Fromm - Voi Sarete Come Dei

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ERICH FROMM

VOI SARETE COME DEI

Questo libro vuole essere una sfida tanto a coloro che hanno “ereditato” la tradizione religiosa, quanto a coloro che la hanno cancellata. Sarete come dèi (il più recente libro di Fromm) dimostra come dalle parti più arcaiche del Vecchio Testamento, dagli scritti profetici, fino alla successiva tradizione ebraica, sprigioni lo spirito dell'umanesimo radicale. Esso presenta l'idea di Dio come il risultato di uno sviluppo, di una purificazione graduale, sottolineando da un lato come ogni momento di tale sviluppo sia coerentemente caratterizzato dalla lotta contro ogni tipo di idolatria, dall'altro come lo sviluppo conduca all'inevitabile conclusione dell'assurdità della teologia. Dimostrando che il Giudaismo è una religione “non-teologica” Fromm mette in risalto che non contano tanto le concezioni razionali, quanto il sostrato di esperienza umana di tali concezioni.

Voi sarete conte dèi non concede nulla alle contemporanee filosofie della disperazione. L'uomo rivelato dal Vecchio Testamento è un uomo che crea se stesso nel corso di uno sviluppo storico che ha avuto inizio col suo primo atto di libertà: la libertà di disobbedire. L'autore ribadisce insistentemente che il problema significativo oggi è di sapere non se "Dio è morto", ma se "l'uomo è morto".

Dal punto di vista storico il libro ha il merito di dimostrare continuamente come i testi e le pratiche religiose tradizionali conservino un significato e una validità attuali. Malgrado il fondamentale atteggiamento di rispetto per la tradizione, questo libro presenta una impostazione rivoluzionaria. Come elevato contributo alla moderna ricerca dei valori esso ammonisce credenti e non-credenti che “la base dell'unità della specie umana non è che ogni uomo creda in un medesimo Dio, ma c e ogni uomo agisca con giustizia e con amore".

ERICH FROMM è ampiamente conosciuto per il suo lavoro nel campo della psicoanalisi, della filosofia, della scienza politica e della religione. Egli ha studiato devotamente per diversi anni la letteratura biblica e rabbinica. Ha insegnato nelle maggiori università statunitensi, e attualmente insegna alla Università Nazionale del Messico, alla New York University, e al William Alanson Institute of Psychiatry, Psycho-analysis and Psychology.

È autore, tra l'altro, di numerosi libri, tra cui Escape from Freedom, The Art of Loving, Man for Himself, Psychology and Culture, Marx's Concept of Man, e Sigmund Freud's Mission, molti dei quali tradotti in italiano. La nostra Casa Editrice ha pubblicato Dalla

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parte dell'uomo e, di Fromm - Suzuki - De Martino, Psicoanalisi e Buddismo Zen.

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ERICH FROMM

VOI SARETE COME DEI

Titolo originale dell'opera:

YOU SHALL BE AS GODS

A RADICAL INTERPRETATION OF THE OLD TESTAMENT

AND ITS TRADITION

(Holt, Rinehart and Winston, New York)

Traduzione

di

STEFANIA GANA

© 1966, Erich Fromm

© 1970, Casa Ed. Astrolabio - Ubaldini Editore, Roma

ERICH FROMM

VOI SARETE

COME DEI

Una interpretazione radicale

del vecchio testamento e della sua tradizione

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Ubaldini Editore - Roma

INDICE

I - Introduzione pag. 7

II - Il concetto di Dio » 16

III - Il concetto di uomo . » 46

IV - Il concetto di storia » 61

V - Il concetto di peccato e pentimento » 108

VI - La strada: halakah » 121

VII - I salmi » 135

VIII - Epilogo » 152

IX - Appendice: Il salmo 22 e la passione » 155

Finito di stampare nel settembre 1970 per conto della Casa Editrice Astrolabio - Ubaldini Editore

presso le Grafiche Mignani di Bologna

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Salvo indicazione contraria, le citazioni bibliche sono riprese dalla Revised Standard Version of the Bible,

© 1949 e 1952 della Division of Christian Education, National Council of the Churches.

[Nella presente traduzione i passi biblici citati da Fromm sono ripresi dalla

Bibbia Concordata, Mondadori, Milano 1968,

indicando i luoghi in cui la traduzione si discosta dalla B. C. per seguire la versione inglese].

I.

INTRODUZIONE

La Bibbia ebraica, il Vecchio Testamento, è qualcosa di più di una reliquia storica alla quale si rende un doveroso rispetto in quanto origine delle tre grandi religioni occidentali? Ha ancora qualcosa da dire all'uomo, oggi - l'uomo che vive in un mondo di rivoluzioni, automazione, armi nucleari, che ha una filosofia materialistica che nega implicitamente ed esplicitamente i valori religiosi?

Non sembrerebbe che la Bibbia ebraica possa ancora essere attuale. Il Vecchio Testamento (compresi i libri apocrifi) è un insieme di scritti di svariati autori, composti per più di un millennio (dal 1200 al 100 a. C. circa), formato da codici di leggi, resoconti storici, composizioni poetiche, discorsi profetici: solo una parte di una più vasta letteratura prodotta dagli ebrei durante questi mille e cento anni[1]. Questi libri furono scritti in un piccolo paese situato tra l'Africa e l'Asia, per uomini che vivevano in una società che tanto da un punto di vista culturale, quanto da un punto di vista sociale, non aveva niente in comune con la nostra.

Sappiamo naturalmente che la Bibbia ebraica è stata l'ispirazione principale non solo del Giudaismo ma anche del Cristianesimo e dell'Islam, e che perciò influenzò profondamente lo sviluppo culturale dell'Europa, dell'America e del Medio Oriente, tuttavia oggi, perfino tra gli ebrei e i cristiani, la Bibbia ebraica non sembrerebbe altro che una rispettabile voce del passato. La maggior parte dei cristiani legge molto meno il Vecchio Testamento del Nuovo, e inoltre spesso lo distorce coi suoi pregiudizi. Di solito si crede che il Vecchio Testamento esprima esclusivamente principi di giustizia e di vendetta, in opposizione al

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Nuovo, che rappresenta invece quelli di amore e di carità; molti pensano che perfino la frase « Ama il prossimo tuo come te stesso », non derivi dal Vecchio Testamento ma dal Nuovo. Oppure che la Bibbia sia stata scritta esclusivamente in uno spirito di stretto nazionalismo, e che non vi si trovi niente dell'universalismo sopra-nazionale così tipico del Nuovo Testamento. Per la verità ci sono indizi incoraggianti di un cambiamento nell'atteggiamento e nella pratica tanto tra i Protestanti quanto fra i Cattolici, ma il più è ancora da fare.

