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Fragil’MENTE’ La fragilità: come farne un punto di forza e affrontare le difficoltà della vita PRESIDIO OSPEDALIERO RIABILITATIVO “B. V. CONSOLATA” FATEBENEFRATELLI

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Fragil’MENTE’ La fragilità: come farne un punto di forza e affrontare le

difficoltà della vita

PRESIDIO OSPEDALIERO RIABILITATIVO “B. V. CONSOLATA” FATEBENEFRATELLI

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LA FRAGILITA’: COME FARNE UN PUNTO DI FORZA E AFFRONTARE LE DIFFICOLTA’ DELLA VITA.

Attraverso un percorso guidato ogni partecipante avrà modo diriconoscere ed affrontare le proprie difficoltà, iniziare unpercorso di accettazione al fine di modificare queicomportamenti che creano difficoltà relazionali con se stessi econ gli altri al fine di migliorare il rapporto con l’utenza.

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Sabato 8 novembre

Fragilità e condizione umana

9:00 Presentazione obiettivo del corso e dei partecipanti 9:15 La fragilità e la forza 10:00 Dolore: qualità dell’essere fragile 10:45 L’amore e le sue coniugazioni 11.30 Laboratorio esperienziale sui temi della mattinata 12.30 Analisi con docente di quanto emerso nei laboratori 12:45 – 13,45 pausa 13:45 Laboratorio guidato : visione film 14:30 dibattito guidato 15.00 La colpa di essere fragile 15,.30 la fragilità genera saggezza 16:15 Laboratorio esperienziale sui temi del pomeriggio 17,15 Analisi con docente di quanto emerso dal laboratorio 17:45 Conclusioni 18:00 Chiusura dei lavori

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Domenica 9 novembre

La fragilità dalla nascita alla morte

9:00 L'infanzia—L'adolescenza 10.30 L'età adulta—La vecchiaia 11.30 Laboratorio esperienziale sui temi della mattinata 12.30 Analisi con docente di quanto emerso nei laboratori 13,15 – 14,00 pausa 14:00 La fragilità come risorsa 15:00 Laboratorio guidato : visione film 16:15 Role playing: esperienze sugli argomenti trattati 17:15 Analisi con docente di quanto emerso dall’esperienza RP 17:45 Relazione scritta relativa ai lavori di gruppo per verifica apprendimento 18:15 chiusura dei lavori

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La parola fragile deriva dal latino frangere, che

significa rompere.

Facile a rompersi, poco resistente, caduco.

Spesso la troviamo all’esterno di imballi di oggetti delicati, un avvertimento ad usare con cautela.

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Fragile è un vetro, un fiore, ….

il carattere o la sensibilità di una persona.

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Si sente spesso dire “ha un carattere fragile”, “è fragile di salute”;

è anche usato come sinonimo di debole, gracile, inconsistente

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(Sono definiti cittadini fragili soggetti di etàavanzata, pazienti pediatrici, pazienti con disabilitào particolare problematiche –

fonte: Linee guida per gestire e comunicare gli eventiavversi in sanità, Ministero della Salute, giugno2011)

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L’anoressia forse è l’esempio più forte e sconvolgentedi quale limite può toccare la fragilità umana.Una fragilità in questo caso che non dà più spazioalla forza di reagire. La volontà si esprime,addirittura, verso l’annullamento di se stessi.

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Fragilità è emarginazione Fragilità è povertà

Fragilità è isolamento

Fragilità è disagio Fragilità è malattia

Fragilità è sofferenza

fRAGILITà è avere dei limiti

Fragilità verso la natura che distruggiamo

Fragilità è non essere onnipotenti

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Fragilità è egoismoFragilità è non avere ideali

Fragilità è solitudine

Fragilità è la ricerca del benessere senza considerare gli altri

Fragilità è credersi perfetti

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Fragilità è essere solo apparenza

Fragilità è depressione

Fragilità è disperazione Fragilità è individualismo

Fragilità è essere anziani

Fragilità è avere un disagio fisico o psichico

Fragilità è essere immigrato

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Da sempre il concetto di fragilità è unito al destino umano del perire, del morire:

“Piccola candela, su, spegniti! altro non sei che un’ombra vagabonda, la vita, un povero attore come te che si dimena sopra una scena, un’ora e poi ne cessa la voce, il raccontare di un idiota tra strida e scoppi di furore, privo di senso; un niente”,

così si esprimeva William Shakespeare nell’atto quinto del Macbeth.

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ma anche � alla morte che viviamo attraverso la perdita di persone care, � allo sradicamento da situazioni e tempi cui è legato molto di noi, � all’interruzione di relazioni affettivamente importanti, � alle limitazioni dei nostri desideri, � alla salute etc.

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Il tema della fragilità poggia i suoi fondamenti a partire da questioni antiche.

Molti salmi dicono che siamo fragili perché la nostra caducità,

la nostra sofferenza, il nostro invecchiare,

conducono irreversibilmente in un unico luogo che è quello della morte.

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Gli uomini hanno cercato, a più riprese, di dare una risposta alla fragilità, alla provvisorietà; ma le risposte di oggi coinvolgono avvenimenti a noi sconosciuti in precedenza: siamo esposti al terrorismo, alle grandi malattie, alla precarietà del lavoro, ai rapporti sentimentali sempre più frivoli, insomma a tutta una serie di difficoltà spesso soverchianti.

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Dunque anche la fragilità ha cambiato, con il tempo, modalità di manifestarsi e richiede di essere affrontata con dei nuovi pensieri.

Oggi si parla di fragilità sociale quando l’uomo ha perso la capacità di vivere in armonia con la propria natura e con se stesso.

La fragilità personale, unita pertanto ad una insicurezza del sistema sociale, lavorativo, formano oggi una

miscela deflagrante.

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Gli antichi, con la loro cultura, si sentivano parte di un sistema, di un Cosmos, e accettavano pertanto di avere un ruolo, una storia, una fine.

L’homo consumer moderno non sa più cos’è la storia; non sappiamo più cos’è il Cosmos

che ci accetta, e finiamo per avere paura della nostra fine, non la accettiamo più.

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Gli antichi, pur non avendo a disposizione sofisticate tecnologie, si sentivano parte di un gigantesco divenire, cosa che noi non accettiamo più.

L’uomo moderno non vuole avere dubbi.

Il grande razionalismo, per cui c’è una soluzione ad ogni problema o domanda, ha influenzato i grandi sistemi sociali attuali

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Non è più tollerato l’aggiustamento, la rettifica. Deve essere inquadrato tutto entro rigidi parametri, schemi matematici che non rendono più l’uomo protagonista ma lo rendono invece schiavo del sistema, privo di ogni margine di manovra.

La certezza che tutto debba andare bene per forza, pena il crollo del sistema, aliena la fragilità insita nell’essere umano

L’umiltà è pertanto stata bandita, il dubbio fecondatore non deve far più parte del pensiero moderno.

