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FINANZIERI A CEFALONIA Pochi avvenimenti, come quelli verificatisi nell’isola greca di Cefalonia nel settembre 1943,hanno assunto nel tempo un significato emblematico,tanto da diventare simbolo del valore sfortunato e insieme della crudeltà umana. E raramente,d’altra parte,la rimozione ha operato con tanta efficacia,costruendo un mito intorno al sacrificio,e sorvolando sulle circostanze che lo avevano provocato. I fatti in realtà,furono noti subito dopo la fine della seconda guerra mondiale,se ne occuparono sia il Tribunale di Norimberga che la giustizia militare italiana,e non mancarono pubblicazioni a carattere memorialistico,redatte da sopravvissuti o da testimoni di avvenimenti collaterali rispetto all’episodio centrale ..La “strage di Cefalonia”,tuttavia,fu per mezzo secolo confinata nell’ambito delle celebrazioni militari,presso i reparti che avevano partecipato ai combattimenti sull’isola,senza meritare la rilevanza di altre vicende – le Fosse Ardeatine,Marzabotto – che meglio si prestavano ad essere inquadrate negli schemi storiografici della Resistenza e della guerra partigiana,anche se è fuor di dubbio che dell’una e dell’altra costituì premessa la disperata difesa dei presidi delle isole joniche.,come di quelli dislocati in tante altre località della Penisola e dei territori d’occupazione. Le ragioni per la rimozione non mancavano. L’uccisione sistematica di migliaia di militari dopo la resa,in assenza di alcuna necessità bellica – a fine settembre ’43 l’esercito italiano praticamente non esisteva più – è fatto ingiustificabile sotto qualsiasi profilo,condannato non soltanto dal diritto internazionale ,ma dagli usi di guerra e dalla tradizione dell’onore militare,al di là di ovvie considerazioni umanitarie.Tanti altri fatti deplorevoli accaddero durante la seconda guerra mondiale,ma Cefalonia ebbe dimensioni eccezionali,e per di più non fu opera delle milizie politiche – le SS,la Gestapo – cui di solito si attribuiscono episodi efferati. Nell’isola operarono reparti regolari della Wehrmacht ,in base ad ordini emanati dal Quartier Generale del Fuhrer e trasmessi lungo la normale catena gerarchica,al comando del Gruppo di Armate “E” a Salonicco,a quello del XXII corpo d’armata da montagna a Gianina,a quello della divisione alpina che eseguì l’operazione. Non era quindi possibile applicare alla vicenda la convenzione che rendeva più facile il reinserimento della Germania Federale nel consorzio delle democrazie occidentali, convenzione secondo la quale le atrocità commesse durante la seconda guerra mondiale erano state opera di un numero limitato di fanatici nazisti,mentre le forze armate regolari avevano tenuto un contegno conforme alla cultura europea ed alla tradizione di Federico il Grande,di Blucher e di Moltke.

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FINANZIERI A CEFALONIA

Pochi avvenimenti, come quelli verificatisi nell’isola greca di Cefalonia nel settembre 1943,hanno

assunto nel tempo un significato emblematico,tanto da diventare simbolo del valore sfortunato e

insieme della crudeltà umana.

E raramente,d’altra parte,la rimozione ha operato con tanta efficacia,costruendo un mito intorno al

sacrificio,e sorvolando sulle circostanze che lo avevano provocato. I fatti in realtà,furono noti subito

dopo la fine della seconda guerra mondiale,se ne occuparono sia il Tribunale di Norimberga che la

giustizia militare italiana,e non mancarono pubblicazioni a carattere memorialistico,redatte da

sopravvissuti o da testimoni di avvenimenti collaterali rispetto all’episodio centrale ..La “strage di

Cefalonia”,tuttavia,fu per mezzo secolo confinata nell’ambito delle celebrazioni militari,presso i

reparti che avevano partecipato ai combattimenti sull’isola,senza meritare la rilevanza di altre

vicende – le Fosse Ardeatine,Marzabotto – che meglio si prestavano ad essere inquadrate negli

schemi storiografici della Resistenza e della guerra partigiana,anche se è fuor di dubbio che dell’una

e dell’altra costituì premessa la disperata difesa dei presidi delle isole joniche.,come di quelli

dislocati in tante altre località della Penisola e dei territori d’occupazione.

Le ragioni per la rimozione non mancavano.

L’uccisione sistematica di migliaia di militari dopo la resa,in assenza di alcuna necessità bellica – a

fine settembre ’43 l’esercito italiano praticamente non esisteva più – è fatto ingiustificabile sotto

qualsiasi profilo,condannato non soltanto dal diritto internazionale ,ma dagli usi di guerra e dalla

tradizione dell’onore militare,al di là di ovvie considerazioni umanitarie.Tanti altri fatti deplorevoli

accaddero durante la seconda guerra mondiale,ma Cefalonia ebbe dimensioni eccezionali,e per di

più non fu opera delle milizie politiche – le SS,la Gestapo – cui di solito si attribuiscono episodi

efferati. Nell’isola operarono reparti regolari della Wehrmacht ,in base ad ordini emanati dal

Quartier Generale del Fuhrer e trasmessi lungo la normale catena gerarchica,al comando del

Gruppo di Armate “E” a Salonicco,a quello del XXII corpo d’armata da montagna a Gianina,a

quello della divisione alpina che eseguì l’operazione. Non era quindi possibile applicare alla

vicenda la convenzione che rendeva più facile il reinserimento della Germania Federale nel

consorzio delle democrazie occidentali, convenzione secondo la quale le atrocità commesse durante

la seconda guerra mondiale erano state opera di un numero limitato di fanatici nazisti,mentre le

forze armate regolari avevano tenuto un contegno conforme alla cultura europea ed alla tradizione

di Federico il Grande,di Blucher e di Moltke.

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Quando negli anni ’50 ,in un quadro di relazioni internazionali radicalmente mutato,l’esercito

italiano e quello tedesco si trovarono ad essere integrati nello stesso sistema difensivo atlantico,fu

logico mettere l’accento sugli elementi di unione,e non enfatizzare gli altri.

Per ragioni analoghe,non era il caso di mettere in evidenza i limiti della condotta di guerra degli

anglo-americani,che impedirono loro di sfruttare a fondo il cambiamento di situazione provocato

dall’armistizio italiano.

Ma soprattutto,la vicenda di Cefalonia pose impietosamente in evidenza la serie di fattori negativi

che contrassegnarono l’uscita del nostro Paese dall’alleanza dell’Asse ed il passaggio al campo

opposto,la superficialità e le reticenze nelle trattative con gli alleati,l’imprevidenza e la mancanza di

pianificazione nella delicatissima fase del cambiamento di fronte,il discutibile comportamento del

Comando Supremo cui fece riscontro la mancanza di iniziativa che paralizzò gli alti comandi

periferici.

All’abbondante memorialistica ed alle pubblicazioni ufficiali degli stati maggiori dell’Esercito e

della Marina si è aggiunta,ma soltanto nel 1993,un’analisi tecnica molto seria,affidata al generale

Mario Montanari per la parte italiana,ed al comandante Gerhard Schreiber per quella tedesca ( “ La

divisione Acqui a Cefalonia”,a cura di Giorgio Rochat e Marcello Venturi,ed.

Mursia,Milano),autore quest’ultimo anche di una ricerca su “ I militari italiani nei campi di

concentramento del Terzo Reich” (Ufficio Storico dello Stato Maggiore Esercito,1992),esemplare

per rigore ed obiettività. A queste fonti , ed alla scarna documentazione esistente nell’ archivio del

Museo Storico della Guardia di finanza, ci riferiremo prevalentemente nella ricostruzione

dell’episodio,che valse alla bandiera della Guardia di finanza la prima medaglia d’oro al valor

militare,per il comportamento del I battaglione mobilitato , dislocato appunto nelle Isole Joniche.

L’occupazione italiana delle Isole Joniche.

Il gruppo delle Isole Joniche ( o”Jonie”.secondo la grafia italiana dell’epoca) comprende due

elementi principali.

A nord la maggiore,Corfù,separata da un braccio di mare dalla costa dell’Albania meridionale,in

corrispondenza del porticciolo di Saranda,allora nota con l’antico nome di Santi Quaranta,o con

quello recentissimo di Porto Edda,attribuitole in omaggio alla figlia primogenita di

Mussolini,nonché consorte del ministro degli esteri Galeazzo Ciano,principale artefice e

patrocinatore dell’unione italo-albanese.

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Parecchie miglia più a sud il gruppo delle isole meridionali,Cefalonia ed Itaca al centro,Leucade

(Santa Maura) a nord,divisa dalla terraferma epirota da un canale artificiale,Zante a sud,davanti alla

costa del Peloponneso.

Cefalonia domina l’accesso al golfo di Patrasso ed al canale di Corinto,e quindi gli approcci da

ponente al Pireo ed agli approdi dell’Attica.

Possedimento veneziano fino al 1798,dopo esser passate di mano nel corso delle guerre

napoleoniche le isole erano state,per tutto il XIX secolo,anche dopo la conquista dell’indipendenza

greca,una base della Royal Navy.

L’esercito italiano aveva occupato senza difficoltà l’arcipelago nei primi giorni di maggio del

1941,dopo la resa delle forze armate elleniche,e proprio Cefalonia era stata il teatro dell’unica

operazione di aviosbarco portata a termine da parte nostra nel corso della seconda guerra

mondiale,con il lancio di una compagnia della Scuola di Paracadutismo di Tarquinia.

Dopo pochi giorni i reparti sbarcati furono sostituiti dalla divisione di fanteria “Acqui”,con compiti

di presidio e di difesa costiera.

La grande unità,erede di tradizioni prestigiose dell’esercito sardo, aveva la struttura delle divisioni

di fanteria definite “da montagna”,per intendere che la loro motorizzazione era ridotta al

minimo,quasi inesistente,mentre l’ artiglieria era destinata a spostarsi a dorso di mulo.

Comprendeva il 17° ed il 18° reggimento fanteria,una legione di Camicie Nere ( in pratica un terzo

reggimento a ranghi ridotti) ed il 33° reggimento artiglieria da campagna,su due gruppi di obici

da75/13 ed uno da 100/17,armati con materiale di preda bellica austro-ungarica della prima guerra

mondiale e,come si è detto ,someggiabile.

