LA FORESTA DEGLI DEI E DEGLI UOMINI2 · 2011. 10. 25. · fiorire attorno ad esse miti, fiabe e...

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Comunità Montana del Gemonese, Canal del Ferro e Val Canale LA FORESTA DEGLI DEI E DEGLI UOMINI immagini, parole ed arte “Troverai più nei boschi che nei libri. Gli alberi e le rocce ti insegneranno cose che nessun maestro ti dirà.” Bernardo di Chiaravalle. (Epistola 106 n. 2) In omaggio all’anno internazionale delle foreste, questa esposizione ripercorre cronologicamente alcune tappe della civiltà occidentale in cui si evidenzia il fondamentale e stretto rapporto che, fin dagli i- nizi della sua storia, l’uomo ha intrapreso con la foresta. Dai primitivi culti degli alberi, in epoca storica le testimonianze artistiche, letterarie e culturali sia dei popoli nordici che di quelli mediterranei, provenienti da una comune radice indoeuropea, ci consegna- no l’immagine dell’albero e della foresta come soggetti imprescindibili della nostra storia, in quanto più antichi e longevi di noi e quindi testimoni e custodi delle nostre paure e delle nostre speranze. Per dirla con Tiziano Fratus, poeta bergamasco, “grazie alla loro presenza immutabile s’instaura un rapporto con il territorio che va a rafforzare l’identità che ogni essere umano indossa”. Parlare dell’albero, insomma, è parlare di sé stessi. Ai nostri giorni si parla con sempre maggior frequenza della distruzione di boschi e foreste del pia- neta e degli effetti disastrosi che questo comporterà a medio e lungo termine per tutti gli esseri viventi. Si parla poco, però, della perdita, assieme alle foreste, di una parte fondamentale di noi stessi: Mario Ri- goni Stern, il cantore della natura, ci ha consegnato questo messaggio: “Non ci sarà mai vita senza fore- sta”. L’omaggio che questa mostra vuole tributare alla foresta e agli alberi, si concretizza quindi in un’esposizione fotografica cui si affiancano una serie di riproduzioni di dipinti dove diversi pittori, dagli inizi dell’800 ad oggi, hanno interpretato gli alberi e la foresta. Paola Chiopris

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Comunità Montana del Gemonese, Canal del Ferro e Val Canale

LA FORESTA DEGLI DEI E DEGLI UOMINI immagini, parole ed arte

 

 

“Troverai più nei boschi che nei libri. Gli alberi e le rocce ti insegneranno cose che nessun maestro ti dirà.” Bernardo di Chiaravalle. (Epistola 106 n. 2)  

In omaggio all’anno internazionale delle foreste, questa esposizione ripercorre cronologicamente alcune tappe della civiltà occidentale in cui si evidenzia il fondamentale e stretto rapporto che, fin dagli i-nizi della sua storia, l’uomo ha intrapreso con la foresta. Dai primitivi culti degli alberi, in epoca storica le testimonianze artistiche, letterarie e culturali sia dei popoli nordici che di quelli mediterranei, provenienti da una comune radice indoeuropea, ci consegna-no l’immagine dell’albero e della foresta come soggetti imprescindibili della nostra storia, in quanto più antichi e longevi di noi e quindi testimoni e custodi delle nostre paure e delle nostre speranze. Per dirla con Tiziano Fratus, poeta bergamasco, “grazie alla loro presenza immutabile s’instaura un rapporto con il territorio che va a rafforzare l’identità che ogni essere umano indossa”. Parlare dell’albero, insomma, è parlare di sé stessi. Ai nostri giorni si parla con sempre maggior frequenza della distruzione di boschi e foreste del pia-neta e degli effetti disastrosi che questo comporterà a medio e lungo termine per tutti gli esseri viventi. Si parla poco, però, della perdita, assieme alle foreste, di una parte fondamentale di noi stessi: Mario Ri-goni Stern, il cantore della natura, ci ha consegnato questo messaggio: “Non ci sarà mai vita senza fore-sta”. L’omaggio che questa mostra vuole tributare alla foresta e agli alberi, si concretizza quindi in un’esposizione fotografica cui si affiancano una serie di riproduzioni di dipinti dove diversi pittori, dagli inizi dell’800 ad oggi, hanno interpretato gli alberi e la foresta. Paola Chiopris  

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LE CIVILTA’ ANTICHE

Nei tempi antichi le piante venivano considerate manifestazione concreta della divinità e ad esse gli uomini si rivolgevano per chiedere protezione e conforto, facendo in questo modo fiorire attorno ad esse miti, fiabe e leggende. Ad ogni specie arborea venivano attribuite ca-ratteristiche particolari che rispondevano, con diverso equilibrio alla compartecipazione tra natura e divino. Nei vari culti destinati agli alberi, il più famoso è quello dell'Albero Cosmico o Albero della Vi-ta, presente sia nelle civiltà nordiche che in quelle mediterranee.

L’albero sacro asvattha (ficus religiosa) è prota-

gonista di una lunghissima tradizione sacrale

nell'area indoeuropea. L'esempio riporta un sigil-

lo ritrovato nell'antico sito di Mohenjodaro in In-

dia, risalente al 3000 – 1500 a. C. In basso a si-

nistra, c'è una rappresentazione diagrammatica

dell'orto sacro, con un simbolo circolare al cen-

tro, fonte di ogni creazione e punto da cui l'albe-

ro cosmico cresce. Gli animali con le corna sono

simbolo di fertilità e forza, e crescono dall'albero.

