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FRA DIRITTI E RESPONSABILITÀ Promuovere la cultura dell'infanzia e dell'adolescenza FRA DIRITTI E RESPONSABILITÀ Editrice Berti Provincia di Piacenza Servizio Sistema Scolastico Provincia di Piacenza Servizio Sistema Scolastico Nell’ccasione della pubblicazione del 2° Rapporto regionale sui servizi e sulla condizione dell’infanzia e dell’adolescenza, che registra e documenta anche la situazione territoriale, la Provincia di Piacenza offre un contributo di riflessioni alla programmazione triennale attuativa del Piano Sociale e Sanitario, che pone i diritti di cittadinanza dei soggetti in età evolutiva come scelta politica e programmatoria prioritaria. copDirittibambini 28-01-2009 21:18 Pagina 1

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FRA DIRITTIE RESPONSABILITÀPromuovere la cultura dell'infanzia e dell'adolescenza

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Editrice BertiProvincia di PiacenzaServizio Sistema Scolastico

Provincia di P

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ervizio Sistem

a Scolastico

Nell’ccasione della pubblicazione del

2° Rapporto regionale sui servizi e sulla

condizione dell’infanzia e dell’adolescenza, che

registra e documenta anche la situazione territoriale,

la Provincia di Piacenza offre un contributo di riflessioni

alla programmazione triennale attuativa del Piano Sociale e

Sanitario, che pone i diritti di cittadinanza dei soggetti in età

evolutiva come scelta politica e programmatoria prioritaria.

copDirittibambini 28-01-2009 21:18 Pagina 1

FRA DIRITTIE RESPONSABILITÀ

Editrice Berti

FRA DIRITTIE RESPONSABILITÀPromuovere la cultura dell’infanzia e dell’adolescenza

Provincia di Piacenza

Servizio Sistema Scolastico

Fra diritti e responsabilità

2009 Editrice BertiTutti i diritti riservati

EDITRICE BERTIvia Legnano, 1 - 29100 Piacenza

tel. 0523/321322 - fax 0523/[email protected]

La pubblicazione del volume è stata curata dal ServizioSistema Scolastico della Provincia di Piacenza, nelle personedi: Antonella Dosi, Barbara Dieci, Giovanna Tanzi, con lacollaborazione di Martina Schiavi dell’Associazione LaRicerca.

Il percorso di analisi e confronto che ha portato all’elabo-razione dei contributi che compongono il volume è statoindirizzato da Antonella Dosi, Dirigente del Servizio SistemaScolastico e supportato, negli aspetti formativi e metodologi-ci, da Roberto Maurizio, ricercatore sociale, formatore, com-ponente dell’Osservatorio Nazionale Infanzia e Adolescenza.

Da Antonella Dosi e dal Servizio Sistema Scolastico dellaProvincia di Piacenza, è doveroso un ringraziamento aLuciano Fornaroli e Pierpaolo Triani per il generoso e costan-te contributo di suggerimenti e proposte.

Il testo del volume è disponibile (in versione pdf) in retenel sito: www.provincia.piacenza.it

Per informazioni, richieste di copie, invio materiali e docu-mentazione contattare il Servizio Sistema Scolastico dellaProvincia di Piacenza (Giovanna Tanzi).

tel. 0523/795506 – 795512 – 795520e-mail: [email protected]

[email protected]

Si ringraziano gli autori:

G. Armani, P. Armani, P. Balduzzi, E. Balordi, A. Biella, G.Baracchi, P. Bernard, R. Boccellari, M.P. Bolla, E. Borselli, E.Braceschi, E. Brugnoni, E. Buccoliero, M. Buono, V. Chiesa,D. Chiotti, M. Colleoni, M. Corna, P. Caminetti, E. Danesi, B.De Biasio, A. De Leo, M. C. Dell’aglio, E. De Micheli, P. DeMicheli, C. Ferrari, Claudio Ferrari, R. Ferdenzi A. Ferzetti, D.Fornari, L. Fornaroli, C. Fragnito, A. Galli, A. Genziani, M.Ghisoni, D. Giorni, P. Grazioli, G. Gregori, A. Guarnieri,O.Hainess, M.P. Libè, G. Limonta, B. Luraghi, S. Maccagni, C.Marenghi, L. Marenghi, V. Mariani, C.Marini, R. Marzolini, R.Maurizio, R. Marvasi, A. Milani, C. Molinaroli, M. G.Mulinelli, A. Mosti, F. Pagani, A. Papagni, R. Parenti, A.Petronio, M. Premoli, L. Re, O. Righi, C. Rigolli, L. Rizzi, R.Sacchetti, P. Salami, I.Salinas, L. Scarani, B. Schiaffonati,C.Soldati, E. Soressi D.Speroni, L. Suzzani, V. Suzzani, G.Tanzi, M.Tiramani, F. Touchi, P.P. Triani, A. Turni, P.P.Ughini, M. Vercesi, L. Zanolli, G. Ziliani, Alessandra Zioni,Arlene Zioni.

A distAnzA di pochi mesi lA pubblicAzione di questo

volume completa e arricchisce il quadro conoscitivo della

comunità territoriale, su cui si fonda l’Atto di indirizzo e

coordinamento della Conferenza territoriale Sociale e

Sanitaria approvato il 13 ottobre 2008, che traduce, nel

contesto locale, le indicazioni programmatiche del 1°

Piano regionale Sociale e Sanitario per il periodo 2008-

2010.

Un arricchimento qualitativo, che si colloca appieno

nell’attuazione di una governance istituzionale che ha fra i

suoi elementi portanti l’efficacia e la semplificazione.

E così, contestualmente e in piena coerenza con la pub-

blicazione del 2° Rapporto regionale sui servizi e sulla

condizione dell’infanzia e dell’adolescenza, a cui ha dato il

proprio apporto il sistema territoriale, la Provincia mette a

disposizione un contributo di riflessioni e approfondimenti

finalizzato, da un lato a favorire e consolidare l’integrazio-

ne professionale e organizzativa, dall’altro a sviluppare e

diffondere la responsabilità dell’intera comunità territoria-

le per la promozione dei diritti dei bambini e dei ragazzi.

Il passaggio dall’impianto normativo della Legge

285/97 “Disposizioni per la promozione di diritti e di

opportunità per l’infanzia e l’adolescenza” a quello regio-

nalizzato del Piano di Zona, prima solo Sociale, ora

Sociale e Sanitario, ha suscitato perplessità e timori di una

marginalizzazione dell’attenzione e quindi degli interventi

a favore dell’infanzia e dell’adolescenza.

Il territorio provinciale sembra aver tenuto, per di più di

fronte a un contesto sociale che, per citare l’indicatore

della presenza di alunni e studenti non italiani, vede la pro-

vincia di Piacenza al 1° posto della regione, che è a sua

volta al 1° posto in Italia.

Tuttavia, quando lo sguardo è ai bambini e ai ragazzi,

alle generazioni future, non ci si può accontentare della

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FRA DIRITTIE RESPONSABILITÀPromuovere la cultura dell’infanzia e dell’adolescenza

Introduzione 15

PRIMA PARTECONTRIBUTI DI RIFLESSIONE

> I servizi educativi per la prima infanzia 21

Cordinamento Pedagogico Provinciale

> Il sostegno alle funzioni familiari e genitoriali e la tutela dei minori 39

Mariangela Tiramani Responsabile Area Minori – Settore Servizi

Sociali e Abitativi del Comune di Piacenza

> I minori stranieri in famiglia e privi di riferimenti parentali 47

Mariangela Tiramani Responsabile Area Minori – Settore Servizi

Sociali e Abitativi del Comune di Piacenza

Franca Pagani Coordinatrice Attività Socio Educative e Minori Stranieri -

Settore Servizi Sociali e Abitativi del Comune di Piacenza

> Le osservazioni di un pediatra 57

Giuseppe Gregori Pediatra di libera scelta, Segretario Provinciale

Federazione Italiana Medici Pediatri

tenuta, né di traguardi significativi, che pure il territorio

può vantare.

La promozione dei diritti dei soggetti in età evolutiva

non a caso è posta come obiettivo prioritario dal Piano

regionale ed è assunta pertanto nelle priorità di benessere

fissate dalla Conferenza territoriale Sociale e Sanitaria per

l’elaborazione dei Piani di Zona.

L’impegno profuso negli anni scorsi per la messa a

punto degli strumenti di programmazione e monitoraggio

del welfare territoriale, è da consolidare, quest’anno, con la

costituzione del Coordinamento tecnico provinciale previsto

dalla nuova legge regionale sulle giovani generazioni.

E dunque a tutti coloro che hanno scritto, che vorranno

leggere e soprattutto a tutti coloro che hanno responsabili-

tà nei confronti dei bambini e dei ragazzi, un sincero ringra-

ziamento e l’augurio di proseguire in un proficuo lavoro.

Paola Gazzolo

Assessore provinciale

alle politiche sociali

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SECONDA PARTEINTERVENTI METODOLOGICIE CONTRIBUTI DI RICERCA

> Nel vasto mare dell’agio e del disagio. Le rotte che portano 113

all’inciampo, al disturbo, al fallimento.

Suggerimenti per il lavoro dei docenti

Giuliano Limonta Direttore del Dipartimento Salute Mentale e Unità

Operativa di Neuropsichiatria infantile, psicologia, infanzia e adolescenza

dell’Azienda U.S.L. di Piacenza; Psichiatra, Psicoterapeuta

> Il nido d’infanzia nella provincia di Piacenza. 123

Educatrici e genitori a confronto

Roberto Maurizio Ricercatore sociale e formatore

> Il bambino e l’inquinamento atmosferico: la percezione 157

del problema da parte dei genitori nella provincia di Piacenza

Giuseppe Gregori Pediatra di libera scelta, Segretario Provinciale

Federazione Italiana Medici Pediatri

Roberto Sacchetti Pediatra di libera scelta

> Centri educativi e centri di aggregazione 167

Barbara De Biasio Responsabile del Centro per le Famiglie

e Figura di Sistema del Distretto della Città di Piacenza

Franca Pagani Coordinatrice Attività Socio Educative e Minori Stranieri -

Settore Servizi Sociali e Abitativi del Comune di Piacenza

> Scuola e disagio nel territorio piacentino 177

Pierpaolo Triani Professore Associato di Didattica Generale

Facoltà di Scienze della Formazione –Università Cattolica del Sacro

Cuore, sede di Piacenza

> La pediatria di comunità 63

Elisa De Micheli Coordinatore Aziendale Pediatria di Comunità

Azienda U.S.L. di Piacenza

Anna Milani Dirigente medico 1°livello Pediatria di Comunità

Azienda U.S.L. di Piacenza

> La rete dei servizi per l’adolescenza: la scommessa 67

Operatori del Distretto di Ponente

> Spiccioli di riflessione sul percorso di sostegno a favore 83

degli studenti stranieri attivato dalla Rete degli Istituti di Istruzione

Superiore di Piacenza

Claudio Ferrari Docente Istituto Tecnico Industriale

G. Marconi di Piacenza

> Il gioco del calcio: che splendida passione! 85

Giuseppe Baracchi Architetto, Allenatore di calcio e Presidente

dell’Associazione Italiana Allenatori Calcio per la Sezione di Piacenza

> L’evoluzione della nostra idea di prevenzione nell’incontro 91

con la domanda

Alessandra Papagni, Patrizia De Micheli, Alessandra Zioni,

Elisabetta Balordi, Ingrid Salinas Associazione “La Ricerca”- Onlus

> Memoria del divenire dei servizi piacentini dagli anni ‘70 a oggi. 103

La promozione della salute rivolta agli adolescenti

Danila Fornari Psicologa, Psicoterapeuta “Consultorio Giovani”

Azienda U.S.L. di Piacenza

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> Scuola, autorità, disagio. Osservazioni e proposte 209

elementari di democrazia sociale “in classe”.

Ricerca-azione “Reti di prossimità in classe”

Giuseppe Armani Responsabile Sistema Gestione Qualità del Settore

Socio-Educativo - Ufficio di staff del Sindaco e della Giunta del Comune

di Fiorenzuola d’Arda

> Il servizio di assistenza scolastica agli alunni con disabilità. 257

Situazione attuale ed elementi in prospettiva

Maurizio Colleoni Ricercatore

Luciano Fornaroli Responsabile Servizio Formazione, Scuola

del Comune di Piacenza

Barbara De Biasio Responsabile del Centro per le Famiglie

e Figura di Sistema del Distretto della Città di Piacenza

> Far crescere la qualità della scuola piacentina 281

Roberto Maurizio Ricercatore sociale e formatore

Elena Buccoliero Sociologa del Centro Promeco – Comune di Ferrara

> Punti di vista degli studenti non italiani delle scuole 347

superiori piacentine sull’esperienza scolastica

Roberto Maurizio Ricercatore sociale e formatore

> Inventare nuovi spazi 369

Antonio Mosti Direttore del Programma Dipendenze Patologiche

Azienda U.S.L. di Piacenza, Medico Psicoterapeuta

Manuela Buono Responsabile Unità Operativa Cure Primarie

Azienda U.S.L. di Piacenza

Alberto Genziani, Emanuele Soressi Educatori Professionali

“SPAZIO GIOVANI” - Azienda U.S.L. di Piacenza

Appendice informativa 397

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NOTE DI LETTURAI contributi contenuti nel volume in larga parte sono frutto di percorsi di confronto,studio e riflessione, sviluppati appositamente a questo scopo, anche in forma pubblica,nel corso dell’ultimo anno. In altri casi sono prodotto dell’attività professionale degliautori. I testi sono stati raggruppati in due parti, in dipendenza delle diverse tipologie:riflessioni (prima parte) e interventi metodologici o ricerche (seconda parte). Non tuttii confronti aperti hanno prodotto uno scritto, in ogni caso hanno consentito incontri esviluppato o consolidato legami.

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INTRODUZIONE

POCHI MESI PRIMA DELLA SUA SCOMPARSA, AVVENUTA NEL

novembre 2005, Carlo Alfredo Moro scriveva per la rivistaMinori Giustizia un articolo intitolato “Il bambino declama-to e le deficienze delle politiche sociali per l’infanzia”. 2005:pochi anni fa.

“L’infanzia sembra essere particolarmente presente nell’at-tuale riflessione collettiva…la politica ha incominciato a met-tere nella sua agenda i problemi delle generazioni che si affac-ciano alla vita; le amministrazioni anche locali assumono sem-pre nuove iniziative a favore dei soggetti in età evolutiva. Misembra però che il bambino reale, con i suoi gravi problemidi crescita in una società complessa come l’attuale, non siaaffatto al centro dell’attenzione collettiva. Vi è più…declama-zione sui diritti del bambino che impegno organico e coeren-te per attuarli...Nel nostro immaginario collettivo è fortemen-te presente il bambino senza alcun problema o il “bambino-problema”; il bambino “oggetto” o il “bambino-casolimite”:è invece del tutto assente il bambino comune, il bambinoreale con i suoi bisogni di essere più che di avere; con le sueprofonde infelicità e insicurezze dovute alla sua condizione didebolezza, di dipendenza, di confusione…” (MinoriGiustizia, 2005, n.3).

L’invito non può che essere a leggere, non solo l’articolocitato, ma il complesso delle riflessioni e dei contributi di chi

è veramente riduttivo definire soltanto magistrato, sia pure nella pienezza deicontenuti del ruolo.

Ma soprattutto l’invito, certamente accolto dagli autori di questo volume, è aconsiderare la condizione reale di vita dei bambini e dei ragazzi, nella costanterelazione con la tematica dei diritti, al cui inserimento nell’ordinamento di que-sto Paese, Carlo Alfredo Moro ha dato un contributo determinante.

Oggi è innegabile che, per l’Europa e l’Italia, il minore sia portatore di auten-tici diritti soggettivi; ma è altrettanto innegabile che nelle elencazioni sia dellaRisoluzione del Parlamento Europeo del gennaio 2008, che del Piano Sociale eSanitario 2008-2010 della Regione Emilia-Romagna, siano presenti diritti cherischiano di essere iscritti d’ufficio alla categoria della declamazione, come “ildiritto di essere amato” o “il diritto a possedere adeguati strumenti di conoscen-za della realtà, nonché sufficienti chiavi di lettura di essa”.

E d’altro canto, sul versante della conoscenza dei bambini e dei ragazzi, realie non immaginati, che dire dell’elencazione delle competenze di base che, secon-do il nostro ordinamento scolastico, devono essere possedute a conclusione del-l’obbligo di istruzione, cioè, oggi, a 16 anni?

“Comprendere il cambiamento e la diversità dei tempi storici in una dimen-sione diacronica attraverso il confronto fra epoche e in una dimensione sincro-nica attraverso il confronto fra aree geografiche e culturali” oppure, per restareall’ambito più affine a noi della cittadinanza: “Agire in modo autonomo eresponsabile: sapersi inserire in modo attivo e consapevole nella vita sociale e farvalere al suo interno i propri diritti e bisogni riconoscendo nel contempo quellialtrui, le opportunità comuni, i limiti, le regole, le responsabilità”.

E tuttavia non vi è dubbio che la strada da percorrere non possa che esserequesta: porre lo sguardo ai bambini e ai ragazzi come a persone, nella propriairriducibile unicità e così vederne e capirne domande e bisogni, anche inespres-si, sui quali costruire, promuovere e tutelare i diritti con gli abituali rischi diapprossimazione, cadute, velleità.

La dimensione dei diritti è insieme tutelante ed educante, per chi ne è sogget-to e per chi ha la responsabilità di affermarli, promuoverli e garantirli positiva-mente.

La dimensione dei diritti richiede cultura: la cultura dell’infanzia e dell’adole-scenza, che consente la ricomposizione identitaria della persona, superando laperdurante frammentazione anagrafica dei programmi e dei progetti e la costru-zione di reti di promozione e protezione, all’interno dei necessari impianti orga-nizzativi e gestionali.

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Il volume ha precisamente lo scopo di promuovere questa cultura, attraver-so i contributi di chi traduce la competenza istituzionale e gli obblighi professio-nali in responsabilità e soprattutto di chi esercita la responsabilità, che è comun-que dovuta ai bambini e ai ragazzi, sia pure in modo sempre perfettibile, da chiè semplicemente, adulto.

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PRImA PARTEcONTRIBUTI DI RIFLESSIONE

I SERvIZI EDUcATIvIPER LA PRImA INFANZIA

Coordinamento Pedagogico ProvincialeGiovanna Tanzi, Paola Grazioli, Alessandra Biella, ErikaBraceschi, Elena Brugnoni, Valentina Chiesa, Elisa Danesi,Adriana De Leo, Roberta Ferdenzi, Daniela Giorgi, AriannaGuarnieri, Bruna Luraghi, Simona Maccagni, LauraMarenghi, Valeria Mariani, Claudia Molinaroli, MonicaPremoli, Lorella Re, Laura Scarani, Carolina Soldati,Valentina Suzzani, Pier Paolo Ughini, Arlene Zioni

QUESTO CONTRIBUTO è IL FRUTTO DI UNA RIFLESSIONE SU

alcuni aspetti del sistema dei servizi rivolti ai bambini in etàda 0 a 3 anni nella nostra provincia. è un documento prodot-to dal Coordinamento Pedagogico Provinciale, organismotecnico costituito dai coordinatori pedagogici che operanonei servizi 0-3 pubblici e privati della provincia, e definitodalla L.R. 1/2000 come lo “strumento atto a garantire il rac-cordo tra i servizi per la prima infanzia all’interno del sistemaeducativo territoriale”, per diffondere e rafforzare la culturadell’infanzia, secondo principi di coerenza e continuità degliinterventi sul piano educativo e di omogeneità ed efficienzasul piano organizzativo e gestionale, nonchè strumento a sup-porto della programmazione locale.

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L’AccESSO

I CRITERI: nel sistema pubblico spesso cambiano a seconda della realtà ter-ritoriale e del tipo di gestione (comunale, convenzionata, privata). In molticomuni sono stati recentemente rivisti e quasi ovunque i requisiti principali sonola residenza e il carico sociale, occupazionale e familiare. Il reddito si considerasolo in misura secondaria, mentre in passato costituiva il criterio principale. Inalcune località è valido il numero di protocollo dell’iscrizione alle graduatorie.

In quasi tutte le realtà si prevedono fasce diversificate per la determinazionedelle rette.

Nei servizi privati non convenzionati conta generalmente la data d’iscrizionee in alcuni casi la quantità di ore di frequenza richieste. Le rette possono esseredivise in fasce o costituire una tariffa fissa basata sul costo-bambino, che essen-do generalmente piuttosto elevata, può portare alla non copertura di tutti i postidisponibili.

Nei servizi privati convenzionati i criteri di accesso sono stabiliti dalle singo-le convenzioni.

I TEMPI: nel pubblico esiste un preciso periodo dell’anno per effettuarel’iscrizione, scaduto il termine la domanda è accettata in coda alla graduatoria eaccolta in caso di posti disponibili. La tempistica che regola le iscrizioni permet-te di circoscrivere il più possibile il tempo dedicato agli ambientamenti nel primoperiodo di attività, ma può determinare anche l’esclusione di alcune situazioni dibisogno che si possono presentare nei mesi successivi. Di conseguenza moltiEnti prevedono regolamenti che consentono, previo assenso del Comitato diGestione, l’ingresso immediato di bambini in situazioni di emergenza segnalatidai servizi preposti; oppure prevedono questa possibilità attraverso progetti spe-cifici quali le ‘Cure Flessibili’, del Comune di Piacenza, nell’ambito del Piano diZona.

Nel privato, l’arco di tempo dedicato all’iscrizione e all’inserimento risulta piùflessibile e permette di accogliere maggiormente i bisogni delle famiglie. Ciò puòcreare difficoltà sia nella gestione dell’ambientamento, che nella progettazionedelle attività quotidiane.

RAPPORTO RIcHIESTA/OFFERTA

Per quanto riguarda il rapporto tra l’offerta di servizi e la domanda espressadalle famiglie, si registra una percentuale di soddisfazione della domanda pari acirca il 77% (dato riferito all’a.s. 2006/07, ultima rilevazione disponibile).

LA DISTRIBUZIONE SUL TERRITORIO

Nella provincia di Piacenza a novembre 2008 risultano 64 servizi educativiper la prima infanzia (48 nidi/micronidi, 4 educatrici domiciliari, 3 spazi bambi-ni e 9 centri bambini e genitori) distribuiti in 27 dei 48 Comuni che compongo-no il territorio provinciale.

Qui non si prendono in esame i centri bambino-genitore, in quanto troppodiversi dalle altre tipologie di servizi per organizzazione, utenza e finalità.

Dall’entrata in vigore della L.R. 1/2000 ad oggi i nidi d’infanzia sono più chetriplicati, passando dai 17 della fine del 1999 ai 52 attuali (comprese le 4 educa-trici domiciliari); questa fioritura di servizi risente tuttavia di una debole reteprogrammatoria tra le amministrazioni, che promuova una trasversale distribu-zione sul territorio.

LE STRUTTURE

LE STRUTTURE PUBBLICHE: la maggior parte delle strutture pubblicherisale agli anni ‘70 e presenta un modello edilizio che ora non risulta più funzio-nale e che nel corso degli anni è stato ‘manipolato’ e/o ampliato per ricavarenuove sezioni o adeguarsi alla normativa. Le strutture più vecchie necessitanocomunque spesso di lavori di manutenzione piuttosto costosi.

Quando economicamente possibile si è cercato di sopperire alle mancanzestrutturali con forti investimenti sugli arredi e sulle zone verdi. Accanto alleprime costruzioni, successivamente all’entrata in vigore della L.R. 1/2000, sonosorte nuove strutture più adeguate.

LE STRUTTURE DEL PRIVATO COOPERATIVO: le strutture privatecostruite recentemente sono adeguate e funzionali, quelle inserite in edifici piùdatati, pur essendo a norma, risultano invece anch’esse poco funzionali.

LE STRUTTURE F.I.S.M. (Federazione Italiana Scuole Materne): sonostrutture che ospitano sezioni di nido o primavera (da 24 a 36 mesi) aggregate ascuole dell’infanzia. La maggior parte è allocata in edifici vecchi e quindi è, o èstata, soggetta a lavori per l’adeguamento alla L.R. 1/2000.

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direttamente, oggi i Comuni, per i nuovi servizi aperti, si orientano sulla messaa disposizione dei locali, appaltando la gestione a cooperative. Alcuni Comuniscelgono di affidare l’intera gestione del servizio alla cooperativa (iscrizioni,riscossione rette, organizzazione pedagogico-educativa, acquisti…); altri scelgo-no di mantenere al proprio interno alcune di queste funzioni riguardanti preva-lentemente il rapporto burocratico-amministrativo con la famiglia (iscrizione,riscossione rette…).

Le strutture private vengono gestite direttamente dal gestore che nella mag-gior parte dei casi si convenziona con il Comune di riferimento.

L’ORARIO D’APERTURA: spesso nelle strutture pubbliche l’orario del ser-vizio è vincolato al contratto del personale e ai costi di gestione. Si tratta diun’organizzazione che risale agli anni ‘80 e non risulta sempre al passo con leesigenze odierne, soprattutto per quanto riguarda il monte ore e l’organizzazio-ne dei turni. Servirebbe una maggiore flessibilità, sia per le educatrici che per leausiliarie e le cuoche. Questi vincoli portano ad una rigidità organizzativa che inqualche caso può non rispondere ai bisogni delle famiglie, anche se una recenteindagine rivela che la maggior parte degli utenti è soddisfatta dell’orario attualee lo ritiene consono alle esigenze dei bambini.

Nei servizi privati il criterio che determina l’orario di apertura è soprattuttola richiesta degli utenti, quindi si tratta di servizi potenzialmente più flessibili,anche se comunque vincolati dal costo del personale e dall’eventuale convenzio-ne con l’Ente Pubblico.

Solo alcune sezioni F.I.S.M. sembrano riuscire ad abbattere fortemente i costidi gestione, avvalendosi di volontari per i servizi ausiliari e di cucina o del soste-gno di benefattori.

Anche nei nidi aziendali economie di scala possono costituire un supportoimpiegando il medesimo personale dell’azienda (cuoche, ausiliarie, giardinieriecc), previa un’adeguata formazione.

La scelta dell’orario di apertura e di chiusura è del tutto autonoma e può crea-re difficoltà a famiglie che hanno figli in istituzioni diverse. Nidi e scuoledovrebbero in questi casi coordinarsi tra loro.

IL CALENDARIO ANNUALE: il calendario dei nidi pubblici sembra ade-guato alle esigenze delle famiglie, almeno in quei territori della provincia dovesono aperti fino alla fine di luglio; risulta al contrario inadeguato nelle zone incui si effettua una chiusura estiva più lunga.

I privati possono offrire un’apertura più ampia, anche per il mese di agosto.

LA FLESSIBILITA’: la flessibilità può riguardare diversi aspetti: i contenuti,gli inserimenti e gli orari. La sua applicazione in una struttura comporta la ricer-

Mentre le sezioni 12/36 mesi garantiscono nel corso dell’anno una copertu-ra quasi totale della richiesta, le criticità permangono per i lattanti per i qualiscarseggiano i servizi, dato l’onere economico che comportano. Il Comune diPiacenza ha cercato di far fronte a questa situazione con l’iniziativa ‘L’anno infamiglia’ (inserita nel Piano di Zona). Occorre ugualmente una riflessione suquali politiche rafforzare: aumentare le sezioni lattanti o incentivare la possibili-tà di restare a casa nel primo anno di vita del bambino? O è opportuno seguireentrambe le strade?

Il rapporto richiesta/offerta porta inevitabilmente alla luce alcune differenzetra servizi pubblici e privati, così come tra la situazione del capoluogo e quelladella provincia.

In primo luogo mentre il pubblico copre tutti i posti disponibili, nel privatoalcuni servizi non riescono a coprire l’intera offerta, specialmente quando si trat-ta di posti non convenzionati e quindi con l’intero costo-bambino a carico dellafamiglia.

Nel quadro complessivo della percentuale di bambini iscritti ai nidi d’infan-zia, è importante sottolineare che il Comune di Piacenza ha raggiunto l’indice dicopertura (n. degli iscritti/popolazione target) del 33%, allineandosi con l’obiet-tivo indicato dall’Agenda di Lisbona. Risultato molto positivo, se si confrontacon quello dell’intera provincia che corrisponde invece al 20%. Tale situazionerispecchia una realtà provinciale ancora carente di servizi, soprattutto nell’areamontana, rispetto alla crescente domanda, testimoniata anche dalla presenza diliste d’attesa.

Disomogenea è nel capoluogo la distribuzione delle domande: ci sono nidicon il 50% di bambini stranieri, alcuni con molti casi sociali e altri che non pre-sentano nessuna di queste caratteristiche. Questo deriva sia dal fatto che il nidorispecchia la situazione del proprio quartiere, sia dalle motivazioni delle famiglie,che scelgono il servizio più rispondente alle proprie esigenze (gli stranieri ten-dono a seguire i propri connazionali, alcune famiglie evitano i servizi con molticasi problematici ecc…). è importante sottolineare che la distribuzione territo-riale dei nuclei familiari in particolari difficoltà dovrebbe essere gestita con piùcura dalle politiche abitative.

L’ORGANIZZAZIONE

Sul territorio provinciale, la GESTIONE dei servizi interamente comunalenon è molto praticata: ad esclusione dei servizi ‘storici’, che vengono gestiti

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ne educativa migliore: i loro bisogni e i loro diritti dovrebbero essere il cardi-ne dell’organizzazione dei servizi, che invece rischia di venir subordinata alleesigenze del personale.

Inoltre sul territorio provinciale si rilevano diverse modalità di applicazionedel medesimo contratto e gli stessi responsabili sindacali di categoria faticano adentrare in quella che è la complessità del sistema nido.

Il blocco delle assunzioni e i vincoli normativi hanno portato alla gradualeesternalizzazione di alcune funzioni e attività, sia per il personale educativo(tempo lungo o sostituzioni), sia per quello ausiliario, cosa che ha sicuramentealleggerito le incombenze degli Enti relative alla loro gestione (ferie, turni, rap-porti sindacali). Per il personale ausiliario poi è diventata una scelta quasi obbli-gata, anche se di fatto più costosa perché, non potendo assumere in ruolo, nonresta che rivolgersi alle liste del Centro per l’Impiego dove le graduatorie sonofatte con criteri prevalentemente sociali e propongono personale spesso dequa-lificato e in frequente turn-over, cosa che comporta in realtà costi aggiuntivi. Lecooperative assicurano invece un servizio più qualificato e più disposto ad orariflessibili (percependo tra l’altro uno stipendio inferiore: in alcune strutture con-vivono ausiliarie comunali e colleghe delle cooperative che, pur svolgendo lemedesime mansioni, hanno stipendi diversi, in dipendenza di contratti diversi).

Quello a cui si assiste è una graduale parcellizzazione delle competenze, equindi anche della vita del nido, in settori sempre più staccati l’uno dall’altro,dove il principio ispiratore sembra essere soprattutto la riduzione della spesa.

In alcuni casi si è cercato di individuare strategie che tentino di evitare l’ab-bassamento della qualità dei servizi. Il Comune di Piacenza ha scelto di esterna-lizzare solo il tempo lungo e le qualifiche più basse, mantenendo la scelta delleeducatrici e dei coordinatori. In Val d’Arda si promuovono periodicamenteincontri tra i responsabili dei nidi comunali (per facilitare la messa in comune diconoscenze, di modalità organizzative e di competenze, qualora siano figuresenza preparazione pedagogica), il personale amministrativo e le équipe educa-tive per una conoscenza delle reciproche problematicità.

NIDI PRIVATI: hanno la possibilità di scegliere il personale con una valuta-zione fatta ‘sul campo’, senza dover ricorrere a concorsi, hanno meno vincolinella proposta di turni spezzati o flessibili, inoltre la mancanza di burocrazia e ilsenso di appartenenza all’ente possono agire positivamente sulla motivazioneprofessionale. Tuttavia, se si impiegano educatrici con contratti a termine o ati-pici invece di assunzioni a tempo indeterminato, si può verificare un’eccessivamobilità del personale, con conseguente instabilità dell’azione educativa.

Non sempre assumono direttamente il personale ausiliario e di cucina e lavita del nido rischia in questi casi di essere centrata quasi esclusivamente sul

ca di un costante equilibrio tra i costi di gestione e le proposte operative. Nellestrutture private in cui viene praticata essa rivela aspetti positivi riguardo le esi-genze degli utenti, negativi per quanto riguarda la percezione di assetto definiti-vo da parte dell’équipe educativa. Accettare la sfida della flessibilità significamantenere attiva una continua riflessione a più voci (famiglie, educatori, ammi-nistratori, pedagogisti, ) che garantisca particolari attenzioni pedagogiche (ad es.una frequenza flessibile deve essere associata ad un accompagnamento dellafamiglia nella ricerca di una soluzione che sia il meno discontinua possibile, cosìcome il fare inserimenti tutto l’anno prevede un rafforzamento dell’équipe,affinchè gli inserimenti siano vissuti come risorse e non come momenti esclusi-vamente critici, ecc.). La flessibilità può essere praticata anche in modo ‘pedago-gico’, evitando di condannarla a priori e di ritenerla un mero espediente per atti-rare utenti e guadagnare di più.

IL PERSONALE

NIDI PUBBLICI:. la generazione delle educatrici che ha aperto i nidi èormai prossima alla pensione e, come accade nei lavori di cura che comportanoun forte carico emotivo, ciò può far sorgere atteggiamenti di demotivazione e distanchezza, o casi di burn-out. D’altro canto questo comporta il rischio dellaperdita di preziose competenze, nonché del patrimonio storico di conoscenzaprospettica dei servizi.

Le nuove educatrici costituiscono un serbatoio di forze ed entusiasmi nuovi,che nel contempo presenta alcune criticità:

> l’impossibilità di selezionare il personale per l’attitudine alla profes-sione e non solo per le competenze teoriche acquisite nel corsodegli studi;

> la mancanza di percorsi formalizzati che permettano ai neo-assuntidi poter ereditare l’esperienza delle colleghe più anziane (una possi-bile strategia potrebbe essere quella di distaccare le educatrici piùesperte su funzioni di affiancamento alle nuove);

> il personale laureato spesso cerca col tempo altri sbocchi di carriera.

In alcune situazioni l’orario di lavoro viene percepito come ‘intoccabile’:proposte per renderlo flessibile nell’arco della giornata o nei diversi periodidell’anno in base alle esigenze dei servizi, così come il mettersi a disposizionedi altri nidi o sezioni nei giorni di scarsa frequenza, possono venir ritenuteantisindacali e come tali rifiutate. Queste soluzioni, che sicuramente incidereb-bero sulla vita privata delle educatrici, garantirebbero però ai bambini un’azio-

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ma il sistema di coordinamento non sempre è funzionale alle crescenti esigen-ze, sia in termini numerici che di organizzazione generale.

In provincia, dove si sono costituite due aggregazioni sovracomunali, i coor-dinatori, che non sono figure stabilizzate ma assunte con incarico professionalea scadenza, possono incontrare diverse difficoltà quali la scarsità di ore disponi-bili per seguire adeguatamente i servizi o la discontinuità nel rinnovo dell’inca-rico, così come il rimanere figure esterne al sistema comunale (con conseguentimargini limitati di intervento, soprattutto sugli aspetti organizzativi, e col rischioreale di essere attivi quasi solo sulla formazione del personale), fattori che inde-boliscono seriamente l’autorevolezza del loro ruolo.

Esistono però anche tentativi di creazione di un sistema integrato quali itavoli tecnico-politici, nell’ambito dei Piani di Zona, della Val d’Arda, che si pro-pongono di valutare l’azione dei Servizi in termini di bisogni del territorio e ade-guatezza delle offerte, di indicare gli indirizzi per una formazione comune delpersonale, di segnalare difficoltà e punti di forza riunendo visioni diverse prove-nienti da differenti osservatori.

NEL SISTEMA PRIVATO: In alcune realtà il coordinatore pedagogicogode di un mandato pieno rispetto a quanto previsto dalla normativa anche seil rapporto costo/guadagno influisce pesantemente sulle ore del contratto. Solorealtà particolarmente forti riescono ad assorbire il costo dello stipendio di unpedagogista impegnato a tempo pieno.

In altri casi invece sembra essere una figura professionale strumentale solo adalcuni degli adempimenti previsti dalla legge e alle convenzioni con gli Enti Pubblici.La sua presenza non è quindi garanzia della qualità del servizio. Manca purtroppoun sistema di verifica e valutazione adeguato circa il ruolo di questa figura.

Inoltre le cooperative, forse per salvaguardare la propria ‘identità’, tendono amantenere un proprio coordinatore anche se gestiscono un solo servizio: que-sto ne moltiplica il numero, riduce la loro possibilità di lavorare a tempo pienoe rende molto parcellizzata la rete dei rapporti.

NELLA F.I.S.M.: i coordinatori pedagogici dei servizi F.I.S.M. costituisconoun’équipe di 3 persone che seguono nidi e scuole dell’infanzia dell’intero terri-torio. Non sono sempre presenti nei servizi ma forniscono consulenza ai grup-pi di lavoro circa le proposte formative, l’organizzazione e la progettazionepedagogica. Il vantaggio è quello di essere figure di raccordo tra i servizi 0-6anni, mentre lo svantaggio è la scarsa presenza nelle singole realtà. La gestionequotidiana è affidata a coordinatrici interne, insegnanti e non, che spesso fun-gono anche da mediatori tra educatori e gestori e sono incaricate di mantenerei contatti con il coordinatore pedagogico.

ruolo delle educatrici.Le situazioni in cui soggetti privati gestiscono servizi in appalto riscontrano

ulteriori difficoltà, soprattutto nei piccoli comuni dove è più faticoso portareavanti un discorso di qualità pedagogica, dato che in tali amministrazioni i refe-renti possono essere persone con poca esperienza in questo campo.

IL cOORDINATORE PEDAGOGIcO

IL RUOLO: Il Coordinatore pedagogico è una figura professionale dotata dilaurea specifica ad indirizzo socio-pedagogico o socio-psicologico, come indica-to dall’art.33 della L.R. 1/2000, con compiti di indirizzo e sostegno al lavorodelle educatrici, di promozione della qualità, di monitoraggio e documentazionedelle esperienze, di collaborazione con le famiglie e la comunità locale. Quantorisponde nella realtà questa figura alle indicazioni della norma? Quanto il suoagire dipende da una propria competenza e/o volontà e quanto dall’effettivomandato affidatogli dall’Ente? Crediamo che il coordinatore pedagogico fatichiancora a delinearsi come una figura di sistema, a coniugare gli interventi peda-gogici e relazionali con quelli amministrativo-gestionali. Dovrebbe invece esse-re in grado di poter leggere la realtà nelle sue diverse forme per svolgere appie-no il ruolo di promotore di una cultura dell’educazione. Dovrebbe avere iltempo necessario alla riflessione e all’ascolto per approdare a un “con-dire”, allacomune costruzione di saperi intorno ai temi educativi.

IL TEMPO: dovrebbe avere il tempo per poter riflettere e documentarsi, perfar crescere il proprio pensiero pedagogico anche attraverso il confronto conaltre figure; dovrebbe conoscere il pianeta infanzia in tutte le sue dimensioni, pre-stando attenzione anche a quei settori (urbanistica, viabilità, ambiente…) appa-rentemente distanti e non cristallizzarsi sui propri servizi. Tuttavia spesso la quo-tidianità lo appiattisce sull’operatività lasciandogli ben poco spazio alla riflessio-ne, spazio che fatica anche ad essere riconosciuto dagli Enti gestori, non tantoper mancata condivisione della sua utilità, quanto per i costi che comporta.

NEL SISTEMA PUBBLICO: in alcune realtà ancora oggi la ‘macchinacomunale’ fatica a comprendere l’utilità e la funzione del coordinatore pedago-gico. Tuttavia tutti i settori hanno ormai recepito la necessità di creare un siste-ma integrato, di cui il coordinatore è perno e garanzia, il che significa che un po’di strada è stata fatta.

Nel capoluogo sono sempre stati salvaguardati sia il numero che il ruolo diquesta figura, come precisa scelta strategica a garanzia della qualità dei servizi,

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I RAPPORTI cON LE FAmIGLIE, I LORO BISOGNIE LE INIZIATIvE

Oggi è molto più ampia la composizione sociale delle famiglie che si rivolgo-no ai nidi: negli anni ‘70 erano quasi tutte famiglie ‘tradizionali’, autoctone e areddito medio, ora sono numerose sia le famiglie ad alto reddito, che quelle indifficoltà economiche, monoparentali e straniere.

I Piani di Zona della provincia di Piacenza assumono il sostegno alla genito-rialità fra i propri obiettivi. I nidi sono per loro natura deputati ad agire questosostegno. Di fatto si tratta di servizi che più di altri esprimono con successo ilrapporto con le famiglie, vedono una partecipazione generalmente alta alle varieiniziative, mantengono un contatto quotidiano con loro, dedicano tempi, luoghie strumenti a ‘coltivare’ questa relazione. La mancanza di tempo tuttavia condi-ziona molto i genitori e influisce pesantemente sulla loro presenza, così comenei nidi aziendali l’identificazione del servizio con il luogo di lavoro demotiva lapartecipazione di genitori che non hanno voglia di reincontrarsi o/e di tornarvila sera.

Questo richiede agli operatori molta consapevolezza e una formazione ade-guata che li renda in grado di non adottare atteggiamenti giudicanti o invasivi,ma di accostarsi con rispetto alle singole diversità che le famiglie portano.

Le diversità sono tante e in continua evoluzione, la lettura di questi mutamen-ti risulta assai difficile e si fatica a dare risposte duttili e adeguate. Ci si confron-ta con famiglie isolate e fragili da un punto di vista educativo, che vedono nelnido un punto di riferimento, quasi una guida al proprio agire o che addiritturatendono a delegargli il compito di educare il proprio figlio; oppure con famiglieche rivelano un investimento fortissimo sul proprio bambino, seguendolo conuna cura ossessiva e pretendendo molto sia da lui, che dal nido, con richieste nonsempre adatte alla tenera età. Le famiglie straniere spesso mettono in difficoltà ilservizio per la diversità dei modelli culturali ed educativi, per la fatica nel capiree adeguarsi all’organizzazione dei nidi, per la non facile comunicazione quotidia-na accentuata dalla quasi totale assenza di mediatori culturali nelle strutture.

A fronte di tutto ciò sono davvero tante le occasioni che i servizi promuovo-no per le famiglie: dalla cura con cui si cerca di effettuare gli inserimenti agliincontri di sezione, dai colloqui individuali alle riunioni assembleari, dal potenzia-mento delle funzioni dei comitati di gestione alle iniziative più informali (feste,‘giornate dei genitori’ ecc…) fino agli incontri formativi come conferenze eincontri ‘dialoganti’ che tentano anche di creare una rete tra le famiglie stesse.

Mentre la maggior parte di queste attività sono riservate alle famiglie utenti,poco in verità si fa ancora per una promozione della cultura educativa più aper-

LA FORmAZIONE

IL MONTE ORE: la formazione del personale educativo deve seguire i para-metri indicati dalla L.R. 1/2000 che prevede almeno 20 ore all’anno. Per gli edu-catori che seguono progetti particolari si arriva fino a 30-40 ore. Vanno poi con-siderate le ore mensili di lavoro d’équipe, con o senza coordinatore pedagogico,che oscillano da 1, 5 a 8, a seconda dei servizi. Nei nidi pubblici si prevedono per-corsi formativi anche per ausiliarie e cuoche, quando dipendenti dell’ente.

I PERCORSI: sia nei nidi pubblici, che in alcuni privati è il coordinamentopedagogico che promuove la formazione, spesso tenendo conto delle richiestedell’équipe. Nei nidi pubblici del capoluogo e della Val d’Arda il piano formati-vo è preparato a giugno per l’anno educativo successivo e spesso si organizza-no proposte a livello di territorio (tutti i nidi del capoluogo/tutti i nidi della Vald’Arda/tutti i nidi della Val Tidone).

La F.I.S.M. propone percorsi propri ai servizi di tutta la provincia; gli altrigestori privati si gestiscono in modo più parcellizzato, spesso con iniziativesingole.

Tutti aderiscono alle proposte formative del Tavolo di CoordinamentoPedagogico Provinciale, chi in misura minore partecipando a brevi seminari, chiin misura maggiore aderendo ai progetti sugli scambi pedagogici, sulla continui-tà nido-materna, ecc...

L’AZIONE EDUcATIvA

Molto si dovrebbe dire sull’argomento, che merita riflessioni e considerazio-ni ampie. Sintetizzando, si può affermare che l’azione educativa dei servizi hacome presupposti i diritti e i bisogni dei bambini e si sforza di individuare il nidocome luogo privilegiato di una progettazione educativa che intrecci i punti divista dei bambini, delle famiglie, degli educatori, e delle agenzie del territorio.

Per approfondire il tema si rimanda ai due volumi “Pensieri intorno a untavolo” (Provincia di Piacenza – 2004) e “Strumenti intorno a un tavolo”(Provincia di Piacenza – 2008), che testimoniano il lavoro del CoordinamentoPedagogico Provinciale in questi anni.

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CON LE FAMIGLIE: Soprattutto in città i singoli nidi vivono come isoleautonome all’interno dei propri quartieri, vuoi per la rigidità della propria orga-nizzazione, vuoi per il tessuto sociale così chiuso nel proprio privato.Mantengono relazioni anche forti con le famiglie utenti (interrotte poi brusca-mente e rapidamente alla fine del ciclo), ma escludono tutte le altre. Nei paesidella provincia è potenzialmente più facile ‘uscire dal nido’, data la maggiorfamiliarità tra gli abitanti. D’altronde la promozione di una cultura dell’infanziarichiede non solo un’ampiezza di pensiero ancora da coltivare, ma anche risor-se differenziate e costose.

LA RETE DEI NIDI: Negli ultimi anni l’azione del CoordinamentoPedagogico Provinciale ha influito positivamente sulla creazione di una rete trai servizi. Il costante rapporto tra i coordinatori attraverso la partecipazione alleattività del Tavolo, i percorsi degli scambi pedagogici e le occasioni di formazio-ne comune per gli educatori hanno contribuito alla messa a punto di una prati-ca educativa basata sul confronto e sullo scambio di esperienze.

LA CONTINUITA’ VERTICALE: La continuità tra i nidi e le scuole dell’in-fanzia è in gran parte da costruire, e non aiuta il fatto che i progetti per inter-venti di qualificazione e miglioramento delle scuole dell’infanzia, finanziati dallaRegione Emilia Romagna, siano di competenza degli istituti comprensivi e deicircoli didattici. Quando i finanziamenti erano gestiti dai Comuni c’erano piùpossibilità di attivare progetti 0-6 anni. Al momento le uniche esperienze di con-tinuità praticate sono quelle di alcune realtà private che hanno sia il nido che lascuola dell’infanzia, nelle quali è possibile effettuare una progettazione educati-va considerando il bambino da 0 a 6 anni, oppure quelle facilitate dalla vicinan-za delle strutture, in modo particolare nelle realtà di paese. In questi ultimi casisi tratta tuttavia di iniziative per lo più lasciate alla ‘buona volontà’ degli opera-tori e comunque poco monitorate.

La provincia di Piacenza è l’unica in Regione in cui non sono presenti scuo-le dell’infanzia comunali. Ciò comporta un’evidente frattura con il mondo dellascuola, con la quale non si condivide né il livello organizzativo, né tantomenoquello educativo. In passato non sono mai stati aperti tavoli di confronto, népensati protocolli d’intesa o esaminate le esperienze esistenti. La conseguenza èche il percorso educativo, sociale ed affettivo vissuto dal bambino e dalla suafamiglia nel nido si interrompe bruscamente con l’uscita dal servizio, e in più sirafforza nelle famiglie l’idea di una crescita ‘a compartimenti stagni’.

A testimonianza dell’urgenza di far fronte a tale frattura, il Tavolo diCoordinamento Pedagogico ha promosso, dallo scorso anno, un gruppo di lavo-ro tra nidi (pubblici e privati) e scuole dell’infanzia (statali e private paritarie) sul

ta al territorio. In questa direzione può essere preso ad esempio il progetto Natiper Leggere (progetto nazionale promosso dall’Associazione ItalianaBiblioteche, dall’Associazione Culturale Pediatri e dal Centro per la Salute delBambino) che in alcune zone vede le biblioteche come soggetti promotori e iservizi alla prima infanzia come stretti collaboratori, riuscendo a creare consen-so e adesione nel territorio e intersecando figure differenti come i pediatri.

I RAPPORTI cON IL TERRITORIO

è un tema assai sentito dal Tavolo di Coordinamento PedagogicoProvinciale, che lo individua come punto critico del proprio ruolo:

CON LE ISTITUZIONI: Fin dagli anni ‘90 la Regione Emilia Romagna hacercato di promuovere il raccordo tra i servizi, sia per razionalizzare le risorse,che per spingerli ad uscire da un diffuso isolamento: è il caso dei finanziamentiper la formazione, della Legge 285/97 e poi della Legge 328/00 e delle succes-sive leggi regionali. Tuttavia negli ultimi anni i Piani di Zona sembrano in alcu-ni casi aver perso la loro spinta progettuale, mentre è trasversale ai vari distrettila scarsità di azioni in favore della prima infanzia, che, quando ci sono, sonogeneralmente orientate su un disagio sociale già ‘conclamato’.

I servizi 0-3 anni si muovono solitamente all’interno del loro ‘tran-tran’. Irapporti con le altre istituzioni sono spesso funzionali ad un progetto specificoo a un problema circoscritto ai propri utenti, e anche in questo caso le comuni-cazioni sono difficili e non sempre puntuali; spesso ancora si stenta a individua-re il coordinatore pedagogico come figura di mediazione tra i vari uffici ed i ser-vizi educativi.

In alcuni Comuni l’abitudine di affidarne la gestione a soggetti esterni rischiadi promuovere un atteggiamento di delega anche verso le scelte educative.

Anche la statalizzazione del segmento 3-6 anni contribuisce a proporre unmodello di rapporto con le strutture limitato a questioni economiche, così comeavviene con la scuola dell’infanzia.

Talvolta nelle piccole realtà può essere proprio il gestore privato che ha inappalto il nido ad aiutare il Comune ad acquisire maggiore consapevolezza sullarealtà educativa del suo territorio ed è sempre il privato che, gestendo servizi perconto di settori diversi delle amministrazioni, sembra in qualche caso capace dicreare e muovere più agilmente una rete efficace di rapporti.

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che andrebbe messo al servizio di tutti prima che se ne rischi la perdita con ilprogressivo ricambio del personale.

IL SISTEmA DEL PRIvATO

Il sistema privato ha la possibilità di offrire una maggiore flessibilità dei ser-vizi e di effettuare una selezione più appropriata del personale, che generalmen-te è giovane (quindi presumibilmente più disponibile a mettersi in gioco) emolto motivato, anche per la forte responsabilizzazione che riceve in strutturepraticamente prive di apparati burocratici. Ha servizi generalmente piccoli chemeglio garantiscono un clima ‘familiare’.

è svantaggiato dalla mancanza di esperienza e dalla difficoltà (soprattuttoeconomica) di garantire assunzioni stabili a tempo pieno e adeguate formazioni,con conseguente turn-over degli operatori.

Per i servizi inseriti nelle scuole dell’infanzia si aggiunge la difficoltà di trova-re e mantenere una propria identità di nido diversa da quella della scuola.

Le realtà private sono molte e molto diverse tra loro. La maggior parte inve-ste sui servizi e sulla promozione di una qualità educativa, alcune purtroppo nontutelano il ruolo del coordinatore pedagogico, non garantiscono un’adeguataformazione agli operatori, né si adoperano per una loro stabilità. Nonostanteciò, quasi tutti ottengono in ugual modo convenzioni dai comuni. Questo aspet-to viene considerato fortemente critico dal Tavolo di CoordinamentoPedagogico, che auspica una maggior attenzione da parte dei Comuni alla qua-lità dei nidi sul loro territorio.

Ogni realtà ha una propria storia e una propria interpretazione del ruolo deiservizi e questo rende difficile la creazione di una rete di rapporti. Anche seattraverso il Coordinamento Pedagogico Provinciale alcuni passi sono stati fatti,mancano ancora alcuni requisiti preliminari (primo fra tutti la stabilità dei coor-dinatori e una loro effettiva possibilità di intervenire nei servizi) e una regia forteche guidi questo processo.

IL SISTEmA PUBBLIcO-PRIvATO

NEL CAPOLUOGO: Il Comune di Piacenza è stato tra i primi in regionead attivare convenzioni con strutture private e ancora oggi ne ha un numero

tema della continuità, in particolare confrontando sia le rispettive normative diriferimento, che l’idea di bambino agita nella pratica quotidiana, con l’obiettivodi individuare modalità condivise che accompagnino il passaggio dei bambini edelle loro famiglie dal nido alla scuola dell’infanzia.

IL SISTEmA DEL PUBBLIcO

LA STRATEGIA: si sente la necessità di una regia che regoli lo sviluppo deiservizi all’infanzia, sia per quel che riguarda la distribuzione territoriale, che peril monitoraggio di una effettiva qualità dell’offerta che peraltro sconta la manca-ta formulazione dei criteri per l’accreditamento da parte della Regione EmiliaRomagna.

Se è vero che la convenzione o l’appalto dei servizi fa diminuire la responsabi-lità gestionale dell’Ente Pubblico è altrettanto vero che dovrebbero proporzional-mente aumentare le sue competenze e responsabilità in termini di indirizzo, pro-grammazione e controllo, cioè il suo ruolo di governo. Se c’è un sistema pubbli-co debole, si indebolisce anche quello privato in una comune caduta di qualità.

Manca anche un raccordo/confronto tra i diversi comuni, che invece potreb-bero scambiarsi esperienze e riflessioni preziose sulla gestione dei servizi:potrebbe essere la Provincia, nell’ambito della funzione più ampia di program-mazione e qualificazione degli interventi a favore dell’infanzia, a promuoverequesto dialogo.

IL PIANETA NIDI: non sempre i nidi si sono integrati del tutto nell’appa-rato comunale, soprattutto a causa della loro atipicità rispetto agli altri servizierogati dagli Enti Pubblici; sono inoltre servizi costosi che ancora faticano aessere considerati un patrimonio della comunità e ad essere supportati come tali.

D’altronde anch’essi non si sentono sempre ‘parte di una struttura’: pensanospesso di dover/poter risolvere tutto da soli, dimenticando che ci sono anchealtri settori deputati ad occuparsi di vari aspetti. Solitamente lavorano solo suipropri utenti, anche se ci sono realtà che riescono a promuovere iniziative adampio raggio.

Vivono un’esistenza piuttosto isolata che, da un lato, li porta ad avere debo-li rapporti con altre agenzie del territorio (scuole, università) e, dall’altro, li osta-cola nel mantenersi in rete tra loro nonostante condividano origine, strutturaorganizzativa, coordinatore pedagogico e formazione.

Nondimeno i nidi pubblici detengono un bacino di esperienza preziosissimo

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> la mancanza di una ‘convenzione-tipo’ condivisa dai comuni, cheimponga e garantisca ai servizi del territorio le medesime condizioni;

> la fatica da parte degli Enti Locali ad assumere una forte funzionedi monitoraggio e di promozione della qualità;

> la poca interazione tra le politiche socio-educative per l’infanzia e lepolitiche per le famiglie e per le donne;

> la mancanza di un coordinamento istituzionale e politico tra sogget-ti pubblici e tra pubblico e privato;

> la carenza di un sistema di informazione costante sulla situazionedell’infanzia nel territorio e sulla domanda/offerta dei servizi.

IN SINTESI

I PUNTI DI FORZA DEI NIDI

> sono uno dei pochi interventi per le famiglie;> sono un luogo di aggregazione;> sono servizi educativi e non assistenziali;> sono un aiuto al compito educativo dei genitori e in questo campo

cercano di fornire risposte mirate ai singoli bisogni; > sono un aiuto all’occupazione femminile e sono fonte di occupazio-

ne essi stessi;> sono in grado di accogliere le istanze dei singoli territori;> tentano di promuovere una cultura dell’infanzia, un’etica culturale

ed educativa, di praticare il dialogo;> favoriscono uno sviluppo completo e integrato dei bambini;> garantiscono l’integrazione dei bambini diversamente abili;> sono uno dei pochi luoghi di possibile integrazione per le madri

straniere.

maggiore di molti altri capoluoghi. Inoltre, diversamente che altrove, questeconvenzioni garantiscono alle famiglie la stessa retta e gli stessi criteri di acces-so in tutti i nidi, pubblici o privati che siano, a conferma dell’intenzione di offri-re alla popolazione un vero ‘sistema’. Questo prevederebbe anche lo stesso livel-lo di qualità, ma non sempre ci sono le forze/gli strumenti per monitorarla, per-ciò si guarda al Tavolo di Coordinamento come garante di una costante rifles-sione e una concreta operatività.

Il sorgere del privato ha di fatto portato il Comune ad un ripensamento delproprio ruolo, sia da un punto di vista ‘istituzionale’ (è il garante della qualità delprivato), sia da un punto di vista educativo, essendo il depositario di trent’annidi esperienza, che dovrebbero diventare patrimonio condiviso. Si potrebbe sug-gerire la possibilità di distaccare le educatrici più esperte affinchè mettano adisposizione delle colleghe più giovani la propria esperienza, anche se questocomporterebbe un aumento del personale.

La collaborazione tra pubblico e privato viene giudicata di buona qualità, maanche segnata da un sottile antagonismo, frutto forse di una scarsa conoscenzareciproca. Il privato riscontra nel pubblico atteggiamenti sospettosi e giudican-ti, quando non apertamente di superiorità, mentre il pubblico lamenta l’autore-ferenzialità di alcuni servizi che mal sopportano il suo ruolo di ‘controllore’.

IN PROVINCIA: In provincia si verificano casi di convenzioni anche deltutto inadeguate al reale costo del servizio, ma in genere è più diffusa la formu-la dell’appalto, che porta ad una sorta di ‘gestione mista’ in cui i ruoli e i rappor-ti pubblico-privato dipendono molto dai termini dell’appalto stesso, dalla volon-tà o meno dell’Ente Locale di intervenire in ambito educativo, dalle competen-ze possedute da Amministrazioni che possono essere alla prima esperienza edalla volontà/capacità del privato di supportarle affinchè promuovano una cul-tura educativa.

Punto critico degli appalti è il loro continuo rinnovo, che pone i privati in unacostante condizione di incertezza economica e il pubblico nell’obbligo ricorren-te di predisporre gare impegnative col rischio di arrivare ad un cambio gestiona-le anche a fronte di una felice collaborazione.

IN GENERALE crediamo di poter affermare che il sistema pubblico-priva-to costituisca la più valida garanzia di un’efficacia sociale dei servizi, se fondatosu precisi presupposti di base che, ad oggi, lamentano alcune criticità:

> la variabilità dei rapporti tra le due realtà, spesso dipendenti da sin-goli sindaci e /o assessori;

> un’elargizione di sostegni ai privati priva di criteri meritocratici;

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IL SOSTEGNO ALLE FUNZIONIFAmILIARI E GENITORIALIE LA TUTELA DEI mINORI

Mariangela Tiramani RESPONSABILE AREA MINORI SETTORE SERVIZI

SOCIALI E ABITATIVI DEL COMUNE DI PIACENZA

GLI INTERVENTI A SOSTEGNO DELLE FAMIGLIE HANNO

visto, nel corso di questi anni, trasformazioni e ridefinizionein relazione ai sostanziali cambiamenti che i nuclei stannoattraversando e ai nuovi e differenti bisogni di cui sono por-tatori.

Nell’anno 2007, 1730 nuclei familiari (1579 nell’anno 2006– 1429 nell’anno 2005 - 1231 nell’anno 2004 – 1120 nell’an-no 2003), oltre 600 in più rispetto all’anno 2003, sono stati incarico all’Area Minori del Settore Servizi Sociali del Comunedi Piacenza.

Rispetto alle tipologie, sono ancora in aumento i nucleifamiliari monogenitoriali materni e le famiglie ricostituite,ossia quelle famiglie in cui almeno uno dei coniugi è al secon-do matrimonio, come sempre massiccia è la presenza dinuclei stranieri all’esito di ricongiungimenti familiari ma èanche elevato il numero di nuclei in cui i figli sono nati nelpaese ospitante.

La multietnicità delle famiglie pone i servizi non solo difronte ad un aumento di domanda sociale ma richiede una let-tura della domanda che tenga conto delle differenze tra levarie culture di appartenenza e dei significati sociali attribuitia scelte e stili di vita.

I PUNTI DI DEBOLEZZA DEI NIDI

> dato che il ricavato delle rette copre una minima parte dei costisaranno sempre servizi a carico della comunità e quindi potenzial-mente a rischio di chiusura. Non sarà mai possibile far pagare ilcosto intero alle famiglie perché per molte sarebbe inaccessibile;

> il loro costo rischia di renderli servizi difficilmente sostenibili agliocchi della comunità, anche perché si rivolgono a una fetta moltoparziale di popolazione: devono garantire una qualità molto altaaffinchè le famiglie ci credano e ne richiedano la presenza;

> la loro esistenza dipende in gran parte dai bisogni delle famiglie;> alcune realtà mancano ancora di un pensiero educativo ben defini-

to, tendono più al saper fare che al saper essere e faticano a metter-si in discussione;

> essendo servizi alla persona tendono a focalizzare l’attenzione suisingoli utenti e faticano a pensarsi come promotori di una culturaeducativa che si allarghi a tutta la popolazione;

> faticano ancora nell’integrazione dei bambini e delle famiglie stra-niere;

> possono offrire livelli diversi di qualità a fronte di un carente siste-ma di controllo;

> esistono ancora strutture costruite in modo obsoleto e inadeguato;> non sono presenti in modo uniforme sul territorio e l’accesso rima-

ne più garantito alle famiglie che ne hanno bisogno rispetto a quel-le che lo scelgono come modalità educativa. I nidi dovrebbero inve-ce costituire un’opportunità capillare e per tutti.

A conclusione di questo contributo si ritiene importante sottolineare quan-to il nostro territorio abbia sviluppato negli ultimi anni una crescente attenzio-ne verso l’offerta e la qualità dei servizi rivolti ai bambini in età 0-3 anni, acqui-sendo consapevolezza sulla rilevante importanza sociale che essi assumono esulla relativa difficoltà a mantenere “sotto controllo” i molteplici aspetti che licaratterizzano.

La corposità del tema richiederebbe una riflessione più ampia e approfonditadi quanto qui sia possibile, ma si confida che venga comunque attuata in altre sedie che coinvolga l’insieme di tutti gli attori, istituzionali e non, che ruotano attor-no al mondo dell’infanzia, in un atteggiamento di ascolto e scambio reciproco.

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IL BISOGNO EcONOmIcO

La crescente povertà dei nuclei ha portato nuove tipologie familiari, come lefamiglie monoreddito e numerose, le “famiglie della quarta settimana” o anche,in alcuni casi della terza, a ricorrere alla rete dei servizi sociali.

Permane elevata la domanda contributiva e assistenziale dei nuclei con disoc-cupazione o instabilità lavorativa che presentano una soglia di reddito al di sottodel minimo vitale.

Oltre ai tradizionali interventi contributivi, l’assistenza economica ai nuclei incondizione di indigenza ha dato ampio spazio ai contributi economici innovati-vi: l’assegno di maternità (92), l’assegno a favore dei nuclei numerosi (107) e 35famiglie hanno richiesto di poter integrare lo stipendio nel periodo di astensio-ne facoltativa dal lavoro nell’ambito del progetto “Primo anno in famiglia”. Sisono inoltre praticate forme di assistenza economica con restituzione (33 richie-ste di prestiti sull’onore) e oltre 400 sono stati gli interventi per agevolazioni oesenzioni tariffarie.

Si aggiungeranno ora le svariate “misure per le famiglie” comprese nel capi-tolo del pacchetto anti crisi governativo, misure che rischiano di non esserestrutturali, ma una tantum, se elargite senza un progetto socio assistenziale com-plessivo, non raggiungendo così l’obiettivo prefissato di andare incontro allenecessità delle famiglie.

La risposta al crescente bisogno economico è da sempre ricercata sul territo-rio piacentino anche grazie ad una forte sinergia con il privato sociale e l’asso-ciazionismo, che operano prevalentemente in rete con i soggetti istituzionalipreposti per assicurare una razionalizzazione delle erogazioni e prevenire dipen-denze croniche dagli aiuti assistenziali.

IL PROBLEmA ABITATIvO

La precarietà abitativa aggrava lo stato di bisogno di molti nuclei indigenti: senon divengono assegnatari di un alloggio di edilizia residenziale pubblica concanone sociale, difficilmente possono accedere alla locazione privata e talvoltatentano la strada dell’acquisto dell’immobile contraendo mutui la cui insolvenzagenera pesanti situazioni debitorie.

Elevato è il numero di nuclei familiari in cui l’incidenza del canone di loca-zione supera il 50% del complessivo reddito familiare, non lasciando risorseeconomiche sufficienti per le utenze e le spese di mantenimento.

A sostegno del problema abitativo, fenomeno che risulta essere sempre piùin crescita, si è intervenuti, nel corso di questi anni, attraverso il fondo per l’af-

Nella costruzione di un processo di aiuto che veda destinatari i nuclei stra-nieri, occorre infatti contestualizzare comportamenti e condotte all’interno dellacultura di appartenenza: le modalità di accudimento ed educazione della prole(una precoce responsabilizzazione dei figli, ai quali possono essere delegati com-piti di mediazione culturale, impegni di cura dei figli maggiori verso i più picco-li, o il ricorso a severi mezzi di correzione) così come le dinamiche relazionali (ilruolo della donna all’interno del nucleo e la sua possibilità di accedere al siste-ma sociale, le differenze di genere che connotano i ruoli ed il rapporto tra isessi).

A fronte di tale importante “impegno culturale” i servizi sono ancora forte-mente impreparati anche in considerazione dell’esito complesso di culture diver-se che si fondono e si confondono, in particolare nei migranti di seconda gene-razione e nelle coppie miste.

In questi anni fondamentale è stato l’apporto delle figure di mediazione cul-turale e oggi si assiste al coinvolgimento di famiglie con un percorso migratorioormai pluriennale che svolgono la funzione di accompagnamento e orientamen-to verso i nuclei di più recente ingresso.

Infatti, per alcuni di essi ed anche in particolare per i minori stranieri privi diriferimenti parentali, la scelta del luogo di immigrazione è proprio legata a rela-zioni amicali o parentali con nuclei che hanno precedentemente intrapreso ilpercorso di integrazione, creando vere e proprie catene migratorie.

Questi nuovi scenari richiedono di essere tematizzati ed approfonditi perpotere, nel tempo, divenire linee di intervento e di costruzione di servizi a soste-gno di famiglie differenti da quelle che tradizionalmente sono state portatrici diuna domanda sociale.

Come problematiche emergenti, si rileva ancora che l’incremento della nata-lità che ha caratterizzato questi anni è stato assicurato prevalentemente da donnestraniere, giovani e prive di una rete parentale di sostegno, così come rimanemeritevole di attenzione la condizione dei minori stranieri privi di riferimentiparentali poiché il gap sociale che li divide dai loro coetanei li può portare aricercare identità collettive e di gruppo con connotazioni di devianza.

In linea generale, le problematiche che determinano l’accesso delle famiglieai servizi sociali sono sia di tipo socio economico che relazionale.

Problematiche emergenti legate alla vita familiare come la conflittualità, ledifficoltà all’assunzione di un ruolo educante nei confronti della prole, le dina-miche familiari riconiugate in nuovi ruoli e relazioni stanno trasformando i ser-vizi sociali da servizi della povertà a servizi del disagio, connotandoli con unasempre maggiore trasversalità socio economica.

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collocamento in luogo protetto.La città di Piacenza può oggi contare su una casa rifugio per donne vittime

di violenza, con o senza figli che, insieme ad altre strutture di accoglienza pre-senti sul territorio, ma anche fuori provincia e regione, potranno assicurare adonne e madri con i loro bambini l'affronto di un percorso di superamento deltrauma e di reinserimento sociale.

Sebbene la legge 154/01 preveda il ricorso agli ordini di protezione controgli abusi familiari, di fatto ancora poche vittime di violenza hanno potuto bene-ficiare di tale disposizione legislativa con la necessaria tempestività.

L'accogLienza famiLiare dei minori

Si è operato per valorizzare ed incrementare le risposte di accoglienza fami-liare attraverso l'affidamento (oltre 150 affidi familiari nell'anno 2007, Piacenzaè una tra le prime province nell'ambito della Regione Emilia Romagna pernumero di affidi familiari in corso) e per accompagnare con sempre maggiorecompetenza le coppie che adottano un bambino.

In collaborazione con il Tavolo Provinciale “Tutela” sono stati attivati profi-cui percorsi di formazione- informazione sia per le coppie aspiranti all'affida-mento familiare che all'adozione, così come di accompagnamento per le fami-glie che hanno in corso le esperienze, offrendo loro spazi di confronto e condi-visione anche nello spirito del mutuo aiuto.

iL sostegno domiciLiare

Il Servizio ha inoltre assicurato interventi di sostegno educativo a caratteredomiciliare, a nuclei familiari in condizione di fragilità sociale con figli neonatiper prevenire i danni connessi ad una nascita a rischio psico sociale (mal accu-dimento, trascuratezza, abbandono e semi abbandono).

Dopo aver privilegiato l'avvio del servizio domiciliare in favore della neona-talità, tale servizio è stato esteso a famiglie con figli in fascia di età superiore,sino all'adolescenza, momento in cui è alta la richiesta di sostegno da parte dellefamiglie.

La scelta posta a fondamento di tali servizi, in una città che recentemente èstata definita da una testata nazionale (Il Sole 24 Ore) “Piacenza città che coc-cola le famiglie”, si fonda sulla convinzione che, affinché ciascun minore possavivere all'interno del proprio nucleo, occorre porre in essere interventi di aiuto

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fitto e con risorse abitative (alloggi sociali e di emergenza) messe a disposizionedi nuclei in condizione di particolare urgenza (es. sfrattati), senza comunque riu-scire a far fronte al bisogno complessivo.

LE PROBLEmATIcHE RELAZIONALI

Un numero sempre maggiore di nuclei, in circa uguale misura suddiviso traitaliani e stranieri, ha visto l’intervento dei servizi per problematiche di tipo rela-zionale ed educativo.

L’attività di sostegno alle competenze genitoriali è stata realizzata sia attraver-so attività di counselling assicurate dal Centro per le Famiglie, sia con interven-ti professionali a carattere psico sociale di accompagnamento all’essere genito-re, in particolare in alcuni snodi come la neonatalità o la fase adolescenziale dellaprole.

Sono stati realizzati interventi volti ad affrontare i normali processi familiari:un'azione di promozione culturale ed un supporto alle competenze genitorialied al loro esercizio, consulenze educative, sostegno alla mutualità tra le famiglie,così come particolare attenzione è stata riservata al trattamento della conflittua-lità familiare, con specifici interventi di mediazione familiare e consulenze pro-fessionali nell'ottica della mediazione.

La legge sull'affido condiviso, entrata in vigore nel 2006, che sancisce il dirit-to del minore a godere della bigenitorialità, ha pure determinato un aumento didomande al servizio da parte di coppie non preparate a gestire congiuntamentele responsabilità genitoriali nel regime di separazione.

La vioLenza intrafamiLiare

Si è inoltre registrato, nel corso di questi anni, un aumento di situazioni diviolenze intrafamiliari con la presenza di minori che assistono a tali forme diviolenza tra le pareti domestiche.

Tali condotte, che oggi vedono un comportamento più attivo di contrasto daparte dei soggetti che le subiscono con un maggior ricorso alla denunciaall'Autorità di Pubblica Sicurezza, sono frequentemente conseguenti ad esacer-bate conflittualità tra coniugi, all'abuso di alcol e sostanze psicoattive, in parti-colare cocaina, a patologie psichiche.

Gli interventi di protezione delle vittime e dei minori che subiscono graviforme di violenza assistita, talvolta richiedono l'allontanamento dal nucleo ed il

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dei minori, specificando confini e modalità di integrazione, competenze eresponsabilità.

Impegno dunque per i servizi per una maggiore professionalizzazione nelpercorso di protezione dei bambini e degli adolescenti vittime o a rischio di vio-lenze, a partire dall'allontanamento anche d'urgenza dalla famiglia, al sostegno algenitore protettivo, all'assistenza al minore nell'iter giudiziario.

A tal fine va ricordato il ruolo assunto dal Comune, tramite la figuradell'Esperto Giuridico dell'Avvocatura Comunale, per assumere e rappresentareil minore nei procedimenti che lo riguardano,tutelando specificamente il suointeresse attraverso la nomina di un difensore.

Elemento quest'ultimo di grande innovazione nei procedimenti civili relativialla potestà.

Per concludere, analogamente a quanto detto per le nuove tipologie di nucleifamiliari, anche gli interventi a protezione dell'infanzia oggi si confrontano conuna nuova rappresentazione sociale del concetto di tutela, che impegna tutti isoggetti sociali ad attribuire sempre più forza e responsabilità al mandato istitu-zionale che sono chiamati a svolgere.

L'obiettivo è di assicurare attenzione, ascolto, protezione ad un importantedestinatario, l'infanzia, sostenendone il rispetto dei diritti e dei bisogni comeprincipio fondamentale di un vero sistema sociale a favore delle giovani genera-zioni.

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preventivo in particolare per quelle famiglie che vengono a trovarsi in condizio-ne di fragilità.

gLi interventi socio educativi

e di aggregazione

Si sono anche sostenuti ed integrati i compiti educativi e di cura delle fami-glie, attraverso la capillare attività svolta dai Centri Socio Educativi e diAggregazione (frequentati nell'anno 2007 da circa 300 minori), per cui ilComune di Piacenza investe una quota consistente delle risorse economichedestinate al sociale.

Una scelta preventiva e non meramente assistenziale e riparativa, che assicu-ra ai bambini e agli adolescenti l'opportunità di sviluppo delle loro potenzialitàe alle famiglie un aiuto concreto nell'impegno educativo e di cura, ancora più perle famiglie immigrate, per le quali può costituire fattore di mediazione nel per-corso scolastico dei figli.

La tuteLa deLL'infanzia

Circa 2500 minori sono stati in carico ai servizi sociali nell'anno 2007, 865 inpiù rispetto all'anno 2003 (2345, anno 2006 - 2024, anno 2005 - 1843, anno 2004- 1635, anno 2003).

Di questi, 380 sono stati posti dal Tribunale per i Minorenni in vigilanza, affi-damento e in tutela al Comune di Piacenza poiché provenienti da nuclei familia-ri inadeguati, carenti per l'educazione e la cura, abusanti o gravemente maltrat-tanti.

La tutela dei minori vittime di violenza e di gravi maltrattamenti è da semprel'impegno prioritario dei Servizi Sociali comunali che, in tale ambito, interven-gono in attuazione a disposizioni della Magistratura Minorile.

All'interno dei processi di tutela dei minori, fondamentale è stato l'impegnodi tutti i soggetti della rete (Magistratura, Forze dell'Ordine, Servizi Sociali eSanitari) per mettere a punto strategie operative di prevenzione e contrasto allaviolenza in danno dei minori, promuovendo azioni formative ed informative neiconfronti dei destinatari privilegiati delle rivelazioni delle vittime.

Su proposta dell'Amministrazione Provinciale di Piacenza, la Prefettura haistituito un tavolo interistituzionale in cui i vari soggetti, condividendo esperien-ze, criticità e bisogni si sono impegnati ad operare in maniera integrata a tutela

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I mINORI STRANIERIIN FAmIGLIA E PRIvIDI RIFERImENTIPARENTALI

Mariangela TiramaniRESPONSABILE AREA MINORI - SETTORE SERVIZI

SOCIALI E ABITATIVI DEL COMUNE DI PIACENZA

Franca PaganiCOORDINATRICE ATTIVITà SOCIO EDUCATIVE E

MINORI STRANIERI - SETTORE SERVIZI SOCIALI E

ABITATIVI DEL COMUNE DI PIACENZA

PREmESSA

Il contributo proposto dagli operatori sociali dell’Areaminori intende offrire una sintetica panoramica delle princi-pali problematiche che nel corso degli ultimi anni sono emer-se a seguito del rilevante aumento della immigrazione stranie-ra nella città di Piacenza e delle caratteristiche principalmentefamiliari che essa ha assunto.

I dati anagrafici relativi al Comune di Piacenza nell’anno2007 evidenziano la presenza, sul totale dei minori residenti,del 19, 2 % di minori stranieri.

All’interno della popolazione che si rivolge ai nostri servi-zi è possibile individuare varie tipologie di minori che presen-

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re, l’autorità del genitore o manifestano atteggiamenti e valori non accettati dallefamiglie.

Particolari criticità sono conseguenti al desiderio di questi adolescenti di acqui-sire ed adattarsi alle regole culturali del paese ospitante, a volte anche in contra-sto con la cultura di provenienza.Nei ricongiungimenti familiari si evidenzia lafatica tesa a ricostruire legami interrotti per troppo tempo: il minore si trova avivere da estraneo nella sua famiglia; i ruoli genitoriali sono incerti, confusi e per-tanto inadeguati a svolgere una funzione di guida adulta, che faciliti l’inserimen-to del minore stesso nel nuovo contesto di vita. Le richieste di collocamento dimadri con bambini di origine straniera sono in aumento, a testimonianza del fattoche diversi nuclei familiari ricongiunti dimostrano nel tempo difficoltà di relazio-ne non solo fra genitori e figli, ma anche fra coniugi. Spesso, grazie al lavoro svol-to dai mediatori interculturali che operano in collaborazione con gli operatori delSettore Servizi Sociali e presso il Centro per le famiglie, le madri trovano il corag-gio di denunciare maltrattamenti familiari che, in mancanza di reti amicali e fami-liari, portano necessariamente al collocamento in strutture protette.

I ruoli genitoriali e familiari, che in alcuni paesi seguono logiche culturali e diaccordi fra le famiglie d’origine dei coniugi, si modificano in relazione al diver-so contesto in cui il nucleo si trova a vivere.

In assenza di un controllo sociale riconosciuto il marito/padre e la moglie/madre agiscono comportamenti che non avrebbero assunto nel paese d’origine,In altre situazioni la condizione di difficoltà economica, abitativa e relazionaleporta la figura maschile a cercare di imporre la propria volontà su donne chestanno modificando, in parte, il loro modo di pensare, e non accettano, comeprobabilmente avrebbero fatto nel paese di origine, violenze o intimidazioni.

La realtà operativa quotidiana evidenzia che non solo i ricongiungimenti trafamiglie che hanno vissuto per lunghi periodi lontani possono diventare difficol-tosi da un punto di vista relazionale, ma anche i rapporti familiari all’interno diuna famiglia straniera che si è stabilizzata da tempo possono viveremomenti di conflittualità, specialmente durante la crescita dei figli, che nei casipiù problematici possono sfociare anche nell’allontanamento del minore.

Spesso la frequenza scolastica e l’inserimento del minore in contesti sociali eaggregativi autoctoni possono essere accompagnati da atteggiamenti di conte-stazione o di rifiuto dei valori culturali, religiosi e sociali del nucleo familiare.

Il processo di crescita e di integrazione sociale dei minori stranieri nel nostrocontesto è spesso un processo difficile, a rischio di emarginazione e di devian-za: appartenenti a due culture, gli adolescenti in particolare rischiano di trovarsiin una condizione psicologica di confusione di valori che può portarli ad assor-bire “ per imitazione “ e acriticamente solo gli aspetti più superficiali e di como-do dell’una e dell’altra cultura.

tano storie e biografie diverse fra loro:I minori arrivati per ricongiungersi con la famiglia;I minori immigrati insieme con la famiglia;I minori nati nel paese d’immigrazione;I figli di coppie miste;I minori che arrivano per adozione internazionale;I figli dei richiedenti asilo o rifugiati;I minori rom;I minori non accompagnati;

MINORI RESIdENtI A PIAcENzA dAtI 2006-2007

La suddivisione proposta in tipologie non intende “categorizzare i soggetti,ma è utile per esemplificare le principali problematiche sociali emergenti in que-sto periodo nella realtà piacentina.

LE PRINcIPALI PROBLEmATIcHE EmERGENTI

Gli operatori sociali incontrano con sempre maggior frequenza nuclei fami-liari con figli minori che si sono ricongiunti dopo lunghi periodi di lontanan-za e che, nel momento della condivisione della quotidianità e delle regole dellaconvivenza sociale, scontano rilevanti difficoltà di comunicazione e di rapporto.

Particolarmente conflittuale risulta il rapporto con i figli e le figlie adolescen-ti che dimostrano di non riconoscere l’autorevolezza o meglio, per alcune cultu-

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Si assiste invece in molti casi al permanere del nucleo sul territorio italianosenza una regolarità: alla scadenza del permesso di soggiorno per motivi di salu-te difficilmente la madre e il neonato decidono di rientrare nel paese d’origine.Rimangono in Italia in condizione di clandestinità, con problemi di abitazione,mantenimento, assistenza sanitaria, reperimento di un’attività occupazionale

I FIGLI DI cOPPIE mISTE

Sono in costante aumento i matrimoni/convivenze fra persone di culturediverse, sia fra italiani e persone straniere, che fra persone provenienti da etniediverse.

Le differenze culturali e religiose rispetto alla gestione della quotidianità,all’educazione dei figli, al rispetto dei ruoli familiari in alcuni casi provocano con-flittualità, che possono sfociare in frequenti episodi di violenza intrafamiliare.

I figli nati dai matrimoni e in molti casi anche i figli di precedenti unioni, sitrovano a vivere liti, discussioni, violenze verbali e, a volte fisiche.

In molti casi, quando uno dei componenti del nucleo è italiano, l’altro puòtrovarsi in una posizione di svantaggio, non avendo una rete parentale di sup-porto e non potendo contare sulla completa acquisizione della cultura del paeseospitante.

Qualora la persona di origine straniera ha regolarizzato la sua posizione conla nascita di un figlio (che in quanto cittadino italiano le consente di regolarizza-re la sua posizione con le norme si soggiorno in Italia) teme di perdere i propridiritti denunciando o allontanandosi dal compagno e questo porta a sopportarecondizioni relazionali e familiari talvolta difficili.

I mINORI cHE ARRIvANO PER ADOZIONEINTERNAZIONALE

Le adozioni internazionali sono in costante aumento.I minori di provenienza straniera sono inseriti in una famiglia italiana che ha

investito sull’arrivo di un minore le energie, le speranze e le aspettative di anni,e ha lavorato sul proprio rapporto di coppia per poter accogliere in modo ade-guato il minore adottato.

Nella maggioranza dei casi sono assenti riferimenti certi nel contesto familia-re e sociale, sia a livello affettivo che valoriale, indispensabili per una sana cre-scita e un inserimento nel mondo degli adulti.

L’acquisizione della lingua, passaggio fondamentale per favorire l’integra-zione degli immigrati nella realtà italiana, porta a situazioni paradossali in cui ilminore, a volte il preadolescente, accompagna i genitori presso gli uffici pubbli-ci, diventando interprete di problemi/richieste che normalmente non lo dovreb-bero riguardare

In una situazione come quella descritta, in cui moltissimi minori stranieri, (avolte anche di 9-10 anni) si sono trovati, viene negato un principio fondamen-tale di distanza fra genitore e figlio, capovolgendo ruoli storicamente presenti intutte le culture.

Anche la decisione di acquistare un’abitazione. per rendere più stabile ilradicamento nel nuovo paese può essere fonte di grosse difficoltà e tensionifamiliari

Infatti l’acquisto di un bene immobile comporta nella maggioranza dellesituazioni l’accensione di mutui anche di durata ventennale / trentennale chepresuppongono una stabilità lavorativa che, nell’attuale situazione economicanon è garantita ad alcun lavoratore.

Oggi infatti si riscontra l’indebitamento di molti nuclei che non riescono a farfronte ai mutui accesi, anche se più volte rinegoziati, e rischiano di dover cede-re l’immobile agli istituti di credito.

Quindi questo tentativo di rendere stabile la presenza del proprio nucleo sulterritorio si scontra molto spesso con il completo fallimento di tale progetto,con la conseguente perdita della casa e di considerevoli somme di denaro.

Un ulteriore aspetto problematico riguarda le donne gravide non in rego-la con il permesso di soggiorno e di conseguenza riguarda i bambini chenasceranno nel paese di immigrazione.

La normativa italiana consente di avere un permesso di soggiorno per moti-vi di salute prima della nascita del bambino e sino a sei mesi dopo la nascita dellostesso.

Il permesso di salute è rinnovabile solo per motivi di famiglia, ovvero trami-te un ricongiungimento familiare di fatto, solo se il padre del minore è in Italia,in regola con le norme di soggiorno e coniugato regolarmente con la madre delbambino.

Se non vengono rispettate tali requisiti non è possibile la permanenza rego-lare del nucleo nel territorio italiano.

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I mINORI ROm

I minori di etnia rom, soli o con le famiglie, in genere provengono dall’exIugoslavia e dalla Romania.

I minori, in genere in piccoli gruppi, vengono rintracciati dalle forze dell’or-dine intenti all’accattonaggio o al furto, e trattenuti per essere riconsegnati ad unfamiliare.

La famiglia è presente sul territorio, ma raramente si rende reperibile e iminori vengono accolti in strutture d’accoglienza da cui, nel 85% delle situazio-ni si allontanano, scappando e mettendo a rischio la propria incolumità.

Provengono in genere dai campi nomadi di Bologna, Milano, Pavia, Torino;sono analfabeti e dimostrano un legame con i nuclei familiari di provenienza chenon lascia spazio a nessuna proposta di integrazione.

La presenza di qualche nucleo familiare, con figli minori, che occupa abusi-vamente qualche casa sfitta o abbandonata, è numericamente esiguo, 2-3 in unanno.

Le richieste di aiuto ai diversi Enti e Associazioni presenti sul territorio sonomolteplici, ma sono finalizzate a rispondere al bisogno di quel momento e non simanifesta nessuna volontà di accettare un progetto finalizzato al cambiamento.

I mINORI STRANIERI NON AccOmPAGNATI

Sono minori entrati in Italia clandestinamente, ma che, se seguono un per-corso di integrazione sociale hanno la possibilità di regolarizzare la loro posizio-ne con le norme di soggiorno in Italia, di frequentare la scuola e di trovare unlavoro.

Il fenomeno dei minori stranieri non accompagnati iniziato a metà anni ‘90è in costante aumento.

Al loro arrivo questi minori sono stranieri, ma i principi educativi, la religio-ne, il contesto familiare e abitativo è solo italiano; l’apprendimento della linguarisulta semplificato rispetto ad un minore straniero che vive presso la propriafamiglia.

Il Settore Servizi sociali offre alle famiglie adottive un percorso di sostegnoe accompagnamento durante l’affidamento preadottivo nel primo anno e, soloin alcuni casi, problematiche specifiche del minore hanno richiesto un interven-to diverso e prolungato nel tempo

In alcune situazioni, numericamente esigue, sono emersi problemi di relazio-ne e di comportamento nella fase adolescenziale.

I FIGLI DEI RIcHIEDENTI ASILO O RIFUGIATI

La realtà piacentina sta accogliendo persone che hanno richiesto il permessodi soggiorno per asilo (in particolare provenienti dall’Eritrea e dall’Etiopia) e chehanno vissuto per diversi mesi nei campi profughi di altre zone del sud.

Il numero di persone provenienti da queste zone è in aumento, ed esiste fraloro una buona rete di solidarietà, ma le condizioni di vita e le difficoltà dicostruire un percorso dopo mesi di permanenza in un campo profughi, limita-no le possibilità di mutuo aiuto.

Le condizioni di vita e il viaggio per arrivare in Italia costituiscono un’espe-rienza che segna la crescita dei minori nati nel paese d’origine, ma anche deiminori nati nei campi profughi, in cui lo spazio individuale e le condizioni di cre-scita risultano inadeguate e a rischio.

In alcuni campi profughi vivono persone provenienti dalla stessa zona, el’uso della lingua italiana è pertanto estremamente limitato.

Nel momento in cui queste persone vengono dimesse da uno spazio protet-to come il campo profughi e si devono attivare per costruire un percorso di vitain autonomia manifestano rilevanti difficoltà, che incidono negativamente sulpercorso d’integrazione, prolungando il percorso assistenziale dei servizi neltempo e con difficoltà di risoluzione.

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sto fenomeno: la famiglia è un luogo di mediazione per la crescita del minorenel rapporto con il contesto ospitante e anche in previsione del raggiungimen-to della maggiore. La presenza di una famiglia che ha supportato il percorso dicrescita sostiene il ragazzo nell’affrontare il passaggio cruciale del diventaregrande.

Tuttavia il percorso di sensibilizzazione su questa tipologia d’affido è ancoralungo e non sempre facile anche per le caratteristiche culturali e del concetto difamiglia dei minori rintracciati sul territorio cittadino.

Anche l’accoglienza in struttura ha necessitato, nel corso di questi anni, diessere rimodulata creando risposte diversificate a seconda della fase del proces-so migratoria in cui viene a trovarsi il minore.

Si è pertanto strutturata la comunità di prima accoglienza per i minoriappena consegnati dalla Forze dell’ordine, per un periodo di 6 mesi circa, perio-do che è comunque da ritenersi variabile a seconda delle caratteristiche sogget-tive dell’ospite e delle capacità di adesione al progetto educativo. La comunitàdi seconda accoglienza per coloro che hanno già intrapreso il percorso di inte-grazione con la frequenza scolastica o di formazione professionale e la comu-nità di transito per i minori prossimi al compimento della maggiore età o pereventuali prosegui amministrativi disposti dall’Autorità Giudiziaria.

La sintetica panoramica delle principali problematiche che i servizi devonoaffrontare dimostra la complessità del fenomeno e la necessità che gli interven-ti posti in essere siano messi in rete con tutti i soggetti istituzionali e non che sulterritorio si occupano dell’accoglienza e dell’integrazione dei minori stranieri.

MINORI StRANIERI IN cARIcO

Negli anni si sono differenziate le tipologie dei minori in carico all’entepubblico:

> minori di 12-13 anni per i quali si prospetta un discreto periodo dipermanenza in Italia lontano dalla famiglia d’origine.

> minori di sesso femminile, che emigrano portando con sé un per-corso di disagio, abbandono, spesso violenza che inevitabilmenterende difficile il loro percorso di integrazione, talvolta non estraneead esperienze di strada e prostituzione.

Se i primi minori immigrati provenivano prevalentemente dall’Albania,attualmente si sta modificando lo scenario e, pur rimanendo costante la presen-za di minori albanesi, vi è prevalenza di minori provenienti dal Marocco edall’Egitto.

Alcuni ragazzi si fermano presso la comunità di accoglienza dopo aver vissu-to in strada, in città come Milano, ai limiti della legalità, portando con sé disagi,difficoltà problemi di dipendenza da alcool o sostanze.

L’arrivo dei minori non accompagnati è in costante aumento e nell’ultimoperiodo Piacenza ha visto un arrivo massiccio di minori proveniente dall’Egitto,con consistenti disturbi di personalità che a fatica riescono ad integrarsi nellarealtà culturale piacentina e che necessitano di avere un collocamento in unastruttura residenziale.

L’aumento di questa etnia è collegato sia allo spostamento a Piacenza e pro-vincia di persone adulte provenienti da quella zona, che dalle politiche di acco-glienza dei minori messe in atto dalle città limitrofe (Cremona, Milano Pavia).

Piacenza essendo uno snodo autostradale e ferroviario favorisce l’arrivo digiovani che non hanno trovato accoglienza nelle città limitrofe. La spesadell’Amministrazione Comunale per il collocamento dei minori presso comuni-tà educative ha assunto dimensioni incrementali.

I progetti di affidamento omoculturale, su cui il Comune di Piacenza halavorato per consentire ai minori di vivere in contesti familiari vicini alla culturad’origine, sta decollando, ma non è ancora una risposta efficace al problema.

L’affidamento omoculturale è una valida risposta ai problemi che pone que-

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LE OSSERvAZIONIDI UN PEDIATRA

Giuseppe Gregori PEDIATRA DI LIBERA SCELTA - SEGRETARIO

PROVINCIALE FEDERAZIONE ITALIANA MEDICI

PEDIATRI

I PROBLEMI CHE, COME OPERATORI SANITARI SUL TERRITO-rio osserviamo e affrontiamo in ambito pediatrico, sono agrandi linee simili a quelli di molte altre realtà italiane.

Bambini “fragili”, figli di una famiglia e di una società “fra-gili”, con frequenti problemi di disagio, che si fanno più evi-denti nel percorso scolastico, ma anche di fronte ad un insuc-cesso sportivo o alla visione distorta della propria immagine.

Bambini sempre più sedentari e spettatori passivi, sempremeno ricchi di esperienze motorie non strutturate (il gioco instrada, nei cortili), di esperienze guidate (alla lettura, alla sco-perta della natura, alla conoscenza del proprio territorio), diesperienze autogestite (andare a scuola da soli ad esempio).

Molti genitori chiedono consciamente o inconsciamentesostegno per affrontare i problemi che nascono durante ilperiodo dell’infanzia nel rapporto con i propri figli o nel rap-porto dei propri figli con il mondo della scuola.

I figli dei genitori extra comunitari sono sempre più nume-rosi: la maggior parte, se nata in Italia, riesce ad inserirsi bene,mentre per chi giunge in Italia dopo la prima infanzia tantodipende da diverse variabili (culturali, etniche, religiose) che intaluni casi mantengono il ragazzo in isolamento (etnico,volontario?).

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> l’assistenza sul territorio 24h\24, > la corretta promozione di alcune campagne vaccinali (meningococ-

co, HPV ad esempio), > il mancato ritorno d’informazioni al medico curante di pazienti

seguiti nell’ambito di servizi di medicina specialistica e nell’ambitodei servizi sociali,

> la difficoltà di offrire servizi a bambini gravemente disabili.

La contraddizione maggiore arriva dal versante regionale, laddove i pianisanitari regolarmente inseriscono la figura del pediatra nella progettazione dipercorsi di tutela dell’adolescente verso il disagio scolastico, psichico e versol’abuso di sostanze, salvo poi limitare l’assistenza pediatrica territoriale a 14 anni(tranne in caso di malattie croniche). Al contrario l’assistenza pediatrica ospeda-liera è obbligatoria fino a 18 anni.

