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fantaNETa cura di Marco Zolin

Giovanni De Matteo

RevenantStorie di ritorni e di ritornanti

Ferrara Edizioni

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La prima cosa che colpisce, entrando nella Zona, è l’assoluta mancanza di ogni rumore che non sia quello alieno e distante dei propri passi. A differenza di quanto la gente sia portata a pensare, non esiste una frontiera netta tra la Zona e il resto del mondo, qualcosa che giustifichi l’esistenza di un ingresso ufficiale con tanto di cancello in ferro battuto e guardie di servizio. Il Confine è labile e mutevole: oscilla attorno a un certo limite medio, ma non resta costante nel tempo. Ci sono studiosi che stanno dedicando il loro tempo a calcolare il periodo di queste fluttuazioni, ma per il momento nessuno è riuscito a cavarne fuori una formula quanto meno leggibile. Forse è perché la Zona non ha niente a che vedere con il nostro mondo e quindi con la rappresentazione della realtà proiettata dalla struttura euclidea dei nostri schemi mentali. Forse perché essa è manifestazione diretta, tangibile, di un mondo altro dal nostro, di una realtà con i propri schemi e le proprie imperscrutabili leggi.

Nella Zona

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Prima edizione: Marzo 2006Copyright © 2006 Ferrara EdizionifantaNET® è un marchio registrato

Editing: Simona CremoniniCorrezione bozze: Giulia Tonelli

ISBN 88-901470-5-9

Ferrara Massimo Antonio EdizioniC.so Anthony 2/b - 10093 Collegno (TO)

Tel 0114116907 - Fax 0114042589www.ferraraedizioni.it - www.dittaferrara.it

Revenant è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti o persone è puramente fittizio, qualsiasi somiglianza con persone reali, fatti o luoghi è assolutamente casuale.

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Prefazionedi Vittorio Catani

Fa sempre piacere imbattersi in un libro di un autore nuovo, capace di scrivere in modo personale e con idee originali. Specie quando si tratta, com’è il caso di Giovanni De Matteo, di uno scrittore di fantascienza, narrativa che frequento da decenni.

La moderna science fiction, si sa, è una letteratura “di genere”. Essa descrive sostanzial-mente l’impatto delle nuove tecnologie sulla società e sull’individuo. Nata negli Usa durante gli anni ’20 del XX secolo su riviste “popolari”, essa ha però seguito una evoluzione tumultuo-sa, passando nei decenni attraverso varie fasi. Dapprima storie di pura avventura, poi (anni ’40) storie più attente all’uso della tecnologia, successivamente (anni ’50) pagine interessate al sociale, o a una maggior sperimentazione linguistica e formale (anni ’70), per approdare infine negli ’80 al cyberpunk, sulle tracce del quale si continua oggi a scrivere, sebbene con un rimescolamento di linguaggi. La fantascienza è quindi diventata una narrativa fortemente specializzata e non di rado – specie con alcuni autori – ‘sofisticata’. Essa inoltre è stata, ed è tuttora, anche una letteratura ‘di idee’: nel senso che lo spunto narrativo fantatecnologico ha sempre fatto da co-protagonista della vicenda. In un secolo circa di vita, la science fiction ha elaborato e rielaborato nel suo calderone – quasi darwinianamente – milioni di idee d’ogni tipo, spesso germogliate l’una dall’altra: idee scientifiche, sociali, tecnologiche, filosofiche, religiose, esistenziali. Sottolineo questi aspetti per rimarcare quanto oggi sia diventato difficile scrivere una fantascienza che non sappia di déjà vu.

È il motivo per cui esordivo sottolineando anzitutto come Giovanni De Matteo riesca a essere personale nelle sue creazioni, pur attingendo a un immaginario fantatecnologico ster-minato, ma sfruttatissimo. Non è un caso che l’autore sia persona poliedrica, che si esprime artisticamente attraverso vari media.

Anzitutto ho apprezzato la scrittura, che – come il lettore verificherà – non è quella solitamente piatta e ordinaria che istintivamente si può associare a una narrativa “di genere”.

Le nuvole sopra il kibbutz erano una spruzzata di porpora nella notte marziana. Fiumi di sabbia scorrevano nell’aria gelida sopra la landa deserta. All’interno del rifugio, il controllo cli-matico manteneva la temperatura attorno ai 24 gradi Celsius. (...) Lo sguardo carico di tristezza di Kafir si perse sui pendii rocciosi delle colline. Colonie di licheni e di muschio cospargevano le pietre scolpite dal vento e dal gelo della notte...

