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    A. Tagliapietra, La gola del filosofo. Il mangiare come metafora del pensare, in "XOS. Giornale di confine", Anno IV, N.1 Marzo

    -Giugno 2005/2006 URL: http://www.giornalediconfine.net/n_4/1.htm

    ANDREA TAGLIAPIETRA

    La gola del filosofo

    Il mangiare come metafora del pensare

    Homo animal edax

    Nel frontespizio del primo volume dell'"Almanach des Gourmands" di Grimond de la

    Reynire, stampato nel 1804 a Parigi, raffigurata una strana e singolare libreria. Si tratta

    della biblioteca del goloso. Qui, sui lignei e seriosi scaffali a muro rappresentati nell'incisione

    che, alti e profondi, giungono fino al soffitto e fanno pensare al facile anacronismo di un

    gigantesco e capiente frigorifero, trovano posto, accostate in luogo dei volumi rilegati in

    pelle e oro zecchino, provviste alimentari d'ogni tipo. Ci sono il porcellino da latte, il cappone,

    i salumi e i pat, liquori, formaggi e bottiglie di vino, boccali di frutta sotto spirito, vasi di

    verdure sott'olio e sott'aceto, budini farciti, panettoni e dolci ripieni. Al centro della stanza,

    una tavola imbandita di leccornie sostituisce lo scrittoio dell'erudito, mentre dal soffitto, a

    mo' di lampadario in vetro di Murano, pende un enorme e gustoso prosciutto. Leggere

    mangiare, scrivere cucinare. Parola e cibo, sapere e sapore sono, nella nostra cultura,

    circondati da un'aria di famiglia che lo stesso linguaggio si affretta a testimoniare. Noi

    abbiamo "appetito" di conoscenza, "sete" di sapere o "fame" d'informazioni. Noi "divoriamo"un libro, "facciamo indigestione" di dati, "abbiamo la nausea" di leggere o di scrivere, non

    siamo mai "sazi" di racconti, "mastichiamo" un po' di inglese, "ruminiamo" qualche progetto,

    "digeriamo" a fatica alcuni concetti, mentre "assimiliamo" meglio certe idee piuttosto che

    altre. Noi ci "beviamo" una storia soprattutto se nel narrarcela sono state usate parole

    "dolci", invece di condirla con "amare" considerazioni, con battute "acide" o "disgustose", o,

    peggio, con allocuzioni "insipide" e "senza sale". Non a caso le storielle pi "appetitose" sono

    quelle infarcite di aneddoti "pepati", di descrizioni "piccanti" e, vuoi anche, di paragoni"gustosi". Ecco allora che a partire dall'analogia fra il nutrimento del corpo e il nutrimento

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    della mente possibile riconsiderare il rapporto, in verit non troppo sotterraneo, fra il cibo

    e il pensiero. Fra le cose che distinguono l'uomo dagli altri esseri viventi vi il particolare

    legame che egli, sin dall'inizio della sua storia, ha istituito con il cibo. Gli animali si nutrono,

    l'uomo mangia e, nel mangiare, non si accontenta di consumare gli alimenti, ma insieme lipensa, ha, cio, nei confronti dei cibi, un rapporto eminentemente simbolico. Il detto "parla

    come mangi", al di l dell'invettiva del luogo comune, rivela un fondo di verit difficilmente

    smentibile. La cultura umana si specchia, infatti, tanto nelle parole del linguaggio che dalla

    bocca escono, quanto in quegli alimenti e in quelle pietanze che nella bocca, invece, entrano.

    Se l'atto biologico di mangiare sempre anche un atto simbolico, la prima sfera che il cibo

    incontra quella religiosa. Nel sacrificio, come ci insegna il mito greco di Prometeo, in

    ballo la stessa ripartizione delle risorse alimentari fra gli di e gli uomini. Allora, Prometeonon soltanto colui che consegna agli uomini il dono del fuoco, ma anche il benefattore

    che, ingannando gli di con il fumo delle ossa, delle pelli e del grasso delle vittime sacrificali,

    consente agli uomini di cibarsi delle carni degli animali uccisi senza commettere sacrilegio.

