ESISTENZA CRISTIANA NELLA FEDE, SPERANZA E CARITA’ › images › docenti › moschetti_stefano...

264
FACOLTÁ TEOLOGICA DELLA SARDEGNA ESISTENZA CRISTIANA IN FEDE SPERANZA CARITÁ LE VIRTÚ TEOLOGICHE PADRE STEFANO MARIA MOSCHETTI sj « Vorremmo celebrare questo Anno della Fede in maniera degna e feconda. Dovrà Intensificarsi la riflessione per aiutare tutti i credenti in Cristo a rendere più consapevole 1

Transcript of ESISTENZA CRISTIANA NELLA FEDE, SPERANZA E CARITA’ › images › docenti › moschetti_stefano...

ESISTENZA CRISTIANA NELLA FEDE, SPERANZA E CARITA’

FACOLTÁ TEOLOGICA DELLA SARDEGNA

ESISTENZA CRISTIANA IN FEDE SPERANZA CARITÁ

LE VIRTÚ TEOLOGICHE

PADRE STEFANO MARIA MOSCHETTI sj

« Vorremmo celebrare questo Anno della

Fede in maniera degna e feconda. Dovrà

Intensificarsi la riflessione per aiutare tutti i

credenti in Cristo a rendere più consapevole e a rinvigorire la loro adesione al Vangelo,

soprattutto in un momento di profondo

cambiamento [….] Riscoprire i contenuti

della Fede professata, celebrata, vissuta e

pregata, riflettere sullo stesso atto con cui

crede, è un impegno che ciascun credente

deve fare proprio, soprattutto in questo

Anno» (Porta fidei nn 8-9)

ANNO ACCADEMICO 2011-2012

PREFAZIONE

Desidero brevemente motivare questo scritto sulle virtù infuse di Fede, speranza e carità. Compiuti i settantacinque anni, completato il quasi quarantennio di insegnamento teologico-filosofico, ho ritenuto opportuno documentarlo meglio per scritto, per utilità anzitutto degli allievi; e attenuta la necessaria approvazione (imprimi potest), porlo sul sito della Facoltà teologica (www.theologi-ca.it → personale docente emeriti → Moschetti) a gratuita disponibilità di tutti, consultare, scaricare.

Per primo ho presentato il Trattato sull’Eucaristia, stimolato dal concomitante Sinodo dei Vescovi: il Mistero eucaristico è centro plasmante, fonte e culmine della vita cristiana, e ho gradito iniziare di qui il riordino delle dispense. Ho poi proseguito con l’esporre la Visione fondamentale rivelata dell’uomo, creazione in Cristo, redenzione dal peccato sin dalle origini, che nell’Eucaristia è come racchiusa. Passo ulteriore, quasi a fondamento del discorso teologico così avviato, la Filosofia della Natura.

Presento ora sempre sul sito della Facoltà teologica, un terzo lavoro teologico, sulle virtù infuse, soprannaturali: Fede, Speranza e Carità, l’esistenza cristiana così qualificata; mi è stato richiesto di insegnarlo, a livello di Scienze religiose, per circa un trentennio.

Ma sono stato anzitutto incoraggiato a questa rielaborazione dalla Celebrazione, indetta per l’autunno del 2012 di un Anno della fede, che conoscerà anche il Sinodo dei Vescovi sul tema convergente della Nuova evangelizzazione, per la trasmissione della fede cristiana.

Papa Benedetto, con la lettera apostolica Porta della fede, indicendo l’anno della Fede, incoraggia la comunità ecclesiale a riscoprire pienamente un rinnovato entusiasmo dell’incontro personale con il Signore Gesù, in una corretta professione, celebrazione della fede e corrispondente preghiera e vita cristiana.

Non nasconde il Santo Padre l’evidente affanno di molti cristiani nel vivere in modo illuminato e completo, la propria vita di fede:

«Capita ormai non di rado che i cristiani si diano maggior preoccupazione per le conseguenze sociali, culturali e politiche del loro impegno, continuando a pensare alla fede come ad un presupposto ovvio del vivere comune. Mentre in passato era possibile riconoscere un tessuto culturale unitario, largamente accolto nel suo richiamo ai contenuti della fede ed ai valori da essa ispirati, oggi non sembra più essere così in grandi settori della società, a motivo di una profonda crisi di fede che ha toccato molte persone»

È molto significativo che l’Anno della fede prenderà il suo avvio nel cinquantesimo anniversario dell’inizio del Concilio Vaticano II, che coincide con il ventesimo della pubblicazione del Catechismo della Chiesa Cattolica, che del Concilio del nostro tempo espone in modo organico e completo la Dottrina. Siamo invitati nell’anno della Fede ad un rinnovato incontro col Signore Gesù in un intelligente ed illuminante ascolto della Parola di Dio, che è Lui stesso, a lasciarci trasformare nella profondità del cuore e delle relazioni umane dalla sua presenza nei sacramenti, quella intensissima dell’Eucaristia, ritrovarlo così nella sua Chiesa, suo Corpo, suo popolo, in tutte le sue articolazioni, carismi e Ministeri, per situarci in modo consapevole, costruttivo in un mondo creato, con tutta la sua consistenza, secondo Cristo e a Lui finalizzato. Questo significa riscoprire il valore cristocentrico delle Costituzioni sulla Liturgia, SC, sulla Chiesa, LG, sulla Rivelazione accolta con la Fede, DV, per essere abilitati, in una vita cristofondata e cristofinalizzata, ad un dialogo costruttivo sui comuni problemi umani (GS).

Si tratta esattamente di quell’incontro personale, nella Comunità ecclesiale, col Signore Gesù, una rinnovata e gioiosa vita di Fede, che costituisce il programma dell’anno della Fede: in una migliorata comprensione di cosa significhi , esercitare la virtù donata della fede, una fede che opera nella carità, con ferma speranza nell’avvento definitivo del Signore Crocifisso glorioso. A questo ci incoraggia la lettera apostolica Porta fidei, ad una accoglienza piena, totale

del Signore Gesù, in tutta la sua realtà umana-divina, tutti i contenuti della fede. Sappiamo come tra la qualità propria della virtù della fede e le realtà rivelate, tutte ricapitolate in Cristo, così accolte, credute, nella sua Chiesa, si dà una perfetta corrispondenza.

Nella rielaborazione delle Dispense sulle esistenza cristiana qualificata dalla virtù soprannaturale della fede, mi sono sentito in sintonia, come condotto dalle richieste del S. Padre.

La fede è anzitutto dono, che riceviamo nel Battesimo: opera dello Spirito Santo, che trasforma intelligenza, cuore, tutto il nostro essere, spirituale, corporale, capacità di relazioni sociali, per vivere sempre più conformati a Cristo, nella sua Chiesa, in cammino verso il Padre.

Così nell’Introduzione mi sembra utile indicare come la fede è accoglienza di una rivelazione storica, da Abramo sino alla pienezza tutto ricapitolante del Crocifisso glorioso; come esprime, a livello di capacità operative stabilizzate, la trasformazione più radicale operata dalla Grazia dello Spirito Santo; considerare brevemente le relazioni tra virtù morali e virtù teologali, fede, speranza e carità. Indicare come la fede virtù sia in stretta connessione con i contenuti di fede professati e celebrati: un aspetto che ci accompagnerà in tutto lo sviluppo teologico, oggi di estrema urgenza, come relazione tra una fede , luce, sentimento interiore, e la fede professata e celebrata nella Chiesa.

Preferisco concludere l’introduzione con un breve excursus già biblico, la triade fede, speranza e carità nell’uso paolino. Va da sé, che l’interesse ecumenico ci accompagnerà in tutto lo sviluppo del Trattato.

È bene anticipare brevemente come costruisco il discorso teologico: evidentemente secondo i suggerimenti del Vaticano II, O.T. n 16:

«Nell’insegnamento della Teologia dogmatica, prima vengano proposti gli stessi temi biblici; si illustri poi agli alunni il contributo dei Padre della Chiesa Orientale ed Occidentale nella fedele trasmissione ed enucleazione delle singole verità rivelate, nonché l’ulteriore storia del dogma, considerando anche i rapporti di questa con la storia generale della Chiesa. Inoltre per illustrare quanto più possibile i misteri della salvezza, gli alunni imparino ad approfondirli e vederne il nesso per mezzo della speculazione, avendo S. Tommaso per maestro; si insegni loro a riconoscerli presenti ed operanti sempre nelle azioni liturgiche ed in tutta la vita della Chiesa; ed essi imparino a cercare la soluzione dei problemi umani alla luce della Rivelazione, ad applicare le verità eterne alle mutevoli condizioni di questo mondo e comunicarle in modo appropriato agli uomini contemporanei»

Questo stile di procedere teologico, risulta anche dalla consultazione dell’Indice di questo lavoro: alla Nozione biblica della fede, antico e nuovo Testamento, seguono le linee storiche di sviluppo della teologia, il dramma della lacerazione della Chiesa del XVI sec. (e la speranza suscitata dall’Accordo sulla Giustificazione che ha concluso il II millennio), l’insegnamento del Vaticano I su Rivelazione-fede nel contesto delle difficoltà e prospettive nuove dell’800, accenni alla crisi modernista, e la felice trattazione dei rapporti Rivelazione-fede del Vaticano II.

Impossibile chiudere gli occhi sulla molteplicità di modelli di fede della teologia contemporanea, con A.Dalles ne contiamo 8; ottimo stimolo per l’impostazione Trinitaria della parte sistematica, per una intelligenza teologica della fede il più corrispondente alle necessità attuali.

Nel percorso unisco alla considerazione della fede anche le virtù teologiche di speranza e carità. La motivazione è evidente: la fede che interessa è quella che opera nella carità, animata dalla sicura speranza che il Crocifisso glorioso realizzerà le sue promesse. Ma anche in questo seguo le indicazioni di Papa Benedetto: se il suo pronunciamento che ora più direttamente ci guida è la sua Lettera apostolica Porta fidei, le sue precedenti Encicliche intendono rilanciare il discorso necessario della Carità, Deus Caritas est, Veritas in caritate, l’urgenza di comunicare Speranza , Spes salvi.

I . INTRODUZIONE

Una trattazione, come abbiamo visto, che si impone necessaria a più titoli, sia nel campo della fede, che della speranza e carità.

Riguardo alla fede: molti cristiani dichiarano di essere in crisi di fede, alcuni anche di non avere fede; sovente si tratta di una fede “fai da te”, cioè una credenza riduttiva, elaborata con criteri personali, non corrispondente alla fede celebrata, professata e vissuta dalla Chiesa.

Neppure ci stupiamo di queste constatazioni dolorose: anche il Signore Gesù si lamenta quattro volte nel Vangelo di S. Matteo che i suoi stessi Apostoli sono uomini dalla fede scarsa, di poca fede (Mt 6,30; 8,26; 14,31; 16,8). Anzi, nel Vangelo di Luca, Gesù pone la domanda: «Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?». A questo interrogativo corrisponde la preghiera degli Apostoli al Signore «Aumenta la nostra fede» (Lc17,59); soprattutto ci assicura ciò che viene affermato nel contesto eucaristico dell’ultima cena « Ho pregato per Te (Pietro), perché non venga meno la tua fede; e tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli» (Lc 22,32).