Red dust

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Le frasi di De Matteo si dipanano limpide, taglienti, misurate, scorrevoli, (a volte anche ellittiche, nel senso che non tutto viene sempre detto). Quanto al lessico fanta-tecnologico, c’è ben poco di inventato, perché l’autore è a suo agio con argomenti e risultati di punta del-l’evoluzione tecnoscientifica attuale e da essi estrapola in modo consequenziale e plausibile: ci sono brevi momenti quasi cronachistici, se non da fanta-saggio, su di un mondo futuribile.

Informazione: come insegnano gli analisti, ne circola parecchia nei luoghi caldi, i cosid-detti nodi geopolitici. Più un posto è in bilico sull’orlo del cambiamento, maggiore è il quantita-tivo di informazione che esso attira. E’ una vecchia legge della fisica, quella che impone l’investi-mento di un certo quantum d’energia per scatenare un processo, una reazione. E’ quanto accade qui, a Cassandra. L’informazione è solo un sintomo. Il momento X si avvicina...

Cassandra

L’insieme, benché talora algido, trasuda un sottofondo d’angoscia che, nei momenti cruciali, si allarga in un’ondata emozionale.

Quest’ultimo aspetto mi sembra emerga soprattutto nel rapporto dell’autore con la figura femminile. C’è sempre una donna, in questi racconti di De Matteo. Non di rado si tratta di figure drammatiche, verso le quali i protagonisti mostrano quasi un’adorazione, che però si scontra con la realtà di rapporti inconsueti, tormentati:

La brezza spirava sul mare, portando odore di sale e profumo di terre lontane. L’acqua appena increspata rifletteva sfumature confuse di un cielo in fiamme. Rimase immobile, incapace di distogliere lo sguardo dalla grazia di Mirage. Si lasciava sfiorare le lunghe gambe affusolate dalla lenta corrente. E quasi non pareva umana, tanto era bella e distaccata. Le gambe nude erano quelle sicure di un airone, le cosce brune scoperte fin quasi alle anche. Le sottane color ardesia erano rimboccate alla vita, le pendevano dietro a coda di rondine. Il seno audacemente proteso verso il mare come un castello di prua, la dolce curva della schiena una formula perfetta per il passaggio a un’altra realtà.

Red dust

I mondi descritti da De Matteo sono così diversi dal nostro da apparire alieni, eppure così coerenti con il nostro da sembrare dietro l’angolo. Rari, se non rarissimi, i dialoghi tra i personaggi: quasi tutto è già nelle immagini, nelle trovate (fanta)tecnologiche, nei rapporti solitamente conflittuali tra i personaggi (una conflittualità che talora è l’altra faccia di amori impossibili, o perduti). E poi le allegorie, e scenari talmente iper-realistici da scivolare in un onirismo sfrenato.

Nella Zona, per esempio, narra di un luogo misterioso venutosi a creare sul nostro pianeta. In esso vige una specie di inversione entropica, per cui non c’è dissipazione, ma ac-cumulo d’energia. Uno dei risultati è che persone morte tornano in vita. Il protagonista entra nella Zona perché là c’è Sara, la sua donna. La incontra:

L’inversione ha preservato ogni componente della sua figura identica al ricordo di qualche particolare momento del nostro passato. Il colore dei capelli, la lucentezza delle unghie, la sfuma-tura della pelle, l’odore che emana: ogni cosa, in lei, non si scosta di una virgola dal ricordo di un qualche istante. Tranne le reazioni...

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Infatti, scoprirà, il personaggio narrante, una differenza c’è. Ne accetterà le conseguen-ze.

In Io vivo per Su Li-Zhen il protagonista è Numero Sette. Egli vive in funzione di un ideale, anzi di un sogno: è un “complementare”, cioè un essere apparentemente umano ma creato artificialmente, perché possa corrispondere esattamente ai desideri amorosi di una donna, Su Li-Zhen:

La mia missione? Trovarla, e assicurarle la massima dose di amore e piacere che un uomo possa concedere a una donna.

Su Li-Zhen è una genetista, specializzata in proteomica. Numero Sette condivide con Su buona parte del corredo genetico e tuttavia – come pensa lui – “non è mia madre, e io non sono un suo clone”. Ma chi ha creato Numero Sette? Perché ha questo nome? Qual è il suo scopo? In cosa altri sei, prima di lui, hanno evidentemente fallito? Si snoda così una ricerca frenetica, tra eros e pericoli mortali. Con un finale a sorpresa.

Il racconto dal conradiano titolo Cuore di Tenebra è a sfondo religioso. In esso l’au-tore riprende il mito cattolico della Caduta degli Angeli, reinterpretandolo in una visionaria chiave cyber-tecnologica – probabilmente lo spunto più originale dell’antologia – e, direi, sostanzialmente riportando il dualismo Bene-Male a una sorta di novello monismo.

L’albero e le stelle è invece una onirica cavalcata attraverso spazio e tempo – su e giù dal 2007 (Baltimora) al 1585 (Cuzco) al 2429 (a bordo di un’astronave) – alla ricerca della favolosa Fonte dell’Eterna Giovinezza.

