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Registrazione presso il Tribunale di Firenze n. 5756 del 18.02.2010 Viale Cialdini 19 - 50137 - Firenze -- [email protected] - 055670494 – 3389381870 Associazione Erich Fromm Un Nuovo Umanesimo al servizio dell’Uomo Dalla parte dell’ Uomo Rivista Trimestrale giugno 2010 n° 2 Direttore: Paolo Cardoso Direttore responsabile: Maurizio Gori Comitato di Redazione: Paolo Cardoso Maurizio Gori Lucia Mattesini Maddalena Poneti

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Registrazione presso il Tribunale di Firenze n. 5756 del 18.02.2010 Viale Cialdini 19 - 50137 - Firenze -- [email protected] - 055670494 – 3389381870

Associazione Erich Fromm

Un Nuovo Umanesimo al servizio dell’Uomo

Dalla parte dell’ Uomo

Rivista Trimestrale

giugno 2010

n° 2

Direttore: Paolo Cardoso

Direttore responsabile: Maurizio Gori

Comitato di Redazione: Paolo Cardoso Maurizio Gori Lucia Mattesini Maddalena Poneti

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EDITORIALE Questo numero è dedicato specialmente ai problemi dell’adolescenza. Le trasformazioni del nostro mondo sono troppo veloci. Le generazioni sono sempre più diverse tra loro. La tecnologia, i computer, i moderni mezzi di comunicazione creano modi e linguaggi di comunicazioni sempre più nuovi che tracciano confini sempre più netti tra le generazioni e la comunicazione diviene sempre più stringata e difficile. L’insicurezza dovuta alla situazione politica ed economica mondiale, la volatilità del mercato finanziario ha pesanti ripercussioni sulla sicurezza economica delle famiglie. Le nuove povertà emergenti, derivate dalla perdita del posto di lavoro e dal livello sociale acquisito, si ripercuotono pesantemente sui giovani. Tutto ciò ha portato alla nascita od alla crescita di patologie adolescenziali sin’ora sconosciute o limitate. Basta pensare alla dipendenza da computer e da internet o all’arrivo anche nei paesi occidentali di patologie come l’hikikomori (vedi articolo) che sembravano limitate al solo Giappone. Dobbiamo vedere tutto ciò come un problema complesso. Dobbiamo analizzarlo da tutti i punti di vista, psicologico, morale, sociale filosofico perché vi sono trasformazioni epocali in corso legate al progresso tecnologico., ma al contrario del passato, dove queste trasformazioni erano lente, oggi sono velocissimi e non ci danno il tempo per fare analisi approfondite. La complessità, come ci ha insegnato Morin esige risposte articolate e se pensiamo di aver trovato delle risposte semplici allora queste saranno sicuramente sbagliate. Ci aspettano sfide enormi che solo se affronteremo i problemi insieme potremo superarli e solo se metteremo al centro l’uomo e non il progresso e la tecnologia riusciremo a trovare le risposte.

Il Presidente

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In questo numero troverete un articolo di un po’ di tempo fa, scritto a più mani, sul fenomeno “Hikikomori”. Vi invito a leggerlo. Ho creato anche un blog : http://blog.libero.it/Hikikomoriitalia/ Noi stiamo riprendendo lo studio dell’hikikomori anche in vista di un convegno che stiamo organizzando sulle nuove dipendenze dal gioco e dal computer. Anche in Europa si incominciano ad avere casi simili all’Hikikomori. Chi fosse interessato può scrivermi alla mail [email protected] o può dare il suo contributo con un post sul blog. Grazie

Il Presidente

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SOMMARIO

LA TECNICA PSICOTERAPEUTICA DELL’INCONTRO DIRETTO DI ERICH FROMM E LA SUA INTERPRETAZIONE BIOFILA DA PARTE DI ROMANO BIANCOLI ........................................... 6

LA VALUTAZIONE DEI SERVIZI PER LA PERSONA CON DISABILITA’ INTELLETTIVA........11

1. Introduzione ..........................................................................................................................................................11

RISULTATI DEI SERVIZI ...............................................................................................................................................13

RISULTATI INDIVIDUALI ...............................................................................................................................................13

2. Evoluzione del concetto di qualità della vita .....................................................................................................14

3. Utilità dell’applicazione del concetto alla disabilità intellettiva.......................................................................17

4. Valutazioni di qualità di vita nelle persone con disabilità intellettiva.............................................................18

RICERCA ESPLORATIVA SULLE STRATEGIE DI ACCULTURAZIONE DEGLI IMMIGRATI NELLA PROVINCIA DI PISA ........................................................................................................21

1. L’immigrazione in Italia........................................................................................................................................21

2. Presupposti teorici e obiettivi della ricerca.......................................................................................................22

3. Partecipanti ...........................................................................................................................................................23 1.2 Grafici riassuntivi............................................................................................................................................24

4. Strumenti e metodologia .....................................................................................................................................26

5. Risultati e conclusioni .........................................................................................................................................26

6. Bibliografia e sitografia........................................................................................................................................27

VERSO UN APPROCCIO MULTIDIMENSIONALE INTEGRATO: LA PROSPETTIVA EVOLUTIVA ..................................................................................................................................28

1. Abstract .................................................................................................................................................................28 1.2 Background....................................................................................................................................................28 1.2 Metodi ............................................................................................................................................................28 1.3 Risultati .................................................................................................................................................................28 1.4 Conclusioni ....................................................................................................................................................28

2. Introduzione ..........................................................................................................................................................29

3. Obiettivo ................................................................................................................................................................32

4. Partecipanti ...........................................................................................................................................................32

5. Procedura e strumenti .........................................................................................................................................32

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6. Metodi di analisi dei dati ......................................................................................................................................33

7. Risultati .................................................................................................................................................................33

8. Analisi dei dati ......................................................................................................................................................35

9. Conclusione ..........................................................................................................................................................38

10. Riferimenti bibliografici ...................................................................................................................................39

KABBALAH TRA CONSAPEVOLEZZA E STILE DI VITA...........................................................42

IL LIBRO DI ALICE .......................................................................................................................44

RIFLESSIONI SUL FILM-DOCUMENTARIO: “FRANK GEHRY. CREATORE DI SOGNI” DI S. POLLACK......................................................................................................................................46

---------------------------------INSERTO SUL FENOMENO HIKIKOMORI--------------------------------------

ANALISI DELLA PATOLOGIA DEI RAGAZZI GIAPPONESI HIKIKOMORI DAL PUNTO DI VISTA OCCIDENTALE .................................................................................................................54

1. Alcune considerazioni storiche e sociologiche sul Giappone ........................................................................54

2. Una descrizione della patologia “hikikomori”...................................................................................................55

3. Analisi delle possibili cause del fenomeno “hikikomori” ................................................................................57 1.2 La società giapponese e il suo sistema d’educazione ..................................................................................57 1.2 L’ambiente scolastico ....................................................................................................................................60

4. Conclusioni ...........................................................................................................................................................65

5. Bibliografia ............................................................................................................................................................67

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La tecnica psicoterapeutica dell’incontro diretto di Erich Fromm e la sua

interpretazione biofila da parte di Romano Biancoli

Rainer Funk

Nella sua ultima lettera, Romano Biancoli mi parlò della sua malattia, dei gravi sintomi dovuti alla chemioterapia, della sua percezione della vita in quel momento. Scrisse: “Per me questo è già un periodo di vita vissuto, pieno nei suoi limiti materiali, con amici ed interessi culturali. E poi sto sperimentando un modo di essere che prima ignoravo”. Il modo in cui Romano affrontava la sua malattia mi ricordò una risposta di Erich Fromm. Dopo il terzo infarto da lui subito nel 1978, gli chiesi se a quel punto non fosse spaventato di ritrovarsi faccia a faccia con la morte. Mi rispose con voce ferma e decisa: “Guarda, ho vissuto una vita piena e posso dire con il salmista di essere pieno di vita”, e usò la parola tedesca ‘satt’, che significa ‘sazio’. “Ho vissuto la mia vita con una tale ricchezza da non sentire il bisogno di tenermela stretta, ma posso lasciarla andare”. Il modo biofilo in cui sia Erich Fromm che Romano Biancoli hanno risposto al problema della propria morte evidenzia il loro atteggiamento verso la vita. Immagino che entrambi abbiano avuto a che fare con influenze avvelenanti sin dall’inizio della vita, ma sono riusciti a superare quelle devitalizzazioni minacciose rinforzando il loro amore per la vita e concentrandolo (in particolare nella pratica terapeutica) su ciò che è vivo. Sebbene, per quanto io sappia, Romano Biancoli non abbia mai incontrato Erich Fromm di persona, e non abbia quindi potuto sperimentare come Fromm praticasse la biofilia, ne fu un praticante perfetto. Sono convinto che Biancoli abbia avuto una profonda intuizione, ossia abbia capito che i concetti della modalità dell’essere e della biofilia possono essere apprezzati appieno solamente nella pratica, dando cioè voce a quelle tendenze, spesso nascoste, che lottano per la vita. Le opere di Fromm proponevano infatti una cura contro quelle intossicazioni di cui Romano soffriva come tutti noi, per motivi personali e soprattutto sociali. Fu proprio per questo che, dalla metà degli anni Ottanta in poi, sentì il bisogno di trasmettere l’impatto della sua pratica di biofilia e di tradurre questi vissuti nella sua pratica terapeutica. In tutta onestà, in quegli anni in Italia nessuno meglio di Romano Biancoli seppe trasmettere questi vissuti biofili, o scrivere delle psicodinamiche della biofilia e della loro importanza nell’approccio con i pazienti. Abbiamo potuto vedere questa sua evoluzione non solo nella sua organizzazione dell’ Istituto Erich Fromm di Bologna, ma anche con le sue pubblicazioni. Cito soli alcuni dei titoli che mostrano il suo progresso. Nel 1991 intervenne ad un workshop a Verbania con “The Being Mode in the Hour of Psychoanalysis” (La modalità dell’essere nell’ora psicoanalitica). Poco dopo aver scoperto Groddeck e le conferenze tenute da Fromm al William Alanson White Institute nel 1959, pubblicò “La correlazione ‘center-to-center’ in analisi”. Al nostro convegno congiunto tenuto ad Ascona, in Svizzera, nel 1997, parlò di “L’idea di ‘uomo intero’”. Un altro suo intervento si intitolava “Il sogno tra ‘qui-e-ora’ e ‘là-e-allora’”, mentre una delle sue ultime pubblicazioni si concentrava su “La ricerca dell’identità nella modalità dell’essere”. La cosa più sorprendente rimane quanto Romano abbia colto la tecnica dell’approccio diretto di Fromm, quasi fosse stato formato da lui in persona a lungo. Voglio darvi un’idea di questa relazione frommiana con il paziente traendo spunto dal mio primo incontro con Fromm nel 1972 e da alcune descrizioni fornite da lui stesso, che potete trovare nelle conferenze del 1959, pubblicate in italiano da Mondadori con il titolo “L’inconscio e la prassi analitica” nel volume Anima e società.

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Voglio iniziare con l’approccio diretto dimostrato da Fromm durante il nostro primo incontro, quando andai a trovarlo per discutere con lui di alcuni miei dubbi a proposito della mia tesi di laurea sul carattere sociale, la religione e l’etica. Fromm mi guardò in modo così diretto che i miei tentativi di fare conversazione cessarono subito e qualsiasi comportamento di ruolo divenne superfluo. Ci eravamo incontrati di persona solo qualche minuto prima, ma si era già instaurata una relazione di fiducia ed intimità. Non mi era più possibile evitare i problemi ai quali mi ero avvicinato cautamente. Gli occhi di Fromm, circondati dalle rughe, che mi fissavano così intensamente, riuscirono in qualche modo ad avviare una conversazione che placò le mie ansie e mi permise di concentrarmi completamente. I miei dubbi iniziali sulla tesi di laurea passarono in secondo piano. Fromm volle sapere della mia situazione professionale, del perché fossi così interessato al suo pensiero, in particolare all’etica. Le sue domande volevano svelare le mie preoccupazioni e i miei interessi più profondi. Fromm voleva comprendere il mio essere interiore, se e cosa amassi, odiassi, tenessi in gran conto, cercassi, valutassi criticamente, rifiutassi, cosa mi piacesse, incoraggiasse, stimolasse e facesse arrabbiare, cosa mi eccitasse, mi rendesse nervoso, mi spaventasse o mi facesse sentire colpevole. Lo interessavano i miei sentimenti, i miei bisogni, le mie passioni ed i miei interessi. L’interessamento di Fromm aveva come scopo di entrare in contatto con i miei sentimenti e le mie tendenze interiori, in modo da considerarli portatori di energia e non ostacoli. Sebbene le forze emotive non fossero lusinghiere e impedissero di pensare ed agire in modo razionale, individuarle e comprenderle era di cruciale importanza. Solo in questo modo potevano essere individuati un’intensa gelosia o un paralizzante senso di inferiorità, così da rilasciare quell’energia trattenuta in vista di un atteggiamento razionale e amorevole. Fromm, con le sue domande, voleva mettersi in contatto con il mio mondo interiore, le mie tendenze razionali ed irrazionali, latenti e manifeste. Per raggiungere questo scopo, usava il contatto visivo. Tutti abbiamo imparato ad esprimere i nostri ambiti più interiori con lo sguardo, siano essi emozioni, sentimenti, bisogni o reazioni. Il modo in cui mi guardava, parlava con me e focalizzava la conversazione, tuttavia, aveva qualcosa di molto peculiare. Nonostante fosse molto diretto, quasi duro, nello scoprire la mia anima, non mi sentii affatto interrogato, messo all’angolo, giudicato, smascherato o esposto. Capii subito che con me si stava rapportando in modo piacevole, con comprensione ed affetto, senza che io mi sentissi in dovere di giustificarmi o nascondermi. Cercava di entrare in contatto con me e, con sincero interesse, mi fece capire che non c’era motivo di temere il proprio mondo interiore. Un senso di solidarietà e gentilezza traboccava da ogni parola e da ogni sguardo. Questo tipo di incontro umano fu per me il primo del suo genere. Questo modo di parlare, di essere con l’altro, di avventurarsi in quel mondo di sentimenti che si trova dietro i nostri pensieri, sempre rassicurato da uno sguardo amorevole dell’altro, rendevano chiacchiere o tentativi di nascondersi completamente superflui. Più o meno vent’anni dopo, in qualità di suo esecutore letterario, stavo preparando alcuni dei mano scritti inediti di Fromm per la pubblicazione, quando mi imbattei per la prima volta negli scritti delle conferenze che aveva tenuto, come già detto, al William Alanson White Institute di New York nel 1959. E lì descriveva proprio il suo vissuto di solidarietà: Il senso di solidarietà è una delle esperienze terapeutiche più importanti che possiamo far vivere al paziente, perché in quei momenti il paziente non si sente più isolato. In ogni nevrosi, o in qualsiasi malattia che il paziente possa avere, il senso di isolamento, che egli ne sia cosciente o meno, è il problema cruciale delle sue sofferenze. Nell’istante in cui egli intuisce che io le condivido con lui e posso dire: “Tu sei questo”, e lo dico in un modo che non è né gentile né

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sgradevole, si verifica una vera liberazione dal suo isolamento. Ciò è dovuto al fatto che un’altra persona dice “Tu sei questo”, gli sta vicina, vive con lui1. Quello che Fromm afferma sulla relazione terapeutica in generale era vero anche per lui. Qualsiasi tipo di relazione dovrebbe basarsi su un approccio diretto, un incontro faccia a faccia. Il volto di una persona rivela il suo mondo interiore. Un incontro faccia a faccia va ben oltre la superficie, rendendo possibile una “relazionalità centrale” tra due soggetti. L’altro “non è più una cosa estranea, ‘là fuori’, che io osservo, ma mi si presenta nella sua pienezza, e io mi presento a lui totalmente, e allora non c’è più possibilità di sfuggire2”. L’incontro “diretto” facilita l’entrata in contatto con i sentimenti e le passioni dell’altro, in modo da poterlo sentire come persona completa. Fromm riteneva che questo tipo di incontro diretto con l’altro avesse una caratteristica decisiva, ovvero che “Chi riesce a vedere veramente una persona… ha smesso di giudicare3”, sempre a patto di vedere quella persona nella sua interezza. Nonostante che, nel vivere e nel difendere la nostra esistenza, siamo spesso obbligati a giudicare ciò che vogliamo e ciò a cui ci opponiamo, tuttavia, in un incontro “diretto”, dobbiamo trattenerci dal giudicare, se davvero vogliamo vedere l’altra persona,. “Chiunque noi siamo, a questo punto cessa il senso di colpa, perché sentiamo che ‘io sono questo’4”. Ecco una descrizione dell’incontro “diretto”: “Chi può vedere se stesso o gli altri nella loro pienezza, non per questo giudica, perché è totalmente conquistato da questo sentimento, da questa esperienza: ‘Tu sei questo’, e anche da quest’altro sentimento: ‘Chi potrebbe ancora giudicare?’. In realtà non si arriva nemmeno all’idea di porsi questa domanda, perché quando io provo veramente questa esperienza dell’altro, provo l’esperienza di me stesso. Dico: ‘Così, tu sei questo’, e in qualche modo sento molto chiaramente: ‘E anch’io sono questo!’5”. Quanto un incontro diretto con il sé sia cruciale e quali conseguenze possa avere sono due fenomeni che ho avuto la possibilità di vedere in Fromm stesso. Non passava giorno che non provasse a mettere in pratica questo tipo di incontro con se stesso. Di solito si riservava un’ora in tarda mattinata per i suoi “esercizi”. Si trattava di esercizi fisici e contemplativi, che ha poi descritto in Da avere a essere6 come pratiche che promuovono l’attenzione e la percezione di sé, esercizi di consapevolezza sensoriale, Tai-Chi, oltre all’autoanalisi. Si concentrava sui movimenti del corpo, sulla respirazione, cercando di svuotare la mente e meditare. Si sforzava inoltre di percepire quello che risuonava emotivamente in lui e lo preoccupava mentalmente: un senso di disagio che si protraeva dopo un’intervista, ad esempio, o l’impulso di scrivere una lettera al direttore di The New York Times. Cercava di decifrare i messaggi dei sogni che ricordava dalla notte prima, in modo da confrontarsi con le proprie tendenze, fantasie, forze emotive e conflitti inconsci. Gli effetti di questi esercizi alla ricerca dell’incontro diretto con sé erano lampanti, non solo per Fromm ma anche per coloro che gli stavano attorno. L’esempio che mi ha colpito di più fu la relazione di apertura che Fromm tenne ad un convegno a Locarno-Muralto nel maggio 1975. Nelle settimane precedenti, Fromm si era rotto un braccio, evento che metteva in dubbio la sua presenza al convegno. Alla fine improvvisò un discorso di due ore su “Il significato della

1 Fromm, E., Dealing with the Unconscious in Psychotherapeutic Practice (3 Lectures 1959), in: International Forum of

Psychoanalysis, Vol. 9 (No. 3-4, October 2000) pp. 167-186, p. 178 2 Fromm, E., “L’inconscio e la prassi psicoanalitica” in: Anima e società, Milano (Arnoldo Mondadori Editore) 1993, pp. 91-143,

p. 123 3 Ivi, p. 121.