La “Acqui” nel giugno 1940 aveva partecipato alle operazioni su fronte francese e,dopo una sosta in

prossimità del confine svizzero,nella prima metà di novembre aveva raggiunto la sua sede stanziale

di Merano,con una forza ridotta al 60% per effetto della parziale smobilitazione disposta con

singolare tempismo proprio in concomitanza con l’inizio della campagna di Grecia.

Lo sfavorevole andamento delle operazioni sul fronte greco-albanese fece sì che già il 18 novembre

la divisione fosse frettolosamente avviata oltre Adriatico,dove i suoi reparti furono impiegati “ a

spizzico” per turare le falle che si aprivano nel nostro schieramento.In aprile la

“Acqui”,riordinata,partecipò all’infruttuosa offensiva nella valle Shushica e,dopo il crollo del fronte

ellenico,raggiunse la costa dell’Epiro,da dove fu trasferita nelle isole.

Nel corso dell’occupazione sia la consistenza complessiva della divisione che la distribuzione dei

suoi reparti tra le varie isole subirono frequenti rimaneggiamenti ,in funzione dei mutamenti della

situazione generale che,come vedremo,fece considerare opportuno lo spostamento della

gravitazione delle forze da Corfù al gruppo meridionale..

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In particolare,il comando di divisione fu trasferito a Cefalonia,la cui guarnigione fu

rinforzata,soprattutto in artiglieria, mentre la legione CC.NN. fu sostituita dal 317° reggimento

fanteria.

Come tiene a sottolineare Rochat nel saggio introduttivo al volume citato,la “Acqui” era in sostanza

una divisione “qualsiasi”,con tutte le carenze di addestramento e di inquadramento –e naturalmente

di armamento ed equipaggiamento – delle analoghe unità dell’esercito italiano dell’epoca.

Gli uomini che la componevano non erano truppe di élite ma soldati in prevalenza non più

giovanissimi,sul morale dei quali non poteva non incidere la stanchezza per il lungo tempo

trascorso sotto le armi e la preoccupazione per il futuro,che l’andamento disastroso della guerra non

poneva certo in una prospettiva favorevole.

Per la sua posizione geografica Cefalonia aveva anche una certa importanza dal punto di vista

navale,tanto che era stata scelta come base per il 37° gruppo dragaggio, per il 10° gruppo

antisommergibili e per una squadriglia di MAS ,destinati alla protezione del traffico marittimo con

la Grecia e l’Egeo e di un tratto della rotta di sicurezza seguita dai trasporti per l’Africa

Settentrionale,finché vi furono.

Nel gruppo antisom erano inquadrate anche due motovedette della Guardia di finanza, “Caron” e

“Spanedda “; due batterie antinave ed una contraerei della marina concorrevano alla difesa

dell’isola.

Per i servizi di polizia erano aggregati alla divisione “Acqui” il VII battaglione Carabinieri

,responsabile del servizio di polizia militare e,con il modesto concorso della gendarmeria locale,del

mantenimento dell’ordine pubblico,ed il I battaglione della Guardia di finanza,con compiti di

polizia economica e di concorso alla difesa costiera.

Il I battaglione era uno dei due reparti costituiti nell’estate del 1940 per partecipare alle operazioni

dell’esercito di campagna,e la sua nascita,come quella del gemello II,era stata piuttosto travagliata.

Lo Stato Maggiore dell’ Esercito,infatti,era contrario alla formazione di elementi della Guardia di

finanza destinati ad operare come normali unità di fanteria,come era avvenuto nella prima guerra

mondiale,ritenendo più coerente con la fisionomia del Corpo l’impiego in compiti di copertura e di

difesa costiera,oltre che per la tutela dell’economia di guerra.

Soltanto ai primi di giugno,nell’imminenza della dichiarazione di guerra,per l’insistenza del

Comando Generale della Guardia,motivata da ragioni di prestigio e,diremmo oggi,di “presenza”,era

stata autorizzata la costituzione di due battaglioni, per i quali fu scelta la struttura dei corrispondenti

reparti di CC.NN assegnati in rinforzo ai settori di copertura,più leggera di quella delle analoghe

unità di fanteria.

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Nel corso del conflitto,poi,le cose andarono diversamente,per il manifestarsi delle esigenze della

occupazione nei territori greci,jugoslavi,ed in seguito anche della Francia meridionale,tanto che alla

fine del 1942 la Guardia di finanza.contava ben diciotto battaglioni mobilitati,dislocati dalla

Slovenia a Creta,in Savoia ed in Provenza,oltre a tre compagnie autonome ( due nelle Isole

dell’Egeo ed una sul confine libico-tunisino),ai reparti in Africa ed agli equipaggi del naviglio.

Il I ed il II battaglione,costituiti il 1° luglio 1940 nella caserma di viale XXI aprile in Roma,dopo un

breve periodo di addestramento a Carsoli,in Abruzzo,furono dislocati alla frontiera

jugoslava,rispettivamente a Tarvisio ed a Plezzo. Sciolti e rapidamente ricostituiti in novembre,con

una vicenda analoga a quella già descritta per la divisione “Acqui”,i due battaglioni furono

trasferiti in Albania,dove il 13 dicembre ebbero il battesimo del fuoco in Val Tomorreces,nel

massiccio del Tomori,al punto di giunzione dei settori della 9^ e della 11^ armata . In prima linea

senza soluzione di continuità fino a marzo,i reparti furono spostati nel settore di Librazhd,in

corrispondenza del confine jugoslavo-albanese,quando in aprile,con l’entrata in guerra della

Jugoslavia, si profilò la minaccia dell’apertura di un nuovo fronte alle spalle dello schieramento

italiano contro la Grecia.

Dopo aver partecipato all’azione per l’occupazione della città di Dibra,nella Macedonia jugoslava,

alla cessazione delle ostilità il II battaglione fu inviato in Montenegro,mentre il I si concentrò

presso il porto di Igoumenitsa,in Epiro,dal quale,tra maggio e giugno 1941, si trasferì nelle Isole

Joniche.

Nel settembre di due anni dopo,il reparto presentava una fisionomia sensibilmente diversa da quella

iniziale. Contava una forza notevolmente superiore a quella organica,ripartita in cinque compagnie:

la1^ e la 3^ a Corfù,con il comando di battaglione,la 2^ a Leucade,la 4^ a Cefalonia e la 5^ a

Zante,e gli erano attribuiti compiti più complessi di quelli assegnati agli altri reparti del Corpo. in

Grecia. .

A questi ultimi (sei battaglioni,dislocati in Epiro,Peloponneso,Tessaglia e Creta,alle dipendenze,per

il servizio d’istituto,di un Comando Superiore in Atene,dove operava anche un nucleo di polizia

tributaria) erano attribuiti essenzialmente compiti di polizia militare ( ricerca di armi e di radio

clandestine,cattura di militari inglesi sbandati,controspionaggio) e marittima,e di difesa costiera.Il

XII ed il XIII battaglione,gli ultimi costituiti nella seconda metà del ’41,avevano per tale ultimo

compito una struttura “anfibia”,poiché una delle tre compagnie era formata da personale del

contingente di mare e disponeva di naviglio locale di requisizione.

In un primo tempo,alla Guardia di finanza furono assegnate anche funzioni di polizia economica

simili a quelle svolte in Patria e nei territori ex-jugoslavi ( controllo sugli ammassi e sulla

distribuzione delle derrate alla popolazione civile,repressione degli accaparramenti,controllo dei

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prezzi).La situazione di progressivo collasso dell’economia ellenica, con un’inflazione ed una crisi

alimentare di proporzioni drammatiche,indussero successivamente il comando italiano a rinunciare

al controllo e ad restituire le responsabilità in materia economica alle autorità greche – il cosiddetto

“esperimento Kotsanatis” – nella speranza che riuscissero a riattivare i meccanismi di mercato.

I finanzieri furono quindi impiegati per la tutela degli interessi dell’amministrazione militare

italiana e per le esigenze di approvvigionamento delle truppe

Una situazione alquanto diversa si verificò nelle Isole Joniche.

Con l’obiettivo neppure troppo coperto di una futura annessione,il governo italiano perseguì una

politica di graduale distacco delle isole dal contesto statale greco,dando vita ad un regime di

occupazione distinto da quello in vigore nella terraferma,nel quale le funzioni di governo furono

attribuite ad un “Ufficio Affari Civili” affidato ad un esponente politico fascista,formalmente

inserito nel comando della “Acqui”,ma in realtà diretto da uno speciale ufficio istituito nel gabinetto

degli Esteri di Roma.

Furono così costituite nell’arcipelago le istituzioni di organizzazione del consenso del partito

fascista italiano,si cercò di valorizzare il retaggio dell’antica presenza veneziana,e soprattutto ci si

adoperò per attrarre nell’orbita italiana la modesta economia isolana,cosa del resto non

difficile,viste le condizioni disastrose di quella ellenica.

Nell’aprile 1942 furono ritirate dalla circolazione le monete greche,per far posto ad una “dracma

jonica”,le cui banconote recavano diciture bilingui.Anche i francobolli furono sostituiti da quelli

italiani,con una speciale sovrastampa

Per il controllo delle operazioni di cambio della moneta il ministero degli esteri richiese il

trasferimento temporaneo nelle isole di duecento finanzieri .

Alla Guardia di finanza fu così affidata una sorta di sovrintendenza sugli organi

dell’amministrazione finanziaria ellenica,esercitata da tre capitani ,nominati commissari straordinari

per le dogane,i monopoli e le eforie,gli uffici delle imposte.

Il compito più gravoso,comunque,era quello della difesa costiera e della polizia marittima,per

l’esercizio della quale,implicante anche il controllo del traffico locale tra le isole,il battaglione

disponeva di due motovelieri (“S.Marco” a Corfù e “Cesare” a Zante) e di un motoscafo di

requisizione ,tutti armati da finanzieri del contingente di mare; nell’ottobre 1941 erano giunte

dall’Italia le motobarche MB 30 e MB 31,del naviglio del Corpo,dislocate la prima a Corfù e l’altra

a Cefalonia.

Fu appunto nel settore della polizia marittima che si dovette registrare l’unico incidente in oltre due

anni di occupazione.Il 22 luglio 1941 nella rada di Katalios,sulla costa meridionale di Cefalonia, i

finanzieri Francesco Caddeo ed Enrico Martinelli,furono uccisi a colpi di pistola durante il controllo

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di un motoveliero ,ma l’episodio fu attribuito a “normali” contrabbandieri,peraltro inseguiti e poi

parte uccisi in conflitto e parte catturati a Zante..

