Femminicidio, di genere si muore I P · Il commovente incontro con Rita Lanzon, madre e nonna delle...

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VIOLENZA DI GENERE U na nuova veste grafica, un inserto (il “Prudenzano Science”, che lo arricchisce ulteriormente) e i tanti riconoscimenti ottenuti negli ultimi mesi. Il “Prudenzano Magazine” con- tinua a crescere. Cresce in qualità, potendo contare sul rinnovato en- tusiasmo dei nostri ragazzi e su una nuova impaginazione grafica. Cre- sce nella foliazione, essendosi arric- chito dell’inserto “Prudenzano Science”, la cui redazione è stata guidata dalla dott.ssa Giulia Me- rico, altra brillante risorsa della no- stra scuola. Crescono anche i consensi attorno ai risultati di que- sto laboratorio: il gruppo che ha realizzato il secondo numero del “Prudenzano Magazine”, guidato dalle docenti Stefania Maiorano, Alessia Mazza e Alessandra Ur- bano, è stato insignito del presti- gioso riconoscimento “Premio San Gregorio Magno”, che viene attri- buito nella nostra città a coloro che si distinguono per impegno e me- riti. Altri premi sono stati ottenuti nei concorsi a carattere nazionale “Fare il giornale nelle scuole”, pro- mosso dall’Ordine Nazionale dei Giornalisti (con premiazione a Ce- sena), “Penne Sconosciute” (con premiazione a Piancastagnaio, in Toscana), “Il miglior giornalino scolastico” (con premiazione a Ma- nocalzati - Avellino), “Il giornale nella scuola” (con premiazione a Mirabella Eclano - Avellino). Con rinnovato entusiasmo, dun- que, vi porgo il mio invito a leg- gere il terzo numero del “Prudenzano Magazine”, anche quest’anno ricco di interviste e ri- flessioni su numerose tematiche di grande attualità. Anche quest’anno abbiamo voluto avvicinare i nostri ragazzi alle problematiche contem- poranee, alle realtà della società e del mondo che ci circonda. Senza mai dimenticare la “dignità umana”: tenerne a mente l’essenza è fondamentale in tutti i mestieri, ma in modo particolare nel gior- nalismo, perché “anche dietro il semplice racconto di un avveni- mento ci sono sentimenti, emo- zioni e in definitiva la vita delle persone”. Anna Laguardia Dirigente scolastico GIORNALE SCOLASTICO DELLA SCUOLA SECONDARIA DI PRIMO GRADO DELL’ISTITUTO F. PRUDENZANO DI MANDURIA MAGGIO 2017 - ANNO III n.3 N ella lotta al bullismo “MABA- STA” è forse il primo movi- mento che nasce dal basso, ovvero da giovani studenti del primo e del secondo anno dell’istituto “Galilei- Costa” di Lecce. Hanno creato un’asso- ciazione che coinvolge tutte quelle classi delle scuole italiane (e non solo, visto che recentemente ha aderito anche una scuola albanese), che non sopportano questo odioso fenomeno. Con grande creatività, utilizzano ogni mezzo di comunicazione per arrivare in ogni scuola d’Italia: hanno aperto una pagina web e attivato un portale. I principali mass media italiani hanno dedicato attenzione al loro movimento. Due di questi ragazzi hanno avuto la possibilità di lanciare il loro mes- saggio dal palco del festival di Sanremo. La triste storia di Federica e del piccolo Andrea. Se sei bullo non sei bello Ancora un salto di qualità pagine 8 e 9 Andrea con la mamma Federica P erché si parte? Perché si af- fronta il mare in condi- zioni disumane rischiando una morte atroce? A queste do- mande abbiamo tentato di dare una risposta ascoltando le storie di chi sceglie il mare come ultima speranza. Cosa si lascia alle spalle chi spende quel poco che ha per rifarsi una vita in Europa? Do- mande che abbiamo rivolto ad al- cuni migranti del centro Sprar di Manduria. È stata definita la strage silenziosa: centinaia di donne muoiono ogni anno vittime della follia dei loro mariti o dei loro compagni. La lista della vergogna si allunga ogni giorno di più con casi che registrano un’escalation di vio- lenza inaudita. Non è solo il fenomeno in sé ad indignare, ma è anche l’efferatezza del crimine che aumenta a dismisura. È ciò che accaduto a 35 km dalla nostra città, poco meno di un anno fa: Luigi Al- farano ha prima massacrato di botte la moglie Federica e, poi, ha portato il figlio- letto Andrea nella casa di campagna per ucciderlo con un colpo di pistola alla testa. Una storia terribile, che ci è stata raccon- tata dalla signora Rita Lanzon, mamma di Federica e nonna di Andrea. «Io, adolescente musulmana in una città cattolica» pagina 12 Femminicidio, di genere si muore «Mia figlia massacrata, mio nipote freddato con un colpo di pistola» pagine 2 e 3 I ntegrazione e rispetto del prossimo, anche se di cultura o di religione differente. Tema sempre molto attuale, che abbiamo approfondito anche quest’anno con un’intervista a Zineb, ragazza musulmana og- getto di discriminazioni, al- l’Imam di Lecce, Saifeddine Maaroufi, e a sua figlia Maram. pagine 10 e 11 Migranti, i drammi, le violenze, le speranze pagina 16 L’incontro con gli studenti e con il prof. Manni “MABASTA”: da scuola parte la lotta al bullismo Droga dello stupro l’allarme per una sostanza che stordisce e annienta la memoria, favorendo gli abusi. È un fenomeno inquietante, di cui si parla troppo poco: la droga dello stu- pro. Incolore e inodore, viene sciolta nelle bevande all’insaputa della vittima. La so- stanza crea eccitazione e cancella la memoria, favorendo l’abuso, anche di tipo sessuale. Ne abbiamo parlato con le operatrici del- l’Ecole Universitaire Internationale. Morti bianche, di lavoro si continua a morire S ei vittime in un anno solo nella nostra provincia. Decine di altre vittime in Ita- lia e centinaia di feriti, molti dei quali sa- ranno costretti a invalidità permanenti. Abbiamo approfondito l’argomento con la si- gnora Nadia Ferrarese, vedova di Ciro Moccia (operaio che ha perso la vita mentre lavorava all’Ilva) e con Emidio Deandri, presidente provinciale dell’Anmil. Sedici anni, l’LSD e una vita volata via troppo presto pagina 5 pagine 6 e 7 Rapporto genitori/figli L’incontro con Giampietro, fondatore dell’associazione “Pesciolino Rosso” Lasciami volare, la storia di Emanuele

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Page 1: Femminicidio, di genere si muore I P · Il commovente incontro con Rita Lanzon, madre e nonna delle vittime, e con la sua amica Anna Pulpito È stata una tragedia che ci ha colpito

VIOLENZA DI GENERE

U na nuova veste grafica, uninserto (il “PrudenzanoScience”, che lo arricchisce

ulteriormente) e i tanti riconoscimentiottenuti negli ultimi mesi.Il “Prudenzano Magazine” con-

tinua a crescere. Cresce in qualità,potendo contare sul rinnovato en-tusiasmo dei nostri ragazzi e su unanuova impaginazione grafica. Cre-sce nella foliazione, essendosi arric-chito dell’inserto “PrudenzanoScience”, la cui redazione è stataguidata dalla dott.ssa Giulia Me-rico, altra brillante risorsa della no-stra scuola. Crescono anche iconsensi attorno ai risultati di que-sto laboratorio: il gruppo che harealizzato il secondo numero del“Prudenzano Magazine”, guidatodalle docenti Stefania Maiorano,Alessia Mazza e Alessandra Ur-bano, è stato insignito del presti-gioso riconoscimento “Premio SanGregorio Magno”, che viene attri-buito nella nostra città a coloro chesi distinguono per impegno e me-riti. Altri premi sono stati ottenutinei concorsi a carattere nazionale“Fare il giornale nelle scuole”, pro-mosso dall’Ordine Nazionale deiGiornalisti (con premiazione a Ce-sena), “Penne Sconosciute” (conpremiazione a Piancastagnaio, inToscana), “Il miglior giornalinoscolastico” (con premiazione a Ma-nocalzati - Avellino), “Il giornalenella scuola” (con premiazione aMirabella Eclano - Avellino).Con rinnovato entusiasmo, dun-

que, vi porgo il mio invito a leg-gere il terzo numero del“Prudenzano Magazine”, anchequest’anno ricco di interviste e ri-flessioni su numerose tematiche digrande attualità. Anche quest’annoabbiamo voluto avvicinare i nostriragazzi alle problematiche contem-poranee, alle realtà della società edel mondo che ci circonda. Senzamai dimenticare la “dignitàumana”: tenerne a mente l’essenzaè fondamentale in tutti i mestieri,ma in modo particolare nel gior-nalismo, perché “anche dietro ilsemplice racconto di un avveni-mento ci sono sentimenti, emo-zioni e in definitiva la vita dellepersone”.Anna LaguardiaDirigente scolastico

GIORNALE SCOLASTICO DELLA SCUOLA SECONDARIA DI PRIMO GRADO DELL’ISTITUTO F. PRUDENZANO DI MANDURIA

MAGGIO 2017 - ANNO III n.3

Nella lotta al bullismo “MABA-STA” è forse il primo movi-mento che nasce dal basso,

ovvero da giovani studenti del primo edel secondo anno dell’istituto “Galilei-Costa” di Lecce. Hanno creato un’asso-ciazione che coinvolge tutte quelle classidelle scuole italiane (e non solo, vistoche recentemente ha aderito anche unascuola albanese), che non sopportanoquesto odioso fenomeno.Con grande creatività, utilizzano ogni

mezzo di comunicazione per arrivare in ogniscuola d’Italia: hanno aperto una pagina webe attivato un portale. I principali mass media

italiani hanno dedicato attenzione al loromovimento. Due di questi ragazzi hannoavuto la possibilità di lanciare il loro mes-saggio dal palco del festival di Sanremo.

La triste storia di Federica e del piccolo Andrea.

Se sei bullo non sei bello

Ancora un saltodi qualità

pagine 8 e 9

Andrea con la mamma Federica

Perché si parte? Perché si af-fronta il mare in condi-zioni disumane rischiando

una morte atroce? A queste do-mande abbiamo tentato di dareuna risposta ascoltando le storiedi chi sceglie il mare come ultimasperanza. Cosa si lascia alle spallechi spende quel poco che ha perrifarsi una vita in Europa? Do-mande che abbiamo rivolto ad al-cuni migranti del centro Sprar diManduria.

È stata definita la strage silenziosa:centinaia di donne muoiono ognianno vittime della follia dei loro

mariti o dei loro compagni. La lista dellavergogna si allunga ogni giorno di più concasi che registrano un’escalation di vio-lenza inaudita. Non è solo il fenomeno insé ad indignare, ma è anche l’efferatezzadel crimine che aumenta a dismisura.È ciò che accaduto a 35 km dalla nostra

città, poco meno di un anno fa: Luigi Al-farano ha prima massacrato di botte lamoglie Federica e, poi, ha portato il figlio-letto Andrea nella casa di campagna perucciderlo con un colpo di pistola allatesta.Una storia terribile, che ci è stata raccon-

tata dalla signora Rita Lanzon, mamma diFederica e nonna di Andrea.

«Io, adolescentemusulmanain una cittàcattolica»

pagina 12

Femminicidio, di genere si muore«Mia figlia massacrata, mio nipote freddato con un colpo di pistola»

pagine 2 e 3

Integrazione e rispetto delprossimo, anche se di culturao di religione differente.

Tema sempre molto attuale, cheabbiamo approfondito anchequest’anno con un’intervista aZineb, ragazza musulmana og-getto di discriminazioni, al-l’Imam di Lecce, SaifeddineMaaroufi, e a sua figlia Maram.

pagine 10 e 11

Migranti, idrammi,le violenze,le speranze

pagina 16

L’incontro con gli studenti e con il prof. Manni

“MABASTA”: da scuola parte la lotta al bullismo

Droga dello stuprol’allarme per una sostanza chestordisce e annienta la memoria,favorendo gli abusi.

Èun fenomeno inquietante, di cui siparla troppo poco: la droga dello stu-pro. Incolore e inodore, viene sciolta

nelle bevande all’insaputa della vittima. La so-

stanza crea eccitazione e cancella la memoria,favorendo l’abuso, anche di tipo sessuale.Ne abbiamo parlato con le operatrici del-l’Ecole Universitaire Internationale.

Morti bianche,di lavorosi continua a morire

Sei vittime in un anno solo nella nostraprovincia. Decine di altre vittime in Ita-lia e centinaia di feriti, molti dei quali sa-

ranno costretti a invalidità permanenti.Abbiamo approfondito l’argomento con la si-

gnora Nadia Ferrarese, vedova di Ciro Moccia (operaio che ha perso la vita mentre lavoravaall’Ilva) e con Emidio Deandri, presidente provinciale dell’Anmil.

Sedici anni, l’LSD e una vita volata via troppo presto

pagina 5pagine 6 e 7

Rapporto genitori/figli L’incontro con Giampietro,fondatore dell’associazione “Pesciolino Rosso”

Lasciami volare, la storia di Emanuele

Page 2: Femminicidio, di genere si muore I P · Il commovente incontro con Rita Lanzon, madre e nonna delle vittime, e con la sua amica Anna Pulpito È stata una tragedia che ci ha colpito

VIOLENZA DI GENERE2

Femminicidio e amore malato: la triste storia di Federica e del piccolo AndreaViolenza di genere - Quando la presunzione di superiorità e di possesso sfocia nella più bieca violenza

Sono stati uccisi, lo scorso anno, a Taranto da Luigi, marito di Federica nonchè padre di AndreaIl commovente incontro con Rita Lanzon, madre e nonna delle vittime, e con la sua amica Anna Pulpito

È stata una tragedia checi ha colpito e scon-volto perché ha pri-

vato della vita due vittimeinnocenti: Federica De Luca,giovane donna di appenatrenta anni, e il suo figliolettoAndrea, di tre anni e mezzo.

In una società che sembravivere nell’incertezza dellapropria identità, che ha persola capacità di cogliere la ric-chezza della differenza,l’uomo non tollera i confinisempre più ampi di espres-sione conquistati dalladonna, si sente minacciato inquella che è stata la sua supre-mazia. E reagisce con la vio-lenza.

Nella nostra scuola ab-biamo ospitato Rita Lanzon(madre di Federica e nonnadi Andrea), che è stata ac-compagnata da Anna Pulpito, presidentedell’Associazione Volontari Ospedalieri diTaranto.

Anche se con non poca emozione, la si-gnora Rita ci ha descritto la figlia, soffer-mandosi sulle sue passioni (in particolarequella della pallavolo: è stata prima gioca-trice e poi arbitro) e rimarcando la suapreparazione culturale (era laureata e co-nosceva cinque lingue: rumeno, spagnolo,polacco, inglese e francese).

«Ha conosciuto Luigi quando aveva 13anni» ci ha raccontato. «Lui aveva 21 annipiù di lei. Federica lo aveva idealizzatocome il grande amore. Il loro rapportonon mi ha mai entusiasmato. Forse anchealtra gente, dall’esterno, aveva compresoche c’era qualcosa che non andava. Il par-roco che ha celebrato la funzione religiosadel trigesimo della scomparsa era anchequello che unì Federica e Luigi in matri-monio. Al termine della Messa mi ha con-fidato che non aveva visto bene

quell’unione e che era stato sul punto dinon celebrare il matrimonio».

Per lungo tempo Federica e Luigi sonoandati d’accordo. Due anni dopo il ma-trimonio un primo campanello d’allarme.

«Nel 2014 ha saputo che Luigi era statodenunciato per un presunto tentativo diviolenza da parte di una donna. Me lo haconfidato fra le lacrime, ma poi si era con-vinta che non poteva essere vero».

Prima dell’omicidio non si era verificatonessun caso di violenza fisica.

«Magari fosse successo:avremmo sicuramenteadottato tutte le precau-zioni. Però c’era sicura-mente qualcosa che nonandava. Il testimone dinozze, dopo il funerale, ciha mandato un bigliettoche recava questa scritta:“Perdonatemi se non sonoriuscito a fermarlo”».

Il 7 giugno dello scorsoanno, quando Federica avevafinalmente deciso di separarsi(quella sera doveva recarsidall’avvocato), il dramma.

«La mia vita e quella dimio marito si è fermataquel giorno. L’egoismo e labrutalità di Luigi ci hannoportato via Federica e An-drea. Inizialmente pensi dinon farcela. Pensi al peg-gio. Poi ci sono degli amici

(come Anna), che ci danno forza. Conti-nuiamo a vivere stando fra la gente: sietevoi, che ci avete accolto così bene, e glialtri che ci ascoltano a darci la forza perandare avanti».

Francesca ElefanteAnita Ferrara

Alessandra Marino

Il tarlodellasocietà

È stato un caso che hascosso le coscienze del-l’intera provincia. Un

caso che abbiamo trattato anchenoi della redazione del “Pruden-zano Magazine” per riflettere suun fenomeno odioso della so-cietà contemporanea: il femmi-nicidio.

Un uomo, Luigi Alfarano, hadapprima ucciso la moglie, Fe-derica De Luca, massacrandoladi botte e, poi, strangolandola.Quindi ha portato nella villettaestiva il figlio Andrea, di appenatre anni e mezzo: a lui ha riser-vato un colpo di pistola allatesta. Poi si è suicidato.

Un episodio di violenza scon-volgente, frutto di quella menta-lità che riserva onori e rispetto al“più forte”, al “più furbo”, ov-vero, in sostanza, al “più vio-lento”.

Oscar Pisello

Quando la donna diventa oggettoUna storia che ha suscitato numerose riflessioni

Il 7 giugno del 2016 la scintilla fra Luigi e Federica si accese di nuovo.Ma questa volta non era amore....

F ederica e Luigi si co-noscevano da moltianni. Lei se ne inna-

morò subito.Aveva 13 anni quando lo

vide per la prima volta: av-venne mentre faceva volon-tariato per l’AssociazioneNazionale Tumori.

Tornò a casa, sorridente, edisse alla madre: «Mamma,com’è bello Luigi».

Lui aveva oltre vent’annipiù di lei e in quella fasel’amore di Federica non eracorrisposto.

Dovendo frequentare l’Uni-versità, lei rimase via per qual-che anno e, dunque, le lorostrade non si incrociarono piùper un po’ di tempo. Non lopensava più.

Ma il destino ha voluto chesi incontrassero nuovamente, ora entrambi più maturie autonomi: fu lì che scattò la scintilla.

La madre di Federica era sempre stata del parereche quell’uomo non fosse adatto alla figlia e, pro-babilmente, non fosse adatto a nessuna. Qualcosadel suo comportamento non lo aveva mai con-

vinta. Ma, purtroppo, non po-teva decidere lei per il cuoredella propria figlia.

Si sposarono. Niente violenze,né verbali, né psicologiche, né fi-siche. In quel periodo Federicaera felice, ma la sua felicità nonera destinata a durare a lungo.Scoprì, infatti, che il marito erastato denunciato per un tenta-tivo di violenza su un’altradonna. Questo fatto la scon-volse. Piangeva tutto il giorno.

Poi arrivò Andrea. Tre anni emezzo di vita insieme, ma, poi,ecco i primi episodi di violenzaverbale, mai fisiche.

«Magari ci fossero state» ci haconfidato la madre, «almeno loavremmo denunciato».

Proprio per donare la giustaserenità ad Andrea, Federicadecise di separarsi e, con lei,

anche Luigi. Ma, evidentemente, non era del tuttoconvinto di “perdere” Federica.

Un’altra scintilla si accese, ma questa volta nonera amore…

Valentina Attanasio

« Federica era una ragazzasolare e sempre allegra»:questa è la definizione che

usa mamma Rita per ricordarla.Era una brava pallavolista.

Aveva la pallavolo nel sangue. Eraun suo sogno e, si sa, tutti vorreb-bero trasformare il proprio sognoin realtà. Lei era poi diventataanche arbitro di pallavolo e, perla sua bravura, stava scalando ivari campionati, sino ad arrivaread arbitrare partite dei tornei in-terregionali.

Ma, un giorno, questo sogno leè stato strappato via dalle mani.Il vento glielo ha portato via.Questo vento era il marito chetanto amava. Un marito che, poi,si è trasformato in un orco. Il suonome era Luigi Alfarano.

Vi chiederete, perché vento?Perché il vento cambia, da brezzafresca che ti accarezza a vento ge-lido, che ti ghiaccia, fin dentro ilmidollo.

Così era Luigi. All’inizio era unmarito dolce e premuroso, che fa-ceva sentire Federica amata. Ma,poi, con il passare degli anni si è

rivelato per ciò che era vera-mente: un mostro.

Luigi non era il dolce uomo checercava di apparire. A quantopare lui faceva in modo che Fe-derica si allontanasse da tutti.

Non voleva che facesse viaggitroppo lunghi o si recasse in meteturistiche troppo lontane. Nonvoleva che uscisse con le ami-che…

Lui diceva che era geloso. Mageloso non si sa di cosa. Forseavrebbe avuto più ragione Fede-rica ad ingelosirsi, consideratoche una donna lo denunciò pertentata violenza.

Esasperata da tutta questa situa-zione, Federica era decisa a chie-dere la separazione. Ma fu questa

la scintilla che ha fatto scoppiarela follia di questo assassino, che,non riuscendo ad accettare la de-cisione di Federica, ha pensato diucciderla. Ma non ha messo finesolo alla vita di sua moglie, maanche a quella del piccolo e inno-cente Andrea, di soli tre anni emezzo. Una vita, un’anima, chenon aveva nessuna colpa.

Poco dopo aver ucciso il figlio siè suicidato.

Questa è una storia che mi hafatto venire i brividi. Come puòuna persona mettere fine alla vitadi un’altra persona, che per lo piùha amato con tutto il cuore? E,peggio ancora, uccidere un bam-bino così piccolo e indifeso? Luinon sapeva nemmeno il perché,anche se, sicuramente, non c’eranemmeno un perché!

Qualcuno potrà commentare:«Queste sono cose che accadonotutti i giorni».

Beh, è proprio questo il punto:è possibile che ci siano così tantepersone spietate in questomondo?

Ginevra Prudenzano

Federica De Luca,la storia di un amore traditoIl marito? Come il vento che cambia: da brezza frescache ti accarezza a vento gelido che ti ghiaccia fino al midollo

Anna Pulpito e Rita Lanzon nella nostra scuola

Federica DeLuca

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VIOLENZA DI GENERE3

Proviamo a immaginare cosa avrà pensato Andrea in quei minuti«Quel giorno papà era arrabbiato...»

«All’improvviso, boom... La fine. Una luce. La mia mamma»

T ra le storie di femminicidio, avolte è presente un elementonon comune: il bruto che am-

mazza anche il proprio figlio. Non è fa-cile descrivere a parole l’orrore che viveun bambino indifeso che assiste ad unaviolenza e alla fine viene anche uccisodal suo carnefice. Provo ad immaginaree a dare voce, dal mio punto di vista, aciò che ha provato il piccolo Andrea Al-farano, un bimbo di tre anni e mezzo,nel giorno in cui è stato ucciso dal padrea causa di un raptus di follia e forse co-stretto anche ad assistere all’aggressionee all’uccisione della madre, Federica DeLuca, una ragazza di 29 anni.

«Quel giorno papà era arrabbiato. But-tava tutto per terra. Alzava la voce conmamma e le dava tante botte, pugni,calci, perché lei voleva lasciarlo. Mammagridava e cercava di difendersi. Io pian-gevo perché volevo fare smettere papà.Mi tappavo le orecchie perché non vo-levo sentire le sue urla. Guardavo impo-tente, ero spaventato da quello che stavaaccadendo e provavo paura nel vederequella assurda atrocità. Non sapevo cosafare per aiutare la mia mamma. Avrei

voluto far smettere mio padre,ma come potevo?

Poi, ad un certo punto, nonho sentito più nulla. Ho vistomamma ferma e immobilecon un cuscino in faccia.

Mentre io piangevo dispera-tamente, papà mi prese e mimise in macchina per por-tarmi nella casa di campagna.

Tutto ciò mi sembra strano.Non riuscivo a capire perchéaveva massacrato la miamamma. Cosa lei avesse fattodi male per meritarsi tuttaquella violenza.

Quando arrivammo inquella casa grande, avevo tantapaura, ma nello stesso tempopensavo che lui, in fondo, erail mio papà, che mi volevabene e perciò non mi avrebbefatto nulla di male.

Quando, all’improvviso,...boom. La fine. Una luce. Lamia mamma…».

Sara Attanasio

Rita Lanzon

I femminicidi (fenomeno già inac-cettabile) sono ormai all’ordinedel giorno. Raramente, però, ci

sono anche i figli fra le vittime di questafollia tipicamente maschile. In questoepisodio, che si è verificato a Tarantomeno di un anno fa, Andrea, un bam-bino di tre anni e mezzo, dopo aver as-sistito alla crudele uccisione dellamadre, ha subito la stessa sorte.

Ma, a pensarci bene, come si sarà sen-tito Andrea quando ha assistito all’or-rida scena? Secondo me ha odiato,come non ha mai fatto, il padre, che lostava privando di colei che lo avevamesso al mondo e che amava più ditutti. Senza sapere che, pochi minutidopo, la stessa fine sarebbe toccataanche a lui.

La signora Rita Lanzon, madre di Fe-derica e nonna di Andrea, ci ha raccon-tato che l’assassino, prima di uccidere ilpiccolo Andrea, ha cercato di fargli di-menticare il brutale episodio al quale èstato costretto ad assistere: in una sta-zione di servizio, gli ha comprato unamacchinina, che il bambino ha ovvia-mente rifiutato.

Lo ha portato via dalla casa in cui haassassinato la mamma, come a fargli di-menticare l’accaduto, e lo ha portatonella casa che, a quanto pare, era quelladelle vacanze, in cui Andrea aveva sicu-ramente trascorso giorni lieti e felici.

Ma sarà bastato tutto ciò a rasserenarel’animo del piccolo? Non credo pro-prio. Cerco di mettermi nei suoi pannie mi chiedo quali sensazioni avrei pro-vato… Al solo pensiero, mi assale unagrande angoscia!

Avrei avuto paura, terrore, sgomentoe un profondo senso di inquietudine,anche per quello che stava vivendo lamamma e, probabilmente, l’avrei aiu-tata.

Considerando che Andrea aveva solotre anni e mezzo, immagino che avràiniziato a piangere e urlare disperata-mente. Oppure che avrà assistito allascena immobile e atterrito dalla folliaincontrollabile di suo padre, temendoil peggio anche per sé…

Un trauma profondo che avrebbe se-gnato per sempre il piccolo Andrea seanche fosse rimasto illeso.

Per concludere, vorrei dire che questicomportamenti da parte di un genitorenei confronti di un figlio sono sprege-voli, perché un figlio si dovrebbe pro-teggere e difendere da ogni insidia,sempre e a qualsiasi costo. Un omicidioè sempre da condannare, ma quando sitratta di un genitore che uccide la pro-pria moglie e il proprio figlio, non sipuò che provare sconcerto e disgusto.

Giacomo Perrucci

Un omicidio è sempreda condannare.Ma se un papà uccide il proprio figlionon si può che provare sconcerto e uncerto disgusto

R accontandoci questa triste vi-cenda che ha sconvolto la vitadella sua famiglia, Rita Lanzon

ha fatto riferimento ad un altro episodioche ci ha lasciati perplessi: nel corso delfunerale di Luigi, che si è suicidato dopoaver ucciso il figlioletto, il sacerdote, du-

rante l’omelia, ha immaginato che l’as-sassino stesse volando in Paradiso in-sieme alla moglie e ad Andrea. Una fraseche ha indispettito la famiglia di Fede-rica.

Non si può credere, infatti, che unapersona che ha tolto la vita a due vittime

innocenti possavolare in Para-diso. È pur sem-pre un “orco”,che non ha per-messo alla mogliee al figlio di esserefelici anche senzadi lui: non meritaniente.

Un uomo cheha ucciso senzapietà quello che

era il suo grande amore (Federica) e suofiglio di soli tre anni e mezzo (Andrea),secondo noi non può aspirare al Para-diso. È stata insomma una frase fuoriluogo: chi priva della vita due personenon può essere ammesso in Paradiso.

Quando la famiglia di Federica è ve-nuta a sapere di questa frase, peraltro se-guita in chiesa da un applauso, non haesitato un attimo: ha deciso di organiz-zare una fiaccolata per le vie principali diTaranto. In apertura del corteo vi eranola madre e il padre di Federica, che por-tavano una grande foto del volto tume-fatto della loro figlia. Un modo perdimostrare il livello di crudeltà cui si puòspingere un uomo.

