Ibn-Rushd (Averroè) · della loro reale esistenza in atto. Di conseguenza, per questo genere di...
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Ibn-Rushd (Averroè)
Verso la fine dell’antichità, la cultura greca, nella scia del cristianesimo, si diffuse in Mesopotamia
e in Siria, e molti testi classici erano stati tradotti in siriaco. L’insediamento dell’ellenismo proseguì
quando l’islamismo sostituì in queste regioni il cristianesimo. Furono allora eseguite traduzioni
arabe sia direttamente sul testo greco, sia semplicemente sulla traduzione siriaca.
Nel patrimonio culturale così trasmesso, Aristotele occupa una posizione privilegiata. Di fatto, però,
l’aristotelismo conosciuto dagli arabi presenta forti tratti neoplatonici.
I primi grandi filosofi arabi sono aristotelici. Uno di questi è Ibn-Rushd, meglio noto come Averroè.
Averroè, o più esattamente Ibn-Rushd (1126-1198), era originario di Cordova, nel cuore della
Spagna musulmana che durò per otto secoli e in cui la cultura araba, filosofica, scientifica e
letteraria conobbe alcuni dei suoi periodi più brillanti.
Ibn-Rashid era giurista, medico e soprattutto grande commentatore di Aristotele. Si rese conto che
l’aristotelismo arabo era stato contaminato da interpretazioni platoniche; egli volle dunque
promuovere un ritorno al vero Aristotele. L’influenza della sua opera si fece sentire profondamente
attraverso il Medioevo e l’età moderna.
Egli difende i filosofi dall’accusa di essere dei miscredenti, dal momento che non hanno mai negato
nessuno dei principi essenziali della religione.
Le divergenze esistenti tra le opinioni dei filosofi e quelle dei teologi sono ricondotte a differenze di
interpretazione. I filosofi hanno il diritto di interpretare la religione alla luce della ragione, poiché la
religione ci accorda il diritto di usare la ragione.
La ragione ci spinge alla conoscenza del vero. Ora, il vero non si oppone al vero, ma lo sostiene e
testimonia in suo favore. La filosofia cerca il vero, dunque filosofia e religione devono accordarsi,
perché hanno lo stesso contenuto: l’unica verità.
Se la lettera del testo religioso sembra in contraddizione con ciò che esige la ragione, occorre allora
interpretare il testo religioso nel senso richiesto dalla ragione.
I testi religiosi, in effetti, comportano due sensi:
Senso esterno
o È quello destinato alla massa degli uomini comuni
Senso interno
o È quello che cercano i pensatori alla luce della ragione, il senso vero
È dunque sbagliato credere che Ibn-Rushd abbia introdotto la dottrina di una doppia verità. La
verità è unica, che può essere espressa sotto forme e sensi diversi a seconda del pubblico a cui si
rivolge.
Per Averroè, tutto ciò che esiste è necessario. È una lezione che si può rigorosamente trarre dalla
corretta lettura di Aristotele. Il mondo è necessario perché necessariamente creato da Dio. Poiché
Dio è perfezione, la sua opera stessa segue necessariamente dalla sua perfezione ed è a sua volta
perfetto. Il mondo è esso stesso eterno come Dio, dunque non ha mai avuto inizio. L’ordine del
mondo non può essere né modificato né infranto, bensì dirige la stessa azione dell’uomo (del tutto
privo di libero arbitrio, nozione rientrante nell’ordine delle idee confuse). Il mondo è creato ab
aeterno, in quanto manifestazione necessaria dell’eterna natura di Dio.
Un’altra dottrina che gli scolastici medievali attribuirono (erroneamente) ad Ibn-Rushd è quella
dell’unità dell’intelletto, la quale implicherebbe la negazione dell’immortalità dell’anima.
Diciamo che tutti i filosofi musulmani convengono nell’asserire che l’intelletto agente (o attivo) è
uno. Gli scolastici affermano inoltre che Averroè avesse sostenuto che l’intelletto di ciascun uomo
fosse uno per tutti gli uomini, e separato dalle loro anime. Ma questa affermazione sembra non
trovare esplicita conferma dalla lettura dei testi del filosofo (così sostiene il filosofo contemporaneo
Abderrhaman Badawi).
Averroè, da buon aristotelico, afferma che l’anima umana è la forma del corpo. Aggiunge però che
esiste una ragione materiale eterna, per mezzo della quale l’intelletto agente si mette in rapporto con
l’uomo.
In sintesi, Averroè (come altri filosofi arabi, da Al Kindi ad Avicenna) avrebbe concepito
l’intelletto agente come unico e separato dall’uomo, e riferito a Dio.
Egli, inoltre, separa dall’uomo anche l’intelletto materiale, sulla base del fatto che se l’intelletto
potenziale può tramutarsi in intelletto attivo, essi devono condividere la stessa natura (separata).
L’uomo dunque non fa altro che partecipare dell’intelletto divino, e da questa partecipazione nasce
una disposizione che astrae le forme intelligibili dalle cose, costituendo i concetti e i principi della
conoscenza umana. Secondo una metafora aristotelica, come il sole illumina l’aria portando all’atto
il colore delle cose, così l’intelletto attivo illumina l’intelletto potenziale e in tal modo dispone
l’anima umana (che partecipa di quest’ultimo) ad astrarre dalle rappresentazioni sensibili i concetti
e le verità universali.
Le conseguenze dell’averroismo sono subito considerate inique per le religioni cristiana e
maomettana. Le teorie dell’eternità del mondo e dell’intelletto unico separato dall’anima
(considerata mortale) contrastavano con il sistema di credenze religiose monoteiste.
Fonti:
Abderrhaman Badawi, Averroè, in Châtelet, F. (a cura di), Storia della filosofia, II vol.
