Filosofia del linguaggio 2016-2017...Filosofia del linguaggio 2016-2017 Unità didattica n. 11...

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Filosofia del linguaggio 2016-2017 Unità didattica n. 11 (prof. Stefano Gensini) La questione animale nel pensiero Cinque-Seicentesco (schema per la lezione) Grandi fonti antiche Aristotele Historia animalium IV 9 Politica A 2 1253a De anima B 420b 29-30 Difatti, come s'è detto, non ogni suono [psóphos] dell'animale è voce [phoné] (giacché si può emettere un suono anche con la lingua o tossendo), ma il percuziente dev'essere animato ed accompagnarsi ad un'immagine [metà phantiasías tinòs]. In effetti la voce è un suono che significa qualcosa [semantikós], e non 'semplicemente, come la tosse, il suono dell'aria inspirata. Con quest'aria il percuziente urta l'aria che si trova nella trachea contro la trachea stessa. Una riprova di ciò è che non si può parlare quando si inspira o si espira, ma quando si trattiene il respiro: chi infatti trattiene il respiro, con esso produce questo movimento. Ed è anche manifesto perché i pesci sono privi di voce: perché non hanno laringe. E mancano di questa parte corporea perché non assumono l'aria e non respirano. Per quale causa ciò avvenga è un altro discorso. (Epicuro Lettera a Erodoto: origine naturale del linguaggio umano) Lucrezio De rerum natura, V libro, vv. 1028-1090 (sezione sull’origine del linguaggio in cui riprende le tesi di Epicuro e si sofferma sulle analogia fra linguaggio umano e comunicazione animale) Stoici (presso Sesto Empirico Adv. log., II, 275 = SVF II, 135) Dicono che l'uomo non differisce dagli animali irragionevoli (áloga) per il discorso in quanto emissione della voce [lógos prophorikós] (emettono voci articolate anche i corvi, i pappagalli, le gazze), ma per il discorso interiore [endiathétos] ; e non per la rappresentazione pura e semplice (anche gli animali possono avere rappresentazioni), ma per la rappresentazione capace di passare da un oggetto all' altro e di forma complessa. Perciò l'uomo, che ha nozione della conseguenza, può immediatamente passare, in virtù di questa, alla nozione del segno: 'se è questo, è quest'altro'. Che il segno esista, dipende direttamente dalla natura e dalla struttura dell'uomo.

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Filosofia del linguaggio 2016-2017

Unità didattica n. 11 (prof. Stefano Gensini)

La questione animale nel pensiero Cinque-Seicentesco

(schema per la lezione)

Grandi fonti antiche

Aristotele Historia animalium IV 9

Politica A 2 1253a

De anima B 420b 29-30

Difatti, come s'è detto, non ogni suono [psóphos] dell'animale è voce [phoné] (giacché si può

emettere un suono anche con la lingua o tossendo), ma il percuziente dev'essere animato ed

accompagnarsi ad un'immagine [metà phantiasías tinòs]. In effetti la voce è un suono che

significa qualcosa [semantikós], e non 'semplicemente, come la tosse, il suono dell'aria

inspirata. Con quest'aria il percuziente urta l'aria che si trova nella trachea contro la trachea

stessa. Una riprova di ciò è che non si può parlare quando si inspira o si espira, ma quando si

trattiene il respiro: chi infatti trattiene il respiro, con esso produce questo movimento. Ed è

anche manifesto perché i pesci sono privi di voce: perché non hanno laringe. E mancano di

questa parte corporea perché non assumono l'aria e non respirano. Per quale causa ciò avvenga

è un altro discorso.

(Epicuro Lettera a Erodoto: origine naturale del linguaggio umano)

Lucrezio De rerum natura, V libro, vv. 1028-1090 (sezione sull’origine del linguaggio in cui riprende

le tesi di Epicuro e si sofferma sulle analogia fra linguaggio umano e comunicazione

animale)

Stoici (presso Sesto Empirico Adv. log., II, 275 = SVF II, 135)

Dicono che l'uomo non differisce dagli animali irragionevoli (áloga) per il discorso in quanto

emissione della voce [lógos prophorikós] (emettono voci articolate anche i corvi, i pappagalli,

le gazze), ma per il discorso interiore [endiathétos] ; e non per la rappresentazione pura e

semplice (anche gli animali possono avere rappresentazioni), ma per la rappresentazione

capace di passare da un oggetto all' altro e di forma complessa. Perciò l'uomo, che ha nozione

della conseguenza, può immediatamente passare, in virtù di questa, alla nozione del segno: 'se

è questo, è quest'altro'. Che il segno esista, dipende direttamente dalla natura e dalla struttura

dell'uomo.

