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Federica Gavotti e Paolo Biscottini

Fiorella Minervino

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Federica Gavotti e Paolo Biscottini dialogano con Fiorella Minervino

Conferenza presso la Sala di consultazione, 9 aprile 2014

FG – Federica Gavotti

PB – Paolo Biscottini

FM – Fiorella Minervino

MP – Marcella Pralormo

P – Intervento del pubblico

MP – Buonasera. Oggi trattiamo una collezione molto interessante, quella di Antonio

Sozzani, noto per essere stato un personaggio chiave della finanza milanese e del

mondo delle banche, ma lo affronteremo dal punto di vista più intimo, quello della

sua passione per i disegni. La sua collezione è entrata a far parte del Museo

Diocesano di Milano, poiché il collezionista ha scelto di mantenerla integra e donarla

interamente a questo ente. Collezionare disegni significa seguire il percorso mentale

degli artisti, il disegno è la prima idea che il genio creativo esprime, rappresenta il

percorso che porta alla definizione dell’opera. Collezionare disegni vuol dire

ripercorrere il pensiero di ciascun artista. Quello che è eccezionale in questa

collezione è il gusto eclettico che la caratterizza; Sozzani non si è concentrato su un

artista in particolare, su una scuola o su un paese. Ci sono disegni italiani, disegni

francesi, disegni collocabili in un arco temporale che va dal Cinquecento al

Novecento, da Raffaello a Fontana. L’aspetto interessante è che questa collezione,

diversamente da ciò che normalmente accade, non è conservata in album o protetta

in casseforti. Non c’è timore di rovinarla, di esporla alla luce, i disegni sono appesi

alle pareti con splendide cornici come fossero quadri. Sozzani ha seguito questa

passione anche grazie al sostegno di un grande storico e critico d’arte, Giovanni

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Testori.1 Testori diceva sempre che la sua biblioteca era appesa alle pareti, frase che

si può benissimo applicare anche alla collezione Sozzani. Sembra quasi, vedendo i

disegni, che il collezionista li volesse guardare e studiare cercando spunti. Stasera

parlerà con noi di questa collezione Federica Gavotti Percival Mazza che è stata la

compagna di Antonio Sozzani per gli ultimi quindici anni della sua vita. L’ha

conosciuto intimamente e ci saprà raccontare nel dettaglio la sua passione per il

disegno. Il secondo ospite è Paolo Biscottini, che ha conosciuto Sozzani e ha seguito

la vicenda della donazione della collezione al Museo. Ci parlerà anche

dell’allestimento a quadreria in cui tutti i disegni sono esposti uno accanto all’altro,

proprio come se si entrasse nella casa del collezionista. La terza voce di stasera è

Fiorella Minervino, nota firma della Stampa.

FM – Tonino Sozzani è stato un valido esempio di collezionista. Era banchiere e ha

saputo coniugare la finanza con l’amore per l’arte e la bellezza nel periodo di

massima ascesa dell’imprenditoria lombarda: gli anni ’60. Era un esteta raffinato,

dotato di grande gusto, che è riuscito a dedicare la vita alle sue passioni, appunto la

finanza e l’arte, con ottimi risultati in entrambe. Tonino aveva stabilito

minuziosamente i dettagli di come voleva la collezione e nella scelta delle opere

seguiva i consigli di Giovanni Testori. Testori me ne ha sempre parlato, anche prima

di conoscerlo personalmente diceva: «È un grande collezionista che capisce

veramente il potere del disegno». E non è così facile trovare collezionisti interessati

ai disegni. Vorrei che Federica stasera raccontasse l’uomo Sozzani, mentre con il

dottor Biscottini parleremo del collezionista. Federica, ti chiederei di raccontarci la

vita di Antonio, la quotidianità, la passione che ha preso il via da un disegno ricevuto

in eredità da padre.

FG – Tonino ha avuto una vita ricca di esperienze e ha sempre cercato di approfittare

di ogni opportunità che gli si presentava. Ha viaggiato, ha girato moltissimo e

ovunque ha preso e mantenuto contatti. Quando suo padre morì, tra le cose che gli

arrivarono in eredità c’era una cartelletta contenente alcuni disegni. Tonino non

sapeva che farsene, fino a che non parlò con Giovanni Testori che gli disse:

«Potrebbe essere interessantissimo. Adesso si possono trovare facilmente altri

1 Giovanni Testori (Novate Milanese, 1923 – Milano, 1993) è stato uno scrittore, drammaturgo, storico dell’arte

e critico letterario italiano.

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disegni, potresti iniziare una collezione». Così nacque l’interesse non solo per i

disegni ma anche per i dipinti: cominciò comprando un disegno, poi un altro, ne

vendeva uno per prenderne altri due e così via. Man mano che la sua raccolta si

arricchiva Sozzani iniziò a domandarsi che senso avesse tenerli chiusi in un cassetto.

Nessun divertimento, nessuna gioia. Un giorno capitò nel negozio di un antiquario

che stava chiudendo e che doveva vendere in velocità trecento cornici. Nonostante

inizialmente non ne fosse convinto, si decise infine per comprarle tutte, seguendo

forse la sua indole di banchiere che accumula. A eccezione di qualche cornice falsa,

qualcuna brutta e qualcuna rotta, alla fine ognuna trovò la sua collocazione, una per

ogni disegno. Non restava altro da fare che appendere le opere ai muri. Nel frattempo

Tonino aveva affittato un grande appartamento a Roma con ampi saloni. Tra i disegni

ce n’erano di talmente belli che gli sembrava un peccato lasciarli in quella città;

decise quindi di appenderne alcuni in camera da letto nella casa di Milano, altri li

portò in ufficio e quelli dal tratto un po’ più spesso e marcato, che non si sarebbero

rovinati col sole, li appese in barca. Quando iniziammo la nostra storia mi portò a

Roma e davanti al salone di disegni mi disse: «Scegline uno. È il mio anello di

fidanzamento». Venimmo via da Roma con il disegno sotto braccio e quando giunse il

momento di ricomporre e riunire tutta la collezione anche quel disegno arrivò al

Museo Diocesano, assieme a tutti gli altri.

