Fiabe e Leggende di Puglia, di Antonio Errico

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“Mi dicono che da fanciullino – scrive Leopardi nello 'Zibaldone' –, stavo sempre dietro a quella o questa persona perché mi raccontasse delle favole...”. È un ricordo, questo, che appartiene un po’ a tutti noi che da bambini, in silenzio e con stupore, ascoltavamo chi ci narrava storie d’incantesimi, di pozioni magiche, di re savi, di passioni, di santi, di sirene, di tesori, di diavoli, di streghe. Storie che risalgono in età matura dal profondo della nostra memoria riportandoci ad un passato che non è solo nostalgia. I testi di questo libro costituiscono riscritture del tutto originali di fiabe e leggende pugliesi che trovano la loro provenienza nella tradizione orale e scritta di cui si dà ampiamente conto. Sono racconti di luoghi, personaggi, monumenti, di tradizioni della regione che per secoli sono passati di bocca in bocca e che, ormai, fanno parte della storia come le innumerevoli e belle testimonianze materiali delle quali la Puglia è giustamente orgogliosa.

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Antonio Errico

Fiabe e Leggende di Puglia

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La terra e le storie

Collana diretta da Antonio Errico e Maurizio Nocera

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Capone EditoreVia Provinciale Lecce – Cavallino 73100 Lecce

Tel. 0832 611877 (anche fax)

online: www. caponeditore. blogspot. com – www. caponeditore. it

mail to: caponeeditore@libero. it – info@caponeditore. it

Copyright 2013

Stampa: Tiemme, Manduria (Italia)

Finito di stampare nel mese di febbraio

ISBN: 978 - 88 - 8349 - 170 - 2

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Fiabe e Leggendedi Puglia

Antonio Errico

Capone Editore

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A Lei, che mi ha sempre raccontato e mi racconta.Come se tutto quello che ha inventato fosse vero.Come se tutto quello che è vero l’avesse inventato.

Tutti ripetevano quello che lui aveva raccontato, ognuno ci metteva la sua parte di memoriae le storie crescevano, diventavano vive.Bruna Dal Lago

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Introduzione

In una delle fiabe di Hermann Hesse c’è un nano che racconta.Quando la sua signora gli comanda di narrarle delle storie, ri-

mane un po’ a pensarci perché le belle storie, dice, sono come laselvaggina più nobile, restano nascoste e, alle volte, accade didover aspettare a lungo, e fare loro la posta nei punti di passo eal margine dei boschi.

Poi, dopo aver pensato, il nano comincia a raccontare, e nullapiù lo ferma finché non giunge alla fine della storia, e mentre rac-conta, lui, alto anche meno di tre spanne, storto, rugoso, buffo,con la testa grossa, con due gobbe, con i piedi larghi e rivolti al-l’interno, mentre racconta, lui diventa mago e re, spegne il sole econduce la sua padrona dentro neri boschi pieni di spavento, osul fondo del mare azzurro e fresco, o per strade favolose e sco-nosciute.

Racconta e trascina la sua signora dove vuole lui, e la storiascende dalla terrazza del palazzo e si adagia sui barconi dei mer-canti e dai barconi al porto e sulle navi dirette alle più lontane re-gioni del mondo.

Chi lo ascolta ha l’impressione di viaggiare in luoghi fantasticie su mari lontani e misteriosi.

Perché il nano è un narratore da strabilio, che ha imparato l’artenella Terra del Mattino, dove i narratori sono tenuti in gran conto,perché, come dice Walter Benjamin, il narratore è persona di sag-gezza e di consiglio.

“Che se oggi questa espressione ci sembra antiquata, ciò di-pende dal fatto che diminuisce la comunicabilità dell’esperienza.Per cui non abbiamo consiglio né per noi né per gli altri”.

Così dice Benjamin nel saggio sull’opera di Nicola Leskov con-tenuto in Angelus novus.

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Molte volte ho invidiato la padrona del nano di Hesse mentrecercavo fiabe e leggende per fare questo libro, mentre scanda-gliavo la memoria per rintracciare racconti ascoltati anni e annifa, mentre me li facevo raccontare un’altra volta.

Invidiavo quella sua esperienza di smarrimento nel raccontodalla quale io non mi sentivo più coinvolto.

C’è un tempo anche per i racconti, come per tutto. Ci sono racconti che appartengono ad un’età e racconti che ap-

partengono ad un’altra. Oppure: ci sono modi diversi di vivereun racconto, di leggerlo o di ascoltarlo.

Spesso mi ha insidiato l’idea della rinuncia. Finché non mi èvenuto in mente quel che dice Roland Barthes ne Il brusio della

lingua (Einaudi, Torino, 1988, pp. 34-35). Barthes individua tre tipologie di lettura. La prima è quella di

una lettura metaforica o poetica; la seconda è quella in cui si attivauna sorta di trascinamento del lettore; la terza viene sintetizzatacon un’affermazione di Roger Laporte: “Una pura lettura che nonfaccia sorgere un’altra scrittura è per me una cosa incomprensi-bile”. In tale prospettiva, la lettura provoca un desiderio di scrit-tura, dipanando una catena di desideri, perché ogni lettura valeper la scrittura che genera, all’infinito.

A quel punto ho sentito l’impulso di metterci le mani, come diceItalo Calvino nell’Introduzione alle Fiabe italiane (Einaudi,1956).