Filone Alessandrino (~20 a.C.- 50 d.C.) De animalibus

(pervenuto in una versione armena del VI sec.)

(Dal De animalibus, 45):

"Un cane mentre inseguiva una preda giunse dinnanzi una fossa profonda, vicino alla quale c'erano

due sentieri, uno a destra, l'altro a sinistra; stette seduto per un pò, meditando dove convenisse

andare. Ma correndo a destra, e non trovando nessuna traccia (nullum inveniens vestigium ), tornò

indietro verso l'altro sentiero.

Poiché neppure in questo compariva apertamente qualche segno (neque in ista aperte appareret

aliquod signum ), oltrepassò la fossa, indagando curiosamente, accelerando il passo sotto il suo

fiuto; è sufficiente affermare che non lo fece accidentalmente, ma piuttosto per una vera

deliberazione della mente (satis declarans non obiter haec facere, sed potius vera inquisitione

consilii)."

Plutarco (40-125 d.C.)

De sollertia animalium 973 a-e

Gryllus 991f-992d

Plinio il Vecchio (23-79 d.C.)

Historia naturalis VIII 227 sgg.

Sesto Empirico (~ 160-210)

Contro gli stoici e l’ “antropocentrismo” (Schizzi pirroniani I, 73-76)

"Noi vediamo, cosa notevole, anche gli animali dei quali discorriamo, proferire, anche voci umane, come

le piche e alcuni altri.

Anche se non comprendiamo le voci degli animali, così detti, irragionevoli (alogoi), non sarebbe del tutto

assurdo pensare che essi discorrano tra loro senza che noi li comprendiamo. Anche quando udiamo la

voce dei barbari, non la comprendiamo, anzi ci fa l'impressione di essere un suono uniforme. Per tornare

ai cani, noi li udiamo emettere una data voce, quando vogliono allontanare qualcuno, un'altra, quando

urlano, un'altra, quando sono battuti, un'altra differente, quando scodinzolano di gioia. Insomma, se uno

fissasse la sua attenzione a questo fatto, riscontrerebbe una grande differenza di voci e in questo e negli

altri animali secondo le differenti circostanze, talché ne concluderebbe, verisimilmente, che gli animali,

così detti, irragionevoli, partecipano, anche, del ragionamento esternato (logos prophorikos). Ora, se

essi non rimangono dietro agli uomini né per acutezza di sensazioni, né per ragionamento interiore (logos

endiathetos), né, abbondiamo pure, per ragionamento eternato, essi non dovrebbero essere meno degni

di fede di noi, per quanto riguarda le rappresentazioni sensibili.Così chi negherebbe che gli uccelli si

distinguono per vivacità d'intelligenza, e sono dotati di ragionamento esternato, essi che sanno, non solo

le cose presenti, ma, anche, le future, e le predicono a chi è in grado d'intendere, o segnalandole in altre

maniere o preannunciandole con la voce?"

Porfirio (233/4-305 d.C.) De abstinentia ab esu carnium

III, 3, 5 Ad esempio allo stesso modo che noi non percepiamo che un rumore e un suono, a causa

del fatto che non conosciamo le usanze degli Sciiti, e ci sembra che essi schiamazzino, che non

articolino niente, ma che emettano sempre uno stesso tipo di rumore, ora lungo, ora breve, senza

che la sua modulazione giunga alle nostre orecchie formando un qualche senso, quale che sia, mentre

per essi (s.c. gli Sciiti), il loro parlare è comprensibile e molto distinto, così come è per noi una lingua

che ci è familiare; lo stesso avviene con gli animali: il senso (synesis) è afferrato in modo particolare

secondo ogni specie, mentre noi non riusciamo ad intendere che un suono il cui senso ci sfugge,

poiché ancora non si è trovato nessuno che abbia appreso la nostra lingua per insegnarci a tradurre

nella nostra lingua ciò che è detto presso gli animali.

