di libera decisione e di responsabilità. Il primo
atto di disobbedienza diventò anche il primo atto di libertà ed ebbe
così inizio la storia umana. L’uomo è cacciato dal paradiso, ha per-
duto la sua armonia con la natura, è affidato solo a se stesso. Ma è
debole, la sua ragione è ancora poco sviluppata, il suo potere di resi-
stere alla tentazione è ancora esiguo. Deve sviluppare la sua ragione,
deve crescere ad una completa umanità per realizzare una nuova ar-
monia con la natura, con se stesso e con i suoi simili. Il fine della
storia è la nascita completa dell’uomo, la sua completa umanizza-
zione. Allora «la terra sarà riempita dalla sapienza del Signore come
le acque ricoprono il mare». Tutte le nazioni formeranno un’unica
comunità e le spade saranno trasformate in aratri. Secondo questo
concetto, Dio non compie un atto di grazia. L’uomo deve passare
attraverso molti errori, deve peccare e assumersene le conseguenze.
Dio non risolve i suoi problemi per lui se non rivelandogli i fini della
vita. L’uomo deve conquistare la sua stessa salvezza, egli deve dar
nascita a se stesso, e al termine dei giorni la nuova armonia, la nuova
pace1 sarà stabilita, la maledizione pronunciata contro Adamo ed
Eva sarà ritirata, per così dire, mediante la rivelazione che l’uomo ha
di se stesso nel processo storico.
L’altro concetto messianico di redenzione che diventò predomi-
nante nella chiesa cristiana è che l’uomo non può mai liberarsi dalla
corruzione in cui è incorso come conseguenza della disobbedienza di
Adamo. Soltanto Dio, con un atto di grazia, può salvare l’uomo ed
Egli lo salvò facendosi uomo nella persona di Cristo che morì la
morte sacrificale del redentore. L’uomo, attraverso i sacramenti della
chiesa, diventa partecipe di questa redenzione e così ottiene il dono
della grazia divina. Il termine della storia è la seconda venuta del
Cristo, che è un evento soprannaturale e non storico.
1 In ebraico «Schalom» significa sia armonia (completezza) che pace.
7. VARIE RISPOSTE 204
Questa tradizione continuò in quella parte del mondo occidentale
in cui rimase dominante la chiesa cattolica. Ma per il resto d’Europa
e nell’America del diciottesimo e diciannovesimo secolo il pensiero
teologico perdette sempre più di vitalità. L’età dell’illuminismo fu
caratterizzata dalla lotta contro la chiesa e il clericalismo, e
l’ulteriore sviluppo da un dubbio crescente e infine la negazione di
tutti i concetti religiosi. Ma questa negazione della religione era sol-
tanto una nuova forma di pensiero che esprimeva l’antico entusia-
smo religioso specialmente per quanto riguardava il significato e il
fine della storia. Nel nome della ragione e della felicità, della dignità
umana e della libertà, trovò una nuova espressione l’idea messianica.
In Francia Condorcet, nel suo Esquisse d’un Tableau Historique
des Progrès de l’Esprit Humain (1793), pose la base per la fede in
una perfezione finale del genere umano che avrebbe portato ad una
nuova era della ragione e della felicità e alla quale non vi erano limi-
tazioni. La venuta del regno messianico era il messaggio di Condor-
cet che doveva influenzare Saint-Simon, Comte e Proudhon. Difatti
il fervore della Rivoluzione francese era un fervore messianico in
linguaggio secolare.
La stessa traduzione del concetto religioso di redenzione in lin-
guaggio secolare si verificò nella filosofia illuministica tedesca. Il
Die Erziehung des Menschengeschlechts di Lessing esercitò grandis-
sima influenza sul pensiero tedesco ed anche su quello francese. Per
Lessing il futuro doveva essere l’età della ragione e della presa di
coscienza di sé, raggiunte attraverso l’educazione dell’umanità, at-
tuando in tal modo la promessa della rivelazione cristiana. Fichte
credeva nell’avvento di un millennio spirituale, e Hegel nella realiz-
zazione di un regno di Dio nella storia traducendo così la teologia
cristiana in una filosofia di questo mondo. La filosofia di Hegel tro-
vò la sua più significativa continuazione storica in Marx. Più eviden-
temente forse di quello di tanti altri filosofi illuministi, il pensiero di
Marx è messianico-religioso, in linguaggio secolare. Tutta la storia
passata è soltanto «preistoria», essa è la storia dell’autoalienazione.
Con il socialismo si aprirà la via al regno della storia umana,
dell’umana libertà. La società senza classi della giustizia, della fra-
205 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
ternità e della ragione sarà l’inizio di un nuovo mondo verso la cui
formazione tendeva tutta la storia precedente.2
Sebbene il compito principale di questo capitolo sia di presentare
le idee del socialismo come del più importante tentativo per trovare
una risposta alle malattie del capitalismo, esaminerò innanzitutto
brevemente le risposte totalitarie, e quella che può esser appropria-
tamente chiamata del neocapitalismo.
Idolatria autoritaria
Il fascismo, il nazismo e lo stalinismo hanno in comune il fatto
di offrire all’individuo atomizzato nuovo rifugio e sicurezza. Questi
sistemi costituiscono il massimo dell’alienazione. All’individuo,
ridotto a sentirsi impotente e insignificante, si insegna a proiettare
tutte le sue energie umane nella figura del capo, dello stato, della
«patria», cui deve sottomettersi e che deve venerare. Egli fugge dalla
libertà in una nuova idolatria. Tutte le realizzazioni
dell’individualismo e della ragione dal tardo medioevo al dicianno-
vesimo secolo sono sacrificate sull’altare dei nuovi idoli. I nuovi
sistemi erano costruiti sulle più sfacciate menzogne, sia riguardo ai
programmi sia ai capi. Nei loro programmi essi affermavano di rea-
lizzare una specie di socialismo mentre ciò che facevano era la nega-
zione di ogni cosa che questa parola potesse significare nel sociali-
smo tradizionale. Le figure dei loro capi non fanno altro che accen-
tuare la grande frode. Mussolini, un millantatore codardo, diventò un
simbolo di virilità e di coraggio. Hitler, un maniaco della distruzio-
ne, fu esaltato come il costruttore di una nuova Germania. Stalin, un
ambizioso intrigante di sangue freddo, fu dipinto come l’amoroso
padre del suo popolo.
Tuttavia, nonostante gli elementi comuni, non si possono ignora-
re talune importanti differenze tra queste tre forme di dittatura.
L’Italia, industrialmente la più debole fra le grandi potenze europee
occidentali, rimase relativamente debole e impotente nonostante la
sua vittoria nella prima guerra mondiale. Le sue classi dirigenti non
erano disposte a realizzare nessuna delle riforme necessarie special-
mente nel campo agricolo, e la sua popolazione era in preda ad una
2 Cfr. K. Löwith, op. cit.
7. VARIE RISPOSTE 206
profonda insoddisfazione per lo stato in cui si trovava. Il fascismo
doveva curare la vanità nazionale offesa con i suoi slogan vanaglo-
riosi e doveva distogliere il risentimento delle masse dai suoi origi-
nari obiettivi; nel medesimo tempo, esso voleva convertire l’Italia in
una più progredita potenza industriale. Il fascismo fallì in tutti i suoi
fini realistici, perché non fece mai un serio tentativo di risolvere i
pressanti problemi economici e sociali dell’Italia.
La Germania, al contrario, era il paese più sviluppato e indu-
strialmente progredito d’Europa. Mentre il fascismo poteva avere
almeno una funzione economica, il nazismo non ne aveva alcuna.
Esso era l’insurrezione della piccola borghesia, di ufficiali disoccu-
pati e di studenti, basata sulla demoralizzazione prodotta dalla scon-
fitta militare, dall’inflazione e, più particolarmente, dalla disoccupa-
zione di massa che si verificò nella depressione successiva al 1929.
Ma esso non avrebbe potuto esser vittorioso senza l’attivo appoggio
di importanti settori del capitale finanziario e industriale che si sen-
tivano minacciati da un sempre crescente malcontento delle masse
verso il sistema capitalistico. Il Reichstag tedesco, agli inizi del
1930, aveva una maggioranza formata da quei partiti che, sincera-
mente o insinceramente, avevano un programma in qualche modo
anticapitalistico. Questa minaccia spinse importanti settori del capi-
talismo tedesco ad appoggiare Hitler.
La Russia era esattamente l’opposto della Germania. Industrial-
mente essa era la più arretrata di tutte le grandi potenze europee, ap-
pena uscita com’era da una condizione semifeudale anche se il suo
settore industriale era di per sé altamente sviluppato e centralizzato.
Il crollo improvviso del sistema zarista aveva creato un vuoto in
modo che Lenin, sciogliendo l’altra forza che sola avrebbe potuto
riempire questo vuoto, cioè l’Assemblea costituente, sperava di riu-
scire a passare con un balzo dalla fase semifeudale in quella di un
sistema socialista industrializzato. Nondimeno la politica di Lenin
non era un prodotto del momento, ma la logica conseguenza del suo
pensiero politico concepito molti anni prima dello scoppio della ri-
voluzione russa. Egli, come Marx, credeva nella missione storica
della classe operaia di emancipare la società, ma aveva poca fede
nella volontà e nella capacità della classe operaia di raggiungere
spontaneamente questo fine. Soltanto se la classe operaia veniva
guidata, egli pensava, da un piccolo disciplinato gruppo di rivolu-
207 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
zionari di professione, soltanto se era spinta da questo gruppo a met-
tere in atto le leggi della storia, come Lenin le vedeva, la rivoluzione
poteva riuscire e non diventare alla fine una nuova versione di una
società di classe. Il punto decisivo della posizione di Lenin consiste-
va nel fatto che egli non aveva fede nell’azione spontanea degli ope-
rai e dei contadini, non aveva fede in loro perché non aveva fede
nell’uomo. Questa mancanza di fede nell’uomo costituiva quello che
le idee antiliberali e clericali avevano in comune con il concetto di
Lenin; d’altra parte la fede nell’uomo è la base di ogni movimento
genuinamente progressivo attraverso la storia. La fede nell’umanità
senza la fede nell’uomo o è insincera, oppure, se è sincera, porta agli
stessi risultati che vediamo nella storia tragica dell’inquisizione, del
terrore di Robespierre e nella dittatura di Lenin. Molti rivoluzionari
socialisti e democratici socialisti videro i pericoli del concetto di Le-
nin e nessuno li vide più chiaramente di Rosa Luxemburg. Ella am-
moniva che la scelta doveva esser fatta tra democrazia e burocrazia,
e lo sviluppo degli avvenimenti in Russia mostrò quanto fosse giusta
la sua previsione. Benché ardente e intransigente critico del capitali-
smo, ella era una persona dotata di una fede profonda e inalterabile
nell’uomo. Quando lei e Gustav Landauer furono assassinati dai sol-
dati della controrivoluzione tedesca, si volle uccidere in loro la tradi-
zione umanistica. Fu questa mancanza di fede nell’uomo che rese
possibile ai sistemi autoritari di conquistare gli uomini conducendoli
verso la fede in un idolo piuttosto che in loro stessi.
Tra lo sfruttamento nel primo capitalismo e quello nel leninismo
c’è non poca differenza; il brutale sfruttamento dell’operaio nel pri-
mo capitalismo, anche se sostenuto dal potere politico dell’apparato
statale, non impediva la nascita di idee nuove e avanzate. In effetti
tutte le grandi idee socialiste sono nate proprio in questo periodo, un
periodo in cui poté fiorire l’owenismo o nel quale il movimento car-
tista fu distrutto con la forza soltanto dopo dieci anni. Difatti il go-
verno più reazionario in Europa, quello dello zar, non usò metodi di
repressione che potessero esser comparati con quelli di Stalin. Dalla
brutale repressione della ribellione di Kronstadt in poi la Russia non
offrì alcuna possibilità di sviluppo progressivo, quale offrirono per-
sino i più oscuri periodi del primo capitalismo. Sotto Stalin il siste-
ma sovietico perdette gli ultimi resti delle sue originarie intenzioni
socialiste e l’uccisione della vecchia guardia del bolscevismo negli
7. VARIE RISPOSTE 208
anni trenta di questo secolo costituì soltanto la drammatica espres-
sione finale di questo fatto. Sotto molti aspetti, il sistema stalinista
rivela somiglianza con la prima fase del capitalismo europeo, carat-
terizzata da una rapida accumulazione del capitale e da uno spietato
sfruttamento degli operai, con la differenza, tuttavia, che il terrore
politico viene usato al posto delle leggi economiche che costrinsero
l’operaio del diciannovesimo secolo ad accettare le condizioni eco-
nomiche cui era esposto.
Neocapitalismo
Il polo esattamente opposto è rappresentato da talune idee propo-
ste da un gruppo di industriali negli Stati Uniti (ed anche in Francia)
che cercano una soluzione al problema industriale. La filosofia di
questo gruppo riunito in un «Council of Profit Sharing Industries» è
chiaramente e lucidamente esposta in Incentive Management da Ja-
mes F. Lincoln, che è stato negli ultimi trentotto anni il direttore ge-
nerale della Lincoln Electric Company. Il pensiero di questo gruppo
parte da premesse che in qualche modo ricordano i sopracitati critici
del capitalismo. «L’industria, scrive Lincoln, concentra la sua atten-
zione sulle macchine e trascura l’uomo, che è colui che progetta e
costruisce le macchine e, ovviamente, ha potenzialità molto maggio-
ri. Egli non prenderà in considerazione il fatto che degli ingegni na-
scosti compiano nel suo stabilimento dei lavori manuali nei quali
non hanno l’occasione e neppure l’incentivo di svilupparsi come
ingegni, o perfino di sviluppare la loro intelligenza e le loro facoltà
normali».3 L’autore crede che la mancanza di interesse dell’operaio
per il suo lavoro crei insoddisfazione che porta o alla diminuzione
della capacità produttiva dell’operaio o a discordie nell’industria e
alla lotta di classe. Egli considera la sua soluzione non come un or-
namento per il nostro sistema industriale, ma come problema vitale
per la sopravvivenza del capitalismo. «L’America, egli scrive, si tro-
va al bivio in questi problemi. Una decisione deve esser presa, e pre-
sto. C’è in generale molta incomprensione tra la gente, però si deve
scegliere. In questa decisione sta l’avvenire degli Stati Uniti e quello
3 J.F. LINCOLN, Incentive Management, pubblicato dalla Lincoln Electric Co., Cleveland
1951, pp. 113, 114 (corsivo mio).
209 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
dell’individuo».4 Egli critica, completamente in contrasto con la
maggior parte dei difensori del sistema capitalistico, la prevalenza
del movente del profitto nel sistema industriale. «Nell’industria, egli
scrive, la meta dell’attività aziendale che è affermata nei regolamenti
è di avere un "profitto", e soltanto profitto. Non c’è nessuno, tranne
gli azionisti, che riceve questo profitto, e generalmente pochi azioni-
sti sono lavoratori dell’azienda. Finché ciò non muterà, la meta del
profitto non provocherà nessun entusiasmo nei lavoratori. Questa
meta non serve e difatti la maggior parte degli operai avverte che si
dà già troppo profitto all’azionista».5
«L’operaio si risente di esser preso in giro con le teorie economi-
che sulle spese per i mezzi di produzione quando spesso vede che
queste spese sono sprecate dall’incompetenza e dall’egoismo dei
gradi superiori».6 Queste critiche sono quasi identiche a quelle fatte
da molti critici socialisti del capitalismo e rivelano una valutazione
sensata e realistica dei fatti umani ed economici. Tuttavia la filosofia
che sta dietro a ciò è tutto il contrario delle idee socialiste. Lincoln è
convinto «che lo sviluppo dell’individuo può verificarsi soltanto nel-
la lotta, accanitamente competitiva, per la vita».7 «L’egoismo è la
forza motrice che spinge il genere umano ad esser quello che è, per il
bene o per il male. Perciò è su questa forza che noi dobbiamo ap-
poggiarci e che dobbiamo guidare in modo adatto se vogliamo che il
genere umano progredisca».8 Egli poi si volge alla differenza tra
egoismo «stupido» e «intelligente»; il primo è l’egoismo che con-
sente all’uomo di rubare, il secondo quello che spinge l’uomo a lot-
tare per il perfezionamento, per diventare più ricco.9 Esaminando gli
incentivi al lavoro Lincoln afferma che, proprio come per l’atleta
non professionista l’incentivo non consiste nel denaro, così dobbia-
mo concludere che il denaro non è necessariamente un incentivo per
gli operai dell’industria, come non sono incentivi per il lavoro la
brevità dell’orario, la sicurezza, l’anzianità, le garanzie economiche
e una solida base per le trattative.10
Il solo incentivo potente, secon- 4 Op. cit., p. 117. 5 Op. cit., pp. 106, 107. 6 Op. cit., p. 108. 7 Op. cit., p. 72. 8 Op. cit., p. 89. 9 Op. cit., p. 91. 10 Op. cit., p. 99.
7. VARIE RISPOSTE 210
do lui, è «il riconoscimento delle nostre capacità da parte dei nostri
contemporanei e di noi stessi».11
Come pratica conseguenza di que-
ste idee, Lincoln suggerisce un metodo di organizzazione industriale
nel quale l’operaio sia «premiato per tutte le cose utili
che fa e punito se, sotto tutti i punti di vista, non fa le cose altret-
tanto bene che gli altri. Egli è il componente di una squadra, ed è
premiato o punito in dipendenza di quello che può fare e fa in tutte le
occasioni per vincere la partita».12
Applicando questo sistema
«...l’uomo è valutato da tutti quelli che hanno accurata conoscenza di
qualche fase del suo lavoro. In base a questa valutazione egli è pre-
miato o punito. Questo programma si svolge nello stesso modo che
si vede nei resoconti riguardanti la disputa di una partita o la sele-
zione di una squadra nazionale americana. L’uomo migliore riceve il
premio e il prestigio che egli si merita e desidera. Nel piano di retri-
buzioni qui descritto l’uomo viene ricompensato in proporzione di-
retta al suo contributo al successo dell’azienda. Il parallelo è eviden-
te. Ogni uomo viene promosso o retrocesso in rapporto alla sua resa
del momento. Egli è valutato tre volte all’anno. La somma di queste
valutazioni determina la sua quota nel premio e l’avanzamento.
Quando si comunica ad ogni uomo la sua valutazione, da parte dei
funzionari responsabili vien data risposta molto dettagliata ad ogni
domanda che egli intenda porre sul perché la sua valutazione sia
quella che è e su come questa possa esser migliorata».13
L’entità del
premio è determinata in questo modo: il 6% dell’utile è pagato agli
azionisti come dividendo. «Dopo aver provveduto ai dividendi met-
tiamo da parte una "quota seminale" per le attività future
dell’azienda. L’ammontare di questa "quota seminale" è determinato
dai dirigenti che si basano sulle operazioni del momento».14
Questa
quota viene usata per l’espansione dell’azienda e il rammoderna-
mento. Dopo queste deduzioni dall’utile globale tutto il rimanente
viene diviso come premio tra i lavoratori e i dirigenti. Durante gli
ultimi sedici anni il premio ha rappresentato un ammontare comples-
sivo che va da un minimo del 20% dei salari e degli stipendi per an-
no ad un massimo del 28% per anno. La media totale del premio per
11 Op. cit., p. 101. 12 Op. cit., p. 109 13 Op. cit., pp. 109, 110. 14 Op. cit., p. 111.
211 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
dipendente era di circa 40.000 in sedici anni, cioè 2.500 all’anno.
Tutti i lavoratori hanno, indipendentemente dal premio, la medesima
paga base che è consueta per ogni dato tipo di attività. Il costo medio
di un dipendente negli stabilimenti Lincoln per il 1950 era di 7.701
paragonato a quello di 3.705 della General Electric Co.15
Sotto que-
sto sistema la società Lincoln, che occupa circa mille tra operai e
impiegati, ha prosperato in notevole misura e il valore vendita dei
prodotti per dipendente è stato circa il doppio che altrove nel settore
dell’industria delle macchine elettriche. Il numero delle interruzioni
di lavoro 11negli stabilimenti Lincoln tra il 1934 e il 1945 era zero,
contro quello che va da un minimo di 11 a un massimo di 96 nel re-
sto dell’industria delle macchine elettriche. La percentuale di ricam-
bio della manodopera corrispondeva all’incirca solo al 25% di quella
di tutti gli altri stabilimenti industriali.16
Sotto un certo aspetto il principio che è attivo nel sistema
dell’incentive management è del tutto differente da quello proprio
del capitalismo tradizionale. Le paghe dell’operaio, invece di essere
indipendenti dagli sforzi e dai risultati del suo lavoro, sono collegate
ad esso. L’operaio partecipa dell’aumento dell’utile mentre
l’azionista riceve un reddito regolare che non è collegato altrettanto
direttamente ai guadagni dell’azienda.17
Le documentazioni
dell’azienda mostrano chiaramente come questo sistema porti ad un
incremento della produttività dell’operaio, a bassa rotazione della
manodopera, e all’assenza di scioperi. Ma se questo sistema differi-
sce sotto un importante aspetto dal concetto e dalla pratica del capi-
talismo tradizionale, esso è nello stesso tempo l’espressione di alcuni
tra i suoi più importanti principi, specialmente per quanto riguarda
l’aspetto umano. Esso si basa sul principio dell’egoismo e dello spi-
rito competitivo e della ricompensa in denaro come espressione di
riconoscimento sociale, e non cambia essenzialmente la posizione
dell’operaio nel processo del lavoro per quanto riguarda il significato
15 Poiché il premio è diviso tra lavoratori e dirigenti, si desidererebbe sapere quanto di questa
cifra media si riferisce ai salari e quanto alle somme pagate agli impiegati di grado elevato e
ai dirigenti, e anche se le cifre della General Electric Co. si riferiscono soltanto agli operai o
anche agli impiegati dei gradi superiori della burocrazia aziendale. 16 Cfr. LINCOLN, op. cit., p. 254 ss. 17 Non si può nemmeno dire, tuttavia, che non vi sia qualche correlazione, poiché i dividendi
pagati per azione crebbero dai 2 dollari del 1933 agli 8 dollari del 1941, calando a partire da
questo periodo ad una media di 6 dollari.
7. VARIE RISPOSTE 212
del lavoro stesso. Come Lincoln continua ad insistere, il modello di
questo sistema è la squadra di calcio, un gruppo di uomini che lotta-
no accanitamente contro altri fuori del gruppo, lottando anche l’uno
contro l’altro entro il gruppo e producendo risultati positivi in questo
spirito di cooperazione competitiva. Infine il sistema dell’incentive
management è la più logica conseguenza del sistema capitalistico.
Esso tende a trasformare ogni uomo, l’operaio e l’impiegato come il
direttore, in un piccolo capitalista; tende a incoraggiare lo spirito di
competizione e di egoismo in tutti e a trasformare il capitalismo in
modo tale che esso si diffonda in tutto il paese.18
Il sistema di divi-
sione degli utili non è tanto differente dalle tradizionali pratiche ca-
pitalistiche quanto pretenderebbe di essere. Esso si presenta come
una forma glorificata del sistema di cottimo combinato con una certa
18 C'è un buon numero di aziende organizzate nel Council of Profit Sharing Industries, che
hanno nel loro programma di attività un piano più o meno radicale di divisione degli utili. I
loro principi sono i seguenti:
«1. Il Consiglio riconosce come divisione degli utili ogni procedura con la quale un datore
di lavoro paga a tutti i dipendenti, in aggiunta alla giusta aliquota di paga normale, delle quote
speciali in contanti o differite, basate non soltanto sul rendimento individuale o di squadra, ma
sull'andamento generale dell'azienda.
2. Il Consiglio considera la persona umana come il fattore essenziale della vita economi-
ca. Una azienda libera deve basarsi sulla libertà di occasioni per ognuno di realizzare il mas-
simo sviluppo personale.
3. Il Consiglio ritiene che la divisione degli utili offra un mezzo molto importante per dare
agli operai la libertà di occasioni per partecipare alla ricompensa della loro cooperazione con il
capitale e con la direzione.
4. Mentre il Consiglio considera che quello della divisione degli utili sia un principio vali-
do di per sé, e come tale interamente giustificato, ritiene che una divisione degli utili ben pia-
nificata sia il modo migliore per sviluppare la cooperazione di gruppo e l'efficienza.
5. Il Consiglio è dell'opinione che una pratica allargata della divisione degli utili favori-
rebbe la stabilizzazione dell'economia. La flessibilità delle retribuzioni come quella dei prezzi
e degli utili darebbe la maggior garanzia del rapido assestamento di condizioni soggette a
mutamenti, sia in alto che in basso.
6. Il Consiglio afferma che la stabilizzazione della prosperità si può mantenere soltanto a
condizione di un equilibrato rapporto tra prezzi, paghe e dividendi. Esso crede che la nostra
economia libera deve sopravvivere, la direzione deve accettare la responsabilità dell'incarico di
curare affinché questa forma di rapporto prevalga.
7. Il Consiglio ritiene d'importanza preminente il vero spirito associativo che si genera da
una onesta divisione degli utili. L'allargarsi di questo spirito è la sola soluzione ai contrasti
nell'industria. Il Consiglio è convinto, attraverso l'esperienza dei suoi componenti, che questo
metodo sarà contraccambiato dalla maggior parte della manodopera.
8. Il Consiglio si è impegnato ad allargare in ogni maniera pratica la divisione degli utili.
Nel medesimo tempo esso non offre la divisione degli utili come una panacea. Nessuna azione
o piano nel campo delle relazioni industriali può aver successo se non è ben strutturato e se
non ha almeno dietro di sé il sincero desiderio di lealtà della direzione e la fede della direzione
nell'importanza, la dignità e la partecipazione dell'individuo umano».
213 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
noncuranza per l’entità della percentuale di utile pagata agli azioni-
sti. Nonostante quel che si proclama sulla «persona umana», ogni
cosa, la valutazione del lavoro come l’entità del premio ai lavoratori
e del dividendo, è determinata dalla direzione in una maniera auto-
cratica. Il principio essenziale è la «divisione degli utili» e non la
«divisione del lavoro». Tuttavia anche se i principi non sono nuovi,
il concetto della divisione degli utili è interessante in quanto è il fine
logico per un neocapitalismo nel quale l’insoddisfazione dell’operaio
viene superata facendogli sentire che è anch’egli un capitalista e un
attivo partecipe del sistema.
Socialismo
Al di fuori dell’autoritarismo fascista o stalinista e del neocapita-
lismo del tipo dell’incentive management, la terza grande reazione
contro il capitalismo e la critica di esso è costituita dalla teoria socia-
lista. Essa è essenzialmente una visione teorica in contrasto col fa-
scismo e con lo stalinismo che diventarono realtà politiche e sociali.
Così è nonostante il fatto che governi socialisti siano stati al potere
per un periodo più o meno lungo in Inghilterra e nei paesi scandina-
vi, poiché la maggioranza sulla quale si fondava il loro potere era
così esigua che essi non potevano trasformare la società oltre gli ini-
ziali abbozzi di realizzazione del loro programma.
Disgraziatamente, mentre scrivo, le parole «socialismo» e «mar-
xismo» sono state caricate di una tale forza emotiva che è difficile
esaminare questi problemi in un’atmosfera serena. L’associazione
che viene evocata oggi da queste idee in molta gente è quella di
«materialismo», «ateismo», «violenza sanguinaria» o simili; in bre-
ve, cose odiose e malvage. Si può comprendere tale reazione soltan-
to se si considera la misura nella quale le parole possono assumere
una funzione magica e se si tien conto della diminuzione, così carat-
teristica della nostra epoca, della serenità di pensiero e cioè
dell’obiettività.
La reazione irrazionale che è evocata dalle parole socialismo e
marxismo è favorita dalla sorprendente ignoranza della maggior par-
te di coloro che hanno crisi isteriche quando sentono queste parole.
Nonostante il fatto che tutti gli scritti di Marx e degli altri socialisti
possano essere rintracciati e letti da chiunque, la maggior parte di
7. VARIE RISPOSTE 214
quelli che reagiscono con più violenza al socialismo e al marxismo
non ha mai letto una parola di Marx, e molti altri ne hanno una co-
noscenza del tutto superficiale. Se così non fosse, sembrerebbe im-
possibile che uomini con qualche capacità di intendere e di ragionare
abbiano potuto falsare l’idea di socialismo e di marxismo nella misu-
ra che è oggi consueta. Perfino molti liberali, e coloro che sono rela-
tivamente esenti da reazioni isteriche, credono che il «marxismo» sia
un sistema basato sull’idea che l’interesse al guadagno materiale sia
il più attivo potere esistente nell’uomo, un sistema che tenda ad au-
mentare le richieste materiali e le loro soddisfazioni. Se ricordiamo
soltanto che il principale argomento in favore del capitalismo è
l’idea che l’interesse al guadagno materiale è il più importante in-
centivo al lavoro, possiamo facilmente vedere come proprio quel
materialismo che si attribuisce al socialismo sia il tratto più caratteri-
stico del capitalismo; e se qualcuno si desse la pena di studiare gli
scrittori socialisti con un po’ di obiettività, troverebbe che il loro
orientamento è esattamente l’opposto e che essi criticano il capitali-
smo per il suo materialismo, per il suo effetto paralizzante sui poteri
genuinamente umani dell’uomo. Infatti il socialismo, in tutte le sue
diverse scuole, può essere riconosciuto soltanto come uno dei più
significativi movimenti idealistici e morali della nostra epoca.
Indipendentemente da ogni altra considerazione, non si può far a
meno di deplorare la stupidità politica di questa falsa presentazione
del socialismo da parte delle democrazie occidentali. Lo stalinismo
realizzava le sue vittorie in Russia e in Asia proprio con l’attrattiva
che l’idea di socialismo esercitò su vaste masse della popolazione
nel mondo. L’attrattiva sta nello stesso idealismo del concetto socia-
lista e nell’incoraggiamento spirituale e morale che esso fornisce.
Proprio come Hitler usò la parola «socialismo» per dare maggior
lustro alle sue idee razziali e nazionaliste, Stalin si appropriò illeci-
tamente del concetto di socialismo e di marxismo per gli scopi della
sua propaganda. Quel che egli proclamava era falso nei punti fon-
damentali. Egli separò l’aspetto puramente economico del sociali-
smo, quello della socializzazione dei mezzi di produzione, dal con-
cetto generale di socialismo e ne pervertì i fini umani e sociali nel
loro opposto. Il sistema sovietico odierno, nonostante la proprietà
statale dei mezzi di produzione, è forse più vicino alle forme iniziali
e puramente sfruttatrici del capitalismo occidentale di quel che non
215 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
sia ogni concepibile idea di una società socialista. Lotta ossessiva
per il progresso industriale, spietata indifferenza per l’individuo e
brama di potere personale sono i suoi moventi principali. Accettando
la tesi che socialismo e marxismo siano più o meno identici al co-
munismo sovietico, rendiamo nel campo della propaganda il più
gran servizio che i russi possano desiderar di ottenere. Invece di ri-
velare la falsità delle loro affermazioni, noi le confermiamo. Questo
può non essere un problema per gli Stati Uniti dove i concetti socia-
listi non hanno forte presa sulle menti della popolazione, ma costi-
tuisce un problema veramente serio per l’Europa e specialmente per
l’Asia dove avviene tutto l’opposto. Per combattere l’attrattiva del
comunismo sovietico in queste parti del mondo, dobbiamo svelarne
l’inganno e non confermarlo.
Vi sono differenze considerevoli tra le diverse scuole del pensie-
ro socialista quali si sono sviluppate dalla fine del diciottesimo seco-
lo, e si tratta di differenze significative. Tuttavia, come accade tanto
spesso nella storia del pensiero umano, le discussioni tra i rapporti
delle diverse scuole nascondono il fatto che gli elementi comuni ai
vari pensatori socialisti sono molto più numerosi, e più decisivi di
quanto non siano le loro diversità.
Si può dire che il socialismo come movimento politico, e nello
stesso tempo come teoria che si interessa alle leggi della società e
alla diagnosi dei suoi mali, abbia avuto inizio nella Rivoluzione
francese, con Babeuf. Egli parla a favore dell’abolizione della pro-
prietà privata del suolo, e richiede il consumo comune dei frutti della
terra e l’abolizione delle differenze tra ricchi e poveri, tra governanti
e governati. Egli ritiene giunto il tempo per una repubblica degli
eguali (égalitaires), «la grande ospitale dimora (hospice) aperta a
tutti».
In contrasto con la teoria relativamente semplice e primitiva di
Babeuf, Charles Fourier, la cui prima opera, Théorie de Quatre
Mouvements, apparve nel 1808, offre una diagnosi e una teoria della
società molto più complesse ed elaborate. Egli faceva dell’uomo e
delle sue passioni una base per la comprensione della società e cre-
deva che una società sana dovesse servire non tanto al conseguimen-
to di una crescente ricchezza materiale, quanto alla realizzazione
della nostra passione fondamentale: l’amore fraterno. Fra le passioni
umane egli mette l’accento particolarmente sulla «passione farfalla»
7. VARIE RISPOSTE 216
cioè il bisogno dell’uomo di mutamenti, che corrisponde alle molte e
varie potenzialità presenti in ogni essere umano. Il lavoro dovrebbe
essere un godimento (travail attrayant) e dovrebbero esser sufficien-
ti due ore di lavoro al giorno. Contro l’organizzazione universale dei
grandi monopoli in tutti i settori dell’industria, egli postulò associa-
zioni comunali nel campo della produzione e del consumo, associa-
zioni libere e volontarie nelle quali l’individualismo si sarebbe com-
binato spontaneamente col collettivismo. Soltanto in questo modo la
terza fase storica, quella dell’armonia, può superare le altre due pre-
cedenti: quella delle società basate sulle relazioni tra schiavo e pa-
drone, e quella tra salariati e datori di lavoro.19
Mentre Fourier era un teorico dominato da un pensiero un poco
ossessivo, Robert Owen era un uomo pratico, direttore di uno tra i
meglio diretti stabilimenti tessili della Scozia. Anche per Owen il
fine di una società non era principalmente quello di un aumento della
produzione, ma il miglioramento della cosa più preziosa che vi sia:
l’uomo. Come quello di Fourier, il suo pensiero era fondato su con-
siderazioni psicologiche del carattere umano. Se gli uomini nascono
con certi tratti caratteristici, il loro carattere è definitivamente deter-
minato solamente dalle circostanze in cui essi vivono. Se le condi-
zioni sociali della vita sono soddisfacenti, il carattere dell’uomo svi-
lupperà le sue virtù immanenti. Egli credeva che in tutta la storia
precedente gli uomini fossero stati educati soltanto a difendersi o a
distruggere gli altri. Si doveva creare un nuovo ordine sociale in cui
gli uomini dovevano essere educati con principi che permettessero
loro di agire assieme e di creare dei vincoli reali e genuini tra gli in-
dividui. Gruppi federativi da 300 fino a 2000 persone copriranno la
terra e saranno organizzati secondo il principio collettivo entro i
gruppi e fra i gruppi. In ogni comunità l’amministrazione locale ope-
rerà nell’armonia più stretta con ogni individuo.