Gli ebrei che si occupano di servizi religiosi conoscono meglio il Vecchio Testamento: tutti i sabati, i lunedì e i mercoledì viene letta una parte del Pentateuco, in modo che in capo all'anno la lettura sia completa[2]. Questa conoscenza è inoltre approfondita con lo studio del Talmud, pieno di citazioni delle Scritture. Mentre coloro che seguono questa tradizione sono oggi una minoranza di ebrei, questo sistema di vita era comune a tutti fino a circa un secolo e mezzo fa soltanto. Nella vita tradizionale ebraica lo studio della Bibbia era favorito dalla necessità di basare tutte le nuove idee e gli insegnamenti religiosi sull'autorità dei versi biblici; questo tuttavia portava a un risultato ambiguo. Dato che i versi biblici servivano a sostenere una nuova idea o una legge religiosa, venivano citati spesso fuori del contesto, e interpretati in un modo che non corrispondeva al loro reale significato. Anche dove non avveniva tale distorsione ci si interessava sovente più all' “utilità” di un verso che sostenesse una nuova idea, che non al significato dell'intero contesto in cui questo ricorreva. Infatti il testo della Bibbia era più conosciuto tramite il Talmud e le recitazioni settimanali che non per uno studio diretto e sistematico. Lo studio della tradizione orale (Mishnah, Gemara, ecc.) aveva maggiore importanza e costituiva una spinta intellettuale più stimolante.

Nei secoli gli ebrei capirono la Bibbia non solo nello spirito della loro tradizione ma anche, in misura considerevole, sotto l'influenza delle idee di altre culture con le quali i loro studiosi entravano in contatto. Così Filone affrontò il Vecchio Testamento con lo spirito di Platone, Maimonide con lo spirito di Aristotele, Hermann Cohen con lo spirito di Kant. I commentari classici però furono scritti nel Medio Evo: il commentatore più autorevole è R. Solomon ben Isaac (1040-1105), conosciuto come Rashi, che interpretò la Bibbia secondo lo spirito conservatore del feudalesimo medievale[3], anche se il suo e altri commentari chiarirono il testo sia da un punto di vista linguistico che logico, e spesso lo arricchirono riferendosi alle compilazioni haggadiche dei rabbini, alle credenze mistiche ebraiche e talvolta ai filosofi arabi ed ebrei.

Per le molte generazioni di ebrei che vissero dopo la fine del Medio Evo, specialmente per quelli che vivevano in Germania, Polonia, Russia e Austria, lo spirito medioevale di questi commentari classici contribuiva a rinforzare le tendenze radicate nella loro stessa situazione del ghetto, dove avevano poco contatto con la vita sociale e culturale dell'età moderna. D'altra parte quegli ebrei che, a cominciare dalla fine del XVIII secolo, si integravano alla cultura contemporanea europea, avevano di solito poco interesse per lo studio del Vecchio Testamento.

Il Vecchio Testamento è un libro dai molti aspetti, scritto, curato e rivisto da molti scrittori nel corso di un millennio; in esso si può rintracciare un'evoluzione notevole, dall'autoritarismo e dal nazionalismo primitivi, fino all'idea della libertà radicale dell'uomo

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e della fratellanza di tutti gli uomini. È un libro rivoluzionario; suo tema è la liberazione dell'uomo dai legami incestuosi del sangue e della terra, dalla sottomissione agli idoli, dalla schiavitù, dai padroni potenti, per la libertà dell'individuo, della nazione e di tutto il genere umano[4]. Forse noi, oggi, possiamo capire la Bibbia ebraica meglio di ogni altra epoca precedente, proprio perché viviamo in un tempo di rivoluzione in cui l'uomo, nonostante i molti errori che lo hanno portato a nuove forme di dipendenza, sta liberandosi di tutte le forme di schiavitù sociale un tempo sanzionate da “Dio” e dalle “leggi sociali”. Paradossalmente, forse uno dei libri più antichi della cultura occidentale può essere capito meglio da chi è meno nutrito di tradizione e più consapevole della natura radicale del processo di liberazione ora in atto.

Poche parole per spiegare il modo in cui mi sono accostato alla Bibbia in questo libro. Non la considero come il “verbo di Dio”, non solo perché un esame storico dimostra che si tratta di un libro scritto da uomini - uomini di vario tipo, di epoche diverse - ma anche perché non sono un teista. Tuttavia per me è un libro straordinario, che dà molte norme e principi che hanno mantenuto la loro validità per migliaia di anni. Un libro che ha annunciato all'uomo una visione tuttora valida e in attesa di realizzazione. Non fu scritto da un solo uomo né dettato da Dio: esprime il genio di un popolo in lotta per la vita e la libertà attraverso molte generazioni.

Nonostante consideri la critica storica e letteraria del Vecchio Testamento molto significativa all'interno del suo stesso ambito di riferimento, non credo sia essenziale allo scopo di questo libro, che deve aiutare a capire il testo biblico e non a fare un'analisi storica; tuttavia lo farò ogni qualvolta mi sembrerà importante riferirmi ai risultati dell'analisi storica o letteraria della Bibbia ebraica. I commentatori della Bibbia non sempre conciliarono le contraddizioni tra le varie fonti di cui si servivano. Ma dovevano essere uomini di grande penetrazione e saggezza per trasformare le molte parti in un'unità che riflettesse un processo evolutivo le cui contraddizioni sono aspetti di un insieme. La loro revisione e anche l'opera dei saggi che fecero la scelta finale delle Sacre Scritture, è in senso lato, opera d'autori.

La Bibbia ebraica, secondo me, può essere trattata come un unico libro, nonostante il fatto che sia stata compilata seguendo molte fonti. È diventata un unico libro, non solo grazie al lavoro dei vari commentatori ma anche per il fatto di essere stata letta e capita come un unico libro durante gli ultimi duemila anni. Oltre a ciò, i singoli passi cambiano di significato quando vengono trasferiti dalle loro fonti originali al nuovo contesto del Vecchio Testamento, come tutto unico. Due esempi possono spiegarlo. Nella Genesi 1: 26 Dio dice: «Facciamo l'uomo a nostra immagine». Questo, secondo molti studiosi del Vecchio Testamento, è una frase arcaica introdotta dal commentatore del Codice dei Sacerdoti senza molte variazioni. Secondo alcuni autori, la frase concepisce Dio come un essere umano. Questo può essere senz'altro vero per quanto riguarda il significato arcaico originale del testo. Ma il problema sorge sul perché il commentatore di questo passo, che senz'altro non aveva un tale concetto arcaico di Dio, non cambiasse la frase. Credo che la ragione sia che per lui la frase significava che l'uomo, essere creato a immagine di Dio, ha una natura divina. Un altro esempio è la proibizione di fare un'immagine di Dio, o di pronunciare il suo nome. Può benissimo essere che in origine questa proibizione derivasse il suo significato da un uso arcaico, ritrovato in alcuni culti semitici, che considerava tabù Dio

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e il suo nome; da qui la proibizione di riprodurre la sua immagine e di pronunciare il suo nome. Ma nel contesto di tutto il libro, il significato del tabù arcaico è stato trasformato in un nuovo concetto: cioè che Dio non è una cosa e che quindi non può essere rappresentato da un nome o da un'immagine.

Il Vecchio Testamento è il documento che raffigura l'evoluzione di una piccola nazione primitiva, i cui capi spirituali insistevano sull'esistenza di un unico Dio e sull'inesistenza degli idoli, verso una religione di fede in un Dio senza nome, nella unificazione finale di tutti gli uomini, nella completa libertà di ogni individuo.

