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1 Federalismo fiscale in Italia: dalla finanza derivata al modello a struttura variabile Carlo Garbarino, Professore di diritto tributario, Università L. Bocconi, Milano 1. INTRODUZIONE E BREVI PREMESSE DI FINANZA PUBBLICA.......................................... 2 2. GLI ANNI OTTANTA: IL CONSOLIDAMENTO DEL FEDERALISMO BASATO SUL MODELLO DELLA FINANZA DERIVATA............................................................................... 5 2.1. LE PROPOSTE DI FEDERALISMO NEI PRIMI ANNI OTTANTA...................................... 5 2.2. GLI INTERVENTI LEGISLATIVI ADOTTATI NEGLI ANNI OTTANTA ............................... 6 2.3. LE NOZIONI DI AUTONOMIA FINANZIARIAE LA DECOSTITUZIONALIZZAZIONEDELLA MATERIA DELLA FISCALITÀ LOCALE. .............. 8 2.4. IL RUOLO DELLA CORTE COSTITUZIONALE NELLA DEFINIZIONE DELLAUTONOMIA FINANZIARIA. ................................................................................... 10 3. IL DECENTRAMENTO DI TIPO CONGIUNTURALE DEI PRIMI ANNI NOVANTA ......... 12 3.1. RAGIONI POLITICHE ED ECONOMICHE A BASE DI UN NUOVO PROGETTO DI FEDERALISMO.............................................................................................................. 12 3.2. IL DECRETO LEGGE N. 66/1989 .............................................................................. 12 3.3. LA LEGGE N. 142/1990 .......................................................................................... . 13 3.4. LA LEGGE N. 158/1990 ............................................................................................ 14 3.5. I DECRETI LEGISLATIVI N. 502/1992 E N. 504/1992.................................................. 15 3.6. LESPERIENZA DELLA COMMISSIONI BICAMERALE. .............................................. 17 3.7. IL PROGETTO DI LEGGE COSTITUZIONALE DEL 1997.............................................. 21 4. IL MODELLO DI DECENTRAMENTO NELLA SECONDA METÁ DEGLI ANNI NOVANTA........................................................................................................................... 22 4.1. LA LEGGE FINANZIARIA 1996................................................................................... 22 4.2. LEGGE FINANZIARIA 1997: LA PRIMA RIFORMA STRUTTURALE VERSO UN FEDERALISMO MATURO (LIRAP E LE ADDIZIONALI)..................................................... 23 4.3. IL D.LGS. N. 56/2000 ................................................................................................ 27 5. LA RIFORMA DEL TITOLO V DELLA COSTITUZIONE (2001).......................................... 28 5.1. LINEAMENTI ESSENZIALI............................................................................................ 28 5.2. I LAVORI PARLAMENTARI NEL PROGETTO DI RIFORMA. ...................................... 29

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Federalismo fiscale in Italia: dalla finanza derivata al

modello a struttura variabile Carlo Garbarino, Professore di diritto tributario, Università L. Bocconi, Milano

1. INTRODUZIONE E BREVI PREMESSE DI FINANZA PUBBLICA.......................................... 2

2. GLI ANNI OTTANTA: IL CONSOLIDAMENTO DEL FEDERALISMO BASATO SUL

MODELLO DELLA FINANZA DERIVATA............................................................................... 5

2.1. LE PROPOSTE DI FEDERALISMO NEI PRIMI ANNI OTTANTA...................................... 5

2.2. GLI INTERVENTI LEGISLATIVI ADOTTATI NEGLI ANNI OTTANTA ............................... 6

2.3. LE NOZIONI DI “AUTONOMIA FINANZIARIA” E LA

“DECOSTITUZIONALIZZAZIONE” DELLA MATERIA DELLA FISCALITÀ LOCALE. .............. 8

2.4. IL RUOLO DELLA CORTE COSTITUZIONALE NELLA DEFINIZIONE

DELL’AUTONOMIA FINANZIARIA. ................................................................................... 10

3. IL DECENTRAMENTO DI TIPO CONGIUNTURALE DEI PRIMI ANNI NOVANTA …......... 12

3.1. RAGIONI POLITICHE ED ECONOMICHE A BASE DI UN NUOVO PROGETTO

DI FEDERALISMO.............................................................................................................. 12

3.2. IL DECRETO LEGGE N. 66/1989 .............................................................................. 12

3.3. LA LEGGE N. 142/1990 .......................................................................................... . 13

3.4. LA LEGGE N. 158/1990 ............................................................................................ 14

3.5. I DECRETI LEGISLATIVI N. 502/1992 E N. 504/1992.................................................. 15

3.6. L’ESPERIENZA DELLA COMMISSIONI BICAMERALE. .............................................. 17

3.7. IL PROGETTO DI LEGGE COSTITUZIONALE DEL 1997.............................................. 21

4. IL MODELLO DI DECENTRAMENTO NELLA SECONDA METÁ DEGLI ANNI

NOVANTA........................................................................................................................... 22

4.1. LA LEGGE FINANZIARIA 1996................................................................................... 22

4.2. LEGGE FINANZIARIA 1997: LA PRIMA RIFORMA STRUTTURALE VERSO UN

FEDERALISMO MATURO (L’IRAP E LE ADDIZIONALI)..................................................... 23

4.3. IL D.LGS. N. 56/2000 ................................................................................................ 27

5. LA RIFORMA DEL TITOLO V DELLA COSTITUZIONE (2001).......................................... 28

5.1. LINEAMENTI ESSENZIALI............................................................................................ 28

5.2. I LAVORI PARLAMENTARI NEL PROGETTO DI RIFORMA. ...................................... 29

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5.3. LA NUOVA STRUTTURA DELL’ART. 119 COST. ................................................ 345.4. I PROFILI DELLA LEGALITÀ E DELLA RISERVA DI LEGGE IN MATERIA TRIBUTARIA NELL’AMBITO DEL NUOVO TITOLO V. ................................................ 365.5. IL SISTEMA DELLE FONTI DI FINANZIAMENTO DELLE SPESE DELLE REGIONI E DEGLI ENTI LOCALI. ................................................................................................. 385.6. LA CORRISPONDENZA DI ENTRATE E SPESE................................................... 42

6. IL DISEGNO DI LEGGE DELEGA DI ATTUAZIONE DEL NUOVO ART. 119, COST. ....456.1. PRINCIPI E CRITERI DIRETTIVI............................................................................. 466.2. UN SISTEMA TRIBUTARIO BASATO SU PIU’ LIVELLI DI TASSAZIONE................. 476.3. L’AMMINISTRAZIONE DIRETTA DEI TRIBUTI DA PARTE DEGLI ENTI LOCALI: UNA FORMA DI LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE .................................................... 486.4. IL MECCANSIMO DI PEREQUAZIONE QUALE FORMA DI SUSSIDIARIETA’ .... 486.5. L’AUTONOMIA DI SPESA .................................................................................. 496.6. LA SALVAGUARDIA .......................................................................................... 50

7.CONCLUSIONI ............................................................................................................... 507.1. SE LA ATTRIBUZIONE DI POTESTÀ IMPOSITIVE “VERSO IL BASSO” SIA EFFICIENTE. ............................................................................................................... 507.2. UN FEDERALISMO A STRUTTURA VARIABILE? ................................................. 52

1. INTRODUZIONE E BREVI PREMESSE DI FINANZA PUBBLICA

Il presente lavoro ha lo scopo di indagare diacronicamente, dagli anni ottanta ad oggi, gli aspetti giuridico-tributari del federalismo nel contesto italianoal fine di valutare il quadro attuale, anche in un contesto comparato. La dinamica fiscale, pur non esaurendo il tema del federalismo, ne costituisce certamente uno degli aspetti più significativi, del che ci si soffermerà principalmente su questa, pur non tralasciando, ove se ne riterrà opportuno, le dinamiche politico-istituzionale, economica e storica.

L’analisi del federalismo fiscale svolta in questa ricerca non sarà compiuta partendo da modelli precostituiti, bensì adottando una metodologia istituzionale-evolutiva, cioè mediante una panoramica dell’evoluzione storica nel contesto giuridico italiano a partire dal 31 dicembre 1981 (paragrafi 2-5) fino al disegno di legge di attuazione dell’art. 119 della Costituzione contenente una delega al governo in materia di federalismo fiscale dell’ 8 ottobre 2008, con lo scopo di analizzare criticamente proprio tale ultima proposta, oltre che valutarne le prospettive future (paragrafo 6).

La data del 31 dicembre 1981 è stata scelta come momento iniziare dell’indagine in quanto con essa giunge a scadenza la legge n. 356/1976 (e, conseguentemente, il regime d’integrazione previsto dal D.P.R. n. 617/1977),

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creando una situazione d’incertezza con riferimento alla quantificazione annuale dei cd. “fondi”1.

La parola chiave del federalismo fiscale è “sussidiarietà”. Ed infatti in base al principio di sussidiarietà la sovranità (che in uno schema ordinamentale unitario si colloca al vertice) si colloca in basso, e cioè al livello degli enti locali facenti parte dello Stato-persona. Nella teoria della finanza pubblica la introduzione del principio di sussidiarietà viene dunque riferito a quelle funzioni che sono ordinariamente attribuite allo Stato. Nello Stato unitario l’intervento pubblico centrale adempie (i) alla funzione allocativa mediante la produzione di beni che non hanno prezzo di mercato (ad esempio la giustizia, la difesa, etc.), (ii) alla funzione di stabilizzazione mediante politiche volte alla massimizzazione della produzione ed alla piena occupazione delle risorse, ed infine (iii) alla funzione redistributiva mediante il prelievo fiscale con un sistema tributario unitario.

Il federalismo fiscale deve risolvere il problema essenziale di come attribuire queste tre diverse funzioni ordinariamente adempiute dallo Stato centrale a diversi livelli di governo sub-statale. Il federalismo fiscale ha quindi portata assai più ampia della mera autonomia impositiva, e per essere tale non necessita soltanto di regole costituzionali formali che sanciscano le fonti e le competenze, ma anche di regole costituzionali sostanziali che consentano di determinare un quadro entro cui diversi livelli di governo sub-statale possano ordinatamente adempiere alle succitate funzioni essenziali. Il problema costituzionale vero e proprio quindi, riguardato sia dal profilo giuridico che da quello sostanziale, è la determinazione delle regole per individuare la costituzione fiscale ottima, cioè la situazione che realizza la maggiore possibile equitàallocativa.

Da una prospettiva di finanza pubblica, invero, vari elementi spiegano perché queste diverse funzioni debbano essere attribuite “verso il basso” a livelli di governo sub-statale2. Per quanto riguarda la funzione allocativa, nel caso di servizi pubblici differenziati che si estendono oltre gli ambiti territoriali dei singoli livelli di governo sub-statale, le preferenze differenziante nei diversi ambiti territoriali fanno sì che una soluzione centralizzata sia inefficiente in un’ottica di massimizzazione del benessere. Essa infatti non si adegua alle preferenze.

Per quanto riguarda la funzione di stabilizzazione, invece, i dettami della finanza pubblica indicano che essa debba essere gestita a livello centrale. Tale

1 OCCORREREBBE QUI FARE UN RIMANDO AL LAVORO FATTO DAI RICERCATORI DELLA CATTOLICA CON RIFERIMENTO AL FEDERALISMO FISCALE DALL’UNITA’ D’ITALIA ALLA FINE DEGLI ANNI SETTANTA.

2 G. BROSIO, Equilibri istabili. Politica ed economia nell’evoluzione dei sistemi federali, in Dir. e Prat. Trib., 1995, n. 1, pagg. 155 e ss.; AA.VV., Federalismo fiscale: proposta per un modello italiano, Milano, 1996; AA.VV., Federalismo fiscale: una nuova sfida per l'Europa, Padova, 1999; G. BROSIO, M. MAGGI, S. PIPERNO, Governo e finanza locale, Torino, 1998.

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funzione a livello locale non è efficiente perché gli effetti delle politiche di stabilizzazione si manifestano oltre gli ambiti territoriali dei livelli di governo sub-statale, facendo sì che si determinino cd. effetti di spill-over e che non si internalizzino i benefici in capo ai livelli di governo sub-statale promotori di tali politiche. Quindi, poiché gli effetti di tali politiche tendono a manifestarsi all’esterno degli ambiti territoriali di provenienza, allora conviene attribuire al livello superiore (che può anche essere sopranazionale) la funzione di stabilizzazione.

Per quanto riguarda infine la funzione di redistribuzione, essa fallisce in presenza di alta mobilità dei contribuenti e conseguentemente non è efficientemente attuabile a livello locale. Ciò è icasticamente evidenziato (le semplificazioni sono a fini esplicativi) configurando due ambiti territoriali distinti (ad es. due Comuni), pur dotati a livello formale di piena autonomia di entrate e di spesa ed entrambi adempienti al requisito della parità di bilancio. Se il primo Comune è caratterizzato da elevati redditi, imposte e servizi, mentre il secondo Comune è caratterizzato da ridotti redditi, imposte e servizi, ed assumendosi la mobilità dei contribuenti, i contribuenti ad elevati redditi tenderanno a migrare verso il secondo Comune (per beneficiare delle più ridotte imposte di questo), mentre i contribuenti con ridotti redditi tenderanno a migrare verso il primo Comune (per beneficiare dei più elevati servizi di questo). Il risultato sarà che, al limite, il primo Comune risulterà avere soltanto contribuenti poveri ed essere privo di gettito per finanziare gli elevati servizi, mentre il secondo Comune risulterà avere soltanto contribuenti ricchi ed avere un gettito eccessivo per finanziare servizi ridotti. È evidente che questo potenziale fenomeno migratorio determina una tendenza verso forme di competizione fiscale infra-statuale, che evidentemente non adempiono alla funzione di redistribuzione.

In conclusione, in una configurabile costituzione economica ottima, mentre la funzione allocativa è efficientemente conducibile “verso il basso” al livello degli enti di governo sub-statuale, la funzione di stabilizzazione e di redistribuzione devono essere mantenute “verso l’alto” al livello del governo centrale o sopranazionale. La introduzione di regole formali costituzionali avvenuta mediante la riforma del Titolo V non esaurisce quindi il federalismo fiscale, né implica necessariamente che le politiche di stabilizzazione e redistribuzione debbano scendere al livello degli enti di governo sub-statuale. In altre parole la formale attribuzione mediante norme di competenza di poteri impositivi agli enti locali non significa attribuzione completa ad essi di tutte le politiche tributarie volte ad implementare le tipiche funzioni della finanza pubblica.

Il nuovo Titolo V non detta imperativamente un modello costituzionale in cui la potestà impositiva scende verso il basso, introduce le regole base relative alla divisione delle potestà di entrata e di spesa tra Stato ed enti locali, delineando un sistema a struttura variabile di rapporti orizzontali tra livelli di governo sub-

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statali e di rapporti verticali tra essi e lo Stato. In tale scenario si è inserito il disegno di legge delega del 2008.

2. GLI ANNI OTTANTA: IL CONSOLIDAMENTO DEL FEDERALISMO BASATO SUL MODELLO DELLA FINANZA DERIVATA

L’attuazione delle regioni a statuto ordinario del 1970 e le leggi che si sono susseguite nel ventennio successivo hanno delineato, come si analizzerà nel presente paragrafo, una particolare struttura dell’ordinamento finanziario locale. Infatti, parzialmente sconfessando l’autonomia finanziaria prevista dal dettato costituzionale, il legislatore degli anni Sessanta-Ottanta ha definito una struttura basata sulla cd. “finanza derivata”, cioè sui trasferimenti dallo Stato agli enti locali, relegando ad un ruolo puramente simbolico le entrate proprie degli enti locali, cioè quelle entrate disciplinabili ed amministrabili direttamente dagli enti locali stessi3.

2.1. LE PROPOSTE DI FEDERALISMO NEI PRIMI ANNI OTTANTANel 1982, la Commissione di studio per i rapporti stato-regioni presso la

Presidenza del Consiglio (cd. Commissione Bassanini) elaborò un rapporto per la riforma della finanza regionale, basato su una maggiore responsabilizzazione di spesa delle regioni. Le proposte della Commissione, incentrate pur sempre sul concetto di finanza derivata, furono, alternativamente, le seguenti:

1. la creazione di due fondi: uno, di notevoli dimensioni, destinato a finanziare le spese correnti e di normale sviluppo, ed un altro, di dimensioni quantitative inferiori, finalizzato al finanziamento di particolari progetti di sviluppo.

2. la costituzione di due fondi, di eguali dimensioni: uno destinato al finanziamento delle funzioni normali, l’altro destinato alla copertura di spese settoriali.

3. la costituzione di due fondi: uno per il finanziamento delle funzioni normali, ottenuto dal precedente fondo comune, e di uno per gli investimenti collegati a piani nazionali da istituire in futuro.

Nelle tre alternative proposte è presente, da un lato, l’idea impiegare ilfondo comune, in coerenza con il dettato costituzionale, per finanziare le spese correnti, e quelle d’investimento rientranti in uno sviluppo ordinario, dall’altro, l’idea di eliminare i fondi settoriali, che erano stati utilizzati negli anni settanta.Tale proposta, per ragioni di natura politica, non andò in porto.

3 Sul previgente art. 119 Cost.: Allegretti, Commentario alla costituzione, cit. Per una più

ampia disamina del dibattito e dei lavori dell’Assemblea Costituente, si vedano, tra gli altri, Meale, Diritto regionale, 1996; Putzolu, L’autonomia tributaria degli enti locali, Padova, 1996; Cuocolo, Istituzioni di diritto pubblico, 1992; Bin, Capire la Costituzione, Padova, 1998; D’Atena, Costituzione e Regioni, Milano 1991; Di Renzo, L’ordinamento finanziario regionale, Napoli,1996; Marongiu, Fondamenti costituzionali dell’imposizione tributaria, Torino, 1995.

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Nell’aprile del 1982, gli assessori regionali delle finanze di Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Toscana, Abruzzo e Puglia elaborarono un disegno di legge di riforma federale che non andò a buon fine. Al pari della Commissione Bassanini, i redattori di questa proposta considerarono il Fondo comune come il principale canale di finanziamento, destinato a finanziare sia le spese correnti sia gli investimenti destinati all’ordinaria attività regionale. La proposta consisteva nell’agganciare il Fondo al prodotto interno lordo (PIL) con la garanzia d’integrazione del Fondo a carico del bilancio dello Stato in caso di crescita inferiore a quella del PIL nominale, o di devoluzione dell’eccedenza a favore della quote del Fondo di sviluppo, libera da vincoli, in caso di crescita superiore al PIL nominale. Questo meccanismo, come attentamente evidenziato4, favorisce il raggiungimento di due obiettivi: da un lato, una limitazione dei trasferimenti verso le regioni, qualora l’aumento della ricchezza nazionale non lo consenta; dall’altro, un aumento delle risorse a disposizione del Fondo di sviluppo, con il chiaro intento di incoraggiare gli investimenti , qualora l’aumento della ricchezza nazionale lo consenta.

Questa seconda proposta presentava anche spunti in materia di tributi propri, al fine di dare lustro al dettato costituzionale fino ad allora disatteso sul punto: essa prevedeva, infatti, la conferma e l’estensione dei tributi propri vigenti e, in prospettiva, la compartecipazione regionale alla futura imposta locale sugli immobili. Nell’attesa, si indicava, in alternativa, l’istituzione dell’addizionale IRPEF o ILOR, nei confronti dei contribuenti con domicilio fiscale nei rispettivi territori regionali, oppure la trasformazione della tassa di circolazione in tassa interamente regionale. I progetti presentati non ebbero tuttavia alcuno sbocco legislativo.

2.2. GLI INTERVENTI LEGISLATIVI ADOTTATI NEGLI ANNI OTTANTA

Nel corso degli anni ottanta, si è assistito, per contro, all’emanazione di alcune leggi, disciplinanti, soprattutto, il settore dei trasferimenti, alimentando così il carattere derivato della finanza locale. Questo tipo di interventi nella sostanza non hanno promosso articolazioni in senso federalista, anzi, come è stato notato, che “un ulteriore elemento deviante è emerso nel corso degli anni ’80 sotto forma di neo-centrismo. Attraverso i cospicui finanziamenti del Fondo Investimenti e Occupazione e attraverso numerose leggi speciali riguardanti tipi particolari di opere pubbliche, (…), si sono di fatto posti forti vincoli all’autonomia locale anche dal lato della composizione della spesa, condizionando le scelte degli enti che, spesso, hanno sovvertito gli ordini veri di priorità nella graduatoria dei propri investimenti per inseguire i fondi speciali erogati dal centro”5.