La resistenza fu praticamente inesistente nell’isola fino ai primi del’43,ed anche dopo non sembra

abbia costituito una seria minaccia per le truppe d’occupazione.

La situazione di relativa tranquillità nelle isole cambiò radicalmente tra la fine del 1942 e l’inizio

dell’anno successivo,quando l’abbandono dell’Africa Settentrionale da parte dell’Asse pose sul

tappeto il problema delle possibili successive mosse degli alleati anglo-americani.

.Nelle valutazioni degli alti comandi tedesco ed italiano un grado elevato di probabilità fu attribuito

all’invasione della penisola balcanica,e le isole joniche,fino ad allora considerate soltanto come

punto di appoggio per il traffico verso la Grecia e l’Africa Settentrionale,acquistarono una rilevanza

strategica ben maggiore, quali possibili basi per operazioni verso la terraferma ellenica o anche

verso l’ Adriatico.

Fu così deciso l’ulteriore rafforzamento delle guarnigioni del gruppo meridionale,il trasferimento

del comando di divisione da Corfù a Cefalonia ed il passaggio della grande unità alle dipendenze

dell’11^ armata e del XXVI corpo d’armata, nella cui zona di competenza si trovava la Grecia

occidentale. Anche il I battaglione fu trasferito,per il servizio d’istituto,dal Comando Superiore

della R.G.F.d’Albania a quello di Atene.

I rapporti di dipendenza dei presidi delle Isole Joniche furono ulteriormente modificati nell’estate

del ’43,quando Leucade fu assegnata alla divisione “Casale” e Zante alla “Piemonte”,ed il 15 agosto

fu addirittura spezzata l’unità organica della “Acqui”:il presidio di Corfù,dove era rimasto il

18°fanteria (ed i comandi di battaglione dei CC.RR. e della R.G.F.) continuò a dipendere dal XXVI

C.d’A. con sede a Gianina,mentre quelli di Cefalonia ed Itaca passarono all’VIII C.d’A.,il comando

del quale era ad Agrinion.

Questo intreccio di relazioni di comando ebbe un ruolo non lieve nella dinamica della tragedia di

Cefalonia,perché i comandi di divisione e di corpo d’armata ebbero comportamenti difformi rispetto

alla nuova situazione determinata dall’armistizio,il che certo non agevolò i rapporti con i tedeschi.

Il 30 giugno 1943 il comando della “Acqui” fu assunto dal generale di divisione Antonio Gandin,

personaggio di rilievo nello stato maggiore dell’esercito italiano ( ed anche insegnante di arte

militare presso l’Accademia della Guardia di finanza negli anni ’20).

Gandin era stato,dal dicembre 1940,capo del reparto operazioni del Comando Supremo,aveva

quindi una visione completa della situazione generale e,grazie anche alla sua ottima conoscenza

della lingua,gli erano perfettamente noti i metodi di guerra e la mentalità dell’alto comando

tedesco,con i maggiori esponenti del quale aveva avuto relazioni personali di lavoro;era anche

decorato della croce di ferro di prima classe.

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Probabilmente fu l’unico a non farsi illusioni circa l’esito finale della vicenda

A Cefalonia. avevano anche sede il comando della fanteria divisionale ( generale di brigata Edoardo

Gherzi) e quelli del 17° e 317° reggimento fanteria ( ten.col.Ernesto Cessari e col. Ezio Ricci) e del

33°artiglieria (col.Mario Romagnoli,che era anche comandante dell’artiglieria divisionale)

Il colonnello Luigi Lusignani comandava il 18°fanteria ed il presidio di Corfù.

Il Comando Marina di Argostoli,dipendente dal Comando Militare Marittimo della Grecia

Occidentale ( “ Marimorea”,in Patrasso) era retto dal capitano di fregata Mario Mastrangelo.

Il capitano i.g.s. Luigi Bernard comandava dalla metà di agosto il I battaglione mobilitato della

R.G.F. in Corfù.Anche il capitano Francesco La Rosa era giunto al comando della 4^ compagnia di

Cefalonia soltanto l’8 agosto,proveniente dalla Scuola Sottufficiali di Ostia.I due subalterni presenti

sull’isola,sottotenenti Pasquale Ciancarelli e Lelio Triolo,di 22 e 21 anni,compagni di corso( il 43°

“Val d’Astico”),avevano concluso il periodo d’applicazione a dicembre,ed erano giunti insieme a

Cefalonia il 7 gennaio 1943.

A Corfù la 1^ compagnia aveva entrambi i plotoni nel capoluogo,impegnati nei servizi di polizia

economica e di vigilanza del porto,della cui difesa era responsabile il comandante di battaglione; la

3^ compagnia aveva i plotoni nelle località costiere di Ipsos, Agros e Perivolis.

A Cefalonia la 4^ compagnia aveva il I plotone ad Argostoli,il II a Samos,il III a Porto Guiscardo;il

IV plotone era distaccato nell’isola di Zante. Tutti i plotoni erano articolati in distaccamenti lungo la

costa e nelle isole minori,con una forza minima pari ad una squadra ( dieci uomini circa),con

compiti quasi esclusivamente di polizia militare e marittima e di osservazione ed allarme per la

difesa costiera.

La forza dei reparti all’8 settembre 1943 non è nota con esattezza ( l’archivio del Museo Storico del

Corpo dispone del diario del reparto soltanto fino a tutto il 31 dicembre 1941)

Nel saggio del prof.Rochat già citato è riportato un prospetto della forza della divisione “Acqui” e

dei reparti aggregati al 15 novembre 1942,rinvenuto nell’archivio dell’Ufficio Storico dello

S.M.E.,nel quale al I battaglione della R.G.F.è attribuita una consistenza di 17 ufficiali e 658

sottufficiali,appuntati e finanzieri.Non vi è ragione di ritenere che dieci mesi dopo i dati fossero

variati in modo rilevante.

In agosto quasi metà dei quadri erano stati avvicendati. Oltre al comandante di battaglione ed al

cap. La Rosa,anche il comandante della compagnia di Zante ,cap.Ventriglia,l’aiutante maggiore

,tenente Benini e parecchi comandanti di plotone erano ai loro posti da pochi giorni.

.

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L’armistizio e le trattative con i tedeschi.

L’evoluzione negativa del conflitto all’inizio del 1943 provocò reazioni opposte nei vertici

dell’Asse. A Roma ci si preoccupò soprattutto della ricerca di una soluzione politica,e soltanto il 2

agosto,dopo il “colpo di stato “ che aveva eliminato il governo fascista,furono tentati i primi contatti

con gli anglo-americani,inficiati peraltro da un grave equivoco:da parte italiana si riteneva di poter

negoziare un armistizio,gli interlocutori erano disponibili soltanto ad intese tecniche,per concordare

le modalità della “resa incondizionata”,decisa dai “tre grandi” a Casablanca in gennaio.

Nel clima di diffidenza reciproca che ne derivò,la questione della sorte delle centinaia di migliaia di

militari stanziati in Balcania ed in Grecia non fu neppure affrontata, né furono studiate ipotesi

di difesa coordinata o di recupero Il Comando Supremo apparve del resto paralizzato,in quei giorni,

da un duplice errore di valutazione,riguardante le possibilità d’azione sia del futuro nemico

tedesco,di fronte al quale si rinunciò in partenza a tentativi di resistenza (anche dove,come a

Roma,il rapporto di forze era favorevole) sia degli anglo-americani,ritenuti a torto in grado di

risolvere con la loro strapotenza qualsiasi incognita dovesse esser posta dall’evoluzione degli

eventi.

A complicare definitivamente le cose si aggiunse l’ossessione per la segretezza,a causa della quale

le direttive in vista di un confronto con i tedeschi giunsero agli alti comandi periferici con tale

ritardo – in qualche caso non giunsero affatto -.da risultare prive di efficacia.

Ma non si può fare a meno di ricordare che nell’estate ’43 l’esercito italiano contava ben due

comandi di gruppo d’armate e sette comandi d’armata,ciascuno con un proprio stato maggiore e

propri organi informativi,e tutti si sciolsero o furono catturati nel giro di poche ore,senza assumere

alcuna iniziativa.

Non era lecito attendersi,d’altra parte,che il problema se lo ponessero gli anglo-americani,i quali

avevano pianificato dettagliatamente l’operazione anfibia principale.(Avalanche,lo sbarco a

Salerno) e quelle concorrenti in Calabria ed in Puglia, senza fare conto dell’atteggiamento

italiano.,e non furono disposti a modificare le decisioni prese,a favore di un concorso che venne

loro richiesto soltanto dopo che l’emergenza si fu manifestata,tanto più che Avalanche non andava

affatto bene ed si profilava il rischio di un fallimento.

Il collasso dell’alleato fu invece ritenuto come estremamente probabile dal vertice militare

tedesco,che passò all’organizzazione delle contromisure subito dopo la fine delle operazioni in

Nord Africa,ai primi di maggio .Fu costituito un apposito stato maggiore a Monaco di

Baviera,affidato al più prestigioso condottiero del momento,il maresciallo Rommel,il quale assunse

poi il comando di un complesso di forze,il Gruppo di Armate “B”,con il compito specifico del

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disarmo dell’esercito italiano e della presa di possesso del territorio a nord della congiungente Pisa-

Rimini,la futura “linea gotica”.

Misure analoghe furono prese nei territori d’occupazione ,e l’esecuzione fu affidata al comandante

superiore del sud-est,feldmaresciallo barone von Weichs,in Belgrado e al comandante del Gruppo di

Armate “E”,generale Loehr, in Salonicco .In Grecia,con il consenso del Comando Supremo

italiano,l’11^ armata fu trasformata in grande unità mista italo-tedesca,alle dipendenze del comando

Gruppo di Armate “E”,e divisioni tedesche vennero inserite nei corpi d’armata italiani ,circostanza

questa che si risolse nella neutralizzazione preventiva della nostra linea di comando e si rivelò

determinante al momento dell’armistizio.

In particolare,nella Grecia nord-occidentale fu costituito il XXII corpo d’armata da montagna

(gen.Hubert Lanz),con la 1^ divisione da montagna e la 104^ divisione cacciatori,formalmente

inquadrate una nel XXVI C.d’A. e l’altra nell’VIII C.d’A. italiani.

