Franco Fontana & quelli di Franco Fontana

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12 – 19 settembre 2014 COMPLESSO MONUMENTALE DEI DIOSCURI AL QUIRINALE via Piacenza 1, Roma

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Catalogo della mostra fotografica di Franco Fontana e dei suoi allievi. Roma, 12-19 settembre 2014 Complesso Monumentale dei Dioscuri al Quirinale

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12 – 19 settembre 2014

COMPLESSO MONUMENTALEDEI DIOSCURI AL QUIRINALEvia Piacenza 1, Roma

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CreditsFoto copertina: Douglas KirklandCuratore: Riccardo PieroniArt director: Alex MezzengaWeb designer: Andrea SimeoneResponsabile Organizzazione: Silvia DomeniciUfficio Stampa: Samantha De MartinPresidente NSR: Flora CianciulloGrafica: Fabio SalamidaTesti Critici: Luigi Erba

Ringraziamenti speciali:Nicola Passanisi, Rosario Sprovierie il “Circolo degli artisti”

www.nuoviscenariroma.it

“Mantenersi aperti senza pensare troppo. Vedrete con chiarezza ciò che vi circonda”

(Franco Fontana)

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Ad occhi chiusi

D a tanti anni insegno fotografia. Nel corso delle lezioni guar-diamo e commentiamo fotografie e immagini di ogni epoca, prodotte con ogni tecnica. Cerco di non imporre mai inter-

pretazioni definitive, ma di giocare sulla molteplicità dei significati che ogni immagine può suggerire. Le discussioni in classe sono sempre stimolanti e produttive e al termine di ogni incontro ho la chiara sensazione che un piccolo tassello di consapevolezza si sia aggiunto a quelli precedenti. I ragazzi della mia scuola, l’Istituto di Istruzione Superiore Statale “Roberto Rossellini”, saranno i profes-sionisti di domani e sento di avere una responsabilità nel concilia-re l’aspetto tecnico con quello concettuale. Credo che la fotografia italiana si sia distinta, soprattutto dal secondo dopoguerra, per es-sere una fotografia riflessiva. Mentre si lavora, si pensa anche al perché e al come. Questo conferisce alle immagini una “densità” che pochi altri possono vantare.

Sono stato coinvolto, con grande piacere, nella cura della tappa ro-mana di “Franco Fontana e Quelli di Franco Fontana”. Confesso che la prima tentazione è stata quella di affrontare il tema dell’insegna-mento e di rilevare l’importanza di Franco Fontana non solo nel pro-muovere la fotografia, ma nel realizzare un modello didattico incisivo

e stimolante, teso a estrarre da ogni partecipante ai corsi la parte più personale. Presto ho però capito che una riflessione su questo tema sarebbe stata del tutto inutile, perché la prova dell’ efficacia del me-todo sta proprio nelle immagini che sono esposte nella mostra, ed è di queste che ci dobbiamo occupare.Qualche anno fa, quando chiedevo ai ragazzi “cosa è per te la foto-grafia”, la quasi totalità delle risposte poteva essere riassunta nel semplice concetto “la tecnica che mi permette di riprodurre e ricor-dare ciò che è fuori di me, il mondo”.

Riccardo Pieroni

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Per fare un confronto, riporto, solo a titolo di esempio, alcune rispo-ste emerse nei primi giorni di scuola del 2013.“Un’ interpretazione della realtà”, “ Una sicurezza, tutto quanto cam-bia continuamente, e la fotografia è una cosa che ci portiamo per sempre con noi”, “Ciò che permette all’uomo di essere padrone del tempo”, “Una parte del nostro carattere”, “Un modo di vivere gior-naliero: io cammino facendo le cose di ogni giorno, riesco a vedere, a inquadrare con gli occhi, quella che potrebbe essere una foto e penso che le altre persone che non sono fotografi non hanno mai fatto un’esperienza del genere”, “Fotografando puoi perfezionare le cose”.Come si vede, oggi, la domanda “cosa è per te la fotografia”, produce una serie di risposte che possono essere riassunte in “ciò che per-mette di esprimermi”. Una rivoluzione!Guardo, con questa esperienza, le immagini della mostra. Le ho da-vanti a me, sfoglio le cartelle nel mio computer e penso che sono tutte diverse. Ogni fotografo ha seguito una strada, ha elaborato un progetto, ha prodotto dei risultati che si distinguono nella loro sin-golarità. Chiudo gli occhi e mi chiedo che cosa unisca tutte queste diverse esperienze, se ci siano dei fili conduttori, delle costanti at-traverso le quali ordinare le immagini (il curatore pensa di essere un ordinatore…).

Mi sembra, ad occhi chiusi, di avere davanti a me la sintesi del per-corso di cui parlavo prima: la fotografia che attraversa un passaggio epocale da strumento di rappresentazione del mondo a strumento di rappresentazione di se stessi. In questo attraversamento ci sono due temi che risultano centrali e interconnessi: il territorio e l’identità. Non è un caso. Parlo di “territorio” e non di “spazio” perché mentre lo spazio è comunemente pensato come qualcosa di esterno a noi,

qualcosa in cui ci muoviamo, il territorio è invece connesso con la nostra esperienza ed è contenuto in noi come spazio mentale, frutto delle relazioni, degli scambi, del complesso di significati che abbiamo costruito nel corso della vita, nostra e di coloro che ci hanno prece-duto. Non si tratta quindi di uno spazio metrico, ma di uno spazio interiorizzato. Per questo il territorio non è che uno degli aspetti della nostra individualità, della nostra unicità, parte di un tutto più ampio in cui è inserita la nostra identità.

Chiudo ancora una volta gli occhi per riflettere su un altro aspetto. Che cosa unisce, in tutta questa differenza, le immagini? Cosa han-no in comune i fotografi di questa mostra? La forte intenzionalità formale. Dare una forma alle proprie visioni, mettere in pagina lo sguardo, cercare un equilibrio nel grande accumulo di percezioni a cui siamo sottoposti. Forse è proprio questo il ruolo della fotografia.

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La fotografia può non essere un mestiere, può essere un raffinato, profondo, stimolante percorso di avvicinamento al mondo e a se stes-si fino a trovare quell’attimo di soddisfazione, di equilibrio, di perfe-zione che si esprime in una forma. La fotografia come atto sintetico.Guarda caso, nel momento in cui riapro gli occhi, vedo proprio le fo-tografie di Franco Fontana. Sempre legate ad un territorio, sempre espressione di una forte individualità, sempre dotate di una forma decisa. Ritrovo quindi a sorpresa, il senso dell’insegnamento: non dire cosa fotografare, non dire come, non stabilire i significati, ma avviare una ricerca sul rapporto tra il dentro e il fuori di noi che as-sumerà una forma nelle immagini che saremo in grado di produrre.E gli osservatori?