La storia ebraica non si arrestò con la codificazione dei 24 libri del Vecchio Testamento. Andò avanti e proseguì l'intero corso dell'evoluzione di idee iniziata nella Bibbia ebraica. Ci furono due linee di continuazione: una espressa nel Nuovo Testamento, la Bibbia cristiana; l'altra nello sviluppo ebraico chiamato di solito la “tradizione orale” i saggi ebrei hanno sempre sottolineato la continuità e l'unità tra la tradizione scritta (il Vecchio Testamento) e la tradizione orale. Anche quest'ultima è stata codificata: la parte più antica, la Mishnah, verso il 200 d. C.; quella più recente, il Gemara, verso il 500 d. C. È paradossale che proprio se si considera la Bibbia per quello che significa storicamente - una scelta di scritti di molti secoli - sia facile accettare l'opinione tradizionale sulla continuità tra la tradizione scritta e quella orale. Nella tradizione orale, come nella Bibbia scritta, si trova la testimonianza di concetti espressi in uno spazio di tempo di più di 1200 anni. Se potessimo immaginare una seconda Bibbia ebraica, vi si troverebbe il Talmud, gli scritti di Maimonide, la Cabala e i racconti dei maestri hasidici. Questa raccolta di scritti comprenderebbe soltanto pochi secoli in più di quella del Vecchio Testamento, sarebbe formata da molti autori vissuti in circostanze diverse, e presenterebbe concetti e insegnamenti contraddittori come la Bibbia. Naturalmente questa seconda Bibbia non esiste e molte sono le ragioni per cui non avrebbe potuto essere compilata. Ma quello che voglio dimostrare con questa idea è che il Vecchio Testamento rappresenta lo sviluppo di concetti che si dispiegano in un lungo periodo di tempo e che questi concetti hanno continuato ancora a svilupparsi dopo la codificazione del Vecchio Testamento. Questa continuità è dimostrata con drammaticità ed evidenza in ogni pagina di un Talmud stampato oggi: vi si trovano non solo la Mishnah e il Gemara, ma anche i commentari successivi e i trattati scritti fino ad oggi, a partire da prima di Maimonide fino a dopo il Gaon di Vilna.

Sia nel Vecchio Testamento che nella tradizione orale si trovano contraddizioni, ma le contraddizioni sono di tipo in qualche modo diverso. Quelle nel Vecchio Testamento sono in gran parte dovute all'evoluzione degli ebrei da piccola tribù nomade a popolo che viveva in Babilonia e più tardi influenzato dalla cultura ellenistica. Nel periodo successivo alla redazione del Vecchio Testamento, le contraddizioni non sono dovute all'evoluzione dalla vita arcaica a quella civile, ma soprattutto alla costante frattura tra le varie tendenze opposte che vivono in tutta la storia del Giudaismo, dalla distruzione del Tempio alla distruzione da parte di Hitler dei centri di cultura tradizionale ebraica. Si tratta della frattura fra il nazionalismo e l'universalismo, il conservatorismo e il radicalismo, il fanatismo e la tolleranza. Le forze delle due tendenze - e delle molte scissioni all'interno di esse - hanno naturalmente le loro ragioni, da ricercarsi nelle condizioni specifiche dei paesi in cui il Giudaismo si è sviluppato (Palestina, Babilonia, Nord Africa e Spagna islamici, Europa medievale cristiana, Russia zarista) e nelle specifiche classi sociali da cui

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provenivano gli studiosi[5].

Le precedenti osservazioni mostrano la difficoltà dell'interpretazione della Bibbia e della tradizione ebraica posteriore. Interpretare un processo evolutivo significa dimostrare lo sviluppo di certe tendenze che si sono rivelate nel processo di evoluzione. Questa interpretazione rende necessaria la scelta di quegli elementi che costituiscono la corrente principale, o per lo meno una corrente principale del processo evolutivo; significa considerare certi fatti e sceglierne alcuni fra i più significativi. Una storia che attribuisce la stessa importanza a tutti i fatti non è altro che un elenco di avvenimenti e non dà loro un senso. Scrivere una storia vuol dire sempre interpretarla. Il problema è che l'interprete abbia una conoscenza e un rispetto per i fatti, sufficienti ad evitare il pericolo di scegliere dati che sostengano una tesi predeterminata. L'unica condizione che l'interpretazione contenuta nelle pagine seguenti deve soddisfare è che i passi della Bibbia, del Talmud e della letteratura ebraica posteriore non siano espressioni rarefatte e insolite, ma affermazioni fatte da figure rappresentative e parti di una linea di pensiero coerente e in sviluppo. Inoltre non devono essere ignorate le affermazioni contraddittorie, ma invece prese per quello che sono, frammenti di un insieme in cui esistevano l'una accanto all'altra linee di pensiero contraddittorie, compresa quella messa in rilievo in questo libro. Richiederebbe un lavoro di portata molto più vasta dare una dimostrazione che il pensiero umanistico radicale è l'unico che segni gli stadi principali dell'evoluzione della tradizione classica, mentre la corrente conservatrice-nazionalistica è ciò che resta di relativamente immutato di tempi più antichi, mai fatto partecipe dell'evoluzione progressiva del pensiero ebraico nel suo contributo ai valori umani universali.

Sebbene io non sia un esperto nel campo degli studi biblici, questo libro è il frutto di molti anni di riflessione, dato che ho studiato il Vecchio Testamento e il Talmud fin da bambino. Pure, non avrei osato pubblicare queste osservazioni sulla Scrittura se nel mio orientamento fondamentale allo studio della Bibbia e della tradizione ebraica posteriore non avessi avuto per maestri grandi studiosi rabbinici, tutti rappresentanti dell'ala umanistica della tradizione ebraica e ebrei rigorosamente osservanti, ma molto diversi l'uno dall'altro. Ludwig Krause, un tradizionalista poco toccato dal pensiero moderno; Nehemia Nobel, un mistico, profondamente impregnato del misticismo ebraico e del pensiero umanistico occidentale; Salman B. Rabinkow, legato alla tradizione hasidica, socialista e studioso moderno. Sebbene nessuno di essi abbia lasciato scritti notevoli, erano molto conosciuti come studiosi del Talmud fra i più autorevoli viventi in Germania prima dell'olocausto nazista. Non essendo un ebreo praticante o “credente”, io sono naturalmente in una posizione molto diversa dalla loro, e tanto meno oserei considerarli responsabili delle opinioni espresse in questo libro. Tuttavia queste mie opinioni si sono sviluppate dal loro insegnamento, e sono convinto che non si è interrotta in nessun punto la continuità tra questo e le mie idee. Sono stato anche incoraggiato a scrivere questo libro dall'esempio del grande kantiano Hermann Cohen che, nel suo Die Religion der Vernunft aus den Quellen des Judentums seguì il metodo di considerare il Vecchio Testamento e la tradizione ebraica posteriore come un tutto unico. Anche se questa opera di poco valore non può paragonarsi al suo importante capolavoro, e se le mie conclusioni a volte divergono dalle sue, sono stato influenzato fortemente dal suo modo di affrontare la Bibbia.