Questi interventi legislativi possono essere sinteizzati come segue: 4 Cfr. Di Renzo, L’ordinamento finanziario regionale, Roma, 1996.5 Dosi – Muraro, Finanza municipale e fiscalità immobiliare: ipotesi di riforma, in Riv. dir. trib., I, 1996, 6.

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1. Interventi in agricoltura: con la legge n. 590/1981, si istituisce il Fondo di solidarietà6, per consentire alle regioni di adottare misure finanziarie in favore delle aziende agricole colpite da calamità naturali; inoltre, la legge n. 752/1986 regola gli interventi a sostegno dei redditi agricoli e dell’occupazione, nonché gli interventi diretti al riequilibrio territoriale, la difesa dell’ambiente, il contenimento e la riduzione del disavanzo agroalimentare; questi interventi vengono finanziati annualmente con le leggi finanziarie.

2. Interventi per le comunità montane: lo Stato concorre al finanziamento delle attività delle comunità montane con un programma di trasferimenti, ai sensi della legge n. 1102/1977.

3. Interventi per la difesa del suolo e tutela dell’ambiente: lo Stato finanzia iniziative regionali con i fondi messi a disposizione dalla legge n. 305/1989, al fine di tutelare aree ad elevato rischio ambientale, di integrare piani di risanamento idrico, atmosferico ed acustico, etcetera.

4. Intervento idrogeologico per la Calabria: fin dagli inizi degli anni ’70, l’intervento statale, che continua con l’opera dell’Ente Sila, ha mirato al mantenimento dei cd. “forestali”, in chiave di spesa continuativa.

5. Interventi sociali: si tratta di un finanziamento residuale, difficilmente quantificabile, poiché i dati relativi alle assegnazioni originano e rimangono nei Ministeri di spesa competente.

A completamento della struttura finanziaria locale delineata, va aggiuntal’esistenza dei finanziamenti comunitari a sostegno di progetti di iniziativa regionale.

Le leggi succedutesi nel corso degli anni ottanta hanno dunque fornito un’interpretazione restrittiva del concetto di autonomia finanziaria regionale previsto dal dettato costituzionale ed in particolare dall’art. 119, Cost. e non hanno mutato lo schema di federalismo degli anni precedenti basato sulla finanza derivata. I dubbi interpretativi circa la reale portata dei disposti costituzionali sul tema hanno trovato risposta pratica nelle sentenze della Corte Costituzionale, che ha di fatto avallato in quel priodo un sistema finanziario regionale basato primariamente sui trasferimenti statali, limitando la portata del concetto di “tributi propri” alle sole manovre di aggiustamento sulle aliquote.

In conclusione, la finanza degli enti locali alla fine degli anni ottanta si basava essenzialmente sui trasferimenti statali (sia ordinari sia perequativi), con un ruolo marginale dei cd. “tributi propri” quali le tasse di concessione, l’imposta di pubblicità, le tasse di occupazione del suolo pubblico, la tassa sulla raccolta dei rifiuti solidi urbani, accanto a forme di compartecipazione quale, ad esempio, l’addizionale comunale sul consumo di energia elettrica. Nella seconda metà degli anni ottanta, la caduta di gettito dell’Invim accentua le difficoltà in materia, così da giustificare nuove forme di imposizione locale.

6 Tale fondo aveva una dotazione iniziale di 275 miliardi, e di 400 per ciascuno degli anni successivi.

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2.3. LE NOZIONI DI “AUTONOMIA FINANZIARIA” E LA “DE-COSTITUZIONALIZZAZIONE” DELLA MATERIA DELLA FISCALITÀ LOCALE.

L’art. 119 Cost. nella sua versione originaria precedente alla riforma del 2001 prevedeva:

«Le Regioni hanno autonomia finanziaria nelle forme e nei limiti stabiliti da leggi della Repubblica, che la coordinano con la finanza dello Stato, delle Provincie e dei Comuni.Alle Regioni sono attribuiti tributi propri e quote di tributi erariali, in relazione ai bisogni delle Regioni per le spese necessarie ad adempiere le loro funzioni normali.Per provvedere a scopi determinati, e particolarmente per valorizzare il Mezzogiorno e le Isole, lo Stato assegna per legge a singole Regioni contributi speciali.La Regione ha un proprio demanio e patrimonio, secondo le modalità stabilite con legge della Repubblica».

Sulla base di questa disposizione si è sviluppato il dibattito sul contenuto concreto del previgente articolo 119 Cost., in particolare in relazione al piuttosto indeterminato concetto di “autonomia finanziaria”, riportato nel primo comma dello stesso art. 119 Cost.. Ed infatti numerosi furono i dubbi riguardo l’interpretazione di questo termine, dal momento che “i costituenti utilizzarono la nozione con una gradazione ed una sovrapposizione di termini impressionante”7. Vi era chi, infatti, interpretava in senso estensivo il termine, ritenendo l’autonomia come separazione assoluta delle fonti di finanziamento regionale da quelle dello Stato8. Altri, invero la maggioranza, intesero invece l’autonomia in senso restrittivo, interpretazione fatta poi propria dalla Corte Costituzionale con alcune significative sentenze in proposito, che essenzialmente si fondarono sui termini –quali “forme”, “limiti” e “coordinamento”– che parevano indicare una evidente volontà di assoggettare la fiscalità locale ad uno stringente coordinamento statale.

Siffatto atteggiamento restrittivo poteva sintetizzarsi in una prudenziale interpretazione evolutiva della norma, in cui una generica accettazione della impostazione solidaristica della finanza locale si risolveva in una vaga accezione del significato del termine “autonomia”. Nelle iniziali elaborazioni in materia vi era dunque unanimità nel ritenere che il termine “autonomia”, generico per propria semantica natura, fosse definibile soltanto in relazione ad altri termini utilizzati nell’articolo 119 Cost..

Altra fondamentale questione era quella del titolo per l’esercizio da parte della Regione di autonomia normativa in materia finanziaria. Nessuna questione, infatti, è così direttamente costituzionale come quella della natura formale di una potestà9. è stato oggetto delle sentenze della Corte Costituzionale, che lo hanno

7 U. ALLEGRETTI, cit., pag. 347.8 Tra questi Lussu, uno dei fautori di un ordinamento federale dello Stato.9 U. ALLEGRETTI, cit., pag. 350.

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prevalentemente risolto nel senso di qualificare la potestà tributaria come “competenza attuativa”.

Ma un terzo ed ulteriore punto è di fondamentale importanza: l’espressione “autonomia finanziaria” fu inizialmente intesa soltanto come autonomia di entrate, mai in termini di autonomia di spesa. Questa distinzione è stata colta nella sua importanza solo in un periodo successivo; la sentenza 107/1970 della Corte Costituzionale, ha a tal riguardo statuito che “il bilancio e la contabilità…non possono essere intesi come materia a sé stante, ma rappresentano mezzi e strumenti giuridici indispensabili perché l’ente regione possa concretamente operare per il perseguimento dei vari fini assegnatoli”, indicando così che essi siano cioè parte integrante della potestà legislativa regionale nelle varie materie.

È poi essenziale ricordare che l’espressione “autonomia finanziaria” è stata tenuta distinta dall’espressione “autonomia tributaria”: ed infatti l’autonomia finanziaria è la risultante della composizione dell’autonomia tributaria, dell’autonomia di spesa e di quella di bilancio10. L’autonomia tributaria, a sua volta, è giuridicamente scomponibile in “potestà tributaria”, indicando con tale espressione la produzione di norme che pongono in essere fattispecie impositive, ed il “potere di imposizione”, indicante l’attività amministrativa di applicazione, accertamento e riscossione dei tributi.

Nel testo originario dell’art. 119 Cost. è quindi insita una tensione dialettica: da un lato, le espressioni “forme e limiti stabiliti dalle leggi dello Stato” attenuano la portata del termine “autonomia”, mentre, dall’altro lato, il termine “coordinamento” implica l’esistenza di forme di autonomia. Inoltre nell’ambito dell’art. 119 Cost. non è dato comprendere in che modo si ripartiscano tra diversi enti esponenziali la “autonomia finanziaria”, la “autonomia tributaria”, la “potestà tributaria”, ed il “potere di imposizione” (nelle accezioni testé indicate).

Si evidenzia una scelta di fondo che sottende il previgente art. 119 Cost., legata ad una visione solo apparentemente decentralizzatrice: la necessità di mantenere una uniformità su tutto il territorio nazionale11, realizzando tale uniformità per mezzo di una legislazione nazionale che definisce così gli elementi essenziali del tributo, garantendo agli enti locali la possibilità di disciplinare soltanto elementi dei tributi quali, talvolta, l’aliquota ovvero particolari tipologie di esenzioni. In dottrina si sottolinea inoltre come il coordinamento debba essere ritenuto tale in quanto affidato ad un organo che è “espressione di tutte le istanze da coordinare”: questo non può che essere il legislatore nazionale12.

10 F. PUTZOLU, L'autonomia, cit..11 Riassumibile nella frase dell’On. Fabbri nella seduta della II sottocommissione del 31-07-

1946: “fondamentalmente, il regime tributario deve essere unitario”.12 F. PUTZOLU, L'autonomia, cit..

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Questa impostazione – che nella sostanza delegava la definizione dell’assetto della fiscalità locale a successivi interventi legislativi – trovava inoltre conforto nel previgente articolo 117 Cost., riguardante la potestà legislativa delle Regioni, in cui il limite della legislazione si rapportava, in via generale, ai principi fondamentali delle leggi della Repubblica. Ed infatti, poiché nell’articolo 119 Cost. questo riferimento ai principi fondamentali nemmeno sussisteva, poteva acquisire fondamento l’idea che la definizione dei principi del sistema della fiscalità locale dovesse essere necessariamente definito da successive leggi dello Stato.

Si era così ingenerata l’idea di una “de-costituzionalizzazione” della materia della fiscalità locale13. Efficace in dottrina, a tal proposito, questo assunto: “Per vero, alla fonte statale è rimessa non solo l’indicazione dei principi comuni della legislazione tributaria regionale, ma anche di stabilirne le forme di esercizio, espressione questa riassuntiva per la sua genericità di qualsiasi tipo di limitazione (individuazione degli specifici settori impositivi, determinazione dei tipi di tasse, modalità di riscossione ed accertamento delle stesse) che, nel sistema della norma, attribuisce allo Stato un notevole margine di intervento sulla potestà impositiva dell’ente”. Ancora, in dottrina si ritiene che “alla legge ordinaria viene attribuita una completa facoltà di disciplinare i limiti dell’autonomia regionale per evitare qualsiasi antagonismo e sovrapposizione con la potestà tributaria e la politica finanziaria dello Stato”14.

2.4. IL RUOLO DELLA CORTE COSTITUZIONALE NELLA DEFINIZIONE DELL’AUTONOMIA FINANZIARIA.

Il clima di incertezza in merito alla definizione ed alla portata delle norme costituzionali sulla finanza locale venne poi confermato ed avallato da alcune sentenze della Corte Costituzionale, che orientò tale autonomia in senso restrittivo15. Nella impostazione tradizionalmente adottata dalla Corte un primo limite dell’autonomia finanziaria locale può essere individuato negli articoli 23 e 53 della Costituzione16, e cioè precisamente nell’applicazione coordinata del principio di uguaglianza con quello di capacità contributiva, secondo cui non sia consentita una discriminazione geografica dei cittadini, in funzione delle diverse Regioni dove essi risiedono; ed infatti le Regioni, in base alla loro autonomia finanziaria, avrebbero la facoltà di ingenerare sistemi finanziari parzialmente diversi, lesivi dell’uguaglianza dei cittadini.

13 G. MEALE, Diritto regionale, cit..14 L. DI RENZO, L'ordinamento, cit., pag. 27; pensiero presente anche in U. ALLEGRETTI,

Commentario, cit., pag. 358.15 Sul tema si veda, tra gli altri, S. PIASCO, Codice delle autonomie locali, 1996.16 L’articolo 23, al comma 1, recita: “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali di

fronte alla legge,…”; il 53, “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema è informato a criteri di progressività”.

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Non risulta però che tale opzione interpretativa abbia avuto seguito, in quanto altri principi di rilievo costituzionale devono essere considerati. Basi imponibili diverse, infatti, sono giustificabili da finalità extrafiscali che il legislatore ritenga meritevoli e che siano suscettibili di tutela costituzionale. Ed invero una sentenza della Corte Costituzionale del 1965 espressamente statuisce che “il principio di cui all’art. 53 va considerato in armonia con l’altro principio dell’autonomia finanziaria delle Regioni (…)” e che “è ovvio che l’attribuzione alle Regioni (…) di istituire tributi propri, osservando i principi dell’ordinamento giuridico statale, implica necessariamente una diversità nel carico gravante sui contribuenti, ma tale diversità non incide sul piano dell’uguaglianza di trattamento dei contribuenti in relazione alle singole imposte” 17.

Nella vigenza del precedente art. 119 Cost., una potestà impositiva delle Regioni, poteva (i) essere considerata quantomeno di tipo concorrente, e (ii)quindi attuarsi nel quadro dei principi fondamentali posti dalla legislazione statale. Ne conseguiva quindi che la potestà tributaria rientrasse nel novero delle competenze ripartite (trovando il proprio limite nei principi fondamentali dell’ordinamento tributario dello Stato), mentre era esclusa una competenza esclusiva delle Regioni in materia impositiva. Corollario di ciò era che i limiti ordinamentali, già nella vigenza dell’art. 119 Cost. prima maniera, non giungevano ad annullare la potestà regionale e ridurla al mero rango regolamentare.

La sentenza della Corte Costituzionale n. 295/1993, ad esempio, al riguardo si è espressa in questi termini: “pur essendo l’autonomia tributaria delle Regioni un aspetto dell’autonomia finanziaria prevista dall’articolo 119 Cost., onde le Regioni devono dirsi titolari di potestà normativa tributaria, tuttavia il riferimento alle “forme” ed ai “limiti” nonché alle “leggi della Repubblica”, nell’art. 119, condiziona largamente il contenuto di tale autonomia, con la conseguenza che la potestà normativa tributaria delle Regioni non è strumentale rispetto alle competenze di cui all’articolo 117, ma opera al di fuori di quell’ambito, con proprio oggetto ed entro i diversi particolari confini che le leggi della Repubblica sono legittimate a fissare, anche al fine di adeguare la finanza locale alla riforma tributaria generale; cosicché la potestà normativa tributaria regionale si configura non solo come potestà concorrente, bensì soltanto attuativa, analogamente a quella di cui all’ultimo comma dell’art. 117”.

In un’altra sentenza del 1993 la Corte precisa che “l’autonomia tributaria delle Regioni, di cui all’articolo 119 Cost., è condizionata dalle leggi dello Stato sia per quanto attiene al tipo di tributo, nella sua configurazione e nei suoi elementi costitutivi, sia in relazione al suo profilo quantitativo; pertanto, la legge statale è la fonte necessaria ed obbligata della disciplina regionale in materia

17 Corte Costituzionale, sentenza n. 64/1965: essa, anche per ovvi motivi cronologici, si

riferisce alle Regioni a statuto speciale, ma le conclusioni possono ritenersi applicabili, in via analogica, anche a quelle a statuto ordinario.

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tributaria, la quale va considerata non come strumentale rispetto alle competenze di cui all’articolo 117, bensì come attuativa della legge dello Stato” 18.

3. Il DECENTRAMENTO DI TIPO CONGIUNTURALE DEI PRIMI ANNI NOVANTA

3.1. RAGIONI POLITICHE ED ECONOMICHE A BASE DI UN NUOVO PROGETTO DI FEDERALISMO

Solo verso la fine degli anni ottanta e gli inizi degli anni novanta, il dibattito sul federalismo fiscale ha riacquistato vigore portando all’emanazione di una serie di provvedimenti normativi (anche fiscali) indirizzati verso la concessione di più ampia autonomia alle realtà sub-statali.

Le ragioni di questa rinnovata attenzione sono di diversa natura, sia politica che economica. Quanto al fattore politico, la nuova richiesta di federalismo emerge a seguito degli scandali noti come “tangentopoli” che hanno portato alla luce le inefficienze e gli scandali del sistema politico degli anni ottanta.

Quanto al fattore economico, esplode nei primi anni novanta il problema del debito pubblico19, nonché la crisi valutaria della lira, che ne portano alla sua svalutazione, nel 1993, ed alla uscita dal Sistema Monetario Europeo. Di conseguenza, l’impellenza di entrare nella costituenda Unione Europea, delineata dal Trattato di Maastricht, ha comportato la necessità di intervenire massicciamente sia sul fronte delle entrate sia su quello delle spese. E proprio questa necessaria correzione dei conti pubblici ha comportato un ripensamento del sistema della finanza locale.

3.2. IL DECRETO LEGGE N. 66/1989Con il D.L. n. 66/1989, convertito, con modificazioni, nella L. n.

144/1989, titolato “Disposizioni urgenti in materia di autonomia impositiva degli Enti Locali e di finanza locale” è stata istituita l’Imposta comunale per l’eserciziodi arti e professioni (ICIAP).L’utilizzo dello strumento legislativo del decreto legge è stato significativo del clima di incertezza e mancanza di progettualità presente alla fine degli anni ottanta, clima che è parzialmente cambiato agli inizi degli anni novanta per le ragioni supra evidenziate.

L’ICIAP aveva come presupposto impositivo l’ampiezza della superficie dove l’esercizio di impresa, arti o professioni era effettivamente svolto. La

18 Corte Cost., sent. 295/1993.

19 Su questa problematica e, in particolare, sulle sue ragioni, si veda Gualandi, Riforma della finanza locale e nuovo assetto delle istituzioni, in Bellelli-Anello (a cura di), Le risorse finanziarie degli enti locali, 1992, Lega delle Autonomie, 14 ss. Secondo l’autore, vi sono quattro ragioni dell’innalzamento del debito pubblico: 1. evasione ed elusione fiscale; 2. inefficienza della pubblica amministrazione; 3. centralismo statale; 4. eccesso di burocrazia.

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costituzionalità del presupposto non era punto convincente, non essendoci legami apparenti tra la superficie di esercizio dell’attività produttiva e la capacità contributiva di cui all’art. 53, Cost. Tuttavia, la Corte Costituzionale, investita più volte della questione, si è sempre espressa nel senso della legittimità del tributo20, in quanto la superficie utilizzata nell’esercizio di impresa sarebbe un elemento presuntivo legittimo (che si configura però come presunzione relativa) posto che è collegato in qualche modo ad elementi concreti di redditività.

Tuttavia, come si avrà modo di evidenziare nel prosieguo della trattazione, l’ICIAP non ha avuto vita lunga: nel quadro di semplificazione e razionalizzazione dei tributi locali, essa è stata soppressa a partire dall’anno 1998.

3.3. LA LEGGE N. 142/1990Con la L. n. 142/1990, restata per molti punti non attuata, il legislatore

tenta di creare nuove forme di collaborazione tra gli enti locali, avendo come obiettivo la gestione delle amministrazione locali secondo criteri di economicità ed efficienza.

Sul piano della finanza, la citata legge, all’art. 54, ha statuito che:“[1] L'ordinamento della finanza locale è riservato alla legge.[2] Ai comuni e alle province la legge riconosce, nell'ambito della finanza

pubblica, autonomia finanziaria fondata su certezza di risorse proprie e trasferite.[3] La legge assicura, altresì, agli enti locali potestà impositiva autonoma

nel campo delle imposte, delle tasse e delle tariffe, con conseguente adeguamento della legislazione tributaria vigente.