Intanto, resistendo all’impulso, leggevo le Fiabe pugliesi scelteda Giovanni Battista Bronzini e tradotte da Giuseppe Cassieri(Mondadori, Milano, 1983), le Fiabe calabresi e lucane scelte daLuigi M. Lombardi Satriani e tradotte da Saverio Strati (Monda-dori, 1982), le Fiabe campane di Roberto De Simone (Einaudi,1994), Gherardo Nerucci, Sessanta novelle popolari montalesi

(Rizzoli, Milano, 1977), Vittorio Imbriani, La novellaja fiorentina

(Rizzoli, 1976), il fantasmagorico Cunto de li cunti di Giambat-tista Basile. Alcuni saggi, tra cui quello di Beatrice Solinas Don-

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Il più bel fiore che sia mai fiorito

Lontananza d’amore reca mal pensiero, inganno e infedeltà, in-sano desiderio, garbuglio di ragione, fuoco d’ogni senso.

Questo lei sentì: un sentimento di passione subitanea allor chevide il giovane signore forestiero, bello di fattezza e di ventura,mentre lo sposo suo ignaro navigava per l’alto mare aperto e sco-nosciuto.

Per una notte intera si smemorò di tutto. Fu un sogno mai so-gnato. Fu felicità. Ebbrezza. Delirio. Godimento. Piacere. Stor-dimento. Voluttà.

Poi la notte passò e il pentimento le azzannò il cuore come lupoche scende dalla macchia quando è gelo.

Il giorno che lo sposo ritornò dal mare, lei si prostrò ai suoipiedi, disperata.

Confessò la colpa vergognosa, supplicò perdono, implorò pietà,giurò che mai più avrebbe ripetuto quell’oltraggio, tradito il sa-cramento. Mai più.

Lui provava più amore per lei che per se stesso. Ma non la perdonò. Ché troppo gli bruciava l’animo il rovello

della sua donna insieme con un altro.Così le disse: – Preparati a morire.Lei domandò indulgenza ancora, scongiurando. Pianse, si tormentò, ma a niente valse ogni promessa, a niente

valse la grave sofferenza che gli dimostrava. Lui non sapeva perdonarla. Non poteva. Così quel giorno stesso sciolse la vela della sua nave e partì,

con lei. Non lungamente durò il navigare. Quando giunsero dov’è profondo il mare, lui strinse la moglie

ai fianchi e con un gesto rapido, furioso, la gettò fra l’onde in-gorde e scure.

Poi, mestamente, indirizzò la nave verso il porto, pensando che

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Il frate di Avetrana

Che venisse estate o inverno, autunno o primavera, che fossearia di fuoco o che bruciasse il gelo, quando chiariva il giorno luilasciava il monastero e andava casa casa nei paesi a questuare.

Monaco cercantino lo incaricò il priore, perché non era ancoravecchio e poteva camminare, perché non sapeva scrivere numerie parole, perché nell’orto e alla cucina non ci sapeva stare.

Un giorno che l’aprile appena cominciava, girando nel paese diAvetrana, bussò ad una porta e la porta si dischiuse, e allora luila vide, bella come la mattina, con gli occhi rilucenti com’è laluce chiara, con la bocca che pareva matura melagrana, il senofresco e tenero com’è il mandorlo in fiore.

La vide e si stranì. Sentì un rossore che gli avvampava il volto, un tremore nelle

gambe, le labbra secche com’è zolla riarsa, fece per dire – la pacein questa casa – come diceva sempre ad ogni casa, e la linguas’impietrì.

– Fratello – disse lei – ho messo per te da parte l’olio nuovo. Tiaspettavo già lo scorso mese.

Forse nemmeno l’ascoltò. Lo incantò il suono di quella voce sua, come grazia del canto

di una liturgia. Prese tremante l’olio e non benedisse. Non pronunciò parola. Abbassò il capo. Si allontanò in fretta, come se quell’olio lo avesse rubato alla

lampada che arde ai piedi di Maria, lì, nella cappella al monastero. Così quel giorno smise di questuare.All’uscita del paese si sedette all’ombra di un quercia. Sentiva come una nausea. Lo prese il capogiro. L’inferno gli bruciava nella testa.

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L’incanto

Un re e una regina avevano una figlia sola, che era bella più diogni altra bella, che davvero pareva la figlia d’una fata.

Come la fanciulla giunse ai suoi vent’anni, la regina madre con-siderò di maritarla.

Così, pensando ora a un principe, ora a un altro, un giorno de-cise di parlarne con il re.

Che s’infuriò, e accusò la regina moglie di voler destinare unafiglia così giovane a quello ch’è il più triste dei castighi.

A questo pensiero che aveva il re del matrimonio, la regina siadombrò, rimase sbigottita.

Poi umilmente chiese: – Ma dunque, vostra maestà ha già decisodi far rimanere sempre fanciulla la sua erede al trono?

– No, – rispose il re – certo non questo, però desidero che losposo di mia figlia debba essere il più valoroso e il più istruitocavaliere che si conosca al mondo. E siccome non molto facil-mente ci è dato di trovarlo, è necessario che aspettiamo fin tantoche la nostra buona sorte ce lo faccia capitare qui.

Queste parole lasciarono assai mortificata la regina, la quale,non dandosi per vinta, non appena che fu passato un mese, nuo-vamente parlò con il regale sposo del matrimonio della figlia.

Allora il re disse alla regina: – Ebbene, giacché vuoi assoluta-mente dare un marito a nostra figlia, io acconsento solo a condi-zione che venga rinchiusa in un misterioso palazzo, e ne avrà lamano colui che saprà rintracciarla. Chi fallisce alla prova sarà persempre incantato.

Così disse il re, e la regina in fondo fu soddisfatta della risolu-zione.

Allora sotto il palazzo reale il re fece costruire un altro palazzonon meno grande e non meno bello.

Per entrarci c’era un solo passaggio, nascosto da una piccola la-stra di marmo, sulla quale poggiava un piede del letto del re.

