Fromm - Psicoanalisi della Società Contemporanea

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Traduzione dallinglese di Carlo De Roberto Titolo originale dellopera: The Sane Society (1955). Il seguente progetto non ha alcuno scopo di lucro. È uniniziativa del tutto privata, indirizzata alla preservazione dell opera origina- ria.

Transcript of Fromm - Psicoanalisi della Società Contemporanea

Traduzione dall’inglese di Carlo De Roberto

Titolo originale dell’opera: The Sane Society (1955).

Il seguente progetto non ha alcuno scopo di lucro. È un’iniziativa

del tutto privata, indirizzata alla preservazione dell’opera origina-

ria.

Erich Fromm

Psicoanalisi della

Società Contemporanea

Terza Edizione, 1968

Edizioni di Comunità

Indice

Prefazione - 4

1. Possiamo ritenerci sani di mente? - 7

2. Una società può essere malata? - 14

3. La situazione umana alla base della Psicanalisi Umanistica - 22

4. Salute mentale e società - 60

5. L’uomo nella società capitalistica - 70

6. Altre varie diagnosi - 182

7. Varie risposte - 202

8. Le vie della salute - 233

9. Conclusioni riassuntive - 306

«E il Signore farà giudizio fra molti popoli, e respingerà oltre ogni

confine nazioni possenti; ed esse delle loro spade fabbricheranno

zappe, e delle loro lance falci; l’una nazione non leverà più la spada

contro l’altra, e non impareranno più la guerra. Anzi siederà cia-

scuno sotto la sua vite e sotto il suo fico, e non vi sarà alcuno che lo

spaventi perché la bocca del Signore degli eserciti ha parlato.»

MICHEA

«Non v’è arte più difficile del vivere. Per le altre arti e scienze,

si possono trovare ovunque numerosi maestri. Anche i giovani cre-

dono di poterle apprendere in qualche modo e di poterle insegnare

agli altri. A vivere si deve imparare attraverso l’intiera vita; e, ma

questo vi stupirà ancor più, attraverso la vita si deve imparare a

morire.»

SENECA

«Questo mondo e il mondo dell’aldilà stanno continuamente

partorendo: ogni causa è una madre, il suo effetto il figlio. Quando

l’effetto è nato, esso pure diventa una causa e genera straordinari

effetti. Queste cause legano generazioni a generazioni, ma occorre

un occhio davvero molto acuto per vedere gli anelli della loro cate-

na.»

RUMI

«Le cose stanno in sella e cavalcano l’umanità.»

EMERSON

«Il genere umano ebbe la sapienza di creare la scienza e l’arte;

perché non dovrebbe essere capace di creare un mondo di giustizia,

di fratellanza e di pace? Il genere umano ha dato Platone, Omero,

Shakespeare e Hugo, Michelangelo e Beethoven, Pascal e Newton,

tutti questi eroi umani il cui genio consiste soltanto nel contatto con

le verità fondamentali, con la più profonda essenza dell’universo.

Perché allora questo stesso genere umano non dovrebbe produrre

quei capi che fossero capaci di guidarlo a quelle forme di vita co-

mune che sono le più vicine alle forme di vita e all’armonia

dell’universo?»

Léon BLUM

4

PREFAZIONE

Questo libro è una continuazione di Fuga dalla libertà, scritto più

di quindici anni or sono. In Fuga dalla libertà cercai di dimostrare

che i movimenti totalitari facevano appello alla radicata aspirazione

a fuggire dalla libertà che l’uomo aveva realizzato nel mondo mo-

derno; e che l’uomo moderno, libero dai vincoli medievali, non era

libero di costruire una vita ricca di significato basata sulla ragione e

sull’amore, e perciò cercava nuova sicurezza nella sottomissione a

un capo, alla razza o allo stato.

In Psicanalisi della società contemporanea cerco di dimostrare

che la vita nella democrazia del ventesimo secolo costituisce sotto

molti aspetti un’altra fuga dalla libertà; una buona parte di questo

libro è dedicata all’analisi di tale fuga, centrata sul concetto di alie-

nazione.

Anche da un altro punto di vista questo lavoro è una continuazio-

ne di Fuga dalla libertà, e, in certa misura, di Man for Himself. In

entrambi i libri trattavo del meccanismo psicologico specifico, per

quanto esso sembrava attinente al soggetto principale. In Fuga dalla

libertà, trattai principalmente del problema del carattere autoritario

(sadismo, masochismo, ecc). In Man for Himself sviluppai l’idea dei

diversi orientamenti di carattere, sostituendo lo schema freudiano

dello sviluppo della libido con quello dell’evoluzione del carattere in

termini interpersonali. In questo libro ho cercato di dare un più si-

stematico sviluppo a ciò che qui ho chiamato «psicanalisi umanisti-

ca». Naturalmente, non si potevano trascurare le idee già esposte in

precedenza; ma ho cercato di trattarle più succintamente e di dedica-

re maggior spazio a quegli aspetti che sono il risultato dei miei pen-

sieri e delle mie osservazioni di questi ultimi anni.

Spero che il lettore dei miei libri precedenti non abbia difficoltà

ad avvertire la continuità di pensiero, come pure alcuni mutamenti

che conducono alla tesi principale della psicanalisi umanistica: che

le passioni fondamentali dell’uomo non sono radicate nei suoi biso-

5 PREFAZIONE

gni istintivi, ma nelle specifiche condizioni dell’esistenza umana, nel

bisogno di trovare, dopo la perdita della correlazione primitiva dello

stadio preumano, una nuova correlazione tra l’uomo e la natura. Le

mie idee, pur presentando sotto questo aspetto una sostanziale diffe-

renza rispetto a quelle di Freud, sono nondimeno basate sulle sue

scoperte fondamentali, che ricevettero ulteriore sviluppo sotto

l’influenza delle idee e delle esperienze della generazione successiva

a Freud. Ma proprio perché queste pagine contengono una critica

esplicita ed implicita a Freud, desidero additare con assoluta fran-

chezza i grandi pericoli insiti nello sviluppo di certe tendenze della

psicanalisi le quali, mentre criticano taluni errori del sistema di

Freud, scartano, insieme agli errori, anche le parti più preziose

dell’insegnamento di Freud stesso: il suo metodo scientifico, il suo

concetto evolutivo, il suo concetto dell’inconscio come di una forza

autenticamente irrazionale piuttosto che come la somma complessiva

di idee erronee. V’è inoltre il pericolo che la psicanalisi perda

un’altra caratteristica fondamentale dell’insegnamento freudiano: il

coraggio di andare contro il senso comune e l’opinione pubblica.

Questo libro infine, partendo dall’analisi puramente critica espo-

sta in Fuga dalla libertà, giunge a formulare delle proposte concrete

per la vita di una società mentalmente sana. Il punto più importante

di quest’ultima parte del libro non va cercato nella convinzione se-

condo cui ognuna delle misure proposte sia necessariamente «giu-

sta», ma piuttosto in questa: che il progresso può avvenire soltanto

quando i mutamenti siano operati simultaneamente nelle diverse sfe-

re: economica, politico-sociale e culturale; e che qualsiasi progresso,

limitato ad una sola sfera, sarebbe distruttivo per il progresso in tutte

le sfere.

Sono profondamente riconoscente a numerosi amici che mi sono

stati di aiuto leggendo il manoscritto ed esprimendo critiche e sugge-

rimenti costruttivi. Voglio ricordare in maniera particolare uno di

essi, George Fuchs, che morì nel periodo in cui lavoravo a questo

libro. Originariamente ci eravamo proposti di scrivere il libro assie-

me ma, a causa della sua lunga malattia, questo progetto non si è

potuto realizzare. Tuttavia il suo aiuto è stato rilevante. Abbiamo

discusso a lungo, ed egli mi ha scritto molte lettere e note, special-

mente riguardo ai problemi della teoria socialista: questo mi ha aiu-

tato a chiarire e talvolta a rivedere le mie proprie idee. In queste pa-

PREFAZIONE 6

gine ho citato qualche volta il suo nome, ma la mia gratitudine per

lui va ben oltre questi riferimenti particolari.

Esprimo i miei ringraziamenti al dr. G.R. Hargreaves, capo della

sezione della sanità mentale dell’Organizzazione mondiale della sa-

nità, per avermi permesso di ottenere i dati sull’alcolismo, suicidio e

omicidio.

E. F.

7

1.

Possiamo ritenerci sani di mente?

È opinione assai comune che noi, occidentali del ventesimo secolo,

siamo gente perfettamente equilibrata. Nemmeno il fatto che nella

nostra società gran numero di persone soffra di forme più o meno

gravi di malattie psichiche provoca il minimo dubbio riguardo al

livello complessivo della nostra salute mentale. Siamo convinti che,

con l’adozione di migliori metodi di igiene mentale, riusciremo a

migliorare sempre più lo stato della nostra salute psichica, e conside-

riamo le singole forme di squilibrio come incidenti di natura stretta-

mente individuale, stupendoci semmai che essi siano così numerosi

in una civiltà ritenuta tanto sana.

Possiamo esser certi di non ingannarci? Molti ricoverati negli

ospedali psichiatrici sono convinti che tutti gli altri all’infuori di loro

siano pazzi. Molti nevrotici gravi credono che le loro azioni coatte e

le loro esplosioni isteriche siano reazioni normali ad alcune circo-

stanze anormali. C’è qualcosa di simile nel nostro comportamento?

Atteniamoci al buon metodo psichiatrico, e guardiamo ai fatti.

Nell’ultimo secolo noi, nel mondo occidentale, abbiamo creato una

ricchezza materiale superiore a quella di qualsiasi altra società nella

storia del genere umano. Tuttavia siamo riusciti a far ammazzare

milioni di nostri concittadini in quella soluzione che chiamiamo

guerra. Prescindendo dalle minori, ne abbiamo avuto di gravi nel

1870, 1914, 1939. Durante queste guerre, ogni partecipante credeva

fermamente di combattere per difendere se stesso e il suo onore, di

avere Dio con sé. I gruppi contro i quali ci si trova, spesso da un

giorno all’altro, in guerra, sono visti come nemici crudeli, irragione-

voli, che bisogna sconfiggere per salvare il mondo dal male. Ma po-

chi anni dopo il reciproco massacro, troviamo che i nemici di ieri

sono nostri amici, e gli amici di ieri nostri nemici, e nuovamente,

con la massima serietà, riprendiamo a classificarli distinguendoli

convenzionalmente in buoni e cattivi. Nel momento in cui scrivia-

1. POSSIAMO RITENERCI SANI DI MENTE? 8

mo, anno 1955, siamo preparati ad un massacro collettivo che, se

accadesse, sorpasserebbe ogni massacro fino ad oggi compiuto dal

genere umano. Una delle più grandi scoperte nel campo delle scienze

naturali è pronta a tale scopo, e tutti, con fiducia mista ad apprensio-

ne, guardiamo agli uomini politici dei diversi paesi, pronti ad attri-

buir loro le più grandi lodi se «riescono ad evitare una guerra», igno-

rando che l’unica e vera causa di guerra sono proprio costoro, e soli-

tamente non tanto per le loro cattive intenzioni, quanto per la loro

totale incapacità di dirigere gli affari loro affidati.

In queste esplosioni di mania distruttiva e di sospetti paranoici,

non ci comportiamo tuttavia diversamente da quanto ha fatto la parte

civilizzata dell’umanità negli ultimi tre millenni di storia. Secondo

Victor Cherbulliez, dal 1500 a.C. al 1869 d.C. sono stati firmati non

meno di ottomila trattati di pace, ciascuno con lo scopo di garantire

una pace permanente, e ciascuno non è durato in media più di due

anni.1

La nostra linea di condotta nelle questioni economiche è poco più

incoraggiante. Viviamo in un sistema economico in cui un raccolto

particolarmente favorevole si trasforma spesso in un disastro eco-

nomico, e riduciamo parte della nostra capacità produttiva nel settore

agricolo per «stabilizzare il mercato», anche se milioni di persone

avrebbero estremo bisogno proprio delle cose di cui limitiamo la

produzione. Ciò nonostante, il nostro sistema economico funziona

ottimamente, tra l’altro perché ogni anno si spendono miliardi di

dollari per produrre armamenti. Gli economisti guardano non senza

preoccupazione al momento in cui cesseremo la produzione di armi,

e l’idea che al loro posto lo stato debba produrre case ed altre cose

utili e necessarie provoca facilmente l’accusa di mettere in pericolo

la libertà e l’iniziativa privata.

Più del novanta per cento della nostra popolazione sa leggere e

scrivere. Abbiamo la radio, la televisione, il cinema, e ognuno ha il

suo giornale quotidiano. Ma invece di offrirci il meglio della lettera-

tura e della musica di oggi e d’ieri, questi mezzi d’informazione, con

l’aggiunta della pubblicità, riempiono la mente dei programmi più

scadenti, privi di qualsiasi senso della realtà, e pieni di sadiche fanta-

sie alle quali nessuna persona di media cultura vorrebbe, sia pur di

1 H.H. STEVENS, The Recovery of Culture, Harper and Brothers, New York 1949, p. 221.

9 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

rado, abbandonarsi. Mentre però la mente di tutti, giovani e vecchi, è

avvelenata a questa maniera, seguitiamo beatamente a preoccuparci

affinché sugli schermi non compaiano cose «immorali». Ogni pro-

posta di finanziamento governativo della produzione cinematografi-

ca e radiofonica, allo scopo di illuminare e migliorare la mentalità

dei nostri compatrioti, sarebbe accolta con indignazione e con accuse

in nome dell’ideale di libertà. Rispetto ad un secolo fa, la media del

nostro orario di lavoro è stata ridotta della metà, e abbiamo oggi più

disponibilità di tempo libero di quanto i nostri nonni non osassero

sognare. Ma cosa è successo? Non sappiamo far uso del tempo libe-

ro recentemente conquistato; cerchiamo di ammazzare il tempo libe-

ro di cui siamo venuti a disporre, e siamo contenti quando un altro

giorno è trascorso.

Perché insistere su cose che tutti conoscono? Certo, se questo

fosse il comportamento di un solo individuo, si nutrirebbero seri

dubbi sul suo stato mentale; se poi costui affermasse che il suo com-

portamento è normale e che egli è perfettamente ragionevole, non vi

sarebbero più incertezze sulla diagnosi.

Tuttavia molti psichiatri e psicologi rifiutano di ammettere che

tutta una società possa essere psichicamente malsana. Essi ritengono

che il problema della salute mentale in una società riguardi veramen-

te il numero di individui «disadattati», e non un eventuale difetto

della cultura stessa. Questo libro esamina il secondo problema; non

quello della patologia individuale, ma quello relativo alla patologia

della normalità e particolarmente alla patologia della società occi-

dentale contemporanea. Ma prima di entrare nella intricata discus-

sione riguardante il concetto di patologia sociale, esaminiamo alcuni

dati di per se stessi rivelatori e indicativi, che si riferiscono

all’incidenza della patologia individuale nella cultura occidentale.

Qual è l’incidenza delle malattie mentali nei diversi paesi del

mondo occidentale? È un fatto molto sorprendente che non esistano

dati per rispondere a questa domanda. Mentre ci sono dati precisi di

comparazione statistica sulle materie prime, sulla occupazione,

sull’andamento delle nascite e dei decessi, non esistono adeguate

informazioni sulle malattie mentali. Tutt’al più abbiamo alcuni dati

esatti per un certo numero di paesi, come gli Stati Uniti e la Svezia,

ma essi ci informano soltanto sul numero di ammalati ricoverati ne-

gli istituti psichiatrici, e poco giovano per stabilire la frequenza

1. POSSIAMO RITENERCI SANI DI MENTE? 10

comparativa delle infermità mentali. Queste cifre ci forniscono indi-

cazioni sia sul perfezionamento delle cure psichiatriche e sui prov-

vedimenti istituzionali, sia sulla accresciuta incidenza delle malattie

mentali.2 Il fatto che più della metà dei posti-letto di tutti gli ospedali

degli Stati Uniti sia utilizzata per ammalati di mente per i quali si

spende annualmente la somma di un miliardo di dollari, può testi-

moniare non tanto un aumento delle infermità mentali, quanto, sem-

plicemente, l’intensificazione dell’assistenza psichiatrica. Comun-

que, altre cifre sono più indicative dell’incidenza delle più gravi tur-

be mentali. Se il 17,7 per cento di tutti gli esonerati dal servizio mili-

tare nell’ultima guerra era rappresentato da giovani affetti da malat-

tie mentali, questo fatto rivela certamente una percentuale elevata di

disturbi mentali, anche se mancano cifre comparative per il passato o

per altri paesi.

I soli dati comparativi che possano darci un’indicazione di mas-

sima sulla salute mentale sono quelli relativi al suicidio, all’omicidio

e all’alcolismo. Non c’è dubbio che il problema del suicidio è molto

complesso, e che nessun fattore singolo può essere additato quale

unica causa. Ma anche senza entrare per ora in una discussione sul

suicidio, ritengo ipotesi certa che un elevato numero di suicidi, in

una data società, sia indicativo di una deficienza della stabilità e del-

la salute mentale. Tutti i dati dimostrano chiaramente che l’elevato

numero di suicidi non dipende da indigenza materiale. I paesi più

poveri registrano la più bassa incidenza di suicidi, mentre d’altro

canto, in Europa, all’aumento della prosperità materiale si accompa-

gna un aumento del numero dei suicidi.3 Quanto all’alcolismo, non

c’è dubbio che anch’esso è un sintomo di instabilità mentale ed emo-

tiva.

I motivi dell’omicidio sono probabilmente meno indicativi di uno

stato patologico che quelli del suicidio. Tuttavia, sebbene i paesi con

alta percentuale di omicidi registrino una bassa percentuale di suici-

di, le due percentuali combinate ci portano a una conclusione inte-

ressante. Se si classificano sia il suicidio sia l’omicidio come «atti

distruttivi», le nostre tabelle dimostrano che le loro percentuali com-

2 Cfr. H. GOLDHAMER e A. MARSHALL, Psychosis and Civilization, Free Press, Glencoe

1953. 3 Cfr. Maurice HALBWACHS, Les causes du suicide, Félix Alcan, Parigi 1930, pp. 109 e 112.

11 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

binate non sono costanti, ma oscillano tra le punte estreme del 35,76

e del 4,24. Ciò contraddice l’ipotesi di Freud che sta alla base della

sua teoria dell’istinto di morte, l’ipotesi cioè che esista una costanza

comparativa della mania di distruzione; e confuta altresì la deduzio-

ne secondo cui la mania di distruzione mantiene una percentuale in-

variabile, differendo soltanto nella direzione: verso di sé o verso il

mondo esterno.

Le tabelle seguenti mostrano l’incidenza del suicidio,

dell’omicidio e dell’alcolismo per alcuni tra i più importanti paesi

europei e del Nordamerica.

TABELLA 1. Suicidio e omicidio4 (per ogni 100.000 adulti)

Danimarca 35,09 - 0,67

Svizzera 33,72 - 1,42

Finlandia 23,35 - 6,45

Svezia 19,74 - 1,01

Stati Uniti 15,52 -8,50

Francia 14,83 - 1,53

Portogallo 14,24 - 2,79

Inghilterra e Galles 13,43 - 0,63

Australia 13,03 - 1,57

Canada 11,40 - 1,67

Scozia 8,06 - 0,52

Norvegia 7,84 - 0,38

Spagna 7,71 -2,88

Italia 7,67 - 7,38

Irlanda del Nord 4,82 - 0,13

Repubblica Irlandese 3,70 - 0,54

4 I dati delle tabelle 1 e 2 (che si riferiscono al 1946) sono tratti da: Organizzazione mondiale

della sanità, Annual epidemiological and vital statistics, 1939-46. Part I. vital statistics and

causes of death, Ginevra 1951, pp. 38-71 (per maggior precisione, avvalendoci dei dati forniti

da questa fonte, abbiamo convertito le cifre relative al totale della popolazione in quelle inte-

ressanti la sola popolazione adulta); Organizzazione mondiale della sanità, Epidem. vital Sta-

tist. Rep. 5, 377, 1952. I dati della tabella 3 sono tratti dal Rapporto della 1a sessione del sot-

tocomitato dell'alcolismo del comitato degli esperti per la sanità mentale, Org. mond. san.,

Ginevra 1951.

1. POSSIAMO RITENERCI SANI DI MENTE? 12

TABELLA 2. Atti distruttivi (omicidio e suicidio insieme)

Danimarca 35,76

Svizzera 35,14

Finlandia 29,80

Stati Uniti 24,02

Svezia 20,75

Portogallo 17,03

Francia 16,36

Italia 15,05

Australia 14,60

Inghilterra e Galles 14,06

Canada 13,07

Spagna 10,59

Scozia 8,58

Norvegia 8,22

Irlanda del Nord 4,95

Repubblica Irlandese 4,24

TABELLA 3. Numero approssimativo degli alcolizzati (con o senza com-

plicazioni cliniche) (per ogni 100.000 adulti)

Stati Uniti 3.952 (1948)

Francia 2.850 (1945)

Svezia 2.580 (1946)

Svizzera 2.385 (1948)

Danimarca 1.950 (1948)

Norvegia 1.560 (1947)

Finlandia 1.430 (1947)

Australia 1.340 (1947)

Inghilterra e Galles 1.100 (1948)

Italia 500 (1942)

Un rapido esame di queste tabelle rivela un fenomeno notevole:

Danimarca, Svizzera, Finlandia, Svezia e Stati Uniti sono i paesi con

la più alta percentuale di suicidi e la più alta percentuale di suicidi ed

omicidi considerati cumulativamente, mentre Spagna, Italia, Irlanda

del nord e Repubblica Irlandese danno la più bassa percentuale di

suicidi e omicidi. Le cifre dell’alcolismo mostrano come questi pae-

si, Stati Uniti, Svizzera, Svezia e Danimarca, che hanno la più alta

13 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

percentuale di suicidi, abbiano anche la più alta percentuale di alco-

lizzati, con la sola differenza che gli Stati Uniti sono in testa a questo

gruppo, mentre la Francia occupa il secondo posto invece del sesto

da essa occupato nella tabella relativa al suicidio.

Queste cifre sono veramente tali da allarmare e turbare. Pur dubi-

tando che la sola elevata frequenza dei suicidi indichi una deficienza

nella salute mentale di un popolo, la frequente coincidenza dei dati

dei suicidi e dell’alcolismo sembra dimostrare che abbiamo a che

fare con sintomi di squilibrio mentale.

Scopriamo allora che in Europa i paesi più democratici, pacifici e

progrediti mostrano col paese più ricco del mondo, gli Stati Uniti, i

più gravi sintomi di disturbi mentali. La meta di tutto lo sviluppo

sociale ed economico del mondo occidentale è stata una vita mate-

rialmente comoda, una distribuzione delle ricchezze relativamente

equa, una democrazia stabile e la pace; e proprio i paesi che più si

sono avvicinati a questa meta mostrano i segni più preoccupanti di

squilibrio mentale! Se è vero che queste cifre non dimostrano nulla

di per se stesse, esse sono nondimeno allarmanti. Anche prima di

intraprendere un più approfondito esame di tutto il problema, questi

dati pongono l’interrogativo se non ci sia qualcosa di fondamental-

mente errato nel nostro modo di vivere, e nei fini verso cui tendia-

mo.

La vita di prosperità borghese, mentre soddisfa i nostri bisogni

materiali, ci lascerebbe forse un sentimento di intensa noia, rispetto

alla quale il suicidio e l’alcolismo sarebbero vie patologiche di eva-

sione? Queste cifre sarebbero dunque un efficace commento alla

verità del detto «l’uomo non vive di solo pane», e mostrerebbero

come la civiltà moderna non riesca a soddisfare le intime esigenze

dell’uomo? E se così fosse, quali sarebbero queste esigenze?

I capitoli seguenti cercano di rispondere a questi interrogativi e di

giungere ad una valutazione critica dell’effetto che la cultura occi-

dentale contemporanea esercita sulla salute e sull’integrità mentale

di coloro che vivono nel nostro sistema civile. Tuttavia, prima di

iniziare la specifica discussione di questi problemi, ci pare necessa-

rio affrontare il problema generale della patologia della normalità,

che costituisce la premessa fondamentale di quanto esposto in que-

sto libro.

14

2.

Una società può essere malata?

Patologia della normalità

1

Parlare di una società intera come psichicamente ammalata com-

porta implicitamente l’accettazione di un’ipotesi controversa e con-

traria alle posizioni del relativismo sociologico condivise dalla mag-

gior parte dei sociologi contemporanei. Essi presuppongono che

ogni società sia normale in quanto funziona, e che la patologia possa

esser definita soltanto nei termini di un mancato adattamento indivi-

duale al tipo di vita proprio di tale società.

Parlare di «società sana» comporta premesse diverse da quelle

del relativismo sociologico. Ed ha senso solo se presumiamo che ci

possa essere una società che non sia sana; questa ipotesi, a sua volta,

presuppone, per quanto riguarda la salute mentale, l’esistenza di cri-

teri di giudizio universalmente accettati, validi per giudicare il gene-

re umano come tale, e secondo i quali si possa giudicare la salute di

una qualsiasi società. Questa posizione di umanesimo normativo è

basata su alcune premesse fondamentali.

La specie «uomo» può essere definita non soltanto in termini ana-

tomici e fisiologici; i suoi membri hanno in comune anche qualità

psichiche fondamentali, le leggi che governano le loro funzioni men-

tali ed emotive, e lo scopo di dare una soluzione soddisfacente al

problema dell’umana esistenza. In effetti la nostra conoscenza

dell’uomo è ancora troppo incompleta perché sia possibile dare una

definizione soddisfacente dell’uomo sotto l’aspetto psicologico. È

appunto compito della «scienza dell’uomo» definire esattamente

cosa si debba intendere per natura umana. Spesso per natura umana

si intende semplicemente una delle sue diverse manifestazioni, spes-

1 Per questo capitolo mi sono servito del mio lavoro Individual and Social Origins of Neurosis,

«Am' Soc' Rev'», IX, 4, 1944, p. 380 ss.

15 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

so una manifestazione patologica, e per lo più tale errata definizione

ha la funzione di difendere un particolare tipo di società, come se

questo fosse il necessario prodotto della struttura mentale dell’uomo.

Contro tale uso reazionario del concetto di natura umana, i libera-

li fin dal diciottesimo secolo hanno insistito sulla capacità di adatta-

mento della natura umana e sull’influenza decisiva dei fattori am-

bientali. Anche se vera ed importante, questa affermazione ha indot-

to molti sociologi a ritenere che la struttura mentale dell’uomo sia

carta bianca su cui la società e la cultura scrivono il proprio libro, e

che di per se stessa non possiede alcuna qualità intrinseca. Questa

ipotesi è in effetti non meno insostenibile e distruttiva per il progres-

so sociale di quanto lo fosse il punto di vista opposto. Il problema è

di estrarre il nucleo comune a tutto il genere umano dalle molteplici

manifestazioni dell’umana natura, sia normali sia patologiche, così

come le osserviamo in individui e culture diverse. Bisogna inoltre

scoprire le leggi inerenti alla umana natura, e le mete del suo svilup-

po e del suo manifestarsi.

Tale concetto di «natura umana» si differenzia dall’uso conven-

zionale del termine. Effettivamente, come l’uomo trasforma il mon-

do che lo circonda, così, nel processo storico, egli modifica anche se

stesso. Egli è, per così dire, la sua stessa creazione. Ma come l’uomo

può trasformare e modificare gli elementi naturali che lo circondano

soltanto secondo la loro particolare natura, così egli può modificare

se stesso soltanto rispettando la propria natura. L’attività dell’uomo

nel processo storico sta nello sviluppare questo potenziale attivando-

lo secondo le possibilità ad esso inerenti. Questo punto di vista non è

né «biologico» né «sociologico», se con ciò si mirasse a separare tra

loro questi due aspetti. Esso piuttosto trascende tale dicotomia, sup-

ponendo che le diverse passioni e i diversi stimoli umani risultino

dalla esistenza totale dell’uomo, che queste passioni e questi stimoli

siano definiti e accettabili, alcuni atti a portare alla salute e alla feli-

cità, altri alle malattie e all’infelicità. Un dato ordinamento sociale

non crea queste esigenze fondamentali, ma determina il ristretto nu-

mero di passioni latenti che devono diventare esplicite e dominanti.

L’uomo, quale appare in una data cultura, è sempre una manifesta-

zione della natura umana, una manifestazione tuttavia che, nella sua

specifica estrinsecazione, è determinata dalla struttura sociale in cui

egli vive. Difatti come un bambino nasce con tutto il suo potenziale

2. UNA SOCIETÀ PUÒ ESSERE MALATA? 16

umano che si dovrà sviluppare in circostanze sociali e culturali favo-

revoli, così il genere umano nel corso del processo storico si svilup-

pa nell’ambito delle proprie potenzialità.

Il punto di vista dell’umanesimo normativo è sostenuto dalla

convinzione che, come in altre questioni, anche per il problema

dell’esistenza umana vi sono soluzioni giuste ed errate, soddisfacenti

e insoddisfacenti. La salute mentale viene raggiunta se l’uomo si

sviluppa, sino a raggiungere la maturità completa, in accordo con le

caratteristiche e le leggi della natura umana, e le malattie mentali

consistono in un mancato sviluppo in questo senso. Date tali pre-

messe, il metro di giudizio della salute mentale non sarà stabilito in

rapporto all’adattamento individuale in un dato ordinamento sociale,

ma dovrà essere universale, valido per tutti gli uomini, e in grado di

dare una risposta soddisfacente al problema dell’esistenza umana.

Ciò che trae specialmente in inganno quando si considerino le

condizioni mentali dei membri di una società, è la «convalida con-

sensuale» dei loro concetti. Si ritiene ingenuamente che, se certi sen-

timenti o certe idee sono condivisi dai più, essi sono giusti. Niente è

più lontano dal vero. La convalida consensuale in sé non ha nulla a

che vedere con la salute mentale. Come c’è una folie à deux, così c’è

una folie à millions. Il fatto che milioni di persone condividano gli

stessi vizi non fa di questi vizi delle virtù, il fatto che essi condivida-

no tanti errori non fa di questi errori delle verità, e il fatto che milio-

ni di persone condividano una stessa forma di malattia mentale non

fa che questa gente sia sana.

C’è tuttavia una differenza importante tra malattie mentali indivi-

duali e sociali, che suggerisce una differenziazione tra i due concetti:

quello di deficienza e quello di nevrosi. Se una persona non riesce a

raggiungere libertà, spontaneità e genuina espressione di sé, si può

ritenere che essa abbia delle gravi forme di deficienza, sempre che si

creda che libertà e spontaneità siano delle mete obiettive raggiungi-

bili da ogni creatura umana. Se poi questa meta non è raggiungibile

dalla maggioranza dei membri di una data società, allora abbiamo a

che fare con il fenomeno di una deficienza socialmente strutturata.

L’individuo la condivide con molti altri, ma non crede si tratti di una

deficienza e la sua sicurezza non è minacciata dalla consapevolezza

di essere diverso, di essere, per così dire, un proscritto. Ciò che può

aver perso in ricchezza, in sentimento genuino di felicità, è compen-

17 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

sato dal senso di sicurezza datogli dall’adattamento al resto

dell’umanità, sempre però com’egli la vede. In effetti può avvenire

che proprio questa deficienza sia stata elevata a virtù dalla sua cultu-

ra, e che pertanto gliene derivi un accresciuto sentimento di succes-

so.

Potrebbe valere come esempio il senso di angoscia e di colpa che

le dottrine di Calvino hanno destato negli uomini. Si potrebbe dire

che la persona oppressa dal senso della propria debolezza e indegni-

tà, da comuni dubbi sulla salvezza o condanna della propria anima,

che è difficilmente capace di gioia genuina, soffra di una grave defi-

cienza. Tuttavia questa stessa deficienza concordava col sistema cul-

turale, era considerata degna di particolare stima, e l’individuo era

così protetto rispetto alle nevrosi che lo avrebbero colpito in una cul-

tura dove uguali deficienze gli avrebbero causato un sentimento di

profonda insufficienza e di isolamento.

Spinoza formulò molto chiaramente il problema della deficienza

socialmente strutturata. Egli disse: «Vi sono uomini presi con grande

violenza da un’unica passione: tutti i loro sensi sono così eccitati da

un unico oggetto che essi lo hanno presente anche quando

quest’oggetto non c’è. Se ciò si verifica mentre una persona è sve-

glia, noi diciamo che costui vaneggia... Ma se l’avaro pensa soltanto

al denaro e ai suoi beni, e l’ambizioso soltanto alla gloria, noi non li

riteniamo pazzi, ma solo disgustosi e, generalmente, li disprezziamo.

In effetti però l’avarizia, l’ambizione e altre passioni sono forme di

pazzia, sebbene generalmente non siano reputate malattie».2

Queste parole, scritte qualche secolo fa, sono ancora valide anche

se queste deficienze sono state strutturate culturalmente in modo tale

che ormai non le si giudica più disgustose o disprezzabili. Oggi ci

incontriamo con persone che agiscono e sentono come automi: che

non hanno mai avuto un’esperienza veramente propria, che conosco-

no se stessi non come sono nella realtà, ma come gli altri si attendo-

no che siano, il cui sorriso convenzionale ha sostituito la risata ge-

nuina, le cui chiacchiere insignificanti hanno sostituito il colloquio

comunicativo, la cui opaca disperazione ha preso il posto di

un’autentica sofferenza. Due cose si possono dire per costoro: una è

che soffrono di una mancanza di spontaneità e di individualità che

2 Cfr. SPINOZA, Ethica, IV prop., XLIV scol.

2. UNA SOCIETÀ PUÒ ESSERE MALATA? 18

può sembrare incurabile; nello stesso tempo si può anche rilevare

come essi non sono essenzialmente diversi da milioni di altri che si

trovano in eguali condizioni. Alla maggior parte di loro la cultura

fornisce strutture che li mettono in grado di vivere con una deficien-

za senza ammalarsi. È come se ogni cultura fornisse il rimedio con-

tro le esplosioni di evidenti sintomi nevrotici, conseguenza della de-

ficienza che questa stessa cultura ha provocato.

Supponiamo che nella cultura occidentale il cinema, la radio, la

televisione, gli avvenimenti sportivi e i giornali siano sospesi per

quattro sole settimane. Chiuse queste diverse vie di evasione, quali

sarebbero le conseguenze per gente ridotta solo alle proprie risorse?

Indubbiamente, seppur in così breve tempo, si registrerebbero esau-

rimenti nervosi a migliaia, e ancor più sarebbero le persone che ca-

drebbero in uno stato di ansia acuta non diverso dal quadro clinico di

una nevrosi.3 Se fosse tolto il narcotico contro la deficienza sanzio-

nata, le malattie si manifesterebbero apertamente.

Ma per una minoranza il modello fornito dalla cultura non fun-

ziona. Si tratta spesso di persone la cui deficienza individuale supera

il livello medio, cosicché i rimedi offerti dal costume culturale non

sono sufficienti per prevenire l’esplosione di malattie manifeste. (Il

caso tipico è quello di una persona la cui aspirazione nella vita sia di

raggiungere potere e fama. Anche se questa aspirazione è di per se

stessa un caso patologico, c’è tuttavia una differenza tra chi usa le

proprie capacità per raggiungere realisticamente la meta, e chi inve-

ce, più gravemente malato, è ancora così totalmente vittima di un

senso infantile della grandezza da non far nulla per

raggiungere quel che desidera, da restare in attesa di un miracolo,

e così sentendosi sempre più impotente finisce per provare un senso

di inutilità e di amarezza). Ma ci sono anche coloro la cui struttura di

carattere, e di conseguenza i cui conflitti, sono diversi da quelli della

3 Ho fatto, con alcune classi di studenti di un collegio universitario, il seguente esperimento. Li

ho invitati ad immaginare di stare per tre giorni isolati nelle loro camere, senza radio, senza

letteratura ricreativa, ma provvisti di buoni libri, cibo normale e ogni altra comodità materiale.

Essi dovevano immaginare quali sarebbero state le loro reazioni a tale esperienza. Le risposte

di circa il 90% di ciascun gruppo variavano da una sensazione di acuto panico a quella di

trovarsi di fronte ad una prova estremamente dura che si sarebbe cercato di superare dormendo

a lungo, facendo diversi lavorucci, e attendendo ardentemente la fine di questo periodo. Solo

ben pochi sentivano che si sarebbero trovati a loro agio e avrebbero fatto buon uso del periodo

di solitudine loro concesso.

19 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

maggioranza, cosicché i rimedi validi per la maggior parte degli altri

a loro non giovano. In questi gruppi troviamo talvolta elementi di

rettitudine e sensibilità superiori al comune, che proprio per queste

ragioni sono incapaci di accettare il narcotico culturale, ma che nel

contempo non sono abbastanza forti e sani da vivere salutarmente

«contro corrente».

La precedente discussione sulla differenza tra nevrosi e deficien-

za socialmente strutturata potrebbe dare l’impressione che purché la

società fornisse i rimedi contro le esplosioni di sintomi manifesti,

tutto andrebbe bene e contribuirebbe a funzionare senza inciampi,

per quanto grandi siano le deficienze che essa stessa ha creato. La

storia però ci mostra che questo non avviene.

È bensì vero che l’uomo, contrariamente agli animali, dimostra

una quasi infinita capacità di adattamento; difatti, come può mangia-

re quasi ogni cosa e vivere praticamente sotto qualsiasi clima, così

non esiste condizione psichica che egli non possa sopportare e nella

quale non riesca a tirare avanti. Egli può vivere libero o in schiavitù,

nella ricchezza e nel lusso o mezzo morto di fame e di freddo. Può

vivere da soldato o da uomo pacifico; può essere sfruttatore e ladro

oppure membro di una fraterna comunità. Sono poche le condizioni

psichiche in cui l’uomo non possa vivere, e non c’è quasi nulla che

non si possa fare di lui o per cui non possa essere adoperato. Tutte

queste considerazioni sembrano giustificare la tesi secondo cui una

natura comune a tutti gli uomini non esiste; il che significa pratica-

mente che non esiste una «specie uomo» tranne che in senso anato-

mico e fisiologico.

Tuttavia, a dispetto di ogni evidenza, la storia dell’uomo mostra

che abbiamo trascurato un fatto. Despoti e cricche dirigenti possono

riuscire a dominare e sfruttare i loro consimili, ma non possono pre-

venire le reazioni a questo trattamento inumano. I loro sudditi si

spaventeranno, diverranno sospettosi, si isoleranno; se non per cause

esterne, il loro sistema ad un certo momento crollerà perché paure,

sospetti ed isolamenti renderanno la maggioranza inadatta ad eserci-

tare le sue funzioni in maniera effettiva ed intelligente. Intere nazioni

o gruppi entro di esse possono esser messe in servitù o sfruttate per

molto tempo, ma reagiranno. Reagiranno con l’apatia o con una tal

diminuita partecipazione dell’intelligenza, dell’iniziativa e delle ca-

pacità, che essi gradualmente non saranno più in grado di svolgere

2. UNA SOCIETÀ PUÒ ESSERE MALATA? 20

quelle funzioni che servirebbero ai loro capi. Oppure reagiranno con

una tale carica di odio e di volontà di distruzione da provocare la

fine di se stessi, dei capi e del sistema. Inoltre la loro reazione può

suscitare uno spirito di indipendenza e un desiderio di libertà tali da

porre col loro impulso creativo le premesse per una società migliore.

Dipende da molti fattori, sia relativi alla situazione economica e po-

litica sia al clima spirituale in cui la gente vive, che la reazione av-

venga in un modo o in un altro. Ma quale essa sia, l’affermazione

che l’uomo può vivere in quasi tutte le condizioni è vera soltanto a

metà; occorre completarla con l’altra: se egli vive in condizioni con-

trarie alla sua natura e ai requisiti essenziali allo sviluppo e alla salu-

te umana, non può fare a meno di reagire; dovrà decadere e perire

oppure creare condizioni più conformi ai suoi bisogni.

Che la natura umana e la società possano avere esigenze tra loro

inconciliabili e di conseguenza una intera società possa essere mala-

ta, è una tesi che fu presentata molto chiaramente da Freud, partico-

larmente in Das Unbehagen in der Kultur.

Egli parte dalla premessa di una natura comune a tutta la razza

umana al di sopra di tutte le culture e di tutte le epoche, e di certi

bisogni ed aspirazioni definibili, inerenti a questa natura. Freud è

convinto che cultura e civiltà si sviluppino in un sempre crescente

contrasto con i bisogni dell’uomo, e così giunge al concetto di «ne-

vrosi sociale». «Se l’evoluzione della civiltà, egli scrive, ha una so-

miglianza così profonda con lo sviluppo dell’individuo e se gli stessi

metodi sono usati per ambedue, non potrebbe esser giustificata la

diagnosi che molti sistemi di civiltà, o suoi periodi, o forse anche

tutta l’umanità sono diventati nevrotici sotto la pressione delle ten-

denze generali della civiltà? All’esame analitico di queste nevrosi

potrebbero seguire raccomandazioni terapeutiche di grande utilità

pratica. E non direi che tale tentativo di applicare la psicanalisi alla

società civile sarebbe stravagante o votato alla sterilità. Ma occorre

esser cauti, e non dimenticare che, dopo tutto, abbiamo a che fare

soltanto con analogie, e che è pericoloso, non solo con gli uomini ma

anche con i concetti, strapparli dal terreno in cui nascono e si sono

maturati. La diagnosi di nevrosi collettiva tuttavia si scontrerà con

difficoltà non comuni. Nelle nevrosi di un individuo possiamo ser-

virci, come punto di partenza, del contrasto che si presenta tra il pa-

ziente e il suo ambiente, che noi presumiamo essere "normale"; men-

21 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

tre nessun archetipo di questo genere sarebbe valido per una qualsia-

si società malata, e bisognerebbe supplirvi in qualche altro modo.

Riguardo alle applicazioni terapeutiche che noi conosciamo, a che

cosa potrebbe servire la più acuta analisi di nevrosi sociale dal mo-

mento che nessuno ha il potere di costringere la comunità ad adottare

la terapia? Ma a dispetto di tutte queste difficoltà, noi speriamo che

un giorno qualcuno voglia arrischiarsi in queste ricerche sulla pato-

logia delle comunità civili».4

Questo libro vuol arrischiarsi in queste ricerche. Esso si basa

sull’idea che una società sana sia quella che corrisponde ai bisogni

dell’uomo, non necessariamente a quelli che egli sente essere i suoi

bisogni, perché anche le aspirazioni più patologiche possono essere

sentite soggettivamente come quelle che un individuo maggiormente

desidera, ma a quelli che sono obiettivamente i suoi bisogni, quali

possono essere accertati dallo studio dell’uomo. Il nostro primo

compito è di determinare quale sia la natura dell’uomo, e quali i bi-

sogni che da essa derivano. Dovremo poi procedere ad esaminare il

ruolo svolto dalla società nella evoluzione dell’uomo e la sua azione

di stimolo sullo sviluppo dell’umanità; dovremo studiare altresì i

periodici conflitti tra natura umana e società e le loro conseguenze,

particolarmente per quanto interessa la società moderna.

4 S. FREUD, in Das Unbehagen in der Kultur, Vienna 1930; trad. ingl. col titolo Civilization

and Its Discontents, Hogarth Press, Londra 1953, pp. 141-2. Il corsivo è mio.

22

3.

La situazione umana alla base della psicanalisi umanistica

La situazione umana

Per quanto riguarda il corpo e le funzioni fisiologiche l’uomo ap-

partiene al regno animale. Il comportamento dell’animale è determi-

nato dagli istinti, da specifici complessi di azioni che sono a loro

volta determinate da strutture neurologiche ereditarie. Quanto più

alto è il posto occupato dall’animale nella scala evolutiva, tanto

maggiore è la flessibilità del complesso di azioni e tanto meno com-

pleto l’adattamento strutturale riscontrabile alla sua nascita. Nei pri-

mati superiori troviamo perfino una notevole intelligenza, cioè uso

del pensiero per raggiungere le mete desiderate, il che permette così

all’animale di andar oltre i complessi di azioni dettate dall’istinto.

Ma per quanto largamente si estenda l’evoluzione entro il mondo

animale, taluni elementi basilari dell’esistenza restano immutati.

L’animale «viene vissuto» attraverso le leggi biologiche della na-

tura, cioè le subisce; fa parte della natura e non può trascenderla.

Esso non ha una coscienza d’ordine morale, non ha consapevolezza

di se stesso e della propria esistenza; non ha la ragione, se per ragio-

ne intendiamo la capacità di penetrare oltre la superficie percepita

dai sensi e comprendere l’essenza che sta sotto tale superficie; perciò

non ha la concezione del vero, anche se può avere un’idea di quel

che sia l’utile.

L’esistenza animale è un’esistenza di armonia tra l’animale e la

natura; non nel senso, beninteso, che le condizioni naturali non mi-

naccino spesso l’animale e non lo costringano ad aspre lotte per so-

pravvivere, ma nel senso che l’animale è equipaggiato dalla natura

per dominare proprio le condizioni cui deve far fronte, come il seme

è equipaggiato per utilizzare le condizioni del suolo, del clima, ecc.

alle quali esso si è adattato nel processo evolutivo.

Ad un certo punto dell’evoluzione animale è accaduta una parti-

colare frattura, comparabile al primo sorgere della materia, al primo

23 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

sorgere della vita, al primo sorgere dell’esistenza animale. Questo

nuovo evento si verifica quando nel processo evolutivo l’azione ces-

sa di esser determinata dall’istinto, quando l’adattamento della natu-

ra perde il suo carattere coercitivo, quando l’azione non è più presta-

bilita da un meccanismo ereditariamente trasmesso. Quando

l’animale trascende la natura, quando trascende il ruolo meramente

passivo di creatura, quando diventa, biologicamente parlando,

l’animale più sprovveduto, allora nasce l’uomo. A questo punto

l’animale si è emancipato dalla natura con la stazione eretta, e il cer-

vello si è molto più sviluppato di quanto non fosse nell’animale più

progredito. La nascita dell’uomo può esser durata centinaia di anni,

ma quel che importa è che è sorta una nuova specie che trascende la

natura, e la vita è divenuta cosciente di se stessa.

Consapevolezza di sé, ragione e immaginazione guastano

l’«armonia» che caratterizza l’esistenza animale. Il loro apparire ha

fatto dell’uomo un’anomalia, il capriccio dell’universo. Egli è parte

della natura, soggetto alle sue leggi fisiche e incapace di modificarle,

ma trascende il resto della natura. Egli è posto di fronte a se stesso,

pur rimanendo parte del tutto; è senza dimora per quanto incatenato

alla dimora che condivide con tutte le creature. Gettato in questo

modo in un tempo e in un luogo fortuiti, ne è spinto fuori in maniera

altrettanto fortuita. Essere che ha coscienza di sé, egli riconosce la

sua sprovvedutezza e le limitazioni della sua esistenza. Egli prevede

la sua stessa fine: la morte. Non è mai libero dalla dicotomia della

sua esistenza: non può liberarsi della sua mente, anche se volesse

farlo; finché è vivo, non può liberarsi del suo corpo, e il suo corpo fa

sì che egli voglia esser vivo. La ragione, sommo bene dell’uomo, è

anche la sua maledizione; essa lo costringe a lottare perennemente

per risolvere un’insolubile dicotomia. L’esistenza umana è in questo

diversa da quella di tutti gli altri organismi; essa si trova in uno stato

di costante e inevitabile squilibrio. La vita dell’uomo non può «esser

vissuta» ripetendo la forma tipica della propria specie, egli è obbli-

gato a viverla. L’uomo è il solo animale che possa annoiarsi, che

possa sentirsi cacciato dal paradiso. L’uomo è il solo animale che

guarda alla propria esistenza come ad un problema che deve risolve-

re e al quale non può sfuggire. Non può retrocedere alla condizione

preumana di armonia con la natura, ma deve andare avanti per svi-

3. LA SITUAZIONE UMANA ALLA BASE DELLA PSICANALISI UMANISTICA 24

luppare la sua ragione fino a divenire padrone della natura e di se

stesso.

Sia ontogeneticamente sia filogeneticamente la nascita dell’uomo

è essenzialmente un evento negativo. Egli manca di adattamento

istintivo alla natura, manca di vigore fisico, è, alla nascita, il più in-

difeso di tutti gli animali, e per un più lungo periodo di tempo biso-

gnoso di protezione. Se da un lato ha perduto l’unità con la natura,

dall’altro non gli sono stati dati i mezzi per condurre una nuova esi-

stenza fuori della natura. La sua ragione è molto rudimentale, egli

non ha conoscenza dei processi della natura, né strumenti che sosti-

tuiscano gli istinti perduti; vive diviso in piccoli gruppi, senza cono-

scenza di se stesso e degli altri; veramente il mito biblico del paradi-

so esprime la situazione con perfetta chiarezza. L’uomo, che vive nel

giardino dell’Eden in completa armonia con la natura ma senza co-

scienza di sé, inizia la sua storia con il primo atto di libertà, la disob-

bedienza ad un comando. Contemporaneamente diventa cosciente di

se stesso, del suo isolamento, della sua sprovvedutezza; è cacciato

dal paradiso e due angeli con spade di fuoco impediscono il suo ri-

torno.

L’evoluzione dell’uomo si basa sul fatto che egli ha perduto la

sua originaria dimora, la natura, e che non può più ritornarvi, non

può diventare nuovamente un animale. Una sola via può prendere:

uscire completamente dalla sua dimora naturale, trovare una nuova

dimora che egli crea trasformando il mondo in un mondo umano,

diventando egli stesso veramente umano.

Quando l’uomo nasce, sia come specie sia come individuo, è

estromesso da una situazione che era definita, definita come gli istin-

ti, e immesso in una situazione che è indefinita, incerta e sconfinata.

Esiste certezza soltanto riguardo al passato; il futuro ha un’unica

certezza: la morte, che è anch’essa in effetti un ritorno al passato,

allo stato inorganico della materia.

Il problema dell’esistenza umana è pertanto unico in tutta la natu-

ra: l’uomo è, si può dire, caduto fuori della natura, e tuttavia vi è

ancora dentro; egli è in parte divino e in parte animale, in parte infi-

nito e in parte finito. La necessità di trovare sempre nuove soluzioni

alle contraddizioni della sua esistenza, di trovare sempre più alte

forme di unità con la natura, con i suoi simili e con se stesso è

25 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

all’origine di tutte le energie psichiche che determinano l’uomo e di

tutte le sue passioni, affetti e preoccupazioni.

L’animale è contento quando i suoi bisogni fisiologici, fame, se-

te, bisogni sessuali, sono soddisfatti. In quanto l’uomo è anche un

animale, questi bisogni sono altrettanto imperativi e devono esser

soddisfatti. Ma in quanto l’uomo è umano, la soddisfazione di questi

bisogni istintivi non è sufficiente a farlo felice e nemmeno a farlo

sano di mente. Il punto d’appoggio del dinamismo specificamente

umano sta in questa singolarità della situazione umana; la compren-

sione della psiche umana deve basarsi sull’analisi di quei bisogni

dell’uomo che sorgono dalle condizioni della sua esistenza.

Dunque il problema che la specie umana, come ciascun indivi-

duo, deve risolvere è quello di nascere. La nascita fisica, se pensia-

mo all’individuo, non è per nulla quell’atto decisivo e singolare che

potrebbe apparire. Essa è infatti un importante cambiamento dalla

vita intra-uterina a quella extra-uterina, ma per diversi aspetti il

bambino dopo il parto non differisce dal bambino prima del parto;

egli non è capace di conoscere gli oggetti appartenenti al mondo

esterno, non è capace di nutrirsi da solo, è completamente dipenden-

te dalla madre e morrebbe senza il suo aiuto. Effettivamente il pro-

cesso della nascita continua. Il bambino comincia a individuare gli

oggetti che lo circondano, a reagire affettivamente, ad afferrare le

cose, a coordinare i propri movimenti, a camminare. Ma la nascita

continua. Il bambino impara a parlare, impara a conoscere l’uso e la

funzione delle cose, impara a mettersi in relazione con gli altri, ad

evitare le punizioni e ottenere approvazione e simpatia. Lentamente,

la persona che cresce impara ad amare, a sviluppare la ragione, a

vedere il mondo obiettivamente. Essa comincia a sviluppare le sue

capacità, ad acquistare il senso della propria individualità, a domina-

re la seduzione dei sensi per il raggiungimento di una vita integrata.

Il parto è dunque soltanto l’inizio di una nascita in senso più lato.

Tutta la vita di un individuo non è altro che il processo di far nascere

se stesso; in realtà noi dovremmo essere completamente nati quando

moriremo, benché sia tragico destino della maggior parte degli uo-

mini morire prima di esser nati.

Da tutto ciò che noi conosciamo relativamente all’evoluzione del-

la specie umana, la nascita dell’uomo è da intendersi nello stesso

senso della nascita dell’individuo. Quando l’uomo ha superato un

3. LA SITUAZIONE UMANA ALLA BASE DELLA PSICANALISI UMANISTICA 26

dato limite minimo di adattamento istintivo, allora ha cessato di es-

sere un animale; ma è rimasto bisognoso di aiuto e sprovveduto

quanto lo è ogni bambino alla nascita. La nascita dell’uomo comin-

ciò con i primi esemplari della specie homo sapiens, e la storia uma-

na non è altro che l’intero processo di questa nascita. Occorsero

all’uomo centinaia di migliaia di anni per fare i primi passi nella vita

umana; egli passò attraverso la fase narcisistica dell’onnipotente

orientamento magico, attraverso il totemismo, il culto della natura,

fino a giungere agli inizi della formazione della coscienza,

dell’obiettività, dell’amor fraterno. Negli ultimi quattromila anni

della sua storia egli ha sviluppato concezioni di un uomo compiuta-

mente nato e compiutamente cosciente, concezioni espresse, in ma-

niere non molto diverse, dai grandi maestri dell’umanità in Egitto,

Cina, India, Palestina, Grecia e Messico.

Il fatto che la nascita dell’uomo sia principalmente un atto nega-

tivo, essendo egli estromesso dall’originaria unità con la natura e

non potendo ritornare al luogo d’origine, implica che il processo del-

la nascita non è per niente felice. Ogni passo verso la sua nuova esi-

stenza umana è spaventoso. Esso significa sempre lasciare una situa-

zione sicura e relativamente nota per una non ancora conosciuta.

Indubbiamente se il bambino, al momento della sua separazione dal

cordone ombelicale, fosse capace di pensare, proverebbe il timore

della morte. Un destino amorevole ci protegge da questo terrore ini-

ziale. Ma ad ogni nuovo passo, ad ogni nuovo stadio della nostra

nascita, noi siamo nuovamente impauriti. Non siamo mai liberi dalle

due tendenze contrastanti: quella di uscir fuori dal grembo materno,

di passare da una forma animale di esistenza ad una esistenza mag-

giormente umana, dalla schiavitù alla libertà; e l’altra di ritornare al

grembo materno, alla natura, alla certezza e alla sicurezza. Nella sto-

ria dell’individuo e della specie, la tendenza ad andare avanti ha di-

mostrato di essere più forte, ma i fenomeni di malattie mentali e la

regressione della specie umana a posizioni che parevano abbandona-

te da generazioni passate testimoniano le gravi lotte che accompa-

gnano ogni volta l’atto del nascere.1

1 E' in questa polarità che io riconosco il nucleo di verità dell'ipotesi freudiana dell'esistenza di

un istinto di vita e di un istinto di morte; tuttavia, a differenza della teoria di Freud, ritengo che

gli stimoli al progresso o alla regressione non siano biologicamente equivalenti, ma che l'istin-

to di vita abbia maggior forza e questa cresca col suo progressivo realizzarsi.

27 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

I bisogni dell’uomo sorgono

dalle condizioni della sua esistenza

La vita umana è determinata dall’ineluttabile alternativa tra re-

gressione e progresso, tra il ritorno all’esistenza animale e la realiz-

zazione completa dell’esistenza umana. Ogni tentativo di tornare

indietro è doloroso e conduce inevitabilmente alla sofferenza, a ma-

lattie mentali e alla morte fisiologica o mentale, cioè alla pazzia. Ma

anche ogni passo avanti è pauroso e doloroso, fino a che non si rag-

giunga un certo punto dove paura e incertezza hanno soltanto minori

proporzioni. Ad esclusione delle esigenze fisiologicamente determi-

nate (fame, sete, sesso), tutte le esigenze essenzialmente umane sono

determinate da questa polarità. L’uomo deve risolvere un problema;

egli non può mai riposare in una data situazione di adattamento pas-

sivo alla natura. Anche la più completa soddisfazione di tutti i suoi

bisogni istintivi non risolve il suo problema umano: le passioni e i

bisogni più intensi non sono quelli radicati nel suo corpo, ma quelli

radicati nella stessa peculiarità della sua esistenza.

Qui si spiega anche che cosa sia una psicanalisi umanistica.

Freud, ricercando l’energia fondamentale che determina le passioni e

i desideri umani, ritenne di averla trovata nella libido. Ma, quantun-

que potenti, lo stimolo sessuale e tutte le sue derivazioni non sono le

più forti energie dell’uomo, e la loro frustrazione non è causa di di-

sordini mentali. Le più potenti energie determinanti il comportamen-

to dell’uomo sorgono dalle condizioni della sua esistenza, dalla «si-

tuazione umana».

L’uomo non può vivere staticamente perché le sue intime con-

traddizioni lo spingono a cercare un equilibrio, un’armonia nuova al

posto della perduta armonia animale con la natura. Dopo che ha sod-

disfatto i suoi bisogni animali, egli è spinto dai suoi bisogni umani.

Mentre il suo corpo gli suggerisce che cosa mangiare e che cosa evi-

tare, la sua coscienza dovrebbe dirgli quali bisogni siano da coltivare

e soddisfare e quali altri da lasciar spegnere ed esaurirsi. Se però la

fame e l’appetito nascono col corpo, la coscienza, pur potenzialmen-

te presente, richiede la guida di uomini e di principi che si sviluppa-

no soltanto con il progresso della civiltà.

Tutte le passioni e tutti gli sforzi dell’uomo sono tentativi di tro-

vare una risposta al problema della sua esistenza, ovvero tentativi di

3. LA SITUAZIONE UMANA ALLA BASE DELLA PSICANALISI UMANISTICA 28

sfuggire alla follia. (Ricordiamo, di passaggio, che il vero problema

della vita mentale non sta nel perché certuni diventano pazzi, ma

piuttosto nel perché la maggioranza sfugge alla pazzia). Sia l’uomo

mentalmente sano sia il nevrotico sono mossi dal bisogno di trovare

una risposta; la sola differenza è che una risposta corrisponde più di

un’altra all’insieme dei bisogni dell’uomo e che di conseguenza por-

ta ad un maggior sviluppo dei suoi poteri e della sua felicità. Ogni

cultura fornisce un sistema strutturato nel quale talune soluzioni, e

perciò talune aspirazioni e soddisfazioni, sono predominanti. Se noi

esaminiamo le religioni primitive, le religioni teistiche e quelle non

teistiche, vediamo come esse siano tutte tentativi di dare una risposta

al problema esistenziale dell’uomo. Sia le culture più raffinate sia le

più barbariche hanno la stessa identica funzione; esse differiscono

unicamente nella qualità della risposta. Chi devia dalle norme di una

cultura è in cerca di una risposta né più né meno che il suo fratello

maggiormente adattato. La sua risposta può esser migliore o peggio-

re di quella data dalla cultura in cui vive; tuttavia essa è sempre una

risposta alla stessa fondamentale domanda posta dall’esistenza uma-

na. In questo senso tutte le culture sono religiose, e ogni nevrosi è

una forma privata di religione quando si intenda per religione un

tentativo di rispondere al problema dell’esistenza umana. Infatti

l’enorme energia delle forze che producono malattie mentali, così

come quella propria delle forze che stanno alla base dell’arte e della

religione non può esser concepita come conseguenza di bisogni fi-

siologici frustrati o sublimati; esse sono tentativi di risolvere il pro-

blema dell’esser nato uomo. Tutti gli uomini sono capaci di creazio-

ni ideali, e non possono non esserlo quando per creazione ideale si

intenda lo sforzo inteso a soddisfare bisogni che sono specificamente

umani e trascendono i bisogni fisiologici dell’organismo. La diffe-

renza è che una creazione ideale fornisce una soluzione buona e ade-

guata, l’altra una soluzione cattiva e distruttiva. La decisione su quel

che sia buono o cattivo deve esser fatta sulla base della nostra cono-

scenza della natura dell’uomo e delle leggi che governano il suo svi-

luppo.

Quali sono questi bisogni e queste passioni che sorgono

dall’esistenza dell’uomo?

29 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

A. correlazione contro narcisismo

L’uomo viene strappato dall’unione originaria con la natura che

caratterizza l’esistenza animale. Possedendo nel contempo ragione e

immaginazione, egli è cosciente di esser solo e staccato, riconosce la

propria impotenza, la propria ignoranza e la casualità della sua nasci-

ta e della sua morte. Non riuscirebbe a sopportare per un solo istante

questa sua condizione se non potesse trovare nuovi legami con i suoi

simili, che sostituiscano quelli vecchi, regolati dagli istinti. Anche se

tutti i suoi bisogni fisiologici fossero soddisfatti, egli sentirebbe la

sua condizione di solitudine e di singolarità come una prigione dalla

quale dovrebbe fuggire per conservare la propria sanità mentale. Ef-

fettivamente, il pazzo è uno che non è riuscito a stabilire nessun ge-

nere di rapporto, e si trova come in una prigione, anche se non dietro

le sbarre. La necessità di unirsi ad altri esseri viventi e di esser loro

collegato è un bisogno imperativo dal cui soddisfacimento dipende

la salute psichica dell’uomo. Questo bisogno è presente in tutti i fe-

nomeni che costituiscono l’intera gamma degli intimi rapporti uma-

ni, di tutte le passioni che sono chiamate amore, nel più largo senso

della parola.

Questa unione può essere cercata e raggiunta in diversi modi.

L’uomo può cercare di entrare in armonia con il mondo sottometten-

dosi ad una persona, ad un gruppo, ad una istituzione, a Dio. In que-

sto modo egli supera l’isolamento della sua esistenza individuale

diventando parte di qualcuno o di qualche cosa più grandi di lui, e

sente la sua identità in rapporto al potere cui è sottomesso. Un’altra

possibilità di vincere l’isolamento si volge in senso opposto; l’uomo

può cercare di unirsi al mondo dominandolo, facendo in modo che

gli altri siano una parte di lui stesso, e trascendendo così, per mezzo

dell’autorità, la sua esistenza individuale. L’elemento comune sia

alla sottomissione sia al dominio sugli altri è il carattere simbiotico

della relazione. Nell’un caso e nell’altro l’uomo perde in integrità e

in libertà; egli vive soddisfacendo la sua sete di collegamento con gli

altri, ma soffrendo della mancanza di quell’intima forza e fiducia in

se stesso che sarebbero necessarie per una condizione di libertà ed

indipendenza; oltre a ciò egli è costantemente minacciato dalla ostili-

3. LA SITUAZIONE UMANA ALLA BASE DELLA PSICANALISI UMANISTICA 30

tà conscia o inconscia che deve necessariamente sorgere dalla rela-

zione simbiotica.2 Il realizzarsi della tendenza alla sottomissione

(masochistica) e della tendenza al dominio (sadistica) non porta mai

alla soddisfazione. Entrambe hanno un dinamismo autopropulsore e

poiché sottomissione e dominio (o possesso o gloria), quale che sia

la loro misura, non possono dare un sentimento di identità e di unità,

vuole possederne in misura sempre maggiore. Il risultato finale di

queste passioni è la sconfitta. E non può esser altrimenti, poiché

queste passioni, mentre mirano a stabilire un senso di unità, distrug-

gono il senso dell’integrità. L’uomo, mosso da una di queste passio-

ni, diventa in effetti dipendente da altri; invece di sviluppare il pro-

prio essere individuale, egli dipende da quelli cui è sottomesso o che

domina.

Una sola passione può soddisfare il bisogno dell’uomo di unire se

stesso al mondo, e di conseguire nello stesso tempo un senso di di-

gnità e di individualità: l’amore. Amore è unione con qualcuno o

qualche cosa, al di fuori di se stessi, che consente di preservare la

solitudine e l’integrità di se stessi. È un’esperienza di partecipazione,

di comunione, che consente la piena esplicazione della attività inte-

riore di ciascuno. L’esperienza dell’amore elimina la necessità di

illusione. Non c’è bisogno di esaltare l’immagine dell’altra persona

o di me stesso, poiché la realtà di viva partecipazione e amore mi

consente di trascendere la mia esistenza individualizzata e, nel me-

desimo tempo, di sentirmi il portatore di quei poteri attivi che costi-

tuiscono l’atto di amare. Quel che conta è la particolare qualità

dell’amore, non l’oggetto. Amore è esperienza di solidarietà umana

con il nostro prossimo, e ciò nell’amore erotico tra uomo e donna,

nell’amore della madre per il suo bambino, anche nell’amore per se

stessi in quanto creature umane, nell’esperienza mistica di unione.

Nell’atto amoroso io sono uno con tutti, e tuttavia sono me stesso, un

essere umano unico, separato, limitato, morale. Infatti proprio dalla

polarità tra separazione e unione, l’amore nasce e rinasce.

L’amore è uno degli aspetti di ciò che io avevo chiamato orien-

tamento produttivo, attiva e creativa relazione dell’uomo con i suoi

simili, con se stesso, con la natura. Nel regno del pensiero,

2 Per una più dettagliata analisi della relazione simbiotica, cfr. E. FROMM, Fuga dalla libertà,

Edizioni di Comunità, Milano 1963, 119 ss..

31 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

l’orientamento produttivo è espresso da una piena comprensione del

mondo attraverso la ragione. Nel regno dell’azione questo orienta-

mento produttivo è espresso dal lavoro produttivo, il cui prototipo è

l’arte e l’artigianato. Nel regno del sentimento l’orientamento pro-

duttivo è espresso dall’amore, che è esperienza di unione con

un’altra persona, con tutti gli uomini, e con la natura, a condizione

che sia conservato il senso di integrità e di indipendenza. Nella espe-

rienza dell’amore si verifica il paradosso per cui due diventano uno,

restando nel medesimo tempo due. L’amore così inteso non è mai

limitato a una sola persona. Se io posso amare soltanto una persona e

nessun’altra, se il mio amore per una persona mi rende più distante

ed estraneo di fronte ai miei simili, io posso esser in vari modi affe-

zionato a questa persona, ma non l’amo. Se io posso dire «ti amo»,

io dico «io amo in te tutta l’umanità e tutto quel che vive, amo in te

anche me stesso». L’amore di sé, in questo senso, è l’opposto

dell’egoismo. Quest’ultimo è in effetti uno smodato interesse per noi

stessi che scaturisce dalla mancanza di un genuino amore di noi stes-

si e lo sostituisce. L’amore, paradossalmente, mi rende più indipen-

dente perché mi rende più forte e più felice; eppure esso mi fa

tutt’uno con la persona amata, al punto che l’individualità sembra,

per il momento, annullata. Amando, io sento che «io sono te»; te,

l’essere amato; te, lo straniero; te, tutto quel che vive.

Nell’esperienza amorosa risiede l’unica risposta all’esistenza umana,

risiede l’equilibrio.

L’amore produttivo implica sempre una sindrome di atteggia-

menti: quella di interessamento, responsabilità, rispetto e conoscen-

za.3 Se io amo, io partecipo, io sono cioè attivamente interessato allo

sviluppo e alla felicità dell’altra persona. Non sono uno spettatore.

Sono responsabile, rispondo cioè ai suoi bisogni, a quelli che essa

può esprimere e più ancora a quelli che essa non può esprimere e

non esprime. Io la rispetto, cioè (secondo il significato etimologico

di respicere) io la guardo come essa è, obiettivamente e non travisata

dai miei desideri o dalle mie paure. La conosco, sono penetrato oltre

3 Cfr. per un più dettagliato esame di questi concetti il mio Man for Himself, Rinehart & C'

Inc', New York 1947, p. 96 ss.

3. LA SITUAZIONE UMANA ALLA BASE DELLA PSICANALISI UMANISTICA 32

la sua apparenza fino al fondo del suo essere e ho collegato me stes-

so con lei dal profondo del mio essere.4

Quando l’amore produttivo è diretto verso i nostri simili, può es-

ser chiamato amor fraterno. Nell’amor materno (in ebraico: racha-

mim, da rechem = utero) il rapporto è tra due persone fra loro dissi-

mili; il bambino è bisognoso di aiuto e dipende dalla madre. Per po-

ter crescere, egli deve diventare sempre più indipendente, sino a che

non ha più bisogno della madre. In tal modo il rapporto madre-figlio

è paradossale e, in un certo senso, tragico. Esso esige l’amore più

intenso da parte della madre, e tuttavia questo stesso amore deve

aiutare il bambino a staccarsi, crescendo, dalla madre e a diventare

completamente indipendente. È facile per ogni madre amare il figlio

prima che questo processo di separazione abbia inizio; difficile, in-

vece, è amare il bambino e nello stesso tempo lasciarlo andare, voler

lasciarlo andare.

L’amore erotico (greco: eros; ebraico: ahawa, dalla radice «arde-

re») implica un impulso diverso: quello della fusione e unione con

un’altra persona. Mentre l’amore fraterno si rivolge a tutti gli uomini

e quello materno si rivolge al bambino o a tutti quelli che hanno bi-

sogno del nostro aiuto, l’amore erotico è diretto verso una sola per-

sona, solitamente di sesso opposto, con la quale si desidera fusione e

unione. L’amore erotico nasce dalla separazione e si conclude con

l’unione. L’amore materno nasce dall’unione e si conclude con la

separazione. Se nell’amor materno si realizzasse il bisogno di fusio-

ne, ciò comporterebbe la fine del bambino come essere indipendente,

poiché il bambino ha bisogno di staccarsi dalla madre e non di re-

starle legato. Quando l’amore erotico manchi di amor fraterno e sia

soltanto motivato dal desiderio di fusione, esso è desiderio sessuale

senza amore, o la perversione dell’amore come la troviamo nelle

forme di «amore» sadiche o masochistiche.

Comprenderemo interamente il bisogno umano di avere dei rap-

porti soltanto considerando le conseguenze dell’insuccesso di ogni

specie di relazione, riconoscendo cioè il significato del narcisismo.

Le sole realtà di cui il neonato abbia esperienza sono il suo stesso

corpo e i suoi bisogni, bisogni fisiologici e bisogni di calore e di af-

fetto. Egli non ha ancora esperienza dell’«io» come separato dal

4 L'identità tra amare e conoscere si trova nell'ebraico jadoa e nel tedesco meinen e minnen.

33 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

«tu». Egli è tuttora in uno stato di unità con il mondo, ma un’unità

che precede il risveglio del suo senso dell’individualità e della realtà.

Il mondo esterno esiste soltanto come un tanto di cibo o di calore,

atti a soddisfare i suoi bisogni, non come qualcosa o qualcuno da

riconoscere realisticamente e obiettivamente. Questo orientamento è

stato chiamato da Freud «narcisismo primario». Nello sviluppo nor-

male, questo stato di narcisismo è vinto lentamente dall’aumento

della consapevolezza della realtà esterna e dal corrispondente au-

mento del senso dell’«io» come differenziato dal «tu». Questo mu-

tamento interessa dapprima la percezione sensoria, quando cose e

uomini sono percepiti come entità differenti e specifiche, percezione

che pone i fondamenti della possibilità di parlare: nominare le cose

presuppone riconoscerle come entità singole e differenziate.5 Ci vuo-

le molto di più perché lo stato narcisistico sia superato emozional-

mente; per il bambino tra i sei e gli otto anni, gli altri continuano ad

essere soprattutto dei mezzi per soddisfare i suoi bisogni. Come tali,

essi sono intercambiabili; solo verso gli otto o nove anni comincia a

percepire gli altri come esseri che si possono amare, a sentire cioè,

nella formulazione di H.S. Sullivan,6 che i bisogni di un’altra perso-

na sono importanti quanto i suoi stessi.7

Il narcisismo primario è un fenomeno normale, collegato al nor-

male sviluppo fisiologico e mentale del bambino. Ma il narcisismo

esiste anche in periodi posteriori della vita («narcisismo secondario»

secondo Freud), se il bambino crescendo non riesce a sviluppare la

5 Cfr. l'esame di questo aspetto fatto da Jean PIAGET, The Child's Conception of the World,

Harcourt, Brace & Company, Inc', New York, p. 151. 6 Cfr. H.S. SULLIVAN, Teoria interpersonale della psichiatria, Feltrinelli, Milano 1962, p.

55 ss. 7 Di solito questo amore è inizialmente provato per i coetanei del bambino, e non per i genitori.

La gradevole idea che i bambini «amino» i loro genitori prima di qualunque altra persona deve

essere ritenuta una delle tante illusioni che sorgono dalle nostre pie aspirazioni. Per il bambino

di questa età, padre e madre sono oggetto di soggezione e di paura, piuttosto che di amore il

quale, per sua natura, è basato sulla parità e sull'indipendenza. L'amore per i genitori, che non

sia affezionato ma passivo attaccamento, fissazione incestuosa o sottomissione convenzionale

o paurosa, si sviluppa, se mai, non nell'infanzia ma successivamente, quantunque, in circostan-

ze fortunate, possa aver inizio a una età precoce. (Il medesimo concetto è stato esposto, ben

più acutamente, da H.S. SULLIVAN nella sua Teoria interpersonale della psichiatria). Molti

genitori tuttavia non sono disposti ad accettare questa realtà e vi reagiscono col dispiacersi dei

primi effettivi attaccamenti amorosi del bambino, sia apertamente, sia con un mezzo più effi-

cace: scherzarvi sopra. Questa conscia o inconscia gelosia è uno tra i più potenti ostacoli allo

sviluppo della capacità di amare del bambino.

3. LA SITUAZIONE UMANA ALLA BASE DELLA PSICANALISI UMANISTICA 34

capacità di amare, o se la perde nuovamente. Il narcisismo è

l’essenza di ogni grave patologia psichica. Per una persona affetta da

narcisismo c’è una sola realtà: quella dei suoi propri processi menta-

li, delle sue sensazioni e dei suoi bisogni. Il mondo esterno non è

conosciuto o percepito obiettivamente, cioè come esistente nei suoi

propri termini, condizioni e necessità. La più estrema forma di narci-

sismo può esser riscontrata in tutte le forme di squilibrio. Lo squili-

brato ha perduto contatto con il mondo, si è ritirato in se stesso, non

può sentire la realtà, sia fisica che umana, quale essa è, ma soltanto

come formata e determinata dai suoi propri processi interiori. Egli o

non reagisce al mondo esterno o, se lo fa, vi reagisce non nei termini

della realtà di questo, ma solo nei termini dei suoi propri processi

mentali e sensori. Il narcisismo è il polo opposto dell’obiettività,

della ragione e dell’amore.

Il fatto che il totale fallimento nello stabilire relazioni fra se stessi

e il mondo porti allo squilibrio ci suggerisce un altro fatto: certe

forme di relazione sono necessarie per ogni modo di vivere equili-

brato. Tra le diverse forme di relazione però, soltanto quella produt-

tiva, l’amore, permette a un uomo di conservare la sua libertà e inte-

grità pur essendo, nello stesso tempo, unito ai suoi simili.

B. trascendenza: creatività contro distruttività

Un altro aspetto della situazione umana strettamente connesso

con il bisogno di stabilire dei rapporti, è la situazione dell’uomo co-

me creatura, e il suo bisogno di trascendere questo stato di creatura

passiva. L’uomo è scaraventato in questo mondo senza che egli lo

sappia, lo approvi e lo voglia, e, senza approvarlo o volerlo, ne è poi

strappato di nuovo. In questo non è diverso dall’animale, dalla pian-

ta, dalla materia inorganica. Ma, essendo dotato di ragione e di im-

maginazione, non può accontentarsi della passiva condizione di crea-

tura, di dado gettato fuori dal bossolo. Egli è mosso dallo stimolo di

trascendere il suo stato di creatura e l’accidentalità e passività della

sua esistenza, diventando «creatore».

L’uomo può creare la vita. È questa la miracolosa facoltà che egli

in effetti condivide con tutti gli esseri viventi, con la differenza però

che soltanto l’uomo è cosciente di esser creato e di essere creatore.

L’uomo può creare la vita, meglio, la donna può creare la vita met-

35 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

tendo al mondo il bambino e curandolo fino a che non sia cresciuto

abbastanza per badare alle proprie necessità. L’uomo -l’uomo e la

donna - possono creare seminando, producendo oggetti materiali,

creando l’arte, creando idee, amandosi l’un l’altro. Nell’atto creativo

l’uomo trascende se stesso come creatura, eleva se stesso al di sopra

della passività e accidentalità della sua esistenza, entro il regno della

volontà creativa e della libertà. Nel bisogno umano di trascendenza

risiede una delle radici dell’amore, come anche dell’arte, della reli-

gione e della produzione materiale.

Creare presuppone attività e interessamento. Presuppone amore

per ciò che si crea. Come potrebbe allora l’uomo risolvere il proble-

ma di trascendere se stesso, se non fosse capace di creare, se non

potesse amare? C’è un’altra risposta a questo bisogno di trascenden-

za: se io non posso creare la vita, posso distruggerla. Anche distrug-

gere la vita fa sì che io la trascenda. Effettivamente, che l’uomo sia

capace di distruggere la vita è miracoloso quanto il fatto che egli sia

in grado di crearla, poiché la vita è il miracolo, l’inesplicabile.

Nell’atto di distruzione l’uomo mette se stesso al di sopra della vita,

trascende se stesso in quanto creatura. In tal modo la scelta finale

dell’uomo, nella misura in cui questi è portato a trascendere se stes-

so, sta nel creare o nel distruggere, nell’amare o nell’odiare.

L’enorme potenza della volontà di distruzione che riscontriamo nella

storia dell’uomo e di cui abbiamo avuto così

terrificanti testimonianze proprio nella nostra epoca, è radicata

nella natura dell’uomo, così come è radicato in lui l’impulso a crea-

re. Dire che l’uomo è capace di sviluppare la sua capacità primaria di

amore e di ragione non vuol dire che si abbia una fede ingenua nella

bontà umana. La distruttività è una capacità secondaria radicata nella

stessa esistenza dell’uomo, e che ha la stessa intensità e lo stesso

potere di ogni altra passione.8 Ma (e questo è il punto essenziale del

mio ragionamento) essa è solamente l’alternativa della creatività.

Creazione e distruzione, amore e odio non sono due istinti indipen-

denti l’uno dall’altro. Entrambi sono risposte allo stesso bisogno di

trascendenza e la volontà di distruzione deve sorgere quando non si

8 La presente definizione non è in contrasto con quella data in Man for Himself, loc. cit., dove

scrivo che «la distruttività è la conseguenza di una vita non vissuta». Nel concetto di trascen-

denza qui esposto, mi sforzo di dimostrare più particolarmente quale aspetto di una vita non

vissuta porti alla distruttività.

3. LA SITUAZIONE UMANA ALLA BASE DELLA PSICANALISI UMANISTICA 36

sia potuto soddisfare la volontà di creazione. Tuttavia la soddisfa-

zione del bisogno di creare conduce alla felicità, e la distruzione alla

sofferenza, soprattutto per colui che distrugge.

C. radicamento: fraternità contro incesto

La nascita dell’uomo come tale si inizia con l’abbandono della

sua dimora naturale e con l’emancipazione dai suoi legami naturali.

La stessa emancipazione è però paurosa; se l’uomo perde le sue ra-

dici naturali, dove è e chi è? Solo, senza dimora, senza radici, inca-

pace di sopportare l’isolamento e la debolezza della sua posizione,

diventerebbe uno squilibrato. Egli potrà fare a meno delle sue radici

naturali soltanto se troverà nuove radici umane, e solo dopo averle

trovate potrà sentirsi ancora a suo agio in questo mondo. È dunque

sorprendente scoprire nell’uomo il desiderio intenso e profondo di

non sciogliere i suoi naturali legami, di lottare per non esser strappa-

to via dalla natura, dalla madre, dal sangue, dal suolo?

Il più elementare tra i legami naturali è il legame tra il bambino e

la madre. Il bambino comincia a vivere nell’utero materno, e vi sta

molto più a lungo della maggior parte degli animali; anche dopo la

nascita il bambino resta fisicamente debole e completamente dipen-

dente dalla madre; e anche questo periodo di debolezza e di dipen-

denza dura molto di più che per ogni altro animale. Nei primi anni di

vita non si verifica nessuna separazione completa tra la madre e il

bambino. La soddisfazione dei suoi bisogni fisiologici e delle sue

necessità vitali di calore e di affetto dipende da lei che non gli ha

dato soltanto la nascita, ma continua a dargli la vita. La cura che ella

ha di lui non dipende da quello che il bambino possa darle né da al-

cun obbligo cui egli debba adempiere: tutto ciò è dato senza condi-

zioni. Ella lo cura perché la nuova creatura è il suo bambino. Il bam-

bino, in questi primi decisivi anni di vita, vede in sua madre la sor-

gente della vita, la potenza che tutto avvolge, che lo protegge e lo

nutre. La madre è cibo, amore, calore e terra. Esser da lei amato si-

gnifica esser vivo, essere radicato, essere a proprio agio. Proprio

come nascere significa abbandonare l’involucro protettivo dell’utero,

crescere significa abbandonare l’orbita protettiva della madre. Ma

anche nell’adulto maturo non cessa mai l’aspirazione verso questa

situazione come essa esisteva una volta, nonostante che in realtà ci

37 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

sia una gran differenza tra l’adulto e il bambino. L’adulto ha la pos-

sibilità di reggersi da solo, di aver cura di sé, di esser responsabile di

se stesso e persino di altri, mentre il bambino è ancora incapace di

fare tutto ciò. Considerando però i crescenti problemi della vita, la

natura frammentaria della nostra conoscenza, la casualità

dell’esistenza di un adulto, i nostri inevitabili errori, la situazione

dell’adulto non è certamente così diversa da quella del bambino co-

me si crede di solito. Ogni adulto ha bisogno di aiuto, di calore, di

protezione, in forme che variamente differiscono e, insieme, varia-

mente si avvicinano ai bisogni del bambino. Può sorprendere trovare

nell’adulto medio un profondo anelito alla sicurezza e al radicamen-

to un tempo offertigli in virtù del rapporto con la propria madre?

Dovremo forse aspettarci che egli perda questo intenso anelito senza

aver prima trovato altri modi di esser radicato?

Nella psicopatologia troviamo larga testimonianza di questo fe-

nomeno del rifiuto ad abbandonare l’orbita così totalmente protettiva

della madre. Nella forma più grave troviamo la brama di ritornare

nell’utero materno. Una persona completamente ossessionata da

questo desiderio può offrire un quadro clinico di schizofrenia. Egli

sente e si comporta alla maniera del feto nell’utero materno, incapa-

ce di svolgere anche le più elementari funzioni di un bambino picco-

lo. In molte delle più gravi nevrosi troviamo la stessa brama, ma sot-

to l’aspetto di un desiderio represso che si manifesta soltanto nei

sogni e in sintomi e comportamenti nevrotici, risultanti dal conflitto

tra il desiderio profondo di essere nell’utero della madre e la parte

adulta della personalità che tende a vivere una vita normale. Nei so-

gni questa brama si presenta sotto forma simbolica, come essere in

una caverna oscura, o in un sottomarino a un solo posto, o tuffarsi in

un’acqua profonda, ecc.. In tale comportamento noi riscontriamo

paura della vita e profondo fascino della morte (essendo la morte,

nell’immaginazione, ritorno all’utero, alla madre terra).

La forma meno grave di fissazione alla madre si trova nei casi in

cui una persona ha accettato, per così dire, di nascere, ma guarda con

timore al passo successivo alla nascita, l’essere, cioè, svezzata. Quel-

li che si sono fermati a questo stadio della nascita hanno un profondo

desiderio di esser tra le braccia della mamma, vezzeggiati e protetti

da una figura materna; sono persone eternamente sottomesse, spa-

ventate e incerte quando si tolga loro la protezione materna, ma pie-

3. LA SITUAZIONE UMANA ALLA BASE DELLA PSICANALISI UMANISTICA 38

ne di ottimismo e attive quando sia loro accanto nella realtà o nella

fantasia una madre amorosa o un sostituto della madre.

Questi fenomeni patologici nella vita dell’individuo hanno il loro

parallelo nella evoluzione della razza umana. La più evidente espres-

sione di ciò si incontra nel fatto dell’universalità del tabù

dell’incesto, che troviamo persino nelle società più primitive. Il tabù

dell’incesto è la condizione necessaria per ogni sviluppo umano, non

a causa del suo aspetto sessuale bensì di quello affettivo. L’uomo,

per nascere e per progredire, deve tagliare il cordone ombelicale,

deve vincere la profonda brama di restare legato alla madre. La forza

del desiderio incestuoso non dipende dall’attrazione sessuale verso

la madre, ma dalla profonda brama di restare dentro o di ritornare

all’utero che avvolge completamente la creatura o al seno che le dà

l’alimento completo. Il tabù dell’incesto equivale ai due cherubini

che con spade di fuoco sorvegliano l’entrata del paradiso e vietano

all’uomo di ritornare all’esistenza preindividuale di unità con la na-

tura.

Il problema dell’incesto tuttavia non è limitato alla fissazione alla

madre. Il legame con lei è solo il più elementare di tutti i legami na-

turali del sangue, che danno all’uomo un senso di radicamento e di

appartenenza. I legami del sangue sono estesi ai parenti consangui-

nei, qualunque sia il sistema adoperato per stabilire tali rapporti. La

famiglia e il clan, e più tardi lo stato, la nazione, la chiesa svolgono

la stessa funzione che la singola madre ha originariamente per il

bambino. L’individuo si appoggia ad essi, si sente in essi radicato,

trova il suo senso di identità quale parte di essi, e non come un sin-

golo che ne sia staccato. La persona che non appartiene allo stesso

clan è considerata straniera e pericolosa, in quanto non partecipe

delle stesse qualità umane che soltanto il proprio clan possiede.

La fissazione alla madre fu riconosciuta da Freud come il pro-

blema decisivo dello sviluppo umano, tanto per la razza che per

l’individuo. In conformità al suo sistema egli spiegò l’intensità della

fissazione alla madre come derivata dalla attrazione sessuale

dell’infante verso di lei, come espressione della lotta incestuosa con-

naturata alla natura umana. Egli suppose che il perdurare della fissa-

zione in età più avanzata derivasse dal continuarsi di tale desiderio

sessuale. Collegando questa ipotesi con le sue osservazioni sulla op-

posizione del figlio al padre, egli conciliò ipotesi e osservazioni in

39 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

una interpretazione molto ingegnosa, quella del «complesso di Edi-

po». Egli spiegò la ostilità al padre come il risultato della rivalità

sessuale verso di lui.

Ma mentre percepì la straordinaria importanza della fissazione al-

la madre, Freud tolse senso alla sua scoperta con la singolare inter-

pretazione che ne diede. Egli proiettò nell’infante le sensazioni ses-

suali dell’uomo adulto: il bambino che, come Freud affermava, ave-

va desideri sessuali, si supponeva fosse attratto sessualmente dalla

donna cui era maggiormente vicino, e che soltanto il maggior potere

del rivale in tale triangolo lo obbligasse a respingere il suo desiderio,

senza mai potersi rimettere del tutto da questa frustrazione. La teoria

di Freud è una interpretazione stranamente razionalistica di fatti os-

servabili. Nell’accentuare l’aspetto sessuale del desiderio incestuoso,

Freud interpreta il desiderio del bambino come qualcosa di razionale

in se stesso e sfugge al vero problema: la profondità e l’intensità del

legame irrazionale e affettivo con la madre, il desiderio di ritornare

nella sua orbita, di restare parte di lei, la paura di staccarsi comple-

tamente da lei. Nella interpretazione freudiana il desiderio incestuo-

so non può essere soddisfatto a causa della presenza del padre rivale,

mentre in effetti il desiderio incestuoso è in contrasto con tutte le

esigenze della vita adulta.

Così la teoria del complesso di Edipo è a un tempo stesso il rico-

noscimento e il rifiuto del fenomeno cruciale: il desiderio che

l’uomo ha di amor materno. Dando alla contesa incestuosa un valore

predominante si riconosce l’importanza del legame con la madre; ma

spiegandolo come sessuale si nega il significato sentimentale e au-

tentico di tale legame.

Quando la fissazione alla madre è anche sessuale (e ciò indub-

biamente avviene), questo fatto si verifica perché la fissazione affet-

tiva è tanto forte da influenzare anche il desiderio sessuale, ma non

perché il desiderio sessuale sia alla base della fissazione. Al contra-

rio, il desiderio sessuale in quanto tale è notoriamente incostante

riguardo ai suoi oggetti, e generalmente esso è proprio la forza che

aiuta l’adolescente a separarsi dalla madre, non a legarsi a lei. Dove

riscontriamo che l’intenso attaccamento alla madre ha alterato questa

normale funzione dell’impulso sessuale, dobbiamo considerare due

possibilità. La prima è che il desiderio sessuale per la madre sia una

difesa contro il ritorno all’utero in quanto tale ritorno porta alla paz-

3. LA SITUAZIONE UMANA ALLA BASE DELLA PSICANALISI UMANISTICA 40

zia o alla morte, mentre il desiderio sessuale è almeno conciliabile

con la vita. Ci si salva dalla paura dell’utero incombente come una

minaccia con la più vitale fantasia di entrare nella vagina con

l’organo adatto.9 La seconda possibilità da considerarsi è che la fan-

tasia di rapporti sessuali con la madre non ha la caratteristica, pro-

pria alla sessualità del maschio adulto, della volontarietà e del godi-

mento attivo, ma quella della passività, di essere conquistato e pos-

seduto dalla madre, persino nella sfera sessuale. Al di fuori di queste

due possibilità che suggeriscono una forma patologica assai seria,

troviamo esempi di desideri sessuali incestuosi che sono provocati

da una madre seducente, e che, per quanto espressione di fissazione

alla madre, sono meno indicativi di grave patologia.

Il fatto che lo stesso Freud abbia svisato la sua grande scoperta

può esser stato determinato da un problema irrisolto nei rapporti con

sua madre, ma fu certamente influenzato considerevolmente dal ri-

goroso atteggiamento patriarcale che era così tipico del tempo di

Freud e a cui egli partecipava completamente. La madre era stata

detronizzata dal suo posto eminente come oggetto di amore, e il suo

posto era preso dal padre, che si riteneva esser la figura più impor-

tante negli affetti del bambino. Oggi, che la tendenza patriarcale ha

perduto molta della sua forza, pare quasi incredibile leggere la se-

guente affermazione scritta da Freud: «Non potrei indicare

nell’infanzia nessun bisogno tanto forte come quello della protezione

paterna».10

Parimenti egli scrisse nel 1908, riferendosi alla morte del

padre, che la morte del padre è «il fatto più importante, la perdita più

amara nella vita di un uomo».11

In tal modo Freud dà al padre il po-

sto che in realtà è proprio della madre, e abbassa la madre a oggetto

di desiderio sessuale. La dea è trasformata in prostituta, e il padre

elevato a figura centrale dell’universo.12

C’è un altro genio, vissuto una generazione prima di Freud, che

vide il ruolo centrale del legame con la madre nello sviluppo

9 Questo avvenimento è espresso per esempio nei sogni nei quali colui che sogna si trova in

una caverna col timore di essere soffocato, e poi, avendo rapporti con la madre, prova un senso

di sollievo. 10 S. FREUD, Civilization and Its Discontents, cit., p. 21. Il corsivo è mio. 11 Citato da E. JONES, The Life and Work of Sigmund Freud, Basic Books, Inc., New York

1953, vol. I, p. 324. 12 In questa eliminazione della figura della madre Freud fa nella psicologia quello che Lutero

fa nella religione. Propriamente parlando, Freud è lo psicologo del protestantesimo.

41 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

dell’uomo: Johann Jacob Bachofen.13

Non essendo vincolato dalla

razionalistica interpretazione sessuale della fissazione alla madre,

egli poté vedere i fatti più profondamente e con maggior obiettività.

Nella sua teoria della società matriarcale egli suppose che l’umanità

abbia attraversato uno stadio, precedente a quello patriarcale, in cui i

legami con la madre, come quelli col sangue e col suolo, costituiva-

no, sia individualmente sia socialmente, la forma preminente di cor-

relazione. In questa forma di organizzazione sociale, come abbiamo

accennato più sopra, la madre era la figura principale nella famiglia,

nella società e nella religione. Anche se molte costruzioni storiche di

Bachofen non sono valide, non v’è dubbio che egli scoprì una forma

di organizzazione sociale e una struttura psicologica che erano state

ignorate dagli psicologi e dagli antropologi perché, a causa della loro

inclinazione patriarcale, essi ritenevano assolutamente assurda l’idea

di una società diretta dalle donne invece che dagli uomini. Vi è però

gran copia di testimonianze che la Grecia e l’India, prima

dell’invasione dal nord, avessero culture di struttura matriarcale. Il

gran numero e l’importanza delle dee madri portano a identiche con-

clusioni. (La Venere di Willendorf, la Dea Madre di Mohengo-Daro,

Iside, Istar, Rhea, Cibele, Hator, la Dea Serpente di Nippur, la Acca-

de Dea Acqua Ai, Demetra e la Dea indiana Kali datrice e distruttri-

ce della vita sono soltanto alcuni esempi). Persino in molte società

primitive contemporanee possiamo scoprire i residui della struttura

matriarcale in forme di consanguineità per linea materna o in forme

di matrimonio nel clan della madre, ed è ancor più significativo che

si possano trovare molti esempi di tendenze matriarcali nella rela-

zione con la madre, col sangue e col suolo, anche dove le forme so-

ciali non sono più matriarcali.

Mentre Freud vedeva nella fissazione incestuosa soltanto un ele-

mento negativo e patogeno, Bachofen vide chiaramente sia l’aspetto

negativo sia quello positivo dell’attaccamento alla figura materna.

L’aspetto positivo è un senso di affermazione della vita, libertà e

eguaglianza che pervade la struttura matriarcale. In quanto gli uomi-

ni sono figli della natura e figli delle loro madri essi sono tutti egua-

li, hanno gli stessi diritti e aspirazioni, e il solo valore che conti è

13 Cfr. J.J. BACHOFEN, Mutterrecht und Ur Religion, a cura di R. Marx, A. Kroener Verl.,

Stoccarda 1954.

3. LA SITUAZIONE UMANA ALLA BASE DELLA PSICANALISI UMANISTICA 42

quello della vita. Per esprimersi diversamente, la madre ama i suoi

figli non perché uno sia migliore dell’altro, non perché uno corri-

sponda alle sue aspettative meglio dell’altro, ma perché essi sono i

suoi figli e, in quanto tali, sono tutti eguali ed hanno eguale diritto ad

esser amati e curati. Bachofen vedeva chiaramente anche l’aspetto

negativo della struttura matriarcale: essendo legato alla natura, al

sangue e al suolo, l’uomo incontra ostacoli nello sviluppo della sua

individualità e della sua ragione. Egli resta un bambino e non è ca-

pace di progresso.14

Bachofen dava una interpretazione parimenti larga e profonda al

compito del padre, additando ancora sia l’aspetto positivo sia quello

negativo della funzione paterna. Parafrasando le idee di Bachofen ed

estendendole alquanto, io direi che l’uomo, non essendo dotato per

creare dei figli (parlo, si intende, dell’esperienza della gravidanza e

della nascita e non della cognizione puramente razionale che il seme

maschile è necessario per la creazione di un bambino) e non avendo

il compito di allattarli e di aver cura di loro, è maggiormente lontano

dalla natura di quanto non lo sia la donna. Poiché è meno radicato

nella natura, egli è obbligato a sviluppare la ragione, a edificare un

mondo umano di idee, di principi e di cose fabbricate dall’uomo che

sostituiscono la natura, come una base di esistenza e di sicurezza. Il

rapporto del bambino col padre non ha la stessa intensità di quello

con la madre perché il padre non ha mai quel ruolo di essere total-

mente avviluppante, protettivo e amoroso che la madre ha avuto per

i primi anni di vita del bambino. Al contrario, in tutte le società pa-

triarcali il rapporto del bambino col padre è da un lato di sottomis-

sione e dall’altro di ribellione, e ciò contiene in sé un elemento per-

manente di dissoluzione. La sottomissione al padre è diversa dalla

fissazione alla madre. Quest’ultima è una continuazione del legame

naturale, della fissazione alla natura. La prima è fabbricata

14 E' interessante notare come due opposte filosofie negli ultimi cento anni si siano imposses-

sate di questi due aspetti della struttura matriarcale. La scuola marxista accolse con grande

entusiasmo le teorie di Bachofen a causa dell'elemento di eguaglianza e libertà connesso alla

struttura matriarcale (cfr. Friedrich ENGELS, Le origini della famiglia, della proprietà privata

e dello stato). Dopo molti anni durante i quali le teorie di Bachofen avevano difficilmente

trovato qualche considerazione, i filosofi nazisti se ne impossessarono e le diffusero con egua-

le entusiasmo ma per la ragione opposta. Essi erano attratti proprio dalla irrazionalità dei vin-

coli del sangue e del suolo che costituisce l'altro aspetto della struttura matriarcale come è

presentata da Bachofen.