Negli scritti di Proudhon si può trovare una condanna perfino an-
cor più violenta del principio di autorità e di gerarchia. Per lui il pro-
blema centrale non sta nella sostituzione di un regime politico con
un altro, ma nella costruzione di un ordine politico che sia
l’espressione della società stessa. Egli considera causa primaria di
19 Cfr. Charles FOURIER, Il mondo delle passioni ovvero la vita del falansterio, tr. it., Roma
1947.
217 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
tutti i disordini e di tutti i mali della società l’organizzazione unica e
gerarchica dell’autorità e crede che «la limitazione del compito dello
stato è questione di vita o di morte per la libertà sia collettiva che
individuale».
«Attraverso il monopolio, egli dice, il genere umano ha preso
possesso del mondo, e attraverso l’associazione esso diventerà il suo
vero padrone». La sua visione di un nuovo ordine sociale è basata
sull’idea di «...reciprocità, dove tutti i lavoratori invece di lavorare
per un datore di lavoro che li paga e che prende i prodotti, lavorano
l’uno per l’altro e così collaborano alla produzione comune di cui si
dividono il profitto». Quel che è essenziale per lui è che queste asso-
ciazioni siano libere e spontanee, e non siano imposte dallo stato
come avviene nelle officine sociali finanziate dallo stato proposte da
Louis Blanc. Un tale sistema di controllo statale, egli dice, signifi-
cherà un numero di grandi associazioni «nelle quali la manodopera
sarà irreggimentata e infine asservita attraverso la politica statale del
capitalismo. Che cosa avrebbero guadagnato la libertà, la felicità
universale, la civiltà? Nulla. Noi avremmo solamente scambiato le
nostre catene e l’idea sociale non avrebbe fatto un passo avanti; noi
saremmo ancora sotto il medesimo potere arbitrario per non dire sot-
to il medesimo fatalismo economico». Come questa citazione mostra
bene, nessuno ha visto più chiaramente di Proudhon, nella metà del
diciannovesimo secolo, il pericolo che si è verificato sotto lo stalini-
smo. Egli era anche consapevole del pericolo del dogmatismo, che si
sarebbe mostrato così disastroso nello sviluppo della teoria marxista,
ed espresse ciò molto chiaramente in una lettera a Marx. «Cerchia-
mo, egli scrive, di trovare assieme, se desiderate, quali sono le leggi
della società, il modo con cui esse si attuano e il metodo con cui
possiamo scoprirle, ma per Dio, dopo aver demolito tutti i dogmi,
non pensiamo di dover esser noi stessi a indottrinare il popolo. Non
cadiamo nella contraddizione del vostro compatriota Lutero che co-
minciò con scomuniche ed anatemi a creare una teologia protestante,
dopo aver abbattuto la teologia cattolica».20
Il pensiero di Proudhon
è basato su di un concetto etico nel quale il rispetto di sé è la prima
massima della morale. Come seconda massima, al rispetto di sé se-
gue il rispetto del nostro prossimo. Questa preoccupazione per il mu-
20 Citato da E. DOLLEANS, Proudhon, cit., p. 96.
7. VARIE RISPOSTE 218
tamento interiore dell’uomo come base per un nuovo ordine sociale
era espressa da Proudhon in una lettera dove diceva «il vecchio
mondo si trova in un processo di dissoluzione... si può cambiarlo
soltanto con l’integrale rivoluzione nelle idee e nei cuori...».21
La medesima consapevolezza dei pericoli del centralismo e la
stessa fede nei poteri creativi dell’uomo, sebbene mescolate con una
glorificazione romantica della distruzione, si possono trovare negli
scritti di Michail Bakunin; in una lettera del 1878 egli dice: «Il gran-
de maestro di noi tutti, Proudhon, ha detto che la più disgraziata
combinazione che potrebbe accaderci sarebbe che il socialismo si
unisse all’assolutismo; lo sforzo degli uomini per la libertà economi-
ca e il benessere materiale attraverso la dittatura e la concentrazione
di tutti i poteri politici nello stato. Possa il futuro proteggerci dai fa-
vori del dispotismo, ma possa esso preservarci dalle disgraziate con-
seguenze e stoltezze del socialismo indottrinato, o di stato... Nulla di
vivente e di umano può prosperare senza libertà, e una forma di so-
cialismo che eliminasse la libertà o che non la riconoscesse come il
solo principio e la sola base creativa, ci porterebbe direttamente alla
schiavitù e alla bestialità».
Cinquant’anni dopo la lettera di Proudhon a Marx, Kropotkin
riassumeva la sua idea del socialismo nell’affermazione che il più
completo sviluppo dell’individualità «deve accordarsi con il più alto
sviluppo dell’associazione volontaria in tutti i suoi aspetti, in tutti i
suoi possibili gradi, e per tutti i possibili scopi; un’associazione che
sia sempre mutevole, che porti in sé gli elementi della propria durata,
che assuma le forme che meglio corrispondono in ogni dato momen-
to ai molteplici sforzi di tutti». Kropotkin come molti suoi predeces-
sori socialisti accentua le tendenze immanenti nell’uomo e nel regno
animale alla cooperazione e all’aiuto reciproco.
A seguire il pensiero etico ed umanistico di Kropotkin v’era uno
degli ultimi grandi rappresentanti del pensiero anarchico, Gustav
Landauer. Riferendosi a Proudhon egli disse che la rivoluzione so-
ciale non ha la minima somiglianza con la rivoluzione politica, che
«essa, pur non potendo diventare e rimanere vitale senza l’intervento
della diversa rivoluzione politica, è un’edificazione pacifica,
un’opera di organizzazione con un nuovo spirito e per un nuovo spi-
21 Lettera a Jules Michelet (gennaio 1860) citato da E. DOLLEANS, op. cit., p. 7.
219 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
rito, e nient’altro». Egli definì compito dei socialisti e del loro mo-
vimento «preparare l’ammorbidimento degli animi induriti, affinché
quanto è stato sepolto ritorni in superficie, affinché quanto è vera-
mente vivo, e ora sembra morto per sempre, risorga o torni a svilup-
parsi».22
L’esame delle teorie di Marx e di Engels richiede molto più spa-
zio di quello delle teorie degli altri pensatori socialisti sopra ricorda-
ti: sia perché le loro teorie comprendono un settore più ampio, sono
più complesse, e non prive di contraddizioni, sia perché la scuola
marxista del socialismo è diventata la forma dominante assunta nel
mondo dal pensiero socialista.
Come in tutti gli altri socialisti l’interesse fondamentale di Marx
è l’uomo. «Esser radicale, egli scrisse una volta, vuol dire andare
alla radice, e la radice è l’uomo stesso».23
La storia del mondo è
niente altro che la creazione dell’uomo, è la storia della nascita
dell’uomo.24
Ma tutta la storia è anche la storia dell’alienazione
dell’uomo da se stesso, dai suoi umani poteri; «la cristallizzazione
del nostro stesso prodotto in una forza obiettiva sopra di noi, che si
sottrae al nostro controllo, frustrando le nostre aspettative, annichi-
lendo le nostre previsioni, è uno dei più importanti fattori in tutto lo
sviluppo storico precedente». L’uomo è stato l’oggetto delle circo-
stanze; egli deve diventare il soggetto; in modo che «l’uomo diventi
per l’uomo l’essere più alto». La libertà per Marx non è soltanto li-
bertà dagli oppressori politici ma la libertà dell’uomo dal dominio
delle cose e delle circostanze. L’uomo libero è l’uomo ricco, ma non
ricco in senso economico, bensì ricco in senso umano. L’uomo ricco
per Marx è l’uomo che è molto e non quello che ha molto.25
L’analisi della società e del processo storico deve cominciare con
l’uomo, non con un’astrazione ma con l’uomo reale e concreto nelle
sue qualità fisiologiche e psicologiche. Essa deve cominciare con un
concetto dell’essenza dell’uomo e lo studio dell’economia e della
22 Citato da M. BUBER, Pfade in Utopia, Verlag Lambert Schneider, Heidelberg 1950; trad.
it., Sentieri in Utopia, Edizioni di Comunità, Milano 1967, pp. 66 e 62. 23 In Russia il partito socialista rivoluzionario aderì ad un concetto del socialismo che contene-
va molti elementi che si possono trovare nelle scuole socialiste sopracitate, piuttosto che in
quella del marxismo. Cfr. I.N. STEINBERG, In the Workshop of the Revolution, Rinehart &
Company, Inc., New York 1953. 24 Cfr. «Nationalökonomie und Philosophie», cit., in Karl MARX, Die Frühschriften, p. 247. 25 Die Frühschriften, cit., p. 243 ss..
7. VARIE RISPOSTE 220
società serve soltanto allo scopo della comprensione di come le cir-
costanze abbiano mutilato l’uomo, di come egli sia diventato aliena-
to da se stesso e dai suoi poteri. La natura dell’uomo non può esser
dedotta dalla manifestazione specifica della natura umana quale essa
è determinata dal regime capitalistico. Il nostro fine deve essere di
saper quel che è buono per l’uomo. Ma, dice Marx, «per sapere quel
che è utile per un cane si deve studiare la natura del cane. Questa
natura stessa non deve esser dedotta dal principio di utilità. Appli-
cando ciò all’uomo, colui che volesse criticare tutti gli atti, i movi-
menti, le relazioni ecc. dell’uomo attraverso il principio di utilità
dovrebbe innanzitutto trattare della natura umana in generale e poi
della natura umana come è modificata in ogni epoca storica. Ben-
tham trattò l’argomento con faciloneria. Con la più lamentevole in-
genuità egli prese il moderno bottegaio e in particolare il bottegaio
inglese per l’uomo normale».26
Per Marx il fine dello sviluppo dell’uomo è una nuova armonia
tra uomo e uomo e tra uomo e natura, uno sviluppo nel quale la cor-
relazione dell’uomo con i suoi simili corrisponderà al suo più impor-
tante bisogno umano. Il socialismo per lui è «una associazione nella
quale il libero sviluppo di ognuno è la condizione per il libero svi-
luppo di tutti», una società in cui «il pieno e libero sviluppo di ogni
individuo diventa il principio guida». Egli chiama questo fine la rea-
lizzazione del naturalismo e dell’umanesimo, e afferma che esso è
diverso «sia dall’idealismo che dal materialismo e però combina la
verità che vi è in ambedue».27
In qual modo Marx pensa che questa «emancipazione dell’uomo»
possa esser raggiunta? La sua soluzione è basata sull’idea che nel
sistema capitalistico di produzione il processo di autoalienazione ha
raggiunto il culmine poiché l’energia fisica dell’uomo è diventata
una merce e di conseguenza l’uomo è diventato una cosa. La classe
operaia, egli dice, è la classe più alienata della popolazione, e pro-
prio per questa ragione essa dirigerà la lotta per l’emancipazione
umana. Nella socializzazione dei mezzi di produzione egli vede la
condizione per la trasformazione dell’uomo in attivo e responsabile
partecipe al processo economico e sociale, e per il superamento della
26 Karl MARX, Il capitale. 27 Op. cit.
221 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
scissione tra la natura sociale e quella individuale dell’uomo. «Sol-
tanto quando l’uomo abbia riconosciuto e organizzato le sue forces
propres come forze sociali (non è dunque necessario, come pensa
Rousseau, cambiare la natura dell’uomo, privarlo delle sue forces
propres, e dargliene di nuove che abbiano un carattere sociale) e di
conseguenza non scinda più da se stesso il suo potere sociale sotto
forma di potere politico (cioè non stabilisca più lo stato come la sfe-
ra della guida organizzata), soltanto allora sarà raggiunta
l’emancipazione dell’umanità».28
Marx presume che se l’operaio non sarà più «impiegato», la natu-
ra e il carattere del suo processo di lavoro cambieranno. Il lavoro
diventerà un’espressione significativa dei poteri umani piuttosto che
una fatica senza significato. Quanto sia stato importante in Marx
questo nuovo concetto del lavoro, risulta evidente quando si conside-
ri che egli criticava persino le proposte della completa abolizione del
lavoro infantile nel programma di Gotha del partito socialista tede-
sco.29
Benché naturalmente egli fosse contro lo sfruttamento dei
bambini, si oppose al principio che i bambini non dovessero lavorare
affatto ma chiese che l’educazione si accompagnasse al lavoro ma-
nuale. «Dal sistema dell’officina si sviluppa, egli scrive, come Ro-
bert Owen ha mostrato nei particolari, il germe dell’educazione del
futuro, un’educazione che richiede, nell’educazione di ogni bambino
sopra una data età, una combinazione feconda di lavoro con istruzio-
ne e disciplina umanistica, non soltanto come metodo per aumentare
l’efficienza della produzione, ma come il solo metodo per produrre
esseri umani completamente sviluppati».30
Per Marx come per Fou-
rier il lavoro deve diventare attraente e corrispondere ai bisogni e ai
desideri dell’uomo. Per questa ragione egli suggeriva, come fecero
Fourier e altri, che nessuno si specializzasse in un solo tipo di lavo-
ro, ma che lavorasse in diverse occupazioni, in corrispondenza ai
suoi diversi interessi e alle sue diverse capacità.
Marx vide nella trasformazione economica della società dal capi-
talismo al socialismo il mezzo decisivo per la liberazione e
l’emancipazione degli uomini, per una «vera democrazia». Mentre
28 Karl MARX, La questione ebraica. 29 Per questo argomento sono molto debitore a G. Fuchs per le sue osservazioni e i suoi sugge-
rimenti. 30 Karl MARX, Il capitale.
7. VARIE RISPOSTE 222
nei suoi scritti più tardi l’esame dei problemi economici svolge una
parte maggiore di quello dell’uomo e dei suoi umani bisogni, la sfera
economica non diventò mai in nessuna parte fine a se stessa e non
cessò mai di essere un mezzo per la soddisfazione dei bisogni umani.
Questo è particolarmente evidente nel suo esame di quello che egli
chiama «comunismo volgare» con il quale egli intende un comuni-
smo nel quale l’accento è posto esclusivamente sulla abolizione della
proprietà privata dei mezzi di produzione. «La proprietà fisica e im-
mediata resta per esso [il comunismo volgare] il solo scopo della
vita e dell’esistenza, la qualità del lavoro non è mutata ma soltanto
estesa a tutti gli esseri umani... Questo comunismo negando comple-
tamente la personalità dell’uomo è soltanto la conseguente espres-
sione della proprietà privata che è esattamente la negazione
dell’uomo... Il comunismo volgare è soltanto la perfezione
dell’invidia e del processo livellatore sulla base di un minimo imma-
ginario... Quanto poco questa abolizione della proprietà privata sia
una reale appropriazione [dei poteri umani] è dimostrato dalla nega-
zione astratta dell’intero mondo di educazione e di civiltà; il ritorno
alla innaturale semplicità dell’uomo povero non è un passo oltre la
proprietà privata, ma costituisce uno stadio che non è nemmeno
giunto alla proprietà privata».31
Molto più complesse e sotto diversi aspetti contraddittorie sono le
opinioni di Marx e di Engels sulla questione dello stato. Non c’è
dubbio che Marx ed Engels fossero dell’opinione che il fine del so-
cialismo era non soltanto una società senza classi ma una società
senza stato, senza stato almeno nel senso, come disse Engels, che lo
stato deve avere la funzione di «amministrare le cose» e non quella
di «governare gli uomini». Engels scrisse nel 1874, in completo ac-
cordo con la formulazione che Marx diede nel rapporto della com-
missione per l’esame delle attività dei bakuninisti nel 1872, «che
tutti i socialisti sono concordi nel credere che lo stato decadrà come
risultato della vittoria del socialismo». Queste opinioni antistataliste
di Marx e di Engels e la loro opposizione ad una forma centralizzata
di autorità politica trovano un’espressione particolarmente chiara
nelle affermazioni di Marx sulla Comune di Parigi. Nella sua allocu-
31 Karl MARX, Nationale ökonomie und Philosophie, Gustav Kiepenheuer, Colonia e Berlino
1950.
223 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
zione al Consiglio generale dell’Internazionale sulla guerra civile in
Francia, Marx insisteva sulla necessità del decentramento al posto di
un potere statale centralizzato le cui origini risiedono nel principio
della monarchia assoluta. Vi sarebbe stata una comunità molto de-
centrata. «Le poche, ma importanti funzioni, che rimanevano ancora
in piedi per un governo centrale, dovevano essere trasferite a funzio-
nari comunali, vale a dire strettamente responsabili... La costituzione
comunale avrebbe restituito al corpo sociale tutte le forze che finora
sono state consumate dall’escrescenza parassitaria "stato", che si
alimenta sulla società e ne ostacola il libero movimento». Egli vede
nella Comune «la forma politica finalmente scoperta, in cui si poteva
compiere la liberazione economica del lavoro». La Comune voleva
«fare della proprietà individuale una verità, convertendo i mezzi di
produzione, la terra e il capitale, in semplici strumenti del lavoro
libero e associato, e associato nelle cooperative di produzione».32
Eduard Bernstein segnalò la somiglianza tra questi concetti di
Marx e le opinioni antistataliste e anticentralizzatrici di Proudhon,
mentre Lenin affermò che le dichiarazioni di Marx non erano affatto
indicative del suo appoggio al decentramento. Sembra che Bernstein
e Lenin avessero ragione nella loro interpretazione della posizione di
Marx-Engels e che la soluzione della contraddizione sta nel fatto che
Marx era per il decentramento e il superamento dello stato come il
fine al quale il socialismo dovrebbe tendere e a cui infine giungereb-
be, ma egli pensava che questo sarebbe potuto avvenire soltanto do-
po e non prima che la classe operaia si fosse impossessata del potere
politico e avesse trasformato lo stato. Per Marx l’impadronirsi dello
stato era il mezzo necessario per giungere alla sua fine: l’abolizione.
Nondimeno se si considerano le attività di Marx nella Prima In-
ternazionale, il suo atteggiamento dogmatico e intollerante verso
chiunque dissentisse minimamente da lui, vi possono essere scarsi
dubbi che la interpretazione centralista che Lenin fece di Marx non
fosse ingiusta anche se l’accordo di Marx con Proudhon sul decen-
tramento costituiva pure una parte genuina delle sue opinioni e delle
sue dottrine. Proprio in questo centralismo di Marx sta la base del
tragico sviluppo dell’idea socialista in Russia. Mentre Lenin poteva
aver sperato almeno in un finale raggiungimento del decentramento,
32 Citato da M. BUBER, Sentieri in Utopia, cit., p. 105.
7. VARIE RISPOSTE 224
idea che effettivamente era manifesta nello stesso concetto dei So-
viet, dove l’atto di prendere decisioni restava confinato nel più ri-
stretto e più concreto livello di gruppi decentralizzati, lo stalinismo
sviluppò un solo lato della contraddizione, il principio accentratore,
nella pratica della più spietata organizzazione statale che il mondo
moderno abbia conosciuto, e che supera persino i principi di accen-
tramento seguiti dal fascismo e dal nazismo.
In Marx la contraddizione va più a fondo di quanto non sembri
nella semplice contraddizione tra i principi di accentramento e de-
centramento. Da un lato Marx, come tutti gli altri socialisti, era con-
vinto che l’emancipazione dell’uomo non era principalmente una
questione politica, ma una questione economica e sociale; che la ri-
sposta alla libertà non si doveva ricercare nel mutamento della forma
politica dello stato ma nella trasformazione economica e sociale del-
la società. D’altra parte, nonostante le loro stesse teorie, Marx e En-
gels erano per diversi rispetti prigionieri del concetto tradizionale del
dominio della politica sui settori economici e sociali. Essi non riu-
scivano a liberarsi dell’opinione tradizionale dell’importanza dello
stato e del potere politico e dell’idea del significato preminente del
semplice cambiamento politico, idea che aveva costituito il principio
guida delle grandi rivoluzioni borghesi del diciassettesimo e del di-
ciottesimo secolo. Sotto questo aspetto Marx ed Engels erano pensa-
tori molto più «borghesi» di quanto non lo fossero uomini come
Proudhon, Bakunin, Kropotkin e Landauer. Per paradossale che
sembri, lo sviluppo leninista del socialismo rappresenta una regres-
sione verso il concetto borghese dello stato e del potere politico,
piuttosto che il nuovo concetto socialista come era espresso tanto più
chiaramente da Owen, Proudhon e altri. Questo paradosso del pen-
siero di Marx è stato chiaramente espresso da Buber: «Marx ha ac-
cettato questi elementi inseparabili dell’idea comunarda, senza met-
terli a confronto col proprio centralismo, senza decidere fra le due
posizioni. La sua noncuranza della profonda problematica che qui si
schiude dipende dall’egemonia del punto di vista politico che per lui
era legge dovunque si trattasse della rivoluzione, di prepararla e di
attuarla. Delle tre forme di pensiero nelle cose della vita pubblica,
l’economica, la sociale e la politica, Marx ha dominato la prima con
metodica maestria, alla terza era appassionatamente attaccato, con
quella sociale (per quanto assurdo ciò possa suonare agli orecchi di
225 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
un marxista senza riserve) solo di rado è entrato in stretto contatto, e
mai essa è diventata per lui determinante».33
Strettamente collegato al centralismo di Marx è il suo atteggia-
mento verso l’azione rivoluzionaria. Se è vero che Marx ed Engels
ammisero che il controllo socialista dello stato non doveva esser ne-
cessariamente conquistato con la forza e la rivoluzione (come per
esempio in Inghilterra e negli Stati Uniti), è egualmente vero che,
tutto considerato, essi credevano che la classe operaia, per realizzare
i suoi fini, dovesse impadronirsi del potere con una rivoluzione. Pra-
ticamente essi erano favorevoli al servizio militare obbligatorio e a
qualche periodo di guerre internazionali come mezzi che avrebbero
facilitato la conquista rivoluzionaria del potere. La nostra generazio-
ne è testimone dei tragici risultati della forza e della dittatura in Rus-
sia; abbiamo visto che l’applicazione della forza entro la società è
altrettanto distruttiva per il benessere umano quanto lo è se applicata
in forma di guerra nelle relazioni internazionali. Ma quando l’accusa
principale che viene oggi formulata contro Marx si fonda prima di
tutto sui suoi appelli alla forza e alle rivoluzioni, ci troviamo di fron-
te ad una distorsione dei fatti. L’idea della rivoluzione politica non è
un’idea specificamente marxista o socialista, ma è l’idea tradizionale
della classe media, cioè della società borghese, degli ultimi trecento
anni. A causa del fatto che la classe media credeva che l’abolizione
del potere politico investito in una monarchia, e che la conquista del
potere politico da parte del popolo fossero la soluzione del problema
sociale, la rivoluzione politica era vista come un mezzo per il rag-
giungimento della libertà. La nostra democrazia moderna è un risul-
tato della forza e della rivoluzione, e la rivoluzione di Kerenskij nel
1917 e la rivoluzione tedesca del 1918 furono favorevolmente accol-
te nei paesi democratici occidentali. È il tragico errore di Marx, un
errore che ha contribuito allo sviluppo dello stalinismo, quello di
non essersi liberato dalla tradizionale sopravvalutazione del potere
politico e della forza; ma queste idee facevano parte dell’eredità pre-
cedente e non delle nuove concezioni socialiste.
Anche un breve esame di Marx riuscirebbe incompleto senza un
riferimento alla sua teoria del materialismo storico. Nella storia del
pensiero questa teoria è probabilmente il più duraturo e importante
33 BUBER, op. cit., p. 114.
7. VARIE RISPOSTE 226
contributo di Marx alla comprensione delle leggi che governano la
società. La sua premessa è che prima che l’uomo possa impegnarsi
in qualsiasi genere di attività culturale egli deve produrre i mezzi per
la sua sussistenza fisica. I modi con cui egli produce e consuma sono
determinati da un certo numero di condizioni obiettive: la sua pro-
pria costituzione fisiologica, le energie produttive che egli ha a sua
disposizione e che, a loro volta, sono condizionate dalla fertilità del
terreno, dalle risorse naturali, dalle comunicazioni e dalle tecniche
che egli sviluppa. Marx presume che le condizioni materiali
dell’uomo determinino i suoi modi di produzione e di consumo e che
questi, a loro volta, determinino la sua organizzazione politico-
sociale, la sua maniera di vivere, e infine il suo modo di pensare e di
sentire. La diffusa incomprensione aveva fatto consistere nella lotta
per il guadagno il principale movente dell’uomo. In realtà questa è
l’opinione dominante espressa nell’ambito del pensiero capitalistico,
opinione che ha sempre insistito sul fatto che il più importante in-
centivo al lavoro dell’uomo sia il suo interesse al compenso moneta-
rio. Il concetto di Marx della rilevanza del fattore economico non era
un concetto psicologico, cioè una motivazione economica in senso
soggettivo; era un concetto sociologico nel quale lo sviluppo eco-
nomico era la condizione obiettiva per lo sviluppo culturale.34
La sua
più importante critica al capitalismo era precisamente che esso aveva
paralizzato l’uomo attraverso il predominio dei suoi interessi eco-
nomici, e il socialismo era per lui una società nella quale l’uomo
sarebbe stato liberato da questo predominio attraverso una più razio-
nale e pertanto più produttiva forma di organizzazione economica. Il
materialismo di Marx era essenzialmente diverso dal materialismo
prevalente nel diciannovesimo secolo. In quest’ultimo tipo di mate-
rialismo i fenomeni spirituali erano concepiti come causati dai fe-
nomeni materiali. Così, per esempio, gli estremi rappresentanti di
questo genere di materialismo credevano che il pensiero fosse un
prodotto dell’attività cerebrale, proprio «come l’orina è un prodotto
dell’attività renale». L’opinione di Marx, invece, era che il fenome-
no mentale e spirituale dovesse esser concepito come un risultato
34 Cfr., per questo argomento, il mio esame in Zur Aufgabe einer analytischen Sozialpsycholo-
gie, in «Ztsch' f' Sozialforschung», Lipsia 1932, e l'esame del marxismo fatto da J.A.
SCHUMPETER in Capitalismo, socialismo, democrazia, cit., p. 9 ss.
227 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
dell’intero modo di vivere, come il risultato del genere di rapporti
dell’individuo con i suoi simili e con la natura. Marx, nel suo meto-
do dialettico, superava il materialismo del diciannovesimo secolo e
sviluppava una teoria veramente dinamica e olistica basata
sull’attività dell’uomo piuttosto che sulla fisiologia.
La teoria del materialismo storico offre importanti concetti scien-
tifici per la comprensione delle leggi della storia; essa sarebbe dive-
nuta più fruttuosa se i seguaci di Marx l’avessero sviluppata di più
invece di permettere che essa si impantanasse in uno sterile dogmati-
smo. Lo sviluppo si sarebbe avuto se si fosse riconosciuto che Marx
ed Engels avevano fatto soltanto un primo passo, quello di vedere la
correlazione tra lo sviluppo economico e la cultura. Marx aveva sot-
tovalutato la complessità delle passioni umane. Non aveva ricono-
sciuto abbastanza che la natura umana ha essa stessa esigenze e leggi
in continuo reciproco rapporto con le condizioni economiche che
formano lo sviluppo storico;35
privo di sufficiente intuizione psico-
logica, non possedeva un concetto esauriente del carattere umano e
non era consapevole del fatto che l’uomo, se era formato sulla forma
della organizzazione sociale ed economica, la modellava a sua volta.
Egli non aveva sufficientemente visto le passioni e gli sforzi radicati
nella natura dell’uomo e nelle condizioni della sua esistenza e che di
per se stessi sono gli stimoli più potenti per lo sviluppo dell’uomo.
Ma queste deficienze costituiscono delle limitazioni di unilateralità
quali si trovano in ogni fecondo concetto scientifico, e gli stessi
Marx ed Engels erano consapevoli di queste limitazioni. Engels
espresse questa consapevolezza in una lettera molto nota nella quale
diceva che, a causa della novità della loro scoperta, Marx e lui non
avevano prestato sufficiente attenzione al fatto che la storia non era
soltanto determinata da condizioni economiche ma che i fattori cul-
turali influenzavano a loro volta le basi economiche della società.
L’interesse personale di Marx si concentrò sempre più
nell’analisi puramente economica del capitalismo. L’importanza del-
la sua teoria economica non viene diminuita dal fatto che le sue ipo-
tesi e le sue previsioni fondamentali erano solo parzialmente giuste
ed erano spesso errate, specialmente per quanto riguarda la sua ipo-
tesi sull’inevitabile (relativo) deterioramento della classe operaia.
35 Cfr. la mia analisi di questo rapporto reciproco in Fuga dalla libertà, cit.
7. VARIE RISPOSTE 228
Egli era anche in errore nella sua idealizzazione romantica della
classe operaia che era il risultato di uno schema puramente teorico
piuttosto che di una osservazione della realtà umana della classe
operaia. Quali che siano i suoi difetti, la sua teoria economica e la
penetrante analisi della struttura economica del capitalismo costitui-
scono un effettivo progresso dal punto di vista scientifico sopra tutte
le altre teorie socialiste.
Tuttavia la sua forza fu nello stesso tempo la sua debolezza. Co-
minciando la sua analisi economica con l’intenzione di scoprire le
condizioni che determinano l’alienazione dell’uomo e credendo che
ciò richiedesse soltanto uno studio relativamente breve, Marx dedicò
la maggior parte del suo lavoro scientifico quasi esclusivamente
all’analisi economica; e se egli non perse mai di vista il fine,
«l’emancipazione dell’uomo», sia la critica del capitalismo sia il fine
socialista in termini umani vennero sempre più soffocati dalle consi-
derazioni economiche. Egli non seppe distinguere quelle forze irra-
zionali dell’uomo che lo rendono timoroso della libertà e che produ-
cono la sua brama di potere e la sua distruttività. Al contrario, sotto
il suo concetto dell’uomo stava l’ipotesi implicita della naturale bon-
tà di questi, che si sarebbe affermata allorché fossero sciolti i para-
lizzanti ceppi economici. La famosa affermazione alla fine del Mani-
festo del partito comunista secondo cui gli operai «non hanno nulla
da perdere se non le loro catene» contiene un profondo errore psico-
logico. Insieme alle loro catene, essi hanno da perdere anche tutti
quei bisogni e quelle soddisfazioni irrazionali che sono sorti dal
momento in cui hanno cominciato a portare le loro catene. Sotto
questo aspetto, Marx ed Engels non trascesero mai l’ingenuo ottimi-
smo del diciottesimo secolo.
Questa sottovalutazione della complessità delle passioni umane
condusse ai tre più pericolosi errori del pensiero di Marx. Anzitutto
alla sua trascuratezza per il fattore morale nell’uomo. Proprio perché
egli riteneva che la bontà dell’uomo si sarebbe affermata automati-
camente, quando fossero stati realizzati i mutamenti economici, egli
non vide che una società migliore non poteva nascere da uomini che
non avessero subito un profondo mutamento morale. Egli, almeno
esplicitamente, non prestò attenzione alla necessità di un nuovo
orientamento morale, senza il quale sono inutili tutti i mutamenti
politici ed economici.
229 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
Il secondo errore che sgorga dalla medesima fonte fu il giudizio
caricaturalmente erroneo di Marx sulle possibilità di realizzazione
del socialismo. In contrasto con uomini come Proudhon e Bakunin
(e più tardi Jack London nel suo Tallone di ferro) i quali prevedeva-
no le tenebre che avrebbero avviluppato il mondo occidentale prima
che brillasse una nuova luce, Marx e Engels credevano
nell’immediato avvento della «giusta società», ed erano soltanto
oscuramente consci della possibilità di una nuova barbarie sotto la
forma dell’autoritarismo comunista e fascista e di guerre di inaudita
distruttività. Questo malinteso così poco realistico fu causa di molti
degli errori teoretici e politici del pensiero di Marx e di Engels, e fu
la base per quella distruzione del socialismo, che cominciò con Le-
nin.
Il terzo errore fu il concetto di Marx per cui la socializzazione dei
mezzi di produzione era la condizione non solo necessaria, ma anche
sufficiente per la trasformazione della società capitalistica in una
società cooperativistica. Alla base di questo errore sta ancora la sua
visione dell’uomo troppo semplicistica, troppo ottimistica, troppo
razionalistica. Proprio come Freud credeva che la liberazione
dell’uomo da tabù sessuali innaturali e troppo rigorosi avrebbe por-
tato alla salute mentale, così Marx credette che la emancipazione
dallo sfruttamento avrebbe automaticamente prodotto esseri liberi e
cooperativi. Sull’immediato effetto dei cambiamenti di fattori am-
bientali egli fu ottimista né più né meno degli enciclopedisti del di-
ciottesimo secolo, dette scarso peso al potere delle passioni irrazio-
nali e distruttive che non si trasformavano da un giorno all’altro con
dei cambiamenti economici. Freud, dopo l’esperienza della prima
guerra mondiale, cominciò a vedere questa forza della distruttività e
cambiò drasticamente il suo intero sistema accettando che la spinta
alla distruzione fosse tanto forte e inestirpabile quanto l’eros. Marx
non giunse mai ad una tale consapevolezza e non mutò mai la sua
semplice formula della socializzazione dei mezzi di produzione co-
me la via diretta per raggiungere il fine socialista.
L’altra origine di questo errore era la sopravvalutazione delle so-
luzioni politiche ed economiche di cui ho già parlato. Stranamente
fuori della realtà era il suo ignorare che fa ben poca differenza per la
personalità dell’operaio che l’impresa sia di proprietà del «popolo»,
dello stato, di un governo burocratico o della burocrazia privata as-
7. VARIE RISPOSTE 230
soldata dagli azionisti. Egli, in netto contrasto col suo stesso pensie-
ro teoretico, non vide che le sole cose che hanno importanza sono le
effettive condizioni di lavoro, il rapporto fra l’operaio, il suo lavoro,
e i suoi compagni e coloro che dirigono l’impresa.