In Cassandra si assiste a una sotterranea, quasi invisibile battaglia a colpi di elettronica e di vite umane, condotta fra le due massime potenze del mercato mondiale per il controllo appunto di Cassandra, una città diversa dalle altre.

Cassandra, mostro tentacolare cresciuto senza limitazioni masticando i sogni e le speranze dei suoi abitanti (...) Terra di espatriati di professione ed esiliati politici, crogiuolo di razze e vizi, sintesi mirabile delle peggiori caratteristiche dominanti ai due lati dell’interfaccia. In questa terra di nessuno, il nord e il sud del mondo hanno trovato un accoppiamento ideale (...) Ipertrofica meraviglia sintetica sospesa sull’orlo del collasso.

Infine Red dust, forse la storia più articolata della raccolta. Mi sembra nuova anche

l’idea di fondo: sul pianeta Marte furono a suo tempo trasferiti decine, forse centinaia di migliaia di mustadaphim (“diseredati”), “nullatenenti deportati alla fine della Jihad nel nome della colonizzazione planetaria”. Un gruppo di costoro cercherà di organizzarsi nuovamente, per combattere una battaglia “sanguinosa e persa in partenza” contro le corporazioni terrestri che intendono ridurre l’intero pianeta Marte al puro sfruttamento. Tra costoro c’è il protago-nista, Kafir (“miscredente”), che non è uno dei deportati, ma un semplice immigrato. Kafir ha fatto sua la causa rivoluzionaria per puro slancio romantico (e sentimentale). C’è anche del folklore, in questa specie di Medioriente trapiantato. Ecco uno squarcio riguardante Mar-sport, avamposto coloniale marziano:

Pochi velivoli a reazione arrancavano sulla termoresina del suolo stradale, sporca all’inve-

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rosimile. Centinaia di voci e rumori si fondevano nella notte perpetua di Marsport. Un caos di luci e ombre, strilla di venditori ambulanti, offerte di piacere carnale e di redenzioni chimiche a prezzi stracciati, sibili di motori e sirene della polizia.

In definitiva una raccolta di storie che, sotto l’aspetto del contenuto, pur nelle loro di-versità e sfaccettature, credo si snodino attraverso alcuni temi portanti. La diffusione capillare (e la fatale inevitabilità) della proliferazione tecnologica, sia nell’ambiente sia nelle nostre stes-se carni; un desiderio di trascendenza (ma in senso laico); il richiamo al ‘meraviglioso’ (tecno-logico o meno che sia); un substrato di pessimismo, cui fa da corollario un senso di solitudine: i personaggi sono generalmente ‘lupi solitari’; un’accettazione ‘provvisoria’ del mondo, ma con un gran desiderio di cambiarlo. Non manca infatti qualche colpo d’ala ottimista.

Formalmente, come dicevo: una scrittura che ha già al suo attivo numerose chance. Attendiamo quindi con grande interesse gli ulteriori sviluppi narrativi e artistici di

Giovanni De Matteo.

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Red dust

Le nuvole sopra il kibbutz erano una spruzzata di porpora nella notte marziana. Fiumi di sabbia scorrevano nell’aria gelida sopra la landa deserta. All’interno del rifugio, il controllo climatico manteneva la temperatura in un intervallo costante attorno ai ventiquattro gradi Celsius. Sebbene non fosse Zanzibar nel mese di agosto, Kafir si sentiva in un bagno di sudo-re. Trattenendo i brividi, abbassò lo sguardo al display del terminale plasmatico che portava al polso. Erano da poco passate le ventitré, ora standard di Redline Station. Manca poco, pensò incupendosi. Poi tornò a guardare fuori, oltre il perspex polarizzato, le immense distese scarlatte e immobili del panorama alieno.

Da qualche parte là fuori, ormai sepolto dalla sabbia granulosa, si trovava il rover di superficie Biyouma con cui era fuggito dall’avamposto di Marsport. Il tornado che imper-versava sul pianoro aveva ormai cancellato le sue tracce. Ma l’Inseguitore, ne era certo, non avrebbe tardato a scovarlo.

Un sospiro di stanchezza allentò la tensione dei suoi muscoli. Rivolse uno sguardo di apprensione al fucile d’assalto AKM riconvertito, abbandonato contro il muro alla sua sini-stra. La spossatezza e l’angoscia dell’attesa gli paralizzavano l’animo e la mente, rendendogli difficile prepararsi all’incontro. Comunque, ne era cosciente, ogni tentativo di sfuggire al suo destino si sarebbe rivelato uno spreco di tempo ed energie. Inutile. La sua sorte era segnata, come quella dei suoi compagni.

