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Francesco Boer

L’IMMAGINAZIONENON È UNO

STATO MENTALE: È L’ESISTENZA

UMANA STESSA

La presenza viva dei simboli dalla storia più antica fino ai giorni nostri, e l’importanza dell’immaginazione per scoprire e costruire il senso del mondo

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L’immaginazione non è uno stato mentale: è l’esistenza umana stessa

Francesco Boer

11.5 x 19 cm20097888987505732019

Fontana EditoreCorso Ausugum, 98Borgo Valsugana (Tn)38051 [email protected]://fontanaeditore.com

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Sommario

Prefazione dell’editore 3Invito 5Contro una definizione di simbolo 7L’occhio di Dio, lo sguardo del Diavolo 13Il limite 27Dove si trova l’inferno? 39La palude 53L’albero della vita 63Vivere nel simbolo 91Geografia dell’anima 101Il mondo falso e l’uomo meccanico 113Figli delle stelle 143Il senso dell’assurdo 157Non esistono coincidenze? 181Conclusione 189Immagini e riferimenti 192

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Prefazione dell’editore“Scrittore seriale!” è l’epiteto con cui prendo

in giro Francesco Boer, l’autore di questo li-bro; un gioco per rimarcare la sua prolificità nello scrivere e la sua cultura enciclopedica. Giammai lo si vedrà senza un libro in mano o rinunciare a qualche prelibatezza, segni di una profonda passione alla Conoscenza e allo sperimentare la Vita.

Questo libro è profondo e leggero al tem-po stesso. Le pagine scorrono piacevolmente mentre Boer ci conduce nei sentieri tortuosi del simbolo. Compito non facile. Il simbolo ci parla ma, per farlo, pretende da noi un notevole sforzo di mondatura interiore. È uno specchio impietoso che non avrà scrupoli a rimandare al mittente la propria immagine del momento.

“L’immaginazione non è uno stato mentale: è l’esistenza umana stessa”, così titola il libro. Cosa assolutamente vera, vediamo quello che siamo in grado di immaginare, prima, nella nostra mente. E il simbolo ci viene in aiuto, ci costringe ad essere parte attiva, fa luce sulle connessioni, allarga la nostra capacità di vede-re, e perciò, di immaginare. Ecco che, d’im-provviso, il nostro mondo diventa più grande, più vivido, più vitale.

Rocco Fontana

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Invito

Il simbolo è una strada da percorrere, la via che collega il cuore dell’uomo al mondo che lo circonda. È il sigillo di un’unione, l’armonia fra l’immaginazione e la concretezza.

Grazie a questo legame il mondo che ci

circonda può illuminarsi da dentro, aprendosi come un fiore che sboccia. È come un violino, che può suonare infinite melodie, ma che ri-mane muto finchè la mano del musicista non lo sfiora. Allo stesso modo il mondo esteriore contiene già in sè la gioia della bellezza e la splendida tragicità della vita, ma soltanto la mente sa farle risuonare. Senza lo strumento, d’altro canto, la melodia rimarrebbe un pen-siero muto, confinato nella mente.

Come funziona il simbolo, come lo si legge, come lo si vive? Si potrebbe tratteggiare una teoria del simbolo, un impianto di leggi astrat-te e un infinito elenco di eccezioni. Preferisco però un approccio meno distacato. Imparere-mo come funziona il simbolo dall’osservazione diretta, interrogandolo e ascoltando quel che ha da dirci.

Vi invito dunque ad una passeggiata at-

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traverso una Wunderkammer di simboli: una galleria di figure in cui l’uomo riflette il cosmo, di forme con cui il cosmo racconta il segreto dell’uomo. Parleremo di simboli, per compren-dere la natura del simbolo. Li osserveremo con delicatezza, come se fossero fiori. Non li strap-peremo, né useremo il bisturi per dissezionarli. Il simbolo è vivo, e per conoscerlo veramente bisogna lasciarlo in vita.