Esempio, sempre indiano, di bodhi tree o albero

dell'illuminazione, quello sotto al quale Gautama

Budda detto Siddhartha dopo lunga meditazione

raggiunse il nirvana.Un albero della vita e della

conoscenza, dunque, che non ci può non far

pensare all'albero del bene e del male di biblica

memoria.

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Il frassino Yggdrasill della mitologia scandinava è l'asse intorno al quale si organizza l'univer-so fisico e metafisico, tramite fra i tre mondi: gli Inferi, il mondo terreno e il cielo.

Un frassino io so ergersi,

si chiama Yggdrasill,

un albero sacro, asperso di candido fango,

di lì provien la rugiada

che cade nella valle,

esso sta sempre verde

presso il fonte di Urdhr.

Snorri Sturluson (1178 – 1241), Edda

Un vocabolo che collega la sacralità dell'albero nelle due culture, occidentale e classica, è druido. Il termine che designa l'antico sacerdote celtico, infatti, è costitui-to da una radice greca druid, quercia, e un suffisso in-doeuropeo, comune alle due civiltà, wid, sapere, scienza, e starebbe quindi a significare “coloro che sanno per mezzo della quercia”. Nella miscellanea di componimenti poetici contenuti nel gallese Libro rosso di Hergest, manoscritto duecen-tesco, è sopravvissuta tra gli altri una lunga poesia, o un gruppo di poesie mescolate assieme, nota come Cad Goddeu, La battaglia degli alberi. Questi componimenti fanno parte di una tradizione ora-le antichissima, risalente ad almeno l'età del bronzo, viva e diffusa prima della conquista del Galles da parte dei Cimri nel V sec. d. C. e che i successivi menestrelli gallesi tennero in vita per secoli. In questa lunga poe-sia di più di 230 versi, protagonisti della battaglia, me-tafora alquanto criptica di un antico sapere gelosamen-te conservato, sono gli alberi.

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(…) Gli ontani in prima linea, furono loro a dare l'inizio. Il salice e il sorbo selvatico furono lenti a schierarsi. Il susino è un albero non amato dagli uomini; di natura simile è il nespolo, che vince una dura fatica. Il fagiolo porta nella sua ombra un esercito di fantasmi. Il lampone costituisce non il migliore tra i cibi. Al riparo vivono il ligustro e il caprifoglio, e l'edera durante la sua stagione. Grande è la ginestra spinosa in battaglia. Il ciliegio era stato rimproverato. La betulla, pur molto magnanima, si schierò in ritardo; non fu per codardia, ma per le sue grandi dimensioni. (... )Il pino nella corte, forte in battaglia, grandemente lodato da me alla presenza di un re, gli olmi sono i suoi sudditi. (…) L'agrifoglio verde scuro fu molto coraggioso: difeso da ogni lato dalle punte, che feriscono le mani. I pioppi durevoli molto franti in battaglia. (…) La quercia che si muove agilmente, dinanzi a lei tremano cielo e terra, robusto custode della porta con il nemico è il suo nome in ogni terra. Il gittaione avvinto insieme fu offerto per essere bruciato.(...) Anonimo, Cad Goddeu, XIII sec.

La croce celtica è anche una stilizzazione dell'al-bero della vita: i quattro elementi uniti al quinto, poiché il cerchio è visto come simbolo di energia, con le quattro feste stagionali (Samhain 1 novem-bre, Imbolc, 1 febbraio, Beltane, 1 mag-gio,Lugfhnasadh, 1 agosto)

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Nella mitologia classica si conferma il ruolo di sacralità di cui è investito l'albero anche per un valore aggiunto, quello di essere una delle fonti primarie di sussistenza per l'uomo. Nella con-tesa tra Atena e Poseidone per la supremazia sull'Attica, viene decretata la vittoria della dea che aveva donato all'uomo l'ulivo, rispetto al dio del mare che invece aveva donato il cavallo e una sorgente di acqua salmastra. Sull'Acropoli di Atene, nella ricostruzione periclea dopo le guerre persiane, venne costruito, tra gli altri edifici, l'Eretteo, un singolare tempio in cui in un'area recintata, era custodito l'ulivo sacro donato da Atena.

Attraverso gli alberi, la foresta cui è attribuito valore sacrale, diventa quindi, nelle civiltà anti-che, il lucus o il nemeton. Lucus è il nome che i Romani davano al bosco sacro, destinato allo svolgimento di riti religio-si, diverso dalla silva o dal nemus, concepiti come boschi privi di valore sacro, la prima carat-terizzata da uno scenario selvaggio e casuale , il secondo dalla presenza di un ordine che ri-chiama un principio di antropizzazione. Molti di questi luoghi sono ancora vivi nella topono-mastica, come Monte Luco (BZ), Luco di Mugello (FI), altri conservano ancora i resti archeo-logici della loro destinazione, come Lucus Angitiae (Luco dei Marsi, in provincia dell'Aquila), destinato dall'antico popolo dei Marsi alla loro divinità maggiore, la dea Angizia. Nemeton è il santuario a cielo aperto delle popolazioni celtiche, che individuavano in queste aree boschive il luogo in cui onorare le proprie divinità, molte delle quali erano animistica-mente personificate negli elementi della natura. Anche in questo caso, nella toponomastica sopravvivono i nomi dei siti sacri boschivi celtici, come nel Devonshire, in Inghilterra, con Nymetwood, Nymet Rowland, o Nimes in Francia. Ma non andiamo troppo lontano: anche in Friuli rimane memoria della presenza dei Celti nella toponomastica, come il caso emblemati-co per tutti, Nimis (UD), la Nemas di Paolo Diacono.

