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1 FARMACOLOGIA GENERALE DEFINIZIONI GENERALI Farmacologia: Scienza bio-medica che studia i farmaci e i meccanismi con i quali queste molecole agiscono sugli organismi. Studia e definisce le giuste modalità di scelta e dosaggio di un farmaco: quando è possibile descrivere una curva dose-effetto e la molecola specifica parliamo di farmaco (il farmaco “coincide” con i principi attivi presenti in specifici cibi, piante, etc.). È l’analisi e definizione dei meccanismi generali che sottendono l’azione dei farmaci. La farmacologia permette di sapere qualunque cosa di un farmaco, sia gli aspetti positivi che negativi della molecola sul paziente. Se la dose è eccessiva, si può andare incontro a tossicità e mortalità: i farmaci devono essere usati all’interno della loro finestra terapeutica; al di sopra o al di sotto di questa finestra, non si esegue alcuna terapia (al di sotto) oppure parliamo di tossicità (al di sopra). Il farmaco ha effetti simili, alla stessa dose, nella maggior parte della popolazione mondiale: a questo sfuggono alcuni individui sulla base della farmacogenetica. Per una terapia, non basta scegliere il farmaco e la dose corretta, ma soprattutto la durata della terapia: ad esempio, una terapia antibiotica può essere eseguita in maniera scorretta (una sola somministrazione non è terapia antibiotica). Se il protocollo richiede dieci giorni, allora la terapia per essere corretta deve durare dieci giorni. Di questo si occupa la farmacocinetica, che descrive gli effetti dell’organismo sul farmaco. Per brevettare e mettere in commercio un farmaco, occorrono studi di farmacocinetica alla ricerca del miglior dosaggio possibile; quando la farmacocinetica è corretta, significa che siamo riusciti a far arrivare a livello del plasma una quantità corretta di farmaco, per il giusto tempo, che si distribuisce ai suoi recettori specifici. Molecole per le quali non sono possibili queste descrizioni non sono considerabili farmaci. L’effetto del farmaco sull’organismo, quindi il risultato della terapia, è descritto invece dalla farmacodinamica. Compliance adesione, accettazione della terapia da parte del paziente: assunzione della terapia nelle giuste modalità e per il giusto periodo. Una terapia che prevede “fastidio” o “dolore” per il paziente determinerà una scelta nel paziente di non seguire più quella terapia. Allo stesso modo, è possibile che il farmaco venga assunto, ma non secondo le modalità o durata di somministrazione. Se questo succede, possiamo andare incontro a inefficacia della terapia. Farmaco-cinetica e -dinamica sono alla base di una serie di altre discipline: - Tossicologia: studio sugli effetti negativi e sull’uso non terapeutico di un farmaco. Permette di descrivere il potenziale pericolo per il paziente quando somministriamo un farmaco e permette di studiare anche metodi per “curare” quando ciò avviene. - Farmacologia clinica: permette di studiare gli effetti del farmaco su individui volontari sani, a chi deve essere somministrato, in quali dosi è sicuro, etc. Permette la commercializzazione del farmaco - Farmacogenetica: poiché ogni individuo è diverso dagli altri, grazie a mutazioni a livello genetico, un determinato farmaco non avrà lo stesso effetto su tutta la popolazione generale. La farmacogenetica (e la farmacogenomica) permettono di caratterizzare il singolo individuo e di come egli gestisce e metabolizza il farmaco (sistema dei citocromi). - Farmacovigilanza: controllo sulla sicurezza dei farmaci. È una vigilanza attiva, per cui qualsiasi farmaco utilizzato è controllato, monitorando e acquisendo informazioni su reazioni avverse in determinati pazienti, così da comprendere se il farmaco è pericoloso per la popolazione generale o se ha effetti negativi solo su una porzione di essa (in questo caso, gli effetti collaterali e le popolazioni in cui il farmaco è pericoloso sono segnati sul foglietto illustrativo). Chiunque può segnalare reazioni avverse - Farmacoepidemiologia e farmacoeconomia: rappresentano tutta la gestione “economica” e “politica” del commercio dei farmaci. Se due farmaci hanno la stessa efficacia, verrà scelto quello che

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FARMACOLOGIA GENERALE

DEFINIZIONI GENERALI

Farmacologia: Scienza bio-medica che studia i farmaci e i meccanismi con i quali queste molecole agiscono

sugli organismi. Studia e definisce le giuste modalità di scelta e dosaggio di un farmaco: quando è possibile

descrivere una curva dose-effetto e la molecola specifica parliamo di farmaco (il farmaco “coincide” con i

principi attivi presenti in specifici cibi, piante, etc.). È l’analisi e definizione dei meccanismi generali che

sottendono l’azione dei farmaci.

La farmacologia permette di sapere qualunque cosa di un farmaco, sia gli aspetti positivi che negativi della

molecola sul paziente. Se la dose è eccessiva, si può andare incontro a tossicità e mortalità: i farmaci devono

essere usati all’interno della loro finestra terapeutica; al di sopra o al di sotto di questa finestra, non si esegue

alcuna terapia (al di sotto) oppure parliamo di tossicità (al di sopra). Il farmaco ha effetti simili, alla stessa

dose, nella maggior parte della popolazione mondiale: a questo sfuggono alcuni individui sulla base della

farmacogenetica.

Per una terapia, non basta scegliere il farmaco e la dose corretta, ma soprattutto la durata della terapia: ad

esempio, una terapia antibiotica può essere eseguita in maniera scorretta (una sola somministrazione non è

terapia antibiotica). Se il protocollo richiede dieci giorni, allora la terapia per essere corretta deve durare dieci

giorni. Di questo si occupa la farmacocinetica, che descrive gli effetti dell’organismo sul farmaco. Per

brevettare e mettere in commercio un farmaco, occorrono studi di farmacocinetica alla ricerca del miglior

dosaggio possibile; quando la farmacocinetica è corretta, significa che siamo riusciti a far arrivare a livello del

plasma una quantità corretta di farmaco, per il giusto tempo, che si distribuisce ai suoi recettori specifici.

Molecole per le quali non sono possibili queste descrizioni non sono considerabili farmaci. L’effetto del

farmaco sull’organismo, quindi il risultato della terapia, è descritto invece dalla farmacodinamica.

Compliance → adesione, accettazione della terapia da parte del paziente: assunzione della terapia nelle giuste

modalità e per il giusto periodo. Una terapia che prevede “fastidio” o “dolore” per il paziente determinerà una

scelta nel paziente di non seguire più quella terapia. Allo stesso modo, è possibile che il farmaco venga assunto,

ma non secondo le modalità o durata di somministrazione. Se questo succede, possiamo andare incontro a

inefficacia della terapia.

Farmaco-cinetica e -dinamica sono alla base di una serie di altre discipline:

- Tossicologia: studio sugli effetti negativi e sull’uso non terapeutico di un farmaco. Permette di

descrivere il potenziale pericolo per il paziente quando somministriamo un farmaco e permette di

studiare anche metodi per “curare” quando ciò avviene.

- Farmacologia clinica: permette di studiare gli effetti del farmaco su individui volontari sani, a chi

deve essere somministrato, in quali dosi è sicuro, etc. Permette la commercializzazione del farmaco

- Farmacogenetica: poiché ogni individuo è diverso dagli altri, grazie a mutazioni a livello genetico,

un determinato farmaco non avrà lo stesso effetto su tutta la popolazione generale. La farmacogenetica

(e la farmacogenomica) permettono di caratterizzare il singolo individuo e di come egli gestisce e

metabolizza il farmaco (sistema dei citocromi).

- Farmacovigilanza: controllo sulla sicurezza dei farmaci. È una vigilanza attiva, per cui qualsiasi

farmaco utilizzato è controllato, monitorando e acquisendo informazioni su reazioni avverse in

determinati pazienti, così da comprendere se il farmaco è pericoloso per la popolazione generale o se

ha effetti negativi solo su una porzione di essa (in questo caso, gli effetti collaterali e le popolazioni in

cui il farmaco è pericoloso sono segnati sul foglietto illustrativo). Chiunque può segnalare reazioni

avverse

- Farmacoepidemiologia e farmacoeconomia: rappresentano tutta la gestione “economica” e

“politica” del commercio dei farmaci. Se due farmaci hanno la stessa efficacia, verrà scelto quello che

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costa meno (nel senso che il costo di produzione è minore). Importante è la valutazione del rapporto

costo/beneficio.

Farmaco → Medicinale → principio attivo: è ciò che studieremo. Lo stesso principio attivo può essere presente

in due nomi commerciali differenti, così come un prodotto può contenere più principi attivi.

Si intende per medicinale una sostanza o associazione di sostanze che:

- Ha proprietà curative o profilattiche delle malattie umane

- Può essere usata dall’uomo o somministrata all’uomo per ripristinare, correggere o, in generale,

modificare una o più funzioni fisiologiche, esercitando una funzione farmacologica, immunologica o

metabolica, o di stabilire una diagnosi medica.

- Determina variazioni funzionali sempre quantificabili nell’organismo

Le molecole con attività farmacologiche possono essere:

- Endogene: sintetizzate dall’organismo (es. ormoni)

- Esogene (o xenobiotici): sostanze di sintesi o estratte da animali/piante

Il termine xenobiotico, in realtà, indica qualunque sostanza esterna al nostro organismo, quindi sia medicinali

e medicamenti, sia sostanze tossiche (sia di origine vegetale-animale – tossine – sia veleni inorganici – piombo,

arsenico, etc –). Tra le sostanze tossiche, molte sono considerabili borderline: un tipico esempio è l’arsenico,

il quale, se usato correttamente, permette di risolvere alcuni tipi di leucemia umana. Lo stesso alluminio, che

usato in quantità elevate è tossico, in realtà può essere usato, nelle giuste dosi, come enhancer nei vaccini, per

sviluppare la reazione immunitaria.

ORIGINE E SINTESI DEI FARMACI

Originariamente, i farmaci avevano origine naturale: derivavano da piante, animali, microrganismi o da

minerali presenti di per sé in natura; da questi elementi si estraevano i principi attivi, andando ad osservarne

l’effetto sul paziente. Ad oggi, tuttavia, siamo in grado di produrre direttamente i recettori, potendo quindi

produrre farmaci a partire dal recettore, per poi tornare al paziente stesso.

La stragrande maggioranza dei farmaci in uso clinico ad oggi è preparata per

- sintesi chimica: i farmaci sono preparati direttamente in laboratorio; molti farmaci derivano da

componenti del petrolio

- semisintesi: il farmaco derivato per sintesi naturale viene modificato leggermente per essere reso più

stabile, migliorandone la permanenza all’interno dell’organismo

- con l’utilizzo di biotecnologie: le molecole vengono prodotte facendo esprimere e codificare specifici

geni in linee cellulari in coltura (normalmente batteri o lieviti); la tecnica si basa sull’inserimento del

gene umano, in genere tramite vettore virale, nel genoma extracromosomico.

A queste categorie appartengono quindi i principali farmaci di oggi, come le small molecules (farmaci che

terminano in -inib), anticorpi (farmaci che terminano in -mab) ed ormoni ricombinanti (-rh, come

l’insulina).

CARATTERISTICHE GENERALI DEI FARMACI E FORMA FARMACEUTICA

Vengono definiti farmaci tutte quelle sostanze che:

- Interagiscono con recettori specifici

- Vengono somministrati solitamente in sedi distanti, dal punto di vista anatomico, dal sito d’azione

desiderato

- Hanno effetti dose-dipendenti

- Hanno un’azione che deve essere necessariamente determinabile sia qualitativamente che

quantitativamente

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- La terapia deve essere riproducibile nella stragrande maggioranza dei pazienti

- Devono essere il miglior compromesso tra attività medicamentosa e gli effetti tossici (occorre valutare

il rapporto beneficio/rischio, che deve essere accettabile)

Quando parliamo di farmaco, intendiamo una molecola in particolare, il principio attivo. Il principio attivo

(in genere uno o due, raramente più di due) è la molecola nel medicinale dalla quale dipende la sua attività

sull’organismo: è quindi il medicinale vero e proprio, con una formula e struttura chimica definita e

riproducibile. Quando si assume un farmaco, però, in realtà non assumiamo solo il principio attivo: molto

spesso, infatti, il principio attivo può essere instabile o è in quantità così piccole da non poter essere usato

efficacemente. Quello che si assume è la cosiddetta forma farmaceutica, insieme di principi attivi ed

eccipienti (molecole inattive, quindi prive di azione farmacologica a prescindere dalla quantità utilizzata; il

placebo consiste in soli eccipienti). Gli eccipienti non partecipano all’effetto farmacologico e spesso non

vengono assorbiti dall’organismo. Inoltre:

- Aiutano la compliance del paziente alla terapia

- Proteggono il principio attivo dagli agenti esterni che potrebbero danneggiarlo (caldo, freddo, umidità,

ma anche acidità gastrica); da notare che è importante segnalare come la forma farmaceutica deve

essere assunta dal paziente

- Aumentano il volume della forma farmaceutica, consentendo la preparazione di forme di dimensioni

accettabili e maneggiabili

- Rendono stabili soluzioni o sospensioni, evitando così la sedimentazione del principio attivo sul fondo

dei contenitori e impedendone l’ossidazione

- Facilitano o modificano il rilascio del principio attivo nell’organismo

- Modificano il sapore (e il colore) dei medicinali

- Permettono di essere sicuri della dose assunta di principio attivo e che tale dose assunta sia quella

corretta

PREPARAZIONE DEI FARMACI

I medicinali vengono distinti in due grandi categorie

- Medicinali preparati in farmacie autorizzate (galenici); questi, a loro volta, possono essere distinti in

o Galenici magistrali (e ospedalieri): vengono preparati in farmacia o in parafarmacia in base

ad una prescrizione medica destinata ad uno specifico paziente

o Galenici officinali, o multipli, o formula officinale: vengono preparati in autonomia in

farmacia, basandosi sulle indicazioni della Farmacopea Europea o della Farmacopea Ufficiale

della Repubblica Italiana; essi sono destinati ad essere forniti direttamente a più pazienti

serviti dalla farmacia. La preparazione deve seguire procedure ben definite, che escludano

possibilità di errore e che assicurino i necessari requisiti di garanzia e omogeneità.

- Medicinali di origine industriale (o galenici industriali)

Sulla base del principio attivo presente nella formulazione, i galenici officinali (ma anche quelli industriali)

possono essere dispensati:

- Senza ricetta medica: i cosiddetti OTC → over the counter (farmaci da banco). Sono farmaci

mediamente sicuri, che non richiedono ricetta medica e genericamente presentano un costo minore,

pur essendo ad ogni effetto farmaci: hanno una finestra terapeutica che deve essere rispettata in

maniera rigida, secondo le indicazioni terapeutiche da parte di un medico. Devono essere segnalati al

medico curante.

- Con ricetta medica (ripetibile, non ripetibile, speciale)

Le formule magistrali, che vengono prescritte dal medico e preparate dal farmacista con un dosaggio ed

eccipienti personalizzati per uno specifico paziente, possono presentarsi in:

- Forma liquida, sia fredda (colliri, emulsioni, soluzioni, sospensioni) sia calda (tisane, infusi, decotti)

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- Forma solida, sia senza eccipienti (cachet o compresse) che con eccipienti (pillole, compresse, granuli,

pomate, etc)

- Forma iniettabile

Per quanto riguarda le formule officinali, che vengono utilizzate da più pazienti (e quindi godono in una

composizione costante e un dosaggio fisso) possono essere ottenute per:

- Operazioni meccaniche (polveri, polpe)

- Soluzione (idroliti, alcoliti, etc)

- Soluzione seguita da evaporazione (estratti)

In questo caso possono usare come eccipienti-veicolo (vedi più avanti) zuccheri (sciroppi), miele (melliti,

ossimelliti), grassi, cere, resine (pomate), gelatina (capsule, perle), tessuto o carta (cerotti).

Le formule industriali, infine, sono medicinali ad uso umano, preparati industrialmente o nella cui produzione

interviene un processo industriale. Essi sono caratterizzati da una preparazione accurata, che garantisce la

giusta dose e la conservazione del principio attivo. Essi hanno una loro propria denominazione, consistente in:

- Nome commerciale (branded), ovvero un nome di fantasia (es. Tachipirina) non confondibile con il

nome del principio attivo; esso viene scelto, sostanzialmente, dall’azienda che per prima ha utilizzato

quell specifico principio attivo, dietro al quale è stata condotta un’accurata ricerca. L’azienda quindi

mantiene il brevetto per un certo periodo di tempo (diventa monovenditore per 25 anni), alla fine del

quale esso scade, potendo essere quindi utilizzato da chiunque (farmaco generico equivalente). I

farmaci branded costano in genere di più, perché oltre al principio attivo si paga anche il “nome”

- Denominazione comune internazionale (DCI) o scientifica del principio attivo (es. Paracetamolo)

I farmaci industriali, inoltre, riportano il nome e i dati del titolare dell’autorizzazione all’immissione in

commercio (AIC) e l’ATC (vedi più avanti).

Il termine farmaco equivalente (o generico equivalente) indica un medicinale che è bioequivalente (cioè con

pari attività terapeutica a parità di regime terapeutico) al medicinale branded con brevetto scaduto. I farmaci

equivalenti sono quindi sottoposti agli stessi controlli e procedure di registrazione e vigilanze dei farmaci

branded: essi presentano la stessa composizione quali-quantitativa, la stessa forma farmaceutica (possono

tuttavia variare leggermente gli eccipienti), la stessa via di somministrazione e le stesse indicazioni

terapeutiche. Essi vengono indicati solo con il nome del principio attivo, l’ATC e la casa farmaceutica dalla

quale viene prodotto. Il farmaco equivalente può essere messo in commercio solo se costa almeno il 20% in

meno del farmaco branded, riduzione che non grava sulla qualità di controllo e produzione, ma piuttosto sui

costi di markenting.

ENTI REGOLATORI

L’immissione in commercio di un farmaco industriale deve essere autorizzato da due enti regolatori:

- AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco)

- EMEA (Agenzia Europea per i Medicinali)

Queste agenzie servono a garantire, da un lato, una stretta farmacovigilanza (monitorando quindi gli eventuali

effetti collaterali) e, dall’altro, una regolazione della commercializzazione del farmaco (vengono acquisite

anche informazioni sulla sperimentazione, così da decidere se un farmaco può essere immesso in commercio

o deve esserne ritirato). Si occupano, inoltre, di stabilire il costo dei farmaci ed emettono periodicamente note

sui farmaci, in particolare su chi non deve usare il farmaco o eventuali interazioni negative con altre terapie.

Per ottenere un’AIC, il richiedente deve presentare una domanda alle autorità competenti, che può contenere:

- Il dossier completo degli studi effettuati (prima sugli animali, poi su volontari sani e infine su pazienti)

che dimostrano come il farmaco sia sicuro (non pericoloso, non tossico) ed efficace nel trattamento di

una specifica malattia; in questo caso, parleremo di farmaco di riferimento

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- Una documentazione ridotta (mancanza dei risultati delle prove precliniche e delle sperimentazioni

cliniche), in alcuni casi particolari (come ad esempio generici di medicinali di riferimento in uso da

almeno otto anni, o medicinali i cui principi attivi sono di impiego medico ben consolidato nella

Comunità europea da almeno dieci anni)

All’interno di ogni classe terapeutica è sempre presente un farmaco di riferimento: esso è il medicinale che ha

garantito per molti anni la maggior efficacia terapeutica. Qualunque nuovo farmaco, per poter essere messo in

commercio, deve garantire, rispetto a quello di riferimento, un’efficacia maggiore, o uguale ma con meno

effetti collaterali.

CLASSIFICAZIONE ATC

I diversi principi attivi sono suddivisi in 14 categorie, sulla base della classificazione ATC: Anatomica,

Terapeutica, Chimica. Questa classificazione, che identifica i diversi principi attivi con una determinata sigla,

permette di distinguerli sulla base della patologia per cui vengono usati, del dosaggio e della via di

somministrazione. Differenti forme farmaceutiche dello stesso principio attivo hanno differenti codici ATC,

in maniera da caratterizzare univocamente l’utilizzo della molecola.

La sigla ATC è data dalla combinazione di lettere e numeri che formano una sigla di 7 caratteri, suddivisibili

in V gruppi differenti. Ad esempio, la Fluoxetina ha come sigla ATC N06AB03. Nella sigla ATC:

- La prima lettera dell’alfabeto indica il gruppo anatomico principale

o A: Apparato gastrointestinale e Metabolismo

o B: Sangue e Organi emopoietici

o C: Sistema cardiovascolare

o D: Dermatologi

o G: Sistema genito-urinario e Ormoni Sessuali

o H: Preparati ormonali sistemici, esclusi gli ormoni sessuali

o J: Antimicrobici generali per uso sistemico

o L: Farmaci antineoplastici e immunomodulatori

o M: Sistema muscolo-scheletrico

o N: Sistema nervoso

o P: Farmaci antiparassitari, insetticidi e repellenti

o R: Sistema respiratorio

o S: Organi di Senso

o V: Vari

- Il numero di due cifre seguente indicano il gruppo terapeutico principale

- La successiva lettera dell’alfabeto indica il sottogruppo terapeutico

- La lettera dell’alfabeto che segue indica il sottogruppo chimico/terapeutico

- L’ultimo numero a due cifre indica il sottogruppo chimico: questo è univoco per ogni sostanza

chimica

All’interno della stessa classificazione ATC troviamo una sottoclassificazione, utile per indicare:

- La via di somministrazione

- La classe di rimborsabilità (che può variare negli anni); essa viene indicata con:

o C: il farmaco è a carico del paziente. Questo perché:

In commercio esiste un medicinale di riferimento più efficace ed economico

L’ambito terapeutico è così particolare che non viene riconosciuto tra le priorità del

SSN

o A: il farmaco è a carico del SSN.

La lettera H, inoltre, indica quei farmaci che, con una certa dose e via di somministrazione, dovrebbero

essere di uso esclusivo degli ospedali (in particolare DEA e Rianimazione).

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Esistono delle vere e proprie linee guida per i farmaci: sono norme internazionali (in vigore in USA, Europa,

Giappone e Cina) che regolano l’utilizzo dei farmaci per specifiche patologie. Esistono tuttavia casi off-label

(eccezioni al di fuori della normale indicazione terapeutica): quello specifico farmaco, usato per quella

specifica patologia, può prevedere un impiego al di fuori di quello definito in alcuni soggetti. L’uso off-label,

tuttavia, viene autorizzato dai comitati etici.

Dal punto di vista della pratica medica, esistono delle tabelle prescrittive per i farmaci: non tutti i medici

possono prescrivere tutti i farmaci; alcuni farmaci, infatti, possono essere prescritti, tramite particolari ricette,

da determinati specialisti. I farmaci regolati da queste tabelle sono molecole con potenziale tossico e che

possono indurre dipendenza (psicologica e fisica). Tra i farmaci in questione troviamo:

- Oppiacei, cocaina, adrenergini psicoattivi (anfetamine); pur essendo estremamente utili, possono

risultare anche estremamente pericolosi; tra gli effetti collaterali infatti, si rileva depressione a livello

centrale (con conseguente depressione respiratoria) e danno dipendenza a partire dalla seconda

somministrazione.

- Derivati della cannabis; l’uso della cannabis in modo cronico può portare a effetti a lungo termine

(come l’insorgenza precoce di Alzheimer). Inoltre, risulta essere immunodepressoria e spasmolitica.

Non è tuttavia prescivibile.

- Ipnotici barbiturici

- Barbiturici antiepilettici e Oppiacei deboli

- Codeina + Paracetamolo (30mg + 500mg)

- Codeina + Paracetamolo (10mg + 400 mg) e Preparati antitosse a base di codeina

- Oppiacei deboli, Ansiolitici, Ipnotici Barbiturici

CONFEZIONAMENTO

Come detto, lo scopo di una terapia farmacologica è far arrivare la giusta quantità di principio attivo al

bersaglio, indipendentemente dalla via di somministrazione (ad eccezione della terapia topica, in quanto questi

principi attivi non devono mai arrivare al plasma, in quanto risulterebbero tossici). A questo scopo, il

medicinale consiste in una specifica forma farmaceutica, consistenti in:

- Principio attivo in quantità nota (il range va dai pg ai mg, quindi dalle 10-7 a 10-4 moli)

- Eccipienti (solitamente mg o g)

- Eccipiente veicolare (o veicolo): eccipiente, somministrato in quantità nota con il principio attivo,

che serve a trasportarlo (es: acqua per un farmaco liofilizzato; olii usati nella somministrazione IM)

Gli eccipienti ed il veicolo non modificano la farmacodinamica ma possono modificare (apparentemente) in

modo significativo la farmacocinetica, rallentando l’assorbimento del farmaco: alcuni farmaci, infatti, possono

essere degradati velocemente se somministrati in forma pura; utilizzando particolari eccipienti, tuttavia,

possiamo fare in modo che essi vengano rilasciati in maniera graduale. Questi eccipienti sono utili per:

- Aumentare la compliance del paziente: meno medicinali deve assumere e più è sicuro che aderisca

alla terapia

- Ottenere una concentrazione plasmatica del farmaco costante: l’eccipiente, infatti, fa in modo che il

farmaco venga rilasciati gradualmente e in maniera costante nel tempo, permettendo la giusta

concentrazione plasmatica e per il giusto tempo.

La concentrazione del farmaco, in realtà, oscilla in un range di valori, attorno a un valore medio.

Come mai i medicinali assunti per via orale non vengono creati con eccipienti che permettano un rilascio del

principio attivo per più di 24h? Perché c’è il rischio che, oltre le 24h ore, il paziente espella la forma

farmaceutica. Utilizziamo quindi una forma farmaceutica che permette un rilascio più rapido ma che richiede

un numero maggiore di somministrazioni (due, perché il farmaco si esaurisce in un lasso di tempo minore): in

questo caso, la curva di oscillazione presenta una frequenza maggiore rispetto al rilascio lento.

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Differente è il caso della flebo: il numero di somministrazioni con una flebo diventa infinito (la flebo, infatti,

si utilizza quando la finestra terapeutica è ristretta e si vuole essere sicuri della dose). Le flebo possono durare

anche dalle 6 alle 24h, assicurando sterilità. Oltre le 24h occorre sostituire la flebo.

Esistono, inoltre, per la maggior parte delle forme farmaceutiche, formulazioni a cessione protratta (sustained

release forms retard). Infine, esistono:

- Minipompe osmotiche, ovvero pompe con le quali si può programmare la dose e la velocità di

somministrazione nell’unità di tempo

- Liposomi, vescicole multilamellari con fosfolipidi disposti come nelle membrane cellulari, e

nanoparticelle; se somministrati per via endovenosa, possono fornire il farmaco all’apparato

lisosomiale e trasportarlo direttamente all’organo bersaglio passando attraverso le membrane cellulari,

evitando quindi gli enzimi di degradazione.

Gli estratti vegetali, da organo o da liquidi corporei di animali (chiamati “droghe”, dall’inglese “drug”

indicante i farmaci) possono contenere diverse molecole attive; tra di esse, tuttavia, indichiamo come principio

attivo quello che manifesta l’effetto prevalente. Distinguiamo:

- Droghe organizzate, costituite da una struttura cellulari di un vegetale o di un animale

o Radice, corteccia, foglia, fiore, frutto, seme, sangue

- Droghe non organizzate, formate da un succo o secreto emesso spontaneamente od ottenuto attraverso

varie tecniche di prelievo

o Succhi, secrezioni, resine, lattici, oli, essenze, veleni

Dalla droga principale, quindi, estraiamo il principio attivo. Ad esempio, dalla corteccia del salice si estrae

l’acido salicilico. Importanti sono gli analoghi strutturali, ovvero molecole che hanno la stessa base

molecolare del principio attivo, ma con piccole modificazione che, normalmente, ne allungano l’emivita o ne

permettono una distribuzione maggiore nell’organismo. Nonostante queste modificazioni, la porzione di

farmaco legante il recettore non è cambiato (stesso farmacoforo).

Importante, inoltre, quando viene somministrato un farmaco, distinguere tra effetto collaterale e avverso:

- L’effetto collaterale è una reazione, conosciuta a priori, a cui il paziente potrebbe andare incontro in

seguito alla somministrazione di un determinato farmaco. È un evento non terapeutico; tutti gli

eventuali effetti collaterali sono indicati nel foglietto illustrativo: l’ordine con cui essi sono scritti

indica la probabilità dell’evento, in ordine decrescente. Essi, tuttavia, sono già “compresi” nella

terapia: è quindi sbagliato, sebbene succeda, sospendere la terapia quando si presentano.

- L’effetto avverso, al contrario, è una reazione che si manifesta a seguito della somministrazione, in

genere dovuta alla interferenza con altre terapie farmacologiche in atto. In caso di evento avverso,

occorre interrompere l’assunzione per sempre. L’effetto avverso non è dovuto tuttavia al farmaco,

quanto piuttosto al medico che, prescrivendolo, non ha tenuto conto della possibile interazione con

altri farmaci del paziente.

NOMENCLATURA DEI PRINCIPI ATTIVI

Nel nominare i principi attivi, si usano desinenza che descrivono natura e funzione del farmaco. Tra di esse,

ad esempio, troviamo:

-mAb: anticorpi monoclonali

-pAb: anticorpi policlonali

-tinib: inibitore di tirosina chinasi

-barb-: barbiturici

-prost: analoghi delle prostaglandine

-cillin: derivati dalla penicillina

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La stessa desinenza mAb (ma anche pAb) è preceduta da tutta una serie di ulteriori desinenze, usate per indicare

diverse informazioni sull’anticorpo stesso. In generale, la nomenclatura mAb/pAb si basa su tre regole:

1. Dopo il prefisso variabile, troviamo una (o due) sub-desinenze di due lettere che indicano l’utilizzo

terapeutico (target)

La -m-, eventuale, è eufonetica per evitare lo scontro tra vocali.

2. Una sub-sub-desinenza che indica l’origine dell’anticorpo

3. La desinenza finale -mab (e raramente -pab)

PRINCIPALI FORME FARMACEUTICHE

Preparati per via orale

Solidi: compresse, capsule, cachet, polveri e granulati in bustine,

compresse e capsule rivestite, compresse e capsule a cessione

controllata

Liquidi: gocce, sciroppi, flaconi soluzione monodose per os

Preparati per vie parenterali

Pronti per l'uso: fiale monodose, siringhe pre-riempite, flaconi

multidose, flaconi per infusione, preparati a lento rilascio

Da allestire al momento dell'uso: fiala con liofilizzato + fiala

solvente

Preparati particolari per vie

sistemiche diverse dalle

precedenti

Compresse sublinguali

Spray nasali

Cerotti transdermici

Clismi, microclismi, supposte

Preparati per uso topico

Dermatologici: creme, pomate, gel, tinture, soluzioni, polveri

Odontostomatologici: colluttori, gingivari, paste e dentrifici

medicati, stiletti alveolari, cementi canali medicati

Oftalmici: colliri, bagni oculari, pomate e dischi oftalmici

Otorinolaringoiatrico: gocce auricolari, gocce e spray nasali,

aerosol, spray per uso orofaringeo

Come già detto, ad oggi i principali principi attivi sono di origine sintetico o semisintetico: si cerca di evitare

i principi attivi di origine naturale perché presentano un maggiore rischio di shock anafilattico e risultano meno

efficaci. Le principali forme farmaceutiche in uso sono:

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- Polveri: sono miscele uniformi di farmaci solidi e secchi, con aggiunta di eccipienti, diluenti, etc.

- Compresse: vengono preparate per compressione delle polveri. Solitamente constano del solo

principio attivo, senza eccipienti: questo le rende facilmente disgregabili. Le compresse sono

facilmente solubili nell’organismo; possono anche essere effervescenti (per aggiunta di sodio

bicarbonato e acido citrico) o sublinguali.

Hanno forma di disco, in maniera tale che, se poggiate su una superficie piana, non rotolino e cadano;

inoltre, è possibile segnarci sopra un -, indice che la compressa è divisibile a meta, o un +, indice che

la compressa può essere divisa in 1/4, 2/4, 3/4 a seconda delle esigenze.

- Pillole: sono piccole compresse di forma sferica; contengono il principio attivo (in genere in

concentrazioni molto basse) insieme ad eccipienti. Non possono essere tagliate a causa della durezza

ma sono facilmente deglutibili anche senza acqua.

- Confetti: consistono in compresse lisce e lucide (per facilitarne la deglutizione) con un rivestimento

di strato spesso e duro che, da un lato, isola il principio attivo dall’ossigeno e, dall’altro, permette di

bypassare l’acidità gastrica permettendo al principio attivo di arrivare a livello intestinale, distretto in

cui deve essere assorbito.

Il confetto non deve essere masticato o spezzato.

- Capsule: sono forme farmaceutiche consistenti in un involucro di consistenza dura o molle, fatto di

due subunità, che all’interno racchiude polveri, liquidi o semisolidi. Il rivestimento mi assicura la

protezione del farmaco, la facilitazione alla deglutizione e la veicolazione del farmaco nella giusta

porzione dell’apparato gastro-intestinale. Possono essere sia solubili nello stomaco che gastro-

resistenti e, a differenza di compresse e confetti, hanno un breve tempo di disgregazione (praticamente

istantaneo) quando sono nel comparto in cui si devono sciogliere. Possono inoltre essere usate per via

sublinguale.

- Soluzioni: sono preparazioni liquide, consistenti in uno o più farmaci (sotto forma di polvere, quindi

in forma solida più stabile) che vengono sciolti in acqua o altri solventi. Possono essere:

o Soluzioni iniettabili: sono requisiti la sterilità, l’isosmolarità, il pH (compatibile con i fluidi

corporei), l’assenza di pirogeni

o Colliri: come sopra

o Sciroppi: soluzioni zuccherine in cui è necessaria la presenza di antifermentativi

o Tinture: sono estratte da droghe per percolazione e concentrazione. Le tinture contengono, in

100g, i principi attivi presenti in 10g di droga.

Una soluzione ha la stessa concentrazione di sostanza in qualunque suo punto; può capitare, tuttavia,

che il principio attivo si separi dal veicolo: questo può determinare la somministrazione del farmaco

tutto insieme (in quanto non più distribuito in maniera omogenea) oppure una sua non

somministrazione (perché non si è sciolto).

- Sospensioni: consistono in polveri finissime di farmaco preparate in un veicolo acquoso, con l’aiuto

di tensioattivi, sospendenti e viscosizzanti in maniera da rendere la forma farmaceutica più omogenea.

Il principio attivo viene diluito nel veicolo mediante agitazione e, a differenza della soluzione, può

precipitare se lasciato fermo. Anche in questo caso è fondamentale la sterilità.

- Emulsioni: sono forme farmaceutiche in cui un liquido (fase dispersa) è distribuito in piccolissime

gocce in un secondo liquido (fase disperdente) con il quale non è miscibile. Poiché molti farmaci sono

liposolubili, occorre avere un surfattante che si interfacci tra il farmaco e l’acqua dell’organismo.

Possono essere:

o Olio in acqua: la fase dispersa è un olio, la fase disperdente è acquosa e l’emulsione è

miscibile con l’acqua

o Acqua in oli: esattamente il contrario dell’olio in acqua

- Gel: sono forme semisolide, consistenti in una sospensione di finissime particelle inorganiche o

macromolecole organiche racchiudenti e interpenetrate di liquido. Vengono generalmente usate in

maniera topica o loco-regionale. Se la massa del gel consiste in fiocchi di piccole particelle si parla di

magma.

- Aerosol: sono forme di somministrazione pressurizzate (spray) dove il farmaco viene ceduto sotto

forma di nebbia (particelle liquide disperse in un gas) tramite una apposita valvola del contenitore,

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dove troviamo anche il gas propellente. Hanno in genere un uso topico o loco-regionale. Con il termine

puff indichiamo la singola particolare dose che viene ottenuta schiacciando lo spray; tuttavia, questa

forma farmaceutica non garantisce una dose sempre corretta, in quanto parte del farmaco può andare

persa.

- Suppositori: sono forme solide di peso e forma variabile che devono essere introdotte in cavità naturali

del corpo; sono capaci di fondersi, rammollirsi o sciogliersi lentamente alla temperatura corporea.

La forma farmaceutica non è caratteristica solo del farmaco in uso, ma anche del paziente a cui essa deve

essere somministrata; è quindi logico che per alcune categorie di pazienti (neonati, bambini, anziani, etc.)

occorrerà scegliere una precisa forma a discapito di altre sulla base delle condizioni del paziente stesso. Lo

scopo finale è sempre quello di ottenere la giusta concentrazione di farmaco nel plasma del paziente, e quindi

la giusta concentrazione dello stesso a livello dei recettori. Da notare che non sempre la dose somministrata

coincide con la dose a livello del sito di interazione; ciononostante, la dose somministrata è studiata per

ottenere il giusto numero di molecole sui recettori. Spesso, tra l’altro, i farmaci sono tempo-dipendenti: non

occorre tanto far arrivare la giusta dose al recettore subito, quanto mantenerla per il giusto periodo di tempo.

Tutti questi accorgimenti confluiscono nella farmacocinetica.

FARMACOCINETICA

PRINCIPI DI FARMACOCINETICA

Nella pratica terapeutica, il farmaco deve essere in grado di raggiungere il proprio recettore dopo essere stato

somministrato attraverso una via idonea. Nella maggior parte dei casi, la molecola farmacologicamente attiva

è sufficientemente liposolubile e stabile da essere somministrata come tale (nell’opportuna forma

farmaceutica); in altri casi, invece, è richiesta la somministrazione di precursori chimici facilmente assorbibili,

che verranno poi convertiti nel farmaco vero e proprio da processi metabolici dell’organismo: in questo caso

si parla di profarmaco.

In alcuni casi, è possibile applicare il farmaco direttamente al tessuto bersaglio sul quale svolge la sua funzione:

è il caso dei farmaci antiacidi, che neutralizzano l’acidità gastrica senza essere assorbiti, o degli anestetici

locali. In generale, tuttavia, il farmaco viene somministrato in un distretto dell’organismo, da cui deve spostarsi

per raggiungere il distretto in cui è presente il suo sito di azione. Ciò richiede che il farmaco vada incontro a

quattro processi (simultanei ma la cui entità varia in relazione al tempo trascorso dalla somministrazione) che

rientrano nella farmacocinetica: assorbimento, distribuzione, metabolismo (biotrasformazione) ed

eliminazione.

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Per raggiungere l’organo bersaglio, il farmaco utilizza il torrente circolatorio (e, se non viene immesso

direttamente, dovrà prima essere assorbito). Una volta raggiunto il sangue, il farmaco è in grado di raggiungere

il proprio organo bersaglio; in realtà, però, le molecole farmacologiche sono in grado di diffondere in tutto

l’organismo (distribuzione), sebbene in maniera non omogenea: il farmaco, infatti raggiunge i diversi distretti

dell’organismo con velocità diverse, in generale dovute al differente grado di irrorazione. Inoltre, una volta

raggiunto l’equilibrio, la concentrazione del farmaco nei diversi tessuti può essere diversa da quella ematica.

Tra gli organi a cui il farmaco si distribuisce troviamo anche rene e fegato; a livello di questi organi, il farmaco

va incontro ai processi di biotrasformazione ed eliminazione, che contribuiscono a ridurre la concentrazione

plasmatica del farmaco stesso e sono responsabili dell’esaurimento dell’effetto terapeutico con il passare del

tempo.

PASSAGGIO DEI FARMACI ATTRAVERSO LE MEMBRANE CELLULARI

La membrana cellulare è costituita da un doppio strato fosfolipidico, in cui le teste idrofile formano le

superficie interne ed esterne mentre le code idrofobe si uniscono al centro della membrana; il doppio strato

che si viene così a formare ha uno spessore di circa 4,5 nm. All’interno della membrana, inoltre, troviamo tutta

una serie di proteine, periferiche (disposte su una faccia della membrana) e integrali (penetrano ed attraversano

la membrana). I fattori fisico-chimici coinvolti nel passaggio dei farmaci attraverso le membrane sono

fondamentalmente:

- Il grado di ionizzazione del farmaco

- La prevalenza di un gruppo idro- o lipofilico

- La dimensione della molecola di farmaco

- L’affinità con substrati endogeni

I farmaci possono attraversare le barriere (sia tissutali che cellulari) attraverso tre meccanismi differenti, sia

passivi che richiedenti l’attiva partecipazione di componenti della membrana:

Diffusione passiva

Il meccanismo della diffusione passiva, per cui i farmaci attraversano le barriere con un meccanismo gradiente-

dipendente, è valida per due tipologie di passaggio:

Acquosa

La diffusione passiva acquosa avviene, come suggerisce il nome, tra compartimenti acquosi (un tipico esempio

sono gli spazi interstiziali, il citosol). Essa riguarda in genere molecole di piccole dimensioni, con un peso

molecolare compreso tra i 20 e i 30 kD; in presenza di giunzioni serrate (come può accadere tra la membrana

epiteliale e il rivestimento endoteliale), la diffusione richiede la presenza di specifici pori (diametro di 8 Å).

Non avviene mai, tuttavia, nei capillari del cervello e del testicolo.

Essa è essenzialmente regolata da:

- Gradiente di concentrazione

Le molecole passano le barriere solo perché sono più concentrati su un lato rispetto all’altro: si viene

a creare un flusso passivo di molecole secondo un gradiente di concentrazione.

La diffusione tra due compartimenti separati da una membrana è regolata dalla legge di Fick:

𝑭𝒍𝒖𝒔𝒔𝒐 𝒅𝒊 𝒎𝒐𝒍𝒆𝒄𝒐𝒍𝒆 (𝒏° 𝒎𝒐𝒍𝒆𝒄𝒐𝒍𝒆

𝒕𝒆𝒎𝒑𝒐) = (𝑪𝟏 − 𝑪𝟐) ∙

𝑨 ∙ 𝑫

𝒅

In cui con flusso si intende la velocità del passaggio di un soluto dal compartimento 1 al compartimento

2: 𝐶1 𝑒 𝐶2 sono le concentrazioni del soluto ai due lati della membrana, 𝐴 rappresenta l’area di

membrana che separa i due compartimenti, 𝑑 è lo spessore della membrana mentre 𝐷 è il coefficiente

di permeabilità (rappresenta la mobilità della molecola nel mezzo e quindi dipende dalle caratteristiche

chimico-fisiche di solvente e soluto).

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Da questa formula si deduce che:

o Il flusso netto di farmaco attraverso una membrana è tanto maggiore quanto maggiore è la

differenza di concentrazione ai due lati della membrana; ciò implica che, nel tempo, il flusso

si riduca man mano che le concentrazioni si equilibrano. Nel momento in cui 𝐶1 = 𝐶2 il flusso

è pari a zero: per ogni molecola che passa dal compartimento 1 al compartimento 2 avrò una

molecola che si muove in senso contrario.

o Farmaci differenti hanno capacità di penetrazione differente a seconda del loro coefficiente di

diffusione o ripartizione (vedi più avanti).

o Il flusso è direttamente proporzionale all’estensione della membrana attraverso la quale il

farmaco deve diffondere: infatti, se l’area è molto piccola (𝐴 ≈ 0), il flusso tende a 0. Per

questo motivo, la maggior parte dei farmaci assunti per via orale vengono assorbiti a livello

intestinale (dove l’area assorbente è notevolmente aumentata). Questo fatto determina anche

che, in pazienti obesi (con BMI > 31) nei quali si osserva un elevato aumento del grasso

intraddominale, un farmaco liposolubile tenderà a essere sequestrato dall’adipe e non si otterrà

l’effetto terapeutico alla dose utilizzato nei soggetti con grasso intraddominale nella media.

o Il passaggio tra due compartimenti è tanto più efficiente quanto più sottile è la barriera da

superare. Infatti, se lo spessore è molto grande (𝑑 ≈ ∞), il flusso tende a zero. Per questo

motivo, un farmaco viene assorbito più lentamente a livello cutaneo che a livello mucosale.

- Quota libera e quota legata del farmaco

In ogni istante, infatti, il farmaco esiste in due quote differenti: farmaco libero, che rappresenta la

quota disponibile per passare la barriera, e la quota legata (in genere alle proteine plasmatiche), che,

al contrario, non è in grado di passare le barriere, nemmeno attraverso i pori che esse presentano.

- Carica del farmaco (se il farmaco è elettricamente carico, il suo flusso viene influenzato dai campi

elettrici generati dal potenziale di membrana)

- Entità dell’idrofilicità (solitamente i farmaci fortemente idrofilici non passano le membrane)

Lipidica

La diffusione lipidica è il più importante fattore che limita il passaggio dei farmaci, a causa del maggior numero

di barriere lipidiche che separano i compartimenti del corpo: i farmaci, oltre che diffondere nei compartimenti

acquosi, devono attraversare anche le membrane. Di conseguenza, in genere, poiché il citoplasma e gli spazi

extracellulare sono soluzioni acquose, è logico che i farmaci debbano possedere da un lato un certo grado di

idrofilia, sufficiente a tenerlo in soluzione, e dall’altro un certo grado di solubilità nei lipidi, per poter

attraversare il doppio strato fosfolipidico.

Anche in questo caso, l’entità del passaggio è regolato dalla concentrazione del farmaco ai due lati della

membrana ed avviene grazie alla forza di repulsione delle molecole di H2O: le molecole presenti nel

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compartimento a maggiore concentrazione spingono quelle inserite nella membrana (che presenta spazi di

circa 75 Å) che vengono spostate nel compartimento a minore concentrazione. Tuttavia, dipende anche da:

- Coefficiente di ripartizione olio/acqua

Possiamo misurare il grado di idro-lipofilia di un soluto andando ad osservare come esso si distribuisce in

un volume di acqua e olio: il rapporto tra le concentrazioni nella fase oleosa e acquosa è il

𝑐𝑜𝑒𝑓𝑓𝑖𝑐𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑑𝑖 𝑟𝑖𝑝𝑎𝑟𝑡𝑖𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 (CR). Quando 𝐶𝑅 > 1, il composto è tendenzialmente lipofilo, mentre se

𝐶𝑅 → 0 sarà tendenzialmente idrofilo.

Il CR dipende dalle caratteristiche chimico-fisiche delle sostanze: gruppi capaci di dare legami idrogeno

con l’acqua (es. carbossilici, alcolici, etc) conferiscono idrofilia. Molecole con CR basso avranno una

capacità molto bassa di penetrare e attraversare le membrane cellulari; al contrario, molecole con CR più

alto potranno attraversarle liberamente, potendo quindi essere completamente assorbite con

somministrazione orale o addirittura transcutanea. Infine, farmaci con CR elevato non diffonderanno

velocemente, in quanto tenderanno ad accumularsi nella matrice lipidica della membrana.

Il coefficiente di ripartizione di un farmaco, inoltre, può variare per effetto di processi di

biotrasformazione, in quanto tendono a portare alla formazione di composti più idrofili, con un CR minore

dell’originale (cosa che, tra l’altro, favorisce l’eliminazione renale).

- Grado di ionizzazione del farmaco

La maggior parte dei farmaci contengono gruppi acidi o basici e sono quindi assimilabili ad acidi e basi

deboli: di conseguenza, a seconda del pH della soluzione, i diversi farmaci potranno essere elettricamente

neutri (forma protonata dell’acido, forma non protonata della base) o carichi. In questi farmaci, il CR è

strettamente dipendente dal pH dell’ambiente, in quanto la quota ionizzata ha un CR virtualmente nullo

(in quanto vengono attratte molecole di acqua) e solo la quota non ionizzata può attraversare la fase lipidica

delle membrane. Le due quote dipendono strettamente dalla differenza tra pKA del farmaco e il pH della

soluzione e possono essere espresse dall’equazione di Henderson-Hasselback.

Quest’equazione mette in rapporto il pH del mezzo in cui si trova il farmaco e la costante acida di

dissociazione del farmaco stesso (pKa, rappresenta il valore di pH al quale la quota ionizzata equivale alla

quota non ionizzata) con il rapporto tra la quota di farmaco non protonato e la quota protonata. Quindi,

considerando un acido debole:

𝐻𝐴 ↔ 𝐴− + 𝐻+ → 𝐾𝑎 =[𝐴−][𝐻+]

[𝐻𝐴] → [𝐻+] = 𝐾𝑎

[𝐻𝐴]

[𝐴−]

− log[𝐻+] = − log 𝐾𝑎 − log[𝐻𝐴]

[𝐴−] → − log[𝐻+] + log 𝐾𝑎 = −(log[𝐻𝐴] − log[𝐴−])

𝑝𝐻 − 𝑝𝐾𝑎 = log[𝐴−] − log[𝐻𝐴] → 𝑝𝐻 − 𝑝𝐾𝑎 = log[𝐴−]

[𝐻𝐴]

[𝑨−]

[𝑯𝑨]= 𝟏𝟎𝒑𝑯−𝒑𝑲𝒂 𝒑𝒆𝒓 𝒖𝒏 𝒂𝒄𝒊𝒅𝒐 𝒅𝒆𝒃𝒐𝒍𝒆

Nel caso di una base debole (B + H+ ↔ BH+), invece, il rapporto tra quota ionizzata e non espresso da

Henderson-Hasselback coincide con:

[𝑩𝑯+]

[𝑩]= 𝟏𝟎𝒑𝑲𝒂−𝒑𝑯 𝒑𝒆𝒓 𝒖𝒏𝒂 𝒃𝒂𝒔𝒆 𝒅𝒆𝒃𝒐𝒍𝒆

Una marcata differenza di pH ai lati di una membrana può determinare concentrazioni totali di farmaco

molto diverse, in quanto solo la specie non ionizzata si equilibrerà ai due lati della membrana. Ad esempio,

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consideriamo la differenza di distribuzione di un acido debole come l’acido acetilsalicilico (pKa = 3,4) tra

il plasma (pH = 7,4) e lo stomaco (pH = 1,4).

𝑛𝑒𝑙𝑙𝑜 𝑠𝑡𝑜𝑚𝑎𝑐𝑜: [𝐴−]

[𝐻𝐴]= 101,4−3,4 = 10−2 𝑛𝑒𝑙 𝑝𝑙𝑎𝑠𝑚𝑎:

[𝐴−]

[𝐻𝐴]= 107,4−3,4 = 104

Da ciò, deriva un rapporto di 1 (molecola ionizzata) : 100 (molecole non ionizzate) nel lume gastrico, per

un totale di 101 molecole mentre troveremo un rapporto di 10000 (molecole ionizzate) : 1 (molecola non

ionizzata) nel plasma, per un totale di 10001 molecole. Di conseguenza, un acido debole verrà facilmente

assorbito a livello gastrico, per il gradiente globale di concentrazione del farmaco non ionizzato ai due lati

della barriera.

I farmaci, complessivamente, possono essere:

- Elettricamente neutri (il cui CR è costante)

- Acidi organici (acidi deboli, il cui CR varia in funzione del pH): se sono protonati, quindi in una

soluzione acquosa ricca di H+, diventano neutri quando il pH del mezzo scende al di sotto del punto di

pKa, potendo quindi passare le membrane più facilmente.

Intestino Stomaco

pH elevato = bassa [H+] pH basso = elevata [H+]

𝑅 − 𝐶𝑂𝑂− + 𝐻+ 𝑅 − 𝐶𝑂𝑂𝐻

Non protonato = ionizzato Protonato = non ionizzato

Caratterizzato da un basso CR: si ha

una bassa capacità di attraversare le

membrane lipidiche

Caratterizzato da un alto CR, con

una buona capacità di attraversare le

membrane lipidiche (alta

permeabilità)

- Amine organiche, terziarie o quaternarie (basi deboli, il cui CR varia in funzione del pH): se sono

protonate, quindi in una soluzione acquosa ricca di H+, diventano cariche quando il pH del mezzo

scende al di sotto del punto di pKa. Possono passare le membrane solo quando diventano neutre.

Intestino Stomaco

pH elevato = bassa [H+]

pH basso = elevata [H+]

Non protonato = non ionizzato Protonato = ionizzato

Caratterizzato da un alto CR: si ha

una alta capacità di attraversare le

membrane lipidiche

Caratterizzato da un basso CR, con

una scarsa capacità di attraversare le

membrane lipidiche (bassa

permeabilità)

Bisogna tenere conto di questo fattore perché, in presenza di alcune patologie, il pH di diversi

compartimenti dell’organismo può variare, potendo causare un accumulo del farmaco a quello specifico

livello (ad esempio, in presenza di meningite, si osserva una modificazione del pH e della permeabilità

della barriera emato-encefalica). Inoltre, occorre considerare anche la gravidanza: i farmaci, infatti,

possono distribuirsi sia nel latte materno sia a livello fetale.

R

N

R

R

N

H+

R

R

R

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La dipendenza del CR dal pH è estremamente importante anche nella modulazione della escrezione dei

farmaci. Il rene rappresenta il principale organo usato dal nostro organismo per espellere sia i farmaci che

i loro metaboliti. La maggior parte dei farmaci viene filtrata a livello glomerulare (ovviamente, solo i

farmaci liberi possono essere filtrati) ma la quota presente nella preurina può andare facilmente incontro

a riassorbimento tubulare, che avviene principalmente per diffusione passiva: di conseguenza, un farmaco

liposolubile verrà facilmente riassorbito e ritornerà nel plasma, mentre un farmaco idrofilico potrà essere

eliminato con le urine. Pertanto, affinché un farmaco possa essere effettivamente eliminato deve possedere

un certo grado di idrosolubilità. Il valore di pH della preurina è uno dei fattori principali che modulano

l’eliminazione renale dei farmaci: poiché, in condizioni fisiologiche, il pH urinario si aggira su valori di

5.5-6, sarà favorita l’eliminazione di farmaci debolmente basici, che, nel lume tubulare, si vengono a

trovare prevalentemente in uno stato ionizzato e quindi difficilmente diffondibile attraverso le membrane

lipidiche del tubulo. Modulando il pH urinario, possiamo andare a modificare la escrezione del farmaco

con le urine: l’acidificazione delle urine (ad esempio tramite somministrazione di cloruro di ammonio)

permette di velocizzare l’eliminazione di basi deboli (es. anfetamine); al contrario, una alcalinizzazione

(ottenuto somministrando ad esempio bicarbonato di sodio) del pH urinario permette di favorire

l’eliminazione di acidi deboli (come i barbiturici).