[4] La finanza dei comuni e delle province è costituita da: a) imposte proprie; b) addizionali e compartecipazioni ad imposte erariali o regionali; c) tasse e diritti per servizi pubblici; d) trasferimenti erariali; e) trasferimenti regionali; f) altre entrate proprie, anche di natura patrimoniale; g) risorse per investimenti; h) altre entrate.

[5] I trasferimenti erariali devono garantire i servizi locali indispensabili e sono ripartiti in base a criteri obiettivi che tengano conto della popolazione, del territorio e delle condizioni socio-economiche, nonché in base ad una perequata distribuzione delle risorse che tenga conto degli squilibri di fiscalità locale”.

Lo stesso articolo ha inoltre previsto l’assegnazione di specifici contributi per fronteggiare situazioni eccezionali; ha stabilito che le entrate fiscali finanziano i servizi pubblici necessari per lo sviluppo della comunità, integrate, se necessario dalla contribuzione erariale; ha determinato la creazione di apposito fondo nazionale ordinario per investimenti finalizzati alla realizzazione di opere pubbliche di preminente interesse sociale ed economico, e di un fondo nazionale speciale per il finanziamento di opere in aree particolari; ha ribadito, infine, il necessario concorso finanziario economico delle regioni, in funzione degli oneri relativi all’esercizio di funzioni trasferite o delegate.

20 Cfr. Corte Cost., n. 579/1989; Id., n. 169/1990; Id., n. 103/1991.

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La dottrina che si è pronunciata a commento di tale legge riteneva che questa avrebbe dovuto segnare l’inizio di una nuova fase. In particolare si è ritenuto che essa avesse “posto le premesse legislative per la riorganizzazione della finanza locale e dell’ordinamento finanziario”21. Ed in effetti il provvedimento aveva dunque statuito una serie di principi nuovi e posto le basi per rendere la finanza locale non più totalmente derivata, ma almeno mista22. Tuttavia, buona parte dei contenuti della norma è rimasto inattuato. Come si evidenzierà nel prosieguo, il periodo successivo è stato contraddistinto da una serie di provvedimenti d’urgenza che hanno inevitabilmente consolidato la situazione esistente negli anni ottanta23.

3.4. LA LEGGE N. 158/1990Con la legge n. 158/1990, il legislatore amplia l’autonomia tributaria

regionale e riordina la materia dei trasferimenti statali. Il testo legislativo anticipa le linee di riforma della finanza regionale, mirando ad una parziale sistemazione dei rapporti stato-regioni e ad una prima soluzione dei principali problemi della finanza regionale24. L’attuazione dei disposti della legge ha portato ad una modifica dei tributi esistenti ed all’istituzione dei seguenti nuovi tributi:

1. L’addizionale regionale dell’imposta erariale di trascrizione, dovuta su trascrizioni, iscrizioni ed annotazioni eseguite dai pubblici registri automobilistici nelle regioni a statuto ordinario;

2. L’addizionale regionale all’imposta sul consumo del gas metano ed imposta sostitutiva per le utenze esenti;

3. L’imposta regionale sulla benzina per autotrazione, come tributo facoltativo, che le regioni possono istituire nel limite di 30 Lire al litro.

Quanto alla composizione dei fondi, la legge in commento fornisce le disposizioni necessarie al fine di razionalizzare e riordinare il Fondo Comune ed il Fondo di Sviluppo. Con riferimento al primo, questo risulta composto di due parti: una prima, che continuerà ad essere costituita dai tributi erariali ex art. 8, legge n. 281/1970, ed una seconda, risultante dalla confluenza nel Fondo comune di tutti i finanziamenti di parte corrente istituiti da leggi statali speciali, con l’eccezione delle somme relative al Fondo Nazionale Trasporti e del Fondo Sanitario Nazionale. Con riferimento al secondo, questo risulta suddiviso in due parti: una quota fissa consolidata al 1990, ex art. 9, legge n. 281/1970, ed una seconda, la cui entità è fissata dalla legge finanziaria su base triennale e comprensiva degli stanziamenti annuali previsti dalle specifiche leggi di settore in materia di investimento.

La legge n. 158/1990 ha dunque operato un tentativo di ampliamento della potestà impositiva regionale e di razionalizzazione della spesa, al pari di quanto operato dalla legge n. 142/1990 in tema di finanza comunale e provinciale. In

21 Cfr. Paoloni, L’azienda del comune e della provincia, 1995, Giappichelli, 51.22 Cfr. Circ. 17 giugno 1990, n. 17102/127/1.23 Cfr. Paoloni, L’azienda del comune e della provincia, 1995, Giappichelli, 52.24 Cfr. Di Renzo, L’ordinamento finanziario regionale, Roma, 1996, 120 ss.

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realtà, una mera sostituzione delle entrate erariali con altrettante entrate regionali, senza alcun potere di amministrazione delle stesse, non ha contribuito ad una responsabilizzazione degli organi locali in merito alle decisioni di contenimentodella spesa, rimanendo sostanzialmente immutato il ruolo discrezionale dello stato.

3.5. I DECRETI LEGISLATIVI N. 502/1992 E N. 504/1992Un punto d’inversione nei rapporti finanziari tra stato e regioni si è avuto,

per contro, con la legge delega n. 241/1992, recante delega al governo per la “razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, impiego, previdenza e finanza locale”. Le indicazioni di principio contenute nella legge delega hanno trovato concreta attuazione legislativa mediante il D.lgs. n. 502/1992 in tema di sanità, e nel D.lgs. n. 504/1992, in tema di finanza territoriale.

In sintesi, il settore sanitario ha visto, come misura centrale di riforma, la regionalizzazione dei contributi sanitari: con decorrenza 1 Gennaio 1993, infatti, è stato attribuito alle Regioni il gettito dei contributi per le prestazioni del sistema sanitario localmente riscossi, riducendo di pari importo il Fondo sanitario nazionale di parte corrente.

Inoltre, alle Regioni viene attribuito l’intero gettito della tassa automobilistica, oltre alla soprattassa speciale per i veicoli alimentati a Gpl o metano. Viene inoltre prevista l’istituzione, sempre a favore delle regioni, di un’imposta sull’erogazione del gas e dell’energia elettrica per usi domestici. A fronte di quest’attribuzione, vi è la contestuale riduzione, di pari importo, dei trasferimenti statali, a valere sulla quota del Fondo Comune.

L’indirizzo seguito dal legislatore è stato dunque quello di riequilibrare l’assetto complessivo delle risorse regionali, attribuendo maggior peso ai tributi propri e riducendo contestualmente quello dei trasferimenti statali, pur mantenendo sostanzialmente invariata la rilevanza quantitativa delle entrate. Inoltre, l’attribuzione di maggiori risorse proprie alle regioni ha avuto l’effetto di responsabilizzare maggiormente i centri di spesa sub-nazionali.

Tuttavia, si tratta ancora di un concetto di autonomia finanziaria lontano dall’essere matura e appieno coerente con il dettato costituzionale. In particolare, tale sistema si basa, prevalentemente, in nome di una uniformità nazionale del sistema fiscale, sul potenziale intervento delle regioni sulle aliquote, nell’ambito di una cd. “forchetta”, stabilita anch’essa in sede nazionale. A ciò si aggiunga che le regioni si sono avvalse in maniera alquanto limitata della facoltà di variare le aliquote, aumentando il proprio gettito25.

25 Ad esempio, le tasse di concessione governativa sono state mantenute, da 10 delle 15 regioni a statuto ordinario, al minimo previsto dalla legge; inoltre, solo Piemonte e Puglia hanno deliberato l’applicazione dell’imposta regionale sulla benzina. Sul punto si veda AA.VV., Governo e governi, Milano, 1998, 123, secondo cui l’imposta regionale sulla benzina è l’unica per la quale la

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Con il D.lgs. 504/1992 viene istituita l’Imposta Comunale sugli Immobili (ICI)26, i cui soggetti attivi sono i Comuni. L’ICI, come attentamente evidenziato, ha comportato “un’autonomia tributaria più che significativa, utilizzando tributi di tipo immobiliare o patrimoniale, abbastanza rispondenti al criterio del beneficio”27.

Come è noto, la letteratura economica ha evidenziato come l’imposizione immobiliare si pone come una delle forme più efficaci di tassazione locale, mostrando uno stretto legame con il territorio ed una teorica stabilità di gettito nel tempo28. Musgrave, ad esempio, ha sostenuto che:

1. Alla responsabilità di un governo centrale spettano le imposte collegate alle manovre di stabilizzazione dell’economia, così come le imposte dotate di un elevato potenziale redistributivo;

2. Le imposte sui beni e fattori dotati di una forte mobilità sono di competenza centrale, mentre possono essere lasciati alla competenza dei governi locali quelle su fattori immobili o scarsamente mobili;

3. Le imposte basate sul criterio del beneficio, e più in generale le tariffe ed i prezzi pubblici, possono essere amministrate a tutti i livelli di governo; è evidente però che quelli locali sono particolarmente adatti a questo tipo di prelievo, che permette di catturare i benefici dei servizi locali.

Questi principi generali venivano poi tradotti da Musgrave in valutazioni più specifiche, tra cui quella che le imposte sulla terra e sugli immobili dovrebbero essere lasciate ai livelli locali

Essendo i Comuni i soggetti attivi dell’ICI, essi hanno anche il potere normativo di determinare l’aliquota, tra il quattro e il sette per mille, nonché hanno poteri normativi in materia di esenzioni, accertamento e riscossione. La base imponibile è costituita dal valore dell’immobile, determinato differentemente a seconda della tipologia.ùIl presupposto impositivo è il possesso di un immobile, ed in particolare di un fabbricato, di un’area fabbricabile o di un terreno agricolo, a prescindere dal fatto che tali immobili siano o meno produttivi. l soggetto passivo del tributo è il possessore dell’immobile, quindi o il proprietario o il titolare di altro diritto reale (quale, ad esempio, l’usufrutto).

L’effetto dell’introduzione dell’ICI è stato certamente quello di aumentare le entrate di competenza dei comuni. L’ICI ha però subito, nel corso degli anni,

previsione di autonomia finanziaria si spinge al di là dell’usuale fissazione delle aliquote all’interno di una “forchetta” predefinita in sede nazionale.26 Contestualmente è stata abolita l’INVIM.27 Così Osculati, La finanza locale ed il federalismo fiscale, in Bernardi (a cura di), La finanza pubblica italiana: rapporto 1994, 1994, Il Mulino.28 Cfr. Musgrave, Finanza pubblica, equità, democrazia, 1996, Il Mulino.

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molti interventi che hanno, dapprima, aumentato fortemente i poteri normativi dei Comuni29, quindi, negli ultimissimi anni, ridotto fortemente il gettito derivante.

Da quanto sopra emerge che le riforme caratterizzanti i primi anni novanta sono avvenute all’interno di un sostanziale mantenimento della realtà tributaria previgente: si è assistito ad un passaggio di risorse dalla forma dei “trasferimenti” a quella dei cd. “tributi propri”, allargando così, formalmente, la potestà impositiva sub-nazionale, pur non dando luogo a provvidenti di riforma strutturali, che dessero di fatto agli enti locali il potere di istituire ed amministrare tributi propri. Sintetizzando, le leggi dei primi anni novanta hanno portato alla razionalizzazione dei Fondi esistenti, all’attribuzione di nuove imposte proprie alle regioni, alla regionalizzazione dei contributi sanitari ed alla introduzione dell’ICI.

I primi anni novanta rappresentano dunque una inversione di tendenza rispetto al passato, pur mancando però di una riforma strutturale che vedrà luce, solamente, nel 1998, con l’introduzione dell’Imposta regionale sulle attività produttive (IRAP).

3.6. L’ESPERIENZA DELLA COMMISSIONI BICAMERALE.Nel corso degli anni Novanta, seppur con scarsissimi risultati, la questione

del federalismo fiscale venne affrontata nei lavori della Bicamerale nel 1993. Il compito affidato alla Bicamerale era proprio quello di giungere a proporre un modello innovativo e coerente con i tempi del quadro delle autonomie proposto dal titolo V della Costituzione30. Il progetto della Bicamerale non ha, ovviamente, interessato solamente l’aspetto finanziario, ma ha delineato un quadro di una riforma (rimasta inattuata), di cui si intende provvedere una sommaria indicazione, visti i molti spunti poi recepiti nell’ambito della riforma costituzionale del Titolo V qui esaminata.

La tendenza che emerge dai lavori della Bicamerale è quella di rendere maggiormente concreto il contenuto dell’autonomia finanziaria delineato dalla Costituzione del 1948, ma senza passare da una reale modifica dell’assetto esistente, rispetto al quale esso “si colloca essenzialmente in una linea di continuità”31. Volendo sintetizzare il quadro che emerge, ci si può efficacemente

29 Cfr. Marongiu – Tundo, Il sistema dei tributi comunali alla luce dei provvedimenti di riforma, in Tributi, 1998, 1055 ss.

30 La Commissione fu istituita con doppia deliberazione conforme delle due Camere nel Giugno del 1992, e successivamente disciplinata con legge costituzionale del 6 Agosto 1993 (l. cost. 1/93). In considerazione dell’ampiezza del tema, si decise di organizzare l’attività della Bicamerale in modo da affidarne la fase istruttoria a quattro comitati: il primo competente sulla forma dello Stato e sul problema delle autonomie, il secondo sulla forma del governo e del parlamento, il terzo sulle garanzie costituzionali, ed il quarto sulle leggi elettorali. L’iter dei lavori della Bicamerale è ben descritto in A. CANTARO, M. DEGNI, Il principio federativo , edizioni La Meridiana, 1994, pagg. 242 e ss..

31 F. PIZZETTI, cit., pag. 119.

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ricondurre al pensiero di autorevole dottrina32: “nel progetto di revisione della Costituzione la Regione appare una figura esangue, priva di sostanza e con una capacità di programmazione impacciata dalla mancanza di efficaci raccordi tanto con il livello inferiore – i Comuni e le province – quanto con il livello superiore, cioè lo Stato.

Nell’idea originaria del costituente del 1948, la Regione rappresentava lo snodo fondamentale dei flussi di potere politico-istituzionale sia in senso ascendente, sia in senso discendente. Lasciando da parte il rilievo, tutt’altro che irrilevante, che la Costituzione appare priva degli strumenti necessari per un’adeguata attuazione di tale idea, questa, comunque, è sempre apparsa foriera di sviluppi successivi che solo in parte si sono realizzati (…). A questa idea, tuttavia, (…) si è ispirata anche la Commissione Bicamerale, senza riscuotere alcun successo”.

Un primo ed importante fattore su cui la dottrina, nel commentare quei lavori ha posto attenzione, è la mancata regionalizzazione di una delle due camere che compongono il nostro Parlamento: questo, per molti studiosi33, rappresenta un elemento essenziale e sostanziale per attribuire una reale autonomia alle Regioni. I fautori della introduzione della Camera delle Regioni sostengono la necessità di superare la struttura esistente, che si risolve in una duplicazione dei modi della rappresentazione, senza che il Senato, i cui membri sono eletti proporzionalmente alla dimensione delle Regioni di provenienza, sia realmente rappresentativo degli interessi delle singole comunità territoriali34.

Nei lavori della Commissioneci si è, piuttosto, limitati a prevedere35 una “Commissione delle autonomie territoriali”, composta per un terzo da senatori, per un terzo dai Presidenti delle Regioni e per un terzo da rappresentanti dei Comuni, ed avente lo scopo di “esaminare i disegni di legge nei casi e nei modi stabiliti dalla Costituzione e di esprimere pareri sulle questioni che riguardano i Comuni, le Province e le Regioni”.

32 A. BALDASSARRE, Una Costituzione da rifare, Milano, 1998, pag. 40. Un altro commento

della dottrina, sintetico ma significativo, è riconducibile a M. BORDIGNON, La finanza sub-statale, linee evolutive, problemi e proposte di riforma , allegato ai lavori della Comm. Gallo, pag 4: l’assetto finanziario proposto appare, infatti, “alquanto vago”.

33 Tra i molti fautori del cd. “Senato delle Regioni”, si possono annoverare R. BIN, F. PIZZETTI,G. PASQUINO, A. D’ATENA, E. DE MARCO, S. GALEOTTI. Su questo tema, estremamente ampio è stato il dibattito anche in sede di riforma del Titolo V: pur non addentrandosi nell’analisi di questo punto, che esula dagli obiettivi di questo contributo, basti sottolineare come il pensiero comune di gran parte degli schieramenti politici (sia di governo che di opposizione) abbia riconosciuto nella mancata regionalizzazione di una delle due camere il limite maggiore del progetto di revisione costituzionale.

34 E. DE MARCO, in AA.VV., “Autonomie locali e riforme istituzionali” cit., pag. 20, ricorda che “la nostra dottrina è infatti particolarmente propensa a cogliere il maggior tratto distintivo dello stato federale nella possibilità per le entità federate di partecipare ai procedimenti decisionali dello stato centrale ed in particolare di trovare espressione in una seconda camera federale”. La mancata regionalizzazione, quindi, viene vista come “l’aspetto più grave” del progetto.

35 Art. 97 del testo della Commissione.

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Nelle intenzioni della Commissione, infatti, la struttura dell’articolo si sarebbe sostanzialmente modificata, prevedendo che lo Stato avesse competenza esclusiva solo in materie “enumerate” e che fosse comunque riservata allo Stato la definizione del contenuto essenziale dei diritti riconosciuti nella parte prima della Costituzione ; che al di fuori di tali materie la competenza spettasse comunque alle Regioni; che la competenza legislativa regionale si distinguesse in “esclusiva” e “concorrente”; che le Regioni avessero competenza esclusiva solo in materie enumerate, ed al di fuori di queste avessero, invece, competenza di tipo concorrente; che nelle materie regionali di competenza concorrente, lo Stato potesse fissare con leggi organiche i principi fondamentali delle funzioni che attengono alle esigenze di carattere unitario: tali leggi, che avrebbero vincolato le Regioni e non avrebbero avuto come destinatari i cittadini, sarebbero state presentate al Senato e sarebbero state approvate a maggioranza dei componenti previa consultazione delle Regioni. Si propose, quindi, un sistema suddiviso in: materie statali enumerate (di competenza esclusivamente statale); materie regionali enumerate (di competenza esclusiva regionale, salvo il ruolo dello Stato nel definire il contenuto essenziale dei diritti della parte prima della Costituzione); materie regionali non enumerate (con possibile intervento statale per fissare i principi fondamentali delle funzioni che attengono ad esigenze di carattere unitario). Analogo cambiamento veniva riservato al decentramento amministrativo, con la previsione di attribuzionealle Regioni (e, per decisione di queste, ai Comuni ed alle province) di tutte le competenze, salvo che nelle materie attribuite in via esclusiva allo Stato.

La Commissione, invece, ha presentato spunti innovativi riguardo alla ripartizione delle competenze legislative, in parte recepiti dalla riforma dell’articolo 117 Cost., con riferimento alla struttura della finanza locale. Accanto ad un innovativo impianto legislativo ed amministrativo, la Commissione Bicamerale si proponeva infatti di rivisitare in modo sostanziale l’assetto finanziario al fine di “superare radicalmente l’assetto della finanza pubblica, instaurato agli inizi degli anni ’70, il cui principio ispiratore è stato quello della finanza derivata”, basato sulla “dissociazione dei centri di spesa”, sistema che aveva provocato “una continua crescita della spesa pubblica, deresponsabilizzando gradatamente i centri di spesa regionale, distolti dall’apprezzamento delle priorità nella scelta degli obiettivi politici ed amministrativi”36.

Le modifiche che vennero infine proposte sono risultate assai più contenute rispetto agli intendimenti originari. L’art. 64 (che avrebbe dovuto sostituire l’art. 119 Cost.) prevedeva infatti: “L’autonomia finanziaria e tributaria è elemento costitutivo dell’autonomia regionale. Fatti salvi i trasferimenti perequativi destinati alle Regioni per cui ricorrono le condizioni, la regione finanzia la propria attività con: tributi propri, addizionali o sovraimposte sui tributi erariali, istituiti

36 Atto della Camera dei deputati cit..

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con leggi regionali sulla base di principi stabiliti con legge approvata dalle due Camere; quote di tributi erariali riscossi nel territorio regionale o entrate derivanti da basi imponibili di tributi erariali riferibili al territorio regionale; proventi destinati alla vendita di beni e servizi e da tariffe e contributi richiesti agli utilizzatori dei servizi di competenza delle Regioni”.