L’adolescenza è di per sé un periodo delicato e dai contorni temporali nondefinibili con certezza: basterebbe lasciare liberi i ragazzi e le loro famiglie didecidere se proseguire nell’assistenza pediatrica almeno fino a 16 anni senza altrivincoli che il rapporto di fiducia.

Strettamente connesso al tema del disagio è il rapporto tra il mondo dellasanità e quello della scuola. Il medico curante è spesso all’oscuro delle situazio-ni di disagio o dei problemi di apprendimento dei propri pazienti (o della loroevoluzione), situazioni per altro spesso certificate e quindi certamente non sot-toposte ad una forma stretta di privacy.

Non di rado vengono proposte valutazioni, specie in ambito neuropsicologi-co, che escludono il medico curante.

La collaborazione tra l’ambito sociale, scolastico e sanitario sarebbe fonda-mentale in questi casi per poter offrire alle famiglie un sostegno condiviso e ilmiglior orientamento possibile per chiarire la natura dei problemi riscontrati.

Inoltre su molti temi inerenti la salute potrebbero essere costruiti e valutatiinsieme percorsi educativi in modo capillare

Un tema che mi sta particolarmente a cuore è quello dell’emergenza sanita-ria in ambito scolastico, tema che potrebbe investire la scuola sia sul versantedella docenza (avere educatori con competenze di emergenza sanitaria), che suquello degli studenti (un approccio ragionato all’emergenza per gli studenti dellesuperiori).

Manca infine (e sarebbe auspicabile) un piano di collaborazione con tutti glienti di promozione sportiva ed in particolare con il CONI, individuando alcunetematiche con valenza sociale (lo sport nei suoi aspetti educativi e formativi, l’in-serimento dei disabili nella realtà sportiva locale ad esempio).

Sono in numero non indifferente anche i bambini adottati e in affido. Il miglioramento delle cure neonatologiche rende possibile un futuro norma-

le a molti bambini nati sottopeso, ma rimane difficile il supporto alla famiglie sulpiano socio-sanitario qualora si verifichi una situazione di disabilità importante.

Mancano risorse umane con competenze specifiche su questi temi sotto tuttii profili e ciò costringe spesso le famiglie a percorsi autonomi alla ricerca dirisposte nella gestione dei problemi quotidiani dei figli disabili. L’assistenza sani-taria in certi percorsi sulla disabilità sembra sia stata studiata solo per l’adulto,quantunque sia necessaria anche in età pediatrica.

Le competenze richieste ai medici pediatri del territorio sono cambiate inmodo radicale negli ultimi 20 anni. Le malattie acute non costituiscono più laparte preponderante del lavoro, che si svolge invece prevalentemente sul frontedella prevenzione, (delle malattie infettive, degli incidenti domestici, delle pato-logie come l’obesità, l’ambliopia, la carie, la scoliosi, l’anoressia, le malattie aller-giche ecc.), del controllo delle malattie croniche (asma in primis e poi esiti dellaprematurità ecc) e di tutti i problemi che ruotano attorno al concetto più gene-rale di benessere del bambino e dell’adolescente: il disagio psichico, la depres-sione, l’ansia, i disturbi del linguaggio, la sedentarietà, l’abuso di sostanze.

L’attività didattica universitaria non è stata in grado di adeguarsi ancora aqueste mutate esigenze formative del personale sanitario.

Il destino delle risorse delle aziende sanitarie solo in parte ha seguito le nuoveesigenze assistenziali dislocate sul territorio.

Sul piano squisitamente sanitario appare quindi evidente che vi siano ampimargini di miglioramento della qualità dell’assistenza, migliorando la formazio-ne degli operatori sanitari sia durante il corso di studi, sia nella formazione con-tinua post-laurea e investendo più risorse in termini di mezzi e personale nell’at-tività pediatrica territoriale, stimolando ad esempio la formazione e il potenzia-mento delle forme di lavoro in associazione, evitando di fornire attività ugualida servizi diversi.

Manca un coordinamento costante e “istituzionale” tra i vari settori sanitariche si occupano della pediatria: Ospedali (Piacenza e Fiorenzuola), Pediatria diComunità, Neuropsichiatria Infantile e Pediatria di Famiglia e DirezioneGenerale Aziendale.

Esistono esempi nel nostro territorio di collaborazione tra questi settori, maspesso vengono perse occasioni per trovare soluzioni (o almeno tentare di tro-vare) ai problemi, fra cui in particolare:

> l’assistenza ai bambini residenti nelle zone disagiate della montagna, > il controllo degli accessi al Pronto Soccorso,

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Infine, mi pare doveroso indicare alcune problematiche rilevanti da affronta-re con urgenza:

> Integrare e coordinare le attività sanitarie che ruotano attorno all’in-fanzia e all’adolescenza, tenendo conto del ruolo centrale che ilServizio Sanitario Nazionale affida oggi al medico curante.

> Consentire al pediatra di seguire gli adolescenti che ne faccianorichiesta (la branca di adolescentologia fa parte delle scuole di spe-cialità di Pediatria e considera l’adolescenza fino al 18° anno).

> Migliorare la comunicazione tra il mondo della scuola e quello dellasanità.

> Investire più risorse sui temi dell’infanzia e dell’adolescenza, acominciare dai soggetti più deboli e dalle famiglie in difficoltà, nonsolo sul fronte delle cure, ma su quello della prevenzione e dell’edu-cazione ai temi della salute e della qualità di vita.

> Sensibilizzare a questi temi e dunque alla necessità di interventiurgenti anche gli amministratori della sanità e i decisori politici.

Uno dei maggiori problemi che i genitori segnalano in questo ambito è ladiscriminazione dei bambini che avviene ancora nelle fasi di avviamento allosport (quindi in tenera età) sulla base delle loro attitudini fisiche, con conseguen-ze sul piano educativo poco confortanti.

Come operatori sanitari assistiamo sempre più ad una particolare attenzionerivolta agli aspetti certificativi dell’attività motoria, quando in realtà poco si sa diquali siano le competenze di coloro che seguono i bambini ed i ragazzi nella loropreparazione.

Un approccio integrato ai problemi a volte è possibile e può anche dare risul-tati accettabili come sembra essere avvenuto nei seguenti casi:

Protocollo d’intesa per la somministrazione di farmaci a scuola(Provveditorato, Dirigenti Scolastici, Pediatria di Famiglia, Pediatriadi Comunità, AUSL, Ordine dei Medici, Comune di Piacenza)

Progetto Aria Pulita(Infoambiente, Pediatria di Famiglia, Scuola) Rilevazione tramite questionario degli stili di vita dei bambini, ela-borazione di decalogo per le famiglie, spot televisivi sull’inquina-mento, convegni, ritorno informativo alle scuole

Progetto Nati per Leggere(Pediatri di Famiglia, Biblioteche comunali, NeuropsichiatriaInfantile)Libri, lettori e bibliotecari presso gli ambulatori dei medici pediatriper educare le famiglie alla lettura ad alta voce nell’infanzia per il suoruolo educativo e psico affettivo.

Progetto PBLS(Pediatri di Famiglia, Scuole, Comune di Piacenza)Costruzione di una rete di operatori laici nelle scuole in grado diaffrontare una emergenza sanitaria in un bambino(perdita di cono-scenza ed arresto cardio-respiratorio) in attesa dei soccorsi avanza-ti (118).Corso per ora realizzato in parte.

Partecipazione al tavolo di coordinamento provinciale sull’abuso ed ilmaltrattamento

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LA PEDIATRIA DI cOmUNITÀ

Elisa De MicheliCOORDINATORE AZIENDALE PEDIATRIA DI

COMUNITà – AZIENDA U.S.L. DI PIACENZA

Anna MilaniDIRIGENTE MEDICO 1°LIVELLO PEDIATRIA DI

COMUNITà – AZIENDA U.S.L. DI PIACENZA

LA PEDIATRIA DI COMUNITà NASCE STORICAMENTE DALLE

competenze assegnatale dalla legge di istituzione della medi-cina scolastica (D.P.R 1518 del 1967) e dal superamento deiconsultori pediatrici ex O.M.N.I.

Alla medicina scolastica era affidato il compito di:

a) tutelare la salute e l’igiene all’interno delle scuole, b) controllare lo sviluppo psicofisico dei bambini, c) effettuare rilievi epidemiologici, d) profilassi e sorveglianza delle malattie infettive, e) educazione sanitaria, f) collaborare coi dirigenti scolastici, con gli inse-

gnanti e con le famiglie per ottimizzare il percor-so scolastico degli alunni,

g) sorveglianza sulle mense scolastiche.

I consultori ex O.M.N.I. affidavano al servizio l’attività cli-nica oggi effettuata dalla pediatria di libera scelta.

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A tutt’oggi questa collaborazione, pur nella sua concreta efficacia, rimaneinformale e legata ai buoni rapporti maturati nel corso degli anni, ma certamen-te non sufficiente per affrontare in modo organico e uniforme le problematichepiù complesse che oggi emergono.

cHE FARE O mEGLIO cOSA PROPORRE:

1. Istituire un contesto organizzativo nell’ambito della Azienda U.S.L.che tenga in considerazione la specificità dell’area dell’assistenzaall’infanzia e all’adolescenza e che metta in collegamento struttura-le o funzionale le varie figure professionali che ruotano intorno albambino e alla sua famiglia, con livelli di responsabilità ben indivi-duati e formalizzati.

2. Mettere in rete, sempre in modo formale ed ufficiale, le risorse nonsanitarie della comunità di riferimento: scuola, enti locali, associa-zioni di genitori, in particolar modo quelle che si occupano di spe-cifiche patologie croniche (es. associazione bambini Down), asso-ciazioni ludico-sportive ed educative oltre al volontariato.

3. Formalizzazione ed istituzione di momenti di confronto e super-visione.

4. Nell’ambito della patologia cronica, sia essa fisica che psichica, isti-tuire una sorta di nucleo di valutazione pediatrica che formalizzi unpiano di intervento strutturato e monitorato a sostegno del minoreoltre che della famiglia di appartenenza e della comunità infantileche lo accoglie.

5. Formalizzare e istituire momenti di confronto con gli enti locali, lascuola e le associazioni ludico-sportive per incrementare abitudinisalutari con particolare riferimento alla promozione dell’attivitàmotoria.

La pediatria di comunità si propone, in virtù delle funzioni ad essa assegna-te, come coordinatore e facilitatore dell’organizzazione di queste attività, al ser-vizio del medico curante che rimane il referente per eccellenza della famiglia edel bambino oltre che il responsabile del caso.

Oggi la pediatria di comunità in base alle nuove esigenze emerse nel corsodei tempi ha riorganizzato queste sue attività in 2 macroaree:

1. Area di sanità pubblica nel cui ambito rientrano l’attività vaccinale ela profilassi delle malattie infettive in età pediatrica, la promozionedella salute come stili di vita e la rilevazione epidemiologica delleproblematiche socio sanitarie emergenti.

2. Attività pediatrica di cure primarie, in integrazione con i pediatri dilibera scelta nel cui ambito rientrano:

> gli interventi a sostegno dei minori con patologie croniche o disa-gio socio-sanitario e delle loro famiglie, in collaborazione con glialtri servizi del territorio, con i reparti ospedalieri aziendali edextra aziendali, con le scuole e i servizi sociali dei comuni,

> le attività svolte a favore della popolazione migrante ed extracomu-nitaria tramite l’istituzione di un consultorio dedicato per queiminori stranieri che non possono essere assegnati ad un pediatradi libera scelta e un’attività di accompagnamento e facilitazioneall’utilizzo dei servizi sanitari per i minori regolari.

In virtù delle competenze affidate a questo settore, si ha modo di incontrareed osservare tutta la popolazione pediatrica presente sul territorio e di rilevarnele problematiche sociosanitarie emergenti.

Per quanto ci è dato registrare, attraverso indicatori oggettivi, oggi le proble-matiche sociosanitarie sono cambiate rispetto a qualche decennio fa.

A fronte di una significativa riduzione delle malattie infettive, grazie almiglioramento delle condizioni socioeconomiche e ai progressi della medicina,oggi si assiste ad un aumento delle patologie croniche che costituiscono, di persé, un problema non solo clinico – gestionale in ambito familiare e scolastico,ma spesso presentano riverberi a livello psicologico e comportamentale.

A fronte di un decremento della patologia infettiva, si registra un incremen-to di disturbi comportamentali e relazionali che vanno dai disturbi alimentari(comprensivi dell’obesità) ai fenomeni di bullismo.

Queste problematiche emergenti necessitano di interventi multiprofessiona-li che devono coinvolgere il pediatra di libera scelta, la comunità scolastica oinfantile che accoglie il bambino, naturalmente la famiglia e talora altre figureprofessionali. La pediatria di comunità si pone talora come promotore di questiinterventi, direttamente o in collaborazione con le istituzioni scolastiche e con ilmedico curante, che non sempre è il pediatra in quanto, nelle zone pedemonta-ne per carenza numerica di tale specialista, la famiglia ricorre spesso al medicodi medicina generale.

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LA RETE DEI SERvIZI PERL’ADOLEScENZA: LA ScOmmESSA

Operatori del Distretto di PonentePaola Bernard, psicologa, figura di sistema del Distretto diPonente, Cooperativa Ethos; Patrizia Cuminetti, assistentesanitaria AUSL Val Tidone; M. Chiara Dellaglio psicologaCooperativa Ethos; M. Grazia Molinelli, assistente sociale,responsabile Servizio Sociale AUSL Val Tidone, coordinatri-ce area minori Piano di Zona; Rita Parenti, responsabile Ass.Mondo Aperto; Brunetta Schiaffonati, coordinatrice progettiVal Tidone Ass. Mondo Aperto; Dina Speroni, psicologa SertVal Tidone; Giusi Ziliani, coordinatrice Centri educativiAUSL Val Tidone.

LA PREPARAZIONE E LA COSTRUZIONE CONDIVISA DEL

contributo per questo Dossier provinciale sull’infanzia e l’ado-lescenza da parte degli operatori del Distretto della Val Tidoneha rappresentato un momento di sosta durante il percorsospesso frenetico delle attività quotidiane dei servizi territoriali.

Ritrovarsi e fermarsi per fare il punto della situazione èstata un’occasione preziosa per poter mettere in luce punti diforza e criticità del percorso effettuato e da effettuare.

Il filo rosso che ha contraddistinto e attraversato le variefasi del percorso è stato il mettere in evidenza la scommessache il territorio ha svolto sia a livello politico che a livello tec-nico e operativo: vivere il Distretto come una comunità capa-ce di progettare al di là delle specificità dei singoli Comuni ecreare dei luoghi pensanti dove gli attori di questa comunitàpotessero crescere e confrontarsi.

Alla luce di un primo confronto allargato a tutti gli opera-tori che si occupano di adolescenti è emersa la necessità dicreare un momento di riflessione che raccogliesse i diversicontributi dei gruppi di lavoro che sono nati per l’approfon-dimento di alcune tematiche rilevanti per il territorio.

Ancora una volta si è sentita l’esigenza di costruire un con-

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Se si pensa al percorso svolto dal territorio della Val Tidone e Val Lurettacome ad un viaggio si possono mettere in luce alcune caratteristiche particolaridi questa strada condivisa da tanti operatori negli ultimi anni.

La prima caratteristica, che sembrerà banale ma non lo è affatto, è l’aver messoal centro dell’agire sia operativo che politico l’adolescente con le sue esigenze especificità. La legge 285/97- più nota come legge Turco- ha dato la grandeopportunità alle diverse comunità locali di mettere al centro del proprio agire lapromozione del benessere dei minori nelle più diverse forme e modalità.

Grazie a questa legge dunque anche questo territorio ha potuto incarnare eprima di tutto mettersi in ascolto, per poi dare forma e continuità a esperienzee sensibilità che erano probabilmente già presenti negli operatori e nelle istitu-zioni del territorio

L’altra caratteristica che contraddistingue questo percorso è la metodologiadi intervento: la rete degli operatori e dei servizi che prevede l’interconnessionedi diverse realtà che agiscono e si muovono in un’ottica complessiva, di sistemanel raggiungimento di obiettivi comuni

Questo è il filo rosso, è la costante che attraversa un po’ tutte le progettazio-ni degli ultimi dieci anni e più che si rivolgono ad adolescenti alle prese con l’in-certezza tipica della loro fase specifica e con una società in continuo cambia-mento.

Ma quali sono stati i protagonisti di questo viaggio?Come ricordato anche precedentemente la spinta propulsiva viene dalle isti-

tuzioni politiche nelle loro diverse forme; sono stati i 14 comuni consociati dellaval Tidone e val Luretta intorno ai quali si sono mosse e interconnesse le diver-se realtà del territorio.

LE TAPPE PRINcIPALI DI qUESTO vIAGGIO

Il primo intervento svolto all’interno della progettazione della legge 285/97che ha dato poi avvio a tutto il percorso è stato la realizzazione di una ricercaterritoriale “ Progetto di studio e analisi delle risorse e rilevazione dei biso-gni territoriali per servizi rivolti a minori e alle loro famiglie”.

La ricerca ha risposto quindi all’esigenza di partire da un’analisi dei bisognidel territorio e da una condivisione e coinvolgimento di tutti gli attori significa-tivi che si occupano di minori e famiglie (politici, insegnanti, allenatori sportivi,educatori…). L’attuazione della ricerca, svolta in collaborazione con il Centro diricerca Il Minotauro sotto la direzione scientifica del Prof. Charmet, ha previstodue fasi correlate: la mappatura delle attività, dei servizi esistenti realizzata attra-

tenitore che raccogliesse pensieri, esperienze e che desse la possibilità di farconoscere anche ad altri progetti realizzati e metodologie condivise.

Si è lavorato insieme per realizzare una giornata seminariale svolta nel mag-gio 2008, promossa dalla Provincia di Piacenza, aperta a tutti gli operatori e cit-tadini interessati con l’obiettivo di dare spazio ai contributi dei gruppi di lavorocreatisi per l’occasione e di aggiungere riflessioni in merito al tema “adolescen-za mediazioni emozioni: parole da mettere in rete”.

Oltre a riportare parte dei contributi dei gruppi che hanno lavorato in prepa-razione alla giornata seminariale si vogliono sottolineare alcune considerazioniemerse che hanno contribuito in modo significativo alla riflessione sul tema eche costituiscono punto di partenza per le nuove progettazioni.

La prima considerazione è relativa al ruolo della comunità definita educantenegli interventi rivolti agli adolescenti; dall’intervento del prof. Mori al semina-rio di maggio emerge la sottolineatura alla responsabilità collettiva di una terri-torio che diventa una comunità dove l’etica è un’istituzione sociale.

La dimensione della comunità diventa tale e si rende tangibile anche attraver-so le scelte strategiche e politiche che via via hanno contraddistinto questo ter-ritorio: pensare e progettare interventi che prevedano una dimensione trasver-sale di coordinamento e monitoraggio per la realizzazione di attività rivolte aminori e famiglie non riferendosi al proprio territorio comunale ma alla dimen-sione distrettuale.

La seconda considerazione significativa che si può trarre dall’intervento delDott. Limonta è la sottolineatura sulla divisione dei compiti e funzioni da partedei diversi operatori del territorio in una dimensione di riconoscimento e cono-scenza reciproca; i genitori, gli insegnanti, gli educatori, gli assistenti sociali, glioperatori dei servizi sociali e della neuropsichiatria infantile hanno specificitàrispetto agli interventi e alle relazioni con gli adolescenti. La rete di conoscenzae di scambio continuo far i diversi ruoli costituisce quella base solida che servesia alla qualità del lavoro dei singoli che alla crescita dei ragazzi stessi che si tro-vano alla ricerca di punti di riferimento solidi, coerenti e ben coordinati fra loro.

Il parallelismo fra il mondo dell’adolescenza alle ricerca di un’identità sogget-tiva e di un contenimento e il mondo degli operatori alla ricerca di un reciprocoriconoscimento e di una rete istituzionale di sostegno risulta un’importante pas-saggio nella costruzione del percorso di riflessione di questo territorio.

In seguito si fa riferimento ai contributi portati dai tre gruppi di lavoro chehanno costituito la specificità delle esperienze e delle metodologie usate in que-sti ultimi anni nella progettazione condivisa di interventi per minori e famiglie.

Il primo contributo è inerente al gruppo di lavoro di diversi operatori delterritorio su “Il lavoro di rete fra gli operatori: lo sforzo di programmazionecomune e di messa in rete degli interventi quale buone prassi”.

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Il processo di transizione dalla L. 285 ai Piani di zona:L’esigenza di dare continuità al lavoro avviato con la 285 e di provare a met-

tere in atto metodologie condivise si è manifestata concretamente nella costitu-zione di un Gruppo di lavoro permanente collocato nel “Progetto di sviluppodel lavoro di rete territoriale e degli interventi educativi di sostegno allecompetenze personali” inserito nel Piano di Zona (triennalità 2002-2004).

L’idea di fondo è stata quella di poter sperimentare un metodo di lavoro chenasce dalla condivisione di esperienze fra Servizio Pubblico e Privato Socialeche favorisca l’elaborazione di progettazioni educative comuni per il territorio,al fine di sviluppare un reale lavoro di rete e fornire interventi educativi di soste-gno mirati ed efficaci agli adolescenti e agli adulti di riferimento.

Il Gruppo composto da operatori del Servizio Pubblico (Sert, Servizi socia-li, Pediatria di comunità), della Scuola e del Privato sociale ha progettato insie-me una serie di interventi rivolti ad alcune scuola del territorio volti a favorire ilconfronto e la comunicazione fra operatori, insegnati e genitori nell’ottica dellacostruzione di una nuova collaborazione e alleanza educativa.

Questi elementi mettono in evidenza come il percorso abbia visto stretta-mente interconnessi i diversi progetti in essere dimostrando un’efficacia com-plessiva degli interventi in un’ottica di graduale costruzione di una rete che èrisultata essere non astratta ma realmente a contatto con la realtà dei ragazzi edelle famiglie.

Il percorso prosegue con le esperienze realizzate negli ultimi anni – dal 2005-06 ad oggi – con particolare riferimento alle azioni connesse all’introduzione inVal Tidone della figura di sistema, funzione promossa dalla Regione ed istituitaa livello distrettuale, in stretto raccordo con l’Ufficio di Piano, per favorire lamessa in rete degli interventi e delle politiche rivolte ad infanzia ed adolescenza.

Introdurre la figura di sistema sul territorio ha significato, in Val Tidone, svi-luppare e, per l’appunto, mettere a sistema – dando, quindi, “un paio di gambein più per il cammino dell’équipe pensante” – quelle pratiche di lavoro già pre-senti sul territorio ma, dopo il termine dei lavori della L. 285, di fatto, rimasteattive poiché basate perlopiù sull’informalità della conoscenza reciproca e diret-ta fra gli operatori che non su un reale progetto condiviso e strutturato.Individuare una figura di riferimento per la funzione di sistema, infatti, ha datomaggiore strutturazione e, in parte, legittimazione formale proprio a queitempi/spazi di pensiero e di confronto fra le équipe degli operatori (i luo-ghi pensanti).

Accanto a questo aspetto, inoltre, l’individuazione della figura di sistema haconsentito di allargare la riflessione e la rete a nuovi soggetti prima mag-giormente “ai margini” perché non del tutto – o non definitivamente – parte delsistema istituzionale dei servizi. Così, le azioni di coordinamento, monitoraggio,

verso la compilazione di una scheda da parte dei diversi contesti istituzionali euna serie di interviste individuali e di gruppo a 150 adulti rappresentanti dellediverse culture e dei diversi ruoli professionali. La ricerca si è conclusa nell’ot-tobre del 2000 e ha permesso di avviare una serie di riflessioni in merito alla pro-gettazione sociale locale.

Fra gli esiti più rilevanti c’è la forte esigenza di mettere in rete le diverse agen-zie che, seppur presenti sul territorio, non sono sufficientemente integrate: biso-gna favorire la comunicazione e il sostegno al ruolo dei diversi attori coinvolti(genitori, insegnanti, amministratori…)

In particolare, a partire da queste considerazioni, si è dato avvio a diverseesperienze molto significative per il territorio, tra cui:

> la costituzione di un’équipe tecnica multidisciplinare ideata come“gruppo pensante” che promuova e favorisca la comunicazione e lacondivisione delle progettualità del territorio che si riferiscono alprocesso di crescita e socializzazione dei minori del territorio;

> successivamente l’istituzione di un Servizio PermanenteTerritoriale come tavolo di supervisione e formazione condottodal Prof. Charmet aperto a tutti gli operatori, genitori referenti eamministratori coinvolti in progetti sui minori e le loro famiglie: sisviluppa la necessità di riunire tutti gli attori significativi per costrui-re insieme e condividere metodologie e riflessioni relative al lavoroe alle problematiche dei minori e degli adolescenti del territorio.Durante questi incontri si sono affrontati diversi temi nell’ottica del-l’approfondimento teorico e metodologico sempre collegato a qual-che realtà specifica locale che veniva via via presentata dai diversipartecipanti al gruppo. Il lavoro del Servizio PermanenteTerritoriale è stato di supporto alla progettazione di interventi spe-cifici nel periodo di passaggio a livello normativo dalla L. 285 aiPiani di Zona a cui si farà riferimento in seguito.

> la progettazione locale per rispondere a esigenze specifiche rileva-te dalla ricerca e dal successivo lavoro di rete effettuato. Si sono rea-lizzate attività territoriali per il sostegno alla genitorialità (formazio-ne e tutoraggio di gruppi di genitori nelle realtà che ne hanno fattorichiesta) e alla realizzazione dei compiti evolutivi dei soggetti in etàpreadolescenziale e adolescenziale (progetti mirati al sostegno delruolo di studente, insegnante e genitore effettuati negli istituti com-prensivi e nel Polo Superiore del territorio).

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pensanti hanno permesso così un’analisi costante e graduale del bisogno che hapermesso una progettazione in itinere e un metodo di lavoro aperto e stretta-mente in connessione con la realtà.

E per concludere collegandosi al concetto già espresso in premessa di comu-nità educante si percepisce un filo che tiene insieme le esperienze dell’équipepensante alla comunità educante: questi luoghi di pensiero dove gli operatorisperimentano e vivono direttamente l’essere rete diventano contemporanea-mente specchio di una comunità più ampia che si interroga sui problemi dellacrescita dei propri ragazzi e anche stimolo continuo a porre attenzione e respon-sabilità da parte di tutti gli attori coinvolti

Il secondo contributo è relativo al lavoro di approfondimento svolto dalgruppo di lavoro sul tema “Accoglienza e supporto all’integrazione scolastica esociale dei minori e delle famiglie straniere”.

Noi siamo qui per affermare solennemente il nostro diritto e la nostra volontà di condivi-dere con gli altri la responsabilità della cultura universale, e l’universale, per sua natura nonpuò che essere la sintesi della nostra qualità nella nostra diversità. (Alioune Diop, poetasenegalese)

A casa, le parole scivolano spontanee dalla mia bocca. A scuola sto zitta, ho paura che laparola italiana sbocci dalla mia bocca come una rosa. Ho paura dello sfilare delle maestre convestiti e fiori e facce anglosassoni. Senza parole, mi dicono “Vergognati!” ed io mi vergogno,rinnego quel paese a forma di stivale persino dentro di me. Voglio rimanere fissa e intoccabilecome queste donne che mi insegnano a rinnegare me stessa. Anni dopo, in una casa bianca aKansas City, il professore di Psicologia mi dice che gli ricordo quel boss mafioso sulla coperti-na del Time; sputo rabbia velenosa, sono orgogliosa di mia madre tutta vestita di nero, sonoorgogliosa di mio padre e del suo inglese stentato, orgogliosa delle risate e del frastuono dellanostra casa. Vi ricordate di me signora maestra…? Quella che stava zitta. Ho ritrovato lamia voce. (Maria Mazziotti Gillan)

Abbiamo sentito dire da alcuni insegnanti, rispetto agli alunni immigrati neoarrivati:

> È arrivato un bambino nuovo, non sa niente.> Se ci fosse almeno un fratello in casa che parla italiano con lui...> Il problema numero uno secondo me è quello della lingua che è poi abbinato

all’inserimento sociale.> Questi bambini hanno questa grossa difficoltà: di avere da un lato il fattore

positivo di potere imparare due lingue e dall’altro di non impararne bene nes-suna delle due, perchè hanno questa mescolanza di arabo e italiano che, in effet-ti, è una carenza....

formazione, sensibilizzazione realizzate in questi anni hanno portato a coinvol-gere un numero sempre più ampio di interlocutori, dal mondo della scuola (nonsolo i docenti, ma anche, per esempio, gli psicologi scolastici), a quello delvolontariato (es. rispetto al tema dell’aggregazione giovanile e dell’educazione).

Dopo aver descritto il percorso svolto si vogliono sottolineare alcune rifles-sioni e considerazioni sul significato che questa esperienza ha nella prassi edu-cativa e politica del territorio.

Una considerazione importante è relativa all’esperienza dei diversi gruppi dicoordinamento previsti da questo percorso che ha avuto un ruolo fondamenta-le nel far crescere una metodologia di lavoro peculiare dove non ha prevalso alogica della “delega all’esperto” ma dove si sono valorizzati i vari ruoli e il con-fronto tra le letture e i punti di vista diversi. Ne è derivata una positiva integra-zione e mediazione inter- istituzionale fra operatori di diversa professione. Lariflessione teorica promossa dal Prof. Charmet vedeva il bambino e ancor piùl’adolescente all’interno di una complessa rete di relazioni affettive e istituziona-li, di un “eco- sistema” (famiglia e dintorni) con funzione di sostegno nella rea-lizzazione del percorso di crescita e di aiuto nel superamento delle problemati-che evolutive.

Proprio all’interno di questa molteplicità di relazioni il ragazzo rappresenta eagisce via via le diverse parti del Sé speso scisse, frammentate e contrastanti. Sequeste parti non vengono riconosciute e integrate, se il carico emotivo del ragaz-zo e degli adulti coinvolti nel suo processo di crescita, non trova un giusto con-tenimento si assisterà ad un moltiplicarsi di azioni e interventi spesso settorialio a carattere di urgenza.

Lavorare in rete, unire le forze serve quindi a dare quel contenimento,quelle base sicura che l’adolescente spesso in modo difficile da comprendererichiede…

Dalla mancanza di alleanza fra adulti alla costruzione di patti educativi con-divisi come risposta alla frammentazione interna ed esterna del mondo chel’adolescente vive

Queste riflessioni teoriche e il lavoro di supervisione svolto durante il per-corso hanno portato alla creazione di uno spazio di elaborazione di gruppo, unluogo dove “pensare” all’adolescente, riconoscere e accogliere i suoi bisogni eriuscire a vederlo come una persona intera e non come un insieme di compor-tamenti spesso non comprensibili. Un luogo dove anche gli operatori ed educa-tori sono diventati più consapevoli dei loro vissuti, delle ansie legate al ruolo edella loro relazione con i ragazzi.

In senso complessivo è stata data una risposta efficace all’esigenza di comu-nicazione fra i diversi ruoli professionali, al senso di solitudine degli operatori.

I diversi gruppi tecnici di coordinamento ideati e vissuti come contenitori

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Lavorare con preadolescenti e adolescenti immigrati ha significato fare iconti con la loro personalità alla ricerca di un’identità connotata da:

> un forte desiderio di essere diversi dai propri genitori> una forte spinta a integrarsi nel territorio> il dubbio, l’atteggiamento di ricerca, un sentimento di vergogna di

fronte alle proprie radici culturali> il bisogno di imparare la lingua per lo studio, oltre che per la comu-

nicazione

Ha comportato anche:> tenere conto dell’estrema fragilità che li caratterizza (instabilità, insi-

curezza, scarsa capacità di concentrarsi, …);> dialogare costantemente con il Progetto di integrazione elaborato

dai Servizi competenti;> fare i conti con la struttura/la persona che li accoglie: regole, orari,

educatori, responsabili…;> mettere in primo piano i bisogni relazionali, affettivi, di integrazio-

ne, ma non sottovalutare lo sbocco formativo/lavorativo:> essere disponibili ad adattare continuamente orari, contenuti, per-

corsi.

Si tratta di ragazzi QPR, cioè una generazione Qui Per Restare, al contrariodei loro genitori, che sono qui per tornare. Ma poi raramente si torna, e il pen-siero del ritorno dà luogo ad una condizione esistenziale continuamente sospe-sa nel tempo; nel frattempo il Paese d’origine è molto cambiato e il tempo pas-sato qui li ha cambiati.

Quando invece si trattava di adolescenti non accompagnati, abbiamodovuto rapportarci con una loro fragilissima identità, perché questi giovaniche “sentono raccontare” da parenti tornati nei Paesi d’origine le opportu-nità, la ricchezza, lo sviluppo dell’Italia, ragazzi e ragazze che seguonoparenti per fare brevi esperienze all’estero, ma che poi non riescono più atornare nei loro Paesi, adolescenti che sentono fortemente che manca loroqualcosa, e questo qualcosa che è presente nell’esperienza dei loro genitori(colonizzazione, sradicamento, …), tutto questo li porta a rischiare la vitapartendo verso l’ignoto.

Abbiamo lavorato tenendo ben presente i cardini della normativa, ed in par-ticolare di quanto dettato dalla L. 189/2002, che decreta l’inespellibilità delminore straniero e inoltre garantisce al minore il diritto allo studio, all’assisten-za sanitaria, alle opportunità formative, con l’inserimento nella classe corrispon-dente all’età anagrafica, accertata o presunta, salvo situazioni diverse documen-

> Vorrei imparare come aiutare concretamente questi bimbi a favorire lo svilup-po linguistico da entrambe le parti. Per loro è una grossa opportunità conoscer-ne due [lingue], però conoscerle bene.

> Nel giro di un anno Ahmed parla meglio di tanti altri italiani.> I bambini nordafricani sono vivaci e offendono.> I bambini albanesi si assentano spesso e sono insofferenti alle proposte.> I bambini sudamericani sono pigri, disordinati e lenti ad apprendere.> Le bambine tunisine vogliono stare solo con le femmine.> Gli egiziani non fanno musica e danza per motivi religiosi.> Non riesco a capire perchè Fatima stia sempre in disparte, è silenziosa e non

gioca con i compagni. Ho chiesto se racconta fiabe della sua cultura, ma lei diceche non le sa.

> Mi son chiesta se da lei non ci son fiabe, oppure se insegnano a non raccontar-le, oppure è poco orgogliosa della propria cultura.

> Abbiamo informato la famiglia di Shiti della necessità di partecipare alle riu-nioni e vorremmo capire perchè non vengono, gli recapitiamo sempre gli avvisidue volte. Probabilmente al loro Paese la scuola non è così importante.

> Quando diciamo qualcosa ai genitori di un bambino straniero, loro dicono sem-pre di sì, ma poi ci accorgiamo che continuano a fare come prima. Se non capi-scono quello che abbiamo detto, perchè non ce lo dicono?

è chiaro che queste affermazioni sono stereotipi, frasi fatte (ma le abbiamoraccolte veramente nei corridoi, nei consigli di classe, negli incontri tra docentie famiglie), espressioni che manifestano un disagio da parte di chi dovrebbeavere almeno gli strumenti per insegnare. La nostra scuola, nonostante l’immi-grazione di nuovi alunni non sia più un’emergenza ma sia da considerare unevento strutturale, vive ancora nell’emergenza e nella provvisorietà, nella scarsainformazione e nell’improvvisazione pedagogica.

Come Associazione “Mondo Aperto” siamo partiti dieci anni fa, sull’onda diquesti e di tanti altri stereotipi, convinti che la scuola dovesse essere per sua mis-sion luogo di accoglienza, confronto, scambio, arricchimento reciproci, per unapprendimento significativo non solo della lingua ma anche dei principi didemocrazia e cittadinanza, forti dei tanti corsi di formazione seguiti, in partico-lare a Milano al Centro “Come” e in Emilia-Romagna.

Abbiamo dato credito a un lavoro di rete: punti di riferimento chiave sonostati e sono tuttora:

> il Comune di Castelsangiovanni e i Comuni del Distretto con irispettivi servizi sul territorio;

> la scuola/i singoli istituti con le loro figure di sistema;> le agenzie del terzo settore (in particolare le Associazioni di cittadi-

ni stranieri che si occupavano di Mediazione Linguistico-Culturale).

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Il terzo contributo esprime la riflessione del gruppo di lavoro sul tema “Larete degli interventi di supporto all’adolescenza: spazi di ascolto, educativa distrada, spazi di aggregazione e centri educativi”

Il percorso avviato da oltre 25 anni dai Comuni delle Valli Tidone e Lurettaha visto la nascita e il successivo sviluppo dei Centri Educativi finalizzati allacura ed al sostegno educativo dei minori con problematiche famigliari e a rischiodi devianza.

Dalla prima struttura iniziale si è passati alle attuali 4 più 2 per adolescenti, acui va aggiunto il Progetto di Educativa di Transito attivato dal 2006 sempre afavore di adolescenti che non sono più disposti a seguire le attività specifichedelle strutture ma che occorre sostenere sul territorio tramite interventi miratisul singolo – di ricerca del lavoro, di studio, di divertimento…- consapevoli deirischi di un’alta percentuale di devianza a cui possono andare incontro.

A questi interventi “storici” dei Comuni gestiti dal Servizio Sociale se nesono innestati gradualmente negli anni altri territoriali all’interno di singole real-tà municipali come i Centri di aggregazione e l’Educativa di Strada e per ultimogli Spazi di ascolto all’interno degli istituti scolastici.

Il target che oggi focalizziamo è quello della fascia adolescenziale - 13/14anni – 18 anni – la più difficile, la più spinosa, la più affascinante perché densadi sfide.

Il filo conduttore di tutti questi interventi territoriali, diversi tra loro in quan-to a modalità organizzative, spazi, obiettivi e finalità, è rintracciabile nell’Ascolto.

L’ascolto dei ragazzi del nostro territorio da parte di persone che ci sono,sono lì per loro, per esortarli, riprenderli, guidarli, condividere arrabbiature esilenzi, negligenze e traguardi raggiunti…”…io sono qui, ti ascolto, parlami, cer-chiamo insieme la strada giusta per affrontare questa difficoltà, questo proble-ma…”.

Ecco noi pensiamo che sia questo il nucleo degli interventi che si stanno atti-vando: l’ascolto consapevole dei nostri ragazzi, di quelli più difficili, più com-plessi, di quelli che non hanno altri punti di riferimento perché la loro età, unitasovente alla loro difficile condizione di vita, spesso li vede fuori dalle attivitàsportive, culturali, parrocchiali o sociali.

L’ascolto come tutte le attività agite con i ragazzi, nasce dai bisogni che essiesprimono o non-esprimono ma lasciano intuire: abbiamo provato ad elencarequesti bisogni perché è da qui che prende le mosse il nostro agire di operatori:

> Di conoscersi, di aprirsi a qualcun altro in particolar modo ad unafigura adulta diversa dal genitore o dall’insegnante, che sopratutto

tate, anche in caso di irregolarità del genitore, situazione quest’ultima che nondeve in nessun modo penalizzare la possibilità per il minore di espletare i suoidiritti fondamentali.

In questo difficile cammino siamo stati aiutati dai più recenti studi di e tnop-s i chiatr ia, dove si afferma che identità, nostalgia, difficoltà di comunicare sonotre nodi da sciogliere per intervenire efficacemente in un percorso di integrazio-ne che possa dirsi “riuscito”.

Per tutti questi motivi abbiamo organizzato gruppi di L2 (lingua italianacome lingua seconda, cioè la lingua che si parla nel luogo che si è scelto per vive-re) paralleli e in orario scolastico, per favorire la partecipazione dei nuovi alun-ni, gruppi che fossero contenitori rispetto alla nostalgia, all’ansia e all’urgenzadel cambiamento, gruppi di apprendimento guidato della lingua italiana e insie-me di integrazione “protetta” nel gruppo classe.

Per i docenti abbiamo predisposto: incontri mensili per un confronto condi-viso, seminari con la presenza di esperti, per la formazione in servizio, prestitodi materiali, libri, documenti ed infine abbiamo messo a disposizione momentidi consulenza per la progettazione di percorsi personalizzati.

Tradotto in numeri, il progetto ha significato: l’intervento diretto per oltre1.000 studenti nel territorio della Val Tidone (dall’a.s. 2001/02 al corrente anno),per i quali sono state erogate n. 12.800 ore circa di insegnamento, mentre sonostati organizzati n. 10 seminari di approfondimento e di formazione di base perdocenti.

Guardando al futuro, possiamo affermare che occorre sempre più lavorare inrete: la scuola, la parrocchia non possono fare da sole; mediatori culturali, edu-catori, psicologi permettono di affrontare le problematiche da più punti di vista.Anche perché per questi alunni come per tutti gli studenti occorre pensare a unprogetto globale che tenga conto delle loro aspettative, del territorio e delleopportunità, dell’urgenza per loro di interagire con la realtà da protagonisti.

Per i prossimi 10 anni infatti si prevede un trend di crescita almeno pari aquello cui abbiamo assistito in quest’ultimo decennio (il numero assoluto dialunni non italiani è quintuplicato), quindi è avvertita dagli esperti l’urgenza diuna preparazione adeguata di tutti i docenti, che sappiano lavorare in gruppo eutilizzare metodologie e tecniche adeguate, accanto alla presenza indispensabiledel mediatore linguistico-culturale, uomo/donna ponte fra culture e facilitatoredella comunicazione.

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I nostri ragazzi possono anche condividere esperienze di buon valore, ma sequeste esperienze rimangono isolate al solo contesto del centro educativo oaggregativo potranno incidere ben poco nel loro processo di crescita.

In altri termini, questi tipi di esperienze dimostrano le loro potenzialità solose si innestano all’interno di processi di complementarietà che vedono protago-nisti le famiglie, le scuole, le associazioni sportive…

Se poi i ragazzi che frequentano i centri educativi, aggregativi, gli spazid’ascolto sono quelli che vivono situazioni di elevata vulnerabilità – sono iragazzi a rischio di devianza - siamo tutti consapevoli che il progetto che li vedecoinvolti e protagonisti si declina con difficoltà più grandi ed è proprio dal met-tersi insieme degli adulti, di tutti gli adulti ognuno con la propria specificità – gliinsegnanti, i catechisti, gli educatori, gli psicologi, gli allenatori, le assistentisociali, le forze dell’ordine – che il cammino per “tirarli grandi” con consapevo-lezza diventa meno arduo per tutti e più proficuo per i ragazzi stessi.

Ogni adolescente ha una sua storia che va riconosciuta e valorizzate nella suaoriginalità, nella sua specificità; ogni progetto che abbiamo in testa per “quelragazzo” è il frutto di un particolare incontro, in un determinato momento sto-rico, in un certo ambiente, di quell’adulto e di quel ragazzo.

Oggi abbiamo fatto una “sosta” dopo una parte del lungo viaggio che stia-mo facendo, ed in quest’area di sosta ci riconosciamo compagni di viaggio chequotidianamente condividono pezzi di strada con i ragazzi: non sempre il per-corso è stato agevole, ognuno di noi ha avuto ed ha tutt’ora la sua “verità” emetterle insieme tutte a volte è difficile ma il tentativo l’abbiamo iniziato insie-me anni fa, scuole, servizi, famiglie, parrocchie, allenatori, e non da ultimi leforze dell’ordine.

Rischiamo di essere retorici ad affermare che il cammino fatto fin qui è statobuono, ma la strada è ancora lunga da percorrere: ed è agli amministratori chevanno le nostre ultime riflessioni, a coloro che devono “far quadrare i conti” eche sono stati gli artefici di questo lavoro di rete territoriale e a cui è demanda-to il compito di proseguire per la strada iniziata, di continuare ad essere arteficidi questo cammino con la consapevolezza che se ognuno sarà disposto a prose-guire il lavoro insieme agli altri, per i nostri ragazzi sarà meno difficile diventareadulti.

abbia tempo per loro;> Senso di solitudine e voglia di star con gli altri> Voglia di accettare sfide e dimostrare il proprio valore e le proprie

possibilità, essere presi in considerazione “seriamente”;> Voglia di rendersi utile e di poterlo dimostrare concretamente tra-

mite opportunità cercate-fornite dagli adulti di riferimento;> Necessità di emulazione, di avere esempi da seguire, guide e riferi-

menti personali;> Desiderio di comunicare il proprio valore, le proprie opinioni, pen-

sieri, emozioni, le proprie competenze e le proprie capacità;> Desiderio di fidarsi e di affidarsi a qualcuno;> Necessità di sentirsi parte di un gruppo;> Senso di responsabilità che può essere appreso/insegnato/trasmes-

so tramite i piccoli gesti della quotidianità.> Desiderio di sentirsi uguali ai coetanei per i ragazzi-migranti che

provengono da altri paesi> Necessità di integrarsi all’interno della nostra cultura

Ma i bisogni dei nostri ragazzi si collocano all’interno dell’intero processoadolescenziale con il dipanarsi dei tre compiti legati alla crescita personale e dellecompetenze che entrano in gioco proprio in questo periodo della vita: il lororapporto conflittuale con gli adulti in genere ed i famigliari in particolare cheprovoca ansia e disagio, il rapporto con il loro corpo che sta cambiando e lacostruzione di nuovi legami affettivi e sociali (di amicizia, di gruppo, di coppia).

Ed è sovente dalle paure che vivono e che vogliono trasmettere a qualcunoche li ascolti che spesso i nostri ragazzi tentano di evadere prendendo delle scor-ciatoie – per negare la paura di crescere, spesso la vergogna del proprio corpoche cambia, la rabbia, la speranza.

Lasciamo agli esperti il compito di approfondire i motivi, le procedure e glistrumenti che gli Adolescenti utilizzano per crescere; a noi il compito “esaltan-te” e “sfibrante” di ascoltarli, di riprenderli, di agire con loro, di programmareinsieme pezzi di strada, di essere mediatori con la famiglia, a volte “complici”ma sempre presenti a loro con consapevolezza.

Tutto ciò è sufficiente per rendere validi questi percorsi educativi che giornodopo giorno tentiamo di condividere con loro?

Risposta difficile: non possiamo misurare l’efficacia di queste azioni con lostesso criterio con cui si giudica un torneo di calcio.

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realtà nella continua riprogettazione e messa in discussione delle parti coinvolte.Forte e trasversale nei diversi territori è inoltre l’esigenza espressa dagli

operatori scolastici, sociali, educativi, sanitari di spazi legittimati e ricono-sciuti per il lavoro di rete da parte dei livelli istituzionali; difficile è comunica-re l’essenzialità e la centralità dei luoghi pensanti nel lavoro socio-educativo dovei risultati sono visibili soltanto sul lungo termine; difficile, in concreto, è ottene-re nei progetti – spesso limitati dalla scarsità delle risorse – un monte ore ade-guato dedicato alla supervisione, alla formazione, al lavoro di équipe, ecc.

E così la conoscenza diretta fra gli operatori, la confidenza e la stima reci-procamente costruite negli anni e nelle esperienze della Val Tidone continua-no ad essere punto di forza insostituibile per il lavoro di rete, ma il lavoro “trale righe” degli operatori andrebbe valorizzato riconoscendolo, appunto, comeparte del lavoro anche “fuori dalle righe” da parte di chi istituzionalmente pre-posto. Solo così, infatti, sarà possibile realmente completare la messa a siste-ma delle esperienze realizzate anche grazie alle progettazioni dei piani socialidi zona.

cOmE PROSEGUE ORA IL vIAGGIO? PROSPETTIvEE DOmANDE…vERSO LA cOmUNITÀ EDUcANTE

Come si evince dall’esperienza fatta finora, ogni tentativo di risposta (inizia-tiva, progetto, percorso di potenziamento della rete) se ha prodotto, da un lato,i risultati concreti descritti che hanno contribuito ad elevare la qualità del lavo-ro di prevenzione e supporto agli adolescenti, ha, dall’altro lato, inevitabilmentefatto emergere nuove esigenze, nuovi bisogni, ha posto nuove domande, a cuila rete ha la responsabilità di offrire nuove risposte…

Una rete che supporta e non imbriglia, capace di contenere e, nel contempo,di cambiare dinamicamente con il suo essere flessibile, affronta costantementela sfida, inscindibile nella sua essenza, di rinnovarsi nella forma mantenendoi propri nodi, di rimodellarsi per aderire ad esigenze sempre nuove e mantene-re la sua funzionalità ed efficacia. La rete non si mantiene da sé, non è data unavolta per tutte, ma ha bisogno di nutrimento costante per mantenersi viva.

PROSPEttIvE futuRE

Lavorare in rete richiede grande energia: è una metodologia di azione com-plessa che funziona proprio perché rispecchia l’evidente complessità dell’opera-re nel sociale, per la prevenzione, con gli adolescenti.

Anche la rete ha i suoi “alti e bassi”, richiede azioni costanti di coinvolgi-mento per mantenere alti i livelli di partecipazione (e dunque l’efficacia), richie-de la sperimentazione di strade sempre nuove, che partono dai bisogni concretidegli operatori e che trovano concreta attuazione attraverso una negoziazione eduna mediazione non sempre agevole fra diverse figure professionali e diverseistanze istituzionali.

Così, se la giornata di studio e approfondimento è stata l’occasione di fermar-si a riflettere – sostare – sui passi compiuti finora – diviene altresì luogo fonda-mentale per riproporre domande e suggestioni, per ripartire nel viaggio quo-tidiano del lavoro con gli adolescenti con una carica energetica nuova e rinno-vata dal confronto.

E diviene luogo di riflessione anche sui nodi critici, sulle risorse esistenti esulle prospettive future del lavoro di rete in un territorio che si apre a nuove real-tà diventando Distretto di Ponente comprendendo la Val Tidone, Val Luretta,Val Trebbia.

L’allargamento del Distretto sarà una nuova sfida e una stimolante occasioneper tentare di proseguire da una parte il lavoro avviato e i metodi condivisi e percogliere l’opportunità di una proficua contaminazione con nuove esperienze e

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SPIccIOLI DI RIFLESSIONESUL PERcORSO DI SOSTEGNOA FAvORE DEGLI STUDENTISTRANIERI ATTIvATO DALLA RETEDEGLI ISTITUTI DI ISTRUZIONESUPERIORE DI PIAcENZA

Claudio FerrariDOCENTE ISTITUTO TECNICO INDUSTRIALE

G. MARCONI DI PIACENZA

AVA, ABDELAZIZ, VASIL, VESNA, ADNAN, Ly, NACE, SONO

solo alcuni dei nomi di allieve e allievi che, con modalitàdiverse, ho incontrato in questi anni. Li definiamo stranieri inquanto provenienti da paesi diversi da quello che li ha accol-ti; fra qualche anno saranno cittadini italiani ben inseriti neltessuto sociale o marginali, costruttori attivi di una societàdall’identità allargata o individui problematici per la conviven-za civile. Retorica? Forse; certo è che la scuola è il luogo pri-vilegiato dove i giovani stranieri sperimentano la volontà delPaese di farsi percepire come il loro nuovo paese, da viverecome propria casa pur mantenendo un legame fortissimo einnegabile con il paese di provenienza. Nelle scuole del terri-torio piacentino, che si colloca ai vertici delle classifichenazionali quanto a numero di stranieri residenti, si è operatointensamente per favorire l’inserimento degli studenti stranie-ri. Come tutte le attività quotidiane e quindi meno eclatanti,questa azione viene avvertita in modo debole dalla società,ma è il destino e la grandezza della foresta che cresce rispet-to all’albero che cade. In particolare nella scuola superiore si

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IL GIOcO DEL cALcIO:cHE SPLENDIDA PASSIONE!

Giuseppe BaracchiARCHITETTO, ALLENATORE DI CALCIO E

PRESIDENTE DELL’ASSOCIAZIONE ITALIANA

ALLENATORI CALCIO PER LA SEZIONE DI

PIACENZA

PER CERCARE DI RAPPORTARMI CON IL TEMA CHE MI è

stato dato, quello del ruolo dell’allenatore di giovani, credo sianecessaria una introduzione personale (intesa come descrizio-ne di me stesso e delle mie esperienze).

Sono una persona che ha trascorso parecchio del suotempo libero (e non solo), a calpestare erba, cemento e cera-mica di spogliatoi. Dall’età di 12 anni, prima società di appar-tenenza agonistica, sino ad oggi a 49 anni a cercare di sugge-rire movimenti tecnici, metodi di comportamento in campo efuori, a ragazzi che hanno l’età di mio figlio (18 anni). Tuttociò, prima come bambino a seguito del padre, ex giocatore delPiacenza Calcio, poi anche allenatore delle giovanili, che mi hatrasmesso la grande passione per questo sport, poi comeragazzo a svolgere interminabili partite pomeridiane nei vasticampi di periferia in una Piacenza, che proprio nei primi anni‘70 vedeva la loro progressiva cementificazione, con i palidella porta fatti con pietre, maglioni o libri scolastici e la tra-versa era il famoso “alto” dove il portiere non poteva arriva-re; limiti molto “larghi” e non propriamente definiti, chelasciavano ampi margini alla interpretazione del gol, maessendoci confronto sull’interpretazione, formavano lo spiri-

è operato soprattutto per il sostegno linguistico rivolto ad allieve e allievi neoarrivati; lo si è fatto lavorando di concerto fra istituti scolastici organizzati inrete, soprattutto lo si è potuto fare grazie all’impegno dei docenti che le singolescuole hanno individuato come referenti di istituto per gli stranieri. Nella quasitotalità dei casi i docenti referenti hanno agito inizialmente sotto la spinta dellanecessità che nella prima fase del fenomeno migratorio nel nostro territorio sitraduceva nella presenza in classe di alcuni allievi stranieri verso i quali era inter-detta la possibilità comunicativa accompagnata dall’assenza di indicazioni didat-tiche. Di necessità, virtù: scambio di vedute con i rispettivi Dirigenti Scolastici(allora erano ancora Presidi), ricerca di qualche collega disponibile a azioni disostegno linguistico, eventuale richiesta di docenti esterni alla scuola o di enti eassociazioni operanti sul territorio a favore degli stranieri, ricerca di risorse,primi incontri fra colleghi di istituti superiori della città per scambiare esperien-ze, per arrivare negli ultimi anni alla formalizzazione di una Rete fra IstitutiSuperiori cittadini che consentiva un migliore utilizzo delle risorse sia umane cheeconomiche. Questa azione ha consentito di dare stabilità a percorsi di sostegnolinguistico e disciplinare a favore dei giovani stranieri che si sono inseriti neglidiversi istituti; non mancano le difficoltà, non ultima quella del reperimentodelle risorse, spesso cercate con il cappello in mano, ma comunque fino ad orarecuperate grazie anche all’attivo sostegno degli enti locali.

Come hanno vissuto i giovani adolescenti stranieri l’azione di sostegno lin-guistico svolta a loro favore? La più parte degli allievi e allieve hanno indubbia-mente accolto positivamente il sostegno linguistico proposto, ma non potevaessere altrimenti: la padronanza della lingua è immediatamente percepita comeveicolo sia di comunicazione con i compagni di classe che come strumento indi-spensabile per l’apprendimento scolastico. Qualcuno non è stato in grado di farfruttare pienamente l’aiuto offerto e non è andato al di la di un utilizzo passivodei corsi di alfabetizzazione facendo registrare deboli progressi nell’apprendi-mento linguistico con conseguente ritardo nello studio delle discipline. Ne con-segue una osservazione che ha del banale: i giovani mostrano caratteristichesimili a tutte le latitudini, la voglia di studiare non si trova al supermercato e nonsempre le difficoltà della vita spingono a investire risorse personali per miglio-rare la propria condizione di vita.

Certo su questi giovani molto ha influito l’attenzione mostrata dai docentidelle rispettive classi e dei corsi di alfabetizzazione: mi sia permesso ricordare latestimonianza di Franco Torlaschi che ha rappresentato per decine, forse centi-naia, di studenti stranieri il volto accogliente, e insieme rigoroso, della scuola ita-liana; altri docenti stanno percorrendo la strada da lui indicata e i risultati posi-tivi non mancano.

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pio, la verifica sul campo, l’ascoltare chi, in quel momento, è al centro della situa-zione di gioco. Cercare di arrivare a proporre una eventuale soluzione alternati-va, consci del fatto che, a soluzione trovata, nella partita successiva e per un rim-balzo occasionale del pallone, la stessa situazione affrontata ed apparentementerisolta, può assumere una connotazione totalmente differente. Tutto ciò è farel’allenatore di giovani. Ma cosa spinge questi “eterni bambini”, perché di questobisogna parlare, a “giocare”, ad allenare, a cercare di divertirsi insieme, se noncorrere per la conquista di una palla, e per il gusto di superarsi?

Pablo Neruda sosteneva che “....se vuoi far divertire un bambino, dagli unpallone, e quando un adulto non si diverte più, vuol dire che ha perso la partedi bambino che c’è in lui”. Oggi questo principio è forse in parte svanito, a tuttii livelli, e mi spiace vedere che un gioco così splendido, in cui l’essenza, il cerca-re di superare l’avversario rispettandolo secondo quelle che sono le regole delgioco stesso, viene calpestato a tutti i livelli, dietro il famigerato risultato. Il mes-saggio che cerco personalmente di portare ai ragazzi, è quello di cercare di arri-vare al risultato con l’uomo e non attraverso l’uomo, o meglio con l’uomo eattraverso l’uomo, cioè con i giocatori e con i dirigenti, cercando di creareambienti in cui l’eventuale sconfitta possa essere assorbita attraverso lo scopoche si vuol portare, che è il vero risultato da raggiungere. Oggi si parla di“obbiettivi”, si creano programmi che alla prima disavventura creano animositàper la paura di non poterli raggiungere e quando non si raggiungono sono sem-pre grosse crisi di rapporti.

Con in più, l’avere a che fare con ragazzi alquanto maturi, con interessi dif-ferenti, ma con condizioni sociali mutate rispetto al 1987, anno in cui ho inizia-to a divertirmi come allenatore. Ho allenato ragazzi nati tra il 1975 ed il 1992.Quasi una generazione! I ragazzi sono sì cambiati, ma perché è cambiata lasocietà, sono cambiati gli impulsi esterni, i ragazzi hanno maggiori impegni e lafamiglia si è modificata subendo fattori esterni che ne hanno cambiato la strut-tura. Con ciò è apparsa sulla scena calcistica una nuova figura, quella dei genito-ri. Intendiamoci, ci sono sempre stati i genitori, ma ora sono parte integrante deltutto. Alcuni diventano dirigenti per far giocare il figlio, altri diventano onnipre-senti alle gare, perché durante la settimana sono “oberati” di lavoro, altri anco-ra sono al servizio dei ragazzi, accompagnandoli all’allenamento, così facendoderesponsabilizzando il ragazzo da una giusta autonomia nella gestione dei pro-pri interessi e tempi.

Quello dei genitori è forse l’argomento più importante, fonte spesso diincomprensioni. Non sarei portato a trasformarlo in problema, sempreché ci siaa monte un momento comune in cui la società spiega ed enuncia gli obiettivi daperseguire per il settore giovanile. Spesso ho notato che è proprio il non saperel’incognita che porta al malumore che spesso sfocia nell’iperprotezionismo delgenitore nei confronto del figlio. Cioè, se il ragazzo non viene schierato, un

to di lealtà sportiva (senza arbitro) e di giusta rivalità (quartiere contro quartiereo vie contro vie).

Dopo questa prima parte ludica, inizio come giocatore giovanile in squadredilettantistiche, con ottimi educatori come allenatori e con indimenticabili espe-rienze di gruppo (ancora oggi ci si incontra con i compagni di “gioco” ora confamiglie al seguito), poi come calciatore dilettante di discreto livello (senza maipretendere, sapendo che il mio futuro non era nel calcio), ed, una volta laurea-tomi e come concausa un infortunio di gioco, termino la “carriera” giocata, sinoa giocare per ancora un paio di anni in una squadra di amici in un torneo ama-toriale. Si potrebbe dire una buona e vasta attività a più livelli.

Ma per amore del gioco, e con la curiosità di verificare se ero in grado di edu-care ed insegnare ai ragazzi (ma per insegnare bisogna prima conoscere le rego-le del gioco, farle proprie, ed essere in grado di trasmetterle ad altri), feci i cano-nici corsi da allenatore. Prima quello per giovani calciatori, a livello provinciale,poi quello di allenatore dilettante (III ctg.) a livello regionale ed infine quelloeuropeo UEFA B.

Decisi quindi di intraprendere questo hobby. Mi sono misurato con le cate-gorie pulcini (10-11 anni), esordienti (12-13), giovanissimi (14-15) allievi (16-17)e juniores (18-19), le prime due categorie a livello provinciale, le successive alivello regionale e nazionale, sia a livello dilettantistico che professionistico, sinoad avere esperienze in ottime categorie dilettantistiche. Ho frequentato mensil-mente il Centro Tecnico di Coverciano, mi sono confrontato con parecchi alle-natori professionisti attuali, ho provato anche esperienze estere affrontandosquadre dilettantistiche di tutto il mondo (americane e brasiliane comprese) econoscendo allenatori di paesi esteri e, a tal proposito, ricordo una serata tra-scorsa a dialogare in un inglese arruffato con un allenatore estone di Tallin eduno spagnolo di Barcellona, durante un torneo nel Nord della Danimarcadavanti a confortanti boccali di ottima birra. Tutto questo per il gusto e la vogliadi imparare da persone con esperienze diverse dalle mie, solo per conoscerle eportarle a qualcun altro; sempre nello spirito del gioco e con le mie sole forze.

A un certo punto del percorso, dopo approfondimenti, confronti e tutto ciòche ritenevo e ritengo essere necessario a soddisfare la curiosità del sapere, sifanno più chiare le idee. Ho capito che, almeno nei dilettanti (e solo in alcunecategorie), il gioco non si basa su schemi o teorizzazioni alchimistiche, ma è uncalcio fatto di rapporti umani il più possibile diretti, è il condividere un gioco per8 mesi su un campo e negli spogliatoi, è una graduatoria, sono momenti di gioiae di sconforto, ma sono soprattutto rapporti. Per comporre tutto questo biso-gna sempre avere entusiasmo (e non sempre è possibile), proporre allenamentidiversi, essere, padre, amico e confessore, rimproverare, ma riprendere il rappor-to, ammettendo sempre e comunque l’eventuale proprio errore, o far compren-dere dove si sbaglia, se di sbaglio si può parlare, attraverso il colloquio, l’esem-

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Un ulteriore elemento da valutare sono le aspettative, che, si badi bene, coin-volgono tutte le componenti del mondo dello sport. Coinvolgono i dirigenti,che vogliono a tutti i costi vincere perché hanno speso soldi; gli allenatori, chehanno alte mire di arrivismo, portando tensioni spesso inutili ai ragazzi dellapropria squadra; i giocatori ed i ragazzi stessi, che vorrebbero arrivare ad esseregiocatori importanti, con parecchi soldi e circondati da belle ragazze; i genitoriche vorrebbero figli ricchi e famosi e così gestire le ricchezze. Ma che mondo èmai quello del calcio? è questo e non deve essere demonizzato. Se pensiamo cheoggi un ragazzino inizia a giocare al calcio a circa 5-6 anni e termina il suo statodi apprendimento calcistico intorno ai 18-19 anni! Guarda caso sono le età sco-lari. Quindi, se da un lato, c’è un apprendimento per diventare, medico, architet-to, ingegnere, dall’altro c’è un percorso parallelo che in barba alle cattive valuta-zioni scolastiche, ti può permettere di girare il mondo, guadagnare anche in gio-vane età, imparare le lingue. Cosa si può volere di più? Ci si dimentica però, chetra i tanti bambini che iniziano l’attività calcistica, solo pochissimi arrivano alsogno.

Il mio vero rammarico, dopo queste considerazioni, è quello di vedere che ilcalcio sta perdendo la sua vera dimensione. Si vedono allenatori di squadre dictg. Pulcini che a fronte di regolamenti scritti dalla Federazione, (che prevedonola sostituzione di tutti i bambini partecipanti alla partita), impiegano bambini nelnumero necessario (7), per non essere obbligati a sostituirli con le “riserve”quindi farli “giocare” e rischiare di perdere la partita con i bambini meno bravi;è vedere allenatori che non hanno la capacità di educare e insegnare, ma lo fannosolo perché hanno acquisito il patentino di allenatore ed al bar si beano dellaqualifica ottenuta, o del risultato raggiunto vincendo la Coppa di quartiere; èvedere società (quindi dirigenti, orrenda parola ripresa dalla industria e riporta-ta nel calcio)che avvallano o meglio consigliano a bambini meno dotati, di nonfrequentare il campo da calcio, privando della volontà di essere, di integrarsi, disuperare (già consci di averla) la difficoltà, facendoli sentire diversi e apparirepiccoli emarginati.

Per non parlare poi delle società, che crescono sulle spalle di pseudo dirigen-ti, che iniziano la loro avventura con belle parole, bei proclami, proseguono nel-l’effluvio, e alla prima difficoltà non concludono il libro, e tuttavia dettano unfinale affrettato, perché non c’era già il titolo del libro, non c’era la trama, maloro hanno speso soldi e vogliono vincere. Sono anche loro dei bambini, chehanno un giocattolo, ma è di loro proprietà, e non lo vogliono dividere con altri.Ci sono poi anche le società che partono con seri scopi ed intendimenti, validi,onesti, umani, con il tentativo di rivalutare il paese o il quartiere, ma che poi tra-visano tutto ed ascoltano le chimere dell’“ interesse” (dove sia nei dilettantiancora devo capirlo!), del pifferaio magico di turno, fanno marcia indietro, rin-negano tutto e si allineano alle cordate dei “risultatisti” a tutti i costi, dimenti-

tempo negli 11 oggi addirittura tra i 18, la responsabilità è dell’allenatore che nonlo fa giocare, senza preoccuparsi di sapere il perché della scelta. Come a scuola.Se il figlio torna a casa con un giudizio altamente negativo, è l’insegnante che“...non spiega...” nel giusto modo e non il figlio che non studia, la causa dell’in-sufficienza. Ma perché succede questo? Provo a darmi una spiegazione, essen-do io stesso genitore di due figli, di cui uno pratica rugby e l’altra praticava atle-tica leggera (ed anche in questo caso potrei portare validi esempi di abbandonosportivo, forse causato da metodi di allenamento non consoni).

Parto da questo dato di fatto, vero in alta percentuale. I genitori entrambilavorano. E sì, all’età dei miei figli, io mi trovavo mia madre in casa, mio padreal lavoro. E così per molte delle famiglie italiane. Oggi, l’intera famiglia esce dicasa tra le 7.30 e le 8.00 del mattino per ritrovarsi tra le 19.00 e le 20.00 dellasera. Dodici ore in cui i genitori sono al lavoro ed i figli a scuola, con rientripomeridiani, attività sportiva a compendio e studio, molto spesso, serale.Momenti di ritrovo? Pochi. Questo provoca un senso di colpa. Come superar-lo? Ma chiaro, alla domenica alla partita del figlio! Diventa uno dei pochimomenti di vero contatto, se non quasi l’unico. Diventa uno dei pochi momen-ti di dialogo vero, su argomenti comuni e di facile apprendimento. Ed è ovvioche se il figlio non gioca, viene a mancare il momento di dialogo, il momento incui “...riesco a stare con mio figlio...”., Allora ecco che il non vedere il figlioimpegnato, viene spesso compensato con sfoghi verso l’allenatore, reo di avertolto il momento di contatto genitore-figlio, con l’esclusione momentanea, perquella partita o per parte della stessa.

è pur vero che quello che sto scrivendo non è il comportamento univoco,può essere una causa, sicuramente non l’unica, ma rileggendo questi anni diesperienze con giovani e famiglie, oggi l’ipotesi che ho illustrato mi pare la piùreale. A ciò si aggiunge la figura della mamma, che per le stesse motivazioni, èoggi elemento più vicino al figlio, più partecipe all’evento agonistico del figlio,ma non ancora addentro alle questioni tecniche, ancora di “competenza” delgenitore papà. Cioè non scende ancora in disamine tecniche, limitandosi a chie-dere perché il figlio non gioca, chiedendo più spazio per lui perché “....sa, pove-rino studia tanto e vorrebbe avere il suo spazio alla domenica....”, dimentican-dosi che il calcio è sport di squadra soggetto anche a regole comportamentali edi gestione del gruppo. In questo leggo anche una leggera disparità uomo-donna. Ai papà il commento tecnico e la presenza alle partite, alle mamme il tra-sporto per gli allenamenti, l’avvisare se il figlio non può essere presente (mi chie-do, e lo dico spesso ai ragazzi che alleno, ma non lo possono fare loro stessi?),e alla domenica, con supporto vocale di incitamento, piacevole ritrovo sulle tri-bune del campo da gioco per un conviviale “salotto” tra mamme, Aspetto, que-st’ultimo peraltro assai positivo.

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L’EvOLUZIONE DELLA NOSTRAIDEA DI PREvENZIONENELL’INcONTROcON LA DOmANDA

Anna Papagni, Patrizia De Micheli, AlessandraZioni, Elisabetta Balordi, Ingrid SalinasASSOCIAZIONE “LA RICERCA”- ONLUS

So chi ero quando mi sono alzata stamattina, ma da allora devo essere cambiata diverse volte.

Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie

LA NOSTRA STORIA

L’Associazione “La Ricerca” nata nel 1980 per rispondereal bisogno emergente della nostra città che in quegli annistava affrontando il problema del disagio giovanile, con parti-colare riferimento al tema della tossicodipendenza, ha dasempre avuto l’educazione come elemento fondante, cercan-do e trovando in “Progetto Uomo” una risposta terapeutico– educativa che coniugasse il concetto di cura con quello dellapromozione della persona verso nuove opportunità di vita.

è proprio operando sul disagio che siamo giunti alla con-sapevolezza che occorreva promuovere l’agio, sviluppandoun approccio preventivo tendente a rendere i partecipanti,soggetti attivi con la loro storia, i loro vissuti, i loro saperi.

cando tutto e rinnegando anche le persone scelte per puntare al raggiungimen-to del nobile scopo (si badi, anche il risultato è un nobile scopo, ma da raggiun-gere con principi e percorsi diversi).

Ci sono poi allenatori che credono ancora con vana “ utopia illusoria” (uto-pia ed illusione doppia autofregatura) a programmi, ad alti scopi, di crescita, divalori, di uomini, di porre l’uomo al centro dell’interesse, con la consapevolez-za che si agisce per lui (l’uomo)e non per se stessi (allenatore), di vedere cresce-re nel tempo un gruppo societario e di giocatori, unito con sani principi, con laforza derivante dal conoscere i difetti altrui e non i pregi. Lo scrittore francesePaul Valery diceva “...cresciamo insieme con le reciproche altrui manchevolez-ze....”.

Come detto, ciò che ho riportato non è la verità, ma è un costume consoli-dato, che forse ha coinvolto molto la mia generazione, quella che oggi è genito-re dei ragazzi che alleno.

Abbiamo forse sbagliato qualcosa? Spesso lo chiedo a me stesso, perché se èvero che sento da più parti sostenere che “....i giovani d’oggi non sono comequelli di una volta...”mi viene da pensare che veramente abbiamo sbagliato qual-cosa. Invece no. Voglio pensare al contrario e pensare in positivo. Direi che seoggi i giovani sono così è perché hanno più nozioni e più conoscenze dellenostre e che se vogliamo relazionarci con loro dobbiamo adattarci ai loro modied ai loro linguaggi (vedi telefonini, computer, sms, msn, video chat ecc.).Quindi non posso pensare che “…non sono come quelli di una volta…” sonoloro e come diceva De Andrè “…sarà il tempo ha dire che cosa hanno fatto…”.

Infine mi ritorna in soccorso Neruda. Cerchiamo di rimanere bambini il piùpossibile, e di trasmettere, noi allenatori, nozioni tecniche attraverso il diverti-mento, la gioia di giocare e di vincere con la felicità di condividere spazi e gestiinsieme ad altri coetanei che hanno lo stesso nostro scopo: giocare!!!!!

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significative del loro contesto (educatori, insegnanti, allenatori, genitori, ecc....),coinvolgendo, nella progettazione e/o nella realizzazione, i soggetti istituziona-li e non, che a vario titolo, si occupavano di adolescenti. L’Idea portante eraquella che la quotidianità dei ragazzi, era ed è essenzialmente incontro tra i lorobisogni/interessi e la disponibilità adulta di spendersi in una relazione di scam-bio reciproco. Che si trattasse di attività sportiva o ricreativa, che fosse un per-corso scolastico o un percorso parrocchiale, i giovani chiedevano allora, e chie-dono ancora, agli adulti di aiutarli a crescere in un quadro che rimanda ad unrapporto educativo. Gli adolescenti vogliono ascolto e parola, altrettanto gliadulti che sono a contatto con un’età tanto ricca quanto complessa. Poiché fareprevenzione per noi significava promuovere il “Ben-essere”, obiettivo primarioè stato quello di portare i ragazzi e gli adulti a riflettere sulla natura dei loro rap-porti (con se stessi e con gli altri), per acquisire maggiori consapevolezze e permigliorare le loro competenze dello “stare in relazione”.

Negli anni seguenti altre “importanti” progettazioni si sono succedute sulversante della legalità, della partecipazione attiva, del protagonismo giovanile,dello sport, come occasioni di crescita, di espressione della creatività, di costru-zione di relazioni significative che hanno caratterizzato la nostra offerta di “fat-tori protettivi” (i diversi progetti di prevenzione sopracitati, in quattro anni, cihanno permesso di raggiungere circa 2500 giovani di età compresa tra gli 11 e i25 anni).

In generale, i nostri interventi di prevenzione hanno espresso la forte inten-zionalità di una stretta connessione con il contesto in cui si sono collocati, perentrare in una logica di sistema territoriale che è stata senza ombra di dubbio,faticosa da raggiungere, ma di certo molto più efficace, perché ci ha obbligatoad uscire da un atteggiamento autoreferenziale a favore di una azione sinergicadi condivisione degli obiettivi e di un’integrazione tra attori sociali del territorio.

Il 2006 è stato l’anno della trasformazione dell’idea di prevenzione attraver-so il metodo della proget tazione par tec ipa ta. Gli orientamenti teorici e l’espe-rienza fino ad allora acquisita, hanno evidenziato per noi la necessità di un agirepreventivo all’interno del quale promuovere un raccordo tra soggetti prepostiall’educazione: scuola, famiglia, territorio, con l’obiettivo di mirare e promuove-re un cambiamento di scenario, dove ogni soggetto individui il proprio ruoloeducativo ed impari ad interpretarlo.

L’idea è stata espressa a partire dalle considerazioni offerteci da Franco Florisal convegno “Educazione e prevenzione: promuovere la relazione negli spazidell’adolescenza” realizzato in collaborazione con il Comune di Piacenza - 18aprile 2002 - Centro Studi Cassa di Risparmio)”:

Scegliendo come centrale la via della prevenzione, abbiamo cercato di diffon-dere una cultura volta a formare e ad orientare i giovani verso un’ idea di ben-esse-re che non prevedesse il ricorso a sostanze psicoattive per comunicare meglio,per divertirsi, per affrontare i problemi.

In questo cammino abbiamo riservato una particolare attenzione alla fami-glia, coinvolgendola quale risorsa, sostenendola nel proprio ruolo o nelle fragi-lità e riaffermandone il valore, quale prima agenzia educativa.

L’esperienza consolidata negli anni ha portato l’Associazione “La Ricerca” adaccogliere una precisa domanda dal territorio:

“Diteci attraverso la vostra esperienza nel campo della riabilitazione e dellacura delle tossicodipendenze come sostenere i genitori nel difficile compito edu-cativo, quali errori non compiere, come anticipare il problema”.

La prima risposta strutturata di prevenzione si concretizza con la realizzazio-ne di un progetto “Famiglie in dialogo”, che ci ha permesso di evidenziare ladimensione educativa.

L’idea di prevenzione, allora sostenuta, si basava sulla convinzione che nonerano sufficienti interventi informativi sulle sostanze, ma che era necessariorimettere al centro del dibattito la relazione educativa: recuperare la dimensioneeducativa della relazione tra genitori e figli, tra giovani e adulti. Lo si faceva conla competenza dell’esperto (psicologo) come relazione introduttiva, ma allo stes-so tempo, si apriva uno spazio di confronto, di riflessione e condivisione delleesperienze per avviare un processo di autoconsapevolezza, un passaggio di risor-se da famiglia a famiglia attraverso gruppi di auto-aiuto condotti da esperti.

Nel 1998 viene costituita la prima vera e propria équipe multidisciplinaredella prevenzione fatta di educatori, psicologi, psicodrammatisti, pedagogisti.Équipe che in alcuni anni struttura una serie di proposte. Obiettivo era di or ien-tar e i l t err i torio a lla pr evenzione e quindi, di intervenire in tutti contesti for-mali ed informali di aggregazione. Scuola e parrocchie diventano i due ambitiprivilegiati di intervento, che, nel tempo ci permettono di approfondire la nostraconoscenza del mondo giovanile e di giungere a considerazioni diverse, in rela-zione ai mutamenti culturali, sociali e di “stile di vita”.

Nel 1999 grazie alla legge 309/90 è stato possibile dare un forte impulso alnostro Servizio con un’altra storica progettazione: EDUCAZIONE E PRE-VENZIONE 2000-2003 in collaborazione con il Comune di Piacenza. È laprima volta che ci interfacciamo con i soggetti istituzionali e che insieme a loro iniziamo a pro-gettare: “nell’ottica di un cambiamento nel modo di pensare e di pensarsi, e una capacità dipassare dall’io al noi, dal far da soli al fare insieme” (Animazione sociale 2007).Educazione e prevenzione ha avuto, infatti, l’obiettivo di accrescere il coordi-namento e la qualità dei diversi ed eterogenei interventi offerti al mondo deipreadolescenti, degli adolescenti e relative famiglie. Si voleva dare una concretaed adeguata risposta alla domanda educativa dei giovani e delle figure adulte

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modalità di comunicazione e relazione con i ragazzi). La concezione sottesa allerichieste a noi rivolte dalle scuole, era principalmente quella di una prevenzionecome informazione e come intervento sui primi fattori di rischio di un compor-tamento disfunzionale.

Negli anni a cavallo tra il 2002 e il 2005 si è assistito ad un forte incrementodelle richieste da parte delle scuole medie inferiori, particolarmente quelle dellaprovincia, (sono stati realizzati 137 percorsi che hanno interessato circa 3400ragazzi), che hanno sorpassato le superiori (62 percorsi per circa 1500 studenti).L’attività prevalente era sempre rivolta agli studenti, la formazione adulti anda-va via via scemando, soprattutto rispetto alla mole di bisogni espressi per i ragaz-zi (9 percorsi insegnanti per un totale di 180 docenti raggiunti). Nelle medieinferiori venivano prevalentemente richiesti contenuti sulla conoscenza di sé,sulle relazioni e sull’autostima, mentre per gli studenti delle superiori i contenu-ti maggiormente richiesti, erano quelli delle dipendenze e dell’affettività/sessua-lità. Lo sfondo teorico prevalente era quello di una prevenzione sempre piùinformativa (informazioni specifiche) ed orientata ad intervenire sui fattori dirischio. La scelta delle classi avveniva infatti ad opera degli insegnanti, che sele-zionavano quelle all’interno delle quali intravedevano problemi. Pur cercando dicoltivare ed instaurare relazioni di cooperazione e sinergia con gli insegnantireferenti delle classi, si lavorava accogliendo ed in parte accettando una “delega”di intervento. Senza mettere troppo in discussione il ruolo di esperti e “risolu-tori” che veniva, tout court, attribuito ai formatori.

Successivamente negli anni tra il 2005 e il 2007 si è assistito ad un ulteriorecalo della quantità delle richieste che pervenivano (21 percorsi per le scuolemedie inferiori per un totale di circa 550 studenti e 61 percorsi per le superioriper un totale di circa 1500 studenti). Questo dato è da connettersi prevalente-mente con la decisa riduzione dei finanziamenti nazionali e regionali, ma anchecon una valutazione degli stessi percorsi che evidenziava un gradimento com-plessivo alto e buono da parte dei partecipanti, ma scarsa efficacia nel produrremodificazioni di atteggiamenti e comportamenti così come la scuola si attende-va, soprattutto a lungo termine. Contemporaneamente, si sono modificati i con-tenuti richiesti. Nelle medie inferiori c’è stata una forte concentrazione di temiinerenti la conoscenza di sé e l’autostima connessi alla tematica dell’orientamen-to. Il futuro sembrava essere diventato la preoccupazione prevalente quando lescuole pensavano e si relazionavano con questa fascia d’età. Nelle superiori si èaffacciata con grande urgenza la tematica della legalità, dell’educazione alla cit-tadinanza e all’impegno sociale. Si è inoltre osservato un progressivo aumento erelativa stabilizzazione della richiesta di sportelli di consulenza pedagogica e psi-cologica. La formazione richiesta per gli insegnanti è diventata sempre più pun-tiforme e specialistica (6 percorsi insegnanti per un totale di circa 180 insegnan-ti), mentre si sono avute richieste di formazione da destinarsi in modo partico-

Occorreva e occorre:> Assumere insieme le sfide e le fatiche dell’educare> Costruire luoghi dove si impari a leggere i bisogni senza delegare

agli esperti> Favorire una co-progettazione che punti a costruire insieme, delle

opportunità per il territorio.

Attualmente, Il nostro contributo va anche sul versante di una prevenzionesecondaria o “selettiva” con una proposta educativa concreta ai giovani (gruppoDiogene) che precocemente si sono lasciati sedurre dal fascino delle sostanze.Anche in questa azione puntiamo al rinforzo dei fattori di protezione quali laconoscenza di sé, l’autostima, il miglioramento della comunicazione in famiglia econ i pari, e alla capacità di affrontare in modo efficace i fattori di rischio, comevivere in contesti a contatto con le sostanze, proponendo loro valide alternative.

L’INcONTRO cON LA DOmANDA

Le nostre proposte di prevenzione ci hanno portato a contatto con tantiambiti (parrocchie, scuole, società sportive, contesti di aggregazione e animazio-ne, ecc…), contesti e realtà di vita dei giovani e dei loro adulti di riferimento. Inparticolare però, due ambiti sono stati quelli sempre presenti e interessati dallenostre proposte: scuola e famiglia. Nell’incontro con le figure educative di que-sti contesti abbiamo osservato evoluzioni delle domande che ci venivano poste,intrecciate saldamente con i macro cambiamenti sociali e con le nostre capacitàdi accogliere e rispondere in modo preventivo.

LA ScuOLA

Le scuole medie inferiori e superiori di Piacenza e della provincia hannomodificato profondamente la quantità e qualità delle richieste formative che neltempo ci hanno portato.

I primi anni di attività (1999- 2001) sono stati caratterizzati da una richiestadi moduli/percorsi rivolti a studenti delle superiori (sono stati realizzati 16 per-corsi che hanno interessato circa 400 studenti). Prevalentemente i temi richiestierano legati alle tematiche dell’affettività, dell’autostima e dei disturbi alimenta-ri. La richiesta per le scuole medie inferiori era scarsa (5 percorsi che hannocoinvolto circa 125 ragazzi). In quegli anni le scuole, seppur in misura limitata,richiedevano formazioni e percorsi tematici per i docenti (soprattutto legati alle

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plessità troppo forte nella conoscenza e nella relazione con le nuove generazio-ni di alunni/giovani che incontrano, per i quali tendono a delegare l’interventoa specialisti e a discipline “esterne”, facendo fatica a riconoscere e ad attribuirealla scuola il ruolo di agenzia sociale.

LE fAMIgLIE

Attorno al tema dell’aiuto e del sostegno alla famiglia si è sviluppato il servi-zio Prevenzione. è dall’osservazione delle famiglie dei ragazzi in programma“Progetto Uomo” che si è cercato di focalizzare quali potessero essere i fattoridi protezione da sostenere all’interno delle famiglie.

I progetti formativi “Famiglie in dialogo” attivi dal 1995 realizzati all’internodelle Parrocchie, dei Comuni e delle Scuole della provincia sono stati 80, e cihanno permesso di raggiungere circa 2000 persone; hanno avuto come denomi-natore comune il:

> fornire strumenti teorici ed esperienziali per favorire una adeguataconsapevolezza delle relazioni familiari.

> favorire la riflessione ed il confronto fra genitori sulla relazione edu-cativa attraverso la tecnica dell’auto aiuto.

Le famiglie che abbiamo incontrato sul territorio mostravano un vivo inte-resse per le problematiche sviluppate e una buona disponibilità a mettersi ingioco all’interno dei gruppi.

Le problematiche emerse ci hanno permesso di ridefinire i contenuti dellarelazione educativa. Siamo partiti dalla comunicazione in famiglia, dal ruolo delpadre e della madre, dal tema della legalità per poi passare alla gestione del con-flitto e al tema delle provocazioni e trasgressioni.

Nel 2006 è stata effettuata una ricerca in collaborazione con lo Svep (CentroServizi per il Volontariato) e l’Università Cattolica del Sacro Cuore (Facoltà diScienze della Formazione) sede di Piacenza, su un campione significativo diadulti (circa 500), che ha messo in evidenza i seguenti contenuti:

> gli adulti vedono l’adolescenza come una realtà segnata principal-mente dall’instabilità emotiva, dal disorientamento, ma anche dallaspensieratezza.

> gli adulti si aspettano dai ragazzi la capacità di portare a termine icompiti assunti e una crescita del senso di responsabilità. I genitoricredono che i ragazzi pensino soprattutto alle relazioni e al diverti-mento e sottovalutano invece l’apprezzamento che i giovani mani-festano per la famiglia, la solidarietà e l’impegno sociale.

Inoltre è emerso un forte bisogno da parte degli adulti di avere momenti diconfronto e riflessione, in quanto la solitudine rende il compito educativo anco-

lare ai genitori. L’idea di prevenzione sottesa a questi bisogni si è articolata mag-giormente passando da un modello informativo/psicoeducativo ad un modellomaggiormente centrato sull’importanza degli aspetti emotivi, focalizzato allosviluppo della persona nella sua complessità.

La scuola in generale è sempre stato considerata un’agenzia privilegiata perazioni di carattere preventivo. Per alcuni anni i protagonisti della scuola hannocondiviso questa visione, ora è la scuola stessa che pone criticamente il proble-ma. La scuola rischia di essere un progettificio?

La maggioranza della richiesta formativa si è concentrata sugli alunni delleclassi prime delle scuole superiori. Questo quasi ad evidenziare un’attenzione eduna preoccupazione per questo delicato momento di passaggio. Come leggerequesto dato? Difficoltà per gli insegnanti nel conoscere i nuovi studenti?Richiesta di aiuto nel momento in cui si gettano le basi per una relazione che poisi stabilizzerà? Poca informazione sulle nuove tipologie di studenti?

Nel tempo abbiamo visto una profonda modificazione della formazionerichiesta per gli insegnanti. Nei primi anni i docenti chiedevano per sé strategiedi ascolto e modalità di relazione e aggancio con gli adolescenti, poi si sonoavuti anni di scarse richieste, ed infine, oggi, richieste su tematiche di forte carat-terizzazione “clinica” o di netta responsabilità professionale del docente stesso.è come se i professori non avessero più fiducia?, voglia?, possibilità? di attinge-re da altre discipline (psicologia, pedagogia, sociologia, ecc…) gli strumenti permigliorare il loro lavoro. Da soggetti che si percepivano ignari di alcuni strumen-ti, ma curiosi sia di apprenderli che di intervenire verso i ragazzi che avevano inclasse, sono diventati gradualmente soggetti sempre più spaventati e preoccupa-ti, arrivando a selezionare atteggiamenti di rifiuto e di attribuzione all’esterno diresponsabilità ed intervento.

Per noi formatori questo ha comportato una “fatica ed una scomodità” nelresistere ad una delega sempre maggiore e sempre più portata con caratteristi-che di urgenza.

Contestualmente si deve anche pensare che la teorizzazione del fare preven-zione è andata incontro a diverse fasi: attraverso lo strumento principe della curadella relazione educativa si sono strutturate nel tempo risposte formative che,con metodologia attiva (che richiede una partecipazione attiva ed un forte coin-volgimento emotivo), hanno concretizzato un approccio globale di prevenzione(prevenzione del disagio e promozione dell’agio), intervenendo su alcuni deter-minanti chiave: chiarificazione dei valori sottesi alle scelte di vita; life skills; alfa-betizzazione emotiva, ecc... Questo passaggio ha inevitabilmente avuto comeconseguenza un allungamento dei tempi di intervento ed un progressivo allon-tanamento e ridefinizione degli obiettivi della formazione preventiva.

Oggi siamo sulla prevenzione come approccio basato sulle evidenze, ma isoggetti co-protagonisti sono sfiduciati e/o stanchi, perché avvertono una com-

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Oggi il nostro assunto di base ed il nostro punto fermo è che fare prevenzio-ne non è solo prevenire l’uso di sostanze, ma è anche accompagnamento esostegno educativo per accrescere i fattori protettivi e per accompagnare nellesituazioni di fragilità. Si vuole combattere la percezione di un “vuoto di senso”,accompagnando le persone ad elaborare un significato a ciò che accade nella vitatenendo presenti due variabili fondamentali: i sistemi valoriali ed i vissuti indivi-duali da rispettare e confrontare perché ogni esperienza diventi occasione diapprendimento.

L’idea portante è quella di proporre interventi che favoriscano processi diprossimità e di vicinanza con gli adolescenti e con gli adulti di riferimento.Perché solo attraverso la costruzione di una relazione educativa, di fiducia, sipuò aiutare i ragazzi a so-stare nella propria vita e ad accompagnarli nei proces-si decisionali.

L’identità che noi oggi vediamo e vogliamo dare al fare prevenzione ha a chefare con:

> Riattribuire responsabilità educative ai diversi attori > Sviluppare partecipazione e condivisione attraverso la costruzione

di un sentire comune > Intervenire sulle rappresentazioni intergenerazionali> Favorire cambiamenti nelle relazioni educative> Intervenire su competenze di base (educazione alla salute)> Costruire legami e stili di vita significativi.

La prevenzione ha per noi, l’importante obiettivo di smontare i pregiudizi ele rappresentazioni stereotipate sui ragazzi, per restituire una immagine più rea-listica dei giovani e delle loro risorse e potenzialità. Riteniamo, infatti, che gliinterventi educativi e preventivi siano realmente efficaci se possono modificarelo sguardo che gli adulti hanno sui giovani.

Crediamo nella partecipazione convinti che il suo opposto sia la “noia”, ilvuoto. E se guardiamo ai giovani dobbiamo sempre chiederci con quali occhia-li li guardiamo, perché molto di quello che vediamo dipende dagli occhiali cheindossiamo. Convinti che una domanda la senti soprattutto quando ricevi unarisposta, sappiamo di dover prestare molta cura a ciò che è stato il nostro per-corso di incontro con le domande e con gli altri, perché è da lì che è scaturito, esta scaturendo la proposta che noi oggi andiamo a fare. Dentro ci sono infatti itemi della relazione, dell’alterità ma anche della società e delle sue regole insenso generale.

La prevenzione è efficace e possibile solo se è all’interno di un processo con-diviso con i diversi attori che svolgono un ruolo educativo. Non è più possibileper noi non coinvolgere gli adulti, ed in generale la comunità locale: la preven-zione non è più solo uno spazio per gli esperti, ma fa parte dei processi sociali

ra più difficile. I temi da trattare, a grande richiesta, sono stati l’orientamento, lalettura articolata dell’adolescenza, la gestione dei conflitti, la negoziazione e ilrispetto delle regole.

Nell’incontro con tante famiglie abbiamo osservato in questi anni di lavoro,profondi cambiamenti sia sul piano sociale che sul piano della funzione educa-tiva, espressa come incertezza a stare dentro i momenti di “crisi” dei figli ed asvolgere una funzione normativa chiara ed adeguata.

Nel corso del tempo si è verificato un progressivo abbassamento del nume-ro dei partecipanti ai percorsi formativi ed una difficoltà da parte dei commit-tenti a credere e proporre interventi di questo tipo, privilegiando modalità diconsulenza individuale.

L’esperienza dell’Associazione nel campo del lavoro con le famiglie ci hasempre rimandato come il metodo dell’incontro, della condivisione e dellamessa in comune delle fragilità e dei punti critici nella relazione, garantisce fidu-cia in se stessi come educatori e fiducia e speranza nell’altro come educando.

L’EvOLUZIONE DELL’IDEA DI PREvENZIONE

Negli anni per l’Associazione è rimasto costante il metodo e il contenutodella prevenzione come intervento educativo basato sullo stile tratto da“Progetto Uomo”. L’idea cardine è quella di “partire da sé”, stimolando unariflessione ed un confronto con l’altro che, nel percorso di vita fornisce uno“specchio”, restituisce cioè le caratteristiche, i limiti e le risorse, su cui poterlavorare. “...Fino a quando una persona non confronta se stessa negli occhi e nel cuore deglialtri, scappa... dove altro se non nei nostri punti comuni possiamo trovare un tale specchio?”(cit. Filosofia di Progetto Uomo da “Progetto Uomo: un programma terapeuti-co per tossicodipendenti”- Don Mario Picchi – Centro Italiano di Solidarietà -Tip. Ambrosini Roma).

“Progetto Uomo” vuol dire rispetto, ascolto e accoglienza delle storie di vita,senza giudizio, ridando ad ognuno la responsabilità della propria crescita, cre-dendo che ogni esperienza educativa è prima di tutto esperienza di fiducia in sée nell’altro.

Questa proposta, che nel tempo è stato applicata al lavoro educativo nei con-testi formali e informali di crescita, si è intrecciata ed arricchita incontrandosicon i diversi modelli teorici di prevenzione. Tra i maggiori ricordiamo il ModelloUmanistico (importanza degli aspetti emotivi ed affettivi- C. Rogers 1961), ilModello delle Life Skills (apprendimento di abilità di vita – G.J.Botvin 1987) e ilModello dell’apprendimento sociale (modeling e self efficacy – A. Bandura1977).