Ecco il nodo. Qualcuno resterà deluso, ma occorre dirlo: è l’osser-vatore che fa la fotografia. I nostri sforzi per dare una forma all’ im-maginazione si esauriscono nel momento in cui ci stacchiamo dalle nostre immagini e le ridiamo al mondo da cui sono venute, oggetti tra gli oggetti. Sarà chi le guarda a definire il loro significato, sarà chi le usa a determinare il contesto in cui le immagini acquisteranno una nuova forza e una nuova vita. Sono figli che diventano grandi, parti di noi che diventano autonome. Ma il fotografo resiste, vorrebbe che il complesso di riflessioni, di pro-getti, di scelte che è sotteso alle proprie immagini, sia visibile, sia compreso. Cerca di indirizzare l’osservatore verso se stesso, prima ancora che sull’immagine che ha prodotto. Da questo tentativo na-sce la necessità della mostra e del progetto di una mostra.La mostra collettiva è tradizionalmente composta da una somma di spazi individuali misurati in metri quadrati. Il visitatore passa davanti a “finestre” ognuna delle quali lo proietta in un mondo autonomo. Ma una mostra non è un semplice aggregato di immagini. E’ un insie-

me strutturato, dove convivono storie diverse. È una macrostoria che contiene numerose microstorie. La mostra come ipertesto, dove l’itinerario suggerito vuole stimolare la ricerca di altre, più personali, vie d’accesso. Quale è la storia che voglio raccontare? E’ la transi-zione da una fotografia intesa come sguardo esterno a una fotografia diretta verso se stessi. E’ la storia dell’occhio come mediatore tra interno ed esterno, con tutte le problematiche tecniche e formali che questo passaggio comporta.

È il contesto che fa vivere una foto. E ‘ il contesto che delimita il cam-po dei possibili significati e indirizza l’osservatore. Scelgo quindi una via poco seguita, ma, credo, inevitabile. Fare in modo che ogni lavoro individuale serva da contesto per gli altri lavori. “Quelli di Franco Fon-tana” formano un gruppo eterogeneo, ma comunicante.Siamo fotografi. Siamo specialisti dell’occhio. Sappiamo che la con-dizione principale perché il nostro occhio possa vedere è il contrasto. Sappiamo che il contrasto simultaneo esalta e differenzia le caratte-ristiche di due superfici vicine.Ecco, voglio comporre una mostra in cui ogni immagine aiuti l’altra ad emergere nella sua specificità, ogni autore permetta all’altro di essere visto.

Le fotografie non vivono però sospese in un vuoto. Anche il luogo è contesto. Gli spazi in cui è realizzata la mostra sono molto articolati e a volte rischiano di essere dominanti rispetto alle immagini, non sono “neutri”. Dal dialogo tra immagini e spazio nasce la suddivisio-ne della mostra in cinque tappe, cinque storie, ognuna con soluzioni espositive diverse, ma tutte miranti a creare un dialogo significativo tra le fotografie. Siamo pronti per la visita.A occhi aperti!

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Franco Fontanaa cura di Silvia Domenici

N asce a Modena sabato 9 dicembre 1933. È uno dei protagonisti assoluti della Fotografia Italia-na ed Internazionale del Dopoguerra ma conoscen-

dolo si ha l’idea di trovarsi non solo davanti ad un Grande Fotografo ma soprattutto ad una persona ricca di contenuti, pas-sione ed esperienza quasi che la fotografia ed i workshop, si-ano solo un veicolo per scoprire un mondo di “luce e colore”. Comincia a fotografare nel 1961 - frequentatore dei “Fotoclub”.

Inizia come fotoamatore con una Kodak retina presa a noleggio per curiosità e “continua per amore della fotografia con il cuore, il pen-siero e la passione”. Se gli chiedi perché ha iniziato a fotografare ti risponde paragonandolo all’amore per sua moglie. È qualcosa che non si può spiegare, è cosi. Se gli chiedi di dare un consiglio a chi si approccia a questo mondo ti aspetteresti tanti consigli da un così im-ponente esempio. Ma lui no. Ti risponde con parole precise e decise. “Bisogna essere umili. Non bisogna avere fretta”.

“La Fotografia non è per centometristi ma per maratoneti”. Ed allora ti rendi conto che davanti hai un maestro di fotografia ma soprat-tutto un maestro di vita attraverso la fotografia. Molto rilevanti sono le ricerche dedicate all’espressione astratta del colore, svolte in un periodo in cui l’ Astrattismo in fotografia era da ricercarsi esclusiva-mente nel bianco e nero. Franco Fontana sente il bisogno di rinno-vamento e di messa in discussione dei codici di rappresentazione ereditati, in campo fotografico, dal Neorealismo, ma pone particolare attenzione e cura anche agli esiti visivi e alla componente estetica

della sua ricerca. Nel 1963 espone alla Terza Biennale Internaziona-le del Colore a Vienna; l’anno dopo, Popular Photography gli pubbli-ca, per la prima volta, un portfolio con testo di Piero Racanicchi.

Nelle fotografie di questo primo periodo nascono alcuni di quelli che diverranno i suoi tratti distintivi. Soprattutto, c’è una scelta di campo decisamente controcorrente rispetto alla maggioranza dei suoi col-leghi: è stato tra i primi in Italia a schierarsi con tanta convinzione e fermezza, per il colore e lo rende protagonista, non come mezzo ma come messaggio, non come fatto accidentale, ma come attore. E’ attratto dal tessuto urbano, da porzioni di muri, stratificazioni della storia, dettagli di vita scolpiti dalla luce. Alla stregua di un pittore, Fontana mette in posa il paesaggio. Il suo occhio fotografico ne sce-glie il lato migliore con la consapevolezza che la fotografia, con il suo tempo di posa, gli obiettivi e i diaframmi, vede il mondo diversa-

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mente dall’occhio umano. Tiene le prime esposizioni personali nel 1965 a Torino (Società Fotografica Subalpina) e nel 1968 a Modena (Galleria della Sala di Cultura). L’esposizione nella città natale segna una svolta nella sua ricerca.

Ha dimostrato di essere molto eclettico: mai fossilizzato su un ge-nere in particolare, in grado come un camaleonte di passare da pa-esaggio al nudo, confrontarsi con il reportage, con la fotografia fine art e con le polaroid, senza disdegnare la pubblicità, la moda o altri lavori commerciali.