43 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

dall’uomo, artificiale, basata sul potere e sulla legge e perciò meno

costrittiva e potente del legame alla madre. Mentre la madre rappre-

senta la natura e l’amore incondizionato, il padre rappresenta astra-

zione, coscienza, dovere, legge e gerarchia. L’amore del padre per il

figlio non è come l’amore incondizionato della madre per i figli in

quanto essi sono suoi figli, ma è l’amore per il figlio che egli predi-

lige perché più risponde alle sue aspettative ed è maggiormente dota-

to per diventare l’erede della proprietà e delle funzioni mondane del

padre.

Da questo deriva un’importante differenza tra amore materno e

paterno: nel rapporto con la madre c’è poco che il bambino possa

regolare o controllare. L’amore materno è come un atto di grazia; se

c’è, è una benedizione, e se non c’è non può esser creato. Risiede in

ciò la ragione per cui gli individui che non hanno superato la fissa-

zione alla madre cercano spesso di procurarsi l’amore materno in un

modo nevrotico e magico, facendosi deboli, infermi o regredendo

emotivamente allo stadio infantile. L’idea magica è: se io divento un

bambino bisognoso di aiuto, mia madre deve venire e deve prendersi

cura di me. Il rapporto col padre, d’altra parte, può esser controllato.

Egli desidera che il figlio cresca, si assuma delle responsabilità, pen-

si, costruisca; oppure che sia obbediente, serva al padre, gli assomi-

gli; oppure, ancora, che faccia entrambe le cose insieme. Ma sia che

il padre miri allo sviluppo del figlio sia che si attenda da lui obbe-

dienza, il figlio ha una possibilità di guadagnarsi l’amor paterno, di

determinare l’affetto paterno facendo le cose desiderate. Riassumen-

do: gli aspetti positivi del complesso patriarcale sono la ragione, la

disciplina, la coscienza e l’individualismo; gli aspetti negativi sono

la gerarchia, l’oppressione, l’ineguaglianza, la sottomissione.15

Ci sembra particolarmente significativo sottolineare la stretta

connessione fra le figure del padre e della madre e i principi morali.

Freud, nel suo concetto del super-io, collega soltanto la figura del

padre allo sviluppo della coscienza. Egli riteneva che il bambino,

impaurito dalla castrazione minacciata dal padre rivale, associasse il

genitore maschio - o piuttosto i suoi ordini e le sue proibizioni - alla

15 Questi aspetti negativi sono espressi più chiaramente chealtrove nella figura di Creonte

nell'Antigone di Sofocle.

3. LA SITUAZIONE UMANA ALLA BASE DELLA PSICANALISI UMANISTICA 44

formazione della sua coscienza.16

Ma non c’è soltanto una coscienza

paterna, bensì anche una materna; c’è una voce che ci dice di fare il

nostro dovere, e una voce che ci dice di amare e di perdonare: gli

altri come noi stessi. È vero che entrambi i tipi di coscienza sono

originariamente influenzati dalle immagini paterna e materna, ma nel

processo di perfezionamento la coscienza diventa sempre più indi-

pendente da queste immagini originarie del padre e della madre: noi

diventiamo, si può dire, il nostro stesso padre e la nostra stessa ma-

dre, e diventiamo anche il nostro stesso figlio. Il padre che è in noi ci

dice «devi far questo» e «non devi far quello». Se abbiamo fatto una

cosa cattiva ci rimprovera, e se abbiamo fatto una cosa giusta, ci lo-

da. Ma mentre il padre che è in noi ci parla in questi termini, la ma-

dre ci parla un linguaggio molto diverso. È come se dicesse: «tuo

padre ha certo ragione di rimproverarti, ma non prenderlo troppo sul

serio; qualsiasi cosa tu abbia fatto, tu sei il mio bambino, io ti amo e

ti perdono: niente di quello che hai fatto può ostacolare il tuo diritto

alla vita e alla felicità». Le voci del padre e della madre parlano lin-

guaggi diversi; in realtà sembrano dire cose opposte. Eppure la con-

traddizione tra il principio del dovere e il principio dell’amore, tra la

coscienza paterna e quella materna, è una contraddizione insita

nell’esistenza umana, ed entrambi i lati della contraddizione devono

essere accettati. La coscienza che esegue soltanto gli imperativi del

dovere non è meno deviata della coscienza che segua solo gli impe-

rativi dell’amore. Le voci interiori del padre e della madre non par-

lano soltanto in riferimento all’atteggiamento dell’uomo verso se

stesso, ma anche verso i suoi simili. Egli può giudicare il suo simile

con la sua coscienza paterna, ma deve nello stesso tempo ascoltare

dentro di sé la voce della madre, che prova amore per tutti i suoi si-

mili, per tutto quel che vive, e perdona ogni peccato.17

16 In Man for Himself ho esaminato il carattere relativistico del concetto del super-io di Freud,

ed ho rilevato la differenza tra la coscienza autoritaria e la coscienza umanistica che è la voce

che ci richiama a noi stessi. Cfr. Man for Himself, loc. cit., cap. IV, 2. 17 E' interessante studiare il peso che hanno rispettivamente il principio paterno e quello ma-

terno nel concetto di Dio delle religioni ebraica e cristiana. Il Dio che manda il diluvio perché

tutti sono malvagi escluso Noè rappresenta la coscienza paterna. Il Dio che parla a Giona

avendo compassione «per quella città ove vi sono più di centoventimila persone che non sanno

distinguere la loro mano destra dalla sinistra e dove vi sono molti armenti» parla con la voce

della madre che tutto perdona. La stessa polarità tra la funzione paterna e quella materna di

Dio può esser chiaramente vista nello sviluppo ulteriore sia della religione ebraica sia di quella

cristiana, specialmente nel misticismo.

45 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

Prima di continuare nell’esame dei bisogni basilari dell’uomo,

desidero dare una breve descrizione delle varie fasi di radicamento

come si possono osservare nella storia dell’umanità, anche se questa

esposizione interrompe un po’ il filo del discorso di questo capitolo.

Come il bambino è radicato nella madre, così l’umanità nella sua

infanzia storica (che peraltro costituisce di gran lunga la maggior

parte della storia in termini di tempo) resta radicata nella natura. An-

che quando vien fuori dalla natura, il mondo naturale resta la sua

dimora: qui sono sempre le sue radici. L’uomo cerca di trovar sicu-

rezza regredendo alla natura o identificandosi con essa, col mondo

delle piante e degli animali. Questo tentativo di appoggiarsi alla na-

tura può esser visto chiaramente in diversi miti primitivi e in rituali

religiosi. Quando l’uomo adora alberi e animali come suoi idoli,

adora particolarizzazioni della natura; essi sono le forze protettive e

potenti il cui culto è il culto della stessa natura. Collegando se stesso

a queste, l’individuo trova il suo senso di identità e di appartenenza,

come parte della natura. La stessa cosa è vera per il rapporto col suo-

lo su cui egli vive. La tribù spesso non è soltanto unificata dal san-

gue comune, ma anche dal suolo comune, e proprio questa combina-

zione del sangue e del suolo le dà la sua forza, come di vera sede e

sistema di orientamento per l’individuo.

In questa fase dell’evoluzione umana l’uomo sente ancora se

stesso come parte del mondo naturale, quello degli animali e delle

piante. Soltanto quando ha fatto il passo decisivo per venir fuori

completamente dalla natura, cercherà di creare una linea di demarca-

zione definitiva tra sé e il mondo animale. Una dimostrazione di

questa idea si può trovare nella credenza degli indiani winnebago,

che al principio le creature non avevano ancora alcuna forma defini-

tiva. Tutti erano una specie di essere neutro che poteva trasformarsi

sia in uomo sia in animale. Ad un certo momento essi decisero di

evolversi definitivamente in animali o in uomini. Dopo di allora, gli

animali sono restati animali e l’uomo è restato uomo.18

La stessa

idea è espressa nella credenza azteca che il mondo, prima dell’era in

cui noi ora viviamo, era popolato soltanto dagli animali, fino a che

con Quetzalcoatl sorse l’era degli esseri umani; lo stesso sentimento

18 Questo esempio è tratto da Paul RADIN, Gott und Mensch in primitiven Welt, Rhein Verlag,

Zurigo 1953, p. 30.

3. LA SITUAZIONE UMANA ALLA BASE DELLA PSICANALISI UMANISTICA 46

è espresso nella credenza che ancora esiste presso alcuni indiani

messicani: che un certo animale corrisponde ad una particolare per-

sona; o nella credenza dei maori che un certo albero (piantato alla

nascita) corrisponde a un dato individuo. Ciò è espresso nei molti

rituali nei quali l’uomo identifica se stesso con un animale, masche-

randosi da animale, oppure nella scelta dell’animale totem.

Questo rapporto passivo con la natura corrisponde alle attività

economiche dell’uomo. Egli comincia come raccoglitore di cibo e

cacciatore e, se non fosse per gli attrezzi primitivi e per l’uso del

fuoco, si potrebbe dire che differisce ben poco dagli animali. Nel

corso del processo storico la sua abilità aumenta e i suoi rapporti con

la natura si trasformano da passivi in attivi. Egli alleva gli animali,

impara a coltivare la terra, acquista sempre maggior abilità nell’arte

e nell’artigianato, scambia i suoi prodotti con quelli di paesi stranie-

ri, e diventa così viaggiatore e commerciante.

Nel contempo cambiano le sue divinità. Finché egli si sente pro-

fondamente identificato con la natura, le sue divinità sono parte della

natura. Quando le sue abilità artigiane aumentano, egli costruisce

idoli in pietra o legno od oro. Quando si è ulteriormente evoluto e ha

conquistato un più prezioso senso della propria potenza, le sue divi-

nità prendono la forma di esseri umani. Al principio, e questo pare

corrisponda ad uno stadio agricolo, Dio gli si presenta nella forma

della «Gran Madre» che tutto protegge e tutto alimenta. Finalmente

egli comincia ad adorare divinità paterne, che rappresentano la ra-

gione, i precetti morali, le leggi. Quest’ultimo e decisivo abbandono

del radicamento nella natura e della dipendenza dall’amore materno

sembra aver inizio con il sorgere delle grandi religioni razionali e

patriarcali. In Egitto, con la rivoluzione religiosa di Ekhnaton nel

quattordicesimo secolo prima di Cristo; in Palestina con la forma-

zione della religione mosaica circa nello stesso periodo; in India e in

Grecia non molto più tardi con l’arrivo degli invasori nordici. Molti

riti rivelano questa nuova concezione. Nel sacrificio di animali, quel

che è animale nell’uomo viene sacrificato a Dio. Con i tabù alimen-

tari della Bibbia che proibiscono di cibarsi del sangue degli animali

(perché «il sangue è la loro vita») è stabilita una linea rigorosa di

demarcazione tra l’uomo e l’animale. Nel concetto di Dio, che rap-

presenta il principio vitale, unificatore invisibile e infinito, è stato

fissato il contrapposto al mondo naturale, finito, diversificato, al

47 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

mondo delle cose. L’uomo, creato a somiglianza di Dio, partecipa

delle qualità di Dio, sorge dalla natura e tende ad essere completa-

mente nato, ad esser completamente desto.19

Questo processo rag-

giunse un ulteriore stadio nella metà del primo millennio in Cina con

Confucio e Lao-tze, in India con Budda, in Grecia con i filosofi dello

scientismo greco, e in Palestina con i profeti biblici; successivamen-

te un nuovo culmine si raggiunse col cristianesimo e con lo stoici-

smo nell’impero romano, con Quetzalcoatl nel Messico20

e, altri cin-

quecento anni dopo, con Maometto in Africa.

La nostra cultura occidentale è costituita su due fondamenti: la

cultura ebraica e quella greca. Se esaminiamo la tradizione ebraica,

le cui basi risiedono nel vecchio testamento, troviamo che essa costi-

tuisce una forma relativamente pura di cultura patriarcale, costruita

sopra il potere del padre nella famiglia, del sacerdote e del re nella

società, e di un Dio padre nel cielo. Tuttavia, nonostante questa

estrema forma di organizzazione patriarcale, si possono rinvenire

elementi matriarcali più antichi, quali esistevano nelle religioni tellu-

riche, legate alla terra e alla natura, che furono spodestate dalle reli-

gioni razionali e patriarcali nel secondo millennio prima di Cristo.

Nella storia della creazione noi troviamo l’uomo ancora in uno

stato di primitiva unità con il suolo, senza necessità di lavoro e senza

coscienza di sé. La donna è la più intelligente, attiva e audace dei

due, e soltanto dopo la «caduta» il Dio patriarcale proclama il prin-

cipio che l’uomo comanderà sulla donna. Tutto il vecchio testamento

è una elaborazione del principio patriarcale sotto vari aspetti, stabi-

lendo un sistema gerarchico di stato teocratico e dando una organiz-

zazione rigorosamente patriarcale alla famiglia. Nella struttura fami-

liare quale ci è descritta nel vecchio testamento troviamo sempre la

figura del figlio favorito: Abele rispetto a Caino, Giacobbe rispetto a

Esaù, Giuseppe rispetto ai fratelli, e, in un senso più largo, il popolo

di Israele come figlio favorito di Dio. Al posto dell’eguaglianza di

tutti i figli agli occhi della madre, troviamo il favorito, più somi- 19 Mentre rivedevo il presente manoscritto trovai nell'opera di

Alfred WEBER, Der Dritte oder der Vierte Mensch, R. Piper Co', Monaco 1953, p. 9ss uno

schema di sviluppo storico che ha qualche affinità con quello del mio testo. Egli pone l'ipotesi

di un periodo ctonico tra il 4000 e il 1200 a.C. caratterizzato dal costante attaccamento alla

terra delle popolazioni agricole. 20 Seguo in questa datazione non ortodossa gli scritti e le comunicazioni personali di Laurette

Séjuorné. Cfr. El Mensaje de Quetzalcoatl, «Cuadernos Americanos», V, 1954.

3. LA SITUAZIONE UMANA ALLA BASE DELLA PSICANALISI UMANISTICA 48

gliante al padre e da questi maggiormente amato quale suo successo-

re ed erede dei suoi beni. Nella contesa per il posto di figlio favorito

e quindi per l’eredità, i fratelli diventano nemici, l’eguaglianza cede

il posto alla gerarchia.

Il vecchio testamento postula non solo un rigoroso tabù

dell’incesto, ma anche il divieto dell’attaccamento al suolo. La storia

umana, quale esso ce la presenta, inizia con l’espulsione dell’uomo

dal paradiso, dal suolo al quale egli era radicato, e con cui si sentiva

una sola cosa. La storia ebraica inizia con l’ordine dato ad Abramo

di lasciare il paese dove era nato e di andare «verso un paese che non

conosci». Dalla Palestina la tribù passa in Egitto, e da qui ritorna

ancora in Palestina. Ma nemmeno la nuova residenza è definitiva.

Gli ammaestramenti dei profeti sono diretti contro il rinnovato attac-

camento incestuoso al suolo e alla natura che si era manifestato nella

idolatria cananea. Essi proclamano il principio che un popolo che è

regredito dai principi della ragione e della giustizia a quello del le-

game incestuoso col suolo sarà cacciato dalla sua terra ed errerà nel

mondo senza dimora e senza patria sino a che non abbia completa-

mente sviluppato i principi della ragione, sino a che non abbia supe-

rato il legame incestuoso col suolo e con la natura; soltanto allora il

popolo potrà tornare alla sua patria, soltanto allora il suolo sarà una

benedizione; una umana dimora libera dalla maledizione

dell’incesto. Il concetto del tempo messianico è quello della vittoria

completa sui legami incestuosi, della totale affermazione della realtà

spirituale della coscienza morale e intellettuale, non soltanto fra gli

ebrei, ma fra tutti i popoli della terra.

Il concetto centrale e conclusivo dello sviluppo patriarcale del

vecchio testamento risiede, naturalmente, nel concetto di Dio. Egli

rappresenta il principio unificatore dietro la pluralità dei fenomeni.

L’uomo è creato a somiglianza di Dio, perciò tutti gli uomini sono

eguali - eguali nelle loro capacità spirituali comuni, nella loro ragio-

ne comune, nella loro capacità di amore fraterno.

Il cristianesimo è un ulteriore sviluppo di questo spirito, non tan-

to nel suo insistere sul principio dell’amore che troviamo manifesta-

to in diverse parti del vecchio testamento, quanto per il suo insistere

sul carattere supernazionale della religione. Come i profeti metteva-

no in dubbio la validità dell’esistenza del loro stato perché questo

non si conformava agli imperativi della coscienza, così i primi cri-

49 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

stiani misero in dubbio la legittimità morale dell’impero romano,

perché violava i principi di amore e di giustizia.

Mentre la tradizione ebraico-cristiana poneva l’accento

sull’aspetto morale, il pensiero greco scoprì la sua manifestazione

più creativa nell’aspetto intellettuale dello spirito patriarcale. In Gre-

cia, come in Palestina, troviamo un mondo patriarcale che, sia nei

suoi aspetti sociali sia in quelli religiosi, è emerso vittoriosamente da

una precedente struttura matriarcale. Come Eva non era nata da una

donna, ma era stata fatta con una costola di Adamo, così Atena non

era una creatura di donna, ma era uscita dalla testa di Zeus. I resti di

un più antico mondo matriarcale si possono ravvisare, come ha indi-

cato Bachofen, nelle figure di dee subordinate al mondo patriarcale

olimpico. I greci posero le basi per lo sviluppo intellettuale del mon-

do occidentale. Essi posero i «fondamenti» del pensiero scientifico,

furono i primi a costruire la «teoria» come base della scienza, a svi-

luppare una filosofia sistematica quale non era esistita in nessuna

cultura precedente. Essi crearono una teoria dello stato e della socie-

tà basata sulla loro esperienza della polis greca, teoria che fu poi

continuata a Roma, sulle basi sociali di un enorme impero unificato.

A causa dell’incapacità dell’impero romano a continuare una

evoluzione politica e sociale progressiva, lo sviluppo venne ad arre-

starsi verso il quarto secolo, ma non prima che si fosse costituita una

nuova potente istituzione: la chiesa cattolica. Mentre il primo cri-

stianesimo era stato un movimento spirituale rivoluzionario dei po-

veri e dei diseredati, che mettevano in dubbio la legittimità morale

della situazione esistente, e la fede di una minoranza che accettava

persecuzioni e morte come testimonianze di Dio, esso, in un tempo

incredibilmente breve, doveva mutarsi in religione ufficiale dello

stato romano. Mentre la struttura sociale dell’impero romano lenta-

mente si irrigidiva in un ordine feudale che doveva sopravvivere in

Europa per un migliaio di anni, la struttura sociale della religione

cattolica cominciava pure a mutare. Perdeva importanza

l’atteggiamento profetico che aveva favorito la sfiducia e le critiche

alle violazioni, da parte del potere temporale, dei principi di amore e

di giustizia. Il nuovo atteggiamento richiese l’indiscriminato appog-

gio della potenza della chiesa in quanto istituzione. Tanta era la sod-

disfazione psicologica data alle masse che esse accettavano la loro

3. LA SITUAZIONE UMANA ALLA BASE DELLA PSICANALISI UMANISTICA 50

dipendenza e la loro povertà con rassegnazione, non facendo quasi

nessuno sforzo per migliorare la loro condizione sociale.21

Sotto questo punto di vista, il mutamento più importante è quello

che sposta l’interesse da uno stato puramente patriarcale ad una fu-

sione di elementi patriarcali e matriarcali. Il Dio ebraico del vecchio

testamento era stato un dio rigorosamente patriarcale; nello sviluppo

del cattolicesimo viene nuovamente introdotta l’idea della madre che

tutti ama e a tutti perdona. La stessa chiesa cattolica -la madre che

tutto abbraccia - e la Vergine Madre simboleggiano lo spirito mater-

no di perdono e di amore mentre Dio, il padre, rappresenta nel prin-

cipio gerarchico l’autorità cui l’uomo deve sottomettersi senza la-

menti né ribellioni. Non c’è dubbio che tale fusione di elementi ma-

terni e paterni fu uno dei principali fattori cui la chiesa dovette la sua

meravigliosa attrazione ed influenza sulle menti del popolo. Le mas-

se, oppresse dalle autorità patriarcali, poterono rivolgersi alla madre

amorosa che li avrebbe consolati e avrebbe interceduto per loro.

La funzione storica della chiesa non fu soltanto quella di contri-

buire allo stabilirsi di un ordine feudale. Il suo più importante suc-

cesso, ampiamente favorito dagli arabi e dagli ebrei, fu di trasmette-

re alla primitiva cultura europea gli elementi essenziali del pensiero

ebraico e greco. È come se la storia dell’occidente si fosse arrestata

per circa un millennio aspettando il momento in cui il nord Europa

sarebbe stato portato al grado di sviluppo cui il mondo mediterraneo

era giunto alla fine dell’era romana. Quando l’eredità spirituale di

Atene e di Gerusalemme sarà trasmessa ai popoli del nord Europa e

21 Il mutamento della funzione e del compito sociale del cristianesimo era connesso a profondi

mutamenti del suo spirito; la chiesa divenne un'organizzazione gerarchica. L'accento si spostò

sempre più dall'aspettazione della seconda venuta di Cristo e dalla costituzione di un nuovo

ordine di carità e giustizia al fatto della venuta originaria e al messaggio apostolico della sal-

vazione dell'uomo dalla sua congenita situazione di peccato. Un altro mutamento era connesso

a questo. L'originario concetto di Cristo era contenuto nel dogma dell'adozione il quale affer-

mava che Dio aveva adottato l'uomo Gesù come suo figlio, cioè che un uomo - un uomo soffe-

rente e povero - era diventato un dio. In questo dogma le speranze e brame rivoluzionarie dei

poveri e dei diseredati avevano trovato una espressione religiosa. Un anno dopo la proclama-

zione del cristianesimo come religione ufficiale dell'impero romano, era ufficialmente accetta-

to il dogma per cui Dio e Gesù erano identici, della stessa essenza, e che Dio aveva soltanto

manifestato se stesso nella carne di un uomo. In questa nuova visione l'idea rivoluzionaria

dell'elevazione dell'uomo a Dio era stata sostituita dall'atto amoroso di Dio di abbassarsi

all'uomo, per così dire, e in questo modo redimerlo dalla sua corruzione. (Cfr. FROMM, Die

Entwicklung des Christus Dogmas, Psychoanalytischer Verlag, Vienna 1931).

51 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

da questi assorbita, la struttura sociale comincerà a perdere la sua

rigidità e si avrà ancora un erompente sviluppo sociale e spirituale.

I fondamenti del nuovo sviluppo saranno dati dalla teologia catto-

lica del tredicesimo e quattordicesimo secolo, dalle idee del rinasci-

mento italiano «che scoprono l’individuo e la natura», dai concetti

dell’umanesimo e del giusnaturalismo, e dalla riforma. Il risultato

più efficace e di maggior portata per lo sviluppo dell’Europa e del

mondo fu la riforma. Il protestantesimo e il calvinismo ritornavano

allo spirito meramente patriarcale del vecchio testamento ed esclu-

devano dal concetto religioso l’elemento materno: l’uomo non era

più protetto dall’amor materno della chiesa e della Vergine; egli era

solo, di fronte a un Dio severo e rigoroso, da cui poteva ottenere mi-

sericordia solo con un atto di completo abbandono. I principi e lo

stato divennero onnipotenti per sanzione divina. La emancipazione

dai legami feudali portò alla crescente sensazione di isolamento e di

impotenza, ma nel contempo l’aspetto positivo del principio paterno

si affermò nel rinascere del pensiero razionale e

dell’individualismo.22

La rinascita dello spirito patriarcale a partire dal sedicesimo seco-

lo, specialmente nei paesi protestanti, rivela sia l’aspetto positivo sia

quello negativo del patriarcalismo. L’aspetto negativo si manifestò

in una nuova sottomissione allo stato e al potere temporale, e nella

sempre più accentuata importanza delle leggi umane e delle gerar-

chie secolari. L’aspetto positivo si rivelò nel crescente spirito di ra-

zionalità e di obiettività, e nello sviluppo della coscienza individuale

e sociale. Il fiorire della scienza ai nostri giorni è una delle più signi-

ficative manifestazioni del pensiero razionale che siano mai state

prodotte dal genere umano. Ma il complesso patriarcale, sia nei suoi

aspetti positivi sia in quelli negativi, non è affatto scomparso dal

mondo occidentale moderno. Il suo aspetto positivo, l’idea

dell’eguaglianza umana, della santità della vita, del diritto di ogni

uomo a partecipare ai doni della natura, trovano espressioni nelle

idee del diritto naturale, dell’umanesimo, della filosofia illuministica

e negli obiettivi del socialismo democratico. Comune a tutte queste

idee è il concetto che tutti gli uomini sono figli della Madre Terra e

22 Cfr. la profonda e brillante analisi di questo problema in M.N. Roy, Reason, Romanticism

and Revolution, Renaissance Publishing Co., Calcutta 1952.

3. LA SITUAZIONE UMANA ALLA BASE DELLA PSICANALISI UMANISTICA 52

hanno diritto ad esser nutriti da essa, e a godere la felicità senza do-

ver provare questo diritto con il raggiungimento di una qualsiasi

condizione sociale particolare. La fratellanza di tutti gli uomini si-

gnifica che essi sono tutti figli della stessa madre, che hanno un di-

ritto inalienabile all’amore e alla felicità. In questo concetto il lega-

me incestuoso con la madre è escluso. Col dominio sulla natura qua-

le si manifesta nella produzione industriale, l’uomo libera se stesso

dall’attaccamento ai legami del sangue e del suolo, umanizza la sua

natura e naturalizza se stesso.

Ma accanto allo sviluppo degli aspetti positivi del complesso ma-

triarcale troviamo, nella storia europea, il persistere dei suoi aspetti

negativi, o anche una regressione verso di essi, con l’attaccamento al

sangue e al suolo. L’uomo, liberato dai tradizionali legami della co-

munità medievale, timoroso della nuova libertà che lo trasforma in

un atomo isolato, si rifugia in una nuova idolatria del sangue e del

suolo, di cui nazionalismo e razzismo sono le due più evidenti

espressioni. Assieme allo sviluppo progressivo che contempera gli

aspetti positivi sia dello spirito matriarcale sia di quello patriarcale,

procedeva lo sviluppo degli aspetti negativi di entrambi i principi:

con il culto dello stato, commisto alla idolatria della razza o della

nazione. Il fascismo, il nazismo e lo stalinismo sono le manifesta-

zioni più violente del culto dello stato e insieme del clan, principi

impersonati nella figura di un Führer.

Ma i nuovi totalitarismi non sono affatto nei nostri tempi le sole

manifestazioni di attaccamento incestuoso. Il decadere del mondo

supernazionale cattolico del medioevo avrebbe portato ad una più

alta forma di «cattolicesimo», cioè di universalismo umano trascen-

dente il culto del clan, se lo sviluppo avesse seguito le intenzioni dei

capi spirituali del pensiero umanistico fin dal rinascimento. Ma,

mentre la scienza e la tecnica creavano le condizioni per tale svilup-

po, il mondo occidentale regrediva in nuove forme di idolatria del

clan, cioè precisamente in quell’orientamento che i profeti del vec-

chio testamento e il primo cristianesimo tentarono di sradicare. Il

nazionalismo, che alle origini è un movimento di progresso, rim-

piazzò i vincoli del feudalesimo e dell’assolutismo. L’uomo medio

di oggi trae il suo senso di identità dall’appartenenza ad una nazione,

invece che dal suo essere «figlio dell’uomo». La sua obiettività, cioè

la sua ragione, è corrotta da questo attaccamento. Egli giudica lo

53 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

«straniero» con criteri diversi da quelli usati per i componenti del

proprio clan. I suoi sentimenti nei confronti degli stranieri sono

egualmente corrotti. Chi non è «familiare» per vincoli di sangue e di

suolo (che si rivelano nell’uso comune di un linguaggio, di costumi,

cibi, canti, ecc.) è guardato con sospetto, e le più esigue provocazio-

ni possono causare manie paranoiche nei suoi confronti. Questo at-

taccamento incestuoso non corrompe soltanto il rapporto del singolo

con lo straniero, ma con i membri del suo proprio clan e con se stes-

so. La persona che non ha liberato se stessa dal vincolo del sangue e

del suolo non è ancora completamente nata come essere umano; le

sue capacità di amare e di ragionare non sono ancora formate, egli

non esperimenta né se stesso né i suoi simili in quella che è la realtà

umana sua e loro.

Il nazionalismo è la nostra forma di incesto, è la nostra idolatria,

è la nostra pazzia. Il «patriottismo» è il suo culto. Credo sia super-

fluo dire che per «patriottismo» io intendo quell’atteggiamento che

tende a mettere la propria nazione al di sopra dell’umanità, al di so-

pra dei principi di verità e di giustizia; non l’amoroso interesse verso

la nostra nazione, che consiste nella preoccupazione per il suo be-

nessere tanto materiale che spirituale e mai per il suo predominio

sulle altre nazioni. Come l’amore per un singolo che escluda l’amore

per gli altri non è amore, così l’amore per il nostro paese che non sia

parte del nostro amore per l’umanità non è amore, ma culto idolatri-

co.23

Il carattere idolatrico del sentimento nazionale può esser riscon-

trato nel modo con cui si reagisce all’offesa ai simboli del clan; rea-

zione che è molto diversa da quella determinata da offese ai simboli

morali o religiosi. Immaginiamo un uomo che prenda la bandiera del

suo paese e la calpesti di fronte ad altra gente nella strada di una città

del mondo occidentale. Sarà fortunato se non lo linciano. In quasi

tutti nascerebbe un tal senso di furiosa indignazione che difficilmen-

te consentirebbe la benché minima riflessione obiettiva. L’uomo che

profanasse la bandiera avrebbe commesso un atto indicibile; egli

avrebbe commesso un delitto che non è un delitto tra diversi altri,

ma il delitto, quello che è imperdonabile e inscusabile. Non altrettan-

23 Sul problema del nazionalismo si veda l'esauriente e profondo studio di R. ROCKER, Na-

tionalism and Culture, Rocker Publ. Comm., Los Angeles 1937.

3. LA SITUAZIONE UMANA ALLA BASE DELLA PSICANALISI UMANISTICA 54

to violenta, ma pur tuttavia dello stesso genere sarebbe la reazione

verso l’uomo che dicesse: «Io non amo il mio paese», o, in caso di

guerra: «non mi importa della vittoria del mio paese». Una simile

dichiarazione è un vero sacrilegio, e un uomo che si esprimesse così

diventerebbe, nel sentimento dei suoi simili, un mostro, una specie

di fuorilegge.

Per comprendere la particolare natura del sentimento provocato

potremmo paragonare questa reazione con quella determinata da un

uomo che dicesse o scrivesse: «Io sono favorevole allo sterminio dei

negri o degli ebrei; sono favorevole a chi provoca una guerra per

conquistare nuovi territori». In effetti la maggior parte della gente

avvertirebbe che questa è un’opinione immorale e inumana. Ma il

punto cruciale è che non si verificherebbe in tal caso il particolare

sentimento di indignazione e di collera profonde e incontrollabili.

Una simile opinione è propriamente «malvagia», ma non sacrilega,

essa non costituisce un’offesa a «quel che è sacro». Anche se un

uomo bestemmiasse Dio, difficilmente provocherebbe un sentimento

di indignazione simile a quello contro il crimine, contro il sacrilegio

che è l’offesa ai simboli del paese. È facile dare una spiegazione ra-

gionevole della reazione alla offesa al simbolo nazionale dicendo

che un uomo che non rispetti il suo paese rivela una mancanza di

solidarietà umana e di senso sociale, ma ciò non è vero anche per

l’uomo che perora la causa della guerra o dell’assassinio di gente

innocente, o che sfrutta gli altri per i propri interessi? Indubbiamente

la mancanza di attaccamento per il proprio paese è una esperienza

della mancanza di responsabilità sociale e di solidarietà umana, co-

me lo sono gli altri atti qui citati, ma la reazione all’offesa alla ban-

diera è fondamentalmente diversa dalla reazione contro il rifiuto di

responsabilità sociale in tutti i suoi altri aspetti. Uno solo di questi

oggetti è «sacro»: un simbolo del culto del clan; gli altri no.

Dopo che le grandi rivoluzioni europee del diciassettesimo e di-

ciottesimo secolo non riuscirono a trasformare la «libertà da» in «li-

bertà di», il nazionalismo e il culto dello stato diventarono sintomi di

una regressione all’attaccamento incestuoso. Soltanto quando

l’uomo riuscirà a sviluppare ragione e amore più di quel che non

abbia fatto fin qui, soltanto quando egli saprà costruire un mondo

basato sulla solidarietà umana e sulla giustizia, soltanto quando potrà

sentirsi radicato nell’esperienza della solidarietà universale, solo al-

55 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

lora avrà trovato una nuova forma umana di radicamento, avrà tra-

sformato il suo mondo in una dimora veramente umana.

D. senso di identità: individualità contro conformismo gregario

L’uomo può esser definito come l’animale che può dire «io», che

può aver coscienza di sé come di una entità separata. L’animale, es-

sendo nella natura, e non trascendendola, non ha coscienza di se

stesso, non ha bisogno di un senso di identità. L’uomo strappato alla

natura, dotato di ragione e di fantasia, ha bisogno di formarsi un

concetto di se stesso, ha bisogno di dire e di sentire «io sono io».

Poiché non viene vissuto ma vive, poiché ha perduto l’unità origina-

ria con la natura, poiché deve prendere delle decisioni ed è conscio

di se stesso e del suo prossimo come di persone separate, egli deve

sentirsi il soggetto delle sue azioni. Come per i bisogni di correla-

zione, radicamento e trascendenza, questo bisogno del senso di iden-

tità è tanto essenziale e imperativo che l’uomo non resterebbe equi-

librato se non trovasse qualche modo per soddisfarlo. Il senso umano

di identità si sviluppa nel processo di emancipazione dai «legami

primari» che lo uniscono alla madre e alla natura. Il bambino, sen-

tendosi ancora uno con la madre, non può dire «io», e neppure ne

avverte il bisogno. Soltanto dopo aver concepito il mondo degli altri

come separato e diverso da se stesso egli giungerà alla coscienza di

sé come di un essere distinto, e «io» riferito a se stesso è una delle

ultime parole che impara ad usare.

Nello sviluppo del genere umano, la coscienza che l’uomo ha di

se stesso come di una entità separata è in rapporto al suo grado di

emancipazione dal clan e al grado cui è giunto il processo di indivi-

duazione. Il membro di un clan primitivo potrebbe esprimere il suo

senso di identità nella formula «io sono io», egli non può ancora

concepire se stesso come un «individuo» che ha un’esistenza indi-

pendente dal gruppo. Nel mondo medievale, l’individuo era identifi-

cato col suo ruolo sociale nella gerarchia feudale. Il contadino non

era chi si trovava ad essere contadino, e il signore feudale chi si tro-

vava ad essere un signore feudale. Egli era contadino o signore, e

questo sentimento dell’inalterabilità della sua situazione era una par-

te essenziale del suo senso di identità. Quando il sistema feudale

crollò, questo senso di identità rimase scosso e sorse la pressante

3. LA SITUAZIONE UMANA ALLA BASE DELLA PSICANALISI UMANISTICA 56

domanda: «chi sono io?», o, più precisamente: «come posso sapere

che io sono io?». È il problema che fu posto in termini filosofici da

Cartesio. Egli rispondeva alla ricerca di identità dicendo: «dubito

dunque penso; penso dunque sono». Questa risposta poneva tutto

l’accento esclusivamente sull’esperienza dell’«io» come soggetto di

ogni attività intellettuale, e non vedeva che l’«io» si riconosce anche

nel processo sentimentale e nell’attività creativa.

Lo sviluppo della cultura occidentale mirava a porre le basi per

l’esperienza totale dell’individualità. Liberando l’individuo politi-

camente ed economicamente, insegnandogli a pensare da sé, e libe-

randolo dall’oppressione autoritaria, si sperò di renderlo capace di

sentirsi «io» nel senso che egli era il centro e il soggetto attivo dei

suoi poteri, e si riconosceva tale. Ma soltanto una minoranza rag-

giunse la nuova esperienza dell’«io». Per la maggioranza

l’individualismo era poco più che una facciata dietro la quale si na-

scondeva l’incapacità di raggiungere un sentimento individuale di

identità.

Si sono cercati e trovati molti surrogati di un senso di identità ve-

ramente individuale. La nazione, la religione, la classe e la profes-

sione servono a dare un senso di identità. «Io sono americano», «io

sono protestante», «io sono un uomo d’affari», sono queste le formu-

le che aiutano l’uomo a provare un senso di identità dopo che la ori-

ginaria identità del clan è scomparsa, e prima che un sentimento ve-

ramente individuale di identità sia stato raggiunto. Nella società con-

temporanea queste diverse identificazioni vengono generalmente

usate assieme. Esse sono, in senso lato, identificazioni di status e

sono più efficaci se commiste a più antichi residui feudali, come nei

paesi europei. Negli Stati Uniti, dove sopravvivono così scarse trac-

ce feudali e dove c’è tanta mobilità sociale, queste identificazioni di

status sono naturalmente meno efficaci e il senso di identità si tra-

sforma sempre più in esperienza conformista.

In quanto non sono differente, in quanto sono come gli altri, che

mi riconoscono come un «tipo a posto», posso sentirmi «io». Sono

«come tu mi vuoi», come si esprime Pirandello nel titolo di una sua

commedia. Invece dell’identità preindividualistica del clan si svilup-

pa una nuova identità gregaria, in cui il senso di identità è basato su

un sentimento di indiscutibile appartenenza alla massa. I fatti non

cambiano quando, come spesso avviene, questa uniformità e questo

57 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

conformismo non sono riconosciuti come tali, ma vengono masche-

rati mediante una individualità illusoria.

Il problema del senso di identità non è, come di solito si intende,

un problema meramente filosofico, o un problema che riguarda sol-

tanto la mente e il pensiero. Il bisogno di possedere un senso di iden-

tità sorge proprio dalla condizione della esistenza umana ed è la fon-

te dei nostri sforzi più intensi. Dato che non posso mantenere il mio

equilibrio senza il senso dell’«io», sono spinto quasi a far qualsiasi

cosa pur di conquistarlo. Dietro l’intensa preoccupazione per lo sta-

tus e per il conformismo c’è appunto questa esigenza, talvolta anche

più forte di quella della sopravvivenza fisica. Che può esservi di più

evidente del fatto che c’è gente pronta a rischiare la propria vita, ad

abbandonare l’amore, a rinunciare alla libertà, a far sacrificio del

proprio pensiero, e ciò per esser uno del gregge, per conformarsi e

ottenere così un sentimento di identità, benché illusorio?

E. bisogno di un sistema di orientamento e di devozione: ragione

contro irrazionalità

Il fatto che l’uomo possegga ragione e immaginazione porta non

solo alla necessità di avere un sentimento della propria identità, ma

anche di orientarsi intellettualmente nel mondo. Questo bisogno può

essere paragonato al processo di orientamento fisico che si svi-

luppa nei primi anni della vita e che si compie quando il bambino

riesce a camminare da solo, a toccare e maneggiare le cose sapendo

che cosa sono. Ma quando si sia conquistata la capacità di cammina-

re e di parlare, si è fatto soltanto il primo passo verso l’orientamento.

L’uomo si trova circondato da molti fenomeni oscuri e, dotato com’è

di ragione, deve interpretarli e correlarli in modo da poterli com-

prendere e dominare col suo pensiero. Il suo sistema di orientamento

diventa più adeguato, cioè si avvicina di più alla realtà, quanto più si

sviluppa la sua ragione. Ma il sistema di orientamento dell’uomo,

anche se estremamente illusorio, soddisfa tuttavia il suo bisogno di

un’immagine che sia per lui significativa. Se egli crede nel potere di

un totem animale, di un dio della pioggia, nella superiorità e nel de-

stino della sua razza, il suo bisogno di un sistema di orientamento è

soddisfatto. È più che evidente che l’immagine che egli si fa del

mondo dipende dallo sviluppo della sua ragione e della sua cono-

3. LA SITUAZIONE UMANA ALLA BASE DELLA PSICANALISI UMANISTICA 58

scenza. Benché biologicamente la capacità cerebrale dell’uomo sia

rimasta la stessa per migliaia di generazioni, ci vuole un lungo pro-

cesso evolutivo per arrivare all’obiettività, cioè per acquistare la fa-

coltà di vedere il mondo, la natura, gli altri e se stessi come sono e

non distorti da desideri e da paure. Quanto più l’uomo sviluppa que-

sta obiettività, tanto più egli è in contatto con la realtà; quanto più si

matura, tanto meglio egli può creare un mondo umano nel quale tro-

varsi a suo agio. La ragione è la facoltà dell’uomo di afferrare il

mondo col pensiero, in contrasto con l’intelligenza che è l’abilità

dell’uomo di manovrare il mondo con l’aiuto del pensiero. La ragio-

ne è lo strumento dell’uomo per raggiungere la verità; l’intelligenza

è lo strumento dell’uomo per manovrare il mondo con maggior suc-

cesso; la prima è essenzialmente umana, la seconda appartiene alla

parte animale dell’uomo.

La ragione è una facoltà che per svilupparsi deve essere esercita-

ta: essa è indivisibile. Con questo intendo dire che la capacità di

obiettività si riferisce alla conoscenza della natura come pure a quel-

la dell’uomo, della società e di se stessi. Se uno vive tra false pro-

spettive per ciò che riguarda un settore della vita, la sua capacità di

ragionare è limitata o menomata, e così l’uso della ragione è impedi-

to per tutti gli altri settori. Sotto questo aspetto la ragione è come

l’amore. Proprio come l’amore è un orientamento che si riferisce a

tutti gli oggetti e non può esser limitato ad un solo oggetto, così la

ragione è una facoltà umana che deve comprendere l’intero mondo

con cui l’uomo è in rapporto.

Del bisogno di un sistema di orientamento esistono due gradi: il

primo e più fondamentale bisogno è quello di possedere un sistema

qualsiasi di orientamento senza considerare se sia vero o falso. Un

uomo che non possegga un tale sistema di orientamento capace di

dare qualche soddisfazione soggettiva, non può possedere la salute

mentale. Il secondo grado è quello di essere in contatto con la realtà

attraverso la ragione, di afferrare il mondo obiettivamente. Ma la

necessità di sviluppare la propria ragione non è così immediata come

quella di sviluppare un sistema di orientamento, poiché ciò di cui si

tratta nel secondo caso è la felicità e serenità e non la sanità mentale.

Questo diventa molto chiaro se studiamo la funzione della raziona-

lizzazione. Per quanto irragionevole e immorale sia una azione,

l’uomo subisce un invincibile stimolo a razionalizzarla, cioè a prova-

59 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

re a se stesso e agli altri che la sua azione è determinata dalla ragio-

ne, dal buon senso o, almeno, dalla moralità convenzionale. Egli non

ha gran difficoltà ad agire irrazionalmente, ma è quasi impossibile

che egli non dia alla sua azione una apparente motivazione razionale.

Se l’uomo fosse soltanto intelletto senza corpo, il suo fine sareb-

be raggiunto con un vasto sistema logico. Ma poiché egli è un’entità

dotata sia di un corpo sia di una mente, deve reagire alla dicotomia

della sua esistenza non solamente mediante il pensiero ma anche nel

processo vitale completo, con i sentimenti e le azioni. Perciò ogni

sistema di orientamento soddisfacente contiene non solo elementi

intellettuali, ma anche elementi sentimentali e sensori che sono

espressi nel rapporto con un oggetto di devozione.

Le risposte date al bisogno che l’uomo ha di un sistema di orien-

tamento e di un oggetto di devozione differiscono grandemente sia

nel contenuto sia nella forma. Ci sono sistemi primitivi quali

l’animismo e il totemismo in cui gli oggetti naturali o gli antenati

rappresentano risposte alla ricerca di un significato da parte

dell’uomo. Ci sono sistemi non teistici come il buddismo, che di so-

lito si chiamano religioni benché nella loro forma originaria non vi

sia un concetto di Dio. Ci sono sistemi meramente fisiologici, come

lo stoicismo, e sistemi religiosi monoteistici i quali danno una rispo-

sta alla ricerca umana di un significato con riferimento al concetto di

Dio.

Ma quale che sia il loro contenuto tutti rispondono al bisogno

dell’uomo di possedere non solo qualche sistema logico, ma anche

un oggetto di devozione che dia significato alla sua esistenza e alla

sua posizione nel mondo. Soltanto l’analisi delle varie forme di reli-

gione potrà mostrare quali risposte forniscano rispettivamente la so-

luzione migliore o peggiore della ricerca umana di significato e de-

vozione: «migliore» e «peggiore» sempre secondo il punto di vista

della natura dell’uomo e del suo sviluppo.24

24 Cfr. per un più dettagliato esame di questo problema il mio Psicanalisi e religione, Edizioni

di Comunità, Milano 1961. L'esame del bisogno di un oggetto di devozione e di rituali conti-

nua nel capitolo VIII, 4, di questo libro.

60

4.

Salute mentale e società

Il concetto di salute mentale dipende dal nostro concetto di natu-

ra dell’uomo. Nel capitolo precedente si è tentato di mostrare che i

bisogni e le passioni dell’uomo sorgono dalla peculiare condizione

della sua esistenza. Quei bisogni che egli condivide con l’animale,

fame, sete, bisogno di dormire e di soddisfazione sessuale, sono im-

portanti essendo radicati nei processi chimici interni del corpo, e

possono diventare fortissimi quando rimangono insoddisfatti. (Que-

sto è vero, naturalmente, più per il bisogno di cibo e di sonno che per

quello del sesso, che qualora non venga soddisfatto non raggiunge

mai la potenza degli altri bisogni, almeno non per ragioni fisiologi-

che). Ma neppure la loro completa soddisfazione costituisce una

condizione sufficiente per l’equilibrio e la salute mentale. Questi

dipendono dalla soddisfazione di quei bisogni e di quelle passioni

che sono specificamente umani, e che sorgono dalle condizioni della

situazione umana: i bisogni di correlazione, trascendenza, radica-

mento, il bisogno di un sentimento di identità e il bisogno di un si-

stema di orientamento e di devozione. Le grandi passioni dell’uomo,

la sua sete di potere, la sua vanità, la sua ricerca della verità, il suo

desiderio di amore e di fratellanza, la sua capacità di distruggere

come quella di creare, tutti i potenti desideri che motivano le azioni

dell’uomo sono radicati in questa specifica origine umana, non nei

vari stadi della sua libido come ritiene la teoria freudiana.

La soluzione che l’uomo dà ai suoi bisogni fisiologici è, psicolo-

gicamente parlando, estremamente semplice: la difficoltà è qui ve-

ramente sociologica ed economica. La soluzione che l’uomo dà ai

suoi bisogni umani è straordinariamente complessa, dipende da mol-

ti fattori; ultimo tra essi, ma di non minor importanza, dal modo in

cui la società è organizzata e da come questa organizzazione deter-

mina le relazioni umane entro di sé.

I bisogni psichici basilari originati dalle peculiarità dell’esistenza

umana devono essere soddisfatti in una forma o nell’altra, affinché

61 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

l’uomo non diventi pazzo, proprio come i suoi bisogni fisiologici

devono essere soddisfatti per evitare che egli muoia. Ma i modi in

cui i bisogni psichici possono essere soddisfatti sono molteplici e la

differenza tra i diversi modi di soddisfazione è equivalente alla diffe-

renza esistente tra i diversi gradi di salute mentale. Se una delle ne-

cessità basilari non ha trovato soddisfazione il risultato è la pazzia;

se ad essa si corrisponde ma, considerando la natura dell’esistenza

umana, in modo non soddisfacente, la conseguenza è la nevrosi (sia

palese sia nella forma di deficienza socialmente strutturata). L’uomo

deve mettersi in relazione con gli altri ma, facendolo in una maniera

simbiotica o alienata, egli perde la sua indipendenza e la sua integri-

tà; sarà debole e sofferente, diventerà ostile o apatico; soltanto quan-

do sia in grado di mettersi in relazione con gli altri mediante

l’amore, egli si sente uno con essi e nello stesso tempo preserva la

sua integrità. Soltanto col lavoro produttivo egli si mette in relazione

con la natura, diventando uno con essa pur senza esservi sommerso.

Fino a quando l’uomo resta radicato incestuosamente nella natura,

nella madre, nel clan, lo sviluppo della sua individualità e della sua

ragione è arrestato; egli resta la sprovveduta preda della natura senza

però sentirsi mai unito con essa. Soltanto se egli sviluppa la sua ra-

gione e il suo amore, se può aver esperienza del mondo naturale e

sociale in maniera umana, può sentirsi a suo agio, sicuro di sé e pa-

drone della sua vita. È appena necessario notare come, delle due

possibili forme di trascendenza, la distruttività porti alla sofferenza e

la creatività alla felicità. È anche facile vedere che soltanto un senso

di identità basato sulla conoscenza dei propri poteri può dare forza,

mentre tutte le forme di esperienza dell’identità basate sul gruppo

lasciano l’uomo dipendente e perciò debole. Infine, soltanto nella

misura in cui afferra la realtà, l’uomo può fare di questo mondo

qualcosa di «suo»; vivendo tra false prospettive, egli non cambierà

mai le condizioni che le rendono necessarie.

Riassumendo, si può dire che il concetto di salute mentale deriva

dalle condizioni stesse dell’esistenza umana, ed è eguale per l’uomo

in tutte le epoche e in tutte le culture. La salute mentale è caratteriz-

zata dalla capacità di amare e di creare, dalla liberazione dai legami

incestuosi con il clan e con il suolo, da un senso di identità basato

sull’esperienza che l’individuo ha di sé come di soggetto e agente

4. SALUTE MENTALE E SOCIETÀ 62

dei suoi poteri, dalla capacità di afferrare la realtà dentro e fuori di

noi stessi, cioè dallo sviluppo dell’obiettività e della ragione.

Questo concetto di salute mentale coincide sostanzialmente con

le norme postulate dai grandi maestri spirituali della razza umana.

Secondo alcuni psicologi moderni questa coincidenza sembra dimo-

strare che le nostre premesse psicologiche non sono «scientifiche»,

ma sono, al contrario, «ideali» filosofici o religiosi. Evidentemente

riesce loro difficile concludere che i grandi insegnamenti di tutte le

culture erano basati sulla comprensione razionale della natura uma-

na, sulle condizioni per il completo sviluppo dell’uomo.

Quest’ultima conclusione sembra anche concordare maggiormente

col fatto che, nei luoghi più diversi di questa terra, in periodi storici

differenti, gli «illuminati» hanno predicato le stesse regole, senza

alcuna o con minima influenza reciproca. Ekhnaton, Mosè, Confu-

cio, Lao-tze, Budda, Isaia, Socrate, Gesù hanno postulato le stesse

regole di vita, con modeste e insignificanti varianti.

C’è una particolare difficoltà che molti psichiatri e psicologi de-

vono superare per accettare l’idea di psicanalisi umanistica. Essi

pensano ancora secondo le premesse filosofiche del materialismo del

diciannovesimo secolo che riteneva che tutti i fenomeni psichici im-

portanti dovessero esser radicati in corrispondenti processi somatici

fisiologici e che da essi fossero originati. In tal modo Freud, il cui

basilare orientamento filosofico era modellato su questo tipo di ma-

terialismo, credeva di aver trovato il sostrato fisiologico della pas-

sione umana nella «libido». Nella teoria che è qui esposta non vi

sono corrispondenti sostrati fisiologici dei bisogni di correlazione,

trascendenza, ecc.. Il sostrato non è fisico, ma consiste nell’intera

personalità umana, nella sua interazione con il mondo, la natura e

l’uomo; esso è la realizzazione umana della vita quale risulta dalle

condizioni dell’umana esistenza. La nostra premessa filosofica non è

quella del materialismo del diciannovesimo secolo; essa, al contra-

rio, pone l’azione dell’uomo e la sua interazione con i suoi simili e

con la natura come il dato empirico basilare per lo studio dell’uomo.

Se consideriamo il concetto di evoluzione umana, vedremo che il

nostro concetto di sanità mentale conduce ad una difficoltà teoretica.

C’è ragione di supporre che la storia dell’uomo, centinaia di migliaia

di anni fa, sia cominciata da una cultura veramente «primitiva», do-

ve la ragione umana non era sviluppata oltre il più rudimentale ini-

63 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

zio, dove le possibilità umane di orientamento avevano deboli rela-

zioni con la realtà e la verità. Dobbiamo parlare, per quest’uomo

primitivo, di una deficienza di salute mentale quando invece egli

manca semplicemente di qualità che soltanto un’ulteriore evoluzione

potrà dargli? In effetti, a questa domanda si potrebbe dare una rispo-

sta che renderebbe possibile una facile soluzione; questa risposta

risiede nella ovvia analogia tra l’evoluzione della razza umana e

l’evoluzione dell’individuo. Se un adulto avesse l’atteggiamento e

l’orientamento di un bambino di un mese, noi certamente lo defini-

remmo gravemente ammalato, probabilmente schizofrenico. Per il

bambino di un mese, però, la stessa attitudine è normale e sana, per-

ché corrisponde allo stadio del suo sviluppo psichico. La malattia

mentale dell’adulto può dunque essere definita, come Freud ha di-

mostrato, una fissazione o regressione ad un orientamento proprio di

uno stadio evolutivo precedente, che considerando lo stato di svilup-

po che la persona avrebbe dovuto raggiungere non risulta più ade-

guato. Nello stesso modo si potrebbe dire che la razza umana, come

il bambino, comincia il suo cammino da un orientamento primitivo e

si potrebbero chiamare sane tutte le forme di orientamento umano

che corrispondano allo stato adeguato dell’evoluzione umana; al

contrario si chiamerebbero «malattia» quelle «fissazioni» o «regres-

sioni» che rappresentino stadi precedenti di sviluppo dopo che la

razza umana vi sia passata. Ma per quanto suggestiva, questa solu-

zione trascura un fatto. Il bambino di un mese non ha ancora la base

organica per un atteggiamento maturo. In nessun caso egli potrebbe

pensare, sentire o agire come un adulto maturo. L’uomo, al contra-

rio, per centinaia di migliaia di anni, ha avuto tutta la dotazione or-

ganica necessaria alla maturità: in tutto questo tempo il suo cervello,

la coordinazione del suo corpo, le forze fisiche non sono cambiate.

La sua evoluzione è dipesa completamente dalla sua abilità nel tra-

smettere la conoscenza alle generazioni future, cioè

nell’accumularla. L’evoluzione umana è il risultato di uno sviluppo

culturale e non di un cambiamento organico.

Un neonato di una cultura primitiva, inserito in una cultura di

elevato sviluppo, si svilupperebbe come tutti gli altri bambini di

questa cultura, perché il solo fattore che determini il suo sviluppo è

il fattore culturale. In altre parole, mentre un bambino di un mese

non avrebbe mai, quali che siano le condizioni culturali, la maturità

4. SALUTE MENTALE E SOCIETÀ 64

spirituale di un adulto, ogni uomo, dallo stadio primitivo in poi, po-

trebbe avere la perfezione dell’uomo al culmine della sua evoluzio-

ne, purché gli fossero date condizioni culturali per tale maturità. Ne

segue che parlare di uomo primitivo, incestuoso, irragionevole, come

di un essere in una normale fase evolutiva è diverso dal fare la me-

desima constatazione riguardo al bambino. D’altra parte però lo svi-

luppo della cultura è una condizione necessaria per lo sviluppo uma-

no. In tal modo non sembra esserci una risposta completamente sod-

disfacente al problema; da un lato possiamo parlare di una mancanza

di salute mentale, dall’altro possiamo parlare di una fase iniziale di

sviluppo. Ma la difficoltà è grande soltanto se consideriamo gli

aspetti più generali del problema; a contatto con quelli più concreti

del nostro tempo, troviamo l’altro problema molto meno complicato.

Abbiamo raggiunto uno stato di individualizzazione, nel quale sol-

tanto la personalità matura e pienamente sviluppata può fare un frut-

tuoso uso della libertà; l’individuo, se non ha sviluppato la sua ra-

gione e la sua capacità di amare, è incapace di sopportare il fardello

della libertà e dell’individualità e tenta di rifugiarsi in vincoli artifi-

ciali che gli diano un senso di appartenenza e di radicamento. Oggi

ogni regressione della libertà verso radicamenti artificiali nello stato

o nella razza è un segno di disordine mentale, giacché tale regressio-

ne non corrisponde allo stato di evoluzione già raggiunto, e si mani-

festa con fenomeni indiscutibilmente patologici.

Che si parli della «salute mentale» o del «maturo sviluppo» della

razza umana, il concetto di salute mentale o di maturità è di carattere

obiettivo, e vi si giunge attraverso l’esame della «situazione umana»

e delle necessità e bisogni umani che da essa sorgono. Ne segue,

come ho indicato nel secondo capitolo, che la salute mentale non

può essere definita in termini di «adattamento» dell’individuo alla

sua società, ma, al contrario, deve essere definita in termini di adat-

tamento della società ai bisogni dell’uomo, e della sua funzione nel

promuovere o nel ritardare lo sviluppo della salute mentale. Che

l’individuo sia equilibrato o no, non è, innanzi tutto, una questione

individuale, ma dipende dalla struttura della sua società. Una società

sana favorisce la capacità dell’uomo di amare i suoi simili, di lavora-

re e creare, di sviluppare la sua ragione e la sua obiettività, di avere

un senso di sé che sia basato sull’esperienza delle sue energie pro-

duttive. Una società non sana è una società che crea ostilità reciproca

65 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

e diffidenza, che trasforma l’uomo in uno strumento d’uso e sfrutta-

mento da parte degli altri, che lo spoglia del senso di sé salvo quan-

do egli si sottometta agli altri o diventi un automa. La società può

avere due funzioni: può favorire un sano sviluppo dell’uomo e può

ritardarlo; in realtà nel maggior numero dei casi la società fa entram-

be le cose, e il problema riguarda soltanto la misura e la direzione in

cui si esercita la sua influenza positiva e negativa.

L’opinione per cui la salute mentale sarebbe determinabile obiet-

tivamente e la società avrebbe un’influenza sia stimolante sia defor-

mante sull’uomo, contraddice non soltanto l’impostazione relativi-

stica precedentemente discussa, ma anche due altri punti di vista che

vorrei ora esaminare. Il primo, indubbiamente il più corrente oggi-

giorno, vorrebbe farci credere che la società occidentale contempo-

ranea, e più particolarmente l’«American way of life», corrisponda

ai bisogni più profondi della natura umana e che l’adattamento a

questo sistema di vita comporti salute mentale e maturità. La psico-

logia sociale, anziché essere uno strumento per un giudizio critico

sulla società, difende in tal modo lo status quo. Secondo tale punto

di vista il concetto di «maturità» e di «salute mentale» corrisponde

all’atteggiamento desiderabile in un lavoratore o in un impiegato

dell’industria o del commercio. Per dare un esempio di tale concetto

di adattamento prendo una definizione della maturità emotiva secon-

do il dottor Strecker: «Io definisco la maturità, egli scrive, come la

capacità di dedizione ad un lavoro, la facoltà di dare in un lavoro più

di quel che si richieda, di meritarsi la fiducia, la costanza nel seguire

il piano di lavoro nonostante le difficoltà, la capacità di lavorare con

altri in una organizzazione gerarchica, la capacità di prendere deci-

sioni, volontà di vivere, elasticità, indipendenza, tolleranza».1

È pacifico che quello che Strecker qui descrive come maturità

sono in realtà le virtù di un buon operaio, impiegato o soldato nelle

grandi organizzazioni sociali del nostro tempo; sono le qualità che di

solito si elencano nelle inserzioni per la ricerca di un dirigente subal-

terno. Per lui e per molti altri che pensano come lui, maturità è lo

stesso che adeguamento alla nostra società, senza mai porsi la do-

1 E.A. STRECKER, Their Mothers' Sons, J.B. Lippincott Company, Filadelfia e New York

1951, p. 211.

4. SALUTE MENTALE E SOCIETÀ 66

manda se in tal modo ci si adegui ad un sistema sano di condotta

oppure ad uno patologico.

In contrasto con questa è l’opinione che si sviluppa da Hobbes a

Freud, e che presuppone una basilare e inalterabile contraddizione

tra natura umana e società, una contraddizione che deriva dalla af-

fermata natura asociale dell’uomo. Per Freud, l’uomo è spinto da

due impulsi radicati biologicamente: la brama di piacere sessuale e

di distruzione. Il desiderio sessuale mira ad una completa libertà ses-

suale, cioè ad una illimitata facoltà di avvicinare sessualmente tutte

le donne che un uomo possa trovar desiderabili. «L’uomo ha scoper-

to con l’esperienza che l’amore sessuale (genitale) gli dava i mag-

giori godimenti, così da considerarlo il prototipo di ogni felicità». In

tal modo egli deve esser stato spinto «a continuare a cercare la sua

felicità nelle relazioni sessuali, a fare dell’erotismo genitale il punto

centrale della sua vita».2

Altro fine del naturale desiderio sessuale è il desiderio incestuoso

per la madre che, per la sua stessa natura, crea conflitti e ostilità ver-

so il padre. Freud espresse l’importanza di questo aspetto della ses-

sualità affermando che la proibizione dell’incesto è «forse la ferita

più menomante che sia stata inflitta in tutti i tempi alla vita erotica

dell’uomo».3

Completamente d’accordo con le idee di Rousseau, Freud affer-

ma che, per soddisfare questi desideri fondamentali, l’uomo primiti-

vo deve affrontare pochissime restrizioni o addirittura nessuna. Egli

può dar sfogo alla sua aggressività e poche limitazioni si oppongono

alla soddisfazione dei suoi impulsi sessuali. «Di fatto, l’uomo primi-

tivo... non sapeva di alcuna limitazione ai suoi istinti... L’uomo civi-

lizzato ha barattato parte delle sue possibilità di felicità con una mi-

sura di "sicurezza"».4

Freud, mentre segue Rousseau nell’idea del «buon selvaggio»,

segue anche Hobbes nella supposizione di una ostilità basilare tra gli

uomini. «Homo homini lupus: chi ha il coraggio di contestarlo di

fronte a tutte le prove esistenti nella sua stessa vita e nella storia?»5

domanda Freud. L’aggressività dell’uomo, pensa Freud, avrebbe due

2 Civilization and Its Dis-contents, cit., p. 69. 3 Op. cit., p. 74. 4 Op. cit., pp. 91, 92. 5 Op. cit., p. 85.

67 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

origini: una è l’innato impulso verso la distruzione (istinto di morte);

l’altra sarebbe la frustrazione dei suoi desideri istintivi impostagli

dalla civiltà. Se è possibile che l’uomo diriga contro se stesso parte

dei suoi impulsi aggressivi, attraverso il super-io, se è possibile che

una minoranza sublimi i propri desideri sessuali nell’amore fraterno,

l’aggressività resiste inestirpabile. Gli uomini contenderebbero sem-

pre tra loro e si aggredirebbero l’un l’altro, se non per cose materiali,

per i «privilegi nei rapporti sessuali, che devono suscitare i più forti

rancori e le più violente ostilità tra uomini e donne eguali sotto altri

aspetti. Supponiamo che si possa rimediare anche a ciò istituendo

una completa libertà nella vita sessuale, di modo che la famiglia, la

cellula germinativa della cultura, non esista più; non si potrebbe, è

vero, prevedere le nuove vie su cui lo sviluppo culturale si avviereb-

be allora, ma una cosa bisognerebbe attenderci, e cioè che

l’ineliminabile caratteristica della natura umana seguirebbe tale svi-

luppo ovunque conduca».6 Poiché l’amore è per Freud essenzialmen-

te desiderio sessuale, egli è costretto a presumere una contraddizione

tra amore e coesione sociale. Secondo lui, l’amore è, per sua stessa

natura, egoistico e antisociale e il senso di solidarietà e di amore fra-

terno non sono sentimenti primari radicati nella natura umana ma

desideri sessuali deviati dal loro fine.

Sulla base di questo concetto dell’uomo, quello cioè del suo im-

manente desiderio di illimitata soddisfazione sessuale, e della sua

distruttività, Freud deve inevitabilmente giungere alla descrizione

del conflitto necessario tra civiltà da una parte e sanità mentale e

felicità dall’altra. L’uomo primitivo è sano e felice perché non è fru-

strato nei suoi istinti basilari, ma manca dei benefici della cultura.

L’uomo civile è più sicuro, possiede l’arte e la scienza, ma dovrà

necessariamente esser nevrotico, a causa della continua frustrazione

dei suoi istinti, rafforzata dalla civiltà.

Per Freud la vita sociale e la civiltà sono in netto contrasto con i

bisogni della natura umana quali egli li vede, e l’uomo è messo di

fronte alla tragica scelta tra la felicità basata sulla soddisfazione illi-

mitata dei suoi istinti, e la sicurezza e le conquiste culturali basate

sulla frustrazione degli istinti e pertanto apportatrici di nevrosi e di

tutte le altre forme di infermità mentali. La civiltà, per Freud, è il

6 Op. cit., p. 89.

4. SALUTE MENTALE E SOCIETÀ 68

prodotto della frustrazione degli istinti e perciò la causa delle malat-

tie mentali.

Il concetto freudiano di una natura umana essenzialmente compe-

titiva (e sociale) è lo stesso che troviamo in moltissimi autori i quali

credono che le caratteristiche dell’uomo nel capitalismo moderno

siano le sue caratteristiche naturali. La teoria freudiana del comples-

so di Edipo è basata sull’ipotesi di un «naturale» antagonismo e riva-

lità tra padre e figlio per amore della madre. Questa contesa viene

ritenuta inevitabile a causa della naturale aspirazione incestuosa del

figlio. Freud non fa altro che seguire la medesima linea di pensiero

quando suppone che gli istinti rendano ogni uomo desideroso di ave-

re il privilegio nei rapporti sessuali creando così violenta ostilità con

i suoi simili. Non possiamo fare a meno di notare come tutta la teoria

freudiana del sesso sia costruita sulla premessa antropologica secon-

do cui competizione e reciproca ostilità sono insite nella natura

umana.

Nel campo della biologia, Darwin diede espressione a questo

principio con la sua teoria di una competitiva «lotta per sopravvive-

re». Economisti come Ricardo e la scuola di Manches-ter la tradus-

sero nella sfera dell’economia. Più tardi Freud, sotto l’influenza del-

le medesime premesse antropologiche, la usò nella sfera dei desideri

sessuali. Il suo concetto fondamentale è quello di un «homo sex-

ualis» come gli economisti avevano quello dell’«homo oeconomi-

cus». Entrambi, l’uomo «economico» e l’uomo «sessuale» sono co-

mode costruzioni la cui pretesa natura - isolata, asociale, avida, e

competitiva - fanno sì che il capitalismo appaia come il sistema che

corrisponde perfettamente alla natura umana e lo pongono fuori dalla

portata della critica.

Entrambe le posizioni, quella «dell’adattamento» e quella hob-

bes-freudiana del conflitto necessario tra natura umana e società,

comportano la difesa della società contemporanea e sono entrambe

delle deformazioni unilaterali. Inoltre entrambe ignorano il fatto che

la società non è in conflitto soltanto con gli aspetti asociali

dell’uomo, che essa stessa determina in parte, ma spesso anche con

le più preziose qualità umane che essa reprime più che non le favori-

sca.

Un esame obiettivo del rapporto tra società e natura umana con-

sidererà sia l’azione stimolatrice sia quella inibitoria operata dalla

69 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

società sull’uomo, tenendo conto della natura dell’uomo e dei biso-

gni che da essa sorgono. Poiché la maggior parte degli autori aveva

posto l’accento sull’influenza positiva della società moderna

sull’uomo, in questo libro considererò non tanto questo aspetto

quanto quello alquanto trascurato della funzione patogena della so-

cietà moderna.

70

5.

L’uomo nella società capitalistica

Il carattere sociale

La salute mentale non può essere esaminata con profitto nel suo

pieno significato come se si trattasse di una qualità astratta di perso-

ne astratte. Per esaminare lo stato della salute mentale dell’uomo

occidentale contemporaneo, e considerare quali fattori in questo si-

stema di vita portino allo squilibrio e quali altri favoriscano

l’equilibrio mentale, dobbiamo studiare l’influenza esercitata dalle

condizioni specifiche del nostro sistema di produzione e della nostra

organizzazione sociale e politica sulla natura dell’uomo; dobbiamo

riuscire a farci un’immagine dell’uomo medio che vive e lavora in

queste condizioni. Soltanto se potremo farci una tale immagine del

«carattere sociale», per quanto sperimentale e incompleta essa possa

essere, avremo una base per giudicare la salute mentale e l’equilibrio

dell’uomo moderno.

Che cosa si intende per carattere sociale? Con questo concetto in-

tendo il nucleo della struttura di carattere condiviso dalla maggior

parte delle persone di una medesima cultura in contrasto con il carat-

tere individuale con il quale persone appartenenti ad una stessa cul-

tura si differenziano l’una dall’altra. Il concetto di carattere sociale

non è un concetto statico nel senso che esso sia semplicemente la

somma complessiva dei tratti di carattere che si trovano nella mag-

gioranza delle persone di una data cultura. Esso si può comprendere

solo se ci si riferisce alla funzione del carattere sociale che ora co-

minceremo ad esaminare.1

1 Nelle pagine seguenti riprendo quanto esposto nel mio lavoro «Psychoanalitic Characterolo-

gy and Its Application to the Understanding of Culture», in Culture and Personality, a cura di

G.S. Sargent e M. Smith, Viking Fund 1949, pp. 1-12. Il concetto di carattere sociale fu origi-

nariamente sviluppato nel mio Die psychoanalytische Charakterologie in ihrer Anwendung für

die Soziologie, in «Zeitschrift für Sozialforschung», I, Hirschfeld, Lipsia 1931.

71 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

Ogni società è strutturata ed opera in modi imposti da una quan-

tità indeterminata di condizioni obiettive. Queste condizioni com-

prendono metodi di produzione e distribuzione che a loro volta di-

pendono dalle materie prime, dalle tecniche industriali, dal clima,

dalla entità della popolazione, dai fattori politici e geografici, dalle

tradizioni e dagli influssi culturali cui la società è esposta. Non esiste

una «società» in generale: vi sono soltanto strutture sociali specifi-

che che operano in modi differenti e determinabili. Sebbene queste

strutture sociali cambino nel corso dello sviluppo storico, esse sono

relativamente stabili in ogni dato periodo storico, e la società può

esistere soltanto operando nell’ambito della sua struttura particolare.

I membri della società, come pure le varie classi o gruppi sociali in

essa esistenti, devono procedere in modo tale da esser capaci di fun-

zionare nel senso richiesto dal sistema sociale. Funzione propria del

carattere sociale è quella di condizionare le energie dei membri della

società in modo tale che il loro comportamento non dipenda da deci-

sioni coscienti sull’opportunità di seguire o non seguire il sistema

sociale, ma dipenda dalla volontà di agire come devono agire, tro-

vando nel contempo soddisfazione nell’agire in accordo con le esi-

genze della cultura. In altre parole, è funzione del carattere sociale

modellare e incanalare l’energia umana entro una data società per il

buon andamento continuo di questa società.

La società industriale moderna, per esempio, non avrebbe potuto

raggiungere i suoi fini se non avesse imbrigliato, come non si era

mai fatto per il passato, l’energia lavorativa di uomini liberi. L’uomo

doveva esser riplasmato e trasformato in un essere di null’altro desi-

deroso che di consumare la maggior parte delle sue energie allo sco-

po di lavorare, e che raggiungeva un grado di disciplina, e partico-

larmente di ordine e di puntualità, sconosciuto alla maggior parte

delle altre culture. Non sarebbe stato sufficiente che ogni individuo

decidesse coscientemente ogni giorno di voler lavorare, esser pun-

tuale, e così via, poiché ogni deliberazione di questo genere avrebbe

portato a ben più numerose eccezioni di quello che il regolare fun-

zionamento della società possa consentire. E neppure la minaccia e

la forza sarebbero bastate come determinanti, poiché le mansioni

altamente differenziate della moderna società industriale a lungo

andare possono essere soltanto opera di uomini liberi e non di forza-

ti. La necessità del lavoro, della puntualità e dell’ordine dovevano

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 72

esser trasformate in una spinta interiore verso questi intenti. Ciò si-

gnifica che la società doveva produrre un carattere sociale cui questi

desideri fossero connaturati.

Non si può comprendere la genesi del carattere sociale solo rife-

rendoci ad una causa singola; occorre comprendere il rapporto reci-

proco dei fattori sociologici ed ideologici. I fattori economici, meno

soggetti a mutamenti, hanno una certa predominanza in questo reci-

proco processo. Ciò non significa che la spinta al lucro sia nell’uomo

la sola o la più potente forza determinante. Significa però che

l’individuo e la società sono in primo luogo interessati al desiderio

di sopravvivere, e che solo quando la sopravvivenza è assicurata

possono passare alla soddisfazione degli altri imperativi bisogni

umani. L’intento di sopravvivere comporta che l’uomo debba pro-

durre, debba cioè assicurarsi un minimo di cibo e di ricovero, e gli

strumenti necessari anche per i processi di produzione più elementa-

ri. Il sistema di produzione determina a sua volta le relazioni sociali

esistenti in una data società. È esso che stabilisce il modo e il siste-

ma di vita. Tuttavia le idee politiche, filosofiche e religiose non sono

puramente strutture secondarie. Radicate nel carattere sociale, a loro

volta determinano, ordinano e stabilizzano il carattere sociale stesso.

Mi sia concesso ripetere che quando si dice che la struttura eco-

nomico-sociale della società plasma il carattere umano, si parla sol-

tanto di uno dei poli di interconnessione esistente tra

l’organizzazione sociale e l’uomo. L’altro polo da considerare è la

natura dell’uomo, che modella a sua volta le condizioni sociali in cui

egli vive. Il processo sociale può esser compreso soltanto se partia-

mo dalla conoscenza della realtà dell’uomo, dei suoi attributi psichi-

ci come di quelli fisiologici, e se esaminiamo il rapporto reciproco

esistente tra la natura dell’uomo e la natura delle condizioni esterne

in cui egli vive e che deve dominare se vuol sopravvivere.

Se è vero che l’uomo può adattarsi a quasi tutte le condizioni,

egli non è però una pagina bianca su cui la cultura scrive la sua sto-

ria. Bisogni quali l’aspirazione alla felicità, all’armonia, all’amore e

alla libertà gli sono connaturali. Essi sono anche fattori dinamici del

processo storico che, se frustrati, tendono a far esplodere reazioni

psichiche, creando infine proprio le condizioni adatte all’aspirazione

originaria. Il carattere sociale ha una prevalente funzione stabilizza-

trice, per tutto il tempo che le condizioni della società e della cultura

73 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

restano stabili. Se le condizioni esterne cambiano in modo tale da

non accordarsi col carattere sociale tradizionale, avviene un rallen-

tamento che spesso trasforma la funzione del carattere in elemento di

disintegrazione anziché di stabilizzazione, in dinamite invece che in

cemento sociale, si potrebbe dire.

Ammesso che questo concetto della genesi e della funzione del

carattere sociale sia esatto, ci troviamo di fronte ad un problema im-

barazzante. L’ipotesi che la struttura del carattere sia modellata dal

ruolo che l’individuo deve svolgere nella sua cultura non contraddice

all’ipotesi che il carattere di una persona sia modellato nell’infanzia?

Si può affermare che entrambe le opinioni sono vere in considera-

zione del fatto che il bambino si trova, nei primi anni di vita, in un

contatto relativamente limitato con la società in quanto tale? Rispon-

dere a queste domande non è facile come può sembrare a prima vi-

sta. Dobbiamo distinguere fra i fattori che sono responsabili di parti-

colari contenuti del carattere sociale e i metodi con i quali il carattere

sociale è prodotto. La struttura della società e la funzione

dell’individuo nella struttura sociale possono essere prese in esame

per determinare il contenuto del carattere sociale. D’altra parte si

può ritenere che la famiglia sia l’agente psichico della società,

l’istituzione che ha la funzione di trasmettere le esigenze della socie-

tà al bambino che cresce. La famiglia adempie in due modi a questa

funzione. Anzitutto, e questo è il fattore maggiormente importante,

con l’influenza che il carattere dei genitori ha sulla formazione del

carattere del bambino in fase di sviluppo. Poiché il carattere della

maggior parte dei genitori è espressione del carattere sociale, essi

trasmettono in tal modo al bambino i tratti essenziali e socialmente

desiderabili della struttura di carattere. L’amore e la felicità dei geni-

tori sono comunicati al bambino nello stesso modo che le loro

preoccupazioni e la loro ostilità. La funzione di plasmare il carattere

del bambino in una direzione socialmente desiderabile è affidata ol-

tre che al carattere dei genitori anche ai metodi pedagogici che pos-

sono essere usati in una cultura. Vi sono tecniche e metodi pedago-

gici vari, che possono soddisfare al medesimo scopo, e, d’altro lato,

vi possono essere metodi apparentemente identici, e che nondimeno

sono diversi a causa della struttura di carattere di quelli che praticano

questi metodi. Se ci occuperemo dei soli metodi pedagogici non po-

tremo mai spiegare il carattere sociale. I metodi pedagogici hanno

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 74

importanza soltanto quali meccanismi di trasmissione, e possono

essere compresi esattamente soltanto se prima comprendiamo quali

generi di personalità siano desiderabili e necessari in una data cultu-

ra.2

Il problema delle condizioni economico-sociali della moderna

società industriale che creano la personalità dell’uomo occidentale

moderno e che sono responsabili delle disfunzioni della sua salu-

te mentale, richiede dunque una comprensione di quegli elementi

che sono specifici del sistema capitalistico di produzione, di una

«società acquisitiva» in un’epoca industriale. Per quanto sommaria

ed elementare debba necessariamente riuscire tale descrizione, dato

che non è fatta da un economista, spero che essa sia tuttavia suffi-

ciente a porre le basi per la successiva analisi del carattere sociale

dell’uomo nella società occidentale contemporanea. NOTE:...

La struttura del capitalismo e il carattere dell’uomo

A. Capitalismo del diciassettesimo e diciottesimo secolo

Il capitalismo è il sistema economico che è diventato dominante

nell’occidente a cominciare dal diciassettesimo e diciottesimo seco-

lo. Nonostante i grandi mutamenti avvenuti in questo sistema, vi

sono certe caratteristiche che sono rimaste stabili durante la sua sto-

ria ed è legittimo, riferendoci a queste caratteristiche comuni, usare

il concetto di capitalismo per il sistema economico che esiste per

tutto questo periodo.

Queste caratteristiche comuni sono, in breve: 1) l’esistenza di

uomini politicamente e legalmente liberi; 2) il fatto che questi uomi-

ni liberi (operai e impiegati) vendono sul mercato del lavoro e con

contratto il loro lavoro al proprietario del capitale; 3) l’esistenza del

mercato merci come di un meccanismo dal quale sono determinati i

prezzi e da cui è regolato lo scambio del prodotto sociale; 4) il prin-

cipio per cui ogni individuo agisce col fine di cercare un utile per se

2 Proprio nell'ipotesi che i metodi pedagogici siano di per se stessi causa della particolare

formazione di una cultura, risiede la debolezza del punto di vista di Kardiner, Gorer e altri il

cui lavoro è basato, sotto questo aspetto, su premesse freudiane ortodosse.

75 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

stesso, e per cui, d’altro canto, si suppone che da una attività di con-

correnza di molti derivi il più gran vantaggio per tutti.

Mentre queste caratteristiche sono comuni al capitalismo di que-

sti ultimi secoli, le alterazioni avvenute in questo periodo sono im-

portanti quanto i casi di identità. Pur essendo maggiormente interes-

sati, nella nostra analisi, agli effetti delle strutture economico-sociali

contemporanee sull’uomo, discuteremo almeno brevemente delle

caratteristiche del capitalismo del diciassettesimo e diciottesimo se-

colo, e di quelle del capitalismo del diciannovesimo secolo che si

differenziano dallo sviluppo della società e dell’uomo nel secolo

ventesimo.

Quando si parla del diciassettesimo e del diciottesimo secolo bi-

sogna ricordare due aspetti che caratterizzarono questo periodo ini-

ziale del capitalismo. Il primo è che la tecnica e l’industria erano,

paragonate allo sviluppo del diciannovesimo e ventesimo secolo,

all’inizio; e il secondo è che nel medesimo tempo gli usi e le idee

della cultura medievale avevano ancora una considerevole influenza

sugli usi economici di questo periodo. Pertanto si riteneva fosse pra-

tica non cristiana e immorale che un mercante cercasse di portar via i

clienti ad un altro in forza di prezzi più bassi o con altre lusinghe.

Nella quinta edizione del Complete English Tradesman (1745) si

afferma che dalla morte dell’autore, Defoe, avvenuta nel 1731,

«questo uso di vender a prezzo più basso è aumentato in misura così

scandalosa, che dei privati annunciano pubblicamente di vendere più

a buon mercato dei colleghi».3 Il Complete English Tradesman, nella

quinta edizione, cita un caso concreto nel quale un «grosso commer-

ciante», che aveva più denaro dei concorrenti e non era pertanto co-

stretto a far uso del credito, comprava le merci direttamente dal pro-

duttore, le trasportava con mezzi propri invece di avvalersi di inter-

mediari; e le vendeva direttamente al dettagliante, dando così la pos-

sibilità a quest’ultimo di vendere la merce a un penny di meno per

yarda. Il commento del Complete English Tradesman è che il risulta-

to di tutto questo metodo è soltanto quello di arricchire questo «uo-

mo avido» e di render possibile ad altri di comprare il suo panno un

po’ più a buon mercato, «un vantaggio molto modesto» sproporzio-

3 Mi avvalgo qui della descrizione e cito gli esempi dati da W. SOMBART, Der Bourgeois,

Monaco e Lipsia 1923, p. 201 ss.

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 76

nato al danno arrecato agli altri commercianti.4 Troviamo eguali di-

vieti di vendite sottoprezzo in ordinanze emesse in Germania e in

Francia durante tutto il diciottesimo secolo.

Si sa bene quanto fosse scettica la gente di fronte alle nuove mac-

chine, poiché esse minacciavano di togliere il lavoro all’uomo. Col-

bert le chiamò «il nemico del lavoro», e Montesquieu disse

nell’Esprit des Lois (XXIII, 15) che le macchine che diminuiscono il

numero degli operai sono «perniciose». I diversi atteggiamenti ora

ricordati sono basati sui principi che avevano regolato la vita

dell’uomo per molti secoli. Il più importante di tutti era il principio

secondo cui la società e l’economia esistono per l’uomo e non

l’uomo per esse. Non si riteneva sano un progresso economico che

risultasse nocivo per qualche gruppo della società; non occorre dire

come questo concetto fosse strettamente connesso al pensiero tradi-

zionalista in quanto l’equilibrio sociale doveva esser preservato, e si

riteneva dannoso ogni scompenso.

.

B. Capitalismo del diciannovesimo secolo

Nel diciannovesimo secolo l’atteggiamento tradizionalistico del

secolo precedente cambia, dapprima lentamente e poi rapidamente.

L’essere umano vivente, con i suoi desideri e i suoi guai, va sempre

più perdendo il posto centrale nel sistema, e questo posto è occupato

dagli affari e dalla produzione. Nella sfera economica l’uomo cessa

di essere «la misura di tutte le cose». L’elemento più caratteristico

del capitalismo del diciannovesimo secolo era innanzi tutto il crudele

sfruttamento dell’operaio; si credeva che fosse una legge naturale e

sociale che centinaia di migliaia di operai fossero, ogni giorno della

loro vita, sul punto di morir di fame. Si credeva che il proprietario

del capitale fosse moralmente nel suo diritto se, nella caccia al gua-

dagno, sfruttava al massimo la manodopera che impiegava. Tra il

proprietario del capitale e i suoi operai non esisteva, si può dire, al-

cun sentimento di solidarietà umana. Ciò che imperava era la legge

della giungla economica. Tutte le idee restrittive dei secoli preceden-

ti erano superate. Ci si accaparra il cliente, si cerca di vendere a

prezzo più basso del concorrente e la lotta concorrenziale tra gente

4 Ibidem, p. 206.

77 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

della stessa classe è crudele e senza limiti come lo sfruttamento

dell’operaio. Con l’uso della macchina a vapore, aumenta la divisio-

ne del lavoro, e nella stessa misura aumenta il potenziale

dell’azienda. Il principio capitalistico per cui ognuno cerca il proprio

vantaggio in tal modo contribuendo alla felicità di tutti, diventa il

principio guida del comportamento umano.

Il mercato come primo meccanismo equilibratore viene liberato

da tutti gli elementi restrittivi tradizionali e nel diciannovesimo seco-

lo entra nel pieno dei suoi poteri. Ognuno, mentre crede di agire se-

condo il proprio interesse, è in effetti determinato dalle leggi anoni-

me del mercato e del meccanismo economico. Il singolo capitalista

espande la propria azienda non perché sia lui a volerlo, ma perché

deve farlo, perché, come scrisse Carnegie nella sua autobiografia, il

rinvio di un’ulteriore espansione significherebbe la regressione. In

effetti, quando un’azienda si ingrandisce, si deve continuare a farla

crescere, lo si voglia o no. In questa funzione della legge economica

che opera alle spalle dell’uomo e lo obbliga ad agire senza dargli la

libertà di decidere, vediamo l’inizio di una congiuntura che si compi-

rà soltanto nel ventesimo secolo.

Nel nostro tempo non è soltanto la legge del mercato ad avere la

sua propria vita e a dirigere l’uomo, ma anche lo sviluppo della

scienza e della tecnica. Per diverse ragioni i problemi e

l’organizzazione della scienza sono al giorno d’oggi tali che uno

scienziato non sceglie i suoi problemi; sono i problemi che si im-

pongono allo scienziato. Una volta risolto un problema, il risultato

non è che egli sia più sicuro o più certo, ma che dieci altri problemi

nuovi nascono al posto del problema risolto. Essi obbligano lo stu-

dioso a risolverli ed egli deve avanzare a passo sempre più rapido.

Lo stesso vale anche per le tecniche industriali. Il passo della scienza

sollecita il passo della tecnica. La fisica teoretica ci impone l’energia

atomica; il successo produttivo della bomba a fissione ci impone di

fabbricare la bomba all’idrogeno. Non siamo noi che scegliamo i

nostri problemi, o i nostri prodotti: siamo spinti, siamo obbligati; da

chi? Da un sistema che non ha né fine né mete che lo trascendano e

che fa dell’uomo una sua appendice.

Tratteremo più largamente questo aspetto dell’impotenza

dell’uomo nell’analisi del capitalismo contemporaneo. A questo

punto, però, dovremo soffermarci più a lungo sull’importanza del

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 78

mercato moderno come meccanismo centrale di distribuzione del

prodotto sociale, poiché il mercato costituisce la base per la forma-

zione delle relazioni umane nella società capitalistica.

Se la ricchezza della società corrispondesse ai veri bisogni di tutti

i suoi componenti non ci sarebbe il problema di distribuirla; ogni

membro potrebbe prendere quanto del prodotto sociale gli piace o gli

occorre di più e non vi sarebbe bisogno di controllo, se non nel senso

meramente tecnico della distribuzione. Ma se si escludono le società

primitive questa condizione non è mai esistita finora nella storia

umana. I bisogni sono sempre stati maggiori della somma totale del

prodotto sociale; pertanto si dovette stabilire, mediante una regola-

mentazione, come distribuirlo, quanti e chi potevano ottenere la sod-

disfazione massima dei loro bisogni, e quali classi dovevano accon-

tentarsi di meno di quanto abbisognassero. In genere, nelle società

più sviluppate del passato, questa decisione veniva presa essenzial-

mente con la forza. Talune classi avevano il potere di appropriarsi

del meglio del prodotto sociale, e di assegnare alle altre classi il la-

voro più pesante e più sporco insieme ad una minor parte del prodot-

to. La forza poggiava spesso sulla tradizione sociale e religiosa, che

godeva presso il popolo di un potere psichico talmente forte da ren-

dere superflua la minaccia della forza fisica.

Il mercato moderno è un meccanismo di distribuzione autorego-

lato che rende superflua la divisione del prodotto sociale secondo un

piano tradizionale o appositamente predisposto, e in tal modo rende

superfluo l’uso della forza entro la società. Naturalmente la assenza

della forza è più apparente che reale. L’operaio che deve accettare la

tariffa salariale offertagli sul mercato del lavoro è obbligato ad ac-

cettare le condizioni del mercato perché altrimenti non potrebbe so-

pravvivere. In tal modo la «libertà» dell’individuo è in gran parte

illusoria. Egli è conscio del fatto che non c’è forza esterna che lo

costringa ad accettare certi contratti; egli è meno consapevole delle

leggi del mercato che operano, per così dire, alle sue spalle, e perciò

crede di esser libero, anche se in effetti non lo è. Ma se questa è la

situazione, il metodo capitalistico di distribuzione attraverso il mec-

canismo del mercato è migliore di ogni altro metodo fin qui escogi-

tato in una società di classe, perché esso costituisce la base per la

relativa libertà politica dell’individuo che è caratteristica della de-

mocrazia capitalistica.

79 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

Il funzionamento economico del mercato è fondato sulla concor-

renza di molti individui che vogliono vendere le loro merci sul mer-

cato delle merci, come vogliono vendere il loro lavoro e le loro pre-

stazioni sul mercato del lavoro e della personalità. Questa necessità

economica della concorrenza ha portato, specialmente nella seconda

metà del diciannovesimo secolo, a quello che caratterologicamente

parlando, si può chiamare un crescente atteggiamento concorrenzia-

le. L’uomo era spinto dal desiderio di superare il suo concorrente,

rovesciando così completamente l’atteggiamento caratteristico

dell’era feudale, dove ciascuno aveva nell’ordine sociale il suo posto

tradizionale di cui si sarebbe accontentato. In opposizione alla stabi-

lità sociale del sistema medievale si sviluppò una mobilità sociale

del tutto nuova, dove ognuno lottava per i posti migliori anche se

soltanto pochi eletti potevano raggiungerli. In questa lotta per il suc-

cesso condotta senza esclusione di colpi, crollarono le regole sociali

e morali della solidarietà umana; l’importanza della vita consisteva

nel giungere primi in una competizione.

Un altro fattore costitutivo del sistema capitalistico di produzione

è che in questo sistema il fine di tutte le attività economiche è il pro-

fitto. Ora, si è fatta una gran confusione, sia intenzionale sia non in-

tenzionale, intorno a questo «movente del profitto» proprio del capi-

talismo. Ci hanno detto, e a ragione, che qualsiasi attività economica

ha un significato soltanto se ne risulta un profitto, cioè se guada-

gniamo di più di quel che abbiamo speso nell’atto produttivo. Per

guadagnarsi da vivere anche l’artigiano precapitalistico doveva

spendere per le materie prime e per la paga agli apprendisti meno del

prezzo che chiedeva per il suo prodotto. In ogni società che abbia

attività industriale, semplice o complessa che sia, il valore del pro-

dotto vendibile deve superare il costo di produzione per fornire il

capitale necessario al rinnovamento delle attrezzature, per sviluppare

e ampliare la produzione. Ma il punto in questione non è la lucrosità

dell’attività produttiva. Il nostro problema sta nel fatto che il moven-

te determinante la nostra attività produttiva non consiste nell’utilità

sociale, o nella soddisfazione nel processo lavorativo, ma nell’utile

derivato dall’investimento. Non occorre affatto che il singolo capita-

lista si interessi dell’utilità che il suo prodotto avrà per il consumato-

re. Ciò non significa che il capitalista sia preso, psicologicamente

parlando, da una insaziabile avidità di denaro. Può essere o può non

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 80

essere così, ma ciò non è essenziale per il sistema capitalistico di

produzione. Di fatto, nella fase iniziale, l’avidità costituiva il motivo

del capitalista con maggior frequenza che nella fase attuale, in cui la

proprietà e la direzione sono per lo più separate e il fine di ottenere

un più elevato profitto è subordinato al desiderio di una espansione

sempre crescente e al buon andamento di una azienda.

Il reddito può, nel presente sistema, esser del tutto indipendente

dallo sforzo o dal servizio personale. Il proprietario del capitale può

guadagnare senza lavorare. L’essenziale funzione umana dello

scambio di uno sforzo per un reddito può diventare una astratta ma-

nipolazione di denaro per ottenere più denaro. Questo è ancor più

evidente nel caso dell’assenza del proprietario da una impresa indu-

striale. Che egli sia proprietario dell’intera impresa o soltanto di una

parte di essa non crea alcuna differenza. In ogni caso egli ricava un

profitto dal suo capitale e dal lavoro di altri senza dover fare il ben-

ché minimo sforzo. Si sono escogitate molte pie giustificazioni per

questa situazione. È stato detto che i profitti sono un compenso per i

rischi che egli si assume nel suo investimento, o per lo sforzo, impli-

cante una rinuncia, di risparmiare che lo ha reso capace di accumula-

re il capitale che può investire. Ma è quasi superfluo dimostrare co-

me questo fattore marginale non modifichi il fatto elementare che il

capitalismo consente di avere un profitto senza alcuno sforzo o fun-

zione produttiva. Ma anche per quelli che lavorano e prestano servizi

il reddito non ha alcuna correlazione ragionevole con lo sforzo com-

piuto. Il guadagno di un maestro è soltanto una piccola parte di quel-

lo di un medico, benché le sue funzioni sociali siano di eguale im-

portanza e il suo sforzo personale non sia molto spesso minore. Il

guadagno del minatore non è che una frazione del reddito del diretto-

re della miniera, benché il suo sforzo personale sia, se consideriamo

i pericoli e i disagi connessi al suo lavoro, più grande.

Quel che caratterizza la distribuzione del reddito nel capitalismo

è la mancanza di un rapporto equilibrato tra lo sforzo e il lavoro di

un individuo e il riconoscimento sociale concessogli, cioè la ricom-

pensa finanziaria. In una società più povera della nostra, questa

sproporzione porterebbe a estremi di lusso e di povertà più gravi di

quanto le nostre norme morali potrebbero tollerare. Non intendo pe-

rò accentuare gli effetti materiali di questa sproporzione, bensì i suoi

effetti morali e psicologici. Uno di questi consiste nella sottovaluta-

81 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

zione del lavoro, dello sforzo e della capacità umana. L’altro nel fat-

to che fino a che il mio guadagno è limitato dallo sforzo che faccio, è

limitato anche il mio desiderio. Se, d’altra parte, il mio reddito non è

in proporzione col mio sforzo, non vi sono limitazioni ai miei desi-

deri, in quanto il loro soddisfacimento dipende dalle possibilità of-

ferte da una certa situazione di mercato non dipendente dalle mie

proprie capacità.5

Il capitalismo del diciannovesimo secolo era un capitalismo ve-

ramente privato. Gli individui intravedevano e afferravano nuove

possibilità, agivano economicamente, intuivano nuovi metodi, com-

pravano beni, tanto per la produzione che per il consumo e godevano

della loro proprietà. Questo piacere della proprietà, al di fuori della

spinta della concorrenza e della ricerca del profitto, è uno degli

aspetti fondamentali del carattere delle classi medie ed elevate del

diciannovesimo secolo. È tanto più importante notare questa caratte-

ristica poiché, per quanto riguarda il piacere della proprietà e del

risparmio, l’uomo contemporaneo è notevolmente differente dai suoi

antenati. La mania del risparmio e del possesso è di fatto diventata il

tratto caratteristico della classe più retrograda, la classe piccolo bor-

ghese, e si trova molto più facilmente in Europa che in America.

Abbiamo qui uno degli esempi in cui un aspetto del carattere sociale

che una volta era proprio della classe più progredita, è divenuto anti-

quato nel corso dello sviluppo economico, ed è conservato proprio

da quei gruppi che si sono meno sviluppati.