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IL MEDIOEVO

Nella cultura del XII sec. la proiezione del mondo interio-re nello spazio della foresta trova la sua ragione d'essere nel difficile rapporto che la società medievale vive con essa in questo periodo. La natura nel Medio Evo era molto diversa da oggi: l'Eu-ropa era ricoperta di foreste, alle quali si tentava fatico-samente di sottrarre la terra da coltivare, che rappresen-tavano il luogo della caccia, della raccolta dei prodotti con cui integrare gli scarsi frutti della agricoltura, ma nel contempo era un luogo pieno di pericoli (lupi, briganti, e-venti soprannaturali) che in-cutevano terrore. La natura era dunque una fo-resta di simboli da decifrare. Era il teatro in cui si scontra-vano le forze occulte, gli es-seri buoni (gli angeli, re-sponsabili dei fenomeni posi-tivi) e gli esseri malvagi ( i diavoli, responsabili delle di-sgrazie).

Sopra una pagina del libro miniato Le tres riches Heures del duca di Berry, realizzato nel secondo decennio del XV sec., con la rappresen-tazione del mese di gennaio attraverso la caccia al cinghiale nella fore-sta.

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Sugli stipiti dei portali della facciata princi-pale della Cattedrale di Modena, realizzati nel primo decennio del XII sec., troviamo una decorazione a tralci abitati che alludo-no alla “selva oscura” di dantesca memo-ria, riferimento all'inestricabilità del peccato in cui si dibatte l'uomo ma anche alla realtà della foresta medievale, che popolava gran parte del territorio padano, e nella quale l'immaginario del tempo poneva animali e figure fantastiche e allegoriche, anche qui scolpite, che si misurano con l'uomo, lo aggrediscono, ne vengono soggiogati. Nel mezzo del cammin di nostra vita

Mi ritrovai per una selva oscura

Che la diritta via era smarrita. Ahi quanto a dir qual era è cosa dura

Esta selva selvaggia ed aspra e forte

Che nel pensier rinova la paura! Dante Alighieri, Inferno, canto I

Nei componimenti letterari, la foresta, come teatro dell’azione umana ha di volta in volta as-sunto caratteri diversi, positivi o negativi, ma sempre indissolubilmente legati alla vita psichi-ca dell’uomo, al suo progredire, alle sue conquiste, alle sue paure e ai suoi desideri. L’immagine classica è quella dell’eroe o eroina che deve attraversare la foresta superando mille ostacoli per compiere il proprio destino. E' questo, ad esempio, lo spazio in cui si svolge l'avventura del cavaliere medioevale nel ro-manzo cortese e cavalleresco, che consiste in una serie di imprese individuali e prove di va-lore realizzate in un luogo intricato ed incantato.

Era il tempo che gli alberi fioriscono, le foglie, le macchie e i prati inverdiscono e gli uccelli la mattina cantano dolcemente nella loro lingua e ogni essere si infiamma di gioia. Si levò il figlio della dama vedova della Guasta Foresta solitaria. Sellò lesto il

cavallo da caccia, afferrò tre giavellotti e uscì dalla dimora della madre. (…) Entra così nella foresta e subito il suo cuore si allegra per la dolce stagione che si fa lieta e per il canto che ascolta dei tanti uccelli che menan letizia. Tutto ciò gli è dolce. Per la dol-

cezza del cielo sereno toglie il freno al cavallo e lo lascia pascolare nell’erba verdeggiante. (…)

Chretien de Troyes, Perceval, 1180-90 ca.

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Sempre nel Medioevo, la forte connotazione simbolica che l'albero aveva acquisito nelle tra-dizioni antiche, sia nordica che classica, continua, attraverso l'albero biblico della conoscen-za, ad essere mantenuta nell'albero della vita, che si trasforma nell'albero della croce di Cri-sto, unica e vera sapienza per l'uomo. In questo senso, quest'albero viene spesso utilizzato anche come “pagina di presentazione” della cultura enciclopedica medioevale.

Pacino da Buonaguida, L’albero della vita,

1305 – 1310

La grande tavola cuspidata qui a fianco venne commissionata dalle clarisse del convento di Monticelli, presso Firenze, tra 1305 e 1310. Dopo le soppressioni napoleoniche nel 1808, finì prima in un patrimonio privato, poi alle Gallerie dell'Acca-demia di Firenze. La commissione delle clarisse è confermata dalla presenza di Santa Chiara ai piedi dell'albero. L'argo-mento descritto è molto complesso, ed è da mettere in relazione con le predicazioni in quegli anni, di fra' Ubertino da Casale, rappresentan-do così una delle più antiche sum-me dei trattati spirituali francescani.