L’eliminazione dei farmaci può essere favorita anche aumentando la diuresi tramite specifici farmaci (ma

è più rischioso, in quanto si può andare incontro a problemi di volemia). Altri metodi efficaci sono antidoti

(quando presenti) e lavanda gastrica.

- Area di diffusione del farmaco

L’entità dell’assorbimento è ancora correlata all’estensione della superficie assorbente: l’intestino tenue

ha la maggiore estensione di superficie di contatto con il farmaco ed è quindi in genere la porzione dove

avviene il maggiore assorbimento. La grande superficie conta sia per le molecole cariche che per le

molecole neutre: l’assorbimento quindi sarà dato dalla sommatoria di tutti i fattori considerati fino ad ora;

inoltre, l’estensione della superficie intestinale compensa la scarsa propensione al passaggio di molecole

acide.

Modulando il riempimento e lo svuotamento gastrico, otterremo una diversa velocità di assorbimento:

rallentando lo svuotamento gastrico si riduce la velocità dell’assorbimento, soprattutto per le amine

terziarie (maggior parte dei farmaci.); al contrario, farmaci somministrati a digiuno con acqua passeranno

velocemente all’intestino, dove si avrà un assorbimento più rapido.

- Dimensioni del farmaco

A livello dell’intestino tenue è presente una barriera idrofilica (glicocalice) che protegge i villi; questa

barriera incorpora una grande quantità di acqua, di conseguenza l’assorbimento di molecole molto grandi

può essere limitato (peggio ancora se sono anche lipofiliche). Solo molecole di piccole dimensioni (vedi

sopra) passano senza problemi.

A livello gastrico e del colon, invece, la presenza di un glicocalice meno spesso permette di assorbire

molecole ben più grandi, con un cut-off maggiore di 1000 kD.

Trasporto attivo

È un tipo di trasporto che avviene contro gradiente di concentrazione, che consuma ATP (utilizzo di

trasportatori di membrana specifici e con un certo grado di sensibilità) e può essere saturabile. Alcuni farmaci

sfruttano questo sistema per attraversare le barriere tissutali: penicillina, L-DOPA, digitalici.

Pinocitosi e fagocitosi

Sono meccanismi molto dispendiosi per le cellule, che vengono usati solo per molecole molto grandi (> 900

kD): insulina, tossine (tetaniche e botuliniche), antigeni, farmaci legati a proteine di trasporto.

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PRINCIPALI CARATTERISTICHE DELLE BARRIERE CELLULARI

Tutti e quattro i meccanismi richiedono il passaggio del farmaco attraverso le membrane delle cellule che

costituiscono i diversi tessuti. Le barriere tissutali che il farmaco libero nel plasma deve superare sono

numerose e si distinguono tra di loro per:

- Collocazione anatomica

- Composizione lipidica e proteica

- Presenza di trasportatori specifici

- Composizione cellulare

Mucosa gastro-enterica

La mucosa dell’apparato gastro-intestinale è caratterizzata da un epitelio monostratificato, in cui le singole

cellule sono unite le une alle altre dalla presenza di giunzioni strette (serrate); questo determina che, affinchè

un farmaco possa essere assorbito, esso passi per forza all’interno delle singole cellule. Di conseguenza, il

farmaco, per poter essere assorbito, deve avere dimensioni adeguate ed essere capace di sciogliersi

(liposolubile) negli strati lipidici che costituiscono le membrane cellulari. Fattore estremamente importante è

anche il pH, che determina un diverso grado di ionizzazione nel farmaco: più è ionizzato e più acqua si porta

dietro, rendendo quindi difficile l’assorbimento.

Barriere epiteliali → pelle, cornea e vescica

- Consistono in barriere stratificate e corneificate: sono quindi impermeabili all’ambiente esterno

- Permettono il passaggio solo delle molecole liposolubili

- Non c’è il passaggio tra una cellula e l’altra

Barriere capillari

Sono costituite da endotelio e muscularis mucosae. Tuttavia, distinguiamo diversi tipi di capillari:

- Capillari con maculae: rappresentano la stragrande maggioranza dei capillari; la diffusione è

intercellulare (simil-canali che non sono selettivi per la solubilità). Se il peso eccede i 100 kD la

diffusione avviene per pinocitosi e vescicolazione.

- Capillari fenestrati: sono presenti negli organi escretori (glomerulo renale, tiroide, ipofisi, ghiandole

salivari, pancreas); non rappresentano in realtà una barriera efficace, in quanto bloccano solo le

molecole con peso maggiore di 45 kD

- Capillari occludenti: sono presenti solo a livello cerebrale, dove formano la barriera emato-encefalica;

non presentano spazi intercellulari o intracellulari o intracellulari e la diffusione avviene solo

attraverso le cellule, che lasciano passare poche molecole e solo se sono molto lipofile; possono

presentare trasportatori attivi. Le membrane infiammate, tuttavia, diventano molto più permeabili.

Rappresentano delle eccezioni l’ipofisi ed epifisi, l’area postrema (centro del vomito), l’eminenza

mediana e il plesso corioideo.

Barriere emato-liquorali

Rappresentano l’interfaccia presente tra il sangue e il liquor cefalo-rachidiano. Sono costituite da cellule

epiteliali che rivestono i ventricoli: non sono presenti fenestrature ma il passaggio intercellulare è facilitato.

Permettono un buon passaggio verso il liquor e le cellule cerebrali (specie amminoacidi e zuccheri, che hanno

una diffusione facilitata).

Barriera emato-encefalica

Pur non rappresentando un ostacolo assoluto al passaggio di sostanze nel sistema nervoso, alcuni fattori

anatomici e fisiologici della BEE contribuiscono a ridurne la permeabilità:

- L’endotelio dei capillari encefalici è caratterizzato da giunzioni serrate e dalla virtuale assenza di pori

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- Le cellule endoteliali stesse contengono un carrier proteico ATP-dipendente capace di estromettere

sostanze, pompandole quindi nel circolo sanguigno; allo stesso tempo, i capillari encefalici sono dotati

di scara attività eso-, endo- e trans-citotica

- Gli stessi capillari encefalici sono, in gran parte, avvolti dai processi delle cellule gliali: l’insieme

dell’endotelio non fenestrato e delle cellule gliali è quello che forma la barriera

Date queste caratteristiche abbiamo che:

- Molecole liposolubili presenti nel plasma riescono a diffondere nel SNC grazie sia alla vasta

vascolarizzazione sia alla capacità di passare le membrane cellulari; non solo, ma l’alta quantità di

lipidi dovuta all’abbondanza di membrane cellulari e guaina mielinica determina una tendenza, da

parte di farmaci lipofili, ad accumularsi nel tessuto nervoso

- Molecole idrofile (es. antibatterici) normalmente non riescono a passare nel SNC a causa della BEE

(a meno che non vengano immessi direttamente nel liquor); un’eccezione è rappresentata dal

pavimento del IV ventricolo vicino all’area postrema, localizzato al di fuori della barriera, dove quindi

i farmaci riescono a passare più facilmente

Da notare, tuttavia, che nel caso di meningite, encefalite ma anche nei bambini e negli anziani, l’impermeabilità

della BEE viene a ridursi, permettendo un maggior transito farmacologico.

Oltre a ciò, la penetrazione di un farmaco nel SNC viene influenzata da:

- Legame alle proteine plasmatiche

- Grado di ionizzazione

- Coefficiente di ripartizione

Barriera placentare

La placenta è caratterizzata dalla presenza di seni ematici materni nei quali si spingono i villi irrorati dalla

circolazione capillare fetale. Il sangue del feto è quindi separato da quello materno dall’interposizione del

sincizio placentare, dall’interstizio villare e dall’endotelio dei capillari villari. Da notare che lo spessore degli

strati interposti tra circolazione fetale e materna varia con la gestazione, riducendosi man mano che si avvicina

il momento del parto.

La placenta, più che una barriera anatomica come la BEE, si comporta da filtro: in essa sono attivi diversi

meccanismi di trasporto, tra cui la diffusione passiva, la diffusione facilitata, il trasporto attivo e l’endocitosi

mediata da recettore. Essa serve sostanzialmente a proteggere il feto da sostanze nocive presenti nel sangue

materno, permettendo allo stesso tempo il passaggio di sostanze nutritive e vitamine. A differenza della BEE,

nella placenta:

- Manca l’impermeabilità quasi assoluta: farmaci idrofili possono passare al circolo fetale, con velocità

inversamente proporzionale alla loro grandezza (più sono grossi e più lentamente diffondono)

- La circolazione materna avviene più lentamente: aumenta quindi il tempo disponibile perché il

farmaco possa raggiungere la circolazione fetale

È quindi importante tenere conto della gravidanza nel preparare un regime terapeutico, anche perché diversi

farmaci potrebbero risultare neurotossici di per sé, oppure potrebbero esserlo i loro metaboliti: la placenta,

infatti, ha una propria attività di biotrasformazione.

Barriera ematotesticolare

È localizzata tra il lume del capillare interstiziale e il lume del tubulo seminifero: è costituita da endotelio

capillare, lamina basale, endotelio linfatico, cellule mioidi, lamina basale del tubulo seminifero e cellule del

Sertoli.

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Peritoneo

Il peritoneo, al contrario, non è una efficiente barriera, in quanto i farmaci raggiungono facilmente il torrente

ematico; il loro passaggio, inoltre, non è direttamente dipendente dalla liposolubilità o dalla ionizzazione.

Barriera polmonare

A livello polmonare, al contrario, passano soprattutto molecole liposolubili; tuttavia, grazie alla sottigliezza

della barriera e alla presenza di fenestrature, passano anche molecole altamente idrofile. Sono inoltre presenti

meccanismi attivi di pinocitosi.

Da notare che i polmoni di prematuri presentano una funzionalità differente, mentre bambini e adulti hanno

una attività simile. Anche negli anziani si ha una attività simile agli adulti, in quanto la compromissione non è

elevata.

LEGAME ALLE PROTEINE PLASMATICHE

Nel momento in cui un farmaco raggiunge il plasma, esso è capace di legarsi a componenti presenti nel sangue,

sia di trasporto sia cellulari:

- Albumina

- Globuline

- Lipoproteine

- α1 glicoproteine acide

- componente glicoproteica dei globuli rossi

Importante è il fatto che il farmaco si metta in equilibrio reversibile (deriva da legami reversibili come forze

di van der Waals, legami ionici, legami a idrogeno, interazioni idrofobiche) con le proteine plasmatiche (che

sono deputate al trasporto di sostanze, tra cui anche i farmaci), tanto che la concentrazione plasmatica del

farmaco può essere espressa come la somma della quota libera e della quota legata alle proteine:

𝐹𝑎𝑟𝑚𝑎𝑐𝑜 𝑛𝑒𝑙 𝑝𝑙𝑎𝑠𝑚𝑎 = [𝑓𝑎𝑟𝑚𝑎𝑐𝑜 𝑙𝑒𝑔𝑎𝑡𝑜] + [𝑓𝑎𝑟𝑚𝑎𝑐𝑜 𝑙𝑖𝑏𝑒𝑟𝑜]

Solo la quota di farmaco libero (e quindi solubile nel plasma) è capace di legarsi ai recettori (dando quindi

l’effetto terapeutico della molecola) o essere eliminata. Di conseguenza, tutto ciò che riguarda la

farmacocinetica, in realtà, riguarda solo la porzione di farmaco non legato alle proteine plasmatiche; inoltre, il

plasma, in questo modo, rappresenta una riserva circolante di farmaco e permette di aumentare la durata

complessiva dell’azione terapeutica.

Il legame con le proteine plasmatiche rappresenta una costante farmacocinetica specifica del farmaco: essa

viene espressa come percentuale di farmaco legato alle proteine plasmatiche e, in quanto costante, non

dipende dalla dose somministrata, ma è specifica di ogni farmaco: tuttavia, se aumento la dose, è vero che la

percentuale di farmaco legato sarà costante, ma aumenterà la quota libera, da cui dipende direttamente l’effetto

terapeutico.

Poiché il legame farmaco-proteina è debole, si possono verificare fenomeni di competizione per il sito di

legame sulle proteine da parte, ad esempio, di altri farmaci. Mettiamo il caso che il farmaco A abbia una %

pari al 99%: il suo effetto terapeutico, quindi, sarà dato dall’1%, che rappresenta il farmaco libero. Nel

momento in cui, tuttavia, il paziente assume un secondo farmaco (B), questo competerà con il farmaco A per

le proteine plasmatiche: è possibile quindi che la % del primo farmaco scenda al 98%, determinando un

raddoppio della quota libera, con un conseguente aumento dell’attività. Esistono, in realtà, farmaci con una

alta affinità per le proteine plasmatiche e farmaci con una bassa affinità: questo è estremamente importante,

perché se occorre aggiungere un farmaco ad una terapia già multifarmacologica, si propenderà per un farmaco

che presenti una bassa affinità alle proteine plasmatiche, in maniera tale da ridurre il più possibile la

competizione tra le diverse molecole.

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Non solo i farmaci possono competere per le proteine plasmatiche: anche integratori alimentari, tisane,

componenti aromatiche (curcuma, aloe, ad esempio) e cosmetici cutanei possono competere con il farmaco.

Per questo diventa sempre più importante sapere ogni singola cosa che il paziente prende.

Esistono vere e proprie tabelle che riportano, per ogni singolo farmaco, la percentuale di molecole legate:

farmaci con una % pari all’80-90% sono quelli a rischio di interazione farmacocinetica, mentre farmaci con

una percentuale minore, pur non vedendosi intaccata la propria quota legata, possono rappresentare buoni

competitori.

La quota di farmaco legato alle proteine può anche essere influenzato dalla secrezione tubulare: in quanto

processo attivo, il farmaco viene estromesso dal plasma (quota libera) e immesso nelle urine. Poiché, tuttavia,

la concentrazione del farmaco libero viene a ridursi, le proteine plasmatiche rilasciano molecole per mantenere

costante la quota libera e legata di farmaco: si parla di estrazione.

La percentuale di farmaco legato è, come già detto, una costante farmacocinetica, che viene misurata nel

volontario sano. Tuttavia, esistono tutta una serie di fattori capaci di influenzare la qualità e la quantità di

proteine plasmatiche:

- Età: la composizione e la quantità di proteine plasmatiche variano, infatti, con l’età del soggetto; un

individuo prematuro, ma anche un neonato, è caratterizzato da una immaturità epatica e, di

conseguenza presenterà un’attività epatica differente. Man mano che l’individuo matura, matura anche

la sua capacità di sintesi proteica a livello epatico:

Neonato: dalla nascita fino ai 3 anni; Infante: tra i 4 e gli 8 anni; Bambino: tra gli 8 e i 10 anni; al di sopra

degli 11 anni, dal punto di vista farmacologico, è paragonabile a un adulto.

- Gravidanza: lo stato di gravidanza determina un aumento del volume plasmatico (che aumenta con il

progredire delle settimane); questo determina una riduzione del numero di proteine per litro di plasma

con un conseguente aumento della quota di farmaco libero: l’effetto di un farmaco, quindi, aumenterà

con il progredire della gravidanza.

- Insufficienza epatica: situazioni patologiche a carico del fegato (epatiti, steatosi, cirrosi) portano a

una drastica riduzione delle proteine plasmatiche, determinando un aumento della quota di farmaco

libero. Da notare che negli anziani si osserva un certo grado di insufficienza epatica (fisiologica).

Come ci accorgiamo che le proteine plasmatiche non sono quelle attese? Attraverso l’osservazione di

due effetti:

o Un aumento della quota libera di farmaco determina un aumento dell’effetto terapeutico

(tuttavia, l’aumento potrebbe non essere abbastanza consistente da essere notato)

o Un aumento della quota libera di farmaco determina anche un aumento dell’eliminazione del

farmaco (solo il farmaco libero può essere eliminato) a cui corrisponde una riduzione rapida

dell’efficacia del farmaco stesso

In un paziente di questo tipo, per compensare la riduzione dell’efficacia possiamo scegliere un farmaco

differente (ad esempio, un farmaco che si lega in percentuale minore alle proteine ma con la stessa

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efficacia ed eliminazione del primo farmaco in un paziente normale) oppure, in assenza di farmaci

alternativi, occorrerà adeguare la terapia al paziente.

- Insufficienza renale: questa condizione patologica, associata a un’infiammazione o danno al rene, si

caratterizza per la presenza di proteine nelle urine (proteinuria). Di conseguenza, in questa tipologia

di pazienti, osserveremo un’aumentata eliminazione del farmaco, in quanto perderanno una quota delle

proteine plasmatiche e, con esse, le molecole di farmaco legate.

- Enteropatie: una qualsiasi patologia a carico dell’apparato gastroenterico determina problemi

nell’assorbimento dei farmaci. Poiché la parete intestinale è dotata di attività metabolica a carico dei

farmaci, una riduzione o scomparsa di questa attività determina un aumento dell’assorbimento, con

aumento della quota libera di farmaco.

- Ustioni: in presenza di un’ustione, si osserva una fuoriuscita di siero verso i tessuti danneggiati, con

conseguente aumento della concentrazione delle proteine plasmatiche nel sangue.

VIE DI SOMMINISTRAZIONE

Le condizioni necessarie affinché un farmaco possa essere efficace (dare il determinato effetto per cui lo

somministriamo) sono:

- Raggiungere il sito d’azione - Raggiungere una concentrazione appropriata nel sito dazione - Mantenere per un tempo sufficiente la concentrazione adeguata

La concentrazione di un farmaco dipende strettamente dalla quantità di farmaco somministrato (quindi la

dose), ma viene anche influenzata da:

- Entità e velocità di assorbimento: ci viene detto quante molecole per unità di tempo passano dal sito

di somministrazione al plasma. È un parametro costante, tipico di ogni farmaco, che viene deciso

grazie all’uso degli eccipienti: eccipienti diversi determinano velocità di assorbimento diverse.

- Distribuzione del farmaco: indica il passaggio dal plasma ai tessuti in cui sono presenti i recettori. Più

un farmaco è capace di abbandonare il plasma e distribuirsi ai tessuti, più sarà in grado di raggiungere

distretti anatomici complessi. Importante è anche la biodisponibilità, ovvero la frazione di farmaco

attivo nella circolazione sistemica in seguito a somministrazione non endovenosa: il farmaco, infatti,

quando viene assorbito può andare incontro ad un effetto di primo passaggio, un fenomeno metabolico

per cui una parte del farmaco assorbito viene persa perché metabolizzata.

- Legame e permanenza nei compartimenti tissutali

- Biotrasformazione: nell’esatto momento in cui il farmaco viene immesso in circolo, esso viene anche

sottoposto a processi di modifica e trasformazione, il cui scopo è l’eliminazione del farmaco

dall’organismo

- Escrezione: parleremo di clearance, un altro parametro costante che rappresenta il volume di plasma

depurato, nell’unità di tempo, per chilogrammi di peso corporeo. Essa serve per comprendere il tempo

per il quale il farmaco persiste nell’organismo; essa prescinde da sesso e peso, in quanto viene misurata

al chilogrammo

Le diverse vie con cui un farmaco può essere somministrato possono essere sostanzialmente distinte in:

- Sistemiche: la somministrazione permette di ottenere livelli significativi di farmaco in tutto il torrente

circolatorio

- Topiche: la somministrazione permette di ottenere elevati livelli di farmaco esclusivamente nella zona

di somministrazione. In genere, un farmaco ad uso topico non deve mai raggiungere il plasma o avere

concentrazioni significative nel plasma (perché risulterebbe tossico)

- Regionali o loco-regionali: la somministrazione permette di avere concentrazione terapeutiche

localizzate in uno specifico tessuto o rogano, senza indurre rilevanti effetti sistemici in quanto la

concentrazione plasmatica, seppur presente, non è significativa

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Nel momento in cui somministro, si osserva l’instaurazione di un equilibrio: il farmaco presente nel plasma si

mette in equilibrio con il sito di interazione, dove il legame tra farmaco e recettore è biunivoco, ovvero il

farmaco si lega e abbandona il recettore.

Vie parenterali sistemiche iniettive

Sono vie che, come suggerisce il nome, richiedono l’utilizzo di dispositivi di iniezione (es. siringa) che

permettono di ottenere concentrazioni significative di farmaco a livello sistemico. Comprendono vie:

- Intravascolare

o Endovenosa

o Intracardiaca

o Intrarteriosa (che in realtà è più una somministrazione locoregionale)

- Intramuscolare

- Intraperitoneale

- Percutanea

o Sottocutanea

o Intradermica (può avere significato anche topico)

A seconda della via di somministrazione scelta, cambieranno sia la tecnica di somministrazione che l’ago da

utilizzare. In particolare, importante è la grandezza (calibro) dell’ago, che viene espresso in gauge (misura del

numero di aghi di quel diametro che stanno in un cm2): il diametro dell’ago è inversamente proporzionale al

suo gauge (più piccolo è il gauge, più grande è l’ago).

Via endovenosa

A) Mettere un laccio emostatico legato

con un noto che si possa sciogliere facilmente

circa 5-15 cm al di sopra del sito della

puntura.

B) Aspettare che le vene si dilatino

C) Palpare la vena per sentirne la

profondità e la direzione

D) Disinfettare la cute a partire dal sito

di iniezione e con movimenti circolari sempre

più ampi verso l’esterno.

E) Per il catetere copriago, tenere il

catetere con il pollice e l’indice a livello della

parte in cui affluisce il sangue ed inserire il

catetere con l’ago con un angolo di 10-30°

con la smussatura dell’ago rivolta verso l’alto.

F) Ritirare l’ago dal catetere, abbassare

leggermente l’angolo del catetere e farlo

procedere all’interno della vena.

G) Applicare una leggera pressione sulla

punta del catetere per evitare l’eccessivo

reflusso di sangue mentre si toglie l’ago dal

catetere e si attacca la fleboclisi

H) Fissare il collegamento tra il tubicino

della somministrazione endovenosa e il fulcro

del catetere.

La via endovenosa è una somministrazione sistemica in quanto indipendentemente da dove somministro il

farmaco, il primo organo raggiunto è il cuore, che ridistribuisce il sangue a tutto l’organismo: nel giro di due

minuti, il farmaco torna al punto iniziale.

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La somministrazione endovenosa può avvenire in due modi differenti:

- Iniezione rapida (a bolo)

- Infusione lento o prolungata

Indipendentemente dalla tipologia di IV scelta, essa:

- Permette di avere il farmaco immesso totalmente e direttamente nel torrente circolatorio (viene a

mancare la fase di assorbimento)

- Ha effetti dimostrabili in tempi rapidi (che, tuttavia, possono anche essere pericolosi)

- È la via preferibile in situazioni di emergenza e in quei casi in cui non è richiesta la collaborazione

attiva del paziente

- Non risentono dell’effetto di primo passaggio

- I livelli plasmatici di farmaco sono noti e decisi dall’operatore; inoltre hanno una cinetica prevedibile

Per definizione, una iniezione a bolo dura al massimo 6 minuti; essa ha sia vantaggi che svantaggi:

Vantaggi

- La concentrazione plasmatica aumenta in tempi molto rapidi e può raggiungere livelli molto elevati

- Viene usata preferibilmente nelle situazioni di emergenza

- Viene usata per somministrare farmaci con emivita lunga

Svantaggi

- Si raggiungono rapidamente dosaggi molto elevati

- Si può danneggiare una vena o il tessuto (se c’è extravaso)

- Non si possono usare veicoli oleosi, molecole che farebbero precipitare i costituenti del sangue o che

indurrebbero emolisi

- Bisogna operare in regime di sterilità assoluta

- La forma farmaceutica è costosa

- Una volta introdotto, il farmaco non è più recuperabile

È inoltre raccomandabile somministrare la dose endovena molto lentamente, in un periodo di tempo che sia

almeno pari al tempo di circolo (circa due minuti). Questo permette anche di rilevare eventuali effetti tossici

acuti nel paziente, così da sospendere la somministrazione prima di aver iniettato tutto il contenuto.

Dal punto di vista cinetico, la somministrazione a bolo può essere considerata come composta di tre fasi

successive:

a) Il farmaco viene iniettato e richiede un certo tempo per raggiungere il picco plasmatico (Cmax). È

in genere un tempo molto breve (secondi o minuti) coincidente con circa due minuti (per questo

motivo, la curva, che rappresenta la concentrazione plasmatica in funzione delle ore trascorse,

viene disegnata attaccata all’asse delle ordinate). Nel momento in cui viene raggiunto il picco,

iniziano la distribuzione del farmaco nell’organismo e la sua eliminazione e biotrasformazione.

b) Il farmaco viene distribuito, redistribuito ed eliminato, per cui la sua concentrazione plasmatica

inizia a scendere con una velocità variabile: in genere può essere molto rapida (minuti) oppure

richiedere parecchie ore.

c) Il farmaco scompare progressivamente dal plasma e la sua concentrazione si riduce

(asintoticamente).

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A parità di dose somministrata, due farmaci diversi presenteranno una Cmax diversa. Per calcolare la

concentrazione plasmatica, si utilizza la formula:

𝑪𝒑 =𝒅𝒐𝒔𝒆

𝒗𝒐𝒍𝒖𝒎𝒆 𝒅𝒊 𝒅𝒊𝒔𝒕𝒓𝒊𝒃𝒖𝒛𝒊𝒐𝒏𝒆 𝒂𝒑𝒑𝒂𝒓𝒆𝒏𝒕𝒆

Dove, per volume di distribuzione apparente, intendiamo un volume teorico in cui il farmaco deve distribuirsi

per avere quella concentrazione plasmatica (vedi pag. 38).

Più la discesa è ripida, più il farmaco è facilmente eliminabile. Questo permette anche di capire quando posso

eseguire una seconda somministrazione del farmaco: il farmaco con una pendenza maggiore richiederà la

somministrazione successiva prima del farmaco che viene eliminato più lentamente. Quello che differenzia i

due farmaci è rappresentato dall’emivita, ovvero il tempo che è necessario affinché la quantità di farmaco nel

plasma sia dimezzata.

Più l’emivita di un farmaco è ampia, più il singolo bolo del farmaco può essere sufficiente (farmaci con emivita

breve vengono in genere somministrati con infusione lenta, in quanto richiederebbero boli continui). Tuttavia,

nel momento in cui il paziente esce dalla finestra terapeutica, che dose devo dargli per farlo rientrare?

- Se il paziente non ha avuto somministrazioni, posso dare il

bolo completo

- Se il paziente ha già avuto un bolo ma la concentrazione

plasmatica è semplicemente ridotta (al di sotto del limite

inferiore della finestra), la dose successiva deve essere tale da

fargli raggiungere una Cp all’interno della finestra terapeutica.

Per fare ciò, sottrarrò alla dose iniziale la dose “inefficace”,

rappresentata dall’area sotto la curva fuori dalla finestra

terapeutica.

La seconda dose, aggiustata, permette di avere un innalzamento

della Cp che rientrerà ancora nella finestra terapeutica: si

ottiene un grafico definito a dente di sega. È importante tenere presente che la scomparsa dell’effetto

terapeutico non rappresenta quasi mai la scomparsa del farmaco dal plasma: quando bisogna somministrare un

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secondo farmaco, quindi, occorre tenere conto delle somministrazioni di altri farmaci e delle dosi che sono

state somministrate.

È stato calcolato statisticamente che Cp raggiunge lo 0 dopo 5 emivite. Di conseguenza, un farmaco la cui

emivita è pari a 10h, scomparirà dopo due giorni (50h) dal plasma. Esistono farmaci con emivite anche di 20

giorni.

Per definizione, invece, una infusione lenta prevede un tempo di somministrazione maggiore dei 6 minuti;

oltre i 20 viene definita lentissima. Anch’essa presenta vantaggi e svantaggi:

Vantaggi

- Permette di regolare la dose in base alla risposta, modificando la velocità di infusione; in questo modo

si mantengono livelli costanti e noti del farmaco nel plasma per molto tempo

- Non si evidenziano picchi plasmatici

- La concentrazione plasmatica varia molto gradualmente

- È adatta per somministrare grandi volumi (farmaco diluito per evitare la precipitazione) e per sostanze

irritanti (che risulterebbero dolorose per vie IM o SC)

- Permette una infusione continua a velocità controllata (fleboclisi o pompe) anche per molte ore o

giorni.

- Il farmaco può essere aggiunto a fleboclisi già in atto

- Si può interrompere velocemente la somministrazione

- Viene usata in genere per farmaci a emivita breve

Svantaggi

- Non può essere usata per somministrare sostanze oleose o insolubili (rischio di embolia)

- Possono insorgere eventi tossici improvvisi (dovuti a una somministrazione troppo rapida)

- Possono insorgere infezioni (da materiale e/o composti non sterili) da permanenza eccessiva in vena

- Si può avere rottura del vaso e, di conseguenza, extravaso di un volume molto elevato

- Ha un rischio associato di embolia

- Il farmaco può degradarsi nel veicolo se vi rimane per troppo tempo (ad esempio se esposto a luce o

calore)

- Si ha una scarsa compliance alla terapia da parte del paziente

- Può richiedere macchine appropriate e costose

Dal punto di vista cinetico, la curva dose-risposta viene riassunta in queste fasi:

A. Il farmaco viene somministrato e si osserva la distribuzione dello stesso; inizia anche la fase di

metabolizzazione ed eliminazione

B. Il farmaco si è distribuito e comincia ad essere eliminato in modo significativo

C. Inizia la fase dello stato stazionario (steady state): si raggiunge un equilibrio tra velocità di infusione

e di eliminazione; la concentrazione plasmatica del farmaco è costante e permette il raggiungimento

della concentrazione terapeutica a livello del bersaglio

D. Si interrompe la somministrazione

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E. Si osservano solo metabolizzazione ed eliminazione; la scomparsa del farmaco dal plasma dipende

dalle caratteristiche farmacocinetiche. Questa fase è identica a quella della somministrazione a bolo.

F. Scomparsa del farmaco dal plasma.

La concentrazione raggiunta con lo steady state CSS (che viene raggiunto anch’esso dopo 5 emivite) è la

concentrazione massima raggiungibile, da quel farmaco, con quella infusione lenta. La salita dell’infusione

lenta è diversa, però, da quella del bolo, nel quale si osserva il raggiungimento pressoché immediato di Cmax.

Questo perché, nella fase iniziale della curva, si può immaginare la somministrazione lenta come una serie

successiva e infinita di boli della stessa dose che, all’inizio, non vengono eliminati (perché non sono ancora

passate 5 emivite). Si osserva sostanzialmente un progressivo accumulo del farmaco, che fa salire la

concentrazione plasmatica finché per la prima molecola di farmaco immessa non sono passate cinque emivite:

a questo punto il farmaco inizia a essere anche eliminato ma la curva si mantiene costante perché per ogni bolo

eliminato ne ho uno somministrato (steady state). Nel momento in cui l’ultima molecola viene immessa, lo SS

si interrompe e inizia la discesa della CSS, che raggiungerà lo zero dopo cinque emivite.

Cosa succede se raddoppio la velocità di infusione al tempo t=0, mantenendo però la stessa dose? Ottengo una

curva più alta (ogni punto della seconda curva è il doppio della curva originale) perché ad ogni istante vengono

immesse il doppio delle molecole. Tuttavia, l’emivita del farmaco è sempre la stessa, di conseguenza lo steady

state verrà raggiunto sempre dopo cinque emivite e la CSS risulterà il doppio della originale. Tuttavia, esso

durerà di meno, in quanto la dose immessa è uguale per entrambe le somministrazioni.

E se la riduco della metà? Succederà l’esatto opposto: la curva sarà più bassa e lo steady state durerà più a

lungo. Le tre curve presentano la stessa identica area sotto la curva (che rappresenta la dose).

Inoltre, con l’infusione lenta, sappiamo sempre entro quanto tempo si dovrebbe manifestare l’effetto massimo

(dopo cinque emivite): se, trascorso quel tempo, non evidenziamo l’effetto, significa che abbiamo sbagliato la

velocità d’infusione. Come aggiustiamo questa inconvenienza? Non possiamo agire sulla dose, in quanto è la

stessa sacca di flebo, ma possiamo modificare la velocità di infusione, ad esempio aumentandola.

In questo caso, nel momento in cui aumento la velocità di infusione (ad esempio, raddoppiandola) osserverò

un nuovo innalzamento della curva, fino al raggiungimento di un secondo stato stazionario (raggiunto sempre

dopo cinque emivite). E se, in questo caso, raggiungessi una concentrazione al di sopra della finestra

terapeutica? Basta ridurre nuovamente la velocità di infusione: in questo caso osserveremo una iniziale

riduzione della concentrazione plasmatica (con andamento identico alla discesa della normale infusione lenta)

ma, trascorse cinque emivite, verrà raggiunto un nuovo stato stazionario. Conoscendo queste informazioni,

possiamo tenere lo SS per un tempo a piacere (continuando a somministrare la stessa dose alla stessa velocità)

e organizzare in maniera rigorosa la terapia.

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Via intra-arteriosa

La via intra-arteriosa viene in genere utilizzata quando si vuole assicurare una specifica dose di farmaco in un

singolo organo (ad esempio, nel caso di alcuni chemioterapici o in analisi angiografica): il farmaco, infatti,

raggiunge in massa l’organo immediatamente a valle dell’arteria. Si utilizza, occasionalmente, per trattamenti

loco-regionali. Per poter effettuare una somministrazione intra-arteriosa, occorre passare prima dalla vena in

quanto:

- La pressione venosa è minore rispetto a quella delle arterie (entrare in un vaso ad alta pressione

comporta un rischio di fuoriuscita veloce e improvvisa di sangue, con una maggiore difficoltà

nell’operazione)

- Danneggiare una vena non comporta rischi elevati, in quanto esiste tutta una serie i circoli collaterali;

al contrario, danneggiare la parete arteriosa comporta un rischio maggiore per il paziente (senza

considerare che la muscularis mucosae è molto dura e difficilmente penetrabile)

Vantaggi

- Si ottengono alte concentrazioni di farmaci solo in tessuti e organi specifici (a valle dell’arteria)

- Si osserva una riduzione degli effetti sistemici del farmaco a causa della diluizione nel torrente venoso

a valle dell’organo.

Svantaggi

- È una via di somministrazione complicata

- Il personale che la esegue deve essere altamente specializzato

- Necessita di accessi distanti, tramite l’utilizzo di sonde, ecografo, radiografo

- C’è il rischio di avere pericolose lacerazioni arteriose (si usano, infatti, sonde e cateteri venosi, di

solito)

Via intramuscolare

Il farmaco non viene immesso direttamente nel torrente circolatorio, ma in sede muscolare (muscolo striato).

Da qui, tuttavia, il farmaco viene assorbito e si immette ancora una volta nel plasma. Da notare, tuttavia, che

il tessuto muscolare è dotato della capacità di eliminare alcuni farmaci, a velocità differente; di conseguenza,

a differenza delle vie EV e intra-arteriosa, non tutte le molecole di farmaco somministrati IM raggiungeranno

il plasma (cambia la biodisponibilità). I muscoli di elezione per la IM sono il deltoide, il quadricipite femorale

(vasto laterale e retto femorale) e il gluteo (sito ventro- e dorsogluteale) ma la scelta della sede varia soprattutto

in base alla quantità di liquido da iniettare (minima nel deltoide, maggiore negli altri due muscoli). Occorre

sempre controllare, tramite la manovra di Lesser, che l’ago non sia inserito in un circolo sanguigno e, nel caso,

spostarlo.

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Vantaggi

- È adatta alla somministrazione di volumi moderati, veicoli oleosi e sostanze moderatamente irritanti

(in questo caso è presente anche un anestetico locale)

- Si può regolare la velocità di assorbimento della forma farmaceutica

o Permette un assorbimento rapido se la soluzione è acquosa e profonda (si completa in circa

10-30 minuti)

o Permette un assorbimento graduale se la soluzione è oleosa

o Permette un assorbimento molto lento, graduale e costante se si usano molecole che

precipitano, si usano vasocostrittori nella forma farmaceutica o preparazioni ritardo

- Si possono iniettare (gluteo) anche volumi importanti di farmaco (volumi maggiori di 5 ml, anche se

in genere non superano mai i 10 ml)

- Viene utilizzata anche per la somministrazione di volumi molto piccoli, come nel caso dei vaccini

Svantaggi

- Può causare dolore da distensione o irritazione del tessuto muscolare; inoltre, l’ago può determinare

lesioni muscoli o nervose

- Il pH del farmaco può determinare ascessi sterili

- Si può andare incontro ad ascessi o necrosi per iniezione di sostanze irritanti o per insufficiente

controllo delle condizioni di asepsi

- Nei bambini e negli anziani, a causa della ridotta massa muscolare, si possono causare lesioni al nervo

sciatico

- Negli sportivi, a causa dell’aumenta vascolarizzazione, del maggiore diametro capillare e della minore

quantità di grasso tra le fibre, la velocità di diffusione e quindi l’assorbimento possono risultare

aumentati

Importante: nella maggior parte dei casi, i farmaci per IM non possono essere somministrati EV. Inoltre,

durante la terapia con anticoagulanti, occorre evitare la somministrazione IM per non causare sanguinamenti

profondi. Esistono, poi, certe differenze tra uomini e donne, soprattutto nella distribuzione delle fibre muscolari

e del pannicolo adiposo che possono modificare leggermente l’assorbimento dello stesso farmaco IM.

Dal punto di vista cinetico, a seconda degli eccipienti utilizzati otterremo una cinetica di rilascio differente.

Inoltre, a differenza della iniezione a bolo, nella somministrazione IM non abbiamo un improvviso picco nella

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concentrazione plasmatica del farmaco, ma piuttosto una salita graduale (la cui pendenza dipende da quanto il

farmaco viene assorbito velocemente) che porta a una Cmax levigata (più bassa della Cmax del bolo); allo stesso

tempo, tuttavia, la IM determina elevati livelli di farmaco per un tempo maggiore. Sfruttando eccipienti che

trattengono il principio attivo o che ne determinano la precipitazione, possiamo ritardare nel tempo la cessione

del farmaco al compartimento plasmatico, in maniera da modificare anche l’effetto. Esempio tipico è

l’ossitocina:

- Se data EV, in bolo, determina un effetto ipertensivo importante e pericoloso

- Se data EV ma con infusione lenta si ottiene un effetto a livello uterino

- Se data IM, si ottiene un effetto veloce ma non letale

La somministrazione IM, quindi, permette di avere i vantaggi dell’infusione lenta senza dovervi ricorrere;

inoltre, è possibile associare più farmaci tra di loro, come un vasocostrittore o un anestetico locale per

bilanciare alcuni svantaggi.

Per i neonati, i prematuri e gli anziani non è considerata la migliore via di somministrazione; inoltre, è

sconsigliata negli atleti.

Via intraperitoneale

Vantaggi

- Ampia superficie di assorbimento

- Veloce assorbimento, in quanto la zona è riccamente perfusa

- È possibile somministrare volumi molto differenti

Svantaggi

- Danni vasali o intestinali

- Formazione di aderenze in caso di somministrazioni ripetute

- Dolorosa

- Rischio di infezione

Vie enterali sistemiche

Sono vie con effetti sistemici che sfruttano l’intero tratto gastro-intestinale, dalla cavità orale al retto. Sono

comprese le vie: orale, sublinguale e rettale.

Via sublinguale

La somministrazione sublinguale sfrutta il drenaggio venoso presente nel pavimento del cavo orale, che drena

direttamente a livello del cuore grazie alla vena cava superiore. L’assorbimento, per quanto rapido (il

pavimento della cavità orale è estremamente vascolarizzato), risulta essere scarso (in quanto occorre superare

una barriera di cellule epiteliali); allo stesso tempo, però, viene assicurato che tutto ciò che viene assorbito

viene immesso in circolo, in quanto non si ha passaggio attraverso il fegato: in questo modo, le molecole non

vengono sottoposte a processi di biotrasformazione.

Vantaggi

- Il farmaco, posto sotto la lingua, si scioglie più o meno lentamente

- L’assorbimento è rapido e importante; inoltre, anche la mucosa buccale partecipa all’assorbimento

- Il sangue venoso refluo giunge, tramite la cava superiore, direttamente al ventricolo destro, senza

passare per il fegato e senza subire l’attacco acido dello stomaco

- Viene usata per tutti quei farmaci che subiscono un effetto di primo passaggio epatico o intestinale

o È la via di elezione per la somministrazione di nitroglicerina: grazie all’alto grado di

vascolarizzazione e all’alto coefficiente di ripartizione del farmaco, si ottengono

concentrazioni efficaci del farmaco in breve tempo.

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Svantaggi

- Questa via può essere usata per un numero limitato di farmaci

- C’è il rischio di provocare lesioni alla mucosa orale

- I farmaci non possono essere irritanti o con un pH lontano dalla neutralità

- Le concentrazioni plasmatiche raggiunte dopo l’assorbimento sono imprevedibili

- Si può andare incontro all’ingestione della forma farmaceutica e quindi all’interruzione della

somministrazione

Via orale

La somministrazione per os è una delle vie di somministrazione più utili e più usate. A seconda del farmaco,

l’assorbimento può iniziare anche a livello orale, continuando nello stomaco; tuttavia, la maggior parte

dell’assorbimento avviene a livello intestinale, grazie all’enorme superficie disponibile: questo fattore, inoltre,

permette che la maggior parte dei farmaci possa essere assorbita, siano essi molecole polari e non, lipofile o

idrofile. In ogni caso, l’assorbimento dipende da una moltitudine di fattori diversi:

- pH gastrico: l’ambiente acido dello stomaco può rappresentare un problema per alcune forme

farmaceutiche (il pH può arrivare anche a valori di 1-2 durante la digestione). Alcune forme, tuttavia,

sono composte di eccipienti adatti a resistere all’acidità gastrica, proteggendo il principio attivo

- Riempimento gastrico: il grado di riempimento dello stomaco può infatti variare la velocità

dell’assorbimento

- Motilità intestinale

- Batteri: alcuni di essi sono dotati della capacità di metabolizzare i farmaci, per cui vengono consumati

ben prima di essere assorbiti, non arrivando neanche al circolo sistemico

- Solubilità della forma farmaceutica

- Contenuto gastrico e intestinale: alcuni alimenti sono in grado di interagire chimicamente con i principi

attivi, rallentandone od ostacolandone l’assorbimento (chelazione, formazione di compressi

macromolecolari, etc)

o Tetracicline: se ingeriamo Ca2+, esso forma composti chelati con l’antibiotico, che di

conseguenza non può essere assorbito.

o Alimenti grassi: possono comportarsi da solventi per farmaci lipofili, permettendo, da un lato,

un assorbimento più veloce e, dall’altro, una eliminazione altrettanto rapida

- Variabilità della mucosa intestinale: la mucosa dell’intestino non è uguale nei vari individui;

innanzitutto subisce variazioni fisiologiche durante la vita del soggetto e, in secondo luogo, diverse

malattie (specie infezioni) possono alterare la mucosa, modificando quindi la capacità di assorbimento

- Sulla mucosa sia gastrica che intestinale possono essere presenti enzimi che modificano le molecole

di principio attivo, degradandoli direttamente a livello del lume.

In generale, farmaci poco assorbiti nel corso dell’apparato gastro-intestinale dovranno essere somministrati

per via parenterale; farmaci non resistenti al pH gastrico dovranno essere somministrati per altra via o tramite

forme farmaceutiche adatte (gastroresistenti).

Vantaggi

- Presenta un basso costo

- È caratterizzata da una compliance elevata

- Può essere eseguita a casa, come automedicazione, senza richiedere personale specializzato

Svantaggi

- I pazienti devono partecipare attivamente alla terapia (sono quindi esclusi neonati e soggetti comatosi)

- È possibile l’effetto di prima passaggio (il farmaco può andare incontro a una estesa metabolizzazione

a livello intestinale ed epatico)

- Non è utile alle situazioni di emergenza

- In quanto automedicazione, si può andare incontro all’abuso

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Dal punto di vista cinetico:

A. Il farmaco viene prevalentemente assorbito, ma si osservano anche distribuzione, metabolizzazione ed

eliminazione.

B. L’assorbimento raggiunger una velocità simile alla metabolizzazione ed eliminazione.

C. È stato raggiunto uno steady state approssimativo, dato dall’equilibrio tra quanto farmaco viene

assorbito e quanto ne viene eliminata: questo equilibrio determina la concentrazione terapeutica più

rilevante.

D. Inizia a ridursi la quota di farmaco assorbito

E. L’assorbimento si riduce ulteriormente e si osserva un prevalere dell’eliminazione (renale e/o epatica)

F. Il farmaco scompare dal plasma.

Poiché, al tempo t=0 (quando avviene la somministrazione) osserviamo un immediato aumento della

concentrazione plasmatica, possiamo dedurre che per questo farmaco l’assorbimento inizi immediatamente:

normalmente, infatti, un farmaco per os richiede almeno 20-30 minuti prima che inizi l’assorbimento. Poiché

l’aumento della concentrazione plasmatico è immediato, possiamo dedurre che il farmaco non si trova sotto

forma di confetto o capsula, ma, piuttosto, di compressa o sciroppo. La curva è assimilabile alla EV con

infusione lenta; questo ci dice che l’assorbimento è lento e graduale, ma continuo: ci troviamo, probabilmente,

in uno stato di digiuno (stomaco vuoto). Infatti, a digiuno, il transito stomaco-intestino è libero e il farmaco

può immediatamente passare a livello intestinale per l’assorbimento. Lo stato stazionario, a differenza della

infusione lenta, non è lineare, ma è una sorta di cupola, con variazioni minime rispetto al valore medio.

L’assorbimento continua finché la forma farmaceutica non viene completamente consumata o espulsa:

- Nel caso in cui sia consumata, la porzione discendente del grafico coincide con quella qui

rappresentata: l’assorbimento continua, riducendosi gradualmente (senza considerare che un t= 6h è

relativamente poco perché la forma farmaceutica sia già stata espulsa). Più la curva risulta allungata

verso destra e più l’assorbimento risulterà essere lento.

- Nel caso in cui venga espulsa, la parte discendente del grafico assomiglierà più al grafico a bolo, con

riduzione maggiore dell’assorbimento e scomparsa rapida del farmaco

Nel caso dello stomaco pieno, invece, la curva sarebbe

rappresentata da una U rovesciata. Questo perché a stomaco pieno,

il farmaco verrebbe confinato nel lume gastrico per circa 2h e solo

dopo passerebbe all’intestino dove inizierebbe effettivamente

l’assorbimento (la curva sale). Anche in questo caso viene

raggiunta una sorta di stato stazionario, ma è di breve durata, in

quanto l’assorbimento avviene in maniera rapida nel lume

gastrico.

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In generale, la somministrazione di un farmaco per os lontana dai pasti determina un assorbimento più rapido

e completo, anche se ciò non è applicabili a quei farmaci che sono acidi deboli (ad esempio, i FANS):

l’assorbimento di questi risulta più rapido e completo assumendoli insieme a bocconi di cibo. La

somministrazione vicina ai pasti, inoltre, può limitare eventuali irritazioni alle mucose provocabili dal farmaco.

Normalmente, si intende:

- Somministrazione prima dei pasti: da 30 a 0 minuti prima del pasto

- Somministrazione dopo i pasti: entro 30 minuti dal pasto

- Somministrazione lontano dai pasti: 3-4 ore prima o dopo il pasto

30 minuti è il tempo necessario per il transito dallo stomaco a digiuno, se il farmaco viene assunto a stomaco

vuoto con un piccolo volume di acqua.

È importante tenere conto del riempimento gastrico anche a causa del pH, che può facilmente influenzare

l’assorbimento dei farmaci. Inoltre, usando specifiche forme farmaceutiche, si limita l’assorbimento nello

stomaco (forme gastroprotette) così che, anche a stomaco pieno, lo svuotamento gastrico richiede dalle 1.5 alle

3 ore e il farmaco non viene rilasciato finché non giunge a livello intestinale. È logico quindi che un farmaco

di questo genere, se preso a stomaco vuoto, potrà essere assorbimento nel giro di 30 minuti, mentre se preso a

stomaco pieno il suo effetto sarà ancora più ritardato.

Ricapitolando:

- A stomaco vuoto, l’assorbimento è in genere lento

- A stomaco pieno, l’assorbimento è in genere rapido

Possiamo, inoltre, giocare sugli eccipienti in maniera tale da ottenere forme farmaceutiche a rilascio rapido (in

caso di terapia acuta) o lento (in caso di terapia cronica).

Come raggiungiamo lo stato stazionario nella via orale? In genere, i farmaci per os vengono assunti più volte:

questo è assimilabile a una somministrazione multipla. Osserveremo quindi un progressivo aumento della

concentrazione fino al raggiungimento di una sorta di stato stazionario (dopo cinque emivite): in realtà lo stato

stazionario è una media dei valori di concentrazione, che oscilla all’interno di valori minimi e massimi

compresi nella finestra terapeutica. Otteniamo, quindi, un grafico con varie oscillazioni. Questo non

rappresenta un problema, in quanto tutti i valori delle oscillazioni sono appunto all’interno della finestra. È

possibile, tuttavia, uscire da questo range se si commettono errori nella frazionabilità del farmaco nelle 24 h

(ovvero ogni quanto viene preso il farmaco): se le dosi vengono prese a una distanza di tempo minore,

rischiamo di superare la finestra e ottenere effetti tossici, mentre se il farmaco viene assunto a distanza di

troppo tempo, rischiamo di non arrivare alla finestra.

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Via rettale

È una via particolarmente utile per la somministrazione di farmaci in tutti quei pazienti incapaci di deglutire

(neonati, lattanti, soggetti in coma) o che soffrono di vomito (ma senza diarrea).

La zona del sigma e del retto presentano una vascolarizzazione particolare: il sangue refluo dal plesso

emorroidario inferiore e, in parte, medio, viene drenato direttamente a livello del ventricolo destro,

permettendo quindi di immettere nel circolo sistemico il farmaco senza che questo subisca metabolizzazione

e/o eliminazione. In realtà, però, una quota di sangue comunque subisce effetto di primo passaggio (30-50%)

per transito attraverso il fegato. La biodisponibilità, quindi, della via rettale è altamente imprevedibile, senza

contare che ci sono importanti variazioni interindividuali.

Di solito, l’assorbimento rettale risulta più lento e prolungato, permettendo quindi un mantenimento di

concentrazioni efficaci di farmaci (in genere anti-infiammatori o broncodilatatori) durante le ore notturne. Allo

stesso tempo, rappresenta una via di emergenza nel paziente convulsivo.

Vie sistemiche

Via sottocutanea (ipodermica)

Il farmaco viene iniettato nel tessuto connettivale sottocutaneo; questa via può essere utilizzata solo per volumi

di farmaco non superiori ai 2 ml e viene generalmente eseguita nelle porzioni laterali della superficie

addominale e sulla faccia ventrale dell’avambraccio. Viene usata sia per forme liquide che per solide o

precipitanti. Non si può usare, al contrario, per sostanze irritanti, che rischiano di portare alla formazione di

cicatrici o determinare un aumento della perfusione.

Usando questa via di somministrazione, la velocità di assorbimento del farmaco dipende dal flusso ematico e

dall’estensione della superficie assorbente; poiché il flusso ematico è minore rispetto a quello muscolare,

l’assorbimento risulterà più lento della IM. Inoltre, l’assorbimento viene anche influenzato dalla solubilità del

farmaco nei liquidi interstiziali: i canali acquosi della membrana endoteliale fanno diffondere in maniera poco

selettiva molecole lipofile; anche molecole di grosse dimensioni diffondono lentamente. La velocità di

assorbimento, inoltre, varia all’interno dello stesso individuo.

L’aggiunta di minime quantità di adrenalina, con effetto vasocostrittore, può ridurre ulteriormente

l’assorbimento sistemico del farmaco, permettendo una maggiore efficacia dei farmaci anestetici locali, usati

per inibire la conduzione delle fibre sensitive nell’area circostante. La via sottocutanea viene usata anche per

applicazioni loco-regionali.

La via sottocutanea è inoltre adatta all’impianto di “pellet” solidi (terapia ormonali o terapie degli alcolisti –

disulfiram –): sono forme a lungo deposito di farmaci generalmente insolubili e inseriti in eccipienti semisolidi

che si sciolgono molto lentamente; variandone forma e dimensione possiamo modulare la velocità di

assorbimento. Inoltre, con la via sottocutanea è possibile somministrare farmaci liquidi che precipitano: tipico

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esempio è l’insulina-zinco, che forma microcristalli nel sottocute che si sciolgono a velocità costante e

relativamente bassa, permettendo una concentrazione plasmatica dell’insulina costante per diverse ore.

Possibili complicanze sono rappresentate dal dolore, da eventuali ascessi e necrosi.

Via intradermica

Viene normalmente utilizzata per la somministrazione di piccoli volumi (0,1-0,2 ml) nel tessuto connettivale

dermico, al di sotto dell’epidermide e lontano dai vasi. Viene normalmente usata per introdurre allergeni a

scopo diagnostico, permettendo un’esposizione limita e una risposta infiammatoria locale in caso di positività.

Nonostante sia basso, è comunque presente il rischio di andare incontro a shock.