A Cefalonia fu inviato ai primi di agosto un gruppo tattico al comando del tenente colonnello Hans

Barge,costituito dal 966° reggimento fanteria da fortezza,rinforzato da due batterie semoventi e da

elementi di supporto,per un totale di circa 1800 uomini,che presero posizione nella penisola di

Lixuri,nella parte occidentale dell’isola.Una compagnia rinforzata ed una batteria semovente,con

elementi di supporto,al comando del tenente Fauth,furono distaccati ad Argostoli, il capoluogo,sede

anche del comando italiano.

Negli ultimi giorni di agosto,a Roma,anche il Comando Generale della Guardia di finanza ritenne

necessario emanare disposizioni da attuare nell’eventualità che una crisi delle comunicazioni

ponesse i comandi periferici nell’impossibilità di ricevere ordini. Il comandante generale Aldo

Aymonino,ottenuta l’approvazione esplicita del maresciallo Badoglio,diramò così il 28 agosto la

circolare 897/R.O.,con la quale si stabiliva che i reparti posti a disposizione dell’esercito avrebbero

conservato in ogni caso le dipendenze operative previste,ed avrebbero quindi eseguito gli ordini

conseguenti. I reparti addetti al servizio d’istituto dovevano rimanere a qualunque costo nelle sedi

loro assegnate,salvo ordini superiori;se per gli eventi bellici si fossero trovati ad immediato contatto

con il nemico avrebbero dovuto continuare a disimpegnare i loro compiti,compreso il concorso al

mantenimento dell’ordine e della sicurezza pubblica.

Quest’ultima disposizione trovava fondamento nell’articolo 56 della legge di guerra (R.D.8 luglio

1938,n.415) che consentiva alle forze di polizia di continuare ad assolvere i loro compiti d’istituto

anche in territorio occupato dal nemico, come previsto dalle convenzioni internazionali,ed aveva già

trovato applicazione in Africa Orientale.sotto l’occupazione britannica.Essa valeva per

l’organizzazione del Corpo nel territorio metropolitano,servì ad orientare le scelte dei finanzieri nei

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giorni immediatamente successivi all’armistizio e conseguì lo scopo di assicurare la sopravvivenza

dell’istituzione,che rimase integra mentre le strutture politiche e militari dello stato si dissolvevano.

Ma non modificò la situazione dei circa dodicimila finanzieri, la metà dell’organico del Corpo,che

l’8 settembre 1943 si trovavano fuori d’Italia,i quali non potevano che seguire la sorte dei reparti

dell’esercito cui erano aggregati.

L’intera organizzazione di comando italiana,in Patria ed all’estero,apprese la notizia dell’armistizio

dal discorso alla radio del maresciallo Badoglio,alle 19,45 di quel giorno,contemporaneamente alla

popolazione civile. Alle 0,20 del 9 settembre il Comando Supremo,resosi conto che il promemoria

contenente le direttive circa il contegno da tenere all’atto dell’armistizio non era stato ricevuto da

tutti i destinatari,ne riprodusse il testo in un messaggio radio,aggiungendo tuttavia l’ordine di “non

prendere l’iniziativa di atti ostili contro i tedeschi”. Alle 6,30 lo stesso Comando Supremo

comunicò agli Stati Maggiori di Forza Armata che stava lasciando Roma con il re ed il

governo,mentre lo Stato Maggiore dell’Esercito ordinò la rinuncia alla difesa della capitale ed il

concentramento nella zona di Tivoli del corpo d’armata motocorazzato che avrebbe dovuto

provvedervi..

“Superesercito” fu sciolto “temporaneamente” dal capo di SM gen.Roatta,mentre gli organi

corrispondenti della Marina e dell’Aeronautica continuarono a funzionare sotto la direzione dei

rispettivi sottocapi di SM.

In sintesi,il vertice interforze e quello della principale forza armata scomparvero fino al pomeriggio

del 10 settembre,quando furono riattivati a Brindisi.In tale arco di tempo l’intero organismo militare

italiano si disintegrò.

Ad Atene,il generale Vecchiarelli,comandante dell’11^ armata,tentò per tutta la notte di trovare una

soluzione all’alternativa postagli dal gen.Loehr,comandante del gruppo di armate “E”: respingere

l’armistizio e schierarsi con i tedeschi,oppure cedere le armi e concentrare le truppe in attesa di

disposizioni per il rimpatrio. Poi cedette,ed alle 9,50 del 9 settembre diramò gli ordini per la

consegna delle artiglierie e delle armi collettive ed il ritiro del personale dalle postazioni difensive.

A Cefalonia il gen.Gandin aveva ricevuto alle 21,30 l’ordine del comando di armata,che prescriveva

di non assumere iniziative,ma di reagire con la forza ad ogni atto di violenza armata.Il mattino

successivo aveva convocato il tenente colonnello Barge,comandante del gruppo tattico tedesco,che

si disse privo di ordini,ed insieme concordarono di tenersi in contatto per evitare incidenti.

L’intera giornata del 9 trascorse in attesa di notizie.

Nella notte precedente l’ammiraglio Lombardi,comandante di “Marimorea” a Patrasso,era riuscito a

trasmettere ai comandi dipendenti l’ordine di Supermarina di avviare verso l’Italia tutte le unità in

grado di prendere il mare,prima di essere raggiunto,il mattino successivo,da quello del comando di

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armata,che disponeva per la consegna ai tedeschi.Le unità della base di Argostoli,compresa la

motovedetta “Caron”,partirono quindi nella stessa notte sul 9, agli ordini del comandante in

2^,capitano di corvetta Delfino,ed a sera erano in salvo a Brindisi.

Più avventuroso il rimpatrio della seconda unità della Guardia di finanza,la “Spanedda”,in missione

tra Corfù e Leucade al comando del brigadiere Vincenzo Riso.Ricevuto da Marina Corfù l’ordine di

dirigere per l’Italia,il sottufficiale riuscì a rifornirsi di nafta vincendo la resistenza di un finanziere

di guardia ad un deposito di Leucade,ed il mattino del 10 puntò verso la costa pugliese,senza

tuttavia conoscere le rotte di sicurezza prescritte per l’attraversamento dei campi minati:Nel

pomeriggio,attardato anche dall’avaria di uno dei due motori,corse il rischio di essere affondato dal

la torpediniera “Sagittario”,di scorta alla corazzata “Giulio Cesare”in trasferimento da Trieste,dal

cui comandante ebbe il consiglio di dirigere per Taranto,per la probabilità che Brindisi fosse

occupata dai tedeschi.Il silenzio delle stazioni radio costiere diede intanto al brigadiere la

sensazione che qualcosa di estremamente grave stesse accadendo a terra. Dopo un’altra notte di

navigazione cieca,la “Spanedda”,ormai a corto di combustibile,entrò in Mar Grande a mezzogiorno

dell’11,per avere l’onore di essere abbordata da una lancia della Royal Navy con un picchetto al

comando di un ufficiale,il quale ingiunse al brigadiere Riso di tenersi pronto a partire per Malta.

A Cefalonia,intanto,il comando della “Acqui” aveva ricevuto soltanto alle 20 del 9 il

messaggio,partito da Atene alle 9,50,con il quale il generale Vecchiarelli ordinava la consegna delle

artiglierie e delle armi di reparto. Ne seguì un certo disorientamento,poiché l’ordine era

evidentemente in contrasto con l’orientamento espresso in precedenza dallo stesso comando di

armata,e coerente con il messaggio di Badoglio,secondo il quale i reparti avrebbero dovuto reagire

ad atti di violenza. .

Il mattino del 10 il tenente colonnello Barge si ripresentò,comunicando le disposizioni impartite dal

suo comando di corpo d’armata:consegna di tutte le armi,comprese quelle individuali,da farsi in

forma pubblica sulla piazza principale di Argostoli alle 10 del mattino successivo.L’ufficiale

tedesco lasciò tuttavia intravedere la possibilità di un’attenuazione delle condizioni,almeno per

quanto concerneva i tempi e le forme meno accettabili per la consegna delle armi.

L’opinione prevalente degli storici e dei memorialisti è orientata a ritenere che il generale

Gandin,proprio per le sue particolari esperienze di stato maggiore e conoscenze del mondo militare

tedesco,si fosse convinto che la sua divisione non poteva attendersi aiuto esterno e che,una volta

sopraffatto il piccolo contingente avversario già sull’isola,sarebbe stato difficile resistere all’offesa

aerea e ad un ritorno in forze.

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Quella scelta dal comando di armata si presentava quindi come una soluzione obbligata; il problema

era farla accettare ai propri uomini,ed eliminare gli aspetti di essa che palesemente contrastavano

con i principi dell’onore militare.

-

Il generale decise quindi di continuare a trattare ,per prender tempo,nella speranza che gli sviluppi

della situazione,rapidissimi ed imprevedibili in quei giorni,gli offrissero una via d’uscita.

Lo stato d’animo della guarnigione italiana andava intanto peggiorando progressivamente,mentre si

diffondeva la sensazione che il comandante della divisione intendesse consegnare i propri uomini ai

tedeschi,rinunciando in partenza ad una difesa che un esame superficiale dei rapporti di forza –

undicimila uomini contro 1800 – faceva ritenere possibile,almeno fino a quando gli anglo-

americani non si fossero decisi ad intervenire.

.

Alcuni giovani ufficiali,tra i quali due comandanti di batteria del 33°,il tenente Renzo Apollonio ed

il capitano Amos Pampaloni, si impegnarono a galvanizzare i soldati incitandoli alla resistenza,ed i

loro posti comando divennero meta di diecine di uomini,compresi carabinieri e finanzieri.

Apollonio prese anche contatto con i partigiani greci,i quali badarono bene a tenersi estranei al

conflitto italo-tedesco,preoccupandosi piuttosto di raccogliere quante armi e munizioni fosse

possibile.

La tensione aumentò quando si apprese che i tedeschi avevano disarmato ed allontanato i

distaccamenti dei Carabinieri e della Guardia di finanza nella parte nord-occidentale dell’isola,sotto

il loro controllo.