Impareremo strada facendo i trucchi e i trabocchetti dell’interpretazione, studiando la teoria tramite la pratica, nel confronto diretto col simbolo. Capiremo assieme le insidie che i simboli ci tendono, ma scopriremo anche l’e-norme ricchezza che possono offrire alla no-stra vita.

Raccoglieremo sogni, riti, suggestioni e leggende, ma avremo un occhio di riguardo anche per i simboli della nostra epoca. Il sim-bolo è una presenza viva che attraversa i secoli, e anche se il più delle volte non ci accorgia-mo nemmeno della sua presenza, la sua voce è tutt’ora una forza centrale nella nostra cultura e nelle nostre vite.

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Contro una definizionedi simbolo

Prima di iniziare affrontiamo subito l’anno-

sa domanda, che più di ogni altra getta con-fusione e discordia fra chi studia il mondo dei simboli: cosa vuol dire “simbolo”?

Chi cerca la definizione della parola “sim-bolo” si imbatte in un caos di formulazioni diverse fra loro, spesso anche discordanti. L’e-timologia della parola “simbolo” rimanda al termine greco “symbállein” che significa “met-tere insieme”. Nell’antica Grecia era diffusa l’usanza di spezzare in due parti un oggetto, come ad esempio una moneta. Una delle due metà veniva conservata, mentre l’altra veniva consegnata ad un’altra persona. I bordi dei due pezzi, se riavvicinati, combaciavano perfetta-mente. Ciò offriva ai possessori la possibilità di riconoscersi reciprocamente senza possibi-lità di sbaglio. Da qui nacque l’uso figurato del termine, ad indicare appunto la rappre-sentazione concreta e visibile di una relazione.

Secondo la semiotica di Peirce, un simbolo è invece un tipo particolare di segno che de-nota il suo oggetto solamente sulla base di una convenzione sociale. Esempi concreti di tale modo di intendere il simbolo sono le parole:

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il termine “uccello” non rappresenta di per sè l’animale volatile, se non tramite quel codice socialmente condiviso che è il linguaggio[1].

Di opinione del tutto opposta è lo psicolo-go Jung, che definì il simbolo come la miglior formulazione possibile per una cosa ancora sconosciuta.

“Così come io lo concepisco, il concetto di simbolo non ha nulla in comune con il concetto di segno.

Il significato simbolico e quello semeiotico sono cose diversissime. Nella sua opera sulle Leggi psi-cologiche del simbolismo, Ferrero tratta, a rigor di termini, non dei simboli, ma dei segni. Così, l ’uso di offrire una zolla di terra all’acquirente di un fondo si potrebbe volgarmente chiamare «simboli-co», mentre, in fondo, non è che semeiotico, poiché la zolla di terra non è che un segno che rappresenta il terreno acquistato. Egualmente, la ruota alata dell ’impiegato delle ferrovie non è un simbolo della ferrovia, ma solo segno dell ’appartenenza alla so-cietà ferroviaria. Un simbolo suppone sempre che l ’espressione scelta designi o formuli il più perfetta-mente possibile certi fatti relativamente sconosciu-ti, ma la cui esistenza è stabilita o ritenuta neces-saria. Se si scambia la ruota alata per un simbolo, ciò significherebbe che l ’impiegato ha a che fare con un essere sconosciuto, il quale non può avere un’e-spressione migliore della ruota alata.

