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Fiori del Carmelo : 5

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  • Fiori del Carmelo : 5

  • Andrea Panont

    Il giardinodella vita

    Presentazione del Cardinale

    ANGELO SCOLA

  • ISBN 978-88-250-1957-5

    Copyright f 2008 by P.P.F.M.C.

    MESSAGGERO DI SANT’ANTONIO – EDITRICEBasilica del Santo - Via Orto Botanico, 11 - 35123 Padova

    www.edizionimessaggero.it

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    Presentazione

    «Sia che mangiate sia che beviate, sia che fac-ciate qualsiasi altra cosa...» scrive san Paolo (1Cor10,31).

    Non c’è nulla, neanche la tessera più piccola,scialba o marginale dell’immenso mosaico dell’u-mana esistenza, che non venga trasfigurato dalla lu-ce sfolgorante del Redentore. Tutto in lui, infatti,riceve vita. E uno sguardo a un tempo serio e stupi-to, come quello dei bambini, lo sa vedere.

    I racconti di padre Andrea ne sono una convin-cente documentazione. Una sorta di vangelo sem-plice, di casa. Briciole di un’antropologia schietta-mente cristiana proposte secondo una formula ve-loce, alla portata di tutti. Fruibili anche da chi,immerso e spesso sommerso dai ritmi frenetici delquotidiano, crede di non aver tempo per occuparsidelle cose di Dio.

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    In essi non è difficile imbattersi nei grandi temidella sapienza cristiana sminuzzati per i piccoli, masenza mai banalizzarli. Andando direttamente alnocciolo della questione.

    «Il nostro compito è di aiutare affinché le personepossano assaggiare, affinché possano sentire di nuo-vo il gusto di Dio» ci ha ricordato recentemente ilSanto Padre (Benedetto XVI, Ai vescovi svizzeri).Mi pare che l’umile ma efficacissima testimonianzadi padre Panont vada proprio in questa direzione.Gliene siamo profondamente riconoscenti.

    B ANGELO Card. SCOLAPatriarca di Venezia

    Venezia, 21 febbraio 2007

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    La tua gioia è mia

    Chippy, simpatico uccello, voleva conoscereJoppy, un volpacchiotto abitante in un’isola: «Possovenirti a trovare?» gli chiese.

    «Sı̀, vieni, ti faccio vedere dove abito». Joppy erafelice, e non finiva di mostrare al nuovo amico tuttele bellezze dell’isola: i fiori, il piccolo bosco, il fiu-me più piccolo del mondo e infine il suo posto pre-ferito:

    «Vedi quell’albero lı̀, con quei frutti rossi? Chissàcome devono essere buoni... Eppure non sono mairiuscito a prenderne. Ma ora ci sei tu, che potresticoglierli per me; vuoi?».

    Joppy non aveva fatto in tempo a finire la fraseche Chippy era già sull’albero e aveva nel beccouno dei frutti più maturi.

    Stava per buttarlo giù, ma prima volle assaggiar-lo. «Com’è buono!».

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    «Ehi! Quei frutti sono miei! Non ti ho portatofin qui perché me li mangiassi tu».

    «Eh, eh, vieni a prenderteli, se li vuoi».«Brutto uccellaccio, se ti acchiappo...».Ma Chippy continuò a gustarsi quei frutti succu-

    lenti, saltellando da un ramo all’altro. Da quel gior-no i due non si guardarono più in faccia, anzi co-minciarono a farsi ogni sorta di dispetti.

    Ma una sera, guardando il mare, Joppy notò unoggetto; si avvicinò e vide una bottiglia sigillatacon dentro qualcosa: una carta arrotolata.

    «Forse è la mappa d’un tesoro!». Tolse il tappo,srotolò il foglio e lesse: «Il segreto della felicità: siifelice della gioia degli altri!». Ci pensò sopra un po’.

    «Sı̀, forse con Chippy ho sbagliato! Sono stato in-vidioso perché mi mangiava i frutti rossi e cosı̀ si èrotta la nostra amicizia. Che stupido sono stato! An-drò a cercarlo e ricominceremo tutto daccapo!».

    Nascose la bottiglia, con il messaggio, sotto lasabbia. Poi andò in cerca di Chippy.

    Ma Chippy che, nascosto, aveva osservato tuttala scena, volò alla spiaggia anche lui; dissotterrò labottiglia, la stappò, aprı̀ il foglio e lesse: «Il segretodella felicità: sii felice della gioia degli altri!».

    «Ecco perché non siamo più felici! Come so-no stato egoista a tenere tutti i frutti per me! Ma

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    forse sono ancora in tempo per rimediare...» pensò.Intanto Joppy, dopo aver cercato Chippy tutta la

    sera inutilmente, era tornato, stanco, a casa, ripro-mettendosi di rifare la pace con lui l’indomani.

    Il mattino dopo si alzò presto, si affacciò e pro-prio all’uscita della sua tana, vide quei frutti rossiche Chippy gli voleva mangiare, ma che di nottegli aveva riportato.

    Finalmente si incontrarono di nuovo; contenti diessersi ritrovati e pronti a vivere il segreto venutodal mare: «essere felici della gioia degli altri».

    Caro lettore, sarò pienamente contento quandosarò felice della tua gioia.

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    Devitalizzare

    Anche dal dentista si può imparare a vivere.Il mio dentista, dovendo curarmi un dente, mi

    avverte che prima è necessario devitalizzarlo, facen-done morire la radice.

    Quindi decide per l’anestesia.Una spruzzatina per addormentare la gengiva,

    seguita a breve distanza da un’iniezione. Convintodi aver addormentato la parte, attacca il trapano...ma un salto sulla sedia gli fa capire di dover aumen-tare la dose di anestesia.

    Per ovviare all’eccezionale sensibilità del denteera necessaria una massiccia dose di anestesia.

    Dopo aver fatto morire la radice, gli è stato possi-bile intervenire.

    Riflettevo: la radice del mio io è cosı̀ dura a mo-rire? Finché non rinuncio del tutto a me stesso, Dionon può fare il trapianto del cuore nuovo.

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    Lui gradualmente ci anestetizza; compie i suoiinterventi invitandoci a prendere le croci di ognigiorno; ogni giorno ci mette nelle condizioni dirinnegare noi stessi. Lui sa usare le dosi necessarie fi-no alla morte totale del nostro egoismo.

    Allora, sulla cenere del nostro io, può nascereDio. Morta la radice dell’orgoglio, lui può fare dinoi un altro Gesù.

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    È assurdo

    Ai bambini di prima elementare, sei o sette an-ni di età, ho raccontato il mio viaggio a Parigi, lemeraviglie, i luoghi che ho visitato.

    Uno di loro, particolarmente colpito dalla descri-zione, mi confida che presto anche lui vuole visitareParigi e mi domanda la descrizione particolareggiatadel viaggio, con gli orari del treno, dell’aereo... chepuntualmente e amichevolmente gli ho procurato.

    Al primo moto di entusiasmo è subentrata peròuna strana, direi assurda, preoccupazione. Non ca-pivo bene, né potevo immaginare, il perché dellasua angoscia, quando, salutandomi, è scoppiato apiangere.

    Ma il giorno dopo, si presenta a scuola tutto sor-ridente, gioioso. Incredibilmente, si era dimentica-to di avere un papà e una mamma i quali, appenalo videro tanto sconvolto per la paura di dover in-

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    traprendere da solo un viaggio tanto al di sopra del-le possibilità di un bambino, lo rassicurarono ricor-dandogli che non doveva preoccuparsi di nulla, do-veva solo lasciarsi portare e guidare da loro in ognimomento.

    È chiaramente assurdo e raro che un bambino di-mentichi di avere il papà.

    Ma tale assurdo è purtroppo frequente in un cri-stianesimo malato di efficientismo. Un assurdo dacui Gesù ci ha liberato rivelandoci che Dio è papà;iniettando nelle nostre vene la fiduciosa e cristiana«presunzione» del «tutto posso in Colui che mi dàforza».

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    Farsi l’altro

    In comunità è amore gareggiare nel precederciin ogni servizio, nell’essere sempre pronti a qualsiasievenienza.

    Anch’io mi prodigavo per gli altri oltre il richie-sto.

    Volendo alleggerire il lavoro del cuoco già tantoindaffarato tra i fornelli, un giorno mi sono messo alavare i piatti in cucina.

    Mentre mi prodigavo a lavargli i piatti, durante lasua assenza, avevo dentro di me una «piccolissima»tentazione: «Chissà che a lui o a qualcuno non sfug-ga un ‘‘piccolissimo’’ grazie...». Tentazione... chemi faceva anche sorridere.

    Mentre eravamo tutti a tavola intenti a mangiarela pastasciutta, il cuoco, ad alta voce e in tono risen-tito, disse: «Voglio sapere chi ha lavato oggi i piatti».Al momento non ho avuto il coraggio di farmi

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    avanti, dato il suo tono e il silenzio di tutti. Appenal’attenzione generale si allenta, a bassa voce, gliconfesso che li ho lavati io. Davanti a tutti, mi ri-prende: «Non sei capace neppure di lavare i piatti...I piatti sullo scolatoio si mettono cosı̀ e non come lihai messi tu».

    La rivoluzione scoppiata dentro di me e conte-nuta in silenzio, mi suggeriva di non avvicinarmimai più alla cucina. Ma il giorno dopo, mentre luiera di nuovo al mercato, mi sono ritrovato di frontea quella pila di piatti... «Il cuoco non mi ha detto dinon lavare i piatti, ma di lavarli come vuole lui» hopensato. E glieli ho messi sullo scolatoio ad asciuga-re «cosı̀» come mi aveva indicato lui.

    Non mi è arrivato il grazie «piccolissimo», ma hoimparato una cosa grande: è, sı̀, importante amare ilprossimo, ma è più importante amarlo come luivuole essere amato.

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    Fuma, ma sorridi

    Ampelio, portiere del condominio, era un uo-mo, come si dice, tutto d’un pezzo. Quello che ve-devi, lui era. Quello che diceva faceva. Quello chefaceva era indiscutibile. Un uomo inflessibile, irre-movibile.

    All’inizio di ogni quaresima si proponeva severapenitenza, anche nello smettere drasticamente difumare. «Penitenza – ripeteva – penitenza. Nientesigarette, niente fumo». Sua moglie, che lo cono-sceva, lo ascoltava, ma dentro di lei se la rideva.

    Iniziava la quaresima deciso, risoluto. In Venetosi direbbe «muso duro, bareta fracada».

    Dopo alcuni giorni di questo micidiale proposi-to, l’aspetto severo del nostro penitente diventavasempre più rabbuiato e tenebroso con reazionisempre meno soavi o meglio sempre più scorbuti-che. Insomma era la penitenza di sua moglie e deifigli.

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    All’ennesima esplosione, la saggia moglie inter-veniva: «Ampelio... fuma, ma almeno sorridi! Il sor-riso fa bene a te e a noi e piace tanto a Dio».

    Esortazione proprio saggia. La vera penitenza, lapiù gradita a Dio, è la fatica di costruire ogni giornoun sereno rapporto di comunione con chiunque tivive accanto.

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    Gioco d’amore

    Di fronte al comportamento del bambino, l’a-dulto rimane spesso incantato e impara a vivere. Peril bambino la vita risulta un gioco. Lui vuol sempregiocare.

    È a giocare? pensa alla mamma; è con la mamma?pensa a giocare.

    Giocando il bambino esprime la gioia di esserecon la mamma e, stando in braccio alla mamma,racconta e riassapora le sorprese del gioco. Non havoglia di giocare se il pensiero dominante non è lamamma, né corre dalla mamma se non per potertornare a giocare con felicità accresciuta.