4 Ivi, p. 174. 5Ivi, p. 178.

6 Erich Fromm, Da avere a essere. Tutti gli scritti esclusi da “Avere o essere?”, Milano (Arnoldo Mondadori Editore: Oscar Saggi

233) 1991.

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psicoanalisi per il futuro7”. Quando successivamente gli chiesi dove avesse trovato la concentrazione e l’energia necessaria, mi rispose, in modo tutt’altro che pretenzioso: “Beh, stamattina ho fatto gli esercizi per il doppio del tempo”. Una persona che pratica l’incontro diretto con se stessa può trarne energia per l’incontro con altre persone, facendosi assorbire da un argomento o da un’altra persona. È però vero anche il contrario. Una persona che pratica l’incontro diretto con gli altri fa delle esperienze che facilitano l’incontro con l’altro e con lo sconosciuto all’interno di se stessa. L’espressione del volto di Fromm rendeva palese che lui era esperto in entrambe le cose, e pertanto capace di essere con se stesso e con gli altri. Dopo la sua morte, trovai tutta una serie di fotografie scattate con una tecnologia innovativa (un meccanismo riavvolgente a batteria), la quale permetteva di ottenere diversi scatti a distanza di pochi secondi l’uno dall’altro. Sulla pellicola dei negativi c’era una fotografia nella quale Fromm aveva gli occhi chiusi, seguita da un’altra dove guardava direttamente nell’obiettivo. Fromm avrà probabilmente chiuso gli occhi per un mezzo secondo durante questi scatti in sequenza, ed è stato ripreso proprio in quell’azione. Ad un’analisi più attenta, la fotografia ritrae un volto completamente concentrato sul proprio sé interiore, un volto immerso nella propria interiorità. Nella fotografia successiva, quella con gli occhi ben aperti, si ha l’impressione che Fromm concentri completamente la propria attenzione sull’osservatore. Nella prima è completamente con se stesso, nella seconda con l’altro. Le fotografie dimostrano quanto Fromm abbia praticato l’incontro diretto, per riuscire ad essere con se stesso e con l’altro. Dimostrano inoltre l’importanza di questa pratica per la realizzazione dell’uomo e dell’esistenza sociale. Indipendentemente dal tipo di relazione in cui si compie l’incontro diretto o faccia a faccia, sia essa con gli altri, nel lavoro accademico o scientifico, in compiti artistici o terapeutici, nel contatto con la natura o con i nostri poteri interiori, l’incontro diretto rilascia sempre energie per incontri diretti in altri ambiti. L’esperienza derivata dalla pratica dell’incontro diretto ha ispirato Fromm a sviluppare il concetto di “orientamento produttivo del carattere”, “biofilia” e “modalità dell’essere dell’esistenza”. Come scrive Fromm in Psicoanalisi dell’amore8, “La persona che ama la vita pienamente è attratta dal processo vitale e dalla crescita in qualsiasi ambito”. Ho scoperto che riportare alla mente gli effetti degli incontri faccia a faccia con lui mi sono stati di grande aiuto per comprendere pienamente i suoi concetti di “produttività”, “ragione ed amore come poteri propri”, “biofilia” o “modalità dell’essere dell’esistenza”. Che Fromm fosse portato per gli incontri faccia a faccia spiega anche il successo avuto dalle sue opere, soprattutto per coloro che hanno difficoltà a comprendere testi concettuali e teorie astratte. Una volta Fromm confessò di non essere assolutamente portato per il pensiero astratto. Riusciva a pensare solo quei pensieri che erano collegati a cose sperimentabili. Proprio per questo Fromm cercò di attuare un incontro diretto anche nell’affrontare i problemi e gli argomenti delle sue opere. Tuttavia, prima di iniziare a scrivere, si sforzava di trovare un collegamento mentale ma anche emotivo con quello che era già stato scritto sull’argomento. Riteneva estremamente importante il poter mettersi in relazione con quello che leggeva, quando sfogliava fonti primarie. Con alcuni autori questo succedeva praticamente sempre. In particolare, Sigmund Freud e Karl Marx, Baruch Spinoza e Meister Eckhart. Con altri, invece, accadeva raramente, come ad esempio con Hegel, Heidegger, Adorno e la maggior parte dei sociologi. Quando finalmente si metteva a scrivere, Fromm di solito scriveva tutte le idee che aveva sull’argomento in una volta sola. Il giorno dopo, poi, rileggeva quello che aveva scritto e iniziava

7 Erich Fromm, Il significato della psicoanalisi per il futuro, in: Anima e società, Milano (Arnoldo Mondadori Editore) 1993, pp.

145-175. 8 Erich Fromm, Psicoanalisi dell’amore. Necrofilia e biofilia

nell’uomo, Roma (Paperbacks saggi 159, Newton

Compton Editori) 1985, p. 61.

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da capo se sentiva di non aver espresso quello che voleva. Continuava a provarci fino a sentirsi tutt’uno con l’argomento. Fromm cercava l’incontro diretto anche mentre scriveva, con gli argomenti, le idee, i concetti. La copia scritta a mano non veniva consegnata alla segretaria, in modo che essa potesse batterla a macchina, finché non sentiva di aver espresso correttamente la propria opinione. Molti dei lettori di Fromm si sono sentiti coinvolti e capaci di avere un dialogo interiore con quanto leggevano nelle sue opere proprio perché i suoi scritti derivavano da un incontro interiorizzato e diretto con le opere di altri scrittori, e non da processi di pensiero astratti. Fu così anche per Romano Biancoli, il quale non solo lesse le opere di Fromm, ma cercò anche di praticare l’incontro diretto mettendo in pratica i suoi insegnamenti. Fromm visse e sentì quello che disse e scrisse. L’insegnamento e la vita erano strettamente legati sia nelle sue opere che in lui, proprio perché entrambi richiedevano la pratica dell’incontro diretto. Questa è l’eredità che Fromm ha lasciato a tutti coloro che lavorano nel campo della terapia. Ed è anche l’eredità di Romano Biancoli.

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LA VALUTAZIONE DEI SERVIZI PER LA PERSONA

CON DISABILITA’ INTELLETTIVA

Il presente draft è stato elaborato dal dr. Giampaolo La Malfa e dal dr. Stefano Lassi. Ha carattere

riservato. Ogni utilizzazione deve essere preventivamente autorizzata dagli autori

1. Introduzione

La Disabilità Intellettiva (DI) è una condizione caratterizzata da un quoziente intellettivo

significativamente ridotto, da una capacità adattativa anch'essa significativamente ridotta e da

un'insorgenza prima dei 18 anni di vita.

L'algoritmo teorico generalmente seguito, pone la persona con le sue caratteristiche di

funzionamento e i bisogni di supporto in varie aree (vulnerabilità) -cognitiva, adattativa, di

partecipazione, di salute- in rapporto con il contesto (ambiente) nel quale vive. L'ambiente può

svolgere un'azione positiva, fornendo i supporti per sostenere i bisogni della persona, oppure

un'azione negativa.

Il rapporto tra la vulnerabilità e l'ambiente è di centrale importanza nel lavoro con la DI. Da un lato,

infatti, ci rende conto delle possibili complicazioni di salute (fisica e psicologica) che questi

pazienti possono presentare e ci indirizza verso una corretta valutazione, diagnosi e trattamento.

Da un altro punto di vista, tale rapporto ci è di guida nel proposito di incrementare l'identità di

questi soggetti, la loro reale partecipazione al lavoro e all'abitare. Tale percorso ha, come fine

ultimo, la promozione della Qualità di Vita della persona.

I servizi per la persona con Disabilità Intellettiva

In passato si riteneva che i bisogni di salute delle persone con DI potessero essere

adeguatamente soddisfatti dai servizi generali per la salute. L'esperienza ha ampiamente

dimostrato che questo non accade e oggi è generalmente riconosciuta la necessità di servizi

specialistici. Attualmente viene dibattuto lo stile dei servizi offerti. Schematicamente quattro sono

i principali modelli, nati da circostanze e filosofie differenti.

A – gruppi di lavoro specialistici

B – gruppi di lavoro specialistici integrati nei servizi generali

C – piccoli servizi specialistici locali, con i loro accessi facilitati

D – servizi specialistici complessi regionali o subregionali

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Per l'organizzazione dei servizi per le persone con DI, appare realisticamente utile l'applicazione

del “matrix model”. Tale modello prevede una griglia di valutazione dell’imput, dello svolgimento e

dell’output a differenti livelli (personale, di comunità,nazionale).

Occorre a nostro avviso integrare questa griglia valutativa generale, con un end-point forte,

condiviso, che riteniamo essere rappresentato dal concetto di Qualità di Vita. (QoL)

La QoL è un concetto complesso, che implica aspetti oggettivi e soggettivi. In sintesi è il rapporto

tra interesse,opportunità, soddisfazione e potere decisionale.

Per quanto riguarda la programmazione dei servizi per la persona con DI, la sfida rappresentata

dal concetto di QoL è data, in ultima analisi, dalla credenza che tale concetto sia:

- realistico

- un concreto obbiettivo per tutte le persone, compreso quelle con DI

Tre sono attualmente i principi “forti” su cui si basa l'approccio tipo QoL :

I. si è andata via via affermando l'importanza degli aspetti psicologici e sociali nella percezione del

benessere, inclusi i fattori correlati al supporto e all'integrazione sociale, ai rapporti interpersonali,

alla autonomia/indipendenza, alle aspirazioni/aspettative e ai valori più generali, riguardanti la

famiglia, il lavoro, la vita.

II. La DI e i cambiamenti ad essa connessi sono condizioni che influenzano la capacità della

persona nel fare scelte autodeterminate e di vivere pienamente la vita. Per questi individui, vivere

una vita ordinaria, richiede supporti che vanno oltre quelli necessari alle altre persone della stessa

età. Fornire questi supporti è la principale funzione dei programmi educativi, di salute e umani. In

questo caso il concetto di QoL è di grande aiuto.

III. Gli individui con DI spesso sperimentano problemi riguardanti la partecipazione nella società.

Ciò significa che queste persone e le loro famiglie corrono il rischio di essere escluse da molte

situazioni e opportunità che sono normalmente accessibili per gli altri.

Predittori della Qualità di Vita

Un tema molto importante è il rilevamento di fattori predittivi di una buona QoL, in quanto possono

essere ipoteticamente utilizzati nella valutazione dei servizi. Schematicamente i predittori fino ad

ora individuati sono raggruppabili in tre aree.

A – Caratteristiche personali

astato di salute

aindice di comportamento adattativo

aindicatori di comportamenti maladattativi/di sfida

B- Caratteristiche ambientali

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asupporto sociale ricevuto

atipo di setting residenziale

anumero di attività casalinghe cui il soggetto partecipa

aguadagni

aattività integrate

C – Caratteristiche degli assistenti

alivello di stress dei lavoratori

asoddisfazione nel lavorare con i clienti

asoddisfazione del lavoro

- Valutazione dei risultati

Come è importante ottenere elementi predittivi, è altrettanto importante la valutazione dei risultati

(outcome). I risultati possono essere suddivisi in risultati a breve termine (6 mesi – 1 anno) e a

lungo termine (molti anni). Si dovrebbe poi distinguere i risultati dei servizi e quelli del cliente.

RISULTATI DEI SERVIZI

A – Valutazione della prestazione

a1 – efficacia (raggiungimento degli obiettivi)

a2 – efficienza (sostenibilità dei costi del servizio e dei supporti)

a3 – stabilità (continuità dello staff, finanziamenti)

B Apprezzamento del cliente

b1 – accesso al servizio*

b2 – soddisfazione dell'utente

b3 – competenza dello staff

b4 collegamento tra servizi e supporti

b5 – effettivo adeguamento del servizio al modello

RISULTATI INDIVIDUALI

A- valutazione funzionale

a1 benessere fisico (stato di salute, indicatori di benessere)

a2 benessere materiale (impiego, abitazione, educazione)

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a3 – stato clinico (cambiamento/riduzione dei sintomi)

a4 – attività giornaliere (a casa/fuori casa)

B Apprezzamento individuale

b1 – benessere emozionale

b2- sviluppo personale

b3 – autodeterminazione

b4 – relazioni interpersonali

b5 – inclusione sociale

Le prospettive

Due sono gli argomenti attualmente in grande evoluzione. Il primo riguarda il progressivo

affermarsi del concetto di “qualità dei programmi” sulla base della soddisfazione dei clienti e dei

loro risultati personali. Il secondo è lo sviluppo di nuovi modelli di intervento e di servizi fondati sul

concetto di QoL.

2. Evoluzione del concetto di qualità della vita

E’ sostenibile che l’azione del medico e di ogni altro operatore sanitario sia costantemente

sottesa, in modo più o meno consapevole, da uno propensione ad aiutare le persone ad essere

soddisfatte della propria vita. E’ anche ipotizzabile che tale propensione sia antica quanto le

prime forme di intervento. Eppure la teorizzazione della Qualità di vita (QdV) come concetto

fondamentale per la pratica sanitaria è estremamente recente e siamo ancora lontani da una reale

e diffusa applicazione.

L’origine del concetto di QdV è forse identificabile nella definizione di salute data

dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 1948 (WHO, 1948): “uno stato di completo

benessere fisico, mentale e sociale, e non semplicemente assenza di malattia o di infermità”, ma

l’espressione è stata usata per la prima volta in una rivista medica, solo nel 1966 da Elkinton

(Elkinton, 1966).

All’inizio gli sforzi di attuazione sono stati limitati e solo sporadici protocolli di valutazione di

programmi di intervento socio-comunitario includevano domande tese ad elicitare il vissuto

soggettivo degli utenti (Fairweather et al., 1969; Test e Stein, 1977). Negli anni 80 il concetto ha

vissuto un fortunato periodo di revisione e sviluppo, soprattutto negli Stati Uniti, dove con una

certa frequenza venivano seguiti percorsi applicativi (Lehman et al., 1982, 1983; Baker e

Intagliata, 1982; Bigelow et al., 1982) e dove, in occasione della produzione del Patient Outcome

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Research Act, la QdV venne obbligatoriamente inclusa nei protocolli di ricerca come misura di

esito degli interventi (Congresso degli Stati Uniti, 1989).

Di fatto la QdV è diventata un ambito significativo della ricerca medica solo dalla seconda metà

degli anni 90. A fronte di una ricchezza di produzione in riferimento alle patologie organiche,

specialmente cardiopatie e neoplasie, solo pochi sono stati gli studi effettuati sui pazienti con

problemi psichiatrici. La maggior parte di questi ha avuto come oggetto i disturbi psichici implicanti

una maggiore compromissione del funzionamento, dove la valutazione presentava più difficoltà

(Martin, 1995 ; De Girolamo, 2001, Bertelli, 2002). I risultati sono stati sorprendenti: contro tutte le

probabilità e le valutazioni esterne, le autovalutazioni di pazienti con gravi disabilità indicavano

un’elevata QdV.