Abbagnano, N., Fornero, G., Itinerari di filosofia
Tommaso d’Aquino e la filosofia del Duecento
LE CIRCOSTANZE NUOVE
Il Duecento è segnato da novità sociologiche e culturali che hanno vasta eco presso la vita
intellettuale. La creazione e lo sviluppo delle università (1) è una di queste importanti novità.
Questa iniziativa nasce da un raggruppamento corporativo di studiosi, preoccupati di difendere i
propri interessi comuni.
La prima fondazione ha luogo a Bologna, dove dominano i giuristi. Successivamente, appaiono le
università di Parigi e di Oxford.
L’Insegnamento si distribuisce su due forme principali:
La lezione: lettura commentata di un testo sacro o dottrinale
La disputa: sia preparata, sia improvvisata
Altro fatto nuovo: la scoperta di Aristotele (2). In precedenza, le sue uniche opere conosciute
erano quelle di logica, e neppure per intero.
Fino a poco oltre la metà del XII secolo si disponeva, in traduzione latina di Boezio:
Categorie
Trattato Dell’interpretazione
Queste opere, insieme alle Isagoge di Porfirio, costituivano la Logica vetus
La scoperta del “nuovo” Aristotele arricchisce il panorama filosofico medievale di Logica nova:
Il resto dell’Organon
o I Primi e i Secondi Analitici
o I Topici
o Confutazioni sofistiche
Gli altri trattati aristotelici, concernenti la metafisica e la filosofia naturale, furono anch’essi
conosciuti in due tempi. Alla fine del XII secolo un gruppo di traduttori con centro a Toledo diede
una versione latina delle traduzioni arabe, e tradusse al tempo stesso commentari arabi impregnati
di neoplatonismo.
Nel XIII secolo, infine, Roberto Grossatesta e, soprattutto, su richiesta di Tommaso d’Aquino,
Guglielmo di Moerbeke, eseguirono traduzioni direttamente dal testo greco. Grazie a questo
progressivo sforzo si venne a disporre della quasi totalità delle opere di Aristotele in latino.
San Tommaso d’Aquino nasce a Roccasecca, nel Lazio, nel 1225. Studia inizialmente a
Montecassino, poi all’università di Napoli. Nel 1244 entra a far parte dell’ordine domenicano.
Studia a Colonia sotto la guida di Alberto Magno, trasferendosi poi a Parigi, dove nel 1256 diviene
magister di teologia. Peregrina per diverse città italiane. Muore nel 1274 mentre si sta recando al
concilio ecumenico di Lione.
Una parte importante della monumentale opera di Tommaso è costituita da una raccolta di
commentari. Egli commentò le principali opere di Aristotele, compreso il testo pseudo-aristotelico
Liber de causis.
Tommaso avvertì il pericolo rappresentato per il pensiero cristiano dai commentari letterali di
Averroè, allora assai diffusi. Egli pensò di potere fare meglio di lui sul suo proprio terreno. Di
conseguenza incaricò il suo confratello fiammingo Guglielmo di Moerbeke di tradurre direttamente
dal greco, nel modo più letterale possibile, i trattati di Aristotele.
Una parte rilevante della produzione di Tommaso è costituita dalle Summae.
La prima, composta nel 1264, è la Summa contra Gentiles. Tommaso la compose su richiesta del
confratello Raimondo da Pennaforte, e doveva servire da manuale per i missionari domenicani
impegnati nella conversione dei musulmani. Si tratta di un’esposizione di teologia cristiana adattata
alla mentalità musulmana (si capisce dunque come l’opera sia dovuta a motivazioni di ordine
politico: come ha recentemente affermato Carlo Galli, universalismo ed esclusivismo cattolici
implicano una dura volontà di unità all'interno dello spazio politico della respublica christiana, e
una forte tendenza a recuperare la diversità delle genti nell'unità religiosa, all'esterno). Una prima
parte tratta delle verità cristiane accessibili alla ragione; il resto concerne i misteri conoscibili per la
sola rivelazione.
A seguito di questa Summa, Tommaso scrive il capolavoro Summa theologica, la cui redazione gli
richiede ben otto anni di dura applicazione: 1266-1274.
Altre opere tomiste sono costituite da opuscoli e da dispute scolastiche.
Gli opuscoli sono scritti occasionali, generalmente brevi, redatti per soddisfare esigenze particolari
o per sbrogliare problemi determinati. Riguardano tanto la difesa degli ordini mendicanti, quanto la
filosofia, la teologia, la spiritualità. Tra i più celebri: De ente et essentia, De aeternitate mundi, De
unitate intellectus contra averroistas, De substantiis separatis.
LA METAFISICA TOMISTA
ENTE, ESSENZA, ESISTENZA
Poiché la filosofia tomista è una filosofia dell’essere, vediamo appunto i contenuti dell’opuscolo De
ente et essentia.
Ente (ens) ed essenza (essentia) sono le prime cose che l’intelletto concepisce.
L’ente può essere:
Reale o È l’ente che si presenta nella realtà e che si divide secondo le dieci categorie
aristoteliche
Logico o È l’ente così come si esprime tramite copula in una proposizione affermativa. Senza
che a questa proposizione corrisponda necessariamente una realtà
Es.: Socrate è pallido; le arpie sono feroci; la cecità è nell’occhio etc.