Ormai erano trentasei ore che non riceveva notizie di Mirage. E da almeno ventiquat-tro aveva perso i contatti con Yussif. Era solo, braccato, senza via di scampo. Per l’ennesima volta in quelle ore, impostò il terminale plasmatico sulla modalità intercom. Il numero di Mirage era in memoria, gli bastò confermare l’ultima chiamata. Un fruscio elettrico si diffuse dall’impianto audio, disilludendo l’attesa.

Il suo sguardo carico di tristezza si perse sui pendii rocciosi delle colline che delimita-vano il Chryse. Al di là, fiumi di sabbia trasportati dal vortice rendevano la notte incerta e misteriosa. Colonie di licheni e di muschio cospargevano le pietre scolpite dal vento e dal gelo della notte marziana. Guardando lo scenario macabro e desolato, comprese la sua fragilità intrinseca, e si sentì già morto.

In tanti anni di latitanza attraverso quelle lande perdute, non era mai riuscito a inte-grarsi con la natura del posto, e nemmeno ad adattarsi alle sue leggi. In fondo, per lui, Marte era sempre stato un immenso sepolcro a cielo aperto, una prigione in cui si era battuto per la

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sopravvivenza, finendo logorato dalla sua stessa resistenza all’ostilità dell’ambiente.Lui non era come Mirage, o Ali Yussif Snake Eyes, o come gli altri moudjahidins. Non

era uno di quei disperati mustadaphim nullatenenti deportati alla fine della Jihad nel nome della colonizzazione planetaria. Lui era solo un dannatissimo kafir, un miscredente finito sen-za nemmeno una ragione precisa nel posto sbagliato al momento sbagliato.

No, si disse. Una ragione un tempo l’aveva avuta. L’entusiasmo giovanile per un ideale, presto affiancato e poi quasi del tutto sostituito dall’amore per Mirage, erano stati per lui come il bastone e la carota per il classico asinello. Infine si era ritrovato su Marte, guerrigliero senza speranza, a combattere una battaglia sanguinosa e persa in partenza contro le corpora-zioni tese al progetto di speculazione coloniale. In sette anni di sabotaggi ai danni dei labo-ratori di ricerca a bassa gravità, di assalti ai convogli di trasporto che collegavano le diverse installazioni corporative, di ripetuti attacchi al potere e di vita ai margini, la sua legione si era ridotta all’osso. Dei trecento combattenti che avevano fondato l’Armata di Liberazione, erano sopravvissuti in appena una ventina. E ormai da giorni non sentiva un solo compagno.

Tutto quello che aveva fatto, i sacrifici che aveva affrontato, le battaglie che aveva com-battuto al fianco di Yussif e degli altri akhi, le vite che avevano spezzato insieme: tutto gli sembrava una cieca schermaglia contro il destino. Ogni sua azione, ogni suo gesto e ideale erano finiti metabolizzati dall’avanzata incontrastabile della mediocrità. Aveva sacrificato la sua vita a una battaglia disperata, infine risucchiata dalle fauci del tempo

Adesso avrebbe scambiato senza esitazione i suoi ultimi anni di vita con mezzo minuto in riva al vecchio Mediterraneo, il mare antico dei suoi padri e della sua infanzia. Chiuse gli occhi, sconfortato. E gli sembrò quasi di vedere il placido ondeggiare delle acque ancora azzurre e cristalline, flussi di malinconia nella calma piatta dell’inconscio. Sulla spiaggia, cul-lato dallo sciabordio delle onde, si voltò verso la lingua di sabbia bianca e fina che si perdeva all’orizzonte, e rivide Mirage.

La brezza spirava dal mare, portando odore di sale e profumo di terre lontane. L’acqua appena increspata rifletteva sfumature confuse di un cielo in fiamme. Rimase immobile, con i piedi che affondavano nel suolo tiepido e inconsistente che a ogni riflusso sembrava venire meno. Minuscoli granelli di sabbia in sospensione gli solleticavano le caviglie. Rimase immo-bile, incapace di distogliere lo sguardo dalla grazia di lei.

Poco lontano un ruscello sfociava nel mare. La sua acqua era fresca e limpida, e lasciava intravedere la rete di variopinte alghe marine che si intrecciava sul letto sabbioso. E lei era lì, in un’ansa del ruscello, laddove questo si allargava a formare un tranquillo specchio d’acqua al riparo dalle onde. Avanzava con passo solenne e spensierato allo stesso tempo, leggiadra come un uccello acquatico.