Via transcutanea (percutanea)

Tramite questa via, è possibile somministrare direttamente il farmaco dall’esterno nei distretti di facile accesso,

per avere azioni locali o sistemiche. Il medicamento normalmente usato è il cerotto (o compressa medicata),

che può avere sia effetto loco-regionale (in generale analgesici e anestetici locali) oppure sistemico (come

antianginosi, anticinetosici, ormoni, nicotina, etc.). A livello cutaneo troviamo sostanzialmente tre siti di

assorbimento potenziali:

- Strato corneo (che può anche funzionare da deposito per alcuni farmaci)

- Ghiandole sudoripare

- Follicoli piliferi

In presenza di infiammazione cutanea, escoriazioni o ferite si osserva un aumento netto della velocità di

assorbimento e della quota di farmaco assorbita, con conseguenti picchi plasmatici e termine precoce del

trattamento stesso. Si osserva, inoltre, una variabilità individuale legata all’età, al sesso, al fenotipo. La stessa

cute integra presenta una permeabilità differente a seconda del sito in cui viene svolto il trattamento: è un

parametro fondamentale di cui tenere conto per dosare la quantità di farmaco da somministrare. Per questo

motivo, il punto di applicazione deve essere sempre lo stesso.

La velocità di assorbimento in funzione della seda di somministrazione viene descritta dalla legge di Fick:

𝑑𝑞

𝑑𝑡=

𝑅 ∙ 𝐷𝑠 ∙ 𝐴 ∙ 𝐶𝑣

Dove Cv è la concentrazione del principio attivo nel veicolo, R il coefficiente di ripartizione del principio tra

veicolo e barriera, Ds il coefficiente di diffusione del principio attraverso l’epidermide, A la superficie

interessata dall’assorbimento e h lo spessore attraversato. Poiché il singolo medicamento coincide con una

singola dose, la durata dell’esposizione condiziona la dose totale.

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Altro fattore che può influenzare l’assorbimento è la natura sia del principio attivo, sia del veicolo: potranno

attraversare lo strato corneo solo ed esclusivamente farmaci lipofili, ma non una velocità differente se in base

lipofila (velocità minore) o in base idrofila (velocità

maggiore).

Dal punto di vista cinetico, individueremo due possibili

grafici (a seconda del veicolo):

- Un farmaco lipofilo in veicolo lipofilo presenterà una

cinetica simile alla somministrazione orale a stomaco

vuoto

- Un farmaco lipofilo in un veicolo idrofilo presenterà

una cinetica simile alla somministrazione orale a stomaco

pieno

Vie sistemiche e/o topico-regionali

Via inalatoria o polmonare

La via inalatoria prevede la somministrazione dei farmaci (sotto forma di gas o aerosol) attraverso le vie aeree

e i polmoni: l’assorbimento a livello alveolare risulta essere estremamente rapido a causa della enorme

superficie assorbente (circa 200 m2) e della stretta vicinanza tra epitelio alveolare ed endotelio. La via

inalatoria può avere applicazioni sia topico-regionali (broncodilatatori) sia sistemiche (gas anestetici generali);

la differenza è basata sulla dose e sul tempo di esposizione.

I gas anestetici hanno un coefficiente di ripartizione molto elevato, cosa che gli permette di diffondere molto

rapidamente attraverso le cellule della parete alveolare e dell’endotelio capillare. I broncodilatatori (ma anche

cortisonici e antiallergici), invece, vengono somministrati per via inalatoria perché, da un lato, permettono di

ottenere elevate concentrazioni locali e, dall’altro, non hanno importanti effetti sistemici.

Via d’organo

o Intratecale: usata, in genere, per ottenere effetti rapidi a livello delle meningi e delle radici dei

nervi spinali (superando l’ostacolo della barriera emato-encefalica). Un tempo veniva usata

per somministrare antibiotici, mentre oggi ha applicazioni per lo più antitumorali e

diagnostiche (introduzione di MDC). La via intratecale comprende:

Via epidurale (o peridurale): i farmaci vengono somministrati tramite un catetere

posizionato nello spazio peridurale. Ha, associato, un rischio di infezione. Inoltre, se

il farmaco viene somministrato per lungo tempo, è possibile che il farmaco determini

un effetto sistemico (che, nel caso delle anestesie, può determinare il blocco di cuore

e polmoni.

Via subaracnoidea (o spinale): i farmaci vengono iniettati nello spazio subaracnoideo,

direttamente all’interno del liquor (eliminando un corrispondente volume di liquor

prima della somministrazione). I farmaci possono essere iniettati tramite puntura

lombare o nelle cavità ventricolari.

o Intrarticolare: usata per somministrare antinfiammatori, anestetici locali e antibiotici a livello

delle capsule articolari (anche se somministrazioni ripetute e frequenti possono avere effetti

lesivi.

Via intracavitaria (intraperitoneale ed intrapleurica)

Via transmucosale: somministrazione topica di farmaci sulle mucose nasali, congiuntivali, oro-

faringee, vaginali, uretrali; in queste regioni, per l’assenza dello strato corneo, l’assorbimento risulta

importante, potendo determinare effetti sistemici.

o Occhio: l’assorbimento avviene attraverso la congiuntiva (e in parte attraverso la mucosa

nasale dopo drenaggio dal dotto lacrimale). Attraverso la cornea, i farmaci possono arrivare a

livello dell’umor acqueo e vitreo: da qui, arrivano ai vasi retinici (es. traccianti fluorescenti

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per visualizzare i vasi retinici). La somministrazione si rivela anche utile per una terapia

antibiotica profilattica contro Gonorrea e Chlamydia.

A livello oculare, tuttavia, possono essere deposti solo 20 μl di farmaco (sterile, apirogeno,

isosmotico, non irritante e non alcoolico)

o Vagina: la somministrazione di prostaglandine E2 e F2α risulta utile per le emorragie post-

partum.

o Naso: per uso locale (vasocostrittori/decongestionanti nasali). Si possono somministrare anche

peptidi ed ormoni (come ossitocina, che esercita un effetto costrittivo a livello dei dotti

galattofori e permette l’eiezione del latte, e insulina) ma l’effetto è poco prevedibile.

BIODISPONIBILITÀ E AREA SOTTO LA CURVA

Si definisce biodisponibilità la frazione di farmaco non modificato che raggiunge la circolazione sistemica a

seguito di una qualsiasi somministrazione sistemica e che potenzialmente potrebbe raggiungere il sito d’azione.

La biodisponibilità viene indicata come una percentuale (o come valori compresi tra 0 e 1): in generale, la

somministrazione endovenosa presenta una biodisponibilità pari al 100%, in quanto il farmaco viene

direttamente immesso nella circolazione sistemica, senza dover essere assorbito e senza essere modificato dal

fegato. Al contrario, farmaci somministrati tramite altre vie presenteranno una biodisponibilità inferiore. Ad

esempio, un farmaco somministrato oralmente presenta una biodisponibilità del 70%, ovvero solo il 70% delle

molecole somministrate raggiungerà immodificato il plasma. Questo accade per due motivi:

- Si verifica un assorbimento incompleto a livello intestinale: questo può essere dovuto a caratteristiche

intrinseche del farmaco, come ad esempio una eccessiva liposolubilità (che impedisce

l’attraversamento degli strati acquosi adiacenti alla cellula) o idrofilicità (che impedisce il superamento

della membrana fosfolipidica). In altri casi, alcuni farmaci non vengono assorbiti perché aggrediti

dagli enzimi della digestione (ad esempio, l’insulina viene distrutta dagli enzimi proteolitici del

pancreas) oppure a causa della presenza di specifici trasportatori che estrudono le molecole di farmaco

dalle cellule, re-immettendoli nel lume intestinale e favorendone, quindi, l’eliminazione attraverso le

feci.

- Si verifica il cosiddetto effetto di primo passaggio a livello epatico. Infatti, in seguito

all’assorbimento a livello intestinale, il sangue portale trasporta il farmaco al fegato prima di

raggiungere il circolo sistemico: in ogni punto del suo passaggio dal lume intestinale al fegato, il

farmaco può essere metabolizzato: può essere trasformato a livello della parete intestinale o nel sangue

portale direttamente, anche se in genere è il fegato il maggiore responsabile. Tutti questi meccanismi

contribuiscono a ridurre la biodisponibilità del farmaco e, nel complesso, il fenomeno viene appunto

definito effetto di primo passaggio.

L’influenza dell’effetto di primo passaggio sulla biodisponibilità viene rappresentata dal rapporto di estrazione

ER:

𝑬𝑹 =𝑪𝒍 𝒅𝒆𝒍 𝒇𝒆𝒈𝒂𝒕𝒐

𝒇𝒍𝒖𝒔𝒔𝒐 𝒆𝒎𝒂𝒕𝒊𝒄𝒐 𝒅𝒆𝒍 𝒇𝒆𝒈𝒂𝒕𝒐

Più ER è vicino allo zero e più piccolo è l’effetto di primo passaggio (per cui la concentrazione del farmaco a

monte e a valle del fegato sono simili, se non identiche). La biodisponibilità sistemica di un farmaco, F, può

essere quindi stimata dall’entità dell’assorbimento (f) e dal rapporto di estrazione (ER):

𝑭 = 𝒇 × (𝟏 − 𝑬𝑹)

Un farmaco come la morfina viene completamente assorbito a livello intestinale e quindi la perdita a livello

intestinale è praticamente trascurabile. Al contrario, però, il rapporto di estrazione arriva a 0,67: a

biodisponibilità della morfina, somministrata oralmente, è pari quindi a 𝐹 = 1 ×(1 − 0,67) = 1 × 0,33 =

0,33. In genere, se la biodisponibilità è inferiore al 30% con una determinata via di somministrazione, si sceglie

un’altra via.

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Un parametro importante per comprendere la biodisponibilità è rappresentata dall’area sotto la curva, AUC.

Essa consiste, sostanzialmente, nell’integrale della funzione che descrive l’andamento della concentrazione

plasmatica del farmaco nel tempo e rappresenta, quindi, il numero di molecole entrate nell’organismo a seguito

della somministrazione, senza però tenere conto del fatto che non tutte sono responsabili della terapia: AUC

indica esclusivamente l’efficienza della via di somministrazione.

Nella somministrazione endovenosa rapida, AUC coincide con la dose somministrata, in quanto tutto il

farmaco raggiunge il plasma; nelle altre vie, invece, parte del farmaco viene persa prima di arrivare al plasma.

Un altro modo per calcolare la biodisponibilità, quindi, è confrontare le curve sotto le curve che si ottengono

dalla somministrazione endovenosa e non-endovenosa. Quindi:

𝑭 =𝑨𝑼𝑪 𝒐𝒔

𝑨𝑼𝑪 𝒊𝒗= 𝟎 ≤ 𝒗𝒂𝒍𝒐𝒓𝒆 ≤ 𝟏

𝐹 = 1 rappresenta il massimo dell’assorbimento, tanto che coinciderebbe con una somministrazione

endovenosa; 𝐹 = 0, invece, indica che il farmaco viene distrutto prima di raggiungere il plasma e la

circolazione sistemica e la via di somministrazione usata non è adatta al farmaco.

Un metodo per calcolare AUC senza ricorrere all’integrale è:

𝑨𝑼𝑪 (𝒎𝒈×𝒉

𝑳) =

𝒅𝒐𝒔𝒆 (𝒎𝒈𝒌𝒈

)

𝑪𝒍 (𝑳

𝒉×𝒌𝒈)

CINETICHE DI ASSORBIMENTO

Ad eccezione della via intravascolare, tutte le altre vie di somministrazione richiedono che il farmaco diffonda

dal compartimento di somministrazione al sangue, con una velocità dipendente dalle caratteristiche descritte

a pag. 11.

L’assorbimento di farmaci per via orale o parenterale generalmente seguono una cinetica definita di I ordine,

ovvero sono farmaci per i quali il flusso di assorbimento è proporzionale alla concentrazione: la quantità di

farmaco assorbita per unità di tempo è una percentuale costante della quantità di farmaco che rimane da

assorbire. Cinetiche di I ordine vengono descritte da una curva in un grafico lineare o da una retta in un grafico

semilogaritmico e sono definite da una costante di assorbimento ka (frazione assorbita per unità di tempo); un

utile parametro in questo caso è l’emivita (vedi pag. 50) ovvero il tempo necessario a dimezzare la

concentrazione nel compartimento assorbente, che risulta essere un intervallo di tempo fisso,

indipendentemente dalla concentrazione di partenza. Le cinetiche di primo ordine indicano che l’assorbimento

avviene per lo più attraverso meccanismi diffusionali o trasporti non saturati.

In alcuni casi, tuttavia, l’assorbimento può avvenire a velocità costante: parleremo in questo caso di cinetiche

di ordine 0 (flusso indipendente dalla concentrazione), che vengono descritte, al contrario, da una retta in un

grafico lineare e da una curva in un grafico semilogaritmico. Questo tipo di cinetica indica che il farmaco viene

assorbito attraverso sistemi di trasporto saturati, per cui la velocità di trasporto è strettamente legata al numero

di trasportatori disponibili).

Quando un farmaco viene somministrato a un paziente (con una cinetica di I ordine), la sua concentrazione

plasmatica sarà determinata da un equilibrio tra assorbimento ed eliminazione:

- All’inizio l’assorbimento è massimo e l’eliminazione è nulla

- L’assorbimento diminuisce man mano che il farmaco viene assorbito, perché la sua concentrazione

nella zona di somministrazione si riduce; contemporaneamente, l’eliminazione aumenta

Le variazioni nella concentrazione plasmatica, quindi, in ogni istante sono date dalla sommatoria dei due

processi: essa aumenterà quando 𝑎𝑠𝑠𝑜𝑟𝑏𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 > 𝑒𝑙𝑖𝑚𝑖𝑛𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒, raggiungerà il picco massimo quando

𝑎𝑠𝑠𝑜𝑟𝑏𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 = 𝑒𝑙𝑖𝑚𝑖𝑛𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 mentre si ridurrà quando sarà l’eliminazione a prevalere sull’assorbimento.

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Nella somministrazione endovenosa, possiamo usare la formula

𝑪 = 𝑪𝟎 × 𝒆−𝒌𝒆𝒍𝒕

Per calcolare, ad ogni istante, la concentrazione plasmatica del farmaco in funzione del tempo t, della costante

di eliminazione Kel (che coincide con la pendenza della retta ottenibile nel grafico semilogaritmico) e della

dose massima teorica C0

Per le altre somministrazioni, invece, possiamo usare la funzione di Bateman per calcolare, nelle cinetiche di

ordine I, la concentrazione plasmatica del farmaco in funzione del tempo trascorso, della via di

somministrazione e dei meccanismi di assorbimento e di eliminazione. Essa consiste in:

𝑪(𝒕) =𝑭×𝑫

𝑽𝑫 ×

𝑲𝒂

𝑲𝒆 − 𝑲𝒂×(𝒆−𝑲𝒂𝒕 − 𝒆−𝑲𝒆𝒕)

Dove:

- 𝐶(𝑡) è la concentrazione plasmatica al tempo t

- 𝐷 indica la dose

- 𝐹 rappresenta la biodisponibilità

- 𝐾𝑎 è la costante di assorbimento

- 𝐾𝑒 è la costante di eliminazione

DISTRIBUZIONE ED ELIMINAZIONE DI UN FARMACO

Nel momento in cui il farmaco entra nell’organismo, esso si distribuisce ai vari tessuti e viene eliminato tramite

i processi di metabolizzazione ed escrezione. In un qualsiasi grafico semilogaritmico, è possibile osservare

come la concentrazione plasmatica del farmaco decada con due velocità differenti: una fase iniziale rapida

seguita da una fase più lenta. Queste due fasi rappresentano i due processi a cui va incontro un qualsiasi

farmaco nel momento in cui entra nell’organismo:

- La caduta iniziale, rapida, della concentrazione del farmaco è dovuta al fatto che il farmaco abbandona

il letto vascolare per distribuirsi ai vari tessuti dell’organismo (compreso quello che rappresenta il

bersaglio terapeutico) finché le concentrazioni nel sangue e nei tessuti non si equilibrano

- La caduta successiva è legata, invece, all’eliminazione; la concentrazione del farmaco diminuisce in

quanto va incontro ai processi di metabolizzazione ed escrezione.

L’ampiezza della caduta durante la fase di distribuzione indica la capacità del farmaco di uscire dai vasi e qual

è il volume nel quale deve distribuirsi; la velocità con cui avviene la discesa nella fase di eliminazione, invece,

rappresenta quanto efficienti siano i processi di eliminazione dell’organismo. In realtà, però, i due processi

non sono separati ma avvengono contemporaneamente.

DISTRIBUZIONE

Qualsiasi liquido organico agisce come solvente e trasportatore per i farmaci. L’acqua corporea (che costituisce

circa il 60% del peso del nostro organismo) risulta suddivisa in due grandi compartimenti: l’acqua

intracellulare (40-44%) e l’acqua extracellulare (16-20%) separate del complesso delle membrane cellulari;

l’acqua extracellulare, a sua volta, risulta suddivisa dall’endotelio capillare in intravascolare (essenzialmente,

il plasma, 4%) e interstiziale (12-16%). In realtà, poi, alcune parti del liquido extra-cellulare non sono

facilmente raggiungibili (es. osso, cartilagine, tendine): di conseguenza, la quantità di acqua per ogni porzione

anatomica varia in funzione della composizione e dell’accessibilità. È utile quindi introdurre il concetto di

volume di distribuzione, distinguibile in reale e apparente.

In un individuo adulto magro (70 kg) troviamo circa 40 L di acqua: questo è il volume di distribuzione reale

(detto anche anatomico), che rappresenta il volume “massimo” in cui il farmaco potrebbe distribuirsi nel

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nostro corpo. Esso varia da 40 L nel caso di composti non polari ma solubili in acqua (e quindi diffusibile in

tutti i fluidi del corpo) a 12 L per una molecola elettricamente carica non diffusibile.

Il volume di distribuzione apparente, al contrario, è un valore teorico capace di esprimere quanto un farmaco

sia capace di attraversare le membrane, diffondere nei tessuti e quindi distribuirsi nell’organismo. Poiché la

concentrazione è definita dal rapporto dose su volume, il volume potrà di conseguenza essere calcolato come:

𝑽𝒅 =𝒅𝒐𝒔𝒆 𝒔𝒐𝒎𝒎𝒊𝒏𝒊𝒔𝒕𝒓𝒂𝒕𝒂 (𝒒𝒖𝒂𝒏𝒕𝒊𝒕𝒂𝒕𝒊𝒗𝒐 𝒕𝒐𝒕𝒂𝒍𝒆 𝒅𝒊 𝒇𝒂𝒓𝒎𝒂𝒄𝒐 𝒏𝒆𝒍𝒍′𝒐𝒓𝒈𝒂𝒏𝒊𝒔𝒎𝒐)

𝑪𝟎

Dove 𝐶0 rappresenta la concentrazione teorica che il farmaco avrebbe al tempo 𝑡 = 0 (rappresenta la

distribuzione istantanea teorica: tanto più è piccola e tanto più facilmente il farmaco si distribuisce ai tessuti).

Essa può essere ricavata convertendo la funzione lineare della [farmaco] sul tempo in una funzione

semilogaritmica (asse delle y in logaritmo): poiché la funzione diventa una retta, 𝐶0 è data dall’intersezione

della retta con l’asse delle y e il coefficiente angolare della retta rappresenta la costante di eliminazione.

Poiché:

𝑑𝑜𝑠𝑒 𝑠𝑜𝑚𝑚𝑖𝑛𝑖𝑠𝑡𝑟𝑎𝑡𝑎 =𝑚𝑔

70 𝑘𝑔 𝑒 𝐶0 =

𝑚𝑔

𝐿

Otteniamo che la unità di misura del 𝑉𝑑 è:

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𝑉𝑑 =

𝑚𝑔70 𝑘𝑔

𝑚𝑔𝐿

=𝐿

70 𝑘𝑔

Il volume di distribuzione apparente può anche superare il volume di distribuzione reale, in quanto esso

rappresenta il volume apparentemente necessario per contenere il quantitativo del farmaco presente

nell’organismo se questo si distribuisse con la stessa concentrazione che ha nel plasma.

Esempio pratico: somministriamo 500 µg di digossina (bolo) in un soggetto normale, di 70 kg di peso, il quale

dovrebbe avere quindi un volume di distribuzione (reale) di 42 kg). Di conseguenza, la concentrazione

plasmatica massima di questa dose dovrebbe essere:

𝐶𝑝 =𝑑𝑜𝑠𝑒

𝑣𝑜𝑙𝑢𝑚𝑒=

500

42= 0,0119

µ𝑔

𝑚𝑙= 11,9

𝑛𝑔

𝑚𝑙

in realtà, la concentrazione plasmatica massima che si osserva è pari a 1,25 ng/ml. Da questo valore troviamo

che il volume apparente è pari a:

𝑉𝑑 =𝑑𝑜𝑠𝑒

𝐶0=

500 ∙ 10−6 𝑔

70 𝑘𝑔⁄

1,25 ∙ 10−6 𝑔𝐿⁄

= 400 𝐿

70 𝑘𝑔(= 5,7

𝐿

𝑘𝑔)

Ciò significa che il 𝑉𝑑 della digossina è maggiore del volume anatomico: la concentrazione massima

riscontrabile è inferiore al valore teorico perché il farmaco si distribuisce bene ai tessuti.

Conoscere la distribuzione del farmaco è importante: da un lato, mi permette di sapere se il farmaco viene

veicolato in tutto l’organismo (quindi indipendentemente da dove lo somministro, so che, sulla base della

selettività per un recettore, la molecola raggiungerà il bersaglio); dall’altro lato, indica la capacità di un

farmaco di abbandonare il plasma e andare nei tessuti e quanto “meglio sta” nei tessuti rispetto al plasma.

Infatti:

- 𝑉𝑑 molto piccoli (3-4 L/70kg) indicano che il farmaco rimane relegato al compartimento plasmatico

perché molto polare e quindi incapace di attraversare le barriere cellulari

- 𝑉𝑑 molto grandi (100-1000 L/70kg) indicano, al contrario, che il farmaco passa facilmente le

membrane in quanto poco polare, delle dimensioni giuste; potrà quindi distribuirsi bene nella maggior

parte dei tessuti e quindi scomparire velocemente dal plasma.

Ogni farmaco ha un proprio 𝑉𝑑, che è a tutti gli effetti una costante farmacocinetica; esso viene utilizzato per

calcolare la dose e di conseguenza la concentrazione plasmatica del farmaco, che deve essere sempre

all’interno della finestra terapeutica. Dare la stessa dose di farmaco a due pazienti diversi, uno obeso e uno

magro, determinerà una concentrazione plasmatica differente che, specie in presenza di una finestra terapeutica

ridotta, potrà avere effetti diversi, risultando inefficace nel paziente obeso (perché ha un volume maggiore e

quindi una concentrazione minore) e tossica nel paziente magro (in quanto al volume minore corrisponde una

concentrazione maggiore). Se la finestra terapeutica, quindi, è ristretta, occorrerà modulare la dose da

somministrare al peso del paziente o, addirittura, ai metri quadri di cute (se la finestra è molto ristretta e il

farmaco particolarmente pericoloso). Al contrario, in presenza di una finestra terapeutico ampia, non è richiesto

questo aggiustamento.

È importante considerare, poi, che in specifiche situazioni, il 𝑉𝑑 varia, come ad esempio in:

- Gravidanza: all’interno della madre, infatti, viene a crearsi un nuovo compartimento in cui il farmaco

(se capace di attraversare la barriera placentare) può distribuirsi ulteriormente, con un aumento del

volume di distribuzione

- Pubertà: con la pubertà cambia la composizione tissutale o, meglio, cambia la quantità e la

distribuzione di grasso nel soggetto; inoltre, i caratteri sessuali secondari rappresentano ulteriori

compartimenti in cui il farmaco può distribuirsi.

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- Vecchiaia: con la vecchiaia si osserva un’ulteriore cambio nella composizione dell’organismo, con

una riduzione del tessuto muscolare a favore di un aumento del tessuto adiposo; farmaci liposolubili,

quindi, potranno distribuirsi maggiormente nell’anziano, determinando concentrazioni plasmatiche

minori e richiedendo, così, un aggiustamento della dose.

Altri parametri che possono influenzare 𝑉𝑑 sono:

- pKa

- grado di legame con le proteine plasmatiche

- coefficiente di ripartizione olio/acqua

- grado di legame con i tessuti

- differenza nel flusso sanguigno localizzato

- patologie, infezioni, infiammazioni

Alcuni farmaci, poi, possono avere comportamenti anomali, ovvero presentano una distribuzione differente (e

quindi non omogenea come accade per la maggior parte dei farmaci) nei diversi tessuti dell’organismo:

- Site effect

Un farmaco liposolubile (e non legato alle proteine plasmatiche) diffonde rapidamente attraverso le

membrane cellulari raggiungendo in breve tempo una distribuzione proporzionale tra plasma e tessuti;

la velocità con cui viene raggiunta la sua concentrazione di equilibrio dipende esclusivamente dalla

quantità di sangue che arriva al tessuto: a parità di permeabilità, tessuti ben perfusi accumulano

farmaco molto più rapidamente di tessuti meno perfusi. Al contrario, un farmaco poco liposolubile

resterà confinato negli spazi extracellulari.

Sono organi ad elevata perfusione (e che quindi entrano rapidamente in equilibrio con il sangue) il

cuore, il cervello, i reni e il fegato (~ 4 L/min). Tessuti come il muscolo e la pelle, invece, presentano

una perfusione lenta (~ 1,3 L/min) mentre l’adipe è poco perfuso (~ 0,15 L/min). In un organo molto

vascolarizzato, il farmaco raggiunge in breve tempo valori di concentrazione simili a quelli del plasma,

esercitando dunque un effetto rapido e andando poi incontro al fenomeno di ridistribuzione, per cui il

farmaco torna al plasma velocemente e si distribuisce agli altri organi. La concentrazione negli organi

poco vascolarizzati, invece, aumenta più lentamente, determinando un deposito di farmaco che verrà

reintrodotto più lentamente nel sangue.

È per questo motivo che il tiopentale (un barbiturico usato come anestetico) esplica il suo effetto in un

breve lasso di tempo: esso è molto liposolubile e, di conseguenza, arriva molto rapidamente al cervello

sul quale esplica l’effetto narcotico; successivamente, la concentrazione a livello cerebrale diminuisce,

mentre aumenta la concentrazione nel tessuto adiposo sottocutaneo. Il site effect è quindi responsabile

dell’azione anestetica rapida ma di breve durata (10-15 min).

- Tropismo

È la capacità di un farmaco di legarsi a una specifica tipologia tissutale per la presenza di specifici

costituenti, come proteine, fosfolipidi, nucleoproteine e collagene. Si possono così avere dei siti di

deposito a livello di alcuni tessuti, indipendentemente dalla composizione del soggetto. Tipici esempi

sono:

o Tetraciclina, che tendono ad accumularsi al tessuto osseo. Questo rappresenta un problema in

gravidanza, in quanto farmaci che si legano all’osso del feto ne bloccano la crescita

o Tiopentale, che tende ad accumularsi nel tessuto adiposo

o Clorochina (antimalarico), che tende ad accumularsi nel fegato

o Amiodarone (antiaritmico), che tende ad accumularsi nella tiroide

MODELLI COMPARTIMENTALI

Fino ad ora, abbiamo trattato l’organismo umano come se tutti i tessuti facessero parte dello stesso unico

compartimento: abbiamo adottato un modello monocompartimentale, in cui la cinetica plasmatica viene

essenzialmente descritta dall’emivita. In questo modello, il farmaco si distribuisce molto rapidamente e in

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Dose (orale) Ka

Dose (ev)

Dose (orale) Ka

Kel

Kap

Kpc

maniera uniforme, raggiungendo la concentrazione Cc, ed è caratterizzato da un’unica costante di assorbimento

Ka (assente se il farmaco viene dato per via endovenosa) e un’unica costante di eliminazione kel.

Dose (ev) – priva di Ka

Kel

In realtà questo ragionamento non è applicabile a tutti i farmaci: alcune molecole, infatti, tendono a mettersi

in equilibrio con determinati tessuti a bassa velocità oppure possono accumularsi in maniera selettiva in certi

tessuti. In questo caso, quindi, non è possibile descrivere l’organismo come un tutt’uno, ma occorre

distinguerlo in due compartimenti, uno centrale e uno periferico. In questo modello, il farmaco raggiunge

inizialmente il compartimento centrale (consistente nel plasma e negli organi altamente perfusi come rene e

fegato), dove viene raggiunta una concentrazione Cc a seguita della somministrazione (sarà quindi presente o

meno una Ka, a seconda che la somministrazione richieda assorbimento o meno). Dal compartimento centrale,

il farmaco si mette in equilibrio con alcuni tessuti, costituiteti il compartimento periferico. Inoltre, una volta

raggiunta la concentrazione d’equilibrio Cp, il farmaco può ripassare nel compartimento centrale: questi

passaggi sono regolati, rispettivamente, dalle costanti Kap e Kpc. La costante di Kel è unica, e associata al

compartimento centrale, in quanto gli unici organi emuntori sono rappresentati dal fegato e dal rene, compresi

nel compartimento centrale.

I diversi aspetti del farmaco e del regime terapeutico in un modello bi- (ma anche tri-) compartimentale sono

definiti dai diversi compartimenti in gioco. È possibile distinguere, quindi:

- T½ α, che riguarda il compartimento centrale. Questa emivita contribuisce poco all’emivita effettiva

del farmaco: il compartimento centrale, infatti, è per lo più responsabile dell’effetto immediato e

principale del farmaco e da alfa dipende la Cmax.

- T½ β, che descrive il contributo del compartimento periferico all’emivita del farmaco, che è più

importante del contributo del compartimento centrale: fintanto che nel compartimento periferico è

Cc

Cc Cp

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presente farmaco, esso sarà rilasciato nel compartimento centrale, allungando l’emivita totale. La

concentrazione del farmaco, infatti, scenderà a 0 dopo 5 emivite beta (e non alfa).

Da notare che, nel momento in cui “inizia” l’emivita beta, il farmaco si è già distribuito e si trova in equilibrio

tra plasma e tessuti: troverò la stessa concentrazione tra plasma e tessuti. Questo determina che l’utilizzo di

una dose eccessiva di un farmaco che segue un modello bicompartimentale può determinare una

concentrazione eccessiva nel tessuto anche per lungo tempo, in quanto la concentrazione plasmatica (e quindi

tissutale) diminuisce secondo una emivita beta, maggiore dell’emivita alfa.

In alcuni casi, esisterà una terza emivita, che chiameremo gamma, che andrà anch’essa a incidere, esattamente

come beta, sulla emivita effettiva del farmaco: il farmaco scenderà a zero dopo 5 emivita beta e 5 emivita

gamma. Questo rappresenta un problema nel caso di una infusione lenta: l’infusione lenta abbiamo visto essere

caratterizzata dal raggiungimento, dopo 5 emivite, dello stato stazionario. Questo è vero per il modello

monocompartimentale. In un farmaco tricompartimentale (come gli oppiacei), invece, poiché l’emivita totale

è influenzata da t ½ γ, la concentrazione plasmatica continuerà ad aumentare lentamente e lo stato stazionario

verrà raggiunto anche dopo 50h; è possibile, inoltre, che, a causa del rilascio continuo di farmaco dai

compartimenti beta e gamma, si superi la finestra terapeutica.

La cinetica tricompartimentale risulta problematica anche in presenza di farmaci con una finestra terapeutica

ristretta. Somministrando questi farmaci, infatti, è difficile identificare l’esatto momento in cui la

somministrazione risulta essere terapeutica. Come possiamo fare, quindi?

Se somministrassimo un’infusione lenta, abbiamo visto che l’emivita complessiva del farmaco è determinata

dalla emivita gamma: se essa è piuttosto lunga, sappiamo che lo stato stazionario verrà raggiunto solo dopo

giorni. Non possiamo aumentare la velocità di infusione, in quanto lo stato stazionario viene sempre raggiunto

dopo cinque emivite e risulterà essere più alto e di durata minore. Risolviamo somministrando,

contemporaneamente all’infusione lenta, una somministrazione rapida. In questo modo, infatti, al tempo t=0

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otteniamo Cmax dettata dal bolo mentre il contributo da parte dell’infusione lenta è pressoché nullo. Con il

passare del tempo, si evidenzierà, da un lato, una riduzione del contributo del bolo e, dall’altro, un aumento

del contributo dell’infusione lenta finché le due curve non si incontrano: in quel punto la concentrazione

plasmatica sarà determinata per il 50% dal bolo e per il 50% dall’infusione lenta.

Le curve di infusione lenta e bolo si equivalgono: sono l’una l’opposto dell’altra. Il bolo che viene

somministrato all’inizio serve esclusivamente a coprire il lasso di tempo necessario all’infusione lenta a

raggiungere lo stato stazionario. La somministrazione del bolo velocizza l’entrata in finestra terapeutica e

quindi la comparsa dell’effetto terapeutico.

Per ottenere lo stato stazionario ad ogni istante, occorre calcolare sia la dose da dare a bolo, sia la

concentrazione dello stato stazionario durante l’infusione lenta. In particolare:

- La dose da dare con la somministrazione rapida sarà calcolabile ricorrendo alla formula a pagina 23:

conoscendo la Cp utile per la terapia e calcolando il Vd sarà possibile calcolare la dose;

- Per calcolare la concentrazione allo stato stazionario, sappiamo che lo SS si instaura nel momento in

cui le molecole assorbite equivalgono alle molecole eliminate, quindi abbiamo che la velocità di

somministrazione equivale alla velocità di eliminazione. Quest’ultima, inoltre, sappiamo essere pari a

𝑽𝒆𝒍 = 𝑽𝒎𝒂𝒙 × 𝑪𝒑

𝑲𝒆𝒍 + 𝑪𝒑

Quindi, risolvendo per Cp, possiamo trovare la velocità di eliminazione e giocare sulla velocità di

somministrazione.

Questo ragionamento viene sfruttato nelle anestesie generali: al paziente viene somministrata immediatamente

una certa dose per bolo, in maniera tale che si ottenga immediatamente l’effetto anestetico. Quindi, viene

somministrata un’infusione lenta affinché rimanga addormentato per tutto il tempo necessario.

Finché ci troviamo in regime ospedaliero, l’infusione lenta può essere utile. Una volta che il paziente viene

dimesso, però, dovrò cambiare la forma farmaceutica cercando, al contempo, di mantenere i vantaggi della

infusione lenta. Per questo motivo utilizziamo una particolare forma orale, basata su compresse a lento rilascio,

contenenti alte dosi di farmaco ma che ne rilasciano piccole quantità, permettendo un livello costante della

concentrazione.

Un fattore importante da tenere in considerazione è la distribuzione delle somministrazioni (vedi cinetica

somministrazione orale): è importante, quindi, dire in maniera precisa al paziente quando deve prendere il

farmaco. Mettiamo infatti di avere un farmaco, la cui singola dose corrisponde a 200 mg, e che sia possibile

somministrarlo in tre modi diversi:

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- Una volta al giorno: somministrando il farmaco in una singola dose al giorno, osservo il

raggiungimento di uno stato stazionario (sempre oscillante), la cui Cmax e Cmin fuoriescono entrambe

dalla finestra terapeutica; la terapia può risultare tossica o inefficace

- Due volte al giorno: somministrando il farmaco in due dose a distanza di 12h ore vado a ridurre il

rischio di superare la finestra terapeutica ma ancora una volta, ho sempre il rischio che la

somministrazione risulti inefficace

- Tre/quattro volte al giorno: riducendo ancora l’intervallo di tempo tra le somministrazioni,

prescrivendole tre o quattro, vado a raggiungere uno stato stazionario in cui il CSS medio si trova

all’interno del range terapeutico, senza rischio di superare o non raggiungere i limiti della finestra

terapeutica stessa.

Per calcolare la concentrazione plasmatica allo stato stazionario, possiamo usare la formula:

𝑪𝒔𝒔̅̅ ̅̅ ̅ =𝑭 × 𝑫

𝑪𝒍 × 𝒊𝒏𝒕𝒆𝒓𝒗𝒂𝒍𝒍𝒐 𝒕𝒓𝒂 𝒍𝒆 𝒅𝒐𝒔𝒊

Dalla formula si può notare come, se 𝐹 = 0, la concentrazione allo stato stazionario è pari a 0: le molecole

vengono distrutte prima di arrivare al plasma. In un paziente dimesso, occorrerà calcolare non solo la dose, ma

anche gli intervalli di tempo tra le somministrazioni, tenendo conto della clearance e della biodisponibilità di

quella via di somministrazione. Ovviamente adatteremo la terapia alle esigenze del paziente, scegliendo la via

di somministrazione migliore

ELIMINAZIONE

L’eliminazione di un farmaco avviene per escrezione e/o biotrasformazione. La principale via di escrezione

(per sostanze endogene ed esogene) è rappresentata da quella renale, a cui si aggiunge, per una quota

significativa di farmaci, la via epatico-biliare. In generale, i processi che portano alla eliminazione della

maggior parte dei farmaci seguono una cinetica di I ordine.

La Ke è un parametro costante di ogni farmaco e rappresenta, sostanzialmente, la frazione della quantità di

farmaco che viene eliminata nell’unità di tempo; tuttavia, non è uguale per tutti gli individui: sfuggono infatti,

bambini, prematuri, anziani e donne gravide (nelle quali non solo è presente un compartimento aggiuntivo ma

il latte materno rappresenta un’ulteriore via di eliminazione). Poiché, inoltre, un farmaco ha le proprie vie di

eliminazione, dovremo considerare una sommatoria di tutte le vie, dalle quali dipenderà la Ke stessa: se una

delle vie viene a mancare, si modificherà l’eliminazione del farmaco stesso.

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Oltre alle due vie principali, troviamo anche delle vie secondarie (che, per alcuni farmaci, possono diventare

anche primarie):

- Via inalatoria (polmonare): vengono sfruttati i polmoni per eliminare con gli atti respiratori il farmaco.

Tipico esempio è rappresentato dall’anestesia generale tramite mascherina: nel momento in cui

rimuovo la mascherina, il paziente elimina il farmaco dal plasma con la respirazione.

- Via cutanea

o Alcuni farmaci si legano alla cheratina, potendo quindi essere eliminati tramite la normale

esfoliazione della cute

o Altri farmaci, invece, vengono eliminati attraverso il meccanismo della sudorazione

- Via mammaria: è una via di eliminazione che compare solo con la gravidanza. Poiché il latte materno

risulta avere un pH acido e presenta una maggiore componente lipidica, in esso potranno trovarsi

farmaci tendenzialmente basici e lipofili. Questo rappresenta ovviamente un problema, in quanto

tramite il latte il farmaco verrebbe somministrato al bambino: per questo motivo alcuni farmaci sono

vietati in gravidanza e se la donna è costretta a prenderne alcuni non può allattare (antiepilettici,

antibiotici).

- Via placentare: nel momento in cui la placenta si forma, e soprattutto 3-4 mesi dopo il concepimento,

essa inizia a metabolizzare alcuni farmaci, riducendone la concentrazione plasmatica. Molti dei

metaboliti, tuttavia, può passare al feto ed esercitare effetti tossici.

- Via vaginale e seminale: alcuni farmaci possono localizzarsi nelle secrezioni vaginali o nel liquido

seminale. È il caso di alcuni antibiotici, che possono determinare la morte della flora batterica vaginale

e determinare la comparsa di candida. In altri casi, è possibile che causino, nel partner, una reazione

allergica.

- Via intestinale

- Via salivare

- Via lacrimale

Esistono sostanzialmente due modi in cui i farmaci possono essere eliminati:

- Immodificati: la molecola, così come è stata somministrata, viene ritrovata nelle urine o nelle feci

(tanto che potremmo estrarla e risomministrarla immediatamente, cosa che si faceva fino al secolo

scorso per alcuni farmaci di non facile produzione)

- Trasformati in metaboliti: è il meccanismo in genere più frequente ed è permesso dalla presenza di

specifici enzimi in grado di modificare anche minimamente la molecola. Poiché il principio attivo

originale viene convertito in un’altra molecola, esso è come se fosse scomparso.

Alcuni farmaci possono essere eliminati in entrambi i modi, oppure uno dei meccanismi è quello prevalente;

inoltre, ogni farmaco ha le proprie vie di eliminazione. Questo è estremamente importante: poiché, spesso, per

la stessa patologia esistono classi differenti di farmaco i cui componenti si distinguono anche per la via di

eliminazione, potremo scegliere il farmaco più adatto al singolo paziente. Così, in un paziente nefropatico

potremo scegliere un principio attivo che non sfrutta l’eliminazione renale.

Eliminazione renale

L’eliminazione renale è sicuramente il meccanismo più importante per la maggioranza dei farmaci. Essa è data

dalla sommatoria di tre meccanismi contemporanei:

- Filtrazione glomerulare: è un processo passivo, che dipende strettamente dalla frazione di farmaco

libero e dalle sue caratteristiche (se il farmaco è sufficientemente polare e delle dimensioni adatte può

passare nella pre-urina); inoltre non è selettiva e può essere bidirezionale. Nell’arco delle 24h, vengono

prodotti circa 200L di preurina, consistente in acqua distillata, pura. Essa si differenzia dalle urine per

il pH, che risulta meno acido (con variazioni di circa 0,5).

- Secrezione tubulare: è un processo attivo che sfrutta specifici trasportatori, sia per farmaci anionici e

che per farmaci coniugati. Essa avviene a livello del tubulo renale prossimale, permettendo la

secrezione di anioni e cationi. È poco selettiva e può essere bidirezionale. In questa categoria rientrano:

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o Via dell’acido urico (usata per eliminare penicilline e glucocorticoidi)

o Via della colina, istamina (usata per eliminare basi organiche)

- Riassorbimento tubulare: è in genere un processo attivo pr i composti endogeni, ma risulta passivo se

parliamo di farmaci. Esso avviene a livello sia del tubulo prossimale che distale e sfrutta il

riassorbimento dell’acqua: quando l’acqua viene assorbita, infatti, si osserva un aumento della

[farmaco] nella preurina, con conseguente fuoriuscita di farmaco. Il pH svolge un’importante ruolo

nella ionizzazione del farmaco, modificando la facilità con cui il farmaco passa o meno. Come

abbiamo visto, nelle intossicazioni posso sfruttare la dipendenza dal pH per bloccare il riassorbimento

e mantenere il farmaco ionizzato nella preurina (ad esempio, nella intossicazione da salicilato, tramite

un’infusione tampone si alcalinizza la preurina fino a pH = 8, con un aumento dell’escrezione fino a

6 volte. Se viene a ridursi o mancare il riassorbimento, l’emivita del farmaco si riduce.

Quando parliamo di eliminazione intendiamo processi passivi; l’escrezione, invece, è composta da processi

attivi. I processi sono differenti in quanto:

- L’escrezione, o secrezione attiva, presenta una cinetica di ordine 0, in quanto sfrutta trasportatori che

sono saturabili: la velocità di eliminazione, quindi, non dipende dalla dose, ma dal numero di

trasportatori presenti nell’organismo

- L’eliminazione, che coincide con la filtrazione glomerulare, invece, segue una cinetica di ordine

primo, dipendendo dalla dose: maggiore è la concentrazione nel plasma, maggiore è la quantità di

farmaco eliminato nell’unità di tempo.

Sommando i due processi, ottengo l’eliminazione complessiva, o Ke. In generale, i farmaci lipofilici tendono

ad essere escreti a concentrazioni simili a quelle del plasma: la loro concentrazione dipende per lo più dal

volume urinario. I farmaci polari, invece, tendono ad essere escreti con concentrazioni superiori rispetto al

plasma: la loro escrezione dipende più dal volume del filtrato glomerulare (velocità di flusso nell’unità di

tempo) piuttosto che dal volume delle urine. Molecole coniugate si comportano in maniera simile alle polari,

anche se possono essere soggette a meccanismi di secrezione attiva. Infine, i farmaci che si ionizzano

facilmente sono dipendenti dal pH p per l’escrezione.

Escrezione biliare

Un’altra via piuttosto importante è rappresentata dall’escrezione biliari: i farmaci possono essere accumulati

dal fegato e immessi all’interno della bile come immodificati o come metaboliti; l’eliminazione finale avviene

attraverso le feci. Una parte dei farmaci o dei loro metaboliti che si ritrovano nel lume intestinale, tuttavia,

possono essere riassorbiti e riportati al fegato: si parla di circolazione entero-epatica, con cui il farmaco

raggiunge il fegato, dal quale può essere ri-immesso nella bile oppure ritornare nella circolazione sanguigna.

Questo fenomeno (che riguarda diverse categorie di farmaci, come antibiotici – ampicillina, rifampicina –,

purganti - fenolftaleina –, estrogeni, vitamine, composti iodati) ha alcune importanti conseguenze:

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- Aumenta la vita media del farmaco nel plasma

- Prolunga l’effetto farmacologico

- Determina un’elevata concentrazione a livello biliare (utile, soprattutto, per antibiotici contro infezioni

biliari)

Alla fine, tuttavia, il farmaco verrà comunque eliminato in toto. La circolazione entero-epatica è una costante

farmacocinetica dei farmaci, che, tuttavia, può subire variazioni in caso di alcune malattie. Normalmente, un

farmaco caratterizzato da questo fenomeno, se somministrato a bolo, presenta la tipica cinetica, con una

determinata Cmax e una progressiva diminuzione della concentrazione plasmatica.

Tuttavia, in un paziente con patologie a carico dell’intestino, questa curva viene a modificarsi:

- Paziente con dissenteria: nel momento in cui il farmaco viene immesso nel lume intestinale per la

circolazione entero-epatica, poiché il transito per l’intestino è estremamente veloce (per la dissenteria)

il farmaco non riesce a essere riassorbito, ma al contrario viene subito espulso. Otterremo quindi una

curva più ripida, pur partendo da una Cmax identica alla precedente

- Paziente con morbo di Crohn: in questi pazienti, l’assorbimento intestinale è compromesso e quindi

ridotto; esattamente come nel caso della dissenteria, otterrò un grafico più ripido.

- Se somministro il farmaco a livello orale, otterrò invece la solita curva della cinetica orale, in quanto

il farmaco non viene immesso direttamente nel circolo sanguigno, ma deve prima essere assorbito.

In pazienti patologici, quindi, bisognerà anche tenere conto della patologia quando somministriamo farmaci,

scegliendo, nel caso di patologie enterali, farmaci non caratterizzati da circolazione entero-epatica.

CLEARANCE

La clearance è il parametro che permette di capire la capacità dell’organismo di depurarsi da un farmaco

nell’unità di tempo: essa rappresenta pertanto il volume di plasma depurato. Può quindi essere espressa come:

𝑪𝒍 = 𝑲𝒆𝒍 × 𝑽𝒅

Nel momento in cui si instaura lo steady state, sappiamo che la clearance è data dal rapporto tra la velocità di

somministrazione (che equivale, poiché siamo allo steady state, a quella di eliminazione) e la concentrazione

del farmaco allo SS:

𝑪𝒍 =𝒗𝒆𝒍𝒐𝒄𝒊𝒕à 𝒅𝒊 𝒔𝒐𝒎𝒎𝒊𝒏𝒊𝒔𝒕𝒓𝒂𝒛𝒊𝒐𝒏𝒆 (= 𝒗𝒆𝒍𝒐𝒄𝒊𝒕à 𝒅𝒊 𝒆𝒍𝒊𝒎𝒊𝒏𝒂𝒛𝒊𝒐𝒏𝒆)

𝑪𝒐𝒏𝒄𝒆𝒏𝒕𝒓𝒂𝒛𝒊𝒐𝒏𝒆 𝒂𝒍𝒍𝒐 𝑺𝑺

La cui unità di misura è:

𝑣𝑒𝑙𝑜𝑐𝑖𝑡à 𝑑𝑖 𝑠𝑜𝑚𝑚𝑖𝑛𝑖𝑠𝑡𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 = 𝑔𝑟/𝑜𝑟𝑎/𝑘𝑔 𝑒 𝑐𝑜𝑛𝑐𝑒𝑛𝑡𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 = 𝑔𝑟/𝐿

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𝐶𝑙 = 𝐿/ℎ /𝑘𝑔

Anche la clearance è una costante farmacocinetica, specifica per ogni farmaco; ciò significa che in pazienti

con peso diverso, la Cl è la stessa (se intendiamo quella misurata in litri per unità di peso); essa cambierà se

invece la riportiamo al peso del paziente (𝐶𝑙×𝑝𝑒𝑠𝑜). La clearance, tra l’altro, può essere definita rispetto ai

diversi compartimenti del corpo: avremo, quindi, una Cl renale, una Cl, epatica e così via. La clearance è dotata

di un carattere additivo, per cui la clearance totale dell’organismo sarà la risultante della sommatoria di tutte

le singole clearance.

𝑪𝒍𝒓𝒆𝒏𝒆 + 𝑪𝒍𝒇𝒆𝒈𝒂𝒕𝒐 + 𝑪𝒍𝒂𝒍𝒕𝒓𝒊 𝒐𝒓𝒈𝒂𝒏𝒊 = 𝑪𝒍𝒔𝒊𝒔𝒕𝒆𝒎𝒊𝒄𝒂 𝒄𝒐𝒎𝒑𝒍𝒆𝒔𝒔𝒊𝒗𝒂

Inoltre, la clearance totale dell’organismo può essere calcolata tramite la formula:

𝑪𝒍 =𝑭 × 𝑫

𝑨𝑼𝑪

Dove F rappresenta la biodisponibilità, D la dose e AUC è l’area sotto la curva.

Per quanto riguarda, invece, la clearance renale, essa può essere calcolata come

𝑪𝒍𝒓𝒆𝒏𝒂𝒍𝒆 =𝑼×𝑽

𝑷

Dove U rappresenta la concentrazione del farmaco nell’urina, V il volume urinario in un minuto e P la

concentrazione plasmatica del farmaco. Il prodotto UxV rappresenta la velocità di eliminazione (quindi

torniamo alla formula iniziale). Il confronto tra la Cl e il volume di plasma ultrafiltrato permette di capire cosa

succede a una sostanza a livello renale:

- Se 𝐶𝑙 = 0, significa che la sostanza viene completamente riassorbita (es. glucosio)

- Se 𝐶𝑙 = 𝑣𝑜𝑙𝑢𝑚𝑒 𝑑𝑖 𝑝𝑙𝑎𝑠𝑚𝑎 𝑢𝑙𝑡𝑟𝑎𝑓𝑖𝑙𝑡𝑟𝑎𝑡𝑜, la sostanza non è legata alle proteine plasmatiche, non

va incontro né a riassorbimento né a secrezione

- Se 𝐶𝑙 < 𝑣𝑜𝑙𝑢𝑚𝑒 𝑑𝑖 𝑝𝑙𝑎𝑠𝑚𝑎 𝑢𝑙𝑡𝑟𝑎𝑓𝑖𝑙𝑡𝑟𝑎𝑡𝑜, la sostanza viene in parte riassorbita

- Se 𝐶𝑙 > 𝑣𝑜𝑙𝑢𝑚𝑒 𝑑𝑖 𝑝𝑙𝑎𝑠𝑚𝑎 𝑢𝑙𝑡𝑟𝑎𝑓𝑖𝑙𝑡𝑟𝑎𝑡𝑜, la sostanza viene in parte secreta

- Se 𝐶𝑙 = 𝑓𝑙𝑢𝑠𝑠𝑜 𝑝𝑙𝑎𝑠𝑚𝑎𝑡𝑖𝑐𝑜 𝑟𝑒𝑛𝑎𝑙𝑒, tutto il plasma che attraversa i capillari, sia glomerulari che

tubulari, viene depurato, sia per filtrazione glomerulare che per secrezione

Dalla clearance dipende quindi quanto velocemente il farmaco viene eliminato dal nostro organismo; tuttavia,

importante è conoscere anche la distribuzione di questo farmaco: tanto più il farmaco si trova nei tessuti (e

quindi distribuito) e tanto meno arriverà a fegato e reni (e quindi eliminato). Mettendo in rapporto la clearance

con il volume di distribuzione otteniamo un altro parametro farmacocinetico importante, che è l’emivita.

- Se un farmaco è ben distribuito ma facilmente eliminato → emivita bassa: non appena il farmaco, dai

tessuti, torna nel plasma, viene immediatamente eliminato

- Se un farmaco è poco distribuito e difficilmente eliminato → emivita alta: pur trovandosi nel plasma,

viene eliminato lentamente dagli organi emuntori

In generale, più è efficiente la distribuzione, meno il farmaco sarà eliminato. A ciò va però anche aggiunta

l’efficienza degli emuntori: infatti, se rene e fegato eliminano molto facilmente il farmaco dal plasma, la 𝐶𝑝,

che si abbassa, determina un richiamo del farmaco dal tessuto, che potrà quindi essere ulteriormente eliminato.