L’articolo in questione continuava, poi, disciplinando la finanza degli enti locali, a proposito dei quali così statuiva: “gli enti locali dispongono di autonomia finanziaria e tributaria. Con legge approvata dalle due Camere sono definiti i tributi propri, le addizionali o sovraimposte su tributi erariali attribuite agli enti locali, riconoscendo autonomia nella fissazione delle aliquote e, ove possibile, nella determinazione degli imponibili…”. La norma si chiudeva evidenziando l’esistenza di trasferimenti verso gli enti locali, “ispirati a criteri di generalità ed uniformità”, di un patrimonio, con la previsione del ricorso all’indebitamento37

(sia per Regioni che per enti locali) “solo per finanziare spese di investimento”, e disponendo la fissazione di norme “dirette a promuovere e realizzare il coordinamento tra l’attività finanziaria e tributaria dello stato e quella delle Regioni e degli enti locali”.

La norma di cui trattasi si limitava quindi soltanto a delineare in modo forse più chiaro la struttura dell’autonomia finanziaria, ma non apportava innovazioni significative al modello previgente. L’art. 64 manteneva, infatti, la sostanziale suddivisione delle fonti di tale autonomia finanziaria in tributi propri (con la specificazione delle addizionali e delle sovra-imposte) e quote di tributi erariali (specificando che vengono riscossi nel territorio di competenza), costituzionalizzando soltanto i corrispettivi della vendita di beni e servizi.

La perequazione regionale è, invece, oggetto del successivo art. 65, che istituisce un Fondo perequativo “dal quale sono erogati i trasferimenti annui per le Regioni con minore capacità fiscale per abitante”. Scopo del Fondo è “quello di consentire alle Regioni beneficiarie di svolgere funzioni ed erogare i servizi di loro competenza ordinaria ad un livello di adeguatezza medio ed in condizioni di massima efficienza ed economicità”. In base a tale norma i trasferimenti, inoltre, “non hanno vincoli di destinazione”, anche se, riguardo ai servizi “per i quali è richiesta uniformità di prestazioni su tutto il territorio nazionale, in quanto da essidipendono diritti riconosciuti dalla prima parte della Costituzione”; i trasferimenti infine possono essere finanziati con “fondi appositi ed a destinazione vincolata”.

Veniva quindi individuata una migliore specificazione del trasferimento di risorse integrative rispetto all’esistente dettato costituzionale, ma, allo stesso tempo, non v’era traccia alcuna di perequazione orizzontale (cioè tra Regioni), né

37 Ed escludendo ogni forma di garanzia statale sui prestiti accesi dalle Regioni, Province e

Comuni : l’assunzione di impegni di spesa in annualità , infatti, “può essere disposta dalle Regioni, Province e Comuni solo nelle forme e nei limiti stabiliti con legge approvata dalle due Camere”.

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si affrontava in alcun modo l’introduzione di forme di responsabilizzazione della spesa da parte degli enti sub-statali.

3.7. IL PROGETTO DI LEGGE COSTITUZIONALE DEL 1997.Le proposte della Commissione Bicamerale non hanno avuto, come si è

detto, sbocchi concreti. A distanza di tre anni, un nuovo progetto, da parte un nuovo gruppo di lavoro, è stato presentato in Parlamento38: come nel caso precedente, oggetto della proposta formulata è stata la revisione della seconda parte della Costituzione. Anche siffatto progetto però non ha avuto concreta applicazione. In esso viene ripreso dalla precedente proposta l’idea di “rovesciare” l’attuale sistema di competenze legislative: allo Stato un elenco numerato di materie, alle Regioni la potestà “in riferimento ad ogni materia non espressamente attribuita alla potestà legislativa dello stato” (art. 58)39. Come nelprogetto precedente, manca inoltre la previsione di una regionalizzazione di uno dei due rami del Parlamento40.

Riguardo all’autonomia finanziaria, l’art. 62 del progetto statuiva che “i Comuni, le Province, le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa nelle forme e nei limiti stabiliti dalla Costituzione e dalle leggi approvate dalle due camere”. I tre enti “stabiliscono ed applicano tributi ed entrate propri”. Il secondo comma introduceva un nuovo aspetto, per certi versi rilevante: con riferimento ancora a Province, Comuni e Regioni (ed alle entrate proprie), stabilisce che “essi dispongono di una quota non inferiore alla metà del gettito complessivo delle entrate tributarie erariali”: l’innovazione risiedeva quindi nella specificazione di un dato quantitativo di riferimento prima assente.

L’articolo in questione proseguiva con la previsione che “la partecipazione al gettito dei tributi erariali riferibile al territorio regionale integra i proventi dei tributi propri, sino al raggiungimento dell’autosufficienza finanziaria per le Regioni con maggiore capacità fiscale per abitante ed in riferimento alle spese per le funzioni ordinarie che Comuni, Province e Regioni devono svolgere”. Infine la quota di partecipazione ai tributi erariali così definita “è applicata uniformemente a tutte le Regioni”. Vi è anche la previsione (innovativa rispetto al precedente progetto) della disciplina, mediante legge ordinaria, “dei modi e delle forme di collaborazione all’attività di accertamento dei tributi erariali al cui gettito (Comuni, Province e Regioni) partecipano”.

38 Progetto basato sulla l. cost. 1/1997, e presentato in Parlamento il 31-10-1997.39 Con la previsione, rinvenibile nel successivo art. 59, che “il Governo, quando ritenga che

una legge regionale ecceda la competenza della Regione, può promuovere la questione di legittimità costituzionale davanti alla Corte Costituzionale entro 60 giorni dalla sua pubblicazione”.

40 Sull’importanza di questo elemento si vedano le considerazioni riportate a proposito dei lavori del 1993.

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Riguardo al sistema perequativo41 (la cui costituzione e distribuzione sono stabilite con legge “secondo parametri uniformi ed oggettivamente determinabili, stabiliti con legge pluriennale”), si prevede l’istituzione di un Fondo “dal quale sono erogati i trasferimenti annui a favore delle Comunità regionali nelle quali la capacità fiscale per abitante sia inferiore a parametri definiti per legge, o siano superiori i costi necessari all’erogazione dei servizi cui i Comuni, le province, le Regioni sono tenuti”. Si riproponevano, infine, norme sostanzialmente simili al precedente progetto anche riguardo il patrimonio degli enti e riguardo all’indebitamento, con la previsione dell’esclusione di qualsiasi forma di garanzia dello Stato. Questi ultimi tre concetti acquisiranno poi ruolo costituzionale con la Riforma del Titolo V.

La limitata portata di queste elaborazioni degli anni Novanta ha messo quindi in evidenza come soltanto una costituzionalizzazione della questione della attribuzione di poteri impositivi ad enti territoriali potesse essere in grado di determinare sviluppi effettivi, come evidenziato da autorevole dottrina42: “è inutile parlare di poteri e di competenze se non si affronta realisticamente un federalismo fiscale, o comunque un’autonomia finanziaria, che sia un’autonomia non solo derivata, ma impositiva, cioè primaria”.

4. IL MODELLO DI DECENTRAMENTO NELLA SECONDA METÁ DEGLI ANNI NOVANTA

L’evoluzione normativa fiscale regionale della seconda metà degli anni novanta ha sostanzialmente modificato e ridisegnato, mediante un progetto organico, il sistema previgente. Come si è già avuto modo di anticipare, la riforma chiave è stata l’introduzione dell’IRAP e la contestuale abolizione di una serie di imposte esistenti.

4.1. LA LEGGE FINANZIARIA 1996La legge n. 549/1995 (collegato alla legge finanziaria 1996) ha introdotto

tre nuovi tributi regionali, con decorrenza dal 1 gennaio 1996:1. Una quota dell’accisa sulla benzina per autotrazione, attribuita alla

regione sul cui territorio avviene il consumo, a titolo di tributo proprio;2. Una tassa regionale per il diritto allo studio universitario, il cui gettito

viene interamente devoluto all’erogazione di borse di studio e dei cd. prestiti d’onore;

3. Una tassa regionale per il deposito dei rifiuti in discarica, al fine di ridurre la produzione dei rifiuti, di favorire forme di riciclaggio, nonché realizzare la bonifica dei suoli inquinati, di aree degradate o dismesse.

41 Il cui scopo è quello di “consentire di svolgere le funzioni ed erogare i servizi di competenza

ordinaria ad un livello di adeguatezza medio ed in condizione di massima efficienza ed economicità”.

42 Su cui F. CUOCOLO, in AA.VV.., “Autonomie locali e riforme istituzionali”, Milano, 1998, pag. 49.

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Vengono inoltre soppressi il Fondo comune, il Fondo Nazionale dei trasporti, il Fondo per lo sviluppo ed altri fondi minori, compensando il mancato incasso da tali trasferimenti con l’accisa sulla benzine e un fondo perequativo43. Il fondo perequativo si basava, concretamente, su una dotazione iniziale pari alla differenza tra i trasferimenti soppressi ed il gettito dell’accisa, avendo lo scopo, appunto, di compensare i differenziali di gettito derivanti dall’introduzione della compartecipazione regionale al gettito dell’accisa sulla benzina.

Con tale riforma si prosegue dunque nella direzione di razionalizzazione della finanza regionale, con l’aumento della sfera dei tributi propri rispetto ai trasferimenti statali.

4.2. LEGGE FINANZIARIA 1997: LA PRIMA RIFORMA STRUTTURALE VERSO UN FEDERALISMO MATURO (L’IRAP E LE ADDIZIONALI)

La legge n. 662/1996 (legge collegata alla finanziaria 1997) ha creato le premesse per una riforma strutturale del sistema finanziario regionale e locale. In essa, in fatti, confluiscono i risultati di uno studio intrapreso dal giugno 1995 dalla “Commissione Gallo”44. I criteri di massima a cui la commissione si sarebbe dovuta uniformare possono riassumersi nei seguenti punti: 1. Revisione dell’esistente disciplina del finanziamento delle regioni e degli enti locali attraverso tributi propri, quote di tributi erariali e trasferimenti statali; 2. Attribuzione di una maggiore potestà impositiva, nel rispetto degli artt. 23 e 119, Cost.; 3. Partecipazione degli enti territoriali al gettito di determinati tributi erariali; 4. Previsione di un sistema perequativo interregionale; 5. Gestione e criteri di coordinamento ottimale dei tributi attraverso creazione di strutture organizzative efficienti; 6. Abolizione, se del caso, di alcuni tributi con sostituzione di altri nell’ottica dell’efficienza e della semplificazione del sistema. Le proposte scaturite dai lavori della Commissione costituiscono il presupposto della legge n. 662/1996.

La legge n. 662/1996 costituiva una novità per tre diverse ragioni:1. In primo luogo, l’art. 3 della citata legge ha previsto l’introduzione,

mediante delega la governo, di due nuovi tributi, l’imposta regionale sulle attività produttive e l’addizionale IRPEF, oltre alla previsione di nuovi meccanismi perequativi tra le regioni;

43 Cfr. AA.VV., Governo e governi, Milano, 1998, 302 ss. Come sottolineato da Di Renzo, L’ordinamento finanziario regionale, Roma, 1996, 209, “si è voluto individuare un meccanismo che consenta alle regioni di finanziare, all’interno di un abbozzo di federalismo fiscale, tutte le spese diverse da quella sanitaria”.44 Si tratta della “Commissione di studio per il decentramento fiscale”, istituita dall’allora Ministro delle finanze, prof. Fantozzi, presieduta dal prof. Gallo e composta da esperti e professori di diritto e di economia, rappresentanti del Ministero delle Finanze e degli Interni, della Presidenza del consiglio, del CNR, della Guardia di finanza, della conferenza stato-regioni, delle regini (Lombardia, Emilia Romagna ed Umbria), dei comuni (Roma, Venezia, Monza) e delle province (Torino)..

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2. La seconda importante innovazione contenuta nella legge delega riguarda il sistema dei trasferimenti erariali agli enti locali.

3. La terza innovazione riguarda l’imposta comunale sugli immobili, attribuendo maggiore autonomia ai comuni nella gestione dell’imposta riguardante le aliquote, le agevolazioni, la rivalutazione degli estimi catastali e l’attività di raccolta di informazioni per la realizzazione di un nuovo Catasto.

Tale legge è stata attuata con il D.lgs. n. 446/1997. Si verifica, dunque, un’opera di razionalizzazione dei tributi esistenti, in ossequio, appunto, ai principi sanciti dal legislatore delegante: vengono aboliti sette tributi e, al contempo, si introduce un’ulteriore forma di compartecipazione regionale ai tributi erariali, modificando profondamente le forme di compartecipazione regionale ai tributi erariali45.

Il D.lgs. 446, istituendo l’IRAP, abolisce contestualmente: i contribuiti per il servizio sanitario nazionale (compresa la cd. “tassa sulla salute”) ed altri prelievi contributivi minori; l’imposta locale sui redditi; l’imposta sul patrimonio netto delle imposte; la tassa sulla concessione governativa per l’attribuzione del numero di partita IVA; l’imposta comunale per l’esercizio di imprese, arti e professioni; le tasse di concessione comunale. Sul punto, l’appendice al D.lgs. stabilisce che “la soppressione di una pluralità di prelievi con basi imponibili limitate ed aliquote differenziate e l’istituzione di un’unica nuova imposta, con base imponibile più ampia ed aliquota uniforme, comportano un miglioramento dell’efficienza economica del sistema, riducendo le distorsioni sulle scelte allocative degli operatori”.

Da un punto di vista economico, l’IRAP costituisce un’imposta che minimizza le distorsioni relativamente alle scelte dei consumatori riguardo all’allocazione delle risorse e garantisce una maggior neutralità con riguardo alle decisioni in materia di reperimento delle risorse. Mentre le tradizionali imposte colpivano il reddito o il patrimonio, l’IRAP ha come presupposto lo svolgimento di un’attività, autonomamente organizzata, per la produzione di beni e servizi46. Si tratta di “un’imposta reale, oggettiva, che prende in esame non il soggetto di imposta ma le tipologie di attività esercitate dallo stesso, produttive di capacità contributiva”47. Invero, il carattere reale dell’IRAP non è affatto pacifico48.

45 Nell’appendice al D.lgs. n. 446/1997 si legge che “il citato decreto (…) introduce profonde modifiche strutturali al sistema tributario vigente, in quanto attua un significativo decentramento del prelievo dallo stato alle regioni, dotando queste ultime di autonomia finanziaria necessaria per svolgere una diretta e responsabile politica di bilancio, presupposto di un’evoluzione in senso federalista dell’assetto istituzionale dello stato”.46 Il presupposto della norma va presumibilmente considerato ed interpretato alla luce di una fattispecie “a formazione successiva o progressiva”: l’esercizio dell’attività andrebbe quindi coordinato con la determinazione della basa imponibile e con le disposizioni comuni per la determinazione del valore venale della produzione netta, così da cogliere un secondo momento di tale fattispecie, costituito dalla produzione netta, ed un terzo, costituito dalla liquidazione dell’imposta. Cfr., sul punto, Natoli, Considerazioni preliminari sull’IRAP, in Boll. trib., 1998, 8 ss.47 Così, appendice al D.lgs. n. 446/1997.

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L’IRAP ha la sua ragion d’essere nel legame esistente tra le attività produttive e le amministrazioni locali: infatti, le imprese si avvalgono non solo delle caratteristiche ambientali e della qualità e quantità dei servizi reali, ma anche della natura dei servizi educativi, sanitari e di benessere offerti ai lavoratori ed alle loro famiglie. Del che, le imprese, con l’IRAP, contribuiscono ai costi di produzione dei servizi pubblici di cui si avvantaggiano in maniera più o meno diretta49.

In breve, i soggetti passivi del tributo sono imprenditori, lavoratori autonomi e pubbliche amministrazioni. La base imponibile è data dalla differenza tra il valore della produzione ed i costi della produzione. Non si deducono le spese per il personale, alcune svalutazioni e gli ammortamenti. L’aliquota d’imposta è pari al 4,25%, anche se le Regioni possono modificarla entro determinati limiti.

Come si è già evidenziato, il gettito dell’imposta è destinato alle Regioni (e ripartito tra esse), ma in forza di un rapporto Stato-Regioni, estraneo al contribuente. Nel caso in cui un’impresa eserciti la propria attività in più Regioni, il gettito viene ripartito tra esse secondo un criterio presuntivo, che ripartisce l’imponibile sulla base del costo del personale dipendente che opera presso le diverse sedi succursali.

Esula dalla presente trattazione una disamina completa del dibattito in materia di IRAP, nonché una rassegna delle vivaci critiche ad essa mosse, sia di natura economica, riferite cioè all’impatto dell’imposta sulle strategie economiche dei soggetti passivi50, sia di natura giuridica, legate cioè agli aspetti giuridico-teorici del tributo, in riferimento anche alla problematica del decentramento51.

48 Coloro che riconoscono la realità dell’IRAP sottolineano come “la variazione delle scorte rientra nella base imponibile della stessa” (Artoni, Materiali di scienza delle finanze, 1999, Il Mulino, 152), o come questo tributi sia “sulle imprese e sul lavoro autonomo” (AA.VV., Governo e governi, Milano 1998, 191). Per contro, chi contesta questa impostazione sottolinea come “non è affatto detto che, a parità di risultato di gestione, due imprese vengano a pagare nella stessa misura, come dovrebbe accadere se si trattasse di imposta reale” (Natoli – Vignarelli, Il meccanismo impositivo dell’IRAP: dubbi di costituzionalità, in Boll. trib., 1998, 651 ss.) 49 Sul punto, la relazione finale della Commissione Gallo chiarisce che “ogni attività organizzata comporta la presenza e circolazione delle persone che ad essa concorrono, nonché dei loro familiari, la creazione o l’utilizzazione di strutture materiali (come edifici ed impianti) e beni strumentali, l’impiego ed il consumo di energie e così via. Ciò richiede interventi, opere pubbliche, approntamento di infrastrutture e servizi, cui sono specificatamente deputati gli enti pubblici aventi competenza in materia di gestione del territorio, urbanistica, sanità, trasporti e simili. In particolare, l’esercizio di queste attività comporta diseconomie esterne e pregiudizio, in diverse forme, di interessi dell’intera collettività o diffusi tra i suoi membri, a tutela dei quali gli enti suddetti sono tenuti ad intervenire”.50 Si tratta, più in particolare, delle seguenti critiche: 1. l’IRAP penalizza l’impiego dei lavoratori (in quanto i relativi costi non sono deducibili) ed è dunque in contrasto con l’art. 4, Cost.; 2. l’IRAP discrimina il lavoro autonomo dal lavoro dipendente; l’IRAP è penalizzante per quelle imprese fortemente indebitate, in quanto gli interessi passivi non sono deducibili; l’IRAP può comportare che imprese in perdita fiscale debbano comunque scontare l’imposizione, del che

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Ciò che in questa sede preme evidenziare è il fatto che l’IRAP rappresenta senza ombra di dubbio l’imposta cardine di una nuova forma di federalismo fiscale italiano. Circa il 90% del gettito dell’imposta è destinato a finanziare il comparto sanitario, che storicamente rappresenta la voce più cospicua delle speseregionali.

La riforma Visco, con il D.lgs. n. 446/1997 non si esaurisce tuttavia nell’introduzione dell’IRAP. Infatti, tra i vari provvedimenti, vi è anche l’introduzione dell’addizionale regionale all’IRPEF, per le quali le regioni hanno un margine di autonomia con riferimento all’aliquota e il cui gettito è prevalentemente destinato a finanziare la spesa sanitaria.

In questo modo si rimodellano sia il finanziamento regionale sia il sistema dei trasferimenti e quello perequativo. Viene definita, ai fini sanitari, la cd. “dotazione propria”, data dal 90% del gettito IRAP (sottratto l’ammontare del gettito assegnato allo stato) sommato al gettito dell’addizionale all’IRPEF. I trasferimenti integrativi saranno dunque dati dalla differenza tra il fabbisogno sanitario e la dotazione propria.