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Il campanile dei diavoli

Il cielo divampò di folgori e da quel notturno fulgore si genera-rono creature della tenebra, demoni, spiriti infernali, per compiereil prodigio di una guglia meravigliosa, in una notte sola.

In quella notte.Discesero lì, nella terra di Soleto, richiamati da un desiderio

folle, un comando bizzarro di messer Matteo Tafuri, filosofo emago, astrologo, alchimista, medico, veggente.

Uomini e donne, i vecchi e i bambini, i saggi e gli stolti delluogo e dei paesi vicini, avevano di lui venerazione e paura.

Messer Matteo guariva le febbri, sanava le piaghe, placava gliaffanni, ma con lo sguardo poteva rabbrividire le carni, con ungesto poteva seccare i raccolti, con le parole sapeva ammaliare estordire.

Sulla porta di casa a caratteri di pietra aveva scritto così: humile

so et umiltà me basta. Dragon diventerò se alcun me tasta. Pensò, Matteo Tafuri, che la sua vita meritasse un’opera mae-

stosa che sovrastasse ogni altra opera di uomo, che superasse iltempo suo, che tramandasse la memoria nei secoli a venire.

Così convocò i demoni, quella notte. Con la magia appresasopra i libri delle scuole di Napoli, Parigi e Salamanca, con l’arteche aveva allevato in ogni suo giorno, in tutte le notti d’insonniae di esercizio.

Richiamò i demoni, dunque, e i demoni risposero al richiamodi quell’ingegno misterioso.

Misero mano alla torre nel preciso istante che il giorno si con-segna a un altro giorno, nell’ora del tempo che trapassa, allor-quando il buio è più profondo, e l’innalzarono e scolpironomeraviglie di intagli, di arabeschi, di figure d’uomini e di bestie.

Dalla soglia della sua casa, messer Matteo guardava il compi-mento e solo quello adesso gli importava.

Non gli onori avuti, non le maldicenze del volgo idiota, non il

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La rupe della dannata

Il giorno delle nozze già s’approssimava, e marzo si volgevaormai alla fine.

Non s’era neanche fatto l’imbrunire che all’arco grande dellamasseria si avvicinarono uomini a cavallo.

Due erano, con la lama al fianco. Il massaro si fece avanti e disse: – Che vulite.Uno dei due voltò lo sguardo verso le stalle, poi verso il granaio,

poi ancora alle stalle. Voltò uno sguardo torvo, minacciante. L’altro carezzava la criniera del cavallo e guardava il massaro

come a sfida. Quello che carezzava la criniera del cavallo parlò. Disse: – A giorni vostra figlia si marita.– Con la benedizione di Maria – rispose il massaro.– E del signore Gian Girolamo Acquaviva – disse lo sgherro. Allora il massaro ebbe la dimostrazione di quello che aveva pre-

stamente intuito. Poi parlò l’altro continuando a guardare le stalle e il granaio e le

stalle: – La sera che vostra figlia si marita, quando si sarà fattotutto scuro, qui verrà una carrozza con gli sfarzi e la porterà al pa-lazzo di Nardò, che il conte vuole tributare il giusto omaggio chespetta alla bellezza della sposa.

Il massaro impallidì.Tese la mano verso i due uomini per dire di aspettare, per chie-

dere parola.Uno tirò le redini al cavallo e gridò: – ahhh.L’altro tirò le redini al cavallo e gridò: – ahhh. Sparirono al bivio del sentiero.Quando il massaro arrivò vicino al pozzo, la moglie lo guardò,

e abbassò gli occhi. Lui abbassò gli occhi.

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I fratelli invidiosi

Un padre aveva tre figlioli. I due maggiori avvezzi ad ogni gioco d’azzardo, all’avventura

incauta, a sfidare la fortuna, fino a commettere azioni vili e in-fami, per soddisfare la loro passione scriteriata.

Il piccolo, invece, era onesto e bello. Un giorno mentre i due fratelli giocavano alla morra, per la via

passò la processione del santo del paese. Non se ne curarono, i due, non s’inginocchiarono, continuarono

nel gioco, nel travaglio losco, e anzi pronunciarono bestemmie alsanto e alle sue grazie.

Tornati che furono a casa, ormai a tarda sera, trovarono il padremorto.

Allora si divisero quel poco che l’uomo aveva lasciato, ma ilpiccolo per salvare in qualche modo i suoi fratelli dai debiti digioco, diede loro anche la sua parte.

Alcuni giorni dopo passò per quel paese un ricco mercante. Il giovane si presentò e disse: – Prendetemi con voi, mio buon

signore, che non so come vivere. Sarò onesto e guarderò gli inte-ressi vostri con ogni scrupolo, con ogni attenzione.

Il mercante rassicurato dagli occhi leali e dalle sincere paroledel giovane, lo prese con sé e insieme continuarono il viaggio.

Il giovane camminò per lunga strada, gonfiandosi le gambe, in-sanguinandosi i piedi.

Ma nulla chiese. Allora il padrone gli promise che alla prossimaposta gli avrebbe procurato una cavalcatura.

Quando ebbero fatto ancora strada e strada, incontrarono unvecchio con una giumenta bianca.

– Volete vendere questa bestia? – chiese il mercante al vecchio.– La vendo – rispose l’uomo – per cento ducati d’oro.– È troppo – disse il mercante.– Cento ducati – disse ancora l’uomo.

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Dom Placido

Il padre lo voleva mercatante di tessuti lavorati nell’Oriente, onotaro, o cerusico.

Ma lui appena poteva se ne andava nella campagna dietro la suacasa e costruiva altari con le pietre e poi in ginocchio davanti aquegli altari pregava Iddio e i Santi, ore intere.