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Il pavimento musivo della Cattedrale di Otranto venne realizzato dal monaco Pantaleone tra il 1163 e il 1165. L’autografia è confermata dal nome posto nel pavimento musivo all’ingresso della chiesa. L’opera è un vero e proprio spaccato della cultura medioevale, presenta un enigmatico per-corso culturale – teologico in cui spesso sfugge la giusta interpretazione iconologica. Al centro della navata principale, un enorme albero della vita ospita scene dell’Antico Testa-mento, personaggi mitologici e storici, i mesi e lo Zodiaco, un ricco Bestiario e scene ispirate alla cultura cavalleresca con le storie di re Artù e Parsifal.

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IL PROTOUMANESIMO Nella seconda metà del 300, mentre si avviava la nuova stagione dell’Umanesimo, paralle-lamente ad un nuovo interesse verso la realtà e il mondo fisico, cominciò a svilupparsi un nuovo rapporto con la natura e nello specifico con la foresta, che diventa teatro di riflessione intima, meditazione, a volte di nostalgia, come avviene in alcuni sonetti del Canzoniere di Francesco Petrarca.

Per mezz’i boschi inospiti e selvaggi

onde vanno a gran rischio uomini ed arme,

vo securo io, chè non po’ spaventarme

altri che’l Sol ch’à d’Amor vivo i raggi;

e vo cantando ( o penser’ miei non saggi!)

lei ch’el ciel non poria lontana farme,

ch’i’ l’ò negli occhi: e veder seco parme

donne et donzelle, e son abeti e faggi.

Parme d’udirla, udendo i rami e l’ore

e le fronde e gli augei lagnarsi, e l’acque

mormorando fuggir per l’erba verde.

raro un silenzio, un solitario orrore

d’ombrosa selva mai tanto mi piacque;

se non che dal mio Sol troppo si perde. (Sonetto CLXXVI, Canzoniere)

Per Petrarca il bosco rappresenta il luogo solitario in cui curare le lacerazioni interiori provo-cate dal dissidio tra le passioni terrene e il cielo, non può spaventarlo, perché è il rifugio in cui l’ombra non fa paura ma protegge. E anche nel bosco si continua a pensare all’amore terre-no, e nelle sagome degli alberi il poeta vede “donne et donzelle”, mentre i rumori della fore-sta rimandano alla voce della donna amata. L’ombra della selva ricorda al poeta un’altra om-bra, da cui è impossibile per lui staccarsi: quella di Laura. Per quanto solitaria, quindi, nem-meno una foresta riesce ad isolarlo dalle sofferenze terrene. La percezione della selva nella letteratura occidentale si sta quindi modificando da un senso di oppressione e minaccia al gusto di guardarla con gli occhi della metafora interiore.

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IL RINASCIMENTO Nel 400, la diffusione di una cultura antropocentrica dove l’uomo è misura di tutte le cose, fa-vorirà una progressiva presa di coscienza del fatto di poter esercitare un dominio effettivo sulla propria vita e sulla natura dopo i secoli medioevali caratterizzati dalla preminenza del problema spirituale. Nell’età umanistico-rinascimentale, quindi, si considera la natura come l’ambiente in cui vive l’uomo. Lo studio della natura esclude ogni presupposto soprannatura-le, si studia la natura fisica e non più quella metafisica: essa diventa il regnum hominise per questo motivo diventa anche il modello fondamentale per tutti gli artisti, da Leon Battista Al-berti, che la definisce “meravigliosa artefice delle cose”, a Leonardo da Vinci, per il quale es-sa è “Maestra dei Maestri”. Il Rinascimento non si limita tuttavia a raffigurarla, vuole anche ricreare ambienti naturali por-tatori di un benessere, fisico e intellettuale, in grado di favorire la speculazione contemplativa (l’otium degli antichi): giardini che rimandano a quello dell’Eden sia esplicitamente che attra-verso metafore mitologiche ripescate nella tradizione classica.

E’ il caso del celebre dipintoLa Primaveradi Sandro Botticelli, realizzato nel 1478 per la corte medicea. Sfondo di un complesso insieme di figure mitologiche destinate a trasmettere un sofisticato messaggio filosofico, è una sorta di giardino delimitato da un boschetto di agrumi, fra le cui fronde, con frutti e fiori ben visibili, spuntano anche rami e foglie di alloro, cipresso, conifere (forse tassi), strobilo e mirto (dietro a Venere perché pianta a lei sacra). Il fitto manto erboso è intessuto di 190 piante fiorite, delle quali ne sono state identificate 138. Si tratta, in generale, di fiori che sbocciano nella campagna fiorentina fra marzo e maggio. Secondo la lettura più accreditata, il giardino in cui è ambientata la composizione è una sorta di hortus conclusus(il giardino dei monasteri medioevali), uno spazio circoscritto ideale e in sé perfetto dove tutto è armonie di forme e sentimenti, che richiama il mitico giardino delle Esperidi con i pomi d’oro, i frutti dell’immortalità nel Rinascimento associati a limoni e aranci.

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Nella selva oscura si fa sempre più luce. La natura diviene oggetto di curiosità, di dominio e di piacere. Gli intellettuali del Rinascimento, cominciando a perseguire lo scopo di svelare il grande segreto della natura, prendono con essa sempre più confidenza e anche boschi e fo-reste cominciano a diventare scena dell’azione umana. Quando negli anni 30 e 40 del 500 la società europea comincerà a risentire della grande crisi di valori causata dalle due rivoluzioni del secolo, quella copernicana e quella riformista luterana, la foresta comincia a diventare l’altro mondo alternativo, la fuga dal presente, a volte ameno, a volte ostile, altre volte incan-tato. E’ così che la descrive Ludovico Ariosto nell’Orlando Furioso.Dopo il proemio, nel primo can-to, Angelica fugge da Rinaldo.