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Eraclito ci ricordava che “Dio è il giorno e la notte”, “la fine è il principio”;

insomma ci aveva insegnato a vederela concezione del mondo secondo chiavi multiple.

Gli uomini che conducono una vita meno stressata, meno consumistica, hanno un cuore meno morto, meno insensibile, più aperto ad accettare il cambiamento.

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La fragilità, allora, non è più vista in senso dispregiativo ma diventa un valore. Le cose fragili sono anche le più delicate e, come tali, sono maggiormente da salvaguardare.

La tecnica ha allontanato in maniera molto pericolosa l’uomo dalla sua fragilità.

Heidegger ci ricorda che la tecnica è un farmaco che da un lato fa l’uomo più potente, ma al tempo stesso lo rende ancora più fragile.

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Pensiamo ad esempio alla potenza di internet; da un lato possiamo comunicare con il mondo intero solo facendo un click, dall’altra parte ci porta ad una sorta di “neo monadismo”.

In Giappone ci sono gli Hikikomori. Dei giovani che hanno deciso di auto recludersi, di estromettersi dal mondo reale per vivere esclusivamente nel mondo virtuale, come in altri tempi i monaci si chiudevano nelle loro celle di clausura, o andavano nel deserto.

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E’ questa una difficoltà a parlare con noi stessi, anzi sembra che più ci sia facilità a parlare con il mondo più si abbia difficoltà a parlare con il nostro IO.

Il mondo attuale purtroppo ci incita continuamente ad un

cammino di rimozione della nostra fragilità.

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C.G. Jung ammoniva, con il concetto di Ombra, che l'atto riflessivo su noi stessi, accompagnato dall'ausilio dell'inconscio, ci restituisce anche ciò che di noi non amiamo vedere.

L'Ombra è quindi la figura negativa portatrice dei nostri limiti.

Incontrarla, significa accettarla e, accettandola, permetterle di offrire quanto di prezioso racchiude in se stessa: non scordiamo che ogni simbolo è ambivalente e che ogni negativo è ponte verso un positivo e viceversa in un costante gioco dialettico.

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L'Ombra si fa lanterna verso figure sempre più numinose e accade così che, attraverso di lei (figura con cui, è bene ricordarlo, si convivrà tutta la vita stantel'infinita imperfezione e l'infinita perfettibilità dell'uomo), si faccia avanti l'archetipo dell'Anima. L’uomo moderno ha perso la propria Anima proprio perché non riesce più ad accettare la propria fragilità, i propri limiti.

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Da un punto di vista strutturale pone l’Ombra agli antipodi della Persona, la “maschera” con cui ci si presenta al mondo, definendola quella “componente

della personalità che generalmente ha

segno negativo” (Jung, 1942-1948, pag. 191).Per quanto Jung parli di Ombra da diverse angolazioni, una lettura attenta dei suoi lavori permette di dire che egli predilige intendere l’Ombra come una componente strutturale ed ineliminabile, sia pur trasformabile, della personalità.L’Ombra è quindi parte integrante, o meglio spesso da integrare, della personalità.

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L’Anima è la parte ricettiva della psiche che ha connotazioni prettamente femminili: è attenta al flusso emotivo, alle atmosfere, i ricordi, i sogni e l’immaginazione, ma anche in stretto contatto col mondo notturno e quanto esso rimanda, non esclusa l’irrazionalità.E, nella sua parte luce, l’Anima è davvero l’unica via per metterci in contatto con la nostra ispirazione creativa, le nostre profondità emotive, le passioni intense, per farci partecipare del flusso delle emozioni e delle percezioni, aprendo la porta ad un mondo immaginativo più sensibile ma proprio per questo più aderente alla totalità della realtà.

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Durante lo sviluppo della personalità, in particolare durante l’infanzia, ci possono essere state esperienze che non hanno permesso una crescita armonica ed equilibrata.

Nel corso della vita ci possono essere eventi ad alto impatto emotivo/fisico che bloccano le risorse interne dell’individuo impedendogli di reagire.

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Nel ciclo evolutivo della persona esistono eventi normativi e paranormativi che costituiscono momenti di cambiamento e di crisi, in cui gli individui devono riassestarsi per ritrovare un equilibrio.

In questi momenti si sperimenta talvolta la percezione di fragilità, mancano le sicurezze della fase precedente, mancano le forze per reagire, sembra che nulla sia sotto controllo, ci si sente persi.

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Oggi, più che mai, è fortemente presente nella società una fragilità legata alla mancanza di lavoro, oppure alla sua perdita.

Passare giornate di inattività, specie quando il lavoro è necessario per vivere e, magari, per sostenere una famiglia, ci fa sentire perfino inutili, soli di fronte alla nostra fragilità.

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Nelle riflessioni che seguiranno sarà opportuno tenere presente che c’è una fragilità di base, connaturata alla nostra natura umana e, quindi legata all’insicurezza che ognuno di noi si porta dentro dalla nascita. Cioè da quel momento in cui, in maniera improvvisa e traumatica, si è scaraventati in un mondo esterno, che ci fa trovare in balia degli altri, facendoci perdere per sempre l’onnipotenza e la sicurezza di quel mondo beato dentro la pancia della mamma.C’è poi un’altra fragilità, che tende ad avere sempre maggior peso: è l’insicurezza esistenziale, legata alla nostra realtà di vita nell’odierna società, complessa e problematica.

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Quindi la fragilità rimanda insieme a una dimensione della persona e alla sua condizione nella storia, nel senso che il modo in cui la fragilità viene vissuta e valutata dipende molto dai propri valori di riferimento, dalla socio-cultura in cui si vive, dallo “spirito del tempo”.

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La fragilità è una componente forte della vita.

Così come sono fragili i fiori e il vetro, altrettanto

fragile è il nostro equilibrio fisico e psicologico.

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Nella nostra cultura, in cui pare abbia diritto di esistenza solo ciò

che è forte, veloce, vincente, visibile (cultura dell’applauso),

l’esperienza della fragilità è

più temuta, spesso mascherata.

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Il contrario di fragile è resistente, tetragono, indistruttibile.

Si pensa agli oggetti in acciaio, alle rocce di una montagna. All'uomo di roccia, non di vetro, all'uomo potente,non fragile: c'è e tra un attimo potrebbe svanire, pezzi di un'unità defunta, come non fosse mai stato.

Si sente dire che l'educazione deve edificare un bambino forte, un uomo di coraggio che affronta le lotte e le vince.

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La timidezza, invece, va curata e prima ancora nascosta;

la paura va dimenticata e sostituita con la potenza e per questo ci si allena a battere un nemico, prima immaginario e poi di carne; e l'abilità sta proprio nel romperlo e non nel venire rotti.Ecco la differenza tra i due opposti: la fragilità e la forza.

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«Grandi» si crede siano coloro che hanno sempre vinto, mentre i «gracili» in un attimo si incrinano, si frantumano in tanti piccoli pezzi che non permettono di venire ricomposti.