Un giorno il padre se ne accorse. Lo chiamò nell’orto e disse: – Figlio, io vagheggio per te un fu-

turo risplendente di ricchezze e di onori. Ma ti vedo coi pensieridivaganti, distratto, a volte sperso, frastornato, come se il cuoretuo inseguisse il niente.

– Non il niente ma il tutto il mio cuore insegue – rispose il ra-gazzo. – La mia volontà e il mio destino è servire il Signore, padremio, ora e sempre. Tu benedicimi e io pregherò per te, per ciascungiorno di tutta la mia vita.

Il padre sospettava la risposta e non si oppose per non mortifi-care l’innocente vocazione di quel figlio.

Un mattino poco dopo l’alba, il padre fece approntare la car-rozza e partì con il figlio per la città di Lecce.

La madre salutò il figlio dal balcone, con una pacata tristezza.A Otranto quel mattino il mare sfolgorava.Placido aveva compiuto i sedici anni il giorno prima.Giunsero a Lecce che il sole era già alto.Il portone del convento degli Olivetani si aprì e Placido e il

padre si rivolsero uno sguardo. Solo uno sguardo profondo. Per saluto. Placido entrò. Il portone si richiuse. Passò nella penombra dei lunghi corridoi seguendo un monaco

silenzioso e vecchio. Il monaco a un certo punto si fermò. Gli fece un cenno.Placido capì che era la sua cella.

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Greguro e Margherita

Là, dove la gravina è misteriosa, dove la grotta, l’anfratto, ce-lano segreti, nel paese chiamato Massafra, perché roccia spaccata,ferita della terra, là, dove Annibale passò con la sua armata, unavolta vissero Greguro e Margherita.

Padre e figlia. Vissero una volta, quand’era l’anno Mille, quando la paura della

fine del mondo sconvolgeva i pensieri, i sentimenti. Lei nottetempo se ne andava per dirupi, costeggiava i cigli dei

burroni, per raccogliere le erbe che poi lui, mago, stregone, gua-ritore, trasformava in pozioni e unguenti per medicamento dellegenti del suo villaggio.

Così andava, per Greguro e Margherita, la vita, di giorno ingiorno, finché invidia non cominciò a tessere le trame, e Marghe-rita fu sospettata di stregoneria, per il suo notturno vagare, di averstretto patti col demonio, perché sapeva distinguere i fiori e leerbe anche nell’oscurità della gravina.

Voce su voce, maldicenza e maldicenza, calunnia con calunnia,riempirono il villaggio, aizzarono i suoi abitanti, gli tolsero me-moria di ogni guarigione di Greguro, di ogni bene fatto, di ognisanamento.

Allora gli abitanti del villaggio raccolsero legna di bosco, fra-sche, fascine, prepararono un rogo perché sul rogo ardesse Mar-gherita, perché il fuoco cancellasse ogni peccato.

Poi tutto il villaggio si accalcò intorno al rogo. Greguro fu legato e lasciato nell’antro, tremante, disperato. Margherita aveva una veste dell’identico colore che hanno la

purezza e l’innocenza. Le strapparono la veste, l’esposero a seno nudo all’insulto, allo

sputo, alla bramosia malata.Il fuoco cominciava già a rodere la carne, quando l’igumeno

Anselmo giunto lì dal monastero vicino, urlò con la forza della

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La fortuna di Gasparotto

– Fortuna, fortuna – chiamò dal punto più alto della MontagnaSpaccata, da dove si genera una vertigine di sconfinamento, una

vaga illusione d’infinito. – Fortuna, fortuna – chiamò, in una notte d’estate sul finire, cheprofumava d’alghe, di menta, di mirto, con una luna che pareva

sorgere dall’onda. – Fortuna, fortuna – chiamava Gasparotto, il più povero dei ser-vitori di don Gregorio, danaroso commerciante con bottega di

grano, vino e olio nella parte più antica del paese.Fortuna s’inginocchiava ai piedi di don Gregorio. Quanta più merce usciva dalla bottega, tanta e di più ne entrava,

miracolosamente. Ricolmava scansie, depositi, ripostigli, e ilcommerciante accumulava denari, accostava ricchezze e posse-dimenti.

Finché da questa ricchezza non si sentì perseguitato, assediato,oppresso.

Finché questa ricchezza non gli venne in uggia, finché non lostancò.

Allora mandò il fedele e povero servo Gasparotto a dire alla for-tuna di non fare più doni a don Gregorio, che lui non sapeva piùche farsene della roba, che per carità si scordasse di lui almenoper un poco.

Due carlini promise don Gregorio per la ricompensa di questaambasciata.

Gasparotto andò. Pensò che fortuna si trovasse lontana, forse al di là del mare,

tra le genti di una sponda sconosciuta, e che per farsi sentire dalei avrebbe dovuto gridare, attraversare la distanza con la voce,lasciare che il vento la portasse, la spandesse come polline difiore.

Così si inerpicò sulla Montagna Spaccata.

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La statua di neve

Quell’inverno venne neve, neve e neve, tanta neve che mai sen’era vista tanta, tanta neve che arrivò ai davanzali, ricoprì la sca-linata della chiesa, spaccò i rami agli alberi della piazza.

Venne neve, neve e neve, in un paese di vigne e di uliveti, in unpaese di Puglia di cui la leggenda si è scordato il nome, perché laleggenda così fa: dimentica e ricorda, dimentica ancora e poi ri-corda ancora, inventa.

Ma era un paese devoto di San Rocco. Forse era Ruvo o era Ruffano, forse era Noci, Ceglie, Bitonto.

Forse nessuno di questi ma un altro ancora. In quel paese dai tanti e nessun nome, venne neve, neve e neve,

in un inverno che la guerra era finita da poco, la guerra del ’15 –’18. Venne neve per due settimane. Senza smettere mai.