Non mancano nella narrazione evangelica lodi di Gesù per comportamenti di fede esemplare: per la donna cananea, che chiede la guarigione della figlia: «Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri»(Mt 15,28). Così pure per il centurione, che chiede la salute del servo «In verità vi dico. In Israele non ho trovato una fede così grande!». Soprattutto è posta in risalto la beatitudine della Fede in Maria Madre del Signore: « Beata tu che hai creduto»; così si esprime Elisabetta visitata dalla Cugina. L’esemplarità della Fede di Maria SS, in cui si presenta la pienezza dell’accoglienza del Salvatore, la perfezione della Chiesa, è segnalata dalla Lumen gentium del Vaticano II: «La Madre di Dio è figura della Chiesa, come già insegnava S. Ambrogio, nell’ordine cioè della fede, della carità e della perfetta unione con Cristo»( n 63).

Ancor più il mondo contemporaneo presenta carenze di Speranza, particolarmente pericolose. Ove si percepisce che il desiderio innato di gioia, che alberga nel cuore di ogni uomo, sarà soddisfatto, a misura stessa della comunione e visione di Dio, la vita riprende slancio, sicurezza nell’impostazione anche dei problemi quotidiani; ma ove manca la certezza di una vita che riesce, secondo la promessa del Signore, l’esistenza umana intristisce, non ha energie per superare le immancabili difficoltà, può cadere in sottili e anche tragiche trappole di disperazione.

Di qui la raccomandazione del Signore: in attesa della sua manifestazione del tutto gloriosa, siamo invitati a vigilare (Mc 13,33-37 e //), attivi nel moltiplicare il bene (Lc 19,11-27 e //); stare attenti che «che la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza» non soffochino la Parola (Mt 13,18-23 e //). Una Chiesa, una società che non coltiva la Speranza, è un società che tende all’inerzia, non affronta e non risolve i suoi problemi.

Una Chiesa, una società a corto, mancante di Carità, se non l’accoglie, la celebra nell’Eucaristia, come il frutto primario dello Spirito Santo (Gal 5,22; cf Rm 5,5), manca di vitalità, tende ad autodistruggersi (cf Gal 5,15). Se vive di Carità, come frutto della gioia di intensa comunione e glorificazione di Dio, la Chiesa saprà inoltre illuminare e sostenere nella società civile, in tutte le sue articolazioni, programmi di giustizia, di sviluppo di tutto l’uomo e di ogni uomo, e quindi di pace; ne abbiamo splendido esempio nell’ultima enciclica di Benedetto XVI, Caritas in veritate.

A questa estrema necessità, che per essere soddisfatta richiede crescita di intelligenza e di sapienza, corrisponde l’orientamento che ci offrono, per tutte le tre Virtù infuse, le tre encicliche: di Giovanni Paolo II, Fides et ratio , di Benedetto XVI: Deus caritas est e Spe salvi; Veritas in caritate. Abbiamo ora, come visto, l’insegnamento e lo stimolo della Lettera apostolica Porta fidei

Anche i Trattati scolastici percorrono vie di rinnovamento, cercando di superare lo schematismo della Scolastica, ispirandosi all’esistenza come descritta e richiesta dalle S. Scritture: tentativi di una presentazione più unitaria, cristologica, in via di maturazione. Senza dimenticare il percorso di quasi due millenni di pensiero cristiano.

Per noi, punto di partenza, programma di lavoro teologico è individuabile nel Catechismo della Chiesa cattolica (CCC): la fede viene connotata come una grazia, un atto umano, intelligente, libero, necessario, perseverante; la fede – inizio della vita eterna (nn 153-165). Nei nn 1812-1829 viene delineata la nozione di virtù teologica, descritte Fede, Speranza e Carità.

Utile, come primo approccio, orientamento, le sintetiche affermazioni del Compendio del CCC. (nn 384-388), offerte sotto la forma di domanda-risposta. Ne riportiamo alcune:

384. Che cosa sono le virtù teologali? Sono le virtù che hanno come origine, motivo e oggetto immediato Dio stesso. Infuse nell’uomo con la grazia santificante, esse rendono capaci di vivere in relazione con la Trinità e fondano e animano l’agire morale del cristiano, vivificando le virtù umane. Sono il pegno della presenza e dell’azione dello Spirito Santo nelle facoltà dell’essere umano.

386. Che cosa è la fede ? La fede è la virtù teologale per la quale noi crediamo in Dio e a tutto ciò che ci ha rivelato e che la Chiesa ci propone a credere, perché Dio è la stessa Verità. Con la fede l’uomo si abbandona a Dio liberamente. Perciò colui che crede cerca di conoscere e fare la volontà di Dio, perché «la fede opera per mezzo della carità» (Gal 5,6)

387. Che cosa è la speranza ? La speranza è la virtù teologale per la quale noi desideriamo e aspettiamo da Dio la vita eterna come nostra felicità, riponendo la nostra fiducia nelle promesse di Cristo e appoggiandoci all’aiuto della grazia dello Spirito Santo per meritarla e perseverare sino alla fine della vita terrena.

388 Che cosa è la carità ? La carità è la virtù teologale per la quale amiamo Dio al di sopra di tutto e il prossimo come noi stessi per amore di Dio. Gesù fa di essa il comandamento nuovo, la pienezza della legge. Essa è il «vincolo della perfezione» (Col 3,14) e il fondamento delle altre virtù, che anima, ispira e ordina: senza di essa «io sono nulla» e «niente mi giova» (I Cor 13,1-3).

Dopo queste premesse, entriamo ora nel vivo della discussione teologica: anzitutto il rapporto Rivelazione-fede.

I, 1 La fede come accoglienza della rivelazione

Lo vedremo ampiamente nella teologia biblica, ma è impostazione necessaria, tradizionale nel pensiero cristiano. Il CCC parla della fede come risposta a Dio che si rivela, il Vaticano I nella Costituzione dogmatica «Dei Filius» tratta prima della Creazione, poi della Rivelazione, quindi della fede, per concludere impostando le relazioni fede-ragione (DH 3000-30045).

Anche la Dei Verbum del Vaticano II, costituzione dogmatica sulla Divina rivelazione, ci offre due numeri sulla fede: per la sua importanza nell’impostare la Teologia della fede, riportiamo il n 5:

“A Dio che rivela è dovuta l’obbedienza della Fede (Rm 16,26; cfr. Rm 1,5; 2 Cor 10,5-6), con la quale l’uomo si abbandona a Dio tutt’intero liberamente, prestandogli “il pieno ossequio dell1intelletto e della volontà” e acconsentendo volontariamente alla Rivelazione data da Lui. Perché si possa prestare questa Fede, sono necessari la grazia di Dio che previene e soccorre e gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi della mente, e dia “a tutti dolcezza nel consentire e nel credere alla verità”. Affinché poi l’intelligenza della Rivelazione diventi sempre più profonda, lo stesso Spirito Santo perfeziona continuamente la Fede per mezzo dei suoi doni”.

«A Dio che si rivela»: la Rivelazione è intesa come azione di Dio, l’atto con cui Dio si mostra, offre comunione di vita all’uomo; del concetto di Rivelazione fa sempre parte anche il soggetto umano ricevente. “Ove nessuno percepisse la Rivelazione, li non è avvenuta nessuna rivelazione, dato che lì nulla è stato rivelato” nota J. Ratzinger.

Aggiunge ancora Ratzinger J, nel suo libro in comune con Rahner K.: « La Rivelazione diventa realtà soltanto e sempre là dove c’è fede. Il non credente rimane dietro il velo, di cui parla Paolo nel cap. 3 della 2 Cor. Egli può leggere la Scrittura e conoscere ciò che contiene [……], tuttavia egli non è divenuto partecipe della Rivelazione. C’è piena rivelazione soltanto là dove, oltre alle affermazioni materiali che la testimoniano, è divenuta operante nella forma della fede anche la sua intima realtà. Di conseguenza appartiene, fino ad un certo punto, alla rivelazione anche il soggetto ricevente, senza del quale essa non esiste.»

La pienezza dell’agire rivelante di Dio sta nell’Umanità SS del Signore Gesù. Questa pienezza di tutto l’agire rivelante di Dio viene comunicata e partecipata da Cristo alla sua Chiesa, che è il vero soggetto della Fede, e a ciascuno di noi, personalmente in Essa. Cristo è la rivelazione di Dio in senso vero e proprio: «La realtà effettiva che si fa evento nella rivelazione cristiana non è altro che Cristo stesso. Egli è in senso vero e proprio la rivelazione: “Chi vede me vede il Padre” dice Cristo secondo il Vangelo di Giovanni (14,9). Ciò significa che vita di fede, accettazione della rivelazione, equivale ad entrare nella realtà di Cristo».

Questa prospettiva, la rivelazione consiste nell’evento Cristo, corregge la consuetudine di considerare «rivelazione l’insieme dei contenuti rivelati, tanto che anche nel lessico si era introdotta l’abitudine di definire la Sacra Scrittura semplicemente come la “rivelazione”.[…..] L’idea stessa di rivelazione implica un qualcuno che ne entri in possesso (per la fede) …….Se ne deduce in conseguenza che non può esistere un mero «sola Scriptura» («solamente attraverso la Scrittura»), che alla Scrittura è legato il soggetto credente, la Chiesa, e con ciò è già dato anche il senso essenziale della Tradizione»

Ratzinger osserva inoltre come il Nuovo Testamento conosce due modalità, in relazione tra loro, attraverso cui Cristo, che racchiude in sé tutta la Rivelazione, si fa presente: la fede, in cui la Persona credente incontra Cristo, in Lui entra nella sfera d’azione della sua potenza salvifica, come dice S.Paolo: «Che il Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori» (Ef 3,17); il suo Corpo, la Chiesa, che «rappresenta la presente e stabile permanenza , l’esserci (An-Wesen) di Cristo nel mondo, nella quale egli riunisce gli uomini, e mediante la quale li rende partecipi della sua potente presenza»

La misura, qualità della presenza di Cristo alla sua Chiesa è sulla misura di quella che è presenza per antonomasia , cioè la Presenza sostanziale eucaristica dello stesso Crocifisso glorioso, sotto i veli del suo stare commensale con noi, nel nostro pellegrinaggio verso la sua piena manifestazione, il mondo della completa risurrezione, terra nuova e cieli nuovi.

Poiché la Rivelazione richiede la fede, e la fede ecclesiale ha la sua pienezza esemplare dell’accoglienza di Cristo nella sua Madre, Maria SS., Madre della Chiesa (cf. Lumen gentium n 63), la fede della Chiesa ha quindi una identità decisamente mariana; poiché infine l’autenticità della Rivelazione-fede, professata, celebrata, vissuta ci è offerta dal Magistero di Pietro, e Successori, Apostoli e collegio dei Vescovi in comunione obbediente al S. Padre, la fede della Chiesa ha una qualifica apostolica.

La fede è quindi la risposta dell’uomo responsabile, qualificato dal dono dello Spirito Santo, la Grazia, a Dio che si rivela per Cristo, nello Spirito Santo, nella sua Chiesa.