    Nelle culture tradizionali, dietro all'aspetto rituale del mangiare vi sempre l'ombra del

    sacrificio. Un sacrificio che stabilisce le regole alimentari, determinando i codici di ci che

    puro e di ci che impuro, di ci che lecito e di ci che tab. Un sacrificio che doveva

    riguardare, all'inizio, lo stesso impiego e, in seguito, la sostituzione della vittima umana(remota testimonianza, forse, di un pasto cannibalico), come sembrano documentare i miti

    paralleli di Ifigenia, nella cultura greca, e di Isacco, in quella ebraica. Ma l'intrinseco

    simbolismo religioso del cibo si riflette sia nelle culture del sangue e della carne, che nelle

    culture prevalentemente vegetariane, come quella del riso. Gi nel "Milione" Marco Polo

    raccontava dell'esistenza, in Cina, di ben 54 tipi di riso. In giapponese "gohan", significa

    "riso cotto", "pranzo" e "buon appetito", attestando la coincidenza di quest'alimento con la

    sfera dell'alimentazione tout court. In ogni chicco di riso si ritrova, cos, l'anima della Dea

    Madre, che presiede alla fecondazione e alla generazione degli uomini. Questi ultimi, per

    non offenderla, avranno l'accortezza - a tutt'oggi ancora in vigore, in Oriente -, di cuocere il

    riso lontano dai campi in cui stato colto. Il rapporto con il cibo come fonte di vita spinge

    l'uomo all'osservanza e al rispetto della natura. Anche quando, come nella cultura

    eschimese, l'unica fonte alimentare, o quasi, rappresentata dalla carne degli animali,

    questo fatto motivo di seria apprensione e di timore. "La vita esposta ad un grande

    pericolo", dicono gli inuit della Groenlandia, "perch la nutrizione umana basata sul

    consumo di anime". In questa prospettiva, la comparsa del pensiero filosofico, anche nella

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    simbolica del cibo, sovverte laicamente il grande paradigma sacrificale della religione. Dal

    punto di vista pi generale la filosofia attivit essenzialmente autofagica, autocannibalica.

    Cibo e filosofia

    Nelle antiche raffigurazioni iconografiche la filosofia era rappresentanta come un'orsa colta

    nell'atto di divorarsi la zampa. Questa figura era simbolo dell'autosufficienza della disciplina

    che, come recitava il motto che spesso si accompagnava all'immagine, "ipse alimenta sibi",

    "trae da se stessa il suo proprio nutrimento". Tuttavia, al destino autofagico della filosofia

    pu fungere da divertente appendice aneddotica l'esame di quello che gi Michel Onfray

    chiamava "il ventre dei filosofi". Guardare i filosofi dal punto di vista della pancia, infatti,

    pu riservare qualche divertente sorpresa. Per esempio, Platone era ghiottissimo di fichi

    secchi e olive, che divorava anche all'Accademia, fra una lezione e l'altra. Se Platone

    preferiva, per cos dire, degli stuzzichini, le abitudini alimentari di Aristotele dovevano essere,

    indubbiamente, pi ricercate dal momento che la tradizione ci dice che avesse una

    ricchissima collezione di pentole. Le prime prescrizioni dietetiche in filosofia risalgono

    tuttavia a Pitagora che, circa un secolo prima di Socrate e Platone, per i seguaci della scuola

    pitagorica aveva prescritto una dieta prevalentemente vegetariana, a base di verdure cotte

    e crude, sale, pane, acqua pura, vietando assolutamente il consumo del pesce fragolino, del

    melanuro, della matrice, della triglia, del cuore degli animali e delle fave. Epicuro, invece,

    pare debba la cattiva nomea dell'epicureismo non solo al frutteto dove si incontrava con i

    suoi discepoli - il Giardino che diede nome alla sua scuola -, quanto al suo debole per il

    formaggio cotto in una pentolina, una specie di fonduta valdostana ante litteram. Diogene

    e i cinici furono gli inventori del "fast food", perch per primi predicarono la necessit di

    consumare i cibi per strada e in piazza, senza troppe cerimonie n preparazioni, nutrendosi

    contemporaneamente (e quindi, si suppone, in una forma che ricorda il moderno sandwich

    o il panino) del pane che faceva da piatto e del companatico che esso conteneva, in genere

    una manciata di lenticchie o di lupini, fichi secchi o olive. Di Zenone di Cizio, caposcuola

    degli stoici, nota la predilezione per i fichi verdi, il miele e il vino. Di quel Carneade su cui

    s'interrogava il don Abbondio manzoniano, che fu uno scettico in seno alla scuola platonica,

    non conosciamo i gusti alimentari, ma sappiamo che era solito farsi imboccare da una

    schiava, perch, tutto assorbito dai suoi pensieri, dimenticava persino di portare il cucchiaioalla bocca. Per venire a tempi pi recenti nota l'assoluta predilezione di Kant per la senape,

