Fare i RacCONTI con il cambiamento

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Fare i racCONTI con il cambiamento Edizione 2013

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Fare i racCONTIcon il cambiamento

Edizione 2013

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pubblicazione realizzata da INAIL Sede di Torino centro A cura di Alessia Congia, Valeria Grotto, Serena Peyron, Lucia Portis, Roberto Sciarra Testi di Adrian, Aldo, Beatrice, Consolazione, Dino, Emilia, Francesco, Franco, Issa, Luciano, Marie Jeanne, Marinela, Mario, Maurizio, Norberto, Patrizia, Pietro, Refit, Rita, Sergiu info Inail Sede di Torino Centro Corso Galileo Ferraris 1 - Torino [email protected] [email protected] La pubblicazione viene distribuita gratuitamente e ne è quindi vietata la vendita nonché la riproduzione con qualsiasi mezzo. È consentita solo la citazione con l’indicazione della fonte. Tipolitografia Inail Milano, dicembre 2013

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Dedicato a Mario motore fondamentale

di questa bellissima esperienza

“Quando l’uomo ha vissuto e imparato va in pensione

e si siede su una panchina, è a perdere.

Invece bisogna chiedere ai vecchi cosa hanno imparato;

si ricicla l’immondizia, bisogna riciclare l’esperienza”

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Indice: Prefazione

Tommaso Montrucchio Commento al progetto

Padre Antonio Menegon Introduzione al progetto Introduzione metodologica al laboratorio Introduzione alle monografie Monografie

Adrian Aldo Beatrice Consolazione Dino Emilia Francesco Franco Rita Issa Luciano Patrizia Marinela Mario Marie Jeanne Maurizio Norberto Pietro Refit Sergiu

Riflessioni degli operatori Introduzione alle salienze Salienze

Trauma e cambiamento Le risorse Gratitudine Cosa non ha funzionato Prevenzione Ricominciare Consigli

Messaggio ai lettori

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PREFAZIONE Tommaso Montrucchio Direttore della Sede Inail di Torino Centro Me lo ricordo ancora quel signore tranquillo che parlava fitto, fitto, con un sorriso grande così stampato sul viso, gli occhi che brillavano. Ci raccontava della sua grande passione a gironzolare per il mondo su una nave. Era il suo lavoro, era un tecnico di grande esperienza. Io, assorto, ascoltavo in silenzio, ero ammirato. Come i miei colleghi. Quell’uomo stava per morire. E infatti è morto. Ma non è morta la sua passione per il lavoro, la stessa che hanno i protagonisti di questo libro. Grazie a loro è nata quest’avventura che li ha portati a raccontare e a raccontarsi in queste venti storie. Io all’inizio ero scettico, dicevo ai colleghi “noi non facciamo gli editori, ma i funzionari del parastato”, ma loro sono testardi e non mi hanno dato retta più di tanto. E in combutta coi titolari di queste venti storie e col “concorso esterno” della Professoressa Portis hanno prodotto questa “cosa”. Io adesso lascio la parola ai veri protagonisti e non aggiungo altro. Anzi no, una cosa la voglio dire: LEGGETELO QUESTO LIBRO, NE VALE SEMPLICEMENTE LA PENA.

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COMMENTO Padre Antonio Menegon - Comunità Madian di Torino Vivere è incontrare volti, storie, esperienze che ti coinvolgono se ti lasci catturare dall’importanza che nella vita hanno le persone. Noi siamo gli altri, e più condividiamo la nostra vita con la vita degli altri, più riusciamo a dare un senso ai nostri giorni. Tante sono le persone che ho incontrato nella mia vita, le più diverse, le più lontane, ma anche le più vicine, tutte con il loro bagaglio di vita e le loro storie, alle volte fatte di sofferenza, privazione, povertà, malattia, indifferenza. Fermarsi e saper ascoltare, accogliere, entrare dentro il dramma vissuto ed esprimere partecipazione, coinvolgimento, far sentire una presenza attenta, premurosa, è il primo passo per ridare forza e fiducia nella vita, per risollevarsi e riprendere il cammino. Nella nostra comunità arrivano persone profondamente provate dalla vita, con vissuti di disperazione, persone arrivate in Italia per lavorare e sostenere la famiglia lasciata nel paese di origine; si ritrovano ammalate e incapaci di sovvenire alle necessità dei loro famigliari perché loro stessi privi della prima grande risorsa che è la salute. La comunità accoglie non solo le persone ammalate e bisognose di cure, ma tutto quel subbuglio di sentimenti, frustrazioni, ansie, fallimenti che rendono ancor più impotenti e incapaci di sperare in un possibile futuro. Si vincono lo scoraggiamento e la disperazione non solo dando delle cose, un alloggio, cure mediche, ma soprattutto trasmettendo il messaggio rassicurante che i pesi e le sofferenze vengono portati insieme, che quelli che sono i bisogni, le attese e le speranze sono totalmente condivisi, cosicché la persona non è più sola, isolata, ma rinvigorita dalla certezza che altre persone sono sintonizzate e partecipi. In una parola, occorre saper scaldare il cuore perché l’altro possa abbandonarsi fiducioso, come un bambino in braccio a sua madre, e, così rinfrancato, riprendere vigore per lottare e superare le difficoltà della vita. Tanti hanno vinto la loro battaglia, altri non ce l’hanno fatta, ma, sia chi ha vinto, sia chi non è riuscito, ha lasciato una traccia, una storia da raccontare, un’esperienza che può essere di aiuto, non solo ad altre persone ammalate, ma anche a tanti altri che, venendo a contatto con questa storia, hanno saputo trarre insegnamento per potere vedere la vita con altri occhi e cambiare la loro visione del mondo e delle cose. Questa è l’importanza di questo libro, che aiuta a non dissipare esperienze di vita preziose; e nulla come la sofferenza ci aiuta a dare il giusto posto alle cose e alle persone e fissare sugli assoluti della vita i punti fermi per non vivere invano.

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INTRODUZIONE AL PROGETTO Gli operatori Innanzitutto ci presentiamo: siamo funzionari dell’Inail della sede di Torino Centro, l’Istituto pubblico che si occupa degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali. Per raccontarvi di questo progetto, è importante ritornare con la mente alle sue origini e ai bisogni da cui ha preso avvio. Nel nostro lavoro incontriamo quotidianamente persone che hanno vissuto o stanno vivendo l’esperienza dell’infortunio o della malattia professionale, in prima persona o come famigliare. Più volte abbiamo osservato l’emergere di un bisogno delle persone di parlare, di sentirsi ascoltate, di raccontare quello che stavano attraversando; perché in queste occasioni si è in tre: l’operatore, la persona colpita dall’evento (o un suo famigliare) e la sofferenza portata. Questa alcune volte viene esplicitata, altre volte viene trattenuta. Se il dolore non rimane chiuso all’interno della persona ma fluisce all’esterno e viene riconosciuto, diventa forse più leggero e rende un po’ più semplice continuare a conviverci; in alcuni casi, il parlarne addirittura cambia il proprio modo di vivere l’esperienza di vita. Molte delle persone incontrate in questi anni si sono aperte al racconto e hanno condiviso con noi che questo faceva loro molto bene. Ci hanno infatti più volte detto che potevano raccontare quello che sentivano in modo libero e che in famiglia questo era molto più difficile, anche per il timore di aggiungere ulteriore sofferenza. Così abbiamo cominciato a pensare che fosse prezioso raccogliere le esperienze fatte dalle persone e le loro personali risposte date a quello che era loro accaduto. Infatti, ci imbattiamo spesso in storie e risposte simili quando incontriamo singolarmente le persone e i loro famigliari, che potrebbero quindi ricevere un conforto anche solo ascoltando i racconti degli altri; più volte, dopo un incontro significativo ci siamo detti: “certo che se si conoscessero, si potrebbero aiutare tra loro; inoltre le loro esperienze potrebbero essere utili in funzione preventiva anche a chi non ha mai subito un evento simile”. L’Inail, infatti, oltre ad assistere sotto vari aspetti chi subisce un infortunio sul lavoro o una malattia professionale, attua interventi di prevenzione fornendo formazione e informazione per la diffusione della cultura della sicurezza sul lavoro, sia nella scuola fin dall’infanzia sia nel mondo del lavoro. Siamo convinti, infatti, che i vissuti delle persone, portati all’esterno, possano coinvolgere molto di più rispetto ad interventi che insistano solo sulle prescrizioni e sull’obbligo dell’uso dei dispositivi di sicurezza.

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Abbiamo pensato dunque che la raccolta delle esperienze delle persone potesse diventare materiale utile anche per queste iniziative. Altro obiettivo era quello di capire dove e come noi operatori, svolgendo quotidianamente il nostro ruolo istituzionale, potessimo modificare e migliorare il rapporto con i nostri assistiti: per questo abbiamo chiesto i loro consigli in tal senso. Ci piacerebbe anche poterli diffondere fra i colleghi delle altre sedi, in occasione dei corsi di formazione interna. Abbiamo infine creduto nell’importanza e nella forza del gruppo. Il nostro lavoro quotidiano si svolge in gruppo e siamo convinti della validità di questo strumento: questa esperienza ha confermato e rafforzato la nostra consapevolezza. È stato così che tre uffici della nostra sede, Reinserimento, Prevenzione e Lavoratori, si sono uniti per cercare un’idea che integrasse tutti gli aspetti del loro lavoro, provando a dare concretezza ai bisogni colti ed alle riflessioni sviluppate nel corso del tempo. I presupposti del progetto sono: il valore delle storie delle persone; l’importanza di avvicinarsi a queste storie come strumento per favorire un

rapporto tra persone ed Ente improntato sull’umanizzazione e valorizzazione del vissuto soggettivo;

la necessità di utilizzare le storie di vita, infortunio e cambiamento nell’ambito degli interventi per la diffusione della cultura della sicurezza nei luoghi di lavoro.

Per avvicinarsi alle persone ed alle loro storie, si è scelto di utilizzare lo strumento dell’intervista. Nel corso di un anno sono state intervistate venti persone, fra coloro che avevano subito un infortunio sul lavoro, una malattia professionale, i loro congiunti e i famigliari di chi a causa del lavoro aveva perso la vita. Attraverso le interviste, le persone hanno raccontato il proprio vissuto, in uno spazio narrativo dove sono state portate le emozioni, le paure, le idee. Allora abbiamo pensato: perché non creare una situazione in cui le persone possano incontrarsi tra loro e condividere i racconti, le storie di vita, le risposte che singolarmente ognuna di loro ha dato? Tutte le persone coinvolte hanno accolto positivamente la proposta: è nata così l’idea di dare avvio ad un laboratorio di narrazione autobiografica, nel corso del quale sviluppare il lavoro sulle storie delle persone ed arrivare all’elaborazione della loro esperienza in forma narrativa. La conduzione del laboratorio è stata affidata alla Prof.ssa Lucia Portis, antropologa, collaboratrice scientifica della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari.

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Hanno aderito al laboratorio dodici persone, di cui quattro straniere: quattro delle persone coinvolte sono famigliari di infortunati sul lavoro. La persone straniere hanno avuto la possibilità di scrivere nella loro lingua madre, a volte aiutati dai figli per la trascrizione in italiano. Gli operatori che hanno curato questo progetto hanno partecipato attivamente al laboratorio, affiancando i partecipanti nella trascrizione dei testi, lasciandosi coinvolgere nel percorso narrativo e, successivamente, lavorando, con l’assistenza della Prof.ssa Portis, alla sistemazione di tutto il materiale prodotto nel corso delle interviste e del laboratorio. È stato il primo progetto all’interno della nostra Sede in cui tre uffici così diversi si sono uniti con lo scopo di realizzare un’idea condivisa; questo ha sicuramente prodotto un grande valore aggiunto ed un’interazione maggiore tra gli operatori. È andato tutto al di là dello sperato e dell’immaginato. L’interazione tra le persone è avvenuta tra le diversità e unicità di ognuno. Spesso i partecipanti hanno condiviso che il fatto di essere in gruppo dava loro un senso di famiglia, di forza e di coraggio. Il progetto è nato con premesse che nel tempo si sono trasformate ed ha nel contempo arricchito le persone che hanno partecipato e che hanno voluto dar vita a questa testimonianza. A partire dagli obiettivi iniziali, abbiamo così percorso strade più innovative e meno scontate rispetto al nostro usuale lavoro, arrivando così a pensare ad un mezzo di divulgazione ambizioso: un libro.

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INTRODUZIONE METODOLOGICA AL LABORATORIO Lucia Portis Il laboratorio di narrazione autobiografica è uno spazio/tempo all’interno del quale le persone intraprendono un percorso mnestico e introspettivo attraverso l’uso di dispositivi atti a favorire il racconto in forma orale e scritta. Questo percorso implica una disposizione all’ascolto di sé e il desiderio di comunicare la propria esperienza ad un interlocutore/ascoltatore. Infatti oltre alla scrittura individuale, altrettanto importante è la fase interpretativa e di restituzione; in questa fase i narratori e le narratrici sono invitati/e a condividere le loro scritture in gruppo o a coppie e a riflettere su quanto scritto. La rilettura e l’analisi dei testi consentono ai/alle partecipanti la comprensione delle scelte narrative, delle interpretazioni e un’ulteriore attribuzione di significato. Il laboratorio è quindi uno spazio narrativo di gruppo dove la narrazione di sé diventa, durante la lettura, pratica collettiva e la condivisione dei testi genera un effetto di identificazione e rispecchiamento, e al tempo stesso di differenziazione, rispetto all’unicità delle storie di ognuno. Il contesto narrativo consente, quindi, da una parte di dar forma alle proprie rappresentazioni, senza la paura del giudizio altrui, dall’altra facilita la condivisione e la connessione della propria rete semantica con quelle degli altri. Il gruppo negozia e amplifica l’attribuzione di significati comuni dell’agire quotidiano e permette la costruzione di microteorie contestualizzate e utilizzabili per comprendere le diverse visioni della realtà. È un lavoro di co-costruzione. I testi letti in gruppo sono come gettati nel mondo, un transito che in qualche modo separa la narrazione dall’autore e autrice e li porta ad ascoltarsi. La storia individuale comincia a entrare in un’altra storia, quella del gruppo. E, insieme, la storia individuale permette una nuova conoscenza di sé. Il gruppo partecipa alla storia di ognuno lasciando la sua singolarità vivida e unica, entra in contatto con la storia di tutti/e senza perdere un solo passo ed entrando in scena con sottolineature - emotive, di contenuto, autoriflessive - che agganciano e mescolano i significati. Il contesto formativo diventa contesto narrativo proprio perché consente il racconto di frammenti di sé e quindi di dar forma alle proprie rappresentazioni, senza la paura del giudizio altrui, di meticciare, condividere e connettere interpretazioni di sé, dell’altro e del mondo. Gli incontri del laboratorio sono composti da diversi momenti: il momento introduttivo, in cui viene illustrato il dispositivo e vengono invitati e accompagnati i/le partecipanti a scrivere utilizzando suggestioni diverse: letture,

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sollecitazioni teoriche, immagini; il momento individuale di narrazione e scrittura; il momento della restituzione in cui i partecipanti sono invitati a rileggersi e rielaborare quanto scritto in modo collettivo; il momento di chiusura nel quale sono messe in comune emozioni e riflessioni, e l’accento è posto più sul processo che sui contenuti emersi. Abbiamo creato questo spazio per consentire ai partecipanti di ricostruire in un primo tempo la loro storia prima dell’incidente o della malattia e poi di affrontare quest’ultima e quello che ne è venuto dopo. L’obiettivo del laboratorio era quello di raccontare il proprio passato al fine di intraprendere un percorso di risignificazione alla luce dell’oggi e motivare i partecipanti a ripensare al proprio futuro e aprirsi ad altre possibilità. Inoltre il laboratorio ha consentito di conoscere e comprendere le strategie di coping1 utilizzate dai vari partecipanti per far fronte all’evento problematico e le loro capacità di resilienza. Struttura del laboratorio Il laboratorio è stato strutturato in otto incontri di due ore ciascuno, i temi affrontati erano relativi alla storia di vita nel suo complesso e in particolar modo all’evento problematico (infortunio o malattia), alle sue conseguenze, alle strategie di coping e resilienza. Le persone che non erano in grado di scrivere o che non volevano utilizzare questo codice sono state affiancate da operatrici e operatori dell’Inail che hanno messo in forma scritta il loro racconto orale. Il risultato finale non è stato soltanto una produzione di testi significativi e importanti per sé e per gli altri che il lettore potrà trovare nelle diverse monografie, ma anche un’importante presa di coscienza dell’importanza del gruppo e della narrazione per affrontare percorsi difficili come quelli che vivono le persone che subiscono un incidente invalidante o che sono affette da un malattia professionale.

1 Le strategie di coping racchiudono comportamenti, spesso inconsapevoli, emozioni e adattamenti cognitivi utilizzati per affrontare situazioni problematiche.

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INTRODUZIONE ALLE MONOGRAFIE Gli operatori Come si è detto, il progetto si è articolato in due fasi, le interviste ed il laboratorio: le monografie contengono, per ognuno dei partecipanti, tutta la documentazione prodotta durante i percorsi. Le interviste riguardano venti persone individuate tra quelle prese in carico nell’ambito di progetti riabilitativi individualizzati, previa verifica della disponibilità a partecipare all’iniziativa. Dei venti partecipanti tredici sono uomini e sette donne: tra essi sono di nazionalità straniera cinque uomini (Romania, Moldavia, Slovacchia, Senegal e Albania) e una donna (Romania). Le interviste sono state distinte in tre tipologie: alla persona infortunata, a quella affetta dalla malattia professionale e a un famigliare: riportiamo di seguito le domande comuni e quelle specifiche.

Come definisce il suo infortunio/del famigliare?

Cosa è rimasto nella memoria del momento in cui è accaduto/ha saputo la notizia?

Quali di queste parole sono importanti per la prevenzione?

- attenzione/concentrazione - prudenza - formazione - conoscenza della lingua - fretta - eccesso di sicurezza in se stessi - casualità - mancato riposo - misure di sicurezza - stanchezza - paura - abitudine

Una delle funzioni dell’Inail è il reinserimento sociale: quali sono state le sue risorse per ricominciare, andare avanti, superare?

Vuole darci un consiglio sul modo di condurre il nostro lavoro?

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Queste le domande poste alle persone affette da malattia professionale:

Lavoro e realizzazione personale. Quale è stato il ruolo del suo lavoro nella sua vita?

Lavoro e diritti dei lavoratori. Quali cambiamenti significativi ha osservato nell’arco della propria vita lavorativa?

Misure di sicurezza e prevenzione. Quali cambiamenti significativi ha osservato nell’arco della propria vita lavorativa?

Un evento legato alla sua esperienza lavorativa che le torna sovente in mente

La notizia della malattia professionale. I primi pensieri che hanno accom-pagnato la diagnosi.

Come sono cambiate le sue abitudini di vita? Che cosa ritiene le manchi di più? In cosa ci vuole più coraggio nel convivere con la malattia? Cosa ha imparato dalla sua esperienza di malattia che ritiene di poter tra-

smettere ad altri? Troverete le risposte all’interno delle monografie di ciascun partecipante. Le interviste sono state condotte dagli operatori Inail, che hanno cercato di trascrivere fedelmente i pensieri degli intervistati, anche nei loro modi di espressione. Le persone intervistate hanno parlato di sé con disponibilità ed autenticità dando vita a testimonianze molto toccanti. Agli incontri individuali con i partecipanti che hanno rilasciato l’intervista, sono seguiti alcuni incontri di gruppo con tutte le persone coinvolte dove è stato riletto quanto scritto e sono state condivise le sensazioni che ognuno aveva avuto nel raccontarsi e nel ri-ascoltare la propria testimonianza letta dagli operatori presenti. Da qui è nata la volontà di proseguire con un percorso di narrazione che consentisse di approfondire questa esperienza in modo più strutturato: il laboratorio di narrazione autobiografica. Il laboratorio si è svolto nei nostri uffici, è stato strutturato in otto incontri ogni venerdì dalle 12.00 alle 14.00 e si è sviluppato attraverso l’elaborazione di testi, immagini, disegni su questi temi:

il primo ricordo spirale esistenziale (elaborato grafico più narrazione di uno o due episodi

significativi della propria vita)

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arcipelago degli affetti (elaborato grafico più lettera ad una persona significativa del proprio arcipelago)

il lavoro lettera al corpo risposta dal corpo la resilienza (i fattori, le persone, le esperienze o le situazioni che hanno

aiutato a superare il momento di crisi dovuto all’infortunio/malattia/perdita) il futuro: speranze (il messaggio nella bottiglia) cosa è successo dopo

Al laboratorio hanno partecipato dodici delle persone intervistate, cui si è aggiunta la moglie di uno di essi che è morto per la malattia professionale pochi giorni prima dell’inizio del laboratorio (a lui è dedicato questo libro). Gli altri intervistati hanno rinunciato al laboratorio principalmente per motivi di lavoro o famigliari non compatibili con gli orari concordati. Dei dodici partecipanti otto sono uomini e quattro donne: fra essi sono di nazionalità straniera tre uomini (Romania, Slovacchia e Albania) e una donna (Romania).

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MONOGRAFIE

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ADRIAN Trentun’anni, infortunio del 21 ottobre 2004. Incidente alla guida dell’auto mentre andava al lavoro. Lesione: paraplegia. Presta volontariato come consulente alla pari presso l’Unità spinale di Torino. Intervista L’infortunio per me è stato uno shock. In una parola posso dire scioccante. Cosa mi è rimasto impresso? Vi interessa sapere le cose belle o le cose brutte? Perché nel mezzo ci sono state anche cose belle! La cosa brutta è stata trovarsi in questa condizione. In collina (presso un centro di recupero funzionale, ndr) però ho conosciuto parecchie persone e con queste persone ci siamo aiutati a vicenda. Quando ho avuto l’infortunio sono sempre stato cosciente. I primi tre mesi sono stato al Cto (Centro Traumatologico Ortopedico); un mese in rianimazione e due mesi in reparto. Poi sono passato al Crf (Centro Riabilitazione Funzionale) dove sono stato da fine gennaio 2005 a febbraio 2006. Lì si è formato un gruppo di amici con cui ci si incontra ancora, si va a cena… Poi sempre tramite il Crf ho fatto un corso di cinque incontri come consulente alla pari: dato che sono in carrozzina, mi contattavano e mi affiancavano ai pazienti nuovi e ai loro famigliari nei casi più disperati. È stato divertente. Non si parlava molto dell’incidente. Forse ci contattavano più i famigliari, perché loro patiscono di più: hanno più bisogno di chi ha avuto l’incidente. I pazienti, se hanno la fortuna di incontrare un gruppo di persone con cui si trovano bene, si riprendono meglio. Rispetto al nostro gruppo dei tempi del mio ricovero, anche le nostre famiglie sono rimaste in contatto. Allora era anche più facile perché il posto era piccolo, condividevamo gli stessi spazi ed eravamo tutti uniti. C’era una unica sala di svago e quindi ci incontravamo sempre. Ho cercato sempre di non pensare troppo a quello che era successo. Poi con gli anni si può anche tornare un po’ indietro, ma l’importante è pensare ad andare avanti. Se devo pensare al mio infortunio da un punto di vista della prevenzione, il fattore che per me è stato determinante é indubbiamente il MANCATO RIPOSO. Ho avuto un colpo di sonno a causa della stanchezza. Prevenzione è anche rispettare il proprio organismo. Rispetto alla motivazione per ricominciare, per me il primo passo è stato raggiungere un’autonomia. E poi, piano piano, si ricomincia. All’inizio ho fatto fatica a trovare una casa. Se sapevano che eri in carrozzina la casa non te l’affittavano. Poi abbiamo visto che stavano concludendo questo complesso di case e abbiamo acquistato questa, che è totalmente accessibile. Dato che non

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potevo fare quello che facevo prima, ho provato a riorganizzarmi tutta la vita. Ho fatto così. In quel momento finisce tutto com’era prima. Il computer, per esempio, prima - sì - lo usavo, ma non molto. Adesso è tutto. È come l’aria. Serve per fare tutto nella vita quotidiana. Nel complesso comunque non posso lamentarmi. Nella sfortuna, ho avuto la fortuna quando ho avuto bisogno. Il primo ricordo Ricordo mio zio che mi portava sulle spalle. Spirale esistenziale: primo episodio I primi giorni di scuola, perché è l’inizio del mio cammino verso la vita. È il periodo più bello, il più innocente, in cui tutto quello che fai lo fai con entusiasmo e non ci sono tutti i problemi che a volte nella vita devi affrontare da grande. Spirale esistenziale: secondo episodio Il mio incidente è stato quello che ha lasciato un segno importante nella mia vita: è come se fossi nato per la seconda volta, ho dovuto reinventare la mia vita, riprendere tutto quasi da zero. Ero come un neonato che cominciava dal nutrirsi da solo, vestirsi, lavarsi e tutto il resto. I primi tre mesi sono stati i più duri perché ero fermo nel letto, riuscivo a muovere solo la testa, e lì per la prima volta nella mia vita l’unico desiderio era la morte. Le cose sono cambiate una volta andato al centro di recupero in collina; ero ancora fiducioso di riprendermi, però con il passare del tempo e grazie a degli amici che ho conosciuto lì dentro è stato più facile accettare questa condizione e soprattutto accettare la carrozzina. Arcipelago degli affetti: lettera alla persona La mia mamma si chiama Maria ed è nata il 5 maggio 1959 in una famiglia numerosa con nove figli (quattro femmine e cinque maschi). Già da piccola era una ragazzina molto spigliata che andava molto bene anche a scuola. Essendo in una famiglia così numerosa, i miei nonni non potevano offrirle tanto e così lei già dalle medie per farsi la sua paghetta lavorava ogni tanto dopo la scuola e

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nei week-end con la zia nel suo bar, arrivando così ad innamorarsi di questo mestiere. Dopo le medie, i genitori non potevano permettersi di farla continuare con gli studi e la nonna voleva mandarla a lavorare in una fabbrica, però lei non voleva e così di nascosto ha partecipato e vinto una borsa di studio di tre anni in una scuola alberghiera che era molto più lontana dalla sua città e così ha dovuto trasferirsi lì. Dopo la scuola è tornata a lavorare in un ristorante nella sua città dove a soli vent’anni era già responsabile del locale, dove nel 1981 ha conosciuto mio padre. Nel 1982 ha sposato mio padre che aveva già due figli da un matrimonio precedente e il 15 dicembre 1982 sono nato io suo unico figlio. Dopo una vita di alti e bassi come in tutte le famiglie, nel 2000 si è separata da mio padre. Nel 2000 dopo la separazione ha deciso di voltare pagina e su invito di sua sorella è venuta in Italia, dove l’ho raggiunta anch’io nel 2001. Arrivata a Torino è riuscita a trovare lavoro come barista in un noto ristorante dove tuttora continua a lavorare. Ha un carattere forte che mi ha dato tante bastonate quando me le meritavo e mi è sempre stata vicina quando ne avevo bisogno. Il lavoro Il primo successo Nell’estate del 2000 ho lavorato per tutta la vacanza in un villaggio turistico che apparteneva a mio zio. Io lavoravo alla cassa all’ingresso dalle 8 alle 17 con pausa di un’ora. Dopo il lavoro ero libero di fare tutto quello che volevo. L’ultimo successo Quando facevo il carrozziere di barche, il titolare della mia ditta voleva prendere del lavoro in un’altra grossa fabbrica di barche che si trovava a Piacenza, e così aveva deciso di mandarmi con altri due compagni per un periodo di prova di due mesi. Alla fine della prova siamo riusciti ad ottenere un contratto, da tre siamo diventati sei e il mio titolare mi ha messo come capo squadra. Il primo fallimento Una volta arrivato in Italia ho trovato lavoro in una fabbrica di tende a Caselle, io mi occupavo del confezionamento dei binari su cui venivano appese le tende e del montaggio. Dopo tre mesi ho smesso perché non mi pagavano.

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L’ultimo fallimento Nel 2010 avevo fatto un corso di web design presso l’unità spinale di Torino. Hanno chiesto a me e al mio compagno di corso di creare un sito per l’unità spinale. Una volta finito tutti erano entusiasti, lo abbiamo presentato alla direttrice che era molto soddisfatta, mancava solo la presentazione ufficiale. Peccato che il progetto ancora oggi è “fermo a quattro frecce” (sospeso, ndr). Il primo conflitto Quando lavoravo nella fabbrica di tende a Caselle avevo litigato con la titolare che non mi pagava e mi diceva sempre: la prossima settimana. L’ultimo conflitto Quando facevo l’imbianchino avevo litigato con il mio capo per un lavoro che avevamo deciso insieme come fare, solo che dopo il proprietario dell’alloggio non è stato contento e il mio capo ha dato tutta la colpa a me. Il primo disagio Nel primo giorno di lavoro in Italia ero arrivato in ritardo di un quarto d’ora e non sapevo come spiegare che il treno era in ritardo. Alla fine gli ho detto solo chi ero, lei mi ha detto qualcosa col sorriso e mi ha portato sul posto di lavoro. L’ultimo disagio Dopo la litigata con il mio capo il nostro rapporto è degenerato perché mi rinfacciava sempre davanti ai miei colleghi che lui aveva perso dei soldi per colpa mia. Dopo una settimana me ne sono andato. Il primo desiderio Prima dell’incidente stavo per mettermi in proprio. Avevo trovato una fabbrica più piccola che aveva bisogno di carrozzieri e cosi ho deciso di aprire una partita iva: con i risparmi che avevo messo da parte potevo permettermi di portare con me un’altra persona per iniziare. L’ultimo desiderio Trovare un lavoro che impegna le mie giornate e dà un senso alla mia vita.

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Lettera al corpo Caro midollo ti scrivo queste poche righe ma non da amico perché non lo sei e non lo sarai mai, anche se nel profondo del mio cuore spero ancora di poter far pace un giorno con te. Non so quale possa essere il motivo della tua frattura, se eri tu che volevi punirmi perché ti sentivi solo (adesso starai meglio visto che ci sono due placche in titanio con quattro chiodi che ti fanno compagnia) oppure è la vita che si è accanita contro di me; ma anche se fosse non dovevi abbandonarmi al primo ostacolo che hai incontrato per strada. Dovevi essere più forte, così come sono stato forte io a reagire dopo la tua frattura, che mi ha provocato non tanti problemi, ma di più. I primi mesi sono stati i più duri, con il mio stato d’animo che era un insieme di sentimenti confusi: passavo dallo sconforto alla sfida, dalla gioia alla depressione, dalla voglia di andare avanti alla chiusura in me stesso. Anche se ho passato momenti di grande delirio, non mi sono mai lasciato andare e grazie al mio grande amore per la vita sono riuscito ad andare avanti con tranquillità e serenità, diventando così ancora più forte. Sappi però che non mi piangerò addosso perché so che c’è gente che soffre anche più di me, riuscirò a considerarti come qualcosa di diverso col quale convivere il meglio possibile, se non altro perché so che purtroppo mi accompagnerai per tutto il resto della mia vita. Per concludere ti dico una cosa sola “Ho perso una battaglia ma non la guerra.” Risposta dal corpo Caro Adrian, anch’io spero di potere fare PACE ancora con te e di riuscire un giorno di vederti ancora in piedi. Non sono né io che ti volevo punire, né la vita che si è accanita contro di te. Forse eri solo tu che dovevi lavorare un po’ di meno e riposare un po’ di più così non avresti preso quel colpo di sonno al volante. Mi dispiace tanto per tutto quello che hai passato perché non era nelle mie intenzioni farti soffrire così tanto. Per concludere ti dico solo che un giorno mi piacerebbe stringerti la mano come sconfitto della guerra. La resilienza Dopo l’incidente c’è stata una serie di persone che mi sono state d’aiuto nel mio percorso riabilitativo. Comincio dal mio ex titolare, una grande persona che mi è stato vicino dall’inizio alla fine del mio percorso. In un mese di rianimazione era venuto

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quasi tutte le sere a trovarmi, mi prendeva la mano e pregava, e dopo mi raccontava la sua giornata di lavoro e quella dei miei colleghi per distrarmi un po’. Dopo un mese di rianimazione mi hanno trasferito al settimo piano dove ho conosciuto un sacco di persone fantastiche, però con una sola si è creato un legame speciale, si chiama Stefania ed è un’infermiera. Con lei ho condiviso un sacco di emozioni, momenti di grande gioia e anche tanti momenti di grande tristezza, però lei riusciva sempre a tirarmi su il morale con la sua pazzia e con la sua simpatia, aveva sempre la risposta pronta ad ogni mia domanda. Dopo due mesi al settimo piano al Cto, era arrivato il momento tanto desiderato, sono stato trasferito al centro di riabilitazione Crf in collina. Arrivato in collina mi sono ritrovato in stanza con Marco il pilota e Alessandro il pazzo, due dei miei compagni d’avventura. Dopo poco tempo si è unito al gruppo anche Frank il regista, Francesco lo sbirro (era un ex poliziotto) e Daniela: insieme a loro si è creato un gruppo chiamato da tutti “il clan dei bastardi” che tutt’ora continua ad esistere. Con loro mi sono lasciato andare, e così dalle serate tristi passate a letto siamo passati alle serate con tante feste, con le uscite in birreria e tante ubriacature, è stata come una terapia di gruppo, non avevi neanche il tempo per pensare alle cose brutte. Ci sono state anche altre persone che mi sono state vicino come mia madre, gli amici di prima e tante persone meravigliose che ho incontrato strada facendo, come l’assistente sociale con la quale tutt’ora c’è un rapporto di amicizia, oppure la mia fisioterapista che ha faticato tanto con me per farmi raggiungere l’autonomia che desideravo più di ogni altra cosa al mondo; però per quanto riguarda la mia salute mentale penso che il gruppo sia stato fondamentale. Il futuro: speranze (il messaggio nella bottiglia) Datevi da fare con la ricerca sulle staminali! Cosa è successo dopo Tutto ha continuato a trascorrere come prima. Avevo già avuto delle esperienze simili anche prima, ma questa è stata una delle poche dove ero l’unico in carrozzina. A me non cambia nulla perché sono abituato, ma rimangono colpiti più loro che io. La vita per il resto è andata avanti come al solito.

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Spirale esistenziale di Adrian

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Arcipelago degli affetti di Adrian

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ALDO Cinquantatré anni, infortunio subito il 29 luglio 2008: è stato investito da un muletto guidato da un collega. Lesione alla gamba sinistra. Attualmente in cerca di nuova occupazione. Intervista Se dovessi definire il mio infortunio mi viene in mente la sensazione di un impatto sgradevole, quasi agghiacciante ed improvviso; sicuramente non voluto. Quando si sta svolgendo un lavoro è molto importante concentrarsi su quello che si sta facendo, senza pensare ad altre cose che potrebbero influire negativamente sul risultato del lavoro o peggio ancora determinare delle situazioni di rischio. Ho poi notato che alcuni colleghi non prestano molta attenzione a quello che stanno facendo, comportandosi in maniera superficiale, come quello che mi ha investito col muletto e che era solito, anche durante il lavoro, fare uso delle cuffiette, determinando di conseguenza situazioni di pericolo, dovute non tanto al rumore, quanto alla distrazione da quello che si sta svolgendo, senza considerare poi il calo della concentrazione, di cui accennavo prima. Il risultato è solo quello di creare disgrazie di notevole entità. Io penso che quando si arriva al lavoro non bisogna essere di cattivo umore, come se tutte le cose andassero per il verso sbagliato, altrimenti la giornata non può che continuare in maniera sbagliata e sgradevole. Credo, pertanto, che sia molto importante arrivare carichi di energia, che aiuta molto a prevenire gli avvenimenti spiacevoli e soprattutto cercare di impostare il lavoro in maniera responsabile, evitando un inizio negativo che porta come risultato solo quello che mi è accaduto, poiché la persona che mi aveva investito aveva la testa tutta da un’altra parte. Penso che il parlare dei comportamenti, degli stili di vita e delle responsabilità, che ognuno di noi ha nei confronti degli altri, sia molto importante per evitare molti incidenti. Cosa mi è rimasto impresso di quel momento? Ogni infortunio è un fatto a sé stante. Benché abbia avuto la percezione in quell’istante di quello che mi stava accadendo è rimasta in me una gioia, una forza di riuscire a sopportare le conseguenze del danno che il collega mi aveva provocato, in quanto sono sopravvissuto all’evento. In quei momenti, anche se ero conscio di vedere la fine, sono riuscito comunque a rialzarmi e confrontarmi con l’impatto, rivelatore della crudeltà del fatto. Sono riuscito ad esprimere alla persona che mi ha cagionato il danno tutto il mio risentimento per ciò che mi era accaduto. La forza che mi ha permesso di fare tutto questo mi è stata data dalla visione delle foto che si sono staccate dal mio portafoglio e che riportavano le immagini

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del mio nipotino, i suoi occhi hanno contribuito a fare in modo che potessi reagire in quella maniera. Per me è stato come un’improvvisa immissione di ossigeno proprio in un momento in cui mi veniva a mancare e che mi ha permesso, anche solo per alcuni istanti, di poter dimenticare quello che mi stava succedendo, come se non fossi stato io quello che aveva subito l’incidente. In questo momento, mentre parlo con voi, mi vengono in mente le morti di tutti quei lavoratori che, come me, sono considerati alla stregua di entità astratte, anziché come persone da tutelare. Se devo pensare al mio infortunio da un punto di vista della prevenzione, per me un fattore determinante è la formazione, intesa però come capacità interiore di riuscire con la prudenza e con la coscienza ad agire in maniera corretta. Sicuramente i corsi di formazione sono utili, ma se non vi è qualcosa di se stessi, difficilmente potranno avere l’esito per il quale sono predisposti. Tutto ciò l’ho potuto verificare quando ho seguito il corso per saldatore dove ho avuto l’impressione che i corsi, in genere, devono essere rivolti a persone predisposte ad apprendere, altrimenti è tutto tempo perso. Un altro fattore a cui bisogna prestare attenzione è “l’eccesso di sicurezza in se stessi” perché nella vita c’è sempre da imparare e anche se si è convinti di sapere il fatto proprio, non bisogna mai fidarsi delle proprie capacità perché si potrebbe cadere in situazioni spiacevoli. Un’altra parola che ritengo importante è la “prudenza” che per me è una conseguenza della concentrazione. A proposito di questa parola, mi viene in mente un incidente accaduto insieme a mia figlia e mio nipote durante un viaggio in macchina. Mi ricordo che ero molto agitato a causa dell’altra macchina che, sbandando, aveva provocato l’incidente ma, grazie alla presenza dei miei famigliari, sono riuscito comunque a trattenermi e a concentrarmi sul modo migliore di reagire. Rispetto al superamento di un infortunio, a mio avviso non vi è alcuna possibilità di poter superare il trauma subito; tuttavia con un carattere molto forte si potrebbe ravvisare qualche spiraglio, che possa essere d’aiuto nell’arginare tutto quello che di negativo si trova intorno. Senza dubbio l’affetto dei propri famigliari è la soluzione migliore, e la mia famiglia mi è stata di grande aiuto nel superare tutte le avversità conseguenti all’accaduto. Certamente ci vuole anche un pizzico di determinazione, che ti permette di affrontare ancora meglio il tutto. È anche una questione di dignità. Devo anche dire di essere stato molto contento quando l’Inail mi ha consegnato l’onorificenza. Vuol dire che l’Inail ha riconosciuto la gravità dell’infortunio. Per me è stato come se si fossero immedesimati nel dramma che ho vissuto, comprendendo la situazione in cui mi sono trovato, anche se sono convinto che per poter capire una determinata situazione è necessario viverla.

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Posso dire, inoltre, che ho sempre cercato di non desistere nella ricerca di una mia stabilità interiore e allo stesso tempo di portare, in qualche modo, conforto alla mia famiglia. Il primo ricordo Il mio primo ricordo è legato alla sfera più bella, la famiglia, ma è il rifiuto della mia nascita. Nato dopo sette sorelle, mio papà morì il 20 dicembre 1959 a soli ventotto anni ed io nacqui il 4 novembre 1959. Quindi chi mi mise al mondo mi volle consegnare ad un brefotrofio dove io (che ero nato in una bella famiglia numerosa) non sono stato accettato. Da qui seppe la notizia la nonna materna la quale insultò la figlia e mi tenne con sé alla tenera età di settantanove anni. Stetti con lei al paese sino all’età di tre anni. Poi venni in Piemonte e mi misero in collegio. Qui mi trattarono come un oggetto anche perché venendo dal Sud ero proprio un selvaggio e il selvaggio sinceramente non è facile da addomesticare. La mia grande “fortuna” è andata avanti con le suore ed i preti che ho conosciuto. Loro, quando mi comportavo bene mi premiavano, invece quando non mi comportavo bene mi mettevano in punizione. Le punizioni erano molto impegnative, tipo: pulire il refettorio, lavare i piatti, non andare tutti insieme a giocare. Spirale esistenziale: un episodio significativo Un ricordo a me caro è stato: il 12 giugno 1978 (giornata fatidica perché c’era il referendum per l’aborto) quando io mi licenziai dopo sei mesi di lavoro e due anni di medie superiori ed ecco che dentro di me si sprigionò un’aria molto fresca e profumata. Sì, la mia libertà di esistere realmente e moralmente. Il secondo ricordo molto bello è quello di quando intrapresi il percorso di commesso. Ma mica è stato tanto facile. Infatti io prendendo in mano la mia libertà, andai giù al paese. E dopo quattro mesi che ero lì vidi un biglietto con su scritto “cercasi commesso anni 14/15”. Io ne avevo diciotto e dovevo partire anche per il militare. Però a diciotto anni ne dimostravo quattordici e quindi insistevo su questo vantaggio. Per venti giorni ogni mattina mi presentavo al negozio dicendo che avevo un forte desiderio di fare il commesso, ma la ragazza mi diceva: “ma tu sei grande.” E io: “no!” e poi mi diceva: “hai fatto il soldato?” e io: “no, non mi hanno chiamato”. Invece, lei non lo sapeva, ma avevo ricevuto già la cartolina. Tutto questo pur di riuscire a entrare in negozio. Sentivo che sarebbe stato un lavoro per me molto

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gratificante. Allora al ventunesimo giorno mi riaffacciavo al negozio e dissi di nuovo le medesime parole, ho quattordici anni ed ho il desiderio di lavorare. La ragazza, vista la mia insistenza chiamò il padre nel capoluogo (Foggia) e spiegò tutta la situazione. Fin quando egli disse alla figlia: “se ha voglia di lavorare fallo venire a Foggia”. Io come mi diede quella notizia feci un salto di gioia e dissi “grazie, grazie”. All’indomani andai a Foggia e quando mi vide il padre mi disse: “ma sei tu il ragazzo che ha voglia di lavorare?” risposi: “sì”. Allora disse al capo commesso, il quale si chiamava A., di darmi uno straccio per togliere la polvere sulle mensole. Per tutto il giorno. Ed io gioioso dissi: “sì”. E poi divenni un ottimo vetrinista e un ottimo commesso responsabile (non per altro mi fece prendere la licenza per gestore). Di qui mi rimane ancora il saperlo fare. Però purtroppo i tempi non te lo permettono più, e resta non un bello ma bellissimo ricordo! Lettera al corpo Carissima gamba sinistra, ti dedico questa lettera perché, come cita un proverbio si dice: "SEMPRE IN GAMBA". Ebbene sì: iniziò quando tu sei stata praticamente schiacciata, anzi distrutta completamente (tipo cannibalismo). Io allibito ti osservavo indifeso senza poterti proteggere, anche perché non riuscivo nemmeno ad alzarmi per incoraggiarti. Infatti tu eri già spezzata dal primo passaggio di ruota piena, io sentii il "CRACK!" Che dolore… ma tu indifferente. Poi arrivò il colpo di grazia: infatti il carrello che tu tanto apprezzavi ti svirgolò sopra e tu sempre in silenzio hai attutito il forte colpo perdendo tanto, tanto ma tanto ma veramente tanto sangue. Pensavi “Chissà se mi salveranno”. Visto che ci trovavamo a Chivasso, sì, TU mi portasti all’ospedale di Chivasso, ma i medici vedendo l’accaduto mi diedero un calmante e mi riavvicinarono a te. Ed io mi sentii più protetto quando ti avvicinarono a me. Poi fu tutto in un attimo che mi chiesero se volevo andare a Torino. Sì, io avendo pochissime probabilità di sopravvivenza, dissi di sì. E così mi portarono a Torino e anche tu ne sei rimasta fiera ricordi? E da qui partì il tuo primo intervento in cui ci salvarono a tutti e due, in quel primo momento. Poi ci mandarono via dall’ospedale; dandoci praticamente le dimissioni forzate, esattamente il 22/08/2008. Lì poi, ci fu un grosso problema, perché la settimana che eravamo a casa tu cambiavi colore; da viola a giallo poi giallo acre fino a peggiorare. Infatti mancò pochissimo per l’amputazione all’arto perché entrò in

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cancrena. Ma un bravo ortopedico ci mandò in un altro ospedale: dove abbiamo incontrato un chirurgo plastico molto bravo che ci ha salvato dall’amputazione. Infatti gamba mia, ti misero un apparecchio, richiesto appositamente per me dall’Inghilterra, chiamato: v.a.c. Il quale aveva il compito di assorbire tutte le porcherie che mi avevano buttato nella voragine della gamba per arrivare alla cancrena. Però la grande fortuna è stata che dopo 40 giorni il sangue è ritornato rosso anzi rossissimo come prima e quindi mi ha riportato alla purificazione del sangue. Solo che nel frattempo in un altro intervento uscì all’esterno l’osso della tibia. E qui il dottore ha detto che ci voleva un intervento di microchirurgia che tu hai affrontato con molto coraggio. Beh posso dire, gamba mia, che sei stata molto in gamba (scusa il gioco di parole) ad affrontare tanti interventi e tante infezioni. Però come si dice: "CHI LA DURA LA VINCE" e così è stato. Ricordi quando ti dissi che tu non mi servivi più perché non mi sorreggevi in piedi? Ebbene sì, su questo sei stata molto brava perché tanto hai insistito che mi hai rimesso in piedi. E per questo te ne sono molto grato. E ti dico a squarciagola (perdendo pure l’ugola): grazie, grazie, grazie mille gamba mia per tutto quello che hai fatto e che stai continuando a fare per me. Per questo ti dico: G R A Z I E D I E S I S T E R E !!! Risposta dal corpo Io, arto inferiore sinistro, sì proprio io cinque anni or sono riuscivo a dare molte soddisfazioni al fisico a cui appartengo, ed è di Aldo. Fra le grandi soddisfazioni c’era la pubblicità dell’olio Cuore, i 100 metri in 15", il salto in alto ecc. ecc. ecc.. Da quel fatidico giorno del 29 luglio 2008, sono entrato nel tunnel più profondo ed inimmaginabile che io abbia mai conosciuto; tra l’essere amputato o continuare a fare il mio lavoro da sostenitore. Ebbene non ci crederete ma con la grande collaborazione del corpo, a cui sono fiero d’appartenere, siamo riusciti con grande volontà fisica e psicologica a superare gli ostacoli più bui. Io ho contribuito a tutto questo per dire che le soddisfazioni che do da quando sono passato dall’altra parte della medaglia (categoria protetta), sono molto ma molto più soddisfacenti delle precedenti. Perché do sostegno con grande forza, amore e sensibilità a chi mi tiene. Infatti Aldo, ha subito compreso l’unione della nostra grande forza. Ed è per questo che affronto il mio percorso di vita insieme a lui con immensa umiltà e affetto. E per questo che dico a te grazie di esistere! Continuiamo uniti e felici per sempre!!! Sempre!!! Sempre!!!