L'interpretazione della Bibbia data in questo libro è quella dell'umanesimo radicale. Con

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“umanesimo radicale” mi riferisco a una filosofia globale che sottolinea l'unicità della razza umana, la capacità dell'uomo di sviluppare le proprie potenzialità, di raggiungere un'armonia interiore e l'equilibrio di un mondo pacifico. L'umanesimo radicale considera lo scopo dell'uomo una completa indipendenza; ciò implica pervenire, al di là delle finzioni e degli inganni, a una piena consapevolezza della realtà, e inoltre un atteggiamento di scetticismo verso l'uso della forza, proprio perché durante la storia dell'uomo è stata ed è tuttora la forza (l'indurre paura) a render l'uomo incapace di indipendenza, deformandone così la ragione e i sentimenti.

Se è possibile scoprire le basi dell'umanesimo radicale nelle più antiche fonti bibliche, è soltanto perché conosciamo l'umanesimo radicale di Amos, di Socrate, degli umanisti rinascimentali, dell'Illuminismo, di Kant, Herder, Lessing, Goethe, Marx, Schweitzer. Il seme diventa chiaramente riconoscibile solo se se ne conosce il fiore; la prima fase deve spesso essere interpretata con l'aiuto della seguente, anche se, geneticamente, la prima precede la successiva.

Esiste un altro aspetto dell'interpretazione umanistica radicale da considerare. I concetti, specialmente se non si tratta solo di quelli di un unico individuo ma di quelli incorporati al processo storico, hanno le loro radici nella vita reale della società. Per cui, se si sostiene che il concetto dell'umanesimo radicale è una tendenza importante nella tradizione biblica e post-biblica, si deve sostenere anche che già nella storia degli ebrei esistevano le condizioni fondamentali che avrebbero dato origine all'esistenza e allo sviluppo della tendenza umanistica. Ci sono tali condizioni fondamentali? Credo che ci siano e che non sia difficile scoprirle. Gli ebrei detennero un potere secolare efficace e autoritario soltanto per un breve periodo di tempo, di fatto, per poche generazioni. Dopo i regni di David e Salomone, la pressione delle grandi potenze del nord e del sud arrivò a tali dimensioni che Giuda e Israele vissero sotto la minaccia sempre crescente di venir conquistati. E, in effetti, conquistati furono, senza potersi riprendere. Perfino quando più tardi gli ebrei ebbero un'indipendenza politica formale, costituivano un piccolo satellite impotente, soggetto a grandi potenze. Quando infine i Romani posero fine al loro stato dopo che R.∗ Yohanan ben Zakkai passò dalla loro parte - con l'unica richiesta di aprire un'accademia a Jabne per educare le future generazioni di studiosi rabbinici - emerse un Giudaismo senza re né sacerdoti, già sviluppatosi nei secoli, dietro una facciata che ebbe dai Romani soltanto il colpo decisivo. I profeti che avevano denunciato l'ammirazione idolatra per il potere secolare furono vendicati dal corso della storia. Perciò furono gli insegnamenti profetici e non lo splendore di Salomone a costituire l'influenza dominante e duratura sul pensiero ebraico. Da allora in poi gli ebrei come nazione non hanno più riconquistato il potere. Al contrario, la maggior parte della loro storia è fatta di sofferenze inferte da coloro che furono capaci di servirsi della forza. Indubbiamente la loro posizione poteva anche - e così è accaduto - dare origine a risentimenti nazionali, chiusura faziosa, arroganza: questa è la base dell'altra tendenza all'interno della storia ebraica sopra citata.

Ma non è naturale che la storia della liberazione dalla schiavitù in Egitto, i discorsi dei grandi profeti umanisti, abbiano trovato una eco nei cuori di uomini che avevano sperimentato la forza soltanto subendola, e mai esercitandola? Non è sorprendente che la visione profetica di un'umanità unita e pacifica, di giustizia per i poveri e gli indifesi, trovasse un suolo fertile tra gli ebrei e che non fosse mai dimenticata? Che quando le mura

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dei ghetti caddero al suolo, gli ebrei, in numero sproporzionatamente grande, fossero tra coloro che proclamavano gli ideali di internazionalismo, pace e giustizia? Quella che da un punto di vista umano è stata la loro tragedia - la perdita della loro terra e del loro stato - dal punto di vista umanistico fu la più grande benedizione: essendo fra chi soffre ed è disprezzato, furono capaci di svilupparsi e di mantenere una tradizione di umanesimo.

(ritorna all'indice)

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II.

IL CONCETTO DI DIO

I termini e i concetti che si riferiscono ai fenomeni collegati all'esperienza psichica e mentale si sviluppano e crescono - o si deteriorano - con la persona alla cui esperienza si riferiscono: si trasformano e hanno vita nella stessa misura.

Se un ragazzino di sei anni dice a sua madre « Ti voglio bene », usa la parola “bene” per indicare l'esperienza che ne ha a sei anni. Quando il bambino è cresciuto e diventato un uomo, le stesse parole dette alla donna che ama avranno un significato diverso, che esprime la più ampia sfera, la maggiore profondità, la libertà e attività più grandi che contraddistinguono l'amore di un uomo da quello di un bambino. Purtuttavia, sebbene l'esperienza alla quale il termine “amore” si riferisce sia diversa, ha un'origine comune, proprio come l'uomo è diverso dal bambino e insieme lo stesso.

Permanenza e cambiamento esistono simultaneamente in ogni essere umano, per cui permanenza e cambiamento si trovano in ogni concetto che rifletta l'esperienza di un essere vivente. Tuttavia se i concetti abbiano una esistenza propria e si sviluppino, si può capire soltanto quando non vengano separati dall'esperienza che esprimono. Se il concetto diventa alienato - cioè si separa dall'esperienza alla quale si riferisce - perde la sua realtà e si trasforma in un prodotto artificiale della mente umana. Si crea così la finzione, per cui chiunque si serva del concetto si riferisce al substrato di esperienza che sta alla sua base. Una volta che questo accade - e questo processo di alienazione dei concetti è la regola e non l'eccezione - il concetto che esprime un'esperienza si è trasformato in un'ideologia che usurpa il posto della realtà sottostante dell'essere umano vivente. La storia allora diventa una storia di ideologie piuttosto che la storia del concreto, di uomini reali creatori dei loro concetti.

Le precedenti considerazioni sono importanti se si vuole capire il concetto di Dio, e anche la posizione in base alla quale sono state scritte queste pagine. Io credo che il concetto di Dio sia stato un'espressione storicamente condizionata di un'esperienza interiore. Posso capire quello che la Bibbia o le persone sinceramente religiose vogliono dire quando parlano di Dio, ma non condivido il loro pensiero; io credo che il concetto «Dio» sia stato determinato dalla presenza di una struttura socio-politica in cui capi tribali o re avevano il potere supremo. Il

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valore supremo è concettualizzato come analogo al potere supremo nella società.

“Dio” è una delle numerosissime espressioni poetiche dell'umanesimo di più alto valore, non una realtà in se stesso. È inevitabile tuttavia che, parlando del pensiero di un sistema monoteistico, io mi serva spesso del termine “Dio”, senza aggiungere ogni volta la mia riserva personale. Per cui voglio chiarire la mia posizione fin dall'inizio. Se potessi definirla approssimativamente, direi che si tratta di un misticismo non-teistico.

A quale realtà dell'esperienza umana si riferisce il concetto di Dio? Il Dio di Abramo è lo stesso Dio di Mosè, di Isaia, di Maimonide, di Meister Eckhart, di Spinoza? E se non è lo stesso, esiste comunque un substrato esperienziale comune al concetto adoperato da questi vari uomini, o può darsi che sebbene questa base comune esista per alcuni, non esista per altri?