Il mattino dell’11 settembre il tenente colonnello Barge comunicò che il comando germanico

acconsentiva ad un temperamento delle modalità di disarmo,ma chiedeva che la divisione si

concentrasse in una piana al centro dell’isola e cedesse le postazioni della difesa costiera. Veniva

poi posta agli Italiani una triplice alternativa:schierarsi con i vecchi alleati,combattere contro di

loro,cedere le armi; la risposta doveva esser data entro le 19.

Gandin compì a quel punto un gesto che parve insolito,la convocazione dei sette cappellani militari

presenti sull’isola,i quali,come era logico attendersi,si espressero a favore della resa. Con ogni

probabilità non si trattò di una richiesta ,certamente discutibile,di parere circa le decisioni da

prendere,ma di un sondaggio doveroso sullo stato d’animo dei soldati,al quale conferì rilevanza il

fatto che le prime testimonianze sugli avvenimenti di Cefalonia furono dovute a due cappellani,don

Romualdo Formato,del 33° artiglieria,e don Luigi Ghilardini,del 37° ospedale da campo.

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Alle 18 il generale chiamò a rapporto i comandanti di corpo,i quali si espressero tutti a favore

dell’accettazione delle condizioni di disarmo ad eccezione del colonnello Romagnoli,comandante

del 33° artiglieria, e del capitano di fregata Mastrangelo.

Nel campo tedesco,intanto,i comandi operativi erano pressati dalle sollecitazioni

dell’OberKommandoWehrmacht (OKW),il comando supremo,che intendeva concludere

l’operazione di disarmo dell’ex alleato nel più breve tempo possibile,per prevenire quella che era

considerata la probabile mossa successiva da parte anglo-americana,un’iniziativa in Balcania e nel

Mediterraneo orientale,per trarre profitto dal vuoto di potenza determinato dal collasso italiano. In

questo quadro,come si è detto,le Isole Joniche assumevano un ruolo importante,e la loro

occupazione preventiva costituiva un’esigenza al massimo grado di priorità.

Nel giro di poche settimane,poi,l’OKW si rese conto che l’avversario non aveva né l’intenzione né

la possibilità di aprire un nuovo fronte,e che il possesso da parte degli anglo-americani della parte

meridionale della penisola italiana faceva perdere alle Isole gran parte della loro importanza

strategica,tanto da far ritenere sufficienti due battaglioni per presidiarle fino al definitivo ritiro della

Wehrmacht dalla Grecia,nell’autunno 1944.

Quest’ultima valutazione tuttavia non fu immediata,ed in settembre il possesso di Cefalonia e di

Corfù appariva determinante. .

Tutti i comandanti dipendenti dal Gruppo di Armate “E” erano stati raggiunti dall’ordine impartito

dall’OKW il 10 settembre,secondo il quale”laddove le truppe italiane facciano ancora

resistenza,occorre dar loro un ultimatum la cui scadenza sia estremamente ravvicinata;in esso va

fatto presente che i comandanti responsabili della resistenza verranno fucilati come franchi tiratori

se essi non daranno ai loro subordinati,entro il termine stabilito,l’ordine di consegnare le armi”. E

l’ordine era stato ribadito nel pomeriggio dell’11 dal responsabile operativo del comando supremo

tedesco,generale Jodl,il quale aveva disposto che gli italiani venissero informati con manifestini

lanciati dagli aerei che i loro ufficiali sarebbero stati fucilati se non si fossero dichiarati subito

disposti a consegnare le armi.

L’operazione di disarmo non sembrava tuttavia particolarmente difficile,dopo l’ordine impartito dal

comandante dell’11^ armata italiana,e da Cefalonia il tenente colonnello Barge continuava ad

inviare comunicazioni tranquillizzanti.

L’ufficiale tedesco fu anche disposto ad acconsentire,la sera dell’11, ad una nuova richiesta di

dilazione fattagli da Gandin dopo il rapporto tenuto ai comandanti di corpo;fu anche convenuto che

le due parti si sarebbero astenute da spostamenti di truppe e non vi sarebbero stati arrivi di rinforzi

fino alla conclusione delle trattative;quale segno di buona volontà,gli italiani avrebbero ritirato il III

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battaglione del 317° fanteria dal passo di Kardakata,posizione chiave per il controllo delle

comunicazioni con la parte occidentale dell’isola,occupata dal gruppo tattico tedesco

Anche quest’ ultima misura fu interpretata da una parte del presidio come un segno di cedimento.

L’auto del generale venne attorniata da militari eccitati,e contro di essa venne lanciata una bomba a

mano. Un gruppo di giovani ufficiali,tra i quali Apollonio e Pampaloni, si mise a rapporto dal

comandante di divisione e gli espresse in modo alquanto concitato l’intendimento di opporsi al

disarmo.

La svolta nella crisi si verificò lunedì 13 settembre.

Alle 6 del mattino le vedette italiane avvistarono due motozattere tedesche in avvicinamento al

porto di Argostoli,apparentemente cariche di truppe e di armi.Il fatto venne senz’altro interpretato

come una rottura delle trattative da parte germanica e,dopo una rapida consultazione telefonica tra i

comandanti,tre batterie del 33° artiglieria aprirono il fuoco,presto seguite per imitazione da quelle

della Marina. Prima che il comando di divisione riuscisse a far cessare l’azione,una delle

motozattere fu affondata e l’altra danneggiata,e si contarono da parte tedesca cinque morti ed otto

feriti. Secondo le fonti germaniche,le due imbarcazioni trasportavano viveri e munizioni per il

normale rifornimento del gruppo tattico già sull’isola.

Poco dopo,ad Argostoli ammarò un idrovolante con a bordo il tenente colonnello Busch della

Luftwaffe proveniente da Atene ed accompagnato da un capitano dell’Aeronautica italiana,il quale

si recò a conferire con il generale Gandin. Sul colloquio non si hanno testimonianze da parte

italiana ( gli ufficiali presenti furono tutti fucilati dopo la resa ),mentre dalla documentazione

tedesca risulta che l’aereo era stato inviato a Cefalonia per prelevare il generale ed accompagnarlo a

Vienna,dove avrebbe dovuto incontrare Mussolini,liberato il giorno prima dal Gran Sasso, ed

assumere la carica di capo di SM dell’esercito della Repubblica Sociale.

Gandin rifiutò ma – sempre che la versione sia esatta,e non pare vi sia motivo di dubitarne – è

probabile che questo segno di attenzione da parte tedesca abbia rafforzato la sua fiducia nella

possibilità di trovare una via d’uscita grazie al proprio prestigio personale.

Alle 13,30 ,sempre per via aerea,raggiunse l’isola il generale Lanz,comandante del XXII corpo

d’armata da montagna,informato dell’incidente avvenuto all’alba. Dopo un colloquio

telefonico,inviò al comandante della “Acqui” una lettera con la quale si intimava la consegna

immediata delle armi,e si qualificava l’apertura del fuoco contro le motozattere “un aperto ed

evidente atto di ostilità”.

Lanz disse anche al tenente colonnello Barge di non essere affatto soddisfatto del modo con cui egli

stava conducendo le trattative con gli italiani,e minacciò di sollevarlo dal comando se non fosse

riuscito ad ottenere il disarmo entro le 12 del giorno successivo. Rientrato in serata al suo quartier

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generale di Gianina,il comandante del XXII corpo comunicò al comando del Gruppo di Armate di

Salonicco che la situazione a Cefalonia avrebbe ormai potuto essere risolta soltanto con la forza,e

chiese un adeguato concorso aereo e navale.

Nel pomeriggio del 13 settembre la situazione si chiarì anche da parte italiana.

Mentre al comando della “Acqui” si preparavano gli ordini per il concentramento delle truppe nei

porti di Samos e di Poros,sulla costa orientale dell’isola, in preparazione dell’imbarco per la

terraferma,giunse finalmente la voce del Comando Supremo di Brindisi,con un messaggio partito

alle 2215 dell’11,captato dalla stazione radio della Marina di Corfù e ritrasmesso ad Argostoli:

“N:1023/CS – Riferimento quanto comunicato circa situazione isola maggiore CAPRA dovete

considerare le truppe tedesche come nemiche et regolarvi in conseguenza “.

Un secondo messaggio,giunto poco dopo,precisava :”N.1029/CS – Comunicate at Generale Gandin

che deve resistere con le armi at intimazione tedesca di disarmo at Cefalonia,Corfù et altre isole”

A questo punto,non si poneva più al comandante italiano un problema di interpretazione delle

direttive ,né gli rimanevano margini di libertà d’azione per trattare condizioni dignitose per il

rimpatrio delle sue truppe.

L’ordine impartito direttamente dal Comando Supremo evidentemente annullava quello emanato il

mattino del 9 dal comando dell’11^ armata,e non consentiva alternative alla resistenza con le armi.

Il mattino successivo alle 11, al tenente.Fauth,che comandava la compagnia tedesca distaccata ad

Argostoli ,fu consegnata la seguente lettera:

“Per ordine del Comando Supremo italiano e per volontà degli ufficiali e dei soldati,la Divisione

“Acqui”non cede le armi:Il Comando superiore tedesco,sulla base di questa decisione,è pregato di

presentare una risposta definitiva entro le ore 9 di domani 15 settembre”

Nel pomeriggio del 14 il capo di SM della divisione,tenente colonnello Fioretti, ebbe ancora un

lungo colloquio con Barge,naturalmente senza esito.

Nella notte precedente,d’altra parte,il comandante tedesco aveva fatto occupare il passo di

Kardakata,ed aveva avvertito il tenente Fauth di tenersi pronto a prendere possesso dell’abitato e del

porto di Argostoli.

Anche i battaglioni della “Acqui” assunsero le dislocazioni operative.

I combattimenti.

Il concetto d’azione del comandante della divisione italiana,per quanto è stato possibile

ricostruire,aveva per obiettivo immediato la rioccupazione del passo di Kardakata,quale premessa

dell’attacco al grosso nemico,dislocato nella penisola di Lixuri. E’ probabile che il ristabilimento

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delle comunicazioni radio con Brindisi desse al generale Gandin ragionevoli prospettive di ricevere

rinforzi,in modo da affrontare il confronto in condizioni favorevoli.

Occorreva contemporaneamente eliminare il gruppo tattico minore presente presso Argostoli.

La dinamica dei combattimenti,svoltisi nell’isola tra il 15 ed il 22 settembre,può essere ricostruita

schematicamente nei seguenti termini.