La gente rimase chiusa nelle case. Finì la farina, la lenticchia, le fave. Finì la legna. Ghiacciarono

le fontane.Veniva la neve e la gente pregava.Allora qualcuno disse: – Portiamo il Santo Rocco in proces-

sione, che faccia smettere questo nevicare, che faccia splendereun raggio di sole.

Così sette, otto, dieci valorosi, reduci dal fronte, dalle trincee,si dissero che se avevano sfidato la morte, certo potevano sfidarela neve.

Uscirono di casa, si trascinarono fino alla piazza, arrivarono allasoglia della chiesa. Ma la neve aveva ricoperto la porta.

Allora pensarono: – Se neve abbiamo di neve lo facciamo. Iden-tico a quello che sta in chiesa.

Dissero così, e cominciarono a impastare la statua di San Roccocon la neve.

Gli fecero il tabarro, il cappello a larga tesa, il bastone, la bi-saccia, la fiaschetta, ai piedi gli fecero il cane con il tozzo di pane

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L’asino sopra il campanile

Che sia sulla pianura del Salento o che sia sopra i monti del Gar-gano, in ogni paese da secoli si narra che il fatto accadde nel paesevicino. Per cui accadde in ogni paese oppure non accadde in nessuno mai.Per quell’ambiguità che pretende la leggenda, per il chiaroscurodi finzione e verità, per la mistione di storia e d’invenzione, pos-sibile e impossibile, fantastico e realtà.

Allora. C’era una volta un paese vicino a un altro paese, e nel paese c’erachiesa e campanile, e sul campanile spuntò un filo d’erba, forsetarassaco, cicoria agreste, che cresceva a vista d’occhio, si muo-veva ad ogni vento. Nel paese c’erano due fratelli che avevano un asino sardignolodi tre anni. C’erano anche altri fratelli nel paese che avevano un asino. Maquesti erano due, come si può dire?, d’intelligenza vivida. Un ful-gore.Un pomeriggio che volgeva all’imbrunire, uno dei due guardò ilcampanile, restò a lungo a guardare il campanile, poi sempreguardando il campanile e quell’erba verde rigogliosa sulla cima,disse così: – Frate’, guarda com’è bella. Che ne pensi se la fac-ciamo mangiare al ciuccio nostro?Il fratello lo guardò soprappensiero. Poi guardò l’erba sopra il campanile. Poi ancora il fratello, riflettendo. Poi chiese: – E come facciamo a far salire l’asino, frate’.L’altro guardò di nuovo il campanile, l’asino, il fratello, l’erba, ilcampanile, e come se la domanda l’avesse sorpreso, ché non siaspettava una domanda così scema, rispose: – Frate’ma ragionapoco poco. La corda per legarlo ce l’abbiamo, la forza per tirarlo,

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Regina per imbroglio

Diciott’anni aveva ed era bella, con gli occhi del colore che ha ilmare, i capelli del colore che ha il sole, la bocca ch’era frutto sa-porito.

L’altra pure aveva quell’età, ed era storpia e brutta, con gli occhibianchi come fossero di gatto, e i capelli come quelli di una strega,foschi, arruffati, sudici.

Ma le madri dell’una e dell’altra fanciulla, strette da vincolo dionesto vicinato, s’erano giurate la solenne promessa che venendoa morte una di loro, l’altra avrebbe accolto l’orfanella nella propriacasa, tenendola al modo che si tiene una figliuola.

Accadde dunque che la malasorte bussò all’uscio della giovanebella, sicché la madre le morì e lei fu accolta dall’altra donna, peronorare la promessa.

A quel tempo un re grande e potente vagheggiò l’idea di prendermoglie e cominciò il giro di tutte le sue terre ch’erano vaste assaie di diverse genti, per trovare una sposa degna d’un sovrano.

Giunse al villaggio, dunque, e vide lei. Vide l’orfana dalla bellezza tralucente, e gli occhi affogarono nei

suoi, e se ne innamorò perdutamente.Fortuna porta invidia, si sa bene. Invidia portò alla fanciulla bella, che la madre dell’altra fu presa

da dolore perché il re aveva scelto lei e non la sua figliola. Vendetta, giurò a se stessa, allora, aspra e cocente.

Per campagne, per città, per i villaggi, per contrade, per i borghi,per le corti, gli araldi annunciarono le nozze, celebrate poi da lì abreve tempo, con sfarzo d’oro e di gioielli rari, di ornamenti, dia-manti preziosi, pezze d’argento.

Vennero principi e principesse, dame, scudieri, cavalieri; vennerocantori, paggi, maghi, saltimbanchi, buffoni, giullari, giocolieri.

Fu festa in ogni dove di quel regno.

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Le tre sorelle

C’era una volta una madre e con la madre c’erano tre figlie cheper guadagnarsi di che vivere passavano tutto il giorno a ricamare.

Una sera ch’era di carnevale, mentre intorno al fuoco ricama-vano com’era il loro solito fare, una delle tre disse alla madre: –Madre, ora ch’è il tempo d’allegria, narraci qualcosa che fu degliani tuoi, per rallegrarci un poco.

Ma la madre disse: – Non è tempo per me, figlie, adesso, d’es-sere allegra nè di rallegrare.

Intanto si scatenava il temporale. Grandine e vento infuriavanoalla porta, i tuoni rintronavano nell’aria, i lampi mettevano afuoco il cielo nero.

Allora, forse per distrarre la paura, la più grande delle tre disse:– Va bene, racconterò qualcosa io, dunque. Vi confesserò qual èla fantasia che mi fa essere felice, a volte.