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La resilienza Beh!! Credo veramente che questa (oltre ad aver colloquiato con il nostro pezzo mancante) sia la parte più delicata e sensibile. Ricordo che durante le prime fasi ero proprio insopportabile e inavvicinabile. Anche perché non c’era nulla da fare per chi si sarebbe avvicinato. Con questo non è che disprezzavo chi mi stava vicino, ma non avevo la minima sensibilità proprio perché ero in un tunnel senza fine che solo il mio IO riusciva a capire. Un effetto incredibile ma vero! Fino a quando dopo le prime medicine vidi veramente la “vera medicina” che mi fece uscire da quel tunnel. Chi erano? Ebbene sì! Le persone veramente a me più care. Ma care care… I miei figli e il nipotino e pur non credendoci la grande prova di amore della mia dolce metà. Poi con la voglia di credere in me stesso e lo stimolo di affrontare qualsiasi cosa, ho cominciato a essere un po’ più buono con me stesso. Eh sì, questi sono i momenti crudi e veri per la grande prova e così fu. Ogni tanto mi faceva arrabbiare ma era scontato in quelle condizioni. Poi piano piano ho ripreso veramente la felicità di vivere, perché vivere oltre ad essere difficoltoso e turbolento è anche molto ma molto bello. GRAZIE a tutti! Il futuro: speranze (il messaggio nella bottiglia) Messaggio nella bottiglia all’Inail. Grazie di questo immenso gesto di amore che hai avuto per me. Nel dar vita a questo bellissimo laboratorio che ci ha fatto crescere psicologicamente, moralmente e fisicamente! Ti ricorderò per sempre. Cosa è successo dopo Beh, posso dire che quello che ho acquisito durante il percorso di reinserimento di crescita, dopo il grande urto, è stato e continua a essere molto utile. Anche perché mi ha dato forza ad affrontare persone che si prendevano gioco di me e poi sono riuscito a comunicare molto più facilmente. Per questo ringrazio molto l’Inail e il fantastico staff delle dottoresse che mi hanno aiutato non solo teoricamente ma anche psicologicamente e soprattutto col cuore, perché si sono immedesimate in ogni singolo caso. Grazie, grazie mille per esserci sempre vicini.

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La spirale esistenziale di Aldo

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L’arcipelago degli affetti di Aldo

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BEATRICE Sessant’anni, il marito Giuseppe, sessantaquattro anni, è caduto da un tetto nel febbraio 2010. La conseguenza è stata un grave trauma cranico. Attualmente residenti in Svizzera, il sig. Giuseppe solo di recente ha iniziato un percorso riabilitativo efficace che gli consente di passare dei periodi a casa con la famiglia. Intervista Se dovessi definire l’infortunio che ha colpito la nostra famiglia direi un disastro. Un incidente molto grave, ancora oggi non si vede futuro: il cervello è un’incognita. È stata una cosa inimmaginabile: già quando l’ho visto al Cto, ero persa, non sapevo cosa fare; una cosa talmente grossa, sembra di annegare. Quando mi hanno detto che era in coma… uno si sente perso, ti manca la terra da sotto i piedi. C’è l’incognito, poi quando si tratta del cervello è un grosso punto interrogativo, anche per i medici che tentano. Hanno asportato l’ematoma; già avevano detto che toccavano delle cellule… una volta sveglio speri che parli, poi che si riprenda, è tutto uno sperare. A volte parla, adesso si ribella: la situazione è molto critica non si capisce cosa vuole. Non si capisce se capisce e fino a che punto. Da quando succede l’incidente c’è lo smarrimento. Dopo un anno e mezzo è ancora così. Cerchi di andare avanti per figli e nipoti, ma se no verrebbe voglia di finirla lì. Anche per i problemi della ditta, che ancora oggi non sono risolti. Aveva tutto nella sua testa. Ancora adesso cerco di farmi forza, ha momenti di crisi: attualmente è in una struttura, secondo noi vorrebbe uscire… Ancora oggi si va di tappa in tappa, ma non sappiamo cosa fare. Vorremmo portarlo in qualche altro posto ma non sappiamo dove, cosa vuole. A dicembre ho avuto una forte depressione. Stavo male ero in cura dallo psichiatra. Non ce la facevo più, non c’erano possibilità di metterlo in una struttura. Ero proprio al limite, mi hanno dato degli antidepressivi. Lui era sempre dietro di me… Tutto insieme mi ha fatto crollare... In quel momento ero persa. I nipoti mi hanno portato in ospedale e ho parlato all’assistente sociale dicendo che non ce la facevo più: dovevo fare commissioni veloci, lui era sempre con me, non potevo lasciarlo solo, non dormivo più. Dopo ventiquattro ore gli hanno trovato una sistemazione e mi hanno ricoverata. All’inizio avevo paura che non mi facessero più uscire: sono però stata bene per tre giorni, tranquilla,

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in silenzio dopo mesi di assillo e angoscia senza dormire. Avevo assistenza tutto il giorno, mi hanno fatta parlare e mi sono sfogata. Oggi capisco chi si sente disperato. Quando mio marito è stato ricoverato, non l’ho visto per due mesi per paura che volesse ritornare a casa. Adesso sono più serena e ho le notti tranquille, ma il senso di vuoto e di smarrimento dura e durerà ancora. Oggi è in una struttura in provincia di Torino dove ci sono persone che stanno peggio di lui e secondo me si rende conto e vuole andare via. Io vado a trovarlo tre volte alla settimana. Ho paura che se lo togliamo da lì non troviamo più posti. Sto guardando su internet ma non trovo niente, ha bisogno di un posto dove sia stimolato, invece lì è solo parcheggiato. Altri posti sono troppo lontani e poi vorrei trasferirmi in Svizzera e quindi ora non so cosa fare. Ma così sta peggiorando, è quasi sempre assente, forse si rifugia nel suo mondo perché lì c’é gente che sta peggio. Le sue condizioni sono discontinue. Penso a quei due secondi che hanno rovinato tante vite… fatalità. Quando ripenso al giorno dell’infortunio mi torna in mente la paura. La telefonata della notizia dell’incidente: un crollo. Dovevo andare in macchina al Cto: ero persa. Volevo essere subito lì e vederlo, ma prima passano ore: e quindi ti fai tante domande prima e non hai la risposta. Pensavo che lui diceva che era meglio che capitasse a lui che ai suoi ragazzi (gli operai, ndr), perché sarebbe stato distrutto. Sono rimasta là ore senza sapere niente. Una cosa insormontabile. Dopo ore mi dicono che è in coma, non capisci cosa vuol dire, ti chiedi per quanto tempo e non ti sanno dire niente. Ore e ore lì: quando l’ho visto è stato terribile… il cervello che gonfiava, poteva morire da un momento all’altro. Non dormi perché ti aspetti sempre la chiamata. C’era l’ematoma che si ingrossava. Bisognava operare per asportarlo: dieci giorni al pronto soccorso attaccato alle macchine, non sai cosa fanno, perché non capisci le spiegazioni. Poi in terapia intensiva, non apriva gli occhi. Aspetti i movimenti, aspetti le tappe perché si riprenda, ma sono faticose, ti svuotano. Ricevevo tante telefonate che mi chiedevano come stava, e ricominciavo da capo ogni volta; devi essere forte. Se penso a quanto è accaduto dal punto di vista della prevenzione devo premettere che lui era sempre molto attento, non faceva fare le cose pericolose ai ragazzi, era molto prudente. Aveva molta responsabilità verso gli operai. Sapeva bene tutti i rischi del suo mestiere. Era prudente e usava le misure di sicurezza, ma diceva che l’imbragatura a volte è un intralcio. Molte misure sono quasi impossibili. Potrebbero risultare più pericolose. Non aveva mai fretta, piuttosto ci metteva un’ora in più per fare bene il lavoro ma non rischiava. Erano gli operai che guardavano l’orologio. La fretta è un pericolo.

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Non aveva eccesso di sicurezza ma sempre molta prudenza, era sicuro di sé ma senza eccesso, conosceva il pericolo e come arrivava. La sicurezza è una modalità di lavoro legata alla prudenza: lui faceva alla vecchia maniera ma il lavoro era garantito. La sua paura era che succedesse qualcosa ai suoi ragazzi su cui vigilava: diceva “preferisco a me che a loro”. Però era stanco, era già in pensione da due anni ma voleva lavorare lo stesso. Bisognerebbe sapersi riposare: arrivava a casa ma la giornata non era finita, c’erano i clienti, gli incassi, i nuovi lavori. E poi c’è stato il caso: se fosse stato a pochi metri di distanza dal bordo del tetto non sarebbe caduto dall’alto, probabilmente è caduto incosciente perché non ha reagito, è caduto a peso morto sulla testa. Il soccorso è stato lento: l’incidente è successo alle 15.30 e al Cto è stato portato alle 18, forse sarebbe andata diversamente. Non si poteva muovere perché doveva arrivare la polizia. Come andare avanti dopo un evento del genere? La prima spinta è cercare di fargli recuperare il più possibile. Ancora oggi. Noi speriamo sempre che ci possano essere ulteriori sviluppi guardando altri così che ce l’hanno fatta. Magari non più come prima, ma che possa tornare a casa e sia cosciente e si renda conto. Per quanto riguarda me invece io ho le figlie e le nipotine. Se deve rimanere così io mi faccio forza pensando a loro. Ho anche pensato che era meglio se ce ne andavamo tutti e due: ma no, il dolore sarebbe troppo grosso, lo devo fare per loro; lui così com’è non mi deve annientare, malgrado il dolore che si rinnova ad ogni visita. È molto importante la famiglia per chi ce l’ha. Figlie e nipoti mi sono state molto vicine. Prima ero sola, non avrei immaginato questa disponibilità delle mie figlie che facevano sacrifici per venire dalla Svizzera. Mi hanno dato vicinanza e supporto che non potevo immaginare. Sono venute tante volte. Una volta ero sul balcone con mia nipote di quattordici anni e guardando la strada ad una certa ora le ho detto che lì una volta si vedeva arrivare il camion con il nonno che tornava dal lavoro: lei mi ha guardata e mi ha detto “nonna non devi pensare a questo, devi guardare al futuro”. Anche mia figlia che sta in Africa è venuta tante volte. Il nipote di mio marito e la moglie si sono occupati di me. Questa cosa ci ha riavvicinati nonostante la distanza. Se mi chiedete un consiglio posso solo dirvi che sono venuta qui e mi avete dato molto. Qui si trova comprensione e dedizione. Già si hanno tanti problemi e si ha paura di trovare negli uffici risposte aggressive o disinteressate. Questo blocca la persona. Non venivo con l’angoscia ma volentieri. Disponibilità e accoglienza già ci sono, non ho niente da aggiungere.

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CONSOLAZIONE Settant’anni, in un infortunio del 26 settembre 1979 ha subito l’amputazione dell’avambraccio destro lavorando ad una impastatrice. Dopo l’infortunio non ha mai più trovato lavoro ma si è dedicata al marito ed ai due figli, minori al momento del fatto. In passato è stata contattata più volte dal Centro Protesi Inail di Vigorso di Budrio (BO) per affiancare nell’utilizzo della protesi altra donne vittime di amputazioni degli arti superiori. Intervista Quando penso al mio infortunio, non posso evitare di pensare che se c’era il salvamano, non mi portava via la mano. Ero all’impastatrice, facevo gli gnocchi; se c’era il disco, che poi hanno messo, non perdevo la mano. E poi... ti fanno delle domande all’ospedale: “Signora ce l’ha messa apposta la mano?” Ma che domande sono? Avevo trentanove anni, sono passati trentadue anni… (nel parlarne, le viene ancora da piangere, ndr) È stata una cosa inattesa anche perché non era mai successo niente… Hanno chiuso il negozio, sono arrivati i giornalisti… Queste cose non dovrebbero succedere, ma succedono… Ma proprio a me? Eravamo in due; non era mai accaduto. Comunque è così. Forse, se non avessi messo i guanti, non mi avrebbe preso la mano. Oggi reagirei con l’età, ma allora non ho avuto il coraggio di reagire… Dopo l’infortunio dovevo ritirare la prima protesi, ma l’ho rifiutata perché per errore era da uomo e poi volevano attaccarla al gomito. “Piuttosto non la metto” ho detto. Poi la D.ssa C. mi ha mandata a Budrio: sono stata io a dire come farla per attaccarla al polso. Io riuscivo a tenerla, loro studiavano su di noi, dicevo: “se il pezzo ce l’ho buono perché attaccarla al gomito?” Le persone che lavorano al Centro Protesi riescono a capire come fare. Mi hanno ascoltata. Io ormai conosco tutti. Telefono a G. e lui mi capisce. Hai bisogno e chiedi. Sono stata un mese a Budrio, poi sono tornata a casa e poi dovevo andare a prenderla. Volevo che venisse mio marito, ma non è stato autorizzato ad accompagnarmi. Dovevo prendere la corriera per Budrio, fare tutto da sola. Non dimentico le cose che sono successe, sono cose che rimangono. Ricordo ancora… in via Mercadante (allora c’era una sede dell’Inail, ndr) dopo tre mesi mi hanno mandato a lavorare. Io ho pensato: “con una mano sola cosa faccio?”

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In queste situazioni entri in confusione, vai fuori di testa. Io volevo tornare, ma a fare che cosa? Sono cose che ti rimangono dentro: cose dette che sono state ingiuste. Avevo ancora i punti. Che poi loro dicevano che se hai bisogno di soldi puoi chiedere al titolare. Strano che ti dicono queste cose e non pensano alle persone; che dicono che hai messo la mano dentro apposta. Oggi reagirei. Direi: “lei la metterebbe la mano dentro?” Sono cose che si devono gestire con delicatezza. Io mi sono sentita trattata male. Non ho avuto persone vicine, solo mio marito. Quello che mi ha operato al Cto mi faceva le visite private. Volevano tagliarmi un altro pezzo di braccio perché se no non potevano farmi la protesi. Al Rizzoli (ospedale di Bologna, ndr) una volta ho visto un ragazzo più giovane senza entrambe le mani e allora mi sono sentita più fortunata. Quando sono andata a Budrio, mi hanno aggiustato la mano. Poi mi hanno chiamata per farmi vedere come usare la protesi mioelettrica ma non sono potuta andare per non abbandonare i figli. Sono riuscita a imparare a scrivere con la protesi, si comincia a scrivere come alle elementari. Bisogna impegnarsi ma si riesce. Se uno non si impegna a fare qualcosa non riesce nella vita: ringrazio Dio che mi ha dato quella forza e volontà. Se devo pensare al mio infortunio dal punto di vista della prevenzione, penso che se c’era il disco, evitavo di mettere la mano dentro. Dopo l’infortunio io mi sono chiusa, volevo uscire con il mantello. La motivazione per andare avanti sono stati i miei figli, lo dico ancora adesso. Pensavo a loro, preparavo il pranzo, facevo i lettini. Avevano dieci, tredici, e diciotto anni. È stata quella la mia forza, se non avessi avuto loro, guai! Pensando a un consiglio, a cosa può essere utile per le persone in situazioni come la mia, l’unica cosa che dico è che noi abbiamo bisogno di persone come voi, che sappiano essere sensibili e avere pazienza. Dove vai vai, ti sgridano, ti trattano male. Se chiedo: “Abbia pazienza, mi aiuta a mettere la firma?” “Ah, no!” Ti rispondono scorbutiche! Non è giusto, non sto chiedendo nulla. Perché non dobbiamo essere tutti più disponibili? C’è gente cattiva. Dobbiamo essere più umani uno con l’altro. Ma oggi la vita è così, devi fare attenzione a chiedere qualcosa, sono tutti nervosi. Invece c’è bisogno delle persone che ti capiscono.

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DINO Settantasette anni, il 27 luglio 2011 gli è stato diagnosticato un mesotelioma pleurico per esposizione ad amianto. È morto il 1 settembre 2012. Intervista Mi sembra di aver lavorato tutta la vita. Da quando sono nato in poi. I miei erano contadini; allora si lavorava la terra. Poi dal paese ci siamo spostati in città per motivi lavorativi. Sono passato sotto la compagnia tubisti di Torino facendo sempre lo stesso lavoro: il saldatore. Si saldava, si metteva su… Lì ho lavorato circa due anni e mezzo sotto le gallerie della Fiat. Lì l’amianto volava perché c’erano gli altri che rivestivano i tubi. Poi ho iniziato a lavorare presso la Fiat: stesso discorso. Ho lavorato molti anni attaccato ad una giostra: facevamo i sedili per le autovetture. Dopo tanti anni mi hanno esonerato dal lavoro a contatto con il fumo. Successivamente lavoravo riparando frizioni e freni, e l’amianto c’era anche lì. Alla Fiat sono stato l’ultimo a uscire. Poi hanno chiuso. Allora sono andato da Pininfarina a fare lo stesso lavoro che facevo alla Fiat. Gli ultimi anni li ho passati lì. Anche lì stessa esposizione all’amianto. Dopo l’infarto mi hanno levato da quel posto e mi hanno messo in magazzino. Di questo li ringrazio: mi hanno trattato come un padre. Gli ultimi anni ho lavorato con tanti giovani ed è stata una bella esperienza. Molti anni fa non si era salvaguardati come adesso (mascherine, aspiratori…). Gli ultimi anni prima di venire via la Fiat era già attrezzata, e anche dopo Pininfarina. I primi anni non avevo i dispositivi di sicurezza che ci hanno dato in seguito. Non ci davano la mascherina… Quando lavoravo per la compagnia tubisti mi davano il latte… ma a cosa serviva? Quando lavoravo attaccato alle giostre c’era il fumo del grasso e lo respiravamo di continuo. Gli anni in cui siamo adesso, casi come il mio non succedono più. Si è più attrezzati. L’amianto non esiste più nei posti di lavoro, ma ce n’è ancora molto in giro. Però penso che gli anni che verranno non saranno come quelli che abbiamo vissuto noi che respiravamo e mangiavamo tutta la polvere… Io ho addestrato molti giovani. Quando me li davano, io a loro trasmettevo tutto. Guai se mettevano una mano dove non dovevano metterla. Li prendevo e ci facevo dei “discorsetti”. Facevo formazione. Gli allievi in Fiat venivano lì. C’erano quelli più presuntuosi, che avevano studiato; pensavano di sapere tutto ma non conoscevano niente. Allora bisognava dargli una “raddrizzata”.

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Quando ci sono dei vecchietti come me, devono insegnare ai più giovani. Ogni venti giovani metterei un cinquantenne che guardi e consigli. Quindi, sì: per me uno dei fattori più importanti per la prevenzione è la formazione. Mi viene sempre in mente quello che provavo quando mi accorgevo che trasmettevo agli altri tutta l’esperienza che mi ero fatto da solo, e gli altri si prendevano il merito… La malattia è cominciata un anno e mezzo fa. Sentivo che qualcosa non andava ma non ci davo peso perché avevo la moglie con un tumore al seno e dovevo seguirla. Il penultimo giorno che mia moglie ha finito le terapie, sono stato ricoverato in pronto soccorso al Mauriziano e mi hanno levato quattro litri d’acqua. Ora sono sempre là dentro. Le mie abitudini sono cambiate. Non vorrei dirlo ma cambia tutto. Se ho qualcosa da fare non riesco, perché non ho la forza. Non riesco ad aiutare mia moglie e l’ho sempre fatto. La vita non è più quella di prima. Adesso mi sento una nullità. A volte vado in crisi con la moglie. Riesco solo a scaldare il letto e il divano. Manca un po’ tutto. Non è più la vita che facevo un anno e mezzo fa. Quello che ho di buono è che non ho dolori, non ho male. Per convivere con la malattia ci va molto coraggio. Guai se uno si lascia andare: è peggio. Ogni tanto vado in tilt con il cervello e mi sento peggio del giorno prima. In queste situazioni da parte degli altri c’è bisogno di tanta disponibilità. Anche da parte dei servizi ai quali ci rivolgiamo. Quando senti l’interlocutore infastidito, ti senti deluso. Sentire un po’ di vita dall’altra parte, aiuta. Con persone come me, a cui da un giorno all’altro crolla il mondo addosso, bisogna avere gentilezza, dare aiuto. Ringrazio anche i dottori dell’ospedale Mauriziano; uno che mi segue è molto umano e questo aiuta: mi dice due paroline e mi tira su. L’umanità serve molto. Questo dovete dirlo anche ai bambini che partecipano ai vostri incontri.

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EMILIA Cinquantatré anni, vedova di Victor, morto travolto da un treno nel 2005. Di nazionalità moldava, vive tutt’ora in Italia a Torino, dove abita anche un figlio. L’altra figlia si trova in Moldavia. Emilia lavora come assistente famigliare. Ha scritto già molte memorie sulla sua esperienza. Intervista Cosa mi viene in mente pensando all’infortunio che ha colpito la nostra famiglia? Un terremoto. Ti alzi la mattina e vedi un’onda che ti travolge, una cosa terribile. Dopo cinque anni sono un po’ più tranquilla, ma fino a qualche tempo fa era un male, un bruciore, un dolore immenso che ti esce dentro. Sia per me che per i miei figli. Per quasi due anni non c’è stato collegamento tra noi, questo dolore non ci faceva parlare per chiarirci: venivano in mente cose brutte che non ci facevano trovare tra noi. È stato un dolore immenso. Grazie a Dio, che ci ha dato la forza per capirci e andare avanti e ricordare mio marito come uomo perbene, che aiutava gli altri. Pensava sempre agli altri, pensava a fare le cose bene e in fretta. Troppo perfetto, voleva fare tutto bene. Non è solo che è morto lui, ma tutta la famiglia. Per trovarci serve tanta forza, ho trovato tanta forza e non so dove. Avevo tanta fede che mi ha guidata per fare le cose giuste e per come farle. Se hai fiducia in qualcuno puoi trovare la stradina di collegamento con la famiglia. Anche i miei genitori sono stati tanto male, perché mio marito era un uomo eccezionale. Lui ci pensava alla morte e mi diceva dove voleva essere seppellito: aveva un presentimento. Quando è accaduto ero in fabbrica a Torino, dovevo fare la notte; lui lavorava a Lecce. La notizia è arrivata a mio figlio, chiamato da un maresciallo che non diceva la verità. Eravamo preoccupati perché era clandestino, per i documenti. Mio figlio ha dato il mio numero al maresciallo, dalle due mi hanno telefonato alle cinque, mi ha chiesto se lo conoscevo, gli avevano trovato documenti di identità spagnoli. Poi mi ha detto che era caduto, era in ospedale, che dovevo andare là subito: questa parola mi ha fatto svenire, poi mi sono ripresa e ho ritelefonato io e ho parlato con il responsabile della ditta che mi ha detto la stessa cosa. Ho dato il numero di mia cognata e le hanno detto la verità. Quando mi hanno detto che andavamo tutti là ho capito che non lui non c’era più. Ho sentito uno spavento. Ci siamo incontrati a Parma con una mia cognata che mi ha detto la verità.

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A Lecce ci hanno portati subito alla camera mortuaria, dicono che dicevo a mio marito di alzarsi e andare a casa. Non mi ricordo più niente, ha fatto tutto lei. Volevo andare in aereo con la salma ma mi hanno detto che non si poteva, ma poi ho scoperto che non era vero. Non conoscevo le cose e mi sono fidata. È giusto sapere le cose in anticipo. Per questo va bene questo progetto, per far sapere a tutti cosa fare. Serve sapere tante cose: ti serve prepararti, anche se non capita. Mai avrei pensato che da come stavamo bene, poteva capitare questa cosa: invece è capitato. Serve sapere a chi chiedere aiuto. Questo progetto è ben venuto per far sapere agli altri. I fattori importanti dal punto di vista della prevenzione? La prudenza: se lo sei è meglio; non che il padrone ti dice di fare le cose in fretta. La conoscenza della lingua: non ti prende nessuno a lavorare se non capisci. Quando è accaduto l’incidente a mio marito, hanno detto che non capiva quando lo chiamavano e per questo è successo, ma non era vero: nessuno l’ha avvertito che arrivava il treno. Invece così hanno detto che la colpa è sua: quando succedono queste cose nessuno vuole risponderne. Come siamo andati avanti? Nella mia famiglia ognuno era per la sua strada. Ho avuto sostegno dall’Inail: una vostra parola era una cosa grande, ha aperto il vuoto. Se non c’era l’aiuto dall’Inail non avrei avuto il collegamento tra noi. Senza i soldi non potevo pagare i prestiti che ho fatto per portare la salma dove mio marito diceva che voleva andare. È stato un sostegno grande non solo come soldi, venivo qui e parlavo con voi, mi ascoltavate e pensavo che qualcosa era risolto, che potevo andare avanti. L’assistente sociale è un buon sostegno per le famiglie, non so per gli altri, ma per me siete stati un grande aiuto. Ti dà la forza per uscire dal tunnel, per me è stata una fortuna trovarvi. Grazie per aver trasferito la pensione da Lecce. Le persone che vogliono aiutare si vedono, voi mettete anima e vi ringrazio per tutto questo.

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FRANCESCO Cinquantadue anni. L’infortunio è accaduto il 4 settembre 1976, quando lui aveva diciassette anni, lavorando in un supermercato e ha avuto come conseguenza una lesione spinale e conseguente paraplegia. Atleta paralimpico, fondatore della squadra di sledge-hockey dei “Tori Seduti”. Allenatore di squadre di basket di ragazzini con disabilità. Intervista Se dovessi definire oggi il mio infortunio sarebbe difficile: è passato tanto tempo, trentacinque anni. È qualcosa di tragico, incomprensibile. Non avevo mai pensato che si potesse finire in carrozzina per un trauma, pensavo che si potesse solo nascere così. La tua vita cambia, un cambiamento globale, del tuo sistema di vita. Oggi faccio fatica a ricordare i miei diciassette anni di prima dell’incidente. E’ stato un flash con cui ho perso il passato. Lo vivo e devo viverlo con il presente. L’infortunio è avvenuto il giorno dopo che ho compiuto diciassette anni, quindi ancora oggi faccio fatica a festeggiare il mio compleanno. E penso che almeno avrei voluto che fosse successo con le tecnologie di adesso. Oggi la degenza in ospedale è minore, al massimo sei mesi; io sono stato in ospedale un anno e tre mesi. L’ho vissuta con la voglia di tornare a camminare anche se mi dicevano di no. Ho provato tutto quello che era nelle mie possibilità, i colori, l’agopuntura, ogni tipo di fisioterapia, ma non mi sono indebitato con spese folli come hanno fatto altri. Penso che comunque sono stato fortunato, ho avuto una famiglia forte alle spalle, ho passato trentacinque anni piacevoli che non mi sono pesati e ho cercato di non farli pesare alla famiglia. Ho costruito una situazione senza tabù, ho creato una famiglia anche se non allargata; mi pesa non aver potuto avere figli. Ho trovato il mio equilibrio. La mia vita è stata però intensa e molto impegnativa, ed oggi sento il bisogno di un po’ di relax e di godermi le cose con tranquillità. Il momento dell’infortunio lo ricordo come una scossa, un grosso trauma, i lunghi tempi di gestione. Sono rimasto a lungo senza essere trasferito a Milano (dove c’era un grande centro di riabilitazione) perché era stata sbagliata la mia età sui documenti: quando mio padre ha fatto rilevare l’errore mi hanno trasferito dopo tre mesi di degenza all’ospedale Molinette di Torino. Ho fatto riabilitazione e mi hanno istruito su come gestirmi nella vita quotidiana e dopo un anno e tre mesi mi hanno mandato a casa. Poi, casualmente, mio padre incontra nell’ambulatorio Inail un disabile che pratica sport e mi coinvolge.

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Cominciamo a frequentare la palestra del Cto, l’anno dopo partecipo ai campionati di basket a Roma e da lì inizia la mia avventura sportiva. Dal punto di vista della prevenzione penso che la sicurezza in se stessi ti porta a tutto il resto, anche alla concentrazione. La formazione è importante per muoverti bene, come anche la conoscenza della lingua. Sul discorso della lingua ritengo oltretutto che per la complessità del mondo sia opportuno conoscere più lingue. A me è stato utile anche per muovermi nel mondo per lo sport. Tornando al mondo del lavoro la fretta c’è sempre e così si fanno anche le cose male. Bisogna essere concentrati e presenti nelle cose che si stanno facendo. La sicurezza va vista come avere testa in ciò che si fa. Un disabile che lo è diventato a causa di un trauma è più prudente di uno che lo è dalla nascita che non ha la percezione del rischio e si butta a capofitto. Per superare un evento come quello che è capitato a me, è molto importante l’esperienza degli altri. Le iniziative alle quali state lavorando possono essere molto utili. Ho già fatto un’esperienza simile al Crf con traumatizzati “freschi”. Bisogna stimolare in loro punti di riferimento, anche per gli ausili. Gli altri disabili possono portare la loro esperienza per una migliore funzionalità, un punto di riferimento per l’esperienza già fatta sulla pelle di chi ci è passato prima, gli puoi insegnare come riuscire a muoversi meglio sul letto, ad alzarsi, ad usare la carrozzina. È la strada giusta: sei a disposizione di chi viene dopo di te. Io parto dalla mia esperienza di vita da giovane: quando ho avuto l’infortunio avevo appena compiuto diciassette anni, ma mi sono fatto una famiglia, ho raggiunto i massimi livelli nello sport. Cerco di portare l’esperienza nelle scuole e di dire ai ragazzi che ci si può trovare nelle mie condizioni non solo per il lavoro ma anche per episodi e scherzi più stupidi. Li stimolo a farmi domande sulle cose più intime: questo è un po’ un tabù per i disabili perché non parlano volentieri delle loro condizioni più intime in cui li costringe l’immobilità dal bacino in giù, ma bisogna parlarne tranquillamente, anche ai ragazzi perché si rendano conto di tutte le conseguenze. Dopo il trauma il disabile pensa a come vivere nelle nuove condizioni; il primo impatto con chi vuole proporre la via dello sport è di freddezza e rottura. Bisogna aspettare che si prenda coscienza della nuova condizione prima di proporre nuove prospettive. È molto importante l’esempio di una persona disabile: la cosa più importante da insegnare è la vita quotidiana perché subito si pensa a come muoversi. Poi vengono i pensieri sullo sport e i divertimenti. C’è un momento di attesa in cui c’è confronto continuo con chi ha già subito il trauma: ti fanno tante domande su come devono fare le cose quotidiane. Nei primi momenti non sai cosa ti sta succedendo, devi accettare il trauma.

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Rispetto a quando è successo a me, si sono accorciati i tempi della degenza e della riabilitazione, si esce dall’unità spinale (Cto, ndr) con i rudimenti, poi sta a te. I primi mesi sono traumatizzanti. Bisogna rispettare i tempi e aspettare che il disabile percorra la propria strada. La famiglia è importante: lo è stata sia la mia che quella di mia moglie: se non hai punti di riferimento, rischi di fare scelte stupide che possono portare a gravi errori anche nei rapporti personali. Penso che la mia esperienza sia stata più forte di quella che si può vivere oggi, perché la tecnologia attuale è molto più avanzata e ti aiuta di più: noi ci impegnavamo, mettevamo più inventiva per cercare di avere più autonomia. Ricordo che facevamo sport poi uscivamo, andavamo a mangiare qualcosa e stavamo fuori fino a notte tarda: una volta sono arrivato e l’ascensore non funzionava ed io abitavo con i miei al 4° piano: mi sono trascinato su con la carrozzina: il giorno dopo mio padre mi ha chiesto se l’ascensore non funzionava già quando ero arrivato io, ma ho negato, perché se no mi avrebbe aspettato alzato per aiutarmi a salire se fosse accaduto di nuovo. Io volevo essere autonomo. C’era un continuo scambio sulle nostre esperienze, la nostra generazione era più coinvolgente: oggi i disabili si ghettizzano, stanno sempre tra loro, non comunicano con gli altri. Oggi hanno tutto subito e non hanno stimoli. Io per esempio ho preso la patente a ventuno anni ma solo dopo quattro ho avuto la macchina, adesso ce l’hanno subito. A questo proposito vorrei fare un appello al vostro ente: quando c’è la richiesta di avere ausili speciali o soprattutto per le attività sportive, bisogna verificare che la persona sia veramente motivata, deve dimostrare che lo vuole veramente: perché se no c’è la tendenza a chiederlo perché tanto l’Inail te lo dà, ma poi finisce nel dimenticatoio, è uno spreco.

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FRANCO Cinquantasette anni, in seguito all’infortunio del 20 aprile 2010 ha riportato un politrauma e lesione alla gamba destra. Lavorava come autotrasportatore. Attualmente è in cerca di una nuova occupazione. Intervista Se penso a cosa ha significato l’infortunio per me e la mia famiglia la prima cosa che mi viene in mente è una disgrazia che cambia totalmente la vita. Ma la cosa che mi ha colpito di più è stata quella di constatare che la solidarietà fra le persone è ancora presente. Subito dopo l’incidente mi ha molto impressionato vedere un collega che, dal lato opposto dell’autostrada e dopo averla attraversata, mi è venuto incontro con degli estintori per spegnere l’incendio che si stava propagando tutto intorno, mentre uno dei medici, arrivato con l’elicottero, si è aggrappato alla cabina e, benché ferito dai tagli procurati dalle lamiere, ha continuato ad insistere fino a quando non è riuscito ad estrarmi dalle lamiere della cabina. Subito dopo sono svenuto e mi sono risvegliato tre giorni dopo in ospedale. Il giorno dell’incidente stavo rientrando a casa e per me è stato un impatto molto forte. Dal punto di vista della prevenzione secondo me le cose fondamentali affinché possa esserci sicurezza e una buona prevenzione sono prima di tutto l’attenzione e la concentrazione e poi la formazione. Mentre quello che può determinare ed essere causa di un infortunio sono l’eccesso di sicurezza in sé e la fretta nel portare a termine un lavoro. È difficile che ci sia la casualità. Rispetto a quali fattori possono aiutare ad andare avanti dopo l’infortunio, per me fra le motivazioni per andare avanti c’è anche la speranza di seguire dei corsi predisposti dall’Inail e poter così trovare una nuova collocazione e allo stesso tempo rendermi utile. Prima dell’incidente mia moglie provvedeva a tutto, dal momento che il mio lavoro mi faceva stare lontano da casa per molto tempo. Ora, invece, che deve badare anche a me, non trova più il tempo per poter fare tutto quello che faceva prima. Questo, per me, è un periodo molto brutto perché l’infortunio è ancora aperto e ho ancora tanti dolori. Sarei disponibile a confrontarmi con altre persone infortunate come me in occasione di riunioni in cui poter scambiare delle idee e delle impressioni. Il consiglio che vorrei dare a voi è quello di fare più controlli nelle aziende, nei cantieri e nelle loro strutture in modo che si faccia capire ai datori di lavoro che il rispetto delle norme sulla sicurezza ha anche il vantaggio, oltre quello di

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evitare incidenti ai lavoratori, di avere meno oneri per le aziende stesse e meno sanzioni. Il primo ricordo Uno dei miei primi ricordi, anche se non posso classificarlo primo a tutti gli effetti, è un episodio accaduto al mare: ero molto piccolo, mi ero allontanato dai miei genitori, mio padre mi cercava disperato, finché non notò i miei piedi uscire da sotto una 500 Fiat, al ché mi tirò fuori, arrabbiatissimo; mi chiese cosa stessi facendo lì sotto ed io gli risposi tranquillamente : “guardo il motore”. Spirale esistenziale: un episodio significativo L’incidente… La fine… Cosa sono… Cosa vale… L’incidente è la fine di tutto ciò che mi caratterizzava, sono sempre stato ottimista, guardavo sempre il lato positivo delle cose, cercavo sempre di migliorare tutto… ora mi chiedo solo… a cosa serve?? Tutto è compromesso, la mia vita non sarà mai più come prima. COSA SONO… non servo più a nulla, ho sempre bisogno di aiuto, mi sento inutile soprattutto per la mia famiglia è drammatico tutto ciò. COSA VALE... essermi battuto sempre per fare stare meglio i miei cari, avere sempre affermato che non tutto il male viene necessariamente per nuocere, ma a volte serve per insegnarci qualcosa di importante, NON è VERO!! Mi chiedo cosa ho fatto per meritarmi questo, cosa mi è successo… È COME GUARDARE IN UN POZZO… E NON VEDERNE IL FONDO… Sinceramente non riesco a vedere o a trovare una via d’uscita a questa disgrazia che sto vivendo. Non riesco a vedermi, a collocarmi... cosa sarò… cosa farò, tutto ciò che era la mia vita è svanito nel nulla. Tutto quello che sapevo fare, che facevo, non potrò più farlo… ho cinquantasei anni, sto in piedi cinque minuti e mi viene male alla schiena, mi siedo e dopo 10-15 minuti ho male al gluteo destro… l’unica mia posizione indolore è lo stare sdraiato sul fianco sinistro… non servo più a nulla e a nessuno. Arcipelago degli affetti: lettera alla persona Rita, grande donna; lei, secondo me, è tutto ciò che un uomo può auspicare nella vita. Ci siamo conosciuti da ragazzini, avevamo tredici anni, sono diventato amico di suo fratello per poterla vedere più spesso; poi dopo due anni, ho trovato il coraggio di chiederle se voleva essere la mia ragazza… altri tempi..

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andavamo a rilento… ma forse era meglio così!! Comunque lasciamo da parte le supposizioni personali e torniamo a lei… Alla mia richiesta, mi risponde: mah… chiedo a mia sorella… una scusa, la sorella in questione è più piccola di lei, ha preso solo tempo, ma tutto inutile, sono sempre stato un “ filone”; mi ero già coltivato la sorella, il fratello e persino il papà diceva che ero un bravo ragazzo, quindi… Dopo due giorni la incontro e mi dice che la sorella gli ha detto: “Perché no? Prova…”. Da quel giorno è iniziata la nostra meravigliosa storia, alla quale continuiamo ad aggiungere pagine ancora oggi. Abbiamo tribolato parecchio, specialmente appena sposati, ma lei non si arrende mai è tosta, è la mia vera forza, è bello avere la certezza di sapere che hai lei a fianco che non molla mai. Poi ci siamo stabilizzati, sono nati i figli, andava tutto discretamente. Poi la nascita dei nipoti, periodo molto bello, un po’ ci hanno fatto rincoglionire, ma diventare nonno è un turbinio di sensazioni inenarrabili, bisogna provare!! Sintetizzo molto, altrimenti sarebbe un poema. Ed ecco l’incidente: non parlo di me, ma solo di lei, eccezionale, non mi ha mollato un attimo, Modena, Cto di Torino, più di un mese di ospedale, lei sempre lì, a fianco al mio letto, incredibile. Le dicevo: “Ma vai un po’ a casa, hai i piedi e le caviglie gonfie, va’, riposati un po’!”. Niente da fare, sempre vicino a me! Non ci sono termini lusinghieri per descrivere questa donna, lei è la mia Rita. Invidiosi? Vi capisco… Il lavoro Per quanto riguarda il lavoro, devo dire che non ho mai avuto grandi problemi, il successo, se così si può definire, è il fatto che dove ero assunto, in qualsiasi posto sono stato, non facevano che parlare bene di me, sia i miei colleghi, che mi contattavano continuamente per sapere come fare per raggiungere determinati scarichi evitando i divieti d’accesso per gli autocarri o per sapere gli orari di ricezione delle merci ecc.; ma anche i titolari mi apprezzavano molto, ho sempre avuto la nomina d’essere l’autista che consumava meno gasolio in assoluto, dicevano che il mio camion, si usurava la metà rispetto agli altri. Il fallimento per me è l’incidente, un buon autista non deve mai danneggiare il proprio mezzo, si potrà obbiettare che non è stata colpa mia, che può capitare, che facendo circa 150.000 chilometri all’anno un incidente si può mettere in preventivo, che è la prima volta che succede; nonostante tutto ciò, per me è un fallimento. Conflitti, per mia fortuna, non ne ho mai avuti. Disagio, è rendersi conto che in fondo per quanto ero bravo nel mio lavoro, l’essere fuori gioco e l’incidente, hanno fatto sì che quasi tutti si sono estraniati e dimenticati di me, solo alcuni miei colleghi continuano a chiamarmi per sapere come va. Il mio più grande desiderio è quello di poter tornare utile, di poter fare qualcosa nella vita per dare una mano alla mia famiglia, coma facevo prima, logicamente in un ambito diverso.

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Lettera al corpo Scrivere a qualcuno, a volte, ti fa esternare pensieri e convinzioni che parlandone direttamente, difficilmente riusciresti a dire. Voglio rivolgermi al mio ginocchio, che duole, tanto, troppo, non mi tiene su, cede all’improvviso. Capisco che la fisiatra, guardando la risonanza, ti ha detto: “scusami ma fai proprio schifo”. Comprendo anche che è nata una diatriba, tra ortopedico e la stessa fisiatra, per sostituirti con un tutore. Da parte tua però, non fai nulla per collaborare. Indubbiamente la botta l’hai presa, certo. Ma cosa dovrebbe dire il femore? È esploso, quasi disintegrato: eppure ci ha messo più di due anni, sarà storto, farà male, ma comincia a reggere, sta facendo di tutto per fare il suo lavoro, si impegna al massimo per non deludermi. E che dire della tibia, ancora più collaborativa? Ha combattuto quasi un anno, ma ha vinto la sua battaglia! Come lo sterno, le costole, i polsi, le dita e i metatarsi. Loro sì che sono veri patrioti! Ma tu… Però forse comincio a comprendere il tutto, ora è chiaro: ti sei alleato al cervello; la vostra è una rivolta: lui, come te, non vuole collaborare. Una cosa è certa, il resto di me non vi farà vincere facilmente, o almeno spero. Risposta dal corpo Risposta alla mia missiva. Il ginocchio: caro mio Franco, per risponderti sarebbe molto semplice dirti: la colpa è tua, tu hai fatto il danno, cosa pretendi da me? Non mi hanno mai calcolato, dicevano: “il male al ginocchio? È normale hai la tibia fratturata, il femore sbriciolato, cosa si può pretendere? Poi comunque prima bisogna risolvere le fratture, poi si vedrà”. Quindi mi hai fatto trascurare, ed ora non puoi accanirti contro di me. Faccio ciò che posso, e sinceramente posso fare molto poco. In quanto alla mia alleanza, ognuno qua fa per sé, non sono certo io a cercare complici. Comunque per avvalorare quanto sopra, dimmi un po’… Ma lui ti ha risposto? La resilienza Se devo essere sincero, io non ho superato le problematiche legate all’infortunio. Spesso vedo tutto nero, ho il timore radicato in me di non riuscire a tornare utile per la mia famiglia. D’altro canto però, devo ammettere che oltre a Rita, che è da premio Nobel, per la costanza, per la pazienza, per la dedizione che ha avuto nei miei riguardi, ho trovato sulla lunga strada del mio infortunio molte persone che si sono rese disponibili, alcune materialmente, cosa non da poco, come i

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miei familiari, tutte le persone con le quali ho avuto contatti all’Inail e i vari dottori del Cto; altre moralmente come B. e la Dottoressa M. (psichiatra). Nonostante ciò, a volte, mi sento solo con me stesso, a pensare ciò che sarò, ciò che farò. Comunque grazie a tutto ciò che mi ha supportato, come i vari consigli, molto utili, ricevuti dallo staff dell’Inail, da B. e dalla psichiatra, mi sento un po’ sollevato. Ma è bastata la visita di controllo, di due giorni fa, per farmi ripiombare nel mio buco nero: mi hanno detto che devo mettere un tutore al ginocchio perché non regge, inoltre dovrò iniziare una nuova trafila alla chirurgia del ginocchio. Questa mia dolorosa storia non finisce mai, ecco perché affermo che non ho superato i problemi dell’infortunio. Il futuro: speranze (il messaggio nella bottiglia) Se dovessi scrivere un messaggio e farlo viaggiare all’interno di una bottiglia, avrei bisogno innanzitutto d’un contenitore alato, non basterebbe certamente una classica, semplice, banale bottiglia. Trovato ciò passiamo al messaggio. Puerile sarebbe inviarlo al Signore del tempo, per tornare indietro a un’ora prima dell’incidente, conoscendo il dopo, per prevenirlo. Inutile mandarlo al GRANDE GUARITORE perché mi faccia tornare come prima con uno schiocco di dita. Lo scrivo a me stesso e dico “Franco ricorda tutto ciò che ti è accaduto, non dimenticare MAI chi ti ha voluto bene, chi ti ha aiutato, chi ti ha sopportato e fanne tesoro perché chissà che un giorno possa tu aiutare qualcun altro in difficoltà”. P.S. Speriamo che un giorno possa trovare questa bottiglia e pensare che è alata... ti segue sempre. Cosa è successo dopo Il lavoro di gruppo organizzato dall’Inail, per quanto mi riguarda è stato molto importante, tanto da proporre un seguito agli incontri. Devo ammettere che tutte le volte che ero col gruppo e con gli organizzatori di questo evento, mi sentivo bene con me stesso, strano per il periodo nero che sto attraversando; sono addirittura arrivato al punto che non vedevo l’ora che arrivasse il giorno di tali incontri. Molto probabilmente perché, stando qui con persone come me, che hanno sofferto, che hanno partito, ti senti compreso. Quando parli di qualche problema, gli altri sanno rispondere in merito, perché sanno esattamente di cosa parli, e non solo gli infortunati, ma anche i responsabili dell’Inail.

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Spero sinceramente che si possa continuare, ma ancor di più, che coloro che oggi sono qua possano continuare a venire. Sarebbe molto importante, almeno per me.

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La spirale esistenziale di Franco

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L’arcipelago degli affetti di Franco

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RITA Cinquantasette anni, è la moglie di Franco. Da quanto il marito ha avuto l’infortunio si è dedicata completamente a lui, senza abbandonarlo un attimo a partire dai primi momenti del ricovero, alla riabilitazione, e attualmente partecipando assieme a lui a questo progetto. Intervista Se dovessi definire con una parola cosa ha significato l’infortunio di mio marito Franco per me e la nostra famiglia direi “la fine”. Perché noi eravamo una famiglia molto unita: due figli, due nipotini. Al momento in cui è successa questa tragedia è cambiato tutto. Sì, è stata una tragedia. Non posso pensare al momento in cui mio figlio mi ha detto che era successo un incidente e al viaggio sino a Modena. Appena l’abbiamo visto, in rianimazione, mio figlio ha chiesto: “Ma mio papà uscirà di qua?”. Mia figlia era qua a Torino con i bambini piccoli e chiamava continuamente. Noi, per farla stare tranquilla, le dicevamo: “Papà sta bene, l’abbiamo visto”. Da un periodo che era nero per problemi miei di salute, ho cercato di dare il massimo e farmi forza; ma ora che lui sta così male, anche io sto ricascando nei problemi precedenti, com’ero prima. Davanti a lui cerco sempre di essere autoritaria, perché se vado dietro di lui è finita. Lui vuole stare solo sul sofà. Quando siamo entrati in ospedale pensavamo che morisse. Durante il viaggio c’erano tutti gli amici di mio figlio che chiamavano. Da qui a Modena il tragitto è lungo: il telefono non ha smesso di squillare. Mi sono trovata a dire: “Gianni, smettila di piangere”, perché ogni persona che chiamava era un pianto. Quando siamo arrivati siamo potuti stare in rianimazione due minuti. Ci hanno detto che tutto dipendeva dai polmoni. Poi siamo tornati in macchina. Dovevamo aspettare la mattina. Abbiamo parlato tre o quattro ore. Il tempo non passava mai. Poi siamo passati in un bar e siamo tornati in reparto. Una dottoressa ha detto: “La situazione non è cambiata”. Facevamo tutti i giorni Torino-Modena per avere i due minuti di informazioni, finché non l’hanno trasferito nei reparti normali; allora potevamo stare con lui un’ora. Dopo una settimana, sotto la nostra responsabilità, l’abbiamo fatto trasferire a Torino, ed è cambiato tutto.

