Excalibur - La Spada di Macsen di Alvaro Gradella

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Il Comes Britanniarum Magno Clemente Massimo fu l’ultimo Governatore romano delle Britannie e un temutissimo usurpatore nel tardo Impero. Per la prima volta viene svelata e messa in luce una figura fondamentale per la nascita dell’epopea di Re Artù, la sua spada - la Spada di Macsen - venne favoleggiata come l’arma che sarebbe stata tratta dalla roccia e chiamata Excalibur. I bardi di Britannia ne cantarono le gesta nella ballata “Breuddwyd Macsen Wledig” (Il sogno del Duca Massimo) contenuta nell’antica raccolta “Mabinogion”, e, addirittura, Goffredo di Monmouth nella “Historia Regum Britanniae” fa affermare ad Artù che Magno Massimo era suo” parente stretto”. In un intreccio fra Storia, Leggenda e Fantasia, Magno Massimo si confronterà con altri giganti della Storia (l’Imperatore Teodosio il Grande, il Vescovo di Mediolanum Ambrogio, il retore Agostino, il monaco Martino) e del Mito (il druido Taliesin, il principe britanno Cynan Meriadoc). http://bit.ly/1Gz542M

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Excalibur La Spada di Macsen

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Titolo: Excalibur Sottotitolo: La Spada di Macsen

Autore: Alvaro Gradella

© 2014 Runa Editrice www.runaeditrice.it - [email protected] ISBN 978-88-97674-43-6 PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA Copyright 2014 Runa Editrice

Tutti i diritti di traduzione, riproduzione e adattamento, totali o parziali, con qualsiasi mezzo, anche copie fotostatiche e microfilm, sono riservati. Stampato per conto di Runa Editrice nel mese di dicembre 2014 da Projectimage (Padova) su carta ecologica certificata FSC

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Alvaro Gradella

EXCALIBUR La Spada di Macsen

RUNA EDITRICE

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Prefazione

Alvaro Gradella prosegue con questo suo Excalibur – La Spada di Macsen il percorso mitico-narrativo iniziato con L'Aquila e la Spada nel 2012, di cui abbiamo già avuto modo di trattare. Lo fa con una sapienza di tratto che gli apre le porte a un possibile e già in nuce proseguo che lo condurrebbe alla stesura di una trilogia narrativa, unica in Italia, sul passaggio dalla Romanità al mondo storico e mi-tico di Artù, figlio di Uther Pendragon. Ma questo non è il solo suo merito.

L’Autore, cosa rara in un clima di consumismo culturale in cui chi scrive romanzi storici – un genere di sempre fecondo successo, fatto che suggerisce molte valutazioni attorno al bisogno di identità storica che contraddistingue il mondo in cui viviamo – lo fa leggen-do al massimo altri romanzi storici e compulsando la più vasta mi-niera a cielo aperto di errori e superficialità della modernità, Wiki-pedia, da anni studia con attenzione quel lungo e cruciale periodo di passaggio fra Romanità e Alto Medioevo che darà poi vita a un cuore pulsante della letteratura e dell’identità europea: la “Materia di Bretagna”, la storia di Re Artù e della Tavola Rotonda.

Da anni, si diceva: la mia conoscenza con Alvaro Gradella risale al 1997, quando con “La terza Aquila” – un racconto veramente bellissimo, dove già allora e con largo anticipo tratteggiava la gene-si romana di Excalibur – vinse il 2° Premio al Concorso Interna-zionale promosso da Fantàsia in occasione dell’annuale Convention Nazionale di Letteratura Fantastica e dell’Immaginario (ItalCon). Il suo racconto venne quindi pubblicato in una bella antologia dal nome È sempre tempo di eroi (Il Cerchio, 1998).