Chiara DimagliEvelyn Petrachi

Lorenzo Prudenzano

Chi uccide la propria donna e il proprio figlio merita il Paradiso?

La reazione della famiglia di Federica a un’affermazione di un sacerdote

Nel corso dell’incontro con le si-gnore Rita Lanzon e Anna Pul-pito abbiamo avuto modo di

conoscere anche l’A.V.O. (AssociazioneVolontari Ospedalieri) Si tratta di un’as-sociazione di volontari che mettono partedel loro tempo al servizio dei malati.Anna Pulpito è la coordinatrice per Ta-ranto, mentre Rita Lanzon è una delletante volontarie che si impegnano nellecorsie degli ospedali di Taranto e nonsolo.

Abbiamo appreso che la missione del volontari A.V.O è quelladi portare assistenza di tipo psicologico (oltre a piccoli aiuti diordine pratico) alle persone ricoverate in ospedali o ospitatepresso case di riposo, residenze sanitarie assistite, hospice.

Opera sul territorio nazionale da oltre 40 anni e fufondata da Erminio Longhini.

La signora Anna Pulpito ci ha anche raccontato unsimpatico aneddoto.

«Longhini, negli ultimi anni ’60, era un ricercatoreuniversitario e lavorava anche come Primario in un re-parto di Medicina. Un giorno si rese conto che, neltrambusto della gestione quotidiana, una donna rico-verata che chiedeva un bicchiere d’acqua era rimastainascoltata. Un episodio emblematico che segnò l’iniziodel cammino profondamente umano dei volontari incorsia, dediti alle persone, al loro ascolto, a gesti sem-

plici ma necessari, come porgere un bicchiere d’acqua, donareun sorriso, offrire una presenza».

Giulia BarbieriStefano Giorgino - Maria Francesca Perrucci

Il prezioso ruolo dell’Associazione Volontari Ospedalieri:il tempo libero dei soci al servizio degli ammalati

E cco alcune riflessioni della nostraredazione sull’episodio che havisto coinvolti Federica e Andrea.

Quando parliamo di femminicidio, ilpiù delle volte la nostra attenzione si fo-calizza sulla donna uccisa per mano delmarito, oppure su un ex che non si ras-segna. Poche volte l’interesse si volgedalla parte dei figli, spesso anche mino-renni (come è successo al piccolo Andrea)di queste donne uccise.

Le chiamano “vittime secondarie” epurtroppo in Italia non esiste una leggeche le tuteli. Spesso dimenticati, i bam-bini e gli adolescenti sono i testimoni chesopravvivono a un disastro familiare(questo non è stato però il caso di An-drea, che ha perso la vita insieme allamadre) e che il più delle volte portanodentro di sé ferite e cicatrici difficili daricucire.

Storie diverse che hanno sempre in co-mune la perdita della madre, del padre edi quello che è definito nucleo familiare.Il più delle volte questi ragazzi vivononelle “case famiglia” e i più fortunati sonoaffidati ai nonni o zii. Comunque parentistretti.

È impensabile, secondo me, il drammadi questi bambini, cui è stata rubata l’in-fanzia, periodo fondamentale, da dovesiamo passati tutti noi e non capisco ilperché questi bambini (vittime), deb-bano assumersi colpe e soprattutto il per-ché debbano essere coinvolti. GraziaMaria Biasco

Dinanzi a vicende di questo tipo, so-praffatti dal senso di giustizia e dalla mo-rale, è sempre difficile stabilire se,religiosamente, sia giusto che, nonostantetutto, chiunque possa giungere ad otte-nere la salvezza accedendo al Paradiso.Penso che durante la celebrazione del fu-nerale, il parroco don Emanuele abbiacercato un concetto apparentemente dif-ficile da modulare: dal punto di vista re-ligioso, si crede fedelmente che, puressendo un concetto apparentemente dif-ficile da comprendere, anche un uomoche ha compiuto una simile azione puòessere perdonato.

Io infatti, su questa cosa ci credo perchési può perdonare una persona che hacompiuto tali gesti, solo se costui è vera-mente pentito di ciò che ha fatto. EsterColuccia

“Vittime secondarie” e perdono:alcune riflessioni su questi temi

Anna Pulpito

Rita Lanzon e Anna Pulpitocon la redazione del Prudenzano Magazine

Page 4: Femminicidio, di genere si muore I P · Il commovente incontro con Rita Lanzon, madre e nonna delle vittime, e con la sua amica Anna Pulpito È stata una tragedia che ci ha colpito

VIOLENZA DI GENERE4

Dalle donne la forza delle donne:l’incontro con le operatrici di Alzaia

O gni anno, attorno al 25 no-vembre (Giornata Mon-diale contro la Violenza

sulle Donne) o prima dell’8 marzo(Festa della Donna), ci troviamo a de-nunciare l’aumento esponenziale deifemminicidi, della violenza domestica,delle aggressioni fisiche e psicologichesubite dalle donne.

Sono occasioni in più per rifletteresu questo fenomeno, che è diventatouna vera emergenza. Per discutere eper conoscere più da vicino la situa-zione nella nostra zona, abbiamo invi-tato a scuola due operatricidell’associazione “Alzaia”: MonicaGrassi e Sabrina Callea.

Rispondendo alle nostre tante do-mande, le due operatrici ci hanno gui-dato alla scoperta di un mondo fattodi violenza e di umiliazioni, a volteanche di morte. Non sempre i casi ven-gono alla luce. O a volte vengono allaluce troppo tardi.

«La nostra associazione dispone ditutte le figure (avvocati, assistenti so-ciali, psicologi, educatrici sociali) peraccogliere e fornire ogni tipo di sup-porto alle donne vittime di violenza»ci hanno riferito le due rappresentantidi Alzaia. «Come trovarci? Attraverso

internet o attraverso i servizi sociali deiComuni, o, ancora, chiamando il cen-tralino nazionale 1522. Siamo anchesu facebook. Abbiamo diversi sportellid’ascolto. Nella zona anche a Lizzanoe a Manduria».

Ci è venuto spontaneo chiedere qualè la situazione nella nostra zona.

«Nel corso dell’ultimo anno sonostate 18 le donne che si sono rivolte alnostro sportello di Manduria. Però»

hanno aggiunto le dott.sse Grassi eCallea, «di solito la gente del posto pre-ferisce, per discrezione, rivolgersi insportelli di altre città. I casi, quindi, sa-ranno sicuramente di più».

Spontanea la domanda sulle cause diquesta ingiustificabile violenza.

«Le cause possono essere diverse.Non c’è un elemento comune a scate-nare la violenza. A volte può essere chel’uomo abbia assistito da bambino alla

violenza del proprio padre sullapropria madre. Di solito, co-munque, chi si macchia di questireati ha un’indole violenta. Sonouomini possessivi, che sono con-vinti di amare le proprie donneanche se le picchiano. C’è in lorola voglia di controllare e sotto-mettere la donna. Frequente èanche la dipendenza da alcool».

Tanti i tipi di violenza cui sonosottoposte le donne: quella fisica,quella sessuale e quella, a volteancora più devastante, psicolo-gica. Esiste poi la persecuzione,ovvero lo stalking.

«Per ogni caso, noi consigliamosempre di denunciare, sin dal-l’inizio, per evitare che la situa-zione degeneri. Vi sono dellestrutture che aiutano le donne a

lasciare la casa e a essere sostenute nelladifficile fase di ripresa».

Martina CaragliaGiorgio Comes

Gregorio DistratisFrancesco ErarioStefano GiorginoCarlotta GiulioFrancesca Mero

Monica Grassi e Sabrina Callea

L ’associazione Alzaia è stata fondata,a Taranto, nel 2007. La scelta delnome è particolare: “alzaia”, infatti,

è anche un nodo delle funi che venivanousate dai marinari nelle operazioni di sal-vataggio. Con questo nodo, insomma, sivogliono idealmente salvare anche ledonne vittime di violenza.

Il percorso si avvia attraverso un collo-quio con le donne che si rivolgono all’as-sociazione. Se la vittima è in pericolo, puòtrovare accoglienza in casa-rifugio. Natu-ralmente il marito o il compagno non de-vono conoscere il luogo. In queste strutturepossono portare anche i figli.

Alle donne viene offerta ogni tipo di as-sistenza.

Gabriella Ricci

Il nodoper salvarele donne

Ogni anno l’evidenza dei numeri rischia di annientare lacapacità di reagire razionalmente e di indignarci

Alla base del femminicidio l’onore legato alla proprietà del corpofemminile e all’affermazione della potestà maschile

LA TESTIMONIANZA«Ho detto basta allaumiliazione! Da quel giornosono diversa, sicura e bella»

Q uattro anni, quattro anni di ogni tipo diviolenza, senza la minima preoccupa-zione di quanto potesse influire questo

suo agire davanti agli occhi di mio figlio, di nostrofiglio. Non puoi immaginare cosa significhi scap-pare via dalla tua casa, quella casa di ricordi, belli ebrutti, fatta di sacrifici, di amore, di odio. E in quelmomento non sai nemmeno se la rivedrai, se rive-drai le tue cose. E poi portare con te un bambinocosì piccolo, in silenzio, prendendo giusto il suo pe-luche preferito, e la sua copertina di Spiderman…Portarlo via ancora assonnato e un po’ impauritodalla sua cameretta, dai suoi giochi, dal suo mondo.

Ecco, è successo che una sera, mentre lui faceva ladoccia, ho detto addio a tutto questo… Poco primami aveva ribadito che non sono capace neanche difargli una fetta di carne… E mi aveva tirato i capellicon tutta la sua forza… Quante volte ho desideratotagliarmi a zero quei capelli, ma poi sarebbe statoanche peggio…

Mi sono detta: ora basta! E’ stato difficile, ma quelgiorno ho smesso di avere paura e mi sono riappro-priata di me stessa.

Quattro anni di botte, insulti, umiliazioni. Quelgiorno mi sono guardata e non ero più io. Invece luiera sempre uguale… “Scusami”, mi diceva, “è il la-voro che non va … Poi tu a volte le cerchi proprio”.E si faceva una risata.

Quel giorno davanti a me non vedevo altra solu-zione se non quella di andarmene. Ho guardato disfuggita il mondo che stavo lasciando e con mio fi-glio in braccio sono andata via.

Mi ero fermata un sacco di volte a leggere il car-tello sulla porta della Asl. Ho scritto gli orari su unfoglio…

Sino a prima di recarmi al centro di ascolto, miavevano risposto nei modi più assurdi. “Assurdi” lodico ora. Ora che ho capito cos’è il bene e cos’è ilmale. Quando tempo fa mi rivolsi ad una vicina, di-cendole un decimo di quello che mi succedeva echiedendole di aiutarmi ad andar via e lasciarlo, mirispose: “Ma ci hai pensato bene? Non si scappa daun matrimonio.. Ti sei fatta anche tu un esame dicoscienza?”.

Invece un’altra amica, diciamo amica, mi disse:“Francesca, viviamo in un paese, renditi conto checominceranno ad isolarti e additarti… Comunquevaluta tu”. Ah ecco, a questo non ci avevo pensato…Allora mi tengo le botte…

Ma alla fine non sono state le botte, forse a quellemi ci ero anche abituata. Io ho detto basta quandomi trascinava davanti allo specchio per capelli (sem-pre quei maledetti capelli), e mi urlava: “Guardati,fai schifo, tu non sei nessuno senza me, una nullità”.

Ecco, è quello che mi ha fatto decidere… Ho dettobasta all’umiliazione!

Da quel giorno sono una donna diversa, sicura esoprattutto bella. Anche con il mio nuovo taglio dicapelli.

Francesca

cambiare la cultura secondocui l’uomo deve avere il pre-dominio sulla donna. Biso-gna sensibilizzare le nuovegenerazioni. Kuka Falcone

Mia madre mi ha sempreinsegnato di non giudicareun libro dalla copertina. Avolte, infatti, sono proprio gliuomini all’apparenza piùgentili che si rivelano i piùcrudeli. Non bisogna fidarsimai troppo: prima di dire un“ti amo”, bisogna conoscerebene, anzi benissimo, l’uo-mo. Ilaria PiccioneGli uomini che maltrattano

la propria donna sono dav-vero degli idioti, perché, ciscommetto, se succedesse alla

propria figlia anche loro sta-rebbero male. Paula Dobrea.

Un uomo che picchia unadonna non dimostra virilità,ma il contrario: solo stupiditàe un modo di pensare primi-tivo e idiota. Molti di questi“uomini piccoli” hanno addi-rittura il coraggio di sostenereche amano la propria donnae sono gelosi. Chi ama, nonpicchia. Valentina Guider-done

Io sono un ragazzo e moltopresto diventerò un uomo.Un uomo che capisce che ledonne sono un anello moltoimportante della nostra vita:sono preziose e vanno rispet-tate. Federico Pichierri

L a violenza sulle donne è un problema cheaffligge la nostra società sin dai tempi piùremoti. Secondo le tradizioni più antiche,

era normale che l’uomo, sia che fosse il padre, ilfratello, il fidanzato o il marito, controllasse, fin neiminimi dettagli, la vita della donna e che la gui-dasse secondo il proprio volere. Se la donna si fossesottratta per qualsiasi motivo alla sua autorità, al-lora l’uomo sarebbe stato autorizzato e giustificatoad “alzare le mani” per riportarla all’obbedienza.

I maltrattamenti che avvenivano all’interno dellemura domestiche erano considerati fatti privati epersonali, che si preferiva nascondere e che non ri-guardavano in nessun modo la società.

Ma la cosa peggiore è che la stessa donna maltrat-

tata, umiliata, violentata e privata di ogni libertà,arrivava e tuttora arriva a sentirsi colpevole e ad ac-cettare questi comportamenti come fossero e sianoindiscutibili e assolutamente normali.

Anche la legge, sino a qualche decennio fa, nonconsiderava reati questi comportamenti e neanchei cosiddetti “omicidi d’onore” erano considerati deiveri e propri omicidi, per cui non venivano punitiin maniera adeguata.

Fortunatamente la condizione della donna nellasocietà moderna sta migliorando e anche la leggeha fatto grossi passi in avanti. Inoltre sono natetante associazioni che aiutano e tutelano le donneche subiscono violenze di ogni genere.

Giacomo Perrucci

La violenza sulle donne: dall’omicidio d’onore alle nuove leggi

Con la violenza,gli uominidimostrano diessere “piccoli”

P er sconfiggere queste forme diviolenza, si dovrebbero attuaredelle iniziative a tutela delle

donne, facendo loro capire che c’è tantagente che le può aiutare. Non devonoavere paura di denunciare, perché unpiccolo gesto fa la differenza. ChiaraDimagli.

Nella zona di Manduria 18 donne sisono rivolte allo sportello Alzaia, machissà quante altre subiscono violenza enon hanno il coraggio di denunciare.Di solito le violenze avvengono proprionelle famiglie che sembrano perfette,perché non si macchiano di violenzasolo le persone meno colte. CamillaCavallone

Al giorno d’oggi le donne dovrebberoavere gli stessi diritti di un uomo, invececontinuano a subire violenza. Io credoche non è la diversità fisica ma è la cul-tura a fare la differenza. Bisognerebbe

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LA STORIA5

L a sera del 24 novembre del 2103,Emanuele, un ragazzino di appena16 anni, salutò i suoi genitori e le

sue sorelle e andò a una cena con degli amicipiù grandi. Con la leggerezza della sua etàaccettò di provare un “francobollo”, unacido, che qualcuno di questi amici piùgrandi gli offrì: “Cosa vuoi mai che succeda,lo fanno tutti”, avrà pensato mentre se loappoggiava sulla lingua.

Successe la fine del mondo, il suo mondo.Perché, come a volte succede, quell’acido gli“salì” male, lo traghettò nell’angoscia piùnera: erano le due di notte quando Ema-nuele guardando il Chiese, un fiume chepassa vicino a casa sua a Gavardo (nel Bre-sciano), si buttò in acqua, esattamente nellostesso punto dove una decina di anni prima,accompagnato dal suo papà, aveva liberatoun pesciolino rosso.

Il corpo di Emanuele fu trovato alcune oredopo a duecento metri da dove lui e il suopesciolino si erano tuffati, trovando en-trambi lo stesso destino di morte (il pescio-lino fu infatti inghiottito da un’anatra sottogli occhi sgomenti del bambino e quelli piùdivertiti del suo papà). E proprio questopapà, Giampietro Ghidini, che la nottedella morte di suo figlio era pronto a se-guirlo incapace di immaginare la sua vitasenza di lui, ha trovato in quella fine senzasenso il senso della sua vita. A pochi giornidi distanza dalla morte di Emanuele ha in-fatti creato una fondazione che si impegnaa tenere i ragazzi a rischio lontani dalladroga.

Giorgio ComesAnita Ferrara

Emanuele eil pesciolinorosso U no degli incontri più

emozionanti del nostro la-boratorio di giornalismo è

stato quello con papà Giampietro,un padre coraggioso che ha perso ilfiglio tanto amato quando avevasolo sedici anni.

Il papà ci ha raccontato che Ema-nuele (questo il suo nome) era unragazzo pieno di energia e di entu-siasmo. Aveva tanti progetti e con ilpadre aveva un rapporto di grandecomplicità.

Avevano sempre fatto tutto in-sieme, dalle cose più banali a quellepiù importanti, a volte anche pic-cole stupidate all’insaputa della

mamma. Crescendo, naturalmente,Emanuele si era un po’ staccato dalpadre e papà Giampietro glieloaveva lasciato fare, perché era giustoche facesse le sue esperienze. E forseEmanuele aveva cominciato a fre-quentare cattive compagnie che,pian piano, lo avevano avvicinatoalla droga. Purtroppo non si eraconfidato con il padre per paura dideluderlo. Un brutto giorno, dopoaver assunto Lsd, il gesto estremo: si

è tuffato in unfiume ed è morto.

Per me è statouno degli incontripiù commoventi inquanto la storiaraccontata da papàGiampietro, moltotriste e suggestiva,ha suscitato in me una serie di emo-zioni che ora non saprei descrivere.

Papà Giampietro, per me, è uneroe e dovrebbe rappresentare unmodello per tutti noi, ragazzi eadulti, che spesso non sappiamo ac-cettare le disgrazie che ci colpi-scono, ma piuttosto ci isoliamo

dagli altri o ci deprimiamo;egli, invece, ha insegnato atutti noi come trovare ilcoraggio per affrontare letragedie anche più assurdecon forza e determina-zione.

Papà Giampietro è riu-scito a superare il doloreper la morte del figlio, si-tuazioni tra le più difficiliche ci siano. Ha fondatol’associazione “Ema Pescio-lino Rosso” e ora gira perl’Italia per offrire la propriatestimonianza e per aiutarei giovani.

Provo una profonda am-mirazione per lui. Se devoconfidarlo, prima di cono-scerlo avevo una certa cu-riosità, ma mi aspettavo divedere un uomo profonda-

mente rammaricato per quello chegli era successo. Mai avrei pensatodi trovare un padre che ha perso unfiglio così determinato ad affrontarela propria vita, con tutti i suoi pro ei suoi contro. Chiaramente la tri-stezza si leggeva negli occhi diGiampietro, ma lui riusciva a na-sconderla e devo dire che il suo è lospirito giusto per affrontare la vita.

All’incontro hanno partecipatoanche i docenti e molti genitori: a

ciascuno di noi ha insegnato qual-cosa. Noi ragazzi abbiamo capitoquanto sia importante parlare e cer-care di risolvere un problema in-sieme ad un caro o ad un adulto ingenerale, per non trovarci in una si-tuazione come quella di Emanuele.Chissà quante volte Emanuele avràavuto paura, chissà quante volte si èsentito solo, chissà quante volte avràavuto bisogno del conforto o del-l’abbraccio dei suoi genitori…

Se solo avesse trovato il coraggio dichiederlo!

Non esiste alcun problema che igenitori non possano risolvere per-ché sono coloro che ti conosconoper quello che sei e farebbero qua-lunque cosa per essere d’aiuto aipropri figli.

Questo incontro non è servito soloa noi ragazzi; ho visto le lacrime agliocchi di molti genitori e docenti du-rante e alla fine dell’incontro. Avrannoriflettuto su come ritrovare il veroruolo nella famiglia, sull’importanzadi essere sempre vicini ai propri figli,non solo nelle necessità materiali, maanche e soprattutto con la loro sem-plice presenza amorevole. Non sem-pre e solo “si”, né sempre e solo “no”:noi ragazzi non abbiamo bisogno digenitori che ci fanno fare tutto quelloche vogliamo, che accontentano ognicapriccio, ma neanche di genitori checi terrorizzano e ci impediscono diesprimerci in libertà. Abbiamo biso-gno di sapere che ci sono in ogni mo-mento, anche quelli più difficili, e chenel caso di una brutta caduta sono lì,pronti ad aiutarci per farci rialzare eritornare a camminare.

Giacomo Perrucci

Dalla triste storia di Emanuele al dialogo tra genitori e figliPapà Giampietro si racconta a ragazzi e genitori: una testimonianza commovente

Emanuele e papà Giampietro

Non sempre solo “si”, né sempre solo “no”: noi ragazzi abbiamo

bisogno di genitori pronti a darci una mano quando “cadiamo”

Da un profondo dolore ad unimpegno totaleCome Giampietro è riuscito a dare un

senso alla propria vita

N ell’incontro con gli studenti e i geni-tori della nostra scuola, papà Giam-pietro ha raccontato quei giorni,

dolorosissimi, della perdita del proprio figlioEmanuele. Da quel dolore, che ha sconvolto lasua vita, è iniziato un lungo e fecondo camminoche lo ha portato a incontrare studenti e genitoridi oltre 700 scuole italiane.

«Pochi giorni dopo la morte di mio figlio - haraccontato Giampietro mentre si asciugava unalacrima - sognai di trovarlo nudo in fondo almare e di salvarlo riportandolo in superficie: fu

un’illuminazione. Capii che, seppure il doloredella perdita di Ema mi avrebbe accompagnatoper sempre, sarei riuscito a dare un senso aquello che era successo a lui impegnandomi afare in modo che non succedesse ad altri ragazzi.Così ho creato la fondazione per Emanuele, cosìho scritto il libro “Lasciami Volare” pensato perpadri e figli che fanno fatica a parlarsi. Così sonoandato in televisione a parlare di Emanuele e diquella sciocchezza che gli è costata la vita, cosìvado nelle scuole, ovunque mi chiamino a par-lare della storia di mio figlio. Così ho coinvoltodue ragazzi a fare il giro d’Italia in bici, con me.Perché pedalando, faticando, guardando la me-raviglia della natura, non ci si pensa alla droga,ci si salva la vita».

Così, infine, oggi a un anno dalla morte di suofiglio Giampietro fa tutto quello che può peri figli degli altri.

Grazia Maria BiascoStefano Giorgino

Papà Giampietro a scuola

in grado di lasciare i propri problemi dalla sfera familiare. È importante, in-vece, avere sempre un dialogo con i figli, di “saper accendere un semafororosso”, ovvero di sapersi controllare e non affrontare i problemi istintivamente,brontolando e recriminando, o discutendo animatamente, imponendo ai figlii punti di vista dei genitori. Il dialogo consiste nel comunicare ogni giorno aifigli i valori, le regole, la strada da seguire, affinchè i ragazzi siano in grado dicompiere le scelte e decidere in maniera responsabile. Ancora, nel dare il buonesempio essendo coerenti, nel gratificare i figli di più, cercando di non umiliarlie mortificarli quando sbagliano.

Quello dei genitori non è un “mestiere” facile perchè a volte si utilizzanomodi e atteggiamenti che fanno danno, come pressioni psicologiche checondizionano i ragazzi (come dire: “io da te questo non me lo aspettavo”oppure “non fare mai quella cosa, mi deluderesti”), e che non portano i ra-gazzi a chiedere aiuto ai genitori quando incontrano dei problemi. I genitoridevono essere dei “guerrieri” e non dei “carabinieri” nei confronti dei figli,devono rappresentare un porto sicuro in cui, quando il mare è in tempesta,possono ormeggiare.

Ai ragazzi papà Giampietro ha voluto lasciare un messaggio di speranza. No-nostante gli sbagli legati all’età e alla società in cui viviamo, ha incoraggiato iragazzi a superare le paure e a chiedere aiuto ai genitori. Loro, anche se a volteprestano poche attenzioni, darebbero la vita per i figli. Poi ha stimolato glistudenti presenti a non buttar la vira e a non “perderci per poco”.

Sara Attanasio

L ’incontro con papà Giampietro èstato davvero utile per far capire anoi ragazzi com’è semplice buttare

via la propria vita: anche con una semplicepastiglia, un oggetto che può sembrare pic-colo e insignificante, si può mettere finealla propria vita.

Ognuno di noi dovrebbe restare con ipiedi piantati per terra e con la testa sullespalle, non lasciandosi condizionare daglialtri. Ovviamente è più facile a dirsi che afarsi, però dobbiamo ricordare che nonsiamo soli, perché abbiamo i nostri genitoriche ci aiutano e ci supportano, semprepronti a darci una mano, anche se combi-niamo il guaio peggiore del mondo.

Dobbiamo ricordarlo sempre, soprattuttoquando abbiamo dei problemi. Il dialogofra genitori e figli è importante perché i ge-

nitori sono le persone che ci amano, nono-stante tutto! Anche se a volte anche lorofanno degli errori, ma, d’altronde, chi nonli fa?

L’importante è non perdere la calma edevitare di urlare. Anche noi dovremmo cer-care di non farli arrabbiare, anche se a voltesembra impossibile: ognuno si dovrebbemettere nei panni dell’altro!

Quest’incontro è stato davvero utile perfarmi riflettere sul rapporto che ho io coni miei genitori. Fortunatamente non c’èmai stato motivo di nascondere niente, maè servito come una prevenzione futura.

Inoltre quest’incontro ha alimentato sem-pre di più la mia idea: in un rapporto diqualsiasi tipo ci deve essere la fiducia!

Ginevra Prudenzano

Come superare le incomprensioni?Ognuno si deve mettere nei panni dell’altro

Con messaggi forti,papà Giampietro parla del suo dramma edentra nel cuore di tutti

G iampietro è un papà che, pur-troppo, ha subito il piùgrande dolore che possa esi-

stente in questo mondo: la perdita di unfiglio. Così grande che il papà, per il do-lore, la rabbia e il senso di colpa, ha piùvolte pensato di buttarsi nel fiume perraggiungerlo.

Quello che poi Giampietro ha ideatoè un progetto per raccontare la propriastoria a genitori e figli, non per inse-gnare qualcosa a qualcuno, ma sempli-cemente per far riflettere, per evitare,insomma, che altri giovani possanocommettere lo stesso errore e per in-durre i genitori ad avere un dialogosempre aperto con i propri figli, chehanno bisogno di sentirsi accolti, nongiudicati anche quando sbagliano.

L’incontro con papà Giampietro èstato ricco di emozioni per noi ragazzi:il racconto del suo dramma ci ha por-tato a riflettere su quanto sia preziosala vita.

Dalla sua esperienza ha volto eviden-ziare degli errori che a volte un genitorenon vede. Ad esempio, di essere condi-zionato dal proprio ego, dal propriosuccesso, dal lavoro, e di non essere in

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IL NUOVO PERICOLO6

L ’Ecole Universitaire Internationale èun istituto di ricerca che, fondato nel2012, promuove e organizza corsi di

formazione ad alto livello riservati a opera-tori già attivi nel campo della sicurezza edella pace, nonché a coloro che intendonodiventarlo.

Tali corsi sono dedicati a tematiche distrettissima attualità, come, ad esempio, an-titerrorismo, antiterrorismo urbano, intelli-gence, negoziazione degli ostaggi, psicologiainvestigativa, comunicazione strategica. Icorsisti vengono formati con tecniche moltoavanzate.

Fra le varie attività svolte, ne segnaliamouna che ci ha molto incuriosito: l’Ecole Uni-versitaire Internationale è l’istituto che rap-presenta l’Italia nella campagna disensibilizzazione e ricerca internazionale“Start by believing”, istituita dal governodegli Stati Uniti in tema di violenze sessuali,abusi all’infanzia, violenza di genere e vio-lenza domestica.

Nella nostra scuola abbiamo ospitato leoperatrici Sabrina Magris (presidente del-l’Ecole), Francesca Fanti, Martina Grassi eMonica Zanzarella, nonché l’avvocato An-tonietta Saracino, che collabora con questoistituto.

Francesca ElefanteSofia Valente

Start bybelieving

N egli Stati Uniti, dove si con-tano circa 100.000 aggres-sioni sessuali all’anno,

l’Istituto Nazionale di Giustizia ameri-cano ha voluto valutare la percentualedei crimini facilitati dall’impiego di so-stanze chimiche. L’indagine ha fornitouna risposta davvero sorprendente: èinteressato il 62% delle aggressioni.