Per quanto invece concerne il meccanismo perequativo extra-sanitario, la riforma introduce un nuovo fondo, il “Fondo di compensazione interregionale”, in sostituzione del Fondo introdotto dal collegato alla legge finanziaria per il 1996.La normativa prevede che le Regioni con eccedenze positive (date dal gettito IRAP di spettanza regionale, non destinato alla sanità, meno l’ammontare del gettito IRAP da assegnare a comuni e province, meno le assegnazioni al fondo perequativo ante riforma IRAP) finanziano le Regioni con eccedenze negative, attraverso il Fondo di compensazione interregionale. La riforma genera quindi un sistema che è stato definito “orizzontale spurio”52, basato cioè su trasferimenti orizzontali, tra Regioni, eventualmente integrati da trasferimenti dello Stato.

Inoltre, accanto agli interventi sulla finanza regionale, il collegato alla finanziaria 1997 ha ridisegnato il sistema dei trasferimenti erariali agli enti locali.Con il D.lgs. n. 344/1997 è stato razionalizzato il sistema mediante trasferimenti basati sul concetto di fabbisogno standardizzato, calcolato sulla base di parametri che tengono conto dei servizi indispensabili e di quelli maggiormente diffusi. Vengono inoltre introdotti dei correttivi per misurare il degrado socio-economico, per considerare la presenza di insediamenti militari e la dimensione stessa degli enti. Si prevede infine un nuovo Fondo per la perequazione e gli incentivi, basato

sarebbe contraria all’art. 53, Cost.; l’IRAP è indeducibile dall’IRPEF o IRES; l’IRAP comporta la creazione, da un punto di vista contabile, di un terzo binario.51 Sotto questo profilo: 1. mancherebbe un legame con il principio della capacità contributiva, ai sensi dell’art. 53, Cost.; 2. presenterebbe dei tratti di somiglianza con l’IVA, venendo così ad urtare i disposti comunitari in materia; 3. non sarebbe un’imposta perequatrice.52 Così, Arachi – Zanardi, Federalismo e perequazione regionale, in Bernardi (a cura di), La finanza pubblica, 1998, Il Mulino, 12.

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su parametri quali le basi imponibili, lo sforzo fiscale e lo sforzo tariffario. Il fondo ordinario per gli investimenti è destinato alla realizzazione di opere pubbliche di preminente interesse sociale ed economico.

Con il D.lgs. n. 446/1997, si attua inoltre un’opera di riordino dei tributi locali. Si apportano modifiche al regime dell’ICI, attribuendo maggior potere regolamentare ai comuni. Contestualmente si prevede la trasformazione di alcuni tributi comunali in tariffe o canoni: è il caso della tassa per l’occupazione degli spazi ed aree pubbliche (TOSAP), o della tassa sulla pubblicità, o, infine, della tassa sullo smaltimento dei rifiuti solidi urbani.

Accanto a queste misure di razionalizzazione del sistema, si affianca anche l’introduzione dell’addizionale comunale all’IRPEF53, consentendo ai comuni di ampliare notevolmente l’area dei cd. tributi propri.

Di conseguenza, si può certamente concludere che le riforme della seconda metà degli anni novanta, con particolare riferimento alla riforma di cui alla legge finanziaria per il 1997, hanno radicalmente modificato il quadro previdente della fiscalità regionale e locale, pur senza raggiungere l’auspicato obiettivo di un federalismo fiscale maturo, sullo stile di quello adottati da altri Paesi europei.

4.3. IL D.LGS. N. 56/2000Un ulteriore passo nel processo federalista, che si vuole trattare in questo

paragrafo, si è avuto con il D.lgs. n. 56/2000, attuativo della legge delega n. 33/2000. Con questo provvedimento sono stati attuati, in sintesi, i seguenti interventi:1. sono stati soppressi i trasferimenti erariali (i quali vengono compensati con la

compartecipazione regionale all’IVA), 2. è stata aumentata l’aliquota dell’addizionale regionale all’IRPEF, 3. è stata aumentata la compartecipazione regionale all’accisa sulle benzine, 4. è stato istituito un Fondo perequativo nazionale, al fine di consentire che una

parte del gettito della compartecipazione all’IVA venga destinata alla realizzazione degli obiettivi di solidarietà interregionale,

5. è stato creato un vincolo di destinazione delle spese sanitarie e procedure di monitoraggio dell’assistenza sanitaria,

6. è stata prevista la partecipazione delle regioni all’attività di accertamento dei tributi erariali,

7. è stata abolita la compartecipazione dei comuni e province al gettito IVA.

53 Essa rappresenta, per Marongiu – Tundo, Il sistema dei tributi comunale alla luce dei recenti provvedimenti di riforma, in Tributi, 1998, 1069, “l’innovazione più significativa in materia di entrate tributarie”.

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5. LA RIFORMA DEL TITOLO V DELLA COSTITUZIONE (2001)

5.1. LINEAMENTI ESSENZIALIL’approvazione della legge costituzionale 18 Ottobre 2001, n. 3, ha

modificato il Titolo V della Costituzione Italiana, introducendo una serie di rilevanti elementi di novità in tema di autonomie e federalismo fiscale, con particolare riferimento alle modifiche apportate all’art. 119, Cost. Tra gli elementi di novità del vigente art. 119 Cost. spicca in particolare la costituzionalizzazione di un fondo perequativo interregionale e l’introduzione di un nuovo ente territoriale, la Città metropolitana.

Ed infatti l’art. 119, comma 1, prevede che i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa. Sempre sul versante della struttura degli enti esponenziali della nuova ripartizione delle pretese impositive, l’art. 119 Cost. prevede che i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni (i) hanno risorse autonome, (ii) stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, (iii)dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio.

Ai comma 3 e 4 viene più ampiamente dettagliata la nuova struttura della perequazione Stato-Regioni, laddove si prevede che la legge dello Stato istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante. Particolarmente rilevanti a questo riguardo sono quelle disposizioni dell’art. 119 Cost. che prevedono che le risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi precedenti dello stesso art. 119 Cost. consentono ai Comuni, alle Province, alle Città metropolitane e alle Regioni di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite, prevedendo altresì che lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni per promuovere taluni fini che la stessa norma costituzionale si estende a specificare; trattasi infatti dello sviluppo economico, della coesione e della solidarietà sociale, della rimozione degli squilibri economici e sociali, del favorire l'effettivo esercizio dei diritti della persona, o del provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle funzioni di Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni.

Mentre il finale comma 4 del previgente art. 119 Cost. prevedeva che la Regione aveva un proprio demanio e patrimonio, secondo le modalità stabilite con la legge della Repubblica, l’ultimo comma del vigente art. 119 Cost. prevede che i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno un proprio patrimonio, attribuito secondo i principi generali determinati dalla legge dello Stato, precisando che essi possono ricorrere all'indebitamento solo per finanziare spese di investimento e che è esclusa ogni garanzia dello Stato sui prestiti dagli stessi contratti.

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In breve, dunque, la riforma ha stabilito l’autonomia di entrata e di spesa di Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni, con l’attribuzione a tali enti di tributi propri, di compartecipazione al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio, oltre ad un fondo perequativo statale, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante. Di conseguenza, il nuovoarticolo 119 dovrebbe sancire la definitiva fine del sistema di finanza locale e regionale basata su criteri di trasferimento (cd. finanza derivata), in cui le risorse finanziarie di Regioni ed enti locali non sono stabilite e raccolte dagli enti che erogano i servizi ma derivano loro (totalmente o parzialmente) dallo Stato.

L’art. 119 deve essere letto congiuntamente all’art. 117, Cost., secondo cui allo Stato è attribuita in via esclusiva la potestà di disciplinare il sistema tributario dello Stato e di stabilire i principi fondamentali del sistema tributario complessivo. Per contro, le Regioni hanno potestà legislativa concorrente in materia di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, me nei limiti dei principi fondamentali stabiliti con legge dello Stato. Le Regioni, inoltre, sono titolari, in via residuale, della potestà legislativa in ogni materia non espressamente riservata allo Stato. Anche dopo la riforma, il potere finanziario è una prerogativa dello Stato, cui è affidata in via esclusiva la perequazione delle risorse finanziarie.

Nell’auspicio del legislatore costituente, il nuovo sistema dovrebbe dunque responsabilizzare gli amministratori locali, comportare un maggior controllo da parte dei cittadini ed introdurre meccanismi premianti o incentivi all’efficienza che mai si sono realizzati in presenza del criterio dei trasferimenti basati sulla spesa storica.

Con la citata riforma costituzionale è mutato l’assetto costituzionaleattinente alla ripartizione tra gli enti della potestà impositiva e la fase attuativa è prevista dal disegno di legge delega del 200854. La Corte costituzionale hacorrettamente affermato di recente che “appare evidente che l’attuazione dell’articolo 119 della Costituzione sia urgente al fine di concretizzare davvero quanto previsto nel nuovo Titolo V della Costituzione, poiché altrimenti si verrebbe a contraddire il diverso riparto di competenze configurato dalle nuove disposizioni”.

5.2. I LAVORI PARLAMENTARI NEL PROGETTO DI RIFORMA.Si è visto come, nel corso della seconda metà degli anni Novanta, la

rinnovata attenzione al tema delle autonomie abbia condotto all’emanazione di una serie di provvedimenti di carattere tributario che hanno contribuito a delineare un sistema più chiaro e coerente rispetto a quello del ventennio precedente, caratterizzato da evidenti limiti strutturali. È in tale clima che, successivamente al

54 Cfr. Corte Cost., 23 dicembre 2003, n. 370.

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fallimento delle Commissioni Bicamerali, si affronta nuovamente questo tema, giungendo, dopo un lungo periodo di lavori parlamentari55, alla definizione di un progetto di riforma costituzionale che si è infine concretizzato mediante il referendum popolare previsto dall’articolo 138 Cost..

Si intende ora, nel quadro metodologico di questo studio, analizzare il corpus di riflessioni e proposte nate in seno a tali lavori parlamentari, che delineano la genesi e le motivazioni sottostanti l’assetto della fiscalità locale che si è delineato con la riforma del 200156. Tali riflessioni si sviluppano attorno all’analisi del sistema ereditato dal passato individuando i limiti e le inefficienze derivanti dall’eccesso di centralismo fiscale e la necessità di invertire la tendenza mediante l’ampliamento della capacità finanziaria di Regioni, Province, Comuni e la sottrazione della discrezionalità del potere centrale nell’utilizzo di quote consistenti del gettito tributario57.

Tale ampliamento della capacità impositiva degli enti locali, infatti, assolverebbe ad alcuni compiti tipici del decentramento: si sostiene, infatti, che “lo spostamento di una considerevole parte della potestà fiscale dallo Stato agli enti territoriali assicurerebbe, mediante una più diretta rappresentanza delle

55 Tale iter, difatti, iniziò con il disegno di legge costituzionale approvato dal Governo il 09-

05-1999; la Camera aveva approvato il testo in prima lettura il 26-9-2000, il Senato il 17-11-2000. La Camera aveva successivamente approvato in seconda lettura il 28-02-2001, giungendo all’approvazione definitiva, da parte del Senato in quarta lettura, l’8-03-2001. Posto che la legge era stata approvata, in seconda votazione, a maggioranza assoluta, ma inferiore ai due terzi dei membri di ciascun ramo del Parlamento, era stato indetto il referendum che ha portato, il 7 Ottobre, all’approvazione della riforma, pubblicata in G.U, n. 248/2001.

56 Tra gli spunti più rilevanti, si distingue la Indagine conoscitiva sul federalismo fiscale, Senato della Repubblica, Luglio 1998, scaturita dal lavoro congiunto di un Comitato paritetico, composto da 15 deputati ed altrettanti senatori. L’analisi proposta si è basata, tra l’altro, sull’esito di alcuni sopralluoghi compiuti in due paesi esteri, la Germania ed il Canada, che hanno offerto “la possibilità di confrontarsi con due realtà ormai consolidate di Stati federali che per certi aspetti possono essere considerati come modelli esemplari” e su numerose missioni in alcune Regioni italiane, che hanno consentito di “acquisire una notevole mole di elementi informativi e di valutazioni su alcune delle problematiche relative alla adozione nel nostro Paese di un sistema di federalismo fiscale”, e da cui è emerso “un generale consenso circa l'opportunità di realizzare un sistema fiscale improntato al federalismo, nonché l'esigenza di pervenire ad una chiara definizione delle funzioni attribuite ai diversi livelli di governo. L'opzione per tale ipotesi è generalmente collegata all'obiettivo di favorire lo sviluppo delle aree locali, di migliorare l'efficienza del sistema di raccolta e di utilizzazione delle risorse e di realizzare una maggiore responsabilizzazione dei singoli livelli di governo, innovando l'attuale assetto dei rapporti, considerato non ottimale, tra centro e periferia”.

57 Riflessioni analoghe si rinvengono nell’indagine promossa dalla Commissione parlamentare per le questioni regionali sul tema “Problematiche attuali della transizione costituzionale: dal federalismo amministrativo allo Stato federale”, deliberata il 1-06-1999; in essa si può constatare come appaia necessario “riconoscere piena autonomia tributaria alle Regioni relativamente a determinati tipi di imposte, ovvero attribuendo una quota certa delle entrate tributarie complessive in rapporto al territorio in cui la ricchezza è stata prodotta o scambiata. Naturalmente è necessario contemperare tale autonomia con l'esigenza di un coordinamento da parte dello Stato della politica finanziaria dei diversi soggetti territoriali, assicurando nel contempo anche la tendenziale perequazione delle condizioni sociali ed economiche in tutto il territorio nazionale”.

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preferenze e degli interessi locali nella determinazione delle scelte politiche, una maggiore responsabilizzazione degli organi di governo delle realtà locali, sia in ordine alla gestione della spesa che con riferimento al reperimento delle risorse necessarie al suo finanziamento, e un più proficuo utilizzo delle risorse disponibili per il finanziamento dei servizi da erogare”58. Un ulteriore punto su cui nei lavori parlamentari si rileva concordanza è che il processo di riordino della finanza locale (d.lgs. 504/1992 e d.lgs. 446/1997 rispettivamente istitutivi dell’ICI e dell'IRAP, unitamente al nuovo sistema perequativo) “si muovono entro una logica che si può ricondurre più al decentramento che al modello federalista” 59.

Un elemento evidenziato dalla Commissione congiunta di Camera e Senato che risulta imprescindibile dalla determinazione di un assetto federalista in un paese come l’Italia, caratterizzato da significativi squilibri economici, è rappresentato dalla perequazione di risorse60. La Commissione correttamente distingue tra sistemi di perequazione verticale (in cui è lo Stato a finanziare le Regioni più deboli) ed orizzontale61 (in cui invece sono le Regioni più ricche ad alimentare un flusso di risorse verso quelle più svantaggiate). Al riguardo, viene sottolineato che la prima soluzione debba congegnarsi in modo da “consentire alle Regioni più ricche di essere autosufficienti dal punto di vista finanziario”. Questo principio costituisce “il requisito minimo per la definizione di un sistema di federalismo fiscale”. La perequazione orizzontale dovrebbe invece articolarsi così da “assicurare che il complesso dei compiti attribuiti ai governi decentrati possa essere finanziato - per intero - con le fonti di finanziamento attribuite al sistema delle autonomie”. Questa seconda ipotesi, inoltre, “dovrebbe rispettare lo sforzo

58 Senato della Repubblica, cit.; il documento sottolinea, inoltre, altri aspetti degni di rilievo di

una riforma dell’assetto tributario locale, quali una riduzione “entro un arco temporale sufficientemente ampio” della pressione fiscale complessiva, una maggiore responsabilizzazione degli organi di governo locale, e la possibilità, offerta dalla tendenziale corrispondenza tra finanziatori e beneficiari dei servizi erogati dagli enti locali, di attenuare gli effetti restrittivi derivanti dalle politiche di riduzione della spesa pubblica.

59 La Commissione ricorda che il d.lgs. n. 446, oltre al parziale riordino dei tributi locali, ha attribuito una generale potestà regolamentare ai Comuni e alle Province in materia tributaria, che riguarda vari aspetti, quali l'accertamento, la riscossione, l'organizzazione, l'applicazione e la semplificazione degli adempimenti dei contribuenti.

60 “L'esigenza di provvedere ad una perequazione può essere intesa con riferimento all'obiettivo di colmare le differenze nella capacità fiscale e nei fabbisogni di spesa che non sono controllabili dai governi periferici”, mirando al contempo ad “assicurare livelli standardizzati di taluni servizi, ispirandosi ai principi della generalità e della uniformità almeno tendenziale nella erogazione degli stessi”.

61 A tale riguardo, nel lavoro viene sottolineato come “la scelta di un meccanismo di perequazione orizzontale comporti l'esigenza di individuare una sede nell'ambito della quale gli interessi potenzialmente conflittuali delle Regioni ricche e di quelle povere trovino una composizione. In altri termini, con un sistema orizzontale di perequazione, appare opportuno assicurare alle Regioni ricche la possibilità di intervenire quando si tratti di stabilire criteri e entità dei trasferimenti a loro carico. Contemporaneamente, alle Regioni povere va garantita l'effettività dei trasferimenti”.

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fiscale, cioè non assorbire il gettito aggiuntivo derivante dall'esercizio dell'autonomia tributaria nelle quote del fondo di perequazione”62.

La Commissione afferma inoltre che l’obiettivo di incrementare le risorse a disposizione degli enti locali può essere raggiunto mediante l’adozione di soluzioni tra loro differenti. Una prima ipotesi consisterebbe nell’attribuzione agli enti territoriali della possibilità di istituire e disciplinare tributi propri, ridimensionando contestualmente l’incidenza dei tributi erariali.

Tale prospettiva, a detta della Commissione, implicherebbe “una radicale trasformazione dell'attuale sistema tributario da realizzare mediante la sostituzione di tributi erariali con tributi locali e/o regionali, ovvero mediante la revisione di alcune delle caratteristiche dei tributi erariali”63. Un siffatto sistema determinerebbe, secondo la Commissione, inoltre “rilevanti difficoltà per gli enti territoriali con minore capacità fiscale che, disponendo di basi imponibili più limitate, finirebbero per acquisire risorse sicuramente insufficienti. Ciò imporrebbe la necessità di prevedere un consistente ricorso alla perequazione, che, stanti i vincoli di bilancio che impediscono lo stanziamento di adeguate risorse da parte dello Stato, graverebbe, in ultima istanza, sugli enti territoriali più ricchi. Pertanto, il ricorso alla perequazione orizzontale in misura rilevante, finirebbe per annullare, per gli enti chiamati a sostenere i relativi oneri, i vantaggi dell'accentuazione dell'autonomia tributaria”64.

In alternativa si proponeva l’adozione di un sistema simile a quello in vigore in Germania, dove il gettito delle maggiori imposte viene ripartito tra il Governo centrale e quelli locali: ciò comporterebbe, secondo la Commissione, almeno in prima analisi, minori problematiche, “dovendosi stabilire soltanto la quota del gettito che, per ciascuno dei tributi eventualmente interessati, deve essere destinata ai vari enti”. Al contempo, si evidenziava la non facile soluzione riguardo i criteri di allocazione di tali imposte ogniqualvolta si è in presenza di soggetti che operano contemporaneamente nel territorio di più enti e si sottolineava come “l'attribuzione certa di parte del gettito agli enti territoriali non consentirebbe di raggiungere l'obiettivo di responsabilizzare questi ultimi nella gestione delle risorse assegnate; in altri termini, non si otterrebbe il risultato di promuovere un rapporto più stretto fra capacità di spesa e responsabilizzazione delle istituzioni, soprattutto ove a tale sistema si accompagni, come avviene in

62 Sempre con riferimento all’elemento perequativo, la Commissione sottolinea i concreti

meccanismi operativi, muovendosi il ventaglio delle ipotesi tra sistemi collegati alla capacità fiscale potenziale delle singole realtà regionali ed altri collegati ai gettiti incassati.

Si affronta il tema dei trasferimenti anche dal punto di vista comunale, evidenziando due soluzioni differenti: il mantenimento della competenza statale o l’attribuzione di tale compito alle Regioni, così da assegnare a queste ultime un ruolo più ampio nel governo del territorio.