FM – Antonio ha mai stabilito la “fine” della collezione?

FG – Non c’era nessuna fine. La collezione è una fotografia dell’individuo, della

persona del collezionista: ci sono i disegni comprati agli esordi, quelli acquistati in

seguito, quelli che lo convinsero solo a un dato momento e quelli che non lo

convinsero mai, quelli che invece iniziò ad apprezzare col passare del tempo. Negli

ultimi anni la sua ossessione era: «Mi manca terribilmente qualcosa di Picasso»,

mentre prima a Picasso non ci pensava nemmeno. Voleva un Picasso allegro,

colorato. Ricordo che per questa sua fissazione aveva intenzione di vendere un altro

quadro, ma morì prima di concludere l’affare e così la storia finì lì.

FM – È stato amico di qualche artista del Novecento che poi ha inserito in collezione.

Conosceva Balthus per esempio.

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FG – Su Balthus c’è un aneddoto divertente. Una sua nipote vendeva quattro disegni

dell’artista, fra cui quello di una ragazzina mollemente seduta su una poltrona;

Tonino, da buon banchiere, prima di fare un investimento voleva essere sicuro del

valore della merce e cercò dunque di contattare Testori che però era irreperibile.

Tornò il giorno seguente dalla nipote di Balthus ma le era rimasto uno solo dei

quattro quadri, Tonino si dovette accontentare di quello. Balthus poi gli scrisse sul

retro “C’est moi” tre volte, per garantirgli che fosse autentico. Conosceva anche

Guttuso.

FM – Sutherland non l’ha mai conosciuto? Se non sbaglio abitava vicino a voi.

FG – No, Sutherland non l’ha conosciuto purtroppo. Conosceva Giacometti, ma non

ha mai comprato suoi disegni.

PB – Ci sono i candelieri di Giacometti.

FG – Si, i due candelieri, ma niente disegni.

FM – Paolo, che rapporto avevi tu con Tonino Sozzani? Gli davi consigli, come Gianni

Testori? E che cosa riflette questa collezione così ampia? Sono cento disegni che

partono dal Cinquecento e arrivano alla fine del Novecento, una raccolta molto varia.

Che personalità riflette?

PB – Stavo cercando di ricostruire quando ho incontrato Tonino Sozzani per la prima

volta ma non riesco a dirlo con precisione. L’ho conosciuto negli ultimi anni della sua

vita, non proprio quando stava male, ma sicuramente nel periodo in cui iniziava a

stancarsi del lavoro. Aveva raccolto quasi tutti i disegni nella casa di via Bigli a

Milano, il mio primo ricordo di lui è collegato proprio alla sua collezione. Dopo averlo

conosciuto, mi invitò da lui e la prima cosa di cui mi parlò furono i suoi dipinti e

disegni. Aveva bisogno di un consiglio legato alla questione di un quadro, un

Courbet, che gli era stato chiesto in prestito. Tonino era incerto se prestarlo o meno e

in quell’occasione ci siamo conosciuti, io in qualità di storico dell’arte e lui di

collezionista. Lentamente però scoprii che il collezionista e l’uomo sostanzialmente

coincidevano e siamo diventati amici parlando dei suoi dipinti.

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Antonio era un uomo molto intelligente e soprattutto curioso, aveva sempre bisogno

di sapere, voglia di conoscere, di capire, di osservare. Era un uomo con gli occhi

spalancati sul mondo che aveva molto vissuto e guardato. La sua vita era stata

intensa e fino all’ultimo era riuscito a mantenere uno spirito giovane e fresco e

questa giovinezza si esprimeva nella sua sete di sapere, nella voglia di capire, nel

bisogno di osservare il mondo. Credo che avrebbe sofferto molto se avesse avuto

problemi agli occhi, fortunatamente non ne ebbe mai, e fino alla fine poté apprezzare

e cogliere la profonda bellezza che è nelle cose, nella realtà, nelle storie e

naturalmente nell’arte. La ricerca della bellezza è il filo conduttore di tutte le

collezioni ma definirla è difficile. Certamente anche per Tonino era qualcosa di

indefinibile, lui però riusciva a sentirla.

Quando salivamo lungo lo scalone, per andare nella sala da pranzo al piano

superiore, mi mostrava ogni volta un disegno diverso e iniziava a raccontare. Non gli

interessava tanto ripercorrere la storia del disegno, qualche volta magari poteva

accennarla: «Questo l’ho preso… Questo mi è stato consigliato in un’occasione…

Questo l’ho visto…». Ciò che gli premeva davvero era entrare dentro al disegno e

raccontare quello che lui vedeva. C’erano alcuni disegni che amava in modo

particolare.

FM – Quali sono i punti di forza della collezione? Da Cairo2 a Courbet…

PB – La collezione ha molti di punti di forza. Innanzitutto è considerevole per

consistenza e credo che Tonino ne fosse consapevole. Quando abbiamo ricevuto

questa donazione alla sua morte abbiamo fatto un lungo lavoro, perché non

potevamo esporre la collezione così com’era. Fu necessario intraprendere operazioni

di restauro dei singoli fogli e delle cornici, alcune delle quali molto delicate e

preziose.

FM – Per non parlare del lavoro di riattribuzione.