Invitando a scuola le operatrici del-l’Ecole Universitaire Internationale, ab-biamo voluto approfondire questosempre più preoccupante fenomeno,purtroppo “importato” anche in Italia.Ci parlate di questa sostanza?«La cosiddetta droga da stupro è in-

colore e insapore. Se aggiunta a ciò chesi sta bevendo, annulla ogni difesa la-sciando la vittima in balia del proprioaggressore. Questa droga annulla anchela memoria, per cui la vittima non ri-corderà nulla e non potrà mai avere laconsapevolezza di ciò che è realmenteaccaduto».Da quanto tempo è sul mercato

questa sostanza e quanto costa?«Questa droga è in circolazione dagli

anni ’70 del secolo scorso. E’ stata pro-dotta negli Stati Uniti e, poi, è arrivataanche in Europa e in Italia. Solo negliultimi tempi si sta avendo contezzadella reale portata di questo fenomeno.La perdita della memoria non consen-tiva, sino a non molto tempo fa, diavere un quadro preciso della diffusionedi questa sostanza»Per quella che è la vostra esperienza,

questa droga viene somministrata es-senzialmente in discoteca fra ragazziche si sono appena conosciuti? O cisono casi che si sono verificati fraamici?

«L’uso della sostanza non è legatatanto al posto, quanto all’intenzione ealla finalità di chi la somministra. Vienedunque somministrata sia a chi si è co-nosciuto casualmente nel corso diquella serata, sia a gente amica da tantianni o addirittura, in alcuni casi, a

componenti della stessa famiglia».Questa sostanza provoca dei danni

fisici?«Se viene somministrata solo una

volta non provoca danni fisici. Se in-vece l’individuo la ingerisce più volte,vi possono essere anchedanni fisici e, quindi, nonsolo psicologici».Quali segnali dobbiamo

cogliere per capire che ci èstata somministrata questadroga?

«Inizialmente la vittimapuò essere scambiata per unindividuo che ha bevutoqualche bicchiere in più…Di solito, vi sono delle sudo-razioni eccessive e si dilatanole pupille. Si avverte, poi,una grande fame d’aria. Maproprio attraverso i respiripiù profondi, la sostanzaentra in circolo più veloce-mente. Al risveglio, invece,la vittima può cadere in depressione oavvertire rabbia»Cosa succede al risveglio dopo l’uso

della droga?«La vittima non ricorda nulla e, per-

tanto, è facile che si ponga una serie diinterrogativi su cosa sia successo nelleore precedenti»Quanti casi si segnalano in Italia di

ragazze o comunque individui rapi-nati o abusati dopo aver ingerito in-consapevolmente la droga dellostupro?

«Le vittime sono tantissime, ma nontutte scoprono di aver ingerito, a loroinsaputa, la droga dello stupro. Non ri-cordando, poi, una grande percentualedi vittime non presenta denuncia.Negli ultimi tempi i sequestri sono in-genti: a Milano, ad esempio, sono statesequestrate 57mila dosi. Se ci sono, si-gnifica che vengono usate».Vi è un identikit del potenziale cri-

minale che aggredisce le donne uti-

lizzando queste sostanze?«No, è impossibile. Il potenziale cri-

minale può essere chiunque, anchegente che non sospetteremmo mai. Cisono stati casi di uomini che hannosomministrato la droga dello stupro alla

propria compagna o alla propria moglieo, viceversa, donne che hanno versatola droga nelle bevande di uomini o diamiche, magari per vendicarsi di qual-cosa».Di solito chi somministra questa

droga agisce individualmente? Op-pure in gruppo?

«Di solito individualmente, ma puòaccadere che si agisca in gruppo»Dopo una denuncia, gli investiga-

tori come si muovono per cercare diprovare che l’aggressore ha usatoquesta sostanza, qualora non vi sianoaltre prove, come ad esempio dei fil-mati o delle foto?

«Sono necessarie delle analisi tossico-logiche: analisi del sangue o delle urine.Si risale alla sostanza anche attraversol’esame del capello. L’esame delle partipilifere invece è preferibile quandol’arco di tempo da analizzare è piùampio, ma allo stesso tempo è l’esameche fornisce indicazioni più precise ri-

guardo tempistiche, durata e tipologiadi sostanza, fermo restando che la lun-ghezza del capello può portare alla lucefatti avvenuti anche in tempi molto di-stanti dall’abuso»In Italia ci sono già state delle con-

danne a individui senza scrupoli chehanno somministrato questa droga?

«Per fortuna si. Due giovani, di circa25 anni, sono stati condannati in To-scana. Avevano versato la droga dellostupro ad una loro amica durante unafesta. La ragazza, al risveglio, non ricor-dava, chiaramente, cosa fosse successodurante la notte. Si recò in ospedale, fu-rono eseguite delle analisi e, grazie alleinvestigazioni, si sono riuscite a racco-gliere delle prove per incastrare i colpe-voli».Cosa fa lo Stato per tutelare i citta-

dini da questi pericoli?«Si cerca di prevenire attraverso il se-

questro delle dosi di droga dello stupro.Poi vi è la fase della repressione, non fa-cile proprio per gli effetti di questa so-stanza».

Grazia Maria BiascoEster Coluccia

Stefano GiorginoAlessandra MarinoFederico Pichierri

Le ricercatrici dell’Ecole Universitaire Internationale

Una nuova minaccia per le donne: la droga dello stupro

Versata nel bicchiere delle vittime, annulla qualsiasi tentativo di opporre resistenza

L’interessante incontro con le operatrici dell’Ecole Universitaire Internationale

Comeproteggersidalla drogadello stupro:ecco alcuni consiglida tenere semprea mente

L a droga dello stupro è una polverinabianca, inodore e insapore. Se finiscedentro una qualunque bevanda, per-

tanto, è impossibile capirlo: il gusto della be-vanda non viene minimamente alterato.

È stato appurato che basta una minimadose diluita in una bevanda per poter cau-sare la perdita di controllo dei freni inibitoridelle vittime. Gli effetti però possono essere

davvero drammatici visto che la droga dellostupro, se somministrata più volte alle vit-time, può causare aritmie cardiache, dege-nerazioni del cervello, danni al fegato e aireni, sonno improvviso, perdita di memoria,in alcuni casi anche la morte.

Come difendersi, allora, da questo peri-colo? Per evitare di ingerire involontaria-mente la droga dello stupro ecco alcuni

consigli: 1) non accettare be-vande e drinks da sconosciuti; 2)non lasciare il proprio bicchiereincustodito; 3) non condividerebevande; 4) non bere da bottigliegià aperte; 5) prediligere bibiteservite in confezioni chiuse; 6)se, dopo aver bevuto una dosemodesta di bevanda, ci si senteeuforici oppure ubriachi, allon-tanarsi dal posto in cui si è inge-rita la bevanda solo con personedi estrema fiducia; 7) se ci sisente mancare l’aria, farsi ac-

compagnare in un giardino o comunque al-l’esterno del locale solo da persone diestrema fiducia.

Carlotta GiulioEvelyn PetrachiOscar Pisello

È in errore chi è convinto che la droga dello stupro cir-coli solo in discoteca o, comunque, nel mondo not-turno. I luoghi e le situazioni in cui una persona

(donna, uomo o addirittura bambino che sia) può rimanerevittima di malintenzionati che, in un momento di distra-zione, versano la pasticca o la polverina nella bevanda rimastaincustodita sono molteplici: può essere un semplice bar, maanche un contesto più propriamente familiare, qual è la casa.Sono infatti accaduti episodi in cui il marito o il compagnoha versato la polverina nella bevanda della moglie o dellacompagna, o viceversa.

Ci è stato riferito che «la tipologia del criminale che som-ministra la droga dello stupro è molto variabile, ma le stati-stiche confermano che molto spesso chi agisce è una personainsospettabile, tranquilla, apparentemente equilibrata, chenon fa uso di altre sostanze, che frequenta o lavora nei luoghiin cui sceglie le vittime in modo da agire quasi indisturbato».

La sostanza ha effetto quasi immediato, entra in circolo eraggiunge il pieno effetto in 6-8 minuti; la copertura può du-

rare fino a 6-8 ore, ma in molti casi è stata riscontrata unasomministrazione multipla al fine di prolungare l’effetto.

Per evitare qualunque tipo di rischio, bisogna essere sempreattenti e vigili in qualsiasi luogo: occorre avere la capacità diosservare e di comprendere l’amico o il conoscente che ètroppo vicino alla nostra bevanda con fini, evidentemente,non proprio amichevoli.

C’è anche un’altra precauzione: è opportuno restare semprein compagnia di una persona estremamente fidata, pronta,ovvero, ad aiutarci in caso di bisogno. È fondamentale quindirispettare l’amico o l’amica ed essere sempre pronti ad aiu-tarli.

Se dovessimo notare qualcosa di strano nell’amica o nel-l’amico (malore, sudorazione eccessiva, pupille dilatate), me-glio far intervenire subito il 118. I medici, attraverso leopportune analisi, potranno capire cosa è successo, salvandola vittima da abusi.

Kuka Falcone

Il rischio non è circoscritto solo in pub o in discoteca:meglio vigilare ovunque

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IL NUOVO PERICOLO7

I consigli dell’esperta Monica Zanzarella,ricercatrice sulla droga dello stupro

«L’amore non è in quellapastiglia. L’amore è nelle parole,negli sguardi, nel cercarsi»

T utti voi ragazzi, sapete cos’è il suicidio, giusto? Sui-cidio vuol dire avere la capacità di mettere fine allapropria vita con le proprie mani. I motivi che spin-

gono una persona al suicidio possono essere veramente tanti.Una vittima di violenza sessuale o vittima di droga dello stu-pro non è da meno a questo fenomeno.

Pensate che l’80% delle persone a cui viene data questadroga dello stupro si suicida. Si uccide da sola.

Uno degli effetti collaterali di questa sostanza è la perditadi memoria: la vittima, il giorno dopo, si sentirà completa-mente stordita e incapace di ricordare. Difficilmente ricor-derà anche il volto di quella persona che era con lei in quelmomento e che molto probabilmente sarà stata la causa prin-cipale della situazione in cui si ritrova.

Sin da piccoli i vostri genitori vi hanno detto di non accet-tare nulla dagli sconosciuti. Giustissimo! Ma molto spesso lavittima della droga dello stupro ha ingerito la sostanza perchéè stato il fidanzato o l’amico a somministrargliela. Magariperché voleva provare un brivido diverso o perché quella ra-gazzina l’aveva rifiutato o perché ad una determinata età nonsi comprende quanto è importante la vita tanto da distrug-gere non solo la propria, ma anche quella degli altri. Già, per-ché le conseguenze di un tale atto ci saranno, ma anche lavittima della violenza sessuale, dopo averla scoperta, avrà unaserie di difficoltà che difficilmente riuscirà a superare. Avràdifficoltà a vivere normalmente la propria vita e a relazionarsicon gli altri, avrà problemi sul piano fisico e mentale. Avràsempre timore di uscire da casa per paura di essere additatacome colei che è “stata stuprata”, come colei che ha “provo-cato il ragazzo che ha abusato di lei”.

La vittima di droga da stupro assumerà atteggiamenti di au-tosvalutazione, avrà paura di parlare e di chiedere aiuto aglialtri perché potrebbe essereemarginata dalla società, avràdifficoltà a denunciare l’acca-duto.

Sappiate, ragazzi, che la vio-lenza sessuale non è cosa dapoco: devasta completamentela persona nell’animo, soprattutto se viene commessa dallapersona di cui ti fidi maggiormente. Né bisogna pensare, poi,“forse la colpa è stata mia”: è una giustificazione che non deveminimamente esistere.

Se una ragazza decide di voler stare con voi, vuol dire cheha piena fiducia di chi ha accanto; non penserebbe mai cheproprio quella persona possa farle del male. L’amore, infatti,non è in quella pastiglia, non è in quel minuto di atto ses-suale. L’amore è nelle parole, negli sguardi, nel cercare e cer-carsi. Alla vostra età si scoprono cose che rimarranno persempre, perché l’amore è quel brivido che non torna più, per-ché quegli anni ti cambiano.

Alla vostra età ci sono i sogni e i sogni si possono costruire,ma anche distruggere per sempre, perché non si compren-dono i valori o si comprendono in maniera superficiale. Lafamosa pastiglia che voi, magari nell’impeto, pensate di darea quella persona o ragazza perché non avete il coraggio diparlare, perché il vostro desiderio è grande, è la pastiglia cherovina la vita e ne basta una

Ma, ancora di più, quella pastiglia potrà portarla a morire.E per cosa? Per la nostra stupidità? Perché magari abbiamopaura che se parliamo con lui o con lei ridano di noi? Non ècosì e non è mai stato così. Le parole d’amore fanno ridereperché riempiono il cuore, ci fanno sorridere e, state tran-quilli, se mandate un sms o un pezzo di carta, quel messaggioo quel pezzo di carta lei o lui, singolarmente, li leggerannoanche 1.000 volte e, magari, se non oggi, ma domani,l’amore potete costruirlo, trovarlo, i sogni realizzarli, ma noncon quella pastiglia, perché quella pastiglia ti fa morire. Ti famorire perché potresti essere allergico e non lo sai, ti fa mo-rire perché va a toccare delle parti del cervello che ti portanoalla depressione, ti fa morire perché non ricordi più nulla equando gli altri ti raccontano ti senti vuoto perché non è lavita che hai vissuto. Ti fa morire perché magari la persona

che te l’ha data è quella con cui avresti sognato anche tu.Cosa possiamo fare noi? Noi possiamo cercare di aiutare al

momento se ci accorgiamo di qualcosa. Dobbiamo imme-diatamente avvisare qualcuno e non fare nulla da soli. A voltenon si sa come comportarsi quando vediamo queste cose enessuno pretende che voi sappiate gestirle, ma basta telefo-nare, basta anche solo urlare per attirare l’attenzione di qual-cuno.

Ma come può invece la vittima di droga dello stupro ritor-nare a vivere se le sue immagini o i video di chi era presentein quel momento con lei sono state condivise tramite what-sapp proprio dalle persone che riteneva amiche o amici? Sepoi la vittima non vuole condividere il proprio dolore, come

possono i genitori comprendere chedietro quegli strani atteggiamenti cisia qualcosa che non va? La vittimadi droga da stupro è consapevole diessere stata stuprata, ma non ricordaneanche come. Proprio per questomotivo, avendo difficoltà a raccon-

tarlo ai propri genitori, tenderà a rinchiudersi e a tenere tuttoper sé. Si isolerà dal resto del mondo e accumulerà tensione,rabbia e stress. Cercherà in tutti i modi di evitare di manife-stare il proprio disagio e tenderà ad evitare i luoghi che ri-cordano quello che è successo. Facilmente una vittima didroga dello stupro può avere uno stato di depressione.

Per questo motivo è importante parlare di questo fenomenoe informare i genitori che un atteggiamento diverso del pro-prio figlio o della propria figlia potrebbe significare che c’èqualcosa che non va.

La famiglia infatti è di fondamentale importanza per ilsupporto della vittima per-ché rappresenta il pilastrosu cui appoggiarsi per nonscivolare nel buio. La vit-tima ha solo bisogno di es-sere ascoltata, capita,compresa e di essere aiutataa ristabilire il proprio equi-librio, sia psicologico chefisico. La vittima non sacosa le sia accaduto, perquesto ha bisogno solo dipersone che la supportinosenza chiedere in cambio ilracconto dettagliato deifatti, La vittima di drogadello stupro ha bisogno diricominciare da quel mo-mento il cui il ricordo è sparito.

Monica ZanzarellaRicercatrice in droga dello stupro

Monica Zanzarelli

I nternet, anche se rappresenta unagrande risorsa perché ci aiuta moltoper le ricerche o per reperire video

e informazioni di ogni tipo, è molto pe-ricoloso se non lo si sa usare bene, perchéè proprio attraverso la rete e, più nel det-taglio, attraverso i social network che lepersone malintenzionate possono na-scondersi, fornendo informazioni falseper creare amicizie di cui approfittare.

Queste persone, di solito adulti, cer-cano di adescare bambini e adolescentisulla rete (soprattutto i soggetti un po’ in-genui), mettendoli a proprio agio, fin-gendosi anch’essi ragazzi con gli stessiinteressi per creare un rapporto di fiduciae di amicizia. Quando il malcapitato ar-riva a fidarsi, l’adescatore può approfit-tare di lui. Naturalmente, chi di noi haal proprio fianco genitori molto attentiche controllano l’accesso del proprio fi-glio a Internet, sicuramente è molto piùcritico nei confronti della rete e sa comela si deve utilizzare.

Ci sono però molti ragazzi che possonoaccedere a Internet senza il controllo daparte di un adulto e che, passando moltotempo da soli, possono diventare facil-mente preda dei malintenzionati.

Per prevenire ogni tipo di insidia che ar-riva dal mondo esterno, così come dallarete, innanzitutto bisogna essere sempremolto attenti a tutto ciò che ci circondae non fidarsi di nessuno, se non cono-sciamo davvero bene le persone che fre-

quentiamo; è importante ascoltare i con-sigli degli adulti e, in particolare, dei ge-nitori. Questi ultimi dovrebberosorvegliare i loro figli quando utilizzanoInternet.

Non si deve credere a tutto quello checircola in rete, perché in questo mondovirtuale è facile mentire e per questo nonbisogna fornire mai informazioni privatea nessuno, neanche a chi crediamoamico, anche perché, secondo me, è me-glio coltivare amicizie reali, piuttosto chevirtuali.

Se poi si dovesse incappare in qualchesituazione spiacevole, la prima cosa dafare è parlarne subito con i genitori.Un’altra cosa che potrebbe aiutare noigiovanissimi nel fare scelte sagge è l’in-formazione corretta che potrebbe arrivarenelle scuole dagli insegnanti o da altrieducatori. Nei casi in cui le famiglie sonoassenti, per i ragazzi è fondamentale averealtre guide.

Giacomo Perrucci

Adolescenza, quando i pericoliarrivano dalla rete: le precauzioni

«La vittima ha bisogno di essereascoltata, compresa e aiutata aristabilire il proprio equilibrio»

Droga dello stupro: quando le vittimesono degli innocenti bambiniAnche il mondo dei pedofili usa queste sostanze,a volte per realizzare filmati

L e vittime della droga da stupro nonsono solo gli adulti.

Purtroppo, in questo bruttissimo vorticefiniscono anche i bambini. Già, proprioloro. Nel corso dell’incontro con le opera-trici dell’Ecole Universitaire Internationale,abbiamo appreso di un altro uso di questapastiglia che, incolore e insapore, vienesciolta nelle bevande.

Sapete chi sono gli aguzzini? I pedofili.Sono cioè quegli esseri mentalmente di-sturbati che abusano sessualmente dei

b a m b i n i .Le ricerca-trici nostreospiti cihanno spie-gato che,sommini-strando ladroga dellostupro aibambini dipochi anni,si toglieloro ognipossibilità

di reazione. Queste vittime, quindi, sonoalla mercè più completa dei loro predatori.Questa gente completamente disturbatamentalmente (perché è proprio assurdoche si possa solo immaginare di fare sessocon una povera vittima di 5, 6 o 7 anni),

va anche oltre: realizza dei filmati chehanno per protagonisti inconsapevoli que-sti poveri bambini. Bene, sapete quantopossono valere dei filmati nel mercatosommerso della pedofilia? Sino a 40-50mila euro. Con una compressa che puòcostare non più di 10 euro, insomma, gua-dagnano tantissimi soldi, senza alcun tipodi rimorso e senza considerare i gravissimitraumi che provocano in queste povere vit-time innocenti.

Abbiamo appreso attraverso internet chein soli 7 mesi, a Milano, si sono registrati45 casi di minori vittime di violenze asfondo sessuale. Tra questi, in particolare,14 sono di età compresa tra gli 0 e i 10anni, 16 tra 10 e 14 anni e 25 dai 14 ai 18anni.

Proviamo ad immaginare quanti casi cisaranno in Italia, moltissimi dei quali nonverranno mai alla luce: se, dopo aver subitola violenza, non riesce a ricordare niente unadulto, immaginiamo un ragazzino che hameno di dieci anni.

Questi particolari che riguardano i bam-bini ci hanno fatto ulteriormente rifletteresulla malvagità dell’uomo, che inventa ognicosa pur di far del male al prossimo, anchese il prossimo è un innocente bambino.

Sara Attanasio - Chiara DimagliPaula Dobrea - Anita Ferrara

Oscar Pisello

Le operatrici dell’Ecole Universitaire Internationalecon i ragazzi del «Prudenzano Magazine»

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BULLISMO8

Quando la scuola va oltre...La lezione dei ragazzi del “Galilei-Costa”

Un fenomeno che può trasformare in un inferno la vita di grandi o adulti

P er tante, troppe vittime, la vita viene trasformata in un vero e proprio infernodal bullismo, un comportamento vigliacco che cerca di distruggere la personalitàdi chi viene considerato differente o più debole.

Tante ragioni, insomma, per dire “MABASTA” ai bulli e al bullismo. Un’azione con-creta è arrivata dall’istituto “Galilei-Costa” di Lecce. Abbiamo ospitato, nella nostrascuola, il prof. Daniele Manni e gli studenti Giorgio Armillis, Mattia Carluccio, PatrickDe Silla e Niki Greco, fra i promotori del movimento di cui riferiamo nell’articolo ac-canto.

Giorgio Armillis (come vediamo nella foto) è stato recentemente insignito del titolodi «Alfiere della Repubblica» dal presidente Sergio Mattarella. Mentre il prof. DanieleManni è stato, nel 2015, uno dei cinquanta finalisti nel mondo al Global Teacher Prize(meglio conosciuto come il Nobel dei Docenti), mentre per il 2016 è stato uno dei cin-quanta finalisti alla prima edizione italiana del Premio Nazionale Insegnanti (ItalianTeacher Prize), gemellato con il Global Teacher Prize.

Giorgio Comes - Lorenzo Prudenzano

Giorgio Armillis premiato dal Presidente Mattarella

D a circa un anno all’interno dell’istituto “Galilei-Costa” di Lecce è stato fondato il movimento“MABASTA”, acronimo formato dalle iniziali di

Movimento Anti Bullismo Animato da Studenti Adole-scenti. È nato come una start-up promossa all’interno dellascuola dagli studenti di una classe, che sono guidati dal pro-fessor Daniele Manni.Il caso della ragazzina di Pordenone che ha tentato il suici-dio a seguito delle continue vessazioni dei compagni ha tal-mente sensibilizzato il gruppo dei ragazzi fondatori che,scossi dalla disperazione di quella coetanea, hanno decisodi … metterci la faccia! Così hanno deciso di dar vita a que-sto movimento, utilizzando come forma di comunicazioneper raggiungere gli studenti di tutta Italia (e non solo), so-prattutto facebook e internet. Purtroppo nelle scuole e nella

società più in generale si ve-rificano spesso episodi diaccanimento fisico e moraleverso un determinato ra-gazzo per vari motivi. Ilbullo di solito prende dimira i ragazzi più deboli epiù introversi, che nonhanno la capacità di ribel-larsi.

Loro si rivolgono nonsolo ai bulli, ma anche allevittime, ai genitori, agli in-segnanti e agli “spettatori”,a coloro, cioè, che assistonoa casi di bullismo ma nonfanno nulla per fermare il

bullo per paura o per indifferenza. Forniscono utili consiglisu come affrontare il problema. Invitano sempre la vittimaa parlare, a non tenersi tutto dentro, altrimenti si vive male,con rabbia, dolore e anche inutili sensi di colpa o vergogna,che possono sfociare in qualcosa di grave. Bisogna, poi, cer-care di isolare il bullo, ovvero bisogna allontanare da lui gli“spettatori” che assistono senza intervenire.

Si deve, insomma, intervenire su più fronti. Gli educatori,gli insegnanti e i genitori dovrebbero far illustrare ai ragazzii valori della vita e spiegare che la prepotenza e l’insensibilitàverso i compagni e, soprattutto, i più deboli, non è degnadelle persone civili. Secondo noi bisogna intervenire subitoe con fermezza per stroncare sul nascere tutte le situazionidi bullismo. Altrimenti questi ragazzi crescono credendosolo al mito della superiorità fisica e della prepotenza, con-vinti di poter fare quello che vogliono. Una volta diventatiadulti, inevitabilmente trasgrediranno le leggi, così comenon rispettano le regole quando sono ragazzi. Allora saràtroppo tardi per tornare indietro.LE CLASSI DEBULLIZZATE - La finalità del movi-

mento “MABASTA” è quella di “debullizzare” le classi, ov-vero di far sradicare questo fenomeno dalle scuole. I ragazzidell’istituto “Galilei-Costa”, guidati dal loro docente Da-niele Manni, hanno pensato e creato una serie di strumentinuovi ed efficaci.

Chiedono alle classi italiane di autocertificare l’assenza dibulli: ogni studente, firmando un documento, dichiara chenella propria classe non esistono bulli e si impegna, per ilfuturo, a segnalare eventuali episodi. In tal caso la classe ri-ceve il “bollino” di classe “debullizzata”.

In queste classi è istituita la figura della “bulliziotta” e del“bulliziotto”: sono studenti rispettati per i loro meriti, la

loro lealtà e il loro coraggio, che hanno il compito di vi-gilare e di intervenire in casi di bullismo. Se non rie-scono a risolvere il problema, hanno il compito di farintervenire i docenti.

Per coloro che, infine, sono più timidi e non hanno ilcoraggio di venire allo scoperto, è stata creata la “bulli-box”, una scatola in cui le vittime o i testimoni di epi-sodi di bullismo possono segnalare i casi in manieraanonima.

Ci ha molto colpito il coraggio di questi ragazzi nel-l’affrontare un tema così delicato e difficile come questo.Si parla, infatti, tanto e spesso di bullismo, ma si fa dav-vero poco o niente per cercare di annientarlo. Invecequesti studenti, insieme al loro docente, hanno volutofare qualcosa di speciale: cioè essere concretamente vi-cini alle vittime.

In pochissimi mesi hanno già avuto un feedback piùche positivo e l’attenzione dei maggiori media nazionali,oltre al privilegio di poter parlare della loro iniziativa amilioni di italiani dal prestigioso palco del festival dellacanzone italiana che ha luogo a Sanremo.

Manila Andrisano - Sara Attanasio - Valentina Atta-nasio - Ester Coluccia - Valentina Guiderdone - Fran-cesca Mero - Evelyn Petrachi - Giacomo Perrucci -Gabriella Ricci

Tutti insieme diciamo “MABASTA” al bullismoil successo di un movimento per “debullizzare

le classi fondato in una scuola di Lecce

I quattro studenti dell’istituto “Galilei-Costa” ospiti della nostra scuola

N on c’è solo il bullismo dellavita reale. C’è anche un’altraforma di bullismo, che ha

luogo in una dimensione virtuale: ilcyberbullismo. Si tratta di atti di bul-lismo che avvengono attraverso stru-menti telematici come cellulari, pc,tablet, utilizzando sms, chat, e-mail,blog, siti web, immagini e video messiin rete.

Le caratteristiche sono l’anonimatodel molestatore (la vittima ha più dif-ficoltà a risalire al proprio molesta-tore), la mancanza di luogo fisico e diun momento specifico in cui avvienela molestia o il collegamento elettro-nico.

Le forme più comuni di cyberbulli-smo sono le telefonate (mute o sgra-devoli), messaggi online violenti ovolgari, insulti gratuiti e cattivi, e-mailoffensive e minacciose, profili fasulliper adescare i minori, la circolazionedi foto spiacevoli o video contenentimateriale offensivo.

Il bullismo virtuale può essere moltopiù ossessivo di quello reale perché c’è

L’altra forma di bullismo: il cyberbullismoAncor più ossessivo e devastante negli effetti sulle vittime

la possibilità di far circolare, in pochi se-condi, fra centinaia o migliaia di utenti,insulti o altre forme di derisione perpe-trate nei confronti della vittima.

Un tipo di prepotenza che è molto più dif-ficile da controllare e da cancellare, perchéquando un video, una foto o anche un mes-saggio entrano in rete diventano ovviamentepubblici e chiunque può salvarli o condivi-derli. Quindi, anche se il file viene rimossoda qualcuno, può essere ancora nella memo-

ria di tanti altri computer o tablet.Anche per il cyberbullismo vi è un solo

consiglio: è importante parlarne. Non im-porta se c’è il timore di essere giudicati,perché ognuno ha il diritto di difendere lapropria dignità, mentre nessuno può per-mettersi di insultarti o di farti sentire sba-gliato. Nessuno è sbagliato e tutti abbiamoil diritto di essere noi stessi!