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tero decide di giocare. Parte il colpo e se ne vanno via le palline perché sono dei ricci che ave-vano la loro testa, il loro cuore e se ne sono andati via. Alice scrive nel suo diario: testonache sono, non ho imparato nulla, se hai un progetto tienitelo, non pensare che gli altri debba-no realizzare i tuoi progetti. E allora che fai? Siediti, stai con la gente, fermati a chiacchie-rare, dagli da bere qualcosa, diventate amici, ritrovate la relazione, il clima fino a che non cichiedono: “ cosa state facendo?”. Terza fase, spara il colpo, le palline vanno, ma se ne vannovia gli archetti perché anche gli archetti sono le carte della regina. Stavano dipingendo di rossotutte le rose bianche perché la regina del tempo voleva le rose rosse. E cosa succede? Alice perla terza volta deve scrivere sul suo diario: testona che sono, non ho capito nulla, se ho un pro-getto devo tenermelo, devo ricreare la fiducia e devo soprattutto aiutare gli altri a farsi delledomande un po’ serie, domande su che cosa siamo insieme, sull’amicizia? La gente ha ledomande ma forse non le capiscono, allora la mia presenza, la mia amicizia permette allagente di sfogliare la domanda come una cipolla. Finalmente giocano la partita e la vincono.Alice dice: “allora il gioco è possibile”.

E noi diremo, la prevenzione è possibile. è un gioco collettivo dove tuttisono attori, dove tutti sono ricercatori, dove ognuno mette testa, cuore, doveognuno mette le domande che ha, dove la progettualità è condivisa e, i giovanisi educano e vengono educati se partecipano al gioco “del croquet”, da fare cioèrigorosamente insieme.

e relazionali che danno vita ad una comunità.Solo facendo crescere una cultura orientata verso il concetto di prevenzio-

ne partecipata, si può restituire alla comunità e alle reti sociali un ruolo deter-minante nella prevenzione al disagio.

Pensiamo e lavoriamo nell’ottica di una Progettazione partecipata per com-battere il processo di delega, per passare alla costruzione di legami, per condivi-dere la lettura di problemi e bisogni, per costruire un sapere condiviso in campoeducativo e comunicarlo, in definitiva per “fare cultura” e creare consenso.

“Il compito degli operatori non è solo quello di osservare il territorio e i suoibisogni, di ideare grandi progetti, ma condividere dei percorsi di riappropriazio-ne della responsabilità educativa da parte degli adulti e di accompagnare i giova-ni a dare senso e significato al proprio esistere..… proporsi come modello taci-to di positiva costruzione di sé e di fiera accettazione del dolore” Dott. GiulianoLimonta in “Adolescenza emozioni mediazioni....parole da mettere in rete”Giornata seminariale sabato 17 maggio 2008, promossa dal Distretto di Ponentee dalla Provincia di Piacenza.

Bisogna declinare la partecipazione, cioè la riscoperta che diventi te stesso seti metti in un circuito di alterità, in cui trovi la soddisfazione dell’esserci perché“ti curi di…”, nei diversi ambiti e nei diversi ruoli che competono ai giovani edagli adulti.

Per fare bene questa ambiziosa idea di prevenzione dobbiamo, infine,costruire e progettare in rete, sia perché questa generazione di giovani ha biso-gno di vedere e sperimentare che ci sono adulti appassionati a costruire dei pro-getti collettivi, sia perché è solo in rete che si può cercare di capire “insieme”dove siamo posizionati e quali sono i significati in gioco. Lavorare in rete con leIstituzioni e gli altri attori sociali implicas la possibilità di contribuire all’analisidei bisogni, alla definizione degli obiettivi e del target, per partecipare all’orien-tamento delle politiche giovanili, alla destinazione delle risorse e alla valutazionedei risultati.

Terminiamo con un piccolo stralcio dal libro “Alice nel paese delle meravi-glie” di L. Carroll, su cui sempre Floris ci ha fatto riflettere e che vuole essereuna sorta di documento programmatico del nostro fare prevenzione:

“…Alice gioca a croquet. Comincia a giocare con la mazza, sferra il colpo, ma la mazzasi gira in su perché la mazza in realtà è un fenicottero e il fenicottero aveva la sua testa, ilsuo cuore, la sua volontà. Si gira verso Alice e le dice: “Che fai?” Alice risponde “Io giocoal croquet”, Il fenicottero risponde: “non so cos’è, ma tu giochi, io mangiavo, facevo altro”.Alice nel suo diario interiore scrive: testona che sono, se hai un progetto tienitelo, nessunoaccetta di realizzare i tuoi progetti, però ora siediti lì con la gente, chiacchiera, entra in rela-zione, ritrova un clima di fiducia fino a che nell’altro non nasce una domanda “a propositoche cos’è il croquet?” Il fenicottero si chiede che cosa è il croquet e Alice risponde; il fenicot-

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mEmORIA DEL DIvENIRE DEISERvIZI PIAcENTINI DAGLIANNI ‘70 A OGGI. LA PROmOZIONEDELLA SALUTE RIvOLTAAGLI ADOLEScENTI

Danila FornariPSICOLOGA, PSICOTERAPEUTA “CONSULTORIO

GIOVANI” - AZIENDA U.S.L. DI PIACENZA

PROVERò, PESCANDO NEI RICORDI, A RIPERCORRERE LA

storia della Promozione della salute rivolta ai minori, in parti-colare agli adolescenti, messa in atto dai Servizi sanitari pia-centini a partire dagli anni ‘70 fino ad oggi.

èun po’ come ripensare a buona parte della mia carrieraprofessionale, alle riflessioni ed ai progetti condivisi con col-leghi, come me operatori nei servizi territoriali piacentini, ser-vizi di medicina scolastica, consultoriali, tossicodipendenze,che, dapprima organizzati in Consorzi socio-sanitari, diven-gono successivamente Unità sanitarie locali ed infineA.U.S.L..

Conseguentemente alle trasformazioni dei servizi, su cuinon mi soffermo, anche la Promozione della Salute ha vistosuccedersi varie forme organizzative. Tutte comunquesostanziate da gruppi interdisciplinari di operatori conresponsabilità e competenze diverse nell’organizzazione, matutti attivi nell’educazione alla salute e convinti che una quotaparte dell’attività professionale svolta dai servizi pubblicidovesse essere finalizzata alla Prevenzione di malattie, distur-bi, disagi.

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ANNI ‘70

I grandi cambiamenti socio-politici intervenuti nel decennio precedentefanno degli anni ‘70 un terreno fertile per spinte culturali innovative ancheriguardanti i temi del vivere sociale fra cui la salute.

Sullo sfondo di un paesaggio italiano che vede nascere i servizi territoriali,anche in Emilia Romagna, si sviluppano quei movimenti socio-culturali che por-tano alla legge di riforma sanitaria 833, che garantisce l’assistenza sanitaria a tuttii cittadini; alla legge nazionale “180” sulla chiusura dei manicomi; a leggi perl’abolizione delle Scuole speciali e l’inserimento dei bambini handicappati nelleScuole dell’obbligo e infine all’istituzione dei primi servizi territoriali per l’igie-ne mentale. Nel frattempo i movimenti delle donne, che sperimentavano con-sultori autogestiti, chiedevano servizi pubblici per la tutela della salute delladonna, dei bambini, della famiglia. Sorgono così i primi consultori familiari pub-blici con équipes multidisciplinari: ginecologa/o, ostetrica, psicologa/o e assi-stente sociale, che operano in servizi ambulatoriali capillarmente diffusi sul ter-ritorio

In sostanza nasce alla fine degli anni ‘70 nel territorio della provincia diPiacenza una rete territoriale dei servizi organizzata in 3 Consorzi Socio Sanitaricon peculiarità specifiche per territorio: Val Tidone e Val Luretta, Fiorenzuolad’Arda e Piacenza.

C’erano allora molte ideologie e molte idee, in generale c’era grande entusia-smo fra gli operatori, per servizi da costruire praticamente dal nulla. Leggi, stan-ziamenti e piani sociosanitari sembravano perlopiù coincidere con le istanzeprofessionali portate avanti dagli operatori.

In tale clima iniziavamo a riflettere sui primi dati epidemiologici relativiall’utenza dei servizi, ad interrogarci sull’origine dei disturbi e dei disagi che piùfrequentemente incontravamo, a sforzarci di individuare indicatori predittivi ditali disagi e modalità di intervento preventivo.

ANNI ‘80

Agli inizi degli anni ‘80 i riferimenti culturali per gli operatori che si occupa-vano di Educazione alla Salute erano gli antropologi della salute (ad es. Seppillia Perugia), e medici a vocazione educativa come Beccastrini a Firenze.

La tossicodipendenza, già dalla fine degli anni ‘70, assume proporzioni tali davenire individuata come “emergenza sociale”, creando allarme. Sorgono allora iprimi servizi per le tossicodipendenze (a Piacenza l’allora C.M.A.S. provinciale),

Il punto di vista è dunque quello di un operatore che ha vissuto tutti i cam-biamenti del farsi, disfarsi e continuamente trasformarsi dei servizi, sulla basedei bisogni emergenti e delle spinte socioculturali che si sono succedute negliultimi 30 anni.

La fisionomia dei servizi socio-sanitari è molto cambiata nel tempo. Negli ultimi 10 anni abbiamo assistito al rapido succedersi di assetti organiz-

zativi diversi all’interno delle A.U.S.L. e in generale nei servizi socio-sanitari ter-ritoriali. Nonostante siano cambiate modalità, luoghi e procedure di erogazionedegli interventi, il personale che operativamente lavora sul territorio è sostanzial-mente invariato e può contare sul capitale di formazione professionale e di espe-rienza maturata sul campo.

Chi da qualche anno a questa parte s’è trovato a dover riprogrammare servi-zi o pensare all’attuazione di progetti ha dovuto fare i conti con la parola chia-ve dell’attualità: “isorisorse”, cioè riorganizzare e realizzare sì, ma senza costiaggiuntivi.

Sfida interessante quella di coniugare bisogni, richieste, emergenze socialivecchie e nuove con scarsissime risorse.

In modo professionalmente artigianale ci si è dovuti cimentare con tale sfidariportando in primo piano:

> il lavoro di rete, sperimentato sia in anni di ricchezza culturale eco-nomica (anni ‘70-’80: lavoro d’équipe multidisciplinare integrazionesocio-sanitaria, lavoro in rete), sia in anni maggiori ristrettezze (daglianni ‘90 in poi);

> i propri saperi disciplinari ed i metodi scientifici di approccio allavalutazione dell’entità e dell’urgenza dei bisogni, al di là degli allar-mi e delle mode socio-cultural-mediatiche

> la conoscenza del territorio, con i suoi attori > le conoscenze metodologiche ed operative dell’Educazione alla

Salute e dei suoi protagonisti.

Laddove s’è verificata la fortunata congiunzione fra mandati aziendali e motiva-zione professionale di operatori in possesso di un ricco capitale professionale, l’ot-timizzazione delle risorse è riuscita a non far scadere la qualità degli interventi.

La premessa è lunga, ma doverosa. Entriamo ora a pennellate rapide nelcuore dell’argomento, nel tentativo di trasmettere la memoria del divenire con-tinuo dei bisogni dei cittadini e delle relative offerte sanitarie.

Farò riferimento in particolare alle attività di promozione della salute rivolteagli adolescenti: ai progetti mirati ad obiettivi definiti, rivolti a target specifici everificati in base a criteri di efficacia/efficienza e di gradimento dei destinatari.

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A metà degli anni ottanta si verifica una fortunata coincidenza che vede fragli obiettivi prioritari sia dei piani socio-sanitari regionali che delle pianificazio-ni scolastiche “l’agio a scuola”, cioè il ben-essere dei giovani/studenti.

Si riconosce che la scuola di per sé rappresenta una risorsa preventiva deldisagio giovanile, rappresenta un riferimento ed un contenimento per moltiragazzi, è un luogo di vita, di relazioni fra pari e con gli adulti se i docenti rie-scono a valorizzare la componente relazionale dell’educare.

Vengono programmati e sperimentati progetti di educazione alla salute nellescuole medie superiori in cui non è centrale il tema da trattare, ma il metodo dilavoro utilizzato coi ragazzi. Gli interventi vengono finalizzati in primis adentrare in relazione con il gruppo per coglierne i bisogni, individuare e condivi-dere un progetto ed i suoi obbiettivi direttamente con i destinatari.

La finalità che ispira i Progetti di Educazione alla Salute di allora è quella dipotenziare le risorse emotive e comunicativo-relazionali dei destinatari.

Se è centrale il gruppo dei pari, sede durante l’adolescenza di decisioniimportanti per la salute, si tenta allora di utilizzare il gruppo-classe come risor-sa attiva per la realizzazione dei progetti preventivi.

è dal patrimonio di esperienze e di confronti fra operatori dell’Educazionealla salute che nasce l’idea di pensare a progettazioni più allargate, che toccasse-ro un intero istituto scolastico. Progettazioni non più rivolte alle singole classi,ma calibrate sull’intero istituto e rivolte a tutte le componenti scolastiche(docenti, genitori, studenti). Ricordo ad esempio i progetti realizzati in queglianni presso l’I.T.C. di Borgonovo Val Tidone, che vedeva oltre agli interventirivolti alle classi, la formazione rivolta ai docenti sugli aspetti relazionali dell’in-segnamento e gruppi di lavoro per genitori

In quegli anni apprendemmo la centralità della decodifica del bisogno deidestinatari e metodologie attive per il loro coinvolgimento; imparammo anche atrattare la singola classe come gruppo specifico, dotato di una propria identitàda rispettare, gruppo coinvolto e attivo in tutte le fasi del progetto: dalla stesu-ra alla verifica, imparammo che fare educazione alla salute significa fare culturae che bisogna modificare gli atteggiamenti sottostanti per arrivare ad incidere sulcambiamento di comportamenti rischiosi per la salute. Ciò è valido che si trattidi uso di sostanze, di comportamenti contraccettivi, di cibo. o di qualsivogliaaltro comportamento.

ANNI ‘90

Gli anni ‘90 vedono le prime edizioni da parte delle U.S.L. delle “Proposte dicollaborazione con le scuole per l’Educazione alla salute”. Tali proposte indiriz-

che negli anni ottanta diverranno distrettuali (3 nella provincia di Piacenza). Il problema centrale che dovevamo affrontare per la prevenzione delle tossi-

codipendenze era costituito dalla necessità di attuare una “comunicazione dis-suasiva”, tesa cioè a evitare un comportamento che era “desiderato” dal sogget-to, quindi più difficile da modificare.

Le campagne mediatiche usavano formule demonizzanti, immagini spaven-tose, con l’intento di dissuadere. Potrei citare ad esempio l’immagine della trap-pola per topi con una siringa al posto del formaggio oppure la presentazione perfasi di un viso che va accartocciandosi come un foglio di cartaecc...Successivamente comparvero campagne dai toni più pacati, ricordo adesempio il motto “c’è pera e pera” accompagnato all’immagine di una pera wil-liams, un cambiamento di toni che risultò comunque altrettanto inefficace. (Perapprofondimenti sulla comunicazione dissuasiva rimando ai lavori di M.Buscema, università La Sapienza di Roma)

Il dispendio di risorse economiche fu enorme e l’efficacia tuttavia pressochénulla. Il numero dei tossicodipendenti sembrava aumentare di continuo. La regio-ne Emilia-Romagna, come altre, investì sui servizi e sulla formazione degli ope-ratori. Quello che venne alla luce fu che l’informazione diretta o mediatica di persé è assolutamente insufficiente e che a rischio di tossicodipendenza erano tutti igiovani, indipendentemente da sesso, condizione sociale, titolo di studio ecc…

La questione dell’uso di sostanze stupefacenti è complessa e di origine mul-tifattoriale, dato che l’informazione risultava essere non sufficiente ad evitare ilcomportamento rischioso, andavano individuate nuove metodologie e strategied’intervento diverse e soprattutto nuove sinergie fra operatori dei diversi servi-zi (ospedale, medici di base, servizi materno infantile servizi Sociali comunali),cui gli utenti accedevano.

I progetti di prevenzione vengono destinati a tutta la popolazione giovanile. I Servizi sono impegnati nella “prevenzione primaria”, destinata cioè al man-

tenimento della salute presso la popolazione sana.Le ricerche di psicologia sociale sull’adolescenza si occupano molto in que-

sto periodo del “gruppo dei pari” e dello studio dei “ gruppi spontanei”, cherisulta centrale per l’acquisizione dell’identità sociale e per la maturazione degliatteggiamenti e dei comportamenti individuali.

Nei primi anni ‘80 venne realizzata a livello regionale la ricerca intervento “ Giovani e identità sociale” rivolta agli studenti delle scuole medie superio-

ri. La ricerca prevedeva una restituzione dei risultati ai giovani compilatori diquestionari, dunque un coinvolgimento diretto ed una ricaduta degli esiti dellaricerca stessa sulla scuola. In Val Tidone la ricerca venne attuata in collaborazio-ne con l’I.T.C. di Borgonovo e il Liceo Scientifico di Castel san Giovanni, (siveda a questo proposito il lavoro del gruppo di A. Palmonari e Pombeni,Università di Bologna).

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zioni a rischio o alla riduzione del danno, dei disagi e disturbi di competenza, Il succedersi rapido di assetti organizzativi differenti all’interno dell’A.U.S.L.

ha creato ritardi sulla ridefinizione organizzativa di alcuni settori di servizio, fracui quello della promozione della salute. Le singole unità operative continuanoa realizzare progetti preventivi in collaborazione con le scuole, ma in base allespecifiche valutazioni e programmazioni di servizio.

Lo sforzo da parte dei servizi sanitari negli anni 2000, è stato quello di atti-vare proposte e offerte di intervento più vicine e più gradite ai giovani. che purevidenziando bisogni si rivolgevano poco ai servizi.

Nascono così servizi specificamente rivolti agli adolescenti (Consultorio gio-vani e Spazio giovani) in cui le metodologie, l’approccio, l’accompagnamentodurante il percorso consulenziale o di cura sono calibrati sui bisogni e sulle richie-ste dei giovani stessi. Servizi di questo genere hanno per mandato finalità preven-tive, continuano a giocare un ruolo di prevenzione primaria su contenuti qualiaffettività/sessualità e riflettendo sui dati epidemiologici e sull’esperienza clinicamaturata, continuano a investire su progetti potenzialmente più efficaci.

Gli obbiettivi posti dai progetti sono ora più precisi e soprattutto verificabili.Il Consultorio Giovani sorto a PC nel 2000, ad esempio, propone da allora

un progetto breve denominato “Coming”, riguardante l’affettività/sessualitàfinalizzato non tanto a fornire informazioni specifiche sull’argomento, ma a farconoscere il servizio ed i suoi operatori e facilitarne l’uso da parte dei ragazzi incaso di bisogno.

Fra il 2004 ed il 2007 gli operatori del Consultorio Giovani e dello SpazioGiovani insieme, hanno progettato e realizzato “Il Sasso nell’acqua”, finalizzatoalla prevenzione dell’AIDS. Il progetto triennale, finanziato dalla Regione EmiliaRomagna, parte da 4 classi di 2 licei piacentini (Cassinari e Gioia), per andare acoinvolgere cerchi sempre più ampi di popolazione giovanile ed arrivare infinea toccare i giovani maggiormente a rischio: i non studenti.

Il progetto complesso ha visto l’uso di metodologie diverse e attive: forma-zione attiva, peer education, lavoro di gruppo centrato sul compito, e di tecni-che differenti: dalla conduzione di gruppo all’uso di strumenti audiovisivi.

Non mi dilungo oltre su questo progetto presentato a seminari (Forlìmarzo2008 e Piacenza maggio 2008) e ancora attuale, di cui sono disponibili ladocumentazione ed i prodotti dei ragazzi.

Chiudo questa riflessione con la convinzione di aver tralasciato questioniimportanti, ma con la speranza di poter trovare e ritrovare compagni di percor-so con cui condividere e realizzare progetti promozionali del benessere piùsinergici ed efficaci.

zate alle scuole medie inferiori e superiori della provincia riguardavano vari con-tenuti: dall’uso di farmaci, all’affettività/ sessualità, all’alimentazione, all’uso distupefacenti.

Ogni progetto era espressione di singoli gruppi di lavoro tematici, mentrel’intero pacchetto di proposte rappresentava l’offerta organizzata dei servizidell’U.S.L. alla scuola in ambito preventivo. Erano gli anni del “GruppoADOS”, gruppo provinciale cui partecipavano operatori di servizi tossicodipen-denze, consultoriali, della neuropsichiatria infantile e della farmacia territorialedelle 3 U.S.L. provinciali che nel frattempo si erano costituite. Sono uscite 12edizioni, una all’anno, di tale pacchetto di proposte.

Sempre più valorizzato è il lavoro in rete.Cito di quegli anni l’emergere della necessità di porre attenzione maggiore ai

metodi di verifica e di valutazione sul raggiungimento degli obbiettivi posti daiprogetti. Ricordo l’emergere dell’importanza di documentare i progetti ecostruire prodotti con i destinatari per lasciare memoria dei percorsi svolti, (aquesto proposito molto interessante il cortometraggio “La prima volta” realiz-zato da una classe III Liceo Scientifico di Castel san Giovanni.)

Emerge in modo forte la necessità di rivolgere interventi preventivi e promo-zionali della salute soprattutto ai giovani non studenti, potenzialmente più espo-sti a rischi e meno tutelati.

Si diffondono gli “operatori di strada”, che si relazionano a gruppi spontaneidi giovani.

ANNI 2000

Sul piano organizzativo gli anni 2000 vedono il passaggio cruciale dell’azien-dalizzazione delle U.S.L. I servizi socio sanitari vengono organizzati con criteriaziendali concernenti “costi – benefici”, “razionalizzazione e ottimizzazionedelle risorse”, “verifiche e valutazioni di efficienza – efficacia” anche per quan-to concerne l’attività preventiva.

Sul piano culturale e della pianificazione socio-sanitaria il concetto di saluteviene rivisto. L’O.M.S. definisce la Salute come un bene complesso sostenuto daun insieme di fattori e condizioni di vita di cui la sanità non è che uno. Vengonocosì restituiti ad altri attori sociali (Enti locali, scuola, famiglia, comunità)responsabilità e competenze in materia di salute.

La prevenzione cosiddetta primaria, rivolta al mantenimento del benessere (v.legge 285), è demandata all’intera comunità ed agli enti locali in particolare

I servizi o meglio le attuali Unità Operative dell’A.U.S.L. continuano ad esse-re ingaggiate sulla prevenzione secondaria e terziaria cioè indirizzata a popola-

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SEcONDA PARTEINTERvENTI mETODOLOGIcI

E cONTRIBUTI DI RIcERcA

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NEL vASTO mARE DELL’AGIOE DEL DISAGIO LE ROTTEcHE PORTANO ALL’INcIAmPO, AL DISTURBO, AL FALLImENTO.SUGGERImENTI PER IL LAvORODEI DOcENTI

Giuliano LimontaDIRETTORE DELL’UNITà OPERATIVA DI

NEUROPSICHIATRIA E PSICOLOGIA DELL’INFANZIA

E ADOLESCENZA - AZIENDA U.S.L. DI PIACENZA;PSICHIATRA, PSICOTERAPEUTA

IL TITOLO ALLUDE AD UNA METAFORA, QUELLA DELLA

navigazione o quella dell’odissea, che utilizzerò, da un puntodi vista didattico, lungo tutto il mio contributo per nondisperdere i concetti importanti.

Lo sguardo sul disagio giovanile che esporrò è uno sguar-do che muove da una postazione clinica, di chi fa diagnosi eterapia dei disturbi di bambini e adolescenti. è un rischio, masi è valutato utile proporre un contributo di chi si occupa dicura. D’altra parte, se è vero che la mia posizione clinicapotrebbe deformare la visione sui disagi e i disturbi, c’è unacorrezione parziale di questo rischio, legata alle mie esperien-ze professionali, in particolare all’aver coordinato - in questaprovincia - i consultori materno-infantili per circa vent’anni.

L’obiettivo che mi pongo è tentare un chiarimento e unadefinizione concettuale e lessicale, condivisibile e fruibileoperativamente rispetto a termini che si prestano a molta

un pò male, andare giù di corda, sudare, la frustrazione, la sofferenza, lo smar-rimento. Sono esperienze che non possiamo eliminare, anzi c’è da crescerci den-tro, bisogna imparare a conviverci.

è vero che c’è la contrarietà dei venti e che ci sono dei naufragi, dopo i qualirecuperiamo le navi.

C’è, talvolta, l’insensatezza del navigare: non si sa verso dove e perché, l’etàdei ragazzi si presta molto a ciò e questo è interessante, perché a quest’età ci sipone domande che, in seguito, non ci si pone più, perché da adulti s’impara adanestetizzare tutto.

Gli adolescenti sono in grado di convivere con la sofferenza, con il disagiogiusto, con il non sapere talvolta dove si è e cosa si fa, senza perdere l’ottimismo,la grinta e la forza di realizzare la rotta per il gusto di realizzarla, di compiersi.

Da questa prima riflessione possiamo dedurre che dovremmo, in qualchemodo, promuovere gli agi senza farci ossessionare dai disagi. E tuttavia è piùfaticoso promuovere gli agi che chiamare gli psicologi, gli psicoterapeuti e faregruppi terapeutici sui disagi. Ci si scarica di più, a segnalare, fare, consultare.

C’è molto da lavorare, invece, per il compimento gioioso delle potenzialitàvitali.

Come insegnanti, avete a che fare con un patrimonio di culture potenziali evitali, altissimo; dai dodici ai diciotto anni non c’è solo la questione della buferaormonale. Un tempo si pensava che tutto fosse legato al sistema endocrino, al sue giù del dosaggio ormonale e la vitalità coincideva con la grande pulsione sessua-le, con l’aggressività. Oggi si sa che tra i dodici e i diciotto anni c’è in atto, a livel-lo cerebrale, un grande disboscamento e un grande rimboscamento. Nella forestadel cervello, in questa fase della vita, c’è la perdita di un terzo circa di sinapsi e ilricambio di una quota pari quasi alla metà delle connessioni cerebrali.

Dobbiamo, quindi, disporci ad accogliere con sguardo lucido, e animo fieroe allenato, tutto ciò. Non basta il principio della conoscenza, occorre anche lavirtù della temperanza, la presenza della fortezza e del coraggio. Bisogna recu-perare le virtù, oltre che i principi cognitivi; dobbiamo accogliere l’ineludibilequota di inconcludenza, di sofferenza, spesso di destino avverso che c’è nellanostra vita e nella vita degli adolescenti, che non vuol dire arrendersi di fronteal lato tragico della vita.

Occorre una forza lucida, perché è vero che se da una parte siamo schiacciatidai sogni ideali e dagli obiettivi che abbiamo, dall’altra dobbiamo confrontarci conla realtà e cercare uno spazio di manovra, nel quale inserire il nostro lavoro e inostri sforzi. Questo è un compito esistenziale che va applicato su di sè.

In questo vasto mare degli agi e dei disagi, descritti come condizioni norma-li, recuperiamo un’alta percentuale di situazioni adolescenziali.

confusione: crisi, sviluppo, disagio, sofferenza, disturbo, malattia, disabilità.Termini sovente usati come sinonimi, dietro ai quali invece ci sono concetti dif-ferenti. Alcuni di essi sono monete usurate che hanno perso il loro valore, altrisono usati in ambienti non propri, alludendo a significati diversi. Non è male,quindi, fare un dizionario badando alla sostanza.

Il primo obiettivo è recuperare il disagio come una condizione ineludibile:non si può fare a meno di vivere con il disagio (tutti viviamo nel disagio) perchéquesta è una condizione intrinseca della crescita e dell’esistenza. Tutti noi siamoun intreccio di agio e disagio.

Già parlare del disagio dei giovani suona come una cosa negativa, invecedovrebbe essere recuperata come una condizione normale. E questo si può faresolo parlando contemporaneamente di agio e di disagio dei giovani.

Recupero ora la metafora del titolo:L’esistenza è come una navigazione complicata, insicura e complessa per

definizione, con rotte tracciate ma imprevedibili, con bonacce e tempeste,legate al contempo alla qualità strutturale del naviglio e alla scuola di nuoto edi navigazione frequentata; ai porti d’attracco, di scalo tecnico, di rifugio, aicapricci dei venti.

Siamo precari e insicuri. Ciascuno di noi ha una parte di destino tracciato,rotte prefigurate. Sta a noi tracciare quelle definitive, che comunque sono rotteimprevedibili. Per questo l’ansia è l’elemento comune a tutta la biosfera, a tuttigli esseri viventi. L’ansia è un’emozione buona che segnala l’imprevedibilità el’insicurezza.

Una parte della nostra esistenza dipende dal fato. Si tratta di capire a chepunto della navigazione siamo inseriti e che cosa possiamo o non possiamo fare.

In questo vasto mare dell’agio e del disagio occorrerebbe innanzitutto recu-perare la questione degli agi e mettere l’accento sul 90-95% degli adolescentiche, mediamente, stanno bene e in cui la somma algebrica degli agi e dei disagiha sempre un saldo positivo.

Agi che, generalmente, non si vedono perché sono nascosti dietro compor-tamenti disordinati, confusi e dietro inquietudini emotive: il gusto di individua-re le rotte e compierle, la calma di una bonaccia, la noia buona dei nostri adole-scenti, la sicurezza di un porto, gli affetti dei compagni di viaggio, che non sem-pre sono quelli negativi, il gusto di frequentarsi e star bene insieme.

è interessante notare che non c’è bisogno di un clinico per medicalizzare gliadolescenti: la nostra società è già, da un punto di vista culturale, dominata daun ordinamento medico.

Ci sono inoltre i disagi giusti, buoni, cioè la fatica di vivere il percorso, lo stare

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ADOLEScENTI E cODIcE vERDE

Non possiamo, però, sottrarci al fatto che il saper riconoscere deve necessa-riamente avere un minimo di riferimento di termini e di tecniche condivise.Dobbiamo riferirci ad una cornice di lettura comune su ciò che succede nellatesta, sulla differenza che c’è tra un disagio e un disturbo, su come si forma, inlinea di massima, un disturbo mentale, per non fare confusione.

Esistono varie cornici di riferimento, ma oggi quelli che lavorano in età evo-lutiva, sia nella neuropsichiatria infantile, sia in pedagogia, fanno sovente riferi-mento a un modello che è quello della psicopatologia evolutiva: è una scienzaantica, una disciplina della psichiatria che si occupa, da molti decenni, di comesi costruiscono e formano i disturbi mentali.

Perché si forma un disturbo mentale? Come e quando? Questo è da tempooggetto di studio della psicopatologia. Ai tempi dei manicomi ci si occupava deidisturbi psichiatrici più gravi, ora lo studio e la ricerca sono concentrati su duetematiche: la continuità e discontinuità tra uno sviluppo bio-psicologico norma-le e uno sviluppo patologico (in età evolutiva c’è un continuum tra il “normale”e il “non normale”).

Una seconda linea di studio è quella dello sviluppo longitudinale lungo ilcorso della vita dei disturbi psicopatologici (da bambino, da adolescente e daadulto). Questa è una prospettiva molto interessante, perché due terzi dei distur-bi psichiatrici dell’adulto sono in incubazione nell’età evolutiva, purtroppo nondiagnosticati.

Diventa importante, quindi, capire come e con che modalità alcuni disturbipossano essere tempestivamente riconosciuti e curati, perché in caso contrariosembra all’apparenza che si riassorbano: come un fiume carsico si nascondonoper poi riemergere dopo anni sotto forma di un altro disturbo collegato.

Queste sono linee di studio interessanti che servono per capire e per orien-tarci su cosa è possibile fare.

Ora provo a mettere in connessione quanto sinora proposto: pensiamo algrande mare dell’agio e del disagio, e, nella parte sottostante, immaginiamo divedere saltare fuori un blocco interessante, un serbatoio di forte e persistentedisagio psicosociale (senza il forte e il persistente non vale) che riguarda quattrominori su 100, circa 1.600 nella nostra realtà provinciale.

Anche in relazione a questo serbatoio del codice verde ci sono da fare dellecose.

Si tratta di forte e persistente disagio psicosociale, quindi qui occorre comin-ciare a non usare il termine disagio in senso indistinto, e sarà più difficile discri-minare in questo senso, bisogna accettare la difficoltà e il rischio qualche voltadi sbagliare la diagnosi.

ADOLEScENTI E cODIcE BIANcO

Per proseguire nella riflessione sui gravi disagi e sui disturbi, vorrei proporrel’immagine del triage, a cui probabilmente siamo abituati, cioè quella particola-re attività che, nel pronto soccorso, l’équipe infermieristica compie all’accoglien-za, assegnando a seconda della gravità della situazione un bollino rosso, giallo,verde e bianco.

Riportandoci a quanto ho proposto sino ad ora, possiamo affermare che inun pronto soccorso sarebbe contraddistinto dal codice bianco. Chi va al prontosoccorso e gli è assegnato il codice bianco, un pò si vergogna, perché pensa cheavrebbe potuto cavarsela da solo, o con l’aiuto di un buon medico di base o diun pediatra.

Proviamo a delineare bene il codice bianco: è proporsi come modello tacitodi positiva costruzione di sé, ma anche di fiera accettazione del dolore, lucidaaccettazione di quella quota di inconcludenza e di sofferenza che c’è e che biso-gna imparare progressivamente e anche velocemente a portare con sè.

Proporsi come modello è uno dei nodi centrali come adulti: tutti coloro chehanno scelto un lavoro con le persone, sono modelli, volenti o nolenti. Gli inse-gnanti lo sono, e se vogliono stare bene, anche loro devono imparare a muover-si in questo mare. Un secondo aspetto importante ha la sua radice nel giuramen-to dei medici, di Ippocrate, che dice “primum non nocere”. Nell’area del codi-ce bianco, quindi, un compito importante degli adulti è non aggiungere altri fat-tori di rischio e vulnerabilità a quelli che già ci sono.

Con il nostro lavoro, si tratta di garantire fattori di protezione. Chi deve farlo? Ovviamente chi è co-protagonista della navigazione degli

adolescenti, come, ad esempio, gli istruttori nautici. I compagni di viaggio e gli istruttori di nuoto e di navigazione, come gli inse-

gnanti, devono saper riconoscere le particolari condizioni per cui un numero,più o meno consistente, di giovani imbarcazioni e naviganti si incaglia transito-riamente, ma non affonda (l’avverbio transitoriamente ha un suo senso di rever-sibilità), devia dalla rotta di crescita, per poi ritornarci. Non è un dramma anda-re sulle strade comunali o sulle stradine di campagna per un anno o due, stagna-re talvolta in acque limacciose o inconcludenti, pur se questo può produrre ilrischio di imputridire o di prendere la malaria, danni non sempre facilmenteriparabili.

Su questo “saper riconoscere” si scatena il finimondo, perché molti sosten-gono di non avere gli strumenti o di non sapere come si fa. Ricordo a tutti checiascuno sa cosa c’è nel proprio naviglio, che non è poco, e poiché i navigli sonoper un’alta percentuale tutti uguali sia per le rotte, sia per la composizione, gliadolescenti non risultano rispetto a noi degli extraterrestri incomprensibili.

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ca ad esserlo, occorre rifugiarsi, almeno transitoriamente, nel compito “primo,non nuocere”. Ci si mette in riserva, tra coloro che non fanno danni, provviso-riamente, per essere riattivati in seguito.

Non occorre invadere le scuole con nuove schiere di psicologi o psicopeda-gogisti. è più bello pensare che ciascuno possa provare ad esserlo con i venti,trenta ragazzi di cui si occupa direttamente.

Le possibilità di ascolto vanno date e deve essere un ascolto esperto, compli-ce (con quella giusta complicità che gli adolescenti giocano), extra-familiare (chenon vuol dire tagliare fuori la famiglia), perché spesso questa complicità la sicerca proprio fuori dalle figure parentali, salvo poi recuperarle in seguito, maga-ri anche bruscamente.

Eventualmente, occorre organizzare incontri mirati su gruppi omogenei perfattori di rischio di vulnerabilità, minimamente duraturi nel tempo. Funzionanose sono interventi extracurricolari, effettuati con la collaborazione e supervisio-ne di consulenti tecnici, esperti di prevenzione secondaria, quindi non il prima-rio di neuropsichiatria infantile o il medico, anche se è vero che c’è una cosamolto curiosa nei paesi latini, ed è che la conoscenza su come si funziona, nelgrande mare dell’agio e del disagio, c’è l’ha, sovente, di più chi fa le riparazioni.Da sempre i pastori di anime sono stati i migliori conoscitori dell’animo umanonormale. Perché? Perché erano quelli che continuavano a sentire i peccati ditutti. Chi sente i peccati man mano conosce l’animo umano. Lo stesso vale perchi cura i disturbi.

Servono esperti di prevenzione secondaria, che non siano dotati di D.S.M.,del manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, ma che diano una manoper individuare cosa bolle dentro questo serbatoio.

Chi? Ovviamente oltre agli insegnanti, il pediatra di fiducia, il medico di fami-glia che possono essere i veri confidenti dei ragazzi, più dei genitori o degli ope-ratori allo sportello.

Ovviamente ci si riferisce agli spazi di ascolto scolastici, parrocchiali o quan-to altro, e ai servizi di consulenza e primo intervento, di diagnosi e cura, ai con-sultori, ai consultori per i giovani, al counselling, ecc.

ADOLEScENTI E cODIcE ROSSO

Relativamente al codice rosso i docenti, pur avendo alcune funzioni, nonsono coinvolti direttamente.

Il codice rosso riguarda l’area delle persone che presentano disturbi, in cui siopera su come si formano e come si strutturano i disturbi.

Recuperiamo la cornice teorica di quella psicopatologia evolutiva di cui par-

L’attesa stimata è del 4%, non del 50% degli adolescenti. Si tratta di una sofferenza mentale mascherata, che non viene espressa con

sintomi espliciti di disfunzione mentale, in cui il protagonista non solo non rico-nosce di essere sofferente, ma neanche lo dice, fa esattamente dell’altro mentrevive questa sofferenza, ad esempio tiene comportamenti disordinati.

D’altra parte è una sofferenza in cui non ci sono le condizioni per diagnosi cli-niche precise. Devono esserci importanti disagi: l’aggettivo “forte” conta moltonel distinguere coloro che possono vivere disagi ma in modo non importante,non ripetuto, non persistente. Si fa fatica a distinguere fra la persistenza, l’insi-stenza, la durata e i segni di immaturità e di discontrollo emotivo. Il grande disor-dine che i ragazzi hanno dentro, non riuscendo a gestirlo, lo spostano nel faredelle cose. Questo lo facciamo tutti, quando abbiamo un turbamento fortissimoci si agita, si fa qualcosa, ci si sposta anche su disordini comportamentali.

Si sviluppa una scadente autostima, proprio per il disagio in sé, perché undisagio che dura moltissimo fa venire all’interessato il sospetto di non valereniente, di essere nei guai, di essere davvero quel deficiente che tutti dipingono,anche se non lo è.

Questo è un grande serbatoio per i disturbi psichiatrici che si sviluppano inetà adulta, un serbatoio non diagnosticabile.

Vediamo ora che lavoro si può fare con questi ragazzi. Ci sta l’intervento pre-coce e mirato, di prevenzione secondaria, per andare sui gruppi a rischio e suisoggetti veramente a rischio. Non sono a rischio tutti gli adolescenti che hannodisagi, perché una quota di rischio nella vita lo corriamo tutti.

Qui c’è bisogno di personale, non solo sanitario, ma anche di altre professio-ni, per evitare di liquidare come disturbo questo serbatoio di forte disagio psi-cosociale per ansia nostra o per superficialità o ignoranza o per eccesso di zelo.Da un lato si producono danni applicando etichette quando non c’è n’è bisognoma, del resto, c’è il problema di una definizione per poter aiutare questi ragazzisenza stigmatizzarli.

C’è da affinare la sensibilità e la capacità di rilevare il disagio forte e persisten-te; bisogna diventare sempre più bravi a individuarlo, senza fare di ogni erba unfascio. Occorre distinguere il grano dalla paglia, anche se difficile, perché ilgrano potrebbe essere in ritardo di maturazione, o talvolta c’è di mezzo dellapaglia, che in misura minima è sopportabile, ma se cresce può soffocare il grano.Occorre avere l’occhio esperto del contadino.

Occorre incrementare ascolto e accoglienza. Sono termini delicati che riguar-dano una fase in cui è possibile attuare interventi di prevenzione secondaria enon di cura.

Occorre proporre un ascolto empatico, entusiasta. Non occorre fare dei corsiper diventare entusiasti, però moderatamente aggiornarsi sì. Non si può agire sulcodice verde se non si è moderatamente appassionati, e se non lo si è, e si fa fati-

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40% dei disturbi sono assorbibili completamente, il 20% sono fortementemigliorabili.

C’è, in sostanza, da lavorare molto sui fattori di protezione, e questo spettaai genitori, ai docenti, a tutti quelli che possono operare in tal senso. Nella scuo-la, che è uno dei principale ambiente di vita degli adolescenti, gli insegnanti sonofattori di protezione e di integrazione relazionale e sociale.

lavo. è universalmente accettato che le condizioni di benessere/malessere flut-tuante di un individuo sono date dalla dinamica interazione di diversi fattori: ifattori biologici, cioè la genetica (di cosa è fatto il naviglio, la nave) e il tempera-mento (che è biologico e che non è acquisito), i fattori psicologici, cioè il fun-zionamento, sia cognitivo che emotivo e i fattori relazionali e sociali.

In questa struttura instabile e in continua evoluzione, si determinano linee divulnerabilità e linee di resistenza e resilienza.

Come si struttura un disturbo attorno a queste linee? Si struttura quando talilinee di frattura determinano modi di pensare, di provare emozioni e di agireincongrui e non adeguati, che danno disordine e sofferenza; soprattutto si orga-nizzano programmi mentali autonomi che si autoalimentano e si perpetuano, adispetto e a danno dell’individuo che li ha strutturati.

Questo è lo schema che riassume quanto detto:> equilibrio bio-psico-sociale > linee di vulnerabilità e resilienza> (talvolta, ma non in tutti, se c’è) un trauma o uno stress che può pre-

cipitare in un disturbo. Una quota importante di disturbi precipita anche senza causa attuale per col-

lasso interno del sistema lungo le linee di vulnerabilità.

* * * * *

L’insegnante entra in questa dinamica con una funzione di antidoto naturale.Ovviamente su quelli del grande mare dell’agio e del disagio si pone un proble-ma di esserlo senza continuare a fare gli entusiasti, di esserlo cioè naturalmente.Se invece si è interessati a guardare anche l’adolescenza da codice verde occor-re avere più competenza nel trovare i fattori di protezione aggiuntivi, perché gliadolescenti che entrano in quest’area hanno bisogno di qualcosa di più di quel-li del codice bianco, hanno bisogno di antidoti, di vaccinazioni e è necessariooccuparsi dei loro fattori di rischio.

Infine i ragazzi da codice rosso, quelli con i disturbi, sono la punta di un ice-berg abbastanza costante nel tempo (nel nostro territorio circa 800-900 adole-scenti) oltre ai duemila adolescenti da codice verde e ai quarantamila del grandemare dell’agio e del disagio.

Rispetto agli adolescenti da codice rosso, i docenti dovrebbero avere unaposizione e un’intenzione positiva, una prospettiva ottimistica: in adolescenza il

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IL NIDO D’INFANZIA NELLAPROvINcIA DI PIAcENZA.EDUcATRIcI E GENITORI AcONFRONTO

Roberto MaurizioRICERCATORE SOCIALE E FORMATORE

PREmESSA

Nell’ambito delle iniziative finalizzate a sostenere e quali-ficare le politiche locali per l’infanzia e l’adolescenza, ilServizio Sistema Scolastico della Provincia di Piacenza hapromosso una ricca serie di riflessioni e di confronti.

Nel confronto con il Coordinamento pedagogico provin-ciale, organo tecnico consultivo della stessa Provincia, sonoemerse diverse questioni, una di queste riguarda la possibiledistanza tra i modelli educativi dei nidi e delle famiglie, cheapparentemente diventa sempre più rilevante e incidente neirapporti tra servizio e genitori.

Di qui l’idea di sviluppare un percorso di ricerca per com-prendere se, e quali, differenze esistano nei modi di pensarel’educazione nei genitori e nel personale educativo dei nidi.

Il Coordinamento ha definito il progetto di ricerca, hacostruito gli strumenti d’indagine e ha definito tutti gli aspet-ti operativi. Per il lavoro di ricerca è stato supportato da chiscrive, in funzione di formatore - ricercatore messo a dispo-sizione dalla Provincia.

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Lo spazio a conclusione del contributo è dedicato al confronto tra i dati rac-colti nei due gruppi di rispondenti, per le domande poste in egual modo a cia-scuno di essi.

cHI HA RISPOSTO ALL’INDAGINE

L’obiettivo del Coordinamento Pedagogico provinciale è stato sostanzial-mente raggiunto: il questionario è stato consegnato, debitamente compilato, da209 educatrici e da 906 nuclei familiari (oltre il 70% di tutti i nuclei presenti neinidi piacentini).

Per quanto riguarda le educatrici si tratta di persone tutte di nazionalità ita-liana; il 72% delle educatrici ha oltre 40 anni, il 65% ha un proprio nucleo fami-gliare, il 24% vive con la propria famiglia d’origine, il 11% vive da solo. Il 42%ha figli.

In ordine ai rapporti di lavoro emerge come il 74% abbia un lavoro a tempoindeterminato ed il 22% a tempo determinato (il 5% altre forme di lavoro) e, perquanto attiene il tipo di ente per cui si lavora, la metà delle educatrici lavora perun ente pubblico, il 41% per una cooperativa, il, 9% per un’impresa privata.

Il gruppo dei genitori partecipanti all’indagine è composto da 906 genitori. L’età media è di circa 38 anni per i padri e di circa 35 per le madri.Si tratta di un gruppo composto nel 84% dei casi da genitori entrambi italia-

ni, nel 10% da genitori di altra nazionalità e nel 5% da coppie miste (di cui unodei due è italiano). Per quanto riguarda le nazionalità le provenienze più ricor-renti sono quella dell’Albania, dell’Ecuador, della Romania, della Francia e delMarocco. I genitori stranieri sono arrivati in Italia in media da 8 anni i padri, da10 anni le madri.

Il numero complessivo dei figli è di 1.424, con una media di 1, 6 figli pernucleo famigliare.

La situazione lavorativa vede i padri coinvolti in un lavoro a tempo pieno nel74% dei casi, in un lavoro senza limitazioni di orario nel 16% dei casi, in unasituazione di non lavoro o lavoro occasionale il 6%. La situazione delle madriregistra una presenza di poco inferiore al 50% di donne con lavoro a tempopieno, a cui si somma il 28% di madri con lavoro part-time e il 12% di madriche non lavorano o hanno un lavoro occasionale.

Risiede a Piacenza il 46% dei nuclei genitoriali rispondenti.

Operativamente si è deciso di costruire due strumenti di rilevazione: uno perle educatrici dei nidi e uno per i genitori con i figli inseriti nei nidi, con il massi-mo di temi e domande identiche per favorire il confronto dei punti di vista.Successivamente, si è deciso di tradurre il questionario per i genitori in diverselingue (inglese, francese, spagnolo, albanese, arabo) per favorire la possibilità dilettura e risposta anche a genitori con scarsa conoscenza della lingua italiana.

La somministrazione è stata realizzata nella primavera 2008. I risultati sonostati fin qui parzialmente anticipati alle stesse educatrici nel corso di uno degliabituali momenti di aggiornamento, svoltosi l’11 ottobre 2008.

L’indagine sviluppata è stata non di tipo campionario (con un campione rap-presentativo delle due popolazioni, quella delle educatrici e quella dei genitori),ma censuario (con l’idea di raggiungere le due intere popolazioni).

I temi affrontati nel questionario sono stati numerosi:> le motivazioni per l’inserimento nei nidi, > i vantaggi e svantaggi percepiti, > le attese dei genitori dalla partecipazione al nido, per sé e per i pro-

pri figli, > il rapporto tra educatrici e genitori, > il confronto sulle questioni educative, > l’esistenza, di richieste di aiuto da parte dei genitori alle educatrici

ed i contenuti relativi, > la capacità dei nidi di rispondere alle domande-bisogni dei bambini

e dei genitori, > la valutazione degli orari dei nidi, > gli aspetti dei nidi da migliorare, > i bisogni più importanti dei bambini e dei genitori, > le forme di aiuto tra genitori, > il significato della cura educativa e le differenze tra cure in famiglia

e cure nei nidi, > la percezione circa le famiglie al giorno d’oggi, > la presenza di bambini e famiglie straniere nei nidi, > i comportamenti dei bambini che preoccupano, > l’evoluzioni del servizio nido.

Qui sono esposti i dati più rilevanti raccolti e costruiti attraverso la ricerca. In prima istanza sono esposti i dati relativi alla descrizione dei due gruppi di

persone intervistate (genitori ed educatrici). A seguire sono illustrati i risultati del-l’indagine con il personale educativo e, successivamente, quelli dell’indagine coni genitori.

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comuni della provincia) e il tipo di ente promotore del nido (pubblico o privato).Le differenze in relazione alla prima variabile sono minime: emerge una mag-

giore valutazione delle educatrici che operano in nidi fuori dal capoluogo rispet-to a quelle che operano in città, sull’attesa dei genitori di essere bene accolti(52% vs 46%), mentre le educatrici piacentine ritengono in misura maggiore diquelle della provincia di cogliere un maggiore interesse rispetto al potersi con-frontare sui problemi del bambino (34% vs 28%).

Le differenze rispetto alla seconda variabile sono più consistenti: le educatri-ci “pubbliche” attribuiscono ai genitori maggiori attese rispetto all’essere beneaccolti di quanto esprimano le operatrici “private”, così come di sentirsi parte-cipi dell’educazione del figlio, mentre le educatrici dei nidi privati mettono inluce attese dei genitori più orientate a essere informati su ciò che succede nelservizio e sulla possibilità di potersi confrontare sui problemi del bambino.

Come avviene per qualsiasi servizio rivolto a persone l’incontro – in questocaso nei nidi, con bambini e genitori – è una preziosa occasione per gli opera-tori di osservare e cogliere elementi di comprensione delle situazioni di vita dellepersone con cui interagiscono, dei loro bisogni e delle loro problematiche.

L’immagine che emerge nelle risposte delle educatrici sulla situazione dellefamiglie non è ottimistica: le famiglie di oggi sono percepite stanche, sole esenza particolari punti di riferimento, incapaci di gestire le tensioni, interne edesterne, che si trovano ad affrontare:

> la dimensione della stanchezza e dell’affaticamento delle famiglie èstata indicata dal 77% delle educatrici,

> la dimensione della solitudine e mancanza di reti di riferimento èstata annotata dal 37% delle educatrici,

> la dimensione della difficoltà di gestire tensioni è stata indicata daoltre un quarto delle educatrici.

Emerge, altresì, una notevole difficoltà delle famiglie ad essere risorsa peraltri; come evidenziato nella tabella 2.

LE OPINIONI DELLE EDUcATRIcI

Il primo quesito posto alle educatrici riguarda i motivi che spingono le fami-glie ad iscrivere un figlio al nido.

Nelle risposte delle educatrici l’accento è posto su tre motivazioni, una netta-mente prevalente sulle altre due: quella che la quasi totalità delle educatrici indi-ca concerne le necessità che derivano dal lavoro di genitori, aggravate dalla man-canza di figure parentali a cui affidare il bambino. A complemento di questa lametà circa delle educatrici, però, ritiene che vi sia anche una scelta educativa.

Poiché, come evidenziato in premessa, gran parte del personale dei nidi hapiù di cinque anni di anzianità, si è cercato di capire se nel tempo sono statinotati cambiamenti circa i motivi per la frequenza del nido.

Un quarto delle educatrici ritiene che siano intervenuti cambiamenti rilevan-ti, mentre il 58% ritiene che i motivi non siano cambiati: necessità collegate allavoro connesse alla mancanza di figure parentali e, in misura minore, scelta edu-cativa.

Un secondo quesito posto alle educatrici riguarda le attese dei genitori inrelazione all’inserimento del proprio figlio in un nido.

La metà delle educatrici – come indicato nella tabella 1– indica nell’esigenzadi essere ben accolti l’attesa più frequente. Poco più di un terzo delle educatriciindividua, invece, nel sentirsi partecipi e nell’essere informati su ciò che succe-de nel servizio altre due attese importanti.

Altre attese, come ad esempio poter concordare la partecipazione al servizioo poter dare dei suggerimenti sulle attività da svolgere non sembrano particolar-mente interessanti per i genitori.

Tab. 1 – Opinione delle educatrici sulle attese dei genitori verso il nido

Le opinioni delle educatrici sono state analizzate anche in relazione a due varia-bili: il luogo di collocazione del servizio in cui operano (Piacenza città o altri

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45%) e di orari diversi di lavoro (73% vs 61%) così come le educatrici che ope-rano in nidi pubblici, rispetto alle colleghe (sostegni economici 54% vs 45%)(orari diversi 75% vs 63%).

I bambini, secondo le educatrici, hanno principalmente bisogno di cure affet-tive e in misura minore di cure fisiche, di apprendere regole di comportamento,di esprimersi, di esplorare l’ambiente.

Tab. 4 – Opinione delle educatrici sui bisogni dei bambini oggi

Le educatrici di Piacenza, rispetto a quelle della provincia, pongono maggior-mente l’accento sui bisogni dei bambini di cure affettive (64% vs 57%), di curefisiche (26% vs 19%), di gioco e divertimento (22% vs 17%), mentre le educa-trici in provincia sottolineano l’esigenza di socializzare con altri bambini (54%vs 46%), di imparare regole di comportamento (51% vs 44%), di imparare aesprimersi (20% vs 18%) di distaccarsi dai genitori (14% vs 6%).

Le educatrici dei nidi pubblici, rispetto a quelle dei nidi privati, pongonomaggiormente l’accento sui bisogni dei bambini di cure affettive (69% vs 54%),di cure fisiche (26% vs 21%), di gioco e divertimento (28% vs 14%), mentre leeducatrici dei nidi privati sottolineano l’esigenza di socializzare con altri bambi-ni (56% vs 42%), di imparare regole di comportamento (51% vs 43%), di impa-rare a esprimersi (21% vs 17%) di esplorare l’ambiente (16% vs 9%).

Uno dei temi centrali dell’analisi è quello del rapporto tra i genitori dei bam-bini accolti nei nidi e il personale dei servizi.

Tab. 2 – Opinione delle educatrici sulle famiglie di oggi

Relativamente alle differenze interne al campione, le due variabile non inci-dono particolarmente. L’unica differenza significativa riguarda la riconduzioneal binomio pubblico/privato. In particolare emerge che la metà delle educatriciche operano in enti pubblici esprime l’idea di famiglie sole e con poche relazio-ni ed aiuti mentre questa opinione è frequente solo nella misura del 25% tra leeducatrici dei privati. Queste ultime, per converso, in misura più che doppiarispetto alle educatrici del pubblico pensano alle famiglie come incapaci di gesti-re i conflitti e le tensioni (35% vs 16%).

I bisogni più importanti dei genitori nella percezione delle educatrici sonodiversi: per il 70% è “avere sostegni economici per la cura dei figli”, seguito dal-l’esigenza di aperture prolungate dei servizi pubblici (sanitari, pediatra di base,anagrafe, ecc.) (49%).

Tab. 3 – Opinione delle educatrici sui bisogni dei genitori oggi

Le educatrici dei nidi di Piacenza sottolineano maggiormente, rispetto allecolleghe di fuori città l’esigenza delle famiglie di sostegni economici (52% vs

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Tab. 6 – Opinione delle educatrici sul confronto con i genitori

In ordine al terzo aspetto preso in esame, la richiesta di aiuto, il 94% delleeducatrici dichiara che nel corso dell’ultimo anno ha avuto richieste dai genitoriper qualche difficoltà del figlio, soprattutto nei nidi fuori Piacenza (97% vs 91%)e, con minore scarto, nei nidi pubblici (95% vs 92%).

Gli argomenti rispetto ai quali i genitori hanno chiesto aiuto alle educatricisono diversi. Ciascuna educatrice poteva indicare i tre principali, scegliendo dauna lista predisposta ad hoc.

Il tema più ricorrente, delle richieste di aiuto è l’eliminazione del pannolino. Aseguire si trovano i capricci, l’aggressività, le regole educative e l’alimentazione.

Tab. 6 – I temi su cui i genitori chiedono consulenza

Sull’evoluzione quantitativa delle richieste di aiuto il campione si divide quasia metà, fra chi coglie un aumento e chi una stabilità.

A questo proposito sono stati presi in esame diversi aspetti: il rapporto nelsuo complesso, il confronto sulle questioni educative, le richieste di aiuto daparte dei genitori alle educatrici.

In ordine al primo aspetto, le educatrici esprimono una valutazione positivadel rapporto con i genitori e di come sono riconosciute come educatrici: il 40%circa di esse si sente riconosciuta come educatrice, il 27% si sente ascoltata comeeducatrice, il 18% si sente in sintonia con i genitori. Non mancano le percezionicritiche, anche se percentualmente rappresentano valori inferiori: il 12%, infatti,si sente giudicata come educatrice e il 4% si sente ignorata come educatrice.

Tab. 5 – Opinione delle educatrici sul rapporto con i genitori

Le educatrici degli enti pubblici - più delle colleghe dei nidi privati – valuta-no il rapporto con i genitori in termini di riconoscimento e sintonia: il 30% inve-ce del 23% si sente ascoltata e il 41% invece del 37% si sente riconosciuta comeeducatrice.

Un aspetto su cui le educatrici rilevano elevato accordo e convergenza con igenitori è il tema delle regole: tutte le educatrici ritengono che ai bambini occor-ra proporre delle regole e il 95% ritiene che su questo punto vi sia totale sinto-nia con i genitori.

In ordine al confronto sulle questioni educative, le educatrici esprimono inlarga misura (47%) la sensazione che vi sia meno confronto di quanto loro siattendevano, mentre il 40% circa ritiene che la realtà combaci con le aspettative.

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Le due tabelle seguenti ed i grafici illustrano i risultati riferiti alla capacità deinidi di rispondere ai diversi bisogni di bambini e genitori.

Tab. 9 – Opinione delle educatrici sulla capacità del nido di rispondere ai bisogni deibambini (valori in percentuale)

Per ciò che concerne i bisogni dei bambini, le risposte delle educatrici pro-pongono un quadro differenziato di capacità: a fronte della capacità dei nidi dirispondere molto al bisogno di socializzare fa da contrappeso la minore capaci-tà di rispondere al bisogno di movimento.

Per ciò che concerne i bisogni dei genitori, le risposte propongono un qua-dro più omogeneo.

Tab. 7 – Opinione sulla quantità di richieste di consulenza nel tempo

L’opinione invece si ricompatta sull’individuazione delle tematiche. Il tempoconferma gli stessi temi: le regole, l’alimentazione, i capricci, l’aggressività.

Tab. 8 – Opinione sull’evoluzione nel tempo dei temi di consulenza

Un’altra parte del questionario proponeva alle educatrici la richiesta di valu-tare alcuni aspetti del servizio: in particolare si è chiesto di valutare quanto ilnido risponde ai bisogni dei bambini ed ai bisogni dei genitori, e quanto gli oraridei servizi sono adeguati alle esigenze dei genitori e dei bambini.

Nell’insieme, considerando i punteggi medi assegnati dalle educatrici, il 72%,ritiene che i nidi rispondano “molto” ai bisogni dei bambini, il 27% “molto” aibisogni dei genitori.

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Tab. 12 – Opinione delle educatrici sulla presenza di bambini stranieri nei nidi

Infine gli aspetti del servizio da migliorare. Dalle risposte emergono soprat-tutto due temi: gli ambienti interni ed esterni e il coinvolgimento dei genitori.Sul primo ha concentrato l’attenzione il 46% delle educatrici, sul secondo il 34%delle educatrici.

Tab. 13 – Opinione delle educatrici sugli aspetti del nido da migliorare

Queste le domande rivolte ai genitori:

> Quali sono i vantaggi o gli svantaggi principali per le famiglie cheinseriscono i figli al nido?

> Che tipo di comportamenti dei bambini la preoccupano?> Vi sono comportamenti dei bambini che preoccupano i genitori?> Quali sono i comportamenti dei bambini che preoccupano media-

mente i genitori?

Tab. 10 – Opinione delle educatrici sulla capacità del nido di rispondere ai bisognidei genitori (valori in percentuale)

L’orario del servizio è valutato adatto alle esigenze dei bambini e dei genito-ri da poco più del 50% delle educatrici. L’inadeguatezza registra valori contenu-ti, ma doppi nel riferimento ai bambini rispetto ai genitori.

Tab. 11 – Opinione delle educatrici sugli orari dei nidi

Altro tema oggi rilevante concerne l’inserimento dei bambini di nazionalitàstraniera. Le opinioni delle educatrici si differenziano: il 38% ritiene che siaun’opportunità di crescita per i nidi, mentre il 58% delle educatrici assegna aquesto fenomeno una valenza ambivalente.

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genitori stranieri è confermata dal fatto che tra di essi oltre il 54% non ha paren-ti vicini.

Tab. 15 – Possibilità di aiuto dei parenti

I dati raccolti confermano la centralità della figura materna nella cura fami-liare dei figli: sono principalmente le madri che si occupano dell’accudimentodel bambino (98%), dei colloqui con le educatrici (97%), delle cure in caso dimalattia (93%), mentre i padri intervengono nel trasporto del bambino al nido(il 44%), e nella custodia in caso di necessità (49%).

I nonni intervengono soprattutto per l’assistenza in caso di malattia (36%) oper accudire il bambino in situazione normale (22%), mentre il ricorso alla baby-sitter avviene quasi esclusivamente, in caso di necessità (12%).

Tab. 16 – Partecipazione alla cura del bambino

La gestione della vita quotidiana è “abbastanza” difficile per oltre la metàdelle famiglie. Se si considerano anche quelle che hanno dichiarato “molto dif-ficile” il totale raggiunge quota 65% due famiglie su tre sono in difficoltà.

Sono i genitori italiani, piuttosto che quelli stranieri, ad esprimere maggioredifficoltà nella gestione della vita quotidiana (12% vs 4%) e le famiglie conentrambi i genitori, piuttosto che quelle con un unico genitore (12% vs 9%).

> Cosa vuole dire “avere cura di un bambino”?> Che differenze esistono nella cura famigliare di un bambino e nella

cura in un nido> Quali sono le regole più importanti che cercare di insegnare ai bam-

bini nel nido?> Immaginando cosa può succedere nei prossimi cinque anni in que-

sto tipo di servizio, quali pensa siano i cambiamenti più probabili?> In che cosa rappresenta un’opportunità di crescita? In che cosa rap-

presenta un fattore di criticità?

LE OPINIONI dEI gENItORI

Sono 906 i genitori che hanno risposto al questionario e lo hanno fattosovente insieme (nel 53% dei casi entrambi i genitori, nel 45% dei casi solo lamadre, nel 2% solo il padre).

Il nucleo familiare dei genitori dei nidi è molto variegato: nel 94% sono pre-senti entrambi i genitori, nel 4% c’è un solo genitore, nel 2% vi sono altre com-posizioni (tra le quali i nuclei ricostituiti). In specifico prevale nettamente lasituazione di genitori coniugati (il 71% del campione) rispetto a quelli conviven-ti (24%).

Tab. 14 – Composizione delle famiglie

I nuclei familiari intervistati riescono solo parzialmente ad usufruire dell’aiu-to dei nonni o di altri parenti stretti quando necessario: il 30% può dispornesenza problemi, il 29% solo in caso di emergenze, il 11% limitatamente permotivi di distanza. Poco meno di un quarto non può in alcun modo avere que-sto aiuto. Tra i genitori italiani la possibilità di ricorrere all’aiuto dei parenti senzadifficoltà alcuna è maggiore che tra gli stranieri: 33% vs 7%. La difficoltà dei

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Tab. 19 – Principali bisogni delle famiglie

Cosa ha spinto questi genitori ad inserire nel nido il proprio figlio? le neces-sità collegate al lavoro (indicate dall’81% dei genitori intervistati con particolareenfasi dai genitori italiani e dalle famiglie con entrambi i genitori) e a seguire unascelta educativa (indicata dal 64% dei genitori italiani intervistati.

Tab. 20 – Motivazioni per l’iscrizione del figlio al nido

Sono tre le attese che i genitori esprimono con maggiore forza rispetto alnido: potersi sentire partecipi dell’educazione del figlio (indicato dal 48% dellefamiglie), potersi confrontare sui problemi del figlio (opzione scelta dal 46% deigenitori), poter essere informati di ciò che accade nel nido (indicato dal 38%delle famiglie).

I genitori soli hanno maggiormente evidenziato l’attesa di potersi confronta-re sui problemi del bambino e di essere coinvolti, mentre i genitori in coppiaesprimono maggiormente l’esigenza di sentirsi partecipi dell’educazione delfiglio e di essere informati.

I genitori stranieri hanno espresso in misura maggiore degli italiani l’esigen-za di sentirsi bene accolti (36% vs 16%), mentre i genitori italiani desideranopotersi confrontare sui problemi del figlio e essere informati.

Tab. 17 – Grado di difficoltà nella gestione della vita quotidiana

Anche le altre famiglie sono percepite in difficoltà. L’opinione dei nuclei digenitori intervistati in ordine a come sono le famiglie oggi mette in evidenza ilsenso di solitudine e stanchezza (segnalato da oltre tre quarti degli intervistati).Un quarto delle famiglie segnala la mancanza di riferimenti e la dipendenza dalladisponibilità dai nonni.

La stanchezza è maggiormente segnalata dalle coppie di genitori e dai geni-tori italiani, mentre la solitudine dai genitori soli e dai genitori stranieri.

Tab. 18 – Opinione dei genitori sulle famiglie oggi

Metà degli intervistati ritiene che le famiglie oggi abbiano bisogno di soste-gni economici per la cura dei figli e il 42% dei genitori pensa che le famiglie oggiabbiano bisogno di orari diversi di lavoro.

Meno dei 20% degli intervistati annota l’esigenza di aperture prolungate deiservizi pubblici.

L’esigenza di sostegni economici è espressa maggiormente dai genitori soli,rispetto a quelli in coppia (68% vs 49%), e dai genitori stranieri, rispetto a quel-li italiani (66% vs 47%).

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Tab. 23 – Possibilità di scegliere nuovamente il nido

La valutazione complessiva data al nido è molto alta: il 73% dei genitori ritie-ne l’esperienza del tutto positiva, il 26% la ritiene abbastanza positiva. Solo lo 0,2% la ritiene abbastanza negativa e l’1% è incerto. La valutazione è maggior-mente positiva tra i genitori italiani, rispetto a quelli stranieri (75% vs 59%), e trai genitori soli, rispetto alle famiglie con entrambi i genitori (91% vs 72%).

Tab. 24 – Valutazione globale del nido

Anche la valutazione degli orari del servizio è tendenzialmente positiva: il69% li ritiene adatti alle proprie esigenze e l’86% li ritiene adatti alle esigenze deibambini.

Per quanto riguarda l’adeguatezza alle esigenze dei genitori, la percentuale piùalta è espressa dai genitori stranieri (77% vs 68%) e da quelli di Piacenza (74%vs 65%), mentre per quanto attiene l’adeguatezza rispetto alle esigenze dei bam-bini non vi sono differenze.

L’inadeguatezza è segnalata da 31 genitori (il 3%) per quanto riguarda le esi-genze degli adulti e da 11 (l’1%) per quanto attiene i bambini.

Tab. 21 – Attese dei genitori rispetto alla partecipazione al nido

Sono state proposte una serie di domande per raccogliere le valutazioni deigenitori.

In primo luogo, emerge nei genitori la convinzione che, globalmente, la fre-quenza al nido abbia comportato per il figlio prevalentemente vantaggi (84% deigenitori), mentre è irrilevante la quota di chi annota in prevalenza svantaggi (trenuclei genitoriali, pari allo 0, 3%). Sono i genitori italiani ad essere maggiormen-te positivi nel giudizio: per l’84% di essi il nido ha rappresentato più vantaggirispetto al 79% espresso dai genitori stranieri.

Tab. 22 – Valutazione sul nido circa svantaggi e vantaggi per il figlio

La conferma di questa valutazione positiva arriva dalle risposte alla doman-da circa la possibilità di scegliere ancora il nido pur avendo altre possibilità:l’87% risponde affermativamente. Anche in presenza di alternative sceglierebbe-ro nuovamente il nido.

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Tab. 28 – Valutazione del rapporto con le educatrici

Quasi la metà delle famiglie intervistate afferma di aver chiesto – nel corsodell’ultimo anno – aiuto alle educatrici. La quasi totalità afferma anche che ciò èstato utile. Il 31% al momento non ha ancora avuto necessità di aiuto ma nonlo esclude per il futuro e il 20% non ne ha mai avuto bisogno.

I genitori italiani esprimono in misura maggiore di quelli stranieri la valuta-zione positiva circa il ricorso alla consulenza delle educatrici (47% vs 36%),mentre questi ultimi immaginano che potrebbe succedere loro in futuro.

Sono i genitori singoli ad aver utilizzato maggiormente l’aiuto rispetto allefamiglie con entrambi i genitori (61% vs 46%), che immaginano di utilizzarequesta risorsa in futuro.

Tab. 29 – Richieste di aiuto alle educatrici

Gli argomenti su cui i genitori hanno chiesto aiuto alle educatrici sono i piùvari: quelli prevalenti sono l’eliminazione del pannolino (tema indicato dal 27%dei genitori), l’alimentazione (indicato dal 20% dei genitori), le regole educative(20%) e i capricci (15%).

Tab. 25 – Valutazione dell’adeguatezza degli orari per i genitori

Tab. 26 – Valutazione dell’adeguatezza degli orari per i bambini

La valutazione del confronto esistente sulle questioni educative tra genitori eeducatrici mette in luce una significativa corrispondenza con le attese dei geni-tori: quasi il 68%, afferma che il confronto è rispondente alle attese, il 20% chec’è stato più confronto atteso. La percentuale dei genitori delusi, sotto questoprofilo, è del 12%.

Tab. 27 – Valutazione del confronto sulle questioni educative

Anche il giudizio in ordine al rapporto con le educatrici è di segno positivo:oltre il 60% dei genitori ritiene di sentirsi in sintonia con le educatrici e oltre il25% dichiara di sentirsi ascoltato. La quota di chi si sente giudicato, ignorato oin soggezione è - complessivamente – inferiore al 2%.

I genitori italiani si sentono maggiormente in sintonia dei genitori stranieri(63% vs 46%) che, per converso, sono quelli che esprimono maggiormente lasensazione di sentirsi ascoltati (36%).

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Tab. 35 – Bisogni più importanti del proprio figlio

Tra le difficoltà incontrate al primo posto risulta quella di conciliare i tempidi vita degli adulti con quelli del bambino (la metà dei genitori si è espressa intal senso). Una quota di poco inferiore di famiglie ha espresso anche di averevissuto difficoltà connesse a dubbi e incertezze di tipo educativo. Minore rile-vanza hanno riscontrato le altre difficoltà proposte ai genitori nel questionario.

Tab. 36 – Difficoltà incontrate nella cura dei figli

Di fronte a queste difficoltà i genitori hanno cercato di trovare al propriointerno le soluzioni e le risposte adeguate. Un quarto si è rivolto al pediatra,poco meno ad amici con figli, il 15% a parenti. La quota di chi si è rivolto aglioperatori del servizio è di poco superiore al 15% e la quota di chi si è confron-tato con altri genitori del servizio è intorno al 10%. Quasi nessuno si è rivolto aservizi di consulenza psicologica o psico-pedagogica.

Tab. 30 – Argomenti delle richieste di consulenza

I bisogni più importanti del proprio figlio sono individuati dai genitori nelbisogno di imparare regole di apprendimento (indicato dalla metà dei genitori),di socializzare (indicato dal 41% dei genitori), di cure affettive e di imparare adesprimersi (indicati da circa un terzo delle famiglie).

Per i genitori in coppia i bisogni dei figli più importanti sono socializzare eesprimersi, nonché apprendere regole di comportamento, mentre per i genitorisoli le esigenze maggiori sono le cure fisiche ed affettive, il gioco ed il distaccodal genitore.

I genitori italiani mettono l’accento maggiormente sul bisogno di cure affet-tive e sul movimento, mentre i genitori stranieri sul bisogno di cure fisiche.

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Per quanto riguarda i bisogni dei bambini il parere dei genitori individuasoprattutto la capacità di rispondere al bisogno di socializzare (88%) e di gioca-re e divertirsi (87%). A seguire sono messi in evidenza anche la capacità di aiu-tare i bambini a sviluppare la creatività (77%) e a fare esperienze non realizzabi-li in casa (74%).

Tab. 31 – Capacità dei nidi di rispondere ai bisogni dei bambini(valori in percentuale)

Per quanto riguarda la capacità del servizio di dare risposta ai bisogni deigenitori: il 34% ritiene che i nidi siano molto capaci di dare risposta al bisognodi conoscere meglio lo sviluppo infantile, il 30% ad acquisire maggiore sicurez-za nell’educazione, e di conoscere meglio il proprio figlio. Da annotare la quotadi genitori intorno al 15-20% attribuisce ai servizi scarsa o nulla capacità dirisposta.

I genitori italiani tendono maggiormente a risolvere al proprio interno le esi-genze o a confrontarsi con altri genitori del servizio, mentre i genitori stranieriindicano, in misura maggiore di non aver avuto necessità di chiedere aiuto.

I genitori in coppia tendono a risolvere al proprio interno le difficoltà o ten-dono a rivolgersi ad amici con figli, mentre i genitori soli tendono maggiormen-te ad utilizzare le educatrici, i parenti, e il pediatra.

Tab. 37 – Soggetti a cui i genitori chiedono aiuto in caso di difficoltà

Il confronto con altri genitori avviene, perlopiù, in luoghi informali, tra iquali le occasioni in cui si sta insieme (54% dei casi), all’uscita dal nido (37%), algiardino (22%).

Il venti per cento ha affermato di aver partecipato ad incontri nel servizio el’8% di partecipare a gruppi informali di genitori. Decisamente inferiore la per-centuale dei genitori che partecipano ad associazioni o gruppi formali e trova-no in essi opportunità di confronto.

Tab. 38 – Ambienti del confronto tra genitori

Il servizio nido globalmente, secondo i genitori, risponde adeguatamente siaai bisogni dei bambini, che a quelli dei genitori.

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Tab. 34 – Aspetti da migliorare nei serviziTab. 32 – Capacità dei nidi di rispondere ai bisogni dei genitori(valori in percentuale)

Posti di fronte alla richiesta di indicare aspetti dei servizi da migliorare i geni-tori si sono concentrati principalmente sugli ambienti: il 36% di essi ha indicatonegli ambienti a disposizione dei bambini l’ambito su cui operare e il 35% gliambienti esterni. Il 20% ha segnalato l’esigenza di migliorare la comunicazionetra educatrici e genitori e il 13% le attività rivolte ai genitori.

I genitori in coppia sottolineano la necessità di coinvolgere maggiormente igenitori, mentre quelli soli chiedono di migliorare le attività con i bambini.

I genitori italiani chiedono ambienti migliori, quelli stranieri più coinvolgi-mento dei genitori, più comunicazione tra educatrici e genitori e migliori rela-zioni.

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La decisione di inserire un proprio figlio al nido avviene in ragione di motividiversi e i dati raccolti nell’indagine lo confermano, evidenziando quelli chemaggiormente sono stati sinora messi a fuoco nella pubblicistica sul tema: da unlato vi è l’esigenza di sostegno ai genitori per la necessità di lavoro di entrambie, dall’altro, vi è la possibilità di far vivere al bambino un’esperienza educativa divalore.

Nel confronto tra i questionari dei genitori e quelli del personale educativodei nidi emerge una prevalenza del primo motivo rispetto al secondo e, nellospecifico, una sovrastima da parte delle educatrici in ordine alle problematicheconnesse al lavoro dei genitori: mentre la totalità delle educatrici indica tale esi-genza come centrale, la quota di genitori che indica tale esigenza è inferiore(circa l’80%).

LA AttESE dEI gENItORI

Qualche differenza emerge tra le idee delle educatrici e le affermazioni deigenitori in ordine alle attese di questi connesse all’inserimento al nido deibambini:

> per le educatrici le attese più significative dei genitori riguardanol’essere bene accolti e il sentirsi partecipi dell’educazione del figlio,

> per i genitori la centratura delle attese è tutta orientata al bambino:al primo posto vi è il sentirsi partecipi dell’educazione del figli ed alsecondo il potersi confrontare sui problemi del bambino, al terzol’essere informati di ciò che succede nel servizio.

LA RELAzIONI tRA EducAtRIcI E gENItORI

Nell’insieme, genitori ed educatrici descrivono il rapporto esistente tra lorocon valutazioni positive:

> oltre il 60% dei genitori dichiara di sentirsi in sintonia con le educa-trici, un quarto attesta di sentirsi ascoltato come genitore, mentre èinferiore al 2% la quota dei genitori che manifesta difficoltà e criti-cità nell’essere accolti o nell’essere ascoltati o nel sentirsi giudicati,

> quasi il 40% delle educatrici si sente riconosciuto come educatore eoltre il 25% si sente ascoltato come educatrice. Il sentimento di sin-tonia è espresso da poco meno del 20%.

IL cONfRONtO tRA LE RISPOStE dEI gENItORI

E quELLE dELLE EducAtRIcI

Cosa vuole dire “avere cura di un bambino”? Che differenze esistono nellacura famigliare di un bambino e nella cura in un servizio come il nido?

In questo capitolo sono ripresi tutti gli aspetti precedentemente descritti inrelazione ai due sottocampioni (quello delle educatrici e quello dei genitori) perverificare le differenze di opinione e di valutazione.

Il primo grafico riporta le percentuali relative al modo come sono viste lefamiglie di oggi.che registra risposte piuttosto congruenti tra le due popolazioni.

Analoghe considerazioni è possibile trarre dall’analisi del grafico inerente ilconfronto sui bisogni delle famiglie di oggi, con l’eccezione dell’aspetto degliorari di lavoro più rilevato dalle educatrici.

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Si tratta di un rapporto nel quale le educatrici hanno la sensazione cheaumenti progressivamente la quantità di richieste di aiuto da parte dei genitori,mentre la metà circa dei genitori attesta di averlo fatto nel corso dell’anno incorso.

I contenuti oggetto dello scambio educativo sono sostanzialmente omoge-nei: per i genitori il tema più ricorrente nelle richieste di aiuto alle educatriciriguarda il pannolino e tutto ciò che riguarda l’autonomia del bambino nelle fun-zioni corporali, seguito dalla tematica dei capricci, da quella dell’aggressività e daquella delle regole e della socializzazione.

Analogamente per le educatrici, il quadro delle esigenze di aiuto conferma alprimo posto il tema del pannolino, seguito dal tema alimentazione, da quellodelle regole e, infine, ai capricci.

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Il nido, secondo i soggetti interpellati risponde a molti bisogni dei bambiniin modo adeguato. La tabella seguente permette di annotare le valutazioneespresse da genitori e educatrici: gli elementi di convergenza sono molteplici inquanto, secondo entrambi, i bisogni a cui i nidi rispondono meglio sono quellidi socializzazione tra bambini, di gioco e divertimento, di sviluppo della creati-vità, di fare esperienze non realizzabili in casa e di apprendimento delle regoledi comportamento. Le educatrici, da parte loro, mettono in evidenza, anche,l’aspetto della cura fisica dei bambini, considerato l’ultimo dai genitori.

Tab. 35 - Bisogni dei bambini a cui risponde il nido secondo i genitori e le educatrici(valori in percentuale)

cONSIdERAzIONI dI SINtESI

Il lavoro di ricerca sviluppato si è rivelato molto interessante nella prospetti-va dello sviluppo della professionalità educativa del personale dei nidi: fare ricer-ca offre l’opportunità di rivedere il proprio agire in modo diverso, e costruireuna ricerca che metta insieme tutti i servizi del territorio offre ancora di più l’op-portunità di uno scambio e di un confronto non abituali sulle esperienze.

Il lavoro ha offerto elementi di notevole interesse rispetto al tema condutto-re della ricerca: sono differenti le famiglie e le educatrici di fronte all’educazio-ne dei bambini? Certamente la ricerca ha evidenziato un terreno comune moltorilevante, di condivisione di domande e di orientamenti di fondo, ma ha messoa fuoco anche alcune differenze nel modo di vedere il servizio e la cura educa-tiva.

Inoltre, i dati raccolti offrono molti elementi di forte interesse sui modi nuovidi vivere la famiglia, i servizi educativi ed il rapporto tra famiglia e servizi chepotranno essere certamente di grande utilità per la programmazione locale.

Per quanto riguarda, invece, i bisogni, sembrano emergere maggiori differen-ze nelle valutazioni: i genitori indicano la conoscenza dello sviluppo infantile e lecompetenze educative, mentre le educatrici ritengono che il bisogno dei genitoripiù soddisfatto sia quello di confrontarsi tra genitori sulle esperienze educative.

Tra gli aspetti da migliorare le opinioni delle educatrici e dei genitori conver-gono nell’individuare ambienti e spazi.

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IL BAmBINO E L’INqUINAmENTOATmOSFERIcO: LA PERcEZIONEDEL PROBLEmA DA PARTE DEIGENITORI NELLA PROvINcIADI PIAcENZA1

A cura di R. Sacchetti, G. Gregori, O. Righi (comitato di scrit-tura); P. Armani, P Balduzzi, R. Boccellari, MP Bolla, EBoselli, D. Chitti, M. Corna, C. Ferrari, A. Ferzetti, C.Fragnito, A. Galli, M. Ghisoni, MP Libè, C. Marenghi, R.Marzolini, L. Rizzi, P. Salami, L. Suzzani, F. Touchi, A. Turni,M. Vercesi, L. Zanolli, Pediatri di Famiglia, A.USL Piacenza(PC). O. Hainess, C. Marini, C. Rigolli, Centro EducazioneAmbientale (PC) A. Petronio A (PC), R. Marvasi, Centro diFisiopatologia Respiratoria Infantile Università di Parma (ela-borazione dati statistici)

INTRODUZIONE

Nonostante ci siano sempre più evidenze scientifiche asostegno della correlazione tra inquinamento atmosferico emalattie respiratorie (1-5), il comportamento dei cittadini (edei genitori) risulta spesso contraddittorio in quanto alla loroelevata preoccupazione spesso non corrisponde uno stile divita finalizzato a ridurre questi problemi. Per questo motivo

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1. Articolo pubblicato sulla Rivista di formazione e di aggiornamento professionale del pedi-atra e del medico di base, realizzata in collaborazione con l’Associazione Culturale Pediatri, n. 62004, con un ricco corredo bibliografico.

I questionari sono stati distribuiti negli studi medici tra il 10/10/2002 e il20/12/2002 seguendo un ordine puramente casuale; la compilazione è avvenu-ta in gran parte nelle sale d’attesa. I questionari considerati ritornati e ritenutiutilizzabili per lo studio sono stati 1823\2500 (pari al 73%).

L’analisi statistica è stata condotta con il metodo del chi-quadro.

RISULTATI: IA PARTE

La popolazione studiata, 1823 bambini (bb), rappresenta il 6, 8% di quellatotale della nostra provincia in età compresa tra 1 e 14 anni (circa 26.800 bb). Diquesti 1823 bb, 116 (6, 3%) frequentano il nido (N), 707 (38, 8%) la scuolamaterna (MA), 630 (35%) la scuola elementare (E) e 199 (10, 9%) le medie (ME)mentre per 171 bb (pari al 6, 3%) non si conosce questo dato. I maschi (M) sono952 (52, 2%).

Per quanto concerne la distribuzione sul territorio il 60% appartiene alDistretto Urbano (Piacenza e i comuni limitrofi), un 26% al Distretto della Vald’Arda (Fiorenzuola) e un 16% al Distretto della Val Tidone (Castel SanGiovanni) con una ripartizione che rispecchia abbastanza fedelmente quelladella popolazione complessiva della nostra provincia (rispettivamente 48%, 28%e 19%). Il distretto della montagna (5% della popolazione) non è rappresentatoin quanto il pediatra incaricato per la zona non ha partecipato al lavoro.

Relativamente alle principali patologie respiratorie presentate dai pazienti, igenitori potevano indicare cinque diverse risposte: asma bronchiale, allergiarespiratoria, bronchite, tosse ricorrente che necessita cure mediche più di 6volte/anno o nessuna di queste. Per bronchite e tosse ricorrente si è convenutodi presentare separatamente i dati relativi alla loro prevalenza per poi accumu-narli sotto l’unica definizione di bronchite/tosse ricorrente in sede di confron-to con le altre patologie nella definizione di alcuni fattori di rischio (luogo diresidenza) e di alcune abitudini dei genitori (luoghi di gioco, mezzi informazio-ne, ecc.).

Secondo quanto risposto dai genitori, 117 bb presentano asma (pari al 6,4%), 165 bb allergia respiratoria (9%), 429 bb (23, 5%) bronchite, 415 bb (22,7%) tosse ricorrente che necessita cure mediche >6 volte/anno mentre 858 bb(47%) non sembra avere alcuna di queste malattie.

Come si vede la somma delle percentuali per ogni singola risposta è superio-re a 100 in quanto molti genitori ne hanno correttamente siglato più di una.

La prevalenza di asma passa dall’1, 7% (2/116bb) al nido, al 5, 9% (42/707 bb)nella materna, al 7, 3% (46/ 630 bb) nelle elementari fino al 9, 5% (19/199 bb)

la Federazione Italiana Medici Pediatri (F.I.M.P.) di Piacenza e il Centro diEducazione Ambientale del Comune di Piacenza hanno dato vita ad un proget-to di educazione sanitaria sull’argomento denominato “Aria Pulita”.

Il principali obiettivi del progetto sono stati quelli di:> valutare la percezione che le famiglie hanno dei problemi di salute

dei propri figli riguardo le malattie respiratorie> ricavare dati epidemiologici significativi circa la prevalenza di queste

patologie nella nostra popolazione pediatrica e il “peso” di questesulla attività del pediatra di famiglia (PdF)

> analizzare il livello di comprensione e consapevolezza che i genito-ri hanno del problema “inquinamento atmosferico” attraversoun’analisi delle abitudini e dei comportamenti.

Altre finalità, meno immediate ma ugualmente importanti, che il progetto siè posto, sono state quelle di sensibilizzare gli stessi medici a queste problemati-che, proporre alle scuole percorsi formativi sull’argomento e stimolare gli ammi-nistratori pubblici a considerare il problema in termini più scientifici.

mATERIALI E mETODI

Lo strumento utilizzato è stato un questionario a risposta chiusa rivolto aigenitori dei bambini di età compresa tra 1-14 anni. Il questionario si compone-va di due parti. Nella prima venivano richiesti alcuni dati anagrafici (data dinascita, sesso, luogo di residenza, scuola frequentata), l’eventuale patologia\erepiratoria\e di cui il bimbo è affetto e il numero di visite effettuate ogni annodal medico curante per tale motivo. La terminologia medica utilizzata non è statavolutamente definita con particolari precisazioni perché lo scopo del questiona-rio era quello di sondare la percezione delle famiglie su questo tema così comeè avvenuto per altri studi più importanti quali l’International Study on Asthmaand Allergies in Childhood (ISAAC) e gli Studi italiani sui disturbi respiratorinell’infanzia e l’ambiente (SIDRIA1-2) che hanno utilizzato simili questionaririvolti a genitori e pazienti. Nella seconda parte venivano chieste informazioniquali: distanza e tempo del tragitto casa-scuola, mezzo di trasporto per raggiun-gere la scuola, luoghi abituali di divertimento dei bambini, vicinanza o meno diquesti luoghi a fonti di inquinamento, giudizio sulla temperatura degli ambientiscolastici, tipo di riscaldamento e temperatura media delle abitazioni nei mesiinvernali, mezzi di comunicazione impiegati per acquisire informazioni relativeall’inquinamento. La distribuzione dei questionari è stata affidata ai pediatri difamiglia (PdF). Hanno partecipato al lavoro 25 PdF sui 29 iscritti negli elenchidi Piacenza e Provincia. Ad ogni pediatra sono stati consegnati 100 questionari.

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RISULTATI: IIA PARTE

La distanza casa – scuola risulta essere inferiore ad 1 km per 811 bb (44%) e tra1-5 km per 667 bb (36, 5%). Per 1200 bb (66%) il tempo impiegato per raggiun-gere la scuola è inferiore a 10 minuti mentre per altri 378 (20, 7%) è compresotra 10 e 20 minuti. Il mezzo utilizzato per il trasporto dei bb nel tragitto casa-scuolaè l’auto per 933 bb (51%), il bus per 169 (9%), la bicicletta per 147 (8%) men-tre 404 bb (22%) vengono accompagnati a piedi. La fig.8 evidenzia le diversepercentuali di utilizzo dei vari mezzi rispettivamente nei D.U e nei D.E. e nellapopolazione generale. Per tragitto casa-scuola inferiore ad un 1 km i genitori (G)che utilizzano l’auto sono 343 (42, 2%), salgono a 471 su 667 (70, 6%) per distan-ze tra 1-5 km e a 107 su 148 (72, 3%) tra 5-15 km, per scendere a 8 G su 20(40%) per distanze > 15 km. L’utilizzo dei bus passa da 15/811 G (2%) sotto ilkm, a 102/667 G (15%) tra 1-5 km, a 40/148 G (27%) tra 5-15 km, fino a 11/20(60%) per distanze > 15 km. L’auto viene utilizzata da 69/116 bb (60%) dei N eda 433/707 bb (61, 2%) delle MA, da 350/630 bb (55%) delle E e da 80/199bb (40%) delle ME.

L’utilizzo dei bus è nullo per i bb dei N e si attesta su in 10-11% nelle altri clas-si di età (73/707 alle MA, 71/630 alle E, 23/199 alle ME). Il trasporto a piediriguarda 37/116 bb (32%) dei N, 155/707 bb (22%) delle E., 165/630 bb (23,6%) delle ME; risulta inoltre penalizzato nei D.E. (17%) rispetto il D.U. (25%).

Riguardo i luoghi di divertimento 646/1823 bb (35%) giocano preferibilmentenei locali al chiuso mentre 1150/1823 bb (63%) in luoghi all’aperto. Tra questiultimi abbiamo una preferenza per i giardini (523/1150 bb pari al 45%) e i cor-tili privati (507 bb pari al 44%) mentre pochi (120 bb pari all’11%) fanno riferi-mento ai centri polisportivi.

Alla domanda “dove si trovano i luoghi all’aperto?” la maggioranza segnalauna dislocazione in grosse aree verdi (514/1823 pari al 28%) o aree lontano dafonti di inquinamento (682/1823 pari al 37%). Tuttavia altri 410 genitori (23%)ammettono che questi luoghi si trovano in vicinanza di fonti di inquinamento. Ibambini con asma e allergia respiratoria che giocano vicino a fonti di inquina-mento (rispettivamente 35/117 pari a 29, 1% e 50/165 pari al 30, 3%) sono inpercentuale significativamente superiore a quella di chi non ha nessuna patolo-gia respiratoria (20, 8%) (p=0, 0265).

Il riscaldamento delle nostre abitazioni è autonomo nel 82, 3% dei casi, centraliz-zato nel 11, 7% e con caminetto nel 4%. Ben 1472 genitori (89%) ritengono chela temperatura ideale per gli ambienti domestici sia 19-21°C, 207 (11%) minore di 19°C, 129 (7%) maggiore di 21°C. La temperatura a scuola è considerata idonea da1026 genitori (56%), eccessiva da 590 (32%), insufficiente solo da 36 (2%).

Le informazioni relative all’inquinamento atmosferico sono ricavate dai giornali loca-li per 1248/1823 genitori (pari al 68%), dalle tv locali da 726 genitori (40%), da

nelle medie con un trend di crescita significativo. Per 8/117 bb (6, 8%) non erasegnalata l’età. I maschi (M) con asma erano 72 su totale di 952 (7, 5%), le fem-mine (F) 45 su un totale di 852 (5, 3%) con rapporto M/F di 1, 4. Per quantoconcerne la prevalenza delle allergie respiratorie si passa da un 6% (7/116 bb) delN, ad un 7, 8% (55/707 bb) delle MA, al 12% (75/630 bb) delle E fino ad un11, 5% (23/199 bb) delle ME. Per 5/165 bb (3%) non era segnalata l’età.Complessivamente i M con allergia respiratoria erano 99 (10, 3%), le F 64 (7,5%) con rapporto M/F:1, 4.

Relativamente alla prevalenza di bronchiti si segnala un 27% (191/707 bb) alleMA, un 22% (142/630 bb) alle E e un 16, 5% (33/199 bb) alle ME, mentre peril 7, 9% (34 bb) non era indicata l’età. Per la prevalenza di tosse ricorrente abbiamoun 29, 5% (209/707 bb) alle MA, un 19, 3% (122/630 bb) alle E e un 10%(20/199 bb) alle ME senza particolari differenze tra i due sessi Accumunando idati relativi a bronchite e tosse ricorrente si ha una prevalenza complessiva del56, 5% alle materne, del 41, 3% alle elementari e del 26, 5 % alle medie.

Non esiste differenza statisticamente significativa riguardo la prevalenza diasma tra chi risiede nei centri abitati maggiori e chi vive in campagna o nei paesicon < 5000 abitanti mentre sembra esserci una differenza tra chi abita nelle zonecentrali delle città rispetto a chi abita in zone periferiche o residenziali (10% vs6%). Per quanto concerne le allergie respiratorie queste mostrano una prevalen-za superiore in città (10, 7%) rispetto alle zone extraurbane (7%) con p=0, 0063;viceversa le bronchiti/tossi ricorrenti appaiono più frequenti nella popolazionepediatrica extraurbana (49%) rispetto a quella urbana (42, 7%) con p=0, 0075(fig.5).

Il 41% dei pazienti con storia di asma o bronchite/tosse ricorrente effettua>6 visite/anno dal medico curante contro il solo 4, 5% dei pazienti che non sof-fre di queste patologie (p<0.0001) mentre per un numero compreso tra 1-6 visi-te/anno la differenza tra i due gruppi è notevolmente inferiore (57% vs 45%).

Parallelamente al questionario, abbiamo condotto una analisi dell’attività di trePdF della nostra provincia, di cui 1 del Distretto Urbano (D.U.) e 2 dei DistrettiExtraurbani (D.E.), tramite i dati registrati su PC nel periodo ottobre 2002-marzo2003. Ogni medico all’epoca aveva in carico circa 880 pazienti. Il numero di visi-te ambulatoriali dovute alla sola patologia sono state in media 994 per medico(range: 851-1104) di cui 131 (pari al 13, 5%) si sono concluse con una diagnosidi asma, bronchite, bronchiolite e broncopolmonite. In altre parole nell’ambula-torio del PdF, durante il periodo autunno-invernale, 1 visita su 7 è dovuta a pato-logia delle basse vie aeree. A conferma di ciò, dall’analisi delle prescrizioni farma-ceutiche dei PdF di Piacenza e provincia relative al medesimo periodo, risulta cheben il 30% del volume prescrittivo, e parallelamente della spesa farmaceutica, èdovuto ai farmaci del solo sistema respiratorio contro un volume prescrittivodegli antibiotici del 58% e di tutte le altri classi di farmaci del 12%.