La concentrazione plasmatica di un farmaco, quindi, cambia continuamente perché:

- In parte il farmaco viene eliminato → 𝐶𝑝 𝑠𝑖 𝑟𝑖𝑑𝑢𝑐𝑒

- In parte viene restituito dai tessuti nei quali si era distribuito → 𝐶𝑝 𝑎𝑢𝑚𝑒𝑛𝑡𝑎

Sebbene la clearance sia un parametro costante, essa può modificarsi in condizioni fisiopatologiche:

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- Nell’anziano, osserviamo una riduzione della clearance, in quanto la funzionalità renale si riduce

fisiologicamente: avremo, di conseguenza, un’aumentata emivita dei farmaci

- In gravidanza, per la presenza della placenta (che ha funzione di biotrasformazione) e per il feto (che

ha organi emuntori, sebbene non completamente funzionali), la clearance aumenta → il problema è

rappresentato dai metaboliti dei farmaci che possono avere un effetto teratogeno

- Nel soggetto obeso, poiché aumenta il volume di distribuzione (e un volume più grande è più difficile

da depurare), l’emivita aumenta

- Nel soggetto nefropatico, la clearance aumenta perché il nefrone perde la sua struttura originaria,

lasciando passare un quantitativo maggiore di sostanze

- In presenza di una glomerulonefrite, la clearance risulta aumentata, in quanto i vasi renali diventano

più permeabili e quindi si ha una eliminazione maggiore del farmaco

- Nello shock cardiogeno (quindi dovuto a una depressione della funzione cardiaca), la clearance renale

è al minimo in quanto il flusso renale è scarsissimo → in questi pazienti, quindi, occorrerà ripristinare

il flusso renale o somministrare farmaci che non vengono eliminati dal rene

Non solo la clearance varia in presenza di queste situazioni, ma varia con l’età del soggetto:

- Nel prematuro, poiché il fegato e i reni sono immaturi, la clearance sarà compromessa → per questo i

prematuri hanno farmaci personalizzati

- Il prematuro alla 41a settimana può essere considerato al pari di un nato a termine, tuttavia osserviamo

ancora una certa immaturità metabolica e una ancora ridotta funzionalità renale

- Intorno ai 6-7 mesi, il rene è maturo, quindi il bambino è paragonabile, dal punto di vista della

funzionalità renale, a un adulto

- Con la pubertà, si raggiunge invece la maturità epatica → solo intorno ai 18 anni, l’individuo è

completamente assimilabile agli adulti per i calcoli farmacocinetici

- Con l’aumentare dell’età, inoltre, osserviamo una progressiva riduzione della clearance perché viene

a ridursi la velocità di filtrazione glomerulare

Poiché soggetti prematuri e anziani hanno una funzionalità epatica e renale differente da quella di un adulto,

come facciamo una terapia farmacologica?

- Possiamo scegliere farmaci con una finestra terapeutica ampia

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- Teniamo costantemente sotto controllo la 𝐶𝑝 del farmaco: al primo mese, eseguiamo diversi prelievi

di sangue, dai quali valutiamo la 𝐶𝑝; se essa si mantiene costante, significa che la dose somministrata

è corretta per la terapia. Nel caso di farmaci con finestra terapeutica limitata (es. Coumadin), occorre

controllare ogni mese la 𝐶𝑝, in maniera da tenere sotto controllo costantemente il farmaco e modificare

eventualmente il dosaggio e il regime terapeutico.

Poiché per eliminazione si intende anche la biotrasformazione, importante è anche la valutazione della

clearance presistemica, che indica l’efficienza della via di somministrazione, ovvero quanto il farmaco viene

modificato (e quindi eliminato) prima di essere messo in circolo. La clearance presistemica è presente in tutte

le vie di somministrazione (iniettive e non) che non sono intravascolari ma è particolarmente importante per

la somministrazione orale: esistono, infatti, farmaci che se somministrati per via orale (es. insulina) hanno una

biodisponibilità pari a zero, in quanto stomaco, intestino e fegato, esercitano una notevole attività metabolica,

impedendo l’arrivo del farmaco a livello del recettore.

EMIVITA

Nel caso di una cinetica di primo ordine, abbiamo visto che il grafico logaritmico è rappresentato da una retta.

In questo caso, è facile ricavare l’intervallo di tempo che separa due punti in cui il valore di concentrazione è

uno la metà del primo: questo intervallo è sempre lo stesso (indipendente quindi dal valore di concentrazione

iniziale e dalla dose) e viene definito emivita (t½). L’emivita, quindi, è definita come il tempo richiesto per

ridurre la concentrazione plasmatica del farmaco del 50%, in un qualsiasi momento.

Se consideriamo un modello a singolo compartimento, la concentrazione plasmatica di un farmaco nel tempo

dipende dal suo volume di distribuzione e dalla sua clearance. Sappiamo che:

𝑉𝑑 =𝑞𝑢𝑎𝑛𝑡𝑖𝑡à 𝑑𝑖 𝑓𝑎𝑟𝑚𝑎𝑐𝑜 𝑠𝑜𝑚𝑚𝑖𝑛𝑖𝑠𝑡𝑟𝑎𝑡𝑎 (𝑑𝑜𝑠𝑒)

𝑐𝑜𝑛𝑐𝑒𝑛𝑡𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑝𝑙𝑎𝑠𝑚𝑎𝑡𝑖𝑐𝑎 𝑒 𝐶𝑙 =

𝑣𝑒𝑙𝑜𝑐𝑖𝑡à 𝑑𝑖 𝑒𝑙𝑖𝑚𝑖𝑛𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒

𝑐𝑜𝑛𝑐𝑒𝑛𝑡𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑝𝑙𝑎𝑠𝑚𝑎𝑡𝑖𝑐𝑎

Se consideriamo una somministrazione a bolo, con la sua tipica curva, sappiamo che la concentrazione

plasmatica del farmaco diminuisce secondo un’equazione logaritmica:

𝐶 = 𝐶0 × 𝑒−𝑘𝑒𝑙𝑡

In cui C rappresenta la concentrazione del farmaco in qualsiasi punto della curva, C0 la concentrazione iniziale,

Kel la costante di eliminazione e t il tempo. Poiché, per definizione, l’emivita è il tempo necessario affinché la

concentrazione del farmaco si dimezzi, sappiamo che al tempo 𝑡 = 𝑡12⁄ , la concentrazione sarà 𝐶 =

𝐶0

2 e quindi

𝐶

𝐶0=

1

2. Di conseguenza, otteniamo che:

1

2= 𝑒

−𝑘𝑒𝑙𝑡12⁄

Che, trasformata in logaritmo naturale, diventa:

ln(1) − ln(2) = −𝑘𝑒𝑙𝑡12⁄ → ln(2) = 𝑘𝑒𝑙𝑡1

2⁄ → 𝑡12⁄ =

ln(2)

𝑘𝑒𝑙=

0,693

𝑘𝑒𝑙

Ricordando il rapporto tra Kel, Cl e Vd (vedi pag. 47), otteniamo che:

𝒕𝟏𝟐⁄ = 𝟎, 𝟔𝟗𝟑 ×

𝑽𝒅

𝑪𝒍

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CINETICHE DI ELIMINAZIONE

Esattamente come per l’assorbimento, anche per l’eliminazione è possibile avere due tipi diversi di cinetiche

di eliminazione:

- Cinetica di ordine 0

Un farmaco con una eliminazione di ordine zero (es. etanolo, penicillina) è un farmaco la cui cinetica di

eliminazione non è costante: essa non dipende dalla dose, ma solo dall’efficienza delle vie di eliminazione e

quindi dal numero di trasportatori/pompe che eliminano il farmaco. Questo significa che l’emivita, a sua volta,

non è costante e, anzi, diventa esponenzialmente più piccola: a grandi concentrazioni l’eliminazione è costante

e proporzionale al numero dei sistemi di eliminazione mentre quando 𝐶𝑝 < 𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑚𝑖 𝑑𝑖 𝑒𝑙𝑖𝑚𝑖𝑛𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒, la

curva scende molto più velocemente.

Con un farmaco di ordine 0, in realtà, non ci interessa l’emivita, ma piuttosto le singole concentrazioni

plasmatiche: poiché l’ordine 0 presenta una curva concentrazione-tempo rappresentata da una retta in un

grafico lineare, ci basteranno due dosaggi per disegnarla, ottenendo così immediatamente le intersezioni con

gli assi (Cmax e il tempo richiesto per la totale eliminazione del farmaco).

Come calcoliamo la frequenza di somministrazione per farmaci con cinetica di ordine 0? Nella cinetica 0,

sappiamo che il grafico lineare è rappresentato da una retta: di conseguenza, sapendo il range della finestra

terapeutica, siamo certi quando la concentrazione plasmatica scenda al di sotto, potendo quindi somministrare

la dose mancante per rientrare in finestra.

- Cinetica di ordine I

Nella cinetica di ordine I, invece, sappiamo che la velocità di eliminazione e quindi l’emivita sono costanti:

sappiamo che passate cinque emivite 𝐶𝑝 = 0. Il grafico lineare è rappresentato da una curva esponenziale, in

cui, all’inizio, 𝐶𝑝 sarà elevata e diminuirà velocemente, mentre con il progredire del tempo, si ridurrà sempre

più lentamente. Indipendentemente dalla dose (che influenza solo Cmax), sappiamo che dopo cinque emivite

𝐶𝑝 sarà a zero.

Se l’eliminazione, quindi, avviene secondo cinetiche di ordine I (vie non saturabili), la velocità di eliminazione

è proporzionale alla concentrazione plasmatica:

𝑽𝒆𝒍 =𝑽𝒎𝒂𝒙 × 𝑪𝒑

𝒌𝒆𝒍 + 𝑪𝒑

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Dove

- 𝑉𝑚𝑎𝑥 è la velocità massima di eliminazione

- 𝐶𝑝 è la concnetrazione plasmatica

- 𝐾𝑒𝑙 è la costante di eliminazione.

Da questa equazione, spostando Cp dal numeratore al denominatore del primo membro, otteniamo:

𝑉𝑒𝑙

𝐶𝑝=

𝑉𝑚𝑎𝑥

𝑘𝑒𝑙 + 𝐶𝑝 𝑖𝑛 𝑐𝑢𝑖

𝑉𝑒𝑙

𝐶𝑝= 𝑐𝑙𝑒𝑎𝑟𝑎𝑛𝑐𝑒

Quando la velocità di eliminazione è pari al 50% di quella massima, otteniamo che la costante di eliminazione

equivale alla concentrazione plasmatica del farmaco. Infatti:

𝑉𝑒𝑙 =𝑉𝑚𝑎𝑥

2 →

𝑉𝑚𝑎𝑥

2=

𝑉𝑚𝑎𝑥 × 𝐶𝑝

𝑘𝑒𝑙 + 𝐶𝑝 → 𝑘𝑒𝑙 + 𝐶𝑝 = 2𝐶𝑝 → 𝑘𝑒𝑙 = 𝐶𝑝

Se nella cinetica di ordine 0 bastano due dosaggi per il disegno della curva e l’ottenimento dei principali

parametri, nella cinetica di ordine I ne servono almeno tre per il disegno della curva. Ottenuta la curva,

possiamo trasformarla in un grafico semilogaritmico (quindi una retta) la cui pendenza mi rappresenta 𝐾𝑒𝑙, l’intersezione con l’asse delle y mi dà la concentrazione teroica iniziale e l’intersezione con l’asse delle x il

tempo a cui 𝐶𝑝 = 0 (che, in realtà, non mi interessa, in quanto sappiamo che dopo cinque emivite il farmaco

è scomparso dal plasma).

Come calcoliamo la frequenza delle somministrazioni per farmaci con cinetica di ordine I? È più complicato,

in quanto il grafico non è una retta, ma una curva. Occorre calcolare la frazione residua ricorrendo alle formule

espresse a pagina 37.

PROGETTAZIONE E OTTIMIZZAZIONE DEI REGIMI POSOLOGICI

Un regime posologico razionale si basa sull’assunto dell’esistenza di una concentrazione-bersaglio (TC, target-

concentration) a livello della sede di azione capace di produrre il desiderato effetto terapeutico. Per raggiungere

questa dose bersaglio, occorre tenere conto di tutti i fattori farmacocinetici fino ad ora analizzati, scegliendo

quindi la migliore via di somministrazione, adeguando la dose al paziente e in relazione alla concentrazione

efficace del farmaco.

[Alcuni farmaci hanno, tra l’altro, farmacocinetiche particolari. Prendiamo, ad esempio, due farmaci

antiepilettici: uno immaginario, con una cinetica lineare, e la fenitoina, che invece è caratterizzata da una

cinetica saturante.

Nel grafico lineare, osserviamo il raggiungimento dello stato stazionario, indipendentemente dalla dose

somministrata (sebbene la dose più alta e la dose più bassa siano rispettivamente tossica e inefficace). Nel

grafico della cinetica di saturazione, invece, osserviamo come

- Nessuno stato stazionario viene raggiunto con le dosi più alte

- Un piccolo incremento della dose determina, dopo un certo tempo, un effetto sproporzionatamente

grande sulla concentrazione plasmatica. Più aumentiamo la dose e più la cinetica diventa non lineare,

variando nel tempo.

Questi farmaci, tuttavia, sono ormai poco e tendono a essere sostituiti da altri farmaci, in quanto i benefici

diventano progressivamente inferiori ai rischi.]

Nella maggior parte delle situazioni cliniche, i farmaci vengono somministrati in modo tale da mantenere uno

stato stazionario di farmaco nell’organismo, basato su oscillazioni nella concentrazione plasmatica che devono

mantenersi all’interno della finestra terapeutica: occorre tenere quindi sotto controllo non tanto la 𝐶𝑠𝑠̅̅ ̅̅ ̅, quanto

piuttosto 𝐶𝑠𝑠 𝑚𝑎𝑥 (la concentrazione massima durante un intervallo di dose all’equilibrio), che deve rimanere

al di sotto del limite superiore della finestra terapeutica, e la 𝐶𝑠𝑠 𝑚𝑖𝑛 (la concentrazione minima durante un

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intervallo di dose all’equilibrio), che deve rimanere al di sopra del limite inferiore della finestra terapeutica. In

caso di somministrazioni ripetute, tenendo presente la finestra terapeutica (e quindi 𝐶𝑠𝑠 max 𝑒 𝐶𝑠𝑠 𝑚𝑖𝑛,

ottenibili tramite dati statistici), per ottenere una terapia efficace possiamo:

- Individuare la dose utile per quello specifico paziente, basandomi su peso, sesso, età, etc

- Individuare un punto medio all’interno della finestra terapeutica, in cui ho il 50% di successo della

terapia per quel paziente, mantenendomi lontano dal limite massimo di tossicità

In genere, lo steady state viene raggiunto somministrando, a intervalli regolari, un quantitativo di farmaco pari

al farmaco eliminato dal momento dell’ultima somministrazione. Di conseguenza, importante è il calcolo della

dose di mantenimento. Nel caso di una somministrazione lenta, sappiamo che, allo SS, la velocità di

somministrazione del farmaco deve essere uguale alla velocità di eliminazione; poiché sappiamo che la

clearance è data dal rapporto tra velocità di eliminazione e concentrazione plasmatica, possiamo ricavare la

velocità di eliminazione, che sarà uguale a:

𝒗𝒆𝒍𝒐𝒄𝒊𝒕à 𝒅𝒊 𝒆𝒍𝒊𝒎𝒊𝒏𝒂𝒛𝒊𝒐𝒏𝒆 = 𝑪𝒍 × 𝑻𝑪 = 𝒗𝒆𝒍𝒐𝒄𝒊𝒕à 𝒅𝒊 𝒔𝒐𝒎𝒎𝒊𝒏𝒊𝒔𝒕𝒓𝒂𝒛𝒊𝒐𝒏𝒆

In questo modo, se la TC è nota (è la concentrazione che ci serve per avere effetto terapeutico), sarà la clearance

a determinare la velocità di somministrazione. Nel caso di una somministrazione non endovenosa, la cui

biodisponibilità è inferiore al 100%, la formula deve essere aggiustata con F:

𝒗𝒆𝒍𝒐𝒄𝒊𝒕à 𝒅𝒊 𝒆𝒍𝒊𝒎𝒊𝒏𝒂𝒛𝒊𝒐𝒏𝒆 =𝑪𝒍 × 𝑻𝑪

𝑭

Nel caso, infine, di somministrazioni ripetute, la dose di mantenimento sarà calcolabile come:

𝒅𝒐𝒔𝒆 𝒅𝒊 𝒎𝒂𝒏𝒕𝒆𝒏𝒊𝒎𝒆𝒏𝒕𝒐 =𝒗𝒆𝒍𝒐𝒄𝒊𝒕à 𝒅𝒊 𝒔𝒐𝒎𝒎𝒊𝒏𝒊𝒔𝒕𝒓𝒂𝒛𝒊𝒐𝒏𝒆 × 𝒊𝒏𝒕𝒆𝒓𝒗𝒂𝒍𝒍𝒐 𝒕𝒓𝒂 𝒍𝒆 𝒅𝒐𝒔𝒊

𝒃𝒊𝒐𝒅𝒊𝒔𝒑𝒐𝒏𝒊𝒃𝒊𝒍𝒊𝒕à

Esempio pratico

Per alleviare i sintomi di un’asma bronchiale acuta serve una TC di teofillina di 10 mg/L. Se il paziente non è

fumatore e non ha altre patologie, si può utilizzare la stima della clearance media pari a 2,8 L/ora/70 kg. Poiché

il farmaco viene somministrato ev, F=1. Calcoliamo la velocità di somministrazione:

𝑉. 𝑠𝑜𝑚𝑚𝑖𝑛𝑖𝑠𝑡𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 = 𝐶𝑙 × 𝑇𝐶 =2,8

𝐿𝑜𝑟𝑎

70𝑘𝑔 ×10

𝑚𝑔

𝐿=

28𝑚𝑔𝑜𝑟𝑎

70𝑘𝑔

Se la crisi asmatica regredisce, il medico deve mantenere quel livello plasmatico di farmaco con

somministrazione orale, che potrà essere somministrato ogni 12h con una forma a rilascio prolungato. Poiché,

Forale=0,96 e l’intervallo deciso è di 12h, ogni dose dovrà essere di:

𝐷. 𝑚𝑎𝑛𝑡𝑒𝑛𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 =𝑉. 𝑠𝑜𝑚𝑚𝑖𝑛𝑖𝑠𝑡𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒×𝑖𝑛𝑡𝑒𝑟𝑣𝑎𝑙𝑙𝑜

𝐹=

28𝑚𝑔𝑜𝑟𝑎0,96

×12𝑜𝑟𝑒 = 350𝑚𝑔

Verrà quindi prescritta una compressa contenente una quantità di principio attivo vicino a quello della dose

ideale di 350mg.

Tuttavia, se l’emivita del farmaco è molto lunga, per arrivare allo SS occorrerebbero troppi giorni, cosa che

rappresenta un problema nelle emergenze. Per risolverlo, si possono adottare due metodi:

- Dose di attacco (somministrazione bolo contemporanea all’infusione lenta – vedi pag. 43): unico

problema con questo metodo è che, se la dose iv è sbagliata, rischio di raggiungere e superare

facilmente la dose massima tollerabile e quindi causare un danno al paziente.

- Dose di carico: viene definita dose di carico una dose che permette di far salire rapidamente la

concentrazione plasmatica di un farmaco alla concentrazione-bersaglio. Poiché sappiamo che il

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volume di distribuzione è il fattore che lega la quantità totale di farmaco nell’organismo con la sua

concentrazione plasmatica (vedi pag. 38), possiamo definire la dose di carico come:

𝒅𝒐𝒔𝒆 𝒅𝒊 𝒄𝒂𝒓𝒊𝒄𝒐= 𝒒𝒖𝒂𝒏𝒕𝒊𝒕𝒂𝒕𝒊𝒗𝒐 𝒅𝒊 𝒇𝒂𝒓𝒎𝒂𝒄𝒐 𝒑𝒓𝒆𝒔𝒆𝒏𝒕𝒆 𝒏𝒆𝒍𝒍′𝒐𝒓𝒈𝒂𝒏𝒊𝒔𝒎𝒐 𝒊𝒎𝒎𝒆𝒅𝒊𝒂𝒕𝒂𝒎𝒆𝒏𝒕𝒆 𝒅𝒐𝒑𝒐 𝒍𝒂 𝒅𝒐𝒔𝒆 𝒅𝒊 𝒄𝒂𝒓𝒊𝒄𝒐

= 𝑽𝒅 × 𝑻𝑪

Alla dose di carico seguono quindi le dosi di mantenimento. Se il farmaco viene somministrato in dosi ripetute,

la dose di carico calcolata precedentemente raggiungerà la concentrazione media dello SS ma non la

concentrazione picco. Perché ciò avvenga, la dose di carico deve essere calcolata come:

𝒅𝒐𝒔𝒆 𝒅𝒊 𝒄𝒂𝒓𝒊𝒄𝒐 = 𝒅𝒐𝒔𝒆 𝒅𝒊 𝒎𝒂𝒏𝒕𝒆𝒏𝒊𝒎𝒆𝒏𝒕𝒐 × 𝒇𝒂𝒕𝒕𝒐𝒓𝒆 𝒅𝒊 𝒂𝒄𝒄𝒖𝒎𝒖𝒍𝒐

Quando le somministrazioni di un farmaco sono ripetute e l’intervallo tra le somministrazioni è inferiore alle

cinque emivite, il farmaco tenderà ad accumularsi nell’organismo. Il fattore di accumulo tiene conto di quale

potrebbe diventare la concentrazione plasmatica quando non si tiene conto dell’emivita e permette di scegliere

una dose tale da ottenere una determinata concentrazione plasmatica. Il fattore di accumulo, in pratica, ci

permette di sapere quanto farmaco dobbiamo dare al paziente per rimpiazzare la quantità di farmaco persa e

produrre una concentrazione plasmatica all’interno della finestra terapeutica. In particolare:

𝒇𝒂𝒕𝒕𝒐𝒓𝒆 𝒅𝒊 𝒂𝒄𝒄𝒖𝒎𝒖𝒍𝒐 = 𝟏

𝒇𝒓𝒂𝒛𝒊𝒐𝒏𝒆 𝒅𝒊 𝒇𝒂𝒓𝒎𝒂𝒄𝒐 𝒆𝒍𝒊𝒎𝒊𝒏𝒂𝒕𝒂 𝒊𝒏 𝒐𝒈𝒏𝒊 𝒊𝒏𝒕𝒆𝒓𝒗𝒂𝒍𝒍𝒐 𝒕𝒓𝒂 𝒍𝒆 𝒅𝒐𝒔𝒊=

=𝟏

𝟏 − 𝒇𝒓𝒂𝒛𝒊𝒐𝒏𝒆 𝒓𝒆𝒔𝒊𝒅𝒖𝒆 𝒅𝒆𝒍 𝒇𝒂𝒓𝒎𝒂𝒄𝒐

Se la frequenza di somministrazione è pari all’emivita, sappiamo che dopo la prima somministrazione (terzo

grafico):

𝑓. 𝑑𝑖 𝑎𝑐𝑐𝑢𝑚𝑢𝑙𝑜 =1

1 − 0,5= 2

Ad ogni somministrazione, la concentrazione plasmatica sarà doppia

rispetto a quella che si otterrebbe con una dose singola. Da ciò deriva

che:

𝑑𝑜𝑠𝑒 𝑑𝑖 𝑚𝑎𝑛𝑡𝑒𝑛𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 =𝑙𝑖𝑣𝑒𝑙𝑙𝑜 𝑏𝑒𝑟𝑠𝑎𝑔𝑙𝑖𝑜 (𝑑𝑜𝑠𝑒 𝑑𝑖 𝑐𝑎𝑟𝑖𝑐𝑜)

2

Ciò significa che, dopo cinque emivite, otterrò una concentrazione

plasmatica pari al doppio della concentrazione ottenuta con la prima

dose.

Se somministriamo ogni due emivite, invece:

𝑓. 𝑑𝑖 𝑎𝑐𝑐𝑢𝑚𝑢𝑙𝑜 =1

1 − 0,25= 1,33

Se si somministra ogni due emivite, la dose di mantenimento dovrà

essere maggiore, in quanto il fattore di accumulo è minore:

𝑑𝑜𝑠𝑒 𝑑𝑖 𝑚𝑎𝑛𝑡𝑒𝑛𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 =𝑙𝑖𝑣𝑒𝑙𝑙𝑜 𝑏𝑒𝑟𝑠𝑎𝑔𝑙𝑖𝑜 (𝑑𝑜𝑠𝑒 𝑑𝑖 𝑐𝑎𝑟𝑖𝑐𝑜)

1,33

Dopo cinque emivite, la concentrazione finale sarà 1,33 volte

maggiore della dose iniziale.

Se somministriamo ogni tre emivite:

𝑓. 𝑑𝑖 𝑎𝑐𝑐𝑢𝑚𝑢𝑙𝑜 =1

1 − 0,125= 1.14

La dose di mantenimento è ancora maggiore

𝑑𝑜𝑠𝑒 𝑑𝑖 𝑚𝑎𝑛𝑡𝑒𝑛𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 =𝑙𝑖𝑣𝑒𝑙𝑙𝑜 𝑏𝑒𝑟𝑠𝑎𝑔𝑙𝑖𝑜 (𝑑𝑜𝑠𝑒 𝑑𝑖 𝑐𝑎𝑟𝑖𝑐𝑜)

1.14

Dopo quattro emivite, il 94% del farmaco è stato eliminato, quindi:

𝑓. 𝑑𝑖 𝑎𝑐𝑐𝑢𝑚𝑢𝑙𝑜 =1

1 − 0,06≈ 1

Non si verifica accumulo e

𝑑𝑜𝑠𝑒 𝑑𝑖 𝑚𝑎𝑛𝑡𝑒𝑛𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 = 𝑐𝑜𝑛𝑐𝑒𝑛𝑡𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑏𝑒𝑟𝑠𝑎𝑔𝑙𝑖𝑜

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Dopo cinque emivite, la concentrazione plasmatica è pari a zero; la nuova somministrazione mi determina il

raggiungimento della stessa concentrazione determinata dalla dose iniziale e ottengo un grafico a dente di sega

(primo e secondo grafico).

Esempio pratico

Al tempo t=0 somministriamo una dose 100 di farmaco, con una emivita di 3h. Ad ogni emivita,

somministriamo una nuova dose, pari anch’essa a 100.

Tempo Cp iniziale Cp totale (in seguito alle

somministrazioni ripetute)

0 h 100

3 h 50 + 100 = 150

6 h 75 + 100 = 175

9 h 87,5 + 100 = 187,5

12 h 93,75 + 100 = 193,75

15 h 96,875 + 100 = 196,87

Dopo cinque emivite, raggiungo una concentrazione totale che è pari al doppio della dose iniziale

somministrata.

Il fattore di accumulo si rivela anche utile per sapere, dopo n dosi, la concentrazione massima ottenibile dopo

n somministrazioni e la minima ottenuta prima di somministrare la dose successiva. Infatti:

𝑪𝐦𝐚𝐱 𝒏 = 𝑪𝐦𝐚𝐱 𝟏×(𝟏 − 𝒆−𝒏𝑲𝝉)

(𝟏 − 𝒆−𝑲𝝉) 𝑪𝐦𝐢𝐧 𝒏 = 𝑪𝐦𝐚𝐱 𝟏×

(𝟏 − 𝒆−𝒏𝑲𝝉)

(𝟏 − 𝒆−𝑲𝝉)× 𝒆−𝑲𝝉

Fattore di accumulo

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Dove:

- 𝐶max 𝑛 rappresenta la concentrazione massima ottenibile dopo la somministrazione

- 𝐶min 𝑛 rappresenta la concentrazione minima ottenuta appena prima della somministrazione

successiva (detta 𝐶𝑡𝑟𝑜𝑢𝑔ℎ)

- 𝐶max 1 rappresenta la concentrazione dopo la prima somministrazione (calcolabile con la formula 𝑋0

𝑉𝑑)

- 𝑛 è il numero di dosi

- 𝐾 è la costante di eliminazione

- 𝜏 è l’intervallo tra le dosi

Abbiamo visto come solo nella somministrazione endovenosa lenta, la concentrazione plasmatica si mantenga,

dopo cinque emivite, fissa su un valore; nelle altre somministrazioni, come la via orale, la concentrazione

plasmatica, instauratosi lo stato stazionario, continua ad oscillare tra un valore massimo (Cpeak) e un valore

minimo (Ctrough). Qualora il numero di somministrazioni superi 4-5 emivite, possiamo semplificare la

formula precedente per Cmax di picco allo stato stazionario nella formula:

𝑪𝐩𝐞𝐚𝐤 𝑺𝑺 = 𝑿𝟎

𝑽𝒅×

𝟏

(𝟏 − 𝒆−𝑲𝝉)

Allo stesso modo, Ctrough, che è il limite minimo al di sotto del quale non dobbiamo andare se vogliamo avere

l’effetto terapeutico, diventa:

𝑪𝒕𝒓𝒐𝒖𝒈𝒉 = 𝑿𝟎

𝑽𝒅×

𝟏

(𝟏 − 𝒆−𝑲𝝉)× 𝒆−𝑲𝝉

Ctrough è molto importante per tutta una serie di farmaci, come antibiotici e immunosoppressori.

Inoltre, se vogliamo sapere la concentrazione dopo un tempo t trascorso dal raggiungimento del picco:

𝑪(𝒕) = 𝑪𝐩𝐞𝐚𝐤 𝑺𝑺 × 𝒆−𝑲𝝉

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Nel grafico vengono confrontate diverse somministrazioni dello stesso farmaco (teofillina, la cui

concentrazione bersaglio è di 10 mg/L e ha una emivita di 8h):

- Linea nera: rappresenta l’infusione lenta in endovena; dopo cinque emivite viene raggiunto lo SS e la

concentrazione si mantiene fissa su uno stesso valore (10 mg/L) fino all’interruzione della

somministrazione.

- Linea arancione: somministrazione orale ogni 8h

- Linea blu: somministrazione orale ogni 24h

Le tre somministrazioni si differenziano per le oscillazioni, ma sono tutte caratterizzate dal raggiungimento di

una concentrazione media di 10 mg/L, che è quella utile per fare terapia. Se la finestra terapeutica è grande, la

grandezza dell’oscillazione non ci preoccupa, in quanto saremo comunque in finestra. Il problema si ha nelle

finestre terapeutiche limitate, in cui la concentrazione che oscilla può avvicinarsi al limite di tossicità: per

questi farmaci, la somministrazione endovenosa è preferita (per l’assenza delle oscillazioni).

ERRORI NEL PROTOCOLLO TERAPEUTICO: ASSUNZIONE IRREGOLARE

Cosa succede se il paziente dimentica di prendere una o due dosi di farmaco? La concentrazione plasmatica

media si riduce, uscendo dalla finestra terapeutica. Ed essa non si ristabilisce prendendo la dose singola ma

occorreranno dosi ripetute per ritornare allo stato stazionario.

Inoltre, se il paziente dimentica la dose giornaliera, è importante che non la raddoppi. Infatti, specie nei farmaci

con finestra terapeutica ristretta, una dose doppia rispetto alla normale potrebbe facilmente superare il limite

di tossicità e determinare un fenomeno di tossicità acuta nel paziente.

L’adesione al piano terapeutico è particolarmente importante per farmaci come gli antibiotici, o gli

immunosoppressori. Prendiamo il caso di una terapia antibiotica, in cui il paziente ha dimenticato, al 5 e 6

giorno, di prendere il farmaco.

Nel momento in cui ha saltato la dose, la concentrazione plasmatica del farmaco è diminuita al di sotto della

finestra terapeutica, perdendo quindi il suo effetto. Di conseguenza, la minore concentrazione del farmaco non

ha ucciso i batteri. Inoltre, nel momento in cui inizia a riprendere costantemente il farmaco, la concentrazione

plasmatica si mantiene al di sotto della finestra terapeutica per diversi giorni e i batteri sono esposti a dosi di

farmaco non sufficienti a ucciderli: possono determinare l’insorgenza di resistenza.

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NORMALIZZAZIONE DELLA DOSE SU ETÀ, PESO E SUPERFICIE

CORPOREA

Spesso, il dosaggio dei farmaci viene effettuato in base all’età e al peso corporeo, in maniera tale da considerare

le differenze tra i diversi parametri farmacocinetici dei diversi individui. Tuttavia, spesso, tale operazione tende

a sottostimare la dose effettivamente necessaria. Per questo motivo, è più corretto eseguire i calcoli sulla base

della superficie corporea.

A questo proposito, esistono i normogrammi: tabelle che permettono, sapendo l’altezza e il peso del paziente,

di stimare in maniera abbastanza corretta la superficie corporea del soggetto, adeguando quindi meglio la dose

di farmaco. Oltre a questo, ovviamente, bisogna tener conto della composizione corporea dell’individuo, che

cambia sia da bambino ad adulto, ma anche da persona in forma a persona sovrappeso.

REGIMI TERAPEUTICI PARTICOLARI

Fino ad ora, abbiamo trattato tutti i farmaci allo stesso modo: indipendentemente dal farmaco, l’obiettivo era

ottenere, con le somministrazioni ripetuto, una determinata concentrazione allo stato stazionario. A questo

ragionamento, tuttavia, sfuggono alcuni farmaci, tra cui anche gli antibiotici.

Ogni antibiotico richiede l’utilizzo e l’adesione ad uno specifico piano terapeutico, che permette di ottenere il

giusto effetto terapeutico e previene l’insorgenza delle resistenze. Esistono tre categorie differenti di

antibiotici:

- Tipo 1: sono antibiotici concentrazione-dipendenti e con effetti persistenti prolungati: in questo

tipo di terapia, l’obiettivo è ottenere una Cmax elevata, di molte volte superiore la MIC (minima

concentrazione inibitoria). Questa elevata concentrazione può essere tenuta per brevi periodi, in quanto

sono presenti effetti persistenti e prolungati. Con questi antibiotici, non serve uno stato stazionario.

- Tipo 2: sono antibiotici tempo-dipendenti, con effetti persistenti minimi. In questo caso, occorre

ottenere lo stato stazionario e la Css deve sempre mantenersi al di sopra della MIC, in quanto manca

l’effetto persistente del tipo I (“effetto memoria”).

- Tipo 3: sono antibiotici tempo-dipendenti, i cui effetti persistenti possono andare da moderati a

prolungati: in questo caso, occorre una concentrazione plasmatica elevata e di molto superiore alla

MIC; il tempo per cui teniamo attiva la terapia deve essere prolungato. In genere, essa dura dai 5 ai 6

giorni, dopo i quali la terapia viene sospesa per 4 giorni per poi essere ripresa (è presente l’effetto

memoria).

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Anche nel caso dei FANS possono essere adottati regimi terapeutici differenti:

- Se dobbiamo trattare un dolore acuto, somministreremo i FANS a stomaco pieno che permette un

rapido assorbimento e un rapido effetto

- Se dobbiamo trattare un dolore cronico, somministreremo i farmaci a stomaco vuoto, per rallentare

l’assorbimento.

Altri farmaci particolari sono rappresentati dagli anestetici, che appartengono al gruppo di farmaci definito

emivita contesto dipendente (ovvero, l’emivita può essere stimata solo se si conosce il contesto, la dose totale

e l’arco di tempo nel quale essa è stata somministrata). L’emivita dei farmaci appartenenti a questo gruppo

dipende dalla durata della terapia:

maggiore è il tempo e maggiore

diventa l’emivita. Ciò è dovuto al fatto

che questi farmaci si accumulano in

alcuni siti anatomici: più la terapia è

lunga, maggiore è l’accumulo; di

conseguenza, pur interrompendo la

terapia, l’effetto continua in quanto il

farmaco viene rilasciato dai siti di

accumulo. Questo è il motivo per cui,

più a lungo viene mantenuta

l’anestesia e maggiore è il rischio che

il paziente non si risvegli: il problema

viene risolto cominciando con

l’anestesia e mantenendole l’effetto

con farmaci differenti dall’anestetico.

CICLO DI ISTERESI E PROTERESI IN MANCANZA DI STEADY-STATE

Nella maggior parte dei farmaci, ad una specifica concentrazione plasmatica del farmaco corrisponde una

specifica intensità dell’effetto farmacologico e man mano che la concentrazione diminuisce, così diminuisce

anche l’effetto.

Esistono, tuttavia, alcuni casi particolari in cui l’effetto del farmaco risulta sfasato rispetto alla concentrazione

plasmatica:

- Cicli di isteresi: all’aumentare della concentrazione plasmatica non osserviamo un progressivo

aumento dell’effetto; anzi, l’effetto massimale lo si osserva quando la concentrazione inizia a

diminuire. Questo è dovuto a meccanismi fisico-chimici e recettoriali, come:

o Ritardo nell’equilibrazione tra il plasma e il sito recettoriale

o Presenta di metaboliti attivi: l’effetto comincia con il principio attivo somministrato, ma

continua e si amplifica con i metaboliti

o Up-regulation dei recettori

o Presenza di più compartimenti

- Cicli di proteresi: l’effetto massimale viene raggiunto prima di osservare la massima concentrazione

plasmatica. È dovuto a fenomeni di:

o Tolleranza: l’effetto si spegne nel tempo, con l’aumentare della concentrazione, perché

l’individuo diventa tollerante

o Tachilassi recettoriale: i recettori vanno progressivamente incontro a spegnimento

o Site-effect

Questi fenomeni, tuttavia, li vediamo solo in caso di somministrazioni singole: in caso di infusioni lente (o

somministrazione ripetute), sarà il medico a fissare la Css intorno al valore a cui si verifica l’effetto massimale.

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Occorre quindi tenerne conto nelle somministrazioni ripetute, specie quando abbiamo le oscillazioni attorno a

una css media.

METABOLISMO DEI FARMACI

L’escrezione renale svolge un ruolo primario nel porre termine all’attività biologica dei farmaci, in particolare

di quelli con un volume molecolare ridotto o dotati di gruppi polari. Spesso, tuttavia, i farmaci tendono a essere

fortemente lipofili, di dimensioni maggiori e apolari, caratteristiche che limitano la possibilità di essere

eliminati attraverso il rene.

Il metabolismo (o biotrasformazione) è il processo alternativo che può essere in grado di porre fine, o

modificare, l’attività biologica di una determinata molecola. Metabolismo significa anche eliminazione, in

quanto, grazie a specifici enzimi, il principio attivo viene modificato e, in quanto tale, è come se scomparisse

dal plasma. Esattamente come per la distribuzione e il legame al recettore, anche nel caso della

biotrasformazione solo la quota di farmaco libera può essere modificata dagli enzimi del metabolismo. La

biotrasformazione è un processo irreversibile, che porta alla formazione di un metabolita differente dal

principio attivo originale; essa avviene per una buona fetta di farmaci, ma non per tutti.

La costante farmacocinetica che misura il metabolismo è la clearance: le curve concentrazione-tempo viste

fino ad ora comprendevano già, nella discesa, il metabolismo, che, come l’escrezione renale, ha come scopo

la riduzione progressiva della concentrazione plasmatica del farmaco. In alcuni casi, questa costante pyò

variare:

- Processi di

o Induzione metabolica

o Inibizione metabolica

- Variazioni dovute a polimorfismi genetici

- Sesso

- Età

- Contaminanti ambientali

Una modifica alla clearance determina anche una modifica all’emivita plasmatica del farmaco.

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I processi di trasformazione metabolica possono avvenire in qualsiasi tessuto all’interno del quale il farmaco

può entrare: se sono presenti enzimi, allora può avvenire il metabolismo. Tessuti in cui può avvenire la

biotrasformazione, grazie ad enzimi microsomiali (responsabili di ossidazione e coniugazione) sono:

- Tratto gastrointestinale, soprattutto intestino tenue (dotato di citocromi che limitano e gestiscono il

traffico di sostanze dal lume al plasma)

- Parenchima polmonare

- Barriera emato-encefalica

- Barriera testicolare

- Barriera placentare

- Reni

- Cute

Tra tutti, però, il principale organo metabolizzante è rappresentato dal fegato, dotato di enzimi sia microsomiali

sia non-microsomiali (che si occupano di acetilazione, sulfazione, glucuronazione, reazioni redox, idrolisi,

deidrogenazione, etc.). Compito del fegato è selezionare, modificare, purificare e detossificare il nostro

organismo dagli xenobiotici.

Il fegato e il tratto gastrointestinale, in particolare, hanno un importante ruolo nel metabolizzare parte dei

farmaci assunti per via orale, limitandone di conseguenza la biodisponibilità: si parla di effetto di primo

passaggio intestinale (se la maggior parte della trasformazione avviene nell’intestino tenue) o epatico (se

avviene nel fegato). Effetto di primo passaggio, tuttavia, lo troviamo in una qualsiasi via di somministrazione

in cui sia presente la fase di assorbimento.

In generale, le reazioni che rientrano nel metabolismo vengono distinte in due grandi gruppi:

- Reazioni di fase I, o reazioni di funzionalizzazione: consistono in piccole modificazioni chimiche alla

molecola di farmaco, nella quale viene introdotta un gruppo funzionale idrofilo che cambia la natura

della molecola e di conseguenza la sua capacità di distribuirsi.

- Reazioni di fase II, o reazioni di coniugazione: consistono nella formazione di un legame chimico

irreversibile del farmaco con substrati endogeni che ne aumentano la polarità e la capacità di essere

eliminati del rene (o attraverso la bile, se troppo grossi)

Indipendentemente da quale reazione modifichi il principio attivo (che possono essere sottoposti a entrambi i

tipi di biotrasformazione, o a solo una di esse), la molecola finale risulta più idrofilica, quindi carica di H2O e

impossibilitata ad attraversare le barriere endogene: si ha in generale spegnimento dell’effetto farmacologico.

La maggior parte dei metaboliti che derivano dalla biotrasformazione sono inattivi, perché incapaci di

riconoscere il recettore del principio attivo; in alcuni casi, tuttavia:

- I metaboliti restano comunque attivi: essi quindi continuano a legare il recettore, esercitando lo stesso

effetto terapeutico del principio attivo, la cui farmacocinetica, però, si arresta; tipico esempio sono le

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benzodiazepine, che vengono convertite le une nelle altre, contribuendo in egual misura all’effetto

terapeutico (anche se il principio attivo, in sé, ha una emivita breve)

- I metaboliti sono più attivi del principio attivo (profarmaco), il quale ha scarsa attività terapeutica e

solo se trasformato può legare efficacemente il recettore. Molti farmaci in commercio sono profarmaci:

tipico esempio è l’acido acetilsalicilico, il quale viene somministrato come acido salicilico. Anche

molti antitumorali sono dei profarmaci.

I processi di biotrasformazione sono estremamente importanti in quanto:

- Possono condizionare la dose e la frequenza di somministrazione

- Possono condizionare la distribuzione

- Possono far variare la velocità di eliminazione

- Può rendere difficile la previsione del comportamento di nuovi farmaci da utilizzare in combinazione

Le alterazioni dei processi metabolici, quindi, possono risultare pericolose: per questo è importante sapere

quali farmaci prende e ha preso (fino a 3-4 mesi prima) il paziente, in quanto alcuni farmaci possono modificare

l’espressione degli enzimi coinvolti nel metabolismo.

REAZIONI DI FASE I E CITOCROMI

Il più importante sistema enzimatico ossidativo è rappresentato dalle mono-ossidasi a funzione mista, presenti

prevalentemente nei microsomi di fegato, rene, polmone e intestino. I citocromi CYP-450 NADPH dipendenti

sono i sistemi fondamentali usati nell’ossidazione dei farmaci: essi determinano idrossilazione delle molecole

tramite incorporazione diretta di ossigeno attivo.

Il sistema dei citocromi consiste in un gruppo di numerosi isoenzimi: sono proteine con funzione simile, ma

che vengono codificati da geni differenti. L’esistenza di enzimi differenti che svolgono la stessa funzione (e

che quindi possono lavorare sulle stesse molecole) è molto importante: se una molecola venisse modificata da

un solo enzima, una qualsiasi modifica all’enzima andrebbe a riflettersi sulla clearance della molecola stessa;

al contrario, la presenza di più isoenzimi assicura che la molecola venga metabolizzata.

I citocromi vengono distinti in:

- Famiglie: geni che presentano almeno un 40% di omologia di sequenza. Esistono almeno 74 famiglie

di CYPs differenti: nell’uomo, sono almeno 18.

- Sottofamiglie: appartengono alla stessa sottofamiglia citocromi con almeno il 55% di identità di

sequenza amminoacidica (almeno 42 nell’uomo)

- Geni individuali: almeno 57 nella specie umana.

Ogni citocromo viene indicato tramite una sigla: il primo numero indica la famiglia, la lettera indica la

sottofamiglia mentre il secondo numero indica il gene individuale.

I citocromi sono responsabili della maggior parte delle reazioni di fase I, quelle più semplici e rapide. Dal

punto di vista chimico, consistono in:

- Ossidazione

- Riduzione, idrolisi, idratazione

- Detioacetilazione e isomerizzazione

Pur avendo un elevato numero di CYPs, con diversi siti catalitici, il

90% dei farmaci viene catalizzato da solo 4-5 isoenzimi. Importanti

sono il CYP1A1/2, il CYP2C9, il CYP2D6 e il CYP3A4. In quanto

tale, se siamo in presenza di una poli-terapia, i farmaci verranno

metabolizzati tutti dagli stessi CYP e ci troviamo davanti un problema

di possibile interazione farmacocinetica, rischiando di modificare la

clearance (e quindi l’emivita) del farmaco stesso. Inoltre, alcuni

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farmaci (così come altre sostanze, tra cui componenti della dieta, contaminanti ambientali) possono modificare

l’espressione genica degli isoenzimi, tramite meccanismi di induzione e inibizione metabolica.

L’appartenenza di un farmaco a una specifica famiglia non ci dà un’idea del loro destino metabolico, in quanto

farmaci diversi della stessa famiglia vengono metabolizzati da CYPs diversi.

Tra l’altro, è possibile che da paziente a paziente sia presente una differenza dal punto di vista quantitativo:

sebbene il numero di famiglie CYP sia specie-specifico, è possibile che etnie differenti presentino un numero

di copie differente dello stesso citocromo. Questi polimorfismi possono essere responsabili di eventi di iper- o

ipo-sensibilità ai farmaci.

Poiché virtualmente tutti i tessuti sono in grado di

attività metabolica, ritroveremo CYPs diversi in

tessuti differenti.

Particolarmente importante è la placenta: poiché

è dotata di una importante attività metabolica,

essa può produrre una notevole quantità di

metaboliti che, in quanto tali, si concentrano a

livello fetale (hanno perso la capacità di

attraversare le barriere), esercitando effetti tossici

che magari non avevano nella madre. Per questo

motivo, in gravidanza, la terapia farmacologica

deve essere attentamente analizzata, proprio per

evitare farmaci i cui intermedi determinerebbero

malformazione o aborto fetale.

Oltre ai citocromi, altri importanti enzimi di fase I, che si occupano per lo più di reazioni di ossidoriduzione

sono:

- Alcool deidrogenasi (che può essere indotta dall’uso cronico di alcool)

- Aldeide deidrogenasi

- Xantine ossidasi (può essere un bersaglio farmacologico)

- Diamine ossidasi

- Monoammine ossidasi (può essere un bersaglio farmacologico: gli inibitori delle MAO sono

antidepressivi, in quanto allungano la vita della noradrenalina e della dopamina)

REAZIONI DI FASE II

Le reazioni di fase II possono avvenire indipendentemente dalla fase I oppure seguirla. Dal punto di vista

chimico, esse consistono in reazioni di coniugazione: alla molecola vengono aggiunti gruppi chimici grossi e

polari, tramite la formazione di legami chimici irreversibili, che aumentano l’idrosolubilità della molecola

facilitando ulteriormente l’escrezione attraverso il rene o il fegato. La molecola così modificata perde

completamente le caratteristiche farmacologiche e diventa inerte.

Tali reazioni consistono in:

- Glucuro-coniugazione

- Sulfatazione, metilazione, acetilazione

- Coniugazione con amminoacidi, glutatione o acidi grassi

La glucuro-coniugazione è sicuramente il meccanismo più usato nelle reazioni di fase II ed è anche quello

responsabile della circolazione entero-epatica di un gruppo molto ristretto di farmaci. Questo avviene perché

i batteri presenti nel lume intestinale e che compongono la flora batterica possono usare l’acido glucuronico

come fonte di energia, rompendo il legame tra il principio attivo e l’acido. Nel lume intestinale viene così a

ritrovarsi il principio attivo originale (se non è stato sottoposto a reazioni di fase I) che quindi potrà essere

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riassorbito: in parte, esso tornerà a svolgere il suo effetto farmacologico e, in parte, tornerà al fegato per essere

nuovamente glucuronato e quindi re-immesso nella bile. I farmaci con circolazione enteroepatica presentano

quindi una emivita più lunga, anche se la loro costante di eliminazione tiene già conto del fenomeno. Tuttavia,

si possono riscontrare problemi nel caso di patologie intestinali o epatiche, che possono interferire con la

normale farmacocinetica del farmaco (vedi pag. 47).

Come nelle reazioni di fase I avevamo i CYP che svolgevano la funzione più importante, anche per la fase II

troviamo che una classe enzimatica in particolare si occupa del maggior numero di reazioni: si tratta della

superfamiglia delle uridina-difosfato glucuronosil-transferasi (UGTs). Questi enzimi catalizzano l’aggiunta

dell’acido glucuronico alle molecole e si occupano del metabolismo di molte sostanze endogene (bilirubina,

ormoni steroidei e tiroidei, acidi biliari e vitamine liposolubili) e xenobiotici (farmaci, cancerogeni chimici,

inquinanti ambientali, componenti della dieta).

Oltre alle UGTs, troviamo anche:

- STs (sulfotransferasi): trasferiscono gruppi –SH, spegnendo il principio attivo

- GST (glutatione S transferasi)

- NAT (N-acetil transferasi acetilatori)

ONTOGENESI

Sia gli enzimi di fase I che di fase II non sono costanti per tutta la vita, ma si modificano con l’età: nel corso

dell’arco della vita, quindi, non abbiamo la stessa composizione enzimatica. Si parla di ontogenesi.

L’ontogenesi si verifica in quanto i diversi stadi della vita dell’essere umano hanno bisogni diversi: ad esempio,

il feto (o il prematuro lontano dal termine) non presentano il CYP3A4 (che metabolizza farmaci nella madre)

mentre esprime il CYP3A7 (che può produrre metaboliti tossici); ciò comporta che il feto ha un metabolismo

dei farmaci differente dalla madre ed è anche responsabile del fatto che alcuni farmaci sono tossici in

gravidanza.

È importante conoscere l’evoluzione nella composizione enzimatica in maniera tale da sapere quali farmaci

possiamo usare in specifici periodi non solo della gestazione ma anche della vita dell’individuo: grazie

all’ontogenesi, infatti, sappiamo che alcuni enzimi compaiono con la pubertà mentre altri scompaiono intorno

agli 80-90 anni. Sappiamo quindi quando un individuo è considerabile adulto dal punto di vista metabolico

(intorno ai 21 anni).

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INIBIZIONE METABOLICA

Un farmaco viene definito inibitore metabolico quando entra nel sito catalitico dell’enzima, bloccandone

l’attività. Questo determina una riduzione drastica della clearance (e un conseguente aumento dell’emivita)

per tutti gli altri farmaci che vengono metabolizzati da parte di quello specifico enzima. In altri casi, essa si

verifica per distruzione degli enzimi pre-esistenti o per inibizione della loro sintesi.

L’inibizione metabolica è un processo spesso determinato da farmaci ma non solo: qualunque sostanza capace

di bloccare l’enzima dopo essersi legato al sito attivo è considerabile un inibitore metabolico; rientrano in

questa categoria il succo di pompelmo, alcuni componenti di alcuni tipi di birra o profumo e componenti di

insetticidi e bevande. Questo è inoltre un processo molto rapido: interrompendo la somministrazione

dell’inibitore, il metabolismo riprende nel giro di poco tempo.

L’inibizione metabolica è pericolosa in acuto: con la somministrazione di un inibitore, il soggetto manifesta

velocemente effetti collaterali dovuti all’accumulo dei farmaci precedentemente in uso.

INDUZIONE METABOLICA

Una caratteristica importante degli enzimi di biotrasformazione è il fatto che la loro attività può aumentare in

seguito al metabolismo di sostanze estranee (come farmaci) soprattutto in presenza di assunzioni prolungate.

Si osserva quindi il fenomeno dell’induzione metabolica; nel soggetto aumenta progressivamente il numero di

copie dell’enzima, con una conseguente maggiore tolleranza metabolica (non recettoriale) del soggetto per la

sostanza: a parità di dose, l’effetto sarà sempre minore finché non si esaurisce. Se un CYP viene indotto, tutti

i farmaci catabolizzati da esso avranno un’emivita ridotta (dovuta a una maggiore velocità di eliminazione e

clearance).

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L’induzione metabolica è un fenomeno trascrizionale, per cui la cellula impara ad aumentare la sintesi proteica

degli enzimi coinvolti nella biotrasformazione. In quanto tale, è un processo che richiede tempo per instaurarsi

(dai 7 ai 20 giorni) e gli effetti risultano evidenti nel giro di 2-3 mesi. Questo comporta anche che la semplice

sospensione della terapia non determina un’immediata reversione del fenomeno, ma occorrono mesi (da 1 fino

a 6) affinché il soggetto torni a metabolizzare come faceva prima dell’induzione. La variazione trascrizionale

è importante e tale per cui, se sottoposte costantemente all’induzione, le cellule possono arrivare a replicarsi,

aumentando quindi di numero e determinando un’epatomegalia da farmaci. In presenza di induzione

metabolica, una momentanea soluzione potrebbe essere un aumento della dose: questo mi permette, nonostante

l’emivita ridotta, di vedere l’effetto terapeutico. Tuttavia, allo stesso tempo, espone il paziente a concentrazioni

maggiori (e quindi aumenta il rischio di raggiungere il limite di tossicità) e la maggiore dose stimola

ulteriormente l’induzione. La soluzione giusta è interrompere le terapie, aspettando circa 2-3 mesi prima di

riprendere.

I principali regolatori dei geni coinvolti nella metabolizzazione dei farmaci sono gli Orphan Nuclear Receptor

(PXR, CAR) che, una volta legato il proprio ligando, traslocano nel nucleo e inducono la trascrizione genica.

Sono definiti recettori orfani, in quanto la loro attività è conosciuta, possono legare un elevato numero di

molecole ma non sono noti ligandi naturali endogeni.

Da notare che il fenomeno dell’induzione può modificare anche il metabolismo di certi composti endogeni,

determinando, ad esempio, uno squilibrio nel quadro ormonale del paziente.