(…)

Fugge tra selve spaventose e scure,

per lochi inabitati, ermi e selvaggi.

Il mover de le frondi e di verzure,

che di cerri sentia, d’olmi e di faggi,

fatto le avea con subite paure

trovar di qua di là strani viaggi;

ch’ad ogni ombra veduta o in monte o in valle,

temea Rinaldo aver sempre alle spalle.

(…)

Quel dì e la notte a mezzo l’altro giorno

S’andò aggirando, e non sapeva dove.

Trovassi alfin in un boschetto adorno,

che lievemente la fresca aura muove.

Duo chiari rivi, mormorando intorno,

sempre l’erbe vi fan tenere e nuove;

e rendea ad ascoltar dolce concento,

rotto tra picciol sassi, il correr lento.

(…)

Ecco non lungi un bel cespuglio vede

di prun fioriti e di vermiglie rose,

che de le liquide onde al specchio siede,

chiuso dal sol fra l’alte querce ombrose;

così voto nel mezzo, che concede

fresca stanza fra l’ombre più nascose:

e la foglia coi rami in modo è mista,

che’l sol non v’entra, non che minor vista. Ludovico Ariosto, L’Orlando furioso, canto I

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IL BAROCCO Alla fine del secolo l’intellettuale del Rinascimento si rende conto dell’impossibilità di domina-re la natura e di essere il protagonista del cosmo, secondo solo al Creatore. E allora, agli inizi del 600, si rifugia nella malinconia, nella nostalgia di un mondo remoto, nel culto della bellez-za, nei sogni. A volte nelle foreste stregate, dove si muovono continuamente senza meta es-seri folli e disperati come “il cavaliere del bosco” incontrato da don Chisciotte nella foresta della Sierra Morena. C’è una certa analogia tra Don Chisciotte e Petrarca: entrambi si im-mergono nella solitudine della foresta per trovare rifugio e intimità e mitigare così il proprio dolore. Il triste cavaliere di Don Chisciotte vede nella sua follia una foresta come riflesso dello specchio deformante delle illusioni: la nostalgia di un tempo lontano in cui l’uomo era in per-fetta identità con la natura. ( …) Con questi discorsi giunsero appiè di un’alta montagna, che sorgeva isolata fra le molte altre che la circondavano. Scorreva intorno alle sue falde un delizioso ruscello, attraversando un prato così verde e fiorito, che rendeva più ameno il luogo tutto co-

perto di alberi silvestri, di piante e di fiori. Il cavaliere dalla Trista Figura scelse questo luogo per fare la sua penitenza, e perciò, guardandosi attorno, cominciò a dire ad alta voce, come se fosse uscito di senno : È questo il luogo, o cieli, ch’io scelgo per pian-

gere la sventura in cui voi medesimi mi avete precipitato: è questo il luogo dove le mie lagrime aumenteranno le acque di questo ruscello, e i miei profondi ed incessanti so-spiri agiteranno continuamente le fronde di questi alberi, in testimonio della pena che soffre il mio cuore affannato! O voi, chiunque siate, numi silvestri, che tenete la vostra

sede in questo bellissimo luogo, udite le querele di uno sventurato amante, che una lunga assenza e la gelosia hanno condotto a lamentarsi in questi selvaggi recessi, e a dolersi del crudele stato a cui lo ridusse quella ingrata e vezzosa, che raccoglie in sé

tutte le perfezioni della bellezza! (…) Miguel de Cervantes, Don Chisciotte de la Mancia, cap. XXV

Anche William Shakespeare porta avanti nelle sue opere questo tipo di lettura della foresta, con un valore aggiunto. Nella società inglese elisabettiana crollavano tutti i valori tradizionali e le certezze religiose sotto la spinta di un’Inghilterra trasformata dallo sviluppo mercantile e presto industriale e dalla nascita della scienza moderna. Le coscienze turbate cercavano quindi di ricollocare l’uomo nella natura in modo diverso, scavando nei labirinti della sua psi-che. Così Shakespeare descrive con talento impareggiabile vizi, virtù, drammi umani collo-candoli in una terra di confine dove realtà e fantasia si confondono. Spesso questo succede nella magia incantata delle foreste, dove accadono equivoci, scambi di persona, assenza di regole civili, ma dove è bandita ogni falsità, invidia, inganno, tipici della città barocca inglese, a favore di un avvicinamento verso le leggi naturali di convivenza, di gentilezza come di vio-lenza, ma mai di ipocrisia e vuota apparenza. Nel Macbeth la foresta, reale o immaginata, è qualcosa di vivo, dotato di una propria volontà, che può parlare o spostarsi o far giustizia di un usurpatore ponendo fine alle sue azioni.