Gli sono stati dedicati oltre 40 libri, pubblicati da editori italiani, fran-cesi, tedeschi, svizzeri, spagnoli, americani e giapponesi; ha esposto in musei pubblici e gallerie private di tutto il mondo - oltre 400 sono le mostre personali e di gruppo che ha finora tenuto. Sue opere fi-gurano in importanti collezioni pubbliche - International Museum of Photography, Rochester; Museum of Modern Art, New York; Museum of Fine Arts, San Francisco; Museum Ludwig, Colonia; Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris; Victoria and Albert Museum, Londra; Stedelijk Museum, Amsterdam; Kunsthaus di Zurigo; Galleria civica d’arte moderna e contemporanea, Torino; The Photographic Mu-seum, Helsinki; Puskin State Museum of Fine Arts, Mosca; The Uni-versity of Texas, Austin; Museum of Modern Art, Norman, Oklahoma; Museo d’Arte di San Paolo; Israel Museum, Gerusalemme; Metro-politan Museum, Tokyo; National Gallery di Pechino; The Australian National Gallery, Melbourne; The Art Gallery of New South Wales, Sidney - e private. Ha ottenuto importanti riconoscimenti e premi, in Italia e all’estero. Ha collaborato e collabora con riviste e quotidiani: Time-Life, Vogue Usa, Vogue France, Il Venerdì di Repubblica, Sette, Panorama, Epo-

ca, Class, Frankfurten Allgemeine, New York Times. Tra le tante cam-pagne pubblicitarie da lui firmate, vanno almeno ricordate quelle per: Fiat, Volkswagen, Ferrovie dello Stato, Snam, Sony, Volvo, Versace, Canon, Kodak, Robe di Kappa. Ha tenuto conferenze all’estero (Guggenheim Museum, New York; Institute of Technology, Tokyo; Accademia di Bruxelles; Universi-tà di Toronto; Parigi; Arles; Rockport; Barcellona; Taipei) e in nu-merose città italiane (tra le tante: Torino, Politecnico; Roma) . Ha collaborato con il Centre Georges Pompidou, e con i Ministeri del-la Cultura di Francia e del Giappone. È direttore artistico del Toscana FotoFestival. Nel 1984 ha ricevuto il XXVIII premio per l’arte Ragno d’Oro dell’Unesco, nel 1989 il Premio per la cultura della Presidenza del Consiglio dei Ministri, nel 2000 l’onorificenza di Commendatore della Repubblica per meriti artistici. La Facoltà di Architettura del Po-litecnico di Torino gli ha conferito nel 2006 la Laurea Honoris Causa in Design eco compatibile. Il suo concetto di fotografia ti lascia per-plesso ed affascinato, te ne innamori, ti coinvolge quando gli senti dire: “Io credo infatti che la fotografia non debba documentare la realtà, ma interpretarla. La realtà ce l’abbiamo tutti intorno, ma è chi fa la foto che decide cosa vuole esprimere. La realtà è un po’ come un blocco di marmo. Ci puoi tirar fuori un posacenere o la Pietà di Michelangelo.”

Tra le sue pubblicazioni si ricordano: Terra da leggere (1973); Skyli-ne (1978); Paesaggio Urbano (1980); Presenzassenza (1982); Ful-lcolor (1983); Fotografie1965 - 1987 (1987); Piccoli e grandi nudi (1995). Tra quelle più recenti occorre citare Fotografie 1960-2000 (2001); Paesaggi Landscapes (2003). Attualmente, vive e lavora a Cognento (Modena).

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Riccardo Pieroni

Cinque stanze consecutive.

La nervatura dell’itinerario è costituita dalle immagini di Franco Fontana. Ai lati delle porte, la loro presenza segna il percorso secondo una progressione che va, per gradi, verso una crescente astrazione fino ad arrivare alla purezza assoluta di due superfici colorate simmetriche. Non sono in ordine di data (non è il tempo lineare dell’orologio che ci interessa), ma seguono la tensione di una ricerca che mira all’essenziale.

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sala 1

L a terra è ormai un territorio urbanizzato. La camera oscura è una macchina per disegnare prospettive. Città e fotografia sono entrambe frutto di una sintesi tra naturale e artificiale.

Franco Sortini, nella più pura tradizione della fotografia d’architet-tura, applica la prospettiva centrale, di origine rinascimentale, come metodo per cercare l’ordine nel caos. Francesco Bucchianeri sceglie la notte per disegnare i contorni scul-torei delle sue fabbriche minimizzando l’impatto negativo sul paesaggio.Massimo De Gennaro si confronta con Venezia alla ricerca della luce artificiale nell’elemento naturale dell’acqua, rivelando la doppia natura della città.Anche Mauro Faletti, che si allontana apparentemente dall’am-biente urbano, usa la luce come strumento rivelatore delle struttu-re materiali del paesaggio dove la gravità e il vento producono sulla neve tracce leggere come la pelle su un corpo.

Interviene Lisa Bernardini, col suo uomo di spalle proiettato su un muro denso di segni di superficie, ma senza un punto di fuga, senza speranza di vedere oltre, a porre interrogativi sulla natura dello sguardo del fotografo.E’ uno sguardo neutro il nostro? E’ la semplice registrazione del dato di fatto che seguitiamo a chiamare realtà? No! Franco Sortini desatura i colori e riduce il contrasto tra figura e sfondo nel tentativo di arrivare al disegno della città lasciando tra-sparire, nelle sue vedute, il filtro di una inequivocabile cultura ar-chitettonica. Il filtro della visione architettonica appartiene anche a Francesco Bucchianeri, che arriva alla forma attraverso un an-nullamento dello spessore del fondo e dosando sapientemente il rap-porto tra luci, ombre e colori, come in un disegno di progetto. Ribalta la prospettiva comune trovando il bello dove altri vedono in-quinamento e distruzione del territorio.Mauro Faletti è capace di trasformare la variabilità della luce di montagna in evento, qualcosa che accade improvvisamente davanti a suoi occhi e diventa definitivo nella completezza della forma.La stessa mutevolezza che Massimo De Gennaro trova nei riflessi di Venezia che affronta con uno sguardo meravigliato e giocoso.In qualche modo tutti sguardi lontani. Lo sguardo di chi prende la distanza per penetrare e capire.

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sala 2

P er avvicinarci al mondo ci dobbiamo allontanare dalla città. Il mare, la campagna, la montagna, il cielo. Non si tratta di un semplice spostamento fisico, ma di un salto mentale tra le

strutture compresse e organizzate dell’ambiente urbano e l’ampiezza, il tempo ciclico e dilatato, della natura. Tutto l’essere del fotografo vie-ne coinvolto così da permettergli di ritrovare la sua unità. Luca Brezigar sceglie la linea dell’orizzonte (ancora una volta un elemento cardine della prospettiva rinascimentale) per ancorare le sue memorie al luogo. Tre aree parallele (cielo, mare, terra) accolgono frammenti di sguardi vicini che provengono da momenti diversi dello stesso spazio. Si stabilisce così un legame tra la fisicità del luogo e l’interiorità del fotografo, memoria come stratificazione. È proprio su questo tema che lavora Donata Pizzi che si reca nei siti in cui sono avvenute stragi ed omicidi. Il suo spostamento fisico “ver-so” il luogo da cui “trae” un’immagine instaura un rapporto di scambio che dà senso contemporaneamente al sito ed al lavoro della fotografa.