.L’iniziativa tedesca si manifestò innanzitutto con un poderoso attacco aereo,condotto da oltre un

centinaio di bombardieri d’assalto Ju 87 ed Ju 88 Stukas che si avvicendarono giornalmente

sull’isola a partire dalle 14 del 15 settembre. La Luftwaffe eseguì anche missioni di

aviorifornimento a favore delle truppe dislocate nella penisola di Lixuri ed assicurò un servizio

continuo di esplorazione nelle acque dell’arcipelago,per prevenire minacce dal mare.

Il martellamento,condotto in assenza di contrasto,ebbe effetti deleteri sull’efficienza delle truppe

italiane.

Nello stesso pomeriggio del 15 il 909° ed il 910° battaglione di fanteria da fortezza investirono sulla

base di partenza il II battaglione del 17° fanteria “Acqui”,che si disponeva ad attaccare

Kardakata.Furono respinti e contrattaccati,ma il passo rimase nelle mani dei tedeschi.

Per giustificare l’insuccesso con il comandante del Gruppo di Armate “E”,il generale Lanz fece

presente che i due battaglioni da fortezza erano costituiti da delinquenti comuni.

In serata il gruppo tattico del tenente Fauth,accerchiato alla base della penisola di Argostoli dal

III/17° fanteria,fu costretto ad arrendersi;l’ufficiale e 470 uomini furono concentrati in un campo

allestito presso Trojanata,ed ovviamente trattati secondo le leggi di guerra.

Nella notte sul 16 iniziò lo sbarco dei rinforzi tedeschi nella baia di Akrotiri,all’estremità

meridionale della penisola di Lixuri. Raggiunsero così Cefalonia tre battaglioni di cacciatori alpini

ed un gruppo di artiglieria da montagna;un altro battaglione ed un altro gruppo oltre ad elementi di

supporto seguirono nei giorni successivi. Tutti i reparti di manovra furono posti agli ordini del

maggiore Harald von Hirschfeld,comandante del 98° reggimento cacciatori alpini,esautorando

praticamente il tenente colonnello Barge.

Il 17 ed il 18 settembre gli Italiani continuarono ad attaccare senza risultati sostanziali le posizioni

di Kardakata,mentre gli avversari effettuavano un’ampia manovra aggirante nella parte

settentrionale dell’isola,,liberando i prigionieri del gruppo Fauth ed investendo Argostoli da nord.

Il generale Gandin insisteva nel richiedere rinforzi, consapevole dell’impossibilità di persistere

nell’azione per più di qualche giorno,mentre il nemico si rafforzava continuamente.Fu anche inviato

in Puglia l’unico mezzo navale rimasto sull’isola,un motoscafo di soccorso con le insegne della

Croce Rossa,con a bordo un ufficiale di marina,il quale tuttavia giunse a Brindisi quando ormai era

troppo tardi.

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La risposta del Comando Supremo giunse il 19 in termini che facevano ritenere inutili eventuali

repliche:”Impossibilità invio aiuti richiesti infliggete nemico più gravi perdite possibili alt Ogni

vostro sacrificio sarà ricompensato alt Generale Ambrosio”

L’unico aiuto concreto,anche se indiretto,si ebbe il giorno 19,quando una formazione americana

bombardò l’aeroporto di Patrasso,imponendo una breve sosta agli attacchi aerei sull’isola. Anche

l’Aeronautica italiana,in piena crisi di riorganizzazione,effettuò missioni di bombardamento e

mitragliamento sulla penisola di Lixuri e nel settore di Kardakata, con risultati modesti dato il

piccolo numero di velivoli impiegati..

Agli effetti dell’offesa aerea si sommavano,intanto,quelli dell’azione psicologica condotta dal

comando germanico con il lancio di manifestini,nei quali si diceva esplicitamente che chi avesse

resistito “non avrebbe più potuto tornare in Patria”. E la minaccia trovava tragica conferma sul

campo:i tedeschi uccidevano immediatamente i prigionieri catturati,compresi i feriti.

Il comando della “Acqui” si dispose a sferrare,il mattino del 21 settembre,un ultimo attacco al passo

di Kardakata,impiegando quanto restava del I/17° e del II e III/ 317° fanteria,ma il combattimento si

risolse in una difesa ad oltranza delle posizioni di partenza,ed alla fine della giornata i reparti furono

sopraffatti.

La lotta proseguì ancora il mattino del 22,mentre i Tedeschi entravano in Argostoli e la loro

manovra si concludeva con un attacco concentrico ai resti della divisione.

Alle 11 il generale Gandin inviò due ufficiali al comando nemico,comunicando la resa.

La strage

L’epilogo tragico della resistenza della divisione “Acqui” fu conseguenza diretta di una sequenza

di ordini impartiti dall’OKW,per decisione assunta direttamente da Hitler subito dopo aver appreso

la notizia dell’armistizio italiano,ordini trasmessi dai comandi del Gruppo di Armate “E” e del XXII

corpo d’armata da montagna ai reparti operanti della 1^ divisione alpina,ed applicati puntualmente

senza la minima obiezione,malgrado ne fosse evidente il carattere criminale.

Il 10 settembre,come si è visto, il comando supremo della Wehrmacht, aveva disposto che gli

ufficiali responsabili dei reparti che avessero opposto resistenza fossero passati per le armi quali

“franchi tiratori”,mentre i sottufficiali ed i soldati avrebbero dovuto essere inviati sul fronte

orientale per essere impiegati nel servizio del lavoro.

L’ordine fu ribadito nei giorni successivi ,ed applicato contro comandanti di unità e di reparti ed

ufficiali di stato maggiore in Dalmazia,in Albania ed in Grecia.

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Per Cefalonia,l’OKW ritenne necessario andare ben oltre le disposizioni iniziali,poiché stabilì il 18

settembre ,secondo quanto risulta dal diario storico del XXII corpo d’armata da montagna, che

nell’isola “ a causa del tradimento della guarnigione,non devono esser fatti prigionieri di

nazionalità italiana”.

I militari catturati dovevano quindi essere uccisi tutti,senza distinzione di grado.

L’ordine ebbe l’effetto di fare esplodere ,nella fase finale dei combattimenti,una sorta di follia

omicida collettiva tra i cacciatori alpini della 1^ divisione, alla quale pare non sia stata estranea una

componente razzista, ed addirittura l’affioramento di vecchi sedimenti della propaganda del primo

conflitto mondiale ( il “ tradimento” dell’alleanza).

La pubblicazione dell’ufficio storico dello Stato Maggiore Esercito (“ Le operazioni delle unità

italiane nel settembre – ottobre 1943” –Roma 1975) ricorda una serie di episodi: 900 tra fanti

,artiglieri,genieri e finanzieri ammassati e falciati con le mitragliatrici presso Trojanata,960 uomini

del 317° fanteria uccisi a Phrankata ed a Divarata,altri 700 a Parsa,180 artiglieri uccisi a

Dilinata,per citare soltanto i casi in cui il numero delle vittime fu più elevato.Caddero,in queste

circostanze,il comandante della fanteria divisionale,generale Gherzi,con i suoi ufficiali,ed il

colonnello Cessari con l’intero comando del 17° fanteria,ad eccezione dell’aiutante maggiore,che

preferì suicidarsi.

Sempre secondo la pubblicazione ufficiale dello S.M.E.,che riporta dati desunti dai diari storici del

XXII corpo d’armata da montagna e dell’O.K.W. – dati quindi di fonte tedesca - caddero in

combattimento 65 ufficiali e 1250 sottufficiali e soldati italiani ; altri 155 ufficiali e 4750

sottufficiali e soldati “ mano a mano che venivano fatti prigionieri,erano stati trattati secondo gli

ordini del Fuhrer”,quindi trucidati subito dopo la cattura.

Nel pomeriggio del 22 settembre i superstiti della guarnigione furono concentrati nella caserma

“Mussolini” di Argostoli,dove gli ufficiali furono separati dalla truppa,e condotti in un altro

edificio.

In quelle stesse ore fu riunita una corte marziale per giudicare il tenente Fauth,reo di essersi arreso

agli italiani nella fase iniziale dello scontro.Fu condannato a cinque anni di carcere ed alla

degradazione.

Il mattino successivo giunse a Cefalonia il generale Lanz,il quale ritenne opportuno chiedere al

comando del gruppo di armate cosa si dovesse fare dei circa cinquemila superstiti del presidio

italiano,ora che la lotta era ormai cessata. La risposta fu che agli ufficiali doveva senz’altro essere

applicato l’”ordine del Fuhrer”,mentre per gli altri il generale aveva facoltà di adottare le misure

ritenute più adeguate alle circostanze. Potevano essere esclusi dalla fucilazione soltanto gli ufficiali

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“fascisti,sud tirolesi di lingua tedesca,medici e cappellani”.

Fu ucciso per primo il generale Gandin,il mattino del 24.Seguirono a gruppi di quattro od otto,tra le

8 e le 12,30,136 ufficiali,fucilati presso un piccolo edificio,poi noto come “ casetta rossa”,

Tra questi il capitano La Rosa ed il sottotenente Ciancarelli della Guardia di finanza,citati

esplicitamente nella sua testimonianza dal cappellano don Romualdo Formato,presente sul luogo

dell’eccidio per dare ai condannati i conforti religiosi.

Sfuggirono alla fucilazione 37 ufficiali,di cui 12 altoatesini, ( in realtà furono sottratti alla

esecuzione anche ufficiali originari del Trentino e della Venezia Giulia),e gli altri perché

medici,cappellani o ricoverati nel 37° ospedale da campo.

Ma per questi ultimi la tragedia non era ancora finita.

Nella notte sul 25 due ufficiali fuggirono dall’ospedale,determinando l’immediata rappresaglia:

sette ricoverati furono prelevati e fucilati il mattino successivo. Tra questi il terzo ufficiale della

Guardia di finanza presente a Cefalonia,sottotenente Lelio Triolo,della cui fine fu testimone il

cappellano dell’ospedale,don Luigi Ghilardini.

La sfortuna sembrò ora accanirsi contro quanto restava della “Acqui” e dei reparti ad essa aggregati.

Il 13 ottobre tre piroscafi ,che trasportavano in terraferma i sottufficiali ed i soldati destinati ai

campi d’internamento,incapparono in un campo minato appena usciti dal porto di Argostoli,ed il

loro affondamento provocò la morte di altri tremila uomini.