Che sia così facile che un'idea - espressione concettuale di un’esperienza umana - si trasformi in un'ideologia, si spiega non soltanto con la paura dell'uomo di compromettersi fino in fondo nell'esperienza, ma anche con la natura stessa del rapporto fra esperienza e idea (concettualizzazione). Un concetto non può mai esprimere in modo adeguato l'esperienza a cui si riferisce: la indica, ma non è. Come dicono i buddhisti Zen, è «il dito che indica la luna» - non è la luna. Una persona si può riferire alla propria esperienza con il concetto a o il simbolo x; un gruppo di persone può usare il concetto a o il simbolo x per denotare un'esperienza comune che esse condividono. In questo caso, anche se il concetto non è alienato dall'esperienza, esso o il simbolo sono solo un'espressione approssimativa dell'esperienza. È necessariamente così poiché non esiste esperienza personale che sia mai identica a quella di un altro, può solo avvicinarvisi in modo da permettere l'uso di un simbolo o di un concetto comune. (Infatti perfino l'esperienza di una persona non è mai uguale a se stessa nelle varie occasioni, perché nessuno è esattamente lo stesso in due momenti diversi della propria vita). Il concetto e il simbolo hanno il grande vantaggio di permettere alle persone di comunicare le proprie esperienze, ma il tremendo svantaggio di prestarsi facilmente ad un uso alienato.

Inoltre un altro fattore contribuisce allo sviluppo dell'alienazione e dell' “ideologizzazione”. Sembra che si tratti di una tendenza inerente al pensiero umano tentare di sistematizzare e di completare. (La radice di questa tendenza sta nella ricerca di certezza dell'uomo - una ricerca abbastanza comprensibile se si considera in rapporto alla natura precaria dell'esistenza umana). Quando conosciamo dei frammenti di realtà, vogliamo completarli in modo che “abbiano un senso” sistematicamente. Tuttavia per la natura stessa dei limiti dell'uomo abbiamo sempre soltanto una conoscenza “frammentaria” e mai completa. Quello che siamo portati a fare allora è costruire alcune parti addizionali da aggiungere ai frammenti per costituirli in una totalità, in un sistema. Spesso manca la coscienza della differenza qualitativa fra i “frammenti” e le “aggiunte” per l'intensità del desiderio di certezza.

Si può riscontrare spesso questo processo perfino nello sviluppo della scienza. In molti sistemi si trovano interpretazioni effettive della realtà mescolate a parti inventate aggiunte, intese a formare un testo sistematico. Solo più tardi, in un momento di sviluppo successivo, si riconosce chiaramente quali erano le parti vere ma frammentarie di

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conoscenza e quali l' “imbottitura” aggiunta per dare al sistema una maggiore plausibilità. Lo stesso processo avviene nell'ideologia politica. Quando durante la Rivoluzione francese la borghesia combatteva per la propria libertà, questo avveniva nell'illusione di combattere per la libertà universale e per la felicità come principi assoluti, e quindi applicabili a tutta l'umanità.

Troviamo ancora lo stesso processo nella storia dei concetti religiosi. Al tempo in cui l'uomo aveva una conoscenza frammentaria della possibilità di risolvere il problema dell'esistenza umana con lo sviluppo completo dei propri poteri umani; quando intuiva di poter trovare l'armonia progredendo verso il pieno dispiegarsi dell'amore e della ragione e non con il tragico tentativo di regredire alla natura eliminando la ragione, attribuì a questa nuova visione, a questa x, molti nomi: Brahama, Tao, Nirvana, Dio. Questo sviluppo avvenne in tutto il mondo durante il millennio fra il 1500 a. C. e il 500 a. C.[6], in Egitto, Palestina, India, Cina, Grecia. La natura della diversità di questi vari concetti dipendeva dalle basi economiche, sociali e politiche delle rispettive culture e classi sociali, e dai tipi di pensiero da loro derivanti. Ma la x, il fine, fu presto convertito in un assoluto; vi fu costruito intorno un sistema, gli spazi bianchi riempiti da molte supposizioni fittizie, finché quello che era comune nella visione quasi scomparve sotto il peso delle “aggiunte” fittizie prodotte da ogni sistema.

Ogni progresso nella scienza, nelle idee politiche, nella religione e nella filosofia, tende a creare delle ideologie che competono e lottano le une con le altre. Inoltre questo processo è aiutato dal fatto che appena il sistema di pensiero diventa il nucleo di un'organizzazione, sorgono i burocrati che, per tenere e controllare il potere, vogliono accentuare le differenze più che ciò che è comune, e che sono quindi interessati a fare aggiunte fittizie altrettanto - o più - importanti dei frammenti originali. Perciò la filosofia, la religione, le idee politiche e talvolta anche la scienza, sono trasformate in ideologie, controllate dai rispettivi burocrati.

Il concetto di Dio nel Vecchio Testamento nasce e si evolve di pari passo all'evoluzione di un popolo, in uno spazio di tempo di 1200 anni. Esiste un elemento comune di esperienza riguardo al concetto di Dio, ma c'è un cambiamento costante anche in questa esperienza, e di conseguenza nel significato del termine e del concetto. In comune è l'idea che né la natura né i prodotti dell'uomo costituiscono l'ultima realtà o il valore più alto, ma che solo l'UNO rappresenta il valore e lo scopo supremi dell'uomo: ritrovare l'unione con il mondo tramite la potenzialità delle capacità specificatamente umane di amore e di ragione. Il Dio di Abramo e il Dio di Isaia hanno in comune le qualità essenziali dell'Unità, tuttavia si differenziano nella stessa misura in cui si differenzia un capo incivile, primitivo, di una tribù nomade, da un pensatore universalista di uno dei centri di cultura mondiale un millennio più tardi. C'è uno sviluppo e un'evoluzione del concetto di Dio che accompagnano lo sviluppo e l'evoluzione di una nazione; hanno un nucleo in comune ma le differenze che aumentano nel corso dell'evoluzione storica sono così grandi che spesso sembrano superare gli elementi comuni.

Nel primo stadio di questa evoluzione, Dio è concepito come signore assoluto. Egli ha creato la natura e l'uomo, e se non li ama può distruggere ciò che è opera sua. Tuttavia questo potere assoluto di Dio sull'uomo è controbilanciato dal concetto che l'uomo è il suo rivale

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potenziale. L'uomo potrebbe diventare Dio se solo mangiasse dell'albero della conoscenza e dell'albero della vita. Il frutto dell'albero della conoscenza dà all'uomo la saggezza di Dio; il frutto dell'albero della vita la Sua immortalità. Incoraggiati dal serpente, Adamo ed Eva mangiano il frutto dell'albero della conoscenza e compiono così il primo passo. Dio sente minacciata la sua posizione di supremazia. Egli dice: « Ecco, l'uomo è diventato come uno di noi nella conoscenza del bene e del male. Ora dunque, che egli non stenda la mano e non colga anche dell'albero della vita e ne mangi e viva in eterno... » (Gn. 3: 22). Per proteggersi da questo pericolo Dio scaccia l'uomo dal Paradiso e limita la sua esistenza a un massimo di 120 anni.