    È tale la frequenza di questi passaggi che non sapiù distinguere il gioco dallo stare con la mamma;si potrebbe dire che mentre gioca sta con la mammae mentre sta con la mamma continua a giocare.

    La sua mente, di tanto in tanto, è attraversata da

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    qualche nube, ansia, paura. Quelli sono i momentiin cui, con più intensità, fissa il volto, gli occhi dellamamma che puntualmente gli invia la risposta rassi-curante: un sorriso, un cenno di attenzione, una ca-rezza, un gesto di gioia; in una parola: amore.

    Ricordo un bel canto che invita l’adulto a diven-tare bambino per stare al gioco con Dio: «Vengo,continuo a giocare; solo m’importa d’amare».

    Allora la mia vita, come la tua, è tutta un «giocod’amore».

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    Guardare in alto

    Se è importante «guardare in alto», come face-vano gli apostoli mentre Gesù saliva al cielo, non èmeno urgente puntare gli occhi sul cielo del prossi-mo da amare in mille modi. Gesù vive in quel cielo,ti parla da quel cielo.

    Maria invita: «fate quello che vi dirà», vivete ciòche vi dice in ogni momento. Mentre lo servi nelprossimo, ti parla nella quotidianità.

    «Vado al Padre perché vediate il cielo sulla terra ela terra in cielo; questa è contemplazione.

    Come in cielo cosı̀ in terra; come in terra cosı̀ incielo. Ecco perché sono con voi tutti i giorni finoalla fine del mondo. Rimango con voi nell’eucari-stia perché, mangiandomi, abbiate forza per amarvi.Rimango con voi in ogni dolore perché la presenzadel mio amore sia anche sensibile.

    Rimango con voi in ogni croce perché mi pos-

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    siate abbracciare in ogni dolore. Rimango con voi ein ogni prossimo perché spesso mi possiate incon-trare. Rimango con voi e tra di voi generato dal vo-stro amore reciproco.

    Rimango con voi per dirvi che solo questo vi co-mando: amatevi. Rimango con voi perché sono iola capacità e la misura dell’amore reciproco. Ri-mango con voi perché gustiate le cose di lassù, neigesti quotidiani.

    Rimango con voi per dirvi che il cristianesimo èdono della vita a chi ti vive accanto. Rimango convoi per dirvi grazie della gioia che mi date donan-dovi al fratello. Ricordalo sempre: cercami e amaminel cielo di ogni uomo. Ti assicuro: a chi mi ama mimanifesterò».

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    I clown cristiani

    Al circo, ho assistito, divertito, a prestazioni adir poco esaltanti. Quella che maggiormente mi èrimasta impressa e mi ha dato spinta e spunto a scri-vere queste righe è stata il salto in alto, presentatocome record non omologabile.

    Si sono avvicendati i migliori saltatori del mo-mento, i più prestigiosi; applausi a non finire quan-do si è esibito il campione mondiale.

    Lo sbigottimento generale ha raggiunto il massi-mo quando si è presentato in pedana un signore,malvestito; in lui nemmeno l’ombra dello sportivo.Non scarpe da ginnastica, ma addirittura ciabatte;non maglietta e pantaloncini da atleta, ma pantalonifuori misura e maglione invernale.

    Davanti all’asticella innalzata a ben cinque metrid’altezza, non posizione di concentrazione, mabraccia conserte, sorrisi a destra e a manca.

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    Al fischio di partenza, il nostro atleta non prendela rincorsa, ma dopo un passo sulla pedana, lo ve-diamo guizzare in alto abbondantemente oltre icinque metri e atterrare in piedi sul comodo mate-rasso con una normalità mozzafiato.

    Bis, bis! E il tutto fu meravigliosamente ripetu-to... Il segreto? Lo catapultava una invisibile mollapotente, sprigionata dal passo sulla pedana.

    Ho pensato subito alla scioltezza, alla meraviglia,ai limiti dell’incredibile, suscitate dall’esibizione delcristiano, vero atleta dello Spirito, chiamato a viverenella fede l’impossibile vangelo, a fare di ogni attod’amore un affascinante spettacolo di fronte a Dio,agli angeli e agli uomini.

    Il segreto? «In me vive Cristo; è lui la meravigliache si rivela in me».

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    I pesi degli altri

    Da un camion, gli operai dovevano scaricareun blocco di marmo del peso di due quintali. Inquattro si impegnarono nell’operazione. Ma unodei quattro, Fermo, ha ceduto proprio nel momen-to del massimo impegno e il peso è ricaduto pro-prio sul collo di Renzo che, non potendosi sottrar-re, ha subito, sotto la pressione eccessiva, un gravetrauma.

    Per lui, seguirono lunghi mesi di ospedale. Pe-riodo che ha fatto riflettere tutti, soprattutto Fermoche non si dava pace nei confronti del ferito: «Nonho fatto la mia parte – ripeteva –; sono scivolato; hoceduto sotto il peso della lastra di marmo». Insom-ma, non sapeva come scusarsi, anche se nessunogliene faceva una colpa. Ma lui ripeteva: «Se ioavessi portato la mia parte questo grave incidentenon sarebbe accaduto».

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    Ogni volta che io mi sottraggo ai doveri dellamia professione, della mia chiamata... sottopongogli altri a uno sforzo eccessivo, forse rovinoso. Misento responsabile delle defezioni degli altri; dellecadute di coloro che sono chiamato a sorreggerecon la mia fedeltà. È Gesù che ce lo comanda:«Portate gli uni i pesi degli altri». Sembra dire che ilmio compito è portare il peso dell’altro.

    Siamo talmente parte della vita, gli uni degli altri,che nessuno può vivere per se stesso, né morire perse stesso... ma è tutto per gli altri, in funzione deglialtri.

    Un santo diceva che «se nella prova io rimangofedele, con me restano in piedi migliaia di persone;se io cedo, con me cadono migliaia di persone».

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    Il bastone e la carota

    Ogni pedagogo riesce a educare quando, co-me Dio, usa la fantasia di chi ama e, come Libàno,al bastone preferisce la carota.

    Quando il carretto e l’asino erano di moda, acca-devano episodi come questo: l’anziano amico Libà-no aveva avuto dal suo datore di lavoro l’incom-benza di trasportare, da un capannone all’altro, trequintali di legna. Erano quindi tre viaggi con il suocarretto, trainato da Annibale, il suo asinello.

    Al primo viaggio, fatti pochi passi, l’asinello si ri-fiutò di proseguire. Libàno, per risolvere il caso,pensò, come primo provvedimento, a un buon ba-stone. Ma Annibale non intendeva muoversi, nécon le maniere dolci, né con quelle sbrigative. Chefare?

    Un’idea luminosa! In quei giorni la moglie di Li-bàno aveva fatto una buona provvista di carote per

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    la famiglia. Il nostro Libàno andò nella dispensa, siarmò di... carote e, tenendole venti centimetri da-vanti al muso dell’asino, poté portare a termine isuoi viaggi. Ciò che non poté il bastone, poté la ca-rota che, con la sua attrattiva, diventò il motore del-l’asinello.

    Forse è per questo che custodiamo davanti agliocchi e nel cuore Colui che, crocifisso, ci attira adamarci «come e perché vi ho amati per primo».

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    Il cielo aperto

    Immobile, non visto, mi fermai a osservare untopolino appena caduto nella trappola. Ne seguiiincuriosito ogni movimento: l’animale si avventòingordo sul formaggio, leccandosi di tanto in tantoi baffi.

    Terminato il pasto, si guardò d’attorno per cerca-re l’uscita; dapprima la cercò con calma, poi semprepiù nervosamente, girandosi su se stesso come unatrottola, finché, esausto, sfinito, si fermò al centrodella gabbia. Un breve riposo, e ancora qualchesguardo orizzontale verso i lati della trappola: nessu-na apertura, nessuna speranza.

    Allora, cosa che non aveva ancor fatto, cominciòa guardare in alto: fissò a lungo lo stretto pertugiodal quale era entrato, tanto largo e agevole dall’e-sterno, cosı̀ angusto e arduo dall’interno.

    Fissò e rifissò quella remota, piccolissima speran-

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    za. Deciso, spiccò il salto in verticale e, miracolosa-mente, fu libero.

    Andò subito a godersi il cielo aperto, la libertàinfinitamente più saporita di ogni più allettante for-maggio.

    L’egoismo è la trappola che, con l’offerta di qual-che appetitoso bocconcino, ti mette nei guai. «Quimuoio di fame!». Ma, proprio grazie alla disperazio-ne, finalmente ti fermi e guardi in su... e, puntandoverso l’alto con un balzo in verticale, ritrovi te stesso.

    Puoi ancora preferire e difendere la gioia del cie-lo sempre aperto.

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    Il cristiano e l’amore

    Il medico guarda, evidenzia, cura quel settoreparticolare del corpo in cui è specializzato.

    Dal podologo, ad esempio, tu, alle pareti del-l’ambulatorio, vedi solo piedi o un particolare deipiedi. Lui ti assicura che, curando il piede, si può re-care benessere a tutto il corpo.

    Il cristiano, mi sono subito detto, è lo specialistadell’amore al prossimo. Ecco perché in ogni suoambiente si dà massima evidenza e importanza all’a-more verso il fratello. Ecco perché cura se stesso,amando e curando il prossimo.

    Guardando la posizione dei calli, il loro spessore,la qualità della pelle, il podologo sa indovinare co-me cammini, quanto pesi, che scarpe porti; sa addi-rittura indovinare... che carattere hai. Sa dirti che ri-flessi ha su tutto il corpo la malattia o la salute delpiede.

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    Cosı̀, a maggior ragione, sa fare l’oculista, l’otoia-tra, il cardiologo... Si intuisce che il cuore offre del-l’intero organismo una lettura più complessa, com-pleta e radicale.

    Mi si dice che ci sono addirittura specialisti checurano il corpo guardando soltanto le unghie.

    Mi viene spontaneo concludere che ogni uomoè un membro dell’intero corpo dell’umanità e,guardandone e curandone come si deve anche unosolo, attraverso lui curi e risani l’intera umanità...

    Ama, cura il prossimo e tutto il corpo sarà risana-to. Tu sei l’altro e aver cura del prossimo è il puntodi vista più indovinato per arrivare con sicura effica-cia a te stesso e a tutta l’umanità.

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    Il giardino della vita

    La storia di Ginetto e dei suoi amici si fece seriaquando compresero la storia dell’asino morto di fa-me davanti a quintali di fieno che a mala pena arri-vava ad annusare. Capirono che come il pane è vitase viene mangiato, cosı̀ il vangelo è gioia se vienevissuto.

    La loro condotta subı̀ una accelerazione radicale.«È stata un’esperienza entusiasmante» mi raccon-

    ta Ginetto. «Di tanto in tanto, ci si sofferma, pienidi riconoscenza verso Dio e verso il prossimo, acontemplare una fioritura di atti d’amore, di atten-zioni verso tutti, un clima di serenità. Mi compiace-vo come un giardiniere che gode la vista d’un giar-dino fiorito».

    A questa prima tappa del percorso spirituale se-guirono le prove, i dolori, le privazioni, i distacchi.Arrivò poi una malattia che lo mise in fin di vita.

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    Dovette cosı̀ sottomettersi a cure lunghissime e do-lorose.

    Investito da insolita luminosità, comprese soprat-tutto di non avere in sé che debolezze, fragilità, di-fetti, e che tutto ciò che di buono riusciva a fare eraopera di Dio.