Questo ‘paradosso della disabilità’ ha trovato possibili spiegazioni nel cambiamento del metro di

giudizio dei pazienti gravi rispetto alla propria vita, nello sviluppo di meccanismi di adattamento,

rassegnazione e di coping rispetto alla negatività degli eventi, nella disponibilità di un consistente

supporto sociale e nei limiti delle metodologie di studio utilizzate. Questo paradosso ha sollevato e

solleva un ampio dibattito sulla discrepanza fra valutazioni di QdV condotte dagli stessi valutandi

e da altre persone, ovvero tra auto ed etero valutazione, tra approccio soggettivo e oggettivo.

Negli ultimi 5 anni la letteratura sulla QdV ha avuto un incremento straordinario e oggi il concetto

sembra porsi al crocevia di tutte le strategie di intervento nei vari settori della medicina in generale

e della psichiatria in particolare. Sono stati prodotti numerosi strumenti di valutazione per tutti i

settori di applicazione: statistiche demografiche, QdV legata alla salute, valutazione di gruppi

specifici di soggetti o di settori professionali, QdV della singola persona e indicizzazione

economica.

Contrariamente all’apparente semplicità, legata alla banalizzazione del suo uso frequente,

l’espressione QdV può dunque esprimere una molteplicità di significati, tanto da risultare

impossibile parlarne senza una precisazione di senso specifico.

Nell’ambito generale delle comunicazioni di massa il concetto di QdV viene continuamente

omologato a quello di vita di qualità, in riferimento ad un ideale universale di eccellenza negli

ambiti più materiali e commercializzabili : oggetti posseduti, carriera lavorativa, ambienti

frequentati, vacanze, performance fisiche, ecc. Spesso viene addirittura usata come sinonimo di

felicità (Veenhoven, 2001).

In ambito medico la QdV deve invece essere considerata come una modalità di approccio al

sistema paziente-persona. Qui vengono generalmente distinti due metodi principali, uno oggettivo

e l’altro soggettivo. La dimensione oggettiva della QdV di una persona corrisponde alle condizioni

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di vita come appaiono ad un osservatore esterno. La loro descrizione non pone particolari

problemi epistemologici. Diversamente la QdV soggettiva corrisponde alla percezione individuale

di soddisfazione rispetto all’esistenza e non può essere valutata che attraverso l’opinione della

persona stessa.

I modelli teorici di QdV proposti per l’ambito socio-sanitario sono numerosi, ma quelli che hanno

avuto maggior fortuna sul piano esecutivo sono i seguenti tre: il modello della soddisfazione,

quello della funzionalità di ruolo e quello dell’ importanza/soddisfazione.

Il modello della soddisfazione, sviluppato da Lehman (Lehman et al., 1982) e dalla coppia Baker e

Intagliata (1982), si fonda sul cosiddetto ‘gap di Calman’ [dal nome dell’autore che l’ha descritto

(Katschnig, 2000)], sull’idea cioè che la soddisfazione rispetto alla vita sia proporzionata alla

riduzione del divario fra condizioni di vita attuali e desideri soggettivi. Il modello trova limiti

difficilmente superabili nell’eccessiva soggettività, nella mancata considerazione dei processi

psicologici di adattamento e rassegnazione, nella mancata attenzione alle opportunità di

sviluppare ambiti di interesse, interpretabili come predittori alla soddisfazione stessa.

Il modello della funzionalità di ruolo, proposto da Bigelow nel 1982, prende le mosse dalla teoria

dei bisogni di Maslow (1954) e sostiene che felicità e soddisfazione siano legate al

conseguimento delle condizioni sociali ed ambientali (ruolo) richieste per soddisfare i bisogni

umani di base. Tale modello, che contrariamente a quello della soddisfazione è sostanzialmente

oggettivista, prevede una gerarchizzazione dei bisogni, soprattutto nel senso che la soddisfazione

dei bisogni psicologici superiori dipende dalla soddisfazione di quelli basilari. Sussistono forti

dubbi che siano realmente identificabili bisogni applicabili, in una precisa gerarchia, alla vita di

tutte le persone, soprattutto quando queste si trovino a vivere una condizione di disabilità da

malattia (Estroff, 1981). Il modello ha comunque il merito di aver introdotto la possibilità di

superare il limite della soggettività dei riferimenti di valutazione della QdV ipotizzando parametri di

riferimento applicabili alla vita di tutte le persone.

Il modello dell’importanza/soddisfazione, elaborato da Becker nel 1993 (Becker et al, 1993), parte

dalla constatazione che per ciascuna persona difficilmente potrà essere motivo di soddisfazione

una cosa che non interessa. Pertanto gli autori sostengono che siano definibili degli ambiti di vita

applicabili alla vita di tutte le persone e che la relazione tra la percezione individuale

dell’importanza attribuita a questi ambiti e la percezione individuale della soddisfazione provata

negli stessi costituisca il modo più completo ed efficace di valutare la QdV. Il modello ha il pregio

di combinare riferimenti oggettivi e soggettivi di valutazione e di introdurre la considerazione delle

opportunità per lo sviluppo degli interessi. Rimane il limite della autenticità dell’autovalutazione

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rispetto agli eventuali succitati meccanismi di adattamento, rassegnazione e coping tipici della

psicologia umana, o rispetto a difetti di consapevolezza o di giudizio legati alla malattia.

Per superare le divergenze tra percezione soggettiva e valutazione esterna della QdV

dell’individuo, Zissi e Barry (Zissi et al., 1998) hanno proposto un modello di integrazione o

‘mediazione’. Secondo questo modello la misura più attendibile di QdV deriverebbe da un sistema

in cui, accanto all’autovalutazione, avrebbero un ruolo significativo anche le valutazioni eseguite

da informatori-chiave come familiari, assistenti o operatori socio-sanitari molto vicini al paziente.

3. Utilità dell’applicazione del concetto alla disabilità intellettiva

Nonostante l’ampia diffusione teorica e la crescente considerazione nella ricerca, la QdV non

trova ancora applicazione alla pratica sanitaria. Oggi l’intervento terapeutico è ancora orientato

quasi esclusivamente alla restituzione di tutte le funzioni lese dalla malattia, senza grandi

considerazioni per la percezione individuale dello stato di benessere. Questa tendenza alla

normalizzazione è invalsa tanto per le menomazioni fisiche quanto per le disfunzioni psicologiche

e il modo di vivere che ne deriva. Mentre è relativamente facile pensare giusto restituire ad un

organo del corpo un equilibrio anatomo-funzionale simile a quello della maggior parte delle

persone, un po’ meno facile è pensare terapeutico portare tutte le persone ad avere lo stesso

assetto psicologico, offrire gli stessi ambiti d’interesse e pretendere che abbiano, in questi ambiti,

la stessa vita di soddisfazione.

Nel caso specifico della Disabilità Intellettiva (DI), in cui è presente un’incapacità strutturale a

svolgere funzioni implicanti l’intelligenza, l’idea che l’intervento terapeutico debba consistere in

uno sforzo alla restituzione di un’intelligenza normale toglie addirittura senso all’intervento stesso.

Ugualmente appare bizzarro considerare terapeutico cercare di condurre i portatori di DI a vivere

nel modo più simile possibile a quello delle persone normodotate. Non è un caso che spesso le

terapie offerte alle persone con DI siano approssimative, sintomatiche, contenitive o si trasformino

in interventi assistenziali, proprio perché limitate dalla nozione di irrecuperabilità rispetto ad un

procedere terapeutico che tende alla normalizzazione.

Se l’esperire soddisfazione e gioia per la propria vita potesse esser considerato il principale

parametro di salute, come sostiene l’approccio sanitario a tipo QdV, allora l’intervento terapeutico

dovrebbe tendere anzitutto a restituire tale esperienza, ridimensionando la convinzione che sia

impossibile farlo senza una dote psicofisica simile a quella della maggior parte delle persone.

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Non crediamo che si possa interagire con i portatori di DI senza esser convinti che anche per loro

debba esser fatto il massimo sforzo per il miglioramento dell’esistenza. Tale sforzo difficilmente

può nascere dalla convinzione al perseguimento della normalizzazione ma molto più facilmente

dall’attenzione alla relazione tra interessi e soddisfazioni nella vita delle singole persone (Hatton,

1998).

L’intervento sulla QdV è al tempo stesso un intervento sulla clinica che, in gran parte, è

rappresentata da disfunzioni comportamentali in competenze e capacità mai valorizzate o

considerate impossibili dall’ambiente circostante il disabile. Tale scarsa valorizzazione e tale

giudizio di impossibilità dipendono spesso proprio dalla difficoltà ad accettare come valida una

modalità di funzionamento diversa da quella ‘normale’.

Oltre a queste considerazioni al limite della filosofia e dell’etica professionale ci sono molti altri

motivi per cui il perseguimento della QdV si sta imponendo all’attenzione degli operatori del

campo della DI. Alcuni sono l’utilizzo di sempre più sofisticate tecnologie biomediche e

riabilitative, l’aumento della sopravvivenza alla disabilità e della durata media di vita, l’incremento

di cronicizzazioni e invalidità che ne derivano, i costi elevati dell’assistenza sanitaria che

cinicamente richiedono, nella maggior parte dei paesi occidentali, valutazioni precise d’efficacia.

Impegnarsi a rispondere al bisogno di cura delle persone con DI significa anzitutto essere in grado

di misurare, con sufficiente approssimazione, la distanza che intercorre tra le aspettative

individuali nei diversi ambiti di vita e gli obiettivi terapeutici raggiungibili (La Malfa et al., 1998 a; La

Malfa et al., 1998 b). Nel caso di incompatibilità di interessi, tale sforzo dovrebbe anche

permettere di individuare e privilegiare gli ambiti d’importanza maggiore e quelli capaci di offrire

maggior soddisfazione.

4. Valutazioni di qualità di vita nelle persone con disabilità intellettiva

Il succitato problema della validità della valutazione della QdV è più che mai pressante quando si

fa riferimento alla persona con DI. Questa infatti presenta spesso gravi difficoltà di comprensione

e di comunicazione dei propri vissuti (Schalock, 1996; Maes, 2000).

Per le valutazioni finora eseguite in ambito di DI lo strumento che ci è sembrato più utile è stato il

Quality of Life Instrument Package, prodotto dal Centro per la Salute Pubblica dell’Università di

Toronto (Brown, 1995; 1997). Il modello su cui si fonda il sistema di questionari, auto ed

eterosomministrati, è quello dell’importanza/soddisfazione. Il gruppo di Toronto ha individuato tre

aree fondamentali nella vita di tutte le persone con e senza DI: Essere, Appartenere e Divenire.

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Ciascuna di queste aree principali è stata a sua volta suddivisa in tre sottoaree, come indicato

nella seguente tabella.

Le nove aree della vita del Quality of Life Instrument Package

Essere Essere fisico

Essere psicologico

Essere spirituale

Appartenere Appartenere fisico

Appartenere sociale

Appartenere alla comunità

Divenire Divenire in senso pratico

Divenire nel tempo dedicato a sé

Divenire come crescita

La sottoarea Essere Fisico si riferisce alla salute fisica, all’alimentazione, alla forma fisica,

all’igiene personale, al vestirsi, al curare il proprio aspetto, e simili. La sottoarea dell’Essere

Psicologico si riferisce invece ad aspetti della vita interna come il controllo delle emozioni e dei

sentimenti, l’iniziativa, l’autoaccettazione, l’autostima, l’indipendenza dallo stress e da eventuali

problemi psichiatrici. L’Essere Spirituale è inteso come l'avere valori personali, criteri di

giusto/sbagliato, buono/cattivo, cose per cui vivere o nelle quali aver fede, come il sentirsi in pace

con se stessi, l’agire per altruismo, il festeggiare le ricorrenze o gli eventi particolari, tutto in un

modo che aggiunga significato alla vita. L’Appartenere Fisico si riferisce al posto dove si vive, agli

oggetti che si possiedono e simili. L’Appartenere sociale al sentirsi in accordo con il partner, con i

membri della famiglia, gli amici, all’appartenere a gruppi sociali, culturali o d'interesse.

L’Appartenere alla Comunità ha per oggetto il rapporto esistente tra un individuo e le risorse a

disposizione della maggior parte dei membri della comunità, p.e. avere accesso ad

un'educazione, ad un impiego, all'assistenza medica e sociale, agli avvenimenti ed agli spettacoli,

avere una pensione. La sottoarea del Divenire Pratico si riferisce alle abilità e attività quotidiane,

come i lavori di casa, il lavoro retribuito, l’andare a scuola o seguire dei corsi, l’attività di

volontariato, le quotidiane routine per la cura di sé, la gestione delle proprie pratiche burocratiche,

ecc. Il Divenire come Tempo Dedicato a Sé, comprende le cose che si fanno per divertimento o

per passione, p.e. giocare a ping-pong, andare a giro con gli amici, leggere, guardare la TV,

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coltivare un hobby, andare al cinema. Infine il Divenire come Crescita, si riferisce alla capacità di

adattamento ai cambiamenti della vita ed alla capacità di migliorarsi, p.e. imparare cose nuove,

migliorare o mantenere le capacità fisiche e le relazioni con gli altri, risolvere problemi, tirar fuori

nuove idee.

Ognuna di queste aree viene valutata sotto quattro diversi profili, che sono l’interesse, la

soddisfazione, la partecipazione decisionale e le opportunità. Il valore della QdV viene calcolato

primariamente sulla base della relazione tra interesse e soddisfazione, ma anche sul valore

attribuiti all’interesse. Una QdV massima scaturisce da altissimi valori di interesse e altissimi valori

di soddisfazione, ma in generale una discreta QdV può anche derivare da tutte le condizioni di

buon equilibrio fra i valori dei due parametri. La peggiore QdV deriva invece dalle condizioni di

squilibrio, per esempio nel caso in cui si abbia grande interesse e scarsa soddisfazione, ma la

riduzione del punteggio dipende anche da bassi valori di interesse.

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RICERCA ESPLORATIVA SULLE STRATEGIE DI ACCULTURAZIONE DEGLI

IMMIGRATI NELLA PROVINCIA DI PISA

Giulia Campatelli

1. L’immigrazione in Italia

Secondo i dati Istat aggiornati al 1° gennaio 2007 gli stranieri legalmente residenti in Italia sono

2.938.922 (1.473.073 maschi e 1.465.849 femmine) con un aumento rispetto all’anno precedente

degli iscritti in anagrafe di 268.408 unità (+10,1%). Nell’Unione Europea l’Italia si posiziona subito

dopo la Germania (7,3 milioni) e la Francia (3,5 milioni) mentre assieme alla Spagna si costituisce

lo Stato membro caratterizzato dai ritmi d’aumento più consistenti.

Nel Dossier Statistico sull’Immigrazione elaborato dalla Caritas (2005), l’incidenza media sulla

popolazione viene stimata al 4,8%. Secondo recenti fonti Istat, all’inizio del 2007 il rapporto tra i

sessi si conferma abbastanza equilibrato anche se permangono alcune differenze tra le diverse

comunità. L’analisi dei permessi di soggiorno per anno d’ingresso, compiuta dall’Istat, segnala che

oltre il 50% degli stranieri regolarmente presenti al 1° gennaio 2007 è in Italia da almeno cinque

anni (il dato Caritas sale al 60%), e di questi il 26,2% da almeno dieci. I motivi del soggiorno

confermano un netto desiderio di inserimento stabile (9 immigrati su 10 sono in Italia per lavoro o

per ricongiungimento familiare).

Il livello di istruzione degli immigrati è mediamente più elevato di quello caratterizzante la

popolazione italiana: secondo i dati del quattordicesimo e ultimo censimento (2001) tra i residenti

stranieri i laureati sono il 12,1% (contro il 7,5% degli italiani); i diplomati il 27,8% (contro il 25,9%)

e gli individui in possesso di licenza media sono il 32,9% (contro il 30,1% italiano).

Nell’ambito lavorativo i dipendenti stranieri si inseriscono ancora ai livelli più bassi segnalando

quindi una situazione di sotto-utilizzo delle loro competenze professionali: sono destinati sia a

mansioni più gravose che a turni più disagiati rispetto agli italiani e il 60% dei lavoratori subisce

atteggiamenti di discriminazione da parte dei colleghi (Ires 2005). I reparti che coinvolgono

maggiormente manodopera immigrata sono quello edile, il settore alberghiero e della ristorazione,

l’agricoltura, il servizio operativo alle imprese, il commercio e il lavoro domestico e di assistenza

alle persone, con un grande protagonismo delle piccole aziende.