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Dal punto di vista della prevenzione, le parole che sento molto legate all’infortunio di mio marito sono “fretta” ed “eccesso di sicurezza”. L’abitudine del solito tran tran. Come superare un evento come questo? Io penso e spero che si possa superare. Potrebbero essere utili queste iniziative alle quali state lavorando. Vedendo altre persone forse dimentica e mette da parte. Poi sarà importante anche il lavoro perché la sua paura è anche quella del futuro. Vede nero, vede brutto e non capisco perché. Lui ha tre nipotini: oggi come oggi i bambini gli danno fastidio; quando c’è il nipote più piccolo, lui poi si gira sul sofà. Vedere persone potrebbe aiutarlo… ma fuori di casa. Io gli chiedo di uscire, andare ai giardinetti, ma lui si stufa. Mia figlia mi dice: “Mamma, vengo a trovarti” e io le dico: “Facciamo un altro giorno che papà non sta bene”. Non gli va più di fare le cose che faceva prima; non gli va più niente. È saltato tutto anche per me. Sono trentotto anni di matrimonio: eravamo ragazzini. Adesso lo sgrido, gli dico di andare a fare la barba. Se fosse per lui a quest’ora aveva la barba sin qua (indica le ginocchia, ndr). Prima di questo infortunio era una persona che, dopo il suo lavoro, continuava ad aiutare gli altri: i suoi figli, i vicini di casa. Speriamo che questo periodo nero passi in fretta, che ci sia il superamento, perché è dura. Prima era una persona sorridente, scherzava: questa è un’ombra! Per lui conta anche questo fatto della “zoppia”. Dice: “Lo vedi? Sembro uno sciancato”. Il primo ricordo La cosa che forse più mi è cara da ricordare da piccola è quando un giorno è venuto a trovarmi il mio padrino per portarmi un regalo e io per timidezza mi sono nascosta sotto il letto dei miei genitori, un mio cugino mi chiamava, urlavo perché non volevo uscire, infine mio padrino se ne è andato senza vedermi.

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Spirale esistenziale: primo episodio 18 anni il grande passo: il nostro matrimonio. Il momento più bello della mia vita è la nascita dei miei due figli. Nel 1975 nasce Stefania mia figlia, mia bambolina molto bella, bionda, ricciolina la gioia della famiglia, in particolare di mio padre. Nel 1981 dopo 8 mesi molto brutti, più ospedale che casa per minaccia d’aborto, arriva Giovanni un bambino molto piccolo di 2 kg, la gioia del papà. Dopo i primi mesi di difficoltà per il peso tutto bene. Oggi è operaio, si è fatto la sua famiglia, una moglie come quelle di una volta e una favola di bimbo, Franco detto Ciccio. Dimenticavo, siamo diventati nonni a quarantadue anni: il giorno del mio compleanno nasce Francesca che oggi ha quattordici anni e poi nel 2004 è arrivato Eric il cocco del nonno perché ha problemi di salute, gioia mia. Spirale esistenziale: secondo episodio Le tragedie della mia vita. I momenti più brutti della mia vita sono due, la morte di mio padre e l’incidente di Franco. Mio padre è morto nel 1986, vita molto dura. Poca salute. La prima volta per cui sono andata in tilt con la testa. Cinque figli, la preferita ero io, quando parlava di me, gli si illuminavano gli occhi. Diceva che ero il suo braccio destro, in me vedeva quel figlio maschio che tanto li aveva delusi, ho cercato di fare del mio meglio per farlo felice e penso di esserci riuscita. Il 20 aprile 2010 la tragedia più grossa che può capitare a una moglie. Quel terribile incidente che ha sconvolto la famiglia. I primi giorni all’ospedale di Modena, entrare per alcuni minuti in rianimazione, chiedere qual era la situazione, i pianti che abbiamo fatto io e mio figlio. Ancora oggi, ogni volta che penso a quei momenti piango, è uno shock, ancora oggi parlare di tutto ciò mi fa star male. Dopo questo incidente la mia vita è cambiata, ho perso la fiducia in tutto, anche le cose che sembravano scontate non ci sono più, sinceramente vivo perché comunque ho ancora Franco, i miei figli e soprattutto i miei nipotini, le mie gioie. Quando parlo con gli altri maschero la mia realtà della vita dicendo tutto ok. Arcipelago degli affetti: lettera alla persona È strano a dirsi, ma riferendomi alle mie sorelle, l’incidente ha modificato il loro modo di comportarsi nei mie confronti. Ci siamo riavvicinati tantissimo con l’unica sorella e cognato che facevano vita a sé, che erano praticamente al di fuori della famiglia, ora ci vediamo tantissimo, ci sentiamo al telefono. Ma

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con le altre due sorelle si è creato un abisso, telefonate ogni tanto, non ci vediamo quasi più; molto probabilmente la grande difficoltà che io e Franco viviamo, la vogliono lasciare totalmente a noi due. E pensare che quando i problemi li avevano loro, ci siamo sempre fatti in quattro per aiutarle, ma si dice che non bisogna mai ricordare il bene che fai agli altri, l’importante è non fare male. Comunque pazienza, tutto ciò serve per far capire appieno il carattere delle persone. Lettera al corpo Cara testolina di Franco, ti scrivo perché in altro modo non riesco ad entrarci: hai avuto un piccolo tilt, ora stai facendo dei grandi miglioramenti ma alcune cose le hai dimenticate, cancellate. Ti parlo di cose che abbiamo fatto insieme e dici che non ti ricordi; questo mi fa male, comunque spero sempre in un miracolo, che presto torni ad essere come prima, che ricordi anche quelle cose che magari agli altri possono sembrare stupide, ma a me no. Siamo riusciti a sistemare (per modo di dire) la gamba completamente distrutta, con parecchio dolore per oltre due anni. Tante infezioni, stress e rabbia, finalmente in questo lungo tunnel vediamo uno spiraglio di luce, sicuramente passerà, ci vorrà ancora del tempo, ma vedrai che torneremo le persone di prima. Forza! Risposta dal corpo Cara Rita, sono la testolina di Franco che risponde alla tua lettera, so che ultimamente sono un pochino strana, ma con il tempo e la tranquillità vedrai, anzi ti prometto che cercherò di mettere in ordine ogni mio ricordo in modo che tu possa tornare tranquilla e sorridente come eri prima; il tempo si è fermato in questi due anni, adesso dovremo riprendere la nostra vita meglio di prima. La resilienza Per cercare di superare i problemi di questo brutto infortunio sicuramente in primis sono state importanti le infermiere dell’Adi (assistenza domiciliare integrata) che venivano a casa nostra tre volte alla settimana per le medicazioni; con L. poi si è anche instaurato un bel rapporto di amicizia, tuttora quando la incontro mi abbraccia come se fossi una di famiglia, abbiamo trovato veramente tante persone brave. B. è stato veramente grande a capire in che buco è finito Franco, infine l’équipe dell’Inail veramente stupenda da A. a S., ai medici, alle infermiere, tutte persone che ci hanno aiutato, fisicamente Franco e

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mentalmente me, non siamo soli, abbiamo trovato una nuova grande famiglia. Per ultima lascio Lucia: questa persona mi dà fiducia. Mi spiace che non riesco ad esternare quello che ho dentro, vorrei essere come tutti, ma questo infortunio mi ha devastato interiormente. Il futuro: speranze (il messaggio nella bottiglia) Spero che questo mio messaggio arrivi anche, anzi soprattutto, a nostro Signore che tolga il male dalla mia casa, visto che sono quasi due anni e mezzo che ci sta e sembra non volere uscire; oltre ai problemi di Franco ora i problemi cominciano anche con me, l’ultimo l’ho scoperto 15 giorni fa sono andata dal medico e mi ha detto che è colpa dello stress, ora mi curo e spero che veramente nostro Signore mi guardi un po’ e che ci doni salute e serenità. Cosa è successo dopo Questa esperienza per me è stata positiva. In questa lunga estate io e Franco abbiamo pensato tante volte a questi incontri con tutti voi. Ogni incontro per me è stato un riaprire la ferita, ma alla fine mi sono liberata di questo peso. Oggi mi sento più tranquilla, un pochino più ottimista. Franco anche lui; questa esperienza lo ha aiutato molto, infatti ho visto più volte il sorriso sul suo volto. Questo grazie all’aiuto avuto.

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ISSA Quarantatré anni, nazionalità senegalese, a seguito di un infortunio del 21 giugno 2003 ha riportato ustioni sul settanta per cento del corpo. Laureato in filosofia, è arrivato in Italia nel 2003 e quando ha avuto l’infortunio lavorava come tuttofare per un bar di una città del nord Italia a cui hanno appiccato fuoco durante la notte. Dopo l’infortunio è stato ospitato nella Comunità Madian di Torino. Attualmente ha ottenuto il permesso di soggiorno, lavora; la moglie e i due figli abitano ancora in Senegal ma confida che possano raggiungerlo presto. Intervista È impossibile definire un infortunio in una parola. Non lo considero un fatto della vita, ma un incidente avvenuto in un momento inaspettato. L’incidente è una sospensione della tua vita sociale. La parola che sento è quella di “sospensione” (di ciò che stai vivendo). Viviamo di lavoro e l’infortunio è una sospensione dell’obiettivo del lavoro. Non si sa quando uno potrà recuperare. Cosa mi ha portato di positivo? Di negativo? Al di là di quello che è successo sei lì, sei sospeso. Ho vissuto la sospensione. Il lavoro è ciò per cui si vive, è uno degli aspetti sociali della vita. Dipende anche dalla gravità. Dipende anche dalla situazione individuale: avere una famiglia aggrava: non puoi più occuparti di persone che dipendono da te. Peraltro emergono nei familiari le frustrazioni derivanti dalla lunga attesa della ripresa perché anche i famigliari vivono duramente la sospensione. Si interrompe, si sospende il dialogo con la società. Quando avviene un infortunio non ci sei più per la moglie e per i figli. Sei una persona completamente assente !!! Sicuramente il grado della sospensione è diverso. Questi momenti hanno una doppia faccia, quella di esserci e non esserci. Vale a dire sei presente ma non utile, soprattutto se non sei più autonomo nella mobilità. Tu che li facevi vivere sei sospeso. Tu sei lì. Sono sospesi anche i famigliari se dipendono da te. Sentono la speranza ma può anche essere che non essendo presente per loro, pensino che non hai più utilità per loro. L’infortunio ti fa trovare in questa strana situazione in cui ti trovi sospeso tra il passato, il presente e il futuro. Non puoi tornare indietro (il passato); il tuo presente non continua; il tuo futuro non lo sai. Viene fuori l’Orribilità (non so se ho scritto bene) delle cose.

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Pensando all’infortunio quello che sento più forte è l’handicap: tornare come prima non è facile. Per me rimane il ricordo del passato, di non essere più come prima. Oltre a questo, mi sono rimaste impresse alcune immagini: non dimenticherò mai la sirena dei pompieri nel soccorso: il pompiere che ha detto “arrivo”. È andato al di là di quello che doveva, mi ha tirato fuori ed ha fatto di tutto per salvarmi. Un giorno andrò a cercarlo. In quel momento sei vulnerabile; non sei niente… Mi rimane anche il senso di accettazione della realtà, lo stupore per la resistenza per la vita, la sensazione di vulnerabilità mentre ti soccorrono, i flash dei giornalisti. Ho vari ricordi legati a quei flash. Questo è quello che ti rimane nel vissuto quotidiano, legato a quel giorno. Affrontare e accettare la realtà significa non essere prigioniero della paura del fuoco. Oggi rimane il senso di insicurezza: eventuali errori che faccio sono legati allo stato attuale, prima non li avrei fatti. Dopo un infortunio si può reagire con rabbia o capita di lasciarsi andare e quindi di vivere ai margini della società. Se ti demoralizzi non riesci a reagire. Il novanta per cento della forza di lottare derivava dal pensiero di mio figlio: “c’è un figlio che mi aspetta”. Dovevo affrontare quello che accadeva. Ero già morto ma sono sopravvissuto: o sono stato miracolato o sono fuori da ogni norma. Rispetto alla prevenzione, penso che spesso la troppa sicurezza è falsa sicurezza. Si parla di prevenzione per portare a evitare l’infortunio. Oltre le informazioni è necessario insistere su una programma educativo che permetta di capire quali sono le conseguenze in caso d’infortunio soprattutto sul piano sociale e psicologico. L’infortunio è anche prova evidente che non eri sicuro di te, che non sei sicuro di nulla. Per aiutare a superare un infortunio, a “ricominciare”, bisogna cercare di capire a che stadio si trova la persona: se non ha ancora superato risponderà negativamente; a questo punto si deve interrompere il discorso. Bisogna che la persona si chieda se ha voglia di andare avanti. Se c’è questo aspetto di andare avanti, di ricominciare. Dipende dalla storia personale, dipende dall’interesse che si ha nella vita. Per me la vita vale la pena di esser vissuta. È LA MIA VITA... È importante agire sulla prevenzione per chi non ha avuto infortuni. L’Inail assiste ma non può compensare ciò che è stato perso.

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LUCIANO Cinquantacinque anni, ha avuto un infortunio in moto in itinere il 13 febbraio 2006. La conseguenza è una lesione alla gamba destra. Disoccupato dalla data dell’infortunio, è in cerca di una nuova occupazione. Intervista Ogni volta che penso al mio infortunio, penso che mi ha cambiato tutta la vita dal momento che mi è successo. Ha cambiato non il modo di comportarmi, ma di fare le cose. Lo definisco come un cambiamento di vita. Ogni volta ripenso a com’era prima e com’è adesso. Di quel momento mi è rimasta impressa la paura. È rimasta internamente tanta paura. Degli ospedali: vedo l’ospedale e ripenso. Una fobia; degli ospedali e dei medici. Quando entro in un ospedale mi sembra che rientro per me. Nessuno può capire come me lo sento. Nella memoria mi è rimasto “il dopo”: quando sono stato all’ospedale e mi hanno operato; la riabilitazione; rendersi conto dell’handicap, di non poter essere come prima. Io avevo l’hobby della subacquea; mi mancano tante piccolezze: non posso andare a pescare. L’incidente in sé non è stato traumatico. Non sono stato nemmeno a lungo in ospedale: tredici o diciassette giorni, non ricordo di preciso. È stato “il dopo”. All’inizio si pensa sempre di recuperare e tornare come prima. Man mano che il tempo va avanti non è così. Se dovessi dire quali fattori sono importanti per la prevenzione direi che attenzione, concentrazione e prudenza sono essenziali, ma quando capita un incidente può anche essere una casualità. Posso stare attento sinché voglio, ma esistono anche le casualità. Io lavoravo sui tetti, quindi la concentrazione e la prudenza erano essenziali. Ma puoi stare attento quanto vuoi che se il caso… Rispetto alla paura: meglio aver paura. Se hai paura stai più attento alle cose. Contano anche le misure di sicurezza. Dov’eravamo noi erano applicate abbastanza. Dopo l’infortunio la spinta ad andare avanti inizialmente è stata determinata dalla speranza. Pensavo di recuperare e quindi mi impegnavo. È come quando, dopo l’infortunio, andavo ai colloqui di lavoro: all’inizio avevo speranza. Poi dopo il primo, il secondo, il terzo, il quarto colloquio, l’ho persa. E vai comunque avanti. In famiglia parliamo tanto e questo mi aiuta ad andare avanti, però la speranza che avevo all’inizio, poi l’ho persa. Anche nella ricerca del lavoro, alla frase

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“le faremo sapere” non ci credo più. Se all’inizio non avessi avuto la speranza di riprendere tutto, non sarei andato avanti. Questo fatto di aver perso la speranza, se l’avessi persa dall’inizio questa gamba non avrebbe funzionato come funziona ora. Il massimo è stata la frase di un medico che mi ha detto: “lei non camminerà più”. Ma io non ci ho creduto ed ho continuato a dare il massimo: Non so, forse ho anticipato i tempi di recupero. Prima di abbandonare qualcosa ci devo provare. Nel peggio, mi sono dato da fare. Se ho una speranza, io vado avanti. Quando ho recuperato un po’, ho provato a cercare un nuovo lavoro e mi sono ritrovato con tanti “le faremo sapere” che fanno star male. I tempi non aiutano. È difficile per tutti. Anche mio figlio, e i suoi amici che hanno studiato, non fanno niente. Meno male che, male che vada, riusciamo anche a mantenere mio figlio. Adesso sono senza speranze, ma non su tutto. Se non hai quella briciola di speranza non ce la farai mai. La frase del medico mi venne detta all’inizio, quando non sentivo più le gambe. Poi c’è stato l’intervento. Tante cose le ho superate perché c’era mia moglie che mi ha aiutato tanto. Abbiamo sorriso insieme e abbiamo pianto insieme. Facevo cyclette, pesi, camminavo avanti e indietro. I risultati ci sono stati. Ho ripreso la macchina. La mia grande passione sono state la pesca subacquea e la moto. Non riesco più a pescare; ho provato, ma non ce la faccio. Ma riproverò. Qualche volta prendo la moto: ho fatto fare delle modifiche e l’ho abbassata perché fosse più stabile. All’inizio è stata una grande paura ma dopo è stata una bellissima sensazione. Rispetto alla mia esperienza all’Inail ho sempre detto a chiunque mi parlasse, che voi mi avete aiutato tanto. Con il corso che ho frequentato ho conosciuto tanta gente che aveva gli stessi problemi. Sono riuscito a relazionarmi con altra gente e mi sono trovato bene. Quel periodo non riuscivo tanto a camminare e mi ha aiutato andare al corso, uscire da casa quei due o tre giorni e passare quel paio d’ore. Se non c’eravate voi, non l’avrei mai saputo. Ci sono tante cose in cui mi sono trovato bene. Quando vengo qua mi sento tranquillo e riesco a parlare serenamente. Voi potrete aiutare tante altre persone. Rispetto all’idea di fare dei gruppi, dovete tener conto che alle volte ci sono persone che vivono negativamente l’infortunio e non parlano volentieri perché si rivive un po’ tutto. Bisogna capire come sono queste persone; alcune persone vivono l’incidente di giorno in giorno. Io spesso sognavo di correre in spiaggia e poi d’improvviso rivedevo l’incidente e mi svegliavo di soprassalto. Rimane sempre qualcosa.

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Il primo ricordo Il mio ricordo più remoto risale all’età di circa cinque anni. Avevamo appena traslocato nella nuova casa, e mia madre e mio padre avevano portato le prime sedie ed io contentissimo saltavo da una all’altra. Mia madre vedendo ciò si infuriò moltissimo e me le tolse, allora io non sapendo cosa fare continuai a saltare arrampicandomi alla finestra della camera, ma, saltando il gancio della finestra mi si conficco sotto il labbro procurandomi una profonda ferita interna ed esterna. Mia madre si spaventò moltissimo, chiamò la vicina di casa e mi curarono con gli antichi metodi sardi (zucchero nella ferita e tanta pressione nella ferita per chiuderla). Ha funzionato benissimo. Lettera al corpo Ciao, come va? Io mi sto abituando ad averti con un’andatura insicura e ciondolante. Mi ricordo prima dell’incidente come si andava d’accordo, se volevo andare a nuotare non mi facevi storie, se ti facevo correre non ti stancavi, in moto per noi era un piacere col piede mettere le marce. Oggi ti sento un po’ stanca. Basta una passeggiata è subito vuoi riposare, per nuotare non se ne parla, sempre crampi se piove, se nevica o cambia il tempo ti lamenti con i tuoi piccoli ma grandi dolori fastidiosi. Cara gamba, ti faccio sapere che nonostante tutte le nostre difficoltà cammineremo insieme per un lungo, lunghissimo tempo, se Dio vorrà. Risposta dal corpo Carissimo Ciano, ti voglio far sapere che in risposta alla tua lettera, non sto bene, e per quanto tu mi chieda alcune prestazioni, come nuotare, correre ecc., dammi tempo, e con la tua forza di ripresa e volontà vedrai che alcune mansioni potremmo risolverle. Abbi pazienza. Ciao, a presto. La tua gamba. La resilienza Il 13 febbraio 2006 ho avuto un grave incidente per causa di un pirata della strada che invadeva la mia corsia urtandomi e facendomi cadere dalla moto. La mia vita è totalmente cambiata. Oltre al danno fisico (frattura piatto tibiale più diafisi tibiale), ho subito un danno psicologico, economico ed esistenziale. Al primo esame un dottore mi disse che non avrei più camminato, potete capire il

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mio stato d’animo e la mia disperazione; con tutti i dolori che avevo mi tolse anche la speranza. Dopo l’operazione, mia moglie Patrizia, mi aiutava a muovere la gamba, ogni giorno che passava miglioravo e riprendevo fiducia nelle mie capacità. Iniziai al Cto, piscina e attività motoria di riabilitazione, ma le cose non cambiavano molto anche perché non era il danno fisico ma il danno mentale che mi distruggeva, lo sconforto era talmente forte che mi ritrovavo a piangere sul divano. Un giorno mi capitò di vedere Patrizia che piangeva in silenzio e io pensai ”amore mio non ti ho mai visto piangere, giuro che da oggi farò tutto il possibile per tornare ad essere quello che ero, le tue lacrime saranno il punto di partenza per la mia rinascita”. Da quel giorno cominciai a darmi da fare con la gamba, e con tutte le persone che mi stavano vicine (amici, parenti). Da burbero e scontroso che ero diventato, ritornai ad essere allegro come prima. Però il rimanere chiusi in casa per lungo tempo mi stava opprimendo, ma a quel punto ho avuto un grande grandissimo aiuto dalla dottoressa P., la dottoressa C., e Q. che mi chiesero se volevo partecipare a lezioni di informatica. Io felicissimo accettai e ripresi a stare con le persone e a vivere. Non bisogna avere paura del futuro, ma affrontarlo e combatterlo con tutta la forza che abbiamo dentro. Tutti noi abbiamo un angelo che ci tutela, io ho Patrizia, mio figlio, che mi ha dimostrato tutto il suo amore in silenzio come siamo noi sardi. Tutti voi, dottoressa P., C., Q. e il personale Inail grazie a tutti. Il futuro: speranze (il messaggio nella bottiglia) Carissimo dottore PASTICCIONE, mi sarebbe piaciuto che avesse avuto un po’ di attenzione durante la mia operazione.

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PATRIZIA Cinquantadue anni, è la moglie di Luciano. Si conoscono da quando avevano quattordici anni e questo legame è stato uno dei fattori importanti per fronteggiare questo evento che ha comportato un grosso cambiamento anche famigliare. Gestisce una portineria. Intervista Se oggi penso ad un infortunio, penso a un danno, fisico e psicologico ed a tutte le sue conseguenze. Quello di mio marito Luciano si è ripercosso su tutta la famiglia. I famigliari ne subiscono di riflesso tutte le conseguenze. Se mi aveste chiesto prima dell’incidente avrei risposto: “infortunio = sicurezza sul luogo di lavoro”. Oggi come oggi penso a “infortunio = danno”. È un danno che ha cambiato la nostra vita. Non dico economicamente, io il denaro lo metto sempre dopo, ma fisicamente e psicologicamente. Anche se siamo molto forti, ci sono dei momenti che entriamo in depressione. Difficilmente, per fortuna, entriamo in depressione contemporaneamente. Spesso piangevo senza farmi vedere, chiusa in bagno, per non farlo pesare a lui. Questa cosa se la porterà dietro tutta la vita, non è una cosa che guarisce. Gli rimarrà questa fobia. Nonostante affronti tutto su se stesso, adesso vuole accantonare la possibilità di un’altra operazione perché gli è rimasta questa paura. L’infortunio è un danno che si ripercuote perché, per esempio, se deciderà di fare l’intervento, si ripresenterà tutto: l’ansia, l’angoscia… Durante l’infortunio non l’ho lasciato un attimo da solo ed ho avuto anche un diverbio con la caposala che mi diceva che mio marito non era un bambino. Poi anche la caposala ha capito che non disturbavo. Per quindici giorni sono rimasta notte e giorno su quella sedia. Se mi spostavo andavo in ansia. Pensando ad un nuovo intervento, mi viene in mente che devo riaffrontare questo calvario, che sembra una parola grossa, ma comunque è un evento che si è ripercosso su tutta la famiglia. Però nonostante la botta così forte ci siamo risollevati. Di quel giorno mi ricordo che ho ricevuto una telefonata: era mio marito che diceva “è successo un casino”. Era a terra con la moto sopra e mi chiamava con il cellulare. Poi ha preso subito il telefono la persona che lo ha assistito. Mio figlio in quel momento era a letto; mi sono precipitata nella sua stanza e gli ho detto: “Papà si è rotto la gamba”. Siamo usciti così come eravamo, siamo corsi in Corso Maroncelli, abbiamo visto un’ambulanza, i poliziotti, ma

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mio marito non c’era. Allora sono andata al Cto. Mio marito era su una barella, era cosciente, aveva la gamba gonfia e diceva “guardami le gambe che non le sento” (gli avevano fatto l’epidurale). Non avevo il coraggio di guardare. Ricordo quindi che all’entrata in ospedale mi sono rasserenata e poi la notizia del dottore a mio marito: “lei forse non camminerà più”. E poi ho vissuto quindici giorni all’ospedale. Volevano chiamare le forze dell’ordine per mandarmi via (sorride). Quando mi hanno detto “lei qui non ci fa niente”, sembravo una iena (sorride ancora). Dal punto di vista della prevenzione devo dire che mio marito è molto prudente, sta sempre attento a tutto. Anche in moto andava sempre piano. Secondo me è stata una casualità ed una irresponsabilità di terzi. Gli hanno tagliato la strada, l’hanno toccato, sbilanciato ed è successo tutto l’insieme. Lui è anche uno che quando si sente stanco, riposa. Dice sempre che se uno si sente stanco deve fermarsi. È cauto. Proprio le persone più sicure a volte sono soggette a pericolo. Lui è un patito della moto e aveva molta paura di non poter riprendere. In città è molto pericoloso. Lui ha il senso della prudenza ma non per tutti è così. Spesso vedo dei motociclisti molto imprudenti, fanno lo slalom, vogliono andare avanti a tutti i costi: non si rendono conto che sono un mezzo su strada e che possono creare incidenti. Lui andava a passo d’uomo e nonostante ciò ha avuto un infortunio così grave: gli è scoppiato il ginocchio. Pensando agli infortuni in generale invece ripeto che per me la parola più significativa è “misure di sicurezza”, proprio per prevenire il danno. Per andare avanti dopo un infortunio serve tanta forza di volontà. La famiglia ha contato molto ed il legame di amore e rispetto che abbiamo, ha fatto la differenza. L’ho conosciuto a quattordici anni ed ora ne ho cinquantadue. Da ragazzini c’è quell’amore dove pensi solo a certe cose, man mano che costruisci la famiglia subentrano altre cose. Siamo stati sempre accanto, sia nel bene che nel male come questo. Noi le cose che succedono ce le prendiamo, sentiamo e viviamo sulla nostra pelle. A volte guardo le persone che stanno peggio, invece mio marito dice che non bisogna guardare le persone che stanno peggio altrimenti ci si adagia. Io invece guardo molto anche le altre situazioni peggiori e mi faccio forza. E conta anche la voglia di migliorare e migliorare la situazione. L’infortunio da un lato l’abbiamo superato e dall’altro non l’abbiamo superato, perché alle volta il fantasma riappare. Poi questa cosa del lavoro… Lui spesso dice che si sente inutile, inutile per la società, inutile per la famiglia. Dice: “ ho perso la mia figura di uomo perché non sono utile né alla società, né alla famiglia”.

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In realtà lui mi da una mano in tutto: in casa, nella portineria, in cortile. Mi da sempre una mano. Poi da mezzogiorno alle due, stacchiamo e insieme ci facciamo una passeggiata. Ogni giorno. Certo che se mio marito lavorasse, anche solo quattro ore al giorno, si sentirebbe più utile. Non saprei cosa consigliarvi in più rispetto a quello che fate. Vedo che vi prestate molto; avete sempre cercato di fare il possibile. Quando sono con voi mi sento a casa: la disponibilità che avete a volte non si trova neanche nelle amicizie vere e proprie. Avete un gruppo di lavoro che si prende a cuore le situazioni e vi devo fare i complimenti. Vedo che siete imparziali e ci sentiamo “della famiglia”. Chiaro che si può migliorare, ma non mi sento di darvi dei consigli. Siete stati di molto aiuto e conforto, mi avete dato la spinta a reagire anche perché voi, da fuori, potete dare dei consigli imparziali. E anche noi siamo disponibili per qualsiasi cosa vogliate organizzare, perché ci sentiamo parte del vostro organico. Il primo ricordo Il mio ricordo più remoto risale all’incirca all’età di cinque anni quando mia madre venne a prendermi a casa dei nonni (dove io stavo molto spesso per motivi di lavoro di mia madre) per portarmi da Carbonia a Cagliari dove dovevamo trasferirci. Ricordo che per tutto il viaggio non ho fatto altro che piangere e battere i pugni sul vetro posteriore dell’auto, chiamavo mia nonna, non volevo andarmene. Mia madre ci rimase così male poiché in quel momento si sentì rifiutata dalla persona che dovrebbe amarla più di ogni altra cosa. Ancora oggi quando ne parliamo si rattrista nonostante siano passati tantissimi anni. Ma io ero una bambina, lei lavorava lontano e veniva a trovarmi ogni fine settimana, ed io, involontariamente, mi sono legata tantissimo ai miei nonni che erano le uniche persone che in quel momento stavano vicino a me dandomi tantissimo affetto. Spirale esistenziale: primo episodio Dal giorno 13 febbraio 2006, giorno in cui mio marito ha subito un bruttissimo incidente da parte di un pirata della strada che invadeva la sua corsia urtandolo e facendolo cadere, la nostra vita è totalmente cambiata. Sono passati sei anni ma, tutto è rimasto scolpito nella mia mente come fosse oggi, la voce di mio marito al telefono che mi diceva “Pa, è successo un casino, mi sono rotto la gamba”. Poi, il silenzio, il dolore era così forte che non aveva più la forza di

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parlare. La mia disperazione, la corsa in ospedale, l’interminabile intervento, otto ore sotto i ferri e sentirsi dire dai medici “suo marito avrà grossi problemi di deambulazione”, poi con la morte nel cuore tornare da lui, sorridergli far finta di nulla e sussurrargli “Amore è andato tutto bene, ti riprenderai presto”, mentre dentro di me volevo piangere ed urlare dalla disperazione, ma, non potevo permettermelo, non davanti a lui, che moglie sarei stata? Gli avrei procurato solo altra sofferenza e non avrebbe avuto la forza di andare avanti, come poi è successo. Ci sono stati momenti dove pensavo di non farcela, come dopo l’intervento, quando è arrivato il dottore e mi ha detto “suo marito è in pericolo di vita, sta subentrando una forte anemia, dobbiamo fargli immediatamente delle trasfusioni di sangue”. In quel momento sentii che il mio mondo mi crollava addosso. Lui era ancora incosciente, sotto morfina, si svegliava ogni tanto mi guardava, io gli bagnavo le labbra con una garza imbevuta d’acqua, lui sorrideva e si riaddormentava. Io uscivo dalla camera e senza farmene accorgere cominciavo a piangere dando sfogo alla mia disperazione, lontano da sguardi indiscreti. Così è stato per tutta degenza in ospedale, venti lunghissimi ed interminabili giorni di angoscia e disperazione in cui io sono rimasta sempre notte e giorno accanto a lui senza lasciarlo un attimo. Poi le dimissioni dall’ospedale, visite, terapie e la speranza di una ripresa veloce. Ma poi, la delusione di sapere che tuo marito non tornerà più quello di una volta. Quante volte in casa, mentre lui dormiva o faceva terapia cyclette mi chiudevo in bagno per piangere e pregavo Dio per darmi la forza di andare avanti ed aiutarlo. Mio figlio, un ragazzo di vent’anni, ci aiutava come poteva, sostituendo in portineria, consolandoci e stando vicino al padre a cui è molto legato. Mia madre in primis, mio fratello più piccolo e la sua ragazza rimanevano vicino a noi confortandoci in tutti i modi, dandoci nuove speranze. Ricordo che in ospedale era un via e vai di parenti ed amici. Ogni giorno arrivavano dalle dieci alle venti persone, tanto che alla fine facevano entrare due alla volta. I dottori del Cto che seguivano mio marito, a differenza del primario dottor B. erano molto giovani ma professionali, disponibili, allegri e scherzosi, si fermavano spesso per parlare con noi, rincuorandoci ed alleviando le nostre sofferenze. Tutto il personale ospedaliero, a partire dalla caposala alle infermiere sono stati gentilissimi ed hanno fatto di tutto per farci sentire a nostro agio. Inoltre devo ringraziare immensamente tutto l’organico dell’Inail dalla dottoressa P., alla dottoressa C., alla Q., dottori ed infermiere che con la loro grande umanità ci hanno assistito, ascoltato e guidato in questo difficile cammino e tutt’oggi si prendono cura di noi come possono. Un grazie di cuore, tutti insieme siete un’ottima squadra. Ma senza togliere niente a nessuno credo fermamente che siamo riusciti a venir fuori da questa situazione e a superare i momenti più critici (se così si vuol dire), lo dobbiamo solo ed esclusivamente a noi stessi. Al nostro grandissimo amore, alla nostra grande forza di volontà e al nostro infinito senso della famiglia.

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Lettera all’infortunio di Luciano Sei entrato nella nostra vita come un fulmine a ciel sereno, sconvolgendo le nostre abitudini quotidiane e portando dolore, sofferenza e disperazione. Abbiamo affrontato ansie e paure: l’interminabile intervento di mio marito, otto ore sotto i ferri, la lunga convalescenza dopo l’ospedale, undici mesi d’infortunio, dimesso camminando se così si può dire, anzi trascinandosi con due stampelle e sentirsi dire: da domani può riprendere a lavorare. Ma come, in che modo, lavorare nell’edilizia in queste condizioni? Va messo in malattia per altri sei mesi quelli che burocraticamente puoi fare per non perdere il lavoro, visite, terapie e la speranza di una ripresa veloce e infine la delusione di sapere che tuo marito non tornerà più l’uomo di una volta; correre, giocare a pallone, praticare pesca subacquea, guidare la moto, tutti hobby che non potrà più permettersi di praticare. Ultimo fallimento, la perdita del lavoro! Il lavoro, la stabilità economica che svanisce, la famiglia alla deriva e la dignità di un uomo che si perde. Ci abbiamo creduto, abbiamo lottato e siamo riusciti insieme a superare i momenti più critici. Ora siamo qua, la strada da percorrere è ancora lunga, mio marito prima o poi dovrà affrontare un nuovo intervento: siamo molto preoccupati. Mi chiedo quando e come tutto questo finirà, forse non riusciremo mai a superare del tutto il nostro dramma, ma siamo più forti e consapevoli di dover affrontare nuove sfide. Torneremo ad essere la famiglia serena, spensierata di un tempo? Chissà, so solo che vedere mio marito e scherzare nuovamente, mi riempie immensamente di gioia, mi allevia le sofferenze e mi dà nuove speranze. Risposta dall’infortunio di Luciano Hai detto che sono entrato nella tua vita sconvolgendola, portando tanto dolore, sofferenza e disperazione. Mi dispiace immensamente ma purtroppo, a volte, nella vita le cose capitano. Ma, sei sicura che ho portato solo dolore e disperazione? Forse non hai detto che oggi siete più forti e consapevoli e sapete reagire di fronte alle situazioni più tragiche? Beh, anche questa è una lezione di vita. Certo forse non sarebbe stato il caso di impararla così in questo modo. Il futuro: speranze (il messaggio nella bottiglia) Nonostante tutti i nostri problemi oggi come oggi, un lavoro per nostro figlio ci darebbe la spinta per andare avanti e ricominciare a vivere serenamente. Grazie.

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Cosa è successo dopo Quando la D.ssa C. e la D.ssa P. hanno proposto a me e mio marito una serie di incontri per poter discutere e parlare della nostra esperienza in modo da essere d’esempio e di aiuto alle altre persone, siamo stati entusiasti e non vedevamo l’ora di iniziare questo percorso. Ora, dopo otto settimane di incontri, siamo giunti malgrado il nostro rammarico, alla fine di questa straordinaria esperienza. Essere lì, tutti insieme, conoscere altre persone che come noi hanno attraversato momenti più o meno terribili, parlare con loro, discutere ed avere la possibilità di confrontarci, è stata una esperienza indimenticabile. Mettersi in gioco, raccontare e rivivere i momenti drammatici e dolorosi passati ma mai dimenticati, è stato per noi difficile e frustrante ma, nello stesso tempo è stato un percorso per crescere, maturare ed andare avanti, tirando fuori il meglio di noi stessi e rendendosi conto che non siamo soli. Abbiamo conosciuto persone nuove a cui spero, abbiamo dato e ricevuto tanto, abbiamo fatto nuove amicizie e, sembra strano a dirlo, insieme abbiamo riso, scherzato e condiviso momenti bellissimi. Per questo vorremmo ringraziare ancora una volta, con tutto il cuore, tutto l’organico dell’Inail che ci ha dato la possibilità di fare questa meravigliosa esperienza. Grazie a tutti.

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La spirale esistenziale di Patrizia

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Arcipelago degli affetti di Patrizia

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MARINELA Ventotto anni, di nazionalità romena, laureata in legge, il 27 gennaio 2010 ha avuto l’infortunio all’uscita del panificio presso il quale lavorava come commessa. Inciampando sul marciapiede ha riportato una lesione alla gamba sinistra che si è aggravata a seguito di complicanze sopravvenute nei mesi successivi all’incidente. Attualmente, oltre a partecipare alle iniziative dell’Inail, si è iscritta a diversi corsi di formazione e sta puntando sulla riqualificazione per favorire le possibilità di reinserimento lavorativo. Intervista Definire un infortunio è una bella domanda: non so… Con una parola lo definirei: un grande cambiamento. Con una immagine penso a quella di quando mi hanno messo a posto il piede (un dolore tremendo), e quando mi hanno detto che sarei rimasta così (quello è stato un male per la testa). Cambiamento anche come sentimenti, emozioni. Mi dava fastidio tutto. Ti viene l’idea che vogliono consolarti per pena. Si fatica anche ad accettare l’aiuto degli altri. Ero una persona che si faceva sempre le sue cose da sola. Non mi piace che gli altri mi vedono in un altro modo. È difficile. Perché questo nervoso ti porta anche a litigare con gli altri. Certo, poi dici “scusa”; l’importante è chiedere scusa. Nessuno può immaginare cosa hai tu dentro, quindi a volte nemmeno provi a raccontare cosa è successo perché pensi che nessuno ti può capire. È difficile anche adesso, dopo due anni. Non possono capire il male che hai. Ci sono momenti in cui non vuoi raccontare perché non vuoi preoccupare e poi, tanto, anche se mi lamento non mi passa il male, quindi… Di quel giorno nella memoria mi è rimasto tutto. Mi sono vista il piede storto. Il male non lo sentivo però vedevo e c’era mio fratello che guidava come un pazzo per portarmi in ospedale. Se devo pensare ai fattori che hanno determinato l’infortunio, uno è l’attenzione. Perché secondo me quello è successo perché avevo fretta; ero anche molto stanca. Magari se ero più tranquilla non capitava. Tante volte la fretta non ti fa pensare a cosa può succedere. Vedo ogni giorno tante persone che per la fretta fanno tante cose pazzesche. Anche la prudenza è importante. Essere presenti. Quel giorno, tutto il giorno era stato perfetto, ma dopo dieci ore di lavoro, con la fretta… è successo. Prima di tutto, sono stati due mesi che sono entrata in depressione. La prima cosa che poi mi ha fatto andare avanti è stata mio marito. C’è stato il pensiero

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che potevo rovinare questa relazione. Poi io sono così, non mi arrendo mai e allora ho detto: “devo andare avanti; è quello che è”. Un mese, due mesi, pensi a tutte le cose che non hai mai pensato. Poi non mi piacevo com’ero: non volevo uscire perché gli altri vedevano che camminavo male. Poi non potevo più vestirmi come mi piaceva: amavo i tacchi alti. Non è bello farsi vedere debole. Non avevo voglia di niente. Non ero io. Sono cambiata. Sono molto più sensibile. Se vedo una persona disabile mi rimane in testa e penso: “Chissà cosa passa, cosa prova questa persona”. Prima invece, sì, dispiaceva; ma si andava avanti senza pensarci. Dopo un infortunio apprezzi molto più tutto. E come ritrovare se stessi: non sono solo più sensibile ma anche più forte. È cambiato tutto anche per mio marito che mi vede, mi conosce: capisce quando sto male. Poi la mancanza di lavoro… Io non stavo mai ferma: cambia tutto. Cambiano i progetti. Sono arrivata in Italia nel 2007. Lavoravo come consigliere giuridico in Romania ma guadagnavo duecento euro al mese. Allora ho deciso di raggiungere i miei genitori, i miei fratelli ed il mio fidanzato che erano tutti qua in Italia. I miei genitori sono rimasti male che dopo aver studiato all’Università ho fatto questa scelta di venire e fare anche le ore di pulizia. Prima ho lavorato come aiuto cuoco, poi come pulizie e poi a fine 2007 ho trovato lavoro nel panificio dove ho avuto l’infortunio. Arrivando qui l’idea era di stare due o tre anni per poi tornare in Romania: è l’idea di tutti. Qui, quando non hai dei limiti, puoi fare tutto quello che trovi; ora, con dei limiti, non è possibile stare dieci ore in piedi; nemmeno quattro ore. E poi sei straniera. Anche mio marito in Romania faceva l’Agente di vigilanza e qui in Italia lavora come carpentiere. L’idea è di tornare. La rendita in Romania vale due stipendi. Mi chiedete se voglio darvi un consiglio ma non mi sento di dare consigli perché tante volte non ne ho neanche per me. Per dire la verità mi sono resa conto che c’è anche la gente che chiede troppo. Vorrei dire però che mi sono trovata bene al corso che ho fatto perché ho conosciuto altre persone e imparato cose nuove. Conosci altre esperienze. Vedi anche persone che chiedono troppo: “io non voglio fare questo; io non voglio fare quello; prima guadagnavo di più”. Però è stata una bella esperienza. Mi ha aiutato anche ad andare avanti pensando un po’ più positivo. Il primo ricordo Il mio primo ricordo è in Romania, quasi venti anni fa... Il pranzo di domenica con tutta la famiglia (mia madre, mio padre, mia sorella e i miei tre fratelli). Mi

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ricordo il casino che c’era quando ognuno iniziava a parlare delle sue cose. Per fortuna succede spesso anche oggi. Spirale esistenziale: primo episodio Oggi, 1 giugno 2012. Devo raccontare un episodio importante della mia vita. Non lo so se questo è il più importante della mia vita, ma di sicuro questo è il più bello. Sto parlando del mio matrimonio, agosto 2009. Che angoscia, che emozione… Non dimenticherò mai il giorno quando sono andata insieme a mia sorella e mia madre in cerca di un abito bellissimo, il mio abito da sposa. Faceva caldissimo in quel giorno. Io cercavo come una pazza tutti i negozi del genere. Entravo, guardavo e provavo. Una scelta molto difficile. Era quasi sera, sempre caldo, morte di fame, stanche, ma io senza aver trovato il mio abito che tanto sognavo. Subito dopo vedo una vetrina, dentro c’era un bellissimo abito. Entro, me lo faccio provare. Era proprio come mi immaginavo, colore panna, tipo principessa. Subito ho dimenticato la stanchezza e anche il caldo. Ero felicissima di aver trovato finalmente il mio abito. Il giorno del matrimonio, 22 agosto 2009 è stato davvero una favola. Al mattino siamo andati in Comune, poi in Chiesa. Tutti erano felici e contenti, noi molto di più. La festa è stata bellissima. Centotrenta persone che si divertivano cantando e ballando, e io ero al centro dell’attenzione. Mi sentivo davvero una principessa mano nella mano con il mio principe. Spirale esistenziale: secondo episodio Un altro episodio importante della mia vita è stato quello dell’incidente. 27 gennaio 2010, un giorno perfetto. Alle ore 19.30 sono uscita dal lavoro, mio fratello è passato a prendermi per accompagnarmi a casa. Scendendo dalla macchina sono inciampata. Subito dopo ero per terra e mi sono vista il piede girato. Nessun dolore, solo un grande spavento. Mio fratello mi mette in macchina e corre come un pazzo verso l’ospedale Maria Vittoria. Nel frattempo arriva anche mio marito, spaventato anche lui. Dopo due ore arriva il medico che mi mette il piede a posto suo, un dolore immenso. Non ho mai sentito un dolore così forte prima. Poi mi dice che devo fare l’intervento. La paura era il mio padrone in quel momento, ma ho accettato in fretta questa condizione, pensando che dopo sarà tutto finito. Invece mi sbagliavo, appena cominciava. Dopo qualche giorno ho fatto infezione. Mi hanno trasferita dal reparto di ortopedia al reparto di chirurgia plastica dove

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sono stata fino alla fine di marzo, quando ho dovuto fare il secondo intervento. Tutto quasi bene. Sono stata dimessa, dopo di che ho iniziato le terapie. Sono passati cinque mesi di terapie intensive, grandi dolori, non riuscivo a camminare senza stampelle e il mio piede non voleva muoversi. Ero preoccupata. Il 17 agosto 2010 ero di nuovo in ospedale a fare le solite visite mediche (visite che facevo sempre e i dottori mi dicevano che “tutto va bene”) quando il dottore mi chiede con un tono quasi ironico cosa sto a fare ancora lì. Ero arrabbiata e ho chiesto se, secondo lui, il mio piede andasse bene. È rimasto muto, ha detto solo di andare in traumatologia da un altro dottore, che mi ha detto il peggio. Non dimenticherò mai le sue parole: “Sì, mi spiace, si è formato un blocco unico, e purtroppo non si può fare niente”. Io e Cristian siamo rimasti senza parole. Io ho iniziato a piangere e chiedevo disperata delle spiegazioni ma senza una risposta adeguata. Sono andata poi a fare visite dappertutto, alla clinica Fornaca, in Romania, al Cto, ma niente, nessuna speranza di essere come prima. I successivi due mesi sono stati i più brutti della mia vita. Non riuscivo ad arrendermi. Erano tutti vicini a me, specialmente mio marito, ma io non volevo nessuno. Piangevo in continuazione, non mangiavo, non parlavo con nessuno, non volevo uscire; sempre nervosa mi dava fastidio tutto, anche le coccole di mio marito. Mi chiedevo solo come facessi ad andare avanti così e se Cristian mi volesse ancora così. Non puoi spiegare agli altri quello che hai dentro, non si trovano mai le parole giuste. E poi, chi può capire? Un giorno mi sveglio con un pensiero: “devo andare avanti, devo essere la ragazza di prima che sorride sempre, che non si arrende così facilmente, la ragazza piena di vita che ero. Devo fare questo adesso se non voglio perdere tutto”. Posso dire che sono contenta, sono riuscita ad andare avanti (prima per me e mio marito, ma anche per la mia famiglia che soffriva tanto vedendomi così) con una voglia più grande di prima, anche se ogni giorno ho delle difficoltà. Arcipelago degli affetti: lettera alla persona Mia madre. Nata nel 19 febbraio 1960 come prima figlia dei miei nonni, Maria (perché così si chiama mia madre) era una bambina con occhi azzurri, capelli biondissimi e molto sveglia. Dall’età di dieci anni ha iniziato a lavorare dappertutto, facendo vari lavori. Era la ragazza più felice del mondo quando riusciva a comprarsi un vestito nuovo o un paio di scarpe, così poteva andare anche lei a ballare nelle serate di ballo (le discoteche di quell’epoca) che si facevano. È in una di quelle serate che conobbe mio padre.