Pare che più tardi Marx fosse disposto ad operare alcuni muta-
menti nella sua teoria. Il più importante, probabilmente sotto
l’influenza del lavoro di Bachofen e di Morgan, lo portò a credere
che la primitiva comunità agraria basata sulla cooperazione e la pro-
prietà comune della terra fosse una potente forma di organizzazione
sociale che poteva portare direttamente a più elevate forme di socia-
lizzazione senza dover attraversare la fase della produzione capitali-
stica. Egli espresse questa convinzione in una risposta a Vera Zasulic
che gli chiedeva quale fosse il suo atteggiamento verso il mir,
l’antica forma di comunità agraria russa. g. Fuchs ha fatto notare36
la
grande importanza di questo cambiamento nella teoria di Marx ed
anche il fatto che Marx, negli ultimi otto anni della sua vita, era de-
luso e scoraggiato avvertendo il fallimento delle sue speranze rivolu-
zionarie. Engels riconobbe, come ho ricordato sopra, l’errore di non
aver prestato abbastanza attenzione, nella teoria del materialismo
storico, alla potenza delle idee, ma non fu dato a Marx o a Engels di
fare le necessarie radicali revisioni al loro sistema.
È molto facile per noi riconoscere, alla metà del ventesimo seco-
lo, l’errore di Marx. Abbiamo visto in Russia la tragica dimostrazio-
ne di questo errore. Se lo stalinismo ha dimostrato che una economia
socialista può operare con successo secondo un punto di vista eco-
nomico, ha anche dimostrato che essa in se stessa non è minimamen-
te tenuta a creare lo spirito di eguaglianza e di cooperazione; ha di-
mostrato che la proprietà dei mezzi di produzione da parte del «po-
polo» può diventare la copertura ideologica per lo sfruttamento del
popolo da parte di una burocrazia industriale, militare e politica. La
socializzazione di talune industrie in Inghilterra, attuata dal governo
laburista, tende a mostrare che per il minatore o per l’operaio delle
acciaierie o delle industrie chimiche britanniche importa ben poco
chi nomini i dirigenti dell’impresa quando la situazione attuale ed
effettiva del lavoro non muta.
36 In lettere private.
231 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
Riassumendo, si può dire che i fini ultimi del socialismo marxista
erano sostanzialmente gli stessi delle altre scuole socialiste: emanci-
pare l’uomo dalla dominazione e dallo sfruttamento da parte
dell’uomo, liberarlo dal predominio del settore economico, rifare di
lui il fine supremo della vita sociale, creare una nuova unità tra
l’uomo e l’uomo e tra l’uomo e la natura. Gli errori di Marx e di En-
gels, la loro sopravvalutazione dei fattori politici e giuridici, il loro
ingenuo ottimismo, il loro orientamento centralizzatore, erano dovuti
al fatto che essi erano molto più radicati nella tradizione borghese
del diciottesimo e del diciannovesimo secolo, sia psicologicamente
sia intellettualmente, di quanto non lo fossero uomini come Fourier,
Owen, Proudhon e Kropotkin.
Gli errori di Marx dovevano diventare storicamente importanti
poiché la concezione marxista del socialismo ebbe la meglio nel
movimento operaio dell’Europa continentale. I successori di Marx e
di Engels nel movimento operaio europeo restarono talmente sotto
l’influenza dell’autorità di Marx che non svilupparono ulteriormente
la sua teoria, ma ripeterono per lo più le vecchie formule con una
sterilità sempre maggiore.
Dopo la prima guerra mondiale il movimento operaio marxista si
divise rigidamente in campi ostili. L’ala socialdemocratica, dopo il
crollo morale subito durante la prima guerra mondiale, divenne sem-
pre più un partito rappresentante gli interessi puramente economici
della classe operaia assieme ai sindacati da cui a sua volta dipende-
va. Esso continuava la formula marxista della «socializzazione dei
mezzi di produzione» come una formula rituale che deve esser pro-
nunciata dai sommi sacerdoti del partito ad ogni occasione opportu-
na. L’ala comunista fece un passo disperato provandosi a costruire
una società socialista su niente altro che sulla conquista del potere e
la socializzazione dei mezzi di produzione; i risultati di questo salto
portarono a risultati più terribili di quanto non facesse la perdita di
fede causata dalla prassi socialdemocratica.
Per quanto contraddittorie siano nel loro sviluppo queste due ali
del socialismo marxista, esse hanno alcuni elementi in comune. An-
zitutto la profonda delusione e lo scoraggiamento nei confronti delle
troppo ottimistiche speranze proprie della prima fase del marxismo.
Nell’ala destra queste delusioni portarono spesso all’accettazione del
nazionalismo, all’abbandono di una visione genuinamente socialista
7. VARIE RISPOSTE 232
e di ogni critica radicale alla società capitalistica. La stessa delusione
portò l’ala comunista sotto Lenin ad un atto di disperazione, alla
concentrazione di tutti gli sforzi nel settore politico e puramente
economico con un’insistenza che a causa della sua trascuratezza per
il settore sociale era in completa contraddizione con la stessa essenza
della teoria socialista.
L’altro punto che le due ali del movimento marxista hanno in
comune è (nel caso della Russia) la loro completa indifferenza per
l’uomo. La critica del capitalismo diventò una critica meramente
economica. Nel diciannovesimo secolo, mentre la classe operaia sof-
friva per lo spietato sfruttamento e viveva ad un livello inferiore a
quello di un’esistenza dignitosa, questa critica era giustificata. Con
lo sviluppo del capitalismo nel ventesimo secolo essa apparve sem-
pre più superata; eppure è una logica conseguenza di questo atteg-
giamento il fatto che la burocrazia stalinista in Russia stia ancora
alimentando la popolazione con lo sciocco slogan secondo cui gli
operai dei paesi capitalistici sarebbero in una spaventosa miseria e
privi di un minimo decoroso per vivere. Il concetto del socialismo si
deteriorò sempre più, in Russia, nella formula che socialismo voleva
dire proprietà statale dei mezzi di produzione. Nei paesi occidentali
il socialismo si propose sempre più di significare paghe più alte per
gli operai e di perdere la sua suggestione messianica, il suo richiamo
alle aspirazioni e ai bisogni più profondi dell’uomo. Dico intenzio-
nalmente che esso «si propose» perché il socialismo non ha certo
perduto completamente la sua suggestione umanistica e religiosa.
Esso è stato, anche dopo il 1914, l’idea morale unificatrice per mi-
lioni di operai e di intellettuali europei, una espressione della loro
speranza nella liberazione dell’uomo, nello stabilirsi di nuovi valori
morali, nella realizzazione della solidarietà umana. La severa critica
espressa nelle pagine precedenti voleva innanzitutto porre l’accento
sulla necessità che il socialismo democratico ritorni a concentrarsi
sugli aspetti umani del problema sociale, a criticare il capitalismo
considerando quello che esso fa delle qualità umane dell’uomo, della
sua anima e del suo spirito, a considerare ogni visione del socialismo
in termini umani studiando in qual modo una società socialista con-
tribuisca a por fine all’alienazione dell’uomo, all’idolatria
dell’economia e dello stato.
233
8.
Le vie della salute
Considerazioni generali
Nelle varie analisi critiche del capitalismo noi troviamo una no-
tevole misura di consenso. Anche se il capitalismo del diciannove-
simo secolo era criticato per la sua indifferenza verso la sicurezza
materiale degli operai, questa non era mai la critica più importante.
L’argomento di cui parlano Owen e Proudhon, Tolstoj e Bakunin,
Durkheim e Marx, Einstein e Schweitzer, è l’uomo e quel che avvie-
ne di lui nel nostro sistema industriale. Sebbene si esprimano in con-
cetti diversi, tutti questi autori trovano che l’uomo ha perduto il suo
posto centrale e che è diventato uno strumento per il raggiungimento
di fini economici, che è stato alienato dai suoi simili e dalla natura
ed ha perduto il concreto rapporto con essi, e non ha più una vita che
abbia un significato. Ho cercato di esprimere la stessa idea elaboran-
do il concetto di alienazione e dimostrando psicologicamente quali
sono i risultati psicologici della alienazione; che l’uomo regredisce
ad un orientamento ricettivo e mercantile e cessa di esser produttivo,
che perde il senso dell’io e diventa dipendente dall’approvazione
degli altri, che, pertanto, tende a conformarsi e si sente tuttavia insi-
curo; egli è insoddisfatto, annoiato e ansioso e impiega la maggior
parte delle sue energie nel tentativo di compensare, o meglio di na-
scondere, questa ansietà. La sua intelligenza è eccellente, la sua ra-
gione peggiora e, se consideriamo i suoi poteri tecnici, egli sta met-
tendo seriamente in pericolo l’esistenza della civiltà e persino del
genere umano.
Se consideriamo le opinioni sulle cause di questo sviluppo tro-
viamo minore concordanza che nella diagnosi della malattia stessa.
Mentre, agli inizi del diciannovesimo secolo, si tendeva ancora a
vedere le cause di tutti i mali nella mancanza di libertà politica, e
8. LE VIE DELLA SALUTE 234
particolarmente del suffragio universale, i socialisti, e specialmente i
marxisti, insistevano sull’importanza dei fattori economici. Essi cre-
devano che l’alienazione dell’uomo fosse conseguenza del suo ruolo
di oggetto di sfruttamento e d’uso. D’altra parte, pensatori come
Tolstoj e Burckhardt insistevano sull’impoverimento morale e spiri-
tuale come causa della decadenza dell’uomo occidentale; Freud cre-
deva che i disturbi dell’uomo moderno consistessero nella eccessiva
repressione dei suoi istinti e nelle conseguenti manifestazioni nevro-
tiche. Ma ogni spiegazione che analizzi un solo settore a scapito de-
gli altri è squilibrata e perciò errata. Le spiegazioni economico-
sociale, spirituale e psicologica vedono il medesimo fenomeno sotto
diversi aspetti, e il compito dell’analisi teoretica è precisamente di
vedere come questi aspetti diversi siano collegati tra loro e come si
influenzino reciprocamente.
Ciò che è vero per le cause è naturalmente vero per i rimedi con i
quali la deficienza dell’uomo moderno può esser curata. Se credo
che «la» causa della malattia sia o economica, o spirituale, o psico-
logica, credo necessariamente che il curare «la» causa porti
all’equilibrio. D’altra parte, se vedo come i vari aspetti sono tra loro
collegati giungerò alla conclusione che l’equilibrio e la salute menta-
le possono essere raggiunti solamente con mutamenti simultanei nel-
la sfera dell’organizzazione industriale e politica, dell’orientamento
spirituale e filosofico, della struttura del carattere, e delle attività
culturali. La concentrazione dello sforzo in ognuna di queste sfere
escludendo o trascurando le altre rende impossibile ogni mutamento.
Difatti sembra sia questo uno dei più importanti ostacoli al progresso
dell’umanità. Il cristianesimo ha predicato il rinnovamento spirituale
trascurando i mutamenti nell’ordine sociale senza i quali il rinnova-
mento spirituale doveva restar inefficiente per la maggioranza.
L’epoca dell’illuminismo ha postulato come norme più elevate
l’indipendenza di giudizio e la ragione. Essa predicò l’eguaglianza
politica senza vedere che l’eguaglianza politica può non portare alla
realizzazione della fratellanza tra gli uomini se non vi si accompagna
un mutamento fondamentale nell’organizzazione sociale ed econo-
mica. Il socialismo, e particolarmente il marxismo, ha insistito sulla
necessità di mutamenti sociali ed economici ed ha trascurato la ne-
cessità di un più intimo mutamento negli esseri umani senza il quale
il mutamento economico non può mai portare alla «giusta società».
235 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
Ognuno di questi grandi movimenti di riforma degli ultimi duecento
anni ha posto l’accento su di un settore della vita ad esclusione degli
altri; i loro propositi di riforma e di rinnovamento erano radicali ma i
loro risultati erano un quasi completo fallimento. La predicazione
del vangelo portò alla formazione della chiesa cattolica;
l’insegnamento dei razionalisti del diciottesimo secolo portò a Robe-
spierre e a Napoleone, e le dottrine di Marx portarono a Stalin. I ri-
sultati avrebbero difficilmente potuto esser diversi. L’uomo è
un’unità e il suo pensiero, i suoi sentimenti e la sua pratica di vita
sono inseparabilmente collegati. Egli non può esser libero nel suo
pensiero quando non sia libero emotivamente e non può esser libero
emotivamente se è dipendente e non libero nella sua pratica di vita,
nelle sue relazioni economiche e sociali. Cercar di progredire radi-
calmente in un solo settore ad esclusione degli altri deve portar ne-
cessariamente al risultato cui ha portato, cioè che le richieste radicali
in una sola sfera sono soddisfatte soltanto da pochi individui mentre
per la maggioranza diventano formule e rituali e servono a nascon-
dere il fatto che nulla è cambiato negli altri settori. Indubbiamente
un solo passo di progresso integrato in tutte le sfere della vita avrà
risultati di maggior portata e più duraturi per il progresso del genere
umano che non un centinaio di passi predicati, e persino vissuti, per
un breve momento soltanto in una sfera isolata. Alcune migliaia di
anni di insuccesso nel «progresso isolato» dovrebbero essere una
lezione piuttosto convincente.
Strettamente connesso a questo problema è quello del radicalismo
e riformismo che sembra stabilire una così netta linea divisoria tra le
varie soluzioni politiche. Però un’analisi più stringente può mostrare
quanto sia ingannevole questa differenziazione così come è usual-
mente concepita. C’è riformismo e riformismo; la riforma può esser
radicale, cioè giungere alle radici, o può esser superficiale cercando
di rimuovere i sintomi senza toccare le cause. La riforma che non sia
radicale in questo senso non raggiungerà mai i suoi fini e porterà
infine nella direzione opposta. Il cosiddetto «radicalismo», d’altra
parte, che credeva si potessero risolvere i problemi con la forza
quando occorrono osservazione, pazienza e attività continua, è altret-
tanto fittizio e poco realistico quanto il riformismo. Dal punto di vi-
sta storico entrambi portano spesso al medesimo risultato. La rivolu-
zione bolscevica portò allo stalinismo, il riformismo dell’ala destra
8. LE VIE DELLA SALUTE 236
socialdemocratica in Germania portò a Hitler. La vera misura della
riforma non è il suo ritmo ma il suo realismo, il suo vero «radicali-
smo»; la questione è se essa giunga alle radici e cerchi di modificare
le cause o se resti alla superficie e cerchi solo di far fronte ai sintomi.
In questo capitolo si devono esaminare le vie per la «salute», cioè
i metodi di cura e sarebbe perciò bene ci si soffermasse per un mo-
mento a domandarci che cosa sappiamo sulla natura delle cure in
casi di malattie mentali individuali. La cura della patologia sociale
deve seguire il medesimo principio poiché essa è la patologia di un
dato numero di esseri umani e non di una entità che è al di sopra de-
gli individui o staccata da essi.
Le condizioni per la cura di patologie individuali sono principal-
mente le seguenti:
1) Deve esser accaduto qualche cosa che sia contrario al buon
funzionamento della psiche. Nella teoria di Freud questo significa
che la libido non è riuscita a svilupparsi normalmente e che, di con-
seguenza, si sono prodotti dei sintomi. Nell’ambito della psicanalisi
umanistica le cause patologiche stanno nella mancanza di sviluppo
di un orientamento produttivo, una mancanza che risulta nello svi-
luppo di passioni irrazionali, specialmente in aspirazioni incestuose,
distruttive e sfruttatrici. Il fatto della sofferenza, sia essa conscia o
inconscia, risultante dalla mancanza di uno sviluppo normale, pro-
duce una dinamica aspirazione a superare la sofferenza, cioè a un
mutamento verso la buona salute. Questa aspirazione alla salute nel
nostro organismo fisico come in quello mentale è la base per ogni
cura della malattia ed è assente soltanto nella patologia più grave.
2) Il primo passo necessario per permettere a questa tendenza
verso la salute di operare è la consapevolezza della sofferenza e di
ciò che è escluso e dissociato dalla nostra personalità conscia. Nella
dottrina di Freud la repressione si riferisce principalmente alle aspi-
razioni sessuali. Nel nostro ambito essa si riferisce alle passioni irra-
zionali represse, ai sentimenti repressi di isolamento e inutilità, al
desiderio, egualmente represso, di amore e di produttività.
3) Una crescente consapevolezza di sé può diventare completa-
mente efficace soltanto se vien fatto un nuovo passo, quello di cam-
biare una pratica di vita sorta sulle basi della struttura nevrotica e
che la riproduce costantemente. Per esempio un paziente il cui carat-
237 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
tere nevrotico fa che egli desideri sottomettersi ad autorità come
quella dei genitori, ha di solito costruito una vita in cui ha scelto
immagini paterne dominanti o sadiche, come padroni, insegnanti,
ecc.. Egli sarà curato soltanto se cambierà la sua reale situazione di
vita in modo tale che essa non riproduca continuamente le tendenze
alla sottomissione che vuole abbandonare. Egli dovrà inoltre cambia-
re il suo sistema di valori, di norme e di ideali così che essi promuo-
vano le sue aspirazioni alla salute e alla maturità, invece di bloccarle.
Le medesime condizioni: conflitto con le esigenze della natura
umana e conseguente sofferenza, consapevolezza di ciò che è esclu-
so e mutamento della situazione reale e dei valori e delle norme, so-
no pure necessari per una cura della patologia sociale.
Scopo del capitolo precedente era mostrare il conflitto tra i biso-
gni umani e la nostra struttura sociale, e promuovere la consapevo-
lezza dei nostri conflitti e di ciò che è dissociato. Intenzione di que-
sto capitolo è esaminare le varie possibilità di mutamenti pratici nel-
la nostra organizzazione economica, politica e culturale.
Tuttavia, prima di cominciare a esaminare le questioni pratiche,
consideriamo ancora una volta, sulla base delle premesse sviluppate
all’inizio di questo libro, ciò che costituisce l’equilibrio mentale e
quale tipo di cultura si può supporre possa condurre alla salute men-
tale.
La persona mentalmente sana è la persona produttiva e non alie-
nata: la persona che collega se stessa al mondo amorevolmente e che
usa la sua ragione per afferrare obiettivamente la realtà, che ricono-
sce se stessa come un’unica entità individuale e nello stesso tempo si
sente una con i suoi simili, che non è soggetta ad autorità irrazionale
e accetta volontariamente l’autorità razionale della coscienza e della
ragione, che continua a nascere durante tutta la sua vita e che consi-
dera il dono dell’esistenza come la più preziosa possibilità.
Ricordiamo anche che questi obiettivi di salute mentale non sono
ideali che debbano essere imposti ad una persona o che l’uomo possa
raggiungere soltanto se supera la sua «natura» e sacrifica il suo «in-
nato egoismo». Al contrario l’aspirazione alla salute mentale, alla
felicità, all’armonia, all’amore, alla produttività è insita in ogni esse-
re umano che non sia nato come un idiota morale o mentale. Data
una possibilità, queste aspirazioni si affermano con forza come si
può riconoscere in innumerevoli situazioni. Occorrono potenti con-
8. LE VIE DELLA SALUTE 238
giunture e circostanze per pervertire e soffocare questa innata aspira-
zione all’equilibrio: e infatti attraverso la maggior parte della storia
conosciuta, l’uso dell’uomo da parte dell’uomo ha prodotto tale per-
versione. Credere che questa perversione sia insita nell’uomo è come
gettar semi nel deserto e dichiarare che non hanno voluto germoglia-
re.
Quale società corrisponde a questo fine di salute mentale, e quale
sarebbe la struttura di una società equilibrata? Innanzitutto una so-
cietà in cui nessun uomo sia un mezzo per i fini di un altro, ma sia
sempre e senza eccezione un fine in se stesso; dunque, dove nessuno
sia usato, e neppure usi se stesso per fini che non siano quelli dello
sviluppo dei suoi poteri umani; dove l’uomo sia il centro e dove tutte
le attività economiche e politiche siano subordinate al fine del suo
sviluppo. Una società equilibrata è quella dove qualità come
l’attività, lo spirito di sfruttamento, la volontà di possesso, il narcisi-
smo non abbiano possibilità di essere usate per un maggior guada-
gno materiale o per l’aumento del prestigio personale. Dove
l’operare secondo coscienza si presenti come una qualità fondamen-
tale e necessaria, e dove l’opportunismo e la mancanza di principi
siano riconosciuti come asociali, dove l’individuo affronti i problemi
sociali così che questi divengano problemi personali, dove il suo
rapporto con i propri simili non sia separato dalle sue relazioni di
natura privata. Una società equilibrata inoltre è quella che consente
all’uomo di aver a che fare con dimensioni manovrabili e osservabili
nel loro insieme, e di partecipare attivamente e responsabilmente alla
vita sociale, come anche di padroneggiare la propria vita. È quella
che promuove la solidarietà umana e non solo permette ai suoi
membri di stabilire amorevolmente dei rapporti l’uno con l’altro, ma
anche li stimola a ciò; una società equilibrata promuove l’attività
produttiva di ognuno nel suo lavoro, stimola lo sviluppo della ragio-
ne e rende l’uomo capace di dare espressione ai suoi intimi bisogni
nell’arte e nei rituali collettivi.
239 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
Trasformazione economica
A. il socialismo come problema
Nel capitolo precedente ho esaminato le tre risposte al problema
dello squilibrio contemporaneo: quelle del totalitarismo, del neocapi-
talismo e del socialismo. La soluzione totalitaria sia di tipo fascista
sia di tipo stalinista porta evidentemente soltanto a un aumento dello
squilibrio e della disumanizzazione; la soluzione del neocapitalismo
approfondisce soltanto la patologia che è insita nel capitalismo; esso
aumenta l’alienazione dell’uomo, la sua automatizzazione, e porta a
compimento il processo di asservirlo all’idolo della produzione. La
sola soluzione costruttiva è quella del socialismo che tende ad una
fondamentale riorganizzazione del nostro sistema economico e so-
ciale, nell’intento di liberare l’uomo dall’essere usato come mezzo
per fini estranei a lui stesso, e tende a creare un ordine sociale nel
quale la solidarietà umana, la ragione e la produttività siano promos-
se piuttosto che ostacolate. È indubbio tuttavia che i risultati del so-
cialismo, dove fin qui è stato praticato, sono stati almeno deludenti.
Quali sono le ragioni di questo insuccesso? Quali sono i fini e le me-
te di una ricostruzione economica e sociale capace di evitare questo
insuccesso e di portare ad una società sana?
Secondo il socialismo marxista una società socialista sarebbe co-
struita su due premesse: la socializzazione dei mezzi di produzione e
distribuzione e una economia centralizzata e pianificata. Marx e i
primi socialisti non dubitavano che se questi fini potevano esser rag-
giunti ne sarebbero derivate quasi automaticamente l’emancipazione
di tutti gli uomini dall’alienazione e una società senza classi di fra-
tellanza e di giustizia. Tutto quel che sarebbe necessario per la tra-
sformazione umana, come essi la vedevano, è che la classe operaia
ottenga il controllo politico con la forza o con il voto, socializzi
l’industria e istituisca una economia pianificata. La questione se essi
avessero ragione nella loro ipotesi non è più una questione accade-
mica: la Russia ha fatto ciò che i socialisti marxisti pensavano fosse
necessario fare nella sfera economica. Se il sistema russo ha mostra-
to che economicamente una economia socializzata e pianificata può
funzionare in maniera efficiente, ha anche dimostrato che ciò non
costituisce in alcun modo condizione sufficiente per creare una so-
8. LE VIE DELLA SALUTE 240
cietà libera, fraterna e non alienata. Al contrario ha dimostrato che la
pianificazione centralizzata può perfino creare un grado di irreggi-
mentazione e di autoritarismo più alto di quanto si possa trovare nel
capitalismo o nel fascismo. Tuttavia il fatto che un’economia piani-
ficata e socializzata sia stata attuata in Russia non significa che il
sistema russo sia la realizzazione del socialismo come lo intendeva-
no Marx e Engels. Esso significa che Marx e Engels si erano sba-
gliati pensando che il mutamento giuridico della proprietà e una
economia pianificata bastassero per provocare i mutamenti umani e
sociali da loro desiderati.
Se la socializzazione dei mezzi di produzione in combinazione
con una economia pianificata costituiva la più importante richiesta
del socialismo marxista, vi erano altre richieste che non si sono af-
fatto attuate in Russia. Marx non postulò la completa eguaglianza
dei redditi, ma nondimeno pensava ad una sensibile riduzione
dell’ineguaglianza quale esiste nel capitalismo. In realtà
l’ineguaglianza del reddito non è minore in Russia che negli Stati
Uniti o in Inghilterra. Un’altra idea marxiana era che il socialismo
avrebbe portato al superamento dello stato e alla scomparsa graduale
delle classi sociali. In realtà il potere dello stato e la differenza tra
classi sociali sono maggiori in Russia che in qualsiasi paese capitali-
sta. Infine il concetto centrale del socialismo di Marx era l’idea che
l’uomo, con le sue facoltà emotive e intellettuali, è il fine e la meta
della cultura, che le cose (capitale) devono servire alla vita (il lavo-
ro) e che la vita non deve esser subordinata a ciò che è morto. Anche
qui l’indifferenza per l’individuo e per le sue qualità umane è mag-
giore in Russia che in qualsiasi paese capitalista.
Ma la Russia non è il solo paese che abbia provato ad applicare i
concetti economici del socialismo marxista. L’altro paese fu la Gran
Bretagna. Per paradossale che possa sembrare, il partito laburista,
che non si basa sulla teoria marxista, seguì nelle sue misure pratiche
esattamente la linea della dottrina marxista secondo cui la realizza-
zione del socialismo è basata sulla socializzazione dell’industria. La
differenza dalla Russia è abbastanza chiara. Il partito laburista bri-
tannico si appoggiò sempre su mezzi pacifici per la realizzazione dei
suoi fini; la sua politica non si fondò sulla richiesta del «tutto o nien-
te», ma rese possibile la socializzazione dei servizi medici e bancari,
delle ferrovie, dell’industria siderurgica, mineraria e chimica, senza
241 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
nazionalizzare il resto dell’industria britannica. Ma mentre introdu-
ceva una economia nella quale elementi socialisti si mescolavano al
capitalismo, l’idea principale per il raggiungimento del socialismo
restava nondimeno quella della socializzazione dei mezzi di produ-
zione.
Tuttavia l’esperimento britannico, anche se meno gravi furono i
suoi insuccessi, fu egualmente scoraggiante. Da un lato esso creò
una buona dose di irreggimentazione e burocratizzazione che non lo
rendevano simpatico a nessuno che avesse a cuore l’aumento della
libertà e della indipendenza dell’uomo, e d’altra parte esso non sod-
disfece alcuna delle speranze fondamentali del socialismo. Divenne
evidente che ad un operaio dell’industria mineraria o siderurgica
britannica non importava o importava ben poco che la proprietà
dell’industria fosse di qualche migliaio o anche di qualche centinaia
di migliaia di individui, come in una azienda di pubblico interesse, o
dello stato. La sua paga, i suoi diritti e, più importante di tutto, le sue
condizioni di lavoro e il suo ruolo nel processo lavorativo restavano
essenzialmente gli stessi. Vi sono pochi vantaggi conseguenti alla
nazionalizzazione che l’operaio non avrebbe potuto raggiungere at-
traverso i suoi sindacati in una economia puramente capitalistica.
D’altra parte, anche se i provvedimenti del governo laburista non
realizzavano il fine principale del socialismo, sarebbe indice di poco
acume ignorare che il socialismo britannico ha attuato dei cambia-
menti positivi della massima importanza nella vita del popolo ingle-
se, uno dei quali è l’estensione del sistema di previdenza sociale fino
a coprire le cure mediche. Può apparire di poco conto, per un com-
ponente delle classi medie o superiori degli Stati Uniti, il quale non
fa fatica a pagare le parcelle del medico e le spese di spedalità, il
fatto che nessuno in Inghilterra ha da temere una malattia come una
catastrofe che può completamente disorganizzare la sua vita (per non
parlare della possibilità di perderla per la mancanza di adeguate cure
mediche). Ma si tratta in realtà di un miglioramento fondamentale da
paragonarsi al progresso fatto quando si istituì l’istruzione obbligato-
ria. È inoltre vero che la nazionalizzazione dell’industria perfino nel-
la misura limitata in cui fu introdotta in Inghilterra (circa un quinto
dell’intera industria) permise allo stato di controllare in una certa
misura l’economia totale, un controllo di cui si avvantaggiò tutto
l’insieme dell’economia britannica.
8. LE VIE DELLA SALUTE 242
Ma anche considerando in tutto il loro valore le realizzazioni del
governo laburista, si deve dire che le sue misure non conducevano
alla realizzazione del socialismo se lo consideriamo in un senso
umano più che in un senso puramente economico. E se si dicesse che
il partito laburista ebbe modo solo di iniziare il suo programma e che
avrebbe introdotto il socialismo se fosse stato al potere abbastanza
per completare la sua opera, tale obiezione non sarebbe molto con-
vincente. Anche immaginando la socializzazione dell’intera industria
pesante inglese si potrebbe pensare a maggior sicurezza, maggior
prosperità né vi sarebbe ragione di temere che la nuova burocrazia
sia più pericolosa per la libertà della burocrazia della General Mo-
tors o della General Electric. Ma nonostante tutto quel che si potreb-
be dire in suo favore, tale socializzazione e pianificazione non sa-
rebbe il socialismo, se per socialismo intendiamo una nuova forma
di vita, una società di solidarietà e di fede nella quale l’individuo
abbia trovato se stesso e si sia liberato dall’alienazione insita nel si-
stema capitalistico.
I risultati terrificanti del comunismo sovietico da una parte e
dall’altra i deludenti risultati del socialismo laburista hanno portato
ad un’atmosfera di rassegnazione e di sfiducia fra molti socialisti
democratici. Alcuni continuano ancora a credere nel socialismo, ma
più per orgoglio o per ostinazione che per reale convinzione. Altri,
impegnati in compiti più o meno importanti in uno dei partiti sociali-
sti, non riflettono troppo e si trovano soddisfatti delle attività prati-
che che svolgono; altri ancora, che hanno perduto la fede in un rin-
novamento della società, ritengono che il loro più importante compi-
to sia quello di condurre la crociata contro il comunismo russo, e
mentre rinnovano le loro accuse contro il comunismo, accuse ben
note e condivise da chiunque non sia stalinista, desistono da ogni
critica radicale del capitalismo e da ogni nuova proposta per il fun-
zionamento del socialismo democratico. Essi danno l’impressione
che nel mondo tutto andrebbe bene se solo si potesse salvarlo dalla
minaccia comunista, e agiscono come amanti disillusi che hanno
perduto ogni fede nell’amore.
Quale sintomatica espressione del generale scoraggiamento esi-
stente tra i socialisti democratici, cito da un articolo di R.H.S.
Crossman, uno dei più pensosi e attivi esponenti dell’ala sinistra del
partito laburista. «Sarebbe follia, scrive Crossman, in un’epoca che
243 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
non è di progresso costante verso un capitalismo del benessere mon-
diale, ma di rivoluzione mondiale, credere che il compito del sociali-
sta sia di contribuire al graduale miglioramento delle condizioni ma-
teriali del genere umano e al graduale allargamento dell’area della
libertà umana. Le forze della storia urgono tutte verso il totalitari-
smo: nel blocco russo, per la deliberata politica del Cremlino; nel
mondo libero per gli sviluppi della società burocratica, per le riper-
cussioni del riarmo totale e per il soffocamento delle aspirazioni co-
loniali. Compito del socialismo non è né di accelerare questa rivolu-
zione politica né di contrastarla (il che sarebbe altrettanto vano quan-
to, cento anni fa, opporsi alla rivoluzione industriale), ma di incivi-
lirla».1
Mi sembra che il pessimismo di Crossman porti a due errori. Uno
sta nella convinzione che il totalitarismo o manageriale o stalinista
possa esser «civilizzato». Se per civilizzato si intende un sistema
meno crudele di quello della dittatura stalinista, forse Crossman ha
ragione. Ma la versione del Brave New World che si basa interamen-
te sulla suggestione e il condizionamento è altrettanto inumana e
folle quanto la versione del 1984 di Orwell. Né l’una né l’altra ver-
sione di una società completamente alienata può esser umanizzata.
L’altro errore sta nello stesso pessimismo di Crossman. Il sociali-
smo, con le sue genuine aspirazioni umane e morali, è ancora
un’attrattiva potente per milioni di uomini in tutto il mondo e le con-
dizioni obiettive per un socialismo umanistico e democratico sono
maggiori oggi che nel diciannovesimo secolo. Le ragioni di questa
convinzione sono implicite nel tentativo che segue di sottolineare
alcuni tra i propositi per una trasformazione socialista nella sfera
economica, politica e culturale. Però, prima di proseguire, vorrei
mettere in chiaro, sebbene ve ne sia appena bisogno, che le mie pro-
poste non sono né nuove né pretendono di essere esaurienti o neces-
sariamente giuste nei particolari. Esse sono fatte nella convinzione
che sia necessario volgerci da un esame generale dei principi ai pro-
blemi pratici di come questi principi possano essere realizzati. Molto
prima che la democrazia politica fosse realizzata, i pensatori del di-
ciottesimo secolo esaminarono progetti di principi costituzionali che
1 Nuovi saggi fabiani, a cura di R.H.S. CROSSMAN, Edizioni di Comunità, Milano 1953, p.
42.
8. LE VIE DELLA SALUTE 244
dovevano dimostrare la possibilità e i modi della organizzazione
democratica dello stato. Nel ventesimo secolo esiste la necessità di
esaminare i modi e le forme per attuare la democrazia politica e tra-
sformarla in una società umana. Le obiezioni che vengono fatte si
basano per lo più sul pessimismo e su una profonda mancanza di
fede. Si afferma che il progresso della società manageriale e la im-
plicita manipolazione dell’uomo non possono essere arrestati senza
regredire al telaio a mano, poiché l’industria moderna abbisogna di
funzionari e di automi. Altre obiezioni sono dovute alla mancanza di
fantasia ed altre ancora alla profonda paura di esser liberati da disci-
pline e che ci sia data la completa libertà di vivere. È però del tutto
fuori discussione che i problemi della trasformazione sociale non
sono tanto difficili da risolvere, teoricamente e praticamente, quanto
i problemi tecnici che i nostri chimici e i nostri fisici hanno risolto. E
non si può neanche dubitare che noi si abbia più bisogno di una rina-
scita dell’uomo che non di aeroplani e della televisione. Una piccola
parte della ragione e del senso pratico che si usano nelle scienze na-
turali permetterebbe, se applicata ai problemi umani, la continuazio-
ne del compito di cui i nostri antenati del diciottesimo secolo erano
così orgogliosi.