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    con cui insaporiva i pranzetti che, a detta dei biografi, il filosofo era solito preparare per gli

    allievi pi cari. Ma il debole di Kant era il caff, di cui, nonostante temesse gli effetti nocivi,

    si concedeva ben due tazze ogni mattina. Fra i secondi la predilezione di Kant andava senza

    dubbio al baccal, di cui, anche quand'era sazio, non disdegnava di "fare il bis", magari conil piatto "fondo" ben pieno. A detta dei biografi, poi, Kant a tavola, lungi dall'intrattenere i

    commensali con discorsi filosofici o sulla rivoluzione che, in quegli anni, era all'"ordre du

    jour", preferiva discettare, con minuziosa precisione, sulle pietanze e sulle loro ricette che,

    se invitato, non esitava a richiedere insistentemente ai padroni di casa. Altra cosa, di certo,

    rispetto a quei fiocchi d'avena di cui, a quanto pare, si nutriva quasi esclusivamente l'ascetico

    Wittgenstein. Completamente digiuno di cucina era, al contrario di Kant, il buon marchese

    di Condorcet, la cui scarsa confidenza con pentole e pignatte fu, a suo modo, fatale. Durantela fuga dalla ghigliottina, infatti, il blasonato "philosophe" del progresso infinito dell'umanit

    giunse sfinito ad un'osteria di campagna e, per rifocillarsi, chiese allo stupito avventore

    un'omelette di ben dodici uova. L'oste, insospettito, lo consegn subito alle "cure" dei

    sanculotti. Sulla predilezione dei filosofi per la bevanda dionisiaca per antonomasia ci

    sarebbe, poi, molto da dire - Massimo Don, di recente, ce ne ha dato ampio assaggio con

    la sua "Filosofia del vino" -, cominciando da quel buon rosso (non si sa se fosse un

    Bourgogne, in onore della Rvolution, o un nostrano Barolo, come anche poco prima dimorire Hans Georg Gadamer confidava di preferire) che Hegel stappava ogni 14 luglio, per

    ricordare la presa della Bastiglia, e ogni 31 ottobre, per commemorare l'inizio della Riforma

    protestante, o dal rosso bordolese del quale Montesquieu in persona curava la vendemmia.

    Ma non avendone lo spazio, ci limitiamo a ricordare quella del religiosissimo Kierkegaard,

    che associava volentieri il vino al pollo (arrosto o lesso non ci dato sapere). Pi vicina a

    noi va ricordata la passione di Martin Heidegger per il "Kartoffelsalat" e, in negativo,

    l'assoluta imperizia di Ernst Cassirer in cucina. Entrandovi forse per la prima volta durante

    un'influenza della moglie, il filosofo delle "forme simboliche" mise a scaldare il latte sul fuoco

    con tutta la bottiglia, producendo una disastrosa esplosione che, negli ambienti accademici

    tedeschi, fa ancora sorridere.

    Cucina e filosofia

    Per Francesca Rigotti, autrice di un prezioso e delizioso volumetto su "La filosofia in cucina.Piccola critica della ragion culinaria", cucinare significa seprarare e ricomporre, in forme