“chi d’ambizion la vaga lusinga non accende ed ama il sol che splende in libera contrada,

chi vuole all’avventura suo cibo in bosco o lago cercare, sempre pago di ciò che dà natura, venga qua in seno alla foresta; nemici non avrà

fuorchè l’inverno e il vento e la tempesta” William Shakespeare, Come vi piace, atto II, scena quinta

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L’EPOCA DEI LUMI

Quando, sulla spinta di una scienza basata sul metodo sperimentale che si era sviluppato nel corso del 600, irruppe la rivoluzione industriale, i tempi erano maturi per un approccio razio-nale al bosco. Questo trovò espressione prima nella legislazione e poi, in pieno Illuminismo, nelle scienze forestali. L'affermarsi della matematica e della geometria, nonchè lo spirito ra-zionalista che contraddistinse il secolo illuminista, fecero sentire la loro influenza anche sulla foresta, la cui gestione venne affrontata col metodo scientifico: ciò comportò la sostituzione della selvicoltura estensiva, basata sul prelievo di legno senza un definitivo criterio, con una serie di ordinamenti colturali regolati. Alla fine del secolo nacquero così le scienze forestali che dovevano fare chiarezza dei misteri celati nella foresta e far cadere tutto sotto il controllo umano. La foresta suggestiva perse il suo fascino. Essa rappresentava ormai il passato, le macerie di un caos che doveva essere a tutti i costi razionalizzato. Le foreste naturali vennero sostituite da piantagioni mono-coltura, la cui utilizzazione fu rigorosamente programmata. In Germania, i boschi misti a prevalenza di querce e faggi vennero trasformati in boschi di conifere. La di-sformità venne eliminata in quanto fonte di complicazione e problemi ma anche perché non rispondente a determinati canoni estetici, codificati con il concetto di pittoresco nato per l’arte del giardinaggio in Inghilterra ed estesosi poi alla pittura di paesaggio a metà 700. Quel che in Europa rimaneva delle foreste vergini fu sostituito dal bosco programmato sui tempi e le esigenze dell'uomo.

Dall’Encyclopedie di Diderot e

D’Alambert (1752 – 1772) H.L.

Duhamel du Monceau, Il gover-

no dei boschi, che descrive la

successione delle operazioni

con cui i carbonai predispongo-

no la catasta di legna da tra-

sformare in carbone e ne con-

trollano la combustione fino

all’estrazione.

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L’OTTOCENTO ROMANTICO Di fronte alle idee della cultura illuministica, verso la fine del 700 sono numerose le voci degli intellettuali che attribuivano al progresso delle scienze e delle arti un ruolo alienante sull'u-manità. Quando la natura era in perfetta simbiosi con l'uomo, questo poteva elevarsi a vivere in una condizione edenica; il progresso invece, con la trasformazione della natura attraverso le macchine, aveva finito per costringerlo a vivere nella menzogna e nella corruzione. A partire da questa chiave di lettura, i pittori e i letterati romantici guardano alla natura, al bo-sco, alla foresta con occhi nuovi. Il fenomeno artistico definito Scuola di Barbizon sviluppatosi in Francia tra 1820 e 1870 circa nel paesino di Barbizon, sul limitare della foresta di Fontainebleau, apre alla stagione roman-tica della pittura di paesaggio. Nel 1874, Victor Hugo scrive: ”Un albero è un edificio, una foresta è una città e, tra tutte, la foresta di Fontainebleau è un monumento”.

Camille Corot, Fontainebleau, Querce a Bas-Breau, 1832

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Questi pittori romantici francesi sembrano così dare voce al nostalgico sentimento di ricon-giungimento con una natura dalla quale l'uomo neoindustrializzato sente di venire sempre più allontanato. E' una natura interpretata in senso romantico, specchio dei sentimenti dell'arti-sta, che vengono espressi attraverso una meticolosa ricerca scientifica sulla luce e sul modi-ficarsi dei colori a seconda della situazione atmosferica. Nei pittori tedeschi prevale invece una lettura della foresta in chiave più filosofica. La selva diventa simbolo di una natura incontaminata in cui si muovono spiriti liberi, figure fantastiche e uccelli notturni capaci di evocare sensazioni vaghe: qui i romantici tedeschi avvertono una sensazione di indefinitezza a loro perfettamente congeniale; l'immagine di uno smarrimento notturno nella selva era perfetta per chi concepiva l'esistenza come un vagabondare infinito alla ricerca di qualcosa che è bello perchè sta oltre la linea dell'orizzonte che si riesce a per-cepire con gli occhi.

Caspar David Friedrich, Uomo e donna in contemplazione della luna, 1824

Nei dipinti di Friedrich, condotti con estremo rigore scientifico dei dettagli, le figure umane, spesso presenti in questi quadri, sono piccoli esseri limitati in contemplazione, di cui non si vede mai il volto, ma di cui si avverte lo smarrimento di fronte all'infinito, il senso di impotenza dell'uomo a colmare l'abisso che lo separa dal mistero della natura. In quello stesso periodo e con gli stessi intenti, musica e letteratura utilizzano e scandagliano l'immagine della foresta.

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Giuliano Sorel, protagonista de “Il rosso e il nero” di Stendhal, è l'archetipo dell'eroe romanti-co, proiettato verso sogni di gloria, amore e potenza, che non viene a patti con nessuno e che per questo è destinato alla solitudine. Nel romanzo, questa caratterizzazione psicologica viene ben descritta anche attraverso l'atteggiamento che in alcune circostanze il protagonista assume nei confronti delle foreste che percorre nei suoi viaggi.