Lattanzio (III-IV sec. d.C.)

De ira dei VII 7

…….. Dante Alighieri (1265-1321)

De vulgari eloquentia (I ii 5)

Inferioribus quoque animalibus, cum solo nature instinctu ducantur, de locutione non oportuit

provideri: nam omnibus eiusdem speciei sunt iidem actus et passiones, et sic possunt per proprios

alienos cognoscere; inter ea vero que diversarum sunt specierum non solum non necessaria fuit

locutio, sed prorsus dampnosa fuisset, cum nullum amicabile commertium fuisset in illis.

Principali testi fra Cinque e Seicento

Girolamo Rorario (Hieronymus Rorarius) (1485-1556)

→ Quod animalia bruta [saepe] ratione utantur melius homine mss, composto intorno al

1539; fu edito nel 1648 da Gabriel Naudé (Tétrade - libertinismo) eliminando il ‘saepe’ dal

titolo in modo da estremizzare la tesi dell’operetta

Conrad Gesner (1516-1565)

Historiae animalium (1551-1558)

1. 1551 Quadrupedes vivipares

2. 1554 Quadrupedes ovipares

3. 1555 Avium natura

4. 1558 Piscium & aquatilium animantium natura

Michel Eyquem de Montaigne (1533-1592) (vedi oltre, citazioni)

→ Essais spec. Vol II, 12, prima ed. 1580. Recupera le fonti del naturalismo e dello

scetticismo antichi (Lucrezio, Sesto Empirico) oltre al materiale aneddotico e moralistico

offerto da Plutarco (De sollertia ecc.)

Pierre Charron (1541-1603), avvocato, sacerdote, predicatore

→ Traité de la sagesse, prima ed. 1601 ; vedi libro I, cap. XXXIV – attinge largam. a

Montaigne; sua funzione nell’attivazione del paradigma libertino; gli risponde polemicam.

Il medico Chanet, Considerations sur Charron (1643), De l’instinct et de la connoissance

des animaux (1646).

René Descartes (1596-1650) Discours de la méthode (1637), V parte (vedi oltre per il testo)

Marin Cureau de Chambre (1594-1669), medico e consigliere di Luigi XIV

→ Traité de la connoissance des animaux (1648), la razionalità degli animali è fondata

sull’uso della immaginazione ; l’istinto come nocciolo della autonomia delle specie animali dal

creatore, che ha dato loro una causa interna di autorealizzazione; difende Charron contro Chanet

A destra, il frontespizio di La Chambre, Traité

des animaux (1648); a sinistra lo schema che si

trova in antiporta di un ms del Theophrastus

redivivus: si noti, in ogni cerchio l’indicazione di

una delle “fonti” ideali dell’opera.

Theophrastus redivivus (1659?) capolavoro della letteratura clandestina di orientamento laico e

materialista. L’autore, anonimo, è radicalmente anticartesiano.

→ Trattato VI, cap. II, “In quo hominem a ceteris animalibus non differre nisi specie

declaratur etc.” [v. l’ed. crit. Canzani-Paganini, 2 voll. Firenze : La Nuova Italia]

Pierre Bayle (1647-1706), erudito, professore di filosofia e storia a Sedan e Rotterdam, calvinista

Dal 1684 promotore delle Nouvelles de la république des lettres

→Dictionaire historique et critique prima ed. Amsterdam 1697, Rotterdam 17022, 17153

→ fondamentale la voce « Rorario» dedicata alla querelle sull’ ‘anima delle bestie’

Il punto di vista tradizionale (Roccha, Bibliotheca Apostolica Vaticana 1591, pp. 304-305, usa come base

Gesner, Mithridates)

Supra, pp. 105-106

Montaigne Essais, II, 12 (dalla Apologie de Raymond Sebond), si cita dalla ed. Adelphi a c. di F. Garavini.

Bisogna che osserviamo la parità che c'è fra noi. Noi

comprendiamo approssimativamente il loro sentimento,

così le bestie il nostro, pressappoco nella stessa misura.

Esse ci lusingano, ci minacciano e ci cercano; e noi loro.