2 Francesco Cairo (Milano, 1607 – Milano, 1665) è stato un pittore italiano anche conosciuto come “Cavalier

Cairo” per aver ricevuto la medaglia dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro a Torino, per merito della propria

arte.

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PB – La riattribuzione è stata fatta una volta terminato il restauro dei fogli, che è

durato parecchio. I disegni provenivano dal mercato e Antonio li aveva fatti

incorniciare ma non si era preoccupato di intervenire per restituirgli l’aspetto

originario, togliendo tutto ciò che i vari passaggi di proprietà o che gli antiquari

stessi avevano aggiunto e modificato. Nei musei questo procedimento è obbligatorio

e serve a restituire al foglio l’aspetto il più possibile simile alla versione originale. Poi

sono stati fatti lavori di pulizia e disinfestazione e soprattutto di conservazione;

insomma quello che bisogna fare per riportare l’opera allo stato migliore e proiettarla

nel futuro.

FM – Quali sono secondo te i capolavori della collezione?

PB – Quando si sono conclusi i lavori di restauro è iniziato lo studio dei singoli fogli.

Tanto è vero che abbiamo inaugurato questa collezione solo recentemente, ci sono

stati anni di lavoro prima di poterla esporre. Parlando di punti di forza partirei

dall’opera di maggiore valore economico, si tratta di un autoritratto di Van Gogh,

anche se non siamo ancora del tutto certi che l’attribuzione sia corretta. È una delle

poche cose di cui non abbiamo ancora conferma, ma abbiamo validi elementi per

avanzare l’ipotesi. Era stato attribuito a Van Gogh da Testori, io stesso l’ho studiato a

lungo e convengo con la sua deduzione. Ovviamente per ufficializzare l’attribuzione è

necessario trovare conferme basate su prove concrete, ricerca che per quanto

riguarda i disegni può rivelarsi molto ostica. Alcuni disegni sono firmati, abbiamo un

Gauguin, un Renoir, un Pizarro. Ne abbiamo parecchi dell’Ottocento, sono un

patrimonio prezioso anche perché si ricollegano ai rispettivi dipinti, dei quali

costituiscono la traccia di partenza.

FM – C’è un Delacroix notevole, per esempio.

PB – Delacroix, David, Gericault. C’è un disegno preparatorio della Zattera della

medusa, un disegno di grandissimo valore e interesse. I disegni dell’Ottocento

francese erano molto amati da Tonino perché c’erano continui rimandi alla collezione

di dipinti. La parte databile a partire dalla fine del Quattrocento invece percorre le

diverse scuole regionali, dalla Lombardia fino al Centro Italia. Cito alcuni disegni che

secondo me sono particolarmente degni di nota: due di Raffaello molto importanti,

un meraviglioso Carracci e il Cairo che hai nominato precedentemente.

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Nella raccolta si percepisce chiaramente la presenza di Testori. Non lo conoscevo

personalmente, sono entrato in contatto con Tonino che Testori era già morto e

quindi non ho mai potuto confrontarmi con entrambi sulla collezione. Però se si sente

l’impronta di Testori ugualmente si sente l’impronta del collezionista, c’era un vivace

dialogo tra i due, Testori non imponeva mai le sue scelte.

FM – Testori suggeriva.

PB – Lui suggeriva e poi Tonino sceglieva.

FM – Volevo sapere da Federica quali disegni amava di più e perché la scelta

dell’esposizione della collezione è ricaduta sul Museo Diocesano tra i tanti musei

milanesi.

FG – Tra i fogli che amava di più c’era senz’altro la Mentonnaise di Cocteau che

abbiamo preso insieme a Villefranche.3

FM – Villefranche è un borgo vicino alla vostra casa che Antonio amava molto.

FG – Un altro disegno che gli piaceva era una Maternelle di Degas, una donna con in

braccio il bambino. Lo teneva appeso in camera, non proprio sopra il letto ma appena

spostato verso il comodino. Poi sopra il tavolo, di fianco alla sua poltrona, aveva un

acquarello di Gauguin, quella donna con il foulard in testa stava sempre sotto ai suoi

occhi. In assoluto credo che questi fossero i preferiti.

FM – Il Diocesano è un museo importante, non so se tutti i musei diocesani siano

altrettanto belli e rilevanti come quello di Milano. Vorrei sapere come mai scelse

proprio questo tra tanti.

FG – È stata una questione abbastanza dibattuta, lui come residente monegasco

diceva sempre: «Sono grato a Monaco che mi ha dato certe possibilità». Poi ci

guardavamo e ci dicevamo: «Parliamoci chiaro, noi siamo milanesi di fatto. Tu sei a

3 Villefranche-sur-Mer è una località della Costa Azzurra.

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Monaco perché a Milano hai fatto qualche cosa». Milano era la sua casa principale,

non l’avrebbe mai “tradita”. E quindi l’idea era di lasciare la collezione a Milano come

ringraziamento per le opportunità che questa città gli aveva dato. Poi c’è da dire che

Tonino era un uomo un po’ all’antica, faceva parte di quelle persone che dicevano «è

il mio Paese, devo dare un contributo». Fu con questo spirito che decise di lasciare

qualcosa di suo alla città che gli aveva dato molto.

FM – Ma perché proprio il Diocesano? Perché non alla Pinacoteca di Brera per

esempio?

FG – Il Diocesano aveva un grande vantaggio, prima di tutto la figura di Paolo

Biscottini, con il quale è poi nata una vera amicizia. La presenza di Paolo era una

garanzia, rappresentativa del modo di pensare e agire del museo stesso.

FM – Quindi non fu per una questione religiosa.