63 A tal proposito, il lavoro evidenzia come, alle difficoltà di ordine generale, tale soluzione ne aggiungerebbe altre di natura tecnica, poiché “non si ravvisano significativi spazi per un consistente ridimensionamento di alcuni tributi erariali”: in particolare, si sottolinea come l’Iva sia vincolata da processi di armonizzazione Comunitaria che impediscono significativi interventi sulle aliquote.

64 Ibidem.

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Germania, una forte perequazione. In altri termini, si può prefigurare il rischio di una generalizzazione di comportamenti poco virtuosi”.

La Commissione evidenziava inoltre che tra le due soluzioni proposte si possono determinare soluzioni intermedie, che “sostanzialmente si fondano sul tentativo di pervenire ad un punto di equilibrio tra i diversi obiettivi cui si è fatto riferimento, e in particolare tra quello di dotare gli enti territoriali di più consistenti risorse e quello di responsabilizzarli quanto al reperimento e all'impiego delle stesse”. La responsabilizzazione nel reperimento e nella gestione delle risorse dovrebbe condurre ad una differenziazione delle fonti di entrata attribuibili ai singoli livelli, attuabile anche mediante l’applicazione di sovrimposte od addizionali rispetto alle quali ciascun livello presenta una discrezionalità nel fissare la propria aliquota. Accanto all’esistenza di tributi propri e sovrimposizioni, si sono ritenute necessarie forme di compartecipazione al gettito di tributi erariali, così da immaginare “una soluzione che tenti di coniugare un ampliamento dell'autonomia tributaria con una parziale compartecipazione al gettito erariale, e prevedendo altresì la possibilità di ricorrere ad addizionali e sovrimposte su tributi erariali, purché non si determini per questa via un aumento complessivo della pressione fiscale”.

A fronte di distinte strade concretamente percorribili, risulta chiaro dai lavori parlamentari che la scelta di fondo ricade su un modello che contemperi l’elemento decentratore con uno solidaristico, che attribuisca maggiori autonomie agli enti territoriali senza però privare lo Stato centrale di quel controllo legislativo ritenuto necessario in un contesto di regionalismo anziché di reale federalismo. Ed è proprio questa l’impostazione che emerge dalle riflessioni delle varie commissioni parlamentari investite dell’analisi dei provvedimenti di riforma, vale a dire la ricerca di un modello “a somiglianza del sistema vigente in Germania, dove una quota dei tributi va alle Regioni, una allo Stato ed una è destinata ad un fondo di perequazione”65.

Tra le considerazioni rinvenibili nei lavori parlamentari a giustificazione della riforma dell’art. 119 all’interno di un più generale ripensamento del Titolo V della Costituzione, è utile evidenziare “l'esigenza di adeguare i principi costituzionali in materia di finanza regionale all'orientamento che sta emergendo, nel senso di stabilire che ciascuna Regione per regola vive di mezzi propri, salve

65 On. Prof. Cerulli Irelli, relatore per i profili inerenti agli enti locali ed ai loro rapporti con lo

Stato e con le Regioni, Commissione Affari Costituzionali, seduta del 6-02-2001; in tal senso anche l’On. Prof. Tremonti nella seduta del 19-05-1999 della I Commissione affari costituzionali, il quale sottolinea come tale modello preveda “che i tributi locali si riscuotano in loco e siano destinati a finanziare le opere locali, mentre le imposte personali o sul valore aggiunto siano attribuite allo Stato. Dei gettiti di questi tributi si prevede un triplice uso: una parte viene trattenuta dallo Stato per “esistere”; una parte viene utilizzata per «restituzione» alle Regioni e agli enti locali, basata su parametri statistici che misurano la ricchezza prodotta e/o scambiata nelle varie aree, cui competono le rispettive imposte; infine, la restante quota viene utilizzata per scopi di solidarietà. La quota da riservare a quest'ultimo fine dovrebbe essere definita, anno per anno, nella legge finanziaria e variare a seconda delle necessità e degli obiettivi che si intendono perseguire.

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compensazioni dello Stato verso le situazioni più svantaggiate, e i mezzi propri per regola sono rappresentati dalle risorse ricavate, attraverso l'imposizione tributaria, dal territorio di ciascuna regione”66.

Nella Relazione si sottolinea, inoltre, che “il nuovo art. 119 introduce norme che, pur ampiamente rinviando alla legislazione ordinaria, sono da ritenersi molto significative perché stabiliscono alcuni principi nuovi. Innanzitutto, il principio che Regioni ed enti locali si reggano con la finanza propria, vale a dire finanziando le proprie spese di funzionamento, di intervento e di amministrazione, con i mezzi prelevati dalla propria collettività, salva naturalmente l'esigenza di perequazione delle situazioni meno avvantaggiate. In secondo luogo, la norma introduce la “territorialità dell'imposta”, vale a dire il principio espresso al secondo comma in una formula che contiene anche il principio di compartecipazione degli enti territoriali al gettito dei tributi erariali, riferibili al loro territorio. Il che significa, appunto, che il gettito prelevato da un territorio, in base a determinate regole stabilite da legge nazionale, dovrà rimanere, almeno in parte, nel territorio di produzione.

La modifica dell’art. 119 Cost. è, peraltro, ritenuto elemento indispensabile: “tale progetto di riforma non potrebbe dirsi pienamente compiuto senza l’effettiva attuazione del federalismo fiscale, attraverso il riconoscimento alle Regioni ed agli enti locali di una reale autonomia impositiva, lasciando allo Stato la sola gestione dei grandi tributi”67. Come accennato in precedenza, nel testo si ritrovano molti degli spunti discussi, negli anni precedenti, dalle Commissioni Bicamerali68.

5.3. LA NUOVA STRUTTURA DELL’ART. 119 COST.In conclusione, dai lavoratori preparatori della riforma del Titolo V emerge

un principio nuovo, in precedenza mai adottato, e cioè che la materia della ripartizione delle potestà impositive sub-statuali dovesse rientrare in un impianto

66 On. Soda, relatore per i profili inerenti all’ordinamento regionale, ed On. Prof. Cerulli Irelli,

relatore per i profili inerenti agli enti locali ed ai loro rapporti con lo Stato e con le Regioni, Relazione del 19-02-2001. Per quanto riguarda il principio della perequazione, la diversa formula proposta di tutela delle situazioni svantaggiate delle isole e del Mezzogiorno non è stata accolta in quanto è stata ritenuta più significativa, anche per lo stesso Mezzogiorno, quella contenuta nel quinto comma del nuovo articolo 119, che afferma l'obiettivo di promuovere, attraverso le politiche fiscali, lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali e per favorire l'effettivo esercizio dei diritti della persona.

67 On. Soda, Commissione per gli Affari Costituzionali, seduta del 14-04-1999; in tal senso, anche l’On Cananzi, presidente della I Commissione Affari Costituzionali, nella seduta del 19-11-1999, laddove afferma, all’interno di una lunga prolusione, come “insieme con il principio di sussidiarietà, il federalismo fiscale è l'altro pilastro della riforma dello Stato in senso federale”, e l’On. Molgora (seduta del 21-09-2000), il quale sottolinea come “i due fondamenti di uno Stato federale sono le funzioni che vengono attribuite ai vari livelli di governo e le risorse conferite per attuare e svolgere queste funzioni”.

68 Impressione, questa, confermata dal parere espresso dalla VI Commissione Finanze nella seduta del 9-11-1999: “il testo consente di recuperare, sia pure parzialmente, l'approfondito lavoro svolto su tali temi nell'ambito della Commissione Bicamerale”.

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di norme costituzionali. In questo senso può dirsi che la materia de qua viene “costituzionalizzata” e coniugata nella forma nuova di un “federalismo fiscale” almeno a livello potenziale (vedi paragrafo 6 per la attuazione in corso).

La riforma del Titolo V ha infatti modificato l’organizzazione istituzionale della Repubblica, e ciò ha evidenti riflessi sulla struttura della ripartizione dei poteri impositivi. Ed infatti, ai sensi dell’art. 114 Cost. “I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa”. Ciò è ribadito in più punti del successivo art. 119 Cost., ove si prevede che i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno non solo autonomia finanziaria di entrata e di spesa, ma anche risorse autonome, prevedendo inoltre che essi stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, oltre a disporre di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio.

L’art. 119 stabilisce inoltre che le risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi precedenti consentono ai Comuni, alle Province, alle Città metropolitane e alle Regioni di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite. Nell’ambito della nuova organizzazione finanziaria dello Stato, Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni sono inoltre destinatari (art. 119 Cost., c. 5) di risorse aggiuntive ed interventi speciali promossi dallo Stato per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l'effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni. In base all’art. 119 Cost., u.c., infine, i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno un proprio patrimonio, attribuito secondo i principi generali determinati dalla legge dello Stato, possono ricorrere all'indebitamento solo per finanziare spese di investimento, mentre è esclusa ogni garanzia dello Stato sui prestiti dagli stessi contratti.

Rispetto alla formulazione previgente, si rinvengono dunque elementi di novità: il primo attiene all’inserimento delle Città metropolitane quale nuovo livello territoriale titolare, per quanto qui interessa, di autonomia finanziaria69. Nella previgente formulazione, titolari di autonomia finanziaria, nelle forme e nei limiti stabiliti dalle leggi della Repubblica, erano esclusivamente le Regioni. Tale autonomia veniva poi “coordinata” con la finanza dello Stato, delle Province e dei Comuni.

69 Per un’analisi compiuta sul ruolo e sull’introduzione di tale nuovo livello territoriale occorre

necessariamente fare riferimento ad ambiti di discussione che esulano da quello fiscale; per quanto concerne l’impatto sul sistema finanziario, si riporta un breve ma indicativo commento in sede di approvazione definitiva del progetto di riforma (Senato, seduta dell’8-03-2001, On. Rotelli), “nuovo, inopinato livello di governo di cui la finanza pubblica italiana non sentiva il bisogno”. Si rinvia anche all’analisi ed alle discussioni, avvenute in sede di Assemblea Costituente, sul ruolo delle Province.

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Un secondo elemento di novità è che l’autonomia a cui ci si riferisce nel nuovo e più ampio quadro è sia di entrata che di spesa: in tal senso soccorre il pensiero emerso in sede parlamentare, laddove si è sottolineato come “a fronte della centralizzazione delle entrate tributarie, si è prodotta una differenziazione degli assetti di spesa rispetto a quelli di entrata, che infine ha prodotto disavanzo: da un lato, lo Stato accumulava risorse anche da distribuire in periferia; dall'altro lato, le realtà locali, sovente sfornite di una classe politica ed amministrativa avveduta e professionale, provvedevano all'erogazione della spesa in modo sin troppo irrazionale e demagogico70.

La riforma del Titolo V ha anche modificato il sistema delle potestà legislative e ciò ha evidenti effetti sulla espressione di potestà legislativa in materia tributaria; alla Regione infatti spetta la competenza in ogni altra materia non espressamente riservata alla legge. In base al comma 3 dell’art. 117 la Regione ha potestà concorrente in materia di armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato. In base all’art. 117, c. 4, è poi attribuita alle Regioni una competenza legislativa residuale in materia di tributi regionali e locali, in quanto ad esse spetta la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato.

5.4. I PROFILI DELLA LEGALITÀ E DELLA RISERVA DI LEGGE IN MATERIA TRIBUTARIA NELL’AMBITO DEL NUOVO TITOLO V.

La appena descritta attribuzione della potestà legislativa alle Regioni in materia tributaria è da inquadrarsi nell'ambito di una potestà normativa primaria delle Regioni incluse nello Stato-ordinamento, ma indipendenti rispetto allo Stato-persona. È quindi ormai da superarsi l’interpretazione dell’art. 23 Cost. come riferito soltanto alla legge statale, individuando così, nel nuovo ambito del Titolo V, una riserva di legge regionale in materia di tributi regionali e locali. Trattasi quindi di una potestà ampia, il cui unico limite va rinvenuto nel principio di continenza relativo a principi fondamentali dello Stato, sancito dall’art. 119 Cost. e di cui si dirà dopo.

Già in sede di lavori parlamentari si era infatti sottolineato il rischio che l’attribuzione agli enti locali della potestà tributaria potesse scontrarsi con la riserva di legge prevista dall’art. 23 Cost., ma il problema, secondo la Commissione parlamentare per le questioni regionali71, nemmeno si pone, in

70 Si è potuto valutare che, in quei paesi in cui più forte è il fenomeno del centralismo fiscale, si è prodotto il disavanzo più forte tra entrate e spese (così è avvenuto anche rovinosamente per l'Italia). La filosofia alla base dell'art. 7 del testo elaborato dalla Commissione è, appunto, quella di ribaltare un andamento atavico e di risolvere le distorsioni del sistema, On. Cananzi, seduta del 19-11-1999.

71 Seduta del 10-11-1999: su tale tema non mancano, comunque, prese di posizioni diverse all’interno della stessa maggioranza, come sottolineano le parole dell’On. Prof. Cerulli Irelli, che nella seduta del 14-11-1999 “giudica esagerata la previsione di una totale equiparazione tra Regioni ed enti locali in materia di autonomia finanziaria”. La VI Commissione Finanze, nella

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quanto, sarebbe sempre implicito a monte un atto legislativo che attribuisca ai Comuni e alle Province il potere di istituire tributi. Riserve su tale equiparazione erano peraltro emerse anche in altre sedute parlamentari72.

La autonomia impositiva degli enti locali peraltro è di qualità diversa rispetto a quella delle Regioni. Ed infatti mentre per le Regioni l’autonomia si esplica in base di una riserva a livello costituzionale, per gli enti locali essa si esplica mediante l’adozione dello strumento precettivo del regolamento. Quindi mentre le Regioni dispongono sia di autonomia tributaria che di vera e propria potestà legislativa, gli enti locali dispongono di una autonomia tributaria che si esplica però nell’ambito della potestà legislativa dello Stato e delle Regioni. Resta però inteso che, poiché la riserva di legge a livello regionale è relativa, residua ampio potere normativo agli enti locali.

Il dettato normativo dell’art. 119 Cost. presenta invero talune questioni di tipo semantico, laddove esso prevede che i Comuni, le Province, le Città metropolitane (oltre alle Regioni) “stabiliscono” e “applicano” tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Siffatte questioni sono tuttavia agevolmente risolvibili nell’acquisito quadro della sussistenza di una riserva relativa della legge tributaria regionale e sono quindi da intendersi nel senso che gli enti locali possano individuare gli elementi strutturali dei tributi locali nell’ambito delle materie indicate dalla legge regionale, in quanto essa è la base delle potestà regolamentari entro cui si esplica l’autonomia degli enti locali.

Lo stesso articolo prevede inoltre che i medesimi enti locali, quando stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, debbano fare ciò “in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”. Ai sensi dell’art. 117, c. 3, Cost., la materia del coordinamento

seduta del 9 Novembre 1999 così si era espressa: “Si può altresì rilevare come la previsione per cui i Comuni, le province e le città metropolitane, oltre alle Regioni, “stabiliscono ed applicano tributi ed entrate propri”, di cui al nuovo testo del medesimo art. 119, potrebbe risultare in contrasto con il dettato dell'art. 23 della Costituzione, in base al quale nessuna prestazione patrimoniale può essere imposta se non in forza di una disposizione di legge, posto che gli enti locali non dispongono del potere legislativo”.

72 VI Commissione Finanze, seduta del 9-11-1999: “Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni si avvarrebbero di una disciplina uniforme, risultando sostanzialmente equiparate nei rapporti con lo Stato. A questo proposito uno degli argomenti su cui si era lungamente dibattuto presso la Commissione bicamerale era costituito proprio dall'opportunità di distinguere lo statusgiuridico delle Regioni rispetto a quello degli altri enti territoriali. Il problema potrebbe porsi in particolare con riferimento al riparto delle risorse di cui al fondo perequativo, destinato a sostenere finanziariamente i territori con minore capacità fiscale. È evidente che l'attribuzione di un ruolo significativo alle Regioni, sia per quanto concerne la delimitazione entro i relativi confini degli ambiti territoriali da assumere per la valutazione delle diverse capacità fiscali, sia per quanto riguarda la distribuzione delle risorse del fondo perequativo, potrebbe rendere più agevole la gestione della politica di perequazione. D'altra parte, la inclusione del coordinamento del sistema tributario tra le materie oggetto della legislazione concorrente dello Stato e delle Regioni lascerebbe supporre che una sorta di priorità verrebbe comunque riconosciuta alle Regioni”.

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(tra tributi regionali e tributi locali), come si è appena detto, è attribuita alla potestà legislativa regionale, laddove esso dispone che nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato. Si desume quindi che nelle materie di legislazione concorrente (e quindi anche nella materia del coordinamento tra finanza regionale e locale) la potestà spetta alle Regioni, con la sola eccezione della determinazione dei principi fondamentali, che è riservata alla legislazione dello Stato. La conseguenza è che la legge statale quadro sia adottabile solo per la determinazione dei principi fondamentali, mentre il coordinamento di per sé considerato tra Regioni ed enti locali in materia tributaria è attribuito alla potestà legislativa regionale.

In conclusione, essendo posti dalla riforma costituzionale tre livelli di potestà impositive si delinea la seguente situazione: lo Stato-ordinamento sancisce i principi fondamentali per la legislazione regionale; la legislazione regionale, a sua volta, si occupa del coordinamento verso il basso della fiscalità locale, essendo proprio tale materia del coordinamento attribuita alla potestà legislativa regionale.

Il tema della ripartizione delle potestà impositive, avendo ad oggetto un insieme di nuove norme di competenza attributive di poteri, delinea un insieme di potenziali aree di intervento normativo – di “empty boxes” – destinate ad essere riempite di contenuti normativi, ed ha quindi natura costituzionale in senso formale.

5.5. IL SISTEMA DELLE FONTI DI FINANZIAMENTO DELLE SPESE DELLE REGIONI E DEGLI ENTI LOCALI.

Il discorso appena svolto in relazione alla struttura attuale delle potestà impositive nel nuovo quadro costituzionale assume toni più sostanzialistici ove si passi a considerare il tema delle fonti di finanziamento delle spese delle Regioni e degli enti locali, come delineato dall’art. 119 Cost.. Il tema delle fonti di finanziamento delle spese delle Regioni e degli enti locali, avendo ad oggetto una serie di clausole generali della Costituzione relative alle modalità con cui Stato, Regioni ed enti locali finanziano le rispettive spese, delinea un primo quadro finanziario, ed ha quindi natura costituzionale in senso sostanziale.

Sotto questo profilo la riforma del Titolo V introduce cinque fondamentali clausole costituzionali (aventi natura sostanziale) attuative del principio generale sancito dal comma 1, secondo cui i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria sia di entrata che di spesa.

1) In primo luogo l’art. 119, c. 1, stabilisce che gli enti locali hanno risorse autonome.

2) In secondo luogo l’art. 119, c. 1, prevede che i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio.

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3) In terzo luogo l’art. 119, c. 3, prevede che la legge dello Stato istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante.

4) In quarto luogo l’art. 119, c. 5, prevede che “lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni, per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni.

5) In quinto luogo l’art. 116, c. 3, prevede che ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia concernenti le materie del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario (di cui al comma 3 dell'art. 117 Cost.) possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui all'articolo 119 Cost.73.

Questo meccanismo di clausole sostanziali è poi complementato da una vera è propria clausola di autosufficienza che “chiude” il sistema della ripartizione del gettito reperito ai diversi livelli locali (le fonti), con riferimento alla tendenziale necessaria coincidenza di esso con le spese ai diversi livelli locali. Questa clausola è sancita dall’art. 119, c. 4, Cost. secondo cui le risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi precedenti dello stesso art. 119 consentono ai Comuni, alle Province, alle Città metropolitane e alle Regioni di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite74. Tale disposizione deve essere intesa nel senso di stabilire a livello globale una clausola di corrispondenza tra entrate e spese, sancendo quindi che le risorse autonome degli enti locali globalmente considerate (quindi indipendentemente dai trasferimenti interni da un soggetto all’altro attuati a seguito dell’operatività del fondo perequativo) consentono di finanziare le loro spese globalmente considerate.