Del resto, vediamo in modo evidente che c'è fra loro una

piena e totale comunicazione, e che esse si capiscono fra

loro, non solo quelle della stessa specie, ma anche quelle

di specie diverse

Nella foto, la famosa torre di M., dove lo scrittore aveva la biblioteca e si dedicava allo studio. Siamo in

Francia, a Saint-Michel-de-Montaigne, suo paese natale, tra Bordeaux e Bergerac.

Mi sembra che il solo luogo dove si possa

leggere Montaigne sia una biblioteca:

possibilmente una di quelle grandi

biblioteche cinquecentesche o secentesche,

che ornano i palazzi aristocratici e le abbazie

di tutta Europa. (…) Montaigne aveva la sua

biblioteca al terzo piano di una torre. Seduto

al tavolo, vedeva con un solo sguardo i libri,

schierati in cinque file, pronti a essere

sfogliati se l' assaliva un capriccio o un'

inquietudine. (Da P. Citati)

Girolamo Fabrici d’Acquapendente (m. 1619), De brutorum loquela (1603), capitolo 2 (trad. Gensini)

Che cosa il linguaggio umano abbia in comune e in cosa sia diverso da quello degli altri animali, e

in che cosa quello degli animali fra di loro

Da quanto detto si ricava senza difficoltà che cosa abbiano in comune e in che cosa si differenzino il linguaggio

umano e quello degli animali, e in che cosa quello degli animali fra di loro. In primo luogo, gli uomini e gli altri

animali hanno in comune il fatto che entrambi hanno un linguaggio e formano articolazioni (come si è detto).

Ma differiscono in ciò, che le articolazioni umane sono lettere, quelle degli animali sono molte e di natura

diversa. Hanno anche in comune il fatto che sia gli uomini sia gli animali producono il linguaggio mediante la

combinazione delle articolazioni; ma differiscono, perché il linguaggio degli animali è più semplice, e quello

degli uomini invece è più composito: esso infatti consta di lettere, sillabe, locuzioni e discorso. Sicché nella

prima età l’infante produce quasi soltanto voce, al tempo in cui diciamo ch’egli vagisce; poi forma qualche

lettera, dapprima le più facili, che non richiedono accostamento [degli organi fonatori], come le vocali, e fra

queste anzitutto quelle più semplici come A, E, O; successivamente forma le consonanti, di nuovo quelle più

facili come T, P, B, e imparando un po’ alla volta a congiungerle alle vocali, forma le sillabe, come MA, PA, BA,

TA. E la fase in cui diciamo che l’infante borbotta. In seguito, piano piano produce anche altre consonanti,

forma delle locuzioni, però non in modo completo: dapprima forma solo le ultime sillabe delle locuzioni, poi,

componendole un po’ per volta, prima forma quelle bisillabe, poi le trisillabe e le quadrisillabe e infine,

intorno al primo anno di età, le forma tutte. Dipoi, andando sempre più avanti, mette assieme le locuzioni e

forma il discorso, dapprima quello semplice composto di nome e verbo, in seguito con gli elementi

sincategorematici, cioè con le altre parti del discorso, quelle che i grammatici chiamano invariabili, quali sono

l’avverbio, la congiunzione, la preposizione e l’interiezione (i filosofi, infatti, comprendono il pronome nel

nome e il participio nel verbo). Il tipo di combinazione che si osserva negli animali è molto meno ricco e più

imperfetto. Movendo da ciò, fra il linguaggio dell’uomo e degli altri animali vediamo un’analogia e una

differenza solo particolare, nel senso che se entrambi hanno un linguaggio e formano articolazioni,

nondimeno, le articolazioni umane sono più libere e inoltre sono molteplici e diverse. Di nuovo, hanno in

comune il fatto che sia l’uomo che gli altri [animali] formano la voce mediante articolazioni, ma differiscono

in quanto gli altri [animali] non formano le articolazioni con la lingua e le labbra come fanno gli uomini. Negli

uomini, infatti, entrambi questi [organi] sono morbidi, in funzione del parlare, mentre negli animali sono duri

e rigidi, perché fatti soprattutto per afferrare il cibo. Inoltre, gli uomini hanno in comune cogli animali il fatto

che le articolazioni umane, in quanto lettere, sono naturali e si formano con strumenti naturali, e sono le