Tommaso si occupa dell’ente reale, a proposito del quale ha senso parlare di essenza. Essenza è ciò
per cui una cosa è quella che è. È la sua quidditas (= ciò che risponde alla domanda quid est?, che
cos’è? Esempio: che cos’è il triangolo, l’uomo etc.). L’essenza di una cosa è detta da Tommaso
anche la natura di una cosa. Con natura s’intende sia la forma che la materia delle cose composte,
poiché comprende tutto ciò che è espresso nella definizione di una cosa. Per esempio se
domandassi che cos’è l’uomo, chiederei la sua natura, ovvero ciò che viene espresso nella
definizione, la sua essenza: Animale (la materia propria dell’animalità) razionale (la forma della
ragionevolezza).
Dall’essenza distinguiamo, com’è noto, l’esistenza, ovvero l’essere o la realtà in atto, l’atto
d’essere (actus essendi).
Si noti che l’esistenza in Tommaso è l’atto in virtù del quale le essenze (che hanno l’essere solo in
potenza), di fatto esistono. Negli enti finiti e contingenti, le creature di Dio, essenza ed esistenza
stanno tra loro in un rapporto di potenza ed atto. Invece, per quanto riguarda quel particolare ente
infinito e necessario che è Dio, essenza ed esistenza coincidono, poiché Dio è l’essere per essenza.
È Dio stesso a rivelare la propria natura nel libro dell’Esodo: Ego sum qui sum (=Io sono colui che
sono). Io posso conoscere l’essenza del cerchio, dell’uomo e della fenice e domandarmi tuttavia
della loro reale esistenza in atto. Di conseguenza, per questo genere di enti finiti, essenza ed
esistenza, pur essendo inseparabili, sono tuttavia distinte.
Va inoltre notato che in Tommaso la nozione di essere s’identifica con quella di perfezione (perché
l’atto d’esistere è quanto realizza, completa e perfeziona ciò che è solo in potenza). L’essere è l’atto
di tutti gli atti, la perfezione assoluta, non una semplice determinazione accidentale
Ricapitolando, gli enti reali non sono equivalenti. Ci sono enti reali, finiti e contingenti; e poi c’è
l’ente reale infinito e necessario: l’Ens increatum et creator che si è soliti definire “Dio”.
Secondo Tommaso, per tutti gli enti finiti, ovvero per tutti quegli enti in cui essenza ed esistenza
sono distinte, si dice che essi HANNO l’essere, ma che NON SONO l’essere. Questi enti finiti
devono dunque avere ricevuto l’essere da altro, ovvero da quell’unico ente che ha l’essere per
essenza, il quale è l’unico – ovviamente – a non avere ricevuto l’esistenza da altro. Questo unico
ente è l’Essere infinito e necessario, Dio.
Dunque, se l’uomo HA l’essere, Dio E’ l’Essere; se l’uomo HA la vita, Dio E’ Vita.
In tale senso, Dio, la Vita, è causa prima di tutte le vite delle sue creature, le quali appunto si
collocano in un ordine subordinato al loro Creatore eminente.
L’esistenza presso gli enti creati non è che un’aggiunta dell’esistenza all’esistenza, il che equivale
al passaggio dall’essere in potenza all’essere in atto. In questo consiste la creazione divina. Dio,
l’Essere per essenza, crea, cioè dà l’essere alle creature rendendole partecipi della sua esistenza. Si
dice infatti che gli enti creati, finiti, contingenti hanno l’essere per PARTECIPAZIONE.
Partecipazione è l’atto attraverso cui le creature, grazie a Dio, prendono parte all’essere
(esattamente come un ramoscello infuocato non è il fuoco stesso, ma vi partecipa, così ciò che ha
l’essere non è l’Essere).
Conseguentemente, vi sono due modi in cui l’essenza può essere nelle sostanze:
Nella sostanza divina, l’essenza è l’esistenza medesima. Dio è cioè eternamente in atto.
Nelle sostanza finite, l’esistenza è aggiunta dall’esterno e il loro essere è quindi creato e
contingente. Anche per gli angeli, che pure sono enti incorporei (dunque dotati di sola
forma) ma creati, è possibile distinguere tra essenza ed esistenza.
Dio è sostanza semplice (cioè pura forma incorporea), increata e creatrice
Gli angeli e le anime sono sostanze semplici e create
Gli enti materiali sono sostanze composte e create, sinoli di forma e materia.
L’ESSERE DIVINO E LE ESSENZE CREATURALI (gerarchia tomista)
Sostanza
semplice,
increata e
creatrice,
assolutamen
te in atto
ESSERE 1) DIO
(causa
prima)
Coincidenza
di essere ed
essenza
Essere/essen
za assoluto/a
MINORE
MAGGIORE
POTENZIALI
TA’
Sostanza
semplice,
creata, in
potenza
rispetto
all’essere
FORME
PURE
2)ESSENZE
ANGELIC
HE
3)ANIMA
UMANA
Essere
diverso
dall’essenza
(coincidente
quest’ultima
con la
forma);
si
distinguono
per il diverso
grado di
perfezione
nel ricevere
l’essere;
Essenza
assoluta;
Essere
partecipato
Sostanze
composte,
create, in
potenza
rispetto alle
forme (in
quanto
materia) e
in potenza
rispetto
all’essere
(in quanto
unità di
forma e
materia)
FORME
CORPOREE
4)ENTI
MATERIA
LI
Essere
diverso
dall’essenza
(comprende
nte
quest’ultima
la forma e la
materia);
il genere è
tratto dalla
materia; la
specie dalla
forma
Essenza
partecipata;
Essere
partecipato
FORME
ELEMENTA
RI
FUOCO,
ARIA,
ACQUA,
TERRA
MATERIA
STESSA
Questa distinzione tra essenza ed esistenza permette a Tommaso di accordare Aristotele con la fede,
dimostrando la razionalità della creazione divina.