In questo articolo si riassumono i risultati dell’indagine esplorativa in cui sono stati analizzati i

rapporti tra gruppi di immigrati culturalmente ed etnicamente differenti presenti nel territorio della

Provincia di Pisa. Il fine è stato l’osservazione delle strategie di acculturazione (gli atteggiamenti e

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i comportamenti messi in atto dagli immigrati nei confronti di italiani e immigrati non connazionali)

attraverso la somministrazione di una versione modificata del questionario IASm (Immigrant

Acculturation Scale modified) di Bourhis.

2. Presupposti teorici e obiettivi della ricerca

Con acculturazione (Berry [1]) si intende il processo duplice di cambiamento culturale e

psicologico che risulta dal contatto tra due o più gruppi culturali e i loro membri individuali. Il

contatto può assumere varie forme seguendo le più svariate circostanze: migrazioni, periodi di

soggiorno (per turismo, studio, asilo politico...), colonizzazioni e persino invasioni militari.

In questo studio sono state considerate quattro strategie di acculturazione: marginalizzazione,

separazione, assimilazione, integrazione. La strategia di integrazione, definita anche ‘l’opzione

biculturale’ (La Fromboise et al. [2]), riflette il desiderio del mantenimento delle caratteristiche

dell’identità culturale originaria dell’immigrato e, allo stesso tempo, l’adozione di alcune pratiche

culturali proprie della società ospitante. Con assimilazione si intende l’abbandono della propria

cultura d’origine in favore dell’adozione dell’identità culturale della maggioranza ospitante (in

questo caso, italiana). La separazione è la strategia caratterizzata dal desiderio di mantenere tutti

gli elementi centrali del proprio bagaglio culturale rifiutando qualsiasi scambio con membri della

società ospitante. Infine la marginalizzazione caratterizza coloro che negano qualsiasi valore sia

alla propria cultura d’appartenenza sia a quella della società in cui si vengono a trovare.

Il modello teorico di riferimento di questo lavoro di indagine è il Modello Interattivo di Bourhis,

Moise, Perrault, Senécal [3] che introduce l’importanza dell’interazione tra politiche di integrazione

governative e strategie di acculturazione espresse dalla società ospitante e dalla comunità

immigrata.

Le diverse strategie degli immigrati si combinano con quelle degli italiani con gli esiti sulla qualità

della convivenza mostrati nella tabella 1.

Obiettivo della presente indagine è la verifica dell’esito del processo di acculturazione, in termini di

strategie effettivamente adottate, nei partecipanti.

Occorre ricordare che la modalità di campionamento utilizzata nel presente lavoro non è di tipo

probabilistico, pertanto i risultati sono puramente indicativi e non possono essere generalizzabili

alla popolazione immigrata nella provincia.

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Tabella 1

Fonte: Bourhis R., Moise L., Perreault S. & Senécal S. [3]

3. Partecipanti

Hanno partecipato all’indagine 90 soggetti immigrati in Italia e residenti nella provincia di Pisa,

appartenenti a entrambi i sessi e di età compresa tra i 20 anni e gli 82. L’età media è di 39, 4 anni

(con deviazione standard di 12,17; valore minimo=20, valore massimo=82). L’odds ratio (OR) per

gli uomini è 52%. L’elenco delle nazioni di provenienza prevede 28 paesi diversi distribuiti in tutto

il mondo: Africa del Nord (comprendente Marocco, Algeria, Egitto), Africa Sub Sahariana

(comprendente Senegal, Guinea, Ghana, Togo, Guinea Equatoriale, Nigeria, Sudan, Etiopia,

Eritrea, Kenya), Area Balcanica (comprendente Albania, Macedonia, Serbia, ex - Yugoslavia,

Slovenia), Ucraina, Bulgaria, Romania, America Centro-Meridionale (Cuba, Colombia, Ecuador),

Filippine, Repubblica Popolare del Bangladesh, Repubblica Popolare Cinese, Federazione Russa.

Il reclutamento dei partecipanti è avvenuto presso sportelli di orientamento comunali e provinciali,

associazioni sindacali, associazioni culturali, sportelli della questura e della Asl, negozi, abitazioni

private, strade e piazze di Pisa.

Comunità Immigrata:

Società

ospitante:

(italiana) Integrazione Assimilazione Separazione Anomia Individualismo

Integrazione Consensuale Conflittuale Conflittuale Problematico Problematico

Assimilazione Problematico Consensuale Conflittuale Problematico Problematico

Segregazione Conflittuale Conflittuale Confittuale Conflittuale Conflittuale

Esclusionismo Conflittuale Conflittuale Conflittuale Conflittuale Conflittuale

Individualismo Problematico Problematico Problematico Problematico Consensuale

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1.2 Grafici riassuntivi

Grafico 1

Figura 1 - Paesi di provenienza dei partecipanti

Grafico 2

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Grafico 3

Grafico 4

Grafico 5

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4. Strumenti e metodologia

E’ stato etero e auto-somministrato un questionario derivato dal questionario IAS (Immigrant

Acculturation Scale) di Bourhis [4], nella sua traduzione in italiano, indagante le strategie di

acculturazione con scala Likert a 7 punti. L’elaborazione dei dati è avvenuta tramite i software

Excel e SPSS.

5. Risultati e conclusioni

Nell’indagine emerge la preferenza per le strategie individualistica (M=5,11 con ds=1,01 su scala

Likert da 0 a 7 punti) e di separazione (M=5,08 con ds=1,27).

Grafico 6

La scelta delle strategie di acculturazione può dipendere da molteplici fattori: la politica della

società ospitante nei confronti degli immigrati (Berry, [5]), la distanza culturale dell’immigrato

rispetto alla cultura della società ospitante (Berry [6]), le caratteristiche socio-demografiche e di

personalità quali genere, età, livello di autostima, strategie di coping (Kosic [7]).

Il modello di integrazione pisano appare peggiore rispetto ad altre città in termini di precarietà

abitativa e lavorativa, entrambe traducibili in minor sicurezza della persona e minore spinta

all’integrazione (Casarosa [8]). Anche la presente indagine sembra procedere in tal senso: la

totalità dei partecipanti ha lamentato tali problemi, collegandoli a una conseguente

discriminazione e penalizzazione. La preferenza per la strategia di separazione (oltre a quella

dell’individualismo) potrebbe perciò essere connessa (anche) ad una sorta di reazione degli

immigrati alle politiche restrittive della società d’accoglienza.

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Emerge che i soggetti più favorevoli alla strategia di acculturazione dell’integrazione siano essere

le donne (generalmente di età più avanzata rispetto agli uomini, con maggiori contatti tra gli italiani

e una qualità di relazione con essi più elevata), gli individui di età più avanzata (che sembrano

riuscire a frequentare più uniformemente tutti i gruppi sociali mostrando quella che sembra

un’apertura dell’atteggiamento verso il contatto intergruppo funzionale all’adattamento

socioculturale) e coloro che soggiornano in Italia da almeno 8 anni (in cui il più lungo periodo di

soggiorno pare relazionarsi alle maggiori competenze interpersonali, alla migliore qualità delle

relazioni e ad un miglior grado di inserimento nella società ospitante).

La presente ricerca mostra anche che con il passare del tempo trascorso in Italia sembra

verificarsi comunque un miglioramento dei livelli di adattamento socioculturale e psicologico degli

immigrati, indicando un miglior inserimento nella realtà pisana.

6. Bibliografia e sitografia

[1] Berry, J. W. (1980). Acculturation as varieties of adaptation. In A.Padilla (Ed.), Acculturation,

theory, models and some new findings. Colorado, CO: Westview Press.

[2] La Fromboise, T., Coleman, H., Gerton, J. (1993). Psychological impact of biculturalism:

evidence and theory. Psychological bulletin, 114, 395 – 412.

[3] Bourhis R., Moise L., Perreault S., Senécal S. (1997). Towards an interactive acculturation

model: a social psychological approach. International Journal of psychology, 32, 369 – 386.

[4] Bourhis, R.Y., Barrette, G. (2004). Notes on Immigrant Acculturation Scale (IAS). Working

Paper, LECRI, Département de Psychologie, Université du Québec à Montréal, Canada

[5] Berry J.W. (1992). Acculturation and adaptation in a new society. International Migration, 30,

69–85.

[6] Berry, J. W. (1997). Immigration, acculturation and adaptation. Applied Psychology: An

International Review, 46, 5-68. Queen’s University, Ontario, Canada.

[7] Kosic, A. (2004). Acculturation strategies, coping process and acculturative stress. Scand J

Psychol. 2004 Sep;45(4):269-78.

[8] Casarosa M. (a cura di). (2005). Gli immigrati in provincia di Pisa / lavoro, qualità della vita.

Cittadinanza. Pacini Editore.

http://www.dossierimmigrazione.it/ Dossier Statistico dell’Immigrazione 2007, Caritas Migrantes

http://www.istat.it Istat

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VERSO UN APPROCCIO MULTIDIMENSIONALE INTEGRATO:

LA PROSPETTIVA EVOLUTIVA

Antonella Leccese, Giampaolo La Malfa

1. Abstract

1.2 Background

I progressi ottenuti nell’ultimo decennio nel campo delle neuroscienze ed in quello della biologia

molecolare hanno permesso una comprensione più accurata dei disturbi psicopatologici e

comportamentali spesso associati alla Disabilità Intellettiva (DI). Ciò ha consentito il superamento

dell’accettazione dei disturbi associati, spesso considerati come conseguenza del ritardo mentale,

verso una rivalutazione della Qualità della Vita dei soggetti coinvolti. La possibilità di

miglioramento si inserisce in un approccio multidimensionale, capace di apportare una maggiore

comprensione della patogenesi. Attraverso più prospettive è, infatti, possibile pervenire ad un

maggior rispetto per la complessità umana, in una prospettiva bio-psico-sociale, congiuntamente

a quella dello sviluppo.

Il fattore evolutivo è il più innovativo ed in stretta interrelazione con le altre dimensioni. Esso

permette di identificare i bisogni emotivi dei soggetti con DI, di comprendere la patogenesi e lo

sviluppo di comportamenti maladattivi attraverso la delineazione di fasi strutturali e funzionali,

ognuna delle quali rispecchia determinati livelli di sviluppo cognitivo, emotivo e sociale e

determinati bisogni di base, comportamenti e disfunzioni.

1.2 Metodi

E’ stato eseguito il confronto tra il livello di sviluppo emotivo emerso dallo Schema di Valutazione

dello Sviluppo Emozionale (SAED) ed il livello di ad adattività all’ambiente, misurato con gli stessi

soggetti attraverso la Scala di Comportamento Adattivo (Vinaland), prestando una particolare

attenzione al Dominio Socializzazione di quest’ultima.

1.3 Risultati

Dai dati ottenuti emerge una forte concordanza tra il livello delle capacità adattive, quindi cognitive

e sociali ed il livello di sviluppo emotivo, fino al punto di suggerire le medesime età psico-socio-

evolutive. I due strumenti sono si integrano vicendevolmente nel costituire un quadro armonico di

ciascun soggetto in esame.

1.4 Conclusioni

Malgrado la ristrettezza numerica del campione che ha caratterizzato il presente studio, i risultati

ottenuti permetterebbero di ipotizzare che il SAED possa essere utile per una maggiore

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comprensione della patogenesi, conoscenza dei reali bisogni dell’individuo ed inquadramento dei

comportamenti del soggetto all’interno di una cornice di riferimento individualizzata, nel pieno

rispetto del soggetto valutato. Attraverso un approccio bio-psico-sociale e dello sviluppo è

possibile favorire l’accuratezza diagnostica, ai fini di una linea di trattamento più adeguata,

l’individuazione di un ambiente capace di rispondere ai reali bisogni della persona ed un reale

miglioramento della Qualità della Vita dei soggetti con DI.

2. Introduzione

Le classiche categorie diagnostiche descrittive fenomenologiche, rappresentate dal Manuale

Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM) e dalla Classificazione Internazionale delle

Malattie (ICD), usate per la valutazione di individui con Disabilità Intellettiva (DI) considerano

principalmente il livello di sviluppo cognitivo, la capacità adattative del soggetto e l’età di

insorgenza del disturbo (prima dei 18 anni di vita).

Il Ritardo Mentale (RM), infatti, viene definito dal manuale ICD-10 come “… una condizione di

interrotto o incompleto sviluppo psichico, caratterizzata soprattutto da compromissione delle

abilità che si manifestano durante il periodo evolutivo e che contribuiscono al livello globale di

intelligenza, cioè quelle cognitive linguistiche, motorie e sociali.” (pag. 219). A tale condizione si

associa sempre una compromissione delle capacità di adattamento sociale.

Il DSM-IV definisce il RM come la via finale comune di diversi processi patologici, che agiscono

sul sistema nervoso centrale, ed è caratterizzato da un funzionamento intellettivo

significativamente sotto la media, da concomitanti deficit o compromissioni del funzionamento

adattivo, entrambi insorti prima dei 18 anni.

A causa della difficoltà nella formulazione diagnostica, in passato i disturbi psicopatologici presenti

nei soggetti con DI sono stati considerati ineluttabile conseguenza del deficit intellettivo e trattati

come se tali disturbi rivestissero un’importanza marginale ai fini della Qualità della Vita dei

soggetti interessati.

Per sopperire al disagio psico-sociale dei soggetti, si utilizzavano trattamenti psicofarmacologici,

spesso in modo aspecifico e ripetitivo, in particolare attraverso l’uso di antipsicotici e di

stabilizzanti dell’umore. Spesso tale approccio terapeutico, purtroppo ancora oggi spesso

utilizzato, si rivela improprio e scarsamente efficace e mirato principalmente al controllo dei

comportamenti, socialmente ritenuti “non normali o non consoni”, senza comprendere i reali

bisogni degli individui, le motivazioni sottostanti e la percezione individuale del contesto di

riferimento.

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30

Soltanto negli ultimi decenni i progressi scientifici ottenuti nel campo delle disabilità intellettive

hanno potuto dimostrare che la persona con ritardo mentale è predisposta ad una vulnerabilità ai

disturbi psicopatologici più elevata rispetto alla popolazione normale, con un’incidenza superiore

al 40%..

Tali disturbi associati alle problematiche comportamentali da essi spesso provocate, ostacolano,

inoltre, i processi di integrazione sociale.

I progressi ottenuti nel campo delle neuroscienze e della biologia molecolare hanno contribuito ad

una maggiore comprensione dei processi sottostanti ai disturbi psichiatrici, migliorandone ed

integrandone la comprensione. Tali progressi hanno dimostrato come una maggiore accuratezza

diagnostica possa permettere una significativa riduzione dei dosaggi farmacologici utilizzati.

La complessità delle problematiche comportamentali e psichiatriche di questa popolazione, infatti

richiede un’indagine completa della persona in esame. Ciò implica l’introduzione di un approccio

multidimensionale: biologico, psicologico, sociale ed evolutivo o dello sviluppo al fine di superare

il riduzionismo biologico ed ottimizzare l’identificazione e la gestione dei disturbi mentali. Esso

prevede una collaborazione tra professionalità diverse per la valutazione diagnostica dell’area bio-

psico-sociale, integrata dall’aspetto evolutivo: psichiatri, psicologi, pedagoghi, assistenti sociali,

infermieri, caregivers..

Attraverso un approccio multidimensionale è possibile, infatti, integrare l’intervento farmacologico

con quello psicoterapico e psico-sociale, in grado di valutare le diverse funzioni intellettive del

soggetto, le sue caratteristiche di personalità, le sue necessità emozionali, le sue vulnerabilità

psico-organiche ed il livello di adattamento, al fine di ricreare un ambiente con il quale il soggetto

possa relazionarsi adeguatamente.

La prospettiva dello sviluppo è risultata essere innovativa e molto utile nella valutazione, nella

diagnosi e nel trattamento dei soggetti con DI.

Lo sviluppo emozionale e della personalità, infatti, giocano un ruolo importante nella genesi,

insorgenza e manifestazione del comportamento mal adattivo. Appare, pertanto, necessaria la

comprensione del significato del singolo comportamento, inquadrandolo all’interno dello specifico

periodo evolutivo.

L’assunto basilare risiede nel concetto secondo cui la differenziazione per stadi di sviluppo della

funzionalità del Sistema Nervoso Centrale e dei suoi cambiamenti qualitativi e strutturali riferita al

bambino medio, caratterizza anche i soggetti con DI e ne determina la tipologia di pensieri e di

emozioni, le modalità espressive, il comportamento, le modalità adattive all’ambiente di

riferimento e l’interazione con l’ambiente.

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Differenti stadi di sviluppo emotivi determinano differenti comportamenti adattativi e differenti

reazioni allo stress. Spesso i soggetti con DI, rispetto alla popolazione generale, hanno un livello

di sviluppo psico-sociale situato nelle fasi più precoci della vita emotiva. L’età emotiva rispecchia

spesso quella mentale, ma in alcuni casi la corrispondenza può non essere riscontrata. In tale

ottica, il disturbo del comportamento si può interpretare come risultante di una discrepanza tra il

livello dello sviluppo cognitivo rispetto allo sviluppo emozionale e dovuto al conflitto tra ciò di cui il

soggetto necessita e ciò che riceve dall’ambiente. In altri termini molti disturbi comportamentali

possono rientrare nella categoria dei “comportamenti di sfida”, cioè una crisi tra il soggetto e il suo

ambiente, senza per questo rappresentare necessariamente un disturbo psichiatrico. In tal caso la

corretta comprensione del comportamento è un passo preliminare ed indispensabile sia per una

corretta diagnosi, sia per un adeguato intervento terapeutico abilitativo.