La gracilità però aiuta l'altro a vivere, permette di capire la fragilità altrui e di rispettarla, di stare attento a non manipolare gli uomini, a non falsificarli.

La fragilità rifà l'uomo, mentre la potenza lo distrugge, lo riduce a frammenti che si trasformano in polvere.

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Il potente non sa amare; l'uomo di ferro è freddo, sa avvolgere e legare per sottomettere, per schiavizzare.

Senza paura non c'è amore e il potente fa paura.

Analogamente a Narciso, che crede di essere meglio di tutti, e per questo evita di confrontarsi con chiunque; percepisce attorno solo lo sguardo ammirato di chi incontra, non la presenza dell'altro come possibile parte di sé.

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Il Cantico dei Cantici parla dell'amore necessario: essere in due rende possibile esistere a chi separatamente non ce l'avrebbe fatta, si sarebbe rotto.

L'uomo fragile vuole un nido piccolo, appoggiato sui rami incrociati di un abete, e desidera trovarvi il proprio amore. In quel nido ci si tocca e non si distinguono più i confini tra il proprio corpo e quello dell'amato.

È bellissimo l'amore e solo la fragilità lo coglie.

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È straordinario penetrare il proprio amore che in quel momento si aggancia, e di due corpi si fa una cosa sola: due frammenti si uniscono e due fragilità si danno reciprocamente forza.

La fragilità dell'uno diventa pietra angolare per l'altro, appiglio tetragono come fosse una roccia, ma è fatto di vetro.

Un vetro entro cui uno si rispecchia e vede la propria debolezza che, proiettata nell'altro, gli appare forza.

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(V. Andreoli, L’uomo di vetro. La forza dellafragilità)

Io sono tanto fragile da pensare sempre all'amore, nelle sue varie specificazioni, e sento la voglia di essere amato per poter amare: un circolo virtuoso per cui la voglia di amare coincide soltanto con l'essere amato: due fragilità si uniscono e si fanno forza dentro il segreto, nel mistero dell'amore.Assieme all'amore esistono l'amicizia, la simpatia, la solidarietà: volti certo minori che però ne contengono l'essenza, il bisogno dell'altro.La mia fragilità significa che ho bisogno dell'altro: di lei che si faccia parte di me senza confini e distinzioni, di chi mi possa aiutare con la voglia di mostrarsi amico poiché sa che io sento la voglia di esserlo per lui.

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Se l'amore è una presenza continua e intensa, l'amicizia è un amore disperso che ha un momento in cui viene vissuto intensamente, ma lascia spazi di vuotoin cui non si è, ma si è pronti a essere. Un'assenza che può farsi presenza se l'amico chiama.

C'è poi la solidarietà che è l'interesse per tutti coloro che hanno bisogno di te poiché tu puoi avere in certi momenti bisogno di chi non conosci, di chi non ha nome, ma è semplicemente un uomo come te.

Un nessuno che sa fare quello che tu vorresti fare per lui.

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L'amore e le sue coniugazioni sono proprie della fragilità; l’individuo fragile ha bisogno dell'altro, di tutti gli altri, e chiede di guardare a lui come a chi ha bisogno, e

non come a chi è autosufficiente o che si impone. L'amore nasce dal bisogno e dalla fragilità e tutto ciò è da legare al senso del limite che un individuo avverte dentro di sé. Il bambino ha bisogno della madre e si attacca al suo seno per avere cibo e dunque vita, anche se non ha la percezione di una persona con il ruolo di madre; semplicemente su quel seno avverte di potere soddisfare un

bisogno necessario a vivere: senza, muore.

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La fragilità porta ad amare, dunque l'amore è la risposta a un bisogno, nato dalla fragilità, dalla percezione che senza l'altro l’essere nel mondo è votato solo alla morte, al non esserci; e la solitudine dell'uomo fragile è la peggiore delle malattie, delle malattie del vivere.

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La fragilità è la percezione del proprio limite e nasce dalla paura.

Se uno l'avverte, cerca di sanarla con l'altro, e lo ricerca e lo guarda come la propria forza, senza immaginare che egli si dona perché si sente debole e trova anch'egli nella fragilità dell'altro la propria forza.

È bellissima l'idea dello scambio di fragilità visto come scambio di forza di vivere: così la fragilità si colora di forza, vive e si fa storia.

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Finché c'è paura, l'uomo si trova imbrigliato dentro i bisogni.La paura, l'ombra che avvolge le azioni dell'uomo.

L'uomo si muove per scappare dalla paura.

La condizione umana è tutta dentro la paura.Essere, senza sapere perché.

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Il dolore chiama la paura e la paura genera dolore. Il tempo che passa, il tempo che si consuma e il dubbio di trovarsi sempre all'ultimo sospiro di esistenza.

Si teme per la vita, anche se sfugge il suo significato e potrebbe ridursi a un inutile.

La fine non è un appuntamento più o meno lontano, ma un presente che si perpetua, e così si muore continuamente e si è morti anche quando si respira.La paura di vivere si fa paura di morire e se la vita è un enigma, la morte diventa l'enigma dentro l'enigma.

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La paura non si lega solo al dolore fisico, alla sensazione di non funzionare più, si attacca anche al ben d'essere che ha una dimensione mentale e sociale, del come si vive con la propria personalità nell‘ambito di quell'ambiente fatto di relazioni.La condizione umana gira attorno alla morte, alla paura della morte. Si può tentare di dimenticarla,

ma basta un mal di pancia e il dolore si fa paura della fine e

la paura mantiene il dolore, e lo si sente anche se è diminuito

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Il dolore fisico è un segnale di disfacimento del tuo essere poiché tutto si concentra nel punto dolente, e il corpo

intero diventa quel punto che soffre, che urla, che si dispera e tu sei diventato un'area dell'addome, del torace, una piccola parte fatta di carne.

E non senti altro, nemmeno i rumori attorno a te.

Il dolore fa più rumore di qualsiasi rumore.

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La fragilità è dentro l'anatomia dell'uomo, fa parte della sua sostanza costitutiva che non è di ferro, ma di carne.La condizione umana oltre alla morte di ciascuno, conosce la fragilità del lutto. Muore chi ti teneva in vita e ti lascia solo. Vorresti almeno seguirlo e non sai dove andrà: sei consapevole soltanto che non ci sarà più e che fra un momento tu vedrai il mondo in maniera diversa: senza i colori del tramonto che talora per paradosso sono intensi e puri.Il mistero della sua morte avvolge il tuo mistero e adesso la morte ti attrae. Senti che là, con lui morto, potresti stare meglio: la terra si è fatta di vuoto perché lui era il tuo senso e se n'è andato.