Un ruolo che proprio perché intimo diventa sociale in quanto permette di ri-conoscere il luogo in una memoria collettiva. Questa disponibilità all’incontro permette a Donata di usare metodi compositivi sempre diversi.Rimane profondamente individuale la vicinanza alle cose di Fausto Corsini e Mauro Faletti. Uno col grandangolo, l’altro col teleobiet-tivo raggiungono un’identità con i luoghi che coincide con una loro trasfigurazione. Fausto raggiunge l’essenziale attraverso un approc-cio istintivo nella ripresa e togliendo la trama superficiale agli oggetti. Mauro, attraverso inquadrature estremamente misurate, coglie le mi-nime variazioni di superficie e arriva a interpretare una scrittura della natura. Si può essere talmente vicini da compenetrarsi, in un processo di identificazione, con la terra. Francesca Della Toffola si autori-trae in sovrapposizione con gli elementi fondamentali (terra, acqua, aria) e completa la quadricromia dei colori base della natura (giallo, verde, blu), con il fuoco rosso dei suoi capelli. Corpo tra i corpi e, quin-di, anima nell’anima. Terra e corpo con una sola memoria, un solo lin-guaggio. Vicinanza come completezza… nel cerchio. Novella Oliana asseconda la sua aspirazione ad entrare in una relazione intima con i luoghi con occhiate fugaci capaci di ridurre al minimo la quantità di segni e di esaltare al massimo il rapporto tra tenui superfici quasi mo-nocromatiche. Al contrario, Francesco Bucchianeri trova nei dia-frammi chiusi, nei lunghi tempi di esposizione, nella grande capacità di dettaglio, un modo lento per assorbire gradualmente la complessità delle cose mentre avviene la loro trasformazione.

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sala 3

A ndrea Simeone ha l’occhio del girovago. Non sa cosa re-gistrerà la sua macchina fotografica, ma sicuramente sarà frutto della sua disposizione a guardare. I suoi occhi vanno

incontro alla gente e quello sguardo ritorna indietro moltiplicato in intensità e sincerità.Al contrario le immagini di Lisa Bernardini sono la registrazione di una installazione che prevede un personaggio ricorrente (la proiezio-ne dell’osservatore e/o del fotografo nel quadro) e un minimondo co-stituito da porte impenetrabili allo sguardo o da superfici che riman-dano ad un altrove. Immagini costruite, ma per questo, senza tempo e, forse, senza “un”soggetto. Nel nostro percorso, Lisa suggerisce il passaggio verso una fotografia impegnata a parlare di se stessa e a confermare la sua possibilità di esistere al di fuori di una realtà data. Così anche Franco Sortini si concede momenti di eccezione rinun-

ciando alla prospettiva centrale e alla frontalità per sperimentare la ricchezza di vedute laterali, dove numerosi elementi entrano in rela-zione in uno spazio improvvisamente più profondo.Talmente profondo da poter essere penetrato fino ad arrivare ad un ribaltamento di prospettive e di ruoli. La macchina fotografica si ren-de autonoma dal fotografo e Michele Berti accetta le immagini che essa gli invia come testimonianze di un altro mondo. Un mondo total-mente esteriore fatto di oggetti situati in uno spazio mai direttamente sperimentato dall’uomo eppure direttamente connesso con la vita quotidiana che può essere indagata solo attraverso una molteplicità di sguardi.E’ proprio il ricorso ad un punto di vista mobile che rimette in gioco le immagini di Donata Pizzi, la quale, nel suo spostarsi alla ricerca della memoria dei luoghi, spesso fa ricorso al dittico per mostrare la leggera sfasatura tra visione e ricordo.Così anche il lavoro di Ulderica Da Pozzo, che viaggia nei luoghi dell’abbandono, è basato sull’accumulo di testimonianze visive delle tracce del passato. Solo una moltiplicazione degli sguardi, un metter-si di fronte alle cose, a tutte le cose, diversificando le prospettive e le distanze, permette di recuperare informazioni e di strappare all’oblio ogni piega della materia.

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sala 4

È la luce a dirci tutto delle persone ritratte da Alex Mezzenga. Lui stesso si sottopone al “trattamento” di due ombrelli simme-trici per non lasciare nessuna piega della pelle, nessuna trac-

cia del vissuto, nascosta allo sguardo. Il bianco-nero, l’alto contrasto, il nome che identifica la persona tracciato sul corpo come un segno indelebile, non lasciano dubbi: tutta l’informazione in un unico sguar-do. È la legge del fotoreporter.Non sempre la luce è così “lampante”. Massimo De Gennaro la cerca nel buio e la sdoppia nel riflesso così da restituire una molte-plicità variabile di piani nello spazio. All’opposto, Novella Oliana abbaglia l’osservatore con una luce uniforme e aerea che consente

solo piccoli scarti di densità alle superfici per differenziarsi. Massimo e Novella usano un metodo opposto per narrare del loro rapporto ugualmente intimo con lo spazio.Fausto Corsini, invece, provoca uno shock visivo nell’osservatore. Una luce secca e decisa annulla tutti gli elementi di riconoscibilità im-mediata degli oggetti. Una gamma ridotta a tre toni pone interrogativi su cosa stiamo realmente guardando. L’immagine diventa indipen-dente dall’oggetto rappresentato.Più rassicurante, Ulderica Da Pozzo usa la luce naturale dei luo-ghi per avere una certezza della loro esistenza e ricostruire una unità tra oggetto, rappresentazione e costruzione della memoria. La fisicità delle cose, resa concreta dalle ombre, ci dice che non viaggiamo in un sogno, ma all’interno di un flusso temporale che la fotografia ha il compito di registrare. Michele Berti usa la luce avvolgente della pubblicità in modo iro-nico e distaccato. Nei suoi mondi a sorpresa tutto è visibile, leggibile, chiaro. Ma… abbiamo la sicurezza che sia anche “vero”?

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sala 5

T utti in questa sala sanno di essere ripresi, vogliono essere fotografati. Alex Mezzenga propone il gioco dell’identifica-zione. La maschera che ognuno indossa è il proprio nome, un

disegno che si sovrappone fisicamente al corpo. Un atto, quello di scriversi, che è una dichiarazione di disponibilità in un’epoca in cui predomina il ripiegamento e la chiusura. Un atto che va fatto insieme ad altri (è difficile scrivere su se stessi allo specchio) e che testimonia della componente sociale di questo gioco del riconoscimento.Andrea Simeone arriva in India per trovare i volti del suo sud. Li

riconosciamo sotto lo strato di colore che hanno applicato in occasio-ne della festa (ancora il gioco). Le pose sono assunte per il fotografo interrompendo per un attimo il ritmo della giornata. Attraverso que-sta sospensione temporale, il fotografo è nelle foto come i soggetti che rappresenta. Sembra quasi che sia stato ri-conosciuto.Ecco che emerge la doppia funzione della maschera: sembra na-scondere, ma in realtà rivela. La sua azione tranquillizzante permette al soggetto di far emergere la parte più intima di sé. Ecco, forse, la vera funzione della macchina fotografica, la masche-ra che indossiamo per nascondere il nostro volto e contemporanea-mente mostrare la nostra disponibilità e la nostra interiorità.Solo nelle foto di Francesca Della Toffola la maschera delle so-vrapposizioni ci impedisce di afferrare il volto della persona. Segno di una totale identificazione tra esterno e interno, tra corpo e anima, tra visibile e invisibile. L’atto stesso del fotografare diviene un atto di rivelazione in cui la fotografa, mettendosi in gioco in prima persona, trova una sua ragione di esistenza.

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Dalla sala 5 alla sala 1: rivedere la mostra al contrario. Cosa accadrà nei nostri occhi?