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Già in quell’occasione egli si misurava con una profondità di conoscenza che lasciò stupita la Giuria del Premio attorno alla dia-lettica storica e spirituale fra Romanità e Germanesimo; anche allo-ra perno del racconto era una spada; anche in quel racconto la fi-gura dell’eroe era resa asciuttamente, senza retorica né antiretorica. Una scrittura efficace e stringata, una trama avvincente: un notevo-le autore scoperto, che solo la devastante esterofilìa del mondo let-terario italiano – esasperata nell’ambito della letteratura di fanta-scienza e fantasy, in cui si è dovuto spesso assistere al penoso spet-tacolo di autori di Bari o Rho che per pubblicare racconti e roman-zi in Italia dovevano inventarsi pseudonimi anglosassoni e far finta di essere americani – ha tenuto ai margini della meritata notorietà artistica in ambito letterario, che in altri ambiti gli ha viceversa assai più abbondantemente arriso.

Ora, il lettore de Excalibur – La Spada di Macsen può quindi mi-surare da solo lo spessore di questo amore di Gradella per quella stagione corrusca e cruciale della nostra storia, crogiolo in cui ha preso forma l’Europa di oggi, e considerare come dietro alla bella lettura di questo romanzo riposino molte belle letture, altrettante meditazioni, uno studio assiduo del contesto storico e antropologi-co di cui esso si nutre generosamente.

L’afflato… per un romanzo storico è tutto. In realtà Alvaro Gradella ci narra costantemente le metamorfosi dell’archetipo del-l’Eroe, che a differenza della nota e infelice battuta di Bertold Bre-cht, non ci abbandona mai; così come ci è noto quanto il dramma-turgo tedesco adorasse gli Eroi del Lavoro dell’Unione Sovietica, non esiste semplicemente società umana che non distilli i propri esempi e non li additi all’onore sociale, all’imitazione dei propri membri. Se gli storici delle religioni, a partire dallo statunitense Jo-seph Campbell, hanno da decenni illuminato l’esemplarità, quindi la natura sociale e pedagogica della figura dell’Eroe nelle società tra-

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dizionali, chiunque analizzi la società contemporanea si trova a do-ver affrontare il medesimo tema, che per pudore potrà essere tra-vestito con termini più politically correct (come moda, o icona…) ma che resta vivo della medesima funzione; di fronte alle miriadi di magliette col volto trasfigurato di Che Guevara e alla macchina massmediale che divinizza Lady Gaga a uso delle adolescenti in cerca di identificazioni di successo, nei due romanzi di Alvaro Gradella lo spessore del protagonista Magno Clemente Massimo appare scolpito nel marmo.

“La Storia è scritta dai Vincitori, la Leggenda… dagli Sconfitti”. Que-sta frase, già scolpita nella copertina della prima edizione de L’Aquila e la Spada, viene ripetuta in calce a questa sua nuova fatica letteraria. Ma così come i Vincitori non sono sempre né belli né buoni, così gli Sconfitti continuano a richiamare non solo la pietas che si deve (si dovrebbe) riconoscere al valore sconfitto sul campo, ma qualcosa di più: la bellezza dell’azione, la profondità dell’amici-zia, il coraggio di fronte a un destino che come quello di tutti noi è intessuto di speranze e timori, di amore e delusione, di vita e di morte. Le vicende lontane del tempo in cui, alla periferia del mon-do conosciuto, l’eredità di Roma divenne l’utero di un cruciale e archetipico Medioevo sacro, tornano così a parlare a ognuno di noi della battaglia quotidiana, che ogni uomo combatterà su questa ter-ra finché non avremo nuovi cieli e nuove terre. E in questa narra-zione la Spada rimane il simbolo assiale, nella sua continuità e nelle sue trasformazioni, di una sacralità che non si estingue. Mai.