Miriam Bianco - Carlotta GiulioGinevra Prudenzano

L a violenza psicologica e verbale corre anche at-traverso facebook e gli altri social network. Tantesono le insidie della rete, in cui cascano anche

gli adulti: bullismo, stalking, persecuzioni e violenze.Dopo l’incontro con il prof. Manni e i quattro stu-

denti dell’istituto secondario di secondo grado di Lecceabbiamo voluto approfondire anche questo aspetto.

Sino a qualche decina di anni fa, i ragazzi di queitempi avevano meno rischi e pericoli da cui difendersi.Oggi, con la rete, sono aumentati a dismisura, poichéil pericolo è in agguato anche si è all’interno della pro-pria casa, teoricamente il luogo più sicuro per ogni ra-gazzo.

Un po’ di responsabilità vanno ascritte anche a noi ra-gazzi. In tanti, pur di essere presenti su facebook, indi-cano, ad esempio, un’età sbagliata. Poiché facebook nonconsente l’iscrizione ai minori di 13 anni, molti ragazziinseriscono un’età superiore.

In questa maniera si commette un grosso errore, so-prattutto se si naviga senza il controllo da parte dei ge-nitori. E’ facile imbattersi in gente senza scrupoli, cheinizialmente si dimostra amica, per conquistare la nostra

fiducia, e, poi, è pronta ad abusare in qualunque modoanche dei ragazzi più piccoli.

Non è raro, ad esempio, che gente adulta si comportiin maniera opposta: si presenti con un falso profilo, ma-gari inserendo foto di ragazzi o ragazze molti belli, conun’età di gran lunga inferiore a quella reale. In questomodo, indossando una vera e propria maschera, non sisvela la propria identità e si può aggredire psicologica-mente, ma non sempre impunemente, un’altra persona.

Poiché si tratta di contatti in un mondo virtuale,spesso si dà fiducia a coloro che sono dall’altra parte delvideo, con il rischio di incappare in brutte disavventure.

Anche nel caso del cyberbullismo, come in quello delbullismo della vita reale, è fondamentale chiedere im-mediatamente l’aiuto dei genitori o, comunque degliadulti, in modo che sia possibile intervenire e risolvereil problema prima che sia diventato troppo tardi. Maitacere le proprie difficoltà a chi ci vuole bene. Anche se,a volte, commettiamo qualche guaio.

Francesca Elefante - Daniele LecceMaria Francesca Perrucci - Ginevra Prudenzano

Quando la violenza psicologica e verbale corre nella reteTante le insidie e i pericoli celati nei social-network

Prof. Daniele Manni

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BULLISMO9

Una forma di bullismo più infida e pericolosa: quella psicologicail racconto di un caso che si è verificato in una scuola di Manduria

I l bullismo: si parla tanto di questo feno-meno, ma sappiamo realmente cos’è? E,soprattutto, conosciamo realmente ciò che

una vittima prova? Siamo tutti bravi a parlarne,ma in fondo sono pochi gli essere umani che sipreoccupano delle vittime dei bulli.

Le uniche domande che mi pongo sono que-ste. Ma chi ha il diritto di qualificare un attodi bullismo? Una scuola è in grado di affrontaree mettere fine a questi episodi?

Purtroppo in questa società, e mi spiace dirlo,si ha molta paura, tanto da tener nascostotutto. Si ha paura del giudizio della gente, dellabrutta pubblicità che questi episodi possano ge-nerare. Mi rammarica dover sostenere questetesi, ma questa purtroppo è la nostra società: cisi preoccupa più di un giudizio negativo chedelle povere vittime e della conseguenze che ifenomeni di bullismo generano, che in alcunicasi hanno portato a gesti estremi.

Per fortuna nel caso di cui vi sto per parlarel’aiuto dei genitori è stato davvero importante:è stata la famiglia a voler andare in fondo a que-sta situazione e proprio grazie a loro i ragazziin questione hanno potuto tornare a vivere se-renamente la loro adolescenza.

Per poter comprendere meglio i contorni diquesta storia forse è meglio partire dall’inizio.

Antonio (nome di fantasia) frequenta unascuola della nostra città sin dall’asilo. E’ cre-sciuto in quelle mura e in quell’ambiente,ormai familiare. Alla scuola primaria conobbeRoberto (nome di fantasia), con cui legò tan-tissimo: pomeriggi trascorsi insieme, passeg-giate insieme e tutto ciò che due ottimiamici possono fare insieme. Erano tal-mente legati che la loro maestra dellascuola primaria li definiva “colonne por-tanti della classe”, anche perché si aiuta-vano l’un l’altro. La loro intesa li spinseanche a praticare uno sport insieme: ilnuoto nella piscina di Manduria.

Terminata la scuola primaria, entrambiavevano il timore di essere divisi nelle classidella scuola secondaria di primo grado. Inveceil destino fu benevolo: furono inseriti nellastessa classe. Erano contentissimi di poter pro-seguire insieme il loro cammino nella scuoladell’obbligo.

Ma purtroppo, giunti alla scuola secondaria,iniziarono i problemi. Antonio conobbe unaragazza, Alessandra (nome di fantasia), e, si sa,le prime cotte, a quell’età, arrivano e produ-cono effetti devastanti. Antonio stravedeva perAlessandra. Trascorreva, quindi, più tempo conlei, mettendo un po’ in secondo piano l’amici-zia con Roberto, che pure continuava a stimaree a rispettare.

Roberto non accettò questa situazione: nonsopportava che Antonio dedicasse i suoi mo-menti liberi ad Alessandra.

Iniziò a manifestare dei segnali di “possessi-vità”: non gradiva che Antonio, durante la ri-creazione o mentre, in fila, la classe si recavaverso l’uscita della scuola, preferisse accompa-gnarsi con Alessandra. Iniziò ad inviare unaserie di bigliettini ad Antonio, attraverso i qualifaceva presente che, se avesse continuato a de-dicare così tanto tempo ad Alessandra, la loroamicizia sarebbe finita per sempre.

Per un po’ Antonio decise di accontentare Ro-berto, dedicandogli più tempo. Ma, ogniqual-volta si riavvicinava ad Alessandra, Robertoricominciava a far sentire il fiato sul collo adAntonio. La loro amicizia, inevitabilmente, ter-minò e questa volta per sempre.

Da quel giorno inizia-rono le minacce. Ro-berto ingiuriava in ognimodo Antonio: lo defi-niva maniaco, posses-sivo, ciccione manesco(insinuava, infatti, che inpiscina, sott’acqua, An-tonio lo picchiasse: ac-cusa, questa, che poicadde, perché Robertonon accettò mai un con-fronto con il capovasca;evidentemente sapeva diessere nel torto).

Delle minacce e delleingiurie vi erano traccesu biglietti e su whatsapp. In questa fase en-trano in gioco i genitori di Antonio: quandotrovano i bigliettini ingiuriosi di Roberto, de-cidono di mettersi in contatto con la madre.Ma la situazione non fa altro che complicarsiancora di più. La madre di Roberto sposa in-fatti le tesi del figlio (sosteneva che piangessespesso a casa) e accusa Antonio di raccontare ilfalso.

I genitori di Antonio, avendo in mano i bi-gliettini e potendo visionare i messaggi di what-sapp, non credono alla versione dei genitori diRoberto e, quindi, chiedono un incontro affin-chè potessero mostrare le loro prove. Incontroche non c’è mai stato, perché i genitori di Ro-berto hanno sempre declinato il loro invito.

Ma la storia, purtroppo, non finisce qui. I ge-

nitori di Antonio si convincono che l’amiciziaera finita e, con essa, tutti i problemi. Ma, du-rante i colloqui scolastici, apprendono dai do-centi che il rendimento di Antonio era calato.Per loro fu naturale legare il calo del profittodel proprio figlio a quell’amicizia terminata, manon immaginavano il travaglio interiore di An-tonio.

I giorni passavano e Roberto continuava a faredei dispetti di tutti i tipi ad Antonio, anchegravi. Aveva creato un gruppo su whatsapp de-nominato “Antisocialista Antonio Alessandra”.Chi chiedeva di entrarne a far parte, doveva ri-nunciare all’amicizia dei due ragazzi. Anzi, do-vevano proprio evitarli. Chi preferiva restarnefuori, riceveva lo stesso trattamento riservatoad Antonio.

Così tutti iniziarono ad aver paura di Ro-berto. Antonio e Alessandra vennero messi indisparte. Nessuno rivolgeva loro più parole. Sei due ragazzi si avvicinavano a qualche compa-gno di classe, tutti si scansavano. Antonio eAlessandra diventarono ben presto bersagli diinsulti.

Ormai i due ragazzi erano soli contro tutti: lidefinivano gli “asociali”. Anche i docenti sierano accorti del loro isolamento, ma sembra-vano non preoccuparsene.

Antonio e Alessandra iniziarono a perdere lavoglia di andare a scuola. Erano sempre tristis-simi e a casa non riuscivano a studiare. In al-cuni frangenti di quelle giornate hanno anchepensato a gesti estremi, da rabbrividire.

Un giorno una docente assegna come com-pito di realizzare a casa un cartellone di gruppo.In quel gruppo c’erano Antonio e Alessandra,ma non Roberto. Così Antonio pensò di invi-tare a casa sua tutti i compagni di classe pertentare di ricucire i rapporti.

Invece la situazione precipitò ulteriormente.Incautamente, un compagno di scuola feceascoltare i messaggi vocali inseriti da Robertonel gruppo di whatsapp mentre passava lamadre di Antonio: contenevano la minaccia diessere esclusi dal gruppo rivolta a coloro cheavessero deciso di accettare inviti da Antonio eAlessandra, nonché un susseguirsi di insulti ri-volti ai due poveri ragazzi e alle loro famiglie.

La mamma di Antonio collegò tutto: il ren-dimento calato a scuola e lo strano comporta-

mento dei ragazzi.Così, armata di pazienza e animata di

tanta speranza, raccolse tutte le prove (mes-saggi, telefonate e quant’altro) e decise dichiedere aiuto ai professori. Chi, meglio diloro, poteva accogliere la richiesta di unamamma che vede il proprio figlio soffrire?Purtroppo un secchio d’acqua gelido spenseogni speranza. Roberto era troppo furbo danon far trapelare niente in classe. Era stato

troppo bravo Roberto? Oppure vi era stata unasottovalutazione degli episodi da parte dei do-centi?

La risposta fu, infatti, che non sarebbero po-tuti intervenire perché gli episodi si verifica-vano al di fuori del contesto scolastico e quindiin ambiti in cui non avevano responsabilità.

Ecco, questa è la nostra società, questi siamonoi. Mi chiedo: chi può classificare un atto dibullismo? Questo che Antonio e Alessandrahanno subito, non era forse bullismo? PerchéRoberto non è stato punito come meritava?

L’unica risposta che so darmi è che l’apparte-nenza al ceto sociale influisce ancora molto: unfiglio di un semplice operaio può essere trattatoin quel modo, mentre un figlio di una famigliabenestante può fare ciò vuole, anche far starmale persone. Viene preso anche come puntodi riferimento dai professori perchè il suo ren-dimento è impeccabile.

Ma se andiamo a ricercare la descrizione diun bullo, secondo me coincide con quella diRoberto.

Per fortuna, Antonio e Alessandra hannoavuto alle spalle famiglie che hanno compresoil loro stato d’animo e sono stati aiutati a supe-rare questo momento critico.

Da quel giorno i due ragazzi sono rinati e, conl’aiuto delle rispettive famiglie, si è riuscito adevitare il peggio.

Federico Pichierri

La storia di due amici del cuore. Una ragazza li divide.Scatta la gelosia e con essa la ritorsionecon offese e con l’isolamento dellanuova coppia.La sofferenza e il rischio di gesti estremi

A pprofondendo il tema del bullismo, siamo andati alla ri-cerca, nella nostra città, di casi che si sono realmente ve-rificati.

Ho contattato, allora, un ragazzo di Manduria di 23 anni.Quando frequentava la scuola è stato vittima di bullismo. Ha ac-cettato volentieri di rilasciarci un’intervista. Per tutelarne la privacylo indichiamo con un nome di fantasia: Carlo.Qual è la tua opinione sul bullismo?«È un fenomeno molto negativo per chi ne è vittima» la risposta

di Carlo. «Chi lo subisce si sente solo e, molto spesso, non com-preso. Non essendoci delle tutele concrete, poiché spesso la scuola,intesa come istituzione, non dispone strumenti efficienti, né li pre-dispone, affinchè sia possibile salvare le giovani vittime».Sappiamo che, durante la tua adolescenza, sei stato vittima

di bullismo. Raccontaci la tua storia.«Sono stato vittima di bullismo quando frequentavo la scuola

media. Mi prendevano in giro perché ero troppo alto. Vivevo quelperiodo con angoscia e spavento, ma avevo dentro di me una granvoglia di vendetta».Una gran voglia di vendetta? È insolito che una vittima di bul-

lismo mediti la vendetta. Spiegaci le ragioni.«Io non ho mai risposto con la loro stessa moneta (ad esempio

calci e pugni), ma avevo questa voglia immensa di vendicarmi.Purtroppo ero troppo debole».Come hai superato quella fase?«Ho parlato con i miei genitori, i quali, a loro volta, hanno chie-

sto e ottenuto un incontro con il preside della mia scuola. Sonostati adottati dei provvedimenti e il problema è stato risolto. Iosono “guarito”».Quali consigli daresti a ragazzi vittime di bullismo che leg-

geranno, eventualmente, questo articolo?«Di non chiudersi in se stessi. Di esporre il problema ai genitori

oppure agli amici fidati».Oltre al bullo, in quasi tutti i casi, vi sono gli “spettatori”,

che assistono e non aiutano la vittima.«Sono dei codardi e colpevoli quanto i bulli».Nel tuo caso vi erano degli spettatori quando tu eri vittima

di questi gesti?«Si, vi erano ragazzi che assistevano. Credo che i bulli, isolati dal

branco, valgono meno di zero. L’unico problema è che non agi-scono mai da soli. Anche nel mio caso c’era il branco e, quindi,gli spettatori, che non facevano altro che incitare».Cosa pensi del cyber-bullismo?«Ritengo sia molto più pericoloso, in quanto» conclude Carlo,

«basta un’immagine della vittima che finisce nelle mani sbagliateper diffondersi in pochissimo tempo. Una volta finite nella rete,queste immagini sono poi impossibili da eliminare. Ci sono statetante persone (per lo più donne) che hanno finito per suicidarsiper la vergogna».

Ilaria Piccione

«Io, picchiato e deriso per il mioaspetto fisico. I bulli? Singolarmentevalgono meno di zero. La loro forzaè il branco»

La testimonianza di Carlo, vittima di bullismo

L’identikit del bullo e i consigli su come arginare i suoi atti vessatori

I l bullismo è una partico-lare manifestazione di ag-gressività commessa da un

individuo, il bullo, che, concattiveria, maltratta e bracca lavittima, sia a livello fisico, chea livello psicologico.

È una persona con un atteggiamento prevaricatore, che sotto-mette e umilia qualcuno, per poi sentirsi acclamato dagli “spet-tatori”, colpevoli, a loro volta, non solo dell’incitamento albullo, ma anche dell’omissione di soccorso alla vittima.

Colui che commette questi atti di violenza è una persona conproblemi psicologici, che va aiutata. Così come la vittima vaaiutata a ritrovare la propria autostima.

Il ruolo dei genitori è quello di seguire i propri figli, comuni-care con loro e capire se questi siano vittime di azioni di bulli-smo, per poi verificare se accadono all’interno o all’esterno dellascuola e, nei casi più gravi, rivolgersi alle autorità preposte.

Come fermare gli atti di bullismo? Cercando di isolare il bullo.Coalizzandosi, si può riuscire.

Sofia Valente

Page 10: Femminicidio, di genere si muore I P · Il commovente incontro con Rita Lanzon, madre e nonna delle vittime, e con la sua amica Anna Pulpito È stata una tragedia che ci ha colpito

INTEGRAZIONE10

Cattolici e musulmani nel Salento: fra integrazione e qualche pregiudizioL’incontro con l’Imam di Lecce, Saifeddine Maaroufi, e sua figlia Maram

L e differenze ci sono: nella cultura,nella religione e in alcuni valori.Ma le differenze non devono al-

lontanare. Devono, bensì, integrare e av-vicinare.

È questo il messaggio che ci è stato datodall’Imam di Lecce, Saifeddine Maaroufi,e dalla sua giovane figlia Maram, quasinostra coetanea, ma che ha dimostratotanta maturità. Abbiamo deciso di invi-tare l’autorità religiosa musulmana diLecce e sua figlia per discutere di integra-zione fra popoli. Integrazione che daqualche anno viene resa più complicatasoprattutto per gli attentati compiuti dagente che si definisce musulmana e che

asserisce di uccidere gente innocente inquesta logica del terrore per rispettare ilvolere del loro Dio.

«Così non è» ha chiarito Maram. «Questagente è ignorante: non conosce cosa real-mente vuole la nostra religione. Per me sonosolo dei terroristi».

Eppure nella vicina Lecce l’integrazione av-viene senza problemi. Il razzismo non esiste.

«La comunità musulmana della provin-cia di Lecce (noi musulmani siamo circa7.000) è ben integrata: c’è rispetto reci-proco» ci ha riferito l’Imam Saifeddine.«Un risultato raggiunto anche grazie aitanti incontri che si tengono per cono-scerci meglio. La differenza è ricchezza.

La maggior parte dei musulmani è diorigine albanese (ne arrivarono tantissimiin Puglia negli anni ’90), marocchina esenegalese. Più ristrette sono le colonie ditunisini, indiani e pakistani. Scelgono lanostra religione anche tanti italiani».

L’Imam Saifeddine ha rimarcato anchequalche differenza: i musulmani, adesempio, non mangiano carne di maiale

(possono mangiare carne di altri animalimacellata con il metodo “Halal”, ovverolecito), né altri alimenti che contengonolo strutto e non bevono alcolici e nessunprodotto contenente alcool.

Molto interessanti si sono rivelate anchele risposte di Maram, che ci ha parlatodella sua integrazione in Italia. Qui inItalia non ci sono scuole di formazione

musulmana (come per i cattolici è il ca-techismo). I ragazzi imparano gli inse-gnamenti religiosi in famiglia: sonoinizialmente i genitori le loro guide.

«Come mi comporto quando nella miascuola c’è l’ora di religione? Frequento le-zioni di potenziamento di Italiano o diDiritto» è stata la risposta di Maram. «Ri-spetto la religione cristiana, così comecomprendo sia giusto che nell’aula ci siail crocifisso. A volte vi sono delle polemi-che sulla realizzazione dei presepi nelleaule con classi miste (cattolici e musul-mani). Nella stragrande maggioranza deicasi non sono però i musulmani a chie-dere di non realizzarlo, ma sono i diri-genti a deciderlo spontaneamente».

Maram ha tante amiche cattoliche: conloro spesso discute di religione.

«Non ho alcun problema con loro».Nella nostra scuola Maram non portava

il velo che copre il capo.«Per pregare o per andare in moschea,

lo indosso» ci ha detto Maram. «Si trattadi un segno di rispetto. Così come anchele suore cattoliche indossano il copricapo.La donna musulmana lo indossa soloquando si sente pronta. Vi sono altriPaesi in cui le indicazioni in merito sonomolto più rigide».

Abbiamo molto apprezzato la capacitàdi ascoltare di Maram. Secondo noi, perscoprire e comprendere bisogna andarealla ricerca della conoscenza e soprattuttobisogna lottare contro le false idee. E co-munque ognuno ha diritto di vivere inpace, indipendentemente dalla propriareligione.

Martina CaragliaEster Coluccia

Francesca ElefanteAnita Ferrara

Alessandra MarinoGabriella Ricci

L’Imam Saifeddine Maaroufi con la figlia Maram

N ella nostra società italiana, come in quella di altri paesi occidentali, siamoabituati ad accogliere persone di altre nazioni che vengono nel nostroPaese in cerca di migliori condizioni di vita.

Ci sembra normale vivere con queste persone che oramai sono parte integrantedella nostra società. I loro figli vengono nelle nostre scuole e fanno amicizia connoi ragazzi, che li accettiamo e con loro conviviamo bene; soprattutto rispettanola nostra religione e, in alcuni casi, la approfondiscono nelle ore ad essa riservate.

Tutto questo lo abbiamo ritrovato nella testimonianza che ci ha fornito Maram,una ragazza di religione musulmana proveniente dalla Tunisia, che abbiamo ospi-tato nella nostra scuola insieme al suo papà, l’Imam Saifeddine Maaroufi. E’ in Ita-lia, e precisamente a Lecce, con la sua famiglia; vive e frequenta la scuola italianacome tutte le altre ragazze del nostro Paese.

Lei non ha avuto molti problemi nell’integrarsi nel nuovo contesto scolastico esociale; al contrario, ha fatto molto amicizie e conoscenze con ragazzi e ragazzedella sua stessa età, che l’hanno accettata indipendentemente dalla sua cultura edalla sua religione.

Anche da parte sua c’è stata una serena accettazione dei segni che fanno partedella nostra tradizione religiosa. Ad esempio, ci ha raccontato di non aver nessunproblema per la presenza del Crocifisso nell’aula della sua classe, proprio perchérispetta la nostra religione. Certo, in alcuni momenti ha vissuto con difficoltà l’es-sere musulmana perché purtroppo molte persone hanno dei pregiudizi nei con-fronti dei musulmani e vivono la loro presenza con paura e diffidenza.

A questo proposito Maram ci ha raccontato che, il giorno dopo l’attentato del13 novembre del 2016, avrebbe dovuto parlare della sua integrazione e di quelladella sua famiglia proprio all’interno della sua scuola. Questo incontro fu annullatoperché alcuni genitori vedevano in Maram e suo padre una minaccia, un qualcosadi pericoloso.

Ma secondo voi è giusto tutto ciò? Secondo noi, no, perché non tutti i musulmanisono terroristi, non tutti hanno questi pensieri per la mente. Secondo Maram eanche secondo noi, quelle persone che compiono gli atti terroristici sono solo degliignoranti senza scrupoli, che non pensano per niente alla religione. La jihad, chequeste persone considerano come guerra santa, li autorizzerebbe a ricorrere allearmi e alla forza per diffondere la fede in Allah. Ma se ci pensiamo, di religiosoquesta cosa non ha proprio nulla. In realtà questi terroristi combattono solo permotivi economici e politici, scatenando una guerra che porta alla morte di centinaiae migliaia di persone innocenti.

Ascoltando Maram, abbiamo capito che per fortuna i musulmani non sono questie che l’immigrazione di persone con culture, religioni e civiltà differenti dovrebbeessere vissuta non come una minaccia, ma come un’occasione di crescita e di arric-chimento culturale, e soprattutto che si può vivere e convivere senza difficoltà se siguarda all’altro con rispetto, tolleranza, comprensione e senza pregiudizi.

Giacomo Perrucci

L’immigrazione di personecon culture, religioni eciviltà differenti deve essereun’occasione di arricchimento

S pesso i pregiudizi offuscano la mente.Maram, figlia dell’Imam di Lecce, puòessere immaginata come una ragazza

velata, taciturna e schiava,col Corano sempre inmano. Ma ciò che è diversonon deve per forza essere“opposto”. La verità è che,oltre al suo aspetto esteriore(per niente differente daquello di un comune ita-liano cattolico), ha delleidee molto corrette e deipensieri tutt’altro che nega-tivi.

Tiene molto in considera-zione il rispetto verso ilprossimo e verso se stessa,ognuno con le proprie ca-ratteristiche. Ci ha fatto ca-pire come cattolici emusulmani, pur essendo di-versi, hanno princìpi molto simili. Ad esem-pio il valore della pace: la parola “Islam”significa “pace”.

Non discrimina assolutamente le altre cul-

ture, anzi Maram è molto curiosa di sapere dipiù ed è aperta al confronto. Ha raccontatodi come la sua scuola ha reagito dopo la strage

di Parigi: molti laevitavano perché,come un po’ tuttiall’inizio abbiamopensato, credevanoche tutti i musul-mani fossero coin-volti. Ma ha avutoil coraggio di supe-rare le offese e spie-gare a chiunque chenon è così. Per lei,infatti, l’Isis è soloun gruppo di terro-risti che non haniente in comunecon questa religionee che anzi usano lareligione, strumen-

talizzandola, solo per giustificare i loro atticrudeli, che, comunque, sono condannati dalCorano stesso.

Valentina Attanasio

Maram Maaroufi

Quando i pregiudizi offuscano la menteSbagliato e improduttivo cadere nello scontro di civiltà

L e comunità religiose degli immigrati costitui-scono una presenza sempre più visibile e social-mente rilevante. Sembra che la maggior parte

del processo d’integrazione degli immigrati debba pas-sare necessariamente per l’ambito religioso. La reli-gione e le sue tradizioni costituiscono dei beni preziosiche ogni migrante porta con sé ed è l’unica cosa cherimane loro del proprio Paese d’origine.

Secondo me, quindi, la religione è un importante ele-mento dell’identità dei migranti, che loro proteggonocon determinazione. Loro scappano dalla fame e dallaguerra, lasciando il loro Paese, e vanno incontro atutto, anche alla morte. Perchè loro non possono sa-pere quello che potrà succedere durante il “viaggio”.

Penso che non sia tanto facile lasciare il proprio Paesenatale, arrivare in un Paese con lingua, cultura e reli-gione diverse.

Io penso che, in quanto italiani, dovremmo rispettaredi più le loro religioni e le loro tradizioni, senza alcunadiscriminazione. Noi italiani aiutiamo questi migrantiospitandoli in centri di accoglienza. Sono strutture de-stinate a garantire un primo soccorso agli immigrati.

L’accoglienza nel centro è limitata al tempo stretta-mente necessario per stabilirsi. Infatti, la finalità di

questi centri è proprio quella di aiutare i migranti (chesono in regola con le leggi), ad integrarsi e, magari, atrovare un lavoro e una casa.

Maria Francesca Perrucci

L’Italia e gli immigrati: l’integrazione nondovrebbe necessariamente avvenireattraverso l’ambito religioso

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INTEGRAZIONE11

A nche nella nostra città, Manduria, c’è una piccola comunità mu-sulmana che è riuscita negli anni ad integrarsi sul nostro terri-torio.

Personalmente conosco una ragazza di 18 anni, Zineb Bouatioui, di fedemusulmana e di origine marocchina, che è arrivata con la sua famiglia inItalia 14 anni fa e che come tante famiglie ha lasciato la propria terra perproblemi economici alla ricerca di una migliore condizione di vita.

A lei ho posto delle domande per capire qualcosa in più della sua cul-tura.Quanto è grande la comunità musulmana a Manduria e dove vi

riunite?«Siamo 20 famiglie di origine marocchina, tranne 3 di origine italiana.Gli uomini si riuniscono per pregare a Sava, in una struttura comu-

nemente definita moschea, ma in realtàè un centro culturale; mentre le donne,nella religione islamica, non possonopregare nella stessa stanza insieme agliuomini e perciò, dato che non c’è un’al-tra stanza nella moschea di Sava, noipreghiamo a casa, 5 volte al giorno».La vostra comunità si è ben integrata

o ha avuto problemi?«La nostra comunità si è ben integrata

soprattutto grazie al supporto dell’Am-ministrazione comunale.

L’Imam di Sava ha chiesto, poi, la col-laborazione del comune di Sava per pre-gare in piazza durante le prossime occasioni musulmane, per dimostrarea tutti che noi siamo qui in pace».Quali sono le difficoltà che incontra uno straniero di fede musul-

mana che si trasferisce in Italia?«La principale difficoltà che uno straniero adulto incontra venendo

nel nostro Paese è in particolare la mancanza di luoghi di culto, oltre aquella della lingua diversa».A che età i ragazzi musulmani si avvicinano alla religione? E ci sono

delle scuole di formazione come per noi cattolici c’è il catechismo?«I ragazzi si avvicinano alla religione già da appena nati, ma io l’ho

iniziata a praticare verso i 15 anni. Non ci sono scuole di formazionené in Italia né nei Paesi musulmani, anche se si sta cercando di inserireun corso per i bambini presso le scuole».