– Racconta – dissero le altre. – Ecco, vi dico che per sentirmi felice immagino di sposare il

servitore del re. – Ehhhhhh, – esclamarono la madre e le altre due figlie. Ri-

dendo esclamarono ehhhhh.Qualche minuto passò e l’altra figlia disse: – Voglio raccontarvi

un desiderio anch’io. – Racconta anche tu, – dissero le altre – racconta anche tu. – Ecco, nei sogni che faccio tenendo gli occhi aperti, io mi fi-

guro stretta tra le braccia del cocchiere del re. Ancora una volta la madre e una figlia dissero ehhhhh.

La più piccola intanto taceva.

– E tu – le chiesero allora – quali sono i pensieri che hai? Rac-contaci i tuoi pensieri, dai, dai.

– Voi siete sciocche, disse la fanciulla. Che cosa potrebbero

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Pizzomunno

Una volta che non si sa di quale tempo, viveva in un villaggioPizzomunno, giovane bello e forte, pescatore, come tutti gli altriuomini di là.

Il nome suo diceva vetta del mondo, vertice, culmine, sommità,saetta, bagliore, araldo di bellezza, suscitava meraviglia e voluttà.

In quello stesso tempo, nello stesso luogo, viveva una fanciullabella e pura, con gli occhi del colore quando è chiaro il cielo, coni capelli come il grano a giugno pieno.

Cristalda si chiamava, e il nome risuonava quasi fosse magni-fico cristallo tra le povere capanne del villaggio.

Bellezza con bellezza a volte infiamma amore, e amore in-fiammò per Cristalda e Pizzomunno, che si giurarono fedeltàeterna, con il cuore e la ragione.

Ogni giorno, quando s’alzava il sole, Pizzomunno affrontava ilmare e nel mare lo aspettavano le Sirene innamorate per intonarecanti teneri alla sua bellezza.

Perché non erano loro ad ammaliare Pizzomunno ma era lui cheammaliava le sirene, con i suoi occhi tralucenti come stelle.

Gli offrivano il trono del loro immenso regno, gli agi dei palazziche si alzavano nel mare, gli offrivano il loro amore fino al puntoda rinunciare al canto, se avesse accettato.

Gli promettevano la vita senza affanno, diletti infiniti, estasi,sapienza, sanità.

Gli promettevano l’immortalità. Ma l’amore di Pizzomunno resisteva a ogni tentazione, ad ogni

insidia, ad ogni seduzione, perfino a quella di fermare il tempo,di vivere in eterno.

Cristalda era la sua donna, il suo destino.Cristalda contemplava vita e morte, felicità e dolore se dolore

fosse giunto, le ferite del tempo, ebbrezza, nostalgia. Così pensava e voleva, Pizzomunno.

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Antonio Errico

Fiabe e Leggende di Puglia

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Tumulo e Kalimera

Al tempo che l’esercito di Roma minacciava le mura della cittàdi Taranto, una storia d’amore attraversò la guerra.

A volte l’amore riesce anche a fermare la guerra. A volte invece no, non riesce a fermarla. A quel tempo, dunque, nella città di Taranto viveva una ragazza

che si chiamava Kalimera. Bella come il giorno racchiuso nel suonome, come l’aria della mattina quand’è fresca, come raggio disole che fiorisce da una nube, come albero fiorito a primavera,come rugiada che brilla sulle foglie d’oleandro.

Tumulo era il comandante dell’esercito nemico. Bello anche lui. Giovane. Spavaldo. Un giorno che tutt’intorno alla città si spandeva una calma

strana, che non si credeva, Kalimera si affacciò alla cinta e da lìguardò oltre il muro innalzato davanti al fossato con zolle di terra,massi, tronchi, rovi, pali di legno a punta.

Vide le tende, le catapulte, le baliste. Poi lo sguardo si fermò su una delle torri innalzate nell’accam-

pamento a intervalli regolari.Lo sguardo si posò sopra una delle torri, e lo vide. Lui vide lei. A volte solo uno sguardo cambia le strade della vita. Quello sguardo cambiò le strade della vita di Tumulo e Kali-

mera.Per più volte, in ogni modo, cercarono d’incontrarsi. Per più volte, in ogni modo, inutilmente. Perché Taranto aveva mura salde e sentinelle all’erta, che non

consentivano a Kalimera di uscire né a Tumulo di entrare. Ma l’amore sa aprirsi varchi tra le difese più sicure, ingannare

la veglia della più scaltra sentinella, così una sera, quasi notte,l’amore di Kalimera aprì il varco nelle mura, ingannò gli occhidelle sentinelle.

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Antonio Errico

Fiabe e Leggende di Puglia

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Idomeneo

Come le onde del mare che solcava erano i ricordi nella mentedel figlio di Deucalione, nipote di Minosse, re di Creta. Profondicome il mare. Quieti a volte. A volte turbinosi.

Rivedeva il giorno che arrivò a Troia, con le ottanta navi. Rive-deva i suoi compagni. Le furie della guerra. Enea, che aveva am-mirato, temuto.

Poi i ricordi andavano più in fondo, sempre più in fondo, arri-vavano fino a Elena, che forse aveva amato, che forse aveva sol-tanto desiderato. Come gli altri, tanti altri.

Era anziano Idomeneo, quando ritornava. La guerra era finita, Troia ormai distrutta. Ritornava alla sua città, da sua moglie Meda. Sciabordavano i ricordi come le onde alle fiancate della nave. La notte che entrò a Troia nascosto nella pancia del cavallo di

legno era come un’ombra gigantesca che si spandeva nel pen-siero.

Poi si domandava che cosa ne avrebbe fatto del bottino di cuierano cariche tutte le sue navi, e quante volte e quante avrebbebarattato quel bottino per riavere indietro soltanto uno dei suoianni, soltanto un giorno di gioventù. Uno soltanto.