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4 aprile 1977 è stato il giorno più bello per mia madre, il suo matrimonio. Dopo solo un mese porta al mondo il suo primo figlio (31 maggio 1977) nato prematuro a sette mesi. La felicità è durata poco perché tutti i dottori le dicevano che non resisteva o che non sarebbe stato sano. Dopo quattro mesi in ospedale mio fratello si riprende. Adesso ha 35 anni, è sano e molto felice con la sua famiglia. Poi arrivano anche gli altri figli: Elena (29 maggio 1979), i gemelli Michele e Gabriele (25 maggio 1982) e finalmente io (la ragazza più piccola e coccolata da tutti). La vita per mia madre non è stata facile, erano dei tempi molto difficili. Mio padre sempre fuori per lavoro, lei a casa facendo la casalinga e mamma a tempo pieno senza l’aiuto di nessuno. Lei dice che i più brutti episodi della sua vita sono stati quelli di una serie di incidenti: la morte di sua madre (mia nonna) in un incidente stradale, l’incidente di mio fratello Jonny quando ha rischiato di perdere la vista, il mio incidente (l’infortunio). Tante volte sento che lei soffre più di me quando mi vede che ho difficoltà nel camminare. Mia madre oltre ad essere una meravigliosa mamma è anche una brava amica. Ci ha permesso a tutti noi di parlare apertamente di tutte le cose. Non lo so come fa, ma ha sempre la parola giusta per noi, i suoi bimbi, in ogni momento difficile. Il lavoro Il primo successo Il primo successo per me non è proprio un lavoro; è il periodo quando sono rimasta per tre mesi in Romania e dovevo fare tutto da sola: cucinare, stirare, pulire, studiare e anche divertirmi. Pensavo di non riuscire, ma sono riuscita. L’ultimo successo È stato il tempo che ho lavorato in panificio dove mi sono trovata molto bene e dove mi permettevano di migliorare ogni giorno che passava. Il primo fallimento Dopo sei mesi di lavoro nella trattoria P. come aiuto cuoca: mi hanno detto che non avevano più bisogno di me perché non volevano farmi i documenti.

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L’ultimo fallimento La fine del mio lavoro come commessa in panificio per colpa dell’infortunio. Il primo conflitto Sempre alla trattoria P. perché mi sono sentita usata. L’ultimo conflitto In panificio per colpa dell’infortunio: non volevano che firmassi la denuncia. Il primo disagio Quando sono andata a fare le pulizie da una donna e mi trattava come una ignorante. Dopo due giorni non sono più andata. L’ultimo disagio Ieri (14 giugno 2012) da una conferenza stampa per il festival latino americano di Lingotto dove lavoro per tre mesi. Il primo desiderio Di trovare un lavoro per guadagnare soldi per me. L’ultimo desiderio Di trovare un lavoro che mi possa permettere di stare bene con il mio problema del piede, preferibilmente un lavoro in una amministrazione pubblica perché mi piace parlare con la gente. Lettera al corpo Caro piede, vorrei ringraziarti che ci sei, anche sei fai male. Mi hai fatto entrare in un mondo diverso e conoscere delle persone meravigliose. Questo mondo, che lo vedevo ogni giorno, ma non lo sentivo. È difficile, ma sono riuscita, insieme a te, a conoscerlo, capirlo e andare avanti.

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Grazie a te, ogni anno posso andare a fare le cure termali, passare due settimane di serenità. Lontano da tutti e da tutto, sola con i miei pensieri; mi hai fatto imparare a nuotare; ad apprezzare la vita molto di più, in bene e in male. Ma quando fai troppo male, non capisco più nulla. Non mi piace quando fai dei capricci e non mi lasci andare dove voglio io, fare quello che voglio e dormire tranquilla di notte. Non mi permetti più di correre, di mettermi i tacchi, di ballare. Comunque mi hai fatto ritrovare me stessa: non solo più sensibile ma anche più forte. Risposta dal corpo Cara Mary, è vero che faccio male, ma senza di me sarebbe peggio; poi mi dici che hai imparato tante cose nuove e belle grazie a me. Anche io ti vedo molto più forte di prima, ma i capricci li faccio perché anche tu sei esagerata. Io urlo di dolore e tu non mi ascolti, vai avanti senza fermarti. Non puoi correre? Adesso fai nuoto. Non riesci a metterti i tacchi? Tu stai meglio senza. Fai fatica a ballare? Anche con un piede rotto, quando si tratta di divertimento non riesce a fermarti nessuno, nemmeno io. L’unica cosa che possiamo fare è quella di andare avanti, sempre insieme e di accettarmi così come sono perché faccio parte di te. La resilienza La brutta notizia che rimango con il piede così bloccato tutta la vita per me è stato un vero shock, un grande cambiamento. Mi dava fastidio tutto, poi questo nervoso ti porta anche a litigare con gli altri. Si fatica anche ad accettare l’aiuto degli altri. È stato molto difficile. Nessuno può immaginare cosa hai tu dentro, cosa pensi, cosa provi, il male che hai, quindi a volte nemmeno provi a raccontare i tuoi sentimenti perché pensi che nessuno ti possa capire. Non avevo voglia di niente, non ero io quella persona che piangeva e stava tutto il giorno in casa da sola. Sono stata sempre una ragazza allega, attiva e forte. Non è bello farsi vedere debole. Per me sono stati i due mesi più brutti della mia vita. La prima persona che mi ha fatto andare avanti, è stato mio marito Cristian. Avevo paura di rovinare questa relazione. Ma anche la mia famiglia, che è stata sempre vicina a me. Un giorno mi sveglio subito con un pensiero nella testa “io non mi arrendo mai, devo andare avanti perché la vita comincia adesso”. Mi vesto, mi trucco e

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chiedo a Cristian di uscire. Quel giorno è stato un altro inizio, una voglia di vivere questa vita nel bene e nel male. Ho ritrovato me stessa: più sensibile, più nervosa, più allegra, ma anche molto più forte di prima. Il futuro: speranze (il messaggio nella bottiglia) La vita è difficile ma nello stesso tempo così bella che io preferisco viverla con allegria e approfittare di tutti i momenti belli, di superare quelli brutti e di sorridere sempre, anche quando sento male. Perché un sorriso non costa nulla, ma rende molto. Cosa è successo dopo Dopo tutti gli incontri del laboratorio, io mio sono sentita fortunata. Perché? Perché ho visto gente con una sofferenza più grande della mia, una sofferenza fisica ma anche una sofferenza dell’anima. Mi sono sentita più leggera vedendo che c’è gente che mi ascolta e davanti a loro ho raccontato la mia vita, forse in un modo che non lo farò mai con gli altri (tipo parenti). Ho imparato che anche se è difficile, si può andare avanti. Almeno si prova.

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MARIO Settantasette anni, mesotelioma pleurico riconosciuto il 3 maggio 2011. La malattia è stata la conseguenza dell’esposizione all’amianto a cui è stato sottoposto nella sua vita lavorativa nelle navi e in giro per il mondo a costruire centrali elettriche. È morto l’8 maggio 2012. È stato lo stimolo che ha portato alla realizzazione di questo progetto, ci incoraggiava continuamente; per questo abbiamo dedicato il libro a lui. Intervista Il ruolo del lavoro nella mia vita è stato determinante. La spina dorsale su cui ho impostato la vita. Sono partito che ero solo e gli ho dedicato ogni istante, cercando di farlo bene. Ho profuso tutto cosa potevo dare. Poi ho incontrato mia moglie e non è cambiato nulla. Lei mi ha sostenuto annullandosi. Non ho mai fatto un bilancio tra quanto ho dato al lavoro e quanto mi è stato reso dal lavoro, se no avrei fatto scelte diverse. Ho dato tutto senza riserve, era già un piacere solo lavorare; riconoscimenti… pochi e tardivi. Ero amareggiato perché mi rendevo conto che meritavo di più. Ricevevo incarichi. Venti anni in sala macchine delle navi e poi in centrali elettriche. Io andavo e stravolgevo tutto quello che c’era. Tentare soluzioni nuove: quella era la mia soddisfazione; ci pensavo giorno e notte, dedicando tutto me stesso. Gli altri facevano quello che avevano sempre fatto. Io no, stravolgevo e inventavo soluzioni. Nella gestione precedente c’erano stati scioperi, cottimisti, poca esperienza. Io ho visto cosa c’era e mi sono messo le mani in testa: mi venne un’idea e ne parlai con gli operai del cantiere: in sedici giorni avevamo montato tutto ciò che avevano fatto in un anno. Inventare procedure, macchinari nuovi questa era soddisfazione: lavorare dovevo lavorare, tanto valeva farlo creativamente. Difficile oggi capire il mondo lavorativo di allora. Non rimpiango niente, ma in coscienza mentre davo tanto, trascuravo però i miei diritti. Dicevo “Vai”... e andavo senza limiti: era una mia scelta. Mi ricordo che attraverso il raggio di sole nell’ambiente vedevo la polvere; quello era l’ambiente, dovevo stare più attento, ma non sapevo le conseguenze. C’era zero attenzione all’ambiente: si respirava ogni momento ingoiando tutto. Ho sempre nella mente il raggio di sole in cui si vedeva la polvere che luccicava, lo ricordo bene. Se fossi stato più attento… Dalla mia visione ho subito l’ambiente di lavoro (la polvere) ma non avevo coscienza delle conseguenze, non le immaginavo così definitive, se no ci sarebbe stata qualche reazione da parte mia.

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Il polverino veniva dall’amianto, dalla coibentazione. Quel poco spazio che c’è tra la copertura metallica e la frangia: da lì veniva fuori. Dopo un po’ di mesi l’amianto usciva, creava questo polverino, e la gente se lo mangiava. Adesso ci sono altri materiali in uso e vanno sperimentati. Mi ha dato da pensare quando alla Giornata dell’Anmil (Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi sul Lavoro) è stato detto che il mondo del lavoro è cambiato. La gestione sì, ma la polvere… continua a essere pericolosa, con altri materiali, ma si vedrà più avanti. L’ambiente di lavoro è ancora quello che ho lasciato. L’obiettivo è non far cadere l’attenzione sull’ambiente di lavoro del futuro, non per il passato. Io sono già passato. Rispetto a come ho vissuto la prevenzione e la sicurezza durante la mia vita lavorativa, io ero responsabile della sicurezza con procura come capo cantiere. Mi servivo dei mezzi che l’azienda dava ma c’era resistenza di chi doveva usarli. Io dovevo insistere anche se sapevo che le scarpe antinfortunistiche era meglio non metterle per i rischi che avevano. Anche le cinghie di sicurezza erano un pericolo, aggiungevano pericoli. Se passava il responsabile della sicurezza gli altri le mettevano e poi le toglievano. I mezzi erano quelli che erano. Siamo andati avanti e li abbiamo consumati. L’azienda F.G.M. ci ha fornito sempre protezioni: poi il modo in cui si realizzava la condivisione della sicurezza in cantiere, era fantasioso. C’era resistenza del personale che non è formato e rifiuta. Prima bisogna dare informazioni, farglielo entrare nei cromosomi, se no il responsabile della sicurezza deve bisticciare in continuazione. Non so se ancora oggi il personale venga istruito correttamente: sarebbe più semplice ed efficace. Se vengono responsabilizzati allora le cose cambiano. L’ho capito dalla vita: se l’uomo viene educato ad assumersi le sue responsabilità poi deve continuare a essere responsabile delle sue azioni anche in cantiere ed essere responsabile anche delle situazione di pericolo che crea. Bisogna impedire che si creino le situazioni di pericolo. L’ho vissuta da capo cantiere, ma anche quando non lo ero mi rendevo conto del pericolo. Quando mi occupavo dello smontaggio grandi motori, un pericolo era la presenza dell’olio: ho cercato di eliminare l’olio per non rendere l’ambiente pericoloso: è diventato un modo di fare per sempre. Questa consapevolezza l’ho acquisita forse da mio padre. A chi non ce l’ha, bisogna insegnarla. Quando l’uomo ha vissuto e imparato va in pensione e si siede su una panchina, è a perdere. Invece bisogna chiedere ai vecchi cosa hanno imparato; si ricicla l’immondizia, bisogna riciclare l’esperienza. Bisogna confessare la propria vita lavorativa nelle scuole. Se penso alla prevenzione oggi, così come allora, ritengo che prima di tutto sia importante la formazione preventiva per una maggiore responsabilizzazione.

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In secondo luogo sono importanti l’attenzione e concentrazione: sono la base; se uno non sa cosa sta facendo non deve lavorare. Non si può separare mente da azione. È la condizione per lavorare in sicurezza e non essere un pericolo per gli altri. Elemento da sottolineare: la prudenza viene di conseguenza. Il fattore della lingua è importante, l’ho vissuto; però penso anche che dove c’è rispetto, ci si capisce tra persone responsabili. Il discorso della fretta è legato al vincolo del tempo. Bisognerebbe organizzare il lavoro per andare più adagio possibile e raggiungere il risultato. Ad esempio l’azienda TTG accettava contratti capestro perché era la sopravvivenza dello stabilimento accettando le regole dure; una erano i tempi di consegna. L’azienda E. diceva centoventi giorni senza condizioni. I predecessori non ce la facevano. Mi hanno dato l’incarico e mi sono detto che se mi organizzavo per cento giorni, finivo prima. Ho stravolto tutto e ho creato un altro ordine: in fretta ma andando adagio, sembra assurdo ma funzionava. In due mesi e mezzo avevamo fatto tutto. Ma fu una lotta con gli edili dell’azienda E.: allora ho fatto la proposta. Questo dà l’idea di com’era il mio rapporto con i lavori. Il secondo impianto e i successivi si facevano come dicevo io. Non ho avuto riconoscimenti, gli altri hanno guadagnato. Ma ero soddisfatto che le cose venivano fatte come dicevo io. Una buona organizzazione evita la casualità, la paura, la stanchezza, l’abitudine. Importante anche il passaggio delle informazioni. Quando lavoravo negli Stati Uniti, all’inizio non conoscevo le leggi americane sulle costruzioni. Avevo la responsabilità di un cantiere, avevo organizzato tutto a modo mio, ma poi qualcuno era venuto a minacciarmi che così non andava bene. C’erano anche lì vincoli di tempi di consegna: gli operai volevano fare gli straordinari secondo un loro sistema che secondo me non mi garantiva da problemi e così ho fatto delle proposte di lavoro diverse comprendendo il lavoro al sabato in cambio della consegna entro una certa data. Il lavoro fu finito in tempo, gli operai erano contenti di qualche soldo in più e inoltre erano stimolati a risolvere loro stessi i problemi che si presentavano, per non rallentare i lavori e la consegna. Bisogna dare rispetto al lavoratore, dargli riconoscimenti e meriti per far nascere la voglia di dare il suo contributo, per il suo lavoro e non subirlo. Oggi è tutto mortificante. Non credo che chi ha meno esperienza ed ha paura sul lavoro, sia più cauto, di chi ha più esperienza ed è più sicuro. Forse in parte è vero, ma parlare di paura è sbagliato. La paura è su ciò che non posso controllare. Dove c’è partecipazione non c’è paura. Con la paura si vive con l’ansia che si trasmette: ne va della qualità della vita. Bisogna essere sempre vigili e senza paura. Coscienza e responsabilità non ammettono paura.

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Un buon capo deve anche saper valutare le risorse di un individuo in termini di stanchezza. E infine, massima attenzione alla prevenzione: io invocavo gli ispettori Inail, che gli altri temevano, per farmi dare una mano a cogliere ciò che non avevo visto, cosciente dei miei limiti. L’Inail però ha pochi mezzi per avere peso negli ambienti di lavoro. In una condizione diversa può pesare sulla prevenzione. Solo l’Inail può farla. Deve avere più gente che va a controllare. Comunque non ho mai dovuto fronteggiare infortuni gravi, solo due casi lievi: un chiodo che trapassò una scarpa antinfortunistica ed un urto di una testa contro una lamiera perché era stato tolto il casco, perché se no la testa non passava in un punto stretto. Ho avuto anche una esperienza personale: quando lavoravo nei sommergibili stavo facendo un controllo come tante altre volte, con tutta l’attenzione che mettevo sempre, in una zona molto stretta ma che mai avrei pensato potesse essere una trappola; rimasi per un po’ di tempo imprigionato con il piede tra due strutture. L’essere rimasto pizzicato là dentro mi ha cambiato la vita, ci ho messo anni a parlarne, sentivo come un’oppressione, una cosa terribile. Per cui quando sento degli amputati mi viene in mente quell’esperienza. A me è andata bene, ne sono uscito. Quando mi hanno comunicato la diagnosi della malattia, è stata una batosta. Una presa di coscienza di essere stato aggredito da una cosa che non si può combattere. Ho cercato di assorbire pensando a mia moglie, per limitarle i danni, più a lei che a me. Mia moglie sta tribolando molto anche se non lo confessa. Il trauma ha colpito più lei di me. Ci ha cambiato la vita. Non me lo viene a dire, ma ci si rende conto di cosa passa nell’animo dell’altro. Sono lì che galleggio in questa situazione ma non ho perso la serenità altrimenti creerei confusione dentro di me. Sereno. Ineluttabile ma sereno. Comunque una bella esperienza. Tutto ciò che si è vissuto prima non serve a niente. Si è impreparati. Ecco perché è importante la prevenzione. Nel mio caso il peggioramento viene anche dalle scelte dei medici, dall’intervento di aprile scorso: la toracoscopia. Nell’un per mille dei casi non va bene, ma quell’un per mille dovrebbe evitare tutti gli altri novecentonovantanove interventi. Il danno alla qualità della vita è venuto dopo. Mi ha ridotto a una larva. Ero aggredito dal mesotelioma e sono stato finito dai medici: è un’operazione da non fare mai, anche se il mio è un caso unico, non si può, anche perché non è curativo del mesotelioma. Aggiungono danni a un caso serio già per conto suo. Oggi non riesco nemmeno più a chinarmi. Se mi manca qualcosa?

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Posso dire di aver avuto a sufficienza di tutto (sorride) però manca un finale diverso. Lavori tutta la vita, poi viene il momento di godersi, tirare i remi in barca e vivere in serenità. Io ho tirato e mi è venuto addosso tutto. Manca un finale sereno. Probabilmente sarebbe stato così se non mi avessero rovinato. Manca quella che doveva essere la mia aspettativa di vita rispetto a quello che devo fronteggiare. Il mio rammarico è dover abbandonare il finale diverso… Sognavo un finale vicino a un ruscelletto. Quando mi sono avvicinato alla pensione ho comprato un pezzettino di terra con una baracca. Ho comprato una fresa che non funzionava bene. Volevo fare l’ortolano per me. Mi è passata addosso, la volevo vendere. L’ho regalata. Però poi mi serviva e ne ho comprata un’altra a norma e ho visto la differenza: non si mette in moto senza varie attivazioni. Tutte le macchine dovrebbero essere costruite così: No Martini… No party! Ero preparato a quel finale da passare in quel posto. Oggi vedo che il finale è diverso. Se avrò l’opportunità racconterò a tutti tanto da stufarli della prevenzione. Per convivere con la malattia ci va coscienza. La mia è alterata. L’intervento ha cambiato le carte in tavola. Mi trovo in una posizione anomala rispetto a quello che doveva essere il decorso della malattia. Quando me l’hanno diagnosticata ero sereno. Sapevo che la malattia nei vecchietti procede lentamente. Se procedeva lentamente, con i controlli, va bene. Doveva continuare così. Con l’operazione mi hanno truffato. Se continuava come prima potevo programmare le giornate, oggi non riesco a programmare l’ora successiva. Immagino come poteva essere il finale, ma devo fronteggiare questo per colpa dei medici: se c’è il rischio di finire così non va fatto. Mi sento monco: non si può ridurre uno in questo stato. Adesso, per non essere preso dalla disperazione, se uno non ha dei buoni freni rischia di fare una brutta fine. Non è nemmeno una questione di coraggio ma di coscienza. Quando dico che il coraggio vale poco in una situazione come questa intendo che in situazioni come questa si deve affrontare la situazione a viso aperto, nel migliore dei modi. Questo è come l’ho vissuta io. Io la vedo così: cosa ci faccio con il coraggio? Contro cosa mi batto? La intendo come la coscienza di controllare la situazione. Se uno controlla, non è in balia della malattia, ma ci convivi. Questo è il punto di partenza, ho il controllo. Quando mi hanno fatto la diagnosi ho detto che bisognava controllare la situazione: se andavo nel pallone io, mia moglie come faceva? La sopravvivenza in questa situazione è data dalla coscienza, consapevolezza che le carte da giocare sono queste.

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È andata così. Non ho consigli da darvi ma vi sono grato se avete dei consigli per me su come affrontare le ore. Il vostro è un buon progetto. Il mio consiglio per la formazione di un gruppo è scegliere bene l’indirizzo verso cui mirare. Tutto è utile alla fine. Un indirizzo solo? Quale? Per il gruppo ci vorrà un conduttore che sappia dove portare, perché ognuno avrà la sua esperienza: la mia è andata così.

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MARIE JEANNE Sessantaquattro anni, è la moglie di Mario. Quando il marito è morto ha accettato di partecipare al laboratorio che stava nascendo proprio sotto la spinta dei suggerimenti e dell’energia portata dal marito nei suoi ultimi giorni di vita affinché questa iniziativa avesse un seguito. È attualmente in pensione dopo anni di lavoro presso l’Archivio di Stato e svolge attività di volontariato con bambini con disabilità. Spirale esistenziale: primo episodio Fulmine a ciel sereno. Mio marito Mario faceva piscina al Cto per la rieducazione delle ginocchia. Dopo aver finito il primo ciclo gli hanno proposto di farne degli altri. Tra la prima terapia e la seconda si è sentito dell’acqua nel polmone sinistro e ha avvisato il fisiatra e gli hanno subito fatto una ecografia, e un elettrocardiogramma, gli hanno prenotato una stanza e gli hanno fatto degli accertamenti. Dopo quindici giorni di ricovero gli hanno prenotato una visita all’ospedale San Luigi di Orbassano. Verdetto: mesotelioma pleurico bifasico. È stato sottoposto a drenaggio e talcaggio dicendoci che avrebbero migliorato la sua situazione invece così non è stato. Abbiamo chiesto quanto tempo gli rimaneva da vivere per potere vedere un po’ il futuro che gli rimaneva. La risposta: “cinque anni”; invece non è stato così. Abbiamo continuato a vivere serenamente affrontando giorno per giorno la vita. Visto che allora aveva 74 anni, sentendo cinque anni avevamo previsto di viverli più intensamente. Invece dopo i talcaggi sono arrivati i problemi: dolore lancinante, un ingrossamento sotto la tetta e altri. Ogni tre mesi si andava al controllo dicevano tutto bene. Dopo un anno siamo andati al pronto soccorso S. Luigi ed è iniziato il calvario. Trenta chili in meno, dolori intensi, ossigeno, da una stanza all’altra. Siamo andati all’ultima visita, mio marito ha chiesto la chemio e la dottoressa gli ha detto che non si sentiva di fargliela fare. Cuore troppo debole. Sono venuti a vederlo la Fondazione Faro (assistenza domiciliare ai malati oncologici). L’8 maggio è mancato. Non ho più voglia di parlarne, entro poco nel suo studio dove lo trovai a terra morto. Abbiamo vissuto dei giorni d’ansia, ma abbiamo continuato a vivere serenamente affrontando giorno per giorno il calvario che Dio ci ha mandato. Lui parlava del mio domani senza di lui e della sua fine. Si preoccupava sempre per me. Dormiva seduto da tre mesi sulla poltrona perché l’acqua nel polmone aveva iniziato anche nell’altro polmone e aveva paura di soffocare, tanto la sua fine era questa. Si era chiuso in se stesso. Non piangeva più, parlava poco, e non camminava più.

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Il lavoro Un mio successo. Lavoravo in Africa in una ditta “Import-Export” Acciaio. Ero segretaria con responsabilità e si lavorava bene. Niente mutua e non ci assentavamo tanto altrimenti ci mandavano via, quindi avevamo responsabilità. Nel 1971 maman ha voluto venire in Italia e siamo partiti. Il mio direttore mi ha fatto pervenire un attestato bollato dallo Stato per i servizi resi alla ditta. Il mio direttore si chiamava Ing. JD P. era della Polonia. Una brava persona. Una conferenza fatta con il mio direttore e un professore. Dopo la conferenza sulle Alpi ho avuto le congratulazioni dall’ambasciatrice francese in Italia. Un mio conflitto È una parola che mi rifiuto di sentire. Non la conosco. Un mio disagio Quando qualcosa sul lavoro non va, non dico alla mia collega che ha sbagliato, lascio perdere; non mi piace dire la mia. Vivere e lasciare vivere: può darsi che sia un errore. Arcipelago degli affetti: lettera alla persona Scrivere non è il mio forte, ma ci proverò. Viaggiando per il lavoro ho potuto conoscere delle brave persone. Una in particolare, si chiama Erica, età allora ottant’anni, adesso ne ha novantadue e li porta bene, la vado a trovare qualche volta. Si trova a Turbigo (Novara). È stato l’ultimo cantiere di mio marito. Avevamo affittato una casetta con giardino era la mia vicina di casa. Abbiamo legato subito. Mi ha insegnato tante cose, come ad esempio la coltivazione di fiori. Nei paesi piccoli si adopera la bici e il giovedì pomeriggio si andava al supermercato a fare spese. Lei usufruiva delle sconto pensionata e io andavo con lei e avevo lo sconto anche io, mi divertivo a comprare. Il lunedì mattina sempre la bici con il cestino davanti facevamo la spesa insieme, mi trovavo bene con lei anche con la diversità di età. Ci telefoniamo regolarmente, è piena di saggezza, ho imparato un po’ da lei anche. Bei ricordi.

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La resilienza Malattia CANCRO è una brutta bestia che ti succhia un po’ alla volta fino alla fine. Siamo andati sulla luna, computer ecc.. ma il cancro fino adesso l’ha vinta lui. Le uniche persone che hanno saputo del suo male e l’hanno aiutato erano quelle dell’Inail che lo sapevano. L’accompagnavo ma non rimanevo perché andavo al lavoro. La sera mi raccontava soddisfatto della sua giornata del venerdì. Ringrazio: Dr. M., S.P., A.C., V.G. Il futuro: speranze (il messaggio nella bottiglia) Una bottiglia al mare. Vorrei buttare più di una bottiglia al mare e mandare questo messaggio: pace per tutti. Stiamo vivendo un mondo di distruzione e paura del domani, e siamo nel 2012. Abbiamo fatto tanti passi da gigante, gli americani e i russi sono andati sulla luna: una volta era un sogno. Abbiamo una tecnologia avanzata, PC, telefonini, tv dove possiamo vedere e sentire tutto il mondo. Invece abbiamo un mondo di giovani senza futuro, guerre di religione… stiamo ritornando indietro. Quindi il mio messaggio è pace, pace e volersi bene. Cosa è successo dopo Sono stati utili questi incontri all’Inail. Credo per tutti. Parlare della malattia, di mio marito, per qualcuno parlare dell’incidente avuto sul lavoro, aiuta tanto il morale. Scambiarsi due parole di conforto aiuta a vedere diversamente la vita da affrontare, che è dura. È stato proficuo.

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La spirale esistenziale di Marie Jeanne

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L’arcipelago degli affetti di Marie Jeanne

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MAURIZIO Quarantatré anni, ha avuto l’infortunio il 31 luglio 2006 cadendo da tre metri di altezza mentre ripiegava un telone alla fine della giornata lavorativa e provocandosi la rottura dei talloni e danni alle gambe. Era un atleta agonista (disciplina sci). Ora continua a praticare sport, ha rilevato una vetreria e adesso svolge attività in proprio. Intervista Se penso al mio infortunio mi viene in mente una unica parola: SFIGA! Da scrivere grosso così! Non so come sia successo, si stava lavorando con tranquillità preparando le ultime cose per chiudere l’azienda, avevo già la testa in ferie, visto che mancavano due giorni alla chiusura estiva. Ero salito sul camion per raccogliere il telone, ma tutto senza fretta, con tutti i sistemi di sicurezza, c’era anche il titolare, ho fatto i movimenti di sempre: ad un certo punto sono scivolato e sono caduto da tre metri di altezza; non so come, non ci sono responsabilità, è stata pura sfortuna. Ho avuto solo la prontezza di cadere in piedi, frantumandomi i calcagni, ma non mi sono lesionato la schiena! Ripensandoci adesso mi è rimasto impresso il momento dell’impatto, il calore che ho sentito ai piedi, al coccige, il non capire cosa è successo, ho sentito un blocco, mi chiedevo “perché sono qua?”, e poi la sensazione che sei vivo. E poi la tua vita cambiata dall’oggi al domani: ricordo il ricovero, dal lunedì sono stato operato il venerdì, dopo aver passato tante visite a causa del trauma, dopo il primo giorno è stato un controllo continuo perché non sembrava vero che non avessi altre lesioni se non alle gambe. Poi sono stato dimesso con entrambe le gambe ingessate fino al ginocchio e quindi stavo sulla sedia a rotelle. Improvvisamente entri nel mondo dei disabili, che prima non vedevi perché parcheggiavi sulle strisce o sugli scivoli, e allora ti rendi conto di cosa significa non poter più fare niente. La prima settimana è stata tragica: c’è stata la presenza continua in casa di mia suocera che mi doveva controllare perché ero fuori di testa. Per l’unica volta che le ferie erano state programmate, niente, nessuno ha potuto farle, sono cambiati i programmi di tutti, questo mi dava una sensazione negativa. Dovevo aspettare mio suocero per la passeggiata, come i cagnolini. Poi è successo che io ho un carattere volitivo, mi faccio andare bene tutto. Ho reagito, un giorno ho segato il gesso sul ginocchio, ho comprato delle ginocchiere, le ho adattate al mio caso: ho messo la sedia sull’ascensore, ho sceso le scale da solo in ginocchio e così sono riuscito ad uscire, me ne andavo al mattino e tornavo alla sera. Andavo al parco della Pellerina a fare ginnastica, prendevo la metro e andavo in centro, muovendomi con la sedia a

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rotelle. Impari così le malizie di come muoverti e quando ero bloccato da chi aveva parcheggiato male chiamavo i vigili e mi divertivo…. Non mi sono fermato, mi sono fatto il mazzo per migliorare, passavo le giornate in piscina, a camminare nell’acqua; è stata la volontà ferrea per la riabilitazione. Così ho ripreso al novanta per cento la mia vita di prima. Faccio quello che facevo prima, è così non pensi ai limiti che comunque hai, ci penso quando attraverso la strada e mi rendo conto che la macchina arriva veloce e io non riesco ad arrivare dall’altra parte della strada. E poi rimane il dolore fisico, il danno fisico che comunque resta. Rispetto al tema della prevenzione penso che le iniziative di informazione e sensibilizzazione vanno bene ma la prevenzione va insegnata prima di tutto ai responsabili, i quali devono essere consapevoli dei rischi e fornire i mezzi per proteggere i lavoratori: a me è capitato di dovermi comprare scarpe e dispositivi vari. In merito ai fattori che possono incidere sul verificarsi di un infortunio. la paura gioca un ruolo fondamentale, perché i più inesperti, al primo confronto con il materiale che si trovano a movimentare (nello specifico il vetro) sono molto più attenti di chi ha più esperienza e ormai sottovaluta la pericolosità. Nel mio caso un fattore determinante è stato la “casualità”. Non la fretta, non nel mio infortunio, ma spesso ti impongono tempi molto ristretti. Anche la formazione può essere importante non tanto nel mio settore, ma per chi movimenta presse o macchine. L’attenzione e la concentrazione vengono di conseguenza, se non hai fretta. L’eccesso di sicurezza viene quando per esperienza si sottovaluta il lavoro. La mancanza di presenza a se stessi è legata all’attenzione e alla concentrazione: a volte il lavoro ti può aiutare a dimenticare i problemi familiari o extralavoro. Rispetto a quello che può essere d’aiuto per andare avanti dopo un infortunio, nel mio percorso di ripresa posso dire che l’Inail mi è stato vicino, ho fatto le visite, non ho forzato il rientro. In generale il rapporto è stato positivo, ho solo avuto uno scontro con una dottoressa che mi accusava di essere ancora sulla sedia a rotelle a febbraio: ho poi ripreso il lavoro a giugno!! Mi sono stati forniti i plantari, ho avuto un grande aiuto dall’assistente sociale ed ho fatto dei corsi di formazione molto utili. Dal punto di vista personale è importante anche la volontà, e quella dipende dal soggetto: io non voglio essere disabile, questo contribuisce a far superare il trauma, si cambia, la testa aiuta, ognuno raggiunge il proprio livello di superamento, alcuni si riprendono, altri meno, altri no. La rete familiare che hai intorno è molto importante. Comunque, oggi che sono io datore di lavoro fornisco tutti i sistemi di sicurezza e tutto è a norma, ho aperto l’azienda in sicurezza, ho chiamato i tecnici per

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fare tutto secondo le norme di sicurezza. Non si lavora con la fretta. Pochi appuntamenti con la possibilità di rimandare. Una buona prevenzione può ridurre gli incidenti. Mi stupisco che non ci siano aiuti per i disabili che gestiscono le aziende, gli studi di settore sono gli stessi degli altri.

Il primo ricordo Nasco a Torino il 29 gennaio 1969 all’ospedale Martini di via Tofane ma, chiaramente, non ricordo nulla, e anche la data della nascita la prendo per partito preso visto che me la sono trovata scritta sulla carta d’identità. Non so se sia il primo ricordo ma ricordo che, da piccolissimo, con un paio di pantaloncini azzurri, una camicetta a quadretti e quei cappellini con il pon-pon tipo Pierino ma sempre di colore azzurro, ero con mamma e papà allo zoo di Torino e in un attimo di distrazione dei miei genitori, mi sono infilato dentro la gabbia degli ippopotami. Io sono passato in un buco piccolo dove mio papà non passava e hanno chiamato il guardiano. Io ero dentro, ricordo la gente che guardava perché ero vicino allo stagno. Sono arrivato al limite mi sono seduto tolto le scarpine e con le calzine ancora nei piedi ho messo i piedi a bagno. Poi è arrivato il guardiano che mi ha portato fuori e ridato al mio caro papà (che purtroppo non c’è più da vent’anni). Non ricordo di averle prese ma ricordo il ghiacciolo (stick) al limone con il bastoncino di liquirizia passato in un momento. Spirale esistenziale: un episodio Uno dei momenti più significativi della mia spirale è stata la morte di mio padre avvenuta molto prematuramente sia per lui, appena cinquanta anni, che per me, venticinque anni. A parte la parentela che ci legava, noi eravamo anche molto complici e molto amici. Inoltre colleghi di lavoro, come apprendista nella sua vetreria. Dopo la sua morte mi sono trovato a dover gestire una azienda con diversi operai e una compagna da sopportare (chiaramente la sua) dopo diversi anni di battibecchi e litigi, ho deciso di vendere la mie quote e andare a fare l’operaio in una grande vetreria a Borgaro Torinese dove ci sono stato per undici anni. Il secondo periodo è la nascita di Silvia, mia figlia. Arriva dopo sette anni di matrimonio al primo tentativo. Dopo anni passati in giro tra sci e gite per l’Europa un pomeriggio uggiosissimo d’agosto tra una coccola e l’altra ci siamo guardati negli occhi e ci siamo detti “Facciamo un bimbo!”. FATTO!!! Il 18 maggio è arrivata e la vita comincia a cambiare. Poi il suo primo ricovero al terzo mese per un problema all’intestino risolto per il meglio dai dottori, ma che paura!

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Arcipelago degli affetti: lettera alla persona Tra tutti gli isolotti che ho costruito intorno a me vi parlerò dell’isola dell’infortunio. L’isola dell’infortunio emerge dalle profonde acque di Borgaro Torinese alla ore 17,55 del 31 luglio 2006, anno delle XX olimpiadi invernali di Torino 2006 e l’anno dell’Italia campione del mondo! Ma è stato anche l’anno della mia svolta. Io prendo il mio infortunio come un segno del destino. A parte tutto quello che un operaio possa passare tra ricovero, operazione e l’amore della propria famiglia, il suo problema più grande è “riuscirò a lavorare ancora quando tutto sarà finito?” E così è stato! Sono rientrato dopo un anno e mezzo presso la ditta in cui ero il tecnico più anziano e responsabile dell’operativo in magazzino e non contavo più un kazzo!! Ero la palla al piede del capo e di sua moglie. Non mi lasciavano lavorare con serenità: “Non guidare il camion”, “Non usare il carroponte”, “Non attaccare la montatrice”. “Cosa vengo a fare?” dissi gridando una mattina e lui mi rispose “Meno fai meglio è”. Me ne sono andato in ufficio ho detto che stavo male così mi sono messo in mutua per sei mesi. E così ho iniziato a girare vetrerie per chiedere se serviva un operaio e devo dire che le offerte non mancavano. In parecchi mi risposero che potevo entrare nei loro piani vista la mia giovane età e soprattutto la mia qualifica. La più alta in assoluto nel nostro campo. Vetraio tecnico specializzato delle industrie vetraie di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta! Ma l’offerta più interessante me la fece il Signor Riccardo, un anziano vetraio che mi conosceva da tanti anni. “Maurizio, piglia le chiavi della baracca e portala avanti tu!!” – “Io?! E con che soldi??” – “Non ti preoccupare un po’ alla volta si paga tutto anche il posto in paradiso”. E così feci, il 23 dicembre 2008 firmai dal notaio e la vetreria era tutta mia. Da quel giorno la mia vita è cambiata in tante cose ma quel 31 luglio 2006 mi ha cambiato la vita e non in peggio. Il lavoro Il primo successo 10 ottobre 1985 assunzione a tempi indeterminato presso una vetreria in Via Di Nanni a Torino. L’ultimo successo La firma del contratto per il cambio dei vetri dell’ultimo piano del grattacielo Lancia firmato a fine maggio.

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Il primo fallimento Non penso di avere dei fallimenti così importanti anche perché da un fallimento cerco di coglierne il vantaggio per un prossimo lavoro. Il primo conflitto Ho avuto un conflitto con mio papà per un lavoro mal eseguito. Ero andato via ma poi parlando abbiamo risolto tutto. L’ultimo conflitto Credo proprio con il mio ex datore di lavoro. Il primo disagio La mia conoscenza del lavoro mi consente di non trovarmi mai a disagio. Trovo sempre la scappatoia per risolvere il problema. Il primo desiderio Riuscire ad uscire indenne da questa crisi. L’ultimo desiderio Andare a prendere le misure per un lavoro a casa di Belen. Lettera al corpo Carissimi piedi, devo dire che con il senno di poi siete una delle parti più importanti del corpo. Mi sono rotto la testa, spalle, braccia sinistra e destra ma uno alla volta, menisco… ma tutte e due le gambe è davvero fastidioso. Già da piccolo vi ho messo alla prova con la bicicletta e poi con mazzate sulle gambe giocando a hockey sul prato e non con la mazza giusta ma con gli ombrelli del nonno! Poi il calcio, la pallacanestro e salti e balli e poi lo sci! Poi zitta zitta è arrivata la Mountain bike, che mi ha forse salvato la vita già perché io mi stavo allenando per la nove colli romagnoli quando ho avuto l’incidente. Mesi di allenamenti divisi tra palestra e bici per avere fiato ma soprattutto gamba. E gamba è stata perché se non avessi avuto tutta quella muscolatura non so davvero cosa avrei combinato. Poi dopo tutto quello che vi ho fatto passare tra operazioni e visite ho pensato bene di farla finita con le prodezze da fuori di

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testa così mi sono iscritto all’associazione “Sportdipiù” dove mi hanno accolto a braccia aperte (come dice R., chi le ha ancora) e mi hanno convinto a farci delle belle sciate e qualche garetta. Risultato 25 marzo 2011 rottura di tibia/perone/malleolo. Bravo. Scusatemi ancora. Ciao. Risposta dal corpo Carissimo Maurizio, siamo alle solite. Prima fai il danno e poi chiedi scusa! Lo sappiamo che tu sei una testa matta ma dato che ti conosciamo non diciamo nulla anche se a dirla tutta non è stata colpa tua. Con lo sci con tutti gli sport che facevi a volte eri un po’ spericolato ma il tuo infortunio è stato un fulmine a ciel sereno. Sappiamo che nel lavoro sei una persona attenta e competente e che quelle che ti è successo è stata una fatalità che poteva capitare a chiunque. Ora sta’ più attento e cerca di non spingerci più come prima anche se a volte non ti ricordi. Come per attraversare la strada. Guarda prima le distanze delle auto e non infilarti, tu non puoi più correre! La resilienza I fatti, le persone, gli eventi che mi hanno aiutato a superare il momento dell’infortunio sono stati tantissimi: le persone: mia moglie e mia figlia sono state le prime persone che mi hanno

aiutato a superare questo momento; poi i miei suoceri che mi hanno ospitato subito dopo l’uscita dall’ospedale, mia mamma che ha cercato di consolarmi dicendomi che a volte si chiudono delle porte e si aprono dei portoni i fatti: il fatto è che dal 31 luglio 2006 sono un disabile sul lavoro! Sì, è vero.

Ma ragazzi, c’è gente meno fortunata di me, che sul posto di lavoro ha perso la vita e quindi sono contento di essere solo un infortunato. Lo devo accettare e in questi anni il dolore delle mie gambe mi ha accompagnato senza mai abbandonarmi ed è diventato una parte di me gli eventi: uscito dall’ospedale Maria Vittoria dopo quindici giorni dal

ricovero mi portano a casa dei miei suoceri che abitano in un palazzo nuovo senza barriere per la mia carrozzina che mi avrebbe tenuto compagnia per circa un anno. I miei suoceri partono il giorno dopo per le vacanze estive e saranno in giro per l’Europa per circa quindici giorni e io, mia moglie e mia figlia ci trasferiamo da loro per tutto il tempo, visto che noi abitiamo in un appartamento al 3° piano con ascensore piccolo e la sedia a rotelle non entra. A parte i primi giorni di assestamento, inizio a muovermi con solo l’uso della braccia perché le gambe sono entrambe bloccate. Passiamo quei 15 giorni insieme, facciamo dei

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giri con la sedia sia il mattino che il pomeriggio e riceviamo anche delle visite la sera. Poi i miei suoceri tornano e noi dobbiamo ritornare a casa nostra. Finalmente a casa mia, anche se siamo un po’ più stretti, ti senti comunque meglio dentro le mura di casa tua. Al mattino rimango a casa mentre nel pomeriggio mio suocero mi porta giù di peso fin sotto; poi mia moglie portava la sedia ma io mi sentivo un peso per tutti: non potevo andare avanti così. Non era più una vita normale. Il tempo passava e si ricominciava la vita normale: mia moglie a lavorare e mia figlia a scuola. E io? Rimanevo a casa da solo; sentivo la radio e leggevo seduto sulla mia, oramai inseparabile, sedia a rotelle. Non ne potevo più. Dopo un mese ero fuori di testa. Cominciavo a dare i numeri e volevo solo che finisse tutto ma ero all’inizio. Una mattina è cambiato tutto! Ho aspettato che tutti uscissero di casa e poi mi sono messo in moto! Prima di tutto la DOCCIA. Ero stufo di lavarmi a pezzi seduto sulla sedia con spugne e asciugamani: volevo l’acqua addosso. Quindi sono andato in cucina e dal cassetto ho preso il grosso coltello con il seghetto, quello per il pane, e mi sono segato il gesso delle due gambe sotto il ginocchio. Sembrava strano ma era già tutto molto più facile, anche muovermi. Infatti mi sono fatto scivolare pian piano fino a terra, poi dopo un po’ di respiro mi sono trascinato fino in bagno, poi mi sono messo seduto nella doccia con le gambe fuori, un colpo di reni per sganciare il doccione, allungarsi a prendere il sapone e vaiiiiiii! Un’ora e mezza di doccia spettacolare. Da quel giorno il doccione doveva stare appoggiato a terra con il bagnoschiuma vicino. Intanto tra la segata di gesso e la doccia avevo fatto le 10.00 del mattino: era ora di uscire! Finalmente mi potevo muovere per casa a gattoni, come i bambini: mi mettevo a quattro zampe appoggiando le ginocchia. Avevo due sedie a rotelle, una per casa di quelle piccole che usano le persone anziane per le passeggiate. Io mi spingevo per casa tirandomi con delle spinte dalle maniglie dei mobili, gli stipiti delle porte, i mobili della cucina. La seconda per uscire era la classica sedia che ti puoi spingere dalle ruote, sedia che una volta chiusa poteva entrare nell’ascensore. Ma io non potevo entrarci quindi chiudo la porta di casa, infilo la sedia dentro l’ascensore, chiudo le porte e scendo le scale in ginocchio fino sotto. Tre piani sono duri da fare. Al 1° piano sono stanco morto e mi corico sul pianerottolo pensando di aver fatto la mia ennesima cazzata! Poi, dopo cinque minuti di riposo riparto e arrivo fino al piano terra dove richiamo l’ascensore. Ho vinto la prima partita contro la noia. Solo libero. Mi faccio un bel giro, mangio un panino in un bar di Via Cibrario per non dover fare subito il percorso inverso per tornare a casa, poi nel pomeriggio passo davanti ad un negozio di articoli sportivi e mi compro un paio di guanti da ciclista per spingermi e un paio di ginocchiere! Non entravano con il gesso, così una volta rientrato le ho tagliate e con del vecchio velcro ho fatto una chiusura nuova e da quel giorno è tutto cambiato. Restavo a casa solo se pioveva, per fortuna molto poco, e passavo le giornate fuori casa. La mattina facevo ginnastica in Corso Lecce, Corso Svizzera,

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su e giù con la sedia, in discesa e risalita, veloce e lenta, poi pranzo e doccia. Il pomeriggio andavo a prendere la metropolitana e andavo a farmi dei giri in centro, Via Roma, Via Po, Via Garibaldi. Se avevo voglia andavo al Museo del Cinema (gratis), al Museo dell’auto (gratis), tutto cosa potevo, lo facevo; sono anche andato a Palazzo Nuovo ad assistere a delle lezioni universitarie. Devo dire che ho trovato un mondo nuovo con la sedia; ho conosciuto grandi bastardi, ma anche tantissime persone che mi hanno aiutato a salire o scendere da ogni posto. La cosa più brutta: pestare una merda con la ruota della tua sedia, ma se questo porta fortuna…che sia! Ho bisogno giusto di un po’ di fortuna e allora W la merda sulla ruota! Dopo 11 mesi e mezzo mi sono alzato in piedi e per tutto questo tempo ho fatto questa vita, ma è stato un grande insegnamento e non dimenticherò mai cosa si prova viaggiando in quel modo. Dopo circa un anno di riabilitazione sono tornato al lavoro ma era tutto cambiato, così mi sono licenziato ed ho aperto la mia attività artigianale con mia moglie. Oggi sto bene, vivo sereno con mia moglie e mia figlia. Convivo con il dolore alle gambe, ma sto bene. L’infortunio mi ha sbattuto in faccia la porta da dove entravo tutti i giorni per lavorare, ma mi ha fatto capire l’importanza della vita e delle piccole cose; poi mi ha aperto il portone che apro tutti i giorni di oggi per andare a lavorare. Il futuro: speranze (il messaggio nella bottiglia) Oggi è il 6 luglio 2012 sono le ore 13,45 e sono salito con la mia bici in punta alla Guglia Rossa Sì, avete capito bene con la mia bici Mountain bike, chiaramente a spalle, ma quando usciamo assieme arriviamo al traguardo assieme, sudati marci, stanchi morti ma felici. Uscire in bici e arrivare ad un risultato così importante è bellissimo. Arrivi in punta ad una montagna con grande fatica su di te e suda la bici con il tuo sudore, la pelle brucia arsa dal sole, metti crema ogni momento ma lo strato di sudore misto crema fa lacrimare gli occhi. I piedi cuociono dentro le scarpette in pelle, il sedere ti fa male e la salita non finisce mai poi vedi un puntino colorato davanti a te, è un altro matto ciclista come te e allora ti carichi come una molla e tenti di raggiungerlo ma non ci riuscirai mai perché lui ti sente dietro e si è già caricato. Ti trovi solo in alto a 3210 metri di altezza, in punta al ghiacciaio del Omelie con due ali di neve ghiacciata alte tre metri per tutta la sua impetuosa lunghezza. Finalmente un po’ di fresco ma purtroppo c’è poco ossigeno. Arrivati in punta una sciacquata alla faccia per togliere la polvere e finalmente ti mangi una bella barretta energetica. Adesso metto questa mia lettera in una bottiglia di plastica e la butto nella Rho sperando che arrivi al mare e la possa leggere un turista che anche lui è sudato, pieno di crema, stramazzato in uno sdraio a prendere il sole; ma vuoi mettere il silenzio che c’è qui da me e soprattutto il fresco? Ciao, turista marinaio.