ALTERAZIONI DEL METABOLISMO

Polimorfismo

Se consideriamo una gaussiana per quanto riguarda la capacità di metabolizzare i farmaci, circa il 50% della

popolazione presenterà un andamento uguale. Tuttavia, esistono gruppi di individui, non rientranti nel centro

della gaussiana ma spostati ai lati, i quali presentano un andamento differente. All’interno di una popolazione,

infatti, possiamo trovare delle subpopolazioni su base genetica per cui esistono:

- Metabolizzatori normali: rappresentano il centro della campana e la maggior parte dei pazienti

- Metabolizzatori lenti: sono individui con un metabolismo più lento rispetto alla media, dovuto a un

minor numero di copie degli enzimi. In questi individui, l’emivita dei farmaci risulta aumentata e la

clearance ridotta: a parità di dose con i metabolizzatori normali, possono andare più facilmente

incontro a fenomeni tossici

- Metabolizzatori rapidi: sono individui con un metabolismo più veloce della media, a causa di un

maggior numero di copie dell’enzima. In questi soggetti, quindi, i farmaci hanno un’emivita più breve

e una clearance maggiore.

Questa differenza tra gli individui è spesso dovuta a una componente genetica legata all’espressione degli

alleli: si parla di polimorfismo genetico. Questo fenomeno è connesso anche all’etnia, che determina, fino a

un certo punto, un determinato corredo metabolico. Da questo punto di vista, la mescolanza etnica favorisce

un’uguaglianza metabolica mentre etnie isolate potrebbero presentare quadri metabolici molto differenti

rispetto alla media.

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Per capire come funziona il metabolismo del soggetto si possono usare sostanzialmente du metodi:

- Tipizzazione genetica, che tuttavia è costosa

- Utilizzo di un farmaco con una finestra terapeutica molto ampia: questo mi permette di vedere se il

paziente è un metabolizzatore lento (la concentrazione plasmatica è elevata e diminuisce lentamente),

normale o rapido (la concentrazione plasmatica è più bassa e scende rapidamente).

Possono essere soggetti a polimorfismo sia enzimi di fase I che di fase II. Sicuramente i CYP sono quelli più

facilmente polimorfici (in particolare 3A) ma anche enzimi come NAT e le COMT possono essere soggette a

polimorfismi.

Tra l’altro, il fenomeno del polimorfismo non intacca solo il metabolismo ma anche:

- Assorbimento: possono essere presenti enzimi polimorfici anche a livello del tratto gastrointestinale,

che quindi modificano la biodisponibilità dei farmaci

- Distribuzione: possono esserci polimorfismi e differenze nelle pompe e nei canali di trasporto delle

molecole

- Escrezione renale

- Recettori e canali ionici

- Sistema immunitario

Sesso

Pur essendo state individuate differenze legate al sesso, queste non sono così rilevanti dal punto di vista

terapeutico. Nella specie umana sono state riportate differenze tra uomo e donna nei parametri farmacocinetici

di alcuni farmaci, che sembrano essere dovute ad una differente metabolizzazione di ormoni sessuali con il

coinvolgimento di differenti CYP.

Patologie

Ovviamente patologie a carico del fegato, del parenchima polmonare o del rene possono modificare la quantità

degli enzimi metabolici e quindi determinare una farmacocinetica differente, con la richiesta, spesso, di

riduzione della dose. Nei soggetti con fegato trapiantato, invece, si osserva un aumentato metabolismo, dovuto

ai processi di rigenerazione epatica che comportano una funzionalità epatica massimale.

Età

Abbiamo visto esistere una differenza nella composizione qualitativa degli enzimi metabolizzanti da un punto

di vista degli anni di età. Bisogna ovviamente tenere conto non tanto dell’età anagrafica, quanto della maturità

degli organi.

Dieta

Per alcuni tipi di alimenti è stata descritta un’interazione farmacocinetica: ad esempio, il succo di pompelmo

può causare una inibizione metabolica, mentre il cavoletto di Bruxelles o i cibi cotti alla brace possono

determinare un’induzione metabolica. Ancora, la mancanza di minerali o di alcune vitamine possono ridurre

la velocità del metabolismo.

Fumo

Alcuni componenti del fumo (composti aromatici e alifatici) hanno azione di induttori metabolici, cosa che

aumenta il metabolismo di alcuni farmaci, anche a livello polmonare ed intestinale.

Ambiente

Inquinanti come il TCDD, solventi, benzene, DTT possono modulare l’attività metabolica, inducendo alcune

isoforme e inibendone altre.

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FARMACODINAMICA

Se la farmacocinetica rappresenta ciò che l’organismo fa al farmaco, la farmacodinamica descrive quello che

è l’effetto del farmaco sull’organismo.

PRINCIPI GENERALI DI FARMACODINAMICA

Un farmaco, perché possa funzionare ed esercitare un effetto terapeutico, deve poter legare un recettore

specifico, e nessun altro. Nella farmacocinetica abbiamo visto che il farmaco, una volta giunto nel plasma, si

distribuisce potenzialmente in tutto l’organismo e in tutti i suoi tessuti. Di conseguenza, se vogliamo avere un

effetto specifico, il farmaco dovrà obbligatoriamente riconoscere un solo tipo di recettore, la cui modifica della

funziona fisiologica risolve la patologia o alcuni suoi sintomi. Il legame della molecola farmacologica per il

recettore (che può trovarsi sulla superficie o all’interno delle cellule) è selettivo, specifico e presenta un’affinità

molto elevata. L’effetto che si ottiene dal legame farmaco-recettore è dose-dipendente, prevedibile e ripetibile.

In farmacologia, definiamo recettori tutta una serie di molecole diverse:

- I “classici” recettori, che legano la molecola e trasducono un segnale all’interno della cellula

- Enzimi

- Canali ionici

- Pompe

- Acidi nucleici: lo stesso DNA, svolto, può essere considerato un recettore (in realtà, però, andando a

usare il DNA come recettore, che è ubiquitario, abbiamo tutta una serie di effetti collaterali, ovunque

ci sia un minimo di sintesi proteica e quindi DNA svolto); esempio di farmaci che bersagliano il DNA

sono gli antitumorali

- Proteine strutturali

In realtà, una molecola di farmaco può legare anche molti recettori diversi, ma induce l’effetto biologico (e

quindi stimola la risposta) solo in uno di essi: parliamo di costanti di affinità del farmaco per il recettore.

I farmaci, quindi devono avere due caratteristiche fondamentali:

- Elevata affinità per un recettore: il farmaco deve legarsi con forza a quel recettore

- Elevata selettività per un recettore: il farmaco deve legarsi solo a quel recettore

Esistono farmaci che hanno elevata affinità ma una bassa selettività, potendo quindi andare a legarsi a recettori

differenti (quindi causando effetti collaterali). Inoltre, lo stesso recettore o tipo di recettore può essere legato

da farmaci diversi. Ne sono un esempio:

- Recettore nicotinico muscolare

- Recettore GABA di tipo A, che viene legato da:

o Etanolo (è usato come farmaco antitumorale, in particolare a livello epatico)

o Barbiturici (usati per l’epilessia)

o Benzodiazepine (usati come ansiolitici ed ipnotici)

o Agonisti BZ (usati come ipnotici)

- Recettore glutammatergico, il quale viene legato da diversi tipi di antiepilettici, in quanto è

responsabile di neuroeccitazione (aumento della sensibilità delle fibre → aumento dei potenziali

d’azione) e neurotossicità (morte neuronale per mancato funzionamento del recettore)

La presenza del recettore permette di:

- Agire in maniera selettiva su un organo o su un tessuto

- Agire a concentrazioni molto basse (da 10-5 M a 10-10 M)

- Modulare una risposta biologica in maniera accurata e prevedibile

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Esiste, tuttavia, una serie di molecole che, pur avendo attività terapeutica, non lega alcun recettore per svolgere

la propria attività. Ne sono un esempio:

- Acqua ossigenata (H2O2): ha un effetto disinfettante, essendo capace di uccidere batteri e muffe; ha

tuttavia un effetto tossico anche sui nostri tessuti

- Antisettici generici

- Bicarbonato

- Alcuni lassativi osmotici

- Saponi e surfattanti

- Diuretici osmotici

Queste sostanze, però, non sono considerabili farmaci, ma, piuttosto, presidi medici: essi funzionano in

maniera non selettiva, e quindi non sono organi-specifici; inoltre, devono essere usati in dose molto elevate

perché agiscano (dell’ordine dei grammi) e, soprattutto, non vengono usati per via sistemica (ad eccezione dei

diuretici osmotici).

STEREOSELETTIVITÀ

I recettori specifici sono definiti stereoselettivi: essi sono infatti capaci di riconoscere entrambi gli isomeri di

una molecola, ma solo uno di essi è effettivamente in grado di indurre l’attività del recettore in maniera

significativa (100-1000 volte più efficace).

Isomero: molecola caratterizzata da un carbonio che lega quattro sostituenti differenti. Può avere attività Levo

(isomero L) o Destra (isomero D): in natura, solitamente, è l’isomero L quello attivo. In una forma

farmaceutica, tuttavia, sono presenti entrambi gli isomeri (si parla di miscela racemica).

C’è inoltre una differenza tra stereoselettività (ovvero preferenza per un isomero) e stereospecificità (tutta

l’attività risiede in un singolo isomero).

In generale i farmaci mimano i siti di legame delle molecole endogene per quello specifico recettore:

- L’insulina che somministriamo ai pazienti è prodotta con metodologia ricombinante è sostanzialmente

esogena, ma se somministrata al paziente riconosce il recettore per l’insulina come fosse endogena

- Altre molecole farmacologiche non hanno niente a che fare con il substrato endogeno ma hanno una

conformazione tale che possono legare comunque il recettore e mimarne l’effetto. Spesso, quindi, non

interessa tanto riprodurre il ligando endogeno quanto, piuttosto, produrre una molecola capace

comunque di legare il recettore

Il legame farmaco-recettore può essere:

- Reversibile (farmaci agonisti, antagonisti competitivi o non competitivi allosterici)

- Irreversibile (antagonisti non competitivi irreversibili): in questo caso, il farmaco si lega al recettore,

formando un complesso incapace di funzionare; per far funzionare di nuovo quella via, bisognerà

aspettare che si riformi il recettore (cosa che può richiedere ore o giorni)

Inoltre, possono coesistere, sullo stesso recettore, più siti di legame.

LEGAME FARMACO-RECETTORE

L’interazione farmaco-recettore reversibile può essere indicata dall’equazione chimica:

𝑅𝑒𝑐 + 𝑋𝑓𝑎𝑟𝑚 ⇄ 𝑅𝑋 ⇄ 𝑅𝑋∗

Come succede nella interazione enzima-substrato, nel momento in cui il farmaco si lega al recettore, il

complesso presenta una conformazione differente dal recettore originale, responsabile di produrre la risposta

biologica, consistente in un evento biochimico intracellulare che determina l’effetto finale.

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Il legame che si forma tra la molecola farmacologica e il recettore è mediato, in generale, da legami deboli:

legami ionici, forze di Van der Waals, ponti idrogeno e interazioni idrofobiche. Sono tutti legami facili da

rompere, che richiedono quindi, in condizioni fisiologiche, poca energia per romperli. Affinché farmaco e

recettore si leghino in maniera efficace occorre che le due molecole siano il più complementari possibile, così

da determinare la formazione di un alto numero di legami: più sono complementari e meno farmaco è

necessario per attivare il recettore. Ricordiamo che non basta solo avere la quantità giusta di farmaco nel

distretto del recettore, ma deve rimanerci anche per il giusto tempo.

Se i legami sono di tipo covalente, invece, siamo in presenza di un legame irreversibile: si comportano in

questo modo le tossine, i farmaci chiamati inibitori suicidi, alcuni contaminatori ambientali e gli anticorpi. In

condizioni fisiologiche, questo legame difficilmente si scinde o ciò accade comunque dopo molto tempo. Un

legame di questo tipo può determinare:

- Blocco del recettore (si parla di desensitizzazione); in questo caso, bisogna aspettare che la cellula re-

sintetizzi il recettore per rivedere l’effetto.

- Blocco della sintesi del recettore da parte della cellula (si parla di down-regulation)

- Attivazione continuativa del recettore.

Una situazione simile si può verificare anche quando una molecola, che si lega in maniera reversibile, è

presente in quantità elevate in prossimità del recettore: se la dose è troppo elevata si ha sovra-stimolazione e

soprattutto possibili effetti aspecifici dovuti all’interazione con altri sistemi recettoriali.

È possibile studiare l’interazione farmaco-recettore (associazione e dissociazione) tramite l’analisi di diverse

curve:

- Studio delle curve concentrazione-risposta (in vitro) o dose-risposta (in vivo); consiste in un grafico

della % dell’effetto in funzione della concentrazione (o della dose). Questo tipo di studio mi permette

di determinare:

o La specificità del farmaco per quel recettore

o La natura del farmaco (se agonista o antagonista – vedi più avanti –)

o La potenza (misura dell’affinità del farmaco con il recettore, per capire quali dosi dovranno

essere somministrate; viene definita come la concentrazione richiesta per provocare una

risposta di una certa intensità: più la risposta si ottiene a dosi basse, più il farmaco è potente e

quindi un buon farmaco)

o L’efficacia (misura dell’entità massima dell’effetto che un farmaco può indurre)

- Studio dell’interazione diretta farmaco-recettore (studio di legame); questo tipo di analisi, pur non

distinguendo tra agonisti e antagonisti e non valutando gli effetti biologici, permette di:

o Determinare l’affinità

o Determinare la distribuzione e localizzazione dei recettori

- Isolamento, purificazione o clonazione del recettore; questo tipo di studi permette di determinare la

biologia dell’interazione farmacologica, permettendo di capire:

o La struttura molecolare del recettore

o Le funzioni del recettore

L’interazione farmaco-recettore, come visto, può essere descritta dall’equazione chimica:

𝑅 + 𝑋 ⇄ 𝑅𝑋

Dall’equazione possiamo ricavare due costanti importanti, quella di associazione, o di affinità (Ka) e quella di

dissociazione (Kd). In particolare:

𝐾𝑎 =[𝑅𝑋]

[𝑅][𝑋] 𝐾𝑑 =

[𝑅][𝑋]

[𝑅𝑋]=

1

𝐾𝑎

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Un altro parametro importante è rappresentato da Bmax (o RT), che rappresenta il numero massimo di

molecole di ligando che si possono legare (che equivale a dire il numero dei siti di legame, ovvero il numero

di recettori totali). Esso può quindi essere espresso come:

𝑅𝑇 = [𝑅𝑋] + [𝑅]

Da qui, ricavando R dalla costante di dissociazione e sostituendola nell’equazione di RT, otteniamo che:

𝑅𝑇 = [𝑅𝑋] +𝐾𝑑[𝑅𝑋]

[𝑋] 𝑑𝑎 𝑐𝑢𝑖 𝑠𝑖 𝑜𝑡𝑡𝑖𝑒𝑛𝑒 [𝑅𝑋] =

[𝑋]𝑅𝑇

𝐾𝑑 + [𝑋] 𝑎𝑛𝑐ℎ𝑒 𝑠𝑐𝑟𝑖𝑡𝑡𝑎 𝑐𝑜𝑚𝑒 [𝐵] =

[𝑋]𝐵𝑚𝑎𝑥

𝐾𝑑 + [𝑋]

Quest’equazione rappresenta l’isoterma di legame e correla la concentrazione di farmaco alla concentrazione

del complesso farmaco-recettore.

Possiamo osservare dal grafico

(iperbole rettangolare) che,

all’aumentare della dose aumenta

anche la concentrazione del

complesso farmaco-recettore (e, di

conseguenza, aumenta l’effetto del

farmaco sull’organismo).

Quando leghiamo metà dei recettori,

abbiamo una rappresentazione

precisa della costante di

dissociazione (che rappresenta la

concentrazione del farmaco

necessaria a saturare il 50% dei siti

di legame disponibili), la quale ci dà

un’idea della qualità del farmaco e

del dosaggio a cui dovrà essere somministrato.

Nel momento in cui convertiamo la funzione lineare in una funzione semilogaritmica, il grafico che otteniamo

è una sigmoide: all’aumentare della concentrazione (𝐶𝑝 → + ∞) l’effetto che viene raggiunto è pari al 100%,

mentre al diminuire della concentrazione (𝐶𝑝 → − ∞) l’effetto scende progressivamente verso lo 0. Anche in

questo caso possiamo individuare Kd. Inoltre, per un buon tratto, la sigmoide dell’isoterma di legame è lineare

(secondo un’equazione 𝑦 = 𝑚𝑥 + 𝑞): in questo tratto, abbiamo variazioni lineari dell’effetto in rapporto alla

dose, cosa che rende il farmaco, in quel tratto, facilmente maneggiabile e quindi ci permette di aggiustare la

dose al singolo paziente. Inoltre, ci mostra come quasi tutti i farmaci funzionano tra due logaritmi, ovvero 10-

7 e 10-9: questo intervallo di dosi viene definito indice di maneggevolezza. Più la curva si appiattisce (curva

blu) e più potremo maneggiare facilmente il farmaco. Inoltre, se il farmaco determinasse una risposta “tutto o

nulla” (grafico rossa) diventerebbe difficile modulare il dosaggio.

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In un qualsiasi sistema biologico, è importante sapere quanti e quali recettori sono presenti: ci interessa quindi

sapere, da un lato, qual è il numero massimo di recettori a cui il farmaco può legarsi e, dall’altro, se esiste una

eterogeneità recettoriale (ovvero se il recettore esiste in un solo tipo o più). Queste informazioni sono ottenibili

tramite la linearizzazione di Schatchard. Partendo dall’isoterma di legame, otteniamo:

[𝑅𝑋] =[𝑋]𝐵𝑚𝑎𝑥

𝐾𝑑 + [𝑋] → [𝑅𝑋]𝐾𝑑 + [𝑋][𝑅𝑋] = [𝑋]𝐵𝑚𝑎𝑥 → 𝐵𝑚𝑎𝑥 =

[𝑅𝑋]𝐾𝑑 + [𝑋][𝑅𝑋]

[𝑋]=

[𝑅𝑋]𝐾𝑑

[𝑋]+ [𝑅𝑋]

Ma [RX] rappresenta il numero di recettori legati (B), per cui:

𝐵𝑚𝑎𝑥 =𝐵×𝐾𝑑

[𝑋]+ 𝐵 →

𝐵𝑚𝑎𝑥

𝐾𝑑=

𝐵

[𝑋]+

𝐵

𝐾𝑑 →

𝐵

[𝑋]=

𝐵𝑚𝑎𝑥

𝐾𝑑−

𝐵

𝐾𝑑

Con [X] che rappresenta il farmaco libero (F):

𝐵

𝐹= −

𝐵

𝐾𝑑+

𝐵𝑚𝑎𝑥

𝐾𝑑 𝑐ℎ𝑒 è 𝑎𝑠𝑠𝑖𝑚𝑖𝑙𝑎𝑏𝑖𝑙𝑒 𝑎 𝑦 = 𝑚𝑥 + 𝑞

Con la linearizzazione del grafico, ottengo una retta che interseca entrambi gli assi: l’intersezione con l’asse

delle x mi dà Bmax, mentre quello con l’asse delle y 𝐵𝑚𝑎𝑥

𝐾𝑑. Inoltre, il coefficiente angolare della retta

rappresenta il reciproco negativo della costante di dissociazione, pari al negativo della costante di associazione.

Se dalla linearizzazione non otteniamo una retta, ma una curva, siamo davanti a un caso di eterogeineità

recettoriale: esistono quindi almeno due tipi differenti di recettore, in quanto la curva può essere descritta da

due coefficienti angolari. Troveremo quindi due possibili rette, con due diversi Bmax. La maggior parte dei

farmaci ha sottotipi recettoriali che devono essere individuati per creare farmaci sempre più selettivi.

TEORIA DELL’OCCUPAZIONE

Secondo la teoria dell’occupazione, la risposta (e quindi l’effetto di un farmaco) è direttamente proporzionale

all’occupazione recettoriale (e quindi alla concentrazione del complesso farmaco-recettore): più recettori sono

coinvolti e maggiore è la risposta osservabile. L’effetto è quantificabile dalla formula:

∆=[𝑋] × ∆𝑚𝑎𝑥

𝐾𝑑 + [𝑋] 𝑝𝑒𝑟 [𝑋] → ∞, 𝑎𝑙𝑙𝑜𝑟𝑎 ∆= ∆𝑚𝑎𝑥

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Il numero di recettori coinvolti e il tempo medio per il quale sono stimolati sono proporzionali alla

concentrazione del farmaco nel sito recettoriale (che, a sua volta, è proporzionale alla concentrazione

plasmatica e funzione del volume di distribuzione). L’occupazione recettoriale può essere descritta ancora una

volta dall’isoterma di legame (o di Langmuir) dalla quale possiamo dedurre che:

- Farmaci selettivi per lo stesso recettore hanno curve parallele in funzione della loro Kd

- La differenza tra le curve descrive la potenza del farmaco

- Più la pendenza del tratto centrale della sigmoide è piccola, più il farmaco è maneggevole

- Se la risposta avviene entro 1 logaritmo, la risposta è del tipo “tutto o nulla”: il farmaco è poco

maneggevole e difficilmente modulabile

Oltre all’indice di maneggevolezza, importante è anche la misurazione di due parametri:

- 𝑬𝑪𝟓𝟎 rappresenta la concentrazione alla quale si ottiene il 50% della risposta massimale.

- 𝑬𝑫𝟓𝟎 rappresenta la dose che, nel 50% della popolazione, mi determina effetto terapeutico.

Entrambe sono misurate in funzione di Kd: la costante di dissociazione, quindi, mi permette di sapere da quale

dose/concentrazione occorre partire per avere garanzia di stare eseguendo una terapia.

La teoria dell’occupazione, tuttavia, nella sua forma più semplice, non tiene conto di alcuni fenomeni:

1) La curva dose-effetto e la curva interazione farmaco-recettore non coincidono: in questo caso abbiamo

che ED50 (EC50) e Kd sono differenti tra di loro.

Questo fenomeno può accadere per diversi motivi:

- Presenza di recettori di riserva: in questo caso, si ottiene una buona risposta, quasi massimale,

occupando solo una parte dei recettori presenti (su 100 recettori, quelli veramente efficaci sono solo

20; gli altri 80 sono appunto definiti recettori di riserva, che serviranno in caso di bisogno: down-

regulation dei recettori già occupati, desensitizzazione dei recettori legati al farmaco – in genere dovuta

al grado di fosforilazione del recettore: dopo un tot di cicli, il recettore continua a legare il farmaco

ma smette di trasdurre il segnale –).

- Meccanismo a cascata: a dosi molto piccola corrispondo risposte molto grandi. Si hanno infatti

meccanismi a cascata che, col tempo, sviluppano una risposta importante.

- Soglia di occupazione: soglia oltra la quale non si vede un effetto; non basta occupare pochi recettori

per cominciare a vedere l’effetto, ma bisogna occuparne un certo numero oltre il quale è visibile la

risposta.

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2) Esistono farmaci che, pur occupando un determinato recettore, producono una risposta inferiore ad

altre molecole che occupano lo stesso recettore (vengono definiti agonisti parziali) oppure non

producono nessuna risposta (vengono definiti antagonisti).

EFFETTO FARMACOLOGICO NEL TEMPO E RISPOSTE AI FARMACI

Nel momento in cui somministriamo un farmaco, esiste un periodo di latenza prima che la concentrazione

plasmatica del farmaco ecceda quella che viene definita minima concentrazione efficace per ottenere l’effetto

terapeutico. Superata questo valore di “soglia”, l’intensità dell’effetto aumenta mentre il farmaco continua ad

essere assorbito e distribuito. Un altro valore importante è la massima efficacia terapeutica, ovvero la minima

concentrazione che determina una risposta indesiderata. Le concentrazioni di farmaco tra questi due valori

rappresentano i limiti della finestra terapeutica.

Le risposte farmacologiche possono essere classificate in:

1) Risposte graduali: sono misurabili in continuo, ovvero la risposta può assumere valori progressivi

all’aumentare della dose e tendendo asintoticamente ad un valore massimo. Un tipico esempio di

risposta graduali la si può osservare dall’analisi della funzione neuromuscolare in relazione alla

somministrazione di un rilassante.

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2) Risposte che si possono classificare con un voto (score) o con uno stadio (stage): tipico esempio sono

il dolore, o la formazione di ulcere.

3) Risposte quantali (“tutto o nulla”): esistono solo due possibili casi di risposta (es: morte o remissione

completa della malattia). In questo caso la relazione tra dose e risposta viene espressa indicando il

numero di individui in una popolazione (frequenza) per il quale si verifica quel determinato evento.

Osserviamo ad esempio cosa succede somministrando dosi crescenti di un barbiturico (fenobarbital): alle dosi

normali, l’effetto del farmaco è sostanzialmente narcotico, ma, aumentando le dosi, si può arrivare ad effetti

tossici, prima, e letali, poi. Dall’analisi di queste curve possiamo trovare parametri importanti per la terapia:

- DE1: è la dose a cui il primo dei pazienti trattati ha ottenuto un beneficio della terapia

- DE50: vedi su

- DE99: è la dose a cui so che il 99% dei pazienti ottiene l’effetto terapeutico, senza andare incontro ad

effetti collaterali o tossici o letali.

Aumentando progressivamente la dose, alla curva dell’effetto terapeutico si sostituisce la curva dell’effetto

tossico (o letale), dalla quale possiamo estrapolare: la dose tossica o letale 1 (DT1 o DL1), la dose tossica o

letale 50 e la dose tossica o letale 99.

Importante è la comprensione di indice terapeutico, il dosaggio terapeutico e margine di sicurezza:

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- L’indice terapeutico è rappresentato dal rapporto tra la dose efficace 50 e la dose tossica 50: 𝐼𝑇 =𝑇𝐷50

𝐸𝐷50. Esso non valuta un farmaco dal punto di vista della tollerabilità o dell’efficacia, ma indica

soltanto la vicinanza tra la dose tossica e la dose terapeutica.

- Il dosaggio terapeutico, invece, è il range di valori tra la dose efficace 1 e la dose tossica 1: rappresenta

sostanzialmente il range dei dosaggi che possiamo utilizzare senza danneggiare nessun paziente (ad

eccezione di TD1): più questi valori sono distanti e più il farmaco sarà sicuro. Tanto più i valori sono

distanti e tanto più la finestra terapeutica risulterà ampia: un tipico esempio sono gli anti-infiammatori;

il dosaggio di questi farmaci non viene aggiustato, in quanto hanno una finestra così ampia che,

comunque, nel plasma siamo sicuri di raggiungere una concentrazione plasmatica tale da avere, in tutti

i pazienti, lo stesso beneficio, più o meno.

- Il margine di sicurezza, invece, viene descritto dal rapporto tra la dose tossica 1 e la dose efficace

99: 𝑀𝑆 =𝑇𝐷1

𝐸𝐷99. Esso rappresenta il range di valori di dose entro i quali possiamo trattare in sicurezza

il paziente ottenendo il massimo beneficio possibile. Maggiore è il range di valori e più è sicuro

aumentare la dose oltre il DE99.

Risulta evidente che quanto più l’indice terapeutico di un farmaco è basso (quindi vicino all’unità) tanto più

sarà ristretto il mio margine di sicurezza nel dosaggio del farmaco. In questo tipo di grafici, come rappresento

lo stato stazionario, che è quello che raggiungo con le somministrazioni ripetute tipiche delle terapie

domiciliari? Poiché lo stato stazionario mi determina la comparsa di una concentrazione plasmatica costante

(se si segue correttamente il regime terapeutico), esso sarà rappresentato da un semplice punto, corrispondente

al livello di effetto ottenibile con quella concentrazione.

È possibile, in alcuni casi, che le due curve si sovrappongano:

In questo caso, notiamo come tutti i pazienti a sinistra di DE99 vengano trattati ottenendo un beneficio dal

punto di vista terapeutico ma, raggiunta la DE99, osserva che una piccola frazione dei pazienti andrà incontro

ad effetti tossici (o letali): di conseguenza DE99 non è già più un dosaggio accettabile e si trova al di fuori

della finestra terapeutica. Per i farmaci in cui la curva di tossicità si sovrappone in parte alla curva di efficacia

(ne sono un esempio l’insulina, o i digitalici) occorre eseguire quello che viene descritto come TDM, ovvero

il therapeutic dose monitoring: occorre eseguire a intervalli costanti di tempo dei prelievi e dosaggi ematici

per capire qual è effettivamente la concentrazione plasmatica del farmaco, aggiustando il dosaggio di volta in

volta.

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Un altro esempio di questo fenomeno è rappresentato dall’anticonvulsivante fenitoina. Sebbene alcuni pazienti

possano rispondere a concentrazioni minime di farmaco, nella maggior parte dei casi il dosaggio usato è

compreso tra 10 e 20 mg/L che dà un effetto terapeutico nella maggior parte dei pazienti ma presenza

un’incidenza aumentata (ma ancora accettabile) di reazioni avverse (come ad esempio nistagmo, atassia).

Esiste sempre una concentrazione plasmatica alla quale non ho alcun effetto collaterale, ma è anche una

concentrazione che ha una probabilità minore di determinare l’effetto terapeutico nel paziente. Di conseguenza,

in genere, si aumenta la dose: in questo modo, pur aumentando il rischio di subire effetti collaterali, aumenta

anche la probabilità che il paziente vada incontro a beneficio. Da notare che, come già detto, gli effetti avversi

(o collaterali) sono già insiti nella terapia, in quanto non c’è sicurezza che compaiano. Nel caso di reazione

tossica, invece, la terapia deve essere necessariamente sospesa. Se vogliamo introdurre un nuovo farmaco, esso

dovrà risultare più potente dei farmaci già presenti in commercio.

AGONISTI E ANTAGONISTI

Viene definita agonista una molecola capace di legarsi ad un recettore ed evocare una risposta biologica, la

cui attività dipende dal rapporto tra la costante di dissociazione e la sua concentrazione. I farmaci agonisti, a

loro volta, possono essere distinti in tre grandi gruppi:

- Agonisti mimetici (detti anche completi o pieni): sono farmaci agonisti che provocano la massima

risposta evocabile in un tessuto, in quanto riproducono in totale l’attività del legame endogeno. Essi

sono di origine sintetica, con una struttura identica al ligando endogeno, che gli permette di mimarne

esattamente la funzione. Hanno efficacia massima per quel sistema recettoriale (hanno una Kd molto

piccola e simile a quella del ligando endogeno. Gli agonisti mimetici, quindi, sono in grado di

ripristinare l’attività biologica. Ne è un esempio l’insulina ricombinante: pur non avendo la stessa

identica affinità dell’insulina endogena, ha la stessa efficacia ed è capace di riprodurre gli effetti

dell’insulina endogena che manca.

- Agonisti parziali: sono farmaci agonisti che provocano una risposta inferiore a quella massima

evocabile anche in seguito all’occupazione di tutti i recettori disponibili. Sono in genere farmaci che

legano bene il recettore, hanno una elevata affinità e potenza, ma la loro efficacia relativa non è del

100%. Questo accade perché:

o In parte, l’agonista parziale mima l’effetto del ligando endogeno, ed è quindi responsabile

della risposta biologica

o In parte, compete per il sito di legame sul recettore con lo stesso ligando: questo impedisce

quindi un eccessivo legame endogeno (vengono infatti anche chiamati agonisti-antagonisti)

Combinando le due azioni, un agonista parziale permette la normalizzazione di un’attività biologica

che, in assenza dello stesso, sarebbe eccessiva: l’attività del sistema recettoriale viene così settato su

un livello non più patologico.

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- Agonisti inversi: sono farmaci agonisti che riducono l’attività costitutiva recettoriale. La teoria

dell’esistenza di recettori attivati costitutivamente afferma che i recettori esistano, indipendentemente

dalla presenza di un ligando, in due stati conformazionali, uno attivo ed uno inattivo. Ciò deriva dallo

studio di alcuni recettori mutati accoppiati a proteine G per fattori di crescita: questi recettori potevano

indurre l’attività biologica indipendentemente dalla presenza di un ligando selettivo. Portando avanti

gli studi, si è notato come tutti i recettori, al di là dell’esistenza o meno di una mutazione, possono

esistere nelle due conformazione, anche se, in assenza di agonista puro o ligando endogeno,

l’equilibrio è spostato verso la conformazione inattiva. Possono avere attività intrinseca spontanea

alcuni recettori legati a proteine G oppure canali ionici: essi si aprono e funzionano spontaneamente.

Unico esempio di agonisti inversi è rappresentato dalle beta-caboline per il recettore GABA: esse sono

agonisti allosterici selettivi per il recettore, ma ne diminuiscono l’attività basale intrinseca (riducono

l’apertura del canale)

Viene invece definita antagonista una molecola capace di legarsi ad un recettore (possedendo una Kd simile

a quella dell’agonista o del ligando endogeno, quindi elevata affinità per il recettore) ma che non promuove

alcun effetto biologico (poiché non ha alcun effetto, il grafico dose-risposta del solo antagonista è vuoto). Lo

scopo di un farmaco antagonista (che, tra l’altro, rappresentano la maggior parte dei farmaci) è semplicemente

quella di occupare il recettore, modulando in negativo l’effetto biologico del ligando endogeno: un antagonista

ha efficacia massima quando abolisce completamente l’attività recettoriale. Gli antagonisti vengono distinti in

- Antagonisti competitivi: antagonisti che si legano allo stesso sito recettoriale dell’agonista con una

Kd simile, competendo con l’agonista o con il ligando endogeno per quel recettore. Vengono anche

definiti soverchiabili o sormontabili in quanto il loro legame con il recettore dipende strettamente

dalle concentrazioni sia dell’antagonista che dell’agonista/ligando endogeno: occorre quindi avere una

concentrazione plasmatica tale che permetta non solo all’antagonista di competere, ma anche vincere;

minore è l’affinità per il recettore e maggiore sarà la concentrazione necessaria per legarsi al recettore.

Un antagonista competitivo sposta la curva dose-risposta dell’agonista o del ligando endogeno verso

destra, senza modificarne la pendenza o l’effetto massimo raggiungibile: per ottenere lo stesso effetto

biologico, quindi, bisogna utilizzare una quantità maggiore di agonista. Più la concentrazione

dell’antagonista è grande, o più piccola è la sua Kd, e più la curva dose-risposta dell’agonista sarà

spostata verso destra. L’efficacia dell’agonista è però mantenuta: aumentandone la concentrazione,

l’antagonista viene soverchiato e si può comunque raggiungere l’effetto massimo originale. Per

mantenere l’effetto, l’antagonista deve raggiungere uno stato stazionario.

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Valutando la variazione del livello di attivazione recettoriale di un recettore attivo anche in assenza di ligando,

osserviamo grafici differenti in funzione:

- Della concentrazione del ligando: l’agonista determina un aumento dell’attività recettoriale, mentre

l’agonista inverso ne determina una riduzione. In entrambi i casi, in presenza di un antagonista

competitivo, le curve vengono spostate verso destra e, a parità di concentrazione, l’effetto raggiunto

sarà ridotto mentre l’effetto massimale sarà lo stesso.

- Della concentrazione dell’antagonista: in presenza del solo agonista, il livello di attivazione

recettoriale non viene alterato. In presenza di un agonista pieno o parziale, l’antagonista riporta il

sistema verso livelli costitutivi di attività.

- Antagonisti non competitivi (detti anche insormontabili): sono antagonisti che possono agire:

o Sullo stesso sito di legame per l’agonista o ligando endogeno

o Su siti differenti (allosteria)

L’effetto del legame con il recettore consiste nel blocco dell’attività del recettore, in quanto

l’antagonista o non si stacca più dal recettore (e quindi blocca in maniera costitutiva l’attività

recettoriale) oppure determina distruzione del recettore stesso. In presenza di un antagonismo non

competitivo, indipendentemente dalla concentrazione dell’agonista o del ligando endogeno, l’effetto

massimo raggiungibile risulta ridotto: la curva dose-risposta viene spostata verso destra in modo non

parallelo, con un abbassamento della stessa. In presenza di un antagonista non competitivo, non sarà

mai possibile raggiungere l’effetto massimo dell’agonista o del ligando endogeno: l’efficacia

dell’agonista viene ridotta.

Supponiamo di dare le stesse dosi di antagonisti non competitivi diversi. L’antagonista non competitivo

numero 3 è il più potente ed efficace in quanto determina una riduzione maggiore dell’effetto massimo (alta

efficacia) e, già a basse dosi, determina una riduzione dell’effetto dell’agonista rispetto agli altri antagonisti

(alta potenza).

Per capire la natura dell’antagonista, si può ricorrere al metodo del doppio reciproco (Lineweaver-Burk):

∆=[𝑋] × ∆𝑚𝑎𝑥

𝐾𝑑 + [𝑋] →

1

∆=

𝐾𝑑

∆𝑚𝑎𝑥×

1

[𝑋]+

1

∆𝑚𝑎𝑥

In questo moto, la curva viene convertita in una retta e, a seconda del comportamento della retta

dell’antagonista in confronto alla retta dell’agonista, possiamo capire se si tratta di un antagonista competitivo

o non. Infatti:

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- Se 1

∆𝑚𝑎𝑥 (che corrisponde all’intersezione con l’asse delle y) non varia rispetto all’agonista, il farmaco

è un antagonista competitivo, in quanto l’effetto massimo è comunque raggiungibile.

- Se 1

∆𝑚𝑎𝑥 varia, il farmaco è un antagonista competitivo: più l’intersezione con le y è alta e minore è

l’effetto massimo raggiungibile in presenza dell’antagonista (quindi il farmaco è più efficace).

RECETTORI

Definiamo recettore una molecola che si lega in maniera specifica, definita e con affinità specifica ad un

mediatore endogeno. Il legame tra il recettore e la molecola determina un cambio conformazionale alla base

dell’effetto biologico.

I recettori possono trovarsi:

- In membrana: il loro compito è legare mediatori idrofilici, neurotrasmettitori e amminoacidi

trasmettitori, fattori di crescita, citochine. Appartengono a questa categoria:

o Recettori canale (tipo I): essi sono esplicano la loro attività in maniera istantanea

(millisecondi): il loro compito e far passare ioni in entrata o in uscita sulla base del potenziale

di membrana. Appartengono a questo gruppo i recettori nicotinici dell’acetilcolina, il recettore

GABA3, NMDA e 5-HT3.

o Recettori accoppiati a proteine G (tipo II): essi esplicano la loro attività in secondi, in quanto

richiedono l’attivazione di proteine G e la conseguente attivazione di canali ionici o di

meccanismi di sintesi di secondi messaggeri. Appartengono a questa categoria i recettori

muscarinici per l’Ach, i recettori α- e β-adrenergici e i recettori per 5HT, per istamina,

dopamina e purine.

o Recettori accoppiati a TK o guanilato ciclasi (tipo III). Richiedono un tempo dell’ordine

delle ore per esplicare la loro funzione. Appartengono a questo gruppo i recettori per le

citochine.

- All’interno della cellulare (intracellulari): legano mediatori, molecole e vitamine lipofiliche, molecole

trasportate all’interno della cellula tramite trasportatori specifici. Appartengono a questa categoria i

recettori per gli ormoni steroidei e tiroidei (recettori di tipo IV)

Queste quattro tipologie di recettori sono i principali recettori dell’organismo, responsabili dell’influenza e

modulazione di tutti gli altri recettori (transmodulazione recettoriale).

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1) RECETTORI CANALE

I recettori canali consistono in veri e propri canali che si aprono in concomitanza con il legame del ligando

endogeno o dell’antagonista. Sono dei complessi macroproteici trans-membrana che formano un canale

acquoso (idrofilico). Quando aperti, i recettori canali fanno passare gli ioni, che si muovono seguendo un

gradiente di concentrazione di cariche: la conseguenza diretta del movimento ionico è una variazione di carica

della membrana che provoca depolarizzazione o iperpolarizzazione della cellula, variando anche il suo grado

di eccitabilità. Il potenziale di membrana condiziona l’entità (ovvero la conduttanza) e la direzione del flusso

ionico.

Tutti i recettori canali sono costituiti da 5 subunità proteiche, che possono essere anche molto differenti tra

loro: sono formate, in genere, da un singolo filamento amminoacidico. All’esterno del recettore vi è una forma

ad imbuto che serve prevalentemente a concentrare gli ioni in prossimità del canale stesso. Ciascuna delle

cinque catene attraversa quattro volte la membrana, descrivendo delle zone altamente idrofobiche (α-eliche

composte da 20-25 amminoacidi) definite M1-4. La porzione M2, in particolare, è formata da amminoacidi

elettricamente carichi posti in maniera tale da formare anelli di carica positiva o negativa all’interno del canale;

questi amminoacidi concentrano e selezionano gli ioni che devono passare:

- Gli amminoacidi saranno negativi se il canale è permeabile ai cationi (Na+, K+, Ca2+)

- Gli amminoacidi saranno positivi se il canale è permeabile agli anioni (Cl-)

Questi anelli che si vengono a formare hanno funzione differente:

- Il primo e l’ultimo hanno la funzione di concentrare solo gli ioni che devono passare, solitamente

monovalenti (ma spesso può passare anche il calcio, bivalente). Ovviamente i diversi sottotipi

recettoriali hanno diversa capacità di essere selettivi.

- L’anello centrale è il vero selettore dello ione che passerà.

Le diverse subunità determinano:

- La selettività per una specie ionica

- La conduttanza

- Il tempo di apertura del canale

- Il legando endogeno, l’agonista o l’antagonista che si legherà

Le subunità sono in realtà famiglie di molecole molto simili ma con piccole differenze amminoacidiche che

determinano caratteristiche diverse: per ogni subunità, esistono diversi sottotipi. Questo si traduce anche in

una differente composizione di subunità che descrive la funzione del recettore e recettori posti in siti anatomici

differenti avranno una diversa composizione in subunità. Ad esempio, il recettore nicotinico per Ach presenta

9 sottotipi di subunità alfa (α9) e quattro sottotipi di subunità beta (β4) e presenta una composizione differente

tra SNC e muscolo:

- Nel SNC, il recettore è un canale per il sodio, la cui composizione è α4 α4 β2 β2 β2

- Nel muscolo, invece, il recettore fa passare anche potassio e calcio e la sua composizione è α1 α1 β1 ε

δ oppure α7 α7 β2 ε δ.

Inoltre, nello stesso organismo, la composizione delle subunità per lo stesso recettore può variare in base all’età

evolutiva.

In generale, il sito di legame per il legando endogeno è extracitoplasmatico, quindi è situato all’esterno della

cellula, ed è rappresentato, solitamente, dalla subunità alfa o dalla subunità beta: su queste subunità, infatti, si

trovano delle zone complesse che riconoscono selettivamente il ligando; quasi sempre, sono due le subunità

che devono riconoscere e legare il ligando (dello stesso tipo, quindi o due subunità alfa o due subunità beta) e

occorrono quindi due molecole di ligando per aprire il recettore. Il legame extracitoplasmatico determina una

modificazione conformazionale che si traduce in un’attivazione del recettore indotta dalla modificazione di

siti transmembrana e intracitoplasmatici che non consumano ATP.

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Il flusso ionico può anche essere bidirezionale, a seconda del potenziale di membrana: il recettore

dell’acetilcolina, infatti, fa entrare sodio a -90 mV e fa uscire potassio a -30 mV.

L’attività del recettore può essere modulata grazie alla presenza di siti allosterici, sui quali si legano molecole

differenti dal ligando endogeno che determinano modifiche in:

- Legame con il ligando

- Cinetica di legame del recettore

- Cinetica di apertura e chiusura

- Passaggio allo stato di desensitizzazione.

Questi siti allosterici possono essere multipli sullo stesso recettore: ad esempio, il recettore del GABA di tipo

A può legare in siti allosterici differenti le benzodiazepine (che aumentano la frequenza di apertura del canale,

ma solo in presenza di GABA) e i barbiturici (che, invece, determinano l’apertura del recettore anche in assenza

di GABA).

L’attività del recettore viene anche modulata dal grado di fosforilazione, che viene operata a livello delle

sequenze amminoacidiche comprese tra le zone M3 ed M4; questo fenomeno riguarda tutti i recettori canale,

anche per quelli sensibili al potenziale di membrana. Le diverse subunità, inoltre, vengono fosforilate da

chinasi differenti: ad esempio, nel recettore nicotinico, le subunità delta ed epsilon vengono fosforilate da PKA

(in genere produce un aumento delle aperture spontanee), le subunità alfa1 e delta da PKC (aumenta la velocità

di desensitizzazione) mentre le subunità beta, epsilon e delta possono essere fosforilate da TK (che causano

una concentrazione dei recettori – clustering – ed aumenta la risposta in una porzione della cellula). Questo

determina anche che l’attività del recettore viene modulata in base al metabolismo della cellula, fino anche a

raggiungere uno stato di attivazione costitutivo. Inoltre, tutti i recettori che attivano fosforilasi sono in grado a

loro volta di modulare l’attività dei recettori canale: parliamo di modulazione trans-recettoriale.

Tra i meccanismi di protezione cellulare troviamo:

- Desensitizzazione: è un meccanismo di protezione cellulare tipico dei recettori con risposta veloce

(soprattutto i recettori canale, ma non solo). Sostanzialmente, il recettore desensitizzato lega l’agonista

ma non apre il canale. Questo meccanismo avviene in genere quando si ha un’attivazione continua o

prolungata del recettore, dovuta a concentrazioni troppo elevate di agonista o a un continuo rilascio di

neurotrasmettitore. La velocità di desensitizzazione coinvolge tutte le subunità che compongono il

recettore e dipende anche dal grado e dal tipo di fosforilazione delle subunità. In generale, esso avviene

per alte concentrazioni (Kd dell’ordine di 10-3 e 10-5)

- Up- e down-regulation: sono meccanismi che modificano la risposta in senso quantitativo,

modificando, attraverso meccanismi trascrizionali a livello nucleare, il numero di recettori presenti

sulla membrana.

2) RECETTORI ASSOCIATI A G-PROTEIN

Sono recettori che, una volta legato il ligando endogeno, trasducono un segnale che comporta l’attivazione di

una proteina G associata (famiglia eterogenea di molecole composte da tre subunità, alfa, beta e gamma). Lo

stesso recettore può legare diverse proteine G, anche con attività differenti. Questi recettori sonno responsabili

di una risposta più lenta rispetto ai recettori canale, che prevede l’attivazione di numerose vie metaboliche

intracellulari. Si verificano dei fenomeni a cascata, di amplificazione che si rivelano anche dopo minuti.

Questi recettori sono una superfamiglia genica, con una struttura molecolare comune, composta da un

monomero che attraversa la membrana cellulare sette volte; sono recettori metabotropi (agiscono attraverso

secondi messaggeri). Il sito di interazione con le proteine G è rappresentato da uno dei loop intracellulari (loop

III e porzione –COOH), che va incontro a modifica conformazionale nel momento in cui si verifica il legame

dell’agonista al recettore. Le differenze strutturali del dominio III e della porzione COOH determinano una

differente specificità per le differenti proteine G.

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Anche i recettori associati a proteine G presentano meccanismi di desensitizzazione e down-regulation, basati

sulla fosforilazione del recettore stesso. Un fenomeno che si può osservare in presenza di stimolazione

prolungata è il sequestro del recettore: la continua presenza dell’agonista induce la fosforilazione della

porzione COOH del recettore, con conseguente legame alla beta-arrestina e promozione dell’internalizzazione

del complesso recettore-agonista in un endosoma. Questo può alternativamente:

- Essere re-immesso in membrana, in seguito a dissociazione dell’agonista dal recettore, cosa che riduce

l’affinità per la beta-arrestina e promuove la defosforilazione, con conseguente re-immissione in

membrana

- Distruzione del recettore in un lisosoma

Le proteine G rappresentano il livello intermedio nella gerarchia organizzativa della comunicazione tra

recettori metabotropi ed enzimi effettori o canali ionici. Sono dotate della capacità di legare nucleotidi

guanilici, come GTP e GDP. Sono composte da tre subunità: beta e gamma sono altamente idrofobiche e

permettono il legame alla porzione intracitoplasmatica della membrana, con conseguente interazione con i

recettori; la subunità alfa, invece, lega i nucleotidi ed è dotata di attività GTPasica: quando legata a GTP, la

subunità alfa si stacca dal recettore per interagire con il suo bersaglio, del quale può promuovere o inibire

l’attività.

Esistono oltre 20 tipi differenti di proteine G, basate sulla diversa combinazione tra le numerose varianti delle

subunità (20 alfa, 4 beta e 7 gamma). L’associazione tra le diverse subunità fa variare la specificità per il

bersaglio da attivare e per il recettore. Uno stesso recettore può attivare più proteine G e una stessa proteine G

può attivare o modulare più effettori differenti. Due sono i principali effettori controllati dai recettori accoppiati

alle proteine G:

- Adenilato ciclasi e cAMP

- PLC, IP3 e DAG

Inoltre, le proteine G controllano anche:

- Fosfolipasi A2 (formazione di acido arachidonico e eicosanoidi)

- Canali ionici

3) RECETTORI PER FATTORI DI CRESCITA (ASSOCIATI A CHINASI)

I recettori per i fattori di crescita sono spesso associati a fenomeni di induzione della proliferazione cellulare.

Essi sono molecole di natura proteica transmembrana che, una volta legato il ligando endogeno o l’agonista,

mediano una cascata enzimatica che origina dall’attività di proteine chinasiche; il legame substrato-recettore

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determina innanzitutto autofosforilazione delle catene e cambio di conformazione strutturale, dalle quali deriva

l’attività del recettore, consistente in:

- Risposte immediate e transitorie

- Risposte ritardate e durevoli

I recettori sono il prodotto di proto-oncogeni che regolano i processi proliferativi cellulari. Essi presentano una

struttura molecolare simile, composta da:

- Catena proteica per i siti di legame

- Porzione N-terminale extracellulare

- Porzione transmembrana idrofobica di ancoraggio

- Dominio citoplasmatico con attività enzimatica

- Porzione iuxtamembrana con attività regolatoria

- Porzione C-termine intracitoplasmatica che lega i trasduttori

A livello extracellulare, è presente una elevata variabilità (possibilità di polimorfismo. Inoltre, possono andare

incontro a fenomeni di desensitizzazione.

Questo gruppo di recettori sono sfruttati in tutta una serie di terapie sostitutive: nella maggior parte dei casi, i

farmaci somministrati sono antagonisti competitivi, che vanno a interferire con l’effetto positivo di questi

recettori sulla proliferazione cellulare (saranno, quindi, prevalentemente degli antitumorali). Allo stesso

tempo, troviamo anche farmaci agonisti come l’insulina esogena.

I recettori più utilizzati in farmacologia sono:

- Recettori per l’insulina: somministriamo insulina esogena, ricombinante, per gestire l’alta glicemia

basale nel corso della giornata e il picco iperglicemico post-prandiale (non viene usata, invece, per la

sua attività proliferativa)

- Recettori per VEGF: questo fattore di crescita è coinvolto nella neoangiogenesi; farmaci antagonisti

vengono utilizzati per limitare l’apporto di sangue alla massa tumorale

- Recettori per PDGF, MCSF: usati per trattare casi di deficienza midollare, anche indotta da

chemioterapia.

4) RECETTORI INTRACELLULARI

Sono recettori per mediatori endogeni di natura lipofilica: a questa categoria appartengono i classici recettori

per gli ormoni. I recettori attivati interagiscono con tratti del genoma molto specifici. La loro funzione è quella

di far cambiare la composizione e la quantità di espressione di proteine specifiche, o di determinare la

replicazione delle cellule bersaglio. La distribuzione intracellulare è differente; possiamo avere recettori:

- Citoplasmatici: il ligando viene legato a livello citoplasmatico e, in seguito al legame, il recettore viene

veicolato nel nucleo

o Glucocorticoidi

o Mineralcorticoidi

- Nucleari: sono già a livello del nucleo, dove il ligando deve arrivare

o Estrogeni

o Progesterone

o Ormoni tiroidei

o Vitamina D

o Acido retinoico

L’organizzazione molecolare di questi recettori è particolare; appartengono ad un’unica a superfamiglia genica

(alta omologia di struttura) e presentano un dominio conservato (responsabile per il legame al DNA) legato a

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domini variabili (siti di legame per i ligandi e di controllo della trascrizione). Sono composti essenzialmente

da tre regioni strutturali:

- N-terminale

- Porzione centrale con residui di cisteina che formano zinc-fingers per il legame con il DNA. Le

variazioni che si osservano in questa zona sono specifiche per le diverse HRE (hormone responsive

elements, sequenze geniche presenti nel promotore del gene; il legame alle HRE determina attivazione

o inibizione della trascrizione del gene).

- C-terminale per il riconoscimento con l’agonista

Quando sono inattivi, questi recettori sono sempre legati a proteine inibitorie, che si legano tramite legami

deboli e determinano ingombro sterico a livello del sito accettore. L’attivazione del recettore è dovuta al

legame specifico con il ligando, che fa sganciare l’inibitore e legare il complesso che ha dimerizzato

direttamente sulle sequenze specifiche del DNA.

Lo stato fosforilativo dell’inibitore o del recettore stesso condiziona la sua attivabilità e la sua capacità di

dimerizzare. Inoltre, si può avere attivazione costitutiva del recettore indipendentemente dalla presenza di un

agonista, a causa dell’attività di specifiche chinasi come PKA e PKC, mediate a loro volta da recettori del tipo

II.

I recettori intracellulari sono caratterizzati da specificità d’azione, dovuta a:

- Tropismo differenziale dovuto alla differente espressione recettoriale, che è tessuto-specifica

- Metabolismo tessuto-specifico degli ormoni, dovuto a

o Differente concentrazione tissutale dell’ormone

o Differente produzione di ormoni attivi localmente a partire dai precursori presenti nel sangue

- Regolazione trascrizionale, con trascrizione differente nei vari tessuti

Il meccanismo principale di regolazione di questi recettori è la desensitizzazione, ma sono sfruttati anche

meccanismi di:

- Down-regulation, dovuta alla presenza di sequenza HRE anche sul promoter del gene del recettore

stesso: la stimolazione recettoriale ripetuta o prolungata spegne la trascrizione recettoriale.