La tempesta che si annunciava lo distrasse. Il mare s’ingrossò, si fece come mai aveva visto il mare. Il vento squarciò le vele, schiantò gli alberi. I compagni gli chiedevano che cosa fare. Doveva essere lui a decidere. Era lui che comandava.Ma Idomeneo sapeva combattere gli uomini. Non gli dei. Sa-

peva schivare le lance dei nemici non i fulmini del cielo. A volte anche gli eroi hanno paura. Come ogni altro uomo.

Hanno paura.Come ogni altro uomo Idomeneo ebbe paura della violenza del

mare, del furore del cielo.

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Il menestrello

E ogni giorno s’improvvisava una caccia, un torneo, una giostra,una festa, un teatro di funamboli e acrobati per uno svago della prin-cipessa che soffriva di malinconia.

Inutilmente, però. Giorno dopo giorno lei smagriva e si serrava nel silenzio come

una prigione.Molti e molti principi avevano chiesto la sua mano e a tutti aveva

opposto uno sdegnoso rifiuto dicendo che sarebbe andata sposa acolui che con ogni sacrificio avesse dimostrato per lei il più grandeamore.

Una sera, mentre nella stanza più grande del castello le fiaccoleilluminavano una festa favolosa, all’improvviso apparve un mene-strello, che al re domandò licenza di mostrare ai presenti il suo ta-lento.

Il re acconsentì.Era vestito come un cavaliere. Un largo cappello con una piuma

bianca. Un lungo mantello che gli avvolgeva le spalle. Salutò con un inchino. Poi cominciò a cantare.Tutti lo ascoltavano rapiti e dicevano e giuravano che mai avevano

conosciuto menestrello o giullare che a questo potesse minimamenteassomigliare.

Per tutta notte cantò, finche fu l’alba.Quando la prima luce cominciò ad accarezzare le grandi vetrate

della sala, il menestrello fece per congedarsi, ma ciascuno volevamostrargli il proprio compiacimento con denari e doni. Compresala figlia del re.

Lei gli porse una spilla che fino a quel momento aveva ornato ilsuo seno.

Ma il menestrello, con timore e pudore, abbassando gli occhi,disse: – Dame, cavalieri, nobili signori, io cantai per allietarvi sola-mente, o per commuovervi, non per ricompensa.

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Page 36: Fiabe e Leggende di Puglia, di Antonio Errico

Le procellarie

Volano alte le procellarie per sorvegliare la tomba e la leggendadel loro compagno antico.

Volano alte e lo piangono con il loro strido, o seguono le navimestamente, per memoria di un altro viaggio in quello stesso mare,in un altro tempo, lontano. Quando furono uomini, compagni dibattaglia e d’avventura del figlio di Tideo e di Deipile, del guer-riero valoroso che portava il nome di Diomede.

Simile alla piena di tumido torrente, era Diomede in battaglia, diceOmero. Con Enea si confrontò in terribile duello frantumandogli ilginocchio con una pietra, e il figlio d’Anchise sarebbe certo mortosotto i suoi colpi se Afrodite non fosse accorsa a proteggerlo. AlloraDiomede ferì anche lei, la dea bella e leggiadra, ad una mano.

E la dea si vendicò condannando Diomede a non essere ricono-sciuto dai suoi stessi figli al ritorno ad Argo e a trovare la sua sposaEgialea amante d’altri, di Comete, figlio di Stenelo.

Così accadde quando ritornò. Allora Diomede riprese ancora il mare con i suoi compagni più

fedeli, Acmone, Lico, Ida, Nitteo, Abante, Ressenore.A lungo vagò per l’Adriatico, fermandosi in più porti, inse-

gnando alle popolazioni l’arte di domare i cavalli e di navigare. Fondò Vasto, Andria, Brindisi, Benevento, Siponto, Canosa,

Manfredonia, San Severo, Venosa. Sposò Evippe, figlia di Dauno. Una caverna delle Tremiti, sull’isola di San Nicola, fu il luogo

della sua sepoltura. Afrodite trasformò i suoi compagni in diomedee, perché ogni

giorno bagnassero la tomba dell’eroe con l’acqua del mare. Volano alte le procellarie, Acmone, Lico, Ida, Nitteo, Abante,

Ressenore. Volano alte per sorvegliare la tomba e la leggenda delloro compagno antico. Volano alte e lo piangono con il loro strido.O seguono le navi. Mestamente.

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Page 37: Fiabe e Leggende di Puglia, di Antonio Errico

Il Laùro

C’erano due re, una volta. Uno governava un paese su una sponda. L’altro un paese sopra

l’altra sponda. Uno aveva una figlia, ch’era meraviglia.L’altro aveva due figli. Un mattino la figlia del re navigava in compagnia delle dame

di corte e dalla prua del vascello regale scrutava il punto dove ilcielo e il mare si fanno una sola linea, un solo colore.

Un altro vascello intanto navigava, andando incontro a quellodella graziosa, un altro vascello anch’esso regale, e sulla pruac’era un giovane principe con gli occhi che perlustravano il mare.

I due vascelli quasi si sfiorarono e gli occhi dei due giovani s’in-crociarono e i loro cuori ebbero un sussulto.

Per più volte dopo quella volta il principe e la principessa s’in-contrarono sul mare, e ogni volta provavano una gioia, e ognivolta si scambiavano un saluto tenero, affettuoso, appassionato.

Poi un mattino i vascelli s’accostarono, il principe e la princi-pessa si sfiorarono la mano, lui domandò se lo voleva sposare, leigli rispose che lo voleva sposare.