Caratterologicamente il piacere del possesso e della proprietà è

stato descritto da Freud come un importante aspetto del «carattere

anale». Partendo da differenti premesse teoriche ho descritto il me-

desimo quadro clinico nei termini di «orientamento verso

l’accumulazione». Come ogni altro orientamento di carattere, quello

accaparratore ha aspetti positivi e negativi; il predominio degli aspet-

ti negativi e positivi dipende dalla relativa forza dell’orientamento

produttivo nel carattere individuale o sociale. Gli aspetti di questo

5 Troviamo qui la medesima differenza che esiste nei desideri fisici in contrasto con quelli che

non sono radicati nei bisogni corporali; il mio desiderio di mangiare, per esempio, è autorego-

lato dalla mia organizzazione fisiologica e soltanto in casi patologici questo desiderio non è

regolato da un limite di saturazione fisiologica. L'ambizione, la brama del potere e così via,

che non sono radicate nei bisogni fisiologici dell'organismo, non hanno tale meccanismo auto-

regolatore, e questa è la ragione per cui esse sono sempre crescenti e così pericolose.

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 82

orientamento, come li ho descritti in Man for Himself, sono: esser

pratici, economici, solerti, riservati, cauti, tenaci, imperturbabili, or-

dinati, metodici e leali. Gli aspetti negativi corrispondenti sono: es-

ser senza fantasia, tirchi, sospettosi, freddi, ansiosi, caparbi, indolen-

ti, pedanti, ossessionanti e accumulatori.6 È facile vedere che nel

diciottesimo e diciannovesimo secolo, quando l’orientamento accu-

mulatore era connesso con le necessità del progresso economico,

erano preminenti gli aspetti positivi, mentre nel ventesimo secolo,

quando questi tratti costituiscono la caratteristica superata di una

classe superata, sono presenti quasi esclusivamente gli aspetti nega-

tivi.

Il crollo del principio tradizionale della solidarietà umana portò a

nuove forme di sfruttamento. Nella società feudale si riteneva che il

signore potesse per diritto divino domandar servizi e cose a quelli

che erano soggetti al suo dominio, ma nello stesso tempo egli era

obbligato dalla consuetudine ed era tenuto ad esser responsabile dei

suoi sudditi, a proteggerli, e a provveder loro, almeno in misura mi-

nima, lo standard tradizionale di vita. Lo sfruttamento feudale ebbe

luogo in un sistema di obbligazioni umane reciproche, ed era in tal

modo governato da talune restrizioni. Lo sfruttamento come si svi-

luppò nel diciannovesimo secolo era profondamente diverso.

L’operaio, o piuttosto il suo lavoro, era per il proprietario del capita-

le una merce da comprare non sostanzialmente diversa da qualsiasi

altra merce sul mercato, ed era usata dal compratore sino al massimo

della sua capacità. Poiché il lavoro era stato comprato al prezzo giu-

sto sul mercato del lavoro, non v’era senso di reciprocità o di alcun

obbligo da parte del proprietario del capitale, oltre a quello di pagare

il salario. Se centinaia di migliaia di operai erano senza lavoro e sul

punto di morir di fame, ciò accadeva per la loro cattiva sorte, per le

loro capacità inferiori, o semplicemente per una legge sociale e natu-

rale, che non poteva esser cambiata. Lo sfruttamento non era più

personale, ma diventava, per così dire, anonimo. Era la legge del

mercato, piuttosto che la volontà o l’avarizia di qualche individuo, a

condannare un uomo a lavorare per salari di fame. Nessuno era re-

sponsabile o colpevole, nessuno poteva cambiare quella condizione.

6 Cfr. Man for Himself, p. 114.

83 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

Si aveva a che fare con le leggi ferree della società, o così almeno

sembrava.

Nel ventesimo secolo è per lo più scomparso tale sfruttamento

capitalistico come era consueto nel secolo diciannovesimo. Questo

non può tuttavia oscurare la visione del fatto che nel ventesimo, co-

me nel diciannovesimo secolo, il capitalismo è basato sul principio

che si trova in tutte le società di classe: l’uso dell’uomo da parte

dell’uomo.

Dal momento che il capitalismo moderno «impiega» il lavoro, la

forma sociale e politica dello sfruttamento è cambiata; quel che non

è cambiato è il fatto che il proprietario del capitale utilizza altri uo-

mini per il proprio profitto. Il concetto basilare dell’uso non ha nulla

a che fare con modi crudeli o non crudeli di trattamento umano, ma

col fatto fondamentale che un uomo serve un altro per fini che non

sono suoi propri, ma solo quelli del datore di lavoro. Il concetto

dell’uso dell’uomo da parte dell’uomo non ha nulla a che fare nem-

meno con la questione se un uomo usi un altro o usi se stesso. Il fatto

rimane il medesimo: che un uomo, un essere umano vivente, cessa di

essere un fine in sé e diventa il mezzo per gli interessi economici di

un altro uomo, o di se stesso, o di un gigante impersonale: il mecca-

nismo economico.

A queste affermazioni si oppongono due obiezioni. Una è che

l’uomo moderno è libero di accettare o di rifiutare un contratto, ed è

perciò un partecipante volontario nelle sue relazioni sociali col dato-

re di lavoro, e non una «cosa». Ma questa obiezione ignora il fatto

che innanzi tutto egli non ha altra scelta che accettare le condizioni

esistenti e, secondariamente, che anche se egli non fosse obbligato

ad accettare queste condizioni, sarebbe ancora «impiegato», cioè

sarebbe usato per fini che non sono suoi propri, ma del capitale al

cui utile egli serve.

L’altra obiezione è che ogni vita sociale, anche nelle sue forme

più primitive, richiede una certa misura di cooperazione sociale e

persino di disciplina, e che indubbiamente nella più complessa forma

di produzione industriale una persona deve compiere certe funzioni

necessarie e specializzate. Questa affermazione, se pure certamente

vera, nondimeno ignora la differenza basilare: in una società dove

nessuna persona ha potere su un’altra ognuno compie le sue funzioni

sulla base della cooperazione e della reciprocità. Nessuno può co-

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 84

mandare ad un altro, in quanto un rapporto è basato sulla coopera-

zione reciproca, sull’amore, sull’amicizia o su vincoli naturali. Di

fatto noi riscontriamo ciò in molte situazioni della società odierna: la

normale cooperazione tra marito e moglie entro la vita familiare non

è più in larga misura determinata dall’autorità del marito sulla mo-

glie, come avveniva nelle più antiche forme di società patriarcale,

ma da un principio di cooperazione e di mutualità. La stessa cosa è

vera per le relazioni tra amici, in quanto essi si prestano l’un l’altro

certi servizi e cooperano fra loro. In questi rapporti nessuno oserebbe

comandare ad un’altra persona; la sola ragione per cui ci si attende il

suo aiuto sta nel reciproco sentimento di amore, di amicizia o, sem-

plicemente, di solidarietà umana. L’aiuto dell’altra persona è assicu-

rato dal mio sforzo attivo di conquistarmi, in quanto essere umano, il

suo amore, la sua amicizia e comprensione. Nel rapporto tra datore

di lavoro e lavoratore questo non avviene. Il datore di lavoro ha

comprato le prestazioni dell’operaio, e per quanto umano possa esse-

re il trattamento continua a comandarlo, non sulla base della mutua-

lità, ma sulla base dell’avergli comperato il suo tempo lavorativo per

un dato orario giornaliero.

L’uso dell’uomo da parte dell’uomo rivela il sistema di valori che

sta alla base del sistema capitalistico. Il capitale, il morto passato,

impiega il lavoro, vitalità e poteri viventi nel presente. Nella gerar-

chia capitalistica dei valori il capitale sta più in alto del lavoro, le

cose accumulate sono superiori alle manifestazioni di vita. Il capitale

impiega il lavoro, e non viceversa. La persona che possiede il capita-

le comanda alla persona che possiede «soltanto» la propria vita, la

propria abilità umana, la propria vitalità e produttività creativa. «Le

cose» sono più in alto dell’uomo. Il conflitto tra il capitale e il lavoro

è molto di più che il conflitto tra due classi, più che la loro lotta per

una più grande porzione del prodotto sociale. Essa è il conflitto tra

due principi di valore: quello tra il mondo delle cose e la loro accu-

mulazione, e il mondo della vita e la sua produttività.7

Strettamente collegato al problema dello sfruttamento e dell’uso,

sebbene anche più complicato, è il problema dell’autorità dell’uomo

del diciannovesimo secolo. Ogni sistema sociale in cui un gruppo

7 Cfr. l'esame che R.M. TAWNEY fa del medesimo punto in The Acquisitive Society, Harcourt

Brace & Company, New York 1920, p. 99.

85 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

della popolazione è comandato da un altro, specialmente se questo

secondo è una minoranza, deve esser basato su di un forte senso

dell’autorità, un senso sviluppatosi in una società fortemente patriar-

cale dove si ritiene che il sesso maschile sia superiore e comandi il

sesso femminile. Poiché il problema dell’autorità è così decisivo per

la nostra comprensione delle relazioni umane in ogni genere di so-

cietà, e poiché l’atteggiamento dell’autorità è cambiato fondamen-

talmente dal diciannovesimo al ventesimo secolo, voglio cominciare

l’esame di questo problema riferendomi alla differenziazione

dell’autorità da me operata in Fuga dalla libertà, e che ancora mi

sembra abbastanza valida per esser citata come base per la discus-

sione che segue: l’autorità non è una qualità che una persona «ha»

così come può avere dei beni o delle qualità fisiche. Autorità signifi-

ca una relazione interpersonale nella quale un individuo guarda ad

un altro come a qualcuno superiore a sé. Ma v’è una differenza fon-

damentale tra un tipo di relazione di superiorità-inferiorità che può

esser chiamato autorità razionale, ed un altro che può essere descritto

come autorità inibitoria, o irrazionale.

Un esempio servirà a mostrare quel che intendo dire. Il rapporto

tra maestro ed allievo e quello tra padrone di schiavi e schiavo sono

entrambi basati sulla superiorità dell’uno sull’altro. Gli interessi del

maestro e dello scolaro sono rivolti in una stessa direzione. Il mae-

stro è soddisfatto se riesce a far progredire l’allievo; se non vi riesce,

il fallimento è suo e dell’allievo. Il proprietario di schiavi, d’altra

parte, desidera sfruttare lo schiavo quanto più possibile; quanto più

ne ricava tanto più è soddisfatto. Nello stesso tempo, lo schiavo cer-

ca di difendere come meglio può le sue esigenze di un minimo di

felicità. Questi interessi sono decisamente antagonistici poiché quel

che giova all’uno è di svantaggio all’altro. La superiorità ha nei due

casi una diversa funzione: nel primo caso è la condizione per aiutare

la persona subordinata all’autorità, nel secondo caso è la condizione

per il suo sfruttamento.

Anche la dinamica dell’autorità in questi due tipi è diversa: più lo

studente impara minore è il divario tra lui e il maestro. Egli diventa

sempre più simile al maestro stesso. In altre parole il rapporto di au-

torità razionale tende ad annullarsi. Ma quando la superiorità serve

di base allo sfruttamento, la distanza aumenta col trascorrere del

tempo.

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 86

La situazione psicologica è differente in ognuna di queste forme

d’autorità. Nella prima prevalgono elementi di amore, ammirazione

o gratitudine. L’autorità è nello stesso tempo un esempio con cui

l’individuo desidera identificarsi in parte o totalmente. Nella seconda

situazione, nasceranno risentimenti o ostilità contro lo sfruttatore,

poiché la subordinazione allo stesso è contraria agli interessi dello

sfruttato. Ma spesso, come nel caso dello schiavo, il suo odio porte-

rebbe soltanto a conflitti che sottoporrebbero lo schiavo a sofferenze

senza possibilità di vittoria. Perciò la tendenza sarà, di solito, a re-

primere il sentimento di odio e, talvolta, persino a rimpiazzarlo con

un sentimento di cieca ammirazione. Questa ha due funzioni: 1) ri-

muovere il doloroso e pericoloso sentimento di odio, e 2) attenuare il

sentimento di umiliazione. Se la persona che mi domina è così

straordinaria e perfetta, non dovrei vergognarmi di obbedirle. Io non

posso esser suo pari perché egli è tanto più forte, sapiente, migliore

ecc. di quanto io non sia. Di conseguenza, nel tipo di autorità inibito-

ria l’elemento sia di odio sia di sopravvalutazione e ammirazione

irrazionali dell’autorità tende a crescere. Nel tipo razionale di autori-

tà, la forza dei legami emotivi tenderà a decrescere in proporzione

diretta alla misura in cui la persona soggetta all’autorità diventa più

forte e, pertanto, più simile all’autorità.

La differenza tra autorità razionale e autorità inibitoria è soltanto

relativa. Anche nel rapporto tra schiavo e padrone vi sono elementi

di vantaggio per lo schiavo. Egli ottiene un minimo di cibo e di pro-

tezione che lo rendono almeno capace di lavorare per il suo padrone.

D’altra parte, è soltanto in una relazione ideale tra maestro e allievo

che noi possiamo trovare una completa mancanza di antagonismo di

interessi. Vi sono molte gradazioni fra questi due casi estremi, come

nel rapporto tra l’operaio di una fabbrica e il suo padrone, o tra il

figlio di un contadino e suo padre, o tra una «casalinga» e suo mari-

to. Nondimeno, i due tipi di autorità, anche se in realtà sono commi-

sti, differiscono sostanzialmente, e l’analisi di una concreta situazio-

ne d’autorità deve sempre determinare il peso specifico di ogni gene-

re di autorità.

Il carattere sociale del diciannovesimo secolo è un buon esempio

di mescolanza di autorità razionale e autorità irrazionale. Il carattere

della società era essenzialmente gerarchico e differiva dal carattere

gerarchico della società feudale basata sulla legge divina e sulla tra-

87 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

dizione, fondandosi piuttosto sulla proprietà del capitale: quelli che

lo possedevano potevano comprare e così comandare il lavoro di

quelli che non avevano capitale, e questi ultimi dovevano obbedire,

sotto pena di morir di fame. V’era una specie di miscuglio tra il nuo-

vo e il vecchio sistema gerarchico. Lo stato, specialmente nella for-

ma monarchica, coltivava le vecchie virtù di obbedienza e di sotto-

missione per applicarle a contenuti e valori nuovi. L’obbedienza,

nella classe media del diciannovesimo secolo, era ancora una delle

virtù fondamentali e la disobbedienza uno dei vizi capitali.

Nel medesimo tempo, tuttavia, l’autorità razionale si era svilup-

pata fianco a fianco dell’autorità irrazionale. Fin dalla riforma e dal

rinascimento l’uomo aveva cominciato ad affidarsi alla propria ra-

gione come ad una guida nell’azione e nei giudizi di valore. Egli era

fiero di avere convinzioni proprie, e rispettava l’autorità degli scien-

ziati, filosofi, storici che lo aiutavano a formarsi i propri giudizi e ad

esser certo delle proprie convinzioni. Decidere tra il vero e il falso,

tra il giusto e l’ingiusto, era cosa di primaria importanza e infatti sia

la coscienza morale sia quella intellettuale presero un posto premi-

nente nella struttura di carattere dell’uomo del diciannovesimo seco-

lo. Anche se non applicava le norme della sua coscienza a uomini di

colore diverso o perfino di differenti classi sociali, era tuttavia guida-

to, almeno fino a un certo punto, dal suo senso del giusto e

dell’ingiusto e, anche se non era riuscito ad evitare la cattiva azione,

aveva coscienza del male fatto.

Un altro tratto caratteristico del diciannovesimo secolo è stretta-

mente collegato a questo senso della coscienza morale e intellettuale:

il senso dell’orgoglio e del dominio. Se oggi guardiamo alle imma-

gini della vita del diciannovesimo secolo, agli uomini con barba,

cilindro e bastone da passeggio, siamo facilmente colpiti dagli aspet-

ti ridicoli e negativi dell’orgoglio maschile del diciannovesimo seco-

lo: una vanità e una ingenua fede in se stessi considerati come la più

alta creazione della natura e della storia;

ma, specialmente se guardiamo all’assenza di questi tratti nel no-

stro tempo, possiamo vedere gli aspetti positivi di quest’orgoglio.

L’uomo aveva la consapevolezza di essersi, per così dire, messo in

sella, e di aver liberato se stesso dal dominio delle forze naturali; di

esser diventato, per la prima volta nella storia, loro padrone. Egli

aveva liberato se stesso dai ceppi della superstizione medievale, ed

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 88

era persino riuscito, nei cento anni tra il 1814 e il 1914, a creare uno

dei più pacifici periodi che la storia abbia mai conosciuto. Egli sen-

tiva di esser un individuo soggetto alle leggi della ragione e che se-

guiva soltanto le proprie decisioni.

Riassumendo, possiamo dunque dire che il carattere sociale del

diciannovesimo secolo era essenzialmente concorrenziale, accumu-

latore, sfruttatore, autoritario, aggressivo, individualista. Anticipan-

do il nostro successivo esame, possiamo già ora porre l’accento sulla

gran differenza esistente tra il capitalismo del diciannovesimo secolo

e quello del ventesimo. Invece dell’orientamento sfruttatore e acca-

parratore troviamo l’orientamento ricettivo e mercantile. Invece di

competitività troviamo una tendenza sempre crescente verso il «la-

voro di gruppo»; invece di una corsa al profitto sempre crescente, il

desiderio di un reddito continuo e sicuro; invece di sfruttamento, una

tendenza a condividere e a distribuire la ricchezza, a manovrare gli

altri, e se stessi; invece di autorità, razionale o irrazionale, ma mani-

festa, troviamo un’autorità anonima, l’autorità dell’opinione pubbli-

ca e del mercato;8 invece della coscienza individuale, il bisogno di

adeguarsi e di esser approvati da altri; invece del senso di orgoglio e

di dominio, un sempre crescente, sebbene prevalentemente incon-

scio, senso di impotenza.9

Se ci volgiamo a guardare ai problemi patologici dell’uomo del

diciannovesimo secolo, li vediamo, come è naturale, strettamente

collegati alle peculiarità del suo carattere sociale. L’orientamento

verso lo sfruttamento e l’accumulazione provocò sofferenze umane e

mancanza di rispetto per la dignità dell’uomo: permise all’Europa di

sfruttare l’Africa e l’Asia e le sue proprie classi operaie spietatamen-

te e senza riguardo per i valori umani. L’altro fenomeno patologico

del diciannovesimo secolo, il ruolo dell’autorità irrazionale e il biso-

gno di sottomettervisi, portarono alla repressione di pensieri e di

sentimenti che furono messi al bando dalla società. Il sintomo più

evidente fu la repressione del sesso e di tutto quello che vi era di na- 8 Tuttavia, come dimostrato dalla Russia e dalla Germania, la fuga dalla libertà può anche, nel

ventesimo secolo, prender la forma di una sottomissione completa ad una aperta autorità irra-

zionale. 9 Si deve aggiungere che la descrizione precedente è vera specialmente per le classi medie del

diciannovesimo secolo. L'operaio e il contadino erano differenti sotto molti aspetti essenziali.

Uno degli elementi dello sviluppo del ventesimo secolo è che la differenza di carattere tra le

diverse classi sociali, specialmente tra quelle viventi nelle città, sia quasi del tutto scomparsa.

89 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

turale nel corpo, nei movimenti, nell’abbigliamento, nell’architettura

e così via. Questa repressione portò, come pensava Freud, a varie

forme di patologia nevrotica.

I movimenti di riforma del diciannovesimo secolo e degli inizi

del ventesimo che cercarono di curare la patologia sociale, mossero

da questi sintomi principali. Tutte le forme di socialismo,

dall’anarchismo al marxismo, insistettero sulla necessità di abolire lo

sfruttamento e di trasformare l’operaio in un essere umano indipen-

dente, libero e rispettato; essi credevano che se si fosse abolita la

sofferenza economica, tutte le conquiste positive del diciannovesimo

secolo avrebbero portato il loro pieno frutto, mentre sarebbero

scomparsi i difetti. Proprio nello stesso modo Freud credeva che se

fosse diminuita sensibilmente la repressione sessuale, sarebbero di-

minuite di conseguenza le nevrosi e tutte le forme di malattie mentali

(anche se negli ultimi anni il suo ottimismo iniziale andò sempre più

riducendosi). I liberali credevano che la completa libertà dalle auto-

rità irrazionali avrebbe segnato l’inizio di una nuova era. Le ricette

per la cura degli umani malanni fornite da liberali, socialisti e psica-

nalisti, differenti com’erano l’una dall’altra, si adattavano tuttavia

alla patologia e alla sintomatologia caratteristiche del diciannovesi-

mo secolo. Che cosa era più naturale dell’attendersi che, con

l’abolizione dello sfruttamento e delle sofferenze economiche o con

la rimozione della repressione sessuale e dell’autorità irrazionale,

l’uomo entrasse in un’era di libertà, felicità e progresso maggiori di

quel che aveva avuto nel diciannovesimo secolo?

Mezzo secolo è trascorso e le principali richieste dei riformatori

del diciannovesimo secolo sono state soddisfatte. Se si parla del pae-

se economicamente più progredito, gli Stati Uniti, si vede che lo

sfruttamento economico delle masse è scomparso in misura che sa-

rebbe parsa fantastica al tempo di Marx. La classe operaia, invece di

regredire nello sviluppo economico dell’intera società, partecipa

sempre più della ricchezza nazionale, ed è perfettamente legittima

l’ipotesi che, qualora non avvenga qualche eccezionale catastrofe,

non vi sarà più, tra una o due generazioni, sensibile povertà negli

Stati Uniti. Strettamente collegato alla crescente abolizione delle

sofferenze economiche è il fatto che la situazione umana e politica

dell’operaio è radicalmente cambiata. Attraverso i sindacati, egli è

diventato, sul piano sociale, un «collaboratore» della direzione. Egli

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 90

non può esser mandato da una parte all’altra, licenziato, offeso come

accadeva ancora trent’anni fa. Certamente egli non guarda più il

«padrone» come se questi fosse un essere superiore. Non lo venera e

non lo odia, anche se forse lo invidia per i maggiori progressi che ha

fatto nel raggiungimento di fini socialmente desiderabili. Per quanto

riguarda la sottomissione all’autorità irrazionale nei rapporti tra figli

e genitori, il quadro è fortemente mutato dal diciannovesimo secolo.

I bambini non hanno più paura dei genitori. Essi sono camerati e se

c’è qualcuno che si sente a disagio questi non è il bambino, ma i ge-

nitori che temono di non essere aggiornati. Nell’industria come

nell’esercito c’è uno spirito di «lavoro di gruppo» e di eguaglianza

che sarebbe parso incredibile cinquant’anni fa. In aggiunta a tutto ciò

la repressione sessuale è diminuita in misura notevole; dopo la prima

guerra mondiale si è avuta una rivoluzione sessuale con la quale si

sono gettati a mare inibizioni e principi. L’idea di non soddisfare i

desideri sessuali era ritenuta superata e poco salutare. Benché vi sia

stata una certa reazione contro questo atteggiamento, nel complesso

il sistema di divieti e repressioni del diciannovesimo secolo è quasi

scomparso.

Facendo un confronto col diciannovesimo secolo, noi abbiamo

ottenuto quasi tutto quello che sembrava esser necessario per una

società più sana e difatti molti, che ancora pensano nei termini del

secolo scorso, sono convinti che continuiamo a progredire. Di con-

seguenza essi credono anche che l’unica minaccia ad un ulteriore

progresso risieda nelle società autoritarie, come l’Unione Sovietica

che, con il suo spietato sfruttamento economico degli operai per rea-

lizzare una più rapida accumulazione di capitale e la spietata autorità

politica necessaria per continuare lo sfruttamento, somiglia per di-

versi aspetti alla fase iniziale del capitalismo. Però per quelli che non

guardano alla nostra società con gli occhi del diciannovesimo secolo,

risulta ovvio che la soddisfazione delle speranze del diciannovesimo

secolo non ha portato affatto ai risultati che ci si attendeva. Di fatto

sembra che, nonostante la prosperità materiale, la libertà politica e

sessuale, il mondo a metà del ventesimo secolo sia mentalmente più

ammalato di quanto non lo fosse quello del secolo diciannovesimo.

Difatti, come ha detto concisamente Adlai Stevenson: «Non corria-

91 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

mo più il pericolo di diventare schiavi, ma di diventare robot».10

Non

c’è un’autorità aperta che ci intimidisca, ma siamo governati dal ti-

more dell’autorità anonima del conformismo. Non ci sottomettiamo

a nessuno

personalmente; non abbiamo conflitti con l’autorità, ma non pos-

sediamo nemmeno convinzioni nostre; non abbiamo quasi individua-

lità né senso della nostra personalità. Evidentemente, la diagnosi

della nostra patologia non può ricalcare quella del diciannovesimo

secolo. Dobbiamo riconoscere gli specifici problemi patologici del

nostro tempo per giungere ad una visione di quel che è necessario

per salvare il mondo occidentale da uno squilibrio crescente. Si cer-

cherà di fare queste diagnosi nella sezione seguente che tratta del

carattere sociale dell’uomo occidentale nel ventesimo secolo.

C. La società del ventesimo secolo

1. Mutamenti sociali ed economici

Nel capitalismo tra il diciannovesimo secolo e la metà del vente-

simo sono avvenuti importanti mutamenti della tecnica industriale e

della struttura economica e sociale. Non meno gravi e fondamentali

sono stati i cambiamenti nel carattere dell’uomo. Mentre abbiamo

già menzionato taluni cambiamenti nel passaggio dal capitalismo del

diciannovesimo secolo a quello del ventesimo -mutamenti nella for-

ma di sfruttamento, nella forma dell’autorità, nel ruolo della tenden-

za al possesso - nell’esame che segue si considereranno quegli aspet-

ti economici e caratterologici del capitalismo contemporaneo che

sono i più fondamentali del nostro tempo, anche se la loro origine

può risalire al secolo diciannovesimo o anche più indietro.

Per cominciare con una constatazione negativa, nella società oc-

cidentale contemporanea le caratteristiche feudali vanno sempre più

scomparendo, e in tal modo la pura forma della società capitalistica

diventa ancor più evidente. Tuttavia l’assenza di residui feudali è

ancor più notevole negli Stati Uniti che nell’Europa occidentale. Il

capitalismo degli Stati Uniti non è soltanto più potente e più progre-

10 Nel suo discorso alla Columbia University, 1954.

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 92

dito che in Europa, ma è anche il modello verso cui il capitalismo

europeo sta sviluppandosi. Ed è un modello non perché l’Europa

tende ad imitarlo, ma perché costituisce la forma più avanzata di ca-

pitalismo, libera dai residui e dalle pastoie feudali. Il retaggio feuda-

le ha, oltre alle ovvie qualità negative, caratteristiche umane che,

paragonate con l’atteggiamento prodotto dal capitalismo puro, sono

estremamente suggestive. La critica europea agli Stati Uniti è basata

fondamentalmente sui più antichi valori umani del feudalesimo, in

quanto essi sono ancora vivi in Europa. È una critica del presente in

nome di un passato che sta rapidamente scomparendo nella stessa

Europa. Sotto questo rispetto la differenza tra l’Europa e gli Stati

Uniti è soltanto la differenza tra una fase più vecchia ed una più

nuova del capitalismo, tra un capitalismo ancora mescolato con resi-

dui feudali e una sua forma pura.

Il mutamento maggiormente evidente dal diciannovesimo al ven-

tesimo secolo è il mutamento tecnico, il crescente uso della macchi-

na a vapore, del motore a scoppio, dell’elettricità e l’inizio

dell’impiego dell’energia atomica. Lo sviluppo è caratterizzato dalla

sostituzione crescente del lavoro manuale col lavoro meccanico e,

oltre a ciò, dell’intelligenza umana con l’intelligenza meccanica.

Mentre nel 1850 l’uomo forniva il 15% dell’energia per il lavoro, gli

animali il 79% e le macchine il 6%, il rapporto diventerà nel 1960

rispettivamente del 3, dell’1 e del 96%.11

Nella metà del ventesimo

secolo troviamo una tendenza crescente ad impiegare macchine re-

golate automaticamente, che hanno i loro propri «cervelli» e che de-

terminano un mutamento fondamentale nell’intero processo produt-

tivo.

Il mutamento tecnico nel sistema di produzione è provocato da

una crescente concentrazione di capitale ed a sua volta la rende ne-

cessaria. La diminuzione del numero e dell’importanza delle piccole

aziende è in rapporto diretto con l’incremento dei grossi colossi eco-

nomici. Bastano poche cifre per dar concretezza ad un quadro che

nelle sue grandi linee è molto ben conosciuto. Delle 573 società

anonime americane indipendenti che controllavano la maggior parte

dei titoli allo Stock Exchange di New York nel 1930, 130 società

11 Cfr. Th. CARSKADOM e R. MODLEY, U.S.A., Measure of a Nation, The Macmillan

Company, New York 1949, p. 3.

93 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

controllavano più dell’80% dell’attivo di tutte le società rappresenta-

te. Le 200 società non bancarie controllavano «quasi metà di tutta la

ricchezza delle società non bancarie, mentre l’altra metà era posse-

duta da più di 300.000 società più piccole».12

Bisogna inoltre ricor-

dare che l’influenza di una di queste enormi società si estende ben

oltre l’attivo sotto il suo diretto controllo. «Le società più piccole

che vendono o comprano dalle società più grandi sono soggette ad

esse e influenzate da queste molto più ampiamente che dalle altre

piccole società con cui trattano. In molti casi la continuata prosperità

delle società più piccole dipende dal favore delle più grandi e quasi

inevitabilmente l’interesse di queste ultime diventa l’interesse delle

prime. L’influenza della società più grande sui prezzi è spesso gran-

demente aumentata dalle sue stesse dimensioni anche se essa non

comincia nemmeno ad esser un monopolio. La sua influenza politica

può esser colossale. Dunque se circa la metà della ricchezza associa-

ta è controllata da duecento grandi società anonime, e metà dalle

società più piccole, è ragionevole supporre che ben più della metà

dell’industria sia dominata da queste grandi unità. Questa concentra-

zione diventa ancor più significativa quando si ricordi che, come

risultato di ciò, all’incirca 2.000 individui su una popolazione di cen-

toventicinque milioni sono in grado di controllare e dirigere metà

dell’industria».13

Questa concentrazione del potere ha preso a svi-

lupparsi sin dal 1933, e non si è ancora arrestata.

Il numero degli imprenditori autonomi è considerevolmente di-

minuito. Mentre agli inizi del diciannovesimo secolo all’incirca

quattro quinti della popolazione occupata erano imprenditori auto-

nomi, verso il 1870 soltanto un terzo apparteneva a questo gruppo, e

nel 1940 questa vecchia classe media comprendeva soltanto un quin-

to della popolazione occupata, cioè soltanto il 25% della sua forza di

un centinaio di anni prima. Ventisettemila giganteschi complessi,

che costituiscono soltanto l’1% di tutte le aziende degli Stati Uniti,

impiegano più del 50% di tutte le persone occupate nelle attività in-

dustriali e commerciali odierne, mentre, d’altro lato, 1.500.000 im-

12 Cfr. A.A. BERLE jr. e G.C. MEANS, The Modern Corporation and Private Property, The

Macmillan Company, New York 1940, pp. 27 e 28. 13 Ibidem, pp. 32 e 33.

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 94

prese individuali (non agricole) occupano soltanto il 6% di tutta la

popolazione impiegata nel genere di attività sopraindicato. 14

Come già indicano queste cifre, con la concentrazione delle im-

prese si verifica un enorme aumento del personale di queste grandi

imprese. Mentre la vecchia classe media, composta di agricoltori,

uomini di affari indipendenti e professionisti, costituiva precedente-

mente l’85% di tutta la classe media, essa è ora soltanto il 44%; i

nuovi ceti medi sono aumentati dal 15 al 56% nel medesimo perio-

do. Questo nuovo ceto medio è composto di dirigenti, che sono au-

mentati dal 2 al 6%; di professionisti stipendiati (dal 4 al 14%); di

agenti di vendita (dal 7 al 14%); e di impiegati di ufficio (dal 2 al

22%). Nell’insieme il nuovo ceto medio è aumentato, tra il 1870 e il

1940, dal 6 al 25% del totale delle forze lavorative, mentre i salariati

sono scesi nello stesso periodo dal 61 al 55% del totale delle forze

lavoratrici. Come Mills scrive molto concisamente: «...meno persone

manovrano cose, più maneggiano uomini e simboli».15

Con l’accresciuta importanza dell’impresa gigante si è verificato

un altro sviluppo di grande momento: la crescente separazione della

direzione dalla proprietà. Questo punto è illustrato da cifre rivelatrici

nella classica opera di Berle e Means. Delle 144 società per le quali

si poterono avere informazioni tra le 200 maggiori società (nel 1930)

solo 20 avevano meno di 5.000 azionisti, mentre 71 avevano tra i

20.000 e i 500.000 azionisti. 16

Soltanto nelle piccole società la dire-

zione sembrava conservare un’importante partecipazione azionaria,

mentre nelle grandi, cioè nelle società più importanti, vi era quasi

una completa separazione tra la proprietà delle azioni e la direzione.

In talune delle più importanti compagnie ferroviarie e di elettricità,

nel 1929, l’entità del più grosso pacchetto tenuto da un qualsiasi sin-

golo azionista non superava il 2,74%, e questa situazione, secondo

Berle e Means, esiste anche nel campo industriale. «Quando le indu-

strie sono classificate secondo l’entità media dei pacchetti azionari in

mano della direzione... il rapporto di quanto è proprietà dei funziona-

ri e degli amministratori si vede mutare in proporzione quasi esatta-

mente inversa alla grandezza media delle società considerate. Con

14 Queste cifre sono citate da C.W. MILLS, White Collar, Oxford University Press, New York

1951, p. 63 ss. 15 Op. cit., p. 63. 16 Queste cifre, come le seguenti, sono prese da BERLE e MEANS.

95 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

solo due importanti eccezioni, quanto maggiori sono le dimensioni

della società, tanto minore è l’aliquota di azioni in mano alla dire-

zione. Nelle ferrovie, la cui media azionaria è generalmente di 52

milioni di dollari per società, i pacchetti tenuti dalla direzione am-

montavano all’1,4% e in ... varie industrie minerarie ammontavano

all’1,8%. Soltanto quando le società erano piccole pareva che la di-

rezione possedesse un’importante partecipazione azionaria. I pac-

chetti di queste ultime ammontavano a meno del 20%, salvo nelle

industrie con società aventi un capitale medio sotto il milione di dol-

lari, mentre soltanto in tre gruppi industriali, ognuno costituito di

società che avevano in media meno di duecentomila dollari, si trova-

vano amministratori e funzionari che possedevano più della metà

delle azioni».17

Considerando insieme le due tendenze, quella

dell’aumento relativo della grande azienda e quella della esiguità dei

pacchetti azionari della direzione delle grandi aziende, risulta evi-

dente che la tendenza generale che si afferma sempre più è quella in

cui il proprietario del capitale è distinto dalla direzione. Come la di-

rezione controlli l’azienda nonostante il fatto che essa non ne sia

proprietaria in misura considerevole, è un problema sociologico e

psicologico di cui tratteremo più avanti.

Un altro fondamentale mutamento avvenuto nel capitalismo con-

temporaneo rispetto a quello del diciannovesimo secolo è costituito

dall’aumento di importanza del mercato interno. Tutto il nostro mec-

canismo economico si basa sul principio della produzione di massa e

del consumo di massa. Mentre nel secolo diciannovesimo la tenden-

za generale era di risparmiare, e di non indulgere a spese che non si

potessero pagare subito, il sistema contemporaneo porta esattamente

all’opposto. Tutti sono invitati a spendere quanto più possono, e

prima di aver risparmiato abbastanza per pagare i loro acquisti. Il

bisogno di maggior consumo è fortemente stimolato dalla pubblicità

e da tutti gli altri metodi di pressione psicologica. Questo sviluppo

procede parallelo all’ascesa della condizione economica e sociale

della classe operaia. Particolarmente negli Stati Uniti, ma anche

ovunque in Europa, la classe operaia ha partecipato alla produzione

crescente di tutto il sistema economico. La paga dell’operaio e le sue

previdenze sociali gli consentono un livello di consumo che sarebbe

17 BERLE e MEANS, op. cit., p. 52.

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 96

parso fantastico un centinaio di anni fa. Il suo potere sociale ed eco-

nomico è aumentato nella stessa misura, e non soltanto in rapporto al

salario e alle previdenze sociali, ma anche in relazione al suo ruolo

umano e sociale nella fabbrica.

Diamo un altro sguardo ai più importanti fattori del capitalismo

del ventesimo secolo: la scomparsa delle caratteristiche feudali, il

rivoluzionario aumento della produzione industriale, la crescente

concentrazione del capitale e la grandezza delle imprese e della pub-

blica amministrazione; il crescente numero di persone che maneg-

giano cifre e uomini, la separazione della proprietà dalla direzione,

l’ascesa economica e politica della classe operaia, i nuovi metodi di

lavoro nelle fabbriche e negli uffici; e descriviamo questi mutamenti

da un aspetto lievemente diverso. La scomparsa dei fattori feudali

significa la scomparsa dell’autorità irrazionale. Nessuno è ritenuto,

per nascita, per volontà divina o per legge di natura, superiore al suo

vicino. Tutti sono liberi ed eguali. Nessuno può esser sfruttato o co-

mandato in virtù di un diritto naturale. Se una persona è comandata

da un’altra ciò avviene perché colui che comanda ha comprato sul

mercato del lavoro il lavoro e le prestazioni di colui che è comanda-

to; egli comanda perché entrambi sono liberi ed eguali e pertanto

hanno potuto stabilire un rapporto contrattuale. Tuttavia insieme

all’autorità irrazionale, anche l’autorità razionale appare superata. Se

il mercato e i contratti regolano rapporti, non v’è bisogno di sapere

che cosa è giusto e che cosa è sbagliato, che cosa è buono e che cosa

è cattivo. Tutto quel che è necessario è sapere che le cose sono cor-

rette, che lo scambio è corretto, e che le cose «vanno avanti» e che

tutto funziona.

Un altro fatto decisivo di cui l’uomo del ventesimo secolo fa

l’esperienza è il miracolo della produzione. Egli comanda a forze

migliaia di volte più possenti di quelle che la natura gli aveva prece-

dentemente fornito; il vapore, il petrolio, l’elettricità sono diventati i

suoi servi e i suoi animali da soma. Egli attraversa gli oceani e i con-

tinenti, dapprima impiegando settimane, poi giorni e adesso ore. Egli

vince apparentemente la legge di gravità e vola attraverso lo spazio;

converte in fertili terre i deserti e fabbrica la pioggia invece di prega-

re per essa. Il miracolo della produzione conduce al miracolo del

consumo. Non vi sono più barriere tradizionali che vietino a chiun-

que di comprare qualsiasi cosa desideri. Basta soltanto che egli abbia

97 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

il denaro. Ma sono sempre più numerosi coloro che hanno il denaro,

non forse per le perle autentiche, ma per quelle sintetiche; per la

Ford che pare una Cadillac, per i vestiti a buon mercato che somi-

gliano a quelli costosi, per le sigarette che sono le medesime sia per

il milionario che per il manovale. Tutto è a portata di mano, può es-

ser comprato, può esser consumato. C’era mai stata una società ove

questo miracolo fosse accaduto?

Gli uomini lavorano assieme. Confluiscono a migliaia negli stabi-

limenti industriali e negli uffici, vengono in automobile, in sotterra-

nea, in autobus, in treno; lavorano assieme, secondo un ritmo misu-

rato dagli esperti, con metodi elaborati dagli esperti, non troppo in

fretta, né troppo lentamente, ma assieme: ognuno una parte del tutto.

Alla sera la fiumana rifluisce: leggono lo stesso giornale, ascoltano

la radio, vanno al cinema, lo stesso per quelli che stanno al sommo e

per quelli che sono alla base della scala, per gli intelligenti e per gli

stupidi, per gli educati e per i non educati. Producono, consumano,

godono assieme, al passo, senza porre domande. Questo è il ritmo

delle loro vite.

Quale genere di uomini, dunque, richiede la nostra società? Qual

è il «carattere sociale» adatto al capitalismo del ventesimo secolo?

Esso richiede uomini che cooperino regolarmente in grandi grup-

pi; che vogliano consumare sempre di più, e i cui gusti siano stan-

dardizzati e possano essere facilmente influenzati e previsti.

Esso richiede uomini che si sentano liberi e indipendenti, non

soggetti ad alcuna autorità, o principio, o coscienza, e tuttavia dispo-

sti ad esser comandati, a far quello che ci si attende, a inserirsi senza

attriti nella macchina sociale. Come può l’uomo esser guidato senza

forza, diretto senza capi, spinto senza alcun fine, salvo quello di es-

sere in movimento, di funzionare, di andare avanti...? NOTE:...

2. Mutamenti caratterologici

a) Quantificazione, astrattizzazione

Analizzando e descrivendo il carattere sociale dell’uomo con-

temporaneo, si può scegliere un numero qualsiasi di punti di vista,

proprio come si può fare descrivendo la struttura del carattere di un

individuo. Questi punti di vista possono essere diversi sia nella pro-

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 98

fondità cui giunge l’analisi, sia perché possono essere centrati su

differenti aspetti i quali, benché egualmente «profondi», sono tutta-

via scelti secondo il particolare interesse del ricercatore.

Nell’analisi che segue, ho scelto il concetto di alienazione come

punto centrale da cui svilupperò l’analisi del carattere sociale con-

temporaneo. E ciò perché questo concetto mi sembra toccare il lato

più profondo della personalità moderna, e perché è il più adatto, qua-

lora si voglia trattare il rapporto reciproco tra struttura economico-

sociale contemporanea e struttura di carattere dell’individuo medio.18

Dobbiamo avviare la discussione dell’alienazione parlando di una

delle caratteristiche economiche fondamentali del capitalismo, il

processo di quantificazione e di astrattizzazione.

L’artigiano medievale produceva beni per un gruppo relativa-

mente piccolo e noto di clienti. I suoi prezzi erano determinati dal

bisogno di trarre un utile che gli permettesse di vivere in maniera

tradizionalmente proporzionata alla sua condizione sociale. Egli co-

nosceva per esperienza i costi di produzione, e anche se impiegava

qualche garzone e apprendista, l’attività della sua azienda non ri-

chiedeva nessun sistema complesso di contabilità o di bilancio. Lo

stesso valeva per la produzione del contadino, che richiedeva in mi-

sura ancor minore astratti metodi di quantificazione. Ben diversa-

mente, la moderna impresa commerciale è basata sul bilancio e non

può basarsi su un’osservazione concreta e diretta come quella che

l’artigiano usava per calcolare i propri utili. La materia prima, gli

impianti, i costi della manodopera, così come il prodotto, possono

essere espressi nel medesimo valore monetario, e esser così resi

comparabili e atti ad apparire nel bilancio. Tutti i fatti economici

devono essere rigorosamente riducibili in numero e soltanto il bilan-

cio, l’esatta comparazione di processi economici calcolati in cifre,

dice al gerente se e in che misura egli è impegnato in una attività

commerciale lucrativa, e perciò importante.

Questa trasformazione del concreto nell’astratto è andata ben ol-

tre i fogli del bilancio e la quantificazione dei fatti economici nella

sfera della produzione. L’uomo d’affari moderno non tratta soltanto

18 Come potrà vedere il lettore cui sia familiare il concetto di orientamento mercantile da me

sviluppato in Man for Himself, il concetto di alienazione è più generale e sta alla base del

concetto maggiormente specifico di «orientamento mercantile».

99 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

con milioni di dollari, ma anche con milioni di consumatori, migliaia

di azionisti e migliaia di operai e impiegati; tutte queste persone di-

ventano altrettante parti di una macchina gigantesca che deve essere

controllata, i cui effetti devono essere calcolati; ogni uomo può infi-

ne essere espresso come un’entità astratta, come una cifra, e su que-

sta base sono calcolati i fatti economici, sono previste le tendenze, e

sono prese le decisioni.

Oggi, quando solamente il 20% circa della nostra popolazione la-

voratrice è indipendente, mentre il resto lavora per qualcun altro, la

vita di un uomo dipende da qualcuno che gli paga un salario o uno

stipendio. Ma dovremmo dire «qualcosa» invece di «qualcuno» per-

ché un lavoratore è assunto e licenziato da una istituzione, i cui diri-

genti sono una parte impersonale dell’azienda, piuttosto che indivi-

dui in contatto personale con coloro che essi impiegano. Non dimen-

tichiamo un altro fatto; nella società precapitalistica, lo scambio era

in larga misura fatto tra beni e servizi; oggi ogni lavoro è ricompen-

sato in denaro. Lo stretto intreccio delle relazioni economiche è re-

golato dal denaro, espressione astratta del lavoro; cioè noi riceviamo

differenti quantità del medesimo bene per differenti qualità, diamo

denaro per ciò che riceviamo, ancora scambiamo soltanto differenti

quantità per differenti qualità. Praticamente nessuno, con l’eccezione

della popolazione agricola, può vivere per sia pur pochi giorni senza

ricevere o spendere denaro, che rappresenta la qualità astratta di la-

voro concreto.

Un altro aspetto della produzione capitalistica che deriva da una

crescente astrattizzazione è costituito dalla crescente divisione del

lavoro. La divisione del lavoro come insieme esiste nella maggior

parte dei sistemi economici conosciuti e anche nella maggior parte

delle comunità primitive sotto forma di divisione del lavoro tra i due

sessi. Quel che è caratteristico della produzione capitalistica è il gra-

do in cui questa divisione si è sviluppata. Mentre nell’economia me-

dievale vi era una divisione di lavoro, per esempio, tra produzione

agricola e lavoro artigianale, il lavoro era ben poco diviso entro cia-

scuna sfera della produzione stessa. Il falegname che faceva una se-

dia o un tavolo faceva l’intera sedia o l’intero tavolo, e, anche se

qualche lavoro preparatorio era eseguito dai suoi apprendisti, egli

aveva il controllo della produzione sovraintendendovi nel suo com-

plesso. Nella moderna azienda industriale l’operaio non è mai in

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 100

rapporto con il prodotto intero. Egli è impiegato nell’adempimento

di una funzione specializzata, e pur avendo la possibilità di passare,

col trascorrere del tempo, da una funzione all’altra, non sarà mai in

rapporto con l’insieme del prodotto concreto. Egli sviluppa una fun-

zione specializzata, e la tendenza è tale che si può dire che la funzio-

ne del moderno operaio industriale è di lavorare a guisa di macchina

in attività alle quali il lavoro a macchina non è ancora stato applica-

to, o per le quali esso sarebbe più costoso del lavoro umano. La sola

persona che sia in contatto con il prodotto intero è il dirigente, ma

per lui il prodotto è un’astrazione, la cui essenza è un valore di

scambio, mentre l’operaio, per il quale è una realtà concreta, non

lavora mai ad esso nella sua totalità.

Indubbiamente senza quantificazione e astrattizzazione la moder-

na produzione di massa sarebbe impensabile. Ma in una società nella

quale le attività economiche sono diventate la più importante preoc-

cupazione dell’uomo, questo processo di quantificazione e di astrat-

tizzazione ha superato il dominio della produzione economica, e si è

esteso all’atteggiamento dell’uomo verso le cose, verso la gente, e

verso se stesso.

Per comprendere il processo di astrattizzazione dell’uomo mo-

derno, dobbiamo per prima cosa considerare la funzione ambigua

dell’astrazione in generale. È ovvio che le astrazioni in se stesse non

sono un fenomeno moderno. Infatti, una crescente abilità a formare

astrazioni è caratteristica dello sviluppo culturale del genere umano.

Se parlo di «un tavolo» uso una astrazione; mi riferisco non a uno

specifico tavolo in tutta la sua concretezza, ma al genere «tavolo»

che comprende tutti i concreti tavoli possibili. Se parlo di «un uo-

mo» non parlo di questa o quella persona, nella sua concretezza e

unicità, ma del genere «uomo» che comprende tutte le persone indi-

viduali. In altre parole io faccio una astrazione. Lo sviluppo del pen-

siero filosofico o scientifico è basato su una crescente abilità per tale

astrattizzazione, e l’abbandonarla significherebbe regredire ai più

primitivi modi di pensare.

Tuttavia vi sono due modi di metter se stesso in rapporto con un

oggetto: ci si può mettere in rapporto con esso in tutta la sua concre-

tezza; allora l’oggetto si presenta con tutte le sue qualità specifiche,

e non vi sono altri oggetti che gli siano identici. E ci si può metter in

rapporto con un oggetto in un modo astratto, cioè, accentuando sol-

101 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

tanto quelle qualità che esso ha in comune con tutti gli altri oggetti

dello stesso genere, rilevando così alcune qualità ed ignorandone

altre. La piena e produttiva correlazione con un oggetto comprende

questa polarità, la capacità cioè di percepirlo nella sua unicità e, nel-

lo stesso tempo, nella sua generalità; nella sua concretezza e, con-

temporaneamente, nella sua astrazione.

Nella cultura occidentale contemporanea questa polarità ha cedu-

to di fronte ad un riferimento quasi esclusivo alle qualità astratte del-

le cose e delle persone, e ad una vera riluttanza a mettere se stessi in

rapporto con la loro concretezza e unicità. Invece di formare conce-

zioni astratte ove ciò è necessario ed utile, si sta astrattizzando tutto,

compresi noi stessi; la concretezza e la realtà delle persone e delle

cose con cui possiamo metter in relazione la realtà della nostra stessa

persona viene sostituita da astrazioni, da fantasmi che rappresentano

quantità differenti, ma non qualità differenti.

È del tutto consueto parlare di «un ponte da tre milioni di dolla-

ri», di un «sigaro da venti cents», di un «orologio da cinque dollari»,

e ciò non soltanto dal punto di vista del fabbricante o del consumato-

re nel processo di compravendita, ma perché ciò costituisce il punto

più importante in una descrizione. Quando si parla di un «ponte da

tre milioni di dollari» non si considera in primo luogo la sua utilità o

la sua bellezza, cioè le sue qualità concrete, ma si parla di esso come

di una merce la cui più importante qualità è il valore di scambio,

espresso in quantità, quella del denaro. Questo naturalmente non

vuol dire che non ci importi anche della utilità e della bellezza del

ponte, ma significa che, nel modo con cui si considera quell’oggetto,

il suo valore concreto (di uso) è secondario rispetto al suo valore

astratto (di scambio). La famosa frase di Gertrude Stein, «una rosa è

una rosa è una rosa», è una protesta contro questa astratta forma di

esperienza; per i più la rosa non è precisamente una rosa, ma è un

fiore di un certo prezzo da comprare in certe circostanze sociali; per-

sino il più bel fiore, se cresce nei campi e non costa nulla, non è con-

siderato per la sua bellezza a paragone di quella della rosa, poiché

esso non ha alcun valore di scambio.

In altre parole, le cose sono considerate come merci, come perso-

nificazione di un valore di scambio non soltanto quando noi stiamo

comprando o vendendo, ma anche nel nostro atteggiamento verso di

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 102

esse quando la transazione economica sia stata completata.

Un buon esempio di questo atteggiamento si può trovare in una

relazione del segretario di una importante organizzazione scientifica

su come egli impiegò una giornata nel suo ufficio. L’organizzazione

aveva appena allora comprato uno stabile e vi si era trasferita. Il se-

gretario riferisce che in uno dei primi giorni successivi al trasferi-

mento nel nuovo edificio egli ricevette una telefonata da un agente

immobiliare, il quale gli diceva che c’era della gente interessata

all’acquisto dello stabile, e che desiderava vederlo. Benché egli sa-

pesse che era molto improbabile che l’organizzazione volesse vende-

re lo stabile pochi giorni dopo esservisi trasferita, non resistette alla

tentazione di sapere se il valore dell’edificio fosse aumentato da

quando lo avevano comperato, e spese una o due ore preziose per

farlo visitare all’agente immobiliare. Egli annota: «Molto importante

il fatto che possiamo avere offerte per più di quanto abbiamo speso.

Buona coincidenza che l’offerta sia giunta quando l’economo era in

ufficio. Tutti concordano che sarà utile per il morale dell’ufficio sa-

pere che lo stabile si venderebbe per ben più di quanto è costato.

Vediamo che succederà». Nonostante tutto l’orgoglio o la soddisfa-

zione per la nuova sede, questa manteneva ancora la sua qualità di

merce, di qualcosa che si può spendere e a cui non è collegato alcun

senso completo di possesso o di uso. Lo stesso atteggiamento è co-

mune nel rapporto tra noi e l’automobile che abbiamo comperato;

l’automobile non diventa mai del tutto una cosa cui siamo affeziona-

ti, ma conserva le sue qualità di merce che può essere scambiata in

un successivo baratto; così le automobili sono rivendute dopo uno o

due anni, molto prima che il loro valore d’uso sia esaurito o anche

considerevolmente diminuito. Questa astrattizzazione avviene perfi-

no per fenomeni che non sono affatto merci vendute sul mercato,

come per esempio un’alluvione disastrosa; i giornali presentano

un’alluvione, sotto il titolo «catastrofe da un milione di dollari», po-

nendo l’accento sull’astratto elemento quantitativo piuttosto che su-

gli aspetti concreti di umana sofferenza.

Ma l’atteggiamento astrattizzante e quantificante va ben al di là

del dominio delle cose. Anche gli uomini sono valutati come perso-

nificazioni di un valore quantitativo di scambio. Parlare di un uomo

come di un essere che «vale un milione di dollari» è parlare di lui

103 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

non più come di una persona umana concreta, ma come di

un’astrazione la cui essenza può essere espressa con una cifra. Si ha

una manifestazione del medesimo atteggiamento quando un giornale

intitola un necrologio con le parole: «È morto un fabbricante di scar-

pe». In effetti è morto un uomo, con certe qualità umane, con spe-

ranze e delusioni, con una moglie e con dei figli. È vero che egli

fabbricava scarpe, o piuttosto, che egli possedeva e dirigeva uno sta-

bilimento ove degli operai badavano a delle macchine che fabbrica-

vano scarpe, ma se si dice che «è morto un fabbricante di scarpe» la

ricchezza e concretezza di una vita umana viene espressa nella for-

mula astratta di una funzione economica.

La stessa impostazione astrattizzante può essere vista in espres-

sioni come «Ford ha fabbricato un dato numero di automobili», o un

generale «ha conquistato una fortezza»; o quando un uomo, che fa

costruire una casa per sé, dice «mi sono fatto una casa». Concreta-

mente parlando, Ford non ha fabbricato le automobili; egli ha diretto

la produzione di automobili che era eseguita da migliaia di operai. Il

generale non ha mai conquistato una fortezza; egli stava seduto nel

suo quartier generale a dare ordini, e i suoi soldati hanno fatto la

conquista. L’uomo non ha costruito una casa, ha dato il denaro a un

architetto che ha fatto i progetti e ai lavoratori che hanno fatto

l’edificio. Tutto questo non si dice per minimizzare l’importanza

delle attività organizzative e direttive, ma per spiegare come con

questo modo di venire a contatto con le cose si perde di vista quel

che concretamente avviene, e si assume un modo di vedere astratto

nel quale una funzione, quella di elaborare piani, dar ordini, o finan-

ziare un’attività, si identifica con l’intero processo concreto del pro-

durre, o del combattere, o del costruire, a seconda dei casi.

Il medesimo processo di astrattizzazione avviene in tutti gli altri

campi. Il «New York Times» ha stampato recentemente una notizia

sotto il titolo: «B.Sc.+Phd=l 40.000». Sotto questo titolo alquanto

enigmatico si spiegava che i dati statistici mostrano che uno studente

d’ingegneria che ha ottenuto il grado di Phd (cioè la laurea) guada-

gna nel corso della sua vita 40.000 dollari di più di un uomo che ha

solamente il grado di B.Sc. (Bachelor of Sciences). In quanto fatto,

questo è un interessante dato economico-sociale che merita di essere

riportato. Ne parliamo perché il modo di esprimere il fatto come

un’equazione tra un titolo universitario e una certa quantità di dollari

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 104

è indicativo del modo di pensare astrattizzante e quantificante per il

quale la scienza è valutata come l’espressione di un certo valore di

scambio sul mercato delle persone. Lo stesso avviene quando in una

rassegna politica su una rivista di informazioni si dichiara che

l’amministrazione Eisenhower sente di aver tanto «capitale di fidu-

cia» da poter rischiare qualche misura impopolare, perché essa può

permettersi di perdere un po’ di questo capitale di fiducia. Anche

qui, una qualità umana quale la fiducia è espressa nella sua forma

astratta, come se essa fosse un investimento monetario da trattarsi in

termini di speculazione di mercato. Come categorie commerciali si

siano sfrontatamente introdotte persino nel pensiero religioso è di-

mostrato dal passo seguente del vescovo Sheen, in un suo articolo

sulla nascita di Cristo: «La nostra ragione ci dice, così scrive

l’autore, che se qualcuno dei pretendenti (al ruolo di figlio di Dio)

veniva da Dio, il meno che Dio potesse fare, in appoggio alle affer-

mazioni di un Suo inviato, era di preannunciarne la venuta. I fabbri-

canti di automobili ci dicono quando dobbiamo aspettarci un nuovo

modello».19

Oppure, ancor più drasticamente, Billy Graham,

l’evangelista, dice: «Io sto piazzando il più grande prodotto del

mondo, perché non si dovrebbe propagandarlo quanto un sapone?».20

Il processo di astrattizzazione, tuttavia, ha radici e manifestazioni

più profonde di quelle sopra citate; radici che risalgono agli stessi

inizi dell’era moderna; alla dissoluzione di ogni concreto sistema di

orientamento nel processo vitale.

In una società primitiva, il «mondo» si identifica con la tribù. La

tribù è il centro dell’universo, per così dire, ogni cosa estranea è

oscura e non ha esistenza autonoma. Nel mondo medievale,

l’universo era molto più esteso; esso copriva la terra, il cielo, le stel-

le sopra di esso, ma quest’universo aveva la terra come centro e

l’uomo come fine della creazione. Ogni cosa aveva il suo posto sta-

bile, proprio allo stesso modo che ognuno aveva il suo posto definito

nella società feudale. Col quindicesimo e sedicesimo secolo, si apri-

rono nuove prospettive. La terra perdette la sua posizione centrale, e

diventò uno dei satelliti del sole, furono scoperti nuovi continenti e

trovate nuove vie marittime; lo statico sistema sociale si allentava

19 Dalla rivista «Collier's», 1953. 20 Rivista «Time», 25 ottobre 1954.

105 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

sempre più, tutto e tutti erano in movimento. Però sino alla fine del

secolo diciannovesimo la natura e la società non avevano perduto il

loro carattere concreto e definito. Il mondo sociale e naturale

dell’uomo poteva essere ancora manovrabile, aveva ancora dei con-

torni precisi. Ma col progresso del pensiero scientifico, con le sco-

perte tecniche e con la dissoluzione di tutti i vincoli tradizionali,

questa definitezza e concretezza stanno scomparendo. Se pensiamo

alle nostre nuove visioni cosmologiche, alla fisica teoretica, alla mu-

sica atonale o all’arte astratta, svaniscono la concretezza e la defini-

tezza del nostro sistema di orientamento. Noi non siamo più al cen-

tro dell’universo; non siamo più il fine della creazione; non siamo

più i padroni di un mondo manovrabile e riconoscibile - noi siamo

un granello di polvere, siamo un nulla in qualche sito dello spazio -

senza alcun genere di concreto rapporto con qualsiasi cosa. Noi par-

liamo di milioni di persone uccise, di un terzo o più della nostra po-

polazione che sarebbe cancellata dalla faccia della terra se si verifi-

casse una terza guerra mondiale; parliamo di miliardi di dollari che

accrescono il debito nazionale, di migliaia di anni luce di distanze

interplanetarie, di viaggi spaziali, di satelliti artificiali. Vi sono

aziende dove lavorano decine di migliaia di uomini e centinaia di

città dove vivono centinaia di migliaia di uomini.

Le dimensioni che noi trattiamo sono cifre e astrazioni; e supera-

no di molto i limiti nei quali ci è possibile un genere qualsiasi di

esperienza concreta. Non ci è rimasto alcun sistema di orientamento

che sia maneggiabile, organizzabile, osservabile, che sia adatto alle

dimensioni umane. Mentre i nostri occhi e le nostre orecchie ricevo-

no impressioni soltanto in proporzioni umanamente comprensibili, il

nostro concetto del mondo ha perduto proprio questa qualità; esso

non corrisponde più alle nostre dimensioni umane.

Ciò è particolarmente significativo in rapporto allo sviluppo dei

moderni mezzi di distruzione. Nella guerra moderna, un solo uomo

può causare la distruzione di centinaia di migliaia di uomini, donne e

bambini. Basta che egli prema un pulsante; egli forse non sentirà la

scossa emotiva di quel che sta facendo, poiché non vede e non cono-

sce la gente che uccide; è quasi come se tra il suo atto di premere il

pulsante e la loro morte non vi fosse una reale connessione. Con

ogni probabilità lo stesso uomo sarebbe addirittura incapace di

schiaffeggiare, e tanto meno di uccidere, una persona indifesa. In

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 106

quest’ultimo caso la situazione concreta provoca in lui una reazione

della sua coscienza comune ad ogni uomo normale; nel caso prece-

dente, non c’è tale reazione perché l’azione e il suo soggetto sono

alienati da chi agisce, e il suo atto non è più suo ma ha, si può dire,

una vita e una responsabilità sue proprie. La scienza, gli affari, la

politica, hanno perduto ogni fondamento e proporzione che avessero

umanamente senso. Noi viviamo tra cifre ed astrazioni; e poiché non

v’è più nulla di concreto, nulla è reale. Ogni cosa è possibile, sia di

fatto sia moralmente. La fantascienza non è diversa dal fatto scienti-

fico; gli incubi e i sogni non differiscono da quel che può accadere

l’anno prossimo. L’uomo è stato espulso da ogni posizione definita

da cui possa dominare e dirigere la sua vita e la vita della società.

Egli è sempre più rapidamente spinto dalle forze che originariamente

erano state create da lui. In questo vortice selvaggio egli pensa, cal-

cola, immerso in astrazioni sempre più lontane dalla vita concreta.

b) Alienazione

L’esame precedente del processo di astrattizzazione porta al pro-

blema centrale degli effetti del capitalismo sulla personalità: al fe-

nomeno dell’alienazione.

Per alienazione si intende una forma di esperienza per la quale la

persona conosce se stessa come uno straniero. L’uomo è diventato,

per così dire, estraneo a se stesso. Egli non riconosce se stesso come

il centro del suo mondo, come il creatore dei suoi propri atti, ma i

suoi atti e la loro conseguenza sono diventati i suoi padroni, cui egli

obbedisce e cui può persino tributare venerazione. La persona alie-

nata ha perduto contatto con se stessa, così come è anche esclusa dal

contatto con ogni altra persona. Questa e gli altri si conoscono come

vengono conosciute le cose, con i sensi e col buon senso, ma nello

stesso tempo senza essere collegati produttivamente a se stessi e al

mondo esterno.

Il significato più antico con cui veniva usato il termine «aliena-

zione» indicava una persona pazza; aliéné in francese; alienado in

spagnolo, sono parole antiquate per indicare lo psicotico, la persona

interamente e assolutamente alienata (alienist, in inglese, è ancora

usato per indicare il medico che cura i pazzi).

107 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

Nel secolo scorso la parola «alienazione» è stata usata da Hegel e

da Marx, riferendosi non allo stato di pazzia, ma ad una forma meno

violenta di autoestraniamento che consente ad una persona di agire

ragionevolmente in questioni pratiche, ma che costituisce una delle

più gravi deficienze socialmente strutturate. Nel sistema di Marx è

chiamata alienazione quella condizione dell’uomo ove i suoi «propri

atti diventano per lui un potere alieno, che lo sovrasta o gli si oppo-

ne, invece di essere controllato da lui».21

Ma se l’uso della parola «alienazione» in questo senso generale è

recente, il concetto è molto più antico; è il medesimo che i profeti

del vecchio testamento presentavano come idolatria. Se comincere-

mo a considerare il significato di «idolatria», comprenderemo me-

glio che cosa si intende per «alienazione».

I profeti del monoteismo non denunciavano come idolatre le reli-

gioni pagane solo perché esse adoravano più dèi invece di uno. La

differenza essenziale tra il monoteismo e il politeismo non sta nel

numero degli dèi, ma risiede nel fatto dell’autoalienazione. L’uomo

impiega le sue energie, le sue capacità artistiche per costruire un ido-

lo e poi adora questo idolo, che non è altro che il risultato dei suoi

stessi sforzi umani. Le sue forze vitali si sono trasferite in una «co-

sa», e questa cosa, essendo diventata un idolo, non è sentita come

risultato dei suoi sforzi produttivi, ma come qualcosa di staccato, che

è sopra e contro di lui, che egli adora e cui si sottomette. Come il

profeta Osea dice (XIV, 3): «Assur non ci salverà; noi non cavalche-

remo più sopra cavalli, e non diremo più all’opera delle nostre mani:

Dio nostro; poiché in te l’orfano trova misericordia». L’uomo idola-

tra si inchina davanti al lavoro delle sue stesse mani. L’idolo rappre-

senta le sue stesse forze vitali in forma alienata.

Il principio del monoteismo è invece che l’uomo è infinito, che

non vi sono in lui qualità parziali che possano essere ipostatizzate

nel tutto. Dio, nel concetto monoteistico, è irriconoscibile e indefini-

bile; Dio non è una «cosa». Se l’uomo è creato a somiglianza di Dio,

egli è creato come portatore di qualità infinite. Nell’idolatria l’uomo

si inchina e si sottomette alla proiezione di una sola qualità parziale

che è in lui. Egli non si riconosce come il centro da cui si emanino

21 K. MARX, Il capitale. Cfr. anche MARX-ENGELS, L'ideologia tedesca, Editori Riuniti,

Roma 1958.

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 108

atti d’amore e di ragione. Egli diventa una cosa, il suo prossimo di-

venta una cosa, proprio come sono cose i suoi dèi.

«Gli idoli nelle nazioni sono argento e oro opera di mano d’uomo. Han-

no bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchie e non

odono; e non hanno fiato alcuno nella loro bocca. Coloro che li fanno sono

simili ad essi; ed è così chiunque ad essi si affida» (Salmo 135).

Le stesse religioni monoteistiche sono in larga misura regredite

verso l’idolatria. L’uomo proietta il suo potere di amore e di ragione

in Dio; egli non li sente più come suoi poteri e perciò egli prega Dio

di dargli di ritorno qualcosa di quello che lui, uomo, ha proiettato in

Dio. Agli inizi del protestantesimo e del calvinismo, l’atteggiamento

religioso richiesto era che l’uomo doveva sentirsi vuoto e misero, e

affidarsi alla grazia di Dio, cioè, nella speranza che Dio volesse ri-

dargli una parte delle qualità che egli aveva proiettato in Dio.

Ogni atto di adorazione sottomessa è in questo senso un atto di

alienazione e di idolatria. Quello che di frequente si chiama «amore»

non è spesso niente altro che un fenomeno idolatrico di alienazione;

soltanto che in questo modo non si adora né Dio né un idolo, ma

un’altra persona. La persona «amante» in questo tipo di relazione

sottomessa proietta tutto il suo amore, la sua forza, il suo pensiero,

nell’altra persona, vede la persona amata come un essere superiore e

trova soddisfazione in un’adorazione e in una sottomissione comple-

ta. Questo non solo significa che egli non riesce a vedere la persona

amata come un essere umano nella sua realtà, ma che egli non vede

se stesso nella sua piena realtà, come portatore di produttivi poteri

umani. Proprio come nel caso dell’idolatria religiosa, egli ha proiet-

tato tutta la sua ricchezza nell’altra persona, e vede questa ricchezza

non più come qualche cosa di suo, ma come una cosa aliena da se

stesso, posta in qualcun altro, e con la quale egli può avere contatto

soltanto sottomettendosi all’altra persona o annullandovisi. Lo stesso

fenomeno si verifica nella sottomissione idolatrica ad un capo politi-

co e allo stato. Il capo e lo stato sono infatti quel che sono per

l’assenso dei loro governati. Ma diventano idoli quando l’individuo

proietta in loro tutti i suoi poteri e li adora, sperando di riacquistare

parte di questi suoi poteri con la sottomissione e l’adorazione.

109 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

Nella teoria dello stato di Rousseau, nonché nel totalitarismo

contemporaneo, ci si attende che l’individuo abdichi ai propri diritti

e li proietti nello stato come nell’unico arbitro. Nel fascismo e nello

stalinismo l’individuo completamente alienato tributa un culto

all’altare di un idolo, ed ha poca importanza con quali nomi questo

idolo sia conosciuto: stato, classe, collettività, o che altro si voglia.

Si può parlare di idolatria o alienazione non soltanto in rapporto a

se stessi, quando la persona sia dominata da passioni irrazionali. La

persona che è spinta principalmente dalla brama del potere non sente

più se stessa nella ricchezza e nell’illimitatezza di un essere umano,

ma diventa schiava dell’unica e limitata aspirazione, proiettata in

finalità esterne, dalle quali egli è «posseduto». La persona dedita

all’esclusiva soddisfazione della sua passione per il denaro è posse-

duta dalla sua brama di esso; il denaro è l’idolo che egli adora come

la proiezione del solo ed isolato potere che è in lui: la sua avidità per

l’oro. In questo senso il nevrotico è un alienato. Le sue azioni non

sono propriamente sue; mentre è sotto l’illusione di fare quel che

egli vuole, è invece spinto da forze separate dal suo io, che operano

alle sue spalle; egli è straniero a se stesso proprio come i suoi simili

sono stranieri per lui. Egli sente gli altri e se stesso non come real-

mente sono, ma come se fossero deformati dalle forze inconsce che

operano in lui. La persona squilibrata è una persona assolutamente

alienata; essa ha completamente perduto se stessa come centro della

sua stessa esperienza: ha perduto il senso dell’io.

Tutti questi fenomeni - culto degli idoli, culto idolatrico di Dio,

amore idolatrico per una persona, culto dei capi politici e dello stato,

e culto idolatrico della proiezione esterna di passioni irrazionali -

hanno in comune il processo di alienazione: il fatto che l’uomo non

riconosce se stesso come portatore attivo dei propri poteri e della

propria ricchezza, bensì come una misera «cosa», dipendente da po-

teri esterni, entro i quali egli ha proiettato la sua sostanza vitale.

Come indica il riferimento all’idolatria, l’alienazione non è affat-

to un fenomeno moderno. Tentar di abbozzare la storia della aliena-

zione sarebbe andar troppo oltre le intenzioni di questo libro. Basti

dire che l’alienazione pare differire da cultura a cultura, sia nei setto-

ri particolari che sono alienati, sia nella metodicità e nella comple-

tezza del processo.

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 110

L’alienazione come noi la troviamo nella moderna società è quasi

totale; essa permea le relazioni dell’uomo col suo lavoro, con le cose

che consuma, con lo stato, con i suoi simili, e con se stesso. L’uomo

ha creato un mondo di cose fatte da lui come non era mai esistito

prima. Egli ha inventato una complicata macchina sociale per ammi-

nistrare la macchina tecnica da lui costruita. Ma tutta questa sua co-

struzione lo sovrasta. Egli non sente se stesso come creatore e cen-

tro, ma come il servo del Golem che ha creato. Quanto più potenti e

gigantesche sono le forze che egli scatena, tanto più impotente egli si

sente come essere umano. Egli confronta se stesso con le sue forze

impersonate nelle cose che ha creato e da lui alienate. È dominato

dalla propria creazione ed ha perduto la proprietà di se stesso. Ha

costruito un vitello d’oro e dice: «Questi sono i vostri dèi che vi

hanno tratto dall’Egitto».

Che cosa avviene dell’operaio? Diciamolo con le parole di un at-

tento e profondo osservatore dell’ambiente industriale:

«Nell’industria la persona diventa un atomo economico che danza al

ritmo di una direzione atomistica. Il vostro posto è proprio qui, sie-

derete in questa posizione, le vostre braccia si muoveranno di x cen-

timetri in un giro di raggio y, e il tempo per il movimento sarà di

tanti minuti secondi.

Il lavoro diventa più monotono e automatico quanto più i pianifi-

catori, i cronometristi, e i direttori tecnici continuano a spogliare

l’operaio del suo diritto di pensare e muoversi liberamente. La vita è

rinnegata, il bisogno di controllo, la creatività, la curiosità e il pen-

siero indipendente stanno per essere inibiti, e il risultato,

l’inevitabile risultato, è fuga o lotta da parte dell’operaio, apatia o

distruttività, regressione psichica».22

Anche il ruolo di dirigente è di alienazione. È vero che egli dirige

il tutto e non una parte, ma anch’egli è alienato dal suo prodotto in-

teso come qualcosa di concreto e utile. Il suo scopo è di impiegare in

modo redditizio il capitale investito da altri, benché a paragone del

vecchio tipo di padrone-dirigente la moderna direzione sia soltanto

meno interessata all’entità dell’utile da pagarsi come dividendo agli

azionisti, di quanto non sia all’efficienza funzionale e all’espansione

dell’azienda. È significativo che nella direzione i responsabili dei

22 J.J. GILLESPIE, Free Expression in Industry, The Pilot Press Ltd, Londra 1948.

111 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

rapporti sindacali e delle vendite (cioè coloro che sono dediti alla

manipolazione umana) acquistano, relativamente parlando, una cre-

scente importanza rispetto ai responsabili degli aspetti tecnici della

produzione.

Il dirigente, come l’operaio, come tutti, ha a che fare con giganti

anonimi: con il gigante dell’azienda concorrente, con il gigante del

mercato nazionale e mondiale, con il consumatore gigante, che deve

esser adulato e influenzato, con i sindacati giganti e con la gigante-

sca amministrazione pubblica. Tutti questi giganti hanno la propria

vita, per così dire. Essi determinano l’attività del dirigente e dirigono

l’attività degli operai e degli impiegati.

Attraverso il problema del dirigente ci si introduce in uno dei più

significativi fenomeni di una cultura alienata: quello della burocra-

tizzazione. Le amministrazioni, sia governative sia di grandi impre-

se, sono dirette da una burocrazia. I burocrati sono specialisti

nell’amministrare le cose e gli uomini. A causa della grandezza

dell’apparato da amministrare e della conseguente astrattizzazione,

tra i burocrati e il pubblico si stabilisce una relazione di completa

alienazione. Le persone che devono essere amministrate sono oggetti

che i burocrati non considerano né con amore né con odio, ma in

modo completamente impersonale; il dirigente-burocrate non deve

aver alcun sentimento per quanto riguarda la sua attività professiona-

le; deve trattare le persone come fossero cifre o cose. Poiché

l’immensità dell’organizzazione e l’estrema divisione del lavoro im-

pediscono ad ogni singolo individuo di vedere l’insieme, e poiché

non c’è una cooperazione organica e spontanea tra i vari individui o

gruppi entro l’industria, i burocrati dirigenti sono necessari; senza di

essi l’impresa crollerebbe in poco tempo poiché nessuno conosce-

rebbe il segreto che la fa funzionare. I burocrati sono indispensabili

quanto le tonnellate di carta consumate sotto il loro comando. Pro-

prio perché ognuno avverte, con un sentimento di impotenza, il ruolo

vitale dei burocrati, essi vengono rispettati quasi come esseri divini.

Se non ci fossero i burocrati, si pensa, tutto andrebbe a catafascio e

moriremmo di fame. Se nel mondo medievale si riteneva che i capi

rappresentassero un ordine voluto da Dio, nel capitalismo moderno il

ruolo dei burocrati è di poco meno sacro, poiché il burocrate è ne-

cessario per la sopravvivenza di tutto l’insieme.

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 112

Marx diede una profonda definizione del burocrate scrivendo: «Il

burocrate mette se stesso in relazione col mondo come questo fosse

un mero oggetto delle sue attività». È interessante rilevare che lo

spirito della burocrazia si è introdotto non soltanto nelle amministra-

zioni pubbliche e aziendali, ma anche nei sindacati e nei grandi par-

titi socialisti democratici in Inghilterra, Germania, Francia. Anche in

Russia i dirigenti burocratici e il loro spirito alienato hanno conqui-

stato il paese. La Russia potrebbe forse esistere senza il terrore, date

certe condizioni, ma non potrebbe esistere senza il sistema di buro-

cratizzazione totale, cioè di alienazione.23

Qual è l’atteggiamento del proprietario dell’impresa: il capitali-

sta? Il piccolo uomo d’affari sembra esser nella stessa posizione del

suo predecessore di cento anni fa. Egli possiede e dirige la sua picco-

la azienda, è in contatto diretto con l’intera attività commerciale o

industriale e in contatto personale con i suoi impiegati e operai. Ma

vivendo in un mondo alienato in tutti gli altri aspetti economici e

sociali, ed inoltre sottostando maggiormente alla costante pressione

dei concorrenti più grossi, egli non è affatto libero come lo era suo

nonno nella stessa azienda.

Ma quel che conta sempre più nell’economia contemporanea è la

grossa impresa, la grande società anonima. Come Drucker dice mol-

to concisamente: «Infine è la grande società anonima la forma speci-

fica in cui la grande industria si organizza in una economia di libera

iniziativa, che si è imposta come l’istituzione rappresentativa e, da

un punto di vista economico-sociale, determinante e che fissa il si-

stema e determina il comportamento persino del tabaccaio all’angolo

della strada che non ha mai posseduto un titolo azionario, e del suo

garzone che non ha mai messo piede in uno stabilimento. E in tal

modo il carattere della nostra società è determinato e modellato dalla

organizzazione strutturale delle grandi industrie, dalla tecnologia di

uno stabilimento per la produzione di massa, e dalla misura con cui

le nostre opinioni ed aspirazioni sociali sono realizzate dalle grandi

società anonime».24

23 Cfr. l'interessante articolo di W. HUHN, Der Bolschevismus als Manager Ideologie, in

«Funken», Francoforte, V, 8, 1954. 24 Cfr. Peter F. DRUCKER, Concept of the Corporation, The John Day Company, New York

1946, pp. 8 e 9.

113 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

Qual è allora l’atteggiamento del «proprietario» della grande so-

cietà anonima di fronte alla «sua» proprietà? È un atteggiamento di

completa alienazione. La sua proprietà consiste in un pezzo di carta,

che rappresenta un certo ammontare fluttuante di denaro; egli non ha

alcuna responsabilità per l’impresa e non ha con essa alcuna relazio-

ne concreta. Questo atteggiamento di alienazione è stato chiaramente

espresso nella seguente descrizione, di Berle e Means,

dell’atteggiamento dell’azionista di fronte all’azienda:

«1) La posizione del proprietario è cambiata da quella di agente attivo

in quella di agente passivo. In luogo di effettivi beni fisici su cui il proprie-

tario poteva esercitare la direzione e per i quali era responsabile, il proprie-

tario ha oggi un pezzo di carta che rappresenta un insieme di diritti e di

interessi rispetto ad una azienda. Ma il proprietario ha scarso controllo

sull’azienda e sui beni fisici, cioè gli strumenti di produzione, nei quali egli

ha un interesse. Nello stesso tempo egli non si assume alcuna responsabilità

nei confronti dell’azienda o dei suoi beni fisici. Si dice spesso che il pro-

prietario di un cavallo è responsabile. Se il cavallo vive egli deve nutrirlo;

se il cavallo muore deve sotterrarlo. Un titolo azionario non comporta tale

responsabilità. Il proprietario si trova praticamente nell’impossibilità di

influire con i suoi sforzi sui beni reali.

2) I valori spirituali che precedentemente si accompagnavano alla con-

dizione proprietaria sono stati separati da essa. La proprietà fisica che il

proprietario aveva modo di usare poteva arrecargli una soddisfazione diret-

ta indipendentemente dal reddito che essa gli fruttava in forma più concre-

ta: essa rappresentava una estensione della sua stessa personalità. Con

l’avvento rivoluzionario delle società anonime questa qualità è stata perduta

dal proprietario come, per effetto della rivoluzione industriale, era già stata

perduta dall’operaio.

3) Il valore della ricchezza di un individuo viene a dipendere da fattori

completamente estranei a lui e ai suoi stessi sforzi. Invece il valore della

ricchezza stessa è determinato, da una parte, dalle azioni di individui alla

testa dell’impresa, individui sui quali il proprietario tipico non ha controllo

e, dall’altra, dalle azioni di altri in un mercato sensibile e spesso capriccio-

so. Il valore è in tal modo soggetto ai capricci e alle manovre che sono ca-

ratteristiche del mercato. Esso è inoltre soggetto ai grandi mutamenti della

valutazione da parte della società del proprio futuro immediato come esso

si riflette nel livello generale dei valori sul mercato organizzato.

4) Il valore della ricchezza individuale non solo muta costantemente, il

che si potrebbe dire per la maggior parte della ricchezza, ma è soggetto ad

una valutazione costante. L’individuo può vedere come il valore di stima

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 114

delle sue fortune cambi da un momento all’altro, e questo è un fatto che

può avere un’influenza notevole sia sull’impiego sia sul godimento della

sua rendita.

5) La ricchezza individuale è diventata estremamente liquida attraverso

il mercato organizzato. Il proprietario individuale può convertirla all’istante

in altre forme di ricchezza e, se l’organizzazione di mercato funziona bene,

può farlo senza gravi perdite dovute a vendite forzate.

6) La ricchezza si presenta sempre meno sotto forma che possa essere

usata dal proprietario. Quando, per esempio, la ricchezza si presenta come

proprietà fondiaria, essa è in grado di essere usata dal proprietario anche se

il valore del terreno sul mercato sia trascurabile. La qualità fisica di tale

ricchezza rende possibile un valore soggettivo per il proprietario, senza

tener alcun conto di quale possa essere il suo valore sul mercato. Nelle più

recenti forme di ricchezza, questo uso diretto è del tutto impossibile. Sol-

tanto attraverso la vendita sul mercato il proprietario può ottenere l’uso

diretto. Così, come mai prima d’ora, egli è legato al mercato.

7) Infine, nel sistema della società anonima, il "proprietario" della ric-

chezza industriale rimane un puro simbolo della condizione proprietaria,

mentre il potere, la responsabilità e la ricchezza, che nel passato avevano

costituito una parte integrale della condizione proprietaria, stanno trasfe-

rendosi ad un gruppo separato nelle cui mani risiede il controllo».25

Il controllo dell’azionista sopra la sua azienda costituisce un altro

importante aspetto dell’alienazione. Legalmente, gli azionisti con-

trollano l’impresa, cioè essi eleggono la direzione quasi come i citta-

dini in una democrazia eleggono i loro rappresentanti. In effetti tut-

tavia, essi esercitano ben scarso controllo per il fatto che la parteci-

pazione azionaria di ciascun individuo è così esigua, che egli non si

prende la briga di andare alle assemblee e di parteciparvi attivamen-

te. Berle e Means elencano i cinque maggiori tipi di controllo: «Que-

sti comprendono: 1) controllo attraverso la proprietà quasi completa;

2) controllo di maggioranza; 3) controllo attraverso un espediente

legale senza la proprietà di maggioranza; 4) controllo di minoranza;

e 5) controllo della direzione».26

Dei cinque tipi di controllo, i primi

due, proprietà privata e proprietà di maggioranza, rappresentano sol-

tanto il 6% (calcolato sulla ricchezza) delle duecento maggiori socie-

25 Cfr. A.A. BERLE e G.C. MEANS, The Modern Corporation and Private Property, cit., pp.

66 e 68. 26 Ibidem, p. 70.

115 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

tà, mentre per il rimanente 94% il controllo è esercitato sia dalla di-

rezione, sia vincolando con un espediente legale una piccola parte

della proprietà, sia da una minoranza degli azionisti.27

La classica

opera di Berle e Means descrive in modo molto interessante come

questo miracolo si compia senza l’uso della forza, dell’inganno o di

qualsiasi violazione della legge.

Il processo di consumo è alienato quanto il processo di produzio-

ne. In primo luogo, noi comperiamo delle cose col denaro; vi siamo

abituati e non vi troviamo nulla da ridire. Ma in effetti questo è un

modo singolare per ottenere delle cose. Il denaro rappresenta, in

forma astratta, lavoro e fatica: non necessariamente il mio lavoro e la

mia fatica, in quanto io posso averlo avuto in eredità, con dolo, per

un caso fortunato, e in mille altri modi. Ma anche se l’avessi ottenu-

to con il mio sforzo (dimenticando per ora che il mio sforzo forse

non mi avrebbe reso del denaro se non avessi impiegato degli uomi-

ni), lo avrei ottenuto in un modo particolare, con un particolare gene-

re di sforzo, corrispondente alla mia perizia e alle mie capacità, men-

tre, spendendolo, il denaro si trasforma in una forma astratta di lavo-

ro e può esser dato in cambio di qualsiasi altra cosa. Purché io pos-

segga del denaro, non sono necessari da parte mia né sforzo né inte-

resse perché io possa acquistare qualcosa. Se ho denaro posso com-

prare un quadro di valore, anche se in fatto d’arte sono un profano;

posso comprarmi il miglior fonografo anche se non so apprezzare la

musica; posso farmi una biblioteca, anche se mi serve soltanto per

farla vedere. Posso comprarmi un’educazione, anche se mi serve

soltanto per averne maggior prestigio sociale. Posso anche distrug-

gere il quadro o i libri che avevo comperato, senza altro danno che

una perdita di denaro. Il mero possesso del denaro mi dà il diritto di

acquistare, e di fare del mio acquisto quel che mi piaccia. Il modo

umano di acquistare sarebbe di fare uno sforzo che abbia un rapporto

qualitativo con quel che acquisto. Il comprarci del pane e degli abiti

non dovrebbe dipendere da altri motivi che dal fatto che siamo vivi;

il comprare dei libri e dei quadri non dovrebbe dipendere che dal

mio sforzo di comprenderli e dalla mia facoltà di apprezzarli. Non è

questo il luogo per esaminare come questi principi possano esser

27 Ibidem, pp. 94 e 114-17.

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 116

praticamente applicati. Quel che importa è che il nostro modo di ac-

quistare delle cose è separato dal modo con cui sappiamo usarne.

La funzione alienante del denaro nel processo di acquisto e di

consumo è stata molto ben descritta da Marx nelle seguenti parole:

«Il denaro... trasforma i veri poteri umani e naturali in idee puramen-

te astratte e perciò in imperfezioni; d’altra parte, esso trasforma reali

imperfezioni e immaginazioni, cioè i poteri che esistono soltanto

nella fantasia dell’individuo, in poteri reali... Il denaro trasforma la

realtà in vizio, i vizi in virtù, lo schiavo in padrone, il padrone in

schiavo, l’ignoranza in ragione e la ragione in ignoranza... Colui che

può comprare coraggio diventa coraggioso, sebbene sia codardo...

Prendi un uomo in quanto uomo, e i suoi rapporti col mondo come

qualcosa di umano, e potrai scambiare amore soltanto con amore,

fiducia soltanto con fiducia, ecc.. Se vuoi godere dell’arte, devi esse-

re una persona educata all’arte, se vuoi avere ascendente sugli altri,

devi essere una persona che ha un’effettiva capacità di stimolare e di

aiutare gli altri. Ognuno dei tuoi rapporti con l’uomo e la natura deve

essere una precisa espressione della tua vita reale e individuale che

corrisponda all’oggetto della tua volontà. Se tu ami senza far nascere

amore, cioè se il tuo amore in quanto tale non produce amore, se per

mezzo di una espressione di vita tu, persona amante, non fai di te

stesso una persona amata, allora il tuo amore è impotente, è una di-

sgrazia».28

Ma oltre il sistema di acquisto, come usiamo delle cose

quando le abbiamo comperate? Per molte cose non c’è nemmeno

l’intenzione di usarle. Noi le acquistiamo per averle. Ci acconten-

tiamo di un possesso inutile. Il costoso servizio da tavola o il vaso di

cristallo che non adoperiamo mai per timore di romperli, il palazzo

con molte camere inutilizzate, le automobili e la servitù superflui,

come l’ignobile bric-à-brac della famiglia piccolo borghese, sono

altrettanti esempi del piacere del possesso invece che dell’uso. Non-

dimeno questa soddisfazione del possesso per se stesso era molto più

spiccata nel diciannovesimo secolo; oggi la maggior parte della sod-

disfazione è derivata dal possesso di cose da usare piuttosto che di

cose da conservare. Ciò tuttavia non modifica il fatto che anche nel

godimento delle cose da usare la soddisfazione di prestigio è un fat-

28 «Nationalökonomie und Philosophie», 1844, in Die Frühschriften di Karl MARX, Alfred

Kröner Verlag, Stoccarda 1953, pp. 300, 301.

117 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

tore preminente. L’automobile, il frigorifero, la televisione servono

per essere realmente usati, ma anche per esser «fatti vedere». Essi

conferiscono dignità al loro proprietario.

Come usiamo delle cose che compriamo? Cominciamo dal cibo e

dalle vivande. Noi mangiamo un pane insipido e per niente nutriente

che però fa appello a ciò che immaginiamo sia ricchezza e distinzio-

ne -poiché è così bianco e «fresco». In effetti, noi «mangiamo» ciò

che immaginiamo ed abbiamo perduto il contatto con la cosa reale

che mangiamo. Il nostro palato, il nostro corpo non partecipano ad

un atto di consumazione che originariamente li riguardava. Noi be-

viamo delle etichette. Con la bottiglia di Coca Cola noi beviamo il

quadro del grazioso ragazzo e della ragazza che la bevono nei mani-

festi murali, beviamo lo slogan della «pausa che vi ristora», beviamo

la grande abitudine americana e, meno di tutto, beviamo col nostro

palato. Tutto ciò è anche peggio quando siamo portati a consumare

cose di cui tutta la realtà consiste principalmente nelle fantasie che la

campagna pubblicitaria ha creato, come il sapone e la pasta dentifri-

cia «con proprietà medicinali».

Potrei continuare all’infinito con tali esempi. Ma è superfluo insi-

stere su questo punto dato che ognuno può immaginarsi per conto

suo altrettante dimostrazioni. Voglio soltanto insistere sul principio

che vi è connesso: l’atto di consumare dovrebbe essere un atto uma-

no concreto, in cui siano implicati i nostri sensi, le nostre necessità

corporali, i nostri gusti estetici; in cui, cioè, siamo implicati noi in

quanto esseri umani, concreti, capaci di ragionare, di sentire, di giu-

dicare; l’atto di consumare dovrebbe essere una esperienza significa-

tiva, produttiva, umana. Nella nostra cultura ciò accade raramente.

Consumare è essenzialmente la soddisfazione di aspirazioni artifi-

cialmente provocate, è un atto di fantasia alienato dal nostro concre-

to e reale io.

Bisogna ricordare un altro aspetto dell’alienazione dalle cose che

consumiamo. Noi siamo circondati da cose della cui natura e origine

non conosciamo nulla. Il telefono, la radio, il fonografo, e tutte le

altre complicate macchine sono per noi quasi altrettanto misteriose

quanto lo sarebbero per un uomo di una cultura primitiva; sappiamo

come usarle, sappiamo cioè che bottone dobbiamo premere, ma non

sappiamo secondo quale principio esse funzionino, se non nei termi-

ni assai vaghi di qualcosa che una volta abbiamo imparato a scuola.

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 118

E le cose che non si basano su difficili principi scientifici ci sono

quasi altrettanto estranee. Non sappiamo come si fabbrica il pane,

come si tesse un panno, come si costruisce un tavolo, come si fab-

brica un bicchiere. Consumiamo, come produciamo, senza alcun

rapporto concreto con gli oggetti con cui abbiamo a che fare; vivia-

mo in un mondo di cose e la sola relazione che abbiamo con esse è

che sappiamo come adoperarle o consumarle.

Necessariamente il nostro modo di consumo risulta dal fatto che

non siamo mai soddisfatti, in quanto non è la nostra reale e concreta

persona che consuma una cosa reale e concreta. Pertanto noi svilup-

piamo un sempre crescente bisogno di un maggior numero di cose e

di un maggior consumo. È vero che, finché lo standard di vita della

popolazione è inferiore a un tenore di vita dignitoso, esiste un biso-

gno naturale di maggior consumo. È anche vero che c’è un legittimo

bisogno di consumare di più quando l’uomo si sviluppi culturalmen-

te e abbia più raffinate necessità di cibi migliori, di oggetti artistici,

di libri, ecc.. Ma la nostra brama di consumo ha perduto ogni rappor-

to con i bisogni reali dell’uomo. Originariamente l’idea di consuma-

re di più e meglio significava dare all’uomo una vita più facile e più

soddisfacente. Il consumo era un mezzo per un fine: la felicità. Esso

è ora diventato fine a se stesso. Il costante incremento dei bisogni ci

costringe ad uno sforzo sempre crescente e ciò ci fa dipendere da

questi bisogni e dalle persone e dalle istituzioni col cui aiuto li sod-

disfiamo.

«Ogni persona cerca di creare un nuovo bisogno negli altri, per ridurli in

una nuova servitù, per abituarli ad una nuova forma di piacere e così rovi-

narli economicamente... Con la moltitudine di beni aumenta il dominio del-

le cose estranee che fanno schiavo l’uomo».29

L’uomo è oggi affascinato dalla possibilità di comprare di più e

meglio, e specialmente di comperare cose nuove. Egli ha fame di

consumo. L’atto di comprare e consumare è diventato uno scopo

coatto e irrazionale, poiché esso è fine a se stesso, con scarso rappor-

to con l’uso o il godimento delle cose comprate e consumate. Com-

prare l’ultimo congegno, l’ultimo modello di ogni cosa che si trovi

29 K. MARX, op. cit., p. 254.

119 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

sul mercato è il sogno di tutti, in rapporto a cui l’effettivo godimento

dell’uso diventa del tutto secondario. L’uomo moderno, se osasse

parlare del suo concetto di paradiso, descriverebbe una visione ove il

paradiso sarebbe simile al più grande emporio del mondo, con espo-

sti nuovi articoli ed elettrodomestici. Quanto a lui, fornito dei quat-

trini necessari per l’acquisto, se ne andrebbe su e giù con la borsa

aperta, in mezzo a questo paradiso di elettrodomestici e di merci,

purché, beninteso, vi fossero da comprare cose sempre più nuove e

in maggior quantità, e, forse, purché i suoi vicini fossero un tantino

meno privilegiati di lui.

È abbastanza significativo che la passione per il possesso e la

proprietà, che è una delle più antiche caratteristiche della società

borghese, abbia subito un radicale mutamento. Una volta tra l’uomo

e la sua proprietà esisteva un certo senso di amoroso possesso. Egli

vi si affezionava e ne era orgoglioso; la teneva con gran cura e gli

doleva quando infine doveva separarsi da essa perché non si poteva

più usarla. Oggi di questo senso di proprietà è rimasto ben poco. Si

ama la novità della cosa acquistata e la si abbandona ben presto

quando compaia qualche cosa di più nuovo.

Esprimendo lo stesso mutamento in termini caratterologici, posso

riferirmi a quello che è stato più sopra detto in merito

all’orientamento accumulatore che dominava la scena del dicianno-

vesimo secolo. Nella metà del ventesimo secolo l’orientamento ac-

cumulatore è stato sostituito dall’orientamento ricettivo, nel quale il

fine è di ricevere, di «ingoiare», di aver sempre qualche cosa di nuo-

vo, di vivere, per così dire, continuamente con la bocca aperta. Que-

sto orientamento ricettivo è mescolato con l’orientamento mercanti-

le, mentre nel diciannovesimo secolo quello accumulatore si accom-

pagnava con l’orientamento sfruttatore.

L’atteggiamento alienato verso il consumo non esiste soltanto

nella nostra maniera di acquistare o di consumare merci, ma va ben

determinando anche il nostro modo di impiegare il tempo libero. E

che cos’altro ci si può attendere? Se un uomo lavora senza un rap-

porto genuino con quel che fa, se egli compra e consuma merci in

modo astratto ed alienato, come potrebbe far uso del suo tempo libe-

ro in un modo attivo e significante? Egli resta sempre il consumatore

passivo ed alienato. «Consuma» partite di calcio, film, giornali e

riviste, libri, conferenze, paesaggi, assemblee sociali, nello stesso

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 120

modo alienato e astrattizzato con cui consuma le merci che ha acqui-

stato. Non partecipa attivamente: vuol «stare alla pari» in tutto ciò

che si può afferrare e vuol avere quanto più è possibile di godimento,

di cultura e di qualsiasi altra cosa. In effetti, egli non è libero di go-

dere del «suo» svago; il consumo del suo tempo libero è determinato

dall’industria come lo sono le merci che compra; il suo gusto è in-

fluenzato, egli desidera vedere e ascoltare quello che è stato condi-

zionato a vedere e ad ascoltare; i divertimenti sono un’industria co-

me un’altra; si induce il cliente ad acquistare il divertimento come lo

si induce ad acquistar abiti e scarpe. Il valore del divertimento è de-

terminato dal suo successo sul mercato, non da altri fattori che pos-

sano esser misurati in termini umani.