1. Charles Sanders Peirce, Cos’è un segno?

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Vedere nell’espressione simbolica un’analogia o una designazione abbreviata di un fatto cono-sciuto è semeiotica. Avere la miglior formula pos-sibile di una cosa relativamente poco conosciuta, che non si saprebbe altrimenti come designare, è simbolismo; al contrario, avere una trasformazio-ne od una metafora voluta di un fatto conosciu-to è allegoria. Così, l ’interpretazione della Croce come simbolo d’amore divino è semeiotica, poiché l ’espressione «amore divino» esprime il fatto in questione più esattamente che una Croce che può avere diversi significati. Simbolica, al contrario, è la concezione che, tralasciando ogni interpreta-zione possibile, considera la Croce come espressione di certi fatti ancora sconosciuti ed incomprensibili, mistici o trascendenti, cioè in primo luogo psico-logici, che non sono rappresentabili se non con la Croce. Finché un simbolo è vivente, esso è la mi-gliore espressione possibile di un fatto, ed è vivo soltanto finché possiede quel significato. Tuttavia, non appena si scopre l ’espressione che formula la cosa ricercata, attesa e presentita, allora il sim-bolo è morto. Ciò nonostante, si può continuare a considerarlo come simbolo, a condizione di sot-tintendere che si parla di ciò che esso era quando non aveva ancora creato un’espressione migliore. Per San Paolo, come per l ’antica speculazione mistica, la Croce era sicuramente un simbolo vi-vente; il modo in cui ne parlano, mostra che essa per loro era l ’espressione suprema dell’ineffabile.

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Per ogni interpretazione esoterica, il simbolo è morto, poiché essa riconduce sempre ad un’espres-sione che suppone più perfetta, riducendolo, così, ad un ruolo di segno convenzionale. L’espressione con cui si designa qualcosa di conosciuto è sempre un segno, mai un simbolo. Così, è impossibile che un simbolo vivente, cioè pregno di significato, prenda vita da rapporti noti.

Ogni prodotto psichico che, in un dato momen-to, è la migliore espressione di un fatto sconosciuto, può essere considerato come un simbolo, purché si sia disposti ad ammettere che essa esprime egual-mente ciò che è solo presentito e non chiaramente conosciuto.[2]”

Il tradizionalista René Guénon fa invece sua quella che Jung definisce “interpretazione esoterica”:

“Il simbolismo ci appare adatto in modo spe-ciale alle esigenze della natura umana, che non è una natura puramente intellettuale, ma ha biso-gno d’una base sensibile per elevarsi verso le sfere superiori. [...] In generale, la forma del linguaggio è analitica, «discorsiva» come la ragione umana di cui esso è lo strumento proprio e di cui segue o ripro-duce il cammino con la massima esattezza possibi-le; al contrario, il simbolismo propriamente detto è essenzialmente sintetico, e per ciò stesso «intuiti-vo» in qualche maniera, il che lo rende più idoneo del linguaggio a servire da base all ’«intuizione intellettuale», che è al di sopra della ragione.[3]”

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Insomma, sembrerebbe che sia impossibile mettersi d’accordo sul significato della parola “simbolo”!

Lo stesso Peirce ebbe ad affermare che “La parola simbolo ha talmente tanti significati che aggiungerne uno nuovo vorrebbe dire far del male al linguaggio.[4]”

In fin dei conti, la definizione di un concet-to non è per forza necessaria alla sua compren-sione. Pensate alla vita: tutti sappiamo cos’è, eppure la definizione della parola “vita” pone un problema filosofico ed epistemologico ap-parentemente irrisolvibile.

A volte cercare a tutti i costi una definizio-ne rigorosa è persino controproducente: con essa si crea una gabbia che rischia di soffocare l’idea libera e volatile che cercavamo di affer-rare da viva. In questi casi è preferibile quindi una comprensione intuitiva, che lasci respirare liberamente la parola.

Detto ciò è inutile che io vi fornisca una mia personale definizione di simbolo. Non fa-rei che aggiungere una goccia a questo mare agitato da correnti contrastanti.

Trovo invece più utile riflettere su questa diversità, cercando di comprendere da cosa de-rivi questa discrepanza di vedute.

2. Carl Gustav Jung, Tipi psicologici3. Réne Guénon, Simboli della scienza sacra4. Charles Sanders Peirce, Cos’è un segno?