Rimasero sull’isola un migliaio di militari,parte nascosti dalla popolazione civile,parte aggregati ai

partigiani in una formazione costituita dal tenente Apollonio,scampato alla strage come il capitano

Pampaloni,e circa trecento adibiti dai tedeschi a lavori di fortificazione.

Non si hanno notizie particolari circa i finanzieri della 4^ compagnia del I battaglione,presenti a

Cefalonia,ad eccezione di quanto già detto a proposito della fine degli ufficiali,testimoniata dai

cappellani che li assistettero.

Nel 1945,quando le notizie sulla strage cominciarono a diffondersi,soprattutto da parte di internati

che le avevano apprese nei campi di concentramento, il Comando Generale del Corpo dispose una

ricerca dei superstiti per tentare una ricostruzione degli avvenimenti.Risultano individuati due

sottufficiali ( brigadieri Mario Fusco e Gennaro Iannaccone) le relazioni dei quali non sono state

rinvenute,ma furono sicuramente consultate dal comandante di battaglione ,cap.Bernard .

I finanzieri,la cui dislocazione nell’isola era fortemente frammentata,parteciparono ai

combattimenti con i reparti dell’esercito cui erano aggregati.

Dalla relazione compilata dal comandante di battaglione,riguardante quasi esclusivamente gli

avvenimenti a Corfù,risulta che al capitano La Rosa fu affidata la responsabilità del mantenimento

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dell’ordine pubblico in Argostoli,probabilmente nei giorni in cui,dopo l’inizio dei combattimenti,i

comandi dell’esercito si trasferirono fuori città.

Anche il numero dei caduti non è del tutto certo,per la mancanza di dati ufficiali.La ricerca

effettuata a suo tempo dal Comando Generale permise di individuare i nominativi di quattro

ufficiali ( tra cui i tre già citati),un appuntato e ventidue finanzieri deceduti a Cefalonia ed a Corfù

nel settembre 1943 Altri due sottufficiali e ventitre finanzieri risultano deceduti in prigionia nei

mesi successivi.

Gli avvenimenti a Corfù.

Anche la vicenda del presidio di Corfù ebbe un epilogo tragico,sia pure in proporzioni meno

imponenti di quelle che si registrarono a Cefalonia.

I difensori ,grazie al ripristino abbastanza rapido del collegamento radio con il Comando

Supremo,tramite il posto comando tattico della 7^ armata in Francavilla Fontana,presso Bari,

ebbero la possibilità di ricevere istruzioni e,soprattutto, un certo sostegno psicologico,il che valse ad

evitare in parte le incertezze e le tensioni che caratterizzarono la situazione a Cefalonia.

Fu anche possibile ricevere un modesto concorso aereo e navale dalle forze italiane dislocate in

Puglia,nei limiti consentiti dallo stato di crisi dell’organizzazione militare in quei primi giorni di

vita del “ regno del Sud”e dai vincoli posti dai nuovi alleati. L’isola fu anche raggiunta da due

ufficiali di collegamento inglesi inviati dal comando in capo del Medio Oriente,troppo

tardi,tuttavia,perché potessero rendersi utili.

La guarnigione italiana dell’isola contava circa quattromila uomini: il 18° fanteria “Acqui”,un

gruppo del 33° artiglieria della stessa divisione ed un gruppo di artiglieria di corpo

d’armata,elementi del genio e dei servizi,una compagnia di Carabinieri e due della Guardia di

finanza. A Corfù avevano anche sede un Comando Marina con una squadriglia dragaggio,i comandi

del VII battaglione CC.RR. e del I battaglione R.G.F. ed un nucleo della R.Aeronautica per la

gestione del piccolo aeroporto.

Nel capoluogo si trovavano anche circa 450 militari tedeschi,in gran parte specializzati della marina

e dell’aeronautica.

Comandante del presidio era il colonnello Lusignani,del 18° fanteria,il quale dipendeva

direttamente dal comando del XXVI corpo d’armata di Gianina,e non dal proprio comando di

divisione in Cefalonia. Il colonnello aveva anche assunto,alla fine di agosto,le funzioni del capo

ufficio affari civili Parini,il quale si trovava però ancora sull’isola.

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Anche a Corfù giunse,la sera dell’8 settembre,l’ordine del comando dell’11^ armata – non assumere

iniziative,ma respingere eventuali attacchi – seguito,il giorno dopo,da quello riguardante la cessione

ai tedeschi delle artiglierie e delle armi di reparto.

In quello stesso mattino del 9 settembre il capitano Bernard,dopo aver conferito con il colonnello

Lusignani,inviò ai comandi di compagnia di Leucade,Cefalonia e Zante l’ordine di ritirare i

distaccamenti dalle isole minori,concentrandone il personale presso i comandi di plotone,e di

attenersi per il resto alle disposizioni dei comandi di presidio. Fu l’ultimo ordine che il comando di

battaglione riuscì ad impartire ai reparti fuori dell’isola,perché i collegamenti telefonici si

interruppero. Il Comando Marina fece partire per l’Italia le unità in grado di raggiungere i porti

pugliesi,ed a Corfù rimasero la motobarca “MB 30” e la motolancia “ML 27” della Guardia di

finanza,oltre a due piccoli piroscafi mercantili ( “Tergeste” e “Richard”) ed alcuni velieri requisiti.

L’11 settembre il capo ufficio affari civili,Parini,lasciò l’isola sul suo panfilo,per raggiungere

l’Italia settentrionale.

Nel pomeriggio di quello stesso giorno il comando di presidio ricevette un radiomessaggio del

comandante della 7^ armata”Opponetevi con la forza at qualsiasi tentativo di sbarco reparti

germanici”seguito,nella notte successiva,dall’ordine di catturare i militari tedeschi,considerandoli

prigionieri di guerra.

Il colonnello Lusignani non ebbe quindi incertezze nel respingere le proposte di disarmo formulate

dai parlamentari inviati dal comando del XXII corpo d’armata da montagna germanico l’11 ed il 12

settembre.

Anche a Corfù il 13 settembre fu una giornata cruciale.

Alle 6,45 tre aerei tedeschi lanciarono bombe sul capoluogo e su alcune località costiere,senza

provocare gravi danni. L’atto di ostilità indusse il colonnello Lusignani ad ordinare senz’altro il

disarmo e la cattura dei militari tedeschi,il che fu fatto senza difficoltà. I finanzieri della 1^

compagnia eseguirono l’ordine nei confronti dei marinai presenti nel porto ,poi scortati nella

Fortezza Nuova,adibita a campo di concentramento.

Nella mattinata giunse a Corfù il maggiore von Hirschfeld,per un ultimo tentativo di ottenere il

disarmo del presidio senza contrasto. L’ufficiale tedesco era accompagnato dal capo di SM del

XXVI corpo d’armata italiano,latore di una lettera con la quale il comandante della grande

unità,generale Della Bona,” consigliava” al proprio subordinato di attenersi all’ordine impartito dal

comando di armata ( e quindi di cedere le armi).

Lusignani rifiutò,ed i Tedeschi procedettero immediatamente ad un primo tentativo di

sbarco,respinto dalle batterie della difesa costiera. L’azione fu osservata dalla motobarca MB 30

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(Brigadiere m. Claudio Balzano) nella rada di Benitza,in contatto con una postazione occupata da

finanzieri,a loro volta collegati con una vicina batteria.

La guarnigione fu ulteriormente rinfrancata dall’arrivo delle torpediniere “Stocco” e

“Sirtori”,inviate da Brindisi per concorrere alla difesa.

Nel corso della giornata giunsero a Corfù,con mezzi di fortuna,circa 3500 militari provenienti dalla

costa albanese di Saranda,in parte disarmati e privi di inquadramento,l’afflusso dei quali portò ad un

rafforzamento della guarnigione,ma anche ad un peggioramento della situazione logistica.

Tra i nuovi giunti,un centinaio di finanzieri dei reparti dell’Albania meridionale,raccolti dal

comandante della tenenza di Saranda,sottotenente Scalabrini, e trasferiti sull’isola con un

motoveliero,sul quale presero posto anche alcuni carabinieri ed i direttori della Banca d’Albania e

della dogana con le rispettive famiglie.La motolancia “ML 66”,già di base nel porto albanese, dopo

aver partecipato al traghettamento fu fatta proseguire per l’Italia.

A partire dalle 20 e per buona parte della notte, Corfù fu sottoposta ad un violento bombardamento

aereo,che provocò vasti incendi nell’abitato,dove numerose erano le costruzioni in legno.

Furono colpite sia la sede del comando di battaglione che la caserma della 3^ compagnia della

Guardia di finanza,ed i militari si prodigarono per tutta la notte per prestare soccorso alla

popolazione civile. Il capitano Cultrona,dopo il primo attacco dei bombardieri,volle raggiungere i

suoi uomini che presidiavano il deposito carburanti nell’area portuale,e rimase ucciso da una

successiva azione.

Sempre in porto, la torpediniera “Sirtori” riportò gravi danni,tanto che fu necessario portarla ad

incagliarsi. Alla “Stocco” fu ordinato di uscire per incrociare lungo la costa meridionale dell’isola

fino al limite dell’autonomia,e rientrare poi a Brindisi.

Nei giorni successivi i tedeschi si limitarono a proseguire il martellamento aereo,essendo la 1^

divisione alpina,cui era affidata la conquista dell’isola,impegnata nell’azione contro Cefalonia.

I finanzieri presidiavano le postazioni loro assegnate per la difesa costiera,e concorrevano con i

carabinieri nel mantenimento dell’ordine pubblico,compito che cominciava a presentare qualche

difficoltà per l’ afflusso negli abitati di partigiani greci palesemente armati,i quali dichiaravano

peraltro di voler collaborare alla difesa.

Ai militari del Corpo fu tra l’altro affidato il presidio del palazzo del governo,dove il console

Baratieri continuava a gestire l’ufficio affari civili dopo la partenza di Parini.

Il mattino del 14 al capitano Bernard fu affidato il comando della Fortezza Nuova di Corfù,dove

erano raccolti alcune centinaia di marinai e di soldati giunti dall’Albania,oltre ai prigionieri tedeschi

ed a tremila civili rimasti privi di abitazione in seguito ai bombardamenti.