B. Il principio del socialismo comunitario
L’accentuazione marxista del problema della socializzazione dei
mezzi di produzione era influenzata dal capitalismo del diciannove-
simo secolo. La condizione proprietaria e i diritti di proprietà erano
le categorie centrali dell’economia capitalistica, e Marx restò entro
questo ambito di idee quando definì il socialismo col capovolgere il
sistema capitalistico della proprietà domandando la «espropriazione
degli espropriatori». Qui, come nel loro orientamento a favore dei
fattori politici piuttosto che sociali, Marx e Engels erano influenzati
dallo spirito borghese più che le altre scuole di pensiero socialiste,
che si interessavano alla funzione dell’operaio nel processo lavorati-
vo, alle sue relazioni sociali con gli altri nelle fabbriche, e agli effetti
del metodo di lavoro sul carattere dell’operaio.
L’insuccesso, e forse anche la popolarità, del socialismo marxista
risiede precisamente in questa sopravvalutazione borghese dei diritti
di proprietà e dei fattori puramente economici. Ma le altre scuole di
245 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
pensiero socialista erano state molto più consapevoli dei trabocchetti
insiti nel marxismo, e avevano molto più adeguatamente formulato il
fine del socialismo. Owenisti, sindacalisti, anarchici e socialisti cor-
porativisti erano d’accordo nella loro principale preoccupazione: la
situazione sociale e umana del lavoratore nel suo lavoro e il genere
di relazione con i suoi compagni lavoratori. (Per «lavoratore» inten-
do qui e nelle pagine seguenti chiunque viva del proprio lavoro sen-
za utili addizionali provenienti dall’impiego di altri). Il fine di tutte
queste varie forme di socialismo, che possiamo chiamare «sociali-
smo comunitario», era una organizzazione industriale nella quale
ogni persona che lavora sarebbe stata un partecipante attivo e re-
sponsabile, dove il lavoro sarebbe stato attraente e significativo e
dove non il capitale avrebbe impiegato il lavoro, ma il lavoro avreb-
be impiegato il capitale. Essi mettevano l’accento
sull’organizzazione del lavoro e sulle relazioni sociali tra gli uomini,
e non principalmente sulla questione della proprietà. Come mostrerò
più avanti c’è un notevole ritorno a questo atteggiamento da parte di
socialisti di tutto il mondo che alcuni decenni or sono consideravano
la forma pura della dottrina marxista come la soluzione di tutti i pro-
blemi.
Per dare al lettore un’idea generale dei principi di questo tipo di
pensiero socialista comunitario che, nonostante considerevoli diver-
sità, è comune a sindacalisti, anarchici, e socialisti corporativisti e, in
misura sempre crescente, a socialisti marxisti, cito la seguente di-
chiarazione di Cole.
Egli scrive: «Fondamentalmente la vecchia insistenza sulla liber-
tà era giusta ed essa fu trascurata perché si pensava alla libertà come
fosse soltanto autogoverno politico. La nuova concezione della liber-
tà deve esser più ampia: deve includere l’idea dell’uomo non soltan-
to come cittadino di uno stato libero, ma come compartecipe in una
comunità industriale. Il riformatore burocratico, ponendo tutto
l’accento sul lato puramente materiale della vita, è giunto a credere
in una società di macchine ben nutrite, ben alloggiate e ben vestite
che lavorino per una macchina più grande, cioè lo stato.
L’individualista ha offerto agli uomini l’alternativa tra miseria e
schiavitù sotto l’apparenza della libertà di azione. La vera libertà,
che è la meta del nuovo socialismo, assicurerà libertà di azione e
8. LE VIE DELLA SALUTE 246
immunità dalla oppressione economica trattando l’uomo come un
essere umano e non come un problema o come un dio.
In realtà, la libertà politica è, di per se stessa, sempre illusoria. Un
uomo che viva per sei se non per sette giorni alla settimana in sogge-
zione economica non diventa libero facendo semplicemente, ogni
cinque anni, una croce sulla scheda elettorale.
Per significare qualche cosa per l’uomo medio, la libertà deve si-
gnificare anche libertà industriale. Fino a che gli uomini nel loro la-
voro non potranno riconoscersi soci di una comunità di lavoratori
autodiretta, resteranno essenzialmente servi quale che sia il sistema
politico in cui vivono. Non basta spazzar via la degradante relazione
nella quale viene a trovarsi, di fronte ad un datore di lavoro, lo
schiavo salariato. Anche lo stato socialista lascia l’operaio nei vinco-
li di una tirannia che per esser impersonale non è meno esasperante.
L’autogoverno nell’industria non è il supplemento, ma la premessa
pratica della libertà politica.
L’uomo è ovunque in catene e le sue catene non saranno infrante
finché egli non senta che è degradante esser un servo, sia di un sin-
golo che dello stato. La malattia della civiltà non è tanto nella mate-
riale povertà dei molti quanto nella decadenza dello spirito di libertà
e di fiducia in se stessi. La rivolta che cambierà il mondo sorgerà
non dalla benevolenza che cova "le riforme" ma dalla volontà di es-
sere liberi. Gli uomini coopereranno nella piena coscienza della loro
mutua dipendenza, ma agiranno per se stessi. La libertà non sarà loro
data dall’alto, ma la prenderanno da sé.
I socialisti perciò dovranno attirare i lavoratori non con la do-
manda: "Non è forse spiacevole esser poveri e non vorreste collabo-
rare con noi per elevare le condizioni dei poveri?", ma con queste
parole: "La povertà è soltanto il segno della schiavitù dell’uomo, per
superarla tu devi cessar di lavorare per gli altri e devi credere in te
stesso". La servitù salariata durerà fino a che un uomo o una istitu-
zione comandino a degli uomini, e finirà quando i lavoratori impare-
ranno a dar più importanza alla libertà che alla comodità. L’uomo
medio diventerà un socialista non per assicurarsi "un livello minimo
di vita civile", ma perché sentirà vergogna della schiavitù che acceca
247 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
lui e i suoi compagni, e perché ha deciso di finirla col sistema indu-
striale che li rende schiavi».2
«Qual è dunque innanzitutto la natura dell’ideale cui deve mirare
il laburismo? Che cosa significa il "controllo dell’industria" chiesto
dai lavoratori? Si può riassumerlo in due parole: gestione diretta. Il
compito dell’effettiva direzione dell’impresa deve essere affidato ai
lavoratori che vi sono occupati. A loro deve spettare di stabilire la
produzione, la distribuzione e lo scambio. Essi devono conquistare
l’autogoverno industriale con il diritto di eleggere i propri rappresen-
tanti. Devono comprendere e controllare tutto il complicato mecca-
nismo dell’industria e del commercio; devono diventare gli agenti
accreditati della comunità nel settore economico».3 NOTE:...
C. Obiezioni socio-psicologiche
Prima di esaminare i suggerimenti pratici per la realizzazione del
socialismo comunitario in una società industriale, sarà meglio sof-
fermarci ad esaminare alcune delle più importanti obiezioni a tali
possibilità; il primo tipo di obiezione è basato sull’idea di una
particolare natura del lavoro industriale, il secondo sulla natura
dell’uomo e sulle motivazioni psicologiche del lavoro.
È precisamente riferendosi ad ogni mutamento nella stessa situa-
zione di lavoro che, da parte di molti osservatori attenti e ben dispo-
sti, vengono fatte le più gravi obiezioni alle idee del socialismo co-
munitario. Si obietta che il lavoro industriale moderno è, per la sua
stessa natura, meccanico, poco interessante e alienato. Esso si basa
su una forma estrema di divisione del lavoro e non può mai assorbire
l’interesse e l’attenzione dell’uomo libero. Tutte le idee per rendere
ancora interessante e significativo il lavoro sono in realtà dei sogni
romantici e, seguendole con la maggior consequenzialità e col mag-
gior realismo, esse porterebbero logicamente alla richiesta di abban-
donare il nostro sistema di produzione industriale e di ritornare al
sistema preindustriale di produzione artigiana. Al contrario, si conti-
nua ad obiettare, il fine sarà di rendere il lavoro maggiormente privo
2 G.D.H. COLE e W. MELLOR, The Meaning of Industrial Freedom, Allen and Unwin, Ltd.,
Londra 1918, pp. 3, 4 3 Ibidem, p. 22.
8. LE VIE DELLA SALUTE 248
di significato e maggiormente meccanizzato. Negli ultimi cento anni
abbiamo assistito ad una considerevole riduzione delle ore di lavoro,
e non sembra fantastico attenderci per l’avvenire giornate lavorative
di quattro e perfino di due ore. Siamo proprio ora testimoni di un
impressionante mutamento nei metodi di lavoro. Il processo lavora-
tivo è così frazionato, che il compito di ogni operaio diventa automa-
tico e non richiede la sua attenzione attiva, così che egli può abban-
donarsi ai suoi sogni e alle sue fantasticherie. Adoperiamo inoltre
macchine sempre più automatizzate che lavorano con i loro «cervel-
li» in stabilimenti puliti, ben illuminati e salubri, e l’«operaio» non
deve far altro che controllare qualche strumento e muovere ogni tan-
to qualche leva. Difatti, dicono quelli che condividono questa opi-
nione, quel che speriamo è la completa automatizzazione del lavoro;
l’uomo lavorerà poche ore, il che non sarà scomodo né richiederà
molta attenzione; e diventerà una routine quasi inconsapevole, come
pulirsi i denti, e nella vita di ognuno il centro di gravità sarà posto
nelle ore di riposo.
Questa obiezione suona convincente, e chi può dire che la fabbri-
ca completamente automatizzata e la scomparsa di tutti i lavori spor-
chi e disagevoli non siano la meta cui sta avvicinandosi la nostra
evoluzione industriale? Ci sono tuttavia parecchie considerazioni che
ci impediscono di riporre la nostra principale speranza di una società
sana nella automatizzazione del lavoro.
Prima di tutto si dubita almeno che la meccanizzazione del lavoro
possa avere i risultati supposti dall’obiezione precedente. Abbiamo
una buona dose di prove che indicano il contrario. Così per esempio
un recente e assai acuto studio svolto tra operai dell’industria auto-
mobilistica mostra che essi disprezzano il lavoro quanto più esso
esprime le caratteristiche della produzione di massa, come ripetizio-
ne e ritmo meccanico o simili. Mentre la grande maggioranza ap-
prezzava il lavoro per ragioni economiche (147 contro 7) una mag-
gioranza anche più schiacciante (96 contro 1) non lo amava a causa
del suo contenuto immediato.4 La medesima reazione era espressa
anche nel comportamento degli operai. «Operai il cui lavoro aveva
"high mass production scores", cioè mostrava in forma estrema le
4 Cfr. R. WALKER e R.H. GUEST, The Man on the Assembly Line, Harvard University Press,
Cambridge (Mass.) 1952, pp. 142, 143.
249 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
caratteristiche della produzione di massa, si assentavano più spesso
degli operai che avevano un lavoro con basse caratteristiche di pro-
duzione di massa. Il lavoro con alte caratteristiche di produzione di
massa provocava il maggior numero di dimissioni dall’impiego».5 Ci
si deve anche domandare se la libertà di fantasticare e sognare data
dal lavoro meccanizzato sia un fattore così positivo e salutare come
presume la maggioranza degli psicologi industriali. In effetti il fanta-
sticare è un sintomo di mancanza di collegamento con la realtà; e
non è riposante o rilassante, ma è essenzialmente un’evasione con
tutte le conseguenze negative che si accompagnano all’evasione.
Quello che gli psicologi industriali descrivono con così rosei colori è
essenzialmente la stessa mancanza di concentrazione che è tanto ca-
ratteristica dell’uomo moderno in generale. Si fanno tre cose in una
volta perché non si fa nulla in modo attento, ed è un grave errore
credere che far qualche cosa in maniera non concentrata sia riposan-
te. Al contrario ogni attività concentrata, sia essa il lavoro, il gioco o
il riposo (anche il riposo è un’attività), è tonica, e ogni attività non
concentrata è stancante. Ognuno può riscontrare la verità di questa
affermazione con qualche semplice osservazione della sua esperien-
za personale.
Ma, oltre a tutto ciò, occorreranno molte generazioni prima che
un tal punto di automatizzazione e di riduzione del lavoro sia rag-
giunto, specialmente se pensiamo non soltanto all’Europa e
all’America, ma all’Asia e all’Africa che quasi non hanno ancora
iniziato la loro rivoluzione industriale. E, attendendo il tempo in cui
si potrà lavorare con un minimo dispendio di energia, l’uomo dovrà
continuare per qualche centinaio di anni a consumare la maggior
parte delle sue energie in un lavoro senza significato? Non diventerà
sempre più alienato, sia nelle ore libere sia in quelle lavorative? La
speranza di lavorare senza sforzo non si basa forse sulla fantasia del-
la pigrizia e del potere-pulsante e cioè su una fantasia piuttosto mal-
sana? Il lavoro è una parte così trascurabile dell’esistenza dell’uomo
da potersi e doversi ridurre a una quasi completa mancanza di signi-
ficato? E non è forse il modo di lavorare di per se stesso un elemento
5 Ibidem, p. 144. Le esperienze sull'allargamento del lavoro svolte dalla Ibm portano ad eguali
considerazioni. Quando un operaio svolgeva diverse operazioni che erano prima suddivise tra
diversi operai, così che l'operaio potesse avere un senso di completezza ed esser collegato col
prodotto del lavoro, la produzione aumentava e la stanchezza diminuiva.
8. LE VIE DELLA SALUTE 250
essenziale per la formazione del carattere? Il lavoro automatizzato
non porterà forse ad una vita completamente automatizzata?
Tutte queste domande pongono altrettanti dubbi sulla idealizza-
zione del lavoro complementare automatizzato; ma dobbiamo consi-
derare ora quelle opinioni che negano la possibilità che il lavoro pos-
sa essere interessante e significativo e possa pertanto esser veramen-
te umanizzato. Si obiettano queste cose: il lavoro in uno stabilimento
moderno non porta per la sua stessa natura all’interesse e alla soddi-
sfazione; inoltre vi sono necessariamente dei lavori da fare che sono
decisamente spiacevoli o ripugnanti; la partecipazione attiva
dell’operaio alla direzione non è compatibile con le esigenze
dell’industria moderna, e porterebbe al caos; per funzionare adegua-
tamente in questo sistema l’uomo deve obbedire e adattarsi ad una
organizzazione «routinizzata»; per sua natura l’uomo è pigro e non
gli piace la responsabilità e di conseguenza deve esser condizionato
per funzionare senza attriti e senza troppa iniziativa e spontaneità.
Per ribattere adeguatamente a queste obiezioni dovremmo fare
qualche considerazione sul problema della pigrizia e delle varie mo-
tivazioni del lavoro.
Sorprende che l’opinione della naturale pigrizia dell’uomo sia so-
stenuta sia da psicologi sia da non psicologi quando sono tanti i fatti
riscontrabili che la contraddicono. La pigrizia, lungi dall’essere
normale, è un sintomo di patologia mentale. In effetti una delle più
gravi forme di malattia mentale è la noia, il non saper cosa fare di sé
e della propria vita. Anche se l’uomo non ricevesse compenso finan-
ziario o altro, sarebbe ansioso di consumare le sue energie in qualche
modo significativo perché non potrebbe sopportare la noia prodotta
dall’inattività.
Osserviamo i bambini: essi non sono mai pigri; col minimo inco-
raggiamento o anche senza, sono indaffarati a giocare, a far doman-
de, a inventare favole, senza nessuno stimolo eccetto il piacere
dell’attività in se stessa. Nel campo della psicopatologia troviamo
che la persona che non ha interesse a far nessuna cosa è seriamente
ammalata ed è ben lungi dal presentare uno stato normale proprio
alla natura umana. Esiste abbondanza di materiale relativo ad operai
che durante il periodo di disoccupazione soffrono tanto, o più, per il
«riposo» forzato, quanto per le privazioni materiali. E come si può
ampiamente dimostrare per molta gente oltre i sessantacinque anni,
251 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
la necessità di cessare il lavoro porta a una profonda scontentezza e,
in molti, al deterioramento fisico o alle malattie.
Nondimeno la estesa credenza nella pigrizia innata dell’uomo si
sostiene su molti motivi. La causa principale sta nel fatto che il lavo-
ro alienato è noioso e non soddisfa, che esso provoca una gran quan-
tità di tensione e di ostilità che portano ad una avversione per il lavo-
ro e per tutto ciò che vi è connesso. Come risultato, troviamo che il
desiderio di pigrizia e il dolce far niente sono l’ideale di molte per-
sone. Così la gente sente che la propria pigrizia è lo stato «naturale»
piuttosto che il sintomo di una condizione patologica della vita, il
risultato di un lavoro alienato e senza significato. Esaminando le
opinioni correnti sulle motivazioni del lavoro risulta evidente che
esse sono basate sul concetto del lavoro alienato e pertanto le loro
conclusioni non devono applicarsi al lavoro non alienato e attraente.
La teoria convenzionale e più comune è che il denaro sia
l’incentivo principale al lavoro. Questa opinione può aver due signi-
ficati differenti: il primo è che la paura della miseria è l’incentivo
più importante al lavoro, e in questo caso l’argomentazione regge.
Molti tipi di lavoro non sarebbero mai accettati sulla base delle pa-
ghe o di altre condizioni di lavoro se il lavoratore non fosse messo di
fronte all’alternativa di accettare date condizioni o morire di fame. Il
lavoro spiacevole e basso nella nostra società non è fatto volonta-
riamente ma perché il bisogno di guadagnarsi da vivere costringe
molta gente a farlo.
Più spesso, quando si parla dell’incentivo monetario, si pensa che
il desiderio di guadagnare più denaro determini il maggior sforzo nel
lavoro. Se l’uomo non fosse tentato dalla speranza di un maggior
compenso monetario, si obietta, egli non lavorerebbe del tutto o al-
meno lavorerebbe senza interesse.
Questa convinzione esiste ancora tra la maggioranza degli indu-
striali, come anche tra molti dirigenti sindacali. Così, per esempio,
cinquanta dirigenti industriali risposero alla domanda6 che cosa fosse
importante per aumentare la produttività dei lavoratori: il solo gua-
dagno: 44% il guadagno è di gran lunga la cosa più importante, ma
hanno qualche importanza anche cose meno tangibili: 28% il guada-
6 Dati riportati in «Public Opinion Index for Industry» nel 1947, citati da M.S. VITELES,
Motivation and Morale in Industry, W.W. Norton & Company, New York 1953.
8. LE VIE DELLA SALUTE 252
gno è importante ma oltre un certo limite non produce risultati: 28%
In effetti i datori di lavoro di tutto il mondo sono favorevoli al siste-
ma di retribuzioni a incentivo come solo mezzo che può portare alla
più alta produttività del singolo operaio, ai più alti guadagni per ope-
rai e datori di lavoro, rendendo in tal modo indirettamente più facile
il controllo, riducendo l’assenteismo, ecc.. Relazioni e indagini da
parte dell’industria e degli uffici governativi «testimoniano general-
mente l’efficacia del sistema di retribuzioni a incentivo per aumenta-
re la produttività e raggiungere altri obiettivi».7 Sembra che anche
gli operai credano che con la retribuzione a incentivo si ottenga il
maggior rendimento pro capite. In una indagine condotta nel 1949
dalla Opinion Research Corporation e interessante 1021 lavoratori
manuali comprendenti un settore nazionale di dipendenti
dell’industria manifatturiera, il 65% disse che la retribuzione a in-
centivo aumenta il rendimento e soltanto il 22% che la paga oraria
porta ad una produzione più elevata. Tuttavia rispondendo alla do-
manda sul sistema di paga preferito, il 65% si dichiarò a favore della
paga oraria e soltanto il 29% per la retribuzione a incentivo. (La pro-
porzione della preferenza per la paga oraria era di 74 contro 20 nel
caso di operai pagati ad ora ma, perfino nel caso di operai già in pa-
ga a incentivo, il 59% era a favore della paga oraria contro il 36%
favorevole alla retribuzione a incentivo).
Questi ultimi dati sono interpretati da Viteles come dimostrazio-
ne che «per quanto utile sia la retribuzione a incentivo per aumentare
il rendimento, essa non risolve il problema di ottenere la cooperazio-
ne degli operai. In talune circostanze essa può acutizzare questo pro-
blema».8 Questa opinione è condivisa sempre più da psicologi indu-
striali e anche da qualche industriale.
Tuttavia l’esame dell’incentivo finanziario sarebbe incompleto se
non considerassimo il fatto che il desiderio di maggior guadagno è
costantemente stimolato dalla stessa industria, che fa affidamento sul
denaro come sul più importante incentivo al lavoro. Con la pubblici-
tà, il sistema di vendita a rate, e diversi altri espedienti l’avidità
dell’individuo di comprare cose in sempre maggior quantità e sem-
pre più nuove è stimolata al punto che è raro egli possa avere abba-
7 Ibidem, p. 27. 8 Ibidem, pp. 49, 50.
253 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
stanza denaro per soddisfare questi bisogni. Così, essendo artificial-
mente stimolato dall’industria, l’incentivo monetario esercita un ruo-
lo maggiore di quello che farebbe altrimenti. Inoltre non occorre dire
che l’incentivo monetario deve necessariamente svolgere un ruolo
preminente fino a che esso resta l’unico incentivo, dato che il pro-
cesso di lavoro è di per se stesso insoddisfacente e noioso. Vi sono
molti esempi di casi in cui si sceglie un lavoro meno retribuito se
esso è di per se stesso più interessante.
Si suppone che, oltre al denaro, il prestigio, la condizione sociale
e il potere che vi si accompagnano siano i principali incentivi al la-
voro. Non c’è bisogno di dimostrare che il desiderio di prestigio e di
potere costituisce oggi il più potente incentivo al lavoro nelle classi
medie e superiori; difatti l’importanza del denaro consiste largamen-
te nel prestigio che esso rappresenta, almeno quanto nella sicurezza e
comodità che gli si accompagnano. Ma si ignora spesso il ruolo che
il bisogno di prestigio svolge anche tra gli operai, gli impiegati e i
gradi più bassi della burocrazia industriale e commerciale. Le divise
di facchino di treni di lusso, di fattorini di banca ecc., sono significa-
tivi sostegni psicologici di questo senso d’importanza, come nei ran-
ghi superiori lo sono il telefono personale e un ufficio più ampio.
Questi fattori di prestigio esercitano un ruolo anche tra operai
dell’industria.9
Il denaro, il prestigio e il potere costituiscono oggi i principali in-
centivi per il settore più ampio della nostra popolazione, quella che è
impiegata. Ma ci sono altre motivazioni: la soddisfazione di crearsi
una esistenza economicamente indipendente, e la esecuzione di lavo-
ri di abilità, che entrambe rendono il lavoro molto più significativo
ed attraente di quanto non lo facciano le motivazioni del denaro e del
potere. Ma mentre l’indipendenza economica e l’abilità erano soddi-
sfazioni importanti per l’uomo d’affari indipendente, per l’artigiano
e per l’operaio altamente specializzato del diciannovesimo secolo e
degli inizi del ventesimo, il ruolo di queste motivazioni sta ora rapi-
damente diminuendo.
Per quanto riguarda l’aumento dei dipendenti, in contrasto con
coloro che svolgono una attività indipendente, notiamo che agli inizi
9 Cfr. W. WILLIAMS, Mainsprings of Men, Charles Scribner's Sons, New York 1925, p. 56,
citato da M.S. VITELES, op. cit., p. 65 ss.
8. LE VIE DELLA SALUTE 254
del diciannovesimo secolo circa i quattro quinti della popolazione
occupata erano lavoratori indipendenti; intorno al 1870 solo un terzo
apparteneva a questo gruppo e nel 1940 questa antica classe media
comprendeva soltanto un quinto della popolazione occupata.
Questo passaggio da indipendenti a dipendenti porta di per se
stesso ad una diminuita soddisfazione del lavoro a causa dei motivi
che abbiamo già esaminato. La persona dipendente più di quella in-
dipendente lavora in una posizione alienata. Riceva una paga bassa o
alta, essa è sempre un accessorio dell’organizzazione e non un essere
umano che fa qualcosa per se stesso.
C’è un fattore tuttavia che potrebbe mitigare l’alienazione del la-
voro, ed è l’abilità che si richiede per il suo svolgimento. Ma anche
qui ci si muove verso una diminuita richiesta di abilità; da ciò
l’aumento di alienazione.
Ai lavoratori d’ufficio si richiede un certo grado di abilità, ma il
fattore della «bella presenza», adatto per essere bene accetto, diventa
di sempre maggior importanza. Tra gli operai dell’industria il vec-
chio tipo di operaio capace di far tutto perde sempre più importanza
a paragone dell’operaio semiqualificato. Alla Ford, alla fine del
1948, il numero degli operai che potevano essere addestrati in meno
di due settimane andava dal 75 all’80% di tutto il personale operaio
degli stabilimenti. Da una scuola professionale con un programma di
apprendistato per la Ford uscivano ogni anno soltanto trecento di-
plomati, di cui la metà entrava in altre imprese. In una fabbrica di
batterie, a Chicago, tra un centinaio di meccanici considerati alta-
mente qualificati, ve ne sono soltanto quindici che hanno una solida
conoscenza tecnica generale, e quarantacinque altri sono «specializ-
zati» soltanto nell’uso di una sola macchina. In uno degli stabilimen-
ti della Western Electric di Chicago il periodo medio di addestra-
mento degli operai va dalle tre alle quattro settimane e giunge fino a
sei mesi per i compiti più delicati e difficili. Del personale totale di
6400 dipendenti nel 1948, c’erano circa 1000 impiegati d’ufficio,
5000 operai non specializzati e soltanto 400 operai che potevano
esser considerati specializzati. In altre parole meno del 10% del tota-
le del personale è qualificato tecnicamente. In una fabbrica di cara-
255 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
melle di Chicago il 90% degli operai abbisogna di un addestramento
«al banco» che non supera le 48 ore.10
Perfino un’industria come quella svizzera degli orologi che si ba-
sava su manodopera altamente qualificata e specializzata è mutata
moltissimo sotto questo aspetto. Sebbene ci siano ancora diversi sta-
bilimenti che producono secondo i principi tradizionali
dell’artigianato, le grandi fabbriche di orologi del cantone di Solo-
thurn hanno soltanto una modesta percentuale di operai veramente
specializzati.11
Riassumendo, la grande maggioranza della popolazione lavora
come dipendenti cui si richiede poca specializzazione, e con quasi
nessuna possibilità di sviluppare qualche talento particolare o di ri-
velare qualche capacità straordinaria. Mentre i gruppi dirigenti o
professionali hanno almeno un considerevole interesse nel realizzare
qualcosa di più o meno personale, gli altri, nella grande maggioran-
za, vendono le loro capacità fisiche, o una frazione molto esigua del-
le loro capacità intellettuali, ad un datore di lavoro che le usa per
conseguire un utile in cui essi non hanno alcuna parte, per cose a cui
essi non hanno alcun interesse, con il solo fine di guadagnarsi da
vivere e con qualche possibilità di soddisfare la loro avidità di con-
sumatori.
Insoddisfazione, apatia, noia, mancanza di gioia e di felicità, un
senso di inutilità e una vaga sensazione che la vita non ha alcun si-
gnificato, sono i risultati inevitabili di questa situazione. La gente
non è sempre consapevole di questa sindrome patologica socialmen-
te strutturata che può nascondersi in una frenetica fuga in attività di
evasione o in una brama di più denaro, più potere, più prestigio. Ma
questi ultimi motivi hanno tanto peso solamente perché la persona
alienata non può non cercare compensazione al suo vuoto interiore, e
non perché questi desideri siano degli incentivi al lavoro «naturali» o
di maggior importanza.
V’è qualche prova empirica che oggi la maggior parte della gente
non è soddisfatta del suo lavoro?
In un tentativo di rispondere a questa domanda si deve distingue-
re fra ciò che la gente pensa consciamente riguardo alle proprie sod-
10 Queste cifre sono citate da G. FRIEDMANN, op. cit., p. 152ss. 11 Cfr. G. FRIEDMANN, op. cit., pp. 319, 320.
8. LE VIE DELLA SALUTE 256
disfazioni, e ciò che sente inconsciamente. L’esperienza psicanalitica
insegna che il senso di infelicità e di insoddisfazione può esser pro-
fondamente represso; una persona può consciamente sentirsi soddi-
sfatta, e soltanto i suoi sogni, malattie psicosomatiche, insonnia, e
molti altri sintomi possono rivelare l’infelicità sotterranea. La ten-
denza a reprimere l’insoddisfazione e l’infelicità è fortemente soste-
nuta dal diffuso sentimento che il non essere soddisfatti significhi
essere «un fallimento», eccentrico, senza successo, ecc.. (Così, per
esempio, il numero di coloro che pensano consciamente di esser feli-
cemente coniugati ed esprimono sinceramente questa convinzione
rispondendo a un questionario, è di gran lunga maggiore del numero
di quelli che sono realmente felici del loro matrimonio).
Ma perfino i dati sulla soddisfazione conscia del proprio lavoro
sono abbastanza rivelatori. In uno studio sulla soddisfazione nel la-
voro, condotto su scala nazionale, dichiaravano di avere un lavoro
piacevole e soddisfacente l’85% dei professionisti e dei dirigenti, il
64% degli impiegati d’ufficio, e il 41% degli operai dell’industria.
Un quadro simile troviamo in un’altra indagine: 86% dei professio-
nisti, 74% dei dirigenti, 42% degli impiegati del commercio, 56%
degli operai specializzati, e 48% degli operai semispecializzati di-
chiararono di essere soddisfatti.12
Troviamo in queste cifre una significativa discordanza tra profes-
sionisti e dirigenti da una parte, e operai e impiegati dall’altra. Tra i
primi solo una minoranza è insoddisfatta, tra gli ultimi più della me-
tà. Riferendoci al totale della popolazione, questo significa
all’incirca che più della metà della popolazione lavorativa comples-
siva è consciamente insoddisfatta del proprio lavoro, e non vi trova
gioia alcuna. Se consideriamo l’insoddisfazione inconscia, la percen-
tuale sarà considerevolmente più alta. Se prendiamo l’85% dei pro-
fessionisti e dei dirigenti «soddisfatti» si dovrebbe esaminare quanti
di loro soffrono di ipertensione, ulcera, insonnia, tensione nervosa e
stanchezza determinate da cause psichiche. Sebbene non vi siano
dati esatti in proposito, non vi può esser dubbio che se si consideras-
sero questi sintomi, il numero delle persone realmente soddisfatte, e
che provano piacere nel loro lavoro, sarebbe molto minore di quello
indicato dalle cifre sopra riportate.
12 Cfr. C.W. MILLS, White Collar, cit., p. 229.
257 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
Per quanto riguarda gli operai di fabbrica e gli impiegati
d’ufficio, perfino la percentuale delle persone consciamente insoddi-
sfatte è notevolmente elevata e indubbiamente il numero degli operai
e degli impiegati inconsciamente insoddisfatti sarà ancora più eleva-
to. Ciò è indicato da alcuni studi che mostrano come le ragioni prin-
cipali dell’assenteismo siano le nevrosi e le malattie determinate da
cause psichiche (si calcola che la presenza di sintomi nevrotici tra gli
operai degli stabilimenti superi il 50%). La stanchezza e l’alta mobi-
lità della manodopera sono altri sintomi di insoddisfazione e risen-
timento.
Dal punto di vista economico il sintomo più importante, che è
perciò il più studiato, è la diffusa tendenza degli operai degli stabi-
limenti a non dare il meglio di sé nel lavoro, ciò che costituisce quel-
lo che è spesso chiamato «work restriction». In una indagine condot-
ta dalla Opinion Research Corporation nel 1945, il 49% di tutti gli
operai manuali interrogati rispose che «quando un uomo assume un
posto in uno stabilimento dovrebbe produrre quanto più può», ma il
41% rispose che egli non dovrebbe dare il meglio di sé, ma soltanto
«produrre la quantità media».13
14
13 M.S. VITELES, op. cit., p. 61. 14 Sotto il titolo The Decline of «Economic» Man, Viteles giunge a questa conclusione: «In
generale gli studi del genere sopra citato continuano a confermare le conclusioni raggiunte da
Mathewson, come risultato di indagini sugli stabilimenti e di interviste con rappresentanti
della direzione, e cioè che:
1. La restrizione è ampiamente diffusa, e profondamente legata al modo di lavorare degli
operai americani.
2. L'organizzazione scientifica del lavoro non è stata capace di sviluppare quello spirito di
fiducia tra i contraenti di un contratto di lavoro che ha tanto operato a favore dello sviluppo
della buona volontà tra i contraenti di un contratto di vendita.
3. Il lavorare sotto la norma e la restrizione sono problemi più grandi di quanto non lo sia-
no il lavorare troppo o troppo svelti. Gli sforzi dei dirigenti per far che gli operai lavorassero
più rapidamente sono stati neutralizzati dall'ingegnosità degli operai nello sviluppare sistemi
restrittivi.
4. I dirigenti sono stati in generale così soddisfatti della produzione per ora lavorativa da
dedicare soltanto una attenzione superficiale al contributo o alla mancanza di contributo dei
lavoratori all'aumento del rendimento. I tentativi di assicurare l'aumento della produzione sono
stati fatti con metodi tradizionali e non scientifici, mentre i lavoratori aderivano alle vecchie
pratiche di autoprotezione che precedono lo studio dei tempi, i piani di incentivi e gli altri
espedienti per stimolare la capacità produttiva.
5. Indipendentemente da quanto un individuo può o meno desiderare di contribuire ad un
lavoro a pieno ritmo, le sue esperienze attuali lo distolgono da un buon costume lavorativo».
(M.S. VITELES, op. cit., pp. 58, 59).
8. LE VIE DELLA SALUTE 258
Vediamo che c’è una considerevole quantità di insoddisfazione
conscia, e più ancora inconscia, per il genere di lavoro che la nostra
società industriale offre alla maggior parte dei suoi membri. Si cerca
di far fronte a questa insoddisfazione con un insieme di incentivi
monetari e di prestigio, e senza dubbio questi incentivi producono
una considerevole voglia di lavorare, specialmente ai gradi medi e
più elevati della gerarchia nel mondo degli affari. Ma una cosa è che
questi incentivi facciano lavorar la gente e tutt’altra questione è se il
modo di fare questo lavoro porti alla salute mentale e alla felicità.