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Denise AimarGESTALTICAIn queste fotografie di still life il referente non sempre è assolu-to, immediatamente riconoscibi-le, ma quello di Denise Aimar è senza dubbio un lavoro sul lin-guaggio e la percezione in senso complessivo. Ci troviamo infatti di fronte ad una scrittura a ditti-co che si snoda in due direzioni, quella dell’associazione e della scansione dell’oggetto analiti-camente cubista. L’associazione di colori in una buona sintesi di caldi e freddi e di opposti, secondo le varie teorie in equi-librio fra progettazione e visione.

Dario Apostoli MORFEOC’è sempre un’enorme distanza tra quello che si vede e ciò che

c’è oltre e la fotografia, la quale paradossalmente nasce dal con-tatto diretto con le cose: l’interfuit di Barthes. Dario Apostoli ci porta in quel confine-limite tra il sogno e la soglia della fisicità- materialità. Il suo Morfeo che scrive attraverso una fotografia quasi monocroma è abbandono, oblio, ma anche antro di una conoscenza che avviene proprio nel manifestarsi del sonno. Un ambiente poco ri-conoscibile, fatto di segni, poche luci, grandi ombre. Uno spazio di visibile invisibile, dove ovviamente il personaggio totalizzante è l’affio-rare dell’inconscio. Tutto è passag-gio, un transito come ci dice, ma la magia di queste opere è che ci introducono in una dimensione di instabilità, dove però paradossal-mente “il tempo è senza tempo”.

Lisa Bernardini PROSPETTIVA BEHINDIl nuovo lavoro di Lisa Bernar-

dini, se da una parte è meno onirico e visuale dei prece-denti, dall’altra si inserisce assolutamente in una linea di riflessione a lei consueta. Il tutto è un appunto iniziale su quelle che potrebbero essere le future tematiche sociolo-giche, riferite all’Ambiente e all’Altro. È un uomo a sim-boleggiare la sua vita privata che, seduto di spalle, è di fron-te ad una scenografia urbana essenzializzata, sia nella com-posizione sia nei colori. È un guardare attraverso gli altri, tipica posizione concettuale, che la porta in una dimensio-ne contemporanea dove sullo sfondo primeggiano una cabi-na del telefono, delle porte e delle finestre dal forte senso simbolico che segnano co-munque la provvisorietà di uno sguardo. Poi primeggia una scritta “Paradiso”, ciò che sulla terra cerchiamo ma che non troviamo. In fondo un’al-tra faccia del sogno.

Michele BertiHAPPY FAMILYTutto come “Alice nel paese delle meraviglie” nel tunnel del cestello di una lavatrice! Miche-le Berti porta, centrifuga i suoi oggetti quotidiani attraverso un percorso ironico, fantastico dove la fotografia li restituisce con una diversa prospettiva senza alterarne il senso e la funzione. Oggetti simbolici, quotidiani, in un viaggio che inizia con i piedi avvolti in un materasso cusci-no, come ad iniziare un percor-so che viene scritto nel tondo quasi fagocitato dallo sguardo circoscritto di un obbiettivo. Fon-damentale qui l’uso del colore che ci immette in una dimen-sione fantastica di memorie e di ricordi, di oggetti che sono stati necessari come le bambole e i pupazzi. Ma poi Berti si porta con sé tutto il necessario, dagli

alimenti, alle stoviglie, ma so-prattutto i materiali fotografici chimici: la Impossible , l’Ektar, la Velvia 50 a ricordare forse che anche questo è un gioco del linguaggio, una letteratura, comunque una fiaba.

Marco Betti BODYIl mito del corpo, l’identificazione con l’immagine e l’apparire del-la attuale società nella perfetta forma fisica della velina. Eccolo qua. In realtà Marco Betti com-pie un’operazione intelligente, non solo ironica, ma direi an-tropologica, “neo-neorealista’, più vicina al vero che all’imma-ginario televisivo e di coperti-na. Questi corpi di tutti i giorni si inseriscono perfettamente nell’immagine da spiaggia che nella fotografia italiana è un chiaro topos. Il taglio particola-

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re che esclude gli estremi dona una valenza universale che, se da una parte ricorda la scultura classica, dall’altra riconduce alle forme come Moore, alla demitiz-zazione di Martin Parr. È una diversa visione della materia, del corpo: un plasticismo voluta-mente segnato e ingombrante, più umano che riconduce anche alla rappresentazione del corpo prima che divenisse un valore totalmente estetico. Una foto che non si compiace e che fa pensare.

Luca BrezigarANAMNESIMima, Riccione, Senigallia, Trieste. Tutto estremamente minimale, tra astrazione e con-cetto. Un’essenza dello sguardo che può essere in quel luogo ma anche altrove. Il lavoro di Luca Brezigar è chiaramente un’operazione metalinguistica sull’essenza dello sguardo di fronte al rapporto mare, orizzon-

te, nella cornice della fotografia. Le sue composizioni, potremmo chiamarle anche collage, sono un approfondimento dell’atto stesso del guardare le due su-perfici e di ciò che è stato perce-pito e rimane nella memoria. È così che egli inserisce nel suo speculum un approfondimento del rapporto dell’intensità del colore, dell’ingrandimento, del concetto stesso di allineamento dell’orizzonte, del particolare nel rapporto con il globale.In fondo questa è la fotografia, il nostro sguardo: un saltimbanco tra lontano-vicino, particolare-glo-bale, assimilato e percepito in quel momento. Una fotografia da guardare più che da scrivere.

Francesco BucchianeriFABBRICHEUna fotografia quella di Bucchia-neri costruita di equilibri geome-trici e cromatici, tra referente e sua rappresentazione attorno ad una tematica, quella dell’in-

dustria, che oggi esige una pro-fonda riflessione. Non siamo infatti qui nella totale oggettività, nemmeno nella totale interpre-tazione. Una via di equilibrio costruito con l’uso del digitale che permette di scrutare in un modo differente nel colore della notte. Come ci dice l’autore, non è solo la celebrazione di questo simbolo del potere, ma un suo abbellimento. Infatti, da un pun-to di vista estetico, emerge una leggerezza complessiva, nono-stante questo sia architettonica-mente un paesaggio di masse, di volumi e di rapporti complessi con gli spazi.

Sergio Corsaro ORABLUArs magna lucis et umbrae, così una scritta secentesca sulla ca-mera oscura. I paesaggi dell’Ora blu di Sergio Corsaro sembrano usciti proprio da quella scato-la magica o, se vogliamo, da un remake contemporaneo

della lampada di Aladino. Una mezz’ora, tra il giorno e la notte, tra luce e ombra. Un inseguirsi di atmosfere con una situazione coloristica di un linguaggio pre-gnante, fisicamente significante. Luoghi d’atmosfera di suggesti-va analisi degli spazi artificiali naturali in una quinta in cui i cieli appaiono dei fondali che reggono visivamente ancora. Sembrano dei palcoscenici che aspettano, ma invertono i ruoli: guardano come spettatori e con gli spettatori ciò che verrà.