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In un attimo la persona cara può morire e non te l'aspettavi, e ora che è successo ti accorgi di aver sbagliato tutto, di non essere stata abbastanza con lui, avresti tante cose da dirgli e non c'è più tempo per farlo. Un tempo che si riempie di rimorso: di ciò che non si è fatto e che si sarebbe dovuto fare. Tu resti, e la vita questa volta ti appare come una disgrazia, la morte come una benedizione.

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E’ questa l'esperienza del dolore: di quello fisico che colpisce la carne e del dolore esistenziale che non si riferisce a un organo, ma al fatto di esistere.Il dolore di vivere, il dolore per la perdita di quegli appigli senza i quali la vita è un peso, e un inutile peso, poiché ci si ritrova soli senza un senso e pieni di paura.Quando conosci il dolore, vedi dolore dentro le

persone a te care e lo espandi sopra tutte le cose, sul mondo intero che diventa semplice espressione del male.E allora piangi per te e per il mondo e ti avvicini alla depressione dove tutto si fa dolore e al dolore si unisce la colpa.

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Non hai fatto nulla per solcare questa terra, non hai fatto nulla per generare inimicizia, hai percorso sempre la strada piano piano per non disturbare, eppure ti senti in colpa per il dolore che trasmetti inconsapevole, poiché non lo puoi nascondere. Ti senti in colpa per il dolore dell'altro che senti su di te. E così il dolore si fa infinito.E allora stai fermo sotto il peso del dolore e non sei che fatica e dolore. E il dolore si fa paura e la paura diventa dolore e così viaggi in questo spazio ristretto che tuttavia è immenso poiché il male si fa grande e vasto più dell'universo infinito.

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Il dolore è la fonte prima della fragilità poiché ti rompe e ti senti frantumato, incapace di attaccare insieme i pezzi che vedi in te, anzi, sei un cumulo di

frammenti, di granelli di sabbia che dovrebbero unirsi e disegnare, scolpire un uomo.

Il dolore è la sostanza della fragilità, e la fragilità genera una visione del mondo che tiene conto del bisogno dell'altro.

Per la fragilità l'uomo cerca aiuto, cerca dei legami per scambiare fragilità, e appoggiando una fragilità a un'altra si sostiene il mondo.

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La fragilità come origine della voglia di legame, di comprensione, di solidarietà e di amore. Amare vale più di qualsiasi accumulo di oggetti e di un conto stratosferico in banca: carta e, solo carta.I sentimenti sono l'essenza della fragilità.La fragilità non spinge a vincere; talvolta sa di vittoria l'aver lasciato il primo posto a chi non ha mai vinto.

La fragilità conosce gli ultimi e non soltanto i forti. La fragilità non crede alla potenza e sa che è solo infatuazione, imbroglio: un ballo in maschera per nascondere la paura.

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La fragilità non è un difetto, un handicap, ma la espressione della condizione umana.La fragilità non è sinonimo di debolezza, che è mancanza di forza, un difetto a cui porre rimedio. La fragilità non è povertà, intesa come mancanza di risorse che permettano di rispondere a bisogni elementari e che è possibile cancellare con un po' di giustizia. La fragilità non è incapacità di fare, di pensare. Non si lega a una dotazione sminuita di abilità intellettiva o emotiva. Non è un sintomo o, peggio, un insieme di sintomi tali da definire una malattia. La fragilità non è una inferiorità nel confronto di altre situazioni che paiono invece espressione di una ricchezza di personalità.

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Non è un difetto, una menomazione o una condizione che comunque la pone sul piano del patologico.

È semplicemente una visione del mondo che si lega all'esistenza, non al singolo che ne è parte. È la visione del

proprio essere nel mondo, è la percezione che deriva dal dolore, dal

senso del limite.

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La fragilità non conduce al male, ma semmai alla saggezza.La fragilità genera saggezza, il senso di perfezione produce invece soltanto potere. Il potere si fonda sulla cultura del nemico. Senza questa categoria, il potere diverrebbe miseria: si regge sempre sulla presenza di un antagonista che va eliminato o soggiogato.I saggi non amano il potere, aspirano a non essere condizionati dalle cose, ma semmai dalle relazioni.Il saggio non ama ergersi sopra un monumento o costruirselo, ma desidera vivere sereno.

La saggezza avvicina alla serenità.

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E la serenità ha come premessa di non avere nemici. Il nemico è una idea, prima che una persona ben identificata e capace di fare del male. Il nemico abita nella propria testa e da lì invia i propri attacchi e si fa pericoloso.Il saggio guarda alle persone come ai propri simili e li osserva con curiosità e quindi con la voglia di conoscerli e di ascoltarli. La saggezza vuole serenità, desidera vivere con il sorriso, guardare con interesse, e attraverso la storia dell'altro conoscere meglio se stesso. La relazione è un insieme che genera novità e arricchisce sé e l'altro.

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Il saggio sa che la serenità è altra cosa rispetto alla felicità a cui guarda il potere.

La felicità è una sensazione acuta che si attiva a seguito di uno stimolo di piacere di fronte a una vittoria strepitosa.

Terminato lo stimolo, la reazione finisce e rimane il vuoto.

La serenità è uno status continuo, una condizione che non tramonta poiché si lega a una visione del mondo che si fa strutturale al vivere.

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Il saggio è soddisfatto di se stesso come persona, laddove il potente è soddisfatto solo da ciò che ha, che possiede, dalle cose che lo addobbano ma che non sono mai patrimonio della propria individualità, del proprio essere. Sono cose che uno ha, ma non che è.

Il saggio è uno che vive con la percezione di essere utile a tanti, per come sono e non per quello che hanno.La serenità dipende dalle persone non dalle cose.

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Il saggio non è il sapiente, l'intellettuale, carico di titoli e di lauree. Non si riferisce necessariamente a testi di difficile lettura e interpretazione, ma alla propria esperienza, alla soddisfazione che prova nell'alzarsi il mattino e nel coricarsi la sera avendo operato per la serenità di chi ha vicino. Non ha programmi, semplicemente vive.La saggezza è estremamente curiosa, e questo è il vero motore della scoperta. La saggezza ama capire e scoprire, il potere sfrutta invece ogni scoperta nell'idea unica e fissa del potere, di come contenere il nemico o ridurlo in schiavitù.

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La saggezza genera comprensione, sa che l'uomo può cambiare e che la distanza tra una tragedia e la serenità è breve, talora solo di qualche millimetro e si può ottenere con l'aiuto dell'altro e con l'esempio che non è mai esibito, ma è parte di ogni piccolo gesto.Il saggio rispetta tutti e aspira a fare del proprio simile una parte di sé attraverso la solidarietà, l'aiuto reciproco e il rispettoIl saggio pensa alla verità, ma sa di non possederla. Sente che cercarla è un esercizio che migliora chiunque la cerchi, mentre il pensare di possederla fa ritenere che sia qualcosa che appartiene solo al potente e sulla cui base egli possa giudicare e condannare in nome della verità.