medesime in tutti gli umani. Così, un italiano, un caldeo e uno spagnolo formeranno M, B e P allo stesso

modo, e con mezzi non diversi, ossia accostando le labbra; analogamente, ciascuna specie di animali e, in

ogni specie, ciascun individuo proferirà sempre e naturalmente e allo stesso modo le sue articolazioni. Fra

uomo e animali vi è però questa differenza, che il linguaggio degli animali è tutto naturale, e sempre lo stesso;

mentre quello umano è in parte naturale e in parte arbitrario (ad placitum) e artificiale. E’ naturale per quanto

riguarda le lettere o articolazioni, ma è arbitrario quanto alle locuzioni e al discorso: dato che gli Italiani, i

Francesi, gli Ebrei, i Sarmati e gli altri popoli combinano le lettere ciascuno a modo proprio, risultano diverse

sia i vocaboli sia il discorso. Ecco perché fra gli uomini c’è tanta varietà di idiomi; ed ecco perché, viceversa,

gli animali si capiscono all’interno della propria specie, mentre gli uomini no: infatti l’italiano non capisce il

tedesco, il tedesco non capisce il greco, né gli altri capiscono gli altri [popoli], malgrado che tutti facciano

parte della specie umana. Tuttavia il linguaggio umano va considerato arbitrario nel senso che esso stesso ha

certi limiti definiti, e non è affatto infinito e immenso. Infatti, dato che tutte le lettere, come ho detto, sono

naturali e vengono formate naturalmente, in un solo e simile modo, per mezzo di strumenti naturali, è

evidente che quanti sono i modi di comporle, tante sono le locuzioni che ne risultano. Tuttavia questa

combinazione ha limiti definiti, come anche è definito il numero delle lettere. Pertanto alcuni uomini di chiara

reputazione, prendendo talvolta su di sé questo compito, e mettendo assieme solo alcune delle prime lettere,

inventavano ora una locuzione caldea, ora una italiana, ora una latina, ora una greca e [poi] ripetutamente si

imbattevano in una locuzione siffatta. Diversamente, tutto il linguaggio degli animali è naturale in ogni sua

parte, e pertanto ciascuna specie al suo interno e ciascun individuo di ciascuna specie allo stesso modo

realizza il linguaggio e forma e proferisce le articolazioni: laddove la specie umana lo fa in tanti modi

differenti. Stando così le cose, necessariamente vi sono tante differenze di linguaggio quante sono le specie

animali, e ciascuna specie di animale possiede un proprio linguaggio non somigliante ad alcun altro in tutta

la natura: il sommo creatore ha disposto ciò, affinché tutti i membri di una stessa specie reciprocamente si

ascoltino, si capiscano, si chiamino, si prestino aiuto, riescano a riprodursi, fuggano i nemici, si difendano.

Infatti, se il linguaggio di tutti gli animali fosse uno solo, le specie si confonderebbero una con l’altra, e al loro

interno i singoli individui: facilmente l’agnello o la pecora accorrerebbero dal lupo, la lepre dal cane, e

l’uccellino dal falco. Nel libro De abstinentia ab esu carnium Porfirio porta l’esempio della iena indiana, quella

che gli indigeni chiamano corocotta. Questa [fiera] parla a tal punto al modo umano che talvolta gli uomini,

ingannati dalla somiglianza con la voce di un amico, escono allo scoperto, vengono presi dalla iena e restano

uccisi. A questo proposito si svela e si coglie facilmente una certa superiorità dell’uomo, che in certo qual

modo sembra superare la natura. Quest’ultima infatti, se da una parte tutela sempre la salvezza di tutti gli

animali grazie alla differenza della voce e dell’articolazione, d’altra parte viene ingannata dall’uomo, che fa

avvicinare a sé gli animali allo scopo di ucciderli: c’è chi con un fischio emesso dalla bocca richiama i tordi e i

merli, chi con uno strumento adatto, detto popolarmente il quagliarolo, attira a sé le quaglie (ovvero le

coturnici), e [chi] con la buccia o involto dei lupini [attira] i passerotti; altri acchiappano gli uccelli servendosi

di uccelli chiusi in piccole gabbie; altri, infine, imitano con la bocca il linguaggio degli animali e in certo modo

costringono gli animali a venire da loro, ingannati dal desiderio di ricevere qualcosa di buono. In questo modo

un tale, salito su un albero, imitava alla perfezione l’ululato dei lupi e li chiamava a sé per ucciderli. Esistono

moltissime altre tecniche di caccia, grazie alle quali l’uomo domina su tutti gli animali con l’arte e

l’intelligenza: tuttavia una parte non piccola ne include il linguaggio, che l’arte riesce a emulare. Somiglianza