    Era tanto convinto dell’opera gratuita di Dio nel-la sua vita da rispondere cosı̀ all’amico che ne loda-va le virtù: «Sı̀, è vero che nell’orto della vita io eDio lavoriamo in società; ma ti invito ad ammirarele meraviglie nel giardino d’un’anima quando que-sta lascia che a lavorarvi sia solo Dio».

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    Il manifestodel perdono

    «Mancavano pochi giorni a Natale e mi sipresentavano» racconta Paolo «frequenti occasionidi rissa, per vari motivi e con diverse persone. For-tuna volle che mi stesse vicino, in quel periodo, unamico tranquillo e pacifico che, appena annusavapericolo di battaglia, mi ripeteva: ‘‘Lascia perdere,Paolo, fra pochi giorni è Natale. Lascia perdere,Paolo, domani è Natale. Lascia perdere, Paolo, oggiè Natale!’’.

    E devo proprio constatare che, grazie a questocontinuo ricordarmi il Natale, riuscivo sempre acontenermi e a lasciar perdere ogni motivo di liti-gio. Ma il giorno dopo Natale, precisamente a San-to Stefano, durante il pranzo, scoppiò una grossa li-te con la moglie e con i figli. Era finita la carica del

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    Natale. Un vero fallimento. Nel pomeriggio in-contro il mio amico; e, avvilito, gli racconto la bur-rasca in famiglia, concludendo: addio Natale!

    ‘‘Ma, Paolo’’ obbiettò lui ‘‘quando non è Nata-le?’’ ricordandomi che ogni giorno, ogni momentoposso vivere il Natale, perdonando e lasciandomiperdonare da Dio; ad ogni incontro con il mioprossimo posso anch’io godere il Natale.

    Forte di questa verità e spinto a donarla, tornai acasa mia. Durante la cena avvenne la solenne ricon-ciliazione con mia moglie e i miei figli. Il mio ami-co, presente all’evento, scattò una foto che meritaproprio un ingrandimento come il ‘‘manifesto delpanettone’’.

    Dopo pochi giorni, l’amico fotografo ci portò lafoto ingrandita con la scritta: ‘‘Manifesto del perdo-no. È di nuovo Natale’’».

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    Il maree il bicchierino

    Francesco, il responsabile dell’ufficio, mi avevachiesto una riflessione per la Pasqua. Sono entratonel suo ambiente di lavoro e si è creato subito unbel rapporto.

    Ho invitato i presenti ad aprire il cuore perché,ho aggiunto, il cuore è un abisso e solo l’abisso cheè Dio lo può riempire.

    Vedendo lui e gli altri attenti e disponibili all’a-scolto, ho, per cosı̀ dire, «dilagato» dicendo: «Perquanto grande sia il nostro desiderio di bene, Diolo supera; Dio ci ama a tal punto che si sperpera. Difronte alle impossibilità di amare e perdonare il pros-simo, è urgente immagazzinare forze superiori».

    Mi spiego con un’immagine autobiografica.Quando mi lascio amare da Dio, mi immagino di

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    camminare lungo la spiaggia del mio mare – Eracleamare, appunto – . Con il rumore delle sue onde, ilmare sembra dirmi: «Tu, Andrea, sei un bicchierino;ma lasciami entrare. Non ragionare; perché se ragio-ni non me lo lasci fare».

    Mentre il mare entra in me, bicchierino, mi diceancora: «Prendi per te, trattieni ora e in ogni mo-mento, sempre, tutto quanto ti occorre; ma ricor-dati che quanto sopravanza e tracima, è per chi tivive accanto».

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    Il mio barbierescalatore

    Mentre sforbiciava sulla mia testa, mi raccon-tò che in montagna aveva deciso di raggiungere dasolo un rifugio situato a oltre i tremila metri di alti-tudine. Si accorgeva però che, man mano che avan-zava, le forze gli venivano meno e aveva l’impres-sione che la baita non arrivasse mai. Fermarsi nonpoteva; al rifugio doveva arrivare assolutamente inserata nonostante le scarsissime energie.

    Con l’aria di chi ha imparato un segreto della vi-ta, mi raccontò di aver escogitato uno stratagemmache lo aiutò ad arrivare in cima con meno fatica diquanto potesse immaginare. Non volle più pensarealla distanza del rifugio, né alla stanchezza delle suegambe, ma, camminando sul sentiero segnato, fissa-va un sasso a cinquanta metri davanti a lui e lo rag-giungeva.

  • ; 39 :

    Si concedeva una piccola sosta per riprendere fia-to, poi fissava un altro sasso o un albero a una cin-quantina di metri, riuscendo cosı̀ ad arrivare a ognisingola meta. Tratto dopo tratto, passo dopo passo,sosta dopo sosta, tenendo ferma e calma la fantasia,si trovò al rifugio meno affaticato del previsto.

    Da allora ha imparato a non pensare, a non pre-occuparsi del futuro, a non appesantire l’oggi con lefatiche di ieri. Ha scoperto che le forze che Dio glidà sono da spendere man mano, «fermo», attento inciò che sta facendo.

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    Il pino «imbracato»

    Dopo doverosa denuncia, ai responsabili fuingiunto di correre ai ripari per scongiurare possibilidisastri e per salvare il pino ormai pericolante. Erastato derubato dello spazio vitale con le radici soffo-cate e serrate tra asfalto e cemento.

    Il giorno dopo lo vedemmo imbrigliato e imbra-cato con grosse corde metalliche da tutti i lati. Il pi-no, secondo i furbi, era salvo e salve pure le abita-zioni vicine.

    Ma non sono certo le corde e i tiranti, commen-tavano i passanti, a ridare al pino la vita che l’ingor-digia dell’uomo aveva minato alle radici. In quellecondizioni sarebbe morto in piedi.

    Si è cominciato a fare di tutto per rimuovere ilpiù possibile l’asfalto e ridare il terreno necessarioalle radici e respiro agli aghi già quasi ingialliti. Lacura, questa volta indovinata, ha funzionato e il pi-

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    no sta riprendendo vitalità cosı̀ che presto, si spera,potrà essere liberato anche dalle corde d’acciaio.

    La lezione è severa e forte per l’albero della vitacristiana, soffocato da individualismi ed egoismi,che non può stare in piedi solo perché sorretto dacerimonie e imbrigliato da norme, leggi, precetti ecostrizioni.

    Ecco arrivare nella chiesa nuova linfa portata daicarismi propri dei movimenti: i canali attraverso iquali viene erogato l’urgente ossigeno della comu-nione.

  • ; 42 :

    Il regalo d’un giorno

    Non è stato facile, ma pian piano ho colto ecompreso che la privazione graduale o totale dellapropria autonomia, il venir meno delle proprie ca-pacità, senza dubbio è una ossigenazione vitale perla nostra umiltà, è la decapitazione del nostro egoi-smo, è la presa di coscienza del proprio nulla. Mipone necessariamente in un rapporto nuovo, diver-so e forse migliore di fronte al prossimo.

    Proprio questa mattina ho ricevuto una telefona-ta da Giovanni, un gran «personaggio». Grazie all’a-micizia che ci accomuna, mi confida di aver fattovisita a un illustre infermo, da mesi ormai malatoterminale.

    Fino a poco tempo fa, nel prestigioso mondodelle cattedre, si trattavano da pari a pari, gareggian-do nel superare la fama di questo o quel filosofo, diquesto o quel pensatore.

  • ; 43 :

    «Ho visto la vera grandezza di questa persona –mi confida commosso – dall’umile serenità concui, ormai diafano, mi parlava e, sorridente, mi in-tratteneva. Ho ringraziato Dio di avermelo fatto in-contrare. Porterò altri miei amici a visitarlo.

    Aggiungo che se Dio ce lo lascia ancora tra noi èper fare a noi il dono più grande: convincerci che lasaggezza vera su questa terra sta nel vivere comequesto amico ‘‘terminale’’: sempre serenamente ri-conoscenti perché ogni giorno che passa è un rega-lo che si trasforma in dono per altri, come lo è statoper me».

    Io aggiungerei: ora anche per me.

  • ; 44 :

    Il «sı̀» al Padre

    L’amico Nello, paralizzato da anni, scuotendola testa, si angosciava al pensiero del tempo e delleoccasioni perdute: «Mi sono passate accanto occa-sioni meravigliose per fare un mucchio di bene. Lamalattia mi ha sempre tolto le forze fisiche e psichi-che. Non so quanti giorni e quali forze mi restanoper far del bene».

    Manco a farlo apposta, davanti alla panchina oveeravamo seduti a parlare, si fermò una carrozzella:era Pierpaolo, paralizzato da molti anni, accompa-gnato dalla figlia. Egli, sorridente come sempre,pur seduto in carrozzella, sentendo i lamenti delnostro Nello, ci raccontò che da giovane aveva fat-to tante cose belle, interessanti. Pieno di energie edi iniziative, aveva avuto applausi e riconoscimentida molti. Immergendosi in mille faccende, gli sem-brava di essere benefattore dell’umanità.

  • ; 45 :

    Finché, ancor giovane, un incidente lo aveva co-stretto in carrozzella. Si era ritrovato a impreziosirein maniera nuova e insospettata il tempo... che, al-l’inizio, gli sembrava perso.

    Seduto, incapace di un solo passo, Pierpaolo ave-va ritrovato pure il sorriso di chi finalmente ha rag-giunto l’apice delle sue aspirazioni. Guardando ildeluso Nello, gli sussurrò che si sente benefattoredell’umanità più ora, nell’immobilità, che nel tem-po della salute e delle «corse».

    Ora è certo di non perdere tempo, è sicuro di ri-guadagnarlo tutto perché, sorridendo, si è messo adire con gioia il suo «sı̀» al Padre.

  • ; 46 :

    Il sorrisodel pastore

    Ungiorno una pecora andò dal pastore, timo-rosa, e gli presentò la sua decisione: valicare il limitedel recinto e avere la sua libertà. Con meraviglia vi-de che il pastore non solo non oppose alcuna resi-stenza, ma con un dolcissimo sorriso la invitò a sen-tirsi pienamente libera di fare le sue scelte.

    La pecora partı̀ decisa e si mise a correre. E corre-va, cercando di trovare e valicare il limite del recin-to. Quel limite, quella libertà, tuttavia, non arriva-vano mai.

    Si fermò a riprendere fiato. Ma nella sosta si ravvi-vava in lei la nostalgia dei prati lasciati, rivedeva ilsorriso incancellabile del pastore e in cuore si presen-tava il dubbio lancinante che il suo correre fosse untradimento. Per non cedere, ricominciò a correre.

  • ; 47 :

    Ma si imbatté in altre pecore che correvano insenso contrario al suo e le chiesero dove fosse di-retta.

    «Sto cercando il limite del recinto per saltarlo eacquistare la libertà».

    «Torna indietro con noi» l’esortarono tutte insie-me. «Sapessi quanto abbiamo corso... ma non siamoriuscite a trovare quel limite. Siamo ormai convinteche tutto è recinto del nostro pastore e lontano dalui ci sono solo pericoli... e fame e sete».

    La nostra pecorella si ricordò ancora una voltadel sorriso del pastore e se ne lasciò riafferrare e ri-conquistare, trovando la forza, il coraggio e la fidu-cia per tornare indietro a gustare quell’erba, ma so-prattutto quello straordinario sorriso che la saziava.

  • ; 48 :

    Il verde di Corino

    Corino, un contadino intraprendente, colti-vava un albero rigoglioso dalle grandi foglie d’unverde particolarissimo, raro.

    Era tanto preso dall’ammirazione e dai compli-menti per il suo albero e dall’affluenza sempre mag-giore di visitatori, che cominciò a concentrare leproprie cure sulle splendide foglie, togliendone laminima traccia di polvere, lucidandole perché fos-sero sempre brillanti.