Durante l’ora di religione a scuola come ti comporti?«Fino a quando ho frequentato la scuola secondaria di primo grado,

durante l’ora di religione uscivo dall’aula, oggi invece gli istituti offronopotenziamento in alcune materie, mentre da quando sono all’istitutosuperiore seguo le lezioni di religione perché si affrontano temi attualie con i miei compagni cerchiamo un confronto/paragone tra l’Islam ela religione cattolica»A te crea problemi la presenza del crocifisso in aula?«Assolutamente no, in quanto anche la mia Fede riconosce la crocifis-

sione di Gesù ed è una forma di rispetto per gli usi, la cultura e i costumilocali della religione cattolica».Frequenti amiche musulmane o anche cattoliche?«Frequento soprattutto amiche cattoliche perché sono mie coetanee,

mentre quelli musulmani sono più piccoli di me».La cultura islamica impone un copricapo alla donne:

tu a che età lo hai indossato e che significato ha?«Io ho messo il copricapo “hijab” a circa 15 anni ed ha

un significato personale per me. Di solito si indossa perrispetto verso la propria cultura e la propria religionedalle donne sposate per non far vedere i capelli agli“estranei”; ma comunque è una propria scelta e non èobbligatorio metterlo».Hai mai subito torti o discriminazioni a causa della

tua Fede?«Purtroppo si, non solo a scuola, ma anche fuori. In

particolare, dopo l’attentato di Parigi sono stata discri-minata da parte di alcuni compagni di scuola, ma anche

da parte degli stessi manduriani, che hanno avuto nei miei confrontiatteggiamenti di disprezzo. Mi sono sentita profondamente umiliata:addirittura la gente comune, per strada, quando le passavo davanti, siallontanava da me come chissà quale malattia contagiosa avessi.

Sono stata vittima di pregiudizi e commenti razziali a causa della miareligione e per me è davvero offensivo essere associata a degli assassiniche uccidono in nome di Allah, provo rabbia e sconcerto nell’essere chia-mata “bastarda islamica” perché l’Islam è ben altro. Mi dà molto fastidioessere accomunata a gente con cui non condivido il pensiero e rabbri-vidisco nel sentire la frase “per voi musulmani…”. Sono distante daiterroristi che predicano la conversione globale e la sottomissione alla re-ligione dell’Islam e da qualsiasi altro ignorante che si nasconde dietro ilnome di Allah per una guerra che sembra più economica che religiosa.

Non bisogna generalizzare e con-dannare tutto il mondo islamicoper gli attacchi terroristici, bisognaseparare il terrorismo dalla reli-gione perché i fanatici sono solodelle mine vaganti e non è giustoassociarli all’intera comunità; ilvero orrore sta nel non saper di-stinguere il vero nemico».Pensi che alla base di que-

st’odio verso il mondo occiden-tale ci sia il fondamentalismoislamico o altre ragioni? Cosapensi dell’ISIS?

«Si, alla base di quest’odio versol’occidente, secondo me, c’è il fon-damentalismo islamico, ma l’ISISnon ha assolutamente nulla a chefare con l’ISLAM perché quest’ul-timo significa pace, mentre coloroche si fanno esplodere in nome diAllah rappresentano un insulto perla mia religione. Non vi è nulla diislamico nello Stato Islamico, oIsis. In realtà è una massa di gio-vani asserviti, arrabbiati e assetatidi sangue, apparsi dal nulla chedell’Islam capiscono poco, il cuiscopo è terrorizzare il mondo attra-verso il rito del suicidio religiosoper raggiungere immediatamente ilparadiso.

In Occidente viene chiamato “kamikaze” ma egli si considera uno“shaid”, termine coranico che significa “martire-testimone”, che muorecombattendo contro gli infedeli. Essi vedono l’Occidente come il ne-mico dell’Islam e tutti quelli che si alleano con esso come traditori,anche se essi stessi musulmani.

Per chi non lo sapesse, i terroristi hanno fatto stragi in varie parti delmondo e le prime vittime sono state proprio i musulmani, ma chissàperché nessuno ne parla: oggi a Parigi, ieri e domani in Siria, Libia ePalestina...

L’islam è ben altro! Purtroppo i media e i network distorcono talvoltale informazioni o non le diffondono o modificano il contenuto degliavvenimenti riguardo le stragi che stanno avvenendo dando più impor-tanza alle stragi terroristiche e meno alle guerre che si continuano a com-battere e che ogni vittima di qualsiasi nazionalità va rispettata ericordata. Noi musulmani prendiamo assolute distanze da questi estre-misti soprattutto perché la nostra religione non predica odio, crediamonella risoluzione pacifica dei conflitti, non imponiamo le nostre idee;non ci si sporca le mani con la violenza, anche quando viene dal suocampo. L’estremista è tutto il contrario».Secondo te cosa divide veramente il mondo arabo da quello occi-

dentale?«La lingua, i pregiudizi, la religione, l’ignoranza vera e propria».È possibile sconfiggere, almeno in parte, i pregiudizi di chi non

conosce l’Islam? «È difficile per via dei diversi attentati, ma non dobbiamo dimenticare

la storia che ci insegna che le civiltà orientali (islamiche) e quelle occi-dentali (cristiane) hanno vissuto insieme da secoli e nonostante mo-menti di tensione hanno superato le loro divergenze. Per secoli i popoliislamici hanno esportato a tutto il mondo progresso e conoscenza, artee cultura. Tutto ciò quando ancora i paesi occidentali vivevano nell’ar-retratezza e nell’ignoranza».È possibile un dialogo interreligioso tra i popoli e in che modo?«Io credo di sì e voglio sperarlo. La storia è ricca di esempi di tolleranza

da parte dei Musulmani nei confronti di altre religioni: ad esempio gliebrei non sono mai stati perseguitati dagli arabi, vivevano liberi di pro-fessare il proprio credo e soprattutto liberi di lavorare».Cosa può o dovrebbe fare secondo te la comunità islamica italiana

e internazionale per frenare i fondamentalismi?«Occorrerebbe aumentare la creazione di eventi a cui far partecipare

cattolici e musulmani soprattutto per cominciare ad abbattere pregiudizied ignoranza che stanno portando all’islamofobia, e anche noi stessi mu-sulmani dobbiamo assumere atteggiamenti diversi per farci conosceremeglio; poi non bisogna assolutamente sottovalutare dichiarazioni o at-teggiamenti violenti per evitare di arrivare al peggio. Per realizzare ciò èimportantissimo il dialogo e il rispetto della libertà di culto e di pensierodi ciascuno senza essere discriminati o insultati per poter raggiungereuna pace e armonia sociale durature.

Vorrei essere libera di essere me stessa senza essere disprezzata per chisono e giudicata invece per chi non sono!».

Sara Attanasio

La capacità e la maturità di Maram,

che è riuscita ad integrarsi e interagire in un altro Paese

H o ammirato la capacità di Maram di integrarsi e di interagire con un nuovo popolo, mentresono sicura che la maggior parte di noi cattolici non è sempre aperta e ben disposta ad ac-cogliere persone che hanno una Fede diversa dalla nostra e che provengono da altri Paesi.

Insomma, sono rimasta profondamente colpita da questa ragazza che, nonostante la giovane età, èriuscita a spiegarmi, con una chiarezza sorprendente, quanto sia importante la condivisione e la cono-scenza di culture diverse, che ci arricchiscono e ci formano e ci fanno diventare migliori cittadini deldomani. Ginevra Prudenzano

L’Islam e il terrorismo, secondo me, sono due cose opposte: i terroristi non si possono nemmeno de-finire musulmani. Il terrorismo è una forma di lotta politica che si sviluppa con una serie di azioniclamorose, violente e premeditate, come attentati, omicidi, stragi, sequestri, sabotaggi. Generalmentei gruppi terroristici si considerano l’avanguardia di un costituendo esercito, dei guerriglieri che com-battono per i diritti o i privilegi di un gruppo.

Gli atti terroristici hanno per concreto scopo principale, spesso, non tanto gli effetti diretti derivantidai danni a persone o cose, morti e feriti inclusi, quanto quello delle loro ricadute indirette (in parti-colare il terrore, che condiziona la vita di noi occidentali). Manila Andrisano

Noi italiani siamo sempre molto diffidenti verso i musulmani e generalizziamo sull’Islam, facendodi tutta l’erba un fascio. Anche perché, come Maram ha sottolineato, quando i terroristi sostengonodi agire in nome di Allah lo fanno in maniera impropria, in quanto Allah non vuole la violenza ma lapace e la convivenza fra tutti i popoli, perché i principi del Corano non sono diversi da quelli catto-lici.

Purtroppo noi italiani ci preoccupiamo di come fare per mandare via i migliaia di migranti che quo-tidianamente giungono sulle nostre coste, piuttosto che prodigarci per accoglierli e integrarli nella no-stra comunità. Lorenzo Prudenzano

La storia di Zineb, da 14 anni a Manduria:«Mi trovo bene, ma sono stata vittima di pregiudizi»«Dopo l’attentato di Parigi, sono stata discriminata da alcuni compagnidi classe e guardata con disprezzo»

È arrivata dal Marocco quando aveva 4 anni.Ha lasciato la sua terra con la sua famiglia per cercare una migliore condizione di vita

«Gli uomini si riunisconoper pregare a Sava, in una struttura comune-mente definita moschea, ma che in realtà è un centroculturale. Le donne nonpossono pregare nellastessa stanza insieme agliuomini»

PROSSIMA APERTURA

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MORTI BIANCHE12

Q uello delle “morti bianche” è unfenomeno inaccettabile in unPaese moderno e industrializzato,

che nel primo articolo della Costituzionesostiene che «l’Italia è una Repubblica de-mocratica fondata sul lavoro»

Dei lavoratori che perdono la vita si parlaquando accade la tragedia: si ascoltano vi-branti esortazioni a rispettare gli elementariprincipi di salute e sicurezza, ma la norma-tiva nazionale rimane, in tantissimi casi,inapplicata.

Quindi si continua a perdere la vita, così,in modo insensato: volando giù da una im-palcatura sospesa nel cielo, inghiottiti da unmacchinario oppure di fatica e disidrata-zione nei campi agricoli. La Puglia, il Sa-lento, conoscono bene questi fenomeni. Mail territorio spesso chiude gli occhi e si voltadall’altra parte, quasi che le morti bianchefossero un rischio da tenere in conto. Unaquestione di fatalità, di destino avverso. Lamorte viene intesa come punto percentualein una statistica inevitabile.

Falso. Perché gli infortuni sono prevedi-bili, si possono e si devono evitare: nelle in-dustria, nei cantieri edili, nei campi dipomodori, dietro la vetrata di uno sportellopubblico. Ovunque.

Valentina Andrisano - Giorgio ComesEvelyn Petrachi

L’Italia è unpaese fondatosul lavoro?

Disattenzione o scarsa applicazione delle leggi sulla sicurezza?Morti bianche, fra business e sicurezzaNadia Ferrarese: «Una tragedia assurda mi ha portato via mio marito Ciro»

«Era un grande lavora-tore, sempre disponibilecon tutti. Lavorava al-

l’Ilva da dieci anni. Ha persola sua vita per guadagnareuno stipendio che consen-tisse alla sua famiglia unavita dignitosa».Nadia Ferrarese è la vedovadi Ciro Moccia, uno deitanti lavoratori (circa 550, 6nel solo 2016) che hannoperso la vita lavorando nellapiù grande industria cheproduce l’acciaio di tuttal’Europa: l’Ilva. Le defini-scono “morti bianche”, forse una forzatura per trasmettere unconcetto: si tratta di morti inaccettabili e assurde. Non si puòmorire per lavorare. Eppure avviene. Si muore e in tantissimialtri casi si conserva la vita, ma si resta invalidi per sempre.

Grazie alla disponibilità di Emidio Deandri, presidente pro-vinciale dell’Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi del La-voro, abbiamo avuto il piacere di conoscere Nadia Ferrarese.Pochi anni fa, esattamente il 28 febbraio del 2013, una trage-dia sconvolgerà, per sempre, la serenità della sua famiglia.

«Spesso commentavamo con lui gli incidenti che si verifica-vano nell’Ilva: era consapevole dei rischi, dovuti sia alla man-canza di sicurezza, sia ai turni stressanti. Ma mai avremmoimmaginato che, un giorno, a perdere la vita sarebbe stato pro-prio lui».

La signora Moccia scandisce le ore di quel giorno che nondimenticherà più.

«Mancava un’ora alla fine del suo turno. Erano le primissime

ore del mattino. Facendo parte della squadra di manutenzione,fu chiamato ad un intervento di saldatura. Si sganciò un pon-teggio e cadde, insieme al suo compagno di lavoro, da 10metri. Col suo corpo, attutì la caduta dell’altro operaio, checosì si salvò».

Alle 5 l’arrivo della telefonata. L’annuncio di un incidentesul lavoro e null’altro. Pochi minuti dopo la tragica verità:Ciro, 42 anni, era morto.

«Se fosse stato messo in condizione di lavorare con tutte leprecauzioni possibili, ora sarebbe in vita. Cosa mi aspetto dallaLegge? Certamente non mi restituirà mio marito. Mi aspettosolo giustizia e, magari, l’impegno ad uno più scrupoloso ri-spetto delle norme di sicurezza, affinchè non ci siano più altretragedie simili».

Grazia Maria Biasco - Martina CaragliaSara Dostuni - Francesco Erario - Valentina GuiderdoneAlessandra Marino - Sofia Valente

Emidio Deandri, Nadia Ferrarese, Giada Moccia e Sonia Bonsignore

P urtroppo ancora oggi all’Ilvadi Taranto si continua a mo-rire. L’acciaieria, nata negli

anni Sessanta del secolo scorso perregalare grandi speranze ai tarantini,è un luogo in cui si continuano a ve-rificare disgrazie: ci riferiamo allemorti dei lavoratori per i numerosiincidenti che avvengono sul posto dilavoro. Senza dimenticare le malattieprofessionali che vengono generatedal forte inquinamento di questa in-dustria.

Accadono troppi incidenti, cheportano dolore e lutti. Ciò che sichiede ai lavoratori è sicuramenteuna maggiore attenzione, poichémolti incidenti sono causati dalla di-sattenzione o dallo stress e dallastanchezza per le tante ore di lavoro.Occorrerebbe tenere sempre alto illivello di attenzione.

Ma, al tempo stesso, serve tantaprevenzione all’interno delle aziendee comunque in ogni luogo di lavoro,oltre al rispetto di ogni norma sullasicurezza.

Ci ha molto colpito l’incontro conla signora Nadia Ferrarese, che rac-contiamo nell’articolo accanto. Congrande dignità e compostezza, la si-gnora Nadia si augura che questesciagure non si verifichino mai piùe chiede con coraggio che lo Statofaccia giustizia. Inoltre, aggiunge, lostabilimento siderurgico andrebbeammodernato per tentare di bloc-care il continuo inquinamento.

Le cose, infatti, non vanno perniente bene neppure sul fronte am-bientale. Oggi l’Ilva rilascia un mixdi sostanze tossiche nell’ambientecircostante. Non solo gli operai dellostesso stabilimento, quindi, maanche gli abitanti dell’attiguo rioneTamburi e di buona parte della pro-vincia sono costretti a respirare pol-veri di minerali e idrocarburicancerogene. Le conseguenze? Ma-lattie cardiovascolari e respiratorie,nonché gravi forme di tumore conincidenza superiore ad altre zonedella Puglia.

È una brutta realtà che dovrebbeterminare. Ma come risolvere questasituazione? Molti chiedono conforza la chiusura della struttura, altrichiedono con disperazione di te-nerla aperta perché comunque rap-presenta una grande realtà lavorativache consente a tante famiglie dipoter contare su uno stipendio.

Per me, la soluzione migliore po-trebbe essere quella di tenereaperto lo stabilimento, tentando dirisanarlo per ridurre al minimo leemissioni di sostanze nocive nel-l’ambiente.

Ci vorrebbe un intervento decisodel governo e non la solita indiffe-renza…

Giacomo Perrucci

Il teatrodellamorte

«In 45 anni circa 550 infortuni mortali nell’Ilva»Emidio Deandri racconta anche il suo incidente

I circa 45 anni di atti-vità dell’Ilva hanno“prodotto”, oltre a

tantissimo acciaio, anchecirca 550 vittime di inci-denti e 12mila invalididel lavoro.

Sono i dati che ci hafornito, nel corso dell’in-contro, Emidio Deandri,presidente provincialedell’Anmil. Da anni egli si batte, insieme alla sua associazione, affinchè in ogni luogodi lavoro siano rispettate le misure di sicurezza previste dalla legge.

«I dati che noi disponiamo sono parziali, perché in tantissimi casi, soprattuttoquando l’incidente si è verificato in una piccola azienda privata, la vittima preferiscenon denunciare: rischia, infatti, delle ritorsioni, come il licenziamento» ci ha riferitoil signor Deandri.

Le cause degli incidenti possono essere tante.«A volte l’operaio sbaglia per la troppa sicurezza, che lo porta ad essere superficiale.

Ma nella maggior parte dei casi gli incidenti si sarebbero potuti evitare o, almeno, leconseguenze potevano essere più lievi se fossero state rispettate tutte le misure di si-curezza. In qualche caso, è il capo che ordina all’operaio di eseguire mansioni diverseda quelle previste dal contratto».

L’Anmil è stata fondata nel 1933. E’ un’associazione non lucrativa di utilità socialeal servizio di tutti gli italiani. Emidio Deandri, che la rappresenta nella provincia diTaranto, è stato anch’egli vittima di un incidente sul lavoro.

«Accadde nel novembre del 2001» ricorda Emidio Deandri. «Lavoravo in una sezionedell’Ilva. Avevamo il compito di realizzare le coperture per i rotoli di acciaio. Quel-l’intervento alla plissettatrice avrebbe dovuto eseguirlo un altro collega. Invece mi recaiio. La mia gamba sinistra fu risucchiata nel macchinario. Ho temuto di morire. Sonostato sottoposto ad un intervento durato 10 ore e sono stato ricoverato a lungo in Ria-nimazione. Sono stato in ospedale per 6 mesi e ho impiegato 18 mesi prima di ri-prendere a camminare».

Chiara Dimagli - Paula Dobrea - Anita Ferrara - Carlotta Giulio

La commovente lettera di Nadia

a Ciro, l’amore della sua vita

Caro amore mio, sono passati quattro anni daquando non ci sei più.

I l tempo sembra passato in fretta, ma il doloreè ancora tutto qui con me e il mio cuore nonsi è ancora rassegnato all’idea di non aver più

accanto il mio amore grande, incrollabile, indi-menticabile. Dicono che c’è un destino già scritto per ognuno di noi e, se ciò èvero, l’unica consolazione che mi dà la forza di andare avanti è la certezza che ungiorno saremo nuovamente insieme in Paradiso.Mi accompagna ogni giorno il ricordo dei ventiquattro anni d’amore che mi haidato, le nostre due figlie stupende e la forza dei tuoi insegnamenti, dei tuoi con-sigli e del tuo modo di fare famiglia con chiunque. È difficile andare avanti senzadi te, hai lasciato un vuoto incolmabile e tutto in casa mantiene vivo il tuo ricordo:il tuo posto a tavola, il tuo bicchiere, il tuo pigiama, il tuo profumo... Tutto è ri-masto lì. Ci accompagna nelle nostre giornate e ci dà la spinta ad andare avanticon la stessa energia che ci trasmettevi quando eri qui con noi.

È solo il ricordo della tua tenacia e del grande amore che avevi per me e per letue figlie che mi darà il coraggio e la forza di non mollare e di andare avanti, dicontinuare il progetto che avevamo cominciato insieme, di seguire e proteggereGiada e Dalila, segno concreto del nostro amore che durerà fino all’eternità.

Ti amerò per sempre.Tua Nadia, amore mio!Nadia Ferrarese

Si può morire mentre lavori?Mentre cerchi di guadagnare perfornire i mezzi di sostentamento

alla tua famiglia?Il lavoro, sul quale si fonda lo Stato

italiano, invece di essere fattore di be-nessere e di sviluppo, può rivelarsicausa di sofferenze per i lavoratori eper le loro famiglie.

Spesso la vita si baratta per uno sti-

pendio, mettendo da parte la sicu-rezza, che dovrebbe essere la priorità.

Si deve lavorare per vivere e non la-vorare per morire, come nel caso diCiro Moccia.

Sono passati quattro anni dalla suamorte, ma dal cuore di sua moglie edelle sue figlie non è mai andato via.

Maria Francesca Perrucci - IlariaPiccione - Federico Pichierri

Non sempre il lavoro è fattore dibenessere; a volte causa lutti

www.consorziotutelaprimitivo.com

Page 13: Femminicidio, di genere si muore I P · Il commovente incontro con Rita Lanzon, madre e nonna delle vittime, e con la sua amica Anna Pulpito È stata una tragedia che ci ha colpito

LA STORIA13

L’incontro con Francesco Canale: è riuscito a “trasformare una vitaconsiderata persa in partenza in un’esistenza unica e meravigliosa”

F rancesco Canale (“Anima Blu”perché l’anima è la parte più verae profonda dell’essere umano, blu

perché è il suo colore preferito ed è il co-lore della guarigione universale) è un ra-gazzo davvero speciale: nato senza bracciae senza gambe, ha avuto una vita abba-stanza difficile, ma non per questo si èmai arreso. Anzi, apprezza ogni momentoche la vita offre. Quando è nato, i suoigenitori naturali hanno scelto di lasciarloin ospedale, come consente la legge, perpaura e perché, secondo i medici, non sa-rebbe riuscito a vivere a lungo. Per for-tuna, dopo quaranta giorni ha trovatouna famiglia disposta ad accoglierlo e adonargli attenzioni e affetto, con un ca-lore meraviglioso. Ad oggi lui conosce ipropri genitori biologici perché costoro,

dopo averlo visto in tv, lo hanno cercatoe gli hanno raccontato i motivi per i qualilo hanno abbandonato. Nei loro con-fronti non prova rabbia. Secondo Fran-cesco, loro rivivono l’abbandono altermine di ogni loro incontro.

È davvero ammirevole il coraggio e laforza con cui affronta la vita, la sua vogliadi fare tutto come chiunque altro.

Secondo Francesco, è sbagliato parlaredi “diversità” fra un diversamente abile eun normodotato: ognuno di noi (indi-pendentemente se diversamente abile onormodotato) è diverso, unico e irripeti-bile. L’altra “diversità” esiste perché la so-cietà non è “educata”: basterebbero pochiaccorgimenti (ad esempio scivoli adattialle carrozzine o mezzi di trasporto con lepedane) per eliminare tante barriere e tro-

vare soluzioni che consentirebberoa chi ha problemi di deambula-zione di integrarsi nelle attivitàquotidiane. E’ una questione cul-turale e una battaglia di civiltà. Benvengano incontri e iniziative disensibilizzazione se servono a farcrescere la consapevolezza della so-cietà sulla necessità di riprogettarei propri spazi e i propri servizi in fa-vore di chi ha difficoltà, così darendere tutto utilizzabile da tutti,affinchè emerga il concetto di pariopportunità e dignità sociale.

Fondamentale è stato il suo inte-resse per l’arte, che lo ha portato adessere l’artista di oggi: la svolta c’èstata quando ha imparato a scrivere

tenendo la penna in bocca, ben ferma frai denti. Con un po’ di pratica, ha affinatola tecnica, tanto che, ormai, scrive velo-cemente come chi lo fa con la mano. Lastessa tecnica ha permesso a Francesco diarrivare a dipingere e l’amore per l’arte gliconsente di comunicare ad altri dei mes-saggi in diversi modi, in quanto essa nonha limiti.

Anche gli affetti e l’amore sono statifondamentali nella sua vita: durante lafanciullezza voleva essere e comportarsicome i suoi coetanei. L’amore, dice, èqualcosa che brucia dentro così comel’arte, ed è presente in varie forme: c’èquello verso gli amici, per i genitori, per

i figli e per la propria compagna…

Sara Attanasio

Francesco Canale con la redazione del Prudenzano Magazine

L a tenacia che ha contraddistinto la vita di Francesco Canale (chenon si è mai dato per vinto, non si è mai arreso, trovando laforza di reagire e di lottare contro ogni avversità), lo ha portato

a diventare ciò che è oggi, e, cioè, un grande artista, capace di crearedelle meravigliose opere d’arte, che lasciano senza fiato, utilizzando solola bocca e il pennello.

Quando, a scuola, lo attendevamo, mi aspettavo di vedere una personamortificata, un pò depressa e senza nessun entusiasmo. E proprio cosìmi è sembrato a prima vista. Ma poi, quando ha iniziato a parlare, hoscoperto una persona felice, piena d’animo e soprattutto molto sicuradi sé. Non si piangeva addosso, non ci raccontava dei problemi e deidisagi, ma ci ha riferito episodi positivi, ha dimostrato di essere entu-siasta della propria vita.

Francesco dovrebbe rappresentare un esempio per tutti noi ragazzi,che spesso e volentieri ci arrendiamo alla prima difficoltà che incon-triamo e che ci lamentiamo continuamente anche se alla nostra vitanon manca nulla. Questo suo coraggio mi ha profondamente colpito emi chiedo veramente come abbia fatto, perché, sono sicuro, che se alsuo posto ci fossi stato io o molti di noi, ci saremmo ben presto arresi.

L’incontro con lui mi ha suscitato una grande emozione, soprattuttoquando l’ho visto scrivere con tanta naturalezza tenendo la penna frale labbra. Mi ha trasmesso una grande gioia di vivere. Mi ha fatto altresìriflettere sui comportamenti di noi cosiddetti “normali”, che, nono-stante abbiamo tutto e possiamo muoverci liberamente, troviamo o cicreiamo sempre ostacoli e limiti per non affrontare delle situazioni dif-ficili che, rispetto a quelle di Francesco, sono sicuramente banali e in-significanti.

A volte i limiti sono solo nella nostra mente…Giacomo Perrucci

L’esempio di Francesco e i limiti:forse sono solo nella nostra mente

F ra le tante attività che svolgo(pittura/scrittura/musica ecce-tera), gli incontri nelle scuole

occupano un posto unico e speciale.Incontrare i ragazzi è una delle espe-rienze più difficili e gratificanti che sipossano fare. Con i giovani, bisognastare sempre molto attenti. È essen-ziale il modo in cui ci si rela-ziona nei loro confronti… Hoimparato, negli anni che bastapoco e ti alzano una barrieracontro. I toni paternalistici, o levuote “pseudo lezioni di vita”,non ottengono nulla. Anzi…

Ciò che fa breccia è il porsicome uno di loro, renderli pro-tagonisti dell’incontro e dar lorola possibilità di guidare la di-scussione attraverso il formida-bile strumento del dialogo.Spesso sento parlare male dellenuove generazioni. La voce in-cessante che gira è che siano apa-tiche, vuote e disinteressate atutto. Quando mi capita di udirequesti discorsi, mi arrabbio molto. In-nanzitutto, perché provengono da sog-getti che hanno poco da insegnare aglialtri… Molte volte, infatti, i primi adessere insulsi sono proprio i genitori deiragazzi stessi. Corrono tutto il giorno,non guardano mai in faccia i proprifigli e pensano di compensare le loromancanze con soldi e beni materiali(magari anche attraverso il massicciouso di oggetti tecnologici… Salvo poilamentarsi del fatto che gli adolescentivivono troppo nella cosiddetta “realtàvirtuale”).

In secondo luogo, m’innervosisce ilpregiudizio. Infatti, è vero che – aduno sguardo superficiale – i giovanipossano apparire freddi e distanti. Inrealtà, non è così. Sono semplice-mente disillusi, ignorati e lasciati a va-gare come tanti “vuoti a perdere”. Iodico sempre che è un po’ come se fos-

sero ricoperti da un velo di cellophanee polvere. Basta grattare leggermentevia il cellophane, per vedere esploderetumultuoso il fiume che hanno den-tro. Ecco perché parlo di pregiudizio.

Non si possono “sparare sentenze”senza conoscere l’effettiva realtà dellasituazione (o, ancora peggio, far finta

di non capirla per evitare così di met-tersi in gioco).

Mio padre, che è un “filosofo auto-didatta”, dice sempre che il concettodi vuoto non esiste: qualunque cosa,o persona, se non viene riempita di“Bene”, si colma con il “Male”. Èquello che sta accadendo alle nuovegenerazioni. Dopo essere state “colpo-samente educate al vuoto” da chi le haprecedute, rischiano di assumere abi-tudini e tendenze deleterie. Allo stessotempo, però, se ai giovani vengonoproposti modelli positivi (con le giu-ste modalità), sono assolutamentepronti e disponibili per riceverli. Sonocome delle piantine fragili che, rima-ste per troppo tempo senz’acqua, as-sorbono ogni piccola goccia che leviene donata.

Francesco Canale

Canale:«I giovani? Non è vero chesono “vuoti”e disillusi. Hannobisogno di modelli positivi»

L ’incontro con Francesco Canale ci ha portato a rifletteresulla presenza di barriere architettoniche nelle nostrecittà. Barriere, non dimentichiamolo, che non compli-

cano la vita solo ai diversamente abili, ma anche agli anziani oalle mamme con un passeggino.