Per Aristotele, ovunque c’è forma c’è realtà in atto, perché l’esistenza in atto è la forma, la quale,
essendo indistruttibile, eterna, ingenerabile, necessaria come Dio, garantiva la necessità e l’eternità
della struttura formale dell’universo (generi, specie, forme, tutte le sostanze). Dalla sua metafisica
era dunque esclusa la creazione. Per questo motivo alcuni potevano argomentare a favore
dell’eternità del mondo, idea contraria alla fede.
Invece Tommaso, distinguendo tra essenza ed esistenza presso gli enti finiti, faceva scaturire da ciò
l’esigenza stessa della loro creazione da un ente necessario.
ANALOGIA DELL’ESSERE
SINONIMIA E OMONIMIA
Se noi sosteniamo che l’essere è equivoco, intendiamo che esso può dirsi in molteplici sensi di cui
è detto. La stessa cosa si può dire affermando che nei diversi usi della parola essere non c’è
sinonimia, ma omonimia.
Così Aristotele si esprimeva nelle Categorie (è sinonimo un termine che, applicato a enti diversi,
si usa nello stesso senso, come ad esempio “animale” applicato al bue e all’uomo).
Possiamo allora distinguere:
Una concezione estrema di equivocità, per la quale ogni ente è in un senso diverso
(situazione di assoluta omonimia: es. “cane”, che indica un determinato animale, una
determinata costellazione, o una determinata parte di un’arma da fuoco)
Una concezione mitigata di equivocità, per la quale c’è una diversità di senso fra l’essere
attribuito alle creature e l’essere attribuito a Dio.
Se vogliamo comprendere il senso proprio dell’equivocità dell’essere, dobbiamo evitare di
confondere essere ed essenza. Se l’equivocità sostenesse che gli enti sono diversi tra loro sul piano
dell’essenza, delle determinazioni reali dell’ente (realitas, natura, definitio, possibilitas), sarebbe
un’affermazione banale, poiché ogni essenza è una diversa possibilità di essere, cioè ha un proprio
contenuto reale. L’equivocità invece sostiene che alle diverse possibilità d’essere, alle diverse
essenze, compete l’essere in senso diverso. Fra diverse possibilità d’essere (equivocità estrema) o
fra categorie diverse di possibilità di essere (equivocità mitigata) non c’è alcuna misura comune a
cui possano ridursi. La più importante implicazione per un pensatore medievale era l’assoluta
inconoscibilità di Dio.
La domanda è infatti questa: “Vi è identità di fondo – pur nel rispetto di incommensurabili
differenze specifiche – tra l’essere di Dio e quello delle creature”?
Dio: Ens creator et increatum. Solo di Dio l’essere si dice propriamente
Creatura: Ens creatum. L’essere è derivato.
Se l’essere è relativamente diverso, si dirà concezione analogica dell’essere. Questa è la
posizione di Tommaso d’Aquino
Se l’essere è assolutamente diverso si parlerà di equivocità in senso proprio. (posizione propria
della teologia negativa o apofatica)
I sostenitori della concezione analogica dell’essere erano preoccupati di salvaguardare due esigenze
nel rispetto della concezione cristiana di Dio:
1. Assicurare la differenza tra l’uomo e Dio
2. Assicurare la dipendenza dell’uomo da Dio
3. Non portare la differenza alla diversità pura e semplice (equivocità estrema), perché
altrimenti Dio risulterebbe completamente inconoscibile all’uomo, e questi non potrebbe
assolutamente comunicare col suo creatore.
Per i sostenitori dell’univocità dell’essere, l’essere è identico.
La concezione Parmenidea è infatti una concezione univoca. L’essere si dice in un solo e stesso
senso, in un’unica accezione, assolutamente, parla con un’unica voce. Se l’essere è essere, ogni
differenza è illusoria perché implicante il non essere.
Sappiamo che contro l’univocità parmenidea elaboreranno la loro filosofia Platone e Aristotele.
Platone contrappone al blocco unico e immutabile dell’essere di Parmenide un essere composto da
una molteplicità di forme o idee. Le idee sono diverse l’una dall’altra (cioè che all’essere di ogni
idea appartiene anche il non essere delle altre idee) e identiche ciascuna con se stessa.
Con l’introduzione delle differenze ideali s’introduce anche il concetto di relazione. Quindi il
problema dell’essere si precisa come un problema di relazione, di rapporti tra identità e differenza.
Aristotele: l’essere si dice per tutte le cose pensabili ed esperibili, ma in molteplici modi (analogia).
L’essere ha molteplici sensi, è un termine equivoco. L’essere si dice in molteplici significati, ma
sempre in riferimento a un’unità (es. “sano” rinvia a “salute”), a una realtà determinata. L’essere
dunque non si dice per mera omonimia (ripetiamo che sinonimia si dice quando due nomi indicano
sotto un certo aspetto la stessa cosa: es. uomo e bue sono sinonimi perché entrambi sono animali.
Diremo allora che due termini possono considerarsi sinonimi se sono in grado di accogliere la
medesima predicazione essenziale: l’uomo è animale; il bue è animale. Omonimia si dice quando in
comune due enti hanno solo il nome. Es. due persone diverse che hanno lo stesso nome proprio,
oppure “animale” quando si predica di un uomo in carne e ossa e di un uomo dipinto, per esempio.
Sono omonimi perché accolgono diversamente lo stesso predicato: essenzialmente per quanto
riguarda l’uomo in carne in ossa; accidentalmente quando lo predichiamo dell’uomo dipinto).