- Trans-regolazione: l’attivazione di un recettore riduce la sintesi di un altro per un ormone differente,

causa della presenza di HRE nel promoter del secondo recettore. In alcuni casi, invece, l’attivazione

di un recettore promuove la sintesi di fattori inibitori sulla trascrizione.

La farmacologia di questi recettori è piuttosto complessa; in genere si può intervenire modificando:

- L’insorgenza del segnale endocrino (sintesi, immagazzinamento, secrezione)

- Modulazione della sintesi del recettore (down-regulation)

Questi due punti modulano le concentrazioni ormonali che saranno attive.

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- Modulazione della funzionalità del recettore (agonisti ed antagonisti): questo punto mima o abolisce

l’effetto ormonale. Gli antagonisti sono solitamente agonisti parziali o antagonisti allosterici che non

permettono più il riconoscimento del DNA.

MODULAZIONE DELLE RISPOSTE RECETTORIALI

Esistono fenomeni di adattamento recettoriale allo stimolo e al ligando; questi meccanismi possono essere di

adattamento fisiologico o farmacologico.

Adattamento fisiologico

Si ha quando esistono condizioni fisiologiche (o patologiche) che portano ad un riassetto sia della sensibilità

che del numero di recettori potenzialmente coinvolti.

- Modifica della sensibilità del recettore o del tessuto (tolleranza recettoriale): ne esistono diversi

esempi:

o Infarto o insufficienza cardiaca con attivazione prolungata del simpatico: si osserva un

aumento dei recettori beta-adrenergici e riduzione della capacità di trasdurre

o Ipersensibilità da denervazione della fibra muscolare: si osserva un aumento dei recettori

nicotinici di Ach

o I recettori del II tipo vanno incontro a un fenomeno di perdita di affinità per il ligando, di

ridotta attivazione delle proteine G o riduzione del numero di recettori.

o Tolleranza agli oppiodi: è dovuta a una differente capacità di trasdurre dei recettori delta e mu

del locus coeruleus e non dal loro numero. Si ha un disaccoppiamento funzionale del recettore

con la Gi. Si instaurano, contemporaneamente, meccanismi compensatori che determinano un

aumento del cAMP, con insorgenza di tolleranza e dipendenza. Se non si assumono oppioidi,

i livelli di cAMP diventano elevati.

La desensitizzazione può essere di due tipi: omologa (se è coinvolto un solo tipo recettoriale) o

eterologa (se vengono rese refrattarie anche altri vie recettoriali che utilizzano la stessa via di

trasduzione del segnale).

- Modulazione del numero (down-regulation): i meccanismi di down-regulation possono essere veloci

o lenti:

o Adattamento veloce dei recettori associati a G-protein: si ha una ridotta affinità per l’agonista

e disaccoppiamento più rapido con la subunità alfa. È un meccanismo trascrizionale che

prevede splicing alternativo del recettore

o Internalizzazione del recettore (veloce): il recettore va incontro a fosforilazione e

vacuolizzazione

o Blocco della trascrizione e sintesi del recettore (lento), dovuto a riassetto genomico.

Adattamento farmacologico

Si ha adattamento farmacologico quando l’agonista o l’antagonista porta al riassetto della sensibilità o del

numero dei recettori. Può anche essere dovuto ad alterazione persistente di una via endogena. Anche in questo

caso si osservano fenomeni di tolleranza recettoriale, oltre che tolleranza metabolica e tachifilassi:

- Tolleranza recettoriale: è dovuta all’adattamento dei sistemi recettoriali:

o Può manifestarsi in tempi lunghi o brevi

o È reversibile quando si termina la terapia

o Viene ridotta la capacità di trasduzione del segnale

o È poco soverchiabile aumentando la dose, in quanto porterebbe a down-regulation

Ha diversi rischi associati legati a:

o Dosi troppo alte di farmaco

o Possibile effetto rimbalzo alla sospensione della terapia (a causa di squilibri recettoriali)

o Possibile variazione della risposta a molecole endogene

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- Tolleranza metabolica: è dovuta a una variazione della capacità metabolica dell’organismo; in genere,

i sistemi enzimatici deputati alla clearance del farmaco aumentano, riducendo l’emivita del farmaco

stesso.

- Tachifilassi: è la scomparsa dell’effetto farmacologico dovuto a meccanismi differenti dal riassetto

recettoriale

o Si manifesta in tempi molto rapidi

o Può essere di tipo metabolico

o Può essere di tipo farmacocinetico

o Non è reversibile (il recettore è disattivato)

o Non è soverchiabile

o Può essere di tipo genetico

o Può essere farmacologica

POMPE E TRASPORTATORI

- Pompa Na+/K+ ATPasi: si occupa di mantenere in equilibrio elettrochimico il potassio e il sodio nelle

cellule. Permette quindi un controllo del volume cellulare, dell’eccitabilità della cellula ed è coinvolta

nella formazione di gradienti importanti per la vettorialità del trasporto. Essa è sostanzialmente un

antiporto, che consuma una molecola di ATP per ogni scambio (3 NA+ verso l’esterno, 2 K+ verso

l’interno). Sulla pompa agiscono farmaci come i digitalici, il cui effetto è il blocco della pompa, con

conseguente accumulo di sodio all’interno della cellula. Questo determina una riduzione della

funzionalità dello scambiatore Na+/Ca2+, con accumulo di calcio e aumento della forza di contrazione

della cellula muscolare. I digitalici, tuttavia, hanno una finestra terapeutica molto ridotta: le

concentrazioni terapeutiche bloccano solo circa il 20% delle pompe. Un blocco ulteriore determina

effetti tossici a livello cardiaco (con possibile blocco della funzionalità del cuore).

- Pompa protonica H+/K+: questa pompa è presente sulla membrana apicale delle cellule parietali della

mucosa gastrica. Se la cellula non è stimolata, la pompa è inattiva, inserita in strutture endocellulari.

In presenza, invece, di stimoli adeguati (recettori per gastrina, acetilcolina o istamina), la pompa viene

espressa in membrana, dove estrude ioni idrogeno in cambio di ioni potassio. La farmacologia di questi

trasportatori si basa su farmaci diretti o indiretti:

o Diretti (o irreversibili): sono pro-farmaci (come l’omeprazolo) che bloccano la subunità alfa

della pompa e ne inibiscono l’attività.

o Indiretti: sono in genere antagonisti recettoriali dell’istamina.

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- Antiporto Cl-/HCO3-: dipende sostanzialmente dalla concentrazione e tensione superficiale di CO2.

A livello polmonare, HCO3- entra nell’eritrocita con espulsione di cloro. Da HCO3- si forma CO2 e

H20 che vengono poi eliminati.

- Antiporto Na+/H+: a livello renale, serve per estrudere idrogeno in scambio con sodio (sodio che viene

poi immesso nel sangue in scambio con potassio) e, nel tubulo distale, è responsabile

dell’acidificazione delle urine. A questo livello possono agire i diuretici risparmiatori di potassio:

bloccano l’ingresso di sodio e la conseguente iperpolarizzazione riduce l’estrusione di potassio dalle

cellule tubulari, con conseguente suo passaggio nel sangue.

- P-glicoproteina ATPasi: è una proteina di membrana ubiquitaria e inducibile, che ha funzione di

detossificare le cellule, soprattutto da molecole idrofobiche e di espellere xenobiotici e metaboliti.

Inoltre, limita l’ingresso indiscriminato ed eccessivo di molecole nella cellula. È alla base della

resistenza ad alcuni antitumorali.

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TRASMISSIONE SINAPTICA

La comunicazione tra più neuroni o tra un neurone e una cellula bersaglio (cellula muscolare, cellula

ghiandolare, avviene tramite il rilascio di molecole chiamate neurotrasmettitori. La neurotrasmissione è

importante in quanto esistono tutta una serie di farmaci che vanno a modulare l’attività dei neuroni non solo

nel compartimento periferico ma anche nel compartimento centrale (se capaci, però, di passare la barriera

emato-encefalica): l’azione sulle vie di trasmissione permette di gestire tutta una serie di patologie.

In generale, i neurotrasmettitori:

- Sono molecole di piccole dimensioni

- Possono essere sintetizzate lontano dal Golgi

- Sono sintetizzati in prossimità del sito di rilascio

- Sono contenuti in vescicole, dove sono immagazzinate

- Sono molecole riciclabili

- Sono rilasciate in modo quantitativo (in pacchetti prestabiliti, o quanti)

Esistono dei criteri ben precisi affinché una molecola possa essere identificata in quanto neurotrasmettitore.

Infatti:

- La distribuzione non è uniforme o casuale, ma tipica di solo alcuni gruppi di neuroni

- Nel tessuto in cui il neurotrasmettitore viene rilasciato, nel SNC e nel SNP devono esserci anche gli

enzimi deputati alla sintesi e alla inattivazione del neurotrasmettitore stesso

- La liberazione avviene in seguito a stimolazione elettrica, in maniera proporzionale alla frequenza e

intensità degli stimoli e dipendente dagli ioni calcio

- Devono esistere, nel SNC o nel SNP, i recettori specifici per il neurotrasmettitore

- Gli agonisti del recettore riproducono l’attività del neurotrasmettitore, mentre gli antagonisti la

inibiscono

Questi criteri sono rispettati dalla maggior parte dei neurotrasmettitori ad oggi conosciuti, con l’eccezione di

alcuni peptidergici oppioidi e dei neurotrasmettitori a richiesta (NO e PG). Indipendentemente dal

neurotrasmettitore utilizzato, tutte le vie di trasmissione hanno una caratteristica comune: è la sommatoria

degli stimoli positivi e negativi (si parla di gestione eterologa pre-sinaptica: le altre vie nervose formano sinapsi

a livello del bottone pre-sinaptico e, tramite l’attivazione di G-protein, inducono stimoli positivi o negativi

sulla genesi del potenziale d’azione) provenienti dalle altre vie nervosa sul soma neuronale a determinare la

formazione (o meno) di un potenziale d’azione e quindi l’eventuale rilascio del neurotrasmettitore. Inoltre, il

soma non decide quanto neurotrasmettitore rilasciare; esso dipende, invece, dal contesto sinaptico del singolo

bottone pre-sinaptico: è il livello di calcio intracellulare a determinare quante vescicole devono fondersi con

la membrana e rilasciare neurotrasmettitore nello spazio intersinaptico.

Le vescicole contenenti il neurotrasmettitore vengono prodotte, vuote, a livello del soma, hanno una

dimensione costante e vengono caricate a livello del bottone sinaptico concentrando il neurotrasmettitore al

loro interno contro gradiente di concentrazione: il trasporto si basa su gradiente elettrico e/o di pH, generati

sfruttando specifiche pompe ATPasiche. Poiché questo determinerebbe un gradiente osmotico all’interno della

vescicola, i neurotrasmettitori vengono anche complessati con altre molecole, come ATP, Calcio,

peptidoglicani o cromogranine. Le vescicole contengono un numero costante di molecole (i pacchetti) che è

un multiplo finito di un quanto, corrispondente alla quantità minima di neurotrasmettitore capace di evocare

un potenziale in miniatura. In funzione dei quanti rilasciati (e quindi delle vescicole coinvolte), si osserverà

una maggiore o minore ampiezza della risposta. Spesso, inoltre, i neurotrasmettitori sono accumulati assieme

a co-trasmettitori (es. ATP) che hanno la funzione di modulare l’ampiezza e la durata della risposta del

neurotrasmettitore, attraverso recettori specifici presenti a livello pre- o post-sinaptico. Esistono farmaci capaci

di bloccare lo spostamento vescicolare o il loro riempimento bloccando le pompe: un esempio è rappresentato

dalle anfetamine.

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La liberazione delle vescicole ha tre caratteristiche peculiari:

- È rapida: il potenziale d’azione che raggiunge il bottone pre-sinaptico, se sufficientemente intenso,

fa aprire canali voltaggio-dipendenti e determina afflusso di ioni calcio, i quali determinano la fusione

delle vescicole con la membrana nel giro di µsecondi.

- È precisa: il rilascio è determinato quantitativamente da tutta una serie di meccanismi pre-potenziale:

il potenziale d’azione ha solo capacità scatenante mentre è la produzione di secondi messaggeri e la

fosforilazione del canale del calcio a determinare quanto calcio entra e quante vescicole si fondono.

- È difficilmente esauribile, in quanto

o Non dipende dalla sintesi centrale

o Esiste un’elevata riserva di vescicole

o I neurotrasmettitori vengono prodotti in loco, nel citoplasma della fibra pre-sinaptica

o Sia le vescicole (con tutte le proteine e pompe che la compongono) che il neurotrasmettitore

possono essere recuperati

o La ricarica delle vescicole avviene anch’essa in loco (meccanismo rapido e poco dispendioso)

Le vescicole sono presenti, a livello del bottone pre-sinaptico, in due distinte popolazioni:

- Ancorate in prossimità della membrana presinaptica (pool liberabile): sono le vescicole

immediatamente rilasciabili

- Complessate con una serie di proteine del citoscheletro nel citosol (pool di riserva)

Il potenziale d’azione che raggiunge il bottone fa aprire il canale del calcio, il quale, una volta entrato, forma

dei complessi con le strutture di ancoraggio delle vescicole (sinaptotagmina), provocando la fusione con la

membrana e il rilascio del neurotrasmettitore: in realtà, però, la fusione non è mai completa ma esistono

strutture, definite pori di fusione, che mantengono i confini e permettono il riciclaggio dell’intera struttura e

delle proteine ad essa associate.

Come detto, il rilascio delle vescicole viene determinato dai livelli di calcio; il singolo neurone può infatti

operare un potenziamento a breve termine della risposta, con conseguente una depressione a lungo termine,

dovuta ad esaurimento del pool di riserva: un’alta concentrazione di calcio in prossimità del canale determina

il rilascio del pool liberabile mentre un’alta concentrazione in tutto il citoplasma (dovuta a una continua

apertura dei canali del calcio o al rilascio del calcio dalle riserve cellulari per produzione di secondi

messaggeri) determina anche il reclutamento del pool di riserva.

In ogni caso, il neurotrasmettitore che viene rilasciato agisce sia su recettori pre-sinaptici (presenti sulla stessa

fibra che lo ha rilasciato) sia su recettori post-sinaptici (su una fibra differente).

Un particolare caso di sintesi è rappresentata dalle prostaglandine e dal nitrossido: nel momento in cui abbiamo

ingresso costitutivo di calcio nella sinapsi, abbiamo anche l’attivazione della cascata dell’acido arachidonico

(con conseguente produzione di PG) o della nitrossido sintasi neuronale ( con conseguente produzione di NO).

Essi sono definiti neurotrasmettitori a richiesta, in quanto non sono immagazzinati nelle vescicole (cosa anche

complicata per il NO, che è un gas diffusibile) ma al contrario vengono prodotti da enzimi sensibili al Ca2+

citoplasmatico. Questi neurotrasmettitori vanno ad agire a livello pre-sinaptico, modulando il reclutamento

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vescicolare ed essendo particolarmente importanti nella plasticità del SN, essendo capaci di produrre nuove

sinapsi.

La caratteristica principale della neurotrasmissione è che deve avere un inizio ed una fine: il neurotrasmettitore

viene prodotto localmente grazie agli enzimi appositi presenti nel bottone sinaptico e, una volta rilasciato nello

spazio intersinaptico, il neurotrasmettitore libero (quindi non legato al recettore) è passibile di catabolizzazione

o meccanismi di reuptake. Lo spegnimento del segnale può avvenire attraverso diversi meccanismi:

- Degradazione enzimatica (es. colinesterasi o monoammine ossidasi): nello spazio intersinaptico

esistono specifici enzimi deputati alla degradazione dei neurotrasmettitori: in genere, una parte della

molecola degradata viene recuperata dal neurone pre-sinaptico tramite specifici trasportatori e

utilizzata come substrato per riformare il neurotrasmettitore

- Ricaptazione: il neurone presinaptico può presentare anche specifici trasportatori capaci di recuperare

direttamente il neurotrasmettitore, che viene immesso nel citoplasma, dove può essere accumulato

nuovamente nelle vescicole o, se in eccesso, degradato. Un meccanismo di ricaptazione, importante

per lo spegnimento del segnale da GABA, Glu e Gly, avviene anche a livello della glia.

- Diffusione extrasinaptica: è un meccanismo che permette di ridurre la concentrazione sinaptica

diluendo il neurotrasmettitore negli spazi circostanti la sinapsi. In seguito a diffusione, si possono

verificare meccanismi di interazione con recettori su altre fibre, di degradazione o di ricaptazione da

parte della glia. In generale, il meccanismo è importante per la coordinazione di aree neuronali: in

seguito a stimolazione iniziale e con la diffusione, bastano basse concentrazioni di neurotrasmettitori

regolano la funzionalità di molte fibre.

Un altro importante meccanismo è la gestione autologa presinaptica: a livello presinaptico, infatti, troviamo

recettori per il neurotrasmettitore che permettono alla fibra di sapere quanto neurotrasmettitore è stato rilasciato

e di modulare, grazie al reclutamento di proteine G, l’apertura del canale del calcio e il rilascio del

neurotrasmettitore stesso.

Dal punto di vista farmacologico, possiamo modulare la risposta neuronale, ottenendo come possibili effetti:

- Aumento del rilascio di neurotrasmettitore

- Spegnimento del segnale

- Aumento del tempo di trasmissione del segnale

I farmaci ad oggi possono agire su:

- Movimento delle vescicole: farmaci che interferiscono con la formazione dei microtubuli o che ne

bloccano l’attività, impediscono il reclutamento, rilascio e riciclo delle vescicole. Bloccano anche

l’arrivo di nuove vescicole dal Golgi

- Sintesi e metabolismo: andando a ridurre l’attività sintetica, otteniamo un effetto inibitorio sul

rilascio. Questo può essere ottenuto tramite:

o Inibizione enzimatica, quindi bloccando uno degli enzimi responsabili della via sintetica

o Uso di falsi substrati, ovvero molecole che vengono riconosciute come veri substrati,

determinando la produzione di molecole con bassa affinità e che riducono la sintesi del vero

neurotrasmettitore, occupando gli enzimi e consumando i metaboliti. Un esempio tipico è la

tiramina, presente nel latte, formaggi, lievito e altri cibi: normalmente viene metabolizzata

dalle MAO intestinali ma, in presenza di inibitori delle MAO (IMAO), il livello plasmatico

della molecola cresce e raggiunge le sinapsi, dove compete e riduce la produzione di

noradrenalina. Si parla di “cheese reaction”.

- Degradazione: vengono bloccati gli enzimi deputati al catabolismo del neurotrasmettitore. Ad

esempio:

o Colinesterasi: inibitori della degradazione della Ach ne aumentano l’emivita a livello

intersinaptico. Particolarmente utili nella miastenia grave e nel glaucoma.

o MAO: gli IMAO aumentano la concentrazione di noradrenalina, dopamina e serotonina a

livello del SNC

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o GABA-transaminasi gliale: il blocco dell’enzima determina una saturazione del citosol di

GABA, che impedisce il reuptake del GABA stesso

- Immagazzinamento vescicolare: esistono farmaci capaci di bloccare il passaggio citoplasma-

vescicola del neurotrasmettitore.

o Reserpina: è una molecola capace di bloccare il trasportatore vescicolare di catecolamine e

serotonina, determinando un mancato reclutamento vescicolare e uno spegnimento della

risposta prolungata.

- Rilascio e ricaptazione: le diverse proteine coinvolte in questi processi possono essere modificate da

diverse molecole, impedendo il normale traffico vescicolare.

o Tossina botulinica: agice a livello della placca neuromuscolare, bloccando il rilascio di Ach e

inducendo paralisi flaccida

o Tossina tetanica: agisce a livello del midollo spinale, sugli interneuroni inibitori, impedendo

il rilascio di GABA e Gly ed inducendo paralisi spastica.

o α-latrotossina (veleno della vedova nera) e molecole simili agiscono invece sui canali del

calcio, determinandone l’apertura non selettiva; si osserva quindi esocitosi continua e non

coordinata con blocco contemporaneo dell’endocitosi: si va incontro a depauperamento

vescicolare e paralisi spastica.

- Modulazione pre-sinaptica: l’attivazione dei recettori pre-sinaptici determina una modulazione del

rilascio di neurotrasmettitore da parte della sinapsi. Possono essere:

o Autorecettori (si parla di omotropia o regolazione autotropa): sono recettori che legano lo

stesso neurotrasmettitore rilasciato dalla sinapsi. Si possono osservare due tipi di meccanismi:

A) Loop inibitorio, che limita il rilascio del neurotrasmettitore (accade ad esempio con il

GABAB o con i recettori alfa2)

B) Effetto facilitatorio, con potenziamento del rilasciamento del neurotrasmettitore (es.

recettori beta2)

o Eterocettori (eterotropia): sono recettori che legano altri neurotrasmettitori; in genere sono

associati a proteine G che regolano, tramite fosforilazione, il reclutamento vescicolare, la

sensibilità e la durata di apertura del canale del calcio, etc.

- Ricaptazione: farmaci che inibiscono la ricaptazione prolungano il tempo di permanenza del

neurotrasmettitore nello spazio sinaptico, aumentando quindi la durata dell’effetto. L’effetto

secondario è una rapida desensitizzazione, seguita da una down-regulation del numero di recettori.

Esistono due tipi di reuptake:

o Tipo 1, a livello presinaptico; inibitori del reuptake 1 sono ad esempio molti antidepressivi

(ma anche la cocaina, che aumenta l’effetto dell’adrenalina)

o Tipo 2, a livello postsinaptico

Esistono poi farmaci ad azione indiretta, che provocano la fuoriuscita del neurotrasmettitore dalla vescicola al

citoplasma: si ha fuoriuscita del neurotrasmettitore dovuta al trasportatore che lavora al contrario.

Appartengono a questa categoria anche alcune droghe, come anfetamina ed efedrina.

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TRASMISSIONE COLINERGICA

L’acetilcolina (Ach) è, insieme all’istamina, un neurotrasmettitore molto antico dal punto di vista

evoluzionistico e molto conservato, potendo essere trovato in praticamente tutti gli esseri viventi. L’Ach

interviene in tutta una serie di funzioni fisiologiche e i suoi recettori sono presenti in diverse sedi

dell’organismo, cosa che rende complicata una terapia selettiva. Recettori per l’acetilcolina sono presenti sia

in centro (recettori centrali) sia in periferia (recettori periferici)

TRASMISSIONE COLINERGICA PERIFERICA

Il sistema colinergico periferico si basa sulla presenza di una serie di recettori differenti sia per funzione che

per localizzazione. Distinguiamo, quindi:

- AchR nicotinico muscolare (Nm), localizzato tra le terminazioni dei motoneuroni spinali e le cellule

muscolari striate (a livello quindi della placca neuromuscolare)

- AchR nicotinico gangliare (Ng), localizzato tra le fibre nervose del nervo splancnico che innervano

la ghiandola surrenale e le cellule della midollare del surrene (agendo sul rilascio di catecolamine) e a

livello delle giunzioni gangliari del simpatico e del parasimpatico: poiché, generalmente, simpatico e

parasimpatico esercitano un effetto opposto, sarà difficile ottenere un qualsiasi effetto agendo sul

AchR Ng, in quanto gli effetti determinati dai due sistemi si bilancerebbero e la risultante sarebbe

praticamente nulla.

Sia il nicotinico muscolare che il nicotinico gangliare sono recettori ionotropi, che si differenziano, oltre

che per la localizzazione anatomica, per le subunità differenti. In quanto recettori ionotropi, essi agiscono

variando il potenziale di membrana, modificando il trasnito di ioni Na+ e K+ in entrata e in uscita. Essi

determinano quindi la mobilizzazione di calcio all’interno della fibra muscolare in seguito a variazione del

potenziale (nicotinico muscolare) e lo scatenarsi di potenziali d’azione (e quindi l’attivazione) nella fibra

post-gangliare (nicotinico gangliare).

- AchR muscarinico (M1-M5), localizzato

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o Alla giunzione tra le fibre del parasimpatico postgangliare e le cellule effettrici (cellula

ghiandolari, muscolari lisce e pace-maker)

o Alla giunzione tra le fibre del simpatico postgangliare e le ghiandole sudoripare

o Alla giunzione ghiandolare del sistema neurovegetativo

È anche responsabile del rilascio di NO da parte delle cellule endoteliali, inducendo vasodilatazione

indiretta. Il recettore muscarinico, invece, è un recettore metabotropo, ovvero è accoppiato a proteine G

e si occupa della modulazione di sistemi (gestisce la funzione ghiandolare, muscolare – come la peristalsi

– e vascolare).

Dal punto di vista terapeutico, ciò che è possibile fare è differente tra i diversi tipi di recettori:

- Nicotinico gangliare: poiché i recettori di questo tipo sono condivisi tra simpatico e parasimpatico, sia

l’attivazione che l’inibizione del recettore non porterebbe ad alcun effetto, per gli eventi opposti che

nascono dal simpatico e dal parasimpatico che si bilancerebbero. È possibile una terapia mirata sul

nicotinico gangliare, ma trova applicazione solo nella pratica chirurgica e non è adatta alla terapia

domiciliare.

- Nicotinico muscolare: poiché presente in ogni placca neuromuscolare, una stimolazione diretta del

recettore o un aumento del rilascio del neurotrasmettitore porterebbero a una attivazione

contemporanea di tutte le placche, con conseguente sviluppo di tetanismo. Senza considerare che non

possiamo somministrare acetilcolinadirettamente, in quanto viene degradata prima di raggiungere il

sistema nervoso da acetilcolinesterasi plasmatiche. È possibile, tuttavia, andare ad agire su due livelli

differenti:

o Degradazione dell’Ach, tramite somministrazione di inibitori dell’acetilcolinesterasi, che

permettono una normalizzazione della contrazione muscolare volontaria.

o Blocco del recettore attraverso

A) Antagonisti competitivi dell’Ach (come il curaro)

B) Agonisti che sovrastimolano il recettore e ne determinano il blocco (questo presenta

comunque un pericolo, in quanto si può andare incontro al blocco del diaframma e

quindi blocco respiratorio)

- Muscarinico: possiamo somministrare antagonisti che vanno a rimediare a tutta una serie di patologie

in cui osserviamo attivazione del parasimpatico; sono ad esempio antagonisti del muscarinico:

o Antiasmatici

o Atropina (in genere somministrata loco-regionalmente, per evitare importanti effetti sistemici)

TRASMISSIONE COLINERGICA CENTRALE

Il sistema colinergico centrale origina da gruppi di neuroni colinergici localizzati in tre aree principali: nucleo

basale del setto, nuclei bulbari e nuclei del caudato. L’acetilcolina, a livello centrale, è mediatore di:

- Attivazione corticale e trasmissione talamo-corticale nel cervello anteriore; la degenerazione di questo

sistema porta a demenza senile, parkinsoniana, alcolica o traumatica.

- Regolazione dei movimenti attraverso la via extrapiramidale (nei nuclei del caudato e nel putamen);

la mancata regolazione negativa da parte di neuroni dopaminergici di questa via determina iperattività

dei neuroni colinergici, con conseguente rigidità e tremori (come nel Parkinson).

- Regolazione della secrezione dell’ormone della crescita (neuroni colinergici del nucleo arcuato)

In generale, la trasmissione colinergica è implicata nei processi fisiologici:

- Cognitivi (acquisizione, accumulo e richiamo di informazioni)

- Di regolazione cardiovascolare e della pressione arteriosa

- Di secrezione ormonale e gastrica

- Di movimenti volontari

- Del sonno

- Delle percezioni

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- Del tono, umore e affettività

Le afferenze del colinergico centrale, quindi, sono ubiquitarie; trattare quindi patologie in cui è coinvolta la

trasmissione colinergica centrale rappresenta un problema per il coinvolgimento di tutta una serie di funzioni

basali. Anche a livello centrale si identificano recettori nicotinici (differenti dai periferici, nella conformazione

(alfa7)5 o (alfa4)2(beta2)3, definiti nicotinici neuronali propriamente detti) e muscarinici.

SINTESI DELL’ACETILCOLINA

La base di partenza è rappresentata dalla colina presente nel plasma e nei liquidi extracellulari, a sua volta

derivante dalla fosfatidilcolina assunta attraverso la dieta. Esistono meccanismi omeostatici molto precisi il

cui scopo è mantenere la concentrazione plasmatica della colina a 10 µM: per l’esistenza di questo controllo,

è difficile aumentare la quota di colina circolante. Per produrre acetilcolina, occorre anche acetil-CoA, che è

necessario per il legame dell’acetato alla colina e viene prodotto a livello mitocondriale attraverso il

metabolismo del glucosio e del piruvato.

L’enzima responsabile di catalizzare la sintesi di Ach è la colina-acetiltransferasi (CAT), che produce Ach a

partire da colina e acetil-CoA a livello del citoplasma sinaptico, secondo la reazione:

𝑐𝑜𝑙𝑖𝑛𝑎 + 𝑎𝑐𝑒𝑡𝑖𝑙 − 𝐶𝑜𝐴 → 𝐴𝑐ℎ

La sintesi di questo enzima è controllata dagli ormoni tiroidei, dagli estrogeni e dal NGF; tutti e tre possono

aumentarne la sintesi. L’enzima è estremamente importante per riciclare la colina che raggiunge il neurone e

continuare a produrre Ach: esso rappresenterebbe un cattivo bersaglio farmacologico, in quanto bloccandone

l’attività porterei l’organismo a una completa e generalizzata deplezione di Ach.

All’interno delle vescicole, Ach è spesso associata all’ATP, la quale da un lato riduce la pressione osmotica

della vescicola e, dall’altro, funziona da co-trasmettitore dell’Ach, potenziando e prolungando l’attività

dell’Ach stessa legandosi a recettori post-sinaptici di prolungamento (può però anche legarsi a recettori pre-

sinaptici negativi).

SPEGNIMENTO DEL SEGNALE

Dopo il rilascio vescicolare, il segnale mediato dall’acetilcolina viene spento per degradazione enzimatica

mediata dall’enzima acetilcolinesterasi (AchE). Questo

enzima si trova legata alla membrana basale della sinapsi,

ma può anche essere presente in forma libera (solubile)

nello spazio intersinaptico: quest’ultima viene prodotta dai

neuroni stessi e rilasciata all’esterno. L’enzima permette,

da un lato, di mantenere sempre attiva la sintesi di Ach

(fornendo continuamente colina) e, dall’altro, ne regola la

concentrazione plasmatica.

L’enzima ha un’elevata processività e consiste in una serina

idrossilasi: la sua azione enzimatica funziona in due step,

grazie alla presenza di due tasche di legame: una in cui

viene legata la serina (sito catalitico) e una per il

glutammato (sito anionico). Nella prima tasca si lega anche

la colina (e l’eventuale antagonista) mentre la seconda lega

l’acetato (o la pralidossima, che è un “riattivatore”

dell’enzima).

Esistono altri enzimi in grado di idrolizzare il

neurotrasmettitore al di fuori della sinapsi e a livello

tissutale e plasmatico. In particolare, troviamo la butirrocolinesterasi (o butirrilcolinesterasi), conosciuta anche

come pseudocolinesterasi (BuChE): questo enzima ha una vasta distribuzione tissutale, essendo presente in

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fegato, cute, cervello, muscolatura liscia gastrointestinale; inoltre è presente, in forma solubile, nel plasma.

Questo enzima è il responsabile dell’impossibilità di somministrare direttamente Ach come farmaco anche se

è meno specifico dell’AchE, potendo metabolizzare anche altre molecole.

Gli enzimi che degradano l’acetilcolina sono alcuni dei bersagli farmacologici della trasmissione colinergica;

in genere vengono inibiti quando la trasmissione non è sufficiente perché non è sufficiente la quantità di Ach

oppure quando il numero di recettori è ridotto e occorre una stimolazione continua. Vi sono tre categorie di

farmaci anticolinesterasici, il cui effetto è aumentare l’emivita dell’Ach a livello dello spazio sinaptico,

prolungando e potenziando la stimolazione:

- Anticolinesterasici reversibili a breve durata d’azione: hanno in genere pochi utilizzi. L’edrofonio

è quello più utilizzato, soprattutto per la diagnosi di miastenia grave: si osserva un miglioramento della

contrattilità muscolare.

- Anticolinesterasici reversibili a media durata d’azione: esistono diverse molecole, con utilizzi

differenti, che rallentano l’attività enzimatico in maniera reversibile. In particolare:

o Neostigmina viene utilizzata dagli anestetici per antagonizzare il blocco neuromuscolare da

farmaci non depolarizzanti alla fine degli interventi chirurgici

o Fisostigmina viene usata per il trattamento locale del glaucoma

o Piridostigmina viene usata per il trattamento della miastenia grave

o Tacrina viene usata per il tattemtno della progressione dell’Alzheimer

- Anticolinesterasici a lunga durata o irreversibili (tossici): sono attivi sia su AchE che su BuChE.

Sono composti del fosforo pentavalente (organofosforici) che vennero inizialmente usati come gas

bellici o pesticidi. Formano legami irreversibili con l’enzima, ma solo dopo molto tempo (sono infatti

reversibili nelle prime 2-4 ore). Questi farmaci possono anche passare la barriera emato-encefalica

determinando importanti effetti anche a livello centrale. La pralidossima rappresenta l’antidoto contro

questi anticolinesterasici, in grado di scalzare queste molecole dall’enzima ma solo se usato entro

breve tempo: funziona inoltre solo se l’inibitore si è legato solo alla prima tasca e non alla seconda,

dove si lega la pralidossima stessa. Si viene a formare una molecola di coniugazione pralidossima-

organofosforico che si stacca e libera l’enzima. Se si aspetta troppo tempo dopo l’intossicazione,

l’inibitore si lega anche alla seconda tasca ed il legame diventa irreversibile.

Gli anticolinesterasici hanno effetto su:

- Sinapsi colinergiche autonome, determinando un aumento dell’attività colinergica nelle sinapsi post-

gangliari del parasimpatico. Osserviamo quindi:

o Secrezione ghiandolare

o Secrezione lacrimale

o Secrezione bronchiale

o Secrezione gastrointestinale

o Blocco dell’accomodazione della visione vicina

o Caduta della pressione intraoculare.

Dosi elevate determinano un aumento dell’Ach nel plasma, con conseguente bradicardia, ipotensione

e difficoltà respiratoria.

- Giunzione neuromuscolare, determinando un aumento dello stimolo contrattile: si ha un’attività

elettrica ripetitiva dovuta all’attività prolungata delle molecole di Ach che produce un treno di

potenziali d’azione. L’utilizzo di un anticolinesterasico in presenza di un antagonista competitivo del

recettore della placca (curarico) permette un maggior tempo di permanenza a livello sinaptico di Ach

che compete con il curarico, lo spiazza e ripristina la contrazione.

Dosi elevate causano una forte contrazione muscolare e paralisi: l’antidoto consiste nella trasfusione

di plasma con elevate quantità di AchE e BuChE.

- Sistema nervoso centrale, determinando confusione, convulsioni, depressione, incoscienza e

inibizione della respirazione. Questi effetti sono dovuti alla capacità degli organofosforici di passare

la barriera emato-encefalica e sono legati ai recettori muscarinici. A livello periferico, gli

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organifosforici possono determinare effetti tossici con demielinizzazione del nervo periferico (che

sembra, però, dovuta più all’inibizione di esterasi specifiche per la mielina piuttosto che al blocco di

AchE).

REGOLAZIONE FARMACOLOGICA DELLA TERMINAZIONE COLINERGICA

- Vesamicolo: inibisce il riempimento vescicolare di Ach, in quanto blocca il trasportatore che pompa

Ach nella vescicola stessa.

- Emocolinio: inibisce il trasportatore della colina, andando quindi a inibire il riciclo vescicolare

- Tossine botuliniche: delle tre tossine, la C è la più utile; le tossine botuliniche tagliano le proteine di

ancoraggio delle vescicole; la somministrazione sistemica determina blocco generalizzato dell’attività

colinergica mentre somministrandole loco-regionalmente possono trovare alcuni utilizzi terapeutici.

MODULAZIONE DELLA TRASMISSIONE COLINERGICA

Il rilascio di Ach viene modulato dall’esistenza di autorecettori ed eterorecettori presinaptici, presenti in gran

numero ma differenti a seconda del distretto anatomico; essi fanno parte di complesse reti interneuronali. Gli

autorecettori possono limitare (muscarinici) o rinforzare (nicotinici presinaptici) il segnale e quindi il rilascio

di Ach indotto da depolarizzazione, tramite meccanismi di feedback negativo o positivo. Per quanto riguarda

la regolazione eterotropa, individuiamo:

- Eterorecettori presinaptici negativi, che inibiscono i neuroni colinergici:

o 5-HT1 e 5-HT2

o GABAA

o Alfa2-adrenergico

o A1-adenosinico (P1): sono recettori che riconoscono l’adenosina derivata dalla degradazione

dell’ATP rilasciata assieme all’Ach

- Eterorecettori presinaptici positivi, che attivano i neuroni colinergici:

o D1

o NMDA

o Sostanza P

Inoltre, come già visto, il segnale dell’Ach viene potenziato dall’ATP, che si lega a recettori post-sinaptici P2.

RECETTORI NICOTINICI, AGONISTI E ANTAGONISTI

Sono recettori per l’Ach localizzati nelle giunzioni neuromuscolari, nei gangli, nelle cellule cromaffini e nel

SNC. Sono distinti in:

- Nm, nicotinico muscolare

È presente sulla membrana postsinaptica della placca neuromuscolare ed è un recettore canale. È costituito da

5 subunità: α, β, δ, ε (oppure γ) presenti in rapporto di 2:1:1:1. La subunità α riconosce il ligando, gli antagonisti

e gli agonisti.

Dal punto di vista farmacologico, sul nicotinico muscolare agiscono i miorilassanti, farmaci che determinano

blocco della contrazione; si distinguono due tipi di bloccanti neuromuscolari:

Depolarizzanti: sono farmaci agonisti (come la succinilcolina, o sussametonio) che stimolano il recettore;

essi, tuttavia, vengono metabolizzati più lentamente dell’Ach e restano legati al recettore, determinando

desensitizzazione e impedendo l’ulteriore legame di Ach. Il sussametonio, tuttavia, può provocare

bradicardia, aritmie cardiache legate al rilascio di K+, aumento della pressione endoculare e ipertermia

maligna.

Non depolarizzanti: sono farmaci antagonisti (curarici, come la tubocuranina) che competono con l’Ach

per il legame al recettore. I curarici possono tuttavia causare blocco gangliare, liberazione di istamina, con

conseguente ipotensione e broncocostrizione.

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Abbiamo inoltre farmaci colino-mimetici indiretti (vedi colinesterasici) e diretti (nicotina).

- N, neuronale centrale, e Ng, nicotinico gangliare.

Consistono anch’essi in pentameri, costituiti però da due subunità α e tre subunità β. I recettori neuronali

possono essere presenti nella forma α4β2 oppure α7 (recettore particolare, in quanto è un canale del calcio che

va a modulare in senso positivo il rilascio vescicolare), mentre i recettori gangliari sono presenti come α3 β4.

Sono recettori sia pre- che post-sinaptici.

A livello gangliare troviamo due categorie di farmaci differenti:

Stimolanti gangliari: essi comprendono la nicotina e il DMPP, che esercitano effetti positivi sia sui gangli

simpatici che parasimpatici, determinando effetti complessi quali: tachicardia e aumento della pressione

arteriosa, effetti variabili sulla motilità e secrezione gastrointestinale, aumento delle secrezioni bronchiali,

salivari e sudoripare. La nicotina esercita effetti anche sul SNC. Queste molecole, tuttavia, non trovano

applicazioni terapeutiche.

Bloccanti gangliari: comprendono l’esametonio, trimetafano, tubocurarina (e nicotina: dopo la

stimolazione gangliare infatti si può osservare blocco da depolarizzazione). Questi farmaci bloccano tutti

i gangli autonomi ed enterici, determinando: ipotensione e perdita dei riflessi cardiovascolari, inibizione

della secrezione, paralisi gastrointestinale e inibizione della minzione.

RECETTORI MUSCARINICI, AGONISTI E ANTAGONISTI

A differenza dei recettori nicotinici, che sono ionotropi, i recettori muscarinici sono metabotropi, quindi

accoppiati a proteine G. sono localizzati negli organi innervati dal parasimpatico (sono quindi gli effettori del

parasimpatico), nei gangli simpatici e nel SNC (aree corticali, corpo striato e aree antiche dell’encefalo come

ipotalamo e talamo). Sono i recettori più importanti dal punto di vista terapeutico. Esistono diversi sottotipi:

- M1, 3, 5 stimolano la fosfolipasi C mediante l’accoppiamento a una proteina Gq

- M2,4 inibiscono invece l’adenilato ciclasi mediante Gi. Possono anche aprire canali del K+ in maniera

indiretta attraverso G0: l’uscita di K+ nelle cellule pace-maker provoca depolarizzazione indotta da

corrente di ingresso del Na+ e diminuisce la conduttanza al Ca2+.

Si distinguono tra di loro per la localizzazione anatomica:

- M1: sono soprattutto a livello neuronale: li troviamo a livello della CTZ (chemioreceptor trigger zone,

connessa con i centri del vomito), in aree meso-limbiche e -corticali e in parte anche nella corteccia.

Inoltre li troviamo a livello gastrointestinale.

- M2: localizzati a livello atriale (soprattutto nodo SA) e associati al vago

- M3: localizzati a livello gastrointestinale e sono legati alla secrezione del muco e in parte di HCl. Sono

inoltre coinvolti nel coordinamento della peristalsi.

- M4: localizzati a livello polmonare

- M5: localizzati a livello del muscolo ciliare e dell’iride. Insieme a M1 e M3 gestisce la contrazione

dei muscoli oculari.

In realtà, però, i recettori muscarinici sono ubiquitari (anche se, in alcune zone, prevalgono alcuni sottotipi

piuttosto che altri).

A livello centrale, sono coinvolti con la gestione della memoria e attività basali (regolazione del simpatico,

secrezione attività metabolica); sono maggiormente coinvolti nella demenza senile e parkinsoniana.

Dal punto di vista farmacologico, le terapie si concentrano soprattutto a livello del polmone e del cuore:

- Livello polmonare: i recettori muscarinici (soprattutto M1 e M3) sono coinvolti nella

broncocostrizione, nella produzione di muco e nella formazione di edema. In questo frangente, agisce

un farmaco per la gestione dell’asma, l’ipratropio bromuro, che viene somministrato per via loco-

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regionale permettendo di ottenere rilassamento bronchiale e riduzione della produzione di muco. I

beta2 agonisti (come il Salbutolo) non hanno invece attività sulla secrezione bronchiale ma solo sulla

dilatazione.

- Livello cardiaco: possiamo usare farmaci che agiscono sui recettori M2, andando a modificare

l’attività soprattutto atriale con riduzione della frequenza e contrazione cardiaca.

Possiamo anche avere interventi a livello di:

- Vescica: con iniezioni di tossina tetanica possiamo gestire fenomeni contrattivi della vescica.

- Occhio: possiamo intervenire sulla contrazione pupillare a scopo diagnostico, chirurgico e per la

gestione del glaucoma (stimolando i recettori muscarinici, determiniamo un aumento del drenaggio

dell’umor acqueo e riduciamo anche la pressione endoculare).

In generale, abbiamo sia farmaci agonisti che antagonisti:

- Agonisti muscarinici: i più importanti sono l’acetilcolina, la muscarina e la pilocarpina. Differiscono

per la selettività recettoriale e per la sensibilità alla colinesterasi. Gli effetti principali consistono in:

bradicardia e vasodilatazione, contrazione della muscolatura liscia viscerale, stimolazione delle

secrezioni esocrine, costrizione pupillare e contrazione del muscolo ciliare.

- Antagonisti muscarinici: i più importanti sono atropina, scopolamina e ipratropio. Gli effetti principali

sono: inibizione delle secrezioni, tachicardia, midriasi e paralisi dell’accomodazione, rilasciamento

della muscolatura liscia, inibizione della secrezione acida gastrica. Hanno anche effetti centrali,

specialmente antiemetico e antiparkinsoniano.

TRASMISSIONE PURINERGICA

La trasmissione purinergica riguarda le purine e, in particolare, l’adenosina (A) e l’adenosina trifosfato (ATP):

entrambe le molecole presentano sia attività periferiche che attività centrali. A livello sinaptico, queste due

molecole hanno attività di neurotrasmettitore (in realtà è più un’attività di co-trasmettitore, associati spesso a

noradrenalina e Ach, ma anche DA, 5-HT, amminoacidi eccitatori e peptidi) e di neuromodulatori (sinapsi

differenti da quelle che li hanno rilasciati). La funzione di co-trasmettitore si può verificare sia a livello pre-

sia post-sinaptico:

- A livello pre-sinaptico, svolgono un controllo negativo sul rilascio vescicolare, inibendolo

- A livello post-sinaptico, invece, potenziano e prolungano la risposta del neurotrasmettitore a cui erano

associati: gestiscono in senso positivo la risposta

Anche i metaboliti dell’ATP (ADP e AMP) sono attivi sugli stessi recettori di A e ATP. La liberazione dei

neurotrasmettitori avviene sempre per depolarizzazione mentre lo spegnimento del segnale avviene sia per

degradazione enzimatica (presenza dell’enzima adesonisa deaminasi – ADA –) sia per ricaptazione (inibita dal

dipiridamolo).

ATP e adenosina non hanno però solo funzione a livello neuronale, ma vengono rilasciate anche da altre

cellule, che le rilasciano nel plasma:

- Cellule endoteliali

- Globuli rossi

- Piastrine (ADP media l’aggregazione)

- Cellule in carenza energetica o in ipossia/ischemia; le purine mediano i meccanismi di “salvataggio”

che permettono di riattivare la funzionalità cellulare e, a livello cardiaco, gestiscono il consumo di O2

(diventano quindi coinvolte nel danno da riperfusione, fornendo ossigeno al tessuto ischemico). In

particolare, l’interazione con i recettori A1 e A2A permette di gestire il consumo di O2 e la quantità

intracellulare di ATP in relazione alla condizione.

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Vengono anche rilasciate in risposta al danno o in seguito alla morte cellulare.

RECETTORI PURINERGICI

I recettori purinergici vengono indicati con la sigla P: ne esistono essenzialmente di due tipi, P1 e P2, che si

distinguono per la suscettibilità differente alle due purine.

- Recettori P1

Sono tipicamente recettori per l’adenosina e non riconoscono l’ATP. Ne esistono di due tipi principali, A1 e

A2 (ma sembra esistere anche il tipo A3).

I recettori A1 sono localizzati a livello:

Delle cellule del tronco respiratorio bronchiale

Del SNC

Renale

Gastrointestinale

Cardiovascolare

Del sistema immunitario (infatti, una deficienza di ADA, porta a immunodeficienza)

Questi recettori sono associati a Gi/G0 e inibiscono l’adenilato ciclasi; inoltre modulano l’attività della PLC e

i canali ionici per Ca2+ e K+. I principali farmaci che utilizziamo in questo ambito sono a livello respiratorio

e cardiovascolare.

I recettori A2, invece, sono molto diffusi a livello periferico; ne esistono di due sottotipi, A2A e A2B, entrambi

accoppiati a Gs. Essi sono coinvolti nella regolazione del flusso coronarico (2A), determinano vasodilatazione

dei vasi centrali (2B), sono responsabili di ipotensione e sono regolatori del rilascio di citochine.

L’attività dei recettori A3, invece, è legata all’associazione con Gi/Gq. Le loro funzione e localizzazione non

sono state ancora completamente chiarite, anche se sono presenti a livello polmonare e del SNC. Sembrano

coinvolti nella vasodilatazione coronarica, nella protezione dal danno ipossico e riperfusivo e attivano le

mastcellule.

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- Recettori P2

I recettori P2, invece, sono tipicamente recettori dell’ATP, potendo comunque riconoscere anche i derivati

(AMP, ADP) anche se con un riconoscimento parziale e solo in alcune specifiche aree. Esistono due sottotipi

differenti e la distinzione è basata sul meccanismo d’azione:

P2X1-8 (prima conosciuti come P2Z e P2X), che sono recettori canale. Sono permeabili a ioni Ca2+, Na+,

K+ e sono presenti sia a livello centrale che a livello periferico. P2X7 è permeabile agli ioni Na+ e presente

soprattutto a livello dei macrofagi e dei mastociti, sembrando essere coinvolto nella loro degranulazione

(coinvolto quindi in asma e infiammazione). Dal punto di vista farmacologico, tuttavia, non abbiamo

ancora farmaci.

P2Y1-14 (prima conosciuti come P2Y, P2U, P2T, P2D), che invece sono recettori metabotropi. Sono tutti

accoppiati a Gi e Gq e capaci di attivare la fosfolipasi A2 e C. sono presenti a livello del SNC, ma anche

di rene, piastrine, pancreas, fegato ed endotelio. In particolare, essi sono coinvolti nel rilascio di NO, il

quale media la vasodilatazione conseguente all’ischemia per riperfondere l’organo. Inoltre, mediano la

chemiotassi e la produzione di citochine. A questo livello, particolarmente importante è il recettore P2Y12,

presente sulle piastrine: in tempi recenti, infatti, sono stati scoperti due nuovi farmaci che andranno a

sostituire i cumarinici nella terapia antiaggregante. Questi farmaci sono il clopidrogel e la ticlopidina:

entrambi hanno una finestra terapeutica ampia e sono antagonisti irreversibili del P2Y12, impedendo

quindi alle piastrine di legare GP2b/3a e di aggregarsi. Questi due nuovi farmaci presentano importanti

vantaggi:

o Sono antagonisti non competitivi

o Hanno una finestra terapeutica ampia

o Hanno pochi effetti collaterali

o Hanno un meccanismo irreversibile alternativo all’aspirina (che blocca la COX1, impedendo la

produzione di trombossano) ma senza i suoi rischi; possono quindi essere usati in alternativa

all’aspirina quando il paziente si mostra resistente (per eventuali mutazioni della COX)

o Evitano che il paziente si sottoponga costantemente a dosaggi plasmatici (cosa che accade usando

i cumarinici come il Warfarin)

o Riducono l’insorgenza di emorragie spontanee.

FARMACOLOGIA DEI RECETTORI PURINERGICI

- A livello cardiaco

I recettori A1 mediano l’effetto inotropo, dromotropo e cronotropo negativo. L’adenosina può quindi essere

usata come farmaco per il trattamento delle aritmie sopra-ventricolari, anche in situazioni di urgenza.

L’adenosina ha anche effetto di:

Depressione dell’attività cardiaca, in quanto riduce l’attività dei seni atriali (e quindi la genesi

dell’impulso)

Inibizione della conduzione atrio-ventricolare (e quindi della conduttanza dell’impulso): in questo senso,

l’adenosina aumenta la sincronicità e ha quindi un effetto anti-aritmico, ma riduce anche la trasmissione

degli impulsi ectopici.

- A livello vascolare

I recettori purinergici hanno un effetto vasodilatatore diretto (A1) o indiretto (A2) tramite la liberazione di NO.

L’adenosina può favorire la perfusione vascolari in condizioni ischemiche. Inoltre, può essere usata per inibire

l’aggregazione piastrinica (recettori A2A) e migliorare di conseguenza il quadro ischemico del paziente.

- A livello nervoso centrale

Dal punto di vista farmacologico, l’adenosina non può essere usata direttamente, in quanto ha effetti di

inibizione pre-sinaptica, facilitazione post-sinaptica e neuroprotezione “rescue” (gestione del potenziale della

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fibra). Questi effetti, tuttavia, giustificano l’attività centrale di alcuni farmaci antagonisti dei recettori A1 e A3

(i quali hanno effetto sedativo-ipnotico, anticonvulsivante, ansiolitico, inibitorio del rilascio di DA a livello

striatale, cosa che peggiora il quadro parkinsoniano).

- A livello respiratorio

I recettori A1 hanno un’attività asmogena, in quanto inducono broncocostrizione e broncospasmo in seguito a

degranulazione dei mastociti (recettori A3). L’adenosina induce degranulazione e rilascio di istamina dai

mastociti e basofili (mediata anche da P2Z) e rilascio di Ach dalle terminazioni vagali (mediata anche da P2X)

determinando il quadro tipico dell’asma. Farmaci efficaci in questo senso sono le metilxantine (antagonisti

alcaloidi) come la caffeina, la teobromina e la teofilina: questi farmaci hanno effetti periferici e centrali

importanti, ma dose-dipendente (la caffeina ha effetti di neurostimolazione ma solo a grandi dosi). Hanno

un’emivita molto lunga e possono quindi indurre effetti duraturi e cumulativi.

La teofilina, in particolare, viene usata per la gestione dell’asma, ostacolando la degranulazione mastocitaria

ma agendo anche direttamente sulle miofibre bronchiali, inducendo broncodilazione. Può essere quindi usata

sia in emergenza che con somministrazioni croniche per ridurre la suscettibilità mastocitaria. La teofilina, e le

metilxantine in generale, gestiscono l’attività delle fosfodiesterasi (PDE) che degradano il cAMP in 5’–AMP:

il blocco delle PDE permette un prolungamento dell’attività della chinasi PKA, determinando quindi un effetto

di broncodilatazione. L’attività delle metilxantine è sinergica con i beta2agonisti.

TRASMISSIONE CATECOLAMINERGICA

La trasmissione catecolaminergica riguarda le catecolamine, in gruppo di molecole accomunate dallo stesso

anello catecolaminico. La presenza dello stesso anello determina che queste molecole (adrenalina,

noradrenalina e dopamina) sono caratterizzate da una via biosintetica e degradativa comuni.