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“Vedute”, per l’appunto, è una parola chia-ve. Un antico racconto indiano, raccolto poi da Jalal al Din Rumi nel suo Mathnawi, racconta figurativamente un caso analogo.

Alcuni mercanti indiani portarono un ele-fante ad una fiera di un paese lontano, e lo chiu-sero in una stanza buia. La folla incuriosita si accalcava per vedere la bestia, ma siccome era buio dovettero accontentarsi di tastare l’animale con le mani. Uno toccò solamente la proboscide.

Una volta uscito, disse: «L’elefante è simile ad un tubo d’acqua».

Un altro tastò l’orecchio, e immaginò che la bestia avesse la forma di un grande ventaglio; un altro ancora toccò la gamba, e si convinse che la creatura avesse le sembianze di una pos-sente colonna.

Non c’è solo un oggetto osservato, ma an-che una pluralità di soggetti che lo guardano: la diversità nasce da qui.

Non è per forza detto, quindi, che per la pa-rola “simbolo” esista un’accezione giusta e altre sbagliate: prendiamole piuttosto come visioni parziali, che ci avvicinano ad una totalità che per il momento ci sfugge.

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L’occhio di Dio, lo sguardo del Diavolo

“Cosa vuol dire?” La domanda sorge spon-tanea. Non è un segno casuale, è evidente. C’è un senso, ci dev’essere un senso, anche se non capiamo quale.

Se vi dicessi che un disegno simile è privo di significato difficilmente mi credereste. No, l’immagine parla, riusciamo a sentirla, anche se non la capiamo. “Cosa vuol dire?” è la do-manda giusta: il simbolo vuole parlare, deside-ra comunicarci qualcosa.

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Mettiamo per un attimo da parte il bagaglio culturale che ci trasciniamo addosso, e osser-viamo l’immagine precedente come se la vedes-simo per la prima volta. Un occhio dentro un triangolo, circondato da raggi luminosi simili a quelli del sole. L’elemento centrale ci è fami-liare. È un occhio umano, del tutto simile ai nostri. Gli occhi servono per vedere: è con essi che stiamo osservando l’immagine, e forse an-che il simbolo con il suo occhio ci sta scrutando.

Vedere significa conoscere, comprendere il mondo. L’occhio aperto è dunque il simbolo della mente attiva, l’opposto dell’occhio chiu-so che rimanda all’incoscienza del sonno o persino alla morte. Anche i raggi di luce che circondano il simbolo puntano a questo signi-ficato: la luce è ciò che permette di vedere, è il giorno della vita contrapposto all’incoscienza dell’oscurità.

La cornice attorno all’occhio introduce un elemento diverso. Mentre l’occhio è un ele-mento naturale, il triangolo in cui è inserito è una forma geometrica, astratta. È un acco-stamento apparentemente paradossale, ma in realtà indicativo sulla natura dei simboli. Il simbolo è infatti un legame: unisce il concre-to e l’astratto, il segno osservabile e tangibile al significato di natura intellettiva. Nel sim-bolo l’oggetto si incontra al soggetto che lo interpreta. Il simbolo non è semplicemente il

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disegno su un foglio, quella è solo metà del simbolo. L’altra metà è l’occhio che lo guar-da, la mente che lo elabora. Quando osservo il simbolo entro a farne parte. Soltanto quando lo guardo il segno si completa e diviene simbo-lo. Il simbolo è dunque un’esperienza in parte soggettiva, ancorata però entro limiti ben spe-cifici dalla concretezza oggettiva del segno.