La fede, essendo questo si integrale dell’uomo a Dio che gli si rivela come salvatore per Cristo, consiste non in un atto isolato o in una serie di atti giustapposti, ma in un atteggiamento di fondo, che imprime un nuovo e permanente orientamento alla persona. La teologia, quindi il linguaggio della stessa Chiesa, ha chiamato questa qualità abituale, donata per grazia, corrisposta dall’uomo credente nella Chiesa, con il termine di Virtù, infusa, soprannaturale.

I, 2 Trasformazione dell’uomo per la Grazia santificante, il suo irradiarsi per la fede,

nelle sue capacità e attività.

Per introdurci alla comprensione della Fede, Speranza e Carità come Virtù teologali infuse, è quindi necessario partire dal Mistero di Dio: la grazia santificante, il suo irradiarsi per fede, speranza, carità nelle capacità e attività dell’uomo. Dobbiamo anzitutto ricordare che è la stessa Vita divina trinitaria a effondersi e qualificare l'intimo dell'essere umano, il suo agire, e non lo sforzo umano proteso verso Dio. Le Virtù infuse esprimono la vita dell'uomo che ha accolto Cristo, Figlio del Padre, nello Spirito Santo.

Dio medesimo entra così nella presente vita dell’uomo:

si dona come Verità prima, filiale, Immagine vera del Padre, che illumina l’intelligenza umana, suscitando fiducia, abbandono pieno alla sua azione salvifica: FEDE.

si comunica come Beatitudine promessa, che può appagare ogni desiderio umano; facendo superare, nella fedeltà, ogni prova, nell’attesa della realizzazione di quanto promesso: SPERANZA.

Si comunica come Amore divino, partecipato, esemplare: CARITA’.

Le Virtù infuse esprimono come possiamo vivere nel tempo presente la partecipazione alla Vita divina trinitaria: adattano alla nostra portata terrena il dono e l'esperienza di vivere con Dio nello Spirito di Cristo; annunciano ora nella nostra debole carne la pienezza della beatificante realtà futura.

La vita cristiana si costituisce essenzialmente e sinteticamente come Fede, Speranza e Carità: sono manifestazione primaria e irrinunciabile dell’Essere cristiano.

Essere cristiano: infatti la trasformazione dell'uomo da peccatore a giusto, la sua illuminazione e infiammazione da parte della Luce e del Fuoco di Dio, la Grazia santificante, si attua nella radice stessa del soggetto umano, in categorie bibliche il suo «cuore», ma per poi estendersi a tutto il suo essere spirituale-corporeo, a tutte le sue facoltà e comportamenti.

Non si ferma in quel vertice segreto dell'Io spirituale in cui le diverse facoltà, ragione e volontà-sentimento, affondano le loro radici e sono ancora indistinte; ma passa oltre e si riversa nelle singole facoltà stesse e loro operazioni. Questo è comprensibile: ogni qualità di «essere» tende ad esprimersi nell’azione.

Anche la vita divina che ci viene infusa con la Grazia vuole esprimersi in atti; essa dapprima, informa, divinizza la natura umana in situazione soprannaturale, per poi agire in modo corrispondente. La Vita divina in noi non è altro che un riflesso della conoscenza e amore divino: l'essere cristiano consiste nell'accogliere in noi il ciclo vitale di Conoscenza ed Amore che si attua nelle Tre Persone divine, che è la stessa indivisa Trinità. Nella vita di Fede, Speranza e Carità, conosciamo e amiamo come Dio si auto-conosce nel Verbo e si ama nello Spirito Santo; anche le potenze, facoltà umane (intelligenza, volontà, sensi esterni e interni) sono incluse in questa trasformazione, che tende ad esplicarsi nell’azione.

Nella rinnovazione che si attua, per la grazia santificante, della natura profonda dell'uomo, anche le facoltà umane e corrispondenti azioni vengono rinnovate.

Le capacità permanenti, facoltà, ed i corrispondenti atti umani, vengono come illuminate e infuocate dalla Luce ardente (Verbo Incarnato) e dal Fuoco luminoso del Divino amore (Spirito santo).

Il fluire della Vita divina nelle potenze-facoltà umane non avviene in modo naturale, bensì soprannaturale per l’intervento diretto di Dio stesso, il quale fa sì che la divinizzazione dell’essenza spirituale dell’uomo si estenda anche alle sue capacità e attività.

Non si dà quindi una permanente divinizzazione dell’essere umano senza la grazia santificante: non possono le potenze essere rivolte a Dio in modo permanente e salutare, senza che l’Io umano sia già rivolto a Lui. Senza la santificazione dell’Io spirituale umano le Facoltà ed i loro atti sarebbero come campati in aria, senza alcun appoggio nel sostenere una vita cristiana.

Già la Grazia della conversione suscita atti di Fede, Speranza e Amore; l’infusione della Carità con la giustificazione (Battesimo) comporta il dono della Fede e Speranza infuse.

I, 3. Virtù teologali e Virtù morali

Le Virtù morali sono le qualificazioni soprannaturali delle nostre Facoltà, per cui siamo in grado di condurre, in armonia con Fede, Speranza e Carità, tutte le contingenze della vita attuale; ci rendono capaci di eseguire un bene (il loro oggetto materiale è qualcosa di creato, il nostro vivere quotidiano) a motivo del Dio Tripersonale che abita in noi (Dio ne è quindi l’oggetto formale e finale).

Tra le virtù morali primeggiano le cosiddette virtù cardinali, o fondamentali: Prudenza, Fortezza, Giustizia, Temperanza. Esse costituiscono i modi principali secondo cui la vita quotidiana del credente si svolge nell’amore e nell’obbedienza a Cristo.

Il cristiano ha bisogno di acquisire non solo una facile, gioiosa precisione nel compiere atti moralmente buoni, ma anche la capacità di vivere la sua esistenza nello Spirito Santo, cioè nella Carità di Cristo, conformandosi a Lui, donandosi con fiducia piena con Lui al Padre, ai suoi fratelli; comportarsi come un uomo nuovo, cittadino del Regno dei Cieli.

Per questa nuova qualità di vita battesimale, non sono sufficienti gli abiti virtuosi acquisiti con l'esercizio di azioni oneste; sono necessarie, come già sappiamo, le Virtù soprannaturali, infuse come dono dello Spirito Santo. Ciò si realizza nel Battesimo.

Fede, Speranza e Carità sono infuse dallo Spirito Santo nell'intimo della persona: non sono omologabili ad abiti, consuetudini umane acquisite naturalmente. Infatti, le virtù acquisite si limitano a perfezionare una capacità operativa già preesistente nelle potenze naturali. Invece quelle infuse conferiscono una capacità operativa del tutto nuova, partecipante quella esistente nel Cristo Signore.

In verità tali Virtù infuse non operano indipendentemente dalle potenze naturali: ad agire sono le medesime facoltà virtuose di ordine naturale, ma in forza di una capacità soprannaturale loro conferita dalla Virtù infusa.

Il complesso delle Virtù infuse orienta la persona a convivere con Dio, a perseguire l’unione immediata con Dio, ad instaurare una esistenza caritativa: quel dinamismo che gemendo aspira a lasciarsi sempre più uniformare ai desideri di Cristo, conformare all’Immagine di Cristo. Le Virtù infuse elevano le soggiacenti facoltà umane, così da renderle capaci di desiderare e realizzare un comportamento secondo le esigenze della nuova vita cristiana; sono iniziativa, dono dello Spirito Santo che rinnova i gusti e le energie dell’operare umano.

Per es. la virtù della Carità comporta una correlativa trasformazione e educazione dell’affettività umana: essa dimostra la sua efficacia se riesce ad incarnare ed esprimere la sua forza operativa soprannaturale attraverso tutt'intera la condotta personale quotidiana. La Carità è Virtù non autenticamente viva, se non opera “in” e “attraverso” i corrispondenti atteggiamenti affettivi umani.

Essa è stata infusa nell’intima capacità di amore per elevare questa ad esprimersi riccamente nell’ordine soprannaturale. Le virtù infuse non solo si innestano e permeano tutta la capacità intellettivo-affettiva umana, ma anzitutto la purificano, la rinnovano, la personalizzano.

I, 4 Fides qua e relativa fides quae, accenno ad aspetti ecumenici

A complemento di queste note introduttorie sul concetto cattolico di fede, è necessario introdurre la distinzione tra il significato di fides qua credimus: la fede, virtù infusa, per la quale crediamo, accogliamo Cristo pienezza della Rivelazione e fides quae credimus: Cristo, le realtà, verità della Fede, in Lui fondate, che professiamo, crediamo nella Chiesa apostolica.Una distinzione fondamentale, che approfondiremo nel corso del nostro studio.

Fides qua indica la stessa virtù soprannaturale, in noi infusa per opera dello Spirito Santo, irradiazione permanente nelle nostre facoltà, capacità di pensiero ed azione, della grazia santificante. Per questo dono divino, del tutto trascendente, le nostre forze naturali, creaturali, qualificate a misura di Dio, siamo in grado di responsabilmente accogliere Cristo, pienezza della Rivelazione.

Fides quae specifica lo stesso Mistero, Cristo, le Verità-realtà della fede in Lui fondate, a Lui orientate, la Dottrina che ci permette di professarle, i Sacramenti che ci offrono la sua Presenza, azione salvifica, la qualità nuova della vita morale-spirituale cristiana…..

Accenniamo brevemente come tra fides qua e fides quae si dia quasi una , relazione mutua intrinseca, a somiglianza di ciò che avviene nell’ineffabile unità della Vita trinitaria, tra conoscenza ed amore, le relazioni sussistenti, Padre, Figlio e Spirito Santo. In realtà la Fides qua, è opera in noi dello Spirito Santo, che essendo lo Spirito divino comune del Padre e Figlio, ci conduce a confessare Cristo, il Verbo incarnato, tutto il progetto salvifico da Lui qualificato, ci porta alla piena comunione di Vita filiale col Padre: in una parola, la Fides quae, la professione di Fede, vita sacramentale, morale-spirituale della Chiesa apostolica-petrina.

Se poi partiamo dalla Fides quae, professata, celebrata, vissuta, data la sua natura soprannaturale, divina, comprendiamo bene che senza il dono dello Spirito Santo, lo Spirito di Cristo e del Padre, in una parola la Fides qua, non possiamo in alcun modo accogliere e vivere il progetto divino, così articolato, in una parola la stessa Fides quae.

La concezione Luterana: sottolinea la Fede come atto di fiducia e di abbandono a Dio che mi è propizio, mi libera dal peccato nella Croce di Cristo. La Fede è dedizione personale, incondizionatamente fiduciosa nel Dio incomprensibile nella sua collera e nella sua grazia, al quale non può condurmi alcun procedimento razionale umano. Pone in crisi il concetto di virtù, valutato come inquinamento aristotelico del Vangelo della grazia: è la pura grazia che ci porta a Dio, non un potenziamento delle qualità del soggetto, con le opere umane, che in nessun modo possono “giustificarci”. In questa visione, altri aspetti della Fides quae, questioni circa la struttura ecclesiale e razionalità della Fede, passano in secondo ordine: Fides sola.