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Il saggio non è un ottimista, conosce il dolore. Sa che nel prossimo attimo tutto può mutare e il sereno lasciare il posto a un acquazzone. Egli è un pessimista poiché sa del male che governa il mondo, ma è un pessimista attivo che opera, che aiuta gli altri, che cerca di migliorare la società senza tuttavia volersi imporre.Il saggio sa come il mondo andrebbe guidato, possiede una fantasia attiva e dunque, pur nella emarginazione, pur nella veste del nessuno, sogna e intravede una modalità per vivere meglio, perché la serenità appartenga a tutti. Non pensa mai di imporsi, sa che il potere, anche quando lo si vorrebbe come condizione transitoria, si trasforma in una tirannide perpetua.

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La fragilità, fonte di saggezza, non spaventa mai, cerca la stima, non la pretende, ma agisce per meritarla.Nella visione del saggio domina non la verità ma il dubbio. Il potente non ha dubbi e considera chiunque li esprima un debole, un succube per costituzione mentale. Un gracile nella mente.Sono, la saggezza e la fragilità a sottendere e a spingere a migliorare le società, mentre il potere è sempre una condizione di stallo; la saggezza non è conservatrice. La sofferenza mette in risalto la fragilità dell'uomo e del saggio: nasconderla per mostrarsi potente, rende simili a un soldatino che, indossata una corazza e un elmo e salito su un ronzino, si crede imbattibile.

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Il saggio conosce la speranza che non è la certezza del potere.La speranza presuppone anche l'immaginazione, la possibilità di costruire un mondo grande o piccolo, diverso e migliore. E si spera che quel piano della fantasia e del sogno si possa realizzare.Il saggio scopre la grandezza delle idee, il piacere di darsi, di amare, di perdonare, di offrire un sorriso, non un brillante, di distribuire sguardi di comprensione e di disponibilità. È bello esserci, anche per chi non ha bisogno in quel momento di nulla; è bello sapere di esserci per darsi e non per dare oggetti, cose.

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Il saggio sa darsi, e non dare, aiuta a scoprire di quante piccole cose la fragilità sia capace, a partire dal capire i bisogni degli altri.Il saggio è ricco di idee e di idee profonde, sa andare dentro il senso, sa filosofare .Il potente pensa che tutti abbiano bisogno di lui, mentre il saggio crede di avere bisogno di tutti, non per sfruttarli ma per dare, poiché è più bello dare che ricevere e talora si riceve solo per fare piacere a chi ha donato.Ecco ancora la fragilità che aiuta e cura l'altrui fragilità.

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La debolezza è una risorsa, una strategia di vita che fa apparire il potere e la ricerca del potere come un'anomalia, un incomprensibile errore di prospettiva umana, capace di generare odio e inimicizia tra gli uomini e tra le nazioni entro cui gli uomini si riconoscono e si identificano.

Ecco la forza della fragilità che tuttavia non può ingenuamente considerare la paura e il dolore come elementi positivi: sono esperienze terribili, ma misteriosamente presenti e non eludibili.

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È soprattutto il dolore non evitabile quello a cui noi guardiamo: all'incursione di un virus, alla moltiplicazione folle di una cellula che, fuori da ogni ordine e senso, si fa tumore. È la paura di morire, e la morte non è eliminabile, ma qualcosa con cui ognuno si incontra, che si può semmai dimenticare per un po’, fino a quando non bussa alla propria porta e annuncia che nessun potere le resiste e che alla sua vista il tutto o il nulla si eguagliano.

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La fragilità è una visione del mondo, il mondo visto dalla condizione dell'uomo, del singolo uomo che certo la colorerà di tinte ora più scure ora meno drammatiche in funzione dell'umore, della paura che egli vive e del dolore che ha sopportato e che continua a patire.

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È soprattutto il dolore non evitabile quello a cui noi guardiamo: all'incursione di un virus, alla moltiplicazione folle di una cellula

che, fuori da ogni ordine e senso, si fa tumore.

È la paura di morire, e la morte non è eliminabile, ma qualcosa con cui ognuno si incontra, che si può semmai dimenticare per un pò, fino a quando non bussa alla propria porta e annuncia che nessun potere le resiste e che alla sua vista il tutto o il nulla si eguagliano.

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L’infanzia

La fragilità bambina è l’immagine più concreta di quanto sia delicato un essere umano; e sempre l’uomo, anche il più grande e grosso, è stato bambino.

Un neonato riattiva tutti gli istinti protettivi, tutte le attenzioni perché non si rompa, perché non sbatta contro un mondo che sembra troppo spigoloso, con la sola esclusione del seno materno così soffice.

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Un bambino suscita solo tenerezza, sblocca ogni istinto di violenza, ogni impulso che non sia di rispetto. Un bambino manda segnali di pace e di amicizia e lo si osserva con la voglia di difenderlo.

La fragilità di un neonato, la crescitafaticosa, la prova delle malattie Infettive : tutto viene visto con la gioia della prova superata, dei primi successi della vita.

E la vita continua e un bambino appare instabile su quelle gambe che faticano a mettere avanti un piede quando l’altro è

attaccato a terra, per avanzare senza sbattere e farsi del male.

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Poi le prime parole, le difficoltà di farsi capire ed il desiderio di comunicare.Le fasi della crescita mostrano la serie infinita e continua di fragilità superate, di abilità conquistate e prima mancanti.

E’ stupendo vedere un bambino di tre anni quando comincia a godere dell’uso fluido della parola e vuole raccontare storie, mostrare il mondo come lui lo vede, con la forza dell’ingenuità che è parte della fragilità.

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L’infanzia è l’età di maggior dolore, proprio perché massima è l’incomprensione dei bisogni del bambino, sia per la difficoltà che egli ha di raccontarsi e di analizzare gli stessi bisogni, sia per l’arroganza benevola dei genitori che ritengono di dover fare riferimento alla loro infanzia e, dunque, di far seguire quelle che nel ricordo appaiono, ma non necessariamente sono state, le risposte alle medesime manifestazioni e richieste.

Il bambino, dunque, è un incompreso e di conseguenza un infelice.

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La fanciullezza (dai 6 anni alla pubertà) è l’inizio della metamorfosi del proprio corpo e della propria personalità, è il tempo dell’acquisizione dell’identità di genere con cui si diventa maschio o femmina.

Si impone una scelta in un momento in cui non si avrebbe desiderio di appartenere ne a questo ne a

quella. Ogni scelta ha il sapore della rinuncia e comunque della differenza che talora appare come una

perdita.

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Nessun momento della vita come la fanciullezza è altrettanto “incarcerato” : la spensieratezza e l’assenza di responsabilità si scontrano con il mondo che si impone impietoso e che applica meccanismi di esclusione talora brutali.Spesso si vedono bambini “incartati” a festa per rispettare le esigenze di madri e padri. Indossano abiti di griffe, segno di perversione adulta; debbono stare attenti alle scarpe mentre vorrebbero provare la gioia di calpestare violentemente una pozzanghera per inviare schizzi di fango dappertutto e magari colpire soddisfatti anche la madre mentre lei si trasforma in VIPERA.