    Si accorse però che una foglia aveva cominciato aingiallire, poi una seconda, una terza... Volendocorrere subito ai ripari pensò di recarsi a un colorifi-cio ben fornito, dove era sicuro di trovare il tono diverde uguale a quello delle foglie del suo albero dacurare, senza badare a tempo e a spese.

    Quelle foglie, fino ad allora suo vanto, divenneroper lui un tormentoso impegno.

  • ; 49 :

    «Corino, che fai?» gli chiese un amico, meravi-gliato, nel vederlo intento alla strana operazione.«Non è questo il metodo per ravvivare le foglie eimpedire che altre diventino gialle: è sufficiente da-re, di tanto in tanto, un po’ d’acqua alla radice dellapianta».

    «Non vedi quanto ho da fare? Non ho propriotempo di gettare acqua alle radici» ribatté Corino.E continuò il suo lavoro.

    Ma proprio mentre pitturava le foglie, davanti aun gruppo di curiosi, si vide cadere addosso il mera-viglioso albero.

    Corino non morı̀ di vergogna, né di crepacuore;rimase in vita per imparare e insegnare che un albe-ro si cura semplicemente annaffiando le radici: cu-rando la radice si curano al tempo stesso tronco, ra-mi, foglie, fiori e frutti.

  • ; 50 :

    Il vero presepio

    Una meraviglia il presepio di presepi; il com-mento dei visitatori era: «Sono tanti... ma si può di-re che è un solo presepio».

    Li accomunava un particolare non certo irrile-vante: in tutti i presepi mancava Gesù Bambino. Ibambini, i più meravigliati, si chiedevano: «Come!Presepi senza Gesù Bambino?». La risposta degli ac-compagnatori era sempre la stessa: «Andate avanti...e troverete».

    Alla fine del corridoio, verso il termine della mo-stra, su una porta che si apriva e si chiudeva, c’erascritto: «Io nasco e rinasco tra coloro che si amano».

    Varcando quella porta ci si trovava di fronte auno schermo sul quale era proiettato un susseguirsidi scene: gruppi di persone che vivono il vangelo, lacomunione fraterna fra di loro nelle varie fasi dellavita quotidiana e in vari ambienti: mentre mangia-

  • ; 51 :

    no si vede un bambino che versa l’acqua ai fratelli,mentre lavorano si vede la scena del capo ufficioche sorride al suo dipendente, mentre pregano sinota l’attenzione al direttore di coro, mentre gioca-no o studiano ci si accorge del rispetto reciproco.

    All’interno di un convento si vedono tre frati in-tenti a lavare i piatti, in una famiglia si gode la scenadel papà che ha in braccio il più piccolo e la mammache serve in tavola, in un ambiente di lavoro, in unufficio, in una parrocchia, non ci si accorge di chi èche comanda, e nemmeno in un bar, una piazza, unmercato, un ospedale, una scuola... Ovunque domi-na l’amore fraterno espresso nelle forme più semplicie quotidiane.

    Alla fine di ogni scena compariva la scritta: «Lamia gioia è stare con voi».

  • ; 52 :

    Immissaried emissari

    Pio e Nella, amici miei sposati da qualche an-no, vivevano la comprensibile fatica di non poteraver figli.

    Amareggiati e delusi nella loro più cara speranza,sentivano che il loro slancio cristiano diminuiva e laloro generosità si affievoliva.

    Tornati dal pellegrinaggio in Terra Santa con al-tre coppie di sposi, mi raccontarono le tante mera-viglie geografiche, morfologiche e storiche dellaPalestina. Li aveva colpiti in modo particolare la vi-sita al Mar Morto e al lago di Tiberiade.

    Tanto pieno di vita il lago, altrettanto morto ilmare. La guida spiegava loro che il Mar Morto, insostanza uno stagno salato, è senza vita; pur riceven-do acqua da immissari, per lo più temporanei, non

  • ; 53 :

    può essere vivo né vitale, perché non ha emissari:non dona se stesso a nessuno...

    Il lago di Tiberiade, invece, è vivo, è pieno dipesci e offre ricca pescagione perché non solo haimmissari, ma soprattutto perché ha un emissario: ilfiume Giordano a cui si dona generosamente.

    L’emissario dona perché dall’immissario riceve.Anche l’amore coniugale donando vita trova, rin-nova e riceve la vita.

    Forti di questo insegnamento, tornati a casa, han-no chiesto consiglio a un amico. Hanno accettatocon entusiasmo giovanile di adottare un bambino,poi due, poi tre...

    Ne sta scaturendo un’esperienza esaltante: «È undono potersi donare».

  • ; 54 :

    Impararea fare il morto

    Io sono uno di quelli che quando vanno al maresi assicurano che la spiaggia sia estesa abbastanza dapoter fare lunghe e belle passeggiate. Se decido difare il bagno mi accerto che ci si possa tuffare là do-ve si tocca.

    Varie volte, sospinto dagli amici, ho tentato dinuotare dove non si tocca, ma la paura mi ha sem-pre giocato brutti scherzi. Ho perfino rischiato diannegare nonostante avessi tra le mani un remoche gli amici mi avevano gettato dalla barca: volevo«toccare», volevo appoggiare i piedi sul fondo,nient’altro mi poteva rassicurare.

    A ogni tentativo, finiva sempre che immediata-mente, al primo pericolo, tornavo alla riva. Forseper questo non mi sono mai impegnato a impararea nuotare.

  • ; 55 :

    Uno di loro mi confida che, per imparare a nuo-tare, si era affidato a un bagnino il quale, portando-lo al largo (dove non si tocca), gli aveva raccoman-dato: «Se vuoi imparare a nuotare e rimanere a galladevi prendere confidenza con il mare; nuotare èuna questione di fiducia; prima di tutto devi impa-rare a ‘‘fare il morto’’».

    Proprio nei momenti o nei periodi burrascosi, lasoluzione perfetta è fidarti ciecamente di Dio; pernuotare con scioltezza fra le onde della vita, ti èchiesto di buttarti «a peso morto» fra le sue braccia,più sicure di ogni roccia.

  • ; 56 :

    In piena salute

    È stato detto, con apparente forzatura, che l’ar-te di tutte le arti è saper morire in piena salute. Emolto dipende anche dalla qualità dell’assistenza da-ta agli ammalati terminali.

    In una conferenza viene ricordata l’opera di ma-dre Teresa di Calcutta, la quale ha aperto gli «ospe-dali del moribondo» proprio per ammalati termina-li. Anch’ella mira a soccorrere, curare, per diminui-re l’assalto del dolore fisico. Ma ciò che percepiscecome sommamente più importante e urgente è to-gliere o mitigare il più grande e più acuto dolore dicui l’ammalato soffre: la solitudine della morte. Ègià di per sé una morte soffrire la solitudine, l’ab-bandono.

    Ed è per questo che madre Teresa, nei suoi ospe-dali, offre all’ammalato terminale una medicina mi-racolosa: la possibilità di avere sempre accanto qual-

  • ; 57 :

    cuno che vuole loro bene; una presenza che li met-te in contatto con Gesù. Lui è dentro di noi e ciama soprattutto in quei momenti. Sono i momentipiù importanti della vita: stiamo vivendo l’amorepiù grande: stiamo donando la vita.

    Chi si sente amato non muore, ma passa dalla vitaalla Vita.

    Ecco perché in questi ospedali del moribondo simuore nella serenità: si muore tenuti per mano, simuore sentendosi amati. È un morire «in piena sa-lute» dell’anima.

    Anche Gesù sul Calvario, da ammalato termina-le, aveva accanto come prezioso sostegno sua madreMaria. Pur sentendosi uomo abbandonato da Dio, aDio si è consegnato: «Padre, mi affido alle tue mani».

  • ; 58 :

    In primo piano

    Questa storia non la racconterei se non fossestata occasione preziosa per ridonare a Gotfrid lagioia che aveva perso e la serenità di chi ritorna asperare.

    Ho conosciuto un appassionato di macchinine:modellini appartenenti alle diverse case della For-mula Uno; tutte funzionanti, scattanti e obbedientiai pulsanti che lui manovrava. Le si sentiva scorraz-zare con il tipico rombo delle macchine vere.

    A fine esibizione le allineava, fiero, al lato dellapista, le guardava, le lucidava una a una; e anche lemacchinine sembravano fiere di correre per la gioiadel loro proprietario.

    Ma un giorno, proprio quella che sembrava lapiù apprezzata si ruppe, si fermò in mezzo alla pista.Scompiglio, sconcerto e commiserazione. Ormainon più funzionante, sarebbe stata gettata via; unadisgrazia.

  • ; 59 :

    Accadde, però, un fatto che destò meraviglia: ilproprietario la prese in mano, la lucidò, la portònel suo giardino, costruı̀ per lei un piccolo rialzoper metterla in primo piano, in bella vista di chiun-que passasse per la strada. Ne fece il monumentodella sua passione.

    Mai la «incidentata» avrebbe potuto sognare diprestare, anche immobile, un servizio tanto presti-gioso e di diventare cosı̀ importante e preziosa. L’a-mico a tutti ne raccontava la storia e tutti, dallacommiserazione per la disgrazia occorsa alla fuorise-rie, passavano allo stupore e a una strana invidia: lagrazia nella disgrazia.

    Queste meraviglie le fa chi è appassionato di au-tomodellismo.

    Dio è appassionato di te.

  • ; 60 :

    Intercomunicanti

    Dopo un’ora di viaggio in treno, Gildo e io,usciamo in corridoio per sgranchirci le gambe. Gil-do avverte nettamente il fumo di una sigaretta. Èun signore che fuma nello scomparto dov’è con-sentito; ma la sua porta che dà nel corridoio è aper-ta. Gildo, molto gentilmente, va a chiudere quellaporta. Il fumatore se ne lamenta e la apre nuova-mente.

    Allora Gildo, sempre affabile, gli ricorda che nonsi può fumare in corridoio. «Ma io sono seduto almio posto, sono nel mio scomparto dov’è permes-so». «Sı̀, ma deve tenere la sua porta chiusa...».

    Passa il controllore che sentiva il fumo e il dialo-go. «È vero che al suo posto lei può fumare quantovuole; ma deve tenere la porta chiusa per ‘‘privatiz-zare’’ il fumo» dice.

    È giusto, mi sono detto. Anche se è difficile, tut-

  • ; 61 :

    tavia bisognerebbe «privatizzare», arginare il male.Anche il fumo passivo danneggia la salute.

    Come è vero per il fumo, è vero per ogni com-portamento, per il male che ognuno fa. Ma se ba-diamo bene, ci accorgiamo che il male o il beneche ciascuno di noi fa, non può essere «privatizza-to», né arginato. Ha sempre riflessi diretti o indirettisu chi ci vive accanto.

    Viviamo tutti nello stesso scomparto, gomito agomito. Siamo vene diverse, ma dello stesso corpo.Il male dell’uno nuoce anche all’altro; il bene del-l’uno risana anche l’altro.

    Grazie al nostro essere intercomunicanti, un attod’amore, ovunque e da chiunque sia fatto, fa cre-scere il livello di bontà in tutta l’umanità.

  • ; 62 :

    Io la sua Australia

    Ci si domanda sempre se il bambino sa coglie-re e apprezzare le meraviglie che rallegrano la vistadell’adulto.

    «L’anno scorso» racconta una mamma «ho cono-sciuto una comitiva di persone desiderose di visitaresempre nuovi e diversi angoli della terra. Organiz-zavano un viaggio che ci assicuravano ricco di me-ravigliose scoperte. Con mio marito abbiamo ac-cettato l’invito a partecipare.