Come vedremo l’interpretazione del trian-golo con l’occhio può variare ampiamente a seconda di chi lo osserva. Pur nella varietà, c’è però una coerenza di base. I simboli sono ricettivi, sono simili a magneti che attraggo-no nella loro amalgama uno spettro ampio ma ben definito di elementi psichici. Abbia-mo interpretato l’occhio come un’immagine di coscienza e conoscenza, ma altri potrebbe-ro intuire in esso una minaccia, qualcosa che ci osserva con cattive intenzioni. Sono due si-gnificati diversi, eppure si conciliano nel sim-bolo: due polarità, direzioni diverse della stes-sa strada. Ben altro sarebbe se invece dicessi: “secondo me il triangolo con l’occhio signi-fica la fame”, o “è un simbolo del razzismo”, e cose di questo genere. Il simbolo è aperto all’interpretazione soggettiva, ma non è una tela bianca su cui dipingere quel che si vuole. L’interpretazione gode di una libertà che fa vivere il simbolo, ma non è un capriccio che può prescindere da ciò che sta affrontando.

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L’interpretazione deve poi necessariamente tener conto del contesto in cui il simbolo ap-pare. Il triangolo con l’occhio che compare su un affresco di una chiesa cattolica avrà un si-gnificato ben diverso da quello che troviamo stampato su una banconota del XX secolo.

Anche in questo caso il simbolo è un luo-go d’incontro, in cui il significato intuitivo si innesta su un codice interpretativo condi-viso all’interno di un preciso ambito sociale.

Il contesto culturale ci fornisce infatti una chiave indispensabile per comprendere a fon-do il simbolo. Senza di esso il simbolo rimar-rebbe sempre sfuggente: potremmo al limite indovinare vagamente il suo senso, lasciando però sempre un che di indeterminato e vago.

Il triangolo con l’occhio è in origine un sim-bolo cattolico, diffuso a partire dal Rinasci-mento. Il triangolo allude alla Trinità: Padre, Figlio e Spirito Santo riuniti in un unico Dio, come i tre angoli fanno parte di un’unica figu-ra geometrica. L’occhio è un antico emblema della divinità. Già nell’antico Egitto il simbolo dell’occhio era associato sia a Horus che a Ra. Nel cristianesimo l’occhio nel triangolo della Trinità rappresenta l’onniscienza divina: la pro-prietà ricettiva di Dio, la capacità di conoscere il creato nella sua interezza. Dio come coscienza: l’esistenza che si risveglia e conosce se stessa.

Ra era una divinità solare, e il suo occhio era

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identificato col sole stesso, come se l’astro fosse l’occhio di Dio nel cielo. Nel simbolo cristiano ricorre la medesima associazione, sottolineata dai raggi luminosi che emanano dall’occhio.

Mentre l’occhio è la parte ricettiva della di-vinità, cioè l’onniscienza che osserva il mondo, i raggi raffigurano invece il potere attivo di Dio, l’onnipotenza, la sua capacità di penetra-re e modificare il creato. È per questo che il simbolo viene chiamato “Occhio della Prov-videnza”: non raffigura una divinità distante e oziosa, ma un Dio che si interessa del mondo e che è disposto ad intervenire in esso.

Nel XVIII secolo il simbolo dell’Occhio della Provvidenza viene assorbito nella simbo-logia massonica. Non è un fatto isolato: l’im-maginario della Massoneria è costruito con mattoni presi da diverse fonti preesistenti, un sincretismo che mescola tradizioni disparate in un insieme nuovo e coerente. Nel passaggio il simbolo cambia significato, pur non discostan-dosi molto dalla fonte. Se nel contesto cristia-no l’occhio nel triangolo rappresenta Dio, in quello massonico simboleggia il Grande Ar-chitetto dell’Universo. Cambia il nome, varia la concezione di divinità, ma non si tratta di un mutamento sostanziale.