In ogni attività produttiva e spontanea accade qualche cosa in me

stesso mentre io leggo, guardo un paesaggio, parlo con gli amici,

ecc.. Io non sono, dopo l’esperienza, lo stesso di prima. Nelle forme

alienate di godimento dentro di me non accade nulla; io ho consuma-

to questa o quella cosa, ma nulla è cambiato in me stesso e tutto ciò

che resta sono i ricordi di quel che ho fatto. Uno dei più evidenti

esempi di questo tipo di consumo del piacere è quello di scattare

istantanee, che è diventato una delle più rilevanti attività ricreative.

Lo slogan della Kodak, «premete il bottone, noi facciamo il resto»,

che fin dal 1889 ha tanto favorito la diffusione della fotografia in

tutto il mondo, è simbolico. Esso si presenta come uno dei primi ri-

chiami al sentimento del potere collegato all’atto di premere un pul-

sante; tu non devi far niente, tu non devi saper niente, e ogni cosa è

già pronta per te; tutto quel che devi fare è di premere il pulsante. In

effetti il fare istantanee è diventato una delle più significative espres-

sioni di percezione visiva alienata, di mero consumo. Il «turista» con

la macchina fotografica è un simbolo evidente di un rapporto aliena-

to con il mondo. Essendo costantemente occupato a far fotografie,

egli in effetti non vede assolutamente nulla, se non attraverso la me-

diazione della macchina fotografica. La macchina vede per lui e il

risultato del suo viaggio «di piacere» è una collezione di istantanee;

il surrogato di una esperienza che egli avrebbe potuto avere, ma che

non ha avuto.

L’uomo non è soltanto alienato dal lavoro che fa, e dalle cose e

piaceri che consuma, ma anche dalle forze sociali che determinano la

nostra società e la vita di tutti quelli che vivono in essa.

121 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

La nostra reale impotenza di fronte alle forze che ci governano si

presenta con maggior gravità in quelle catastrofi sociali che, anche

se sono ogni volta denunciate come lamentevoli incidenti, non hanno

finora mancato di accadere: depressioni economiche e guerre. Questi

fenomeni sociali si presentano come catastrofi naturali piuttosto che

quali sono veramente: avvenimenti prodotti dall’uomo, ma senza

intenzione e consapevolezza.

Questa anonimia delle forze sociali è connessa alla struttura del

sistema capitalistico di produzione.

Contrariamente alla maggior parte delle altre società nelle quali

le leggi sociali sono esplicite e fissate sulle basi del potere politico o

della tradizione, il capitalismo non ha tali leggi esplicite. Esso è fon-

dato sul principio che, purché ognuno lotti per se stesso sul mercato,

ne deriverà il bene comune, e l’ordine, non l’anarchia, sarà il risulta-

to. Vi sono naturalmente leggi economiche che governano il merca-

to, ma queste leggi operano alle spalle dell’individuo che vi agisce,

interessato soltanto ai suoi privati vantaggi. Si cerca di indovinare

queste leggi del mercato come un calvinista di Ginevra cercava di

indovinare se Dio lo aveva predestinato o no alla salvezza. Ma le

leggi del mercato, come la volontà di Dio, sono fuori della portata

della nostra volontà ed influenza.

Lo sviluppo del capitalismo ha mostrato in larga misura che que-

sto principio opera bene; è infatti un miracolo che la cooperazione

antagonistica di entità economiche autarchiche abbia quale risultato

una società fiorente e sempre crescente. È vero che il sistema capita-

listico di produzione porta alla libertà politica, mentre ogni ordine

sociale centralizzato e pianificato rischia di condurre alla irreggi-

mentazione politica e infine alla dittatura. Anche se questo non è il

luogo per esaminare il problema se vi siano altre alternative alla

scelta tra «libera iniziativa» e irreggimentazione politica, bisogna

dire qui che lo stesso fatto che noi siamo governati da leggi che non

controlliamo e che nemmeno desideriamo controllare è una delle più

evidenti manifestazioni di alienazione. Siamo noi gli autori del no-

stro sistema economico e sociale, e nello stesso tempo decliniamo,

intenzionalmente ed entusiasticamente, la responsabilità, e attendia-

mo con speranza o ansia, secondo il caso, quel che «il futuro» ci por-

terà. Le nostre azioni sono impersonate nelle leggi che ci governano,

ma queste leggi ci sovrastano e noi siamo loro schiavi. Lo stato gi-

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 122

gante e il sistema economico non sono più controllati dall’uomo.

Essi vanno all’impazzata e i loro capi sono come un cavaliere in

groppa ad un cavallo imbizzarrito, che è fiero di riuscire a tenersi in

sella, anche se è incapace di dirigere il cavallo.

Che cosa è per l’uomo moderno il rapporto con i suoi simili? È

un rapporto tra due astrazioni, tra due macchine viventi che usano

l’una dell’altra. Il datore di lavoro usa coloro che egli impiega; il

venditore usa i suoi clienti. Ognuno è una merce per ogni altro, sem-

pre da trattarsi con una certa cordialità perché, anche se non è utile

adesso, può esserlo più tardi. Non si trova più molto amore o molto

odio nelle relazioni umane odierne. C’è piuttosto una superficiale

cordialità, ed una più che superficiale correttezza, ma dietro questa

superficie ci sono distanza e indifferenza. Ma v’è anche una buona

dose di sottile diffidenza. Quando un uomo dice ad un altro: «Parla

con Smith, puoi fidarti di lui», questa è una espressione rassicurante

contro una diffidenza generale. Persino l’amore e la relazione tra i

due sessi hanno assunto questo carattere. La grande emancipazione

sessuale avvenuta dopo la prima guerra mondiale era un disperato

tentativo di surrogare un più profondo sentimento di amore con il

piacere sessuale reciproco. Quando questo tentativo si mostrò delu-

dente, la polarità erotica tra i sessi si ridusse al minimo e fu sostituita

da una associazione amichevole, una semplice unione capace di col-

legare le proprie forze per resistere meglio nella quotidiana lotta per

la vita, e mitigare il sentimento di solitudine e isolamento che ognu-

no ha.

L’alienazione tra uomo e uomo conduce alla perdita di quei vin-

coli generali e sociali che caratterizzano, come quella medievale,

molte altre società precapitalistiche.30

La società moderna è costitui-

ta di «atomi» (se usiamo il termine greco equivalente a «individuo»),

piccole particelle estranee l’un l’altra ma tenute assieme da egoistici

interessi e dalla necessità di far uso l’una dell’altra. Ma l’uomo è un

essere sociale che ha un profondo bisogno di partecipare, di essere

d’aiuto, di sentirsi membro di un gruppo. Cosa è accaduto di queste

aspirazioni sociali dell’uomo? Esse si manifestano nella sfera parti-

colare del dominio pubblico, che è rigorosamente separato dal domi-

30 Cfr. il concetto di Gemeinschaft (comunità), come contrario a Gesellschaft (società) nell'uso

del Toennies.

123 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

nio privato. La nostra condotta privata verso i nostri simili è regolata

dal principio di egoismo: «ognuno per sé e Dio per tutti», che è in

flagrante contraddizione con l’insegnamento cristiano.

L’individuo è determinato da interessi egoistici e non dalla soli-

darietà o dall’amore verso i suoi simili. Questi ultimi sentimenti pos-

sono affermarsi secondariamente come atti privati di filantropia o

bontà, ma essi non fanno parte delle strutture fondamentali dei nostri

rapporti sociali. Il settore della nostra vita sociale come «cittadini» è

separato dalla nostra vita privata come individui. In questo settore lo

stato incarna la nostra esistenza sociale; come cittadini abbiamo un

dovere cui infatti normalmente adempiamo, di mostrare un senso

degli obblighi e dei doveri sociali. Paghiamo le tasse, votiamo, ri-

spettiamo le leggi e in caso di guerra siamo disposti a sacrificare la

nostra vita. Quale più chiaro esempio di separazione tra esistenza

pubblica e privata potrebbe esserci del fatto che lo stesso individuo,

che si guarderebbe dallo spendere un centinaio di dollari per allevia-

re i bisogni di un estraneo, non esiterebbe a rischiare la sua vita per

salvare lo stesso estraneo quando in guerra si trovassero ad essere

entrambi soldati in uniforme? L’uniforme è l’espressione della no-

stra natura sociale, l’abito civile rappresenta la nostra natura egoisti-

ca.

Un’interessante dimostrazione di questa tesi si può trovare nella

più recente opera di S.A. Stouffer.31

In risposta alla domanda diretta

ad un settore rappresentativo del pubblico americano: «Quale genere

di cose vi preoccupa di più?», la grande maggioranza delle risposte

riguarda problemi personali, economici, di salute o d’altro genere;

soltanto l’8% si preoccupa di problemi mondiali tra i quali la guerra;

e l’1% del pericolo del comunismo o degli attentati alle libertà civili.

Ma, d’altra parte, quasi metà delle persone interrogate pensa che il

comunismo sia un pericolo serio, e che la guerra possa scoppiare

entro due anni. Queste questioni sociali però non sono sentite come

fatto personale e perciò non causano preoccupazioni, quantunque

determinino una buona dose di intolleranza. È anche interessante

notare che, sebbene circa la metà della popolazione creda in Dio,

sembra non ci sia quasi nessuno che si preoccupi della propria ani-

31 Communism, Conformity and Civil Liberties, Doubleday & Co., Inc., Garden City, New

York 1955.

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 124

ma, della propria salvezza o miglioramento spirituale. Dio è alienato

quanto il mondo nella sua totalità. Quel che ci interessa e ci preoc-

cupa è l’aspetto privato e isolato della vita, non quello sociale e uni-

versale che ci unisce ai nostri simili.

La divisione tra la comunità e la condizione politica ha portato a

proiettare tutti i sentimenti sociali nello stato che diviene così un

idolo, un potere sovrastante l’uomo. L’uomo si sottomette allo stato

come all’espressione dei suoi propri sentimenti sociali, che egli ado-

ra come potenze alienate da sé; nella sua vita privata egli soffre co-

me individuo per l’isolamento e la solitudine che sono il risultato

necessario di questa separazione. Il culto dello stato può scomparire

soltanto se l’uomo riacquista i poteri sociali, e costruisce una comu-

nità nella quale i suoi sentimenti sociali non siano una aggiunta alla

sua esistenza privata, ma nei quali la sua esistenza privata e quella

sociale siano una sola e medesima cosa.

Qual è il rapporto dell’uomo con se stesso? Ho descritto altrove

questo rapporto come un «orientamento di mercato».32

In questo

orientamento l’uomo sente se stesso come una cosa da impiegarsi

vantaggiosamente sul mercato. Egli non riconosce se stesso come un

agente attivo, come il portatore di poteri umani. Egli è alienato da

questi poteri. Il suo fine è di vendere vantaggiosamente se stesso sul

mercato. Il suo senso dell’io non sorge dalla sua attività come indi-

viduo che ama e che pensa, ma dal suo ruolo economico-sociale. Se

le cose potessero parlare, una macchina per scrivere risponderebbe

alla domanda «chi sei?» dicendo «sono una macchina per scrivere» e

un’automobile dicendo «sono un’automobile» o, più specificamente,

dicendo «sono una Ford» oppure «sono una Buick» o «sono una Ca-

dillac». Se domandate ad un uomo «chi sei?» egli risponde: «sono

un industriale», «sono un impiegato», «sono un medico» oppure

«sono un uomo sposato», «sono padre di due bambini», e le sue ri-

sposte hanno quasi il medesimo significato di quelle che potrebbe

32 Cfr. la mia descrizione dell'orientamento mercantile in Man for Himself, p. 67 ss.. Il concet-

to di alienazione è diverso da uno dei vari orientamenti di carattere, come orientamento ricetti-

vo, sfruttatore, accaparratore, mercantile e produttivo. Si può trovare l'alienazione in ciascuno

di questi orientamenti non produttivi, ma essa ha un'affinità particolare con l'orientamento

mercantile. Nella stessa misura essa è anche collegata alla personalità «eterodiretta» di Rie-

sman, che tuttavia, anche se «si sviluppa dall'orientamento mercantile» è nei punti essenziali

un concetto diverso. Cfr. D. RIESMAN, The Lonely Crowd, Yale University Press, New Ha-

ven 1950, p. 23 (trad. italiana D. RIESMAN, La folla solitaria, Il Mulino, Bologna 1956).

125 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

darvi una cosa che parlasse. Questo è il modo in cui egli sente se

stesso: non come uomo, come amore, paura, convinzioni, dubbi, ma

come quella astrazione, alienata dalla sua reale natura, che svolge

una certa funzione nel sistema sociale. Il suo senso del valore dipen-

de dal suo successo: dal fatto che egli possa vendersi vantaggiosa-

mente, o che possa ricavare da sé più di quanto potesse in partenza,

cioè che egli sia un successo. Il suo corpo, la sua intelligenza, la sua

anima sono il suo capitale, e il suo compito nella vita è di investirlo

a condizioni vantaggiose, di trarre profitto da se stesso. Qualità

umane come l’amicizia, la cortesia, la bontà, sono trasformate in

merci, nel patrimonio delle sue «doti di personalità» che può favorire

la realizzazione di un maggior prezzo sul mercato della personalità.

Se l’individuo perde nell’investimento lucrativo di sé, ha la sensa-

zione di essere, lui, un fallimento; se riesce, pensa di essere lui un

successo. È evidente che il senso del proprio valore dipende sempre

da fattori estranei, dal volubile giudizio del mercato che stabilisce il

suo valore come stabilisce il valore delle merci. Egli, come tutte le

merci che non possono essere vantaggiosamente vendute sul merca-

to, è senza valore per quanto riguarda il suo valore di scambio, anche

se il suo valore d’uso può essere considerevole.

La personalità alienata che è in vendita deve necessariamente

perdere una buona parte di quel senso di dignità che è così caratteri-

stico dell’uomo anche nelle culture più primitive. Egli deve perdere

quasi completamente il suo senso dell’io, il senso di se stesso come

entità unica e indivisibile. Il senso dell’io sgorga dall’esperienza di

me stesso come soggetto delle mie esperienze, del mio pensiero, del

mio sentimento, della mia decisione, del mio giudizio, del mio agire.

Esso presuppone che la mia esperienza sia mia e non una esperienza

alienata. Le cose non hanno io e gli uomini che sono diventati cose

non possono avere più il loro io.

Questa perdita dell’individualità da parte dell’uomo moderno fu

giudicata da uno dei più dotati ed originali psichiatri contemporanei,

lo scomparso H.S. Sullivan, un fenomeno naturale. Egli trattò quegli

psicologi che, come me, avanzano l’ipotesi che la mancanza del sen-

so dell’io sia un fenomeno patologico, come gente che era stata vit-

tima di un «miraggio». Per lui l’io non era altro che i diversi ruoli

che svolgiamo nei confronti degli altri, ruoli che hanno il compito di

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 126

sollecitare un’approvazione ed evitare l’ansietà prodotta da una di-

sapprovazione.

Ma che notevole e rapido decadimento del concetto dell’io dal

diciannovesimo secolo, allorché Ibsen faceva della perdita dell’io il

tema principale della sua critica all’uomo moderno nel Peer Gynt!

Peer Gynt è descritto come un uomo che, inseguendo l’utile materia-

le, scopre alla fine di aver perduto il suo io, e di essere come una

cipolla: un insieme di strati sovrapposti senza nocciolo. Ibsen de-

scrive il terrore della nullità da cui Peer Gynt è preso quando fa que-

sta scoperta, un panico che lo fa desiderare di finire nell’inferno

piuttosto che essere rigettato nel «calderone» della nullità. Difatti,

con l’esperienza dell’io scompare anche l’esperienza dell’identità e,

quando ciò accade, l’uomo può impazzire se non si salva conqui-

stando un senso secondario dell’io; egli fa ciò guardando a sé come

ad un essere stimato, degno, toccato dal successo, utile; in breve,

come una merce vendibile quale egli è, poiché gli altri lo considera-

no come una entità, non unica, ma adattata ad uno dei modelli cor-

renti.

Non si può comprendere appieno la natura dell’alienazione senza

considerare un aspetto particolare della vita moderna: la sua routi-

nizzazione e la repressione della consapevolezza dei problemi basi-

lari dell’esistenza umana. Incontriamo qui un problema universale

della vita. L’uomo deve guadagnarsi il suo pane quotidiano, e questo

è sempre un compito che lo assorbe più o meno intensamente. Egli

deve badare ai molti compiti della vita quotidiana che gli prendono

tempo ed energia, ed è irretito in una certa routine necessaria per il

raggiungimento di questi compiti. Egli costruisce un ordine sociale,

convinzioni, costumi, idee che lo aiutano a fare quel che è necessario

e a vivere con i suoi simili con un minimo di contrasti. È proprio di

ogni cultura che essa costruisca un mondo artefatto, fabbricato

dall’uomo, sovrimposto al mondo naturale in cui l’uomo vive. Ma

l’uomo può realizzare se stesso soltanto se resta in contatto con i

fatti fondamentali della sua esistenza, se può provare l’esaltazione

dell’amore e della solidarietà, come anche il tragico fatto della sua

solitudine e del carattere frammentario della sua esistenza. Se egli è

totalmente irretito nella routine e nell’artificiosità della vita, e se del

mondo può vedere soltanto la banale apparenza che egli stesso se ne

costruisce, perde il contatto con sé e con il mondo e la possibilità di

127 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

comprenderli entrambi. In ogni cultura noi troviamo il conflitto tra la

routine e il tentativo di ritornare alle realtà fondamentali

dell’esistenza. Aiutare questo tentativo è stata una delle funzioni

dell’arte e della religione, anche se la religione stessa è in seguito

diventata una nuova forma di routine.

Anche la storia più antica dell’uomo ci mostra un tentativo di en-

trare in rapporto con l’esistenza della realtà attraverso la creazione

artistica. L’uomo primitivo non è soddisfatto delle funzioni pratiche,

dei suoi utensili e delle sue armi, ma cerca di decorarli e di farli bel-

li, trascendendo la loro funzione utilitaria. Al di fuori dell’arte, il

modo più significativo per infrangere la superficie della routine e per

attuare il contatto con le ultime realtà della vita si basa su ciò che si

può chiamare col termine generico di «rituale». Intendo parlare qui

del rituale nel senso lato della parola, come lo troviamo nella rappre-

sentazione del dramma greco, per esempio, e non soltanto del rituale

nel più ristretto senso religioso. Qual era la funzione del dramma

greco? I problemi fondamentali dell’esistenza umana erano rappre-

sentati in una forma artistica e drammatica e, partecipando alla rap-

presentazione drammatica, lo spettatore (spettatore, s’intende, non

nel nostro moderno significato di consumatore) era sottratto alla sfe-

ra della routine quotidiana e ricondotto a se stesso come essere uma-

no, nelle radici della sua esistenza. Egli stabiliva un contatto diretto

con la realtà e in questo processo riceveva forza dalla quale ritrovava

se stesso. Sia che noi si pensi al dramma greco, alle sacre rappresen-

tazioni medievali, o alla danza indiana, sia che si pensi ai rituali reli-

giosi indù, ebraici e cristiani, siamo di fronte a varie forme di espres-

sione attraverso il dramma dei problemi fondamentali dell’esistenza

umana, ad esaurire nella partecipazione proprio quegli stessi pro-

blemi che sono indagati nella filosofia e nella teologia.

Che cosa è rimasto di tale espressione attraverso il dramma della

vita nella cultura moderna? Quasi nulla. Se si escludono i grotteschi

tentativi di soddisfare il suo bisogno di un rituale come lo vediamo

praticato nelle logge e nelle confraternite, l’individuo non esce dal

dominio delle convenzioni e delle cose fabbricate dall’uomo, né mai

riesce a infrangere la crosta della routine. Il solo fenomeno che si

avvicini al significato di un rituale è la partecipazione dello spettato-

re alle gare sportive; qui almeno si tratta di un problema fondamen-

tale dell’esistenza umana: la lotta tra uomini e la loro esperienza vi-

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 128

caria della vittoria e della sconfitta. Ma quanto è limitata e primitiva

questa visione dell’esistenza umana che riduce la ricchezza della vita

umana ad un unico, parziale aspetto!

Se c’è un incendio, o uno scontro automobilistico in una grande

città, dozzine di persone si raccoglieranno a guardare. E milioni di

persone sono affascinate quotidianamente dai resoconti di delitti e da

storie di cronaca nera. Esse vanno religiosamente a vedere film dove

delitto e passione sono i due temi principali. Tutti questi interessi e

queste attrattive non sono semplicemente un’espressione del cattivo

gusto e dell’amore per il sensazionale, ma di una profonda aspira-

zione ad una comprensione drammatica dei fenomeni fondamentali

dell’esistenza umana: la vita e la morte, il delitto e il castigo, la bat-

taglia tra l’uomo e la natura. Ma mentre il dramma greco trattava

questi problemi ad un alto livello artistico e metafisico, i nostri mo-

derni «drammi» e «rituali» sono grossolani e non producono alcun

effetto catartico. Tutta questa attrattiva delle gare sportive, del delitto

e della passione, rivela il bisogno di rompere la crosta della nostra

routine, ma il modo di soddisfare tale bisogno mostra l’estrema po-

vertà della nostra soluzione.

L’orientamento commercializzato è strettamente connesso al fat-

to che il bisogno di scambio è diventato l’impulso preminente

dell’uomo moderno. Naturalmente, è vero che anche in un’economia

primitiva, basata su di una forma rudimentale di divisione del lavoro,

l’uomo scambia dei beni con qualcun altro nella tribù o con tribù

vicine. L’uomo che produce tessuti li scambia con il grano prodotto

dal suo vicino, o con falci o coltelli fabbricati dal fabbro. Alla cre-

scente divisione del lavoro, si accompagna un crescente scambio di

beni ma, solitamente, lo scambio dei beni non è altro che un mezzo

per un fine economico. Nella società capitalistica lo scambio è di-

ventato fine a se stesso.

Lo stesso Adam Smith vide il ruolo fondamentale del bisogno di

scambio, e lo spiegò come un’esigenza basilare dell’uomo.

«Questa divisione del lavoro, egli disse, da cui sono derivati tanti van-

taggi, non è originariamente un effetto di alcuna sapienza umana che pre-

veda e auspichi la generale ricchezza cui essa dà occasione. Essa è la neces-

saria, sebbene assai lenta e graduale, conseguenza di una certa inclinazione

della natura umana che non prevede una sì larga utilità; l’inclinazione alla

permuta, al baratto, allo scambio di una cosa per l’altra. Lo scoprire se que-

129 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

sta inclinazione fosse uno di quei principi originari nella natura umana, di

cui non si può dare ulteriore ragione, o invece, come pare più probabile, la

conseguenza necessaria della facoltà di ragionare e di parlare, non interessa

la nostra indagine. Essa è comune a tutti gli uomini, e non la si trova in

nessun’altra specie di animali, che sembra non conoscano né questo né altra

specie di contratto... Nessuno ha mai visto due cani fare uno scambio cor-

retto e deliberato di un osso con un altro».33

Il principio di scambio su scala sempre crescente nel mercato na-

zionale e mondiale è difatti uno dei principi economici fondamentali

su cui riposa il sistema capitalistico, ma Adam Smith previde qui che

questo principio doveva diventare anche uno dei più profondi biso-

gni psichici della moderna personalità alienata. Lo scambio ha per-

duto la sua funzione razionale di mero mezzo per fini economici, ed

è diventato fine a se stesso esteso a settori non economici. Anche se

non intenzionalmente lo stesso Adam Smith rivelò, nel suo esempio

dello scambio tra due cani, la natura irrazionale di questo bisogno di

scambio. Non vi sarebbe alcun realistico interesse in questo scam-

bio; o i due ossi sono eguali e non ci sarebbe ragione di scambiarli,

oppure uno è migliore dell’altro, e allora il cane che avesse il miglio-

re non lo scambierebbe volontariamente. Questo esempio ha senso

soltanto se presumiamo che lo scambio sia un bisogno in se stesso,

anche se esso non serve ad alcuno scopo pratico ed è infatti questo

che Adam Smith presumeva.

Come ho già ricordato in altra parte, la passione per lo scambio

ha sostituito la passione del possesso. Uno acquista un’automobile o

una casa, con l’intenzione di venderle alla prima occasione. Ma più

importante è il fatto che la spinta allo scambio opera nel dominio dei

rapporti personali. L’amore non è spesso altro che uno scambio fa-

vorevole tra due persone che realizzano il massimo di quanto possa-

no attendersi data la loro quotazione sul mercato della personalità.

Ogni persona è un «articolo» in cui diversi aspetti del suo valore di

scambio sono fusi in uno: la sua personalità, con cui si intendono

quelle qualità che ne fanno un buon piazzista di se stesso; la presen-

za, l’educazione, il reddito e la possibilità di successo - ogni persona

tende a scambiare questo articolo contro il miglior prezzo esigibile.

33 Adam SMITH, An Enquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, The Mod-

ern Library, New York 1937, p. 13 (il corsivo è mio).

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 130

Persino andare ad un trattenimento e aver in genere dei rapporti so-

ciali ha in gran parte una funzione di scambio. Si ambisce di incon-

trare «articoli» un po’ più costosi per stabilire rapporti e fare possi-

bilmente uno scambio vantaggioso. Si desidera di cambiare la pro-

pria posizione sociale, e cioè il proprio io, con uno più alto e, in que-

sto processo, si cambiano la vecchia cerchia di amici e l’insieme di

consuetudini e sentimenti con altri nuovi, proprio come si scambia la

propria Ford con una Buick. Mentre Adam Smith credeva che questo

bisogno di scambio fosse una parte immanente della natura umana,

esso è in effetti un sintomo dell’astrazione e alienazione immanenti

nel carattere sociale dell’uomo moderno.

Si esperimenta l’intero processo vitale in modo analogo ad un

vantaggioso investimento di capitale e la mia vita e la mia persona

sono il capitale investito. Se un uomo compra un pezzo di sapone o

una libbra di carne, ha il diritto di aspettarsi che il denaro che ha spe-

so corrisponda al valore del sapone o della carne comprati. Egli è

interessato a che l’equazione «tanto sapone = tanto denaro» sia in

accordo con i prezzi correnti. Ma questa aspettativa si è estesa a tutte

le altre forme di attività. Se un uomo va ad un concerto o a teatro, si

domanda più o meno apertamente se lo spettacolo «vale il denaro»

che spende. La questione, pur avendo qualche senso marginale, non

ne ha fondamentalmente alcuno poiché due cose tra loro non para-

gonabili sono messe assieme in una equazione; non è possibile

esprimere in termini monetari il piacere di ascoltare un concerto; il

concerto non è una merce e neppure lo è l’esperienza di ascoltarlo.

Lo stesso avviene anche quando un uomo fa un viaggio di piacere,

va ad una conferenza, dà un trattenimento, partecipa a una qualsiasi

delle diverse attività che comportano una spesa di denaro. L’attività

è di per se stessa un fecondo atto di vita e non può essere valutata in

base alla quantità di denaro che si spende per essa. Il bisogno di mi-

surare gli atti della vita in termini di qualcosa di quantificabile risulta

anche nella tendenza a domandarci se una cosa «valga il tempo». La

serata di un giovane con una ragazza, una visita agli amici, e le mol-

te altre azioni che possono implicare o meno la spesa di denaro,

pongono la domanda se l’attività vale il denaro o il tempo impiega-

131 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

to.34

In ogni caso bisogna giustificare l’attività attraverso una equa-

zione che mostri come essa sia un vantaggioso investimento di ener-

gia. Anche l’igiene e la salute giungono a servire allo stesso scopo;

un uomo che faccia una passeggiata ogni mattina tende a considerar-

la come un buon investimento per la sua salute, piuttosto che come

una piacevole attività che non ha bisogno di giustificazione alcuna.

Questo atteggiamento trova la sua più drastica espressione nel con-

cetto del piacere e della sofferenza di Benth-am. Partendo

dall’ipotesi che il fine della vita è di avere piacere, Benth-am sugge-

riva una specie di bilancio che mostrasse per ogni azione se il piace-

re era maggiore della sofferenza, e, se il piacere era maggiore,

l’azione meritava di essere compiuta. Così tutta la vita era per lui

qualcosa di analogo ad un affare in cui ogni volta il bilancio favore-

vole mostrasse quel che è vantaggioso.

Se le opinioni di Bentham non sono più condivise,

l’atteggiamento che esprimono è diventato sempre più saldamente

radicato.35

L’uomo moderno si è posto una nuova domanda, quella,

cioè, se la «vita valga la pena di essere vissuta»; di conseguenza è

sorto in lui il sentimento che la vita sia o «un fallimento» o «un suc-

cesso». Quest’idea è basata sul concetto della vita come di

un’impresa che dovrebbe dare un profitto. Il fallimento è come la

bancarotta di un’impresa dove le perdite siano superiori ai guadagni.

Questo concetto è un’assurdità. Possiamo essere felici o infelici,

raggiungere certi fini e non raggiungerne altri; ma non c’è bilancio

capace di mostrare se la vita valga la pena di essere vissuta. Forse,

dal punto di vista di un bilancio, una vita non val mai la pena di es-

sere vissuta. Essa finisce necessariamente con la morte, molte delle

sue speranze sono frustrate; essa implica sofferenza e fatica; dal pun-

to di vista del bilancio potrebbe sembrare più giusto non essere mai

nati o essere morti nell’infanzia. D’altra parte chi potrà mai dire se

un felice momento d’amore, o la gioia di respirare o di passeggiare

nella fresca aria profumata di un luminoso mattino non valgano tutte

le sofferenze e le fatiche che la vita comporta? La vita è un dono,

34 Cfr. la descrizione critica che Marx fa dell'uomo nella società capitalistica: «Il tempo è tutto,

l'uomo è niente; egli non è niente di più che lo scheletro del tempo» (La miseria dellafilosofia). 35 Nel concetto di Freud del principio del piacere e nei suoi pessimistici punti di vista relativa-

mente alla prevalenza della sofferenza sul piacere nella società civilizzata, si può scoprire

l'influenza del calcolo benthamiano.

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 132

un’impareggiabile sfida e non può esser misurata nella maniera di

qualsiasi altra cosa; non c’è risposta sensata alla domanda se essa

meriti di essere vissuta, poiché la domanda non ha alcun senso.

Questa interpretazione della vita come di una impresa pare essere

l’origine di un tipico fenomeno moderno sul quale esiste un gran

numero di teorie: l’incremento del suicidio nella società occidentale

moderna. Tra il 1836 e il 1890 il suicidio aumentò del 140% in Prus-

sia e del 355% in Francia. L’Inghilterra ebbe 62 casi di suicidio per

ogni milione di abitanti dal 1836 al 1845, e 110 tra il 1906 e il 1910.

La Svezia ne ebbe rispettivamente 66 e 150. Come si può spiegare

questo incremento del suicidio che si accompagna alla prosperità del

secolo diciannovesimo?

Non c’è dubbio che i motivi del suicidio sono altamente comples-

si, e non si può ritenere che un unico motivo ne sia la causa. Tro-

viamo il «suicidio di punizione», tipico della Cina; e, in tutto il resto

del mondo, troviamo il suicidio determinato da depressione; ma nes-

suno di questi due motivi ha grande importanza nell’aumento della

percentuale di suicidi nel diciannovesimo secolo. Durkheim, nella

sua classica opera sul suicidio, avanza l’ipotesi che la causa sia da

ricercarsi in un fenomeno che egli chiama «anomia». Egli si riferiva

con questo termine alla distruzione di tutti i vincoli sociali tradizio-

nali, al fatto che tutte le organizzazioni veramente collettive sono

passate al secondo posto rispetto allo stato, e che ogni genuino vive-

re sociale è stato annientato.36

Egli riteneva «un pulviscolo confuso

di individui coloro che vivono nello stato politico moderno».37

La

spiegazione di Durkheim è sulla stessa linea delle ipotesi di questo

libro, e ritornerò ad esaminarle più avanti. Credo inoltre che la noia e

la monotonia della vita conseguenti all’alienato modo di vivere co-

stituiscano un fattore ulteriore. Le cifre dei suicidi nei paesi scandi-

navi, nella Svizzera e negli Stati Uniti, assieme alle cifre

sull’alcolismo sembrano convalidare queste ipotesi.38

Ma c’è

36 Cfr. Emile DURKHEIM, Le Suicide, Felix Alcan, Parigi 1897, p. 446. 37 Op. cit., p. 448. 38 Tutte le cifre mostrano anche che i paesi protestanti hanno una percentuale di suicidio molto

più alta dei paesi cattolici. Ciò può esser dovuto a un certo numero di fattori connessi alla

differenza tra la religione cattolica e la protestante come, per esempio, la maggiore influenza

della religione cattolica sulla vita dei suoi membri e i mezzi più adeguati impiegati dalla chiesa

cattolica per far fronte al senso di colpa, ecc.. Ma si deve tener conto anche del fatto che sono i

paesi protestanti quelli dove il sistema capitalistico di produzione si è maggiormente sviluppa-

133 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

un’altra ragione che è stata ignorata da Durkheim e da altri studiosi

del suicidio. Essa si riferisce a tutto quel concetto di «bilancio» della

vita come di un’impresa che può fallire. Molti casi di suicidio sono

causati dal sentimento che «la vita è stata un fallimento», che «non

vale più la pena di vivere»; ci si uccide proprio come un uomo

d’affari dichiara bancarotta quando le perdite superano gli utili, e

quando non c’è più speranza di recuperare le perdite.

c) Vari altri aspetti

Sinora ho tentato di dare un quadro generale dell’alienazione

dell’uomo moderno di fronte a se stesso e ai suoi simili nello svol-

gersi di attività di produzione, di consumo e di svago. Desidero ora

trattare di alcuni aspetti specifici del carattere sociale contemporaneo

che sono strettamente connessi con il fenomeno dell’alienazione, la

discussione dei quali è però facilitata quando li si esamini separata-

mente piuttosto che sotto la voce alienazione.

I. autorità anonima e conformismo

Il primo aspetto da considerare è l’atteggiamento dell’uomo mo-

derno di fronte all’autorità. Abbiamo esaminato le differenze tra au-

torità razionale e irrazionale, tra autorità promotrice e inibitoria, e

dichiarato che la società occidentale fu nel diciottesimo e dicianno-

vesimo secolo caratterizzata dalla fusione di entrambi i generi di au-

torità. Quel che le autorità razionale e irrazionale hanno di comune

tra loro è che sono autorità manifeste. Si sa chi ordina e chi vieta: il

padre, il maestro, il padrone, il re, l’ufficiale, il sacerdote, Dio, la

legge, la coscienza morale. Gli ordini o le proibizioni possono esser

ragionevoli o meno, rigidi o dolci, ed io posso obbedire o ribellarmi;

ma so sempre che c’è un’autorità, chi è quest’autorità, cosa doman-

da, e che accadrà in seguito alla mia sottomissione o alla mia ribel-

lione.

to ed ha modellato, più che nei paesi cattolici, il carattere della popolazione, così che la diffe-

renza tra paesi protestanti e cattolici è anche in gran parte una differenza tra diversi stadi del

capitalismo moderno.

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 134

L’autorità alla metà del ventesimo secolo ha mutato il suo carat-

tere; essa non si presenta più come autorità manifesta, bensì come

autorità anonima, invisibile, alienata. Non c’è nessuno che ordini, né

una persona, né una idea, né una legge morale. Però tutti ci confor-

miamo come o più di quanto non si farebbe in una società fortemen-

te autoritaria. Infatti, non c’è nessuna autorità, al di fuori di «ogget-

ti». Quali sono questi «oggetti»? Il guadagno, le necessità economi-

che, il mercato, il senso comune, l’opinione pubblica, quel che «si»

fa, «si» pensa, «si» sente. Le leggi dell’autorità anonima sono invi-

sibili quanto le leggi del mercato, e altrettanto incontestabili. Chi

può attaccare l’invisibile? Chi può ribellarsi contro Nessuno?

La scomparsa dell’autorità manifesta è chiaramente osservabile

in tutti i campi della vita. I genitori non comandano più; essi formu-

lano con il bambino l’ipotesi che «abbia voglia di far questo». Poi-

ché i genitori stessi non hanno né principi né convinzioni, tentano di

guidare i bambini a fare quel che vuole la legge del conformismo, e

spesso, essendo maggiori d’età e dunque meno al corrente del «nuo-

vo», essi imparano dai figli qual è l’atteggiamento richiesto. La stes-

sa cosa vale anche negli affari e nell’industria: non si danno ordini,

ma si «propone»; non si comanda, ma si persuade e si influenza.

Persino l’esercito americano ha accolto molte delle forme nuove di

autorità. L’esercito è presentato come si trattasse di un’interessante

impresa commerciale; il soldato dovrebbe sentirsi come un membro

di una «squadra», anche se rimane l’aspra realtà che egli deve esser

addestrato a uccidere e ad esser ucciso.

Fino a che c’era una autorità manifesta, c’era contrasto e c’era ri-

bellione contro l’autorità irrazionale. Nel conflitto con gli imperativi

della propria coscienza, nella lotta contro l’autorità irrazionale si

sviluppava la personalità - e particolarmente si sviluppava il senso

dell’io. Io riconosco me stesso come «io» in quanto dubito, protesto,

mi ribello. Anche se mi sottometto e prevedo la sconfitta, mi sento

«io»: «io», lo sconfitto. Ma se non sono consapevole di sottometter-

mi e di ribellarmi, se sono guidato da una autorità anonima, perdo il

senso di me stesso e divento «uno qualsiasi», una parte

dell’«oggetto».

Il meccanismo attraverso cui l’autorità anonima agisce è il con-

formismo. Io dovrei fare quel che tutti fanno, e perciò devo confor-

marmi, non essere diverso, non sporgere dalla fila; devo esser pronto

135 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

e disposto a cambiare secondo i cambiamenti del modello; non devo

chiedermi se ho ragione o torto, ma se sono adattato, se non sono

«strano», differente. La sola cosa immutabile in me è proprio questa

disposizione a cambiare. Nessuno ha potere sopra di me al di fuori

del gregge di cui sono parte, benché vi sia soggetto.

Non è neppur necessario dimostrare al lettore a qual punto si sia

estesa questa sottomissione all’autorità anonima attraverso il con-

formismo. Tuttavia desidero fornire alcune illustrazioni prese da una

descrizione molto interessante e rivelatrice su un centro residenziale

a Park Forest, Illinois, contenuta nel volume di Whyte, L’uomo

dell’organizzazione.39

Questa zona residenziale nei pressi di Chicago

fu costruita per alloggiare 30.000 persone, parte in blocchi di appar-

tamenti d’affitto con giardino (affitto per un appartamento di due

camere da letto più servizi, 92 dollari), e parte in villini rustici da

vendere (al prezzo di 11.995 dollari). Gli abitanti sono per lo più

dirigenti subalterni, alcuni chimici e ingegneri, con un reddito medio

di 6-7 mila dollari annui, tra i 25 e i 35 anni di età, sposati, con uno o

due bambini.

Quali sono i rapporti sociali, e qual è l’«adattamento» in questa

comunità preconfezionata? Mentre la gente è spinta a venire ad abi-

tare qui principalmente da «una semplice necessità economica e non

dalla nostalgia del grembo originario», l’autore osserva «che dopo

esser stata lasciata in tale ambiente, diversa gente trova in esso una

cordialità e un sostegno che fanno apparire sgradevolmente freddi gli

altri ambienti ed è piuttosto strano udire come, per esempio, gli abi-

tanti dei nuovi sobborghi parlano del "mondo di fuori"». Questo sen-

so di cordialità è più o meno identico a quello che nasce dalla consa-

pevolezza di esser accettati: «Potrei permettermi un posto migliore

di quello dove stiamo andando, dice uno, e devo dire che questo non

è il genere di posto dove si porterebbe il principale o il cliente a

pranzo. Ma in una comunità come questa si trova un’accoglienza

genuina». Questo intenso desiderio di buona accoglienza è difatti un

sentimento molto caratteristico nella persona alienata. Perché si do-

vrebbe essere così riconoscenti dell’accettazione se non si dubitasse

di non esser accettabili, e perché una coppia di giovani, bene educati

ed assortiti, dovrebbe aver tali dubbi, se non fosse per il fatto che

39 Si veda la parte settima (Einaudi, Torino 1960, p. 41 ss).

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 136

essi non possono accettare se stessi, dato che non sono se stessi? Il

solo rifugio in cui si possa trovare un senso di identità è il conformi-

smo. Esser accettabili in effetti significa non esser differenti da nes-

sun altro. Il sentirsi inferiore sorge dal sentirsi differenti, né ci si po-

ne la domanda se la differenza sia per il meglio o per il peggio.

L’adattamento comincia molto presto. Un genitore esprime il

concetto dell’autorità anonima molto concisamente: «L’adattamento

al gruppo non pare comportare per loro [per i bambini] tanti proble-

mi. Mi sono accorto che essi sembrano aver l’impressione che nes-

suno sia il padrone; c’è un sentimento di piena cooperazione. Ciò

deriva loro, in parte, dall’esser subito lasciati liberi ai loro giochi con

i vicini». Il concetto ideologico con cui questo fenomeno è qui

espresso è quello dell’assenza di autorità, che è, secondo l’idea di

libertà del diciottesimo e diciannovesimo secolo, un valore positivo.

Ma, dietro questo concetto di libertà, restano, in realtà, la presenza di

una autorità anonima e l’assenza dell’individualità. Niente chiarireb-

be meglio questo concetto di conformismo che la dichiarazione fatta

da una madre: «Johnny non va tanto bene a scuola. Il maestro mi

dice che egli è bravo sotto diversi aspetti, ma che il suo adattamento

sociale non è buono come dovrebbe essere. Egli si sceglie soltanto

uno o due amici per giocare; e talvolta è contento di restar solo» (il

corsivo è mio). Difatti, la persona alienata trova quasi impossibile

restar sola con se stessa, perché è presa dal panico di provare un sen-

so di nullità. Che ciò possa esser dichiarato così apertamente è non-

dimeno sorprendente e mostra che abbiamo persino cessato di ver-

gognarci delle nostre inclinazioni gregarie.

I genitori si lagnano talora che la scuola sia un po’ troppo «tolle-

rante», e che i bambini non siano disciplinati, ma «quali che siano i

difetti dei genitori di Park Forest, tra questi non vi sono certo severi-

tà e autoritarismo». Certamente no; che bisogno vi sarebbe di autori-

tarismo nelle sue forme manifeste se l’autorità anonima del confor-

mismo fa che i ragazzi si sottomettano completamente all’entità

anonima, anche se non si sottomettono ai loro rispettivi genitori? La

lagnanza dei genitori per la mancanza di disciplina non deve, però,

esser presa troppo seriamente poiché «è sempre più evidente che ciò

che noi abbiamo a Park Forest è l’apoteosi del pragmatismo. Sareb-

be forse un’esagerazione dire che i residenti sono giunti a deificare

la società e lo sforzo di adattarvisi, ma è certo che essi hanno ben

137 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

poca voglia di cercar contrasti con la società. Essi sono, come è stato

detto, la generazione pratica».

Un altro aspetto del conformismo alienato consiste nel processo

di livellamento del gusto e del giudizio che l’autore descrive sotto il

titolo «Il crogiuolo». «Quando io venni qui per la prima volta ero

un’isolata», spiegava l’altro giorno ad un visitatore una intellettuale

per autodefinizione. «Mi ricordo quanto fui sbalordita un giorno che

dissi alle altre ragazze del casamento come avevo gustato l’ascolto

del Flauto magico la sera precedente. Loro non sapevano neppure di

che cosa stessi parlando. Cominciai a imparare come le chiacchiere

erano per loro una cosa molto più importante. Ascolto sempre Il

flauto magico, ma ora capisco che per la maggior parte della gente vi

sono cose, nella vita, che sembrano altrettanto importanti». Un’altra

donna riferisce di esser stata sorpresa a leggere Platone da una delle

giovani venuta a farle una visita improvvisa. La visitatrice «quasi

svenne dalla sorpresa. Adesso tutte loro sono certe che io sono

stramba». L’autore ci dice che per la verità la povera donna soprav-

valutava l’incidente. Gli altri non facevano tanto caso alle sue stra-

nezze «poiché la sua infrazione si accompagnava a sufficiente tatto,

a sufficiente osservanza delle piccole consuetudini che fanno proce-

der liscia la vita di casamento, di modo che l’equilibrio è mantenu-

to». Quel che conta è di trasformare i giudizi di valore in materia di

opinione, sia che si tratti di ascoltare Il flauto magico o di chiacchie-

rare, di esser repubblicano o di essere democratico. Quel che importa

è che nulla sia troppo serio, che ci si scambi i rispettivi punti di vista,

e che si sia pronti ad accettare qualsiasi opinione o convinzione

(seppur ve ne sia) come valesse l’altra. Sul mercato delle opinioni ci

si aspetta che ciascuno abbia una merce di egual valore, e sarebbe

indecoroso e sleale dubitarne.

La parola che viene usata per definire il conformismo e la sociali-

tà alienata è, naturalmente, quella che designa il fenomeno in termini

di valore del tutto positivo. La socialità indiscriminata e la mancanza

di individualismo sono considerati «positivi». Il linguaggio diventa

qui intinto di psichiatria con una buona aggiunta di filosofia di

Dewey per soprammercato. «Qui si può effettivamente aiutare tanta

gente ad esser felice, dice un attivista sociale. Ho sistemato due cop-

pie, io stesso; avevo visto in loro delle possibilità che essi non sape-

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 138

vano di avere. Ogni qualvolta vediamo qualcuno che sia timido o

introverso, facciamo uno sforzo apposta per lui».

Un altro aspetto dell’«adattamento» sociale consiste nella com-

pleta mancanza di riserbo, e nel parlare indiscriminatamente dei pro-

pri «problemi». E anche qui si vede l’influenza della psichiatria e

della psicanalisi moderne. Persino i muri sottili sono graditi perché

aiutano a non sentirsi soli. «Non mi sento mai sola, anche se Jim è

via, è una dichiarazione tipica, so che ci sono amici qui attorno poi-

ché, di notte, sento i vicini attraverso le pareti». Matrimoni che po-

trebbero altrimenti andare all’aria sono salvati, umori depressi sono

trattenuti dal peggiorare, e ciò col parlare, parlare, parlare in conti-

nuazione. «È meraviglioso, dice una giovane sposa; ti trovi a discu-

tere di tutti i tuoi problemi con i vicini, di cose che giù nel South

Dakota ci saremmo tenute per noi». Col passare del tempo questa

capacità di scoprirsi aumenta; e la gente del casamento diventa sor-

prendentemente esplicita sui più intimi dettagli della vita familiare.

«Nessuno, dicono, è mai costretto ad affrontare un problema da so-

lo». Possiamo aggiungere che sarebbe più esatto dire che, di fatto,

essi non affrontano mai un problema.

Persino l’architettura diventa funzionale nella battaglia contro

l’isolamento. «Proprio come sono scomparse le porte dentro ai villi-

ni, che si è detto talvolta abbiano segnato la nascita del "ceto me-

dio", così stanno scomparendo le divisioni tra vicini. Quel che si ve-

de nel riquadro della finestra panoramica, per esempio, è quel che sta

accadendo nell’intimità... oppure quel che sta accadendo dietro le

finestre degli altri».

Il modello conformista sviluppa una moralità nuova, un nuovo

genere di super-io. Ma la nuova moralità non è la coscienza della

tradizione umanistica né il nuovo super-io si presenta sotto l’aspetto

di un padre autoritario. La virtù consiste nell’adattarsi e nell’esser

come gli altri. Il vizio consiste nell’esser diversi. Spesso questo vie-

ne espresso in termini psichiatrici, dove «virtuoso» diventa «sano» e

«cattivo» diventa «nevrotico». «Dagli occhi del casamento non si

sfugge». Gli imbrogli amorosi sono rari per questa ragione, piuttosto

che per ragioni morali, o per il fatto che i matrimoni siano tanto ben

riusciti. Ci sono deboli tentativi di solitudine. Se è regola l’entrare in

una casa senza bussare o dar qualsiasi altro avviso, alcuni si conqui-

stano un modesto isolamento spostando la sedia dal lato del cortile a

139 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

quello della facciata per mostrare che desiderano non esser disturba-

ti. «Ma c’è qualcosa di importante da aggiungere riguardo a tali ten-

tativi di isolamento: e cioè che quando li fa la gente si sente un po’

in colpa. Salvo che di rado, l’isolarsi in tal modo dagli altri è consi-

derato alla stregua di un capriccio infantile o, più probabilmente,

come sintomo di qualche segreta nevrosi. È l’individuo che è devia-

to, non il gruppo. Così ad ogni modo sembrano pensare molti che

sono fuori della regola e questi spesso si pentono di ciò che altrove

sarebbe considerato come una faccenda loro propria e cioè piuttosto

normale. "Mi sono ripromesso di far pace con loro, diceva recente-

mente un abitante del casamento a un suo intimo. Ero indisposto e

recentemente non feci proprio lo sforzo di invitare gli altri ad entra-

re. In verità non faccio loro rimprovero per aver reagito come reagi-

rono. Farò la pace con loro comunque».

Difatti, «l’intimità è diventata clandestina». I termini usati sono

ancora presi dalla tradizione politica e filosofica progressiste. Cosa

potrebbe suonar meglio di dire: «Non nella contemplazione solitaria

ed egoistica, ma nell’operare con gli altri si realizza se stessi». In

realtà ciò significa abbandonare se stessi per far parte del gregge, e

compiacersene. Questa condizione è spesso chiamata con altra pia-

cevole parola, cioè togetherness: «l’essere assieme». Il modo prefe-

rito per esprimere lo stesso atteggiamento mentale consiste nel pre-

sentarlo in termini psichiatrici: «Abbiamo imparato a non esser trop-

po introversi» dice spiegando la lezione un giovane funzionario,

uomo molto riflessivo a cui il successo aveva arriso. «Prima di venir

qui vivevamo molto da soli. Alla domenica, per esempio, stavamo a

letto fin quasi alle due, a leggere il giornale e ad ascoltare il concerto

sinfonico alla radio. Ora stiamo in compagnia e andiamo a trovar la

gente, o essi vengono a trovarci. Veramente penso che Park Forest ci

ha reso più aperti».

La mancanza di conformismo non è soltanto punita con parole di

disapprovazione come «nevrotico», ma talvolta con crudeli sanzioni.

«Estelle è un problema» dice un inquilino di un blocco residenziale

molto attivo. «Quando si trasferì qui, moriva dalla voglia di far parte

della comitiva. È una ragazza molto cordiale e cerca sempre di aiutar

la gente, ma... come dire?... tende a complicare le cose. Un giorno

decise di conquistarci tutti organizzando un trattenimento pomeri-

diano per le ragazze. Poverina, fece tutto alla rovescia. Le ragazze

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 140

giunsero in costume da bagno e in calzoni, come di solito, e lei ave-

va messo in vista tovagliette e argenteria e tutto il resto. Da allora è

come se ci fosse una campagna organizzata per lasciarla in disparte.

È una cosa che fa pena, davvero. Lei se ne sta seduta su una sedia a

sdraio sulla porta di strada morendo dalla voglia che qualcuno venga

a chiacchierare, e proprio di fronte, dall’altra parte della via, quattro

o cinque ragazze stanno cicalando. Ogni volta che sbottano a ridere

tutte insieme per qualche loro scherzo, pensa che ridano di lei. È ve-

nuta qui ieri e ha pianto tutto il pomeriggio. Mi ha detto che lei e suo

marito pensavano di trasferirsi altrove per poter ricominciare da ca-

po». Altre culture hanno punito con la prigione o col rogo coloro che

deviavano dalle credenze politiche o religiose prescritte. Qui la pu-

nizione è soltanto l’ostracismo che porta una povera donna alla di-

sperazione e ad un intenso sentimento di colpa. Qual è il delitto? Un

solo errore, un solo peccato verso il dio del conformismo.

Costituisce un altro aspetto del genere alienato di relazioni perso-

nali reciproche il fatto che le amicizie non siano formate sulla base

di preferenze o di attrazioni individuali, ma siano determinate

dall’ubicazione del proprio villino o appartamento rispetto agli altri.

E ciò avviene in questo modo. «Si comincia con i bambini. I nuovi

quartieri periferici sono dei matriarcati, ma i bambini sono di fatto

così dittatoriali che un termine come filiarchia non sarebbe soltanto

spiritoso. Sono i bambini a porre lo schema di base; le loro amicizie

si traducono in amicizia delle madri, e questa, a sua volta, in amici-

zia tra le famiglie. Poi si fanno avanti i padri.

È la corrente del traffico su ruote degli adolescenti... che deter-

mina quale sia l’ingresso funzionale; cioè, nelle villette, la porta da-

vanti, e nei casamenti, la porta posteriore. Essa determina inoltre le

vie che si prendono uscendo dall’ingresso funzionale: poiché quando

le mogli vanno a far visita ai vicini, gravitano verso le villette da

dove hanno modo di sorvegliare i loro bambini o di sentire se a casa

suona il telefono. Questo si risolve nel "traffico degli incroci" nei

casamenti (cioè l’itinerario consueto per le chiacchiere all’ora del

caffè) e pone la base per l’amicizia degli adulti». In effetti, questa

determinazione di amicizia giunge al punto che l’autore dell’articolo

consiglia il lettore a scegliere i gruppi di amici in un solo settore del

centro residenziale, soltanto basandosi sulla visione della ubicazione

delle case, e delle loro porte di entrata e di uscita in tale settore.

141 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

Ciò che ha importanza in questo quadro non è soltanto il fatto

dell’amicizia alienata e di un conformismo meccanico, ma il modo

con cui si reagisce a questo fatto. Pare che consciamente la gente

accetti del tutto la nuova forma di adattamento. «Una volta la gente

rifiutava di ammettere che il suo comportamento fosse determinato

da altro che dalla sua propria libera volontà. Non avviene così con i

nuovi abitanti dei sobborghi: essi sono completamente consci del

potere onnipresente che l’ambiente esercita su loro. Infatti vi sono

pochi argomenti sui quali gradiscano altrettanto parlare e, con la cre-

scente curiosità dilettantesca per la psicologia, la psichiatria e la so-

ciologia, essi discutono la loro vita sociale con termini sorprenden-

temente clinici. Ma non provano alcun senso di disagio; questo,

sembrano dire, è il modo come vanno le cose, e la soluzione non

consiste nel combatterlo ma nel comprenderlo».

Questa giovane generazione ha anche la sua filosofia per spiegare

il suo modo di vivere. «La prossima generazione dirigente sta proce-

dendo verso la deificazione dell’unità sociale intesa non solo come

desiderio istintivo, ma come un articolato insieme di valori da esser

trasmesso ai figli. Problema chiave è diventato: "Funziona?", e non

il "perché" funzioni. Con una società divenuta tanto complessa,

l’individuo può avere significato soltanto in quanto contribuisca

all’armonia del gruppo, spiegano gli abitanti, e per loro, sempre in

moto, a contatto con sempre nuovi gruppi, l’adattamento ai gruppi

stessi è diventato particolarmente necessario. Sono tutti, come essi

stessi dicono sovente, nella stessa barca». D’altra parte l’autore ci

dice: «Il valore del pensiero solitario, il fatto che conflitti siano tal-

volta necessari, e altri pensieri parimenti inquietanti, interferiscono

raramente». La cosa più importante o, effettivamente, la sola cosa

importante che i bambini come gli adulti devono imparare è star in

buona armonia con gli altri, ciò che, se insegnato a scuola, è chiama-

to «civismo», l’equivalente della estroversione e dello «stare assie-

me» degli adulti.

Ma si tratta di persone realmente felici; sono, inconsciamente,

soddisfatte come credono di esserlo? È difficile che sia così, se si

considerano la natura dell’uomo e le condizioni necessarie alla sua

felicità. Ma anche consciamente esse hanno dei dubbi. Se sentono

che il conformismo, l’annullarsi nel gruppo costituisce il loro dove-

re, molti di loro sentono che «altri stimoli vengono frustrati». Essi

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 142

sentono che «il corrispondente ai costumi del gruppo è affine al do-

vere morale - e così essi continuano, incerti ed esitanti, imprigionati

nella fratellanza (il corsivo è mio). "Talvolta mi meraviglio, dice una

residente in un momento quasi furtivo di contemplazione. Non desi-

dero far nulla che offenda la gente qui; sono gentili e discreti e io

sono orgogliosa di vedere che siamo riusciti ad andar d’accordo gli

uni con gli altri nonostante tutte le nostre diversità... e sta bene. Ma

poi, ogni tanto penso a me stessa e a mio marito e a quel che non

facciamo e mi sento avvilita. Basta veramente non esser cattivi?"» (il

corsivo è mio). Infatti questa vita di compromesso, questa vita «tutta

fuori», è la vita dell’imprigionamento, della perdita dell’io e della

depressione. Sono difatti tutti «nella stessa barca», ma, come

l’autore dice molto acutamente: «Dove va la barca? Nessuno sembra

averne la più pallida idea, né, del resto, essi pensano che ci si debba

porre la domanda».

Il quadro del conformismo come l’abbiamo esposto attraverso gli

abitanti estroversi di Park Forest non è certamente eguale in tutta

l’America. Le ragioni sono ovvie. Si tratta di gente giovane, di bor-

ghesi in ascesa, di gente che, per la maggior parte, nel lavoro mani-

pola simboli e uomini e la cui carriera dipende dal fatto che essi si

lasciano a loro volta manipolare. Ci sono indubbiamente molte per-

sone più vecchie delle stesse categorie di occupazione, e molte per-

sone egualmente giovani di categorie di lavoro diverse, meno «pro-

gredite», come per esempio quegli ingegneri, chimici e fisici più in-

teressati al loro lavoro che alla speranza di entrare nella carriera di

funzionari il più presto possibile; vi sono inoltre milioni di contadini

e di lavoratori agricoli sul cui modo di vivere poco hanno influito le

condizioni del ventesimo secolo; infine gli operai dell’industria che,

sebbene godano di un reddito non troppo diverso dagli impiegati

d’ufficio, si trovano in una diversa situazione di lavoro. Benché non

sia qui da esaminare il significato del lavoro per l’operaio industriale

contemporaneo, si può ben dire questo: che c’è certamente una diffe-

renza tra la gente che dirige altra gente, e quella che crea delle cose,

anche se il loro ruolo nel processo produttivo è un ruolo parziale e in

molti modi alienato. L’operaio di una grande acciaieria coopera con

gli altri e così deve fare per proteggere la sua vita; egli fronteggia

pericoli e li condivide con i compagni; tanto i colleghi che il capo-

squadra possono giudicare e apprezzare la sua abilità piuttosto che il

143 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

suo sorriso o la sua «personalità simpatica»; egli ha una notevole

quantità di libertà fuori del lavoro, vacanze pagate, può occuparsi del

suo giardino, di qualche occupazione favorita, della politica locale e

sindacale.40

Tuttavia, anche tenendo conto di tutti questi fattori che

differenziano l’operaio industriale dall’impiegato e dagli strati più

alti della borghesia, sembra vi siano scarse probabilità che l’operaio

dell’industria possa indefinitamente rifiutare i modelli dello schema

conformistico dominante. Anzitutto, anche gli aspetti più positivi

della sua situazione di lavoro, come quelli sopra ricordati, non modi-

ficano il fatto che il suo lavoro è alienato e soltanto in misura limita-

ta è un’espressione significativa della sua energia e della sua ragio-

ne; e secondariamente la crescente automazione del lavoro industria-

le diminuisce rapidamente tale fattore. Infine, egli è, proprio come

ogni altro, sotto l’influenza del nostro completo apparato culturale:

la pubblicità, il cinema, la televisione, i giornali, e può difficilmente

sottrarsi all’esser guidato, sebbene forse più lentamente degli altri

settori della popolazione, verso il conformismo.41

Quel che è vero

per l’operaio industriale è vero anche per l’agricoltore.

II. Il principio di non frustrazione

Come ho indicato sopra, l’autorità anonima e il conformismo au-

tomatico sono in larga misura il risultato del nostro metodo produtti-

vo, che richiede rapido adattamento alla macchina, disciplinato

comportamento collettivo, gusti comuni e obbedienza senza l’uso

della forza. Un altro aspetto del nostro sistema economico, il biso-

gno di consumi collettivi, è servito come strumento per creare una

fisionomia del carattere sociale dell’uomo moderno che costituisce

uno dei più evidenti contrasti col carattere sociale del diciannovesi-

mo secolo. Mi riferisco al principio per cui ogni aspirazione deve

esser soddisfatta immediatamente, nessun desiderio deve essere fru-

strato. La dimostrazione più ovvia di questo principio si trova nel

nostro sistema di vendita a rate. Nel diciannovesimo secolo si com-

40 Cfr. l'articolo The Monstrous Machine and the Worried Workers, di Warner BLOOMBERG,

in «The Reporter», del 28 settembre 1953, e le sue conferenze all'Università di Chicago, «Mo-

dern Times in the Factory», 1934, una cui trascrizione egli mi ha gentilmente fornito. 41 Una analisi particolare del lavoro industriale moderno seguirà più avanti.

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 144

prava quello di cui si aveva bisogno quando si fosse messo da parte

il denaro occorrente; oggi si compra quello di cui si ha o non si ha

bisogno, a credito, e la funzione della pubblicità consiste in gran par-

te nel persuadere all’acquisto o nello stimolare l’appetito per le cose,

di modo che si possa venir persuasi. Si vive in un circolo vizioso. Si

compra a rate e, quando si sta per finir di pagare, si vende e si com-

pra di nuovo: l’ultimo modello.

Il principio che i desideri devono esser soddisfatti senza indugio

ha anche determinato il comportamento sessuale, specialmente dalla

fine della prima guerra mondiale. Una rozza forma di frainteso freu-

dismo servì a dare la appropriata giustificazione razionale: l’idea che

le nevrosi risultino da desideri sessuali «repressi» e che le frustra-

zioni siano «traumatiche», e perciò meno ci si reprime tanto più sani

si è. Persino i genitori preoccupati di dare ai loro figli qualsiasi cosa

essi desiderassero per paura che fossero frustrati, acquistarono un

«complesso». Disgraziatamente, molti di questi figli, così come i

loro genitori, finivano sul lettino dello psicanalista, sempre che po-

tessero permetterselo.

La fame di cose e l’incapacità di rinviare la soddisfazione dei de-

sideri sono state acutamente messe in evidenza come aspetti caratte-

ristici dell’uomo moderno da osservatori profondi, quali Max Sche-

ler e Bergson. Esse sono rappresentate nel modo più sarcastico in

Brave New World di Aldous Huxley. Fra gli slogan dai quali sono

condizionati gli adolescenti in Brave New World, uno fra i più im-

portanti è: «Non rinviare mai a domani il divertimento che puoi ave-

re oggi». Questo viene loro inculcato «infinite volte, due volte alla

settimana dai quattordici ai sedici anni e mezzo».

Questa immediata soddisfazione del desiderio è sentita come feli-

cità. «Tutti sono felici oggidì» è un altro degli slogan di Brave New

World; la gente «riceve ciò che desidera, e non desidera mai ciò che

non può ricevere». Questo bisogno dell’immediato consumo delle

merci e l’immediata soddisfazione dei desideri sessuali vanno, nel

Brave New World come nel nostro, di pari passo. È considerato im-

morale tenersi un «amante» per più di un periodo relativamente bre-

ve. L’«amore» è un desiderio sessuale passeggero che deve essere

immediatamente soddisfatto. «Si cerca con la maggior cura di evita-

re che si ami troppo intensamente qualcuno. Non esiste qualcosa di

simile alla infedeltà reciproca, si è così condizionati che non si può

145 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

fare a meno di fare ciò che si deve fare. E ciò che si deve fare è ge-

neralmente così piacevole, tanti impulsi naturali sono lasciati liberi

di agire, che veramente non ci sono tentazioni a resistere».42

Questa mancanza di inibizione dei desideri porta allo stesso risul-

tato della mancanza di autorità manifesta: alla paralisi e infine alla

distruzione dell’io. Se io non rinvio la soddisfazione della mia voglia

(e sono condizionato a desiderare soltanto quello che posso ottenere)

non ho conflitti, non ho dubbi; non ci sono decisioni da prendere; io

non sono mai solo con me stesso, perché sono sempre occupato a

lavorare o a divertirmi. Non ho bisogno di esser cosciente di me

stesso in quanto me stesso perché sono costantemente intento a di-

vertirmi. Io sono un sistema di desideri e di soddisfazioni: devo la-

vorare per soddisfare i miei desideri e questi stessi desideri sono co-

stantemente stimolati e diretti dal meccanismo economico. La mag-

gior parte di queste voglie sono artificiali, persino il desiderio ses-

suale è ben meno naturale di quanto si pretende che sia. Esso è in

una certa misura artificialmente stimolato. E occorre sia così se vo-

gliamo che gli uomini siano quali li richiede il sistema contempora-

neo, cioè uomini che si sentono «felici», che non abbiano dubbi, che

non abbiano conflitti e che si possano guidare senza usare la forza.

Divertirsi è in gran parte soddisfazione di consumare e di «metter

dentro»: merci, vedute, cibi, bevande, sigarette, gente, conferenze,

libri, film, tutto è consumato, ingoiato. Il mondo è un solo grande

oggetto offerto al nostro appetito, una grossa mela, una grande botti-

glia, una grande mammella; noi siamo quelli che succhiano, quelli

che aspettano eternamente, quelli che sperano e sono eternamente

delusi. Come potremmo evitare di essere delusi se la nostra nascita si

è fermata al seno materno, se non siamo mai svezzati, se restiamo

psichicamente bambini, se non abbiamo mai superato l’orientamento

ricettivo?

Così gli uomini s’annoiano, si sentono inferiori, insufficienti,

colpevoli. Sentono di vivere senza vivere, e che la vita sfugge come

sabbia attraverso le loro dita. Come faranno fronte al loro disagio,

che sorge dalla passività del continuo ingerire? Con un’altra forma

di passività, un continuo sfogarsi, per così dire, parlando. Qui, come

42 Cfr. Aldous HUXLEY, Brave New World, The Vanguard Library, Londra 1952, p. 196.

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 146

nel caso dell’autorità e del consumo, un’idea che un tempo era pro-

duttiva è stata trasformata nel suo opposto.

III. Libera associazione e libera parola

Freud ha scoperto il principio dell’associazione libera. Abban-

donando il controllo dei vostri pensieri in presenza di un esperto

ascoltatore, potete scoprire i vostri sentimenti e pensieri inconsci

senza esser addormentati, o matti, o ubriachi, o ipnotizzati. Lo psi-

canalista legge tra le vostre frasi, egli è capace di comprendervi me-

glio che non vi comprendiate voi stessi perché avete liberato i vostri

pensieri dalle limitazioni del controllo convenzionale del pensiero.

Ma l’associazione libera si falsò presto come la libertà e la felicità.

Innanzi tutto si falsò nella stessa procedura ortodossa psicanalitica.

Non sempre, ma spesso. Invece di rivelare un’espressione significa-

tiva di pensieri imprigionati, essa si mutò in chiacchiere senza senso.

Altre scuole terapeutiche ridussero il ruolo dell’analista a quello di

un ascoltatore simpatizzante che ripete in una versione lievemente

diversa le parole del paziente senza accingersi all’interpretazione e

alla spiegazione. Tutto ciò è fatto con l’idea che non si deve interfe-

rire con la libertà del paziente. L’idea freudiana dell’associazione

libera è diventata lo strumento di molti psicologi che si autodefini-

scono consulenti mentali, sebbene la sola cosa che non sappiano fare

sia dar consigli. Questi consulenti svolgono un ruolo sempre più

ampio come privati professionisti e come esperti nelle industrie.43

Qual è l’effetto del procedimento? Ovviamente non una guarigione

come pensava Freud quando propose l’associazione libera come

fondamento per la comprensione dell’inconscio. Piuttosto un rilas-

samento di tensione che risulta dallo sfogarsi in presenza di un

ascoltatore simpatizzante. I vostri pensieri, fino a che ve li tenete per

voi, possono disturbarvi, ma qualcosa di fruttuoso può venir fuori da

questo fastidio, se voi li meditate, voi pensate, sentite e vi può acca-

dere che un nuovo pensiero nasca da questo travaglio. Ma quando

43 Cfr. W.J. DICKSON, The New Industrial Relations, Cornell University Press, 1948, e lo

studio di G. FRIEDMANN, Où va le travail humain?, Gallimard, Parigi 1950, p. 142 ss' (trad.

it. Dove va il lavoro umano?, Edizioni di Comunità, Milano 1955). Cfr. anche H.W. HAR-

RELL, Industrial Psychology, Rinehart & Company, Inc., New York 1949, p. 372 ss.

147 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

parlate senza pensarci, quando non lasciate che i vostri pensieri e i

vostri sentimenti creino, per così dire, una pressione, essi non diven-

tano fruttuosi. Accade esattamente la stessa cosa che avviene col

consumo non ostacolato. Voi siete un sistema in cui le cose entrano

ed escono continuamente dentro e fuori, e dentro non c’è nulla, nes-

suna tensione, nessuna assimilazione, nessun io. La scoperta di

Freud dell’associazione libera aveva il fine di scoprire quel che ac-

cadeva in voi sotto la superficie, di scoprire chi voi eravate veramen-

te; il moderno parlare ad un ascoltatore simpatizzante ha lo scopo

opposto, sebbene non confessato; la sua funzione è di fare che

l’uomo dimentichi quel che è (ammesso che abbia ancora un po’ di

memoria) e perda ogni tensione, e con ciò ogni senso dell’io. Proprio

come si lubrifica una macchina, si lubrificano gli uomini e special-

mente quelli nelle organizzazioni collettive di lavoro. Li si lubrifica

con slogan piacevoli, con vantaggi materiali, e con la simpatizzante

comprensione degli psicologi.

Il parlare e l’ascoltare sono infine diventati lo sport casalingo di

quelli che non possono pagarsi un ascoltatore di professione, o che

preferiscono per una ragione o per un’altra uno che non sia del me-

stiere. Lo «sfogarsi» è diventato alla moda, raffinato. Non c’è inibi-

zione, non c’è pudore, non c’è riserbo. Si parla degli avvenimenti

tragici della propria vita con la stessa facilità con cui si parlerebbe di

un’altra persona di nessun particolare interesse, o come si parlerebbe

delle varie noie che si sono avute con la propria automobile.

In effetti psicologi e psichiatri stanno fondamentalmente cam-

biando la loro funzione. Dal «conosci te stesso!» dell’oracolo di Del-

fo alla terapia psicanalitica di Freud la funzione della psicologia fu

di scoprire l’io, di comprendere l’individuo, di trovare la «verità che

ti fa libero». Oggi la funzione della psichiatria, psicologia e psicana-

lisi minaccia di diventare lo strumento per manipolare gli uomini.

Gli specialisti in questo campo vi dicono cos’è la persona normale e,

conseguentemente, quel che non va in voi; essi elaborano i metodi

per aiutarvi ad essere adattati, ad essere soddisfatti, ad essere norma-

li. In Brave New World questo condizionamento avviene dal primo

mese del concepimento (con mezzi chimici), fino a dopo la pubertà.

Nel nostro mondo comincia un po’ più tardi. La ripetizione costante

per mezzo del giornale, della radio, della televisione attua la maggior

parte del condizionamento. Ma la moderna psicologia è il corona-

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 148

mento finale di tale manipolazione. Ciò che Taylor fece per il lavoro

industriale, gli psicologi fanno per la personalità completa; e tutto in

nome della comprensione e della libertà. Ci sono molte eccezioni a

ciò, tra psichiatri, psicologi e psicanalisti, ma è sempre più evidente

che queste professioni stanno diventando un serio pericolo per lo

sviluppo dell’uomo, e che i loro professionisti si stanno trasforman-

do in sacerdoti di una nuova religione del divertimento, del consumo

e della negazione dell’io, in specialisti della manipolazione, in por-

tavoce della personalità alienata.

IV. Ragione, coscienza, religione

Che avviene della ragione, della coscienza, della religione in un

mondo alienato? Osservate superficialmente esse prosperano. Si può

appena parlare di analfabetismo nei paesi occidentali; negli Stati

Uniti sono sempre più numerosi i giovani che frequentano le scuole

superiori; ognuno legge il giornale e parla con ragionevolezza degli

affari mondiali. Per quel che riguarda la coscienza, la maggior parte

della gente si comporta abbastanza correttamente nella sua sfera

strettamente personale; anzi, in modo straordinariamente corretto se

si considera la loro confusione generale. Per quanto si riferisce alla

religione, si sa bene che le affiliazioni alle chiese sono più numerose

che mai, e che la gran maggioranza degli americani crede in Dio, o

almeno così dicono nelle indagini sull’opinione pubblica. Tuttavia

non occorre scavare troppo a fondo per arrivare a scoperte meno pia-

cevoli.

Se noi parliamo della ragione, dobbiamo innanzi tutto precisare a

quale capacità umana intendiamo riferirci. Come ho già accennato

prima, dobbiamo fare una distinzione tra intelligenza e ragione. Per

intelligenza io intendo l’abilità di utilizzare concetti allo scopo di

soddisfare qualche fine pratico. Lo scimpanzé che mette assieme due

bastoni per prendere la banana perché nessuno dei due bastoni è lun-

go abbastanza per questo lavoro, usa l’intelligenza. Così facciamo

tutti noi quando ci occupiamo dei nostri affari, calcolando come fare

le cose. Intelligenza, in questo senso, è prender le cose come fatti

reali, combinandole allo scopo di favorire la loro utilizzazione,

l’intelligenza è il pensiero al servizio della sopravvivenza biologica.

La ragione, d’altro canto, tende a comprendere, cerca di scoprire

149 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

quel che sta dietro alla superficie, di individuare il nucleo, l’essenza

della realtà che ci circonda. La ragione non è senza una funzione, ma

la sua funzione non è tanto quella di agevolare l’esistenza fisica,

quanto quella mentale e spirituale. Tuttavia spesso, nella vita indivi-

duale e sociale, la ragione è necessaria per prevedere (considerando

che la previsione dipende spesso dal riconoscimento delle forze che

agiscono al di sotto della superficie) e la previsione è talvolta neces-

saria anche per l’esistenza fisica.

La ragione ha bisogno di correlazione e di senso dell’io. Se io so-

no soltanto il passivo ricettore di impressioni, pensieri, opinioni, io

posso paragonarli tra loro, utilizzarli, ma non posso comprenderli.

Descartes dedusse l’esistenza di sé come individuo dal fatto che l’io

pensa. Dubito - così egli argomentò - dunque penso, dunque sono.

L’inverso è altrettanto vero. Soltanto se io sono io, se non ho perso

la mia individualità nell’anonimato collettivo, io posso pensare, cioè

posso far uso della mia ragione.

Strettamente connesso a tutto ciò è il deficiente senso della realtà

che è caratteristico della personalità alienata. Parlare di «deficiente

senso della realtà» nell’uomo moderno è contrario all’opinione lar-

gamente seguita, che noi ci distinguiamo dalla maggior parte dei

periodi della storia per il nostro maggior realismo. Ma parlare del

nostro realismo quasi rassomiglia ad una distorsione paranoica. Che

realisti sono quelli che stanno giocando con armi che possono porta-

re alla distruzione di tutta la civiltà moderna, se non addirittura della

terra stessa? Se si trovasse un individuo intento a una cosa del gene-

re, lo si metterebbe subito dentro e, se egli si vantasse del suo reali-

smo, gli psichiatri considererebbero questo come un ulteriore e piut-

tosto grave sintomo di malattia mentale. Ma, indipendentemente da

tutto ciò, resta il fatto che l’uomo moderno mostra una sorprendente

mancanza di realismo per tutto ciò che ha importanza: per il signifi-

cato della vita e della morte, per la felicità e la sofferenza, per i sen-

timenti e per i pensieri seri. Egli ha coperto completamente la realtà

dell’umana esistenza e l’ha sostituita con la sua artificiosa e abbellita

visione di una pseudorealtà, non troppo diversamente dai selvaggi

che persero la loro terra e la loro libertà per luccicanti perline di ve-

tro. Egli è così distante dalla realtà umana, che può dire, con gli abi-

tanti del Brave New World: «Quando l’individuo ha percezione, la

comunità vacilla».

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 150

Un altro fattore della società contemporanea del quale abbiamo

già parlato è deleterio per la ragione. Poiché nessuno fa mai un lavo-

ro completo, ma solo una frazione di esso, poiché la dimensione del-

le cose e l’organizzazione della gente sono troppo vaste per essere

comprese come un intero, nulla può essere visto nella sua totalità.

Perciò le leggi che stanno dietro i fenomeni non possono essere os-

servate. L’intelligenza è sufficiente per maneggiare adeguatamente

un solo settore di un’unità più ampia, sia che si tratti di una macchi-

na sia di uno stato. Ma la ragione può svilupparsi soltanto se è ingra-

nata con il tutto, se tratta con entità che possono essere osservate e

dirette. Proprio come le nostre orecchie e i nostri occhi funzionano

soltanto entro certi limiti quantitativi di lunghezze d’onda, così la

nostra ragione è legata da ciò che è osservabile come un tutto e nel

suo funzionamento totale. In altre parole: oltre un certo ordine di

grandezza, la concretezza va necessariamente perduta e sopravviene

l’astrazione e con essa svanisce il senso della realtà. Il primo a vede-

re questo problema fu Aristotele che giudicò non abitabile una città

con un numero di abitanti superiore a quello di una piccola città

odierna.

Quando si osservi la qualità del pensiero nell’uomo alienato, è

stupefacente vedere come la sua intelligenza si sia sviluppata e come

la sua ragione sia degenerata. Egli prende la sua realtà com’è; egli

desidera goderla, consumarla, toccarla, maneggiarla. Egli nemmeno

si chiede che cosa vi sia dietro, perché le cose sono come sono, e

dove stiamo andando. Non si può mangiare il significato, non si può

consumare il senso, e per quanto riguarda il futuro: après moi le dé-

luge! Perfino dal diciannovesimo secolo ad oggi pare si sia verificato

un notevole aumento di stupidità, se con ciò noi intendiamo

l’opposto della ragione, piuttosto che dell’intelligenza. Nonostante il

fatto che ognuno legge religiosamente il giornale quotidiano, c’è una

assenza di comprensione del significato degli eventi politici vera-

mente paurosa, perché la nostra intelligenza ci aiuta a produrre armi

che la nostra ragione non è in grado di controllare. Infatti noi cono-

sciamo il come, ma non conosciamo il perché né conosciamo

l’obiettivo finale. Noi abbiamo molte persone con un quoziente di

intelligenza buono ed elevato, ma i nostri test d’intelligenza misura-

no la capacità di ricordare, di utilizzare rapidamente dei pensieri, e

non la capacità di ragionare. Tutto ciò è vero, benché vi siano fra noi

151 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

uomini di grandi capacità intellettuali e il cui pensiero è tra i più pro-

fondi e vigorosi che siano mai esistiti nella storia del genere umano.

Ma essi pensano stando al di fuori del generale pensiero gregario, e

sono guardati con sospetto anche se essi sono necessari per le loro

straordinarie realizzazioni nel campo delle scienze naturali.

I nuovi cervelli elettronici offrono infatti una buona dimostrazio-

ne di che cosa si intenda qui per intelligenza. Essi utilizzano dati che

vi sono immessi, confrontano, scelgono e, infine, danno risultati più

rapidi e più sicuri di quanto non possa fare l’intelligenza umana.

Tutto questo però a condizione che siano in loro preventivamente

immessi i dati fondamentali. Quel che il cervello elettronico non può

fare è pensare creativamente, e giungere ad una intima conoscenza

dell’essenza dei fatti osservati, andar oltre i dati che gli sono stati

forniti. La macchina può far le veci dell’intelligenza o anche correg-

gerla, ma non può contraffare la ragione.

L’etica, almeno nel significato della tradizione greco-giudaico-

cristiana, è inseparabile dalla ragione. Il comportamento etico è ba-

sato sulla facoltà di elaborare giudizi di valore sulle basi della ragio-

ne; significa decidere tra il bene e il male, e comportarsi secondo tale

decisione. L’uso della ragione presuppone la presenza dell’io, e così

anche il giudizio etico e l’azione. Inoltre l’etica, sia quella della reli-

gione monoteistica sia quella dell’umanesimo mondano, è basata sul

principio che non vi sia istituzione o cosa più elevata di qualsiasi

individuo umano; e che il fine della vita è sviluppare l’amore e la

ragione dell’uomo e che tutte le altre attività umane devono esser

subordinate a questo fine. Come dunque l’etica potrebbe costituire

una parte significativa in una vita in cui l’individuo diventa un au-

toma, in cui egli serve la grande forza anonima? Inoltre come può

svilupparsi la coscienza quando il principio della vita è il conformi-

smo? La coscienza, per la sua stessa natura, è anticonformista; essa

deve esser capace di dire di no quando tutti gli altri dicono di sì; per

poter dire questo «no» essa deve esser certa della giustezza del giu-

dizio su cui il no è basato. Quanto più una persona è conformista,

tanto meno può udire la voce della coscienza, e tanto meno può ob-

bedirvi. La coscienza esiste soltanto quando l’uomo si sente uomo,

non una cosa o una merce. Per quanto riguarda le cose che sono

scambiate sul mercato, c’è un altro codice quasi etico, quello della

correttezza.

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 152

La questione è se esse siano scambiate ad un prezzo equo e se

l’inganno o la forza interferiscano nella correttezza dell’affare; que-

sta correttezza, e non il bene o il male, costituisce il principio etico

del mercato, ed è il principio etico che dirige la vita della personalità

commerciale.

Il principio di correttezza, indubbiamente, produce un certo tipo

di comportamento etico. Chi agisce secondo il codice della corret-

tezza non mente, non inganna, non usa la forza, concede persino agli

altri un’opportunità favorevole. Ma amare il prossimo, sentirsi uno

con lui, dedicare la propria vita al fine di sviluppare i propri poteri

spirituali, non fa parte dell’etica della correttezza. Noi viviamo in

una situazione paradossale: pratichiamo l’etica della correttezza e

professiamo l’etica cristiana. Non dobbiamo inciampare in questa

ovvia contraddizione? Ovviamente non inciampiamo. Per qual ra-

gione? In parte, ciò si deve ricercare nel fatto che il retaggio di quat-

tro migliaia di anni di sviluppo della coscienza non è del tutto perdu-

to. Al contrario, in molti modi la liberazione dell’uomo dai poteri

dello stato feudale e della chiesa ha reso possibile che questo retag-

gio fosse goduto, e nel periodo tra il diciottesimo secolo ed ora esso

fiorì come forse mai in precedenza. Noi partecipiamo ancora a que-

sto sviluppo, ma, data la nostra condizione di vita nel ventesimo se-

colo, sembra che non resterà alcun nuovo germoglio che fiorisca,

quando questo fiore sarà avvizzito.

Un’altra ragione per cui noi non inciampiamo nella contraddizio-

ne tra etica umanistica ed etica della correttezza, risiede nel fatto che

noi reinterpretiamo le etiche religiose e umanistiche alla luce

dell’etica della correttezza. Un buon esempio di questa interpreta-

zione è dato dalla regola aurea. Nel suo significato originario ebraico

e cristiano, era una formula popolare della massima biblica «ama il

prossimo tuo come te stesso». Nel sistema dell’etica della correttez-

za, essa significa semplicemente: «Sii corretto quando commerci. Dà

quel che tu attendi ti sia dato. Non frodare!». Nessuna meraviglia

che la regola aurea sia la più popolare frase religiosa d’oggi. Essa

combina assieme due opposti sistemi etici e ci aiuta a dimenticarne

la contraddizione.

Mentre noi viviamo ancora sull’eredità cristiano-umanistica, non

c’è da sorprendersi che le generazioni più giovani pratichino sempre

meno l’etica tradizionale, che fra i nostri giovani si incontri una bar-

153 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

barie morale che è in completo contrasto col livello economico ed

educativo che la società ha raggiunto. Proprio oggi, mentre rivedevo

questo manoscritto, ho letto due notizie. Una nel «New York Times»

riguardava l’assassinio di un uomo crudelmente ucciso a calci da

quattro adolescenti di normali famiglie borghesi. L’altra nella rivista

«Time» è una descrizione del nuovo capo della polizia del Guatema-

la che precedentemente, come capo della polizia sotto la dittatura di

Ubico, aveva «perfezionato una calotta di tortura in acciaio per far

confessare i segreti e schiacciare i pensieri politicamente sconve-

nienti».44

Il suo ritratto è pubblicato con la didascalia: «Per pensieri

sconvenienti, una morsa». Potrebbe esserci qualcosa di più follemen-

te insensibile a manifestazione di estremo sadismo, di questo titolo

disinvolto? È forse sorprendente che in una cultura, nella quale la

più popolare rivista di attualità può scrivere cose di questo genere,

gli adolescenti non abbiano scrupoli di picchiare a morte un uomo?

Il fatto che noi vediamo la brutalità e la crudeltà nei racconti a fu-

metti e nei film, poiché è con queste merci che si fa denaro, non è

spiegazione sufficiente dell’aumento della crudeltà e del vandalismo

dei nostri giovani? Ai nostri censori cinematografici basta che non

appaiano scene sessuali, che possono provocare desideri sessuali

illeciti. Sarebbe ben innocente questo risultato a paragone degli ef-

fetti disumanizzanti di quel che i censori permettono e contro cui le

chiese si oppongono meno che contro i peccati tradizionali! Noi ab-

biamo, sì, ancora un’eredità etica ma essa sarà presto consumata e

rimpiazzata dalle etiche del Brave New World, o del 1984, a meno

che essa non cessi di essere una eredità e non sia ricreata nel nostro

intero modo di vita. Per il momento pare che il comportamento etico

debba essere ricercato nella concreta situazione di molti individui,

mentre la società sta avviandosi verso la barbarie.45

Molto di quel che è stato detto riguardo l’etica deve essere ripetu-

to per la religione. Naturalmente parlando del posto della religione

tra uomini alienati, tutto dipende da quel che intendiamo per religio-

ne. Se ci riferiamo alla religione nel suo senso più largo, come ad un

sistema di orientamento o ad un oggetto di devozione, allora, invero,

44 «Time», 23 agosto 1954. 45 Cfr. l'identico punto di vista esposto da A. GEHLEN nel suo veramente profondo e intelli-

gente Sozialpsychologische Probleme in der industriellen Gesellschaft, I.C.D. Mohr, 1949.

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 154

ogni essere umano è religioso poiché nessuno può vivere e restare

sano di mente senza un tale sistema. Allora anche la nostra cultura è

religiosa come tutte le altre. I nostri dèi sono la macchina e l’idea di

produttività; il significato della nostra vita consiste nel muoversi,

nell’andare avanti, nell’arrivare quanto più possibile vicino alla vet-

ta. Ma se per religione intendiamo il monoteismo, allora veramente

la nostra religione non è che quella delle merci nelle nostre vetrine.

Il monoteismo non è compatibile con la alienazione e con la no-

stra etica della correttezza. Nel monoteismo la rivelazione

dell’uomo, la sua redenzione costituiscono il fine supremo della vita,

un fine che non può essere subordinato a nessun altro. Poiché Dio è

inconoscibile e indefinibile, e poiché l’uomo è fatto a somiglianza di

Dio, l’uomo è indefinibile, e ciò significa che egli non può mai esse-

re considerato una cosa. La lotta tra monoteismo e idolatria è esat-

tamente la lotta tra un modo di vita produttivo e un modo di vita

alienato. La nostra cultura è forse la prima cultura completamente

secolarizzata nella storia umana. Noi abbiamo messo da parte ogni

consapevolezza e preoccupazione per i problemi fondamentali

dell’esistenza umana. Noi non ci preoccupiamo del significato della

vita e della soluzione ad essa; noi partiamo dalla convinzione che

non ci sia altro fine che quello di investire la vita con successo e di

tirare avanti senza gravi smacchi. La maggior parte di noi crede in

Dio, poiché dà per scontato che Dio esiste. Gli altri non ci credono

perché danno per scontato che Dio non esiste. In entrambi i casi Dio

è dato per scontato. Sia il credere sia il non credere non ci causano

notti insonni e nemmeno alcuna seria preoccupazione. Di fatto, che

un uomo della nostra cultura creda o no in Dio, fa ben poca differen-

za, sia dal punto di vista psicologico sia da quello veramente religio-

so. In entrambi i casi egli non si cura né di Dio né della risposta al

problema della sua propria esistenza. Proprio come l’amore fraterno

è stato sostituito da un’impersonale correttezza, Dio è stato trasfor-

mato in un remoto direttore generale della Società anonima Univer-

so; si sa che Egli c’è e che Egli dirige gli affari (sebbene questi an-

drebbero avanti probabilmente anche senza di Lui), non Lo si vede

mai, ma si riconosce la Sua guida, mentre si «rappresenta la propria

parte».

La «rinascita» religiosa che noi riscontriamo in questi ultimi

giorni è forse il peggior colpo che il monoteismo abbia ricevuto. V’è

155 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

forse sacrilegio più grande che parlare dell’«Uomo del piano di so-

pra», di insegnare a pregare per far di Dio il proprio socio in affari,

di «vendere» la religione con i metodi e i richiami usati per vendere

sapone?

In considerazione del fatto che l’alienazione dell’uomo moderno

è incompatibile col monoteismo, ci si potrebbe attendere che pastori,

sacerdoti e rabbini costituissero l’avanguardia delle posizioni di cri-

tica al capitalismo moderno. Benché sia vero che tale posizione criti-

ca è stata affermata da parte delle alte sfere cattoliche e da un certo

numero di pastori di grado meno alto e di rabbini, tutte le chiese di-

pendono essenzialmente dalle forze conservatrici della società mo-

derna e usano la religione per far sì che l’uomo tiri avanti soddisfatto

in un sistema profondamente irreligioso. La maggioranza di esse non

sembra riconoscere che questo tipo di religione degenererà infine in

aperta idolatria, a meno che esse, anziché fare del puro parlare di

Dio, e usare così, in più di un senso, il Suo nome invano, non co-

mincino a definire, e perciò a combattere, l’idolatria moderna.

V. Il lavoro

Che cosa è diventato il significato del lavoro in una società alie-

nata?

Abbiamo già fatto alcune brevi osservazioni su questa questione

nell’esame generale dell’alienazione. Ma poiché il problema è di

estrema importanza, e non soltanto per la comprensione della società

contemporanea, ma anche per ogni tentativo di creare una società più

sana, desidero trattare della natura del lavoro separatamente e in mo-

do più ampio nelle pagine seguenti.

A meno che non sfrutti gli altri, l’uomo deve lavorare per vivere.

Per quanto primitivi e semplici possano essere i suoi metodi di lavo-

ro, ha superato, per il fatto stesso della produzione, il regno animale;

egli è stato giustamente definito «l’animale che produce». Ma il la-

voro per l’uomo non è soltanto una necessità senza alternativa. Il

lavoro è anche il suo liberatore dalla natura e ciò che lo fa diventare

un essere sociale e indipendente. Nel processo lavorativo, e cioè

modellando e cambiando la natura che lo circonda, l’uomo modella e

cambia se stesso. Egli si emancipa dalla natura dominandola, svilup-

pa le proprie capacità di cooperazione e di ragione, e il senso del

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 156

bello. Egli si separa dalla natura, dalla unità originaria con essa ma,

nello stesso tempo, si unisce ancora con essa come suo padrone e

costruttore. Quanto più il suo lavoro si sviluppa, tanto più si sviluppa

la sua personalità. Modellando la natura e ricreandola, egli impara a

far uso dei suoi poteri, aumentando le capacità e la sua creatività. Se

pensiamo ai bellissimi dipinti nelle caverne della Francia meridiona-

le, agli ornamenti e alle armi presso popoli primitivi, alle statue e ai

templi della Grecia, alle cattedrali del medioevo, alle sedie e ai tavoli

fabbricati da abili artigiani, o alle coltivazioni di fiori, alberi o grano

fatte dai contadini, vediamo che sono tutte espressioni della trasfor-

mazione creativa della natura per mezzo della ragione e della capaci-

tà umana.

Nella storia occidentale l’artigiano, specialmente come si è svi-

luppato nel tredicesimo e quattordicesimo secolo, costituisce uno dei

punti più alti dell’evoluzione del lavoro creativo. Il lavoro non era

soltanto un’attività utile, ma un’attività che portava con sé una pro-

fonda soddisfazione. Le principali caratteristiche dell’artigianato

sono state molto chiaramente delineate da C.W. Mills. «Non v’è al-

tra caratteristica principale del lavoro oltre a quella che il prodotto

sia fatto e al procedimento per la sua creazione. Lo svolgersi minuto

del lavoro quotidiano è significativo perché nel pensiero del lavora-

tore non è scisso dal prodotto del lavoro. L’operaio è libero di con-

trollare la propria attività lavorativa. L’artigiano è in tal modo in

grado di imparare dal suo lavoro e di sviluppare le sue capacità e

abilità nella stessa prosecuzione del lavoro. Non v’è frattura tra lavo-

ro e gioco, tra lavoro e cultura. Il modo con cui l’artigiano si guada-

gna da vivere determina e influenza il suo intero sistema di vita».46

Con il crollo della struttura medievale, e con l’inizio del sistema

moderno di produzione, il significato e il funzionamento del lavoro

cambiano fondamentalmente, specialmente nei paesi protestanti.

L’uomo, spaventato dalla sua libertà da poco guadagnata, era osses-

sionato dal bisogno di dominare i propri dubbi e timori sviluppando

un’attività febbrile. L’esito di questa attività, successo o insuccesso,

decideva della sua salvezza determinando se si trovava tra le anime

elette o tra quelle dannate. Il lavoro, invece di essere una attività di

per sé soddisfacente e piacevole, diventò dovere e ossessione. Quan-

46 C.W. MILLS, White Collar, cit., p. 220.

157 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

to più si poteva guadagnare ricchezza col lavoro tanto più questo

diventava un puro strumento per il fine della ricchezza e del succes-

so. Il lavoro diventò, secondo le parole di Max Weber, il fattore

principale in un sistema di «ascesi intramondana», una risposta al

senso di solitudine e isolamento dell’uomo.

Tuttavia, un lavoro in questo senso esisteva soltanto per le classi

superiori e medie, quelle che potevano accumulare capitale e impie-

gare il lavoro degli altri. Per la grande maggioranza di coloro che

avevano da vendere soltanto le loro energie fisiche, il lavoro diven-

tava nient’altro che un lavoro forzato. L’operaio del diciottesimo e

diciannovesimo secolo, che doveva lavorare sedici ore se non voleva

morire di fame, non lo faceva per servire in tal modo

Dio, e nemmeno perché il suo successo gli avrebbe mostrato se

egli era tra gli «eletti», ma perché era costretto a vendere le sue

energie a quelli che avevano i mezzi per sfruttarle. Nei primi secoli

dell’era moderna si attribuisce un duplice significato alla parola la-

voro; nella classe media essa vale «dovere»; tra quelli che non di-

spongono di beni significa «lavoro forzato».

L’atteggiamento religioso verso il lavoro come dovere, che era

ancora così prevalente nel diciannovesimo secolo, è andato cam-

biando considerevolmente in questi ultimi decenni. L’uomo moder-

no non sa che fare di se stesso, come impiegare in modo significati-

vo la sua esistenza ed è spinto a lavorare per sfuggire ad

un’intollerabile noia. Ma il lavoro non è più un obbligo morale e

religioso nel senso proprio all’atteggiamento delle classi medie del

diciottesimo e diciannovesimo secolo. È sorto qualcosa di nuovo. La

produzione sempre crescente, la spinta a fare cose più grandi e mi-

gliori, sono diventate fine a se stesse, nuovi ideali. Il lavoro è dive-

nuto alienato dalla persona che lavora.