Qualche esempio? La presenza di sentieri ciottolati o ghiaiosinei parchi, gli ingressi troppo stretti degli edifici, la presenza digradini per accedere in un’attività pubblica. Costituiscono unabarriera architettonica tutte le scale presenti negli edifici pub-blici (chiaramente se privi di scivolo o di ascensori), la mancanzadi passerelle per arrivare in riva al mare o anche il degrado diqueste ultime,

Per chi è invece affetto da cecità, lo sono i semafori senza se-gnalazione acustica o la mancanza di sentieri tracciati.

A volte gli enti pubblici cercano di facilitare la vita abbattendoqualche barriera: ad esempio creando gli scivoli ai marciapiedi.

Poi, però, ci pensano gli automobilisti idioti a impedire il pas-saggio dei disabili in carrozzella parcheggiando la loro auto.

Le barriere ci sono anche nella nostra città. Qualche esempio?Considerate le scale di Palazzo di Città, qualcuno ci può spiegarecome un disabile possa assistere al Consiglio comunale o sem-plicemente rapportarsi con i dipendenti degli uffici del primopiano? E se una persona in carrozzella deve recarsi dai vigili ur-bani, come potrà fare?

Il problema delle barriere architettoniche, se non si è coinvoltipersonalmente o per mezzo di parenti o amici, è trascurato espesso sconosciuto, ritenuto come superficiale. Ma per i disabilisono insormontabili.

Le barriere architettoniche infrangono, insomma, l’idea del-l’uguaglianza dei diritti e dell’eliminazione delle discriminazioni.

Valentina Attanasio - Carlotta Giulio - Ilaria Piccione

Le barriere architettoniche infrangono l’idea dell’uguaglianza dei dirittiPurtoppo esistono ancora anche in alcuni edifici pubblici della nostra città

C ome trasformare una vita considerata persa in partenzain un’esistenza unica e meravigliosa? A questa domandapurtroppo non c’è un’unica risposta. Bisogna, in realtà,

guardare dentro di noi e cominciare a convivere con le proprieproblematiche.

A me è capitato di sognare di non avere, anch’io, braccia egambe. Mi sono svegliato di colpo, realizzando di aver vissutoun “incubo”. Poi mi sono tranquillizzato. Io ho utilizzato il ter-mine “incubo”, ma per Francesco questa situazione è semplice-mente la normalità. Ecco, è lui la risposta più bella alladomanda. Daniele Lecce

Raccontando la sua storia, mi ha trasmesso la sua forza e il suocoraggio con i quali affronta la vita. Francesco ci ha insegnato anon arrendersi mai e ad affrontare la vita cercando di superareogni ostacolo.

Mi ha poi colpito la sua visione della diversità: per lui, ognunodi noi ha delle potenzialità che caratterizzano la rispettiva per-sonalità e che ci fanno essere speciali, ognuno a modo nostro.Chiara Dimagli

Francesco è una persona positiva e, come tutti gli artisti, haun’anima particolare. Lui è felice così com’è e non porta rancoreverso la vita e, comunque, dopotutto la felicità si trova proprionelle piccole cose che la vita ci offre.

L’ho trovato una persona molto particolare: trasmette un gransenso di pace, ma non solo. Trasmette anche voglia di vivere e

di non arrendersi davanti alle difficoltà. Ginevra PrudenzanoAscoltando Francesco Canale e riflettendo sulle barriere archi-

tettoniche ancora presenti, ho rafforzato ancora di più la con-vinzione che la nostra società cade a pezzi come un iceberg cheva sciogliendosi. Se non si interverrà subito, assisteremo al de-clino definitivo della società. Federico Pichierri

Francesco Canale è un simbolo e un esempio per come vaavanti e non si fermi mai. Giulia Barbieri.

Quasi sempre sono gli uomini che creano ostacoli e rendonodifficile la vita ai propri simili diversamente abili. Quante volteoccupiamo i posti dei pullman riservati a loro? Quante volte siparcheggiano le auto in corrispondenza degli scivoli del marcia-piedi? Lo facciamo senza riflettere alle conseguenze di questonostro modo scorretto di agire. Francesca Mero

Di Francesco mi ha colpito la sua filosofia di vita. Egli affermache la sua vita è basata sull’idea di non essere vittima e prigio-niero” di sé stesso e della sua condizione fisica. Oscar Pisello

Sono rimasto stupito della sua forte personalità e dalla sua ca-pacità di scrivere e dipingere con la bocca. Francesco Erario

In tutte le sue opere, Francesco Canale cerca di esprimere ilproprio motto: “La diversità non esiste”. In fondo siamo tuttidiversi e ognuno può trasformare la propria particolarità in unapeculiarità. L’importante è essere positivi e gioire delle piccolecose e dei piccoli progressi che con fatica si ottengono. Lorenzo

Prudenzano

«Ci ha trasmesso forza e coraggio, insegnandoci a non arrenderci mai»«La straordinaria filosofia di vita di Francesco: la diversità non esiste»

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OLTRE LE BARRIERE14

C i vuole il coraggio di essere folli per sopportarela monotonia della normalità, perché ci vuoleun po’ di follia per avere il coraggio di essere

fuori dalla norma.È il motto di una donna speciale. Si chiama Anna Rita

Mellone, vive a Brindisi ed è stata ospite della nostrascuola. Il motivo dell’incontro? Anna Rita è un fiumein piena: di entusiasmo, di vitalità, di creatività e di sim-patia. Nonostante un piccolo problema che le ha con-dizionato la vita: la Malattia di Wilson.

Com’era Anna Rita da bambina?«Ero l’esatto contrario di come sono ora: ero molto ti-

mida e, se fossi cresciuta così, forse, in questo momento,non sarei capace di parlare a tutti voi» è la risposta dellanostra ospite. «Forse sarà stato il … signor Wilson afarmi diventare così espansiva?»

Ricorda quando … il signor Wilson fece per la primavolta capolino nella sua vita? Come si presentò inizial-mente la malattia?

«Il primo sintomo fu il tremolio della mano destra:notavo che la mia grafia inizia a cambiare. Poi ci fu unaleggera paresi della lingua: non riuscivo a muovere ilcibo con la lingua. Ricordo che, da ragazza, mi recavoal cinema per assistere alla proiezione dei film di BudSpencer. Una sera, mentre ridevo, dalla mia bocca fuo-riuscì anche della saliva. Un disagio che mi faceva ver-gognare».

Quale fu la prima diagnosi che le fecero?«Mi diagnosticarono un’epatite cirrotica e i medici fe-

cero quasi a gara a commettere ogni errore possibile.Devo anche aggiungere che uno di loro ipotizzò la Ma-lattia di Wilson. Avrei dovuto sottopormi ad un esameper verificarlo, ma il giorno del prelievo del sangue coin-cise con lo sciopero degli analisti e i medici, a quelpunto, scartarono quella pista perché, essendo una ma-lattia rara, pensarono che si trattasse di altro. Se la dia-gnosi fosse arrivata per tempo, forse avrei potuto evitaretanti problemi che sono insorti dopo. Io sono convintache, ancor prima della nostra nascita, Dio aveva decisocome sarebbe stata la mia vita. Io sono stata scelta cometestimonianza dell’amore di Cristo sulla terra».

Lei aveva mai sentito parlare della Malattia di Wilson?Quale fu la sua prima reazione?

«Non ne avevo sentito parlare, né la conoscevanomolto bene i medici. Dissero a mia madre che avrebberoprovato a curarmi leggendo i libri e le consigliaronoanche di trovare qualche centro specializzato. Io nonebbi il tempo di riflettere, in quanto gli effetti della ma-lattia mi costrinsero subito a stare al letto. Ricordo cheebbi una crisi di nervi».

Quali problemi le ha creato questa malattia nel pe-riodo della sua adolescenza?

«Sicuramente ci sono stati dei problemi, alcuni dei

quali creati dalla cattiveria della gente, che giudica ecommenta senza neppure sapere. Commenti che a volteferiscono».

Chi le è stata vicina quando ha dovuto confrontarsicon l’avanzare della malattia?

«Mia madre e mio padre: sono stati dei grandi geni-tori. Io ho cercato di non trasmettere a loro le miepaure».

Ha mai avuto momenti di sconforto? Se ci sono stati,ci può insegnare come ha fatto a vincerli e ad avere oraquesta straordinaria esuberanza?

«Ce ne sono stati e ce ne saranno altri. Sono fatta dicarne e ho un cuore che batte e che piange. Mi sforzodi vedere sempre il bicchiere mezzo pieno».

Ci ha fatto molto male apprendere che, a causa dellamalattia, la famiglia d’appartenenza costrinse il suo fi-danzato a lasciarla. Quale fu la sua reazione?

«Rimasi molto male: in cuor mio, al contrario, speravoche lui mi sarebbe rimasto vicino nei momenti difficili.Lo incontro spesso anche ora, poiché lavora in un uffi-cio della Asl in cui io prenoto le mie visite. E’ rimastauna simpatia. In ogni caso, se le cose devono procederein una certa direzione, le dobbiamo accettare».

Qual è il suo giudizio sul livello di accettazione delprossimo nella società di adesso? Crede sia cresciuto?Oppure ci sono ancora gli stessi pregiudizi sul prossimoche viene considerato diverso?

«Posso rispondere per quella che è la mia esperienza:io non mi sono mai nascosta. Sono sempre presente: hoscritto libri e ho preso parte a iniziative pubbliche. I pre-giudizi, nei miei confronti, sono diminuiti».

Lei ha detto: la malattia mi ha tolto tutto, ma non lavita. Indubbiamente la sua vita è una vera e propria va-

langa: ha fatto tantissimo e tutto nel migliore dei modi.Ad esempio, come è nata la passione per il balletto equando ha pensato di realizzare il cortometraggio cheabbiamo visto?

«Da piccolina studiavo danza classica e il mio sognoera quello di poter ballare. La malattia ha condizionatola mia vita. Ma, grazie ad una mia amica regista, ab-biamo raccontato, danzando, la mia vita».

Qual è stata la soddisfazione più grande che ha avuto?«Sono riuscita ad incontrare e ad abbracciare Papa

Woytjla. Grazie ad un mio cugino che era Cardinale,nel 1998 mi recai in Vaticano. Ricordo che salutò primai miei familiari e, poi, si avvicinò a me e, dopo averpreso la mia mano, mi tirò verso di lui. Io ero in imba-razzo: non sapevo cosa fare e opponevo resistenza. Poimi lasciai andare e, dopo aver messo la mia testa sullasua spalla, scoppiai in un pianto a dirotto. Fu un mo-mento molto emozionante».

Lei ci ha anche parlato della sua Fede: quanto l’ha aiu-tata?

«I miei genitori mi hanno insegnato a credere. La miaFede è sempre stata costante. Ho sempre riposto fiduciain Lui che è lassù».

Ha mai pensato come sarebbe stata la sua vita senza laMalattia di Wilson? Sarebbe stata più monotona diquella che ha invece vissuto?

«Ci penso ogni tanto. Alcune persone ammalate si ri-volgono a Gesù per chiedere una grazia per non soffrirepiù. Io, invece, penso che la grazia sia la sofferenza: lavita senza sofferenza sarebbe vuota, senza valore…».

Valentina Attanasio - Ester Coluccia - Paula Dobrea- Alessandra Marino- Ilaria Piccione

Anna Rita Mellone al centro della foto

L a Malattia di Wilson è una malattiagenetica, le cui manifestazioni clini-che dipendono dall’accumulo di

rame principalmente a livello del fegato edel cervello.

L’alterazione genetica, nella Malattia diWilson, consiste nella mutazione di ungene, che è localizzato sul cromosoma 13 edè responsabile della codifica di una proteinache si lega al rame per il suo trasporto; ciòavviene soprattutto, ed in via primaria, nelfegato ed è indispensabile per la escrezionebiliare del rame in eccesso introdotto conl’alimentazione.

Nel caso della Malattia di Wilson il genedifettoso non contribuisce a produrre taleproteina, denominata ceruloplasmina, chesvolge il compito di trasportare il rame, datutti noi ingerito con il cibo insieme a cal-cio, ferro e altre vitamine, nella quantità ne-cessaria ai tessuti. La quantità in eccessodovrebbe essere, appunto, portata via dallaceruloplasmina. Quando questa non c’è, av-viene un accumulo tossico di rame nel fe-gato, nel cervello, nell’occhio e piùraramente nel cuore e nei reni.

L’età di insorgenza è molto varia e può an-dare dall’età pediatrica all’età adulta.

In Italia la Malattia di Wilson è ricono-sciuta come malattia rara “MR”. L’inci-denza viene calcolata tra un caso ogni30mila abitanti e un caso ogni 100mila abi-tanti, anche se in Sardegna la frequenzadella malattia raggiunge livelli più elevati,circa un caso ogni 8-9mila abitanti.

Giorgio Comes

Ecco cos’èla Malattia diWilson

Anna Rita Mellone e la sua vita con... il signor WilsonUna donna speciale, che convive, sin da quando era ragazzina, con una malattia rara...

Anna RitaMellone si racconta:«L’essenziale è invisibile agli occhiumani ma non agliocchi di Dio»

Sono rimasta colpita dalla vitalità della si-gnora Anna Rita Mellone. Mi ha entusia-smato il suo cortometraggio “Danzando con

mister Wilson”, nel quale, danzando insieme adun ballerino professionista, racconta la sua vita.Questo cortometraggio ha ricevuto due impor-tanti premi in un festival di Catania. Sofia Valente

Anna Rita Mellone, così come Francesco Ca-nale, sono due esempi che dovrebbero illumi-nare la vita di tutti noi. Federico Pichierri

E’ una delle donne più forti che io abbia maiconosciuto: non si fa abbattere da niente e, no-nostante i problemi e le avversità, lei va avantie non si arrende. E’ proprio questo il consiglioche ci ha dato: non farci scoraggiare da niente,perché ci saranno sempre le persone o le vicendeche mineranno la nostra sicurezza. Ma noi dob-biamo sempre assorbire ogni colpo, rialzarci eaffrontare tutto con il sorriso. Ginevra Pruden-zano

Anna Rita, si, ha coraggio da vendere. Io nonso cosa significhi vivere una vita vera. La sua èuna vita vera, perché lei ha dovuto affrontaretante difficoltà. Grazie per avermi fatto capirecome affrontare la vita. Daniele Lecce

Abbiamo bisogno della diversità proprio per

mettere in evidenza delle individualità diognuno di noi e per far emergere le varie perso-nalità. E, poi, che noia se nel mondo fossimotutti uguali, con le stesse idee, gli stessi gusti, lestesse abitudini. Martina Caraglia

Penso che Anna Rita debba essere fiera ditutto ciò che ha realizzato nella propria vita.Credo che altre persone si sarebbero lasciate an-dare, senza combattere contro le avversità. Lei,invece, è ottimista e trasmette questa sua ener-gia a chiunque la conosca. Chiara Dimagli

Da questo incontro abbiamo compreso ilsenso della vita: ogni giorno ci sono tanti pro-blemi, più o meno gravi, ma guai ad arrendersi.Ogni avversità si può superare se c’è la determi-nazione e la forza mentale. Francesca Mero

A me Anna Rita piace. Piace come donna, masoprattutto come guerriera. La sua vita mi haemozionato, il suo modo di affrontarla mi haentusiasmato. Francesca Elefante

Sono sempre più convinta che la disabilitànon sia contagiosa, ma la stupidità si. Ogni di-versamente abile è uguale a noi. Anzi, molti di-versamente abili sono decisamente piùintelligenti e capaci di tanta gente che si consi-dera normodotata. Valentina Guiderdone

P urtroppo la malattia può pregiudi-care molte cose nella vita, visibile oinvisibile che sia, anche la stessa vita.

Una volta dissi: la malattia mi ha tolto tutto,ma non mi ha tolto la vita, quindi.. Dopoquel quindi si srotola una vita vissuta inpieno, e quando dico pieno intendo propriopieno! Ho fatto di tutto, nonostante tutto ea dispetto di tutto. Ho ripreso gli studi e ter-minati con ulteriori 2 diplomi. Ho rifiutatoben 3 volte il 100% d’invalidità, volevo la-vorare. Mi son fattaconoscere prima fa-cendo lavoro volonta-rio presso strutturepubbliche, poi è arri-vato il lavoro pagato,prima a tempo deter-minato poi indetermi-nato. Ho lavorato 15anni e ora ho quanto-meno una pensionedignitosa. Poetessa escrittrice, 5 libri pub-blicati. Ho viaggiato,tanto. Nel 1991 hoiniziato a studiare tea-tro e nel ’97 ho debut-tato come attrice. Ho interpretatopersonaggi in una 15ina di spettacoli. Sonostata anche tutor in corsi teatrali per disabi-lità più gravi. Ho fatto il corso di subacqueae preso il brevetto.

Insomma nessuno è riuscito a contenere lamia voglia di vivere e di imparare. Soprat-tutto la mia voglia di dimostrare che un ma-

lato, un handicappato, qualunque sia il suo handi-cap, ha la dignità dell’essere persona. Viene primala persona, poi l’handicap. Solo coltivando la per-sona nella sua dignità, emergono tutte le capacitàresidue dell’individuo, che ci sono sempre!

Era il 1977, ero poco più di una bambinaquando ho incontrato Wilson e tutti gli errori me-dici che gli han fatto da cornice.

14 anni e, da un mo-mento all’altro, non ero piùcapace di portare il cibo dalpiatto alla bocca. Degliatroci spasmi facciali mispalancavano la bocca e nonsi chiudeva più. Mi tolseanche la facoltà di parlare.Lavarmi, vestirmi, cammi-nare erano diventate azioniimpossibili. Mi avevaschiacciato.

Ma dopo il rifiuto inizialearrivò l’accettazione, il mioabbraccio a Wilson. Soloamando la mia vita, la mianuova condizione, avrei im-posto la mia volontà a

quella della malattia. Ho superato così la fase critica!Continuo a vivere dominando tutto, dolori equant’altro, con un “io lo voglio”. Ho voluto viveree l’ho fatto, supportata da una forte fede in Cristo.Lui mi ha scelto per testimoniare la vita e io vivo laSua volontà. È l’unico modo di rendere possibilel’impossibile.

Anna Rita Mellone

Le nostre riflessionidopo aver conosciuto Anna Rita

Ci è piaciuta come donna,ma soprattutto come guerriera

Anna Rita Mellone

Page 15: Femminicidio, di genere si muore I P · Il commovente incontro con Rita Lanzon, madre e nonna delle vittime, e con la sua amica Anna Pulpito È stata una tragedia che ci ha colpito

VITA E FEDE15

Viaggio nel mondo della clausuraL’intervista alla madre badessa del monastero delle Benedettine

A ll’interno del nostrolaboratorio di gior-nalismo, abbiamo

avuto un incontro straordi-nario, sicuramente fuori dalcomune: ci siamo recatipresso il monastero delle Be-nedettine di Manduria perintervistare la madre ba-dessa, suor Elisabetta Pic-cione. Insieme a lei abbiamoscoperto il senso di una vitaconsacrata alla clausura e leragioni che portano ad unascelta così radicale.A che età ha cominciato asentire la chiamata alla vita religiosa?«Ho iniziato ad avvertire la “chiamata” in-torno ai 17 anni» la risposta di madre Eli-sabetta. «La scelta di dedicare tutta la miavita al Signore è arrivata dopo aver soste-nuto gli esami di maturità: frequentavo l’in-dirizzo di Ragioniera dell’istituto tecnico“Einaudi” di Manduria”».Quando ha scelto di diventare suora diclausura? C’è stato un episodio che è statodeterminante nella sua scelta?«La scelta è stata il frutto di un discerni-mento: aspiravo a vivere la vita nella totalitàe in pienezza. Potrà sembrare strano, ma dasuora di clausura sono più libera di dedi-carmi al Signore: non vi sono limiti al-l’amore che poniamo per l’umanità. Forsenon si coglierà dall’esterno. La nostra mis-sione non è quella di parlare agli uomini diDio, bensì di parlare a Dio degli uomini.Portiamo, attraverso le nostre preghiere, lasofferenza degli uomini a Dio»Ricorda come reagì la sua famiglia quandocomunicò la sua scelta?«Inizialmente ci fu della sofferenza perchécomunque in questa scelta si coglie un certostrappo dalla famiglia d’origine. Ma non ècosì. Con il passare del tempo si riesce acomprendere che il legame si rafforza an-cora di più».Cosa vuol dire essere monaca di clausura?«La grata non deve essere interpretata comeuna sorta di divisione dal mondo, bensìcome un segno di appartenenza a Cristo. Laclausura non è la grata, non è la separa-

zione: quello è il segno.Quello che conta è la re-altà: il senso di apparte-nenza e la scelta ditagliare fuori ciò che nondeve esserci, ciò che di-stoglie dall’amore».Perché la scelta dellaclausura piuttosto chel’impegno tra la gente omissionaria?«C’è differenza fra le duecose. Le monache diclausura vivono per lapreghiera e, con la pre-ghiera, si arriva a ogni ri-

sultato. Noi offriamo la nostra preghiera ditutta l’umanità a Dio» Ricorda i primi giorni? Quali sensazioniprovò?«Quando ho deciso di donarmi a Dio nonc’era la possibilità (introdotta successiva-mente) di sperimentare la vita di clausuraper un mese. Ricordo che il primo giorno èstato quello dell’accoglienza. Fui circondatadall’affetto di tanta gente che mi vuolebene».Pensa di aver fatto la scelta giusta?«Dopo 30 anni sono più che sicura che siastata la scelta giusta. Se il Signore chiama,non puoi dire di no».Chi o cosa aiuta a portare avanti questo per-corso?«La nostra vita non è monotona, come po-trebbe sembrare dall’esterno. Ogni giornoè nuovo e ogni giorno, pur scandito sempreda un programma di impegni (preghiera,lavoro, studio, i salmi del Salterio), riservadelle novità».Voi incontrate altre persone? Quali contattiavete con il mondo esterno?«Il monastero è aperto a chi ha bisogno diaiuto: la gente viene o telefona. Abbiamocontatti fra monasteri, usciamo per fre-quentare corsi di formazione. Non è più laclausura di una volta».Come apprendete le notizie dal mondoesterno? Avete la possibilità di utilizzare in-ternet?«Abbiamo la tv, che seguiamo per ascoltarei telegiornali e leggiamo anche i quotidiani

(Avvenire e l’Osservatore Romano). Inter-net lo utilizziamo per reperire, nella rete,notizie che ci servono per la formazione elo studio».Oltre a pregare, svolgete dei lavori per averedelle entrate?«Ci dedichiamo al ricamo e alla prepara-zione di dolci, che poi vendiamo. Alcunianni fa, quando papa Benedetto XVI fecevisita a Brindisi, il nostro monastero pre-parò la mitra papale e la casula».Quali sono i ruoli delle suore e la gerarchiaall’interno del convento?«La badessa è la coordinatrice spirituale etemporale. Poi esiste la figura della priora,che è la vice. Quindi il Consiglio, i cui com-ponenti si definiscono decani. Infine c’è lacomunità».Qual è il sacrificio più grande che comportala clausura?«I sacrifici ci sono e non ci sono. Mi spiegomeglio: se si è contenti, non ti mancaniente. Qualche desiderio ci può essere (ioad esempio ero molto legata al mare), matutto è sempre effimero. Il Signore ci donala pace e non sentiamo particolari neces-sità».Cosa direbbe ai giovani che si perdono die-tro a tanti falsi miti?«Io ho fiducia nei giovani. A loro vorreiconsigliare di sperimentare l’amore per il Si-gnore: se c’è Lui, le altre cose vengonodopo. Al centro della propria vita mettete ilSignore. Poi fate le altre scelte».Al giorno d’oggi in cui la società si sta scri-stianizzando, crede possibile che i giovanipossano sentire il richiamo di Dio?«In fondo ad ogni giovane c’è sempre unseme buono: il mio invito è quello di nonsoffocarlo ma di farlo germogliare. Dio èamore».Sono molte le vocazioni alla vita claustralein generale e nel suo convento?«Indubbiamente si avverte un calo delle vo-cazioni. Nel nostro convento siamo in sette:quattro giovani, al di sotto dei 50 anni (lapiù giovane ha 47 anni) e tre over 50. La piùanziana ha 92 anni, ma sono ben portati».

Ester Coluccia - Francesca ElefanteCarlotta Giulio - Anita Ferrara

Alessandra Marino - Federico Pichierri

Madre Elisabetta Piccione

A bbiamo trovato molto interessante un intervento che l’allora ve-scovo di Oria, mons. Armando Franco, scrisse nel 1992 per esserepubblicato in un volume curato dal CRSEC e dedicato al mona-

stero delle Benedettine. Ve ne proponiamo una parte perché riteniamooffra davvero il senso della presenza delle monache di clausura nella nostracittà.

«La missione delle monache è sempre unica: quella di lodare Dio, a nullada posporre e di glorificarlo anche per chi non si ricorda mai di Lui» scri-veva mons. Franco. «Quando diciamo che le monache sono i parafulminidi Dio, vogliamo ricordare che esse impetrano, supplicano, si offrono, sisacrificano anche per coloro che tali sentimenti mai hanno avuto.

Manduria di queste persone ne ha avute nella sua storia e anche al pre-sente. Perciò il monastero delle Benedettine svolge una funzione sociale,quasi un ministero di fatto, a vantaggio di tutta la popolazione, che peraltro ad esso è grata.

Dal monastero delle Benedettine si diffonde l’armonia del vivere e latranquillità dell’essere. La città di Manduria ha da apprendere come oggisi possa gustare, pur nella mancanza di tante cose superflue, la bellezza diDio e la Sua profonda ricchezza, che ripartisce agli uomini grazie e favori,anche ai manduriani.

L’auspicio è che i manduriani guardino al monastero delle Benedettine,vetusto ormai di circa quattro secoli, sempre con rinnovato vigore, per at-tingere luce sul loro cammino, forza ai loro passi, come al suo interno lesorelle monache continuano nella loro oblazione sacrificale per essi».

Armando FrancoVescovo di Oria

Dal monastero delle Benedettinesi diffonde l’armonia del viveree la tranquillità dell’essere

Nacque nei primi anni del ‘600 per volontà di Alessandra Bonifacio

I l monastero delle Benedettine fu edificato, nei primi anni del 1600, pervolontà della nobildonna Alessandra Bonifacio, appartenente alla fa-miglia Bonifacio, feudataria del Marchesato di Oria. La Bonifacio, ri-

masta vedova di Aloisio Varrone e senza figli, morendo lasciò i propri benial cognato Pirro Varrone, a condizione che alla sua morte fossero devoluti“ad pias causas”.

Nel corso dell’incontro che abbiamo avuto all’interno del monastero,madre Elisabetta ha rimarcato quanto sia importante, per ognuno di noi,scoprire quale sia il progetto che il Signore ci vuole donare, perché solo cosìsi può arrivare alla pace interiore.

Ci ha stupiti scoprire come il monastero sia sempre “aperto”: nonostantela presenza delle grate, le suore possono interagire con il mondo esterno, te-nendosi sempre informate su ciò accade nel mondo attraverso internet o latv. Non corrisponde dunque a verità la convinzione, un po’ arcaica, secondola quale la vita in convento sia noiosa e priva di tecnologie.

Attraverso la parole di madre Elisabetta abbiamo compreso come all’in-terno del monastero si impara a conoscere la felicità, che si trova nelle sem-plici azioni quotidiane.

Madre Elisabetta ci ha anche descritto l’organizzazione della giornata. Lasveglia è fissata alle 5. Si inizia con le letture bibliche e il canto dei salmi.Alle 7,15 è fissata la celebrazione della Messa e, poi, si passa alla lectio divina.Alle ore 8,30 è prevista la colazione. Quindi inizia il lavoro: si preparano idolci, si ricama, si pulisce. Alle 12 il pranzo, che è anche un momento diconvivialità. Segue il riposo sino alle 15,30, quando viene recitato il Rosario.Dalle 16 alle 18 si ritorna al lavoro. Vi è un’ora di svago, quindi alle 19,30si recitano i Vespri. Alle 20,30 è prevista la cena, quindi segue lo svago.

Una vita monotona? Affatto.«Ieri non è mai come oggi» è stato il commento di madre Elisabetta. «Ogni

giorno ci sono delle novità».

Grazia Maria Biasco - Sara Dostuni - Stefano GiorginoEvelyn Petrachi - Oscar Pisello

D a circa trent’anni, madre Elisa-betta ha deciso di dedicare tutta lapropria vita a Dio, ritirandosi nel

convento di clausura di Manduria con le sueconsorelle, seguendo la regola di San Bene-detto; “ora et labora”.