Strisce di nubi color cremisi, ambra e vermiglio si riflettevano nel laghetto. Mirage si era fermata. Gli stava davanti ma ancora non si era accorta della sua presenza, o almeno questo voleva fargli credere. Si lasciava sfiorare le lunghe gambe affusolate dalla lenta corren-te, contemplando assorta il mare e il tramonto. E quasi non pareva umana, tanto era bella e distaccata. Le gambe nude erano quelle sicure di un airone, le cosce brunite scoperte fin quasi alle anche. Le sottane color ardesia erano rimboccate alla vita, e le pendevano dietro a coda di rondine. Il seno audacemente proteso verso il mare come un castello di prua, la dolce curva della schiena una formula perfetta per il passaggio a un’altra realtà. I lunghi capelli castani si

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lasciavano cullare dal vento salmastro ed erano flussi di inchiostro danzanti nell’aria.Era sola e guardava verso il mare, facendosi schermo con una mano dalla luce arro-

ventata del tramonto. Quando mostrò di accorgersi della sua presenza e dei suoi sguardi trasognati, gli rivolse un’occhiata di placida tolleranza, senza tradire vergogna o insofferenza. Il suo viso si aprì in un sorriso di saluto e a quel punto fu come se un angelo caduto dal cielo si fosse finalmente rialzato, per suggere con avidità la luce eterna di Dio e dispensarla senza indugi alle creature della Terra.

Per un tempo indefinito Mirage sostenne il suo sguardo adorante, poi con calma ritras-se gli occhi dai suoi e li piegò alla corrente placida del ruscello, agitando lievemente l’acqua qua e là col piede. Quell’immagine gli entrò nell’anima con la forza dirompente di un sogno oppiaceo. Nessuna parola ruppe il sacro silenzio dell’estasi...

23:17:08. Le cifre sul fondo azzurro-elettrico del display digitale lo richiamarono alla realtà. Inquieto. Si sentiva come un animale in trappola, senza più alcuna via di fuga. Una preda con le spalle al muro, la cui unica barriera tra il futuro e il carnefice era rappresentata dal tempo. Il tempo... infido amico pronto a voltarti le spalle alla minima esitazione, entità astratta e indefinita che ti sorprende all’improvviso, quando meno te lo aspetti, con l’acqua alla gola.

Si voltò verso il terminale del kibbutz. Il laser disk di Mirage girava nel driver, mentre il suo software pirata provvedeva a decriptare le chiavi di accesso della Rete Cibernetica. La cura con cui lei lo aveva programmato rendeva superfluo ogni altro intervento.

Kafir sentì una goccia di sudore freddo scorrergli sulla tempia. Gli rimaneva poco tem-po, ormai. Si accorse di avere tutti i muscoli indolenziti. Vittima di un lieve attacco d’asma, affondò la mano destra, segnata da una trama inverosimile di cicatrici, nell’ampia tasca ven-trale della tuta da deserto. Le sue dita trovarono subito ciò che stava cercando.

Lentamente, con movimenti calcolati e freddi, sfilò il cappuccio di plastica traslucida che rivestiva la punta aguzza di sterile metallo luccicante. Poi si portò la fiala di Bluekiss pron-ta per l’uso nell’incavo del braccio sinistro e, trapassando la morbida cartilagine sintetica della tuta, affondò l’ago acuminato nell’umidità delle carni. Appena il liquido azzurro si riversò nella vena, sentì un flusso di gelida vitalità chimica risvegliare i suoi sensi. Fu questione di un attimo. L’allucinogeno venne pompato dal cuore verso la periferia organica e i centri recettori del sistema nervoso. Un’ondata di piacere travolse la sua percezione della realtà. Una sinestesia celestiale si impadronì del corpo e della coscienza, e subito la mente venne catapultata in una nuova, più complessa dimensione cognitiva. (Continua...)

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L’albero e le stelle

Appunto per questo affermo che Kurtz era un uomo notevole. Aveva qualcosa da dire, lui. E la disse. E poiché ho sbirciato anch’io al di là del bordo, capisco meglio, ora, il significato di quel suo sguardo fisso che non riusciva a scorgere la fiamma di una candela ma era tanto vasto da abbracciare l’universo intero, tanto acuto da penetrare tutti i cuori che pulsano nelle tenebre.

Joseph Conrad, Cuore di tenebra

1585. Cuzco, Nuovo Mondo

Da un angolo della piazza affollata, un gruppo di non meno di dodici contadini que-chua diffondeva sul mercato una melodia malinconica. La voce delle antara si offriva con ge-nerosità alle percussioni del wankara e il tamburo di pelle scavava a fondo nelle tonalità della musica. Il complesso si stava esibendo sotto il sole del primo pomeriggio: erano solo le prove della festa che si sarebbe tenuta quella sera per celebrare la Luna Nuova e la Santa Vergine, ingraziando così alla città la benedizione del Signore in vista del raccolto imminente.

Dai campanili gemelli della Compañía le ombre barocche si allungavano sui tetti delle case prospicienti. La plaza era già affollata: molte famiglie avevano preferito la Santa Messa in attesa dei festeggiamenti che sarebbero seguiti, piuttosto che la restante mezza giornata di lavoro nei campi. Quella sera Cuzco sarebbe letteralmente esplosa di canti, di danze e di gioia.