L’esame delle motivazioni del lavoro considera di solito soltanto il
primo problema, cioè se questo o quell’incentivo aumenti la produt-
tività economica dell’operaio, ma non considera il secondo, quello
della sua produttività umana. Si ignora il fatto che vi sono molti in-
centivi che possono indurre un uomo a far qualche cosa, ma che nel
contempo sono nocivi alla sua personalità. Una persona può lavorare
sodo per paura o per un intimo senso di colpa; la psicopatologia ci
fornisce numerosi esempi di motivi nevrotici che portano ad un ec-
cesso di attività, allo stesso modo che alla inattività.
La maggior parte di noi ritiene che il genere di lavoro proprio
della nostra società, cioè il lavoro alienato, sia il solo genere che si
possa dare, e che pertanto l’avversione al lavoro è naturale, e che di
conseguenza il denaro, il prestigio e il potere siano i soli incentivi al
lavoro. Se usassimo almeno un po’ della nostra immaginazione tro-
veremmo una buona dose di testimonianze nella nostra stessa vita,
osservando i bambini, o in diverse situazioni che si possono facil-
mente conoscere, per convincerci che siamo desiderosi di impiegare
le nostre energie in qualche cosa di significativo, e che ci sentiamo
riposati se possiamo farlo, come siamo facilmente disposti ad accet-
tare l’autorità razionale se ciò che facciamo ha un senso.
Ma anche se questo è vero, obiettano i più, che ci giova questa
verità? Il lavoro industriale e meccanizzato non può, per la sua stessa
natura, esser significativo; esso non può darci alcun piacere o soddi-
sfazione e non vi sono modi per cambiare questa situazione a meno
che non si vogliano abbandonare le nostre conquiste tecniche. Per
rispondere a questa obiezione e passare ad esaminare alcune idee su
come il lavoro moderno possa esser significativo, desidero indicare
due differenti aspetti del lavoro che è molto importante conoscere
259 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
per il nostro problema: la differenza tra aspetti tecnici e aspetti socia-
li del lavoro.
D. interesse e partecipazione come motivazioni
Se consideriamo separatamente gli aspetti tecnici e quelli sociali
della situazione di lavoro, troviamo che molti tipi di lavoro sarebbe-
ro interessanti dal lato tecnico se l’aspetto sociale fosse soddisfacen-
te; d’altra parte, vi sono tipi di lavoro il cui aspetto tecnico non può,
per la sua stessa natura, esser interessante e dove tuttavia gli aspetti
sociali della situazione di lavoro potrebbe renderlo significativo ed
attraente.
Cominciando ad esaminare il primo caso, troviamo che vi sono
molti uomini cui piacerebbe, per esempio, esser dei tecnici ferrovia-
ri. Ma sebbene quella di tecnici delle ferrovie sia tra le posizioni me-
glio pagate e più rispettate della classe operaia, questa professione
non è però tale da soddisfare le ambizioni di quelli che potrebbero
«star meglio». Non c’è dubbio che tra i dirigenti d’industria parecchi
proverebbero più piacere nello svolgere l’attività di tecnico delle
ferrovie che non nel loro lavoro, soltanto se l’ambiente sociale fosse
diverso. Prendiamo un altro esempio: quello di un cameriere di risto-
rante. Questo mestiere potrebbe essere estremamente attraente per
molta gente qualora il suo prestigio sociale fosse diverso. Esso per-
mette di aver continui rapporti con la gente e, per quelli che apprez-
zano la buona cucina, è un piacere consigliare gli altri sui cibi, ser-
virli con eleganza, ecc.. Molti uomini proverebbero molto più piace-
re a fare i camerieri che a star seduti in un ufficio a rompersi la testa
su cifre senza significato, se non fosse per la bassa valutazione so-
ciale e il basso reddito del lavoro di cameriere. E ancora, molti altri
desidererebbero il lavoro di autista di taxi, se non vi fossero gli
aspetti economico-sociali negativi.
Si dice spesso che vi sono taluni tipi di lavoro che nessuno vor-
rebbe svolgere se non vi fosse forzato dalla necessità economica; e
spesso si porta ad esempio il lavoro del minatore. Ma se si conside-
rano la varietà della gente e le loro fantasie consce e inconsce, sem-
bra che vi sarebbe un considerevole numero di uomini per i quali
lavorare sotto terra ed estrarne le ricchezze potrebbe avere un grande
fascino, qualora non vi fossero gli svantaggi sociali e finanziari di
8. LE VIE DELLA SALUTE 260
questo tipo di lavoro. Non c’è probabilmente nessun genere di lavo-
ro che non interesserebbe certi tipi di personalità, qualora fosse libe-
ro da aspetti negativi sia sul piano sociale sia su quello economico.
Ma anche concedendo che le considerazioni ora fatte siano vali-
de, è indubbiamente vero che molti dei lavori più altamente mecca-
nizzati, che sono richiesti dalla meccanizzazione industriale, non
possono aver in se stessi una fonte di piacere o di soddisfazione. An-
che qui la differenza tra aspetto tecnico e sociale del lavoro si rivela
importante. Mentre l’aspetto tecnico può esser infatti senza interesse,
la situazione totale di lavoro potrebbe offrire una buona quantità di
soddisfazione.
Ecco alcuni esempi per illustrare questo punto. Paragoniamo una
massaia che bada alla casa e alla cucina, con una domestica che è
pagata per fare esattamente lo stesso lavoro. Sia per la massaia sia
per la domestica il lavoro nei suoi aspetti tecnici è il medesimo, e
non particolarmente interessante. Però esso avrà evidentemente per
le due un significato ed una soddisfazione completamente differenti,
quando si pensi ad una donna con una felice situazione coniugale e
con bambini e ad una normale domestica che non abbia attaccamen-
to sentimentale per i suoi padroni. Per la prima il lavoro non sarà una
pena, mentre lo sarà certamente per la seconda; la sola ragione per
farlo è che questa donna ha bisogno del denaro che riceve in com-
penso. La ragione di questa differenza è ovvia: mentre il lavoro è lo
stesso nei suoi aspetti tecnici, completamente differente è la situa-
zione di lavoro: per la massaia esso è una parte del suo totale rappor-
to col marito e coi figli e in questo senso il suo lavoro ha un signifi-
cato. La domestica non può partecipare alla soddisfazione di questo
aspetto sociale del lavoro.
Prendiamo un altro esempio: un indiano del Messico che vende i
suoi prodotti al mercato. L’aspetto tecnico del lavoro, quello di ser-
vire per tutto il giorno i clienti e svolgere ogni tanto il compito di
rispondere a domande sul prezzo ecc. sarebbe altrettanto noioso e
sgradito quanto il lavoro di una commessa in un grande magazzino
popolare. V’è però una differenza essenziale. Per l’indiano messica-
no la situazione del mercato è piena di interessanti rapporti umani.
Egli accoglie con piacere i clienti, prova soddisfazione a chiacchie-
rare con loro e si sentirebbe veramente avvilito se gli accadesse di
vendere tutte le merci nelle prime ore del mattino, e non avesse ulte-
261 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
riore occasione per questa soddisfazione di relazioni umane. Per la
commessa di un emporio popolare la situazione è radicalmente diffe-
rente. Anche se non deve sorridere quanto una commessa meglio
pagata di un negozio più elegante, la sua alienazione dal cliente è
esattamente la stessa. Non c’è alcun genuino rapporto umano. Ella
lavora come una parte del meccanismo di vendita, ha paura di esser
licenziata ed è preoccupata di far bene. La situazione di lavoro in
quanto situazione sociale è inumana, vuota e priva di ogni genere di
soddisfazione. È vero naturalmente che l’indiano vende i propri pro-
dotti e ricava il proprio utile, ma anche un piccolo bottegaio indi-
pendente sarà egualmente annoiato a meno che non trasformi
l’aspetto sociale della situazione di lavoro in un aspetto umano.
Considerando ora gli studi recenti nel campo della psicologia in-
dustriale, troviamo molte testimonianze sull’importanza della diffe-
renziazione tra l’aspetto tecnico e quello sociale della situazione di
lavoro, e inoltre sull’effetto vitalizzante e stimolante dell’attiva e
responsabile partecipazione del lavoratore al suo compito.
Uno dei più notevoli esempi del fatto che il lavoro tecnicamente
monotono può essere interessante se la situazione di lavoro nel suo
complesso consente interesse e partecipazione attiva, è l’esperimento
ormai classico condotto da Elton Mayo15
allo stabilimento Hawthor-
ne di Chicago della Western Electric Company. L’operazione scelta
era il montaggio di bobine per telefoni, lavoro che è considerato co-
me prestazione ripetitiva, ed è di solito svolto da donne. Un normale
banco di montaggio con l’adeguata attrezzatura e con posto per cin-
que operaie venne messo in una camera che era separata con un divi-
sorio dalla sala principale di montaggio; sei operaie in tutto lavora-
vano in questa camera, cinque al banco e una che distribuiva i pezzi
a quelle occupate al montaggio. Tutte le donne erano operaie speri-
mentate. Due di esse lasciarono il posto durante il primo anno, e il
loro posto venne preso da altre due operaie di eguale abilità.
Nell’insieme l’esperimento durò cinque anni e fu diviso in vari pe-
riodi sperimentali nei quali furono effettuati certi cambiamenti nelle
condizioni di lavoro. Senza entrare nei particolari di questi cambia-
15 Cfr. Elton MAYO, The Human Problem of an Industrial Civilization, The Macmillan Com-
pany, 2a ed', New York 1946. E cfr. anche F.J. ROETHLISBERGER e W.J. DICKSON, Man-
agement and the Worker, Harvard University Press, Cambridge, 10a ed., 1950.
8. LE VIE DELLA SALUTE 262
menti, basti dire che vennero adottati degli intervalli di riposo al
mattino e al pomeriggio, durante queste pause furono offerti cibi di
ristoro e l’orario fu ridotto di mezz’ora. Durante questi cambiamenti
il rendimento di ogni operaia crebbe considerevolmente. Fin qui,
tutto bene; nulla era più plausibile dell’assunto che l’aumento dei
periodi di riposo e alcuni tentativi di far sì che il lavoratore «si tro-
vasse meglio» fossero la causa di una efficienza crescente. Ma le
condizioni furono ancora una volta mutate nel dodicesimo periodo
sperimentale e questa volta le aspettative furono deluse e i risultati si
rivelarono piuttosto impressionanti: in accordo con le operaie, il
gruppo ritornò alle condizioni di lavoro che esistevano all’inizio
dell’esperimento. Le pause di riposo, i ristori speciali e altri miglio-
ramenti furono tutti aboliti per circa tre mesi. Con stupore di tutti,
questo non portò ad una diminuzione della produttività, ma, al con-
trario, il rendimento giornaliero e settimanale salì ad un punto più
elevato di quanto non fosse mai stato prima. Nel periodo successivo
furono reintrodotte le vecchie concessioni con la sola eccezione che
le operaie dovevano provvedere al proprio cibo, mentre la società
continuava a fornire il caffè per la merenda del mattino. Il rendimen-
to continuò ancora a crescere. E non soltanto il rendimento. Quello
che era egualmente importante era il fatto che l’incidenza delle ma-
lattie tra le operaie partecipanti a questo esperimento cadde di circa
l’80% a paragone con l’incidenza generale, e che un nuovo rapporto
sociale di relazione amichevole si sviluppò tra le operaie partecipanti
all’esperimento.
Come si può spiegare il sorprendente risultato che «il persistente
incremento sembrava nel suo continuo sviluppo ignorare i mutamen-
ti sperimentali»?16
Se non era per le pause di riposo, per il tè, per
l’orario di lavoro abbreviato, che cos’era a far sì che le operaie pro-
ducessero di più, fossero più sane e più amichevoli tra loro? La ri-
sposta è ovvia: mentre gli aspetti tecnici del lavoro monotono e non
interessante restavano gli stessi e mentre perfino taluni miglioramen-
ti come le pause di riposo non erano determinanti, l’aspetto sociale
dell’intera situazione di lavoro era mutato e determinava un muta-
mento nell’atteggiamento delle operaie. Esse erano informate
dell’esperimento e delle sue diverse fasi, i loro suggerimenti erano
16 E. MAYO, op. cit., p. 63.
263 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
ascoltati e spesso seguiti e, ciò che è forse il punto più importante,
sapevano di partecipare ad un esperimento significativo ed interes-
sante, che era importante non solo per loro, ma per i lavoratori
dell’intero stabilimento. Mentre esse in principio erano «timide e
inquiete, silenziose e forse un po’ sospettose delle intenzioni della
società», più tardi il loro atteggiamento era segnato «da confidenza e
franchezza». Il gruppo sviluppò un senso di partecipazione al lavoro,
perché esse sapevano quel che stavano facendo; avevano un fine e
uno scopo e potevano influire su tutto il procedimento con i loro
suggerimenti.
I risultati sorprendenti dell’esperimento di Mayo mostrano che la
malattia, la stanchezza e un conseguente basso rendimento non sono
principalmente determinati dal monotono aspetto tecnico del lavoro,
ma dalla alienazione del lavoratore dalla totale situazione di lavoro
nei suoi aspetti sociali. Appena questa alienazione fu ridotta ad un
certo livello attraverso la partecipazione dell’operaio a qualcosa che
era per lui significativo e su cui poteva esprimere la sua opinione,
mutò l’intera reazione psicologica nei confronti del lavoro, anche se
tecnicamente egli continuava a fare lo stesso genere di lavoro.
L’esperimento di Mayo alle officine Hawthorne fu seguito da un
numero di ricerche tendenti a dimostrare che l’aspetto sociale della
situazione di lavoro aveva un’influenza decisiva sull’atteggiamento
dei lavoratori, anche se il processo lavorativo restava lo stesso nei
suoi aspetti tecnici. Così per esempio Wyatt e i suoi collaboratori
«...fornirono indicazioni su altre caratteristiche della situazione di
lavoro che influenzano la volontà di lavorare. Queste indicazioni
mostravano che la variazione della media di lavoro in differenti in-
dividui dipendeva dalla prevalente atmosfera sociale, o del gruppo,
cioè da una influenza collettiva che formava uno sfondo intangibile e
determinava la natura generale delle reazioni alle condizioni di lavo-
ro».17
È alla stessa particolarità che si deve il fatto che in un piccolo
gruppo di lavoro la soddisfazione soggettiva e il rendimento siano
più elevati che nei gruppi più grandi, anche se negli stabilimenti
esaminati la natura del processo lavorativo era quasi identica e le
condizioni fisiche, previdenziali e di ristoro erano molto elevate e
17 Dati riportati su «Public Opinion Index for Industry» nel 1947, citati da M.S. VITELES,
Motivation and Morale in Industry, cit., p. 134.
8. LE VIE DELLA SALUTE 264
quasi le stesse.18
La relazione tra la grandezza del gruppo e il morale
è stata notata anche in uno studio di Hewitt e Parfit condotto in uno
stabilimento tessile inglese.19
Qui la «media delle assenze» non do-
vute a malattia risultava significativamente maggiore fra gli operai
delle grandi sale che tra quelli delle sale più piccole, dove c’erano
meno lavoratori.20
Uno studio precedente condotto nell’industria
aeronautica durante la seconda guerra mondiale da Mayo e Lom-
bard21
giunge a risultati molto simili.
L’aspetto sociale della situazione di lavoro in confronto a quello
puramente tecnico è stato particolarmente accentuato da G. Fried-
mann. Come esempio della differenza tra questi due aspetti egli de-
scrive il «clima psicologico» che spesso si sviluppa tra uomini che
lavorano insieme al nastro trasportatore. Nella squadra di lavoro le-
gami personali e interessi si sviluppano e la situazione di lavoro è in
tutti i suoi aspetti molto meno monotona di quanto sembrerebbe vi-
sta dal di fuori osservandone soltanto l’aspetto tecnico.22
Mentre gli esempi precedenti forniti da ricerche in psicologia in-
dustriale23
ci mostrano il risultato che si ottiene anche con un mode-
18 M.S. VITELES, op. cit., p. 138. 19 D. HEWITT e J. PARFIT, Working Morale and Size of Group Occupational Psychology,
1953. 20 M.S. VITELES, op. cit., p. 139. 21 E. MAYO e G.F.F. LOMBARD, Team Work and Labour Turnover in the Aircraft Industry
of Southern California, Harvard Graduate School of Business, «Business Research Series N'
32», 1944. 22 G. FRIEDMANN, Dove va il lavoro umano?, cit., p. 117. Cfr. anche il suo Machine et Hu-
manisme, Gallimard, Parigi 1946, pp. 329,
330 e 370 ss. 23 Nel medesimo campo ci sono gli esperimenti di «allargamento del lavoro» condotti dalla
Ibm, il cui aspetto più importante consiste nel mostrare che l'operaio si sente più soddisfatto se
l'estrema divisione del lavoro, e la sua conseguente mancanza di significato, viene cambiata
con una attività che combini diverse operazioni, fino allora separate, in un'operazione più
significativa. Inoltre, c'è l'esperienza riferita da Walker e Guest, i quali trovarono che gli ope-
rai dell'industria automobilistica preferivano un metodo di lavoro nel quale potessero almeno
vedere le parti che essi avevano finito («banking»). In un esperimento condotto in uno stabili-
mento della Harwood Manufacturing Co', in un gruppo sperimentale dove vigevano metodi
democratici e le decisioni erano prese dagli operai, si verificò un aumento della produzione del
14%. (Cfr. VITELES, op. cit., pp. 164-67). Uno studio di P. French jr. sul personale addetto
alle macchine per cucire riferisce di un aumento della produzione del 18% come risultato di
un'accresciuta partecipazione operaia al programma di lavoro e alle decisioni prese. (J.R.P.
FRENCH, «Field Experiments», in Experiments in Social Process, a cura di J.G. Miller,
Mcgraw-Hill Book Co', New York 1950, pp. 83-88). Lo stesso principio era applicato in In-
ghilterra durante la guerra, quando i piloti andavano a visitare gli stabilimenti per spiegare agli
operai come quel che essi producevano era effettivamente impiegato in combattimento.
265 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
sto grado di partecipazione attiva nell’ambito della organizzazione
industriale moderna, giungiamo a conoscenze che sono molto più
convincenti dal punto di vista delle possibilità di trasformazione del-
la nostra organizzazione industriale se ci volgiamo alle relazioni sul
movimento comunitario, uno dei più significativi e interessanti mo-
vimenti dell’Europa odierna.
Vi sono circa un centinaio di «comunità di lavoro» in Europa, la
maggior parte in Francia, ma alcune anche nel Belgio, in Svizzera e
in Olanda. Alcune sono industriali e alcune agricole. Esse differisco-
no tra loro in vari aspetti, ma nondimeno i principi fondamentali so-
no abbastanza simili così che la descrizione di una può dare una vi-
sione adeguata delle caratteristiche essenziali di tutte.24
Boimondau è una fabbrica di casse di orologi, e in effetti è diven-
tata una delle sette maggiori fabbriche del genere esistenti in Fran-
cia. Fu fondata da Marcel Barbu, che dovette lavorar sodo per ri-
sparmiare abbastanza e avere una fabbrica propria, dove introdusse
un consiglio di gestione e un sistema di retribuzioni sanzionato da
tutti e comprendente la partecipazione agli utili. Ma questo paterna-
lismo illuminato non era quello cui Barbu mirava. Dopo la sconfitta
della Francia nel 1940 Barbu cercò di avviarsi decisamente verso la
liberazione cui pensava. Poiché a Valenza non trovava meccanici,
andava a cercare la gente per le strade e trovava qui un barbiere, lì
un salumaio, là un cameriere: praticamente tutti, eccetto operai indu-
striali specializzati. «Gli uomini erano tutti sotto i trent’anni, ed egli
si offriva di insegnar loro a fabbricar casse d’orologio, purché con-
sentissero a ricercare con lui una formula nella quale la "distinzione
tra datore di lavoro e prestatore d’opera fosse abolita". La cosa più
importante era cercare... La prima e rivoluzionaria scoperta fu che
ogni operaio doveva esser libero di dire il fatto suo agli altri... Subito
24 Seguo qui una descrizione delle «comunità di lavoro» data da Claire HUCHET BISHOP in
All Things Common, Harper and Brothers, New York 1950. Considero questo penetrante e
profondo lavoro come uno dei più illuminati tra quanti trattano i problemi psicologici dell'or-
ganizzazione industriale e delle possibilità per il futuro. Sia ben chiaro ad ogni modo che io
non intendo dire che le comunità di lavoro siano «la» risposta alla trasformazione di una vasta
e complessa società. Ne tratto in modo particolareggiato perché esse sono un esempio concreto
di nuove possibilità di partecipazione da parte dei lavoratori, possibilità che possono venir
scoperte quando immaginazione entusiasmo e senso della realtà si trovano riuniti. In Iugosla-
via lo sviluppo della partecipazione dei lavoratori segue per molti aspetti un percorso simile a
quello delle comunità di lavoro, e costituisce un altro interessante e importante campo di ricer-
ca nella medesima direzione.
8. LE VIE DELLA SALUTE 266
questa completa libertà di parlare tra loro e col datore di lavoro creò
una vivacissima atmosfera di fiducia.
Tuttavia fu ben presto evidente che questo "dirsi il fatto suo" por-
tava a discussioni e a sprecare il tempo di lavoro. Così essi,
all’unanimità, stabilirono un periodo ogni settimana per una riunione
collettiva e per raggiustare le controversie e i contrasti.
Ma siccome essi non tendevano semplicemente ad una miglior
formula economica ma a un nuovo modo di vivere insieme, le di-
scussioni dovevano condurre a scoprire gli atteggiamenti fondamen-
tali. "Ben presto, dice Barbu, vedemmo la necessità di una base co-
mune, ciò che da allora in poi chiamiamo la nostra etica comune".
Fino a che non vi fosse una base etica comune, non c’era un pun-
to di partenza comune e non c’era dunque possibilità di costruire
qualche cosa. Ma trovare una base etica comune non era facile, per-
ché le due dozzine di operai allora assunti erano tutti differenti: cat-
tolici, protestanti, materialisti, umanisti, atei, comunisti. Essi esami-
narono tutte le loro etiche individuali, cioè non quello che era stato
loro meccanicamente insegnato o che era stato accettato convenzio-
nalmente, ma quello che essi per loro propria esperienza e per loro
ragionamento ritenevano necessario.
Essi scoprirono che le loro etiche individuali avevano taluni punti
in comune; presero questi punti e li ridussero ad un minimo comune
denominatore su cui s’accordarono all’unanimità. E non fu una di-
chiarazione teoretica o vaga; nelle loro premesse essi dichiararono:
"Non c’è pericolo che il nostro minimo comune denominatore
etico sia una convenzione arbitraria poiché, per determinarne i punti,
ci siamo appoggiati alle nostre esperienze di vita. Tutti i nostri prin-
cipi morali sono stati riscontrati nella vita reale, nella vita quotidiana
e nella vita di tutti noi...".
Quel che avevano riscoperto del tutto da soli e passo a passo era
l’etica naturale, il Decalogo25
che espressero con le seguenti parole:
Ama il tuo prossimo.
Non ammazzare.
Non impossessarti dei beni del prossimo.
Non mentire.
25 Senza il primo comandamento che tratta del destino dell'uomo e non dell'etica.
267 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
Mantieni le tue promesse.
Guadagnati il pane col sudore della fronte.
Rispetta il tuo prossimo, la sua persona e la sua libertà.
Rispetta te stesso.
Combatti innanzi tutto in te stesso tutti i vizi che degradano l’uomo,
tutte le passioni che lo mantengono in servitù e che sono nocive alla vita
sociale: superbia, avarizia, lussuria, avidità, gola, ira, pigrizia.
Ricordati che vi sono beni più alti della vita stessa: la libertà, la dignità
umana, la verità, la giustizia...
Gli uomini si impegnarono a fare del loro meglio per mettere in
pratica il loro minimo comune denominatore etico nella vita quoti-
diana, e vi si impegnarono reciprocamente. Quelli che avevano
un’etica privata più esigente si impegnavano a cercar di vivere se-
condo quel che credevano, ma riconoscevano di non aver assoluta-
mente alcun diritto di interferire nella libertà degli altri. Praticamen-
te, erano tutti d’accordo nel rispettare del tutto le convinzioni o
l’assenza di convinzioni degli altri così da non deriderli o da scher-
zarvi sopra».26
La seconda scoperta fatta dal gruppo era che essi avevano il desi-
derio di educarsi. Calcolarono che il tempo risparmiato nella produ-
zione poteva essere usato per l’educazione. In tre mesi la produttività
del loro lavoro aumentò tanto che si poterono risparmiare nove ore
in una settimana di 48 ore. Che ne fecero? Essi usarono queste nove
ore per l’educazione ed erano pagati come se fossero ore di regolare
lavoro. In un primo tempo decisero di cantare in coro, di migliorare
la loro grammatica francese, e successivamente di imparare a legge-
re i rendiconti aziendali. Da questi si svilupparono altri corsi tenuti
tutti nello stabilimento dai migliori insegnanti che si potevano trova-
re; gli insegnanti erano pagati con paghe normali. C’erano corsi di
ingegneria, di fisica, di letteratura, di marxismo, di cristianesimo, di
danza, di canto e di pallacanestro.
Il loro principio è: «Noi non cominciamo dallo stabilimento, dalla
attività tecnica dell’uomo, ma dall’uomo stesso... In una comunità di
lavoro l’accento non è sul guadagno comune ma sul lavoro comune
per una realizzazione collettiva e personale».27 Il fine non è
26 C.H. BISHOP, op. cit., pp. 5, 6, 7. 27 Ibidem, p. 12 (corsivo mio).
8. LE VIE DELLA SALUTE 268
l’aumento della produttività o paghe più elevate, ma un nuovo stile
di vita che «lungi dall’abbandonare i vantaggi della rivoluzione
industriale, vi sia adattato».28
Ecco i principi su cui si basano
questa ed altre comunità di lavoro.
1. Per vivere una vita umana si deve disporre dell’intero frutto del
proprio lavoro.
2. Si deve esser in grado di educare se stessi.
3. Si deve perseguire uno sforzo comune entro un gruppo professio-
nale proporzionato alla statura dell’uomo (cento famiglie al mas-
simo).
4. Si deve esser attivamente collegati all’intero processo lavorativo.
Se si esaminano queste premesse si scopre che esse equivalgono ad uno
spostamento del centro del problema di vivere, dal fare e acquistare "cose",
allo scoprire, promuovere e sviluppare rapporti umani. Da una civiltà di
oggetti ad una civiltà di persone o, meglio, ad una civiltà di rapporti tra le
persone».29
Per quanto riguarda il compenso, esso corrisponde alle realizza-
zioni del singolo lavoratore, ma tien conto non soltanto del lavoro
professionale ma anche di «ogni attività umana che abbia valore per
il gruppo: un meccanico di prima categoria che sappia suonare il
violino, che sia allegro e buon camerata, ecc., ha per la comunità
maggior valore di un altro meccanico con eguali capacità professio-
nali ma che sia scorbutico, scapolo, ecc.».30
In media tutti i lavorato-
ri guadagnano dal 10 al 20% più di quello che guadagnerebbero con
paghe sindacali, senza tener conto di tutti gli altri vantaggi particola-
ri.
La comunità di lavoro ha acquistato una fattoria di duecentotren-
tacinque acri nella quale tutti, comprese le mogli, lavorano per tre
periodi di dieci giorni all’anno. Siccome tutti hanno un mese di va-
canza, significa che si lavora soltanto per dieci mesi nello stabili-
mento. L’idea di fondo non si basa solo sul tipico amore dei francesi
per la campagna, ma anche sulla convinzione che nessuno dovrebbe
essere interamente staccato dalla natura.
28 Ibidem, p. 13. 29 Ibidem, p. 13. 30 Ibidem, p. 14.
269 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
La cosa più interessante è la soluzione che essi hanno trovato per
una combinazione tra centralizzazione e decentramento, che evita il
pericolo del caos e nello stesso tempo, fa di ogni membro della co-
munità un elemento responsabile e partecipe della vita dello stabili-
mento e della comunità. Vediamo qui come lo stesso genere di pen-
siero e di osservazione che portò alla formulazione delle teorie che
nel diciottesimo e nel diciannovesimo secolo posero le basi per il
moderno stato democratico (divisione dei poteri, sistemi di controllo,
ecc.) sia stato applicato all’organizzazione di un’impresa industriale.
«Il potere supremo risiede nell’assemblea generale che si riunisce due
volte all’anno. Soltanto le decisioni unanimi obbligano i "compagni"
(membri).
L’assemblea generale elegge un capo della comunità che viene eletto
soltanto all’unanimità. Il capo non è soltanto la persona tecnicamente più
qualificata, come deve essere un dirigente, ma è anche "l’uomo che è un
esempio, che educa gli altri, che li ama, che è altruista, che li serve. Obbe-
dire a un cosiddetto capo senza queste qualità sarebbe viltà".
Il capo ha tutti i poteri esecutivi per tre anni. Passato questo periodo può
tornare in officina.
Il capo ha diritto di veto contro l’assemblea generale. Se assemblea ge-
nerale non vuole cedere, si deve porre la votazione di fiducia. Se la fiducia
non è ottenuta all’unanimità, il capo deve scegliere se accettare l’opinione
dell’assemblea generale o rassegnare le dimissioni.
L’assemblea generale elegge i membri del consiglio generale.
Compito del consiglio generale è di consigliare il capo della comunità; i
suoi membri durano in carica un anno. Esso si riunisce almeno ogni quattro
mesi ed è composto di sette membri e inoltre dei capi dei dipartimenti. Tut-
te le decisioni devono esser prese all’unanimità.
Entro il consiglio generale, i dirigenti di settore e otto membri (tra cui
due donne di casa) e il capo della comunità costituiscono il consiglio diret-
tivo, che si riunisce settimanalmente.
Tutte le posizioni responsabili entro la comunità, comprese quella di di-
rigente di settore e quella di capogruppo, sono raggiunte soltanto attraverso
"doppia nomina", cioè la persona è proposta da uno degli organismi e deve
essere unanimemente accettata dall’altro. Solitamente, ma non sempre, i
candidati sono proposti dal livello più alto e accettati o respinti dal livello
più basso. Così, dicono i membri della comunità, si evita sia la demagogia
sia l’autoritarismo.
8. LE VIE DELLA SALUTE 270
Tutti i membri si riuniscono una volta alla settimana in assemblea di
collegamento che, come indica il nome stesso, tende ad informare tutti di
ciò che avviene nella comunità ed anche a mantenere i reciproci contatti».31
Una caratteristica particolarmente importante di tutta la comunità
sono i gruppi di vicinato che si riuniscono periodicamente.
«Il gruppo di vicinato è l’organismo più piccolo di tutta la comunità.
Cinque o sei famiglie che vivono abbastanza vicine fra loro si riuniscono
alla sera dopo cena sotto la guida di un capo dei gruppi di vicinato scelto
secondo il principio sopraricordato.
In un certo senso il gruppo di vicinato è l’unità più importante della co-
munità, esso è "lievito" e "leva". Deve riunirsi nella casa di una delle fami-
glie e non altrove. Là, mentre si beve il caffè, tutte le questioni sono discus-
se assieme. Si tengono i verbali delle riunioni e li si manda al capo della
comunità che riassume i verbali di tutti i gruppi di vicinato. I responsabili
dei diversi settori danno poi risposta alle domande presentate. In questo
modo i gruppi di vicinato non pongono solo delle domande ma segnalano
anche le cose che non vanno e avanzano suggerimenti. Naturalmente è an-
che nei gruppi di vicinato che la gente impara a conoscersi meglio, e si aiu-
ta reciprocamente».32
Altra caratteristica della comunità è la corte. Essa è eletta
dall’assemblea generale ed ha la funzione di decidere nei contrasti
che sorgono tra due settori di attività o tra un settore e un membro;
se il capo della comunità non può regolare tali contrasti, questo vien
fatto dagli otto membri della corte (come al solito con voto unani-
me). Non c’è un corpo di leggi, e il verdetto si basa ed è diretto dalla
costituzione della comunità, dal minimo comune denominatore etico
e dal buon senso.
Alla Boimondau ci sono due settori principali: quello sociale e
quello industriale. Il secondo ha la seguente struttura:
«Il gruppo tecnico è composto di dieci uomini, al massimo.
Diversi gruppi formano una sezione.
Diverse sezioni costituiscono un servizio.
31 Ibidem, pp. 17, 18. 32 Ibidem, pp. 18, 19.
271 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
I membri di un gruppo sono responsabili tutti assieme di fronte alla se-
zione, e le diverse sezioni di fronte al servizio».33
Il settore sociale svolge tutte le attività escluse quelle tecniche.
«Tutti i membri, comprese le donne di casa, sono tenuti a portare avanti
il loro sviluppo spirituale, intellettuale, artistico e fisico. Sotto questo punto
di vista, è indicativa la lettura della rivista mensile della Boimondau "Le
Lien". Relazioni e notizie su ogni cosa: partite di calcio (disputate contro
squadre esterne), mostre fotografiche, visite a mostre d’arte, ricette di cuci-
na, adunanze ecumeniche, recensioni di concerti come per esempio il
Loewenguth Quartet, critiche di film, conferenze sul marxismo, risultati
delle partite di pallacanestro, discussioni sugli obiettori di coscienza, rendi-
conti di giornate nella fattoria agricola, articoli su ciò che l’America può
insegnare, passi scelti da san Tomaso d’Aquino relativi al denaro, recensio-
ni di libri come Pleasant Valley di Louis Bromfield e Mani sporche di Sar-
tre, ecc.. Un elastico spirito di quel che è utile informa tutto ciò. "Le Lien"
offre un quadro sincero di gente che ha detto "sì" alla vita e l’ha fatto con
un massimo di consapevolezza.»
Ecco qui ventotto sezioni sociali, ma se ne aggiungono conti-
nuamente di nuove:
(I gruppi sono elencati secondo la loro importanza numerica).