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Cosa è successo dopo Il dopo laboratorio direi che non c’è mai stato. Nel senso che non mi è mai pesato venire qui a raccontare quanto mi sia successo e condividere con un gruppo di amici tutte le nostre sfortune. Anzi, io e noi tutti speriamo che il lavoro che abbiamo fatto con voi in questi incontri possa essere d’aiuto per i nuovi infortunati dell’Inail, ma non tanto per prevenire, perché noi non possiamo fare più di tanto, ma per aiutarli ad uscire da quel tunnel buio in cui sono caduti. Noi siamo entrati in quel tunnel prima di loro e abbiamo già fatto il primo percorso al buio; poi in lontananza abbiamo visto il puntino della luce. Oggi qualcuno di noi la luce l’ha già trovata, altri la vedranno, ma il nostro gruppo deve aiutare quelli al buio a ritrovare la direzione per l’uscita. Spero che il gruppo d’incontro Inail di Torino possa aiutare tante persone del nostro paese anche se la mia testa vorrebbe non dover insegnare niente a nessuno perché non c’è più nessuno che si fa male lavorando. Impensabile nel nostro paese. Diamo un futuro migliore alle nuove generazioni come un posto di lavoro, ma anche sicuro. Questa è la prevenzione che dovremmo fare.

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La spirale esistenziale di Maurizio

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L’arcipelago degli affetti di Maurizio

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NORBERTO Quarant’anni, è nato in Cecoslovacchia ha avuto un infortunio il 17 ottobre 1997 cadendo da un tetto. La conseguenza è stata un politrauma e trauma cranico che hanno comportato un lungo periodo di riabilitazione. Negli anni successivi è comunque riuscito a reinserirsi nel mondo lavorativo svolgendo diversi lavori. Attualmente è disoccupato e in cerca di un nuovo impiego. Intervista Niente, non ricordo niente, ero in coma. Mi sono svegliato solo dopo due o tre settimane. L’infortunio è avvenuto dopo pranzo. Quando mi sono svegliato non sapevo cosa mi fosse successo. Mi faceva molto male il braccio; la testa non la sentivo. Non ho riconosciuto, al mio svegliarmi, mia madre e mia moglie. Pensate che quando il mio datore di lavoro è venuto a trovarmi, gli ho chiesto gli arretrati dal 1968! Facevo un sacco di sogni strani: giocavo a calcio con le foche e facevo la spia con Schwarzenegger. Mi hanno operato alla testa, poi al braccio e alle restanti parti. L’organismo era molto indebolito. Cadendo dall’alto ho battuto su di un balcone, mi sono attaccato alla ringhiera del balcone, ho sbattuto e sono rientrato nel balcone. Fossi caduto giù avrei proseguito il volo di nove metri. Sono stato in ospedale dal mese di ottobre a Natale e da Capodanno a marzo dell’anno dopo. Mi hanno lasciato uscire qualche giorno perché mia moglie è infermiera. Ho avuto ventuno interventi dal 1997 al 2004. Ho fatto un lungo percorso di riabilitazione. Mi hanno rioperato tante volte: alla fine entrare in sala operatoria non mi faceva più effetto. Gli ultimi interventi risalgono all’anno 2004, quindi dal 1997 al 2004… Comunque dell’infortunio non ricordo niente. Dicono che è un’autodifesa del cervello e che magari mi ricorderò tra diversi anni. Certo, se ci fosse stato il ponteggio… C’era solo su due lati. C’è stato un processo penale, non c’erano norme di sicurezza. Ognuno faceva attenzione. Avrò costruito trenta tetti. Uno si abitua a lavorare così e si sente molto sicuro. La persona che mi teneva mi ha mollato; era il cognato del datore di lavoro. Nei cantieri mancano i controlli; nel mio caso non c’erano i ponteggi su tutti i lati. Non ci sono mai controlli. In dieci anni ho visto passare solo un ispettore che cercava dei lavoratori in nero.

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Se tutto fosse come dice la legge un prodotto costerebbe molto di più. E non c’è formazione. Il mio datore di lavoro andava a fare i corsi, noi operai no. Sono andato avanti perché sono un carattere così: non rimango bloccato. Non è una questione di motivazione specifica. Ho un carattere forte. Ho fatto tanta cyclette ed esercizi. La mia motivazione era quella di recuperare il più possibile. E poi mia moglie è infermiera; sono potuto stare a casa perché c’era lei che lavorava. Ero in Italia dal 1992.

Il primo ricordo Alla scuola materna recitavo una poesia di incontro con un soldato, era primavera la finestra era aperta ed un passerotto è entrato attraversando la classe. Nel caos generale non sapevo se continuare a recitare o correre con gli altri bambini dietro all’uccello. Spirale esistenziale: primo episodio 1989. Quest’anno mi è veramente rimasto impresso nella mente dato che mi trovavo all’università e tutto quel casino per far cadere il comunismo iniziato dagli studenti. Facevamo sciopero a tempo indeterminato, si facevano manifestazioni per le strade ma, diversamente da oggi, non si rompevano le vetrine né si incendiavano le macchine o i bidoni dell’immondizia. Per protesta si cantava e si faceva rumore con le chiavi degli uffici del partito comunista. I poveri studenti della facoltà militare ce l’avevano con noi, perché non potevano uscire dai dormitori, né andare a casa né a fare la spesa. Quando noi uscivamo dai nostri dormitori ci buttavano dalle finestre di tutto: uova, pomodori, acqua. Comunque è andata bene, non è stato come il ‘68 ! Tutto tranquillo senza spari, il comunismo è caduto, ed io ? Eccomi qua in Italia, in un paese capitalista a fare l’invalido disoccupato.

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Spirale esistenziale: secondo episodio 2010. Quest’anno mi è rimasto nella mente per un semplice motivo: è nato mio figlio ed è cambiato tutto. Da allora in poi qualsiasi cosa faccia, la faccio per lui. È diventato il senso della mia vita e spero che rimarrà così. Arcipelago degli affetti: lettera alla persona La mia descrizione vuole raccontare la relazione più stretta: quella tra padre e figlio. Mio figlio non è una persona ma una personcina, perché ha solo due anni e tre mesi, comunque la relazione è ottima, bilaterale ma non democratica. Ottima perché c’è amore da parte di tutti e due, bilaterale perché si sente il riscontro delle azioni anche se da parte sua non riesce ad esprimerlo con le parole. Comunque a me basta un sorriso o uno sguardo. Perché non democratica? Perché io lo devo educare, quindi lo devo guidare e lui deve fare quello che gli dico io, anche se in tante situazioni cedo, d’altra parte sono papà. Per finire, posso dire che questa relazione è forse la più difficile perché c’è tanta responsabilità ma è anche quella che dà più soddisfazioni. Il lavoro Il primo successo Il mio primo successo lavorativo, si può dire, è stato quello di aver trovato lavoro, dato che non avevo nessuna esperienza lavorativa, non avevo fissa dimora e non conoscevo la lingua. Quindi è stato il mio primo e più grande successo. L’ultimo successo Devo dire che l’ultimo successo è durato circa quattro anni, per un semplice motivo. Ero responsabile del cantiere con tanti operai e tante ditte esterne con altrettanti fornitori. Mandare avanti un cantiere senza intoppi, pur risolvendo tanti problemi (ritardo nelle forniture, ditte esterne in ritardo, mutua improvvisa degli operai, ecc.) si può, secondo me, definire come un grande successo.

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Il primo desiderio Sarebbe quello di tornare sano, ma dal momento che sono disoccupato è uguale al desiderio di trovare un lavoro. Penso che chiunque abbia bisogno di lavorare sia d’accordo con me. Il primo conflitto Il mio primo conflitto lavorativo non è stato con una persona, ma con una realtà di vita lavorativa poiché non sapevo parlare italiano. Agli inizi è stato forse il più grande e il più lungo conflitto lavorativo. L’ultimo conflitto Dura da quando ho avuto l’infortunio per un semplice motivo: nessun datore di lavoro vede la tua invalidità e pretende che lavori come se fossi una persona sana. Questi due conflitti mi mettevano, come potete immaginare, abbastanza a disagio. Fallimento Non voglio vantarmi ma non vedo fallimenti, anche se in un anno e mezzo non ho ancora trovato lavoro, però non ho smesso di cercare. Quindi si può parlare di fallimento solo quando fallisce la persona, quando smette di risolvere problemi, quando si abbandona. Per fortuna non è il caso mio. Lettera al corpo Ciao parte rotta! Quale parte? Beh, è ovvio, la parte rotta del mio corpo! Eh già ho dimenticato siete stanchi. Allora lo dico una volta sola e vale per tutti: ginocchio, polsi, caviglia, gomito, spalla, testa, ecc. Basta piangere, fa male dire sempre sono giù. Ormai sono passati quindici anni e so benissimo che siete lì, ma bisogna rassegnarsi perché il vostro stato non migliorerà più e quindi basta piangere, tanto non serve a niente, non vi considero più. La vita va avanti anche se siete limitati. Ditemi una cosa che non ha limiti, la stupidità umana, ovviamente. Ma prima o poi anche l’uomo migliorerà e metterà la salute e la vita dei lavoratori in sicurezza. Speriamo che succeda presto. Ma fino ad ora?

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Risposta dal corpo Ciao Capo! Scriviamo questa come risposta alla vostra del 29 giugno 2012 e chiediamo: che cacchio vuoi da noi? Se ti vuoi lamentare, lamentati con il tuo datore di lavoro, con le leggi e i controlli insufficienti oppure con te stesso, mica è colpa nostra se il cantiere non era messo in sicurezza o che nell’arco di due mesi non è passato nemmeno un controllo, oppure potevi opporti tu stesso a lavorare in queste condizioni. Beh, d’accordo non volevi perdere il lavoro. Comunque non è colpa nostra se siamo messi in questo modo, poi piangendoti addosso non risolvi niente, devi rompere da un’altra parte, l’hai già fatto? Allora è arrivata l’ora di smettere, perché la vita va comunque avanti con o senza parti rotte. La resilienza Mi pare doveroso ringraziare alcune persone, per prima ovviamente mia moglie che, guarda caso, fa l’infermiera. È stata molto paziente nel restare al mio fianco dandomi tutto il sostegno e appoggio possibile in un periodo molto difficile. Con questo, però, non voglio togliere alcun merito a tutti i medici, fisioterapisti, dipendenti Inail o amici che si sono presi cura di me, in un modo o nell’altro. Un caloroso grazie a tutti e speriamo che non ci sia più nessun infortunio e nessuna crisi. Il futuro: speranze (il messaggio nella bottiglia) Chiunque abbia trovato questa bottiglia è fortunato, perché posso avvisarlo sul rischio che corre nel sottovalutare la sicurezza nel luogo di lavoro. Sia come datore di lavoro che come lavoratore! Parlo per esperienza, io ho rischiato la vita e adesso ho la salute rovinata per sempre e il mio datore di lavoro oltre a pagare ha dovuto affrontare una sentenza penale. Quindi attenzione, non sottovalutare la sicurezza e se c’è qualcosa che non va, cerchiamo di sistemarla. Cosa è successo dopo Veramente non ci ho mai pensato e ci sto pensando adesso. Secondo me è stata una cosa buona sia per noi partecipanti che per gli altri. Per me personalmente non è cambiato niente, però ho visto che questi incontri aiutano a dare confronto e sostegno psicologico a quelli che hanno bisogno nella loro

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situazione per vari motivi come infortunio ancora in corso, difficoltà di reinserimento, ricerca di lavoro o visione di un futuro nero. Per altri invece, quando uscirà il libro, potrebbe servire nello stesso modo per infortunati o pure come un preavviso per tutti quelli che lavorano. Quindi W il laboratorio!

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La spirale esistenziale di Norberto

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PIETRO Settantadue anni, padre di Francesca che all’età di trentaquattro ha avuto un infortunio, il 21 novembre 2007, mentre si recava a piedi al lavoro. È stata investita sulle strisce pedonali ed ha riportato un trauma cranico con politrauma. Francesca è totalmente dipendente dai genitori e loro, che sono anziani, sono preoccupati per il futuro della loro figlia. Intervista Io questi problemi li vedevo già prima. Quando lavoravo (ero un tramviere) trasportavo i disabili sul tram. Ho sempre cercato di favorire queste persone, aiutandoli nei loro problemi. Ho avuto un nipote disabile dalla nascita (era affetto da meningite), anche per questo ho già avuto esperienza con queste persone qua. Poi ho dovuto mollare per seguire mia figlia; avevo però già una certa sensibilità per queste problematiche. Questo mi è stato molto utile: avete visto cosa ho fatto per mia figlia e cosa continuiamo a fare. Questo infortunio è stato sul momento una catastrofe, dalla vita normale a sacrificata.

Mi telefonò mio cognato dove lavorava Francesca: come mai non era arrivata? Lei era sempre puntuale. Abbiamo pensato di andare a cercarla, a cento metri da casa c’era casino, abbiamo chiesto ai vigili. Mi hanno descritto e ho capito: era già ricoverata. I ragazzi dell’ambulanza hanno fermato una macchina, per i testimoni. In ospedale si è avvicinato l’investitore che diceva che non l’aveva vista. Mi hanno detto che era in coma. Ci siamo affidati al Signore per farla andare nel migliore dei modi. La sensazione che associo a quei momenti è una forte tristezza, una pentola di acqua calda addosso… “dove siamo?” C’è stato qualcosa dentro di noi, abbiamo pianto, abbiamo deciso di dare la vita a lei, di farla rivivere, questa figlia sfortunata. Lei dice “non mi importa che sono così, è importante che sono viva”. Noi siamo cattolici e praticanti, e anche il Signore ci ha aiutati a superare la cosa. I sacrifici si pagano e mia moglie l’ha pagata in salute: ha ceduto prima perché ha un legame più forte. Però abbiamo avuto il coraggio di affrontarla, anche con l’aiuto dell’Inail. L’ho fatto: sono fortunato che ho potuto aiutare mia figlia con l’aiuto dell’Inail che ringrazio perché mi ha aiutato a guardare in faccia la realtà. C’è stata l’esperienza del Mauriziano con il dott. M., che ha aiutato mia figlia a uscire

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dal coma. Ho trovato persone preparate che continuano a darmi una mano. Per quel dottore Francesca era come una figlia. Ancora oggi posso dire che i medici del Mauriziano mi hanno dato una mano al massimo. La strada è stata lunga ma è andata bene: sono passati quattro anni, è come un sogno, dalla morte alla vita, al seguito.

Non ci siamo sentiti lasciati soli. Abbiamo avuto fiducia nella sanità, in tutto. Abbiamo chiesto aiuto come si deve. Quando è stato il momento di chiedere degli ausili per Francesca, tutti hanno dato una mano. Vorrei ancora la logopedista fino a dicembre. Pare che li dimettano per i tagli finanziari. Cerchiamo di muoverci esternamente. Avendo la figlia che ha bisogno, che è uscita dal coma, mantenendo la logopedia ancora qualche mese si può fare qualcosa: ora va in mezzo alla strada? Cerchiamo di mantenere la struttura e non mettiamo le persone in mezzo alla strada!

Io ho mia figlia, ma ci sono anche gli altri. È difficile vedere quelle persone lì e non rifletterci sopra. Magari hanno anche più bisogno di lei.

Ci sono cose che fanno ancora male, ma stiamo cercando il modo di metterla sulla strada della salute. Comincia a interessarsi ai vestiti, alla tv, ai giornali. Fa progressi perché ci interessiamo noi. Cerco di stimolarla, le faccio salire le scale a piedi, le faccio fare ginnastica, apparecchiare la tavola, prendere le cose con due mani. Ora la porterò in piscina. In vacanza faceva due ore di mare e le piaceva.

Le sue amiche l’hanno seguita un po’, poi hanno avuto anche loro problemi. Vogliamo cercare di portarla con persone diverse per stimolarla, per esempio portarla dove lavorava (da mio cognato) e lasciarla lì un po’ di tempo. Sull’aspetto della prevenzione posso dire solo che è stata una cosa casuale. Si è fermata al bar con un amico. Poi attraversando su un passaggio pedonale è stata investita. Casuale che ha deciso di passare là. Forse la fretta, l’imprudenza dell’automobilista”.

Per andare avanti ci vuole molta fede, e altre cose come l’amore e l’affetto per questa ragazza che è l’unica figlia e dobbiamo darle coraggio e sicurezza. La speranza nostra è serenità e tranquillità per lei. La volontà dell’amore per tenere duro: la cosa più forte che ci mantiene in piedi per affrontare la situazione. Lei parla dell’incidente ma poco, si ricorda che attraversava. Si sente amata, ricorda la vita di prima ma non le interessa. Dice che l’importante è che sia viva e con noi. L’unico mio consiglio per voi è di proseguire così; fate un lavoro molto importante. Ho avuto a che fare con operatori che hanno lavorato con la coscienza e con il cuore, almeno il gruppo con cui ho avuto a che fare.

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Il primo ricordo Avevo tre anni, ero nel paese, giocavo in strada, eravamo in nove figli. Passa un carretto del fruttivendolo. Dal carretto cade un bastone, il gambo di un cavolo. Io lo metto in bocca. Passano sette/otto inglesi. Sono nato a venti metri dal porto. Mi hanno tolto il gambo del cavolo e mi hanno dato dei cioccolatini. Sono andato dai miei fratelli e da mia madre a dare questi cioccolatini. Mia madre era casalinga, mio padre vigile e noi fratelli sei femmine e tre maschi. All’età di cinque/sei anni eravamo a giocare, due carabinieri ci sono corsi dietro. Siamo stati sotto un canale per nasconderci e non siamo più usciti per due/tre ore. Ci siamo spaventati perché volevano portarci in caserma. Da allora porto rancore per le divise. Spirale esistenziale: primo episodio All’età di dodici anni seguivo la scuola e lavoravo. Facevo le corde per i frantoi dell’ulivo. Si facevano i dischi di corda per macinare le olive per fare l’olio. Io lavoravo anche di notte nel frantoio per guadagnare un po’ di soldi per la famiglia numerosa. Qualche volta quando avevo quindici lire andavo al cinema e mi compravo un panino con la mortadella. Mio padre era partito per la Spagna e se non lavoravo io non c’era da mangiare. Perciò la vita era piena di sacrifici, però era una gioia vivere, perché con poco ci si doveva divertire e stare bene in salute. I giorni passavano. Spirale esistenziale: secondo episodio Abitavo in un paese che si chiama Monopoli (BA): vivevo con i miei genitori con nove figli, sono il quarto dei figli. Un mattino, il 3 luglio 1946, alle cinque mi svegliai nel sonno. La mia casa era di due piani con due terrazze confinanti con l’atrio dei due lati delle due case a fianco. Dal terrazzo della mia casa, essendo il muretto basso ottanta centimetri, potevo percorrere, saltando il muretto, i due chilometri sulle terrazze intorno. Quel mattino mi capitò un episodio molto significativo e pauroso. Nella casa di fianco al portone dell’entrata, nell’androne del palazzo a fianco al nostro, c’era un’antica cisterna di acqua e una stalla dove mettevano i cavalli. Davanti alla stalla, prima di entrare, c’era un cancello di legno. Nella mia casa a metà piano c’era un’altra cisterna di acqua, da cui di notte si sentivano rumori e tutti in famiglia avevamo paura. Quel famoso 3 luglio, svegliandomi di colpo, senza avere il senso di dove andare, scesi le scale fino al

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portone di casa e vicino allo scalino vidi dei soldi in strada. Non c’era nessuno: cominciai a raccogliere i soldi lungo tutta la scia sulla strada: entrando nel balcone a fianco c’erano i soldi seminati fino alla cancellata della stalla. Quando arrivai nell’androne il portone di dietro si chiuse alle mie spalle. Nell’androne c’era una scala che portava direttamente al terrazzo della mia casa. Nel frattempo mi avvicinai alla cancellata di legno. Raccoglievo i soldi, il cancello sembrava aprirsi da solo ma non c’era nessuno. Dopo aver raccolto i soldi ebbi un po’ di spavento: corsi sulle scale e andai a casa mia con quei soldi. Questo continuo svegliarmi durò dal lunedì al sabato; tutte le mattine alle cinque scendevo le scale e raccoglievo i soldi, li nascondevo, li spendevo e nessuno sapeva niente. La sera con gli amici andavamo a giocare a nascondino entravamo nella stalla accendevo i cerini per vedere se c’era qualcosa senza dire nulla a nessuno. Però un venerdì sera entrai nella stalla, accesi un cerino e vidi che c’era un piccolo pulsantino della luce. Quel sabato mattina del 10 luglio la solita storia, cominciai a raccogliere i soldi, mentre stavo raccogliendo mi ricordai del pulsante della luce mentre il cancello stava aprendosi; cercai il pulsante della luce per accendere e mettendo la mano sul pulsante trovai una mano sotto la mia; mi prese il panico, scappai via sulla terrazza: incontrai in mezzo alla scala mia madre, mi vide spaventato e pauroso mi chiese cos’era successo; mi vide con i soldi in mano mi chiese dove li avevo presi. Io le raccontai l’episodio che mi era successo, le diedi i soldi e poi da quel giorno finì lì il risveglio, tutto tornò normale e non successe più niente. Spirale esistenziale: terzo episodio All’età di sedici anni subii un’operazione all’ernia, andò tutto bene. Dopo undici giorni partii per Roma per andare a lavorare come apprendista muratore. Poi per mia fortuna presi un lavoro a parte con un amico per sei mesi. Nel frattempo andai a Genova e mi imbarcai sulle navi da trasporto. La mia vita trascorreva lentamente lontano dai miei genitori: io avevo sempre il pensiero di guadagnare dei soldi per la famiglia e di essere felice; nel frattempo conobbi una ragazza e tornai al mio paese di origine che è Monopoli (BA). Arcipelago degli affetti: lettera alla persona (il pensiero di Francesca) Il mio pensiero del mattino quando mi sveglio è di andare in camera di papà e vedere di non essere da sola e quando vedo i miei sono molto felice che non sono sola o abbandonata. Anche se non riesco a esprimermi bene nel parlare e non muovo bene il braccio sono sicura che c’è qualcuno in casa che mi aiuta nel

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camminare, c’è il papà che mi guida e tutto procede bene perché ho sempre speranza di guarire e stare meglio. Lettera al corpo Cominciò la grande delusione della nostra vita quando al mattino, alle 8.21, arrivava una telefonata del datore di lavoro di Francesca: non era arrivata in ufficio. In quel momento io e mia moglie ci siamo precipitati subito alla ricerca di nostra figlia, sia il datore di lavoro che noi la cercavamo dappertutto. Mentre arrivavamo in via Bologna c’erano tutti i mezzi fermi, un’autoambulanza, vigili e polizia. Allora abbiamo chiesto se c’era stato un incidente, poi abbiamo chiesto se nell’incidente era coinvolta una ragazza bionda, i vigili risposero di sì; mentre io ero con l’autorità a dare i dati di Francesca, mia moglie è corsa all’ospedale per vederla: era al pronto soccorso in coma farmacologico e non ce l’hanno fatta vedere per tre/quattro ore finché non l’hanno portata in sala di rianimazione. Per circa quaranta giorni io e mia moglie andavamo tutti i giorni a vederla da dietro i vetri senza entrare, per stare vicino a lei, per cominciare a sussurrare le parole nell’orecchio per farla sentire che noi eravamo vicino a lei. Mentre si pregava che Francesca si svegliasse, dalla finestra vidi una cappella della Madonnina che io pregavo perché andasse tutto bene e che si riprendesse dal coma profondo. Tutti i pomeriggi, i dottori ci davano l’informazione di come andasse la salute di Francesca. Al trentesimo giorno la dottoressa P. ci informò che per respirare bene era necessario fare la tracheotomia; il giorno successivo ci informò che era andato tutto bene e che avevano fatto un piccolo buchino: dopo due giorni le misero una valvola per poter parlare e dire la prima volta papà e mamma; uscita dal coma rimase metà paralizzata, però io e la mamma eravamo contenti che si era svegliata, nel nostro cuore c’era una speranza immensa che Francesca ogni giorno migliorasse; sono stati giorni di sofferenza e di dispiacere, e finita la rianimazione all’ospedale S. Giovanni Bosco, veniva curata in neurologia. Durante gli undici mesi di letto e carrozzina, tutta l’equipe la curava con amore e cuore mentre proseguiva la riabilitazione: era paralizzata a metà, oltre alla lussazione della spalla. Le fisioterapista P. e D. riuscivano a farla reagire un po’, a camminare, a parlare e a far capire le cose. Per fortuna nostra abbiamo trovato persone per bene e disponibili a darci il coraggio di andare avanti: sia la psicologa e che l’assistente sociale ci hanno dato coraggio e pace e ci hanno indirizzati all’assistente sociale la signora C., la dott.ssa P. e la signora Q. e tutti i componenti dell’Inail. Per nostra fortuna ci hanno dato un grosso aiuto nelle pratiche; abbiamo avuto un aiuto morale, di affetto e di rispetto dall’Inail. In tutti i dottori sia del S. Giovanni Bosco che del Mauriziano abbiamo trovato una grande famiglia, tutti quanti ci hanno voluto bene e aiutato confortandoci, per avere la speranza e la forza di andare avanti

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nel nostro cammino, per avere la tranquillità di dimostrare l’affetto a nostra figlia. Al momento ha la mano che non funziona bene e fa fatica a camminare pur sotto il braccio di mamma e papà; ogni duecento metri che fa a piedi non ce la fa più e ha bisogno di sedersi, di fare una pausa prima di riprendere a camminare. Nel periodo di questi cinque anni e mezzo, mia moglie per il grande dispiacere della disgrazia di Francesca ha subito un’operazione di cinque bypass, che è andata bene. Anch’io per il dispiacere non sono più stato bene in salute. “In tutto questo la mamma e il papà fanno tanti sacrifici per me Francesca, per aiutarmi ad andare avanti nella mia vita; in tutto questo devo dire grazie a loro che mi aiutano in tutto. La loro sofferenza è immensa però anche la loro gioia e la soddisfazione di vedermi così come sono e del mio risultato di salute” (Francesca). Con questo la famiglia Mitrani e Francesca ringraziano tutte le assistenti sociali e le dottoresse del gruppo Inail e il direttore. Tutta l’equipe dei medici di S. Giovanni Bosco e del Mauriziano, fisioterapisti, logopedisti e i dottori della rianimazione sono stati fantastici, tutti gli infermieri, tutti gli inservienti. L’Asl che ci ha dato la sedia a rotelle e i mezzi per camminare. La famiglia Mitrani ringrazia tutti quelli che ci hanno aiutato ad andare avanti. Risposta dal corpo di Francesca Il mese di luglio prima di andare in ferie ho trascorso un mese di sofferenza di caldo e di aspettare che finito la terapia da un ospedale all’altro tra visite di psicologia, piscina e terapie fisiche: la sofferenza di sopportare il caldo e di avere sempre un pensiero fisso nella mente di trascorrere questi giorni per arrivare al giorno di partenza per le ferie e andare in Puglia al mare a Monopoli, con i paranti e amici felicemente. Il primo giorno di mare al mattino mamma e papà preparavano la colazione e si andava al mare; arrivavamo sulla spiaggia tutti e tre, prendevamo l’ombrellone ci mettevamo a riposare poi si entrava in acqua e si cominciava a nuotare. L’acqua è talmente vulcanica che ci sono le correnti di acqua fresca che uscendo da sotto gli scogli di acqua dolce mischiandosi con quella salata e con 40° di caldo esterno ci dava un enorme sollievo di benessere a tutto il corpo. L’acqua era talmente limpida color azzurro che ci permetteva di stare più a lungo nel mare, era molto piacevole fare il bagno in quella spiaggia particolare che tutti i turisti ci invidiano a noi monopolitani di avere una costa e un mare così bello e pulito. Tutti i giorni per un mese abbiamo trascorso i giorni al mare. Quando si tornava dal mare, la mamma e il papà facevano la spesa e facevano da mangiare. Dopo mangiato io andavo a riposare, verso le sedici la mamma preparava la merenda e si usciva a fare due passi nel centro storico; poi si

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faceva cena alle 7.30 e dopo arrivavano amici e parenti per trascorrere la serata felice insieme. La mia casa era di fronte al mare mentre si faceva conversazione si guardava il mare e si ascoltava la musica di una discoteca che avevamo di fronte. Al mare sono stati giorni felici anche se poi la vacanza è finita: dal trentun luglio al cinque settembre. Ho trascorso tutti i giorni felici che ci hanno fatto stare molto bene. Ringrazio il Signore che mi dà altri giorni così felici e bene di salute in un altro periodo. Ringrazio i miei di avermi dato la possibilità di trascorrere le ferie e la salute di stare bene. Tornando a Torino ho ripreso a fare le visite e terapie e ad andare in piscina. Spero che i miei genitori stiano bene per fare il possibile di farmi stare bene di salute. Francesca Mitrani Cosa è successo dopo Dopo i nostri incontri settimanali, personalmente ho coperto quel vuoto che avevo dentro. Ora sono più felice perché nei giorni passati degli incontri ho trovato amici e persone piacevoli con cui poter discutere e che potevano capire il senso della vita di fronte ai nostri problemi della vita famigliare. Perciò sono molto soddisfatto di questi incontri perché è stato molto positivo. Certo, finiti gli incontri spero possa rimanere qualcosa di importante per informare anche gli altri infortunati e un grande messaggio che possiamo dare agli altri. Sperando di rivivere il venerdì di incontro.

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La spirale esistenziale di Pietro

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L’arcipelago degli affetti di Pietro

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REFIT Sessantacinque anni, di nazionalità albanese, ha avuto un infortunio il 9 novembre 2005 cadendo da una scala e ferendosi all’apparato genitale. Vive con la famiglia a Torino. Ha partecipato al laboratorio scrivendo nella propria lingua madre e i testi sono stati tradotti dalla figlia. Intervista Per definire un infortunio, si possono usare molte parole. Dal mio punto di vista dipende molto dal tipo di ferita, gravità e danno subito e le conseguenze per la vita dell’infortunato. Quello che mi viene in mente nel mio caso è stato un forte shock fisico, emotivo, psicologico, il quale ha cambiato totalmente la mia vita e quella della mia famiglia. Per me questo infortunio è stato alquanto raro e grave e ti cambia il modo di vivere. Se richiamo la mia memoria, potrei dire che il mio infortunio è gravissimo quanto strano, per il modo in cui è successo, il danno e le conseguenze di cui soffro ogni giorno. Quello che ricordo sempre è la velocità con cui quella maledetta scala senza supporti antiscivolo si è aperta all’improvviso e mi sono trovato con le gambe aperte sulla traversa in mezzo, neanche fossi un acrobata di primo livello non sarei riuscito in una posizione del genere! Nonostante tutto sono venuto fuori da solo e non sentivo niente dalla vita in giù, la sensazione di voler urinare ma purtroppo ho visto gocce di sangue scorrere giù e tra me e me ho pensato “allora mi sono fatto troppo male” e gliel’ho detto anche al mio compagno di lavoro. Mai più avrei immaginato il vero danno: uretra spezzata in due! Mai sentito prima, mai letto una cosa del genere. Ricordo con grande rammarico il comportamento del mio allora datore di lavoro Sig. D., il quale quando lo hanno informato dell’accaduto è venuto a vedere e mi ha chiesto di andare al pronto soccorso con i mezzi pubblici, ma io ho insistito perché volevo essere accompagnato, e di conseguenza mi ha portato con la sua auto all’ospedale Mauriziano, raccomandando di non raccontare dell’infortunio sul lavoro ma dire ai medici che era successa a casa mia mentre facevo i lavori. La stessa cosa era stata chiesta ad altri albanesi che in quel momento lavoravano presso lo stesso cantiere. Il suo comportamento scorretto è continuato anche dopo avermi fatto l’unica visita dopo l’intervento urgente che ho subito. Lui ha visto che ero in condizioni critiche, ma da quel giorno non si è fatto più sentire e non rispondeva al telefono finché ci siamo trovati mesi dopo in tribunale.

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Mi ricordo quel giorno in ospedale, in pronto soccorso non lo hanno capito subito il problema e mi hanno fatto bere tanto, in un certo momento sono diventato una mongolfiera che poteva esplodere da un momento all’altro visto che non c’era possibilità che l’acqua venisse furori da qualche parte; sentivo le urla di mia moglie spaventata e l’allarme dei medici, che hanno improvvisato sala operatoria e lettino nell’ufficio più vicino e mi hanno piantato una siringa in pancia per fare fuoriuscire il liquido, il tutto senza nessun tipo di sedativo, ma mi hanno salvato la vita. Per questo non ringrazierò mai abbastanza tutto il team di urologia per il decisivo intervento di salvataggio di quel giorno, ma in particolare dell’intervento del giorno dopo durato sei ore e trenta minuti, con ben due iniezioni di anestesia, in modo che si potesse fare di tutto per recuperare l’uretra e cercare di riportarla in condizioni normali. Due settimane di calvario in ospedale, con infezione dei testicoli e le infermiere facevamo la battuta “Vediamo come stanno le melanzane a Porta Palazzo oggi” mentre mi medicavano. Talmente un caso raro in quanto spero irrepetibile, che il professore di urologia (Prof. D.) mi chiese il permesso di fotografare i testicoli in quanto avrebbe illustrato la lezione con gli studenti di medicina. Per sei mesi e una settimana (centottantasette giorni) dal 9 novembre 2005 al 16 maggio 2006, ho dovuto portare due cateteri per poter urinare, con tanto dolore, sofferenza fisica in primis, ma anche psicologica sia per me che per la mia famiglia (moglie e figlie). Per chiudere questo capitolo di dolore, due parole per il Prof. B. il quale con l’ultimo (il terzo per me) intervento difficile ricostruttivo fatto al San Raffaelle di Milano, come un artista di alta sartoria è riuscito a darmi la sicurezza, fiducia e riavere il mio orgoglio di uomo. Se devo pensare ad un parola, tra quelle che mi avete proposto, che mi faccia pensare alla prevenzione, dico che ognuna di quelle parole ha la sua importanza in tutte le circostanze e sono legate l’una all’altra, ma penso che “la mancanza di misure di sicurezza” sia la più importante e la prima nella lista. Certo, in ogni settore (trasporti, edilizia, sanità… ) ovunque c’é un regolamento tecnico da osservare e rispettare da ogni operatore, ma bisogna vedere quanto veramente nella quotidianità vengono rispettati. Prima di tutto l’ambiente di lavoro deve essere in regola con le normative e sicuro per i lavoratori, perché in assenza di sicurezza ci si perde anche la vita. Se la mancanza della sicurezza porta ad un infortunio sul posto di lavoro, vuol dire che porterà una sofferenza fisica ad emotiva della persona stessa e della sua famiglia, porterà ad una demotivazione per poter andare avanti in quanto i tempi di riabilitazione sono spesso e volentieri lunghissimi. Prima di tutto deve essere il datore di lavoro ad assumersi la responsabilità ad assicurare l’ambiente di lavoro per gli operatori e pretendere che vengano rispettare tutte le misure e regole di sicurezza per evitare gli incidenti.

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Nel mio caso se la scala che usavo in cantiere, avesse avuto i supporti in gomma antiscivolo, oppure ci fossero dei ponteggi previsti per i cantieri edili, non sarebbe successo l’incidente, ed oggi non sarei un invalido. Penso che per quanto riguarda la mancanza delle misure di sicurezza la legge deve essere più severa con le imprese, e altrettanto severa con gli operatori che non li rispettano negli ambienti di lavoro. Quando il mio datore di lavoro sig. D., è sparito e non si faceva trovare al telefono, il 22 dicembre 2005 mi sono rivolto all’Inail per denunciare l’infortunio e chiedere il loro aiuto nell’attraversare il brutto momento. Dal primo giorno ho trovato delle persone che mi hanno fatto cambiare idea sul prossimo, hanno preso al cuore subito la mia situazione e hanno fatto di tutto per tirarmi su il morale e fare in modo che avessi tutto l’aiuto previsto dalla legge. Sono stati tutti molto gentili e disponibili nel fornirmi le informazioni, spiegarmi le procedure con tanta pazienza e rispetto. Dalla prima persona a cui mi sono rivolto per informazioni, alla Sig.ra P. che capita la situazione si è messa a disposizione per aiutarmi e ha messo in moto tutto la pratica di sostegno. Il comportamento del personale che lavora all’Inail mi ha riempito di fiducia e speranze per il mio futuro, mi ha fatto sentire voluto bene e non una persona che lotta da solo; mi sono sentito in mani sicure e pieno di fiducia per ritornare alla mia vita normale di prima. Ed è stato così: uno dei signori ispettori mi ha accompagnato fino all’udienza con il datore di lavoro, tutti si sono dati da fare e mi hanno trattato come uno di loro, come uno di famiglia e non uno straniero. Credo di non esagerare quando penso che le persone che lavorano sull’Inail sono state scelte e preparate per dare il massimo supporto agli infortunati e le loro famiglie. Io e la mia famiglia siamo molto riconoscenti allo staff al completo. Non conoscendo i nomi di tutti, vorrei ringraziarli di cuore tramite la Sig.ra P. che mi ha seguito dal 22 dicembre 2005 ad oggi passo dopo passo, l’ispettore il quale ha seguito tutta la parte legale fino ad accompagnarmi al tribunale e la Sig.ra P. che è l’efficienza in persona per quanto riguarda la preparazione dei documenti: questo è Inail. Mi sono trovato in mezzo di questa grande famiglia la quale insieme a mia moglie e alle mie figlie mi hanno dato la forza di andare avanti, vedere il domani con occhi diversi e avere più fiducia in me stesso ma anche negli altri. Penso che sia molto importante aiutare le persone infortunate a ritrovare il lavoro e il loro posto in società, perché il lavoro è comunque la forza che ti manda avanti nella vita e ti dà la possibilità di viverla in pieno, ed è la risorsa economica più importante. Penso che si potrebbero organizzare molte attività con le persone che hanno subito un infortunio. Incontri in cui possono raccontare le loro storie, scambiare le esperienze. Per quelli che purtroppo non lavorano, si possono organizzare visite ai musei, frequentare centri culturali, gite diverse.

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Il primo ricordo Tornerei indietro di circa sessant’anni, quando avevo solo sei anni appena compiuti; nonostante ciò ricordo i miei famigliari, mia mamma, mio papà fratelli e sorelle, la nostra casa in campagna e gli animali domestici che avevamo. Spirale esistenziale: primo episodio Quello che non sono mai risuscito a dimenticare è quanto abbiamo patito per la fame, in quanto mancava proprio il pane. C’era stata una grande siccità negli anni cinquanta, la nostra famiglia si è nutrita solo di formaggio, il pane non si trovava ed eravamo tra i più fortunati, altre famiglie non avevano neanche quello ma si nutrivano di cicoria bollita che raccoglievano nei campi. Anche se le condizioni di vita non erano ottimali e c’era tanta povertà i genitori e in particolare mia mamma trovava comunque il tempo per raccontarci una favola prima di dormire e ci dava un po’ di speranze che il futuro sarebbe stato diverso. A quell’età io non conoscevo l’energia elettrica, mai visto una lampada elettrica, non c’era la strada asfaltata, non c’erano macchinari, i giochi che facevamo erano semplici, con bastoncini di legno facevamo la guerra oppure casette con le pietre, per i più fortunati c’era il pallone fatto di stracci. Fino al 1954 davo una mano alla mia famiglia nei lavori quotidiani e cercavo di essere utile per i miei genitori. Sono andato alle prima elementare nel 1954 che avevo sette anni, e purtroppo due anni dopo (1957) mio padre è mancato ed iniziato un periodo più duro per tutti noi, in particolare per mia mamma che ha cresciuto tutti noi da sola con mille sacrifici. Nonostante tutto ho finito le medie con ottimi risultati nel 1961. A settembre dello stesso anno iniziai l’istituto magistrale ad Elbasan, grazie anche ad una borsa di studio offertami dallo Stato. Il 3 luglio 1965 conseguii con successo il diploma di maturità, con il massimo dei voti, tanto che il diploma mi viene consegnato da allora il Ministro dell’Istruzione sig. T.D. A settembre 1965 iniziai a lavorare come insegnante presso la scuola media del mio villaggio di nascita. La passione e dedizione con cui svolgevo il mio lavoro portò presto i suoi frutti: a gennaio del 1968 mi nominarono preside della stessa scuola dove ho continuato a svolgere un ottimo lavoro e portare eccellenti risultati. L’11 maggio 1969 ci siamo sposati con mia moglie nonché mia collega insegnante presso la stessa scuola, cosa che ha fatto notizia in quanto per la prima volta nel mio villaggio ci sposavamo perché innamorati, due intellettuali, insegnanti.

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Neanche tanto tempo dopo, agosto 1969, ho dovuto partire per il servizio militare obbligatorio di 3 anni, anni difficili, pesanti ma anche di grande maturità. Il 31 dicembre 1971 nasce la nostra primogenita Valbona, facendoci vivere un momento di grande gioia e felicità come giovani genitori (mamma e papà) ma anche per le nostre famiglie, parenti e amici. In agosto del 1972, una volta finito il servizio militare, mi rinominano preside di una media di un altro villaggio, Gjorme e contemporaneamente frequentavo l’Università A.Xhuvani per corrispondenza, indirizzo lingua albanese e lettere contemporanee, e ad agosto 1978 mi laureai con ottimi risultati sopra la media. Maggio 1973: nasce la seconda figlia Alketa e poco più di un anno dopo nasce la terza figlia Blegina. Il 15 febbraio 1978 nasce finalmente il figlio maschio Armand, tanto atteso da tutti noi e che ha portato un momento di gioia indescrivibile per tutta la famiglia. Essendo un membro del partito comunista come più del 90 % degli albanesi di allora, il partito mi mandò a seguire un corso speciale di 6 mesi per studiare scienze militari e diventare un ufficiale dell’esercito popolare albanese, corso che grazie alla mia solita dedizione agli studi ho finito con il massimo dei voti, dopodiché al primo marzo del 1980 vengo trasferito presso un battaglione dell’esercito al ruolo del commissario politico ossia ufficiale con grado di capitano. Nel 1981 dopo una lunga malattia viene a mancare mia mamma, e solo 10 anni dopo stroncato da un infarto muore il mio fratello più piccolo all’età di soli 41 anni, lasciando un grande vuoto e tanta tristezza. Ho lavorato nell’esercito fino al 31 luglio 1992 ormai con gradi di ufficiale maggiore, quando con la nuova democrazia, il nuovo governo democratico lasciò a casa un grande numero di gente ex-comunisti. Come tanti uomini nella mia stessa situazione di quegli anni in Albania, nell’agosto del 1992 sono emigrato in Grecia fino ad Aprile 1997, dove ho fatto tutti i lavori che trovavo per ben cinque anni. Lavori difficili, pesanti, lontano dalla famiglia, l’unica nota positiva il rapporto quasi amichevole della gente del posto (i greci). Il 15 luglio del 1997 una tragedia senza paragoni cade sulla nostra famiglia; il figlio maschio Armand di solo 19 anni e cinque mesi, muore sul colpo in un incidente stradale che segna e cambia in modo definitivo la vita della nostra famiglia. Dopo la tragedia ci siamo trasferiti a Tirana, in quanto non riusciamo a vivere più allo stesso paese dove una volta la nostra famiglia era stata felice. Ho ripreso il lavoro presso il Ministero degli Interni in Albania (Tirana) nel Novembre del 1992, e solo un anno dopo ho chiesto di essere congedato.