Lord Kelvin-Lovelace, per la prima volta da chissà quanto tempo, si sentiva in vena di partecipare a quell’allegria. Tanto più con quella musica in grado di evocare immagini lontane nel tempo, nello spazio, nella memoria, accordandosi dunque all’armonia del suo mondo in-teriore, rimasto sempre ancorato alla sponda opposta dell’Atlantico, dove le onde dell’oceano si infrangevano sugli scogli che parevano sancire la Fine della Terra.

Land’s End. Era quello l’unico posto che avrebbe potuto chiamare “casa”, almeno fin-ché avesse potuto ricordare la figura graziosa di Laureen Kate, Lady Gladstone vagare per i suoi campi e i prati e sulle scogliere orribili.

Dopo almeno sette anni di ricerche che lo avevano spinto in ogni angolo delle terre emerse, dopo undici mesi trascorsi solo lassù nel cuore delle Ande, lontano seimila miglia da lei, non si era mai sentito tanto vicino alla meta come in quei giorni. Di lì a quarantotto ore, finalmente, sarebbe tornato in marcia verso la fine del Viaggio. Mai, come allora, la spe-

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dizione che si apprestava a condurre per la Cordigliera Orientale poteva ambire a segnare la conclusione del suo errare per i continenti.

Erano state le sue lunghe ricerche a spingerlo lassù, tra le vette dei monti più selvaggi del globo, dove un tempo erano fiorite civiltà potenti e meravigliose. Quelle civiltà, soppian-tate dagli Incas prima che questi a loro volta fossero spazzati via dalla furia dei conquistadores, erano scomparse senza lasciare sulla faccia della terra altro che miti, leggende, parole… le om-bre del passato che Maximillian Kelvin-Lovelace andava inseguendo con tanta ostinazione.

Nella sua mente era ancora viva quella sera di novembre, quando nel corso di un rice-vimento presso la tenuta dei Gladstone a Sennen Cove, Kate gli aveva lanciato la sua sfida. Come stirpe solidale da tempo immemore, i Gladstone condividevano amicizie, relazioni e traffici coi Kelvin-Lovelace di Bristol, ma la conoscenza reciproca dei ruoli dei singoli com-ponenti si perdeva nella molteplicità degli interessi e dei rami delle famiglie. Il fuoco del caminetto danzava sulla sua pelle giovane e algida quando Kate aveva chiesto a Maximillian quale fosse la sua attività in seno ai Kelvin-Lovelace.

«Sono un filologo» aveva replicato lui. «Mi occupo di civiltà estinte, storie antiche.»Lady Gladstone aveva avuto un sussulto figurandosi una vita avventurosa.«Non quanto la gente sia portata a credere» si era schermito lui. «Il mio lavoro si con-

suma sulle pagine di testi antichi, leggendo le parole di lingue ormai morte.»«Capisco» era stata la replica di Kate. Il suo sguardo vago aveva tradito una progressiva

perdita di interesse nella conversazione.«Ma non è un lavoro noioso, ve lo garantisco» aveva ripreso Maximillian, in un tentati-

vo in extremis di riportare sulla sua vita l’attenzione della fanciulla. «Spesso mi trovo ad avere a che fare con miti affascinanti. Nelle ombre del tempo la storia finisce col mischiarsi alla leggenda, generando territori di confine vasti, ancora tutti da esplorare, come la storia della Fonte della Giovinezza Eterna…»

Il passo discreto di Frate Gabriel, uno dei gesuiti della Compagnia, lo sorprese alle spalle. Frate Gabriel si avvicinò alla scrivania su cui Lord Kelvin-Lovelace aveva dispiegato la mappa, con il percorso tracciato in rosso che si sviluppava contorto tra le sparute postazioni umane in cui avrebbe fatto tappa la spedizione.

«Finalmente ci siamo!» disse il gesuita lasciandosi contagiare dall’entusiasmo che ema-nava dal viaggiatore inglese.

«Con l’aiuto del Signore questo sarà il viaggio definitivo.»«Suppongo che vi farà piacere, allora, sapere che ci è appena giunta una lettera dal Re-

gno d’Inghilterra» fece Frate Gabriel porgendogli una busta tutta segnata da inchiostri neri, marchi doganali e impronte umane.

Quando Maximillian estrasse la lettera e la spiegò, al fruscio di carta si accompagnò un odore di rive lontane. Il filologo si lanciò con foga nella lettura… e dalla lettura apprese quanto potessero essere crudeli le parole degli uomini. In virtù della sua navigata esperienza, aveva imparato ad apprezzare il mistero arcano delle parole antiche, la ricchezza variegata delle parole moderne e la meraviglia suprema della parola rivelata. Mai si sarebbe aspettato di scoprire, un giorno, la forza inclemente e dolorosa delle parole di una donna.