FG – No, assolutamente. In secondo luogo era accaduto che il professor Alberto

Crespi, famoso penalista al quale Tonino faceva spesso riferimento per le questioni

legali, aveva da poco lasciato la sua collezione di fondi oro al Museo Diocesano. Era

una collezione splendida. Quindi il fatto che la scelta del professor Crespi fosse

ricaduta sul Diocesano fece propendere Antonio a favore di quest’ultimo. Altro

aspetto da non sottovalutare: il Museo Diocesano ha dei locali bellissimi come i

chiostri di Sant’Eustorgio che un tempo costituivano il convento dei Domenicani e

che furono purtroppo danneggiati durante i bombardamenti della Seconda guerra

mondiale. Sant’Eustorgio fra l’altro è una delle basiliche più belle di Milano.

PB – C’è anche un altro motivo. Tonino era certo che il Museo Diocesano non avrebbe

mai disatteso le indicazioni che lui aveva dato, così come aveva fatto con la

Collezione Crespi dei fondi oro che hai appena citato. Le indicazioni di Crespi erano

state precisissime e addirittura il professore aveva seguito personalmente i lavori di

allestimento. Antonio era certo che il museo avrebbe esaudito le sue richieste. Ne

abbiamo parlato a lungo e io mi sono sentito vincolato, la collezione mi convinceva e

ho insistito per esporre i disegni. In genere, come giustamente faceva notare la

direttrice della Pinacoteca, i disegni non si espongono, soprattutto non nei musei, li

si trova eventualmente nelle mostre temporanee. Il motivo per cui si tende a non

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esporli è che si sciupano, sono soggetti a un degrado rapido dovuto alla fragilità del

supporto. Il museo ha lavorato per creare le condizioni adatte alla conservazione dei

disegni: è come se fossero custoditi in un cassetto o in un album. Sozzani sapeva che

l’avremmo fatto. Credo che questo sia il vero motivo, la garanzia che io potevo dargli

rispetto ad altri.

FM – È curiosa però questa tendenza dei collezionisti a pensare al futuro della loro

collezione. Consacrano tutta la loro vita a raccogliere oggetti e pensano a come

renderli fruibili ai posteri. Anche il solo fatto di lasciare l’intera raccolta a un museo

trovo che sia straordinario.

PB – La collezione è un intero. È un’opera sola. È un’opera d’arte.

FM – È un’opera d’arte essa stessa.

PB – Se il collezionista è un vero collezionista e non compra solo per speculare, la

collezione non si può smembrare. Un collezionista che cerca di raggiungere la

bellezza che sogna, il mondo che gli sta più a cuore e che l’arte riesce a esprimere,

non potrà separarsi mai dalla sua raccolta. E al contempo non riesce a immaginare,

contemplando il momento della propria dipartita, che la collezione vada dispersa. Per

questo motivo i collezionisti creano fondazioni che conservino le opere, oppure si

affidano ai musei. In un modo o nell’altro l’integrità della collezione deve essere

preservata.

FM – Raccontaci che cosa offre il Museo Diocesano.

PB – Il Diocesano è un museo di collezioni. Mi piace dirlo trovandomi a Torino perché

c’è un legame particolare con questa città. Il museo nacque per volontà del cardinale

Martini, che quando era arcivescovo di Milano decise che in città doveva esserci un

museo diocesano. Altre città già lo avevano, Milano non ancora. Il cardinale Martini

stabilì alcune condizioni: il direttore doveva essere un laico, così come tutto il resto

del personale. Si rivolse a me, che all’epoca ero direttore dei Musei Civici e non avrei

mai immaginato di lasciarli per passare ad altro. Considerando che la proposta

veniva da una persona del calibro del cardinale Martini la presi seriamente in

considerazione. Il cardinale mi convinse ad accettare l’offerta e io gli chiesi: «Cosa

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contiene ora questo museo, e che cosa conterrà?», lui rispose: «Innanzitutto le

collezioni arcivescovili». Si tratta di collezioni preziosissime, donate al Museo dallo

stesso Martini, che spogliò il Palazzo arcivescovile di tutte le opere che conteneva,

perché fossero destinate al pubblico godimento. Mi piace riportare questi fatti

perché Martini era torinese e ricordarlo oggi a Torino è un omaggio a un grande

personaggio. Il Museo nacque quindi con le collezioni arcivescovili donate dal

cardinale, alle quali si aggregò presto la collezione del professor Crespi, a sua volta

seguita dai frutti della ricerca che io e i miei collaboratori abbiamo condotto per

reperire tutte le importantissime opere del patrimonio della chiesa Ambrosiana che

non venivano valorizzate a dovere. Non erano particolarmente care ai devoti e

potevano dunque essere prelevate, bisognava salvarle e conservarle. È stato un

grande lavoro di ricerca che ha determinato l’assetto di partenza del Museo

Diocesano.

FM – Nella collezione di Sozzani compare anche un Fontana...

PB – I Fontana rientrano fra le acquisizioni, li abbiamo acquistati quando ancora si

poteva. Oggi non riusciamo a trovare i soldi neanche per le piccole cose. È un’epoca

di grande crisi e fatica per tutti i musei, mentre fino a qualche tempo fa si poteva

contare su fondi che garantivano potere d’acquisto. Per esempio abbiamo comprato

la Via Crucis di Fontana, un’opera stupenda che ci hanno chiesto in prestito per una

mostra a Parigi, purtroppo è molto delicata e non abbiamo potuto concederla.

FM – Oltre che bella è anche rappresentativa del momento di passaggio tra Barocco

e il gesto del ‘‘Taglio’’.