    Sull’aereo abbiamo prenotato sedili vicini ai fine-strini. Attendevamo panorami mozzafiato, grazieanche a un tempo ottimo illuminato da un solesplendente.

    Decollo. Il mio Pupi aveva sempre gli occhiettifissi sul mio volto. Lui era il mio specchio. Spec-chiandomi in lui io mi vedevo ora tranquilla, oraun po’ preoccupata. Come gli altri guardavo dal fi-

  • ; 63 :

    nestrino e godevo di superlativi panorami. Ma capi-vo che dal mio volto non poteva, per nessun moti-vo, assentarsi il sorriso: per Pupi infatti ero io il suopanorama, il suo viaggio, io la sua Australia.

    Più spettacolari meraviglie destavano il nostroentusiasmo, e più anche lui, fissando i miei occhi,aveva vibrazioni di gioia più intensa. Non guardavané a destra, né a sinistra. Non gli interessava nien-t’altro che il sorriso della mamma.

    Per me non c’è mai stata lezione più vera e inci-siva di questa. Il mio Pupi, da vero professore, mi hafatto capire molto bene come devo vivere il primocomandamento: non avrai altro Dio fuori di me».

    E conclude: «Dopo questa esperienza non midomando più se il mio bambino gode delle meravi-glie che gli adulti gustano, ma mi domando se gliadulti sanno mettere al primo posto il Creatore ditutte le meraviglie».

  • ; 64 :

    Istruzioni per il volo

    Entrato nell’aereo, scambio due battute con lahostess per qualche precisazione sulle istruzioni peril volo che ha appena date.

    Prima norma per chi vuole volare è quella di al-lacciare le cinture. Lo vedo ragionevole, ma d’altrocanto è assurdo insegnare come abbandonare l’ae-reo a cui, legati dalla cintura, ci siamo affidati e conil quale siamo un tutt’uno.

    Un tutt’uno con i genitori è anche il bambino dipochi anni; proviamo a pensarlo nella situazioneancora più tragica e assurda di dover abbandonarela mamma e il papà perché accusati di maltratta-menti.

    Proviamo a pensare a quanto è accaduto a Gesù:«Io e il Padre siamo una cosa sola»... Nessuno ci se-parerà. Chi ci separerà dall’amore di Dio?

    È inimmaginabile lo strazio, l’abbandono, l’in-

  • ; 65 :

    ferno, l’assurdo che Gesù ha provato nel gridare:«Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».Quel suo infinito dolore è la massima misura delsuo amore per noi.

    Se è possibile che l’aereo ci tradisca, se è tragicoche la mamma abbandoni e tradisca il suo bambino,non è e non sarà mai possibile che Dio ci abbando-ni: siamo una cosa sola.

    Gesù, nel sentirsi abbandonato dal Padre, si èriabbandonato nelle sue mani, emettendo l’atto difiducia più grande che cielo e terra abbiano mai re-gistrato in tutta la storia dell’umanità: «Padre, nelletue mani affido il mio spirito».

    Questa è la fiducia infinita che ci ha strappati al-l’inferno e collocati alla destra del Padre.

  • ; 66 :

    La chiave del tesoro

    APorta Portese c’è proprio di tutto, per tutti.Vi andò anche Antonio per trovare ciò che gli stavapiù a cuore. La gente in quel mercato cerca di tutto:anche lui era tentato da molte cose, ma non com-prò nulla. Volle prendere solo ciò che davvero gliera immediatamente, concretamente e maggior-mente utile.

    Gli premeva di poter prima o poi entrare in casasua... Da giorni si lambiccava il cervello per cercarel’unica chiave di casa. L’aveva persa chissà dove.

    Arrivò proprio a una bancarella sulla quale videchiavi di tutti i tipi; si tuffò alla fine tra le chiavi piùpiccole, cercandone una che potesse sostituire lasua; la chiave di casa appunto. Ne trovò una picco-lissima.

    Gli amici presero a deriderlo: «Non sei furbo –gli dissero –; ricco come sei, potresti comperare co-se molto più grandi e più belle».

  • ; 67 :

    Pagò la piccola chiave e si diresse verso casa.Guardava e riguardava la piccola chiave. La provònella porta: si aprı̀. A Porta Portese aveva trovato iltesoro, perché quel piccolo oggetto arrugginito gliaveva restituito la casa.

    Il dolore, pochi lo cercano, ma è la chiave cheapre le porte di casa, ti dona il paradiso. Tutti loscartano, lo rifiutano, lo fuggono.

    È senza apparenza, ma è la chiave del tesoro. An-che Gesù nel dolore «è senza decoro, né bellezza».Abbraccialo: è Dio.

  • ; 68 :

    La comunità ideale

    Nella bottega di un falegname durante l’as-senza del padrone tutti i suoi arnesi da lavoro ten-nero un gran consiglio. Lo scopo: come migliorarei rapporti vicendevoli e quali elementi buttare fuoriper una comunità ideale.

    La seduta fu lunga e animata, talvolta anche vee-mente.

    Uno prese la parola: «Espellere sorella sega, per-ché morde sempre».

    Un altro intervenne: «Cacciare sorella pialla; haun carattere tagliente».

    «Escludere il fratel martello che sa solo picchiare».«E i chiodi? Troppo pungenti. Che se ne vadano!

    E anche lima e raspa. A vivere con loro è un attritocontinuo. E cacciamo anche la carta vetrata, la cuiunica ragion d’essere sembra quella di graffiare ilprossimo».

  • ; 69 :

    «E cosa ci stanno a fare il righello e il cacciavite?Gente senza personalità che ci è più di peso che diaiuto...».

    Alla fine della seduta tutti avevano espulso tutti.La riunione fu interrotta dall’arrivo del falegna-

    me. Tutti gli utensili tacquero quando lo videro av-vicinarsi al bancone di lavoro. L’uomo prese un as-se, lo segnò con il righello e un chiodo, poi lo segòcon la sega mordace. Lo piallò con la pialla che spe-la tutto quello che tocca. Sorella ascia che feriscecrudelmente, sorella raspa dalla lingua scabra, sorel-la carta vetrata che raschia e graffia, entrarono inazione subito dopo.

    Il falegname prese poi i fratelli chiodi dal caratte-re pungente e il martello che picchia e batte. Si ser-vı̀ di tutti i suoi attrezzi di brutto carattere per fab-bricare una culla. Una bellissima culla per accoglie-re un bambino che stava per nascere.

    Per accogliere la vita.

  • ; 70 :

    La gioiosa sorpresa

    Ricordo un curioso e simpatico episodio: unbambino venuto a confessarsi oltre la grata il quale,convinto di non essere riconosciuto, nel giro di unadecina di minuti tornò tre volte.

    Sorpreso di questa ripetizione, con dolcezza glichiedo come mai è ritornato per tre volte. Mi ri-sponde che voleva sentirsi dire ancora che Gesù loama immensamente.

    Alcune mamme, sorprese dalla gioiosa reazionedei loro piccoli, mi hanno chiesto come confesso ibambini. Di fronte al parroco ho raccontato loro ilmetodo che uso di solito.

    Trattando a tu per tu, hai di fronte due occhisgranati e pronti alla gioiosa sorpresa della primaconfessione.

    Quel viso innocente e fiducioso, lo vedi consa-pevole di trattare con Gesù e ti riempie di meravi-

  • ; 71 :

    gliosa responsabilità. È proprio cosı̀: con i bambininon si può barare; non si può fingere. Capisconosubito se gli vuoi bene, se sei sincero, se quello chedici lo vivi o no, se ci credi o no.

    Dio lo colgono non tanto dalle tue parole, madalla sincerità del tuo cuore.

  • ; 72 :

    La luce del sorriso

    Arrivando a casa mia, dopo una lunga assenza,vedo gente in festa, amici, parenti. Dalle mie primefrasi, si rendono conto che io non so nulla della «fe-sta dei colori» che per tutta la giornata ha rallegratomigliaia di persone accorse dai paesi circostanti.

    Sono passato qualche minuto fa per quella piazzae non ho visto nulla. Non ho percepito nessun co-lore. Per un temporale, mancava la luce.

    Paolo procura un potente faro a batterie. Miconduce in piazza, punta il faro prima sui particolaridella mostra e poi lo allarga panoramicamente adabbracciare tutto l’insieme. «Che spettacolo! Chefesta di colori! Proprio una sinfonia! Uno splendo-re!» ripeto con sempre maggiore entusiasmo.

    È meraviglioso passare con lo sguardo da un sin-golo colore all’armonia dell’insieme; sembra diascoltare una musica che da una nota si dispieganell’accordo d’un mare di note.

  • ; 73 :

    «Tu – commenta Paolo – sei passato per la piazzae non hai visto niente. Mancava la luce. I colori c’e-rano, c’era la bellezza. Senza la luce però non veni-vano messi in risalto, non si potevano gustare. Co-me non esistessero». Eh, già! Solo la luce te li fa ve-dere e ammirare.

    Illuminato dal tuo amore, chiunque ti passa ac-canto ti rivelerà e ti regalerà la gioia e la bellezzache Dio gli ha dato per te.

    E di riflesso, avrà luce nuova anche il tuo sorriso.

  • ; 74 :

    La medicinadella serenità

    È stato un momento di straordinaria serenitàquello che ho sperimentato durante un improvvisoricovero per infarto in ospedale. Sono momentinella vita che ti dimostrano come è vero quelloche credi, che speri, come è concreto quello cheancora non tocchi, che ancora non tieni in mano.

    Al pronto soccorso, mi sento attorniato imme-diatamente da barellieri, infermieri e medici che,con sorprendente sollecitudine e rapidità, mi porta-no in camera di rianimazione. Là mi adagiano su unlettuccio provvisorio.

    La prima infermiera che mi parla è Valentina:«Per fortuna si tratta di un infarto preso in tempo».

    Arriva il primario. Il suo atteggiamento severo econsapevole della gravità del caso mi dà sicurezza e

  • ; 75 :

    fiducia. Ma la fiducia completa e assoluta già l’avevoriposta in Colui che è padrone della salute, della ma-lattia e perfino della morte da lui trasformata in vita.

    Il medico, ad ogni applicazione, domanda: «Midica, cosa avverte?».

    «Un forte mal di testa» rispondo.«Bene, bene! È una reazione normale» mi rin-

    cuora.Dopo la seconda iniezione: «Ora, cosa sente?» mi

    chiede, ansioso.«Dottore, mi sento soffocare».«Bene, bene!» mi rassicura. «È una reazione nor-

    male».A questo punto mi prende una spinta irrefrenabi-

    le al riso; tanto che egli, sorpreso e quasi arrabbiato,mi rimprovera: «Lei ride. Perché proprio ora? Ri-schia di rovinarmi la terapia!».

    Ma, scusandomi, gli rispondo: «Dottore, ridoperché sono certo che se morissi, lei potrebbe ripe-tere: ‘‘Reazione normale!’’».

    Dopo alcuni giorni di degenza, incontro di nuo-vo il cardiologo che, sorridendo, mi dice: «Grazieper la sua serenità in questo pur grave frangente: lasua serena fiducia è la medicina più efficace».

  • ; 76 :

    La mia famiglia

    Mi sento chiedere: perché a Natale lei non vain famiglia?

    Se non sono pronto a ragionare alla luce della fe-de, rischio di entrare in un senso di frustrazione af-fettiva, quasi di costrizione, che sembra obbligarmia stare dove non vorrei, mi fa avvertire uno stranosentimento di orfanezza, di malinconia.

    Rispondo subito che le feste le passo proprio infamiglia; cioè qui, nel mio convento, in parrocchia.