Fausto CorsiniVISIONARIA “visionAria” si inserice in un pro-gress nel lavoro di Corsini negli anni che ha avuto come prota-gonista spesso un colore oniri-co con una base progettuale e anche liricamente concettuale. Oggi sono le spiaggie, uno dei punti forti della fotografia italia-na, logicamente e fisicamente legate ad un territorio obbligato.

Corsini non cade nella facilità della storia, ma neanche nell’a-ria tirata del confine e del limite. La sua invenzione, al di là del soggetto che ha come sostanza poetica comunque lo spazio, è quella di selezionare due colori, o meglio dominanti e farli coesi-stere riducendo il tono quasi alla funzione del bianco e nero. Ma è colore ridotto nella sua essen-zialità e per questo potenzialità espressiva. Un lavoro magico, pieno zeppo di pensiero, incon-scio,esplosioni, riflessioni, ma-teria etrasparenze. Un andare oltre come non mai.

Manuel Cosentino BEHIND A LITTLE HOUSEUna casa, un lembo di terra, un cielo. Referenti analoghi che Cosentino varia attraverso un intelligente uso del digitale, mantenendo lo stesso spazio come in una matrice e introdu-cendo varianti sostanzialmente

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atmosferiche senza cadere nel Pittoricismo. La sua, infatti, è più una riflessione sullo spazio, analitica, fenomenologica che ha sempre in sé le potenzialità dell’infinito quasi leopardiano. La casa come la siepe che non esclude lo sguardo ma lo in-clude. Un’alternanza di colore, mancanza di colore, ma colore del bianco e nero. Un profondo alternarsi di luce-non luce. Un altro bell’omaggio a ciò che noi cerchiamo nella fotografia: la ra-gione e la magia.

Carolina CuneoFOTOROMANZO‘Fotoromanzo’ è una storia d’a-more, un fumetto con un inizio e una fine che può diventare ancora inizio. Carolina lo scrive attraverso una soluzione grafica di ombre e silhouettes per asso-ciazione o contrasto di colore. È una storia tra un lui e una lei a dittici e sequenze che però ricor-

da con una certa ironia proprio la storia della fotografia che na-sce anche, prima della chimicità e del supporto materico, con la proiezione attraverso lanterne magiche, e prima con le ombre cinesi. È comunque tutto un tea-tro in progress che ha in sé una condizione di movimento e che mi ricorda ancora le origini del tutto. Queste silhouettes potreb-bero giare su uno zootroscopio e allora sarebbe un altro racconto.

Ulderica Da Pozzo STANZE“Stanze” di Ulderica da Pozzo fa parte di un più complesso lavoro sui luoghi dell’abbandono che riguardano il Friuli. In montagna e pianura questi quadri di interni, rigidamente nel formato quadra-to, come a significare una stabi-lità passiva, sono ambienti che non torneranno più alla loro vita. Nelle immagini che sembrano fondali irreali il primo dato percet-

tivo è il silenzio, quindi la mente torna al passato attraverso una evocazione di memoria che è in ognuno di noi. Infatti questi quadri essenziali, in cui gli oggetti spesso si confondono, non sono più se stessi ma fortemente simbolici, paradossalmente anche se rife-riti ad un territorio, possono anzi sono, dovunque. Appartengono alla storia di ognuno di noi, al no-stro tempo, quello del consumo che presuppone l’abbandono. Tali visioni ci comunicano attraverso una plurisensorialità, mancanza di voci, colore, toni e paradossal-mente nella loro leggerezza iconi-ca, sono parole e pensieri.

Massimo De GennaroLUCI A VENEZIA...luci di Venezia... sempre tut-to inconfondibile. È ciò che lo sguardo si aspetta con il baga-glio dell’immaginario consolida-to nel tempo storico e nell’incon-

scio individuale di questa città. Massimo De Gennaro compie un’ operazione su questa “nor-malità” consolidata attraverso immagini di profondo equilibrio e leggerezza. Una composizione classica con linee di fuga e pro-spettive che non sconvolgono lo sguardo, anzi lo rasserenano e scrivono con le luci il silenzio dell’acqua, della sua atmosfera liquida. Così anche sugli scenari rappresentati: attracchi, pon-ti, finestre, barche come in un catalogo poetico e analitico di una pittura classica, dove emer-ge ogni tanto un segno grafico connaturale all’ambiente. Ogni tanto anche il colore voluto, de-licatamente accentuato. A citare il maestro.

Francesca Della Toffola ACCERCHIATI INCANTIQuello di Francesca Della Toffola in questa mostra è un cambia-mento non solo formale, rispetto

alle sue conosciute immagini nel contenitore visivo denominato “The black line”, dove veniva contemplata la dialettica dell’u-no e del tutto e la funzione del rapporto tra scatti e apparenti fotogrammi. Ora il contenitore visivo è quello del tondo, di una diversa cornice che narra sem-pre e comunque la scenografia del suo corpo: un’autoriflessione più circoscritta, concentrata, ma nello stesso tempo più indefi-nita dello spazio. E’ diversa la dialettica con ciò che circonda, mentre nell’interno viene messo in scena il doppio del suo corpo natura (si veda la conglobazione nell’ulivo) in un rapporto panico. A prima vista può ricordare l’Im-pressionismo, ma anche l’Art Nouveau, certe origini magiche dell’Astrattismo (es. Kupka) ma, molto più semplicemente, la stessa fotografia attraverso quei vetrini colorati delle lanterne ma-giche che si sovrapponevano cre-ando nella proiezione movimenti e terze immagini. Film, fotografia. La stessa cosa. Tutto come in un cannocchiale.

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Giorgia DraisciGUARDARE PER ‘VEDERE’L’insieme di queste immagini, abbastanza semplici come elementi compositivi, rappre-sentati da un primo piano e uno sfondo è di per se stesso piuttosto enigmatico. Il viso non compare mai, a volte solo i capelli. La figura di spalle con giubbotto rosso sugge-risce invece una riflessione sul guardare. In realtà il pa-esaggio romano, i ponti, l’ac-qua del fiume, la gente sulle scalinate è ciò che la figura protagonista vede mentre la macchina fotografica ritrae la scenografia nella sua globa-lità. Una dicotomia visiva di sapore concettuale che va al di là dell’apparente predomi-nanza del colore rosso che co-pre spesso buona parte della scena. L’immagine del fiume tagliato dall’isola Tiberina è poi un simbolo di questa am-biguità bivalente.

Mauro Faletti MOUNTAIN SHADOWS“Mountain Shadows”. Neve e mon-tagne; un approccio quasi sponta-neo per la fotografia.Così è anche per Faletti con queste immagini a basso spettro cromatico come acca-de nel genere. Con tale tipologia di fotografie è facile cadere nella retori-ca naturalistica, nella semplice imita-zione. L’autore cerca invece una sua dimensione: emerge una presenza assenza, un rapporto tra il vero e il finto, l’immagine reale e quella desi-derata. Sostanzialmente le direzioni di ricerca sono due: quella del lavoro sui piani, sulle masse e lo sfondo e la più tradizionale del segno grafico, del graffito rappresentato dall’essenziali-tà degli alberi nella stagione inverna-le che ha in sé una valenza simbolica.