Ma il re padre dei due figli aveva deciso di lasciare regno e for-tune al primogenito che era l’altro figlio e non quello che la prin-cipessa amava.

Il giorno che il primogenito decise di prendere moglie, espresseil desiderio di sposare la figlia del re che regnava sulla sponda aldi là del mare.

Così il padre mandò un’ambasceria. Il re padre della principessa manifestò tutta la sua letizia e non

contò il disaccordo della bella fanciulla, e non contò la sua dispe-razione, né l’intercessione della regina alla quale la figlia avevarivelato la passione.

Si celebrarono le nozze, dunque.

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Page 38: Fiabe e Leggende di Puglia, di Antonio Errico

I garofani del Bey innamorato

Dalla spiaggia giungeva una voce alta, soave. Il Bey si fermò ad ascoltarla, rapito. Sembrava che la voce affiorasse dal mare e che come una

brezza leggera oltrepassasse le dune, attraversasse la boscaglia,si sciogliesse nell’aria.

Era il tempo che i veneziani tenevano Otranto. Il Bey abitava un grande palazzo in città. Era giovane e bello e gentile, il Bey. Sul balcone cresceva garofani bianchi con un profumo che si

confondeva con quello degli oleandri e del mare. Udì quella voce, dunque, e poi vide lei. Vide i suoi capelli lun-

ghi, le sue labbra rosse, gli occhi suoi neri. Correva sulla sabbia di Alimini, poi si faceva onda tra le onde,

poi usciva dall’acqua e correva. Come una puledra. Cantava ecorreva.

Il Bey restò lì a guardarla incantato. Poi carezzò la criniera del cavallo e si sospinse verso di lei. Lei lo vide e corse ancora di più, forse per gioco, forse per

paura. Il Bey lanciò al galoppo il suo stallone arabo e infine la rag-

giunse, sulla vetta di una duna.Allora la ragazza si fermò. Lo guardò fisso, quasi per sfidarlo.

Poi respirò forte e si gettò per un pendio, stretto, tra i rovi, dovenon poteva seguirla neanche il cavallo.

Il Bey tornò in città, soprappensiero e felice. Aveva negli occhi quel volto. Sentiva nel suo cuore quello

sguardo. Ai suoi uomini comandò di scoprire chi fosse mai quella divi-

nità che aveva figura di donna.Nulla ci volle a scoprirlo, che ciascuno in Otranto conosceva la

figlia dello speziale.

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Page 39: Fiabe e Leggende di Puglia, di Antonio Errico

Il tradimento del frate di Otranto

Così pensò che avrebbe potuto avere un altro Dio. Come il suo Dio compassionevole e misericordioso, creatore,

sapiente, plasmatore. Un Dio che tutto vede e tutto ascolta. UnDio che condanna e che perdona. Altissimo, sublime, maestoso,che dona il tempo e del tempo chiede il conto, un Dio saggio, Diod’amore, generoso, che protegge o che abbandona ad un destino,un Dio di verità e di giustizia, che è principio e fine di ogni cosa,padrone della vita e della morte, eterno, impenetrabile, glorioso,onnipotente e misericordioso, colmo di maestà e magnificenza,che procura abbondanza e carestia, un Dio che è luce e buio,l’eterno e l’infinito, l’inferno e il paradiso. L’assoluto.

Così pensò che avrebbe potuto avere un altro Dio, e uscì dal-l’abbazia, soffocato di colpa e di terrore, come se dal tabernacoloavesse rubato il corpo del Risorto, attraversò la sera afosa, ma-dida, rappresa, scese verso il porto, segnandosi ad ogni passo conla croce, come per scampare a una condanna, come per placarsida un delirio.

Da lontano vide una luce di petrolio. Appena arrivò nei pressidi San Pietro. Appena prese la strada delle case senza porte.

I battiti alle tempie gli facevano dolore. Non pensò nulla. Non indugiò un istante. Non pronunciò una

sillaba sola di preghiera. Quella sera separava la sua vita e la sua morte. Quella sera era la sua salvezza e il suo martirio. Quella sera era il morso feroce di un demonio. Ahi. Si sfilò la croce di legno che portavo al collo, come per

proteggerla dal Male. La ripose in fondo al saio.Poi entrò nel lupanare. Senza vergogna varcò la soglia della malabolgia. Un tanfo acre. Un odore di vinaccia. Marinai ubriachi e malati

di bordello. Parole oscene e sguardi dentro il vuoto. Gemiti d’or-

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Antonio Errico

Fiabe e Leggende di Puglia

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Indice

Introduzione pag. 5

Il più bel fiore che sia mai fiorito 11

Il frate di Avetrana 18

L’incanto 22

Il campanile dei diavoli 27

Il fantasma di Bianca 29

La rupe della dannata 31

I fratelli invidiosi 35

Dom Placido 41

Greguro e Margherita 45

La figlia di re Fierarmata 47

La fortuna di Gasparotto 56

La statua di neve 60

L’asino sopra il campanile 62

I Lestrigoni a Santa Cesarea 64

Regina per imbroglio 65

Il principe vecchio 71

Il crocefisso del disertore 73

Le tre sorelle 75

Coraggio e morte di Giulio Antonio Acquaviva 82

Quando venne tempo di malaria 84

Pizzomunno 88

Tumulo e Kalimera 90

Il miracolo dei fanciulli 92

Idomeneo 94

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Page 42: Fiabe e Leggende di Puglia, di Antonio Errico

San Giuseppe e il cappello 97

Il menestrello 99

Il carnevale del conte 103

Le procellarie 106

Il tesoro di Diomede 107

Il Laùro 109

I garofani del Bey innamorato 112

Il tradimento del frate di Otranto 117

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Antonio Errico

Fiabe e Leggende di Puglia

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