Notiamo ancora come la Dichiarazione congiunta cattolico-luterana del 31 ottobre 1999, contenga gli aspetti fondamentali di una teologia della virtù e dell'atto di fede: il carattere di dono gratuito, da accogliere responsabilmente, mentre la stessa accoglienza è corrispondenza umana suscitata dal dono; il carattere libero e morale dell'atto di fede, le buone opere; una vita cristiana nella fede, nella speranza e nell'amore che seguono la Giustificazione.

Sulla virtù e l'atto di fede la convergenza è stata riconosciuta. Circa la fides quae, verità-realtà professate, è urgente si continui un dialogo chiarificatore.(vedi n 43).

La concezione cattolica sottolinea l’incontro personale con Cristo, veramente personale per il pieno assenso dell'intelletto e della volontà, qualificati dal dono del tutto divino, infuso delle virtù teologali: esse virtù sono indice dell’estrema umiltà dell’uomo, che unicamente per una trasformazione, gratuita, che solo Dio può dare, può accogliere e vivere la Comunione trinitaria. Solo in virtù della fede possiamo accogliere Cristo nella sua identità divino-umana, nella sua presenza Eucaristica, azione sacramentale, nella sua Chiesa petrino-apostolica. La prospettiva cattolica dà quindi importanza, riconoscendo la centralità della Pasqua giustificante, a tutti agli articoli, contenuti della Fede, all'aspetto intellettuale dell'atto di Fede, alla funzione della Chiesa (Magistero-comunità credente): Fides qua (Virtù) e Fides quae (contenuti): Fides sola, numquam sola.

I, 5 La triade, fede, speranza, carità, qualità della vita cristiana in S. Paolo.

S. Paolo è il primo a caratterizzare la vita cristiana mediante questa Triade; la ritroviamo dall’inizio alla fine della sua predicazione, dalle lettere più antiche a quelle più recenti, come quasi definizione completa della vita cristiana, qualificata dall’evento Gesù Cristo. «Fede, speranza e carità,costituiscono la triade , posta in atto da Paolo con l’intento di offrire una sintesi chiara, immediatamente percepibile dei tratti costitutivi del cristianesimo.»

Servono ad indicare anzitutto il buon stato della vita cristiana, come leggiamo nella prima lettera che si attribuisce a Paolo, scritta nell’inverno 50-51, cioè la prima ai Tessalonicesi.

I Tess. 1,2: «Rendiamo sempre grazio a Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere e tenendo continuamente presenti l’operosità della vostra fede, la fatica della vostra carità, e la fermezza della vostra speranza nel Signore nostro Gesù Cristo, davanti a Dio e Padre nostro.»

Costituiscono le prime parole della lettera, dopo l’indicazione dei mittenti, Paolo, Timoteo e Silvano, l’augurio di grazia e pace. Indicano le caratteristiche fondamentali della comunità cristiana, di cui anzitutto si ringrazia Dio; la vita secondo fede, speranza, carità è infatti opera della «potenza dello Spirito Santo» (v. 5). Notiamo le specificazioni che Paolo attribuisce a queste virtù:

· operosità della vostra fede: l’Apostolo si compiace in una fede attiva, impegnata, testimoniata nell’azione missionaria, «così da diventare modello per tutti i credenti della Macedonia e dell’Acaia» ( v.7)

· l’esercizio della carità richiede fatica; Paolo nella stessa lettera (2,9; 3,5) parla del suo «duro lavoro, della fatica» del suo apostolato, nell’annunciare il Vangelo ai Tessalonicesi, come glorifica la fatica dei cristiani di Roma per il Signore (Rm 16,12). Fatica e carità, amore, non sono in antitesi: l’amore accetta impegni faticosi, la fatica è frutto e prova di un amore sincero.

· La speranza è qualificata dalla fermezza, perseverante. Essa guarda al Signore che si manifesterà, Gli corre incontro con pazienza nelle prove, senza fermarsi e desistere. (v. 1,10)

Nella stessa lettera (5,8), la Triade viene considerata, in prospettiva escatologica, l’attesa del Signore Gesù, come qualità della vita cristiana che la protegge dalle prove, la rende inattaccabile:

«Noi invece che apparteniamo al giorno, siamo sobri, vestiti con la corazza della fede e della carità, e avendo come elmo la speranza della salvezza.»

Fede a carità sono armi protettive, corazza, che in Is 59,17 e Sap 5,18 sono indossate da Dio, qui dagli stessi cristiani; Paolo unisce come corazza fede e carità (sovente Paolo unisce queste due virtù: 1 Tess. 3,6; 2 Tess. 1,3; Filemone 5). L’elmo, che tra le armi protettive è la più necessaria, in quanto difende l’organo vitale più delicato, il cervello, è usato per la sola speranza, speranza della salvezza. Aggiunge Paolo: «Dio infatti non ci ha destinati alla sua ira, ma ad ottenere la salvezza per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo». Se si incrina la speranza, certezza della salvezza, la comunione di vita col Signore Gesù, più forte di ogni male, la vita cristiana si estingue, decadono anche fede e carità.

Fede, speranza e carità, non solo qualificano la vita cristiana, ma la proteggono, la rendono inattaccabile al presente e al futuro. Gli ultimi tempi sono già iniziati con l’evento di Gesù Cristo, in attesa della sua piena manifestazione: il Cristiano li vive con sobrietà e vigilanza, cioè con fede, carità e speranza.

Accenniamo ora all’uso di fede, speranza e carità in una delle grandi lettere di Paolo, la 1 Corinti, lettera scritta verso la Pasqua dell’anno 57, ad una comunità evangelizzata negli anni 50-52. Qui si sottolinea come, specialmente la carità, è il carisma più grande, «la via più sublime» ( 12,31). Segue la sua descrizione, nell’inno alla carità vera, la più eccellente di tutti i doni, quello che «non avrà mai fine» (v. 8).

La grandezza della carità viene ribadita nel v. 13, ma unendo ad essa fede e speranza:

«Ora dunque rimangono [nel testo greco è al singolare ] queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità». Fede, speranza, carità, indicate da Paolo come , sono così connesse, intimamente unite, che con sorpresa, il verbo rimanere è usato nella forma singolare: ora poi rimane fede, speranza, carità, queste tre. Ma tutto si raccoglie nella carità, la più grande, «che non avrà mai fine» (v. 8)

La triade, sottolineando la Carità, ha carattere escatologico, non verrà mai meno: evidente per la carità, ciò che porteremo con noi, comunione con Dio, misura di vita eterna; ma lo si può dire anche della fede, che perfetta nel contemplare il volto svelato di Cristo(lumen gloriae della visone beatifica è già anticipato nel lumen fidei), come la speranza può dirsi che , in quanto sarà pienamente realizzata.

In Romani si dà piena continuità tra la qualità della vita ecclesiale, già ora vissuta, e la pienezza dell’escatologia consumata: le unisce carità, fede e speranza (cfr Rm 5, 1-5).

In Col 1,4s si parla della Triade per indicare più che l’aspetto escatologico della manifestazione completa del Signore risorto, la sua realtà attuale, ecclesiale:

«Noi rendiamo grazie a Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, continuamente pregando per voi, avendo avuto notizia della vostra fede in Cristo Gesù e della carità che avete verso tutti i santi a causa della speranza che vi attende nei cieli. Ne avete già udito l’annuncio dalla parola di verità del Vangelo che è giunto a voi.»

Notare la sottolineatura dell’importanza della speranza, che ci è promessa dalla parola di verità evangelica: questa speranza si identifica con lo stesso Mistero di Cristo:

«A loro [i santi, cioè i cristiani] Dio volle fare conoscere la gloriosa ricchezza di questo mistero in mezzo alle genti: Cristo in voi, speranza della gloria» (1,27). Questa speranza rende salda la fede e operosa la carità. Questa carità è rivolta verso tutti i santi, i fratelli della Chiesa. La fede, in stretta comunione con la carità, ambedue fondate sulla certa speranza, identificata con il mistero di Cristo, riassunto nella sua Pasqua,

ha luogo nell’ambito del «regno del Figlio del suo amore», che si realizza nella Chiesa, corpo di Cristo (cf 1,18).

Notiamo in questi testi, che mostrano la più stretta connessione tra le “Tre”, come ora viene accentuata la speranza, ( 1Tess.1,3; 5,8; Col 1,4), ora la carità ( 1Cor13,13), ma la fede precede sempre la carità e la speranza.

Inoltre fede e carità vengono menzionate ripetutamente insieme (1 Tess. 5,8; Col 1,4s), e possono indicare da sole l’essere cristiani (1 Tess. 3,6; 2 Tess. 1,3; Film. 5), includendo la speranza, in quanto sono realtà escatologiche, adeguate a questi ultimi tempi, di attesa della piena manifestazione del Signore Gesù.

Fede, speranza e carità non sono in alcun modo fenomeni umani universali: manifestano e caratterizzano l’uomo nelle comunità che vivono in Cristo Gesù; si presentano nell’ambito del suo regno, nella Chiesa. Sono realtà proprie degli ultimi tempi, che l’Incarnazione-Pasqua ha inaugurato; questa “Triade” rimane, trascende ogni tempo e raggiunge l’eternità: «la fede nel contemplare, la speranza nell’esperienza piena, la carità—nella carità. In fede e speranza e carità si raccoglie la vita umana nella sua sostanza».

Paolo presenta altri testi, in cui la “Triade”, pur non strettamente connessa come nei testi precedenti, determina l’andamento del pensiero; ne citiamo alcuni:

Gal 5,5: «Quanto a noi, per lo Spirito, in forza della fede, attendiamo fermamente la giustizia sperata. Perché in Cristo Gesù non è la circoncisione che vale, o la non circoncisone, ma la fede che si rende operosa per mezzo della carità»

Qui Paolo pone l’accento sulla fede, che permette di attendere fermamente, con speranza, in una carità operosa.

Rm 5,1-5: «Giustificati dunque per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del S.N. Gesù Cristo [….], e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio [….] La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.»

La citazione dà rilievo alla speranza, che viene conservata nella carità dono dello Spirito Santo.

Ef 1,15-18: «Perciò anch’io, avendo avuto notizia della vostra fede nel Signore Gesù e dell’amore che avete verso tutti i santi, continuamente rendo grazie per voi [….] affinchè il Dio del S.N. Gesù Cristo […] illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati.»

Anche qui il discorso mira al dono della speranza , alla conoscenza di essa.

Vorrei ancora notare che fede, speranza e carità (sovente riassunte nella loro radice, la fede cf. Gal 2,20), sono talmente caratterizzanti l’esistenza cristiana, che il divenire cristiani viene segnalato come giungere alla fede (cf 1 Cor 3, 5). I credenti sono i cristiani, i non cristiani sono gli infedeli. Notare come Abramo è indicato come il padre di tutti i credenti, nostro padre per la fede, dei credenti circoncisi e non circoncisi.

Il V. Testamento ci narra il cammino di fede, speranza ferma nella promessa, anche se ancora futura e non delineata (cf Eb 11,13-16. 39s), di Abramo e della sua famiglia; questa fede-speranza avrà compimento in Cristo, per noi cristiani, e anche per loro che camminarono verso Cristo, pur senza ancora conoscerlo nella sua Incarnazione-Pasqua.