Che avviene dell’operaio industriale? Egli impiega le sue migliori

energie per sette o otto ore al giorno per produrre «qualcosa». Ha

bisogno del suo lavoro per guadagnarsi la vita, ma la sua è una parte

essenzialmente passiva. Compie una piccola isolata funzione nel

processo complicato e altamente organizzato della produzione e non

è mai messo in rapporto con il «suo» prodotto come un intero, alme-

no non come produttore ma solo come consumatore, dato che abbia

del denaro per comprarsi il «suo» prodotto in un negozio. Non ha

che fare né con il prodotto intero nel suo aspetto fisico né con i suoi

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 158

più larghi aspetti economici e sociali. È messo in un certo posto, ha

da compiere una certa mansione, ma non partecipa alla organizza-

zione o alla direzione del lavoro. Non si interessa, non sa neppure

perché si produca questa e non un’altra merce, che relazioni essa

abbia con i bisogni della società nel suo insieme. Le scarpe,

l’automobile, le lampadine elettriche sono prodotte dall’«impresa»

che usa le macchine. È una parte della macchina piuttosto che il suo

padrone come agente attivo. La macchina, invece di essere al suo

servizio per fare per lui il lavoro che una volta doveva fare egli stes-

so per virtù delle sue mere energie fisiche, è diventata il suo signore.

Invece di essere la macchina il sostituto dell’energia umana è l’uomo

che è diventato un sostituto della macchina. Il suo lavoro può essere

definito: il compimento di atti che, finora, non possono essere com-

piuti da macchine.

Il lavoro è un mezzo per ottenere denaro e non una attività umana

con un suo significato. Drucker, osservando gli operai in una indu-

stria automobilistica, espresse questa idea molto concisamente: «Per

la grande maggioranza degli operai dell’industria automobilistica, il

solo significato del lavoro è nella busta paga e in nessun’altra cosa

collegata con il lavoro o con il prodotto. Il lavoro si presenta come

qualcosa di innaturale, come una condizione sgradita, senza signifi-

cato e avvilente per ottenere la busta paga ed è privo sia di dignità

sia di importanza. Non meraviglia che questo favorisca un lavoro

trascurato, un ritmo lento e altri espedienti per ottenere la stessa bu-

sta paga con minor lavoro. Non meraviglia che il risultato sia un

operaio scontento e insoddisfatto: perché una busta paga non basta

per sostenere il rispetto di se stesso».47

Questo rapporto del lavoratore con il suo lavoro è il risultato

dell’intera organizzazione sociale della quale egli è una parte. Es-

sendo «impiegato»48

egli non è un soggetto attivo, non ha nessuna

responsabilità eccetto la esecuzione precisa di un compito isolato nel

lavoro che deve fare, ed ha scarso interesse eccetto quello di portare

a casa abbastanza denaro per sostentare se stesso e la sua famiglia.

Nient’altro ci si aspetta e nemmeno si vuole da lui. Egli è una parte

47 Cfr. Peter F. DRUCKER, Concept of the Corporation, cit., p. 179. 48 L'inglese employed come in tedesco angestellt sono termini che si riferiscono alle cose piut-

tosto che a esseri umani.

159 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

dell’attrezzatura impiegata dal capitale e il suo ruolo e la sua funzio-

ne sono determinati dalla qualità di essere, appunto, un pezzo

dell’attrezzatura. Negli ultimi decenni si è dedicata sempre crescente

attenzione alla psicologia del lavoratore e al suo atteggiamento di

fronte al lavoro, al «problema umano dell’industria»; ma questa

formulazione indica l’atteggiamento di fondo. C’è un essere umano

che passa la maggior parte della sua vita lavorando e ciò che do-

vremmo discutere è il «problema industriale degli esseri umani»

piuttosto che «il problema umano dell’industria».

La maggior parte delle ricerche nel campo della psicologia indu-

striale riguarda il problema di come la produttività del singolo ope-

raio possa essere aumentata e come si possa farlo lavorare con mino-

re attrito. La psicologia ha prestato i suoi servigi alla «ingegneria

umana» che è un tentativo di trattare l’operaio e l’impiegato come

una macchina che gira meglio quando è ben lubrificata. Mentre Tay-

lor era principalmente interessato alla migliore organizzazione

dell’uso tecnico dei poteri fisici degli operai, la maggior parte degli

psicologi industriali è principalmente interessata al trattamento della

psiche degli operai. L’idea fondamentale può essere formulata in

questi termini: se egli lavora meglio quando è contento, ebbene, ren-

diamolo contento, sicuro, soddisfatto; o qualsiasi altra cosa, purché

ciò aumenti il suo rendimento e diminuisca la resistenza. Nel nome

delle «relazioni umane» l’operaio è trattato in tutti i modi che sono

adatti ad una persona completamente alienata. Persino la felicità e i

valori umani sono raccomandati nell’interesse di migliori relazioni

con il pubblico. Così, per esempio, secondo la rivista «Time», uno

dei più conosciuti psichiatri americani dice a un gruppo di 1.500

funzionari di supermercati: «Se noi siamo contenti, i nostri clienti

saranno maggiormente soddisfatti... Se noi riusciremo veramente a

mettere in pratica alcuni di questi principi generali di valore e di re-

lazioni umane, il risultato sarà dei bei dollari di reddito». Si parla di

«relazioni umane» e si hanno in mente relazioni più inumane: quelle

tra automi alienati; si parla di felicità e si vuol dire una perfetta rou-

tinizzazione che abbia eliminato ogni ultimo elemento di dubbio e di

spontaneità.49

49 Il problema del lavoro sarà trattato ancora nel capitolo VIII.

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 160

Il carattere alienato e profondamente insoddisfacente del lavoro

porta a due reazioni: una è costituita da un ideale di completa pigri-

zia, e l’altra da una ostilità, profondamente radicata, anche se spesso

inconscia, verso il lavoro ed ogni cosa e ognuno che vi sia connesso.

Non è difficile riconoscere il diffuso desiderio di uno stato di

inerzia e passività complete. E ad esso la nostra pubblicità si rivolge

più che al sesso. Ci sono naturalmente molti congegni utili e che ri-

sparmiano lavoro, ma la loro utilità spesso serve soltanto come una

razionalizzazione del richiamo alla completa passività e ricettività.

Un pacchetto di fiocchi d’avena per la colazione del mattino è pro-

pagandato come «nuovo e più facile da mangiare». Un tostapane

elettrico è lanciato con queste parole: «...il tostapane più completa-

mente diverso di tutto il mondo! Questo nuovo tostapane fa tutto il

vostro lavoro. Non c’è nemmeno bisogno di scomodarsi ad inserire

la fetta di pane. L’azione automatica di un motore elettrico eccezio-

nale prende gentilmente il pane dalle vostre stesse dita!». E quanti

corsi di lingue o su altri argomenti sono annunciati con lo slogan:

«Imparerete senza sforzo; non più la fatica di una volta». Tutti cono-

scono, negli annunci di una compagnia di assicurazione sulla vita, il

quadro della coppia anziana che si è messa in pensione a ses-

sant’anni e passa la vita nella felicità perfetta di non aver altro da

fare che viaggiare.

La radio e la televisione rendono evidente un altro elemento di

questo desiderio di non far niente: l’idea dell’«esser potente premen-

do un pulsante». Premendo un pulsante e girando una manopola del

mio apparecchio acquisto il potere di produrre musica, discorsi, par-

tite sportive, o, sullo schermo televisivo, di far apparire gli avveni-

menti del mondo davanti ai miei occhi. Il piacere di guidare

l’automobile risiede in gran parte nella stessa soddisfazione del desi-

derio di esercitare il proprio potere premendo un pulsante. Premendo

senza sforzo un pulsante si mette in moto una macchina potente; ba-

stano modeste capacità e poco sforzo per far sì che il guidatore si

senta signore dello spazio.

Ma c’è una reazione molto più seria e profonda alla mancanza di

significato e alla noia del lavoro. Si tratta di una ostilità verso il la-

voro che è molto meno conscia della nostra brama di pigrizia e di

inattività. Molti imprenditori si sentono prigionieri della produzione

e delle merci che vendono; essi provano un senso di frode per quanto

161 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

riguarda la loro merce e arrivano a nutrire per essa un segreto di-

sprezzo. Odiano i loro clienti che li obbligano a metter su una com-

media al fine di vendere. Odiano i loro concorrenti perché costitui-

scono una minaccia, e i dipendenti come i superiori perché sono in

costante rivalità con loro. Ma, più importante di tutto, odiano se stes-

si perché vedono la vita sfuggir loro senza che essa abbia senso al-

cuno oltre la momentanea ebbrezza del successo. Naturalmente que-

sto odio e questo disprezzo per gli altri, per se stessi e per le cose

stesse che si producono, sono prevalentemente inconsci, e solo qual-

che volta si aprono alla consapevolezza in un pensiero fugace che è

abbastanza conturbante da venir rimosso al più presto.

VI. Democrazia

Allo stesso modo che il lavoro è divenuto alienato, così è una

espressione alienata l’espressione della volontà dell’elettore nella

democrazia moderna. Il principio della democrazia è che non un go-

vernante o un piccolo gruppo, ma il popolo nel suo insieme determi-

na il proprio destino e prende le decisioni riguardo alle faccende di

comune interesse. Si ritiene che ogni cittadino, eleggendo i propri

rappresentanti, che in un parlamento decidono sulle leggi del paese,

eserciti la funzione di partecipare in maniera responsabile agli affari

della comunità. Col principio della divisione dei poteri veniva creato

un ingegnoso sistema che serviva a mantenere l’integrità e

l’indipendenza del sistema giudiziario e ad equilibrare le rispettive

funzioni dei poteri legislativo ed esecutivo. In teoria ogni cittadino

ha altrettanta responsabilità ed influenza per intervenire nel processo

delle decisioni.

In realtà il nascente sistema democratico era minato da una grave

contraddizione. Le classi privilegiate, che operavano negli stati con

gravissime ineguaglianze di opportunità e di reddito, non volevano

naturalmente perdere i privilegi che erano loro dati dalla condizione

sociale, e che essi avrebbero facilmente potuto perdere se la volontà

della maggioranza, che era senza proprietà, avesse trovato piena

espressione. Per evitare tale pericolo venne esclusa dal voto gran

parte della popolazione senza censo, e solamente con molta lentezza

venne accettato il principio che tutti i cittadini, senza restrizioni o

condizioni, avevano il diritto di voto.

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 162

Nel diciannovesimo secolo parve che il suffragio universale ri-

solvesse tutti i problemi della democrazia. O’Connor, uno dei capi

cartisti, diceva nel 1838: «Il suffragio universale cambierebbe im-

mediatamente l’intero carattere della società: da uno stato di vigilan-

za, dubbio e sospetto, ad uno stato di amore fraterno, di reciproco

interesse e di universale confidenza», e nel 1842: «...sei mesi dopo

che la Carta sarà stata approvata, ogni uomo, donna e bambino di

questo paese sarà ben nutrito, ben alloggiato e ben vestito».50

Da

allora tutte le grandi democrazie hanno istituito il suffragio universa-

le per gli uomini e, ad eccezione della Svizzera, per le donne, ma

perfino nel più ricco paese del mondo, un terzo della popolazione era

ancora, per citare Franklin D. Roosevelt, «mal nutrito, male alloggia-

to e mal vestito».

L’introduzione del suffragio universale non disingannò soltanto

le speranze dei cartisti, ma disilluse anche tutti quelli che credevano

che il suffragio universale sarebbe servito a trasformare i cittadini in

personalità responsabili, attive e indipendenti. Divenne evidente che

il problema della democrazia odierna non è più la restrizione del di-

ritto di voto, ma il modo in cui il diritto di voto è esercitato.

Come possono gli uomini esprimere la volontà «loro» se non

hanno alcuna volontà o alcuna convinzione che siano loro proprie, se

sono automi alienati, i cui gusti, opinioni e preferenze sono mano-

vrati dalle grandi macchine di condizionamento? In queste circo-

stanze il suffragio universale diventa un feticcio. Un governo il quale

può dimostrare che tutti hanno diritto al voto, e che i voti sono one-

stamente contati, è democratico. Se tutti votano, ma i voti non sono

onestamente calcolati o se l’elettore ha paura di votare contro il par-

tito governativo, il paese non è democratico. È difatti vero che tra

elezioni libere ed elezioni truccate c’è una differenza notevole ed

importante, ma l’osservazione di questa differenza non deve condur-

ci a dimenticare il fatto che nemmeno le libere elezioni esprimono

necessariamente «la volontà del popolo». Se una qualità di dentifri-

cio intensamente propagandata è usata dalla maggioranza della gente

a causa di alcune affermazioni poco credibili fatte nella sua pubblici-

tà, nessuno che abbia il minimo di raziocinio direbbe che la gente

50 Citato da J.R.M. BUTLER, History of England, Oxford University Press, Londra 1928, p.

86.

163 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

«ha preso una decisione» a favore della pasta dentifricia. Tutto quel

che si potrebbe dire è che la propaganda è stata abbastanza efficace

per far sì che milioni di persone credessero nelle sue affermazioni.

In una società alienata il modo in cui la gente esprime la propria

volontà non è affatto diverso da quello della loro scelta nell’acquisto

delle merci. La gente ascolta la grancassa della propaganda e i fatti

significano poco in confronto al frastuono suggestionante che la

martella. Negli ultimi anni abbiamo visto sempre più chiaramente

come le tecniche dei consulenti delle public relations determinino la

propaganda politica. Abituati a far sì che il pubblico comperi qual-

siasi cosa per il cui lancio vi sia abbastanza denaro, trattano nello

stesso modo le idee e i capi politici. Usano la televisione per lanciare

una personalità politica come la usano per lanciare un sapone; ciò

che conta, nelle vendite e nei voti, è l’effetto e non la razionalità o

l’utilità di ciò che è presentato. Questo fenomeno ha trovato

un’espressione molto esplicita in recenti dichiarazioni sul futuro del

partito repubblicano. Vi si dice che, poiché non si può sperare che la

maggioranza degli elettori voti per il partito repubblicano, si deve

trovare una personalità che voglia rappresentare il partito, e allora

questa otterrà i voti. In sostanza ciò non è diverso dall’appoggio che

un famoso sportivo o un attore del cinema possono dare ad una siga-

retta.

In effetti il funzionamento del meccanismo politico in un paese

democratico non differisce sostanzialmente dalla procedura del mer-

cato delle merci. I partiti politici non sono troppo diversi dalle grandi

aziende commerciali e i politici di professione cercano di vendere la

loro merce al pubblico. Il loro metodo è sempre più quello della

pubblicità più martellante. Una formulazione particolarmente chiara

di questo processo è data da un acuto osservatore della scena politica

ed economica, J.A’ Schumpeter. Egli comincia con la formulazione

del concetto classico di democrazia del diciottesimo secolo. «Il me-

todo democratico è quell’insieme di accorgimenti costituzionali per

giungere a decisioni politiche, che realizza il bene comune permet-

tendo allo stesso popolo di decidere attraverso l’elezione di singoli

individui tenuti a riunirsi per esprimere la sua volontà».51

Schumpe-

51 Joseph A. SCHUMPETER, Capitalismo, socialismo, democrazia, Edizioni di Comunità,

Milano 1964, p. 239.

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 164

ter analizza poi gli atteggiamenti dell’uomo moderno di fronte al

problema del pubblico benessere e giunge ad un risultato non troppo

diverso da quelli sopra delineati. «Ma, appena ci allontaniamo dalle

preoccupazioni private della famiglia e della professione ed entriamo

nel campo degli affari nazionali ed internazionali che mancano di un

rapporto diretto e inequivocabile con quelle preoccupazioni private,

la volizione individuale, il dominio dei fatti e il metodo di deduzione

cessano ben presto di rispondere ai requisiti della dottrina classica.

Ciò che più mi colpisce, e rappresenta per me il nocciolo del pro-

blema, è che vi si perda in modo così preoccupante il senso della

realtà. Normalmente, nell’economia psichica del cittadino comune,

le grandi questioni politiche vanno ad affiancarsi o a quegli interessi

delle ore di riposo che non sono assurti alla dignità di piccole manie,

o agli argomenti di una conversazione irresponsabile. Sembrano così

lontani, quei problemi; non hanno nulla a che vedere con le questioni

professionali; i pericoli possono non concretarsi affatto e, se si con-

cretano, non dimostrarsi così gravi; si ha l’impressione di muoversi

in un mondo fittizio.

Questo senso ridotto della realtà spiega non soltanto un minor

senso di responsabilità, ma anche l’assenza di un’effettiva volizione.

Ognuno ha le sue frasi, naturalmente, e fa i suoi sogni ad occhi aper-

ti; soprattutto, ognuno ha le sue simpatie e antipatie. Ma, ordinaria-

mente, esse non corrispondono a quella che si chiama volontà:

l’equivalente psichico di un’azione responsabile e indirizzata ad un

fine. In realtà, per il cittadino che medita sui grandi problemi nazio-

nali le prospettive di sviluppo di una simile volontà sono nulle, né

esiste compito al quale essa si possa applicare. Membro di un comi-

tato inefficiente (il comitato dell’intera nazione), egli spende nello

sforzo disciplinato di tentar di capire e risolvere un problema politi-

co meno energia che nel giocare a bridge.

A loro volta, il minor senso di responsabilità e l’assenza di

un’effettiva volizione spiegano l’ignoranza e l’assenza di giudizio

del cittadino medio in questioni di politica interna ed estera, che sor-

prendono e urtano in persone evolute (o che operano con successo in

campi estranei alla politica) ancor più che nell’incolto o nel povero.

Ma non dovremmo stupircene. Basta osservare l’atteggiamento di-

verso che l’avvocato prende verso la causa ch’è chiamato a difende-

re e verso le affermazioni di fatto di un giornale politico. Nel primo

165 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

caso, egli si è preparato, attraverso un lungo lavoro ispirato a un fine

preciso e stimolato dall’interesse per la professione, a valutare

l’importanza dei fatti, e, sotto uno stimolo altrettanto potente, con-

centra nel contenuto della causa le sue capacità, la sua intelligenza,

la sua volontà. Nel secondo, non si è preoccupato di «qualificarsi»;

non sente lo stimolo di assimilare i dati informativi o di applicarvi

quei principi di critica di cui pur conosce tanto bene il modo di ser-

virsi; è insofferente di ragionamenti lunghi e complicati. Tutto ciò

dimostra che, senza la spinta di una responsabilità diretta,

l’ignoranza permarrà nonostante la varietà ed esattezza delle fonti.

Permarrà anche malgrado gli sforzi meritori d’informare il pubblico

e insegnargli a servirsi delle informazioni ricevute mediante confe-

renze, corsi, discussioni collettive. I risultati non sono completamen-

te nulli, certo, ma sono limitati.

Così, entrando nel raggio della politica, il cittadino medio scende

a un gradino inferiore di rendimento mentale. Ragiona e analizza in

un modo che giudicherebbe infantile nella sfera dei suoi interessi

concreti; il suo modo di ragionare diventa associativo ed affettivo».52

Anche Schumpeter punta sulla somiglianza tra la fabbricazione

della volontà popolare nelle questioni politiche e quella della pubbli-

cità commerciale. «I modi, egli dice, in cui i problemi e la volontà

popolare in merito ad essi vengono manipolati corrispondono esat-

tamente ai modi della pubblicità commerciale. Vi ritroviamo lo stes-

so tentativo di far leva sul subconscio, la stessa tecnica di creare as-

sociazioni favorevoli o sfavorevoli e tanto più efficaci quanto meno

razionali, le stesse evasioni e reticenze, lo stesso stratagemma di

produrre un’opinione mediante affermazioni ripetute che hanno suc-

cesso nella misura in cui evitano il ragionamento e il pericolo di

svegliare le facoltà critiche del pubblico, e così via, con la sola diffe-

renza che queste arti dispongono di possibilità di azione infinitamen-

te maggiori nella sfera degli affari pubblici che in quella della vita

privata e professionale. La fotografia della più graziosa fanciulla che

mai sia nata su questa terra si dimostrerà, alla lunga, impotente a

sostenere la vendita di una sigaretta cattiva; non esiste salvaguardia

altrettanto efficace nel caso di decisioni politiche. Molte decisioni

d’importanza cruciale sono di tal natura da rendere impossibile al

52 Op. cit., pp. 249-50.

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 166

pubblico un controllo sperimentale che costi poco e sia fatto con

calma; ma, anche se questa possibilità esistesse, un giudizio sano è

meno facile che nel caso della sigaretta, perché è meno agevole valu-

tarne le conseguenze».53

Sulla base di questa analisi, Schumpeter giunge ad una definizio-

ne della democrazia che, se è meno elevata della prima, è indubbia-

mente più realistica: «Il metodo democratico è lo strumento istitu-

zionale per giungere a decisioni politiche, in base al quale singoli

individui ottengono il potere di decidere attraverso una competizione

che ha per oggetto il voto popolare»54

(il corsivo è mio).

Il paragone tra il procedimento della formazione dell’opinione

nella politica e nel mercato delle merci può esser completato con un

altro relativo non tanto alla formazione dell’opinione ma piuttosto

alla sua espressione. Mi riferisco alla parte dell’azionista nella gran-

de società anonima americana e all’influenza della sua volontà sulla

direzione.

Come si è detto più sopra, la proprietà delle grandi società è oggi

nelle mani di centinaia di migliaia di persone ciascuna delle quali è

proprietaria di una parte estremamente modesta dell’ammontare

complessivo dei titoli. Legalmente, gli azionisti hanno la proprietà

dell’azienda e perciò hanno il diritto di determinarne la politica e di

insediare la direzione. Praticamente essi sentono poca responsabilità

per la loro condizione proprietaria e accettano quel che la direzione

fa, soddisfatti di avere un reddito regolare. La grande maggioranza

degli azionisti non si cura di andare alle assemblee ed è disposta a

mandare alla direzione le procure richieste. Come si è detto prima,

soltanto nel 6% delle grandi società (nel 1930) il controllo è esercita-

to dalla totalità o dalla maggioranza dei proprietari.

La situazione del controllo in una democrazia moderna non è

troppo diversa dal controllo in una grande società. È vero che più del

50% degli elettori portano personalmente il loro voto. Essi decidono

tra una delle due organizzazioni di partito che si contendono i loro

voti. Appena una delle due organizzazioni è stata eletta al governo, il

rapporto con l’elettore diventa remoto. Spesso le decisioni effettive

53 Op. cit., p. 251. 54 Op. cit., p. 257.

167 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

non sono più nelle mani dei singoli membri del parlamento, che rap-

presentano le volontà del loro elettorato, ma in quelle del partito.55

Ma anche qui le decisioni sono prese da influenti personalità-chiave,

spesso poco conosciute dal pubblico. Il fatto è che mentre il singolo

cittadino crede di dirigere le decisioni del suo paese, egli fa soltanto

un poco di più di quanto faccia l’azionista che partecipa al controllo

della «sua» società. Tra l’atto di votare e le più gravi decisioni di

alto livello politico c’è una connessione che ha del misterioso. Non

si può dire che non ci sia affatto ma nemmeno si può dire che la de-

cisione finale sia il risultato della volontà dell’elettore. Si tratta esat-

tamente della situazione di una espressione alienata della volontà del

cittadino. Egli fa qualcosa: vota ed è sotto l’illusione di essere il

creatore di decisioni che accetta come se fossero sue proprie, mentre

sono in realtà per lo più determinate da forze che sono al di là del

suo controllo e della sua conoscenza. Non c’è da stupirsi se questa

situazione dà al cittadino medio un profondo senso di impotenza nel-

le questioni politiche (benché ciò non avvenga necessariamente in

modo conscio), e che pertanto la sua intelligenza politica sia sempre

più ridotta. Per quanto sia vero che si deve pensare prima di agire, è

anche vero che, se non si ha possibilità di agire, il pensiero si impo-

verisce; in altre parole: se non si può agire effettivamente non si può

nemmeno pensare produttivamente.

3. Alienazione e salute mentale

Qual è l’effetto dell’alienazione sulla salute mentale? La risposta

dipende ovviamente da ciò che si intende per salute; se si intende

che l’uomo possa soddisfare le sue funzioni sociali, svolgere attività

produttiva e riprodursi, allora l’uomo alienato può, evidentemente,

esser sano. Dopo tutto abbiamo creato la più potente macchina pro-

duttiva che sia mai esistita, anche se abbiamo pure prodotto la più

potente macchina distruttiva accessibile alla mano di un pazzo. An-

che in questo caso, esaminando le correnti definizioni psichiatriche

di malattia mentale, potremmo pensare di essere sani. È del tutto

naturale che i concetti di salute e di malattia siano il prodotto degli

55 Cfr. R.H.S. CROSSMAN nel suo articolo The Party Oligarchies nel «The New Statesman

and Nation», Londra, 21 agosto 1954.

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 168

uomini che li formulano e perciò della cultura in cui questi uomini

vivono. Psichiatri alienati definiranno la salute mentale nei termini

di una personalità alienata e pertanto considereranno sano quel che

può esser considerato malato dal punto di vista dell’umanesimo

normativo. Sotto questo rispetto la descrizione degli psichiatri e dei

chirurghi fatta da H.G. Wells nel suo Paese dei ciechi vale anche per

molti psichiatri nella nostra cultura. Il giovane che si era stabilito in

una isolata tribù di ciechi dalla nascita è esaminato dai loro medici.

«Poi uno degli anziani, che pensava profondamente, ebbe una

idea. Egli era presso questo popolo il gran medico, il loro stregone;

aveva un’intelligenza veramente filosofica e geniale e lo attraeva

l’idea di curare Nunez delle sue stranezze. Un giorno in cui Yacob

era presente egli tornò al caso di Nunez. "Ho esaminato Bogota",

egli disse, "e il caso è per me più chiaro. Penso che molto probabil-

mente potrebbe esser curato". "È quel che avevo sempre sperato",

disse il vecchio Yacob. "Il suo cervello è leso", disse il dottore cieco.

Gli anziani approvarono con un mormorio. "E allora che cosa lo ha

fatto ammalare?". "Già", fece il vecchio Yacob. "Questo", disse il

dottore rispondendo alla sua stessa domanda. "Queste curiose cose

che si chiamano occhi, e che esistono per creare nel volto un grazio-

so morbido incavo, sono ammalate, nel caso di Bogota, in modo tale

che il suo cervello ne è leso. Essi sono molto ingrossati, hanno ci-

glia, e le sue palpebre si muovono, e di conseguenza il suo cervello è

in uno stato di irritazione e turbamento continui". "Davvero?", disse

il vecchio Yacob. "Davvero?". "E penso di poter dire con una certa

sicurezza che per curarlo completamente, tutto quel che bisogna fare

è una semplice e facile operazione chirurgica, cioè togliere questi

corpi irritanti". "E poi starà bene?". "Poi starà bene e sarà un cittadi-

no perfetto". "Il cielo sia ringraziato per la scienza!" disse il vecchio

Yacob, e corse fuori per comunicare a Nunez la sua speranza».56

Le nostre correnti definizioni psichiatriche della salute mentale

accentuano delle qualità che fanno parte del carattere sociale alienato

del nostro tempo: adattamento, cooperazione, aggressività, tolleran-

za, ambizione, e così via. Ho già citato prima la definizione che

Strecker dà della «maturità» come un esempio di ingenua traduzione

56 H.G. WELLS, The Days of the Comet and Seventeen Short Stories, Charles Scribners Sons,

New York 1925.

169 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

in linguaggio psichiatrico del «cercasi un funzionario subalterno»

delle inserzioni. Ma, come è stato già brevemente accennato in altra

pagina, persino uno tra i più profondi e brillanti psicanalisti del no-

stro tempo, H.S. Sullivan, fu influenzato nelle sue affermazioni teo-

retiche dall’invadente alienazione. Proprio per la sua importanza e

per il notevole contributo che egli diede alla psichiatria, sarà utile

soffermarsi un po’ su questo punto. Sullivan riteneva che il fatto che

la persona alienata manchi di un sentimento dell’io e riconosca se

stessa come una risposta all’attesa degli altri, facesse parte

dell’umana natura, proprio come Freud scambiò il carattere competi-

tivo, caratteristico dell’inizio del secolo, come un fenomeno natura-

le. Sullivan veniva così a chiamare «illusione dell’individualità uni-

ca» l’opinione che vi fosse un unico io individuale.57

Parimenti evi-

dente è l’influenza dei bisogni basilari dell’uomo. Essi sarebbero,

secondo lui, «il bisogno di sicurezza personale, cioè di libertà

dall’ansietà; il bisogno di intimità, cioè di collaborazione con alme-

no un’altra persona, e il bisogno di soddisfazione erotica, che riguar-

da l’attività genitale in cerca dell’orgasmo».58

I tre termini di misura

per la salute mentale indicati qui da Sullivan sono quasi universal-

mente accettati. A prima vista nessuno avrà obiezioni da fare all’idea

che l’amore, la sicurezza e la soddisfazione sessuale siano mete as-

solutamente normali per la salute mentale. Un esame critico di questi

concetti mostra, tuttavia, che essi significano, in un mondo alienato,

qualcosa di diverso da ciò che significavano in altre culture.

Forse quello di sicurezza è il più popolare concetto moderno

nell’arsenale delle formule psichiatriche. In questi ultimi anni si è

posto sempre più l’accento sul concetto di sicurezza come sul più

importante fine della vita e come sull’essenza della salute mentale.

Una ragione di tale atteggiamento risiede forse nel fatto che la mi-

naccia di guerra incombente per molti anni sul mondo ha accresciuto

il desiderio di sicurezza. Un’altra più importante ragione sta nel fatto

che, a causa di un’automatizzazione e di un superconformismo in

continuo aumento, la gente si sente sempre più insicura.

Il problema si complica ancor di più per la confusione tra sicu-

rezza psichica e sicurezza economica. Uno dei mutamenti fondamen-

57 H.S. SULLIVAN, Teoria interpersonale della psichiatria, cit. 58 Ibidem, p. 299.

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 170

tali avvenuti negli ultimi cinquant’anni in tutti i paesi occidentali sta

nell’adozione del principio che tutti i cittadini devono godere di un

minimo di sicurezza materiale in caso di disoccupazione, malattia e

vecchiaia. Nondimeno, mentre questo principio è stato adottato, vi

sono ancora molti industriali che lo osteggiano fortemente, in special

modo nella sua applicazione sempre più estesa; essi parlano con

sprezzo dello «stato previdenziale» come distruttivo dell’iniziativa

privata e dello spirito pionieristico e combattendo le misure di sicu-

rezza sociale pretendono di lottare per la libertà e l’iniziativa

dell’operaio. Che questi argomenti siano delle mere razionalizzazio-

ni è reso evidente dal fatto che le stesse persone non hanno scrupoli

nell’esaltare la sicurezza economica come uno dei più importanti

scopi della vita. Basta leggere soltanto la pubblicità delle compagnie

di assicurazione con le sue promesse di liberare i loro clienti

dall’insicurezza che potrebbe esser provocata da infortuni, morte,

malattie, vecchiaia, ecc., per vedere quale importante ruolo giochino

gli ideali di sicurezza economica per la classe agiata; e che altro è

l’idea del risparmio se non quella di metter in pratica il fine della

sicurezza economica? Questa contraddizione tra la denuncia

dell’aspirazione alla sicurezza nella classe operaia, e l’esaltazione

dello stesso intento per coloro che godono di alti redditi, costituisce

un altro esempio delle illimitate capacità dell’uomo di pensare in

termini contraddittori senza far nemmeno un tentativo di rendersi

cosciente della contraddizione.

Eppure la propaganda contro lo «stato previdenziale» e il princi-

pio di sicurezza economica è più efficace di quel che sarebbe altri-

menti a causa proprio della estesa confusione tra sicurezza economi-

ca e sicurezza emotiva.

Gli uomini sentono sempre di più che non dovrebbero aver dubbi,

né problemi, non dovrebbero correre rischi e dovrebbero invece sen-

tirsi sempre «sicuri». La psichiatria e la psicanalisi hanno fornito un

considerevole appoggio a questo fine. Molti autori di questo campo

ritengono che la sicurezza sia il fine più importante per lo sviluppo

psichico e considerano il senso di sicurezza più o meno equivalente

alla salute mentale. (Sullivan è, tra questi, il più profondo e il più

acuto). Così i genitori, e in special modo quelli che seguono questa

letteratura, si preoccupano che il loro figliolo o la loro figliola non

acquisiscano nella prima età un senso di «insicurezza». E cercano di

171 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

aiutarlo ad evitare conflitti, di far sì che tutto gli sia facile, di rimuo-

vere tutte le difficoltà che possono, e ciò perché il bambino si senta

«sicuro». Proprio allo stesso modo con cui cercano di vaccinare il

bambino contro tutte le malattie e di evitare che abbia un qualsiasi

contagio, essi pensano che si possa allontanare l’insicurezza evitan-

do ogni contatto con essa. Il risultato è spesso altrettanto disgraziato

di quanto lo è talvolta quello di una igiene esagerata: quando avviene

un’epidemia l’individuo risulta più vulnerabile e indifeso.

Come potrebbe sentirsi sempre sicura una persona sensibile e vi-

va? A causa delle condizioni stesse della nostra esistenza noi non

possiamo sentirci sicuri di fronte a nulla. I nostri pensieri e le nostre

conoscenze sono al massimo verità parziali mescolate ad una buona

dose di errore, e ciò senza parlare delle informazioni errate relative

alla vita e alla società cui siamo esposti quasi fin dalla nascita. La

nostra vita e la nostra salute sono soggette ad accidenti al di là del

nostro controllo. Se prendiamo una decisione non possiamo mai es-

ser certi del risultato; ogni decisione implica un rischio di fallimento

e, se non lo implica, non si tratta di una decisione nel vero senso del-

la parola. Non possiamo mai esser certi dei risultati dei nostri sforzi

migliori. Il risultato dipende sempre da molti fattori che trascendono

le nostre capacità di controllo. Una persona viva e sensibile, come

non può far a meno di esser triste, non può far a meno di sentirsi in-

sicura. Il compito psichico che un uomo può e deve porre a se stesso

non è di sentirsi sicuro, ma di esser capace di sopportare

l’insicurezza senza panico o paura ingiustificata.

La vita, nei suoi aspetti mentali e spirituali, è necessariamente in-

sicura e incerta. V’è certezza soltanto riguardo al fatto che siamo

nati e che dobbiamo morire; v’è completa sicurezza soltanto in una

sottomissione egualmente completa a poteri che riteniamo siano forti

e duraturi e che alleviano l’uomo dalla necessità di prender decisio-

ni, di incorrere in rischi e di assumersi delle responsabilità. L’uomo

libero è necessariamente insicuro, l’uomo che pensa è necessaria-

mente incerto.

Come può dunque l’uomo sopportare questa insicurezza insita

nell’esistenza umana? Un modo consiste nell’esser radicato nel

gruppo in maniera tale che il sentimento di identità sia garantito dal-

la appartenenza al gruppo, sia esso la famiglia, il clan, la nazione, la

classe. Finché il processo dell’individualismo non ha raggiunto uno

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 172

stadio dove l’individuo vien fuori dai suoi vincoli originari, egli è

ancora «noi», e finché il gruppo funziona egli è certo della propria

identità attraverso la sua appartenenza ad esso. Lo sviluppo della

società moderna ha portato alla dissoluzione di questi vincoli origi-

nari. L’uomo moderno è essenzialmente solo: è stato messo sui pro-

pri piedi e ci si aspetta che riesca a restarci da solo. Egli può rag-

giungere un senso di identità soltanto sviluppando l’unica e partico-

lare entità che è «lui» sino ad un punto in cui egli potrà veramente

sentire: «sono io». Tale risultato finale è possibile soltanto se egli

sviluppa i suoi poteri attivi in tal misura da poter esser collegato al

mondo senza dovervisi annullare; se può raggiungere un orientamen-

to produttivo. La persona alienata, però, cerca di risolvere il proble-

ma in un modo differente, cioè conformandosi. Essa si sente sicura

nel sentirsi quanto più possibile eguale ai suoi simili. Il suo fine

preminente è di esser approvata dagli altri; la sua paura principale è

che gli altri non la approvino. Esser differente, sentirsi in minoranza,

sono i pericoli che minacciano il senso di sicurezza; da ciò

l’aspirazione ad un conformismo illimitato. È evidente che questa

aspirazione al conformismo produce a sua volta un senso di insicu-

rezza continuamente operante, seppur nascosto. Ogni deviazione dal

modello, ogni critica, fanno sorgere timore e insicurezza; si dipende

sempre dall’approvazione degli altri, come dipende dalla droga uno

che vi sia assuefatto e, nello stesso modo, il proprio senso dell’io e la

fiducia in sé diventano sempre più deboli. Il senso di colpa, che ge-

nerazioni or sono prendeva l’uomo quando pensava al peccato, è

stato sostituito da un senso di disagio e di inadeguatezza al pensiero

di esser differente.

Un altro fine della salute mentale, l’amore, è stato, come quello

della sicurezza, assunto a nuovo significato nella situazione alienata.

Per Freud, secondo lo spirito del suo tempo, l’amore era fondamen-

talmente un fenomeno sessuale. «L’uomo, avendo trovato con

l’esperienza che l’amore sessuale (genitale) gli dava i maggiori go-

dimenti, così da diventare per lui il prototipo di ogni felicità, deve

perciò esser stato spinto a continuare a cercare la sua felicità nelle

relazioni sessuali, nel fare dell’erotismo genitale il punto centrale

della sua vita... Così facendo egli diventa in maniera veramente peri-

colosa dipendente da una parte del mondo esterno, cioè dall’oggetto

d’amore da lui scelto, e ciò lo espone alle più penose sofferenze se

173 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

egli ne è respinto, o lo perde per la morte o l’abbandono».59

Per pro-

teggersi dal pericolo di soffrire per amore l’uomo, ma soltanto in una

«piccola minoranza», può trasformare le funzioni erotiche

dell’amore trasferendo «il valore principale dal fatto di essere amato

al proprio atto di amare», e «dando il suo amore non a oggetti indi-

viduali, ma a tutti gli uomini nello stesso modo». Così gli uomini

«evitano le incertezze e le delusioni dell’amore genitale distraendosi

dai suoi fini sessuali e modificano l’istinto in un impulso con un fine

inibito... L’amore con un fine inibito era infatti originariamente un

vero amore sessuale, ed è ancora tale nell’inconscio degli uomini».60

Il sentimento di unità e di fusione col mondo (il «sentimento oceani-

co») che costituisce l’essenza dell’esperienza religiosa e particolar-

mente dell’esperienza mistica, e l’esperienza di unità e di unione con

la persona amata vengono interpretati da Freud come una regressio-

ne allo stato di un primitivo «narcisismo illimitato».61

Secondo i suoi concetti fondamentali, la salute mentale è per

Freud la piena realizzazione della capacità di amore, che è realizzata

se lo sviluppo della libido ha raggiunto lo stadio genitale.

Nel sistema psicanalitico di H.S. Sullivan, troviamo, in contrasto

con Freud, una rigorosa divisione tra sessualità e amore. Qual è il

significato di amore e di intimità nel concetto di Sullivan?

«L’intimità è quel tipo di situazione fra due persone che permette la

verifica di tutte le componenti del valore personale. Questa verifica

richiede un tipo di rapporto che io chiamo collaborazione: intenden-

do con ciò degli adattamenti, chiaramente formulati, del proprio

comportamento ai bisogni espressi dall’altra persona, per raggiunge-

re delle soddisfazioni sempre più identiche (cioè sempre più recipro-

che), e per mantenere attive delle operazioni di sicurezza sempre più

simili».62

Sullivan, esprimendo la stessa cosa più semplicemente,

definiva l’essenza dell’amore come una situazione di collaborazione

nella quale ciascuna delle due persone sente: «Io agisco secondo le

59 S. FREUD, Civilizations and Its Discontents, cit., p. 69. 60 Ibidem. 61 Ibidem, p. 21. 62 SULLIVAN, op. cit., p. 279.

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 174

regole del gioco, per conservare il mio prestigio, il mio senso di su-

periorità e di merito».63

Allo stesso modo che il concetto di Freud è una descrizione

dell’esperienza del maschio patriarcale nei termini del materialismo

del diciannovesimo secolo, la descrizione di Sullivan si riferisce

all’esperienza della personalità alienata e mercantile del ventesimo

secolo. È la descrizione di un «égotism à deux», di due persone che

sommano i loro interessi comuni e fanno fronte assieme ad un mon-

do ostile ed alienato. In effetti la sua definizione di intimità è per

principio valida per il sentimento di qualsiasi gruppo cooperante, in

cui ognuno «adatta il suo comportamento ai bisogni espressi

dall’altra persona nel perseguimento di fini comuni». (È da notarsi

che Sullivan parla qui di bisogni espressi, quando il meno che si po-

trebbe dire dell’amore è che esso implica una reazione ai bisogni

inespressi tra due persone).

In termini più correnti si può scoprire l’aspetto mercantile

dell’amore nei dibattiti sull’amore coniugale e sul bisogno che i

bambini hanno di amore e di affetto. In numerosi articoli, consigli e

conferenze l’amore coniugale è descritto come uno stato di mutua

correttezza e di mutua guida chiamato «comprensione reciproca». Si

ritiene che la moglie debba considerare i bisogni e i sentimenti del

marito, e viceversa. Se egli viene a casa stanco e di cattivo umore lei

non dovrebbe fargli delle domande, oppure dovrebbe fargli delle

domande a seconda di ciò che gli autori pensano sia meglio per «ad-

dolcirlo». Ed egli dovrebbe dire parole di apprezzamento riguardo

alla sua cucina o ai suoi abiti nuovi, e tutto ciò in nome dell’amore.

Oggi si sente quotidianamente dire che un bambino deve «ricevere

affetto» per sentirsi sicuro o che un altro bambino «non ha ricevuto

abbastanza amore dai suoi genitori» ed è perciò diventato un crimi-

nale o uno schizofrenico. L’amore e l’affetto hanno assunto il mede-

simo significato della «pappa tipo» per il bambino, o

dell’educazione che si dovrebbe avere in un collegio, o dell’ultimo

film che bisognerebbe «sorbirsi». Nutritevi di amore come vi nutrite

di sicurezza, cultura e qualsiasi altra cosa e sarete felici!

63 Ibidem. Un'altra definizione dell'amore fatta da Sullivan, e cioè che l'amore comincia quan-

do una persona sente i bisogni di un'altra persona altrettanto importanti che i propri, è meno

segnata dall'aspetto mercantile della formulazione qui sopra notata.

175 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

La felicità è un altro e tra i più popolari concetti con i quali si de-

finisca oggi la salute mentale. Come la formula espressa in Brave

New World: «Oggigiorno tutti sono felici».

Che cosa si intende per felicità? Oggi molta gente probabilmente

risponderebbe alla domanda dicendo che esser felici consiste nel

«divertirsi» o nel «darsi al buon tempo». La risposta alla domanda

«che cosa è il divertimento?» dipende in parte dalla situazione eco-

nomica dell’individuo, e maggiormente dalla sua educazione e dalla

struttura della sua personalità. Le differenze economiche non sono

però così importanti come può sembrare. Il «buon tempo» degli stra-

ti superiori della società è il modello di svago per quelli che non so-

no in grado di pagarselo, mentre sperano seriamente in questa felice

possibilità, e il «buon tempo» degli strati inferiori della società è

sempre più un’imitazione a buon mercato di quello degli strati supe-

riori, differendone nel costo, ma non molto nella qualità.

In che cosa consiste questo divertimento? Andar al cinema, a trat-

tenimenti, alla partita, ascoltar la radio e guardar la televisione, far

un giro in macchina la domenica, far l’amore, dormire fino a tardi la

domenica mattina e, per quelli che possono permetterselo, viaggiare.

Se usiamo un termine più rispettabile invece della parola «diverti-

mento» e «darsi al buon tempo» possiamo dire che il concetto di fe-

licità si identifica, nelle migliori circostanze, con quello di piacere.

Tenendo conto del nostro esame del problema del consumo, possia-

mo definire un po’ più accuratamente il concetto come il piacere di

consumo illimitato, il potere di ottenere premendo un pulsante, la

pigrizia.

Da questo punto di vista la felicità potrebbe esser definita come

l’opposto della tristezza o dell’afflizione, e difatti la persona media

definisce la felicità come uno stato della mente libera da tristezza o

da afflizione. Questa definizione tuttavia mostra che c’è qualcosa di

profondamente errato in questo concetto di felicità. Una persona vi-

va e sensibile non può far a meno di esser triste e di sentirsi afflitta

molte volte nella sua vita. Questo avviene non soltanto a causa

dell’insieme di sofferenze non necessarie prodotte dall’imperfezione

delle nostre soluzioni sociali, ma a causa della natura dell’esistenza

umana la quale fa che sia impossibile non reagire alla vita con una

buona dose di dolore e di afflizione. Siccome siamo esseri viventi,

dobbiamo esser tristemente consci del necessario vuoto che si apre

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 176

tra le nostre aspirazioni e quello che possiamo raggiungere nella no-

stra breve e agitata esistenza. Poiché la morte ci mette a confronto

con il fatto inevitabile che o moriremo prima di quelli che amiamo, o

essi moriranno prima di noi, e poiché vediamo ogni giorno attorno a

noi la sofferenza, sia quella inevitabile sia quella non necessaria,

come possiamo rifiutare l’esperienza del dolore e dell’afflizione? Lo

sforzo di rifiutarla è possibile soltanto se noi riduciamo la nostra

sensibilità, la nostra capacità di corrispondere e di amare, se indu-

riamo i nostri cuori e neghiamo la nostra attenzione e il nostro sen-

timento sia agli altri sia a noi stessi.

Se vogliamo definire la felicità attraverso il suo opposto dobbia-

mo definirla non come il contrario della tristezza, ma come il contra-

rio della depressione.

Che cosa è la depressione? È l’incapacità di sentire, è il senso di

esser morti mentre il nostro corpo è vivo. È l’incapacità di provar

gioia come anche di provar tristezza. Una persona depressa sarebbe

grandemente sollevata se avesse la capacità di sentirsi triste. Uno

stato di depressione è tanto intollerabile, perché si è incapaci di sen-

tire qualsiasi cosa, sia gioia che tristezza. Se cerchiamo di definire la

felicità come il contrario della depressione, ci avviciniamo alla defi-

nizione di Spinoza della gioia e della felicità come quello stato di

vitalità intensificata che fonde in unità i nostri sforzi sia di compren-

dere i nostri simili sia di unirci a loro. La felicità deriva

dall’esperienza della vita produttiva e dall’uso dei poteri di amore e

di ragione che ci uniscono al mondo. La felicità consiste nel nostro

essere in contatto con i fondamenti della realtà, nella scoperta di noi

stessi e della nostra unità con gli altri come della nostra diversità

rispetto a loro. La felicità è uno stato di intensa attività interiore e

dell’esperienza della crescente energia vitale che si sviluppa nella

correlazione feconda con il mondo e con noi stessi.

Ne segue che la felicità non può basarsi su uno stato di interiore

passività e sull’atteggiamento «consumatore» che pervade la vita

dell’uomo alienato. La felicità è sperimentare la pienezza e non un

vuoto che chiede di essere colmato. L’uomo medio contemporaneo

può avere una buona dose di svaghi e di piaceri ma, nonostante que-

sto, egli è fondamentalmente depresso. Forse la questione diventa

più chiara se, invece di usare la parola «depresso», usiamo la parola

«annoiato». In effetti v’è una lievissima differenza tra le due, eccetto

177 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

una differenza di grado, poiché la noia non è nient’altro che

l’esperienza di una paralisi dei nostri poteri produttivi e del senso di

non esser vivi. Tra i mali della vita pochi sono così penosi come la

noia e, di conseguenza, si fanno tutti i tentativi per evitarla.

Si può evitarla in due modi; sia fondamentalmente con l’esser

produttivi e sperimentando in tal modo la felicità, sia cercando di

evitare le sue manifestazioni. Questo secondo tentativo sembra carat-

terizzare la corsa al divertimento e al piacere dell’uomo medio con-

temporaneo. Egli avverte la sua depressione e la sua noia che diven-

tano manifeste quando si trova solo con se stesso o con quelli che gli

sono più vicini. Tutti i nostri divertimenti servono allo scopo di faci-

litare l’evasione da noi stessi e dalla minaccia della noia col rifugiar-

ci nelle diverse forme di fuga che la nostra cultura ci offre; tuttavia

nascondendo un sintomo non si eliminano le condizioni che lo pro-

ducono. Se si esclude la paura delle malattie fisiche o di venir umi-

liato con la perdita di grado sociale o di prestigio, la paura della noia

gioca un ruolo preminente tra le paure dell’uomo moderno. In un

mondo di svago e di divertimento egli ha paura della noia ed è lieto

quando un altro giorno è passato senza incidenti e un’altra ora è stata

sprecata senza che si sia accorto della noia in agguato.

Dal punto di vista dell’umanesimo normativo dobbiamo giungere

ad un differente concetto della salute mentale; proprio la persona che

è considerata sana nelle categorie di un mondo alienato, si presenta

come la più ammalata dal punto di vista umanistico, sebbene non in

termini di malattia individuale ma di deficienza socialmente struttu-

rata. La salute mentale, in senso umanistico, è caratterizzata dalla

capacità di amare e di creare, dalla liberazione dagli incestuosi le-

gami della famiglia e della natura, da un senso di identità basato sul-

la propria esperienza dell’io come soggetto e agente dei propri pote-

ri, dall’afferrare la realtà dentro e fuori di noi, cioè dallo sviluppo

della obiettività e della ragione. Il fine della vita consiste nel viverla

intensamente, nel nascere completamente, nel diventare completa-

mente desti. Superare le idee della grandiosità infantile per entrare

nella coscienza della nostra forza effettiva seppur limitata; esser ca-

paci di accettare il paradosso che ognuno di noi è la cosa più impor-

tante che vi sia nell’universo e, nello stesso tempo, non è più impor-

tante di una mosca o di un filo d’erba; esser capaci di amare la vita e

di accettare la morte senza terrore; di sopportare l’incertezza riguar-

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 178

do ai problemi più importanti con cui la vita ci mette a confronto, e

nondimeno aver fiducia nel nostro pensiero e nel nostro sentimento

in quanto essi sono veramente nostri; esser capaci di esser soli e,

nello stesso tempo, uno con la persona amata, con ogni fratello su

questa terra, con ogni cosa vivente; seguire la voce della nostra co-

scienza, la voce che ci richiama a noi stessi e però non indulgere

all’odio contro se stessi quando la voce della coscienza non è stata

abbastanza forte per esser udita o seguita. La persona mentalmente

sana è la persona che vive con amore, ragione e fede, che rispetta la

vita, quella propria e quella dei suoi simili.

La persona alienata, come abbiamo cercato di descriverla in que-

sto capitolo, non può esser sana. Poiché si considera come una cosa,

come un investimento che deve esser maneggiato da sé e dagli altri,

manca del senso dell’io. Questa mancanza dell’io crea ansietà pro-

fonda. L’ansietà generata dal confrontarsi con l’abisso della nullità è

più terrificante persino delle torture dell’inferno. Nella visione

dell’inferno io sono punito e torturato; nella visione della nullità so-

no portato al limite della pazzia perché non posso dire più «io». Se

l’età moderna è stata giustamente chiamata l’era dell’ansietà ciò è

principalmente a causa di questa ansietà generata dalla mancanza

dell’io. Nella misura in cui «io sono come tu mi vuoi», io non sono;

sono ansioso, dipendente dall’approvazione degli altri, alla ricerca

costante di piacere. La persona alienata si sente inferiore quando

teme di non essere pari agli altri. Poiché il suo senso del valore è

basato sull’approvazione come ricompensa per il conformismo, essa

si sente naturalmente minacciata nel suo senso dell’io e nella stima

di se stessa da qualsiasi sentimento, pensiero o azione che potrebbe

passare per una deviazione. Tuttavia, in quanto è uomo e non auto-

ma, non può fare a meno di deviare e perciò deve sempre sentirsi

intimorito dalla disapprovazione. Come risultato deve cercare sem-

pre più di conformarsi, di esser approvato dagli altri, di riuscire. Non

è la voce della sua coscienza che gli dà forza e sicurezza, bensì il

sentimento di non aver perduto lo stretto contatto con il gregge.

Un altro risultato della alienazione è la prevalenza di un senti-

mento di colpa. È difatti sorprendente che in una cultura fondamen-

talmente irreligiosa come la nostra il senso di colpa si sia così esteso

e profondamente radicato. La maggior differenza da quella che po-

trei dire una comunità calvinista sta nel fatto che il sentimento di

179 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

colpa non è molto conscio, né si riferisce ad un concetto religiosa-

mente strutturato di peccato. Ma se scaviamo un po’ sotto la superfi-

cie troviamo che la gente si sente colpevole per centinaia di cose; per

non aver lavorato abbastanza sodo, per esser stata troppo indulgente,

o per non esserlo stata abbastanza verso i propri figli, per non aver

fatto abbastanza per la mamma, o per esser stata troppo buona con

un debitore; la gente si sente in colpa sia per aver fatto cose buone

sia per averne fatto di cattive; pare quasi che debba trovare qualche

cosa di cui sentirsi colpevole.

Quale può esser la causa di tutto questo senso di colpa? Sembra

vi siano due cause fondamentali che, benché del tutto differenti, por-

tano al medesimo risultato. Una causa è la stessa da cui sorgono i

sentimenti di inferiorità. Non esser come tutti, non esser totalmente

adatto fa sì che uno si senta colpevole nei confronti degli ordini della

grande entità anonima. L’altra origine della colpa è la sola coscienza

dell’uomo; egli sente le sue doti o le sue capacità, la sua facoltà di

amare, di pensare, di ridere, di piangere, di meravigliarsi e di creare;

egli sente che la sua vita è la sola possibilità che gli è stata offerta e

che, se perde questa possibilità, perde tutto. Egli vive in un mondo

con più conforti e comodità di quanti ne avessero mai conosciuti i

suoi avi, ma sente che, mentre insegue sempre più comodità, la vita

gli sfugge tra le dita come sabbia. Egli non può far a meno di sentirsi

colpevole per questa possibilità sciupata e perduta. Tale sentimento

di colpa è molto meno conscio del primo, ma l’uno rafforza l’altro, e

l’uno spesso serve come razionalizzazione per l’altro. Così l’uomo

alienato si sente colpevole per esser se stesso e per non esser se stes-

so, per esser vivo e per esser un automa, per esser una persona e per

esser una cosa.

L’uomo alienato è infelice. Il consumo di svaghi serve a reprime-

re la consapevolezza della sua infelicità. Cerca di risparmiar tempo

eppure è ansioso di ammazzare in qualche modo il tempo che ha ri-

sparmiato. Invece di salutare il nuovo giorno con l’entusiasmo che

soltanto l’esperienza dell’«io sono io» può dare, è contento che un

altro giorno sia finito senza smacchi o umiliazioni. Egli è sprovvisto

del costante flusso di energia che sgorga da una produttiva correla-

zione col mondo.

Non avendo fede, essendo sordo alla voce della coscienza e pos-

sedendo intelligenza operativa ma poca ragione, egli è perplesso,

5. L’UOMO NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA 180

inquieto e disposto ad installare in una posizione di capo chiunque

gli offra una soluzione totale.

Può il quadro dell’alienazione esser messo in rapporto con qual-

cuno dei quadri correnti di malattie mentali? Nel rispondere a questa

domanda dobbiamo ricordare che l’uomo ha due modi di mettere in

relazione se stesso con il mondo. Uno è quello nel quale egli vede il

mondo come deve vederlo per poterlo manovrare e usare. Questo

modo consiste essenzialmente nell’esperienza sensoria e

nell’esperienza del senso comune. I nostri occhi vedono quel che

dobbiamo vedere e le nostre orecchie odono quel che dobbiamo udi-

re per vivere. Il nostro buon senso percepisce le cose in un modo che

ci mette in grado di usarle. Sia i sensi sia il buon senso lavorano a

servizio della sopravvivenza. Per quanto riguarda i sensi ed il buon

senso, e per la logica che è costruita su di essi, le cose sono le stesse

per tutti perché sono le stesse le leggi per il loro uso.

L’altra facoltà dell’uomo è, per così dire, di veder le cose dal di

dentro: soggettivamente, formate dalla mia esperienza interiore, dal

mio sentimento, dal mio umore.64

In un certo senso dieci pittori di-

pingono il medesimo albero, e, in un altro senso, dipingono dieci

alberi diversi. Ogni albero, pur restando lo stesso albero, è

un’espressione della loro individualità. Nel sogno noi vediamo il

mondo completamente dal di dentro; esso perde il suo significato

obiettivo ed è trasformato in un simbolo delle nostre proprie espe-

rienze puramente individuali. La persona che sogna mentre è sveglia,

cioè la persona che è in contatto soltanto con il suo mondo interiore

e che è incapace di percepire il mondo esterno nella sua entità obiet-

tiva, è squilibrata. La persona che può conoscere il mondo esterno

solo in maniera fotografica, ma è fuori del contatto col suo mondo

interiore e con se stessa, è persona alienata. Schizofrenia e aliena-

zione sono complementari. In entrambe le forme di malattia manca

un polo dell’esperienza umana. Se ambedue i poli sono presenti,

possiamo parlare di persona produttiva la cui stessa produttività ri-

sulta dalla polarità tra la forma interna e quella esterna di percezione.

La nostra descrizione del carattere alienato dell’uomo contempo-

raneo è un po’ unilaterale; ci sono numerosi fattori positivi che non

64 Si veda un più particolare esame di questo argomento in E. FROMM, Il linguaggio dimenti-

cato, Bompiani, Milano 1963.

181 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

ho ricordato. Innanzitutto v’è ancora viva una tradizione umanistica

che non è stata distrutta dal processo inumano di alienazione. Ma,

oltre a ciò, vi sono segni che gli uomini sono sempre più insoddisfat-

ti e disillusi del loro modo di vita e cercano di riconquistare qualcosa

del loro io e della loro produttività perduti. Milioni di persone ascol-

tano buona musica in sale da concerto o alla radio e un sempre cre-

scente numero di persone dipinge, si dedica al giardinaggio, si co-

struisce il suo battello o la sua casa, si dedica a un gran numero di

attività in cui esercita una capacità artigianale. L’educazione degli

adulti si estende, e perfino negli affari aumenta la convinzione che

un funzionario deve possedere ragione e non soltanto intelligenza.65

Ma per quanto promettenti e reali siano tutte queste tendenze esse

non bastano a giustificare un atteggiamento che si trova fra numerosi

scrittori molto raffinati i quali affermano che le critiche alla nostra

società, come quella qui presentata, sono superate e di vecchio stile;

che noi abbiamo già passato l’acme dell’alienazione e siamo ora in

cammino verso un mondo migliore. Per quanto attraente sia questo

tipo di ottimismo, nondimeno esso è soltanto una forma più raffinata

della difesa dello status quo, una traduzione dell’elogio

dell’american way of life, nei concetti di una antropologia culturale

che, arricchita da Marx e da Freud, è «andata più in là» di loro e ras-

sicura l’uomo che non c’è ragione di alcuna seria preoccupazione.

65 Un esempio indicativo di questa nuova tendenza è il corso di letteratura e di filosofia per

funzionari subalterni della Bell Telephone Co. sotto la direzione dei professori Morse Peck-

man e Rex Crawford della Università di Pennsylvania.

182

6.

Altre varie diagnosi

Secolo diciannovesimo

La diagnosi della malattia della cultura occidentale contempora-

nea, quale abbiamo cercato di presentare nel precedente capitolo,

non è affatto nuova; essa ispira soltanto a promuovere ulteriormente

la comprensione del problema tentando di applicare in modo mag-

giormente empirico il concetto di alienazione ai vari fenomeni che si

possono osservare, e di stabilire la connessione tra le malattie di

alienazione e il concetto umanistico di natura umana e di salute men-

tale. In effetti è veramente straordinario che un esame critico della

società del ventesimo secolo sia già stato fatto da alcuni pensatori

vissuti nel secolo diciannovesimo, molto prima che diventasse com-

pletamente manifesta quella sintomatologia che oggi sembra così

evidente. È anche da notarsi quanto le loro diagnosi critiche e le loro

prognosi avessero di comune tra loro e con le critiche del secolo

ventesimo.

La prognosi della decadenza e della barbarie entro cui affonde-

rebbe il secolo ventesimo fu fatta da gente delle più svariate opinioni

filosofiche e politiche. Il conservatore svizzero Burckhardt, il radica-

le religioso russo Tolstoj, l’anarchico francese Proudhon, così come

il suo connazionale conservatore Baudelaire, l’anarchico americano

Thoreau e, più tardi, il suo connazionale politicamente più preparato

Jack London, il rivoluzionario tedesco Karl Marx: tutti concordaro-

no nella critica più severa della cultura moderna e quasi tutti previ-

dero la possibilità dell’avvento di un’era di barbarie. Le predizioni di

Marx erano attenuate dalla sua ipotesi che il socialismo costituisse

una alternativa possibile e perfino probabile. Burckhardt, dal suo

punto di vista conservatore, segnato dalla svizzera capacità di rifiu-

tarsi ostinatamente di lasciarsi impressionare dalle parole e dalle bel-

le apparenze, dichiarò in una lettera scritta nel 1876 che forse

183 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

l’Europa avrebbe goduto ancora di pochi decenni di pace prima di

trasformarsi con alcune terribili guerre e rivoluzioni in una specie di

impero romano, in un dispotismo militare ed economico: «Il secolo

ventesimo ci darà qualsiasi cosa salvo una vera democrazia». Nel

1872 Burckhardt scriveva ad un amico: «Ho un presentimento che

suona ancora come una follia e che però non mi abbandona: lo stato

militare deve necessariamente diventare un grande industriale. Que-

sti ammassi di gente nelle grandi officine non devono esser indefini-

tamente abbandonati ai loro bisogni e alle loro brame e la logica

conseguenza sarà una folla di miseria predeterminata e sorvegliata,

di miseria organizzata in promozioni e rivestita di uniformi e che

sarà quotidianamente riunita con accompagnamento di tamburi...

V’è la prospettiva di una lunga e volontaria sottomissione a singoli

capi ed usurpatori. La gente non crede più nei principi, ma crederà

probabilmente ogni tanto ai messia. Per questa ragione nello splen-

dido ventesimo secolo l’autorità rialzerà ancora la testa, e il suo vol-

to sarà spaventoso».1

Prevedendo per il ventesimo secolo sistemi come il fascismo e lo

stalinismo, Burckhardt differisce di poco dalle previsioni del rivolu-

zionario Proudhon. La minaccia per il futuro è, scrive Proudhon,

«...una compatta democrazia che abbia l’apparenza di esser fondata

sulla dittatura delle masse, ma nella quale le masse non abbiano più

potere di quanto sia necessario per assicurare un asservimento gene-

rale in accordo con i seguenti precetti e principi presi a prestito dal

vecchio assolutismo: indivisibilità dei pubblici poteri, centralizza-

zione che assorbe ogni cosa, distruzione sistematica di ogni modo di

pensare individuale, associativo, regionale (che sarà considerato di-

struttivo), polizia inquisitoria...». «Non dovremmo più ingannarci,

egli scrisse; l’Europa è stanca di pensiero e di ordine e sta entrando

in un’era di forza bruta e di disprezzo per i principi». E più tardi:

«Allora comincerà la grande guerra delle sei grandi potenze... Verrà

la strage e terribile sarà l’indebolimento che farà seguito a questi

bagni di sangue. Non vivremo per vedere il lavoro dell’era nuova,

combatteremo nelle tenebre; dobbiamo prepararci a sopportare que-

sta vita senza troppa tristezza, facendo il nostro dovere. Aiutiamoci

1 J. BURCKHARDT, Briefe, ed' F. Kaplan, Lipsia 1935; lettere del 26 aprile 1872, 13 aprile

1882, 24 luglio 1899.

6. ALTRE VARIE DIAGNOSI 184

l’un l’altro, chiamiamoci l’un l’altro nella desolazione e pratichiamo

la giustizia ovunque ne sia data l’occasione». E conclude: «La civiltà

odierna è nella stretta di una crisi per la quale si può trovare nella

storia una sola analogia, cioè la crisi che determinò l’avvento del

cristianesimo. Tutte le tradizioni sono logore, tutte le credenze sono

abolite, ma il programma nuovo non è ancora pronto; con ciò inten-

do dire che esso non è ancora entrato nella consapevolezza delle

masse. Da ciò deriva quel che chiamo la disintegrazione. Questo è il

momento più crudele nella vita delle società... Non mi illudo affatto

e non mi attendo di svegliarmi un mattino e vedere la resurrezione

della libertà nel nostro paese, come per un colpo di bacchetta magi-

ca... No, no; decadenza, e decadenza per un periodo di cui non posso

preveder la fine e che durerà non meno di una o due generazioni, è il

nostro destino... Vedrò soltanto il male, morirò nel più fitto delle

tenebre».2

Mentre Burckhardt e Proudhon prevedevano il fascismo e lo sta-

linismo come il risultato della cultura del diciannovesimo secolo

(profezia che fu ripetuta più specificamente nel 1907 da Jack Lon-

don nel suo Tallone di ferro), altri centrarono le loro diagnosi sulla

povertà spirituale e sulla alienazione della società contemporanea

che, secondo loro, doveva portare ad una crescente disumanizzazio-

ne e decadenza della cultura.

Quanto si rassomigliano le due affermazioni fatte da due scrittori

così diversi l’uno dall’altro come Baudelaire e Tolstoj! Baudelaire

scrive nel 1851 in alcuni frammenti intitolati Fusées: «Il mondo si

avvia al tramonto. L’unica ragione del suo sussistere è la sua esi-

stenza di fatto. Ma come è debole questa ragione confrontata con

tutto ciò che preannuncia il contrario, in particolare con la domanda:

che cosa ha ancora da fare il mondo in futuro? Infatti, anche suppo-

sto che esso continui ad esistere materialmente, sarebbe questa anco-

ra un’esistenza degna di tale nome e del dizionario storico? Io non

voglio affermare che il mondo cadrà nel disordine grottesco delle

repubbliche sudamericane e che noi ritorneremo al livello dei sel-

vaggi, per vagare in cerca di cibo col fucile alla mano tra le rovine

ricoperte di vegetazione della nostra civiltà. No: poiché queste av-

venture presuppongono pur sempre una certa energia vitale, una eco

2 Citato da E. DOLLEANS, Proudhon, Gallimard, Parigi 1948, p. 96ss.

185 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

dei tempi primitivi. Noi daremo piuttosto un nuovo esempio

dell’inesorabilità delle leggi spirituali e morali e ne saremo le vitti-

me, poiché periremo proprio a causa di ciò da cui ci ripromettevamo

la vita. La meccanizzazione ci avrà a tal punto americanizzati, il

progresso avrà reso così perfetta la miseria della nostra esistenza

spirituale, che anche il più sanguinario, il più iniquo e il più snatura-

to dei sogni degli utopisti apparirà innocente di fronte a questi fatti.

Io invito ogni individuo pensante a mostrarmi quanto ancora sia ri-

masto della vita. Per quanto riguarda

la religione, ritengo superfluo anche soltanto accennarvi e cercar-

ne i residui, poiché l’unico scandalo in questo campo è che qualcuno

si prende ancora la pena di negare Dio. La proprietà privata in fondo

era già stata eliminata con l’abolizione del diritto di primogenitura;

eppure verrà tempo in cui l’umanità, come un cannibale avido di

vendetta, strapperà il suo ultimo pezzo dalle mani di coloro che si

ritengono i legittimi eredi della rivoluzione. E questo non sarebbe

ancora il peggio... E non saranno le istituzioni politiche le sole a ri-

velare la generale decadenza, o se si vuole il generale progresso - il

nome è indifferente. Occorre aggiungere ancora che nella marea cre-

scente di istinti puramente bestiali sopravvivranno soltanto miseri

resti di una vita politica e che i governanti, per conservare il potere e

per creare anche solo una parvenza di ordine, ricorreranno a mezzi

dinanzi ai quali l’umanità attuale, che tuttavia è già abbastanza pro-

vata, tremerebbe di spavento?».3

Qualche anno più tardi Tolstoj scrisse: «La teologia medievale o

la corruzione morale avvelenarono soltanto alcuni popoli, e quindi

una piccola parte dell’umanità; oggi l’elettricità, le ferrovie e i tele-

grafi corrompono il mondo intero. Tutti si impadroniscono di queste

cose, non possono fare a meno di appropriarsene, e tutti soffrono

nello stesso modo, sono egualmente costretti a mutare il loro modo

di vita. Tutti si trovano nella necessità di tradire ciò che per la loro

vita è la cosa più importante: la comprensione della vita stessa, la

religione. Macchine, per produrre che cosa? Telegrafi, per trasmette-

re che cosa? Libri, giornali, per diffondere quali notizie? Ferrovie,

per viaggiare verso chi e verso quale meta? Milioni di uomini insie-

3 Citato da K. Löwith, Significato e fine della storia, Edizioni di Comunità, 2a ed., Milano

1963, pp. 117-18.

6. ALTRE VARIE DIAGNOSI 186

me ammassati e sottomessi ad un’autorità superiore, per compiere

che cosa? Ospedali, medici, farmacie, per prolungare la vita - a quale

scopo?... Con quanta facilità singoli individui ed interi popoli si im-

padroniscono di ciò che si chiama civiltà! Frequentare l’università,

curarsi le unghie, servirsi del sarto e del barbiere, viaggiare all’estero

- ecco l’uomo altamente civilizzato. E per quanto riguarda i popoli:

la maggior quantità possibile di ferrovie, accademie, fabbriche, co-

razzate, fortificazioni, giornali, libri, partiti, parlamenti - ed ecco il

popolo più civile. Così individui e popoli possono venire guadagnati

alla civiltà, non però alla vera illuminazione: la prima è facile, non

richiede alcuno sforzo ed ha successo; la seconda invece esige uno

sforzo continuo e perciò presso la grande maggioranza non soltanto

non ha successo ma incontra soltanto disprezzo ed odio, poiché rive-

la le menzogne della civiltà».4

Meno violenta, ma chiara come quella dello scrittore precedente è

la critica di Thoreau alla cultura moderna. Nel suo Life without

Principle (1861)5 egli dice: «Consideriamo la maniera in cui spen-

diamo la nostra vita. Questo mondo è un luogo di affari. Quale infi-

nito trambusto! Sono svegliato quasi ogni notte dallo sbuffare della

locomotiva, che interrompe i miei sogni. Non c’è sosta. Sarebbe

straordinario vedere l’umanità star in ozio per una volta. Non c’è

altro che lavoro, lavoro, lavoro. Non mi è facile comprarmi un qua-

derno per scrivervi i miei pensieri; trovo solo i libri per la contabilità

in dollari e centesimi. Un irlandese che mi vide mentre stavo pren-

dendo gli appunti in un prato, era convinto che io calcolassi i miei

redditi. Se un uomo è stato buttato da una finestra quand’era bambi-

no e così reso invalido per tutta la vita, o è stato spaventato a morte

dai pellirosse, ce ne rammarichiamo principalmente perché così è

reso inabile... agli affari! Penso non vi sia nulla, nemmeno il delitto,

più contrario alla poesia, alla filosofia, alla vita stessa, di questo in-

cessante trafficare.

Se un uomo impiega quotidianamente mezza giornata a cammi-

nar nei boschi perché ciò gli piace, rischia di esser considerato uno

scioperato; ma se egli occupa tutta la sua giornata come speculatore,

4 Citato da Löwith, op. cit., p. 119. Da Tolstois Flucht und Tod, a cura di R. Fülöp-Muller e F.

Eckstein, Berlino 1925, p. 103. 5 Pubblicato in The Portable Thoreau, a cura di Carl Bode, The Viking Press, New York 1947,

pp. 631-55.

187 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

tagliando quei boschi e spogliando la terra prima del tempo, sarà

stimato cittadino industrioso e intraprendente. Come se ad una città

non interessassero le sue foreste se non per abbatterle!

Le vie per le quali si può far denaro portano quasi senza eccezio-

ni verso il basso. L’aver fatto qualcosa solo per guadagnar denaro è

davvero esser stato ozioso o peggio. Se il lavoratore non prende altro

che il denaro che il suo datore di lavoro paga, è truffato e truffa se

stesso. Se si volesse far denaro come scrittore o conferenziere, si

dovrebbe esser popolari, il che vorrebbe dire precipitare

Il fine del lavoratore non dovrebbe esser di guadagnarsi da vive-

re, o di avere un buon posto, ma di far bene un certo lavoro; ed an-

che in un senso finanziario sarebbe economico per una città che i

suoi operai fossero pagati così bene da non accorgersi di lavorare per

un fine così basso, come è il puro mantenimento, ma per un fine

scientifico o anche morale. Non impiegare un uomo che faccia il tuo

lavoro per denaro, ma uno che lo faccia perché gli piace... I modi in

cui molti uomini si guadagnano da vivere, cioè vivono, sono puri

espedienti temporanei, evasioni dal vero compito della vita, e ciò

principalmente perché essi non sanno, ma in parte anche perché non

vogliono, far meglio...».

Riassumendo le sue opinioni egli dice: «Si dice che l’America è

l’arena su cui si deve combattere la battaglia per la libertà; ma ciò

che si intende non è certamente la libertà in senso meramente politi-

co. Ora che la repubblica, la res publica, è stata sistemata, è tempo di

badare alla res privata, alla condizione privata, di curare, come il

senato romano diede incarico ai suoi consoli, "ne quid res privata

detrimenti caperet", che la condizione privata non sia avvilita.

Non chiamiamo questa la terra degli uomini liberi? E che serve

esser liberi da Re Giorgio e continuare ad esser schiavi del Re Pre-

giudizio? E che serve esser nati liberi e non vivere liberi? Qual è il

valore di ogni libertà politica se non quello di un mezzo per la libertà

morale? È della libertà di esser schiavi o della libertà di esser liberi

che ci vantiamo? Siamo una nazione di politicanti che si interessano

soltanto della difesa marginale della libertà. Probabilmente saranno i

figli dei nostri figli ad esser davvero liberi. Noi ci tassiamo ingiu-

stamente. C’è una parte di noi che non è rappresentata; c’è una tas-

sazione senza rappresentanza. Manteniamo a nostre spese truppe,

pazzi, e bestiame d’ogni genere. Manteniamo i nostri grossi corpi a

6. ALTRE VARIE DIAGNOSI 188

spese delle nostre povere anime, fino a che i primi consumino tutti i

beni delle seconde.

Le cose che ora occupano maggiormente l’attenzione degli uomi-

ni, come la politica e la routine quotidiana, sono, è vero, funzioni

vitali della società umana, ma dovrebbero esser svolte inconsciamen-

te, come le corrispondenti funzioni del corpo fisico. Esse sono infra-

umane, una sorta di vegetazione. Talvolta arrivo ad essere parzial-

mente conscio di come esse si svolgono attorno a me, allo stesso

modo che un uomo può diventar parzialmente consapevole, in uno

stato di malattia, del processo di digestione, ed avere quel che si

chiama una dispepsia. È come se un pensatore si lasciasse disturbare

dal gran ventriglio della creazione. La politica è, per così dire, lo

stomaco della società, pieno di sabbia e di sassolini, e i due partiti

politici sarebbero le sue due opposte metà, che talvolta capita siano

divise in quarti, che si macinano l’un l’altro. Non soltanto gli indivi-

dui, ma anche gli stati hanno in tal modo una ostinata dispepsia, che

si può immaginare con qual genere di eloquenza si esprima. Così la

nostra vita non è soltanto un dimenticare, ma, anche, ahimè!, è in

gran misura un ricordare ciò di cui non avremmo mai dovuto esser

consapevoli, almeno quando si è svegli. Perché non ci si dovrebbe

incontrare, non sempre come dispeptici per raccontarci i nostri catti-

vi sogni, ma qualche volta come eupeptici, per rallegrarci l’un l’altro

di un meraviglioso mattino? Certo, non domando troppo».

Una delle più penetranti diagnosi della cultura capitalistica del

diciannovesimo secolo fu fatta da un sociologo: E. Durkheim, che

non era un radicale né politico né religioso. Egli afferma che nella

moderna società industriale l’individuo e il gruppo non funzionano

più in modo soddisfacente; e che essi vivono in una condizione di

«anomia», cioè in una mancanza di vita sociale significativa e fun-

zionale; e che l’individuo segue sempre più «un movimento senza

tregua, un disordinato sviluppo di sé, un fine della vita che non ha

scala di valori e nel quale la felicità si trova sempre nel futuro e mai

in alcuna realizzazione presente». L’ambizione dell’uomo, che ha il

mondo intero per suo cliente, diventa illimitata, ed egli è pieno di

disgusto, della «futilità di un perseguimento senza meta». Durkheim

segnala che soltanto lo stato politico sopravvisse alla rivoluzione

francese come isolato fattore di organizzazione collettiva. E il risul-

tato è la scomparsa di un ordine sociale genuino, ove lo stato si pre-

189 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

senta come la sola attività di organizzazione collettiva di carattere

sociale. L’individuo, libero da tutti i genuini vincoli sociali, si trova

abbandonato, isolato e demoralizzato.6 La società diventa «un disor-

ganizzato pulviscolo di individui».7

Secolo ventesimo

Volgendoci ora al ventesimo secolo, c’è anche una notevole so-

miglianza nelle critiche e nelle diagnosi della malattia mentale della

società contemporanea, proprio come nel diciannovesimo secolo, e

ciò è particolarmente significativo in considerazione del fatto che

esse provengono da persone di differenti opinioni filosofiche e poli-

tiche. Anche se in questa rassegna tralascio la maggior parte delle

critiche socialiste dei secoli diciannovesimo e ventesimo, poiché le

considererò a parte nel capitolo che segue, comincerò con le opinioni

del socialista inglese R.H. Tawney, dato che esse sono per molti

aspetti collegate alle opinioni espresse in questo libro. Nella sua

classica opera, The Acquisitive Society (pubblicata originariamente

col titolo The Sickness of an Acquisitive Society), egli segnala il fat-

to che il principio sul quale si basa la società capitalistica è il domi-

nio delle cose sull’uomo. Nella nostra società, egli scrive, «...persino

uomini sensibili sono convinti che il capitale "impiega" il lavoro,

come i nostri antenati pagani immaginavano che quegli altri pezzi di

legno e ferro, che essi ai loro tempi deificavano, facessero crescere i

loro raccolti o vincere le loro battaglie. Quando gli uomini giungono

al punto di parlare come se i loro idoli fossero vivi, allora è giunto il

momento che qualcuno li infranga. La manodopera consiste di per-

sone, il capitale di cose. La sola utilità delle cose è di esser messe al

servizio delle persone».8 Egli precisa che l’operaio non dà

nell’industria moderna il meglio delle sue energie perché manca di

interesse al suo lavoro, dato che non partecipa al controllo.9 Egli po-

stula, come sola via d’uscita dalla crisi della società moderna, un

mutamento dei valori morali. Occorre assegnare «...all’attività eco-

6 Emile Durkheim, Le Suicide, cit., p. 449. 7 Ibidem, p. 448 (corsivo mio). 8 Op. cit., p. 99. 9 Ibidem, pp. 106, 107.

6. ALTRE VARIE DIAGNOSI 190

nomica stessa il suo giusto posto di serva, e non di padrona, della

società. Il peso della nostra civiltà non consiste meramente, come

molti ritengono, nel fatto che il prodotto industriale sia mal distribui-

to, o che la direzione dell’attività industriale sia tirannica, o che il

suo funzionamento sia turbato da aspri dissensi; ma nel fatto che la

stessa industria sia giunta ad assumere, fra gli interessi umani, una

posizione di predominio esclusivo che nessun singolo interesse, e

meno di tutti quello di provvedere ai mezzi materiali dell’esistenza, è

degno di occupare. Come un ipocondriaco è così preoccupato del

funzionamento del suo fegato da giungere alla tomba prima di aver

cominciato a vivere, così, a causa della loro febbrile preoccupazione

per i mezzi con cui si possono acquistare le ricchezze, le comunità

industrializzate trascurano proprio quegli oggetti per i quali val la

pena di diventare ricchi.

Questa ossessione per le questioni economiche è tanto provincia-

le e transitoria quanto repulsiva e inquietante. Alle generazioni futu-

re essa sembrerà tanto pietosa quanto lo sembrano oggi a noi le di-

spute religiose del diciassettesimo secolo; in effetti essa è meno ra-

zionale, dato che i problemi di cui si occupa hanno minor importan-

za di quelle. Ed è un veleno che irrita ogni ferita e trasforma ogni

banale graffiatura in un’ulcera maligna. La società non risolverà i

particolari problemi industriali che l’affliggono fino a che non sia

eliminato il veleno ed essa non abbia imparato a vedere la stessa in-

dustria nella giusta prospettiva. Se vuol far ciò, la società deve rior-

ganizzare la sua scala di valori; deve considerare gli interessi eco-

nomici come uno degli elementi della vita, e non come tutto ciò che

vale della vita. La società deve convincere i suoi membri a rinuncia-

re alle occasioni di aumentare il loro guadagno senza alcun servizio

corrispondente, perché la lotta per il guadagno mantiene in uno stato

di febbre l’intera comunità. Essa deve organizzare l’industria in mo-

do che il carattere strumentale dell’attività economica sia accentuato

dalla sua subordinazione agli scopi sociali per i quali essa si svol-

ge».10

Uno dei più notevoli studiosi contemporanei della civiltà indu-

striale negli Stati Uniti, Elton Mayo, condivise, sebbene un po’ più

cautamente, l’opinione di Durkheim. «È vero, egli disse, che il pro-

10 Ibidem, pp. 183, 184.

191 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

blema della disorganizzazione sociale, con la sua conseguente

"anomia", esiste probabilmente in una forma più acuta a Chicago che

nelle altre parti degli Stati Uniti. Ed è probabile che questa sia una

questione di più immediato interesse negli Stati Uniti che non in Eu-

ropa. Ma si tratta di un problema relativo allo sviluppo sociale al

quale è interessato il mondo intero».11

Esaminando la preoccupazio-

ne moderna per le attività economiche, Mayo dice: «Proprio come i

nostri studi politici ed economici hanno per duecento anni atteso a

prender in considerazione soltanto le questioni economiche connesse

alla vita, così anche nella nostra vita attuale abbiamo inavvertita-

mente lasciato che il perseguimento dello sviluppo economico ci

portasse ad una condizione di estesa disintegrazione sociale... È pro-

babile che il lavoro che un uomo fa rappresenti la sua funzione più

importante nella società, ma se non c’è nella sua vita qualche sfondo

sociale integrale, egli non può nemmeno attribuire un valore al suo

lavoro. Le scoperte che Durkheim fece nella Francia del diciannove-

simo secolo sembrerebbero applicabili all’America del ventesimo

secolo».12

Riferendosi al suo esteso studio sull’atteggiamento degli

operai delle officine Hawthorne verso il loro lavoro, egli giunge alla

seguente conclusione. «La incapacità degli operai e dei sorveglianti

di comprendere il loro lavoro e le loro condizioni di lavoro e l’esteso

senso di inutilità personale sono comuni al mondo civile, e non sol-

tanto caratteristici di Chicago. La fede dell’individuo nella sua fun-

zione sociale e nella solidarietà col gruppo, la sua capacità di coope-

rare nel lavoro, sono scomparse, distrutte in parte dal rapido progres-

so scientifico e tecnico. Con questa fede sono svaniti anche il suo

senso di sicurezza e di benessere, ed egli comincia a manifestare

quelle eccessive esigenze di vita che Durkheim ha descritto».13

Mayo non è soltanto d’accordo con Durkheim sul punto essenziale

della sua diagnosi, ma giunge anche alla conclusione critica che nel

mezzo secolo di ricerca scientifica successivo a Durkheim si sono

fatti progressi ben modesti nella comprensione del problema. «Men-

tre, egli scrive, nei settori materiale e scientifico ci siamo preoccupa-

ti di sviluppare la conoscenza e la tecnica, nel settore umano e politi-

11 E. MAYO, The Human Problems of an Industrial Civilization, The Macmillan Company,

New York 1933, p. 125. 12 Ibidem, p. 131. 13 Ibidem, p. 159.

6. ALTRE VARIE DIAGNOSI 192

co-sociale ci siamo accontentati di congetture casuali e di tentenna-

menti opportunistici».14

E più avanti: «...dobbiamo constatare poi il

fatto che nell’importante campo della comprensione e del controllo

umani noi siamo ignoranti dei fatti e della loro natura; il nostro op-

portunismo nell’amministrazione e nell’indagine sociale ci ha resi

incapaci di qualsiasi cosa salvo che dell’impotente riconoscimento di

un disastro generale... Così siamo costretti ad aspettare che

l’organismo sociale si risani o perisca, senza adeguato aiuto medi-

co».15

Parlando più specificamente dell’arretratezza del nostro pen-

siero politico, egli afferma: «In generale il pensiero politico ha teso a

collegarsi alle sue origini storiche; esso non è riuscito a creare e a

continuare una decisa indagine sul mutamento strutturale della socie-

tà. Nel frattempo la società, le condizioni attuali dei popoli civili

hanno subito una così gran varietà di mutamenti, che ogni mera ripe-

tizione delle antiche formule suona a vuoto e non convince nessu-

no».16

Un altro attento studioso della scena sociale contemporanea, F.

Tannenbaum, giunge a conclusioni che non mancano di rapporto con

quelle di Tawney, nonostante il fatto che Tannenbaum ponga

l’accento sul ruolo di primaria importanza del sindacato, contraria-

mente all’insistenza socialista di Tawney sulla partecipazione diretta

degli operai. Nella conclusione della sua Philosophy of Labor, Tan-

nenbaum scrive: «L’errore maggiore dell’ultimo secolo è consistito

nell’ipotesi che una società integrata si possa organizzare su un mo-

vente economico, il profitto. Il sindacato ha dimostrato che questa

idea è falsa. Esso ha dimostrato ancora una volta che l’uomo non

vive di solo pane. Poiché l’azienda capitalistica può dare soltanto

pane o pietanza ha dimostrato con ciò di non esser in grado di soddi-

sfare le esigenze di una vita migliore. Il sindacato, con tutti i suoi

errori, può ancora salvare l’azienda e le sue grandi possibilità incor-

porandola entro la sua propria "società" naturale, la sua propria ma-

nodopera collegata, e dotandola dei significati che tutte le vere socie-

tà possiedono, significati che diano qualche nutrimento ideale

all’uomo durante il suo viaggio dalla culla alla tomba. Questi signi-

14 Ibidem, p. 132. 15 Ibidem, pp. 169, 170. 16 Ibidem, p. 138.

193 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

ficati non possono esser afferrati espandendo il movente economico.

Se la società anonima deve sopravvivere, essa dovrà esser dotata di

un compito morale nel mondo e non meramente di un compito eco-

nomico. Considerata sotto questo punto di vista la sfida del sindaca-

to alla direzione è benefica e ricca di speranze. Essa costituisce una

strada, forse la sola che si possa percorrere, per salvare i valori della

nostra società democratica e anche il sistema industriale contempo-

raneo. In qualche modo l’azienda e la sua manodopera debbono di-

ventare un gruppo unico e non esser più una cosa divisa e apparen-

temente in lotta».17

Lewis Mumford, con i cui scritti le mie idee hanno molti punti in

comune, dice riguardo alla nostra civiltà contemporanea: «La critica

più letale che si possa fare alla civiltà moderna è che, indipendente-

mente dalle sue crisi e catastrofi provocate dall’uomo, essa non è

umanamente interessante.

In conclusione una tale civiltà può produrre soltanto un uomo di

massa: incapace di scelta, incapace di attività spontanee e autonome:

nel caso migliore paziente, docile, disciplinato in vista di un lavoro

monotono in un grado quasi pietoso, ma sempre più irresponsabile

quanto più diminuiscono le sue possibilità di scelta: in conclusione,

una creatura dominata principalmente dai suoi riflessi condizionati,

il tipo ideale richiesto, benché mai interamente realizzato,

dall’agenzia pubblicitaria o dall’organizzazione di vendita di una

azienda moderna, o dagli uffici propaganda e dai comitati di pianifi-

cazione dei governi totalitari o quasi totalitari. La lode migliore per

tali creature è: "Essi non danno noie". La loro virtù più nobile è:

"Essi sono allineati". Infine una tale società produce due soli gruppi

di uomini: i condizionatori e i condizionati, i barbari attivi e quelli

passivi. La denuncia di questo tessuto di falsità, di inganno di se

stessi, di vuoto è forse ciò che ha reso Morte di un commesso viag-

giatore tanto dolorosamente vivo per il pubblico delle grandi città

americane.

Ora è evidente che questo caos meccanico non è destinato a per-

petuarsi con le sue stesse forze, poiché esso offende e umilia lo spiri-

to umano; e quanto più rigido ed efficace esso diventa come sistema

17 Frank TANNENBAUM, A Philosophy of Labor, Alfred A. Knopf, Inc., New York 1952, p.

168.

6. ALTRE VARIE DIAGNOSI 194

meccanico, tanto più tenace sarà la reazione umana contro di esso.

Alla fine esso spingerà l’uomo moderno alla ribellione cieca, al sui-

cidio o al rinnovamento; fino ad oggi ha operato nei primi due modi.

Secondo questa analisi, la crisi che affrontiamo adesso sarebbe con-

nessa alla nostra cultura anche se non avesse per qualche miracolo

scatenato le disintegrazioni più violente fra quelle verificatesi nella

storia recente».18

A.R. Heron, convinto sostenitore del capitalismo e scrittore di

tendenze molto più conservatrici di quelli citati fin qui, giunge tutta-

via a conclusioni critiche che sono sostanzialmente molto vicine a

quelle di Durkheim e di Mayo. Nel suo Why Men Work, scrive: «È

inverosimile immaginare che una gran moltitudine di operai com-

metta un suicidio in massa a causa della noia, di un senso di inutilità

e di frustrazione. Ma la natura inverosimile del quadro svanisce

quando si allarghi il nostro concetto di suicidio al di là della morte

fisica del corpo. L’essere umano che si sia rassegnato ad una vita

sprovvista di pensiero, di ambizione, di orgoglio e di soddisfazioni

personali, si è rassegnato alla morte di quegli attributi che sono ele-

menti distintivi della vita umana. Occupare col corpo fisico un posto

in una officina o in un ufficio, compiere movimenti calcolati dalla

mente di altri, impiegare le energie fisiche, o azionare l’energia del

vapore o dell’elettricità, non sono di per se stesse manifestazioni

delle facoltà essenziali degli esseri umani.

L’inadeguatezza di quel che si chiede alle facoltà umane non può

esser meglio indicata che riferendoci alle tecniche moderne per

l’impiego degli operai. L’esperienza ha dimostrato che c’è un im-

pressionante numero di lavori che non possono essere svolti in modo

soddisfacente da persone di intelligenza media o superiore. Non è

una risposta l’osservare che di questi lavori ha bisogno un gran nu-

mero di persone di intelligenza inferiore. Le direzioni aziendali con-

dividono la responsabilità con uomini di stato, pastori ed educatori

per il miglioramento dell’intelligenza di tutti noi. In una democrazia

noi saremo sempre governati dai voti indifferenziati della popolazio-

ne, che include individui la cui intelligenza è naturalmente bassa o il

cui potenziale sviluppo intellettuale e spirituale è stato ostacolato.

18 L. MUMFORD, The Conduct of Life, Harcourt, Brace & Company, New York 1951, pp. 14

e 16.

195 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

Non dobbiamo mai abbandonare i vantaggi materiali che abbia-

mo avuto dalla tecnologia, dalla produzione di massa e dalla specia-

lizzazione dei compiti. Ma non realizzeremo mai gli ideali americani

se creiamo una classe di lavoratori cui è negata la soddisfazione di

un lavoro che abbia un significato. Non saremo capaci di difendere

questi ideali se non useremo ogni mezzo della pubblica amministra-

zione, dell’educazione e dell’industria per il miglioramento delle

capacità umane di coloro che sono i nostri governanti: le decine di

milioni di uomini e donne comuni. La parte di questi compiti che è

propria delle direzioni aziendali consiste nel fornire condizioni di

lavoro che liberino l’istinto creativo di ogni lavoratore ed offrano

possibilità di azione alla sua facoltà divino-umana di pensare».19

Dopo aver ascoltato le voci di diversi studiosi di scienze sociali,

concluderemo questo capitolo sentendo quel che ci dicono tre uomi-

ni che sono estranei al campo della scienza sociale: A. Huxley, A.

Schweitzer, A. Einstein. L’atto di accusa di Huxley al capitalismo

del ventesimo secolo si trova nel suo Brave New World. In questo

romanzo (1931) egli descrive la visione di un mondo automatizzato

che è evidentemente folle e che tuttavia soltanto nei particolari e nel-

la misura differisce dalla realtà di oggi. Egli vede come sola alterna-

tiva la vita del selvaggio con una religione che è per metà culto della

fecondità e per metà ferocia di penitenza. In una prefazione scritta

per la nuova edizione di Brave New World (1946) egli dice: «Sup-

ponendo dunque che noi si sia capaci di ricavare da Hiroshima la

lezione che i nostri antenati hanno tratto dal Magdeburgo, si potreb-

be guardare ad un periodo, non proprio di pace, ma di guerre ristrette

o soltanto limitatamente disastrose. Si potrebbe supporre che durante

questo periodo l’energia nucleare sarebbe controllata per usi indu-

striali, e il risultato sarebbe molto evidentemente un susseguirsi di

mutamenti sociali che non avrebbero precedenti in rapidità e com-

pletezza. Tutte le strutture della vita umana ora esistenti saranno in-

frante e nuove strutture saranno improvvisate e adattate al fatto non

umano dell’energia atomica. Procuste in abiti moderni, lo scienziato

nucleare predisporrà il letto su cui l’umanità dovrà distendersi; e se

l’umanità non si adatterà alla misura, tanto peggio per l’umanità. Ci

sarà qualche stiratina e qualche amputazione; lo stesso genere di sti-

19 A.R. HERON, Why Men Work, Stanford University Press, Stanford 1948, pp. 121, 122.

6. ALTRE VARIE DIAGNOSI 196

ratine e amputazioni che si sono avute da quando hanno cominciato

a farsi avanti le scienze applicate, soltanto che questa volta saranno

un po’ più violente che nel passato. Queste operazioni tutt’altro che

indolori saranno dirette da un governo autoritario rigorosamente cen-

tralizzato. Sarà inevitabilmente così poiché il futuro immediato so-

miglierà all’immediato passato, e nell’immediato passato i rapidi

mutamenti tecnologici, avvenendo in una economia di produzione di

massa e fra una popolazione prevalentemente senza proprietà, hanno

sempre contribuito a creare confusione economica e sociale. Per far

fronte alla confusione, si dovrà centralizzare il potere e aumentare il

controllo governativo. È probabile che tutti i governi del mondo sa-

ranno più o meno completamente governi totalitari anche prima che

l’energia atomica sia controllata; sembra quasi certo che essi saranno

totalitari durante e dopo tale controllo. Soltanto un movimento lar-

gamente diffuso verso la decentralizzazione e l’iniziativa spontanea

può arrestare l’attuale tendenza verso lo statalismo.20

Al momento

non c’è segno che un tale movimento possa verificarsi.