Lady Gladstone lo informava, con distacco e concisione, che il suo matrimonio con Lord August Chadwick aveva avuto luogo in data 24 agosto 1585, nella Chiesa consacrata al

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Santo Giovanni a Londra.Scorgendo le ombre raccogliersi sul suo volto, Frate Gabriel chiese: «Tutto bene, Lord

Kelvin-Lovelace?» Poi, di fronte al protrarsi del suo silenzio, aggiunse: «Volete restare un po’ solo? Spero non sia successo niente di grave…»

Ma Lord Kelvin-Lovelace pareva sprofondato nelle nebbie del tempo, in un abisso ir-raggiungibile da cui le voci umane erano escluse, dove sopravvivevano solo i canti di morte, lugubri e spettrali, della sua terra lontana.

«Forse la spedizione subirà un ritardo?» riprese con premura il gesuita. «Oppure dob-biamo considerarla annullata?»

Richiamato alla realtà dall’urgenza di quel tema, Maximillian mise via la lettera e final-mente si risolse a fornire lumi al suo ospite. «No» disse con voce cupa. «La spedizione si farà. Anzi, avvertite gli altri. Partiremo domani stesso.»

2007. Baltimora, USA

Qualcuno aveva lasciato una copia dell’ultimo numero della Physics Review sulla sedia accanto alla sua. La copertina raffigurava un campo stellare che copriva una sezione di diversi anni-luce del bordo della nostra galassia. Tra le molte stelle vi erano giganti rosse, ipergiganti azzurre, soli della sequenza principale e stelle pronte a trasformarsi in supernovae, tutte rese democraticamente anonime dalla distanza. Tra di loro, però, ne spiccava una. Non era la più luminosa, né risaltava per altri particolari meriti intrinseci. Però un riquadro la isolava dal resto di quello scorcio di Via Lattea. Il titolo recitava:

IN ASCOLTO DELLE STELLE

Quella stella dall’apparenza comune era balzata all’onore delle cronache per via di un segnale ricevuto dal VLBA della National Science Foundation. Il segnale radio aveva tutta l’aria di essere un messaggio strutturato, ancora tutto da interpretare. Lo scopritore aveva ribattezzato l’oggetto, finora noto con una sigla impossibile da ricordare, Lankiveil.

Max Webber aveva seguito il dibattito con scarsa attenzione. I suoi colleghi si erano limitati a esporre quello che lui aveva già letto sui loro rapporti. Così, per ovviare alla noia, aveva trascorso buona parte del tempo a sfogliare la rivista, leggiucchiando gli articoli. Il pez-zo del Dr. Aronofsky del National Radio Astronomy Observatory di Charlottesville lo aveva affascinato.

Quando venne il suo turno, Webber salì sul palco, si schiarì la voce e fece partire la sua presentazione. Il titolo dell’intervento era mutuato dalla sua ultima pubblicazione: Rallenta-mento dei processi entropici in organismi complessi: una via genetica all’ibernazione.

Le immagini alle sue spalle documentavano le fasi salienti delle esperienze che, da oltre tre anni, portava avanti con i suoi colleghi del Dipartimento di Genetica dell’Università del Maryland. Quando giunse al nocciolo della questione stava dicendo: «…è il gene identificato con la sigla H33shc. Sembra che particolari situazioni ambientali, come un’improvvisa man-

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canza di ossigeno oppure un abbassamento quasi istantaneo della temperatura, siano in grado di stimolarne l’attivazione. Una volta abilitato, il gene trasmette l’informazione alle cellule per una sorta di “congelamento”. Il metabolismo si ferma, le centrali energetiche mitocondriali entrano in stasi. L’organismo accetta l’ibernazione con una certa benevola disposizione. In queste condizioni, abbiamo tenuto sospese le nostre cavie per periodi anche molto lunghi. Siamo arrivati fino a una settimana di congelamento, ma riteniamo che l’unica barriera sia rappresentata dalle modalità operative di partenza…»

Il suo intervento andò avanti ancora per una decina di minuti, illustrando i risultati più significativi, come il tasso di sopravvivenza straordinariamente elevato e immutato anche per lunghi periodi di ibernazione. O, soprattutto, l’estensione della vita media delle cavie sottoposte al procedimento. Bastava quel gene in origine identificato nel DNA di un verme abissale a donare la capacità di ibernazione alle cavie da laboratorio e allungarne automati-camente la vita. In particolari condizioni, quel gene diventava un’arma non convenzionale contro l’entropia e il lento degrado delle funzioni organiche.

I presenti ascoltarono con generale interesse e, alla fine, gli posero domande sugli svi-luppi futuri. Max si tenne sul vago, dando prova di una visione pragmatica e concreta. Infine si congedò per la pausa pranzo.