    Io le passo con voi, le feste, appunto perché sieteper me fratelli, sorelle, padri e madri... siete la miafamiglia. Lo dice Gesù. «È per me fratello sorella emadre chiunque fa la volontà del Padre mio».

    Allora io scelgo di fare la volontà del Padre, ob-bedendo ai miei superiori, ai doveri della mia rego-la, dell’ufficio affidatomi dal vescovo. Ed è per que-sto che mi trovo nella mia famiglia, la famiglia che

  • ; 77 :

    ha legami divini perché i legami stretti dalla fede edall’amore cristiani sono molto più veri e più solididegli stessi legami di sangue.

    La scoperta di questa paternità di Dio è la basedella vera fratellanza universale e dell’indissolubilitàdel vincolo che unisce marito e moglie nel matri-monio.

    Con questa fede vivi tutte le feste proprio nellatua famiglia che è appunto quella formata, voltaper volta, dalla volontà di Dio che unicamente haiscelto.

    Abbiamo messo Dio al primo posto, come Gesù:«Perché mi cercavate? Non sapevate che mi devooccupare delle cose del Padre mio?».

    Con questa espressione Gesù dodicenne, mettele cose in chiaro. La volontà del Padre su di lui, suMaria e su Giuseppe, è la consistenza e la certezzadella sua appartenenza.

  • ; 78 :

    La misura è lo spreco

    Fontanella, t’ascolto con gioia;mi disseto alla scuola di vita,perché un’arte sublime mi insegni.Tu mi parli. Ti voglio ascoltar!

    «Stai correndo? Sei stanco, assetato?Io t’invito: rinfrescati e bevi!Al mattino, al meriggio, di notte,lo zampillo ti dona il mio canto.

    Tu mi trovi vivace e solerte;ciò che dono e che dico è per te.Mille e mille persone soccorro;sono nata per sempre donar.

    A me viene il bambino accaldato,con me gioca, poi spruzza ridendo;i passanti bagnando rallegra;nello spreco assicuro il mio amor.

  • ; 79 :

    Dono sempre anche in ore impensate;non temere sia dono perdutoquando l’acqua nessuno raccoglie:è già dono a se stesso il donar.

    Vieni sempre, ti prego, t’aspetto;non mi vedi mai spenta, né stanca.Se non vieni, ti basti sapereche son qui notte e giorno per te.

    Tu mi bevi? per te è paradiso;mi rifiuti? per te sarà inferno.So chi sono, chi sei; perciò insisto:non puoi vivere senza di me.

    Ad ognuno che viene mi dono;musulmano, buddista o cristiano;donna o uomo o chiunque tu sia,lavo tutti e disseto chi vuol.

    Getto sempre, da sempre e per sempre,non c’è notte per me, non c’è giorno,da sorgente infinita io attingo,e sottrarmi non posso al donar».

  • ; 80 :

    La normalitàe la mamma

    Mamma Anita racconta: «Nell’ultimo mese,purtroppo, sono stata ricoverata due volte all’ospe-dale. Il mio Sandrino in questo periodo è stato por-tato dallo psicologo della scuola materna che fre-quenta. La diagnosi si è rivelata preoccupante.

    Allo specialista chiedo spiegazioni. Lui ribadiscel’eccessiva timidezza, l’insicurezza, la poca reattivitàe la totale mancanza di iniziativa nel gioco. Sugge-risce adeguata terapia per fargli acquistare fiducia inse stesso, per socializzare con gli altri e correggereun inizio di balbuzie.

    Casualmente notiamo che la data delle visite su-bite da Sandrino corrispondeva al periodo in cui ioero all’ospedale e non avevo potuto accompagnarloall’asilo.

  • ; 81 :

    Appena notato questo particolare abbiamo con-cluso che il piccolo risulta ‘‘handicappato’’ solo senon ha me, la mamma, accanto».

    La mamma è diventata per lui la vera terapia, glidona tutta la fiducia in sé; a casa non solo non bal-betta, ma nel vicinato è conosciuto come un«chiacchierone».

    «Il mio bambino» continua a raccontare mammaAnita alla sua amica «è sempre stato un piccolo dia-voletto: pieno di voglia di giocare, di parlare contutti, per strada con una manina tiene la mia e conl’altra saluta tutti, sorride a tutti, vuol far amiciziacon tutti.

    Alla terza chiamata dello psicologo, ho accompa-gnato il bambino. Lo specialista lo trova normale inogni tipo di reazione; anzi, stupito e soddisfatto del-l’esuberanza manifestata da Sandrino, sentenzia: ‘‘Lanormalità è un bel rapporto con la mamma... conDio...’’».

  • ; 82 :

    La preghierae le preghiere

    Qualche tempo fa sono andato a visitare pa-dre Stefano, un amico sacerdote, che si trovava dapochi giorni ricoverato all’ospedale.

    Si rammaricava di non poter recitare il breviarioe celebrare la messa.

    Allora, per rasserenarlo e per dirgli che davanti aDio è importante la preghiera del cuore, gli ho rac-contato che esisteva un monastero dove da pocotempo era entrato un monaco che non sapeva lepreghiere, ma sapeva pregare.

    Un giorno, questo giovane monaco, durante l’o-ra della preghiera corale voleva pregare anche lui;ma, non sapendo leggere il breviario come gli altri,lo faceva in un modo che al padre abate risultava unpo’ strano.

  • ; 83 :

    Senza libri o rosario in mano, il suo superiore losente ripetere: a, b, c, d, e, f, ecc. tutte le lettere finoalla zeta. Giunto alla fine dell’alfabeto, lo ripeté len-tamente e con tanta devozione. Il padre abate gli siavvicina per domandargli spiegazione d’un similemodo curioso di pregare.

    «Io – rispose – non conosco particolari formule,né qui posso leggere i salmi. Dico le lettere dell’al-fabeto e le dono a Dio che è mio Padre. Sono certoche lui conosce tutto di me e sa meglio di me comeordinare le lettere dell’alfabeto in formule di pre-ghiera che mi ottengano le grazie che lui conoscenecessarie per me. Insomma, per me la preghiera,espressa in un modo o nell’altro, è solo questionedi fiducia in Dio. Do a Dio carta bianca, ripetendo-gli: fai tu!».

    Il padre abate fece un rapido esame di coscienza:«Eh, sı̀ – rifletté. – Le mie preghiere sono vera pre-ghiera se il cuore naviga nella fiducia».

  • ; 84 :

    La ricchezzadel presente

    È proprio vero che se non si vive il presente, siè sfasati, di tutto ci si preoccupa e si perde il beneche scorre tra le mani.

    Viaggiavo in treno e avevo tanta fretta di arrivarea destinazione che non mi riusciva né di leggere, nédi dormire. Quasi a sollecitare la corsa del treno,guardavo in continuazione l’orologio.

    A una delle tante stazioni salı̀ una signora. Avevaun’aria tranquilla, serena, di persona dotata di...equilibrio.

    Con la calma di chi non desidera niente, se nondi salutare i presenti, disse un «buon giorno» cosı̀pacato che mi riscossi dalla mia strana fretta, dalmio nervosismo e mi misi il cuore in pace. Quelloscompartimento divenne «salotto».

  • ; 85 :

    Essa ci disse che prendeva volentieri quel treno,anche se lento, perché le offriva il vantaggio di pas-sare in mezzo alla campagna, e di poter cosı̀ ammi-rare i campi, le più svariate piantagioni, i paesi, e imonumenti che diversamente non avrebbe potutocontemplare e gustare. Inoltre, non era mai affolla-to e si era certi di trovare posto. Ma soprattutto per-ché si fermava a una stazione a pochi passi da casasua.

    Il treno è, sı̀, un mezzo di trasporto, ma, a guar-dar bene, è anche una casa dove abitare; e abitando-la bene, si viaggia bene.

    L’ho ringraziata. Quella signora mi ha rivelato laricchezza del presente: pieno di positività anchenella sua lentezza, donatore di panorami e di nuoveconoscenze, scuola del vivere la calma, la pace el’abbondanza di ciò che ti scorre in mano e davantiagli occhi. Il presente: pienezza di Dio.

  • ; 86 :

    La sorpresa

    Avevo tentato, ma non ero riuscito. Non c’eraraccomandazione che tenesse. Una prestigiosa mo-stra internazionale alla cui inaugurazione tutti spe-ravano di poter assistere. Ma senza biglietto era im-possibile entrare.

    Mi rassegnai. Ma un amico, quasi distrattamente,mi mise in mano un biglietto che aveva in più. Al-l’ingresso, chiedo alla guardia dove devo andare.

    «Lei, ad ogni passaggio, mostri il suo biglietto alleguardie e loro le sapranno dire».

    Mettendo in evidenza il biglietto, mi accorgevoche il saluto, gli ossequi delle guardie erano semprepiù attenti e rispettosi e mi sentivo chiamare con ititoli più lusinghieri che si potessero sognare.

    Mi fu messo accanto addirittura un deferente ac-compagnatore che mi guidò fino a una zona riser-vata alle più grandi personalità, dicendomi: «Questo

  • ; 87 :

    è il suo posto, ed io resterò qui, a sua disposizione,fino al termine della cerimonia». Poi proseguı̀: «Ilsuo biglietto è il migliore che si possa avere per en-trare qui; e pensi che, finita la cerimonia, lei, con lealtre personalità, può partecipare al grande pranzo».

    Ero tentato in ogni momento di chiedere spiega-zioni e di confidare che io non ero quello che il bi-glietto faceva intendere.

    Questo episodio mi ha fatto prendere coscienzadel fatto che è inimmaginabile il posto riservato daDio a me e a te: quello di figli suoi. Abbiamo un bi-glietto che ci dà il diritto di arrivare là dove tutti so-gnano di arrivare.

    Lui non finisce e non finirà mai di sorprendere.

  • ; 88 :

    La tonaca affamata

    Francesco era ormai famoso.Un giorno uno dei principi della regione orga-

    nizzò un pranzo. Fu invitato anche Francesco, datutti conosciuto come il nobile figlio di Bernardo-ne. Ma lui si presentò con un abito logoro, sporco,come un poveraccio fra i tanti.

    Lo fanno sedere per terra, in un angolo della sala.Gli viene portata una ciotola, la ciotola dei poveri,con dentro qualcosa avanzato dai commensali.

    Francesco, seduto per terra, con disinvolturaconsuma da vero povero ciò che gli viene portato.Nessuno gli rivolge uno sguardo, nessuno scambiacon lui una parola; anzi tutti aspettano che se ne va-da al più presto. Presenza ingombrante.

    Qualche tempo dopo, Francesco viene a cono-scenza d’un altro grande pranzo organizzato dallostesso signore. Non perde l’occasione per farsi invi-

  • ; 89 :

    tare. Ma questa volta entra nella sala del convito ve-stito lussuosamente.

    Si precipitano a farlo sedere a capotavola. Gli so-no messi davanti i piatti più pregiati e l’argenteriapiù raffinata.

    È il primo a essere servito. All’arrivo della primaportata, con tutta calma, accertatosi che tutti gli oc-chi siano puntati su di lui, quasi a eseguire un rito,Francesco prende il piatto con le due mani e se lorovescia sui vestiti; cosı̀ fa con il secondo, con il ter-zo, e via fino al dolce: tutto sparge puntualmentesull’abito.

    I commensali, sbigottiti, gliene chiedono la ra-gione.

    Francesco, volgendo intorno lo sguardo, serena-mente risponde: «Ho versato le pietanze sui vestitiperché voi non avete dato da mangiare a me, ma almio abito».

  • ; 90 :

    La vocedella mamma

    Ricordiamo le vicissitudini di Alfredino e diquanti hanno tentato di salvarlo dopo la sua cadutanel pozzo.