PB – Nei medesimi anni in cui realizzò la Via Crucis lavorò anche sul “Taglio”, è una

collezione che cresce. Naturalmente in quest’opera si percepisce il senso del sacro

ma io, da laico, ci tengo sempre a precisare che nell’arte è difficile fare distinzioni

nette. Si può parlare di religiosità, ma la sacralità dell’arte è la sua capacità

intrinseca di esprimere la grandezza dell’uomo, l’ineffabile che l’uomo racchiude in

sé. Io ero assolutamente d’accordo con il cardinal Martini nel dare questa impronta al

Museo e anche Tonino era dello stesso parere: lui non seguiva un credo religioso ma

certamente sentiva la sacralità insita nella bellezza delle sue opere.

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FM – Antonio per esporre la collezione al Diocesano ha scelto una sala che ricorda un

raffinato salotto. Vorrei chiedere a Federica se ci può raccontare come erano le sue

case e quanto contavano per lui.

FG – Tonino fondamentalmente era un esteta. Per lui la casa era estremamente

importante, non era solo un rifugio, ma anche il posto dove amava incontrare e

accogliere gli amici. Diceva che il lusso più grande per lui era poter mantenere un

cuoco e un cameriere, per la gioia di ricevere a casa gli ospiti. Tutto doveva essere

perfetto, lui stesso era sempre impeccabile. Non si poteva spostare neppure un

posacenere, tutto era studiato meticolosamente, con armonia di colori e di forme,

ogni cosa disposta in base a comodità e priorità di utilizzo. A Roma, negli anni

sessanta, abitava nell’appartamento con la sala dei disegni a cui abbiamo accennato

prima, era situato in un grande palazzo a cui si accedeva da uno scalone e nel cortile

si ergeva una fontana che zampillava producendo un suono molto piacevole che si

sentiva tenendo le finestre aperte. Era un appartamento demodé ma ricco di fascino,

un po’ felliniano, tipico della Roma di quell’epoca. Là dentro i disegni stavano a

meraviglia e così anche tutti i mobili. C’era poi l’appartamento di via Bigli a Milano,

disposto su più piani, con giardino e piscina e anche lì non c’era nemmeno un fiore

fuori posto. Persino i colori dovevano essere sempre quelli: fiori bianchi, in casa

sempre fiori bianchi.

FM – Una vita un po’ faticosa per te, o sbaglio?

FG – Questione di abitudine ed esercizio. I primi tempi che ci frequentavamo capitò

un paio di volte che mi rispedisse a casa perché mi ero presentata all’appuntamento

agghindata in un modo che non gli piaceva. Al terzo appuntamento avevo capito

l’antifona: in ogni cosa ci doveva essere armonia, a partire dalla macchina, gli sono

sempre piaciute le belle macchine, ai vestiti naturalmente e all’arredamento.

Tonino Conobbe Gae Aulenti4 molti anni fa, quando era ancora agli esordi. Era a

Parigi, e passeggiando passò davanti al negozio dell’Olivetti. Entrò e notò quanto il

negozio fosse bello, non tanto per le macchine da scrivere ma per com’era

strutturato. Chiese del direttore del negozio e si fece dire il nome dell’architetto che

4 Gaetana “Gae” Aulenti (Palazzolo dello Stella, 1927 – Milano, 2012) è stata un’architetto e designer italiana,

particolarmente dedita al tema dell’allestimento e del restauro architettonico.

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l’aveva progettato: una certa Gae Aulenti. Si annotò il nome, tornò a Milano e

telefonò a Testori chiedendogli se la conoscesse. Testori rispose: «Si, ed è una che

ha un futuro». Così, quando Tonino decise di prendere un piccolo appartamento a

Milano in via dei Bossi, propose a Testori: «Chiama questa Gae Aulenti e vediamo

cosa fa». Erano i primi anni settanta, l’architetto progettò la ristrutturazione

dell’appartamento e aggiunse un’altana sopra al tetto. Modernissimo. Gli ospiti che

entravano sostenevano di sentirsi dentro un ospedale, ma un ospedale rallegrato da

canapè e da un’infinità di quadri.

FM – Gae Aulenti era molto fiera della sua struttura.

FG – Fu la prima casa che Gae gli fece. Poi Tonino traslocò in via Bigli ma là la

struttura era un vecchio edificio del Seicento che non si prestava a grandi modifiche.

FM – Però aveva piscina e giardino.

FG – Sì, e dal giardino si vedeva il salotto con le lampade della Aulenti. Li è dovuto

scendere a compromessi a causa dei mobili che c’erano, per esempio lo scalone e i

muri li aveva fatti Mongiardino5 e la stessa Aulenti sosteneva che fosse meglio

tenerli, anche se non era assolutamente il suo stile. La casa al mare invece era di una

modernità strepitosa. L’ha progettata Niemeyer ed è stata arredata come uno

showroom

, bianca, minimal, con i disegni semplicemente appoggiati su delle panche laterali

del salone. Io temevo che i miei cani prima o poi avrebbero rotto qualcosa

aggirandosi per la sala scodinzolando ma fortunatamente non fecero mai danni.

Tonino si portava i disegni anche in barca. Uno l’aveva appeso nella sua cabina: lo

Scialoja bianco e celeste. Invece nel salotto della barca c’era un Lipchitz, di un bel

carboncino resistente, che non si sarebbe rovinato. Cercavamo di evitare che il sole

battesse proprio sui disegni, però stare così attenti era difficile, non si può

pretendere che tutto sopravviva per sempre. Il bello di questi disegni è anche avere

la possibilità di goderseli.

5 Lorenzo (Renzo) Mongiardino (Genova, 1916 – Milano, 1998) è stato un architetto e scenografo italiano. È

stata una delle personalità più singolari della cultura italiana del secondo dopoguerra. Ha ricevuto due

nomination al Premio Oscar per categoria Migliore Scenografia.