L'interpretazione cristiana dell'atto di disobbedienza dell'uomo come “caduta” ne ha offuscato il chiaro significato. Il testo biblico non menziona affatto la parola “peccato”; l'uomo sfida il supremo potere di Dio, e lo può fare perché è potenzialmente Dio. Il primo atto dell'uomo è di ribellione, e Dio lo punisce perché si è ribellato e perché vuole conservare la Sua supremazia. Deve proteggerla con un atto di forza, scacciando Adamo ed Eva dal Giardino dell'Eden impedendo così loro di compiere il secondo passo verso l'essere-come-Dio, mangiando dell'albero della vita. L'uomo deve cedere di fronte alla forza superiore di Dio, ma non esprime rimpianto o pentimento. Scacciato dal Giardino dell'Eden, comincia la sua vita indipendente; il suo primo atto di disobbedienza è l'inizio della storia umana, perché è l'inizio della libertà umana.

Non è possibile capire l'evoluzione ulteriore del concetto di Dio, se non si capisce la contraddizione inerente al concetto precedente. Sebbene sia il signore supremo, Dio ha creato una creatura che è il suo rivale potenziale; fin dal primo inizio della sua esistenza l'uomo è il ribelle e reca in se stesso, in potenza, la propria divinità. Come vedremo, più va avanti, più si libera dalla supremazia di Dio e più può diventare come Lui[7]. Tutta l'evoluzione successiva del concetto di Dio limita il suo ruolo di padrone dell'uomo.

Una volta ancora Dio appare nel testo biblico come il signore arbitrario che può fare con le sue creature quello che il vasaio fa con un vaso che non gli piace. Poiché l'uomo è “malvagio”, Dio decide di distruggere la vita sulla terra[8]. Questo racconto nel suo svolgersi porta tuttavia al primo importante cambiamento del concetto di Dio. Dio “si pente” della sua decisione e vuole salvare Noè, la sua famiglia, e ogni specie di animale. Ma il punto decisivo sta nel fatto che Dio conclude un patto (berit) simbolizzato dall'arcobaleno, con Noè e con tutti i suoi discendenti. «Io faccio un patto con voi, che non sarà più distrutta alcuna carne dalle acque del diluvio e non vi sarà più alcun diluvio a distruggere la terra» (Gn. 9: 11) . Il concetto del patto fra Dio e l'uomo può avere un'origine arcaica che risale a quando Dio era solo un'idealizzazione dell'uomo, forse non troppo diverso dagli dèi olimpici greci - un Dio che ha le virtù e i vizi umani e che può essere dagli uomini sfidato. Ma nel contesto in cui i commentatori della Bibbia hanno inserito la storia del patto, il suo significato non è quello di una regressione a forme più arcaiche del concetto di Dio, ma di un progresso a una visione molto più sviluppata e matura. Il concetto del patto costituisce, in effetti, uno dei passi più decisivi nello sviluppo del Giudaismo, passo che prepara la strada al concetto della completa libertà dell'uomo, libertà anche da Dio.

Con la conclusione del patto, Dio cessa di essere il signore assoluto: è diventato socio dell'uomo in un contratto, si è trasformato da sovrano, “assoluto” a sovrano

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“costituzionale”; è legato come l'uomo alla costituzione; ha perduto la libertà di essere arbitrario, e l'uomo ha conquistato la libertà di poter sfidare Dio nel nome delle sue stesse promesse, dei princìpi stabiliti nel patto. È solo un accordo, ma fondamentale: Dio si obbliga a un rispetto assoluto per la vita dell'uomo e di tutte le creature viventi. Il diritto di vivere è stabilito come la prima legge, che neppure Dio può mutare. È importante notare che il primo patto (nella redazione finale della Bibbia) è tra Dio e il genere umano, non tra Dio e la tribù ebraica. La storia degli ebrei è concepita solo come una parte della storia dell'uomo; il principio del «rispetto per la vita»[9] precede ogni altra promessa specifica a una tribù o nazione particolari.

Questo primo patto fra Dio e il genere umano è seguito da un secondo, tra Dio e gli ebrei[10]. Nella Genesi, 12: 1-3, il patto è già indicato: «Vattene dalla tua terra, dal tuo parentado, dalla casa di tuo padre, verso la terra che ti mostrerò. Io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò glorioso il tuo nome e sarai una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e maledirò coloro che ti malediranno; in te saranno benedette tutte le famiglie della terra». In queste ultime parole ritroviamo l'espressione dell'universalismo. La benedizione non servirà soltanto alla tribù di Adamo ma è estesa a tutta la famiglia umana. In seguito la promessa di Dio a Abramo si stende in un patto che promette ai suoi discendenti la terra fra il fiume d'Egitto e il fiume Eufrate. Questo patto si ritrova in un'ampia versione della Genesi 17: 7-10.

L'espressione più drammatica delle conseguenze radicali del patto si trova nella discussione di Abramo con Dio, quando Dio vuole distruggere Sodoma e Gomorra per la loro « malvagità »[11]. Quando Dio parla ad Abramo delle sue intenzioni, Abramo gli si accosta e dice: « Farai tu perire il giusto insieme con l'empio? Forse vi saranno cinquanta giusti in quella città. Farai tu perire e non piuttosto perdonerai a quel luogo, per riguardo ai cinquanta giusti che sono in esso? Lungi da te fare una tal cosa, far perire il giusto insieme con l'empio, trattare il giusto alla pari dell'empio; lungi da te. Il giudice di tutta la terra non giudicherebbe secondo giustizia ». Allora il Signore rispose: « Se troverò dentro la città di Sodoma cinquanta giusti, per riguardo a loro perdonerò a tutto il luogo ». Abramo replicò « Ecco, benché io sia polvere e cenere, mi permetto di insistere presso il mio Signore. Forse mancheranno cinque giusti a quei cinquanta. Farai tu perire tutta la città per quei cinque? » Rispose: « Non la distruggerò se ve ne troverò quarantacinque ». Ed egli continuò ancora a parlare dicendo: « Forse ve ne saranno quaranta ». Rispose: « Non lo farò per riguardo a quei quaranta ». Disse egli ancora: « Di grazia, non si adiri il mio Signore se continuo a parlare: Forse ce ne saranno trenta ». Rispose: « Non lo farò se ve ne troverò trenta ». Disse: « Ecco mi permetto di insistere presso il mio Signore: Forse ve ne saranno venti». Rispose: « Per riguardo a quei venti, non la distruggerò ». Disse egli: « Di grazia non si adiri il mio Signore se parlo ancora una volta. Forse se ne troveranno dieci ». Rispose: «Per riguardo a quei dieci io non la distruggerò».

Genesi 18: 23-32

« Il giudice di tutta la terra non giudicherebbe secondo giustizia ». Questa frase segna il

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cambiamento fondamentale del concetto di Dio derivante dal patto. Con un linguaggio rispettoso, ma con l'audacia di un eroe, Abramo spinge Dio a osservare i principi di giustizia. Il suo non è l’atteggiamento di un umile che supplica, ma di un uomo fiero che ha il diritto di esigere da Dio che osservi il principio di giustizia. Il linguaggio stesso di Abramo si muove con abilità consumata tra rispetto formale e sfida - cioè tra la terza persona singolare (« Non si adiri il mio Signore... ») e la seconda persona (« Farai tu perire tutta la città per quei cinque? »).