1. "Sezione spirituale"
Gruppo cattolico
Gruppo umanista
Gruppo materialista
Gruppo protestante
2. "Sezione intellettuale"
Gruppo di cultura generale
Gruppo di educazione civica
Gruppo di biblioteca
3. "Sezione artistica"
Gruppo teatrale
33 Ibidem, p. 23.
8. LE VIE DELLA SALUTE 272
Gruppo corale
Gruppo arredamento
Gruppo fotografico
4. "Sezione di vita comunitaria"
Gruppo cooperativo
Gruppo riunioni e festeggiamenti
Gruppo cinematografico
Gruppo di controiniziative
5. "Sezione di aiuto reciproco"
Gruppo di solidarietà
Gruppo per la manutenzione casalinga
Gruppo legatoria
6. "Sezione familiare"
Gruppo per la sorveglianza dei bambini
Gruppo educativo Gruppo di vita sociale
7. "Sezione sanitaria"
Due infermiere diplomate
Una infermiera pratica per informazioni generali
Tre infermiere visitatrici
8. "Sezione sportiva"
Squadra pallacanestro (maschile)
Squadra pallacanestro (femminile)
Squadra corsa campestre
Squadra di calcio
Squadra di pallavolo
Gruppo di cultura fisica (maschile)
Gruppo di cultura fisica (femminile)
9. Gruppo giornalistico.34
34 Ibidem, pp. 35.
273 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
Forse meglio di qualsiasi altra definizione, alcune dichiarazioni
degli stessi membri della comunità possono darci un’idea dello spiri-
to e del funzionamento pratico della comunità di lavoro:
Un membro di sindacato scrive:
«Ero delegato di sezione nel 1936, fui arrestato nel 1940 e mandato a
Buchenwald. In venti anni ho conosciuto molte aziende capitaliste... Nella
comunità di lavoro la produzione non è il fine della vita, ma il mezzo... Non
osavo sperare che un risultato così largo e completo si potesse realizzare
nella mia generazione.»
Un comunista scrive:
«Come iscritto al partito comunista francese, e per evitare malintesi, di-
chiaro che sono completamente soddisfatto del mio lavoro e della mia vita
comunitaria; le mie opinioni politiche sono rispettate, e la mia libertà com-
pleta e il mio precedente ideale di vita sono diventati una realtà.»
Un materialista scrive:
«Come ateo e materialista considero che uno dei più bei valori umani
sia la tolleranza e il rispetto delle opinioni religiose e filosofiche. Per questa
ragione mi sento particolarmente a mio agio nella comunità di lavoro. Non
soltanto la mia libertà di pensiero e di espressione non sono toccate, ma
trovo nella comunità i mezzi materiali e il tempo necessario per uno studio
più profondo delle mie convinzioni filosofiche.»
Un cattolico scrive:
«Sono stato nella comunità per quattro anni. Faccio parte del gruppo
cattolico. Come tutti i cristiani cerco di costruire una società nella quale
siano rispettate la libertà e la dignità dell’essere umano... Dichiaro a nome
di tutto il gruppo cattolico che la comunità di lavoro è il tipo di società che
un cristiano può desiderare. Qui ognuno è libero, rispettato, e tutto lo spin-
ge a migliorarsi e a ricercare la verità. Se formalmente questa società non
può esser chiamata cristiana, essa è cristiana di fatto. Cristo ci diede il se-
gno attraverso cui i credenti possono riconoscersi; e difatti noi ci amiamo.»
8. LE VIE DELLA SALUTE 274
Un protestante scrive:
«Noi protestanti della comunità dichiariamo che questa rivoluzione del-
la società è la soluzione che mette ogni uomo in grado di trovare liberamen-
te la sua realizzazione nel cammino che ha scelto. Questo senza nessun
conflitto con i compagni materialisti o cattolici... La comunità, composta di
uomini che si amano l’un l’altro, soddisfa le nostre aspirazioni di veder gli
uomini vivere assieme in armonia sapendo perché vogliono vivere.»
Un umanista scrive:
«Avevo quindici anni quando ho lasciato la scuola, e ho lasciato la chie-
sa a undici, dopo la prima comunione. Avevo fatto qualche progresso a
scuola ma il problema spirituale mi era sfuggito. Ero come la grande mag-
gioranza: "Me ne fregavo". A 22 anni sono entrato nella comunità. Ho tro-
vato subito qui un’atmosfera di studio e di lavoro come in nessun’altra par-
te. Innanzitutto sono stato attratto dal lato sociale della comunità e solo più
tardi ho compreso quale poteva esserne il valore umano. Poi ho riscoperto il
lato spirituale e morale che è nell’uomo, e che avevo perduto dall’età di 11
anni. Appartengo al gruppo umanistico perché non vedo il problema allo
stesso modo dei cristiani e dei materialisti. Amo la nostra comunità perché
attraverso essa tutte le profonde aspirazioni che sono in ognuno di noi pos-
sono esser destate, concretizzate e sviluppate, così che possiamo trasfor-
marci da individui in uomini».35
I principi delle altre comunità sia agricole sia industriali assomi-
gliano a quelli della Boimondau. Ecco qui alcune citazioni delle
norme istituzionali della R. G. Workshops, una comunità di lavoro
che fabbrica cornici citata dall’autore di All Things Common:
«La nostra comunità di lavoro non è una nuova forma aziendale, e nep-
pure costituisce una riforma per armonizzare il rapporto tra capitale e lavo-
ro. È un nuovo modo di vivere, dove l’uomo dovrebbe trovare la sua realiz-
zazione e dove tutti i problemi sono risolti in relazione all’uomo intero.
Con ciò esso è in contrasto con la società odierna dove di solito ci sono
soluzioni solo per uno o pochi problemi.
...La conseguenza della morale borghese e del sistema capitalistico è la
specializzazione delle attività dell’uomo portata ad un tal grado che l’uomo
vive in miseria fisica e morale, intellettuale o materiale.
35 Ibidem, pp. 35-37.
275 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
Spesso nella classe operaia gli uomini soffrono contemporaneamente di
tutti questi quattro tipi di miseria e in tali condizioni parlare di libertà,
eguaglianza, fraternità è una menzogna.
Fine della comunità di lavoro è di render possibile il completo sviluppo
dell’uomo.
I compagni della R. G. dichiarano che questo è possibile soltanto in una
atmosfera di libertà, eguaglianza, fraternità.
Ma si dovrebbe ammettere che molto spesso queste parole non richia-
mano alla mente che le figure sui biglietti di banca o le iscrizioni sui porto-
ni degli edifici pubblici.»
Libertà.
Un uomo è veramente libero soltanto a tre condizioni:
Libertà economica;
Libertà intellettuale;
Libertà morale.
Libertà economica. L’uomo ha un inalienabile diritto al lavoro.
Egli deve avere l’assoluto diritto al frutto del suo lavoro da cui non
dovrebbe staccarsi se non liberamente.
Questa concezione si oppone alla proprietà privata dei mezzi col-
lettivi di produzione e alla moltiplicazione di denaro a mezzo di de-
naro, che consente lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo.
Noi dichiariamo anche che per "lavoro" dovrebbe intendersi ogni
genere di valore che l’uomo apporti alla società.
Libertà intellettuale. Un uomo è libero soltanto quando può sce-
gliere; ed egli può scegliere soltanto se sa abbastanza per poter fare
dei confronti.
Libertà morale. Un uomo non può esser veramente libero se è as-
servito alle sue passioni. Egli può esser libero solamente se dispone
di un ideale e di un atteggiamento filosofico che gli consentano di
avere una attività coerente nella vita.
Egli non può, col pretesto di affrettare la sua liberazione econo-
mica o intellettuale, usare mezzi contrari all’etica della
comunità.
La libertà morale, infine, non deve significare licenza. Potrebbe
esser facilmente dimostrato che la libertà morale si può trovare sol-
tanto con la stretta osservanza dell’etica di gruppo liberamente accet-
tata.
8. LE VIE DELLA SALUTE 276
Fraternità.
L’uomo può prosperare soltanto in società. L’egoismo è un mez-
zo pericoloso e non duraturo di aiutare se stesso, l’uomo non può
separare i suoi veri interessi da quelli della società. Egli può aiutare
se stesso soltanto aiutando la società.
L’uomo dovrebbe diventar consapevole del fatto di essere spinto,
per sua stessa inclinazione, a trovare maggior soddisfazione assieme
agli altri.
La solidarietà non è soltanto un compito, è una soddisfazione ed è
la miglior garanzia di sicurezza.
La fratellanza porta alla tolleranza reciproca e alla decisione di
non separarsi mai. Questo rende possibile prendere tutte le decisioni
all’unanimità su una base minima comune.
EGUAGLIANZA.
Condanniamo coloro che dichiarano demagogicamente che tutti gli
uomini sono eguali. Possiamo vedere che gli uomini non hanno il
medesimo valore.
Per noi l’eguaglianza dei diritti significa porre a disposizione di
ognuno i mezzi perché possa realizzare completamente se stesso.
Con questo sostituiremo una gerarchia di valori personali alla gerar-
chia convenzionale o ereditaria».36
Nel riassumere i punti più notevoli dei principi di queste comuni-
tà vorrei ricordare i seguenti:
1. Le comunità di lavoro usano tutte le tecniche industriali mo-
derne ed evitano la tendenza a ritornare alla produzione artigianale.
2. Esse hanno trovato un sistema nel quale l’attiva partecipa-
zione di ognuno non contraddice ad una guida abbastanza centraliz-
zata; l’autorità irrazionale è stata sostituita dall’autorità razionale.
3. Si insiste sulla pratica di vita come contraria alle differenze
ideologiche. Quest’insistenza consente a uomini delle più svariate e
36 Ibidem, pp. 134-37.
277 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
contraddittorie opinioni di vivere assieme in fratellanza e tolleranza,
senza alcun pericolo di dover seguire la «giusta opinione» proclama-
ta dalla comunità.
4. L’integrazione tra lavoro e attività sociali e culturali. Quan-
do il lavoro non sia tecnicamente attraente esso è significativo e at-
traente nel suo aspetto sociale. L’attività nelle arti e nelle scienze
costituisce una parte integrale della situazione totale.
5. La situazione di alienazione è superata, il lavoro è diventato
espressione significativa dell’energia umana e la solidarietà umana si
è affermata senza restrizioni della libertà o pericolo di conformismo.
Mentre molte delle soluzioni e dei principi delle comunità posso-
no esser discusse e messe in dubbio, sembra nondimeno che si ab-
biano qui esempi empirici dei più convincenti di una vita produttiva
e delle possibilità che sono generalmente considerate fantastiche dal
punto di vista della nostra odierna vita nel capitalismo.37
Naturalmente le comunità fin qui descritte non costituiscono i so-
li esempi delle possibilità di vita comunitaria. Sia che prendiamo le
comunità oweniane, o quelle dei mennoniti o degli hutteriani38
o i
centri agricoli dello stato di Israele, tutte contribuiscono alla nostra
conoscenza delle possibilità di un nuovo stile di vita. Esse
mostrano anche che questi esperimenti comunitari sono per la
maggior parte messi in atto da uomini dotati di acuta intelligenza e
di senso straordinariamente pratico. Essi non sono affatto dei sogna-
tori come dicono i nostri sedicenti realisti; al contrario sono gene-
37 Si devono ricordare gli sforzi di A. Olivetti per creare in Italia un movimento comunitario.
Come capo della più grande industria italiana di macchine per scrivere, egli non ha soltanto
organizzato il suo stabilimento secondo i sistemi più avanzati che si possono trovare in ogni
paese, ma ha anche elaborato un piano completo per una organizzazione della società in una
federazione di comunità basate su principi che hanno attinenza col cristianesimo e col sociali-
smo. (Cfr. il suo L'ordine politico delle comunità, Roma 1946). Olivetti ha cominciato l'opera
fondando centri comunitari in varie città italiane; nondimeno la differenza più importante dalle
comunità fin qui ricordate è da un lato che egli non ha trasformato il suo stabilimento in una
comunità di lavoro e dall'altro che Olivetti ha creato un piano specifico per l'organizzazione
dell'intera società, dando così maggior rilievo ad una visione particolare della struttura sociale
e politica di quanto non abbiano fatto le altre comunità del movimento comunitario. 38 Cfr. l'articolo di C. KRATU, J.W. FRETZ, R. KREIDER, «Altruism in Mennonite Life», in
Form and Techniques of Altruistic and Spiritual Growth, a cura di P.A. Sorokin, The Beacon
Press, Boston 1954.
8. LE VIE DELLA SALUTE 278
ralmente dotati di maggior realismo e immaginazione di quanto
sembrino esserlo i nostri convenzionali uomini d’affari.
Certamente ci sono state molte insufficienze sia nei principi sia
nella pratica di questi esperimenti e bisogna riconoscerle per poterle
evitare. Indubbiamente il diciannovesimo secolo con la sua imper-
turbabile fede nel sano effetto della concorrenza industriale era meno
favorevole al successo di queste colonie di quanto non lo sarà la se-
conda metà del ventesimo secolo. Ma la facile sufficienza che consi-
dera futili e non realistici tutti questi esperimenti non è più ragione-
vole di quanto lo fosse la prima reazione popolare alle possibilità di
viaggi in ferrovia e più tardi in aeroplano. È sostanzialmente un sin-
tomo di pigrizia mentale, e della conseguente convinzione che ciò
che non fu non può e non potrà essere.
E. Suggerimenti pratici
Il problema è se condizioni simili a quelle create dai comunitari
possano esser create per l’insieme della nostra società. Con ciò non
voglio dire che la moderna società industriale possa essere organiz-
zata nel suo insieme secondo gli schemi di una impresa industriale
relativamente piccola, e nemmeno che la risposta ai problemi della
società moderna possa trovarsi nella trasformazione di tutta
l’industria in piccole comunità. Una tale soluzione non terrebbe con-
to delle necessità delle vaste imprese industriali né delle dimensioni
economiche che trascendono la singola impresa. A mio modo di ve-
dere queste comunità mostrano la reale possibilità di combinare in
una singola impresa sia la centralizzazione sia la decentralizzazione
in modo concreto, e sono il primo esempio di un nuovo tipo di orga-
nizzazione industriale, a patto che si sappia usare la nostra immagi-
nazione e la capacità inventiva nel campo sociale. L’intento sarebbe
poi di creare una situazione di lavoro nella quale l’uomo impieghi la
sua vita e la sua energia in qualcosa che abbia per lui un significato,
e nella quale sa quel che fa, ha un’influenza su quel che sta facendo,
e si sente piuttosto unito che separato dai
suoi simili. Questo significa che la situazione di lavoro è resa
nuovamente concreta e che i lavoratori sono organizzati in gruppi
abbastanza piccoli da consentire all’individuo di mettersi in relazio-
ne col gruppo come con esseri umani concreti e reali, anche se lo
279 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
stabilimento nel suo insieme può avere molte migliaia di lavoratori.
Ciò significa che si sono trovati metodi per combinare
l’accentramento e il decentramento, i quali consentono l’attiva parte-
cipazione e la responsabilità di ognuno e nel contempo creano una
guida unificata nella misura in cui questa è necessaria.
Come si può far ciò?
Prima condizione per la partecipazione attiva del lavoratore è che
egli sia ben informato non soltanto su quanto riguarda il suo proprio
lavoro ma anche sull’attività generale dell’azienda. Tale conoscenza
è, intanto, conoscenza tecnica del processo lavorativo. Un lavoratore
può aver da fare soltanto un particolare movimento al nastro traspor-
tatore, e perché egli possa svolgere il suo compito basta forse un in-
segnamento al banco per due giorni o per due settimane, ma il suo
atteggiamento d’insieme verso il lavoro sarebbe diverso se egli aves-
se una conoscenza più ampia di tutti i problemi connessi alla produ-
zione del prodotto intero. Tale conoscenza tecnica può esser acquisi-
ta innanzitutto frequentando una scuola industriale, contemporanea-
mente ai primi anni di lavoro in uno stabilimento. Inoltre questa co-
noscenza può essere continuamente coltivata partecipando a corsi
tecnici e scientifici offerti a tutti i lavoratori dello stabilimento anche
a scapito del tempo destinato al lavoro.39
Se il processo tecnico usato
nello stabilimento è oggetto di interesse e di conoscenza per il lavo-
ratore, se il suo pensiero è stimolato da una tale conoscenza, anche il
lavoro tecnico altrimenti monotono che egli deve svolgere assumerà
un aspetto diverso. Oltre alla conoscenza tecnica relativa al proce-
dimento industriale è necessaria un’altra conoscenza: quella della
funzione economica dell’azienda per la quale si sta lavorando e delle
sue relazioni con i bisogni economici e i problemi della comunità nel
suo insieme. Inoltre, sempre seguendo l’insegnamento durante i pri-
mi anni del suo lavoro e con una continua informazione datagli sui
processi economici collegati alla sua azienda, il lavoratore può ac-
quisire una conoscenza reale della sua funzione nell’economia na-
zionale e mondiale.
39 Alcune grandi aziende industriali stanno già facendo un primo passo in questa direzione. I
comunitari hanno mostrato che durante l'orario di lavoro si può dare non soltanto una istruzio-
ne tecnica ma anche istruzioni di molti altri generi.
8. LE VIE DELLA SALUTE 280
Ma quantunque importante, tecnicamente ed economicamente,
questa conoscenza del procedimento lavorativo e del funzionamento
dell’intera azienda non è sufficiente. La conoscenza teorica e
l’interesse si arrestano se non c’è modo di tradurli in azione. Il lavo-
ratore può diventare un partecipante attivo interessato e responsabile
soltanto se può avere influenza sulle decisioni che riguardano la sua
situazione individuale di lavoro e l’intera impresa. La sua alienazio-
ne dal lavoro può essere superata soltanto se egli non è impiegato dal
capitale, se non è l’oggetto del comando, ma se diventa un responsa-
bile soggetto che impiega il capitale. Il punto principale qui non è la
proprietà dei mezzi di produzione ma la partecipazione alla gestione
e alle decisioni da prendere. Qui come nella sfera politica il proble-
ma è di evitare il pericolo di una situazione di anarchia nella quale
mancherebbero la pianificazione centrale e la guida; ma l’alternativa
tra direzione autoritaria centralizzata e direzione senza piano e senza
coordinamento da parte dei lavoratori, non è una alternativa necessa-
ria. La risposta sta nella combinazione di accentramento e decentra-
mento, in una sintesi delle decisioni da prendere dall’alto al basso e
dal basso all’alto.
Il principio della cogestione e della partecipazione operaia40
può
essere applicato in modo tale che la responsabilità della direzione sia
divisa tra la guida centrale e la base. Piccoli gruppi ben informati
discutono problemi della loro situazione di lavoro e dell’intera im-
presa; le loro decisioni verrebbero incanalate verso la direzione e
costituirebbero la base di una effettiva cogestione. Come terzo parte-
cipante il consumatore dovrebbe poter collaborare in qualche modo
alle decisioni da prendere e alla pianificazione. Quando accettiamo il
principio che il fine primario di ogni lavoro è di servire la gente, e
non di trarne un lucro, coloro che sono serviti devono poter avere
una influenza nelle operazioni di coloro che li servono. Inoltre, come
40 Cfr. le idee espresse da G.G. FRIEDMANN nel suo libro acuto e stimolante Machine et
humanisme, cit., particolarmente a p. 371 ss. Uno dei più grandi maestri della sociologia, e una
delle maggiori personalità del nostro tempo, Alfred WEBER, nel suo profondo Der dritte oder
der vierte Mensch, Piper Co, Monaco 1953, giunge a conclusioni simili a quelle qui espresse.
Egli pone l'accento sul bisogno di cogestione degli operai e degli impiegati, e sulla riduzione
delle grandi aziende a unità più piccole di un optimum di dimensione congiunta all'abolizione
del movente del profitto e all'introduzione di una forma socialista di emulazione. Tuttavia non
basterà nessun mutamento esterno: «ci occorre una nuova cristallizzazione umana» (op. cit., p.
91 s.).
281 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
nel caso del decentramento politico, non è facile trovare soluzioni di
questo genere; ma certamente il problema non è insormontabile a
condizione che il principio generale della cogestione sia accettato.
Noi abbiamo risolto nella legislazione costituzionale problemi simili
per quanto riguarda i diritti rispettivi delle varie branche del governo
e in leggi relative alle società azionarie abbiamo risolto lo stesso
problema per quanto riguarda il diritto dei vari tipi di azionisti, della
direzione, ecc..
Il principio della cogestione e della liberazione comune significa
una grave restrizione dei diritti di proprietà. Il proprietario o i pro-
prietari di una azienda dovrebbero aver il diritto ad una percentuale
ragionevole di interesse sul loro investimento di capitale, ma non al
comando illimitato sopra gli uomini che questo capitale può assolda-
re. Essi dovrebbero almeno dividere questo diritto con quelli che
lavorano nell’azienda. In effetti, per quanto riguarda le grandi socie-
tà, gli azionisti non esercitano attualmente il loro diritto di proprietà
prendendo delle decisioni; se i lavoratori condividessero il diritto di
prender decisioni con la direzione, il ruolo effettivo degli azionisti
non sarebbe fondamentalmente diverso. Una legge che introducesse
la cogestione sarebbe una restrizione del diritto di proprietà, ma non
significherebbe nessun mutamento rivoluzionario di tali diritti. Per-
fino un industriale così conservatore come il responsabile della divi-
sione degli utili nell’industria, J.F. Lincoln, propone, come abbiamo
visto, che i dividendi non eccedano una entità relativamente fissa e
costante e che il profitto eccedente questo ammontare sia diviso tra i
lavoratori. Vi sono possibilità per la cogestione e il controllo dei la-
voratori perfino sulla base delle condizioni odierne. Ad esempio,
B.F. Fairless, presidente della United States Steel Corporation, ha
detto in un discorso (pubblicato in riassunto dal «Reader’s Digest»,
15 novembre 1953, p. 17) che i 300.000 dipendenti della United Sta-
tes Steel potrebbero comprare tutto il pacchetto azionario della com-
pagnia acquistando 87 azioni ciascuno per un costo complessivo di
3.500 dollari. «Investendo dieci dollari settimanali ciascuno, che è
circa quello che i nostri lavoratori dell’acciaio hanno ottenuto con il
recente aumento delle paghe, i dipendenti della
U.S. Steel potrebbero comprare tutto il rimanente stock azionario
in meno di sette anni». In effetti essi non avrebbero nemmeno biso-
8. LE VIE DELLA SALUTE 282
gno di comprarne tante, ma soltanto una parte, per aver abbastanza
azioni per acquistare la maggioranza dei voti.
Un’altra proposta è stata fatta da F. Tannenbaum nel suo lavoro A
Philosophy of Labor. Egli suggerisce che i sindacati possano com-
prare abbastanza azioni delle imprese di cui rappresentano i lavora-
tori per controllare la direzione di queste imprese.41
Quale che sia il
metodo impiegato, esso è evolutivo e continua soltanto le tendenze
già esistenti nel rapporto di proprietà, e costituisce un mezzo per un
fine, e solo un mezzo, per far sì che gli uomini lavorino in un modo
significativo per un fine significativo, e non siano i portatori di una
merce, energia fisica e abilità, che è comprata e venduta come qual-
siasi altra merce.
Nell’esaminare la partecipazione operaia, si deve insistere su un
punto importante, cioè il pericolo che tale partecipazione possa svi-
lupparsi nella direzione del concetto della divisione degli utili di tipo
neocapitalistico. Se gli operai e gli impiegati di una azienda fossero
interessati esclusivamente alla loro impresa, l’alienazione tra l’uomo
e le sue forze sociali resterebbe immutata. L’atteggiamento egoistico
e alienato verrebbe soltanto esteso dal singolo alla «squadra». Non è
dunque una parte incidentale ma essenziale della partecipazione ope-
raia, che essi guardino oltre la loro impresa e che siano interessati e
collegati con i consumatori come pure con gli altri operai della me-
desima industria e con tutta la popolazione lavoratrice. Lo sviluppo
di un genere di patriottismo locale per la ditta o di uno «spirito di
corpo» simile a quello degli studenti di collegi e università, come fu
raccomandato da Wyatt e da altri psicologi sociali britannici, raffor-
zerebbe soltanto l’atteggiamento egoistico e asociale che costituisce
l’essenza dell’alienazione. Tutti questi suggerimenti a favore
dell’entusiasmo di «squadra» ignorano il fatto che esiste un solo
orientamento veramente sociale, cioè quello della solidarietà con
l’umanità. La coesione sociale con il gruppo, combinata con
l’antagonismo verso gli estranei, non è sentimento sociale ma egoi-
smo allargato.
Concludendo queste osservazioni sulla partecipazione operaia,
desidero insistere ancora, anche a rischio di ripetermi, che non tutti i
suggerimenti fatti nell’intento di una umanizzazione del lavoro han-
41 F. TANNENBAUM, A Philosophy of Labor, cit.
283 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
no il fine di un aumento del rendimento economico e neppure è loro
meta una maggior soddisfazione nel lavoro in quanto tale. Essi han-
no senso soltanto in una struttura sociale completamente diversa,
nella quale l’attività economica sia una parte, e una parte subordina-
ta, della vita sociale. Non si può separare l’attività di lavoro
dall’attività politica, dall’uso del tempo libero e dalla vita personale.
Se il lavoro dovesse diventare interessante senza che gli altri settori
di vita divenissero umani, non avverrebbe alcun vero cambiamento;
in effetti esso non potrebbe diventare interessante. Il male
dell’odierna cultura consiste proprio nel separare e nell’incasellare i
diversi settori della vita. La via dell’equilibrio sta nel superamento di
questa scissione e nel giungere ad una nuova unificazione e integra-
zione entro la società ed entro l’essere umano individuale.
Ho parlato prima dello scoraggiamento verificatosi tra molti so-
cialisti per i risultati dell’applicazione del socialismo. Ma sempre più
si comprende che la colpa non era nel fine fondamentale del sociali-
smo, cioè nel credere in una società non alienata nella quale ogni
persona che lavora partecipa attivamente e responsabilmente
nell’industria o nella politica, ma nell’errore di insistere sulla pro-
prietà privata come contraria alla proprietà comune e nel trascurare i
fattori umani e propriamente sociali. V’è parallelamente una cre-
scente comprensione per la necessità di una visione socialista centra-
ta sull’idea della partecipazione e della cogestione operaia, sul de-
centramento e sulla funzione concreta dell’uomo nel processo lavo-
rativo, invece che centrata sul concetto astratto di proprietà. Le idee
di Owen, Fourier, Kropotkin, Landauer, e dei comunitari religiosi e
secolari si fondono con quelle di Marx e di Engels; si diventa scettici
di fronte alle formulazioni puramente ideologiche del «fine ultimo»
e ci si interessa maggiormente alla persona concreta e al hic et nunc.
C’è speranza che ci sia anche una crescente consapevolezza tra so-
cialisti democratici e umanisti che il socialismo deve cominciare a
casa nostra, cioè con la socializzazione dei partiti socialisti. Il socia-
lismo che intendiamo qui naturalmente si riferisce non ai diritti di
proprietà, ma alla responsabile partecipazione di tutti gli iscritti. Fi-
no a che i partiti socialisti non realizzano il principio del socialismo
entro le loro stesse file, non possono aspettarsi di convincere gli al-
tri; i loro rappresentanti, se avessero il potere politico, attuerebbero
le loro idee nello spirito del capitalismo senza curarsi delle etichette
8. LE VIE DELLA SALUTE 284
socialiste che usano. La stessa cosa è vera per i sindacati; se il loro
fine è la democrazia industriale, essi devono introdurre il principio
democratico nelle loro stesse organizzazioni, piuttosto che dirigerle
come nel capitalismo si dirige qualsiasi altra grande impresa, e tal-
volta anche peggio.
L’influenza di quest’insistenza comunitaria sulla concreta situa-
zione del lavoratore nel suo processo lavorativo era abbastanza po-
tente in passato tra gli anarchici e i sindacalisti spagnoli e francesi e
tra i socialrivoluzionari russi. Sebbene per un certo periodo
l’importanza di queste idee sia andata riducendosi, sembra che essi
stiano lentamente riguadagnando terreno in forme meno ideologiche
e dogmatiche e pertanto più reali e concrete. In una delle più interes-
santi pubblicazioni recenti sui problemi del socialismo, i Nuovi sag-
gi fabiani, si può scoprire questo crescente accento sull’aspetto fun-
zionale e umano del socialismo. C.A.R. Crossland, nel suo saggio su
Il passaggio dal capitalismo, scrive: «Il socialismo esige che questa
ostilità nell’industria ceda il passo al senso vivo della partecipazione
ad uno sforzo comune. Come ottenerlo? La via più diretta e più faci-
le da battere è quella della consultazione mista. Molto e fecondo la-
voro si è svolto in questo campo ed è ora chiaro che occorrerà qual-
cosa di più dei comitati misti di produzione oggi in vigore: uno sfor-
zo più radicale per dare all’operaio il senso di una partecipazione
diretta alle decisioni da prendere. Qualche azienda dalle idee avanza-
te ha già compiuto in questa direzione passi arditi, e i risultati sono
incoraggianti».42
Egli suggerisce tre misure: estensione su larga scala
della nazionalizzazione, limitazione legale dei dividendi o: «una ter-
za possibilità è offerta dalla trasformazione della struttura giuridica
della proprietà sociale in modo da sostituire al diritto esclusivo degli
azionisti una esplicita e statutaria definizione delle responsabilità
dell’impresa verso l’operaio, il consumatore e la collettività; gli ope-
rai diverrebbero membri della compagnia e avrebbero rappresentanti
propri nei consigli direttivi della stessa».43
R. Jenkins nel suo articolo sull’Eguaglianza vede come problema
del futuro «...anzitutto se si debba consentire ai capitalisti, dopo che
hanno ceduto o sono stati privati di tanta parte del loro potere e per-
42 C.A. CROSSLAND, «Il passaggio dal capitalismo», in Nuovi saggi fabiani, cit., p. 88. 43 Op. cit., p. 90.
285 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
ciò delle loro funzioni, di conservare la parte abbastanza sostanziale
di privilegi che ancora detengono; e, in secondo luogo, se la società
che va nascendo dal capitalismo dev’essere una società socialista
democratica, cooperativa, o una società burocratica, controllata da
una élite privilegiata che goda di un livello di vita radicalmente di-
verso da quello della massa della popolazione».44
Jenkins giunge alla
conclusione che «una società socialista democratica e cooperativa»
richiede che la «proprietà delle aziende sottratta a singoli ricchi passi
non allo stato, ma a meno remoti enti pubblici», e permetta una
maggior diffusione del potere «incoraggiando un po’ tutti a prendere
parte più attiva al lavoro e al controllo degli organismi pubblici e
volontari».
A. Albu ne L’organizzazione dell’industria dichiara: «La nazio-
nalizzazione delle industrie chiave, pur essendo riuscita sul piano
tecnico ed economico, non ha in realtà soddisfatto il desiderio di una
più larga e democratica distribuzione dell’autorità, né offerto ai di-
pendenti dell’industria la possibilità effettiva di partecipare alle deci-
sioni di ordine organizzativo-pratico e alla loro esecuzione. Per molti
socialisti che, pur non auspicando una forte concentrazione del pote-
re statale, non avevano se non idee nebulose ed utopistiche su una
soluzione alternativa, è stata, questa, una grave delusione. D’altra
parte, la lezione del totalitarismo all’estero e gli sviluppi della rivo-
luzione burocratica all’interno accrescevano tanto più le loro ansie,
in quanto il pieno impiego in una società rimasta democratica solle-
va problemi per risolvere i quali è necessaria la più larga possibile
sanzione popolare, fondata sull’informazione e la consultazione.
Ora, la consultazione risulta tanto meno fruttuosa quanto più si al-
lontana dalla discussione faccia a faccia sul posto di lavoro; le di-
mensioni e la struttura dell’unità industriale e il grado in cui possono
esercitare un’iniziativa autonoma, assurgono quindi a problemi di
importanza capitale».45
«Quello di cui in definitiva si ha bisogno,
dice Albu, è un sistema consultivo che sancisca le decisioni politi-
che, e un’autorità esecutiva accettata con simpatia da tutti i membri
di un’industria. Come conciliare questa visione di una democrazia
industriale col più schietto desiderio di forme di autogoverno, che
44 Ibidem, p. 97. 45 Ibidem, p. 163.
8. LE VIE DELLA SALUTE 286
animava i socialisti e che stava al fondo di tante discussioni ricorren-
ti sulla consultazione mista, è un problema che richiede ulteriore
esame. Parrebbe tuttavia che debba esistere un metodo per consenti-
re a tutti gli addetti di una industria di partecipare alle decisioni sulla
politica aziendale, sia attraverso rappresentanti diretti in seno
all’ufficio centrale, sia attraverso il sistema più rapido di consulta-
zione mista con poteri notevolmente vasti. In entrambi i casi, è ne-
cessaria una partecipazione sempre più larga al processo di interpre-
tazione della politica e di emanazione di direttive pratiche ai gradini
più bassi.
Perciò la creazione di un senso di comunanza di fini nelle attività
di un’industria rimane uno degli obiettivi primi e non raggiunti dalla
politica industriale socialista».46
John Strachey, che tra gli scrittori dei Nuovi saggi fabiani è uno
dei più ottimisti e forse dei più soddisfatti dei risultati del governo
laburista, concorda con Albu nell’insistere sulla necessità della par-
tecipazione operaia. «Dopo tutto, scrive Strachey in Compiti e con-
quiste del laburismo britannico, quello che pesa sulla società anoni-
ma è la dittatura irresponsabile esercitata su di essa, nominalmente
dagli azionisti ma di fatto, in molti casi, da uno o due amministratori
autoelettisi. Rendete direttamente responsabili sia verso la collettivi-
tà sia verso l’insieme dei dipendenti le società per azioni, ed esse
diventeranno istituti di un genere totalmente diverso».47
Ho citato quel che hanno detto alcuni esponenti del partito laburi-
sta perché le loro opinioni sono il risultato di una buona dose di
esperienza pratica delle misure di socializzazione del governo labu-
rista e di una meditata critica di queste realizzazioni. Ma anche altri
socialisti europei hanno prestato molta più attenzione che non per il
passato alla partecipazione operaia nell’industria. Dopo la guerra in
Francia e in Germania furono adottate leggi che stabilivano la parte-
cipazione operaia alla gestione delle imprese. Anche se i risultati di
questi nuovi provvedimenti sono lungi dall’essere soddisfacenti (a
motivo della loro indecisione e del fatto che in Germania i rappre-
sentanti sindacali si trasformarono in «dirigenti» piuttosto che nei
rappresentanti degli stessi operai dello stabilimento), è nondimeno
46 Ibidem, p. 174. 47 Ibidem, p. 260.
287 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
evidente che c’è tra i socialisti una crescente comprensione del fatto
che il trasferimento dei diritti di proprietà dal privato capitalista alla
società o allo stato ha di per se stesso soltanto un effetto trascurabile
sulla situazione dell’operaio, e che il problema centrale del sociali-
smo è il mutamento della situazione di lavoro. Perfino nelle dichia-
razioni, piuttosto deboli e confuse, della ricostituita Internazionale
socialista a Francoforte (1951) si insiste sulla necessità di decentrare
il potere economico, quando ciò sia compatibile con il fine della pia-
nificazione.48
Fra gli osservatori scientifici della scena industriale,
particolarmente Friedmann, e in qualche misura Gillespie, raggiun-
gono conclusioni simili alle mie, relative alla trasformazione del la-
voro.