Camille Corot, Strada attraverso montagne boscose, 1830-35

Per un momento fu quasi sensibile alla meravigliosa bellezza dei boschi, attraverso i

quali camminava. Ben presto, arrampicandosi per uno stretto sentiero appena segnato che serviva soltanto ai pastori di capre, si trovò ritto su un masso enorme, ben sicuro di essere lontano da tutta l'umanità. Sorrise, perchè quella sua posizione fisica simbo-

leggiava la posizione che egli ardeva raggiungere nel campo morale. (Stendhal, Il rosso e il nero, 1830)

Caspar David Fiedrich, Viandante sul mare di nebbia, 1818

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Ne I Miserabili di V. Hugo, la piccola Cosetta si inoltra di notte nel bosco di Montfermeil.

Mentre correva aveva voglia di piangere. Il fremito notturno della foresta l'avvolgeva tutta.. Non pensava più, non vedeva più. La

notte immensa era davanti a quell'esserino. Da una parte tutto il buio, dall'altra un a-tomo(...) Un vento freddo soffiava dalla natura. Il bosco era tenebroso, senza alcun

fruscio di foglie, senza nessuno dei chiaroei vaghi e freschi dell'estate. Grandi ramatu-re vi si rizzavano spaventevoli. Cespugli stentati e deformi sibilavano nelle radure. Le erbe alte brulicavano sotto la brezza come anguille. I pruni si torcevano come lunghe braccia armate di artigli che cercassero di afferrare la preda; alcune eriche secche, schiacciate dal vento, passavano in fretta e sembrava che fuggissero spaventate da

qualcosa che stava per arrivare. Da ogni parte c'erano lugubri distese. L'oscurità era vertiginosa. L'uomo ha bisogno di luce. Chiunque si sprofondi nel con-trario della luce si sente stringere il cuore.(...) Nell'eclisse, nella notte, nell'opacità fuli-ginosa, c'è ansietà persino per i più forti. Nessuno cammina da solo di notte nella fo-resta senza tremare. Ombre ed alberi, due tremende densità. Una realtà chimerica ap-pare nella profondità indistinta.L'inconcepibile si disegna a qualche passo da voi con chiarezza spettrale. (…) La sepolcrale immensità del silenzio, tutti i possibili esseri i-

gnoti, misteriose inclinazioni dei rami, spaventevoli torsi di alberi, lunghi ciuffi di erbe frementi, contro tutto questo non c'è difesa. Non c'è coraggio che non trasalga e che non senta vicina l'angoscia. Si prova un senso di ripulsione, come se l'anima si amal-gamasse con l'ombra. Questa penetrazione delle tenebre è indicibilmente sinistra in un bambino. Le foreste sono apocalissi; e il battito d'ali di una piccola anima manda

un rumore di agonia sotto la loro volta mostruosa. ( Hugo, 1862)

William Degouve de Nuncques, La foresta acquitrinosa, 1898

Nelle numerose tele ispirate alla foresta, il pittore simbolista belga ci comunica misteriose evocazioni immerse in un’atmosfera notturna in cui la coscienza è indotta a rinunciare alle proprie certezze per lasciarsi sommergere dall’irrazionale. In termini di metafora la foresta assume tutta la sofferenza e la bruttura di un mondo che ha dimenticato la propria condizione originale e dal quale il pittore si distacca con aristocratico sprezzo.

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LA FINE DELL’ 800 E IL 900 All’apice della seconda industrializzazione, in piena Belle Epoque, tra 800 e 900, l’Inghilterra vittoriana, nel bisogno di investire i notevoli capitali accumulati fuori dai propri confini, inco-raggia l’esplorazione di terre sconosciute, allo scopo di sfruttare risorse e capacità produttive di nuove terre lontane. E’ l’epoca dell’imperialismo coloniale che, dietro il pretesto di compie-re una missione umanitaria, nasconde avidità e sfruttamento: Il significato del male, della darknessche Marlow, il narratore in Cuore di Tenebra di J. Conrad, inizialmente identifica nell’oscurità tenebrosa delle foreste del Congo, è in realtà il male della società occidentale che sfrutta e distrugge le altre culture, mascherando il tutto come un portare la luce e il pro-gresso. (…)La grande muraglia di vegetazione, una massa esuberante e aggrovigliata di tron-chi, rami, foglie, fronde e tralci, immobile, alla luce della luna, era come un’irruzione

travolgente di vita silenziosa, una tumultuosa onda vegetale, alta, crestata, pronta a ir-rompere nella insenatura, e a spazzar via dalla nostra piccola esistenza tutti noi, minu-

scoli uomini. (…) J.Conrad, Cuore di tenebra, 1899

L’immagine che scaturisce da queste poche righe è quella di una foresta radiante energia vi-tale, sede di un caos ancestrale, la stessa immagine proposta da Friedrich Nietzsche, che la contrappone alla città, luogo della civiltà che ha fiaccato l’esistenza umana. L’imporsi in questo periodo delle filosofie irrazionalistiche influenza il pensiero di molti letterati e artisti nelle opere e nello stile di vita. Il musicista Richard Wagner, definirà la sua opera, Il Sigfrido, un’opera della foresta: gli eventi più importanti della storia di quest’opera, infatti, ac-cadono nella selva e si alimentano dalla sua energica potenza. Paul Gauguin, dalla rigogliosa natura delle isole polinesiane, scrive nel suo diario – romanzo Noa Noa:

”la civiltà mi sta lentamente abbandonando. Comincio a pensare con semplicità, a non avere più odio per il mio prossimo, anzi ad amarlo. Godo tutte le gioie della vita libera, animale e umana. Sfuggo alla fatica, penetro nella natura: con la certezza di un domani

uguale al presente, così libero, così bello, la pace discende in me; mi evolvo normal-mente e non ho più vane preoccupazioni”.