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FM – Volevo sapere un’altra cosa da Paolo. Questi disegni puoi prestarli per mostre o

puoi allestirne tu stesso? Dalle indicazioni testamentarie si evince che la collezione

deve essere sempre mantenuta fissa o che è possibile muoverla e usare le opere?

PB – La collezione rimarrà così ma non ho vincoli specifici in questo senso. Le opere

possono essere chieste in prestito in occasione di mostre e di volta in volta

valuteremo la situazione, tenendo in considerazione il valore della mostra, la serietà,

il rigore, se veramente quel disegno è necessario o meno.

FM – Con quali musei avete più rapporti a livello internazionale?

PB – Principalmente con i musei francesi, inglesi e tedeschi. Abbiamo avuto felici

collaborazioni con alcuni musei americani, non a New York, dove naturalmente è più

difficile, anche se il Metropolitan ci ha prestato opere per alcune delle mostre che

abbiamo organizzato. Proprio l’anno scorso ne abbiamo allestita una dedicata a

Costantino6 con opere che venivano da tutto il mondo, anche da New York, dal MET o

dal British di Londra. I rapporti più difficili sono con i musei italiani, con i musei

all’estero ci si muove meglio. È una questione di accordi.

FM – Gli ostacoli maggiori si incontrano con i musei milanesi, che fanno fatica a

mettersi d’accordo con gli altri. È un dramma.

PB – Il rapporto con i musei milanesi è davvero difficilissimo. Manca un progetto

comune e questo è un problema molto italiano che forse non è il caso di affrontare

oggi. Un sogno che ho da tempo è quello di organizzare una mostra legata a opere

che possediamo. La risoluzione di alcuni problemi attributivi, per esempio citavo

prima quello del ritratto di Van Gogh, può avvenire solo se ci dedichiamo

esclusivamente a questo tema e riusciamo, per esempio, a realizzare una mostra di

tutti i disegni autoritratti di Van Gogh. Nella fattispecie secondo me quello è un

disegno realizzato poco prima del taglio dell’orecchio, è il periodo in cui Van Gogh si

guarda, si osserva, è un periodo di grande sofferenza e l’autoritratto riflette il

6 La mostra “Costantino 313 d.C.” tenutasi al Museo Diocesano di Milano dal 25 ottobre 2012 al 24 marzo

2014 celebrava proprio l’anniversario dell’emanazione nel 313 d.C. dell’Editto di Milano, da parte

dell’imperatore Costantino.

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desiderio di ritirarsi in solitudine. Credo si potrebbe pensare a una mostra su questo

tema. Certamente per progetti del genere è necessario avere i fondi, e questo

purtroppo è un momento molto difficile.

FM – Hai mai pensato di allestire una mostra con le opere e i rispettivi disegni che le

hanno ispirate?

PB – Sì, questo è già stato fatto per altre cose che sono nel museo, sarebbe

bellissimo ripetere l’esperienza, tuttavia molti disegni sono legati ad affreschi, opere

che non si possono muovere. Qualcosa certamente si farà. La collezione è appena

stata aperta al pubblico e dobbiamo cercare di farla conoscere, molti ne hanno scritto

e continuano a scriverne, non c’è giorno che non esca un articolo di rassegna stampa.

FM – Ha avuto un grane successo. Quanti visitatori avete contato finora?

PB – Parecchi. I primi tempi arrivavano prevalentemente persone che avevano

conosciuto Tonino, un pubblico in un certo senso “scontato”, senza dubbio

importante ma scontato. Poi via via la collezione ha incuriosito sempre più persone,

anche perché non esistono altre collezioni di disegni a Milano, questa è l’unica. Una

presenza molto forte sono le scuole, i licei artistici. Il disegno costituisce il progetto

dell’opera, raccontare il disegno significa raccontare come un artista ha raccolto le

idee e le ha condensate nel suo progetto grafico, pensando già all’opera finale.

FM – Ci sono giovani artisti contemporanei che vengono a visitare il museo? Al

momento in giro si vede molta arte concettuale e il disegno in fin dei conti

rappresenta proprio il concetto che sta alla base dell’opera.

PB – Gli artisti sono assidui frequentatori del museo e ne sono particolarmente

affascinati.

FM – Sei soddisfatta degli anni che hai dedicato all’arte e a questa collezione, anche

dopo la scomparsa di Tonino?

FG – Certamente. Una delle cose che mi colpiva di più era la difficoltà delle

attribuzioni. Giovanni Testori diceva a colpo sicuro: «Questo è X». Un giorno fu

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chiamato un altro critico, un esperto di disegni che era in disaccordo con lui. Io dietro

alle fotocopie delle varie fotografie trascrivevo le attribuzioni e i commenti. Qualche

tempo dopo arrivò Edo Testori, nipote di Giovanni, anch’egli esperto d’arte. Esordì

dicendo: «Scommetto che lo zio ha detto questo. Cosa ti ha detto? E invece io dico

che è quest’altro». Il risultato fu che dietro ad alcune fotografie c’erano tre possibili

diverse attribuzioni. Naturalmente soltanto il Museo può andare a fondo in simili

questioni, analizzare ai raggi X o con altri strumenti che tipo di carta è stata usata e

quindi scartare un’ipotesi piuttosto che un’altra. Devo dire che è sempre affascinate

stare accanto a queste persone e sentire i loro commenti, vederli mentre vagliano le

soluzioni possibili, ritrattano, ci ripensano. A un certo punto dichiarano: «Qui c’è la

biacca, qui è matita, no qui è carboncino, qui invece è fatto con la china», ed è allora

che si inizia a guardare i disegni con altri occhi. Anche quelli a cui prima si passava

davanti senza farci caso perché erano in mezzo a tante altre belle cose. Dopo la

spiegazione dell’esperto li si considera sotto una nuova luce. Quando sono arrivata

in sala al Diocesano e li ho visti tutti appesi sono rimasta in contemplazione,

pensando: «Eccoli, sono a casa di nuovo».