Da Aritotele, V libro della Metafisica: la parola “sano” si dice in quattro modi diversi, ma tutti
hanno come comune riferimento un unico termine che articolano in modo ogni volta diverso:
1. Sano: in quanto è in grado di ricevere la salute (es. il corpo è sano)
2. Sano: in quanto produce salute (es. un medicamento è sano)
3. Sano: in quanto è sintomo di salute (es. il colorito è sano)
4. Sano: in quanto conserva la salute (es. una passeggiata è sana)
Come si vede, “sano” si predica in modo diverso dei diversi enti: corpo, medicamento, colorito,
passeggiata. Quattro cose sane, ma non dette sane allo stesso modo. La salute si dice di molte cose
tra loro diverse, la salute è qualcosa di comune (ma non è la comunanza del genere con la specie, -
uomo è animale, bue è animale etc. -, non è sinonimia, perché il senso in cui le cose sono sane e di
volta in volta diverso. Neppure sono solo omonimi, cioè semplici identità di nome per cose diverse).
È una comunanza di riferimento: c’è un significato sottinteso da ciascuno degli altri. È la
concezione analogica dell’essere.
L’analogia permette ad Aristotele di ricondurre il diverso all’identità (mentre Platone riconduceva il
molteplice all’uno attraverso la dialettica). Nell’unità sono contenuti i diversi significati di “sano”.
La differenza per Aristotele si comprende in riferimento all’identità. Leggiamo infatti in Metafisica
V: “Differenti si dicono quelle cose che, pur essendo diverse, sono identiche per qualche aspetto:
identiche non solo per numero, ma anche per specie, per genere, o per analogia” (in questo ultimo
caso quando una molteplicità di significati rimanda a un significato primo che fa da sostegno). C’è
allora un significato primo, fondamentale che fa da sostegno ai significati secondi o analogici.
Anche l’essere (non più “sano”, usciamo dall’esempio) si dice in sensi molteplici, ma tutti in
riferimento a un unico senso: ousia (la sostanza e la prima categoria, ciò che non abbisogna
d’altro cui inerire). La sostanza aristotelica è il significato fondamentale dell’essere.
Facciamo un esempio e consideriamo il seguente enunciato: “La pianta che si trova qui è verde”.
Possiamo individuare tre enti:
1. la pianta è ente (essere in senso proprio)
2. il verde è ente (essere detto in senso derivato e analogico o accidentale)
3. l’essere qui è ente (essere detto in senso derivato e analogico o accidentale)
L’essere della pianta è detto in senso proprio, perché nell’essere ente della pianta io intendo
qualcosa che per essere non ha bisogno d’altro cui inerire. Nell’essere ente del verde o del qui vi è
necessità di inerire, o di cadere sopra qualcosa che faccia da sostegno (la sostanza, il sostrato).
Approfondiamo ora la posizione opposta, quella dell’univocità dell’essere.
Secondo questa concezione, dicevamo, l’essere ha un solo senso ed è detto in un solo e stesso senso
di tutto ciò di cui è detto. Riguardo all’essere (non all’essenza, evidentemente) un libro, un cane,
Dio, un uomo non differiscono. Ogni diversa possibilità d’essere è nello stesso senso.
Va notato un ineliminabile legame tra l’univocità dell’essere e la necessità, così come esiste un
legame tra equivocità dell’essere e contingenza. Infatti, se ogni essenza, compresa quella di Dio, è
nello stesso senso, poiché Dio è (esiste) necessariamente, allora lo saranno tutti gli enti che sono.
Ogni possibilità d’essere, cioè ogni essenza, necessariamente è, per cui l’univocità d’essere afferma
l’identità tra essere ed essenza. Opposto è l’ambito in cui si muove l’equivocità dell’essere, per cui
l’essere si aggiunge al possibile come qualcosa che lo realizza. C’è dunque differenza tra essenza ed
essere.
Ora, il modello della creazione cristiana è proprio quello dell’equivocità. Creazione intesa come
produzione o realizzazione. Tra il possibile e il reale non c’è alcuna differenza, se non l’essere, che
appartiene al secondo e non al primo. L’essenza, tranne quella di Dio, non ha in sé la propria
ragione d’essere, per cui questo sarà sempre aggiunto a essa come qualcosa di separato e di
inessenziale.
ANALOGIA DELL’ESSERE E TEOLOGIA CRISTIANA
L’analogia dell’essere è una forma mascherata di equivocità dell’essere, e, dal punto di vista della
filosofia scolastica e cristiana in generale, rappresenta l’ortodossia. Tommaso d’Aquino ne è il più
autorevole esponente (non a caso, la filosofia tomistica è dalla Chiesa considerata come l’unica
filosofia vera).
L’analogia dell’essere è infatti particolarmente utile per fornire le categorie ontologiche
necessarie a intendere il rapporto tra Creatore e creature.
L’analogia afferma che l’essere si dice in sensi diversi di ciò (uomo, Dio, libro, pianta etc.) di cui si
dice, ma che questi diversi sensi non sono privi di una misura comune. Infatti, l’essere di Dio e
quello delle creature si assomigliano. I sostenitori dell’analogia affermano infatti che esiste un senso
primario del termine “essere”, che è quello di sostanza, mentre gli altri sensi, che sono diversi, in
qualche modo si rapportano a esso, per cui sono sensi secondari o, appunto, analogici. È l’analogia
entis in senso ontologico, a cui si connette il concetto di categoria, come concetto che non si dice di
un ente determinato, ma di ogni ente: le categorie dicono infatti i diversi sensi dell’essere, elencati
come generi sommi. Vi è poi l’analogia entis in senso teologico, che si fonda sull’equivocità
intrinseca al concetto stesso di sostanza, per cui la sostanza increata diventa il senso primario,
proprio, originario, a cui le sostanze create si riferiscono come sensi derivati e secondari.
Quest’ultima è l’accezione corrente di analogia nel Medioevo.
Gli enti creati rappresentano analogicamente l’ente increato, secondo immagine e somiglianza.