Tra la prima e la seconda guerra mondiale molti movimenti culturali e artistici propongono una visione nuova della realtà, volendo revisionare o addirittura fare piazza pulita di quelle ideologie che avevano prodotto come risultato il disastro delle guerre. Già nel primo decennio del 900 Giovanni Pascoli, con la poetica del fanciullino, aveva posto le basi per una rilettura del mondo attraverso gli occhi ingenui e non condizionati dalle sovrastrutture culturali di un bambino, che, come un nuovo Adamo, “mette il nome a tutto ciò che vede e sente”. Nel 1935 Dino Buzzati pubblica Il segreto del Bosco Vecchio, romanzo breve, allegorico , in forma di fiaba infantile.Le tematiche fondamentali del romanzo si svolgono sullo sfondo di un messaggio ecologico con riflessioni sulla convivenza tra l’uomo e l’ambiente naturale per la sopravvivenza di entrambi.Il vento Matteo è uno dei protagonisti principali del romanzo: Soffiando in mezzo ai boschi, qua più forte, là più adagio, il vento si divertiva a suona-re; allora si udivano venir fuori dalla foresta lunghe canzoni, simili alquanto agli inni

sacri. Quelle sere, dopo la tempesta, la gente usciva dal paese e si riuniva al limitar del bosco, ad ascoltare per ore e ore , sotto il cielo limpido, la voce di Matteo che cantava.

D. Buzzati, Il segreto del Bosco vecchio, 1935

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Nel 1957 Calvino pubblica Il barone rampante, dove il dodicenne barone Cosimo, dopo un li-tigio casalingo, per protesta sale sugli alberi del giardino di casa e non scenderà mai più. Nonostante la collera e le minacce del padre, la vita del protagonista si svolge sempre sugli alberi, prima del giardino, poi nei boschi intorno, inframezzata da viaggi in terre lontane rag-giunte saltando di ramo in ramo. Cosimo tutti i giorni era sul frassino a guardare il prato come se in esso potesse leg-

gere qualcosa che da tempo lo struggeva dentro: l'idea stessa della lontananza, dell'incolmabilità, dell'attesa che può prolungarsi oltre la vita.)

Italo Calvino, Il barone rampante, 1957 Nel 1973 Calvino pubblica Il castello dei destini incrociati, dove avventurieri, regine, re trave-stiti, saggi, alchimisti giungono in questo luogo non reale circondato da un bosco inestricabi-le. Finita la cena, ci si aspetta che, come in ogni buon romanzo del genere, ognuno racconti la propria storia, ma per un’inspiegabile maledizione, questi eroi ed eroine hanno perduto la parola. Per raccontarsi non resta quindi loro che gettare sulla tavola le carte dei tarocchi e af-frontare questo catalogo dei possibili che si intrecciano su uno sfondo che è quasi sempre quello di una foresta. In mezzo a un fitto bosco, un castello dava rifugio a quanti la notte aveva sorpreso in

viaggio: cavalieri e dame, cortei reali e semplici viandanti. Passai per un ponte levatoio sconnesso, smontai di sella in una corte buia, stallieri si-

lenziosi presero in consegna il mio cavallo. Ero senza fiato; le gambe mi reggevano appena. Da quando ero entrato nel bosco tali erano state le prove che mi erano occor-se, gli incontri, le apparizioni, i duelli, che non riuscivo a ridare un ordine né ai movi-

menti né ai pensieri. (…) Italo Calvino, Il castello dei destini incrociati, 1973

Il rispetto della natura e la sua preservazione è tra 800 e 900 al centro di opere diversissime, che si estendono nel tempo e nello spazio: dallo statunitense James Fenimore Cooper (L’ultimo dei Mohicani,1826), al contemporaneo Mario Rigoni Stern (morto nel 2008), indi-menticabile cantore dell’altopiano di Asiago e dei suoi boschi, che sostiene che “non ci sarà mai vita senza foresta”. Nel Signore degli anelli di Tolkien (1954-55) , la furiosa battaglia ingaggiata dagli Ent, uomini-albero, contro il feroce Saruman e i suoi orchi a Isengard, richiama alla memoria la guerra degli alberi messa in scena nel poema medioevale gallese Cad Goddeu.

“Per Isengard!” tuonarono le molte voci degli Ent. “Per Isengard!”.

Isengard! Anche se sei protetto da un maledetto, a monti e da ponti, noi faremo i conti!

Isengard! Anche se sei forte e violento, freddo come vento, duro e cruento, è giunto il momento,

E’ giunta la guerra e trema la terra, sfonderem la pietra e la porta tetra! Bruciano il tronco e il ramo, e noi andiamo, e noi marciamo

Con passo più duro di sasso, più greve di masso, con tono cavernoso e basso. A Isengard portiamo sconquasso e fracasso,

sterminio e distruzione, scompiglio e perdizione! E così cantando marciarono verso sud.

J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli, Le due torri vol.II, 1954-55