Con la sfida di Abramo si aggiunge un nuovo elemento alla tradizione biblica e ebraica successiva; proprio perché Dio è legato alle norme della giustizia e dell'amore, l'uomo non è più il suo schiavo.

L'uomo può sfidare Dio - come Dio può sfidare l'uomo - perché sopra di essi sono i princìpi e le norme. Anche Adamo ed Eva sfidarono Dio, per disobbedienza, ma dovettero cedere; Abramo sfida Dio non per disobbedienza ma per accusarlo di violare le sue stesse promesse e i suoi princìpi[12]. Abramo non è un Prometeo ribelle, è un uomo libero che ha il diritto di chiedere, mentre Dio non ha il diritto di rifiutare.

Si arriva alla terza fase dell'evoluzione del concetto di Dio con la rivelazione di Dio a Mosè. Anche a questo punto, però, non tutti gli elementi antropomorfici sono scomparsi. Al contrario, ancora Dio « parla », « dimora su una montagna », più tardi scriverà la legge su due tavole. In tutta la Bibbia Dio è descritto con un linguaggio antropomorfico. Di nuovo c'è il fatto che Dio si rivela come il Dio della storia e non come il Dio della natura, e soprattutto la distinzione fra Dio e un idolo trova la sua massima espressione nel concetto di un Dio senza nome.

In seguito discuteremo più in particolare la storia della liberazione dall'Egitto. Per ora sarà sufficiente ricordare che nel corso di questo racconto, Dio fa ripetute concessioni alle varie richieste di Mosè: gli ebrei pagani non possono capire il linguaggio della libertà e il concetto di un Dio che si riveli solo come il Dio della storia, senza darsi un nome, e che dice: « Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe » (Es. 3: 6). Gli ebrei non crederanno in lui: « e Mosè disse a Dio, “Ecco, quando sarò giunto dai figli di Israele e avrò detto loro: È il Dio dei vostri padri che mi ha mandato da voi, se essi mi domanderanno, Qual è il suo nome?, che risponderò loro?” » (Es. 3: 13). L'obiezione di Mosè viene accettata. L'essenza stessa di un idolo sta nel fatto che ha un nome; ogni cosa ha un nome perché è intera nello spazio e nel tempo. Per gli ebrei, abituati al concetto di idolatria, un Dio della storia senza nome non poteva avere senso, poiché un idolo senza nome è una contraddizione in se stesso. Dio se ne rende conto e fa una concessione alla capacità di capire degli ebrei. Si dà un nome e dice a Mosè: « “IO SONO COLUI CHE SONO”. Poi disse: “Così dirai ai figli d'Israele: L'IO SONO mi ha mandato da voi” ». (Es. 3: 14).

Cosa vuol dire questo nome particolare che Dio si dà? Il testo ebraico dice EHEYEK asher EHEYEK; oppure « Eheyeh mi ha mandato da voi ».

Eheyeh è la prima persona del tempo imperfetto del verbo ebraico « essere ». Dobbiamo ricordare che in ebraico non esiste un tempo presente, ma soltanto due forme

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fondamentali: perfetto e imperfetto. Il presente si può formare con l'uso del participio, come in inglese « Ι am writing », ma non esiste un tempo corrispondente a « Io scrivo ».Tutte le relazioni di tempo sono espresse da certe alterazioni secondarie del verbo[13]. Di base, un'azione viene vissuta come se fosse finita ο non finita, cioè, al perfetto ο all'imperfetto. Con le parole che denotano azioni del mondo fisico, il perfetto implica necessariamente il passato. Se ho terminato di scrivere una lettera, la mia azione è finita: è nel passato. Ma con le attività di natura non-fisica, come il conoscere, per esempio, la cosa è diversa. Se io ho finito di imparare, non è necessariamente nel passato, ma il perfetto di conoscere può - e spesso accade - significare in ebraico « Conosco completamente », « Capisco fino in fondo ». Lo stesso dicasi per i verbi come “amare” e simili[14].

Considerando il “nome” di Dio, l'importanza del Eheyeh sta nel fatto che è l'imperfetto del verbo “essere”. Dice che Dio è, ma che il suo essere non è finito come quello di una cosa, è un processo vivente, un divenire; solo una cosa, cioè, che abbia raggiunto la sua forma finale può avere un nome. La traduzione libera della risposta di Dio a Mosè sarebbe « Il mio nome è Senzanome; di’ loro che Senzanome ti ha mandato »[15]. Solo gli idoli hanno un nome, perché sono delle cose. Il Dio « vivente » non può avere un nome. In Eheyeh troviamo un compromesso ironico tra la concessione di Dio all'ignoranza del popolo e la sua convinzione di dover essere un Dio senza nome.

Questo Dio che si manifesta nella storia non può essere rappresentato da nessun tipo di immagine: né da quella di un suono - cioè un nome - né da quella di pietra ο di legno. Questo divieto di rappresentare in qualsiasi modo Dio è espresso chiaramente nei Dieci Comandamenti, che proibiscono all'uomo di prostrarsi davanti ad alcuna « scultura, ne immagine alcuna delle cose che sono nel cielo in alto ο sulla terra in basso, ο nelle acque sotto la terra ». (Es. 20: 4). Questo comandamento è uno dei princìpi fondamentali della “teologia” ebraica.

Sebbene Dio sia stato designato con un nome paradossale (YHWH), anche questo “nome” non deve essere pronunciato « invano », come dicono i Dieci Comandamenti. Nahamides, nel suo commentario, spiega questo “invano” con il significato di “senza scopo”; la tradizione ebraica successiva e la pratica religiosa hanno chiarito cosa volesse dire questo “senza scopo”. Gli ebrei osservanti anche oggi non pronunciano lo YHWH e dicono invece Adonai, che significa “mio Signore”; ma non dicono neanche Adonai se non pregando ο leggendo le Scritture, e lo sostituiscono con Adoshem (la prima lettera di Adonai più la parola shem che significa semplicemente “nome”) ogni volta che parlano di Dio. Anche quando scrivono Dio in una lingua straniera, per esempio in inglese, un ebreo osservante scriverà “G'd” per non pronunciare il nome di Dio invano. In altri termini, secondo la tradizione ebraica il divieto biblico di rappresentare Dio in qualsiasi modo e di servirsi del Suo nome invano, significa che si può parlare a Dio pregando, nell'atto di unirsi a Dio, ma non si può parlare di Dio per non trasformarlo in un idolo[16]. La conseguenza di questo divieto verrà trattata nel seguito di questo capitolo, riguardo alla possibilità della “teologia”.

(ritorna all'indice)

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segue ......... da pag. 26

[1] Per una breve e concisa storia letteraria del Vecchio Testamento, consiglio Robert H. Pfeiffer, The Books of the Old Testament, II ediz. (New York: Harper & Row, 1948).

[2] La lettura del Pentateuco è seguita da un capitolo di scritti profetici, così da collegare lo spirito del Pentateuco con quello dei Profeti.