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(8). Si tratta di un dato abbastanza difficile da interpretare se si considera che aquesta età il numero delle infezioni virali, causa principale delle flogosi bron-chiali, dovrebbe essere ridotto. Si può ipotizzare una sovrastima del problemada parte dei genitori che probabilmente sono portati a identificare come bron-chite molti degli episodi di tosse dei propri figli mentre appare difficile pensaread una sovrastima da parte dei medici quando per una diagnosi più “complica-ta” come l’asma abbiamo dati in linea con la letteratura nazionale ed internazio-nale. Non è da scartare inoltre l’ipotesi che altri fattori, quale ad esempio undanno delle mucose bronchiali secondario all’inquinamento atmosferico, sianola causa della peggiore evoluzione di queste infezioni.

Alcuni recenti studi hanno evidenziato che ad un aumento nel valore medioannuale di 10 _g/m3 può corrispondere un aumento del 15% di problemi respi-ratori (26, 27); se pertanto teniamo conto che il valore medio annuale di PM10di Piacenza nel 2003 a Piacenza è stato di 39 _g/m3, si può ipotizzare che alme-no un 40% di questi episodi di flogosi bronchiali /tossi ricorrenti possono esse-re in parte sostenute dall’inquinamento. Relativamente al rapporto fra patologiae luoghi di residenza, la maggiore prevalenza di allergia respiratoria nei centriurbani con > 5000 abitanti rispetto alle zone extraurbane-rurali sembra confer-mare la teoria “igienica” che considera le infezioni come fattore protettivo neiconfronti dello sviluppo di atopia. Sappiamo infatti dalla letteratura che i bam-bini che abitano in campagna fanno più frequentemente infezioni virali e paras-sitarie e che queste infezioni sembrano favorire il viraggio verso un fenotipoTh1, a scapito di quello Th2 che appare fondamentale per lo sviluppo della aller-gia (28-30).

Per quanto concerne la maggiore prevalenza di asma nel centro città rispet-to alle zone periferiche non siamo in grado di spiegare questo dato. La lettera-tura evidenzia un rapporto chiaro solo tra disturbi respiratori e traffico pesante(1) mentre i rapporti tra queste patologie e la generica densità di traffico nellazona di residenza risultano contrastanti (1, 31-34). Prendendo in esame i datidella II parte del questionario possiamo subito sottolineare il numero estrema-mente elevato di genitori che accompagna i figli in auto (51%) mentre il bambi-no pedone risulta essere il 22% che, pur essendo sicuramente migliorabile, appa-re un dato superiore al 10% della media nazionale riguardante le E. (35).L’utilizzo dell’auto avviene con le stesse modalità su tutto il territorio e l’età delbambino trasportato non sembra incidere molto su questa abitudine: il dato cheappare più significativo in relazione all’età è il trasporto in auto del 40% deiragazzi delle scuole medie, epoca della vita in cui dovrebbe essere raggiunta unacerta autonomia negli spostamenti.

L’utilizzo del bus è, come facilmente intuibile, maggiore tra chi risiede neidistretti extraurbani. Va sottolineato però che per i bb dei nidi questo tipo di tra-sporto non viene praticamente preso in considerazione in quanto i mezzi pub-

fonti ARPA (Agenzia Regionale per l’Ambiente) da 84 (4, 6%) e da altri mezzida 77 genitori (4, 2%). Solo 83 (4, 5%) non hanno risposto alla domanda. I geni-tori di pazienti affetti da asma (8/117 pari al 6, 8%) e allergia (11/165 pari 6,6%) sembrano più interessati a questo tipo di informazioni di quanto non losiano i genitori di bb affetti da bronchite/tosse ricorrente (26/844 pari al 3%)con una differenza statisticamente significativa.

DIScUSSIONE

Per interpretare meglio i risultati del questionario e per delineare l’ambientein cui vivono i nostri pazienti, ci pare utile dare alcune indicazioni relative allasituazione dell’inquinamento atmosferico nella città di Piacenza.

Per quanto concerne il PM10 (particolato sospeso di diametro inferiore a 10_m) abbiamo una situazione appena accettabile per i valori di media annuale chesono stati pari a 41 _g/m3 nel 2001, 34 _g/m3 nel 2002 e 39 _g/m3 nel 2003quando il limite di qualità per la media annuale è fissata per 40 _g/m3 per l’an-no 2005 (DM 60/2002). La criticità è soprattutto nel numero di superamenti delvalore limite per la media giornaliera (fissato in 50 _g/m3 per il 2005) che è statosuperato 77 volte nel 2001, 68 volte nel 2002 e 98 volte nel 2003 contro un mas-simo previsto di 35 giorni all’anno. Nella maggior parte di casi questi supera-menti sono concentrati nella stagione invernale; ad esempio nei primi 50 giornidel 2004 sono già stati 26. Per quanto riguarda l’ozono, inquinante tipico deimesi estivi, nel 2002 sono stati registrati 12 superamenti del livello di attenzionefissato in 180 _g/m3 e comunque non è mai stato raggiunto il valore di allarmedi 360 _g/m3 con una percentuale di giudizio buono-accettabile in più del 90%delle rilevazioni dell’Arpa locale (7).

Tornando al nostro lavoro, relativamente alla prevalenza delle principali pato-logie respiratorie, i nostri dati sono in linea con quelli presenti in letteraturacome ad esempio in SIDRIA 1 (1994-95) dove la prevalenza di asma in IIa-IIIaE e in IIIa ME era del 9% o in SIDRIA 2 (2002) dove la prevalenza era rispet-tivamente del 9, 5% e del 10, 4% (nel nostro studio: 7, 3% per le E e 9, 5% perle ME) (8-10). Risultati analoghi si trovano anche in altri grossi studi nazionali(11-15) e internazionali (15-24). Simile a SIDRIA è infine la diversa prevalenzadell’asma nei maschi e nelle femmine (M:F=1, 4 alle scuole medie). Per le aller-gie respiratorie il dato riferito alle elementari (12%) combacia con la prevalenzadi rinite allergica in Italia mentre quello delle medie (11%) appare sottostimato(12, 25). è infine da sottolineare l’alta prevalenza di bronchite/tosse ricorrentealle elementari (40%) e alle medie (25%) dato che collima con quello di SIDRIA1 dove come diagnosi di bronchite si aveva rispettivamente un 31% e un 25%

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cONcLUSIONI

L’analisi del questionario conferma che la patologia respiratoria nella nostrapopolazione costituisce una vera emergenza sanitaria determinando un grossocarico di lavoro per i PdF e un notevole impegno di risorse da parte della A.USL.Si conferma inoltre una discrepanza tra le conoscenze (buone) e l’effettivo com-portamento dei genitori (inadeguato) nel rapporto tra malattie respiratorie einquinamento atmosferico. I dati raccolti costituiscono la base sulla quale prose-guire il progetto di educazione sanitaria da noi elaborato che prevede la restitu-zione all’utente delle informazioni raccolte, attraverso le seguenti modalità:

> un convegno sul tema, aperto a tutti i cittadini, che si è tenuto aPiacenza nell’Ottobre 2003,

> la preparazione di materiale cartaceo con i principali risultati dellostudio ed un decalogo di buoni comportamenti riguardo la lottaall’inquinamento rivolto ai genitori, in distribuzione negli studi deimedici dal maggio 2004,

> una campagna informativa su queste tematiche attraverso i massmedia locali (TV, giornali, radio) con l’aiuto delle amministrazionidel nostro territorio e della regione (avviata nel febbraio 2004).Questa campagna di informazione prevede tre incontri gestitirispettivamente da associazioni di volontariato e ambientaliste, dalmondo della scuola e dal mondo della Sanità; una rubrica radiofo-nica gestita dai pediatri di base e un dibattito su TV locali con la pre-senza anche della pediatria di famiglia; uno spot (realizzato nelmarzo 2004) del tipo “Pubblicità Progresso” interpretato dai bam-bini di alcune classi elementari con la supervisione del Centro dieducazione alla Salute del Comune da trasmettere sul circuito delleTV locali; la collaborazione con iniziative parallele da svolgersi nellescuole; l’inserimento di questo percorso educativo nei PianiProvinciali per la Salute (PPS) diventando il fulcro del tema“Vivibilità degli ambienti urbani” e trovando anche l’appoggio delleamministrazioni locali.

Il nostro intento ultimo, attraverso questa iniziativa, è quello di sensibilizza-re la stessa Azienda Sanitaria ad una più proficua campagna di prevenzione diqueste patologie e, in accordo con le raccomandazioni della AccademiaAmericana di Pediatria (37), di stimolare chi amministra il territorio e le città agarantire un controllo capillare delle fonti di inquinamento e a offrire al cittadi-no servizi adeguati, quali bus efficienti, parcheggi, piste ciclabili e percorsi pedo-nali protetti che facilitino scelte più responsabili.

blici non sono predisposti per questo tipo di utenza. A partire dalle materne gliutenti del bus si attestano sul 10-11% della popolazione, anche se per l’età dellemedie ci si aspetterebbe un incremento dell’utilizzo che invece non avviene. Ilbus diventa competitivo solo per le distanze superiori a 15 km laddove il geni-tore ha probabilmente più difficoltà ad accompagnare il figlio a scuola in auto.L’uso delle bicicletta appare molto basso nelle fascie di età dei nidi, materne (tra-sporto da parte dei genitori) e elementari e discreto nella fascia di età delle medie(24%). Sicuramente un freno all’utilizzo in maniera autonoma di questo mezzoè dovuto alla paura dei genitori, ma anche dei ragazzi (36), per i rischi derivantidal traffico stradale. Questa paura, per altro in parte giustificabile, impedisce unaimportante (perchè costante) attività motoria dei bambini quale è l’andare ascuola a piedi o in bicicletta, togliendo inoltre un significativo momento di socia-lizzazione fra i bambini e genitori.

Circa la percezione delle caratteristiche dei luoghi dove portano a giocare ibambini, i genitori appaiono molto ottimisti segnalando un complessivo 65% disituazioni non a rischio (gioco in grandi aree verdi o in zone lontane da fonti diinquinamento industriale o veicolare). Il fatto che i bb con asma o allergia si tro-vano in misura percentualmente più frequente a giocare vicino a fonti di inqui-namento rispetto ai bambini con nessuna di queste patologie, più che individua-re un vero e proprio fattore di rischio per asma, probabilmente sottointende unamigliore percezione delle reali caratteristiche dell’ambiente da parte dei genitoridei bambini con patologia respiratoria. Relativamente al problema del riscalda-mento domestico emerge che più dell’80% delle famiglie intervistate ritiene che19°-21°C sia la temperatura ideale per gli ambienti di casa.

Una conferma della buona percezione che i genitori hanno di questo proble-ma è che un 30% giudica la temperatura degli ambienti scolastici troppo eleva-ta e anche su questo, come medici, siamo d’accordo. Tuttavia, a commento diquesti dati dobbiamo rilevare che, visitando le abitazioni dei piccoli pazientimalati, ci capita di riscontrare una temperatura in genere superiore ai quei 19°-21°C prima indicati come ideali; probabilmente dobbiamo lavorare di più comePdF su questo aspetto di educazione sanitaria. L’analisi del questionario ci rive-la inoltre che un buon numero di genitori cerca informazioni sull’inquinamentoatmosferico non solo sui giornali e le TV locali ma anche da Arpa, che vienecitata in un 5% dei casi (non sappiamo però dove questa informazione vienereperita: direttamente da Internet?, da bollettini ufficiali pubblicati sui giornali?).Appare comunque evidente che i genitori di bambini con patologia asmatica uti-lizzano queste fonti Arpa più frequentemente di chi ha solo bronchite, datospiegabile con l’attività di informazione svolta dai pediatri di famiglia che, daqualche tempo, hanno preso l’abitudine di segnalare l’indirizzo web dell’AgenziaRegionale specie ai genitori di bambini con forme allergiche pollinosiche.

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cENTRI EDUcATIvI E cENTRIDI AGGREGAZIONE

Barbara De BiasioRESPONSABILE DEL CENTRO PER LE FAMIGLIE E

FIGURA DI SISTEMA DEL DISTRETTO DELLA CITTà

DI PIACENZA

Franca PaganiCOORDINATRICE ATTIVITà SOCIO EDUCATIVE E

MINORI STRANIERI - SETTORE SERVIZI SOCIALI E

ABITATIVI DEL COMUNE DI PIACENZA

PREmESSA

Il Comune di Piacenza, prima in forma delegataall’Azienda USL, e dal 2004 in forma diretta, è impegnato dal1986 nel lavoro di attivazione di Servizi Socio educativi chehanno una forte valenza educativa ponendosi come“ponte/cerniera” fra la famiglia, la scuola e la società nei con-fronti di minori a rischio di devianza.

Parallelamente all’evoluzione dei Centri Educativi, si èriscontrato il bisogno per gli adolescenti di spazi aggregativipiù legati alla socializzazione, al confronto, alla promozionedi esperienze educative in contesti di informalità.

La nascita di spazi che rispondevano al bisogno dei giova-ni di aggregarsi spontaneamente ha visto l’intervento del

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adolescenti, sempre in maggiore espansione per l’ampliamento del-l’obbligo scolastico;

> differenziazione delle competenze per l’accoglienza dei minori stra-nieri che in numero sempre maggiore frequentano il sistema scola-stico piacentino, mettendo in rilievo problematiche di alfabetizza-zione e integrazione;

> articolazione degli interventi attraverso invii differenziati per potermeglio rispondere al bisogno del ragazzo e della famiglia;

> strutturazione di interventi di tipo assistenziale (come il serviziomensa) attivato in alcuni Centri Educativi per rispondere al bisognodella famiglia, impegnata in attività lavorativa;

> predisposizione, nel periodo estivo, di attività ludico-ricreative, pro-gettando con i ragazzi anche soggiorni di alcuni giorni con pernotta-mento e rispondendo in forma educativa alle sempre maggiori richie-ste di sostenere la famiglia nel periodo di chiusura delle scuole.

Nell’arco degli anni si è strutturata nella realtà cittadina una rete di servizieducativi extrascolastici, in rapporto convenzionale fra le diverse cooperativesociali e il Comune di Piacenza, che cerca di rispondere ai bisogni dei minori edelle famiglie.

PROGETTO ATTIvITÀ DI FORmAZIONE/RIcERcAPER LA PROGETTAZIONE E GESTIONE DEI cENTRISOcIO-EDUcATIvI E DI AGGREGAZIONE DELLAcITTÀ DI PIAcENZA

L’investimento attuato dal Comune di Piacenza, sia dal punto di vista proget-tuale, che di risorse economiche e di personale sulle attività socio-educative peri minori residenti nel territorio piacentino, necessitava di un momento di rifles-sione congiunta con i vari attori coinvolti nelle attività, per riflettere insieme inun ottica di maggior qualificazione e integrazione dei servizi.

Questo progetto si inserisce nell’ambito di un Progetto più ampio denomi-nato “ Azioni di coordinamento nell’ambito degli interventi di qualificazionescolastica, socio-educativi, socio-assistenziali e sociosanitari rivolti all’infanzia eall’adolescenza “ parte integrante del Piano attuativo 2005 e inserito nell’attivitàdella figura di sistema, secondo le indicazioni regionali.

Comune nel triennio 1998-2000 nel piano territoriale della legge 285/98, con ilfinanziamento del Centro di aggregazione Caprasquare, ubicato in una zona“calda” del territorio cittadino.

L’impegno del Comune ha portato alla nascita e consolidamento, nell’arcodegli ultimi 10 anni, di altre tre esperienze di aggregazione rispondenti ai biso-gni dei giovani.

I cENTRI EDUcATIvI

Si ritiene che il gruppo socio-educativo, attraverso un contesto di tipo aggre-gativo, in cui siano presenti adulti educanti, che si avvalgono di una preparazio-ne specifica, possa creare un ambiente favorevole allo sviluppo armonico deiminori frequentanti, in cui i minori possano svilupparsi psicologicamente,cognitivamente e affettivamente in modo armonico.

I gruppi sono caratterizzati da una organizzazione interna che assicura con-dizioni di continuità e stabilità nel tempo, gruppi che non si sostituiscono allafamiglia, ma “integrano” il suo compito educativo, gruppi finalizzati all’aggrega-zione, alla formazione, al sostegno scolastico, affettivo, psicologico in un’otticadi prevenzione.

Nell’arco degli anni vi è stata la nascita ed espansione di un numero crescen-te di realtà educative collocate nel territorio di Piacenza per rispondere al biso-gno del ragazzo di vivere in gruppo e contestualmente di condividere il proprioterritorio:

> Fascia 6-10 anni Scarapan – A.BI.BO.> Fascia 11-14 anni Saranno Famosi – Piedi Allegri – Stella Polare –

Calamita – A.BI.BO. – Tandem – Barone Rampante> Fascia 15-18 anni Raccolgo le Idee – Tandem – A.BI.BO.

L’esperienza maturata dalle Associazioni e dalle cooperative sociali negli annidi attività, nel continuo e costante lavoro con i Servizi Sociali che si occupanodi minori ha portato a modificare, ampliare e migliorare la realtà educativa extra-scolastica:

> modifica degli interventi rivolti ai minori ampliando il servizio rivol-to solo ai gruppi e inserendo interventi di sostegno differenziati pertipologia di minore con interventi individualizzati anche con pro-getti “su misura “ per minori con particolari situazioni e/o bisogni;

> ampliamento degli interventi rivolti inizialmente a minori preadole-scenti. Nell’arco degli anni si è rilevato, la richiesta di sostegno agli

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Tutto il percorso si è sviluppato da ottobre 2006 a giugno 2007 ed è statosuddiviso in 2 macrofasi: l’analisi e la sintesi per un totale di 56 ore per il grup-po tematico e 12 ore per il gruppo tecnico. Nella prima fase il gruppo tematicodi lavoro ha avviato un approfondimento di tipo analitico sul cosa si fa, su comesi agisce, sugli strumenti, le attività realizzate nei diversi centri e sul senso attri-buito alle diverse esperienze.

Il gruppo ha avuto modo progressivamente di conoscersi reciprocamentenelle sue diverse componenti, focalizzare elementi fondamentali e fondanti imetodi di lavoro, sia in termini di similarità che di differenze.

Parallelamente, approfondimenti teorici hanno consentito di analizzare ele-menti di contesto all’interno dei quali collocare i centri educativi e aggregativi,approfondire il tema della costruzione dell’identità (che sollecita sia la condizio-ne adolescenziale, che quella adulta), approfondire le reciproche rappresentazio-ni del mondo giovanile e adolescenziale e dei loro bisogni/compiti evolutivi,interrogarsi sul modo di essere adulti di chi svolge professioni educative.

Tutti questi temi sono stati successivamente inseriti nella carta dei servizicome elementi di riflessione comune e confronto.

Particolare attenzione è stata riservata all’analisi del metodo dell’animazionesocioculturale di gruppo, delle tappe che ne caratterizzano il percorso e dei cam-biamenti che essa produce a livello personale, di gruppo e di cultura sociale.

La seconda fase del lavoro ha avuto come base di partenza il riconoscimen-to di similarità e differenze e ha portato alla scelta condivisa degli elementi irri-nunciabili nella costruzione di un metamodello, di un modello cioè che, al di làdelle specificità legate ai contesti e agli strumenti, definisca le finalità educativedei servizi.

A partire dagli elementi fondanti il modello, è stato possibile individuare alcuniindicatori di qualità significativi per servizi differenti, perno della carta dei servizi.

Nella prima fase di attuazione del progetto, il Settore Servizi Sociali eAbitativi si è posto il conseguimento di una duplice finalità:

a) la costituzione e il coordinamento di un gruppo di tecnici referentiappositamente individuati dai diversi attori del sistema,

b) la focalizzazione di un “obiettivo sentinella”, riguardante l’attivitàdei Centri educativi e dei Centri aggregativi cittadini, su cui ridefini-re procedure d’intervento, in un’ottica di percorso partecipato e dirivisitazione integrata.

L’azione di coordinamento che è stata avviata aveva la finalità di permettereai vari soggetti protagonisti della progettazione e gestione dei centri di confron-tare i modelli di riferimento, le ipotesi pedagogiche di intervento e le metodicheadottate.

Il lavoro di costruzione di linguaggi comuni avrebbe consentito ai parteci-panti la condivisione di un metamodello, che potesse definire i criteri di qualitàdel lavoro educativo all’interno di questi servizi e permettesse, come prodottofinale del percorso, di redigere una “carta dei servizi” in grado di offrire crite-ri condivisi per orientare le azioni dei centri stessi

Per la realizzazione del percorso di ricerca-formazione ci si è avvalsi del sup-porto tecnico di un consulente esterno (Dott.Michele Marmo della cooperativaSociale Vedogiovane) e si è proceduto alla costituzione e formalizzazione di 2gruppi di lavoro:

Il primo è stato denominato “Gruppo tecnico di lavoro” ed era formato dafunzionari del Settore Servizi Sociali e Abitativi, del Settore Formazione,Infanzia e diritto allo Studio, da un Docente dell’Università Cattolica del SacroCuore, da un Dirigente Scolastico, dal Direttore di Tutor Spa e dai Presidentidelle Cooperative Sociali coinvolte nel percorso (Cooperativa Sociale Eureka,Cooperativa Sociale L’Arco, Cooperativa Sociale Oltre e Cooperativa SocialeEthos)

Il secondo è stato denominato “Gruppo tematico di lavoro” ed era formatoda educatori delle cooperative e dalla figura di sistema.

Il primo gruppo si è occupato di condividere la struttura del percorso e dimonitorarne processo e prodotti, in funzione della costruzione delle condizioniper la definizione di procedure d’intervento condivise.

Il secondo ha realizzato il percorso di ricerca - formazione, alternando unlavoro di rielaborazione e produzione culturale nella rilettura della propria espe-rienza educativa/animativa nei centri, ad un lavoro più strettamente formativosui contenuti che sono stati individuati come maggiormente necessari, percostruire rappresentazioni condivise sul lavoro educativo/animativo con i mino-ri nei centri socio/educativi.

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Dal punto di vista della carta d’identità dei centri, il gruppo ne ha condivisoil significato e la funzione caratteristica, come costituita dall’attenzione a dimen-sioni diverse:

> la condivisione della quotidianità come luogo e strumento per lacostruzione del senso di appartenenza, di radicamento e riconosci-mento reciproco;

> la narrazione dell’esperienza di sé e l’ascolto dell’altro/a, come azio-ne che rimette insieme le esperienze individuali e quelle collettive,che costruisce il senso di ciò che accade con e grazie allo scambiodialogante;

> la resistenza e la provocazione all’omologazione, la sfida della diver-sità, “l’accoglienza della provocazione”;

> la costituzione dei gruppi come soggetti peculiari, fine e strumento perl’appartenenza, la progettualità, il cambiamento, la partecipazione

Relativamente agli obiettivi sono stati indicati i seguenti trasversali:> promuovere lo sviluppo di competenze sociali (comunicazione e

ascolto, cooperazione, gestione dei conflitti, leadership), > sperimentare contesti di convivenza civile: imparare a stare in grup-

po, ad accettare la diversità, a negoziare bisogni e desideri in vista diobiettivi comuni,

> promuovere opportunità e occasioni per il tempo libero.

Obiettivi invece specifici per interventi e destinatari:CENTRI SOCIO EDUCATIVI

> Elaborare strategie relative alle problematiche dell’apprendimento.CENTRI DI AGGREGAZIONE ED EDUCATIVA DI STRADA:

> aumentare le capacità progettuali dei gruppi, valorizzando idee ecapacità organizzativo-gestionali,

> sperimentare e sviluppare abilità e competenze di gruppo nellacostruzione di attività, iniziative, eventi, nella gestione di spazi diazione e di incontro e nella riflessione/discussione su problemi,

> favorire l’acquisizione di informazioni e abilità connesse a bisogni eproblemi legati al fenomeno delle dipendenze e la sperimentazionedi varie forme di attivazione intorno ad essi,

> favorire l’incontro tra gruppi di adolescenti/giovani con il mondoadulto, il confronto sulle aspettative e la collaborazione alle iniziative,

> creare un sistema di rete con le diverse realtà del territorio, formalie informali.

La seguente tabella indica gli indicatori di qualità individuati:

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Nel mese di luglio 2008 è iniziato un secondo percorso di ricerca, in conti-nuità al precedente, al fine di consolidare ulteriormente la rete interistituziona-le, approfondire in modo integrato alcune tematiche emerse di particolare rile-vanza per la progettazione e la verifica di interventi, anche sperimentali e inno-vativi, a favore dei minori.

A conclusione di questa sintetica ricognizione del percorso che ha portatoalla realizzazione della carta dei servizi della città di Piacenza, si ritiene opportu-no sottolineare il significato che è stato attribuito al termine formazione, intesocome Formazione –intervento.

Fare formazione ha assunto il valore di sostenere, rinforzare e collocare in unpercorso di lungo respiro chi svolge lavoro educativo e animativo, in un ambitoche espone all’incertezza e alla continua messa in crisi dei presupposti di riferi-mento.

Fare formazione ha significato quindi poter offrire, a cascata, agli operatori,ai ragazzi e alle ragazze, alle loro famiglie e alla comunità locale, maggiori oppor-tunità di crescita.

“Formazione -intervento” è quindi un termine che sta ad indicare un settingdove la trattazione delle questioni rilevanti per il gruppo in apprendimentoavviene tramite il coinvolgimento del gruppo stesso, non solo nella ricerca delleipotesi di risposte (che non sono quindi mai predefinite e costituiscono il lavo-ro di costruzione di volta in volta), ma anche nella individuazione e definizionedei problemi, in modo tale da favorire al massimo la messa in gioco e il prota-gonismo dei partecipanti e del gruppo nella elaborazione di un quadro di riferi-mento nuovo per vedere diversa-mente la realtà.

Secondo questa impostazione, i formatori assumono il ruolo di facilitatori diun processo di ricerca del gruppo tramite l’emersione di questioni e problemi disolito non visti e la riflessione sui diversi significati, visioni e connessioni che licompongono.

Si è trattato quindi di lavorare sull’esperienza quotidiana degli operatori–edu-catori, elaborandola e trattandola alla luce del patrimonio di saperi di cui il grup-po è già in possesso, cercando di inquadrare e collocare gli interrogativi aperti,in base a ciò che emerge, ma contemporaneamente in base ad una riflessione sucome il gruppo agisce e legge le situazioni in cui è specificamente coinvolto,compresa quella formativa.

Il percorso di formazione/consulenza è stato quindi un processo di lavoroche si è presentato come uno di quei “prodotti” risultanti da una forte “interre-lazione” fra i soggetti protagonisti del processo.

La carta dei servizi realizzata si può pertanto definire una “coproduzione”, ilprodotto di un lavoro di rete, che ha messo in comune le competenze e le inten-zionalità educative, ma ha preservato e garantito la specificità di ogni soggettocoinvolto.

La carta dei servizi dei centri educativi e aggregativi della città di Piacenza èstata approvata con determinazione di Giunta Comunale nel maggio 2008 e poipresentata nel corso di una iniziativa pubblica nel mese successivo con l’obiettivodi condividere e arricchire ulteriormente i suoi contenuti attraverso un confrontocon coloro che sono impegnati professionalmente nei percorsi socioeducativi.

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ScUOLA E DISAGIO NELTERRITORIO PIAcENTINO

Pier paolo TrianiPROFESSORE ASSOCIATO DI DIDATTICA GENERALE

- FACOLTà DI SCIENZE DELLA FORMAZIONE

UNIVERSITà CATTOLICA DEL SACRO CUORE SEDE

DI PIACENZA

IL SETTORE INFANZIA, SCUOLA, POLITICHE GIOVANILI DEL

Comune di Piacenza da diversi anni sta volgendo una partico-lare attenzione al tema del disagio a scuola, attraverso unapluralità di azioni1. Allo scopo di dare maggiore continuità allavoro nell’anno scolastico 2004 - 2005 è stata avviata una col-laborazione con l’Università Cattolica del Sacro Cuore, in par-ticolar modo con i docenti della Facoltà di Scienze dellaFormazione della sede di Piacenza.

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1. Sono atti avviati nel corso degli anni diversi interventi nell’area dellaprevenzione al disagio e promozione del benessere a scuola. Tra gli altri èbene ricordare: i progetti e corsi di formazione sull’orientamento realizza-ti con la supervisione della prof.ssa M.L. Pombeni; la ricerca-interventocontro la dispersione scolastica in collaborazione con il CDE nella figuradi Giancarlo Sacchi; la realizzazione di materiali didattici distribuiti in tuttele scuole cittadine (FALCO; set di materiali di orientamento per la scuolasecondaria di 1° grado; GIOCAORME, strumento didattico per l’attiva-zione delle competenze orientative nella scuola dell’infanzia e primaria).Dal 2003 si è andata delineando un’attenzione specifica al tema del disa-gio a scuola, attraverso un primo progetto coordinato dalla prof.ssa LuciaRocchi.

della classe, sul rapporto con i genitori, sulla motivazione attraverso attività chehanno visto il coinvolgimento diretto dei partecipanti.

Per promuovere la capacità delle scuole di elaborare una risposta sistematicaè stato realizzato un gruppo di lavoro sul rapporto tra disagio e sistema scola-stico; successivamente, a partire dal 2006, è stato costituito un gruppo di refe-renti per il disagio allo scopo di definire un punto di riferimento per il confron-to e lo studio dei problemi e la sperimentazione di strumenti e linee di azione.

Allo scopo di intensificare ulteriormente il sostegno alle scuole a partire dal-l’anno scolastico 2008-2009 è stata promossa la costituzione di gruppo di lavo-ro sul disagio all’interno dei singoli istituti.

Per accrescere la comprensione dei problemi e la capacità di analisi si è ope-rato anche in una seconda area definibile come ‘ricerca’, attraverso la realizza-zione di indagini che hanno visto il coinvolgimento diretto delle scuole.

LE RIcERcHE SvOLTE

Sono state svolte due ricerche, diverse tra loro per metodo e contenuto. La prima è stata dedicata alla percezione del disagio da parte degli insegnan-

ti ed è stata svolta attraverso la somministrazione di un questionario preparatodal gruppo di ricerca. Il coinvolgimento attivo delle scuole è avvenuto nelmomento della restituzione dei risultati.

La seconda è stata dedicata ai vissuti dei ragazzi a scuola. In questo caso èstato attivato un processo partecipativo molto intenso che ha visto il coinvolgi-mento dei docenti referenti sia nella costruzione dello strumento, sia nella suavalidazione. Attualmente sono stati raccolti i dati di questa prima fase e lo stru-mento costruito è pronto per una sua diffusione più ampia.

Entrambi i percorsi di ricerca hanno offerto dati su cui riflettere. Per questosaranno ora presi in esami in modo più dettagliato.

Questa collaborazione ha permesso di avviare un percorso2 che si è caratte-rizzato per diverse aree di intervento, per la realizzazione di alcune ricerche, peril coinvolgimento di un buon numero di insegnanti e istituti scolastici.

IL PERcORSO SvOLTO E LE AREEDI INTERvENTO

Il lavoro ha preso avvio innanzitutto con una ricognizione della letteraturaitaliana in merito al disagio scolastico. L’obiettivo è stato quello di elaborare unabase comune di interpretazione individuando, attraverso un approccio multidi-sciplinare, i principali modelli di lettura e di intervento.

L’espressione ‘disagio scolastico’ si presenta come un’espressione sinteticache nasconde al suo interno numerose possibilità di distinzioni. La nozionegenerale, però, rinvia alle insieme delle difficoltà che un ragazzo vive e manife-sta nell’assolvimento dei compiti evolutivi e formativi che la scuola gli richiede.

L’analisi raccolta in un volume3 ha permesso di avviare un processo di chia-rificazione del campo di lavoro che ha portato alla successiva individuazione didue macro direzioni di azione:

> accrescere la capacità dei docenti di osservare e gestire il disagioscolastico;

> accrescere la capacità delle scuole di elaborare una risposta sistema-tica ed integrata ad un problema ormai strutturale.

Per promuovere la capacità di osservazione e gestione dei singoli docenti deidiversi ordini di scuola si è costituita una prima area di intervento caratterizzatadalla formazione per insegnanti.

Sono stati svolti percorsi sulla lettura del disagio scolastico, sulla gestione

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2. Fin dall’inizio il percorso, promosso dall’Assessore Giovanna Calciati, ha visto la costitu-zione di un gruppo di lavoro e ricerca multidisciplinare composto da Pierpaolo Triani (coordi-natore del gruppo) – Ricercatore dell’Università Cattolica; Alberto Gromi, Docente a contrattodell’Università Cattolica, Diego Mesa, Docente a contratto dell’Università Cattolica, RobertaSala, Docente a contratto dell’Università Cattolica, Claudio Girelli, Ricercatore del’Universitàdegli Studi di Verona. Nel corso del tempo il gruppo si è arricchito con la presenza della dott.saBarbara Ferrari e la dott.ssa Sara Dellavalle. Il gruppo ha sempre operato in sinergia con ildott.L. Fornaroli e la dott.ssa C. Canevari del Comune di Piacenza. Confermato dall’AssessoreGiovanni Castagnetti il gruppo di lavoro è ancora operante.

Il presente contributo che intende presentare alcuni risultati del percorso è stato scritto daPierpaolo Triani con la preziosa collaborazione di tutti i membri del gruppo.

3. P. Triani, (a cura di) Leggere il disagio scolastico. Modelli a confronto, Carocci, Roma 2006

Tab.1. – Definizione di disagio per insegnanti di scuola primaria e secondaria di primo esecondo grado

Fonte: indagine 2005 Università Cattolica di Piacenza

La voce scelta con maggior frequenza, come osserva Mesa5, richiama unavisione ‘adattiva’ del tema in questione. è interessante notare come, pur restan-do sempre percentualmente la più alta, decresca in modo rilevante passando dalla scuo-la primaria (58, 3%) alla secondaria superiore (36, 4%). Con il crescere dell’età deiragazzi cambia sensibilmente il modo con cui i docenti interpretano il disagio e,correlativamente, ciò a cui prestano maggiore attenzione.

Una lettura affettivo-relazionale del disagio, rappresentata dalla voce “caren-za di punti di riferimento affettivi”, è fortemente presente negli insegnanti dellasecondaria di primo grado (31, 4%) a testimonianza del ‘peso’ che i cambiamen-ti della fase preadolescenziale hanno non solo sul ragazzo ma anche sui docen-ti, sul loro modo di relazionarsi ai ragazzi e di rappresentarsi il loro processo dicrescita.

Una visione ‘socio-culturale’ del disagio, che individua l’elemento di debolez-za nell’incertezza della società e nel disorientamento valoriale, (rappresentata

1. LA PERcEZIONE DEGLI INSEGNANTI

Il primo lavoro di indagine ha avuto come oggetto la percezione che gli inse-gnanti hanno in merito al disagio dei propri alunni e alle strategie di ‘fronteggia-mento’ (sia quelle attuate che quelle desiderate). Quale è il tipo di disagio che idocenti rivelano maggiormente nei propri studenti? Come lo affrontano? Cheaiutano chiedono? Vi sono differenze tra i diversi ordini di scuola?

è stata, perciò, realizzata una ricerca, tramite questionario, nell’anno scolasti-co 2005-2006. Nello stesso anno sono stati svolti anche gruppi di formazionerivolti ai docenti per accrescere le competenze della gestione del disagio a livel-lo di classe e di sistema scolastico.

Il questionario costruito dal gruppo di ricerca4 attivato presso l’insegnamen-to di Didattica generale dell’Università Cattolica, sede di Piacenza, è stato distri-buito, secondo una specifica campionatura, a 553 docenti di diverse scuole delDistretto Urbano, pari al 27% del totale degli insegnanti del territorio preso inconsiderazione.

I questionari restituiti sono stati 474 (85% del campione e il 23 del totaledegli insegnanti interessati dall’indagine). Lo strumento era costituito da 19 itemed intendeva indagare una pluralità di aspetti.

LA dEfINIzIONE dEL dISAgIO E LA PERcEzIONE

gENERALE dEL PRObLEMA

Agli insegnanti è stato chiesto innanzitutto di indicare quale definizione didisagio trovassero più idonea. La maggior parte dei docenti ha scelto come ‘defi-nizione’ di disagio l’”impossibilità totale o parziale di rispondere alle richiestedell’ambiente” (cfr. Tabella 1).

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5. D. Mesa, Leggere il disagio scolastico, in “Scuola e Didattica”, 3, 1 ottobre 2006, pp. 11 – 15.

4. Il gruppo di ricerca è stato composto da Pierpaolo Triani, Claudio Girelli, Alberto Gromi,Diego Mesa, Roberta Sala, Barbara Ferrari. Una prima esposizione dei risultati è stata svoltaall’interno dell’elaborato finale del percorso di laurea della dott.sa Ferrari e in un seminario pub-blico tenutosi a Piacenza il 29 marzo 2006.

Tab.2. – Il disagio più rilevante

Fonte: indagine 2005 Università Cattolica di Piacenza

A proposito di famiglie, la ricerca ha permesso anche di avere un quadroorientativo del modo con cui i docenti interpretano le difficoltà dei genitori inrapporto alla scuola.

Due sono i punti critici messi in rilievo. Il primo è la difficoltà dei genitori adassumersi le responsabilità educative. Il 32, 5% degli insegnanti della scuola pri-maria, il 25, 3% delle medie e il 27, 7% delle scuole ‘superiori’ scelgono questavoce come la ‘difficoltà più rilevante’.

Il secondo punto è la difficoltà ad accettare l’insuccesso del proprio figlioriconosciuta come la più rilevante dal 26, 2 % di insegnanti della primaria, dal22, 9% di insegnanti della scuola secondaria di primo grado e dal 27, 8 di quel-li della secondaria di secondo grado.

Gli insegnanti dunque nel pensare le difficoltà dei genitori tendono a pola-rizzare la loro rappresentazione attorno alla figura del genitore ‘poco educatore’e al genitore ‘poco oggettivo di fronte alla situazione del figlio’.

IL dISAgIO ScOLAStIcO

La scuola fa da scenario per la manifestazione di disagi che hanno cause indi-pendenti da essa ma che influenzano ugualmente la riuscita e il vissuto scolasti-co dei ragazzi. Per questo è importante che l’insegnante sappia riconoscere ladiversa tipologia di problemi che gli alunni possono esprimere nella loro vitascolastica. C’è però un area del disagio dove i docenti oltre al riconoscimentopossono attivare ‘direttamente’ strategie di intervento; si tratta dei problemi più

dalle voci “assenza di principi universali e condizione di disorientamento socia-le) cresce con i diversi gradi scolastici e raggiunge l’apice nella scuola seconda-ria superiore con il 32, 6% delle risposte.

Le due letture più estreme, quella “patologizzante” (voce “stato patologico”)e quella “normalizzante” (voce: “condizione normale nell’età evolutiva”), resta-no residuali anche se nella secondaria di secondo grado interessano ciascuna il7% dei docenti6.

Il disagio incontrato dai docenti nelle proprie aule è multiforme e anche in que-sto caso assume connotazioni specifiche in rapporto ai tipi di scuola. Se il disagiofamiliare è riconosciuto costantemente come il tipo di difficoltà più significativo(in generale il 42% dei docenti lo scegli come disagio più rilevante), nella scuolaprimaria è percepito in modo forte la presenza di un disagio legato alla socializza-zione (33%), nella scuola secondaria di primo grado è sottolineato il disagio con-nesso al rendimento scolastico (16%), nella scuola secondaria di secondo grado ildisagio più strettamente individuale (29%). In rapporto a questi dati potremmodire, semplificando, che oltre la difficoltà comune di rapportarsi con situazionifamiliare complesse, il compito percepito come più arduo da parte di una maestraè quello di ‘disciplinare’ i comportamenti dei ragazzi, da parte di un insegnante discuola media è quello di ‘far capire’, da parte di un insegnante di scuola superioredi promuovere la crescita di una personalità equilibrata.

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6. Queste riflessioni sulla definizione di disagio riprendono il contributo di D. Mesa, op. cit.,pp. 12-13.

è interessante, inoltre, riscontrare l’assenza di rilevanza attribuita alle difficol-tà nelle relazioni allievi-docenti e la bassa rilevanza assegnata alla difficoltà diapprendere. Secondo i docenti il disagio scolastico sembra non risiedere princi-palmente nel rapporto umano o nell’assolvimento del compito di apprendimen-to, quanto piuttosto in fattori interni allo studente ed esterni (appartenenti allasocietà) che ne condizionano l’esercizio.

Tab.3. – Il disagio scolastico più forte

Fonte: indagine 2005 Università Cattolica di Piacenza

LE dIffIcOLtà, LE StRAtEgIE, LE RIchIEStE

dEI dOcENtI

La gestione dei problemi dei ragazzi genera nei docenti stessi una situazionedi disagio. è significativo, a questo proposito, che quasi tutte le voci propostedal questionario hanno avuto un certo riscontro. Operare concretamente in unaclasse significa perciò avere a che fare con una molteplicità di difficoltà di con-tenimento, di mediazione, di motivazione, di controllo.

strettamente connessi ai compiti specifici che la scuola richiede, tradizionalmen-te definiti come rendimento e socializzazione. In merito all’area del disagio piùstrettamente scolastico i docenti coinvolti nella ricerca hanno evidenziato pro-blemi particolari a seconda dell’età degli studenti.

I docenti della scuola primaria hanno messo in rilievo un problema di atten-zione da parte dei bambini (31, 1%). Non si tratta tanto di un atteggiamentooppositivo o indisciplinato (la voce problemi di disciplina è stato scelto solo dal5, 7%), quanto piuttosto di una difficoltà di concentrazione nello svolgimentodel lavoro scolastico. Altrettanto peso (29, 5%) è stato conferito alla difficoltàdei bambini ad accettare le regole. Collegando questo dato alla problematicitàattribuita nella scuola primaria alla socializzazione, prima accennata, si può met-tere in rilievo come l’area della gestione della classe e delle relazioni sia, attualmente, con-siderata dai docenti della ‘scuola elementare’ particolarmente delicata.

Nei docenti della scuola secondaria di primo grado diminuisce il peso attri-buito ai problemi di attenzione e cresce il ruolo attribuito alla mancanza di moti-vazione (39, 1%). Ugualmente diminuisce la percentuale attribuita alla difficoltàdi accettare le regole, ma cresce il valore attribuito ai problemi di disciplina (9,2%). Di fronte a questi dati nasce una domanda cruciale: queste differenzenascono da comportamenti diversi dei ragazzi o da una diversa lettura degli stes-si comportamenti da parte dei docenti? Ed, eventualmente, da dove nascono leletture diverse? Perché un docente delle ‘scuole medie’ tende a considerare unproblema di ‘disciplina’ quel comportamento che una maestra interpreta invececome problema di attenzione?

L’assenza di motivazione raggiunge il suo picco con la scuola secondaria di2° grado (53, 9%). I docenti della scuola ‘superiore’ ritengono che sia l’atteggia-mento di fondo dei ragazzi verso l’impegno scolastico il problema più forte daaffrontare. Guardando i dati si potrebbe dire (naturalmente, semplificando unpo’) che la scuola genera progressivamente demotivazione; non si tratta, certamente, diun aspetto irrilevante. Viene in mente a questo proposito la sfida lanciata, con ilcaratteristico stile lapidario, da don Milani e dai suoi ragazzi nella parte centraledi Lettera ad una professoressa: “Agli svogliati basta dargli uno scopo”7.

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7. Scuola di Barbiana, Lettera ad una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1986,p. 80.

Tab. 4. Le maggiori difficoltà dei docenti nell’affrontare il disagio

Di fronte al disagio dei ragazzi i docenti coinvolti nella ricerca riconosconocome strategia più ‘frequente’ quella di affrontare la questione con i colleghi(molto spesso 42%). La strategia del confronto è frequente anche verso il sin-golo (il 38, 1% ha dichiarato di utilizzare molto spesso la strategia del condurreun colloquio individuale con l’alunno) e verso la classe (il 30, 8%) ha dichiaratodi utilizzare molto spesso la strategia del discutere con gli alunni in classe). Il 27,4% dei docenti ha affermato di ricorrere molto spesso a strategie specifiche.

Il quadro cambia non poco se dalla frequenza si passa a considerare il giudi-zio che gli insegnanti danno in merito all’efficacia della strategia. Il primo postoattribuito all’’affrontare la questione con i colleghi scompare per precipitarenella scuola secondaria di primo grado dove solo il 5, 6% attribuisce a questastrategia una buona efficacia.

Nella scuola ‘media’ la maggiore efficacia è attribuita, con grande margine,all’uso di strategie specifiche (44, 4%) che prevale anche nella scuola primaria,

Interessanti sono le differenze di sensibilità che si riscontrano nei diversilivelli di scuola.

Nella Scuola primaria la difficoltà più scelta riguarda il ‘Gestire il gruppo clas-se per le complesse dinamiche relazionali’ (55, 7%). Il dato decresce fortemen-te negli altri gradi. Ciò sembra confermare una spiccata attenzione dei docentidella primaria verso le problematiche relazionali non solo con i bambini maanche con le famiglie (si veda la voce ‘stabilire un clima di dialogo con le fami-glie’). Le difficoltà in campo relazionale, probabilmente (la ricerca non ha inda-gato questo dato), sono avvertite in aumento in riferimento alle trasformazioniculturali ed educative in atto nei contesti macro (si pensi alla presenza di diver-se nazionalità) e micro (si pensi ai cambiamenti nei modelli educativi familiari).

Nella scuola ‘media’ e ‘superiore’ appare, invece, maggiormente sottolineatoil problema di un lavoro integrato tra i diversi colleghi. Si tratta, evidentemente,di una questione che ha uno stretto legame con la struttura organizzativa e cur-ricolare della secondaria.

Il disagio per sua natura richiede una forte attenzione al singolo, un insegna-mento diversificato. Ma questo principio, secondo la maggior parte degli inse-gnanti risulta, purtroppo, inapplicabile. Grande criticità, infatti, viene assegnataalla possibilità di intercettare le esigenze formative con un picco nella scuolasecondaria di primo grado (56, 95%).

Questa difficoltà di costruire reali condizioni atte ad affrontare i problemi deiragazzi spinge un buon numero di insegnante alla rassegnazione. I docenti, infatti,non manifestano fatica a tollerare le manifestazioni di disagio, bensì, più frequentemente,denunciano un senso di impotenza (in ogni livello di scuola superiore al 30%).

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re nuovi modelli organizzativi e partecipativi.Un’altra richiesta forte degli insegnanti riguarda la costituzione di team capa-

ci di lavorare insieme; esigenza che aumenta dalla primaria verso le superiori.Anche in questo caso la riposta non può limitarsi ad accrescere i momenti for-mativi. Essi sono necessari ma non sufficienti se non si cerca di modificare ilmodo di lavorare degli insegnanti dando al lavoro di équipe un reale valore diesercizio della professione docente.

Ugualmente forte è la richiesta di classi meno numerose e meglio formate,aspetto che (in modo, sotto certi aspetti sorprendenti) viene segnalato maggior-mente dagli insegnanti delle superiori (63%).

Per quanto riguarda i programmi di intervento auspicati perché ritenuti piùefficaci i docenti di tutti gradi (sempre oltre il 50%)danno molto importanza aduna formazione più specifica. In secondo luogo gli insegnanti evidenziano l’im-portanza di serate formative dedicate alle famiglie. Maggiore diversificazionehanno ottenuto le altre voci. Nella scuola primaria si da molta importanza allapossibilità di consulenza e supervisione (43, 2%), nella scuola secondaria diprimo grado a programmi integrati con diversi attori sociali (46, 9%), nella scuo-la secondaria di secondo grado a sportelli di ascolto gestiti da esterni (38, 4%)

dove appare, inoltre, come dato peculiare il valore attribuito alla comunicazionedelle famiglie, che invece ritenuto meno efficace nella scuola secondaria.

Cresce invece con i gradi di scuola l’efficacia attribuita ai colloqui individua-li che nelle ‘superiori’ è stata indicata dal 45, 7% degli intervistati.

Tab. 5. La strategia ritenuta più efficace

Per quanto riguarda le esigenze, gli insegnanti, generalmente, riconosconol’importanza di interventi sia nella struttura e nell’organizzazione scolastica, sianel campo della formazione professionale.

L’esigenza più forte dei docenti della scuola primaria, ma sottolineata conforza anche negli altri gradi, è di avere rapporti sereni con le famiglie (66, 2%). Questodato sembra confermare i profondi mutamenti nel rapporto scuola- famiglia el’importanza di accrescere negli insegnanti la capacità di costruire in modonuovo il rapporto con i genitori e di mettere le scuole nelle condizioni di costrui-

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Tab. 7. Quando l’istituzione scolastica può diventare fonte di disagio

Fonte: indagine 2005 Università Cattolica di Piacenza

2. IL vISSUTO ScOLASTIcO DEI RAGAZZI

Dopo aver indagato la percezione degli insegnanti, si è ritenuto significativoporsi dal punto di vista dei ragazzi cercando di dare loro voce.

La singola scuola non può risolvere tutti i disagi che gli alunni rivelano nelcontesto scolastico, ma non può neppure artificialmente separare l’atto dell’in-segnamento dalla vita dei ragazzi e dai processi di crescita che essi vivono. Persvolgere realmente il proprio compito (di facilitare l’apprendimento, di forni-re gli strumenti culturali basilari, di promuovere la crescita integrale di ognialunno) gli insegnanti si trovano necessariamente ad operare con la concretez-za della vita dei ragazzi, con le risorse e i loro problemi. Alcune problemati-che non possono essere direttamente affrontate dagli insegnanti, ma diverse diesse invece rientrano nella gestione quotidiana dell’azione didattica. Ogni inse-

Tab. 6. Le esigenze professionali degli insegnanti per affrontare il disagio

Fonte: indagine 2005 Università Cattolica di Piacenza

quANdO LA ScuOLA è fONtE dI dISAgIO

Infine il questionario ha chiesto ai docenti di prendere posizione sulla scuo-la come possibile fonte di disagio (cfr. tabella 7). Dalle risposte emerge la con-vinzione che l’istituzione scolastica sia causa di difficoltà quando non sa porsicon un sguardo propositivo e positivo nei confronti dei ragazzi, quando separale diverse dimensioni dell’insegnamento privilegiando solo l’istruzione, quandonon sa leggere i bisogno specifici dei ragazzi, quando (soprattutto nelle scuolesecondarie di secondo grado) tra i docenti non vi è una integrazione degli stilieducativi.

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Attualmente sono stati svolti i primi quattro passaggi, perciò l’analisi dei risul-tati che sotto sono riportati riguarda solo i dati raccolti nella fase di testaggiodello strumento, che ha visto coinvolti 13 istituti8 e 22 classi con un totale di 448alunni (314 della primaria, 134 della scuola secondaria di primo grado). Se lo stru-mento utilizzato in via preliminare e la numerosità del campione non permetto-no di parlare di ricerca completa, la varietà degli istituti e della classi consente,unitamente alla ricchezza dei dati raccolti, però, consentono di parlare di una‘prima ricognizione fondata’ i cui risultati meritano di essere esaminati.

.Sono state prese in considerazione quattro aree.

> Area del sé e del ruolo studente: riguarda il modo in cui i ragazzi rappre-sentano se stessi e il proprio ruolo nel contesto scolastico.

> Area del ruolo del docente: riguarda il modo con cui i ragazzi si rappre-sentano l’insegnante e il modo con cui vivono il rapporto con idiversi insegnanti.

> Area della classe e dell’organizzazione del curricolo: riguarda il modo concui i ragazzi vivono il rapporto con i propri compagni, la classe, el’impegno scolastico (fatto di successi e difficoltà, di saperi e rela-zioni).

> Area del ruolo della famiglia: riguarda il modo con cui i ragazzi si rap-presentano e vivono le aspettative dei genitori e il sostegno genito-riale nell’assolvere alle richieste della scuola.

Lo strumento era composto di 39 item a risposta aperta9. Solo uno di essichiedeva di fare un disegno10, tutti gli altri erano costituiti da frasi da completa-re liberamente.

gnante, mentre attiva processi di apprendimento, svolge funzioni di prevenzio-ne e contenimento.

In linea con questa prospettiva, si è scelto di attivare un percorso che potes-se aiutare i docenti a comprendere meglio il modo con cui i ragazzi vivono ascuola. Sì è ritenuto fondamentale non limitare l’attenzione soltanto al disagioesplicito, ma accrescere la focalizzazione verso il ragazzo nella sua globalità, cer-cando innanzitutto di farlo esprimere. Per poter lavorare con i ragazzi, infatti, è digrande importanza poter cogliere meglio il loro punto di vista.

Si è così avviato nella primavera del 2007 un lavoro di ricerca –formazionededicato ai vissuti dei ragazzi a scuola, pensato secondo una logica di graduali-tà e forte coinvolgimento delle scuole e finalizzato, soprattutto, a fornire unostrumento capace di:

> dare la parola ai ragazzi> arricchire la comprensione e l’azione dei singoli insegnanti e del

gruppo docenti.L’obiettivo principale dunque non è quello di fare una ricognizione statistica

generale, bensì di aiutare i docenti stessi a costruire uno strumento capace diraccogliere dei dati e fornire idee per l’azione.

Sono state, perciò, previste diverse tappe:a. costruzione dello strumento da parte del gruppo di ricerca dell’uni-

versità e il gruppo dei referenti;b. somministrazione del questionario ad alcune classi al fine di testare

lo strumento ed avere i primi dati indicativi;c. elaborazione dei dati e discussione nel gruppo di lavoro e riflessio-

ne sulla ricaduta didattica dello strumento. Gli insegnanti coinvoltinella ricerca si sono confrontati sul come poter restituire alle classii primi risultati e si sono chiesti su quali ambiti era importante lavo-rare assieme ai ragazzi. è stato quindi attivato, in modalità diverse aseconda dei contesti, un percorso di restituzione ‘pedagogica’ fina-lizzata a promuovere nei ragazzi e nei docenti nuove consapevolez-ze e per attivare miglioramenti;

d. ridefinizione del questionario alla luce delle indicazioni raccolte tragli insegnanti;

e. messa a disposizione del questionario per un utilizzo diffuso e rac-colto di un numero più ampio di dati.

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8. Le scuole primarie coinvolte sono state: Scuola Vittorino da Feltre; Scuola Giordani;Scuola Don Minzoni; Scuola Caduti sul Lavoro; Scuola Pezzani; Scuola Alberoni; Scuola DueGiugno; Scuola Rodari (Podenzano); Le Scuole secondarie di primo grado: Scuola Calvino;Scuola Dante-Carducci; Scuola Faustini-Frank; Scuola Media Rivergaro. L’Istituto Comprensivodi San Giorgio-Podenzano.

9. Per la costruzione dello strumento abbia preso spunto, inizialmente, dal Test di valutazio-ne del disagio e della dispersione scolastica TVD (G.Mancini – G. Gabrielli, TVD, Erickson,Trento 1998). Abbiamo ritenuto interessante la proposta del TVD di mantenere le risposte aper-te e di proporre una codifica in positivo, negativo, neutro. Il questionario ‘Io nella scuola’, ela-borato nel corso della ricerca, è però molto differente dal Test di valutazione del disagio e delladispersione scolastica sia per quanto riguarda le finalità, gli item e la modalità complessiva dicodifica.

10. L’analisi dei disegni e delle didascalie elaborate dagli alunni non sono prese in con-siderazione in questo articolo perché richiederebbero una trattazione ampia a parte.

mentre pochi riescono a considerare vedere questa come una situazione di cre-scita e uno stimolo per fare meglio.

Tab. 8

Fonte: indagine 2008 Università Cattolica di Piacenza

L’AREA dEL RAPPORtO cON I dOcENtI

Per permettere agli alunni di esprimersi in merito al rapporto con i propriinsegnanti, il questionario ha posto alla loro attenzione diverse domande.

Una prima domanda ha riguardato il rapporto generale con i docenti. Circa metàdegli alunni ha espresso un vissuto positivo e il 40-45% un atteggiamento dineutralità. è da sottolineare un 7% di alunni che sia nella primaria che nellascuola media ha manifestato un vissuto negativo.

Una seconda domanda ha riguardato i momenti di difficoltà. Pure in questocaso prevalgono i toni positivi: la maggior parte dei ragazzi si sentono aiutati esostenuti, anche se questa sensazione diminuisce sensibilmente nella scuolasecondaria di primo grado (la risposta positiva scende dall’81% al 69% e il tononeutro sale al 29%).

Per quanto riguarda l’elaborazione dei dati, le risposte di 19 item sono statecodificate in relazione al tono emotivo del vissuto personale degli alunni secon-do le categorie di positivo, negativo, neutro. Vi era inoltre la categoria “?” attri-buita alle risposte fuori tema o i cui vissuti erano ambigui o non facilmentedecodificabili. Con gli altri 19 item è stata effettuata un’analisi del contenutodelle risposte che ha portato all’individuazione ex-post di una gamma specificadi categorie per ciascun item. Si è poi proceduto all’analisi della frequenza dellerisposte per ciascuna categoria individuata.

Alla costruzione ha fatto seguito la riflessione sulla ricaduta didattica dellostrumento. Gli insegnanti coinvolti nella ricerca si sono confrontati sul comepoter restituire alle classi i primi risultati e si sono chiesti su quali ambiti eraimportante lavorare assieme ai ragazzi. è stato quindi attivato, in modalità diver-se a seconda dei contesti, un percorso di restituzione ‘pedagogica’ finalizzata apromuovere nei ragazzi e nei docenti nuove consapevolezze e per attivaremiglioramenti.

L’AREA dEL Sé E dEL RuOLO StudENtE

In riferimento all’immagine di sé sia i ragazzi della primaria che della secon-daria esprimono un vissuto positivo nelle descrizioni di sé come bambini eragazzi. Prevale il segno più anche nella descrizione di sé come alunni anche sein una percentuale molto inferiore. Si noti ad esempio come l’80% dei ragazzidelle scuole secondarie di primo grado si siano descritti con un tono positivo,mentre solo il 47% ha descritto positivamente il proprio essere alunno.

Critica è risultata la domanda in merito all’immagine di sé allo specchio.Prevalgono infatti risposte neutre (formulate spesso attraverso una descrizionegenerica di alcuni caratteri fisici) e acquistano una certe consistenza i toni nega-tivi (24% per la primaria, 20% per la secondaria).

In riferimento alla percezione della propria capacità di reagire di fronte aicambiamenti, sia i ragazzi della primaria che quelli della secondaria, sono gene-ralmente stimolati e non impauriti dalle novità proposte a scuola. I ragazzi dellaprimaria mostrano maggiormente un vissuto negativo di fronte alle sfide diffi-cili (26% “neg.”) o più specificatamente a difficoltà nell’attività scolastica (30%“neg.”), quelli delle medie invece sembrano vivere con meno ansia queste situa-zioni.

L’aspetto di maggior difficoltà per entrambi i gruppi riguarda la situazione in cui iragazzi non hanno adempiuto ai compiti scolastici. è molto diffuso un atteggiamentodi fissazione sugli aspetti negativi della situazione (40% “neg.” primaria e 35%“neg.” secondaria) o di indifferenza (34% “neutro” e 63% “neutro” secondaria)

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Tab. 10 Domanda: Sono contento se i miei insegnanti...

Fonte: indagine 2008 Università Cattolica di Piacenza

Ugualmente interessanti appaiono le risposte alla domanda “mi trovo in dif-ficoltà con l’insegnante quando…”.

Tab. 11 Domanda. Mi trovo in difficoltà con le maestre/con gli insegnanti quando…

Fonte: indagine 2008 Università Cattolica di Piacenza

L’ambito nel quale i ragazzi segnalano maggiori difficoltà è quello dellacomunicazione e della comprensione con i docenti. Sono rientrate in questacategoria il 39, 1 % delle risposte della scuola primaria e il 39, 4 %della scuolasecondaria di primo grado.

Vengono evidenziate innanzitutto le difficoltà di comprensione del linguag-gio degli insegnanti (il 10, 9 % delle risposte nella scuola primaria sale al 16, 2 %

Tab. 9

Fonte: indagine 2008 Università Cattolica di Piacenza

Un quadro ancora più dettagliato ci è fornito dall’analisi di alcuni item chehanno chiesto un lavoro di interpretazione più ampio (le cosiddette domande‘senza codifica’).

Rispondendo alla domanda “sono contento se i miei insegnanti…”, la mag-gior parte dei ragazzi (nel 52, 8% delle risposte) ha espresso il piacere di riceve-re un apprezzamento da parte dei docenti (un bel voto, un giudizio positivo, uncomplimento) alcuni hanno risposto di essere contenti se i professori spieganobene (con un incremento nella scuola secondaria rispetto alla scuola primaria),o se aiutano nelle difficoltà o rendono più vivaci e piacevoli le lezioni (18, 4 %).Ci sono stati studenti invece che hanno messo al primo posto la condizione, chepotremmo definire esistenziale, dei propri insegnanti. Apertamente hanno scrit-to (nel 4, 6 % delle risposte) che sono contenti, innanzitutto, se i propri docen-ti sono di buon umore, allegri, sereni, felici.

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L’AREA dEL RAPPORtO cON LA cLASSE

E cON IL cuRRIcOLO

In merito ai rapporti con la classe, la relazione con i compagni appare fontedi disagio maggiormente nei bambini della primaria che esprimono un vissutonegativo nel 23% dei casi.

Tab. 13

Fonte: indagine 2008 Università Cattolica di Piacenza

Questo dato appare confermato anche dall’item “a scuola mi arrabbio quan-do” dove ben il 63% delle risposte fornite dagli alunni della scuola primaria hariguardato difficoltà nei rapporti con i compagni (a causa di dispetti, scherni,ecc…). La situazione cambia nella scuola ‘media’, dove il ragazzo dichiara diarrabbiarsi di più a causa del proprio rendimento e in rapporto al comportamen-to dei propri insegnanti.

Tab. 14 A scuola mi arrabbio quando…

Fonte: indagine 2008 Università Cattolica di Piacenza

nella scuola secondaria di primo grado), ma in qualche caso la responsabilitàviene attribuita più direttamente all’incapacità del maestro o del professore difarsi comprendere (il 4, 4 % delle risposte nella primaria e il 5, 1 % nelle ‘medie’ha evidenziato come causa il fatto che il docente spiega male).

Analogamente i ragazzi si sentono in difficoltà nel comunicare con gli inse-gnanti perché spesso faticano ad esprimersi e non si sentono compresi e ascol-tati. I bambini della primaria collegano maggiormente le difficoltà nella relazio-ne con gli insegnanti ai momenti di verifica e vivono con maggiore ansia l’espe-rienza dello sbagliare. La difficoltà nell’esecuzione e nella performance è eviden-ziata nel 19% delle risposte della primaria rispetto al 7, 1 % delle risposte dellascuola media.

I bambini della scuola primaria dicono più frequentemente di trovarsi in dif-ficoltà nel rapporto con gli insegnanti quando si comportano male, o sono ina-dempienti, o i loro compagni fanno troppo chiasso.

Per i ragazzi della secondaria le difficoltà sono generate maggiormente daatteggiamenti e/o comportamenti inadeguati o ingiusti da parte degli insegnanti (sinoti l’innalzamento di questa voce dal 4, 7% al 25, 3%).

I ragazzi delle medie dunque sembrano avere un rapporto più difficili con idocenti da cui vorrebbero soprattutto maggiore sostegno e attenzione didattica.

Questo dato viene confermato anche dall’autorappresentazione che gli stu-denti hanno dato della figura docente attraverso la risposta alla domanda: “se iofossi un insegnante…”.

Nella scuola secondaria di primo grado il 35, 6% delle risposte ha riguardatola costruzione di una relazione con gli alunni più attenta alle loro richieste a dif-ferenza di un 17, 2 % nella scuola primaria.

Tab. 12. Domanda: Se io fossi un insegnante…

Fonte: indagine 2008 Università Cattolica di Piacenza

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Tab. 16 Domanda: A scuola mi stanco quando…

Fonte: indagine 2008 Università Cattolica di Piacenza

E quando invece a scuola il ‘tempo vola? Rispetto alla domanda precedente,si deve segnalare un calo di più del 10% in riferimento allo svolgersi dell’attivi-tà didattica: il 61, 4% la vede come causa di stanchezza, il 50, 8% come occasio-ne per far “volare” il tempo.

Per quanto riguarda l’area delle emozioni acquisisce un ruolo fondamentalel’interesse e il divertimento che, uniti, sono indicati come fattore di ‘leggerezza’scolastica nel 49, 6% delle risposte dei ragazzi della scuola media.

I compagni sono considerati dagli alunni una componente importante ancheper la realizzazione concreta delle attività formative e per l’apprendimento. Piùvolte, infatti, nelle risposte è stato evidenziato il ruolo negativo ricoperto dacomportamenti disturbanti da parte di altri alunni ed è stato messo in luce l’ap-prezzamento verso situazioni di calma e di silenzio.

Il vissuto generale degli studenti rispetto all’impegno scolastico si differenziacon l’età. Nella scuola primaria vi è una maggiore polarizzazione tra vissuti posi-tivi (21%) e vissuti negativi (31%) mentre nella scuola secondaria di primo gradoprevale fortemente una descrizione neutra (73%) e si abbassa in modo preoccu-pante il vissuto positivo (solo il 5%).

Tab. 15

Fonte: indagine 2008 Università Cattolica di Piacenza

L’attività didattica è ritenuto il fattore maggiore di stanchezza (come è nor-male che sia), anche se una certa percentuale di risposte ha messo in luce che cisi stanca quando non si fa niente. Con minore frequenza è stata attribuita lafonte della stanchezza al comportamento dei compagni o degli insegnanti. Conun numero ancora minore di risposte alcuni alunni hanno dichiarato di stancar-si molto in rapporto a determinate situazione e stati emotivi (noia, ripetitività,disinteresse, tristezza). La noia e il disinteresse crescono sensibilmente nellascuola secondaria di primo grado.

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quando non capisco. Un altro 16-17% tende invece a ritenere decisiva la situa-zione ambientale della classe.

Con il crescere dell’età viene attribuita maggiore responsabilità ai docenti conla conferma del rapporto critico insegnanti-alunni nella scuola media.

Tab. 18 Domanda: Mi riesce difficile imparare

Fonte: indagine 2008 Università Cattolica di Piacenza

L’AREA dEL RAPPORtO cON I gENItORI

Alcune domande infine riguardavano il modo con cui gli alunni vedono l’at-teggiamento e il coinvolgimento dei genitori nel loro impegno scolastico.

Le risposte, come è facile immaginare, cambiano in rapporto alle due fasced’età. Nel confronto tra primaria e secondaria decresce infatti il numero dirisposte associate a un vissuto positivo sia per quanto riguarda la percezione delgiudizio su di sé, che del sostegno dei genitori nello svolgimento dei compiti.

Tab 17. Domanda: Il tempo vola quando…

Fonte: indagine 2008 Università Cattolica di Piacenza

Per quanto riguarda il rapporto con l’apprendimento e i contenuti disciplina-ri, nelle risposte dei bambini della primaria il tipo di ‘materia’ più facile daapprendere è distribuito in modo abbastanza omogeneo tra la lingua italiana (17,9%), la matematica (17, 5%), la storia (14%), la geografia (9, 3%). Nella secon-daria di primo grado cresce l’apprezzamento verso la storia (15, 9%) e verso lelingue straniere (18, 6%), mentre diminuiscono le altre.

La facilità di apprendimento è ricondotta a diverse risposte: in primo luogoalla piacevolezza della materia e all’interesse che gli argomenti in essa trattatisuscitano nello studente. Sono soprattutto il ragazzi della secondaria a rilevare ladimensione dell’interesse. In secondo luogo, oltre alla semplicità della materia insé, conta anche la predisposizione dei singoli alunni (più sentita nei ragazzi dellasecondaria) e l’abilità degli insegnanti nello spiegarla e nel proporne i contenuti(anche in questo caso la sottolineatura è soprattutto dei ragazzi della seconda-ria). Ci sono anche altre ragioni: l’utilità/praticità di alcune materie che ne favo-risce l’apprendimento, lo studio e l’attenzione sostenuta durante le lezioni.

Altri spunti interessanti ci vengono dalle risposte alla domanda: “mi riescedifficile imparare…”

Quasi la metà delle risposte ha indicato un contenuto o una area disciplina-re. Al primo posto delle materie difficili si collocano la Matematica e laGeometria, seguite dall’Italiano e, per quanto riguarda la scuola primaria, dallaGeografia.

Più del 20% delle risposte invece hanno messo in luce il ruolo attivo dellostudente. è difficile imparare, dicono alcuni alunni, quando non sto attento o

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comprensibile. I ragazzi non possono lasciare fuori dalle aula la loro ‘vita’ e ledinamiche evolutive e familiari che vivono incidono, in modo diverso a secondadei casi individuali, sui comportamenti e sui risultati. Ugualmente la scuola ènecessariamente un luogo di richieste che chiedono impegno e che originanonegli alunni livelli di risposta dove il grado di ‘fatica’ è molto diverso.

Chi opera nella scuola sa bene che il disagio dei ragazzi è una componentequotidiana. Le risposte degli insegnanti e degli alunni ci hanno permesso dicogliere questo dato con molta chiarezza. Vi sono alunni che hanno difficoltà inalcuni campi (c’è chi fa fatica a relazionarsi con i compagni, chi ha problemi inuna determinata ‘materia’), ma vi è anche un numero di persone che presenta undisagio più diffuso che va ad incidere sull’insieme della vita scolastica.

Riconoscere il disagio come componente strutturale delle proprie scuole edelle proprie classi rappresenta un primo passo importante. Ne nasce, però,subito dopo una domanda: cosa può fare la scuola?

In termini astratti possiamo immaginare tre tipi di riposta: il controllo, la risolu-zione, il contenimento/fronteggiamento. Ognuna di esse è di difficile attuazione.

Una prima risposta è quella di considerare ‘il disagio’ un fatto secondariorispetto ai compiti della scuola. La conseguenza operativa di questa posizione è:a) la sottovalutazione del rapporto tra difficoltà degli alunni e apprendimento eil controllo della situazione affinché i problemi restino il più possibile fuori dallavita ordinaria della classe; b) la separazione tra rendimento scolastico e difficol-tà dei ragazzi. Questo tipo di risposta (al di là di considerazioni pedagogiche sulcompito della scuola) si presenta nel lungo periodo di difficile attuazione. Il disa-gio ignorato infatti rimane attivo e incide inevitabilmente nei comportamenti,nei risultati, nella motivazione.

Una seconda risposta è quella di considerare il disagio parte integrante delcompito della scuola. La conseguenza operativa è il potenziamento delle capaci-tà di osservazione, di individuazione, di intervento degli insegnanti e della scuo-la nel suo insieme per ‘risolvere’ i problemi. Il punto debole di questa prospet-tiva risiede nel fatto che non sempre i disagi che i ragazzi vivono a scuola pos-sono essere ‘risolti’ facilmente e possono essere affrontati direttamente dagliinsegnanti.

Una terza tipo di risposta cerca perciò di ‘fare delle distinzioni’. La scuolanon può ignorare le difficoltà dei ragazzi e neppure risolverle tutte. In generalepuò essere ambiente capace di: contenere le difficoltà, di aiutare i ragazzi (e igenitori) a prendere consapevolezza dei problemi e anche di concorrere allasoluzione di alcuni (quelli più attinenti all’apprendimento culturale e alla socia-lizzazione).

Occorre per questo distinguere tra tipi e livelli di disagio e capire in rappor-to ad essi se e che cosa può fare la scuola. In questo processo di distinzione risie-de la difficoltà operativa di questo tipo di risposta. Si apre, perciò, un importan-

Tab. 19

Fonte: indagine 2008 Università Cattolica di Piacenza

Per quanto riguarda le occasioni durante le quali si parla di scuola le rispostesi collocano per lo più sull’asse cronologico e su quello contenutistico.

In relazione all’asse cronologico, sia per i ragazzi della primaria che dellasecondaria i momenti in cui si parla della scuola sono: il ritorno a casa, ilmomento del pranzo, il momento dei compiti.

I bambini della primaria si riferiscono più frequentemente al momento deicompiti come momento di confronto probabilmente perché maggiormenteseguiti e controllati dai genitori nel lavoro esecutivo, mentre i ragazzi dellasecondaria fanno più riferimento al momento del pranzo, segno questo che ladiscussione avviene più su un piano argomentativo generale che non a livellooperativo.

Questa osservazione trova conferma anche nella distribuzione delle rispostesull’asse argomentativo. I ragazzi della secondaria tendono a parlare della scuolaquando ci sono delle valutazioni (interrogazioni e verifiche) e in generale di “comeè andata a scuola”. I bambini della primaria fanno riferimento a episodi specifici,soffermandosi più dei ragazzi sugli aspetti problematici vissuti a scuola.

In merito alle aspettative dei genitori gli studenti percepiscono innanzituttoil desiderio di un buon rendimento seguito dall’attesa di un comportamento ade-guato.

cONcLUSIONI

1) La difficoltà di trovare una risposta sistematicaLa scuola è un ambiente sociale in cui i problemi e le difficoltà dei ragazzi

possono semplicemente manifestarsi, ma anche originarsi e prendere forma inrapporto a determinati compiti loro richiesti. Si tratta di un fatto facilmente

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Un ragazzo ha scritto: imparo meglio quando la mia insegnante è contenta.Si apre qui un altro discorso molto ampio che riguarda il benessere e il disagiodei docenti. Esso richiederebbe, certamente, una ricerca specifica.

te direzione di lavoro: aiutare il sistema scolastico a definire la prospettiva concui guarda al disagio dei ragazzi a scuola e a delineare, in rapporto con gli altriattori del sistema, le proprie funzioni e competenze.

2) L’importanza di accrescere il sostegno e la consapevolezzaLa capacità delle scuole di affrontare, secondo le proprie finalità, i disagi che

i ragazzi vivono a scuola passa attraverso un processo di ‘chiarificazione’, ma sirealizza soltanto attraverso il diretto coinvolgimento degli insegnanti.

I docenti delle scuole si sentono spesso soli e impotenti e il lavoro svolto inquesti anni ha mostrato l’importanza di costruire dispositivi per il confronto e ilsostegno. I dati raccolti inoltre ci hanno permesso di restituire alle scuole alcu-ni punti particolarmente critici su cui costruire piste di lavoro. Ne richiamo,come esempio, alcuni.

a) Nelle parole degli alunni della scuola primaria (ma anche dei docen-ti) un punto critico appare la gestione della classe (per una pluralitàdi ragioni). Frequentemente i bambini hanno espresso il desiderio diavere meno ‘disturbo’ da parte dei compagni e più ‘tranquillità’.

b) Nelle parole degli alunni della scuola secondaria un punto criticoappare il rapporto con i docenti. Cresce infatti il giudizio critico deiragazzi nei confronti dei comportamenti dei propri insegnanti. Si trat-ta di un fatto collegabile semplicemente ai cambiamenti evolutivi?

c) Sia nella scuola primaria che nella scuola secondaria di primo gradodiversi alunni non hanno nascosto la loro difficoltà ad impararealcune materie (soprattutto Matematica, ma non solo).

d) Nelle parole dei docenti sono emersi chiaramente nodi critici ine-rente la motivazione degli alunni, il lavoro congiunto con i colleghi,il confronto e la collaborazione con i genitori.

3) Il suggerimento dei ragazziI campi su cui operare appaiono molti, ma vi è una quotidianità che chiede

di essere gestita immediatamente. A questo riguardo è stato utile raccogliere lavoce dei ragazzi. Nelle loro risposte emergono spunti di immediata fruibilità peri docenti stessi. Faccio un ultimo esempio. Nel rispondere alla domanda “impa-ro meglio quando la maestra/gli insegnanti” gli alunni ci hanno restituito unquadro articolato di suggerimenti, ovvi per i docenti ma proprio per questo sem-pre da rifocalizzare.

Imparo meglio, hanno detto i ragazzi, quando l’insegnante: ‘mi spiega concalma; mi spiega più volte; mi fa vedere dove ho sbagliato; mi incoraggia; non siferma ogni volta per dare una nota; gli chiedo che non ho capito e me lo spiegavolentieri’. Sono solo alcune delle risposte.

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ScUOLA, AUTORITÀ, DISAGIO.OSSERvAZIONI E PROPOSTEELEmENTARI DI DEmOcRAZIASOcIALE “IN cLASSE”.RIcERcA-AZIONE “RETI DIPROSSImITÀ IN cLASSE”

Giuseppe ArmaniRESPONSABILE SISTEMA GESTIONE QUALITà DEL

SETTORE SOCIO EDUCATIVO - UFFICIO DI STAFF

DEL SINDACO E DELLA GIUNTA DEL COMUNE DI

FIORENZUOLA D’ARDA

PREmESSA

L’inserimento delle Autonomie Scolastiche nel titolo quin-to della Costituzione ha avviato un “sistema delle autonomie”paritetico rispetto all’organizzazione statale dell’istruzione ealla sfera istituzionale presidiata dagli enti locali.

D’altro canto le Amministrazioni Comunali hanno neltempo maturato la convinzione che la qualità e l’equità del-l’offerta di istruzione siano obiettivi politici che devono tra-dursi in contenuti educativi e culturali a partire dai contestilocali in cui le scuole operano. La questione ineludibile si puòformulare così: a partire da quali presupposti si può concilia-re l’autonomia delle Scuole (autonomia della didattica, diricerca, di sviluppo, dell’offerta formativa) e l’interdipenden-za con le istituzioni locali e la società civile?

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Il termine di territorio ricopre storicamente una duplice accezione: da unlato si riferisce a una realtà giuridico-amministrativa; dall’altro rimanda al con-cetto di territorialità in quanto mix di persone residenti, pratiche, rappresenta-zioni, contesti sociali organizzati che costituiscono un sistema le cui parti sonointerdipendenti.

In parte naturale - area geografica - e in parte sociale – territorialità -, il ter-ritorio qui in questione corrisponde a luoghi non necessariamente contigui, main rete, interconnessi, integrati su scale variabili generatori di senso e identità.

La questione cruciale è dunque il sapere, a partire da quando – (vale a dire daquale tipo e da quale livello di organizzazione) – uno spazio naturale o antropiz-zato diviene un territorio ovvero una comunità sociale di intenzioni organizzate.

Gli studiosi dei differenti ambiti disciplinari che si occupano della questionesono concordi su di un aspetto: niente territori senza una proiezione collettivadegli attori verso un futuro comune che agisce come collante nel quadro di unacoesa funzione identitaria.

LA fRAgILItà dEI LEgAMI

Partendo da questi presupposti possiamo constatare che la scuola in quantosistema educativo nei termini di Istituto localizzato - area locale di attrazione -non rinvia automaticamente a un territorio educativo. D’altro canto non menofragile è il legame tra progetto di scuola – progetto di Istituto e progetto politi-co nei confronti del territorio. Dovremmo chiederci: vi è legame tra formazio-ne e istruzione obbligatoria e occupazione? Tra offerta educativa e livello dellacoesione intergenerazionale espressa in una determinata area territoriale? In chemodo la scuola offre delle mediazioni attraverso un ancoraggio territoriale nellalogica dell’apprendimento continuo? Quali contenuti propone quali oggetti diapprendimento?

Ma dovremmo anche chiederci: qual è il livello di ricaduta delle politichelocali nei termini di sostegno allo sviluppo di autonomia del sistema educativo?Quale grado di convergenza tra le politiche verso questo obiettivo?

L’esperienza dimostra che la solvibilità di un sistema sociale territoriale nonpuò fare economia di queste sinergie. Come le ferrovie collegano spazi differen-ti, così occorre ripensare quali “infrastrutture societarie” possono interconnet-tere spazi istituzionali di “autonomie funzionali” ancora distanti.

Nella convinzione che nessuna ingegneria ordinamentale o “sedicente” rifor-ma calate dall’alto possano cambiare la modalità di “fare scuola”, occorre iden-tificare quali “fuochi” facilitino e sostengano il coinvolgimento delle scuole coni “luoghi” di appartenenza affinché possa aumentare la capacità delle medesimedi conferire respiro politico e “strategia” formativa alle loro azioni.

IL RAPPORtO dIffIcILE tRA AutONOMIA

ScOLAStIcA E AutONOMIA LOcALE

Oggi i rapporti tra enti locali e scuole non funzionano ancora né come pre-vede il decreto legislativo n. 112/’98, che ha reso di competenza degli enti loca-li materie nel campo dell’istruzione prima appartenenti allo Stato, né come san-cisce il regolamento attuativo dell’autonomia scolastica (il DPR 275/’99) cheidentifica il Piano dell’offerta formativa (POF) di ogni scuola non in una som-matoria di progetti e di “educazioni”, aggiuntivi al vigente ordinamento deglistudi, ma nel documento che rende esplicite le scelte dei docenti e del consigliod’istituto in merito ai percorsi formativi da attuare per condurre tutti gli allieviad istruirsi.

Purtroppo e nonostante il forte richiamo costituito dalla legge regionale12/03 nei termini di spinta alla collaborazione tra autonomie funzionali, moltoè rimasto ancora in larga parte come prima dell’autonomia: la scuola soventeesprime un’iniziativa prevalentemente determinata da decisioni assunte lontanodal luogo in cui essa opera; gli enti locali troppo spesso la vivono come una pre-senza sicuramente importante e preziosa, ma sostanzialmente estranea alla pos-sibilità di concorrere a determinare le politiche formative da attuare sul territo-rio. In questo modo non si attua cambiamento.

L’OPPORtuNItà dEL “tERRItORIO”

La recente ridefinizione dei Distretti Socio Sanitari in Provincia di Piacenzaad opera della Conferenza Territoriale sociale e Sanitaria (settembre 2007) - cheha visto la riconfigurazione delle relazioni tra Comuni in tre nuove aggregazio-ni infra-provinciali1 - ha riproposto al centro della programmazione politica eistituzionale la nozione di “territorio”.

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1. Distretto di Levante (24 Comuni) Distretto di Ponente (23 Comuni) e Distretto Città diPiacenza (Capoluogo).

mento che legittima e valorizza la sua iniziativa autonoma, sia la conoscenzadella domanda formativa alla quale fornire risposte.

La scuola deve rendere “visibile” che per decidere come istruire i propri allie-vi considera un valore trarre tali indicazioni dal suo “stare sul territorio”, dallasua capacità di lettura e di interpretazione di bisogni diffusi, a partire da quelliformativi espressi dalle giovani generazioni.

L’OPPORtuNItà dI uNA PROgRAMMAzIONE

PARtEcIPAtA E cONdIvISA

Il Distretto di Levante ha recentemente proposto, in occasione dell’adozionedell’atto di indirizzo triennale della Conferenza Territoriale – atto strategico diprogrammazione in tema di welfare locale per il triennio 2009-2011 – di inseri-re espressamente nella programmazione, monitoraggio e valutazione partecipa-ta delle politiche e degli indirizzi in tema di giovani generazioni, funzioni geni-toriali, integrazione dei diversamente abili e convivenza con i nuovi cittadiniallofoni le Istituzioni scolastiche quali partner di valore.

Nel ripensamento di fondo dell’impianto di welfare locale, come suggeritodal profilo di Comunità allegato all’Atto, tra i “soggetti attivi” di una progettua-lità che sia in grado di ricollocare le politiche in uno schema nuovo, coerente,responsabile ed integrato, oltre ai già citati Comitati di Distretto, alla ConferenzaTerritoriale Sociale Sanitaria, alle Giunte, alle Commissioni consiliari ed aiConsigli comunali non può mancare il contributo delle Istituzioni scolastiche ededucative e dei loro operatori.

LA buONA PRAtIcA dELLA RIcERcA INtERvENtO

SuL dISAgIO ScOLAStIcO

Alla luce di queste considerazioni la ricerca-intervento qui presentata pareuna novità nel panorama delle azioni di sistema locali.

Uscire da una logica di attribuzione individuale delle responsabilità della pro-pria “riuscita” e promuovere una visione “distribuita”, “diffusa”, “comunitaria “in una sorta di democrazia sociale delle responsabilità, significa proporre unariflessione sui “valori” sottesi all’atto educativo e alle situazioni di insegnamen-to e apprendimento.

In un momento in cui il dibattito sembra ridursi alla riproposizione sanzio-natoria dei criteri di trasmissione della conoscenza, ricordare che questa stessaconoscenza – più o meno disciplinare, più o meno categoriale – non viene al

LA RESPONSAbILItà: PONtE tRA IStItuzIONI,

tRA LE gENERAzIONI, tRA LE PERSONE

La frammentazione istituzionale rispecchia la crisi più generale dei sistemisociali attraversati da una miniaturizzazione degli interessi (da generali a indivi-duali), da un venir meno di diffuse forme di solidarietà, da un indebolimentodell’autorità a tutti i livelli. Tensioni e conflitti economici, politici, sociali metto-no a dura prove le tradizionali forme di regolazione e abbassano le obbligazio-ni di responsabilità nel tempo sedimentate quali impegno di convivenza civile.

è convinzione diffusa nel distretto di Levante, chiaramente espressa dalSindaco che lo rappresenta, che la “responsabilità del territorio” e in primoluogo la responsabilità di un patrimonio da trasmettere in eredità alle nuovegenerazioni, possa candidarsi quale risorsa decisiva per federare stabilmente lesunnominate “autonomie”, promuovendo quel “riconoscimento” reciproco cheancora stenta a realizzarsi.

è sul rapporto/ scuola territorio infatti che occorre produrre segni di discon-tinuità con il passato.

Tre piste principali di incontro tra scuola e territorio, tre aperture della scuo-la sul suo “ambiente” sembrano in prospettiva degne di attenzione:

> la scuola, in quanto strumento di sviluppo culturale, sociale, ecolo-gico, economico (utilizzo dei locali scolastici, delle risorse educativee documentarie in favore degli adulti, occupati e disoccupati e degliagenti economici del territorio),

> la scuola, in quanto luogo di memoria e strumento di valorizzazio-ne del patrimonio del territorio, inteso sia nella direzione di sedi-mentazione storica della memoria (adozione di monumenti e di sitistorici da parte degli allievi, delle classi), che nella direzione di valo-re relazionale e identitario della memoria (qualità del legame inter-generazionale, ospitalità, valorizzazione delle differenze)

> la scuola in quanto agente di sviluppo sostenibile (partecipazione acantieri, elaborazione e diffusione di documenti a finalità culturale,sociale, economica, creazione di partenariati).

Per sviluppare queste piste di lavoro le comunità locali e le loro istituzionirappresentative non possono più percepire la scuola come derivazione delloStato e possono farlo solo mettendosi al fianco delle scuole, affinché esse sen-tano che non sono lasciate da sole nel sostenere il grande impegno richiesto dalcambiamento da attuare.

La scuola, per parte sua, deve considerare il territorio come la principalerisorsa per sviluppare iniziativa autonoma. Da esso, infatti, trae sia il riconosci-

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INTRODUZIONE

L’esperienza scolastica costituisce un aspetto non marginale del percorso dicrescita in grado di incidere profondamente sul processo di costruzione del-l’identità adolescenziale. Tale esperienza, infatti, interviene nell’elaborazione del-l’immagine di sé e influenza in modo significativo il progetto dì inserimentosociale di ciascun individuo. In tale prospettiva pone due compiti fondamentali:

> compiti di sviluppo cognitivo > compiti di sviluppo psico-sociale.

La procrastinazione della socializzazione scolastica nella Società della cono-scenza e dell’informazione, con l’innalzamento dell’obbligo d’istruzione e for-mazione in linea con gli indirizzi europei, impone all’adolescente un’esposizio-ne e un confronto prolungato con i compiti di socializzazione.

Tra i momenti che connotano l’espe rienza formativa in senso critico e stres-sante sono da ricordare

> la costante regolazione tra aspettative personali e aspettativesocietarie

> i momenti di scelta > le transizioni e i passaggi tra cicli di studio.

In questo mutato contesto emergono nuove forme di espressione di disagioscolastico. Il disagio scolastico non è sinonimo di insuccesso sco lastico ma, neltempo, si può svilup pare una stretta relazione tra le due dimensioni. In base allaletteratura più recente sul tema i fattori che concorrono a determinare disagiopaiono collocarsi in:

> difficoltà di ordine affettivo e relazionale nella costruzione del-l’identità sociale (autostima, autoefficacia, motivazione),

> difficoltà connesse alla regolazione del comportamento in relazionealle richieste del contesto scolastico quale Agenzia Sociale,

> difficoltà connesse alla performance scolastica (carico di lavoro,materie, modalità di valutazione),

> difficoltà connesse alle relazioni interpersonali (con i docenti con icom pagni, con i pari),

> carenze di supporti socio-relazionali rispetto al fronteggiamento delledifficoltà incontrate a scuola - in primo luogo di tipo famigliare.

Se il disagio scolastico trova il suo naturale alveo di espressione a scuola, pure

“primo posto” nella costruzione identitaria, non ci sembra banale.Ciò che è primigenio da questo punto di vista, infatti, è l’essere con altri. Quando le persone raccontano percorsi di studio riusciti insistono soprattut-

to sulle occasioni di incontro, sulle opportunità che sono state offerte loro daqualcuno (adulto o pari, insegnante o genitore, compagno o collega di esperien-za) di provare, sperimentare, misurarsi; sul fatto di averle accettate; sul valore diquesto atto indipendentemente dall’esito momentaneo e comunque gratificantesul lungo periodo.

Di qui l’importanza di moltiplicare gli scambi, i momenti di confronto por-tatori di senso, le aperture offerte dalle relazioni e dalla possibilità di agire piut-tosto che da una ordinata quanto astratta e isolata pianificazione del futuro.

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LA RIcERcA-AzIONE “REtI dI PROSSIMItA’

IN cLASSE”2. gLI AttORI: LE RAPPRESENtAzIONI

dEL cONtEStO ScOLAStIcO cOME SPAzIO

“SOcIALE E SOcIEtARIO”

Motivazioni del progettoNegli Istituti scolastici bersaglio di intervento, come nella maggior parte delle

scuole a livello nazionale, emergono alcuni segnali3 significativi per il rischio didispersione che esprimono. In ragione della priorità assegnata all’elevamento deilivelli d’istruzione e formazione per tutti, tali segnali vanno raccolti, interpreta-ti, trasformati in efficaci linee d’intervento. In particolare, gli esiti scolastici neiprimi anni della scuola superiore degli indirizzi scolastici coinvolti nell’interven-to4 rivelano un aumento di studenti bocciati e di studenti promossi con debiti,indice di un crescente stato di difficoltà nell’apprendimento e, più in generale, diun diffuso senso di disagio nella relazione educativa.

Negli Istituti secondari di primo grado e nella scuola primaria, se da un latoil compimento dell’obbligo e la necessaria generalità trasversale di competenzepromosse calmierano l’emergenza evidente del fenomeno, dall’altro pure si evi-denziano segnali di disadattamento e di difficoltà nella relazione conl’Istituzione educativa, spesso determinate da variabili multi dimensionali e com-plesse.

LE AzIONI PREvIStE

Finalità dell’intervento a favore degli studentiGli interventi programmati in favore degli studenti avevano le seguenti

finalità:1. Potenziamento delle azioni di accoglienza, orientamento/riorienta-

mento, tutoraggio ed accompagnamento a favore degli studenti2. Sperimentazione di interventi, strumentazioni e metodologie didat-

non nasce esclusivamente dall’esperienza scolastica. La scuola si intreccia con ilfronteggiamento contestuale di altri compiti evolutivi: conflittualità con i geni-tori, le prime esperienze sentimentali, intensificarsi delle relazioni amica/i e digruppo.

Se dunque il disagio procede in parallelo con le altre difficoltà incontrate dal-l’adolescente l’esperienza di disagio, una volta lasciata la scuola, tenderà aripropor si nel rapporto più generale con il contesto societario.

LO SPAZIO ScOLASTIcO

Malgrado queste ormai consolidate acquisizioni lo spazio scolastico rimaneancora nella sostanza uno spazio accuratamente “isolato”, tenuto al riparo tra-mite filtri più o meno minuziosi da tutto ciò che ordinariamente chiamiamo“vita”. Chi non subisce il fascino delle metafore che ancora accompagnano laScuola quale “tempio” del sapere? Nel tempio si conservano in modo accuratooggetti e rituali; l’accesso è regolato dal momento che questi oggetti e ritualisono destinati a “fedeli” (allievi appunto).

In modo un pò paradossale i “fedeli” che si presentano agli officianti sonosempre meno disposti ad accreditare Autorità e Prestigio e a interiorizzare leregole del culto. Comportamenti oppositivi, di tensione, conflitto, rifiuto di rico-noscimento determinano frizioni e tentativi di assestamento normativo che piùche contenerla evidenziano la fragilità dell’impianto.

A ciò si aggiunga che gli Adulti una volta alleati (i genitori) sono anch’essiesposti a nuove problematicità all’interno stesso della “tenuta” dello spaziofamigliare.

Fare rientrare la vita in questo spazio o uscire da questo spazio verso la vitadomanda, ancora oggi, uno sforzo considerevole, un coraggio, dal momento cheoccorre infrangere barriere (quella della responsabilità in particolare) e urtarsicon le rappresentazioni correnti. Questa concezione della scuola, spazio opacoe protetto da tutto quello che potrebbe disturbare il rito dell’insegnamento, damolto tempo mostra quotidianamente la propria impotenza.

Da molto tempo uno dei fondamenti essenziali delle moderne pedagogie èquello di “rompere” questo spazio opaco, di aprirne le porte.

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2. Progetto a valere su FSE Ob.3 asse C2 (programmazione 2000-2006) finanziato dallaRegione Emilia Romagna (DGR RER 1953/2006: RIF. PA 2006-1250/RER “Reti di prossimi-tà in classe: esplorare le distanze, ritrovare la fiducia”).