A tale proposito, attraverso l’integrazione di diverse teorie dello sviluppo riferite alle fasi o stadi

che caratterizzano il percorso evolutivo del bambino medio, Dosen ha elaborato uno strumento

per la comprensione dello sviluppo emozionale denominato Schema di Valutazione dello Sviluppo

Emozionale (SAED), che permette di indagare la relazione tra la sfera emotiva e quella cognitivo-

comportamentale e di comprendere il livello attuale di sviluppo negli aspetti psicosociali proposti:

come la persona tratta il proprio corpo, interazione con il caregiver, interazione con i pari,

manipolazione di oggetti materiali, differenziazione affettiva, comunicazione verbale, ansia,

permanenza dell’oggetto, esperienza del “Sé” e regolazione dell’aggressività. Tali aspetti sono

risultati essere permanentemente presenti durante tutta la vita, presentando delle modificazioni

nelle modalità di risposta, di espressione e bisogni emozionali di base.

L’assunto teorico alla base della strumento postula la differenziazione evolutiva e strutturale in

cinque stadi di sviluppo emozionale.

La prima fase è denominata “adattamento”, corrispondente al periodo intercorrente tra 0 e 6 mesi

e caratterizzata principalmente da una costante attenzione a stimoli interni, con la conseguente

regolazione delle necessità fisiologiche, ed a stimoli esterni, fisici ed umani. Una volta pienamente

raggiunta la prima, segue la seconda fase, chiamata “Socializzazione”, poiché caratterizzata dallo

spostamento attentivo verso particolari persona con cui intraprendere una relazione “unica”. Il

soggetto ha una maggiore consapevolezza della propria corporeità ed assumono pregnanza le

relazioni sociali. Quest’ultima fase corrisponde al periodo intercorrente tra i 6 ed i 18 mesi. Le altre

tre fasi saranno descritte in seguito. Esse sono state denominate dall’autore come:

“Individuazione”, “Identificazione” e “Consapevolezza della realtà”.

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Il questionario viena compilato da professionisti esperti, attraverso l’osservazione del soggetto

valutato o attraverso un’intervista strutturata ai suoi caregivers. Il profilo stadiale emerge dalla

corrispondente presenza o assenza degli elementi caratterizzanti la specifica fase . Ad ogni livello

di sviluppo evolutivo sono stati identificati caratteristici comportamenti, bisogni emozionali di base,

ed eventuali disturbi psicopatologici.

La psicopedagogia dello sviluppo psico-sociale può migliorare le procedure diagnostiche in

quanto permette di comprendere l’evoluzione delle modalità di coping del soggetto, le sue

motivazioni e necessità emozionali. L’obiettivo primario dell’intervento è rivolto al miglioramento

della Qualità della Vita del paziente, ossia al benessere in tutte le sue aree di vita, e non soltanto

all’estinzione della psicopatologia.

3. Obiettivo

Verificare se il concetto multidimensionale di capacità adattive, come comunemente utilizzate

come criterio diagnostico, presenti una relazione significativa con lo sviluppo emotivo.

4. Partecipanti

Il campione casuale è costituito da 10 soggetti effetti da Trisomia 21 ed afferenti all’Ambulatorio

per i bisogni di Salute Mentale nella DI del Dipartimento di Scienze Neurologiche e Psichiatriche

dell’Azienda Ospedaliera di Careggi, Firenze.

5. Procedura e strumenti

Congiuntamente al SAED è stata somministrata la Vineland (Scala di Comportamento Adattivo,

VABS) di cui è disponibile adattamento e standardizzazione italiana (a cura di Balboni &

Pedrabissi, 2003). Molteplici indagini hanno accertato che la versione italiana è contraddistinta da

ottime proprietà psicometriche (ad es., Balboni, Pedrabissi, Molteni, & Villa, 2001).

La Scala Vineland è un test normativo, di cui sono disponibili norme statistiche italiane che

consentono di convertire il punteggio grezzo conseguito dai soggetti in un punteggio ponderato

rispetto alla prestazione dei gruppi normativi italiani.

Essa si articola in 4 scale (Comunicazione, Abilità quotidiane, Socializzazione e Abilità motorie), a

loro volta costituite da 11 sottoscale. Ogni sottoscala è a sua volta suddivisa in cluster (composti

da 2 a 8 item) elencati in ordine evolutivo crescente. Oltre alle scale è possibile utilizzare la Scala

composta, che comprende tutte e quattro le scale del comportamento adattivo.

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Nella presente indagine le risultanze del SAED sono state comparate con la Scala Vinaland, ossia

alla Scala Composta ed al Dominio Socializzazione.

6. Metodi di analisi dei dati

Al fine di poter confrontare i contenuti sottostanti alle due diverse Scale, i risultati ottenuti sono

stati dapprima trascritti sulla base del criterio sottostante la singola Scala (tab1.). In seguito è

stata confrontata sia la fase dello sviluppo emozionale, sottesa al costrutto teorico di Dosen (tab.

2.), sia le età emerse (tab.3). La significatività della relazione tra i punteggi ottenuti è stata

indagata attraverso il calcolo del chi quadro (χ2).

7. Risultati

Seppure con un numero limitato di soggetti, il confronto dei punteggi da loro conseguiti nelle Scale

Vineland, specifiche a determinate abilità adattive, con i punteggi ottenuti al SAED sembra

indicare una concordanza tra ognuna delle fasi dello sviluppo emozionale previste da Doesen con

le fasi dello sviluppo delle competenze adattive e sociali misurate dalla Scala Composta e dalla

Scala Socializzazione della Vineland.

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TAB 1. Comparazione Scale SAED e Scala Composta e Socializzazione Vineland (mettere tutto

in mesi e anni)

PAZIENTE ETA’ SAED

FASE

SAED

Età Scala Composta

VABS

Età Socializzazione

VABS

1. Da 18 a 36

mesi

3 29 mesi 1 anno e 10 mesi

2. Da 18 a 36

mesi

3 31 mesi <1 anno e 6 mesi

3. Da 18 a 36

mesi

3 30 mesi 2 anni e 7 mesi

4. Da 18 a 36

mesi

3 30 mesi <1 anno e 6 mesi

5. Da 3 a 7 anni 4 5 anni e 6 mesi 3 anni e 11 mesi

6. Da 3 a 7 anni 4 5 anni e 6 mesi 5 anni e 5 mesi

7. Da 3 a 7 anni 4 6 anni e 6 mesi 6 anni e 5 mesi

8. Da 3 a 7 anni 4 6 anni e 6 mesi 6 anni e 9 mesi

9. Da 7 a 12

anni

5 10 anni e 6 mesi 9 anni e 5 mesi

10. Da 7 a 12

anni

5 8 anni e 4 mesi 10 anni

I primi quattro soggetti presenti nella tabella 1 hanno evidenziato un’età evolutiva compresa tra i

18 ed i 36 mesi, afferendo alla terza fase dello sviluppo emozionale. I soggetti hanno manifestato

un’età approssimativamente simile anche nelle capacità adattive. Sulla base del costrutto teorico

sottostante lo strumento SAED, tale fase dello sviluppo emozionale è chiamata “Individuazione”

ed è caratterizzata dall’uso del linguaggio e della parola “io”, nel tentativo di differenziarsi da altri e

di attirare l’attenzione, dalla ricerca dell’autonomia, la cui privazione provoca una forte ansia. Può

essere, inoltre, presente distruttività, irritabilità, irrequietezza, ostinazione e negativismo.

La concordanza stadiale SAED e VABS si è evidenziata anche per i secondi quattro pazienti,

rinvenibili in un’età compresa tra 3 e 7 anni ed ascrivibili nella quarta fase dello sviluppo

emozionale denominata “Identificazione”, che si realizza verso persone importanti, ed è connotata

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dalla formazione del super-io, dunque dall’accettazione delle regole di comportamento sociale di

altri importanti, dalla dipendenza verso questi ultimi, dal conflitto con l’autorità, dalla paura di fallire

e da una fantasia esagerata presente sia nelle modalità ludiche che nella comunicazione verbale.

Gli ultimi due soggetti risultano avere un’età, sia adattiva che emozionale, compresa tra i 7 ed i 12

anni. Questi sono collocabili nella quinta fase dello sviluppo emozionale, denominata

“Consapevolezza della realtà”, caratterizzata da una forte socialità, quindi dalla capacità di creare

rapporti cooperativi e legami amicali, ma anche dall’ansia sociale e dalla paura del disprezzo.

La maturazione del super-ego incide sul controllo dell’aggressività e sulla differenziazione affettiva

facendo sì che il soggetto provi senso di colpa, vergogna e senso di coscienza.

8. Analisi dei dati

Il confronto sulla base della fase di sviluppo emozionale corrispondente all’età rilevata è stato

compiuto collocando le età ottenute nella Scala Composta e nel Dominio Socializzazione della

Vineland.

Tab 2. Confronto tra fase SAED e relativa fase VABS per Scala Composta e Socializzazione

PAZIENTE FASE

SAED

FASE

Scala

Comp

VABS

FASE

Soc.

VABS

1 3 3 3

2 3 3 2

3 3 3 3

4 3 3 2

5 4 4 4

6 4 4 4

7 4 4 4

8 4 4 4

9 5 5 5

10 5 5 5

Come è possibile notare già empiricamente, i dati nella maggior parte dei casi concordano.

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Per una lettura più agevole è possibile notare dalla tabella a doppia entrata come siano

sovrapponibili le fasi previste da Dosen e quelle relative alla Scala Composta della VABS (tab.

2.1.).

Tab. 2.1. Tabella a doppia entrata: fase SAED e Scala Composta VABS

FASE S. Composta VABS

FASE

SAED 3 4 4 Totale

3 4 4

4 4 4

5 2 2

Totale 4 4 2 10

Per quanto riguarda il confronto tra la rispettiva fase del SAED ed il Dominio Socializzazione si

possono notare soltanto due casi discordanti, seppure la fase rilevata sia attigua a quella

riscontrata da Dosen (tab. 2.2.)

Tab. 2.2. Tabella a doppia entrata: fase SAED e Dominio Socializzazione VABS

FASE S. Composta VABS

FASE

SAED 2 3 4 5 Totale

3 2 2 4

4 4 4

5 2 2

Totale 2 2 4 2 10

Tab. 2.3. Chi quadro per Fase SAED e Scala

Composta VABS

Symmetric Measures

,816 ,000

1,000 ,000c

1,000 ,000c

10

Contingency CoefficientNominal by Nominal

Pearson's RInterval by Interval

Spearman CorrelationOrdinal by Ordinal

N of Valid Cases

ValueAsymp.

Std. Errora Approx. Sig.

Not assuming the null hypothesis.a.

Using the asymptotic standard error assuming the null hypothesis.b.

Based on normal approximation.c.

Tab. 2.4. Chi quadro per Fase SAED e

Socializzazione VABS

Symmetric Measures

,816 ,003

,943 ,018 8,050 ,000c

,973 ,030 12,000 ,000c

10

Contingency CoefficientNominal by NominalPearson's RInterval by Interval

Spearman CorrelationOrdinal by Ordinal

N of Valid Cases

ValueAsymp.

Std. Errora Approx. Tb Approx. Sig.

Not assuming the null hypothesis.a.

Using the asymptotic standard error assuming the null hypothesis.b.

Based on normal approximation.c.

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Nell’esame categoriale è stato possibile notare come i due test siano fortemente relati, con un

valore di correlazione di 1 per ciò che concerne il legame tra SAED e la Scala Composta VABS

(tab. 2.3) e di .94 tra SAED ed il Dominio Socializzazione della Vineland. In entrambi i casi il livello

di significatività è inferiore a .000c , pertanto è possibile affermare che, malgrado le due Scale

siano diverse, misurano lo stesso costrutto.

Risultati analoghi sono emersi anche dal confronto tra l’Età, corrispondente in anni (tab. 3).

Questa è stata ottenuta calcolando il punto medio per ogni fase SAED ed approssimando per

difetto da 0 a 5 mesi e per eccesso da 6 a 11 le Età emerse dalla Scala Composta e dal Dominio

Socializzazione presente nella Vineland.

Tab 3. Confronto tra Età SAED e relativa Età VABS per Scala Composta e Socializzazione

PAZIENTE Età

SAED

Età Scala

Comp.

VABS

Età Scala

Soc. VABS

1 2 2 2

2 2 3 2

3 2 3 3

4 2 3 2

5 5 6 4

6 5 6 5

7 5 7 6

8 5 7 7

9 9 11 9

10 9 8 10

Anche in questo caso il confronto è stato eseguito attraverso il chi quadro(χ2), distinguendo i

punteggi ottenuti dai soggetti nella Scala Composta rispetto a quelli ottenuti nel Dominio

Socializzazione.

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Nel confronto tra le Età emerse dalle due Scale è possibile notare che il SAED non è la ripetizione

della stessa prova, ma sono due strumenti diversi. Rispetto sia alla Scala Composta che al

Dominio Socializzazione è emerso un valore di .94 per la prima e .96 per la Socializzazione con

una significatività di relazione inferiore a .000c. Dai risultati ottenuti, malgrado la ristrettezza del

campione è, dunque, ipotizzabile con un’elevata probabilità che i due test misurino lo stesso

costrutto poiché non si riscontrano differenze significative nei valori ottenuti.

9. Conclusione

Malgrado i limiti costituiti dalla ristrettezza del campione, è possibile affermare che la componente

dello sviluppo e della personalità, finora sottovalutate, rientrano nel concetto di adattamento.

Pertanto le capacità adattive sono dovute non solo alle abilità cognitive e sociali, ma anche a

quelle emotive ed evolutive. Essendo la personalità individuale data da molteplici fattori, è

indispensabile considerare il ruolo che lo sviluppo gioca nella patogenesi delle patologie dei

soggetti con DI pertanto, anche i problemi incontrati dal soggetto dovrebbero essere trattati con

una tipologia di intervento integrato, che tenga conto delle componenti evolutive, emotivo-

relazionali, delle specifiche necessità e strutturazioni ad essi connessi.

La valutazione degli aspetti psicosociali e dello sviluppo mostra avere ampie concordanze con i

test comunemente utilizzati con soggetti intelletivamente disabili.

Essa permette una conoscenza più approfondita del soggetto stesso, ossia del suo sviluppo

cognitivo, sociale, emozionale e della personalità, i suoi bisogni di base e le sue motivazioni.

Il comportamento dell’individuo, correlato ai fattori emersi, potrà essere dotato di un nuovo

significato e connesso all’interno di un quadro concettuale più ampio, pertanto anche la sua ad

attività o maladattività sarà in funzione del livello di sviluppo bio-psico-socio- emozionale. Un

Tab. 2.3. Chi quadro per Età SAED e Scala

Composta VABS

Symmetric Measures

,816 ,029

,943 ,030 8,033 ,000c

,952 ,021 8,764 ,000c

10

Contingency CoefficientNominal by Nominal

Pearson's RInterval by Interval

Spearman CorrelationOrdinal by Ordinal

N of Valid Cases

ValueAsymp.

Std. Errora Approx. Tb Approx. Sig.

Not assuming the null hypothesis.a.

Using the asymptotic standard error assuming the null hypothesis.b.

Based on normal approximation.c.

Tab. 2.3. Chi quadro per Età SAED e

Socializzazione VABS

Symmetric Measures

,816 ,130

,959 ,025 9,543 ,000c

,946 ,025 8,232 ,000c

10

Contingency CoefficientNominal by Nominal

Pearson's RInterval by Interval

Spearman CorrelationOrdinal by Ordinal

N of Valid Cases

ValueAsymp.

Std. Errora

Approx. TbApprox. Sig.

Not assuming the null hypothesis.a.

Using the asymptotic standard error assuming the null hypothesis.b.

Based on normal approximation.c.

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approccio integrato potrà, inoltre, agevolare la comprensione dei meccanismi di insorgenza della

sintomatologia.

Una diagnosi psichiatrica corretta non può prescindere dalla considerazione dei fattori evolutivi

attraverso cui si delineano gli aspetti psico-socio-emozionali e cognitivi che sincronicamente si

raggruppano tra loro nel delineare un determinato stadio evolutivo.

L’azione è il comportamento risultante dalle necessità emozionali, che strutturano le motivazioni

individuali e ne determinano le attività dirette all’obiettivo e le interazioni ambientali.