[questa], per cui, come è stato detto, l’uomo costante vince, oppure inganna, perfino l’eterno istituto della

natura. Se sia l’uomo a superare la natura o questa a sbagliare non oserei dire; diremo con più verità che Dio

Ottimo Massimo ha dato all’uomo una prerogativa cui tutti gli animali soggiacciono, senza riguardo alla

propria vita e salvezza.

Ma prima di concludere questo capitolo, giova da ultimo considerare un punto sollevato in

precedenza e che occorre discutere in modo più preciso. Dato, dunque, che esistono tanti linguaggi degli

animali quante sono le specie, ci si chiede perché gli animali di una medesima specie conversando l’uno con

l’altro si capiscono, mentre non è così per l’uomo, che non comprende un uomo di un’altra nazione, malgrado

appartengano entrambi alla stessa specie. Si risponde che ciò dipende dal fatto che il linguaggio umano è

arbitrario, mentre quello degli animali è tutto naturale. Infatti ogni linguaggio si compone di articolazioni:

ogni volta, dunque, che la combinazione delle articolazioni è naturale, essa è uguale per tutti, e viene intesa

da tutti i membri della stessa specie, come è il caso del linguaggio degli animali; ma dove la combinazione

delle articolazioni è arbitraria, ad esempio [quando è] artificiale e opera dell’intelletto, se la costruzione delle

lettere e delle locuzioni è opera dell’intelligenza di una sola nazione, certamente tutti gli individui di quella

nazione si comprenderanno fra loro. E’ così che gli Italiani, i Sarmati e tutte le persone delle singole nazioni

si capiscono a vicenda. Ma se un solo uomo di una certa nazione combina le articolazioni (vale a dire le lettere

o i caratteri) in modo arbitrario, cioè a modo suo, certamente lui solo, e non la nazione intera, comprenderà

una combinazione e una scrittura siffatte. Così, coloro che inventano quelli che comunemente si chiamano

caratteri cifrati capiscono solamente se stessi; si spiega, tuttavia, che questa modalità di scrittura si basi sui

caratteri, e non sul parlato e sulla voce articolata, perché la sua terminazione è arbitraria, mentre le lettere

sono naturali per tutti. L’assoluta verità del fatto che un linguaggio naturale è compreso da tutti i membri

della stessa specie si può provare per mezzo della voce, che è naturale a tutti, sicché tutti la capiscono. Infatti,

se qualcuno – uomo o altro animale - proferisce una voce triste, tutti gli uomini e anche gli animali la

capiranno e avvertiranno (dato che la voce è naturale per tutti) che l’affezione dell’animo [corrispondente] è

la tristezza. Che se Alessandro il Macedone fu spinto a prendere le armi da una musica eseguita in un certo

modo, lo stesso, spinto da una tale musica, avrebbe fatto un romano assennato, o un sarmata, ché

necessariamente una medesima affezione dell’animo sarebbe penetrata in entrambi. Ma basti così di questo

secondo capitolo.

Descartes 1637 Discorso sul metodo (da Stancati ed., Cartesio, Segno e linguaggio, Roma 2000)

In sintesi, per Descartes, gli animali (come le macchine)

(1) Non possono usare la parola (anche quando ne dispongano, come nel caso dei pappagalli) per

comunicare ad altri il pensiero; il pensiero è infatti il prodotto dell’esprit, carattere esclusivo degli

esseri umani;

(2) Non possono fare uso di mezzi comunicativi in risposta a contesti diversi, mancano cioè di

flessibilità, dote che persino gli “ebeti” possiedono;

(3) Possono esprimere solo “passioni”, e ciò in modo naturale, senza intervento di una controparte

cosciente. In tal caso è la loro macchina corporea a manifestare all’esterno i propri stati fisici.