3. A titolo esemplificativo: comportamenti oppositivi e riadattativi in età precoce, conflit-tualità infragruppo, lacunosità di codici espressivi ed emozionali, isolamento, auto centratura,attivazione di comportamenti compulsivi di consumo, presenza di capri espiatori nella dinami-ca del gruppo classe…

4. (ITC e ITIS dell’ISIS “ Mattei”).

socio-relazionali del gruppo classe anche nei termini di una perso-nalizzazione e individualizzazione dell’intervento,

> a sviluppare la sperimentazione di interventi, strumentazioni e meto-dologie didattiche innovative, anche personalizzate e di gruppo,

> allo scambio di esperienze, buone prassi, strumenti, documentazio-ne, conoscenze e competenze efficaci per la lotta alla dispersionescolastica, attraverso il ricorso ad un mix di approcci metodologicie didattici orientati all’innovazione ed al cambiamento.

Istituti cicli e ordini scolastici coinvoltiLe differenti fasi (accoglienza, itinere, uscita) di fruizione di attività proposte

e i contenuti relativi erano posti in relazione alla specificità di percorso/traietto-ria scolastica e precisamente:

> Ciclo primario (scuola elementare) riferito all’arco annuale 2006-2007 di frequenza per:

> due classi 4^ (elementari) dell’Istituto Comprensivo diFiorenzuola d’Arda

> due classi 3^ (elementari) della Sede di Lugagnano e una classe4^ (elementare) della Sede di Vernasca della Scuola elementare(primaria) dell’Istituto Comprensivo di Lugagnano,

> Ciclo secondario di 1° grado riferito all’arco annuale 2006-2007 difrequenza per:

> tre 1^ classi dell’Istituto Comprensivo di Fiorenzuola e le 1^ e 2^ classi dell’Istituto Comprensivo di Lugagnano - sedi diLugagnano e Vernasca,

> Ciclo secondario di 2° grado riferito all’arco annuale 2006-2007 difrequenza per una 2^ classe dell’Istituto Tecnico Commerciale euna 2^ classe dell’Istituto Tecnico Industriale del Polo di IstruzioneSecondaria Superiore “E. Mattei” di Fiorenzuola d’Arda.

I risultati attesiPossiamo così riassumere i risultati attesi per ciascuna fase, per ciascun desti-

natario, per ciascun gruppo di classi coinvolte, per tipologia di attività:

> Per il collegio docenti: promozione di competenze di progettazio-ne programmazione e sperimentazione di un piano integrato diazioni di accompagnamento e sostegno orientativo (counseling)rivolto al set di attori destinatari (insegnanti, allievi, genitori),

tiche innovative, anche personalizzate e di gruppo, finalizzate a:> rimotivare gli studenti, con particolare attenzione alla sfera affet-

tivo -relazionale e all’alfabetizzazione emotiva;> favorire l’acquisizione e l’attualizzazione delle competenze di

base (socials skills) al fine di agevolare la prosecuzione del per-corso di studio,

> per gli studenti stranieri, in particolare, promuovere l’apprendi-mento ed il potenziamento della lingua italiana, al fine di contri-buire ad un loro positivo inserimento nel sistema scolastico;

> sostenere e agevolare lo sviluppo di linguaggi espressivi molte-plici volti ad integrare le diversità sociali e culturali e favorire ilbenessere a scuola.

3. Attivazione di una didattica per competenze (utilizzando in partico-lare strumenti e materiali prodotti a seguito di esperienze condottea livello locale nella prospettiva di continuità e valorizzazione delknow-how maturato) per coinvolgere attivamente e creativamente igiovani destinatari.

Finalità di intervento a favore dei genitori La promozione di attività di raccordo, dialogo e scambio con le famiglie,

aveva la finalità di:

> sensibilizzarle alle problematiche della dispersione scolastica e coin-volgerle in azioni positive, anche aumentando il livello di congruità,esaustività e pertinenza dell’informazione sull’offerta scolastica esulla vita dell’istituzione scolastica di riferimento,

> fare acquisire strumenti e metodi di lettura-gestione degli snodi edelle fasi critiche dell’allievo in relazione al processo di apprendi-mento attivato,

> incrementare la consapevolezza da parte del nucleo famigliare dellacentralità dello spazio istituzionale scolastico (nella sua finalità diAgenzia di Socializzazione educativa) per il processo di sviluppo diautonomia responsabile dell’allievo e di legittimazione delle abilità asostenere un compiuto inserimento sociale

Finalità intervento formazione docentiLa realizzazione di interventi di formazione del personale appartenente

alla scuola e/o utilizzato dalla medesima per la realizzazione del progetto, erafinalizzato:

> a implementare l’acquisizione di strumenti e prassi metodologicheed operative per sviluppare, osservare e monitorare le competenze

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Tabella 1 - Allievi destinatari e target specifici di fabbisogni identificati in fase di proget-tazione di dettaglio dal Team integrato di progetto

Le attività realizzate con allievi e genitori (marzo – giugno 2007)Il set di attività multicentriche e multifocali consisteva in:

> Attività di sostegno personalizzato e individualizzato.L’articolazione ha previsto un’attività cooperativa con l’allievorispetto ai fuochi di intervento stabiliti (rapporto con le regole, alfa-betizzazione emotiva, competenze sociali e di cittadinanza, aspetta-tive e modalità di regolazione della convivenza nel gruppo classe)con il contestuale coinvolgimento del genitore per permettere allefamiglie di partecipare con maggiore consapevolezza ai laboratoriche gli studenti hanno affrontato. Il coinvolgimento dei genitoriconsisteva nell’esame dei prodotti del figlio/a in uscita dai laborato-ri confrontandosi con lui e con lo staff formativo in merito alleaspettative reciproche e aprendo dunque un dialogo sinergico con idocenti e gli orientatori coinvolti su situazioni di apprendimentocontestuali e definite,

> Attività seminariali con le famiglie (in gruppo–classe allargato infase di presentazione e sensibilizzazione dell’intervento e in fase direstituzione (per tutti i tre contesti scolastici). Una parte delle attivi-tà seminariali è stata svolta prima delle attività con gli studenti; una

> Per gli allievi: il risultato atteso per tutte le classi riguardava l’incre-mento di consapevolezza rispetto alle variabili influenzanti i proces-si di self-monitoring di competenze socio-relazionali, da raggiunge-re tramite la programmazione (contenuti, metodi orientativi, moda-lità di gestione e verifica anche personalizzata) e in particolare larealizzazione di momenti di bilancio costruttivo che consentisserodi fare il punto nella fase di transizione tra il 2° anno e il 3° Scuolasecondaria di 2° grado,

> Per i docenti: il risultato atteso era riferito all’acquisizione di stru-menti e metodi (tramite un percorso formativo preliminare dedica-to) per la gestione di colloqui motivazionali a valenza psico-socialee la costruzione di questionari esplorativi per finalizzare la didatticacurriculare ed educativa. Tale metodologia si poneva il compito diun più efficace presidio, nella relazione di counseling di verifica evalidazione del processo di self-monitoring attivato dall’allievo, dellevariabili influenzanti i processi di autoefficacia,

> Per i genitori: il risultato atteso riguardava l’acquisizione di cono-scenze, abilità e strategie per garantire il presidio continuativo delpercorso di apprendimento, in particolare nelle fasi critiche e crisi-che onde garantire l’accompagnamento testimoniale del processopiù complessivo di efficace inserimento scolastico del figlio.

I bisogni dimenticati in fase di programmazioneLa tabella seguente riassume schematicamente la tipologia di bisogno identi-

ficato dal Gruppo Integrato di progetto – composto da Docenti, Educatori eDirigenza - in fase di programmazione dell’intervento:

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2. una fase comune rivolta ai docenti degli Istituti Comprensivi diFiorenzuola e Lugagnano e ai docenti ISISS Mattei di confronto evalutazione congiunta degli esiti degli interventi formativi e dei pro-dotti realizzati in chiave di confrontabilità della ricaduta applicativae fattibilità di sperimentazione in rete.

L’attività formativa è iniziata prima delle attività promosse per gli studenti.Questa articolazione ha permesso agli insegnanti di lavorare insieme ai consu-lenti esterni per acquisire nuovi strumenti orientativi, ma anche per sperimen-tarli e verificarli sul campo.

Destinatari> Elementari: maestre assegnate alla classe e Docenti di sostegno ove

presenti > Medie: la funzione strumentale interessata, i docenti di Italiano

Storia e Geografia, Matematica e Scienze, Lingue; Docenti di soste-gno ove presenti,

> Superiori: la funzione strumentale interessata, i docenti di ItalianoStoria e Geografia, Matematica e Scienze, Lingue; Docenti di soste-gno ove presenti.

Obiet t ivi f ormativi

Gli insegnanti sono stati aiutati ad interrogarsi sul modello sociale proposto(non sempre in forma esplicita) agli allievi con le loro ordinarie pratiche didatti-che e tramite le relazioni professionali prevalenti; sul modello relazionale propo-sto alle famiglie e sulle modalità di coinvolgimento attivate anche in relazionealle obbligazioni sociali interpari del gruppo classe. Tramite la riflessione sullemodalità di progettazione didattica interdisciplinare e cooperativa si è posto sultappeto di riflessione anche il senso valoriale di continuità per gli attori del siste-ma scolastico (primario - secondario di primo grado - secondario di secondogrado) in termini di aspettative degli attori, standard attesi di apprendimento esistemi di valutazione degli esiti dell’apprendimento.

Il grafico riporta l’universo dei Docenti coinvolti, segmentati per ordine egrado scolastico di appartenenza.

parte del percorso è stata svolta durante la realizzazione delle attivi-tà con i ragazzi; è stata prevista una fase finale per la rilettura del-l’esperienza insieme a docenti e studenti (periodo febbraio 2007 egiugno 2007). I grafici seguenti riportano l’universo degli allievi egenitori coinvolti segmentati per ordine e grado scolastico,

Graf. - Allievi coinvolti complessivamente: 196 allievi

Graf. - Genitori coinvolti complessivamente: 64 genitori

Attività di accompagnamento e formazione supervisione per gli insegnanti (febbraio 2007)L’azione ha previsto l’erogazione di attività formative e di accompagnamen-

to per docenti consistenti in 2 fasi:1. una fase contesto specifica (riservata a destinatari docenti Istituti

Comprensivi Fiorenzuola e Lugagnano e una fase riservata a desti-natari docenti ISISS Mattei),

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Tabella 2 - Quadro riassuntivo delle variabili indagateGraf. - Docenti coinvolti Complessivamente: 31 docenti

Il piano di analisi e valutazioneIl piano di analisi e di valutazione - anche orientato a una finalità non secon-

daria di indagine esplorativa per meglio comprendere i fattori e le dimensionipertinenti influenzanti direttamente o indirettamente le strategie identitarie deisoggetti coinvolti nello spazio “sociale” rappresentato dal contesto scolastico -si appoggiava sia su strumenti qualitativi (questionari) somministrati in fasi rite-nute strategiche del percorso sia su osservazioni e descrizioni delle attività rea-lizzate ad opera di Docenti “testimoni” e di educatori e operatori con funzionedi “tutor”.

Riportiamo di seguito:> il quadro di variabili esplorate/ricostruite in fase di valutazione, in

quanto potenzialmente incidenti in modo diretto e indiretto nelprocesso di (de)legittimazione intergenerazionale e di (dis) affilia-zione scolastica,

> la correlazione utilizzata tra campi dei questionari somministrati adallievi (A) e genitori (G) per ciclo scolastico /Istituto coinvolto nelprogetto e riferiti alle singole variabili per livelli di coerenza e con-gruenza.

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Genitori. Rapporto con la scuola nella gestione del ruoloI genitori delle elementari intervistati mostrano maggiore inflessibilità se la

regola viene trasgredita a scuola che non in altri contesti di vita (in tale caso lapunizione è immancabile nel 43% dei casi e viene erogata solo a volte nel 39%).I genitori delle medie confermano in modo ancora più deciso l’investimento dicontrollo esercitato su quanto accade a scuola (“immancabile” nel 46% dei casi e“a volte” nel 31%). Emerge, inoltre, una forte alleanza con l’insegnante (il 70%genitori elementari e l’85% genitori medie “non è infastidito dalla punizione deci-sa dall’insegnante”; dei genitori elementari il 18% esplicita di “sostenere aperta-mente la posizione dell’insegnante trovando nel provvedimento una ulterioreoccasione di conoscenza del figlio” (dato che ricorre nel 17% delle risposte deigenitori medie). Il 52% genitori elementari conferma che “farebbe allo stessomodo dell’insegnante” (dato che scende nelle medie al 23%) e il 18% che mani-festa disaccordo si divide equamente tra posizioni più severe (9%) e posizioni piùtolleranti, rivolte a comprendere di più le cause del comportamento (9%).

Alle medie il disaccordo aumenta in direzione di maggiore severità (46%)mentre il 15% esplicita di non avere nessuna intenzione di mettersi nei pannidell’Insegnante. Il 70% poi riferisce di essere a conoscenza dei comportamentidei figli e quindi il non rappresentare mai una sorpresa ciò che accade nel con-testo scolastico. Il dato non si conferma nella percezione degli insegnanti dellemedie che evidenziano come il controllo famigliare (e sociale) sul comporta-mento degli allievi segnali molte lacune. Il 23% del campione che ammettel’eventualità di comportamenti sorprendenti rispetto alle “attese” ne discute conil figlio; ben il 38% del campione non risponde.

Genitori. Lo stile auto-attribuitoCome viene definito dai genitori il proprio stile di gestione del ruolo? Se alle

elementari Il 70% dei genitori intervistati si definisce “tollerante e partecipati-vo” - e solo il 22% “decisamente autoritario” - alle medie l’auto-attribuzione diuna gestione autoritaria del ruolo scende al 15% e si evidenzia una distribuzio-ne più ampia e variegata di tipologie di ruoli auto-attribuiti anche contradditto-ri tra loro e testimoniati contemporaneamente (il 23% si identifica in un ruolo“rigido e chiaro”; il 62% si definisce “tollerante partecipativo”, e contempora-neamente “molto tollerante”.

Come viene gestito il ruolo?Rispetto alla gestione del ruolo il 39% elementari riferisce di non essere

influenzato dal tipo di relazione con i figli e solo un pò influenzato il 35 %(molto influenzato solo il 13%). Alle medie, invece, il 54% del campione ammet-te l’influenza della qualità di relazione nella gestione del ruolo e il 23% ammet-te una difficoltà crescente.

RuOLI, REgOLE, SANzIONI

Genitori. Il modello di autorità ereditatoIl 100% del campione dei genitori delle scuole elementari e l’85% del cam-

pione delle scuole medie riferisce che i propri genitori davano una “importanzaassoluta al rispetto delle regole”.

Regole che, però, generalmente “solo talvolta venivano rispettate dai figli”(49% genitori elementari e 54% genitori medie; il 39% riporta che “venivanosempre rispettate”; solo il 4% si riconosce nell’item “quasi sempre rispettate”)malgrado la punizione (“severa di castigo” - in prevalenza limitazioni nei giochi- nel 57% delle risposte; “corporale”- somministrata dal padre - nel 22% dellerisposte e “richiamo severo verbale” nel 39% delle risposte) nel caso di trasgres-sione fosse immancabile (57% dei genitori elementari e 54% dei genitori medie).Una quota non banale del campione riferisce che la punizione “veniva assegna-ta solo a volte” (38% genitori elementari e 31% genitori medie).

Genitori. Il modello di autorità agitoSi nota una differenza tra elementari e medie:

> alle elementari il 61 % dei genitori intervistati “punisce, solo a volte,i figli in caso di trasgressione delle regole” (il 35% punisce imman-cabilmente i propri figli) e in primo luogo con “richiami severi ver-bali” (il 65% in relazione all’entità di trasgressione con sottolineatu-ra delle conseguenze) seguito da “castigo” (il 52% con ritiro cellula-re, limitazione della TV dell’uso del PC, della play station) che a volteconsiste (26%) “in una punizione corporale” (sculacciata, scapaccio-ne…) assegnata in aumento significativo rispetto alla frequenza ditipologia omologa di sanzione riferita al modello ereditato,

> alle medie: Qui il campione di genitori intervistati che “punisce soloa volte i figli in caso di trasgressione delle regole” passa all’85% (lapunizione immancabile scende all’8%) e si segnala il “ricorso alladiscussione” nel 15 % dei casi (strategia assente alle elementari). Latipologia di punizione è invertita rispetto alle elementari (54% severadi castigo e 38% severo richiamo verbale) mentre il 23% riferisce di“ricorrere a punizioni blande” (dato assente nella fascia elementari).

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In relazione alla punizione decisa dall’insegnante in occasione di infrazionedi regole scolastiche da parte del figlio, il 48% dei genitori delle elementari rife-risce di “non sentirsi messo in discussione dal provvedimento” nella propriaqualità di educatore e il 35% di “sentirsi solo un pò coinvolto ma si assolve”avendo comunque cercato di fare il possibile.

I dati cambiano decisamente nelle medie dove il 31% dei genitori riferisce di“sentirsi messo molto in discussione”, l’8% “abbastanza in discussione” e il 31%“poco o per nulla”.

IL dOMINIO cRItIcO PERcEPItO dAI gENItORI

dELLE ScuOLE ELEMENtARI dI APPLIcAzIONE

E RISPEttO dELLE REgOLE

L’ambito più critico di rispetto delle regole è sicuramente la casa (57%),seguito a notevole distanza dalla scuola (13%) e dalle uscite e occasioni pubbli-che (4%). Un dato interessante e sorprendente è che tutto il campione convie-ne che nella fascia di età da 5/6 a 10/11 anni gli amici non costituiscano un pro-blema educativo rispetto alle regole, in quanto percepiti come destinatari dirispetto e di attenzione “naturale e spontanea” da parte dei propri figli in misu-ra molto rilevante rispetto agli altri domini.

> Casa. Rispetto all’ambito più critico le occasioni di scontro riguar-dano a pari valore “ il dovere fare i compiti” (26%) e la “regolazio-ne delle relazioni con i fratelli” (26%) in particolare tra maschi efemmine. Il 17% dei genitori conferma di “avere problemi nel farrispettare in modo autonomo al figlio l’igiene personale” e il 17%riferisce di “avere molta difficoltà a fare rispettare l’ora di spegni-mento della TV” perché “non vorrebbero mai riposare…”

> Scuola. Il 22% dichiara come elemento preoccupante “la mancan-za di precisione (distrazione) nella lettura e nell’esecuzione delleconsegne scritte (compiti)”, derivata da una relazione superficialecon le aspettative della scuola spiegata da una percezione di eviden-te svalutazione dei richiami degli insegnanti da parte dei figli

> In pubblico. L’8% dei genitori riferisce che i momenti di conflittoesplodono quando fanno notare ai figli l’arroganza mostrata in alcu-ne occasioni pubbliche di incontro con conoscenti o estranei (inparticolare in situazioni di acquisto in negozi).

Strategie di gestione del ruoloOgni stile di autorità auto-attribuito ricorre a specifiche strategie. Il campio-

ne “decisamente autoritario” ricorre all’imposizione di regole che si collocanonella privazione di aspetti desiderati dai figli (mandare a letto presto, nasconde-re i giochi preferiti, nell’indurre timori di ritorsioni o minacciare negli aspettiprecedenti). Solo il 13% dei genitori elementari (dato che sale al 15% alle medie)riferisce “il valore di testimoniare le regole proposte”. La maggioranza del cam-pione (il 55% genitori elementari e il 54% genitori medie) si riconosce nello stile“tollerante partecipativo” e - nell’ordine - adotta i seguenti accorgimenti:

> le spiega (le regole)> le spiega nel valore e cerca di far ragionare sulle conseguenze

(responsabilizzazione) > le spiega nel valore e cerca di far ragionare sulle conseguenze

(responsabilizzazione) aprendosi a volte anche ad un vero contrad-dittorio (3%) che però viene percepito spesso come “una sorta disfinimento reciproco”.

Alle medie cresce il campione che afferma di non ricorrere ad alcuna strate-gia; il 31% non risponde alla domanda.

Vissuto nella gestione del ruoloIl 35% riferisce di “provare molta rabbia” e ben il 75% del campione riferi-

sce di “un disagio e di un malessere”, più o meno riferibile all’autostima (frustra-zione, impotenza, senso di colpa, fallimento, delusione, abbattimento…) “nelcaso di infrazione ripetuta da parte del figlio”. Tale sensazione di debole autoefficacia quando non di fallimento è riferita:

> alla rabbia perché sfidano, sono arroganti e fanno quello chevogliono

> all’incapacità personale, anche riferita alla difficoltà di comprenderee gestire reazioni e ribellioni non tutte provenienti dalla relazionegenitoriale

> alla colpevolizzazione di sé per avere preteso troppo, per non averespiegato meglio, per non aver monitorato la comprensione recipro-ca del grado di importanza attribuita

> al fallimento di ruolo (non riuscire a reggere la posizione adulta,essere chiamata in causa su una funzione decisiva anche a livelloidentitario).

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IL RuOLO dELLA ScuOLA

La percezione dei genitori delle superiori rispetto al ruolo educativo della scuolaI genitori delle due classi delle superiori coinvolte, quando interpellati con il

quesito “se la scuola deve rispondere al bisogno che il figlio potrebbe avere diparlare di sé, delle proprie emozioni e delle problematiche personali”, nella mag-gioranza delle risposte (60%) confermano questo ruolo all’Agenzia scolastica;ma una quota altrettanto rilevante (40%) lo esclude.

Alla richiesta di considerare secondo la loro percezione “se la scuola assolveal compito di educare lo studente a norme di convivenza civile” il 54% si dichia-ra soddisfatto ma ben il 46% poco o per nulla.

Richiesti rispetto a quest’ultimo punto su “come e cosa migliorare “i genito-ri segnalano un’evidente impotenza di strategie (se il 36% risponde di “nonavere suggerimenti al riguardo “ il 46% omette di rispondere tout court). Il 15%poi invoca “maggiore repressione e severità rispetto a comportamenti potenzial-mente devianti” e solo l’8% invoca “migliore qualità di apertura delle relazionie collaborazione tra adulti”. Rispetto a quest’ultimo punto infatti i genitori peril 57% dei casi dichiarano di “non avere tempo da dedicare né alla scuola né allarisoluzione di questo problema”; il 4% pensa di “non avere tempo anche se necoglie l’importanza”; solo il 39% dà una “chiara disponibilità”.

La percezione di conoscenza dell’organizzazione dell’offerta scolastica e degli organismi digestione (ruoli, compiti e funzioni) da parte degli allievi delle superiori

Per quanto attiene alla “conoscenza delle regole di vita e degli indirizzi for-mativi proposti dalla scuola” la situazione è caratterizzata da una scarsa atten-zione da parte degli attori (istituzionali in primis) alla diffusione e promozionedi conoscenza di questi aspetti. Se il regolamento di Istituto è conosciuto neldettaglio dal 25% degli allievi - il 38% dichiara di conoscerlo solo a grandi linee- un altro 38% ammette di “averne una conoscenza lacunosa e largamente insuf-ficiente”. Il 63% ammette di “non avere alcuna conoscenza al riguardo” e soloil 37% dice di “essere sufficientemente informato”. Le risposte riferite allaconoscenza di compiti e funzioni del Consiglio di Classe sono equivalenti. Inparticolare l’organismo rappresentativo degli studenti (la Consulta) appare net-tamente come l’organismo più distante e oscuro.

Gli allievi dell’ITI segnalano quale caratteristica distintiva propria - la quasila totalità del campione - una “dichiarata non conoscenza dei contenuti disci-plinari da affrontare nell’anno scolastico”; mostrano, invece, “interesse per ilaboratori e le strumentazioni”. Se il 47% del campione dichiara di “ricorda-re la strutturazione oraria settimanale delle materie tecniche e scientifiche”ben il 53% dichiara che “a fatica riuscirebbe a ricordare, senza ricorrereall’orario scritto, l’articolazione settimanale degli insegnamenti”.

LA PERcEzIONE dEgLI ALLIEvI dELLE ELEMENtARI

dEL PROPRIO RAPPORtO cON LE REgOLE

Se per i genitori delle elementari è la casa il territorio più conflittuale rispet-to alle regole, per i loro figli il dominio più conflittuale è la scuola dove “vi sonoregole difficili, troppo numerose … al punto che non si possono ricordaretutte”. Tra le regole scolastiche percepite come più facili da seguire si segnalanoquelle comportamentali riferite alla relazione con l’atto di insegnamento (“segui-re le lezioni, stare attenti”), che comportano un vantaggio personale in terminidi ricaduta a breve e medio termine (conoscenze da spendere dopo - anche sullavoro -, di facilitazione per i compiti a casa e di conoscenze che si possonoacquisire). Gli amici si rivela un contesto percepito come non conflittuale rispet-to alla regolazione del comportamento ed emerge una percezione di giustiziarispettata tra pari, ma chiaramente separata dalle attività scolastiche (“non ilgruppo classe”). Nella socializzazione propriamente ludica viene attribuito valo-re al “giocare con tutti e non lasciare indietro nessuno”.

LA PERcEzIONE dEgLI ALLIEvI dELLE MEdIE

RISPEttO

AL POSSIbILE dISAgIO

La percezione del significato del percorso consulenziale proposto, che preve-deva una libera riflessione sulla parola “disagio”, si attesta per il 28% del cam-pione di allievi su finalità di prevenzione (impedire l’allontanamento da scuolaparlando del disagio). Le cause prevalenti percepite di eziologia dell’abbandonoscolastico sono centrate per il 27%) su “aspetti relazionali difficili con insegnan-ti e compagni”. Interrogati su possibili strategie compensatorie il 58% partedalla conoscenza di sé per migliorare la relazione in una evidente auto-centratu-ra rispetto alla rilevanza sistemica della relazione (solo il 25 % esprime l’impor-tanza di comprendere la relazione tra sé e gli altri più che se stessi isolatamen-te). Nel primo caso è interesse per i ragazzi “ conoscere le proprie emozioni,gestire meglio come ci si presenta e essere quindi decisi nel pretendere di esse-re trattati come si vuole”.

Coerentemente con quanto appena richiamato l’incontro formativo previstodi “socializzazione dell’alfabeto emotivo” - esercitazione sull’espressione delleemozioni - ha ottenuto la maggioranza relativa di segnalazione di gradimento tratutti quelli proposti. “Essere consapevoli di che cosa si deve agli altri” (l’obbli-gazione) è percepito solo nel 7% dei casi come rilevante per la regolazione dellerelazioni.

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Tabella 3 - Raffronto di percezione tra genitori e allievi ITC e ITI sui fattori che influen-zano il processo di apprendimento

Si segnalano:> la rilevanza di interessi e problemi definiti come extrascolastici (la

scuola non viene percepita come contesto di aiuto in questa direzio-ne),

> il non affidare al gruppo classe nessuna aspettativa particolare diaiuto nel profitto (se la relazione è buona comunque non è riferitaa valore di studio in comune) ma solo potenzialmente aspettativenegative. Il gruppo–classe non è vissuto come una risorsa nel pro-cesso di apprendimento,

> la centratura sugli aspetti relazionali con gli attori ma solo comepotenziale di influenza negativa,

> la difformità di percezione di adulti e figli in merito al peso dellacasualità nella traiettoria scolastica (nulla per i primi; rilevante – senon decisiva - per i secondi).

La relazione genitori-figli nelle scuole superioriIl 93% dei genitori dichiara di avere un buon rapporto complessivo con il

figlio (il 50% abbastanza buono e il 43% molto buono). La relazione che emer-ge nella percezione dei genitori è prevalentemente di familiarità e di apertura daparte del figlio nel confidare loro i problemi personali (il 61% dichiara di avereuna relazione fiduciaria con i propri figli - il 36% abbastanza e il 25% molto).

Significativa è, però, la quota del 39% dei genitori che ammette che il figlioparla dei propri problemi “poco o per nulla” (il 36% abbastanza e il 25% molto).A fronte della richiesta di esplicitazione delle possibili cause di un rapporto discarsa confidenza o di quali aspetti potrebbero essere migliorati il 75% non

Il ruolo di genitore alle superiori. L’influenza sulle scelte del figlio riferite alla scuola.Scarso peso percepito

Il 79% del campione dichiara di “non avere avuto alcuna influenza” (il 21%“poca”) sulla scelta scolastica del figlio. Per quanto attiene alla soddisfazione perla scelta scolastica assunta dal figlio la decisione sembra apparire nella percezio-ne dei genitori come “un ripiego rispetto alle proprie aspettative di partenza”. Sisegnala uno scarto nella percezione dei genitori tra propria soddisfazione per lascelta del figlio e soddisfazione attribuita a quest’ultimo: se i genitori sono moltosoddisfatti solo per il 14%, la soddisfazione piena attribuita al figlio è esattamen-te la metà (7%). La soddisfazione media trova valori più alti nei figli (57%) chenon nei genitori (46%) mentre l’insoddisfazione (evidente e conclamata) rag-giunge il 40% nei genitori (il 18% nei figli).

La percezione dei genitori delle superiori: i fattori che influenzano il processo diapprendimento

Per i genitori risulta strategico “l’interesse per le discipline” associato alla“qualità del rapporto con gli insegnanti che favorisce la motivazione allo stu-dio”. I genitori si assestano in sostanza sulla relazione complessiva con il conte-sto e sull’importanza di adulti quali testimoni significativi. I compagni per i geni-tori non sono una variabile particolarmente significativa (solo il 32% ne segna-la l’importanza). Per i genitori non c’è spazio alla casualità e alla fortuna. I geni-tori scelgono una prospettiva temporale di lungo termine

La percezione degli allievi delle superiori: i fattori che influenzano il processo diapprendimento

Per gli Allievi ITC la percezione è “più strumentale”: occorre ottimizzare almassimo la relazione scolastica in presenza (“stare attenti e partecipare” duran-te le ore di lezione) e serve maggiore continuità nello studio a casa (senza peròincrementare le ore di studio: solo il 5% dichiara l’utilità di un incremento del-l’impegno orario). Le “spiegazioni degli insegnanti” in questa prospettiva risul-tano importanti (50%). Sembra segnalarsi una prospettiva temporale di brevetermine.

Per gli Allievi ITI, invece, le ore dedicate allo studio a casa sono molto impor-tanti così come il rapporto motivato e motivante con materie e studio. In questosenso appare rilevante, più che l’efficienza degli insegnanti nello spiegare, la capa-cità da parte loro di instaurare una relazione complessiva motivante con l’allievo(93%). La fortuna ugualmente appare per questo campione rilevante (locus of con-trol esterno). La relazione con i compagni - se buona - non incide particolarmentesul profitto; se è cattiva “comporta negatività che si ripercuotono sul rendimento”

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Le aspettative e il significato attribuito a percorso scolastico dagli allievi L’88% degli allievi ITC si attende dalla scuola competenze per il lavoro in

primo luogo e solo il 12% si aspetta aiuto nella maturazione personale e soste-gno educativo come prima scelta (un altro 26% lo segnala ma solo al terzoposto). Tale dato è confermato quale aspetto rilevante anche dal 53% degli allie-vi ITI (il 13% del quale ambisce a un lavoro qualunque, non necessariamentecoerente con gli studi frequentati). Al secondo posto sono segnalate aspettativedi acquisizione di capacità relazionali (44%). La scuola è una costrizione per il62, 5% di allievi ITC “Chi non studia si diverte e non si annoia” (ma solo il 37%di questa quota ritiene libero chi non studia di fare ciò che vuole). La scuola ènecessaria per maturare per il 75% perché “chi non studia fa del male a se stes-so” - dati pressoché omogenei per le due classi.

La motivazione alla frequenza Solo il 6% degli studenti ITC al mattino si alza soddisfatto per la giornata

scolastica da affrontare. Il 19% è abbastanza soddisfatto ma il 50% non è nésoddisfatto né insoddisfatto - una tiepida indifferenza - e il 25% dichiara di esse-re abbastanza insoddisfatto e triste, in ansia, e di simulare un malessere - sepotesse - per non andare.

Tali valori sono ancora più accentuati all’ITI dove nessuno dichiara la pro-pria piena soddisfazione: solo il 7% è abbastanza soddisfatto, il 67% non è nesoddisfatto né insoddisfatto e il 36% dichiara di essere abbastanza insoddisfat-to e triste, in ansia, e di simulare un malessere se potesse per non andare.

dISPERSIONE, AbbANdONO, dISAdAttAMENtO:

RIfLESSIONI SuLLA tRANSIzIONE ScOLAStIcA dIf-

fIcILE

Nel quadro più generale di richiesta diffusa di “sicurezza” a tutti i livelli delsistema sociale insegnanti educatori formatori e genitori, mobilizzati da temposulla questione della dispersione e dell’abbandono scolastico, sono sempre piùinvestiti dalla pubblica opinione della responsabilità di adottare finalmente la logi-ca risolutiva e coercitiva di sanzioni esemplari per educare le giovani generazioni,percepite in crescente rottura sociale per i loro comportamenti oppositivi.

Applicando l’equazione “assenteismo e abbandono scolastico=passaggio alladevianza/delinquenza” si paventa addirittura la possibilità di punire i famigliariche non riescono a garantire l’obbligazione scolastica. Piuttosto che promuove-re iniziative destinate a far progredire la conoscenza e la comprensione dellevariabili in gioco in un processo di descolarizzazione - desocializzazione educa-tiva e a sensibilizzare i poteri pubblici e i cittadini ai risvolti civili, umani e socia-

risponde. Emerge come l’iniziativa sia lasciata spesso spontaneamente ai figli ecome il 32% di chi giudica “buono” il rapporto non associ a tale valutazione laconfidenza reciproca.

Rispetto alle aree di dialogo prevale “il rapporto con gli insegnanti “ (79% delcampione sommando le categorie “molto” e “abbastanza”) mentre il 39%ammette di avere scarse confidenze da parte del figlio sul rapporto con i com-pagni. Il 32% dichiara di non avere dal figlio indicazioni sul rapporto che stavivendo con il processo di apprendimento

La relazione figli-genitori nelle scuole superioriGli allievi dell’ITC segnalano solo nel 50% del campione la eventualità di

poter confidare ai genitori qualcosa di personale. Inoltre è da evidenziare comeil 75% segnali la presenza di problemi percepiti nella socializzazione scolasticacomplessiva (peraltro “area di dialogo e confronto” omessa con i genitori) e il63% problemi sentimentali

La relazione allievi-allievi e allievi-insegnanti nella scuola secondaria di 2° gradoPer gli allievi ITC complessivamente i rapporti con gli insegnanti sono equa-

mente distribuiti tra rapporti esclusivi, amichevoli e indifferenza. I rapporti coni compagni al contrario sono percepiti come generalmente amichevoli.

Anche per gli allievi ITI i valori più alti sono assegnati alla relazione con icompagni. Un dato interessante che emerge trasversalmente ai due indirizzi è ilfattore percepito quale garante di qualità della relazione con gli insegnanti: peril 77% il rapporto con gli insegnanti migliorerebbe “se gli insegnanti consideras-sero di più e ascoltassero e rispettassero maggiormente gli allievi” (locus ester-no). Tale percezione è confermata indirettamente dalla percezione di scarsopotenziale di aiuto attribuito agli insegnanti: solo il 6% di allievi ITC dichiara dipoter contare sugli insegnanti per parlare di qualcosa di personale. Nel caso diproblemi o preoccupazioni anche personali la maggioranza degli allievi nonattribuisce “a priori” possibilità di aiuto da parte dei docenti quasi a sottolinea-re la mancanza di prerequisiti per una relazione fiduciaria.

Il rapporto con i compagni, invece, vede nel “farsi i fatti propri e nel dimi-nuire occasioni di litigio” una fattore decisivo di qualità (63% del campione).

Appare chiaramente come la relazione sia pensata con una valenza di indivi-dualizzazione marcata: ogni intervento nello spazio del compagno di classe èpercepito innanzitutto come un disturbo e un’intrusione. Solo nel caso di rap-porti selezionati nel tempo “si può confidare ai compagni qualcosa” (63% allie-vi ITC). La maggior parte del campione trova in compagni al di fuori della scuo-la un sicuro punto di riferimento. La performance scolastica pare dividere e indi-vidualizzare piuttosto che unire in una mutua solidarietà.

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LA dISPERSIONE ScOLAStIcA:

quALchE PREcISAzIONE

Per gli attori professionali della scuola la scuola è una forma sociale che vada sé. E questo fa sì che coloro che la rifiutano (“i dispersi” in particolare) appa-iano sorprendenti (ci sorprendono)5.

La dispersione designa il processo più o meno lungo - che non è necessaria-mente marcato da un’informazione esplicita – esitante nell’uscita dall’Istituzionescolastica6. In questo senso tale processo si oppone alla dimissione (negoziata edecisa dalla scuola in accordo con il destinatario); all’abbandono (uscita volon-taria da parte dell’allievo); all’esclusione (atto tramite cui un’autorità riconosciu-ta dismette una funzione).7

La dispersione rimanda al perdersi (in uno spazio, allontanandosi dai punti diriferimento) e al perdere (il cammino, qualcun altro). In questo senso si perdequalcuno o qualcosa quando non ce ne accorgiamo e siamo convinti di avere aportata qualcuno o qualcosa. Quanti allievi pur essendo presenti fisicamentesono già lontani, si sono già allontanati (come motivazione, come coinvolgimen-to, come interessi...). Si tratta in sostanza di un progressivo e non sempre visibi-le processo di disaffiliazione.

IL PROcESSO dI dISAffILIAzIONE

R. Castel8 (1999, 2003) introduce la nozione di disaffiliazione come fattorepredisponente il processo di esclusione sociale: termine, quest’ultimo, che riser-va a fenomeni più macroscopici quali l’isolamento completo dalla comunità, lacostruzione di spazi separati dalla comunità nel proprio seno (es. prigioni…) oancora l’imposizione di statuti speciali veicolanti interdetti e limitazioni di diritti.

Nella maggior parte delle situazioni di disagio strisciante e prolungato, secon-do l’autore, le persone (in questo caso gli allievi) non sono propriamente esclu-se ma fragilizzate, destabilizzate, in via di disaffiliazione. Tale termine presentail vantaggio di invitare a rintracciare le traiettorie e ciò che sta a monte piuttostoche sostenere una visione statica.

li dell’abbandono scolastico, si presume che il tempo sia scaduto e che occorrasemplicemente applicare le misure coercitive previste dalla legge sulla frequen-za dell’obbligo scolastico: più niente da vedere, da comprendere.

Gli adolescenti, che alimentano il sentimento di insicurezza attraverso attidefiniti “incivili” che avrebbero comportato per noi adulti di oggi a quell’etàrimproveri e rimostranze, si vedono oggi assegnati a recitare il loro ruolo benpiù drammatico - quando non cinicamente orchestrato - intorno ad una insicu-rezza sociale crescente che è stata promossa a problema maggiore.

Riteniamo importante il non cedere alla logica di sicurezza, il resistere allatentazione di rigettare la responsabilità di un certo disordine sociale sulla sferaprivata, il non confondere responsabilità e colpa e il precisare le nostre respon-sabilità per identificare meglio ciò che è di nostra competenza per agire, reagire,rimediare.

Per esempio, avendo il coraggio di affermare che riprendere in carico giovanipericolosamente votati alla strada si può effettuare altrimenti che ricorrendo allamodalità repressiva e che l’origine dell’insicurezza cittadina e urbana non può esse-re circoscritta alle carenze di una famiglia ormai travolta e sorpassata o all’esisten-za di una “generazione perduta”: ma si alimenta soprattutto delle carenze e delleinsufficienze di una dimensione politica (scolastica ed educativa in primis).

Sapremo dunque fare qualcosa di più che proporci come i nuovi managerdell’impresa sistema dociale?

Il contesto attualeSi può dire, secondo una percezione largamente diffusa, che oggigiorno

viviamo un periodo di desoggettivazione e di asimbolia quando osserviamopresso i giovani condotte di passaggio all’atto il cui senso sovente sfugge ancheagli autori. Si segnala da più parti l’allarme che i giovani non sanno più chi sono,né sanno chi sono gli altri. Il fatto è che, probabilmente, anche certi adulti nonsanno più dove sono né dove sono quei giovani che hanno in carico.

A fronte dell’individualismo crescente si segnala parallelamente un crescenteterrore della soggettività, dell’intimità. Adulti e giovani hanno paura di ciò chepassa nell’intimità dell’altro, paura di mettersi in gioco e in questione. A scuolaquello che talvolta colpisce degli insegnanti è la loro determinazione nel suscita-re l’impressione di essere forti. Non si ha più il diritto di dire che non si sa. Delresto, sempre più, come si esprime una propria difficoltà si è volentieri etichet-tati in quanto “persone fragili”. Occorre dare a vedere di essere forti, appariretali, immersi come siamo in una cultura del sembrare e dell’effettualità: si diradala nostra familiarità con noi stessi e con gli altri, con l’ascolto di sé e degli altrispesso per paura di ascoltarci o di sentirci ascoltati. E il senso di quello che fac-ciamo, di quello che ci circonda anch’essi diradano. Giovani e adulti non siamotutti noi un pò senza limiti?

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5. M. Guigne, (1998), Peut-on définir le décrochage? Les lycéens décrocheurs, Chronique sociale, Lyon,1998, p. 29.

6. H.Cellier (2003), Le décrochage scolaire, révélateur des maux de l’école, Juin 2003http://probo.free.fr

7. M. Guigne, cit.8. R.Castel (2003), Les Métamorphoses de la question sociale, Gallimard-Jeunesse 1999;

L’insecurité sociale: Qu’est-ce qu’être protégé?, Seuil 2003.

tempo, tale condizione di deprivazione si manifesta in forma sintomale, in alcu-ni momenti cruciali (scelte, passaggio tra cicli di studio): quando cioè si pone uncompito molto specifico da superare (compito di transizione orientativa).

Su questa problematicità dell’esperienza scolastica si vanno ad innestare:> fattori di ordine socioculturale: sia legati alle appartenen ze sociali

che alle rappresen tazioni sociali-pattern di riferimento (opinionisulla scuola, significati attribuiti alla scuola come istituzione da partedel contesto sociale di appartenenza-famigliare e informale); leappartenenze sociali inoltre inter vengono per discriminare le strate-gie di risposte al disagio,

> fattori di ordine situazionali: legati a contingenze di contesto e all’at-tivazione di risposte adattive,

> contro adattive al contesto (attivazione di schemi operatori, prospet-tiva temporale, senso di appartenenza regolati dal mantenimento diun livello di autostima accettabile per il soggetto in relazione allerichieste dell’ambiente percepite come particolarmente critiche).

LA RIfLESSIONE SuLLE cAuSE

L’approccio convenzionale Le cause della disaffezione/disaffiliazione scolastica sembrano di ordini dif-

ferenti. Che si tratti di incidenti biografici (perdita di genitori, affido, condizio-ni di salute), di vulnerabilità sociale di certe famiglie o di rifiuto delle istituzioni,la scuola rimane comunque, per la valutazione di certi adolescenti portatori diperformances insufficienti e per le conseguenti relazioni negative instaurate conessi, parte in causa e riveste un ruolo nel processo di descolarizzazione.

Tuttavia le risposte mobilitate nel quadro di interventi educativi per la citta-dinanza di fronte a comportamenti anche distruttivi che accompagnano la sta-bilizzazione del processo di descolarizzazione appaiono spesso insufficienti einadeguate.

Nella letteratura specialistica più recente si evidenzia un trend interpretativoche pone l’accento in particolare su:

> fattori di ordine per sonale legati sia al rendimento (auto efficacia,locus of control) che ai vissuti (self - confidence),

> fattori di ordine relazionale con adulti: tendenza degli adulti di rife-rimento(scuola e famiglia) a non allenare l’adolescente a fronteggia-re le difficoltà e le situa zioni di malessere in modo autonomo for-nendo strumenti meta cognitivi per presidiare la frustrazione. Lo si

Per F. Dubet 9 (2002) ciò che c’è di nuovo oggi è che la disaffiliazione minac-cia fasce di popolazione che fino a poco tempo fa erano ancora integrate. Nelcaso specifico potremmo parlare pertanto di un processo di disaffiliazione sco-lastica che rinvia al funzionamento delle Istituzioni scolastiche, al trattamentodifferenziato degli allievi, alle interazioni e alle relazioni nei contesti scolasticifamiliari locali che modulano i percorsi e le esperienze proprie di ciascun adole-scente.10

cRItIcItà dELL’ESPERIENzA ScOLAStIcA:

quALchE dIStINzIONE tERMINOLOgIcA

Per meglio fare chiarezza introduciamo una distinzione terminologica, comesuggerito dalla letteratura più recente al riguardo, su altri aspetti collegabili alfenomeno:

1. l’insuccesso sco lastico, molto spesso associato al disagio, si potreb-be considerare come l’esito di un percorso di costruzione di unesperienza di disagio piuttosto che il sinoni mo di quest’ultima. Valea dire che il disagio scolastico si potrebbe considerare come un per-corso scolasti co problematico che, a certi livelli più o meno forti econdizioni (fattori aggra vanti/riducenti) sfocia in situazione diinsuccesso, di abbandono o all’opposto di risoluzione;

2. il disagio adolescenziale si può definire come la non capa cità per fat-tori socio -relazionali sfavorenti da parte dell’adole scente di affron-tare e risolvere i compiti di sviluppo in generale;

3. il disagio scolastico pertanto rappresenta la non capacità per fattorisocio-educativi sfavorenti di fronteggiare una serie di richieste chevengono dall’istituzione scolastica.

Potremmo ipotizzare il disagio scolastico, dal punto di vista dell’adolescente,come uno stato di sofferenza o una condizione di deprivazione, di mancanza distrumenti e di competenze psico-sociali, di capacità di fronteggiare le diverserichieste che gli provengono dal modello educativo implicito (ivi compreso lalegittimazione delle persone nei rapporti gerarchici e di relazione con l’Autorità)e dalla rappresentazione delle attese dei contesti (formali e informali) comepotenzialmente conflittuali. Pur essendo un percorso che si costruisce nel

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9. F.Dubet (2002), Le Déclin de l’institution, Seuil 2002.10. S. Borcolicchi (1998), Qui décroche? in Les lycéens décrocheurs, Chronique sociale, Lyon,

1998, p. 41.

Un approccio sistemico - sociale alla dispersione La questione della riuscita scolastica e della permanenza nel contesto scolastico

secondo i più recenti studi di pedo-psichiatria, di psicologia sociale e di sociologiadell’educazione11 si inscrive nella rappresentazione socio-personale dell’allievo, inuna dialettica identitaria tra passato presente e futuro che chiama in causa

1. ciò che l’allievo è, 2. ciò che ha determinato come è3. ciò che egli stesso spera (confida) di diventare.

In particolare su questo processo intervengono alcuni fattori contesto specifici:> fattori programmati: le situazioni didattiche, di insegnamento e

apprendimento che tramite le situazioni linguistiche e sociolinguisti-che proposte veicolano rappresentazioni di sé, degli altri, dell’am-biente con il corredo di “reazioni” corrispondenti

> informali: lo stare con gli altri. è tramite la differenza che si cresce:se vi è sempre del “medesimo” si continua di fotocopia in fotoco-pia. è con le frizioni, con i confronti, spesso con i conflitti, con lecontraddizioni che noi progrediamo.

La regolazione dell’appartenenza famigliareLa famiglia oggi poggia meno su una funzione istituzionale che non su basi

di preferenze personali: l’uomo e la donna contemporanei si sviluppano paralle-lamente a scuola all’università nel lavoro (anche se permangono forme di discri-minazione) che li pone in concorrenza reciproca: atomi nelle loro unità di pro-duzione, atomi ancora nelle loro unità abitative.

La doppia base di responsabilità reale e di stabilità necessaria per garantirecontinuità di affiliazione ai figli non li sostiene più anche per le pressanti condi-zioni economiche. La cellula famigliare attualmente è il segno di una sofferenzadi capacità di affiliazione duratura. La famiglia storicamente era l’agenzia depu-tata alla circolazione affettiva primaria e al nucleo fondante la memoria colletti-va attraverso l’asse intergenerazionale: era il luogo del “noi” prima che essere illuogo dell’io. La famiglia post-moderna ha anteposto, secondo il modello cultu-rale predominante, la singolarità (primato dell’io) alla comunitarietà (primato delnoi). Per ciascuno dei suoi membri è sempre più la “mia” famiglia piuttosto che

abitua spesso a delegare a qualcosa o a qualcuno di esterno a sé, > fattori di ordine relazionale con pari (senso di appartenenza) legati

alla rete naturale di co municazione con i pari. Adolescenti chehanno problemi di forte disagio assumono stili di copyng differen-ti se inseriti in gruppi che condividono lo stesso disagio (dove siconsolida spesso la ricezione e la conferma di messaggi negativi) ose inseriti in un gruppo vissuto come supporto per fronteggia rel’ostacolo (dove possono percepire uno spazio prossimale di aiutonel loro tentativo di cam biamento).

A fronte di tali situazioni critiche le risposte rilevanti - come emerse dalle ricer-che dedicate - e le strategie per fronteggiarle paiono essere in prevalenza due:

> una che collude con il modello scolastico della riuscita: fare meglioquello che viene richiesto dagli insegnanti tramite il sostegno e lelezioni private. Tale strategia paradossalmente comporta una dere-sponsabilizzazione delle istituzioni (famiglia e scuola) in terminieducativi e un aumento della conferma dell’immagine negativa del-l’adolescente in termini di livello di autostima, di autoefficacia e diautonomia in relazione agli altri pari,

> strategie centrate sulla riduzione dello stress che vive l’adolescente.Nel momento in cui sopraggiunge il disagio il problema é comefronteggiare:

> l’elemento stressante causato dal confronto con gli altri> l’elemento stressante causato dalla valutazione della prestazione.

Limiti dell’approccio individualista alla dispersioneLa questione della dispersione scolastica è spesso affrontata dagli insegnanti,

dai genitori, dai formatori e dagli educatori gravitanti intorno al sistema del-l’istruzione in termini molto individualizzati: i desideri, le capacità dell’allievo, lemotivazioni sono al centro delle preoccupazioni. Si fanno così pesare inconsa-pevolmente sul giovane allievo determinanti la cui origine non è secondo i piùrecenti sviluppi della ricerca e delle sue applicazioni in campo educativo e for-mativo, individuale. Così facendo inoltre si tende ad accreditare l’idea, che incerti casi diventa fortemente stigmatizzante, che tutto possa riassumersi a unaquestione di volontà personale.

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11. Per una bibliografia minima: Berger M., Les troubles du développement cognitif, Dunod 1996;Catheline N., Psychopathologie de la scolarité, Masson 2003; Flagey D., Mal à penser, mal à être, Erès2002 ; Jeammet P., Adolescences, Ed La découverte 2004; Lebovici, Diatkine, Soule, Nouveau traitéde psychiatrie de l’enfant et l’adolescent, PUF 2005.

PuNtI dI fORzA

Le regole sono percepite dai bambini come più comprensibili a Casa. I geni-tori dichiarano nel 93% di avere un rapporto abbastanza buono con i figli

PuNtI cRItIcI gENItORI

Dai questionari emerge chiaramente come non dispongano di una reale lineadi condotta e che oscillano tra comportamenti pulsionali e senso di colpa; maanche discutere è un comportamento segnalato con una certa frequenza nell’il-lusione che tutto sia negoziabile.

Vissuto di gestione del ruolo “genitori”Il 35% riferisce di provare molta rabbia e ben il 75% del campione riferisce

di un disagio e di un malessere più o meno riferibile all’autostima (frustrazioneimpotenza senso di colpa fallimento delusione abbattimento…) nel caso diinfrazione ripetuta da parte del figlio. Tale sensazione di auto efficacia debole edi fallimento è riferita:

> alla rabbia perché sfidano, sono arroganti e fanno quello che voglio-no,

> all’incapacità personale anche riferita alla difficoltà di comprenderee gestire reazioni e ribellioni non tutte provenienti dalla relazionegenitoriale,

> alla colpevolizzazione di sé per avere preteso troppo per non averespiegato meglio per non aver monitorato la comprensione recipro-ca del grado di importanza attribuita,

> al fallimento di ruolo (non riuscire a reggere la posizione adultaessere chiamata in causa su una funzione decisiva anche a livelloidentitario).

Specularità del vissuto di gestione del ruolo “minori”Il 50% degli allievi elementari alla domanda “ Come mi sento quando vengo

richiamato” riferiscono di sentirsi:> arrabbiato per l’ingiustizia, > molto male in vergogna/imbarazzo/umiliazione, > triste e scioccata.

Il 44% alla domanda “Come mi sento quando vedo qualcun altro che nonrispetta la regola” risponde di sentirsi nervoso arrabbiato indifferente e solo il7% manifesta sentimenti di solidarietà.

la “nostra” famiglia. Il sistema sociale in atto, descritto nei precedenti punti,tende a invertire i valori: il rapporto uomo-proprietà (simulacro di una immagi-naria potenza di auto-affermazione e auto-realizzazione) è diventato superioreal rapporto uomo-uomo.

Il rovesciamento valoriale veicola con sé alcune conseguenze “oggettive” chesfuggono al controllo della società razionale enfatizzata:

> la proprietà (appropriazione, avere, possedere) segna la supremaziasul condividere (essere in relazione, appartenere),

> l’io viene anteposto al “noi”, > lo spazio privato merita più attenzioni rispetto allo spazio pubblico

(una volta bene comune) ridotto al gioco sommatorio di interessiindividuali.

Questo comporta: > l’isolamento e la fragilizzazione delle famiglie, > rischi di maltrattamenti decisi individualmente (parenti dimissionan-

ti, dimissionari, dimissionati dai figli), > la diminuzione del raggio di socializzazione esterno alla famiglia, > la massificazione delle relazioni sociali, > un problema con la gestione dell’autorità. Di quale autorità parlia-

mo? L’autorità che fa autorità o l’autorità sanzione? I parenti sonosempre di più in una relazione di seduzione più che di autorità coni loro figli, dominati dalla paura di non essere amati, riconosciuticon valore.

L’aspettativa del riconoscimento fragilizza i genitori...Avendo il compito di fare posto alla legge del gruppo sociale e valorizzare

l’individualità dei figli non possono più appoggiarsi su un discorso coerente sulmodo di educare i propri figli. I modelli sociali di riferimento si fanno semprepiù deboli, limitati, a volte contraddittori.

In questa situazione di sfiducia molti adulti tendono essi stessi a porsi comemodelli per i figli. Gli adulti dimenticano, a volte, che vivere è un lavoro mai fini-to. Credono di essere un modello di riuscita definito e definitivo. Quando sirisponde a una domanda di un bambino di un giovane si dovrebbe sempre direche è la “nostra risposta”, non “la risposta”. Quando gli adulti impongono rego-le senza spiegarle vivono in una sorta di sé preso come modello: nella non paro-la, nel non rapporto tra Sé e gli altri.

Non si tratta di imporre le regole ma di dare ad esse un senso vivente cuiadulti e minori sono sottoposti in un rispetto reciproco. Il solo modello chevalga.

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bile miglioramento - la percezione della scelta della scuola superio-re è già di delusione in questo superiore in percentuale alla corri-spondente quota di figli,

> quanto al punto 2 una dichiarata indisponibilità di tempo da partedei genitori delle superiori a partecipare in modo continuativo alprogetto antidispersione (75%).

Si ritrova in sostanza il ripresentarsi di un assenza di stabili cornici di attivitàda parte degli adulti.

I punti di riferimento nell’agenzia familiareI genitori dovrebbero contribuire alla messa in opera di 3 tipi di punti di rife-

rimento:> individuali, > sociali, > familiari.

Dai questionari emergono particolari criticità:1. Gli allievi, a partire dalle elementari e fino alle superiori (in particola-

re 2^ ITC), non si impegnano nel rispetto delle regole che nel cortotermine e soprattutto solo se questo comporta un guadagno imme-diatamente percepibile (stare attenti a scuola per non studiare a casa).Vi è una pressione da parte dei genitori sul rendimento (rendere intermini produttivi) in linea con la gerarchizzazione imprenditoriale invigore nel sistema sociale più complessivo che privilegia la logica el’attivo pragmatico piuttosto che l’immaginativo – sognatore,

2. Alle medie il 58 % degli allievi parte dalla conoscenza di sé nelmigliorare la relazione in una evidente auto centratura rispetto allarilevanza sistemica della relazione (solo il 25 % esprime l’importan-za di comprendere la relazione tra sé e gli altri più che se stessi iso-latamente). Essere consapevoli di che cosa si deve agli altri (obbli-gazione) è percepito solo nel 7% dei casi come rilevante per la rego-lazione delle relazioni,

3. è scarsamente percepito dagli allievi e promosso dai genitori il valo-re del gruppo classe come risorsa per l’apprendimento (gli allievi pro-muovono le relazioni amicali ma extra-contesto e i genitori ritengonoil rapporto tra compagni come un fattore scarsamente influenzante ilprocesso di apprendimento). Si segnalano: la rilevanza di interessi eproblemi definiti come extrascolastici (la scuola non viene percepitacome contesto di aiuto in questa direzione) e il non affidare al grup-po classe nessuna aspettativa particolare di aiuto nel profitto (se larelazione è buona comunque non è riferita a valore di studio in comu-

Legge e autoritàPunire? sanzionare? prevenire?Per uscire da questi dilemmi e cercare di comprendere la complessità della

questione ci potremmo chiedere: quale relazione esiste tra questi tre termini? è una questione non banale per la scuola. La legge è al cuore del problema.

Ma che cos’è il rapporto alla legge? E quali relazioni tra legge e leggi/regola-menti ? Come un giovane può integrare la legge (perché dovrebbe farlo ?qualeutilità?) Come farla rispettare?

Quotidianità del problemaNei nostri Istituti troviamo storie di questo tipo: quanti allievi non vedono le

regole della vita in comune? Quanti insegnanti aggiungono dei regolamenti sup-plementari a quelli dell’amministrazione e nello stesso tempo si lamentano dei vin-coli amministrativi e burocratici delle segreterie? Quanti allievi raggirano con milleastuzie le leggi dell’Istituto (Scuola media o Scuola superiore in particolare?)

Ciascuno ha il proprio rapporto alla leggeNoi abbiamo tutti un rapporto alla legge che deriva dalla nostra storia. Cosa

rappresentava la Legge per noi (nostro padre, madre, fratelli, zii, nonni )? Nonabbiamo tutti vissuto nella stessa condizione culturale (i nostri rapporti allalegge di adulti oggi non sono certo quelli che avevano i nostri padri). Ogni leggerinvia a un limite: qualche cosa è permesso … qualche cosa è vietato. Il nostrorapporto con la legge è il “nostro rapporto ai limiti”.

Le leggi /regole variano secondo due assi:> lo spazio (il paese, il contesto, la situazione, i luoghi) > il tempo (le epoche, i momenti)

I giovani sono estremamente sensibili e attenti a questa relatività: “Con ilprof. X non è la stessa cosa... lui ci lascia fare (autorizza a...)”; “Nella scuoladov’ero era differente”; “Con i miei genitori io questa cosa non la potrei fare …ai loro tempi...”.

Se le regole e le leggi sono sempre contingenti (una cosa permessa in unposto è vietata in un altro) pure rinviano a qualcosa di immutabile: un terzo chesepara ciò che è permesso/lecito/consentito da ciò che è vietato/proibito/dife-so e che permette la vita in società. Potremmo definire questa dimensione terzacome la legge.

Nei questionari somministrati ai genitori delle superiori emerge:> quanto al punto 1 una crescente difficoltà da parte delle figure adul-

te nel gestire le aspettative (proprie e altrui) e nel differire l’azioneper elaborare le frustrazioni (difficoltà ad aspettare): per i genitoridegli allievi delle 2^ classi - che pure hanno davanti 3 anni di possi-

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regole e leggi. Solo un’autorità pienamente assunta e testimoniata permette dimettere in campo questi punti di riferimento… e non è mai tardi.

La legge le regole e i limiti Tocca sicuramente in primo luogo ai genitori porre dei limiti e dei confini.

Ma quando i limiti non si sono ricevuti o non si sa più dove sono tocca agli edu-catori prendere il testimone, aiutare alla ricostruzione di limiti (interiori innanzi-tutto) là dove l’allievo potrà trovare un posto nel rispetto di sé e dell’altro.

A scuola la questione si pone in modo complesso tanto più quanto più bam-bini e adolescenti sono soggetti di diritti ma non ancora cittadini. Tensione ine-vitabile e complessa: quanta fatica far capire ai bambini che se l’insegnante li fatacere è perché possano parlare!

Ma questa questione del tempo di apprendimento è considerata? O forse pre-tendiamo come prerequisiti esattamente quelli che dovrebbero essere gli obiet-tivi della nostra azione educativa?!

Il contesto di regolazione dell’autonomia scolasticaIl primo punto che andrebbe presidiato nel passaggio dalle medie alle supe-

riori è il segnare la crescita aumentando la condivisione informativa, conosciti-va e partecipativa degli accessi agli spazi, della modalità di regolazione del loroutilizzo e funzionamento e della composizione degli organismi di regolazionedemocratica dell’autonomia scolastica.

ne); anzi al gruppo classe sono ascritti in prevalenza – anche se a tito-lo di eventualità - solo aspetti negativi. Il gruppo – classe non è vis-suto come una risorsa nel processo di apprendimento,

4. La fiducia in sé è debole: si segnala la preponderanza di locus ofcontrol esterno (ruolo della fortuna, di eventi fuori controllo) chedenota una eccessiva pressione dei famigliari (rendere, riuscire); ifamigliari, infatti, escludono il ruolo di ogni tipo di variabile conte-stuale come importante per la riuscita e puntano tutto (esclusiva-mente) sulla motivazione.

Non sempre gli insegnanti distinguono la motivazione intrinseca dalla moti-vazione estrinseca. Un’attività che è praticata per sé stessa per il proprio conte-nuto è definita intrinsecamente motivata mentre un’attività che è praticata per isuoi effetti/conseguenze (positive: voti, meriti o evitamento di negative: notepunizioni, sanzioni) è detta estrinsecamente motivata. Gli insegnanti privilegia-no la prima come caratteristica dell’allievo che si interessa ai contenuti dell’inse-gnamento e questo per una serie di ragioni:

> perché conduce a strategie di apprendimento più performanti, > perché stimola ad un trattamento profondo dei dati, > perché rende l’allievo più autonomo dalle sanzioni esterne.

Occorre ricordare che la motivazione intrinseca aumenta con l’attribuzionedi un senso di competenza e che è collegata all’auto efficacia indipendentemen-te dal sentimento di essere competente. Su di un piano logico manifestare deter-minazione nella realizzazione di un’attività nella sola finalità di valorizzarsi agliocchi degli altri e ai propri rileva nettamente di una motivazione estrinseca. Unpunto di attenzione a questo punto si pone: come far transitare l’allievo, attra-verso la comprensione e restituzione dialogica del suo comportamento, da unamotivazione esterna ad una motivazione interna?

I punti di riferimento nell’agenzia di socializzazione scolasticaUno stereotipo ricorrente asserisce che i giovani “non hanno più punti di

riferimento”. Ma quali sono questi famosi punti di riferimento che sarebberostati perduti? Se la società diviene oramai altamente frammentata, differenziatae multiculturale, ove cioè il consenso sui valori è scomparso e dove quasi nessu-na persona è totalmente d’accordo con un’altra, forse è più importante metter-si d’accordo almeno sulle procedure di discussione collettiva che permettono diregolare, anche provvisoriamente, i conflitti impedendo la violenza.

I punti di riferimento, quindi e innanzitutto, non consistono nell’affermazio-ne positiva di valori, ma nell’interiorizzazione di principi negativi (divieti) cheautorizzano il dibattito/confronto sui valori positivi e l’elaborazione collettiva di

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Tab. - Norme e Contraddizioni in contesto educativoPuNtI cRItIcI

Gli allievi dell’ITC segnalano una scarsa conoscenza del funzionamento deilaboratori di scienze (63%) mentre i laboratori di informatica e la palestra sonopiù vissuti e quindi conosciuti. Per quanto attiene invece alla conoscenza delleregole di vita e degli indirizzi proposti dalla scuola la situazione è caratterizzatada una scarsa attenzione da parte degli attori (istituzionali in primis) alla diffu-sione e promozione di conoscenza di questi aspetti. Se il regolamento di Istitutoè conosciuto nel dettaglio dal 25% degli allievi e il 38% dichiara di conoscerlosolo a grandi linee un altro 38% ammette di averne una conoscenza lacunosa elargamente insufficiente. Il 63% ammette di non avere alcuna conoscenza alriguardo e solo il 37% dice di essere sufficientemente informato. Le risposterispetto al Consiglio di Classe sono equivalenti. In particolare l’organismo rap-presentativo degli studenti (la consulta) appare nettamente come l’Organismopiù distante e oscuro

Gli Allievi dell’ITI segnalano quale caratteristica specifica una dichiarata nonconoscenza dei contenuti disciplinari da affrontare nell’anno scolastico (quasi latotalità del campione) mostrando interesse sui laboratori e sulle strumentazioni.A parte un 47% che dichiara di ricordare la strutturazione oraria settimanaledelle materie tecniche e scientifiche il 53% dichiara che a fatica riuscirebbe aricordare senza ricorrere all’orario scritto l’articolazione settimanale degli inse-gnamenti

La caratteristica comune a tutte le esperienze di pedagogie più innovative èquella di tentare di permettere agli allievi di organizzare insieme lo spazio e iltempo, di allenarli a decidere progressivamente in una prospettiva di responsa-bilizzazione crescente sul lavoro e le attività, di darsi i mezzi materiali culturali eistituzionali della loro libertà. Tuttavia la grande maggioranza delle classi e deglistabilimenti funziona ancora sotto il principio « monarchico » ovvero nellaconfusione dei poteri perché spesso riuniti nelle sole mani di un “legittimoerede”: il docente.

La questione qui non attiene alle qualità psicologiche degli attori (le attitudi-ni alle relazioni, all’ascolto al carisma del maestro o docente che sia) ma allastruttura istituzionale stessa che contraddice sovente i principi fondatori deldiritto.

Nella tabella seguente proviamo a proporre alcune riflessioni sugli eventiordinari che determinano una “svalutazione” implicita dei principi precedente-mente richiamati.

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12. Rielaborato da B. Defrance, Créer des conditions d’un apprentissage de la démocratie. Réflexionssur la mise en pratique du droit dans la classe et dans l’école.

vale a dire le procedure centrali di istruzione e di costruzione da parte del sog-getto che apprende del sapere, la sua valutazione e validazione.

Apprendere a vivere insiemeL’apprendimento della democrazia a scuola presuppone l’integrazione nel fun-

zionamento istituzionale di tre esigenze essenziali che fondano la stessa democra-zia e che sono nello stesso dibattito pubblico politico sovente dimenticate

> i principi etici e i valori, > l’assunzione di responsabilità liberamente decisa, > la protezione delle minoranze.

Alla fine potremmo formulare il quesito in questo modo: i punti di riferimen-to è dentro di sé che li si elabora? E la risposta potrebbe essere: Si!… purchénon lo si faccia da soli.

I limiti si interiorizzano grazie allo scambio con gli altri attraverso due snodicentrali che solo gli altri possono offrire:

> il confronto sulle aspettative reciproche, > il confronto sui significati da convenire (con-senso).

RIfLESSIONI cONcLuSIvE

Alla fine del nostro percorso narrativo sulle rappresentazioni degli attori chequotidianamente si trovano confrontati al senso da attribuire all’esperienza sco-lastica ci ritroviamo esattamente al nostro punto di partenza là dove avevamointrodotto lo “spazio” (scolastico) quale finestra privilegiata di osservazione.

Il significato dell’incontro quotidiano a scuola tra allievi e insegnanti andreb-be problematizzato costantemente. Non sarebbe banale cercare di trovare ognigiorno una risposta comune alla domanda “Cosa stiamo facendo qui oggi?”

Evolvere in una moltitudine di spaziè infatti estremamente interessante avvicinare il problema del legame socia-

le a scuola in termini di spazi e di “intorni” di questi spazi. Il primo spazio doveil bambino si costruisce, elabora i suoi linguaggi dopo lo “spazio matrice”materno è la famiglia. è per il tramite delle interazioni provocate dall’ambientedi questo spazio (persone, oggetti, avvenimenti, relazioni affettive, dinamicheevolutive e cambiamenti ivi incontrati) che si costruiscono e si perfezionano iprimi “linguaggi”.

Se si pensa al “favoloso” apprendimento della parola che vi è realizzato -quali che siano le persone presenti o che vi hanno contribuito - c’è di che stu-pirsi che questo apprendimento si sia potuto realizzare in uno spazio “non pro-fessionalizzato”.

L’apprendimento della cittadinanza non può limitarsi a questioni periferiche13

che non riguardano la mission specifica della scuola. Certo queste attività sonooccasioni non trascurabili di formazione alle responsabilità associative, ma oltreal fatto che raramente queste qualità civiche sono riconosciute quali crediti neicorsi disciplinari queste responsabilità non si esercitano su ciò che è essenziale:

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13. I giornalini scolastici…per esempio.

nice rigida…ma troppo spesso povera. Se riflettiamo infatti sulle caratteristichepeculiari dello spazio-tempo scolastico possiamo evidenziare che:

> lo spazio scolastico è costruito intorno all’aula-classe, > il tempo scolastico è strutturato secondo i ritmi del progetto forma-

tivo sulla base:> delle istruzioni e programmi ufficiali, > della pianificazione degli apprendimenti da conseguire, > della programmazione delle attività (lezioni, ricreazioni, vacanze,

transizioni, cambi di classe), > le regole di percorrenza di questo spazio tempo sono segnate dall’ir-

reversibilità delle progressione tra cicli sancite dal superamento diprove di legittimazione (verifiche, esami, certificazioni di profitto),

> le regole di esercizio di questo spazio tempo sono affidate a respon-sabilità assegnate rigidamente dai ruoli istituzionali.

Spostare la prospettivaQuale che sia la finalità del suo lavoro, quale che sia lo statuto e la funzione

l’insegnante è innanzitutto un regolatore di situazione sociale - societaria com-plessa. Paradossalmente è questo aspetto il più pregnante e il più difficile dellasua attività, aspetto raramente preso in considerazione nella riflessione sul-l’orientamento, sulle situazioni didattiche e sulla tradizionale formazione dell’in-segnante. Insegnante e allievo infatti gestiscono una situazione a elevato sforzocognitivo; ma la sua realizzazione dipende da fattori contestuali - strutturali cheeccedono la situazione specifica di apprendimento. La domanda che spessoricorre sottesa alle varie “riforme”: Come costruire contenuti formativi orienta-tivi a partire dalla situazione di insegnamento? meglio andrebbe formulata:Come proporre la valorizzazione delle variabili contestuali che incidono su ciòche passa nella relazione di apprendimento in contesto scolastico?

Il problema più che sui contenuti attiene alla modalità di gestione dello spa-zio tempo scolastico.

Rompere lo spazio scolastico…: verso lo spazio di educazione societariaDa almeno un decennio, e in particolare nel ciclo primario, un buon numero

di classi, di scuole ha iniziato a procedure in questa direzione. Qualcuna, in casipiù rari, ha completamente trasformato lo spazio scolastico chiuso in uno spa-zio aperto, attraversato dagli altri spazi.

Infatti, non si può parlare di spazio societario se non quando gli attori che lofanno esistere se ne sono appropriati. Così è per lo spazio famigliare, per lo spa-zio del quartiere, per lo spazio urbano. Lo stesso processo vale anche per lo spa-zio scolastico. I primi che devono appropriarsene sono gli allievi. E possono

In base all’evoluzione dei suoi linguaggi il bambino va ad ampliare il proprioraggio spaziale di apprensione del mondo e il proprio raggio di azione sulmondo. Questa parallela estensione dello spazio fisico e dello spazio relaziona-le comporta l’apertura di uno spazio temporale e di uno spazio virtuale in cuipotersi proiettare immaginariamente.

Tutto questo accade in un’interazione permanente: i linguaggi maturati inuno spazio permettono a poco a poco di accedere a uno spazio più ampio cheli fa evolvere donando loro la capacità di poter intravedere prima ed esplorare econquistare poi altri spazi ancora.

Tutti questi spazi non sono isolati tra loro: essi fanno interferenza, si situanoin una continuità fatta di interconnessioni più che di contiguità. Lo spazio delbambino vi si accresce.

Potremmo forse negare che in questi spazi il bambino continua a costruirsilinguaggi che gli donano accesso a saperi e abilità? Ebbene che ne è dello spa-zio scolastico?

Logica vorrebbe che questo non dovrebbe essere in fondo altro che unnuovo spazio incluso e interferente con gli altri. Incluso nello spazio urbano, delquartiere e in interferenza con lo spazio famigliare e lo spazio dei pari, degliamici. Infatti senza questi spazi precedenti e senza i linguaggi qui già costruiti lospazio scolastico sarebbe del tutto inaccessibile. Tale spazio è sicuramente unospazio artificiale, vale a dire uno spazio istituito. E questo è necessario nellamisura in cui questo spazio costituisce l’interfaccia che apre le porte agli spazipiù ampi del mondo “civilizzato”. Negli spazi prossimali del bambino, oramaifamiliari e naturali, i linguaggi “artificiali” - il linguaggio scientifico-matematicoper esempio - non sono così visibili.. e dunque non comportano una stabile inte-razione.

Sembra dunque conseguenza logica che uno spazio istituito ove questi lin-guaggi artificiali sono utilizzati più frequentemente possa e debba essere in stret-ta prossimità con gli altri. Logicamente, nella continuità di ciò che ogni ragazzoha costruito, questo dovrebbe essere uno spazio di vita dove le informazioni chepercepisce stabilmente negli altri spazi di vita dovrebbero poter essere tradottein altri linguaggi;uno spazio dove dovrebbe poter essere interpellato dalle infor-mazioni prodotte da questi altri linguaggi per far sorgere il desiderio il bisognidi conquistare nuovi mondi.

Lo spazio scolasticoMa…....Ma la Scuola generalmente interrompe questo processo. Il ragazzo troppo

spesso viene estratto da un ambiente e da tutte le informazioni percepite daglispazi interconnessi nei quali cresce evolve ed accresce il proprio raggio di azio-ne. A scuola è incluso in uno spazio...dove non vi sono più “intorni”: una cor-

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disposizione, si proibisce di decidere al nostro posto affinché sco-prendo la possibilità di ricevere un rifiuto di “sostituzione” si possascoprire le responsabilità liberamente assunte.

La necessaria appropriazione dello spazio scolastico da parte dell’insieme della comunitàL’apertura dello spazio scolastico e la sua integrazione vanno anche più lon-

tano. Infatti lo spazio scolastico riferisce a uno spazio più ampio che lo contie-ne: lo spazio di una comunità, lo spazio “comunale” e “intercomunale”(Distrettuale).

Questa appartenenza si colloca almeno su due piani: > è uno spazio che per i mezzi di cui dispone deve poter essere a

disposizione dell’insieme della comunità che vi deve poter accede-re. E questo tocca la capacità della scuola e della comunità di con-venire insieme occasioni di accessibilità e fruizione dello spazio infasce orarie e in base a finalità che vadano ben oltre i limiti del-l’istruzione (utilizzo di biblioteche, postazioni multimediali…maanche occasioni di incontro e socializzazione tra genitori). La scuo-la, in questo senso, dovrebbe proporsi come il luogo della convivia-lità educativa.

> Ma è anche uno spazio dove avviene la messa in campo di strategieeducative che riguardano tutta la comunità dal momento che è l’in-teresse di tutti che queste “riescano” e siano efficaci. E l’apparte-nenza a questo livello è effettiva solo se ciascun portatore di inte-ressi è parte attiva nell’organizzazione di questo spazio e di quelloche vi si può realizzare. Certo l’insegnante è un “professionista” ele proposte devono essere filtrate dalle sue conoscenze e dalla suaesperienza professionale dal momento che è chiamato a realizzarle.Pure queste proposte e strategie devono essere sottoposte e ottene-re il consenso di tutta la comunità (quella dello spazio famigliare,quella dello spazio municipale, quella dello spazio intercomunale equella dello spazio scolastico) dal momento che questa comunitàdeve essere chiamata a partecipare e a contribuirvi. Le strategie pro-poste devono poter essere discusse, criticate, sottomesse ad unavalutazione.

Quest’ultimo piano di appartenenza sembrerebbe fare eccezione alla rivendi-cata “libertà pedagogica e di insegnamento” e inseguire una “impossibile” ricer-ca di consenso. Ma questo rappresenta un alibi ordinario facilmente smontabi-le. Da una parte una strategia proposta è agevolmente adottata quando ciascu-no sa che, seguendo e presidiando gli effetti ottenuti, potrà evolvere, essere ret-tificata, modificata, reindirizzata. Dall’altra la pressione sul “sistema scuola” e inparticolare sui docenti diminuisce dal momento che la responsabilità di “riusci-ta” o di “scacco” è condivisa da tutti.

farlo solo se questo è un luogo che permette la realizzazione di progetti cheincontrano i loro interessi e i loro vissuti. Resta inteso, coerentemente con quan-to sopra introdotto, che tale spazio deve essere concepito per realizzare questiprogetti utilizzando linguaggi e strumenti meno presenti negli altri spazi: le cate-gorie della conoscenza appunto.

Questo comporta una sorta di rottura dei confini dello spazio scolasticocomunemente concepito su più punti di frontiera al fine di creare quei ponti diinterferenza con altri spazi più familiari.

La progettazione e proposizione di occasioni (attività individuali e di gruppo)dovrebbe avere la caratteristica di proporre ritmi e modulazioni molteplici, con-notate da un valore significante - simbolico per gli allievi e i genitori in controten-denza rispetto alle attività curriculari tradizionalmente intese a valere quali:

1. Rotture di luogo: dove poter scoprire che si è ancora a scuola purnon essendo più nella classe. Le attività dovrebbero fare in modo difare emergere le difese messe in campo da parte dell’allievo e la loroelaborazione nel rispetto delle medesime. Una rottura necessariaper l’allievo (e i genitori) per poter esprimere le proprie preoccupa-zioni: si è sempre qui ma “qui” è un altrove: uno spazio di tranquil-lità, soggettivo (uno spazio educativo)

2. Rotture delle mediazioni. Per questo si potrebbero proporre sup-porti (attività) che rompono con la scuola (non più tempo scolasti-co, metodi frontali richiedenti l’attenzione guidata) ma qualcosa dialtro per permettere agli allievi di vedere altrimenti quello che stan-no vivendo e favorenti l’espressione personale

3. Rotture temporali: finalizzate a introdurre3.1 Un tempo educativo: un tempo tra parentesi; liberato dai program-

mi dall’obbligo di progredire, di acquisire e dimostrare conoscenzee capacità

3.2 Un tempo per le mancanze: accogliendo le quali si matura la capa-cità di aspettare anticipare, differire. Il senso è quello di poter matu-rare abilità a proiettarsi nel tempo, immaginare l’assente

3.3 Un tempo personale: tempo dedicato a regolare le proprie difficol-tà; accettare ed elaborare la frustrazione, la mancanza, la separazio-ne al fine di lavorare sull’autonomia

4. Rottura di regole: attività caratterizzate da un minimum di regole diconvivenza: non farsi del male, rispettare gli oggetti (non distrugge-re), rispettare l’orario; ma dove l’allievo non ha bisogno di alzare lamano per parlare e soprattutto non è obbligato a partecipare all’ini-zio; ove l’allievo è messo in posizione di decidere. L’orientamentoalla legge si sviluppa anche scoprendo che un adulto, che pur è a

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IL SERvIZIO DI ASSISTENZAScOLASTIcA AGLI ALUNNIcON DISABILITÀ. SITUAZIONEATTUALE ED ELEmENTIIN PROSPETTIvA

Maurizio ColleoniRICERCATORE

Luciano FornaroliRESPONSABILE SERVIZIO FORMAZIONE, SCUOLA

DEL COMUNE DI PIACENZA

Barbara De BiasioRESPONSABILE DEL CENTRO PER LE FAMIGLIE E

FIGURA DI SISTEMA DEL DISTRETTO DELLA CITTà

DI PIACENZA

INTRODUZIONE

Questo documento presenta i risultati della esplorazionecondotta attorno agli aspetti di qualità e di problematicità delServizio di Assistenza Scolastica Disabili attivo sul territoriodella città di Piacenza.

L’iniziativa è stata avviata dall’Amministrazione comunaledurante l’anno scolastico 2006/07 per poter disporre di ele-menti utili a riflettere sulla situazione attuale del Servizio esulle prospettive che si aprono per il futuro.

è altresì interessante considerare che uno spazio scolastico così concepito,incluso negli altri e penetrato da essi, aumenterebbe la sua capacità di indurreuna loro trasformazione. è, infatti, in questa osmosi tra differenti spazi eambienti che si può effettuare la costruzione cognitiva, psicologica, di cittadi-nanza degli allievi. La Scuola vi trova una vera forza: trattare la sfida educativain termini di spazi interconnessi è, altresì, trattare un aspetto profondo dellaregolazione giuridica e sociale del tessuto comunitario che trova nella connes-sione tra i tempi di vita che questi spazi veicolano.

François Ost giurista belga in un saggio non più recente14 parla di due polidella profonda regolazione giuridica del tempo sociale che consente prospettiveal gruppo umano:

> il perdono inteso in senso ampio come la capacità a saldare il pas-sato, a sorpassarlo ponendolo, a superare il ciclo senza fine dellavendetta e del risentimento;

> la promessa intesa in senso ampio come la capacità che ha la socie-tà di accreditare l’avvenire, di impegnarsi in anticipazioni normativeche ne influenzeranno lo svolgimento.

Contro il macigno cieco della fatalità la società pone il perdono e dà un pos-sibile avvenire al suo passato. Istituisce la promessa per appropriarsi del suoavvenire garantendolo contro l’imprevedibilità radicale conferendogli un passa-to. In questo modo pone contemporaneamente un filo che cuce i tempi identi-tari e le generazioni: questo filo prezioso è l’alleanza.

Ebbene queste due parole non appaiono in modo forte nei questionari senon nelle risposte dei bambini delle elementari. Ma questi due poli non posso-no reggere se non vi si opera con altri due cardini di ogni società: la memoriache si deve associare al perdono (una sorta di promessa rivolta al passato) e larimessa in questione, la disponibilità a cambiare che altro non è che l’anticipa-zione del perdono.

La produzione significante del tempo sociale passa attraverso questi dueimpegni che fanno senso non solo per noi adulti oggi, ma che potrebbero con-sentire ai giovani di tornare a scuola ben disposti e fiduciosi a settembre quan-do si apre il nuovo anno scolastico.

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14. F. OST (1997), Mémoire et pardon, promesse et remise en question. La déclinaison éthique des tempsjuridiques.

A - IL SERvIZIO DI ASSISTENZA ScOLASTIcADISABILI OGGI

ALcuNI ELEMENtI dI cARAttERE gENERALE

Il Servizio viene descritto in maniera concorde come una risorsa significati-va a favore della integrazione degli alunni con disabilità.

Viene percepito come un aiuto reale a famiglie e ragazzi con disabilità nell’ac-compagnare processi di crescita, ma anche come un sopporto rilevante per il siste-ma scolastico e le sue parti interne: scuola, insegnanti ed alunni non disabili.

Come ha riassunto uno dei Dirigenti scolastici sentiti “l’Assistente ha funziona-to da elemento di stabilità e di continuità per l’integrazione, non c’è stata una interpretazio-ne burocratica della norma…insieme all’Insegnante di Sostegno l’Assistente è un mediatore,un traduttore della possibilità di convivenza tra ragazzi normodotati e disabili”

Vengono sottolineati come fattori di qualità gli elementi di efficienza, flessi-bilità, e capacità di gestire situazioni complesse in tempo reale.

Viene rimarcata in generale la competenza professionale delle Operatrici, laloro capacità di regolare la relazione emotiva con gli alunni disabili e di collocar-si in un contesto complesso quale è la scuola, nei suoi diversi livelli interni e nellediverse fasi durante l’anno.

Una competenza che pare essere cresciuta nel tempo. Accanto alla competenza viene sottolineata la disponibilità: “ una disponibilità

ad andare ben al di là della funzione specifica”, “ le assistenti fanno anche quello che non èscritto” osservano rispettivamente un insegnante e un genitore.

L’Amministrazione Comunale viene descritta come un soggetto consapevo-le della delicatezza della tematica dell’integrazione degli alunni con disabilità eattento nel gestire le complessità di questo servizio.

La Cooperativa che gestisce il servizio viene rappresentata come un sogget-to professionalmente affidabile, che si assume delle responsabilità in ordine alleesigenze della scuola e delle famiglie, e che investe nella qualità del servizio.

Questa opinione appare concorde da parte di tutti gli attori coinvolti nellaesplorazione.

All’interno di questo scenario generale vale la pena di riprendere due aspettispecifici piuttosto interessanti, soprattutto in prospettiva.

Da un lato il contributo che il servizio (insieme a diversi altri fattori positiviintervenuti in questi anni) ha offerto al sistema scolastico per capire meglio

L’esplorazione è stata compiuta attraverso alcuni passi successivi.Sono state realizzate, innanzitutto, interviste semistrutturate ad alcuni dei

protagonisti del Servizio, e cioè:> genitori che hanno figli all’interno del sistema scolastico cittadino;> Insegnanti curricolari e di sostegno;> Assistenti;> Dirigenti scolastici;> Operatori Sociali del Comune;> Responsabile e Operatori Neuropsichiatria Infantile.> Referenti della Cooperativa Coopselios

Le interviste sono state portate avanti attraverso l’utilizzo di una griglia, cheviene allegata al presente documento.

Complessivamente, per la realizzazione della ricognizione, sono state realiz-zate n 52 interviste nel periodo compreso tra aprile e settembre 2007.

Inoltre sono stati presi in considerazione e analizzati materiali interni al SettoreFormazione della Amministrazione Comunale, inerenti il Servizio stesso.

Infine, nel novembre 2007, sono stati realizzati due momenti di confronto edi discussione attorno ad un a prima bozza di documento, riservati, rispettiva-mente, ad un gruppo di famiglie afferenti al servizio, e ad alcuni referenti istitu-zionali del servizio stesso (Scuole, NPI, Cooperativa).

Questa relazione conclusiva, pertanto, è frutto della rielaborazione di tutti glielementi emersi all’interno di questi diversi momenti di lavoro.

Il documento che segue è organizzato in due parti.Nella sua prima parte riporta uno sguardo di tipo generale sul Servizio, per

poi soffermarsi su alcuni elementi di evoluzione che lo hanno caratterizzato inquesti ultimi anni.

All’interno di questa sezione è stato dato spazio alle testimonianze direttedelle persone coinvolte dalla rilevazione.

Nella seconda parte vengono presentate le questioni principali che interroga-no il Servizio in questa fase alcune e alcune ipotesi di lavoro in prospettiva.

Il percorso di esplorazione e questo documento che ne riporta gli elementiessenziali emersi non sarebbero stati possibili senza la collaborazione di MichelaRiboni e Mariagrazia Veneziani, a loro va un sentito ringraziamento.

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vicende dei ragazzi con disabilità, da un altro è d’aiuto alla crescita di responsa-bilità dell’intero corpo docente nella relazione con la fragilità.

“L’alunno straniero, come il disabile, porta tutti i docenti a chiedersi cosa fare. È un rove-sciamento delle prospettiva. Prima venivano in classe a fare il loro programma, adesso si chie-dono cosa possono fare per lui”. (un Dirigente Scolastico)

Un’ultima questione che emerge e che verrà ripresa, riguarda la necessità difavorire la crescita di competenze specifiche in relazione a situazioni particolarilegate alla evoluzione del “fenomeno” disabilità, che si stanno evidenziando inquesti ultimi anni.

“si sia ponendo il problema della definizione dei nuovi handicap, che richiedono nuovi modidi lettura e di azione: autismo, traumi, situazioni miste, disabilità legate alla immigrazione”

(Neuropsichiatria Infantile)

LE PRINcIPALI EvOLuzIONI chE hANNO

cARAttERIzzAtO IL SERvIzIO NEgLI uLtIMI ANNI

Il Servizio di Assistenza Scolastica opera ormai da molti anni sul territoriocittadino.

Durante questo lungo arco di tempo ha evidenziato alcune significative evo-luzioni.

Gli interlocutori intervistati hanno messo l’accento su diversi aspetti.Quelle più ricorrenti riguardano soprattutto i seguenti aspetti.

Si sottolinea innanzitutto l’incremento di complessità del compito di lavorodelle Operatrici nei confronti degli allievi con disabilità.

Le Operatrici sono passate dall’occuparsi prevalentemente di esigenze di tipoaccuditivo e assistenziale, all’assumersi responsabilità di tipo più ampio, legatealle aree dell’autonomia individuale e sociale, della interazione con l’ambienteesterno, della regolazione personalizzata di tempi e ritmi delle esperienze didat-tiche.

“Prima il servizio si limitava all’assistenza fisica, ma ora vedo che collaborano anche perle discipline e questo secondo me è una cosa molto buona” (una mamma);

“nel tempo c’è stato un cambiamento nel senso che questo servizio è migliorato: le assisten-ti non si occupano solo dell’accudimento fisico, ma sono in grado di fare cose più delicate e sofi-sticate” (insegnante di sostegno);

“fino a dieci anni fa il nostro lavoro consisteva prettamente nell’accudimento fisico: mangiare,bere, bagno…poi abbiamo seguito dei corsi di formazione, e la scuola ha capito che eravamo in uncerto senso sottooccupati e quindi ha valorizzato meglio la nostra presenza “ (assistente);

“le figure assistenziali sono nate con competenza ausiliarie minime: accompagnamento degli

come operare con la disabilità: “diversi docenti curriculari hanno modificato il loro mododi lavorare con la classe:dovendo individualizzare e vedendo i risultati si impegnano di più. Secambia l’autistico grave aggressivo capiscono che si possono risolvere diverse situazioni diffici-li sotto il profilo didattico”. Così si esprime una referente scolastica.

Su una altro piano il valore per certi aspetti “anticipatorio” che ha avuto l’at-tenzione alla disabilità rispetto ad altre situazioni difficili che stanno bussandoalla porta della Scuola, in particolare quelle legate alla immigrazione ed alla “dif-ficoltà di comportamento”: “adesso le vere emergenze sono gli stranieri e i problemi dicomportamento, e dove si è lavorato bene con l’handicap, la scuola lavora meglio con queste pro-blematiche”.

Va sottolineato inoltre il fatto che alcuni Insegnanti e Dirigenti, che hannopotuto conoscere altre realtà cittadine, e quindi operare dei confronti, si sbilan-ciano nel considerare significativo l’investimento economico, organizzativo eprofessionale della Amministrazione Cittadina, a fronte di altre situazioni.

Vi sono anche alcune osservazioni critiche che riguardano aspetti diversi.Emergono innanzitutto problemi legati a difficoltà di tipo gestionale e orga-

nizzativo.Si sottolinea, da un lato la necessità di garantire più risorse (in termini di ore

di presenza) al servizio, soprattutto nei momenti non strettamente curricolarima significativi per gli alunni e la classe.

Su un altro piano, si evidenziano necessità che sembrano essere di tipo piùlogistico, in particolare di due tipi: gestire meglio la tematica delle sostituzioni incaso di assenza dell’Assistente per malattia, e contenere le situazioni nelle qualile Assistenti operano all’interno di Scuole distanti tra di loro geograficamente.

Sono state sottolineate anche alcune difficoltà che sembrano trovare originenella logica di funzionamento della scuola, che rendono a volte difficile il coin-volgimento e la cooperazione del corpo docente attorno all’integrazione: “devilavorare continuamente sui consigli di classe, il problema dell’integrazione è del consiglio diclasse, non dell’insegnante di sostegno…bisognerebbe fare dei corsi di formazione per gliInsegnanti curricolari, non per chi si occupa di sostegno” (Insegnante).

“vi è una certa tendenza da parte degli Insegnanti curricolari a delegare la gestione del casoall’Insegnante di Sostegno ed all’Assistente, e questo crea problematiche di convivenza”

(Dirigente Scolastico)“Il servizio è adeguato al bisogno; ho trovato più limiti nella collaborazione tra Insegnanti

curricolari e Insegnanti di sostegno” (Genitore).

A questo proposito è stato evidenziato che l’arrivo di ragazzi stranieri, se daun lato fruisce positivamente delle esperienze pregresse sviluppate attorno alle

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questo periodo di tempo che si possono dischiudere o inibire notevoli potenzia-lità evolutive, sotto molti profili (quello culturale, quello sociale, quello espressi-vo, quello valoriale, quello legato all’affinamento di “doti” personali…).

La collaborazione tra figure diverse, che interagiscono con la stessa classe elo stesso bambino, costituisce un fattore decisivo per le reali possibilità di cre-scita e di cambiamento a diversi livelli.

La collaborazione, infatti, incrementa l’incisività dell’azione educativa, met-tendo a disposizione della scuola interventi più articolati e con una capacità dipresa più estesa sulla condizione del bambino e della classe.

“La situazione attuale è ottima perché io e l’assistente ci integriamo molto bene, teniamola stessa linea di condotta con il ragazzo” (Insegnante)

“Gli insegnanti di sostegno seguono più di un bambino, mentre l’assistente può dedicarsidi più…in molti casi questo è importante e facilita anche il lavoro degli insegnanti: in unadimensione di maggiore confidenza si possono sfruttare tutti gli aspetti, gli spunti, le occasionidi apprendimento che la quotidianità presenta” (Insegnante).

Ma è anche un fattore di crescita della capacità di comprensione, di cono-scenza e di pensiero attorno alle questioni che le diverse figure scolastiche devo-no affrontare, che si esprime attraverso il confronto tra sguardi diversi.

“I risultati migliori li ho visti quando c’è una collaborazione reale che passa attraverso unabuona comunicazione che fa spazio anche alla sottolineatura delle cose che non vanno senzache l’altro le percepisca come un attacco alla propria persona” (Dirigente Scolastico)

“L’assistente vede il ragazzino nell’intervallo, all’uscita dalla scuola, e vede cose diverse, èimportante, ci serve” (Dirigente Scolastico).

Ed è un fattore che aiuta l’ideazione e la ricerca di soluzioni originali e perti-nenti a esigenze e problemi a volte difficili, ostici, che hanno bisogno di unaacuta messa a fuoco.

“credevo che l’assistente si occupasse solo della cura fisica. Dall’assistente ho imparato lacomunicazione facilitata” (Insegnante).

Un terzo aspetto richiamato riguarda l’incremento della capacità di modular-si da parte del Servizio, in relazione alle diverse domande che arrivano dallascuola, dalla famiglia e dall’alunno con disabilità.