Non vi sono, naturalmente, delle ragioni per le quali i nuovi tota-

litarismi debbano somigliare agli antichi. Governare coi bastoni dei

poliziotti e con i plotoni di esecuzione, con la carestia artificiale, con

gli imprigionamenti e le deportazioni in massa, non è soltanto una

cosa inumana (e nessuno ne è al giorno d’oggi molto entusiasta), ma

è palesemente inefficiente, e in un’era di avanzata tecnologia

l’inefficienza è il peccato contro lo spirito. In uno stato totalitario

veramente efficiente l’onnipotente potere esecutivo dei capi politici

e il loro esercito di funzionari controllano una popolazione di schiavi

senza bisogno di coercizione dato che essi amerebbero la loro schia-

vitù. Far sì che essi la amino è il compito che negli stati totalitari

d’oggi viene assegnato ai ministri della propaganda, ai direttori di

giornali e agli insegnanti. Ma i loro metodi sono ancora rudimentali

e poco scientifici. L’antica vanteria dei gesuiti che, se fosse stato

loro affidato l’insegnamento del bambino, avrebbero potuto rispon-

dere delle opinioni religiose dell’uomo adulto, era un prodotto

dell’illusione. Ed è probabile che il pedagogo d’oggi sia meno in

grado di condizionare i riflessi dei suoi allievi di quanto non lo fos-

sero i reverendi padri che educarono Voltaire. I più grandi trionfi

20 Corsivo mio.

197 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

della propaganda sono stati ottenuti non facendo qualcosa, ma aste-

nendosi dal farla. La verità è grande, ma più grande è, da un punto di

vista pratico, il silenzio sulla verità. Semplicemente col non nomina-

re certe cose, con l’abbassare quel che Winston Churchill chiama un

"sipario di ferro" tra le masse e quei fatti o argomenti che siano giu-

dicati non graditi dai locali capi politici, i propagandisti totalitari

hanno influenzato l’opinione molto più efficacemente di quanto

avrebbero potuto fare con le denunce più eloquenti e le più persuasi-

ve confutazioni logiche. Ma il silenzio non basta. Se si devono evita-

re le persecuzioni, le eliminazioni e gli altri sintomi di attrito sociale,

si devono rendere i lati positivi della propaganda efficaci quanto i

lati negativi. I più importanti "Progetti Manhattan" del futuro saran-

no larghe inchieste sostenute dal governo su quello che i politici e gli

esperti che vi hanno collaborato chiameranno "il problema della feli-

cità", in altre parole, il problema di far sì che la gente ami la propria

servitù. Senza sicurezza economica l’amore per la servitù non può

nascere; in breve, suppongo che l’onnipotente potere esecutivo e i

suoi funzionari riescano a risolvere il problema della sicurezza eco-

nomica permanente. Ma questa sicurezza tende molto presto ad esser

data per scontata. Il suo raggiungimento è soltanto una rivoluzione

superficiale ed esteriore. L’amore per la servitù non può realizzarsi

se non come il risultato di una profonda personale rivoluzione nella

mente e nel corpo degli uomini. Per provocare tale rivoluzione sono

necessarie, tra le altre, le seguenti scoperte e invenzioni. Per prima

cosa: una tecnica di suggestione molto progredita, attraverso il con-

dizionamento del bambino e più tardi con l’aiuto di droghe, come la

scopolamina. Secondo: una scienza completamente sviluppata delle

diverse attitudini umane, che consenta ai dirigenti di assegnare ad

ogni individuo il suo giusto posto nella gerarchia economica e socia-

le. (Chiunque non sia inserito al posto adatto può aver pensieri peri-

colosi per il sistema sociale e contaminare gli altri con il suo scon-

tento). Terzo (dato che la realtà, anche se utopistica, è qualcosa da

cui la gente sente la necessità di distrarsi spesso): un sostituto

dell’alcool e degli altri narcotici, qualcosa che sia ad un tempo meno

pericoloso e più piacevole del gin o dell’eroina. E quarto (ma questo

sarebbe un progetto a lunga scadenza, che presupporrebbe genera-

zioni di controllo totalitario per portare a buona conclusione): un

sistema eugenico sicurissimo, calcolato per normalizzare il prodotto

6. ALTRE VARIE DIAGNOSI 198

umano e facilitare il compito dei dirigenti. In Brave New World que-

sta normalizzazione del prodotto umano è stata spinta a estremi fan-

tastici, sebbene non impossibili. Tecnicamente e ideologicamente

siamo ancora molto distanti dai bambini in bottiglia e dai gruppi di

semideficienti di Bokanovsky. Ma nell’anno 600 A.F. chi sa cosa

potrà non accadere? Intanto gli altri tratti caratteristici di questo

mondo più felice e più stabile - cioè gli equivalenti di "soma" e di

hypnopaedia e il sistema scientifico di casta - non distano forse più

di tre o quattro generazioni. Neppure la promiscuità sessuale del

Brave New World sembra molto distante. Vi sono già alcune città

americane nelle quali il numero dei divorzi è pari al numero dei ma-

trimoni. Non c’è dubbio che in pochi anni le licenze di matrimonio

potranno esser ottenute come le licenze per i cani, valide per un an-

no, senza norme che vietino di cambiare il cane o di prenderne più di

uno per volta. Quanto più diminuisce la libertà economica e politica

tanto più tende a crescere in compenso la libertà sessuale. E il ditta-

tore (a meno che non abbia bisogno di carne da cannone o di fami-

glie con cui colonizzare territori deserti o conquistati) farà bene a

incoraggiare questa libertà. Assieme alla libertà di sognare ad occhi

aperti sotto l’influsso di droghe, dei film e della radio, essa aiuterà a

riconciliare i suoi sudditi con la servitù che è il loro destino.

Tutto considerato, pare che l’Utopia sia molto più vicina a noi di

quanto nessuno, solo 15 anni fa, avrebbe potuto pensare. Allora la

proiettavo di seicento anni nel futuro. Oggi pare del tutto possibile

che l’orrore possa esserci addosso entro un solo secolo. Sempre che

ci si astenga dal farci saltar in aria nel frattempo. Difatti, a meno che

non decidiamo di decentralizzare e di usare la scienza applicata, non

come fine per cui gli esseri umani debbano diventare degli strumenti,

ma come mezzo per produrre una umanità di individui liberi, ci re-

stano soltanto due alternative fra cui scegliere: una è l’esistenza di

un certo numero di totalitarismi nazionali e militarizzati che abbiano

come sostegno il terrore della bomba atomica e come conseguenza la

distruzione della civiltà (o, in caso di guerra ristretta, la perpetuazio-

ne del militarismo); l’altra è un unico totalitarismo sovrannazionale

imposto dal caos che risulterebbe dal rapido progresso tecnologico

generale e dalla rivoluzione atomica in particolare, e che si sviluppe-

199 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

rebbe sotto la spinta dell’esigenza di efficienza e di stabilità, nella

tirannide previdenziale dell’Utopia. Chi paga può far la sua scelta».21

Ed ecco cosa dicono della cultura dei nostri giorni Albert Schwei-

tzer e Albert Einstein, che forse più che ogni altro contemporaneo

esprimono il più elevato sviluppo delle tradizioni intellettuali e mo-

rali della cultura occidentale.

Albert Schweitzer scrive: «Si deve creare una nuova opinione

pubblica privatamente e in modo discreto. Quella che esiste è tenuta

in vita dalla stampa, dalla propaganda, dalle organizzazioni, dal de-

naro e da altri mezzi a sua disposizione. A tale modo innaturale di

diffondere le idee bisogna opporne uno naturale, che passi da uomo

a uomo e si affidi solamente alla verità delle idee ed alla ricettività

dell’ascoltatore alla nuova verità. Disarmato, seguendo il metodo

naturale e primitivo di lotta dello spirito umano, deve attaccare

l’avversario che gli sta di fronte protetto dalla possente armatura del-

la sua epoca, come Golia innanzi a Davide.

Nessuna analogia storica può farci conoscere le fasi della lotta

che seguirà. Il passato ha certo visto liberi pensatori levarsi contro lo

spirito dell’intera società, ma il problema non s’è mai presentato nei

termini d’oggi perché l’odierno spirito collettivo è incatenato dalle

organizzazioni, dalla mancanza di riflessione, dalle passioni popola-

ri, in un modo senza precedenti nella storia.

L’uomo d’oggi avrà la forza necessaria per compiere ciò che lo

spirito richiede e che l’epoca cospira a impedirgli?

Egli deve farsi persona indipendente nella super-organizzazione

che lo tiene avvinto in mille modi. La collettività ricorrerà ad ogni

espediente per mantenerlo in una condizione spersonalizzata; essa

infatti teme la personalità perché in questa lo spirito e la verità tro-

vano il mezzo di esprimersi. Sfortunatamente il potere della società è

grande quanto la sua paura.

Esiste una tragica alleanza tra la società e le condizioni materiali;

con spietata durezza queste tendono a fare dell’uomo contemporaneo

un essere privo di libertà, di indipendenza, di raccoglimento interio-

re, in breve un essere che manca di qualità umane. Purtroppo le con-

dizioni materiali sono l’ultima cosa che possiamo cambiare; anche se

ci fosse concesso di dare inizio all’opera, solo lentamente e parzial-

21 A. HUXLEY, Brave New World, cit., pp. 11-15.

6. ALTRE VARIE DIAGNOSI 200

mente potremmo trasformarla. Si esige dalla volontà quello che le

condizioni di vita le negano.

Quanto arduo il compito affidato allo spirito. Deve creare le pos-

sibilità perché sia accolta come verità quella che è realmente tale,

mentre invece per le strade non corre che propaganda. Deve far sì

che l’ignobile nazionalismo sia messo al bando e sostituito dal nobi-

le patriottismo che tende ai fini degni dell’umanità, mentre invece le

questioni irrisolvibili della politica passata e presente mantengono

accese le passioni nazionalistiche anche tra quanti in cuor loro le

ripudiano. Deve far sì che la civiltà sia scopo dell’intera umanità,

mentre invece la civiltà nazionale è adorata come un idolo e la no-

zione di una comune civiltà giace infranta. Deve mantenere la fidu-

cia nello stato civile anche se gli stati moderni, rovinati spiritual-

mente ed economicamente dalla guerra, non hanno tempo di riflette-

re sui compiti della civiltà e non sono intenti che a raccogliere dena-

ro con ogni possibile mezzo - anche se a danno della giustizia - per

poter prolungare la propria esistenza. Deve unirci in un unico ideale

di umanità civile, e ciò in un mondo dove ogni nazione ha spento nei

popoli vicini la fede nell’umanità, ogni impulso d’idealismo, di retti-

tudine, di ragionevolezza e sincerità, e tutte allo stesso modo sono

cadute sotto il dominio di forze che spingono alla barbarie. Deve far

sì che l’attenzione degli uomini si volga ai problemi della civiltà

mentre le crescenti difficoltà assorbono tutti in preoccupazioni mate-

riali e fanno loro apparire irrilevante ogni altro problema. Deve darci

la fede nella possibilità di progresso mentre l’azione del fattore ma-

teriale su quello spirituale si fa più malefica ogni giorno e favorisce

una sempre maggiore demoralizzazione. Deve darci ragioni di spe-

ranza in un’epoca in cui non solo le istituzioni, le associazioni laiche

e religiose, ma gli stessi uomini cui si guarda come a guide conti-

nuamente ci deludono, quando artisti e studiosi si rivelano difensori

di barbarie e persone che passano per pensatori, ed esteriormente si

comportano come tali, in tempi di crisi si rivelano scrittori

d’accademia.

Tanti ostacoli si frappongono sulla via della civiltà. Una tetra di-

sperazione incombe su noi. Oggi ben comprendiamo gli uomini della

decadenza greco-romana che, incapaci di resistere agli eventi, ab-

bandonavano il mondo al suo fato e si ritiravano nella propria inte-

riorità! Anche noi siamo smarriti e sentiamo voci tentatrici che ci

201 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

esortano a rendere più tollerabile l’esistenza vivendo giorno per

giorno, a rinunciare al nostro individuale destino, a cercare quiete

nella rassegnazione.

L’aver riconosciuto che la civiltà poggia su una concezione del

mondo e che può essere restaurata solamente mediante il risveglio

spirituale e la volontà di valori etici nell’intera umanità, ci spinge a

chiarire a noi stessi le difficoltà che ci stanno davanti, difficoltà che

la riflessione ordinaria tenderebbe a non prendere in serio esame, e

nello stesso tempo ci pone al di sopra di ogni considerazione circa il

possibile e l’impossibile. Se lo spirito etico ci provvederà di una ba-

se sufficiente, se ritorneremo a una concezione del mondo e alle

convinzioni che da essa derivano, allora riavremo la civiltà».22

In un breve articolo, Perché il socialismo, Einstein scrive: «Sono

giunto ora al punto in cui posso indicar brevemente ciò che per me

costituisce l’essenza della crisi del nostro tempo. Essa riguarda il

rapporto dell’individuo con la società. L’individuo è diventato più

consapevole che mai della sua dipendenza dalla società. Ma egli non

riconosce questa dipendenza come un elemento positivo, come un

legame organico, come una forza protettiva, ma piuttosto come una

minaccia ai suoi diritti naturali o persino alla sua esistenza economi-

ca. Inoltre la sua posizione nella società è tale che le esigenze egoi-

stiche della sua costituzione vengono costantemente accentuate men-

tre le sue esigenze sociali, che sono per natura più deboli, si deterio-

rano progressivamente. Tutti gli esseri umani, quale che sia la loro

posizione nella società, soffrono per questo processo di deteriora-

mento. Prigionieri senza saperlo del loro proprio egoismo, si sentono

insicuri, solitari e privi dell’ingenuo, semplice e non artificioso go-

dimento della vita. L’uomo può trovar significato nella vita, per bre-

ve e pericolosa che sia, soltanto dedicandosi alla società».23

22 Citato da Agonia della civiltà, Edizioni di Comunità, Milano 1963, pp. 72-75. 23 A. EINSTEIN, Why Socialism, nella «Monthly Review», vol. 1, 1949, pp. 9-15.

202

7.

Varie risposte

Nel diciannovesimo secolo uomini che vedevano lontano avver-

tirono, al di là del fulgore, della ricchezza e della potenza politica

della società occidentale, il processo di decadimento e di disumaniz-

zazione. Alcuni di loro si rassegnavano alla necessità di una tale

svolta verso la barbarie, altri ponevano una alternativa. Ma sia che

essi prendessero l’una o l’altra posizione, la loro critica era basata su

un concetto religioso-umanistico dell’uomo e della storia. Criticando

la loro stessa società, la trascendevano. Non erano dei relativisti che

dicessero che, fino a che la società funziona, essa è una società equi-

librata e giusta e che, fino a che l’individuo è adattato alla sua socie-

tà, si tratta di un individuo equilibrato e sano. Sia che si pensi a Bur-

ckhardt o a Proudhon, a Tolstoj o a Baudelaire, a Marx o a Kropot-

kin, tutti avevano un concetto dell’uomo che è essenzialmente un

concetto religioso e morale. L’uomo è il fine, e non deve mai essere

usato come un mezzo; la produzione materiale è fatta per l’uomo, e

non l’uomo per la produzione materiale; il fine della vita è lo svol-

gimento dei poteri creativi dell’uomo; il fine della storia è trasforma-

re questa società in una che sia governata dalla giustizia e dalla veri-

tà: sono questi i principi sui quali, esplicitamente o implicitamente,

si basavano tutte le critiche al capitalismo moderno.

Questi principi religioso-umanistici costituivano anche le basi per

le proposte di una società migliore. Di fatto, la più importante

espressione di entusiasmo religioso degli ultimi duecento anni si tro-

va proprio in quei movimenti che hanno rotto con la religione tradi-

zionale. La religione come organizzazione e professione dogmatica

era esercitata nelle chiese; la religione nel senso di fervore religioso

e di fede vivente era per lo più praticata dagli avversari della religio-

ne. Per dar maggior consistenza a queste affermazioni è necessario

considerare alcuni caratteri salienti dello sviluppo della cultura cri-

stiana occidentale. Mentre per i greci la storia non aveva fine, scopo

o termine, il concetto giudaico-cristiano di storia era caratterizzato

dall’idea che il suo significato immanente è la redenzione dell’uomo.

Il simbolo di questa redenzione finale era il Messia; l’epoca era quel-

la messianica. Vi sono tuttavia due diversi concetti di quel che costi-

203 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

tuisce l’eschaton, il «termine dei giorni», il fine della storia. Uno

collega il mito biblico di Adamo ed Eva con il concetto di redenzio-

ne. In breve, l’essenza di questa idea è che originariamente l’uomo

era una sola cosa con la natura. Non v’era conflitto tra lui e la natura

o tra uomo e donna. Ma l’uomo mancava anche della più essenziale

caratteristica umana: quella della conoscenza del bene e del male; e

perciò era incapace di libera decisione e di responsabilità. Il primo

atto di disobbedienza diventò anche il primo atto di libertà ed ebbe

così inizio la storia umana. L’uomo è cacciato dal paradiso, ha per-

duto la sua armonia con la natura, è affidato solo a se stesso. Ma è

debole, la sua ragione è ancora poco sviluppata, il suo potere di resi-

stere alla tentazione è ancora esiguo. Deve sviluppare la sua ragione,

deve crescere ad una completa umanità per realizzare una nuova ar-

monia con la natura, con se stesso e con i suoi simili. Il fine della

storia è la nascita completa dell’uomo, la sua completa umanizza-

zione. Allora «la terra sarà riempita dalla sapienza del Signore come

le acque ricoprono il mare». Tutte le nazioni formeranno un’unica

comunità e le spade saranno trasformate in aratri. Secondo questo

concetto, Dio non compie un atto di grazia. L’uomo deve passare

attraverso molti errori, deve peccare e assumersene le conseguenze.

Dio non risolve i suoi problemi per lui se non rivelandogli i fini della

vita. L’uomo deve conquistare la sua stessa salvezza, egli deve dar

nascita a se stesso, e al termine dei giorni la nuova armonia, la nuova

pace1 sarà stabilita, la maledizione pronunciata contro Adamo ed

Eva sarà ritirata, per così dire, mediante la rivelazione che l’uomo ha

di se stesso nel processo storico.

L’altro concetto messianico di redenzione che diventò predomi-

nante nella chiesa cristiana è che l’uomo non può mai liberarsi dalla

corruzione in cui è incorso come conseguenza della disobbedienza di

Adamo. Soltanto Dio, con un atto di grazia, può salvare l’uomo ed

Egli lo salvò facendosi uomo nella persona di Cristo che morì la

morte sacrificale del redentore. L’uomo, attraverso i sacramenti della

chiesa, diventa partecipe di questa redenzione e così ottiene il dono

della grazia divina. Il termine della storia è la seconda venuta del

Cristo, che è un evento soprannaturale e non storico.

1 In ebraico «Schalom» significa sia armonia (completezza) che pace.

7. VARIE RISPOSTE 204

Questa tradizione continuò in quella parte del mondo occidentale

in cui rimase dominante la chiesa cattolica. Ma per il resto d’Europa

e nell’America del diciottesimo e diciannovesimo secolo il pensiero

teologico perdette sempre più di vitalità. L’età dell’illuminismo fu

caratterizzata dalla lotta contro la chiesa e il clericalismo, e

l’ulteriore sviluppo da un dubbio crescente e infine la negazione di

tutti i concetti religiosi. Ma questa negazione della religione era sol-

tanto una nuova forma di pensiero che esprimeva l’antico entusia-

smo religioso specialmente per quanto riguardava il significato e il

fine della storia. Nel nome della ragione e della felicità, della dignità

umana e della libertà, trovò una nuova espressione l’idea messianica.

In Francia Condorcet, nel suo Esquisse d’un Tableau Historique

des Progrès de l’Esprit Humain (1793), pose la base per la fede in

una perfezione finale del genere umano che avrebbe portato ad una

nuova era della ragione e della felicità e alla quale non vi erano limi-

tazioni. La venuta del regno messianico era il messaggio di Condor-

cet che doveva influenzare Saint-Simon, Comte e Proudhon. Difatti

il fervore della Rivoluzione francese era un fervore messianico in

linguaggio secolare.

La stessa traduzione del concetto religioso di redenzione in lin-

guaggio secolare si verificò nella filosofia illuministica tedesca. Il

Die Erziehung des Menschengeschlechts di Lessing esercitò grandis-

sima influenza sul pensiero tedesco ed anche su quello francese. Per

Lessing il futuro doveva essere l’età della ragione e della presa di

coscienza di sé, raggiunte attraverso l’educazione dell’umanità, at-

tuando in tal modo la promessa della rivelazione cristiana. Fichte

credeva nell’avvento di un millennio spirituale, e Hegel nella realiz-

zazione di un regno di Dio nella storia traducendo così la teologia

cristiana in una filosofia di questo mondo. La filosofia di Hegel tro-

vò la sua più significativa continuazione storica in Marx. Più eviden-

temente forse di quello di tanti altri filosofi illuministi, il pensiero di

Marx è messianico-religioso, in linguaggio secolare. Tutta la storia

passata è soltanto «preistoria», essa è la storia dell’autoalienazione.

Con il socialismo si aprirà la via al regno della storia umana,

dell’umana libertà. La società senza classi della giustizia, della fra-

205 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

ternità e della ragione sarà l’inizio di un nuovo mondo verso la cui

formazione tendeva tutta la storia precedente.2

Sebbene il compito principale di questo capitolo sia di presentare

le idee del socialismo come del più importante tentativo per trovare

una risposta alle malattie del capitalismo, esaminerò innanzitutto

brevemente le risposte totalitarie, e quella che può esser appropria-

tamente chiamata del neocapitalismo.

Idolatria autoritaria

Il fascismo, il nazismo e lo stalinismo hanno in comune il fatto

di offrire all’individuo atomizzato nuovo rifugio e sicurezza. Questi

sistemi costituiscono il massimo dell’alienazione. All’individuo,

ridotto a sentirsi impotente e insignificante, si insegna a proiettare

tutte le sue energie umane nella figura del capo, dello stato, della

«patria», cui deve sottomettersi e che deve venerare. Egli fugge dalla

libertà in una nuova idolatria. Tutte le realizzazioni

dell’individualismo e della ragione dal tardo medioevo al dicianno-

vesimo secolo sono sacrificate sull’altare dei nuovi idoli. I nuovi

sistemi erano costruiti sulle più sfacciate menzogne, sia riguardo ai

programmi sia ai capi. Nei loro programmi essi affermavano di rea-

lizzare una specie di socialismo mentre ciò che facevano era la nega-

zione di ogni cosa che questa parola potesse significare nel sociali-

smo tradizionale. Le figure dei loro capi non fanno altro che accen-

tuare la grande frode. Mussolini, un millantatore codardo, diventò un

simbolo di virilità e di coraggio. Hitler, un maniaco della distruzio-

ne, fu esaltato come il costruttore di una nuova Germania. Stalin, un

ambizioso intrigante di sangue freddo, fu dipinto come l’amoroso

padre del suo popolo.

Tuttavia, nonostante gli elementi comuni, non si possono ignora-

re talune importanti differenze tra queste tre forme di dittatura.

L’Italia, industrialmente la più debole fra le grandi potenze europee

occidentali, rimase relativamente debole e impotente nonostante la

sua vittoria nella prima guerra mondiale. Le sue classi dirigenti non

erano disposte a realizzare nessuna delle riforme necessarie special-

mente nel campo agricolo, e la sua popolazione era in preda ad una

2 Cfr. K. Löwith, op. cit.

7. VARIE RISPOSTE 206

profonda insoddisfazione per lo stato in cui si trovava. Il fascismo

doveva curare la vanità nazionale offesa con i suoi slogan vanaglo-

riosi e doveva distogliere il risentimento delle masse dai suoi origi-

nari obiettivi; nel medesimo tempo, esso voleva convertire l’Italia in

una più progredita potenza industriale. Il fascismo fallì in tutti i suoi

fini realistici, perché non fece mai un serio tentativo di risolvere i

pressanti problemi economici e sociali dell’Italia.

La Germania, al contrario, era il paese più sviluppato e indu-

strialmente progredito d’Europa. Mentre il fascismo poteva avere

almeno una funzione economica, il nazismo non ne aveva alcuna.

Esso era l’insurrezione della piccola borghesia, di ufficiali disoccu-

pati e di studenti, basata sulla demoralizzazione prodotta dalla scon-

fitta militare, dall’inflazione e, più particolarmente, dalla disoccupa-

zione di massa che si verificò nella depressione successiva al 1929.

Ma esso non avrebbe potuto esser vittorioso senza l’attivo appoggio

di importanti settori del capitale finanziario e industriale che si sen-

tivano minacciati da un sempre crescente malcontento delle masse

verso il sistema capitalistico. Il Reichstag tedesco, agli inizi del

1930, aveva una maggioranza formata da quei partiti che, sincera-

mente o insinceramente, avevano un programma in qualche modo

anticapitalistico. Questa minaccia spinse importanti settori del capi-

talismo tedesco ad appoggiare Hitler.

La Russia era esattamente l’opposto della Germania. Industrial-

mente essa era la più arretrata di tutte le grandi potenze europee, ap-

pena uscita com’era da una condizione semifeudale anche se il suo

settore industriale era di per sé altamente sviluppato e centralizzato.

Il crollo improvviso del sistema zarista aveva creato un vuoto in

modo che Lenin, sciogliendo l’altra forza che sola avrebbe potuto

riempire questo vuoto, cioè l’Assemblea costituente, sperava di riu-

scire a passare con un balzo dalla fase semifeudale in quella di un

sistema socialista industrializzato. Nondimeno la politica di Lenin

non era un prodotto del momento, ma la logica conseguenza del suo

pensiero politico concepito molti anni prima dello scoppio della ri-

voluzione russa. Egli, come Marx, credeva nella missione storica

della classe operaia di emancipare la società, ma aveva poca fede

nella volontà e nella capacità della classe operaia di raggiungere

spontaneamente questo fine. Soltanto se la classe operaia veniva

guidata, egli pensava, da un piccolo disciplinato gruppo di rivolu-

207 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

zionari di professione, soltanto se era spinta da questo gruppo a met-

tere in atto le leggi della storia, come Lenin le vedeva, la rivoluzione

poteva riuscire e non diventare alla fine una nuova versione di una

società di classe. Il punto decisivo della posizione di Lenin consiste-

va nel fatto che egli non aveva fede nell’azione spontanea degli ope-

rai e dei contadini, non aveva fede in loro perché non aveva fede

nell’uomo. Questa mancanza di fede nell’uomo costituiva quello che

le idee antiliberali e clericali avevano in comune con il concetto di

Lenin; d’altra parte la fede nell’uomo è la base di ogni movimento

genuinamente progressivo attraverso la storia. La fede nell’umanità

senza la fede nell’uomo o è insincera, oppure, se è sincera, porta agli

stessi risultati che vediamo nella storia tragica dell’inquisizione, del

terrore di Robespierre e nella dittatura di Lenin. Molti rivoluzionari

socialisti e democratici socialisti videro i pericoli del concetto di Le-

nin e nessuno li vide più chiaramente di Rosa Luxemburg. Ella am-

moniva che la scelta doveva esser fatta tra democrazia e burocrazia,

e lo sviluppo degli avvenimenti in Russia mostrò quanto fosse giusta

la sua previsione. Benché ardente e intransigente critico del capitali-

smo, ella era una persona dotata di una fede profonda e inalterabile

nell’uomo. Quando lei e Gustav Landauer furono assassinati dai sol-

dati della controrivoluzione tedesca, si volle uccidere in loro la tradi-

zione umanistica. Fu questa mancanza di fede nell’uomo che rese

possibile ai sistemi autoritari di conquistare gli uomini conducendoli

verso la fede in un idolo piuttosto che in loro stessi.

Tra lo sfruttamento nel primo capitalismo e quello nel leninismo

c’è non poca differenza; il brutale sfruttamento dell’operaio nel pri-

mo capitalismo, anche se sostenuto dal potere politico dell’apparato

statale, non impediva la nascita di idee nuove e avanzate. In effetti

tutte le grandi idee socialiste sono nate proprio in questo periodo, un

periodo in cui poté fiorire l’owenismo o nel quale il movimento car-

tista fu distrutto con la forza soltanto dopo dieci anni. Difatti il go-

verno più reazionario in Europa, quello dello zar, non usò metodi di

repressione che potessero esser comparati con quelli di Stalin. Dalla

brutale repressione della ribellione di Kronstadt in poi la Russia non

offrì alcuna possibilità di sviluppo progressivo, quale offrirono per-

sino i più oscuri periodi del primo capitalismo. Sotto Stalin il siste-

ma sovietico perdette gli ultimi resti delle sue originarie intenzioni

socialiste e l’uccisione della vecchia guardia del bolscevismo negli

7. VARIE RISPOSTE 208

anni trenta di questo secolo costituì soltanto la drammatica espres-

sione finale di questo fatto. Sotto molti aspetti, il sistema stalinista

rivela somiglianza con la prima fase del capitalismo europeo, carat-

terizzata da una rapida accumulazione del capitale e da uno spietato

sfruttamento degli operai, con la differenza, tuttavia, che il terrore

politico viene usato al posto delle leggi economiche che costrinsero

l’operaio del diciannovesimo secolo ad accettare le condizioni eco-

nomiche cui era esposto.

Neocapitalismo

Il polo esattamente opposto è rappresentato da talune idee propo-

ste da un gruppo di industriali negli Stati Uniti (ed anche in Francia)

che cercano una soluzione al problema industriale. La filosofia di

questo gruppo riunito in un «Council of Profit Sharing Industries» è

chiaramente e lucidamente esposta in Incentive Management da Ja-

mes F. Lincoln, che è stato negli ultimi trentotto anni il direttore ge-

nerale della Lincoln Electric Company. Il pensiero di questo gruppo

parte da premesse che in qualche modo ricordano i sopracitati critici

del capitalismo. «L’industria, scrive Lincoln, concentra la sua atten-

zione sulle macchine e trascura l’uomo, che è colui che progetta e

costruisce le macchine e, ovviamente, ha potenzialità molto maggio-

ri. Egli non prenderà in considerazione il fatto che degli ingegni na-

scosti compiano nel suo stabilimento dei lavori manuali nei quali

non hanno l’occasione e neppure l’incentivo di svilupparsi come

ingegni, o perfino di sviluppare la loro intelligenza e le loro facoltà

normali».3 L’autore crede che la mancanza di interesse dell’operaio

per il suo lavoro crei insoddisfazione che porta o alla diminuzione

della capacità produttiva dell’operaio o a discordie nell’industria e

alla lotta di classe. Egli considera la sua soluzione non come un or-

namento per il nostro sistema industriale, ma come problema vitale

per la sopravvivenza del capitalismo. «L’America, egli scrive, si tro-

va al bivio in questi problemi. Una decisione deve esser presa, e pre-

sto. C’è in generale molta incomprensione tra la gente, però si deve

scegliere. In questa decisione sta l’avvenire degli Stati Uniti e quello

3 J.F. LINCOLN, Incentive Management, pubblicato dalla Lincoln Electric Co., Cleveland

1951, pp. 113, 114 (corsivo mio).

209 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

dell’individuo».4 Egli critica, completamente in contrasto con la

maggior parte dei difensori del sistema capitalistico, la prevalenza

del movente del profitto nel sistema industriale. «Nell’industria, egli

scrive, la meta dell’attività aziendale che è affermata nei regolamenti

è di avere un "profitto", e soltanto profitto. Non c’è nessuno, tranne

gli azionisti, che riceve questo profitto, e generalmente pochi azioni-

sti sono lavoratori dell’azienda. Finché ciò non muterà, la meta del

profitto non provocherà nessun entusiasmo nei lavoratori. Questa

meta non serve e difatti la maggior parte degli operai avverte che si

dà già troppo profitto all’azionista».5

«L’operaio si risente di esser preso in giro con le teorie economi-

che sulle spese per i mezzi di produzione quando spesso vede che

queste spese sono sprecate dall’incompetenza e dall’egoismo dei

gradi superiori».6 Queste critiche sono quasi identiche a quelle fatte

da molti critici socialisti del capitalismo e rivelano una valutazione

sensata e realistica dei fatti umani ed economici. Tuttavia la filosofia

che sta dietro a ciò è tutto il contrario delle idee socialiste. Lincoln è

convinto «che lo sviluppo dell’individuo può verificarsi soltanto nel-

la lotta, accanitamente competitiva, per la vita».7 «L’egoismo è la

forza motrice che spinge il genere umano ad esser quello che è, per il

bene o per il male. Perciò è su questa forza che noi dobbiamo ap-

poggiarci e che dobbiamo guidare in modo adatto se vogliamo che il

genere umano progredisca».8 Egli poi si volge alla differenza tra

egoismo «stupido» e «intelligente»; il primo è l’egoismo che con-

sente all’uomo di rubare, il secondo quello che spinge l’uomo a lot-

tare per il perfezionamento, per diventare più ricco.9 Esaminando gli

incentivi al lavoro Lincoln afferma che, proprio come per l’atleta

non professionista l’incentivo non consiste nel denaro, così dobbia-

mo concludere che il denaro non è necessariamente un incentivo per

gli operai dell’industria, come non sono incentivi per il lavoro la

brevità dell’orario, la sicurezza, l’anzianità, le garanzie economiche

e una solida base per le trattative.10

Il solo incentivo potente, secon- 4 Op. cit., p. 117. 5 Op. cit., pp. 106, 107. 6 Op. cit., p. 108. 7 Op. cit., p. 72. 8 Op. cit., p. 89. 9 Op. cit., p. 91. 10 Op. cit., p. 99.

7. VARIE RISPOSTE 210

do lui, è «il riconoscimento delle nostre capacità da parte dei nostri

contemporanei e di noi stessi».11

Come pratica conseguenza di que-

ste idee, Lincoln suggerisce un metodo di organizzazione industriale

nel quale l’operaio sia «premiato per tutte le cose utili

che fa e punito se, sotto tutti i punti di vista, non fa le cose altret-

tanto bene che gli altri. Egli è il componente di una squadra, ed è

premiato o punito in dipendenza di quello che può fare e fa in tutte le

occasioni per vincere la partita».12

Applicando questo sistema

«...l’uomo è valutato da tutti quelli che hanno accurata conoscenza di

qualche fase del suo lavoro. In base a questa valutazione egli è pre-

miato o punito. Questo programma si svolge nello stesso modo che

si vede nei resoconti riguardanti la disputa di una partita o la sele-

zione di una squadra nazionale americana. L’uomo migliore riceve il

premio e il prestigio che egli si merita e desidera. Nel piano di retri-

buzioni qui descritto l’uomo viene ricompensato in proporzione di-

retta al suo contributo al successo dell’azienda. Il parallelo è eviden-

te. Ogni uomo viene promosso o retrocesso in rapporto alla sua resa

del momento. Egli è valutato tre volte all’anno. La somma di queste

valutazioni determina la sua quota nel premio e l’avanzamento.

Quando si comunica ad ogni uomo la sua valutazione, da parte dei

funzionari responsabili vien data risposta molto dettagliata ad ogni

domanda che egli intenda porre sul perché la sua valutazione sia

quella che è e su come questa possa esser migliorata».13

L’entità del

premio è determinata in questo modo: il 6% dell’utile è pagato agli

azionisti come dividendo. «Dopo aver provveduto ai dividendi met-

tiamo da parte una "quota seminale" per le attività future

dell’azienda. L’ammontare di questa "quota seminale" è determinato

dai dirigenti che si basano sulle operazioni del momento».14

Questa

quota viene usata per l’espansione dell’azienda e il rammoderna-

mento. Dopo queste deduzioni dall’utile globale tutto il rimanente

viene diviso come premio tra i lavoratori e i dirigenti. Durante gli

ultimi sedici anni il premio ha rappresentato un ammontare comples-

sivo che va da un minimo del 20% dei salari e degli stipendi per an-

no ad un massimo del 28% per anno. La media totale del premio per

11 Op. cit., p. 101. 12 Op. cit., p. 109 13 Op. cit., pp. 109, 110. 14 Op. cit., p. 111.

211 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

dipendente era di circa 40.000 in sedici anni, cioè 2.500 all’anno.

Tutti i lavoratori hanno, indipendentemente dal premio, la medesima

paga base che è consueta per ogni dato tipo di attività. Il costo medio

di un dipendente negli stabilimenti Lincoln per il 1950 era di 7.701

paragonato a quello di 3.705 della General Electric Co.15

Sotto que-

sto sistema la società Lincoln, che occupa circa mille tra operai e

impiegati, ha prosperato in notevole misura e il valore vendita dei

prodotti per dipendente è stato circa il doppio che altrove nel settore

dell’industria delle macchine elettriche. Il numero delle interruzioni

di lavoro 11negli stabilimenti Lincoln tra il 1934 e il 1945 era zero,

contro quello che va da un minimo di 11 a un massimo di 96 nel re-

sto dell’industria delle macchine elettriche. La percentuale di ricam-

bio della manodopera corrispondeva all’incirca solo al 25% di quella

di tutti gli altri stabilimenti industriali.16

Sotto un certo aspetto il principio che è attivo nel sistema

dell’incentive management è del tutto differente da quello proprio

del capitalismo tradizionale. Le paghe dell’operaio, invece di essere

indipendenti dagli sforzi e dai risultati del suo lavoro, sono collegate

ad esso. L’operaio partecipa dell’aumento dell’utile mentre

l’azionista riceve un reddito regolare che non è collegato altrettanto

direttamente ai guadagni dell’azienda.17

Le documentazioni

dell’azienda mostrano chiaramente come questo sistema porti ad un

incremento della produttività dell’operaio, a bassa rotazione della

manodopera, e all’assenza di scioperi. Ma se questo sistema differi-

sce sotto un importante aspetto dal concetto e dalla pratica del capi-

talismo tradizionale, esso è nello stesso tempo l’espressione di alcuni

tra i suoi più importanti principi, specialmente per quanto riguarda

l’aspetto umano. Esso si basa sul principio dell’egoismo e dello spi-

rito competitivo e della ricompensa in denaro come espressione di

riconoscimento sociale, e non cambia essenzialmente la posizione

dell’operaio nel processo del lavoro per quanto riguarda il significato

15 Poiché il premio è diviso tra lavoratori e dirigenti, si desidererebbe sapere quanto di questa

cifra media si riferisce ai salari e quanto alle somme pagate agli impiegati di grado elevato e

ai dirigenti, e anche se le cifre della General Electric Co. si riferiscono soltanto agli operai o

anche agli impiegati dei gradi superiori della burocrazia aziendale. 16 Cfr. LINCOLN, op. cit., p. 254 ss. 17 Non si può nemmeno dire, tuttavia, che non vi sia qualche correlazione, poiché i dividendi

pagati per azione crebbero dai 2 dollari del 1933 agli 8 dollari del 1941, calando a partire da

questo periodo ad una media di 6 dollari.

7. VARIE RISPOSTE 212

del lavoro stesso. Come Lincoln continua ad insistere, il modello di

questo sistema è la squadra di calcio, un gruppo di uomini che lotta-

no accanitamente contro altri fuori del gruppo, lottando anche l’uno

contro l’altro entro il gruppo e producendo risultati positivi in questo

spirito di cooperazione competitiva. Infine il sistema dell’incentive

management è la più logica conseguenza del sistema capitalistico.

Esso tende a trasformare ogni uomo, l’operaio e l’impiegato come il

direttore, in un piccolo capitalista; tende a incoraggiare lo spirito di

competizione e di egoismo in tutti e a trasformare il capitalismo in

modo tale che esso si diffonda in tutto il paese.18

Il sistema di divi-

sione degli utili non è tanto differente dalle tradizionali pratiche ca-

pitalistiche quanto pretenderebbe di essere. Esso si presenta come

una forma glorificata del sistema di cottimo combinato con una certa

18 C'è un buon numero di aziende organizzate nel Council of Profit Sharing Industries, che

hanno nel loro programma di attività un piano più o meno radicale di divisione degli utili. I

loro principi sono i seguenti:

«1. Il Consiglio riconosce come divisione degli utili ogni procedura con la quale un datore

di lavoro paga a tutti i dipendenti, in aggiunta alla giusta aliquota di paga normale, delle quote

speciali in contanti o differite, basate non soltanto sul rendimento individuale o di squadra, ma

sull'andamento generale dell'azienda.

2. Il Consiglio considera la persona umana come il fattore essenziale della vita economi-

ca. Una azienda libera deve basarsi sulla libertà di occasioni per ognuno di realizzare il mas-

simo sviluppo personale.

3. Il Consiglio ritiene che la divisione degli utili offra un mezzo molto importante per dare

agli operai la libertà di occasioni per partecipare alla ricompensa della loro cooperazione con il

capitale e con la direzione.

4. Mentre il Consiglio considera che quello della divisione degli utili sia un principio vali-

do di per sé, e come tale interamente giustificato, ritiene che una divisione degli utili ben pia-

nificata sia il modo migliore per sviluppare la cooperazione di gruppo e l'efficienza.

5. Il Consiglio è dell'opinione che una pratica allargata della divisione degli utili favori-

rebbe la stabilizzazione dell'economia. La flessibilità delle retribuzioni come quella dei prezzi

e degli utili darebbe la maggior garanzia del rapido assestamento di condizioni soggette a

mutamenti, sia in alto che in basso.

6. Il Consiglio afferma che la stabilizzazione della prosperità si può mantenere soltanto a

condizione di un equilibrato rapporto tra prezzi, paghe e dividendi. Esso crede che la nostra

economia libera deve sopravvivere, la direzione deve accettare la responsabilità dell'incarico di

curare affinché questa forma di rapporto prevalga.

7. Il Consiglio ritiene d'importanza preminente il vero spirito associativo che si genera da

una onesta divisione degli utili. L'allargarsi di questo spirito è la sola soluzione ai contrasti

nell'industria. Il Consiglio è convinto, attraverso l'esperienza dei suoi componenti, che questo

metodo sarà contraccambiato dalla maggior parte della manodopera.

8. Il Consiglio si è impegnato ad allargare in ogni maniera pratica la divisione degli utili.

Nel medesimo tempo esso non offre la divisione degli utili come una panacea. Nessuna azione

o piano nel campo delle relazioni industriali può aver successo se non è ben strutturato e se

non ha almeno dietro di sé il sincero desiderio di lealtà della direzione e la fede della direzione

nell'importanza, la dignità e la partecipazione dell'individuo umano».

213 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

noncuranza per l’entità della percentuale di utile pagata agli azioni-

sti. Nonostante quel che si proclama sulla «persona umana», ogni

cosa, la valutazione del lavoro come l’entità del premio ai lavoratori

e del dividendo, è determinata dalla direzione in una maniera auto-

cratica. Il principio essenziale è la «divisione degli utili» e non la

«divisione del lavoro». Tuttavia anche se i principi non sono nuovi,

il concetto della divisione degli utili è interessante in quanto è il fine

logico per un neocapitalismo nel quale l’insoddisfazione dell’operaio

viene superata facendogli sentire che è anch’egli un capitalista e un

attivo partecipe del sistema.

Socialismo

Al di fuori dell’autoritarismo fascista o stalinista e del neocapita-

lismo del tipo dell’incentive management, la terza grande reazione

contro il capitalismo e la critica di esso è costituita dalla teoria socia-

lista. Essa è essenzialmente una visione teorica in contrasto col fa-

scismo e con lo stalinismo che diventarono realtà politiche e sociali.

Così è nonostante il fatto che governi socialisti siano stati al potere

per un periodo più o meno lungo in Inghilterra e nei paesi scandina-

vi, poiché la maggioranza sulla quale si fondava il loro potere era

così esigua che essi non potevano trasformare la società oltre gli ini-

ziali abbozzi di realizzazione del loro programma.

Disgraziatamente, mentre scrivo, le parole «socialismo» e «mar-

xismo» sono state caricate di una tale forza emotiva che è difficile

esaminare questi problemi in un’atmosfera serena. L’associazione

che viene evocata oggi da queste idee in molta gente è quella di

«materialismo», «ateismo», «violenza sanguinaria» o simili; in bre-

ve, cose odiose e malvage. Si può comprendere tale reazione soltan-

to se si considera la misura nella quale le parole possono assumere

una funzione magica e se si tien conto della diminuzione, così carat-

teristica della nostra epoca, della serenità di pensiero e cioè

dell’obiettività.

La reazione irrazionale che è evocata dalle parole socialismo e

marxismo è favorita dalla sorprendente ignoranza della maggior par-

te di coloro che hanno crisi isteriche quando sentono queste parole.

Nonostante il fatto che tutti gli scritti di Marx e degli altri socialisti

possano essere rintracciati e letti da chiunque, la maggior parte di

7. VARIE RISPOSTE 214

quelli che reagiscono con più violenza al socialismo e al marxismo

non ha mai letto una parola di Marx, e molti altri ne hanno una co-

noscenza del tutto superficiale. Se così non fosse, sembrerebbe im-

possibile che uomini con qualche capacità di intendere e di ragionare

abbiano potuto falsare l’idea di socialismo e di marxismo nella misu-

ra che è oggi consueta. Perfino molti liberali, e coloro che sono rela-

tivamente esenti da reazioni isteriche, credono che il «marxismo» sia

un sistema basato sull’idea che l’interesse al guadagno materiale sia

il più attivo potere esistente nell’uomo, un sistema che tenda ad au-

mentare le richieste materiali e le loro soddisfazioni. Se ricordiamo

soltanto che il principale argomento in favore del capitalismo è

l’idea che l’interesse al guadagno materiale è il più importante in-

centivo al lavoro, possiamo facilmente vedere come proprio quel

materialismo che si attribuisce al socialismo sia il tratto più caratteri-

stico del capitalismo; e se qualcuno si desse la pena di studiare gli

scrittori socialisti con un po’ di obiettività, troverebbe che il loro

orientamento è esattamente l’opposto e che essi criticano il capitali-

smo per il suo materialismo, per il suo effetto paralizzante sui poteri

genuinamente umani dell’uomo. Infatti il socialismo, in tutte le sue

diverse scuole, può essere riconosciuto soltanto come uno dei più

significativi movimenti idealistici e morali della nostra epoca.

Indipendentemente da ogni altra considerazione, non si può far a

meno di deplorare la stupidità politica di questa falsa presentazione

del socialismo da parte delle democrazie occidentali. Lo stalinismo

realizzava le sue vittorie in Russia e in Asia proprio con l’attrattiva

che l’idea di socialismo esercitò su vaste masse della popolazione

nel mondo. L’attrattiva sta nello stesso idealismo del concetto socia-

lista e nell’incoraggiamento spirituale e morale che esso fornisce.

Proprio come Hitler usò la parola «socialismo» per dare maggior

lustro alle sue idee razziali e nazionaliste, Stalin si appropriò illeci-

tamente del concetto di socialismo e di marxismo per gli scopi della

sua propaganda. Quel che egli proclamava era falso nei punti fon-

damentali. Egli separò l’aspetto puramente economico del sociali-

smo, quello della socializzazione dei mezzi di produzione, dal con-

cetto generale di socialismo e ne pervertì i fini umani e sociali nel

loro opposto. Il sistema sovietico odierno, nonostante la proprietà

statale dei mezzi di produzione, è forse più vicino alle forme iniziali

e puramente sfruttatrici del capitalismo occidentale di quel che non

215 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

sia ogni concepibile idea di una società socialista. Lotta ossessiva

per il progresso industriale, spietata indifferenza per l’individuo e

brama di potere personale sono i suoi moventi principali. Accettando

la tesi che socialismo e marxismo siano più o meno identici al co-

munismo sovietico, rendiamo nel campo della propaganda il più

gran servizio che i russi possano desiderar di ottenere. Invece di ri-

velare la falsità delle loro affermazioni, noi le confermiamo. Questo

può non essere un problema per gli Stati Uniti dove i concetti socia-

listi non hanno forte presa sulle menti della popolazione, ma costi-

tuisce un problema veramente serio per l’Europa e specialmente per

l’Asia dove avviene tutto l’opposto. Per combattere l’attrattiva del

comunismo sovietico in queste parti del mondo, dobbiamo svelarne

l’inganno e non confermarlo.

Vi sono differenze considerevoli tra le diverse scuole del pensie-

ro socialista quali si sono sviluppate dalla fine del diciottesimo seco-

lo, e si tratta di differenze significative. Tuttavia, come accade tanto

spesso nella storia del pensiero umano, le discussioni tra i rapporti

delle diverse scuole nascondono il fatto che gli elementi comuni ai

vari pensatori socialisti sono molto più numerosi, e più decisivi di

quanto non siano le loro diversità.

Si può dire che il socialismo come movimento politico, e nello

stesso tempo come teoria che si interessa alle leggi della società e

alla diagnosi dei suoi mali, abbia avuto inizio nella Rivoluzione

francese, con Babeuf. Egli parla a favore dell’abolizione della pro-

prietà privata del suolo, e richiede il consumo comune dei frutti della

terra e l’abolizione delle differenze tra ricchi e poveri, tra governanti

e governati. Egli ritiene giunto il tempo per una repubblica degli

eguali (égalitaires), «la grande ospitale dimora (hospice) aperta a

tutti».

In contrasto con la teoria relativamente semplice e primitiva di

Babeuf, Charles Fourier, la cui prima opera, Théorie de Quatre

Mouvements, apparve nel 1808, offre una diagnosi e una teoria della

società molto più complesse ed elaborate. Egli faceva dell’uomo e

delle sue passioni una base per la comprensione della società e cre-

deva che una società sana dovesse servire non tanto al conseguimen-

to di una crescente ricchezza materiale, quanto alla realizzazione

della nostra passione fondamentale: l’amore fraterno. Fra le passioni

umane egli mette l’accento particolarmente sulla «passione farfalla»

7. VARIE RISPOSTE 216

cioè il bisogno dell’uomo di mutamenti, che corrisponde alle molte e

varie potenzialità presenti in ogni essere umano. Il lavoro dovrebbe

essere un godimento (travail attrayant) e dovrebbero esser sufficien-

ti due ore di lavoro al giorno. Contro l’organizzazione universale dei

grandi monopoli in tutti i settori dell’industria, egli postulò associa-

zioni comunali nel campo della produzione e del consumo, associa-

zioni libere e volontarie nelle quali l’individualismo si sarebbe com-

binato spontaneamente col collettivismo. Soltanto in questo modo la

terza fase storica, quella dell’armonia, può superare le altre due pre-

cedenti: quella delle società basate sulle relazioni tra schiavo e pa-

drone, e quella tra salariati e datori di lavoro.19

Mentre Fourier era un teorico dominato da un pensiero un poco

ossessivo, Robert Owen era un uomo pratico, direttore di uno tra i

meglio diretti stabilimenti tessili della Scozia. Anche per Owen il

fine di una società non era principalmente quello di un aumento della

produzione, ma il miglioramento della cosa più preziosa che vi sia:

l’uomo. Come quello di Fourier, il suo pensiero era fondato su con-

siderazioni psicologiche del carattere umano. Se gli uomini nascono

con certi tratti caratteristici, il loro carattere è definitivamente deter-

minato solamente dalle circostanze in cui essi vivono. Se le condi-

zioni sociali della vita sono soddisfacenti, il carattere dell’uomo svi-

lupperà le sue virtù immanenti. Egli credeva che in tutta la storia

precedente gli uomini fossero stati educati soltanto a difendersi o a

distruggere gli altri. Si doveva creare un nuovo ordine sociale in cui

gli uomini dovevano essere educati con principi che permettessero

loro di agire assieme e di creare dei vincoli reali e genuini tra gli in-

dividui. Gruppi federativi da 300 fino a 2000 persone copriranno la

terra e saranno organizzati secondo il principio collettivo entro i

gruppi e fra i gruppi. In ogni comunità l’amministrazione locale ope-

rerà nell’armonia più stretta con ogni individuo.

Negli scritti di Proudhon si può trovare una condanna perfino an-

cor più violenta del principio di autorità e di gerarchia. Per lui il pro-

blema centrale non sta nella sostituzione di un regime politico con

un altro, ma nella costruzione di un ordine politico che sia

l’espressione della società stessa. Egli considera causa primaria di

19 Cfr. Charles FOURIER, Il mondo delle passioni ovvero la vita del falansterio, tr. it., Roma

1947.

217 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

tutti i disordini e di tutti i mali della società l’organizzazione unica e

gerarchica dell’autorità e crede che «la limitazione del compito dello

stato è questione di vita o di morte per la libertà sia collettiva che

individuale».

«Attraverso il monopolio, egli dice, il genere umano ha preso

possesso del mondo, e attraverso l’associazione esso diventerà il suo

vero padrone». La sua visione di un nuovo ordine sociale è basata

sull’idea di «...reciprocità, dove tutti i lavoratori invece di lavorare

per un datore di lavoro che li paga e che prende i prodotti, lavorano

l’uno per l’altro e così collaborano alla produzione comune di cui si

dividono il profitto». Quel che è essenziale per lui è che queste asso-

ciazioni siano libere e spontanee, e non siano imposte dallo stato

come avviene nelle officine sociali finanziate dallo stato proposte da

Louis Blanc. Un tale sistema di controllo statale, egli dice, signifi-

cherà un numero di grandi associazioni «nelle quali la manodopera

sarà irreggimentata e infine asservita attraverso la politica statale del

capitalismo. Che cosa avrebbero guadagnato la libertà, la felicità

universale, la civiltà? Nulla. Noi avremmo solamente scambiato le

nostre catene e l’idea sociale non avrebbe fatto un passo avanti; noi

saremmo ancora sotto il medesimo potere arbitrario per non dire sot-

to il medesimo fatalismo economico». Come questa citazione mostra

bene, nessuno ha visto più chiaramente di Proudhon, nella metà del

diciannovesimo secolo, il pericolo che si è verificato sotto lo stalini-

smo. Egli era anche consapevole del pericolo del dogmatismo, che si

sarebbe mostrato così disastroso nello sviluppo della teoria marxista,

ed espresse ciò molto chiaramente in una lettera a Marx. «Cerchia-

mo, egli scrive, di trovare assieme, se desiderate, quali sono le leggi

della società, il modo con cui esse si attuano e il metodo con cui

possiamo scoprirle, ma per Dio, dopo aver demolito tutti i dogmi,

non pensiamo di dover esser noi stessi a indottrinare il popolo. Non

cadiamo nella contraddizione del vostro compatriota Lutero che co-

minciò con scomuniche ed anatemi a creare una teologia protestante,

dopo aver abbattuto la teologia cattolica».20

Il pensiero di Proudhon

è basato su di un concetto etico nel quale il rispetto di sé è la prima

massima della morale. Come seconda massima, al rispetto di sé se-

gue il rispetto del nostro prossimo. Questa preoccupazione per il mu-

20 Citato da E. DOLLEANS, Proudhon, cit., p. 96.

7. VARIE RISPOSTE 218

tamento interiore dell’uomo come base per un nuovo ordine sociale

era espressa da Proudhon in una lettera dove diceva «il vecchio

mondo si trova in un processo di dissoluzione... si può cambiarlo

soltanto con l’integrale rivoluzione nelle idee e nei cuori...».21

La medesima consapevolezza dei pericoli del centralismo e la

stessa fede nei poteri creativi dell’uomo, sebbene mescolate con una

glorificazione romantica della distruzione, si possono trovare negli

scritti di Michail Bakunin; in una lettera del 1878 egli dice: «Il gran-

de maestro di noi tutti, Proudhon, ha detto che la più disgraziata

combinazione che potrebbe accaderci sarebbe che il socialismo si

unisse all’assolutismo; lo sforzo degli uomini per la libertà economi-

ca e il benessere materiale attraverso la dittatura e la concentrazione

di tutti i poteri politici nello stato. Possa il futuro proteggerci dai fa-

vori del dispotismo, ma possa esso preservarci dalle disgraziate con-

seguenze e stoltezze del socialismo indottrinato, o di stato... Nulla di

vivente e di umano può prosperare senza libertà, e una forma di so-

cialismo che eliminasse la libertà o che non la riconoscesse come il

solo principio e la sola base creativa, ci porterebbe direttamente alla

schiavitù e alla bestialità».

Cinquant’anni dopo la lettera di Proudhon a Marx, Kropotkin

riassumeva la sua idea del socialismo nell’affermazione che il più

completo sviluppo dell’individualità «deve accordarsi con il più alto

sviluppo dell’associazione volontaria in tutti i suoi aspetti, in tutti i

suoi possibili gradi, e per tutti i possibili scopi; un’associazione che

sia sempre mutevole, che porti in sé gli elementi della propria durata,

che assuma le forme che meglio corrispondono in ogni dato momen-

to ai molteplici sforzi di tutti». Kropotkin come molti suoi predeces-

sori socialisti accentua le tendenze immanenti nell’uomo e nel regno

animale alla cooperazione e all’aiuto reciproco.

A seguire il pensiero etico ed umanistico di Kropotkin v’era uno

degli ultimi grandi rappresentanti del pensiero anarchico, Gustav

Landauer. Riferendosi a Proudhon egli disse che la rivoluzione so-

ciale non ha la minima somiglianza con la rivoluzione politica, che

«essa, pur non potendo diventare e rimanere vitale senza l’intervento

della diversa rivoluzione politica, è un’edificazione pacifica,

un’opera di organizzazione con un nuovo spirito e per un nuovo spi-

21 Lettera a Jules Michelet (gennaio 1860) citato da E. DOLLEANS, op. cit., p. 7.

219 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

rito, e nient’altro». Egli definì compito dei socialisti e del loro mo-

vimento «preparare l’ammorbidimento degli animi induriti, affinché

quanto è stato sepolto ritorni in superficie, affinché quanto è vera-

mente vivo, e ora sembra morto per sempre, risorga o torni a svilup-

parsi».22

L’esame delle teorie di Marx e di Engels richiede molto più spa-

zio di quello delle teorie degli altri pensatori socialisti sopra ricorda-

ti: sia perché le loro teorie comprendono un settore più ampio, sono

più complesse, e non prive di contraddizioni, sia perché la scuola

marxista del socialismo è diventata la forma dominante assunta nel

mondo dal pensiero socialista.

Come in tutti gli altri socialisti l’interesse fondamentale di Marx

è l’uomo. «Esser radicale, egli scrisse una volta, vuol dire andare

alla radice, e la radice è l’uomo stesso».23

La storia del mondo è

niente altro che la creazione dell’uomo, è la storia della nascita

dell’uomo.24

Ma tutta la storia è anche la storia dell’alienazione

dell’uomo da se stesso, dai suoi umani poteri; «la cristallizzazione

del nostro stesso prodotto in una forza obiettiva sopra di noi, che si

sottrae al nostro controllo, frustrando le nostre aspettative, annichi-

lendo le nostre previsioni, è uno dei più importanti fattori in tutto lo

sviluppo storico precedente». L’uomo è stato l’oggetto delle circo-

stanze; egli deve diventare il soggetto; in modo che «l’uomo diventi

per l’uomo l’essere più alto». La libertà per Marx non è soltanto li-

bertà dagli oppressori politici ma la libertà dell’uomo dal dominio

delle cose e delle circostanze. L’uomo libero è l’uomo ricco, ma non

ricco in senso economico, bensì ricco in senso umano. L’uomo ricco

per Marx è l’uomo che è molto e non quello che ha molto.25

L’analisi della società e del processo storico deve cominciare con

l’uomo, non con un’astrazione ma con l’uomo reale e concreto nelle

sue qualità fisiologiche e psicologiche. Essa deve cominciare con un

concetto dell’essenza dell’uomo e lo studio dell’economia e della

22 Citato da M. BUBER, Pfade in Utopia, Verlag Lambert Schneider, Heidelberg 1950; trad.

it., Sentieri in Utopia, Edizioni di Comunità, Milano 1967, pp. 66 e 62. 23 In Russia il partito socialista rivoluzionario aderì ad un concetto del socialismo che contene-

va molti elementi che si possono trovare nelle scuole socialiste sopracitate, piuttosto che in

quella del marxismo. Cfr. I.N. STEINBERG, In the Workshop of the Revolution, Rinehart &

Company, Inc., New York 1953. 24 Cfr. «Nationalökonomie und Philosophie», cit., in Karl MARX, Die Frühschriften, p. 247. 25 Die Frühschriften, cit., p. 243 ss..

7. VARIE RISPOSTE 220

società serve soltanto allo scopo della comprensione di come le cir-

costanze abbiano mutilato l’uomo, di come egli sia diventato aliena-

to da se stesso e dai suoi poteri. La natura dell’uomo non può esser

dedotta dalla manifestazione specifica della natura umana quale essa

è determinata dal regime capitalistico. Il nostro fine deve essere di

saper quel che è buono per l’uomo. Ma, dice Marx, «per sapere quel

che è utile per un cane si deve studiare la natura del cane. Questa

natura stessa non deve esser dedotta dal principio di utilità. Appli-

cando ciò all’uomo, colui che volesse criticare tutti gli atti, i movi-

menti, le relazioni ecc. dell’uomo attraverso il principio di utilità

dovrebbe innanzitutto trattare della natura umana in generale e poi

della natura umana come è modificata in ogni epoca storica. Ben-

tham trattò l’argomento con faciloneria. Con la più lamentevole in-

genuità egli prese il moderno bottegaio e in particolare il bottegaio

inglese per l’uomo normale».26

Per Marx il fine dello sviluppo dell’uomo è una nuova armonia

tra uomo e uomo e tra uomo e natura, uno sviluppo nel quale la cor-

relazione dell’uomo con i suoi simili corrisponderà al suo più impor-

tante bisogno umano. Il socialismo per lui è «una associazione nella

quale il libero sviluppo di ognuno è la condizione per il libero svi-

luppo di tutti», una società in cui «il pieno e libero sviluppo di ogni

individuo diventa il principio guida». Egli chiama questo fine la rea-

lizzazione del naturalismo e dell’umanesimo, e afferma che esso è

diverso «sia dall’idealismo che dal materialismo e però combina la

verità che vi è in ambedue».27

In qual modo Marx pensa che questa «emancipazione dell’uomo»

possa esser raggiunta? La sua soluzione è basata sull’idea che nel

sistema capitalistico di produzione il processo di autoalienazione ha

raggiunto il culmine poiché l’energia fisica dell’uomo è diventata

una merce e di conseguenza l’uomo è diventato una cosa. La classe

operaia, egli dice, è la classe più alienata della popolazione, e pro-

prio per questa ragione essa dirigerà la lotta per l’emancipazione

umana. Nella socializzazione dei mezzi di produzione egli vede la

condizione per la trasformazione dell’uomo in attivo e responsabile

partecipe al processo economico e sociale, e per il superamento della

26 Karl MARX, Il capitale. 27 Op. cit.

221 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

scissione tra la natura sociale e quella individuale dell’uomo. «Sol-

tanto quando l’uomo abbia riconosciuto e organizzato le sue forces

propres come forze sociali (non è dunque necessario, come pensa

Rousseau, cambiare la natura dell’uomo, privarlo delle sue forces

propres, e dargliene di nuove che abbiano un carattere sociale) e di

conseguenza non scinda più da se stesso il suo potere sociale sotto

forma di potere politico (cioè non stabilisca più lo stato come la sfe-

ra della guida organizzata), soltanto allora sarà raggiunta

l’emancipazione dell’umanità».28

Marx presume che se l’operaio non sarà più «impiegato», la natu-

ra e il carattere del suo processo di lavoro cambieranno. Il lavoro

diventerà un’espressione significativa dei poteri umani piuttosto che

una fatica senza significato. Quanto sia stato importante in Marx

questo nuovo concetto del lavoro, risulta evidente quando si conside-

ri che egli criticava persino le proposte della completa abolizione del

lavoro infantile nel programma di Gotha del partito socialista tede-

sco.29

Benché naturalmente egli fosse contro lo sfruttamento dei

bambini, si oppose al principio che i bambini non dovessero lavorare

affatto ma chiese che l’educazione si accompagnasse al lavoro ma-

nuale. «Dal sistema dell’officina si sviluppa, egli scrive, come Ro-

bert Owen ha mostrato nei particolari, il germe dell’educazione del

futuro, un’educazione che richiede, nell’educazione di ogni bambino

sopra una data età, una combinazione feconda di lavoro con istruzio-

ne e disciplina umanistica, non soltanto come metodo per aumentare

l’efficienza della produzione, ma come il solo metodo per produrre

esseri umani completamente sviluppati».30

Per Marx come per Fou-

rier il lavoro deve diventare attraente e corrispondere ai bisogni e ai

desideri dell’uomo. Per questa ragione egli suggeriva, come fecero

Fourier e altri, che nessuno si specializzasse in un solo tipo di lavo-

ro, ma che lavorasse in diverse occupazioni, in corrispondenza ai

suoi diversi interessi e alle sue diverse capacità.

Marx vide nella trasformazione economica della società dal capi-

talismo al socialismo il mezzo decisivo per la liberazione e

l’emancipazione degli uomini, per una «vera democrazia». Mentre

28 Karl MARX, La questione ebraica. 29 Per questo argomento sono molto debitore a G. Fuchs per le sue osservazioni e i suoi sugge-

rimenti. 30 Karl MARX, Il capitale.

7. VARIE RISPOSTE 222

nei suoi scritti più tardi l’esame dei problemi economici svolge una

parte maggiore di quello dell’uomo e dei suoi umani bisogni, la sfera

economica non diventò mai in nessuna parte fine a se stessa e non

cessò mai di essere un mezzo per la soddisfazione dei bisogni umani.

Questo è particolarmente evidente nel suo esame di quello che egli

chiama «comunismo volgare» con il quale egli intende un comuni-

smo nel quale l’accento è posto esclusivamente sulla abolizione della

proprietà privata dei mezzi di produzione. «La proprietà fisica e im-

mediata resta per esso [il comunismo volgare] il solo scopo della

vita e dell’esistenza, la qualità del lavoro non è mutata ma soltanto

estesa a tutti gli esseri umani... Questo comunismo negando comple-

tamente la personalità dell’uomo è soltanto la conseguente espres-

sione della proprietà privata che è esattamente la negazione

dell’uomo... Il comunismo volgare è soltanto la perfezione

dell’invidia e del processo livellatore sulla base di un minimo imma-

ginario... Quanto poco questa abolizione della proprietà privata sia

una reale appropriazione [dei poteri umani] è dimostrato dalla nega-

zione astratta dell’intero mondo di educazione e di civiltà; il ritorno

alla innaturale semplicità dell’uomo povero non è un passo oltre la

proprietà privata, ma costituisce uno stadio che non è nemmeno

giunto alla proprietà privata».31

Molto più complesse e sotto diversi aspetti contraddittorie sono le

opinioni di Marx e di Engels sulla questione dello stato. Non c’è

dubbio che Marx ed Engels fossero dell’opinione che il fine del so-

cialismo era non soltanto una società senza classi ma una società

senza stato, senza stato almeno nel senso, come disse Engels, che lo

stato deve avere la funzione di «amministrare le cose» e non quella

di «governare gli uomini». Engels scrisse nel 1874, in completo ac-

cordo con la formulazione che Marx diede nel rapporto della com-

missione per l’esame delle attività dei bakuninisti nel 1872, «che

tutti i socialisti sono concordi nel credere che lo stato decadrà come

risultato della vittoria del socialismo». Queste opinioni antistataliste

di Marx e di Engels e la loro opposizione ad una forma centralizzata

di autorità politica trovano un’espressione particolarmente chiara

nelle affermazioni di Marx sulla Comune di Parigi. Nella sua allocu-

31 Karl MARX, Nationale ökonomie und Philosophie, Gustav Kiepenheuer, Colonia e Berlino

1950.

223 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

zione al Consiglio generale dell’Internazionale sulla guerra civile in

Francia, Marx insisteva sulla necessità del decentramento al posto di

un potere statale centralizzato le cui origini risiedono nel principio

della monarchia assoluta. Vi sarebbe stata una comunità molto de-

centrata. «Le poche, ma importanti funzioni, che rimanevano ancora

in piedi per un governo centrale, dovevano essere trasferite a funzio-

nari comunali, vale a dire strettamente responsabili... La costituzione

comunale avrebbe restituito al corpo sociale tutte le forze che finora

sono state consumate dall’escrescenza parassitaria "stato", che si

alimenta sulla società e ne ostacola il libero movimento». Egli vede

nella Comune «la forma politica finalmente scoperta, in cui si poteva

compiere la liberazione economica del lavoro». La Comune voleva

«fare della proprietà individuale una verità, convertendo i mezzi di

produzione, la terra e il capitale, in semplici strumenti del lavoro

libero e associato, e associato nelle cooperative di produzione».32

Eduard Bernstein segnalò la somiglianza tra questi concetti di

Marx e le opinioni antistataliste e anticentralizzatrici di Proudhon,

mentre Lenin affermò che le dichiarazioni di Marx non erano affatto

indicative del suo appoggio al decentramento. Sembra che Bernstein

e Lenin avessero ragione nella loro interpretazione della posizione di

Marx-Engels e che la soluzione della contraddizione sta nel fatto che

Marx era per il decentramento e il superamento dello stato come il

fine al quale il socialismo dovrebbe tendere e a cui infine giungereb-

be, ma egli pensava che questo sarebbe potuto avvenire soltanto do-

po e non prima che la classe operaia si fosse impossessata del potere

politico e avesse trasformato lo stato. Per Marx l’impadronirsi dello

stato era il mezzo necessario per giungere alla sua fine: l’abolizione.

Nondimeno se si considerano le attività di Marx nella Prima In-

ternazionale, il suo atteggiamento dogmatico e intollerante verso

chiunque dissentisse minimamente da lui, vi possono essere scarsi

dubbi che la interpretazione centralista che Lenin fece di Marx non

fosse ingiusta anche se l’accordo di Marx con Proudhon sul decen-

tramento costituiva pure una parte genuina delle sue opinioni e delle

sue dottrine. Proprio in questo centralismo di Marx sta la base del

tragico sviluppo dell’idea socialista in Russia. Mentre Lenin poteva

aver sperato almeno in un finale raggiungimento del decentramento,

32 Citato da M. BUBER, Sentieri in Utopia, cit., p. 105.

7. VARIE RISPOSTE 224

idea che effettivamente era manifesta nello stesso concetto dei So-

viet, dove l’atto di prendere decisioni restava confinato nel più ri-

stretto e più concreto livello di gruppi decentralizzati, lo stalinismo

sviluppò un solo lato della contraddizione, il principio accentratore,

nella pratica della più spietata organizzazione statale che il mondo

moderno abbia conosciuto, e che supera persino i principi di accen-

tramento seguiti dal fascismo e dal nazismo.

In Marx la contraddizione va più a fondo di quanto non sembri

nella semplice contraddizione tra i principi di accentramento e de-

centramento. Da un lato Marx, come tutti gli altri socialisti, era con-

vinto che l’emancipazione dell’uomo non era principalmente una

questione politica, ma una questione economica e sociale; che la ri-

sposta alla libertà non si doveva ricercare nel mutamento della forma

politica dello stato ma nella trasformazione economica e sociale del-

la società. D’altra parte, nonostante le loro stesse teorie, Marx e En-

gels erano per diversi rispetti prigionieri del concetto tradizionale del

dominio della politica sui settori economici e sociali. Essi non riu-

scivano a liberarsi dell’opinione tradizionale dell’importanza dello

stato e del potere politico e dell’idea del significato preminente del

semplice cambiamento politico, idea che aveva costituito il principio

guida delle grandi rivoluzioni borghesi del diciassettesimo e del di-

ciottesimo secolo. Sotto questo aspetto Marx ed Engels erano pensa-

tori molto più «borghesi» di quanto non lo fossero uomini come

Proudhon, Bakunin, Kropotkin e Landauer. Per paradossale che

sembri, lo sviluppo leninista del socialismo rappresenta una regres-

sione verso il concetto borghese dello stato e del potere politico,

piuttosto che il nuovo concetto socialista come era espresso tanto più

chiaramente da Owen, Proudhon e altri. Questo paradosso del pen-

siero di Marx è stato chiaramente espresso da Buber: «Marx ha ac-

cettato questi elementi inseparabili dell’idea comunarda, senza met-

terli a confronto col proprio centralismo, senza decidere fra le due

posizioni. La sua noncuranza della profonda problematica che qui si

schiude dipende dall’egemonia del punto di vista politico che per lui

era legge dovunque si trattasse della rivoluzione, di prepararla e di

attuarla. Delle tre forme di pensiero nelle cose della vita pubblica,

l’economica, la sociale e la politica, Marx ha dominato la prima con

metodica maestria, alla terza era appassionatamente attaccato, con

quella sociale (per quanto assurdo ciò possa suonare agli orecchi di

225 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

un marxista senza riserve) solo di rado è entrato in stretto contatto, e

mai essa è diventata per lui determinante».33

Strettamente collegato al centralismo di Marx è il suo atteggia-

mento verso l’azione rivoluzionaria. Se è vero che Marx ed Engels

ammisero che il controllo socialista dello stato non doveva esser ne-

cessariamente conquistato con la forza e la rivoluzione (come per

esempio in Inghilterra e negli Stati Uniti), è egualmente vero che,

tutto considerato, essi credevano che la classe operaia, per realizzare

i suoi fini, dovesse impadronirsi del potere con una rivoluzione. Pra-

ticamente essi erano favorevoli al servizio militare obbligatorio e a

qualche periodo di guerre internazionali come mezzi che avrebbero

facilitato la conquista rivoluzionaria del potere. La nostra generazio-

ne è testimone dei tragici risultati della forza e della dittatura in Rus-

sia; abbiamo visto che l’applicazione della forza entro la società è

altrettanto distruttiva per il benessere umano quanto lo è se applicata

in forma di guerra nelle relazioni internazionali. Ma quando l’accusa

principale che viene oggi formulata contro Marx si fonda prima di

tutto sui suoi appelli alla forza e alle rivoluzioni, ci troviamo di fron-

te ad una distorsione dei fatti. L’idea della rivoluzione politica non è

un’idea specificamente marxista o socialista, ma è l’idea tradizionale

della classe media, cioè della società borghese, degli ultimi trecento

anni. A causa del fatto che la classe media credeva che l’abolizione

del potere politico investito in una monarchia, e che la conquista del

potere politico da parte del popolo fossero la soluzione del problema

sociale, la rivoluzione politica era vista come un mezzo per il rag-

giungimento della libertà. La nostra democrazia moderna è un risul-

tato della forza e della rivoluzione, e la rivoluzione di Kerenskij nel

1917 e la rivoluzione tedesca del 1918 furono favorevolmente accol-

te nei paesi democratici occidentali. È il tragico errore di Marx, un

errore che ha contribuito allo sviluppo dello stalinismo, quello di

non essersi liberato dalla tradizionale sopravvalutazione del potere

politico e della forza; ma queste idee facevano parte dell’eredità pre-

cedente e non delle nuove concezioni socialiste.

Anche un breve esame di Marx riuscirebbe incompleto senza un

riferimento alla sua teoria del materialismo storico. Nella storia del

pensiero questa teoria è probabilmente il più duraturo e importante

33 BUBER, op. cit., p. 114.

7. VARIE RISPOSTE 226

contributo di Marx alla comprensione delle leggi che governano la

società. La sua premessa è che prima che l’uomo possa impegnarsi

in qualsiasi genere di attività culturale egli deve produrre i mezzi per

la sua sussistenza fisica. I modi con cui egli produce e consuma sono

determinati da un certo numero di condizioni obiettive: la sua pro-

pria costituzione fisiologica, le energie produttive che egli ha a sua

disposizione e che, a loro volta, sono condizionate dalla fertilità del

terreno, dalle risorse naturali, dalle comunicazioni e dalle tecniche

che egli sviluppa. Marx presume che le condizioni materiali

dell’uomo determinino i suoi modi di produzione e di consumo e che

questi, a loro volta, determinino la sua organizzazione politico-

sociale, la sua maniera di vivere, e infine il suo modo di pensare e di

sentire. La diffusa incomprensione aveva fatto consistere nella lotta

per il guadagno il principale movente dell’uomo. In realtà questa è

l’opinione dominante espressa nell’ambito del pensiero capitalistico,

opinione che ha sempre insistito sul fatto che il più importante in-

centivo al lavoro dell’uomo sia il suo interesse al compenso moneta-

rio. Il concetto di Marx della rilevanza del fattore economico non era

un concetto psicologico, cioè una motivazione economica in senso

soggettivo; era un concetto sociologico nel quale lo sviluppo eco-

nomico era la condizione obiettiva per lo sviluppo culturale.34

La sua

più importante critica al capitalismo era precisamente che esso aveva

paralizzato l’uomo attraverso il predominio dei suoi interessi eco-

nomici, e il socialismo era per lui una società nella quale l’uomo

sarebbe stato liberato da questo predominio attraverso una più razio-

nale e pertanto più produttiva forma di organizzazione economica. Il

materialismo di Marx era essenzialmente diverso dal materialismo

prevalente nel diciannovesimo secolo. In quest’ultimo tipo di mate-

rialismo i fenomeni spirituali erano concepiti come causati dai fe-

nomeni materiali. Così, per esempio, gli estremi rappresentanti di

questo genere di materialismo credevano che il pensiero fosse un

prodotto dell’attività cerebrale, proprio «come l’orina è un prodotto

dell’attività renale». L’opinione di Marx, invece, era che il fenome-

no mentale e spirituale dovesse esser concepito come un risultato

34 Cfr., per questo argomento, il mio esame in Zur Aufgabe einer analytischen Sozialpsycholo-

gie, in «Ztsch' f' Sozialforschung», Lipsia 1932, e l'esame del marxismo fatto da J.A.

SCHUMPETER in Capitalismo, socialismo, democrazia, cit., p. 9 ss.

227 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

dell’intero modo di vivere, come il risultato del genere di rapporti

dell’individuo con i suoi simili e con la natura. Marx, nel suo meto-

do dialettico, superava il materialismo del diciannovesimo secolo e

sviluppava una teoria veramente dinamica e olistica basata

sull’attività dell’uomo piuttosto che sulla fisiologia.

La teoria del materialismo storico offre importanti concetti scien-

tifici per la comprensione delle leggi della storia; essa sarebbe dive-

nuta più fruttuosa se i seguaci di Marx l’avessero sviluppata di più

invece di permettere che essa si impantanasse in uno sterile dogmati-

smo. Lo sviluppo si sarebbe avuto se si fosse riconosciuto che Marx

ed Engels avevano fatto soltanto un primo passo, quello di vedere la

correlazione tra lo sviluppo economico e la cultura. Marx aveva sot-

tovalutato la complessità delle passioni umane. Non aveva ricono-

sciuto abbastanza che la natura umana ha essa stessa esigenze e leggi

in continuo reciproco rapporto con le condizioni economiche che

formano lo sviluppo storico;35

privo di sufficiente intuizione psico-

logica, non possedeva un concetto esauriente del carattere umano e

non era consapevole del fatto che l’uomo, se era formato sulla forma

della organizzazione sociale ed economica, la modellava a sua volta.

Egli non aveva sufficientemente visto le passioni e gli sforzi radicati

nella natura dell’uomo e nelle condizioni della sua esistenza e che di

per se stessi sono gli stimoli più potenti per lo sviluppo dell’uomo.

Ma queste deficienze costituiscono delle limitazioni di unilateralità

quali si trovano in ogni fecondo concetto scientifico, e gli stessi

Marx ed Engels erano consapevoli di queste limitazioni. Engels

espresse questa consapevolezza in una lettera molto nota nella quale

diceva che, a causa della novità della loro scoperta, Marx e lui non

avevano prestato sufficiente attenzione al fatto che la storia non era

soltanto determinata da condizioni economiche ma che i fattori cul-

turali influenzavano a loro volta le basi economiche della società.

L’interesse personale di Marx si concentrò sempre più

nell’analisi puramente economica del capitalismo. L’importanza del-

la sua teoria economica non viene diminuita dal fatto che le sue ipo-

tesi e le sue previsioni fondamentali erano solo parzialmente giuste

ed erano spesso errate, specialmente per quanto riguarda la sua ipo-

tesi sull’inevitabile (relativo) deterioramento della classe operaia.

35 Cfr. la mia analisi di questo rapporto reciproco in Fuga dalla libertà, cit.

7. VARIE RISPOSTE 228

Egli era anche in errore nella sua idealizzazione romantica della

classe operaia che era il risultato di uno schema puramente teorico

piuttosto che di una osservazione della realtà umana della classe

operaia. Quali che siano i suoi difetti, la sua teoria economica e la

penetrante analisi della struttura economica del capitalismo costitui-

scono un effettivo progresso dal punto di vista scientifico sopra tutte

le altre teorie socialiste.

Tuttavia la sua forza fu nello stesso tempo la sua debolezza. Co-

minciando la sua analisi economica con l’intenzione di scoprire le

condizioni che determinano l’alienazione dell’uomo e credendo che

ciò richiedesse soltanto uno studio relativamente breve, Marx dedicò

la maggior parte del suo lavoro scientifico quasi esclusivamente

all’analisi economica; e se egli non perse mai di vista il fine,

«l’emancipazione dell’uomo», sia la critica del capitalismo sia il fine

socialista in termini umani vennero sempre più soffocati dalle consi-

derazioni economiche. Egli non seppe distinguere quelle forze irra-

zionali dell’uomo che lo rendono timoroso della libertà e che produ-

cono la sua brama di potere e la sua distruttività. Al contrario, sotto

il suo concetto dell’uomo stava l’ipotesi implicita della naturale bon-

tà di questi, che si sarebbe affermata allorché fossero sciolti i para-

lizzanti ceppi economici. La famosa affermazione alla fine del Mani-

festo del partito comunista secondo cui gli operai «non hanno nulla

da perdere se non le loro catene» contiene un profondo errore psico-

logico. Insieme alle loro catene, essi hanno da perdere anche tutti

quei bisogni e quelle soddisfazioni irrazionali che sono sorti dal

momento in cui hanno cominciato a portare le loro catene. Sotto

questo aspetto, Marx ed Engels non trascesero mai l’ingenuo ottimi-

smo del diciottesimo secolo.

Questa sottovalutazione della complessità delle passioni umane

condusse ai tre più pericolosi errori del pensiero di Marx. Anzitutto

alla sua trascuratezza per il fattore morale nell’uomo. Proprio perché

egli riteneva che la bontà dell’uomo si sarebbe affermata automati-

camente, quando fossero stati realizzati i mutamenti economici, egli

non vide che una società migliore non poteva nascere da uomini che

non avessero subito un profondo mutamento morale. Egli, almeno

esplicitamente, non prestò attenzione alla necessità di un nuovo

orientamento morale, senza il quale sono inutili tutti i mutamenti

politici ed economici.

229 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

Il secondo errore che sgorga dalla medesima fonte fu il giudizio

caricaturalmente erroneo di Marx sulle possibilità di realizzazione

del socialismo. In contrasto con uomini come Proudhon e Bakunin

(e più tardi Jack London nel suo Tallone di ferro) i quali prevedeva-

no le tenebre che avrebbero avviluppato il mondo occidentale prima

che brillasse una nuova luce, Marx e Engels credevano

nell’immediato avvento della «giusta società», ed erano soltanto

oscuramente consci della possibilità di una nuova barbarie sotto la

forma dell’autoritarismo comunista e fascista e di guerre di inaudita

distruttività. Questo malinteso così poco realistico fu causa di molti

degli errori teoretici e politici del pensiero di Marx e di Engels, e fu

la base per quella distruzione del socialismo, che cominciò con Le-

nin.

Il terzo errore fu il concetto di Marx per cui la socializzazione dei

mezzi di produzione era la condizione non solo necessaria, ma anche

sufficiente per la trasformazione della società capitalistica in una

società cooperativistica. Alla base di questo errore sta ancora la sua

visione dell’uomo troppo semplicistica, troppo ottimistica, troppo

razionalistica. Proprio come Freud credeva che la liberazione

dell’uomo da tabù sessuali innaturali e troppo rigorosi avrebbe por-

tato alla salute mentale, così Marx credette che la emancipazione

dallo sfruttamento avrebbe automaticamente prodotto esseri liberi e

cooperativi. Sull’immediato effetto dei cambiamenti di fattori am-

bientali egli fu ottimista né più né meno degli enciclopedisti del di-

ciottesimo secolo, dette scarso peso al potere delle passioni irrazio-

nali e distruttive che non si trasformavano da un giorno all’altro con

dei cambiamenti economici. Freud, dopo l’esperienza della prima

guerra mondiale, cominciò a vedere questa forza della distruttività e

cambiò drasticamente il suo intero sistema accettando che la spinta

alla distruzione fosse tanto forte e inestirpabile quanto l’eros. Marx

non giunse mai ad una tale consapevolezza e non mutò mai la sua

semplice formula della socializzazione dei mezzi di produzione co-

me la via diretta per raggiungere il fine socialista.

L’altra origine di questo errore era la sopravvalutazione delle so-

luzioni politiche ed economiche di cui ho già parlato. Stranamente

fuori della realtà era il suo ignorare che fa ben poca differenza per la

personalità dell’operaio che l’impresa sia di proprietà del «popolo»,

dello stato, di un governo burocratico o della burocrazia privata as-

7. VARIE RISPOSTE 230

soldata dagli azionisti. Egli, in netto contrasto col suo stesso pensie-

ro teoretico, non vide che le sole cose che hanno importanza sono le

effettive condizioni di lavoro, il rapporto fra l’operaio, il suo lavoro,

e i suoi compagni e coloro che dirigono l’impresa.

Pare che più tardi Marx fosse disposto ad operare alcuni muta-

menti nella sua teoria. Il più importante, probabilmente sotto

l’influenza del lavoro di Bachofen e di Morgan, lo portò a credere

che la primitiva comunità agraria basata sulla cooperazione e la pro-

prietà comune della terra fosse una potente forma di organizzazione

sociale che poteva portare direttamente a più elevate forme di socia-

lizzazione senza dover attraversare la fase della produzione capitali-

stica. Egli espresse questa convinzione in una risposta a Vera Zasulic

che gli chiedeva quale fosse il suo atteggiamento verso il mir,

l’antica forma di comunità agraria russa. g. Fuchs ha fatto notare36

la

grande importanza di questo cambiamento nella teoria di Marx ed

anche il fatto che Marx, negli ultimi otto anni della sua vita, era de-

luso e scoraggiato avvertendo il fallimento delle sue speranze rivolu-

zionarie. Engels riconobbe, come ho ricordato sopra, l’errore di non

aver prestato abbastanza attenzione, nella teoria del materialismo

storico, alla potenza delle idee, ma non fu dato a Marx o a Engels di

fare le necessarie radicali revisioni al loro sistema.

È molto facile per noi riconoscere, alla metà del ventesimo seco-

lo, l’errore di Marx. Abbiamo visto in Russia la tragica dimostrazio-

ne di questo errore. Se lo stalinismo ha dimostrato che una economia

socialista può operare con successo secondo un punto di vista eco-

nomico, ha anche dimostrato che essa in se stessa non è minimamen-

te tenuta a creare lo spirito di eguaglianza e di cooperazione; ha di-

mostrato che la proprietà dei mezzi di produzione da parte del «po-

polo» può diventare la copertura ideologica per lo sfruttamento del

popolo da parte di una burocrazia industriale, militare e politica. La

socializzazione di talune industrie in Inghilterra, attuata dal governo

laburista, tende a mostrare che per il minatore o per l’operaio delle

acciaierie o delle industrie chimiche britanniche importa ben poco

chi nomini i dirigenti dell’impresa quando la situazione attuale ed

effettiva del lavoro non muta.

36 In lettere private.

231 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

Riassumendo, si può dire che i fini ultimi del socialismo marxista

erano sostanzialmente gli stessi delle altre scuole socialiste: emanci-

pare l’uomo dalla dominazione e dallo sfruttamento da parte

dell’uomo, liberarlo dal predominio del settore economico, rifare di

lui il fine supremo della vita sociale, creare una nuova unità tra

l’uomo e l’uomo e tra l’uomo e la natura. Gli errori di Marx e di En-

gels, la loro sopravvalutazione dei fattori politici e giuridici, il loro

ingenuo ottimismo, il loro orientamento centralizzatore, erano dovuti

al fatto che essi erano molto più radicati nella tradizione borghese

del diciottesimo e del diciannovesimo secolo, sia psicologicamente

sia intellettualmente, di quanto non lo fossero uomini come Fourier,

Owen, Proudhon e Kropotkin.

Gli errori di Marx dovevano diventare storicamente importanti

poiché la concezione marxista del socialismo ebbe la meglio nel

movimento operaio dell’Europa continentale. I successori di Marx e

di Engels nel movimento operaio europeo restarono talmente sotto

l’influenza dell’autorità di Marx che non svilupparono ulteriormente

la sua teoria, ma ripeterono per lo più le vecchie formule con una

sterilità sempre maggiore.

Dopo la prima guerra mondiale il movimento operaio marxista si

divise rigidamente in campi ostili. L’ala socialdemocratica, dopo il

crollo morale subito durante la prima guerra mondiale, divenne sem-

pre più un partito rappresentante gli interessi puramente economici

della classe operaia assieme ai sindacati da cui a sua volta dipende-

va. Esso continuava la formula marxista della «socializzazione dei

mezzi di produzione» come una formula rituale che deve esser pro-

nunciata dai sommi sacerdoti del partito ad ogni occasione opportu-

na. L’ala comunista fece un passo disperato provandosi a costruire

una società socialista su niente altro che sulla conquista del potere e

la socializzazione dei mezzi di produzione; i risultati di questo salto

portarono a risultati più terribili di quanto non facesse la perdita di

fede causata dalla prassi socialdemocratica.

Per quanto contraddittorie siano nel loro sviluppo queste due ali

del socialismo marxista, esse hanno alcuni elementi in comune. An-

zitutto la profonda delusione e lo scoraggiamento nei confronti delle

troppo ottimistiche speranze proprie della prima fase del marxismo.

Nell’ala destra queste delusioni portarono spesso all’accettazione del

nazionalismo, all’abbandono di una visione genuinamente socialista

7. VARIE RISPOSTE 232

e di ogni critica radicale alla società capitalistica. La stessa delusione

portò l’ala comunista sotto Lenin ad un atto di disperazione, alla

concentrazione di tutti gli sforzi nel settore politico e puramente

economico con un’insistenza che a causa della sua trascuratezza per

il settore sociale era in completa contraddizione con la stessa essenza

della teoria socialista.

L’altro punto che le due ali del movimento marxista hanno in

comune è (nel caso della Russia) la loro completa indifferenza per

l’uomo. La critica del capitalismo diventò una critica meramente

economica. Nel diciannovesimo secolo, mentre la classe operaia sof-

friva per lo spietato sfruttamento e viveva ad un livello inferiore a

quello di un’esistenza dignitosa, questa critica era giustificata. Con

lo sviluppo del capitalismo nel ventesimo secolo essa apparve sem-

pre più superata; eppure è una logica conseguenza di questo atteg-

giamento il fatto che la burocrazia stalinista in Russia stia ancora

alimentando la popolazione con lo sciocco slogan secondo cui gli

operai dei paesi capitalistici sarebbero in una spaventosa miseria e

privi di un minimo decoroso per vivere. Il concetto del socialismo si

deteriorò sempre più, in Russia, nella formula che socialismo voleva

dire proprietà statale dei mezzi di produzione. Nei paesi occidentali

il socialismo si propose sempre più di significare paghe più alte per

gli operai e di perdere la sua suggestione messianica, il suo richiamo

alle aspirazioni e ai bisogni più profondi dell’uomo. Dico intenzio-

nalmente che esso «si propose» perché il socialismo non ha certo

perduto completamente la sua suggestione umanistica e religiosa.

Esso è stato, anche dopo il 1914, l’idea morale unificatrice per mi-

lioni di operai e di intellettuali europei, una espressione della loro

speranza nella liberazione dell’uomo, nello stabilirsi di nuovi valori

morali, nella realizzazione della solidarietà umana. La severa critica

espressa nelle pagine precedenti voleva innanzitutto porre l’accento

sulla necessità che il socialismo democratico ritorni a concentrarsi

sugli aspetti umani del problema sociale, a criticare il capitalismo

considerando quello che esso fa delle qualità umane dell’uomo, della

sua anima e del suo spirito, a considerare ogni visione del socialismo

in termini umani studiando in qual modo una società socialista con-

tribuisca a por fine all’alienazione dell’uomo, all’idolatria

dell’economia e dello stato.

233

8.

Le vie della salute

Considerazioni generali

Nelle varie analisi critiche del capitalismo noi troviamo una no-

tevole misura di consenso. Anche se il capitalismo del diciannove-

simo secolo era criticato per la sua indifferenza verso la sicurezza

materiale degli operai, questa non era mai la critica più importante.

L’argomento di cui parlano Owen e Proudhon, Tolstoj e Bakunin,

Durkheim e Marx, Einstein e Schweitzer, è l’uomo e quel che avvie-

ne di lui nel nostro sistema industriale. Sebbene si esprimano in con-

cetti diversi, tutti questi autori trovano che l’uomo ha perduto il suo

posto centrale e che è diventato uno strumento per il raggiungimento

di fini economici, che è stato alienato dai suoi simili e dalla natura

ed ha perduto il concreto rapporto con essi, e non ha più una vita che

abbia un significato. Ho cercato di esprimere la stessa idea elaboran-

do il concetto di alienazione e dimostrando psicologicamente quali

sono i risultati psicologici della alienazione; che l’uomo regredisce

ad un orientamento ricettivo e mercantile e cessa di esser produttivo,

che perde il senso dell’io e diventa dipendente dall’approvazione

degli altri, che, pertanto, tende a conformarsi e si sente tuttavia insi-

curo; egli è insoddisfatto, annoiato e ansioso e impiega la maggior

parte delle sue energie nel tentativo di compensare, o meglio di na-

scondere, questa ansietà. La sua intelligenza è eccellente, la sua ra-

gione peggiora e, se consideriamo i suoi poteri tecnici, egli sta met-

tendo seriamente in pericolo l’esistenza della civiltà e persino del

genere umano.

Se consideriamo le opinioni sulle cause di questo sviluppo tro-

viamo minore concordanza che nella diagnosi della malattia stessa.

Mentre, agli inizi del diciannovesimo secolo, si tendeva ancora a

vedere le cause di tutti i mali nella mancanza di libertà politica, e

8. LE VIE DELLA SALUTE 234

particolarmente del suffragio universale, i socialisti, e specialmente i

marxisti, insistevano sull’importanza dei fattori economici. Essi cre-

devano che l’alienazione dell’uomo fosse conseguenza del suo ruolo

di oggetto di sfruttamento e d’uso. D’altra parte, pensatori come

Tolstoj e Burckhardt insistevano sull’impoverimento morale e spiri-

tuale come causa della decadenza dell’uomo occidentale; Freud cre-

deva che i disturbi dell’uomo moderno consistessero nella eccessiva

repressione dei suoi istinti e nelle conseguenti manifestazioni nevro-

tiche. Ma ogni spiegazione che analizzi un solo settore a scapito de-

gli altri è squilibrata e perciò errata. Le spiegazioni economico-

sociale, spirituale e psicologica vedono il medesimo fenomeno sotto

diversi aspetti, e il compito dell’analisi teoretica è precisamente di

vedere come questi aspetti diversi siano collegati tra loro e come si

influenzino reciprocamente.

Ciò che è vero per le cause è naturalmente vero per i rimedi con i

quali la deficienza dell’uomo moderno può esser curata. Se credo

che «la» causa della malattia sia o economica, o spirituale, o psico-

logica, credo necessariamente che il curare «la» causa porti

all’equilibrio. D’altra parte, se vedo come i vari aspetti sono tra loro

collegati giungerò alla conclusione che l’equilibrio e la salute menta-

le possono essere raggiunti solamente con mutamenti simultanei nel-

la sfera dell’organizzazione industriale e politica, dell’orientamento

spirituale e filosofico, della struttura del carattere, e delle attività

culturali. La concentrazione dello sforzo in ognuna di queste sfere

escludendo o trascurando le altre rende impossibile ogni mutamento.

Difatti sembra sia questo uno dei più importanti ostacoli al progresso

dell’umanità. Il cristianesimo ha predicato il rinnovamento spirituale

trascurando i mutamenti nell’ordine sociale senza i quali il rinnova-

mento spirituale doveva restar inefficiente per la maggioranza.

L’epoca dell’illuminismo ha postulato come norme più elevate

l’indipendenza di giudizio e la ragione. Essa predicò l’eguaglianza

politica senza vedere che l’eguaglianza politica può non portare alla

realizzazione della fratellanza tra gli uomini se non vi si accompagna

un mutamento fondamentale nell’organizzazione sociale ed econo-

mica. Il socialismo, e particolarmente il marxismo, ha insistito sulla

necessità di mutamenti sociali ed economici ed ha trascurato la ne-

cessità di un più intimo mutamento negli esseri umani senza il quale

il mutamento economico non può mai portare alla «giusta società».

235 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

Ognuno di questi grandi movimenti di riforma degli ultimi duecento

anni ha posto l’accento su di un settore della vita ad esclusione degli

altri; i loro propositi di riforma e di rinnovamento erano radicali ma i

loro risultati erano un quasi completo fallimento. La predicazione

del vangelo portò alla formazione della chiesa cattolica;

l’insegnamento dei razionalisti del diciottesimo secolo portò a Robe-

spierre e a Napoleone, e le dottrine di Marx portarono a Stalin. I ri-

sultati avrebbero difficilmente potuto esser diversi. L’uomo è

un’unità e il suo pensiero, i suoi sentimenti e la sua pratica di vita

sono inseparabilmente collegati. Egli non può esser libero nel suo

pensiero quando non sia libero emotivamente e non può esser libero

emotivamente se è dipendente e non libero nella sua pratica di vita,

nelle sue relazioni economiche e sociali. Cercar di progredire radi-

calmente in un solo settore ad esclusione degli altri deve portar ne-

cessariamente al risultato cui ha portato, cioè che le richieste radicali

in una sola sfera sono soddisfatte soltanto da pochi individui mentre

per la maggioranza diventano formule e rituali e servono a nascon-

dere il fatto che nulla è cambiato negli altri settori. Indubbiamente

un solo passo di progresso integrato in tutte le sfere della vita avrà

risultati di maggior portata e più duraturi per il progresso del genere

umano che non un centinaio di passi predicati, e persino vissuti, per

un breve momento soltanto in una sfera isolata. Alcune migliaia di

anni di insuccesso nel «progresso isolato» dovrebbero essere una

lezione piuttosto convincente.