II Nozione biblica della fede

II A Antico Testamento

II A 1 La Fede-speranza

Nell’A.T. la Fede appare come la risposta dell’uomo a JHWH, Dio dell’Alleanza, il Dio che si rivela fedele nei suoi interventi storici salvifici, nella sua Parola e promessa; soltanto da JHWH viene quella Salvezza che l’uomo riceve nella Fede.

Tutti i testi biblici: o presuppongono la Fede religiosa in JHWH, ho tendono a suscitarla, confermarla, approfondirla. Solo nell’atteggiamento di Fede si può cogliere l’intima comunione tra JHWH e l’uomo, i due attori della storia salvifica.

· JHWH è un Dio verso l’uomo, con emet-hesed: fedeltà-misericordia

· L’uomo è un uomo da Dio e verso Dio.

Nella Fede questa relazione-comunione con Dio, da Lui offerta per sua graziosa iniziativa, viene riconosciuta, afferrata, accolta. La Fede implica trovare sicurezza sulle questioni decisive della vita.

La Fede importa obbligazione ad un determinato modo di vivere, in fedele obbedienza al Dio della Fede.

L’atto di Fede viene espresso prevalentemente mediante la forma verbale heemin, hiphil della radice aman, seguita dalle particelle be o le. Il significato originario di aman indica .

Così heemin, be (le) JHWH: significa avere Fede in JHWH, cioè poggiarsi su Dio, la sua Parola. L’uomo, il debole diventa forte appoggiandosi su Dio, il Forte; sottolinea il rapporto personale dell’uomo a Dio, cioè l’atteggiamento di fiducia e d’abbandono a Lui.

In greco viene usato il verbo pisteuein to Teo; in latino “credere Deo”: credere a Dio, prendere sul serio e veramente Dio come Dio.

Per esplicitare meglio l’atteggiamento di Fede, accogliamo il suggerimento del Card. Martini «La fede è un bene così grande che è più facile spiegarla con esempi che con parole.

Essa è l’atteggiamento di Abramo che risponde “eccomi” al Signore che lo chiama per metterlo alla prova (Gen 22,1). E’ l’atteggiamento di Mosè che risponde “eccomi” a colui che lo chiama dal roveto ardente (Es 3,4). E’ l’atteggiamento di Samuele che dice “Eccomi” al Dio che lo chiama nella notte (Sam 3,4.10) »

Esaminiamo più in particolare questi casi significativi: l’AT incomincia a parlare di fede riferendosi al modello di Abramo, Gen 12, 4 “Allora Abramo partì come gli aveva ordinato il Signore…”; 15, 6: “Abramo credette al Signore[che gli assicurava una discendenza], che glielo accreditò come giustizia”; 22, 18: “Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce”.

Conosciamo le circostanze della fede di Abramo: Dio si manifesta al nomade Abramo (la sua famiglia non sembra monoteista: cf Giosuè 24, 2-3; Giuditta 5, 6-9) chiedendogli di lasciare il suo paese, patria, la casa di suo padre, e mettersi in marcia verso un paese ignoto, una terra promessa; Abramo dà fiducia alla Parola divina, ubbidisce, crede nel suo adempimento.

Credendo a Dio, Abramo prese l’atteggiamento giusto, quello che si confà all’uomo davanti a Dio, alla sua Parola; credette che niente è impossibile a Dio (Gen 18,14). Se la storia della salvezza incomincia con Abramo, già la “preistoria teologica dell’umanità” (Gen 1-11) descrive comportamenti esemplari di Fede: Abele, Henoch, Noè; anzi la storia teologica dell'uomo richiedeva sin dal suo inizio un atto di Fede-obbedienza: ob-audio = dare ascolto a, ubbidire. Il comportamento disastroso di Adamo fu invece il non-ascoltare, disobbedire (Rom 5,19).

La storia dell’Alleanza conosce un suo momento decisivo nella Fede di Mosè (Es 3-4), il suo rendersi disponibile al dialogo con JHWH, il suo fidarsi ed obbedire; anche il popolo credette a JHWH, accettò come reale la manifestazione di JHWH a Mosè, si fidò della sua promessa e ubbidì iniziando l’esodo, attraversando il Mar rosso. Si mise in cammino verso la terra promessa, accogliendo la rivelazione del Sinai, divenendo il Popolo sacerdotale, il popolo che inizia ad avere il senso del Vero Dio, lo dimostra con l’osservanza dei comandamenti. Durante la marcia nel deserto, rifiutarono più volte di fidarsi di Dio, dimenticarono le opere salvifiche già realizzate, si ribellarono: per questo caddero nel deserto, senza raggiungere la terra promessa.

Anche il passaggio delicato tra la struttura tribale, dei Giudici di Israele, a quella del Regno è realizzata dall’obbedienza esemplare del giovane Samuele, al servizio e scuola di Eli nel tempio di Silo.

Tutta la storia del Popolo dell’alleanza è segnata dall’obbedienza della Fede e dalla ribellione; ricordiamo l’invito di Isaia (7,9) al re Achaz, durante l’assedio del 730 a.C.: 7, 7-9: “Se non avrete Fede, non starete saldi” cioè: “Se non vi appoggerete a JHWH, non avrete alcun sostegno”. Così pure Is 26,16: “Chi se ne fida, non vacillerà”; Is 10,20: “In quei giorni il resto di Israele, …i superstiti… si appoggiarono sul Signore, sul Santo di Israele, con lealtà”.

Notiamo come l’aspetto fiduciale della Fede, il fidarsi del Signore (aman – amen), tende ad identificarsi con la terminologia della speranza: sentirsi sicuri della fedeltà di chi promette, confidare, trovare riparo. In ebraico si usa il verbo batah, sperare, confidare, in greco elpizein; inoltre qawah, essere teso verso, attendere ardentemente, in greco sovente viene reso con upomèno, che non significa tanto aspettare, quanto perseverare, con pazienza

Si tratta di novità: nel paganesimo è sconosciuta la speranza religiosa. Si può trovare la stessa terminologia di attesa, fiducia, manca la persona divina che entri nella storia dell’uomo, ogni uomo, tutti gli uomini, prometta comunione con sé, i beni corrispondenti. Israele è frutto della promessa di JHWH, Dio dell’Alleanza, e Signore, creatore di tutto, capace di realizzare ciò che promette.

Troviamo espressioni significative, per es: "Tu sei la mia speranza" del Sal. 70 (71), 5

"Tu speranza di Israele" di Ger 14, 8

sono proprie della religiosità ebraica.

Determinante per la conservazione della genuina speranza è stata la lotta dei grandi Profeti contro i falsi miraggi di salvezza, fatti di alleanze politiche, di comportamenti pagani. In tante lotte e pericoli Israele è sempre stato invitato a riporre ogni sua speranza in JHWH: "Da Lui la mia speranza": Sal 61 (62), 6.

Quando il futuro sembra chiudersi, Osea, Geremia ed Ezechiele annunciano la prospettiva di un nuovo inizio: Os 2; Ger 31, 31-34; Ez 36-37: la nuova alleanza.

Data la fedeltà di Dio, l'uomo non sarà deluso dall'attesa suscitata dalla sua parola di promessa. Alla ferma fiducia nell'attesa della salvezza, si accompagna la sottomissione al sovrano governo di JHWH. La speranza diviene un'attesa carica di tensione, serena, attiva, con forza rinnovata:

"Quanti sperano in JHWH riacquistano forza, crescono loro ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi" (Is 40, 31).

La speranza si esprime in una perseveranza virile e coraggiosa: "Spera nel Signore, sii forte, si rinfranchi il tuo cuore, spera nel Signore" (Sal 26 (27), 14).

Osservata questa stretta connessione tra la fede e la speranza, possiamo porci la domanda: la fede vetero-testamentaria è solo “fiduciale” o, insieme, anche “confessionale”?

Non è solo fiduciale, perché ci si fida, riconoscendo i titoli, le qualità divine cui è dovuta fiducia, per es. Is 43,10-11: “Voi siete i miei testimoni… perché mi conosciate e crediate in me e comprendiate che Io Sono. Prima di me non fu formato alcun Dio, né dopo ce ne sarà: Io, Io sono il Signore, e fuori di me non c’è salvatore”.

Viene posto in risalto nella confessione di Fede che JHWH è l’unico Dio, soltanto Lui ha salvato con opere continue, soltanto in Lui si può avere fiducia.

Specialmente i libri sapienziali sviluppano la conoscenza-confessione di JHWH, del suo progetto di salvezza; la Parola Verità, oltre l’aspetto più arcaico di fedeltà, assume il significato proprio di svelamento, rivelazione del Dio santo, Creatore sapiente, Salvatore; questa Verità si manifesta nel suo sapiente progetto di vita per l’uomo, il suo Mistero che svela e realizza nella storia (Sap. 7, 22-26).

Notare la traduzione che i LXX, nel periodo ellenistico, hanno dato della risposta di Isaia all’incredulo Achaz, 7,9: « Ma se non crederete, non sarete saldi”; solo credendo, fondando al propria vita e comportamenti, su JHWH , la sua emet, fedeltà, si può godere della sua solidità, sicurezza, emunah; i LXX traducono «non sarete saldi» con un verbo di conoscenza «non comprenderete».

Nota Ratzinger «L’unica radicale fonetica qui usata “mn” (amen) abbraccia una vasta gamma di significati, il cui mutuo intreccio e la cui differenziazione spiegano la sottile grandiosità di questo asserto. Essa include infatti l’idea di verità, di stabilità, di fondamento inconcusso, di terreno solido, come pure i significati di fedeltà, di confidenza, di avere fiducia, di attenersi a qualcosa, di credere in qualche cosa. La fede in Dio assume allora l’aspetto d’un mantenersi uniti a Dio, tramite cui l’uomo acquista un solido appoggio per la sua vita.

La fede ci viene così descritta come una presa di posizione, come un fiducioso piantarsi sul terreno della parola di Dio. La versione greca dell’Antico Testamento (la cosiddetta “Septuaginta”) ha trasposto in ambiente Greco l’asserto poc’anzi citato, volgendolo in quella lingua, non solo testualmente ma anche idealmente, e formulandolo così: «Se voi non credete, non riuscirete nemmeno a comprendere».

Si è ripetutamente detto, da diversi parti, che in questa traduzione sia già in atto il tipico processo di ellenizzazione, ossia la decadenza dell’originario pensiero biblico. A parere di costoro la fede sarebbe qui stata intellettualizzata; invece di esprimere lo stare sul solido terreno della vera Parola di Dio, essa verrebbe posta in relazione con l’intelletto e con il comprendere, finendo su un piano totalmente diverso e a lei inadatto. In questo rilievo, ci potrà magari essere qualcosa di vero. Tuttavia io penso che in complesso, sia pure sotto una chiave diversa, l’indicazione decisiva è stata perfettamente conservata. Lo stare, così come ci viene additato dal pensiero ebraico che ce lo presenta come contenuto della fede, ha direttamente a che fare anche col comprendere.»