Il Servizio si confronta quotidianamente con compiti diversificati, legati allecomplessità interne che la Scuola assorbe al suo interno: differenze di proble-matiche legate alla fenomenologia della disabilità, differenze di tipologia di tipoanagrafico, differenze di funzionamento dei gruppi classe, dei gruppi di docen-ti, specificità che emergono durante lo scorrere dell’anno scolastico…

Allo stesso tempo anche le famiglie mostrano variazioni significative duran-te il percorso scolastico, a volte già durante l’arco di un solo anno.

Lo stesso fenomeno si ritrova nella relazione quotidiana con il bambino ol’adolescente preso in carico.

alunni disabili ai servizi, gestione dell’igiene…oggi è più chiaro il loro ruolo sul versante socio-relazionale e su quello dell’autonomia… si è visto il riconoscimento di una necessità più mira-ta di supporto all’autonomia, di ascolto e di attenzione alle esigenze degli alunni” (Dirigentescolastico).

Questa evoluzione riguarda sia i contenuti del lavoro che le modalità di rea-lizzazione.

Appaiono cioè da un lato più consistenti (e più riconosciute) alcune signifi-cative connotazioni di tipo educativo, che mostrano anche come sia evoluta lacultura dell’accoglienza della diversità all’interno della scuola, ai suoi vari livelli.

Si ha l’impressione che, anche grazie al lavoro delle Assistenti, all’internodella scuola ci sia maggiore consapevolezza dell’importanza che hanno, per lacrescita degli alunni con disabilità, i bisogni legati alle autonomie individuali esociali, accanto a quelli di tipo più strettamente didattico.

E pare che, col tempo, questa area di lavoro abbia ottenuto una attenzionerilevante, e abbia trovato nella attività quotidiana dell’Assistente, e nella intera-zione con altre figure, una fonte di risposte qualitativamente rilevante.

Su una altro piano si sottolinea come significativa la capacità di presa di posi-zione attiva da parte delle Assistenti all’interno della vita scolastica: sembraemergere il riconoscimento di una imprenditività che in passato non veniva rite-nuta una variabile professionale e organizzativa a favore dell’integrazione.

All’interno di questa riflessione vale la pena di riprendere un aspetto partico-lare, richiamato da alcune persone intervistate, relativo al contributodell’Assistente nella gestione del gruppo classe:

“La figura dell’assistente è preziosa anche perché attraverso di lei l’insegnante curricolarecapisce meglio non solo il bambino seguito ma anche altre cose relative alla sua classe: la suapresenza spesso migliora le relazioni nel contesto” (Insegnante).

Un secondo elemento concerne la progressiva evoluzione della relazione trale Operatrici del Servizio di Assistenza Scolastica e le altre figure in una logicadi maggiore cooperazione tra professionalità diverse e di sviluppo di progettisegnati da significative complementarietà.

“ è migliorata la preparazione delle assistenti tanto che in molti casi non si vede la diffe-renza tra sostegno e assistenza” (Insegnante).

“siamo usciti dalla parcellizzazione:l’Assistente non è solo e sempre sul bambino, ma simuove di più. Il bambino comincia a vedere più figure che si muovono insieme, e le diverse figu-re imparano a parlarsi e cooperare” (Referente Coopselios).

è un tema che ritorna con frequenza all’interno delle interviste, quasi a dimo-strazione della sua importanza agli occhi di molti interlocutori.

Gli anni passati all’interno del circuito scolastico sono molto importanti perun bambino con disabilità (così come per qualsiasi altro bambino): è durante

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Gli aspetti personaliAll’interno di questo gruppo rientrano aggettivi di questo tipo: disponibile,

affettiva, affettuosa, serena, decisa, paziente, sorridente, versatile, resistente,solare, gentile...

Sono sfumature che mettono l’accento su componenti di tipo personale checostituiscono una sorta di “dotazione di base” significativa per reggere un com-pito impegnativo come è quello della relazione quotidiana con alunni con disa-bilità nella complessità della scuola.

Sembra che si abbia a che fare con la percezione di persone che sono ingrado di immettere energia e vitalità all’interno di situazioni ostiche e di assume-re pesi emotivi non sempre leggeri.

Gli aspetti relazionaliAll’interno di questo gruppi si trovano aggettivi del tipo: collaborativa, facen-

te parte del gruppo, empatica, comprensiva, con fermezza, accogliente...In questa area emergono aspetti che sembrano sottolineare capacità di collo-

carsi in situazioni nelle quali si lavora a più mani e più teste, gomito a gomito,nelle quali la convivenza è la regola, e la regolazione della convivenza e della col-laborazione una partita aperta.

Gli aspetti professionaliInfine, in quest’ultimo gruppo vi sono aggettivi del tipo: competente, capace

di osservare, disponibile ad aggiornarsi, intraprendente, attenta, riservata,aggiornata.

Sono sottolineature che non entrano nel merito dei contenuti tecnici dellavoro, ma che fanno intravedere una sorta di orientamento ad una assunzioneattiva della propria professionalità.

Vi è come un elemento di attenzione al proporsi in termini di responsabilitàprogettuale.

Si tratta di aspetti che in parte riescono ad essere assunti e previsti dai rego-lamenti e dai protocolli formali, ma che, in buona parte, possono essere affron-tati grazie al senso di responsabilità ed alla disponibilità.

A questo proposito viene sottolineato come le Assistenti evidenzino una cre-scita di flessibilità e di capacità di collocarsi in maniera congruente con il conte-sto in tempi rapidi e con spirito di iniziativa.

“le assistenti che ho conosciuto io sono persone con un carattere forte e capacità di relazio-ne adeguata; molto disponibili a cambiare orario, a spostarsi su altri circoli” (Dirigente sco-lastico).

“Soprattutto sono in grado di avere una relazione più efficace con il contesto: non stannoad aspettare di essere chiamate dall’insegnante…ma sanno prendere iniziative appropriate edefficienti” (Insegnante)

“c’è molta disponibilità da parte delle assistenti nell’adeguarsi all’utente, agli orari ed alleesigenze organizzative della scuola” (Insegnante).

“quando la ragazza che seguiamo ha una crisi l’assistente è più pronta di noi…le assi-stenti sono sicure e danno sicurezza anche a noi. Dimostrano sempre maggiore professionali-tà perché sanno prendere iniziative appropriate” (Insegnante)

L’IMMAgINE dELLE OPERAtRIcI

All’interno della esplorazione si è cercato di capire anche che immagine aves-sero i vari interlocutori delle Operatrici del Servizio, per cogliere in quale modovengono percepite.

A questo scopo è stato chiesto di individuare tre aggettivi che descrivesseroil personale del Servizio di Assistenza Scolastica.

Sono stati così raccolti decine di aggettivi diversi che consentono di gettareuno sguardo su cosa colpisce i genitori e gli insegnanti nel modo essere e di faredi queste Operatrici.

Una prima osservazione su questo materiale riguarda il fatto che sono statiimpiegati aggettivi che connotano positivamente le persone che operano nel ser-vizio, “pennellature” che riprendono e precisano l’immagine sostanzialmentebuona che è stata raccolta sull’insieme del servizio stesso.

è una dato interessante e non scontato.

Entrando poi nel merito, emergono tre tipologie di aggettivi, che sembranolegate ad aspetti piuttosto diversi tra di loro: le qualità di tipo personale, quelledi tipo relazionale, quelle di tipo professionale.

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difficili da decifrare, complicate dall’essere connesse alla immigrazione dellefamiglie di origine da paesi extraeuropei.

Vi è poi un elemento di tipo anagrafico, sottolineato da più parti, e cioè lanecessità di assumere con più attenzione fenomenologie che sembrano “sopite”durante l’infanzia e che appaiono evidenziarsi con più forza durante la fase ado-lescenziale.

Infine un elemento che rende ulteriormente più complesso questo quadro èil fatto che, a volte, le famiglie di questi bambini e ragazzi manifestano delle fra-gilità, in passato meno presenti, o forse meno diffuse, che rischiano di appesan-tire la situazione.

Si tratta di situazioni che impegnano fortemente la Scuola, il Servizio diAssistenza Scolastica, e gli altri attori impegnati su questo terreno, nella ricercadi chiavi di lettura, metodologie e accorgimenti operativi nuovi o rivisti rispettoa quelli in uso nel passato.

Sono alcune delle nuove “sfide” con le quali il sistema dell’integrazione sco-lastica dovrà fare i conti nel futuro per riuscire a garantire una attenzione mira-ta, e non generica, alla domanda di vita che proviene da persone così diverse, eche richiedono percorsi sofisticati di accompagnamento e di aiuto.

I cambiamenti nelle famiglie

Anche a questo livello si evidenziano rilevanti cambiamenti, a due livelli.Il primo riguarda le trasformazioni che stanno interessando il soggetto fami-

glia in senso lato, e che si rintracciano anche nel mondo della disabilità.Sotto questo profilo le famiglie vengono dipinte come organismi più fragili

che in passato, con reti esterne meno estese e ramificate, con risorse internemolto più assorbite dai ritmi di una vita intensa e a volte febbrile.

Vengono però anche rappresentate come più consapevoli del proprio ruoloeducativo e più capaci di porsi interrogativi attorno ai processi di crescita deifigli.

Una seconda area di cambiamenti riguarda invece la relazione con la scuola.Su questo piano le famiglie vengono descritte come più acculturate, più

informate e “competenti” attorno alla situazione del figlio, meno disarmate difronte alla problematica e meno ripiegate sul proprio dolore e sulla idea di accet-tazione rassegnata di un destino infelice, come spesso accadeva in passato.

Questa evoluzione si traduce anche in una maggiore consapevolezza deibisogni e delle potenzialità del proprio figlio, ed in una partecipazione più atti-va alle vicende che segnano la crescita e i passaggi attraverso diversi ordini discuola.

B – IL SERvIZIO DI ASSISTENZA ScOLASTIcADISABILI IN PROSPETTIvA

cAMbIAMENtI IN AttO E quEStIONI APERtE

All’interno della rilevazione sono state raccolte numerose osservazioni inordine a questioni aperte, da assumere e discutere in prospettiva.

I cambiamenti nella fenomenologia della problematica

Una prima questione riguarda le mutazioni che stanno interessando la pro-blematica disabilità.

A questo livello si segnalano come significativi diversi aspetti da considerareper il futuro.

“C’è il nucleo duro delle disabilità classiche che sono rimaste fisse nel tempo, e che appaio-no in diminuzione: malformazioni cerebrali, paralisi ostetriche, paralisi da asfissia, e così via.Sono aumentate alcune delle patologie genetiche e, più decisamente, i disturbi generalizzati dellosviluppo, e poi si sta ponendo il problema della definizione dei nuovi handicap, che richiedononuovi modi di lettura e di azione: autismo, traumi, situazioni miste, disabilità legate allaimmigrazione” (Neuropsichiatria Infantile)

Come ben riassunto dalla Neuropsichiatria infantile, e peraltro confermatoanche da tutti gli altri osservatori interpellati al proposito, il Servizio si sta con-frontando con una evoluzione significativa del modo con il quale la tematicadisabilità si affaccia a scuola.

Da un lato vi è una contrazione di alcune delle patologie tradizionali chehanno caratterizzato questa tematica, come ad esempio le patologie neonatalilegate a traumi da parto, o forme di insufficienza mentale aggravate da situazio-ni di deprivazione familiare e sociale.

Si assiste ad una certa stabilizzazione di altre patologie tradizionali, comequelle di tipo genetico.

Si evidenzia invece una crescita di altre patologie in precedenza assenti o pre-senti come eccezioni, che sembrano raggruppabili in tre tipologie prevalenti.

Un primo gruppo composto da patologie molto gravi, legate allo sviluppotecnico della medicina, che riesce a garantire la vita a situazioni un tempo com-promesse, o frutto di un riconoscimento scientifico recente (come nel caso del-l’autismo).

Un secondo gruppo nel quale trovano posto le patologie miste, con forticonnotazioni di tipo comportamentale e relazionale.

Infine le situazioni particolari, a volte di stampo più tradizionale, a volte più

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Come si è già detto, in diverse scuole è stato segnalato come la disabilità sem-bra abbia fatto da “apripista” alla capacità della scuola di accogliere problemati-che che si stanno affacciando in questo periodo, soprattutto immigrazione eproblematiche di tipo comportamentale.

Nella scuola superiore la situazione cambia.In alcune realtà ormai è una componente della vita scolastica, e le scuole

dichiarano di essersi attrezzate per gestire adeguatamente la problematica.In altre è un fenomeno recente e costituisce una tematica sulla quale si stan-

no aprendo interrogativi e si stanno sviluppando interessanti sperimentazioni dapoco tempo.

In ogni caso le esperienze maturate fino ad ora sembrano costituire degliinteressanti laboratori di ricerca attorno a possibilità di senso e di valore concre-ti per la presenza della disabilità all’interno della scuola superiore, al di là delledichiarazioni di principio.

Una ricerca che sembra aver messo a fuoco fino ad ora elementi di valore,ma anche possibili rischi.

Da un lato, infatti, diverse delle esperienze fin qui realizzate hanno evidenzia-to quanto possa essere significativo, per un ragazzo con disabilità, crescereaccanto ad altri adolescenti in un contesto stimolante e vivo come è quello dellaScuola Media Superiore.

In numerose situazioni questa opportunità si è tradotta in una crescita signi-ficativa delle autonomie e delle competenze dell’alunno con disabilità, ma anchedella sensibilità degli altri studenti.

Su un altro piano, però, in alcuni casi è stato fatto presente il rischio che que-sta esperienza si traduca in una forzatura rispetto alle reali possibilità di appren-dimento e di socialità accessibili allo studente con disabilità.

Occorrerà pertanto valutare con attenzione, in futuro, quali elementi consi-derare per orientare scelte così delicate in maniera ponderata.

I cambiamenti negli oggetti e nei compiti di lavoro

Anche l’area degli oggetti e dei compiti di lavoro mostra interessanti evolu-zioni, in parte già anticipate nel primo paragrafo di questo documento.

Può però essere opportuno ritornare su questo aspetto per tentare una sin-tesi in termini più prospettici.

La centratura del servizio si è evoluta in maniera significativa.A questo proposito si è passati dalla attenzione e dalla cura rivolte prevalen-

temente all’area dei bisogni primari degli allievi con disabilità alla consapevolez-za della necessità di una supporto ad un progetto di educazione complessiva

Nei confronti della scuola vi è una maggiore capacità di interagire, prenderela parola, esprimere attese e dialogare “alla pari”.

Viene sottolineata una maggiore attenzione alla qualità del servizio e unamaggiore capacità di coglierne gli aspetti di complessità e delicatezza, così comemaggiore presenza accanto alla scuola ed al servizio.

Sembra, in sintesi, che si stia assistendo ad una evoluzione sostanziale nelmodo con il quale le famiglie accordano alla scuola ed ai servizi una delega attor-no alle potenzialità di crescita del figlio.

Pur con qualche inevitabile semplificazione, si può dire che in passato questadelega era “in bianco” e “a occhi chiusi”; oggi, invece, va contrattata, concorda-ta e regolata nel tempo una relazione fiduciaria che non è affatto scontata.

Si tratta di un cambiamento significativo e trasversale ai diversi ordini discuola, che dà origine a diverse conseguenze interessanti da considerare.

A volte infatti appare fonte di una crescita di situazioni di tensione e dimicroconflittualità con la scuola ed i Servizi, legate spesso alla difficoltà a trova-re una condivisione attorno al valore dei risultati raggiungibili con la integrazio-ne scolastica, ed attorno al modo con il quale le diverse parti in gioco concorro-no al raggiungimenti di quei risultati.

A questo livello, ad esempio, è stata più volte segnalata una maggiore atten-zione, da parte delle famiglie, agli aspetti didattici e meno all’area delle autono-mie sociali e individuali, con significative attese di crescita del figlio rispetto allaacquisizione di buoni livelli di scolarità.

Va poi precisato che il passaggio dalla Scuola dell’obbligo alle superiori costi-tuisce un momento particolarmente delicato, all’interno di questo quadro.

In altri casi però si aprono possibilità di incontro, comprensione e coopera-zione difficilmente pensabili in passato, che rendono più ricche le possibilità dilavoro educativo con il bambino- ragazzo con disabilità.

In questo modo infatti si possono liberare delle energie, ideative, operative eorganizzative, che dischiudono possibilità originali, difficilmente pensabili insituazioni di non comunicazione.

Attorno a questo nodo si tornerà quando si affronterà la questione della rela-zione con le famiglie in termini più prospettici.

I cambiamenti nella presenza della disabilità a scuola

La disabilità appare come un fatto ormai acquisito e consolidato nella scuo-la di base e nella scuola secondaria di primo grado.

A questo livello si può disporre di un significativo e diffuso patrimonio diesperienze e riflessioni qualitativamente significative, sul territorio cittadino.

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A questo riguardo sono state raccolte diverse sollecitazioni attorno a questio-ni da assumere, che toccano aspetti diversificati.

In questa sede ne vengono riportate le più significative, nodi sui quali andreb-bero aperte delle possibilità di sperimentazione innovativa, con l’avvertenza che,all’interno di questo documento, vengono “nominate” questioni da approfondire eprecisare ulteriormente, in modo che possano diventare oggetti di lavoro trattati esviluppati progettualmente all’interno delle prassi di lavoro del sistema scolastico.

La problematica: incremento di complessità e necessità di affinare la capacità di presa delservizio sulla problematica

Un primo aspetto tocca la problematica disabilità ed i cambiamenti che staevidenziando.

Come si è detto alla scuola afferiscono bambini e ragazzi portatori di nuovepatologie, più complesse e più “oscure” da accostare che nel passato.

Da un lato ci si trova di fronte a patologie molto gravi e invalidanti, che sfi-dano le possibilità di lavoro educativo a livello didattico e relazionale.

Su una altro piano ci si confronta con situazioni di fragilità emotiva che appe-santiscono la situazione di disabilità “classica”.

Infine va segnalato il fatto che entrano nella scuola anche diversi ragazzi condisabilità caratterizzati da condizioni di partenza piuttosto complicate, in parti-colare alunni figli di immigrati. Questo fenomeno è reso più complicato dal fattoche a volte questi alunni arrivano ad anno scolastico già avviato.

Un aspetto particolare del complessificarsi della problematica riguarda la pre-senza di alunni con disabilità all’interno della Scuola Media Superiore.

A questo proposito va detto che, fatto salvo il diritto di ogni ragazzo a prose-guire gli studi, in alcuni casi è stato segnalato il rischio che si esprimano delle atte-se eccessive in ordine alle reali possibilità di crescita, sul piano didattico, di adole-scenti con disabilità, con conseguenti frustrazioni dei ragazzi stessi e delle lorofamiglie, nel caso in cui queste attese non abbiano poi dei riscontri positivi.

è stato invece sottolineato come positivo il fatto che dei ragazzi con disabi-lità possano proseguire il proprio percorso di crescita in un contesto nel qualesono presenti altri ragazzi della loro età, e che adolescenti “normali” imparino aconvivere con questa tematica assumendola nella propria quotidianità come unacosa “normale”.

Consequenziale a entrambi questi aspetti è l’esigenza di proseguire nel quali-ficare ed affinare la competenza professionale delle Assistenti e, congiuntamen-te, quella degli Insegnanti.

della persona che fa capo alla scuola.Ciò ha comportato e comporta diverse conseguenza: l’incremento delle col-

laborazioni al piano di lavoro didattico, l’incremento delle esperienze e delleprassi legate alla integrazione relazionale interna al gruppo classe, l’incrementodelle metodologie e delle strumentazioni a supporto di progetti di sviluppo dellearee dell’autonomia e della socialità.

L’oggetto di lavoro appare più sofisticato e complesso: da un lato è più este-so e impegnativo, su un altro piano è più significativo e interessante.

Si è vista una evoluzione anche nei rapporti tra figure professionali e tragruppi professionali.

Dalla gestione prevalentemente duale della relazione con l’allievo disabile siè arrivati alla integrazione con altre figure scolastiche.

Inoltre viene evidenziato il passaggio dalla disponibilità e capacità genericadelle Operatrici alla progressiva crescita di competenze diversificate in relazionealle diverse patologie dei ragazzi che accedono alla scuola

Un altro elemento che viene rimarcato riguarda la dimensione progettuale: aquesto livello si è vista una evoluzione da una posizione un po’ supina ed esecu-tiva nei confronti della scuola ad una crescita di imprenditività e capacità pro-gettuale, peraltro segnalato come un valore qualitativo del servizio.

Infine un ultimo elemento riguarda la collocazione, cioè il “dove” si svolge ilservizio.

Rispetto a questo elemento si è assistito ad un processo di allargamento e di“pluralizzazione” della area di lavoro: la classe, gli altri spazi della scuola, glispazi specifici, ma anche alcune attività non strettamente didattiche e l’esterno,il confine tra scuola e territorio.

Si assiste così ad una crescita di flessibilità nelle modalità di ideazione e direalizzazione delle azioni educativa tra dentro e fuori la scuola, che sembra noncompromettere la qualità della relazione dell’alunno disabile con la didattica econ la comunità scolastica.

ALcuNE POSSIbILI AREE dI INvEStIMENtO

PROgEttuALE

Un ultimo insieme di questioni esplorate riguarda gli ambiti di possibile inve-stimento innovativo per il futuro.

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La progettazione e la realizzazione del servizio

A questo livello vengono segnalate esigenze che si collocano su piani diver-si. Su un piano si evidenzia la necessità di migliorare le procedure e le modalitàdi gestione delle sostituzioni, al fine di garantire la continuità qualitativa del ser-vizio.

Su un altro si fa presente l’opportunità del coinvolgimento e della partecipa-zione delle Operatrici del Servizio alle fasi di messa a punto e di regolazione deiprogrammi rivolti agli alunni, visto il contributo conoscitivo che possono appor-tare.

In questo modo si garantirebbe un arricchimento di sguardi e di ipotesi di let-tura che si possono tradurre in una facilitazione alla cooperazione nella attuazio-ne del servizio stesso, e quindi in crescita qualitativa dei vari progetti.

Su un altro piano ancora si è posta la questione della attenzione alla temati-ca del legame relazionale che si stabilisce tra alunno e Assistente, da curare conattenzione.

Questo infatti è un tema delicato, che appare difficile risolvere una volta pertutte in termini semplicemente procedurali.

Gli alunni con disabilità, infatti, portano all’interno della scuola una doman-da duplice: da un lato una esigenza di stabilità e continuità relazionale che è sen-z’altro di aiuto nel transitare attraverso esperienze e relazioni multiple.

Da un altro lato, però, anche una domanda di discontinuità e di cambiamentorelazionale, che aiuta a rendere più duttili e mobili le proprie modalità di costru-zione dei rapporti interpersonali e di collocazione in contesti sociali mobili.

In relazione a questo fattore, si può immaginare che, in linea di massima, lacontinuità possa costituire un orientamento generale, da porre però a verificaall’interno delle diverse situazioni concrete, per evitare il rischio del determinar-si di situazioni caratterizzate da legami troppo forti e intensi che ne precludonoaltri.

La collocazione del servizio: il confine “fluido” interno esterno

Una terza area di questioni sottolineate come interessanti da assumere per ilfuturo riguarda la collocazione spaziale del servizio.

Tradizionalmente il servizio è stato pensato e messo in atto all’interno dellemura scolastiche, contesti con una discreta articolazione interna degli spazi edelle opportunità.

In questi anni, però, in alcune scuole si sono sperimentate delle situazioni unpo’ più flessibili, che hanno visto il servizio collocarsi sul confine della scuola,tra interno ed esterno, tra aule e territorio cittadino.

Un tema che è stato ripreso più volte durante gli incontri di confronto attor-no alla bozza di report sia dalle famiglie che dalle figure più istituzionali.

In quella sede si è suggerita la strada di percorsi di formazione comuni, cheaiutino entrambe le figure a crescere insieme nella capacità di lettura e di acco-stamento di fenomeni così impegnativi.

La relazione con le famiglie

Una seconda questione riguarda le famiglie e la loro relazione con il sistemascuola.

Come già accennato questi ultimi anni hanno evidenziato una significativaevoluzione nelle modalità con le quali le famiglie si rapportano al figlio con disa-bilità e con l’esterno.

In particolare va richiamato il fatto che le famiglie tendono ad affidarsi dimeno che in passato a quello che c’è sul territorio e, quindi a ciò che la scuolaoffre, e preferiscono invece entrare nel merito e discutere il senso e l’efficacia diciò che viene messo in campo per i loro figli.

Le famiglie cioè, riescono, più che in passato, a legittimarsi nel prendere paro-la e posizione.

Ciò può essere fonte di frizioni e screzi, ma anche di possibilità di compren-sione e di sperimentazioni inedite e originali.

Vale la pena di tenere aperta una possibilità di esplorazione innovativa attor-no a questa area tematica per capire come gestirla in maniera fruttuosa per tuttii soggetti coinvolti.

Si tratta, a questo proposito, di avviare e sperimentare delle modalità di mag-giore dialogicità con la componente famiglie.

In questo modo si potrebbero ottenere interessanti risultati.Da un lato si attenuerebbe la morsa delega – rivendicazione che rischia di

indebolire il valore delle azioni sviluppabili con gli alunni; si potrebbero aiutarele famiglie ad avere posizioni più consapevoli e “ragionate” in ordine alle possi-bilità di lavoro all’interno della scuola, e magari anche più collaborative; ma sipotrebbe anche aiutare la scuola ad esprimere capacità di ascolto e di interazio-ne potenzialmente fonte di fertili innovazioni.

Anche questa è una tematica affrontata nel lavoro di ricerca, pur con accentua-zioni diverse nel gruppo delle famiglie ed in quello dei referenti più istituzionali.

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L’orientamento

Infine, un’ultima tematica riguarda l’orientamento, una questione che nonattiene in maniera diretta al servizio di assistenza scolastica, ma che mostraimportanti connessioni con esso.

All’interno della esplorazione questa area è stata richiamata come critica dadiversi interlocutori, interni ed esterni al sistema scolastico.

l’accompagnamento dei processi di scelta al termine della scuola di base e diquella superiore appare una zona d’ombra, poco presidiata.

Le diverse componenti coinvolte in questa problematica sembra operino inmaniera indipendente l’una dall’altra, con difficoltà ad interagire.

Soprattutto le famiglie sembrano lasciate a se stesse, e a volte vi è il rischioche reagiscono alla solitudine nella quale si ritrovano durante questo passaggiodelicato sovrainvestendo sulla scuola e sulle possibilità emancipative che la scuo-la offre.

Appare necessario pertanto interrogarsi attorno a possibili correttivi daintrodurre in una situazione che, se non affrontata, rischia di incrementare i pro-blemi che il sistema scolastico e il Comune devono poi affrontare, oltre che arendere più difficile il compito educativo delle famiglie.

ALLEgAtO: tRAccIA dI INtERvIStA utILIzzAtA

PER LA RAccOLtA dELLE tEStIMONIANzE

Si allega la traccia di intervista impiegata per la raccolta delle osservazioniattorno al Servizio.

1. Le prefigurazioni e le atteseRipensando all’inizio dell’anno scolastico, aveva delle attese particolari in

senso negativo o positivo rispetto a come si sarebbe svolto il Servizio di assi-stenza scolastica? Se sì, quali?

2. La situazione incontrataC’è qualche aspetto del Servizio che l’ha sorpresa durante questi mesi, in

senso positivo o negativo?

3. Gli aspetti di utilitàSecondo Lei quali sono gli aspetti di maggiore utilità del Servizio? Può indi-

care i principali?

In questo modo, da un lato si è potuto arricchire il bagaglio di situazioni estrumenti a disposizione del servizio, e, su un altro piano, si sono aiutati deiragazzi a conoscere la propria città e ad iniziare un apprendimento delle abilitàe delle attenzioni necessarie per abitarla e viverla.

La possibilità di sviluppare progetti a cavallo tra interno ed esterno apparecome un orizzonte interessante da tenere in considerazione, in una logica dipotenziamento delle autonomie e di supporto a esperienze di “vita autonoma”anche nell’infanzia e nell’adolescenza che rendono maggiormente accessibiliquote reali di vita sociale.

Si tratta di una prospettiva interessante, da valutare ponendo attenzione alrischio che l’apertura a sperimentazioni di “confine” possa in qualche modoindebolire o compromettere l’esperienza della convivenza con gli altri alunni e illavoro di tipo più didattico e culturale.

L’integrazione tra figure diverse

Una quarta area di questioni tocca invece il versante della relazione interpro-fessionale.

Attorno all’allievo con disabilità ruotano ormai diverse figure: insegnanti cur-ricolari, insegnanti di sostegno, assistenti, figure specialistiche, a volte volontari…

In questi anni si è vista crescere la capacità di dialogo e di interazione coope-rativa tra queste figure, con diverse soluzioni interessanti.

Si tratta di un nodo cruciale per la qualità della esperienza scolastica dell’alun-no con disabilità, ma anche per tutti gli altri allievi, visto che, come insegnal’esperienza, l’integrazione non è un automatismo frutto della contiguità fisicatra persone diverse che abitano lo stesso luogo.

A questo proposito la rilevazione ha consentito di entrare in contatto conesperienze e intenzionalità significative, che già oggi costituiscono delle interes-santi palestre attorno alla tematica della integrazione tra professioni diverse.

Si tratta di un terreno da curare con attenzione e con la consapevolezza dellanecessità di investimenti su tempi medio lunghi, data la delicatezza delle questio-ni che occorre affrontare.

Va però rimarcata l’importanza di incrementare la possibilità concreta di coo-perazione tra figure diverse, facendo tesoro di alcune sperimentazioni in atto edi alcune intuizioni, da precisare e verificare, che possono essere generatrici dibuone prassi da diffondere all’interno del sistema cittadino.

Tematica, anche questa, che ha trovato significativi riverberi all’interno degliincontri di lavoro.

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FAR cREScERE LA qUALITÀDELLA ScUOLA PIAcENTINA

Roberto MaurizioRICERCATORE SOCIALE E FORMATORE

Elena BuccolieroSOCIOLOGA DEL CENTRO PROMECO

COMUNE DI FERRARA

PREmESSA

Questo contributo illustra gli esiti di un percorso di ricer-ca/azione promosso dalla Provincia di Piacenza, attraverso ilServizio Sistema Scolastico.

Sulla base di un preciso indirizzo del mandato amministra-tivo, volto a qualificare il sistema scolastico, attraverso il coin-volgimento e la valorizzazione delle autonomie scolastiche,sono stati promossi e, nel tempo, consolidati diversi strumen-ti di programmazione partecipata che dal momento dell’avvio(2006) a oggi, hanno dato prova non solo di tenuta, ma diefficacia progettuale e operativa.

Fra questi strumenti, ha assunto carattere di Gruppo per-manente un nucleo di docenti, designati dai rispettiviDirigenti, che a partire dal 2006 ha avviato una riflessionesistematica su temi di particolare rilevanza e attualità, oggettodi possibili azioni condivise e sostenute dalla Provincia, nel-l’ambito dei propri compiti istituzionali.

Al momento della costituzione il gruppo, sostenuto nel

4. I limitiE quali sono i limiti più significativi?

5. Le evoluzioniIn base alla sua esperienza ed alla conoscenza del Servizio in questi anni, può

indicare quali sono stati i cambiamenti più significativi che sono intervenuti?

6. Le differenze tra ruolo della Scuola e del Servizio Comunale

7. I possibili correttivi migliorativiSe potesse introdurre dei miglioramenti alla situazione attuale, cosa suggeri-

rebbe?

8. Il futuro Guardando in prospettiva, come si immagina un “buon” Servizio di

Assistenza Scolastica?

9. L’immaginario attorno alla figura dell’AssistenteSe dovesse definire con tre aggettivi la figura dell’Assistente Scolastico, quali

sceglierebbe?

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offrire ai ragazzi la possibilità di scegliere la scuola più adatta alle loro atti-tudini;

consolidare e ampliare il proprio istituto (o, da un altro punto di vista, lotta-re contro il rischio di perdere iscrizioni e conseguentemente posti di lavoro);

preservare lo stile culturale e educativo della scuola in cui si lavora. Come è chiaro, il primo obiettivo è pensato a favore degli allievi e delle loro

famiglie, il secondo e il terzo obiettivo riguardano piuttosto l’esistenza, la sicu-rezza e l’identità della scuola che li accoglierà.

Ampliare o affinare le capacità di scelta

Unico denominatore comune a tutti gli istituti secondari, nell’organizzazionedell’orientamento in ingresso, è la fiera “Futura”, organizzata insiemeall’Amministrazione Provinciale sino a due anni fa. In quelle occasioni studentie insegnanti degli istituti secondari di secondo grado si preparano a presentarela loro scuola in una sorta di salone dell’orientamento, nel quale i ragazzi in pro-cinto di scegliere si affacciano per prendere visione di tutte le vie che si apronodinanzi a loro.

In questo caso si dà per scontato che, per fare una scelta, si abbia bisognosoprattutto di informazioni, ed è proprio su questo che gli istituti secondari pun-tano nel preparare e animare la loro presenza a Futura. La Fiera dell’orientamen-to è vista come significativa non soltanto per ciò che può dire ai ragazzi posti difronte alla scelta, ma anche per il coinvolgimento e la partecipazione che susci-ta tra gli studenti della secondaria di secondo grado, insieme ad un senso di iden-tificazione e di orgoglio per la propria scuola. Racconta un docente di liceo:

“Naturalmente noi partecipiamo (a Futura, ndr) anche qui con grande investimento dienergie, sia da parte dei docenti, sia da parte dell’istituzione, sia anche da parte degli stessistudenti che ci aiutano ad organizzare lo stand. Siamo sempre presenti con un bel numero diragazzi che ci aiutano… Gli stessi nostri studenti, magari degli ultimi anni, incontrano iragazzi di terza media e raccontano la loro esperienza, rispondono alle domande… C’è ovvia-mente un buon lavoro di preparazione, di formazione, però vedo che il lavoro è fatto bene, inmodo divertente…”

Per alcune scuole questo è o dovrebbe essere di per sé sufficiente e, se vieneampliato nel corso dell’anno, è ancora secondo lo stesso presupposto: i ragazzisceglieranno la nostra scuola se saranno bene informati sul nostro conto.

La docente di un istituto tecnico, mentre lamenta il fatto che le secondarie diprimo grado sono poco attente all’orientamento – dando per implicito che sianoloro a doversene occupare, non le secondarie di secondo grado per farsi cono-scere -, racconta così il lavoro dei colleghi incaricati di questa funzione:

proprio cammino formativo da chi scrive, in funzione appunto di formatore, hascelto di concentrare il proprio lavoro intorno a quattro tematiche:

l’integrazione degli studenti con disabilità, l’integrazione degli studenti non italiani, la prevenzione del disagio, l’orientamento in entrata ed in uscita.

Una prima fase del lavoro è stata dedicata al recupero di materiali e studi giàrealizzati in regione e in provincia riguardanti le scuole secondarie superiori disecondo grado, in generale, ed i temi oggetti di lavoro in specifico. Questo lavo-ro di ricerca documentaria ha permesso di costruire un primo dossier di docu-mentazione con la sintesi dei diversi lavori reperiti.

Una seconda fase è stata dedicata alla ricostruzione della percezione in ordi-ne ai temi oggetto dell’indagine. Questo lavoro è stato realizzato attraversointerviste in profondità, semi-strutturate, ai referenti delle scuole, dei comuni,dell’Ausl, di associazioni che collaborano con le scuole, ai referenti del Serviziodi orientamento provinciale e dei Centri risorse.

Una terza fase del lavoro è stata dedicata all’ascolto degli studenti non italia-ni, attraverso la somministrazione di questionari.

Infine è stata condotta una rilevazione presso i Dirigenti delle scuole supe-riori su alcuni aspetti dell’integrazione degli alunni disabili.

Qui, in ragione della natura del volume, si è scelto di riportare i risultati del-l’analisi qualitativa condotta presso docenti attraverso interviste e, in un succes-sivo capitolo, la voce degli studenti non italiani

LA ScUOLA PIAcENTINA GUARDA SE STESSA

L’ORIENtAMENtO IN INgRESSO

L’orientamento in entrata degli allievi che provengono dalla scuola seconda-ria di primo grado è visto da tutti gli insegnanti incontrati come una funzione digrande importanza, anche se poi sono molti e diversi i modi in cui questo vieneesplicato, con soluzioni a volte legate allo specifico dell’istituto o alle caratteri-stiche personali di chi se ne occupa, a volte semplicemente standardizzate.

Da un’analisi delle interviste possiamo distinguere almeno tre obiettivi del-l’orientamento in entrata:

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“I colleghi che si occupano dell’orientamento incontrano i ragazzi delle altre scuole, andan-do personalmente a illustrare il nostro istituto e poi naturalmente con l’accoglienza delle altrescuole… cioè l’invito da parte nostra a visitare le nostre scuole, sia per i ragazzi, sia per i geni-tori. Giornate dove appunto accogliamo anche le famiglie a frequentare i locali, a chiedere infor-mazioni di qualsiasi tipo…”

“La cosa che abbiamo ritenuto che funzionasse – anche se non sempre le scuole medie cel’hanno permesso – era accogliere le classi che venivano da noi per vedere. Venivano un gior-no anche senza tanto preavviso e ti vedevano una volta in un momento di spiegazione, unavolta in un momento di laboratorio… Secondo me il fatto di entrare in situazione è proprioquello che dovrebbe funzionare…”

Alcuni istituti, anche molto diversi tra loro, costruiscono rapporti duraturicon le scuole secondarie di primo grado attraverso progettazioni concordate sutemi comuni o mediante l’utilizzo di risorse che la scuola secondaria può met-tere a disposizione. Le esperienze che seguono provengono da licei, professio-nali, poli scolastici… Ancora una volta balza agli occhi come la possibilità deiprogetti sperimentali sia legata alle conoscenze personali, alle relazioni cheinsegnanti di livelli scolastici diversi costruiscono tra loro, al coinvolgimento deiragazzi, e non certo a caratteristiche proprie dell’istituzione scolastica in sé eper sé.

“Insieme con una collega della scuola media, con la quale c’è un discorso di ponti da unpunto di vista relazionale, costruiamo una programmazione comune che può durare un qua-drimestre, due quadrimestri… Mettiamo in relazione due classi, di solito una prima o unaseconda del nostro liceo con una seconda o una terza media. Questi ragazzi fanno in praticaun percorso parallelo, su due livelli diversi. Abbiamo fatto il comico, il giallo, il maschile e ilfemminile… abbiamo fatto “Dai graffiti ad internet”…

I grandi diventano gli insegnanti dei piccoli. Tra loro c’è pochissima differenza di età, peròi nostri sono “grandi” perché sono al liceo. Il progetto si chiama infatti “Imparare insegnan-do”. Si invertono un po’ i ruoli e nello stesso tempo i grandi imparano che imparare vuol direrielaborare e trasferire… I piccoli fanno un grossissimo sforzo per adeguarsi, perché scatta unaforma di emulazione…”

“L’orientamento formativo è fatto su delle proposte didattiche… per esempio dei laborato-ri, di lingue, di chimica, di fisica vengono proposti su argomenti specifici ai docenti della scuo-la media, e i docenti prenotano il tale esperimento, la tale lezione e portano la classe intera.Questo avviene nell’arco della prima parte dell’anno scolastico. I nostri insegnanti che sarebbe-ro disponibili fanno un progetto adeguato alle conoscenze dei ragazzi della media e collabora-no attivamente con i loro docenti…”

“(Nella nostra scuola non ci) sono iniziative strutturate… noi abbiamo naturalmente l’in-segnante che si occupa dell’orientamento in ingresso, che mette in piedi delle iniziative un po’così… È molto lasciato all’iniziativa personale… C’è un gruppo di lavoro, non tanto nutri-to ma c’è. Vanno nelle scuole, portano materiale che illustra il nostro lavoro…Però non tuttele scuole ti lasciano entrare, alcune te lo impediscono proprio… Allora uno spera che almenofacciano orientamento all’interno, visto che non accettano l’orientamento dall’esterno.

Ci sono scuole che, secondo me, lasciano tutto al caso per cui i ragazzi vanno dove va l’ami-co, “allora ci vado anch’io…”, siamo rimasti a questo livello qui…”

In un istituto tecnico si preparano locandine in più lingue da distribuire nellescuole secondarie di primo grado, sperando di andare contro un pregiudizio chei docenti sentono nei confronti della loro scuola.

“Quest’anno si è predisposta una lettera per i referenti della scuola media inferiore, perquelli che desiderano venire a scuola e ricevere informazioni più precise, più dettagliate.Quest’anno sono state preparate anche in lingua straniera, sicuramente in spagnolo, inglese efrancese… Io però ho notato che l’insegnante orienta la classe su un certo tipo di scuola, e que-sto modo di orientarli è diverso se la scuola media è della città oppure della provincia.

- Ci sono delle traiettorie delineate…?- Non mi faccia dire di più… lascio alla su fantasia…- Nel senso che c’è un pregiudizio sull’istituto? In senso negativo?- In senso negativo. Io ho visto a Futura degli insegnanti delle medie dire ai ragazzi:

“Questo è quell’istituto… Possiamo andare avanti…”- E i ragazzi cosa dicono poi? Chiedete come e perché i ragazzi scelgono il vostro istituto? - Soprattutto sono interessati all’informatica…”

Emerge chiaramente il senso di improvvisazione che pervade trasversalmen-te molte scuole, su aspetti diversi. Un po’ come se l’orientamento, come altrefaccende di cui parleremo più avanti, fosse una cosa sì importante, ma non sisapesse bene a chi spetti veramente o quanto ci si voglia investire. Accade cosìche alcune scuole stabiliscono un referente sul tema, altre costituiscono unacommissione, altre ancora hanno un docente che per tradizione se ne occupapiù di altri e chiede aiuto ai colleghi in alcuni periodi dell’anno, quando il caricodi lavoro lo richiede.

In altri istituti la consapevolezza della scelta non si gioca esclusivamente sul-l’informazione ma anche sull’esperienza e sulla costruzione di una relazione.Sono diversi le scuole che favoriscono questo, con progetti diversi per durata,impegno, livello di partecipazione.

Una strada che diverse realtà percorrono, insieme alle attività puramenteinformative, è organizzare giornate di apertura dell’istituto a studenti e genitoriche stanno valutando di proseguire lì il loro percorso.

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dire, come è possibile che in un liceo scientifico ci possano essere 17 prime? Quando lo facevoio ce n’erano 5, e c’erano più giovani allora di oggi…”

Molto spesso alla preoccupazione non seguono azioni concrete, quasi che ilsenso di ingiustizia subita producesse una sorta di arroccamento, una difficoltànell’adattarsi ai cambiamenti in atto. Resta solo il desiderio che il giusto ordinedelle cose possa in qualche modo ristabilirsi.

Le possibilità di reazione sono condizionate dai rapporti che si riescono a sta-bilire con il precedente ordine di scuola, rivelando la necessità di “orientare gliorientatori”. Si tratterebbe cioè di ampliare e correggere le informazioni in pos-sesso dei colleghi della secondaria di primo grado, la cui opinione può avere unaforte influenza sulla scelta di un ragazzo, e di riscattare il proprio istituto da alcu-ni luoghi comuni:

“Noi c’eravamo offerti di preparare delle passerelle, della attività in cui i ragazzi (dellasecondaria di primo grado, ndr) potessero vedere cosa facevamo noi veramente, perché in effet-ti non lo sanno…

C’è poi anche il fatto che gli insegnanti di scuola media secondo me sono rimasti ad Adamoed Eva come idea della nostra scuola, cioè “Tu vai lì se sai disegnare… se sei bravo in dise-gno tecnico”… Quando adesso è tutto computerizzato e il disegno tecnico di una volta, con lariga e la squadra, è superato… Noi puntiamo sul territorio, sull’ambiente… Il disegno tec-nico è in second’ordine…”

Pregiudizi o connotazioni sull’identità delle scuole secondarie permangonoanche per le questioni di genere, come testimonia questo insegnante di un poloche raccoglie istituti tecnici e professionali:

“Altre scuole hanno avuto la commistione tra maschi e femmine, da noi questo non c’è. Inprima quest’anno non so se c’erano 10 ragazze… su 10 classi… Sono poche. Vuol dire cheuna ragazza non vede questa come la sua scuola, pur avendo pressoché le stesse specializza-zioni… possibilità lavorative alte…”

La liceizzazione ci porta ad un altro aspetto del problema: cambiando lemodalità e i criteri di scelta, decostruendosi il mito del liceo come scuola d’eli-te, si modifica in tutte le scuole la popolazione studentesca. Dopo che per annisi erano abituati ad avere a che fare con un certo tipo di ragazzi, tutti i docentiosservano un generale “abbassamento” della scolarizzazione e della motivazio-ne allo studio, per cui ai licei si affacciano studenti che “dovevano scegliere untecnico”, ai tecnici giungo allievi “adatti ad un professionale”.

Le scuole che interpretano il loro ruolo soprattutto legato alla crescitaculturale delle giovani generazioni tendono a rifiutare i poco adatti mentre

“Noi siamo specialisti dell’orientamento. Per esempio, la settimana scorsa sono partite lesettimane di integrazione, di stage per gli studenti delle scuole medie. Fino alla fine di lugliotutte le settimane abbiamo studenti delle scuole medie che vengono da noi, cerchiamo di far vive-re loro quella che è la dimensione della nostra scuola…

Durante l’anno facciamo tantissimo orientamento già sulle scuole elementari, con visita ailaboratori e alle aziende (legate alla scuola, ndr)… Abbiamo attivato progetti specifici ancheper le scuole materne…

I punti di forza sono sicuramente non soltanto il rapporto con gli studenti ma con i docen-ti. Abbiamo costruito una rete di relazioni abbastanza fitta con il personale, i colleghi, che ciconoscono e ci chiedono. Molto spesso, non avendo laboratori attrezzati, ci chiedono un’integra-zione per i loro programmi, un microscopio, piuttosto che altre attrezzature… Loro vengonoe questo è un modo anche per farci conoscere. Ci abbiamo messo 10 anni… abbiamo fatto unbuon lavoro”.

“Quest’anno, per esempio, sono stati fatti degli spettacoli teatrali. Si cerca di mostrare quel-lo che il nostro liceo può offrire, anche in maniera un po’ originale e non semplicemente andan-do per le scuole…”

“Il collegamento con le scuole medie è stato fatto con dei progetti in comune. Quando si lavo-ra insieme si riesce poi alla fine a portare avanti certi problemi. Sono stati fatti progetti suitemi ambientali, su temi ecologici… sulle radici di Fiorenzuola…”

Assicurarsi “giovani clienti”, sceglierli con cura

Per alcuni docenti il tema dell’orientamento è scottante perché implica lasopravvivenza e il consolidamento del proprio istituto. L’autonomia scolasticada un lato, che vincola parte dei finanziamenti per le scuole al numero di iscrit-ti, e dall’altro la tendenza nazionale, oltre che piacentina, alla liceizzazione1)come risposta all’abbozzata riforma della secondaria superiore a scapito degliistituti tecnici, portano alcuni insegnanti a temere per la propria scuola.Racconta proprio l’insegnante di un istituto tecnico:

“Sull’orientamento in ingresso noi non siamo contenti di come viene svolto. Abbiamo qual-che sospetto che non venga svolto per niente in modo, non dico scientifico, ma con un minimodi criterio. Negli ultimi anni c’è uno spostamento verso i licei che è abnorme, esagerato. Noinon sappiamo bene di che morte moriremo..

Ci chiediamo: nelle scuole medie avranno modo di vedere la gente che esce…? Con che cri-terio certe persone vengono orientate verso il liceo, ben sapendo che non possono farcela? Voglio

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1 Questa tendenza ha subito un’inversione a favore degli istituti tecnici a partire dall’a.s.2008/2009.

più deboli li trovi in prima, e lì usi la livella perché o il 70% rimane in prima o cerchi diandare incontro…”.

Le ricadute di un orientamento sbagliato

La conseguenza più logica delle scelte sbagliate è che queste non venganoportate fino in fondo – e difatti, soprattutto negli istituti tecnici e professionali,sono frequenti gli inserimenti di allievi che arrivano in corso d’anno, o in secon-da.

“Non ci arrivano in prima, ci arrivano in seconda o in terza. Dal liceo tecnologico, dalloscientifico… (Ragazzi che hanno fatto, ndr) scelte sbagliate inizialmente. Un anno erano il10% del nostro totale. Sono veramente tanti, quindi abbiamo detto: “perché cavolo questi quinon sono stati orientati decentemente prima…?”

Gli ingressi in corso d’anno modificano le classi, i gruppi. Ironizza la docen-te di un istituto professionale:

“La nostra scuola sembra Roma Termini! C’è gente che arriva, gente che va… Questo èun problema molto grosso perché il gruppo classe va continuamente rivisto. Delle dinamiche chesembravano finite si ripropongono, ci sono degli abbandoni costanti e per i motivi più svaria-ti…”

I tempi dei progetti migratori che in molti casi determinano inserimenti diallievi in corso d’anno, insieme agli arrivi posticipati di chi aveva fatto la sceltasbagliata, costringono gli insegnanti di queste scuole a rivedere l’andamentodella classe da un punto di vista sia didattico sia relazionale. Su quest’ultimoaspetto, però, solo pochi istituti scelgono di concentrarsi. Forse la consideranouna perdita di tempo, forse sentono di non averne gli strumenti. In questo isti-tuto tecnico, per esempio, all’urgenza di un nuovo ingresso si risponde di voltain volta, affidandosi alle risorse del consiglio di classe:

“(Quando entra un nuovo studente) viene allertato il singolo consiglio di classe, il coordi-natore prende in mano la situazione… Ma anche lì non è che se ne occupa nel senso che segueil ragazzo, cerca di sapere cosa ha fatto e cosa non ha fatto… È sempre un lavoro fatto così,in modo spontaneo, non è che ci sia un percorso per chi arriva. Il singolo consiglio di classe poisi regola di volta in volta, a seconda della persona che si iscrive. Arrivano in novembre, gen-naio, febbraio… Non è simpatica come cosa. La scuola è piccola, si riesce abbastanza a tenerd’occhio le varie situazioni, per cui non è che un nuovo arrivato si perda nel nulla. Per dire,la nostra segretaria ha memoria di tutti i nomi, di tutti i cognomi, tutte le provenienze… doveabitano, cosa fa il padre… Però è sempre un seguire in modo informale, non esiste un percor-so strutturato, quello no…”

quelle che si pensano come luogo di accoglienza per ragazzi che hannopoche altre chance si ritrovano piuttosto ad abbassare o a modificare i crite-ri di valutazione – ma di questo parleremo ancora trattando delle rispostedella scuola al disagio diffuso.

Vediamo, di seguito, l’opinione di una insegnante di liceo:

“Adesso credo che ci sia un problema abbastanza generalizzato. Al di là dell’orientamen-to la liceizzazione è reale, cioè il liceo viene scelto molto di più rispetto ad un tempo. Un ragaz-zino al quale la scuola media aveva indicato l’istituto tecnico magari si iscrive al liceo…

Cioè, l’indicazione della scuola media non è riduttiva, non è “dall’istituto tecnico in su”…Se ti dice l’istituto tecnico vuol dire che il ragazzo ha una mentalità di un certo tipo, una capa-cità di mettersi in gioco, un’apertura mentale di un certo tipo… E si scontra con le difficoltàdel liceo, soprattutto nel triennio… quindi ci sono ragazzi che magari hanno diversi debiti…”

Questa insegnante riferisce che pochi studenti abbandonano la sua scuola equasi sempre su consiglio dei docenti, che avvisano i “meno adatti”:

“Se succede (che un ragazzo abbandona il liceo, ndr) è su nostra indicazione.Proporzionalmente tre su quattro seguono un’indicazione nostra. Soprattutto tra la prima ela seconda si fa molta attenzione alle attitudini, il coordinatore convoca i genitori, informa,consiglia… A volte i ragazzi stessi fanno il biennio e poi, considerate le difficoltà, decidonoche è meglio cambiare aria…”

Evidentemente qui la priorità viene data a preservare le caratteristiche el’identità della scuola, anche a costo di dover dire dei no ai ragazzi e alle fami-glie. è una scelta che quasi solo i licei possono permettersi, proprio perché inuna condizione generale di ampliamento delle iscrizioni.

Da parte sua, l’insegnante di un istituto tecnico:

“Il fatto è che, se si sposta tutto verso il liceo, è chiaro che i ragazzi che arrivano da noisono più deboli. Sono quei ragazzi che un tempo sarebbero andati al professionale, mentreadesso arrivano da noi, quindi il livello nostro si è leggermente abbassato… E noi facciamopiù fatica, perché teoricamente dovremmo tener su un certo livello ma in realtà non sempre ciriusciamo… non in tutte le classi e non sempre…”

Gli insegnanti non sempre ci riescono e non possono lottare con troppaenergia, perché rischiano di perdere iscrizioni in un momento in cui devonotenersele strette. Risultato: quello che si abbassa sono le “pretese” dei docenti,ovvero gli standard di apprendimento.

“Il livello rischia un pò di abbassarsi… Se ci sono dei ragazzini orientati per studi un pò

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“A proposito dell’orientamento in entrata… un progetto che viene chiamato “Major” eprevede l’utilizzo di ex allievi del liceo: ingegneri, notai, architetti… che si sono resi disponi-bili e che prendono sotto la loro tutela le classi prime. In due-tre incontri all’anno si incontra-no con i ragazzi e costituiscono l’adulto fuori dal coro, quindi non l’insegnante, non il genito-re ma l’adulto esperto, con un’identità lavorativa stabile o comunque sua, che trasferisce l’espe-rienza o si mette a disposizione per iniziative, curiosità, approfondimenti… Sono gli Amicidel liceo, un’associazione vera e propria”.

Qui, ancora nell’accoglienza vengono inserite attività di conoscenza dellascuola (regole, strutture…) e, un po’ impropriamente, altre quali i corsi per ilpatentino o l’alfabetizzazione informatica. Per curare una buona socializzazionetra i ragazzi si punta soprattutto ad offrire delle occasioni: gite brevi all’inizio delprimo anno, tornei sportivi…

E le dinamiche del gruppo come vengono comprese, o orientate?

“Avviene in itinere. I due corsi sperimentali si prestano molto ai lavori di équipe e questofavorisce la creazione del gruppo, però diciamo, interventi mirati a livello di psicologi no…

C’era stata, molti anni fa, una collaborazione con un ente esterno che, ahimè, è stata lettacome una perdita di tempo, dai colleghi di matematica soprattutto… Nella nostra scuola ladisciplina ha una valenza fortissima di per sé… nel senso delle materie… Devono essere valo-rizzate, rispettate per quello che richiedono: il tempo di acquisizione, di rafforzamento…”

Completamente diversa l’esperienza di un’altra scuola, dove la collaborazio-ne di uno psicologo viene ricercata proprio per gli allievi e le famiglie del primoanno:

“(Al primo anno abbiamo) il nostro progetto di accoglienza in ingresso, lo chiamiamo“Progetto Bussola”, con la presenza dello psicologo nelle classi. Ci svolge anche un’attività disportello individualizzato destinato agli studenti, destinato anche ai genitori…”

C’è alle spalle un approccio completamente diverso al ragazzo e una conce-zione differente di che cosa sia la scuola, di che cosa la scuola debba offrire agliallievi e di quale ideale di apprendimento, o di crescita, si voglia favorire al pro-prio interno. Le scuole fanno la loro scelta, i ragazzi e le famiglie con loro.

L’orientamento in uscita

L’orientamento in uscita è speculare a quello in ingresso, secondo strade piùconsolidate e standardizzate fatte soprattutto di visite alle Università, incontricon esponenti del mondo del lavoro e stage lavorativi di varia natura, durata edintensità.

I progetti di accoglienza

Accanto al tema dell’orientamento in ingresso c’è quello dell’accoglienza deinuovi allievi, nelle classi prime o negli anni successivi, quando si inseriscono diritorno da scelte scolastiche precedenti.

Le scuole che più si trovano a dover affrontare il problema della convivenzatra gli allievi si pongono il problema di attivarla in modo strutturato, anche sespesso questi percorsi vengono sperimentati, magari sull’onda dell’entusiasmo,ma poi non reggono nel tempo.

In questo istituto professionale, per esempio:

“All’inizio dell’anno scolastico ci sono dei moduli di accoglienza coordinati da alcuni docen-ti. Qualche anno fa erano moto corposi, ultimamente un po’ meno… È perché si fa più fati-ca a trovare gli spazi per organizzarli. C’è talmente tanta burocrazia, talmente tante situa-zioni da risolvere, scadenze…

Abbiamo dei problemi molto grossi, quindi avremmo molto bisogno di creare uno spaziopiù ampio per l’accoglienza, l’incontro del gruppo… Avremmo bisogno di più tempo e di piùspazio per le regole, per far capire meglio il passaggio dalle scuole media alle scuole superiori,che è un passaggio importante… trovare il tempo di incontrare le famiglie di questi ragazzi…Ci sarebbe bisogno di più lavoro.

Però c’è questo modulo che viene in genere discusso nel consiglio di classe e l’insegnante didiritto insegna delle cose, l’insegnante di italiano delle altre, l’insegnante di lingua delle altre…Ci sono alcuni temi che vanno affrontati (in tutti i consigli di classe, ndr), quali la conoscen-za della scuola…”

In un polo scolastico tecnico-professionale l’accoglienza è gestita dagli inse-gnanti di lettere, evidentemente considerati “specialisti della relazione”, con l’ap-poggio di esterni e con la collaborazione dei centri di formazione professionale:

“Fino a qualche anno fa c’erano dei progetti Nof (nuovo obbligo formativo), Nos (Nuovoobbligo scolastico)… tutti progetti di inserimento per le prime… Abbiamo sopperito interna-mente. Fino a qualche anno fa la difficoltà di questi ragazzi era capire perché erano lì, per-ché non vivevano effettivamente la scuola nella sua dimensione (professionalizzante, ndr).

Per quanto riguarda il tema dell’accoglienza cerchiamo di capire se ci sono dei disagi, comeaffrontarli… Non abbiamo istituzionalizzato nulla di particolare. (Gli interventi sulla for-mazione del gruppo, ndr) sono lasciati all’intervento individuale. In base alle esigenze specifi-che l’insegnante di lettere costruisce un progetto mirato. Solitamente chiediamo la collaborazio-ne di esperti esterni…”

In un liceo l’accoglienza è un progetto “speciale”, affidato al confronto diesperienze tra studenti ed ex frequentanti la scuola:

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della maturità. è, tra tutte, una rara esperienza che una scuola mette a disposi-zione degli altri istituti che, però, non sembrano condividerla granché, per ragio-ni tutte da individuare legate al rapporto tra scuole o semplicemente ad aspettilogistici o di opportunità.2

“Ultima cosa che facciamo è quella di invitare al nostro liceo - tutto il primo piano vienededicato a questo - le istituzioni universitarie a creare un piccolo stand. Questa è una inizia-tiva alla quale poi invitiamo anche le altre scuole superiori… (anche se) la maggioranza deglistudenti che girano sono nostri. Si sospende, ovviamente, per le quinte l’attività didattica peruna mezza giornata e ci si dedica a questo”.

Un’altra insegnante di liceo ricorda lo sforzo per favorire negli allievi l’acqui-sizione delle competenze culturali necessarie per introdursi nell’università:

“Tutto quello che si può mettere in atto per fare test di orientamento, test di accesso all’uni-versità, viene fatto. Quest’anno è stato fatto anche un incontro con l’aeronautica, l’esercito, ecce-tera per via degli accessi ai licei, alle scuole militari…”

Negli istituti professionali l’orientamento in uscita è potenzialmente necessa-rio alla soglia della qualifica, per decidere se continuare o no gli studi e in qualeindirizzo, oltre che nell’anno della maturità. Il primo appuntamento è stato valo-rizzato in modo originale da un istituto che ne ha fatto l’occasione per unoscambio di esperienze tra compagni di età diverse, in cui i ragazzi del quarto oquinto anno raccontano ai più giovani la loro esperienza nella scuola:

“Un altro tipo di orientamento è stabilito a novembre… perché noi abbiamo un biennio eun secondo biennio… Essendo un istituto professionale si esce con una qualifica, quindi ilprimo biennio vale per tutti. A dicembre, prima di fare l’iscrizione per la terza, facciamo degliincontri a scuola, riuniamo tutti i ragazzi di seconda e illustriamo un po’ in generale i variindirizzi, e poi mandiamo dei compagni di scuola più grandi per spiegare un po’ come funzio-na, perché in genere al compagno fanno la domanda che interessa principalmente. Si cerca diguidarli anche in questa cosa… per evitare che facciano scelte un po’ superficiali dettate maga-ri dalla paura di un certo insegnante, per cui nessuno vuole andare in classe con lui… o per-ché magari il compagno di banco ha scelto quello, e (lo scelgono) anche loro…”

Ancora una volta si tratta di dare ai ragazzi delle informazioni complete sullepossibilità di scelta e, quando è possibile, anche un assaggio esperienziale delloro probabile futuro. Alcune scuole seguono soprattutto uno di questi percor-si, altre cercando di integrarli, come nel caso che segue. Più raro è che il futurovenga davvero immaginato, sognato, progettato. Sono scarsi i tempi dedicati afare progetti…

“Facciamo attività di stage, nel nostro percorso didattico sulle quarte dello scientifico-tecno-logico. I ragazzi, fino allo scorso anno negli ultimi quindici giorni, quest’anno soltanto nell’ul-tima settimana di lezione, non svolgono attività a scuola ma sono sistemati in aziende e fannoattività di stage. Durante il periodo estivo, anche le studentesse del pedagogico…

E poi in quarta e in quinta abbiamo l’attività di conoscenza delle facoltà universitarie.Quest’anno abbiamo invitato gli esperti dell’università in sede, abbiamo fatto anche uno spor-tello di consulenza individualizzata, più ritagliata sull’individuazione delle attitudini dei gio-vani, per farle venire fuori, per rafforzarle… Poi facciamo stage all’estero… stage di linguanei laboratori dell’università…”

Il docente di un istituto tecnico vede nell’orientamento in uscita uno degliambiti di maggiore collaborazione con il territorio:

“Noi lavoriamo con tutti gli enti possibili e immaginabili, perché per noi è fondamentale.Mandiamo i ragazzi di quarta a fare gli stage e i ragazzi di quarta e di quinta al professio-nale, a fare i corsi surrogatori che sono ovviamente obbligatori, quindi per noi lavorare con icentri di formazione professionale è fondamentale, anche con la Provincia, con l’AssociazioneIndustriali… Lavorare con le università è lo stesso, facciamo venire i vari rappresentanti, fac-ciamo un po’ di promozione… solo per i ragazzi interessati, altrimenti sarebbe un manico-mio. Quest’anno c’erano anche attività di informazione sulle Forze Armate perché i ragazzice lo richiedono. Guardia di Finanza, quelle cose lì…”

Un liceo ha predisposto un orientamento che tende a dare autonomia agliallievi anche nella ricerca di informazioni sul futuro:

“I contatti sono con le Università sia direttamente sul territorio piacentino sia fuori terri-torio, Parma, Milano, Pavia, Cremona… Gli studenti di quinta hanno un certo numero digiorni in cui possono assentarsi, un periodo giustificato di assenze dalle lezioni per partecipa-re alle varie giornate aperte… Le Università, autonomamente, organizzano varie giornate, eloro hanno queste assenze che possono gestire. Segnalano che saranno assenti quel giorno perpartecipare ad una iniziativa, quindi sono giustificati”.

E racconta un’esperienza che è una sorta di “Futura”, un’altra fiera dell’orien-tamento ma questa volta autogestita dalla sua scuola, pensata per chi è alla soglia

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2 Dal 2007 le scuole superiori insieme alla Provincia organizzano un Salone informativo diorientamento in uscita/universitario.

stranieri, ad esempio, si sta pensando di mettere a punto dei percorsi di orienta-mento specifici per questo tipo di utenza, e nell’istituto che è anche polo per l’in-tegrazione dei ragazzi disabili si sperimentano percorsi specifici a loro diretti, diorientamento in uscita. Ne parla con giusto orgoglio l’insegnante referente:

“La cosa che ci piace di più… almeno a me piace molto… è l’orientamento lavorativo (peri ragazzi con handicap, ndr), un avvicinamento al lavoro. E grazie all’AmministrazioneProvinciale che ci finanzia riusciamo ad inserirli, a volte anche casi gravissimi, anche solo perdue volte la settimana, due ore al giorno, a fare un esperienza fuori dal mondo della scuola,della casa, fuori dall’ospedale… in un ambiente lavorativo. Questo li rende consapevoli che,anche solo una piccola cosa, ma bisogna farla ed è utile e serve. Lo facciamo con i ragazzi diterza, quarta e quinta.

(Come insegnante di sostegno, ndr) sono arrivata alle superiori e anche lì per un paio d’an-ni non abbiamo capito cosa stessimo facendo… Poi ad un certo punto ho seguito una ragaz-zina che con molte probabilità non avrebbe ottenuto il diploma e allora ho pensato che questofosse un parcheggio o cosa…? Se non è un parcheggio bisogna pensare al dopo. È da lì che miè venuta questa cosa, che bisognava assolutamente uscire dalla scuola.

Se per gli altri si parla tanto di orientamento, si parla tanto di prepararli gradualmente…figuriamoci (per i ragazzi con handicap, ndr)! Se è vero che per alcuni di loro non ci sarannomolte prospettive, per altri secondo me invece sì… se non saranno delle integrazioni lavorati-ve, sarà comunque una integrazione sociale, perché bisognerà pure trovare un luogo…”

Chiudiamo questa rapida rassegna con due posizioni estreme: da una parte ildocente di un polo scolastico che nega l’esigenza dell’orientamento in uscita,dall’altra due colleghi (di un istituto tecnico e di un diverso polo scolastico) chel’orientamento in uscita lo fanno e lo verificano a posteriori, in base al percorsoformativo e lavorativo degli ex allievi:

“Se parliamo dell’uscita è un problema che riguarda tutti… uno può anche dare un orien-tamento di un certo genere, poi oggi la gente fa quello che vuole. Una volta si davano dei sug-gerimenti in uscita, oggi non esiste, questo tema qui. Si dà qualche suggerimento di fine quin-ta, però veramente si rispetta la libertà personale…”

“Anni fa l’insegnante di Economia Aziendale ha fatto un progetto: in quarta, al posto delmarketing tradizionale hanno fatto il marketing della nostra scuola per vedere se i ragazzi diquinta avevano proseguito negli studi, se invece erano andati a lavorare oppure erano disoccu-pati. Mi ricordo che… disoccupati pochissimi, soprattutto maschi in attesa di essere chiamatiper la leva. Quelli che erano usciti due o tre anni prima erano quasi tutti a posto oppure impe-gnati negli studi universitari…”

“Un lavoro che stiamo cercando di costruire in questi ultimi anni è proprio cercare di moni-

Inoltre, proprio negli istituti professionali l’orientamento in uscita è una partesostanziale del lavoro didattico dell’ultimo anno:

“Nell’istituto professionale la quinta prevede i corsi surrogatori, cioè moduli di specializ-zazione. Un giorno alla settimana i ragazzi non fanno lezione normale ma un incontro condegli esperti del lavoro, fanno delle simulazioni e poi vanno in stage, quindi hanno molte oreper la professionalizzazione. E all’interno di questi moduli sono previste delle ore di orienta-mento. I coordinatori progettisti della terza area hanno come criterio che ci vuole dell’orienta-mento di tipo teorico, ma anche con visite alle università in compagnia di gruppi interessati,partecipazione a varie manifestazioni… Alcuni moduli prevedono la visita dei responsabilidel pubblico impiego, vengono a parlare ai ragazzi e spiegano loro come si fa un colloquio o uncurriculum…”

La collaborazione con la Provincia è una risorsa che diversi insegnanti hannorichiamato come particolarmente significativa, fuori da una logica puramentelegata all’informazione sulle opportunità.

Orientare non è soltanto informare, riflette un docente di un istituto tecnicoche sente fortemente i limiti di fondo di tanti sforzi, e introduce un concetto diorientamento come processo di conoscenza delle potenzialità della persona. èquesto il vero obiettivo da perseguire, sembra dirci, ma le possibilità reali di per-seguirlo restano in balia dei finanziamenti sempre insufficienti… delle volontàpolitiche…

“Onestamente, secondo me, potremmo fare qualcosina di diverso… però qui dobbiamodiscutere su quello che vuol dire orientamento. (Per me, ndr) significa orientare il ragazzo perquello che riguarda le sue attitudini, la sua formazione… Anni fa la Provincia… ma non cisono mai soldi… veniva a fare i colloqui con i ragazzi delle quarte e delle quinte. È un bel-lissimo lavoro, quest’anno l’abbiamo fatto su alcune classi. Era veramente un bellissimo lavo-ro perché i ragazzi uscivano con un orientamento sulle loro attitudini… Avevamo fatto qual-che anno fa un altro progetto con l’Ufficio del lavoro di Piacenza… non ricordo… ma salta-to il finanziamento è saltato il progetto. Avevamo fatto dei testi attitudinali incrociati moltointeressanti e i ragazzi sono stati veramente contenti di farli… A parte che l’ho fatto anch’io,ho avuto un riscontro personale e anche la mia collega l’ha fatto e ha avuto lo stesso identicoriscontro…

Pensi che un ragazzino che voleva a tutti i costi fare l’avvocato… Lui sentiva che la suastrada era fare l’avvocato ma i suoi l’avevano orientato da noi, all’istituto tecnico. Ha fattoquesto test e gli hanno confermato che aveva predisposizione per un certo tipo di studi che nonera quello tecnico… ed è diventato un ottimo avvocato…”

Parlare del futuro, farlo in modo concreto, significa aprire prospettive adatteai ragazzi di cui si parla. In un polo scolastico con una forte presenza di ragazzi

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Poi abbiamo dei laboratori più creativi che variano di anno in anno anche a seconda degliinteressi dei ragazzi e dei genitori. Cerchiamo il più possibile di legarli ai nostri indirizzi distudio in modo che (i ragazzi) si rendano conto che fanno una cosa per loro, ma legata allascuola che hanno scelto”.

Esempi particolarmente brillanti riguardano attività in collaborazione con laGalleria d’Arte, nelle quali i ragazzi hanno fatto fotografie, disegni, relazioni,scrittura di testi sulle opere ammirate ad una mostra su Picasso, laboratori per lacostruzione di strumenti musicali che poi vengono utilizzati per fare musica,altri ancora sui percorsi sicuri casa-scuola, sulle fattorie agricole... L’importanteè che i contenuti non siano fittizi e la crescita di competenze sia riscontrabiledirettamente, sia dai ragazzi sia dagli insegnanti e dalle famiglie. Ricordando illaboratorio sulle arti visive, ad esempio, l’insegnante chiarisce bene i contenuticulturali ed esperienziali del progetto:

“(i ragazzi) hanno inserito tutte queste cose nel loro percorso di conoscenza… intanto(hanno visitato, ndr) un luogo di cultura e quindi come laboratorio turistico ci sta… Hannoconosciuto un po’ di storia dell’arte, che è una materia della nostra scuola… Hanno conosciu-to il territorio e anche questa è una competenza, perché alcuni di loro non escono mai di casae quindi è importante anche uscire, prendere l’autobus, andare sul luogo a visitare… e poihanno fatto la relazione finale”.

Qualche volta le collaborazioni intessute con i laboratori proseguono nei per-corsi di orientamento lavorativo per gli stessi studenti. Proprio in questa scuolavengono promossi già da alcuni anni dei percorsi di avvicinamento al lavoro,con impieghi e tempi commisurati alle caratteristiche dei ragazzi, ma tali da risul-tare significativi nella costruzione di un progetto di vita personale.

La collega di un altro istituto professionale, referente proprio per quest’area,racconta un progetto analogo finanziato dalla Provincia di Piacenza e ne mettea fuoco le valenze educative e culturali, per i ragazzi e non solo:

“Da alcuni anni la nostra scuola, anche grazie ai finanziamenti ricevuti dalla Provincia,ha fatto dei progetti che in alcuni casi sono stati gestiti dalla scuola, e in altri (casi sono stati)progetti di rete tra scuole.

Quello che io ritengo e che la scuola considera più qualificante è la programmazione diffe-renziata, e quindi non conforme, di alternanza scuola lavoro. La scuola stipula delle conven-zioni con soggetti che appartengono al comune di residenza dei ragazzi in maniera tale dafavorire quello che potrebbe essere un aggancio con il mondo del lavoro nella loro realtà.

(Questi lavori) sono molto pratici e in genere (i ragazzi) evidenziano meno difficoltà, per-tanto si sentono più gratificati e acquistano un elevato grado di autostima.

E in più, da parte dei soggetti ospitanti, c’è la scoperta di questo mondo, che comunque fa

torare quello che succede dopo (la fine degli studi, ndr)…Che è la parte più difficile, in effet-ti… Stiamo cercando di studiare un sistema che sia abbastanza elastico e flessibile per recu-perare il più possibile informazioni, perché è in base a quello che un ragazzo va a fare (checapiamo se la scuola prepara bene i ragazzi, ndr)… Se tutti escono e vanno a fare l’idrauli-co, vuol dire che qualcosa non va… non funziona…”.

L’INtEgRAzIONE dEI RAgAzzI cON uN hANdIcAP

Il primo dato che salta agli occhi ripercorrendo le narrazioni degli insegnan-ti relativamente all’integrazione dei ragazzi con handicap, è la netta divisione trascuole dove questi ragazzi sono presenti – principalmente istituti professionalio tecnici, di indirizzi diversi – e quelle nelle quali rappresentano una eccezioneo, addirittura, non sono inseriti.

Dagli incontri con le prime sono emerse buone prassi di indubbio interesseche meritano di essere diffuse e, per quanto possibile, studiate, riprodotte in altricontesti; nelle ultime abbiamo raccolto elementi di riflessione sul perché nonvengano scelte dai ragazzi disabili e dalle loro famiglie.

Scuole con un progetto per i ragazzi con handicap

Il fatto che nella provincia di Piacenza sia stato individuato un istituto comescuola polo per l’integrazione dei ragazzi con handicap, garantisce tutta una seriedi procedure e di possibilità, in quella scuola in particolare e in un secondo tempo,a cascata, nelle altre. Non a caso il 10% circa degli studenti iscritti nella scuola polosono proprio ragazzi disabili, con i problemi più svariati: “c’è l’autismo grave, l’au-tismo meno grave… sindrome di down… alterazioni più o meno gravi a livellocognitivo… c’è un po’ di tutto…”, riassume l’insegnante referente.

Nel rispetto della normativa, la scuola propone essenzialmente due tipi dipercorsi:

“Dove c’è una menomazione di tipo psicofisico ma di lieve entità, la proposta è il consegui-mento della qualifica - almeno della qualifica, poi valutiamo in base alla menomazione… -quindi questi ragazzi stanno tutti il tempo in classe, con l’insegnante di sostegno, e partecipa-no in tutto e per tutto a quelle che sono le attività della scuola… fanno gli stage come glialtri…

Poi abbiamo dei percorsi individualizzati per gli alunni che hanno un deficit molto forte.Con questi ragazzi sfruttiamo le competenze dei docenti per fare dei laboratori trasversali -non troppi, perché altrimenti si perde il contatto con la propria classe e quindi non va bene…Però si fanno nelle materie dove diventa difficile un aggancio con la preparazione di classe.Sono in genere laboratori di informatica… un laboratorio dove l’insegnante è in grado di lavo-rare con i ragazzi.

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Lavorare molto, lavorare con altri

La chiave di volta di un lavoro ricco e ben orchestrato è il coinvolgimento ditutti i soggetti coinvolti. Il clima che si stabilisce tra colleghi all’interno dellascuola polo, ad esempio, finisce per attirare altri che condividono un certo mododi lavorare, in un meccanismo virtuoso basato soprattutto sul rapporto perso-nale e sul modo di intendere il proprio ruolo di insegnante.

“Devo dire che il gruppo a cui appartengo, insieme all’insegnante di sostegno, è un gruppocorposo e molto collaborativo. Io ho delle colleghe con cui facciamo riunioni regolarmente, alme-no una volta al mese. Siccome (gli insegnanti di sostegno, ndr) possono scegliere dove andare,se vengono da noi vuole dire che condividono questo modo di intendere il sostegno”.

Anche in un altro istituto professionale si sottolinea come l’integrazione fun-zioni grazie all’apporto generoso dei docenti referenti e alla collaborazione ditutti, costruita nel tempo:

“Il tempo che dedico alla scuola per questo lavoro è il doppio se non di più dell’orario pre-visto per la cattedra. Mi occupo di quello che può essere il coordinamento, quindi molti incon-tri li faccio con i colleghi che fanno sostegno, per la predisposizione, l’organizzazione, la distri-buzione delle ore tra i ragazzi in base a dei criteri che vengono di volta in volta stabiliti… epoi di tutto quello che (emerge) durante l’attività scolastica.

L’integrazione nella nostra scuola direi che avviene da un punto di vista dell’atteggiamen-to e della sensibilità, da parte di tutti. C’è un attenzione particolare per questi ragazzi, nonsolo dai docenti di sostegno e degli educatori e dal personale comunale, ma anche da parte deidocenti disciplinari che sono abituati, ormai da anni, ad avere uno o due ragazzi in classe, percui hanno questa abitudine a rapportarsi con loro e a organizzare il proprio lavoro tenendopresente questa presenza”.

Un’altra componente indubbiamente importante è la formazione degli inse-gnanti specializzati per il sostegno. Un docente ammette che per molti di essiquesta non è una scelta ma una opportunità di lavoro - “La specializzazione sul-l’handicap sta crescendo, è un modo come un altro per entrare nella scuola, nondobbiamo nasconderlo…” - ma è anche un passaggio necessario che verràbuono poi, di fronte ai casi più difficili per i quali non basta aver bisogno di lavo-rare, occorre una motivazione e una preparazione reali.

Certo, un sostegno esiste anche per gli insegnanti. Le funzioni di coordina-mento con l’extrascuola hanno un rilievo specifico in quest’area, per le oppor-tunità che la normativa offre e per l’oggettiva necessità della scuola di avere unsupporto. Su questo, nonostante i tagli ai fondi per il sostegno, nelle aule si avvi-cendano figure diverse che implicano ricchezza ma, insieme, complessità.

si che questi ragazzi possano essere conosciuti e anche apprezzati per le loro attitudini”.

Tra le attività rileviamo quelle indirizzate a tutti i ragazzi della scuola, al di làdella certificazione: laboratori di teatro, di informatica, di musicoterapia, di pettherapy… che certo hanno il difetto di “rubare un po’ di tempo alle discipline”ma mettono in relazione i ragazzi come raramente avviene in una lezione fron-tale. Riportiamo il caso di un ragazzo certificato che, attraverso lo sport, si è sen-tito doppiamente parte del gruppo: perché i compagni lo hanno seguito nellegare e perché questo è stato lo spunto per un gemellaggio tra la sua e un’altraclasse. Anche gli esiti più positivi però spesso si limitano al tempo scuola.

“…avevamo un ragazzo di quarta che frequentava la piscina e quindi era impegnato ingare. Ha partecipato alle gare nazionali e la collega che l’ha accompagnato ha poi allacciatorelazioni con una classe di un’altra scuola… Si è creato un progetto per cui i compagni di clas-se di questo ragazzo comunicavano, via e-mail, con il gruppo di là. Si è fissato un incontro incui si sono ritrovati… Abbiamo trovato il modo di farli sentire parte integrante del gruppoclasse e integrarli bene nell’ambito scolastico. Qualche volta si è anche cercato di favorire unaintegrazione pomeridiana, anche se questo diventa un pochettino più difficile…”

Le peculiarità di ogni scuola possono diventare l’elemento che fa la differen-za nello strutturare un contesto accogliente. Racconta un docente di un istitutoprofessionale per l’agricoltura:

“Noi abbiamo la fortuna di avere un’azienda agraria, degli spazi aperti, abbiamo la for-tuna di avere delle serre, quindi… È chiaro che se porto (i ragazzi disabili, ndr) in un labo-ratorio di chimica devo stare molto più attento, ma se li porto a lavorare in serra, a far deitrapianti piuttosto che altre operazioni… è una manualità che non comporta un rischio per lostudente né tanto meno per il gruppo classe, quindi insomma è già più facile l’integrazione…”

L’obiettivo finale per questo insegnante, giovane ed entusiasta, è puntare allavalorizzazione di tutti:

“Rendere la vita scolastica di questi ragazzi la più normale – se possiamo usare questoaggettivo – la più normale possibile… o comunque meno discriminata possibile. Io non esisteche vado nel laboratorio di chimica e il ragazzino (disabile, ndr) non entri in laboratorio…Gli farò fare qualsiasi cosa, gli farò lavare la vetreria, però intanto lavora con me… Questaè, secondo me, l’integrazione: riuscire a scoprire le potenzialità di questa persona e saperlesfruttare…”

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Il rapporto con le famiglie

Le scuole nelle quali i ragazzi disabili sono maggiormente presenti intratten-gono rapporti frequenti con le famiglie, “soprattutto in fase di entrata, di acco-glienza, perché le attività di orientamento e di inserimento sono aperte anche astudenti con problemi di disabilità”, e poi per tutta la durata dell’anno scolasti-co.

Una delle attività più apprezzate dalle famiglie è, comprensibilmente, l’orga-nizzazione di stage nel mondo del lavoro, per l’apertura verso il futuro che esseoffrono in un panorama spesso molto chiuso:

“I genitori in genere sono contenti di quello che si fa, tenuto presente che l’idea che noiabbiamo dell’integrazione non è solo quella di far socializzare - che è fondamentale soprattut-to per quelli molto gravi, che magari fuori dalla scuola non sempre riescono ad avere contatticon i coetanei - ma di pensare al loro progetto di vita, cioè far sviluppare delle competenze chepoi li possano vedere inseriti nel mondo del lavoro”.

Le famiglie dei ragazzi con handicap si consultano tra loro e indirizzano gliamici ad iscrivere i figli nella stessa scuola. Apprezzano la sensibilità della scuo-la, la soddisfazione dei ragazzi, la continuità dell’impegno manifestato dall’isti-tuto:

“I contatti continui che si tengono tra la famiglia e la scuola non sono quelli degli incontri,magari ufficiali che si tengono all’inizio o alla fine dell’anno, ma i contatti continui, sollecita-ti dalla famiglia stessa o dalla scuola, in cui si evince questa attenzione particolare al ragaz-zo… quindi questa scelta di percorsi che tengano conto in particolare delle loro difficoltà, mache valorizzino le loro attitudini, sia dal punto di vista relazionale che dal punto di vista dellecose che si fanno…”

Tra gli elementi di difficoltà c’è invece la precarietà delle assegnazioni e, tut-tora, la presenza di docenti di sostegno non specializzati. Le due cose insiememettono in discussione la continuità del rapporto con i ragazzi e le loro fami-glie, e in certi casi la qualità dell’offerta. La ripartizione dei casi tra le varie figu-re di sostegno all’interno della scuola tiene conto, di solito, anche di questo.

L’altra variabile sensibile è il modo in cui i genitori guardano alla disabilità delfiglio e l’aspettativa che rivolgono verso la scuola.

“Ci sono famiglie che non hanno nemmeno la percezione precisa dei problemi del lorofiglio, perché sono loro stessi abbastanza in difficoltà… Ecco, è molto difficile accettareserenamente un figlio con problemi. Ci sono famiglie che accettano abbastanza bene e sonomolto collaborative. Poi ci sono famiglie super collaborative, esageratamente… quelle che ti

Ancora a proposito del coordinamento la stessa docente spiega:

“Quest’anno noi avevamo tre educatori o assistenti che collaboravano con i docenti di soste-gno, più i disciplinari nell’attività didattica, e quindi anche il loro orario, il loro tipo di inter-vento e attività veniva ovviamente coordinato… giornalmente…”

In più si aggiunge un buon rapporto con l’azienda sanitaria, fatto di collabo-razioni grandi e piccole che ancora una volta travalicano i limiti del ruolo e sibasano su relazioni di fiducia e consuetudini:

“Per qualsiasi richiesta di informazioni, per qualcosa che riguarda la normativa… ingenere noi chiediamo conforto all’Asl, e quindi c’è molta collaborazione. Con le referentidell’Asl ho ottimi rapporti… ho i loro cellulari personali…

I referenti difficilmente vengono nella scuola, quando noi abbiamo bisogno andiamo noidocenti, con la famiglia, a riferire circa la programmazione e avere poi l’approvazione su que-sti progetti…”

Ma non pensiamo ad una situazione idilliaca. Un’altra insegnante spiegacome i tempi e i linguaggi delle istituzioni siano a volte difficili da conciliare, eforse proprio per questo c’è bisogno di scavalcare le difficoltà mettendosi inrelazione diretta, fino allo scambio dei cellulari:

“È un pò difficile, a volte, concordare gli incontri perché loro (gli operatori Asl, ndr) ovvia-mente vanno in tutte le scuole del regno… Noi abbiamo i nostri calendari, i nostri orari, unmodo di operare per cui a volte è un po’ difficile incontrarsi… E credo che alle superiori forsela presenza dell’operatore sanitario è meno importante… Ormai i recuperi sono stati fatti.Alle superiori si cerca più di lavorare sulla socializzazione, sull’inserimento… è quello che mipare di vedere, di capire…”

Al di fuori dell’Asl vengono citate le collaborazioni con i centri educativipomeridiani e con le cooperative sociali, non con il volontariato. La quotidiani-tà del rapporto con i ragazzi fa sì che scuola e centri educativi vivano scoperte,attività, ostacoli in comune, e per i docenti incontrati è naturale la condivisionedelle esperienze:

“…forse ho più rapporti con gli operatori dei centri pomeridiani che con lo psicologo o l’as-sistente sociale dell’Asl…ma forse perché i ragazzi noi li vediamo tutti i giorni, quindi ci sonopoi delle urgenze…”

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“Il ragazzo che ha un handicap fisico si tende a metterlo nella condizione di vicinanza aglialtri, mentre poi quel giovane vive in maniera più forte una condizione di disagio psicologiconei confronti della propria situazione di disabilità motoria, rispetto alla normalità deglialtri… quindi è uno studente molto complesso. Invece lo studente con l’handicap psichico avver-te meno la differenza e quindi si può lavorare, può (diventare) una opportunità per la classe.Mi spiego: io sono costretta a fare una spiegazione semplificata perché devo arrivare alla capa-cità del ragazzino con handicap… però questo mi aiuta anche a recuperare studenti che disa-bili non sono, per cui metto in atto delle forme di ricerca che mi aiutano anche sulla classe.Certamente non è facile arrivare a questo… Talvolta si è un po’ più fortunati con il consigliodi classe, talvolta siamo meno fortunati…”

Sulla maggiore apertura verso le disabilità gravi ritorna l’insegnante di unliceo nel quale, tra l’altro, i ragazzi con handicap sono piuttosto pochi, e il ridot-to numero di casi, insieme all’atteggiamento accogliente del preside, potrebbeessere un motivo di serenità nella scuola.

“I nostri studenti saranno… non lo so, particolari, però sono veramente ragazzi sensibili.Abbiamo anche un ragazzo autistico abbastanza impegnativo, ben accolto da tutti. Non faparte solo della sua classe (ma della scuola, ndr), e questo credo sia frutto della sensibilità deglistudenti.

Per esempio, quando i ragazzi hanno organizzato le lezioni autogestite, autonomamentehanno predisposto gli spazi accessibili ai disabili al piano terra, in modo che potessero parte-cipare alle attività…

Secondo me è il clima della scuola che è accogliente. Il nostro preside ha creato uno stilemolto tollerante, accogliente, e queste cose poi i ragazzi le assorbono a pelle…”

Pochi casi, eccezionalmente curati

Tra le scuole con una presenza ridotta di allievi con handicap, alcune si distin-guono per un impegno particolarmente forte. Quella di cui andiamo a parlareconta, attualmente, solo tre iscrizioni ma ha alle spalle esperienze davvero par-ticolari, dove le scuole e gli insegnanti si sono messi all’opera per svilupparepotenzialità e avverare desideri, anche quando questo significava mettersi inviaggio, cercare supporto in altre città, affrontare spese significative.

“Negli anni addietro abbiamo avuto delle situazioni di disabilità molto gravi… A. erasulla carrozzina, aveva anche una difficoltà visiva… aveva una tetraparesi spastica. Unadocente molto impegnata (è andata) ad un centro di Padova per avere indicazioni. È stato fattouno studio particolare per A. su quali strumenti potevano essere utilizzati, quindi è statoacquistato un computer speciale per lui, con dei software corrispondenti alla sua disabilità.

Si lavorava in verità – e mi dispiace che poi questo non abbia avuto un seguito – sul per-

chiamerebbe a mezzanotte se il bambino ha bisogno… L’esperienza che ho avuto è stataabbastanza pesante…”

Si condividono percorsi difficili, molto carichi emotivamente. I docenti stes-si avvertono talvolta il bisogno di essere tutelati rispetto all’onere, o alla tenta-zione personale, di sfociare nel volontarismo e farsi carico di tutto, oltre ognilimite di ruolo.

Il rapporto tra compagni di classe

Nelle classi l’approccio verso i compagni disabili è diverso a seconda dellesituazioni e del tipo di handicap. Secondo un’insegnante referente per que-st’area, un ragazzo con un handicap grave è accolto dai compagni meglio di unaltro allievo con una lieve difficoltà, perché chi è portatore di un problema evi-dente e comprensibile a tutti è anche più rispettato e compreso.

“È più semplice accettare un handicap grave perché lo vedono immediatamente e lo capi-scono, e a quel punto di mettono in condizione di aiuto. Quando invece inseriamo in classe deiragazzini che non sembrano (in difficoltà)… perché magari hanno un handicap del tipo ecces-si di aggressività e quindi provocano un certo disturbo nella classe… lì diventa un pò più com-plicato, proprio perché loro non sono pronti ad accettare tutto…”

Scatta fatalmente il paragone sui sistemi di valutazione:

“Vedono che si fanno delle differenze: il fatto che il disabile ha un insegnante tutto per sé,e poi che ha diritto a fare il compito in classe in più tempo… Sono tutte cose che i ragazzinotano e sulle quali noi dobbiamo lavorare”.

A questo proposito una collega ha curato particolarmente l’organizzazionedei laboratori di informatica proprio per far crescere i ragazzi con handicap sualcune abilità rispetto alle quali potessero, poi, confrontarsi alla pari con i com-pagni, senza sentirsi umiliati e senza richiedere “preferenze”.

“Piace molto sia ai genitori che ai ragazzi perché poi, quando sono in classe nelle ore cur-ricolari normali (di informatica, ndr), hanno già imparato un sacco di cose, quindi… non sisentono indietro, non si sentono abbandonati perché le cose le sanno fare. Questo consente difare loro almeno il laboratorio di trattamenti testi abbastanza bene”.

Un’altra differenza osservata riguarda l’inserimento dei ragazzi con un han-dicap fisico o psichico: è diverso l’atteggiamento con cui la scuola pensa alla lorointegrazione, ed è diversa, forse opposta, la loro attitudine personale.

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che ci sono, nel far lezione… che ti devi rapportare in modo diverso… Allora a quel puntodici: aspetta un attimo, voi andate avanti che io mi fermo e cerco di livellare le conoscenze. Ame succede… nonostante abbia già una certa età, ogni giorno mi dimentico e allora poi devoritornare…”

Tenere conto delle particolarità di tutti gli allievi significa offrire loro un piùampio ventaglio di possibilità, perché possano scegliere.

“L’anno scorso un consiglio di classe organizza una visita guidata in una località senzaandar prima a verificare (l’accessibilità del luogo). Ed ecco che scatta il meccanismo del: Lafamiglia mi ha detto che la ragazza non partecipa alla visita guidata.

Errore! La ragazza deve essere messa in condizione di partecipare, poi deciderà autono-mamente cosa vorrà fare…”

L’organizzazione scolastica per l’integrazione dell’handicap

I livelli organizzativi interni ai diversi istituti variano fortemente a secondadella presenza più o meno consistente di ragazzi con handicap al loro interno, evengono stabiliti dal dirigente scolastico.

La prima risorsa per una scuola impegnata sul problema è la nomina di undocente referente al quale viene affidato il grosso dei rapporti con le famiglie edel raccordo con l’extrascuola. In alcune scuole esiste anche una commissionecomposta dal referente insieme ai docenti di sostegno e, talvolta, un rappresen-tante dei genitori. Dove si attivano progetti trasversali a diverse aree, con uncoinvolgimento forte dei docenti curricolari, è necessario uno sforzo ulteriore dicoordinamento tra tutti gli insegnanti impegnati.

Nelle altre scuole, dove i ragazzi disabili sono una ristretta minoranza, gliinsegnanti di sostegno possono sentirsi isolati dai colleghi e, su specifiche neces-sità, rivolgersi alla scuola polo.

Al di là delle scelte organizzative c’è poi il tema del rapporto tra insegnanti disostegno e curricolari, non sempre facile perfino quando si tratta di bravi pro-fessionisti. Una preside, in un qualche modo “super partes”, osserva:

“Non sempre il docente di sostegno, molto bravo e che sente il problema, riesce a relazio-narsi in maniera equilibrata con i colleghi, quindi talvolta il lavoro molto positivo che riesce afare con lo studente non riesce poi a condividerlo perché nel momento della collegialità scattanomeccanismi di reazione negativa”.

Meccanismi negativi possono scattare anche in classe, su una competenzaparziale del docente di sostegno o per una difficoltà di rapporto con i docenticurricolari.

corso di vita di A., cioè la scuola più che luogo di accoglienza (era) anche luogo dove cercare diesprimere le sue attitudini. Che poi A. è una bella persona… ha una grande sensibilità, comespesso accade…

Si voleva cercare una soluzione per un inserimento lavorativo… Non volevamo inserirlo(in una cooperativa sociale) perché non si pensasse ad un luogo semplicemente di accoglienza,semplicemente protetto, semplicemente di inserimento… Si voleva dare al giovane anche delleopportunità… ma non ci siamo riusciti. Da quello che ho saputo, A. è impegnato molto temponella cooperativa… appena avrò un attimo di tempo devo sentire la famiglia…

Un altro caso di disabilità che abbiamo avuto riguardava invece una ragazza ipovedente,e lì abbiamo avuto delle soddisfazioni. La ragazza ha seguito un percorso normale. Aveva deiproblemi, chiaramente, nell’area matematica, l’abbiamo supportata in quell’ambito e haacquisito il diploma esattamente come gli altri. Siamo riusciti a sostenerla rispetto al suo gran-de desiderio, che era quello di iscriversi a Lingue. La famiglia voleva, invece, farle fare un corsodi tipo professionale. Qui ha lavorato molto bene la docente di sostegno, ha preso contatti aMilano per vedere quali possibilità la ragazza aveva, con l’Università, e ora sta seguendo consuccesso questo percorso…”

Chi racconta indica alcuni fattori determinanti per realizzare questo tipo disostegno ai ragazzi: da una parte l’esiguo numero di casi che permette di convo-gliare risorse a loro favore, dall’altra la presenza di persone che avevano a cuorela situazione per un interesse non soltanto professionale. Viene citata a questoproposito un’insegnante personalmente impegnata in un’associazione del setto-re, che è stata una risorsa di grande rilievo per la scuola.