    Ma anche apprezziamo quanto ci è stato donatoda una simile lezione dolorosa.

    Si misero subito in atto, una dopo l’altra, tutte lepossibilità di soccorso. Mentre fervevano le varie eintense operazioni, si comprese che era urgente te-nere desto Alfredino. Se si fosse per caso addor-mentato o assopito facilmente sarebbe precipitatoancora più giù.

    A questo scopo si susseguirono, a turno, in su-perficie, alla bocca del pozzo, varie persone conl’intento di parlare in continuazione, dialogare sen-za interruzione con Alfredino.

  • ; 91 :

    L’intervento della televisione aveva portato l’av-venimento in tutte le case ed era diventato il casonazionale. Io stesso passai la notte davanti al videoquasi a sollecitare, a collaborare con chi si dava dafare.

    La parola d’ordine era: a tutti i costi dialogare conil bimbo, parlargli, tenerlo sveglio perché non spro-fondasse. Si sono succedute e alternate molte perso-ne. Ad Alfredino sono arrivate varie voci che gliparlavano dalla superficie del pozzo.

    Ma tra le tante voci, la più efficace era certo lavoce della mamma. Era lei che doveva impegnarsia parlargli in continuazione. Era necessario che ilpiccolo collaborasse da sveglio. Il dialogo con lamamma lo svegliava, lo teneva desto.

    È l’esperienza di ogni cristiano: sa stare in piedifinché rimane in dialogo con Dio. Pregate e veglia-te per non cadere.

  • ; 92 :

    La zatteradello zio Piero

    Accompagnavo spesso mio zio Piero nei suoispostamenti in casa e in campagna. Quando eropiccolo spesso andai anche a pescare con lui.

    Ma qualche volta, per sorvegliare le mucche alpascolo, ci davamo alla pesca nell’ambiente paludo-so vicino a casa.

    Ci mettevamo dentro una specie di zattera co-struita dallo zio stesso: una grande botte, segata ametà, galleggiante su due tronchi d’albero. Appro-fittando delle vacche che andavano a nuoto fino allaradura, noi raggiungevamo il luogo di pesca attac-cati alla coda dell’ultima mucca.

    Per imparare guardavo le mosse dello zio mentrepescava. Mi sentivo particolarmente onorato quan-do mi invitava a reggere la canna da pesca. Con

  • ; 93 :

    quanto impegno tenevo la canna, sperando di dareallo zio la soddisfazione almeno di una trota!

    Lui era orgoglioso del mio impegno: «Presto im-parerai a pescare; allora non andrai a elemosinare ilpesce, ma sarai tu a donarlo a chi ne ha bisogno. Mal’elemosina più fruttuosa – aggiungeva con la suasaggezza – non sarebbe tanto di dare il pesce, quan-to di insegnare a pescare».

    Mi mostrava anche come preparare la canna dapesca. «Vedi come carico l’amo? Con un verme! Ipesci sono ghiotti del verme. Ne infilo uno nell’a-mo e i pesci che abboccano li tiriamo in barca...

    Oggi è venerdı̀ santo. Tu sai che cosa ha fattoGesù? Vuoi anche tu, Andrea, diventare, come Ge-sù, pescatore di uomini? Basta essere un verme peramore».

    Anche Gesù è diventato «verme della terra» che,infilato sull’amo della croce, ci attira tutti a sé.

  • ; 94 :

    L’accordo è famiglia

    Sono stato invitato ad accompagnare un grup-petto di persone della Caritas per portare il nostrodono a una scuola lesionata dal terremoto di Assisi.

    Arrivando alla scuola, ci accorgiamo di essere at-tesi.

    Il responsabile della scuola scambia con noi qual-che battuta. La disgrazia del terremoto ha sollecitatouna commovente gara di aiuti e soccorsi di variogenere; l’intesa con i paesi vicini si è ulteriormenterinsaldata, tanto che sono arrivati a scambiarsi i ge-neri alimentari ricevuti in eccedenza e ritenuti su-perflui.

    Entriamo in un container-scuola. I ragazzi ci ac-colgono festosi e ci mostrano, scritto sulla lavagna, iltema che stavano svolgendo: «Che cosa chiedi alnuovo anno?».

    Pensavo: questi bambini scriveranno che si aspet-

  • ; 95 :

    tano la fine dell’interminabile terremoto, l’imme-diata ricostruzione delle case crollate, il ritorno ditutti nelle proprie abitazioni, la fine dell’incubo.

    Quasi per aver conferma, chiedo a una bambina:«E tu cosa t’aspetti dal nuovo anno?». Non ho an-cora terminato la domanda, che lei mi rispondecon prontezza: «Che papà e mamma finiscano di li-tigare!». E non aggiunge altro, fissandomi con losguardo di chi sta chiedendo la cosa più grande delmondo.

    Il vero terremoto non è quello che fa crollare imuri delle case; ma è il crollo della famiglia, spessoprovocato dai continui litigi dei genitori.

    Allora il paradiso dei bambini sta nella concordiadegli adulti.

  • ; 96 :

    L’acqua,riflesso di Dio

    Sı̀, perché anche l’acqua porta l’impronta diDio suo creatore e ci mostra qualcosa dell’amore.

    L’acqua è limpida, incolore, non porta se stessa,non si impone; è trasparente, lascia vedere ciò chetocca; rispetta i colori sui quali passa; non ha formasua propria, per assumere quella degli oggetti chesfiora e riempie; non ha sapore per diluire e amalga-mare i sapori che si mescolano con lei; non ha unasua dimensione e misura, capace come è di entrarenell’infinitamente piccolo o di riempire gli oceani;istantaneamente assume la forma nella quale è ri-versata, sia un fiume o un ditale.

    Non ha dunque fisionomia, né personalità, ep-pure la sua particolarità sta tutta nell’arte di «farsiuno» con tutto ciò che incontra sul cammino.

  • ; 97 :

    Non solo, ma l’acqua lava e purifica, portandovia con sé la sporcizia delle cose; irriga e nutre, dis-seta, rinfresca, dà ristoro, dove passa nasce la vita.Nutre piante, animali, uomini; è adatta per tutti,non ha preferenze e non fa differenze.

    Non è questo l’amore? mi sono detto. Passarecon disinvoltura in ogni realtà che si incontra atti-mo dopo attimo, senza far resistenza, vuoti e liberidi quanto si è vissuto prima, per assumere la formadel momento presente. Condividere ciò che i fra-telli vivono, avendo cura del micro come del ma-crocosmo, essendo incolori, insapori, inodori, in-formi per riempire e abbracciare e rigenerare tuttociò che si incontra, essendo impersonali per dare vi-ta e personalità a tutto ciò che si tocca.

  • ; 98 :

    Il latte riversato

    Mi sono trovato all’università per una visitalampo a Renzo.

    Prima di salutarci mi invita a passare a prenderequalcosa al bar con lui. Ci avviciniamo al distribu-tore automatico acceso; esprimo il desiderio di ave-re un latte caldo.

    Osservo come funziona la macchina e come lausano gli altri. Si introduce un gettone – mi spiegaRenzo – e si seleziona il numero della bevanda de-siderata. Subito la macchina si mette in funzione la-sciando prima di tutto scendere il bicchiere che, be-ne assestato, riceve subito la bevanda che si è scelta.

    L’amico, praticissimo, introduce il gettone. Nel-l’attesa che tutto funzioni a dovere, ci scambiamo leultime chiacchiere, ma – sorpresa! – il latte, tantoatteso, si è riversato tutto per terra, sporcando il pa-vimento.

  • ; 99 :

    «Come mai? Che cosa è successo?» domando aRenzo.

    «Questa volta la macchinetta non ha dato il vuo-to. Si è inceppato il meccanismo che fa scendere ilbicchiere. Senza il vuoto la bevanda va perduta».

    La risposta mi fa cogliere l’importanza del vuoto.Senza il vuoto nessuno può ricevere niente, senza ilvuoto non si beve.

    Senza il mio vuoto Dio non può riversare in me isuoi doni; se il mio prossimo non vede in me il vuo-to necessario non può donarmi quanto vorrebbe.

    Ogni volta che chiedo al prossimo o a Dio qual-che cosa, devo prima di tutto essere quel «vuoto»che raccoglie il dono, altrimenti tutto ciò che miviene donato sarà sperperato.

  • ; 100 :

    Insalata ricca

    Invitato a pranzo da Nani, ho la possibilità dimanifestargli liberamente la mia preferenza per l’in-salatina verde.

    «Non la coltivo nel mio orto; devi purtroppo ac-contentarti dei miei pomodorini, sai, quelli dolci;bocconcini veramente prelibati».

    A distanza di pochi giorni, sono invitato anche dasuo fratello Nino, che abita a poche centinaia di me-tri. Tra loro due, però, ci sono vecchi dissapori. Conin bocca ancora il gusto del piatto genuino di Nani,anche a suo fratello manifesto il mio desiderio di po-modorini, quelli dolci, che mi piacciono molto.

    «Non li coltivo nel mio orto, mi spiace. Devi ac-contentarti dell’insalatina verde, quella tenera, che ame piace molto».

    A ciascuno dei due fratelli, separatamente, con-fesso la mia gola per un bel piatto di insalatina ver-

  • ; 101 :

    de, tenera, accompagnata, però, arricchita da un’ab-bondante porzione di pomodorini, quelli dolci.

    La risposta immediata di tutti e due, pur in sedeseparata e in momenti diversi: «Quello sı̀ che è unpiatto... è l’insalata ricca... magari!».

    Passò un mese abbondante. E prima ancora cheio domandassi una cenetta con a base l’«insalata ric-ca» avvenne un fatto straordinario: prima Nani epoi Nino, a breve distanza l’uno dall’altro, mi invi-tano con vera soddisfazione a «farmi» un bel piattodi «insalata ricca».

    È chiara la mia meraviglia: «Spiegami, Nani; midai l’insalatina verde, tu che non ce l’hai e coltivisolo pomodorini?».

    «Mi sono accorto – confida commosso – che senon offro il mio perdono a Nino, il mio piatto saràsempre povero; ma nell’accordo con mio fratello, ilmio cuore è straripante e il mio piatto avrà assicura-ta l’‘‘insalata ricca’’».

    Era veramente prelibato il piatto d’insalata riccache ho gustato quella sera. Ma il clima di famiglia edi fraternità è il gusto da prediligere a tavola, anchesu una mensa povera.

  • ; 102 :

    La colpa è tua

    Assieme ad alcuni amici sacerdoti e con il no-stro vescovo, sono entrato in una sala cinematogra-fica della città per vedere il film di Mel Gibson: Thepassion.

    Abbiamo volutamente lasciato fuori dalla salatutte le parole e le discussioni: «Chi ha messo incroce Gesù? Di chi è la colpa?». Ci siamo immersi,per esserne travolti, nell’atto d’amore più grandeche Dio abbia manifestato all’umanità intera.

    Nel folto della passione, nel «macello» della fla-gellazione, durante la salita interminabile al Calva-rio, nella crocifissione, piena di sangue e di cattive-ria umana, più volte sono stato tentato di uscire o digridare: «Basta! È troppo!»...

    Mi sono trattenuto dal farlo e mi sono calmatoappena ho capito che tutta la sofferenza che vedo,l’orrenda sequenza di sangue e di tormento che

  • ; 103 :

    non finisce mai, è solo un’ombra del dolore che luiha sofferto quando, rivolto al Padre, ha gridato:«Dio mio, Dio mio... perché mi hai abbandonato?».

    Alla presa di coscienza di quanto è grave la mia,la nostra colpa, è subentrata la gioiosa sorpresa diquanto è grande il suo amore per noi.