Continuiamo ad ascoltare Ratzinger: «L’atteggiamento as. sunto dalla fede cristiana si esprime nella particella “amen”, in cui si intrecciano i seguenti significati: fiducia, abbandono, fedeltà, stabilità, inamovibilità, fermezza, verità. Vuol dire che ciò su cui l’uomo in definitive intende reggersi trovando un senso alla sua esistenza, può essere unicamente la verità stessa. Soltanto la verità, infatti, costituisce la base portante adeguata al solido stare dell’uomo. L’atto di fede cristiano include quindi sostanzialmente la convinzione che il fondamento significativo, il “logos” sul quale ci collochiamo, è proprio in quanto senso del reale la stessa verità. Un senso che se non fosse al contempo anche verità, sarebbe un non senso. L’amalgama inseparabile formato da senso, fondamento, verità, che si esprime tanto nel termine ebraico “amen” quanto in quello di “logos”, abbozza contemporaneamente un completo quadro del mondo.»

II, A. 2 La carità, l’agape di Dio, donata all’uomo, perché sia corrisposta

Dire amen, il fondarsi dell’uomo sulla roccia stabile di Dio Verità, Dio Parola vivente, Logos, sorgente originaria di ogni essere, per creazione ed alleanza, non costituisce un freddo asserto razionale: il Logos, la ragione primordiale, è al contempo un amante con tutta la passione di un vero amore, che offre e richiede corrispondenza.

Qui entriamo decisamente nell’assoluta novità della religione giudeo-cristiana, rispetto alle altre religioni, anche riguardo il tentativo del loro superamento nella grande filosofia greca: il Dio personale, di creazione ed alleanza, che si manifesterà come Padre nello Spirito Santo di N.S. Gesù Cristo, ponendo nell’esistenza l’uomo ed il suo mondo con amore gratuito, lo chiama parimente alla comunione di vita con sé con amore passionale, offrendo e richiedendo corrispondenza di amore. Come è entrata nel linguaggio biblico la categoria della carità-amore per delucidare la qualità dell’intimo rapporto dell’uomo col Dio personale in cui crede, ha fede, spera, anzi è la sua stessa speranza?

Il linguaggio dell’amore è proprio dei rapporti umani: «Ricordiamo in primo luogo il vasto campo semantico della parola “amore”: si parla di amor di patria, di amore per la professione, di amore tra amici, di amore per il lavoro, di amore tra genitori e figli, tra fratelli e familiari, dell’amore per il prossimo e dell’amore per Dio. In tutta questa molteplicità di significati, però, l’amore tra uomo e donna, nel quale corpo e anima concorrono inscindibilmente e all’essere umano si schiude una promessa di felicità che sembra irresistibile, emerge come archetipo di amore per eccellenza, al cui confronto, a prima vista, tutti gli altri tipi di amore sbiadiscono.» (DCE n 2).

Riflettendo sulla terminologia, ricordiamo come l’antica Grecia ha dato il nome eros all’amore tra l’uomo e la donna; nella S. Scrittura troviamo la parola eros solo due volte nell’Antico Testamento, mentre il Nuovo non la usa mai. La parola caratteristica dell’amore cristiano, agape, esprime nella novità del termine qualcosa di essenziale, una nuova visione, una comprensione qualitativamente diversa. S. Giovanni nel suo Vangelo usa anche philia, l’amore di amicizia, che viene approfondito per esprimere il rapporto tra Gesù e i suoi discepoli.

Come nelle S. Scritture si è forgiata la parola agape con contenuti del tutto nuovi? Nel greco classico agape esprime il tenere in onore, trattare con gentilezza, viene anche usato come sinonimo di phileo, senza apprezzabili differenze. La novità, come per le categorie di fede e speranza, ancoro più per la carità, è tutta originata nella relazione personale del tutto nuova, nella gratuità, nella fedeltà, nei contenuti di comunione, che viene offerta dal Dio della creazione-alleanza alla Famiglia abramica, ad Israele.

«Per l’A.T. in principio non c’è il Dio che ama, bensì il Dio che elegge, che crea dei fatti con interventi concreti nella natura, nell’uomo e specialmente nel suo popolo col quale ha concluso un’alleanza (Es 24). Le grandi opere di Dio sono opere compiute nella storia col suo popolo (per es. l’esodo, il dono della terra, la legge). Giustizia, fedeltà, amore, grazia ecc. sono concetti che cercano di riassumere questa azione divina. Il popolo risponde con il giubilo, la lode e l’ubbidienza. [….]

Soltanto i profeti osano evocare senz’ambagi l’amore di Dio come motivo della sua azione elettiva. E’ un fatto inaudito e senza precedenti che Osea si proponga di rappresentare il rapporto di JHWH col suo popolo, in un ambiente come quello cananeo caratterizzato dai culti sessuali della fertilità, e dalle festività celebranti l’amore carnale, paragonandolo al rapporto tra un marito ingannato ed una prostituta.»

Ma in realtà l’amore di JHWH per il suo popolo, paragonato a quello verso una moglie adultera, ha tali proprietà di fedeltà, perdono nel ricondurla alla qualità alta dell’alleanza, che la stesa terminologia deve cambiare, esprimersi in un linguaggio nuovo, quello dell’agape. Si tratta di un dono a misura di JHWH, che scende dall’alto, nella storia di alleanza, per essere accolto e corrisposto; non c’e alcun misticismo, che cerca di avere esperienza di Dio, in ambigue e totalmente aberranti pratiche cultuali dell’eros umano.

Possiamo, con l’enciclica DCE, farne un accenno: «I greci – senz’altro in analogia con altre culture -hanno visto nell’eros innanzitutto l’ebbrezza, la sopraffazione della ragione da parte di una “pazzia divina” che strappa l’uomo alla limitatezza della sua esistenza e, in questo essere sconvolto da una potenza divina, gli fa sperimentare la più alta beatitudine. […..] Nelle religioni questo atteggiamento si è tradotto nei culti della fertilità, ai quali appartiene la prostituzione “sacra” che fioriva in molti templi. L’eros venne quindi celebrato come forza divina, come comunione col Divino.

A questa forma di religione, che contrasta come potentissima tentazione con la fede nell’unico Dio, l’Antico Testamento si è opposto con massima fermezza, combattendola come perversione della religiosità. [….] Per questo l’eros ebbro ed indisciplinato non è ascesa, “estasi” verso il Divino, ma caduta, degradazione dell’uomo» (n 4).

Per comprendere quanto si distanzi la carità, l’agape, della religione rivelata dall’eros greco, accenniamo brevemente alla sua purificazione filosofica.

II A 2. 1 L'Eros platonico

Nella filosofia greca eros viene ad indicare la necessità cosmica dell'aprirsi all'altro, tanto da essere considerato il vincolo universale, che insieme all'odio, regge le sorti del cosmo. Il significato più esatto dell'eros dipende dalle speciali concezioni che il mito, la filosofia possiede della consistenza e della finalità ultima dell'esistenza umana.

Platone presenta la teoria più elaborata, quella che avrà gli sviluppi più fecondi. Essa deve intendersi nella cornice metafisica del suo pensiero maturo.

Il termine supremo e ultima causa finale del Cosmo sono le Idee eterne, al loro vertice l'Idea del Bene; l'eros, proprio dell'anima (psykè) umana, ha il carattere di un desiderio, aspirazione spiritualmente polarizzata verso l'Idea del Bene.

L'eros ha la sua occasione esterna nel mondo fenomenico, nelle belle apparenze sensibili. Per Platone l'idea del Bene non è il primo atto del pensiero, ma rappresenta la conclusione di un processo che prende le mosse dalla sensazione; non può essere sin dall'inizio eros dell'intelligibile eterno, le Idee eterne, ma deve accendersi a contatto con le forme sensibili.

L'eros è amore del bello, ciò che piace alla vista, il più perfetto dei sensi; ma il bello piace perché è il riflesso dell'Idea divina, come un messaggio dell'invisibile attraverso il visibile. L'esperienza sensibile annuncia un valore che sta al di là. L'anima deve riconoscere sempre più il valore ideale che trapela dalle apparenze: senza l'applicazione del pensiero, il messaggio dell'Idea eterna rimane indecifrabile.

L'eros, nato dal contatto vivo con la realtà sensibile, ascende alla contemplazione del pensiero. Fa da mediatore tra il sensibile, da cui deve rifuggire attivamente, e l'intelligibile, di cui è privo, ma che desidera ardentemente.

Secondo il mito di Diotimo, narrato nel dialogo del Convivio, Eros è figlio di Poros, l'ingegno, e di Penia, la povertà. Un ingegno sempre desideroso, alla ricerca, che urge l'uomo oltre l'immediato presente; ma la sua funzione finale resta sempre teoretica, intellettuale. Si ama per conoscere, contemplare il vero bene; si potrà così anche ordinare la polis, le sue leggi.

Eros risulta espressione della povertà spirituale dell'uomo, una povertà affamata ed ingegnosa, un ingegno insoddisfatto e sempre alla ricerca. Segno che l'uomo trascende se stesso, in una specie d’ebbrezza e d’estasi, percepita come povertà spirituale, che per soddisfarsi è inclinata a sottomettere, soggiogare a sé l'altro.

Si sviluppa come pensiero, contemplazione del bene: ma è ancora pura teoria, che si libra con indifferenza sull’umanità misera e sofferente.

II.A.2,2 L’eros trasformato nell’ agape dalle S.Scritture

Al contrario della letteratura greca, il pensiero ebraico è lontano da ogni misticismo razionale, come sforzo autosufficiente dell’uomo. Ogni pensiero religioso, sentimento e atto dell’uomo, lo stesso culto, appaiono sempre come una risposta ad un previo intervento di Dio, il Dio della creazione ed alleanza, che elegge, promette, ha cura del suo popolo.

Come abbiamo già accennato, saranno i Profeti ad indicare con insistenza nell'amore il solo motivo dell'azione elettiva di Dio. Amore sponsale e paterno in Osea: tenerezza d’amorosa misericordia, che anticipa sempre l'amore che il popolo gli può restituire, soffre appassionatamente per l'infedeltà del suo popolo.

I Profeti più recenti riprendono questo tema, che influisce anche in Deuteronomio. Mentre nei Profeti l'amore di JHWH è l'unico, incomprensibile motivo del perdono, della fedeltà al suo progetto salvifico, il Deuteronomio si pone la domanda più radicale: perché JHWH ha scelto Israele, ne ha tanta cura, gli ha dato le legislazioni più sagge? La risposta è: perché il Signore vi ama (7, 8).

Questo riferimento all'amore elettivo, del tutto libero e gratuito, serve da motivazione per il comandamento dato ad Israele di amare il Signore e di osservarne i suoi precetti (7, 6-11). In quest’amore per JHWH incomincia ad essere incluso anche il prossimo, anche lo straniero: "Il forestiero dimorante fra voi[....] l'amerai come te stesso, perché anche voi siete stati forestieri nel paese d'Egitto" (Lv 19, 18.34, come in 25, 35 per i poveri e gli orfani).

Conosciamo bene come i Profeti non concepiscono un culto che non si accompagni alla giustizia (cf Is 1).