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Questa è la prima fase della vita, questo è l’inizio, il principio per chiunque raggiunga una delle tappe successive dove sempre e comunque ad attenderlo c’è il dolore come espressione di una fragilità che se ora è palese, più tardi potrà venire nascosta, mimetizzata, negata per meglio costruire il potere, piccolo o grande.

E allora ci si disegna belli e forti, di successo, e se non ci si riesce, meglio togliersi dalla corsa perché se non si è vincenti si è morti, anche se si riesce a camminare in

modo aggraziato.

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Quindi, l’infanzia non si cancella anche se molti episodi vengono dimenticati o addirittura rimossi per non vergognarsi del proprio passato.

Rappresenta una parte della costruzione dell’uomo e certo le basi condizionano i piani successivi e lo stile, l’adeguatezza o l’instabilità dell’intera vita.

Per questo nulla va perduto e ogni dolore lascia traccia, ogni ferita continua a sanguinare anche se viene sovrapposta da altri mali e altro dolore.

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L’adolescenza

Comincia e si accentra per lungotempo sulla crisi del corpo, sul corpo tradito: un corpo

che muta, che scompare per presentarsi con caratteristiche mostruose che sembrano appartenere ad altro da sé.Per tutta l’infanzia il corpo non era stato una presenza importante: solitamente considerato grazioso dai genitori, il bambino lo ignora. Ora il corpo si fa presenza, e presenza burrascosa. Ci si accorge del “corpo bambino” perché lo si saluta, lo si vede sparire, e la perdita avviene a pezzi. L’adolescente sta a guardare ma con apprensione, e a nulla servono i sorrisi dei parenti a rassicurare poiché il confronto adesso avviene coi coetanei.

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Il nuovo corpo lo si coglie mentre si forma e mentre lo si confronta con quello degli altri, e proprio da qui ne esce sempre malformato; un corpo mobile che muta continuamente, ad indicare che non ha una identità o non ancora.E’ il periodo dei modelli e della presa di coscienza che il proprio corpo deve muoversi nel mondo e quindi deve piacere al mondo e non solo ai genitori. Occorre piacere al mondo e per farlo bisogna rientrare nei modelli e ci si accorge che non solo si è lontani ma ci si allontana sempre di più, per via di quella fase mobile del corpo che si allarga e si stringe, che non ubbidisce mai ai propri desideri.

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Il proprio corpo appartiene agli altri, al mondo, e quindi si avverte la fragilità del proprio gusto e giudizio e si deve ricorrere a coloro che meglio rappresentano quel mondo strano che si avverte ma non si riesce a definire esattamente.Il corpo trascina dentro il mondo e fa sentire la propria inadeguatezza e la voglia di cambiare. Questa percezione è utile perché fa scoprire il limite

insito in ogni esistenza, ma può condurre alla disperazione se si avverte che non si tratta di aggiustare ma di rifare e nessun

individuo può ricrearsi secondo il proprio gusto.

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La fragilità del corpo si lega, in questa fase della crescita, alle forme, all’estetica e quindi al brutto e al bello che diventano due riferimenti costanti anche se mobili e talmente variabili da poterli scambiare. Questa è la fragilità.

Legata al corpo si impone la sessualità. Non gli organi del sesso, ma la funzione che viene percepita come dotazione per piacere e dunque attrarre, oppure per respingere e venire esclusi. E così si rinforza la voglia di essere belli ed il terrore di apparire brutti.

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La sessualità finisce per diventare la funzione prima del corpo e gli organi che la richiamano vengono messi in particolare evidenza e persino

esposti.Una funzione legata alla gioia, alla possibilità di piacere perché si dà piacere.Sulle guerre tra organi in sviluppo e sulle valutazioni al cui interno si operano le strategie, si lega un evento straordinario, per sostenere che la fragilità insegna a vivere e promuove aspetti esistenziali positivi e persino stupendi: ecco l’amore due insicurezze che si perdono dentro la certezza di un insieme che si fa di roccia.

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La fragilità del corpo, d’un tratto, permette di scoprire l’amore e di capovolgere la sensazione di “mostro” in un adolescente che invece finisce per piacere: sei certo che piaci a lui/lei, di cui adesso ti pare di non poter fare a meno.

E il modello diventa ciò che piace a lui/lei, se gli/le piace, piace anche a te, e uno dei più grandi conflitti si risolve permettendo a fragilità e amore di stare insieme.

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L’amore è voglia di unione, di fare di due una unità, è la voglia di essere accettati per quello che si è, di svelare i segreti di cui ci si vergognava, di mostrare quelle parti di sé che si dovevano nascondere: la timidezza, la paura di perdere ciò che adesso è diventato necessario, la gelosia che sancisce l’indispensabilità dell’unione.La gelosia è il timore di rimanere soli, adesso che si è trovata la formula perfetta dell’insieme, che significa completamento, sicurezza.Una risposta alla fragilità che ora appare persino certezza, dal momento che si è indispensabili per l’altro.

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L’adolescenza è il tempo del primo amore, di una esperienza intensa ed irripetibile non solo per la novità del legame, ma perché capita nel momento in cui la fragilità è estrema ed il bisogno del legame sostanziale.

Nel primo amore si da tutto perché si ha bisogno di tutto, di una

relazione esclusiva e totale. L’altro diventa vita poiché dà senso alla propria vita: dalla percezione di un nulla a quella di un principe, di una principessa.E’ bellissimo vedere due adolescenti pieni di difetti che si sentono a loro agio e portano addosso “orrori” che prima impedivano persino di muoversi. Ecco la soluzione dell’adolescenza, la guarigione grazie all’amore, al primo amore.

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L’adolescenza è la fase della crescita in cui è più elevata la fragilità, che però si completa con l’amore che dà dignità alla insicurezza, alla gracilità e alla paura.

Ma all’adolescenza appartiene anchela sfida: lo scenario qui non è la

coppia ma la dimensione sociale in cui il singolo è calato.La sfida si lega al ruolo, al “chi sono io qui” e dunque si colloca in quella relazione IO – MONDO. Il mondo ora è vasto geograficamente, pieno di ostilità di pericoli, di contrarietà. L’adolescente davanti a questo scenario ha voglia di provarsi e di meravigliare, di colpire l’attenzione degli altri mostrare quali sono le proprie possibilità.

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Non è importante cosa rappresenta la sfida, ma il fatto di affrontarla. La sfida è sempre con se stessi prima che con il mondo: è fare qualcosa che l’adolescente teme di non poter fare e che gli altri certamente pensano che non riuscirebbe mai a realizzare, a superare.La sfida è una categoria dell’adolescente che va attivata, ma anche dosata : è l’occasione per gustare l’ebbrezza della vittoria, ma anche per saper gestire la sconfitta.