Ciò non toglie che le resistenze ad accogliere i disabili siano ancora forti, acominciare proprio dagli insegnanti curricolari che devono fare i conti con dif-ficoltà personali e professionali.

“Relazionarsi allo studente in handicap mette (il docente) in discussione. (Soprattutto) ilragazzo che ha un handicap psichico richiede una sensibilità ed una forte consapevolezza di sé,quindi la resistenza iniziale (del docente) è perché non sa come riferirsi… si mette in discus-sione e si trova in difficoltà…

Dal punto di vista didattico lo studente con handicap è indubbiamente una presenza impe-gnativa, perché la reale integrazione dell’handicap deve tener conto del fatto che (il ragazzo nonè in relazione soltanto) con il docente di sostegno, ma che tu devi essere capace di modulare latua attività didattica tenendo conto della fisionomia della classe, data anche dallo studente conhandicap…”

A questo riguardo una docente curricolare ammette le difficoltà di rapportar-si con un ragazzo che abbia un handicap psichico:

“Hai sempre più bisogno dell’apporto di un insegnante di sostegno… perché ti dimentichi

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pensa così questa insegnante di un istituto tecnico:

“Ragazzi disabili, pochi e niente… ne abbiamo sei in tutto e sono disabilità lievissime,ragazzi disturbati a livello di linguaggio o di dislessia. Non so (perché non vengono da noi)…Abbiamo avuto un paio di volte ragazzi completamente sordi, e quindi (occorreva) un soste-gno per comunicare, però non hanno avuto problemi di apprendimento. Uno è uscito l’annoscorso e ha già trovato lavoro.

Per il resto non vengono e non so dirle il motivo… La nostra struttura reggerebbe benel’accoglienza dei disabili ma non ne sono mai venuti, abbiamo due insegnanti di sostegno madevono solo seguire questi ragazzini che tra l’altro credo siano stati tutti promossi e non hannoprogrammi differenziati, seguono il programma che seguono gli altri. Anche qui si cerca sem-pre di mettere l’accento non sulla diversità ma sul fatto che bene o male ce la fai anche tu, faile stesse cose che fanno loro”.

Una riflessione analoga arriva dal docente di un liceo che, nell’a.s. 2005/06,aveva 2 ragazzi disabili su quasi 1500 studenti:

“Io non so (perché non si iscrivono da noi, ndr)… Essendo questo un liceo, forse può esse-re ritenuto uno studio non adatto, forse dalla stessa famiglia… Certamente non c’è nessunoche cerchi di scoraggiare, anzi abbiamo eliminate le barriere architettoniche…”

Le barriere architettoniche si abbattono, restano in piedi quelle culturali, leconsuetudini, gli stereotipi che filtrano il modo in cui le scuole si propongono,e il modo in cui i ragazzi e le famiglie le valutano al momento dell’iscrizione. Inscuole come queste l’handicap fisico non è certo un problema, mentre lo sareb-be il ritardo d’apprendimento, la dislessia…

“Si è diplomato, nell’ultimo esame di stato, un ragazzo che aveva una disabilità di tipomotorio, per cui non aveva alcun problema ad affrontare il corso di studi. Tutti i giorni veni-va accompagnato nel cortile della nostra scuola dove c’è l’ascensore che porta al piano. Le strut-ture sono state sistemate in modo da poter accogliere disabilità di ogni tipo… Però forse, daparte delle famiglie stesse, soprattutto quando l’handicap è di tipo mentale, c’è qualche remo-ra ad inserire in un corso di studi che si pensa possa essere difficile…”

Sul tema della difficoltà risponde il docente di un istituto professionale:

“Io mi permetto di dire che la nostra è una scuola che ospita… Perché, non nascondiamo-lo, molte non li vogliono. Noi abbiamo situazioni di handicap dove a volte imparare a legge-re l’orologio o a contare il denaro è uno degli obiettivi più grandi e fantastici - e questo posso-no farlo benissimo al professionale come al liceo. E non voglio, per carità, creare polemiche,però… noi facciamo accoglienza”.

“…secondo me ci sono dei distinguo, anche se non mi va di farli… ma ci sono. C’è l’in-segnante di sostegno che non si occupa solo di tenerlo lì e guardarlo… e allora in un rapportoprivilegiato – perché a volte l’insegnante di sostegno ha un rapporto uno a uno – coglie dellecose che poi, trasferite a tutto il resto (del consiglio di classe), sono di grande aiuto.

Siamo tutti nella stessa barca… Quando (il docente di sostegno, ndr) rimane stabile è tuttaun’altra cosa, i rapporti personali facilitano. Se è una persona che conosci, che è qui da tempo,è già più facile, c’è proprio uno scambio. Se invece ci si guarda un po’ e nessuno fa il primopasso, perché sembra di entrare troppo in relazione…”

C’è poi il problema della carenza di fondi, che talvolta induce a fare sceltediscutibili.

“Noi quest’anno abbiamo avuto un grosso problema. Non avendo un numero elevato diinsegnanti (di sostegno), abbiamo concentrato tutti i ragazzi portatori di handicap in un’uni-ca classe, quindi ne avevamo quattro… È stato perché avendo poche ore (di sostegno a dispo-sizione), essendoci l’insegnante “giusta” lì, ci siamo detti che almeno potevamo riuscire a farequalcosa. Poi cammin facendo ci siamo accorti che era opportuno distribuirli meglio. Il proble-ma è che ci sono pochi fondi… è un grosso problema…”

ScuOLE AdAttE PER LA “NORMALItà”?

E infine, ci sono istituti ai quali i ragazzi disabili non si iscrivono, o non ven-gono iscritti, se non in rarissimi casi. I loro docenti, interpellati, non sanno spie-gare il perché.

“Disabili nel nostro istituto non ce ne sono.- Come mai? - Questa domanda non me lo sono mai posta…- E allora poniamocela…- Io non lo so, non so cosa dirle… Ne abbiamo avuta una molti anni fa e poi non si è

presentato più nessuno. Forse scelgono delle scuole più semplici, meno specifiche da un punto divista professionale.

- La vostra è troppo specifica…?- La nostra è un istituto tecnico, quindi è una scuola molto specifica. Anni fa mi ricordo

che abbiamo avuto una ragazza sordomuta che è stata anche mia allieva e ha avuto degli otti-mi risultati, anche perché si dava da fare, studiava, s’impegnava… Ricordo quell’esperienza,altre non ce sono state. Perché non glielo so dire, e poi io non mi interesso di questo settore…”

Alcuni docenti proprio si stupiscono di non avere ragazzi con handicap dalmomento che, ci dicono, la scuola è a norma dal punto di vista strutturale. La

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genere hanno sempre accolto questi ragazzi. Hanno un’abitudine, una professionalità consoli-data nel gestire questa realtà, cosa che non sempre avviene nelle altre scuole. Non dico che idocenti disciplinari non siano preparati però, di fatto…

Io sono stata docente disciplinare fino a 5-6 anni fa e non avevo proprio idea che cosa fosseil problema della disabilità e come potesse essere trattato in classe. Ho imparato semplicemen-te essendo docente disciplinare in una classe dove era inserito un ragazzo certificato, e quindiho dovuto modificare la mia proposta didattica in funzione anche di questo. Ma successiva-mente, come docente di sostegno ho poi compreso fino in fondo quali sono le difficoltà… chenon sempre sono percepite per intero dal docente disciplinare, se non ha avuto un esperienzasul campo di questo tipo.

Quindi non è che non lo si faccia per (mancanza di sensibilità, ndr)… ma è proprio lanon conoscenza del problema che non ti porte a volerlo affrontare”.

Questo è vero soprattutto quando, come nel caso che segue, l’identità dellascuola è fondata sull’offerta culturale, prima ancora che formativa. Anche inquesto liceo in passato ci sono stati ragazzi con disabilità fisiche, che hanno tro-vato un aiuto molto qualificato in termini di strumentazione specifica. Ma quan-do si è affacciata l’ipotesi dell’iscrizione di un ragazzo autistico…

“Mi ero molto informata e molto allertata… Sono andata nella scuola media personal-mente, ho contattato l’insegnante, la mamma… Facendo l’analisi della situazione abbiamocapito che la nostra scuola non era la più adatta. Per un problema di confusione, di caos cheavrebbe creato in lui… e poi a livello di formazione sua. L’acquisizione di competenze sareb-be stata molto limitata, molto relativa, perché il nostro liceo è astratto per definizione, quindiè concettuale la mappa che si vuole creare ed è un supporto culturale forte, ma per il resto lecompetenze spendibili sono poche. Incominciano ad aumentare ora con l’informatizzazione econ le lingue… però rimane una scuola con una forte valenza formativa integrale, quindi ilragazzino autistico avrebbe avuto qualche difficoltà.

Ma è stata una ipotesi che io ho assolutamente cercato di analizzare, di vedere e mi sonoresa conto di quanti problemi avrebbe comportato… ho preso coscienza di questa realtà moltoproblematica…”

Si ha quasi l’impressione che, in sede di intervista, questa insegnante sentisseil bisogno di giustificarsi, di chiarire il perché il ragazzo autistico è stato “scon-sigliato”. La constatazione, scevra di giudizi, è la seguente: ci sono scuole checercano di modificare la programmazione secondo le caratteristiche dell’utenzaed altre dove la priorità è data alla proposta culturale e sono i ragazzi a doversiadeguare. Se questa è la regola di fondo, chi non si adatta, perché non vuole onon può, resta fuori.

Come a dire: un piano di studio individualizzato, su competenze elementari,può essere strutturato ed applicato ugualmente in qualsiasi scuola, quindi para-dossalmente dovrebbero distribuirsi su più scuole proprio le disabilità più gravi.Ma è come se, nell’opinione generale, gli istituti professionali fossero sentiti unpo’ di meno come “luogo di apprendimento” e un po’ di più come “luogo disocializzazione”. è una riflessione che non riguarda solo il tema dell’integrazio-ne, vale per tutti coloro che vi accedono, inclusi i ragazzi non certificati ma por-tatori di una qualche difficoltà nel rapporto con la scuola, o nella situazionefamiliare, o altro. Spiega infatti un’altra insegnante di un professionale:

“Questo è un istituto professionale e quindi per molte famiglie, e forse per molti operatoridell’Asl, una scuola professionale consente un inserimento più semplice perché gli obiettivi nonsono elevatissimi”.

Poi una scuola si struttura, si specializza, e la voce si sparge:

“Siccome abbiamo avuto, negli anni precedenti, dei risultati molto positivi con questo tipodi ragazzi (autistici o con altri handicap gravi), è girata la voce… Questo è sicuramente unaltro motivo. Poi Piacenza è una realtà piccola…”

La scuola polo per l’integrazione ha anche una funzione di orientamento deiragazzi e delle famiglie. L’insegnante referente tenta, quando è possibile, didiversificare le scelte tenendo conto dei desideri dei ragazzi, ma non è facile.

“A volte siamo riusciti ad indirizzare i ragazzi a seconda del loro interesse, delle loroaspettative, in scuole (diverse dalla nostra, ndr), però a volte la mamma ha preferito metterlonella nostra scuola dove si sentiva più accolta, più capita. Qui c’è questo problema a livelloprovinciale… Ci sono tre scuole molto attrezzate e le altre meno, e quindi i genitori non civanno perché dovrebbero fare da pionieri, e allora dicono: perché proprio noi? A nessuno piacefare da pioniere…”

Gli ostacoli da superare stanno sia nell’organizzazione del lavoro didattico,sia nella formazione degli insegnanti. Una docente, che attualmente si occupa diintegrazione dopo essere stata per molti anni docente disciplinare, lo spiegachiaramente, in termini non accusatori:

Dove occorre una programmazione semplificata si può pensare che la scelta (dell’istitutoprofessionale, ndr) sia indotta dalle attitudini del ragazzo a svolgere un certo tipo di program-ma. Laddove, invece, occorre una programmazione differenziata, qualsiasi scuola potrebbeessere idonea. Allora io credo che la scelta da parte della famiglie di optare per un istituto pro-fessionale piuttosto che gli altri tipi di scuola, è legata al fatto che gli istituti professionali in

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Dove studiano i ragazzi stranieri

Gli adolescenti che provengono da altri paesi si iscrivono soprattutto agli isti-tuti tecnici e professionali perché offrono maggiori prospettive professionali epromettono percorsi didatticamente più facili, un requisito importante soprat-tutto per chi non conosce bene la lingua. Una volta appresa, questi allievi diven-tano una risorsa per tutti. Dichiara una docente di un professionale:

“Adesso abbiamo come risorsa i ragazzi stranieri. A fronte di una difficoltà linguisticascelgono l’istituto professionale, ma poi quando hanno imparato la lingua, nell’arco dei dueanni, diventano i più bravi... molto bravi…”

Ci sono poi i ragazzi che vivono in Italia già da diversi anni, parlano bene lalingua ma hanno bisogno di sostenere la famiglia, o poca disposizione per lo stu-dio, e così optano per un istituto che dia uno sbocco immediato verso il lavoro,condividendo le identiche motivazioni dei compagni italiani delle stesse scuole.Alcuni scelgono il percorso di studi che apre la possibilità di intraprendere lavo-ri sgraditi ai giovani italiani e, proprio per questo, abbastanza sicuri. è il caso dichi si iscrive all’istituto agrario per entrare negli allevamenti ad occuparsi deglianimali:

“Da noi è la tipica zona del latte: molta terra, molte vacche, molte stalle… E siccome ber-gamini non se ne trovano, ci lavorano tantissimi indiani, egiziani… Il bergamino è quello checura le vacche, che gestisce la stalla. La prima mungitura si fa alle quattro della mattina, lastalle va curata… È un lavoro un po’ pesante. Di italiani ce ne sono ben pochi”.

Se in una scuola i ragazzi si inseriscono bene, scatta il passaparola tra fami-glie che porta al formarsi in una stessa scuola di gruppi omogenei per naziona-lità:

“Qui a Piacenza ci sono proprio dei gruppi di stranieri che vengono più o meno dalle stes-se zone… non so, dalla Macedonia o dal Sudamerica… Probabilmente fra di loro si parla-no e si dicono che in quella scuola i loro figli vengono presi e accettati abbastanza bene…”

Fatta la scelta iniziale, resta una certa mobilità per chi si accorge di avereintrapreso il percorso sbagliato. I passaggi sono sia dai licei ai tecnici o profes-sionali, sia viceversa. E la liceizzazione, afferma con un certo orgoglio un inse-gnante di un istituto tecnico impegnato nell’inserimento dei ragazzi stranieri,riguarda anche questo tipo di studenti:

“Un ragazzo straniero fino a qualche anno fa puntava direttamente al professionale per-

Un’area che tende ad espandersi

Chiudiamo il capitolo con un’ultima suggestione che ci arriva dal docente diun istituto tecnico e riguarda il numero crescente di ragazzi in difficoltà, ma noncertificati, che si iscrivono alle scuole secondarie di secondo grado.

“Il problema grosso che ha la scuola superiore in generale è che molti ragazzi “disabili”,nel senso che hanno comunque problematiche di comportamento, non vengono certificati, quin-di il problema grosso è che non sono riconoscibili. Perlomeno, noi non siamo attrezzati per rico-noscere questi ragazzi, come non siamo attrezzati per riconoscere i dislessici…”

Già, perché dopo la secondaria di primo grado le famiglie possono desidera-re che il proprio figlio o la propria figlia prosegua gli studi in una cornice di“normalità”, raggiunta davvero o puramente nominale.

Per gli insegnanti che incontrano questi ragazzi per la prima volta non è faci-le cogliere i problemi nella loro dimensione reale. In questo istituto tecnico si ètentato di superare l’empasse nominando un referente, e con lui una commissio-ne, che lavora sulla continuità tra diversi livelli scolastici. Sono insegnanti checontattano i colleghi della secondaria di primo grado per raccogliere informa-zioni sui ragazzi, problematicità incluse, pur nel rispetto della privacy. Almenoche i risultati raggiunti fino a quel momento non vengano azzerati da un inseri-mento sbagliato.

Una volta fatta chiarezza, dice questo insegnante, le difficoltà si affrontano.

“Però io noto, nel triennio superiore, che certi genitori hanno il coraggio di dire: “Mio figlioha questo tipo di problema, allora lo seguite in una determinata maniera”. Ce ne sono altriche hanno figli con gli stessi identici problemi, magari non rilevati, ed è difficile far capire cheil ragazzo presenta delle difficoltà.

Per quello che riguarda invece i ragazzi certificati, avendo dei buoni docenti di sostegno,educatori e tutto l’ambaradan che segue e che appoggia, devo dire che grossi problemi non neabbiamo…”.

L’INtEgRAzIONE dEI RAgAzzI StRANIERI

India, Cina, Egitto, Marocco, Ucraina, Albania, Romania, Macedonia, paesidell’America Latina…

Provengono da tutto il mondo, i nuovi allievi delle scuole piacentine.Nell’anno scolastico 2008/2009 Piacenza si colloca al 1° posto in Italia per pre-senza di studenti stranieri negli Istituti professionali.

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professione immediata, un ragazzo che fa il liceo artistico viene già da una famiglia bene inse-rita…o comunque con meno problemi…”

Scelta la scuola c’è il problema della classe. Non è sempre facile inserire unragazzo straniero appena arrivato in Italia. L’indicazione di massima è introdur-lo tra compagni della stessa età, ma alcuni docenti si chiedono se questa sia dav-vero la soluzione migliore. Un istituto professionale di fronte a questi dilemmichiede consiglio ad una associazione del territorio che si occupa di mediazioneculturale e, quando i mediatori non si trovano, li va a cercare sul territorio gra-zie all’impegno diretto dei docenti referenti.

In un polo scolastico che comprende percorsi di tipo sia tecnico sia profes-sionale, dopo una fase informativa per i ragazzi più grandi, sono gli allievi stes-si insieme ai familiari a scegliere se entrare al III anno del professionale affron-tando subito l’esame di qualifica, pur di studiare con compagni di pari età, oentrare al II anno per prendere tempo, o ancora al III anno dell’istituto tecnico,dove lo studio è forse più impegnativo ma almeno l’esame non c’è…

Il problema fondamentale della comunicazione

Il primo passo per l’inserimento è l’apprendimento della lingua italiana,prima di tutto per comunicare, poi per studiare. Naturalmente il problema sipone solo per chi è in Italia da poco. Molti allievi stranieri arrivano alle secon-darie di secondo grado con una competenza linguistica già matura. Per loro l’in-serimento è indubbiamente facilitato, benché non automaticamente risolto.

Per i corsi di alfabetizzazione le scuole si organizzano in modo non omoge-neo. L’istituto che fa da riferimento anche per le altre scuole promuove corsi diitaliano a più livelli, per gruppi di ragazzi che provengono da scuole e classidiverse, selezionati in base al livello linguistico iniziale. Grazie ad un finanzia-mento da parte degli enti locali, i corsi vengono realizzati dall’associazioneMondo Aperto, con grande soddisfazione dei docenti che assistono a rapidi pro-gressi. Le lezioni avvengono in orario di lezione. Peccato solo che i problemi difondi influenzino l’operatività delle scuole.

L’insegnante della scuola polo racconta:

“All’inizio dell’anno scolastico rileviamo gli studenti che hanno maggiori necessità di fre-quentare il corso di italiano. Ci sono i nuovi arrivati, ci sono ragazzi stranieri che vivono inItalia già da un po’ ma hanno bisogno ugualmente di un sostegno per l’italiano… Formiamoun gruppo. Quest’anno erano 8 studenti dell’istituto professionale e tre del liceo. Inizialmentefacevano 10 ore di lezione alla settimana però ci sono state delle difficoltà, c’è stata una ridu-zione del monte orario… siamo arrivati a 6 e poi a 4 ore…”

ché girava la voce che non era in grado (di affrontare un liceo, ndr)… Adesso sono aumenta-te le iscrizioni ai licei. Fino a qualche anno fa non ce n’era neanche una, oggi molti si stannospostando, soprattutto ragazze che vengono da scuole liceali dei paesi d’origine. Ho in menteuna ragazzina che è arrivata da noi 5 anni fa… aveva difficoltà all’inizio per la lingua mapoi ha avuto sempre un profitto molto alto e ora fa il quarto anno al liceo scientifico”.

Per i ragazzi più dotati l’istituto professionale rappresenta una fase di transi-zione in cui rafforzare la propria competenza linguistica, prima di passare a qual-cosa di più impegnativo:

“Le più brave, quando riescono a raggiungere un buon livello di italiano per studiare, capi-scono che possono tentare qualche altra scuola e allora chiedono di aiutarle a passare magariad un Tecnico o addirittura ad un Liceo… Quindi forse la nostra scuola serve anche, per ipiù bravi, ad essere un momento di passaggio… perché da noi comunque c’è sempre la possi-bilità di seguire i corsi di italiano e i livelli richiesti non sono elevatissimi, quindi hanno iltempo di imparare bene l’italiano”.

Si preparano molto e fanno bene, perché possono ritrovarsi in licei comequesto, dove le iscrizioni vengono orientate allo scopo di mantenere l’eccellen-za nella preparazione culturale:

“Stiamo molto attenti alla situazione di inizio, cerchiamo di valutare bene le competenzeche hanno in partenza. Poi il consiglio di classe è sovrano in questo, nel senso che il percorsodel ragazzo in pratica non finisce mai. In un anno può darsi che lui non arrivi dove si sareb-be dovuti farlo arrivare, però c’è la possibilità di un progresso, di un procedere, per cui c’èun’attenzione a quelle che sono le tappe della sua evoluzione personale…

Qualche volta ci sono state situazioni clamorose di inadeguatezza totale. Le potrei farel’esempio di un ragazzo completamente fuori percorso, con un atteggiamento di chiusura sututti i fronti… O una ragazzina egiziana… niente… Dall’inizio dell’anno avrà detto treparole. Chiaramente, se deve parlare di chimica piuttosto che di filosofia, piuttosto che in sto-ria, lei può immaginare che cosa si viene a creare…”

Anche negli altri licei della provincia si rilevano poche iscrizioni da parte deiragazzi stranieri. Ci sono ragioni comprensibili legate al bisogno di lavorare, altreriferite al livello di difficoltà. Certo, per una famiglia che viene in Italia permigliorare la propria condizione socioeconomica, la formazione culturale e arti-stica dei figli può essere un investimento molto costoso, troppo a lungo termi-ne, quasi proibitivo.

“Il liceo artistico è una scelta un pò particolare, è una scelta forse anche un pò elitaria peruno straniero. Uno straniero forse cerca una scuola che gli dia una possibilità di svolgere una

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Di tutt’altro genere è la storia raccolta dal docente referente di un polo sco-lastico, dove ci si è trovati impreparati. Una impreparazione che non riguardasoltanto la scuola e apre il tema di quale competenza sia necessaria ai mediatoriperché non siano semplicemente dei traduttori:

“Abbiamo avuto dei ragazzi cinesi e non siamo stati capaci di accoglierli perché non capi-vamo niente. Abbiamo fatto richiesta di un mediatore ma è arrivata una psicologa che nonaveva mai gestito nulla di questo… Aveva avuto esperienza con i nomadi, alla scuola prima-ria, ma lì il problema era diverso. Noi volevamo capire come approcciarci a questa situazio-ne…

Per un anno intero la ragazzina è stata vicina ad una molto brava che con il dizionariet-to cinese-inglese, a gesti si faceva capire. L’anno dopo è arrivato anche il fratello, però poi ametà anno se ne sono andati. Noi non sapevamo cosa fare…e loro se ne sono stati a casa…”

Il rammarico, la frustrazione dell’insegnante sono molto forti, ed è in partedifensiva la sua proposta di condizionare l’inserimento nella scuola alla cono-scenza dell’italiano perché, dice, “bisogna ben sboccarla questa situazione… setu non comunichi, non puoi darmi nessun aiuto…”

Una volta superato lo scoglio della lingua, l’integrazione è già avvenuta?Rispondono affermativamente molti degli insegnanti ascoltati.

“Questo ragazzo indiano era in prima, in età più avanzata rispetto ai compagni. Ci sonostate delle difficoltà perché non conosceva una parola di italiano, era appena arrivatodall’India, non riusciva naturalmente neanche a scriverlo… Un grande lavoro è stato fatto,anche lui immagino sia vissuto come in un altro mondo perché era molto spaesato, però si èinserito bene. È stato promosso il primo anno, certamente tenendo conto delle difficoltà, e que-st’anno dalla seconda è stato promosso in terza… mi sembra che abbia avuto solamente undebito”.

Ma c’è anche chi ritiene che la questione sia più complessa.

“Indubbiamente c’è il problema della competenza della lingua, però ce ne sono altri connes-si che secondo me non sono da sottovalutare. Il problema della lingua nella scuole si sta affron-tando, autonomamente, globalmente, ma anche attraverso una collaborazione tra scuole… Leisa che l’Itis Marconi è scuola capofila del progetto e quindi anche nell’utilizzo di risorse, quin-di il problema della competenza linguistica è irrilevante sotto un certo versante…

Perché poi c’è l’integrazione reale di questi studenti, il pericolo che possano non essere com-pletamente accolti, cioè che altri possano avvertire una diversità e questa diversità sia indivi-duata come elemento negativo”.

Gli effetti positivi dei corsi sono evidenti, dovuti alla preparazione e disponi-bilità dei docenti e alla forte motivazione degli allievi:

“Dipende molto dagli insegnanti… Sono persone preparate dal punto di vista della pro-fessionalità e poi sono super disponibili dal punto di vista umano… docenti in pensione chefanno corsi di primo livello. Uno che gestisce 25-30 persone dentro una classe…vuol dire cheha una presa umana…

(Questi insegnanti) arrivano e trovano i ragazzi che sono lì per loro, non hanno altro perla testa che fare il corso di italiano. È un lavoro con un livello di professionalità molto alto…Se entri in classe nei diversi mesi ti accorgi che sono partiti dal libro con le immagini e la paro-la scritta e sono arrivati alla grammatica e fanno, non so… il passivo…”

In un istituto professionale si coglie questa opportunità per i corsi di primaalfabetizzazione e se ne organizzano altri, di II e III livello, con i docenti dellascuola, per l’apprendimento dell’italiano per studiare, affinché gli allievi possanoacquisire il linguaggio specifico delle discipline. In un istituto tecnico gli inse-gnanti di lettere si incontrano in orari aggiuntivi per preparare schede sinteticheda proporre agli studenti stranieri per seguire lezioni complesse.

In un liceo, dove è molto ridotta la presenza di questi ragazzi, le lezioni di ita-liano vengono impartite da un docente della scuola. Nel contempo, grazie allapresenza di un indirizzo linguistico, la scuola si prepara ad ampliare l’offertadegli insegnamenti:

“Abbiamo la fortuna di avere un liceo linguistico e quindi di avere anche semplicementeall’interno del corpo docente delle competenze linguistiche buone. Copriamo attualmente quat-tro lingue nella didattica normale, quindi inglese, tedesco, francese e spagnolo. Stiamo spingen-do molto per creare un corso di lingua e cultura araba, abbiamo un collaboratore esterno chesta iniziando. L’anno prossimo avvieremo due corsi sulla lingua e cultura giapponese e cine-se… Vorremmo aprire un po’ anche alle lingue dell’Europa orientale… le lingue slave,sostanzialmente, partendo dal russo. Competenze che possono servire anche per l’integrazionedegli studenti stranieri”.

In un istituto tecnico le prime funzioni di mediazione linguistica e culturalevengono affidate, se possibile, ad altri studenti dello stesso paese già inseriti nellascuola:

“(Gli insegnanti della commissione stranieri…) vedono se c’è bisogno di un interprete, chea volte è un ragazzo dell’istituto, delle classi superiori. È una buona esperienza perché un gio-vane straniero che fa da interprete con un altro giovane straniero, connazionale, mette più asuo agio…”

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pagella di sette e otto…

“Una ragazzina dottissima, intelligentissima e con molta attenzione allo studio…Quando è arrivata alla fine di febbraio mi ha detto: Quand’è che io saprò quello che sanno imiei compagni? Una cosa straordinaria. Come insegnante di lettere le ho fatto due ore di lati-no in più alla settimana ma non è stato mio lo sforzo, è stato suo. Eccezionale nel modo diproporsi, di spendersi… una ragazza che riuscirà”.

Diversi insegnanti ritengono che questa non sia solo un’eccezione, e che gliallievi stranieri siano mediamente più motivati dei compagni italiani in quantovedono nella scuola un’esperienza significativa, una possibilità di miglioramentodella propria condizione personale e familiare. Un obiettivo di riscatto sociale edi crescita che per tanti italiani non è più condiviso.

“Io ho due ragazze del Burkina Faso, sono arrivate qui con conoscenza zero dell’italia-no… sono ora le ragazze più brave. Hanno una motivazione, una voglia…Una è in primae l’altra in terza, sono le migliori. Se hanno voglia di inserirsi… se qualcuno dà loro unamano…

Una di queste ragazze è arrivata dall’Africa con un medico in pensione e lui è come seavesse adottato questa famiglia. Lui ha detto alla ragazza che ha grosse possibilità e sicura-mente spera che lei studi… che impari bene l’inglese e possa un giorno laurearsi per ritornarenel suo paese facendo tanto per la sua gente. Lei, da quando ha questo obiettivo, lavora tan-tissimo… Chi invece non ha un supporto a casa…”

“P. è un ragazzo albanese promosso a pieni voti. È arrivato qui ad agosto, ha avuto unmese di tempo per imparare i rudimenti… poi ha frequentato le lezioni quasi come gli altried è stato promosso a giugno, lì dove alcuni suoi compagni italiani non sono arrivati alla suf-ficienza…”

Ci sono poi docenti che insegnano materie di indirizzo e vivono la presenzain aula dei ragazzi stranieri con un senso di impotenza e, quasi, come ostacoloal pieno svolgimento della loro professionalità. Riportiamo qualche passaggio diuna conversazione particolarmente spinosa.

“Lo spazio che posso dedicare ai ragazzi stranieri come attenzione, per quanto riguardala disciplina, è minimo. Diversamente non saprei fare… O mi dedico completamente a loro omi dedico agli altri.

- Per voi docenti curricolari è prevista qualche attività formativa di aiuto allo sviluppo delladidattica in classi interculturali? Perché in alcune scuole è già così, metà classe è fatta di stra-nieri… e di nazionalità diverse…

- Guardi, mi scusi, ma io assolutamente non voglio rinunciare all’altra metà dei miei. Ioho un programma da rispettare, e non tanto per il programma in sé e per sé, quanto per la

In un liceo cittadino l’integrazione risulta riuscita se il ragazzo straniero èbravo a scuola, cioè conforme ai canoni su cui si informano tutti gli allievi diquella scuola.

“Per noi il discorso è un po’ complesso perché la nostra è una scuola abbastanza rigorosae piuttosto impegnativa, per cui anche gli italiani hanno dei problemi. La lingua italiana avolte non è il problema… Il problema è avere un po’ di attitudine, un po’ di passione per lematerie scientifiche in modo da apprenderle velocemente o almeno con un atteggiamento moltopropositivo, molto aperto… Questo comporta una disponibilità all’impegno quotidiano daparte del ragazzo”.

Un’insegnante di un istituto professionale pone l’accento sulla dinamica diclasse come decisiva nell’integrazione o meno degli studenti stranieri:

“Dipende da come sono composte le classi. Se ho una classe di 25 persone in cui 3 sono dilingua spagnola, francese o macedone, con qualità intellettuali dignitose la difficoltà è debole…Se ci sono invece 25 persone di cui 10 italiani problematici e 3 stranieri con difficoltà di com-prensione o di comportamento…è normale che ci siano delle difficoltà…”

Ancora, come per qualsiasi allievo italiano, un fattore discriminante risiedenel supporto che la famiglia riesce a dare al ragazzo, nelle aspettative che rivol-ge verso i suoi membri più giovani.

“Non è facile la relazione con le famiglie (dei ragazzi stranieri, ndr), perché poi sa… Toltealcune situazioni sporadiche di un livello sociale alto… Ho presente una ragazza coreana checertamente ha avuto molti problemi dal punto di vista linguistico, però appartiene ad una certafascia sociale, quindi ha il sostegno, l’apporto, la comprensione familiare, ci sono interessi cul-turali…

È chiaro che laddove il processo migratorio è strettamente legato ad esigenze economiche igenitori sono molto presi dai loro problemi, quindi la relazione con le famiglie non è sempli-ce… per motivi pratici: sono al lavoro, sono alla ricerca del lavoro… sono loro stessi in con-dizioni di disagio, quindi non riescono a seguire i figli…”

Il fattore discriminante, più che l’appartenenza culturale, sembra essere lacapacità economica familiare.

La motivazione allo studio dei ragazzi stranieri

La docente referente di un liceo particolarmente selettivo racconta il casodi un’allieva arrivata al secondo anno da un istituto professionale con un desi-derio di imparare travolgente, fortissimo, tale da portarla a fine anno con una

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“Questi ragazzi, quando arrivano, hanno una grande difficoltà a capire e quindi ad espri-mersi, si crea un distacco dovuto proprio all’impossibilità di comunicare. Però poi fanno pre-sto… Ho visto che cercano di superare l’ostacolo della lingua magari parlando in inglese, gesti-colando…”.

L’apertura, l’accoglienza sono valori che si coltivano anche con la consuetu-dine quotidiana a vivere a contatto con la diversità. Esemplificativa al riguardol’affermazione della docenti di un istituto professionale, con un paragone nonproprio corretto ma ricorrente nei dialoghi con chi vive nella scuola, quello trai disabili e gli stranieri come esempi di persone “diverse”.

“(Per i ragazzi italiani, ndr) è una cosa normale ormai venire a contatto con persone pro-venienti da altri Paesi. Questa scuola è in particolar modo frequentata da ragazzi stranieri,certamente adesso il numero è aumentato… sono parecchi anni che arrivano… però non c’èsolo questo, ma anche la presenza dei disabili…”

In un istituto tecnico l’integrazione si traduce in negazione delle diversità cul-turali come contrasto al rischio di emarginazione:

“L’idea di base, da noi… Non dico che facciamo finta che non siano stranieri, ma cer-chiamo di trattarli tutti alla stessa maniera… Se uno mette l’accento sulle diversità forse sivedono solo quelle. In realtà sono rispettati, non c’è proprio discriminazione. Vedo anche i pic-colini di prima, un ragazzo nigeriano, lo mettono in mezzo e parlano con lui… non c’è pro-blema fra di loro. Noi cerchiamo comunque di non mettere tanto l’accento sulla diversità - nonso se facciamo bene o facciamo male - nel senso che per noi il messaggio è: Sei un alunno comegli altri, non hai un trattamento diverso, né di favore, né di sfavore…”

In un altro istituto si assiste a comportamenti razzisti mossi non tanto daconvinzioni ideologiche quanto forse all’ansia di rafforzare la propria identitàma, afferma la docente, è anche questo un modo per segnalare un proprio disa-gio.

“Ci sono alcuni ragazzi che, secondo me, per mentalità sono poco propensi all’accoglienzadelle persone, che siano stranieri o meno. (Il razzismo, ndr) non è genericamente diffuso, nelsenso che se entri in una classe e hai uno che si chiama Bejal, non per questo è guardato male.Trovi quei due o tre già problematici per conto loro, che possono scaricare sul Bejal di turnoun po’ di ire represse…

Al contrario, l’insegnante di altro liceo spiega come l’accoglienza, nella suascuola, sia assicurata dalla provenienza familiare selezionata dei ragazzi italiani:

cultura della mia disciplina che deve essere portata avanti. Poi i ragazzi finisconoall’Università, quindi io devo assolutamente dare le basi per affrontare gli studi…

- Questo l’ho capito bene…ma in alcune scuole la percentuale dei ragazzi stranieri è del35-40%…

- Non so cosa fare. Si dividono le classi… mettono due insegnanti, non so…L’organizzazione non è di mia competenza…

- Mi chiedevo se la scuola ha ragionato in termini di struttura sul tema dell’accoglimentodegli stranieri, o se sta affrontando il singolo caso uno alla volta, man mano che si presenta…

- Secondo me il tema dell’intercultura è affrontato nelle scuole, e alla grande anche…Perché per questi stranieri ci sono corsi di italiano, corsi per le materie professionali, corsi dimatematica… Non sono contemporaneamente nella mattinata, in classe, ma al momento del-l’arrivo viene strutturata tutta una organizzazione di attività per questi studenti. In classe almattino come dovevo gestire…?

Perché a volte si tratta di spiegare elementi che non hanno un corrispettivonella cultura propria dei nuovi allievi, e allora non si tratta solamente di tradurre.

“Se devo insegnare la partita doppia devo fare la partita doppia, come faccio con questi?Infatti noi facciamo dei programmi differenziati per ognuno di questi studenti.

Per esempio F. l’ho visto quando c’è stato l’inserimento e poi non l’ho ancora visto in clas-se. Probabilmente quando arriveremo alla fine del primo quadrimestre, io dovrò mettere “nonclassificato”… perché cosa classifico? Sarò già contenta se lui sta bene in classe, se viene a scuo-la volentieri, se gli piace il nostro tipo di istituto… È vero che ci sono anche tra i nostri moltiche non sono sereni, però…

È molto difficile, non sono un’insegnante di lettere che attraverso un tema, oppure un com-mento ad una poesia o qualcosa, riesce a percepire…”

Certo, non è possibile generalizzare. Ci sono ragazzi stranieri in difficoltà conle regole della scuola, altri che faticano molto con la lingua italiana, altri ancorache vivono momenti di “normale” crisi adolescenziale né più né meno dei com-pagni italiani. E ci sono insegnanti che per sensibilità, funzione o vocazionesono portati a considerare gli allievi come persone, altri come discenti a cui tra-sfondere una determinata quantità e qualità di nozioni, qualsiasi cosa stianovivendo e comunque si relazionino con gli altri.

Culture diverse nella stessa classe

In generale l’esperienza di integrazione osservata dai docenti è più chebuona, soprattutto quando i nuovi allievi hanno una buona padronanza della lin-gua ed è quindi possibile comunicare tra compagni.

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problematica, di aiuto dai compagni ne ha poco… anche dai compagni stranieri…”

è una semplificazione dividere gli allievi in “italiani” e “stranieri”, perchéquesti ultimi, a loro volta, hanno provenienze, culture, aspettative, lingue e lin-guaggi molto diversi tra loro. In questo istituto professionale si cerca di distri-buire le nuove presenze su più classi per evitare che si creino delle oasi mono-culturali.

“Noi tentiamo di non metterli insieme, tutti gli stranieri… anche se è un pò difficile per-ché per andare incontro alle loro esigenze magari a quelli che vengono dall’Ecuador gli faccia-mo fare il corso di spagnolo, così almeno la terza lingua non la devono imparare… Imparanogià l’italiano, imparano l’inglese, almeno lo spagnolo già lo conoscono… È uno spagnolo dia-lettale, non lo sanno magari scrivere, comunque sanno i rudimenti. Fra di loro non ci sono négrossi screzi, ma nemmeno molta integrazione. Convivono pacificamente all’interno della clas-se. Il collante è il gruppo degli italiani…”

Nonostante tutte le difficoltà, proprio una insegnante di un istituto profes-sionale introduce l’idea che la presenza di ragazzi di tanti paesi sia formativaanche per gli italiani, soprattutto quando gli stranieri costruiscono tra loro rap-porti di amicizia che mostrano in concreto la convivenza interculturale e la soli-darietà nella difficoltà:

“Per noi è molto formativo da un punto di vista di conoscenze delle culture… Si sono inte-grati non solo nelle loro classi, ma anche fra di loro, nel gruppo che si è formato… Quandohanno frequentato il corso di italiano, stranieri di paesi diversi hanno molto familiarizzato, sisono aiutati a vicenda”.

Il rapporto con le famiglie dei ragazzi stranieri

Il rapporto scuola-famiglia è ritenuto da tutti i docenti fondamentale per indi-rizzare positivamente l’esperienza scolastica dei ragazzi e delle ragazze. Nel casodegli allievi stranieri, però, la relazione non è sempre facile. Innanzitutto, ci sonogenitori che a scuola non si presentano, per problemi linguistici, lavorativi o cul-turali. Il rapporto con la scuola è delegato al genitore che conosce meglio l’ita-liano, o all’unico presente o, a volte, a chi è portavoce della famiglia nel rappor-to con l’esterno. Sullo sfondo, la complessità dei progetti migratori.

“Ovviamente dipende dalla lingua. Ci sono famiglie che riescono a parlare l’italiano e allo-ra vengono… Più i padri. forse per il fatto che hanno più rapporti con l’esterno a causa dellavoro, conoscono l’italiano per cui riescono a gestire un minimo di rapporto… Le mogli sivedono un po’ meno. Per esempio i marocchini, gli arabi… è quasi sempre il padre che si fa

“Non ci sono stati casi, da noi, di bullismo o di cattivo gusto verso i ragazzi stranieri. Èuna scuola con alti e bassi, però mediamente con una popolazione scolastica piuttosto selezio-nata… per cui il ragazzo straniero si trova in un ambiente che lo accoglie bene”.

Andando più a fondo l’insegnante riconosce situazioni non di ostilità ma diindifferenza o di separazione tra culture diverse:

“Inizialmente c’è questo grossissimo ostacolo della lingua, per cui anche noi insegnanti…è difficile parlare con un ragazzo straniero. A questi ragazzi si chiede moltissimo, devono fareun lavoro di integrazione enorme e passare probabilmente sopra molte cose che io capisco pos-sano colpire nel punto debole. Penso sia impossibile il contrario. È ovvio che ci sia separazio-ne, come può essere diversamente? Siamo troppo caratterizzati, scuola per scuola, per avere unatteggiamento di piena e totale accoglienza. Non abbiamo alle spalle una cultura di questotipo. Abbiamo pochi stranieri… ci lamentiamo moltissimo, ma sono pochi… Generazionidovranno passare, almeno un paio di generazioni…”

Infine, da alcuni istituti professionali provengono segnalazioni di forti con-flittualità tra ragazzi italiani e compagni di altri paesi.

“All’istituto professionale il problema è ingigantito perché è una realtà diversa… È diver-sa la realtà delle persone che vanno lì, non saprei spiegarle il perché… è innegabile. Le fami-glie che hanno i ragazzi al liceo, o al tecnico o al professionale, sono completamente diverse. E(ai professionali) si innesca poi una serie di problemi per cui lì tutti i giorni… non è statobello, abbiamo dovuto creare momenti di intervallo diversi perché altrimenti arrivavano a…È ingestibile la situazione perché sono troppi, i ragazzi stranieri, e poi sono tutti… “un po’vivaci”, usando un eufemismo.

Allora questi ragazzi stranieri non è che li abbiamo ghettizzati, però abbiamo separatoalcuni momenti perché prima, durante l’intervallo c’era sempre qualcuno che veniva alle mani.Qualche volta hanno chiamato i carabinieri… Ma ritengo che la situazione sia così a prescin-dere dagli alunni stranieri… io ho degli alunni stranieri che vanno benissimo…”

“I rapporti tra ragazzi sono a volte facili, a volte difficili. Per esempio io ho due seconde. Inuna c’è un gruppo di slave molto brave, tendono a stare molto fra di loro perché parlano la stes-sa lingua, perché comunque si capiscono meglio, però vedo che nella classe non ci sono grossi pro-blemi di accettazione. Si fanno i fatti loro, però non abbiamo mai avuto delle grosse tensioni.

L’altra classe, invece, ha un po’ di difficoltà, è facile che ci siano degli scontri… Sì litiga-no perché uno è italiano o straniero, poi è difficile capire fino a che punto c’è questo o quell’al-tro motivo…”

“O il ragazzo straniero è uno in gambissima, e allora è trattato da pari perché è ancheutile, oltretutto… Utile perché è in gamba… In genere, se il ragazzo straniero ha qualche

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dal punto di vista della lingua… Per noi aggettivo, sostantivo, verbo vuol dire italiano… anche inglese… È un discorso

anche di comprensione nel quotidiano che diventa molto, molto difficile. A livello europeo cisono situazioni che non collimano, la nostra scuola è… è nostra, e basta.

In questo non c’è un giudizio di merito, perché io ci credo molto nel fatto che la scuola ita-liana sia fortemente formativa. Siamo una terra piena di letteratura, di filosofia, d’arte… èla nostra ricchezza, perché poi non deve essere spendibile?Però tutto questo richiede sforzo, vuoldire compensare con altrettante nozioni altrettanti livelli di competenza… vuol dire far usci-re solo l’eccellenza…”

Identità divise

A metà tra due culture, questi ragazzi e queste ragazze vivono appartenenzemultiple che potranno, nel tempo, diventare una ricchezza. Molto dipende daquello che accade in adolescenza, in quella fase delicata che richiede comunqueun cambiamento verso la maturazione dell’identità personale. Chi proviene daun altro paese ha di fronte a sé un ventaglio più ampio di possibilità e strumen-ti di comprensione, ma ha anche un carico non indifferente nel confrontoimmediato con gli altri e nel progettare il proprio futuro.

“Succede un po’ quello che è successo ai nostri nonni e zii che andavano a lavorare inFrancia o in Germania pensando di tornare, ma poi si fermavano là. C’è sicuramente il lega-me con la terra d’origine, con gli anziani che sono rimasti e anche (questi ragazzi hanno) ildesiderio di mantenere dei collegamenti… ma poi si inseriscono qui, dove hanno un minimo dipossibilità di trovare un’occupazione… (Resta) un forte legame con il paese d’origine, doverientrano nelle vacanze ma… io vedo pochi con l’intenzione di tornare…”

Dopo un disorientamento iniziale, il cambiamento avviene lentamente.Investe abitudini, linguaggio, modo di vestire o di pettinarsi, di relazionarsi congli altri. è una identità in prova, limitata al tempo trascorso con i coetanei, per-ché quasi sempre in famiglia si torna a parlare la lingua madre e a osservare letradizioni del proprio paese.

“Si adeguano alle usanze dei coetanei italiani, cercano di integrarsi ma non abbandonanola loro origine, a volte per esempio ci tengono a non dimenticare la loro lingua. Molti a casaparlano nella lingua madre. Nel gruppo invece cercano di imitare i coetanei, di fare le cose chefanno anche gli altri. Giorno dopo giorno automaticamente acquisiscono abitudini e modi difare.

Per esempio il ragazzo indiano era molto distaccato perché non capiva bene alcune situa-zioni, portava i capelli raccolti in una certa maniera perché era dei sic… Inizialmente i ragaz-zi si chiedevano il motivo di questa usanza e noi abbiamo cercato di far conoscere le sue abi-

carico di venire a scuola perché le madri non parlano l’italiano. Lo stesso per molti slavi.Quando imparano la lingua, vengono anche le madri.

Invece nei ragazzi del Sud America notiamo una maggiore presenza di madri, perché spes-so sono loro che hanno scelto l’immigrazione. Arrivano in Italia per fare le badanti, le donnedi servizio, quello che riescono a fare e portano i figli. Addirittura molte donne mantengono ilmarito, in Sud America…”

Non è irrilevante, che la scuola impari a dialogare con questi genitori, perchéquando un allievo ha la famiglia alle spalle, naturale o adottiva che sia, la moti-vazione allo studio si fa più forte. Questo è vero per chi nasce in Italia, ancoradi più per un adolescente chiamato ad adattarsi ad un contesto tutto nuovo.

“Se alle spalle hanno qualcuno, allora riescono; se le famiglie hanno difficoltà, anche i figline hanno. Ad esempio avevo una ragazza del Marocco, il padre si era separato dalla mamma,la mamma si era risposata e questa figlia era contesa… E lei ci giocava… Così, come gioca-va con la famiglia giocava anche a scuola. Purtroppo siamo noi (genitori, ndr) i responsabilidi questi figli, c’è poco da dire. Che siano nostri o che li abbiamo scelti (in adozione)”.

Qualche volta le famiglie straniere cercano il rapporto con i docenti e pro-prio questo diventa fonte di problemi. Affiorano modi diversi di concepire lascuola, riferimenti culturali che faticano a parlarsi. Nelle parole di questa inse-gnante, però, la responsabilità della incomprensione è subito individuata…

“C’è molta difficoltà da parte delle famiglie a capire, perché le nostre osservazioni sul ren-dimento scolastico vengono molto spesso viste come giudizi di merito rispetto alla persona, nonal rendimento, ed è difficilissimo capirsi. Io credo essenzialmente che sia un problema di tra-duzione, perché è chiaro che anche noi abbiamo una lingua scolastica. Quando noi parliamodi “inadeguatezza” o “mancanza di competenza”, è chiaro che ci stiamo riferendo ad un ele-mento della formazione… magari, nella traduzione, tutto questo può risultare un’inadegua-tezza personale o magari un giudizio…”

è indicativa la sicurezza con cui si cerca nella traduzione la ragione di un pos-sibile fraintendimento. Come se i ragazzi e i genitori italiani non vivessero maiuna valutazione scolastica come un giudizio sulla persona…!

Certo, quando la scuola ha un modello forte e non è disposta a modificarlo,l’impatto con nuove esigenze formative e con percorsi di crescita “altri” puòessere problematico. Tocca ai ragazzi adattarsi…

“Ho parlato con certi genitori di una ragazzina rumena molto preparata… InRomania era in un liceo come il nostro, ma l’aspetto culturale e linguistico era completa-mente trascurato. Infatti questa ragazzina è brava in matematica, in laboratorio, poi però

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“Un’altra caratteristica del nostro liceo è che in questi anni c’è un gran bombardamen-to di educazione alla multiculturalità, alla diversità… quindi tutto sommato credo e speroche i nostri studenti siano culturalmente preparati ad avere in classe un compagno che maga-ri ha qualche difficoltà con la lingua, a mettere in atto, delle strategie per aprire la comuni-cazione e non chiuderla…”

In questo istituto tecnico, invece, l’educazione interculturale o il semplicetener conto della presenza in aula di ragazzi con retroterra diversi è un affareesclusivo dei docenti di lettere. Per gli altri insegnanti fare collegamenti tra cul-ture equivale a smettere di fare lezione, ovvero abdicare al proprio ruolo, dimi-nuire il servizio che la scuola offre, creare emarginazione. Quasi che non fossepossibile guardare ad una differenza se non in termini valutativi, meglio-peggio.

“Essendo un’insegnante di matematica, se proprio non lo faccio intenzionalmente e dico“Oggi non facciamo lezione e parliamo di…”, il discorso non salta fuori per niente, è ovvio…Però ci sono delle iniziative durante le ore di storia, di italiano… esce fuori da sé… confron-ti di canzoni, poesie… Comunque si cerca di non mettere l’attenzione più di tanto, perché piùmetti l’attenzione su una cosa più ti sembra diversa dal normale. I ragazzi sono tutti ugualie non importa se c’è una cultura diversa”.

In un istituto tecnico, dice la referente, non si fa alcun tipo di educazioneinterculturale con gli studenti italiani ed è il docente a mediare di volta in volta.

“Educazione interculturale no, però c’è l’insegnante che media tra lo studente italiano e lostudente straniero. Io ad esempio ho una studentessa ecuadoriana, quindi di lingua spagnola,e le dico: Usa le parole italiane che conosci e per le altre usa lo spagnolo - perché in qualchemodo si riesce a capire.

Vedo che i compagni accettano volentieri questi ragazzi… veramente, l’integrazione c’è.Ovviamente la lingua è un grosso impedimento per la piena integrazione, perché se non c’è lacomunicazione… In compenso esiste il sorriso…”

Va in direzione opposta questo polo scolastico dove, avendo un indirizzo discienze sociali, proprio l’integrazione può diventare asse portante nell’organiz-zazione dei percorsi didattici. Qui la dirigente scolastica vede l’inserimento diragazzi stranieri come un fatto che va oltre l’apprendimento della lingua o laparificazione delle nozioni di base.

“Il problema degli stranieri si va ad innestare in un discorso un pò più ampio. Il passag-gio che dovremmo essere capaci di fare, noi come scuola, è quello di pensare agli studenti stra-nieri non come problema – e un problema didattico ovviamente c’è - ma come risorsa, comeapertura… come apertura al mondo… Però su questo bisogna lavorare.

tudini, la cultura… Lui stesso poi si è tagliato i capelli come un tentativo di integrarsi mag-giormente. Vedo che è al secondo anno e ha atteggiamenti scherzosi…”

Altri ragazzi sembrano voler abbandonare completamente la cultura d’origi-ne per diventare in tutto e per tutto uguali ai coetanei italiani. Questa osserva-zione proviene soprattutto da scuole che hanno un’identità forte, che evidente-mente tende a imporsi sui nuovi arrivati. Questo è vero sia che si tratti di unmodello determinato dal valore della cultura, come nel primo caso che vediamodi seguito, sia che si faccia riferimento ad un modello sociale più generale.

“Abbiamo perseguito questa strada fino a un certo punto… di fare un discorso per gli stra-nieri… Loro non vogliono essere stranieri, hanno il desiderio di non esser considerati tali, diintegrarsi a tutti gli effetti”.

“Non vogliono sentirsi diversi. Quando si chiede se nel loro paese è come qui da noi, rispon-dono sempre sì, quando è evidente che nel contesto cinese c’è una cultura completamente diver-sa… Non amano che si sottolineino le differenze, soprattutto se si tratta di far vedere loro ilnegativo. Perché poi è facile per noi dire: perché vieni da lì… perché sei venuto…?”

Quando il desiderio di diventare uguale agli italiani si scontra con una impo-stazione familiare fortemente ancorata alle tradizioni, avvengono le spaccaturepiù gravi. La cronaca recente ce ne consegna esiti drammatici. Senza arrivare agliestremi, sono tanti i ragazzi (e forse soprattutto le ragazze) che vivono un forteconflitto interiore e familiare proprio per l’ambivalenza dei modelli che trovanointorno e dentro di sé.

“I genitori degli studenti stranieri inizialmente possono apparire aperti, con una certadisponibilità a capire il figlio. Poi quando questi ragazzi sono inseriti nella scuola, emergonomolto evidenti la cultura, le abitudini… Là può nascere il disagio del ragazzo, il quale sitrova in una realtà sociale dove vede che sono aperte varie strade, capisce le possibilità per icompagni della stessa età, e (in famiglia vede) posizioni e atteggiamenti mentali e culturalidiversi… Evidentemente il ragazzo deve affrontare queste situazioni…”

L’educazione interculturale

Le diverse pratiche di inserimento degli allievi stranieri hanno già rivelato idiversi modelli di integrazione che vi sono sottesi. Li ritroviamo ancora quandoparliamo di educazione interculturale, non sempre presente né sempre ugual-mente intesa. In un liceo cittadino l’educazione interculturale è anche un modoper prevenire le difficoltà di inserimento dei futuri studenti stranieri.

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avrebbe avuto inizialmente dei debiti formativi… cioè abbiamo stabilito dei riferimenti inter-ni rispetto ai quali regolarci…”

Dove è presente una commissione intercultura, l’adesione dei docenti puòessere avvenuta volontariamente oppure per nomina formale del dirigente sco-lastico. In altre scuole ci si limita a nominare un docente come funzione stru-mentale con il supporto di alcuni colleghi sui casi comuni, ma il docente incari-cato sente la mancanza di un gruppo di lavoro formalizzato.

“Le difficoltà sono tante perché i ragazzi sono di varie nazionalità e quindi hanno esigen-ze diverse, sia per l’apprendimento della lingua italiana, sia per il sostegno allo studio.Commissioni non ce ne sono, anche se bisognerebbe costituire una commissione di accoglienzadei ragazzi stranieri. Di fatto c’è: la vicepreside, io come funzione strumentale… un’altra col-lega… cinque, sei persone. Siamo noi che ci rendiamo disponibili. Ci incontriamo sulle neces-sità, ci consultiamo, accogliamo il ragazzo, parliamo ai genitori… Ma all’occorrenza, non conuna periodicità”.

Se un aspetto positivo può esserci in un lavoro informale, è certamente laforte motivazione delle persone coinvolte. In questo istituto professionale l’in-segnante ripercorre la nascita del lavoro a favore dell’integrazione stranieri rile-vando anche una necessità formativa interna alla scuola, che per una scelta per-sonale ha deciso di affrontare.

“Il lavoro con gli stranieri è nato proprio dall’esigenza. Ci trovavamo in classe ragazzi chenon conoscevano la lingua italiana e quindi c’era tutta una serie di difficoltà… Pian piano hocominciato a frequentare i corsi di aggiornamento, a capire come agire e a conoscere le norma-tive… perché non ne eravamo a conoscenza… Lentamente è nato questo gruppo, sulla basedella disponibilità nostra. Siamo stati anche molto sostenuti dalla nostra responsabile di sede,che è stata molto disponibile. Lei si occupa praticamente di tutto”.

In un polo tecnico-professionale la commissione c’è ma, per esempio, nel-l’anno scolastico 2005/06 non si è mai riunita perché non sembrava ci fosseroproblemi di cui parlare. Una motivazione solo parzialmente plausibile, dato cheproprio in questa scuola vengono riferiti episodi di razzismo e, più superficial-mente, un atteggiamento di accusa verso i ragazzi di altri paesi, come se anchel’organizzazione scolastica desse loro dei privilegi incongrui.

“Stamattina ho sentito dire: perché far pagare 25 euro il corso per gli stranieri quando unragazzino italiano che fa un corso di matematica ne paga 100 o 150? Non è una forma didifferenziazione al contrario, che provoca cioè l’effetto opposto?

Allora… Se uno guarda il processo che si è messo in movimento, riconosce che l’alfabetiz-

Mi ero posta questo obiettivo, cioè di preoccuparci non solo di trovare professori per le atti-vità di recupero, ma di capire quali esperienze, quali esperti esterni possono venire per elimi-nare, nella testa di qualche studente, qualche giudizio negativo rispetto alla presenza dello stra-niero.

Il tema dell’integrazione è anche per noi interessante, avendo un indirizzo in scienze socia-li, infatti sto pensando di elaborare un progetto per tutto il quinquennio e connotare almenouna sezione delle scienze sociali sull’integrazione. C’è anche una facoltà universitaria, per cuici sono molti studenti interessati al problema…”

La scuola si organizza per accogliere

Come per tutte le aree considerate in questa indagine, le scuole hanno messoa punto modelli organizzativi anche molto diversi per fare i conti con il medesi-mo compito. La prima ragione di tale diversità è che i ragazzi stranieri sono con-centrati in alcune scuole più che in altre, pertanto ci sono istituti che hanno biso-gno di organizzarsi, altri che possono sorvolare sulla questione.

In un polo scolastico dove la presenza interculturale è forte è presente unimpianto organizzativo molto sfaccettato:

“Ci siamo organizzati così: io sono la funzione strumentale per gli alunni (in generale) eper i ragazzi disabili, altri due colleghi per gli stranieri, e collaboriamo. Abbiamo una com-missione accoglienza, proprio per stranieri, formata da insegnanti di tutte le discipline fonda-mentali. Sono in cinque e, quando abbiamo un nuovo arrivo, adottano tutta una serie di stru-menti di verifica… i test di ingresso… Abbiamo le modulistiche nella varie lingue…Prendiamo contatti con il mediatore culturale… Si fanno corsi di alfabetizzazione di primo,secondo e terzo livello. Poi c’è il progetto di accoglienza e di orientamento, perciò alla fine delnostro colloquio si possono inviare i ragazzi anche da un’altra parte…

Con chi si iscrive facciamo un piano educativo individuale che viene verificato alla fine del-l’anno e diamo tempo un paio d’anni per valutare l’allievo. Se per esempio un ragazzo entrain prima, al termine lo promuoviamo in seconda e solo lì verifichiamo i requisiti per affronta-re la specializzazione nel triennio successivo…”

Anche in un polo scolastico si è creata una commissione stabile per i ragaz-zi stranieri, che ha maturato un protocollo sull’accoglienza prevedendo tra l’al-tro una buona flessibilità nelle procedure di valutazione.

“Nello scorso anno abbiamo formato un gruppo di lavoro sull’accoglienza degli studentistranieri che ha elaborato un protocollo inserito poi nel nostro piano formativo. Faccio un esem-pio: una studentessa chiedeva di essere inserita nell’indirizzo pedagogico il cui curricolo preve-de il latino, che la ragazza non aveva mai studiato. Abbiamo previsto che nel primo quadri-mestre l’avremmo classificata in questa materia avendo svolto delle attività di sostegno e poil’avremmo, all’interno dell’anno, recuperata sulla dimensione delle competenze, sapendo che

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di collaborazioni con soggetti del territorio, per assicurare una migliore preparazio-ne ma anche – è l’altra faccia della medaglia – per delegare ad altri il compito.

Certo che l’ingresso crescente di ragazzi stranieri richiede competenze speci-fiche e una capacità non comune di guardare le cose da diversi punto di vista.Condividere delle domande e sapere che non si hanno tutte le risposte è già unprimo passo. Per questo ci è piaciuto sapere che, in un istituto tecnico, la refe-rente ha fotocopiato per sé i loro questionari che sono parte di questa ricerca. Echissà che cosa potrà scoprire...

IL dISAgIO dIffuSO

“Quest’anno l’insegnante che si occupa di religione ha detto che il prossimo anno qualcosasi deve fare… Perché lo sappiamo, questi ragazzi bevono, questi ragazzi fumano… C’è tuttoquesto essere così, magrissimi, per problemi di anoressia… Saltano fuori quando poi non rie-sci più a gestirli, quando ormai sono andati molto avanti.

E poi si pensava a riorganizzare le assemblee che sono una cosa scandalosa… le assem-blee di istituto… Non riusciamo a gestirle prima di tutto perché siamo in troppi, centinaia ecentinaia”.

In un elenco rapido, che va dai comportamenti a rischio per la propria salu-te a una vera e propria patologia come i disturbi alimentari, fino alla difficile par-tecipazione alla vita scolastica, questa insegnante ci ha dato un primo assaggiodi ciò che gli insegnanti percepiscono della condizione giovanile attuale.

Tutti i docenti osservano una crescita preoccupante nelle manifestazioni didisagio e vivono la frustrazione di non saper tradurre l’osservazione empatica inuna risorsa a disposizione dei ragazzi. Affidiamo questa analisi a due lunghibrani di intervista che a nostro avviso ci portano molto vicino a capire che cosaaccade quotidianamente sui banchi di scuola.

Ascoltiamo, nell’ordine, un’insegnante di liceo e una collega di un polo sco-lastico.

Un disagio che cresce

Questa insegnante di liceo mette bene a fuoco la fragilità dei ragazzi, la diffi-coltà di dialogo tra generazioni e le incapacità di risposta degli insegnanti e dellascuola nel suo complesso, che arrivano a costituire un elemento di disagio perl’insegnante.

“(Nel termine disagio scolastico) ci sta dentro tutto… Il disagio è non stare bene in clas-se con gli altri, non accettare che ti prendano in giro bonariamente, non saper replicare in

zazione è fondamentale e quindi è un modo di inserirsi a scuola, obbligatorio, e andrebbe fattoin modo gratuito. Noi chiediamo alla famiglia una quota di iscrizione perché sia rimarcatol’impegno che si prende. Se vedi la cosa dall’altra parte, questo è un privilegio. Queste cose quidevono far pensare… se la ricezione del messaggio è negativa non va bene…”

In alcuni istituti i consigli delle classi interessate elaborano un progetto edu-cativo individualizzato per ogni allievo straniero, proprio come si fa con i ragaz-zi con handicap. Questa procedura non è sempre compresa. Ci sono ragazzi ita-liani, e ci sono docenti, che guardano alla individualizzazione come ad un favo-ritismo sbagliato. Lo spiega la docente di un polo tecnico-professionale, facen-doci capire come il lavoro degli insegnanti referenti, siano essi volontari o dinomina, debba fare i conti con resistenze presenti prima di tutto dentro al corpodocenti, che poi si trasmettono ai ragazzi.

“I risultati finali tutto sommato sono dignitosi (ma a volte, ndr) un elemento critico è la diffi-coltà del collegio docenti a mettere a fuoco i lavori personalizzati, che purtroppo vengono visti comeun privilegio. Se io faccio un programma di diritto specifico per questo ragazzo straniero non è per-ché glielo riduco… Lo porto all’essenziale perché non riesce a comprendere tutto, e non per suacolpa. Scatta il confronto critico anche da parte degli altri ragazzi, “Questo viene aiutato perché èstraniero…” Il compagno italiano non mette bene a fuoco che c’è dietro una storia…”

C’è da credere che il senso di frustrazione e il contatto con il proprio limitesia ragione delle insofferenze dei docenti, che hanno quasi del comico:

“I ragazzi stranieri stanno aumentando e tantissimi docenti sono a disagio, li rimprovera-no del fatto che non capiscono l’italiano…”

Il difetto di lavorare con singoli referenti molto motivati è invece la persona-lizzazione. Quando un aspetto del lavoro scolastico è completamente affidato aduna sola persona sulla base di sue competenze e interessi personali, basta unniente – un trasferimento ad altra sede, un problema personale transitorio… -perché ci si ritrovi costretti a ricominciare da capo. E l’integrazione degli stra-nieri è ancora relativamente recente, poco diffusa, non surrogata dall’esperien-za, per cui può essere difficile sostituire una persona molto preparata.

“Abbiamo avuto un collega che si è fatto carico del lavoro con gli stranieri (ma) quest’an-no per problemi familiari non ha più potuto… È un problema che noi riteniamo molto gros-so. Mi sono trovata coinvolta in questo lavoro però sono un po’ impreparata, le reali necessi-tà le conosco poco… Però credo che sia una cosa su cui c’è da lavorare, ma con qualcuno chene sa un po’ di più… Non si può sempre dire: adesso vediamo…proviamo…”

Una soluzione è passare dall’adesione volontaria di qualche insegnante all’avvio

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Le subisco… Perché a me arrivavano dei ragazzi preparati in una certa maniera dal bien-nio, ma anche il biennio (in passato) non aveva questo tipo di problematiche, la terza mediace li preparava scolasticamente e a livello formativo, educativo. La scuola superiore è stata com-pletamente spiazzata da questo tipo di problemi, completamente…

Se nella scuola elementare e nella media sono rimasti comunque spiazzati, perché si sonotrovati con delle situazioni che non erano riconoscibili… però comunque una preparazionepedagogica ce l’avevano… Noi zero, noi non abbiamo preparazione pedagogica. Chiunque dinoi abbia un minimo di sensibilità si è fatto dei corsi per conto suo o comunque presenta unaattenzione in più però in una dimensione individuale.

Tra i docenti della scuola ci sarà un 50-60% al biennio e un 10-15% al triennio supe-riore, di gente che si preoccupa… e lo riflette anche nella metodologia di lavoro da applicarecon questi ragazzi, però è poco. Purtroppo, se non riusciamo a far cambiare mentalità ai docen-ti…

Abbiamo seguito – e quello è stato un anno fantastico nel senso che avevamo ottenuto degliottimi risultati - un lavoro sulle Life Skills… Ovviamente i soldi erano quelli, per cui si èpreso un campione, però i ragazzi che hanno partecipato erano completamente diversi, mag-giormente motivati… Una consapevolezza di sé diversa… Io non sapevo chi erano (quandoli ho avuti in terza), poi ho fatto uno screening sui i ragazzi che, secondo me, erano più moti-vati, e devo dire che tutti provenivano da quel lavoro lì… e sono usciti tutti con una mediasicuramente superiore all’ottanta…”

Nelle parole che seguono, una insegnante di un polo scolastico riprende alcu-ni elementi per rimarcare i cambiamenti avvenuti nella famiglia e nei rapportigenitori-insegnanti, la difficoltà a far valere le regole, la disillusione e la demoti-vazione dei ragazzi, la fatica di insegnare in una scuola che si sente lasciata solasia dalle famiglie, sia dai servizi.

“Se pensiamo al disagio dei giovani in genere, qui il discorso dovrebbe essere culturale. Lagioventù vive una condizione di disagio molto forte che nasce da tante situazioni.

C’è una mancanza di punti di riferimento, una famiglia sempre più permissiva… unafamiglia sempre più in crisi, e questo già di per sé crea un grosso disagio nei giovani… Ce lodicono anche i fenomeni molto più frequenti di anoressia, di bulimia… una gioventù moltofragile, complessivamente molto indebolita, incapace di affrontare con un atteggiamento digni-toso quelli che sono i problemi anche normali del comportamento scolastico…

Io vengo fuori dagli scrutini di 38 classi e devo dire che le situazioni che ho trovato in alcu-ne classi sono veramente drammatiche, e per questioni familiari e, come le dicevo, per la sepa-razione dei genitori che spesso determina un forte disagio nei giovani, laddove la conflittualitànon è risorsa…

Ma giovani che hanno condizioni di salute non positive, che vivono situazioni psicologichemolto pesanti, impegnative… Io so di alcune studentesse che sono nella nostra scuola da alcu-ni anni, dove non si riescono a risolvere i problemi… Sono studentesse anche brave dal punto

maniera pacata o comunque intelligente alle provocazioni… Disagio è non saper affrontareun’interrogazione quando sei parzialmente preparato, quindi non saperti prendere le tueresponsabilità… Disagio è un’emotività un po’ troppo accentuata… Io sto pensando ai mieiragazzi… Disagio è prepotenza…disagio è “Io sono tutto lei non è niente… gli altri nonsono niente…”

Questo è il disagio più forte, secondo me, perché è quello che non ti riesce a dare la dimen-sione di te stesso. Ti sopravvaluti sempre e quando hai una defaillance, hai dei momenti dirischio, perché quando ti sopravvaluti e dici di essere “er mejo der Colosseo” diventi a rischio.Questo è un fenomeno che cresce negli anni. Quanto alle ragioni…

Sicuramente c’è una tendenza alla superficialità generalizzata che non è colpa della socie-tà, né di Pinco Pallino, né della televisione… è così. Abbiamo avuto un processo, non si sabene provocato da chi - almeno io non ho analizzato il processo che ha portato a queste situa-zioni - ci siamo man mano ritrovati quelli che il vecchio preside chiamava i ragazzi dei video-giochi e anch’io, che sono una videogiochista sperticata… (con mio figlio ho sempre giocato evideogioco da sola, anche…) vedo il problema del rapporto umano… Il problema del rappor-to umano secondo me è fondamentale.

Quei gruppi dell’oratorio, piuttosto che gli scout o la federazione giovanile comunista, crea-vano comunque dei momenti di socializzazione forte. Per questo oggi (che queste forme non cisono più, ndr) tantissimi recuperano in gruppi anche un po’ strani. Cercano di far parte diqualcosa, di riconoscersi… perché in famiglia non si riconoscono… Se non hanno una fami-glia forte, dei nonni forti, delle persone significative a cui fare riferimento, i ragazzi sono moltodisorientati. Spesso la famiglia è una famiglia allargata, non c’è il riferimento del padre o diun padre sicuro, c’è un riferimento di persona adulta che però ti presta un’attenzione moltoparziale…

La qualità dell’attenzione che si presta ai ragazzi… Spesso si mettono al mondo dei figligiusto per farlo, non perché si capisce veramente che i figli sono un impegno di vita per sé signi-ficativo… È come avere un cane, la stessa cosa… con i dovuti parametri corretti…

- Quindi c’è una dimensione generale diffusa, mi sembra di capire, che porta i ragazzi adessere in qualche modo così anche nella vita scolastica, cioè non c’è distanza tra la vita quoti-diana e la vita scolastica…

- Assolutamente… La scuola non è più vista come un posto in cui migliori te stesso, lascuola è un luogo dove si imparano quattro cose, tanto ci sono una serie di imbecilli pagati perraccontarcele… Però ce le devono raccontare tutte e loro non devono far fatica a rielaborarle.Questa è la filosofia di base che lega i ragazzi alla scuola.

- Queste considerazioni, queste riflessioni quanto sono in modo significativo oggetto discambio, di lavoro fra voi docenti? E dall’altro, quanto lo sono con i ragazzi?

- Ci sono consigli di classe che si preoccupano tantissimo di questo tipo di processi, e neimiei consigli di classe si parla, ci si preoccupa di queste cose… Che però si occupino attiva-mente di questo tipo di problematiche, non lo so. Si arriva all’analisi… Noi non siamo adde-strati a risolvere, perché nessuno – io insegno dal ‘75, sono 31 anni… - nessuno mi ha maidetto che dalla terza in poi io dovevo subire questo tipo di problematiche.

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so parlano ma talvolta non parlano, li devi guardare e li devi capire e devi anche trovare laconta giusta perché possano parlare… E quindi ecco il senso della difficoltà del lavoro.

Un altro problema grosso è quello delle regole. I giovani non sono più abituati ad averedelle regole, le vedono come imposizioni, atteggiamenti autoritari. Ritorniamo al discorso dellapermissività delle famiglie, della famiglia in crisi, delle figure genitoriali che hanno perso un po’la loro valenza di guida… E quindi ecco il problema delle regole, il problema della legalità inuna società che tende a valorizzare i sotterfugi, gli imbrogli, i favoritismi… Diciamo le cosecome stanno… I più giovani non possono non avvertirlo, quindi anche questo è un lavoro moltoimpegnativo che la scuola deve fare, far capire che l’imposizione di regole non è inventarsi deimeccanismi di sopraffazione, ma consentire un vivere laddove la coerenza richiede che si svi-luppino certi percorsi, certi atteggiamenti.

Questo secondo me è un lavoro molto importante che deve fare la scuola…”

LE RISPOSTE DELLA ScUOLA:GLI SPORTELLI PSIcOLOGIcI

Diverse scuole affrontano il disagio predisponendo luoghi e tempi perl’ascolto individuale dei ragazzi, e qualche volta anche di insegnanti e genitori. èun’azione resa possibile dal supporto degli enti locali e talvolta si integra conattività per il miglioramento delle relazioni all’interno del gruppo, spostandoquindi l’attenzione dal singolo problematico o in difficoltà, al gruppo classe cherichiede un sostegno per stabilire relazioni positive.

“Abbiamo organizzato uno sportello di ascolto in attività già da anni. È finanziato dalComune e ci consente di avere a disposizione dei ragazzi, dei docenti e delle famiglie una psi-cologa che si rende disponibile per fare colloqui, da quando a scuola sono emersi con più rile-vanza alcuni aspetti di disagio e quindi di difficoltà dal punto di vista del comportamento”.

Negli istituti professionali questa opportunità è stata particolarmente utiliz-zata, grazie ai progetti di contrasto dell’abbandono scolastico finanziati dallaRegione Emilia Romagna, i cosiddetti “progetti integrati” che una collaborazio-ne tra la scuola e la formazione professionale.

“Abbiamo avuto la fortuna di avere, in alcune classi, dei percorsi integrati, e già lì sonoprevisti interventi di esperti proprio sullo star bene con se stessi a scuola… In quei casi lì sonointervenuti direttamente questi esperti dei percorsi integrati…”

In quasi tutte le scuole il disagio, quando viene rilevato, è di competenza diun esperto. La scuola, tutt’al più, se ne fa carico per favorire l’attività dell’opera-

di vista del rendimento, ma vivono condizioni di disagio. Spesso (questo malessere) viene vistocome problema legato agli stranieri, all’handicap… io invece lo riporterei complessivamente aduna condizione giovanile che è sempre un periodo di passaggio…

- A me sembra che nelle parole usate ci sia anche un po’ il senso, l’accentuazione di alcu-ne problematiche giovanili in relazione al contesto sociale in cui questi ragazzi vivono… Cioè,se è vero che essere giovani è sempre stato difficile, mi sembra che oggi si evidenzi una criticitàancora maggiore…

- Una forte criticità, un senso di sfiducia complessivo… Nei confronti della situazione poli-tica per esempio… non hanno più quei grossi impegni, interessi… Non posso dire che sbagli-no, per carità… Soltanto che io ho un’età per poterlo dire (che non vale la pena impegnarsi inpolitica, ndr), da loro magari ti aspetteresti che avessero delle illusioni. Sono giovani che hannopoche illusioni. Sono molto realisti, da un lato, e anche molto opportunisti, utilitaristi anche…Fanno cose che hanno un respiro molto limitato… Così come non proiettano la loro esistenzain progetto, così anche tutto quello che fanno è legato all’utilità del momento: “faccio una certaattività, ma solo per guadagnare un credito formativo”… Non si pensa che si sta costruendoqualcosa, che certi interessi vanno coltivati… È chiaro che il mio discorso è di carattere gene-rale, ci sono le eccezioni che confermano la regola, però i comportamenti complessivi sono que-sti…

- Qual è la conseguenza di questo sfondo sociale, culturale, valoriale che vedete nella quo-tidianità della scuola?

- Da un lato una scuola che, ancora di più che nel passato, si sente caricata di responsa-bilità e di compiti… che ci sono sempre stati. La scuola ha sempre condiviso con la famigliai problemi che arrivavano, però quando è sola ad affrontare il discorso educativo e la famiglianon solo non condivide, ma al contrario contrappone immagini, situazioni, valori che sonodiversi da quelli della scuola, è chiaro che questo costituisce un problema.

Dal punto di vista del lavoro scolastico, del rendimento, questi giovani sono anche pocodisponibili a lavorare, ad impegnarsi, ad avere una continuità nello studio… E quindi è unlavoro, quello dei docenti, sempre più caricato di peso del quotidiano, dello star dietro a questiragazzi, del sollecitarli… e questo è certo un elemento di appesantimento. Un elemento diappesantimento è il dover sempre motivare…

Un altro aspetto è questo forte atteggiamento critico dei giovani. Posso anche pensare chespesso questo possa essere motivato, però…

Ai docenti si chiedono le competenze disciplinari, ma si chiederebbe anche una capacità dilettura delle situazioni. E d’altro canto c’è da dire che l’istituzione scuola spesso svolge il suoruolo in solitudine, perché taluni riferimenti non riesce ad averli. Per fare un esempio: io stocercando da 20 giorni di mettermi in contatto con un’assistente sociale del Comune su un pro-blema anche di una certa consistenza, non riesco a parlarle da venti giorni…

L’istituzione scuola è molto isolata in questo percorso, quindi laddove si trovano dei docen-ti impegnati che hanno il senso della forte responsabilità, dell’aiutare a costruire una persona-lità, qualcosa si riesce a fare; ma laddove troviamo dei docenti che magari sono un po’ stan-chi, sfiduciati, o che non hanno quella sensibilità di cogliere i segnali… Perché i giovani spes-

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cosa che più mi interessa, vederli studiare insieme…”

I ragazzi colgono parzialmente questa opportunità, secondo le loro esigenze,ma non cercano qualcuno che stia ad ascoltarli.

“Vengono molto per l’uso del computer, mentre si perdono se devono studiare una materiasenza la presenza dell’adulto. Sono ancora dei bambini. Forse l’adolescenza si è allungata,forse è arrivata a 27 anni… Sono come bimbi delle elementari…

Qui (alla Scuola Aperta) dovrebbe esserci anche questa attività di ascolto, ma devo direche nella nostra scuola non parte, non si realizza, non si concretizza… Io per prima, comereferente della Scuola Aperta, non vorrei mai sentir parlare in modo non corretto dei miei col-leghi, assolutamente… credo che sia diseducativo…”

La collaborazione scuola-famiglia In alcune scuole lo sportello di consulenza è esplicitamente rivolto anche alle

famiglie, e in una in particolare è stato integrato con l’organizzazione di semina-ri per i genitori su temi educativi. è un esempio poco seguito che, però, ha datosubito risultati soddisfacenti, che ricordano l’importanza di stabilire una colla-borazione tra scuola e famiglie.

“Nel progetto di accoglienza abbiamo la presenza dello psicologo che svolge anche un’atti-vità di sportello individualizzato destinata ai genitori. Come sportello per i genitori non hafatto molto, però ci sono stati alcuni che hanno sentito la necessità di utilizzare queste espe-rienza per avere dei consigli.

Quest’anno abbiamo pensato di dare un ulteriore sviluppo con un progetto in più per i geni-tori elaborato in collaborazione con l’Istituto S. Vincenzo, un istituto legalmente riconosciuto.Abbiamo utilizzato un finanziamento comune e abbiamo realizzato due seminari su temati-che educative che hanno visto una piena partecipazione.

Penso che il prossimo anno questo progetto avrà una sua continuità. È stato un passaggiopositivo questo, perché il progetto genitori stenta molto a costruirsi.

Nel passato avevamo nella scuola un comitato genitori molto propositivo, si dava molto dafare… Poi gradualmente, diplomatisi i figli, sono cambiate le persone, il comitato è meno atti-vo. Nel passato era il comitato a proporre, quest’anno abbiamo fatto una proposta noi.Secondo me è molto interessante anche perché, per quanto dia un giudizio di preoccupazionenei confronti delle famiglie, indubbiamente oggi i genitori hanno un compito pesante, estrema-mente impegnativo in una realtà che dà stimoli, proposte, indicazioni… È più difficile darestrumenti educativi autonomi perché scatta il meccanismo del tipo “il compagno fa così”, “ malui va”, “ma lui ha”, “ma lui fa” “perché io no”… Ecco perché occorre molta saldezza…Quindi occorre sostenere i genitori nel loro lavoro e svolgere insieme il ruolo educativo…”

tore e raccordarla con le proprie, come nell’organizzazione degli accessi di sin-goli studenti al punto di ascolto. Si legge tra le righe una delega allo specialista,più proficua del rifiuto a prendere atto dei problemi, ma ancora parziale rispet-to alla possibilità di attivare le risorse della scuola per accogliere ed integrareragazzi in difficoltà.

“(Nella nostra scuola, ndr) ci sono tante situazioni un po’ difficili… situazioni familia-ri, situazioni a rischio… Una psicologa già da qualche anno (conduce colloqui al centro diascolto, ndr) e abbiamo visto che la cosa ha successo, i ragazzi partecipano in maniera abba-stanza estesa. Sono stati molto interessati, si sono presentati a questi spazi… pervenivanoindividualmente… Avevano una procedura da seguire nel senso che si iscrivevano nel corsodella giornata in cui sapevano della presenza di questa dottoressa.

(In alcuni casi la dottoressa) ha avuto un incontro con tutta la classe, dove quindi seguivaun suo percorso, e poi incontri anche individuali. Alla fine dell’anno relazionava anche un po’a noi docenti, ci metteva al corrente di alcune situazioni… magari (ci dava) qualche suggeri-mento…”

Fa eccezione un liceo nel quale l’ascolto è partecipato da un gruppo di inse-gnanti che ha seguito una formazione specifica per condurre colloqui di aiutoall’interno del CIC. Quello che viene dato ai ragazzi non è un supporto terapeu-tico, più semplicemente una possibilità di ascolto che sfocia, di fronte a proble-mi davvero gravi, in un invio ai servizi del territorio.

“Il centro di ascolto è coordinato da una psicologa. Questo centro di ascolto in realtà è com-posto da docenti della scuola che si sono formati per svolgere questo tipo di supporto. Emergonoproblemi di ogni genere, dal disagio familiare, alla difficoltà a vivere la dimensione dello stu-dio e della responsabilità… problemi nella relazione tra pari…

Quindi questo è uno strumento interno alla scuola che in qualche modo cerca di individua-re lo studente in disagio e poi, laddove è possibile affrontare la difficoltà la si affronta, laddo-ve non è possibile magari si aiuta il ragazzo ad indirizzarsi verso chi possa aiutarlo. È chia-ro che non è uno strumento professionale, ma può essere un primo luogo dove lo studente puòindirizzare una richiesta di aiuto”.

La docente di un istituto tecnico porta un parere discordante, contrarioall’esistenza di uno sportello di ascolto per gli studenti.

“Nella scuola c’era il CIC. È iniziato come una forma di confessionale: i ragazzi anda-vano a lamentarsi dell’insegnante, dei vari insegnanti… Non avevano capito lo spirito di que-sto servizio.

Via via è andato diminuendo e ora c’è questa attività che si chiama Scuola Aperta, cheio appoggio caldamente. Si permette loro di venire a scuola dalle 14, 30 alle 16, 30, di usarele strutture, perché non tutti hanno il computer a casa… di studiare con i compagni, che è la

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Probabilmente li vivono come un raro momento in cui a scuola è possibile con-frontarsi su temi che li riguardano molto da vicino.

“I ragazzi sono veramente interessati a questo tipo di argomenti. Tutte le volte che si trat-tano questi temi sono molto disponibili, sensibili… Poi il nostro preside fa molta prevenzio-ne anche in maniera più specifica, nel senso che ogni tanto si controlla… La nostra scuola èmeno pericolosa di quello che dall’esterno si può immaginare…”

Questa insegnante, come altri, si interroga su quale sia l’atteggiamento deisuoi allievi verso le droghe e formula qualche ipotesi, consapevole che questitemi non sono oggetto di dialogo tra docenti e allievi.

“Secondo me l’unica sostanza che in generale tra i giovani è percepita come meno pericolo-sa è la marijuana; altre cose pesanti, secondo me, nella nostra scuola o non esistono o sono pro-prio una cosa sporadica…

L’uso di alcol non glielo so dire, perché naturalmente a scuola l’alcol non si usa. Cosa lorofacciamo il sabato sera non lo so… La percezione del rischio legata all’alcol non è così eviden-te, la stessa cosa con la marijuana…”

Gli insegnanti più attenti sono consapevoli che alcune tendenze presenti alivello nazionale ed europeo non possono mancare nella loro città, nei loro isti-tuti. è implicito che tra gli studenti ci siano ragazzi che abusano di alcol o fannouso di altre sostanze, ma questo riguarda la scuola solo in parte, cioè quandocompaiono segnali di allarme rilevabili dal docente o al punto di ascolto.

Il forte realismo degli insegnanti ci fa pensare che la scuola consideri la pre-venzione primaria un compito necessario ma raramente efficace, una cosa giu-sta da fare, ben sapendo che probabilmente gli studenti si avvicineranno comun-que a qualche sostanza legale o illegale.

“Con questo non ci illudiamo naturalmente che il problema non ci sia. È chiaro, sarebbesciocco pensare che non ci siano problemi del genere, ci sono sicuramente… In alcuni casi emer-gono attraverso questo tipo di strumento anche diagnostico (lo sportello di ascolto, ndr). Noisiamo consapevoli che c’è questo tipo di problema presente, poi si vede come affrontarlo…”

In un liceo il problema sfugge del tutto alla scuola, perché chi usa sostanzetende ad abbandonare gli studi. L’istituzione scolastica cerca di intervenire coin-volgendo le famiglie, ma ha forti limiti di competenze sia in quanto a ciò che èpreparata a fare, sia in quanto a ciò che le spetta fare.

“Sulle sostanze ho notato qualcuno, ma sono generalmente ragazzi che si autoeliminano(dalla scuola, ndr) da soli, perché bene o male poi i lori interessi si spostano fuori.

La prevenzione dell’uso di sostanze

Un problema specifico della fascia di età adolescenziale è la sperimentazionedi sostanze psicotrope legali e illegali. Su questo tema la scuola ha specificheresponsabilità per condurre o favorire interventi di prevenzione, una responsa-bilità che le scuole piacentine assolvono ogni anno in modo piuttosto omoge-neo, in collaborazione con il Servizio Tossicodipendenze dell’Azienda Usl e conle Forze dell’Ordine.

“Per quanto riguarda l’uso di sostanze sono stati organizzati degli incontri con esperti delSer.T. per illustrare un po’ i rischi, i problemi, le conseguenze… Incontri che hanno avuto uncerto successo da parte dei ragazzi, nel senso che sono stati seguiti con interesse, sono statiapprezzati. Sicuramente sono cose che vanno portate avanti, proposte ancora, perché l’utenzaè ancora tanto eterogenea per cui situazioni di rischio tra i ragazzi si verificano sempre…”

“Noi non abbiamo avuto problemi conclamati all’interno della scuola. C’è stata la nor-male collaborazione con le forze dell’ordine, per cui sono venuti una volta a scuola con i caniantidroga chiamati dalla preside… Ma proprio per mostrare ai ragazzi che c’è un’attenzio-ne da parte nostra, da parte delle istituzioni, per questo tipo di problemi. Queste sono mani-festazioni un po’ di parata, più che sostanziali. Da noi fortunatamente non è stato trovatonulla…”

In un liceo, oltre agli incontri con gli operatori del Ser.T., si è sviluppato unprogetto di educazione tra pari.

“…e poi c’è stato un lavoro interessante tra pari, i ragazzi delle classi più avanti hannolavorato su questi temi e poi si sono messi in contatto con i loro compagni più giovani per discu-tere, per parlarne… Anche qua nella logica di far emergere un problema laddove ci fosse, perpoi vedere cosa fare a seconda della gravità.”

Al di là delle sperimentazioni, un po’ tutte le scuole hanno ormai una con-suetudine nel lavoro di prevenzione, che si ripete ogni anno secondo ritmi con-solidati. Come sottolineava un insegnante, “lo facciamo ormai di default”.

“Si fa tantissimo da molto tempo, in particolare nel biennio, sia sulla prevenzione dellemalattie, sia sulla prevenzione delle tossicodipendenze. Più o meno tutte le classi del bienniosono coinvolte annualmente in qualche progetto, in modo che più o meno sono tutte coperte.(Lavoriamo - ndr) in collaborazione con l’esterno: il Ser.T., l’Associazione “La Ricerca”…L’anno scorso abbiamo fatto un lavoro con il capo della squadra mobile…”

La risposta degli allievi a progetti come questi è sempre molto positiva.

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chiamare un genitore e dirgli… Io sinceramente a volte alcuni genitori li ho proprio chiamatie ho detto: io sono sicura che suo figlio fa uso di sostanze. Ho detto che avrei chiamato il118e gli avrei fatto fare gli esami del sangue sul momento. Mi hanno risposto che glieli avrebbefatti fare il padre… e poi che li aveva fatti ed era tutto a posto…”

Il contrasto alla dispersione scolastica

Preoccupa gli insegnanti il fenomeno della dispersione scolastica, che loropercepiscono come in aumento. In quasi tutte le scuole i docenti si interroganosu come contrastare questa tendenza.

“Cerchiamo di arginare il fenomeno della dispersione scolastica in qualche maniera.Quest’anno abbiamo visto che c’è stato un bel numero di ragazzi che si sono ritirati, hannovoluto provare il mondo del lavoro. Noi cerchiamo di combattere anche questo con tutte lenostre possibilità… (Questi casi) si sono verificati quest’anno, forse quest’anno in particola-re… anche in alcune prime…”

C’è un liceo dove l’abbandono dei ragazzi è vissuto dagli insegnanti in modopoco problematico, come un miglior orientamento.

“Se succede (che dei ragazzi abbandonino) è su nostra indicazione… Molto spesso, cioèdirei proporzionalmente tre su quattro che se ne vanno, seguono un’indicazione nostra.Soprattutto tra la prima e la seconda si fa molta attenzione alle attitudini e quindi il coordi-natore convoca i genitori, informa, consiglia… Ecco, qualche volta abbiamo casi di ragazziche cambiano scuola, o meglio, scelgono la scuola privata facendo sempre un liceo come ilnostro…”

Ben diverso il vissuto dei ragazzi, come testimonia la docente referente di unpolo scolastico al quale spesso si iscrivono allievi reduci di un insuccesso inun’altra scuola. Secondo questa insegnante i fattori che determinano un abban-dono sono molteplici, non tutti a carico degli allievi:

“Arrivano delle persone che hanno avuto degli insuccessi scolastici, quindi un po’ “incatti-vite”… non so come dire… Perché l’insuccesso, il fatto di passare da un liceo ad un profes-sionale, li mortifica fortemente, quindi arrivano scontentissimi, pronti a dar battaglia… biso-gna recuperare. Il fatto è che poi se li recuperi saranno magari i migliori, perché sicuramentel’insuccesso è stato causato non solo da loro… C’è stato il momento del passaggio, qualche dif-ficoltà… e non si sono sentiti capiti.

Spesso questi ragazzi, se si riesce a superare il periodo in cui ce l’hanno con tutti, sonoquelli che poi possono trascinare gli altri e trovare anche una soddisfazione all’interno dell’isti-tuto, diventano i più bravi, quelli più riconosciuti da tutti…”

Noi comunque non siamo mica esperti… diciamo: “questo mi sembra che si fuma su qua-lunque cosa”, ma è da verificare… Certo è che non sta attento in classe, ha degli atteggiamen-ti che ti danno la sensazione che sia un po’ fuori… Non siamo medici, non siamo esperti, nonsiamo un bel niente, possiamo solo dirlo ai genitori… come se fosse tuo figlio che ti viene a casacon gli occhi strani…”

Secondo questa docente, chi comincia ad usare sostanze cerca di parlarne ascuola in modo apparentemente neutro, per raccogliere informazioni sui rischiche corre. Poi però gli insegnanti si insospettiscono e si trovano a dover gestireil compito delicato di avvisare le famiglie senza creare allarmi eccessivi e senzaspezzare la fiducia.

Anche in questo lungo passaggio si ha la sensazione che la scuola tratti il pro-blema come una sorta di corpo estraneo che interviene a perturbare l’apprendi-mento e a cui non sa come fare fronte, che forse non sa neppure riconoscere.

“(I ragazzi, ndr) si informano molto, chiedono ad esempio all’insegnante di chimica gliaspetti chimici della sostanza, perché fa male… Magari non è una droga ma un anabolizzan-te… Magari è un ragazzo che si vuole pompare il fisico… Allora (l’insegnante) dice che que-sta sostanza fa così e colà… Sono loro stessi che si informano, non è che non lo sanno… losanno…

Ci dicono di tenerli d’occhio, ma questo cosa vuol dire? Mica li puoi seguire… Sarannodue o tre, gli studenti che ti danno l’impressione di essere a rischio, li tieni d’occhio e vedi chedopo un po’ comunque mollano la scuola, perché gli interessi li hanno da un’altra parte.