La massoneria è una società iniziatica, con un proprio linguaggio simbolico. I suoi sim-boli sono suggestivi, e la segretezza a cui sono

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tenuti gli iniziati non fa che solleticare l’im-maginazione di chi ne è escluso. È così che nei confronti della massoneria l’immaginario popolare si è scatenato: c’è chi la vede come una cospirazione per dominare il mondo, chi la intende come una cricca di gente benestan-te che si scambia favori, persino chi la accusa di essere una setta satanista e maligna. Non voglio certo disquisire riguardo la fondatezza di queste accuse. Quel che ora mi interessa è evidenziare i modi con cui l’immaginazione popolare dipinge la massoneria, e sottolinea-re che questo interesse, seppur diffamatorio, è sintomo di una fascinazione.

Proprio questa fascinazione ha fatto sì che a livello popolare il triangolo con l’occhio sia oggi associato esclusivamente al simbolismo masso-nico. Mi è capitato più di una volta di vedere il triangolo additato come “simbolo massonico”, persino quando lo si trova all’interno di chiese cattoliche. È questo il motivo per cui è impor-tante il contesto per comprendere il simbolo. Se lo incontriamo all’interno di una loggia, è chiaro che l’occhio nel triangolo sarà un sim-bolo massonico. Se lo vediamo nello stemma degli Stati Uniti d’America è lecito chiedersi se vi sia stata un’influenza della massoneria fra i padri fondatori della nazione. Se inve-ce lo vediamo su una antica lapide sul muro di una chiesa, è evidente che lì il suo senso è

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quello cristiano, e non certo quello massonico. Il contesto però è anche il momento stori-

co culturale in cui l’osservatore è inserito. Se si scambia un Occhio della Provvidenza di un affresco del XVI secolo per un simbolo mas-sonico, benché la massoneria nasca storica-mente soltanto nei secoli successivi, è perché siamo nati e cresciuti in un contesto culturale in cui il simbolo è fortemente marcato in que-sto senso. È lo stesso paradosso della svastica: sappiamo benissimo che prima del ventesimo secolo era un simbolo positivo e ben auguran-te, ma ogni tentativo di riabilitarlo è destina-to a fallire, perché ormai l’ottica con cui lo si osserva è stata segnata dagli eventi del secolo scorso. Quando osserviamo una svastica su un vaso greco, dunque, dobbiamo ricordar-ci che millenni fa questo simbolo aveva tut-ta un’altra portata di quella attuale; ma non bisogna dimenticare che l’osservatore che lo guarda appartiene a quest’epoca, con tutto il condizionamento culturale che ciò comporta.

Nell’immaginario popolare la massoneria è una società che comanda il mondo da dietro le quinte, infiltrandosi in tutti gli organi della società con un complotto tentacolare e insidio-so. Si potrebbe tracciare la nascita e lo sviluppo di un vero e proprio èpos moderno della cospi-razione. La massoneria nei governi, nelle chie-se, nelle banche. Chiunque potrebbe essere un

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massone in incognito, anche l’insospettabile vicino di casa: ogni epoca, d’altronde, ha la sua caccia alle streghe.

Col ramificarsi della narrazione complot-tista il concetto vago di massoneria si è cri-stallizzato in diversi enti e società segrete, fra cui i più famosi sono senza dubbio la società segreta degli Illuminati e l’NWO, il Nuovo Ordine Mondiale da loro instaurato. Gli Il-luminati sarebbero una setta di stampo mas-sonico, che controlla la finanza mondiale e comanda a bacchetta i più importanti go-verni nazionali. È degno di nota che il loro modus operandi principale non sia l’impie-go della forza, ma la corruzione, l’inganno e la finzione. In questo senso anche la libertà e la democrazia sarebbero finzioni inscena-te da loro per controllare meglio le masse.

Le teorie del complotto sono in genere ba-sate su presupposti vacillanti e condotte con una logica confusa che mira in primo luogo a confermare i pregiudizi iniziali. Il linguaggio colorito con cui vengono espresse non aiuta poi a prenderle sul serio. Per tale ragione vengono generalmente sbeffeggiate dall’establishment culturale: un rifiuto che non fa che insospettire maggiormente le persone coinvolte in questo racconto di massa.