Adolfo Morganti

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Adolfo Morganti

Psicologo e psicoterapeuta, svolge funzioni peritali presso i Tribunali Ci-vili e Penali di Rimini e San Marino e il Tribunale Ecclesiastico Flaminio di Bologna. Presidente dell’Associazione Culturale Internazionale Identi-tà Europea e già dell’Unione Paneuropea della Repubblica di San Mari-no, promotore e coordinatore l’Università d’Estate della Repubblica di San Marino. Tra gli Istituti da lui fondati si ricordano l’Osservatorio Sta-bile sull’Integrazione Europea e la Sussidiarietà, il Centro Studi Nuovo Medioevo della Repubblica di San Marino, presieduto dal prof. Franco Cardini, l’Istituto di Studi Storico-Politici Sammarinese (ISSPOS). Ha di-retto la Collana di Saggistica “L’uomo e il Sacro” presso le Edizioni Ru-sconi di Milano, il quadrimestrale di Studi di Antropologia Religiosa I Quaderni di Avalon e il mensile EuropaItalia. Collabora a numerosi pe-riodici italiani ed europei. Tra i suoi numerosi saggi, oltre alle traduzioni e alla curatela di opere di L. Charbonneau-Lassay, S.E. Mons. Paul Pou-pard, Takuan Sōhō, si ricordano “Il Mago Merlino. Metacritica di un mi-to letterario” (Solfanelli editore, 1986), “Il Mistero del Mago Merlino” (Il Cerchio, 2008), “La costruzione dell’Europa unita. Storia, radici, prospet-tive” (Il Cerchio, 2006). Tra le mostre da lui curate: “Un tempo da riscri-vere: il Risorgimento italiano” (con F.M. Agnoli), “San Colombano, Aba-te d’Europa” (con Paolo Gulisano e Mauro Steffenini); “Roma, Santiago, Gerusalemme. Vie e luoghi dell’incontro con Dio” (con Franco Cardini).

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Alla memoria di mio padre (1920-1977)

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Avvertenza per il lettore

Per favorire la comprensione del contesto in cui si svolgono i fatti narrati nel romanzo, il lettore troverà alle pagine 12 e 13 la mappa dell’Impero Romano com’era all’epoca e a pagina 68 la contempo-ranea cartina della Gallia. Utili ragguagli si trovano anche nell’APPENDIX a pagina 259. Qui, oltre a una interessante Cronistoria di Roma d.C., sono pre-senti le Fonti bibliografiche, la Toponomastica antica e moderna dei luoghi citati e una tabella di comparazione fra alcune Unità di Misura romane e attuali.

Per ulteriori riferimenti sono attivi il sito ufficiale www.laquilaelaspada.com

e la pagina Facebook.

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…Artù si rivolse loro in questo modo: «Costantino e Massimo, miei parenti stretti che furono Re della Britannia, si sono impos-sessati entrambi del trono imperiale di Roma.»

Goffredo di Monmouth, “Historia Regum Britanniae”, XII Secolo.

Il re Vortigern disse al fanciullo: «Qual è il tuo nome?». «Mi chia-mo Ambrosius, ovvero Embreis Guletic.» Il re gli chiese da quale progenie discendesse, e il ragazzo rispose che suo padre era un Console romano.

Nennio, “Historia Brittonum”, IX Secolo

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Gli zoccoli mordevano, avidi e instancabili, il lastrico della Via Gal-liarum che da Lugdunum portava a Mediolanum, la capitale del-l’Impero Romano d’Occidente. Per recapitare quel dispaccio, ur-gente quanto segreto, molti cursores e molti cavalli si erano succedu-ti al galoppo lungo l’antica strada romana.

Per centinaia di miglia, dalla capitale della Provincia Lugdunensis Prima – la più importante dell’intera Diocesi di Gallia – essa punta-va verso le Alpes maestose, s’incuneava lungo la valle del fiume Isàra, s’inerpicava fino ai settemila piedi d’altezza del passo di Alpis Graia, per poi scendere lungo il corso della gelida Dura Bautica, figlia del massiccio gigante bianco, fino a raggiungere le mura dal disegno austero ed essenziale della nobile Augusta Praetoria, inca-stonata nella valle scavata dal fiume. Altri cursores e altri cavalli si erano dati il cambio, sfrecciando dalle stazioni di posta montane disseminate lungo la Via Galliarum, finché la città d’Eporedia ave-va sancito la fine dei valichi e annunciato la grande pianura. E poi Vercellae. E poi Novaria. E il ponte sul Ticinus.