[3] La spiegazione di Rashi della prima frase della Bibbia è un esempio significativo: «La ragione per cui si comincia con la creazione è giustificare l'assegnazione della Terra Santa a Israele; essendo Dio il Creatore del Mondo, può assegnare una qualsiasi parte di esso a chiunque Egli desideri». La limitatezza del commento di Rashi è impressionante. Dove il testo parla della creazione del mondo, Rashi pensa al diritto ebraico su Israele e, secondo la tradizione feudale, dimostra che Dio, come padrone del mondo intero, ha il diritto di dare una parte di terra a chiunque voglia. (Questa e tutte le successive traduzioni dei commentari alla Bibbia sono citate dal Chumash di Soncino, pubblicato a cura di A. Cohen [Hindhead, Surrey: The Soncino Press, 1947]).

[4] È stato il carattere rivoluzionario del Vecchio Testamento a farne guida delle sette rivoluzionarie cristiane prima e dopo la Riforma.

[5] La distinzione tra l' “ala destra” e l' “ala sinistra” è espressa con la massima chiarezza in due fra i più antichi rappresentanti dei Farisei: Hillel e Shammai. Quando un pagano andò da Shammai per chiedergli di spiegargli tutta la Torah stando su una gamba, Shammai lo buttò fuori. Quando andò con la stessa richiesta da Hillel, ricevette la seguente risposta: «L'essenza della Torah è il comandamento: Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te - il resto è solo un commentario. Va' e studia». In un ottimo libro The Pharisees (Philadelphia: The Jewish Publication Society of America, 1962), Louis Finkelstein ha fatto vedere le differenze fra l'ala destra e l'ala sinistra nei Farisei e ha analizzato il loro ambiente sociale. Per uno studio approfondito di queste due “scuole di pensiero” ebraiche medievali, si veda Jacob Katz, Exclusiveness and Tolerance (Oxford: Oxford University Press, 1961).

∗ L'iniziale “R.” sta per “Rabbi” (Rabbino) [N.d.T.].

[6] Cf. La concezione di Karl Jasper dell'«età assiale».

[7] Da un punto di vista storico si può dedurre che il testo biblico trae origine da antichissime tradizioni nelle quali Dio non è ancora il signore supremo e l'uomo vi rappresenta più antiche divinità che ancora contestano la sua supremazia. Anche se è probabile che sia così, non ha la minima importanza dal punto di vista del nostro metodo di interpretazione, che accetta l'ultimo testo riveduto, come un tutto unificato. I commentatori del testo volendo avrebbero potuto eliminare i passi arcaici. Ma non lo hanno fatto, e hanno lasciato le contraddizioni interne alla figura di Dio, da cui deriva la figura di Dio drasticamente mutata che ritroviamo più tardi.

[8] Considerando che questa decisione segue una sentenza arcaica riguardante i «figli degli dèi» che generano «con le sorelle dell'uomo», può essere che la «malvagità» dell'uomo stia prima di tutto nel fatto che minaccia la supremazia di Dio.

Si può pensare lo stesso dell'episodio della Torre di Babele, in cui Dio si oppose a un genere umano riunito: «e non sarà precluso ad essi quanto è venuto loro in mente di fare» (Gn. 11: 6). Per impedire che ciò avvenga Dio confonde le loro lingue e li disperde dovunque.

[9] Cf. la tesi centrale di Alberi Schweitzer.

[10] Il patto con Abramo proviene dalla fonte J, quello con Noè dalla fonte E, quindi la storia del patto con Abramo precederebbe storicamente quella del patto con Noè. Ma secondo ciò che è stato detto all'inizio, non ha importanza per la nostra analisi. Il redattore ultimo della Genesi ha riunito le due fonti in modo tale che il patto con il genere umano precede quello con la tribù ebraica. Aveva le sue buone ragioni per farlo e il libro sussiste nel modo in cui a lui sembrò opportuno.

[11] Il concetto della natura della colpevolezza di Sodoma e Gomorra rivela un interessante sviluppo nella tradizione ebraica. Il testo biblico parla di omosessualità ed è chiaramente questo il significato del testo, interpretato così anche da Rashi, Abraham Ιbn Ezra (n.

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1092), Rashbam (R. Samuel ben Meir, 1085-1174). Nahman (R. Moshe ben Nahman, 1194-1270), invece, interpreta il testo come se lo scopo degli abitanti di Sodoma e Gomorra fosse di tener lontani gli stranieri per conservare la propria ricchezza. Questa interpretazione si avvicina alla definizione talmudica secondo cui la malvagità di Sodoma e Gomorra consisteva nel non voler fare alcunché che « desse all'altro piacere e non recasse danno a se stesso ».

[12] Ci si può domandare perché Abramo arrivi a difendere fino a dieci uomini giusti e non chieda di risparmiare la città anche per riguardo a un sol uomo. Secondo me la ragione sta nel concetto che dieci uomini siano il minimo per costituire un'entità sociale e che l'argomento di difesa di Abramo si basi sul fatto che Dio non può distruggere un'intera città fino a che vi si trovi un nucleo che non sia malvagio. Il concetto del nucleo si ritrova anche nei profeti riguardo a Israele, e nella concezione talmudica dei « trentasei giusti », la cui esistenza in ogni generazione è necessaria per la sopravvivenza del genere umano.

[13] Cf. Gesenius, Hebrew Grammar, II ed. inglese, riveduta sulla 28ª ed. tedesca (1909) da A. E. Cowley (Oxford: Clarendon Press, 1910), ρ. 117.

[14] Il Salmo 116 è un esempio significativo: comincia con il versetto Ahavti ki yishma Adonai et koli tahanunai. La prima parola è il perfetto di ahob (= amare). Significa « io amo completamente »; poi il versetto continua, « perché il Signore ha ascoltato la voce delle mie suppliche ». La traduzione abituale “io amai” non ha molto senso nel contesto. Anche se la grammatica ebraica era molto nota ai traduttori della Bibbia cristiani ed ebrei, essi fecero numerosi errori nel tradurre versetti come questo, evidentemente perché non potevano liberarsi dal senso del tempo dominante nelle lingue europee, che ha forme per esprimere sia il tempo che la qualità dell'azione compiuta.

[15] Il significato di un Diο senza nome è stato capito profondamente da Meister Eckhart. « Il termine finale dell'essere » disse « è l'oscurità del non-conoscere la Divinità nascosta, in cui splende questa luce, e questa oscurità non la comprese. Così Mosè disse: “Colui che mi ha mandato” (Es. 3: 14). Egli che è senza un nome, e che mai ebbe un nome, ragione per cui il profeta disse: “Veramente tu sei un Dio nascosto” (Is. 45: 15) nel terreno dell'anima dove il terreno di Dio e dell'anima sono un unico terreno. Più uno Ti cerca, meno uno Ti può trovare. Dovresti cercarlo come per non trovarlo mai. Se tu non Lο cerchi, Lo troverai » (James Μ. Clark, Meister Eckhart: an Introduction to the Study of His Works with an Anthology οf His Sermons [Edimburgh: Τ. Nelson Sons, 1957], Sermone XXIV p. 241 [corsivo di E. F.]).

[16] È interessante il fatto che nella tradizione ebraica esisteva anche una concezione secondo cui non era permesso fare il ritratto di una persona. Essendo Dio anche nell'uomo, l'uomo stesso nella sua infinità non doveva essere rappresentato da un'immagine come una cosa.