Esistono contingentemente e separatamente dall’ente increato, la cui esistenza è, invece, necessaria
e trascendente. La sostanza increata esiste eminentemente. La causalità è trascendente, cioè l’effetto
esiste fuori dalla causa (esistere da sistere extra causas). L’ente, la creatura, è quindi una
rappresentazione, una copia, un’immagine del vero essere.
RAGIONE E FEDE Come tutti i grandi filosofi medievali, anche Tommaso ha dedicato molta attenzione ai problemi dei
rapporti tra ragione e fede:
La ragione non può da sola raggiungere tutta la verità.
È un punto fermo della Summa contra Gentiles. Si consideri il problema di Dio: talune verità su Dio
non possono essere conosciute razionalmente, es. la Trinità di Dio: tutto ciò che la ragione può fare,
in questo caso, è far vedere 1) come il dogma in esame non sia contraddittorio, cioè razionalmente
impossibile, 2) come da questa non-contraddittorietà sia possibile inferire talune conseguenze, 3)
come sia ragionevolmente possibile difendere il suddetto dogma da possibili obiezioni.
D’altro canto, alcune verità di o su Dio possono essere pienamente dimostrate secondo procedure
razionali, es. l’esistenza di Dio, la sua unicità etc.
Lo stesso Tommaso ha argomentato a riguardo elaborando cinque vie, cinque prove famose a
dimostrazione dell’esistenza di Dio.
Tutte e cinque si modellano su uno schema comune, consistente nel partire dall’osservazione di una
realtà sensibile problematica e nel farne derivare una serie causale che ha per base questa realtà e
Dio come vertice.
La specificità di ciascuna di queste prove è costituita dalla varietà del punto di partenza osservabile.
Punti di partenza:
Concezione analogica dell’essere:
Sostanza increata Sostanze create
Essenza
Esistenza
Genere
Differenza
specifica
Essere in senso
proprio
(identità di essenza
ed esistenza: Dio)
Essere in senso
analogico
1. il MOVIMENTO che esiste nell’universo (ex motu)
poiché tutto ciò che si muove è mosso da altro, e se ciò che muove è a sua volta
mosso, significa che esso è parimenti mosso da altro e così via. Non si può andare
all’infinito, perché significherebbe che non c’è nulla di primo che sia causa del
movimento di tutto. Dunque è necessario arrestarsi a un motore immobile che è Dio.
2. la CAUSALITA’ EFFICIENTE che si osserva nell’universo (ex causa)
nell’ordine delle cause efficienti non si può risalire all’infinito, altrimenti non vi
sarebbe una causa prima e neppure una causa ultima e cause intermedie. Dovrà
dunque esservi una causa efficiente prima, che è Dio.
3. la CONTINGENZA del mondi (ex possibili et necessario)
le cose possibili esistono solo in virtù delle cose necessarie. Ma queste hanno la
causa della propria necessità o in sé o in altro. Quelle che hanno la causa in altro
rinviano a quest’altro, e poiché non si può procedere all’infinito, bisogna risalire a
qualcosa che sia necessario di per sé e causa della necessità di ciò che è necessario
per altro. Ovvero Dio.
4. i GRADI GERARCHICI di perfezione discernibili nelle cose (ex gradu)
in ogni cosa si trova il più o il meno della Verità, il più o il meno del Bene, il più o il
meno di tutte le perfezioni. Vi sarà dunque il grado massimo di tutte queste
perfezioni. Ora, la causa più alta, il grado di perfezione più eminente di tutti risiede
in Dio.
5. l’ORDINE che orienta tutti gli enti verso un fine ultimo (ex fine)
le cose naturali, prive di intelligenza, appaiono tuttavia dirette a un fine, e questo non
potrebbe essere se non fossero governate da un Essere dotato di intelligenza, come
una saetta non potrebbe cogliere il bersaglio se non fosse scoccata intelligentemente
dall’arciere. L’Essere intelligente in forza del quale tutte le cose sono ordinate a un
fine è Dio.
ATTRIBUTI DI DIO E METODO ANALOGICO
Possiamo ora asserire che Dio è Motore immobile, Causa prima, Ente necessario, Perfezione
somma, Intelligenza ordinatrice eminentissima.
Di conseguenza, possiamo inferire altri attributi, secondo due vie:
Via negativa (via remotionis) o Consiste nel negare di Dio tutte le imperfezioni delle creature, giungendo dunque
all’idea di semplicità, unità, spiritualità etc. di Dio
Via positiva (via causalitatis et eminentiae) o Derivare dall’effetto, cioè dal mondo, alcune informazioni inerenti alla causa che
l’ha prodotto (per esempio, constatata la finalità della natura, si inferisce che Dio ha
l’attributo dell’intelligenza).
o Liberare l’attributo di Dio dai limiti che esso possiede presso gli enti finiti
pensandolo al superlativo, conformemente alla dignità ontologica eminente del
Creatore.
Tra i dogmi di fede dimostrabili razionalmente vanno annoverati:
La creazione del mondo a opera di Dio,
i. concepita come applicata alla totalità di tutto ciò che è,
ii. concepita come operata ex nihilo (dal nulla),
iii. concepita come avente la sua causa nella perfezione dell’essere divino.
Parallelamente a questi aspetti dell’atto creatore, cui si può pervenire attraverso ragione e scienza,
ve ne sono altri a cui la ragione non conduce a certezza, e cioè:
La ragione NON può dirci se:
i. Il mondo sia stato creato da tutta l’eternità o nel tempo
1. secondo Bonaventura, il mondo non è sempre esistito
2. secondo Averroè e altri aristotelici, il mondo è invece eterno
3. secondo Tommaso, Bonaventura e gli averroisti avrebbero potuto
produrre a sostegno delle loro tesi argomenti solo verosimili, ma non
dimostrativi, conclusivi e necessari. Dunque, per Tommaso, solo la
RIVELAZIONE ci insegna che il mondo ha avuto un inizio.