Nel giudaismo rabbinico ellenistico "Agape assurge a concetto centrale per definire i rapporti con Dio. Sotto l'influsso greco e orientale, il concetto assume tratti misticheggianti, lasciando però sopravvivere le idee fondamentali dell’antico testamento. Dio ama il suo popolo ... La prova del suo amore è la legge. Il credente risponde all'amore con l'osservanza dei comandamenti, imita con zelo la misericordia divina e si mantiene fedele a Dio sino al martirio (4 Mac)"

Ma in tutto questo, dobbiamo dire che l’agape ha eliminato l’eros ? non si tratta di questo. Nella S. Scrittura risulta evidente che l’eros, pur portando in sé qualche rimando al divino, richiede «purificazioni e maturazioni, che passano anche attraverso la strada della rinuncia. Questo non è il rifiuto dell’eros, non è il suo avvelenamento, ma la sua guarigione in vista della sua vera grandezza» (DCE n 5).

La purificazione dell’eros ricostruisce la vera dignità dell’uomo, anima espressa nel corpo, cui conferisce la sua dignità: «l’uomo diventa veramente se stesso, quando corpo e anima si ritrovano in intima unità. [….] Solo quando ambedue si fondono veramente in unità, l’uomo diventa pienamente se stesso. Solo in questo modo l’amore – l’eros – può maturare fino alla sua vera grandezza.» (DCE n 5).

Come è avvenuto in concreto questo cammino di ascesi e purificazione ? Dobbiamo ricordare quanto accennato prima: JHWH, Dio di creazione ed alleanza, scegliendo le categorie dell’amore umano per esprimere il suo dono personale, fedele, appassionato al suo popolo, ha purificato e qualificato queste stesse categorie: la categoria ahab, ahabà, anche a livello umano, vengono ad esprimere, e richiedere, una dedizione, attenzione, scoperta dell’altro, in analogia al donarsi di JHWH al suo popolo.

Questo è avvenuto in modo progressivo, come si può notare nel Cantico dei cantici, il libro dell’Antico testamento, ben noto ai mistici; si tratta di cantici forse previsti per le feste nuziali. Nota Benedetto XVI :« E’ molto istruttivo il fatto che, nel corso del Libro, si trovano due parole diverse per indicare l’. Dapprima vi è la parola , un plurale che esprime l’amore ancora insicuro [infantile], in una situazione di ricerca indeterminata. Questa parola viene poi sostituita dalla parola , che nella traduzione greca dell’Antico Testamento è resa col termine di simile suono che, come abbiamo visto, diventò l’espressione caratteristica per la concezione biblica dell’amore» (DCE n 6).

La carità risana l’eros, come la fede risana la ragione umana, dirà S. Tommaso nella Summa Th., I, q.1, a.8,ad 2.; ed ambedue, eros e ragione, senza essere umiliate, vengono rese autentiche, attive nel progetto di esistenza cristiana, qualificato da fede, speranza e carità. Lo vedremo ora esaminando le Virtù soprannaturali nel N. Testamento, nella vita e pensiero cristiano.

II B Nuovo Testamento

Nella nuova alleanza la Fede riceve un contenuto nuovo e definitivo.

Sia nell’Antico sia nel Nuovo testamento, il credente volge il suo sguardo, si affida a Dio che si avvicina all’uomo per un progetto di comunione. Ma nell’AT si guarda al passato per camminare verso la futura promessa: manca un centro vero di prospettiva; la speranza messianica è infatti dispersa in una molteplice serie di istituzioni (sacerdozio, casa davidica-regno) e figure (Profeta, Figlio dell’uomo, Servo sofferente…) difficilmente componibili. Una prospettiva di vita religiosa molto orientata all’agire, al fare.

«Mentre nell’Antico Testamento il si dell’uomo si riferisce a diverse azioni divine (il Signore che salva, che chiama, che libera, che invita), nel Nuovo la fede si specifica nella salvezza che Dio ci propone in Gesù. E’ dunque un atto decisivo, fondamentale, col quale ciascuno di noi accoglie, accetta la rivelazione del disegno salvifico in Cristo Gesù, morto e risorto, che ci dona lo Spirito»

Anche nel NT si guarda al passato ed al futuro, ma in modo diverso, con prospettiva totalmente nuova: tutto si fonda su un evento unico, Gesù di Nazaret, la sua Pasqua. Tutto il passato è stato preparazione in vista di lui, in cui solo si dà la pienezza, “in nessun altro c’è salvezza” (At 4,12); ciò che si attende ancora è solo la sua manifestazione piena, al suo Ritorno.

Cristo Signore abbraccia passato, presente e futuro; vuole essere accolto nella Fede come l’evento decisivo. La Fede è l’accoglienza del buon annuncio, del Kerygma: “Il Cristo è morto per i nostri peccati, secondo le Scritture, fu sepolto e risuscitò il terzo giorno secondo le Scritture, è apparso a Cefa…” (1Cor 15,3s).

Cristo unisce presente e futuro: accolto con Fede già trasforma la vita presente (conversione-vita nuova nella Carità), nella prospettiva sperata del suo pieno manifestarsi glorioso.

Unifica anche il passato nel Verbo incarnato: con questa Parola tutto è stato creato, l’uomo secondo la sua Immagine; tutti gli Archetipi umani, le relazioni fondamentali che configurano la vita umana (paternità, filialità, fraternità, sponsalità, sacerdozio, autorità, servizio…) sono in Lui perfettamente realizzate; si può dire che esistono per Lui, il servizio del suo Mistero ricapitolatore e perfezionatore di ogni realtà creata.

II, B. 1 La Fede in Cristo Signore nei Vangeli Sinottici

Possiamo, a grandi linee, riassumere il cammino di Fede espresso nei Sinottici così: dalla Fede in Cristo che annuncia e instaura il Regno di Dio, alla Fede in Cristo, Figlio di Dio, Crocifisso e Glorioso, la realtà stessa del Regno.

All’inizio della sua predicazione non ha preteso né accettato di essere immedesimato in una della figure portatrici della Speranza messianica di Israele: dimostra un grande riserbo, pericolo di incomprensioni, quasi fosse venuto a restaurare il Regno davidico, a sostenere la lotta zelota contro l’occupante romano. Per questo inculca il segreto messianico. Annuncia invece la Buona Novella che il Regno di Dio è alle porte, si avvicina: chiede conversione e Fede a questo Evangelo. Dimostra la presenza del Regno di Dio operando miracoli: segno che Dio si avvicina, rinnova la vita dell’uomo.

Questa Fede in Gesù operatore di miracoli è già religiosa, deve possedere alcune qualità: non deve essere interessata, cittadina (come a Nazaret: cf Lc 4, 14-30); non deve distoglierlo dalla preghiera al Padre (Mc 1, 35-39; Gv 6, 15), dall’annuncio in altri luoghi.

I suoi miracoli sono segno del perdono, comunione ritrovata con Dio, (Mc 2,1-12), segno di Lui, che dà la vita di Dio (Gv 6, 22-52). Non accetta la domanda di segni prodigiosi nel cielo (Mc 8,11-13).

Così dalla Fede in Lui operatore dei miracoli segni del Regno, si passa alla questione diretta circa l’identità della sua Persona: “Chi è costui al quale anche il vento ed il mare obbediscono?” (Mc 4, 41). Pone Lui stesso la domanda fondamentale sulla sua Persona: “Chi dice la gente che io sia?” (Mc 16, 14: Mc 8, 27; Lc 9, 18). La risposta corretta di Pietro è seguita dai tre annunci della passione-risurrezione, non compresi dagli Apostoli, anzi al primo annuncio Pietro reagisce fortemente. Difficile per l’uomo unire la bontà onnipotente di Dio con la via della Croce. Pietro potrà finalmente farlo, come frutto della Preghiera di Gesù, nel contesto eucaristico dell’Ultima cena, per potere confermare i fratelli nell’identità completa di Gesù, Figlio di Dio, Crocifisso glorioso.(cf Lc 22,31s)

Passaggio dalla Fede in Cristo che opera miracoli, alla Fede nella Persona del figlio di Dio che redime dal peccato e instaura la vita nuova, risorta: il Cristo della Pasqua.

In Gesù di Nazaret la vicinanza di Dio è stata come non mai realizzata: ne segue la necessità della decisione. Come la vista dei segni, così anche l’ascolto delle parole di Gesù può suscitare reazioni diverse: gli ascoltatori vengono pressantemente invitati ad ascoltare, a conservare in sé la parola, all’assimilazione interiore (Mc 4,9): “Chi ha orecchie per intendere intenda”; “Fate attenzione a quello che udite” (Mc 4,24).

La parabola del seminatore (Mc 4,1-8) invita ad accogliere la Parola con perseveranza, a ritenerla Parola di vita cui affidarsi anche nelle tribolazioni, persecuzioni, affanni. Gesù esige che l’ascoltatore abbandoni i propri pensieri e valutazioni e si apra interamente al nuovo modo di pensare.

La Sua Persona e Parola sono la chiave per tutti i segreti di Dio; solo per chi comprende Gesù si rivela il Mistero del Regno di Dio.

La decisione si manifesta nella disponibilità alla sequela. Gesù richiede molto di più della disponibilità intellettuale ad apprendere: solo chi abbandona effettivamente tutto e ama Gesù più dei suoi parenti intimi, anzi della sua stessa vita (Mt 10, 37-39) è discepolo in senso vero. Gesù, Figlio di Dio, è il Valore personale massimo, che regge, misura e fonda tutte le relazioni umane (Lc 14,25-27).

La dottrina di Gesù può essere intesa solo nella radicalità della sequela, che diventa comunità di vita e di destino con Lui. Solo la disponibilità della Fede conduce alla Vita autentica, con la rinuncia ad ogni sicurezza che non sia fondata sulla comunione col Maestro.

La Fede è decisione che trasporta le montagne (Mt 17, 20): ciò che è impossibile agli uomini è possibile a Dio; la Fede lo ottiene, non con le forze umane, ma mettendo in movimento l’onnipotente bontà di Dio, e solo in ordine alla salvezza ( cf Lc 17, 3-5, nel contesto del perdono).

La Fede è dono di Dio e solo il Padre può rivelare a Pietro l’identità di Gesù: il Cristo, il Figlio del Dio vivente (Mt 16, 16s; 11,27); così pure è dono di Dio la perseveranza nella Fede: la domanda fondamentale del , “Non ci indurre (non abbandonarci alla) in tentazione” (Mt 6, 15). Questo perché la fede subisce tentazioni, separare il Messia, Figlio di Dio, dalla sua Croce. Gli ultimi tempi escatologici, già iniziati con l’Incarnazione-Pasqua, richiedono vigilanza, esercizio di paziente Speranza (Lc 18,8; Mt 25,22-24). Dio non solo l’autore, ma anche il custode della Fede: questo il significato del ministero di Pietro: “Io ho pregato per te, che non venga meno la tua Fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i fratelli” (Lc 22, 31-32). Così pure, nel contesto dell’esigente perdono fraterno, la domanda degli Apostoli: “Accresci la nostra Fede” (Lc 17, 5; Mc 9, 23-24).

Luca, il vangelo della Chiesa Missionaria, che si apre ed evangelizza altre culture (Atti degli Apostoli), sente la necessità di indicare in Maria, la Madre del Signore, il modello di Fede esemplare, tipo perfetto della Fede ecclesiale: “Ecco l’ancella del Signore” (Lc 1, 38); “Beata colei che ha creduto…” (Lc 1, 45).