Prima di svolgere alcune valutazione sul sistema delle fonti di finanziamento (inclusa la clausola di autosufficienza) e delle correlate politiche solidaristiche e di finanziamento è utile svolgere alcune considerazioni relative al contenuto delle cinque clausole di cui sopra.

L’art. 119, c. 1, Cost. laddove stabilisce che i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno risorse autonome e stabiliscono e applicano

73 In tali casi la legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla

base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata.74 Sul tema, da segnalare la presa di posizione della VI Commissione Finanze nella seduta del

15-11-1999: “valuti la Commissione di merito l'opportunità di introdurre alcune precisazioni dirette ad incentivare la responsabilizzazione degli enti territoriali nella acquisizione delle risorse ad essi necessarie, eventualmente determinando la quota di partecipazione da applicare a tutte le Regioni assumendo come parametro di riferimento quelle economicamente più ricche. A tal fine si potrebbe ipotizzare che tale quota debba essere stabilita in una misura tale da garantire, insieme alle risorse derivanti dai tributi propri, l'autosufficienza finanziaria delle Regioni più ricche; in questo modo, si eviterebbe il rischio di ampliare eccessivamente l'entità del fondo perequativo”.

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tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, nella sostanza, non appare innovativo rispetto alla previgente formulazione.

L’art. 119, c. 1, prevede anche che la compartecipazione al gettito a livello locale da parte di tributi erariali riferibili al territorio dell’ente locale di volta in volta rilevante; trattasi di clausola innovativa (assente nel previgente testo dell’art. 119, Cost.) che ha ad oggetto la copertura del fabbisogno di base in relazione a specifici tributi che (come ad esempio l’IRAP) prevedano un apportionment della base imponibile a livelli diversi intra-statuali. Come regola tali ripartizioni operano indipendentemente rispetto alla parità tra entrate e spese di uno specifico ente locale, essendo esse forme tecniche di ripartizione del gettito e non interventi di tipo perequativo.

Per contro il fondo perequativo di cui all’ art. 119, c. 1, è a carico della collettività nazionale globalmente considerata ed è volto a riequilibrare la finanza pubblica con riferimento specifico ai territori con minore “capacità fiscale” per abitante. Tale concetto, di cui l’art. 119 Cost. fornisce la prima formulazione nella storia costituzionale italiana, va riferito al rapporto tra l’ammontare del gettito relativo ad ogni specifico ente territoriale75 ed il numero di abitanti di tale ente. In pratica questo coefficiente rappresenta il rapporto tra gettito dell’ente locale e gettito mediamente imputabile ad un singolo abitante, e quindi esprime il gettito pro capite in un dato ambito territoriale (cioè l’ammontare medio dei tributi pagati dai contribuenti)76.

È quindi chiaro che la capacità fiscale sarà tanto più elevata quanto più alto è il coefficiente numerico espresso da tale rapporto. Poiché tale coefficiente è collegato ad elementi esclusivamente individuabili con riferimento ad un solo specifico territorio, esso è sganciato da un parametro che sia riferito al fabbisogno; la capacità fiscale non è dunque il fabbisogno per abitante (elemento che è indipendente dal gettito dell’ente locale di appartenenza).

Sembra quindi ragionevole ritenere che, nell’ambito del fondo perequativo, i territori in cui ogni singolo abitante sia titolare di una quota figurativa di gettito (cioè di tributi pagati) più elevata rispetto ad altri territori debbano essere considerati, come i soggetti contributori (di gettito), mentre i territori in cui ogni singolo abitante sia destinatario di una quota figurativa di gettito meno elevata rispetto ad altri territori debbano essere considerati, come i soggetti destinatari (del gettito attribuito dai contributori). L’inciso del terzo capoverso del nuovo art. 119 Cost. introduce così un concetto assente in precedenza, costituzionalizzando l’esistenza ed il ruolo del fondo perequativo introducendo il principio della capacità fiscale.

75 E quindi Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni.76 Un contribuente può quindi avere più coefficienti di capacità fiscale: uno che esprime la sua

capacità al livello del Comune, uno al livello della Città metropolitana, uno al livello della Provincia, uno al livello della Regione.

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. Per quanto concerne le caratteristiche di tale fondo, nei lavori parlamentari

si colgono i tratti che caratterizzano il nuovo istituto nel nostro ordinamento, in relazione alle due forme di perequazione (orizzontale e verticale). Come risulta dai lavori parlamentari “Se si sottopone ad una lettura analitica l'art. 7 del testo, si può ravvisare allora che la Commissione si sia mossa sforzandosi di intersecare meglio i piani: da un lato, non rinunziando del tutto al federalismo verticale, secondo il tradizionale andamento Stato-Regioni-Enti locali, dall'altro lato, promuovendo il federalismo orizzontale da parte a parte della Comunità nazionale. L'immagine che si vuole restituire è quella del mosaico in cui ogni tassello rinvenga la più equa e la più esatta collocazione”77.

L’art. 119 Cost. prevede infatti anche forme perequative di tipo non ordinario, che non si svolgono lungo la matrice della perequazione orizzontale e verticale, ma che prevedono tout court l’intervento dello Stato nella finanza sub-statuale in basi a ragioni preminenti. La clausola dell’art. 119 Cost. C.5, prevede infatti la possibilità che lo Stato destini risorse aggiuntive ed effettui interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni per il raggiungimento di determinati fini.

Questa diversa forma perequativa si configura come norma politico-programmatica che costituzionalizza espressamente taluni obiettivi, facendoli rientrare nell’ambito dei potere di intervento dello Stato in una finanza locale fondata sul principio dell’autonomia di entrate e spese al livello di ogni singolo ente territoriale. Ed infatti gli obiettivi sanciti dall’art. 119, c. 4, Cost. sono: (i) la promozione dello sviluppo economico, (ii) la coesione e la solidarietà sociale, (iii) la rimozione degli squilibri economici e sociali, (iv) il favorire l'effettivo esercizio dei diritti della persona, (v) il provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle funzioni degli enti locali.

Accanto al sistema di finanziamento delle funzioni ordinarie, si affianca ora quello che può venire definito come un sistema di finanziamento ulteriore, di matrice statale78, mirante al raggiungimento di una serie di obiettivi “superiori” per loro natura degni di realizzazione e tutela, ispirati a principi generali riconducibili a quelli “fondamentali” espressi dalla Carta costituzionale, oltre che volto a provvedere “a scopi diversi dal normale esercizio delle funzioni” di Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni. Ed infatti, i riferimenti allo “sviluppo economico”, alla “coesione e solidarietà sociale”, alla rimozione degli “squilibri economici e sociali”, all’effettivo “esercizio dei diritti della persona”

77 On. Cananzi, seduta del 19-11-1999.78 Su questo punto si evidenzia la proposta di destinare tale funzione all’ente regionale: “per

quanto concerne il c. 5 dell'art. 119, in tema di destinazione da parte dello Stato di risorse aggiuntive per lo sviluppo di zone determinate, si ritiene che tali eventuali finanziamenti straordinari debbano essere affidati alle Regioni, che provvedono poi a destinarli nell’esercizio dei propri poteri di programmazione dello sviluppo”, parere della Commissione parlamentare per le questioni regionali, seduta del 15-11-1999.

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sono chiaramente ispirati a quanto statuito, in particolar modo, negli art. 2 e 3 della Costituzione79.

In tal modo, accanto ad un delineato sistema di competenze e potestà legislative, amministrative e finanziarie, lo Stato promuove, garantisce e tutela una serie di principi e diritti ritenuti fondamentali anche mediante la destinazione “di risorse aggiuntive” e l’effettuazione di “interventi speciali”, in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni.

5.6. LA CORRISPONDENZA DI ENTRATE E SPESE.Rimane infine da trattare della clausola di autosufficienza dell’art. 119, c. 4, Cost.., in base alla quale Le risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi precedenti consentono ai Comuni, alle Province, alle Città metropolitane e alle Regioni di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite.Questa clausola deve essere intesa nel senso di stabilire a livello globale una corrispondenza tra entrate e spese. Quindi, posto 100 il livello globale di spese, 100 dovrà essere il livello di entrate, e ciò indipendentemente da trasferimenti interni perequativi volti ad allineare i coefficienti di capacità fiscale. In tale quota globale di risorse autonome sono quindi inclusi, oltre ovviamente ai tributi ed alle entrate proprie degli enti locali, anche (i) le compartecipazioni di essi al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio, (ii) le risorse aggiuntive in favore di determinati enti locali, per promuovere determinati fini economico-sociali, (iii) le entrate derivanti da ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia.

Ciò significa che le entrate proprie degli enti locali, intese in senso stretto, possono essere inferiori alle spese globalmente considerate degli enti locali, in quanto al finanziamento di tali spese concorrono, oltre appunto alle entrate proprie degli enti locali singolarmente considerati, anche quelle particolari risorse diorigine statuale di cui ai punti anche (i), (ii) e (iii) appena menzionati.

Appurata la esistenza a livello costituzionale di una esplicita clausola secondo cui gli enti locali hanno autonomia non solo di entrate, ma anche di spesa (art. 119, c. 1 e 2), da essa discende, come corollario, una clausola implicita, ma non meno vincolante, secondo cui ogni ente locale debba tendenzialmente finanziare le proprie spese con le proprie entrate. Da ciò discende ulteriormente che (i) i soggetti che abbiano perseguito la parità (almeno tendenziale) di entrate e spese possano essere destinatari di trasferimenti volti a perequare orizzontalmente la loro capacità fiscale con capacità fiscali più elevate, e (ii) i soggetti che non

79 Art. 2: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica economica e sociale”; art. 3: “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

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abbiano perseguito tale parità non possano essere destinatari di tali trasferimenti perequativi orizzontali fino al raggiungimento dell’equilibrio.

Non vi è quindi, nell’ambito del Titolo V, una diretta compartecipazione ai bisogni cioè alle spese locali (indipendentemente quindi dai relativi livelli di entrate locali), bensì un’implicita clausola costituzionale di auto-responsabilizzazione per quanto attiene le parità di bilancio a livello locale. Rimane però comunque salva la possibilità per gli enti locali in disavanzo di ottenere compartecipazioni statali di perequazione verticale (di cui alle lett. (i) (ii) (iii) supra).

La perequazione orizzontale tra diversi enti locali non deve essere necessariamente portata ad un punto tale da eliminare le differenze tra i coefficienti di capacità fiscale di tali enti locali. È infatti chiaro che un trasferimento da un soggetto ad un altro ha come effetto di aumentare il coefficiente di capacità fiscale del soggetto destinatario in una misura equivalente alla riduzione del coefficiente di capacità fiscale del soggetto contributore, con il risultato che i trasferimenti interni possono condurre, ma soltanto al limite, ad una situazione di equilibrio in cui tutti i coefficienti sono uguali. In tale situazione gli abitanti dell’ente locale destinatario godranno di quota del gettito dell’ente locale contributore. Non vi è dunque un obbligo relativo al quantum globale dei trasferimenti orizzontali, tale per cui la somma dei trasferimenti debba necessariamente condurre ad un quadro in cui ogni ente locale sia caratterizzato da eguale coefficiente di capacità fiscale.

Se quindi non è stabilito un obbligo di risultato in relazione al riequilibrio mediante perequazione orizzontale, è evidente che tale riequilibrio perequativo sia soltanto diretto a ridurre in modo adeguato le differenze di capacità fiscale, intervenendo su forme di disparità di volta in volta ritenute ingiustificate. Ma quali sono i criteri che presiedono a tale scelta: una impostazione neutra e rispettosa quindi delle differenze, od una impostazione interventistica volta ad indirizzare gli interventi, concorrenza o coordinamento tra enti locali? Poiché il dettato costituzionale non vincola all’una o all’altra scelta, ma crea soltanto un framework istituzionale, è allora chiaro che i criteri in base ai quali, anno per anno, verrà individuata la struttura dei trasferimenti perequativi debbano essere oggetto di un processo di negoziazione, nel quale sicuramente si esprimeranno notevoli tensioni politiche ed istituzionali80. Il disegno di legge delega del 2008 introduce i criteri al riguardo.

La summenzionata clausola, prevedendo che le risorse (derivanti dalle diverse fonti previste dall’art. 119, Cost.) consentono agli enti locali di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite, riguarda però anche questioni di perequazione verticale. Ed infatti, la clausola costituzionale della parità tra

80 A tale fine di grande utilità sarebbe una camera delle Regioni, luogo istituzionale di

composizione di siffatta dialettica.

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entrate e spese (indipendentemente dai trasferimenti interni ed altre compartecipazioni statali) ha una connotazione solidaristica, sia che essa venga riferita a tutti gli enti locali, che ad uno specifico ente locale.

Se infatti la clausola di cui all’art. 119, c. 4, Cost., è intesa essere rivolta ad una parità tra entrate globali e spese globali di tutti gli enti locali, allora qualora vi siano uno o più enti locali che abbiano spese superiori alle entrate proprie, non è da essa escluso che, mediante trasferimenti perequativi ed altri interventi statali previsti dall’art. 119 stesso, gli enti che non rispettano il vincolo di parità di bilancio (o che altrimenti per vari motivi siano ritenuti essere svantaggiati) possano essere destinatari di tali trasferimenti ed interventi. In questa impostazione la clausola di salvaguardia di cui all’art. 119, c. 4, mantiene una connotazione solidaristica in un quadro di finanza locale integrato centro-periferia.

Si ricorda infine che l’ultimo comma dell’art. 119 Cost. prevede che i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno un proprio patrimonio, attribuito secondo i principi generali determinati dalla legge dello Stato e che essi possono ricorrere all’indebitamento solo per finanziare spese di investimento, rimanendo esclusa ogni garanzia dello Stato sui prestiti dagli stessi contratti. L’elemento di novità di questa disposizione riguarda la specificazione della limitazione all’indebitamento degli enti territoriali solamente in funzione di finanziamento di spese relative ad investimenti, impedendo che lo Stato possa garantire tali indebitamenti81

Due al riguardo sono gli spunti rinvenibili dai lavori parlamentari: da un lato, la critica ad una misura che impedisce in modo assoluto le forme di garanzia statale82; dall’altro, la mancata costituzionalizzazione, richiesta da alcune commissioni parlamentari, della facoltà per gli enti comunali, di disporre dei beni demaniali ricadenti nei rispettivi territori83. Su quest’ultimo punto si sottolinea, infatti, come la previgente formulazione attribuisse, alle sole Regioni, un loro proprio demanio e patrimonio.

81 Si noti come una simile previsione fosse stata già avanzata, a suo tempo, all’interno dei

lavori delle Commissioni Bicamerali.82 A tal proposito, la V Commissione Permanente Bilancio Tesoro e Programmazione, nella

seduta del 15-11-1999, così si esprime: “si valuti l’opportunità di eliminare la disposizione contenuta nel testo in base alla quale a livello costituzionale si esclude in modo tassativo ogni garanzia dello Stato sui prestiti contratti dalle Regioni e dagli enti locali”.

83 Nella seduta del 19-11-1999, la VI Commissione Finanze sottolinea che “La formulazione si caratterizza per una certa stringatezza, e in particolare non affronta il problema, ripetutamente emerso presso la Commissione finanze, di privilegiare i Comuni nella disponibilità di beni demaniali ricadenti nei rispettivi territori”.

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6. IL DISEGNO DI LEGGE DELEGA DI ATTUAZIONE DEL NUOVO ART. 119, COST.

Dopo la citata riforma costituzionale, che, in breve, sancisce costituzionalmente l’autonomia finanziaria di entrate e spese di comuni, province, città metropolitane e regioni, non si sono registrati provvedimenti attuativi, che abbiano effettivamente attuato il “federalismo fiscale” reso viepiù possibile dalla riforma del 200184. Secondo la Corte costituzionale è necessario, al fine dell’attuazione della riforma costituzionale, “l’intervento del legislatore statale, il quale, al fine di coordinare l’insieme della finanza pubblica, dovrà non solo fissare i principi cui i legislatori regionali dovranno attenersi, ma anche determinare le grandi linee dell’intero sistema tributario, e definire gli spazi e i limiti entro i quali potrà esplicarsi la potestà impositiva, rispettivamente di Stato, regioni, ed enti locali”. La stessa sentenza distingue inoltre tra tributi propri e tributi impropri, ritenendo propri solo quei tributi che sono il frutto di una autonoma potestà impositiva delle regioni, mentre impropri quelli istituiti e disciplinati da leggi statali (eccetto solo per taluni aspetti rimessi all’autonomia degli enti locali).

Si registra dunque nel periodo 2001-8 una assenza della elaborazione ed attuazione dei punti essenziali per avere anche in Italia un modello di federalismo maturo, quali la responsabilizzazione dei centri di spesa, la trasparenza dei meccanismi finanziari e il controllo dei cittadini nei confronti degli eletti e dei propri amministratori pubblici.

Tuttavia, come è noto, in data 3 ottobre 2008 è stato approvato dal Consiglio dei Ministri il disegno di legge delega titolato “Attuazione dell’articolo 119 della Costituzione: delega al Governo in materia di federalismo fiscale”, presentato il 15 ottobre 2008, n. S 1117. L’art. 1 della proposta di legge delega stabilisce appunto: “in maniera da sostituire gradualmente, per tutti i livelli di governo, il criterio della spesa storica e da garantire la loro massima responsabilizzazione e l’effettività e la trasparenza del controllo democratico nei confronti degli eletti”.

Il disegno di legge costituisce certamente il primo passo verso una concreta attuazione dell’art. 119, così come modificato nel 2001 dalla riforma del Titolo V della Costituzione, ed è per tale ragione che si ritiene opportuno soffermarsi in dettaglio su tale testo, analizzandone non solo la struttura ma anchei punti critici. Si sottolinea, tuttavia, come, trattandosi di un disegno di legge delega, anche esso contenga mere indicazioni di principi85, dovendo attendersi, per una piena applicazione del nuovo art. 119, Cost., non solo l’approvazione

84 Cfr. Corte cost., 26 gennaio 2004, n. 37.85 Come è certamente noto, l’art. 77, Cost. stabilisce che il Parlamento può delegare al Governo l’esercizio della funzione legislativa “con determinazione dei principi e criteri direttivi e soltanto per un tempo limitato e per oggetti definiti”.

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parlamentare di tale disegno di legge, ma anche l’emanazione del relativo decreto legislativo, contenente le specificazioni tecniche del nuovo federalismo.

Di conseguenza, i tempi di riforma appiano ancora certamente lunghi, non ravvisandosi la possibilità che il legislatore possa approvare ed attuare in pieno la riforma federalista messa in moto nel 2001 in un arco temporale di pochi mesi.Infatti, anche venisse adottata la presente proposta di legge delega, il “Governo sarebbe delegato ad adottare, entro ventiquattro mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi aventi ad oggetto l’attuazione dell’articolo 119 della Costituzione (…)”86.

6.1. PRINCIPI E CRITERI DIRETTIVIL’art. 2 del disegno di legge delega stabilisce appunto quali principi e

criteri direttivi dovrebbero essere utilizzati dal legislatore delegato. Appare certamente importante evidenziare, seppur sinteticamente, questi principi:

1. autonomia e responsabilizzazione finanziaria di tutti i livelli di governo;2. attribuzione di risorse autonome alle Regioni e agli enti locali;3. sostituzione del criterio della spesa storica a favore di quello del

fabbisogno standard (in altre parole, i finanziamenti degli enti locali non devono avvenire in base alla spesa storica sostenuta, bensì in base al fabbisogno standard di un ente benchmark);

4. rispetto della ripartizione delle competenze legislative tra Stato e Regioni, ed esclusione di ogni forma di doppia imposizione (salvo le addizionali)e dunque lealtà istituzionale a tutti i livelli di governo;

6. previsione espressa che la legge regionale possa istituire tributi regionali e locali, o istituire la compartecipazione degli enti locali; al contempo, non vi possono essere interventi su tributi che non siano del proprio livello di governo87.