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Spirale esistenziale: secondo episodio Aprile 1998, arriviamo in Italia con visto regolare rilasciato dall’Ambasciata Italiana, e ci siamo stabiliti a Torino dove tuttora viviamo e dove si trovano due delle nostre figlie: Valbona Elezi – laureata in biologia e chimica presso Uni Tirana, sposata con un cittadino italiano, lavora come sales office manager nella ditta M. ed oggi vive a Chivasso (TO); Alketa Elezi – laureata in matematica e fisica presso Uni Elbasan, sposata con un cittadino francese, hanno tre figli, ad oggi insegna matematica presso E. di Torino dove vive; la terza figlia Blegina Elezi – laureata in ingegneria metallurgica presso Uni Tirana, sposata con un cittadino tedesco, hanno un figlio, lavora come project managment presso A.G. e vive a Dusseldorf, Germania. Mia moglie Sadete Elezi ha conseguito il diploma presso la scuola magistrale ad Elbasan/Albania e ha lavorato per più di trent’anni come insegnante nelle scuole elementari, oramai in pensione in Albania e casalinga in Italia. Viviamo comunque in Italia da anni in regola, e con le carte di soggiorno rilasciato dallo stato italiano. Con l’occasione dei giochi olimpici invernali a Torino, trovai un lavoro come manovale nell’edilizia per la costruzione del villaggio olimpico a Torino. Purtroppo per mancanza delle norme di sicurezza in cantiere, il 5 novembre 2005 ho subito un incidente sul posto di lavoro, con gravi conseguenze per la mia integrità fisica e la salute. Ho subito tre interventi di ricostruzione dell’uretra (spezzata durante la caduta da una scala da muratore). Grazie alla bravura del chirurgo sto molto meglio, anche se con difficoltà deambulatorie, con la conseguenza di invalidità del 60%, percepisco una pensione di invalidità. In Italia facciamo una vita decorosa, tranquilla e rispettosa. L’unica cosa di cui non siamo assolutamente contenti e d’accordo è la giustizia italiana, il funzionamento e i tempi di giudizio, non per ultimo la mancanza di imparzialità dello stesso. Sono 15 anni che aspettiamo la chiusura del processo che ci ha visti coinvolti a seguito dell’incidente mortale di nostro figlio, e ci arriva una sentenza vergognosa e non umana a mio parere. Arcipelago degli affetti: lettera alla persona Le cose belle della vita Nella vita ci sono le cose belle e brutte che ci succedono e per me al primo posto è: la nascita della prima figlia Valbona è stata una gioia immensa, in quanto frutto del nostro amore tra marito e moglie, ci ha fatto sentire orgogliosi di diventare

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genitori e responsabilizzati ancora di più nella vita di coppia e della nuova famiglia che avevamo costruito insieme. Una gioia indescrivibile è stata la nascita del nostro figlio maschio nel mese di febbraio 1978, dopo tre figlie! Per noi albanesi è molto importante il figlio maschio in famiglia, colui che porterà avanti il nome della famiglia e si prenderà cura dei genitori anziani. La cosa più brutta della mia vita La cosa più brutta rimane la morte prematura, tragica di nostro figlio (il 15 luglio 1997) che noi come genitori ci ha distrutti moralmente nell’anima e spirito, ci ha distrutti psicologicamente. Da quel giorno la nostra vita è cambiata radicalmente, non sarà mai più completa. Ma la vita continua, bisogna trovare le forze ed energie per vincere sulla tristezza, il dolore e l’amarezza nel cuore e gioire per le cose belle che abbiamo ancora: le figlie e i nipoti che portano allegria in casa. La resilienza Ad aiutarmi ad andare avanti dopo l’infortunio sul lavoro sono state diverse persone e fattori: la mia famiglia che mi è stata vicina tutti i giorni e in tutto il percorso

medico seguito per la riabilitazione; le splendide persone che ho trovato nella “famiglia” Inail di Torino; i medici dell’spedale Mauriziano con la loro dedizione e cura; il mio carattere impulsivo e combattente che mi ha permesso di superare le

prove dure di questa vita.

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La spirale esistenziale di Refit

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SERGIU Trent’anni, di nazionalità moldava ha avuto un infortunio il 15 settembre 2005 a seguito del quale ha riportato lesioni agli arti inferiori. L’incidente è avvenuto mentre viaggiava con il datore di lavoro che conduceva il veicolo. In questo momento ha fatto rientro in Moldavia per motivi di famiglia. Intervista Non ci voglio pensare al mio infortunio. È brutto ricordarsi (perché mi ricordo tutto). Quando ho visto la gamba… È meglio non ricordare. È meglio che in quel momento uno sviene. Ho visto tutto. Sempre me lo ricordo. Anche di notte. Mi sveglio, allora mi alzo, fumo tre/quattro sigarette… Ti viene più in mente quando hai dei problemi. Quando va bene riesci a sfuggire dalle brutte cose. Ricordo quando il medico mi ha detto: “La tua situazione non va a migliorare ma a peggiorare”. Per lo stesso motivo non vado a lavorare: perché se devo peggiorare, tra quattro o cinque anni come faccio? Adesso ho un figlio. Ormai la vita è questa. Bisogna pensare solo a lui. Passo tutto il giorno con lui. Mia moglie va a lavorare e io sto con lui. Quando mia moglie lavora meno, usciamo insieme. Ormai la vita è per lui. Per me ormai… Se mi sono creato una famiglia è per loro, non per me. Anzi, mi hanno chiesto “Perché l’hai fatto?” (la famiglia, con i problemi che ci sono in Italia), ma io fin quando non sarò in regola non torno più in Moldavia. Anche un mio amico con amputazione è tornato in Moldavia e non riesce più a tornare indietro. Io non me lo faccio il passaporto falso. Io ho il bimbo. Io non rischio. La falsità io la odio. È meglio andare con la legge; essere sincero. Per andare a rubare è meglio che muoio di fame. Quando ho avuto l’infortunio non avevo la famiglia. Quando ho iniziato a lavorare ho avuto tante promesse dal mio capo e poi non è rimasto niente. Quando è avvenuto l’infortunio sono venute tutte le persone che conoscevo in ospedale e mi hanno convinto a fare la denuncia. Mi hanno detto: “Sergiu pensa alla tua salute, alla tua vita. Se tu non la farai la denuncia, tu non avrai mai un soldo e ti dovrai curare da solo”. Nel 2002, quando c’era la sanatoria, il capo non mi ha messo in regola e adesso era giusto che si prendeva le sue responsabilità. Io non volevo fare questo gesto. Mi hanno aiutato molte persone quando ero in ospedale. Anche persone che non conoscevo. Ho i parenti ma non si parlano. Ho avuto più a che fare con

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gente italiana. Il personale dell’ospedale mi ha molto aiutato. Avevo in casa una fidanzata che al momento dell’incidente se n’è andata. Al Cto mi salutano come “Sergiu”. Ho rispettato e mi piace essere rispettato. È stato brutto, pesante ma ho avuto molto aiuto da italiani. Aiuto non solo economico, ma anche morale e di assistenza. Dopo l’infortunio sono stato due giorni in ospedale a Bologna. Poi mi hanno detto che dovevo essere operato d’urgenza e io ho detto che volevo tornare a Torino perché avevo tutti lì. Mi hanno trasferito in elicottero. Sono stato al Cto dal settembre 2004 al febbraio 2005. Per tre mesi non ho potuto alzarmi dal letto. Non sono voluto rimanere all’ospedale Maggiore di Bologna ma tutti mi hanno detto che gli ospedali migliori sono a Bologna e Torino. Sull’aspetto della prevenzione posso dire che in generale sono una persona sicura. Quando sono sicuro, sono sicuro. Posso scommettere sulla mia sicurezza. Ma devo essere sicuro almeno al 98%. Per fare una cosa devo essere sicuro, se non sono sicuro non la faccio. Nel caso del mio infortunio c’era fretta. Poi c’era anche il fatto che il mio capo aveva saputo una notizia che lo preoccupava. Quel giorno era particolarmente esagitato. Io gli chiedevo: “D. stai bene? Ti vedo strano. Gli ho chiesto se voleva che guidassi io, anche se non ero in regola e non avevo la patente ma lui non ha voluto. Ha detto che lui era un professionista, che aveva le patenti e che non gli insegnavo io a guidare. Ho visto che c’era qualcosa che non andava. Gli ho detto: “Frena perché c’è una coda”. Ho ripetuto “Frena” tre volte e lui non rispondeva. Ho pensato: “Questo mi ammazza”. Poi lo schianto. C’era la fretta. C’era il pensiero. Io non avevo ancora fatto la denuncia e lui già veniva in ospedale a fare casino. Sono dovuti venire i carabinieri. Lo hanno buttato fuori due volte. Non volevo andare in questo viaggio, me lo sentivo che c’era qualcosa che non andava bene. Doveva arrivare mia sorella dalla Moldavia ed è stata bloccata in Germania. Aspettavo la telefonata e non arrivava. Non volevo partire. Per due giorni ho detto di no. Lui ha detto: “Se tu non vieni con me, tu non lavori più”. Ed è successo. E proprio lui diceva “Se tu sei stanco, se sei pensieroso, non fare i lavori pericolosi; piuttosto rimani a casa un giorno. Se sei con i pensieri dall’altra parte, vai dall’altra parte”. Comunque il mio incidente non era colpa mia perché se era colpa mia era un’altra cosa. Lui voleva dire che era colpa mia, ma non ha potuto. Tanti dicevano che voleva scaricare la colpa, ma sarebbe stata comunque colpa sua perché io non avevo la patente. Dopo l’infortunio ho sempre cercato di andare avanti. Successo è successo. Sono brutti ricordi. Ormai non posso tornare indietro. Bisogna andare avanti.

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RIFLESSIONI OPERATORI Alessia In occasione di alcune iniziative legate alla formazione e aggiornamento in ambito sociale avevo approfondito certi indirizzi di studio che sostengono il ruolo della comunicazione di tipo narrativo come strategia per favorire relazioni sociali di qualità. Avvicinarmi a questo tipo di approccio è stato naturale perché ho sempre pensato al servizio sociale come spazio di relazione, di ascolto e di parola. La narrazione è connaturata all’uomo ma nel tempo questa dimensione, specie in determinati contesti, è andata perdendosi. Eppure quando le persone trovano lo spazio per raccontare di sé e trovano un ascoltatore attento, entrano in questo spazio che, nell’esperienza che abbiamo realizzato, è uno spazio di sollievo e benessere. È uno spazio diverso da quello della domanda portata dalla persona e dell’analisi del bisogno effettuata dall’operatore; non si cercano soluzioni e il focus non è sulla prestazione da erogare in risposta allo specifico bisogno rilevato. Sono protagoniste le persone, le loro storie, le loro emozioni. Sono loro gli esperti di quanto è avvenuto e l’operatore è un ascoltatore partecipe di quanto loro vogliono condividere. Queste sensazioni erano evidenti nel corso del lavoro individuale con le persone attraverso le interviste e sono diventate ancor più forti quando la narrazione è stata portata all’interno del gruppo. Abbiamo visto che il gruppo diventava una cassa di risonanza di emozioni, uno strumento che permetteva ai partecipanti di rispecchiarsi nella storia degli altri, uno spazio di comprensione e solidarietà, uno strumento “auto curativo”. Quando si sono concluse le interviste, le stesse persone si sono lasciate coinvolgere in un lavoro di ideazione del percorso che sarebbe stato la prosecuzione di quella esperienza. Così è nata l’idea del laboratorio: un modo per dar valore a quelle storie preziose e uniche che ognuno di loro aveva narrato. Come operatore, partendo da questi principi e credendoci, non limitandomi alla progettazione dell’iniziativa, ma partecipandovi attivamente assieme alle persone che hanno aderito ed ai colleghi, è stata una esperienza preziosa. Coinvolgente e arricchente. Se fossi stata sola nel pensare e realizzare questo progetto, forse non avrei avuto l’opportunità di dedicargli il tempo, all’interno dell’orario di servizio, che invece ho avuto la possibilità di dedicare. Se non ci fossero stati altri colleghi, di aree diverse, che hanno creduto in questo approccio e nella possibilità di

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integrare l’esperienza con il loro specifico ambito operativo, non avrei avuto le energie per arrivare a questo immenso risultato. È stato bello avere la sensazione che un progetto di questo tipo non fosse un progetto dell’assistente sociale ma un progetto della Sede che ha creduto ed ha partecipato in ogni sua fase, ed è stato altrettanto bello pensare che è nato da una idea collettiva. È stato il frutto del fare insieme, il fare insieme degli operatori e dei partecipanti alle interviste ed al laboratorio. Roberto Dalla lettura di questa sezione si può constatare come le emozioni più profonde possano manifestarsi in forme così dirompenti ed inaspettate, come è avvenuto nel corso di questo laboratorio. Le persone che vi hanno partecipato sono riuscite a consolidare dei rapporti interpersonali da cui è stato possibile far emergere quanto accennato sopra. Tali rapporti, peraltro, possono fornire un notevole contributo alla creazione di un contesto improntato sulla partecipazione attiva dei vari componenti e permettere, inoltre, il raggiungimento di una visione più positiva della realtà circostante. Avere accanto persone care e famigliari, così come essere circondati da nuovi amici con cui poter condividere le proprie esperienze, rappresenta una forma di cura e di benessere che potrebbe essere considerata alternativa all’assunzione di farmaci. Serena Lavorando nell’area Lavoratori, l’area che nelle sedi Inail si occupa di infortuni e malattie professionali, ci confrontiamo quotidianamente al telefono o di persona con persone che vivono l’esperienza di questi eventi. Si entra in contatto con l’evento infortunio o malattia professionale e spesso con il carico emotivo che questo comporta. Questo carico alcune volte rende anche difficile un rapporto fluido con l’utenza. Spesso ho riflettuto che per noi operatori il rischio è che - ripentendosi ogni giorno gli eventi infortunistici e le relative pratiche - tutto ciò diventi routine; è importante invece tenere a mente il punto di vista della persona che subisce un infortunio: quello è il suo infortunio e il suo contatto con tutto quello che ciò comporta. Questa attenzione alla unicità della persona che si rivolge agli uffici e che nei casi più gravi vede stravolgere la sua vita mi ha messo in questi anni a contatto

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con il grande dolore e sofferenza che l’evento porta alle vite delle persone e delle loro famiglie e alla necessità di riorganizzare la propria vita. Più volte gli utenti hanno rimandato che il trovare nei nostri uffici dove si recavano per la loro pratica un’attenzione e un’accoglienza non cambiava quanto loro vivevano ma poteva facilitarli. È per tutti questi motivi che abbiamo sentito sempre più importante creare per le persone delle occasioni per incontrarsi tra loro e mettere insieme le loro esperienze di vita. Lavoriamo spesso noi operatori in gruppo e ogni giorno sento la ricchezza che questo comporta: ognuno porta il suo punto di vista e il suo contatto personale con la persona. Nell’incontro con l’altro si tratta di fare spazio in se stessi a quanto l’utente porta, ai suoi bisogni, alle sue richieste. Per fare questo spazio bisogna creare una “stanza” in cui si riesca ad accogliere l’altro per come lui è in quel momento della sua vita, mettendo da parte quello che noi vorremmo fosse o le risposte che vorremmo che desse in un tal momento. Il dare spazio con le interviste al racconto della loro personale storia e anche nel laboratorio di narrazione, l’aprire anche a ricordi la possibilità di “portare luce a stanze buie”, ha fornito alle persone un momento importante di spazio per se stessi insieme ad altre persone o famigliari che avevano vissuto eventi simili. Spesso i partecipanti hanno rimandato che riuscivano a ritrovare un momento per parlare di sé in modo libero. Da questo spazio ricreato per se stessi si è assistito in molti casi a un ritrovare se stessi e a un ricominciare. Rispondere alle domande dell’intervista, tornare con il ricordo, nel laboratorio, a momenti che precedono l’infortunio o la malattia, ha consentito anche un recupero di energie di vita che la persona aveva messo da parte stando sempre nell’evento infortunio. Ricordo ancora durante il laboratorio i visi delle persone quando tornavano al loro primo ricordo di vita: erano trasformati. La forza del gruppo, il sostegno che il gruppo fornisce soprattutto a chi riesce a portare se stesso in modo autentico è incredibile, va al di là di quello che ci si aspetta. Crea fiducia e possibilità nuove. La ricchezza di questo progetto sta proprio in queste possibilità nuove che le persone attivano e che anche noi operatori sentiamo essere una grande opportunità per rendere creativo il nostro lavoro quotidiano a contatto con le persone. Valeria Quando abbiamo iniziato, non avevo (e forse non avevamo) bene idea di dove volessimo arrivare con il progetto. Certo le sensazioni erano forti e nuove: dalle

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interviste veniva l’emozione delle storie ed un diverso rapporto con gli infortunati, cui guardare al di là del numero di pratica, dietro il quale spesso non si vedono le persone. Da qui l’arricchimento personale, ma anche uno stimolo per un diverso approccio al lavoro impiegatizio, troppo spesso freddo e asettico. Poi è venuto il laboratorio di narrazione autobiografica, di cui non avevo alcuna conoscenza: seguendo il loro percorso, non solo ho vissuto l’opportunità di riflettere sulle mie esperienze, ma ho visto con piacere come un gruppo di persone che non si conoscevano si confidavano e stimolavano come se fossero vecchi amici, come aspettavano quel venerdì con gioia, come trovavano un po’ più di serenità nelle due ore passate insieme. Nel frattempo si accumulava materiale e cominciava a prendere corpo l’idea di scrivere un libro, o meglio, di partecipare alla sua stesura, perché, di fatto, gli scrittori sono loro, i protagonisti delle storie. Si è già detto della finalità divulgativa nell’ambito della prevenzione. Aggiungo l’auspicio che la lettura delle nostre esperienze sia di stimolo ai colleghi del nostro Istituto ed agli operatori della pubblica amministrazione in generale, perché cresca la consapevolezza del nostro ruolo sociale e di un nuovo modo di svolgerlo. Non ho mai capito i ringraziamenti citati nei libri, fino ad ora, perché senza Alessia e Serena questo progetto non sarebbe nato né si sarebbe sviluppato in questo modo.

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INTRODUZIONE ALLE SALIENZE Lucia Portis Abbiamo provato a leggere i testi in modo trasversale per individuare quelle che vengono definite salienze o unità di significato, ossia quei passaggi che risultano essere più rilevati e ricorrenti. Questo tipo di analisi dei testi si situa all’interno delle metodologie di ricerca qualitative ed in particolar modo in quel settore che viene definito ricerca biografica o narrativa, nata in America negli anni Venti del secolo scorso e che oggi trova applicazione in diversi campi che vanno dall’Antropologia alla Pedagogia, dalla Sociologia alla Storia. Individuare le salienze è un processo induttivo costituito da diverse fasi: 1. La lettura dei testi e la scoperta delle unità di senso

Ogni operatore ha letto tutte le storie e ha individuato i temi salienti comuni. Scoprire le salienze significa evidenziare le unità di senso sottese ai contenuti dei testi, i testi infatti si possono leggere in filigrana come attribuzioni di significato date alle esperienze.

2. La denominazione delle salienze Dare un nome alle intuizioni significa creare categorie che vanno riverificate e comparate nuovamente rileggendo i testi e verificandone la congruenza, la rilevanza e la frequenza. Non bisogna infatti mai dare nulla per scontato, occorre provare a ribaltare il proprio punto di vista immaginandone uno opposto e lasciare spazio a unità di senso in contraddizione fra loro. Non si va infatti alla ricerca della conformità bensì della differenza e della molteplicità dei significati.

3. L’estrapolazione dei brani significativi. Ad ogni salienza sono stati associati brani significativi selezionati dalle storie.

4. Il commento delle salienze Ogni salienza è stata infine spiegata e commentata.

Il processo di ricomposizione dei testi, simile ad un lavoro di montaggi, evidenzia similitudini e differenze e aiuta a superare una lettura prettamente soggettiva. Infine l’analisi vuole essere una proposta di lettura da parte degli operatori e implica l’accettazione della parzialità dello sguardo dei proponenti escludendo a priori la pretesa di obiettività.

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Trauma e cambiamento. A tutti i testi sono comuni i molti punti in cui le persone si confrontano con l’evento traumatico dell’infortunio o il manifestarsi della malattia, evento improvviso e inatteso che va a cambiare in pochi attimi il corso della vita. Nell’intervista abbiamo inserito la prima domanda che rimanda all’evento dell’infortunio e della malattia. Nella lettura troverete la descrizione che ognuno fornisce nel ricordare l’evento che viene ricordato in se stesso e anche in tutto il cambiamento che porta con sé e in tutte le conseguenze. Vedrete che diversi sono i modi di raccontarsi e di raccontare i diversi eventi. Possiamo soffermarci un attimo su cosa è un trauma? La parola trauma deriva dal greco e significa ferita. Possiamo leggere due definizioni: “Improvvisamente nel corso della vita determinati eventi traumatici possono

stravolgere l’esistenza delle persone, influendo profondamente su come si sentono con se stesse e con gli altri nel loro ambiente e a volte possono modificare la loro visione del mondo. Le persone possono provare un’enorme confusione e spesso terrore per come si sentono e si comportano dopo un improvviso evento traumatico”.2

“Sebbene nel corso della vita si vivano molte situazioni stressanti, non sono tutte veri traumi. Di solito gli eventi traumatici avvengono all’improvviso e lasciano poco tempo per prepararsi o per pianificare una risposta. Per questo compromettono la nostra capacità di rispondere in modo adeguato. Un trauma è un qualsiasi evento stressante che, nell’esperienza di chi lo vive stravolge totalmente le normali risorse di fronteggiamento”.3

Il primo punto sta quindi nel fatto che si tratti di un evento non atteso che stravolge la vita e influisce sul proprio modo di vedere la realtà e il mondo fino a quel momento. Un altro punto sta nel fatto che il trauma nell’esperienza di molte persone costituisce una “barriera” che crea un prima e dopo l’evento, quello che si era e quello che si è diventati. Alcune persone riportano il pensiero che avevano del trauma prima che capitasse a loro: immaginavano che potesse riguardare altri e mai se stessi come una sorta di “esenzione”; l’esperienza invece ci mette in contatto con quello che è avvenuto e che pensavamo avvenisse solo lontano da noi. Unito al concetto di trauma è quello di cambiamento. Il trauma produce un prima e un poi. Il cambiamento, quello che si diventa dopo, una vita nuova e diversa da quella che precede.

2 Herbert C. – Didonna F. (2006), Capire e superare il trauma, Gardolo, Erickson, pag. 25 3 Herbert C. – Didonna F. (2006), Capire e superare il trauma, Gardolo, Erickson, pag. 27

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Spesso si osserva la fatica che questo cambiamento ha portato: il dolore fisico, il dolore emotivo, la perdita in alcuni casi del lavoro, i rapporti non sempre semplici con la rete famigliare e sociale, le difficoltà nell’accettare anche un cambiamento corporeo, le difficoltà economiche. Accanto a tutto ciò si osserva anche una crescita nella consapevolezza di sé, delle proprie forze e capacità; una ricchezza nei rapporti con le persone care diversa, il confronto con una situazione molto difficile porta ad apprezzare la semplicità, l’importanza dei rapporti umani, porta a creare delle priorità diverse rispetto a prima; una comprensione e un’attenzione diversa alla persona che attraversa momenti difficili e un’empatia diversa. Adrian L’infortunio per me è stato uno shock. In una parola posso dire scioccante. La cosa brutta è stata trovarsi in questa condizione. Quando ho avuto l’infortunio sono sempre stato cosciente. I primi tre mesi sono stato al Cto; un mese in rianimazione e due mesi in reparto. Poi sono passato al Crf dove sono stato da fine gennaio 2005 a febbraio 2006. Dovevi essere più forte (rivolto al midollo, ndr), così come sono stato forte io a reagire dopo la tua frattura, frattura che mi ha provocato non tanti problemi, ma di più. I primi mesi sono stati i più duri con il mio stato d’animo che era un insieme di sentimenti confusi: passavo dallo sconforto alla sfida, dalla gioia alla depressione, dalla voglia di andare avanti alla chiusura in me stesso. Tutto ha continuato a trascorrere come prima. Avevo già avuto anche prima delle esperienze di gruppo simili, ma questa è stata una delle poche dov’ero l’unico in carrozzina. A me non cambia nulla perché sono abituato, ma rimangono colpiti più loro che io. Aldo È un impatto sgradevole, quasi agghiacciante ed improvviso, sicuramente non voluto. Ogni incidente è un fatto a sé stante. Benché abbia avuto la percezione in quel momento di quello che mi stava accadendo è rimasta in me una gioia, una forza

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di riuscire a sopportare le conseguenze del danno che il collega mi aveva provocato in quanto sono sopravvissuto all’evento. In quei momenti, anche se ero conscio di vedere la fine, sono riuscito comunque a rialzarmi e confrontarmi con l’impatto, rivelatore della crudeltà del fatto. Sono riuscito ad esprimere alla persona che mi ha cagionato il danno, tutto il mio risentimento per ciò che mi era accaduto. Ricordo che durante le prime fasi ero proprio insopportabile e inavvicinabile. Anche perché non c’era nulla da fare per chi si sarebbe avvicinato. Con questo non è che disprezzavo chi mi stava vicino, ma non avevo la minima sensibilità proprio perché ero in un tunnel senza fine che solo il mio IO riusciva a capire. Un effetto incredibile ma vero!

Carissima gamba sinistra, ti dedico questa lettera perché, come cita un proverbio, si dice: "SEMPRE IN GAMBA". Ebbene sì: iniziò quando tu sei stata praticamente schiacciata, anzi distrutta completamente (tipo cannibalismo). Io allibito ti osservavo indifeso senza poterti proteggere, anche perché non riuscivo nemmeno ad alzarmi per incoraggiarti. Infatti tu eri già spezzata dal primo passaggio di ruota piena, io sentii il "CRACK!" Che dolore… ma tu indifferente. Poi arrivò il colpo di grazia: infatti il carrello che tu tanto apprezzavi ti svirgolò sopra e tu sempre in silenzio hai attutito. Il forte colpo perdendo tanto, tanto ma tanto ma veramente tanto sangue. Pensavi ”Chissà se mi salveranno”. Visto che ci trovavamo a Chivasso, sì, TU mi portasti all’ospedale di Chivasso, ma i medici vedendo l’accaduto mi diedero un calmante e mi riavvicinarono a te. Ed io mi sentii più protetto quando ti avvicinarono a me. Fallimento: essere entrato nella legge 68/2000, categorie protette. Da quel fatidico giorno del 29 luglio 2008, sono entrato nel tunnel più profondo ed immaginabile che io abbia mai conosciuto; tra l’essere amputato o continuare a fare il mio lavoro da sostenitore. Beatrice Un disastro: un incidente molto grave, ancora oggi non si vede futuro, il cervello è un’incognita. È stata una cosa inimmaginabile: già quando l’ho visto al Cto, ero persa, non sapevo cosa fare, una cosa talmente grossa, sembra di annegare. Quando mi hanno detto che mio marito era in coma: uno si sente perso, ti manca la terra da sotto i piedi. C’è l’incognito, poi quando si tratta del

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cervello è un grosso punto interrogativo, anche per i medici che tentano. Hanno asportato l’ematoma già avevano detto che toccavano delle cellule, una volta sveglio speri che parli, poi che si riprenda, è tutto uno sperare. A volte parla, adesso si ribella: la situazione è molto critica non si capisce cosa vuole. Non si capisce se capisce e fino a che punto. Da quando succede l’incidente c’è lo smarrimento. Dopo un anno e mezzo è ancora così. Cerchi di andare avanti per figli e nipoti ma se no verrebbe voglia di finirla lì.

Sono rimasta là ore senza sapere niente. Una cosa insormontabile. Dopo ore mi dicono che è in coma, non capisci cosa vuol dire, ti chiedi per quanto tempo e non ti sanno dire niente. Ore e ore lì: quando l’ho visto è stato terribile, il cervello che gonfiava, poteva morire da un momento all’altro. Non dormi perché ti aspetti sempre la chiamata. C’era l’ematoma che si ingrossava. Bisognava operare per asportarlo: dieci giorni al pronto soccorso attaccato alle macchine, non sai cosa fanno perché non capisci le spiegazioni. Poi in terapia intensiva, non apriva gli occhi. Aspetti i movimenti, aspetti le tappe perché si riprenda ma sono faticose, ti svuotano. Ricevevo tante telefonate che mi chiedevano come stava, e ricominciavo da capo ogni volta, devi essere forte. La telefonata della notizia dell’incidente: un crollo, volevo essere subito lì e vederlo, ma prima passano ore: e quindi ti fai tante domande prima e non hai la risposta. Dino

Io ho cominciato un anno e mezzo fa. Sentivo che qualcosa non andava ma non ci davo peso perché avevo la moglie con un tumore al seno e dovevo seguirla. Il penultimo giorno che la moglie ha finito, sono stato ricoverato in pronto soccorso al Mauriziano e mi hanno levato quattro litri d’acqua. Ora sono sempre là dentro.

Cambia tutto. Se ho qualcosa da fare non riesco, perché non ho la forza. Non riesco ad aiutare mia moglie e l’ho sempre fatto. La vita non è più quella di prima. Adesso mi sento una nullità. A volte vado in crisi con la moglie. Riesco solo a scaldare il letto e il divano. Manca un po’ tutto. Non è più la vita che facevo un anno e mezzo fa. Quello che ho di buono è che non ho dolori, non ho male.

Ci va molto coraggio. Guai se uno si lascia andare: è peggio. Ogni tanto vado in tilt con il cervello e mi sento peggio del giorno prima.

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Emilia È un terremoto, ti alzi la mattina e vedi un’onda che ti travolge, una cosa terribile. Dopo cinque anni sono un po’ più tranquilla. Fino a qualche tempo fa era un male, un bruciore, un dolore immenso che ti esce dentro. Sia per me che per i miei figli. Per quasi due anni non c’è stato collegamento tra noi, questo dolore non ci faceva parlare per chiarirci: venivano in mente cose brutte che non ci facevano trovare un collegamento tra noi. Quando mi hanno detto che dovevamo andare tutti là (dov’è avvenuto l’infortunio di mio marito), ho capito che lui non c’era più. Ho sentito uno spavento. Ci siamo incontrati a Parma con una mia cognata che mi ha detto la verità: a Lecce ci hanno portati subito alla camera mortuaria; dicono che dicevo a mio marito di alzarsi e andare a casa.

Da come stavamo bene mai avrei pensato che poteva capitare questa cosa: invece è capitato”. Francesco Come definirei il mio infortunio? Difficile dirlo, è passato tanto tempo, trentacinque anni; è qualcosa di tragico, incomprensibile. Non avevo mai pensato che si potesse finire in carrozzina per un trauma, pensavo che si potesse solo nascere così. La tua vita cambia, un cambiamento globale, del tuo sistema di vita. Oggi faccio fatica a ricordare i miei diciassette anni di prima dell’incidente. È stato un flash con cui ho perso il passato. Lo vivo e devo viverlo con il presente.

L’infortunio è avvenuto il giorno dopo che ho compiuto diciassette anni, quindi ancora oggi faccio fatica a festeggiare il mio compleanno.

Il momento dell’infortunio lo ricordo come una scossa, un grosso trauma, i lunghi tempi di gestione.

Franco La prima cosa che mi viene in mente è una disgrazia che cambia totalmente la vita, ma la cosa che mi ha colpito di più è stata quella di constatare che la solidarietà fra le persone è ancora presente.

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Subito dopo l’incidente mi ha molto impressionato vedere un collega che, dal lato opposto dell’autostrada e dopo averla attraversata, mi è venuto incontro con degli estintori per spegnere l’incendio che si stava propagando tutto intorno, mentre uno dei medici, arrivato con l’elicottero, si è aggrappato alla cabina e, benché ferito dai tagli procurati dalle lamiere, ha continuato ad insistere fino a quando non è riuscito ad estrarmi dalle lamiere della cabina. Subito dopo sono svenuto e mi sono risvegliato tre giorni dopo in ospedale. Il giorno dell’incidente stavo rientrando a casa e per me è stato un impatto molto forte.

L’incidente… La fine… Cosa sono… Cosa vale… L’incidente è la fine di tutto ciò che mi caratterizzava, sono sempre stato ottimista, guardavo sempre il lato positivo delle cose, cercavo sempre di migliorare tutto, ora mi chiedo solo a cosa serve? Tutto è compromesso, la mia vita non sarà mai più come prima. COSA SONO? Non servo più a nulla, ho sempre bisogno di aiuto, mi sento inutile soprattutto per la mia famiglia, è drammatico tutto ciò. COSA VALE essermi battuto sempre per fare stare meglio i miei cari, avere sempre affermato che non tutto il male viene necessariamente per nuocere, ma a volte serve per insegnarci qualcosa di importante, NON è VERO! Mi chiedo cosa ho fatto per meritarmi questo, cosa mi è successo. È COME GUARDARE IN UN POZZO… E NON VEDERNE IL FONDO…

Sinceramente non riesco a vedere o a trovare una via d’uscita a questa disgrazia che sto vivendo. Non riesco a vedermi, a collocarmi, cosa sarò, cosa farò, tutto ciò che era la mia vita è svanito nel nulla. Tutto quello che sapevo fare, che facevo, non potrò più farlo; ho cinquantasei anni, sto in piedi 5 minuti e mi viene male alla schiena, mi siedo e dopo 10-15 minuti ho male al gluteo destro, l’unica mia posizione indolore è lo stare sdraiato sul fianco sinistro, non servo più a nulla e a nessuno.

Il fallimento per me è l’incidente, un buon autista non deve mai danneggiare il proprio mezzo, si potrà obbiettare che non è stata colpa mia, che può capitare, che facendo circa 150.000 chilometri all’anno un incidente si può mettere in preventivo, che è la prima volta che succede; nonostante tutto ciò, per me è un fallimento.

Se devo essere sincero, io non ho superato le problematiche legate all’infortunio. Spesso vedo tutto nero, ho il timore radicato in me di non riuscire a tornare utile per la mia famiglia. Ma è bastata la visita di controllo, di due giorni fa, per farmi ripiombare nel mio buco nero; mi hanno detto che devo mettere un tutore al ginocchio perché non regge, inoltre dovrò iniziare una nuova trafila alla chirurgia del ginocchio.

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Questa mia dolorosa storia non finisce mai, ecco perché affermo che non ho superato i problemi dell’infortunio”. Issa

Non lo considero un fatto della vita ma un incidente avvenuto in un momento inaspettato. L’incidente è una sospensione della tua vita sociale. La parola che sento è quella di sospensione di ciò che tu vivi. Viviamo di lavoro e l’infortunio è una sospensione dell’obiettivo del lavoro, non si sa quando uno recupererà. Cosa mi ha portato di positivo? Di negativo? Al di là di quello che è successo sei lì, sei sospeso. Ho vissuto la sospensione.

Dipende anche dalla situazione individuale: avere una famiglia aggrava, non te ne puoi occupare, dipendono da te. Emergono nei familiari le frustrazioni derivanti dal fatto che attendere la ripresa da parte della famiglia è lungo: la sospensione è anche per i familiari. Si interrompe, sospende il dialogo con la società. Quando avviene un infortunio non ci sei più per la moglie e per i figli. Sicuramente il grado della sospensione è diverso. Tu che li facevi vivere (riferito a moglie e figli) sei sospeso. Tu sei lì. Sono sospesi anche i familiari se dipendono da te. Sentono la speranza ma può anche essere che non essendo presente per loro non hai più utilità per loro. Vedo la storia dell’uomo: raccontare il passato nel presente pensando al futuro. Non puoi tornare indietro (il passato è sospeso); il tuo presente non continua; il tuo futuro non lo sai. Per certi infortuni però non vivi questa realtà. Viene fuori l’Orribilità delle cose. Ti rimane il ricordo del passato.

L’handicap, tornare come prima non è facile. Per me rimane il ricordo del passato, di non essere più come prima. Non dimenticherò mai la sirena dei pompieri nel soccorso: quello che ha detto “arrivo”, un giorno andrò a cercarlo. È andato al di là, mi ha tirato fuori. Sei vulnerabile, non sei niente. Mi hanno fatto addormentare. Accettazione della realtà: mi fa effetto la resistenza per la vita, la vulnerabilità mentre ti soccorrono, i flash dei giornalisti: l’accettazione di affrontare la realtà, non essere prigioniero della paura del fuoco. Ho ricordi legati ai flash.

Ogni volta che penso al mio infortunio, penso che mi ha cambiato tutta la vita dal momento che mi è successo. Ha cambiato non il modo di comportarmi, ma di fare le cose.

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Lo definisco come un cambiamento di vita. Ogni volta ripenso a com’era prima e com’è adesso. Luciano La paura. È rimasta internamente tanta paura. Degli ospedali: vedo l’ospedale e ripenso… Una fobia, degli ospedali e dei medici. Quando entro in un ospedale mi sembra che rientro per me. Nessuno può capire come me lo sento. Nella memoria mi è rimasto “il dopo”: quando sono stato all’ospedale e mi hanno operato; la riabilitazione; rendersi conto dell’handicap, di non poter… Io avevo l’hobby della subacquea; mi mancano tante piccolezze: non posso andare a pescare.

All’inizio si pensa sempre di recuperare e tornare come prima. Man mano che il tempo va avanti non è così.

Oggi ti sento un po’ stanca (rivolta alla gamba). Basta una passeggiata e subito vuoi riposare, per nuotare non se ne parla, sempre crampi se piove, se nevica o cambia il tempo ti lamenti con i tuoi piccoli ma grandi dolori fastidiosi.

Il 13 febbraio 2006 ho avuto un grave incidente per causa di un pirata della strada che invadeva la mia corsia urtandomi e facendomi cadere dalla moto. La mia vita è totalmente cambiata. Oltre al danno fisico (frattura piatto tibiale più diafisi tibiale) ho subito un danno psicologico, economico ed esistenziale. Al primo esame un dottore mi disse che non avrei più camminato, potete capire il mio stato d’animo e la mia disperazione, con tutti i dolori che avevo mi tolse anche la speranza. Dopo l’operazione mia moglie Patrizia, mi aiutava a muovere la gamba, ogni giorno che passava miglioravo e riprendevo fiducia nelle mie capacità. Iniziai al Cto piscina e attività motoria di riabilitazione, ma le cose non cambiavano molto anche perché non era il danno fisico ma il danno mentale che mi distruggeva, lo sconforto era talmente forte che mi ritrovavo a piangere sul divano. Marie Jeanne

Abbiamo chiesto quanto tempo gli rimaneva da vivere per potere vedere un po’ il futuro che gli rimaneva. La risposta “cinque anni” invece non è stato così. Abbiamo continuato a vivere serenamente affrontando giorno per giorno la vita. Visto che allora aveva settantaquattro anni sentendo cinque anni avevamo previsto di vivere più intensamente questi cinque anni.

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Marinela

Con una parola: un grande cambiamento. Cambiamento anche come sentimenti, emozioni.

Nessuno può immaginare cosa hai tu dentro, quindi a volte nemmeno provi a raccontare cosa è successo perché pensi che nessuno ti può capire.

Nella memoria mi è rimasto tutto. Mi sono vista il piede storto. Il male non lo sentivo però vedevo e c’era mio fratello che guidava come un pazzo per portarmi in ospedale.

Prima di tutto.. sono stati due mesi che sono entrata in depressione. La prima cosa che poi mi ha fatto andare avanti è stata mio marito. C’è stato il pensiero che potevo rovinare questa relazione. Poi io sono così, non mi arrendo mai e allora ho detto: “devo andare avanti; è quello che è”. Un mese, due mesi, pensi a tutte le cose che non hai mai pensato. Poi non mi piacevo com’ero: non volevo uscire perché gli altri vedevano che camminavo male. Poi non potevo più vestirmi come mi piaceva: amavo i tacchi alti. Non è bello farsi vedere debole.

Dopo un infortunio apprezzi molto più tutto.

Scendendo dalla macchina sono inciampata. Subito dopo ero per terra e mi sono vista il piede girato. Nessun dolore, solo un grande spavento. Mio fratello mi mette in macchina e corre come un pazzo verso l’ospedale Maria Vittoria. Nel frattempo arriva anche mio marito, spaventato anche lui. Dopo due ore arriva il medico che mi mette il piede al posto suo, un dolore immenso. Non ho mai sentito un dolore così forte prima. Poi mi dice che devo fare l’intervento. La paura in quel momento faceva da padrone, ma ho accettato in fretta questa condizione, pensando che dopo sarebbe tutto finito. Invece mi sbagliavo, appena cominciava.

I successivi due mesi sono stati i più brutti della mia vita. Non riuscivo ad arrendermi. Erano tutti vicini a me, specialmente mio marito, ma io non volevo nessuno. Piangevo in continuazione, non mangiavo, non parlavo con nessuno, non volevo uscire; sempre nervosa mi dava fastidio tutto, anche le coccole di mio marito. Mi chiedevo solo come faccio ad andare avanti così e se Cristian mi volesse ancora così. Non puoi spiegare agli altri quello che hai dentro, non si trovano mai le parole giuste. E poi, chi può capire?

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La brutta notizia che rimango con il piede così bloccato tutta la vita per me è stato un vero shock, un grande cambiamento. Mi dava fastidio tutto, poi questo nervoso ti porta anche a litigare con gli altri. Si fatica anche ad accettare l’aiuto degli altri. È stato molto difficile. Nessuno può immaginare cosa hai tu dentro, cosa pensi, cosa provi, il male che hai, quindi a volte nemmeno provi a raccontare i tuoi sentimenti perché pensi che nessuno ti possa capire. Non avevo voglia di niente, non ero io quella persona che piangeva e stava tutto il giorno in casa da sola. Sono stata sempre una ragazza allegra e attiva, forte. Non è bello farsi vedere debole. Mario Oggi non riesco nemmeno più a chinarmi.

Alla domanda “in cosa ci vuole più coraggio nel convivere con la malattia?” si può rispondere in diverse maniere. Ci va coscienza della malattia. La mia è alterata. L’intervento ha cambiato le carte in tavola. Mi trovo in una posizione anomala rispetto a quello che doveva essere il decorso della malattia. Quando me l’hanno diagnosticata ero sereno. Sapevo che la malattia nei vecchietti procede lentamente. Se procedeva lentamente, con i controlli, va bene. Doveva continuare così.

Certo, adesso per non essere preso dalla disperazione se uno non ha dei buoni freni rischia di fare una brutta fine. Più che coraggio ci vuole coscienza. Questo è come l’ho vissuta io. Io la vedo così: cosa ci faccio con il coraggio? Contro cosa mi batto? La intendo come la coscienza di controllare la situazione. Se uno controlla, non è in balia della malattia, ma ci convivi. Questo è il punto di partenza, ho il controllo. Quando mi hanno fatto la diagnosi ho detto che bisognava controllare la situazione: se andavo nel pallone io, mia moglie come faceva?

Poi, rivolgendosi alla gamba: ma quando fai troppo male non capisco più nulla. Non mi piace quando fai dei capricci e non mi lasci andare dove voglio io, fare quello che voglio e dormire tranquilla di notte… Non mi permetti più di correre, di mettermi i tacchi, di ballare…

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Maurizio Il momento dell’impatto, il calore che ho sentito ai piedi, al coccige, il non capire cosa è successo, ho sentito un blocco, mi chiedevo “Perché sono qua?”, e poi la sensazione che sei vivo. E poi la tua vita cambiata dall’oggi al domani: ricordo il ricovero, dal lunedì sono stato operato il venerdì, dopo aver passato tante visite a causa del trauma, dopo il primo giorno è stato un controllo continuo perché non sembrava vero che non avessi altre lesioni se non alle gambe. Poi sono stato dimesso con entrambe le gambe ingessate fino al ginocchio e quindi stavo sulla sedia a rotelle. Improvvisamente entri nel mondo dei disabili, che prima non vedevi perché parcheggiavi sulle strisce o sugli scivoli, e allora ti rendi conto di cosa significa non poter più fare niente.

Dovevo aspettare mio suocero per la passeggiata, come i cagnolini.

Tra tutti gli isolotti che ho costruito intorno a me vi parlerò dell’isola dell’infortunio. L’isola dell’infortunio emerge dalle profonde acque di Borgaro Torinese alla ore 17.55 del 31 luglio 2006 anno delle XX olimpiadi invernali di Torino 2006 e l’anno dell’Italia campione del mondo! Ma è stato anche l’anno della mia svolta. Io prendo il mio infortunio come un segno del destino. A parte tutto quello che un operaio possa passare tra ricovero, operazione e l’amore della propria famiglia, il suo problema più grande è “riuscirò a lavorare ancora quando tutto sarà finito?”.

Da risposta dalla parte che si è fatta male: Carissimo Maurizio, siamo alle solite. Prima fai il danno e poi chiedi scusa! Lo sappiamo che tu sei una testa matta ma dato che ti conosciamo non diciamo nulla anche se, a dirla tutta non è stata colpa tua. Con lo sci con tutti gli sport che facevi, a volte eri un po’ spericolato ma il tuo infortunio è stato un fulmine a ciel sereno. Sappiamo che nel lavoro sei una persona attenta e competente e che quello che ti è successo è stata una fatalità che poteva capitare a chiunque. Ora sta’ più attento e cerca di non spingerci più come prima anche se a volte non ti ricordi. Come per attraversare la strada. Guarda prima le distanze delle auto e non infilarti perché tu non puoi più correre! Il fatto è che dal 31 luglio 2006 sono un disabile sul lavoro! Sì, è vero. Ma ragazzi, c’è gente meno fortunata di me, che sul posto di lavoro ha perso la vita e quindi sono contento di essere solo un infortunato. Lo devo accettare e in questi anni il dolore delle mie gambe mi ha accompagnato senza mai abbandonarmi ed è diventato una parte di me.

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Norberto

Quando mi sono svegliato non sapevo cosa mi fosse successo. Mi faceva molto male il braccio, la testa non la sentivo. Non ho riconosciuto, al mio svegliarmi, mia madre e mia moglie.

Mi hanno operato alla testa, poi al braccio e alle restanti parti. L’organismo era molto indebolito.

Ho fatto un lungo percorso di riabilitazione. Mi hanno rioperato tante volte: alla fine entrare in sala operatoria non mi faceva più effetto. Da lettera alla parte che si è fatta male: Ciao parte rotta! Quale parte? Beh, è ovvio, parte rotta del mio corpo! Eh già ho dimenticato siete stanchi. Allora lo dico una volta sola e vale per tutti: ginocchio, polsi, caviglia, gomito, spalla, testa, ecc. Basta piangere, fa male dire sempre sono giù.

Ormai sono passati quindici anni e so benissimo che siete lì, ma bisogna rassegnarsi perché il vostro stato non migliorerà più e quindi basta piangere, tanto non serve a niente, non vi considero più. Patrizia Sono passati sei anni ma, tutto è rimasto scolpito nella mia mente come fosse oggi, la voce di mio marito al telefono che mi diceva “Pa, è successo un casino, mi sono rotto la gamba”. Poi, il silenzio, il dolore era così forte che non aveva più la forza di parlare. La mia disperazione, la corsa in ospedale, l’interminabile intervento, otto ore sotto i ferri e sentirsi dire dai medici “suo marito avrà grossi problemi di deambulazione”, poi con la morte nel cuore tornare da lui, sorridergli far finta di nulla e sussurrargli “Amore è andato tutto bene, ti riprenderai presto” mentre dentro di me volevo piangere ed urlare dalla disperazione, ma non potevo permettermelo, non davanti a lui: che moglie sarei stata? Gli avrei procurato solo altra sofferenza e non avrebbe avuto la forza di andare avanti come poi è successo.

È un danno che ha cambiato la nostra vita. Non dico economicamente, io il denaro lo metto sempre dopo, ma fisicamente e psicologicamente. Anche se siamo molto forti ci sono dei momenti che entriamo in depressione. Difficilmente, per fortuna, entriamo in depressione contemporaneamente. Spesso piangevo senza farmi vedere, chiusa in bagno, per non farlo pesare a lui.

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L’infortunio è un danno che si ripercuote perché, per esempio, se deciderà di fare l’intervento, si ripresenterà tutto: l’ansia, l’angoscia.

Sei entrato nella nostra vita (rivolta all’infortunio) come un fulmine a ciel sereno, sconvolgendo le nostre abitudini quotidiane e portando dolore, sofferenza e disperazione. Pietro Questo infortunio è stato sul momento una catastrofe, dalla vita normale a sacrificata.

Forte tristezza, una pentola di acqua calda addosso… dove siamo? C’è stato qualcosa dentro di noi, abbiamo pianto, abbiamo deciso di dare la vita a lei, di farla rivivere, questa figlia sfortunata.