Tea GiobbioIL BURATTINO DEI PENSIERIPoche immagini, essenziali

che hanno un loro background in una forte progettualità e concettualità, realizzate però con una assoluta visione. Di-ciamo subito che il risultato non cade nel Surrealismo, pur ereditandone alcuni presup-posti. Potrebbe essere una storia che porta i due protago-nisti in un’immersione totale in una dimensione indefinita (infinita?). È particolare il rap-porto tra i corpi e la materia che li sovrasta, li separa, e dove questa sostanza li rag-giunge. Di solito si parla di osmosi, ma qui non siamo nel-líuniverso lirico, totalmente in-teriore ma in una scenografia.

Giuliana MarianelloMANIFEST-AZIONIL’utilizzo dell’immagine strap-pata dei manifesti dai ready made è ormai un classico che ha caratterizzato la fotografia di Giuliana Mariniello. Fotografia

nella fotografia che ha profondi rimandi e memorie. Senz’altro Nino Migliori, ovviamente Mim-mo Rotella. È quindi un tema caldo che in questo insieme la Mariniello affronta con una pro-pria autonomia visiva. È un lavo-ro questo fortemente simbolico, che paradossalmente si avvia ad una diversa esecuzione del ritratto. Questi frammenti infatti così si delineano con diverse fi-sionomie in cui il dettaglio è for-temente simbolico e si associa ad una scrittura presente, citata quasi come Jiri Kolàr nella sua polimatericità.

Elena MelloniL’UFFICIO PROVVISORIODegli oggetti racchiusi nel for-mato Polaroid: un ventilatore, una forbice, una cucitrice, altri elementi cartacei racchiusi in uno scatolone, diversi scatoloni. Lo sguardo posa fuori da una grata verso uno spazio verde, un

pupazzo ammicca ironicamente su fogli e libri.Tutto provvisorio, posato lì in attesa. Non è un tra-sloco, ma un ufficio provvisorio quello in cui lavora l’autrice. O meglio è quello che ha riassem-blato dopo il terremoto che ha colpito l’Emilia nel maggio scor-so anno che si è come fermato sul calendario. Così l’autrice ricrea fotograficamente una si-tuazione quotidiana attraverso una sostanza poetica di colore, atmosfere, rendendo poetica una situazione di per se stessa drammatica. Tutto leggero, lievi-tante ma persistente.

Alex Mezzenga MY NAME ISUna delle rivoluzioni di Alfred Stieglitz è stata quella di dare un nome ai suoi personaggi già nel lontano ottocento. È così che il pastorello e lo scugnizzo supe-rando il pittoricismo divennero “Leone” di Bellagio. Poi ci fu Pi-

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randello che polverizzò l’unità del nostro essere tra ciò che sei e come ti vedono gli altri. Alex Mezzenga nel nuovo lavoro cer-ca di trovare ai suoi personaggi quell’identità perduta attraverso una scrittura anagraficamente incontestabile. “Alex Mezzenga” diviene così un dato certo come “Gelsomina”. Così via. La scrit-tura sul volto, le mani, le braccia divengono la superficie di una nuova pittura, di una figurazione diversa, in una performance vera e propria che testimonia l’identi-tà ma anche il tempo di un’ana-grafe sociologica. Un altro aspet-to che Pirandello avrebbe colto, anche perché oggi è forse come ci vogliono gli altri. Un tentativo per differenziarci in un conformi-smo dilagante.

Roberto Mirulla NOTTURNII notturni di Roberto Mirulla sono un vero e proprio campionario ed esercizio sul genere, una

tipologia espressiva che con il digitale ha trovato una diversa espansione. Rimandi metafisici, raramente surreali, un realismo di stampo americano. Un modo intelligente però di affrontare quell’asetticità oggettiva dei luo-ghi che qui sono decisamente diversi. Un rapporto tra cielo e terra, luce naturale e artificiale, una riflessione sull’energia degli elementi primari sempre della luce, ma anche dell’acqua. Le pose scrivono il cielo come in un mappamondo, i movimenti lasciano il loro tracciato. Anche le costruzioni, gli edifici diventa-no spesso altro da sé come quel resto che sembra un animale mitologico col fuoco nel corpo.

Matilde MontanariINTERLUDI POLAROID La cornice delimita uno spazio, ma molto spesso questo è un segmento provvisorio perché la complessità della scenografia è oltre il singolo scatto.

Nel caso di Matilde Montanari ciò si verifica con la Polaroid, mezzo che sembra quasi inven-tato anche per il mosaico. La situazione complessiva è infatti tale. L’autrice si ritrae mentre danza, si muove a terra, quasi nuota uscendo ed entrando dalla cornice provvisoria, ricostruendo il suo corpo ancora in un’auto-rappresentazione dinamica in cui il frammento trova una sua epopea. Ancora una volta, anche per un uso studiato del colore, si riflette sull’immagine unica, ditti-co o polittico che sia, in cui l’uno fa parte del tutto e l’insieme si dissolve nel particolare.

Alessio Necchi PROSPETTIVE A POSTERIORIIl lavoro di Alessio Necchi, ampia-mente costruito con suggestioni visuali, in realtà sotto questa scorza in cui il colore e il mosso la fanno epidermicamente da prota-

gonisti, esprime valori simbolici, metaforici, esistenziali. È in realtà una riflessione sull’individuo, la sua spersonalizzazione nel con-testo contemporaneo. Non per nulla una delle immagini è quella dell’uomo, sempre poi presente, avvolto dalle corsie di un probabi-le supermercato, che poi entra ed esce da un tunnel, quasi fosse un contenitore obbligato. È un entra-re ed uscire che da una parte ci porta nell’incubo, dall’altra parte in una lontana speranza. L’indivi-duo è sempre di spalle, mai ana-graficamente riconoscibile. Un “essere-non essere.”

Oliana NovellaIN LIMINE“In limine”, come ci dice l’autrice, è uno spazio marginale e acciden-tale, un passaggio tra realtà cono-sciuta e sconosciuta, certamente un pensiero però che ci porta nel-la dimensione della conoscenza. La necessità di un margine come per Leopardi o Montale. La foto-

grafia è di per sé un frammento, quindi un margine con un limite connaturale. Ecco quindi che que-sto lavoro è decisamente metalin-guistico ma ha in più il senso della visione degli spazi connaturali al colore. La sua struttura visiva è proprio quella della soglia dei piani: frammenti che entrano la-teralmente (es. ombrelloni) o che si stagliano come dei dittici nelle visioni di interni.

Michela Petti LUCENon occorre cercare l’infinito nell’infinito stesso. Il mondo può essere in un oggetto, tanto più in una casa, nell’ambiente quoti-diano, nelle cose che tocchi tutti i giorni. Michela Petti isola tali scorci in frammenti di luce e ma-teria, di ombre che plasmano questi micro interni a seconda delle ore del giorno. È così che le porzioni di finestre, quadri, porte, coperte hanno in sé un qualche cosa inafferrabile, di

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transeunte. Gli oggetti, nel suo lavoro, non vengono quasi mai decontestualizzati, portati verso un’astrazione, ma mantengono la loro riconoscibilità e funzione. Sono arredi necessari alla vita quotidiana, però ci fanno sogna-re con il loro calore e colore.