FM – Un’altra casa.

FG – Non importa, io mi sentivo a casa perché i disegni di Tonino erano tutti lì riuniti.

Uno dei suoi desideri era che i disegni restassero tutti insieme, la collezione è lo

specchio della persona che l’ha creata, è la sua fotografia, quindi è fondamentale che

ci sia tutto. Questo credo fosse uno dei vincoli che Tonino aveva stabilito.

FM – Paolo, hai esposto tutti i disegni che Tonino ti ha lasciato?

PB – Tutti meno uno. Non ho esposto le Due donne nude di Guttuso. Il motivo di

questa scelta è semplice: questa collezione annovera già dei nudi di donna, ma si

tratta di nudi tradizionali, ammantati di storia e soprattutto di quella dimensione

classica che invece è assente nel disegno di Guttuso. Temevo che finisse per

diventare motivo di pettegolezzo per i giornalisti, non volevo che scrivessero che nel

Museo Diocesano si espongono quadri “osè”. Sarebbe stato un peccato perché la

collezione è un intero e raccoglie opere bellissime, mentre io so che certa stampa

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avrebbe parlato soltanto della Signora Marzotto.7 Ho detto a Federica: «Aspettiamo a

metterlo». Ora che è passata l’onda dell’assalto giornalistico potremo finalmente

appenderlo. Ci sono molti altri nudi quindi non c’è nessuna remora a esporlo,

d’altronde io avevo preso l’impegno di esporli tutti e questo non fa eccezione, presto

sarà sulla parete insieme a tutti gli altri.

P – È a causa del soggetto?

PB – Certo, è il tema, è la Marzotto. Il problema non è neanche più il nudo femminile,

è lei. Alcuni giornali avrebbero sicuramente cercato di dare una nota ironica e

scandalistica che secondo me la collezione non merita. Ora questo disegno è pronto

nella stanza accanto e verrà appeso.

FG – Anche Tonino si rendeva conto della forza di questo disegno di Guttuso, tant’è

che lo teneva al mare.

PB – Io al Diocesano non ho il mare quindi devo fare in altro modo. Se venite a Milano

sarò lieto di accompagnarvi a visitare la collezione. Credo sia un’occasione da non

perdere e un modo per riflettere sull’arte. Il disegno ha la peculiarità di indicare il

percorso mentale dell’artista, anche se l’opera finale è un’altra cosa. Attraverso il

disegno si possono scoprire le intenzioni che stanno dietro al lavoro, anche se non

tutte verranno poi attuate nell’opera. Il percorso che fa la matita è un percorso

guidato dall’artista, tramite il quale riesce a esprime liberamente se stesso.

FM – Alcuni rivelano anche le fragilità e i pentimenti.

PB – Ci sono i pentimenti, tantissimi pentimenti. È affascinante scoprirli nei disegni.

Questo riflettersi dell’artista nel disegno assomiglia molto al riflettersi del

collezionista nella collezione. Ecco quella collezione è il ritratto di Tonino.

7 Dalla fine degli anni sessanta è la figura femminile dominante nella pittura e nella vita privata di Renato

Guttuso. Quest’ultimo, dopo averla conosciuta nel salotto dei Marchi a Milano, la rappresenta in molte opere,

come la serie delle Cartoline, un insieme di trentasette disegni a tecniche miste (pubblicati dalla casa editrice

Archinto nel volume Le cartoline di Renato Guttuso).

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FG – C’è una frase che Tonino voleva inserire nel catalogo che stava pensando di

realizzare prima di lasciarci. Si tratta di una citazione di Ingres, che recita: «Il disegno

è la probità dell’arte. Disegnare non vuol dire semplicemente riprodurre dei contorni.

Il disegno non consiste semplicemente nel tratto. Il disegno è anche l’espressione, la

forma interiore, il modello. Vedete cosa resta dopo questo? Il disegno comprende i

tre quarti e mezzo di quello che costituisce la pittura. Se io avessi da mettere

un’insegna sopra la mia porta, scriverei scuola di disegno e sono sicuro che farei dei

pittori.»8

FM – Ingres riteneva che il disegno fosse una delle fasi più importanti nel fare arte;

ho scritto un libro su di lui e quindi lo so bene. Sosteneva che il massimo disegnatore

fosse stato Raffaello. Al mondo non esisteva niente di più perfetto dei disegni di

Raffaello a cui lui si rifaceva moltissimo.

MP – Già Vasari aveva detto che il disegno era il padre di tutte le arti, pittura e

scultura.

FM – Certo, ed è importante che il collezionista lo capisca.

P – Una domanda che mi tocca per mestiere: si è percepito che Sozzani era molto

sicuro di ciò che voleva. L'influenza degli storici dell'arte, in particolare di Giovanni

Testori, è sempre stata forte, ma qual è stato invece il rapporto tra Tonino Sozzani e i

mercanti che sono i mediatori per la ricerca dell’oggetto da collezione? Io sono un

mercante d’arte e questo aspetto mi interessa personalmente.

FM – Anche io ho una domanda su questo argomento: c’è mai stata la tentazione di

fare affari dietro le spalle di qualcuno?

FG – No, l’idea dell’“affare” non gli si addiceva, criticava suo padre che pensava

sempre a fare il grande affare. Per Antonio l’importante era ottenere le cose al giusto

prezzo, a questo teneva particolarmente.