Nel momento io mia moglie ci siamo precipitati subito alla ricerca di nostra figlia, sia il datore di lavoro che noi la cercavamo dappertutto. Mentre arrivavamo in via Bologna c’erano tutti i mezzi fermi, un’autoambulanza, vigili e polizia. Allora abbiamo chiesto se c’era stato un incidente, poi abbiamo chiesto se nell’incidente era coinvolta una ragazza bionda, i vigili risposero di sì; mentre io il papà ero con l’autorità a dare i dati di mia figlia, mia moglie è corsa all’ospedale per vedere mia figlia che era al pronto soccorso in coma farmacologico e non ce l’hanno fatta vedere per tre/quattro ore finché non l’hanno portata in sala di rianimazione. Per circa quaranta giorni io e la mia signora andavamo tutti i giorni a vederla da dietro i vetri senza entrare, per stare vicino a lei, per cominciare a sussurrare le parole nell’orecchio per farla sentire che noi eravamo vicino a lei. Mentre si pregava che Francesca si svegliasse, dalla finestra vidi una cappella della Madonnina che pregavo perché andasse tutto bene e si riprendesse dal coma profondo. Tutti i pomeriggi, i dottori ci davano l’informazione di come andasse la salute di Francesca. Al trentesimo giorno la dottoressa P. ci informò che per respirare bene era necessario fare la tracheotomia. Il giorno successivo ci informò che era andato tutto bene e che avevano fatto un piccolo buchino: dopo due giorni le misero una valvola per poter parlare e dire la prima volta papà e mamma. Francesca, uscita dal coma, rimase metà paralizzata, però io e la mamma eravamo contenti che si era svegliata; nel nostro cuore c’era una speranza immensa che Francesca ogni giorno migliorasse; furono giorni di sofferenza e di dispiacere. Finita la rianimazione, sempre all’ospedale S. Giovanni Bosco, veniva curata in neurologia. Nei mesi successivi, all’ospedale

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Mauriziano, il dott. M. e tutta l’équipe accolsero Francesca per la riabilitazione con amore e cuore; era paralizzata a metà oltre a una lussazione alla spalla. Le fisioterapiste Paola e Daniela riuscivano a farla reagire un po’, a farla camminare, a parlare e a far capire le cose. Refit Purtroppo per mancanza delle norme di sicurezza in cantiere, il 5 novembre 2005 ho subito un incidente sul posto di lavoro, con gravi conseguenze per la mia integrità fisica e la salute. Ho subito tre interventi di ricostruzione dell’uretra (spezzata durante la caduta da una scala da muratore). Grazie alla bravura del chirurgo sto molto meglio, anche se con difficoltà ambulatorie, con la conseguenza di invalidità del 60%, percepisco una pensione di invalidità.

Quello che mi viene in mente nel mio caso è stato un forte shock fisico, emotivo, psicologico il quale ha cambiato totalmente la mia vita e quella della mia famiglia. Per me questo infortunio è stato alquanto raro e grave, e ti cambia il modo di vivere.

Se richiamo la mia memoria, potrei dire che il mio infortunio è gravissimo quanto strano, per il modo in cui è successo, il danno e le conseguenze di cui soffro ogni giorno. Quello che ricordo sempre è la velocità con cui quella maledetta scala senza supporti antiscivolo si è aperta all’improvviso e mi sono trovato con le gambe aperte sulla traversa in mezzo, neanche fossi un acrobata di primo livello non sarei riuscito in una posizione del genere! Nonostante tutto sono venuto fuori da solo e non sentivo niente dalla vita in giù, la sensazione di voler urinare ma purtroppo ho visto gocce di sangue scorrere giù e tra me e me ho pensato “allora mi sono fatto troppo male” e gliel’ho detto anche al mio compagno di lavoro. Mai più avrei immaginato il vero danno, uretra spezzata in due! Mai sentito prima, mai letto una cosa del genere.

Mi ricordo quel giorno in ospedale, in pronto soccorso non lo hanno capito subito il problema e mi hanno fatto bere tanto, in un certo momento sono diventato una mongolfiera che poteva esplodere da un momento all’altro visto che non c’era possibilità che l’acqua venisse fuori da qualche parte, sento le urla di mia moglie spaventata e l’allarme dei medici, che hanno improvvisato sala operatoria e lettino nell’ufficio più vicino e mi hanno piantato una siringa in pancia per fare fuoriuscire il liquido, il tutto senza nessun tipo di sedativo, ma mi hanno salvato la vita.

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Rita

La fine. Perché noi eravamo una famiglia molto unita: due figli, due nipotini. Al momento in cui è successa questa tragedia è cambiato tutto. Sì, è stata una tragedia. Non posso pensare al momento in cui mio figlio mi ha detto che era successo un incidente e il viaggio sino a Modena. Appena l’abbiamo visto, in rianimazione, mio figlio ha chiesto: “Ma mio papà uscirà di qua”?

Quando siamo entrati in ospedale pensavamo che morisse. Durante il viaggio c’erano tutti gli amici di mio figlio che chiamavano. Quel terribile incidente che ha sconvolto la famiglia. I primi giorni all’ospedale di Modena, entrare per alcuni minuti in rianimazione, chiedere qual era la situazione, i pianti che abbiamo passato io e mio figlio. Ancora oggi, ogni volta che penso a quei momenti piango, è uno schock, ancora oggi parlare di tutto ciò mi fa star male.

Facevamo Torino-Modena tutti i giorni per avere i due minuti di informazioni, finché non l’hanno trasferito nei reparti normali: allora potevamo stare con lui un’ora. Dopo una settimana, sotto la nostra responsabilità, l’abbiamo fatto trasferire a Torino, ed è cambiato tutto. Da un periodo che era nero per problemi miei di salute, ho cercato di dare il massimo e farmi forza. Ma ora che lui sta così male, anche io sto ricascando nei problemi precedenti, com’ero prima. Franco vede nero, vede brutto e non capisco perché. Mia figlia mi dice: “Mamma, vengo a trovarti”. Io le dico: “Facciamo un altro giorno che papà non sta bene”.

Dopo questo incidente la mia vita è cambiata, ho perso la fiducia in tutto, anche le cose che sembravano scontate non ci sono più, sinceramente vivo perché comunque ho ancora Franco i miei figli e soprattutto i miei nipotini: le mie gioie. Quando parlo con gli altri maschero la mia realtà della vita dicendo: tutto ok.

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Sergiu Ho visto che c’era qualcosa che non andava. Gli ho detto: “Frena perché c’è una coda”. Ho ripetuto “Frena” tre volte e lui non rispondeva. Ho pensato: “Questo mi ammazza”. Poi lo schianto. È meglio che in quel momento uno sviene. Ho visto tutto. Sempre me lo ricordo. Anche di notte. Perché se devo peggiorare, tra quattro o cinque anni come faccio? Sono stato al Cto dal settembre 2004 al febbraio 2005. Per tre mesi non ho potuto alzarmi dal letto.

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Le risorse. Mogli, mariti, amici, operatori dei servizi: questi e altri ancora sono i protagonisti del capitolo sulle risorse, ovvero le persone che sono state vicine, hanno incoraggiato, hanno motivato, hanno avuto pazienza, hanno accompagnato nel cambiamento. Spesso la presenza di queste figure viene raccontata come “quello che c’è stato di positivo”. In alcuni casi le persone ci dicono di aver scoperto legami, affetti e vicinanze che non avrebbero mai immaginato. Così come le relazioni più fragili, di fronte ad un evento tragico della vita di una persona, possono definitivamente perdersi, allo stesso tempo quelle con basi solide acquistano forza e colmano anche le distanze che a volte vengono a crearsi anche nei rapporti più stretti. In questi brani si parla quindi di questi compagni di viaggio, a volte silenziosi, altre volte capaci di ridere, di spronare, di essere presenti anche quando star vicino a una persona che sta male non è così facile. Una riflessione a parte merita il gruppo. Adrian Dopo l’incidente c’è stata una serie di persone che mi sono state d’aiuto nel mio percorso riabilitativo. Comincio dal mio ex titolare, una grande persona che mi è stato vicino dall’inizio alla fine del mio percorso. In un mese di rianimazione era venuto quasi tutte le sere ha trovarmi, mi prendeva la mano e pregava e dopo mi raccontava la sua giornata di lavoro e quella dei miei colleghi per distrarmi un po’. Dopo un mese di rianimazione mi hanno trasferito al settimo piano dove ho conosciuto un sacco di persone fantastiche, però con una sola si è creato un legame speciale, si chiama Stefania ed è un’infermiera. Con lei ho condiviso un sacco di emozioni, momenti di grande gioia e anche tanti momenti di grande tristezza, però lei riusciva sempre a tirarmi su il morale con la sua pazzia e con la sua simpatia, aveva sempre la risposta pronta a ogni mia domanda. Dopo due mesi al settimo piano al Cto era arrivato il momento tanto desiderato, sono stato trasferito al centro di riabilitazione Crf in collina. Arrivato in collina mi sono ritrovato in stanza con Marco il pilota e Alessandro il pazzo, due dei miei compagni d’avventura, dopo poco tempo si è unito al gruppo anche Frank il regista, Francesco lo sbirro (era un ex poliziotto) e Daniela: insieme a loro si è creato un gruppo chiamato da tutti “il clan dei bastardi” che tuttora continua a esistere.

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Con loro mi sono lasciato andare, e cosi dalle serate tristi passate a letto siamo passati alle serate con tante feste, con le uscite in birreria e tante ubriacature, è stata come una terapia di gruppo, non avevi neanche il tempo per pensare alle cose brutte. Ci sono state anche altre persone che mi sono state vicino come mia madre, gli amici di prima e tante persone meravigliose che ho incontrato strada facendo, come l’assistente sociale con la quale tuttora c’è un rapporto di amicizia, oppure la mia fisioterapista che ha faticato tanto con me per farmi raggiungere l’autonomia che desideravo più di ogni altra cosa al mondo, però per quanto riguarda la mia salute mentale penso che il gruppo sia stato fondamentale. Aldo

Fino a quando dopo le prime medicine vidi veramente la vera medicina che mi fece uscire da quel tunnel. Chi erano? Ebbene sì! Le persone veramente a me più care. Ma care care. I miei figli e il nipotino e poi non credendoci la grande prova di amore della mia dolce metà. Eh sì questi sono i momenti crudi e veri per la grande prova e così fu. Ogni tanto mi arrabbiavo, ma era scontato in quelle condizioni. Consolazione

I miei figli mi hanno dato la motivazione per superare questo momento ed andare avanti. Lo dico ancora adesso. Pensavo a loro, preparavo il pranzo, facevo i lettini. Avevano dieci-tredici-diciotto anni. È stata quella la mia forza, se non avessi avuto loro, guai! Dino

Ringrazio anche i dottori del Mauriziano; uno che mi segue è molto umano e questo aiuta: mi dice due paroline e mi tira su. L’umanità serve molto. Questo dovete dirlo anche ai bambini che partecipano ai vostri incontri (i bambini delle scuole in cui l’Inail tiene corsi per la diffusione della cultura delle sicurezza, ndr).

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Emilia Ho avuto sostegno dall’Inail: una vostra parola era una cosa grande, ha aperto il vuoto.

L’assistente sociale è un buon sostegno per le famiglie, non so per gli altri, ma per me siete stati un grande aiuto.

Avevo tanta fede che mi ha guidata per fare le cose giuste e per come farle. Francesco La famiglia è importante: lo è stata sia la mia che quella di mia moglie; se non hai punti di riferimento, rischi di fare scelte stupide che possono portare a gravi errori anche nei rapporti personali. Penso che la mia esperienza sia stata più forte di quella che si può vivere oggi, perché la tecnologia attuale è molto più avanzata e ti aiuta di più: noi ci impegnavamo, mettevamo più inventiva per cercare di avere più autonomia. Franco D’altro canto però, devo ammettere che oltre a Rita, che è da premio Nobel, per la costanza, per la pazienza, per la dedizione che ha avuto nei miei riguardi, ho trovato sulla lunga strada del mio infortunio molte persone che si sono rese disponibili, alcune materialmente, cosa non da poco, come i miei familiari, tutte le persone con le quali ho avuto contatti all’Inail e i vari dottori del Cto; altre moralmente come B. e la dottoressa M. (psichiatra). Nonostante ciò, a volte, mi sento solo con me stesso, a pensare ciò che sarò, ciò che farò. Comunque grazie a tutto ciò che mi ha supportato, come i vari consigli, molto utili, ricevuti dallo staff dell’Inail, da B. e dalla psichiatra, mi sento un po’ sollevato. Il lavoro di gruppo organizzato dall’Inail, per quanto mi riguarda è stato molto importante, tanto da proporre un seguito agli incontri. Devo ammettere che tutte le volte che ero col gruppo e con gli organizzatori di questo evento, mi sentivo bene, strano per il periodo nero che sto attraversando; sono addirittura arrivato al punto che non vedevo l’ora che arrivasse il giorno di tali incontri. Molto probabilmente perché, stando qui con persone come me, che hanno sofferto, che hanno partito, ti senti compreso. Quando parli di qualche problema, gli altri sanno rispondere in merito, perché sanno esattamente di cosa parli, e non solo gli infortunati, ma anche i responsabili dell’Inail.

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Spero sinceramente che si possa continuare, ma ancor di più, che coloro che oggi sono qua possano continuare a venire. Sarebbe molto importante, almeno per me. Rita, grande donna; lei, secondo me, è tutto ciò che un uomo può auspicare nella vita. Abbiamo tribolato parecchio, specialmente appena sposati, ma lei non si arrende mai è tosta, è la mia vera forza, è bello avere la certezza di sapere che hai lei a fianco che non molla mai. Poi ci siamo stabilizzati, sono nati i figli, andava tutto discretamente. Poi la nascita dei nipoti, periodo molto bello, un po’ ci hanno fatto rincoglionire, diventare nonno è un turbinio di sensazioni inenarrabili, bisogna provare! Sintetizzo molto, altrimenti sarebbe un poema. Ed ecco l’incidente, non parlo di me, ma solo di lei, eccezionale, non mi ha mollato un attimo, Modena, Cto di Torino, più di un mese di ospedale, lei sempre lì, a fianco al mio letto, incredibile. Le dicevo: “Ma vai un po’ a casa, hai i piedi e le caviglie gonfie, va’ riposati un po’!”. Niente da fare, sempre vicino a me! Non ci sono termini lusinghieri per descrivere questa donna, lei è la mia Rita. Invidiosi? Vi capisco… Luciano Un giorno mi capitò di vedere Patrizia che piangeva in silenzio, io pensai… ”Amore mio non ti ho mai visto piangere, giuro che da oggi farò tutto il possibile per tornare a essere quello che ero, le tue lacrime saranno il punto di partenza per la mia rinascita”. Da quel giorno cominciai a darmi da fare con la gamba, e con tutte le persone che mi stavano vicine (amici, parenti). Da burbero e scontroso che ero diventato, ritornai a essere allegro come prima. Però il rimanere chiusi in casa per lungo tempo mi stava opprimendo, ma a quel punto ho avuto un grande grandissimo aiuto dagli operatori dell’Inail che mi chiesero se volevo partecipare a lezioni di informatica. Io felicissimo accettai e ripresi a stare con le persone e a vivere.

Marie Jeanne Le uniche persone che hanno saputo del suo male sono le persone dell’Inail che erano informate. L’accompagnavo nella Sede Inail ma non rimanevo perché andavo al lavoro. La sera mi raccontava soddisfatto della sua giornata del venerdì.

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Marinela La prima persona che mi ha fatto andare avanti, è stato mio marito Cristian. Avevo paura di rovinare questa relazione. Ma anche la mia famiglia che è stata sempre vicina a me.

Dopo tutti gli incontri io mi sono sentita fortunata. Perché? Perché ho visto gente con una sofferenza più grande della mia, una sofferenza fisica ma anche una sofferenza dell’anima. Mi sono sentita più leggera vedendo che c’è gente che mi ascolta e davanti a loro ho raccontato la mia vita, forse in un modo che non lo farò mai con gli altri (tipo parenti). Ho imparato che anche se è difficile, si può andare avanti. Almeno si prova. Maurizio La rete familiare che hai intorno è molto importante. I fatti, le persone e gli eventi che mi hanno aiutato a superare il momento dell’infortunio sono stati tantissimi. Le persone: mia moglie e mia figlia sono state le prime persone che mi hanno aiutato a superare questo momento; poi i miei suoceri che mi hanno ospitato subito dopo l’uscita dall’ospedale, mia mamma che ha cercato di consolarmi dicendomi che a volte si chiudono delle porte e si aprono dei portoni. Norberto Mi pare doveroso ringraziare alcune persone, per prima, ovviamente mia moglie che, guarda caso, fa l’infermiera. È stata molto paziente nel restare al mio fianco dandomi tutto il sostegno e appoggio possibile in un periodo molto difficile. Con questo, però, non voglio togliere alcun merito a tutti i medici, fisioterapisti, dipendenti Inail o amici che si sono presi cura di me, in un modo o nell’altro.

Due anni fa è nato mio figlio. Mio figlio non è una persona ma una personcina, perché ha solo due anni e tre mesi, comunque la relazione è ottima, bilaterale ma non democratica. Ottima perché c’è amore da parte di tutti e due, bilaterale perché si sente il riscontro delle azioni anche se da parte sua non riesce ad esprimerlo con le parole. Comunque a me basta un sorriso o uno sguardo.

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Secondo me il laboratorio di narrazione è stata una cosa buona sia per noi partecipanti che per gli altri. Per me personalmente non è cambiato niente, però ho visto che questi incontri aiutano a dare confronto e sostegno psicologico a quelli che hanno bisogno nella loro situazione per vari motivi come infortunio ancora in corso, difficoltà di reinserimento, ricerca di lavoro o visione di un futuro nero. Per altri invece, quando uscirà il libro, potrebbe servire nello stesso modo per infortunati o pure come un preavviso per tutti quelli che lavorano. Quindi W il laboratorio! Patrizia Quando la dottoressa Alessia C. e la dottoressa P. hanno proposto a me e mio marito una serie di incontri per poter discutere e parlare della nostra esperienza in modo da essere d’esempio e di aiuto alle altre persone, siamo stati entusiasti e non vedevamo l’ora di iniziare questo percorso. Ora dopo otto settimane di incontri siamo giunti malgrado il nostro rammarico alla fine di questa straordinaria esperienza. Essere lì tutti insieme, conoscere altre persone che come noi hanno attraversato momenti più o meno terribili, parlare con loro, discutere e avere la possibilità di confrontarci è stata un’esperienza indimenticabile. Mettersi in gioco, raccontare e rivivere i momenti drammatici e dolorosi passati ma mai dimenticati è stato per noi difficile e frustrante ma nello stesso tempo è stato un percorso per crescere, maturare e andare avanti, tirando fuori il meglio di noi stessi e rendersi conto che non siamo soli. Abbiamo conosciuto persone nuove a cui spero, abbiamo dato tanto e ricevuto tanto, abbiamo fatto nuove amicizie e sembra strano dirlo ma, insieme abbiamo riso, scherzato e condiviso momenti bellissimi. La famiglia ha contato molto e il legame di amore e rispetto che abbiamo, ha fatto la differenza. L’ho conosciuto a quattordici anni e ora ne ho cinquantadue. Da ragazzini c’è quell’amore dove pensi solo a certe cose, man mano che costruisci la famiglia subentrano altre cose. Siamo stati sempre accanto, sia nel bene che nel male come questo. Noi le cose che succedono ce le prendiamo, sentiamo e viviamo sulla nostra pelle. A volte guardo le persone che stanno peggio, invece mio marito dice che non bisogna guardare le persone che stanno peggio altrimenti ci si adagia. Io invece guardo molto anche le altre situazioni peggiori e mi faccio forza. E conta anche la voglia di migliorare e migliorare la situazione.

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Pietro Per fortuna nostra abbiamo trovato persone per bene e capaci di darci il coraggio di andare avanti, sia la psicologa e l’assistente sociale P. che ci ha dato coraggio e pace; ci ha fatto conoscere l’assistente sociale la signora C. e la dott.ssa P. e la Q. e tutti i componenti dell’Inail. Per nostra fortuna ci hanno dato un grosso aiuto nelle pratiche; abbiamo avuto un aiuto morale, di affetto e di rispetto dall’Inail. In tutti i dottori sia del S. Giovanni Bosco e del Mauriziano abbiamo trovato una grande famiglia, tutti quanti ci hanno voluto bene e aiutato nella vita confortandoci, per avere la speranza e la forza di andare avanti nel nostro cammino.

Dopo i nostri incontri settimanali, personalmente ho coperto quel vuoto che avevo dentro. Ora sono più felice perché nei giorni passati degli incontri ho trovato amici e persone piacevoli con cui poter discutere e che potevano capire il senso della vita di fronte ai nostri problemi della vita famigliare. Perciò sono molto soddisfatto di questi incontri perché è stato molto positivo. Certo, finiti gli incontri spero possa rimanere qualcosa di importante per informare anche gli altri infortunati e un grande messaggio che possiamo dare agli altri. Sperando di rivivere il venerdì di incontro. Refit Ad aiutarmi ad andare avanti dopo l’infortunio sul lavoro sono state diverse persone e fattori: la mia famiglia che mi è stata vicina tutti i giorni e in tutto il percorso

medico seguito per la riabilitazione; le splendide persone che ho trovato nella “famiglia” Inail di Torino; i medici dell’spedale Mauriziano con la loro dedizione e cura; il mio carattere impulsivo e combattente che mi ha permesso di superare le

prove dure di questa vita. Rita

Per cercare di superare i problemi di questo brutto infortunio sicuramente in primis sono state le infermiere dell’Adi (assistenza domiciliare integrata, ndr) che venivano a casa nostra tre volte alla settimana per le medicazioni, con L. poi si è anche instaurato un bel rapporto di amicizia, tuttora quando la incontro mi abbraccia come se fossi una di famiglia, abbiamo trovato veramente tante persone brave, B. è stato veramente grande a capire in che buco è finito Franco,

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infine l’èquipe dell’Inail veramente stupendo da A. a S., ai medici, alle infermiere, tutte persone che ci hanno aiutato, fisicamente Franco e mentalmente me, non siamo soli abbiamo trovato una nuova grande famiglia. Per ultime lascio Lucia questa persona mi dà fiducia, mi spiace che non riesco ad esternare quello che ho dentro, vorrei essere come tutti ma questo infortunio mi ha devastato interiormente.

Ci siamo riavvicinati tantissimo all’unica sorella e cognato che facevano vita a sé, erano praticamente al di fuori della famiglia, ora con loro due ci vediamo tantissimo, ci sentiamo al telefono. Sergiu Adesso ho un figlio. Ormai la mia vita è questa. Bisogna pensare solo a lui.

Quando è avvenuto l’infortunio sono venute tutte le persone che conoscevo in ospedale e mi hanno convinto a fare tutto questo (denunciare l’infortunio). Poi mi hanno detto che dovevo essere operato d’urgenza e io ho detto che volevo tornare a Torino perché avevo tutti lì. Quando vado al Cto mi salutano come “Sergiu”.

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La gratitudine. Nell’intervista e nel laboratorio non ci sono state domande specifiche sulla gratitudine ma sono stati tanti i momenti in cui da molte persone è emersa una gratitudine verso le persone che hanno provveduto nelle primissime fasi dell’infortunio ad accorrere in salvo, e più avanti nelle cure prestate dal personale medico e paramedico degli ospedali e dell’Inail. Una parte importante di gratitudine è nei confronti dei famigliari che sono stati presenti nel lungo cammino dell’infortunio. Spesso vengono ricordati i famigliari, le persone più vicine che sono state al proprio fianco e più volte sono stati ricordati i figli o i nipoti grazie ai quali si sentiva che la vita proseguiva. Spesso si osserva anche una gratitudine verso se stessi, verso il modo in cui si è riusciti a dare una risposta all’evento, alla forza che si è trovata in sé. In alcuni casi anche una gratitudine verso la fede che ha aiutato il difficile percorso. Adrian In collina però ho conosciuto parecchie persone e con queste persone ci siamo aiutati a vicenda. Dopo l’incidente c’e stata una serie di persone che mi sono state d’aiuto nel mio percorso riabilitativo. Comincio dal mio ex titolare, una grande persona che mi è stata vicino dall’inizio alla fine del mio percorso. In un mese di rianimazione era venuto quasi tutte le sere a trovarmi, mi prendeva la mano e pregava, e dopo mi raccontava la sua giornata di lavoro e quella dei miei colleghi per distrarmi un po’. Dopo un mese di rianimazione mi hanno trasferito al settimo piano dove ho conosciuto un sacco di persone fantastiche, però con una sola si è creato un legame speciale, si chiama Stefania ed è un’infermiera. Con lei ho condiviso un sacco di emozioni, momenti di grande gioia e anche tanti momenti di grande tristezza, però lei riusciva sempre a tirarmi su il morale con la sua pazzia e con la sua simpatia, aveva sempre la risposta pronta ad ogni mia domanda. Ci sono state anche altre persone che mi sono state vicino come mia madre, gli amici di prima e tante persone meravigliose che ho incontrato strada facendo, come l’assistente sociale con la quale tuttora c’è un rapporto di amicizia, oppure la mia fisioterapista che ha faticato tanto con me per farmi raggiungere

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l’autonomia che desideravo più di ogni altra cosa al mondo, però per quanto riguarda la mia salute mentale penso che il gruppo sia stato fondamentale. Aldo Devo dire che la mia grande fortuna è che ho conosciuto delle suore e dei preti veramente bravi e molto dinamici che quando mi comportavo bene mi premiavano, invece quando non mi comportavo bene mi mettevano in punizione e le punizioni erano molto impegnative tipo: pulire il refettorio, lavare i piatti, non andare tutti insieme a giocare. La forza che mi ha permesso di fare tutto questo mi è stata data dalla visione delle foto che si sono staccate dal mio portafoglio e che riportavano le immagini del mio nipotino, i suoi occhi hanno contribuito a fare in modo che potessi reagire in quella maniera. Per me è stato come un’improvvisa immissione di ossigeno proprio in un momento in cui mi veniva a mancare e che mi ha permesso, anche solo per alcuni istanti, di poter dimenticare quello che mi stava succedendo, come se non fossi stato io quello che aveva subito l’incidente. Senza dubbio l’affetto dei propri famigliari è la soluzione migliore, e la mia famiglia mi è stata di grande aiuto nel superare tutte le avversità conseguenti all’accaduto. Certamente ci vuole anche un pizzico di determinazione, che ti permette di affrontare ancora meglio il tutto. Devo anche dire di essere stato molto contento quando l’Istituto mi ha consegnato l’attestato. Vuol dire che l’Inail ha riconosciuto la gravità dell’infortunio. Per me è stato come se si fossero immedesimati nel dramma che ho vissuto, comprendendo la situazione in cui mi sono trovato, anche se sono convinto che per poter capire una determinata situazione è necessario viverla. Beh, posso dire "GAMBA MIA" che sei stata molto in gamba (scusa il gioco di parole) ad affrontare tanti interventi e tante infezioni. Però come si dice: "CHI LA DURA LA VINCE" e così è stato. Ricordi quando ti dissi che tu non mi servivi più perché non mi sorreggevi in piedi? Ebbene sì, su questo sei stata molto brava perché tanto hai insistito che mi hai rimesso in piedi. E per questo te ne sono molto grato. E ti dico a squarciagola (perdendo pure l’ugola): Grazie, grazie, grazie mille GAMBA MIA per tutto quello che hai fatto e che stai continuando a fare per me.

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Dal messaggio nella bottiglia: all’Inail grazie di questo immenso gesto di amore che hai avuto per me nel realizzare questo bellissimo laboratorio che ci ha fatto crescere psicologicamente, moralmente e fisicamente! Lo ricorderò per sempre. Rivolto alla parte che si è fatta male: gamba che mi reggi, ti do sostegno con grande FORZA, AMORE e SENSIBILITÀ. Infatti Aldo ha subito compreso la grande forza della nostra unione. Ed è per questo che affronto il mio percorso di vita insieme a te con immensa UMILTÀ e AFFETTO. E per questo che dico a te GRAZIE di ESISTERE. Continuiamo uniti e felici per sempre!!! Sempre!!! Sempre!!! Per questo ringrazio molto l’Inail e il fantastico staff delle dottoresse che mi hanno aiutato non solo teoricamente ma anche psicologicamente e soprattutto col cuore, perché si sono immedesimate in ogni singolo caso. Grazie, grazie mille per esserci sempre vicini. Beatrice È molto importante la famiglia per chi ce l’ha. Figlie e nipoti mi sono state molto vicine. Prima ero sola, non avrei immaginato questa disponibilità delle mie figlie che facevano sacrifici per venire dalla Svizzera. Mi hanno dato vicinanza e supporto che non potevo immaginare. Sono venute tante volte. Una volta ero sul balcone con mia nipote di quattordici anni e guardando la strada ad una certa ora le ho detto che lì una volta si vedeva arrivare il camion con il nonno che tornava dal lavoro: lei mi ha guardata e mi ha detto “Nonna non devi pensare a questo: devi guardare al futuro”. Sono venuta qui e mi avete dato molto. Qui si trova comprensione e dedizione. Già si hanno tanti problemi e si ha paura di trovare negli uffici risposte aggressive o disinteressate. Questo blocca la persona. Non venivo con l’angoscia ma volentieri. Disponibilità e accoglienza già ci sono, non ho niente da aggiungere. Consolazione Però sono riuscita comunque a imparare a scrivere con la protesi: si comincia a scrivere come alle elementari. Bisogna impegnarsi, ma si riesce. Ero sola con molte cose da imparare: se uno non si impegna a fare qualcosa non riesce nella vita. Ringrazio Dio che mi ha dato quella forza e volontà.

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Dino Dopo l’infarto mi hanno levato da quel posto e mi hanno messo in magazzino. Di questo li ringrazio: mi hanno trattato come un padre. Gli ultimi anni ho lavorato con tanti giovani ed è stata una bella esperienza. Emilia Nella mia famiglia ognuno era per la sua strada. Se non c’era l’aiuto dall’Inail non avrei avuto il collegamento tra noi. Senza i soldi non potevo pagare i prestiti che ho fatto per portare la salma dove mio marito diceva che voleva andare. È stato un sostegno grande non solo come soldi, venivo qui e parlavo con voi, mi ascoltavate e pensavo che qualcosa era risolto, che potevo andare avanti. Ti dà la forza per uscire dal tunnel, per me è stata una fortuna trovarvi. Grazie per aver trasferito la pensione da Lecce. Le persone che vogliono aiutare si vedono, voi mettete l’anima e vi ringrazio per tutto questo. Franco Comunque grazie a tutto ciò che mi ha supportato, come i vari consigli, molto utili, ricevuti dallo staff dell’Inail, da B. e dalla psichiatra, mi sento un po’ sollevato. Luciano Non bisogna avere paura del futuro, ma affrontarlo e combatterlo con tutta la forza che abbiamo dentro. Tutti noi abbiamo un angelo che ci tutela, io ho Patrizia, mio figlio, che mi ha dimostrato tutto il suo amore in silenzio come siamo noi sardi. Tutti voi, dottoressa P., C., Q. e il personale Inail grazie a tutti. Tante cose le ho superate perché c’era mia moglie che mi ha aiutato tanto. Abbiamo sorriso insieme e abbiamo pianto insieme. Ho sempre detto a chiunque mi parlasse, che voi mi avete aiutato tanto. Con il corso che ho frequentato ho conosciuto tanta gente che aveva gli stessi problemi. Sono riuscito a relazionare con altra gente e mi sono trovato bene. Quel periodo non riuscivo tanto a camminare e mi ha aiutato andare al corso, uscire da casa

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quei due o tre giorni e passare quel paio d’ore. Se non c’eravate voi, non l’avrei mai saputo. Ci sono tante cose in cui mi sono trovato bene. Quando vengo qua mi sento tranquillo e riesco a parlare serenamente. Voi potrete aiutare tante altre persone. Marie Jeanne Malattia CANCRO è una brutta bestia che ti succhia un po’ alla volta fino alla fine. Siamo andati sulla luna, computer ecc., ma il cancro fino adesso l’ha vinta lui. Le uniche persone che hanno saputo del suo male e l’hanno aiutato erano quelle dell’Inail che lo sapevano. Marinela Posso dire che sono contenta, sono riuscita ad andare avanti (prima per me e mio marito, ma anche per la mia famiglia che soffriva tanto vedendomi così) con una voglia più grande di prima, anche se ogni giorno ho delle difficoltà. Caro piede, vorrei ringraziarti che ci sei, anche sei fai male. Mi hai fatto entrare in un mondo diverso e conoscere delle persone meravigliose. Questo mondo, che lo vedevo ogni giorno ma non lo sentivo. È difficile, ma sono riuscita, insieme a te, a conoscerlo, capirlo e andare avanti. Grazie a te, ogni anno posso andare a fare le cure termali, passare due settimane di serenità. Lontano da tutti e da tutto, sola con i miei pensieri; mi hai fatto imparare a nuotare; ad apprezzare la vita molto di più, in bene e in male. Comunque mi hai fatto ritrovare me stessa: non solo più sensibile ma anche più forte. Vorrei dire però che mi sono trovata bene al corso che ho fatto perché ho conosciuto altre persone e imparato cose nuove. Conosci altre esperienze. Mario La mia vita era dedicata al lavoro. Poi ho incontrato mia moglie e non è cambiato nulla. Lei mi ha sostenuto annullandosi.

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Maurizio L’infortunio mi ha sbattuto in faccia la porta da dove entravo tutti i giorni per lavorare, ma mi ha fatto capire l’importanza della vita e delle piccole cose; poi mi ha aperto il portone che apro tutti i giorni di oggi per andare a lavorare. Norberto Mi pare doveroso ringraziare alcune persone, per prima, ovviamente mia moglie che, guarda caso, fa l’infermiera. È stata molto paziente nel restare al mio fianco dandomi tutto il sostegno e appoggio possibile in un periodo molto difficile. Con questo, però, non voglio togliere alcun merito a tutti i medici, fisioterapisti, dipendenti Inail o amici che si sono presi cura di me, in un modo o nell’altro. Un caloroso grazie a tutti e speriamo che non ci sia più nessun infortunio e nessuna crisi. Patrizia Quando sono con voi mi sento a casa: la disponibilità che avete a volte non si trova neanche nelle amicizie vere e proprie. Avete un gruppo di lavoro che si prende a cuore le situazioni e vi devo fare i complimenti. Vedo che siete imparziali e ci sentiamo “della famiglia”. Siete stati di molto aiuto e conforto, mi avete dato la spinta a reagire anche perché voi, da fuori, potete dare dei consigli imparziali. I dottori del Cto che seguivano mio marito erano molto giovani ma professionali, disponibili, allegri e scherzosi. Si fermavano spesso per parlare con noi, rincuorandoci ed alleviando le nostre sofferenze. Tutto il personale ospedaliero, a partire dalla caposala alle infermiere sono stati gentilissimi ed hanno fatto di tutto per farci sentire a proprio agio. Inoltre devo ringraziare immensamente tutto l’organico dell’Inail, operatori, assistente sociale, dottori ed infermiere che con la loro grande umanità ci hanno assistito, ascoltato e guidato in questo difficile cammino e tutt’oggi si prendono cura di noi come possono. Un grazie di cuore, tutti insieme siete un ottima squadra. Pietro Ho avuto a che fare con operatori che hanno lavorato con la coscienza e con il cuore, almeno quelli con cui ho avuto a che fare.

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Refit Dal primo giorno ho trovato delle persone che mi hanno fatto cambiare idea sulle persone, e hanno preso a cuore subito la mia situazione e hanno fatto di tutto per tirarmi su il morale, e fare in modo che avessi tutto l’aiuto previsto dalla legge. Sono stati tutti molto gentili e disponibili nel fornirmi le informazioni, spiegarmi le procedure con tanta pazienza e rispetto. Dalla prima persona a cui mi sono rivolto per informazione, alla Sig.ra P. che, capita la situazione, si è messa a disposizione per aiutarmi e ha messo in moto tutta la pratica di sostegno. Il comportamento del personale che lavora all’Inail mi ha riempito di fiducia e speranze per il mio futuro, mi ha fatto sentire voluto bene, e non una persona che lotta da solo; mi sono sentito in mani sicure e pieno di fiducia per ritornare alla mia vita normale di prima. Ed è stato così: uno degli ispettori mi ha accompagnato fino all’udienza con il datore di lavoro, tutti si sono dati da fare e mi hanno trattato come uno di loro, come uno di famiglia e non uno straniero. Credo di non esagerare quando penso che le persone che lavorano sull’Inail sono state scelte e preparate per dare il massimo supporto agli infortunati e le loro famiglie. Io e la mia famiglia siamo molto riconoscenti allo staff al completo. Non conoscendo i nomi di tutti, vorrei ringraziare di cuore tramite la Sig.ra P. che mi ha seguito dal 22 Dicembre 2005 ad oggi passo dopo passo, l’ispettore il quale ha seguito tutta la parte legale fino ad accompagnarmi al tribunale e la Sig.ra P. che è l’efficienza in persona per quanto riguarda la preparazione dei documenti: questo è Inail. Mi sono trovato in mezzo di questa grande famiglia la quale insieme alla mia moglie e le mie figlie mi hanno dato la forza di andare avanti, di vedere il domani con occhi diversi e avere più fiducia in me stesso ma anche negli altri. Sergiu Mi hanno aiutato molte persone quando ero in ospedale. Anche persone che non conoscevo. Ho i parenti ma non si parlano. Ho avuto più a che fare con gente italiana. Il personale dell’ospedale mi ha molto aiutato. È stato brutto, pesante, ma ho avuto molto aiuto dagli italiani. Aiuto non solo economico, ma anche morale e di assistenza.

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Cosa non ha funzionato. Nella vita, capita a chiunque di ricevere frasi spiacevoli che ci fanno stare male o di incappare in eventi negativi che ci abbattono. Ognuno reagisce in maniera diversa, a seconda del proprio carattere. Quando però questo avviene in un momento delicato come quello legato alle conseguenze di un infortunio sul lavoro o della diagnosi di una malattia professionale o della perdita di una persona cara a causa del lavoro, la persona si sente doppiamente colpita da una sorta di ingiustizia, percepisce la propria condizione come un fallimento, si sente abbandonata, inutile, insicura, non vede via d’uscita ma solo che nulla sarà più come prima. Adrian Se sapevano che eri in carrozzina la casa non te l’affittavano. Aldo L’esser fuori gioco e l’incidente hanno fatto sì che quasi tutti si sono estraniati e dimenticati di me. Il disagio è quello di incontrare tantissime difficoltà. Il fallimento essere entrato nelle categorie protette. Ce l’ho col mondo intero perché mi vengono tutti contro. Beatrice Mio marito è stato ricoverato, non l’ho visto per due mesi per paura che volesse ritornare a casa. Oggi sono più tranquilla, vado a trovarlo tre volte alla settimana. Ho le notti tranquille, ma il senso di vuoto e di smarrimento dura e durerà ancora. Consolazione E poi ti fanno delle domande all’ospedale: “Signora ce l’ha messa apposta la mano?” Ma che domande sono? Strano che ti fanno le domande così e non pensano alle persone, che dicono che hai messo la mano dentro apposta. Oggi reagirei, direi: “Lei la metterebbe la mano dentro?” Sono cose che si fanno con

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delicatezza. Io mi sono sentita trattata male. Non ho avuto persone vicine, solo mio marito.

Dovevo andare a Bologna per ritirare la prima protesi ma l’ho rifiutata perché per errore era da uomo e poi volevano attaccarla al gomito: “piuttosto non la metto!”.

Dopo tre mesi mi hanno mandato a lavorare. Io con una mano sola cosa faccio? Lì ti mette in confusione, vai fuori di testa. Io vorrei tornare, ma a fare che cosa? Sono cose che ti rimangono dentro: cose dette che sono state ingiuste”. Io mi sono chiusa, volevo uscire con il mantello. Dove vai vai, ti sgridano, ti trattano male, ti dicono di mettere la firma. Se chiedo “Abbia pazienza mi aiuta a mettere la firma?”- “Ah, no!” - Ti rispondono scorbutiche! Non è giusto, non sto chiedendo nulla. Perché non dobbiamo essere tutti buoni? C’è gente cattiva. Però la vita è fatta così. Dobbiamo essere più umani uno con l’altro. Ma oggi la vita è così, devi fare attenzione a chiedere qualcosa, sono tutti nervosi. Vedi tante cose, disgrazie che succedono e hai bisogno di persone che ti capiscono.

Emilia

Volevo andare in aereo con la salma di mio marito ma mi hanno detto che non si poteva. Ma poi ho scoperto che non era vero. Non conoscevo le cose e mi sono fidata. Tra me e i miei due figli per quasi due anni non c’è stato collegamento: questo dolore non ci faceva parlare per chiarirci. Venivano in mente cose brutte che non ci facevano ritrovare. È stato un dolore immenso. Francesco E penso che almeno avrei voluto che fosse successo con le tecnologie di adesso. Oggi la degenza in ospedale è minore. Mi pesa non aver potuto avere figli.

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Luciano Al primo esame un dottore mi disse che non avrei più camminato, potete capire il mio stato d’animo e la mia disperazione, con tutti i dolori che avevo mi tolse anche la speranza. Il massimo è stata la frase di un medico che mi ha detto: “Lei non camminerà più”. Ma io non ci ho creduto e ho continuato a dare il massimo. Non so, forse ho anticipato i tempi di recupero. Quando ho recuperato un po’, ho provato a cercare un nuovo lavoro e mi sono ritrovato con tanti “le faremo sapere” che fanno star male. Carissimo dottore PASTICCIONE mi sarebbe piaciuto che avesse avuto un po’ più di attenzione durante la mia operazione. Marinela

Ero di nuovo in ospedale a fare le solite visite mediche quando il dottore mi chiede con un tono quasi ironico, cosa sto a fare ancora lì. Ero arrabbiata, non dimenticherò mai la sue parole “Sì, mi spiace si è formato un blocco unico e purtroppo non si può fare niente”. Io ho iniziato a piangere e chiedevo disperata delle spiegazioni ma senza una risposta adeguata, nessuna speranza di essere come prima. Marie Jeanne È stato sottoposto a drenaggio e talcaggio dicendoci che avrebbero migliorato la situazione invece non è stato così. Abbiamo chiesto quanto tempo gli rimaneva da vivere per potere vedere un po’ il futuro che gli rimaneva; la risposta: “Cinque anni”. Invece non è stato così.

Mario

Tutto ciò che si è vissuto prima non serve a niente. Si è impreparati. Ecco perché è importante la prevenzione. Nel mio caso il peggioramento viene dalle scelte dei medici, dall’intervento di aprile scorso. La toracoscopia. Nell’uno per mille dei casi non va bene, ma quell’uno per mille dovrebbe evitare tutti gli altri

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novecentonovantanove interventi. Il danno alla qualità della vita è venuto dopo. Mi ha ridotto a una larva. Ero aggredito dal mesotelioma e sono stato finito dai medici: è un’operazione da non fare mai, anche se il mio è un caso unico, non si può, anche perché non è curativo del mesotelioma. Aggiungono danni a un caso serio già per conto suo. Ne ho a sufficienza di tutto (sorride, ndr). Manca un finale diverso. Lavorare tutta la vita, poi viene il momento di godersi, tirare i remi in barca e vivere in serenità. Io ho tirato e mi è venuto addosso tutto. Manca un finale sereno. Probabilmente sarebbe stato così se non mi avessero rovinato. Manca quella che doveva essere la mia aspettativa di vita rispetto a quello che devo fronteggiare. Il mio rammarico è dover abbandonare il finale diverso. Maurizio Sono rientrato dopo un anno e mezzo presso la ditta in cui ero il tecnico più anziano e responsabile dell’operativo in magazzino e non contavo più un kazzo!! Ero la palla al piede del capo e di sua moglie, non mi lasciavano lavorare con serenità”. “Cosa vengo a fare?” dissi gridando una mattina e lui mi rispose “Meno fai meglio è”. Patrizia Abbiamo affrontato ansie e paure: l’interminabile intervento di mio marito, otto ore sotto i ferri, la lunga convalescenza dopo l’ospedale, undici mesi d’infortunio, dimesso camminando se così si può dire, anzi trascinandosi con due stampelle e sentirsi dire: da domani può riprendere a lavorare. Ma come, in che modo, lavorare nell’edilizia in queste condizioni? Pietro Vorrei ancora la logopedista, pare che li dimettano per i tagli, mantenendo la riabilitazione si potrebbe fare ancora qualcosa per mia figlia.

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Refit Ricordo con grande rammarico il comportamento del mio allora datore di lavoro sig. D. il quale, quando lo hanno informato dell’accaduto, è venuto a vedere e mi ha chiesto di andare al pronto soccorso con i mezzi pubblici, ma io ho insistito perché volevo essere accompagnato, e di conseguenza mi ha portato con la sua auto all’ospedale Mauriziano, raccomandando di non raccontare dell’infortunio sul lavoro ma dire ai medici che era successo a casa mia mentre facevo i lavori. Lui ha visto che ero in condizioni critiche, ma da quel giorno non si è fatto più sentire e non rispondeva al telefono finchè non ci siamo trovati mesi dopo in tribunale. Rita A Franco non gli va più di fare le cose che faceva prima. Non gli va più niente. Per lui conta anche questo fatto della “zoppia”. Dice: “Lo vedi? Sembro uno sciancato”. Sergiu Ricordo quando il medico mi ha detto “La tua situazione non va a migliorare ma a peggiorare”. Quando ho iniziato a lavorare ho avuto tante promesse dal mio capo e poi non è rimasto niente, avevo in casa una fidanzata che al momento dell’incidente se ne è andata.

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La prevenzione. L’Inail si occupa anche di prevenzione, intesa nel senso di formazione e informazione per la diffusione della cultura della sicurezza sul lavoro. Per questo, una delle domande delle interviste mirava proprio a far emergere dai protagonisti l’idea che avevano della prevenzione in generale e in relazione a ciò che era successo a loro. L’intento era quello di muovere alla riflessione, anche chi pensa che la causa di un evento possa essere stata un caso fortuito e inevitabile. È davvero così? Adrian I fattori che possono favorire un infortunio? Per me è stato indubbiamente il mancato riposo. Ho avuto un colpo di sonno a causa della stanchezza. Prevenzione è anche rispettare il proprio organismo. Aldo

Quando si sta svolgendo un lavoro è molto importante concentrarsi su quello che si sta facendo, senza pensare ad altre cose che potrebbero influire negativamente sul risultato del lavoro o peggio ancora determinare delle situazioni di rischio. Ho poi notato che alcuni colleghi non prestano molta attenzione a quello che stanno facendo, comportandosi in maniera superficiale, come quello che mi ha investito col muletto e che era solito, anche durante il lavoro, fare uso delle cuffiette, determinando di conseguenza situazioni di pericolo, dovute non tanto al rumore, quanto alla distrazione da quello che si sta svolgendo, senza considerare poi il calo della concentrazione a cui accennavo prima.

Penso che parlare dei comportamenti, degli stili di vita e delle responsabilità, che ognuno di noi ha nei confronti degli altri, sia molto importante per evitare molti incidenti.

Io penso che quando si arriva al lavoro non bisogna essere di cattivo umore. Credo, pertanto, che sia molto importante arrivare carichi di energia, che aiuta molto a prevenire gli avvenimenti spiacevoli e soprattutto cercare di impostare il lavoro in maniera responsabile, evitando un inizio negativo che porta come risultato solo quello che mi è accaduto, poiché la persona che mi aveva investito aveva la testa tutta da un’altra parte.