Donata Pizzi ZERO INTOLERANCE Ormai Donata Pizzi ci ha abituati a questo suo linguaggio narrati-vo di un diverso reportage che sostiene la varie tematiche o attestazioni in una dimensione visuale, comunque anche concet-tuale. È in sostanza una rimesco-lanza dei generi in funzione di una comunicazione diversa. La Pizzi visita i luoghi di stragi, omicidi, li fotografa e vi accosta un’imma-gine sua, di interpretazione indi-viduale. Nei suoi dittici abbiamo quindi riflessione e visione con una complicità tra testimonianza e interpretazione, luogo reale e luogo immaginato della mente. È

così qui per Haifa in Israele, Por-denone con l’omicidio di Sanaa Dafani, Hilversum in Olanda, per il collegio di Goma in Congo.

Andrea Razzoli IL PAESAGGIO E LA PAURAE se le scarpe potessero parlare, raccontare forse scriverebbero una storia. Se potessero fotogra-fare anche. Quelle di Razzoli sono infatti immagini in cui il punto di vista fotografico è assoluto: ad al-tezza di punta di scarpa, appunto. La città viene così raccontata in modo insolito al di là di quella reto-rica dei luoghi a cui siamo troppo assuefatti. Attraverso l’uso totale del grandangolare e del colore parlano quelle superfici-materie, ma anche oggetti che fanno parte di un arredo urbano, vengono de-contestualizzati e stanno in bilico tra realtà e sogno una volta tanto non in modo angosciante. Griglie, tombini, superfici plastiche cal-pestabili hanno una loro struttu-

ra e assumono qui una identità espressiva quasi pensante, at-traverso texture, forme, segni. Sullo sfondo la città, gli edifici intravisti come diverse ed eva-nescenti presenze.

Marina Rossi LA SOTTILE LINEAUn lavoro quello di Marina Rossi di riflessione sulla condizione della donna, sul nostro mondo occiden-tale, ma anche di studio linguistico nel rappresentare una narrazione che è pure l’essenza delle imma-gini. Impostazione a dittico: una donna simbolicamente messa in una cornice a cui fa da contral-tare un’altra figura. Con questo accostamento emergono le varie tematiche, di soprusi e violenze, di falsi modelli propinati dai media. A volte non senza ironia rappre-sentativa, quasi sempre in modo estremamente oggettivo, emerge questa “sottile linea” tra l’immagi-ne data a livello mediatico e il reale essere dell’individuo. Piran-

dellianamente la distanza tra ciò che sei e come gli altri ti vedono.

Andrea SimeoneLATH MAR HOLIColori? È ovvio. La festa del Lath mar Holi nell’India Settentrionale è proprio l’epopea dei colori in cui i protagonisti si gettano addosso polveri pigmentate. Andrea Sime-one si trova così a trattare una materia con un occhio anche me-talinguistico, rimanendo però nel più puro reportage che sviluppa poi in modo narrativo ed espres-sivo attraverso sfondi, espressioni e gesti. Immagini di ambiente con oggetti sullo sfondo che ne connotano il luogo: dalla vespa alle bici, al risciò, a espressioni di personaggi spesso accentuate da un primo piano fortemente esa-sperato. È un tutt’uno con il colore che si percepisce come un pulvi-scolo totalizzante che è la materia stessa dell’immagine; l’autore fa sentire però la sua presenza, il suo “colore” con tagli come quello

in diagonale dei ragazzi che fuma-no e poi delle mani che è come se raccontassero la loro storia in un paese dei sogni e del gioco.

Franco SortiniURBANCITYIl nuovo lavoro di Franco Sortini “Urbanicity” nasce negli spazi ed è scritto anche con il grande formato di cui necessita per ri-solvere la struttura prospettica, l’impianto visivo di cui ogni foto è dotata, anzi su cui nasce. Im-pianto classico, in cui prevale una prospettiva centrale che delinea il profilo di un fabbrica, gli edifici, ma in senso più esteso quello di un’architettura. E il suo lavoro in-fatti è proprio su questo genere fortemente urbano dove il rigore e l’ordine costruttivo viene risolto con un colore desaturato del di-gitale. Colore che poi ricompare con delle connotazioni, quasi del-le citazioni, come un’auto gialla che giustifica una poetica tipica dell’autore stesso.

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RICCARDO PIERONINato a Roma nel 1955.

Nel 1977 è cofondatore della Cooperativa Città del Sole che elabora nuove strategie e metodi per la didattica dei beni cul-turali. In quel periodo passa alla fotografia professionale, si

appassiona alla grafica, si dedica alla cura e all’allestimento delle mostre. Dal 1987 insegna Tecnica fotografica e, dal 2000, Elaborazione di-gitale delle immagini presso l’Istituto di Stato per la Cinematografia e la Televisione “Rossellini” di Roma. Parallelamente all’insegnamento istituzionale, ha messo a punto i Laboratori di immaginazione fotografica che realizza presso centri sociali, istituzioni museali, in occasione di manifestazioni culturali, in scuole di ogni ordine e grado. I laboratori si caratterizzano per l’integrazione tra aspetti creativi, manualità e conoscenze tecni-co-scientifiche e costituiscono uno stimolo alla visione attenta della realtà e, insieme, alla sua trasformazione.La sua attività professionale e artistica si muove parallelamente sul terreno della fotografia e della grafica di cui cerca l’integrazione. Lavora prevalentemente nei settori della documentazione dei beni artistici, architettonici e urbanistici per enti pubblici, società, profes-

sionisti e artisti di cui spesso cura l’archivio fotografico. Si è occupato della cura, della progettazione e dell’allestimento di numerose mo-stre temporanee e permanenti. I suoi interventi sono caratterizzati dalla ricerca di soluzioni che integrino l’efficacia comunicativa con il massimo contenimento dei costi.

Le sue ricerche personali sono attraversate dai temi dello spazio, del tempo, della luce, della memoria, dell’indagine antropologica, del ritratto. Il tessuto connettivo è rappresentato dall’archivio come memoria fisica da cui trarre infiniti nuovi sguardi. Interessato alle re-lazioni che si creano tra le immagini, realizza da molti anni polittici di grandi dimensioni caratterizzati da serialità, ripetizione/variazioni, trasformazione. Privilegia la scelta di soggetti comuni ma poco notati che, grazie all’introduzione di elementi di ambiguità visiva, diventano oggetto di attenzione da parte dell’osservatore.Si dedica attualmente alla realizzazione di libri fotografici e di vi-deo in cui le immagini si integrano con i suoni. In tutti questi mezzi espressivi affronta i temi legati al racconto, al ritmo, alla costruzione dei significati in rapporto al contesto in modo da suggerire all’osser-vatore una molteplicità di itinerari.

È autore di diversi testi riguardanti la fotografia in cui sintetizza aspetti storici, tecnici, espressivi nel tentativo di definire il particolare rapporto tra realtà e immaginazione sotteso all’atto del fotografare.

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Assessorato alla Cultura Creatività e Promozione Artistica

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