7. previsione di meccanismi di accertamento (tra cui l’accesso degli enti locali alle anagrafi) e riscossione dei tributi che assicurino modalità di accreditamento diretto del riscosso agli enti titolari del tributo, in rispetto del principio di corrispondenza tra autonomia impositiva e autonomia di gestione delle risorse proprie e tra cosa tassata e cosa amministrata.

8. premialità dei comportamenti virtuosi ed efficienti;9. flessibilità fiscale che consente a tutte le Regioni ed enti locali, anche

quelle a più basso potenziale fiscale, di finanziare il livello di spesa non riconducibile ai livelli essenziali delle prestazioni e alle funzioni fondamentali degli enti locali, certezza delle risorse e sussidiarietà orizzontale;

10. semplicità, trasparenza, efficienza, razionalità e coerenza del sistema tributario e dunque delle decisioni di entrata e di spesa;

86 Così l’art. 2 della proposta di legge delega.87 Sul punto tuttavia, l’art. 2, comma 2, lett. l), stabilisce che “ove i predetti interventi siano effettuati dallo Stato sulle basi imponibili e sulle aliquote riguardanti i tributi degli enti locali (…), essi sono possibili solo se prevedono la contestuale adozione di misure per la completa compensazione tramite modifica di aliquota o attribuzione di altri tributi e previa quantificazione finanziaria delle predette misure nella Conferenza di cui all’art. 4”.

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11. riduzione dell’imposizione fiscale statale in misura adeguata alla più ampia autonomia di entrata di Regioni ed enti locali e corrispondente riduzione delle risorse statali umane e strumentali88.

Il corretto recepimento di questi principi dovrebbe dunque migliorare la qualità della spesa, che, dovrebbe appunto ispirarsi a criteri di efficienza ed efficacia, comportando una crescita economica degli enti locali.

6.2. UN SISTEMA TRIBUTARIO BASATO SU PIU’ LIVELLI DI TASSAZIONE

La completa attuazione della riforma, secondo le linee delineate dal disegno di legge in commento, creerebbe dunque più livelli di tassazione, convivendo tributi statali (il cui gettito potrebbe poi essere devoluto alle regioni) e tributi regionali propri, disciplinati e amministrati interamente dalle regioni e il cui gettito sarebbe devoluto alle regioni o ad altri enti locali89.

Questa molteplicità di livelli sarebbe coordinata dalla “Conferenza permanente di coordinamento della finanza pubblica”90, un organo stabile di coordinamento della finanza pubblica, con il compito di (i) concorrere alla definizione degli obiettivi di finanza pubblica per comparto, controllo degli stessi e applicazione dei meccanismi premianti e sanzionatori; (ii) proporre criteri per il corretto utilizzo del fondo perequativo secondo criteri di efficienza, efficacia e trasparenza, oltre che controllarne ex post la concreta operatività; (iii) monitorare il funzionamento del nuovo ordinamento finanziario delineato dalla riforma; e (iv) verificare la congruità dei dati e delle basi informative finanziarie e tributarie, fornite dalle amministrazioni territoriali91.

88 Su questi principi si è espresso De Mita, Un federalismo di compromessi, Il sole 24 ore, 25 settembre 2008, secondo cui il disegno di legge delega “si presenta come un elenco caotico diprincipi astrattamente condivisibili, ma senza una chiara distinzione della loro funzione. Una legge delega è fatta di norme deleganti e di limiti criteriati di essa. Invece nel progetto, sia pure informale, c'è una specie di parte generale introduttiva, dove non si capisce quale funzione debba avere la formulazione dei principi, che sul piano della tecnica giuridica non sempre hanno a che fare con le vere norme deleganti, e la precisazione dei tributi e delle risorse che si vorrebbero individuare”.89 Solo le Regioni potranno infatti istituire tributi (regionali, provinciali e comunali) in aggiunto a quelli fissati a livello centrale, del che le Regioni avranno prevalenza nei confronti di tutti gli enti locali nello svolgimento delle funzioni tributarie, anche se possono, con legge regionale, individuare le materie nelle quali gli enti locali hanno la possibilità di esercitare qualche forma di autonomia impositiva, attraverso, ad esempio, interventi su aliquote o agevolazioni. 90 Tale organo non è da confondersi con la Commissione paritetica per l’attuazione del federalismo fiscale, della quale dovrebbero fare parte i rappresentanti dei diversi livelli di governo. Questa Commissione avrà infatti il compito di raccogliere ed elaborare i dati in vista dell’emanazione dei decreti legislativi, e sarà quindi un organo temporaneo di coordinamento con lo scopo di coadiuvare il legislatore delegato in tema di federalismo fiscale. 91 Tali finalità sono espressamente individuate dall’art. 4 del disegno di legge.

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6.3. L’AMMINISTRAZIONE DIRETTA DEI TRIBUTI DA PARTE DEGLI ENTI LOCALI: UNA FORMA DI LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE

Il principio di correlazione tra cosa tassata e cosa amministrata, che rappresenta uno degli spunti più innovativi dell’intera riforma, dovrebbe avere come effetto quello di accrescere il gettito tributario, minimizzando l’evasione fiscale, e quello di responsabilizzare, nel contempo, i centri di spesa. Le Regioni,nella prospettata riforma, non sarebbero solamente in grado di emanare tributi propri, ma anche di gestirli ed amministrarli, con riferimento ad ogni fase di attuazione dei tributi, inclusa quella della riscossione.

Sotto tale profilo, appare evidente, a parere di chi scrive, come l’attuazione di tale riforma possa migliorare sensibilmente gli strumenti di lotta all’evasione ed elusione fiscale, in quanto gli enti locali sarebbero certamente più efficaci, data la vicinanza ai cittadini, la loro conoscenza della realtà economico-territoriale, e il loro interesse diretto nella riscossione dei tributi a loro spettanti, rispetto alla burocrazia statale nell’opera di riscossione tributaria.

6.4. IL MECCANSIMO DI PEREQUAZIONE QUALE FORMA DI SUSSIDIARIETA’

Appare inoltre fondamentale, all’interno del sistema che si verrebbe a creare, il nuovo meccanismo di perequazione, con lo scopo di garantire la solidarietà fra le Regioni, riducendo le differenze interregionali di gettito per abitante per il medesimo tributo rispetto al gettito medio nazionale per abitante, in modo tale da garantire su tutto il territorio nazionale i diritti dei cittadini alla sanità, assistenza sociale ed istruzione, nonché gli altri diritti costituzionalmente garantiti92. Tale scopo deve essere tuttavia ottenuto “senza alterarne l’ordine e senza impedirne la modifica nel tempo conseguente all’evoluzione del quadro economico territoriale”93.

Secondo le regole in commento, verrebbe istituito un fondo perequativo nel quale affluirebbero le quote di gettito fiscale dei contribuenti di quelle regioni ove tale gettito pro capite supera la media nazionale (cd. Regioni con maggiore capacità fiscale), e sarebbe devoluto a favore di quelle regioni nelle quali il gettito pro capite è inferiore alla media nazionale (cd. Regioni con minor capacità fiscale). Il fondo perequativo per i livelli essenziali delle prestazioni sarà alimentato, per le Regioni, dalla compartecipazione all’IVA, per le altre spese dall’addizionale regionale all’IRPEF.

Le modalità con cui tale fondo sarà istituito saranno naturalmente determinanti al fine di verificare se il quadro complessivo di federalismo fiscale,contemperato con l’esigenza di garantire la solidarietà sociale, sarà rispettato. A tal fine, la trasparenza dei flussi finanziari, di concerto con sistemi premianti e

92 In altre parole, il meccanismo serve a garantire l’integrale perequazione per enti con minore capacità fiscale per abitante, per le spese riconducibili ai livelli essenziali, per le Regioni, ed alle funzioni fondamentali, per gli enti locali.93 Art. 7, comma 1, lett. b).

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sanzionatori, sono fattori necessari al fine di garantire il coordinamento tra i diversi enti locali.

Di conseguenza, le Regioni disporranno, per il finanziamento delle spese connesse ai livelli essenziali delle prestazioni (quali sanità, istruzione, assistenza e trasporto pubblico locale) di: tributi regionali da individuare in base al principio di correlazione tra il tipo di tributo e il servizio erogato, addizionale all’IRPEF, compartecipazione all’IVA e quote del fondo perequativo e del gettito dell’IRAP. Per le altre spese le Regioni disporranno di tributi propri.

Per quanto concerne le Province, i Comuni e le Città Metropolitane, le spese dovranno essere distinte, per ogni ente, in spese riconducibili alle funzioni fondamentali di tali enti94 e spese relative ad altre funzioni. Mentre le spese relative a funzioni fondamentali saranno finanziate per mezzo di compartecipazione (e, per i comuni, addizionale comunale) all’IRPEF, le altre spese saranno finanziate da tributi propri e tributi di scopo95. Occorre tuttavia precisare che i tributi degli enti locali saranno stabiliti dallo Stato o dalla Regione, in quanto titolari del potere legislativo, con garanzia di flessibilità nel rispetto dell’autonomia propria dell’ente locale. Proprio a stabilità e garanzia dell’autonomia degli enti locali, essi disporranno di compartecipazione al gettito di tributi erariali e regionali

6.5. L’AUTONOMIA DI SPESAQuanto all’autonomia di spesa, principio cardine sancito dalla riforma

costituzionale, esso è attuato, in primo luogo, mediante la sostituzione del criterio della spesa storica con quello del costo standard. Finisce dunque il sistema di finanza derivata, sulla base della spesa storica, e si passerà gradualmente all’autonomia impositiva ed al criterio dei costi standard. Dunque, non si farà più riferimento ai costi storici, bensì ai costi corrispondenti ad una media buona amministrazione (cd. costi standard). Mentre il metodo del costo storico certamente consentiva sprechi ed inefficienze, il metodo del costo standard dovrebbe responsabilizzare maggiormente le amministrazione locali e comportante un contenimento ragionato della spesa pubblica.

In secondo luogo, il disegno di legge pone in essere un’effettiva autonomia di entrata e di spesa di Regioni ed enti locali. Ci saranno dunque tributi propri. Per tributi regionali si intendono, infatti: “1. i tributi propri derivati, istituiti e regolati da leggi statali, il cui gettito è attribuito alle Regioni; 2. le aliquote riservate alle Regioni a valere sulle basi imponibili dei tributi erariali; 3. i tributi propri istituiti dalle Regioni con proprie leggi in relazione ai presupposti non già associati ad imposizione erariale”. Così, art. 5, comma 1, lett. b) del disegno di legge.

94 Si tratta delle spese di cui all’art. 117, comma 2, lett. p), Cost.95 Ad esempio, sono tributi di scopo i tributi legati ai flussi turistici o alla mobilità urbana.

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Le amministrazioni regionali o locali potranno determinare autonomamente i contenuti dei tributi propri, consentendo dunque alle amministrazioni più efficienti, cioè a quelle amministrazioni in grado di minimizzare i costi, di ridurre i tributi propri, pur mantenendo il medesimo livello di servizi.

Accanto ai tributi propri vi saranno accostati dai tributi regionali derivati, cioè quei tributi istituiti e regolati da legge statale, ma il cui gettito è attribuito alle Regioni e dalle aliquote riservate alle Regioni a valere sulle basi imponibili dei tributi erariali. Queste ultime due categorie di tributi saranno governati dal principio di territorialità, secondo cui occorre tener conto del luogo di consumo, per i tributi aventi quale presupposto i consumi, della localizzazione dei cespiti per i tributi basati sul patrimonio, del luogo di prestazione del lavoro, per i tributi basati sulla retribuzione, e, infine, della residenza del percettore, per i tributi riferiti ai redditi delle persone fisiche. Il gettito da essi derivante è senza vincolo di destinazione.

6.6. LA SALVAGUARDIAUltimo elemento critico che merita di essere citato è la cd. “salvaguardia”.

Infatti, l’attuazione della legge è condizionata alla compatibilità con gli impegni finanziari assunti con il patto europeo di stabilità e crescita. Le maggiori risorse finanziarie, rese disponibili raggiunti i livelli di efficienza auspicati, saranno utilizzate al fine di ridurre la pressione fiscale dei diversi livelli di governo.

Si noti, tuttavia, che la pressione fiscale complessiva, in virtù della transizione da un sistema finanziario derivato ad un sistema di federalismo fiscale maturo, non dovrebbe portare all’accrescimento della pressione fiscale complessiva, in quanto la maggiore imposizione fiscale da parte degli enti locali dovrà essere contestuale alla riduzione dell’imposizione a livello statale. Anzi, l’obiettivo della manovra è proprio quello di ridurre il carico fiscale complessivo, in ragione dell’accrescimento di nicchie di efficienza a livello locale.

7.CONCLUSIONI

7.1. SE LA ATTRIBUZIONE DI POTESTÀ IMPOSITIVE “VERSO IL BASSO” SIA EFFICIENTE.

In conclusione, anche se l’approvazione del presente disegno di legge costituisce un notevole passo in avanti verso un sistema di federalismo fiscale maturo, questo non si può che considerare un passaggio intermedio di una riforma che, iniziata nel 2001, con le modifiche al titolo V della Costituzione. Di particolare importanza è il successivo sviluppo normativo che , nell’arco di non più di due anni, condurrà all’emanazione dei decreti legislativi, ed, infine, nell’opera attiva da parte degli enti locali tutti per dare forma concreta ad un federalismo fiscale che possa considerarsi paragonabile a quella di altre esperienze straniere consolidate.

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Il legislatore delegato si troverà quindi, nei prossimi due anni di fronte al problema concreto di individuare quale sia la adeguata divisione tra Stato ed enti locali, posto che le vigenti norme costituzionali in materia disegnano una geometria a struttura variabile.

Bisogna domandarsi perché possa convenire che certe decisioni di entrata e di spesa debbano più opportunamente collocarsi “verso il basso” in un quadro di federalismo fiscale. Le risposte a questo quesito sono varie. In primo luogo, sono preferibili forme di potestà impositiva locale nei casi in cui sussista, nell’ambito del territorio nazionale, una notevole variabilità di situazioni che espressamente renda necessaria scelte ampiamente differenziate. In secondo luogo, talvolta il processo politico e decisionale deve scendere verso il basso qualora sussistano rilevanti esigenze di avvicinare la gestione delal cosa pubblica agli interessi dei cittadini.

Queste due ragioni a favore di forme di federalismo fiscale vanno quindi ovviamente intese nell’ambito di un fisiologico quadro di “unità nella diversità” e non in un quadro di frammentazione e competizione interna tra i diversi livelli di governo sub-statuale.

Vi è però un’aspetto di criticità connaturato ai processi di attribuzioni di potestà impositiva verso il basso configurati dal disegno di legge delega del 2008.. Ed infatti se lo Stato delega parte della elaborazione delle norme tributarie ai livelli di governo sub-statuali, esso deve introdurre forme di controllo rispetto a tali enti locali. Il rapporto tra lo Stato ed enti locali non è quindi di perfetta cooperazione, ma è da intendersi in una prospettiva complessa di conflitto o non-cooperazione. Ciò è indotto da svariati fattori, in primo luogo i meccanismi che determinano forme di autonomia rispetto al sistema politico centrale96, ond’è che gli enti locali possono trarre vantaggi (situazioni di inefficienza, potere oligarchico, corruzione) 97. Le diverse forme di controllo degli enti locali introdotte dallo Stato centrale implicano costi, poiché le risorse sono limitate ed il controllo non è assoluto. La delega di potere non è la panacea, ma implica costi di controllo.

Lo Stato quindi, anche se delega poteri normativi, mantiene la potestà di dettare i principi fondamentali e quindi può decidere il grado di specificità e completezza delle norme da esso emanate. In via generale, tanto più dettagliate sono le regole dello Stato centrale, tanto maggiori sono i costi di esso per predisporle e tanto minori sono i costi per il controllo degli enti locali. Per contro, tanto più generali sono le regole dello Stato centrale, tanto minori sono i costi

96 Per approfondimenti: G. SOBBRIO, Economia del settore pubblico, Milano, 1999, pagg. 140 e

ss..97 Prospettano questi fenomeni: M.J. HORN, The Political Economy of Public Administration,

Cambridge,1995, pagg. 75 e ss.; T. PRESSON, G. TABELLINI, Political Economics and Public Finance, Working Paper 7097, National Bureau of Economic Research, Washinghton, 1999.

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dello Stato centrale per predisporle e tanto maggiori sono i costi per il controllo nei confronti dei livelli di governo sub-statuali.

Lo Stato centrale può quindi prescegliere la soluzione di deleghe di poteri ai livelli di governo sub-statuali che ottimizzino i costi di controllo, determinando, tra diverse alternative, quale sia la preferibile nei termini di riduzione dei propri costi transattivi. Quindi norme che hanno la forma di norme deleganti a contenuto generico od “in bianco” sovente attribuiscono ai livelli di governo sub-statuali rilevanti potestà.

Il punto che emerge da questa analisi istituzionale è allora la possibile tendenza dello Stato centrale di emanare deleghe in bianco e degli enti locali ad acquisire poteri normativi, ma ciò soltanto in base ad esigenze di mera riduzione dei costi di controllo dello Stato centrale. In conclusione, quindi, il quadro del “federalismo possibile” disegnato dal disegno di legge delega del 2008 prescrive una intensa ripartizione verso il basso delle potestà impositive, che potrebbe configurarsi come il risultato di processi di deleghe dei poteri verso il basso non necessariamente volte a politiche di massimizzazione dell’utilità.

7.2. UN FEDERALISMO A STRUTTURA VARIABILE?L'analisi svolta ha preso le mosse da un criterio metodologico attento al dato evolutivo ed alla volontà del legislatore costituzionale (paragrafo 1-5) per approdare ad un possibile quadro sistemico relativo al federalismo fiscale possibile introdotto disegno di legge delega del 2008 (paragrafo 6).

Combinando l'elemento evolutivo ed il quadro sistemico emergono conclusivamente due punti rilevanti: (i) la dissociazione tra dato formale delle norme costituzionali e realtà istituzionale in relazione ai rapporti tra Stato e livelli di governo sub-statuali in materia impositiva; (ii) l'emergere di una struttura di federalismo fiscale “possibile”, con possibili vie di fuga verso una frammentazione delle competenze.

Nel periodo precedente alla riforma dell’art. 119 Cost. ha operato il formante legislativo: ed infatti la struttura dei fondi perequativi, dapprima introdotta dal legislatore ordinario, si è poi “cosituzionalizzata” nel nuovo art. 119 Cost. ed ha avuto un’ampia regolamentazione già nella disegno di legge delega del 2008. La vigente formulazione dell’art. 119 Cost. è aperta ad evoluzioni di autonomia fiscale che sono ora particolarmente indicate dalla disegno di legge delega del 2008.

Ma il punto essenziale dell'analisi qui condotta è il federalismo fiscale non si risolve nella enunciazione di norme costituzionali, ma coincide con processi istituzionali (naturalmente validi a livello costituzionale) in cui, mediante una geometria a struttura variabile, i livelli di governo interagiscono nel contesto di una costituzione fiscale ottima, in cui, in vario modo, siano contemperate le esigenze di equità e di giustizia.

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La disamina degli aspetti sostanziali della disegno di legge delega del 2008 (svolta nel precedente par. 6) evidenzia un ulteriore ed importante caveat: la ripartizione di potestà impositive verso il basso non è necessariamente efficiente, e, può essere determinata da ragioni che rispondano a criteri di efficienza. Le declamazioni a favore di un indistinto decentramento federalista devono essere, in concreto, verificate al livello dei processi istituzionali tra livelli di governo sub-statuali, processi che in vario modo sono consentiti od agevolati da norme costituzionali.

Il federalismo fiscale non coincide con le norme, ma deve essere attuato da concreti processi evolutivi. Un sistema può essere federale “sulla carta”, ma non esserlo nella sostanza. Ciò chiarisce inoltre che vi possono essere significative forme di federalismo fiscale anche nell'ambito di sistemi costituzionali che non siano propriamente federali. In altre parole ancora, il federalismo fiscale non coincide con attribuzioni di potestà impositiva “verso il basso”, quali ad esempio attribuzioni di competenze esclusive alle Regioni, ma è un’espressione che designa un complesso ed integrato sistema di rapporti tra lo Stato e gli enti sub-statuali (e tra i diversi enti sub-statuali).