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    ordinate e secondo rituali precisi, le materie prime che compongono i cibi. Alla presenza del

    fuoco che, come lo spirito, "solvet et coagulat", gli elementi si uniscono e si dividono, le

    cose si assimilano o si separano fra loro. La cucina non un universo caotico, in cui tutto e

    il contrario di tutto possono essere mischiati, come in un unico calderone ove cuoce ilterribile minestrone del brodo universale. La cucina, scrive Rigotti, , invece, un "sistema

    chiuso", dotato di rituali e regole precise, che vanno rispettate, oppure violate, ma solo dopo

    esser state ben apprese. Queste regole e questi rituali si chiamano ricette. Le ricette sono,

    in cucina, ci che per Platone, in filosofia, erano le idee, ossia modelli intellettuali, dotati di

    una loro forma e di una loro conoscibilit specifica. Mediante le ricette i piatti acquistano

    l'universalit dell'originale: sono, cio, identificabili e riproducibili. Guardando alle ricette cos

    come il demiurgo guarda alle idee, il cuoco pu sfornare un'illimitata teoria di copiealimentari, assicurando una stabilit e una riconoscibilit dei piatti e delle portate. Fra gli

    appunti di Kant che precedono la stesura della "Critica della ragion pura" ve n' uno che

    afferma che "nel gusto ognuno di noi ha il modello o l'idea originale in testa". Ma il

    fondamento che cucina e filosofia hanno in comune, sin dalla pi antica metafisica greca,

    quello che la totalit di qualcosa non coincide con l'enumerazione delle parti che la

    compongono. Cos come il risultato di un piatto, per esempio un timballo o un souffl,

    superiore alla semplice addizione dei suoi ingredienti, anche il tutto superiore alla merasomma delle parti. "L'uva passa", scriver Wittgenstein in un efficace aforisma culinario dei

    suoi "Pensieri diversi", "pu anche essere quanto vi di meglio in una torta; ma un cartoccio

    di uvette non migliore di una torta; e chi ce ne offre un cartoccio pieno non per questo

    sar in grado di cucinarci una torta - e tantomeno di fare qualcosa di meglio". In greco il

    cuoco si dice "mgheiros", "colui che impasta", da una radice "mag" che risuona nel nostro

    "mangiare", ma soprattutto nel tedesco "machen" e nell'inglese "to make", ossia nel pi

    generico "fare". Se i manuali di storia della filosofia ci presentano il primo grande dilemma

    del pensiero occidentale consumarsi intorno al problema dell'uno e del molteplice, con la

    tenzone fra i cuochi-filosofi di scuola eleatica, come Parmenide, o di scuola ionica, come

    Eraclito, sulla questione non esiter a schierarsi neppure la cucina comune. Ci sono, infatti,

    piatti pluralisti per antonomasia, come, per fare un esempio, la macedonia di frutta, la paella,

    il cous-cous o una buona insalata mista, mentre nella trippa, nella cassoeula, nel passato di

    verdura, nelle tortillas o nella frittata di cipolle, gli elementi del molteplice si fondono gli uni

    con gli altri, mescolando sapori ed odori in unica ed armonica sintesi. Inutile dire che in

    cucina come in filosofia l'Occidente ha sempre preferito la soluzione monista e la culinaria

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    magnifica l'assimilazione, piuttosto che la separazione. Sar forse per questo che Jean-Paul

    Sartre, nel descrivere il difetto prevalente del pensiero occidentale, parler di "filosofia

    alimentare", di "filosofia digestiva" che deglutisce e assimila le cose, privandole della loro

    corposit. Contro questo paradigma del pensiero Sartre indicher la fenomenologia diHusserl, antidigestiva per eccellenza, che ci strappa dalla "nera intimit gastrica" degli

    stomaci di coloro che intendono la conoscenza come possesso, consentendo di vedere "le

    cose stesse" all'aperto, fuori dalla coscienza. Digestiva per eccellenza , invece, la filosofia

    di Hegel, che nel processo dialettico e nella conoscenza del soggetto vede in opera lo stesso

    meccanismo della digestione dei cibi, cos com'era stato riassunto da Spallanzani e dalle

    osservazioni della moderna fisiologia medica: "l'organismo assorbe immediatamente, in

    quanto potenza universale, il cibo ingoiato, ne "nega" la sua natura "relativamente"inorganica e lo pone come identico a s, cio lo as-simila". In tempi di cibi transgenici e

    polpettoni fast-food, questa assimilazione-incorporazione dell'oggetto-cibo al soggetto-

    mangiatore non pu non destare qualche preoccupazione. Di qui la "nausea" del filosofo,

    come ci insegner il fortunato romanzo di Sartre, che oppone al mondo vischioso, molle e

    dolciastro dell'esistenza, simile ai Big Mac e all'Apple Pie che ci spacciano i McDonald's, la

    coriacea durezza della coscienza, la sua croccante semplicit. Croccante come i cracker di