    Di chi è la colpa? A chi me lo domanda mi paregiusto rispondere: la colpa non è dei giudei, non èdi questi o di quelli... non è né mia, né tua.

    Caro Gesù, devo dirti che la colpa è tutta tua,soltanto tua. Ti sei immolato perché l’hai volutotu. Ecco la tua colpa: ci hai amati troppo. Sei ilgrappolo che ha cercato e trovato il torchio, sei ilchicco di grano che ha trovato la macina.

    Con un grazie infinito siamo contenti di perdo-narti questa tua colpa, grande quanto il tuo amore,e cantiamo con la chiesa: felice colpa la nostra, su-perata dalla tua.

  • ; 104 :

    La favoladella lucciola

    Disse una lucciola al sole: «Sei bello e splen-dente, dappertutto penetri e dove arrivi porti la vi-ta, la gioia. Com’è diversa la mia vita dalla tua!».

    Il sole taceva e sempre più sfolgorante inondavacon i suoi raggi benefici la terra.

    Il cinguettio d’un uccello salutò e penetrò l’ariadi dolcezza. Anche a lui la lucciola confidò la suapena: «Perché non ho il tuo canto?».

    Il prato era una fioritura di candidi gigli e la lorosemplice bellezza toccò profondamente la lucciola:«Come vorrei essere quel fiore! Oppure il vento,sı̀... dove passa è tutto un fremito di vita tra le fogliedel bosco!».

    Ma una voce sottile sembrò che dalla natura ve-nisse come risposta:

  • ; 105 :

    «Piccola lucciola, forse non lo sai: il sole sorge perte. E lo farebbe anche se tu fossi l’unica creatura vi-vente. E quell’uccello: ascoltalo! Riveste di armo-nia il tuo silenzio. Quel fiore è per te, non desidera-re di essere come lui. A sera il sole tramonterà, ilvento cesserà, i nidi si addormenteranno con pigoliisommessi, i fiori serreranno i petali delicati. Mentretutto si vestirà d’ombra, la natura attenta, silenziosa,farà da scenario alle tue danze luminose. Tracceraidisegni di luce e di te palpiterà la chiara sera estiva».

    Un giorno madre Teresa di Calcutta e ChiaraLubich si incontrarono. Madre Teresa disse rivoltaa Chiara: «Quello che faccio io, tu non lo puoi fare,né io posso fare quello che tu fai».

    Dio ci ha creati complementari.

  • ; 106 :

    La firma del fratello

    È risaputo che è la firma dei genitori a dare cre-dibilità e serietà allo scritto o alle richieste del bam-bino. La stessa strada intende percorrerla Gesù ognivolta che si presenta a noi con una sua proposta,ogni volta che ci ricorda quanto ha fatto o ha detto.

    Rivolto al Padre ci assicura che la salvezza nostraè sapere:

    – che Lui è stato mandato dal Padre;– che ogni sua opera ha, per cosı̀ dire, la firma del

    Padre;– che nulla fa da se stesso;– che lui e il Padre sono una cosa sola.Dall’altra parte il Padre nulla fa, nulla ha fatto

    senza la firma del Figlio: «Tutto è stato fatto permezzo del Figlio e nulla è stato fatto senza di lui».

    Noi tutti siamo stati fatti, quindi, dal Padre e conla firma del Figlio Gesù.

  • ; 107 :

    Mi sembra molto importante sapere che, se vo-glio essere credibile al Padre, è necessario che tuttociò che faccio abbia la firma del Figlio. Come puòavvenire questo?

    A Gesù non posso presentarmi senza la firma delfratello: «Va’ prima a riconciliarti con tuo fratello.Ti ho dato un prossimo, un fratello che, con la suafirma, con il suo perdono, nella sua comunione conte garantisca la serietà, la credibilità e l’efficacia delletue richieste. E io do tale importanza alla firma delfratello, sigillo della vostra riconciliazione, che nonposso non donare ciò che tu mi chiedi».

    «Se due di voi sulla terra si accorderanno, se duedi voi sulla terra firmeranno le richieste l’uno all’al-tro, l’uno per l’altro, qualunque cosa chiederanno laotterranno».

  • ; 108 :

    La Mole antonelliana

    A Torino per lavoro, non mi sono lasciatosfuggire l’occasione per una visita, anche se affretta-ta, alla Mole antonelliana. Altissimo monumentoche colpisce e affascina chi vi passa accanto. Ho vo-luto anche conoscere la misura esatta della sua altez-za: 167 metri.

    Qualche mese dopo la mia prima visita a questomonumento, con un amico siamo passati in aereosopra Torino; ci siamo appostati accanto a un oblòper poter ammirare dall’alto il magnifico panoramadi questa splendida città.

    Prima di arrivare sopra Torino ho sussurrato al-l’amico che volevo fargli vedere dall’alto, tra i varimonumenti, anche la Mole antonelliana.

    Sorvolando abbiamo riconosciuto, enumerato egustato tante particolari bellezze. Ma... la Mole do-v’era? Non riuscivamo a vederla. Che strano: cosı̀

  • ; 109 :

    alta, cosı̀ imponente, immensa guardandola dal bas-so; invisibile, direi inesistente, guardandola dall’alto.

    La hostess ci ha indicato un punto. «Laggiù, inquel punto c’è la Mole antonelliana».

    Lo sguardo dato dal basso è umano; lo sguardodato dall’alto è di Dio. Quanto sono diverse le pro-porzioni umane da quelle divine: ciò che è altopresso gli uomini, è invece nulla, è un «punto» invi-sibile se visto da Dio.

    Il nulla dell’uomo è tutto allo sguardo di Dio; ègrandezza, altezza di Dio, è profondità abissale, im-magine di Dio. Ecco perché in Maria, la più umile,Dio si è inabissato. Maria ha concepito Dio per lasua umiltà.

  • ; 110 :

    La radice e i frutti

    Quante volte, da piccolo, in campagna, hoosservato un gesto ieratico, ricco di speranza e di fi-ducia: la manciata di semi che il contadino, con unampio movimento delle braccia, dona e affida allaterra. Il seme, toccando la zolla, si sente subito ac-colto dal solco che l’agricoltore gli ha accuratamen-te preparato.

    Sotto quella zolla il seme s’addormenta, marci-sce. Anzi, si trasforma in radichetta che va in pro-fondità e poi in fusticino che spunta bramando laluce.

    È la pianticella. La nuova vita che il contadinocoltiva nei vari momenti e nelle varie fasi della cre-scita. La annaffia, la libera dalle erbacce, ne smuoveattorno la terra, la espone al sole... ma non ne toccamai la radice. Anzi, tutto fa per permetterle la mas-sima espressione di vita. Non tocca mai i frutti in

  • ; 111 :

    maturazione; li tocca solo per raccoglierli e donarli.Nel terreno della vita cristiana si vedono spuntare

    dei frutti preziosi che maturano senza toccarli. Gesùne ha donato il seme, la pianticella della carità. Cidomanda di coltivarla con attenzione e generositàperché la carità è lui stesso; darà molti frutti preziosi,delicati e profumati.

    Tra questi fiori speciali brillano castità, povertà,obbedienza. Frutti nati dalla carità, vivono nella ca-rità, sostengono e rafforzano la carità.

    Gesù ha comandato «amatevi» e spunta la castità:l’amore è da Dio ed è questo amore che riceviamoe doniamo.

    Gesù ha comandato «amatevi» e fiorisce la pover-tà: l’amore reciproco è massima comunione. Ciòche è mio è tuo.

    Gesù ha comandato «amatevi» ed ecco l’obbe-dienza: l’amore vero è poter fare solo ciò che co-manda l’amante. «Vi comando: amatevi».

    Una è la radice, molti i frutti.

  • ; 112 :

    La salutee il Natale

    Mancano pochi giorni a Natale; mi arriva unatelefonata da una giornalista della Rai che sta prepa-rando un’intervista per la sua trasmissione radiofo-nica dedicata alla salute.

    Mi rivolge domande riguardanti la salute e il Na-tale.

    Mi invita a rispondere con semplicità e sponta-neità, sapendo che il bersaglio da colpire non è tan-to il cervello, ma il cuore; per dare un senso all’au-gurio «buon Natale».

    Del resto, commento io, è l’amore che ha mossoDio dal cielo in terra; e sarà l’amore che, in risposta,muoverà e travolgerà l’uomo dalla terra al cielo.

    Per cui subito aggiungo che se c’è una malattiasulla terra è la mancanza di amore. Se nell’umanità

  • ; 113 :

    c’è una radice velenosa da curare o da estirpare èquella dell’odio. Se c’è una pena da vincere e da al-lontanare è quella di sentirsi orfani.

    A Natale, il Dio che nasce e viene ad abitare inmezzo a noi vuole rassicurarci che è lui la medicina,lui il medico, lui la salute; lui viene non per i sani,ma per gli ammalati. Può sanare una malattia infini-ta portando l’amore infinito; anzi lui stesso è l’amo-re smisurato; ci fa diventare «figli di Dio» per guarirealla radice l’orfanezza.

    L’amore è salute piena, paradisiaca, appena gliuomini vivono il Natale: si distribuiscono, si scam-biano reciprocamente questo amore infinito chederiva da sorgente infinita.

    Allora auguro che il Natale sia «buono» per me, eanche per tutti i radioascoltatori.

  • ; 114 :

    La siringa

    Mi sono premurato di cogliere, facendomeledescrivere bene, le varie fasi d’una iniezione e ilmeccanismo che fa funzionare le varie parti della si-ringa.

    L’ago della siringa entra nella fiala per aspirare illiquido richiesto. La siringa è composta d’uno stan-tuffo che scorre nel tubetto adatto a raccogliere il li-quido aspirato.

    Lo stantuffo, per aspirare il liquido, deve creare ilvuoto nel tubetto; a provocare l’aspirazione del li-quido è propriamente il vuoto creato dallo stantuf-fo; l’aspirazione risulta tanto immediata che il vuotoè subito occupato dalla medicina.

    Come con la siringa per aspirare la medicina ènecessario creare il vuoto, cosı̀ per aspirare Dio èproprio necessario il vuoto di sé: il vuoto d’amoreci riempie di Dio. Rinnega te stesso, dice Gesù, e

  • ; 115 :

    mi seguirai. Gesù è trascinato in te mentre per amo-re fai il vuoto di te.

    È esattamente ciò che avviene mentre si ama ilprossimo. Amando il prossimo rinneghiamo noistessi, ci svuotiamo di noi e, mentre ci svuotiamodi noi per amare l’altro, avviene che immediata-mente aspiriamo Dio il quale ci riempie di sé.

    Felice scambio! Per amore rinneghiamo il nostroio e troviamo... Dio.

    Rimango pieno di stupore per quanto Dio haprovvidenzialmente programmato per la mia vitaspirituale: non c’è momento che sia privo d’una si-mile, vantaggiosa occasione. Dio mi ha messo ac-canto un fratello, una sorella, un prossimo da ama-re, a cui donare me stesso, svuotandomi del mio io.

    In ogni momento quindi posso svuotarmi delmio io e riempirmi di Dio.

  • ; 116 :

    La statua del nonno

    In uno freddo paese della Norvegia viveva unafamiglia che nutriva una grande venerazione per ilnonno. Una bella manifestazione di questo affettoera espressa da una grande, artistica statua di ghiac-cio eretta di fronte alla porta di casa.

    Ma un giorno in quel paese arrivò una tale siccitàche non vi si trovava acqua per bere, né per cuci-nare.

    Dilemma: morire di sete, di fame, o accettare disciogliere man mano il ghiaccio che formava la ve-neratissima statua