Sinteticamente dunque:
LA RAGIONE E’ UTILE ALLA FEDE, in quanto:
Dimostra i preamboli della fede (per esempio, l’esistenza di Dio)
Chiarisce tramite analogie e similitudini i misteri della rivelazione (es. il dogma
trinitario)
Combatte le argomentazioni contrarie alla fede
Così operando Tommaso stabilisce i limiti all’epistéme (che è scienza, sì, ma non onniscienza),
riconoscendole anche le sue prerogative e il suo valore incontrovertibile (sempre limitatamente a
quei problemi dimostrabili attraverso ragione). Dunque il Filosofo restringe il campo della scienza a
beneficio di quello della fede.
Tuttavia, per Tommaso anche la teologia è scienza. Però è scienza superiore. Per questo motivo:
le scienze si dividono in due parti:
Scienze che partono da principi evidenti di per se stessi i. La prospettiva ha i suoi principi nella geometria, la quale a sua volta
presuppone l’aritmetica etc.
Scienza che procede da principi forniti da una scienza superiore i. La teologia desume i suoi principi non da altre scienze costituite, bensì da
Dio, che è l’unico a possedere la vera scienza e a comunicarla al credente
mediante il dono della fede
Tommaso attacca poi alcune dottrine proprie di Averroè, come quella dell’unicità dell’intelletto
agente. Infatti, se esistesse un unico intelletto separato per tutti gli uomini, come potrebbero questi
essere ancora definiti “animali razionali”? Solo garantendo a ciascun uomo un proprio intelletto
agente si evita la contraddizione.
Analogamente, Tommaso rifiuta la dottrina agostiniana dell’illuminazione divina fatta propria
anche dai francescani, sostenendo al suo posto una teoria dell’astrazione formulata a partire
dall’aristotelismo: la sola fonte della nostra conoscenza è la realtà sensibile, non essendoci fuori da
questa Idee sussistenti in sé (come invece credeva la dottrina platonica). Sono le stesse cose
sensibili a racchiudere una forma intelligibile in potenza, che può essere attualizzata dall’intelletto
agente particolare che ciascuno di noi possiede. In questo modo è possibile liberare dalla sua
matrice sensibile questo intelligibile potenziale.
GNOSEOLOGIA
Conoscere significa astrarre. La gnoseologia di Tommaso è dunque una teoria dell’astrazione.
Tommaso commenta il De anima aristotelico, in cui si legge che l’anima è in qualche modo tutte le
cose, perché tutte le cose conosce. Tommaso sostiene che se l’anima è tutte le cose, allora o l’anima
è le cose stesse (secondo la gnoseologia empedoclea, per cui conosciamo il simile col simile, la
terra con la terra, il fuoco col fuoco etc.) oppure l’anima è la specie delle cose stesse. Certamente
l’anima non è le cose stesse, poiché nell’anima non c’è la pietra ma la specie della pietra. La specie
– eidos – è la forma della cosa.
Dunque l’intelletto è la potenza ricettiva di tutte le forme intelligibili.
Il senso è la potenza ricettiva di tutte le forme sensibili.
Dunque diremo che l’oggetto conosciuto è nel soggetto conoscente in conformità della natura
del soggetto conoscente. Il processo attraverso cui il soggetto conoscente riceve l’oggetto è
l’astrazione.
Tra i sensi corporei che conoscono la forma unita alla materia delle cose particolari e gli intelletti
angelici che conoscono la forma separata della materia, l’intelletto umano è una via di mezzo.
L’intelletto è virtù dell’anima, la quale è forma del corpo: esso può dunque conoscere le forme delle
cose solo in quanto sono unite ai corpi e non (come credeva Platone) in quanto ne sono separate.
Nell’atto di conoscerle, l’intelletto le astrae dai corpi stessi. Conoscere è un astrarre la forma
dalla materia individuale. Cioè trarre fuori l’universale dal particolare.
La conoscenza separa la forma dalla materia individuale, non dalla materia in generale.
Infatti per Tommaso, il principio di individuazione, ovvero ciò che fa sì che un ente sia proprio
quell’ente individuale e non altri, non è la materia comune (la carne, le ossa, il sangue in generale),
bensì la materia signata quantitate (questa particolare carne, ossa, sangue). Ciò che distingue
Socrate da Platone non è la materia in generale, ma la materia particolare dei loro corpi, differenti
per quantità e dimensioni
La specie astratta ed esistente nell’intelletto è la forma stessa della cosa, dunque vi è corrispondenza
(adaequatio) tra l’intelletto e la cosa (rei et intellectus). La verità è adeguazione della cosa e
dell’intelletto.
Le cose naturali, di cui il nostro intelletto riceve la scienza, sono la misura di esso; infatti esso
possiede la verità solo in quanto si conforma alle cose. Le cose sono invece misurate dall’intelletto
divino. L’intelletto divino è misurante (in esso le forme esistono così come le forme degli enti
artificiali esistono nell’intelletto dell’artefice).
In Dio essere e intendere coincidono. Dio comprende tutto con un atto d’intelligenza semplice e
perfetto. L’uomo intende invece per passaggi e inferenze successive, la sua è conoscenza razionale
e la sua è scienza discorsiva.
DIRITTO E POLITICA
Fondamento della teoria politica di Tommaso è il diritto naturale di eredità stoica. Esso è pure a
fondamento del diritto canonico.
Per Tommaso c’è una LEGGE ETERNA (nella mente di Dio), una Ragione che governa tutto
l’universo.