Anche in questo caso non ho affatto inten-zione di discutere sulla fondatezza delle teorie

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del complotto. Il dato di fatto che vale la pena di registrare è che tali teorie si diffondono perché vengono raccontate e credute, e se ciò accade ci sono determinati motivi. Invece di cestinarle con la derisione andrebbero studiate, interpretate come se fossero un sogno o una leggenda: così ci rivelerebbero preziosi detta-gli sull’anima delle masse nel delicato periodo storico che stiamo vivendo, e forse ci accorge-remmo che sotto la maschera del linguaggio figurato si cela una protesta che non è così in-sulsa come sembra a prima vista, nonostante la popolazione non sappia ancora intenderla ed esprimerla chiaramente.

Torniamo al triangolo con l’occhio. Nel verso del Great Seal degli Stati Uniti d’Ame-rica, approvato nel 1782, compare proprio una variante del simbolo. Una piramide tronca, composta da tredici gradoni, completata al vertice dal triangolo con l’occhio. I tredici gra-doni rappresentano le tredici colonie che pro-clamarono la Dichiarazione di Indipendenza. L’Occhio della Provvidenza sul culmine del-la la piramide rappresenta il favore divino nei confronti degli U.S.A., sottolineato dal motto “Annuit Cœptis”: Egli approva le nostre decisio-ni. Alla base della piramide c’è un altro carti-glio con il motto “Novus Ordo Seclorum”: nuovo ordine dei secoli.

Lo stemma richiama senza dubbio l’imma-

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ginario massonico. La piramide si potrebbe interpretare come un’immagine del Tempio che i massoni sono votati a costruire, e i gra-doni richiamano alla mente i gradi in cui la massoneria è strutturata.

Nel 1935 le due facce dello stemma vennero riportate sulla banconota da un dollaro.

Per l’interpretazione del simbolo è un cam-biamento notevole. Lo stemma di una nazione svolge per sua natura un ruolo istituzionale: viene esposto nelle sedi del potere ammini-strativo, viene visto da una classe sociale la cui istruzione la rende capace di interpretarlo se-condo lo stesso codice con cui è stato compo-sto. Stampando lo stemma su una banconota di piccolo taglio il simbolo esce dal suo ambito ristretto, per finire letteralmente nelle mani della grande massa della popolazione. Persino al più povero dei statunitensi può capitare di stringere fra le mani una banconota da un dol-laro. Immaginate l’operaio di una fonderia, o la cameriera di un diner, mentre osservano l’im-magine sulla banconota. È molto probabile che manchino loro le nozioni e le conoscenze per comprendere l’intento allegorico della pirami-de con l’occhio, e difficilmente saranno in grado di tradurre i motti latini che la arricchiscono.

Eppure il simbolo vuol dire qualcosa. Par-la, anche a chi non lo comprende. Ecco che allora nascono nuove interpretazioni, popola-

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ri e spontanee. È un processo ricorrente nella storia, che si può osservare in tutti i casi in cui il significato originario di un simbolo vie-ne perduto o è inaccessibile.

Una delle re-interpretazioni più diffuse e credute vede nella piramide con l’occhio un emblema dei cospiratori, il simbolo del loro potere occulto e delle loro macchinazioni.

Può sembrare un’interpretazione incolta e raffazzonata, e forse in parte lo è, ma è un’e-spressione degna di esser ascoltata e studiata, non fosse altro che per il grande numero di per-

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sone che essa è in grado di coinvolgere. Se mol-ti ci credono significa che riesce ad esprime in qualche modo un malessere diffuso, una neces-sità che la popolazione intuisce vivamente, pur non riuscendo a metterla a fuoco fino in fondo.

L’interpretazione cospirazionista non è una forzatura del simbolo. È semplicemente uno dei suoi possibili significati. Nei simboli c’è sempre un fondo di ambiguità, che viene de-terminata al momento dell’interpretazione dal soggetto che affronta il simbolo.