Malgrado i risultati ottenuti dalla presente indagine siano analoghi a quelli emersi dalle ricerche di

molti autorevoli autori operanti nel campo della disabilità intellettiva e si sia evidenziata

l’importanza della considerazione degli aspetti legati allo sviluppo evolutivo per una maggiore

accuratezza nella diagnosi e nel trattamento, spesso continuano ad essere usate unicamente le

classiche categorie diagnostiche descrittive fenomenologiche, legate principalmente al livello di

sviluppo cognitivo, senza integrare tale valutazione con le informazioni sulle caratteristiche

psicosociali e dello sviluppo.

10. Riferimenti bibliografici

[1] Balboni, G., Pedrabissi, L., Molteni, M. e Villa, S. (2001). Discriminant validity of the Vineland

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Journal on Mental Retardation, 106, 162-172.

[2] Doll, E.A. (1940). The social basis of mental diagnosis. Journal of Applied Psychology, 24,

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[3] Doll, E.A. (1941). The essentials of an inclusive concept of mental deficiency. American

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[4] Doll, E.A. (1965). Vineland Social Maturity Scale. American Guidance Service, Circle Pines,

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[5] Dosen A. (1983) Psychische stoornissen bij zwakzinnige kinderen. Swets en Zeitlinger, Lisse.

[6] Dosen A. (1990) Psychische en gedragsstoornissen bij zwakzinnigen. Boom, Amsterdam.

[7] Dosen A. (1997) Psychische Storungen bei geistig behinderten Menschen. Gustav Fischer,

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[11] Dosen A. (2005 b) Applying the developmental perspective in the psychiatric assessment and

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[12] Dosen A. (2005 c) Psychische stoornissen gedragsproblemen en verstandelijke handicap.

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[13] Dosen A.& Day K. (2001) Treating Mental Illness and Behavior Disorders in Children and

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[15] Gabbard G.O. (2005) Mind, brain, and personality disorders. American Journal of Psychiatry

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[17] Giannini, M. (2002) Il comportamento adattivo. Bollettino di Psicologia Applicata, 238,

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[19] Grossman, H.J. (1977). Manual on terminology and classification in mental retardation-

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[25] Lowry M.A. (1998) Assessment and treatment of mood disorders in persons with

developmental disabilities. Journal of Developmental and Physical Disabilities 10, 387-406.

[26] Vonk J. & Egberts C. (1990) Counseling of mentally retarded children with emotional and

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KABBALAH TRA CONSAPEVOLEZZA E STILE DI VITA

Claudia Palermo

Un po’ per formazione, un po’ per esperienza di vita, già mi ero accorta che non sono certo le nostre qualità, i nostri talenti o la nostra parte buona a farci fare le esperienze più intense, ad omaggiarci degli insegnamenti che restano. Fondamentali piuttosto le porte in faccia. A patto però che ognuno di noi si assuma la responsabilità delle proprie azioni e ne trattenga, senza piangersi addosso, il messaggio che quell’esperienza porta con sé. Ho sempre pensato che i nostri tratti caratteriali meno nobili facessero capolino in un particolare momento, in una data situazione, per dirci qualcosa. E ne sono tutt’ora convinta. Come sono convinta che le persone spirituali non siano quelle che lasciano tutto per andare in India sotto un albero a meditare , o che recitino il S. Rosario tutte le mattine,ma siano piuttosto quelle che “restano” a lottare nella “banalità” del quotidiano, con le bollette da pagare, i bambini che strillano, il tempo che non basta mai e il letto ancora da rifare. Qualche anno fa, quando studiai Rudholph Steiner, ricordo più di tutto fui colpita da un concetto chiave: tutte le volte che soffri è perché ti stai intestardendo su qualcosa. Sarà ….. In realtà con gli anni non solo ho realizzato quanto fosse vero ma ho compreso che il processo di trasformazione dell’individuo transita necessariamente da due stazioni: o la sofferenza o la trasformazione spirituale. Non esistono altre possibilità. Certo avere fede aiuta. Ma cosa significa avere fede? E in chi riporla? Aver fede significa avere fiducia e in chi riporla, innanzitutto in noi stessi. Dio non ha mai creato la religione, piuttosto essa appartiene agli esseri umani, alla storia. E questa “invenzione” non ha portato che guerre, odio, separazioni. Per quanto sia tragico ammetterlo , è stato versato più sangue in nome della religione di quanto siano riusciti a fare tutte le malattie e i crimini messi insieme (Yeuda Berg - “I 72 nomi di Dio”). Quando si parla di sofferenza, non servono spiegazioni, ci si intende sempre. Quando varchiamo la soglia della spiritualità ci si confonde un tantino. Spesso il fraintendimento si genera proprio perché si associa spiritualità a religiosità e ci si perde in labirinti senza uscita. La spiritualità vera trascende differenze geografiche, barriere e sistemi di credenze che da sempre caratterizzano l’Umanità. La parola d’ordine è incondizionatamente. Si tratta sempre e comunque di una faccenda personale. E’ un percorso che inizia e non finisce. Ho trovato conferma circa le mie convinzioni nello studio della Kabbalah. Dicono che ci si arriva verso i quarant’anni e così a me è successo. Mi capitava di imbattermi in un articolo, in un libro, in qualcun che ne sapeva qualcosa e mossa dalla “curiosità” ho cominciato a leggere dopodichè ho preso contatti con il Kabbalah Centre di Londra e Tel Aviv, volevo capire meglio. Così è iniziato il mio viaggio di conoscenza e consapevolezza e mille e mille volte mi sono trovata a dire, leggendo un testo o confrontandomi con la mia insegnante:”E’ vero, lo sapevo già!”. In effetti la Kabbalah non mi ha insegnato nulla che non sapessi già, che non fosse già dentro di me, semplicemente mi aiuta ad attivare le mie risorse. Si tratta di uno strumento spirituale antico quanto il mondo ma che non richiede null’altro che azione per rendere accessibili i benefici che rende. Nella vita capire come funzionano le cose aiuta.

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E allora forse affrontiamo anche meglio le prove che “all’improvviso” ci si materializzano davanti; le sfide che ci visitano di tanto in tanto. Nulla succede per caso. Qualsiasi evento, circostanza, esperienza o persona che capita nella nostra vita ha un significato preciso. Soprattutto quelle meno piacevoli. Qualcuno potrebbe pensare ad un atteggiamento zen, a un gran self control. Niente affatto. E’ il risultato derivato dalla consapevolezza che ci conferisce un miglior baricentro, che ci porta a fare la cosa giusta nel momento più opportuno. Certo non è sempre un viaggio in prima classe. Occorre contattare le nostre paure, il nostro ego, il dubbio e molto ancora. Ma ne vale la pena. Cambia la qualità della vita. “All’improvviso” non mi arrabbio più se qualcuno mi taglia la strada o mi fa un torto, perché ne comprendo il significato. I cabalisti dicono che nella vita non bisogna né subire né farsi giustizia. C’è una giustizia al di sopra delle cose e delle persone che è in grado di ripristinare gli equilibri, basta affidarsene. Non voglio dire che la Kabbalah sia la chiave di lettura per definizione ma sicuramente una filosofia di vita che ci rende migliori, più consapevoli e in grado di apprezzare quello che la vita stessa ci offre. E se qualcuno la incontra … buon viaggio!

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IL LIBRO DI ALICE

Silvia Benedetti

Questo testo, destinato ad alunni delle scuole Elementari, è nato in seguito alle campagne

d’informazione che si svolgono negli USA, per informare i bimbi rispetto ad alcune gravi patologie,

in questo caso parliamo di quelle cerebrovascolari.

Infatti, mettere a conoscenza i bimbi riguardo ai sintomi di tali malattie fa sì che essi diventino i

primi soccorritori o che perlomeno allertino gli adulti.

L’ictus è una malattia invalidante, ma se essa è curata entro le prime tre ore, possiamo ridurre i

deficit che possono addirittura essere nulli.

Questo testo, in veste gradevole e accattivante, racconta la storia di una bimba, ALICE, il cui

nonno ha difficoltà a muovere le mani, le gambe e a parlare. La famiglia non sa quali iniziative

intraprendere e alla fine decide di chiamare il 118.

Questo intervento compiuto velocemente dal personale del 118, che telefonicamente è informato,

dai familiari, rispetto ai sintomi, permette al nonno di giungere in ospedale con celerità e di

effettuare la trombolisi venosa. Questo fa sì che il paziente non abbia deficit correlati all’evento

ischemico.

Nelle pagine seguenti del libro sono elencati gli stili di vita sani per evitare altri attacchi.

Nelle ultime pagine, infine, sono presenti alcune indicazioni pratiche, vale a dire cosa osservare

rispetto ai sintomi.

Al termine ci sono alcuni giochi come cruciverba e scritte da colorare.

Nella penultima pagina c’è un questionario per i genitori ed uno per i bambini, formulato su scala

Likert, con tre variabili di risposta molto, abbastanza, poco.

Si chiede ai genitori se questo testo ha fornito informazioni utili, se ha colmato alcune loro lacune,

se hanno affrontato l’argomento con il loro bambino e qual è il loro giudizio complessivo( ottimo,

buono, sufficiente).

Ai bimbi invece si chiede con le solite modalità della scala Likert (molto, abbastanza, poco) se gli

è piaciuto il libro, se hanno imparato qualcosa di nuovo, se si sono spaventati, se ne hanno

parlato con gli amici.

Sono stati distribuiti nelle scuole pistoiesi 3465 testi, sono state rese 357 schede.

Sono stati analizzati i dati, con i seguenti risultati.

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Alla prima domanda i genitori hanno risposto che il libro aveva fornito informazioni utili: il 37%

molto, il 50% abbastanza, 4% poco.

Alla seconda se aveva colmato delle lacune: molto il 40%, abbastanza 16%, poco 4%.

La successiva domanda chiedeva se avevano affrontato l’argomento con il loro bambino e hanno

risposto: 26% abbastanza, 44% molto, 24% poco, 6% non risponde.

L’ultima chiedeva la formulazione di un giudizio complessivo: 23% ottimo, 37% buono, 4%

sufficiente, 4% non risponde.

Anche i bambini hanno risposto:

Alla prima se gli era piaciuto il testo: molto 66%, abbastanza 25%, poco 3%, non risponde 6%.

Gli è stato chiesto inoltre se avevano imparato qualcosa di nuovo: molto 35%, abbastanza 23%,

poco 6%, non risponde 4%.

Era importante sondare se si erano spaventati e hanno risposto: molto 2%, abbastanza 12%,

poco 47%, 7% non risponde.

L’ultima chiedeva se ne avevano parlato con gli amici: molto 8%, abbastanza 13%, poco 41%,

non risponde 6%.

Da questi dati possiamo fare alcune deduzioni soprattutto riguardo ai bimbi.

Sono stati disponibili ad apprendere, non si sono spaventati, hanno messo in comune i contenuti

che avevano appreso.

L’obbiettivo che c’eravamo posti, in altre parole sensibilizzare i piccoli ed i loro genitori è stato

conseguito.

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RIFLESSIONI SUL FILM-DOCUMENTARIO:

“FRANK GEHRY. CREATORE DI SOGNI” di S. Pollack

Rachele Sughi

Qualche giorno fa ho avuto l’occasione di riguardare, insieme ad un gruppo di miei studenti, il film-

documentario “Frank Gehry. Creatore di sogni”. Il film, diretto da S. Pollack, è parte del

programma del corso che tengo sulla “Storia del design e dell’architettura del 20°-21°secolo”

perché lo ritengo particolarmente interessante soprattutto per chi fa, o farà, il “creativo” di

professione.

Pollack, attraverso la sua telecamera, ed il suo punto di vista ( il punto di vista di chi non conosce

l’universo del “fare architettura”), riesce a farci entrare, insieme a lui, in questo pianeta

sconosciuto. E, insieme a lui, scopriamo non solo la straordinaria personalità di Frank Gehry, ma

anche un fare e progettare architetture quanto mai originale ed affascinante.

DISNEY CONCERT HALL, modello (2003)

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Gli edifici di Gehry, infatti, non nascono sul foglio bianco, bensì prendono forma tra le sue mani.

Come un vero e proprio “artigiano di architetture”, le sue mani creano forme, volumi, dai materiali

più disparati: carta, cartone, plastica, legno, ecc. Mani che modellano, plasmano, fondono la

materia, che rinasce, e rivive quasi magicamente. Dai materiali più semplici, ordinari, Gehry è

capace di creare lo straordinario. E guardando i suoi edifici ti convinci proprio di questo: l’essere

umano è in grado di realizzare l’impossibile.

Il Disney Concert Hall di Los Angeles, il museo Guggenheim di Bilbao, “Ginger & Fred” di Praga, il

Weisman Art Museum di Minneapolis, la Foundation Louis Vuitton pour la création di Parigi (di

prossima costruzione), tutte queste opere architettoniche ci mostrano, e dimostrano, proprio

questo.

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“GINGER & FRED” dancing house,

Praga (1992-95)

Il film-documentario dà particolare rilievo ad una figura che ha svolto un ruolo fondamentale nella

vita dell’architetto canadese: il dottor Milton Wexler.

Wexler è stato psicoanalista di Gehry. Lo conosce da quasi 40 anni. E in questi 4 decenni, ha

visto e vissuto, da vero analista, le sue “trasformazioni”: il Gehry pieno di paure, insicurezze,

dubbi, frustrazioni, che prende lentamente fiducia nelle proprie capacità, prende consapevolezza

dei propri mezzi, comprende profondamente chi è. Il risultato è l’incredibile potenziale creativo

che, proprio grazie alla terapia, è riuscito a liberare. Una libertà totale che si mostra infatti appieno

nei suoi edifici, fuori dal tempo e da ogni possibile categoria.

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FREDERICK R. WEISMAN ART MUSEUM, Minneapolis (1993)

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WALT DISNEY CONCERT HALL, Los Angeles (2003)

Milton Wexler spiega nel film che il momento più importante per la carriera di Gehry, e per l’uomo-

Gehry, è stato il passaggio dall’ “adolescenza” a l’ “età adulta”. Wexler ricorda di Gehry, fin dalle

primissime sedute, un modo di fare, un approccio verso il prossimo, quasi infantile. Un

atteggiamento, spiega, che si ritrova, tipico, proprio nel bambino: la seduzione. Gehry, quando

ancora non era Gehry, aveva un grande bisogno di riconoscimenti, di lodi, un bisogno profondo di

essere accettato come essere umano e come artista. Un bisogno che abbiamo tutti, potremmo

definirlo “primario”. In Gehry, continua Wexler, questo aspetto era talmente forte che, quando si

relazionava con eventuali “clienti”, egli utilizzava inevitabilmente l’arma della seduzione per

riuscire a “conquistarli”. Proprio come il bambino che desidera ardentemente un giocattolo e arriva

a sedurre la madre o il padre pur di averlo, pur di possederlo, così Gehry utilizzava lo stesso tipo

di meccanismo. In questo modo si lasciava andare ad atteggiamenti che in realtà non facevano

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parte del suo vero io. Si mostrava per quello che non era, pur di avere, possedere, l’oggetto del

suo desiderio: conquistare il cliente. Ma allora qual’è il problema ci potremmo domandare a

questo punto.

Il problema nasce quando questo meccanismo rimane “arma primaria” di conquista, anche in età

adulta. L’individuo che non è riuscito, attraverso l’educazione, i rapporti interpersonali, ecc., a

crearsi un io forte, un’autostima solida, avrà difficoltà in qualsiasi tipo di relazione. Avrà sempre

bisogno di conquistare la fiducia, la stima degli altri per compensare la mancanza della propria. E

questo significa rimanere, per sempre, ad una fase infantile del vivere. Ad una fase, però, dove

l’individuo è orientato unicamente verso se stesso, unicamente verso la soddisfazione del proprio

ego.

Questo, spiega ancora Wexler, col tempo, gli ha creato un crescente stato di frustrazione perché

non riusciva a mostrare ai clienti, ai colleghi, a se stesso, il vero Gehry. La psicoterapia lo ha

aiutato proprio in questo: a compiere il “salto”. Inizialmente un vero salto nel vuoto, perché

mostrare il proprio vero io, per la prima volta, significa sapere da dove si parte ma non sapere

dove si arriva. “Io mostro a te per la prima volta chi sono, ma tu mi accetterai? Rimarrai comunque

accanto a me? O scapperai?”

Il cambiamento, lo sappiamo, è sempre accompagnato da uno stato emotivo di paura. La paura

del mutare delle cose è insita nell’uomo. E’ la paura del vuoto... Gehry, grazie a Wexler, è riuscito

a fare il “salto”. Ha cominciato a mostrare ciò che era e chi era: un essere umano, con i suoi lati

più e meno belli, ma comunque un essere umano di valore. Un individuo come tutti gli altri con

una grandissima passione: creare edifici. Accettare di essere un architetto, accettare di avere un

grande talento, per Gehry è stata, forse, la cosa più difficile.

Una frase attribuita a Nelson Mandela dice: “Noi non temiamo la nostra debolezza, ma la nostra

luce, la nostra grandezza”.