Strettamente connesso a questo problema è quello del radicalismo

e riformismo che sembra stabilire una così netta linea divisoria tra le

varie soluzioni politiche. Però un’analisi più stringente può mostrare

quanto sia ingannevole questa differenziazione così come è usual-

mente concepita. C’è riformismo e riformismo; la riforma può esser

radicale, cioè giungere alle radici, o può esser superficiale cercando

di rimuovere i sintomi senza toccare le cause. La riforma che non sia

radicale in questo senso non raggiungerà mai i suoi fini e porterà

infine nella direzione opposta. Il cosiddetto «radicalismo», d’altra

parte, che credeva si potessero risolvere i problemi con la forza

quando occorrono osservazione, pazienza e attività continua, è altret-

tanto fittizio e poco realistico quanto il riformismo. Dal punto di vi-

sta storico entrambi portano spesso al medesimo risultato. La rivolu-

zione bolscevica portò allo stalinismo, il riformismo dell’ala destra

8. LE VIE DELLA SALUTE 236

socialdemocratica in Germania portò a Hitler. La vera misura della

riforma non è il suo ritmo ma il suo realismo, il suo vero «radicali-

smo»; la questione è se essa giunga alle radici e cerchi di modificare

le cause o se resti alla superficie e cerchi solo di far fronte ai sintomi.

In questo capitolo si devono esaminare le vie per la «salute», cioè

i metodi di cura e sarebbe perciò bene ci si soffermasse per un mo-

mento a domandarci che cosa sappiamo sulla natura delle cure in

casi di malattie mentali individuali. La cura della patologia sociale

deve seguire il medesimo principio poiché essa è la patologia di un

dato numero di esseri umani e non di una entità che è al di sopra de-

gli individui o staccata da essi.

Le condizioni per la cura di patologie individuali sono principal-

mente le seguenti:

1) Deve esser accaduto qualche cosa che sia contrario al buon

funzionamento della psiche. Nella teoria di Freud questo significa

che la libido non è riuscita a svilupparsi normalmente e che, di con-

seguenza, si sono prodotti dei sintomi. Nell’ambito della psicanalisi

umanistica le cause patologiche stanno nella mancanza di sviluppo

di un orientamento produttivo, una mancanza che risulta nello svi-

luppo di passioni irrazionali, specialmente in aspirazioni incestuose,

distruttive e sfruttatrici. Il fatto della sofferenza, sia essa conscia o

inconscia, risultante dalla mancanza di uno sviluppo normale, pro-

duce una dinamica aspirazione a superare la sofferenza, cioè a un

mutamento verso la buona salute. Questa aspirazione alla salute nel

nostro organismo fisico come in quello mentale è la base per ogni

cura della malattia ed è assente soltanto nella patologia più grave.

2) Il primo passo necessario per permettere a questa tendenza

verso la salute di operare è la consapevolezza della sofferenza e di

ciò che è escluso e dissociato dalla nostra personalità conscia. Nella

dottrina di Freud la repressione si riferisce principalmente alle aspi-

razioni sessuali. Nel nostro ambito essa si riferisce alle passioni irra-

zionali represse, ai sentimenti repressi di isolamento e inutilità, al

desiderio, egualmente represso, di amore e di produttività.

3) Una crescente consapevolezza di sé può diventare completa-

mente efficace soltanto se vien fatto un nuovo passo, quello di cam-

biare una pratica di vita sorta sulle basi della struttura nevrotica e

che la riproduce costantemente. Per esempio un paziente il cui carat-

237 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

tere nevrotico fa che egli desideri sottomettersi ad autorità come

quella dei genitori, ha di solito costruito una vita in cui ha scelto

immagini paterne dominanti o sadiche, come padroni, insegnanti,

ecc.. Egli sarà curato soltanto se cambierà la sua reale situazione di

vita in modo tale che essa non riproduca continuamente le tendenze

alla sottomissione che vuole abbandonare. Egli dovrà inoltre cambia-

re il suo sistema di valori, di norme e di ideali così che essi promuo-

vano le sue aspirazioni alla salute e alla maturità, invece di bloccarle.

Le medesime condizioni: conflitto con le esigenze della natura

umana e conseguente sofferenza, consapevolezza di ciò che è esclu-

so e mutamento della situazione reale e dei valori e delle norme, so-

no pure necessari per una cura della patologia sociale.

Scopo del capitolo precedente era mostrare il conflitto tra i biso-

gni umani e la nostra struttura sociale, e promuovere la consapevo-

lezza dei nostri conflitti e di ciò che è dissociato. Intenzione di que-

sto capitolo è esaminare le varie possibilità di mutamenti pratici nel-

la nostra organizzazione economica, politica e culturale.

Tuttavia, prima di cominciare a esaminare le questioni pratiche,

consideriamo ancora una volta, sulla base delle premesse sviluppate

all’inizio di questo libro, ciò che costituisce l’equilibrio mentale e

quale tipo di cultura si può supporre possa condurre alla salute men-

tale.

La persona mentalmente sana è la persona produttiva e non alie-

nata: la persona che collega se stessa al mondo amorevolmente e che

usa la sua ragione per afferrare obiettivamente la realtà, che ricono-

sce se stessa come un’unica entità individuale e nello stesso tempo si

sente una con i suoi simili, che non è soggetta ad autorità irrazionale

e accetta volontariamente l’autorità razionale della coscienza e della

ragione, che continua a nascere durante tutta la sua vita e che consi-

dera il dono dell’esistenza come la più preziosa possibilità.

Ricordiamo anche che questi obiettivi di salute mentale non sono

ideali che debbano essere imposti ad una persona o che l’uomo possa

raggiungere soltanto se supera la sua «natura» e sacrifica il suo «in-

nato egoismo». Al contrario l’aspirazione alla salute mentale, alla

felicità, all’armonia, all’amore, alla produttività è insita in ogni esse-

re umano che non sia nato come un idiota morale o mentale. Data

una possibilità, queste aspirazioni si affermano con forza come si

può riconoscere in innumerevoli situazioni. Occorrono potenti con-

8. LE VIE DELLA SALUTE 238

giunture e circostanze per pervertire e soffocare questa innata aspira-

zione all’equilibrio: e infatti attraverso la maggior parte della storia

conosciuta, l’uso dell’uomo da parte dell’uomo ha prodotto tale per-

versione. Credere che questa perversione sia insita nell’uomo è come

gettar semi nel deserto e dichiarare che non hanno voluto germoglia-

re.

Quale società corrisponde a questo fine di salute mentale, e quale

sarebbe la struttura di una società equilibrata? Innanzitutto una so-

cietà in cui nessun uomo sia un mezzo per i fini di un altro, ma sia

sempre e senza eccezione un fine in se stesso; dunque, dove nessuno

sia usato, e neppure usi se stesso per fini che non siano quelli dello

sviluppo dei suoi poteri umani; dove l’uomo sia il centro e dove tutte

le attività economiche e politiche siano subordinate al fine del suo

sviluppo. Una società equilibrata è quella dove qualità come

l’attività, lo spirito di sfruttamento, la volontà di possesso, il narcisi-

smo non abbiano possibilità di essere usate per un maggior guada-

gno materiale o per l’aumento del prestigio personale. Dove

l’operare secondo coscienza si presenti come una qualità fondamen-

tale e necessaria, e dove l’opportunismo e la mancanza di principi

siano riconosciuti come asociali, dove l’individuo affronti i problemi

sociali così che questi divengano problemi personali, dove il suo

rapporto con i propri simili non sia separato dalle sue relazioni di

natura privata. Una società equilibrata inoltre è quella che consente

all’uomo di aver a che fare con dimensioni manovrabili e osservabili

nel loro insieme, e di partecipare attivamente e responsabilmente alla

vita sociale, come anche di padroneggiare la propria vita. È quella

che promuove la solidarietà umana e non solo permette ai suoi

membri di stabilire amorevolmente dei rapporti l’uno con l’altro, ma

anche li stimola a ciò; una società equilibrata promuove l’attività

produttiva di ognuno nel suo lavoro, stimola lo sviluppo della ragio-

ne e rende l’uomo capace di dare espressione ai suoi intimi bisogni

nell’arte e nei rituali collettivi.

239 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

Trasformazione economica

A. il socialismo come problema

Nel capitolo precedente ho esaminato le tre risposte al problema

dello squilibrio contemporaneo: quelle del totalitarismo, del neocapi-

talismo e del socialismo. La soluzione totalitaria sia di tipo fascista

sia di tipo stalinista porta evidentemente soltanto a un aumento dello

squilibrio e della disumanizzazione; la soluzione del neocapitalismo

approfondisce soltanto la patologia che è insita nel capitalismo; esso

aumenta l’alienazione dell’uomo, la sua automatizzazione, e porta a

compimento il processo di asservirlo all’idolo della produzione. La

sola soluzione costruttiva è quella del socialismo che tende ad una

fondamentale riorganizzazione del nostro sistema economico e so-

ciale, nell’intento di liberare l’uomo dall’essere usato come mezzo

per fini estranei a lui stesso, e tende a creare un ordine sociale nel

quale la solidarietà umana, la ragione e la produttività siano promos-

se piuttosto che ostacolate. È indubbio tuttavia che i risultati del so-

cialismo, dove fin qui è stato praticato, sono stati almeno deludenti.

Quali sono le ragioni di questo insuccesso? Quali sono i fini e le me-

te di una ricostruzione economica e sociale capace di evitare questo

insuccesso e di portare ad una società sana?

Secondo il socialismo marxista una società socialista sarebbe co-

struita su due premesse: la socializzazione dei mezzi di produzione e

distribuzione e una economia centralizzata e pianificata. Marx e i

primi socialisti non dubitavano che se questi fini potevano esser rag-

giunti ne sarebbero derivate quasi automaticamente l’emancipazione

di tutti gli uomini dall’alienazione e una società senza classi di fra-

tellanza e di giustizia. Tutto quel che sarebbe necessario per la tra-

sformazione umana, come essi la vedevano, è che la classe operaia

ottenga il controllo politico con la forza o con il voto, socializzi

l’industria e istituisca una economia pianificata. La questione se essi

avessero ragione nella loro ipotesi non è più una questione accade-

mica: la Russia ha fatto ciò che i socialisti marxisti pensavano fosse

necessario fare nella sfera economica. Se il sistema russo ha mostra-

to che economicamente una economia socializzata e pianificata può

funzionare in maniera efficiente, ha anche dimostrato che ciò non

costituisce in alcun modo condizione sufficiente per creare una so-

8. LE VIE DELLA SALUTE 240

cietà libera, fraterna e non alienata. Al contrario ha dimostrato che la

pianificazione centralizzata può perfino creare un grado di irreggi-

mentazione e di autoritarismo più alto di quanto si possa trovare nel

capitalismo o nel fascismo. Tuttavia il fatto che un’economia piani-

ficata e socializzata sia stata attuata in Russia non significa che il

sistema russo sia la realizzazione del socialismo come lo intendeva-

no Marx e Engels. Esso significa che Marx e Engels si erano sba-

gliati pensando che il mutamento giuridico della proprietà e una

economia pianificata bastassero per provocare i mutamenti umani e

sociali da loro desiderati.

Se la socializzazione dei mezzi di produzione in combinazione

con una economia pianificata costituiva la più importante richiesta

del socialismo marxista, vi erano altre richieste che non si sono af-

fatto attuate in Russia. Marx non postulò la completa eguaglianza

dei redditi, ma nondimeno pensava ad una sensibile riduzione

dell’ineguaglianza quale esiste nel capitalismo. In realtà

l’ineguaglianza del reddito non è minore in Russia che negli Stati

Uniti o in Inghilterra. Un’altra idea marxiana era che il socialismo

avrebbe portato al superamento dello stato e alla scomparsa graduale

delle classi sociali. In realtà il potere dello stato e la differenza tra

classi sociali sono maggiori in Russia che in qualsiasi paese capitali-

sta. Infine il concetto centrale del socialismo di Marx era l’idea che

l’uomo, con le sue facoltà emotive e intellettuali, è il fine e la meta

della cultura, che le cose (capitale) devono servire alla vita (il lavo-

ro) e che la vita non deve esser subordinata a ciò che è morto. Anche

qui l’indifferenza per l’individuo e per le sue qualità umane è mag-

giore in Russia che in qualsiasi paese capitalista.

Ma la Russia non è il solo paese che abbia provato ad applicare i

concetti economici del socialismo marxista. L’altro paese fu la Gran

Bretagna. Per paradossale che possa sembrare, il partito laburista,

che non si basa sulla teoria marxista, seguì nelle sue misure pratiche

esattamente la linea della dottrina marxista secondo cui la realizza-

zione del socialismo è basata sulla socializzazione dell’industria. La

differenza dalla Russia è abbastanza chiara. Il partito laburista bri-

tannico si appoggiò sempre su mezzi pacifici per la realizzazione dei

suoi fini; la sua politica non si fondò sulla richiesta del «tutto o nien-

te», ma rese possibile la socializzazione dei servizi medici e bancari,

delle ferrovie, dell’industria siderurgica, mineraria e chimica, senza

241 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

nazionalizzare il resto dell’industria britannica. Ma mentre introdu-

ceva una economia nella quale elementi socialisti si mescolavano al

capitalismo, l’idea principale per il raggiungimento del socialismo

restava nondimeno quella della socializzazione dei mezzi di produ-

zione.

Tuttavia l’esperimento britannico, anche se meno gravi furono i

suoi insuccessi, fu egualmente scoraggiante. Da un lato esso creò

una buona dose di irreggimentazione e burocratizzazione che non lo

rendevano simpatico a nessuno che avesse a cuore l’aumento della

libertà e della indipendenza dell’uomo, e d’altra parte esso non sod-

disfece alcuna delle speranze fondamentali del socialismo. Divenne

evidente che ad un operaio dell’industria mineraria o siderurgica

britannica non importava o importava ben poco che la proprietà

dell’industria fosse di qualche migliaio o anche di qualche centinaia

di migliaia di individui, come in una azienda di pubblico interesse, o

dello stato. La sua paga, i suoi diritti e, più importante di tutto, le sue

condizioni di lavoro e il suo ruolo nel processo lavorativo restavano

essenzialmente gli stessi. Vi sono pochi vantaggi conseguenti alla

nazionalizzazione che l’operaio non avrebbe potuto raggiungere at-

traverso i suoi sindacati in una economia puramente capitalistica.

D’altra parte, anche se i provvedimenti del governo laburista non

realizzavano il fine principale del socialismo, sarebbe indice di poco

acume ignorare che il socialismo britannico ha attuato dei cambia-

menti positivi della massima importanza nella vita del popolo ingle-

se, uno dei quali è l’estensione del sistema di previdenza sociale fino

a coprire le cure mediche. Può apparire di poco conto, per un com-

ponente delle classi medie o superiori degli Stati Uniti, il quale non

fa fatica a pagare le parcelle del medico e le spese di spedalità, il

fatto che nessuno in Inghilterra ha da temere una malattia come una

catastrofe che può completamente disorganizzare la sua vita (per non

parlare della possibilità di perderla per la mancanza di adeguate cure

mediche). Ma si tratta in realtà di un miglioramento fondamentale da

paragonarsi al progresso fatto quando si istituì l’istruzione obbligato-

ria. È inoltre vero che la nazionalizzazione dell’industria perfino nel-

la misura limitata in cui fu introdotta in Inghilterra (circa un quinto

dell’intera industria) permise allo stato di controllare in una certa

misura l’economia totale, un controllo di cui si avvantaggiò tutto

l’insieme dell’economia britannica.

8. LE VIE DELLA SALUTE 242

Ma anche considerando in tutto il loro valore le realizzazioni del

governo laburista, si deve dire che le sue misure non conducevano

alla realizzazione del socialismo se lo consideriamo in un senso

umano più che in un senso puramente economico. E se si dicesse che

il partito laburista ebbe modo solo di iniziare il suo programma e che

avrebbe introdotto il socialismo se fosse stato al potere abbastanza

per completare la sua opera, tale obiezione non sarebbe molto con-

vincente. Anche immaginando la socializzazione dell’intera industria

pesante inglese si potrebbe pensare a maggior sicurezza, maggior

prosperità né vi sarebbe ragione di temere che la nuova burocrazia

sia più pericolosa per la libertà della burocrazia della General Mo-

tors o della General Electric. Ma nonostante tutto quel che si potreb-

be dire in suo favore, tale socializzazione e pianificazione non sa-

rebbe il socialismo, se per socialismo intendiamo una nuova forma

di vita, una società di solidarietà e di fede nella quale l’individuo

abbia trovato se stesso e si sia liberato dall’alienazione insita nel si-

stema capitalistico.

I risultati terrificanti del comunismo sovietico da una parte e

dall’altra i deludenti risultati del socialismo laburista hanno portato

ad un’atmosfera di rassegnazione e di sfiducia fra molti socialisti

democratici. Alcuni continuano ancora a credere nel socialismo, ma

più per orgoglio o per ostinazione che per reale convinzione. Altri,

impegnati in compiti più o meno importanti in uno dei partiti sociali-

sti, non riflettono troppo e si trovano soddisfatti delle attività prati-

che che svolgono; altri ancora, che hanno perduto la fede in un rin-

novamento della società, ritengono che il loro più importante compi-

to sia quello di condurre la crociata contro il comunismo russo, e

mentre rinnovano le loro accuse contro il comunismo, accuse ben

note e condivise da chiunque non sia stalinista, desistono da ogni

critica radicale del capitalismo e da ogni nuova proposta per il fun-

zionamento del socialismo democratico. Essi danno l’impressione

che nel mondo tutto andrebbe bene se solo si potesse salvarlo dalla

minaccia comunista, e agiscono come amanti disillusi che hanno

perduto ogni fede nell’amore.

Quale sintomatica espressione del generale scoraggiamento esi-

stente tra i socialisti democratici, cito da un articolo di R.H.S.

Crossman, uno dei più pensosi e attivi esponenti dell’ala sinistra del

partito laburista. «Sarebbe follia, scrive Crossman, in un’epoca che

243 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

non è di progresso costante verso un capitalismo del benessere mon-

diale, ma di rivoluzione mondiale, credere che il compito del sociali-

sta sia di contribuire al graduale miglioramento delle condizioni ma-

teriali del genere umano e al graduale allargamento dell’area della

libertà umana. Le forze della storia urgono tutte verso il totalitari-

smo: nel blocco russo, per la deliberata politica del Cremlino; nel

mondo libero per gli sviluppi della società burocratica, per le riper-

cussioni del riarmo totale e per il soffocamento delle aspirazioni co-

loniali. Compito del socialismo non è né di accelerare questa rivolu-

zione politica né di contrastarla (il che sarebbe altrettanto vano quan-

to, cento anni fa, opporsi alla rivoluzione industriale), ma di incivi-

lirla».1

Mi sembra che il pessimismo di Crossman porti a due errori. Uno

sta nella convinzione che il totalitarismo o manageriale o stalinista

possa esser «civilizzato». Se per civilizzato si intende un sistema

meno crudele di quello della dittatura stalinista, forse Crossman ha

ragione. Ma la versione del Brave New World che si basa interamen-

te sulla suggestione e il condizionamento è altrettanto inumana e

folle quanto la versione del 1984 di Orwell. Né l’una né l’altra ver-

sione di una società completamente alienata può esser umanizzata.

L’altro errore sta nello stesso pessimismo di Crossman. Il sociali-

smo, con le sue genuine aspirazioni umane e morali, è ancora

un’attrattiva potente per milioni di uomini in tutto il mondo e le con-

dizioni obiettive per un socialismo umanistico e democratico sono

maggiori oggi che nel diciannovesimo secolo. Le ragioni di questa

convinzione sono implicite nel tentativo che segue di sottolineare

alcuni tra i propositi per una trasformazione socialista nella sfera

economica, politica e culturale. Però, prima di proseguire, vorrei

mettere in chiaro, sebbene ve ne sia appena bisogno, che le mie pro-

poste non sono né nuove né pretendono di essere esaurienti o neces-

sariamente giuste nei particolari. Esse sono fatte nella convinzione

che sia necessario volgerci da un esame generale dei principi ai pro-

blemi pratici di come questi principi possano essere realizzati. Molto

prima che la democrazia politica fosse realizzata, i pensatori del di-

ciottesimo secolo esaminarono progetti di principi costituzionali che

1 Nuovi saggi fabiani, a cura di R.H.S. CROSSMAN, Edizioni di Comunità, Milano 1953, p.

42.

8. LE VIE DELLA SALUTE 244

dovevano dimostrare la possibilità e i modi della organizzazione

democratica dello stato. Nel ventesimo secolo esiste la necessità di

esaminare i modi e le forme per attuare la democrazia politica e tra-

sformarla in una società umana. Le obiezioni che vengono fatte si

basano per lo più sul pessimismo e su una profonda mancanza di

fede. Si afferma che il progresso della società manageriale e la im-

plicita manipolazione dell’uomo non possono essere arrestati senza

regredire al telaio a mano, poiché l’industria moderna abbisogna di

funzionari e di automi. Altre obiezioni sono dovute alla mancanza di

fantasia ed altre ancora alla profonda paura di esser liberati da disci-

pline e che ci sia data la completa libertà di vivere. È però del tutto

fuori discussione che i problemi della trasformazione sociale non

sono tanto difficili da risolvere, teoricamente e praticamente, quanto

i problemi tecnici che i nostri chimici e i nostri fisici hanno risolto. E

non si può neanche dubitare che noi si abbia più bisogno di una rina-

scita dell’uomo che non di aeroplani e della televisione. Una piccola

parte della ragione e del senso pratico che si usano nelle scienze na-

turali permetterebbe, se applicata ai problemi umani, la continuazio-

ne del compito di cui i nostri antenati del diciottesimo secolo erano

così orgogliosi.

B. Il principio del socialismo comunitario

L’accentuazione marxista del problema della socializzazione dei

mezzi di produzione era influenzata dal capitalismo del diciannove-

simo secolo. La condizione proprietaria e i diritti di proprietà erano

le categorie centrali dell’economia capitalistica, e Marx restò entro

questo ambito di idee quando definì il socialismo col capovolgere il

sistema capitalistico della proprietà domandando la «espropriazione

degli espropriatori». Qui, come nel loro orientamento a favore dei

fattori politici piuttosto che sociali, Marx e Engels erano influenzati

dallo spirito borghese più che le altre scuole di pensiero socialiste,

che si interessavano alla funzione dell’operaio nel processo lavorati-

vo, alle sue relazioni sociali con gli altri nelle fabbriche, e agli effetti

del metodo di lavoro sul carattere dell’operaio.

L’insuccesso, e forse anche la popolarità, del socialismo marxista

risiede precisamente in questa sopravvalutazione borghese dei diritti

di proprietà e dei fattori puramente economici. Ma le altre scuole di

245 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

pensiero socialista erano state molto più consapevoli dei trabocchetti

insiti nel marxismo, e avevano molto più adeguatamente formulato il

fine del socialismo. Owenisti, sindacalisti, anarchici e socialisti cor-

porativisti erano d’accordo nella loro principale preoccupazione: la

situazione sociale e umana del lavoratore nel suo lavoro e il genere

di relazione con i suoi compagni lavoratori. (Per «lavoratore» inten-

do qui e nelle pagine seguenti chiunque viva del proprio lavoro sen-

za utili addizionali provenienti dall’impiego di altri). Il fine di tutte

queste varie forme di socialismo, che possiamo chiamare «sociali-

smo comunitario», era una organizzazione industriale nella quale

ogni persona che lavora sarebbe stata un partecipante attivo e re-

sponsabile, dove il lavoro sarebbe stato attraente e significativo e

dove non il capitale avrebbe impiegato il lavoro, ma il lavoro avreb-

be impiegato il capitale. Essi mettevano l’accento

sull’organizzazione del lavoro e sulle relazioni sociali tra gli uomini,

e non principalmente sulla questione della proprietà. Come mostrerò

più avanti c’è un notevole ritorno a questo atteggiamento da parte di

socialisti di tutto il mondo che alcuni decenni or sono consideravano

la forma pura della dottrina marxista come la soluzione di tutti i pro-

blemi.

Per dare al lettore un’idea generale dei principi di questo tipo di

pensiero socialista comunitario che, nonostante considerevoli diver-

sità, è comune a sindacalisti, anarchici, e socialisti corporativisti e, in

misura sempre crescente, a socialisti marxisti, cito la seguente di-

chiarazione di Cole.

Egli scrive: «Fondamentalmente la vecchia insistenza sulla liber-

tà era giusta ed essa fu trascurata perché si pensava alla libertà come

fosse soltanto autogoverno politico. La nuova concezione della liber-

tà deve esser più ampia: deve includere l’idea dell’uomo non soltan-

to come cittadino di uno stato libero, ma come compartecipe in una

comunità industriale. Il riformatore burocratico, ponendo tutto

l’accento sul lato puramente materiale della vita, è giunto a credere

in una società di macchine ben nutrite, ben alloggiate e ben vestite

che lavorino per una macchina più grande, cioè lo stato.

L’individualista ha offerto agli uomini l’alternativa tra miseria e

schiavitù sotto l’apparenza della libertà di azione. La vera libertà,

che è la meta del nuovo socialismo, assicurerà libertà di azione e

8. LE VIE DELLA SALUTE 246

immunità dalla oppressione economica trattando l’uomo come un

essere umano e non come un problema o come un dio.

In realtà, la libertà politica è, di per se stessa, sempre illusoria. Un

uomo che viva per sei se non per sette giorni alla settimana in sogge-

zione economica non diventa libero facendo semplicemente, ogni

cinque anni, una croce sulla scheda elettorale.

Per significare qualche cosa per l’uomo medio, la libertà deve si-

gnificare anche libertà industriale. Fino a che gli uomini nel loro la-

voro non potranno riconoscersi soci di una comunità di lavoratori

autodiretta, resteranno essenzialmente servi quale che sia il sistema

politico in cui vivono. Non basta spazzar via la degradante relazione

nella quale viene a trovarsi, di fronte ad un datore di lavoro, lo

schiavo salariato. Anche lo stato socialista lascia l’operaio nei vinco-

li di una tirannia che per esser impersonale non è meno esasperante.

L’autogoverno nell’industria non è il supplemento, ma la premessa

pratica della libertà politica.

L’uomo è ovunque in catene e le sue catene non saranno infrante

finché egli non senta che è degradante esser un servo, sia di un sin-

golo che dello stato. La malattia della civiltà non è tanto nella mate-

riale povertà dei molti quanto nella decadenza dello spirito di libertà

e di fiducia in se stessi. La rivolta che cambierà il mondo sorgerà

non dalla benevolenza che cova "le riforme" ma dalla volontà di es-

sere liberi. Gli uomini coopereranno nella piena coscienza della loro

mutua dipendenza, ma agiranno per se stessi. La libertà non sarà loro

data dall’alto, ma la prenderanno da sé.

I socialisti perciò dovranno attirare i lavoratori non con la do-

manda: "Non è forse spiacevole esser poveri e non vorreste collabo-

rare con noi per elevare le condizioni dei poveri?", ma con queste

parole: "La povertà è soltanto il segno della schiavitù dell’uomo, per

superarla tu devi cessar di lavorare per gli altri e devi credere in te

stesso". La servitù salariata durerà fino a che un uomo o una istitu-

zione comandino a degli uomini, e finirà quando i lavoratori impare-

ranno a dar più importanza alla libertà che alla comodità. L’uomo

medio diventerà un socialista non per assicurarsi "un livello minimo

di vita civile", ma perché sentirà vergogna della schiavitù che acceca

247 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

lui e i suoi compagni, e perché ha deciso di finirla col sistema indu-

striale che li rende schiavi».2

«Qual è dunque innanzitutto la natura dell’ideale cui deve mirare

il laburismo? Che cosa significa il "controllo dell’industria" chiesto

dai lavoratori? Si può riassumerlo in due parole: gestione diretta. Il

compito dell’effettiva direzione dell’impresa deve essere affidato ai

lavoratori che vi sono occupati. A loro deve spettare di stabilire la

produzione, la distribuzione e lo scambio. Essi devono conquistare

l’autogoverno industriale con il diritto di eleggere i propri rappresen-

tanti. Devono comprendere e controllare tutto il complicato mecca-

nismo dell’industria e del commercio; devono diventare gli agenti

accreditati della comunità nel settore economico».3 NOTE:...

C. Obiezioni socio-psicologiche

Prima di esaminare i suggerimenti pratici per la realizzazione del

socialismo comunitario in una società industriale, sarà meglio sof-

fermarci ad esaminare alcune delle più importanti obiezioni a tali

possibilità; il primo tipo di obiezione è basato sull’idea di una

particolare natura del lavoro industriale, il secondo sulla natura

dell’uomo e sulle motivazioni psicologiche del lavoro.

È precisamente riferendosi ad ogni mutamento nella stessa situa-

zione di lavoro che, da parte di molti osservatori attenti e ben dispo-

sti, vengono fatte le più gravi obiezioni alle idee del socialismo co-

munitario. Si obietta che il lavoro industriale moderno è, per la sua

stessa natura, meccanico, poco interessante e alienato. Esso si basa

su una forma estrema di divisione del lavoro e non può mai assorbire

l’interesse e l’attenzione dell’uomo libero. Tutte le idee per rendere

ancora interessante e significativo il lavoro sono in realtà dei sogni

romantici e, seguendole con la maggior consequenzialità e col mag-

gior realismo, esse porterebbero logicamente alla richiesta di abban-

donare il nostro sistema di produzione industriale e di ritornare al

sistema preindustriale di produzione artigiana. Al contrario, si conti-

nua ad obiettare, il fine sarà di rendere il lavoro maggiormente privo

2 G.D.H. COLE e W. MELLOR, The Meaning of Industrial Freedom, Allen and Unwin, Ltd.,

Londra 1918, pp. 3, 4 3 Ibidem, p. 22.

8. LE VIE DELLA SALUTE 248

di significato e maggiormente meccanizzato. Negli ultimi cento anni

abbiamo assistito ad una considerevole riduzione delle ore di lavoro,

e non sembra fantastico attenderci per l’avvenire giornate lavorative

di quattro e perfino di due ore. Siamo proprio ora testimoni di un

impressionante mutamento nei metodi di lavoro. Il processo lavora-

tivo è così frazionato, che il compito di ogni operaio diventa automa-

tico e non richiede la sua attenzione attiva, così che egli può abban-

donarsi ai suoi sogni e alle sue fantasticherie. Adoperiamo inoltre

macchine sempre più automatizzate che lavorano con i loro «cervel-

li» in stabilimenti puliti, ben illuminati e salubri, e l’«operaio» non

deve far altro che controllare qualche strumento e muovere ogni tan-

to qualche leva. Difatti, dicono quelli che condividono questa opi-

nione, quel che speriamo è la completa automatizzazione del lavoro;

l’uomo lavorerà poche ore, il che non sarà scomodo né richiederà

molta attenzione; e diventerà una routine quasi inconsapevole, come

pulirsi i denti, e nella vita di ognuno il centro di gravità sarà posto

nelle ore di riposo.

Questa obiezione suona convincente, e chi può dire che la fabbri-

ca completamente automatizzata e la scomparsa di tutti i lavori spor-

chi e disagevoli non siano la meta cui sta avvicinandosi la nostra

evoluzione industriale? Ci sono tuttavia parecchie considerazioni che

ci impediscono di riporre la nostra principale speranza di una società

sana nella automatizzazione del lavoro.

Prima di tutto si dubita almeno che la meccanizzazione del lavoro

possa avere i risultati supposti dall’obiezione precedente. Abbiamo

una buona dose di prove che indicano il contrario. Così per esempio

un recente e assai acuto studio svolto tra operai dell’industria auto-

mobilistica mostra che essi disprezzano il lavoro quanto più esso

esprime le caratteristiche della produzione di massa, come ripetizio-

ne e ritmo meccanico o simili. Mentre la grande maggioranza ap-

prezzava il lavoro per ragioni economiche (147 contro 7) una mag-

gioranza anche più schiacciante (96 contro 1) non lo amava a causa

del suo contenuto immediato.4 La medesima reazione era espressa

anche nel comportamento degli operai. «Operai il cui lavoro aveva

"high mass production scores", cioè mostrava in forma estrema le

4 Cfr. R. WALKER e R.H. GUEST, The Man on the Assembly Line, Harvard University Press,

Cambridge (Mass.) 1952, pp. 142, 143.

249 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

caratteristiche della produzione di massa, si assentavano più spesso

degli operai che avevano un lavoro con basse caratteristiche di pro-

duzione di massa. Il lavoro con alte caratteristiche di produzione di

massa provocava il maggior numero di dimissioni dall’impiego».5 Ci

si deve anche domandare se la libertà di fantasticare e sognare data

dal lavoro meccanizzato sia un fattore così positivo e salutare come

presume la maggioranza degli psicologi industriali. In effetti il fanta-

sticare è un sintomo di mancanza di collegamento con la realtà; e

non è riposante o rilassante, ma è essenzialmente un’evasione con

tutte le conseguenze negative che si accompagnano all’evasione.

Quello che gli psicologi industriali descrivono con così rosei colori è

essenzialmente la stessa mancanza di concentrazione che è tanto ca-

ratteristica dell’uomo moderno in generale. Si fanno tre cose in una

volta perché non si fa nulla in modo attento, ed è un grave errore

credere che far qualche cosa in maniera non concentrata sia riposan-

te. Al contrario ogni attività concentrata, sia essa il lavoro, il gioco o

il riposo (anche il riposo è un’attività), è tonica, e ogni attività non

concentrata è stancante. Ognuno può riscontrare la verità di questa

affermazione con qualche semplice osservazione della sua esperien-

za personale.

Ma, oltre a tutto ciò, occorreranno molte generazioni prima che

un tal punto di automatizzazione e di riduzione del lavoro sia rag-

giunto, specialmente se pensiamo non soltanto all’Europa e

all’America, ma all’Asia e all’Africa che quasi non hanno ancora

iniziato la loro rivoluzione industriale. E, attendendo il tempo in cui

si potrà lavorare con un minimo dispendio di energia, l’uomo dovrà

continuare per qualche centinaio di anni a consumare la maggior

parte delle sue energie in un lavoro senza significato? Non diventerà

sempre più alienato, sia nelle ore libere sia in quelle lavorative? La

speranza di lavorare senza sforzo non si basa forse sulla fantasia del-

la pigrizia e del potere-pulsante e cioè su una fantasia piuttosto mal-

sana? Il lavoro è una parte così trascurabile dell’esistenza dell’uomo

da potersi e doversi ridurre a una quasi completa mancanza di signi-

ficato? E non è forse il modo di lavorare di per se stesso un elemento

5 Ibidem, p. 144. Le esperienze sull'allargamento del lavoro svolte dalla Ibm portano ad eguali

considerazioni. Quando un operaio svolgeva diverse operazioni che erano prima suddivise tra

diversi operai, così che l'operaio potesse avere un senso di completezza ed esser collegato col

prodotto del lavoro, la produzione aumentava e la stanchezza diminuiva.

8. LE VIE DELLA SALUTE 250

essenziale per la formazione del carattere? Il lavoro automatizzato

non porterà forse ad una vita completamente automatizzata?

Tutte queste domande pongono altrettanti dubbi sulla idealizza-

zione del lavoro complementare automatizzato; ma dobbiamo consi-

derare ora quelle opinioni che negano la possibilità che il lavoro pos-

sa essere interessante e significativo e possa pertanto esser veramen-

te umanizzato. Si obiettano queste cose: il lavoro in uno stabilimento

moderno non porta per la sua stessa natura all’interesse e alla soddi-

sfazione; inoltre vi sono necessariamente dei lavori da fare che sono

decisamente spiacevoli o ripugnanti; la partecipazione attiva

dell’operaio alla direzione non è compatibile con le esigenze

dell’industria moderna, e porterebbe al caos; per funzionare adegua-

tamente in questo sistema l’uomo deve obbedire e adattarsi ad una

organizzazione «routinizzata»; per sua natura l’uomo è pigro e non

gli piace la responsabilità e di conseguenza deve esser condizionato

per funzionare senza attriti e senza troppa iniziativa e spontaneità.

Per ribattere adeguatamente a queste obiezioni dovremmo fare

qualche considerazione sul problema della pigrizia e delle varie mo-

tivazioni del lavoro.

Sorprende che l’opinione della naturale pigrizia dell’uomo sia so-

stenuta sia da psicologi sia da non psicologi quando sono tanti i fatti

riscontrabili che la contraddicono. La pigrizia, lungi dall’essere

normale, è un sintomo di patologia mentale. In effetti una delle più

gravi forme di malattia mentale è la noia, il non saper cosa fare di sé

e della propria vita. Anche se l’uomo non ricevesse compenso finan-

ziario o altro, sarebbe ansioso di consumare le sue energie in qualche

modo significativo perché non potrebbe sopportare la noia prodotta

dall’inattività.

Osserviamo i bambini: essi non sono mai pigri; col minimo inco-

raggiamento o anche senza, sono indaffarati a giocare, a far doman-

de, a inventare favole, senza nessuno stimolo eccetto il piacere

dell’attività in se stessa. Nel campo della psicopatologia troviamo

che la persona che non ha interesse a far nessuna cosa è seriamente

ammalata ed è ben lungi dal presentare uno stato normale proprio

alla natura umana. Esiste abbondanza di materiale relativo ad operai

che durante il periodo di disoccupazione soffrono tanto, o più, per il

«riposo» forzato, quanto per le privazioni materiali. E come si può

ampiamente dimostrare per molta gente oltre i sessantacinque anni,

251 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

la necessità di cessare il lavoro porta a una profonda scontentezza e,

in molti, al deterioramento fisico o alle malattie.

Nondimeno la estesa credenza nella pigrizia innata dell’uomo si

sostiene su molti motivi. La causa principale sta nel fatto che il lavo-

ro alienato è noioso e non soddisfa, che esso provoca una gran quan-

tità di tensione e di ostilità che portano ad una avversione per il lavo-

ro e per tutto ciò che vi è connesso. Come risultato, troviamo che il

desiderio di pigrizia e il dolce far niente sono l’ideale di molte per-

sone. Così la gente sente che la propria pigrizia è lo stato «naturale»

piuttosto che il sintomo di una condizione patologica della vita, il

risultato di un lavoro alienato e senza significato. Esaminando le

opinioni correnti sulle motivazioni del lavoro risulta evidente che

esse sono basate sul concetto del lavoro alienato e pertanto le loro

conclusioni non devono applicarsi al lavoro non alienato e attraente.

La teoria convenzionale e più comune è che il denaro sia

l’incentivo principale al lavoro. Questa opinione può aver due signi-

ficati differenti: il primo è che la paura della miseria è l’incentivo

più importante al lavoro, e in questo caso l’argomentazione regge.

Molti tipi di lavoro non sarebbero mai accettati sulla base delle pa-

ghe o di altre condizioni di lavoro se il lavoratore non fosse messo di

fronte all’alternativa di accettare date condizioni o morire di fame. Il

lavoro spiacevole e basso nella nostra società non è fatto volonta-

riamente ma perché il bisogno di guadagnarsi da vivere costringe

molta gente a farlo.

Più spesso, quando si parla dell’incentivo monetario, si pensa che

il desiderio di guadagnare più denaro determini il maggior sforzo nel

lavoro. Se l’uomo non fosse tentato dalla speranza di un maggior

compenso monetario, si obietta, egli non lavorerebbe del tutto o al-

meno lavorerebbe senza interesse.

Questa convinzione esiste ancora tra la maggioranza degli indu-

striali, come anche tra molti dirigenti sindacali. Così, per esempio,

cinquanta dirigenti industriali risposero alla domanda6 che cosa fosse

importante per aumentare la produttività dei lavoratori: il solo gua-

dagno: 44% il guadagno è di gran lunga la cosa più importante, ma

hanno qualche importanza anche cose meno tangibili: 28% il guada-

6 Dati riportati in «Public Opinion Index for Industry» nel 1947, citati da M.S. VITELES,

Motivation and Morale in Industry, W.W. Norton & Company, New York 1953.

8. LE VIE DELLA SALUTE 252

gno è importante ma oltre un certo limite non produce risultati: 28%

In effetti i datori di lavoro di tutto il mondo sono favorevoli al siste-

ma di retribuzioni a incentivo come solo mezzo che può portare alla

più alta produttività del singolo operaio, ai più alti guadagni per ope-

rai e datori di lavoro, rendendo in tal modo indirettamente più facile

il controllo, riducendo l’assenteismo, ecc.. Relazioni e indagini da

parte dell’industria e degli uffici governativi «testimoniano general-

mente l’efficacia del sistema di retribuzioni a incentivo per aumenta-

re la produttività e raggiungere altri obiettivi».7 Sembra che anche

gli operai credano che con la retribuzione a incentivo si ottenga il

maggior rendimento pro capite. In una indagine condotta nel 1949

dalla Opinion Research Corporation e interessante 1021 lavoratori

manuali comprendenti un settore nazionale di dipendenti

dell’industria manifatturiera, il 65% disse che la retribuzione a in-

centivo aumenta il rendimento e soltanto il 22% che la paga oraria

porta ad una produzione più elevata. Tuttavia rispondendo alla do-

manda sul sistema di paga preferito, il 65% si dichiarò a favore della

paga oraria e soltanto il 29% per la retribuzione a incentivo. (La pro-

porzione della preferenza per la paga oraria era di 74 contro 20 nel

caso di operai pagati ad ora ma, perfino nel caso di operai già in pa-

ga a incentivo, il 59% era a favore della paga oraria contro il 36%

favorevole alla retribuzione a incentivo).

Questi ultimi dati sono interpretati da Viteles come dimostrazio-

ne che «per quanto utile sia la retribuzione a incentivo per aumentare

il rendimento, essa non risolve il problema di ottenere la cooperazio-

ne degli operai. In talune circostanze essa può acutizzare questo pro-

blema».8 Questa opinione è condivisa sempre più da psicologi indu-

striali e anche da qualche industriale.

Tuttavia l’esame dell’incentivo finanziario sarebbe incompleto se

non considerassimo il fatto che il desiderio di maggior guadagno è

costantemente stimolato dalla stessa industria, che fa affidamento sul

denaro come sul più importante incentivo al lavoro. Con la pubblici-

tà, il sistema di vendita a rate, e diversi altri espedienti l’avidità

dell’individuo di comprare cose in sempre maggior quantità e sem-

pre più nuove è stimolata al punto che è raro egli possa avere abba-

7 Ibidem, p. 27. 8 Ibidem, pp. 49, 50.

253 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

stanza denaro per soddisfare questi bisogni. Così, essendo artificial-

mente stimolato dall’industria, l’incentivo monetario esercita un ruo-

lo maggiore di quello che farebbe altrimenti. Inoltre non occorre dire

che l’incentivo monetario deve necessariamente svolgere un ruolo

preminente fino a che esso resta l’unico incentivo, dato che il pro-

cesso di lavoro è di per se stesso insoddisfacente e noioso. Vi sono

molti esempi di casi in cui si sceglie un lavoro meno retribuito se

esso è di per se stesso più interessante.

Si suppone che, oltre al denaro, il prestigio, la condizione sociale

e il potere che vi si accompagnano siano i principali incentivi al la-

voro. Non c’è bisogno di dimostrare che il desiderio di prestigio e di

potere costituisce oggi il più potente incentivo al lavoro nelle classi

medie e superiori; difatti l’importanza del denaro consiste largamen-

te nel prestigio che esso rappresenta, almeno quanto nella sicurezza e

comodità che gli si accompagnano. Ma si ignora spesso il ruolo che

il bisogno di prestigio svolge anche tra gli operai, gli impiegati e i

gradi più bassi della burocrazia industriale e commerciale. Le divise

di facchino di treni di lusso, di fattorini di banca ecc., sono significa-

tivi sostegni psicologici di questo senso d’importanza, come nei ran-

ghi superiori lo sono il telefono personale e un ufficio più ampio.

Questi fattori di prestigio esercitano un ruolo anche tra operai

dell’industria.9

Il denaro, il prestigio e il potere costituiscono oggi i principali in-

centivi per il settore più ampio della nostra popolazione, quella che è

impiegata. Ma ci sono altre motivazioni: la soddisfazione di crearsi

una esistenza economicamente indipendente, e la esecuzione di lavo-

ri di abilità, che entrambe rendono il lavoro molto più significativo

ed attraente di quanto non lo facciano le motivazioni del denaro e del

potere. Ma mentre l’indipendenza economica e l’abilità erano soddi-

sfazioni importanti per l’uomo d’affari indipendente, per l’artigiano

e per l’operaio altamente specializzato del diciannovesimo secolo e

degli inizi del ventesimo, il ruolo di queste motivazioni sta ora rapi-

damente diminuendo.

Per quanto riguarda l’aumento dei dipendenti, in contrasto con

coloro che svolgono una attività indipendente, notiamo che agli inizi

9 Cfr. W. WILLIAMS, Mainsprings of Men, Charles Scribner's Sons, New York 1925, p. 56,

citato da M.S. VITELES, op. cit., p. 65 ss.

8. LE VIE DELLA SALUTE 254

del diciannovesimo secolo circa i quattro quinti della popolazione

occupata erano lavoratori indipendenti; intorno al 1870 solo un terzo

apparteneva a questo gruppo e nel 1940 questa antica classe media

comprendeva soltanto un quinto della popolazione occupata.

Questo passaggio da indipendenti a dipendenti porta di per se

stesso ad una diminuita soddisfazione del lavoro a causa dei motivi

che abbiamo già esaminato. La persona dipendente più di quella in-

dipendente lavora in una posizione alienata. Riceva una paga bassa o

alta, essa è sempre un accessorio dell’organizzazione e non un essere

umano che fa qualcosa per se stesso.

C’è un fattore tuttavia che potrebbe mitigare l’alienazione del la-

voro, ed è l’abilità che si richiede per il suo svolgimento. Ma anche

qui ci si muove verso una diminuita richiesta di abilità; da ciò

l’aumento di alienazione.

Ai lavoratori d’ufficio si richiede un certo grado di abilità, ma il

fattore della «bella presenza», adatto per essere bene accetto, diventa

di sempre maggior importanza. Tra gli operai dell’industria il vec-

chio tipo di operaio capace di far tutto perde sempre più importanza

a paragone dell’operaio semiqualificato. Alla Ford, alla fine del

1948, il numero degli operai che potevano essere addestrati in meno

di due settimane andava dal 75 all’80% di tutto il personale operaio

degli stabilimenti. Da una scuola professionale con un programma di

apprendistato per la Ford uscivano ogni anno soltanto trecento di-

plomati, di cui la metà entrava in altre imprese. In una fabbrica di

batterie, a Chicago, tra un centinaio di meccanici considerati alta-

mente qualificati, ve ne sono soltanto quindici che hanno una solida

conoscenza tecnica generale, e quarantacinque altri sono «specializ-

zati» soltanto nell’uso di una sola macchina. In uno degli stabilimen-

ti della Western Electric di Chicago il periodo medio di addestra-

mento degli operai va dalle tre alle quattro settimane e giunge fino a

sei mesi per i compiti più delicati e difficili. Del personale totale di

6400 dipendenti nel 1948, c’erano circa 1000 impiegati d’ufficio,

5000 operai non specializzati e soltanto 400 operai che potevano

esser considerati specializzati. In altre parole meno del 10% del tota-

le del personale è qualificato tecnicamente. In una fabbrica di cara-

255 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

melle di Chicago il 90% degli operai abbisogna di un addestramento

«al banco» che non supera le 48 ore.10

Perfino un’industria come quella svizzera degli orologi che si ba-

sava su manodopera altamente qualificata e specializzata è mutata

moltissimo sotto questo aspetto. Sebbene ci siano ancora diversi sta-

bilimenti che producono secondo i principi tradizionali

dell’artigianato, le grandi fabbriche di orologi del cantone di Solo-

thurn hanno soltanto una modesta percentuale di operai veramente

specializzati.11

Riassumendo, la grande maggioranza della popolazione lavora

come dipendenti cui si richiede poca specializzazione, e con quasi

nessuna possibilità di sviluppare qualche talento particolare o di ri-

velare qualche capacità straordinaria. Mentre i gruppi dirigenti o

professionali hanno almeno un considerevole interesse nel realizzare

qualcosa di più o meno personale, gli altri, nella grande maggioran-

za, vendono le loro capacità fisiche, o una frazione molto esigua del-

le loro capacità intellettuali, ad un datore di lavoro che le usa per

conseguire un utile in cui essi non hanno alcuna parte, per cose a cui

essi non hanno alcun interesse, con il solo fine di guadagnarsi da

vivere e con qualche possibilità di soddisfare la loro avidità di con-

sumatori.

Insoddisfazione, apatia, noia, mancanza di gioia e di felicità, un

senso di inutilità e una vaga sensazione che la vita non ha alcun si-

gnificato, sono i risultati inevitabili di questa situazione. La gente

non è sempre consapevole di questa sindrome patologica socialmen-

te strutturata che può nascondersi in una frenetica fuga in attività di

evasione o in una brama di più denaro, più potere, più prestigio. Ma

questi ultimi motivi hanno tanto peso solamente perché la persona

alienata non può non cercare compensazione al suo vuoto interiore, e

non perché questi desideri siano degli incentivi al lavoro «naturali» o

di maggior importanza.

V’è qualche prova empirica che oggi la maggior parte della gente

non è soddisfatta del suo lavoro?

In un tentativo di rispondere a questa domanda si deve distingue-

re fra ciò che la gente pensa consciamente riguardo alle proprie sod-

10 Queste cifre sono citate da G. FRIEDMANN, op. cit., p. 152ss. 11 Cfr. G. FRIEDMANN, op. cit., pp. 319, 320.

8. LE VIE DELLA SALUTE 256

disfazioni, e ciò che sente inconsciamente. L’esperienza psicanalitica

insegna che il senso di infelicità e di insoddisfazione può esser pro-

fondamente represso; una persona può consciamente sentirsi soddi-

sfatta, e soltanto i suoi sogni, malattie psicosomatiche, insonnia, e

molti altri sintomi possono rivelare l’infelicità sotterranea. La ten-

denza a reprimere l’insoddisfazione e l’infelicità è fortemente soste-

nuta dal diffuso sentimento che il non essere soddisfatti significhi

essere «un fallimento», eccentrico, senza successo, ecc.. (Così, per

esempio, il numero di coloro che pensano consciamente di esser feli-

cemente coniugati ed esprimono sinceramente questa convinzione

rispondendo a un questionario, è di gran lunga maggiore del numero

di quelli che sono realmente felici del loro matrimonio).

Ma perfino i dati sulla soddisfazione conscia del proprio lavoro

sono abbastanza rivelatori. In uno studio sulla soddisfazione nel la-

voro, condotto su scala nazionale, dichiaravano di avere un lavoro

piacevole e soddisfacente l’85% dei professionisti e dei dirigenti, il

64% degli impiegati d’ufficio, e il 41% degli operai dell’industria.

Un quadro simile troviamo in un’altra indagine: 86% dei professio-

nisti, 74% dei dirigenti, 42% degli impiegati del commercio, 56%

degli operai specializzati, e 48% degli operai semispecializzati di-

chiararono di essere soddisfatti.12

Troviamo in queste cifre una significativa discordanza tra profes-

sionisti e dirigenti da una parte, e operai e impiegati dall’altra. Tra i

primi solo una minoranza è insoddisfatta, tra gli ultimi più della me-

tà. Riferendoci al totale della popolazione, questo significa

all’incirca che più della metà della popolazione lavorativa comples-

siva è consciamente insoddisfatta del proprio lavoro, e non vi trova

gioia alcuna. Se consideriamo l’insoddisfazione inconscia, la percen-

tuale sarà considerevolmente più alta. Se prendiamo l’85% dei pro-

fessionisti e dei dirigenti «soddisfatti» si dovrebbe esaminare quanti

di loro soffrono di ipertensione, ulcera, insonnia, tensione nervosa e

stanchezza determinate da cause psichiche. Sebbene non vi siano

dati esatti in proposito, non vi può esser dubbio che se si consideras-

sero questi sintomi, il numero delle persone realmente soddisfatte, e

che provano piacere nel loro lavoro, sarebbe molto minore di quello

indicato dalle cifre sopra riportate.

12 Cfr. C.W. MILLS, White Collar, cit., p. 229.

257 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

Per quanto riguarda gli operai di fabbrica e gli impiegati

d’ufficio, perfino la percentuale delle persone consciamente insoddi-

sfatte è notevolmente elevata e indubbiamente il numero degli operai

e degli impiegati inconsciamente insoddisfatti sarà ancora più eleva-

to. Ciò è indicato da alcuni studi che mostrano come le ragioni prin-

cipali dell’assenteismo siano le nevrosi e le malattie determinate da

cause psichiche (si calcola che la presenza di sintomi nevrotici tra gli

operai degli stabilimenti superi il 50%). La stanchezza e l’alta mobi-

lità della manodopera sono altri sintomi di insoddisfazione e risen-

timento.

Dal punto di vista economico il sintomo più importante, che è

perciò il più studiato, è la diffusa tendenza degli operai degli stabi-

limenti a non dare il meglio di sé nel lavoro, ciò che costituisce quel-

lo che è spesso chiamato «work restriction». In una indagine condot-

ta dalla Opinion Research Corporation nel 1945, il 49% di tutti gli

operai manuali interrogati rispose che «quando un uomo assume un

posto in uno stabilimento dovrebbe produrre quanto più può», ma il

41% rispose che egli non dovrebbe dare il meglio di sé, ma soltanto

«produrre la quantità media».13

14

13 M.S. VITELES, op. cit., p. 61. 14 Sotto il titolo The Decline of «Economic» Man, Viteles giunge a questa conclusione: «In

generale gli studi del genere sopra citato continuano a confermare le conclusioni raggiunte da

Mathewson, come risultato di indagini sugli stabilimenti e di interviste con rappresentanti

della direzione, e cioè che:

1. La restrizione è ampiamente diffusa, e profondamente legata al modo di lavorare degli

operai americani.

2. L'organizzazione scientifica del lavoro non è stata capace di sviluppare quello spirito di

fiducia tra i contraenti di un contratto di lavoro che ha tanto operato a favore dello sviluppo

della buona volontà tra i contraenti di un contratto di vendita.

3. Il lavorare sotto la norma e la restrizione sono problemi più grandi di quanto non lo sia-

no il lavorare troppo o troppo svelti. Gli sforzi dei dirigenti per far che gli operai lavorassero

più rapidamente sono stati neutralizzati dall'ingegnosità degli operai nello sviluppare sistemi

restrittivi.

4. I dirigenti sono stati in generale così soddisfatti della produzione per ora lavorativa da

dedicare soltanto una attenzione superficiale al contributo o alla mancanza di contributo dei

lavoratori all'aumento del rendimento. I tentativi di assicurare l'aumento della produzione sono

stati fatti con metodi tradizionali e non scientifici, mentre i lavoratori aderivano alle vecchie

pratiche di autoprotezione che precedono lo studio dei tempi, i piani di incentivi e gli altri

espedienti per stimolare la capacità produttiva.

5. Indipendentemente da quanto un individuo può o meno desiderare di contribuire ad un

lavoro a pieno ritmo, le sue esperienze attuali lo distolgono da un buon costume lavorativo».

(M.S. VITELES, op. cit., pp. 58, 59).

8. LE VIE DELLA SALUTE 258

Vediamo che c’è una considerevole quantità di insoddisfazione

conscia, e più ancora inconscia, per il genere di lavoro che la nostra

società industriale offre alla maggior parte dei suoi membri. Si cerca

di far fronte a questa insoddisfazione con un insieme di incentivi

monetari e di prestigio, e senza dubbio questi incentivi producono

una considerevole voglia di lavorare, specialmente ai gradi medi e

più elevati della gerarchia nel mondo degli affari. Ma una cosa è che

questi incentivi facciano lavorar la gente e tutt’altra questione è se il

modo di fare questo lavoro porti alla salute mentale e alla felicità.

L’esame delle motivazioni del lavoro considera di solito soltanto il

primo problema, cioè se questo o quell’incentivo aumenti la produt-

tività economica dell’operaio, ma non considera il secondo, quello

della sua produttività umana. Si ignora il fatto che vi sono molti in-

centivi che possono indurre un uomo a far qualche cosa, ma che nel

contempo sono nocivi alla sua personalità. Una persona può lavorare

sodo per paura o per un intimo senso di colpa; la psicopatologia ci

fornisce numerosi esempi di motivi nevrotici che portano ad un ec-

cesso di attività, allo stesso modo che alla inattività.

La maggior parte di noi ritiene che il genere di lavoro proprio

della nostra società, cioè il lavoro alienato, sia il solo genere che si

possa dare, e che pertanto l’avversione al lavoro è naturale, e che di

conseguenza il denaro, il prestigio e il potere siano i soli incentivi al

lavoro. Se usassimo almeno un po’ della nostra immaginazione tro-

veremmo una buona dose di testimonianze nella nostra stessa vita,

osservando i bambini, o in diverse situazioni che si possono facil-

mente conoscere, per convincerci che siamo desiderosi di impiegare

le nostre energie in qualche cosa di significativo, e che ci sentiamo

riposati se possiamo farlo, come siamo facilmente disposti ad accet-

tare l’autorità razionale se ciò che facciamo ha un senso.

Ma anche se questo è vero, obiettano i più, che ci giova questa

verità? Il lavoro industriale e meccanizzato non può, per la sua stessa

natura, esser significativo; esso non può darci alcun piacere o soddi-

sfazione e non vi sono modi per cambiare questa situazione a meno

che non si vogliano abbandonare le nostre conquiste tecniche. Per

rispondere a questa obiezione e passare ad esaminare alcune idee su

come il lavoro moderno possa esser significativo, desidero indicare

due differenti aspetti del lavoro che è molto importante conoscere

259 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

per il nostro problema: la differenza tra aspetti tecnici e aspetti socia-

li del lavoro.

D. interesse e partecipazione come motivazioni

Se consideriamo separatamente gli aspetti tecnici e quelli sociali

della situazione di lavoro, troviamo che molti tipi di lavoro sarebbe-

ro interessanti dal lato tecnico se l’aspetto sociale fosse soddisfacen-

te; d’altra parte, vi sono tipi di lavoro il cui aspetto tecnico non può,

per la sua stessa natura, esser interessante e dove tuttavia gli aspetti

sociali della situazione di lavoro potrebbe renderlo significativo ed

attraente.

Cominciando ad esaminare il primo caso, troviamo che vi sono

molti uomini cui piacerebbe, per esempio, esser dei tecnici ferrovia-

ri. Ma sebbene quella di tecnici delle ferrovie sia tra le posizioni me-

glio pagate e più rispettate della classe operaia, questa professione

non è però tale da soddisfare le ambizioni di quelli che potrebbero

«star meglio». Non c’è dubbio che tra i dirigenti d’industria parecchi

proverebbero più piacere nello svolgere l’attività di tecnico delle

ferrovie che non nel loro lavoro, soltanto se l’ambiente sociale fosse

diverso. Prendiamo un altro esempio: quello di un cameriere di risto-

rante. Questo mestiere potrebbe essere estremamente attraente per

molta gente qualora il suo prestigio sociale fosse diverso. Esso per-

mette di aver continui rapporti con la gente e, per quelli che apprez-

zano la buona cucina, è un piacere consigliare gli altri sui cibi, ser-

virli con eleganza, ecc.. Molti uomini proverebbero molto più piace-

re a fare i camerieri che a star seduti in un ufficio a rompersi la testa

su cifre senza significato, se non fosse per la bassa valutazione so-

ciale e il basso reddito del lavoro di cameriere. E ancora, molti altri

desidererebbero il lavoro di autista di taxi, se non vi fossero gli

aspetti economico-sociali negativi.

Si dice spesso che vi sono taluni tipi di lavoro che nessuno vor-

rebbe svolgere se non vi fosse forzato dalla necessità economica; e

spesso si porta ad esempio il lavoro del minatore. Ma se si conside-

rano la varietà della gente e le loro fantasie consce e inconsce, sem-

bra che vi sarebbe un considerevole numero di uomini per i quali

lavorare sotto terra ed estrarne le ricchezze potrebbe avere un grande

fascino, qualora non vi fossero gli svantaggi sociali e finanziari di

8. LE VIE DELLA SALUTE 260

questo tipo di lavoro. Non c’è probabilmente nessun genere di lavo-

ro che non interesserebbe certi tipi di personalità, qualora fosse libe-

ro da aspetti negativi sia sul piano sociale sia su quello economico.

Ma anche concedendo che le considerazioni ora fatte siano vali-

de, è indubbiamente vero che molti dei lavori più altamente mecca-

nizzati, che sono richiesti dalla meccanizzazione industriale, non

possono aver in se stessi una fonte di piacere o di soddisfazione. An-

che qui la differenza tra aspetto tecnico e sociale del lavoro si rivela

importante. Mentre l’aspetto tecnico può esser infatti senza interesse,

la situazione totale di lavoro potrebbe offrire una buona quantità di

soddisfazione.

Ecco alcuni esempi per illustrare questo punto. Paragoniamo una

massaia che bada alla casa e alla cucina, con una domestica che è

pagata per fare esattamente lo stesso lavoro. Sia per la massaia sia

per la domestica il lavoro nei suoi aspetti tecnici è il medesimo, e

non particolarmente interessante. Però esso avrà evidentemente per

le due un significato ed una soddisfazione completamente differenti,

quando si pensi ad una donna con una felice situazione coniugale e

con bambini e ad una normale domestica che non abbia attaccamen-

to sentimentale per i suoi padroni. Per la prima il lavoro non sarà una

pena, mentre lo sarà certamente per la seconda; la sola ragione per

farlo è che questa donna ha bisogno del denaro che riceve in com-

penso. La ragione di questa differenza è ovvia: mentre il lavoro è lo

stesso nei suoi aspetti tecnici, completamente differente è la situa-

zione di lavoro: per la massaia esso è una parte del suo totale rappor-

to col marito e coi figli e in questo senso il suo lavoro ha un signifi-

cato. La domestica non può partecipare alla soddisfazione di questo

aspetto sociale del lavoro.

Prendiamo un altro esempio: un indiano del Messico che vende i

suoi prodotti al mercato. L’aspetto tecnico del lavoro, quello di ser-

vire per tutto il giorno i clienti e svolgere ogni tanto il compito di

rispondere a domande sul prezzo ecc. sarebbe altrettanto noioso e

sgradito quanto il lavoro di una commessa in un grande magazzino

popolare. V’è però una differenza essenziale. Per l’indiano messica-

no la situazione del mercato è piena di interessanti rapporti umani.

Egli accoglie con piacere i clienti, prova soddisfazione a chiacchie-

rare con loro e si sentirebbe veramente avvilito se gli accadesse di

vendere tutte le merci nelle prime ore del mattino, e non avesse ulte-

261 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

riore occasione per questa soddisfazione di relazioni umane. Per la

commessa di un emporio popolare la situazione è radicalmente diffe-

rente. Anche se non deve sorridere quanto una commessa meglio

pagata di un negozio più elegante, la sua alienazione dal cliente è

esattamente la stessa. Non c’è alcun genuino rapporto umano. Ella

lavora come una parte del meccanismo di vendita, ha paura di esser

licenziata ed è preoccupata di far bene. La situazione di lavoro in

quanto situazione sociale è inumana, vuota e priva di ogni genere di

soddisfazione. È vero naturalmente che l’indiano vende i propri pro-

dotti e ricava il proprio utile, ma anche un piccolo bottegaio indi-

pendente sarà egualmente annoiato a meno che non trasformi

l’aspetto sociale della situazione di lavoro in un aspetto umano.

Considerando ora gli studi recenti nel campo della psicologia in-

dustriale, troviamo molte testimonianze sull’importanza della diffe-

renziazione tra l’aspetto tecnico e quello sociale della situazione di

lavoro, e inoltre sull’effetto vitalizzante e stimolante dell’attiva e

responsabile partecipazione del lavoratore al suo compito.

Uno dei più notevoli esempi del fatto che il lavoro tecnicamente

monotono può essere interessante se la situazione di lavoro nel suo

complesso consente interesse e partecipazione attiva, è l’esperimento

ormai classico condotto da Elton Mayo15

allo stabilimento Hawthor-

ne di Chicago della Western Electric Company. L’operazione scelta

era il montaggio di bobine per telefoni, lavoro che è considerato co-

me prestazione ripetitiva, ed è di solito svolto da donne. Un normale

banco di montaggio con l’adeguata attrezzatura e con posto per cin-

que operaie venne messo in una camera che era separata con un divi-

sorio dalla sala principale di montaggio; sei operaie in tutto lavora-

vano in questa camera, cinque al banco e una che distribuiva i pezzi

a quelle occupate al montaggio. Tutte le donne erano operaie speri-

mentate. Due di esse lasciarono il posto durante il primo anno, e il

loro posto venne preso da altre due operaie di eguale abilità.

Nell’insieme l’esperimento durò cinque anni e fu diviso in vari pe-

riodi sperimentali nei quali furono effettuati certi cambiamenti nelle

condizioni di lavoro. Senza entrare nei particolari di questi cambia-

15 Cfr. Elton MAYO, The Human Problem of an Industrial Civilization, The Macmillan Com-

pany, 2a ed', New York 1946. E cfr. anche F.J. ROETHLISBERGER e W.J. DICKSON, Man-

agement and the Worker, Harvard University Press, Cambridge, 10a ed., 1950.

8. LE VIE DELLA SALUTE 262

menti, basti dire che vennero adottati degli intervalli di riposo al

mattino e al pomeriggio, durante queste pause furono offerti cibi di

ristoro e l’orario fu ridotto di mezz’ora. Durante questi cambiamenti

il rendimento di ogni operaia crebbe considerevolmente. Fin qui,

tutto bene; nulla era più plausibile dell’assunto che l’aumento dei

periodi di riposo e alcuni tentativi di far sì che il lavoratore «si tro-

vasse meglio» fossero la causa di una efficienza crescente. Ma le

condizioni furono ancora una volta mutate nel dodicesimo periodo

sperimentale e questa volta le aspettative furono deluse e i risultati si

rivelarono piuttosto impressionanti: in accordo con le operaie, il

gruppo ritornò alle condizioni di lavoro che esistevano all’inizio

dell’esperimento. Le pause di riposo, i ristori speciali e altri miglio-

ramenti furono tutti aboliti per circa tre mesi. Con stupore di tutti,

questo non portò ad una diminuzione della produttività, ma, al con-

trario, il rendimento giornaliero e settimanale salì ad un punto più

elevato di quanto non fosse mai stato prima. Nel periodo successivo

furono reintrodotte le vecchie concessioni con la sola eccezione che

le operaie dovevano provvedere al proprio cibo, mentre la società

continuava a fornire il caffè per la merenda del mattino. Il rendimen-

to continuò ancora a crescere. E non soltanto il rendimento. Quello

che era egualmente importante era il fatto che l’incidenza delle ma-

lattie tra le operaie partecipanti a questo esperimento cadde di circa

l’80% a paragone con l’incidenza generale, e che un nuovo rapporto

sociale di relazione amichevole si sviluppò tra le operaie partecipanti

all’esperimento.

Come si può spiegare il sorprendente risultato che «il persistente

incremento sembrava nel suo continuo sviluppo ignorare i mutamen-

ti sperimentali»?16

Se non era per le pause di riposo, per il tè, per

l’orario di lavoro abbreviato, che cos’era a far sì che le operaie pro-

ducessero di più, fossero più sane e più amichevoli tra loro? La ri-

sposta è ovvia: mentre gli aspetti tecnici del lavoro monotono e non

interessante restavano gli stessi e mentre perfino taluni miglioramen-

ti come le pause di riposo non erano determinanti, l’aspetto sociale

dell’intera situazione di lavoro era mutato e determinava un muta-

mento nell’atteggiamento delle operaie. Esse erano informate

dell’esperimento e delle sue diverse fasi, i loro suggerimenti erano

16 E. MAYO, op. cit., p. 63.

263 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

ascoltati e spesso seguiti e, ciò che è forse il punto più importante,

sapevano di partecipare ad un esperimento significativo ed interes-

sante, che era importante non solo per loro, ma per i lavoratori

dell’intero stabilimento. Mentre esse in principio erano «timide e

inquiete, silenziose e forse un po’ sospettose delle intenzioni della

società», più tardi il loro atteggiamento era segnato «da confidenza e

franchezza». Il gruppo sviluppò un senso di partecipazione al lavoro,

perché esse sapevano quel che stavano facendo; avevano un fine e

uno scopo e potevano influire su tutto il procedimento con i loro

suggerimenti.

I risultati sorprendenti dell’esperimento di Mayo mostrano che la

malattia, la stanchezza e un conseguente basso rendimento non sono

principalmente determinati dal monotono aspetto tecnico del lavoro,

ma dalla alienazione del lavoratore dalla totale situazione di lavoro

nei suoi aspetti sociali. Appena questa alienazione fu ridotta ad un

certo livello attraverso la partecipazione dell’operaio a qualcosa che

era per lui significativo e su cui poteva esprimere la sua opinione,

mutò l’intera reazione psicologica nei confronti del lavoro, anche se

tecnicamente egli continuava a fare lo stesso genere di lavoro.

L’esperimento di Mayo alle officine Hawthorne fu seguito da un

numero di ricerche tendenti a dimostrare che l’aspetto sociale della

situazione di lavoro aveva un’influenza decisiva sull’atteggiamento

dei lavoratori, anche se il processo lavorativo restava lo stesso nei

suoi aspetti tecnici. Così per esempio Wyatt e i suoi collaboratori

«...fornirono indicazioni su altre caratteristiche della situazione di

lavoro che influenzano la volontà di lavorare. Queste indicazioni

mostravano che la variazione della media di lavoro in differenti in-

dividui dipendeva dalla prevalente atmosfera sociale, o del gruppo,

cioè da una influenza collettiva che formava uno sfondo intangibile e

determinava la natura generale delle reazioni alle condizioni di lavo-

ro».17

È alla stessa particolarità che si deve il fatto che in un piccolo

gruppo di lavoro la soddisfazione soggettiva e il rendimento siano

più elevati che nei gruppi più grandi, anche se negli stabilimenti

esaminati la natura del processo lavorativo era quasi identica e le

condizioni fisiche, previdenziali e di ristoro erano molto elevate e

17 Dati riportati su «Public Opinion Index for Industry» nel 1947, citati da M.S. VITELES,

Motivation and Morale in Industry, cit., p. 134.

8. LE VIE DELLA SALUTE 264

quasi le stesse.18

La relazione tra la grandezza del gruppo e il morale

è stata notata anche in uno studio di Hewitt e Parfit condotto in uno

stabilimento tessile inglese.19

Qui la «media delle assenze» non do-

vute a malattia risultava significativamente maggiore fra gli operai

delle grandi sale che tra quelli delle sale più piccole, dove c’erano

meno lavoratori.20

Uno studio precedente condotto nell’industria

aeronautica durante la seconda guerra mondiale da Mayo e Lom-

bard21

giunge a risultati molto simili.

L’aspetto sociale della situazione di lavoro in confronto a quello

puramente tecnico è stato particolarmente accentuato da G. Fried-

mann. Come esempio della differenza tra questi due aspetti egli de-

scrive il «clima psicologico» che spesso si sviluppa tra uomini che

lavorano insieme al nastro trasportatore. Nella squadra di lavoro le-

gami personali e interessi si sviluppano e la situazione di lavoro è in

tutti i suoi aspetti molto meno monotona di quanto sembrerebbe vi-

sta dal di fuori osservandone soltanto l’aspetto tecnico.22

Mentre gli esempi precedenti forniti da ricerche in psicologia in-

dustriale23

ci mostrano il risultato che si ottiene anche con un mode-

18 M.S. VITELES, op. cit., p. 138. 19 D. HEWITT e J. PARFIT, Working Morale and Size of Group Occupational Psychology,

1953. 20 M.S. VITELES, op. cit., p. 139. 21 E. MAYO e G.F.F. LOMBARD, Team Work and Labour Turnover in the Aircraft Industry

of Southern California, Harvard Graduate School of Business, «Business Research Series N'

32», 1944. 22 G. FRIEDMANN, Dove va il lavoro umano?, cit., p. 117. Cfr. anche il suo Machine et Hu-

manisme, Gallimard, Parigi 1946, pp. 329,

330 e 370 ss. 23 Nel medesimo campo ci sono gli esperimenti di «allargamento del lavoro» condotti dalla

Ibm, il cui aspetto più importante consiste nel mostrare che l'operaio si sente più soddisfatto se

l'estrema divisione del lavoro, e la sua conseguente mancanza di significato, viene cambiata

con una attività che combini diverse operazioni, fino allora separate, in un'operazione più

significativa. Inoltre, c'è l'esperienza riferita da Walker e Guest, i quali trovarono che gli ope-

rai dell'industria automobilistica preferivano un metodo di lavoro nel quale potessero almeno

vedere le parti che essi avevano finito («banking»). In un esperimento condotto in uno stabili-

mento della Harwood Manufacturing Co', in un gruppo sperimentale dove vigevano metodi

democratici e le decisioni erano prese dagli operai, si verificò un aumento della produzione del

14%. (Cfr. VITELES, op. cit., pp. 164-67). Uno studio di P. French jr. sul personale addetto

alle macchine per cucire riferisce di un aumento della produzione del 18% come risultato di

un'accresciuta partecipazione operaia al programma di lavoro e alle decisioni prese. (J.R.P.

FRENCH, «Field Experiments», in Experiments in Social Process, a cura di J.G. Miller,

Mcgraw-Hill Book Co', New York 1950, pp. 83-88). Lo stesso principio era applicato in In-

ghilterra durante la guerra, quando i piloti andavano a visitare gli stabilimenti per spiegare agli

operai come quel che essi producevano era effettivamente impiegato in combattimento.

265 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

sto grado di partecipazione attiva nell’ambito della organizzazione

industriale moderna, giungiamo a conoscenze che sono molto più

convincenti dal punto di vista delle possibilità di trasformazione del-

la nostra organizzazione industriale se ci volgiamo alle relazioni sul

movimento comunitario, uno dei più significativi e interessanti mo-

vimenti dell’Europa odierna.

Vi sono circa un centinaio di «comunità di lavoro» in Europa, la

maggior parte in Francia, ma alcune anche nel Belgio, in Svizzera e

in Olanda. Alcune sono industriali e alcune agricole. Esse differisco-

no tra loro in vari aspetti, ma nondimeno i principi fondamentali so-

no abbastanza simili così che la descrizione di una può dare una vi-

sione adeguata delle caratteristiche essenziali di tutte.24

Boimondau è una fabbrica di casse di orologi, e in effetti è diven-

tata una delle sette maggiori fabbriche del genere esistenti in Fran-

cia. Fu fondata da Marcel Barbu, che dovette lavorar sodo per ri-

sparmiare abbastanza e avere una fabbrica propria, dove introdusse

un consiglio di gestione e un sistema di retribuzioni sanzionato da

tutti e comprendente la partecipazione agli utili. Ma questo paterna-

lismo illuminato non era quello cui Barbu mirava. Dopo la sconfitta

della Francia nel 1940 Barbu cercò di avviarsi decisamente verso la

liberazione cui pensava. Poiché a Valenza non trovava meccanici,

andava a cercare la gente per le strade e trovava qui un barbiere, lì

un salumaio, là un cameriere: praticamente tutti, eccetto operai indu-

striali specializzati. «Gli uomini erano tutti sotto i trent’anni, ed egli

si offriva di insegnar loro a fabbricar casse d’orologio, purché con-

sentissero a ricercare con lui una formula nella quale la "distinzione

tra datore di lavoro e prestatore d’opera fosse abolita". La cosa più

importante era cercare... La prima e rivoluzionaria scoperta fu che

ogni operaio doveva esser libero di dire il fatto suo agli altri... Subito

24 Seguo qui una descrizione delle «comunità di lavoro» data da Claire HUCHET BISHOP in

All Things Common, Harper and Brothers, New York 1950. Considero questo penetrante e

profondo lavoro come uno dei più illuminati tra quanti trattano i problemi psicologici dell'or-

ganizzazione industriale e delle possibilità per il futuro. Sia ben chiaro ad ogni modo che io

non intendo dire che le comunità di lavoro siano «la» risposta alla trasformazione di una vasta

e complessa società. Ne tratto in modo particolareggiato perché esse sono un esempio concreto

di nuove possibilità di partecipazione da parte dei lavoratori, possibilità che possono venir

scoperte quando immaginazione entusiasmo e senso della realtà si trovano riuniti. In Iugosla-

via lo sviluppo della partecipazione dei lavoratori segue per molti aspetti un percorso simile a

quello delle comunità di lavoro, e costituisce un altro interessante e importante campo di ricer-

ca nella medesima direzione.

8. LE VIE DELLA SALUTE 266

questa completa libertà di parlare tra loro e col datore di lavoro creò

una vivacissima atmosfera di fiducia.

Tuttavia fu ben presto evidente che questo "dirsi il fatto suo" por-

tava a discussioni e a sprecare il tempo di lavoro. Così essi,

all’unanimità, stabilirono un periodo ogni settimana per una riunione

collettiva e per raggiustare le controversie e i contrasti.

Ma siccome essi non tendevano semplicemente ad una miglior

formula economica ma a un nuovo modo di vivere insieme, le di-

scussioni dovevano condurre a scoprire gli atteggiamenti fondamen-

tali. "Ben presto, dice Barbu, vedemmo la necessità di una base co-

mune, ciò che da allora in poi chiamiamo la nostra etica comune".

Fino a che non vi fosse una base etica comune, non c’era un pun-

to di partenza comune e non c’era dunque possibilità di costruire

qualche cosa. Ma trovare una base etica comune non era facile, per-

ché le due dozzine di operai allora assunti erano tutti differenti: cat-

tolici, protestanti, materialisti, umanisti, atei, comunisti. Essi esami-

narono tutte le loro etiche individuali, cioè non quello che era stato

loro meccanicamente insegnato o che era stato accettato convenzio-

nalmente, ma quello che essi per loro propria esperienza e per loro

ragionamento ritenevano necessario.

Essi scoprirono che le loro etiche individuali avevano taluni punti

in comune; presero questi punti e li ridussero ad un minimo comune

denominatore su cui s’accordarono all’unanimità. E non fu una di-

chiarazione teoretica o vaga; nelle loro premesse essi dichiararono:

"Non c’è pericolo che il nostro minimo comune denominatore

etico sia una convenzione arbitraria poiché, per determinarne i punti,

ci siamo appoggiati alle nostre esperienze di vita. Tutti i nostri prin-

cipi morali sono stati riscontrati nella vita reale, nella vita quotidiana

e nella vita di tutti noi...".

Quel che avevano riscoperto del tutto da soli e passo a passo era

l’etica naturale, il Decalogo25

che espressero con le seguenti parole:

Ama il tuo prossimo.

Non ammazzare.

Non impossessarti dei beni del prossimo.

Non mentire.

25 Senza il primo comandamento che tratta del destino dell'uomo e non dell'etica.

267 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

Mantieni le tue promesse.

Guadagnati il pane col sudore della fronte.

Rispetta il tuo prossimo, la sua persona e la sua libertà.

Rispetta te stesso.

Combatti innanzi tutto in te stesso tutti i vizi che degradano l’uomo,

tutte le passioni che lo mantengono in servitù e che sono nocive alla vita

sociale: superbia, avarizia, lussuria, avidità, gola, ira, pigrizia.

Ricordati che vi sono beni più alti della vita stessa: la libertà, la dignità

umana, la verità, la giustizia...

Gli uomini si impegnarono a fare del loro meglio per mettere in

pratica il loro minimo comune denominatore etico nella vita quoti-

diana, e vi si impegnarono reciprocamente. Quelli che avevano

un’etica privata più esigente si impegnavano a cercar di vivere se-

condo quel che credevano, ma riconoscevano di non aver assoluta-

mente alcun diritto di interferire nella libertà degli altri. Praticamen-

te, erano tutti d’accordo nel rispettare del tutto le convinzioni o

l’assenza di convinzioni degli altri così da non deriderli o da scher-

zarvi sopra».26

La seconda scoperta fatta dal gruppo era che essi avevano il desi-

derio di educarsi. Calcolarono che il tempo risparmiato nella produ-

zione poteva essere usato per l’educazione. In tre mesi la produttività

del loro lavoro aumentò tanto che si poterono risparmiare nove ore

in una settimana di 48 ore. Che ne fecero? Essi usarono queste nove

ore per l’educazione ed erano pagati come se fossero ore di regolare

lavoro. In un primo tempo decisero di cantare in coro, di migliorare

la loro grammatica francese, e successivamente di imparare a legge-

re i rendiconti aziendali. Da questi si svilupparono altri corsi tenuti

tutti nello stabilimento dai migliori insegnanti che si potevano trova-

re; gli insegnanti erano pagati con paghe normali. C’erano corsi di

ingegneria, di fisica, di letteratura, di marxismo, di cristianesimo, di

danza, di canto e di pallacanestro.

Il loro principio è: «Noi non cominciamo dallo stabilimento, dalla

attività tecnica dell’uomo, ma dall’uomo stesso... In una comunità di

lavoro l’accento non è sul guadagno comune ma sul lavoro comune

per una realizzazione collettiva e personale».27 Il fine non è

26 C.H. BISHOP, op. cit., pp. 5, 6, 7. 27 Ibidem, p. 12 (corsivo mio).

8. LE VIE DELLA SALUTE 268

l’aumento della produttività o paghe più elevate, ma un nuovo stile

di vita che «lungi dall’abbandonare i vantaggi della rivoluzione

industriale, vi sia adattato».28

Ecco i principi su cui si basano

questa ed altre comunità di lavoro.

1. Per vivere una vita umana si deve disporre dell’intero frutto del

proprio lavoro.

2. Si deve esser in grado di educare se stessi.

3. Si deve perseguire uno sforzo comune entro un gruppo professio-

nale proporzionato alla statura dell’uomo (cento famiglie al mas-

simo).

4. Si deve esser attivamente collegati all’intero processo lavorativo.

Se si esaminano queste premesse si scopre che esse equivalgono ad uno

spostamento del centro del problema di vivere, dal fare e acquistare "cose",

allo scoprire, promuovere e sviluppare rapporti umani. Da una civiltà di

oggetti ad una civiltà di persone o, meglio, ad una civiltà di rapporti tra le

persone».29

Per quanto riguarda il compenso, esso corrisponde alle realizza-

zioni del singolo lavoratore, ma tien conto non soltanto del lavoro

professionale ma anche di «ogni attività umana che abbia valore per

il gruppo: un meccanico di prima categoria che sappia suonare il

violino, che sia allegro e buon camerata, ecc., ha per la comunità

maggior valore di un altro meccanico con eguali capacità professio-

nali ma che sia scorbutico, scapolo, ecc.».30

In media tutti i lavorato-

ri guadagnano dal 10 al 20% più di quello che guadagnerebbero con

paghe sindacali, senza tener conto di tutti gli altri vantaggi particola-

ri.

La comunità di lavoro ha acquistato una fattoria di duecentotren-

tacinque acri nella quale tutti, comprese le mogli, lavorano per tre

periodi di dieci giorni all’anno. Siccome tutti hanno un mese di va-

canza, significa che si lavora soltanto per dieci mesi nello stabili-

mento. L’idea di fondo non si basa solo sul tipico amore dei francesi

per la campagna, ma anche sulla convinzione che nessuno dovrebbe

essere interamente staccato dalla natura.

28 Ibidem, p. 13. 29 Ibidem, p. 13. 30 Ibidem, p. 14.

269 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

La cosa più interessante è la soluzione che essi hanno trovato per

una combinazione tra centralizzazione e decentramento, che evita il

pericolo del caos e nello stesso tempo, fa di ogni membro della co-

munità un elemento responsabile e partecipe della vita dello stabili-

mento e della comunità. Vediamo qui come lo stesso genere di pen-

siero e di osservazione che portò alla formulazione delle teorie che

nel diciottesimo e nel diciannovesimo secolo posero le basi per il

moderno stato democratico (divisione dei poteri, sistemi di controllo,

ecc.) sia stato applicato all’organizzazione di un’impresa industriale.

«Il potere supremo risiede nell’assemblea generale che si riunisce due

volte all’anno. Soltanto le decisioni unanimi obbligano i "compagni"

(membri).

L’assemblea generale elegge un capo della comunità che viene eletto

soltanto all’unanimità. Il capo non è soltanto la persona tecnicamente più

qualificata, come deve essere un dirigente, ma è anche "l’uomo che è un

esempio, che educa gli altri, che li ama, che è altruista, che li serve. Obbe-

dire a un cosiddetto capo senza queste qualità sarebbe viltà".

Il capo ha tutti i poteri esecutivi per tre anni. Passato questo periodo può

tornare in officina.

Il capo ha diritto di veto contro l’assemblea generale. Se assemblea ge-

nerale non vuole cedere, si deve porre la votazione di fiducia. Se la fiducia

non è ottenuta all’unanimità, il capo deve scegliere se accettare l’opinione

dell’assemblea generale o rassegnare le dimissioni.

L’assemblea generale elegge i membri del consiglio generale.

Compito del consiglio generale è di consigliare il capo della comunità; i

suoi membri durano in carica un anno. Esso si riunisce almeno ogni quattro

mesi ed è composto di sette membri e inoltre dei capi dei dipartimenti. Tut-

te le decisioni devono esser prese all’unanimità.

Entro il consiglio generale, i dirigenti di settore e otto membri (tra cui

due donne di casa) e il capo della comunità costituiscono il consiglio diret-

tivo, che si riunisce settimanalmente.

Tutte le posizioni responsabili entro la comunità, comprese quella di di-

rigente di settore e quella di capogruppo, sono raggiunte soltanto attraverso

"doppia nomina", cioè la persona è proposta da uno degli organismi e deve

essere unanimemente accettata dall’altro. Solitamente, ma non sempre, i

candidati sono proposti dal livello più alto e accettati o respinti dal livello

più basso. Così, dicono i membri della comunità, si evita sia la demagogia

sia l’autoritarismo.

8. LE VIE DELLA SALUTE 270

Tutti i membri si riuniscono una volta alla settimana in assemblea di

collegamento che, come indica il nome stesso, tende ad informare tutti di

ciò che avviene nella comunità ed anche a mantenere i reciproci contatti».31

Una caratteristica particolarmente importante di tutta la comunità

sono i gruppi di vicinato che si riuniscono periodicamente.

«Il gruppo di vicinato è l’organismo più piccolo di tutta la comunità.

Cinque o sei famiglie che vivono abbastanza vicine fra loro si riuniscono

alla sera dopo cena sotto la guida di un capo dei gruppi di vicinato scelto

secondo il principio sopraricordato.

In un certo senso il gruppo di vicinato è l’unità più importante della co-

munità, esso è "lievito" e "leva". Deve riunirsi nella casa di una delle fami-

glie e non altrove. Là, mentre si beve il caffè, tutte le questioni sono discus-

se assieme. Si tengono i verbali delle riunioni e li si manda al capo della

comunità che riassume i verbali di tutti i gruppi di vicinato. I responsabili

dei diversi settori danno poi risposta alle domande presentate. In questo

modo i gruppi di vicinato non pongono solo delle domande ma segnalano

anche le cose che non vanno e avanzano suggerimenti. Naturalmente è an-

che nei gruppi di vicinato che la gente impara a conoscersi meglio, e si aiu-

ta reciprocamente».32

Altra caratteristica della comunità è la corte. Essa è eletta

dall’assemblea generale ed ha la funzione di decidere nei contrasti

che sorgono tra due settori di attività o tra un settore e un membro;

se il capo della comunità non può regolare tali contrasti, questo vien

fatto dagli otto membri della corte (come al solito con voto unani-

me). Non c’è un corpo di leggi, e il verdetto si basa ed è diretto dalla

costituzione della comunità, dal minimo comune denominatore etico

e dal buon senso.

Alla Boimondau ci sono due settori principali: quello sociale e

quello industriale. Il secondo ha la seguente struttura:

«Il gruppo tecnico è composto di dieci uomini, al massimo.

Diversi gruppi formano una sezione.

Diverse sezioni costituiscono un servizio.

31 Ibidem, pp. 17, 18. 32 Ibidem, pp. 18, 19.

271 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

I membri di un gruppo sono responsabili tutti assieme di fronte alla se-

zione, e le diverse sezioni di fronte al servizio».33

Il settore sociale svolge tutte le attività escluse quelle tecniche.

«Tutti i membri, comprese le donne di casa, sono tenuti a portare avanti

il loro sviluppo spirituale, intellettuale, artistico e fisico. Sotto questo punto

di vista, è indicativa la lettura della rivista mensile della Boimondau "Le

Lien". Relazioni e notizie su ogni cosa: partite di calcio (disputate contro

squadre esterne), mostre fotografiche, visite a mostre d’arte, ricette di cuci-

na, adunanze ecumeniche, recensioni di concerti come per esempio il

Loewenguth Quartet, critiche di film, conferenze sul marxismo, risultati

delle partite di pallacanestro, discussioni sugli obiettori di coscienza, rendi-

conti di giornate nella fattoria agricola, articoli su ciò che l’America può

insegnare, passi scelti da san Tomaso d’Aquino relativi al denaro, recensio-

ni di libri come Pleasant Valley di Louis Bromfield e Mani sporche di Sar-

tre, ecc.. Un elastico spirito di quel che è utile informa tutto ciò. "Le Lien"

offre un quadro sincero di gente che ha detto "sì" alla vita e l’ha fatto con

un massimo di consapevolezza.»

Ecco qui ventotto sezioni sociali, ma se ne aggiungono conti-

nuamente di nuove:

(I gruppi sono elencati secondo la loro importanza numerica).

1. "Sezione spirituale"

Gruppo cattolico

Gruppo umanista

Gruppo materialista

Gruppo protestante

2. "Sezione intellettuale"

Gruppo di cultura generale

Gruppo di educazione civica

Gruppo di biblioteca

3. "Sezione artistica"

Gruppo teatrale

33 Ibidem, p. 23.

8. LE VIE DELLA SALUTE 272

Gruppo corale

Gruppo arredamento

Gruppo fotografico

4. "Sezione di vita comunitaria"

Gruppo cooperativo

Gruppo riunioni e festeggiamenti

Gruppo cinematografico

Gruppo di controiniziative

5. "Sezione di aiuto reciproco"

Gruppo di solidarietà

Gruppo per la manutenzione casalinga

Gruppo legatoria

6. "Sezione familiare"

Gruppo per la sorveglianza dei bambini

Gruppo educativo Gruppo di vita sociale

7. "Sezione sanitaria"

Due infermiere diplomate

Una infermiera pratica per informazioni generali

Tre infermiere visitatrici

8. "Sezione sportiva"

Squadra pallacanestro (maschile)

Squadra pallacanestro (femminile)

Squadra corsa campestre

Squadra di calcio

Squadra di pallavolo

Gruppo di cultura fisica (maschile)

Gruppo di cultura fisica (femminile)

9. Gruppo giornalistico.34

34 Ibidem, pp. 35.

273 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

Forse meglio di qualsiasi altra definizione, alcune dichiarazioni

degli stessi membri della comunità possono darci un’idea dello spiri-

to e del funzionamento pratico della comunità di lavoro:

Un membro di sindacato scrive:

«Ero delegato di sezione nel 1936, fui arrestato nel 1940 e mandato a

Buchenwald. In venti anni ho conosciuto molte aziende capitaliste... Nella

comunità di lavoro la produzione non è il fine della vita, ma il mezzo... Non

osavo sperare che un risultato così largo e completo si potesse realizzare

nella mia generazione.»

Un comunista scrive:

«Come iscritto al partito comunista francese, e per evitare malintesi, di-

chiaro che sono completamente soddisfatto del mio lavoro e della mia vita

comunitaria; le mie opinioni politiche sono rispettate, e la mia libertà com-

pleta e il mio precedente ideale di vita sono diventati una realtà.»

Un materialista scrive:

«Come ateo e materialista considero che uno dei più bei valori umani

sia la tolleranza e il rispetto delle opinioni religiose e filosofiche. Per questa

ragione mi sento particolarmente a mio agio nella comunità di lavoro. Non

soltanto la mia libertà di pensiero e di espressione non sono toccate, ma

trovo nella comunità i mezzi materiali e il tempo necessario per uno studio

più profondo delle mie convinzioni filosofiche.»

Un cattolico scrive:

«Sono stato nella comunità per quattro anni. Faccio parte del gruppo

cattolico. Come tutti i cristiani cerco di costruire una società nella quale

siano rispettate la libertà e la dignità dell’essere umano... Dichiaro a nome

di tutto il gruppo cattolico che la comunità di lavoro è il tipo di società che

un cristiano può desiderare. Qui ognuno è libero, rispettato, e tutto lo spin-

ge a migliorarsi e a ricercare la verità. Se formalmente questa società non

può esser chiamata cristiana, essa è cristiana di fatto. Cristo ci diede il se-

gno attraverso cui i credenti possono riconoscersi; e difatti noi ci amiamo.»

8. LE VIE DELLA SALUTE 274

Un protestante scrive:

«Noi protestanti della comunità dichiariamo che questa rivoluzione del-

la società è la soluzione che mette ogni uomo in grado di trovare liberamen-

te la sua realizzazione nel cammino che ha scelto. Questo senza nessun

conflitto con i compagni materialisti o cattolici... La comunità, composta di

uomini che si amano l’un l’altro, soddisfa le nostre aspirazioni di veder gli

uomini vivere assieme in armonia sapendo perché vogliono vivere.»

Un umanista scrive:

«Avevo quindici anni quando ho lasciato la scuola, e ho lasciato la chie-

sa a undici, dopo la prima comunione. Avevo fatto qualche progresso a

scuola ma il problema spirituale mi era sfuggito. Ero come la grande mag-

gioranza: "Me ne fregavo". A 22 anni sono entrato nella comunità. Ho tro-

vato subito qui un’atmosfera di studio e di lavoro come in nessun’altra par-

te. Innanzitutto sono stato attratto dal lato sociale della comunità e solo più

tardi ho compreso quale poteva esserne il valore umano. Poi ho riscoperto il

lato spirituale e morale che è nell’uomo, e che avevo perduto dall’età di 11

anni. Appartengo al gruppo umanistico perché non vedo il problema allo

stesso modo dei cristiani e dei materialisti. Amo la nostra comunità perché

attraverso essa tutte le profonde aspirazioni che sono in ognuno di noi pos-

sono esser destate, concretizzate e sviluppate, così che possiamo trasfor-

marci da individui in uomini».35

I principi delle altre comunità sia agricole sia industriali assomi-

gliano a quelli della Boimondau. Ecco qui alcune citazioni delle

norme istituzionali della R. G. Workshops, una comunità di lavoro

che fabbrica cornici citata dall’autore di All Things Common:

«La nostra comunità di lavoro non è una nuova forma aziendale, e nep-

pure costituisce una riforma per armonizzare il rapporto tra capitale e lavo-

ro. È un nuovo modo di vivere, dove l’uomo dovrebbe trovare la sua realiz-

zazione e dove tutti i problemi sono risolti in relazione all’uomo intero.

Con ciò esso è in contrasto con la società odierna dove di solito ci sono

soluzioni solo per uno o pochi problemi.

...La conseguenza della morale borghese e del sistema capitalistico è la

specializzazione delle attività dell’uomo portata ad un tal grado che l’uomo

vive in miseria fisica e morale, intellettuale o materiale.

35 Ibidem, pp. 35-37.

275 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

Spesso nella classe operaia gli uomini soffrono contemporaneamente di

tutti questi quattro tipi di miseria e in tali condizioni parlare di libertà,

eguaglianza, fraternità è una menzogna.

Fine della comunità di lavoro è di render possibile il completo sviluppo

dell’uomo.

I compagni della R. G. dichiarano che questo è possibile soltanto in una

atmosfera di libertà, eguaglianza, fraternità.

Ma si dovrebbe ammettere che molto spesso queste parole non richia-

mano alla mente che le figure sui biglietti di banca o le iscrizioni sui porto-

ni degli edifici pubblici.»

Libertà.

Un uomo è veramente libero soltanto a tre condizioni:

Libertà economica;

Libertà intellettuale;

Libertà morale.

Libertà economica. L’uomo ha un inalienabile diritto al lavoro.

Egli deve avere l’assoluto diritto al frutto del suo lavoro da cui non

dovrebbe staccarsi se non liberamente.

Questa concezione si oppone alla proprietà privata dei mezzi col-

lettivi di produzione e alla moltiplicazione di denaro a mezzo di de-

naro, che consente lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo.

Noi dichiariamo anche che per "lavoro" dovrebbe intendersi ogni

genere di valore che l’uomo apporti alla società.

Libertà intellettuale. Un uomo è libero soltanto quando può sce-

gliere; ed egli può scegliere soltanto se sa abbastanza per poter fare

dei confronti.

Libertà morale. Un uomo non può esser veramente libero se è as-

servito alle sue passioni. Egli può esser libero solamente se dispone

di un ideale e di un atteggiamento filosofico che gli consentano di

avere una attività coerente nella vita.

Egli non può, col pretesto di affrettare la sua liberazione econo-

mica o intellettuale, usare mezzi contrari all’etica della

comunità.