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Il 23 l’ufficiale fu incaricato di organizzare un’ autocolonna per trasferire i prigionieri – 12 ufficiali

tra cui un tenente colonnello e 414 sottufficiali e militari di truppa – al porticciolo di

Paleocastrizza,dal quale furono trasportati in Puglia a bordo di due motovelieri,con una scorta di

dieci carabinieri ed altrettanti finanzieri ( nella documentazione tedesca,l’operazione è attribuita a

“navi inglesi”,era evidentemente difficile ammettere che soldati germanici si fossero lasciati

custodire da militari italiani).

Conclusa l’azione contro Cefalonia,il comando del XXII corpo d’armata da montagna diede il via a

quella che il generale Lanz denominò “Operazione Verrat,” “Tradimento”.

Nella notte sul 24 settembre,un gruppo tattico del 99° reggimento cacciatori alpini prese terra nella

laguna di Corissia,sulla costa occidentale di Corfù,in corrispondenza del punto nel quale l’isola

presenta una larghezza minima,appena quattro chilometri,in modo da tagliare fuori le posizioni

italiane nel settore meridionale,che furono rapidamente eliminate.

Tra il 24 ed il 25 sbarcarono a Corfù altri due gruppi tattici della 1^ divisione alpina,i quali

procedettero sistematicamente all’occupazione dell’isola,sopraffacendo i caposaldi della difesa.

Per contrastare gli sbarchi fu nuovamente inviata da Brindisi la torpediniera “Stocco”,che fu tuttavia

affondata dai bombardieri tedeschi. Anche la Regia Aeronautica eseguì missioni di mitragliamento

e bombardamento.

La resistenza italiana cessò nel corso del 25.Il colonnello Lusignani fu fucilato la mattina del 27

e la stessa sorte subì il colonnello Bettini,comandante del 49° fanteria “Parma”,giunto dall’Albania.

In tutto furono passati per le armi ventotto ufficiali,quasi tutti appartenenti alle unità di fanteria ed

artiglieria.

.Non risulta si siano verificati casi di esecuzioni collettive nei confronti di sottufficiali e di militari

di truppa,benché la notevole sproporzione nelle perdite subite dalle due parti – 640 morti tra i

difensori,sette tra gli attaccanti – sembri autorizzare qualche dubbio in proposito,anche se occorre

tener conto che il numero dei caduti italiani comprende le vittime dell’offesa aerea,la quale giocò un

ruolo determinante nella vicenda.

L’ordine impartito il 26 settembre dal generale Lanz al comando della 1^ divisione alpina era del

resto abbastanza chiaro:”Gli ufficiali ai reparti che hanno combattuto contro le unità tedesche sono

da fucilare secondo la legge marziale ”e proseguiva non risparmiando neppure i dettagli macabri:

“Effettuazione della fucilazione in forma regolamentare fuori della città.Distaccamento di 8 uomini

sotto il comando di un ufficiale,elmetto,nessuna apertura di fosse,ufficiali di stato maggiore

singolarmente,gli altri ufficiali per due o per tre…….Nessuna sepoltura sull’isola,bensì portarsi al

largo sul mare ed affondare i corpi in punti diversi dopo averli zavorrati.Lista degli ufficiali e

piastrine di riconoscimento allo S.M. Remold ( comandante del 99° reggimento cacciatori alpini)”.

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A Corfù,comunque,per ragioni che neppure la documentazione tedesca ha consentito di

precisare,l’”Ordine del Fuhrer” ebbe un’applicazione meno drastica di quella ricevuta a

Cefalonia,ad opera degli stessi ufficiali,comandanti del Gruppo di Armate “E”,del XXII corpo

d’armata da montagna e della 1^ divisione alpina.

I prigionieri italiani furono concentrati nella Fortezza Nuova,gli ufficiali,e nell’aeroporto,i

sottufficiali ed i militari di truppa,per essere avviati nella prima metà di ottobre ai campi di

internamento in Germania,in Polonia e nella Bielorussia.

La stessa sorte subirono il capitano Bernard ed i suoi finanzieri.

La relativa prossimità della costa italiana consentì ad un certo numero di superstiti di mettersi in

salvo dopo la fine dei combattimenti.

Fu il caso del brigadiere Calogero Condemi,comandante del distaccamento di Cassiopì,all’estremità

settentrionale dell’isola,il quale la sera del 28 settembre,prima di essere raggiunto dai Tedeschi,si

impadronì di una barca a vela e,con dodici finanzieri e due soldati sbandati salpò per l’Italia. Sostò

il giorno successivo nell’isolotto di Marlera,dove trovò il comandante della torpediniera “Stocco”

con un sottotenente di vascello e dieci marinai,tutti feriti,raccolti dalla popolazione locale dopo

l’affondamento dell’unità. Presi a bordo i naufraghi,il sottufficiale raggiunse finalmente Brindisi la

mattina del 30 settembre.

Per la maggior parte dei superstiti cominciò il calvario della prigionia o della sopravvivenza alla

macchia;per descriverlo possono essere riportate le parole con le quali il maresciallo capo

nocchiere Claudio Balzano,già comandante della “MB 30”, concluse la sua relazione sulla vicenda

di Corfù ,dopo aver descritto gli effetti di un bombardamento alleato sul suo campo di

concentramento: “In molti evademmo dal campo,sbandandoci per l’isola.Tutti ci erano nemici,tutti

ci odiavano,tedeschi,inglesi e greci”

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Conclusione.

Il maggiore von Hirschfeld,comandante delle truppe sul campo a Cefalonia,ritenuto il principale

responsabile della particolare efferatezza manifestata contro i militari italiani dopo la cattura,tornò

sul continente ai primi di ottobre e fu protagonista,con il suo gruppo tattico, della ” Operazione

Spaghetti”,nel corso della quale furono fucilati a Saranda 137 ufficiali della divisione “Perugia”,con

il comandante generale Chiminello; altre diecine di ufficiali furono uccisi nel vallone di Kucj ed a

Porto Palermo,tra i quali il colonnello Lanza,comandante del 129° fanteria. Von Hirschfeld fu

ucciso sul fronte russo un anno dopo.la strage.

Keitel ed Jodl, massimi dirigenti dell’O.K.W. furono giustiziati a Norimberga ,dopo il processo

contro il gruppo dirigente del governo e del partito hitleriano.

Il tribunale internazionale per i crimini di guerra ebbe modo di occuparsi specificamente degli

avvenimenti di Cefalonia e di Corfù nel corso del procedimento numero 7,imputato il generale

Lanz,comandante del XXII corpo d’armata da montagna.

Lanz tentò di diminuire le proprie responsabilità affermando di aver salvato la vita dei cinquemila

soldati italiani prigionieri a Cefalonia,dopo la strage dei loro compagni subito dopo la cattura.

La tesi difensiva generale di parte tedesca fu però esposta dal suo avvocato in questi termini:

“ Il generale Gandin era un militare il quale come cittadino di uno Stato allora neutrale mosse

guerra contro la Germania di propria iniziativa e sotto la sua responsabilità.Egli fece

questo,inoltre,contro un ordine esplicito del suo comandante superiore italiano,che,tramite il suo

capo di stato maggiore,aveva invitato tanto lui quanto il comandante italiano di Corfù a

consegnare senz’altro le armi a Lanz.Sopratutto,poi,contro l’ordine,ripetutamente espresso,del suo

comandante in capo di Atene,che si era arreso a nome di tutta l’11^ armata di fronte ai tedeschi, ed

aveva espresso,per quanto riguardava la consegna delle armi,un consenso che impegnava anche il

generale Gandin,che era un suo subordinato.Quando,nel settembre 1943,il generale Gandin

condusse le sue truppe in combattimento contro le forze d’occupazione tedesche,egli non agiva

come un soldato di uno Stato che si trovava in guerra con la Germania,ma era,insieme a tutta la

sua divisione,un franco tiratore”

La tesi della difesa di Lanz fu demolita dal prosecutor americano,generale Telford Taylor, il quale

concluse con queste parole:

“Questa strage deliberata di ufficiali italiani che erano stati catturati o si erano arresi è una delle

azioni più arbitrarie e disonorevoli nella lunga storia del combattimento armato.Questi uomini

infatti indossavano regolare uniforme.Portavano le proprie armi apertamente e seguivano le regole

e le usanze di guerra.Erano guidati da capi responsabili che,nel respingere l’attacco,obbedivano

ad ordini del maresciallo Badoglio,loro comandante in capo militare e capo politico debitamente

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accreditato dalla loro Nazione.Essi erano soldati regolari che avevano diritto a rispetto,a

considerazione umana ed a spirito cavalleresco”

Hubert Lanz fu condannato a dodici anni di carcere,ne scontò cinque, e trascorse il resto dei suoi

giorni,fino alla morte nel 1982,.circondato dal rispetto generale,quale eroe delle truppe alpine.

Scrisse una storia della 1^ divisione alpina,che aveva combattuto ai suoi ordini a Cefalonia, e gli

venne dedicata una biografia in una collana dal titolo “Vite di militari del XX secolo”.

Anche la giustizia militare italiana ebbe modo di occuparsi di Cefalonia. Il padre del sottotenente

Triolo,magistrato della Corte d’Appello di Genova,con altri familiari di vittime della

strage,denunciò,oltre ai responsabili tedeschi,anche 28 ufficiali italiani,ritenuti colpevoli di rivolta

continuata,cospirazione ed insubordinazione con minaccia,per aver costretto il generale Gandin ad

attaccare i tedeschi contro la propria volontà.

Il singolare processo, che vedeva imputati,insieme,gli autori del massacro e le loro vittime, si

concluse nel 1957 davanti al Tribunale militare di Roma con il proscioglimento in istruttoria degli

ufficiali italiani,al quale seguì,nel 1960,l’invio degli atti alla magistratura della Germania Federale

per gli imputati tedeschi.

La Procura di Stato di Dortmund rilevò che Hitler,Keitel,il feldmaresciallo barone von

Weichs,comandante superiore del sud-est ,il generale Loehr,comandante del Gruppo di Armate “E”

ed anche il maggiore von Hirschfeld,l’autore materiale della strage,erano ormai morti,mentre il

generale Lanz,l’unico imputato ancora in vita,non poteva essere processato perché già condannato

per gli stessi fatti.

E nel 1964 dispose l’archiviazione del procedimento.

Gen.C.A. Pierpaolo Meccariello