Una sconfitta non ha mai il sapore dell’esclusione, ma solo del bisogno di una più precisa preparazione, di un impegno ancora più intenso, in

rapporto alle proprie possibilità fisiche e mentali.

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Sono due i parametri che servono a mostrare l’uscita dall’adolescenza e cioè il suo superamento per passare all’età adulta.

Il primo riguarda le capacità intellettive, riferite alla comprensione di una società complessa, all’apprendimento di un sapere che serve a vivere, il secondo si riferisce ai sentimenti che mettono in evidenza la capacità di gestire le emozioni ed i legami.

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L’età adulta

L’età adulta è l’età dell’identificazione sociale.L’identità dell’Io si compie nella fanciullezza, con la percezione di essere distinti da ogni altro, che diventa altro da sé. Una identità che si correla anche alla differenziazione di specie e dunque all’appartenenza al genere maschile o femminile. E’ questo anche il tempo dell’identità di famiglia.L’identità sociale inizia coi cataclismi adolescenziali, con la rottura del legame familiare, privilegiato ed esclusivo, per appartenere ad un gruppo, quello dei pari età, che impone atteggiamenti e ruoli differenti.Ma è con l’età adulta e con la maturità che si raggiunge l’identità sociale operativa, quella dei ruoli.

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Identità sociale è legata prima di tutto a una professione, a una modalità per raggiungere l'autonomia economica. L’identificazione sociale si lega al ruolo: alla domanda di «che uomo uno sia», si risponde sempre con che cosa egli faccia. I biglietti da visita che sintetizzano il ruolo portano in bella vista il nome di famiglia, subito dopo quello dellaazienda di cui si è parte e poi il titolo con il quale si è inseriti.

Non c'è null'altro da chiedere.

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Dati aggiuntivi vengono semplicemente mostrati: l'abito, la borsa, la cravatta e certo l'auto da cui si è scesi, l'albergo in cui si passa la notte se si è fuori sede.Persino il linguaggio parla del ruolo e non perché lo spieghi, ma come caratteristica dell'uso delle parole, per i riferimenti all'inglese, per i resoconti di viaggi recenti e per gli affari conclusi.

Fa parte dell'arredamento, degli status symbol, anche il ristorante in cui ci si dà appuntamento e persino il modo di come si veste la propria compagna.

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Essenziale, poi, è la carta di credito: se uno paga in banconote fa una figura tremenda e mette in dubbio la propria credibilità, come se non potesse utilizzare quella carta miracolosa con cui si può prendere tutto ciò che si vuole sulla fiducia, e la fiducia è uno status symbol eccezionale.

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Il lavoro, “il fare” e “l’apparire”, rimangono il cardine dell'identità sociale.

Oggi l’uomo che non ha un lavoro deve far fronte ad una mancata identità sociale e quindi confrontarsi con la fragilità del suo vivere.

Se è vero che la identificazione professionale è parte essenziale della maturità, non è la sola, poiché oltre il lavoro per quanto impegnativo possa essere, si erge la vita di coppia con o senza matrimonio e figli.

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La parola «matrimonio» non vuole qui riferirsi soltanto alla condizione tradizionale e alla modalità classica di giungervi e di portarlo avanti ma una condizione di legame che abbia in comune il sentimento e il progetto di costruire una storia, intenzione che diventa palpabile quando si generano dei figli.Il matrimonio è la più grande delle fragilità interumane, capace di produrre beni e incapace di evitare mali.Un matrimonio è una storia di dolore, di errori, ma anche un'occasione per mostrarsi generosi e per rimediare a sgarbi e talora a violenze che hanno la veste della vergogna e dell'errore.

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Per raccontare un matrimonio si attinge sempre a un comparto di cose meravigliose e di altre che sono invece all'insegna della colpa.È certo che la vita insieme non è facile, quando poi si svolge nel ristretto spazio dei modelli abitativi che non permettono di avere un angolo per il proprio privato per elaborare dei cambiamenti di umore, che rimangono talora misteriosi anche a chi si occupa di sentimenti.Ma il tempo che passa è garanzia di un legame che, appunto, si è fatto storia, che ha decretato quanto uno abbia bisogno dell'altro, non tanto per vantaggi pratici quanto per la propria sicurezza, per sedare quella paura che subito emergerebbe drammatica.

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Una storia di dolore vissuto, di disturbi che si sono catapultati sull'uno o sull'altra e che hanno mostrato la voglia di salvare tutto.Difficoltà estese ai figli, preoccupazioni.Ecco la vita, la vita come recinto di fragilità che si fa storia a due in un legame fragile.Certo, ci sono comportamenti di grande affetto, il ricordo di carezze che danno forza, di lacrime che sono di dolore ma anche di sostegno. E la fragilità è la condizione del sostegno.Ma il tempo che passa è garanzia di un legame che, appunto, si è fatto storia, che ha decretato quanto uno abbia bisogno dell'altro, non tanto per vantaggi pratici quanto per la propria sicurezza, per sedare quella paura che subito emergerebbe drammatica.

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Una storia di dolore vissuto, di disturbi che si sono catapultati sull'uno o sull'altra e che hanno mostrato la voglia di salvare tutto.Difficoltà estese ai figli, preoccupazioni.Ecco la vita, la vita come recinto di fragilità che si fa storia a due in un legame fragile.Certo, ci sono comportamenti di grande affetto, il ricordo di carezze che danno forza, di lacrime che sono di dolore ma anche di sostegno. E la fragilità è la condizione del sostegno.

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La vecchiaia

L'età adulta comprende un periodo lungo. È la fase più duratura della vita.La si fa terminare con i sessantacinqueanni, quando inizia la vecchiaia per molti anche l'inizio dell'età della pensione e quindi del venir meno del ruolo sociale primario.Nella vecchiaia c'è un parametro che acquista una rilevanza di primo piano e che riporta all'adolescenza: il corpo.Se allora, nella crescita, si temeva la mostruosità ora, nel declino, si teme che si ammali, che non possa più funzionare, relegando la vita in limiti che la circoscrivono e la frenano, almeno nel confronto dei propri desideri.

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Si ritorna al corpo e alle sue fragilità, anche se scandite su parametri diversi.

La sessualità si indebolisce almeno nelle espressioni di un tempo e secondo misure che adesso sono fuori delle proprie possibilità.

I cicli della donna, che mostravano la sua capacità di generare, si fermano a poco a poco e la dichiarano sterile: un epiteto che colpisce e riaccende previsioni di fine e scenari di apocalisse.Si assiste alla perdita di elasticità muscolare, alla scomparsa delle forme corporee che alla sola vista attestavano una prestanza.

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Si aggiungono gli acciacchi che i medici chiamano malattie: da quelle in atto al rischio di diventarne affetti.Insomma il corpo riduce le proprie abilità e diventa infelice. Si corre ai ripari, si inventano teorie come il giovanilismo e le mode che spingono a indossare indumenti che impongono

esercizi di palestra o di strada, che convincono a contabilizzare l'età psicologica e non quella anagrafica, che permette di credersi giovanissimi anche se cade tutto ciò

che sa di carne. Una farsa triste poiché vuol dire rifiutare la propria storia e la fase che ha raggiunto.