Gehry ha mostrato e dimostrato di essere un grandissimo architetto, prima di tutto a se stesso. E

l’accettare questo gli ha permesso di fare il passo successivo: mostrarlo agli altri. Senza più

paure, con la solidità della ritrovata autostima.

Non c’era più bisogno, a questo punto, di sedurre i suoi clienti. L’arma della seduzione l’ha

lasciata insieme ai “giochi” di quando era bambino.

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FRANK GEHRY

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INSERTO

SUL FENOMENO

HIKIKOMORI

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ANALISI DELLA PATOLOGIA DEI RAGAZZI GIAPPONESI HIKIKOMORI

DAL PUNTO DI VISTA OCCIDENTALE

Paolo Cardoso, Livia Cornelia Bernardoni, Giulia Casanovi.

Con la collaborazione dell’equipe del dott. Massimo Cecchi del SERT 2 di Firenze

1. Alcune considerazioni storiche e sociologiche sul Giappone

Prima di affrontare da un punto di vista psicologico la patologia dell’hikikomori occorre fare alcune

riflessioni di natura storico-sociologica. Noi siamo abituati a studiare le patologie psicologiche del

mondo occidentale nel loro contesto di sviluppo storico ed in relazione con la nascita e

mutamento dei miti.

L’evoluzione della coscienza e dei valori collettivi sono imprescindibili dall’analisi delle malattie

psicologiche.

La cultura occidentale e giapponese si sono sviluppate in contesti storici e sociali diversissimi e

questo ha prodotto, alla fine, una coscienza storica e morale lontanissime tra di loro.

In questa prospettiva storica noi pensiamo che più significativo del cambiamento del periodo Meji,

sia stato quello avvenuto alla fine del secondo conflitto mondiale.

Lì vi fu un inserimento, a nostro giudizio, anche molto forzato degli Stati Uniti, di valori morali e

qualitativi assolutamente estranei al mondo culturale giapponese di allora, sino ad arrivare ad

ipotizzare, come hanno fatto i prof. Mizuno e Rizzoli, che ”tutta una generazione post-bellica, in

una massiccia identificazione con l’aggressore, si rivolse all’America.”9

Vi fu l’importazione e forse l’imposizione di valori, tradizioni, mode tipiche del mondo occidentale.

Molti giovani, anche per un normale rifiuto generazionale dei valori di quelle precedenti, vi si

uniformarono, così come furono accettati dalla generazione che aveva fatto la guerra perché

travolta dai sentimenti di vergogna per la sconfitta e forse con una voglia di girare pagina su una

struttura civile e culturale troppo legata ad un “Dai Nippon” ormai scomparso.

Certo giocò anche molto la necessità di adottare stili di vita e di produzione per uniformarsi alle

logiche ed alle leggi di un mercato economico nuovo e diversissimo, ma che offriva grandi

possibilità di crescita al Giappone.

9 Masafumi M., Rizzoli A. (1995). Introduzione alla psichiatria giapponese. Quaderni italiani di psichiatria 14(5).

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Il sogno di grandezza si poteva realizzare non con strumenti bellici, ma con la dedizione totale ed

assoluta al progresso tecnologico ed al mercato.

La frustrazione della sconfitta poteva essere superata attraverso uno sviluppo economico che

avrebbe portato il Giappone a divenire uno dei più importanti produttori di tecnologie avanzate del

mondo.

Per far ciò occorrevano giovani qualificatissimi da un punto di vista della preparazione

tecnologica. Ciò impose durissimi criteri di selezione, prima a scuola e poi nel mondo del lavoro.

Ne fu profondamente modificato il modello familiare. Il babbo divenne persona sempre più

assente nella vita familiare perché assorbito totalmente dal lavoro. Basta pensare al tempo

necessario per lo spostamento casa-lavoro-casa e le moltissime ore dedicate al lavoro per

rendersi conto che il tempo trascorso con la famiglia diveniva davvero poco e in ogni caso, a quel

punto, il genitore era stanco e poco disposto a dedicarsi ai problemi dei figli. Un altro fenomeno

interessante da valutare è che in quel periodo aumentano i figli unici, novità rispetto a modelli

familiari dove nelle famiglie vi erano sempre diversi figli. Questo, infatti, è il classico modello

familiare presente nelle civiltà dove l’attività economica preminente é quella contadina.

Tutto ciò ha ingenerato un cambiamento profondo nel rapporto di amae tra la madre ed il figlio,

spesso unico, che alla fine diviene patologico, per un eccesso d’attenzioni e d’aspettative.

I grandi sacrifici fatti dalle famiglie per dare ai figli la possibilità di accedere a scuole prestigiose e

l’enorme sforzo richiesto ai ragazzi per dare buoni risultati scolastici ha finito per travolgere gli

anelli più deboli.

Se si considera poi la storica diffidenza della cultura giapponese verso gli psichiatri e gli psicologi,

dovuta forse al fatto che chi vi faceva ricorso era visto da tutti solo come un matto, si capisce

perché il fenomeno, all’inizio, sia stato forse sottovalutato e poco studiato.

Ciò forse spiega lo strano approccio tenuto verso l’insorgere di problemi psicologici negli

adolescenti, che scaturiranno poi in gravi patologie, almeno per noi occidentali, tutti gli sforzi

erano posti nel cambiare i “comportamenti” e gli interventi erano mirati sulla famiglia per far sì che

il ragazzo potesse essere reinserito al meglio nel processo di studio.

2. Una descrizione della patologia “hikikomori”

Il termine “Hikikomori”, sindrome che colpisce ormai molti adolescenti giapponesi, è stato

frequentemente tradotto con quello di “social with-drawel” (ritiro sociale).10

10

Adams R. (2004). Hikikomori / Otaku Japans Latest Outgroup.

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Molti dei giovani affetti da “Hikikomori” condividono alcuni aspetti patologici con chi soffre di “taijin-

kyofu-sho”. Quest’ultima patologia consiste fondamentalmente nel mostrare un sentimento di

vergogna e forte timidezza alla presenza degli altri.11

Nell’aprile del 2003 il governo giapponese ha reso pubblico un primo studio su tale fenomeno. È

stato definito “Hikikomori” chiunque si sia completamente ritirato dalla società per più di 6 mesi. In

12 mesi (durata della ricerca) i casi segnalati dai servizi psichiatrici sono stati 6151 (40% tra i 16 e

i 25 anni – 21% tra i 25 e i 30 – 8% chiusi in una stanza per 10 anni o più).12

Dal punto di vista comportamentale si possono evidenziare una serie di atteggiamenti che

consistono prevalentemente nel negare qualsiasi tipo di contatto con la società; tra questi risalta il

rifiuto della scuola. Decidere di non andare più a scuola sembra essere il passo principale per

sprofondare nella patologia dell’“Hikikomori”. In effetti, sono in molti ad esibire un atteggiamento

d’avversione verso la scuola (“school refusal syndrom”).

L’assenza si prolunga per settimane o per mesi interi, il contatto con gli altri studenti appare

difficile in quanto fonte d’enorme disagio attribuibile probabilmente a capacità sociali poco

sviluppate.13

Un altro tipico comportamento è quello di rinchiudersi nella propria camera. In seguito a ciò,

spesso è alterato il ritmo sonno–veglia e le attività sono svolte durante la notte, mentre il giorno è

utilizzato per dormire. Gli unici interessi divengono i videogame, la televisione e l’utilizzo di

internet ed in particolare le chat-lines.

Chi è affetto da “Hikikomori” si differenzia, per esempio, da chi soffre di “Otaku” (giovani che

condividono una comune ossessione verso persone famose od oggetti) per il modo d’approccio ai

media.

Mentre l’ “otaku” divora i media come una forma di sapere sul proprio oggetto d’ossessione e

come un modo per diventare parte di un gruppo, l’ “Hikikomori” usa invece i media come una

forma d’evasione dalla realtà. Da una parte la televisione permette loro di avere notizie del mondo

senza essere osservati o controllati. Dall’altra i videogame rappresentano un passatempo che non

implica nessun coinvolgimento personale o interazione umana. Sebbene molti “Hikikomori” usino

11 Nakamura K. et al. (2002). The neurotic versus delusional subtype of taijin-kyofu-sho : Their DSM diagnoses.

Psychiatry and Clinical Neurosciences, 56, 595-601.

12

Watts J. (2002). Public health experts concerned about “hikikomori“. The Lancet, 359, 1131.

13

Letendre G. (1996-1997). Youth and Schooling in Japan: Competition with peers. Berkeley Journal of Sociology: A

critical Review, 41, 103-136.

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internet per comunicare, anche in questo caso si tratta pur sempre di una forma di comunicazione

che non comporta nessun contatto umano reale.14

Si presuppone che l’uso diffuso e sproporzionato del computer e della televisione nel Giappone

post-moderno abbia contribuito in parte all’aumento e allo stabilizzarsi di diverse patologie, come

l’ “Hikikomori” e il già citato fenomeno dell’ “Otaku”.

Ultimamente alle persone affette da “Hikikomori” sono frequentemente associati episodi di

violenza adolescenziale. Ma gli psichiatri giapponesi affermano invece che la maggior parte di

questi giovani esibiscono semplicemente dei comportamenti anti-sociali, ma non sono violenti.15

Va sottolineato che la reazione della società giapponese è sicuramente influenzata dai media che

propongono un’immagine di queste persone come rappresentanti del più inquieto ed enigmatico

gruppo di devianti. Di conseguenza si produce un innalzamento della paura del fenomeno che

causa nei genitori degli Hikikomori una grossa incertezza riguardo alle modalità più idonee da

attuare nell’interazione con i propri figli.16

3. Analisi delle possibili cause del fenomeno “hikikomori”

1.2 La società giapponese e il suo sistema d’educazione

È difficile definire con precisione le ragioni per le quali molti adolescenti soffrono di Hikikomori, ma

si può riprendere il discorso iniziale sull’analisi storica della società giapponese e dall’importanza

che ancora oggigiorno in Giappone riveste l’educazione.

Un tempo, la tradizionale famiglia giapponese, raffigurata come famiglia allargata, era fortemente

inserita nel tessuto della comunità e assolveva oltre alle funzioni socio-economiche importanti

attività religiose, essendo stata fonte d’educazione alla moralità e spiritualità.

La recente modificazione demografica, l’urbanizzazione e la trasformazione delle famiglie

allargate in nuclei di case ha portato a dei cambiamenti nelle relazioni intra-familiari. Inoltre, è la

classe media (New Middle Class), cioè persone che appartengono a singoli nuclei famigliari e che

vivono nelle città, ad essere soggetta a sviluppare maggiori disagi di civilizzazione.

14 Adams R. (2004). Hikikomori / Otaku Japans Latest Out-Group.

http://scholar.google.com/Hikikomori/Otaku Japans latest Out-Group.

15

Masataka N. (2002). Early-Education-Development. Low Anger-Aggression and Anxiety –Withdrawal Charateristic to

Preschoolers in Japanese Society with “Hikikomori“ is Becoming a Major Social Problem, 13(2), 187-199.

16

Adams R. (2004). Hikikomori / Otaku Japans Latest Out-Group.

http://scholar.google.com/Hikikomori/Otaku Japans latest Out-Group.

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Paragonato alla famiglia tradizionale, il nucleo familiare attuale è rappresentato come libero dal

controllo di stato e comunitario ma il suo rafforzamento sociale risulta indebolito, ed è pertanto

percepito come fragile e patologico soggetto a frequenti episodi di suicidio.

I valori tradizionali sono stati tuttavia accantonati anche dal processo d’occidentalizzazione (High-

tech culture). Quest’ultimo sembra basarsi principalmente sul comfort materialistico,

sull’individualismo e su un’aspirazione auto-centrata: l’enfasi è posta sul proprio successo e sulla

realizzazione dei desideri personali in opposizione al sacrificio di se stesso al fine di aumentare il

benessere della società giapponese. È in ogni caso presente una forte cultura giapponese del

gruppo che dovrebbe garantire stabilità economica e sociale.17

Per quanto concerne invece l’educazione, si può chiaramente individuare una concezione

moderna del “bambino buono” e del “bambino cattivo” che trova le sue origini nella cultura

tradizionale giapponese. Qui il bambino buono, chiamato “sunao” (obbediente, cooperativo e che

dimostra un comportamento di compliance), era associato a delle caratteristiche severe. Esso era

descritto come gradevole piuttosto che assertivo e aggressivo, più passivo e dipendente invece

che autonomo e che partecipa ansiosamente alle attività collettive. Ancora oggi, la cooperazione

sociale raffigurata dall’individuo “sunao” equivale ad un atto d’affermazione del sé. Il particolare

accrescimento psicologico che i giapponesi sperimentano durante le cooperazioni sociali, è ben

noto: essi si sentono particolarmente vivi solo all’interno di un gruppo e il loro Sé si sente

fortemente appagato in compagnia di altri.

A partire dall’importanza psicologica, sociale ed economica del gruppo nella società giapponese,

non sorprende che un bambino che non è “sunao” sia visto come bambino cattivo, che rifiuta

l’arricchente vita del gruppo. Esso dunque è considerato un fallito che non solo elude le attese

della società ma anche quelle genitoriali.

Riassumendo sono due gli scopi fondamentali dell’educazione.

Il primo scopo è quello di produrre un bambino capace di eseguire i compiti (soprattutto scolastici)

ed è correlato, dal punto di vista giapponese, al ruolo centrale delle qualità di perseveranza e

persistenza.

Di conseguenza, ci si può aspettare che i bambini giapponesi che sono portati ad abbandonare

più facilmente gli obiettivi o a fallire nel tentativo di realizzare i propri scopi, saranno etichettati

come devianti da parte dei compagni e degli adulti. 17

Lock M. (1991). Flawed Jewels and National Dis/Order: Narratives on Adolescent Dissent in Japan. The Journal of

Psychohistory, 18 (4), 507-531.

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Il secondo scopo consiste invece nella realizzazione di un bambino capace di contribuire a

relazioni armoniose nel gruppo.

Diversi psicologi e sociologi giapponesi si sono pronunciati sui temi di devianza giovanile

individuando come cause del disagio l’insufficiente indipendenza, la paura di rimanere indietro, la

trasformazione da bambino buono a bambino cattivo e l’intensificata, spesso contorta, relazione

fra madre e figlio provocata dall’assenza forzata del padre-lavoratore.

In effetti, il disagio degli adolescenti è fonte di particolare preoccupazione a livello nazionale, visto

che essi rappresentano il futuro del paese.

Analizzeremo ora più attentamente le dinamiche intra-familiari e in particolare le attese genitoriali.

Le qualità che i genitori giapponesi spesso si aspettano dai propri figli sono innanzi tutto

l’autocontrollo delle emozioni, l’obbedienza e l’indipendenza. Tali abilità sono considerate la base

per poter realizzare il proprio successo.

I compiti fondamentali che i bambini devono assolvere consistono in primo luogo nella

padronanza del regime di base della vita di tutti i giorni, vale a dire saper curare la propria salute,

praticare la propria igiene e organizzare il proprio ambiente. In secondo luogo è indispensabile

che il proprio figlio realizzi un’eccellente carriera scolastica che gli permetta di ottenere uno status

professionale e sociale elevato, soddisfacendo così l’orgoglio genitoriale.

Da ciò si deduce la presenza di una rilevante pressione psicologica che può portare allo sviluppo

di dinamiche intra-familiari, controproducenti per la crescita emotiva e l’adeguato raggiungimento

delle abilità cognitive e sociali del figlio.

Una madre giapponese è poi incoraggiata, attraverso persistente pressione sociale (parenti,

amici, vicini di casa, insegnanti) a seguire un’educazione che la identifichi come la prima e più

significativa figura responsabile della “creazione” di un bambino giapponese cooperativo e

compiacente.

L’eccessivo attaccamento alla madre può derivare da uno smisurato accrescimento da parte del

bambino di un sentimento particolare di dipendenza, conosciuto in Giappone con il termine di

“amae”. Il concetto di “amae” è considerato la chiave d’accesso per capire fino in fondo le

relazioni interpersonali giapponesi. La parola “amae” è il sostantivo del verbo transitivo “amaeru”

che significa “dipendere e presumere la benevolenza dell’altro”.

Per esempio, il bambino che chiede con insistenza alla madre la preparazione di uno snack si

aspetta di essere servito subito affidandosi alla benevolenza materna. La madre giapponese,

anche se per ragionevoli motivi si mostrerà contraria, preparerà lo snack desiderato in modo da

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indulgere ai bisogni di “amae”del bambino. Cresciuti in un’atmosfera di “amae”, i bambini

giapponesi imparano la gioia e la sicurezza di dipendere dall’amore e dalla benevolenza altrui.18

La “moderna madre” giapponese sembra incontrare tuttavia una serie di difficoltà per lo più legate

all’assenza della figura educativa paterna, alla frequenza da parte del figlio di un sistema

scolastico rigido e competitivo e ad un senso di solitudine marcato. Di conseguenza si assiste

soventemente ad un atteggiamento di protezione che tende a regolare in maniera eccessiva la

vita del proprio figlio spesso idealizzato e detentore di una serie d’aspettative.