Il mettere in rilievo la necessità della cogestione invece di porre a
fuoco dei piani per trasformazioni comunitarie sul mutamento dei
diritti di proprietà, non significa che non sia necessario in una certa
misura l’intervento dello stato e la socializzazione. Se si esclude
quello della cogestione, il problema più importante sta nel fatto che
tutta la nostra industria si basa sull’esistenza di un mercato interno
sempre più esteso. Ogni azienda vuol vendere sempre di più per
conquistare una parte sempre più larga del mercato. Come risultato
di questa situazione economica, l’industria usa tutti i mezzi che sono
in suo potere per stimolare il desiderio di acquisti della popolazione
e per creare e rafforzare quell’orientamento ricettivo che è tanto no-
civo alla salute mentale. Come abbiamo visto, questo dà luogo alla
brama di cose nuove ma non necessarie, al desiderio costante di
comprare di più, anche se dal punto di vista dell’uso inalienato e
umano non c’è bisogno dei nuovi prodotti. (L’industria automobili-
stica, per esempio, ha speso alcuni miliardi di dollari per i mutamen-
ti da apportare ai nuovi modelli del 1955, e la Chevrolet, da sola,
alcune centinaia di milioni di dollari per la concorrenza alla Ford.
Senza dubbio, la vecchia Chevrolet era una buona macchina e la lot-
ta tra la Ford e la General Motors non ha principalmente il fine di
offrire al pubblico una automobile migliore, ma di far sì che si com-
pri una nuova macchina quando quella vecchia sarebbe buona ancora
48 Cfr. A. ALBU, «L'organizzazione dell'industria», in Nuovi saggi fabiani, cit., p. 163, e an-
che A. STURMTHAL, Nationalization and Workers Control in Britain and France, «The
Journal of Pol. Economy», vol. 61, I, 1953.
8. LE VIE DELLA SALUTE 288
per qualche anno).49
Un altro aspetto dello stesso fenomeno è la ten-
denza allo sperpero, stimolato dal bisogno economico di una mag-
gior produzione di massa. A parte le perdite economiche connesse a
questo sperpero esso ha anche un importante effetto psicologico: fa
sì che il consumatore perda il rispetto per il lavoro e per la fatica
umana, e dimentichi i bisogni di altra gente, in patria e in paesi più
poveri, per la quale il prodotto che egli spreca potrebbe essere un
bene preziosissimo; in breve, le nostre abitudini di sperpero dimo-
strano una infantile indifferenza per la realtà della vita umana e per
la lotta economica per l’esistenza cui nessuno può sfuggire.
È pacifico che a lungo andare nemmeno la più profonda influen-
za spirituale potrà esser fruttuosa se il nostro sistema economico è
organizzato in modo tale da trovarsi minacciato di crisi qualora la
gente non voglia acquistar cose sempre più nuove e sempre migliori.
Dunque, se la nostra meta è di mutare il consumo alienato in consu-
mo umano, saranno necessari mutamenti in quei processi economici
che producono il consumo alienato.50
È compito degli economisti
trovare i provvedimenti adatti. Generalmente ciò significa dirigere la
produzione in campi dove bisogni reali già esistenti non sono stati
ancora soddisfatti, piuttosto che dove i bisogni devono essere creati
artificialmente. Questo si può fare mediante crediti attraverso banche
statali, con la socializzazione di talune aziende, e con leggi severe
che attuino una trasformazione dei sistemi pubblicitari.
Strettamente collegato a questo è il problema dell’aiuto economi-
co dato dalle società industrializzate alle parti economicamente me-
no sviluppate del mondo. È molto evidente che il tempo dello sfrut-
tamento coloniale è finito e che le diverse parti del mondo si sono
unite assieme tanto strettamente come lo era circa cento anni fa un
solo continente, e che per i paesi più ricchi la pace dipende dal pro-
gresso economico dei più poveri. A lungo andare la pace e la libertà
49 R. MOLEY centrò molto lucidamente l'argomento quando, scrivendo sul «Newsweek» a
proposito delle spese per i nuovi modelli di automobile del 1955, disse che il capitalismo
voleva che la gente si sentisse scontenta di quel che aveva, così da desiderare di comprare
qualcosa di nuovo, mentre il socialismo vorrebbe fare il contrario. 50 Cfr. la affermazione di CLARK in Condition of Economic Progress: «Lo stesso reddito
distribuito in modo sufficientemente eguale creerà una domanda relativamente maggiore
all'industria manifatturiera di quanto non faccia se distribuito in modo ineguale». (Citato da
N.N. FOOTE e P.K. HATT, Social Mobility and Economic Advancement, «The American
Econ' Rev'», XLII, maggio 1953).
289 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
del mondo occidentale non possono coesistere con la fame e le ma-
lattie in Africa e in Cina. La riduzione dei consumi non necessari da
parte dei paesi industrializzati è un dovere se essi intendono aiutare i
paesi non industrializzati; e, se vogliono la pace, devono volerli aiu-
tare. Consideriamo alcuni fatti: secondo H. Brown un piano di svi-
luppo mondiale svolto in cinquant’anni porterebbe ad un aumento
della produzione agricola tale da dare a tutti un adeguato nutrimento
e porterebbe le aree ancora sottosviluppate ad una industrializzazio-
ne pari al livello prebellico del Giappone.51
La spesa annua che gli
Stati Uniti dovrebbero sostenere per un tale programma varierebbe
dai quattro ai cinque miliardi di dollari all’anno per i primi
trent’anni, diminuendo successivamente. «Quando paragoniamo
queste cifre al nostro reddito nazionale, dice l’autore, al nostro
odierno bilancio federale, ai fondi richiesti per gli armamenti e al
costo di una guerra, la spesa richiesta non sembrerà eccessiva.
Quando si paragoni la spesa ai guadagni potenziali che potrebbero
risultare da un programma fruttuoso essa sembrerà ancora minore; e
quando la si paragoni al costo dell’inazione e alle conseguenze del
mantenimento dello status quo essa sarà in effetti insignificante».52
Tale problema è soltanto parte del problema più generale: cioè in
quale misura si possa permettere all’interesse di un investimento
lucroso del capitale di dirigere i pubblici bisogni in modo nocivo e
malsano. Gli esempi più evidenti sono dati dall’industria cinemato-
grafica, dall’industria dei romanzi a fumetti e dalle pagine di cronaca
nera dei nostri quotidiani. Per realizzare più alti guadagni sono sti-
molati artificialmente gli istinti più bassi e viene avvelenata la mente
del pubblico. Il Food and Drug Act ha regolato la produzione indi-
scriminata e la pubblicità di cibi e droghe nocivi; la stessa cosa si
può fare per tutte le altre necessità vitali. Se tali leggi si dimostrasse-
ro inefficaci, talune industrie, come l’industria cinematografica, po-
trebbero essere socializzate, o almeno dovrebbero essere create indu-
strie concorrenti finanziate col denaro pubblico. In una società in cui
il solo fine sia lo sviluppo dell’uomo e in cui i bisogni materiali sia-
51 Cfr. Harrison BROWN, The Challenge of Man's Future, The Viking Press, New York 1954,
p. 245 ss. Conosco pochi libri che presentino così chiaramente l'alternativa tra equilibrio e
squilibrio, progresso e distruzione per la società moderna, quanto questo basato su stringenti
ragionamenti e fatti indiscutibili. 52 Ibidem, pp. 247, 248.
8. LE VIE DELLA SALUTE 290
no subordinati ai bisogni spirituali non sarà difficile trovare i mezzi
legali ed economici per realizzare i mutamenti necessari.
Per quanto riguarda la situazione economica del singolo cittadi-
no, l’idea dell’eguaglianza del reddito non è stata mai una richiesta
socialista, e non è per molti motivi né pratica né desiderabile. Quel
che è necessario è un reddito che sia la base per una esistenza umana
dignitosa. Per quanto riguarda l’ineguaglianza del reddito sembra
sarebbe bene che essa non superasse il punto oltre il quale porta ad
una differenza nell’esperienza di vita. L’uomo con un reddito di mi-
lioni, che può soddisfare ogni capriccio senza nemmeno pensarci, ha
una esperienza di vita diversa dall’uomo che, per soddisfare un solo
desiderio costoso, deve rinunciare ad un altro. L’uomo che non può
mai viaggiare fuori della sua città, che non può permettersi nessun
lusso (cioè qualcosa che non sia necessario) ha anch’egli una espe-
rienza di vita diversa dal suo vicino che può far queste cose. Ma an-
che entro talune differenze di reddito l’esperienza fondamentale del-
la vita può restar la stessa quando la differenza del reddito non ecce-
da un certo limite. Ciò che importa non è tanto il reddito più o meno
grande in quanto tale ma il punto in cui le differenze quantitative di
reddito si trasformano in differenze qualitative di esperienza di vita.
Ovviamente il sistema di sicurezza sociale, quale ora esiste per
esempio in Gran Bretagna, deve esser mantenuto. Ma ciò non basta.
Il sistema attuale di sicurezza sociale deve essere esteso fino ad una
garanzia universale dei mezzi di sussistenza.
Ogni individuo può comportarsi da persona libera e responsabile
soltanto se viene abolita una delle ragioni principali della attuale
mancanza di libertà: la minaccia economica della miseria che co-
stringe ad accettare condizioni di lavoro che non sarebbero altrimenti
accettate. Non vi sarà libertà fino a che il proprietario del capitale
può imporre la sua volontà all’uomo che possiede «soltanto» la sua
vita, perché questi, essendo senza capitale, non ha che il lavoro che il
capitalista gli offre.
Un centinaio di anni fa era largamente accettata la credenza che
non si fosse responsabili del proprio prossimo. Si riteneva, e ciò era
scientificamente «dimostrato» dagli economisti, che le leggi della
società richiedessero, per mantenere l’andamento dell’economia, la
presenza di numerose schiere di poveri e di gente senza lavoro. Oggi
quasi nessuno oserebbe sostenere questo principio. È opinione gene-
291 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
rale che nessuno dovrebbe essere escluso dalle ricchezze della na-
zione, né per le leggi della natura né per quelle della società. Le ra-
zionalizzazioni che erano consuete un centinaio di anni fa, secondo
le quali il povero doveva la sua condizione alla sua ignoranza, alla
mancanza di responsabilità, in breve ai suoi «peccati», sono ora su-
perate. In tutti i paesi industrializzati dell’occidente un sistema assi-
curativo garantisce ad ognuno un minimo di sussistenza nel caso di
disoccupazione, malattia e vecchiaia. Chiedere che anche quando
non si verifichino queste circostanze ognuno abbia il diritto di rice-
vere mezzi di sussistenza è semplicemente fare un altro passo avanti.
Praticamente ciò significherebbe che ogni cittadino potrebbe chiede-
re una somma che basti per il minimo di sussistenza anche se non è
né disoccupato, né ammalato, né vecchio. Egli potrebbe chiedere
questa somma qualora abbia lasciato il suo lavoro volontariamente o
desideri prepararsi per un altro tipo di lavoro, o per qualsiasi ragione
personale che gli impedisca di guadagnar denaro e ciò senza rientra-
re in una delle categorie per cui già esiste una copertura assicurativa;
in breve, egli potrebbe chiedere questo minimo per l’esistenza senza
dover addurre alcuna «giustificazione». Questa previdenza dovrebbe
esser limitata ad un periodo di tempo fisso, mettiamo due anni, per
evitare di favorire un atteggiamento nevrotico che rifiuti ogni genere
di obbligo sociale.
Questa proposta può sembrare fantasiosa,53
ma tale sarebbe ap-
parso anche il nostro sistema assicurativo alla gente di cento anni fa.
L’obiezione principale a tale piano sarebbe che, se ognuno avesse il
diritto di ricevere questo aiuto minimo, nessuno lavorerebbe. Questa
supposizione si basa sull’errore di considerare la pigrizia come insita
nella natura umana; in effetti, se si escludono le persone nevrotica-
mente pigre, sarebbero ben pochi a non voler guadagnare di più del
minimo e a preferire di non far nulla piuttosto che lavorare.
Tuttavia i sospetti contro il sistema di minimo di sussistenza ga-
rantito non sono infondati dal punto di vista di coloro che vogliono
usare la proprietà del capitale allo scopo di forzare gli altri ad accet-
tare le condizioni di lavoro che essi offrono. Se nessuno fosse più
53 Meyer Shapiro ha richiamato la mia attenzione sul fatto che Bertrand Russell presentò il
medesimo suggerimento in Proposed Roads to Freedom, Blue Ribbon Books, New York, p.
86 ss.
8. LE VIE DELLA SALUTE 292
costretto ad accettar lavoro per non morir di fame, il lavoro dovrebbe
essere abbastanza interessante ed attraente per indurci ad accettarlo.
La libertà di contratto è possibile soltanto se entrambe le parti sono
libere di accettarlo o di respingerlo, e ciò non si verifica nel sistema
capitalistico attuale.
Ma un tale sistema sarebbe non solo l’inizio di una reale libertà di
contratto tra datori di lavoro e prestatori d’opera ma aumenterebbe
anche straordinariamente la sfera della libertà nelle relazioni tra per-
sona e persona nella vita quotidiana.
Esaminiamo qualche esempio: un individuo che sia oggi occupa-
to e non ami il suo lavoro è spesso obbligato a continuarlo perché
non ha i mezzi per rischiare di restar disoccupato anche per uno o
due mesi, e naturalmente, se lascia il lavoro di sua volontà, non ha
diritto ai sussidi di disoccupazione. Ma in realtà gli effetti psicologi-
ci di questa situazione sono molto più profondi; lo stesso fatto che
egli non possa rischiare di esser licenziato lo rende timoroso del suo
padrone e di chiunque altro da cui dipenda. Egli non oserà far obie-
zioni e cercherà di piacere e di sottomettersi e ciò a causa del timore
costantemente presente che il padrone possa licenziarlo se cercasse
di far valere le proprie ragioni. O prendiamo un uomo che, all’età di
40 anni, decida di dedicarsi ad un lavoro completamente diverso, per
il quale gli occorrono uno o due anni di preparazione. Poiché, quan-
do esistessero le condizioni per un minimo di esistenza garantita,
questa decisione comporterebbe una esistenza provvista solo di un
minimo di comodità, occorrerebbero grande entusiasmo e grande
interesse per dedicarsi alla nuova attività e pertanto solo quelli che
fossero dotati e veramente interessati farebbero la scelta. Oppure
prendiamo una donna che ha fatto un matrimonio infelice e che non
lascia il marito per la sola ragione che non è in grado di mantenersi
nemmeno per il tempo necessario a imparare un lavoro. O prendia-
mo un adolescente che abbia dei gravi contrasti con un padre nevro-
tico o distruttivo. La salute mentale di questo ragazzo potrebbe esser
salvata se egli fosse libero di lasciar la famiglia. In poche parole,
verrebbero rimosse le più fondamentali coercizioni per ragioni eco-
nomiche negli affari e nelle relazioni private e la libertà di agire sa-
rebbe restaurata per tutti.
Quanto costerebbe? Poiché il principio è stato già adottato per i
disoccupati, gli ammalati e i vecchi, soltanto un gruppo marginale di
293 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
altra gente godrebbe di questo privilegio; le persone particolarmente
dotate, quelle che si trovano in qualche difficoltà momentanea e quei
nevrotici che non hanno né senso di responsabilità né interesse al
lavoro. Considerando tutti i fattori collegati, il numero di quelli che
godrebbero di questi privilegi non parrebbe straordinariamente ele-
vato e si potrebbe già oggi farne, con accurata indagine, una stima
approssimativa. Ma bisogna insistere sul fatto che questa proposta
sarebbe da realizzare assieme agli altri mutamenti sociali qui sugge-
riti e che in una società nella quale il singolo cittadino partecipi atti-
vamente al suo lavoro, il numero delle persone non interessate al
lavoro sarebbe soltanto una piccola parte di quello che è nelle condi-
zioni odierne. Quale che sia il loro numero, sembra che il costo di un
tale piano sarebbe poco maggiore della somma spesa dai grandi stati
per il mantenimento degli eserciti negli ultimi decenni, pur senza
considerare il costo degli armamenti. Non si dovrebbe nemmeno
dimenticare che in un sistema che faccia rinascere in tutti l’interesse
alla vita e al lavoro, la produttività del lavoratore individuale sarebbe
molto superiore a quella riscontrata oggi quando si verificano ben
pochi mutamenti favorevoli nella situazione di lavoro; inoltre sareb-
bero considerevolmente ridotte le nostre spese per la criminalità e le
malattie nevrotiche o psicosomatiche.
Trasformazione politica
In un capitolo precedente ho cercato di mostrare che la democra-
zia non può operare in una società alienata e che il modo con cui la
nostra democrazia è organizzata contribuisce al processo generale di
alienazione. Se per democrazia si intende la possibilità
dell’individuo di esprimere la sua convinzione e di affermare la sua
volontà, si presume che egli abbia una convinzione e abbia una vo-
lontà. Tuttavia i fatti mostrano che l’individuo alienato moderno ha
opinioni e pregiudizi, ma non convinzioni, ha simpatie e antipatie,
ma non volontà. Le sue opinioni e i suoi pregiudizi, come le simpatie
e le antipatie, sono diretti, allo stesso modo del suo gusto, da una
potente macchina propagandistica che non potrebbe essere efficace
se egli non fosse già condizionato a tali influenze dalla pubblicità e
dall’intero suo modo di vita alienato.
8. LE VIE DELLA SALUTE 294
Anche l’elettore medio è male informato. Benché egli legga rego-
larmente il giornale, il mondo intero è così alienato da lui che nulla
ha per lui un senso o un vero significato. Egli legge di miliardi di
dollari spesi e di milioni di persone uccise, cifre, astrazioni, che non
gli danno alcuna interpretazione concreta e significativa del mondo.
Egli legge la fantascienza quasi come legge le notizie scientifiche.
Tutto è irreale, illimitato, impersonale. I fatti non sono che tanti
elenchi di richiami per la memoria, come un gioco di indovinelli e
non elementi dai quali dipendano la sua vita e quella dei suoi figli. È
in effetti un segno di elasticità e di equilibrio fondamentale
dell’essere umano normale che, nonostante queste condizioni, le
scelte politiche non siano oggi del tutto irrazionali ma che in qualche
misura un giudizio sensato si esprima nel voto.
In aggiunta a tutto ciò, non si deve dimenticare che proprio l’idea
del voto di maggioranza è soggetta al processo di astrattizzazione e
di alienazione. Originariamente il governo di maggioranza era
un’alternativa al governo di minoranza, il governo del re o dei signo-
ri feudali e ciò non voleva dire che la maggioranza avesse ragione;
significava che era meglio una maggioranza che avesse torto piutto-
sto che una minoranza che imponesse la sua volontà alla maggioran-
za. Ma nella nostra epoca di conformismo, il metodo democratico è
giunto sempre più a significare che una decisione di maggioranza è
necessariamente giusta ed è superiore moralmente a quella della mi-
noranza, e pertanto che la maggioranza ha il diritto morale di impor-
re la sua volontà alla minoranza. Proprio come afferma la pubblicità
di un prodotto lanciato su scala nazionale «dieci milioni di americani
non possono aver torto» e pertanto la decisione della maggioranza è
interpretata come una convalida della sua giustezza. Questo è evi-
dentemente un errore; in effetti, sul piano storico tutte le idee «giu-
ste», sia in politica sia in filosofia, nella religione come nella scien-
za, erano originariamente le idee delle minoranze. Se si fosse deciso
il valore di una idea su base numerica, si vivrebbe ancora nelle ca-
verne.
Come Schumpeter ha dimostrato, il votante esprime semplice-
mente la preferenza tra due candidati che si contendono il suo voto.
Egli è messo a confronto con diverse strutture politiche, con una bu-
rocrazia politica divisa tra la buona volontà nell’interesse del paese e
l’interesse professionale di restare al governo o di ritornarci. Questa
295 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
burocrazia politica, avendo bisogno di voti, è naturalmente costretta
a tener conto, in una certa misura, della volontà dell’elettore. Ogni
segno di grande scontento spinge i partiti politici a modificare il loro
programma per ottenere voti, e ogni segno di popolarità di un pro-
gramma li induce a continuarlo. Sotto questo aspetto, anche i regimi
non democratici e autoritari dipendono in qualche misura dalla vo-
lontà popolare senonché, con i loro metodi coercitivi, essi possono
permettersi di seguire una via non popolare per un tempo molto più
lungo. Ma se si esclude l’influenza ritardatrice o stimolante che
l’elettorato ha sulle decisioni della burocrazia politica, e che è
un’influenza indiretta piuttosto che diretta, c’è poco che il singolo
cittadino possa fare per partecipare al compito di prender decisioni.
Dacché ha dato il suo voto, egli ha abdicato alla sua volontà politica
per quella del suo rappresentante che la esercita secondo la combi-
nazione di responsabilità e di interessi professionali egoistici che lo
caratterizzano, e il singolo cittadino può far poco, se si esclude il
voto delle prossime elezioni che gli dà la possibilità di conservare il
suo rappresentante al governo o «di mandar a spasso i mascalzoni».
Il procedimento elettorale nelle grandi democrazie ha sempre più il
carattere di un plebiscito nel quale il votante non può far molto di
più che registrare l’accordo o il disaccordo con i potenti apparati
politici ad uno dei quali egli cede la sua volontà politica.
Il progresso del procedimento democratico dalla metà del dician-
novesimo secolo alla metà del ventesimo è quello dell’estensione del
diritto di voto che ha ormai portato alla accettazione generale del
suffragio universale e illimitato. Ma perfino il più esteso diritto di
voto non basta. L’ulteriore progresso del sistema democratico deve
fare un nuovo passo. Innanzitutto si deve riconoscere che le decisio-
ni non possono esser prese in un’atmosfera di votazione di massa,
ma soltanto nei gruppi relativamente piccoli corrispondenti
all’incirca alle antiche assemblee cittadine e che non dovrebbero
esser composti da più di 500 persone. In tali piccoli gruppi le que-
stioni all’ordine del giorno possono esser sistematicamente discusse
e ogni membro può esprimere le sue idee, può ascoltare ed esamina-
re ragionevolmente le diverse opinioni. La gente è in contatto perso-
nale reciproco, e questo fa sì che le influenze demagogiche e irrazio-
nali possano meno facilmente operare nella loro mente. In secondo
luogo, il cittadino singolo deve essere in possesso di dati essenziali
8. LE VIE DELLA SALUTE 296
che lo mettano in grado di prendere decisioni ragionevoli. In terzo
luogo, qualsiasi cosa egli decida come membro di tale gruppo ristret-
to, deve avere una influenza diretta sulle facoltà deliberative eserci-
tate da un esecutivo parlamentare eletto su una base centrale. Se così
non fosse, il cittadino rimarrebbe politicamente senza voce in capito-
lo, proprio come lo è oggi.
Sorge la questione se un sistema simile, capace di combinare una
forma centralizzata di democrazia, quale esiste oggi, con un alto
grado di decentramento, sia possibile: se possiamo reintrodurre il
principio dell’assemblea cittadina nella moderna società industrializ-
zata.
Non vedo in ciò nessuna difficoltà insolubile. Si potrebbe orga-
nizzare l’intera popolazione in piccoli gruppi di 500 persone per
esempio secondo il luogo di residenza o di lavoro; questi gruppi do-
vrebbero avere per quanto possibile una certa diversificazione nella
loro composizione sociale. Questi gruppi si adunerebbero regolar-
mente, per esempio una volta al mese, e sceglierebbero i loro fun-
zionari e comitati che dovrebbero esser cambiati ogni anno. Il loro
programma sarebbe discutere le principali questioni politiche di inte-
resse sia locale sia nazionale. Secondo il principio sopra ricordato
ognuna di tali discussioni, se vorrà esser ragionevole, richiederà una
certa quantità di dati. E come si può darla? Sembra cosa perfetta-
mente attuabile che una agenzia culturale, politicamente indipenden-
te, possa esercitare la funzione di preparare e render noti i dati che
devono essere usati come materiale in queste discussioni. Tutto ciò
non è altro che ripetere quel che si fa nel nostro sistema scolastico
dove i ragazzi ricevono un’informazione che è relativamente obietti-
va e libera dalla influenza delle fluttuazioni di governo. Si potrebbe-
ro immaginare, per esempio, soluzioni nelle quali personalità dei
campi dell’arte, delle scienze, della religione, degli affari, della poli-
tica, le cui eccezionali capacità e la cui integrità morale siano supe-
riori a ogni dubbio, venissero scelte per costituire un’ente culturale
apolitico. Essi avrebbero differenti punti di vista politici ma è certo
che potrebbero accordarsi ragionevolmente su ciò che si deve consi-
derare un’informazione obiettiva su dei fatti. In caso di dissenso,
differenti serie di fatti potrebbero esser presentate ai cittadini spie-
gando le differenti basi di importanza. I piccoli gruppi ristretti, dopo
aver ricevuto le informazioni e discusso i problemi, voteranno; con
297 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
l’aiuto degli espedienti tecnici che oggi possediamo, sarebbe molto
facile registrare in breve tempo i risultati finali di queste votazioni; il
problema riguarderebbe poi il modo in cui le decisioni così raggiunte
potrebbero essere incanalate fino al governo centrale e inserite nel
processo delle decisioni. Non vi sono ragioni perché non si debbano
trovare i modi di attuazione di questo procedimento. Nelle tradizioni
parlamentari troviamo di solito due camere che partecipano al legi-
slativo ma sono elette secondo principi diversi. Le decisioni dei
gruppi ristretti costituirebbero la vera «camera dei comuni» che con-
dividerebbe i poteri con la camera dei rappresentanti universalmente
eletti e con un esecutivo universalmente eletto. In questo modo le
decisioni sarebbero prese in un flusso costante non soltanto dall’alto
verso il basso ma dal basso verso l’alto e sarebbero basate sul pen-
siero attivo e responsabile del singolo cittadino. Attraverso la discus-
sione e la votazione nei piccoli gruppi ristretti scomparirebbe buona
parte del carattere astratto e irrazionale inerente alla formulazione
delle varie decisioni e i problemi politici diventerebbero realmente
oggetto di interesse per i cittadini. Il processo di alienazione nel qua-
le il cittadino singolo abdica col rituale del voto alla sua volontà po-
litica a favore di poteri che sono al di fuori della sua portata, sarebbe
capovolto, ed ogni individuo riavrebbe, affidato a sé, il suo ruolo di
partecipante alla vita della comunità.54
Trasformazione culturale
Nessuna soluzione politica o sociale può far altro che promuove-
re o impedire la realizzazione di taluni valori e ideali. Gli ideali della
tradizione ebraico-cristiana non possono certo diventar realtà in una
civiltà materialistica la cui struttura è centrata sulla produzione, il
consumo e il successo nel mercato. D’altra parte nessuna società
socialista potrebbe realizzare la meta della fratellanza, della giustizia
e dell’indipendenza della persona, a meno che le sue idee non fosse-
ro capaci di infondere nel cuore dell’uomo uno spirito nuovo.
54 Cfr. per il problema dei gruppi ristretti, Robert A. NISBET, The Quest for Community,
Oxford University Press, New York 1953 (trad. it. La comunità e lo stato, Edizioni di Comuni-
tà, Milano 1957).
8. LE VIE DELLA SALUTE 298
Noi abbiamo bisogno di nuovi ideali o di nuove mete spirituali. I
grandi maestri del genere umano hanno indicato le norme per una
vita mentalmente sana. Certamente essi hanno parlato linguaggi di-
versi, hanno accentuato aspetti differenti ed hanno avuto differenti
opinioni su certi argomenti. Ma, complessivamente, queste differen-
ze erano esigue; il fatto che le grandi religioni e i grandi sistemi etici
abbiano tanto spesso lottato gli uni contro gli altri e insistito sulle
loro reciproche differenze piuttosto che sulle loro somiglianze fon-
damentali, era dovuto all’influenza di quelli che costruirono chiese,
gerarchie, organizzazioni politiche sopra i semplici fondamenti della
verità posti dagli uomini. Da quando il genere umano ha abbandona-
to decisamente il radicamento nella natura e nell’esistenza animale
per trovare una nuova esistenza nella coscienza e nella solidarietà
fraterna, da quando è stata concepita per la prima volta l’idea
dell’unità della razza umana e del suo destino a completa pienezza di
vita, da allora, le idee e gli ideali sono gli stessi. In ogni centro di
cultura e per lo più senza alcuna influenza reciproca, si scoprivano le
stesse verità e si predicavano gli stessi ideali. Noi oggi, avendo facile
accesso a tutte queste idee ed essendo gli eredi diretti del grande in-
segnamento umanistico, non ci troviamo nella necessità di conoscere
attraverso nuove nozioni come si debba vivere equilibratamente; ma
in quella, amara, di prender sul serio ciò che crediamo e ciò che pre-
dichiamo e insegniamo. La rivoluzione dei nostri cuori non ha biso-
gno di nuova sapienza ma di nuova serietà e dedizione.
Il compito di imprimere negli uomini gli ideali guida e le norme
della nostra civiltà è, prima di tutto, compito dell’educazione, ma
quanto deplorevolmente inadeguato a questo compito è il nostro si-
stema educativo! Il suo intento è principalmente di dare all’individuo
le conoscenze di cui ha bisogno per operare in una civiltà industria-
lizzata e per imprimere nel suo carattere la forma necessaria: ambi-
zioso e competitivo, e tuttavia entro certi limiti cooperativo; rispetto-
so dell’autorità ma «moderatamente indipendente» come è scritto in
certe relazioni; amichevole, tuttavia non profondamente attaccato ad
alcuna persona o cosa. Le nostre scuole medie e superiori continuano
col compito di fornire agli studenti la conoscenza di quello di cui
hanno bisogno per svolgere i loro compiti pratici nella vita e dar loro
il carattere richiesto dal mercato delle personalità. Ben poco in realtà
riescono a infonder loro le capacità di pensiero critico o il carattere
299 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
che corrisponda agli ideali professati dalla nostra civiltà. Non c’è
certo bisogno di esporre dettagliatamente questo problema e di ripe-
tere la critica che è stata fatta con tanta competenza da Robert Hut-
chins e da altri. C’è soltanto un punto su cui voglio qui insistere: la
necessità di fare piazza pulita della separazione nociva esistente tra
conoscenza pratica e teorica. Proprio questa separazione fa parte del-
la alienazione del lavoro e del pensiero. Essa tende a separare la teo-
ria dalla pratica e a render sempre più difficile, anziché più facile,
per l’individuo di partecipare significativamente al lavoro che egli
svolge. Se il lavoro deve diventare un’attività basata sulla sua cono-
scenza e sulla comprensione di ciò che fa, allora deve esserci un mu-
tamento radicale nel nostro sistema educativo in modo che, fin
dall’inizio, l’istruzione teorica e il lavoro pratico siano combinati.
Per i giovani il lavoro pratico dovrebbe esser secondario rispetto
all’istruzione teorica; per le persone che hanno superato l’età scolare
dovrebbe essere il contrario; ma in nessuna età dello sviluppo i due
settori devono essere separati l’uno dall’altro. Nessun giovane do-
vrebbe diplomarsi a meno che non abbia imparato qualche tipo di
lavoro manuale in modo soddisfacente e positivo; nessuna educazio-
ne elementare dovrebbe esser considerata finita prima che l’allievo
abbia la capacità di intendere i fondamentali processi tecnici della
nostra industria. Indubbiamente la scuola media dovrebbe combinare
il lavoro pratico di artigianato e di tecnica industriale moderna con
l’istruzione teorica.
La nostra preoccupazione di mirare principalmente al modo in
cui i nostri compatrioti possono esser usati per gli scopi della mac-
china sociale e non al loro sviluppo umano è evidente nel fatto che
consideriamo l’educazione necessaria soltanto fino all’età di 14, 18 o
al massimo intorno ai 20 anni. Perché la società si dovrebbe sentire
responsabile soltanto dell’educazione dei ragazzi e non della educa-
zione degli adulti di qualsiasi età? Difatti come Alvin Johnson ha
segnalato in modo così persuasivo l’età tra i sei e i diciotto anni non
è affatto, come si ritiene, l’età più adatta per imparare. È, si capisce,
la miglior età per imparare a leggere, scrivere e far di conto, e le lin-
gue, ma indubbiamente, a questa età prematura, la comprensione
della storia, della filosofia, della religione, della letteratura, della
psicologia ecc., è limitata, e in effetti l’ideale non sono neppure i
vent’anni, quando queste materie vengono insegnate all’università.
8. LE VIE DELLA SALUTE 300
In molti casi, per comprendere realmente i problemi in questi campi,
una persona deve aver avuto molta più esperienza di vita di quanto
non se ne abbia all’età dell’università. Per molte persone l’età dai
trenta ai quarant’anni è quella indicata per imparare, nel senso del
comprendere piuttosto che del ricordare, di quanto non lo sia l’età
scolare o universitaria, e in molti casi l’interesse generale è anche
maggiore in età più tarda che non nel periodo tempestoso della gio-
vinezza. È anche intorno a quest’età che una persona dovrebbe esser
libera di cambiare completamente professione e di avere pertanto la
possibilità di studiare ancora, quella possibilità che oggi offriamo
soltanto ai giovani.
Una società sana deve offrire possibilità per l’educazione
dell’adulto pressappoco come si provvede oggi all’educazione scola-
stica del bambino. Questo principio trova la sua espressione odierna
nel crescente numero di corsi per l’educazione degli adulti, ma tutte
queste soluzioni private interessano soltanto un piccolo settore della
popolazione e il principio deve essere applicato alla popolazione nel
suo insieme.
L’educazione scolastica, sia come trasmissione della conoscenza
sia come formazione del carattere, costituisce solo una parte, e forse
non la più importante, dell’educazione; usiamo qui «educazione» nel
suo senso letterale e fondamentale di «e-ducere» cioè «tirar fuori»
quel che è nell’uomo. Anche se l’uomo possiede delle cognizioni, se
svolge bene il suo lavoro, se si comporta bene, è onesto, e non ha
preoccupazioni per i suoi bisogni materiali, egli non è né può essere
soddisfatto.