    Wittgenstein, che interrompevano i frequenti digiuni dell'autore del "Tractatus logico-philosophicus". S, perch filosofia e culinaria possono anche opporsi radicalmente, come

    sosteneva Platone nel "Gorgia", in quanto, mentre la filosofia ha per mira il benessere

    dell'anima mediato dalla conoscenza, la culinaria mira solo al piacere del corpo e procede

    per tentativi. Essa paragonabile, quindi, a tutta una serie di pseudo-arti, come la

    ginnastica, la cosmetica e soprattutto la retorica. Arti senza conoscenza, che lusingano i

    nostri sensi, ma che spesso sono controproducenti per la nostra salute. Cos la filosofia sta

    alla retorica come la dietetica medica sta alla gastronomia e come la politica sta alla

    demagogia: in poche parole, come l'anima razionale sta all'oscurit del ventre. Il filosofo

    ghiottone , quindi, quasi una contraddizione in termini, ed tutta qui l'origine della cattiva

    fama che, nel Medioevo, dovette scontare Epicuro, semplicemente per essersi limitato ad

    affermare che "principio e radice di ogni bene il piacere del ventre".

    Golosit e filosofia

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    Bench Dante li sprofondi nel terzo cerchio dell'Inferno, prostrati nel fango e sferzati da una

    pioggia fetida mista d'acqua, grandine e neve, i golosi non paiono, agli occhi della sensibilit

    moderna, imputabili di una cos grave mancanza. La golosit, da peccato capitale meritevole

    di eterna pena divenuta, per gli uomini dell'inizio del terzo millennio, il condimento venialedi tutte le et della vita. Semmai, la "dannosa colpa della gola", come la chiamava l'Alighieri

    nella "Divina Commedia" non pi, al giorno d'oggi, un errore morale, quanto un'infrazione

    dell'ordine estetico. Agli imperativi etici delle societ della fame e della penuria, la moderna

    civilt dei consumi ha sostituito, da tempo, le prescrizioni, talvolta altrettanto ferree e

    vincolanti per le esigenze della moda e del pubblico apparire, della dietetica. Il pensiero

    medievale giudica la gola una forma particolare di intemperanza dei sensi. Se la lussuria

    il peccato della carne inerente all'eccesso nella sfera sessuale, la golosit il peccato dellacarne che riguarda l'eccesso nell'ambito alimentare. Si tratta di una colpa che avvilisce

    l'uomo alla condizione bestiale, appiattendolo a livello della semplice materia. A differenza

    del lussurioso, che ha bisogno del prossimo almeno come oggetto di piacere, il goloso

    sembra ignorare ogni altra umanit, concentrandosi egoisticamente sul referto di quei sensi

    - il tatto, l'odorato e, ovviamente, soprattutto il gusto - che lo mettono in relazione con il

    cibo.

    Detto ci, tuttavia, i moralisti del Medioevo si videro alle prese con una difficolt aggiuntivarispetto al caso esemplare della lussuria, contro la quale, forti dello stato celibatario di

    monaci e chierici, potevano sempre predicare la continenza. Al di l della pratica eccezionale

    del digiuno, nella sfera alimentare emerge, infatti, l'esigenza ineludibile di discernere, data

    la necessit fisiologica del nutrimento, fra bisogno e desiderio. Come scriveva Tommaso

    d'Aquino nella "Summa Teologica", "poich al mangiare connesso necessariamente il

    piacere, non si riesce a distinguere ci che richiesto dalla necessit da ci che vi aggiunge

    il piacere". Nell'atto di mangiare, scrive san Tommaso, noi soddisfiamo due tipi di appetito,

    l'"appetito naturale", a cui appartengono le sensazioni primarie della fame e della sete e

    l'ambito fisiologico del bisogno, e l'"appetito sensitivo", che presiede al desiderio dei cibi e

    dei gusti, e i cui stravizi vanno a costituire il peccato della gola. La distinzione formulata da

    san Tommaso permette di separare le sorti del goloso da quelle dell'ingordo. Se l'ingordigia

    l'eccesso quantitativo della fame e, quindi, l'insaziabilit dell'appetito naturale, la golosit

    ha a che fare, piuttosto, con l'affinamento qualitativo dei sensi. La gola non si appaga per

    la materialit del cibo, ma per l'esaltazione sfrenata delle sensazioni del palato che sfuggono

    al controllo e alla moderazione della ragione. L'autore della "Summa Teologica" parrebbe