Prima di lasciare la sala delle conferenze, intercettò Mallory. Quell’uomo, nel suo com-pleto nero da becchino, coi suoi modi distaccati e l’espressione torva, gli dava i brividi. Trat-tandosi della principale fonte di sovvenzioni per le sue ricerche, si obbligava comunque a dimostrargli deferenza e cortesia. Staccandosi dal gruppo di colleghi che era confluito sul palco per complimentarsi con lui, Max si diresse verso il benefattore. Come sempre, questi si era tenuto attentamente in disparte.

«I miei complimenti, dottore» Mallory se ne stava appoggiato al suo bastone da pas-seggio. Rispetto all’ultimo incontro, le orbite sembravano essersi incavate ancora di più nelle già profonde occhiaie. «La sua è stata davvero una esposizione lucida e brillante. E i risultati sono la parte più interessante del lavoro. Se continua di questo passo, non tarderà a vedere realizzati i sogni di questa gente.»

«E in merito ai nostri sogni?» chiese Max, ostentando una certa disinvoltura.Mallory gli rivolse un’occhiata sorpresa. «Ogni cosa a suo tempo, Dottor Webber. Cer-

to è che le sue ricerche sul rallentamento dei processi entropici nei sistemi organici aprono sbocchi naturali su quell’altra questione. Porti pure a termine i suoi studi sull’ibernazione. Ne riparleremo a tempo debito.»

Quando Mallory lo lasciò, allontanandosi sulle sue vecchie gambe zoppicanti, malgra-do l’ottima riuscita della presentazione Max poteva dirsi tutt’altro che soddisfatto. Decise di disertare il pranzo coi colleghi e tornare subito a casa da Catherine. (Continua...)

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L’autore

Giovanni De Matteo

Nato a Policoro (MT) nel 1981, Giovanni De Matteo si è dedicato giovanissimo a letture poco didattiche, divorando H.P. Lovecraft, Alfred E. van Vogt e Philip K. Dick. Av-vicinatosi più tardi al cyberpunk, ha scoperto questo movimento quando i suoi fondatori si affrettavano ormai a dichiararlo estinto. Apprezza J.G. Ballard, Thomas Pynchon, Kurt Von-negut e William S. Burroughs, i futuristi russi, l’iperrealismo di Edward Hopper, la metafisica di Giorgio De Chirico, la musica futuristica di David Bowie e la visione epica di Stanley Kubrick.

Laureato in Ingegneria Elettronica, nel tempo libero mette su carta i suoi sogni e i suoi incubi. Suoi racconti sono stati pubblicati su riviste elettroniche, in e-book e in antologie. Sceneggiatore di fumetti per lo Studio Cagliostro di Giorgio Messina, firma gli speciali di Eon e la serie regolare di DN4-e, entrambi disponibili on-line sul sito LaTelaNera.com. Cura inoltre il blog Strano Attrattore e collabora con i siti di letteratura fantastica Othersider.com, Continuum e Fantascienza.com.

Estensore insieme agli amici Sandro Battisti e Marco Milani del Manifesto del Connet-tivismo, con loro ha fondato nel 2005 Next, una pubblicazione trimestrale che si pone come organo di stampa di un tentativo di avanguardia.

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La collana

fantaNET

fantaNET è un’occasione unica di contatto fra mondi differenti, un crogiolo di idee fantastiche in libertà, un’opportunità per tutti coloro che amano sognare. Fantascienza, Hor-ror e Fantasy si fondono in un gioco di reciproche contaminazioni e danno vita a una collana pensata per accompagnare il lettore oltre la soglia di un mondo straordinario. Il compito di guidarlo lungo il cammino spetta a una squadra di giovani autori italiani, promettenti scrit-tori e illustratori che, finora, si sono fatti conoscere soprattutto attraverso la Rete.

Il colore della fascetta che contrassegna ogni volume suggerisce il genere dominante dei testi all’interno. Blu per la Fantascienza, Viola per l’Horror, Verde per il Fantasy: tre sentieri per liberare la fantasia.

fantaNET è realizzata in collaborazione con ClubGHoST.it, il portale ufficiale della GHoST Community, dal 1994 in prima linea per sostenere e diffondere la cultura del fanta-stico. Su ClubGHoST.it il lettore ha la possibilità di entrare direttamente in contatto con gli autori e mettersi alla prova ricercando la chiave per avere accesso a testi inediti e aggiudicarsi il prossimo numero della collana.

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Indice

Prefazione di Vittorio Catani 7Red dust (estratto) 13L’albero e le stelle (estratto) 17L’autore - Giovanni de Matteo 21La collana - fantaNET 22

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Distribuito da LaTelaNera.comper conto di Ferrara Edizioni