Di questa legge eterne, la LEGGE DI NATURA è il riflesso o la partecipazione. La legge di natura
si articola in tre fondamentali inclinazioni:
Inclinazione al bene naturale (che l’uomo condivide con qualunque altra sostanza), cioè
inclinazione a perdurare e a conservare se stesso.
Inclinazione speciale ad atti determinati, tipici della natura e validi per tutti gli animali:
l’unione di maschio e femmina, l’educazione dei figli etc.
Inclinazione al bene secondo la natura razionale tipica dell’uomo, com’è l’inclinazione a
conoscere la verità, a vivere in società etc.
Oltre a questa legge eterna e di natura, si danno altre due leggi:
la LEGGE UMANA inventata dagli uomini e che riguarda l’uomo relativamente alle disposizioni
tipiche della legge di natura.
La LEGGE DIVINA necessaria per indirizzare l’uomo al suo fine soprannaturale.
La legge umana è giusta nella misura in cui essa deriva dalla legge naturale, prima regola della
ragione. La legge deve dirigere al bene comune. Ordinare qualcosa in vista del bene comune è
proprio della collettività o di chi ne fa le veci. Stabilire le leggi spetta alla collettività o alla persona
pubblica che ne ha cura . dunque Tommaso riconosce l’origine popolare della legge. Tuttavia
sostiene che la forma di governo migliore sia la monarchia, perché è quella che meglio garantisce
l’ordine e l’unità dello Stato, e inoltre rispecchia il dominio di Dio sul mondo. Lo Stato può
indirizzare l’uomo alla virtù naturale, ma non può orientarlo al suo fine ultimo, Dio. un tale governo
spirituale spetta solo a quel re che non è solo uomo ma anche Dio, cioè Cristo. Di conseguenza, così
come il fine meno elevato si subordina a quello più elevato, così il governo civile dovrà
subordinarsi a quello religioso, proprio di Cristo, e che da Cristo fu affidato non ai re terreni, ma al
papa.
APPENDICE
Nell’ottica della difficile situazione internazionale contemporanea, la cronaca giornalistica e la
politica si sono spesso compiaciute nell’alludere a un cosiddetto scontro di civiltà. Scontro tra
Occidente (in ampia parte cristiano) e Oriente (in ampia parte musulmano). Le ragioni,
estremamente complesse, vanno indagate attraverso una prospettiva storica di lunga durata, del tutto
fuori dalla portata del giornalismo. In tale circostanza, non è nostra intenzione analizzare una
questione che ci porterebbe troppo lontano. Ci interessa piuttosto riflettere su una parte del
problema, molto più circoscritta.
Per scongiurare il pericolo di conflitti apertamente violenti tra civiltà, molte voci (di intellettuali,
politici etc.) si sono levate invocando il dialogo tra le reciproche posizioni. Vale qui allora la pena,
sulla base della filosofia finora studiata, soffermarsi per alcune precisazioni.
Quando si parla della necessità di un dialogo, nella grande maggioranza dei casi si fa riferimento
all’urgenza di un incontro tra religioni, estromettendo quasi del tutto la filosofia. Questo è un errore.
Il discorso religioso – procedendo dalla verità che è una e rivelata – è un discorso molto più
perentorio e dogmatico del discorso filosofico. Ciascuna parte rivendica per sé il possesso integrale
della verità rivelata ai rispettivi profeti. Dunque se io (ebreo, cristiano, musulmano) posseggo
invincibilmente la verità, non potrò guardare al diverso da me se non nei termini di colui che non è
nella verità. Potrò dialogarci, è vero, ma non potrò mai fare niente di più che tollerarlo nei suoi
errori. È dunque assai più difficile intendersi proficuamente tra parti confliggenti dimensionando il
confronto su un terreno religioso. La religione si relaziona infatti con la verità nei termini di un
rapporto possessivo. Il Dio cattolico è un Dio geloso, che pretende l’esclusiva unicità e
l’universalità. Secondo Tertulliano, è necessario cercare Cristo, ma una volta che si è trovato, una
volta accolta pienamente la verità, un ulteriore sforzo di ricerca dovrebbe essere dichiarato eretico.
La filosofia è per Tertulliano la via maestra dell’eresia.
I veri filosofi, invece, come abbiamo visto, si riconoscono reciprocamente il medesimo diritto a
usare la ragione. La verità in filosofia, diversamente da quanto si verifica nella religione, è una
ricerca intellettuale e progressiva della verità. Non implica il possesso della verità. Esemplare a
riguardo è la figura di Socrate. Dunque, se è vero che ci sono scontri tra filosofi, è vero anche che si
tratta sempre di scontri incruenti e leali.
Gli scontri tra religioni conducono invece a esiti terrificanti, alle guerre confessionali che hanno
insanguinato l’Europa dell’età moderna.
Diversamente dalla filosofia, per la religione la verità è infatti prima ed è rivelata, la ragione deve
solo accoglierla e accettarla nella forma del dogma.
Se oggi è dunque possibile un dialogo tra civiltà, questo potrà veramente darsi grazie ad Aristotele,
ai suoi interpreti Ibn-Rashid (arabo), Tommaso d’Aquino (cristiano), Maimonide (ebreo, anch’egli
di Cordova come Averroè) e ad altri.
Fonti:
Aristotele, Metafisica
Tommaso, L’ente e l’essenza
Abbagnano, N., Fornero, G., Itinerari di filosofia
Antonello, G., Ontologia e metafisica in Differenza e ripetizione di Gilles Deleuze
Pépin, J., San Tommaso e la filosofia del Duecento, in Châtelet, F. (a cura di), Storia della
filosofia, II vol.