L’uomo, per sentirsi a suo agio nel mondo, deve comprenderlo e
non solamente con la mente, ma con tutti i sensi, con gli occhi, le
orecchie, con tutto il corpo. Egli deve eseguire col corpo quel che
matura nel cervello. Il corpo e la mente non possono essere separati
né in questo né in nessun altro aspetto. Se l’uomo comprende il
mondo e in tal modo si unisce ad esso col pensiero, egli crea la filo-
sofia, la teologia, il mito e la scienza. Se l’uomo esprime la sua
comprensione del mondo con i sensi, egli crea l’arte e il rituale, crea
il canto, la danza, il dramma, la pittura, la scultura. Usando la parola
«arte» noi siamo influenzati dal suo uso nel senso moderno come di
un settore separato dalla vita. Da una parte abbiamo l’artista: una
professione specializzata, e dall’altra parte l’amatore e il consumato-
301 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
re di arte. Ma questa separazione è un fenomeno moderno. Non è
che mancassero «artisti» nelle grandi civiltà: la creazione delle gran-
di sculture egiziane, greche o italiane era opera di artisti straordina-
riamente dotati che si specializzavano nella loro arte; e così si può
dire per i creatori del dramma greco o per la musica fin dal diciasset-
tesimo secolo.
Ma che dire di una cattedrale gotica, di un rito cattolico, di una
danza indiana per propiziare la pioggia, di una composizione floreale
giapponese, di una danza popolare, del canto corale? Sono arte? Arte
popolare? Non c’è una parola per indicarli, perché l’arte, nel senso
ampio e generale come parte della vita di tutti, ha perduto il suo po-
sto nel nostro mondo. Che parola possiamo allora usare? Nell’esame
dell’alienazione ho adoperato il termine «rituale». Qui la difficoltà
sta naturalmente nel fatto che questa parola implica un significato
religioso che la riporta ad una sfera speciale e separata. Mancando di
una parola migliore, userò «arte collettiva» intendendo la stessa cosa
che rituale; essa vuol dire: corrispondere al mondo con i nostri sensi
attraverso un mezzo significativo, elaborato, produttivo, attivo e
condiviso. In questa descrizione la qualifica di «condiviso» è impor-
tante perché differenzia il concetto di «arte collettiva» da quello di
arte nel senso moderno. Quest’ultima è individualistica sia nella
produzione sia nel consumo. L’«arte collettiva» è condivisa e con-
sente all’uomo di sentirsi uno con gli altri in un modo significativo,
ricco e fecondo. Essa non è una occupazione individuale per il
«tempo libero», aggiunta alla vita, ma è parte integrale della vita.
Corrisponde ad un bisogno umano fondamentale, e se questo biso-
gno non è soddisfatto l’uomo resta insicuro e ansioso come se il suo
bisogno di una significativa visione mentale del mondo non fosse
realizzato. Per superare in un orientamento produttivo quello ricetti-
vo egli deve collegarsi al mondo artisticamente e non soltanto filoso-
ficamente o scientificamente. Se una cultura non offre una tale rea-
lizzazione la persona non si sviluppa oltre il suo orientamento ricet-
tivo o mercantile.
E qual è la nostra situazione? I rituali religiosi hanno sempre mi-
nor importanza, eccetto che per i cattolici. I rituali secolari quasi non
esistono. Se si escludono i tentativi di imitarli nelle logge, nelle con-
fraternite ecc., abbiamo alcuni rituali patriottici e sportivi che si ri-
volgono solo in misura molto limitata ai bisogni della personalità
8. LE VIE DELLA SALUTE 302
totale. Noi siamo una cultura di consumatori. Assorbiamo passiva-
mente il cinema, la cronaca nera, i liquori, lo svago. Non c’è né una
partecipazione attiva e feconda, né una comune esperienza unifica-
trice, né una significativa attuazione di risposte significative verso la
vita. Che ci attendiamo dalla nostra giovane generazione? Che devo-
no fare quando a loro manca la possibilità di attività artistiche signi-
ficative e condivise? Che possono fare se non trovare evasione nel
bere, nel mondo illusorio creato dal cinema, nel delitto, nelle nevrosi
o nello squilibrio? Che giova avere quasi eliminato l’analfabetismo,
vantare l’istruzione superiore più estensiva che sia mai esistita, se
manchiamo di espressione collettiva delle nostre personalità totali e
non abbiamo né arte né rituali collettivi? Indubbiamente un villaggio
relativamente primitivo nel quale vi siano ancora delle vere feste,
manifestazioni artistiche comuni e condivise e che abbia un analfa-
betismo totale, è culturalmente più progredito e mentalmente più
sano della nostra cultura di istruiti lettori di giornali e radioascoltato-
ri.
Nessuna società sana può esser costruita sulla combinazione di
una conoscenza puramente intellettuale e di una quasi completa as-
senza di esperienza artistica condivisa, università più football, ro-
manzi polizieschi più celebrazioni della festa nazionale, del giorno
del padre, del giorno della madre e del Natale in sovrappiù. Conside-
rando come possiamo costruire una società sana dobbiamo ricono-
scere che il bisogno della creazione di un’arte e di rituali collettivi su
una base non chiesastica è almeno altrettanto importante quanto
l’educazione elementare e superiore. La trasformazione della società
atomizzata in una società comunitaria dipende dal ricreare la possibi-
lità per la gente di cantare assieme, di far assieme delle passeggiate,
di danzare assieme, di ammirare assieme: assieme e non, per usare la
concisa espressione di Riesman, come i componenti di una «folla
solitaria».
Per far rivivere rituali e arte collettivi sono stati fatti diversi tenta-
tivi. Il «culto della Ragione» con le nuove festività e i suoi rituali era
la forma creata dalla Rivoluzione francese. I sentimenti nazionali
crearono alcuni nuovi rituali, ma essi non raggiunsero mai
l’importanza che avevano una volta i perduti rituali religiosi. Il so-
cialismo creò il suo rituale nella celebrazione del primo maggio,
nell’uso del termine fraterno «compagno», e così via. Ma
303 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
l’importanza non è stata mai superiore a quella del rituale patriottico.
Forse la più profonda e originale espressione di arte e di rituali col-
lettivi si poteva trovare nel movimento della Gioventù Tedesca, che
fiorì negli anni prima e dopo la prima guerra mondiale. Ma questo
movimento restò piuttosto esoterico e fu fagocitato dalla crescente
marea del nazionalismo e del razzismo.
Nell’insieme il nostro rituale moderno è impoverito e non soddi-
sfa i bisogni dell’uomo di rituali e di arte collettivi, anche nel senso
più vago, sia per la qualità sia per il suo rilievo quantitativo nella
vita.
Cosa dobbiamo fare? Possiamo inventare dei rituali? Si può
creare artificialmente l’arte collettiva? No certamente! Ma quando se
ne riconosca il bisogno e quando si cominci a coltivarli, i semi ger-
moglieranno e si faranno avanti persone dotate che aggiungeranno
nuove forme alle antiche e si presenteranno nuovi talenti che non
verrebbero notati senza questo nuovo orientamento.
L’arte collettiva comincerà con i giochi dei bambini nei giardini
d’infanzia, continuerà nella scuola, e poi nella vita successiva.
Avremo danze in comune, cori, giochi, musica, fanfare che non rim-
piazzeranno del tutto lo sport moderno ma lo ridurranno al ruolo su-
bordinato di una delle molte attività prive di una vera utilità e di un
vero scopo.
E inoltre, come nell’organizzazione politica e industriale, il fatto-
re decisivo è il decentramento: i concreti gruppi ristretti e la parteci-
pazione attiva e responsabile. Nella fabbrica, nella scuola, nei piccoli
gruppi di discussione politica, nei villaggi possono esser create varie
forme di attività artistica comune; esse possono essere stimolate
quanto occorre con l’aiuto e il suggerimento da parte di corpi artisti-
ci centrali, ma non «imbeccati» da questi. Nello stesso tempo le tec-
niche moderne della radio e della televisione offrono splendide pos-
sibilità di dare il meglio della musica e della letteratura a larghi udi-
tòri. Non occorre dire che non si può lasciare al mondo degli affari il
compito di provvedere a queste esigenze, ma che esse devono avere
il rango che hanno le nostre istituzioni scolastiche senza scopo di
lucro.
Si potrebbe dire che l’idea di una rinascita su larga scala del ri-
tuale e dell’arte collettivi è romantica e che essa si adatta ad un epo-
ca artigianale e non a quella della produzione di massa. Se tale obie-
8. LE VIE DELLA SALUTE 304
zione fosse valida potremmo rassegnarci al fatto che il nostro siste-
ma di vita si distruggerà presto a causa della sua mancanza di equili-
brio e di sanità mentale. Ma in effetti l’obiezione non è più persuasi-
va delle obiezioni fatte rispetto alla «possibilità» delle ferrovie e del
volo con macchine più pesanti dell’aria. C’è un solo punto valido in
questa obiezione. Così come noi siamo, atomizzati, alienati, senza
alcun genuino senso di comunità, non saremo capaci di creare nuove
forme di arte e di rituali collettivi.
Ma ciò è proprio quello su cui ho sempre insistito. Non si può se-
parare il mutamento della nostra organizzazione politica e industriale
da quello della struttura della nostra vita educativa e culturale. Nes-
sun serio tentativo di mutamento e di ricostruzione potrà riuscire se
non si estende simultaneamente in tutti i settori.
Si può parlare di una trasformazione spirituale della società senza
far cenno alla religione? Indubbiamente gli insegnamenti delle gran-
di religioni monoteistiche accentuano gli stessi fini umanistici che
stanno alla base dell’«orientamento produttivo». I fini del cristiane-
simo e dell’ebraismo sono quelli della dignità dell’uomo come meta
e fine in se stesso, dell’amore fraterno e della supremazia dei valori
spirituali su quelli materiali. Questi fini etici sono collegati a taluni
concetti di Dio attraverso i quali i fedeli delle varie religioni si di-
stinguono tra loro e che sono inaccettabili per milioni di altri. Tutta-
via è stato un errore dei non credenti quello di attaccare l’idea di
Dio; il loro vero obiettivo dovrebbe essere quello di sfidare i religio-
si a prender sul serio la loro religione e specialmente il concetto di
Dio, ciò che significherebbe praticare lo spirito di amore fraterno, di
verità e di giustizia e pertanto diventare i critici più radicali della
società contemporanea.
D’altro canto, anche da un punto di vista strettamente monoteisti-
co, le discussioni su Dio equivalgono all’usare il nome di Dio inva-
no. Ma se è impossibile dire quello che Dio è, possiamo dire quello
che non è. Non è forse tempo di smetterla di discutere intorno a Dio
e unirsi invece nello smascherare le forme contemporanee di idola-
tria? Oggi non c’è Baal né Astarte, ma c’è la deificazione dello stato
e del potere nei paesi autoritari, e la deificazione della macchina e
del successo nella nostra stessa cultura; è l’alienazione che tutto in-
vade a minacciare le qualità spirituali dell’uomo. Che si sia o no re-
ligiosi, che si creda nella necessità di una nuova religione o nella
305 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
continuazione della tradizione ebraico-cristiana, in quanto ci interes-
siamo dell’essenza, e non della superficie, dei fatti e non delle paro-
le, dell’uomo e non delle istituzioni, possiamo unirci in una decisa
negazione dell’idolatria, e trovare forse più fede comune in questa
negazione che in qualsiasi affermazione riguardante Dio. Indubbia-
mente troveremo più umiltà e amore fraterno.
Questa constatazione vale anche se si crede, come io credo, che i
concetti teistici siano votati alla scomparsa nello sviluppo futuro
dell’umanità. In effetti per coloro che vedono nelle religioni mono-
teistiche soltanto uno degli stadi dell’evoluzione del genere umano,
non è troppo difficile convincersi che una nuova religione si svilup-
perà entro pochi secoli, una religione che corrisponda allo sviluppo
del genere umano; il più importante carattere di questa religione sa-
rebbe quello universalistico che corrisponderebbe all’unificazione
dell’umanità che sta oggi verificandosi; esso racchiuderebbe gli in-
segnamenti umanistici comuni a tutte le grandi religioni dell’oriente
e dell’occidente; le sue dottrine non contraddirebbero le conoscenze
razionali dell’umanità odierna e l’accento sarebbe posto sulla pratica
di vita piuttosto che su credenze dottrinarie. Una simile religione
creerebbe nuovi rituali e nuove forme artistiche di espressione tali da
produrre uno spirito di riverenza per la vita e la solidarietà
dell’uomo. Naturalmente la religione non può essere inventata, essa
si affermerà con la comparsa di un nuovo grande maestro proprio
come ne sono apparsi nei secoli precedenti quando i tempi erano
maturi. Nel frattempo, quelli che credono in Dio dovrebbero espri-
mere la loro fede vivendola; quelli che non credono vivendo i precet-
ti di amore e di giustizia, e rimanendo in attesa.55
55 Lo stesso suggerimento per una nuova religione umanistica è stato fatto da Julian HUXLEY
in Evolutionary Humanism, «The Humanist», vol. XII, 5, 1953, p. 201 ss.
306
9.
Conclusioni riassuntive
Dapprincipio l’uomo emerse dal mondo animale come un ca-
priccio di natura. Avendo perduto la maggior parte
dell’organizzazione istintiva che regola l’attività animale, egli era,
più che la maggior parte degli animali, debole e meno attrezzato alla
lotta per la sopravvivenza. Tuttavia egli aveva sviluppato la capacità
di pensare, la fantasia, la consapevolezza di sé, e queste erano il fon-
damento per trasformare la natura e se stesso. Per molte migliaia di
generazioni l’uomo visse raccogliendo il cibo e cacciando. Egli era
ancora vincolato alla natura e temeva di esserne espulso.
Identificava se stesso con gli animali e adorava questi rappresen-
tanti della natura come sue divinità. Dopo un lungo periodo di lento
sviluppo l’uomo cominciò a coltivare il suolo e a creare un nuovo
ordine sociale e religioso basato sull’agricoltura e la pastorizia. Du-
rante questo periodo egli adorava, quali portatrici della fertilità natu-
rale, delle dee, e vedeva in se stesso il figlio che dipende dalla fertili-
tà della terra, dal seno vivificante della Madre. Ad un certo momen-
to, circa quattro migliaia di anni fa, avvenne una svolta decisiva nel-
la storia dell’uomo. Egli fece un nuovo passo nel lungo processo del
suo graduale distacco dalla natura. Tagliò i legami con la natura e
con la Madre e si propose una nuova meta, quella di divenire com-
pletamente vivo, di svegliarsi completamente, di diventar completa-
mente umano: di essere libero. La ragione e la coscienza divennero i
principi che dovevano guidarlo e suo fine era una società legata dai
vincoli dell’amore fraterno, della giustizia e della verità, una dimora
nuova e veramente umana che prendesse il posto della dimora natu-
rale irreparabilmente perduta.
Più tardi ancora, circa 500 anni prima di Cristo, nei grandi siste-
mi religiosi dell’India, della Grecia, della Palestina, della Persia e
della Cina, l’idea dell’unità dell’umanità e di un principio spirituale
unificante che sottostava a tutta la realtà assunse nuove e più svilup-
307 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
pate espressioni. Lao-tze, Budda, Isaia, Eraclito e Socrate e più tardi,
nella terra di Palestina, Gesù e gli apostoli, nella terra americana
Quetzalcoatl e, più tardi ancora, in terra araba Maometto, insegnaro-
no le idee dell’unità dell’uomo, della ragione, dell’amore e della giu-
stizia come le mete cui l’uomo deve aspirare.
Il Nord Europa sembrò dormire per lungo tempo. Le idee greche
e cristiane furono trasmesse a questa terra e ci vollero mille anni
prima che l’Europa ne fosse imbevuta. Intorno al 1500 cominciò un
nuovo periodo. L’uomo scoprì la natura e l’individuo, e pose i fon-
damenti per le scienze naturali che cominciarono a trasformare la
faccia della terra. Il mondo chiuso del medioevo crollò, il cielo uni-
ficatore si frantumò, e l’uomo trovò un nuovo principio unificatore
nella scienza e ricercò una nuova unità nell’unificazione politica e
sociale della terra e nel dominio della natura. La coscienza morale,
retaggio della tradizione ebraico-cristiana, e la coscienza intellettua-
le, retaggio della tradizione greca, si fusero e produssero una fioritu-
ra nella creazione umana quale l’uomo non aveva forse mai prima
conosciuto. L’Europa, che culturalmente era l’ultimo rampollo
dell’umanità, sviluppò tale ricchezza e tali armi da diventare padrona
del resto del mondo per alcune centinaia di anni. Ma nuovamente,
nella metà del ventesimo secolo, sta verificandosi un profondo mu-
tamento, un mutamento grande come mai nel passato. Nuove tecni-
che sostituiscono l’uso dell’energia fisica degli animali e degli uo-
mini con quella del vapore, del petrolio e dell’elettricità; esse creano
mezzi di comunicazione che trasformano la terra dandole la dimen-
sione di un continente, e il genere umano in una società dove il de-
stino di un gruppo è il destino di tutti; esse creano meravigliosi ritro-
vati che consentono di mettere a disposizione di ogni membro della
società quanto c’è di meglio nell’arte, nella letteratura e nella musi-
ca; esse creano forze produttive che consentiranno a tutti di avere
un’esistenza materiale dignitosa e riducono il lavoro in misura tale
da occupare soltanto una parte della giornata dell’uomo.
Tuttavia oggi, quando l’uomo sembra aver raggiunto l’inizio di
una nuova era umana più ricca e più felice, la sua esistenza e quella
delle generazioni successive è più minacciata che mai. Come è pos-
sibile ciò?
L’uomo aveva riscattato la sua libertà dalle autorità clericali e se-
colari, si trovava solo con la sua coscienza e con la sua ragione, suoi
9. CONCLUSIONI RIASSUNTIVE 308
unici giudici, ma era spaventato della libertà appena conquistata; egli
aveva realizzato la «libertà da» senza però aver raggiunto la «libertà
di»: di essere se stesso, di esser produttivo, di esser completamente
desto. Così cercò di fuggire dalla libertà. Proprio quel dominio sulla
natura che aveva realizzato gli apriva le strade per questa fuga.
Costruendo la nuova macchina dell’industria, l’uomo fu così as-
sorbito dal nuovo compito che questo divenne la meta preminente
della sua vita. Le sue energie, che una volta erano dedicate alla ri-
cerca di Dio e alla salvezza eterna, furono ora dirette verso il domi-
nio sulla natura e verso sempre crescenti comodità materiali. Egli
cessò di usare la produzione come mezzo per una vita migliore, ma
ne fece invece un fine in se stesso, un fine cui era subordinata la vita.
Nel processo di una sempre maggior divisione e meccanizzazione
del lavoro e nelle sempre maggiori dimensioni degli agglomerati
sociali l’uomo stesso diventò una parte della macchina piuttosto che
il padrone. Scoprì che lui stesso era una merce, come un investimen-
to; suo fine diventò aver successo, cioè vendersi sul mercato il più
vantaggiosamente possibile. Il suo valore come persona sta nella sua
possibilità di vendersi e non nelle sue qualità umane di amore e di
ragione o nelle sue capacità artistiche. La felicità si identifica col
consumo di merci più nuove e migliori, con la passiva ricezione di
musica, cinema, svago, sesso, liquori e sigarette. Non avendo un
senso dell’io se non quello datogli dal conformismo con la maggio-
ranza, egli si sente insicuro, ansioso e dipende dall’approvazione
altrui. È alienato da sé, adora i prodotti delle sue stesse mani e i capi
che si è dato, come se essi fossero sopra di lui invece che fatti da lui.
È in un certo senso ritornato indietro a dov’era prima della grande
rivoluzione umana iniziata nel secondo millennio prima di Cristo.
Incapace di amare e di usare la sua ragione, e di prendere deci-
sioni, egli è in effetti incapace di apprezzare la vita e pertanto pron-
to, e persino ben disposto, a distruggere ogni cosa. Il mondo è anco-
ra una volta frammentato, ha perduto la sua unità; egli adora nuova-
mente una molteplicità di cose, con la sola eccezione che adesso
queste, invece di essere parte della natura, sono fatte dall’uomo.
L’era nuova cominciò con l’idea dell’iniziativa individuale. Infat-
ti gli scopritori di nuovi mondi e di vie marittime nel sedicesimo e
diciassettesimo secolo, i pionieri della scienza, e i fondatori di nuove
filosofie, gli statisti e i filosofi delle grandi rivoluzioni inglese, fran-
309 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
cese e americana, e infine i pionieri industriali, e perfino i «baroni
predatori» dimostravano una straordinaria iniziativa individuale. Ma
con la burocratizzazione e l’organizzazione manageriale del capitali-
smo è esattamente l’iniziativa individuale che sta scomparendo. La
burocrazia ha poca iniziativa: questa è la sua natura; e nemmeno ne
hanno gli automi. Richiamarsi all’iniziativa individuale, come ad un
argomento a favore del capitalismo, è, nel migliore dei casi, una
brama nostalgica e, nel peggiore, un ingannevole luogo comune usa-
to contro quei piani di riforma che sono basati sull’idea di una inizia-
tiva umana veramente individuale. La società moderna è partita con
l’aspirazione di creare una cultura che soddisfacesse i bisogni
dell’uomo; essa ha per ideale l’armonia tra i bisogni individuali e
quelli sociali e la fine del conflitto tra natura umana e ordine sociale.
Si credeva che si sarebbe giunti a questa meta in due modi: con una
crescente tecnica produttiva che avrebbe permesso di nutrire tutti in
modo soddisfacente, e con una razionale e obiettiva visione
dell’uomo e dei suoi veri bisogni. In altre parole, il fine degli sforzi
dell’uomo moderno era di creare una società sana. Più precisamente,
questo significava una società i cui membri avessero sviluppato la
loro ragione a un punto tale di obiettività da concedere loro di vedere
se stessi, gli altri e la natura nella loro vera realtà, e non distorti da
un sentimento infantile di onniscienza o da odio paranoico. Signifi-
cava una società i cui membri avessero sviluppato un tal grado di
indipendenza, da conoscere la differenza tra il bene e il male, in cui
essi facessero la loro propria scelta, in cui avessero convinzioni piut-
tosto che opinioni, e fede invece di speranze superstiziose o confuse.
Significava una società i cui membri avessero sviluppato la capacità
di amare i loro figli, il loro prossimo, tutti gli uomini, se stessi, tutta
la natura, e potessero sentirsi in unità con il tutto conservando però il
loro senso di individualità e di pienezza, e trascendessero la natura
creando e non distruggendo.
Fino ad oggi non ci siamo riusciti. Non abbiamo gettato un ponte
sull’abisso che separa una minoranza che attuava queste mete e cer-
cava di vivere accordandovisi e la maggioranza la cui mentalità era
rimasta ben indietro, all’epoca della pietra, al totemismo, al culto
idolatrico, al feudalesimo. La maggioranza si convertirà alla sanità
mentale o userà le più grandi scoperte della ragione umana per i suoi
fini di irrazionalità e follia? Saremo capaci di creare una visione del-
9. CONCLUSIONI RIASSUNTIVE 310
la vita buona e sana che stimoli le forze vitali di coloro che temono
di andare avanti? Attualmente l’umanità si trova ad un bivio dove un
passo sbagliato potrebbe anche essere l’ultimo.
Alla metà del ventesimo secolo, si sono sviluppati due grandi co-
lossi sociali che, temendosi l’un l’altro, cercano sicurezza in un
riarmo militare sempre crescente. Gli Stati Uniti e i loro alleati sono
più ricchi, il loro livello di vita è più elevato, il loro interesse alla
comodità e ai piaceri sono maggiori di quelli dei loro rivali, l’Unione
Sovietica con i suoi satelliti e la Cina. Entrambi i rivali affermano
che il loro sistema assicura all’uomo la redenzione finale e garanti-
sce il paradiso del futuro. Entrambi affermano che l’avversario rap-
presenta esattamente il loro opposto e che il suo sistema dovrà esse-
re, a breve o a lunga scadenza, estirpato, se si vuol salvare l’umanità.
Entrambi i rivali parlano riferendosi agli ideali del diciannovesimo
secolo. L’occidente in nome delle idee della Rivoluzione francese,
della libertà, della ragione, dell’individualismo; l’oriente nel nome
delle idee socialiste, della solidarietà e dell’eguaglianza. Entrambi
riescono a conquistare l’immaginazione e la fanatica obbedienza di
centinaia di milioni di uomini.
C’è oggi una differenza decisiva tra i due sistemi. Nel mondo oc-
cidentale c’è la libertà di esprimere opinioni critiche sul sistema esi-
stente. Nel mondo sovietico la critica e l’espressione di idee diffe-
renti sono soppresse con la forza bruta. Dunque l’occidente porta in
se stesso la possibilità di una trasformazione pacifica verso il pro-
gresso, mentre nel mondo sovietico tali possibilità quasi non esisto-
no.
Ma pur senza ignorare le enormi differenze odierne tra il liberista
capitalismo e il comunismo autoritario è impossibile non vedere le
somiglianze specialmente come esse si svilupperanno nel futuro.
Entrambi i sistemi sono basati sull’industrializzazione e mirano a
un’efficienza economica e a una ricchezza sempre maggiori. Essi
sono società dirette da una classe manageriale e da professionisti
della politica; entrambi sono completamente materialisti nel loro
modo di vedere, nonostante l’ideologia cristiana nell’occidente e il
messianismo secolare nell’oriente. Essi organizzano l’uomo in un
sistema centralizzato, in grandi stabilimenti, in partiti politici di
massa. Ognuno è una rotellina dell’ingranaggio e deve funzionare
regolarmente. Nell’occidente ciò si realizza con un metodo di condi-
311 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
zionamento psicologico, di suggestioni collettive e compensi mone-
tari. Nell’oriente con tutto questo e, in più, con l’uso del terrore. Si
può supporre che quanto più il sistema sovietico si svilupperà eco-
nomicamente, tanto meno dovrà sfruttare la maggioranza della popo-
lazione, e perciò il terrore potrà esser sostituito in misura maggiore
da metodi di condizionamento psicologico. L’occidente si sviluppa
rapidamente nella direzione del Brave New World di Huxley,
l’oriente è oggi il 1984 di Orwell, ma entrambi i sistemi tendono a
convergere.
Quali sono allora le prospettive per il futuro? La prima, e forse la
più verosimile, è quella della guerra atomica. Il più probabile risulta-
to di tale guerra è la distruzione della civiltà industriale e il ritorno
del mondo a un primitivo livello agricolo. Oppure, se la distruzione
non si dimostrasse completa come credono molti specialisti in que-
sto campo, il risultato sarà la necessità per il vincitore di organizzare
e dominare il mondo intero. Ciò avverrebbe soltanto in uno stato
centralizzato basato sulla forza, e ci sarebbe ben poca differenza se
la sede del governo fosse a Mosca o a Washington. Ma, sfortunata-
mente, anche la possibilità di evitare la guerra non promette un futu-
ro sereno. Nello sviluppo, sia del capitalismo sia del comunismo
come possiamo prevederlo nei prossimi 50 o 100 anni, il processo di
automatizzazione e di alienazione continuerà. Entrambi i sistemi
stanno sviluppandosi in società manageriali i cui abitanti, ben nutriti,
ben vestiti vedono soddisfatti i loro desideri e non hanno desideri
che non possano esser soddisfatti, automi che seguono senza esser
forzati, che sono guidati senza capi, che fabbricano macchine che si
comportano come uomini e producono uomini che si comportano
come macchine; uomini la cui ragione decade mentre aumenta
l’intelligenza creando così la situazione di dotare l’uomo dei più
grandi poteri materiali senza la sapienza per usarli.
Questa alienazione e automatizzazione portano a pazzia sempre
crescente. La vita non ha significato, non c’è gioia, né fede, né real-
tà. Ognuno è «felice», solamente... non sente, non ragiona, non ama.
Nel diciannovesimo secolo il problema era: Dio è morto; nel ven-
tesimo secolo è questo: è morto l’uomo. Nel diciannovesimo secolo
inumanità voleva dire crudeltà; nel ventesimo secolo vuol dire autoa-
lienazione schizoide. Il pericolo del passato era che gli uomini di-
ventassero schiavi. Il pericolo del futuro è che gli uomini possano
9. CONCLUSIONI RIASSUNTIVE 312
diventare robot. È vero che i robot non si ribellano. Ma, data la natu-
ra dell’uomo, i robot non possono vivere e restar sani, essi diventano
«Golem» che distruggeranno se stessi e il loro mondo perché non
possono più tollerare la noia di una vita priva di significato.
I nostri pericoli sono la guerra e il robotismo. Qual è
l’alternativa? Abbandonare i binari su cui ci muoviamo e fare il pas-
so successivo verso la nascita e l’autorealizzazione dell’umanità. La
prima condizione è la rimozione della minaccia della guerra che
adesso pende su tutti noi e paralizza la fede e l’iniziativa. Dobbiamo
assumerci la responsabilità della vita di tutti gli uomini e sviluppare
su scala internazionale ciò che tutti i grandi paesi hanno sviluppato
internamente, cioè una relativa divisione delle ricchezze e una nuova
e più giusta divisione delle risorse economiche. Questo deve final-
mente portare a forme di cooperazione internazionale e di pianifica-
zione, a forme di governo mondiale e al completo disarmo. Dobbia-
mo conservare il metodo industriale, ma dobbiamo decentrare il la-
voro e lo stato così da dar loro umane proporzioni, e consentire
l’accentramento soltanto sino ad un optimum richiesto a causa delle
esigenze dell’industria. Nella sfera economica abbiamo bisogno del-
la cogestione di tutti quelli che lavorano in una azienda per permette-
re la loro partecipazione attiva e responsabile. Le nuove forme di
tale partecipazione possono esser trovate. Nella sfera politica, dob-
biamo ritornare alle assemblee cittadine creando migliaia di piccoli
gruppi ristretti, che siano ben informati, che discutano e le cui deci-
sioni siano integrate in una nuova «camera bassa». Un rinascimento
culturale deve combinare l’educazione e il lavoro per i giovani,
l’educazione degli adulti e un nuovo sistema di arte popolare e di
rituale secolare entro l’intera nazione.
Nostra sola alternativa al pericolo del robotismo è il socialismo
umanistico. Il problema non è principalmente il problema giuridico
della proprietà, e nemmeno quello del dividere i profitti, è quello di
dividere il lavoro, di dividere l’esperienza. I mutamenti della pro-
prietà devono essere fatti nella misura necessaria per creare una co-
munità di lavoro e per far sì che il movente del profitto non spinga la
produzione in direzioni socialmente nocive. Il reddito individuale
deve essere eguagliato fino alla misura necessaria per dare ad ognu-
no le basi materiali per una vita dignitosa, evitando così che le diffe-
renze economiche creino una esperienza di vita fondamentalmente
313 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
diversa per le varie classi sociali. L’uomo deve essere restituito al
suo più alto posto nella società, non esser mai un mezzo, o cosa da
esser usata dagli altri o da se stesso. L’uso dell’uomo da parte
dell’uomo deve finire, e l’economia deve diventare lo strumento per
lo sviluppo dell’uomo. Il capitale deve servire al lavoro, le cose de-
vono servire alla vita. Invece dell’orientamento sfruttatore ed acca-
parratore che dominava nel diciannovesimo secolo e
dell’orientamento ricettivo e mercantile che domina oggi,
l’orientamento produttivo deve essere il fine cui guardano tutte le
strutture sociali.
Nessun mutamento deve esser prodotto dalla forza; esso deve es-
ser simultaneo nel settore economico, politico e culturale. I muta-
menti limitati ad un solo settore rendono inefficace ogni mutamento.
Proprio come l’uomo primitivo era impotente di fronte alle forze
naturali, così l’uomo moderno è impotente di fronte alle forze eco-
nomiche e sociali da lui stesso create. Egli adora il lavoro delle pro-
prie mani, inchinandosi ai nuovi idoli e giurando tuttavia nel nome
del Dio che gli ordinò di distruggere tutti gli idoli. L’uomo può pro-
teggersi dalle conseguenze della sua stessa pazzia soltanto creando
una società sana che si adatti ai bisogni dell’uomo, bisogni che sono
radicati nelle stesse condizioni della sua esistenza. Una società nella
quale l’uomo stabilisca con l’uomo rapporti fondati sull’amore, nella
quale egli sia radicato con i legami di fratellanza e di solidarietà
piuttosto che con i vincoli del suolo e del sangue, una società che gli
dia la possibilità di trascendere la natura creando anziché distrug-
gendo, nella quale ognuno conquisti un senso dell’io riconoscendo
se stesso come il soggetto dei suoi poteri piuttosto che con il con-
formismo, nella quale un sistema di orientamento e di devozione
esista senza bisogno che l’uomo distorca la realtà e adori idoli.
Costruire una simile società significa fare il passo successivo; si-
gnifica la fine della storia «umanoide», la fase nella quale l’uomo
non è diventato pienamente umano. Ciò non vuol dire la «fine dei
giorni», il «compimento», lo stato di perfetta armonia nel quale gli
uomini non incontrino alcun conflitto o problema. Al contrario, è
destino dell’uomo che la sua esistenza sia piena di contraddizioni,
che egli ha il dovere di risolvere senza tuttavia riuscire mai a risol-
verle. Quando egli abbia superato lo stadio primitivo del sacrificio
umano, sia nella forma ritualistica degli aztechi sia nella forma laica
9. CONCLUSIONI RIASSUNTIVE 314
della guerra, quando egli sia stato capace di regolare i suoi rapporti
con la natura ragionevolmente invece che ciecamente, quando le co-
se siano diventate veramente suoi strumenti invece che suoi idoli,
allora si troverà di fronte a conflitti e problemi veramente umani;
egli dovrà essere audace, coraggioso, ricco di fantasia, capace di sof-
ferenza e di gioia, ma i suoi poteri saranno al servizio della vita e
non al servizio della morte. La nuova fase della storia umana, se essa
verrà, sarà un nuovo principio, non una fine.
L’uomo d’oggi è posto di fronte alla scelta più decisiva: non
quella tra capitalismo o comunismo, ma quella tra robotismo (sia del
tipo capitalistico sia di quello comunista) o socialismo umanistico
comunitario. Molti fatti sembrano indicare che egli sta scegliendo il
robotismo e ciò, a lungo andare, significa pazzia e distruzione. Ma
tutti questi fatti non sono abbastanza forti da distruggere la fede nella
ragione, nella buona volontà e nella sanità dell’uomo. Fino a che
possiamo pensare ad altre alternative non siamo perduti; fino a che
possiamo consultarci assieme e decidere assieme, possiamo sperare.
Ma in verità le ombre si allungano e le voci della pazzia stanno di-
ventando più forti. Siamo prossimi a porre in atto un tipo di umanità
che corrisponde alla visione dei nostri grandi maestri e tuttavia ci
sovrasta il pericolo della distruzione di tutta la civiltà o della robo-
tizzazione. Questa tragica alternativa può essere evitata solamente
instaurando il socialismo umanistico, vale a dire l’inserimento
dell’umanesimo nella società industriale.