La libertà morale, infine, non deve significare licenza. Potrebbe

esser facilmente dimostrato che la libertà morale si può trovare sol-

tanto con la stretta osservanza dell’etica di gruppo liberamente accet-

tata.

8. LE VIE DELLA SALUTE 276

Fraternità.

L’uomo può prosperare soltanto in società. L’egoismo è un mez-

zo pericoloso e non duraturo di aiutare se stesso, l’uomo non può

separare i suoi veri interessi da quelli della società. Egli può aiutare

se stesso soltanto aiutando la società.

L’uomo dovrebbe diventar consapevole del fatto di essere spinto,

per sua stessa inclinazione, a trovare maggior soddisfazione assieme

agli altri.

La solidarietà non è soltanto un compito, è una soddisfazione ed è

la miglior garanzia di sicurezza.

La fratellanza porta alla tolleranza reciproca e alla decisione di

non separarsi mai. Questo rende possibile prendere tutte le decisioni

all’unanimità su una base minima comune.

EGUAGLIANZA.

Condanniamo coloro che dichiarano demagogicamente che tutti gli

uomini sono eguali. Possiamo vedere che gli uomini non hanno il

medesimo valore.

Per noi l’eguaglianza dei diritti significa porre a disposizione di

ognuno i mezzi perché possa realizzare completamente se stesso.

Con questo sostituiremo una gerarchia di valori personali alla gerar-

chia convenzionale o ereditaria».36

Nel riassumere i punti più notevoli dei principi di queste comuni-

tà vorrei ricordare i seguenti:

1. Le comunità di lavoro usano tutte le tecniche industriali mo-

derne ed evitano la tendenza a ritornare alla produzione artigianale.

2. Esse hanno trovato un sistema nel quale l’attiva partecipa-

zione di ognuno non contraddice ad una guida abbastanza centraliz-

zata; l’autorità irrazionale è stata sostituita dall’autorità razionale.

3. Si insiste sulla pratica di vita come contraria alle differenze

ideologiche. Quest’insistenza consente a uomini delle più svariate e

36 Ibidem, pp. 134-37.

277 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

contraddittorie opinioni di vivere assieme in fratellanza e tolleranza,

senza alcun pericolo di dover seguire la «giusta opinione» proclama-

ta dalla comunità.

4. L’integrazione tra lavoro e attività sociali e culturali. Quan-

do il lavoro non sia tecnicamente attraente esso è significativo e at-

traente nel suo aspetto sociale. L’attività nelle arti e nelle scienze

costituisce una parte integrale della situazione totale.

5. La situazione di alienazione è superata, il lavoro è diventato

espressione significativa dell’energia umana e la solidarietà umana si

è affermata senza restrizioni della libertà o pericolo di conformismo.

Mentre molte delle soluzioni e dei principi delle comunità posso-

no esser discusse e messe in dubbio, sembra nondimeno che si ab-

biano qui esempi empirici dei più convincenti di una vita produttiva

e delle possibilità che sono generalmente considerate fantastiche dal

punto di vista della nostra odierna vita nel capitalismo.37

Naturalmente le comunità fin qui descritte non costituiscono i so-

li esempi delle possibilità di vita comunitaria. Sia che prendiamo le

comunità oweniane, o quelle dei mennoniti o degli hutteriani38

o i

centri agricoli dello stato di Israele, tutte contribuiscono alla nostra

conoscenza delle possibilità di un nuovo stile di vita. Esse

mostrano anche che questi esperimenti comunitari sono per la

maggior parte messi in atto da uomini dotati di acuta intelligenza e

di senso straordinariamente pratico. Essi non sono affatto dei sogna-

tori come dicono i nostri sedicenti realisti; al contrario sono gene-

37 Si devono ricordare gli sforzi di A. Olivetti per creare in Italia un movimento comunitario.

Come capo della più grande industria italiana di macchine per scrivere, egli non ha soltanto

organizzato il suo stabilimento secondo i sistemi più avanzati che si possono trovare in ogni

paese, ma ha anche elaborato un piano completo per una organizzazione della società in una

federazione di comunità basate su principi che hanno attinenza col cristianesimo e col sociali-

smo. (Cfr. il suo L'ordine politico delle comunità, Roma 1946). Olivetti ha cominciato l'opera

fondando centri comunitari in varie città italiane; nondimeno la differenza più importante dalle

comunità fin qui ricordate è da un lato che egli non ha trasformato il suo stabilimento in una

comunità di lavoro e dall'altro che Olivetti ha creato un piano specifico per l'organizzazione

dell'intera società, dando così maggior rilievo ad una visione particolare della struttura sociale

e politica di quanto non abbiano fatto le altre comunità del movimento comunitario. 38 Cfr. l'articolo di C. KRATU, J.W. FRETZ, R. KREIDER, «Altruism in Mennonite Life», in

Form and Techniques of Altruistic and Spiritual Growth, a cura di P.A. Sorokin, The Beacon

Press, Boston 1954.

8. LE VIE DELLA SALUTE 278

ralmente dotati di maggior realismo e immaginazione di quanto

sembrino esserlo i nostri convenzionali uomini d’affari.

Certamente ci sono state molte insufficienze sia nei principi sia

nella pratica di questi esperimenti e bisogna riconoscerle per poterle

evitare. Indubbiamente il diciannovesimo secolo con la sua imper-

turbabile fede nel sano effetto della concorrenza industriale era meno

favorevole al successo di queste colonie di quanto non lo sarà la se-

conda metà del ventesimo secolo. Ma la facile sufficienza che consi-

dera futili e non realistici tutti questi esperimenti non è più ragione-

vole di quanto lo fosse la prima reazione popolare alle possibilità di

viaggi in ferrovia e più tardi in aeroplano. È sostanzialmente un sin-

tomo di pigrizia mentale, e della conseguente convinzione che ciò

che non fu non può e non potrà essere.

E. Suggerimenti pratici

Il problema è se condizioni simili a quelle create dai comunitari

possano esser create per l’insieme della nostra società. Con ciò non

voglio dire che la moderna società industriale possa essere organiz-

zata nel suo insieme secondo gli schemi di una impresa industriale

relativamente piccola, e nemmeno che la risposta ai problemi della

società moderna possa trovarsi nella trasformazione di tutta

l’industria in piccole comunità. Una tale soluzione non terrebbe con-

to delle necessità delle vaste imprese industriali né delle dimensioni

economiche che trascendono la singola impresa. A mio modo di ve-

dere queste comunità mostrano la reale possibilità di combinare in

una singola impresa sia la centralizzazione sia la decentralizzazione

in modo concreto, e sono il primo esempio di un nuovo tipo di orga-

nizzazione industriale, a patto che si sappia usare la nostra immagi-

nazione e la capacità inventiva nel campo sociale. L’intento sarebbe

poi di creare una situazione di lavoro nella quale l’uomo impieghi la

sua vita e la sua energia in qualcosa che abbia per lui un significato,

e nella quale sa quel che fa, ha un’influenza su quel che sta facendo,

e si sente piuttosto unito che separato dai

suoi simili. Questo significa che la situazione di lavoro è resa

nuovamente concreta e che i lavoratori sono organizzati in gruppi

abbastanza piccoli da consentire all’individuo di mettersi in relazio-

ne col gruppo come con esseri umani concreti e reali, anche se lo

279 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

stabilimento nel suo insieme può avere molte migliaia di lavoratori.

Ciò significa che si sono trovati metodi per combinare

l’accentramento e il decentramento, i quali consentono l’attiva parte-

cipazione e la responsabilità di ognuno e nel contempo creano una

guida unificata nella misura in cui questa è necessaria.

Come si può far ciò?

Prima condizione per la partecipazione attiva del lavoratore è che

egli sia ben informato non soltanto su quanto riguarda il suo proprio

lavoro ma anche sull’attività generale dell’azienda. Tale conoscenza

è, intanto, conoscenza tecnica del processo lavorativo. Un lavoratore

può aver da fare soltanto un particolare movimento al nastro traspor-

tatore, e perché egli possa svolgere il suo compito basta forse un in-

segnamento al banco per due giorni o per due settimane, ma il suo

atteggiamento d’insieme verso il lavoro sarebbe diverso se egli aves-

se una conoscenza più ampia di tutti i problemi connessi alla produ-

zione del prodotto intero. Tale conoscenza tecnica può esser acquisi-

ta innanzitutto frequentando una scuola industriale, contemporanea-

mente ai primi anni di lavoro in uno stabilimento. Inoltre questa co-

noscenza può essere continuamente coltivata partecipando a corsi

tecnici e scientifici offerti a tutti i lavoratori dello stabilimento anche

a scapito del tempo destinato al lavoro.39

Se il processo tecnico usato

nello stabilimento è oggetto di interesse e di conoscenza per il lavo-

ratore, se il suo pensiero è stimolato da una tale conoscenza, anche il

lavoro tecnico altrimenti monotono che egli deve svolgere assumerà

un aspetto diverso. Oltre alla conoscenza tecnica relativa al proce-

dimento industriale è necessaria un’altra conoscenza: quella della

funzione economica dell’azienda per la quale si sta lavorando e delle

sue relazioni con i bisogni economici e i problemi della comunità nel

suo insieme. Inoltre, sempre seguendo l’insegnamento durante i pri-

mi anni del suo lavoro e con una continua informazione datagli sui

processi economici collegati alla sua azienda, il lavoratore può ac-

quisire una conoscenza reale della sua funzione nell’economia na-

zionale e mondiale.

39 Alcune grandi aziende industriali stanno già facendo un primo passo in questa direzione. I

comunitari hanno mostrato che durante l'orario di lavoro si può dare non soltanto una istruzio-

ne tecnica ma anche istruzioni di molti altri generi.

8. LE VIE DELLA SALUTE 280

Ma quantunque importante, tecnicamente ed economicamente,

questa conoscenza del procedimento lavorativo e del funzionamento

dell’intera azienda non è sufficiente. La conoscenza teorica e

l’interesse si arrestano se non c’è modo di tradurli in azione. Il lavo-

ratore può diventare un partecipante attivo interessato e responsabile

soltanto se può avere influenza sulle decisioni che riguardano la sua

situazione individuale di lavoro e l’intera impresa. La sua alienazio-

ne dal lavoro può essere superata soltanto se egli non è impiegato dal

capitale, se non è l’oggetto del comando, ma se diventa un responsa-

bile soggetto che impiega il capitale. Il punto principale qui non è la

proprietà dei mezzi di produzione ma la partecipazione alla gestione

e alle decisioni da prendere. Qui come nella sfera politica il proble-

ma è di evitare il pericolo di una situazione di anarchia nella quale

mancherebbero la pianificazione centrale e la guida; ma l’alternativa

tra direzione autoritaria centralizzata e direzione senza piano e senza

coordinamento da parte dei lavoratori, non è una alternativa necessa-

ria. La risposta sta nella combinazione di accentramento e decentra-

mento, in una sintesi delle decisioni da prendere dall’alto al basso e

dal basso all’alto.

Il principio della cogestione e della partecipazione operaia40

può

essere applicato in modo tale che la responsabilità della direzione sia

divisa tra la guida centrale e la base. Piccoli gruppi ben informati

discutono problemi della loro situazione di lavoro e dell’intera im-

presa; le loro decisioni verrebbero incanalate verso la direzione e

costituirebbero la base di una effettiva cogestione. Come terzo parte-

cipante il consumatore dovrebbe poter collaborare in qualche modo

alle decisioni da prendere e alla pianificazione. Quando accettiamo il

principio che il fine primario di ogni lavoro è di servire la gente, e

non di trarne un lucro, coloro che sono serviti devono poter avere

una influenza nelle operazioni di coloro che li servono. Inoltre, come

40 Cfr. le idee espresse da G.G. FRIEDMANN nel suo libro acuto e stimolante Machine et

humanisme, cit., particolarmente a p. 371 ss. Uno dei più grandi maestri della sociologia, e una

delle maggiori personalità del nostro tempo, Alfred WEBER, nel suo profondo Der dritte oder

der vierte Mensch, Piper Co, Monaco 1953, giunge a conclusioni simili a quelle qui espresse.

Egli pone l'accento sul bisogno di cogestione degli operai e degli impiegati, e sulla riduzione

delle grandi aziende a unità più piccole di un optimum di dimensione congiunta all'abolizione

del movente del profitto e all'introduzione di una forma socialista di emulazione. Tuttavia non

basterà nessun mutamento esterno: «ci occorre una nuova cristallizzazione umana» (op. cit., p.

91 s.).

281 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

nel caso del decentramento politico, non è facile trovare soluzioni di

questo genere; ma certamente il problema non è insormontabile a

condizione che il principio generale della cogestione sia accettato.

Noi abbiamo risolto nella legislazione costituzionale problemi simili

per quanto riguarda i diritti rispettivi delle varie branche del governo

e in leggi relative alle società azionarie abbiamo risolto lo stesso

problema per quanto riguarda il diritto dei vari tipi di azionisti, della

direzione, ecc..

Il principio della cogestione e della liberazione comune significa

una grave restrizione dei diritti di proprietà. Il proprietario o i pro-

prietari di una azienda dovrebbero aver il diritto ad una percentuale

ragionevole di interesse sul loro investimento di capitale, ma non al

comando illimitato sopra gli uomini che questo capitale può assolda-

re. Essi dovrebbero almeno dividere questo diritto con quelli che

lavorano nell’azienda. In effetti, per quanto riguarda le grandi socie-

tà, gli azionisti non esercitano attualmente il loro diritto di proprietà

prendendo delle decisioni; se i lavoratori condividessero il diritto di

prender decisioni con la direzione, il ruolo effettivo degli azionisti

non sarebbe fondamentalmente diverso. Una legge che introducesse

la cogestione sarebbe una restrizione del diritto di proprietà, ma non

significherebbe nessun mutamento rivoluzionario di tali diritti. Per-

fino un industriale così conservatore come il responsabile della divi-

sione degli utili nell’industria, J.F. Lincoln, propone, come abbiamo

visto, che i dividendi non eccedano una entità relativamente fissa e

costante e che il profitto eccedente questo ammontare sia diviso tra i

lavoratori. Vi sono possibilità per la cogestione e il controllo dei la-

voratori perfino sulla base delle condizioni odierne. Ad esempio,

B.F. Fairless, presidente della United States Steel Corporation, ha

detto in un discorso (pubblicato in riassunto dal «Reader’s Digest»,

15 novembre 1953, p. 17) che i 300.000 dipendenti della United Sta-

tes Steel potrebbero comprare tutto il pacchetto azionario della com-

pagnia acquistando 87 azioni ciascuno per un costo complessivo di

3.500 dollari. «Investendo dieci dollari settimanali ciascuno, che è

circa quello che i nostri lavoratori dell’acciaio hanno ottenuto con il

recente aumento delle paghe, i dipendenti della

U.S. Steel potrebbero comprare tutto il rimanente stock azionario

in meno di sette anni». In effetti essi non avrebbero nemmeno biso-

8. LE VIE DELLA SALUTE 282

gno di comprarne tante, ma soltanto una parte, per aver abbastanza

azioni per acquistare la maggioranza dei voti.

Un’altra proposta è stata fatta da F. Tannenbaum nel suo lavoro A

Philosophy of Labor. Egli suggerisce che i sindacati possano com-

prare abbastanza azioni delle imprese di cui rappresentano i lavora-

tori per controllare la direzione di queste imprese.41

Quale che sia il

metodo impiegato, esso è evolutivo e continua soltanto le tendenze

già esistenti nel rapporto di proprietà, e costituisce un mezzo per un

fine, e solo un mezzo, per far sì che gli uomini lavorino in un modo

significativo per un fine significativo, e non siano i portatori di una

merce, energia fisica e abilità, che è comprata e venduta come qual-

siasi altra merce.

Nell’esaminare la partecipazione operaia, si deve insistere su un

punto importante, cioè il pericolo che tale partecipazione possa svi-

lupparsi nella direzione del concetto della divisione degli utili di tipo

neocapitalistico. Se gli operai e gli impiegati di una azienda fossero

interessati esclusivamente alla loro impresa, l’alienazione tra l’uomo

e le sue forze sociali resterebbe immutata. L’atteggiamento egoistico

e alienato verrebbe soltanto esteso dal singolo alla «squadra». Non è

dunque una parte incidentale ma essenziale della partecipazione ope-

raia, che essi guardino oltre la loro impresa e che siano interessati e

collegati con i consumatori come pure con gli altri operai della me-

desima industria e con tutta la popolazione lavoratrice. Lo sviluppo

di un genere di patriottismo locale per la ditta o di uno «spirito di

corpo» simile a quello degli studenti di collegi e università, come fu

raccomandato da Wyatt e da altri psicologi sociali britannici, raffor-

zerebbe soltanto l’atteggiamento egoistico e asociale che costituisce

l’essenza dell’alienazione. Tutti questi suggerimenti a favore

dell’entusiasmo di «squadra» ignorano il fatto che esiste un solo

orientamento veramente sociale, cioè quello della solidarietà con

l’umanità. La coesione sociale con il gruppo, combinata con

l’antagonismo verso gli estranei, non è sentimento sociale ma egoi-

smo allargato.

Concludendo queste osservazioni sulla partecipazione operaia,

desidero insistere ancora, anche a rischio di ripetermi, che non tutti i

suggerimenti fatti nell’intento di una umanizzazione del lavoro han-

41 F. TANNENBAUM, A Philosophy of Labor, cit.

283 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

no il fine di un aumento del rendimento economico e neppure è loro

meta una maggior soddisfazione nel lavoro in quanto tale. Essi han-

no senso soltanto in una struttura sociale completamente diversa,

nella quale l’attività economica sia una parte, e una parte subordina-

ta, della vita sociale. Non si può separare l’attività di lavoro

dall’attività politica, dall’uso del tempo libero e dalla vita personale.

Se il lavoro dovesse diventare interessante senza che gli altri settori

di vita divenissero umani, non avverrebbe alcun vero cambiamento;

in effetti esso non potrebbe diventare interessante. Il male

dell’odierna cultura consiste proprio nel separare e nell’incasellare i

diversi settori della vita. La via dell’equilibrio sta nel superamento di

questa scissione e nel giungere ad una nuova unificazione e integra-

zione entro la società ed entro l’essere umano individuale.

Ho parlato prima dello scoraggiamento verificatosi tra molti so-

cialisti per i risultati dell’applicazione del socialismo. Ma sempre più

si comprende che la colpa non era nel fine fondamentale del sociali-

smo, cioè nel credere in una società non alienata nella quale ogni

persona che lavora partecipa attivamente e responsabilmente

nell’industria o nella politica, ma nell’errore di insistere sulla pro-

prietà privata come contraria alla proprietà comune e nel trascurare i

fattori umani e propriamente sociali. V’è parallelamente una cre-

scente comprensione per la necessità di una visione socialista centra-

ta sull’idea della partecipazione e della cogestione operaia, sul de-

centramento e sulla funzione concreta dell’uomo nel processo lavo-

rativo, invece che centrata sul concetto astratto di proprietà. Le idee

di Owen, Fourier, Kropotkin, Landauer, e dei comunitari religiosi e

secolari si fondono con quelle di Marx e di Engels; si diventa scettici

di fronte alle formulazioni puramente ideologiche del «fine ultimo»

e ci si interessa maggiormente alla persona concreta e al hic et nunc.

C’è speranza che ci sia anche una crescente consapevolezza tra so-

cialisti democratici e umanisti che il socialismo deve cominciare a

casa nostra, cioè con la socializzazione dei partiti socialisti. Il socia-

lismo che intendiamo qui naturalmente si riferisce non ai diritti di

proprietà, ma alla responsabile partecipazione di tutti gli iscritti. Fi-

no a che i partiti socialisti non realizzano il principio del socialismo

entro le loro stesse file, non possono aspettarsi di convincere gli al-

tri; i loro rappresentanti, se avessero il potere politico, attuerebbero

le loro idee nello spirito del capitalismo senza curarsi delle etichette

8. LE VIE DELLA SALUTE 284

socialiste che usano. La stessa cosa è vera per i sindacati; se il loro

fine è la democrazia industriale, essi devono introdurre il principio

democratico nelle loro stesse organizzazioni, piuttosto che dirigerle

come nel capitalismo si dirige qualsiasi altra grande impresa, e tal-

volta anche peggio.

L’influenza di quest’insistenza comunitaria sulla concreta situa-

zione del lavoratore nel suo processo lavorativo era abbastanza po-

tente in passato tra gli anarchici e i sindacalisti spagnoli e francesi e

tra i socialrivoluzionari russi. Sebbene per un certo periodo

l’importanza di queste idee sia andata riducendosi, sembra che essi

stiano lentamente riguadagnando terreno in forme meno ideologiche

e dogmatiche e pertanto più reali e concrete. In una delle più interes-

santi pubblicazioni recenti sui problemi del socialismo, i Nuovi sag-

gi fabiani, si può scoprire questo crescente accento sull’aspetto fun-

zionale e umano del socialismo. C.A.R. Crossland, nel suo saggio su

Il passaggio dal capitalismo, scrive: «Il socialismo esige che questa

ostilità nell’industria ceda il passo al senso vivo della partecipazione

ad uno sforzo comune. Come ottenerlo? La via più diretta e più faci-

le da battere è quella della consultazione mista. Molto e fecondo la-

voro si è svolto in questo campo ed è ora chiaro che occorrerà qual-

cosa di più dei comitati misti di produzione oggi in vigore: uno sfor-

zo più radicale per dare all’operaio il senso di una partecipazione

diretta alle decisioni da prendere. Qualche azienda dalle idee avanza-

te ha già compiuto in questa direzione passi arditi, e i risultati sono

incoraggianti».42

Egli suggerisce tre misure: estensione su larga scala

della nazionalizzazione, limitazione legale dei dividendi o: «una ter-

za possibilità è offerta dalla trasformazione della struttura giuridica

della proprietà sociale in modo da sostituire al diritto esclusivo degli

azionisti una esplicita e statutaria definizione delle responsabilità

dell’impresa verso l’operaio, il consumatore e la collettività; gli ope-

rai diverrebbero membri della compagnia e avrebbero rappresentanti

propri nei consigli direttivi della stessa».43

R. Jenkins nel suo articolo sull’Eguaglianza vede come problema

del futuro «...anzitutto se si debba consentire ai capitalisti, dopo che

hanno ceduto o sono stati privati di tanta parte del loro potere e per-

42 C.A. CROSSLAND, «Il passaggio dal capitalismo», in Nuovi saggi fabiani, cit., p. 88. 43 Op. cit., p. 90.

285 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

ciò delle loro funzioni, di conservare la parte abbastanza sostanziale

di privilegi che ancora detengono; e, in secondo luogo, se la società

che va nascendo dal capitalismo dev’essere una società socialista

democratica, cooperativa, o una società burocratica, controllata da

una élite privilegiata che goda di un livello di vita radicalmente di-

verso da quello della massa della popolazione».44

Jenkins giunge alla

conclusione che «una società socialista democratica e cooperativa»

richiede che la «proprietà delle aziende sottratta a singoli ricchi passi

non allo stato, ma a meno remoti enti pubblici», e permetta una

maggior diffusione del potere «incoraggiando un po’ tutti a prendere

parte più attiva al lavoro e al controllo degli organismi pubblici e

volontari».

A. Albu ne L’organizzazione dell’industria dichiara: «La nazio-

nalizzazione delle industrie chiave, pur essendo riuscita sul piano

tecnico ed economico, non ha in realtà soddisfatto il desiderio di una

più larga e democratica distribuzione dell’autorità, né offerto ai di-

pendenti dell’industria la possibilità effettiva di partecipare alle deci-

sioni di ordine organizzativo-pratico e alla loro esecuzione. Per molti

socialisti che, pur non auspicando una forte concentrazione del pote-

re statale, non avevano se non idee nebulose ed utopistiche su una

soluzione alternativa, è stata, questa, una grave delusione. D’altra

parte, la lezione del totalitarismo all’estero e gli sviluppi della rivo-

luzione burocratica all’interno accrescevano tanto più le loro ansie,

in quanto il pieno impiego in una società rimasta democratica solle-

va problemi per risolvere i quali è necessaria la più larga possibile

sanzione popolare, fondata sull’informazione e la consultazione.

Ora, la consultazione risulta tanto meno fruttuosa quanto più si al-

lontana dalla discussione faccia a faccia sul posto di lavoro; le di-

mensioni e la struttura dell’unità industriale e il grado in cui possono

esercitare un’iniziativa autonoma, assurgono quindi a problemi di

importanza capitale».45

«Quello di cui in definitiva si ha bisogno,

dice Albu, è un sistema consultivo che sancisca le decisioni politi-

che, e un’autorità esecutiva accettata con simpatia da tutti i membri

di un’industria. Come conciliare questa visione di una democrazia

industriale col più schietto desiderio di forme di autogoverno, che

44 Ibidem, p. 97. 45 Ibidem, p. 163.

8. LE VIE DELLA SALUTE 286

animava i socialisti e che stava al fondo di tante discussioni ricorren-

ti sulla consultazione mista, è un problema che richiede ulteriore

esame. Parrebbe tuttavia che debba esistere un metodo per consenti-

re a tutti gli addetti di una industria di partecipare alle decisioni sulla

politica aziendale, sia attraverso rappresentanti diretti in seno

all’ufficio centrale, sia attraverso il sistema più rapido di consulta-

zione mista con poteri notevolmente vasti. In entrambi i casi, è ne-

cessaria una partecipazione sempre più larga al processo di interpre-

tazione della politica e di emanazione di direttive pratiche ai gradini

più bassi.

Perciò la creazione di un senso di comunanza di fini nelle attività

di un’industria rimane uno degli obiettivi primi e non raggiunti dalla

politica industriale socialista».46

John Strachey, che tra gli scrittori dei Nuovi saggi fabiani è uno

dei più ottimisti e forse dei più soddisfatti dei risultati del governo

laburista, concorda con Albu nell’insistere sulla necessità della par-

tecipazione operaia. «Dopo tutto, scrive Strachey in Compiti e con-

quiste del laburismo britannico, quello che pesa sulla società anoni-

ma è la dittatura irresponsabile esercitata su di essa, nominalmente

dagli azionisti ma di fatto, in molti casi, da uno o due amministratori

autoelettisi. Rendete direttamente responsabili sia verso la collettivi-

tà sia verso l’insieme dei dipendenti le società per azioni, ed esse

diventeranno istituti di un genere totalmente diverso».47

Ho citato quel che hanno detto alcuni esponenti del partito laburi-

sta perché le loro opinioni sono il risultato di una buona dose di

esperienza pratica delle misure di socializzazione del governo labu-

rista e di una meditata critica di queste realizzazioni. Ma anche altri

socialisti europei hanno prestato molta più attenzione che non per il

passato alla partecipazione operaia nell’industria. Dopo la guerra in

Francia e in Germania furono adottate leggi che stabilivano la parte-

cipazione operaia alla gestione delle imprese. Anche se i risultati di

questi nuovi provvedimenti sono lungi dall’essere soddisfacenti (a

motivo della loro indecisione e del fatto che in Germania i rappre-

sentanti sindacali si trasformarono in «dirigenti» piuttosto che nei

rappresentanti degli stessi operai dello stabilimento), è nondimeno

46 Ibidem, p. 174. 47 Ibidem, p. 260.

287 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

evidente che c’è tra i socialisti una crescente comprensione del fatto

che il trasferimento dei diritti di proprietà dal privato capitalista alla

società o allo stato ha di per se stesso soltanto un effetto trascurabile

sulla situazione dell’operaio, e che il problema centrale del sociali-

smo è il mutamento della situazione di lavoro. Perfino nelle dichia-

razioni, piuttosto deboli e confuse, della ricostituita Internazionale

socialista a Francoforte (1951) si insiste sulla necessità di decentrare

il potere economico, quando ciò sia compatibile con il fine della pia-

nificazione.48

Fra gli osservatori scientifici della scena industriale,

particolarmente Friedmann, e in qualche misura Gillespie, raggiun-

gono conclusioni simili alle mie, relative alla trasformazione del la-

voro.

Il mettere in rilievo la necessità della cogestione invece di porre a

fuoco dei piani per trasformazioni comunitarie sul mutamento dei

diritti di proprietà, non significa che non sia necessario in una certa

misura l’intervento dello stato e la socializzazione. Se si esclude

quello della cogestione, il problema più importante sta nel fatto che

tutta la nostra industria si basa sull’esistenza di un mercato interno

sempre più esteso. Ogni azienda vuol vendere sempre di più per

conquistare una parte sempre più larga del mercato. Come risultato

di questa situazione economica, l’industria usa tutti i mezzi che sono

in suo potere per stimolare il desiderio di acquisti della popolazione

e per creare e rafforzare quell’orientamento ricettivo che è tanto no-

civo alla salute mentale. Come abbiamo visto, questo dà luogo alla

brama di cose nuove ma non necessarie, al desiderio costante di

comprare di più, anche se dal punto di vista dell’uso inalienato e

umano non c’è bisogno dei nuovi prodotti. (L’industria automobili-

stica, per esempio, ha speso alcuni miliardi di dollari per i mutamen-

ti da apportare ai nuovi modelli del 1955, e la Chevrolet, da sola,

alcune centinaia di milioni di dollari per la concorrenza alla Ford.

Senza dubbio, la vecchia Chevrolet era una buona macchina e la lot-

ta tra la Ford e la General Motors non ha principalmente il fine di

offrire al pubblico una automobile migliore, ma di far sì che si com-

pri una nuova macchina quando quella vecchia sarebbe buona ancora

48 Cfr. A. ALBU, «L'organizzazione dell'industria», in Nuovi saggi fabiani, cit., p. 163, e an-

che A. STURMTHAL, Nationalization and Workers Control in Britain and France, «The

Journal of Pol. Economy», vol. 61, I, 1953.

8. LE VIE DELLA SALUTE 288

per qualche anno).49

Un altro aspetto dello stesso fenomeno è la ten-

denza allo sperpero, stimolato dal bisogno economico di una mag-

gior produzione di massa. A parte le perdite economiche connesse a

questo sperpero esso ha anche un importante effetto psicologico: fa

sì che il consumatore perda il rispetto per il lavoro e per la fatica

umana, e dimentichi i bisogni di altra gente, in patria e in paesi più

poveri, per la quale il prodotto che egli spreca potrebbe essere un

bene preziosissimo; in breve, le nostre abitudini di sperpero dimo-

strano una infantile indifferenza per la realtà della vita umana e per

la lotta economica per l’esistenza cui nessuno può sfuggire.

È pacifico che a lungo andare nemmeno la più profonda influen-

za spirituale potrà esser fruttuosa se il nostro sistema economico è

organizzato in modo tale da trovarsi minacciato di crisi qualora la

gente non voglia acquistar cose sempre più nuove e sempre migliori.

Dunque, se la nostra meta è di mutare il consumo alienato in consu-

mo umano, saranno necessari mutamenti in quei processi economici

che producono il consumo alienato.50

È compito degli economisti

trovare i provvedimenti adatti. Generalmente ciò significa dirigere la

produzione in campi dove bisogni reali già esistenti non sono stati

ancora soddisfatti, piuttosto che dove i bisogni devono essere creati

artificialmente. Questo si può fare mediante crediti attraverso banche

statali, con la socializzazione di talune aziende, e con leggi severe

che attuino una trasformazione dei sistemi pubblicitari.

Strettamente collegato a questo è il problema dell’aiuto economi-

co dato dalle società industrializzate alle parti economicamente me-

no sviluppate del mondo. È molto evidente che il tempo dello sfrut-

tamento coloniale è finito e che le diverse parti del mondo si sono

unite assieme tanto strettamente come lo era circa cento anni fa un

solo continente, e che per i paesi più ricchi la pace dipende dal pro-

gresso economico dei più poveri. A lungo andare la pace e la libertà

49 R. MOLEY centrò molto lucidamente l'argomento quando, scrivendo sul «Newsweek» a

proposito delle spese per i nuovi modelli di automobile del 1955, disse che il capitalismo

voleva che la gente si sentisse scontenta di quel che aveva, così da desiderare di comprare

qualcosa di nuovo, mentre il socialismo vorrebbe fare il contrario. 50 Cfr. la affermazione di CLARK in Condition of Economic Progress: «Lo stesso reddito

distribuito in modo sufficientemente eguale creerà una domanda relativamente maggiore

all'industria manifatturiera di quanto non faccia se distribuito in modo ineguale». (Citato da

N.N. FOOTE e P.K. HATT, Social Mobility and Economic Advancement, «The American

Econ' Rev'», XLII, maggio 1953).

289 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

del mondo occidentale non possono coesistere con la fame e le ma-

lattie in Africa e in Cina. La riduzione dei consumi non necessari da

parte dei paesi industrializzati è un dovere se essi intendono aiutare i

paesi non industrializzati; e, se vogliono la pace, devono volerli aiu-

tare. Consideriamo alcuni fatti: secondo H. Brown un piano di svi-

luppo mondiale svolto in cinquant’anni porterebbe ad un aumento

della produzione agricola tale da dare a tutti un adeguato nutrimento

e porterebbe le aree ancora sottosviluppate ad una industrializzazio-

ne pari al livello prebellico del Giappone.51

La spesa annua che gli

Stati Uniti dovrebbero sostenere per un tale programma varierebbe

dai quattro ai cinque miliardi di dollari all’anno per i primi

trent’anni, diminuendo successivamente. «Quando paragoniamo

queste cifre al nostro reddito nazionale, dice l’autore, al nostro

odierno bilancio federale, ai fondi richiesti per gli armamenti e al

costo di una guerra, la spesa richiesta non sembrerà eccessiva.

Quando si paragoni la spesa ai guadagni potenziali che potrebbero

risultare da un programma fruttuoso essa sembrerà ancora minore; e

quando la si paragoni al costo dell’inazione e alle conseguenze del

mantenimento dello status quo essa sarà in effetti insignificante».52

Tale problema è soltanto parte del problema più generale: cioè in

quale misura si possa permettere all’interesse di un investimento

lucroso del capitale di dirigere i pubblici bisogni in modo nocivo e

malsano. Gli esempi più evidenti sono dati dall’industria cinemato-

grafica, dall’industria dei romanzi a fumetti e dalle pagine di cronaca

nera dei nostri quotidiani. Per realizzare più alti guadagni sono sti-

molati artificialmente gli istinti più bassi e viene avvelenata la mente

del pubblico. Il Food and Drug Act ha regolato la produzione indi-

scriminata e la pubblicità di cibi e droghe nocivi; la stessa cosa si

può fare per tutte le altre necessità vitali. Se tali leggi si dimostrasse-

ro inefficaci, talune industrie, come l’industria cinematografica, po-

trebbero essere socializzate, o almeno dovrebbero essere create indu-

strie concorrenti finanziate col denaro pubblico. In una società in cui

il solo fine sia lo sviluppo dell’uomo e in cui i bisogni materiali sia-

51 Cfr. Harrison BROWN, The Challenge of Man's Future, The Viking Press, New York 1954,

p. 245 ss. Conosco pochi libri che presentino così chiaramente l'alternativa tra equilibrio e

squilibrio, progresso e distruzione per la società moderna, quanto questo basato su stringenti

ragionamenti e fatti indiscutibili. 52 Ibidem, pp. 247, 248.

8. LE VIE DELLA SALUTE 290

no subordinati ai bisogni spirituali non sarà difficile trovare i mezzi

legali ed economici per realizzare i mutamenti necessari.

Per quanto riguarda la situazione economica del singolo cittadi-

no, l’idea dell’eguaglianza del reddito non è stata mai una richiesta

socialista, e non è per molti motivi né pratica né desiderabile. Quel

che è necessario è un reddito che sia la base per una esistenza umana

dignitosa. Per quanto riguarda l’ineguaglianza del reddito sembra

sarebbe bene che essa non superasse il punto oltre il quale porta ad

una differenza nell’esperienza di vita. L’uomo con un reddito di mi-

lioni, che può soddisfare ogni capriccio senza nemmeno pensarci, ha

una esperienza di vita diversa dall’uomo che, per soddisfare un solo

desiderio costoso, deve rinunciare ad un altro. L’uomo che non può

mai viaggiare fuori della sua città, che non può permettersi nessun

lusso (cioè qualcosa che non sia necessario) ha anch’egli una espe-

rienza di vita diversa dal suo vicino che può far queste cose. Ma an-

che entro talune differenze di reddito l’esperienza fondamentale del-

la vita può restar la stessa quando la differenza del reddito non ecce-

da un certo limite. Ciò che importa non è tanto il reddito più o meno

grande in quanto tale ma il punto in cui le differenze quantitative di

reddito si trasformano in differenze qualitative di esperienza di vita.

Ovviamente il sistema di sicurezza sociale, quale ora esiste per

esempio in Gran Bretagna, deve esser mantenuto. Ma ciò non basta.

Il sistema attuale di sicurezza sociale deve essere esteso fino ad una

garanzia universale dei mezzi di sussistenza.

Ogni individuo può comportarsi da persona libera e responsabile

soltanto se viene abolita una delle ragioni principali della attuale

mancanza di libertà: la minaccia economica della miseria che co-

stringe ad accettare condizioni di lavoro che non sarebbero altrimenti

accettate. Non vi sarà libertà fino a che il proprietario del capitale

può imporre la sua volontà all’uomo che possiede «soltanto» la sua

vita, perché questi, essendo senza capitale, non ha che il lavoro che il

capitalista gli offre.

Un centinaio di anni fa era largamente accettata la credenza che

non si fosse responsabili del proprio prossimo. Si riteneva, e ciò era

scientificamente «dimostrato» dagli economisti, che le leggi della

società richiedessero, per mantenere l’andamento dell’economia, la

presenza di numerose schiere di poveri e di gente senza lavoro. Oggi

quasi nessuno oserebbe sostenere questo principio. È opinione gene-

291 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

rale che nessuno dovrebbe essere escluso dalle ricchezze della na-

zione, né per le leggi della natura né per quelle della società. Le ra-

zionalizzazioni che erano consuete un centinaio di anni fa, secondo

le quali il povero doveva la sua condizione alla sua ignoranza, alla

mancanza di responsabilità, in breve ai suoi «peccati», sono ora su-

perate. In tutti i paesi industrializzati dell’occidente un sistema assi-

curativo garantisce ad ognuno un minimo di sussistenza nel caso di

disoccupazione, malattia e vecchiaia. Chiedere che anche quando

non si verifichino queste circostanze ognuno abbia il diritto di rice-

vere mezzi di sussistenza è semplicemente fare un altro passo avanti.

Praticamente ciò significherebbe che ogni cittadino potrebbe chiede-

re una somma che basti per il minimo di sussistenza anche se non è

né disoccupato, né ammalato, né vecchio. Egli potrebbe chiedere

questa somma qualora abbia lasciato il suo lavoro volontariamente o

desideri prepararsi per un altro tipo di lavoro, o per qualsiasi ragione

personale che gli impedisca di guadagnar denaro e ciò senza rientra-

re in una delle categorie per cui già esiste una copertura assicurativa;

in breve, egli potrebbe chiedere questo minimo per l’esistenza senza

dover addurre alcuna «giustificazione». Questa previdenza dovrebbe

esser limitata ad un periodo di tempo fisso, mettiamo due anni, per

evitare di favorire un atteggiamento nevrotico che rifiuti ogni genere

di obbligo sociale.

Questa proposta può sembrare fantasiosa,53

ma tale sarebbe ap-

parso anche il nostro sistema assicurativo alla gente di cento anni fa.

L’obiezione principale a tale piano sarebbe che, se ognuno avesse il

diritto di ricevere questo aiuto minimo, nessuno lavorerebbe. Questa

supposizione si basa sull’errore di considerare la pigrizia come insita

nella natura umana; in effetti, se si escludono le persone nevrotica-

mente pigre, sarebbero ben pochi a non voler guadagnare di più del

minimo e a preferire di non far nulla piuttosto che lavorare.

Tuttavia i sospetti contro il sistema di minimo di sussistenza ga-

rantito non sono infondati dal punto di vista di coloro che vogliono

usare la proprietà del capitale allo scopo di forzare gli altri ad accet-

tare le condizioni di lavoro che essi offrono. Se nessuno fosse più

53 Meyer Shapiro ha richiamato la mia attenzione sul fatto che Bertrand Russell presentò il

medesimo suggerimento in Proposed Roads to Freedom, Blue Ribbon Books, New York, p.

86 ss.

8. LE VIE DELLA SALUTE 292

costretto ad accettar lavoro per non morir di fame, il lavoro dovrebbe

essere abbastanza interessante ed attraente per indurci ad accettarlo.

La libertà di contratto è possibile soltanto se entrambe le parti sono

libere di accettarlo o di respingerlo, e ciò non si verifica nel sistema

capitalistico attuale.

Ma un tale sistema sarebbe non solo l’inizio di una reale libertà di

contratto tra datori di lavoro e prestatori d’opera ma aumenterebbe

anche straordinariamente la sfera della libertà nelle relazioni tra per-

sona e persona nella vita quotidiana.

Esaminiamo qualche esempio: un individuo che sia oggi occupa-

to e non ami il suo lavoro è spesso obbligato a continuarlo perché

non ha i mezzi per rischiare di restar disoccupato anche per uno o

due mesi, e naturalmente, se lascia il lavoro di sua volontà, non ha

diritto ai sussidi di disoccupazione. Ma in realtà gli effetti psicologi-

ci di questa situazione sono molto più profondi; lo stesso fatto che

egli non possa rischiare di esser licenziato lo rende timoroso del suo

padrone e di chiunque altro da cui dipenda. Egli non oserà far obie-

zioni e cercherà di piacere e di sottomettersi e ciò a causa del timore

costantemente presente che il padrone possa licenziarlo se cercasse

di far valere le proprie ragioni. O prendiamo un uomo che, all’età di

40 anni, decida di dedicarsi ad un lavoro completamente diverso, per

il quale gli occorrono uno o due anni di preparazione. Poiché, quan-

do esistessero le condizioni per un minimo di esistenza garantita,

questa decisione comporterebbe una esistenza provvista solo di un

minimo di comodità, occorrerebbero grande entusiasmo e grande

interesse per dedicarsi alla nuova attività e pertanto solo quelli che

fossero dotati e veramente interessati farebbero la scelta. Oppure

prendiamo una donna che ha fatto un matrimonio infelice e che non

lascia il marito per la sola ragione che non è in grado di mantenersi

nemmeno per il tempo necessario a imparare un lavoro. O prendia-

mo un adolescente che abbia dei gravi contrasti con un padre nevro-

tico o distruttivo. La salute mentale di questo ragazzo potrebbe esser

salvata se egli fosse libero di lasciar la famiglia. In poche parole,

verrebbero rimosse le più fondamentali coercizioni per ragioni eco-

nomiche negli affari e nelle relazioni private e la libertà di agire sa-

rebbe restaurata per tutti.

Quanto costerebbe? Poiché il principio è stato già adottato per i

disoccupati, gli ammalati e i vecchi, soltanto un gruppo marginale di

293 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

altra gente godrebbe di questo privilegio; le persone particolarmente

dotate, quelle che si trovano in qualche difficoltà momentanea e quei

nevrotici che non hanno né senso di responsabilità né interesse al

lavoro. Considerando tutti i fattori collegati, il numero di quelli che

godrebbero di questi privilegi non parrebbe straordinariamente ele-

vato e si potrebbe già oggi farne, con accurata indagine, una stima

approssimativa. Ma bisogna insistere sul fatto che questa proposta

sarebbe da realizzare assieme agli altri mutamenti sociali qui sugge-

riti e che in una società nella quale il singolo cittadino partecipi atti-

vamente al suo lavoro, il numero delle persone non interessate al

lavoro sarebbe soltanto una piccola parte di quello che è nelle condi-

zioni odierne. Quale che sia il loro numero, sembra che il costo di un

tale piano sarebbe poco maggiore della somma spesa dai grandi stati

per il mantenimento degli eserciti negli ultimi decenni, pur senza

considerare il costo degli armamenti. Non si dovrebbe nemmeno

dimenticare che in un sistema che faccia rinascere in tutti l’interesse

alla vita e al lavoro, la produttività del lavoratore individuale sarebbe

molto superiore a quella riscontrata oggi quando si verificano ben

pochi mutamenti favorevoli nella situazione di lavoro; inoltre sareb-

bero considerevolmente ridotte le nostre spese per la criminalità e le

malattie nevrotiche o psicosomatiche.

Trasformazione politica

In un capitolo precedente ho cercato di mostrare che la democra-

zia non può operare in una società alienata e che il modo con cui la

nostra democrazia è organizzata contribuisce al processo generale di

alienazione. Se per democrazia si intende la possibilità

dell’individuo di esprimere la sua convinzione e di affermare la sua

volontà, si presume che egli abbia una convinzione e abbia una vo-

lontà. Tuttavia i fatti mostrano che l’individuo alienato moderno ha

opinioni e pregiudizi, ma non convinzioni, ha simpatie e antipatie,

ma non volontà. Le sue opinioni e i suoi pregiudizi, come le simpatie

e le antipatie, sono diretti, allo stesso modo del suo gusto, da una

potente macchina propagandistica che non potrebbe essere efficace

se egli non fosse già condizionato a tali influenze dalla pubblicità e

dall’intero suo modo di vita alienato.

8. LE VIE DELLA SALUTE 294

Anche l’elettore medio è male informato. Benché egli legga rego-

larmente il giornale, il mondo intero è così alienato da lui che nulla

ha per lui un senso o un vero significato. Egli legge di miliardi di

dollari spesi e di milioni di persone uccise, cifre, astrazioni, che non

gli danno alcuna interpretazione concreta e significativa del mondo.

Egli legge la fantascienza quasi come legge le notizie scientifiche.

Tutto è irreale, illimitato, impersonale. I fatti non sono che tanti

elenchi di richiami per la memoria, come un gioco di indovinelli e

non elementi dai quali dipendano la sua vita e quella dei suoi figli. È

in effetti un segno di elasticità e di equilibrio fondamentale

dell’essere umano normale che, nonostante queste condizioni, le

scelte politiche non siano oggi del tutto irrazionali ma che in qualche

misura un giudizio sensato si esprima nel voto.

In aggiunta a tutto ciò, non si deve dimenticare che proprio l’idea

del voto di maggioranza è soggetta al processo di astrattizzazione e

di alienazione. Originariamente il governo di maggioranza era

un’alternativa al governo di minoranza, il governo del re o dei signo-

ri feudali e ciò non voleva dire che la maggioranza avesse ragione;

significava che era meglio una maggioranza che avesse torto piutto-

sto che una minoranza che imponesse la sua volontà alla maggioran-

za. Ma nella nostra epoca di conformismo, il metodo democratico è

giunto sempre più a significare che una decisione di maggioranza è

necessariamente giusta ed è superiore moralmente a quella della mi-

noranza, e pertanto che la maggioranza ha il diritto morale di impor-

re la sua volontà alla minoranza. Proprio come afferma la pubblicità

di un prodotto lanciato su scala nazionale «dieci milioni di americani

non possono aver torto» e pertanto la decisione della maggioranza è

interpretata come una convalida della sua giustezza. Questo è evi-

dentemente un errore; in effetti, sul piano storico tutte le idee «giu-

ste», sia in politica sia in filosofia, nella religione come nella scien-

za, erano originariamente le idee delle minoranze. Se si fosse deciso

il valore di una idea su base numerica, si vivrebbe ancora nelle ca-

verne.

Come Schumpeter ha dimostrato, il votante esprime semplice-

mente la preferenza tra due candidati che si contendono il suo voto.

Egli è messo a confronto con diverse strutture politiche, con una bu-

rocrazia politica divisa tra la buona volontà nell’interesse del paese e

l’interesse professionale di restare al governo o di ritornarci. Questa

295 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

burocrazia politica, avendo bisogno di voti, è naturalmente costretta

a tener conto, in una certa misura, della volontà dell’elettore. Ogni

segno di grande scontento spinge i partiti politici a modificare il loro

programma per ottenere voti, e ogni segno di popolarità di un pro-

gramma li induce a continuarlo. Sotto questo aspetto, anche i regimi

non democratici e autoritari dipendono in qualche misura dalla vo-

lontà popolare senonché, con i loro metodi coercitivi, essi possono

permettersi di seguire una via non popolare per un tempo molto più

lungo. Ma se si esclude l’influenza ritardatrice o stimolante che

l’elettorato ha sulle decisioni della burocrazia politica, e che è

un’influenza indiretta piuttosto che diretta, c’è poco che il singolo

cittadino possa fare per partecipare al compito di prender decisioni.

Dacché ha dato il suo voto, egli ha abdicato alla sua volontà politica

per quella del suo rappresentante che la esercita secondo la combi-

nazione di responsabilità e di interessi professionali egoistici che lo

caratterizzano, e il singolo cittadino può far poco, se si esclude il

voto delle prossime elezioni che gli dà la possibilità di conservare il

suo rappresentante al governo o «di mandar a spasso i mascalzoni».

Il procedimento elettorale nelle grandi democrazie ha sempre più il

carattere di un plebiscito nel quale il votante non può far molto di

più che registrare l’accordo o il disaccordo con i potenti apparati

politici ad uno dei quali egli cede la sua volontà politica.

Il progresso del procedimento democratico dalla metà del dician-

novesimo secolo alla metà del ventesimo è quello dell’estensione del

diritto di voto che ha ormai portato alla accettazione generale del

suffragio universale e illimitato. Ma perfino il più esteso diritto di

voto non basta. L’ulteriore progresso del sistema democratico deve

fare un nuovo passo. Innanzitutto si deve riconoscere che le decisio-

ni non possono esser prese in un’atmosfera di votazione di massa,

ma soltanto nei gruppi relativamente piccoli corrispondenti

all’incirca alle antiche assemblee cittadine e che non dovrebbero

esser composti da più di 500 persone. In tali piccoli gruppi le que-

stioni all’ordine del giorno possono esser sistematicamente discusse

e ogni membro può esprimere le sue idee, può ascoltare ed esamina-

re ragionevolmente le diverse opinioni. La gente è in contatto perso-

nale reciproco, e questo fa sì che le influenze demagogiche e irrazio-

nali possano meno facilmente operare nella loro mente. In secondo

luogo, il cittadino singolo deve essere in possesso di dati essenziali

8. LE VIE DELLA SALUTE 296

che lo mettano in grado di prendere decisioni ragionevoli. In terzo

luogo, qualsiasi cosa egli decida come membro di tale gruppo ristret-

to, deve avere una influenza diretta sulle facoltà deliberative eserci-

tate da un esecutivo parlamentare eletto su una base centrale. Se così

non fosse, il cittadino rimarrebbe politicamente senza voce in capito-

lo, proprio come lo è oggi.

Sorge la questione se un sistema simile, capace di combinare una

forma centralizzata di democrazia, quale esiste oggi, con un alto

grado di decentramento, sia possibile: se possiamo reintrodurre il

principio dell’assemblea cittadina nella moderna società industrializ-

zata.

Non vedo in ciò nessuna difficoltà insolubile. Si potrebbe orga-

nizzare l’intera popolazione in piccoli gruppi di 500 persone per

esempio secondo il luogo di residenza o di lavoro; questi gruppi do-

vrebbero avere per quanto possibile una certa diversificazione nella

loro composizione sociale. Questi gruppi si adunerebbero regolar-

mente, per esempio una volta al mese, e sceglierebbero i loro fun-

zionari e comitati che dovrebbero esser cambiati ogni anno. Il loro

programma sarebbe discutere le principali questioni politiche di inte-

resse sia locale sia nazionale. Secondo il principio sopra ricordato

ognuna di tali discussioni, se vorrà esser ragionevole, richiederà una

certa quantità di dati. E come si può darla? Sembra cosa perfetta-

mente attuabile che una agenzia culturale, politicamente indipenden-

te, possa esercitare la funzione di preparare e render noti i dati che

devono essere usati come materiale in queste discussioni. Tutto ciò

non è altro che ripetere quel che si fa nel nostro sistema scolastico

dove i ragazzi ricevono un’informazione che è relativamente obietti-

va e libera dalla influenza delle fluttuazioni di governo. Si potrebbe-

ro immaginare, per esempio, soluzioni nelle quali personalità dei

campi dell’arte, delle scienze, della religione, degli affari, della poli-

tica, le cui eccezionali capacità e la cui integrità morale siano supe-

riori a ogni dubbio, venissero scelte per costituire un’ente culturale

apolitico. Essi avrebbero differenti punti di vista politici ma è certo

che potrebbero accordarsi ragionevolmente su ciò che si deve consi-

derare un’informazione obiettiva su dei fatti. In caso di dissenso,

differenti serie di fatti potrebbero esser presentate ai cittadini spie-

gando le differenti basi di importanza. I piccoli gruppi ristretti, dopo

aver ricevuto le informazioni e discusso i problemi, voteranno; con

297 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

l’aiuto degli espedienti tecnici che oggi possediamo, sarebbe molto

facile registrare in breve tempo i risultati finali di queste votazioni; il

problema riguarderebbe poi il modo in cui le decisioni così raggiunte

potrebbero essere incanalate fino al governo centrale e inserite nel

processo delle decisioni. Non vi sono ragioni perché non si debbano

trovare i modi di attuazione di questo procedimento. Nelle tradizioni

parlamentari troviamo di solito due camere che partecipano al legi-

slativo ma sono elette secondo principi diversi. Le decisioni dei

gruppi ristretti costituirebbero la vera «camera dei comuni» che con-

dividerebbe i poteri con la camera dei rappresentanti universalmente

eletti e con un esecutivo universalmente eletto. In questo modo le

decisioni sarebbero prese in un flusso costante non soltanto dall’alto

verso il basso ma dal basso verso l’alto e sarebbero basate sul pen-

siero attivo e responsabile del singolo cittadino. Attraverso la discus-

sione e la votazione nei piccoli gruppi ristretti scomparirebbe buona

parte del carattere astratto e irrazionale inerente alla formulazione

delle varie decisioni e i problemi politici diventerebbero realmente

oggetto di interesse per i cittadini. Il processo di alienazione nel qua-

le il cittadino singolo abdica col rituale del voto alla sua volontà po-

litica a favore di poteri che sono al di fuori della sua portata, sarebbe

capovolto, ed ogni individuo riavrebbe, affidato a sé, il suo ruolo di

partecipante alla vita della comunità.54

Trasformazione culturale

Nessuna soluzione politica o sociale può far altro che promuove-

re o impedire la realizzazione di taluni valori e ideali. Gli ideali della

tradizione ebraico-cristiana non possono certo diventar realtà in una

civiltà materialistica la cui struttura è centrata sulla produzione, il

consumo e il successo nel mercato. D’altra parte nessuna società

socialista potrebbe realizzare la meta della fratellanza, della giustizia

e dell’indipendenza della persona, a meno che le sue idee non fosse-

ro capaci di infondere nel cuore dell’uomo uno spirito nuovo.

54 Cfr. per il problema dei gruppi ristretti, Robert A. NISBET, The Quest for Community,

Oxford University Press, New York 1953 (trad. it. La comunità e lo stato, Edizioni di Comuni-

tà, Milano 1957).

8. LE VIE DELLA SALUTE 298

Noi abbiamo bisogno di nuovi ideali o di nuove mete spirituali. I

grandi maestri del genere umano hanno indicato le norme per una

vita mentalmente sana. Certamente essi hanno parlato linguaggi di-

versi, hanno accentuato aspetti differenti ed hanno avuto differenti

opinioni su certi argomenti. Ma, complessivamente, queste differen-

ze erano esigue; il fatto che le grandi religioni e i grandi sistemi etici

abbiano tanto spesso lottato gli uni contro gli altri e insistito sulle

loro reciproche differenze piuttosto che sulle loro somiglianze fon-

damentali, era dovuto all’influenza di quelli che costruirono chiese,

gerarchie, organizzazioni politiche sopra i semplici fondamenti della

verità posti dagli uomini. Da quando il genere umano ha abbandona-

to decisamente il radicamento nella natura e nell’esistenza animale

per trovare una nuova esistenza nella coscienza e nella solidarietà

fraterna, da quando è stata concepita per la prima volta l’idea

dell’unità della razza umana e del suo destino a completa pienezza di

vita, da allora, le idee e gli ideali sono gli stessi. In ogni centro di

cultura e per lo più senza alcuna influenza reciproca, si scoprivano le

stesse verità e si predicavano gli stessi ideali. Noi oggi, avendo facile

accesso a tutte queste idee ed essendo gli eredi diretti del grande in-

segnamento umanistico, non ci troviamo nella necessità di conoscere

attraverso nuove nozioni come si debba vivere equilibratamente; ma

in quella, amara, di prender sul serio ciò che crediamo e ciò che pre-

dichiamo e insegniamo. La rivoluzione dei nostri cuori non ha biso-

gno di nuova sapienza ma di nuova serietà e dedizione.

Il compito di imprimere negli uomini gli ideali guida e le norme

della nostra civiltà è, prima di tutto, compito dell’educazione, ma

quanto deplorevolmente inadeguato a questo compito è il nostro si-

stema educativo! Il suo intento è principalmente di dare all’individuo

le conoscenze di cui ha bisogno per operare in una civiltà industria-

lizzata e per imprimere nel suo carattere la forma necessaria: ambi-

zioso e competitivo, e tuttavia entro certi limiti cooperativo; rispetto-

so dell’autorità ma «moderatamente indipendente» come è scritto in

certe relazioni; amichevole, tuttavia non profondamente attaccato ad

alcuna persona o cosa. Le nostre scuole medie e superiori continuano

col compito di fornire agli studenti la conoscenza di quello di cui

hanno bisogno per svolgere i loro compiti pratici nella vita e dar loro

il carattere richiesto dal mercato delle personalità. Ben poco in realtà

riescono a infonder loro le capacità di pensiero critico o il carattere

299 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

che corrisponda agli ideali professati dalla nostra civiltà. Non c’è

certo bisogno di esporre dettagliatamente questo problema e di ripe-

tere la critica che è stata fatta con tanta competenza da Robert Hut-

chins e da altri. C’è soltanto un punto su cui voglio qui insistere: la

necessità di fare piazza pulita della separazione nociva esistente tra

conoscenza pratica e teorica. Proprio questa separazione fa parte del-

la alienazione del lavoro e del pensiero. Essa tende a separare la teo-

ria dalla pratica e a render sempre più difficile, anziché più facile,

per l’individuo di partecipare significativamente al lavoro che egli

svolge. Se il lavoro deve diventare un’attività basata sulla sua cono-

scenza e sulla comprensione di ciò che fa, allora deve esserci un mu-

tamento radicale nel nostro sistema educativo in modo che, fin

dall’inizio, l’istruzione teorica e il lavoro pratico siano combinati.

Per i giovani il lavoro pratico dovrebbe esser secondario rispetto

all’istruzione teorica; per le persone che hanno superato l’età scolare

dovrebbe essere il contrario; ma in nessuna età dello sviluppo i due

settori devono essere separati l’uno dall’altro. Nessun giovane do-

vrebbe diplomarsi a meno che non abbia imparato qualche tipo di

lavoro manuale in modo soddisfacente e positivo; nessuna educazio-

ne elementare dovrebbe esser considerata finita prima che l’allievo

abbia la capacità di intendere i fondamentali processi tecnici della

nostra industria. Indubbiamente la scuola media dovrebbe combinare

il lavoro pratico di artigianato e di tecnica industriale moderna con

l’istruzione teorica.

La nostra preoccupazione di mirare principalmente al modo in

cui i nostri compatrioti possono esser usati per gli scopi della mac-

china sociale e non al loro sviluppo umano è evidente nel fatto che

consideriamo l’educazione necessaria soltanto fino all’età di 14, 18 o

al massimo intorno ai 20 anni. Perché la società si dovrebbe sentire

responsabile soltanto dell’educazione dei ragazzi e non della educa-

zione degli adulti di qualsiasi età? Difatti come Alvin Johnson ha

segnalato in modo così persuasivo l’età tra i sei e i diciotto anni non

è affatto, come si ritiene, l’età più adatta per imparare. È, si capisce,

la miglior età per imparare a leggere, scrivere e far di conto, e le lin-

gue, ma indubbiamente, a questa età prematura, la comprensione

della storia, della filosofia, della religione, della letteratura, della

psicologia ecc., è limitata, e in effetti l’ideale non sono neppure i

vent’anni, quando queste materie vengono insegnate all’università.

8. LE VIE DELLA SALUTE 300

In molti casi, per comprendere realmente i problemi in questi campi,

una persona deve aver avuto molta più esperienza di vita di quanto

non se ne abbia all’età dell’università. Per molte persone l’età dai

trenta ai quarant’anni è quella indicata per imparare, nel senso del

comprendere piuttosto che del ricordare, di quanto non lo sia l’età

scolare o universitaria, e in molti casi l’interesse generale è anche

maggiore in età più tarda che non nel periodo tempestoso della gio-

vinezza. È anche intorno a quest’età che una persona dovrebbe esser

libera di cambiare completamente professione e di avere pertanto la

possibilità di studiare ancora, quella possibilità che oggi offriamo

soltanto ai giovani.

Una società sana deve offrire possibilità per l’educazione

dell’adulto pressappoco come si provvede oggi all’educazione scola-

stica del bambino. Questo principio trova la sua espressione odierna

nel crescente numero di corsi per l’educazione degli adulti, ma tutte

queste soluzioni private interessano soltanto un piccolo settore della

popolazione e il principio deve essere applicato alla popolazione nel

suo insieme.

L’educazione scolastica, sia come trasmissione della conoscenza

sia come formazione del carattere, costituisce solo una parte, e forse

non la più importante, dell’educazione; usiamo qui «educazione» nel

suo senso letterale e fondamentale di «e-ducere» cioè «tirar fuori»

quel che è nell’uomo. Anche se l’uomo possiede delle cognizioni, se

svolge bene il suo lavoro, se si comporta bene, è onesto, e non ha

preoccupazioni per i suoi bisogni materiali, egli non è né può essere

soddisfatto.

L’uomo, per sentirsi a suo agio nel mondo, deve comprenderlo e

non solamente con la mente, ma con tutti i sensi, con gli occhi, le

orecchie, con tutto il corpo. Egli deve eseguire col corpo quel che

matura nel cervello. Il corpo e la mente non possono essere separati

né in questo né in nessun altro aspetto. Se l’uomo comprende il

mondo e in tal modo si unisce ad esso col pensiero, egli crea la filo-

sofia, la teologia, il mito e la scienza. Se l’uomo esprime la sua

comprensione del mondo con i sensi, egli crea l’arte e il rituale, crea

il canto, la danza, il dramma, la pittura, la scultura. Usando la parola

«arte» noi siamo influenzati dal suo uso nel senso moderno come di

un settore separato dalla vita. Da una parte abbiamo l’artista: una

professione specializzata, e dall’altra parte l’amatore e il consumato-

301 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

re di arte. Ma questa separazione è un fenomeno moderno. Non è

che mancassero «artisti» nelle grandi civiltà: la creazione delle gran-

di sculture egiziane, greche o italiane era opera di artisti straordina-

riamente dotati che si specializzavano nella loro arte; e così si può

dire per i creatori del dramma greco o per la musica fin dal diciasset-

tesimo secolo.

Ma che dire di una cattedrale gotica, di un rito cattolico, di una

danza indiana per propiziare la pioggia, di una composizione floreale

giapponese, di una danza popolare, del canto corale? Sono arte? Arte

popolare? Non c’è una parola per indicarli, perché l’arte, nel senso

ampio e generale come parte della vita di tutti, ha perduto il suo po-

sto nel nostro mondo. Che parola possiamo allora usare? Nell’esame

dell’alienazione ho adoperato il termine «rituale». Qui la difficoltà

sta naturalmente nel fatto che questa parola implica un significato

religioso che la riporta ad una sfera speciale e separata. Mancando di

una parola migliore, userò «arte collettiva» intendendo la stessa cosa

che rituale; essa vuol dire: corrispondere al mondo con i nostri sensi

attraverso un mezzo significativo, elaborato, produttivo, attivo e

condiviso. In questa descrizione la qualifica di «condiviso» è impor-

tante perché differenzia il concetto di «arte collettiva» da quello di

arte nel senso moderno. Quest’ultima è individualistica sia nella

produzione sia nel consumo. L’«arte collettiva» è condivisa e con-

sente all’uomo di sentirsi uno con gli altri in un modo significativo,

ricco e fecondo. Essa non è una occupazione individuale per il

«tempo libero», aggiunta alla vita, ma è parte integrale della vita.

Corrisponde ad un bisogno umano fondamentale, e se questo biso-

gno non è soddisfatto l’uomo resta insicuro e ansioso come se il suo

bisogno di una significativa visione mentale del mondo non fosse

realizzato. Per superare in un orientamento produttivo quello ricetti-

vo egli deve collegarsi al mondo artisticamente e non soltanto filoso-

ficamente o scientificamente. Se una cultura non offre una tale rea-

lizzazione la persona non si sviluppa oltre il suo orientamento ricet-

tivo o mercantile.

E qual è la nostra situazione? I rituali religiosi hanno sempre mi-

nor importanza, eccetto che per i cattolici. I rituali secolari quasi non

esistono. Se si escludono i tentativi di imitarli nelle logge, nelle con-

fraternite ecc., abbiamo alcuni rituali patriottici e sportivi che si ri-

volgono solo in misura molto limitata ai bisogni della personalità

8. LE VIE DELLA SALUTE 302

totale. Noi siamo una cultura di consumatori. Assorbiamo passiva-

mente il cinema, la cronaca nera, i liquori, lo svago. Non c’è né una

partecipazione attiva e feconda, né una comune esperienza unifica-

trice, né una significativa attuazione di risposte significative verso la

vita. Che ci attendiamo dalla nostra giovane generazione? Che devo-

no fare quando a loro manca la possibilità di attività artistiche signi-

ficative e condivise? Che possono fare se non trovare evasione nel

bere, nel mondo illusorio creato dal cinema, nel delitto, nelle nevrosi

o nello squilibrio? Che giova avere quasi eliminato l’analfabetismo,

vantare l’istruzione superiore più estensiva che sia mai esistita, se

manchiamo di espressione collettiva delle nostre personalità totali e

non abbiamo né arte né rituali collettivi? Indubbiamente un villaggio

relativamente primitivo nel quale vi siano ancora delle vere feste,

manifestazioni artistiche comuni e condivise e che abbia un analfa-

betismo totale, è culturalmente più progredito e mentalmente più

sano della nostra cultura di istruiti lettori di giornali e radioascoltato-

ri.

Nessuna società sana può esser costruita sulla combinazione di

una conoscenza puramente intellettuale e di una quasi completa as-

senza di esperienza artistica condivisa, università più football, ro-

manzi polizieschi più celebrazioni della festa nazionale, del giorno

del padre, del giorno della madre e del Natale in sovrappiù. Conside-

rando come possiamo costruire una società sana dobbiamo ricono-

scere che il bisogno della creazione di un’arte e di rituali collettivi su

una base non chiesastica è almeno altrettanto importante quanto

l’educazione elementare e superiore. La trasformazione della società

atomizzata in una società comunitaria dipende dal ricreare la possibi-

lità per la gente di cantare assieme, di far assieme delle passeggiate,

di danzare assieme, di ammirare assieme: assieme e non, per usare la

concisa espressione di Riesman, come i componenti di una «folla

solitaria».

Per far rivivere rituali e arte collettivi sono stati fatti diversi tenta-

tivi. Il «culto della Ragione» con le nuove festività e i suoi rituali era

la forma creata dalla Rivoluzione francese. I sentimenti nazionali

crearono alcuni nuovi rituali, ma essi non raggiunsero mai

l’importanza che avevano una volta i perduti rituali religiosi. Il so-

cialismo creò il suo rituale nella celebrazione del primo maggio,

nell’uso del termine fraterno «compagno», e così via. Ma

303 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

l’importanza non è stata mai superiore a quella del rituale patriottico.

Forse la più profonda e originale espressione di arte e di rituali col-

lettivi si poteva trovare nel movimento della Gioventù Tedesca, che

fiorì negli anni prima e dopo la prima guerra mondiale. Ma questo

movimento restò piuttosto esoterico e fu fagocitato dalla crescente

marea del nazionalismo e del razzismo.

Nell’insieme il nostro rituale moderno è impoverito e non soddi-

sfa i bisogni dell’uomo di rituali e di arte collettivi, anche nel senso

più vago, sia per la qualità sia per il suo rilievo quantitativo nella

vita.

Cosa dobbiamo fare? Possiamo inventare dei rituali? Si può

creare artificialmente l’arte collettiva? No certamente! Ma quando se

ne riconosca il bisogno e quando si cominci a coltivarli, i semi ger-

moglieranno e si faranno avanti persone dotate che aggiungeranno

nuove forme alle antiche e si presenteranno nuovi talenti che non

verrebbero notati senza questo nuovo orientamento.

L’arte collettiva comincerà con i giochi dei bambini nei giardini

d’infanzia, continuerà nella scuola, e poi nella vita successiva.

Avremo danze in comune, cori, giochi, musica, fanfare che non rim-

piazzeranno del tutto lo sport moderno ma lo ridurranno al ruolo su-

bordinato di una delle molte attività prive di una vera utilità e di un

vero scopo.

E inoltre, come nell’organizzazione politica e industriale, il fatto-

re decisivo è il decentramento: i concreti gruppi ristretti e la parteci-

pazione attiva e responsabile. Nella fabbrica, nella scuola, nei piccoli

gruppi di discussione politica, nei villaggi possono esser create varie

forme di attività artistica comune; esse possono essere stimolate

quanto occorre con l’aiuto e il suggerimento da parte di corpi artisti-

ci centrali, ma non «imbeccati» da questi. Nello stesso tempo le tec-

niche moderne della radio e della televisione offrono splendide pos-

sibilità di dare il meglio della musica e della letteratura a larghi udi-

tòri. Non occorre dire che non si può lasciare al mondo degli affari il

compito di provvedere a queste esigenze, ma che esse devono avere

il rango che hanno le nostre istituzioni scolastiche senza scopo di

lucro.

Si potrebbe dire che l’idea di una rinascita su larga scala del ri-

tuale e dell’arte collettivi è romantica e che essa si adatta ad un epo-

ca artigianale e non a quella della produzione di massa. Se tale obie-

8. LE VIE DELLA SALUTE 304

zione fosse valida potremmo rassegnarci al fatto che il nostro siste-

ma di vita si distruggerà presto a causa della sua mancanza di equili-

brio e di sanità mentale. Ma in effetti l’obiezione non è più persuasi-

va delle obiezioni fatte rispetto alla «possibilità» delle ferrovie e del

volo con macchine più pesanti dell’aria. C’è un solo punto valido in

questa obiezione. Così come noi siamo, atomizzati, alienati, senza

alcun genuino senso di comunità, non saremo capaci di creare nuove

forme di arte e di rituali collettivi.

Ma ciò è proprio quello su cui ho sempre insistito. Non si può se-

parare il mutamento della nostra organizzazione politica e industriale

da quello della struttura della nostra vita educativa e culturale. Nes-

sun serio tentativo di mutamento e di ricostruzione potrà riuscire se

non si estende simultaneamente in tutti i settori.

Si può parlare di una trasformazione spirituale della società senza

far cenno alla religione? Indubbiamente gli insegnamenti delle gran-

di religioni monoteistiche accentuano gli stessi fini umanistici che

stanno alla base dell’«orientamento produttivo». I fini del cristiane-

simo e dell’ebraismo sono quelli della dignità dell’uomo come meta

e fine in se stesso, dell’amore fraterno e della supremazia dei valori

spirituali su quelli materiali. Questi fini etici sono collegati a taluni

concetti di Dio attraverso i quali i fedeli delle varie religioni si di-

stinguono tra loro e che sono inaccettabili per milioni di altri. Tutta-

via è stato un errore dei non credenti quello di attaccare l’idea di

Dio; il loro vero obiettivo dovrebbe essere quello di sfidare i religio-

si a prender sul serio la loro religione e specialmente il concetto di

Dio, ciò che significherebbe praticare lo spirito di amore fraterno, di

verità e di giustizia e pertanto diventare i critici più radicali della

società contemporanea.

D’altro canto, anche da un punto di vista strettamente monoteisti-

co, le discussioni su Dio equivalgono all’usare il nome di Dio inva-

no. Ma se è impossibile dire quello che Dio è, possiamo dire quello

che non è. Non è forse tempo di smetterla di discutere intorno a Dio

e unirsi invece nello smascherare le forme contemporanee di idola-

tria? Oggi non c’è Baal né Astarte, ma c’è la deificazione dello stato

e del potere nei paesi autoritari, e la deificazione della macchina e

del successo nella nostra stessa cultura; è l’alienazione che tutto in-

vade a minacciare le qualità spirituali dell’uomo. Che si sia o no re-

ligiosi, che si creda nella necessità di una nuova religione o nella

305 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

continuazione della tradizione ebraico-cristiana, in quanto ci interes-

siamo dell’essenza, e non della superficie, dei fatti e non delle paro-

le, dell’uomo e non delle istituzioni, possiamo unirci in una decisa

negazione dell’idolatria, e trovare forse più fede comune in questa

negazione che in qualsiasi affermazione riguardante Dio. Indubbia-

mente troveremo più umiltà e amore fraterno.

Questa constatazione vale anche se si crede, come io credo, che i

concetti teistici siano votati alla scomparsa nello sviluppo futuro

dell’umanità. In effetti per coloro che vedono nelle religioni mono-

teistiche soltanto uno degli stadi dell’evoluzione del genere umano,

non è troppo difficile convincersi che una nuova religione si svilup-

perà entro pochi secoli, una religione che corrisponda allo sviluppo

del genere umano; il più importante carattere di questa religione sa-

rebbe quello universalistico che corrisponderebbe all’unificazione

dell’umanità che sta oggi verificandosi; esso racchiuderebbe gli in-

segnamenti umanistici comuni a tutte le grandi religioni dell’oriente

e dell’occidente; le sue dottrine non contraddirebbero le conoscenze

razionali dell’umanità odierna e l’accento sarebbe posto sulla pratica

di vita piuttosto che su credenze dottrinarie. Una simile religione

creerebbe nuovi rituali e nuove forme artistiche di espressione tali da

produrre uno spirito di riverenza per la vita e la solidarietà

dell’uomo. Naturalmente la religione non può essere inventata, essa

si affermerà con la comparsa di un nuovo grande maestro proprio

come ne sono apparsi nei secoli precedenti quando i tempi erano

maturi. Nel frattempo, quelli che credono in Dio dovrebbero espri-

mere la loro fede vivendola; quelli che non credono vivendo i precet-

ti di amore e di giustizia, e rimanendo in attesa.55

55 Lo stesso suggerimento per una nuova religione umanistica è stato fatto da Julian HUXLEY

in Evolutionary Humanism, «The Humanist», vol. XII, 5, 1953, p. 201 ss.

306

9.

Conclusioni riassuntive

Dapprincipio l’uomo emerse dal mondo animale come un ca-

priccio di natura. Avendo perduto la maggior parte

dell’organizzazione istintiva che regola l’attività animale, egli era,

più che la maggior parte degli animali, debole e meno attrezzato alla

lotta per la sopravvivenza. Tuttavia egli aveva sviluppato la capacità

di pensare, la fantasia, la consapevolezza di sé, e queste erano il fon-

damento per trasformare la natura e se stesso. Per molte migliaia di

generazioni l’uomo visse raccogliendo il cibo e cacciando. Egli era

ancora vincolato alla natura e temeva di esserne espulso.

Identificava se stesso con gli animali e adorava questi rappresen-

tanti della natura come sue divinità. Dopo un lungo periodo di lento

sviluppo l’uomo cominciò a coltivare il suolo e a creare un nuovo

ordine sociale e religioso basato sull’agricoltura e la pastorizia. Du-

rante questo periodo egli adorava, quali portatrici della fertilità natu-

rale, delle dee, e vedeva in se stesso il figlio che dipende dalla fertili-

tà della terra, dal seno vivificante della Madre. Ad un certo momen-

to, circa quattro migliaia di anni fa, avvenne una svolta decisiva nel-

la storia dell’uomo. Egli fece un nuovo passo nel lungo processo del

suo graduale distacco dalla natura. Tagliò i legami con la natura e

con la Madre e si propose una nuova meta, quella di divenire com-

pletamente vivo, di svegliarsi completamente, di diventar completa-

mente umano: di essere libero. La ragione e la coscienza divennero i

principi che dovevano guidarlo e suo fine era una società legata dai

vincoli dell’amore fraterno, della giustizia e della verità, una dimora

nuova e veramente umana che prendesse il posto della dimora natu-

rale irreparabilmente perduta.

Più tardi ancora, circa 500 anni prima di Cristo, nei grandi siste-

mi religiosi dell’India, della Grecia, della Palestina, della Persia e

della Cina, l’idea dell’unità dell’umanità e di un principio spirituale

unificante che sottostava a tutta la realtà assunse nuove e più svilup-

307 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

pate espressioni. Lao-tze, Budda, Isaia, Eraclito e Socrate e più tardi,

nella terra di Palestina, Gesù e gli apostoli, nella terra americana

Quetzalcoatl e, più tardi ancora, in terra araba Maometto, insegnaro-

no le idee dell’unità dell’uomo, della ragione, dell’amore e della giu-

stizia come le mete cui l’uomo deve aspirare.

Il Nord Europa sembrò dormire per lungo tempo. Le idee greche

e cristiane furono trasmesse a questa terra e ci vollero mille anni

prima che l’Europa ne fosse imbevuta. Intorno al 1500 cominciò un

nuovo periodo. L’uomo scoprì la natura e l’individuo, e pose i fon-

damenti per le scienze naturali che cominciarono a trasformare la

faccia della terra. Il mondo chiuso del medioevo crollò, il cielo uni-

ficatore si frantumò, e l’uomo trovò un nuovo principio unificatore

nella scienza e ricercò una nuova unità nell’unificazione politica e

sociale della terra e nel dominio della natura. La coscienza morale,

retaggio della tradizione ebraico-cristiana, e la coscienza intellettua-

le, retaggio della tradizione greca, si fusero e produssero una fioritu-

ra nella creazione umana quale l’uomo non aveva forse mai prima

conosciuto. L’Europa, che culturalmente era l’ultimo rampollo

dell’umanità, sviluppò tale ricchezza e tali armi da diventare padrona

del resto del mondo per alcune centinaia di anni. Ma nuovamente,

nella metà del ventesimo secolo, sta verificandosi un profondo mu-

tamento, un mutamento grande come mai nel passato. Nuove tecni-

che sostituiscono l’uso dell’energia fisica degli animali e degli uo-

mini con quella del vapore, del petrolio e dell’elettricità; esse creano

mezzi di comunicazione che trasformano la terra dandole la dimen-

sione di un continente, e il genere umano in una società dove il de-

stino di un gruppo è il destino di tutti; esse creano meravigliosi ritro-

vati che consentono di mettere a disposizione di ogni membro della

società quanto c’è di meglio nell’arte, nella letteratura e nella musi-

ca; esse creano forze produttive che consentiranno a tutti di avere

un’esistenza materiale dignitosa e riducono il lavoro in misura tale

da occupare soltanto una parte della giornata dell’uomo.

Tuttavia oggi, quando l’uomo sembra aver raggiunto l’inizio di

una nuova era umana più ricca e più felice, la sua esistenza e quella

delle generazioni successive è più minacciata che mai. Come è pos-

sibile ciò?

L’uomo aveva riscattato la sua libertà dalle autorità clericali e se-

colari, si trovava solo con la sua coscienza e con la sua ragione, suoi

9. CONCLUSIONI RIASSUNTIVE 308

unici giudici, ma era spaventato della libertà appena conquistata; egli

aveva realizzato la «libertà da» senza però aver raggiunto la «libertà

di»: di essere se stesso, di esser produttivo, di esser completamente

desto. Così cercò di fuggire dalla libertà. Proprio quel dominio sulla

natura che aveva realizzato gli apriva le strade per questa fuga.

Costruendo la nuova macchina dell’industria, l’uomo fu così as-

sorbito dal nuovo compito che questo divenne la meta preminente

della sua vita. Le sue energie, che una volta erano dedicate alla ri-

cerca di Dio e alla salvezza eterna, furono ora dirette verso il domi-

nio sulla natura e verso sempre crescenti comodità materiali. Egli

cessò di usare la produzione come mezzo per una vita migliore, ma

ne fece invece un fine in se stesso, un fine cui era subordinata la vita.

Nel processo di una sempre maggior divisione e meccanizzazione

del lavoro e nelle sempre maggiori dimensioni degli agglomerati

sociali l’uomo stesso diventò una parte della macchina piuttosto che

il padrone. Scoprì che lui stesso era una merce, come un investimen-

to; suo fine diventò aver successo, cioè vendersi sul mercato il più

vantaggiosamente possibile. Il suo valore come persona sta nella sua

possibilità di vendersi e non nelle sue qualità umane di amore e di

ragione o nelle sue capacità artistiche. La felicità si identifica col

consumo di merci più nuove e migliori, con la passiva ricezione di

musica, cinema, svago, sesso, liquori e sigarette. Non avendo un

senso dell’io se non quello datogli dal conformismo con la maggio-

ranza, egli si sente insicuro, ansioso e dipende dall’approvazione

altrui. È alienato da sé, adora i prodotti delle sue stesse mani e i capi

che si è dato, come se essi fossero sopra di lui invece che fatti da lui.

È in un certo senso ritornato indietro a dov’era prima della grande

rivoluzione umana iniziata nel secondo millennio prima di Cristo.

Incapace di amare e di usare la sua ragione, e di prendere deci-

sioni, egli è in effetti incapace di apprezzare la vita e pertanto pron-

to, e persino ben disposto, a distruggere ogni cosa. Il mondo è anco-

ra una volta frammentato, ha perduto la sua unità; egli adora nuova-

mente una molteplicità di cose, con la sola eccezione che adesso

queste, invece di essere parte della natura, sono fatte dall’uomo.

L’era nuova cominciò con l’idea dell’iniziativa individuale. Infat-

ti gli scopritori di nuovi mondi e di vie marittime nel sedicesimo e

diciassettesimo secolo, i pionieri della scienza, e i fondatori di nuove

filosofie, gli statisti e i filosofi delle grandi rivoluzioni inglese, fran-

309 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

cese e americana, e infine i pionieri industriali, e perfino i «baroni

predatori» dimostravano una straordinaria iniziativa individuale. Ma

con la burocratizzazione e l’organizzazione manageriale del capitali-

smo è esattamente l’iniziativa individuale che sta scomparendo. La

burocrazia ha poca iniziativa: questa è la sua natura; e nemmeno ne

hanno gli automi. Richiamarsi all’iniziativa individuale, come ad un

argomento a favore del capitalismo, è, nel migliore dei casi, una

brama nostalgica e, nel peggiore, un ingannevole luogo comune usa-

to contro quei piani di riforma che sono basati sull’idea di una inizia-

tiva umana veramente individuale. La società moderna è partita con

l’aspirazione di creare una cultura che soddisfacesse i bisogni

dell’uomo; essa ha per ideale l’armonia tra i bisogni individuali e

quelli sociali e la fine del conflitto tra natura umana e ordine sociale.

Si credeva che si sarebbe giunti a questa meta in due modi: con una

crescente tecnica produttiva che avrebbe permesso di nutrire tutti in

modo soddisfacente, e con una razionale e obiettiva visione

dell’uomo e dei suoi veri bisogni. In altre parole, il fine degli sforzi

dell’uomo moderno era di creare una società sana. Più precisamente,

questo significava una società i cui membri avessero sviluppato la

loro ragione a un punto tale di obiettività da concedere loro di vedere

se stessi, gli altri e la natura nella loro vera realtà, e non distorti da

un sentimento infantile di onniscienza o da odio paranoico. Signifi-

cava una società i cui membri avessero sviluppato un tal grado di

indipendenza, da conoscere la differenza tra il bene e il male, in cui

essi facessero la loro propria scelta, in cui avessero convinzioni piut-

tosto che opinioni, e fede invece di speranze superstiziose o confuse.

Significava una società i cui membri avessero sviluppato la capacità

di amare i loro figli, il loro prossimo, tutti gli uomini, se stessi, tutta

la natura, e potessero sentirsi in unità con il tutto conservando però il

loro senso di individualità e di pienezza, e trascendessero la natura

creando e non distruggendo.

Fino ad oggi non ci siamo riusciti. Non abbiamo gettato un ponte

sull’abisso che separa una minoranza che attuava queste mete e cer-

cava di vivere accordandovisi e la maggioranza la cui mentalità era

rimasta ben indietro, all’epoca della pietra, al totemismo, al culto

idolatrico, al feudalesimo. La maggioranza si convertirà alla sanità

mentale o userà le più grandi scoperte della ragione umana per i suoi

fini di irrazionalità e follia? Saremo capaci di creare una visione del-

9. CONCLUSIONI RIASSUNTIVE 310

la vita buona e sana che stimoli le forze vitali di coloro che temono

di andare avanti? Attualmente l’umanità si trova ad un bivio dove un

passo sbagliato potrebbe anche essere l’ultimo.

Alla metà del ventesimo secolo, si sono sviluppati due grandi co-

lossi sociali che, temendosi l’un l’altro, cercano sicurezza in un

riarmo militare sempre crescente. Gli Stati Uniti e i loro alleati sono

più ricchi, il loro livello di vita è più elevato, il loro interesse alla

comodità e ai piaceri sono maggiori di quelli dei loro rivali, l’Unione

Sovietica con i suoi satelliti e la Cina. Entrambi i rivali affermano

che il loro sistema assicura all’uomo la redenzione finale e garanti-

sce il paradiso del futuro. Entrambi affermano che l’avversario rap-

presenta esattamente il loro opposto e che il suo sistema dovrà esse-

re, a breve o a lunga scadenza, estirpato, se si vuol salvare l’umanità.

Entrambi i rivali parlano riferendosi agli ideali del diciannovesimo

secolo. L’occidente in nome delle idee della Rivoluzione francese,

della libertà, della ragione, dell’individualismo; l’oriente nel nome

delle idee socialiste, della solidarietà e dell’eguaglianza. Entrambi

riescono a conquistare l’immaginazione e la fanatica obbedienza di

centinaia di milioni di uomini.

C’è oggi una differenza decisiva tra i due sistemi. Nel mondo oc-

cidentale c’è la libertà di esprimere opinioni critiche sul sistema esi-

stente. Nel mondo sovietico la critica e l’espressione di idee diffe-

renti sono soppresse con la forza bruta. Dunque l’occidente porta in

se stesso la possibilità di una trasformazione pacifica verso il pro-

gresso, mentre nel mondo sovietico tali possibilità quasi non esisto-

no.

Ma pur senza ignorare le enormi differenze odierne tra il liberista

capitalismo e il comunismo autoritario è impossibile non vedere le

somiglianze specialmente come esse si svilupperanno nel futuro.

Entrambi i sistemi sono basati sull’industrializzazione e mirano a

un’efficienza economica e a una ricchezza sempre maggiori. Essi

sono società dirette da una classe manageriale e da professionisti

della politica; entrambi sono completamente materialisti nel loro

modo di vedere, nonostante l’ideologia cristiana nell’occidente e il

messianismo secolare nell’oriente. Essi organizzano l’uomo in un

sistema centralizzato, in grandi stabilimenti, in partiti politici di

massa. Ognuno è una rotellina dell’ingranaggio e deve funzionare

regolarmente. Nell’occidente ciò si realizza con un metodo di condi-

311 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

zionamento psicologico, di suggestioni collettive e compensi mone-

tari. Nell’oriente con tutto questo e, in più, con l’uso del terrore. Si

può supporre che quanto più il sistema sovietico si svilupperà eco-

nomicamente, tanto meno dovrà sfruttare la maggioranza della popo-

lazione, e perciò il terrore potrà esser sostituito in misura maggiore

da metodi di condizionamento psicologico. L’occidente si sviluppa

rapidamente nella direzione del Brave New World di Huxley,

l’oriente è oggi il 1984 di Orwell, ma entrambi i sistemi tendono a

convergere.

Quali sono allora le prospettive per il futuro? La prima, e forse la

più verosimile, è quella della guerra atomica. Il più probabile risulta-

to di tale guerra è la distruzione della civiltà industriale e il ritorno

del mondo a un primitivo livello agricolo. Oppure, se la distruzione

non si dimostrasse completa come credono molti specialisti in que-

sto campo, il risultato sarà la necessità per il vincitore di organizzare

e dominare il mondo intero. Ciò avverrebbe soltanto in uno stato

centralizzato basato sulla forza, e ci sarebbe ben poca differenza se

la sede del governo fosse a Mosca o a Washington. Ma, sfortunata-

mente, anche la possibilità di evitare la guerra non promette un futu-

ro sereno. Nello sviluppo, sia del capitalismo sia del comunismo

come possiamo prevederlo nei prossimi 50 o 100 anni, il processo di

automatizzazione e di alienazione continuerà. Entrambi i sistemi

stanno sviluppandosi in società manageriali i cui abitanti, ben nutriti,

ben vestiti vedono soddisfatti i loro desideri e non hanno desideri

che non possano esser soddisfatti, automi che seguono senza esser

forzati, che sono guidati senza capi, che fabbricano macchine che si

comportano come uomini e producono uomini che si comportano

come macchine; uomini la cui ragione decade mentre aumenta

l’intelligenza creando così la situazione di dotare l’uomo dei più

grandi poteri materiali senza la sapienza per usarli.

Questa alienazione e automatizzazione portano a pazzia sempre

crescente. La vita non ha significato, non c’è gioia, né fede, né real-

tà. Ognuno è «felice», solamente... non sente, non ragiona, non ama.

Nel diciannovesimo secolo il problema era: Dio è morto; nel ven-

tesimo secolo è questo: è morto l’uomo. Nel diciannovesimo secolo

inumanità voleva dire crudeltà; nel ventesimo secolo vuol dire autoa-

lienazione schizoide. Il pericolo del passato era che gli uomini di-

ventassero schiavi. Il pericolo del futuro è che gli uomini possano

9. CONCLUSIONI RIASSUNTIVE 312

diventare robot. È vero che i robot non si ribellano. Ma, data la natu-

ra dell’uomo, i robot non possono vivere e restar sani, essi diventano

«Golem» che distruggeranno se stessi e il loro mondo perché non

possono più tollerare la noia di una vita priva di significato.

I nostri pericoli sono la guerra e il robotismo. Qual è

l’alternativa? Abbandonare i binari su cui ci muoviamo e fare il pas-

so successivo verso la nascita e l’autorealizzazione dell’umanità. La

prima condizione è la rimozione della minaccia della guerra che

adesso pende su tutti noi e paralizza la fede e l’iniziativa. Dobbiamo

assumerci la responsabilità della vita di tutti gli uomini e sviluppare

su scala internazionale ciò che tutti i grandi paesi hanno sviluppato

internamente, cioè una relativa divisione delle ricchezze e una nuova

e più giusta divisione delle risorse economiche. Questo deve final-

mente portare a forme di cooperazione internazionale e di pianifica-

zione, a forme di governo mondiale e al completo disarmo. Dobbia-

mo conservare il metodo industriale, ma dobbiamo decentrare il la-

voro e lo stato così da dar loro umane proporzioni, e consentire

l’accentramento soltanto sino ad un optimum richiesto a causa delle

esigenze dell’industria. Nella sfera economica abbiamo bisogno del-

la cogestione di tutti quelli che lavorano in una azienda per permette-

re la loro partecipazione attiva e responsabile. Le nuove forme di

tale partecipazione possono esser trovate. Nella sfera politica, dob-

biamo ritornare alle assemblee cittadine creando migliaia di piccoli

gruppi ristretti, che siano ben informati, che discutano e le cui deci-

sioni siano integrate in una nuova «camera bassa». Un rinascimento

culturale deve combinare l’educazione e il lavoro per i giovani,

l’educazione degli adulti e un nuovo sistema di arte popolare e di

rituale secolare entro l’intera nazione.

Nostra sola alternativa al pericolo del robotismo è il socialismo

umanistico. Il problema non è principalmente il problema giuridico

della proprietà, e nemmeno quello del dividere i profitti, è quello di

dividere il lavoro, di dividere l’esperienza. I mutamenti della pro-

prietà devono essere fatti nella misura necessaria per creare una co-

munità di lavoro e per far sì che il movente del profitto non spinga la

produzione in direzioni socialmente nocive. Il reddito individuale

deve essere eguagliato fino alla misura necessaria per dare ad ognu-

no le basi materiali per una vita dignitosa, evitando così che le diffe-

renze economiche creino una esperienza di vita fondamentalmente

313 PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

diversa per le varie classi sociali. L’uomo deve essere restituito al

suo più alto posto nella società, non esser mai un mezzo, o cosa da

esser usata dagli altri o da se stesso. L’uso dell’uomo da parte

dell’uomo deve finire, e l’economia deve diventare lo strumento per

lo sviluppo dell’uomo. Il capitale deve servire al lavoro, le cose de-

vono servire alla vita. Invece dell’orientamento sfruttatore ed acca-

parratore che dominava nel diciannovesimo secolo e

dell’orientamento ricettivo e mercantile che domina oggi,

l’orientamento produttivo deve essere il fine cui guardano tutte le

strutture sociali.

Nessun mutamento deve esser prodotto dalla forza; esso deve es-

ser simultaneo nel settore economico, politico e culturale. I muta-

menti limitati ad un solo settore rendono inefficace ogni mutamento.

Proprio come l’uomo primitivo era impotente di fronte alle forze

naturali, così l’uomo moderno è impotente di fronte alle forze eco-

nomiche e sociali da lui stesso create. Egli adora il lavoro delle pro-

prie mani, inchinandosi ai nuovi idoli e giurando tuttavia nel nome

del Dio che gli ordinò di distruggere tutti gli idoli. L’uomo può pro-

teggersi dalle conseguenze della sua stessa pazzia soltanto creando

una società sana che si adatti ai bisogni dell’uomo, bisogni che sono

radicati nelle stesse condizioni della sua esistenza. Una società nella

quale l’uomo stabilisca con l’uomo rapporti fondati sull’amore, nella

quale egli sia radicato con i legami di fratellanza e di solidarietà

piuttosto che con i vincoli del suolo e del sangue, una società che gli

dia la possibilità di trascendere la natura creando anziché distrug-

gendo, nella quale ognuno conquisti un senso dell’io riconoscendo

se stesso come il soggetto dei suoi poteri piuttosto che con il con-

formismo, nella quale un sistema di orientamento e di devozione

esista senza bisogno che l’uomo distorca la realtà e adori idoli.

Costruire una simile società significa fare il passo successivo; si-

gnifica la fine della storia «umanoide», la fase nella quale l’uomo

non è diventato pienamente umano. Ciò non vuol dire la «fine dei

giorni», il «compimento», lo stato di perfetta armonia nel quale gli

uomini non incontrino alcun conflitto o problema. Al contrario, è

destino dell’uomo che la sua esistenza sia piena di contraddizioni,

che egli ha il dovere di risolvere senza tuttavia riuscire mai a risol-

verle. Quando egli abbia superato lo stadio primitivo del sacrificio

umano, sia nella forma ritualistica degli aztechi sia nella forma laica

9. CONCLUSIONI RIASSUNTIVE 314

della guerra, quando egli sia stato capace di regolare i suoi rapporti

con la natura ragionevolmente invece che ciecamente, quando le co-

se siano diventate veramente suoi strumenti invece che suoi idoli,

allora si troverà di fronte a conflitti e problemi veramente umani;

egli dovrà essere audace, coraggioso, ricco di fantasia, capace di sof-

ferenza e di gioia, ma i suoi poteri saranno al servizio della vita e

non al servizio della morte. La nuova fase della storia umana, se essa

verrà, sarà un nuovo principio, non una fine.

L’uomo d’oggi è posto di fronte alla scelta più decisiva: non

quella tra capitalismo o comunismo, ma quella tra robotismo (sia del

tipo capitalistico sia di quello comunista) o socialismo umanistico

comunitario. Molti fatti sembrano indicare che egli sta scegliendo il

robotismo e ciò, a lungo andare, significa pazzia e distruzione. Ma

tutti questi fatti non sono abbastanza forti da distruggere la fede nella

ragione, nella buona volontà e nella sanità dell’uomo. Fino a che

possiamo pensare ad altre alternative non siamo perduti; fino a che

possiamo consultarci assieme e decidere assieme, possiamo sperare.

Ma in verità le ombre si allungano e le voci della pazzia stanno di-

ventando più forti. Siamo prossimi a porre in atto un tipo di umanità

che corrisponde alla visione dei nostri grandi maestri e tuttavia ci

sovrasta il pericolo della distruzione di tutta la civiltà o della robo-

tizzazione. Questa tragica alternativa può essere evitata solamente

instaurando il socialismo umanistico, vale a dire l’inserimento

dell’umanesimo nella società industriale.