Anche Giuseppe è invitato ad accogliere e servire il Mistero della Fede che si manifesta in Maria (Mt 1-2).

II, B, 2 La fede negli Atti degli Apostoli e Lettere Paoline

Nei Vangeli, Gesù è l’annunciatore, l’evangelizzatore; ora Gesù, ed il suo Vangelo, diventano il contenuto della predicazione apostolica: da Gesù annunciatore a Gesù annunciato.

La Chiesa apostolica considera sua missione testimoniare e annunciare al mondo ciò che ha visto e udito: testimone della Risurrezione “di questo noi siamo testimoni” (At 1, 22; 3, 15). Credere significa ormai accettare la testimonianza su Gesù, il Crocefisso Risorto, e questa accettazione include la Fede nei fatti predicati, come avvenimenti di salvezza (At 10, 37-43).

Negli Atti si ascolta la predicazione apostolica sul Crocifisso risorto, e si viene alla Fede; non si tratta solo di adesione intellettuale ma di accogliere, in virtù dello Spirito Santo, la grazia vitale della salvezza, compiuta realmente nella Persona di Gesù, nell'evento pasquale: "Dato a morte per i nostri peccati e risuscitato per la nostra giustificazione" (Rom 4, 25). I discepoli sono i credenti in Cristo; mediante la Fede gli appartengono, così vengono chiamati (Atti 11, 26).

Non si tratta solo della fede vetero-testamentaria sull'agire storico, sperato, di Dio, nel futuro; qui l'evento decisivo si è già realizzato: Cristo, il Crocifisso è risorto. Ora sono indispensabili per la Fede:

- i testimoni della Risurrezione, kerygma ricevuto e trasmesso:

· la fedeltà nel tramandare (vedi prologo di Luca), nella Comunione ecclesiale (vedi Lettere Pastorali, Ebrei).

· l’azione dello Spirito Santo: At 1, 32-36; 6, 5.10; 10, 44

· ministero di Pietro e degli Apostoli, Successori.

II,B. 2. 1 Significato nuovo di Fede: i contenuti oggettivi, la dottrina.

I Vangeli, anche Giovanni, nel presentare Gesù di Nazaret che annuncia il Regno e chiede la decisione del credere, si riferiscono quasi esclusivamente alla fede soggettiva (fides qua), certo rivolta alla sua Persona, alla sua identità.

La prospettiva cambia negli Atti e Lettere apostoliche: con “fede” vengono indicati anche le realtà salvifiche annunciate (fides quae):

· Atti 6, 7: aderire alla fede;

· Gal 1, 23: Paolo annuncia la fede che un tempo voleva distruggere.

Insieme a pistis anche didakè = insegnamento:

· in Atti indica la Testimonianza che gli Apostoli danno di Gesù (2, 42; 5, 28);

· in Rm 6,17; 16,17 indica tutto l'insegnamento apostolico.

· Nelle Pastorali a didakès’aggiunge didascalia (2Tm 4, 2‑3; Tt 1,9).

Inoltre parateke (deposito della fede): qui l'insegnamento è considerato come un dato dottrinale specifico che si deve trasmettere inalterato, per la cura del successore di Paolo (1Tm 6, 20; 2Tm 1, 12‑14).

Dal Vangelo, che deve continuamente essere annunciato, si è passati inoltre ad una dottrina che deve essere appresa, custodita e difesa da possibili errori.

Ma come si attua la fede soggettiva (qua), nella quale avviene la nostra ordinazione alla salvezza?

Paolo ci parla sia dell'iniziativa divina preveniente (Rm 8, 28‑30), sia delle mediazioni ecclesiali che conducono e permettono il personalissimo credere (Rm 10, 9‑17).

Rm 8, 28‑30: i verbi incalzanti, quelli da sempre conosciuti, predestinati, chiamati, giustificati, glorificati, quasi sembrano non lasciare spazio alla necessaria risposta della fede; il dinamismo del credere è invece ampliamente sviluppato in Rom 10, 9‑17. “Poiché se confesserai (verbo:omologeo) con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai (verbo: pisteuo) con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Con il cuore infatti si crede per ottenere giustizia, e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza” (Rm 10, 9-10).

Qui notiamo come accanto all’atto di credere col cuore, si unisca la confessione (omologhia, come in 1 Gv 4, 2): confessare (omologeo) significa dire di sì ad uno stato di fatto, ad una persona; è adesione ad un consenso comunitario di natura definitiva, un atto ecclesiale. Un atto pubblico di testimonianza, una proclamazione, da cui dipende la salvezza. Si può realizzare solo sotto l’influsso dello Spirito Santo (1 Cor 12, 3; 1Gv 4, 2-3).

Quindi il venire salvati, il diventare giusti, richiede il personalissimo credere col cuore e la pubblica confessione ecclesiale (Rm 10, 10).

Ma come si arriva a questo? Notiamo le indicazioni di Rm 10, 14-17: «Ora come invocheranno colui nel quale non hanno creduto? Come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci? E come lo annunzieranno, se non sono stati inviati? […..]Dunque la fede viene dall’ascolto, e l’ascolto riguarda la parola di Cristo.»

La fede è per l’ascolto, per l’azione-parola di Cristo, il suo evento, che fonda tutto il processo che porta alla confessione ecclesiale e all’atto di fede (v. 17). Cristo ha inviato gli apostoli, che annunziano il Vangelo, per portare al personalissimo atto di fede, nell’invocazione liturgica ecclesiale (vv. 9-11; 14-15).

Perciò credere significa accettare il messaggio apostolico, ritenerlo per vero, accogliere nella celebrazione-confessione ecclesiale l’azione salvifica di Dio in Gesù Cristo.

Con questo si afferma, inoltre, che la Fede biblica in Gesù è molto più che una visione del mondo raggiunta attraverso uno sforzo intellettuale; significa invece accogliere il messaggio, la presenza di Cristo per noi morto e risorto: l’Uno che si è dato per tutti (cf 2 Cor 5, 15).

Questa realtà salvifica penetra la vita del credente sino alle midolla: deve vivere non più per sé stesso, ma per colui che è morto e risorto per lui: «Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me» (Gal 2,19s).

Nota sulla fede giustificante e le opere buone in San Paolo.

Paolo, specialmente in Galati e Romani, cerca di rettificare le false concezioni vetero-giudaiche: la vecchia via della salvezza per le opere, osservanza della legge, è rifiutata in quanto vecchia e degenerata. Al suo posto viene indicata la Via nuova e definitiva della salvezza nella Croce e Risurrezione del Signore Gesù, nel dono dello Spirito Santo.

Ma l’attività umana onesta non viene minimamente soffocata o sostituita dalla nuda fede, come ovunque nel Nuovo Testamento; Paolo dice che questa attività è legittima, anzi necessaria, senza di essa la Fede non è vera Fede (cf 1 Cor 13; Gal 5, 6), la Fede che opera nella carità.

Quando Paolo parla di giustificazione attraverso la fede e non le opere, è solo per opporsi ad un giudaismo soddisfatto e ottimista del potere salvifico delle opere umane. Mt 7, 21 «Non chiunque mi dice: “Signore, Signore” entrerà nel Regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del padre mio che è nei cieli» e Gc 2, 14 : «A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha le opere?» tolgono ogni illusione circa la salvezza senza opere. La polemica di Paolo non coincide con quella di Lutero, come vedremo nella parte storica.

II, B. 3 La fede nel Vangelo di San Giovanni

Un Vangelo tutto scritto nella prospettiva della Fede: “Questi (segni) sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché credendo abbiate la vita nel suo nome”(20, 31); troviamo in esso la riflessione più profonda e completa sulla Fede.

Una concezione della Fede fortemente dinamica: è sempre avvenimento, è qualcosa di vitale, scintillante, impegna tutto l’uomo; l’incontro nella Fede col Signore Gesù, luce, vita, rinnova totalmente la vita del credente. Giovanni ama usare il verbo, pisteuein eis, credere in Gesù (Gv 3,18; 1 Gv 5,13).

Quest’incontro ebbe luogo, per i contemporanei di Gesù di Nazaret, nella sua vita terrena; per essere riconosciuto come l’inviato di Dio, compì le sue opere, annunciò le sue parole; così opere (segni) e parole testimoniano per Gesù, insieme al Padre, allo Spirito Santo e alle Scritture.

La Fede richiede in primo luogo un ascoltare, udire, la parola di Gesù: un ascoltare attivo che accoglie, conserva, custodisce le parole per osservarle (12, 44-50). L’ascoltare non è solo l’inizio della Fede, ma in esso la Fede giunge a compimento: il vero ascoltare è obbedienza.

La Fede comprende in sé anche un vedere; non si tratta di un puro scorgere con gli occhi, ma neppure di una percezione interiore che non parte da una visione degli occhi. Il vedere della Fede è un lasciarsi rimandare dalla realtà esterna delle opere (segni) di Cristo, a ciò che esse velando scoprono: la Gloria di Cristo, fonte di luce e di vita.

I miracoli-segni possono suscitare un inizio di Fede, cui Cristo non dà molta fiducia, perché in essi l’iniziale intuire la Gloria di Gesù può venire presto oscurato dall’attaccamento egoistico a se stessi, le proprie necessità. Quando il vedere segue in obbedienza ciò che il miracolo-segno indica, allora si palesa, come dono di Fede, la realtà significata dal miracolo: il Pane di Vita, il Santo di Dio ( Gv 6, 69).

Così anche nella guarigione del cieco nato, Cristo si manifesta come luce vera solo a colui che si lascia guidare a questo attraverso il miracolo (9, 35-38).

Nell’adesione a questo ascoltare e vedere, disponibile, della Fede, le parole e le opere di Gesù dischiudono l’intelligenza, la visione portatrice di Luce, di Vita, della Verità. Vedere ed udire sono connessi l’uno con l’altro, designano lo stesso processo: “ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della Vita ……quello che abbiamo veduto ed udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è con il Padre e col Figlio suo Gesù Cristo”.(1 Gv 1,1-4).

Il linguaggio delle opere ha più capacità d’urto, ma può anche essere pericoloso, perché la visione oculare può avvincere maggiormente a se stessa, impedire l’andar oltre il segno visibile. Così i Giudei nel dialogo con Gesù sul pane della vita (cf Gv 6), non sanno andare oltre il pane materiale moltiplicato da Gesù, invece Tommaso non solo vide, ma anche palpò la carne del Verbo risorto, e riconobbe la realtà Divina così rivelata: “Signore mio e Dio mio” (20, 28). Tuttavia Cristo gli dice: “Beati coloro che non vedono e pure credono”. Non si tratta evidentemente di una fede senza fondamenti ragionevoli; essi ci sono nella Persona, parole, opere di Cristo, la sua autorità divina, nell’insegnamento e la vita della Chiesa. Ciò che non si deve pretendere è una visione che anticipi quella beatifica, il Lumen gloriae, ora solo partecipato nel Lumen fidei, opera in noi dello Spirito Santo.

Le parole di Gesù sono più univoche nell’indicare la Realtà divina, ma sono anche un intervento p