DIFFERENZE ANATOMICHE TRA SIMPATICO E PARASIMPATICO

Esistono importanti differenze anatomiche tra simpatico e parasimpatico:

- Innanzitutto presentano un tipo di innervazione (e quindi di funzione) diverso:

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o Il simpatico ha un’attività di modulazione di sistemi piuttosto che di singoli organi; esso

modula quindi più funzioni contemporaneamente (es. la stimolazione del simpatico modula

l’attività cardiaca in toto, quindi frequenza, contrazione, conduttanza, etc)

o Il parasimpatico, invece ha un’attività diretta su un singolo tessuto: il ganglio parasimpatico,

infatti, si trova in prossimità del tessuto che deve controllare e la fibra post-gangliare è molto

breve. Il parasimpatico, quindi, non coordina sistemi ma singola funzioni.

Le funzioni che vengono modulate da simpatico e parasimpatico sono funzioni pre-esistenti: il sistema

nervoso autonomo, quindi, modula ad esempio la secrezione ghiandolare, ma non la produzione delle

molecole, così come modula l’attività già presente del cuore, senza indurla.

- Presentano anche un’organizzazione a livello cellulare differente:

o Nel simpatico, i corpi cellulari colinergici dei neuroni pregangliari sono localizzati a livello

della sostanza grigia intermedio-laterale del midollo spinale da T1 a L2. Questi neuroni

intervengono su funzioni cardio-vaso-motorie.

o Nel parasimpatico, i corpi cellulari dei nervi colinergici sono localizzati nella parte bassa del

tronco encefalico (mesencefalo e midollo allungato) e nella porzione sacrale del midollo, tra

S2 e S4. A questo si aggiungono i nervi oculomotori, facciali, glossofaringei e vaghi.

In generale, tutte le fibre pre-gangliari immagazzinano e rilasciano acetilcolina, sia se appartenenti al simpatico

sia se appartenenti al parasimpatico. Le fibre post-gangliari, invece, possono immagazzinare o acetilcolina o

noradrenalina o adrenali. Le fibre post-gangliari, quindi, sono colinergiche o adrenergiche.

- Sonno fibre colinergiche (oltre alle pre-gangliari dirette a tutti i gangli del SNA e alla midollare del

surrene)

o Fibre parasimpatiche post-gangliari agli organi effettori

o Fibre simpatiche post-gangliari dirette alle ghiandole sudoripare

o Fibre simpatiche dirette ai vasi di alcuni muscoli scheletrici

In tutti e tre i casi, troviamo sulla cellula effettrice recettori muscarinici.

- Sono fibre adrenergiche, invece, le fibre post-gangliari dirette agli organi effettori del simpatico

(recettori alfa- o beta-adrenergici). La noradrenalina viene rilasciata dal terminale sinaptico, mentre

l’adrenalina viene prodotta dal surrene e rilasciata in circolo (il surrene quindi può essere considerato

un ganglio simpatico secernente).

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Esiste, inoltre, una importante integrazione tra sistema simpatico e sistema parasimpatico: le fibre appartenenti

ai due sistemi, infatti, hanno afferente l’una contro l’altra. In questo modo l’iperattivazione di una via

determina automaticamente una iperattivazione dell’altra, con l’instaurazione di un antagonismo che porta a

una situazione di omeostasi. In alcuni tessuti, però, uno dei due sistemi può prevalere sull’altro, come capita

ad esempio a livello cardiaco, con una prevalenza del tono vagale.

Insieme ai neurotrasmettitori veri e propri, possiamo sempre trovare co-trasmettitori; il più rappresentato è in

genere l’ATP, ma troviamo anche NPY, VIP, somatostatina.

TERMINALE SINAPTICO DEL SIMPATICO

Non esiste una vera e propria sinapsi tra il sistema nervoso simpatico e l’organo bersaglio, quanto piuttosto il

nervo presenta una serie di varicosità, rigonfiamenti, ciascuna delle quali rappresenta una stazione a sé stante

rilasciante neurotrasmettitore. Ogni singolo terminale sinaptico è regolato localmente da ciò che ha attorno:

esso riceve una serie di stimoli positivi e negativi la cui sommatoria serve per determinare il rilascio o meno

del neurotrasmettitore ma il treno di potenziali raggiunge ogni singola stazione della fibra.

Questo determina l’esistenza di una differenza tra il sistema catecolaminergico centrale e periferico:

- Al centro, troviamo un singolo terminale sinaptico della via simpatica

- In periferia, invece, abbiamo più stazioni, una in seguito all’altra, che permettono una trasmissione

continua.

Dal punto di vista farmacologico, possiamo agire sia a livello pre-, che inter- che post-sinaptico.

- A livello post-sinaptico possiamo agire somministrando agonisti o antagonisti dei recettori, stimolando

o inibendone la risposta. Un esempio sono i betabloccanti, importanti antipertensivi che agiscono a

livello della fibra post-sinaptica.

- A livello intersinaptico possiamo modulare il re-uptake, ad esempio con degli inibitori. Questo è

particolarmente importante a livello centrale, dove gli inibitori del reuptake funzionano come

antidepressivi. L’intervento sul reuptake in periferia, invece, è differente a causa di un meccanismo di

diluizione del neurotrasmettitore

- A livello pre-sinaptico, è possibile sia una regolazione autologa che eterologa

o La regolazione autologa è basata sulla modulazione dell’attività di

A) Recettori alfa-2 inibitori

B) Recettori beta-2 facilitatori

C) MAO mitocondriali e citoplasmatici: l’utilizzo di IMAO aumenta la quantità di

neurotrasmettitore citoplasmatico e velocizzano il riempimento vescicolare.

Terapeuticamente parlando, quindi, possiamo agire su diversi punti:

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- A livello periferico, andremo a gestire attività

o Cardiaca

o Polmonare

o Gastrointestinale

o Renale

- A livello centrale, invece, gestiamo

o Depressione

o Problematiche psichiatriche

o Dipendenza

o Problematiche motorie

SISTEMA CATECOLAMINERGICO CENTRALE

A livello centrale abbiamo una distinzione delle vie che utilizzano i tre neurotrasmettitori; avremo quindi:

- Vie adrenergiche centrali (che usano adrenalina come neurotrasmettitore)

- Vie noradrenergichce centrali (che usano noradrenalina come neurotrasmettitore)

- Vie dopaminergiche centrali (che usano dopamina come neurotrasmettitore)

La differenza tra le singole vie è di tipo enzimatico (le vie dopaminergiche saranno dotate degli enzimi per la

sintesi di dopamina ma non per la sintesi degli altri due neurotrasmettitori e viceversa) e di distribuzione

anatomica e funzionale.

Vie adrenergiche centrali

Le vie adrenergiche centrali sono composte da piccoli neuroni, localizzati nella sostanza reticolare ascendente,

da cui partono proiezioni:

- Ascendenti, dirette al locus coeruleus, all’ipotalamo e al talamo. In questo modo, le vie adrenergiche

centrali esercitano un controllo sulle vie noradrenergiche centrali.

- Discendenti, che innervano la colonna laterale del simpatico nel midollo spinale e originano dai centri

cardioacceleratore e vasomotore del bulbo: esercitano quindi un controllo sull’attività cardio-vaso-

motoria. Farmaci che agiscono su queste vie, quindi, potranno avere effetto ipertensivo o

antipertensivo (es. clonidina, che è un agonista dei recettori alfa2-adrenergici pre-sinaptici del centro

vasomotore: il legame a questi recettori inibisce la produzione e il rilascio di noradrenalina, con

riduzione del tono simpatico e prevalenza dell’attività parasimpatica).

Vie noradrenergiche centrali

Le vie noradrenergiche centrali originano dal locus coeruleus e dal tegumento laterale, proiettandosi,

rispettivamente:

- Sul midollo spinale, sul cervelletto, sulla corteccia e sull’ippocampo

- Sull’ipotalamo, sul bulbo olfattivo, sull’amigdala e sul midollo

Queste vie sono:

- Responsabili del controllo centrale dell’attività del sistema nervoso vegetativo, attraverso fibre al

tronco encefalico e con fibre ascendenti verso l’ipotalamo

- Responsabili della gestione della pressione sanguigna attraverso i barocettori e chemocettori

- Coinvolte nella patogenesi della depressione (legata a un aumento di beta1 e una diminuzione di alfa2

a livello della corteccia frontale e del sistema limbico)

- Coinvolti nella regolazione dello stato di veglia (alfa1 nello stato di veglia, alfa2 nella sedazione)

- Coinvolti nel comportamento alimentare, insieme ad altri neurotrasmettitori (alfa2 ha effetto

facilitatore sulla porzione mediale dell’ipotalamo, mentre beta2 ha effetto inibitore sulla parte laterale

dell’ipotalamo)

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- Responsabili di effetti endocrini, in quanto hanno effetto, a livello di ipotalamo e ipofisi, sul rilascio

di diversi ormoni

o Rilascio di ACTH: stimolato da alfa1 e inibito da beta2

o Rilascio di GH: inibito da alfa1 e facilitato da alfa2A

o Rilascio di TSH: facilitato da alfa1 tramite liberazione di TRH

o Rilascio di FSH e LH: stimolati da alfa1, che stimola l’ipotalamo che a sua volta stimola

l’adenoipofisi tramite LHRH

Vie dopaminergiche centrali

Le tre vie principali relative alla trasmissione dopaminergica sono:

- Il circuito nigrostriatale

I neuroni dopaminergici nigrostriatali sono localizzati nella pars compacta della sostanza nigra e proiettano

su tutto il corpo striato (composta da caudato e putamen). Essi sono coinvolti nella regolazione del sistema

extrapiramidale, predisposto al coordinamento del movimento volontario e del tono muscolare. La via

nigrostriatale contiene circa il 75% della dopamina del cervello. Deplezione di questi neuroni

dopaminergici è alla base del morbo di Parkinson (di cui ancora non si è ben chiarita la patogenesi) e altre

patologie del movimento. In queste situazioni, possiamo agire

- Somministrando precursori della dopamina, per aumentare l’attività di questa via (es. L-DOPA)

- Agendo direttamente sui recettori raggiunti da queste vie, mimando con agonisti gli effetti

dopaminergici assenti

- Il circuito mesolimbico e mesocorticale (mesotalamico)

Questi circuiti sono implicati, tramite i recettori D2, in processi psichici, mnemonici ed emotivi, legate

soprattutto a piacere, personalità, ricompensa. Sono inoltre coinvolti:

- In tutte le patologie psichiatriche in cui è presente dipendenza

- Nella schizofrenia

- Il circuito tuberoinfundibolare e tuberoipofisario

Questi circuiti sono formati da proiezioni dirette all’ipotalamo e all’ipofisi e sono in grado di modulare la

secrezione neuroendocrina. Per questo motivo, quando trattiamo patologie legate alle vie dopaminergiche,

abbiamo anche effetti collaterali sulla secrezione endocrina (specie della prolattina). L’utilizzo di farmaci

neurolettici (psicofarmaci), dando disfunzione neuroendocrina, sono responsabili di:

- Impotenza e ginecomastia nell’uomo

- Amenorrea e galattorrea nella donna

Recettori dopaminergici sono anche coinvolti:

- Nei circuiti che regolano, a livello ipotalamico, l’appetito e la temperatura corporea

- Nella modulazione di alcuni sistemi endocrini (es. prolattina, tramite recettori D2)

- Nel controllo dela nausea e del vomito (recettori D2A nella CTZ)

- Nel controllo del tono vascolare a livello cerebrale (i recettori D1 regolano la vasodilatazione

cerebrale)

- Nella gestione presinaptica eterologa: i recettori D2B, infatti, sono recettori presinaptici inibitori che

inibiscono il rilascio di noradrenalina inibendo i canali per il calcio.

Un’ulteriore zona importante è la ventral tegumental area (VTA): a questo livello troviamo una serie di

integrazioni che riguardano le vie peptidergiche oppioidi e le vie GABAergiche centrali, fondamentali poiché

portano alla risposta corticale per la gestione della personalità.

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CONTROLLO DELL’EMESI

Una problematica importante compresa in alcune terapie è l’emesi. L’utilizzo, infatti, di alcuni farmaci (es. L-

DOPA, ma anche chemioterapici) porta a uno stimolo della CTZ con conseguente nausea e vomito. Il controllo

dell’emesi è quindi fondamentale per una buona compliance alla terapia. Si utilizzano, in genere, due tipi di

farmaci:

- Antidopaminergici (es. domperidone): a livello della CTZ, infatti, troviamo i recettori D2 ed usando

antagonisti dopaminergici andiamo a inibire l’attivazione del centro. Questi farmaci, tuttavia, in

quanto antagonisti della dopamina, non devono passare la barriera ematoencefalica o

determinerebbero un effetto negativo su tutte le vie dopaminergiche. La CTZ, seppur compresa nella

barriera, si trova in una zona in cui però la barriera ematoencefalica è meno rigida, permettendo il

passaggio di questi farmaci

- Antiserotoninergici: a livello della CTZ abbiamo anche recettori 5-HT3.

SINTESI DELLE CATECOLAMINE

La sintesi dei neurotrasmettitori usati nelle vie catecolaminergiche ha origine da componenti della dieta. I

precursori comuni a tutte e tre le vie sono costituiti da amminoacidi, quali la tirosina e la fenilalanina (che

viene convertita in tirosina dalla fenilalanina idrossilasi): sono quindi componenti facilmente reperibili,

riciclabili, praticamente inesauribili e facilmente convertibili gli uni negli altri.

Dalla tirosina otteniamo L-DOPA, che è il precursore comune a tutte e tre le vie. Per questo motivo L-DOPA

è un farmaco usato in tutte le patologie che coinvolgono le vie catecolaminergiche; questo, però, comporta

anche tutta una serie di effetti collaterali, sia a livello periferico che a livello centrale (anche se a livello

periferico abbiamo farmaci capaci di ridurre la produzione dei singoli neurotrasmettitori, cosa che invece è più

complicata centralmente).

Sebbene il precursore sia comune, le tre vie sono distinte per il patrimonio enzimatico alla base della sintesi:

- Se il terminale appartiene alla via dopaminergica, sarà dotato degli enzimi tirosina idrossilasi e dopa

decarbossilasi

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- Se il terminale appartiene alla via noradrenergica, oltre agli enzimi precedenti, presenterà anche la

dopamina-beta-idrossilasi

- Se il terminale appartiene alla via adrenergica, avremo anche la feniletanolamina-N-metiltrasferasi

La sintesi è sottoposta a meccanismi di controllo a feedback.

La regolazione della sintesi è effettuata a livello del primo step, quindi della tirosina idrossilasi: questo enzima,

presente a livello del reticolo endoplasmatico, viene inibito dal prodotto finale della sintesi (si parla di self

regulation). Inoltre, l’eccesso di sintesi di catecolamine viene regolato anche dall’attività delle MAO

mitocondriali, che possono catalizzare le molecole.

La dopa-decarbossilasi è presente nei neuroni ma anche a livello periferico: gli inibitori enzimatici che non

possono passare la barriera ematoencefalica vengono usati per evitare l’attività periferica della L-DOPA.

Le dopamina-beta-idrossilasi è presente all’interno della vescicola, soprattutto a livello del surrene, e viene

inibita dal disulfiram. All’interno delle vescicole, quindi, troviamo complessati noradrenalina, dopamina-beta-

idrossilasi, cromogranine acide, Ca2+, Mg2+ e ATP (con funzione di co-trasmettitore). Il trasportatore che si

occupa del riempimento vescicolare viene inibito dall’alcaloide reserpina, che determina deplezione dei

depositi di noradrenalina (e anche delle altre catecolamine).

L’arrivo di un impulso nervoso provoca il rilascio di noradrenalina, che è un processo Ca2+-dipendente.

Inoltre, il calcio presente nelle vescicole permette un’autoregolazione: il Ca2+ periplasmatico modula il Ca2+

intracellulare.

ANALOGHI SINTETICI

Le catecolamine hanno una struttura simile a tre analoghi sintetici: amfetamina, metamfetamina e

metilendiossiamfetamina (ecstasy). Tutte e tre le molecole sono nate come farmaci, ma hanno smesso di

trovare applicazione in campo terapeutico in quanto hanno:

- Importanti attività psicotrope, in quanto agiscono sulle aree mesolimbiche e mesocorticale, dando una

forte dipendenza

- Importanti effetti collaterali periferici, anche molto pericolosi, potendo portare alla desensitizzazione

recettoriale.

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La presenza, in questi analoghi, di gruppi metilenici aumenta la loro lipofilia, determinando una buona

distribuzione a livello del SNC, potendo passare facilmente la barriera ematoencefalica. Essi danno effetti a

livello della gestione dell’appetito e della perdita della personalità (tanto che vengono usati come droghe per

la loro azione di sospensione della realtà). Inoltre, potendo agire sui centri ipotalamici (circuito tubero-

infundibolare) possono portare a manifestazioni tossiche come ipertermia maligna, a causa di un mancato

controllo della temperatura corporea (rischio di shock termico).

SPEGNIMENTO DEL SEGNALE

Lo spegnimento della trasmissione catecolaminergica è rappresentato soprattutto dal meccanismo di reuptake

(particolarmente importante per noradrenalina e adrenalina). In particolare, circa l’80% dei neurotrasmettitori

vengono ricaptati: la maggior parte viene sottoposto a reuptake di tipo 1, attraverso un trasportatore ad alta

affinità ma è presente anche il reuptake di tipo 2, a bassa affinità. I trasportatori utilizzano come motore il

gradiente di Na+ generato dalla Na+/K+ ATPasi.

Il reuptake è quindi un importante bersaglio farmacologico. In particolare, su di esso agiscono:

- Antidepressivi triciclici: i farmaci di prima generazione (imipramina, nortriptilina) inibiscono

soprattutto la ricaptazione di noradrenalina (ma anche di serotonina). I farmaci di seconda generazione

hanno strutture differenti ma effetti pressoché simili. Ad oggi, tuttavia, esistono anche gli Inibitori

Selettivi della Ricaptazione della Serotonina (SSRI), quali fluoxetina e paroxetina, che non

interferiscono con l’uptake di NA.

- Cocaina: a livello centrale, blocca i trasportatori soprattutto della dopamina (a livello mesolimbico-

corticale), determinando una liberazione non quantale con conseguente euforia, veglia, anoressia. A

livello periferico, invece, blocca il reuptake della noradrenalina, con effetti sul cuore dovuti a

vasocostrizione coronarica, ischemia coronarica e cerebrale.

Oltre al re-uptake, nella terminazione del segnale catecolaminergico sono coinvolti altri due meccanismi:

- Deaminazione mono-ossidativa: riguarda soprattutto adrenalina e noradrenalina, ma anche i diversi

prodotti della COMT. La reazione è dovuta alla presenza della MAO (mono-amine ossidasi) che, a

livello neuronale, sono localizzati nella membrana esterna dei mitocondri della singola terminazione

sinaptica e gestiscono la quantità corretta di neurotrasmettitore. Utilizzando inibitori di questo sistema

enzimatico (IMAO) andiamo ad aumentare il livello di neurotrasmettitore nella sinapsi e aumentiamo

il riempimento vescicolare. Sono esempi di IMAO la selegilina e la pargilina (inibitori competitivi).

L’assunzione di alimenti ricchi di tiramina (lievito, latticini, vino, etc.) insieme agli IMAO si può avere

la produzione nel neurone di octopamina, un falso neurotrasmettitore, che riempie le vescicole e viene

quindi rilasciato al posto della noradrenalina. Si va incontro a effetti collaterali dovuti a liberazione

non quantale, depauperamento delle vescicole e scarsa neurotrasmissione (con conseguenti crisi

ipertensive, anche pericolose).

- Orto-metilazione: è dovuta alla presenza, sia nel citoplasma della sinapsi, che nello spazio

intersinaptico, dell’enzima COMT (catecolo-ortometil-transferasi). È un enzima ubiquitario, attivato

da Mg2+ e Ca2+, che, insieme alle MAO, gestisce la catena catabolica delle catecolamine. Sono inoltre

responsabili dell’effetto di diluizione.

Inibitori delle COMT (es. entacapone) determinano un aumento della trasmissione sinaptica, a causa

dell’aumento della quantità di neurotrasmettitore a livello intersinaptico. A livello centrale mostrano

molti effetti collaterali e per questo motivo vengono in generale usati come inibitori delle COMT

periferiche. Sono in genere somministrati assieme alla L-DOPA per prolungarne l’effetto e

aumentarne la quantità.

RECETTORI PER LE CATECOLAMINE

I recettori per le catecolamine sono tutti recettori metabotropi, associati a proteine G. Sono suddivisi in due

grandi gruppi:

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- Recettori adrenergici, per adrenalina e noradrenalina

- Recettori dopaminergici, per dopamina

In realtà, le catecolamine riconoscono tutti i recettori: la dopamina, infatti, ad alte dosi, può legarsi anche ai

recettori adrenergici.

RECETTORI ADRENERGICI

La famiglia dei recettori adrenergici è composta dai recettori alfa e dai recettori beta. I recettori alfa, oltre a

essere distinti in alfa1 e alfa 2 presentano una suddivisione in sotto-sotto-tipi, almeno sei (forse 8): 1A, B, D e

2A, B, C (la differenza è basata praticamente sulla collocazione anatomica). Per quanto riguarda il recettore

beta, la classificazione si basa sulla distinzione di soli sotto-tipi (tre in tutto). Poiché il sistema simpatico è

ubiquitario sia in periferia che a livello centrale, la farmacologia è basata sulla distinzione in sotto- e sotto-

sotto-tipi, in maniera da colpire selettivamente il tipo recettoriale coinvolto e limitare gli effetti collaterali. I

recettori alfa e beta, pur riconoscendo entrambi adrenalina e noradrenalina, presentano una differente affinità

verso le due molecole. Questa affinità varia anche in base alla collocazione anatomica del recettore (in quanto,

cellule diverse determinano uno stato di fosforilazione diverso e quindi una costante di affinità diversa).

In generale, però:

- alfa: adrenalina > noradrenalina >> isoproterenolo (è un broncodilatatore, usato come anti-asma ma

anche per problematiche cardiache)

- beta: isoproterenolo > adrenalina > noradrenalina

Recettori alfa

Distinguiamo sostanzialmente i recettori alfa1 e alfa 2, differenziabili sulla diversa sensibilità per due agonisti,

la fenilefrina (alfa1) e la clonidina (alfa2) e per due antagonisti, la prazosina (alfa1) e la yoimbina (alfa2).

I recettori alfa1A,B,D sono recettori associati a PLC tramite proteina Gq/11: con la loro attivazione,

determinano un aumento dei livelli di IP3 e DAG con conseguente aumento del Ca2+ intracellulare e

attivazione della PKC. Sono recettori post-sinaptici presenti:

- A livello periferico: muscolatura liscia dei vasi (arterie e vene) di grosso calibro, muscolatura liscia

gastrointestinale e del tratto genitourinario, postata, utero e cuore. Hanno attività vasocostrittrice con

aumento della pressione arteriosa con bradicardia riflessa. Inoltre inducono glicogenolisi e

gluconeogenesi epatica.

- A livello centrale: aree noradrenergiche della corteccia, ippocampo, ipotalamo, bulbo olfattivo,

motoneuroni. Sono particolarmente importanti per tutte quelle patologie che portano a depressione.

Dei recettori alfa1, particolarmente importante è l’alfa1A, associato alle arterie e vene di grosso calibro, sulle

quali determina costrizione e conseguente aumento della pressione arteriosa (effetto ipertensivo). A questo

livello, possiamo usare:

- Agonisti (come noradrenalina e adrenalina, quest’ultima più efficace): hanno come scopo

aumentare la contrazione dei vasi e di conseguenza aumentare le resistenze periferiche. L’aumento

della pressione che ne deriva risulta essere utile in situazioni di edema o shock.

- Antagonisti competitivi (come prazosina): permettono di ridurre le resistenze in presenza di una

patologia ipertensiva; la conseguente riduzione della pressione permette anche di ridurre la fatica del

cuore (a causa della riduzione di pre- e post-carico).

I recettori alfa2A,B,C sono invece associati, all’adenilato ciclasi con Gi (riduzione del cAMP) e, tramite G0,

possono attivare canali del K+ o inibire canali del Ca2+. Sono sia recettore pre- (2A e 2C) che post-sinaptici

(2B), ma in entrambi i casi hanno un effetto inibitorio. Questi recettori sono presenti:

- Nelle terminazioni noradrenergiche a livello presinaptico, dove controllano ed inibiscono l’ulteriore

rilascio di noradrenalina

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- A livello dei gangli sinaptici, dove inibiscono a livello post-sinaptico l’azione di Ach e a livello pre-

sinaptico la liberazione di Ach.

- A livello centrale

I recettori 2A sono espressi, centralmente, nel tronco encefalico, nella corteccia cerebrale, nell’ippocampo, nel

cervelletto, nell’ipofisi e nel midollo spinale mentre, in periferia, nelle isole pancreatiche (cellule beta), dove

riducono la secrezione di insulina. Modulano, inoltre, la costrizione arteriosa. L’agonista clonidina viene

utilizzato come antipertensivo (legandosi agli A2 pre-sinaptici, riduce il rilascio di NA e quindi l’effetto

vasocostrittore).

I recettori 2B inibiscono anche in modo diretto l’attività dei canali del calcio voltaggio-dipendenti e inibiscono

a livello pre-sinaptico il rilascio di noradrenalina. Sono presenti anche a livello post-sinaptico nel diencefalo,

nella milza e nel rene. A livello centrale, esercitano effetti antipertensivi (la clonidina è un agonista parziale).

I recettori 2C sono presenti a livello del fegato, delle piastrine, dei vasi renali, della muscolatura liscia dei vasi

scheletrici e della muscolatura liscia bronchiale. Sono responsabili per la vasocostrizione venosa. A livello

centrale sono invece presenti nei gangli della base e nel cervelletto. Anch’essi inibiscono direttamente i

recettori VDCC e riducono il rilascio di noradrenalina.

Recettori beta

I recettori beta sono accoppiati ad una proteina Gs ed aumentano i valori di cAMP con modulazione del Ca2+.

Inoltre, beta1 è coinvolto nella fosforilazione, tramite attivazione di PKA, del canale VDCC, con conseguente

afflusso di Ca2+ nella cellula.

I recettori beta1 sono localizzati:

- Nel cuore, che è il sito anatomico più importante (sono a livello del nodo SA, nell’atrio, nel nodo AV,

nelle fibre di Purkinje e nel miocardio del ventricolo). A questo livello, in particolare, la stimolazione

dei beta1 ha effetti inotropo, cronotropo, batmotropo e dromotropo positivi. Dal punto di vista

farmacologico, molto usati sono gli antagonisti competitivi (beta-bloccanti), che possono essere

selettivi per beta1 o non selettivi, riconoscendo sia beta 1 che beta2.

- Nell’apparato iuxtaglomerulare del rene (dove stimolano il rilascio di renina)

- Nelle vie adrenergiche e noradrenergiche del SNC

- Nell’occhio (dove determinano secrezione di umor acqueo e midriasi): in caso di glaucoma, possiamo

somministrare antagonisti competitivi dei recettori a livello del muscolo ciliare, riducendo la sintesi di

umor acqueo e riducendo la pressione endoculare.

Sono ugualmente sensibili all’adrenalina e alla noradrenalina.

I recettori beta2 sono presenti:

- Nel cuore: sono sia pre-sinaptici (potenziano il rilascio di noradrenalina, con aumento della forza e

frequenza di contrazione) che post-sinaptici effettori (a livello delle valvole e dell’epicardio)

- Nella muscolatura liscia vasale delle arteriole (post-sinaptici, inducendo vasodilatazione coronarica,

dei vasi renali e gastrointestinali) e delle arterie muscolari (con effetto vasodilatatore)

- Nella muscolatura liscia di vari organi (inducono dilatazione a livello bronchiale, gastrico,

genitourinario)

- Nel fegato (post-sinaptici: stimolano la glicogenolisi)

- Nel pancreas (stimolano la secrezione di insulina)

- Nella muscolatura scheletrica (post-sinaptici: stimolano la glicogenolisi)

- Nell’utero (determinano rilassamento)

Sono molto sensibili all’adrenalina ma poco alla noradrenalina.

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I recettori beta3, invece, sono localizzati soprattutto nel tessuto adiposo, anche bruno, dove modulano la lipolisi

con rilascio di glicerolo. Sono inoltre presenti a livello della vescica, della colecisti e del retto (insieme agli

altri due tipi recettoriali).

RECETTORI DOPAMINERGICI

I recettori dopaminergici sono dividi in due gruppi:

- D1, detti anche D1-like family, che sono sensibili alla dopamina e all’apomorfina (è un agonista D1

che induce la salivazione e trova uso nell’impotenza); corrispondono ai recettori D1 e D5 secondo la

vecchia nomenclatura (ora D1A e D1B)

- D2, detti anche D2-like family, che sono sensibili alla dopamina, bromocriptina (è un agonista D2 che

viene usata per gestire problematiche psichiatriche e come antiemetico) e sono bloccati da sulpiride.

Essi corrispondono ai vecchi D2, D3, D4, ora conosciuti come D2A, D2B, D2C.

I recettori, a livello centrale ma anche periferico, sono ubiquitari, cosa che rende complicata una terapia

selettiva e determina una serie di effetti collaterali. A livello centrale, tra l’altro, sulla stessa cellula è possibile

trovare più tipi di recettori dopaminergici: si pensa che ciò dia dovuto al fatto che ciascun recettore può

modulare gli altri, con conseguente esistenza di un tono prevalente sugli altri.

I recettori D1-like sono collegati all’adenilato ciclasi tramite la proteina Gs, inducendo la fosforilazione di

DARRP-32 ed aumentando l’attività della fosfolipasi con mobilizzazione di Ca2+.

I recettori 1A sono periferici, prevalentemente presenti sui muscoli lisci degli organi effettori come cellule

endocrine, cuore, cellule muscolari lisce, mesenteriche. Sono presenti anche nel rene e nel surrene. Essi

mediano una risposta vasodilatatrice dei vasi sanguigni periferici, a livello renale, mesenterico, coronarico e

cerebrale. A dosi elevate di dopamina, inoltre, si ottiene un effetto inotropo positivo sul cuore.

I recettori 1B, invece, seppur presenti in periferia (importanti quelli a livello dell’arteria polmonare), sono

importante a livello centrale: sono presenti nella corteccia, nel talamo, nell’ipotalamo, nello striato, nel sistema

limbico, nell’ippocampo. Essi sono coinvolti nella gestione del movimento extrapiramidale e nelle dipendenze.

I recettori D2-like, invece, riducono l’attività dell’adenilato ciclasi mediante l’azione di Gi e inibiscono

l’afflusso di Ca2+. La riduzione dei livelli di cAMP determina l’apertura di canali del K+, chiusura di quelli

del Ca2+ e modulazione del metabolismo del fosfoinositolo.

I recettori 2A sono localizzati nello striato, nella sostanza nera (sono quelli coinvolti nelle problematiche

motorie del Parkinson), nell’ipofisi e nelle arterie renali. Insieme ai 2C, sono recettori post-sinaptici inibitori

che riducono il rilascio di noradrenalina.

I recettori 2B sono localizzati nel bulbo olfattivo, nello striato laterale, nell’ipotalamo e nei nuclei mammilari:

sono recettori pre-sinaptici auto- ed etero-inibitori che intervengono nella gestione della trasmissione

dopaminergica. A livello periferico, invece, sono responsabili di: vasodilatazione renale, coronarica, cerebrale

e mesenterica.

I recettori 2C sono invece nella corteccia frontale, nel bulbo, nel mesencefalo, nel cervelletto e a livello della

midollare del surrene. Essi sono coinvolti nella regolazione della respirazione, dell’omeostasi salina e del

sistema simpatico.

EFFFETTI CENTRALI E PERIFERICI DELLA DOPAMINA

La dopamina non può essere usata come farmaco a livello centrale, in quanto, per le sue caratteristiche chimico-

fisiche, non riesce a superare la barriera ematoencefalica (è una molecola grossa e polare): per questo motivo

somministriamo il precursore L-DOPA, che, al contrario, può passare la barriera. La dopamina trova però uso

farmacologico a livello periferico, dove determina:

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- Vasodilatazione nelle arterie renali (il conseguente aumento del flusso permette di migliorare la

funzionalità renale e di eliminare una quantità maggiore di acidi, ioni, etc)

- Aumento della performance cardiaca, grazie al legame ai recettori beta1-adrenergici (solo se data ad

alte dosi).

RUOLO DEGLI INTERNEUORNI NON-AMINERGICI

A livello centrale, al funzionamento della dopamina e di L-DOPA contribuiscono anche cellule dell’astroglia

(che sono in grado anch’esse di convertire L-DOPA in dopamina, aumentando di conseguenza la dopamina a

livello intersinaptico); queste cellule possono regolare la quantità di dopamina sia in senso positivo che in

senso negativo (sono dotate di MAO – tanto che gli IMAO funzionano più sull’astroglia che sui neuroni

dopaminergici veri e propri – e COMT). Senza l’attività gliale, l’effetto dei soli neuroni non sarebbe sufficiente

per la trasmissione dopaminergica. Oltre a ciò, sull’astroglia sono presenti recettori per la dopamina e

meccanismi di re-uptake. Sull’astroglia troviamo anche recettori glutammatergici metabotropi, che permettono

di gestire il metabolismo di diversi neurotrasmettitori.

RUOLO NELLA MALATTIA DI PARKINSON

La malattia di Parkinson deriva da una perdita di neuroni dopaminergici nella pars compact della substantia

nigra che proiettano al corpo striato (anche se i sintomi compaiono solo in seguito alla perdita del 70-80% dei

neuroni); da questa deplezione deriva uno sbilanciamento tra i livelli di acetilcolina e dopamina nei gangli

della base.

A livello dello striato troviamo contemporaneamente i recettori 2A e 1B, che presentano un’attività

antagonista: gli 1B stimolano il neurone colinergico, mentre i 2A lo inibiscono. La sommatoria dei diversi

segnali permette di gestire il neurone colinergico dello striato. Nella malattia di Parkinson, con la morte dei

neuroni della pars compacta, viene a mancare l’effetto inibitorio dei 2A, con conseguente ipertono colinergico,

con rigidità muscolare e incapacità di iniziare il movimento. Per migliorare il quadro, dal punto di vista

terapeutico ci sono due possibili interventi:

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- Somministrazione di L-DOPA, che viene usata dai neuroni rimanenti nella substantia nigra per

produrre dopamina, aumentando la stimolazione sui 2A (così, tuttavia, stimoliamo anche gli 1B, che

bilanciano l’effetto)

- Somministrazione di agonisti dei 2A

RUOLO NELLA DIPENDEZA, TOLLERANZA, ASTINENZA

I recettori dopaminergici sono coinvolti anche nello sviluppo della dipendenza, a causa dei recettori D1B

presenti a livello mesolimbico e mesocorticale. Molecole come la cocaina, gli oppioidi, etc. oltre a dare

dipendenza, se usati cronicamente, diventano responsabili di una modifica all’architettura neuronale che

mantiene lo stato di dipendenza. Ciò rende più difficile per il paziente disintossicarsi, perché anche il minimo

fattore scatenante può farlo ricadere nella dipendenza. Occorre, in genere, dare al paziente dosi scalari

decrescenti di un agonista (come i peptidergici) per migliorare gradualmente il quadro di dipendenza e far

tornare l’architettura cerebrale a quella originale.

Esistono alcune molecole che, al contrario, danno una forte dipendenza nel bambino (etanolo, caffeina,

morfina).

La dipendenza può essere di due tipi:

- Psicologica: è quella dipendente dalla via mesolimbica e mesocorticale (ed è quella più complicata da

rimuovere)

- Fisica: dovuta a una modificazione del metabolismo cellulare.

FARMACOLOGIA DEI RECETTORI CATECOLAMINERGICI

Recettori alfa1

Gli agonisti vengono definiti simpaticomimetici: aumentano le resistenze periferiche, vasocostringendo la

muscolatura liscia vascolare. Possono essere utilizzati loco-regionalmente per decongestionare gli occhi e la

mucosa nasale.

Gli antagonisti selettivi (prazosina) provocano al contrario vasodilatazione e diminuzione della pressione

arteriosa. Non hanno effetti, o comunque minimi in quanto selettivi, sugli alfa2: non bloccano quindi gli

autocettori inibitori presinaptici della noradrenalina, non modificando quindi la frequenza cardiaca.

Recettori alfa2

Gli agonisti hanno effetto dovuto alla diminuita capacità di rilascio della noradrenalina da parte dei terminali

ortosimpatici. L’utilizzo di clonidina sui recettori del tronco encefalico determina a una riduzione del tono

simpatico e a un aumento del tono parasimpatico. Si hanno effetti antipertensivi per diminuzione della

pressione arteriosa.

La stessa clonidina può essere usata nella preanestesia e nella neuroleptoanestesia che permette di ridurre le

dosi degli anestetici.

Agonisti degli alfa2A possono inibire i sintomi dell’astinenza da oppiacei, che provoca attivazione di neuroni

noradrenergici del locus coeruleus. Gli antagonisti sono poco utilizzabili.

Recettori beta

Gli agonisti non selettivi come l’isoproterenolo possono essere usati per il trattamento dell’arresto cardiaco (e

dell’asma). Gli agonisti selettivi per beta2, invece, come salbutamolo sono utili nel trattamento dell’asma

bronchiale (determinano broncodilatazione): devono però essere usati prevalentemente per via inalatoria per

evitare effetti cardiaci. Anche l’adrenalina è un farmaco agonista, utilizzato in situazioni di emergenza per via

IV o intracardiaca per trattare arresto e anafilassi.

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Gli antagonisti sono definiti beta-bloccanti. Quelli selettivi per beta1 sono utili nel trattamento

dell’ipertensione, cardiopatia, ischemia e aritmie, in quanto agiscono a livello cardiaco, diminuendo la forza

di contrazione, la gittata e la frequenza cardiaca.

Recettori dopaminergici

Gli agonisti (dopamina e dobutamina) possono essere utilizzati a basse dosi per stimolare i recettori 1A e 1B

a livello renale, splancnico e coronarico. Si osserva dilatazione delle arterie renali ed aumento del flusso

urinario. Sono utili nello shock cardiogeno dove si ha attivazione del simpatico (es. ipovolemia, infarto al

miocardio) e si ha vasocostrizione periferica e renale (con conseguente acidosi).

Per i 2C esistono agonisti parziali come la bromocriptina, che sono anche antagonisti D1 nel Parkinson.

Antagonisti D2 sono usati nel trattamento della schizofrenia: sono neurolettici o antipsicotici.

TRASMISSIONE SEROTONINERGICA

Il nome deriva dalla serotonina, una sostanza presente nel siero che è in grado di indurre vasocostrizione. In

realtà, la serotonina non ha solo effetti sul tono vascolare e questi stessi effetti dipendono dal sito anatomico.

Il nome più preciso è 5-idrossitriptamina (5-HT). Tra l’altro, la maggior parte della farmacologia che riguarda

la trasmissione serotoninergica si verifica a livello centrale (e quindi non legata all’attività vascolare

periferica).

I recettori per 5-HT esistono in 12 sottotipi differenti e la farmacologia attuale si concentra per lo più su 4-5 di

questi recettori. I recettori sono localizzati sia in periferia che in centro (dove si concentra la maggior parte

della farmacologia):

- In periferia

o A livello vascolare, con recettori differenti a seconda del lume del vaso e della collocazione

anatomica (i vasi della dura madre, ad esempio, hanno una composizione recettoriale diversa

da quella dei vasi periferici)

o Cellule cromaffini della mucosa intestinale: rilasciano serotonina in vescicole, che permette

di gestire la secrezione, la contrazione, l’assorbimento e l’aspetto vascolare delle attività

digestive (insieme ad acetilcolina e noradrenalina)

o Piastrine: immagazzinano serotonina presente nel plasma. Il recettore piastrinico 5HT-2A ha

attività pro-aggregante ed è coinvolto anche nei meccanismi di percezione del dolore e di

occlusione vascolare.

A livello centrale, i corpi dei neuroni serotoninergici sono localizzati soprattutto alla linea mediana del tronco

cerebrale a livello del bulbo, del ponte e del mesencefalo (nuclei del rafe). Qui troviamo recettori 5HT-1A a

livello del soma, che ne permettono una regolazione dell’attività elettrica (da cui dipende l’attività elettrica di

tutte le efferenze). Questo è importante in quanto inibitori del re-uptake della serotonina (SSRI) sono potenti

antidepressivi: determinano un aumento locale della serotonina con desensitizzazione (richiedono del tempo

per mostrare gli effetti) del recettore somatico, da cui dipende un aumento complessivo dell’attività delle vie

serotoninergiche (anche se non tutte le vie saranno aumentate, perché esistono recettori auto-inibitori a livello

delle singole terminazioni sinaptiche). Anche i triciclici (inibitori del reuptake di NA) agiscono parzialmente

sul reuptake della serotonina. Dai nuclei del rafe, le fibre proiettano a livello di:

- Corteccia frontale (è alla base degli effetti antidepressivi): regolano l’umore

- Corteccia visiva: a questo livello, alcune droghe agiscono sui recettori 5HT determinando

allucinazioni.

- Corteccia superiore

- Talamo

- Ippocampo

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- Midollo spinale

- Cervelletto

Tutte queste efferenze sono responsabili della gestione di:

- Dolore: la via discendente del dolore è una via serotoninergica ed è quella che permette di gestire la

tolleranza al dolore ( sono usate dalle vie inibitorie discendenti e di conseguenza possono gestire la

partenza o meno del potenziale dal midollo al talamo e corteccia)

- Tono vascolare (vasodilatazione e vasocostrizione): a questo livello troviamo tutta una serie di farmaci

che gestiscono l’attività vasomotrice, tra cui gli antiemicranici

- Alimentazione

- Tono dell’umore e percezione dall’esterno: è dovuta alle fibre che proiettano a livello di ippocampo e

aree limbiche

- Compulsione (inteso come sensazione di dover fare qualcosa a prescindere dalle conseguenze)

La 5HT è importante anche a livello della CTZ (recettori 5HT-3): questo ha permesso di sviluppare potenti

antiemetici utilizzati in associazione ai cicli di chemioterapia.

SINTESI

La base di partenza per la serotonina è l’amminoacido L-triptofano che deriva dalla dieta (le diete ricche di

carboidrati favoriscono l’uptake di triptofano). Gli enzimi coinvolti nella sintesi sono due:

- Triptofano idrossilasi (catalizza la conversione del triptofano a 5-idrossitriptofano)

- Decarbossilasi (catalizza la formazione della 5HT)

La biosintesi può essere modificata sulla base della disponibilità di triptofano. Il catabolismo all’interno del

terminale presinaptico avviene grazie alla presenza di due enzimi, una sulfo-trasferasi e le MAO di tipo A a

livello mitocondriale.

Lo spegnimento del segnale dopo il rilascio avviene invece tramite meccanismi di

- Reuptake (di tipo 1): la serotonina è una molecola piccola e quindi facilmente ricaptabile tramite

meccanismi simili a quelli delle catecolamine (tanto che inibitori del reuptake catecolaminico possono

agire anche sulla serotonina)

- Diluizione: quella che non va incontro a reuptake (10%), va incontro a diluizione, che permette di

ottenere effetti a livello dei vasi, dei muscoli lisci e delle ghiandole circostanti e inibisce il rilascio di

noradrenalina sull’ortosimpatico.

RECETTORI SEROTONINERGICI

Ad oggi, sono stati identificati 7 tipi di recettori per la serotonina (con altri 5-6 attualmente in studio), ciascuno

dei quali ha specifici sottotipi recettoriali. In generale, sono recettori associati a proteine G che permettono la

regolazione di canali ionici, ad eccezione del 5-HT3 che è in realtà lui stesso un recettore canale per il Na+

(che entra) e per il K+ (che esce) e determina quindi depolarizzazione.

Recettori 5HT-1, di cui distinguiamo cinque sottotipi recettoriali:

- 1A, localizzati a livello somatico nei neuroni del nucleo del rafe e poco rappresentati in altri distretti

anatomici

- 1B, localizzati soprattutto a livello del SNC

- 1D, sono recettori presinaptici sia auto- che eterologhi; in particolare, gli eterologhi sono localizzati

sulle sinapsi del simpatico, dove riducono la liberazione di noradrenalina

- 1E e 1F, sono recettori postsinaptici presenti in diverse aree centrali (per i quali ad oggi non siamo

capaci di produrre farmaci selettivi per la collocazione anatomica). La stimolazione di questi recettori

determina produzione di NO (vasodilatazione di vasi arteriosi e venosi cerebrali)

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I recettori di tipo 1 sono quelli su cui si concentra la maggior parte della farmacologia attuale (antidepressivi,

antiemicranici, ansiolitici, gestione dell’umore e dell’aggressività, gestione di sindromi maniacali): in

particolare, i recettori più interessati sono gli 1A e gli 1D.

Recettori 5HT-2, di cui distinguiamo tre sottotipi:

- 2A, è il più importante. È localizzato nel SNC, nella corteccia visiva (su cui agiscono alcune droghe e

agonisti parziali, con effetti allucinogeni), sulle piastrine (che rilasciano serotonina e sostanza P in

caso di insulto endoteliale) e a livello vascolare (con effetto vasocostrittivo)

- 2B

- 2C

I recettori 5HT-3 sono gli unici recettori per la serotonina ad essere canali ionici; sono costituiti da cinque

subunità (A, B, C, D, E) che possono essere tutte uguali tra di loro oppure in combinazioni diverse. Questi

recettori sono localizzati a livello di:

- CTZ, dove esercitano una stimolazione sulla CTZ e conseguente nausea e vomito. Importanti farmaci

antagonisti di 5HT3 sono potenti antiemetici, il cui sviluppo ha permesso di risolvere le problematiche

legate alla nausea a cui andavano incontro i pazienti sottoposti a chemioterapici molto aggressivi

- Gastrointestinale, dove gestiscono la peristalsi intestinale e possono indurre nausea e vomito per

stimolazione della muscolatura gastrica.

- Corteccia e circuito mesolimbico, dove intervengono nella gestione dell’umore

Altri recettori conosciuti, abbastanza importanti a livello centrale, sono gli 5HT-4, 5, 7 (ma esiste anche il tipo

6): sembrano essere coinvolti nelle sindromi maniaco-depressive, psicotiche, aggressive, etc.

ATTIVITÀ PERIFERICA DELLA SEROTONINA

A livello periferico, la serotonina agisce su due importanti distretti:

- Tratto gastrointestinale, dove controlla la peristalsi e le attività motorie, condiziona il rilascio di

neuropeptidi (VIP, SP) e neurotrasmettitori intramurali (Ach, DA e NA). A questo livello gestiscono

anche le attività immunitarie del tratto gastrointestinale. Infine, modulano, attraverso modulazione del

simpatico, l’attività spontanea delle cellule pacemaker del Cajal (eccitazione tramite Ach e SP,

inibizione con A, VIP, NO e ATP). La serotonina aumenta infatti la frequenza delle onde lente e

l’ampiezza delle attività elettromotrici del piccolo intestino.

- Distretto cardiovascolare, dove determina:

o Vasodilatazione coronarica (vasi terminali)

o Vasodilatazione a livello dei vasi del SNC

o Vasocostrizione nelle arteriole di calibro maggiore

Gli effetti sul tono vascolare dipendono strettamente dalla sede e dal calibro dei vasi.

o Ipotensione dovuta a

A) Ipertono vagale

B) Inibizione del rilascio di NA

C) Induzione della sintesi di NO nel microcircolo, a sua volta dovuta alla stimolazione

del vago, che rilasciando Ach su recettori M3 determina attivazione della sintesi di

NO, o a stimolazione diretta della serotonina su recettori 1F e 1D

o Ipertensione, dovuta ai recettori 2A che determinano vasocostrizione e favoriscono

l’aggregazione piastrinica (amplificano il processo se è in corso, ma non sono capaci di

causarla direttamente)

In base al calibro dei vasi e alla collocazione anatomica, la serotonina può quindi avere un effetto di dilatazione

o costrizione. Tenendo a mente che, sulla base della collocazione, avremo una differente prevalenza del tono

simpatico e ortosimpatico, sappiamo che la serotonina inibisce il rilascio di NA (riduce il tono simpatico) e

contemporaneamente induce la produzione di NO: la sommatoria dei due eventi determina che, sulle arterie di

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piccolo calibro e arteriole (dove il tono simpatico è piccolo) osserviamo vasodilatazione. Sulle arterie più

grandi, dove il tono simpatico è più importante, invece, non abbiamo un grande effetto. Inoltre, la serotonina

induce costrizione a livello venulare. L’insieme dei due eventi determina un aumento della pressione a livello

capillare, a cui segue un’aumentata permeabilità ai liquidi vascolari e quindi perfusione tessutale (che permette

anche il passaggio di cellule del sistema immunitario).

La serotonina agisce anche sul sistema endocrino:

- Aumenta la secrezione steroidea

- Riduce la secrezione di prolattina e ACTH

Il dosaggio dei livelli di steroidi e prolattina permettono di valutare l’attività dei farmaci serotoninergici.

ATTIVITÀ CENTRALE DELLA SEROTONINA

A livello centrale, la serotonina è coinvolta in:

- Processi psichici

o Umore (recettori 1A, 2A, 2C, 4, 3)

o Inibizione, ovvero la capacità di capire quando non si deve fare qualcosa (recettori 2A, 1D);

questi recettori, localizzati a livello frontale, mesocorticale e mesolimbico gestiscono la

personalità del soggetto e la percezione della realtà

o Controllo comportamentale (1A, 2A, 4, 6)

o Dolore (2A, 1A, 1B, 1D)

o Appetito (3, 2A, 1E)

- Processi psicologici

o Percezione sensoriale ( 1B, 2B, 6)

o Comportamento sessuale (legato al rilascio di ormoni) (2B, 5B, 7)

o Temperatura corporea (1A, 2B, 4)

o Controllo del vomito (3)

o Sonno-veglia (7, 4, 1F, 2A, 1A)

FARMACOLOGIA DELLA TRASMISSIONE SEROTONINERGICA

- Ergotamina: è un agonista parziale/antagonista che normalizza la funzione della serotonina,

riducendone l’attività. È attivo a livello vascolare (effetto vasocostrittore) e viene utilizzato come

antiemicranico: l’emicrania è legata, infatti, a spasmi vascolari a livello delle meningi, da cui deriva

neuroinfiammazione e dolore secondario.

- Ergometrina: è un potente vasocostrittore, agonista parziale come la ergotamina. Viene in genere usata

in gravidanza sia per indurre il travaglio sia per favorire l’occlusione dei vasi post-partum.

- Buspirone: è anch’esso un agonista parziale, che stimola i recettori 1A determinando desensitizzazione

parziale dei recettori; hanno così un effetto ansiolitico (più che antidepressivo)

- Triptani: sono antiemicranici agonisti parziali dei recettori 1A e 1D che riducono l’attività della

serotonina sui vasi meningei

- Ketanserina: è un agonista parziale del recettore 2A a livello centrale, usato per patologie psichiatriche.

TRASMISSIONE AMINOACIDERGICA

La trasmissione aminergica comprende tutte quelle vie che utilizzano come neurotrasmettitori degli

amminoacidi. Distinguiamo due tipi principali di amminoacidi d’interesse farmacologico, sulla base dei gruppi

che si ionizzano:

- Amminoacidi neutri: GABA e glicina. Sono neurotrasmettitori inibitori, in quanto determinano

iperpolarizzazione tramite l’entrata di ioni cloro nella fibra, che diventa refrattaria (il suo potenziale

di membrana è lontano dal potenziale soglia, impedendo ai normali potenziali d’azione di insorgere).

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Sono neurotrasmettitori eterorecettoriali (hanno recettori su ogni fibra sia centrale che periferica) e

possono essere pre- o post-sinaptici.

- Amminoacidi acidi: glutammato e aspartato. Sono neurotrasmettitori eccitatori, che avvicinano il

potenziale di membrana, modulando il K+ e facilitando l’insorgenza di potenziali d’azione.

AMMINOACIDI NEUTRI

Gli amminoacidi neutri hanno attività inibitoria: essi aumentano la permeabilità della membrana cellulare agli

ioni cloro (che entrano), determinando una riduzione dell’eccitabilità della fibra. Questi neurotrasmettitori

sono in genere rilasciati da interneuroni, che, quindi, eserciteranno un’azione inibitoria a valle. Il loro scopo è

regolarizzare l’attività neuronale e sono in genere presenti a livello corticale, pontino e midollare.

Trasmissione glicinergica

La trasmissione glicinergica è dotata di due funzioni principali:

- La glicina è localizzata a livello della sostanza grigia del midollo spinale. Viene rilasciata da piccoli

interneuroni facenti parte dei circuiti locali inibitori coinvolti nell’inibizione post-sinaptica (circuiti

automatici e del controllo fine). Il neurotrasmettitore è rilasciato anche dai neuroni spinali del tronco

encefalico.

- La glicina agisce come co-trasmettitore con l’acido glutammico: il neurone glicinergico rilascia Gly

in vicinanza di un recettore glutammatergico (NMDA, recettore eccitatorio). Se non fosse presente la

glicina, il recettore NMDA, anche in presenza di glutammato, non potrebbe aprirsi. C’è una stretta

coordinazione tra le fibre eccitatorie e le fibre inibitorie, tanto che in presenza di un eccesso di

eccitazione (attivazione di NMDA) osserviamo di pari passi un’inibizione del rilascio di glicina (che

va a ridurre l’attivazione del recettore per il glutammmato); viceversa, in presenza di un’eccessiva

inibizione dovuta a rilascio di glicina, questa stimola l’eccitazione permettendo all’NMDA di aprirsi

in presenza d glutammato.