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Insomma il corpo riduce le proprie abilità e diventa infelice.Nell'adolescenza il corpo non piaceva ma funzionava, ora piace ma decade e lo si accetterebbe in qualsiasi veste estetica, purché si mantenesse eretto e sprigionasse un poco di energia vitale. Tutto questo si riferisce al corpo, ma subito va detto che il vecchio si trova nelle condizioni di esperienza e di una lunga meditazione sugli eventi della vita singola e di quella delle società, da poter esprimere una saggezza che si lega proprio all'aver vissuto.

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La vita passata toglie certamente tempo al vivere futuro, ma aggiunge conoscenza e adattamento agli eventi che fanno diminuire la paura del mondo. Anche la vecchiaia mostra un percorso dinamico e non un punto fisso, una condizione immutabile.La vecchiaia resta l'età del lutto: comincia con il lutto del ruolo e con una sorta di messa a riposo della propria funzione sociale e termina con il lutto di sé, con la morte.Insomma tutto è diretto alla fine e al senso della fine. La morte è il neo che mostra l'imperfezione e la fragilità della natura e della natura umana: una vita che finisce e un valore che scompare, che azzera la propria consistenza.

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Nella vecchiaia questo tema si fa veramente intrigante, la meditazione sul mistero si fa pressante e le lacrime di fronte alle bare di chi, coetaneo, se ne va, rimandano alla propria bara che è in costruzione. È anche l'età dei paradossi poiché è altrettanto vero che il vecchio percepisce il tempo in maniera più quieta, senza le accelerazioni e le improvvisazioni delle età precedenti; è vero che possiede una visione del mondo articolata, senza assiomi, senza convinzioni radicali, senza l'abilità di dividere nettamente il bene dal male, ma è anche vero che di fronte alla morte egli sente tutto il proprio limite.

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Il vecchio non parla necessariamente di morte, e infatti non risulta che il tema più frequente sia la dipartita e le preoccupazioni del viaggio, ma è pieno di morte: non solo della propria ma della morte delle persone care.

Vive più di morti che di vivi.

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E poi il corpo, il corpo dell'anziano.Un corpo stanco, un corpo fragilissimo.

Una impalcatura a rischio: dai denti ai capelli bianchi e caduchi, alle unghie dei piedi prive di calcio e fragili.

Un corpo con le difese immunitarie ridotte, per cui si è più facilmente preda di incursioni batteriche o virali o di qualsiasi elemento estraneo vi entri dentro.

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La vecchiaia è il tempo delle malattie, di una serie infinita di malattie, e così l'uomo lotta per fronteggiarle, chiede alleanza alla medicina, al proprio potere personaleper rimediarvi, per superarle, pur tra

le difficoltà di risposte rapide e di difese ormai indebolite.

E pensando alla malattia non ci si ricorda della morte, poiché la malattia appartiene alla vita e dunque la si può curare.

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In questa età si attiva un ruolo curioso e straordinario, quello del nonno.

Un confronto pieno di fascino tra un uomo che declina e va verso la fine e un uomo che invece è appena venuto al mondo e cresce, anche se lentamente.

Due fragilità a confronto, che si parlano con ilsilenzio, con lo sguardo, con i movimenti dellemani che toccano e che in tessono talvolta «dialoghi» che sanno di vita e di morte, di novità e di stanchezza.Un incontro pieno di valori che, pur senza una spiegazione, lascia impressioni che fanno ridere o piangere e talvolta promuovono un riso che pare pianto.

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Fare il nonno è veramente straordinario poiché si esperimenta come la scala dei significati attribuiti al mondo sia cambiata radicalmente.

La semplicità prende il sopravvento: la voglia di giocare, di fare il verso di una pecora e dopo quello del lupo in un contrappunto che ricorda una sinfonia.

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Il nonno si accorge della distanza tra il tempo in cui uno è padre e il tempo in cui si è vecchi con i capelli bianchi e curvi alla ricerca di una nuova postura per stare nel mondo.Un mondo in cui i vecchi non trovano posto, in cui l'inutile si manda alle discariche tra i rifiuti. E i vecchi vorrebbero invece stare al mondo per sempre, anche se non vogliono disturbare, e per questo non chiedono mai niente.Ma mai nessun vecchio chiede di morire, semmai di esistere un poco di più, anche se la vita di un vecchio occupa tempo.Il vecchio è un negativo e la vecchiaia, una malattia incurabile.

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Fragilità come risorsa

Abbiamo visto che la strada verso la consapevolezza di noi stessi ha come compagna di viaggio la fragilità: mentre il senso di impotenza od onnipotenza ci piegano alla vita oscurando la percezione dei nostri limiti nel tentativo di imporci un ideale dell’io richiesto dall’esterno, la fragilità ci offre la possibilità di accedere alla mutevolezza della realtà.La fragilità mette alla prova la sicurezza infantile che

ricerchiamo nelle nostre relazioni continuamente volte alla creazione o ri-creazione di quella “base sicura” residuo o miraggio della nostra infanzia.

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Inoltre ci aiuta ad attrezzarci per saper affrontare gli imprevisti che l’altro può mostrarci e ci suggerisce come stare nelle relazioni tirando fuori dall’imperfezione e l’ordinarietà del quotidiano quello che può essere nutriente per la nostra vita.In questa ottica quindi la fragilità diventa un’alleata, una risorsa, ci apre parti di noi e anche dell’altro che non avevamo sperimentato offrendoci nuove direzioni e nuove sfide con noi stessi.Secondo questo punto di vista perché allora non provare a considerare le nostre imperfezioni come elementi dissonanti che plasmano la nostra diversità, che caratterizzano la nostra originalità, togliendoci dall’omologazione imperante della società?

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Accettiamo l’imprevisto, l’errore,il limite: recuperiamo le proiezioni lanciate per paura all’esterno di noi stessi, integriamo il nostro disobbediente “lato oscuro”, la parte nera della luna, per accogliere una conoscenza realistica e più ampia di noi stessi. Tenendo sempre a mente che la fragilità non è debolezza, si pensi ad un vaso di cristallo,è fragile, sì, ma questa sua fragilità è una

sua caratteristica strutturale, una caratteristica che lo rende prezioso, non èun difetto. È il vaso.

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GIOCHI:Il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto?i giocatori utilizzano una tabella a righe e colonne per segnare i punti.Il primo giocatore dichiara una sua fragilità, ad esempio "soffro di insonnia . . .".Gli altri giocatori a turni di massimo 5 secondi devono singolarmente proporre un vantaggio (verosimile) derivante da questa fragilità: tipo "hai più tempo per leggere" in questo modo si consegue un punto.Finito il giro un secondo giocatore ….

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