1.2 L’ambiente scolastico

Un altro aspetto fondamentale da considerare riguarda la forte competizione e le dinamiche ad

essa collegata che s’instaurano all’interno dell’ambiente scolastico.

Il bambino buono, ora in Giappone, è il bravo studente, perché chi ottiene buoni risultati scolastici

è volentieri indirizzato verso delle opportunità lavorative importanti. Comparato con altre nazioni il

passaggio dalla scuola al lavoro appare altamente basato sulla meritocrazia.19

Il presupposto per completare il curriculum scolastico con successo sembra correlato al precoce

processo della socializzazione, ed è responsabilità della madre, che tenendo un atteggiamento

indulgente rispetto ai bisogni dei propri figli, fornisce la base per un loro comportamento

adeguato.20

Come accennato sopra, in Giappone i genitori enfatizzano l’importanza dell’empatia, degli obblighi

e di venire incontro alle attese altrui. I bambini giapponesi sono pertanto scoraggiati ad esprimere

i loro desideri, ma dipendono invece dagli altri per soddisfare i propri bisogni.

Questo tipo d’atteggiamento, radicato nella cultura giapponese, potrebbe essere messo in

correlazione con la gran difficoltà che i giovani affetti da “Hikikomori” hanno nell’esprimere la

propria vergogna, il loro senso d’inadeguatezza, e l’impossibilità di comunicare direttamente il

proprio disagio.21

18

Crystal D. (1994). Concepts of deviance in children and adolescents: The case on Japan. Deviant Behavior: An

Interdisciplinary Journal, 15, 241-266.

19

Op. cit.

20Lock M. (1991). Flawed Jewels and National Dis/Order: Narratives on Adolescent Dissent in Japan. The Journal of

Psychohistory, 18 (4), 507-531. 21

Masataka N. (2002). Early-Education-Development. Low Anger-Aggression and Anxiety –Withdrawal Charateristic

to Preschoolers in Japanese Society with “Hikikomori“ is Becoming a Major Social Problem, 13(2), 187-199.

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Il bambino cattivo, al contrario, è individuato nello studente insufficiente e/o incapace di

raggiungere dei buoni risultati a scuola e che vede ridotta, d’anno in anno, la propria possibilità di

entrare in un’università prestigiosa. L’alto valore attribuito alla realizzazione degli obiettivi

scolastici porta tanti genitori giapponesi, e soprattutto le madri, ad attivarsi in ogni modo per

accrescere l’opportunità dei loro figli ad intraprendere un percorso accademico eccellente.

Quando il desiderio di un tale figlio - modello non si avvera, il ragazzo è considerato cattivo e

trova a sua volta numerosi, e qualche volta distruttivi, modi per resistere alle pressione dei

genitori.22

Storicamente parlando, il Giappone possiede un sistema di controllo scolastico altamente

centralizzato e repressivo, atto a reprimere eventuali conflitti presenti. Tuttavia oggigiorno si sono

verificate nelle scuole, dei singoli episodi di violenza, durante i quali i giovani sembrano rivestire

un ruolo principale nell’attaccare in maniera aggressiva l’ordine prestabilito. Frequentemente il

modo di reagire alle pressioni dell’ambiente scolastico consiste nello sviluppo di forti sentimenti

anti-scolastici e nel rifiuto di partecipare alle attività scolastiche.23

L’adattamento all’ambiente scolastico è pertanto difficoltoso e, di solito, i giovani preferiscono

mettere in atto un forte controllo emotivo, smorzando così le emozioni negative che sorgono

durante i conflitti interpersonali. Di conseguenza lo stress può portare, sia al non fare il proprio

dovere, che ad un aumento costante della propria preoccupazione.

Si presume che la negazione del conflitto porti ad un minor bisogno di esprimere la propria

aggressività e che tale tendenza interiore possa essere associata al fenomeno degli “Hikikomori”.

Probabilmente questa tendenza è collegata alla precoce articolazione del senso d’uguaglianza fra

l’io e gli altri, a partire dallo sviluppo del senso di “essere un tutt’uno” nella specifica relazione fra

madre e bambino.24

I fenomeni del “drop-out” e della sindrome del “school refusal” sono stati evidenziati come i

problemi in questo periodo più significativi. Questi studenti mancano dalla scuola per settimane o

mesi, esprimono un forte disagio, quando sono in compagnia d’altri studenti e indicano la loro

22 Crystal D. (1994). Concepts of deviance in children and adolescents: The case on Japan. Deviant Behavior: An

Interdisciplinary Journal, 15, 241-266.

23

Letendre G. (1996-1997). Youth and Schooling in Japan: Competition with peers. Berkeley Journal of Sociology: A

critical Review, 41, 103-136. 24

Masataka N. (2002). Early-Education-Development. Low Anger-Aggression and Anxiety –Withdrawal Charateristic

to Preschoolers in Japanese Society with “Hikikomori“ is Becoming a Major Social Problem, 13(2), 187-199.

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presenza come causa del proprio abbandono scolastico. E’ sostenuto che chi mette in atto

comportamenti di rifiuto verso la scuola, manchi spesso di capacità sociali adeguatamente

sviluppate. Lo stress avvertito dello studente in questione può essere inoltre ricondotto alla sua

incapacità di gareggiare adeguatamente, tenendo testa alla competizione.25

Il contesto scolastico, come evidenziato, non è ideale per tutti, c’è chi è soggetto a subire delle

prepotenze o chi “sta fuori” e non fa parte del gruppo, rivelandosi in ambedue casi come

particolarmente vulnerabile. Il tema della prepotenza (“Ijime”) come forma d’aggressione sociale

sta innescando in Giappone una serie di preoccupazioni.

Nel passato la prepotenza consisteva in uno scontro "uno contro uno" nel quale il bambino

fisicamente più dotato prendeva qualche oggetto o infliggeva un qualche comportamento

umiliante al bambino debole.

Oggigiorno la nuova prepotenza si realizza a partire da uno studente che non è particolarmente

forte dal punto di vista fisico e ottiene solo dei risultati accademici che stanno nella media. Vi sono

varie forme di prepotenza, all’interno del mondo scolastico, oggi in Giappone.

Una di queste è chiamata “shikato”, il fenomeno per il quale un gruppo di studenti decide di

ignorare e isolare un altro studente. In effetti, un quarto delle manifestazioni di prepotenza

riguardano varie forme d’esclusione e d’isolamento. In Giappone bisogna essere conforme alle

altre persone altrimenti si ha una sensazione di perdita, di vergogna e di disperazione. Tale

società è basata sulla collettività e ci si sente completamente a proprio agio o vivi solo quando ci

si muove all’interno di un gruppo. Per questo le relazioni fra i vari membri sono essenziali per la

sopravvivenza sociale. Gli ostracismi caratteristici dello “shikato” e d’altre forme di prepotenza

rappresentano dunque una crudele forma di punizione. A partire da questa prospettiva si può

capire, come gli isolamenti imposti da parte dei compagni, possono, in alcune circostanze, portare

un bambino giapponese a suicidarsi.

E’ specificato da Maniwa26 che l’esclusione, come l’“alienazione” di un insider è l’atto con il quale

un gruppo trasforma un suo membro in un alieno e lo etichetta perché lo definisce di natura

essenzialmente diversa dagli altri membri del gruppo. Lo stimolo che porta all’esclusione spesso è

molto banale, in pratica riguarda una differenza minima, e il brutale trattamento messo in atto

25

Letendre G. (1996-1997). Youth and Schooling in Japan: Competition with peers. Berkeley Journal of Sociology: A

critical Review, 41, 103-136.

26

Maniwa M. (1990). Nihonteki shudan no shakaigaku (The Sociology of Japanese Groups). Tokyo: Kawadeshobo.

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suggerisce che chi lo compie “de-umanizza” la vittima. Proprio a causa di questa “de-

umanizzazione” l’individuo isolato percepisce se stesso come degradato o in precinto di perdersi.

Ne consegue che l’esclusione dal gruppo equivale alla pena di morte.

Riassumendo, l’identità scolastica è così persuasiva, sia in termini d’accettazione dei compagni

sia in termini d’avanzamento sociale, che quelli che si trovano fuori dal sistema non hanno nessun

luogo dove vivere.27

Anche il fenomeno dell’”Hikikomori” pone un quesito che nasce dalle generali problematiche del

sistema educativo giapponese, che sembra proprio il suo catalizzatore maggiore. A partire

dall’asilo gli insegnanti organizzano i bambini in piccoli gruppi (“kumi”). Ogni gruppo resterà

insieme fino al raggiungimento del diploma. Tutte le attività come mangiare, studiare e giocare

sono svolti all’interno del proprio gruppo. Il sistema del “kumi” forma una forte base per un “noi” e

un “loro”. I bambini sviluppano un forte legame con il loro gruppo e non vogliono in nessun modo

essere tagliati fuori da esso. Di solito chi soffre di “Hikikomori” non è più accettato ed è

frequentemente espulso dal gruppo (“kumi”), egli ha quindi scelto di ritirarsi o perché si sente

rifiutato o perché si sente un fallito.

Questi ragazzi rappresentano delle difficoltà a socializzare con gli altri e a diventare un membro di

uno degli in-group presenti sia nella scuola che all’interno dell’Accademia. La prepotenza e

l’isolamento sono normalmente le ragioni maggiori per cui decidono di lasciare la scuola. Un

sentimento di “individualità”, in opposizione al sentimento dell’essere parte di un gruppo, può

causare in loro la sensazione di essere diversi e per questo sbagliati. Credono inoltre di avere

deluso la società o che la società abbia deluso loro. La ragione vera del loro assentarsi dalla

scuola non è dettato dalla considerazione che la scuola non li piace, ma dal fatto che non trovano

un posto per se stessi all’interno di essa. E’ inoltre affermato che essi sono poco efficienti, sia sul

piano accademico che su quello del sociale, e che si tratta spesso d’adolescenti, anche se non

esclusivamente, che hanno seguito un processo di maturazione verso l’essere adulto che si

differenzia dagli standard dalla cultura dominante.28

Sadatsugu Kudo, che gestisce un centro di ricovero per giovani afflitti da “Hikikomori”, fa notare

che il problema non sono le persone ritenute dei “Hikikomori”, ma più che altro il Giappone. Kudo

27

Crystal D. (1994). Concepts of deviance in children and adolescents: The case on Japan. Deviant Behavior: An

Interdisciplinary Journal, 15, 241-266.

28

Adams R. (2004). Hikikomori / Otaku Japans Latest Out-Group.

http://scholar.google.com/Hikikomori/Otaku Japans latest Out-Group.

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commenta che la pressione per tutti d’essere uguali nella società giapponese causa la percezione

dell’esclusione per chi si comporta diversamente. E’ affermato da parte di molti esperti che i

giovani sofferenti di “Hikikomori” che si orientano verso la violenza non sono un numero

statisticamente indicativo. Molti di questi giovani esibiscono semplicemente dei comportamenti

anti-sociali, ma non sono violenti.29

Un approccio terapeutico giapponese: la Terapia Morita

Una delle terapie più aderenti alla cultura giapponese è quella elaborata dal Prof. Morita

Masatake, conosciuta come Terapia Morita.

Tale approccio terapeutico è utilizzato per la cura delle nevrosi e si delinea nel modo seguente:

“ 1. la selezione dei malati, essa elimina, infatti, gli isterici e gli psicopatici

2. condizioni di trattamento non ospedaliere in cui il paziente vive nel tentativo di

assimilarsi al suo psichiatra

3. una presa di coscienza dei sintomi

4. una terapia lavorativa

La terapia MORITA si articola in quattro fasi. Il principio più importante è l’ “aru ga mama” (“vedere

e sentire le cose come sono in realtà” o meglio “prendi la vita come viene”) che rende attiva la

capacità di guarigione spontanea (vis medicatrix naturae). In effetti, un elemento fondamentale

della terapia MORITA è un’attitudine d’accettazione che fa si che il paziente non produca sintomi

secondari nel tentativo di combattere i sintomi ossessivi primari. Lo stato di “aru ga mama”, che è

lo scopo finale della terapia MORITA, è raggiunto con le seguenti quattro fasi:

a. il malato è tenuto a riposo a letto, totalmente isolato con la proibizione di

parlare, leggere, scrivere, fumare e cantare. Lo scopo di questa fase, molto dura per i

malati, è di provocare un’angoscia che evochi i fantasmi dell’ossessione. Essa dura da 4 a

7 giorni.

b. una seconda fase, della durata di una o due settimane, durante la quale,

permanendo l’isolamento e la proibizione di parlare, il malato potrà fare un lavoro leggero

(come il giardinaggio) e dovrà leggere due volte al giorno dei passi di un classico (come il

Kojiki dell’VIII° secolo). In questo periodo il malato dovrà tenere anche un diario che sarà

letto dal medico. Vi sono tre ore d’insegnamento al giorno, durante le quali il malato si

limita ad ascoltare, senza interloquire, ciò che dice il medico.

29

Lyons H.B. (2001). Hikikomori and Youth Crime. Crime & Justice International, 17(49), 9-10.

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c. la terza fase è caratterizzata dall’imposizione al malato di lavori pesanti (taglio

della legna, trasporto di pietre).

d. la quarta fase (o terminale) dura una decina di giorni ed è indirizzata a

reinserire il paziente nel suo mondo lavorativo, il lavoro è meno pesante mentre la lettura è

limitata a delle opere assai semplici, che non abbiano alcun contenuto filosofico.”30

4. Conclusioni

Noi occidentali abbiamo avuto la fortuna di avere un Kant che ha fissato un principio etico

fondamentale ovvero “che l’uomo va trattato sempre come un fine e mai come un mezzo”. Certo

siamo ben lontani dal poter affermare che nel mondo occidentale ciò è sempre applicato, ma tutta

la struttura scolastica giapponese e anche quella sociale hanno come finalità ultima quella di

produrre degli individui perfettamente in grado di mantenere ai più alti livelli competitivi la società

economica e la qualità produttiva delle industrie giapponesi.

Per far ciò si accentua al massimo la selezione e l’inserimento perfetto all’interno del gruppo di

lavoro a spese dell’individualismo.

Noi crediamo che in Giappone si è innescato un processo sociale, in nome del massimo sviluppo

possibile i cui esiti non sono prevedibili.

Come dice Galimberti: ” Lo scenario dell’imprevedibile, dischiuso dalla scienza e dalla tecnica,

non è, infatti, imputabile, come nell’antichità, ad un difetto di conoscenza, ma ad un eccesso del

nostro potere di fare, enormemente maggiore rispetto al nostro potere di prevedere e quindi di

valutare e giudicare.”31

Galimberti ci avverte che l’ordine di grandezza di ciò che l’etica vorrebbe ordinare è così

incommensurabile, che ogni teoria diviene inefficace.

Nello studiare l’hikikomori ci siamo accorti delle incolmabili difficoltà culturali ed etiche che ci

dividono dalla civiltà giapponese e ci siamo domandati quali terapie suggerire.

Noi pensiamo che si dovrebbero sensibilizzare di più gli insegnanti verso queste problematiche

per realizzare la massima prevenzione possibile.

30

Masafumi M., Rizzoli A. (1995). Introduzione alla Psichiatria Giapponese. Quaderni Italiani di Psichiatria, 14(5),

271-272. 31

Galimberti U. L’etica che non basta. Donna di Repubblica, 23 luglio 2005.

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Poi si dovrebbe incrementare la presenza degli psicologi nelle scuole, che attraverso incontri

individuali e di gruppo, possano individuare i ragazzi a maggior rischio e sostenerli. Così come

andrebbe fatta una grande opera d’informazione sulle famiglie.

Si potrebbero pensare poi, per i ragazzi già colpiti dall’ “Hikikomori” a gruppi di sostegno anche

attraverso le chat-line, sul tipo di quelli realizzati per gli interventi con gli alcolisti, ma più di tutto

interventi di psicoterapia individuale, dove uno psicoterapeuta segua un singolo ragazzo per

tentare un reinserimento progressivo dello stesso, nel mondo della realtà.

Termino con l’augurio che ogni soluzione che sarà adottata terrà conto di ciò Erich Fromm indica

nel suo libro “Avere o essere”, ovvero la necessità imprescindibile, per ogni civiltà, di porre

sempre l’uomo, il singolo, con i propri interessi ed i suoi sogni, al centro dello sviluppo sociale.

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5. Bibliografia

[1] Adams R. (2004). Hikikomori / Otaku Japans Latest Out-Group.

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[2] Adamson I. (2002). Dead-End Kids.

http://www.time.com/time/asia/magazine/article/0,13673,501020708-268235,00.html.

[3] Archangel (2004). Ragazzi – Tartaruga.

http://www.letterealdirettore.it/forum/testo/topic/6211- 1.html

[4] Archivio Speaker‘s Corner (2003). La mamma zelante.

http://digilander.libero.it/cupranet/speakers/2003/speakers73.html?

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