Il recettore per la glicina è un canale per il cloro, costituito da cinque subunità, tre alfa (di cui esistono almeno

quattro isoforme) e due beta; la composizione, tuttavia, varia in base all’evoluzione del soggetto (distinguiamo

infatti un recettore embrionale – 5 alfa1 – e quello adulto).

Dal punto di vista farmacologico:

- Sono agonisti la taurina e la beta-alanina; si comportano inoltre come modulatori allosterici positivi

alcuni anestetici generali e gli idrocarburi alogenati volatili, come l’etere e l’etanolo. Questi agonisti

determinano una riduzione del movimento fine e mancanza di coordinamento: vengono usati, in

genere, in tutte quelle patologie caratterizzate da spasmi muscolari.

- Sono antagonisti la stricnica, che provoca convulsioni midollari, e la tossina tetanica, che impedisce il

rilascio di glicina dagli interneuroni inibitori spinali, provocando ipereccitabilità e spasmi muscolari.

Trasmissione GABAergica

La trasmissione GABAergica è strettamente connessa a quella glutammatergica, in quanto le due vie si

compensano a vicenda: dove c’è un terminale GABAergico troviamo quasi sempre un terminale

glutammatergico, per cui osserviamo eccitazione ed inibizione assieme.

Più che i somi, che in realtà sono anche distanti tra di loro, sono i bottoni sinaptici che vengono a trovarsi

vicini e sono intermezzati dall’astroglia. Gli astrociti hanno un’importante funzione di terminazione del

segnale, sia GABA- che glutammatergico: si verificano, infatti, meccanismi di diluizione e di re-uptake di tipo

2, in cui l’astrocita degrada sia glutammato che GABA in glutammina, che è il precursore comune ad entrambi

i neurotrasmettitori, che verrà quindi rilasciata dall’astrocita ai neuroni GABA e glutammatergici.

In questo modo, osserviamo che l’attivazione di una via comporta necessariamente l’attivazione dell’altra via

e entrambe le trasmissioni sono pressocché inesauribili.

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Lo spegnimento del segnale mediato da GABA è indotto dai recettori metabotrobi del glutammato, gli NMDA:

è quindi il glutammato che decide quanto GABA deve restare nello spazio intersinaptico e quanto, invece,

deve essere ricaptato dall’astroglia e degradato ad opera dell’enzima GABA-T.

Neuroni GABAergici sono presenti praticamente ovunque nel sistema nervoso, ma sono particolarmente

rappresentati a livello della sostanza nera. Troviamo GABA anche nei neuroni del globo pallido,

dell’ipotalamo, del cervelletto, dell’ippocampo e della corteccia cerebrale). Le principali vei GABAergiche

sono rappresentate dalla via nigro-striatale, nigro-collicolare, nigro-talamica e nigro-tegmentale: è quindi

coinvolta nel movimento, nella regolazione neuroendocrina, nella respirazione e nella gestione di aspetti

cognitivi.

Inoltre, le vie GABAergiche hanno un ruolo anche nel morbo di Parkinson, che deriva dalla mancanza di

dopamina e neuroni dopaminergici. Questi neuroni controllano l’attività di neuroni colinergici, i quali,

normalmente, stimolerebbero un neurone GABAergico (recettori M3) che a sua volta controlla un secondo

neurone GABAergico. Questo, a sua volta, ha efferenze sul neurone dopaminergico. Quando viene a mancare

la trasmissione dopaminergica osserviamo da un lato un ipertono colinergico e, contemporaneamente, perdita

di tono GABAergico del secondo neurone dovuto a ipertono del primo neurone. Per questo motivo, nel morbo

di Parkinson, possiamo:

- Ripristinare la stimolazione dei recettori D2 (somministrando ad esempio L-DOPA) per ottenere una

riduzione dell’ipertono colinergico

- Utilizzare antagonisti M3 per ridurre l’ipertono GABAergico del primo neurone.

RECETTORI DEL GABA

I recettori sono tutti collegati all’attività di canali ionici, sia direttamente che indirettamente. Possono essere

sia presinaptici che postsinaptici e, a livello post-sinaptico, mediano l’inibizione del potenziale e quindi

dell’eccitabilità neuronale in maniera rapida (GABAA) e lenta (GABAB). Sono suddivisi in due categorie:

- GABAA

È un recettore ionotropo, consistente in un canale per il cloro (quindi manifesta i suoi effetti rapidamente). Di

recettori GABAA ne conosciamo tre tipi differenti:

- GABAA (formato da diverse subunità, le cui combinazioni danno origine a 8 sottotipi differenti)

- GABAC

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- GABAD

I recettori GABAA sono composti da cinque subunità, ciascuna delle quali presenta diversi sottotipi differenti,

sebbene presentino tutte una struttura simili con quattro domini transmembrana. Ogni recettore,

indipendentemente dalla combinazione delle subunità, è costituito da due subunità beta, responsabili per il

legame con l’agonista. Ad esse si uniscono normalmente le subunità alfa e gamma, che sono le più

rappresentate nell’organismo, ma sono possibili anche delta, epsilon, rho (è ben rappresentata a livello della

retina) e theta. La combinazione di tutte le varie subunità conferisce collocazione anatomica diversa ai recettori

e diversa affinità per agonisti e antagonisti. Il recettore del GABAA, inoltre, è dotato di attività costitutiva,

potendo aprirsi autonomamente per normalizzare l’attività elettrica: in eccesso di depolarizzazione, il canale

si apre per far entrare cloro.

Sulle subunità, inoltre, sono presenti numerosi siti allosterici, sui quali si basa la farmacologia del GABA.

La subunità alfa presenta siti di riconoscimento per le benzodiazepine e per benzodiazepine-mimetici (che

sono agonisti non del GABA ma agonisti del recettore GABAA). Sono dei veri e propri siti di riconoscimento,

indicati come BZ1, BZ2 e BZ3. A questo livello agiscono ipnoinducenti (es. triazolam) e gli agonisti

imidazopiridinici (farmaci per l’insonnia). Il legame di queste molecole ai siti per le benzodiazepine determina

solamente una modulazione del legame del recettore con il GABA, in quanto in assenza di GABA, comunque,

il recettore non si apre: essi aumentano la frequenza di apertura del canale, potenziando così l’ampiezza e la

durata dell’effetto inibitorio.

All’interno del canale, inoltre, troviamo ulteriori siti di regolazione allosterici:

- Siti per i barbiturici (che quindi sono agonisti allosterici intracanale)

- Siti per gli steroidi (quindi variazioni nei livelli ormonali possono variare l’attività elettrica cerebrale)

- Siti per l’etanolo

- Siti per derivati organofosforici

Questi siti sono in grado di modulare l’apertura del canale, aumentando o diminuendo il tempo e la frequenza

di apertura. In particolare:

- Le benzodiazepine (es. diazepam) potenziano l’attività del GABA, in quanto aumentano l’apertura del

canale, lasciandolo aperto, ma solo in presenza del neurotrasmettitore.

- I barbiturici, invece, legano il recettore all’interno del canale, determinandone l’apertura (e lasciandolo

aperto) indipendentemente dalla presenza del GABA. Questo giustifica la finestra terapeutica più ristretta

dei barbiturici (che possono facilmente deprimere l’attività elettrica cerebrale).

Attualmente si stanno studiando nuovi farmaci ipno-inducenti, definiti Z-drugs (es. zolpidem), che andranno

a sostituire le benzodiazepine, in quanto non presentano gli stessi svantaggi di BZ e barbiturici; questi nuovi

farmaci, infatti:

- Non sono induttori metabolici (a differenza dei barbiturici e BZ, che richiedevano un progressivo aumento

della dose, con il rischio di superare la finestra terapeutica)

- Non alterano la fase REM, che ha la funzione di fissare la memoria (BZ e barbiturici inducono un sonno

artificiale)

- Non danno dipendenza finisca e psicologica

- GABAB

Questo recettore è accoppiato a proteine G inibitorie ed è costituito da due subunità unite, GABAB1a e

GABAB2a. ne esistono almeno 7-8 sottotipi. Essi possono essere recettori presinaptici auto- ed etero-inibitori,

oppure possono trovarsi a livello dell’astroglia per la gestione del metabolismo di GABA e glutammato.

I GABAB sono localizzati:

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- A livello centrale:

o Sull’astroglia

o Sui terminali pre-sinaptici GABAergici

o Sui terminali pre- e post-sinaptici di altre vie nervose

- A livello periferico:

o Sull’utero (dove gestiscono la dinamica spastica dell’utero e la secrezione di PGE, che a loro

volta regolano l’attività delle miocellule e delle fibre nocicettive

o Sul fegato (dove gestiscono il flusso vascolare epatico)

o Sulle fibre muscolari lisce

Il recettore si occupa della regolazione di:

- Canali per il Ca2+ (se il recettore è presinaptico): la riduzione dell’cAMP sembra essere associata alla

fosforilazione del canale VDCC o all’ingresso di correnti ioniche; il risultato finale è il blocco

dell’ingresso di calcio con conseguente blocco dell’esocitosi vescicolare.

- Canali per il K+ (se il recettore è post-sinaptico): l’uscita di potassio iperpolarizza la cellulare,

riducendo la trasmissione del segnale.

Questo tipo di recettori è coinvolto in:

- Rilassamento muscolare mediato a livello centrale

- Anti-nocicettivo

- Confusione

- Epilettogenesi

- Ipotensione

- Riduzione del desiderio di cocaina ed eroina

- Termogenesi

- Rilassamento polmonare e vescicale

- Secrezione di prolattina

Dal punto di vista terapeutico, i GABAB presentano un minor numero di farmaci, sia perché sono stati scoperti

più recentemente dei GABAA, sia perchè, trovandosi a livello pre- e post-sinaptico, hanno sostanzialmente

effetti opposti:

- A livello pre-sinaptico, abbiamo inibizione dell’ulteriore rilascio di GABA. A questo livello agiscono

farmaci antiepilettici e antiansiogeni

- A livello post-sinaptico, invece, abbiamo o continuazione dell’azione del GABA o riduzione della

secrezione di vescicole di altri neurotrasmettitori.

I principali farmaci sono rappresentati da:

- Bacoflen (agonista): inibisce la liberazione di glutammato nel midollo (interagendo con un recettore

GABAergico presinaptico eterologo inibitorio) e blocca gli spasmi indotti dal glutammato. Regola

inoltre la trasmissione glicinergica a livello midollare.

- Saclofen (antagonista)

AMMINOACIDI ACIDI

Sia L-glutammato che L-aspartato sono presenti in concentrazioni elevate nel SNC, con effetto eccitatorio su

molti neuroni. Tra di essi, quello più importante è rappresentato del glutammato, intervenendo in tutta una

serie di funzioni, quali:

- Percezione delle sensazioni

- Dolore

- Memoria

- Coordinamento dei movimenti

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Pur essendo associati ai neuroni GABAergici a livello dei bottoni sinaptici, i neuroni glutammatergici hanno i

propri somi localizzati a livello pontino. Da essi partono le vie:

- Cortico-corticali

- Cortico-talamiche

- Extrapiramidali

- Ippocampali

Abbiamo poi anche proiezioni tra la corteccia, la sostanza nera, il nucleo subtalamico e il globus pallidus.

Inoltre, i recettori glutammatergici sono presenti su tutte le vie di trasmissione (soprattutto colinergiche, ma

anche dopaminergiche e serotoninergiche) con funzione di gestione presinaptica eterologa: questo meccanismo

è particolarmente importante, in quanto una sovrastimolazione glutammatergica porta a degenerazione dei

neuroni colinergici, alla base del morbo di Alzheimer.

Oltre alle funzioni di coordinamento, il glutammato svolge un importante ruolo della regolazione del

metabolismo dell’astroglia (dove stimola il reuptake del GABA). Lo stesso glutammato, una volta rilasciato,

viene sottoposto a meccanismi di reuptake, trasportato all’interno delle cellule della glia o delle cellule

presinaptiche glutammatergiche. È inoltre sottoposto a un meccanismo di diluizione, che gli permette di andare

ad agire sui recettori glutammatergici circostanti (tra cui quelli dell’astroglia).

RECETTORI DEL GLUTAMMATO

Ne esistono sostanzialmente di due tipi:

- Ionotropi: sono i recettori AMPA (o GluA), NMDA (GluN) e Kainato (GluK)

- Metabotropi (MGlu): possono essere presinaptici (inibitori autologhi), postsinaptici (eccitatori

autologhi) e presenti sull’astroglia (responsabili del reuptake). Sono diffusi soprattutto a livello

corticale.

In generale, i recettori AMPA sono sempre associati a recettori NMDA, mentre non è necessariamente vero il

contrario. I due recettori determinano una trasmissione differente: una rapida, legata al coinvolgimento di Na+

e K+, e una prolungata, legata al Ca2+.

I recettori AMPA determinano un’eccitazione post-sinaptica rapida, dovuta all’ingresso di Na+ e all’uscita di

K+, con conseguente depolarizzazione della membrana che permette l’apertura del recettore NMDA.

Quest’ultimo, una volta aperto, rimane aperto e determina un enorme afflusso di Ca+ nel neurone, attivando

tutta una serie di meccanismi, tra cui quelli dei neurotrasmettitori a richiesta (in particolare, attivazione della

NOS neuronale), del reclutamento vescicolare e di attivazione enzimatica (con possibile produzione di ROS).

Quando funziona in modo normale, NMDA permette la formazione di nuove sinapsi ed è coinvolto quindi

nello sviluppo dell’intelligenza. Al contrario, se sregolato, è causa di neuroeccitotossicità (dovuta a

un’eccessiva produzione di NO che può dare origine a radicali dell’ossigeno e dell’azoto). Essendo così

delicato, il recettore NMDA presenta diversi livelli di regolazione:

- All’interno del canale presenta un sito di legame per il Mg2+, che tiene chiuso il canale stesso

- Presenta un sito di legame per la glicina: in assenza di glicina, il recettore non può aprirsi anche se è

presente glutammato

- Se presenti i recettori AMPA, occorre prima la depolarizzazione indotta dalla loro apertura (che

permette l’uscita del Mg2+ dal canale)

Il segnale viene spento dallo stesso NO prodotto, che va a legarsi agli NMDA (NMDA è quindi anche un

recettore per NO) e ne determina una chiusura lenta e graduale. Inoltre, NO stimola l’ulteriore rilascio di

glutammato a livello presinaptico, evocando fenomeni di desensitizzazione. Se questi meccanismi di

spegnimento del segnale non funzionano e non sono attivi i meccanismi di catalisi del monossido, la cellula

va incontro a morte.

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Il recettore GluK è invece un recettore presinaptico, che inibisce il rilascio di glutammato. Agonisti di questo

recettore tuttavia sembrano non spegnere completamente la risposta.

Dal punto di vista farmacologico, i principali gruppi di farmaci che intervengono nella trasmissione

glutammatergiche sono antiepilettici e antidepressivi (ketamina-simili, hanno effetti immediati in quanto non

devono portare a un rimodellamento della via). Gli antiepilettici sono antagonisti NMDA, che riducono

l’eccitabilità della fibra e la propagazione della scarica elettrica: si ha formazione del potenziale transiente

dovuto agli AMPA ma non abbiamo il perpetuarsi della scarica da parte degli NMDA. Nel soggetto epilettico

è importante evitare le scariche anomale, che rischierebbero di portare a morte i neuroni (causando quindi

demenza).

NITROSSIDO

Il nitrossido è una molecola con caratteristiche di radicale libero dell’azoto, in grado di avere effetti sia

riducenti che ossidanti: in quanto radicale, è dotato della capacità di spostare elettroni e produrre altre molecole

radicaliche, tra cui radicali dell’ossigeno. È anche un potente mediatore dell’infiammazione. Dal punto di vista

della trasmissione sinaptica, NO è un neurotrasmettitore a richiesta (quindi la sua produzione è strettamente

legata all’attivazione calcio-dipendente di enzimi) ed è connesso ad altre vie nervose (a livello cardiovascolare,

viene prodotto in seguito all’attivazione dei recettori M3 ed è connesso con i recettori beta-adrenergici).

Poiché è una molecola radicalica, NO deve interagire con una serie di molecole, formando prodotti attivi dal

punto di vista biologico e più stabili: il principale gruppo con cui interagisce NO è il gruppo eme e i principali

recettori di NO presentano proprio questo gruppo. Tra i principali recettori, troviamo la guanilato ciclasi (sia

centralmente che in periferia) con produzione del secondo messaggero cGMP responsabile degli effetti a valle

della via nitrossidergica. I recettori con attività guanilato ciclasica sono recettori con una struttura semplice,

formata da un’unica catena transmembrana, con un dominio extracellulare per i ligandi e uno intracellulari con

attività enzimatica. Come i recettori con attività TK, anche questi recettori vanno incontro a dimerizzazione,

che determina l’attivazione dell’effettore guanilato-ciclasi ad opera della subunità alfas-GTP, con produzione

di cGMP i cui livelli attivano la PKG. La fosforilazione operata dalla chinasi porta alla fosforilazione di canali

ionici del calcio, con aumento dell’afflusso di calcio nella cellula. Il recettore, oltre che a essere sensibile alla

NO, riconosce anche l’ANP e la tossina termostabile dell’E. Coli.

In generale NO, oltre a interagire con enzimi dotati di gruppo eme, interagisce anche con:

- Amine (con formazione di prodotti antibiotici)

- Composti solforati

- Ossiemoglobina

- Ozono

- Ossigeno

- Ione superossido

NO ha un’emivita molto breve: esso viene prodotto localmente e può agire dove viene prodotto. Le variazioni

di calcio che portano alla produzione di NO possono essere sia transienti che persistenti. A livello endoteliale,

le variazioni di calcio sono indotte dallo shear stress mentre la degenerazione endoteliale (come nel diabete) o

danno endoteliale riducono la produzione di NO, portando a problematiche vascolari quali

- Indurimento del vaso

- Ispessimento del vaso

- Riduzione e mancanza della capacità vasodilatatoria.

Dal punto di vista farmacologico, NO è interessante in quanto è coinvolto:

- Nel danno da riperfusione post-ischemica

- Nel danno da neurotossicità a livello centrale

I principali effetti del nitrossido si esplicano:

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- A livello centrale: l’enzima nNOS è presente sia a livello pre- che post-sinaptico, soprattutto nelle aree

del cervelletto, del bulbo olfattivo e dell’ippocampo (zona più importante). A livello centrale, NO:

o È un co-trasmettitore: il cGMP che viene liberato in seguito all’attivazione della guanilato

ciclasi porta a un potenziamento a lungo termine del segnale

o È un neurotrasmettitore a richiesta, coinvolto in:

A) Plasticità neuronale, che porta alla formazione di nuove sinapsi e memoria ed è

coinvolto nel controllo dell’appetito e della nocicezione

B) Visione

C) Controllo del movimento

D) Udito

E) Citoprotezione

F) Eccitotossicità (mediata dai recettori NMDA)

- A livello periferico: troviamo NO soprattutto a livello gastrico, dove è coinvolto nello svuotamento

gastrico e nella vasodilatazione gastrica. Inoltre è responsabile, tramite vasodilatazione, dell’erezione

del pene.

- A livello cardiovascolare: NO è coinvolto nel

o Controllo del flusso ematico loco-regionale; viene rilasciato sia sulle cellule muscolari lisce

dei vasi sia nel flusso ematico e, insieme all’istamina, controlla il flusso vascolare per gestire

l’esigenza locale di ossigeno e nutrienti

o Abbassamento della pressione sanguigna grazie al suo effetto vasodilatatorio

o Funziona da co-trasmettitore della noradrenalina sui recettori alfa2 adrenergici presinaptici

- A livello piastrinico: NO inibisce l’adesione e l’aggregazione piastrinica. Da questo punto di vista,

tuttavia, non usiamo farmaci non tanto perché non esistano ma perché abbiamo farmaci migliori

(FANS, etc.) capaci di agire sulla COX e sulla trombina.

SINTESI DEL NO

NO viene prodotto a partire dall’amminoacido L-arginina, su cui operano una classe di enzimi definiti NOS

(NO Sintasi), convertendolo in citrullina e monossido d’azoto. L’enzima è presente in tre differenti isoforme,

che hanno la stessa azione ma che si differenziano per collocazione anatomica, la eventuale dipendenza dal

calcio e il meccanismo di induzione. I glucocorticoidi sono in grado di inibire tutte e tre le isoforme (soprattutto

la forma inducibile, che è coinvolta nell’azione di difesa del sistema immunitario – e infatti i glucocorticoidi

sono immunodepressori –). La NOS forma complessi di attivazione con NADPH, FAD, FMN e Ca+2-

calmodulina.

Le tre isoforme sono:

- nNOS o NOS neuronale (tipo I). Insieme alla eNOS è un enzima costitutivo, già presente all’interno

delle cellule, legati alla porzione interna della membrana. Esse sono calcio-dipendenti (la loro

attivazione è legata ai livelli di calcio intracellulare): qualunque meccanismo porti a variazioni di

Ca2+, varia anche l’attività delle NOS. Il grado di fosforilazione dell’enzima è importante per la

processività dell’enzima stesso: la fosforilazione inibisce nNOS, mentre la defosforilazione lo attiva.

Attualmente, si stanno studiando certe molecole capaci di agire su nNOS ed evitare i danni da

perossidazione a livello neuronale. I meccanismi di eccitotossicità sono particolarmente legati ai

recettori NMDA, che, facendo entrare grosse quantità di Ca2+ determina un’enorme produzione di

NO. In condizioni fisiologiche, NO è coinvolto nella plasticità neuronale e capace di inibire NMDA

stesso, ma in presenza di squilibri è responsabile di morte neuronale (NB: anche lo stesso eccesso di

Ca2+ è tossico per le cellule, a prescindere da NO). Inoltre, a livello pre-sinaptico (è un mediatore

retrogrado), NO potenzia il rilascio di glutammato.

Il calcio in entrata lega la calmodulina, che a sua volta lega nNOS e ne permette la traslocazione nel

citoplasma: qui, nNOS viene defosforilata da parte della calcineurina.

- eNOS o NOS endoteliale (tipo III). Come la nNOS, è un enzima costitutivo. I recettori M3 attivano

la PLC, con conseguente aumento del calcio citoplasmatico che attiva la calmodulina; il complesso

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Ca-Calmodulina attiva la eNOS (che può restare in membrana o essere liberata nel citoplasma). NO

che viene prodotto dalla eNOS può essere rilasciato nel sangue oppure andare ad agire sulle fibre

muscolari lisce vascolari, dove porta a fosforilazione della catena leggera della miosina (quindi

miorilassamento e vasodilatazione).

A questo livello importanti farmaci sono i nitroderivati come la nitroglicerina: queste molecole sono

nitrodonatori, ovvero molecole capaci di rilasciare gruppi NO (o per via enzimatica o in maniera

diretta) mimando quindi l’effetto fisiologico del NO. Questi farmaci sono particolarmente attivi a

livello venoso e del microcircolo periferico, funzionando particolarmente bene in caso di sichemia

cardiaca. Il rilascio di No, infatti, causando vasodilatazione, determina:

o aumento della perfusione delle zone ischemiche, impedendo la morte del tessuto. In

particolare, NO vasodilata le coronarie, migliorando la perfusione e l’apporto di ossigeno al

cuore. I nitroderivati vengono usati anche in caso di angina, dolore toracico dovuto a ridotto

apporto di ossigeno al cuore per riduzione del lume coronarico: somministrando nitroderivati

per via sublinguale o transdermica, induciamo vasodilatazione molto velocemente, risolvendo

la situazione (ma non la patologia, per la quale il paziente dovrà essere tenuto sotto contrario).

o Riduzione del ritorno venoso, riducendo così il pre-carico del cuore e il lavoro che il miocardio

deve svolgere, cosa che va a ridurre la richiesta di ossigeno e migliorare la performance

cardiaca.

Tutte le patologie a carico dell’endotelio portano a una riduzione della sintesi di NO per riduzione

delle eNOS (una volta che l’endotelio è danneggiato non può essere recuperato). In caso di

degenerazione endoteliali (come si osserva nel diabetico), l’endotelio non riesce nemmeno a convertire

i nitroderivati in NO: quindi i nitroderirivati non sono utilizzabili in queste condizioni. Il cGMP che

viene prodotto a seguito dell’attivazione della guanilato ciclasi va ad agire su:

o Chinasi

o Fosfodiesterasi (inibitori delle fosfodiesterasi come le metilxantine possono prolungare

l’effetto di NO)

o Canali ionici

L’effetto finale che si ottiene è la vasodilatazione: NO è implicato non solo a livello coronarico, ma

anche celebrale e polmonare (NO inalato può servire da broncodilatatore e, attualmente, si stanno

studiando nuovi usi del viagra, per risolvere l’ipertensione polmonare).

- iNOS o NOS inducibile (tipo II): ogni qualvolta ci tagliamo o feriamo, le cellule del sistema

immunitario vanno incontro a una notevole produzione di NO (che, seppur disinfetta, ha anche effetto

vasodilatatore, aggravando la situazione in caso di sepsi, perché porta a ipotensione e riduzione della

funzionalità renale): quest’evento è dovuto a un meccanismo trascrizionale calcio-indipendente per

cui le cellule esprimono la iNOS (che quindi viene indotta) per produrre NO ed esercitare una funzione

disinfettante. Una volta trascritta, tuttavia, iNOS non può essere disattivata se non dalla perossidazione

indotta da NO che determina morte cellulare generalizzata a livello della ferita.

iNOS può essere indotta da una serie di citochine: tra le citochine troviamo anche IFN, che, legandosi

al suo recettore, attiva le chinasi Jak con fosforilazione e dimerizzazione di STAT, che nel nucleo

stimolano anche la trascrizione del gene iNOS.

FARMACOLOGIA DEL NITROSSIDO

I principali farmaci che possono agire sulla trasmissione nitrossidergica sono:

- Nitrodonatori (nitroglicerina, nitroprussiato): hanno effetto vasodilatatore. Un sovradosaggio, tuttavia,

porta a emicrania da vasodilatazione dei vasi cerebrali.

- Precursori (L-arginina)

- Inibitori della sintesi di NO (L-NAME): NO è infatti anche associato ai danni da riperfusione post-

ischemica; se riduco la sintesi di NO (e di conseguenza la vasodilatazione che porta a un aumento del

flusso di ossigeno ai tessuti ischemici) vado a limitare i danni. Inibendo la sintesi, tuttavia, aumentiamo

la suscettibilità a infezioni

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- Inibitori della fosfodiesterasi (PD5): inibendo l’enzima che lo degrada, aumentiamo l’emivita del

cGMP prolungandone l’effetto. Questi farmaci, tuttavia, funzionano solo se la produzione di cGMP è

partita.

FARMACOLOGIA DELL’INFIAMMAZIONE

Un’altra importante molecola che ha anche funzione di neurotrasmettitore a richiesta è rappresentata dalle

prostaglandine: a livello sinaptico, la loro sintesi è attivata da livelli prolungati di calcio intracitoplasmatico,

che attivano la cascata dell’acido arachidonico attraverso una serie di chinasi che attivano la PLA2, con

liberazione di acido arachidonico dalla membrana plasmatica. L’acido arachidonico, quindi, viene sottoposta

all’azione enzimatica delle COX per essere convertito in PG. Dal momento che le PG vengono prodotte anche

a livello nervoso, esisteranno anche specifici recettori, dei quali, tuttavia, non è stata ancora chiarita

completamente la funzione.

A livello periferico, tutti gli organi sono in grado di produrre localmente molecole su richiesta: oltre alle PG,

possono essere prodotti anche trombossano, leucotrieni, prostacicline. Cosa viene prodotto è determinato dal

patrimonio genetico (e quindi enzimatico) della singola cellula:

- Le piastrine presentano l’enzima per produrre trombossano a valle della COX

- Altri tessuti possono avere le prostaglandino-sintasi

- Altri ancora le lipossigenasi per la produzione dei leucotrieni

GLUCOCORTICOIDI

Poiché ogni tessuto può produrre i derivati dell’acido arachidonico, l’utilizzo di antagonisti come i

glucocorticoidi, che inibiscono la sintesi di molti mediatori dell’infiammazione, determina la comparsa di tutta

una serie di effetti collaterali. I glucocorticoidi sono farmaci molto potenti, in quanto:

- Inibiscono la sintesi di

o COX (in questo modo, viene bloccata la sintesi di qualsiasi molecola a valle delle COX, con

effetto immunosopressore)

o Fosfolipasi

o iNOS

o Citochine e recettori infiammatori (es. IL2 e IL2R, coinvolte nella comparsa di reazioni

autoimmuni e rigetto del trapianto)

- Inducono la produzione di annessina-1/lipocortina-1 che inibisce la fosfolipasi A2, bloccando la

liberazione di acido arachidonico e tutta la cascata da esso legata: hanno quindi una potente azione

immunosoppressiva.

I glucocorticoidi (ma anche i FANS in generale) presentano una serie di effetti collaterali tempo-dipendenti:

più usiamo i glucocorticoidi e più effetti collaterali abbiamo. I glucocorticoidi svolgono la loro azione tramite

una modificazione dell’espressione genica: nel momento in cui la molecola si lega al suo recettore, il

complesso dimerizza, traslocando quindi nel nucleo dove si lega a specifiche sequenze HRE nel DNA,

modulando la trascrizione. Inoltre, i glucocorticoidi sembrano avere una serie di effetti rapidi non genomici,

che tuttavia sono poco chiari.

I glucocorticoidi hanno sia effetti positivi che negativi:

- Effetti positivi

o Inducono vasocostrizione, in quanto bloccano la produzione di prostacicline, che invece

vasodilatano; questo permette di ridurre l’edema. In caso di asma, inoltre, i glucocorticoidi

permettono un ripristino dalla funzionalità respiratoria grazie al riassorbimento dell’essudato

o Riducono il danno bronchiale, in quanto inibiscono la produzione di citochine pro-

infiammatorie. Inoltre, è possibile somministrare a scopo profilattico basse dosi di

glucocorticoidi per evitare il danno all’epitelio bronchiale

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o Riducono la secrezione di muco (e quindi riducono la costrizione bronchiale)

- Effetti negativi

o Determinano una riduzione nel numero di eosinofili, linfociti T, mastociti, macrofagi e cellule

dendritiche: questo può rappresentare sia un vantaggio (in quanto blocco reazioni

autoimmuni) sia svantaggio (in quanto riduco la risposta nei confronti di patogeni)

I glucocorticoidi, inoltre, poiché sono anche dotati di effetti mineralcorticoidi, possono portare allo sviluppo

della sindrome di Cushing iatrogena, caratterizzata da fragilità capillare, accumulo di grasso, modificazioni a

livello del muscolo scheletrico e pancia grossa dovuta ad accumulo di liquidi e grassi a livello mesenterico.

INDUZIONE DELLA CASCATA DELL’ACIDO ARACHIDONICO

La cascata dell’acido arachidonico può essere indotta da stimoli:

- Fisiologici, quali:

o Liberazione di istamina; questa svolge un’importante funzione a livello vascolare (induce

vasodilatazione) e a livello gastrico (dove lega i recettori H2); a livello gastrico, in particolare,

determina:

A) Riduzione della secrezione acida

B) Induzione della produzione di PG agendo sul recettore gastrico EP3; le prostaglandine

contribuiscono a spegnere la secrezione acida e inducono la produzione di muco e

bicarbonati. Per questo motivo, l’uso prolungato di FANS può portare a

problematiche gastrointestinali

o Liberazione di bradichinina

o Liberazione di vasopressina

o Liberazione di angiotensina 2

o Produzione di IL1

o Produzione di leucotrieni

o Produzione di fattori di crescita

o Produzione di proteasi: in fase acuta di malattia, nel plasma circolano proteasi che hanno come

scopo quello di tagliare agenti esterni pericolosi per l’organismo in maniera totalmente

aspecifica.

- Fisici, quali:

o Ischemia: in caso di ischemia vengono prodotte PG (in quanto il tessuto è in sofferenza e

induce infiammazione); trattando il paziente subito (es. somministrazione di aspirina)

possiamo ridurre il peggioramento del paziente, sia perché blocchiamo la produzione di PG

sia perché ostacoliamo l’aggregazione piastrinica

o Shear stress

o Danno tissutale

- Farmacologici, quali

o Somministrazione di noradrenalina

o Forbolo miristato acetato

Insieme all’acido arachidonico, dalla membrana si distacca PAF, che, avendo molte funzioni, non ha ancora

una precisa applicazione terapeutica.

I mediatori dell’acido arachidonico, in generale, quindi, modulano:

- Vasocostrizione

- Broncocostrizione

- Aumento della permeabilità vascolare

- A livello nervoso gestiscono la produzione di nuove sinapsi (PG sono neurotrasmettitori a richiesta,

che agiscono soprattutto a livello presinaptico, potendo essere inibitori o facilitatori a seconda della

collocazione anatomica.

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FARMACI ANTINFIAMMATORI

Distinguiamo tra farmaci antifiammatori steroidei (i glucocorticoidi) e non steroidei (detti FANS). I FANS

sono farmaci che determinano il blocco della sola attività della COX, per cui non bloccano la produzione di

leucotrieni ed epossidi, mentre bloccano prostaglandine, prostacicline e trombossani.

Tipico esempio di FANS è rappresentato dall’acido acetilsalicilico (o aspirina): è l’unico FANS che è un

antagonista non competitivo. L’aspirina si comporta da inibitore sucida, bloccando la COX1 delle piastrine:

poiché le piastrine sono prive di DNA, esse non possono ripristinare le proprie riserve di COX. Questo, oltre

a comportare blocco della sintesi di trombossano, determina anche il fatto che, finché nuove piastrine non

vengono prodotte, quelle presenti saranno anche impossibilitate ad aggregare per effetto dell’aspirina.

Non tutti i pazienti, tuttavia, possono essere trattati con aspirina. Questo perché esiste un polimorfismo a livello

delle COX, che determina l’esistenza di varianti enzimatiche sensibili o meno all’aspirina. Inoltre, l’aspirina

presenta tutta una serie di effetti collaterali che limitano il range di pazienti du cui può essere usata.

Un altro esempio di FANS è rappresentato dal paracetamolo che, come tutti i FANS, è un antagonista

competitivo.

L’esistenza di un gran numero di FANS è dovuto al fatto che non tutti riconoscono generalmente le COX, ma

esistono molecole più selettive per un tipo o per un altro di COX: COX1 è la forma costitutiva, mentre COX2

è la forma inducibile in presenza di un’infiammazione cronica.

RECETORI DEI PROSTANOIDI

Il termine prostanoidi comprende sia i trombossani (TX) che le prostaglandine (PG).

Il recettore per il trombossano, TP, è presente a livello:

- Endoteliale, dove induce l’aggregazione piastrinica (dovuta all’esposizione di integrine) e la

contrazione dell’endotelio

- Piastrinico, dove amplifica l’aggregazione piastrinica

Per quanto riguarda le prostaglandine, occorre distinguere tra le diverse molecole:

- PG-I2 (prostaciclina): agisce sul recettore IP, collocato a livello dei vasi, dove induce vasodilatazione,

e allivello piastrinico, dove inibisce l’aggregazione piastrinica (anche se non riusciamo ad agire

farmacologicamente su questo recettore).

- PG-E2: è ubiquitaria nel SNC, trovandola soprattutto a livello presinaptico, dove può esercitare sia

funzione facilitatoria che inibitoria (più frequente). Le PG-E2 sono mediatori della febbre, a livello

ipotalamico (insieme a IL1, che stimola la sintesi di PGE2). Possono agire su tre tipi differenti di

recettore:

o EP1: determina contrazione della muscolatura liscia bronchiale e gastrointestinale

o EP2: determina rilasciamento della muscolatura liscia bronchiale, vascolare e gastrointestinale

(l’effetto opposto di EP1 ed EP2 è dovuto alla diversa collocazione anatomica)

o EP3: è il recettore più importante, localizzato:

A) Nella mucosa gastrica, dove inibisce la secrezione di HCl e induce la secrezione di

bicarbonato e muco

B) Nella muscolatura liscia (sulla quale inducono contrazione) di utero (sia gravido che

non gravido: agonisti di EP3 inducono parto pretermine e possono essere usati per

indurre aborto e vengono usati in sostituzione dell’ossitocina, la quale funziona solo

al termine della gravidanza) e del tratto gastrointestinale

C) A livello del simpatico e parasimpatico, dove inibisce il rilascio di neurotrasmettitori

periferici

D) A livello renale, dove induce vasodilatazione

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- PG-F2alfa: interagisce con i recettori FP di muscolatura liscia e corpo luteo, inducendo contrazione

dell’utero. Inoltre, esistono una serie di farmaci che agiscono su questo recettore usati in campo

oftalmico.

- PG-D2: deriva soprattutto dai mastociti e agisce su recettori DP, inducendo vasodilatazione e inibendo

l’aggregazione piastrinica. Può inoltre interagire con il recettore PGD2-GPR44, coinvolto

nell’alopecia androgenetica.

Sia PG, che trombossano e prostacicline hanno un’emivita troppo breve per poter essere usati come farmaci.

Al loro posto, vengono usati analoghi strutturali più stabili.

LEUCOTRIENI

Anche le leucotrieni derivano dall’acido arachidonico e vengono prevalentemente prodotti dai

polimorfonucleati e a livello polmonare. Queste molecole hanno attività di:

- Vasocostrizione coronarica

- Contrazione delle vie aeree di piccolo calibro

- Stimolazione della secrezione tracheale

- Aumento della permeabilità delle pareti vascolari

Per questo motivo, un possibile effetto collaterale dell’aspirina è rappresentato dall’asma: inibendo le COX e

quindi la produzione di prostanoidi, l’acido arachidonico in eccesso viene dirottato verso la sintesi di

leucotrieni, che determinano costrizione delle piccole vie aeree. SI va incontro a un’asma di origine non

allergica.

I leucotrieni sono anche coinvolti in vere e proprie reazioni allergiche, con sempre contrazione delle vie aeree:

esistono farmaci antileucotrienici per gestire questa problematica. L’unico modo per bloccare la sintesi di

leucotrieni, però, è l’utilizzo di glucocorticoidi; al contrario, la somministrazione di FANS può rappresentare

un pericolo, perché riducendo la sintesi di PG aumentiamo quella dei leucotrieni, con un possibile

peggioramento del quadro asmatico.

ISTAMINA

L’istamina è una molecola ampiamente diffusa nel regno animale e, nell’organismo umano, ha una

distribuzione piuttosto varia. È concentrata però principalmente a livello cutaneo, nella mucosa

gastrointestinale e a livello polmonare. Insieme ai peptidi endogeni, alle PG e ai leucotrieni viene definita

autacoide, o ormone locale. Le cellule che più contengono istamina sono rappresentate da:

- Mastociti, nei quali la troviamo in granuli preformati

- Cellule enterocromaffini, presenti a livello gastrointestinale, dove l’istamina interviene nella

regolazione della secrezione acida, di bicarbonato e di muco.

- Neuroni istaminergici, presenti per lo più a livello dell’ipotalamo posteriore, ma anche corteccia, bulbo

olfattivo, talamo, ippocampo e sostanza nera. Qui l’istamina ha funzione di neurotrasmettitore e

modulatore, venendo rilasciata per depolarizzazione calcio-dipendente; il segnale viene invece spento

per degradazione enzimatica operata dalle istidina-metil-transferasi (prima) e dalle MAO di tipo B

(poi). I neuroni istaminergici hanno funzioni prevalentemente modulatorie e sono coinvolti:

o Omeostasi ipotalamico (sonno-veglia)

o Emozioni e memoria

o Temperatura corporea

o Sistema simpatico

o Sistema neuroendocrino

o Emesi

o Effetto anoressizzante

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L’istamina viene prodotta partendo dall’amminoacido L-istidina, che viene sottoposta a decarbossilazione

dall’enzima HDC (istidino-decarbossilasi), presente sono nelle cellule che devono produrre e immagazzinare

l’istamina. Richiede, inoltre, il piridossale fosfato come cofattore.

L’istamina è presente sotto forma di granuli, all’interno dei quali è complessata assieme ad eparina, eparano,

proteoglicani, con funzioni differenti sulla base del distretto anatomico.

RECETTORI

Esistono almeno quattro tipi di recettori per l’istamina: H1, H2, H3 e H4. Sono tutti recettori metabotropi,

identici tra periferia e centro e dei quali non sono ancora stati identificati eventuali sotto-tipi. H1, H2 e H4

sono recettori post-sinaptici, mentre H3 è prevalentemente pre-sinaptico.

Recettori H1

I recettori H1 sono associati a Gq e prevalentemente localizzati a livello di

- Ipotalamo

- CTZ

- Muscolatura liscia vasale (recettore ad alta affinità: induce una risposta rapida ma breve di

vasodilatazione, legata alla sintesi di NO)

- Miocardio di atri e ventricoli (dove induce aumento della contrattilità, aumento del cronotropismo sul

nodo SA e riduzione della conduzione AV)

- Miometrio

- Fibre pregangliari del simpatico nella colonna vertebrale

- Muscolatura liscia bronchiale

Sono quindi implicati in:

- Stimolazione della sintesi di NO

- Contrazione

- Aumento della permeabilità vascolare (i recettori H1 sull’endotelio delle venule postcapillari induce

allargamento delle giunzioni, aumento della permeabilità e passaggio di liquido, proteine e cellule

infiammatorie)

- Rilascio di catecolamine e fosforilazione di enzimi biosintetici

- Comportamento alimentare

- Inotropismo (effetto negativo)

- Depolarizzazione (per blocco delle correnti di potassio)

- Attivazione trascrizionale

- Regolazione del movimento (bilanciamento tra effetti positivi di H1 e H2 e negativi di H3)

Recettori H2

I recettori H2 sono associati a Gs e sono localizzati soprattutto a livello di

- Stomaco (cellule parietali gastriche, dove inducono l’esposizione della pompa H+/K+ per la

produzione di HCl)

- SNC (caudato e putamen, corteccia, formazione ippocampale, nucleo dentato del cervelletto)

- Miocardio (di atri e ventricoli)

- Ipotalamo

- Coclea

- Mastociti, dendriti e linfociti

- Muscolatura liscia vasale (recettore a bassa affinità: induce una risposta lenta ma prolungata di

vasodilatazione, legata all’induzione della sintesi di cGMP)

Sono quindi implicati in:

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- Stimolazione della sintesi gastrica

- Rilassamento muscolare liscio non-endotelio dipendente

- Cronotropismo e inotropismo (effetto positivo)

- Diminuzione del firing neuronale (capacità di rilascio di altre molecole)

- Aumento dell’attività delle proiezioni inibitorie della pars reticulata della sostanza nera (riduzione

della frequenza di firing)

- Inibizione dell’attivazione dei neutrofili, della chemiotassi e della proliferazione dei linfociti T

Recettori H3

I recettori H3 sono associati a Gi e sono soprattutto recettori presinaptici, localizzati a livello di:

- SNC (corteccia, talamo, ippocampo, gangli della base, sostanza nera, striato, nucleo accumbens,

amigdala, ipotalamo e cervelletto)

- Cuore

- Stomaco

- Intestino

- Pelle

- Timo

La distribuzione, tra l’altro, varia tra embrione e adulto.

Sono implicati in:

- Inibizione eterologa del rilascio di neurotrasmettitori (istamina, Ach, 5HT e dopamina a livello

centrale; NA e Ach a livello periferico)

- Aumento delle correnti al calcio del muscolo liscio

- Riduzione delle correnti al calcio nei neuroni mienterici

- Inibizione dell’attività delle proiezioni inibitorie della pars reticulata della sostanza nera (aumento

della frequenza di firing) e inibizione del rilascio di serotonina

- Condizionamento della paura

- Vasocostrizione

- Regolazione dell’appetito, della sazietà e del peso corporeo

- Inibizione della nocicezione meccanica e chimica a livello spinale

Recettori H4

Sono associati a Gi/0 e spesso agli H1. Sono coinvolti nell’immunomodulazione e nell’infiammazione e, forse,

hanno un ruolo nella proliferazione delle cellule neoplastiche epiteliali e nella cronicizzazione delle risposte

allergiche. Questi recettori fanno parte soprattutto del sistema immunitario.

EFFETTI PERIFERICI

- Mastociti: liberano istamina quando i componenti del complemento o IgE interagiscono con i recettori

cellulari. I mastociti sono presenti nella glia e a livello vascolare nel SNC e a livello perivascolare dei

piccoli vasi e delle biforcazioni.

- Prurito e dolore: l’istamina può stimolare le terminazioni sensoriali (recettori H1) e sembra implicata

nella nocicezione dell’emicrania

- Cuore: dosi medio-alte di H determina effetti cronotropi e inotropi positivi (H2), con aumento della

frequenza atriale.

- Vasi periferici: l’istamina riduce la pressione sistemica, a causa della riduzione delle resistenze

periferiche. Inoltre aumenta la permeabilità vascolare dovuta alla contrazione di actina e miosina

calcio-dipendente nelle cellule endoteliali dei capillari.

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È inoltre responsabile di eritema, edema locale e iperemia (triplice risposta di Lewis). Regola inoltre

le funzioni del muscolo liscio del microcircolo, dell’epitelio capillare e delle terminazioni nervose

sensitive.

Se iniettata sistematicamente, l’istamina determina ipotensione sistemica, aumento della frequenza

cardiaca e della contrattilità e aumento del flusso coronarico.

- Sistema esocrino: l’istamina determina produzione di muco nasale e bronchiale

- Bronchi: l’istamina determina broncocostrizione (ASMOGENO)

- Stomaco: stimola la secrezione acida

- Intestino: l’istamina induce crampi e diarrea

- Utero: induce rilassamento della muscolatura liscia

- Midollare del surrene: la stimolazione delle cellule cromaffini causa il rilascio di adrenalina

FARMACOLOGIA DEI RECETTORI H1

Gli antagonisti H1 sono utili nel trattamento delle reazioni allergiche, soprattutto a scopo preventivo. Più

antagonisti, tuttavia, sembrano essere degli agonisti inversi, che ridurrebbero il rilascio di istamina (visto che

il recettore H1 è spesso attivo a prescindere dalla presenza di H). Questi farmaci sembrano stabilizzare i

mastociti, inibendo il rilascio di prodotti mastocitari e anche di mediatori basofili. Inoltre inibiscono l’aderenza

e la migrazione degli eosinofili. La prima generazione di antistaminici, tuttavia, presentava un problema di

sedazione e aritmogenicità (specie in associazione con alcuni antibiotici) e di cardiotossicità, che sono stati

ridotti nella seconda (cetirizina) e terza generazione. Inoltre, fanno aumentare il peso e l’appetito e hanno una

lunga durata d’azione.

I farmaci di prima generazione, inoltre, presentavano una selettività per H1 non molto elevata, potendo

riconoscere con minore affinità i recettori adrenergici, muscarinici e serotoninergici.

A livello polmonare, gli antistaminici permettono di rilassare la muscolatura liscia a livello bronchiale.

FARMACOLOGIA DEI RECETTORI H2

Gli antagonisti H2 sono utili nella terapia dell’ulcera peptica e come coadiuvanti nel trattamento delle ulcere

da stress o iatrogene. La ranitidina e la cimetidina sono anche utili nel trattamento dell’ipersecrezione acide in

presenza di tumori secernenti gastrina. Sono in genere usati in associazione con gli inibitori di pompa per

controllare la secrezione acida nelle ore notturne.

MEDIATORI PEPTIDICI

I neurotrasmettitori di natura peptidica hanno caratteristiche comuni:

- Molti peptidi attivi possono originare da una singola proteine precursore

- Sono generalmente costituiti da una catena lineare di 5-40 amminoacidi

- Il terminale carbossilico è soggetto ad amidazione, glicosilazione, acetilazione, carbossilazione,

sulfatazione e fosforilazione

- Spesso contengono legami intramolecolari disolfurici che gli conferiscono una conformazione

parzialmente ciclica

La neurotrasmissione peptidergica è simile ma non uguale a quella mediata dai neurotrasmettitori classici: essa

prevede un accumulo prevalentemente vescicolare, la liberazione del NT è calcio-dipendente, i recettori

possono essere pre- e post-sinaptici e sono in genere associati a proteine G e alla produzione di secondi

messaggeri. Tuttavia, esistono alcune differenze importanti:

- Non vengono sintetizzati nel citoplasma sinaptico, ma nell’apparato del Golgi (quindi a livello

somatico)

- Possono essere liberati anche dal soma e dai dendriti

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- Non vengono riciclati (quindi posso andare incontro ad esaurimento) e non ci sono enzimi che li

degradano (possono essere degradati, lentamente, da proteasi aspecifiche)

- Spasso vengono liberati come precursori che devono andare incontro localmente a maturazione

differenziale (sulla base degli enzimi presenti)

- Lo spegnimento è in genere lento e avviene per diluizione (ma anche per cambio di sensibilità del

recettore)

Troviamo tre importanti famiglie di peptidi trasmettitori:

- Gli oppioidi: sono quelli più importanti

- Le tachichinine

- La colecistochinina

OPPIODI

La famiglia degli oppioidi è formata da almeno tre differenti prodotti di tre geni distinti:

- Pre-pro-opiomelanocortina (POMC)

- Pre-pro-encefalina A (pro ENK)

- Pre-pro-dinorfina (Pro DYN)

Da questi precursori originano diversi prodotti per digestione enzimatica endopeptidasica; quelli che ci

interessano di più sono rappresentati dalle beta-endorfine (derivati dalla POMC), le encefaline (da proENK) e

le dinorfine (da proDYN).

Le beta endorfine sono localizzate in neuroni che proiettano dall’ipotalamo al talamo e in neuroni del midollo

allungato (nucleo arcuato e nucleo del tratto solitario) che proiettano al sistema limbico e al midollo spinale.

Questi peptidi sono coinvolti nella gestione centrale del dolore (insieme alle encefaline, presenti nei neuroni

delle lamine midollari I e II). A livello midollare, esiste tuttavia il controllo discendente esercitato dalla

trasmissione serotoninergica, il cui compito è decidere se trasmette lo stimolo proveniente dalla periferia (e

quindi abbiamo percezione del dolore) o meno.

I recettori a cui si legano questi peptidi sono però presenti anche a livello periferico (polmone, intestino) e

allivello meso-limbico e meso-corticale: quindi farmaci che interagiscono con questi recettori, per la

modulazione del dolore, comportano una serie di effetti collaterali.

I recettori hanno un’affinità variabile per i peptidi ma, pur esistendo sotto-tipi recettoriali, li riconoscono tutti

senza alcuna discriminazione. Il nostro scopo, dal punto di vista terapeutico, è inibire la nocicezione periferica:

andremo quindi ad agire prevalentemente a livello midollare, inducendo ipopolarizzazione della fibra, ma sarà

anche possibile agire a livello talamico. Nelle vie nocicettive sono coinvolti anche molecole come

bradichinina, prostaglandine, etc: per questo motivo i FANS svolgono anche una azione analgesica (bloccano

la produzione di PG e quindi bloccano l’insorgenza dello stimolo doloroso).

La trasmissione peptidergica oppioide è costituita, però, da diversi tipi di molecole:

- Con il termine oppioide, intendiamo un peptide endogeno

- Con il termine di oppiacei, indichiamo invece droghe, principi attivi e derivati sintetici

- Con il termine di narcotici, indichiamo oppiacei e altri farmaci inducendo sonno e rilassamento (per

estensione, indichiamo tutte le sostanze che creano dipendenza)

Le azioni dei peptidi oppioidi, così come degli oppiacei sono mediate da almeno tre tipologie di recettori:

- Mu (che presenta i sottotipi Mu-1 e Mu-2): Mu-1 è responsabile di analgesia sovraspinale ed euforia,

mentre Mu-2 è responsabile dello sviluppo di dipendenza fisica e psicologica

- Delta ( con i sottotipi delta-1 e delta-2): sono responsabili di analgesia spinale

- Kappa (con i sottotipi kappa-1 e kappa-2): sono responsabili di analgesia spinale, sedazione e miosi

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Esistono poi altri recettori che non sono specifici per gli oppiacei ma li riconoscono come agonisti (recettori

epsilon e NOP). Essi sono implicati in:

- Risposta nocicettiva al dolore e allo stress

- Elaborazione delle esperienze e comportamenti gratificanti

- Omeostasi adattativa al consumo di cibo e acqua, regolazione della temperatura corporea, frequenza e

volume respiratori, tosse e vomito, motilità intestinale (es. Imodium)

Sono tutti recettori accoppiati a proteine Gi e controllano l’attività di alcuni canali ionici: Mu e Delta

aumentano la conduttanza dei canali per il K+, mentre Kappa inibisce alcuni tipi di canali per il calcio,

impedendo la liberazione di neurotrasmettitori. L’accoppiamento con le proteine Gi determina blocco della

produzione di cAMP ma l’uso cronico determina nella cellula un aumento della sintesi di adenilato ciclasi.

L’interruzione di questi farmaci determina un aumento immediato e consistente dei livelli di cAMP, alla base

del fenomeno di astinenza: se l’interruzione è brusca o somministriamo antagonisti, l’enorme aumento di

cAMP può portare il paziente anche incontro a morte. Ecco perché, in caso di dipendenza da farmaci

oppioidi/oppiacei tendiamo ad utilizzare molecole che aumentano gradualmente il cAMP: un tipico esempio è

il metadone, che ha un’emivita molto lunga e viene assunto per via orale con dosi scalari che permettono alle

cellule di perdere progressivamente la dipendenza fisica. L’utilizzo di antagonisti, invece, sebbene possa

portare a morte il paziente, vengono usati in caso di sovradosaggio e overdose, così da spiazzare i recettori e

permette di riprendere le funzioni fisiologiche (es. naloxone).

Gli agonisti principali sono rappresentati dalla morfina (Mu), dalla pentazocina (Kappa) e dalla buprenorfina

(tutti e tre i tipi recettoriali).