Certo, non deve essere stato proprio facilelasciare la propria famiglia e tutti gli amici,abbandonare i propri sogni e i propri inizialiprogetti di vita, ma dalle sue parole abbiamocapito che ora madre Elisabetta è davvero fe-lice e conduce una vita di profonda religio-sità e fede, una vita dedita totalmente allapreghiera e al Signore.

E, contrariamente a quello che si pensa co-munemente, anche queste nostre sorelle leg-gono i giornali e dispongono dellatelevisione, che, a dire il vero, utilizzano conmolta parsimonia per informarsi di ciò cheaccade nella nostra società ed hanno addi-rittura un computer e internet, che usanoper studiare i testi sacri.

Questo ci ha molto sorpreso, perché prima

dell’intervista eravamo convinti che passas-sero la loro giornata solo tra Lodi, Messe epreghiere. Credevamo che trascorressero lamaggior parte del tempo della giornata pre-gando. Avendo solo raramente contatti conil mondo esterno, avevamo ipotizzato chenon fossero aggiornate sugli avvenimenti delmondo. Ci eravamo insomma convinti chesarebbe stato molto meglio aiutare gli altrivivendo fuori, nel mondo.

Madre Elisabetta ci ha riferito che hannouna giornata molto piena, che comincia almattino con la preghiera e che continua convarie attività, tra cui quella della pasticceria:si dedicano, infatti, alla produzione di bi-scotti e dolcetti di pasta di mandorla. Unaltro loro lavoro è quello di realizzare abiti eparamenti sacri.

Ora abbiamo compreso davvero il deside-rio che hanno queste donne di dedicare lapropria vita solo a Dio e di allontanarsi to-talmente dalle cose del mondo, pur conti-nuando a farne parte attraverso la preghiera.

Una frase ci ha molto colpito: “Noi nonparliamo di Dio agli uomini, ma parliamo aDio degli uomini”.

Questo vuol dire che sono vicine a noi conle preghiere.

Come ci ha detto madre Elisabetta, inoltre,se si accetta di seguire Dio rispondendo confede alla Sua chiamata, non si sente la man-canza degli agi, delle comodità, dei beni ma-teriali e neanche delle persone.

Crediamo sia molto importante risponderealla vocazione a cui si è chiamati, anche sela scelta costa sacrificio, perché solo in que-sto modo si potrà essere veramente felici e cisi potrà sentire in pace con Dio e con sestessi.

Francesca Mero - Giacomo Perrucci

La vita di clausura noiosa e senza sussulti? Vi sbagliateSi vive in felicità e in grazia di Dio, con tecnologie 2.0

La ns redazione nel monastero

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MIGRAZIONI16

Q uello dell’immigrazioneè un fenomeno enormeche va caratterizzando,

da diversi anni, la nostra società. Ar-rivano tantissimi migranti, la mag-gior parte dei quali scappa da guerree carestie.

L’Italia va progressivamente divi-dendosi: c’è chi è favore dell’acco-glienza e c’è invece chi preme perlimitare al massimo l’ospitalità ita-liana. Certo, siamo d’accordo chela presenza di migliaia di migrantiin Italia genera non pochi pro-blemi: economici, ma anche so-ciali, culturali e di ordinepubblico. Abbiamo voluto appro-fondire questo fenomeno partendoda un presupposto: i migranti sonouomini, donne o bambini che por-tano con sé le rispettive storie, leloro speranze di una vita migliore,le loro paure, ma anche i loro di-ritti e i loro doveri.

Abbiamo pertanto invitato alcuniospiti del centro SPRAR (Sistemadi Protezione Richiedenti Asilo eRifugiati) di Manduria per ascol-tare le loro storie e per approfon-dire questa tematica. Abbiamoaccolto Amadou Gassama, mi-grante originario del Gamba, Sha-kir Zaman, migrante originario delPakistan, e Amini Naeem, mi-grante originario dell’Afghamistan(quest’ultimo, conoscendo varielingue, è ora anche mediatore cul-turale). I tre migranti erano ac-compagnati da Massimo Franco,operatore del centro SPRAR diManduria.

Come la maggior parte dei mi-granti, anche loro sono arrivati inItalia per cercare di scappare da si-tuazioni di vita estremamente dif-ficili, da condizioni di miseria, daregimi dittatoriali o dalla guerra. Ecome tutti gli altri, sono partiti perl’Europa pieni di sogni e speranzeper ritrovare, nonostante la vita liabbia duramente provati, la vogliadi tornare a sorridere.

Dalla loro testimonianza èemersa l’infinita tragicità del loropassato: quello che ci hanno rac-contato sembrava successo su unaltro pianeta, un mondo diversoda quello in cui viviamo.

Molti si chiedono se è giusto ac-coglierli. Per noi è giusto. Chiedia-moci se fosse successo a noi discappare dal nostro Paese e ricor-diamo quando, non molti decennifa, eravamo noi italiani a cercarefortuna all’estero. Questi ragazzichiedono aiuto e noi dovremmoaiutarli, senza giudicare questagente che ha già sofferto abba-stanza.

Giacomo PerrucciFederico Pichierri

Storie dimiseria edi guerra

S ono tante le causedel fenomeno dellamigrazione.

Ci sono cause economi-che: per sfuggire alla po-vertà, per cercare miglioricondizioni di vita. Causelavorative: per trovare unimpiego. Cause legate allasituazione politica: ditta-ture, persecuzioni, guerre,genocidi, pulizia etnica.Cause personali: scelteideologiche. Cause di tiposentimentale: riunifica-zione familiare.

Ci sono sogni e sogni inquesto mondo. C’è chisogna un regalo dai proprigenitori; c’è chi non puòpermettersi lussi; c’è anchechi la mattina, appena sve-glio, sogna un domani didormire in un vero letto,comodo, e magari anchecon un cuscino; c’è chi de-sidera tranquillità: il sole,delle belle passeggiate conamici; c’è chi desidera diandare a scuola; c’è, infine,chi sogna di farsi degliamici.

Cosa può sognare un mi-

grante? Forse molti di lorosognano solo di poter vi-vere lontano da bombe epersecuzioni e in un luogoin cui è possibile guada-gnare quel che basta peravere i mezzi di sostenta-mento. Ci sono donne chesognano che un bambinonasca in un Paese migliore.

Per tanti di loro questosogno non arriva neppureall’alba: muoiono annegatidal mare che li separa dallaciviltà. E, per chi arriva,molte volte la realtà non èmigliore di quella che vive-vano nel loro Paese d’ori-gine. Quanti migrantivengono sfruttati nei lavoriin campagna? Ore e ore dilavoro, sotto il sole, incambio di una paga miserae di una baracca dove dor-mire ammassati? E quantedonne arrivano con il mi-raggio di una vita miglioree poi vengono mandate aprostituirsi lungo unastrada e sfruttate da aguz-zini senza scrupoli?

Grazia Maria BiascoFrancesca Elefante

In viaggio versola terra promessaMa a volte il sogno si trasforma in incubo

Perché tante discriminazioni verso questi nostri fratelli?

Quotidianamente, ascoltiamo fatti di cronaca che ciriportano al dramma dei migranti.

Queste persone sono in fuga dai loro Paesi, molti deiquali sono dilaniati dalla guerra e dalla povertà; questiuomini che scappano si lasciano dietro alle spalle unavita fatta di paura e di incertezze. Così decidono di scap-pare utilizzando dei barconi che attraversano il mare.Sono viaggi pericolosi che mettono a rischio la vita diquesta gente che, spesso, non arriva nemmeno a desti-nazione, benché vengano pagate somme spropositate didenaro per salire su questi barconi.

Arrivati a destinazione, nonostante abbiano vissuto nelterrore e abbiano compiuto un viaggio così disu-mano, non riescono a realizzare il loro sogno diuna vita migliore. In campi di accoglienza aspet-tano un futuro che, molte volte, non arriveràmai.

Secondo me dovremmo accogliere e aiutarequeste persone perché scappano da una vita ter-ribile, da Paesi in guerra, una guerra della qualenon hanno colpa. Invece di mandarli via, biso-gnerebbe aiutarli a imparare la nostra lingua etrovare un lavoro che permetta loro di condurreuna vita degna. Dovremmo sforzarci di facilitareil loro processo di integrazione nella nostra so-cietà, non discriminandoli.

Ginevra PrudenzanoI migranti con la redazione del Prudenzano Magazine

Q ual era la condizione divita nel tuo Paese d’ori-gine? Quando hai deciso

di scappare via? Perché si affronta ilmare in condizioni disumane ri-schiando una morte atroce? Come èstato il tuo viaggio verso l’Italia?Come ti trovi a Manduria?

Sono queste e tante altre le do-mande che abbiamo rivolto ai nostriospiti. A queste domande abbiamotentato di dare una risposta ascol-tando le storie di chi sceglie il marecome ultima speranza.

Ecco le loro storie, una per volta.AMADOU GASSAMA - Ha 18 anni ed è arrivato

dal Gambia. Non parla ancora l’italiano. Sul suo voltosi leggeva la sofferenza.

«Nel mio Paese c’è la dittatura che affligge il popolo.Non ci sono possibilità di trovare un lavoro. Si vivenella povertà.

Il mio lavoro è quello di meccanico. Per arrivare inItalia ho impiegato quattro mesi. Ho attraversato tan-tissimi Paesi: dal Burkina al Mali, dalNiger alla Libia. Quanto è costatol’intero viaggio? Circa 10mila euro.Questi soldi li ho recuperati anche la-vorando come meccanico.

In Gambia ho lasciato gran partedella mia famiglia: due fratelli e duesorelle. Un altro mio fratello è arri-vato prima di me in Italia. Vive a Na-poli e spero di incontrarlo presto».SHAKIR ZAMAN - Ha 29 anni ed

arriva dal Pakistan.«Il mio Paese è stato devastato da

una guerra senza fine. Ci sono statimigliaia di morti e c’è tanta gente chenon ha cibo per vivere. Io facevo il camionista: traspor-tavo materiali dal Pakistan in Afghanistan. Sono scap-pato perché era impossibile restare ancora. DalPakistan mi sono recato prima in Iran, quindi in Tur-chia, poi in Grecia e in Serbia. Attraverso l’Adriaticosono sbarcato in Italia. Non ho avuto nessuna paura,anche perché non avevo alternative. Ho impiegato duemesi per giungere nella vostra nazione. Questo viaggiomi è costato circa 4mila euro».AMINI NAEEM – 27 anni, è arrivato dall’Afghani-

stan nel 2009. La sua storia ci ha colpito in modo par-ticolare, forse anche perché Amini, parlando l’italiano,ci ha potuto raccontare molti più particolari.

L’Afghanistan è una terra martoriata dalla guerra. Perraggiungere l’Italia ha affrontato un viaggio durato 2mesi e 10 giorni. Ascoltando il suo racconto, abbiamocolto la tristezza, l’angoscia e l’orrore della migrazioneclandestina.

Prima di partire, Amini era certo che sarebbe riuscitoa giungere in Italia. Era ignaro dei pericoli che l’atten-devano, anche perché non aveva notizie di coloro chelo avevano preceduto.

«La situazione nel mio Paese è drammatica: c’è laguerra che coinvolge tutti; bombardamenti ognigiorno; terreni minati. A questo proposito» ci ha rife-rito Amini, «voglio aggiungervi un particolare: hannodisseminato il nostro territorio di mine nascoste all’in-terno di giocattoli. I bambini istintivamente li raccol-gono, venendo poi devastati dalle esplosioni.Tantissimi innocenti muoiono ogni giorno. Il cuoredei miei connazionali, quelli che ancora sono rimasti,è duro: non si pensa più alla morte, anche perchéquando si esce da casa non si sa se poi si farà ritorno.Eppure la nostra nazione è molto ricca (abbiamo il pe-trolio), ma questa ricchezza finisce nelle tasche dipochi».

Ha affrontato la prima metà del viaggio a piedi, su-perando i confini di Iran, Turchia e Grecia. Per sfuggireai controlli della polizia, che non esitava a sparare in

direzione di intrusi o di personesospette, è stato costretto a cercarestrade alternative, superandomontagne e altri ostacoli naturali.

«Siamo partiti in tanti (circa 200persone). Gran parte di loro sonomorti durante il tragitto. Neipressi del confine fra Afghanistane Iran, alcuni del nostro grupposono scivolati in un canale pienodi acqua. Non potevamo fermarciper aiutarli. Dovevamo proseguireil cammino…».

In Grecia ha dovuto imbarcarsi.Per sfuggire ai controlli, è salito,

all’insaputa del camionista, sul suo furgone: alla do-gana si è nascosto sotto il camion, rannicchiato nellaparte inferiore; sulla nave, quando il camion era par-cheggiato, si è ricavato un nascondiglio nello spazioche c’è sotto l’alettone aerodinamico montato sulla ca-bina di guida.

«Dopo quattro giorni vissuti in condizioni difficilis-sime, senza cibo e con pochissima acqua, sono arrivato

col traghetto in Italia, a Venezia»ci ha raccontato ancora Amini.«Mi sono incamminato: volevo ar-rivare a Milano. Strada facendo,però, ho incrociato la Polizia. Te-mevano fossi un terrorista. Sonoscesi dall’auto impugnando imitra».

Ma gli italiani, almeno granparte di essi, sono buoni e acco-glienti.

«Quando hanno compreso chestavo scappando dalla guerra edalla fame, un poliziotto mi haportato a casa sua: mi ha consen-

tito di fare la doccia e mi ha offerto indumenti e cibo».Tutti loro, poi, sono passati dai centri di prima acco-

glienza e, quindi, dai centri SPRAR.«Come ci troviamo a Manduria? Molto bene» hanno

affermato i nostri tre ospiti.LE NOSTRE CONSIDERAZIONI - Ci siamo resi

conto di quanto noi siamo fortunati a vivere una vitaserena, nella normalità e senza la continua paura di unaguerra. Credo sia stato molto importante, per noi ra-gazzi, conoscere queste storie per riflettere e superarela diffidenza e, soprattutto, l’indifferenza nei confrontidegli stranieri. Noi non vogliamo avere paura, non vo-gliamo essere dalla parte di chi accusa, ma di chi acco-glie e aiuta al fine di garantire a queste persone, chesono uguali a noi, i naturali diritti umani, come quelloalla salute, all’istruzione, al lavoro e ad una vita liberae dignitosa.

Giulia Barbieri - Anita FerraraStefano Giorgino - Carlotta Giulio

Giacomo Perrucci

Perché si parte e perché si rischia la vita per attraversare il Mediterraneo?

Migranti, i racconti dei viaggi estenuantiL’incontro con tre migranti ospiti del centro SPRAR di Manduria

Gassama Amadou

Amini Naeem

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MIGRAZIONI17

Dopo aver intervistato al-cuni migranti ospiti delcentro Sprar della nostra

città, grazie all’impegno dell’asso-ciazione ANSI di Manduria (e inparticolare del mar. Giuseppe At-tanasio), abbiamo avuto il piaceredi ospitare, nella nostra scuola, ilComandante di Nave GaribaldiAntonio Galiuto, accompagnatodal Tenente di Vascello Gianvitto-rio Ciolli, dai Sottotenenti di Va-scello Daniele Veri e Paola Vitiello,e dal maresciallo Alessandro Ro-berti.

Ci hanno parlato delle missionidella Marina Militare a sostegnodella pace: nel mar Mediterraneo,le navi, non solo italiane, cercanodi contrastare il triste fenomenodel traffico di essere umani, maanche di salvare i tanti migrantiche intraprendono questo viaggiodella disperazione.

Migranti che affrontano un viag-gio a dir poco da incubo. Viag-giano, infatti, in condizionidisumane su imbarcazioni nonadatte alla navigazione, come bar-coni e gommoni per lo più sovrac-carichi, con un altissimo rischio dinaufragare e perdere la vita. E mol-tissimi di loro non ce la fanno,muoiono di freddo e di stenti o ri-sultano dispersi in seguito ai nau-fragi e tra questi purtroppo ci sonoanche tante donne e bambini.

Il capitano Antonio Galiuto, conun modo di fare molto aperto neiconfronti di noi studenti, ci haportato degli esempi pratici sucome vivono i nostri coetanei afri-cani.

E’ più che normale che questagente abbia voglia di fuggire nonsolo dalla guerra e dalla povertà,ma anche dalle ingiustizie e da unarealtà brutale che non tutela i piùnaturali diritti umani.

Molto toccante è stato anchequello che ci ha detto l’ufficialemedico, cioè che queste personenon hanno bisogno solo di benimateriali, ma gioiscono anche difronte ad un sorriso, un sempliceabbraccio, un incoraggiamento cheper loro vuol dire davvero tutto.

Come ha sottolineato la nostradirigente durante il ringraziamentofinale al capitano, noi ragazzisiamo stati letteralmente catturatida questo racconto e non ci siamofatti prendere dalla noia nono-stante l’incontro sia durato più didue ore.

Grazie alla mia scuola, che non èsempre e soltanto libri, ma ci dà lapossibilità di conoscere la realtàesterna e di vivere grandi espe-rienze di crescita…

Giacomo Perrucci

Migrazionie orrori

Il volto umano della Marina Militare: l’incontro con gli ufficiali di Nave Garibaldi

Il Comandante Antonio Galiuto ci ha parlato delle missioni nel mar Mediterraneo

L ’immigrazione è la conseguenza delle guerre invari Paesi dell’area centrale del Mediterraneoche, attraverso la Libia, raggiunge via mare l’Ita-

lia e gli altri paesi dell’Unione Europea, facilitata e, so-prattutto, sfruttata economicamente, da trafficanti diesseri umani che hanno messo in piedi un’organizzazioneper trarre guadagni sulla loro disperazione. In tale con-testo, l’impiego di imbarcazioni inadatte alla navigazionein alto mare e sovraccariche ha portato al ripetersi dinaufragi che causano un elevato numero di morti inmare.

L’immigrazione è diventata una questione sempre piùimportante da quando ci sono stati i primi naufragi aLampedusa nel 2003; poi nel 2013 nello Stretto di Sici-lia sono morte centinaia di persone e il Governo italianoha risposto con l’operazione militare di ricerca e di soc-corso “Mare Nostrum”; nel 2015 il ribaltamento di unpeschereccio con a bordo un numero imprecisato di mi-granti (circa 800), fu definito dalle Organizzazioni Uma-nitarie il più grave disastro umano nella storia recente,suscitando lo sdegno del Papa e dell’opinione pubblica.

Nel maggio del 2015 è stata avviata ed è tutt’ora incorso la seconda operazione del mare (dopo quella di an-tipirateria al largo della Somalia) denominata “EunavforMed – operazione SOPHIA” (dal nome di una bambinasomala nata su una nave da guerra in missione di soc-corso nelle vicinanze delle coste della Libia dopo il sal-vataggio in mare della madre).

All’operazione partecipano 25 nazioni europee, oltreall’Italia che ha come protagonista la portaeromobili “G.

Garibaldi” della Marina Militare,strumento prezioso al servizio dellapolitica estera e di sicurezza nazio-nale ed europea, ma soprattutto unarealtà di noi italiani, che ci appar-tiene.

Per comprendere meglio ildramma dell’immigrazione, il Co-mandante Galiuto ci ha portato a“guardare oltre l’orizzonte…”: gui-dati da lui, abbiamo potuto vedereuna realtà che non immaginavamo.

Tutto nasce dal desiderio di unavita lontana dalla guerra, per cuiin quel contesto di fame, orrore edisperazione un genitore fa ditutto per scappare e salvare i pro-pri figli da quell’incubo, pagandoqualsiasi cifra.

Il signor Galiuto ci ha portato a riflettere come dei no-stri coetanei e bambini siano costretti a crescere in frettaa causa della guerra nei loro Paesi, pronti a scappare daun mondo che non è come il nostro. Mentre per noi ra-gazzi oggi lo “strumento-giocattolo” più utilizzato è ilcellulare, per quei bambini-ragazzi il loro strumento digioco è il kalashnikov, più facile da acquistare anche ri-spetto al semplice latte; mentre noi sui social networkseguiamo ad esempio i siti dei personaggi famosi, unaragazza del Ciad, dell’Etiopia o della Nigeria segue i sitiche propongono viaggi della speranza, cercando di ac-

quistare un posto per fug-gire al costo di circa 1.000euro (se volesse un salva-gente le servirebbero altri150 euro). Le organizza-zioni criminali sfruttano imigranti, acquistando ungommone online (per es.visitando il portale Ali-baba e poi digitando“gommone per migranti”)a circa 4/5000 euro oun’imbarcazione in legnoa circa 2.000 euro, sullequali riescono a far salirein media 120 persone sulprimo e ancora di più sulsecondo. Si può ben im-maginare il business cheruota attorno a quest’atti-

vità: un viaggio su un gommone organizzato da uno sca-fista frutterà più o meno 120.000 euro; moltiplicandoloper 20 viaggi si arriva ad oltre 2 milioni di euro, utilizzatiper comprare armi e controllare il territorio!

Il Comandante ci ha illustrato, quindi, l’attività che hasvolto Nave Garibaldi e tutta la task force europea, conl’operazione SOPHIA, che consiste nel contrasto deltraffico di esseri umani nel Mediterraneo centrale chepartono dalle coste libiche. Quindi, prima di intervenire,con l’aiuto di un elicottero in volo, s’individuano i gom-moni sospetti, si effettuano delle fotografie per indivi-duare gli sfruttatori (che non è facile capire chi siano).

Poi si procede sempre in mare alle ispezioni, al seque-stro e a mettere fuori uso queste imbarcazioni. La prio-rità è salvare e accogliere le persone in mare,indipendentemente dalla loro origine o nazionalità: sec’è un naufrago, bisogna aiutarlo, offrendogli conforto,acqua, vestiti, assistenza sanitaria, regalandogli un sorrisoo un abbraccio o un semplice succo di frutta: per noi èscontato, per lui, invece, può rappresentare il “paradiso”.E il tenero sguardo di un bambino salvato fa capire chesi è svolto il proprio dovere.

Nonostante ciò bisogna essere dei “carabinieri delmare”, per cui bisogna distinguere chi ha uno sguardodi sfida e sospetto; una volta saliti a bordo la priorità èarrestare gli scafisti colti in fragranza di reato per conse-gnarli alle autorità giudiziarie.

Si può dire che il bilancio dell’operazione è abbastanzapositivo: sono state salvate circa 35.000 vite umane,sono stati arrestati un centinaio di scafisti, ma purtropposono morti circa 10.000 migranti.

L’U.E. ha preso coscienza del problema e sta cercandouna soluzione, ma essa non è in mare, bensì a terra.Spetta al Governo cercare una soluzione per bloccare lepartenze, combattere le cause nei paesi di origine, ditransito e di partenza. Basta pensare all’operazione di an-tipirateria in Somalia nel 2010: i pirati (ragazzi di 16-17 anni), ex pescatori, per ottenere guadagni più faciliusano le barche per raggiungere navi mercantili, le un-cinano, si arrampicano come scimmie e mettono sottosequestro la nave. La realtà della pirateria somala oggi èsotto controllo perché si sta cercando di portare in So-malia la scuola e la civiltà per avere modi più onesti permangiare e avere un lavoro.

Il ruolo della Marina Militare in futuro sarà di conti-nuare ad operare su tutto il territorio internazionale indifesa della libertà e delle istituzioni. Un ruolo che spessoporta a stare lontani anche mesi dalle proprie famiglie eche pesa sicuramente, comportando sacrifici, ma proba-bilmente come tutti i lavori. La differenza dagli altri peròè che si è fatto un giuramento di fedeltà, un atto diamore verso la Repubblica e difesa della Patria, Patriache coinvolge anche mogli e figli, che danno anche lorolo stesso “colpo di remi in una barca”, ma con diverseresponsabilità, contribuendo ad alleggerire il peso diquesto lavoro.

Sara Attanasio

La soluzione del fenomeno va ricercata a terra.

Q uesta l’opinione del Comandante Ga-liuto sulla migrazione di decine di mi-gliaia di persone verso l’Europa. Ci ha

voluto dire, a nostro avviso, che non ci si può limi-tare ad arrestare qualche scafista o a soccorrere i mi-granti che rischiano di affogare.

Una soluzione efficace potrebbe essere quella dimandare aiuti concreti nei Paesi originari (soldi, per-sonale specializzato), costruendo opere pubblicheadeguate, insegnando tecniche di lavoro per consen-tire a questa gente di vivere, in un modo migliore,nella loro terra natale.

Il migrante, in ogni caso, non deve essere conside-rato come una persona cattiva, pericolosa, ma comeuna persona che ha bisogno di aiuto e che, per la di-sperazione, arriva a pagare dei delinquenti pur di“scappare”dal proprio Paese d’origine dove c’è famee guerra.

Il Comandante ci ha raccontato che una volta,mentre ritornava in Italia con i migranti a bordo della

nave, regalò ad uno di loro un panino con la nutella.Il signore si mise a piangere forse per l’emozione oper la gioia di mangiare per la prima volta qualcosadi dolce.

Qualche notizia su Nave Garibaldi: è la prima por-taerei della storia della Marina Militare Italiana. E’stata costruita nei cantieri di Monfalcone e varata il4 giugno 1983. Essa é una grandissima risorsa per lanostra Marina, che ci consente di stare nella “SerieA” delle Marine mondiali.

Quello con gli ufficiali di Nave Garibaldi è stato unincontro davvero da pelle d’oca: abbiamo potutoascoltare la testimonianza diretta di coloro i qualitante volte hanno assistito ai naufragi di cui riferi-scono le tv, salvando tante vite di coloro che scap-pano dalla miseria e dalla guerra.

Manila Andrisano - Grazia Maria BiascoEster Coluccia - Giorgio ComesAnita Ferrara - Valentina GuiderdoneCarlotta Giulio - Federico Pichierri - Sofia Valente

Pensieri e parole sull’incontrocon la Marina MilitareUna testimonianza toccante di una realtà cruda

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DIPENDENZE18

H anno iniziato a drogarsiuno a 15 anni (Vito) el’altro a 14 (Enrico).

Hanno iniziato con le droghe cosid-dette leggere, per poi passare aquelle pesanti. Lo hanno fatto perprovare delle sensazioni “nuove”,senza immaginare a quali conse-guenze quella decisione avrebbeportato… Per quali motivi hannoiniziato? Uno per “gioco” e l’altroper “moda” e per “essere accettatodai compagni”.

Sono state delle testimonianzechoc quelle che abbiamo ascoltatodalla voce di Vito ed Enrico, che,accompagnati dall’educatore dellacomunità “Emmanuel” di Oria,Giovanni Rizzo, sono stati ospitidella nostra scuola.

La loro vita, anche se sono ancoragiovanissimi (rispettivamente 27anni e 20 anni), è stata già ricca ditanti problemi. Per procurarsi ladroga, naturalmente, hanno rubatoe hanno avuto guai con la giustizia.

Enrico, che a 20 anni è già padredi una bimba di 3, ci ha confidatodi non aver visto crescere sua figlia,perché assorbito solo dalla ricercadella droga.

Prima della fine dell’incontro, unadomanda dell’educatore GiovanniRizzo ci ha fatto cogliere il senso piùprofondo del tema dell’incontro.

«Perché si vive?» ci ha chiesto. Ab-biamo fornito varie risposte, sino atrovare quella giusta: per essere fe-lici. «Se ci si droga, le emozioni sispengono, i valori si abbandono e lafelicità diventa una chimera…».

La droga èla felicità?

S pesso ascoltiamo la tesi secondocui i ragazzi si drogano per sen-tirsi più adulti o per scappare

dai problemi.Sono alibi assolutamente senza senso

e infondati, perché se ti droghi non faialtro che aumentare i tuoi problemi,non solo fisici, ma anche economici esociali. E se ti fai convincere ad utiliz-zare una cosa che non fa bene al tuocorpo, allora dimostri di non esserecresciuto per niente!

Soprattutto nella società di oggi, la-sciarsi abbindolare in questo modonon è affatto una cosa da poco e sonoancora più scandalizzata perché, nono-stante si sentano tutti i giorni dei fattidi cronaca che parlano della morte dimolte persone, la maggior parte pur-troppo dipendenti da queste sostanze,il numero di ragazzi giovani ormai conil cervello bruciato dalla droga è sem-pre più alto.

Non vorrei sembrare pessimista, mapenso che ormai il mondo stia degene-rando perché è impensabile sentire daun ragazzo giovane questa frase: «Io midrogavo perchè volevo sentirmigrande». Effettivamente mi è sembrataanche un po’ strana la mia reazione,perché, come ho già scritto, sono coseche si sentono tutti i giorni. Ma sen-tirlo dire da una persona che hai dav-vero davanti a te è decisamentediverso: è più reale e fa capire megliocom’è facile cadere in questi pericoli.