La piramide, ad esempio, può essere un mo-numento al fasto di una nazione, ma è anche uno dei simboli più conosciuti per rappresenta-re la gerarchia. La base è la bassa manovalanza, la massa dei lavoratori. I gradi superiori sono i capi, i dirigenti, i politici, i banchieri. Man mano che si sale di livello aumenta il potere, e si restringe il numero delle persone che lo eser-cita. Ci si aspetterebbe che al vertice ci sia una persona sola, che accentra e convoglia su di sè il potere dell’intera piramide: il seggio simbolico che un tempo spettava al re, e che nel caso de-gli U.S.A. dovrebbe competere al Presidente.

Nello stemma statunitense, però, c’è una frattura nella gerarchia: a un certo livello la piramide viene troncata, e il vertice la control-la dall’alto, con un eloquente distacco. Nella prospettiva complottista, il triangolo superio-re rappresenta l ’élite occulta, che comanda da

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dietro le quinte sia la grande popolazione che le classi più abbienti. È la sinarchia, il governo ombra che ci sovrasta, rimanendo irraggiungi-bile e staccato dal resto della nazione.

L’occhio non è più il simbolo dell’onni-scienza divina. Rappresenta sempre una forma di conoscenza, ma qui è finalizzata al control-lo, alla repressione del dissenso. Nelle teorie cospirazioniste l’occhio nel triangolo è “l’oc-chio degli Illuminati”. L’all-seeying eye, l’occhio che tutto vede: è l’obiettivo delle telecamere di sorveglianza, lo sguardo del Grande Fratello orwelliano. Ma è anche la telecamera sugli smartphone, un occhio che non chiude mai le palpebre, una potenziale spia a cui confidiamo ogni giorno i nostri segreti più intimi.

L’interpretazione complottista della pira-mide con l’occhio è talmente diffusa e cono-sciuta da esser stata ripresa in una serie di car-toni animati, andata in onda dal 2012 al 2016 su Disney Channel.

In Gravity Falls l’antagonista principale è Bill Cipher. È una figura demoniaca, palesemente plasmata sulla falsa riga dello stemma degli Stati Uniti: ha un occhio solo, e il suo corpo è di forma triangolare. Anche il nome è un eviden-te riferimento al simbolo: “Bill”, oltre ad essere un diffusissimo diminutivo del nome William, è anche una parola inglese per “banconota”.

“Cipher”, cifra, è poi un riferimento alla

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crittografia, elemento d’altronde ampiamente presente nel cartone animato. Nell’immagina-rio complottista l ’élite si esprime per mezzo di un linguaggio cifrato, fatto di simboli e astrusi sistemi di scrittura in codice. È una peculiarità mutuata dai codici simbolici massonici, ma è anche l’espressione di come la massa non sia in grado di comprendere il linguaggio delle classi sociali in comando. In un certo senso è vero: per chi non è addetto ai lavori, le parole e le formu-le dell’alta finanzia e della politica internazio-nale possono sembrare sibilline e incomprensi-bili, del tutto staccate dalla realtà quotidiana.

Nel momento in cui non si comprende più un simbolo secondo un dato codice culturale, nasce una nuova interpretazione. Gli dèi degli antichi sono diventati demoni, e in maniera simile gli stemmi del potere diventano forme malvagie e contrarie al bene dell’umanità. “Bill Cipher” è anche e soprattutto una voluta as-sonanza a “Lucifer”. Così il rovesciamento del simbolo è completo: da immagine solare della divinità a vessillo di un’umanità corrotta, l ’élite devota al male.

Se da un lato il significato del simbolo cambia fino a capovolgersi, è anche vero che l’essenza di fondo rimane costante: conoscen-za e potere. Ciò che cambia di volta in volta è il contesto culturale, capace di influenzare l’osservatore nel suo rapporto con il simbolo.