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Se devo pensare al mio infortunio da un punto di vista della prevenzione, per me un fattore determinante è la formazione, intesa però come capacità interiore di riuscire con la prudenza e con la coscienza ad agire in maniera corretta. Sicuramente i corsi di formazione sono utili ma se non vi è qualcosa di se stessi, difficilmente potranno avere l’esito per il quale sono predisposti. Tutto ciò l’ho potuto verificare quando ho seguito il corso per saldatore dove ho avuto l’impressione che i corsi, in genere, devono essere rivolti a persone predisposte ad apprendere, altrimenti è tutto tempo perso.

Un altro fattore a cui bisogna prestare attenzione è “l’eccesso di sicurezza in se stessi” perché nella vita c’è sempre da imparare e anche se si è convinti di sapere il fatto proprio, non bisogna mai fidarsi delle proprie capacità perché si potrebbe cadere in situazioni spiacevoli. Un’altra parola che ritengo importante è la prudenza che per me è una conseguenza della concentrazione. Beatrice Mio marito era sempre molto attento, non faceva fare le cose pericolose ai ragazzi, era molto prudente. Aveva molta responsabilità verso gli operai. Lui sapeva bene tutti i rischi del suo mestiere. Usava le misure di sicurezza, ma diceva che l’imbragatura a volte è un intralcio, molte misure sono quasi impossibili. Potrebbero risultare più pericolose. Piuttosto ci metteva un’ora in più per fare bene il lavoro ma non rischiava. Erano gli operai che guardavano l’orologio. La fretta è un pericolo. Non aveva eccesso di sicurezza ma sempre molta prudenza, era sicuro di sé ma senza eccesso, conosceva il pericolo e come arrivava. La sicurezza è una modalità di lavoro legata alla prudenza: lui faceva alla vecchia maniera ma il lavoro era garantito. La sua paura era che succedesse qualcosa ai suoi ragazzi su cui vigilava, diceva: “Preferisco a me che a loro”. Bisogna fare attenzione. Era stanco, era già in pensione da due anni ma voleva lavorare lo stesso. Bisognerebbe sapersi riposare: arrivava a casa ma la giornata non era finita, c’erano i clienti, gli incassi, i nuovi lavori. Consolazione

Se c’era il salvamano non mi portava via la mano. Ero all’impastatrice, facevo gli gnocchi, se c’era il disco che poi hanno messo non perdevo la mano. Forse se non avessi messo i guanti non mi avrebbe preso la mano.

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Dino I primi anni non avevo i dispositivi di sicurezza che ci hanno dato in seguito. Non ci davano la mascherina. Quando lavoravo per la compagnia tubisti mi davano il latte, ma a cosa serviva? Quando lavoravo attaccato alle giostre c’era il fumo del grasso e lo respiravamo di continuo. Io ho addestrato molti giovani. Quando me li davano, io a loro trasmettevo tutto. Guai se mettevano una mano dove non dovevano metterla. Non solo io, ma io li prendevo e ci facevo dei “discorsetti” . C’erano quelli più presuntuosi, che avevano studiato; pensavano di sapere tutto ma non conoscevano niente. Allora bisognava dargli una “raddrizzata”. Quando ci sono dei vecchietti come me, devono insegnare ai più giovani. Ogni venti giovani metterei un cinquantenne che guardi e consigli. Quindi, sì, per me uno dei fattori più importanti per la prevenzione è la formazione. Emilia Hanno detto che non capiva (la lingua italiana, ndr) quando lo chiamavano e per questo è successo l’incidente, ma non era vero: nessuno l’ha avvertito che arrivava il treno e dicono che la colpa è sua. È giusto sapere le cose in anticipo. Per questo va bene questo progetto, per far sapere a tutti cosa fare. Serve conoscere tante cose. Serve sapere a chi chiedere aiuto. Ti serve prepararti anche se non capita.

La prudenza è importante. È meglio essere prudenti, e non che il padrone ti dice di fare le cose in fretta.

Francesco

In ambito lavorativo la fretta c’è sempre sul lavoro e così si fanno anche le cose male. Bisogna essere concentrati e presenti nelle cose che si stanno facendo. La sicurezza va vista come avere testa in ciò che si fa. Un disabile che lo è diventato a causa di un trauma è più prudente di uno che lo è dalla nascita che non ha la percezione del rischio e si butta a capofitto. Franco Secondo me sono due le cose fondamentali affinché possa esserci sicurezza e una buona prevenzione. Prima di tutto l’attenzione e la concentrazione e poi la

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formazione, mentre quello che può determinare ed essere causa di un infortunio sono l’eccesso di sicurezza in sé e la fretta nel portare a termine un lavoro. È difficile che ci sia la casualità. Dal messaggio nella bottiglia: Puerile sarebbe inviarlo al Signore del tempo, per tornare indietro ad un’ora prima dell’incidente, conoscendo il dopo, per prevenirlo. Issa La prevenzione è utile a chi l’infortunio non l’ha avuto, non ne ha coscienza fino a che non gli accade. Il problema non è tanto l’infortunio di per sé ma rapportarsi con gli altri: la troppa sicurezza fa sì che dopo ci si senta in difetto nei confronti degli altri. L’infortunio è anche prova evidente che non eri sicuro di te, che non sei sicuro di nulla. Luciano

Il 13 febbraio 2006 ho avuto un grave incidente per causa di un pirata della strada che invadeva la mia corsia urtandomi e facendomi cadere dalla moto.

Marinela

Se devo pensare ai fattori che hanno determinato l’infortunio, uno è l’attenzione. Perché secondo me è successo perché avevo fretta, ero anche molto stanca. Tante volte la fretta non ti fa pensare a cosa può succedere. Vedo ogni giorno tante persone che per la fretta fanno tante cose pazzesche. Mario Lavoro? Diritti? Difficile capire oggi il mondo lavorativo di allora. Non rimpiango niente, ma in coscienza mentre davo tanto trascuravo però i miei diritti. Vai… e andavo senza limiti: era una mia scelta. Mi ricordo che attraverso il raggio di sole nell’ambiente vedevo la polvere. C’era zero attenzione all’ambiente: si respirava ogni momento ingoiando tutto. Ho sempre nella mente il raggio di sole in cui si vedeva la polvere che luccicava, lo ricordo bene. Se fossi stato più attento…”. Sicurezza e prevenzione? C’è parecchio da pensare a come rispondere a questa domanda. Mi servivo dei mezzi che l’azienda dava: c’era resistenza di chi

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doveva usarli. Io dovevo insistere anche se sapevo che le scarpe antinfortunistiche era meglio non metterle per i rischi che avevano. I mezzi erano quelli che erano. C’era resistenza del personale che non è formato e rifiuta. Prima bisogna dare informazioni, farglielo entrare nei cromosomi, se no il responsabile della sicurezza deve bisticciare in continuazione. Non so se ancora oggi il personale venga istruito correttamente: sarebbe più semplice ed efficace. Le cinghie di sicurezza erano un pericolo, aggiungevano pericoli. Se passa il responsabile della sicurezza gli altri le mettono e poi le tolgono. Se vengono responsabilizzati allora le cose cambiano. L’ho capito dalla vita: se l’uomo viene educato si assume le sue responsabilità. Devo continuare a essere responsabile delle mie azioni anche in cantiere. Una buona organizzazione evita la casualità, la paura, la stanchezza, l’abitudine. La ditta F.G.M. ci ha fornito sempre protezioni: su come poi si realizza la condivisione della sicurezza in cantiere è fantasiosa. C’era resistenza del personale che non è formato e rifiuta. Prima bisogna dare informazioni, farglielo entrare nei cromosomi, se no il responsabile della sicurezza deve bisticciare in continuazione. Non so se ancora oggi il personale venga istruito correttamente: sarebbe più semplice ed efficace. Dalla mia visione ho subito l’ambiente di lavoro (la polvere) ma non avevo coscienza delle conseguenze, non le immaginavo così definitive, se no ci sarebbe stata qualche reazione da parte mia. Il mio obiettivo è chiarire il concetto per cambiare la situazione, l’ambiente di lavoro per il futuro, non per il passato. Io sono già passato. Maurizio La definizione del mio infortunio? SFIGA! Da scrivere grosso così! Non so come sia successo, non ci sono responsabilità, è stata pura sfortuna a due giorni dalla chiusura estiva. Ero salito sul camion per raccogliere il telone, ma tutto senza fretta, con tutti i sistemi di sicurezza, c’era anche il titolare, ho fatto i movimenti di sempre; ad un certo punto sono scivolato e sono caduto da tre metri di altezza. Non so come, non ci sono responsabilità, è stata pura sfortuna. Ho avuto solo la prontezza di cadere in piedi, frantumandomi i calcagni, ma non mi sono lesionato la schiena! Prima fai il danno e poi chiedi scusa!! Lo sappiamo che tu sei una testa matta ma dato che ti conosciamo non diciamo nulla anche se… a dirla tutta non è stata colpa tua. Con lo sci, con tutti gli sport che facevi, a volte eri un po’ spericolato ma il tuo infortunio è stato un fulmine a ciel sereno. Sappiamo che nel lavoro sei una persona attenta e competente e che quello che ti è successo è

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stata una fatalità che poteva capitare a chiunque. Ora sta’ più attento e cerca di non spingerci più come prima anche se a volte non ti ricordi. Come per attraversare la strada. Guarda prima le distanze delle auto e non infilarti, tu non puoi più correre! Oggi che sono io datore di lavoro fornisco tutti i sistemi di sicurezza e tutto è a norma, ho aperto l’azienda in sicurezza. Non si lavora con la fretta. Pochi appuntamenti con la possibilità di rimandare. Una buona prevenzione può ridurre gli incidenti. Mi stupisco che non ci siano aiuti per i disabili che gestiscono le aziende, gli studi di settore sono gli stessi degli altri. Diamo un futuro migliore alle nuove generazioni come un posto di lavoro, ma anche sicuro. Questa è la prevenzione che dovremmo fare. Norberto Lettera dalle mie “parti rotte”: Che cacchio vuoi da noi? Se ti vuoi lamentare, lamentati con il tuo datore di lavoro, con le leggi e i controlli insufficienti oppure con te stesso, mica è colpa nostra se il cantiere non era messo in sicurezza o che nell’arco di due mesi non è passato nemmeno un controllo, oppure dovevi opporti tu stesso a lavorare in queste condizioni. Beh, d’accordo, non volevi perdere il lavoro. Un “messaggio nella bottiglia”: Chiunque troverà questa bottiglia è fortunato, perché posso avvisarlo sul rischio che corre nel sottovalutare la sicurezza nel luogo di lavoro. Sia come datore di lavoro che come lavoratore! Parlo per esperienza, io ho rischiato la vita e adesso ho la salute rovinata per sempre e il mio datore di lavoro, oltre a pagare, ha dovuto affrontare una sentenza penale. Quindi attenzione, non sottovalutare la sicurezza e se c’è qualcosa che non va cerchiamo di sistemarla. Se ci fosse stato il ponteggio… nel mio caso. C’è stato un processo penale, non c’erano norme di sicurezza, ognuno faceva attenzione. Su due lati c’era il ponteggio. Avrò costruito trenta tetti, uno si abitua, uno si sente sicuro. La persona che mi teneva mi ha mollato. Mancano i controlli nei cantieri, non c’erano nel mio caso i ponteggi su tutti i lati. Non ci sono mai controlli, in dieci anni ho visto passare solo un ispettore che cercava dei lavoratori in nero. Se tutto fosse come dice la legge un prodotto costerebbe molto di più. E non c’è formazione. Il mio datore di lavoro andava a fare i corsi, noi operai no.

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Patrizia Secondo me l’infortunio di mio marito è stata una casualità e una irresponsabilità di terzi. Gli hanno tagliato la strada, l’hanno toccato, sbilanciato ed è successo tutto l’insieme. Lui è anche uno che quando si sente stanco, riposa. Dice sempre che se uno si sente stanco deve fermarsi. È cauto. Proprio le persone più sicure a volte sono soggette a pericolo. Lui andava a passo d’uomo e nonostante ciò ha avuto un infortunio così grave: gli è scoppiato il ginocchio. Pietro È stata una cosa casuale. Mia figlia si era fermata al bar con un amico. Poi attraversando su un passaggio pedonale è stata investita. Casuale che ha deciso di passare di là. Forse la fretta, l’imprudenza. In ospedale si è avvicinato l’investitore che diceva che non l’aveva vista. Refit Purtroppo per mancanza delle norme di sicurezza in cantiere, il 5 novembre 2005 ho subito un incidente sul posto di lavoro, con gravi conseguenze per la mia integrità fisica e la salute. Penso che la mancanza di misure di sicurezza sia la più importante e la prima nella lista. In ogni settore, trasporti, edilizia, sanità, ovunque c’è un regolamento tecnico da osservare e rispettare da ogni operatore, ma bisogna vedere quanto veramente nella quotidianità vengono rispettati. Prima di tutto l’ambiente di lavoro deve essere in regola con le normative e sicuro per i lavoratori, perché in assenza di sicurezza si perde anche la vita. Se la mancanza della sicurezza porta a un infortunio sul posto di lavoro, vuole dire che porterà una sofferenza fisica ed emotiva della persona stessa e della sua famiglia, porterà a una demotivazione per poter andare avanti in quanto i tempi di riabilitazione sono spesso e volentieri lunghissimi. Prima di tutto deve essere il datore di lavoro ad assumersi la responsabilità, ad assicurare l’ambiente di lavoro per gli operatori e pretendere che vengano rispettare tutte le misure e regole di sicurezza per evitare gli incidenti. Nel mio caso se la scala che usavo in cantiere, avesse avuto i supporti in gomma antiscivolo, oppure ci fossero stati dei ponteggi previsti per i cantieri edili, non sarebbe successo l’incidente, e oggi non sarei un invalido. Penso che per quanto riguarda la mancanza delle misure di sicurezza la legge deve essere più severa con le imprese, e altrettanto severa con gli operatori che non le rispettano negli ambienti di lavoro.

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Rita Fretta ed eccesso di sicurezza. L’abitudine del solito tran tran. Sono queste le parole che sento molto legate all’infortunio di mio marito. Sergiu Io sono una persona sicura. Quando sono sicuro, sono sicuro. Posso scommettere sulla mia sicurezza. Ma devo essere sicuro almeno al 98%. Se no non ce la faccio. Nel caso del mio infortunio c’era fretta poi c’era il fatto che il mio capo aveva saputo una notizia che lo preoccupava. Quel giorno era particolarmente esagitato C’era la fretta, c’era il pensiero. Comunque il mio incidente non era colpa mia, se era colpa mia era un’altra cosa. Lui voleva dire che era colpa mia, ma non ha potuto. E proprio lui (il datore di lavoro) diceva “Se tu sei stanco, se sei pensieroso, non fare i lavori pericolosi; piuttosto rimani a casa un giorno. Se sei con i pensieri dall’altra parte, vai dall’altra parte”.

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Ricominciare. Le storie raccontate in questo libro sono storie che parlano di eventi inattesi e dolorosi, di cambiamenti, ma anche di incredibili storie di forza, di ripresa, di rinascita e gratitudine. Nel capitolo “ricominciare” sono contenuti quei brani che testimoniano esperienze di ripresa, fatte di fatica, di rivoluzioni, di straordinari atti di volontà. Si parla di accettazione, di determinazione e anche di nuovi apprendimenti. L’infortunio, la malattia, la perdita, compaiono in questi brani non solo come eventi tragici ma anche come percorsi che portano alla scoperta di possibilità, forze e capacità inaspettate. Nella scienza metallurgica la capacità di alcuni materiali di resistere alle forze che gli vengono applicate conservando la propria struttura, viene chiamata “resilienza”. Anche le storie contenute in questo libro sono storie di resilienza ovvero di capacità di riorganizzare positivamente la propria vita dinnanzi alle difficoltà, di superarle, di trasformarsi e di ricostruirsi dando nuovo slancio alla propria esistenza. Nei racconti emerge anche l’importanza del ruolo che può avere l’Istituto, con gli interventi che può attivare, nell’accompagnare le persone in questo cammino di ripresa, fornendo così preziosi elementi di lettura per l’attivazione di progetti futuri. Adrian Se penso all’infortunio nel mezzo ci sono state anche cose belle! La cosa brutta è stata trovarsi in questa condizione. In collina (Centro di Riabilitazione Funzionale) però ho conosciuto parecchie persone e con queste persone ci siamo aiutati a vicenda. Anche se ho passato momenti di grande delirio, non mi sono mai lasciato andare e grazie al mio grande amore per la vita sono riuscito ad andare avanti con tranquillità e serenità, diventando cosi ancora più forte. Da dialogo con la parte che si è fatta male: Anche se ho passato momenti di grande delirio, non mi sono mai lasciato andare e grazie al mio grande amore per la vita sono riuscito ad andare avanti con tranquillità e serenità, diventando cosi ancora più forte. Sappi però che non mi piangerò addosso perché so che c’è gente che soffre anche più di me, riuscirò a considerarti come qualcosa di diverso col quale convivere il meglio possibile, se non altro perché so che purtroppo mi accompagnerai per tutto il resto della mia vita.

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Per concludere ti dico una cosa sola “Ho perso una battaglia ma non la guerra”. Da risposta dalla parte che si è fatta male: Caro Adrian, anch’io spero di potere fare PACE ancora con te e di riuscire un giorno a vederti ancora in piedi. Non sono né io che ti volevo punire, né la vita che si è accanita contro di te. Forse eri solo tu che dovevi lavorare un po’ di meno e riposare un po’ di più, così non avresti preso quel colpo di sonno al volante. Mi dispiace tanto per tutto quello che hai passato perché non era nelle mie intenzioni di farti soffrire così tanto. Per concludere ti dico solo che un giorno mi piacerebbe stringerti la mano come sconfitto della guerra. Aldo Da dialogo con la parte che si è fatta male: Beh posso dire, gamba mia, che sei stata molto in gamba (scusa il gioco di parole) ad affrontare tanti interventi e tante infezioni. Però come si dice: "CHI LA DURA LA VINCE" e così è stato. Ricordi quando ti dissi che tu non mi servivi più perché non mi sorreggevi in piedi? Ebbene sì, su questo sei stata molto brava perché tanto hai insistito che mi hai rimesso in piedi. E per questo te ne sono molto grato. E ti dico a squarciagola (perdendo pure l’ugola): Grazie, grazie, grazie mille gamba mia per tutto quello che hai fatto e che stai continuando a fare per me. Per questo ti dico: G R A Z I E D I E S I S T E R E !!! Da risposta dalla parte che si è fatta male: Ebbene non ci crederete ma con la grande collaborazione del corpo a cui sono fiero d’appartenere, siamo riusciti con grande volontà fisica e psicologica a superare gli ostacoli più bui.

La mia gran fortuna è quella, pur incontrando tantissime difficoltà, di riuscire a superarle sempre nella più bella positività e di avere sempre tanta voglia di riuscire ad affrontare questa difficoltosissima ma bellissima e audace vita. Anche se mi dà sempre tante sorprese dolci e amare. Poi con la voglia di credere in me stesso e lo stimolo di affrontare qualsiasi cosa sono arrivato ad essere un po’ più buono con me stesso. Poi piano piano ho ripreso veramente la felicità di vivere. perché vivere, oltre ad essere difficoltoso e turbolento è anche molto ma molto bello. Grazie a tutti!

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Consolazione Una volta però al Rizzoli (ospedale di Bologna, ndr) ho visto un ragazzo più giovane di me, senza entrambe le mani e allora ho pensato che ero più fortunata. Anche un mese dopo, durante il ricovero a Budrio dove mi hanno aggiustato la mano, ho pensato le stesse cose perché in compagnia di altri invalidi capisci che ci sono situazioni peggiori delle tue. Però sono riuscita comunque a imparare a scrivere con la protesi: si comincia a scrivere come alle elementari. Bisogna impegnarsi, ma si riesce. Ero sola con molte cose da imparare: se uno non si impegna a fare qualcosa non riesce nella vita. Ringrazio Dio che mi ha dato quella forza e volontà. Emilia Mio marito pensava sempre agli altri, pensava a fare le cose bene e in fretta. Troppo perfetto, voleva fare tutto bene. Non è solo che è morto lui, ma tutta la famiglia. Per trovarci serve tanta forza, ho trovato tanta forza e non so dove. Avevo tanta fede che mi ha guidata per fare le cose giuste e per come farle. Se hai fiducia in qualcuno puoi trovare la stradina di collegamento con la famiglia. Francesco Ricordo che facevamo sport poi uscivamo, andavamo a mangiare qualcosa e stavamo fuori fino a notte tarda: una volta sono arrivato e l’ascensore non funzionava ed io abitavo con i miei al 4° piano: mi sono trascinato su con la carrozzina: il giorno dopo mio padre mi ha chiesto se l’ascensore non funzionava già quando ero arrivato io, ma ho negato perché se no mi avrebbe aspettato alzato per aiutarmi a salire, se fosse accaduto di nuovo. Io volevo essere autonomo. Franco Se dovessi scrivere un messaggio e farlo viaggiare all’interno di una bottiglia, avrei bisogno innanzitutto d’un contenitore alato, non basterebbe certamente una classica, semplice, banale bottiglia. Trovato ciò passiamo al messaggio. Puerile sarebbe inviarlo al Signore del tempo, per tornare indietro ad un’ora prima dell’incidente, conoscendo il dopo… per prevenirlo. Inutile mandarlo al GRANDE GUARITORE… perché mi faccia tornare come prima con uno

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schiocco di dita. Lo scrivo a me stesso e dico “Franco ricorda tutto ciò che ti è accaduto, non dimenticare MAI chi ti ha voluto bene, chi ti ha aiutato, chi ti ha sopportato e fanne tesoro perché chissà, un giorno possa tu aiutare qualcun altro in difficoltà”. P.S. Speriamo che un giorno possa trovare questa bottiglia e pensare che è alata, ti segue sempre. Luciano Da dialogo con la parte che si è fatta male: Ciao come va? Io mi sto abituando ad averti con un’andatura insicura e ciondolante. Mi ricordo prima dell’incidente come si andava d’accordo, se volevo andare a nuotare non mi facevi storie, se ti facevo correre non ti stancavi, in moto per noi era un piacere col piede mettere le marce. Oggi ti sento un po’ stanca. Basta una passeggiata e subito vuoi riposare, per nuotare non se ne parla, sempre crampi se piove, se nevica o cambia il tempo ti lamenti con i tuoi piccoli ma grandi dolori fastidiosi. Cara gamba ti faccio sapere che nonostante tutte le nostre difficoltà cammineremo insieme per un lungo, lunghissimo tempo se Dio vorrà. Da risposta dalla parte che si è fatta male: Carissimo Ciano, ti voglio far sapere che in risposta alla tua lettera, non sto bene, e per quanto tu mi chieda alcune prestazioni, come nuotare, correre ecc., dammi tempo, e con la tua forza di ripresa e volontà vedrai che alcune mansioni potremmo risolverle. Abbi pazienza. Ciao a presto la tua gamba. Con il corso di informatica che ho frequentato ho conosciuto tanta gente che aveva gli stessi problemi. Sono riuscito a relazionare con altra gente e mi sono trovato bene. Quel periodo non riuscivo tanto a camminare e mi ha aiutato andare al corso, uscire da casa quei due o tre giorni e passare quel paio d’ore. Marie Jeanne Sono stati utili questi incontri all’Inail. Credo per tutti. Parlare della malattia, di mio marito, per qualcuno parlare dell’incidente avuto sul lavoro, aiuta tanto il morale. Scambiarsi due parole di conforto aiuta a vedere diversamente la vita da affrontare, che è dura.

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Marinela È stato proficuo. Ho ritrovato me stessa: più sensibile, più nervosa, più allegra. Dopo tutti gli incontri del laboratorio io mi sono sentita fortunata. Perché? Perché ho visto gente con una sofferenza più grande della mia, una sofferenza fisica ma anche una sofferenza dell’anima. Mi sono sentita più leggera vedendo che c’è gente che mi ascolta e davanti a loro ho raccontato la mia vita, forse in un modo che non lo farò mai con gli altri (tipo parenti). Ho imparato che anche se è difficile, si può andare avanti. Almeno si prova. Ma anche molto più forte di prima. Un giorno mi sveglio con un pensiero: “Devo andare avanti, devo essere la ragazza di prima che sorride sempre, che non si arrende così facilmente, la ragazza piena di vita che ero. Devo fare questo adesso se non voglio perdere tutto”. Posso dire che sono contenta, sono riuscita ad andare avanti (prima per me e mio marito, ma anche per la mia famiglia che soffriva tanto vedendomi così) con una voglia più grande di prima, anche se ogni giorno ho delle difficoltà. Dalla lettera alla parte che si è fatta male: Caro piede, vorrei ringraziarti che ci sei, anche sei fai male. Mi hai fatto entrare in un mondo diverso e conoscere delle persone meravigliose. Questo mondo, che lo vedevo ogni giorno ma non lo sentivo. È difficile, ma sono riuscita, insieme a te, a conoscerlo, capirlo e andare avanti. Grazie a te, ogni anno posso andare a fare le cure termali, passare due settimane di serenità. Lontano da tutti e da tutto, sola con i miei pensieri; mi hai fatto imparare a nuotare, ad apprezzare la vita molto di più, in bene e in male. Ma quando fai troppo male non capisco più nulla. Non mi piace quando fai dei capricci e non mi lasci andare dove voglio io, fare quello che voglio e dormire tranquilla di notte. Non mi permetti più di correre, di mettermi i tacchi, di ballare. Comunque mi hai fatto ritrovare me stessa: non solo più sensibile ma anche più forte. Da risposta dalla parte che si è fatta male: Cara Mary, è vero che faccio male, ma senza di me sarebbe peggio; poi mi dici che hai imparato tante cose nuove e belle grazie a me. Anche io ti vedo molto più forte di prima, ma i capricci li faccio perché anche tu sei esagerata. Io urlo di dolore e tu non mi ascolti, vai avanti senza fermarti.

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Non puoi correre? Adesso fai nuoto. Non riesci a metterti i tacchi? Tu stai meglio senza. Fai fatica a ballare? Anche con un piede rotto, quando si tratta di divertimento non riesce a fermarti nessuno, nemmeno io. L’unica cosa che possiamo fare è quella di andare avanti, sempre insieme e di accettarmi così come sono perché faccio parte di te. In un giorno mi sveglio subito con un pensiero nella testa “Io non mi arrendo mai, devo andare avanti perché la vita comincia adesso”. Mi vesto, mi trucco e chiedo a Cristian di uscire. Quel giorno è stato un altro inizio, una voglia di vivere questa vita nel bene e nel male. Ho ritrovato me stessa: più sensibile, più nervosa, più allegra, ma anche molto più forte di prima.

Sono cambiata. Sono molto più sensibile. Se vedo una persona disabile mi rimane in testa e penso: “Chissà cosa passa, cosa prova questa persona”. Prima invece, sì, dispiaceva, ma si andava avanti senza pensarci. Dopo un infortunio apprezzi molto più tutto. È come ritrovare sé stessi: non solo più sensibile ma anche più forte. Mario Oggi di fronte alla malattia cerchiamo di tirare fuori la cosa migliore con consapevolezza. È ben diverso che essere in balia. Maurizio Sono rientrato dopo un anno e mezzo presso la ditta in cui ero il tecnico più anziano e responsabile dell’operativo in magazzino e non contavo più un kazzo!! Ero la palla al piede del capo e di sua moglie. Non mi lasciavano lavorare con serenità: “Non guidare il camion”, “Non usare il carroponte”, “Non attaccare la montatrice”. “Cosa vengo a fare?” dissi gridando una mattina e lui mi rispose “Meno fai meglio è”. Me ne sono andato in ufficio ho detto che stavo male così mi sono messo in mutua per sei mesi. E così ho iniziato a girare vetrerie per chiedere se serviva un operaio e devo dire che le offerte non mancavano. In parecchi mi risposero che potevo entrare nei loro piani vista la mia giovane età e soprattutto la mia qualifica. La più alta in assoluto nel nostro campo. Vetraio tecnico specializzato delle industrie vetraie di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta!!. Ma l’offerta più interessante me la fece il Signor Riccardo un anziano vetraio che mi conosceva da tanti anni. “Maurizio piglia le chiavi della baracca e portala

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avanti tu!!” – “Io?! E con che soldi??” – “Non ti preoccupare, un po’ alla volta si paga tutto, anche il posto in paradiso”. E così feci, il 23 dicembre 2008 firmai dal notaio e la vetreria era tutta mia. Da quel giorno la mia vita è cambiata in tante cose ma quel 31 luglio 2006 mi ha cambiato la vita e non in peggio.

Il tempo passava e si ricominciava la vita normale: mia moglie a lavorare e mia figlia a scuola. E io?? Rimanevo a casa da solo; sentivo la radio e leggevo seduto sulla mia, oramai inseparabile, sedia a rotelle. Non ne potevo più. Dopo un mese ero fuori di testa. Cominciavo a dare i numeri e volevo solo che finisse tutto, ma ero all’inizio. Una mattina è cambiato tutto!!! Ho aspettato che tutti uscissero di casa e poi mi sono messo in moto!!! Prima di tutto la DOCCIA. Ero stufo di lavarmi a pezzi seduto sulla sedia con spugne e asciugamani: volevo l’acqua addosso. Quindi sono andato in cucina e dal cassetto ho preso il grosso coltello con il seghetto, quello per il pane, e mi sono segato il gesso delle due gambe sotto il ginocchio. Sembrava strano ma era già tutto molto più facile, anche muovermi. Infatti mi sono fatto scivolare pian piano fino a terra, poi dopo un po’ di respiro mi sono trascinato fino in bagno, poi mi sono messo seduto nella doccia con le gambe fuori… un colpo di reni per sganciare il doccione, allungarsi a prendere il sapone e vaiiiiiii!!! Un’ora e mezza di doccia spettacolare. Da quel giorno il doccione doveva stare appoggiato a terra con il bagnoschiuma vicino. Intanto tra la segata di gesso e la doccia avevo fatto le 10.00 del mattino: era ora di uscire!! Finalmente mi potevo muovere per casa a gattoni, come i bambini: mi mettevo a quattro zampe appoggiando le ginocchia. Avevo due sedie a rotelle. Una per casa, di quelle piccole che usano le persone anziane per le passeggiate. Io mi spingevo per casa tirandomi con delle spinte dalle maniglie dei mobili, gli stipiti delle porte, i mobili della cucina. La seconda, per uscire, era la classica sedia che ti puoi spingere dalle ruote, sedia che una volta chiusa poteva entrare nell’ascensore. Ma io non potevo entrarci quindi chiudo la porta di casa, infilo la sedia dentro l’ascensore, chiudo le porte e scendo le scale in ginocchio fino sotto. Tre piani sono duri da fare. Al 1° piano sono stanco morto e mi corico sul pianerottolo pensando di aver fatto la mia ennesima cazzata!!! Poi, dopo cinque minuti di riposo, riparto e arrivo fino al piano terra dove richiamo l’ascensore. Ho vinto la prima partita contro la noia. Sono libero. Mi faccio un bel giro, mangio un panino in un bar di Via Cibrario per non dover fare subito il percorso inverso per tornare a casa, poi nel pomeriggio passo davanti a un negozio di articoli sportivi e mi compro un paio di guanti da ciclista per spingermi e un paio di ginocchiere!! Non entravano con il gesso, così una volta rientrato le ho tagliate e con del vecchio velcro ho fatto una chiusura nuova e da quel giorno è tutto cambiato. Restavo a casa solo se pioveva, per fortuna molto poco, e passavo le giornate fuori casa. La mattina

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facevo ginnastica in Corso Lecce, Corso Svizzera, su e giù con la sedia, in discesa e risalita, veloce e lenta, poi pranzo e doccia. Il pomeriggio andavo a prendere la metropolitana e andavo a farmi dei giri in centro, Via Roma, Via Po, Via Garibaldi. Se avevo voglia andavo al Museo del Cinema (gratis), al Museo dell’auto (gratis) tutto cosa potevo, lo facevo; sono anche andato a Palazzo Nuovo ad assistere a delle lezioni universitarie. Devo dire che ho trovato un mondo nuovo con la sedia; ho conosciuto grandi bastardi, ma anche tantissime persone che mi hanno aiutato a salire o scendere da ogni posto. La cosa più brutta: pestare una merda con la ruota della tua sedia, ma se questo porta fortuna, che sia!!! Ho bisogno giusto di un po’ di fortuna e allora W la merda sulla ruota! Dopo 11 mesi e mezzo mi sono alzato in piedi e per tutto questo tempo ho fatto questa vita, ma è stato un grande insegnamento e non dimenticherò mai cosa si prova “viaggiando” in quel modo. Dopo circa un anno di riabilitazione sono tornato al lavoro ma era tutto cambiato, così mi sono licenziato e ho aperto la mia attività artigianale con mia moglie. Oggi sto bene, vivo sereno con mia moglie e mia figlia. Convivo con il dolore alle gambe, ma sto bene. L’infortunio mi ha sbattuto in faccia la porta da dove entravo tutti i giorni per lavorare, ma mi ha fatto capire l’importanza della vita e delle piccole cose; poi mi ha aperto il portone che apro tutti i giorni di oggi per andare a lavorare. Io non mi sono fermato, mi sono fatto il mazzo per migliorare, passavo le giornate in piscina, a camminare nell’acqua; è stata la volontà ferrea per la riabilitazione. Così ho ripreso al 90% la mia vita di prima, io faccio quello che facevo prima, e così non pensi ai limiti che comunque hai, ci penso quando attraverso la strada e mi rendo conto che la macchina arriva veloce e io non riesco ad arrivare dall’altra parte della strada. E poi rimane il dolore fisico, il danno fisico che comunque resta. Norberto Sono un carattere così: non rimango bloccato. La mia motivazione era quella di recuperare il più possibile. Mia moglie è infermiera, sono potuto stare a casa perché c’era lei che lavorava. Da lettera alla parte che si è fatta male: Ciao parte rotta! Quale parte? Beh, è ovvio, parte rotta del mio corpo! Eh già ho dimenticato, siete stanchi. Allora lo dico una volta sola e vale per tutti:

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ginocchio, polsi, caviglia, gomito, spalla, testa, ecc. Basta piangere, fa male dire sempre “sono giù”. Ormai sono passati 15 anni e so benissimo che siete lì, ma bisogna rassegnarsi perché il vostro stato non migliorerà più e quindi basta piangere, tanto non serve a niente, non vi considero più. La vita va avanti anche se siete limitati. Ditemi una cosa che non ha limiti, la stupidità umana, ovviamente. Ma prima o poi anche l’uomo migliorerà e metterà la salute e la vita dei lavoratori in sicurezza. Speriamo che succeda presto. Ma fino ad ora? Da risposta dalla parte che si è fatta male: Ciao Capo! Scriviamo questa come risposta alla vostra del 29 giugno 2012 e chiediamo: che cacchio vuoi da noi? Se ti vuoi lamentare, lamentati con il tuo datore di lavoro, con le leggi e i controlli insufficienti oppure con te stesso, mica è colpa nostra se il cantiere non era messo in sicurezza o che nell’arco di due mesi non è passato nemmeno un controllo, oppure potevi opporti tu stesso a lavorare in queste condizioni. Beh, d’accordo non volevi perdere il lavoro. Comunque non è colpa nostra se siamo messi in questo modo, poi piangendoti addosso non risolvi niente, devi rompere da un’altra parte, l’hai già fatto? Allora è arrivata l’ora di smettere, perché la vita va comunque avanti con o senza parti rotte. Patrizia Ma senza togliere niente a nessuno credo fermamente che se siamo riusciti a venir fuori da questa situazione ed a superare i momenti più critici (se così si vuol dire), lo dobbiamo solo ed esclusivamente a noi stessi. Al nostro grandissimo amore, alla nostra grande forza di volontà e al nostro infinito senso della famiglia. Ci abbiamo creduto, abbiamo lottato e siamo riusciti insieme a superare i momenti più critici. Ora siamo qua, la strada da percorrere è ancora lunga, mio marito prima o poi dovrà affrontare un nuovo intervento: siamo molto preoccupati. Mi chiedo quando e come tutto questo finirà, forse non riusciremo mai a superare del tutto il nostro dramma, ma siamo più forti e consapevoli di dover affrontare nuove sfide. Torneremo ad essere la famiglia serena, spensierata di un tempo? Chissà, so solo che vedere mio marito scherzare nuovamente, mi riempie immensamente di gioia, mi allevia le sofferenze e mi dà nuove speranze.

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Da risposta dall’evento: Hai detto che sono entrato nella tua vita sconvolgendola, portando tanto dolore, sofferenza e disperazione. Mi dispiace immensamente ma purtroppo, a volte, nella vita le cose capitano. Ma sei sicura che ho portato solo dolore e disperazione? Forse non hai detto che oggi siete più forti e consapevoli e sapete reagire di fronte alle situazioni più tragiche? Beh, anche questa è una lezione di vita. Certo, forse non sarebbe stato il caso di impararla così in questo modo. I pensieri di Francesca Il mio pensiero al mattino quando mi sveglio è di andare in camera di papà e vedere di non essere da sola e quando vedo i miei sono molto felice che non sono sola o abbandonata. Anche se non riesco a esprimermi bene nel parlare e non muovo bene il braccio sono sicura che c’è qualcuno in casa che mi aiuta nel camminare, c’è il papà che mi guida e tutto procede bene perché ho sempre speranza di guarire e stare meglio. Rita Da lettera alla parte che si è fatta male di Franco: Cara testolina di Franco, ti scrivo perché in altro modo non riesco ad entrarci, hai avuto un piccolo tilt, ora stai facendo dei grandi miglioramenti ma alcune cose le hai dimenticate, cancellate. Ti parlo di cose che abbiamo fatto insieme e dici che non ti ricordi; questo mi fa male, comunque spero sempre in un miracolo, che presto torni ad essere come prima, che ricordi anche quelle cose che magari agli altri possono sembrare stupide ma a me no. Siamo riusciti a sistemare (per modo di dire) la gamba completamente distrutta con parecchio dolore per oltre due anni. Tante infezioni, stress e rabbia, finalmente in questo lungo tunnel vediamo uno spiraglio di luce, sicuramente passerà, ci vorrà ancora del tempo ma vedrai che torneremo le persone di prima. Forza! Da risposta dalla parte che si è fatta male di Franco: Cara Rita, sono la testolina di Franco che risponde alla tua lettera , so che ultimamente sono un pochino strana, ma con il tempo e la tranquillità vedrai, anzi ti prometto che cercherò di mettere in ordine ogni mio ricordo in modo che tu possa tornare tranquilla e sorridente come eri prima, il tempo si è fermato in questi due anni, adesso dovremo riprendere la nostra vita meglio di prima.

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L’esperienza del laboratorio per me è stata positiva. In questa lunga estate io e Franco abbiamo pensato tante volte a questi incontri con tutti voi. Ogni incontro per me è stato un riaprire la ferita, ma alla fine mi sono liberata da questo peso. Oggi mi sento più tranquilla, un pochino più ottimista. Franco, anche lui, questa esperienza lo ha aiutato molto, infatti ho visto più volte il sorriso sul suo volto. Questo grazie all’aiuto avuto. Poi sarà importante anche il lavoro, perché la sua paura è anche quella del futuro. Sono trentotto anni di matrimonio: eravamo ragazzini. Adesso lo sgrido, gli dico di andare a fare la barba. Speriamo che questo periodo nero passi in fretta, che ci sia il superamento, perché è dura. Sergiu Io ho sempre cercato di andare avanti. Successo è successo. Sono brutti ricordi. Ormai non puoi tornare indietro. Bisogna andare avanti.

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Consigli. Quando abbiamo lavorato allo schema di intervista, l’ultima domanda era proprio “vuole darci un consiglio?”. Pensavamo di ottenere in questo modo indicazioni utili a capire, come Amministrazione, in che modo migliorare il servizio reso alle persone. I consigli che sono arrivati, sia con il lavoro delle interviste che con il laboratorio, fanno emergere soprattutto quali sono gli elementi che, dal punto di vista di chi ha il vissuto di infortunio o malattia, sono importanti per sentirsi accolti, ascoltati, aiutati. Nel rapporto con le persone l’elemento umano, la disponibilità e la dimostrazione di interesse per la situazione di quella specifica persona, si sono rivelate essenziali nel condizionare il modo in cui è stata percepita la qualità del servizio. Anche quando l’iter della pratica amministrativa della persona ha presentato qualche intoppo o si è reso necessario comunicare un diniego, le persone interrogate sul rapporto con l’Ente, evidenziano comunque il valore dell’essersi sentiti accolti e trattati con attenzione e impegno. Altri consigli attengono all’importanza che per molti hanno avuto le iniziative di gruppo alle quali hanno partecipato: ci viene consigliato di continuare sulla strada del lavoro di gruppo, del far incontrare le persone e offrire uno spazio di condivisione e confronto. Alcuni infine, portano come consiglio il far riferimento a qualcosa che nella loro situazione ha avuto un valore positivo (fede, volontà, rispetto dei tempi personali ecc.). Adrian I famigliari patiscono di più: hanno più bisogno di chi ha avuto l’incidente. I pazienti, se hanno la fortuna di incontrare un gruppo di persone con cui si trovano bene, si riprendono meglio. Aldo Dopo il grande urto è stato e continua ad essere molto utile il percorso di reinserimento che è anche un percorso di crescita. Mi ha dato forza ad affrontare persone che si prendevano gioco di me e poi sono riuscito a comunicare molto più facilmente.

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Beatrice Sono venuta qui all’Inail e mi avete dato molto. Qui si trova comprensione e dedizione. Già si hanno tanti problemi e si ha paura di trovare negli uffici risposte aggressive o disinteressate. Questo blocca la persona. Non venivo con l’angoscia ma volentieri. Consolazione Quando si vivono queste esperienze è importante trovare persone umane. Dino In queste situazioni c’è bisogno di tanta disponibilità. Quando senti l’interlocutore infastidito, ti senti deluso. L’umanità serve molto. Questo dovete dirlo anche ai bambini che partecipano ai vostri incontri. Francesco L’esperienza degli altri è importante per chi si trova nella stessa situazione, questi incontri possono essere molto utili. Bisogna aspettare che si prenda coscienza della nuova condizione prima di proporre nuove prospettive. È molto importante l’esempio di una persona disabile: la cosa più importante da insegnare è la vita quotidiana perché subito si pensa a come muoversi. Poi vengono i pensieri sullo sport e i divertimenti. C’è un momento di attesa in cui c’è confronto continuo con chi ha già subito il trauma: ti fanno tante domande su come devono fare le cose quotidiane. Nei primi momenti non sai cosa ti sta succedendo, devi accettare il trauma. Quando c’è la richiesta di avere ausili speciali o soprattutto per le attività sportive bisogna verificare che la persona sia veramente motivata, deve dimostrare che lo vuole veramente: perché se no c’è la tendenza a chiederlo perché tanto l’Inail te lo dà, ma poi finisce nel dimenticatoio, è uno spreco. I primi mesi sono traumatizzanti. Bisogna rispettare i tempi e aspettare che il disabile percorra la propria strada.

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Luciano Non bisogna avere paura del futuro, ma affrontarlo e combatterlo con tutta la forza che abbiamo dentro. Rispetto all’idea di fare dei gruppi, dovete tener conto che alle volte ci sono persone che vivono negativamente l’infortunio e non parlano volentieri perché si rivive un po’ tutto. Bisogna capire come sono queste persone. Marinela La vita è difficile ma nello stesso tempo così bella che io preferisco viverla con allegria e approfittare di tutti i momenti belli, di superare quelli brutti e di sorridere sempre, anche quando sento male. Perché un sorriso non costa nulla ma rende molto. Mario Quando l’uomo ha vissuto e imparato, va in pensione e si siede su una panchina: è a perdere. Invece bisogna chiedere ai vecchi cosa hanno imparato. Si ricicla l’immondizia, bisogna riciclare l’esperienza. Maurizio Dal punto di vista personale, la volontà dipende dal soggetto: io non voglio essere disabile, questo contribuisce a far superare il trauma, si cambia, la testa aiuta, ognuno raggiunge il proprio livello di superamento, alcuni si riprendono, altri meno, altri no. Io e noi tutti speriamo che il lavoro che abbiamo fatto con voi in questi incontri possa essere d’aiuto per i nuovi infortunati dell’Inail, ma non tanto per prevenire, perché noi non possiamo fare più di tanto, ma per aiutarli ad uscire da quel tunnel buio in cui sono caduti. Noi siamo entrati in quel tunnel prima di loro e abbiamo già fatto il primo percorso al buio; poi in lontananza abbiamo visto il puntino della luce. Oggi qualcuno di noi la luce l’ha già trovata, altri la vedranno, ma il nostro gruppo deve aiutare quelli al buio a ritrovare la direzione per l’uscita. Spero che il gruppo d’incontro Inail di Torino possa aiutare tante persone del nostro paese anche se la mia testa vorrebbe non dover insegnare

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niente a nessuno perché non c’è più nessuno che si fa male lavorando. Impensabile nel nostro paese. Norberto Non voglio vantarmi, ma non vedo fallimenti, anche se in un anno e mezzo non ho ancora trovato lavoro, però non ho smesso di cercare. Quindi si può parlare di fallimento solo quando fallisce la persona, quando smette di risolvere problemi, quando si abbandona. Per fortuna non è il caso mio. Pietro Certo, finiti gli incontri spero possa rimanere qualcosa di importante per informare anche gli altri lavoratori. C’è un grande messaggio che possiamo dare agli altri. Ci vuole molta fede, e altre cose come l’amore e l’affetto per questa ragazza che è l’unica figlia e dobbiamo darle coraggio e sicurezza. La speranza nostra è serenità e tranquillità per lei. Volontà di amore per tenere duro: la cosa più forte che ci mantiene in piedi per affrontare con coraggio e serenità. Refit Penso che sia molto importante aiutare le persone giovani infortunate a ritrovare il lavoro e il loro posto in società, perché il lavoro è comunque la forza che ti manda avanti nella vita e ti dà la possibilità di viverla in pieno, ed è la risorsa economica più importante. Penso che si potrebbero organizzare molte attività con le persone che hanno subito un infortunio. Incontri in cui possono raccontare le loro storie, scambiare le esperienze. Per quelli che purtroppo non lavorano, si possono organizzare visite ai musei, frequentare centri culturali, gite diverse. Rita Potrebbe essere utile questa iniziativa che avete proposto.

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MESSAGGIO AI LETTORI Come avete visto, questo libro ha tanti autori che hanno raccontato la loro storia: se qualcuno di voi, leggendo, ha sentito emergere un ricordo, un pensiero e vuole inviarlo... In questo modo, il libro continua a vivere e si arricchisce continuamente di nuove storie… I riferimenti a cui far pervenire i vostri contributi sono Inail – Sede di Torino Centro Corso Galileo Ferraris 1 – 10121 Torino [email protected], con oggetto il titolo del libro.

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Ringraziamenti A Issa, che si è prestato alla prima intervista: è stato con lui che abbiamo valutato l’opportunità delle domande, il modo di porle.. Ai colleghi, agli amici, ai parenti, che hanno contribuito alla correzione dei testi, offrendosi come lettori per aiutarci nell’imponente lavoro di revisione della bozza. A Brigitte e Sabrina, che durante il tirocinio universitario presso i nostri uffici si sono impegnate nell’assistenza durante il laboratorio e nella correzione della bozza del libro. A Valbona, per la traduzione dei testi del padre Refit.

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Fare i racCONTI con il cambiamento

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Superabile Magazine È il periodico di Superabile.it, il portale dell’Inail dedicato all’informazione e alla documentazione sulle tematiche della disabilità. Sul numero di dicembre 2012 venne pubblicato questo articolo.

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