Ginevra Prudenzano

I falsialibi deidrogati

L ’adolescenza è uno dei pe-riodi più difficili della vita,un periodo delicato in cui

si è alla ricerca di se stessi, di unapropria identità.

Abbiamo incontrato Enrico, unragazzo di 20 anni, con una storiadi tossicodipendenza alle spalle,con un’esperienza al limite dell’as-surdo, che ora sta affrontando unpercorso di recupero presso la co-munità Emmanuel di Oria.

Lui ha iniziato a fare uso di dro-ghe a 11 anni: in prima media, unpo’ per moda e per sentirsi accet-tato dal gruppo, un po’ per gioco,per divertirsi e per rendere piùscorrevoli le giornate. Altri suoi coetanei lo fanno magari percuriosità, per carenze affettive, solitudini e disagi personali,per mancanza di maturità e di responsabilità, per situazionidi insoddisfazioni, di vuoto e di paure, oltre che per la faciledisponibilità delle droghe che spingono i più vulnerabili adassumere queste sostanze.

Enrico ha cercato nella droga una forza che non trovavadentro di sé e lo sballo iniziale lo ha portato ad evadere dallarealtà, commettendo vari reati per procurarsela (come estor-sioni, furti, guida senza patente, sino allo spaccio). L’uso delladroga non gli ha permesso di veder crescere la propria figlia,che oggi ha tre anni. Per diverse volte ha rischiato di morire.Inoltre, la mentalità da “tossico” lo ha portato a diventare un“attore”, negando l’evidenza per paura e perdendo tutti i suoiaffetti più cari.

Quell’iniziale stato di benessere ed euforia gli ha avvelenatoil suo fisico e alterato la psiche. E’ arrivata quindi la depres-sione. Per vincerla ha dovuto ricorrere a nuove dosi di droghe.Così è entrato in un circolo in cui, senza aiuto, non potevavenirne fuori.

Enrico, oggi, grazie ai propri genitori che lo hanno incorag-giato ad entrare in comunità, sta ricostruendo la sua vita peressere reinserito nella società e nel mondo del lavoro.

Nonostante la società in cui viviamo sia oppressiva e pienadi difficoltà, tentare di “evadere” con la droga è stupido, per-ché essa diminuisce le nostre possibilità e le difficoltà riman-gono. Si superano solo con la volontà e con l’intelligenza.

Secondo me i tanti “falsi modelli” provocano nei giovaniuna situazione di totale confusione. In queste condizioni,forse non trovando dialogo e risposte nell’ambito familiare,alcuni scelgono la fuga e il disimpegno da tutto. Cercanogruppi a cui appartenere e in cui identificarsi, dove facilmenteincontrano la droga.

Per debellare questa piaga, credo ci debba essere più preven-zione attraverso l’informazione e la sensibilizzazione verso ilproblema, rivolte alle potenziali vittime, che sono i giovaniin genere e, in particolare, quelli più deboli per condizionesociale e ambientale. Importante è anche circondarsi di “veri”amici e restituire credibilità a tutte le strutture della società,fornendo ai giovani ciò che essi chiedono e non trovano, nellafamiglia innanzitutto, poi nella scuola e nel mondo del lavoro,in modo da farli “sentire impegnati”. Infine stroncare il com-mercio criminale della droga attraverso un coordinamentointernazionale che ne vieti la coltivazione, evitare la legaliz-zazione che ne agevoli l’uso e con maggiori controlli antidrogadelle autorità competenti. Sarebbe il top!

Sara Attanasio

Gli adolescenti e il mondo della droga:l’esperienza di Vito ed Enrico, giovani in fase didisintossicazione presso la comunità Emmanuel

Vito e l’educatore Giovanni Rizzo con la redazione del Prudenzano Magazine

L ’incontro con Vito ed Enricoe con il loro educatore Gio-vanni Rizzo è stato molto

utile per riflettere su un fenomenosempre più diffuso fra i giovani: l’as-sunzione di sostanze stupefacenti.

Tante le domande che ci siamoposti e che poi abbiamo rivolto ainostri due ospiti: perché ci si droga?Come si entra in questo circolo vi-zioso? Come si procurano tutti isoldi che servono per drogarsi?Quali sono gli effetti che la drogagenera nell’organismo umano?Come si esce da questo tunnel?

Raccontandoci le loro storie, Vitoed Enrico hanno anche risposto indi-rettamente alle nostre domande. Tro-vare la droga è facilissimo, bastaconoscere il “giro”; per recuperare isoldi si delinque; gli effetti sull’orga-nismo sono devastanti; per usciredalla droga ci vuole tantissima forzadi volontà e non tutti ci riescono.

Naturalmente si passa dalle drogheleggere a quelle pesanti, perché nonci si accontenta più e si vogliono co-

noscere sempre quelle più forti e, diconseguenza, più costose. Il bisognodi denaro aumenta e i consumatorisono costretti a commettere reati purdi ricavare i soldi per comprare altradroga.

Dopo aver fatto uso di droghe permolto tempo, il corpo si è assuefattoa queste sostanze e si diventa schiavidelle droghe. Non si può smettere daun giorno all’altro, ma bisogna se-guire un percorso studiato che consi-ste nell’uso delle droghe (o medicinaliche provocano lo stesso effetto), conuna graduale riduzione, sino a smet-tere completamente.

Un consiglio del dott. Rizzo ci hamolto colpito.

«Non credete a chi dice che le dro-ghe leggere (ad esempio lo spinello),non generano effetti al corpo: bru-ciano i neuroni, che non si riprodu-cono più. State alla larga dalledroghe!».

Daniele Lecce - Francesca MeroGabriella Ricci

Anche le droghe cosiddette“leggere” creano danniin alcuni casi irreversibili

La testimonianza sconvolgente di un’adolescente di Manduria«Ho iniziato a fumare le sigarette a 11 anni. Poi, a 13, sono passata alla cannabis»

A nche a Manduria il pericolo di imboccare il tunneldella droga è concreto. Non è stato molto difficiletrovare una ragazza poco più grande di noi (fre-

quenta la terza media), che ha accettato di raccontare la pro-pria esperienza. Per tutelare la sua privacy, la chiameremoMaria (che dunque non è il suo vero nome). Vi propongo lamia intervista esclusiva.

Ciao Maria, parlaci di come e quando hai iniziato a faruso di droghe.

«Ho iniziato a fumare le sigarette all’età di 11 anni» larisposta di Maria. «Verso i 13 anni sono passata alle “canne”…».

Perché hai deciso di far uso di sostanze stupefacenti?«Quando le uso mi sento più rilassata. Ho la sensazione che i

problemi spariscano».Ma sei consapevole che si tratta solo di una illusione e che, in

realtà, i problemi aumentano?«Si, conosco i rischi che corro, ma al momento non ho difficoltà

ad accettarli. Vado avanti così. In fin dei conti, tutti, prima o poi,moriremo».

Quale sostanza usi, per la precisione?«Quando riesco a trovare il venditore, uso un po’ di cannabis».Ma i tuoi genitori non si sono mai accorti di niente?«Hanno scoperto che fumo le sigarette. Fortunatamente non so-

spettano dell’uso delle droghe leggere».Ma quando si assume la cannabis, gli occhi non diventano rossi?«Porto sempre con me un collirio, in modo da coprire quell’ef-

fetto degli occhi. Ho sempre anche delle caramelle, che mangioquando avverto la sensazione dello svenimento».

A chi ti rivolgi per acquistare le sigarette e la droga?«Le sigarette le acquisto in tabaccheria: me le hanno sempre ven-

dute. La droga, invece, l’acquisto da un compagno di scuola».Quindi nella tua scuola circola droga?

«Si, ma non sempre».In quale luogo fumi le sigarette o

assumi la droga?«Di solito nei vicoletti del centro

storico, dove non mi può scoprirenessuno».

Come fate ad acquistare sigarette edroghe?

«Facciamo delle collette».Hai mai rubato soldi ai tuoi geni-

tori per acquistare la droga?«Non lo farei mai. Già deludo mamma e papà perché fumo e

mi drogo. Chissà quale dolore provocherei in loro se scoprisseroche rubo i loro soldi.…».

Ti è stato mai proposto di spacciare la droga per poi avere delledosi gratis?

«Si, qualcuno me lo ha chiesto, ma io non sono così stupida»Consiglieresti ad altri tuoi amici di drogarsi?«Perché no? Sono bellissime le sensazioni che si provano…».Se un giorno scoprissi che i tuoi figli si drogano, che reazione

avresti?«Li farei smettere immediatamente. Ai miei figli vorrò sicura-

mente tanto bene».Quindi, in fondo, tu non vuoi bene a te stessa?«Mi metti in difficoltà con questa domanda. Lo so che la droga

fa male, ma a me serve per non pensare ai problemi».Ci sono ragazzi di età inferiore a te che si drogano?«Si, ne conosco tanti».Sin qui l’intervista con questa ragazza. Alcune risposte lasciano

senza parole. La speranza è che il suo esempio non sia seguito daaltri ragazzi.

Valentina Guiderdone

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ARTE19

Il Grande Fratello e la notorietà a“bassa conservazione”

«I reality e i talent creano l’ossessione del suc-cesso e tutti vogliono arrivare alla notorietà conil minimo sforzo».

È stato Vito Mancini, concorrente del GrandeFratello 2012 e oggi attore, a inviarci questo im-portante messaggio.

Vito, come tanti altri ragazzi, ha partecipato aiprovini un po’ per gioco (spinto dagli amici), unpo’ per curiosità. Il suo percorso nella casa delGrande Fratello gli ha permesso di conoscere unmondo nuovo, che dal di fuori del tunnel non ècome sembra. È stata di sicuro una forte esperienza,durante la quale ha avvertito la mancanza di tantecose: la sua musica, i suoi libri e, soprattutto, la sualibertà.

La visibilità che si raggiunge nel partecipare a que-sti programmi dà la sensazione di aver raggiuntol’apice del successo: la partecipazione a programmi radio-televisivi, serate, party, ecc. Ma si trattasolo di un abbaglio temporaneo e chi viene catapultato in questo sistema spesso si illude che ilsuccesso duri per sempre.

«Si tratta di una notorietà a “bassa conservazione”» è stata la definizione di Vito Mancini.L’ospite del nostro incontro ci ha svelato anche qualche segreto del programma.«Nessuno dà dei copioni da seguire» ci ha detto. «Però, quando chiamano i concorrenti nel con-

fessionale, riescono a toccare le corde giuste per poi provocare quelle reazioni che servono a faraumentare l’audience».

Non poteva mancare la domanda sulla sua relazione con Sabrina.«È stato tutto vero, anche se, naturalmente, non è facile vivere un rapporto avendo le telecamere

puntate 24 ore su 24».Un’esperienza, quella del Grande Fratello, che non rifarebbe mai più.«Preferirei anzi compiere il Cammino di Santiago di Compostela» la precisazione di Vito.Ma Vito ha dimostrato grande maturità. Non si è mai rivestito di presunzione. Anzi, grazie alla

propria umiltà ha svolto i lavori più disparati per poter studiare e coltivare il sogno che aveva sinda bambino: quello di recitare.

Sara Attanasio - Grazia Maria Biasco - Gregorio Distratis - Sara Dostuni - Francesco Erario- Daniele Lecce - Evelyn Petrachi - Gabriela Ricci

Vito Mancini

L ’incontro con VitoMancini ci ha per-messo di comprendere

tanti aspetti del mondo tele-visivo e, più in generale, delmondo dello spettacolo.Aspetti positivi e anche tantis-simi aspetti negativi. Eccoqualche nostra riflessionesulla cosiddetta tv spazzaturae sulla determinazione di Vitodi affermarsi nel campo del-l’arte, abbandonando imme-diatamente l’etichetta, per certi versi appiccicosa, delconcorrente del Grande Fratello.TV SPAZZATURA - Sempre più frequentemente si

parla di tv spazzatura riferendosi ai reality o ad altriprogrammi di scarso valore culturale. Crediamo cheogni reality abbia un copione o comunque un cano-vaccio da seguire. Insomma servono solo a ottenereaudience, che è poi il fine ultimo di tanti programmi,nei quali si utilizzano tutti i mezzi possibili (anchequelli meno leciti) pur di tenere lo spettatore incollatoalla tvRETE INTERNET E NOTIZIE FALSE - Nel

corso dell’incontro con Vito Mancini ci ha colpitoprofondamente un particolare. Vito ci ha raccontatoche, durante il programma, nella rete misero in girodelle notizie false, che riguardavano il suo orienta-mento sessuale e quello di un suo amico molto cono-sciuto nel mondo dello spettacolo.

«Diffusero questa bufala mentre io ero nella casa delGrande Fratello: non potevo chiaramente intervenireper difendermi e per ribattere a queste falsità, che ioho poi appreso quando sono uscito fuori» ci ha rac-contato. «Perché lo hanno fatto? Non lo so. Forse percreare nuova attenzione verso il programma».

Ma la televisione è sempre lo specchio della verità?VITO MANCINI E IL TEATRO - Lasciato il

Grande Fratello, Vito Mancini sta trovando spazio nelmondo del teatro. Fra le sue esperienze più impor-tanti, la partecipazione al cast di “Dignità Autonome

di Prostituzione”. Inquesto spettacolo,molto coinvolgente emolto variegato, gliattori interpretato laparte dei “prostituti”dell’arte, mentre glispettatori sono iclienti, che scelgonoil prostituto o la pro-stituta di cui vo-gliono vedere laperformance, che

altro non è che un monologo dell’attore di turno.In questi ultimi mesi sta lavorando a numerosi altri

progetti.VITO MANCINI E IL FUTURO - Il futuro? Per

Vito Mancini è sognare, perché è grazie ai suoi sogniche trova la forza per andare avanti. Spesso i sognatorivengono considerati dei folli, perché non considere-rebbero la realtà, mentre, invece, la considerano piùdi qualunque altro. Secondo noi chi sogna è colui cheha la vista sull’infinito, è colui che non si fa condizio-nare, che combatte per ciò che non conosce. Un so-gnatore ha desideri, non necessità.

Come ci ha detto Vito, sognare significa anche sa-crificio, mettersi in discussione continuamente. DaVito abbiamo ricevuto una grande lezione di vita: ilfuturo non si vende, né si compra all’interno di unprogramma. Ma se ci rimbocchiamo le maniche, il fu-turo possiamo costruircelo. E di strade per realizzare inostri sogni ve ne sono tante…

«Crederci, sempre e comunque» ci ha detto Vito.«Crederci non è mai una banalità, non puoi pensareche sia sempre tutto dritto senza ostacoli ed è in quelmomento che la motivazione, l’obiettivo, il puntofanno la differenza. Crederci ed emozionarsi per ciòche si fa: l’emozione è la linfa vitale che aiuta ad an-dare avanti!».

Manila Andrisano - Martina CaragliaStefano Giorgino - Kuka FalconeMaria Francesca Perrucci - Oscar Pisello

Vito Mancini, dall’esperienzanel reality al mondo del teatro

La sua lezione di vita: il futuro lo si costruisce con il sacrificio

Vito Mancini con la redazione del giornale

I nsieme a Dario, abbiamo conosciutoanche Michele Biancofiore, altro validis-simo chitarrista. Entrambi fanno parte del“Dario Pinelli e The Italian Gypsy Trio”.Anche Michele ci ha raccontato la sua sto-ria, molto diversa da quella di Dario.

«Ho iniziato a suonare perché frequen-tavo la parrocchia insieme a mia sorella elei suonava la chitarra» ci haconfidato. «È stata lei a tra-smettermi la voglia di impa-rare a suonare questostrumento e ora eccomi qua».

Michele aveva un suogruppo. Poi ha conosciutoDario e si sono fusi. Da alloragirano il mondo insieme peri concerti e incidono vari la-vori che ottengono tanto suc-cesso.

Facendo una ricerca in rete,abbiamo appreso che DarioPinelli è considerato uno deimaggiori chitarristi acustici

contemporanei, tra i pochissimieuropei ad aver preso parte da pro-tagonista al Birdland Jazz Fest di New York .Diplomato in chitarra classica, all’età di 18anni vince la prestigiosa borsa di studio delJMI per gli Stati Uniti e si trasferisce a NewYork dove comincia lo studio della chitarrajazz, passando poi al jazz manouche e alloswing. Nel 2008 forma l’Italian Gypsy JazzTrio che rappresenta una delle realtà più im-

portanti dello swing statunitense. Il successoottenuto lo porta ad esibirsi al “Metropolitan”e successivamente al mitico “Birdland” di NewYork.

Nel 2011 è di nuovo in un tour mondiale conla nuova formazione, i BinarioSwing, e realizza62 “sold out” e oltre 200.000 biglietti venduti.La sua musica riporta l’attenzione su uno dei

capitoli più sugge-stivi del jazz delXX secolo, il jazzmanouche o gypsyjazz e sulla gloriosat r a d i z i o n eswing/canzonetti-stica popolareitalo-americanadegli anni ‘50.

Nello scorso au-tunno ha compo-sto un branodedicato ai terre-motati del centroItalia: tutti i dirittisono stati donatialle popolazioni di

quelle terre.Il gruppo Italian Gypsy Trio è composto da

Dario Pinelli, voce e chitarra solista, da Mi-chele Biancofiore, chitarra ritmica e cori, daMattia Di Francesco, basso elettrico e cori e daTeo Carriero, batteria e cori.

Evelyn Petrachi - Gabriella Ricci

Dall’oratorio al successo:ecco la carriera di Michele Biancofiore sino all’incontrocon Dario Pinelli e la nascita dell’attuale gruppo

Dario Pinelli è uno degli artisti più bravi cheManduria abbia mai espresso. E’ un chi-tarrista e con il suo gruppo si è esibito un

po’ in tutto il mondo: dagli Usa ai Paesi dell’estdell’Europa, un po’ ovunque, insomma, ottenendosempre e solo dei grandi successi. Lo abbiamo ospi-tato nella nostra scuola. È arrivato insieme ad unaltro chitarrista del suo gruppo: Michele Bianco-fiore. Entrambi fanno parte del gruppo denominato“Dario Pinelli e The Italian Gypsy Trio”.

All’inizio dell’incontro, abbiamo ammirato, attra-verso un video, una delle ultime cover registrate dalgruppo. Dario cantava e suonava ed è stato moltobravo nel gestire con estro la chitarra.

Poi lo abbiamo intervistato per cercare di capirecome sia nata e si sia sviluppata la sua passione perla musica. Ci ha raccontato di un amore nato du-rante l’infanzia, quando, insieme al suo papà, ascol-tava musica classica. Quindi ha frequentato un corsoper pianoforte per tre anni, che ha poi lasciato per-ché non riusciva a legare con la sua maestra. Inquella fase ha scelto di imparare a suonare la chi-tarra.

La cosa che mi ha sorpreso è che lui non ha fre-quentato il Conservatorio. Ci ha anche spiegato laragione.

«Nell’arte, ognuno deve essere libero di esprimereil proprio talento» ci ha detto. «L’arte non può essereingabbiata in schemi uguali per tutti».

Dario Pinelli ha partecipato a vari concorsi, ma lasvolta della sua carriera è avvenuta quando è partitoper gli Usa, Paese in cui ha studiato, perfezionandoil proprio talento.

La particolarità di Dario Pinelli è quella di inter-pretare la musica Manouche, l’unione fra l’anticatradizione musicale zingara del ceppo dei Manou-ches e il jazz americano, denominata anche gipsyjazz.

Dario è un bellissimo esempio per noi ragazzi. Egliè partito da una passione e l’ha saputa trasformare

in una vera e propria ambizione e, quindi, in un la-voro. Non c’è cosa più bella che praticare un lavoroche ti diverte, che ti piace fare e che fai con grandepassione. Forse, anzi sicuramente, non avverti il pesodel dovere. Sfondare in qualunque campo, riusciread avere successo nella vita non è sempre facile e nontutti ci riescono. Occorrono doti e intanto bisognapartire da una grande passione. Se manca quella,qualunque tentativopuò risultare inutile. Si-curamente ci voglionoimpegno e fatica e an-cora tanta tenacia e de-terminazione, perché,qualunque sia la stradache vogliamo intrapren-dere, essa avrà sempre ipropri ostacoli, che perònon ci devono demora-lizzare, ma ci devono sti-molare a fare sempremeglio e sempre di più.

Quindi è anche fonda-mentale avere “carat-tere” e un pizzico diautostima per superareanche gli inevitabili fal-limenti e le delusioniche ne deriveranno.

Certo c’è da dire che la passione non sempre cor-risponde alla bravura. Perciò, secondo me, se unonon riesce a offrire il massimo in quello che glipiace, ad un certo punto deve rendersene conto ecambiare strada, non ostinandosi a continuare atutti i costi. Questo è anche quello che Dario ci haconsigliato.

Alla fine dell’incontro, Dario (voce e chitarra soli-sta) e Michele (chitarra ritmica e cori) ci hanno de-liziato con una straordinaria performance.

Giacomo Perrucci

Noi giovani e la musica:l’incontro con Dario Pinelli e Michele Biancofiore

Dario Pinelli

Michele Biancofiore

Due eccezionali chitarristi che, con il lorogruppo, si esibiscono in tutto il mondo

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SOLIDARIETA’ E VOLONTARIATO20

Il clown dottore Frattak:un medico speciale che visita i piccoli pazienti usando uno stetoscopio perrice-trasmettere i pensieri e un metro per misurare la febbre...

S i chiama Alessandro Scarciglia. E’un militare della Guardia di Fi-nanza, che dedica tutto il proprio

tempo libero al prossimo. Si occupa, datantissimo tempo, di politica: riveste, perla terza consiliatura consecutiva, la caricadi vice sindaco del vicino comune di Ave-trana. Lo abbiamo invitato nella nostrascuola, però, per un altro suo impegno nelsociale: per diverse ore della settimana in-dossa i panni del clown dottore e, quandoha il naso rosso per far divertire i piccolipazienti degli ospedali, il suo nome d’arte

è “Dottor Frattak”.Lui ci ha parlato della clown terapia,

un’attività di supporto alla Medicina tra-dizionale. Non sostituisce le cure medi-che, ma le integra e le completa. Lamissione del Dottor Frattak è proprioquella di fornire un aiuto psicologico achi combatte contro la malattia, di donareamore gratuitamente e di far riscoprire lagioia di vivere con l’umorismo e il sorriso.

«Per svolgere quest’attività occorre moltapassione e la nostra più grande soddisfa-zione è quella di riuscire a far sorridere i

bambini, che, alla fine sono quelli che do-nano più emozioni» ci ha raccontato Ales-sandro Scarciglia.

Naturalmente per indossare un camicebianco e stare a contatto con i piccoli ri-coverati (ma a volte anche con gli anzianidelle case di riposo), bisogna frequentareun corso di preparazione, in cui si inse-gnano ai clown dottori le tecniche e so-prattutto gli approcci psicologici.

Quella della risata rappresenta il primopasso verso uno stato di ottimismo, checontribuisce a donare gioia di vivere e,quindi, fornisce un importante aiuto an-tidepressivo. Anche a livello scientificosono stati sperimentati i miglioramentiche la clown terapia fornisce ai piccoli pa-zienti.

Con magie e simpatiche improvvisa-zioni, il dottor Frattak, insomma, riesceinoltre a far evadere i pazienti dalla realtàgrigia e dolorosa dell’ospedale, disto-gliendo l’attenzione dalla loro sofferenzae dalle terapie alle quali sono sottoposti,senza per questo ostacolarle o sminuirle.

Sara Attanasio - Giulia BarbieriGiorgio Comes - Valentina GuiderdoneAlessandra Marino

Il clown dottore Frattak con due redattori del nostro giornale

L a capacità di cogliere sempregli aspetti positivi della vitaanche nella disgrazia è un re-

quisito fondamentale per superarepiù facilmente le situazioni difficili,anche di salute. Io ho avuto modo disperimentare l’incisività della terapiadel sorriso.

Vorrei raccontare una storia dellamia famiglia e, più in particolare dimia nonna. Maria Neve è una nonnameravigliosa, che, nonostante le gravicondizioni di mio nonno, non si èmai data per vinta: non ha mai mol-lato di fronte alle difficoltà. Miononno, a causa della sua malattia,aveva perso la capacità di muoversiautonomamente. Mia nonna, per-tanto, lo assisteva tutti i giorni e tuttele notti pazientemente: lo aiutavaquando doveva ingerire il cibo o lemedicine, è stata indispensabile permetterlo a letto o per alzarlo al mat-tino. Ha continuato ad assisterlo sinoalla morte, giorno dopo giorno, in-stancabilmente e quasi sempre total-mente da sola, sino alla morte.

Spesso mi chiedevo come facesse anon arrendersi, a non mostrarsi maidebole e a sorridere sempre. La rispo-sta è proprio in questo: il suo sorriso.

È grazie ad esso che è riuscita a supe-rare qualsiasi problema con tantaforza e tanto coraggio. Se non fossestato per quel semplice sorriso e peril suo buonumore si sarebbe arresa enon ce l’avrebbe fatta ad affrontare lamalattia del nonno.

Tante volte mi capita di fermarmi aparlare con nonna Maria Neve. Mipiace molto stare con lei, mi fa sentirepiù allegro, mi fa sentire più felice emi sembra, con i suoi incoraggia-menti, di riuscire a superare tutte lemie paure e i miei dubbi. Insomma ilsuo buon umore mi contagia.

Più volte le chiedo come faccia anon abbattersi mai. Lei mi rispondeche nella vita ha superato tanti bruttimomenti e che, in realtà, la malattiadel nonno è stata una delle tante coseche le sono successe e che avrebbe do-vuto arrendersi già all’età di cinqueanni, quando la sua mamma morì elei fu affidata ad un’altra famiglia.

Ha scelto di vivere affrontando ledifficoltà con il sorriso sulle labbra eha scelto come motto della sua vitauna frase di Charlie Chaplin: “Ungiorno senza sorriso è un giornoperso”.

Giacomo Perrucci

L’incisività della terapia delsorriso già sperimentata con

successo da nonna Maria Neve

O rgogliosi! Orgogliosissimi!Questa è la risposta chediamo a chi ci chiede cosa ab-

biamo provato in quanto vincitori del-l’ambito riconoscimento “San GregorioMagno”.

È la prima volta che audaci e intra-prendenti giornalisti in erba entrano afar parte dell’eccellenza di Manduria.Siamo orgogliosi perché grazie all’aiutodelle nostre insegnanti siamo riusciti adaffrontare temi “scottanti” che amma-lano la nostra società, con la speranzadi riuscire a cambiare, a scuotere glianimi, a lasciare il segno...

Noi crediamo di esserci riusciti!

Emanuele Perrucci e gli altri redattori delle terze medie dello scorso anno

Il “Prudenzano Magazine” insignito dell’ambito “Premio San Gregorio Magno”È il riconoscimento per i manduriani che si sono distinti per l’impegno e i risultati

Foto di gruppo col Dottor Frattak

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Direttore responsabile: Nando Perrone.Docenti referenti: Stefania Maiorano, Alessia Mazza e Alessandra Urbano.Redazione:Manila Andrisano, Sara Attanasio, Valentina Attanasio, Giulia Barbieri, Miryam Bianco,Maria Grazia Biasco, Martina Caraglia, Ester Coluccia, Giorgio Comes, Chiara Dimagli, GregorioDistratis, Paula Dobrea, Sara Dostuni, Francesca Elefante, Francesco Erario, Kuka Falcone, Anita Fer-rara, Stefano Giorgino, Carlotta Giulio, Valentina Guiderdone, Daniele Lecce, Alessandra Marino,Francesca Mero, Maria Francesca Perrucci, Giacomo Perrucci, Evelyn Petrachi, Ilaria Piccione, FedericoPichierri, Oscar Pisello, Ginevra Prudenzano, Lorenzo Prudenzano, Gabriella Ricci, Sofia Valente.Tipografia: Locopress - Latiano

La nostra redazione con il Dj Marco Guacci nella sede di Radio Norba

F ra le attività svoltenell’ambito del la-boratorio di gior-

nalismo dell’attuale annoscolastico, segnaliamoanche la visita alle sedi diRadio Norba e TeleNorba, che ci ha consen-tito di conoscere una dellerealtà radio-televisive piùimportanti del centro edel sud Italia. Visita orga-nizzata grazie alla disponi-bilità e alla gentilezza deld.j. Marco Guacci.

La nostra redazione in visita aRadio Norba e Tele Norba

Grazie a Marco Guacci, abbiamo conosciutouna delle più belle realtà del sud