Prima di tutto cominciano a non avere risultati… passabili, per cui il genitore viene a chie-dere come mai il figlio ha dei voti così bassi. E uno anche lì come insegnante non sa che dire…Io a volte con qualche genitore ho segnalato qualche mio sospetto, ma è una roba brutta per-ché se lo dico subito mi chiedono se sono sicura… sembra sempre che dici qualcosa di grosso,ti guardano con certi occhi…

Comunque la percentuale (di consumatori) è bassa. Ci sarà da tutte le parti, non lo so…Noi li conosciamo a vista quelli che ci sembrano… Ma magari siamo dei poveri tonti, in real-tà sono il doppio o il triplo, che ne sappiamo…”

In un istituto con una identità forte, molto centrata sulla formazione cultu-rale, le possibilità sono due: o il ragazzo in difficoltà torna sui suoi passi e tornaad essere il bravo studente che qui si richiede, o non c’è spazio per lui.

“Spesso il disagio e l’uso di sostanze si associano al rendimento molto basso, quindi quan-do vedi una persona che improvvisamente va giù di rendimento ti dici che c’è sotto qualcosa. Simanda la lettera ai genitori, si chiamano… Questi vengono e cosa gli dici? Fai curare tuofiglio?

Non so se rientra nel nostro ruolo l’intrusione nella vita delle famiglie. Non è che uno possa

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La delega al referente però sembra inevitabile, data la disparità di preparazio-ne dei diversi insegnanti e il diverso modo di concepire il proprio ruolo.

Questo docente, che insegna in un istituto tecnico, ammette che tra i colle-ghi ci sono non poche resistenze ad occuparsi delle relazioni tra i ragazzi, ed èquesto il motivo per cui tutto viene affidato ad alcuni volontari personalmenteinteressati.

“C’è un referente per la salute che dovrebbe seguire un po’ di più… c’è qualcuno che seguei gruppi di consulenza, so che qualcuno si è rivolto… Per i ragazzi di difficoltà ci sono tanteopportunità, ma per lo studio. Oggi è una difficoltà generalizzata mettere a fuoco che la scuo-la è una cosa seria, una cosa bella… non una cosa che tanto c’è, un dato di fatto.

Quest’anno alcuni di noi hanno partecipato a quel corso che ha realizzato la Cattolica… (Inpassato altro) si è fatto, per gruppi di volontari. Devo dire che probabilmente… la nostra è unascuola tecnica, soprattutto nel triennio c’è molta difficoltà a guardare agli aspetti delle dinamicherelazionali. Si è un po’ più ingegneri… portati a considerare tutto quello che dovrebbe aiutare agestire il gruppo come una fatica in più… Nel biennio c’è un po’ più di sensibilità, da noi altriennio attività del genere non è che riscuotano un grossissimo successo…”

Come si è visto via via, affrontando i diversi aspetti della prevenzione deldisagio e dell’educazione alla salute, questi temi vedono una collaborazione arti-colata e concertata tra la scuola e il territorio, all’interno dei Piani di Zona e nellaconsuetudine di rapporto tra le scuole e l’Azienda Usl, Associazioni come “LaRicerca” o “ASSOFA”, altre risorse individuate secondo le necessità.

La collaborazione, per dare buoni frutti, deve avere alcuni requisiti. In unpolo scolastico, ad esempio, gli operatori del Ser.T. hanno chiesto di tenereincontri sulle droghe solo nelle classi in cui erano stati i ragazzi a richiederli.

“Le dottoresse (del Ser.T.) dicevano che se il problema è accolto dalla classe, se è la classeche chiede l’intervento, loro lavorano meglio, altrimenti fanno fatica.

E allora nelle classi dove questo avveniva, i ragazzi ci dicevano che andava bene. In quel-le classi dove invece il problema c’era, ma non era stato da loro individuato e non è stato daloro richiesto l’intervento, gli operatori del Sert si trovavano male… i ragazzi ancora peggio,e il lavoro non dava frutti...”

Chiudiamo anche questa riflessione con una contrapposizione. Ascoltiamonell’ordine l’insegnante di un istituto professionale che sente l’esigenza di pro-grammare la prevenzione del disagio, e poi la collega di un istituto tecnico chesostiene l’opportunità di lavorare sulle emergenze (che, tra parentesi, nella suascuola non ci sono…).

“Secondo me gli insegnati non hanno il tempo, per la disciplina che insegnano, per le ore

La scuola si organizza per rispondere al disagio

Il disagio crescente degli studenti interessa tutti, all’interno della scuola, mariguarda pochissime persone, in genere uno o un piccolo gruppo di insegnantiper ogni istituto. Talvolta il referente è soprattutto un bravo organizzatore diopportunità portate a scuola dall’esterno (servizi del territorio, associazioni…),in altri casi è di per sé un collega che ha approfondito la propria formazionepedagogica con un affondo specifico sulle tematiche adolescenziali.

“Solitamente chiediamo la collaborazione di esperti esterni. C’è una commissione salute chelavora, grazie alla mia collega di scienze, in maniera molto, molto attiva. Questa è una com-missione che deve esserci per cui il collegio dei docenti la nomina. Solitamente c’è la mia colle-ga referente che poi lavora con altre 3-4 persone, ma è lei che organizza le varie attività sututti i settori, lei che coinvolge le classi, organizza incontri con esperti esterni, visite…”

“C’è il mio collega che si occupa di educazione alla salute e so che si da molto da fare perorganizzare, per fare incontri, per informare se non altro… Come sempre c’è il problema ditrovare le persone che si vogliono prendere queste responsabilità, anche perché non è che un inse-gnante si senta particolarmente competente… Io mi sono laureata in matematica, posso anchefare il diagramma delle cause di rischio però non è che mi senta competente… L’insegnanteche si occupa di queste cose è il nostro insegnante di religione ed è un laico che ha studiato moltole tematiche, vedo che lui si muove molto bene, sa dove andare a parare…”

La tendenza ad affidare l’educazione alla salute a poche persone e semprequelle, dà luogo ad una fortissima personalizzazione degli interventi, positivanelle fasi migliori per la passione e la competenza che questi insegnanti sannoesprimere, carente quando, per un trasferimento o un problema personale, ilreferente lascia l’incarico e non si sa chi possa sostituirlo.

“Nella nostra scuola, fino a due anni fa, c’era un’insegnante di religione che ha gestito tuttaquesta cosa molto bene, e quindi non è che ce ne preoccupavamo tanto perché lei organizzavala scuola aperta, il CIC, il giornalino, gli incontri con gli psicologi quando era necessario…

Quest’anno l’insegnante è andata via per cui siamo stati più in difficoltà… anche perché que-st’anno c’è stato un bel taglio di fondi e tutte le attività fatte lo scorso anno sono state messe da parte.Alla fine si è potuto fare solo quello che o era gratuito o comunque non costava tantissimo…”

“Lei era molto, molto presente, molto attenta, molto preparata… aveva una preparazio-ne di tipo personale adatta a questo tipo di lavoro… Ora purtroppo se n’è andata.

Quindi fino all’anno scorso le cose erano molto presidiate, molto monitorate. Come si crea-va un problema in qualsiasi classe lei ne parlava immediatamente e si trovava insieme, grazieanche alle sue conoscenze, il modo di farvi fronte…”

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“…non vedo particolari questioni, se non legate a qualcuno che ha già le sue problemati-cità, magari proveniente da qualche fascia politica che tende a separare…

Trovi il tizio che gira con la svastica incisa sulla mano, non tanto perché vuole andare con-tro alla persona straniera, ma per farsi vedere. Poi magari, se scavi, sotto non c’è nulla… maper mantenere un ruolo deve criticare quel tipo perché viene dall’Africa, senza motivazioniforti. D’altra parte le forme di razzismo funzionano un po’ così”.

Un altro aspetto rilevato da più di un docente è la difficoltà a far valere delleregole e, in generale, l’atteggiamento provocatorio dei ragazzi nei confronti degliinsegnanti, perfino di quelli che non conoscono. Lo racconta l’insegnante di unistituto professionale sull’onda recente di un incontro di orientamento:

“Ieri mattina stavo spiegando in laboratorio di chimica con una classe delle medie che eravenuta in visita e ho detto ai ragazzi che non sarei entrato nei particolari perché l’argomentoera troppo difficile. Uno di loro mi dice che non lo spiego perché tanto non lo so. Questa cosami ha scioccato perché non avrei mai immaginato che un ragazzino di quell’età si potesse rivol-gere a me, che non aveva mai visto, in quei termini.

Questa aggressività, questo modo di porsi con l’adulto, con una figura che rappresental’istituzione… Non mi sarei mai sognato di avere una risposta del genere. Questa cosa mi hafatto riflettere… Probabilmente c’è qualcosa di fondo che non va, non funziona…

Il bullismo c’è sempre stato, quello più forte vuole fare il leader del gruppo o si impone inun certo modo. Però è cambiato, si offendono molto di più, sono molto più cattivi, più pesantinell’usare certi termini, certe espressioni. Certi intercalari sono normali, sono consuetudini.Alla mia meraviglia su cosa stessero dicendo, la risposta è stata: ma cosa abbiamo detto ditanto sbagliato? Per loro certi appellativi, che per me potevano essere veramente una trasgres-sione, sono intercalari normali, comuni… li ascoltano probabilmente in casa…”

Cambiano i linguaggi, le forme, i modi di stare insieme. Spicca, tra i muta-menti, il cellulare.

“Mi rendo conto che questi ragazzi sono iperattivi, iperagitati. Hanno questo cellulare cheormai è un’appendice del loro corpo, comunicano con i cellulari anche fra di loro…”

Comunque la si pensi, una cosa è certa: si è incrinata la possibilità di una rela-zione asimmetrica tra ragazzi e adulti. L’insegnante non può più concedersideroghe perché i ragazzi lo osservano continuamente, richiedendogli una coe-renza senza sbavature. E quando gli adulti non osservano le regole, chi si trovaa raccontarlo non può sfuggire all’imbarazzo, come questa docente di un istitu-to professionale mentre parla di alcuni colleghi che il telefonino lo usano men-tre sono in aula.

“Questo problema del cellulare è molto forte. Malgrado diciamo ai ragazzi che non si può,

che passano in classe, non hanno tempo, spazio e competenza per affrontare le questioni (deldisagio dei ragazzi, ndr). Per un insegnante di diritto che ha due ore (alla settimana, ndr),risulterebbe molto difficile far fronte a questi fatti. Sì, la formazione dei docenti sicuramente,ma in fondo non basta… Quest’anno sono andati a formarsi coloro che già avevano una sen-sibilità nei confronti del problema, e nella classi dove abbiamo fatto alcuni progetti le cose sonocambiate, si sono modificate…

Tanto lo sappiamo già che il disagio ci sarà… Bisognerebbe già all’inizio dell’anno direcosa si vuole fare, sulle prime, sulle seconde… già saperlo, perché più o meno abbiamo vistoche questi problemi ci sono…”

“(Nel nostro istituto) ci si muove quando il problema si rileva, non si è già pronti con unprogramma. Secondo me è anche meglio, perché come fai a preparare un programma su qual-cosa che non hai vissuto, che non hai percepito, che non hai toccato…? Un minimo di contat-to ci vuole. È da lì che se uno è interessato pensa, riflette, crea…

Ma comunque nella nostra scuola non ci sono problemi di comportamento…”.

Il bullismo: un fenomeno emergente

“Il bullismo sta emergendo in tutta la sua importanza perché a scuola le classi sono cam-biate, i ragazzi sono diversi. Non abbiamo più i ragazzi di 10 anni fa, e neanche quelli cheavevo quando ho cominciato ad insegnare, neanche quelli che erano i miei figli… È una real-tà che abbiamo preparato noi, figli di questo tempo, di questa televisione. Noi non abbiamogli strumenti per affrontarli, almeno io non li ho. Dico “noi” come scuola…come docenti…”

Questa insegnante di un polo scolastico della provincia di Piacenza riassumeefficacemente una convinzione condivisa da gran parte dei docenti incontrati. Ilbullismo è in crescita, questo territorio non fa eccezione rispetto ad un andamen-to generale che è nazionale e non solo, e la scuola è poco preparata ad affrontarlo.

I ragazzi sono cambiati, lo abbiamo ricordato parlando del disagio che iragazzi manifestano anche a scuola e di cui il bullismo non è che un aspettomolto specifico. Ci siamo chiesti se questo fosse dovuto anche alla crescente dif-ferenziazione culturale all’interno delle classi. Questa insegnante di un altro poloscolastico tende ad escluderlo:

“Le situazioni di bullismo, se ci sono, sono quelle presenti genericamente fra ragazzi dai14 ai 18 anni indipendentemente dalla cittadinanza. Forse c’è il disagio di chi arriva e nonsa ben parlare, ma non sono casi particolarmente gravi, quelli dei ragazzi stranieri”.

Fanno eccezione situazioni in cui l’esclusione, il razzismo, sono motivati daposizioni politiche estreme:

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durante le lezioni, sono stati coinvolti il preside, i genitori delle ragazze che offendevano, i geni-tori della ragazza offesa…

La ragazza che ha reagito ha anche un po’ di difficoltà che non sono solo legate alla lin-gua, fin dalla scuola media aveva grosse difficoltà di apprendimento. Lei però è sempre statauna ragazza pacifica, severa, tranquilla… Mi ha detto che nel suo paese non sono abituati afare queste cose e ci si difende se ciò accade, e questo mi ha commosso perché lei in fondo è statala vittima di tutto ciò… anche perché era stata fortemente provocata…”

Anche questo è un dato ricorrente nelle situazioni di bullismo tra compagnidi classe: le prepotenze possono protrarsi nel tempo perché, accanto alla vitti-ma per eccellenza, ci sono altri che hanno paura e non osano palare. Quando unfatto porta in evidenza questa forma distorta di potere, anche alcuni insospetta-bili trovano il coraggio di esprimere il proprio disagio.

“Io e la coordinatrice abbiamo chiesto se fosse solo una la vittima di queste angherie. A noirisultava che fosse successo a più persone e difatti alcune ragazze, dopo una premessa che ave-vamo fatto io e la collega, hanno cominciato a dire che tutti ce l’avevano con loro. Questo è statodetto davanti a (le ragazze che facevano prepotenze, ndr), quindi tutto è venuto fuori.

Queste ragazze, da allora, si sono sentite un po’ più scoperte, quindi con le compagne sannoche ormai non possono fare nulla, non le hanno più in pugno. Casomai lo fanno con qualcheinsegnante… Sono, non dico minacciose, ma fanno sentire quella pressione, derisione… Sonoterribili queste tre, e sono in prima…”

Un provvedimento da parte della scuola c’era stato, dopo questo svelamen-to. Era stato necessario discutere in modo approfondito prima di decidere checosa fare, e per l’insegnante è evidente come la decisione assunta non esauriscail campo e quanto, al contrario, sia necessario interrogarsi ancora su questofenomeno che più di altri sembra scuotere l’istituzione scolastica dalle fonda-menta, poiché ne mette in discussione i rapporti tra le diverse componenti:

“(Abbiamo dato, ndr) un sette in condotta a tutte ma non la sospensione, la dirigenza èstata abbastanza ferma in questa cosa. Il prossimo anno sarà un discorso che bisognerà ripren-dere, perché sulla sospensione sicuramente bisognerà andarci cautissimi, però cominciano adesserci dei livelli per cui non si capisce più cosa è possibile accettare o meno… Bisognerà che ciconfrontiamo…”

I ragazzi presi di mira sono quasi sempre persone che si distinguono dallamaggioranza per qualche loro caratteristica. Nella situazione appena accennatache questo docente ha creduto di riconoscere, durante un altro incontro diconoscenza della scuola rivolto a ragazzi del primo ciclo della scuola seconda-ria, vengono chiamati in causa gli studenti più diligenti:

malgrado chiediamo di spegnerli… (loro lo tengono acceso ugualmente, ndr). C’è qualcuno dei colleghi che per motivi di lavoro lo tiene acceso - in genere sono pochi e

comunque sono… non dico “autorizzati” ma… Per esempio la nostra vice ha il permesso per-ché il preside non è lì, lei dovrebbe continuamente scendere le scale perché la chiamano al tele-fono… allora tiene il cellulare acceso, ma è un’eccezione che i ragazzi possono capire, ancheperché quando sta spiegando dice che fra dieci minuti finisce e richiama. Poi c’è qualcuno chetrasgredisce…”

Episodi di bullismo

In un quadro di allarme generale e di conflittualità crescente e diffusa, è leci-to chiedersi se sono stati osservati o quantomeno intuiti dei casi di prepotenzeripetute.

Il primo tra gli episodi ascoltati è un caso abbastanza tipico di bullismo alfemminile ed è avvenuto in un istituto professionale:

“Una ragazza è stata fotografata con il cellulare. Si stava cambiando, semplicemente…poco vestita… Ed è stato brutto, perché poi hanno mandato la foto ai compagni, quindi suquesta cosa c’è stato un chiarimento. Però la cosa che preoccupa non è tanto il gesto in sé, nelsenso che è un atto a sé stante, ma è proprio il non mettersi nei panni di qualcuno che saràderiso… è questa la cosa che disturba… è il sopruso che disturba…”

Qui la scuola è intervenuta sul fatto coinvolgendo ragazzi e famiglie, e incon-trando, come spesso accade, l’atteggiamento difensivo dei genitori di chi è statoautore di prevaricazioni:

“Abbiamo parlato con le ragazze, prima di tutto con la classe spiegando che non si può epoi i motivi perché non si può. E poi abbiamo parlato con le ragazze da sole perché non scat-tasse qualche atteggiamento vendicativo… E poi con i genitori, i quali si difendono dicendoche il telefonino era stato dato per un maggiore controllo, non accettano il fatto che i telefonininon possono essere tenuti accesi…”

In quest’altro caso la vittima, una ragazza africana, non ha accettato di subi-re e proprio questo ha scatenato il caso:

“In una prima c’era un gruppo di ragazze carine, due di queste provenienti da un’altrascuola. Da un punto di vista scolastico avevano grosse lacune e, da un punto di vista compor-tamentale, erano terribili… A turno hanno tormentato tutte le compagne, soprattutto le stra-niere. Finché una compagna straniera si è stufata di essere tormentata in maniera molto inci-vile e ha dato una sberla…

È stata una faccenda pesante perché la ragazza ha reagito. Si sono picchiate nei corridoi

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Anche la collega di un tecnico parla di un bullismo “normale”, consueto,poco aggressivo. Ma quale deve essere il confine tra ciò che è accettabile e ciòche non lo è?

“Qualche volta succede, io non è che abbia un dato preciso. Mi accorgo magari di episodidel più grande nei confronti dei più piccoli, ma sono quelle cose che ci saranno sempre state,suppongo… Non ho mai visto delle forme pesanti. C’è la cavolata, il piccolino al quale vieneimposto di andare a prendere un panino…”

Di fronte a questi o altri episodi i docenti si sentono disarmati:

“Gli insegnanti (non fanno percorsi in classe sulle relazioni, ndr) ma non è per mancan-za di buona volontà, è perché noi non ci sentiamo adeguati. Cosa mi posso mettere a dire o afare delle cose…? Posso solo dire ai ragazzi di stare attenti, di seguire, però…

Il bullismo… Se si vede, se si sa dell’episodio, se si sa di una persona che… lì si intervie-ne. Ma si interviene come educatori normali nei confronti di un episodio tra ragazzi…”

Il fatto strano è che questo intervento “normale”, per un bullismo “norma-le”, sia ritenuto così poco importante. Nella realtà di tutti i giorni sono tanti idocenti che, a detta dei ragazzi, fanno finta di non vedere episodi di prevarica-zione, e anche un intervento “come educatori normali” può essere fondamen-tale almeno per far sentire a chi subisce una presenza adulta capace di prender-si a cuore una situazione e di tutelare chi è in difficoltà. Il dato vero è che spes-so gli insegnanti non sono al corrente di ciò che accade. L’omertà delle vittimee degli spettatori, l’astuzia dei prevaricatori, sono complici nel far sì che il pro-blema non emerga.

“A volte è molto difficile coglierlo, perché poi i ragazzi non si esprimono. Nel momento incui abbiamo qualche dubbio o qualche sospetto cerchiamo sempre, ma con le dovute cautele…perché i ragazzi si chiudono per timore di esporsi troppo. Laddove è stato possibile, sempresulla base di sospetti da parte nostra, abbiamo cercato di capire se effettivamente questi feno-meni erano a livello di bullismo, comunque di disturbo… I ragazzi è difficile che si aprano inqueste situazioni… Abbiamo coinvolto la psicologa per aiutarci a capire meglio…”

“La psicologa” è la risorsa attesa, finalmente la specialista, quella che può direle cose giuste nel modo giusto e aiutare un gruppo di ragazzi a trovare un nuovoequilibrio. Dove esiste il CIC, è chi conduce lo sportello di ascolto che poi, difronte a casi specifici, entra nella classe, parla col gruppo.

“Abbiamo uno sportello di ascolto in attività già da anni… La psicologa ci ha aiutato,l’anno scorso, a fare proprio degli interventi sulla classe nei momenti in cui questo fenomeno

“Ieri mattina c’erano un ragazzo e una ragazza, lei ecuadoriana, lui italiano, di secondamedia, ed erano gli unici che mi seguivano assiduamente. Poi mi sono chiesto perché mi stava-no ad ascoltare. Sono veramente interessati agli esperimenti che stiamo facendo nel laboratoriodi chimica o c’è qualcos’altro…?

Ho guardato il gruppo e mi sono reso conto che erano i più bersagliati. Probabilmente lostare ad ascoltare, il seguirmi sempre, il darmi sempre ragione, era un modo per staccarsi dalgruppo e nello stesso tempo dimostrare che non erano così, non erano come gli altri o comun-que non erano così come si voleva dipingere il resto della classe”.

La diversità è dunque uno stigma ma anche un orgoglio, tutto sta nel comeviene vissuta dai ragazzi. L’insegnante appena ascoltato ha creduto di riconosce-re, nell’atteggiamento di quei due ragazzi, un bisogno di accentuare le differen-ze, benché proprio queste fossero la causa della loro esclusione. è una danzadifficile nella quale si confrontano bisogno di identità e di appartenenza, disocialità e di coerenza personale. Ma quale può essere lo spazio di interventodella scuola?

Non c’è, non si vede… è tutto normale

Al momento dell’indagine non erano molte le scuole che si erano interroga-te su come prevenire o affrontare il fenomeno del bullismo. Nonostante tuttisiano abbastanza concordi nel dire che il fenomeno generale sta crescendo, poidiversi insegnanti affermano l’assenza del problema dalle loro aule, per la sensi-bilità o la cultura dei ragazzi. Secondo il docente di un istituto professionale que-sto dipende dal fatto di appartenere ad una famiglia tradizionale.

“I miei ragazzi li chiamo un pò “i sempliciotti” nel senso che hanno ancora alle spallequella famiglia tipicamente tradizionale e li vedi, li senti… Sono semplici, genuini. Sonoaggressivi ma non arrivano a certi livelli. Girando in altre scuole mi rendo conto che gli altrisono più sofisticati anche nel modo di essere aggressivi, nell’imporsi come leader del gruppo. Imiei sono più ingenui e forse è un bene, nel senso che hanno conservato un po’ quella genuini-tà d’origine… La violenza che c’è nelle altre scuole, ritengo che nella nostra non ce ne siano…

In un altro istituto ci si è interrogati sulla presenza di bullismo ma poi, rassicu-rati dai risultati confortanti di un questionario agli studenti, la cosa si è fermata lì.

“Qualche anno fa avevamo risposto ad un questionario sul bullismo, un questionario abba-stanza recente fatto su diverse scuole di Piacenza. Non ne eravamo usciti male per cui non è statofatto niente di particolare. La sensazione che ci siano situazioni di bullismo a scuola non c’è…

Tra l’altro il dialogo con gli insegnanti e con il preside è molto aperto, se c’è qualcosa saltafuori, ma da noi non c’è niente di serio. I ragazzi, si sa, sono cattivelli fra di loro…”

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Nel polo scolastico invece il progetto è alle porte. La scuola lo ha cono-sciuto un po’ per caso attraverso Internet e ha colto l’occasione per comin-ciare a lavorare, in rete con altri. L’insegnante che lo riferisce sa che qualco-sa va fatto ma chissà come, e confrontarsi con altre europee potrebbe aiuta-re a comprenderlo:

“Quest’anno la nostra vicaria navigando in internet ha trovato un progetto sul bullismo.È riuscita ad entrare in quel progetto e così quest’anno vedremo di fare, noi con altre scuoleeuropee, un confronto su questo fenomeno. È un problema che sta emergendo, che sta venendofuori. Noi non abbiamo gli strumenti per affrontarlo. È vero che il buon senso ci aiuta, perònon può essere lasciato tutto all’improvvisazione…”

La sensazione è davvero che le scuole oscillino tra impotenza e negazione e,nello scoraggiamento generale, cerchino una brillante via d’uscita per affidare ilproblema a qualcun altro che sia capace di gestirlo, sia esso uno psicologo delterritorio o un esperto che arriva dall’altro capo del continente.

L’atteggiamento di fondo sembra essere più d’emergenza che di ricerca, spin-to più dalla fretta di trovare che dal bisogno di capire. Ma come osservavano idue insegnanti al principio del paragrafo sul disagio giovanile, non si tratta diplacare qualche intemperanza. C’è di più. Quello a cui stiamo assistendo è unproblema complesso, ha tante facce, e per la scuola sarà difficile cavarsela ridu-cendo al silenzio tutto ciò che si muove fuori dai binari consolidati e poi anda-re avanti con il programma ministeriale. Di questo alcuni insegnanti sono benconsapevoli, altri pur appassionati del loro mestiere rivorrebbero indietro, forse,quei ragazzi più quieti, ordinati e semplici da capire per i quali avevano intrapre-so questo mestiere.

Nella capacità di farsi interrogare dalla realtà che cambia sta forse il nodogrosso che le scuole non possono non affrontare, per mantenere alta la qualitàdell’apprendimento.

del bullismo si evidenziava particolarmente…”.

In alcuni casi la stessa funzione è stata assolta da un’insegnante non psicolo-ga, ma con una formazione personale e una sensibilità particolari.

“Fino all’anno scorso avevamo una situazione molto ben controllata perché c’era una collegache si occupava di queste cose. È una persona che lavorava molto bene… aveva modo di conosce-re tutte le problematiche dei ragazzi… Il bullismo è una cosa molto recente, essendo femmine lepersone che frequentano la nostra scuola… Anche le femmine comunque non scherzano…”

Già, anche le ragazze non scherzano. I due casi raccolti qualche riga più soprane danno testimonianza. In generale è noto che il bullismo esiste in entrambi isessi con modalità diverse, ed è difficile stabilire graduatorie di gravità o di rile-vanza tra una umiliazione e un’estorsione, tra un’esclusione dal gruppo e unaaggressione. Ma se poi l’insegnante o il professionista a cui si delegano i casiescono da quella determinata scuola? Mantenere il progetto è oltremodo diffici-le. Qualche altro collega si arrabatta, come afferma questa insegnante di un isti-tuto professionale, ma con esiti parziali. Ci sarebbe bisogno di un progetto strut-turato, o forse di una funzione strumentale dedicata.

“Un progetto strutturato c’era quando c’era l’insegnante di religione, quest’anno ci siamoun po’ arrabattati. La mia idea sarebbe quella di trovare una persona che si incarichi di por-tare avanti questo aspetto. Da noi le funzioni strumentali per gli studenti fino ad ora si sonointeressate soprattutto di handicap e stranieri perché erano due problemi molto grossi. Io riten-go che a questo punto sia importante avere una figura di riferimento per il bullismo, perché poila progettazione e tutto quanto passa attraverso una figura che possa coordinare il tutto. I con-sigli di classe lavorano sulle singole classi, però l’insieme si perde se non c’è un coordinatore. Èuna delle idee che ho io… sono anch’io una funzione strumentale…”

Dove un progetto c’è

Tra tutti, due insegnanti ci hanno parlato di un progetto specifico sul bulli-smo all’interno della loro scuola. Entrambi i progetti sono stati raccontati moltorapidamente, senza entrare nelle metodologie di intervento. Possiamo dire peròche hanno riguardato un liceo e un polo scolastico. Nella prima esperienza l’ar-gomento era trattato insieme ad altri e viene citato da questo insegnante inmodo quasi neutro, staccato dalla realtà su cui andava ad insistere, come fossepiù un approfondimento culturale che un intervento sulle relazioni:

“Il bullismo è stato addirittura l’argomento di un progetto di educazione alla salute dedicatospecificamente… ma anche il problema della droga, delle sostanze leggere… anche l’alcol…”

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PUNTI DI vISTA DEGLI STUDENTINON ITALIANI DELLE ScUOLESUPERIORI PIAcENTINESULL’ESPERIENZA ScOLASTIcA

Roberto MaurizioRICERCATORE SOCIALE E FORMATORE

FINALITÀ E mETODOLOGIADELLA RIcERcA

I dati che sono presentati in questo contributo sono il frut-to di un percorso di ricerca-azione promosso dal ServizioSistema Scolastico della Provincia di Piacenza, in collabora-zione con gli istituti superiori la cui impostazione generale èstata descritta nel precedente contributo di questo volume“Far crescere la qualità della scuola piacentina”.

L’indagine è stata realizzata attraverso la predisposizionedi un questionario strutturato, composto da 80 domande arisposte chiuse e tre domande aperte, distribuito e raccolto acura dei docenti/referenti degli istituti interessati.

Il questionario ha indagato le seguenti tematiche: > composizione del nucleo familiare> luogo di residenza, situazione occupazionale dei

genitori e condizione economica

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Nel 95, 8% dei casi, entrambi i genitori hanno la medesima nazionalità, men-tre nel 4, 2% hanno nazionalità diversa.

La stragrande maggioranza degli studenti stranieri vive in un nucleo parenta-le completo (74, 2%), mentre un quarto circa del campione vive in un nucleomonoparentale (25, 8%). I motivi per cui si è formata questa seconda tipologiafamigliare sono diversi: dalla separazione al divorzio, dal decesso di uno dei duegenitori al mancato ricongiungimento, o per motivi di lavoro.

Motivi di formazione dei nuclei monoparentali

Le famiglie hanno in prevalenza 2 o 3 figli. La tendenza alla filiazione ècomunque spostata verso un numero superiore ai 3 figli piuttosto che verso unfiglio unico.

Il 6, 6% degli intervistati risiede con i suoi genitori fuori dalla Provincia diPiacenza.

In linea di massima si verifica un maggior impiego da parte dei padri deglistudenti: l’87, 4% ha un’occupazione a differenza del 54, 4% delle madri. Questesono per un terzo del campione casalinghe. Questi dati dicono che anche tra lefamiglie straniere vi è una netta divisione dei ruoli tra marito e moglie, anche seuna buona percentuale di donne trova collocazione nel mercato del lavoro.

Nel 37, 9% dei nuclei famigliari sono occupati entrambi i genitori, mentre nel50% solo uno dei due lavora.

I dati sulle condizioni economiche completano il quadro della collocazionerispetto alla stratificazione sociale delle famiglie degli studenti stranieri. La metàdegli intervistati ha affermato che il proprio nucleo non ha particolari problemieconomici vivendo in condizioni adeguate. Il 15, 3% parla addirittura di ottimecondizioni economiche, ma circa un terzo del campione ammette di trovarsi in

> conoscenza della lingua italiana dei componenti la famiglia e linguaparlata abitualmente in famiglia

> rapporto dei genitori con la scuola> rapporto dello studente con il proprio paese d’origine e con la pro-

pria lingua> periodo di presenza in Italia> carriera scolastica in Italia o in altri paesi> classe di collocamento all’arrivo in Italia, indirizzo e classe attuale di

frequenza> motivi della scelta dell’indirizzo> regolarità del percorso di studi> presenza di altri studenti del proprio paese nella scuola frequentata > aiuto ricevuto all’entrata nella scuola italiana e soggetti implicati> utilizzo della figura del mediatore> difficoltà incontrate nella scuola> esperienza dell’accoglienza e fattori che la influenzano> attività finalizzate all’integrazione e valutazione dell’integrazione a

scuola> valutazione dell’apporto dei docenti all’integrazione> esperienze di bullismo> valutazione sul rapporto con i docenti, con i compagni di scuola> rapporto con la cultura italiana e ricadute in famiglia> attese verso l’esperienza scolastica> partecipazione ad associazioni o altre attività extrascolastiche> valutazione della propria vita sociale, sulla famiglia, sul tempo libe-

ro, sul lavoro> giudizio sulla scuola italiana> pensieri sul futuro.

I risultati sono stati anticipati in ambiti specifici, finalizzati alla programma-zione scolastica, come la Conferenza provinciale di Coordinamento. Qui siriportano le parti maggiormente congruenti alla natura del volume.

LE FAmIGLIE

Dai questionari restituiti sono state raccolte notizie di entrambi i genitori peril 51, 2% dei casi, per il 48, 8%, invece, sono state fornite informazioni solo sulpadre. Una quota importante di intervistati (16, 9%) non ha dato alcuna notizia.

L’età media dei padri è di 45 anni, quella della madre di 41.

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Circa la metà del campione valuta “abbastanza” positivamente il rapportocon i compagni di classe, un altro 40% circa lo ritiene “molto positivo”. Nelcomplesso quasi la totalità degli intervistati esprime un giudizio favorevolerispetto alle relazioni con i coetanei in classe. Aggregando le valutazioni negati-ve, invece, risulta che il 9, 6% degli intervistati non si trova per nulla bene con ipropri compagni.

La percezione prevalentemente positiva che gli studenti stranieri hannoriguardo i rapporti con i compagni di classe è confermata anche dall’atteggia-mento che sentono prevalere nei loro confronti. Infatti, aggregando i dati rela-tivi ai comportamenti positivi, risulta che l’81% del campione segnala la colla-borazione, l’attenzione, l’aiuto spontaneo.

Il 18%, invece, evidenzia atteggiamenti ostili e indifferenti.

Atteggiamenti dei compagni di classe

GLI INTERvENTI DELLA ScUOLA PER FAvORIREL’INTEGRAZIONE SOcIO-cULTURALE

Il questionario ha cercato di indagare cosa, secondo gli intervistati, l’istitutoche si frequenta abbia fatto per favorire la conoscenza delle diverse culture pre-senti tra tutti gli studenti sia italiani che non italiani.

L’intervento più ricorrente è risultato essere l’opportunità data dall’insegnan-te al singolo studente straniero di poter parlare in classe della propria terra d’ori-gine (46, 8%). Altro fatto è la spiegazione, da parte degli insegnanti, di aspettidella cultura italiana e delle culture straniere presenti nella scuola (29, 9%),oppure affrontare argomenti di attualità riguardanti i paesi d’origine degli stu-denti non italiani (24, 2%). Da non trascurare anche il dato (20, 5%) relativo alfatto che i compagni di classe hanno studiato un poco della lingua d’origine deglistudenti non italiani. Si veda a questo proposito la seguente Tabella.

una situazione in cui le risorse sono appena sufficienti per rispondere alle neces-sità principali. Aggregando i dati, risulta che il 5, 4% del campione vive in unacondizione economica precaria.

Come si sa la conoscenza della lingua del paese di migrazione è uno dei piùimportanti fattori di integrazione socio-culturale per gli immigrati. Secondo iragazzi intervistati il 55, 6% dei padri e il 63, 8% delle madri conosce bene la lin-gua italiana, il 27% dei padri e delle madri la conosce a sufficienza, mentre il 9, 1% (aggregando i dati “abbastanza male “ e “male”) ha serie difficoltà a parlarla.

I motivi che hanno influito sulla scelta dell’attuale scuola frequentata sonomolteplici, prevalgono quelli dell’interesse per il tipo di studi, il consiglio degliinsegnanti della scuola media inferiore, la comodità della scuola, ossia quella checrea meno disagi, e anche la scuola che andava incontro ai desideri dei genitori.

LA SOcIALIZZAZIONE

L’intervallo è sicuramente il momento nell’organizzazione della vita scolasti-ca in cui la socializzazione avviene in maniera libera, senza l’intervento, più omeno intenzionale, dell’adulto. In questo momento la maggioranza degli studen-ti stranieri socializza con i compagni di scuola, indifferentemente che siano ita-liani o non italiani. Solo il 12, 1% dichiara di preferire i ragazzi del proprio paesed’origine, mentre quasi il 40% ammette di inserirsi più volentieri in un gruppomisto fatto di italiani e stranieri.

La socializzazione iniziata nella scuola continua anche fuori dall’ambito sco-lastico, ma, nella maggior parte dei casi, le visite a casa propria dei compagni discuola, o andare a casa dei propri compagni, sono una eventualità poco frequen-te. Solo meno di un quinto del campione afferma di recarsi almeno una voltaalla settimana presso le abitazioni dei propri compagni o di riceverli presso leproprie case.

Frequenza delle visite tra compagni di scuola

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Fattori che influenzano l’integrazione socio-culturale

Circa gli atteggiamenti che prevalgono nei singoli istituti per favorire l’inte-grazione degli studenti stranieri, la maggior parte dei ragazzi (34, 7%) riferisceche si cerca di fare in modo che le diverse culture si confrontino. Tuttavia,occorre evidenziare che, aggregando i dati relativi alle altre opzioni proposte,emerge un quadro non molto confortante. In effetti, sembrano prevalere nellapercezione dei ragazzi atteggiamenti di assimilazione alla cultura italiana o diseparazione tra le diverse culture.

Atteggiamenti delle scuole verso l’integrazione

Per gli studenti stranieri che hanno frequentato anche la scuola media infe-riore in Italia, l’integrazione socio-culturale vissuta allora appare per lo più simi-le a ciò che stanno vivendo nella scuola superiore. Solo un terzo del campioneparla di notevole miglioramento nelle superiori.

Il ruolo dell’insegnante per favorire un processo d’integrazione socio-cultu-rale è centrale e fondamentale. è stato chiesto, perciò, agli intervistati di espri-mere un parere su quanto gli insegnanti delle classe frequentata abbiano datosufficiente attenzione alle esigenze degli studenti non italiani. Prevalgono rispet-to a questo aspetto le valutazioni positive, anche se, dai dati delle opzioni più

Interventi della scuola per favorire l’integrazione

Il questionario ha successivamente proposto una serie di items finalizzati araccogliere le percezioni degli intervistati su come la scuola ha operato ed operaper favorire l’integrazione tra gli studenti di diverse provenienze.

Il 54, 7% del campione valuta “abbastanza” positivamente la propria integra-zione nella scuola superiore. Il 36, 3% la definisce “molto positiva”. Anche inquesto caso, come nel precedente item relativo alla valutazione del rapporto coni compagni di classe, la stragrande maggioranza degli intervistati esprime giudi-zi positivi. Rimane una percentuale pari al 8, 9% che, invece, dà valutazioninegative sull’esito del proprio processo di integrazione socio-culturale. Questapercentuale, peraltro, corrisponde in termini quantitativi a quella stessa cheesprimeva posizioni negative rispetto al rapporto con i compagni di classe, evi-denziando in questo caso che esiste un piccolo gruppo che, con molta probabi-lità, sta vivendo una situazione di disagio.

Interrogati su quali sono i fattori che, secondo gli intervistati, influiscono sullivello d’integrazione socio-culturale, la maggior parte ha affermato che è deter-minante il rapporto con i compagni di classe (59, 3%). Gli altri elementi propo-sti hanno incontrato meno consenso come dimostra la Tabella successiva.

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La maggior parte degli studenti afferma che la scuola italiana funziona beneed è molto attiva nei confronti degli studenti stranieri, non va, tuttavia, trascu-rato il dato di chi chiede maggiore attenzione all’inserimento degli studenti stra-nieri. Si veda la Tabella seguente.

Valutazione degli studenti stranieri del funzionamento della scuola italiana

Rispetto all’inserimento scolastico dei singoli, compresa l’integrazione socio-culturale, gli intervistati evidenziano in maggioranza una sufficiente soddisfazio-ne. In media un quinto circa del campione esprime “molta” soddisfazione.

Grado di soddisfazione degli studenti stranieri

Per finire, sono state raccolte le aspettative dei ragazzi stranieri rispettoall’esperienza nella scuola. Nella stragrande maggioranza il desiderio è che al ter-mine del percorso scolastico ci si possa inserire nel mondo del lavoro. Seguono,con quasi pari valore, quello dell’imparare dalla scuola le competenze necessarieper affrontare la vita in generale, e lo stare bene con i propri coetanei.

negative, emerge che più del 20% del campione sottolinea che solo “alcuni”insegnanti si sono dimostrati sensibili alle loro esigenze, e il 3, 2% dichiara che“nessuno” ha dato una sufficiente attenzione.

Una controprova su queste valutazioni è fornita dalle risposte alla domandasul grado di comprensione degli insegnanti circa la condizione in cui vivono iragazzi stranieri. Rispetto alle varie possibilità di risposta, emerge che la maggio-ranza del campione si attesta su un grado sufficiente di comprensione sceglien-do per lo più l’opzione “abbastanza”. Un valore che si differenzia è, invece,quello relativo alla capacità degli insegnanti di rispettare i diversi riferimenti reli-giosi, dove il gruppo più numeroso si attesta sull’opzione “molto”, come dimo-stra la Tabella successiva.

Capacità degli insegnanti di comprendere la condizione degli alunni stranieri

Per realizzare l’integrazione socio-culturale l’ipotesi su cui la ricerca è statacostruita è che la scuola debba mettere a disposizione degli studenti stranierianche strumenti, mezzi che favoriscano la mediazione tra le culture, la perma-nenza del legame con la cultura del paese di provenienza.

A questo proposito è stato chiesto agli intervistati se vi sia un mediatore cul-turale nel proprio istituto. I dati raccolti sono significativi in quanto il 60% delcampione risponde che non lo sa. Solo il 12, 1% dice che vi opera una mediato-re e il 27, 1% afferma che questa figura non c’è.

Pressappoco lo stesso andamento statistico si registra per la domanda in cuisi è chiesto di segnalare se, nella biblioteca della scuola, vi fossero libri nella lin-gua d’origine degli intervistati.

Il 62, 9% ha risposto che non lo sa, il 32, 6% ha decisamente detto di no, il4, 5% ha dato una risposta affermativa.

Per terminare questa sezione centrata sull’integrazione socio-culturale, si èchiesto ai ragazzi di esprimere un giudizio generale sulla scuola italiana.

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Esperienze di bullismo e di sopraffazione

Tra tutti coloro che hanno segnalato di essere stati destinatari delle azionielencate in precedenza, la maggior parte ha portato come motivazione propriol’origine non italiana.

Si è voluto ulteriormente approfondire questo aspetto tra chi ha segnalatocome motivo di azioni discriminatorie l’origine non italiana. Le risposte ottenu-te indicano in prevalenza “altri” motivi non meglio classificabili. Tuttavia, tra glialtri valori, prevalgono il non parlare bene la lingua italiana e l’appartenenza dellafamiglia a una diversa religione.

Fattori determinanti nello svilupparsi della discriminazione

Aspettative degli studenti stranieri verso la scuola

SEGNALI DI NON-INTEGRAZIONE

Una batteria di domande è stata riservata per sondare se tra la popolazionedi studenti non italiani vi fossero sentimenti o episodi che segnalano difficoltàdi integrazione socio-culturale.

Dalle varie possibilità proposte agli intervistati è emerso che il 49, 8% delcampione, durante l’esperienza scolastica, si è sentito in gravi difficoltà, il 51, 2%è stato emarginato perché non italiano, il 28, 5% ha provato nostalgia per il pro-prio paese d’origine. La Tabella successiva dà conto della realtà variegata dei sen-timenti presenti tra gli studenti stranieri.

Segnali di non integrazione

Nella maggior parte dei casi l’azione, che si può definire “discriminatoria”, dicui sono stati destinatari gli intervistati è stata essere presi in giro dai compagnidi scuola “qualche volta”. Rispetto alle varie manifestazioni di esclusione ominaccia presentate nelle opzioni, ricorre prevalentemente la risposta “no, mai”,come dimostra la Tabella successiva.

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IL PERcORSO DI INTEGRAZIONE ScOLASTIcADEGLI STUDENTI ARRIvATI IN ITALIASUccESSIvAmENTE ALLA NAScITA

Si è ritenuto di fare un approfondimento per quanto riguarda in particolareil percorso d’integrazione scolastica del gruppo di studenti stranieri arrivati inItalia successivamente alla nascita.

Quando i ragazzi sono arrivati in Italia avevano un’età media di 11 anni emezzo, ma numericamente la maggior parte del gruppo è arrivata soprattutto a12 anni, a 14 e 15 anni.

Aggregando i dati per fasce d’età si evidenzia che il 35, 5% degli intervistatiaveva un’età superiore ai 14 anni quando è arrivato in Italia, il 29, 7% era com-preso nella fascia 11-13 anni, il 20% aveva tra 6 e 10 anni, infine il 14, 8% eramolto piccolo, con un’età compresa tra gli 0 e i 5 anni.

I ragazzi che sono arrivati in tenera età per il 10, 9% hanno frequentato unasilo nido e per il 13, 9% una scuola materna.

Coloro che avevano più di 6 anni nel 91, 7% dei casi avevano già frequenta-to una scuola nel paese d’origine, contro il 23, 3% che non era mai andato ascuola. In questa fascia d’età la maggior parte aveva già terminato la V^ elemen-tare (14%), la prima media inferiore (11%), la seconda media inferiore (13, 3%),la terza media (17, 4%) e la prima classe delle superiori (10, 1%).

Fra tutti gli studenti arrivati in Italia dopo la nascita, il 61, 2% aveva conse-guito la licenza elementare nel proprio paese d’origine, il 26% in Italia e il 12,

L’INTEGRAZIONE SOcIO-cULTURALE E IL RAPPORTOcON LA cULTURA D’ORIGINE

Non si può non considerare che l’integrazione socio-culturale sperimentatanella scuola dagli studenti stranieri, abbia un impatto nel rapporto con la cultu-ra del paese di provenienza e con l’ambiente famigliare. La qualità di questoimpatto è indicativa di una buona o cattiva integrazione nel contesto sociale, dicui la scuola rappresenta un importante ambito.

Alcune domande sono state pensate per indagare proprio questo aspetto. Peresempio, è stato chiesto se il coinvolgimento nella cultura italiana abbia determi-nato difficoltà con i genitori. La maggior parte dei ragazzi ha risposto negativa-mente al momento in cui veniva fatta l’intervista. Aggregando, tuttavia, i datiraccolti dalle altre opzioni si evidenziano dei problemi, o già in atto o prevedi-bili, per il 35, 7% del campione.

Difficoltà con i genitori in relazione all’integrazione in Italia

In generale la maggior parte degli intervistati si ritiene molto legata alla pro-pria cultura d’origine (45, 9%), circa il 39% afferma di esservi “abbastanza” lega-to, una minoranza – 15, 5% - afferma di esservi legato poco o per nulla.

Si ottengono pressappoco gli stessi risultati per la domanda relativa all’opportu-nità per gli studenti stranieri di mantenere i legami con la cultura d’origine.

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Valutazione dell’esperienza del rapporto con il mediatore

I ragazzi al momento dell’intervista erano per lo più inseriti nella classe primadelle scuole superiori (35, 1%), seguita in ordine dalla seconda (28%) e dallaterza (20, 5%).

Il 61% degli intervistati era in regola con il percorso scolastico, mentre,aggregando i dati relativi ai percorsi non regolari si arriva al 39% del campione.

Chi è in ritardo nel percorso scolastico ha frequentato in prevalenza solol’istituto in cui è attualmente iscritto (62%); un quinto circa (25, 6%) provieneinvece da un’altra scuola italiana; il 12, 4% proviene da un istituto estero.

Il gruppo dei ragazzi che sono arrivati in Italia dopo la nascita afferma per lamaggior parte, di avere scelto la scuola superiore, attualmente frequentata, per-ché era quella che interessava; circa il 20% dice anche che è stata consigliata dallascuola media inferiore, e il 19, 9% che è quella più comoda.

In generale, le risposte raccolte rispetto a questo item sul totale del campio-ne e su questo gruppo particolare denotano il medesimo andamento statistico.A questo proposito appare interessante il confronto.

Anche secondo questo gruppo di ragazzi in particolare, così come per il cam-pione nel suo complesso, per lo più sono poco numerosi i ragazzi del propriopaese d’origine presenti nella scuola che frequentano (49, 2%); un po’ più di unquarto afferma, invece, che sono “abbastanza numerosi” (26, 4%) e un pocomeno di un quarto (22, 3%) dice che non ce ne sono.

Nell’intervallo gli studenti arrivati in Italia dopo la nascita trascorrono il lorotempo per la maggioranza indifferentemente con tutti i compagni di scuola (43,8%). Il 39, 3% preferisce trascorrerlo con un gruppo misto di italiani e stranie-

8% in un altro paese. Il diploma di scuola media inferiore, invece, è stato con-seguito per il 55, 5% in Italia, per il 25, 2% nel proprio paese d’origine e per il19, 5% in un altro paese.

La maggior parte dei ragazzi con età superiore ai 6 anni, una volta in Italia, èstata inserita nella classe giusta (67, 1% del campione), mentre il 28, 4% è anda-to in una classe inferiore e il 4, 5% in una classe superiore. Le classi che hannovisto il maggior numero di inserimenti sono state quelle della terza elementare(52, 1%), delle medie inferiori (13, 7% prima, 14% seconda, 10, 1% terza) e laprima classe delle superiori (20, 3%).

Nel percorso d’inserimento scolastico gli studenti hanno avuto supportosoprattutto da parte degli insegnanti (55, 3% del casi) e da un compagno italia-no (22%).

Aiuti ricevuti dagli studenti stranieri nell’inserimento

Solo un gruppo costituito da 138 studenti ha avuto la possibilità di essereaffiancato da un mediatore culturale per l’inserimento a scuola. Di questi la mag-gior parte (31, 9%) ha potuto essere seguito per più di tre mesi, il 30, 4% per unpaio di settimane, il 19, 6% per circa un mese e il 18, 1% da uno a tre mesi.

Questa esperienza ha favorito soprattutto lo studio della lingua italiana e haaiutato a capire come funzionava la scuola. Un quinto circa del gruppo affermadi essersi sentito con questo aiuto un po’ di più a casa.

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Il ricordo dell’accoglienza ricevuta nella classe in cui ci si è inseriti in Italiaper la prima volta, è stato per la maggior parte un ricordo “abbastanza” positi-vo. Un terzo circa (32, 6%) afferma invece che è stato accolto “molto bene”.Aggregando i dati sulle risposte più negative risulta che il 18, 1% ha avuto un’ac-coglienza non del tutto positiva.

L’esito della prima accoglienza per coloro che hanno avuto una positiva espe-rienza è stato determinato, secondo la percezione degli intervistati, soprattuttodal comportamento dei compagni di classe, seguito dal modo di pensare degliinsegnanti. Ha contato, poi, l’atteggiamento professionale dei docenti e l’atteg-giamento pratico.

Fattori che hanno favorito l’accoglienza

Per favorire l’integrazione dei ragazzi arrivati in Italia dopo la nascita, le scuo-le hanno proposto soprattutto la partecipazione ad iniziative extrascolastiche, adattività di lavoro di gruppo, a laboratori d’informatica e altro ancora come dimo-stra la Tabella successiva.

Attività della scuola per favorire l’integrazione

ri. Anche per questo item appare interessante il confronto tra dati raccolti sul-l’intero campione e dati relativi al gruppo specifico.

La maggioranza degli studenti arrivati in Italia dopo la nascita non conosce-va la lingua italiana. Il 17, 6% ne aveva una conoscenza minima. Si veda laseguente Tabella.

Conoscenza della lingua italiana all’arrivo in Italia

L’inserimento nella scuola italiana non è stato facile per la maggioranza deiragazzi. Aggregando i dati sulle opzioni “incontrate molte o abbastanza difficol-tà” il 66, 3% del campione ha dovuto affrontare un inserimento problematico.D’altro lato, il 33, 7% ha incontrato poche o nessuna difficoltà.

Nel dettaglio queste difficoltà sono state soprattutto problemi linguistici, testie lezioni troppo difficili, nostalgia e desiderio del proprio paese, problemi diaccettazione da parte dei compagni di classe.

Difficoltà incontrate nell’inserimento a scuola

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Atteggiamenti verso aspetti della propria vita

FAmIGLIA E STUDENTI DI FRONTEALLA vITA ScOLASTIcA

La partecipazione delle famiglie degli studenti non italiani alla vita scolasticapuò rappresentare un fattore d’integrazione che riguarda lo studente, ma ancheindirettamente la famiglia rispetto all’ambiente sociale in cui è inserita.

Un’apposita domanda ha voluto sondare a quali momenti della vita scolasti-ca le famiglie degli intervistati hanno partecipato. Le evidenze ottenute sonosignificative in quanto ne emerge che la maggior parte dei genitori non ha avutocontatti con la scuola frequentata dal figlio. In effetti solo il 31% dei ragazziafferma che la sua famiglia si è recata ad un colloquio prima dell’inizio dellascuola superiore per conoscere preside e professori. La partecipazione ad altreiniziative scolastiche, come la possibilità di contattare il mediatore culturale ol’insegnante che si occupa di intercultura, o le feste e i momenti di scambio trafamiglie di paesi diversi, è pressoché nulla.

LE cONDIZIONI DI vITA DEGLI STUDENTINON ITALIANI

L’indagine è stata anche l’occasione per poter approfondire maggiormente laconoscenza della condizione di vita degli studenti non italiani. A questo propo-sito è stata preparata una batteria di domande centrate sul futuro, sui principaliriferimenti relazionali e sul valore della famiglia, della scuola, del lavoro, dell’ami-cizia e del tempo libero.

In linea di massima i ragazzi intervistati affermano che è più probabile cherimangano nel prossimo futuro in Italia e nel comune in cui risiedono almomento dell’intervista (53%); il 18, 6%, invece, pensa di cambiare comune diresidenza pur rimanendo in Italia; un altro 18% afferma di ritenere più probabi-le il ritorno al proprio paese d’origine.

Tra coloro che dichiarano di rimanere in Italia nel prossimo futuro, un quin-to circa pensa di continuare gli studi, altrettanti studenti dicono di continuare glistudi ma di cercare contemporaneamente un lavoro; un po’ più di un quinto nonsa ancora cosa farà e altrettanti pensano di cercare decisamente lavoro.

I ragazzi stranieri quando hanno un problema e, quindi, si presume possanotrovarsi in difficoltà, per la stragrande maggioranza preferiscono parlarne con lapropria ragazza o ragazzo (78%); circa il 13% ne parla con uno o più compagnidi scuola, l’8, 3% con amici che non sono compagni. Decisamente ridotto ilnumero di coloro che si rivolgono a un adulto o ai parenti stretti come il fratel-lo o la sorella.

è stato chiesto agli intervistati di esprimere il proprio parere rispetto al valo-re che rivestono per loro la famiglia, la scuola, il lavoro, le amicizie e il tempolibero.

La stragrande maggioranza si è orientata nell’affermare che la famiglia èfonte di sicurezza, di sostegno nella costruzione della propria personalità; lascuola rappresenta il luogo in cui apprendere nuove conoscenze, imparare adinserirsi nel mondo adulto, orientarsi per trovare lavoro e assumersi proprieresponsabilità; il lavoro è mezzo per l’indipendenza e l’autonomia personale,permette l’assunzione di un ruolo sociale utile e la propria realizzazione; comela famiglia, anche le amicizie danno sicurezza e sostegno nella costruzione dellapersonalità; il tempo libero serve per divertirsi, riposarsi, fare nuove esperienze.Si veda, a questo proposito, la Tabella successiva.

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Parlare la lingua del proprio paese d’origine in genere rappresenta la possibi-lità di mantenersi legati alle proprie radici, alla propria identità. Tuttavia, appareproblematico parlarla quando ci sono gli italiani.

Significato dell’uso della propria lingua

Come per la lingua d’origine anche la narrazione sul proprio paese di prove-nienza è qualcosa di positivo per gli intervistati, ma la maggioranza si permettedi farlo solo se sente che interessa ai suoi interlocutori.

Significato del parlare del proprio paese

La partecipazione dei genitori alle scadenze fisse della vita scolastica, comead esempio il colloquio con gli insegnanti per verificare l’andamento del figlio,vedono un diverso comportamento a seconda che sia il padre o la madre a segui-re il ragazzo nel suo percorso a scuola.

I padri per lo più non hanno tempo di recarsi al colloquio con gli insegnantia causa del lavoro. La maggior parte delle madri, invece, presenziano ogni voltache è possibile. Le difficoltà legate alla comprensione della lingua italianainfluenzano complessivamente, aggregando le diverse modalità, la partecipazio-ne del padre nell’8% dei casi e nel 20, 3% delle madri. Si veda a questo propo-sito la Tabella successiva.

Partecipazione dei genitori alla vita scolastica

Come si vede il fattore linguistico è molto importante per l’integrazioneanche per quanto riguarda le famiglie degli studenti.

In generale gli intervistati pensano che loro, come figli, parlano meglio l’ita-liano dei loro genitori (84, 4%). Il 10, 8% dice che il livello è simile, mentre soloil 4, 8% dice di parlare peggio del padre e della madre.

Gli studenti chiamati a dare una valutazione sulla qualità della lingua italianaparlata da loro stessi, dichiarano nella maggioranza dei casi (59, 8%) di parlarla,scriverla e leggerla “molto bene”; “abbastanza bene” lo dichiara il 28, 6% delcampione. Coloro che, invece, presentano margini di miglioramento o hannodelle difficoltà rappresentano, aggregando le singole voci, l’11, 6% degli intervi-stati.

Nella stragrande maggioranza dei casi la lingua che si parla in casa è quelladel paese d’origine (78, 1%). Nel 20, 5% delle famiglie si parla abitualmente l’ita-liano.

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INvENTARE NUOvI SPAZI

Antonio MostiDIRETTORE DEL PROGRAMMA DIPENDENZE

PATOLOGICHE - AZIENDA U.S.L. DI PIACENZA,MEDICO PSICOTERAPEUTA

Manuela BuonoRESPONSABILE UNITà OPERATIVA CURE PRIMARIE

- AZIENDA U.S.L. DI PIACENZA

Alberto Genziani, Emanuele SoressiEDUCATORI PROFESSIONALI “SPAZIO GIOVANI”- AZIENDA U.S.L. DI PIACENZA

NEL NOSTRO PAESE DA ALMENO UN DECENNIO SI ASSISTE

ad una veloce trasformazione degli stili d’uso delle sostanzepsicoattive, in particolare tra le giovani generazioni (15-25anni). Numerose ricerche evidenziano l’esistenza di unapopolazione di giovani consumatori che utilizza contempora-neamente differenti sostanze.

Una caratteristica comune sarebbe la modalità d’uso cheprevede, più spesso nel fine settimana o comunque in unospazio temporale “libero” tra gli impegni consueti comescuola o lavoro, ritualità particolari e, all’interno di queste,assunzioni finalizzate non solo a provare gli effetti dellesostanze, ma anche a permettere un diverso e più gradito uti-lizzo del tempo libero.

Nella maggioranza dei casi l’esperienza è condivisa ingruppo. Questa popolazione giovanile di consumatori di

LA vITA SOcIALE DEGLI STUDENTI

Gli studenti non italiani, nella maggior parte dei casi, frequentano regolar-mente una società sportiva che svolge attività agonistica o pre-agonistica (67,2%), al contrario il 32, 8% non partecipa ad alcuna attività. Lo sport maggior-mente praticato è il calcio, seguono a distanza la danza, la pallavolo o altre atti-vità.

Il 94, 6% del campione partecipa regolarmente ad un’associazione nel pro-prio tempo libero. Complessivamente sono pochi coloro che seguono altri corsial di fuori dell’attività fatta a scuola. I motivi per cui i ragazzi non partecipanoad attività extrascolastiche sono diversi, ma quelli più ricorrenti hanno a che farecon lo scarso interesse per le proposte, e con gli orari di queste attività che nonsi adattano alle loro esigenze.

Motivi della mancata partecipazione ad attività extrascolastiche

Il 44, 8% degli studenti ha già avuto modo di lavorare nel tempo libero dallascuola, poco più della metà (55, 2%), invece, non ha ancora fatto un’esperienzalavorativa.

I ragazzi valutano la loro vita sociale nel 51, 6% dei casi “abbastanza positi-va”, nel 40, 1% “molto positiva”. Chi sembra, invece, avere problemi rappresen-ta l’8, 3% dell’intero campione.

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aggregazione tra pari entro cui sperimentare senso di appartenenza e di nuovorifugio…sono alcuni ingredienti fondamentali del vivere l’adolescenza.

Dentro tutto ciò l’utilizzo delle sostanze psicoattive può trovare uno spazio,può costituire uno strumento per tentare di alleviare tensioni, favorire e facilita-re la soluzione di compiti evolutivi assai gravosi.

è quindi all’interno di questo contesto esistenziale, e non necessariamentenella devianza o nella psicopatologia, che occorre collocare il fenomeno perpoterlo comprendere.

è stato tuttavia osservato che tanto più l’adolescente avrà a disposizione una“base sicura” (J.Bowlby), costituita sia da elementi interni (come una sufficienteautostima, una adeguata percezione di sé e buone competenze relazionali) cheda elementi esterni, come figure significative di riferimento, tanto meno avrà lanecessità di sentirsi più forte, più abile, più capace di relazioni, più sostenutoattraverso l’aiuto degli “amici chimici”.

Illustri Autori come Newcomb e Bentler condividono l’opinione che anchel’uso occasionale di sostanze psicoattive tra i giovani teen agers in qualche modorientri nella “normalita”, nei comportamenti “di sperimentazione” tipici del-l’adolescenza e che, a differenza dell’uso regolare, non implichi rischi elevati.

è pur vero che se accettiamo che la tossicodipendenza sia una condizionerisultante dall’incontro di fattori di vulnerabilità individuale di tipo bio-psico-sociale e caratteristiche di una sostanza, non possiamo sottovalutare il fenomeno.

Qualcuno ha avvicinato gli adolescenti ai funamboli.è forse opportuno che possano avere sotto di sé una solida rete.

cOSTRUIRE LA RETE

Uno degli aspetti più problematici e discussi è la modalità di approccio neiconfronti dei ragazzi che fanno uso di sostanze psicotrope.

Per la maggior parte di loro, infatti, l’uso di sostanze non è vissuto come unproblema: consumano le “paste” (compresse contenenti in quantità variabile amfe-tamine o altri eccitanti del Sistema Nervoso Centrale e in alcuni casi anche allu-cinogeni), eccedono nell’alcol, fumano cannabis o “provano” la cocaina e l’eroi-na inalandole, magari solo nei fine settimana.

Hanno quindi la sensazione di potere usare le sostanze come e quandovogliono senza esserne dominati, sottovalutando spesso anche i rischi immedia-ti che le alterazioni percettive e cognitive prodotte da queste sostanze possonorappresentare.

Se da una parte è un fatto che su tale target di popolazione gli strumenti deiServizi specialistici come I SERT sono inefficaci, dall’altra l’entità delle proble-

sostanze non ha certamente le caratteristiche del “gruppo dei tossicomani” cosìcome è stato tradizionalmente inteso dal sentire comune, ma tende comunquead adottare, per tempi più o meno lunghi, stili di vita caratterizzati dalla ricercadi sensazioni forti.

Anche se solo una piccola parte di loro svilupperà una vera e propria dipen-denza da sostanze, è pur vero che durante questa fase dell’esistenza questi gio-vani sperimentatori/utilizzatori di sostanze sono assai esposti al rischio non sol-tanto di un danno biologico a lungo termine, ma soprattutto di danno immedia-to dovuto a comportamenti inadeguati conseguenti alle alterazioni percettive ecognitive prodotte da queste sostanze.

In più occasioni si sottolinea la rilevante frequenza con cui si verificano graviincidenti stradali tra i giovani al di sotto dei 25 anni durante i fine settimana; mala tendenza agli eccessi e le alterazione della capacità critica e discriminatoriapossono tradursi anche in altri comportamenti ugualmente rischiosi, come ildiscontrollo dell’aggressività o condotte sessuali irresponsabili, solo per citare ipiù comuni.

D’altra parte sappiamo che l’adolescenza è per eccellenza l’età della speri-mentazione finalizzata alla ricerca della propria autonomia e specificità, sia inrapporto ai genitori che ai coetanei.

è più di ogni altra, l’epoca della vita in cui avvengono trasformazioni delcorpo e della mente.

In virtù di queste trasformazioni si acquisisce una nuova “forma”, si struttu-ra una nuova modalità di relazione con il “vecchio mondo” (il nucleo familiaredi origine) e si scopre una diversa qualità dello stare insieme agli altri.

La qualità del suono della voce di un maschio adolescente, i suoi toni incoe-renti, l’incontrollabilità, sono in un certo senso emblematici dello stato di incer-tezza e di insicurezza che caratterizza questa fase di vita, nella quale peraltro ven-gono richiesti compiti non delegabili come appunto la propria individuazione,contestuale alla dolorosa ed inevitabile separazione dai genitori ed alla costru-zione di reti relazionali proprie.

Vedersi trasformare, accettare ed acquisire il corpo sessuato proprio e deglialtri, progettare il poi e pensarcisi dentro, occupare un posto in uno spazio benpiù ampio della propria famiglia... Nessun adulto penserebbe di poter rifare unsimile percorso senza essere sopraffatto dall’ansia.

Per fare tutto questo occorre misurare e misurarsi con la realtà, talvolta sfi-dandone i limiti per trovare i propri.

La ricerca dell’avventura che permette di esplorare spazi mentali usualmenteinaccessibili, del rischio, per sperimentarsi circa la capacità di assumersi leresponsabilità nei vari ambiti futuri (la vita sessuale, quella legata al ruolo socia-le...) e per sentirsi interi e potenti e poterlo dimostrare, la naturale tendenza alla

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zione, e sportelli di ascolto e sostegno. Il riferimento teorico degli educatori del servizio è la Psicologia Umanista; le

modalità operative sono mediate dalla socio-affettività, la formazione alle abili-tà sociali (life Skills Education), la formazione di educatori tra pari (PeerEducators) e il Counseling.

Il concetto base che informa questo modello è quello di empowerment, ela-borato, per l’educazione familiare, dagli americani Dunst e Trivette: è il singoloindividuo la persona più adeguata a definire e comprendere i propri bisogni, adattualizzare le proprie risorse, a gestire il proprio personale sviluppo condividen-do il suo sapere con gli altri membri del suo entourage.

Tale concetto, inoltre, si riferisce anche al fatto che è lo stesso insegnante adessere quotidianamente in contatto con gli allievi. Diventa quindi fondamentalela valorizzazione del suo ruolo, favorendo una maggiore fiducia nelle proprierisorse e nella sua creatività.

I fenomeni su cui negli anni il servizio si è trovato ad intervenire sono sem-pre più complessi, il tema della prevenzione all’uso e abuso di sostanze (legali eillegali) passa infatti anche attraverso la prevenzione al bullismo, fino ai rischi dicontagio AIDS o delle malattie sessualmente trasmissibili (MST).

Le attività programmate sono percorsi d’aula elaborati seguendo le lineeguida internazionali in materia di prevenzione universale e selettiva, secondo irischi specifici individuati nelle attività di ricerca sul territorio, in accordo e col-laborazione con altri operatori che lavorano a livello nazionale.

mETODOLOGIA

La metodologia di intervento di Spazio Giovani si è sviluppata non solo gra-zie all’apporto che la scienza oggi offre, come direzione da intraprendere nelleproposte formative di promozione della salute, ma anche grazie al contributoe all’arricchimento esperienziale di alcuni anni di lavoro a contatto con gruppidi studenti, insegnanti e genitori.

I percorsi formativi nascono quindi dal presupposto metodologico fonda-mentale della cosiddetta “ricerca-azione”.

In quest’ottica sono stati definiti alcuni criteri di base che possano orientarel’azione propriamente educativa con gli insegnanti.

Negli interventi viene utilizzato un approccio educativo teso a valorizzare ilconfronto delle opinioni in un clima di rispetto reciproco. Le metodologie didat-tiche attive, come attivazioni, simulate, giochi di ruolo, sono centrali nella con-duzione del lavoro. Viene favorita una gestione efficace della comunicazione,valorizzata dall’ascolto attivo, ossia in linea con l’educazione socio-affettiva.

matiche a cui i giovani policonsumatori possono andare incontro ha impostol’individuazione di nuove strategie di protezione/promozione della salute.

L’esperienza degli “operatori di strada”, nati in particolare nell’ambito dellaRiduzione del Danno da eroina, ha orientato la riflessione per creare diversi stilidi intervento destinati a quei giovani policonsumatori anche occasionali altri-menti esclusi da qualunque percorso di riflessione sulle problematiche correlateall’uso di sostanze e destinati a sporadici contatti con il Sistema sanitario in occa-sione di situazioni acute di disagio e/o di danno conclamato.

La necessità di adeguare gli interventi del Sistema dei Servizi ai nuovi bisogniha suggerito di approfondire la conoscenza e la capacità di lettura dei contestidi uso/consumo/abuso/dipendenza da sostanze psicoattive, oltre le tradiziona-li categorie di lettura.

In questo ambito sono nate nuove tipologie di intervento come implementa-zione di progetti pensati sulla base dell’evidenza e dei dati epidemiologici, asignificare la necessità di uscire dal Servizio per incontrare i giovani nei loro luoghi ecreare con i giovani un loro luogo non clinicizzato, che quindi non si occupa di dia-gnosi e terapia, ma che offre un momento di aggregazione dove i ragazzi pos-sano creare una modalità di comunicazione adeguata alla loro cultura e in cuipossano ricevere anche informazioni corrette ed eventualmente indicazioni pre-cise sulle possibili soluzioni ai problemi connessi all’uso delle sostanze.

Questi nuovi “luoghi” sono tali da poter tollerare anche l’ambivalenza tipicadel processo di crescita, rispettare le differenze individuali, sopportare le appros-simazioni graduali caratteristiche dell’età adolescenziale, dimostrando un’atten-zione e un interesse genuini.

Costituiscono quindi l’occasione per tentare di aumentare i fattori di prote-zione attraverso l’interazione tra operatori adeguatamente formati e giovanigenerazioni.

Lo Spazio Giovani nasce nel 2000 come progetto del SERT dell’AUSL diPiacenza, inizialmente finanziato dalla Regione Emilia Romagna.

Si propone di operare nell’ambito della prevenzione primaria ma anchesecondaria all’uso di sostanze stupefacenti (attualmente indicate come preven-zione universale e prevenzione selettiva), con attività di ricerca sul territorio,informazione, sensibilizzazione, formazione e supporto.

Il target principale sono gli adolescenti dai 14 ai 25 anni, le attività di forma-zione e supporto sono rivolte anche ai Genitori e ai Docenti delle IstitutiSecondari.

Fin dalla sua costituzione lo Spazio Giovani opera sul territorio del DistrettoUrbano Città di Piacenza in stretta collaborazione con gli Istituti Secondari di 2°grado attraverso attività di ricerca, mappatura dei bisogni, formazione, informa-

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LE OFFERTE DI SPAZIO GIOvANII programmi di educazione alla salute hanno l’obiettivo di promuovere fatto-

ri di protezione e ridurre fattori di rischio per quanto concerne i comportamen-ti sessuali, le condotte che inducono dipendenza da sostanze legali e illegali non-ché le situazioni di disagio collegate ai momenti della vita.

(NIDA, 2003, Preventing Drug Use Among Children And Adolescents. A Research-Based Guide forParents, Educators, and Community Leaders - Principio 1)

I nostri programmi di promozione della salute per gli adolescenti utilizzanometodologie interattive, come ad esempio la discussione in gruppo e/o tecnichee didattiche attive di apprendimento, con la finalità di attivare e sviluppare le LifeSkills, ovvero quelle abilità indicate dall’OMS come forte contributo alla promo-zione di benessere.

Il lavoro in piccoli gruppi e con le suddette metodiche attive favorisce la pro-mozione di un atteggiamento rilassato e positivo nei confronti dei temi dellapromozione alla salute.

In particolare, il programma proposto si articola in varie azioni che l’opera-tore può ridefinire e adattare alle specifiche esigenze del gruppo classe. Unaseria e accurata analisi della domanda (nello specifico della scuola e del gruppoclasse in questione), unitamente a un’analisi dei punti di forza e di debolezzadegli studenti, consente all’esperto di organizzare adeguatamente il lavoro.

L’orientamento complessivo del lavoro svolto ha come obiettivo fondamen-tale quello di

arricchire la persona e offrirle uno spazio di crescita e di accettazione.Ciò favorisce l’acquisizione di “competenze” sia da parte dei docenti che

dagli studenti.Il «docente competente» è la persona psico-emotivamente «sana» (motivata e

non spaventata dal gruppo): l’essere prima del fare.Lo studente è partner competente, non destinatario passivo dell’azione

educati va.L’operatore professionale (il «professionista») è catalizzatore delle risorse di

vari gruppi: partire dalle risorse piuttosto che dalle difficoltà è più produttivo alfine di permettere che le persone crescano e abbiano gli strumenti per risolve-re le difficoltà.

Il professionista deve poter utilizzare un approccio «multidimensionale» o«integrato» d’intervento, deve cioè saper utilizzare, indipendentemente dai pro-pri modelli, valori e credenze, degli strumenti che si ispirino a valori e principidi differenti modelli psicologici ed educativi.

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cOS’è PER NOI LA “PREvENZIONE”

“Dal mio punto di vista, parlare di prevenzione, in ambito sociale, significa riaffermarel’importanza della promozione dell’agio e dei diritti delle persone più giovani. … In questaprospettiva, fare prevenzione significa innanzi tutto fare promozione dei diritti; altra cosa, evi-dentemente, è elaborare strategie di intervento volte a prevenire situazioni di malessere e didisagio.” (tratto da “PROMUOVERE I DIRITTI, SFATARE LE PROMESSEILLUSORIE” Intervista a Duccio Scatolero a cura di Paola Molinatto).

Pre-venire = Controllo sul futuro oppure favorire l’autonomia, sono entram-be tracce di lavoro, … perseguendo la prima traccia si attivano meccanismi diprevisione, di immaginazione di sé nel futuro, … ma si potrebbe creare Il mitodella soluzione prima che si crei il problema, …

La seconda traccia di lavoro porta con sè la necessità di sviluppare la capaci-tà di porsi domande, … da dove nasce?, … che cosa lo mantiene così?, … per-chè andare avanti così? ……....?

Se restiamo nella dialettica tra le due tracce, la prevenzione può essere inter-pretata come spazio per la sperimentazione di relazioni, la ricerca personale, ilriconoscimento di sé, delle proprie abilità e delle debolezze, … spazio di accet-tazione, di creatività, .

Il servizio e le attività dello Spazio Giovani sono portate avanti da educatoriprofessionali, all’interno del Distretto Urbano.

IL POtENzIAMENtO dELLE AbILItA SOcIALI

E NON SOLOTra i vari livelli di intervento sono proposti laboratori in cui far sperimenta-

re le attività per il potenziamento delle abilità sociali. In questi ultimi decenni leevidenze scientifiche accumulate negli interventi portati a termine hanno indot-to l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ad incoraggiare sempre piùl’insegnamento della “LIFE SKILLS EDUCATION” (sono abilità e capacitàgeneriche che permettano agli alunni di acquisire un comportamento versatile epositivo grazie al quale possano affrontare efficacemente le richieste e le “sfide”della vita di tutti i giorni) all’interno delle scuole come un efficace strumento diprevenzione primaria alle dipendenze (Parson.1988) e alla gestione dell’aggres-sività (Olweus 1980).

Questo insegnamento è spesso dato per scontato, ma appare sempre più evi-dente che, in ragione dei grandi cambiamenti culturali e degli stili di vita che sisono verificati in diverse parti del mondo, molti bambini, ragazzi, abbiano diffi-coltà ad equipaggiarsi degli “skills” necessari per far fronte alle crescenti richie-ste e stress che si trovano ad affrontare, nonostante le capacità di autoefficaciae sviluppo della resilienza propri di ciascun essere umano.

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Corsi per docenti finalizzai all’acquisizione di competenze relazionali e pro-fessionali per la gestione autonoma d’interventi di educazione socio-affettiva suicomportamento a rischio, alle conoscenze in relazione ai rischi di contagio diAIDS e MST.

ObIEttIvI dELL’INtERvENtOGli obiettivi di ogni progetto di educazione alla salute devono essere, oltre

che chiari, fattibili e verificabili. I relativi contenuti (che devono risultare perti-nenti) ci permettono una suddivisione degli obiettivi in: cognitivi, relazionali esociali. Gli obiettivi generali (quelli specifici sono indicati per ogni modulo), chesottendono le finalità di informare, rassicurare, responsabilizzare, che il Serviziodi Educazione alla salute si propone di raggiungere con il presente progettosono:

tARgEt StudENtI> Aumento della capacità di comunicazione all’interno del gruppo classe e nelle

famiglie> Aumentare le informazioni sui rischi dell’AIDS e le MST> Maggior sensibilizzazione e informazioni sulle sostanze psicoattive legali e illegali> Un atteggiamento positivo nei confronti della sessualità, > Aumento della consapevolezza delle conseguenze di determinati comportamenti> Migliorare le capacità di scelte autonome e responsabili.

tARgEt gENItORI

> Aumento della capacità di comunicazione all’interno delle famiglie> Aumentare le informazioni sui rischi dell’AIDS e le MST> Maggior sensibilizzazione e informazioni sulle sostanze psicoattive legali e illegali

tARgEt dOcENtI

> Offrire conoscenze, competenze e abilità specifiche per formare un gruppo diinsegnanti in grado di proporre l’itinerario formativo su educazione socio-affeti-va e sessualità e AIDS (con riferimento ai rischi delle malattie trasmissibili)all’interno delle loro classi;

> Sviluppare e promuovere una mentalità culturale all’interno delle scuole supe-riori capace di attivare progetti e/o percorsi formativi di promozione al ben-esse-re con un approccio di educazione socio-affettiva e prevenzione dell’AIDS; usoe abuso di sostanze psicoattive.

STRUTTURA DEL PROGETTO “FILO DIRETTO “

Il progetto rientra nel quadro generale degli interventi di promozione dellasalute nei comportamenti a rischio dell’AIDS, delle malattie sessualmente tra-smissibili e di uso e abuso di sostanze; le parole chiave sono: sani stili di vita ebenessere.

Il percorso formativo riguarda le varie fasi della crescita e vuole essere un“intervento di rete” (coinvolgimento di esperti, scuola, famiglia), contestualizza-to rispetto all’ambiente di vita e rispetto ai bisogni emersi. Il progetto è struttu-rato in 3 tipologie di intervento, che rappresentano i filoni principali degli argo-menti da trattare.

Corsi per alunni delle scuole medie superiori secondo grado, (dallaterza alla quinta) finalizzati al miglioramento ed al rafforzamento di life skillsper attivare fattori protettivi in relazione ai comportamenti a rischio al pericolodi contagio dell’aids e alle malattie sessualmente trasmissibili. (corsi di 1° livello edi 2° livello).

Corsi per genitori per aumentare le competenze comunicative (corso di 1°livello e di 2° livello).

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Il percorso rivolto agli alunni: 2° livelloFINALITA’ specifiche del corso

Il corso di formazione si propone:> Maggior sensibilizzazione e informazioni sull’aids e sulle malattie

trasmettibili> Maggior comprensione dei fattori interni ed esterni che condiziona-

no la dimensione sessuale e affettiva> Incrementare un atteggiamento positivo nei confronti della sessualità, > il rispetto per i valori degli altri; > aumento della capacità di comunicazione all’interno del gruppo

classe

I 12 moduli sono:01 Conoscenza reciproca – avvio corso – foto linguaggio sugli affetti02 L’immagine affettiva (io in famiglia- io la coppia- io gli amici – io il

corpo)03 Una storia d’amore (gioco immaginario)04 L’immagine sociale dell’affettività – sessualità (attraverso visione di

pubblicità e trasmissioni TV e analisi dei contenuti)05 L’immagine dell’affettività – sessualità attraverso i fumetti e i carto-

ni animati06 L’immagine dell’affettività – sessualità attraverso l’arte 07 Canzoni – emozioni - parole d’amore08 Rappresentazione dell’innamoramento e della coppia attraverso

alcuni film09 La mia storia affettiva (genitori-famiglia, amicizie, coppia) I miei

desideri e i miei bisogni10 L’immagine sociale dell’AIDS e delle MST 11 I rischi dove li trovo e come li evito12 Bilancio conclusivo

IL PERcORSO RIvOLTO AGLI ALUNNI: 1° LIvELLO

fINALItA’ SPEcIfIchE dEI PERcORSI

Il laboratorio vuole consolidare un’azione preventiva” per aumentare nei gio-vani la consapevolezza dei rischi alla salute, al fine di fronteggiare con maggiorcompetenza il problema dei comportamenti a rischio, AIDS, malattie sessual-mente trasmissibili, del consumo/abuso delle sostanze legali-illegali. Inoltre illaboratorio converge con gli interventi che in questi anni l’Istituto Superiore diSanità ha promosso attraverso campagne preventive di informazione, sensibiliz-zazione per fronteggiare il fenomeno del rischio di contagio. Il laboratorio vuoleconsolidare un’azione preventiva” per aumentare nei giovani la consapevolezzadei rischi dell’uso delle sostanze, al fine di fronteggiare con maggior competen-za il problema del consumo/abuso delle sostanze legali-illegali.

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LAbORAtORIO PER dOcENtI

PREvENIRE è MEgLIO chE cuRARE

Il corso di formazione si propone di:> Offrire conoscenze, competenze e abilità specifiche per formare un

gruppo di insegnanti in grado di proporre l’itinerario formativo sueducazione socio-affetiva sul tema delle uso e abuso delle sostanzealcoliche e psicotrope all’interno delle loro classi;

> Sviluppare e promuovere una mentalità culturale all’interno dellescuole capace di attivare progetti e/o percorsi formativi di promo-zione al ben-essere con un approccio di educazione socio-affettiva.

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Alcol droghe e bullismo sono indicati come problemi presenti, e in crescita,i problemi famigliari sono stabilizzati ma presenti sempre oltre il 30% dei casi.

bISOgNI dEI RAgAzzI

Dal 2003 le ricerche ci dicono che gli adolescenti (studenti) riconosconocome bisogno principale quello di essere ascoltati, la percentuale rimane stabilefino al 2008 ed è pari quasi a uno studente su due. Quasi raddoppiati il bisognodi sicurezza e il bisogno di opportunità di lavoro. Si passa da un caso su quattroa un caso su due

RIcERcA AZIONE

All’interno delle proposte formative, con finalità di rilevamento del bisognoe anche di monitoraggio e osservazione dei fenomeni, vengono svolte attività diricerca quantitativa con l’utilizzo di questionari. Nei successivi paragrafi ci pro-poniamo di esporre in modo sintetico un riepilogo dei dati relativi ad alcunetematiche ricorrenti nelle azioni formative e di ricerca effettuate dall’équipedello Spazio Giovani negli ultimi cinque anni. I vari campioni di popolazioneindividuati negli anni rappresentano la popolazione di studenti dai 14 ai 19 anni.Il luogo di somministrazione dei questionari sono stati gli Istituti secondari disecondo grado.

PRObLEMI dEI RAgAzzI

Nelle pagine successive è proposto un raffronto tra alcuni dati ottenuti conle ricerche Mondo Giovani effettuata dallo Spazio Giovani dell’AUSL diPiacenza nell’anno scolastico 2006-2007 e 2007-2008, con i dati ottenuti nel2003 nella ricerca effettuata dalla Conferenza Sanitaria Territoriale tramitedue questionari somministrati presso 17 istituti di Piacenza e provincia aventidomande uguali.

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Dalle tabelle si evidenzia la percezione della diffusione di alcol e tabacco, cosìcome l’aumento sensibile del consumo di droghe pesanti con cui sono indivi-duate eroina e cocaina, in linea con i dati epidemiologici.

LA PERcEzIONE dI RISchIO

Gli studenti sono stati invitati a giudicare quale rischio si corre nell’utilizzarecon frequenza diversa una serie di sostanze. Dalla tabella seguente osserviamola distribuzione di percentuali che ogni genere di azione ha ricevuto, consideran-do anche le risposte “non so”. La maggioranza delle risposte tende a considera-re più grave un uso regolare delle sostanze, ma spesso anche le “prove” sonoconsiderate comunque rischiose.

LA PERcEzIONE dELLA dIffuSIONE

dI SOStANzE PSIcOAttIvE

Attraverso la domanda “A tuo avviso, quanto è diffuso il consumo di sostanze stupe-facenti tra i giovani della città o del paese in cui vivi?” abbiamo rilevato il grado di per-cezione della diffusione che i ragazzi hanno, nel loro luogo di residenza, di alcu-ne sostanze psicoattive. Il giudizio che potevano dare prevedeva la scelta di unnumero su una scala da 0 (per nulla) a 7 (moltissimo), inoltre avevano lapossibilità di rispondere “non so”. Ricordiamo che i dati rappresentano la per-cezione che i ragazzi hanno della diffusione di tutte queste sostanze e non lareale oggettiva diffusione del fenomeno. Importante è l’introduzione delladomanda “A tuo avviso…”.

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IL CONSUMO DI ALCOOL

Il consumo di alcool da parte dei ragazzi è stato analizzato in modo specifi-co, le abitudini dei ragazzi, i modelli e gli stili di consumo e le opinioni manife-state anche sotto forma di stereotipi da parte dei ragazzi ci forniscono l’imma-gine che loro hanno di coloro che eccedono nel bere.

La quantità di dati è molto vasta, maggior parte delle domande è stata con-frontata tra maschi e femmine, tra i ragazzi di età diverse, tra le zone di prove-nienza e tra i diversi istituti frequentati; in questa sintesi conclusiva si riportasolamente i dati più evidenti.

Dai punteggi medi risulta maggiormente visibile quale siano i comportamen-ti che i ragazzi giudicano più o meno rischiosi. Il comportamento, tra quelli elen-cati, Meno rischioso per il nostro campione sembra essere il fumare occasio-nalmente sigarette (42, 8). Più rischioso risulta essere il bere uno o due bicchie-ri ogni giorno (39, 4) ma anche cinque o più bicchieri quasi ogni fine settimana(42, 4).

Comportamenti in assoluto più rischiosi usare ecstasy regolarmente (81,8); fumare cannabis regolarmente (74); usare amfetamine regolarmente (73, 7);fumare uno o più pacchetti di tabacco al giorno (71, 5).

uSO duRANtE gLI uLtIMI 12 MESI

Di seguito sono esposte le percentuali ottenute dalle risposte dei ragazzi datealla domanda che chiedeva loro di indicare con quale frequenza, durante gli ulti-mi 12 mesi, avessero utilizzato alcune sostanze. La sostanza più usata è l’alcolanche in associazione a altre droghe, seguita dal tabacco, e le smart drugs. Tra leillegali la marijuana, la cocaina e le amfetamine.

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La Ricerca del 2008 è su un campione più basso (913) di studenti con unadomanda sensibilmente diversa: “In quante occasioni durante gli ultimi 12mesi hai usato le seguenti sostanze psicoattive?” l’alcol ci conferma l’au-mento di chi non inizia, ma anche di chi beve in modo critico.

Abbiamo ritenuto rilevante porre un approfondimento sui dati relativi agliepisodi di abuso di alcolici. I dati seguenti si riferiscono agli indici di consumorelativi all’anno 2008.

quANtO SI ESAgERA

Come vediamo dalla tabella, il consumo di alcool è leggermente diminuito,passando dal 78% del 2003 al 68, 4% del 2007, rimanendo pur sempre un valo-re significativo.

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Ricordiamo che la legislazione italiana vieta la somministrazione di alcolici aiminori di 16 anni.

Importante porre particolare attenzione va posta alla categoria di stu-denti minori di 16 anni

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tAbAccO

Dal grafico seguente emerge un consumo pressoché costante di tabacco,infatti le percentuali di chi fa utilizzo della sostanza passano dal 41% del 2003 al38, 4% del 2007, 40, 9% nel 2008.

tIPOLOgIA dI ALcOL utILIzzAtA

Gli aperitivi e i cocktail risultano essere gli alcolici più consumati, a seguiretroviamo birra, il vino, i superalcolici, spumante/champagne e infine, i menoconsumati, gli amari.

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APPENDIcE

INFORMAZIONI SU PROGRAMMI, AZIONI E INTER-VENTI RELATIVI ALL’AREA INFANZIA E

ADOLESCENZA SONO REPERIBILI PRESSO:

gLI uffIcI dI PIANO dEI 3 dIStREttI

IN cuI è ARtIcOLAtO IL tERRItORIO

PROvINcIALE:

1. Distretto della Città di Piacenza.Piacenza, Via Taverna 39.Responsabile Ufficio di Piano: Dott. Giuseppe Magistrali.Referente Gruppo tecnico Area famiglia, bambini, adole-scenza e giovani: Dott. Luciano Fornaroli. Tel. 0523/492734.Email: [email protected].

2. Distretto Levante.Fiorenzuola d’Arda (presso AUSL), P.le Taverna (sedeprovvisoria).Responsabile Ufficio di Piano: Dott.ssa Franca Cordani.Referente Area Minori e famiglie: a.s. Di Iorio Nadia.Responsabile Servizio Delegato AUSL Minori e famiglie:Dott.ssa Natalia Gallini.Tel 0523/989909.Email: [email protected]

ALcuNE RIfLESSIONI NON cONcLuSIvE

Uno degli aspetti più problematici e discussi negli interventi di questo gene-re è la modalità di approccio nei confronti del target di popolazione a cui que-sti programmi sono destinati.

Particolare attenzione è quindi dedicata alla formazione degli operatori inquanto la “competenza relazionale” costituisce lo strumento essenziale (se nontalvolta l’unico) dell’operatore che pensa ed agisce in questo contesto.

Alcuni Autori ritengono che, in esperienze come quella descritta, vi sianosostanzialmente tre fondamentali modalità di contatto con i giovani: l’aggancio(azione che permette il contatto e che spesso si limita alla trasmissione di infor-mazioni mirate), la relazione occasionale (contatto più personalizzato) e la relazioneconsolidata (che prevede una frequentazione più assidua).

Ciascuna di esse può rappresentare l’occasione per interagire e incidere posi-tivamente sulle condotte dei ragazzi, se l’operatore è esperto nell’utilizzo dellostrumento relazionale.

Ogni contatto può infatti provocare la discussione di credenze, idee, valori;può funzionare da cinghia di trasmissione di informazioni utili e positive; puòfavorire cioè un cambiamento.

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> Ufficio di Staff Sistema Sociale e Socio-sanitario. Dirigente Maurizio Gariboldi. Tel 0523/795260. Referente Politiche Sociali e Socio-sanitarie: Stefania Tagliaferri. Tel0523/795570 Email: [email protected]

PRINcIPALI dOcuMENtI

dI PROgRAMMAzIONE E RAPPORtI:

Parlamento Europeo. Risoluzione del 16 gennaio 2008 su una strategiadell’Unione europea sui diritti dei minori (2007/20093 (INI)).www.europarl.europa.eu

Commissione delle Comunità Europee. Verso una strategia dell’Unione euro-pea sui diritti dei minori, 2006. www.ec.europa.eu

Commissione delle Comunità europee. Agenda sociale rinnovata: opportuni-tà, accesso e solidarietà nell’Europa del XXI secolo, 2008. www.ec.europa.eu

Piano nazionale di azione e di interventi per la tutela dei diritti e lo sviluppodei soggetti in età evolutiva per il biennio 2002/2004, ai sensi dell’art. 2 dellalegge 23 dicembre 1997, n.451 (DPR 2 luglio 2003 n. 166 - GU 31 ottobre 2003n. 254)

L’eccezionale quotidiano – Rapporto sulla condizione dell’infanzia edell’adolescenza in Italia. Osservatorio nazionale per l’infanzia. Centro naziona-le di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza. Istituto degliInnocenti di Firenze. 2006.

Tel: 055/20371 www.istitutodegliinnocenti.itPiano Sociale e Sanitario 2008-2010 pubblicato sul Bollettino Ufficiale della

Regione Emilia-Romagna del 3 giugno 2008 n. 92: www.regione.emilia-roma-gna.it/conferenza.

Crescere in Emilia-Romagna - Secondo rapporto sui servizi e sulla condizio-ne dell’infanzia e dell’adolescenza, Edizioni Junior, Bergamo, 2008:Osservatorio Infanzia e adolescenza della Regione Emilia Romagna. Tel 0516397510 - fax 051 6397075

Atto di indirizzo e Coordinamento della Conferenza territoriale Sociale eSanitaria (CTSS) della Provincia di Piacenza: www.provincia.pc.it

Piano Sociale di Zona (Distretto della Città di Piacenza): www.comune.pia-cenza.it

Piano Sociale di Zona (Distretto Levante): Tel. 0523/989909Piano Sociale di Zona (Distretto Ponente): Tel. 0523/889752

3. Distretto Ponente.Castelsangiovanni. Via Garibaldi 50. Responsabile Ufficio di Piano: Dott.ssa Mariarosella Barbattini. Referentearea Minori e famiglie: Dott.ssa Mariagrazia Molinelli.Tel. 0523/889752.Email: [email protected].

L’AzIENdA uNItà SANItARIA LOcALE dI PIAcENzA

Piacenza, Via Taverna, 49. Tel: 0523/301111. www.ausl.pc.it

> Dipartimento di cure primarieCoordinatore: Dott. Ermanno Bongiorni.Tel: 0523/317551. Email: [email protected]

Pediatria di comunità. P.zzale Milano, 2 Tel. 0523/317639. Coordinatriceaziendale: Dott.ssa Elisa De Micheli. Email: [email protected] giovani. P.zzale Milano, 2 Tel 0523/317627. Referente: Dott.ssaDanila Fornari. Email: [email protected]

> Dipartimento di salute mentale e dipendenze patologicheDirettore: Dott. Giuliano Limonta.Tel 0523/358738-356741. Email: [email protected]

U.O. Neuropsichiatria Infanzia e Adolescenza. Piacenza, Corso V.Emanuele163/A. Tel. 0523/358738-358741U.O. Ser.T. Piacenza, P.le Milano 2. Tel. 0523/317728-29

LA PROvINcIA dI PIAcENzA.

Piacenza, Borgo Faxhall, P.le Marconi. Tel 0523/7951

> Servizio Sistema Scolastico. Dirigente Antonella Dosi. Tel. 0523/795504-506. Referente Infanzia e Adolescenza: Giovanna Tanzi. Tel. 0523/795506email:[email protected] Pedagogico Provinciale. Tel. 0523/795506Referenti Sistema Scolastico: Maria Pia Ardigò e Barbara Dieci. Tel.0523/795512-520 Email: [email protected]

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Finito di stamparenel gennaio 2009