8 Frase tratta dagli Scritti di Ingres, composti dalle celebri annotazioni (Cahiers) del pittore e da alcune sue

missive.

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FM – I galleristi a cui si rivolgeva erano quelli di Testori immagino.

FG – Non necessariamente, anche se c’erano sempre grandi traffici tra Tonino e

Testori. Uno trovava i pezzi interessanti, l’altro ne dava una parte in garanzia alla

banca per certi prestiti, poi facevano degli scambi e ne vendevano due per comprarne

altri tre. Tra i contemporanei ce n’erano parecchi che Tonino comprava

indipendentemente da Testori, e per questi si fidava molto della Marlborough Gallery

per esempio, sia a Londra che a New York. Altrimenti cercava di conoscere gli autori o

i parenti degli autori. In questo modo è riuscito a ottenere Balthus, Guttuso e

Scialoja.

FM – Non aveva una galleria di riferimento?

FG – No.

MP – Le Marlborough Galleries sono state anche le gallerie di riferimento per

l’avvocato Agnelli. Alcuni dei dipinti in collezione vengono da lì.

FM – Erano anche molto amici.

MP – Sì, Tonino era un grande amico dell’avvocato.

P – Federica vorrei ricordare un’osservazione che mi fece Tonino nei primi anni che vi

ho conosciuti, al mare a Cap Ferrat, quando siete venuti a trovarmi. Io avevo con me

un piccolo disegno di Picasso che mi avevano regalato i miei figli, allora pensavo si

trattasse di una riproduzione. Amavo molto quel disegno e come tutte le cose a cui

tengo non sentivo il bisogno di metterlo in mostra, lo tenevo anzi un po’ nascosto,

per averlo sempre vicino. Qualche tempo dopo tu mi hai riferito che Tonino aveva

apprezzato la mia casa e in particolare il fatto che il disegno di Picasso fosse stato

messo in un angolo un po’ in disparte. Questo accorgimento gli era piaciuto molto.

A me l’episodio è rimasto impresso perché solitamente chi ha qualcosa di cui va

fiero, fa di tutto per mostrarlo. Il Picasso invece l’ho sempre custodito con il concetto

di tenerlo un po’ nascosto, solo per me. Tonino l’aveva percepito, fu un

atteggiamento che mi colpì molto e che non dimenticherò mai.

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Profili Biografici

Paolo Biscottini

Vive a Milano, si è laureato in Storia dell’arte all’Università Cattolica con il Professor Gian

Alberto dell’Acqua, di cui è stato per molti anni assistente. Ha frequentato il corso di

perfezionamento in Storia dell’arte medievale e moderna e conseguito la specializzazione in

Museografia e museologia presso la Regione Lombardia. Nel 1982 ha vinto il concorso pubblico

per la direzione dei Musei Civici di Monza, dove ha fondato il Serrone, inaugurando una

stagione di grandi mostre, fra le quali molte dedicate alla pittura dell’Ottocento e all’arte

contemporanea. Ha diretto anche la Villa Reale di Monza e Palazzo Reale a Milano, allestendo

alcune delle mostre storiche della prestigiosa sede. Alla fine del 1997 ha accettato la proposta

del cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano, di contribuire a creare e dirigere il

Museo Diocesano, nel complesso architettonico dell’antico convento domenicano attiguo alla

Basilica di Sant’Eustorgio. Attualmente affianca alla direzione del Museo Diocesano

l’insegnamento di Museologia e di Istituzioni di storia dell’arte all’Università Cattolica di

Milano, dove dirige anche un master in Museologia e museografia. Ha pubblicato libri, cataloghi

di mostre e saggi in diversi ambiti della storia dell’arte e della museologia. Di particolare rilievo

è il Catalogo Ragionato di Mosé Bianchi. È inoltre membro del CDA della Fondazione Teatro

Fraschini di Pavia, di Milano Musica, del Comitato di Indirizzo della Fondazione Banca del Monte

di Lombardia e presidente del Comitato Scientifico della Fondazione Remo Bianco.

Fiorella Minervino

Vive e lavora a Milano. È storica dell’arte, giornalista, critica d’arte, di fotografia e

d’architettura, ha insegnato Storia dell’arte moderna e contemporanea e Restauro per quindici

anni presso l’Università di Parma con il professor Arturo Carlo Quintavalle.

È autrice di varie monografie su autori e movimenti artistici di Ottocento e Novecento, fra i quali

Degas, Seurat, Picasso cubista, Ingres e il movimento impressionista. Ha curato per

l’Enciclopedia Visuale voluta dal governo francese la voce su Cézanne e ha partecipato a mostre

sul Simbolismo internazionale allestite in tutta Europa. In Italia è stata cocuratrice della mostra

“Manzù e il Settecento Lombardo” presso Palazzo Reale a Milano e curatrice di altre

retrospettive su Omar Galliani (ha accompagnato una sua personale nei maggiori musei della

Cina) e Chiara Dynys per il Museo Poldi Pezzoli, istituzione per cui è stata consigliere nel CDA per

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dieci anni. Ha tenuto inoltre conferenze sulle tecniche del disegno e della pittura dell’Ottocento

e ha dedicato un volume allo scultore settecentesco Beniamino Simoni.

Come giornalista ha lavorato per vent’anni alle pagine di cultura e arte del Corriere della Sera,

ha collaborato con Panorama, Le Monde e altre testate di rilievo. Nel ’98 è passata alle pagine

di cultura della Stampa, occupandosi di arte antica, moderna e contemporanea, di fotografia,

architettura, design e antiquariato. Collabora inoltre con RadioPopolare.

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Un progetto Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli e Johan & Levi Editore Per i testi © gli autori.

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