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    incline a considerare la gola un peccato veniale, anche se le sue conseguenze possono

    essere mortali. questa, invece, l'opinione di san Giovanni Crisostomo, che all'intemperanza

    del mangiare riconduce lo stesso peccato originale. Cosa fu, infatti, la colpa di Adamo, se

    non il desiderio di assaggiare un frutto, quello dell'albero della conoscenza del bene e delmale, che Dio gli aveva proibito? Dunque, l'intemperanza alimentare pu, per i suoi effetti

    secondari, trasformarsi nel pi grave dei peccati. Prova ne che, talvolta, essa viene punita

    da Dio con il castigo immediato della malattia, dal momento che la golosit spesso nuoce

    alla salute del corpo. Dalle remote pagine degli autori medievali emerge, anticipata

    nell'abbozzo di questa specie di giustizia immanente, la traduzione del peccato etico della

    gola nella colpa dietetica - medica ed estetica - dei moderni. Essere golosi un modo di

    stare al mondo che si compone di godimenti, desideri, sensazioni, ma soprattutto di parole,rappresentazioni e fantasmi. Nella bocca cibo e parola, si diceva, s'incrociano in un

    complesso intrico di ordini simbolici, di echi e di rimandi. Come non dare ragione a Gisle

    Harrus-Rvidi quando, nella sua "Psicanalisi del goloso", ella rileva l'estrema elaborazione

    linguistica, la raffinata capacit descrittiva del "gourmet", l'inevitabile pratica della parola, la

    letterariet intrinseca presupposta alla nascita della gastronomia. Il piacere del goloso, nota

    la Harrus-Rvidi, un piacere simbolico, che si sviluppa in due direzioni. La prima direzione,

    quella dell'arte culinaria sofisticata, "estetica" e si esprime in termini di riflessione teoricae giudizio di valore sul livello di qualit del piacere del palato. l'inclinazione del "gourmet"

    che, come scriveva Brillat-Savarin nella sua celebre "Fisiologia del gusto", permette di

    "cogliere il particolare sapore della coscia sulla quale la pernice si appoggiata nel sonno".

    La seconda direzione "affettiva" e riguarda quel gusto inimitabile, legato alla quotidianit

    e all'ordine dei rapporti affettivi, che Proust sintetizzava nel ricordo emblematico del dolce

    della "madeleine" e del suo profumo. La figura del goloso ci permette cos di individuare nel

    nesso fra il cibo e la parola, fra il piatto e la sua immagine fantasmatica, la nostalgia figurale

    di un rapporto diretto, di un contatto materno, immemoriale e originario, con il nutrimento

    e la sua rassicurazione. Dietro tutte le utopie sociali e politiche, dietro ogni terra promessa

    dove, non a caso, scorrono sempre latte e miele, c' l'utopia alimentare di quell'identit

    assoluta e perfetta che ripristina l'unione con il seno materno, con il cibo tradizionale, con i

    buoni sapori genuini. La vocazione della filosofia ha, a ben vedere, molte tangenze con

    questa duplice declinazione, estetica e affettiva, della golosit quale ricerca di sublime

    autosufficienza e insieme di assoluta originariet: di raffinato gioco linguistico e di scavo

    nell'ineffabilit dell'immemoriale. Anche quando spinta verso ascetici e continenti propositi,

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    la gola del filosofo continuer a nutrirsi di cibi, seppure solo "in figuris", come nelle metafore

    del "pane della verit", delle "parole di latte", dell'"uovo cosmico", dell'"in vino veritas" e,

    vuoi anche, per gli amanti dei superalcolici, della fenomenologia dello "spirito". Allora, il

    pericolo sar, semmai, come gi aveva intuito Aristotele nell'"Etica nicomachea", che, per laprossimit della gola con la parola, il vizio si trasformi per contiguit, e la golosit del filosofo

    si traduca nell'ingordigia, ovvero nell'irrefrenabile loquacit del chiacchierone.