Ora, l’ultimo cursor incitava il cavallo verso Mediolanum, distan-te, ormai, solo poche miglia.

Nessuno ostacolava il suo galoppo: pochi i viandanti, che im-mediatamente si facevano da parte, e nessun carro che trasportasse merci o cibarie, né animali da soma a intralciare il passo. Solo qual-che contadino, lontano, nei campi sconfinati della valle del Padus, il re di tutti i fiumi.

Giacché quello era un giorno di festa, e chiunque aveva potuto

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era corso, fin dalle prime luci dell’alba, ad affollare le gradinate del grande Circo, le cui bianche mura splendenti già si scorgevano in lontananza elevarsi sopra quelle scure e arcigne della città.

Costruito meno di un secolo prima dall’Imperatore d’Occidente Massimiano, che volle così celebrare Mediolanum capitale e pro-pria sede imperiale, il Circo s’affacciava alle mura occidentali, fra la Porta Vercellina a nord e la Porta Ticinensis a sud. Massimiano aveva voluto rivaleggiasse con il mastodontico e antico Circo Mas-simo a Roma: l’arena – cosparsa di grossolana sabbia di fiume, per ridurre al massimo la polvere – sfiorava in lunghezza il mezzo mi-glio e superava i quaranta passi di larghezza; la spina – l’alto zocco-lo che separava le due piste dell’arena – misurava oltre duecento passi ed era ornata da un candido obelisco a ogni estremità e da uno nel mezzo, fra statue, colonne e gruppi marmorei; le gradinate, che s’alzavano fino a quindici passi dal terreno, contornavano l’arena come un lungo ferro di cavallo, interrotte da una monu-mentale entrata dalla facciata a due piani e sette archi, ai cui lati spiccavano due torri quadre. Da lì, si usciva dai sotterranei all’arena e dalla strada si accedeva agli spalti.

E già da ore la cavea era gremita da una moltitudine vociante di oltre centomila fra uomini e donne d’ogni età e condizione, che ur-lavano e ridevano, litigavano e s’accapigliavano, mangiavano e be-vevano, in una bolgia ribollente e festosa. Come un’onda, il mug-ghio di quella sorta di drago dalle innumerevoli gole straripava ol-tre le tribune, invadendo la città e precipitandosi sulla strada incon-tro al cavallo al galoppo e al suo cavaliere. E in essa questi si tuffa-rono, puntando frenetici l’arco della Porta Vercellina.

In quel momento, il drago che s’agitava sulla cavea ruggì tutta la propria esaltazione: da dietro le grate dei carceres – che davano sull’arena da sotto il castello d’entrata – ecco intravedersi, eccitati e furenti, i cavalli aggiogati ai carri da corsa.

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Trattenuti a fatica dagli aurighi, gli animali nitrivano insofferenti all’ostacolo delle grate, spingendole col muso, colpendole cogli zoccoli, bramando quella lunga pista piena di luce, dopo ore nel buio angusto delle scuderie sotterranee.

Quattro erano i destrieri per ogni carro, e quattro erano i legge-rissimi carri a due ruote per quella corsa. Pur divisi dagli steccati che separavano le quadrighe, i cavalli sfogavano la furia e la fru-strazione attaccando a morsi gli animali avversari, e scalciavano cercando di scavalcare gli steccati.

Così, le basse volte dei carceres risuonavano delle urla degli auri-ghi e degli schiocchi delle fruste.

Quattro – come nei tempi antichi – le factiones a contendersi la Palma e un ingente premio in oro, ognuna a rappresentare una sta-gione dell’anno, ognuna rappresentata sugli spalti da migliaia di propri sostenitori con drappi e vestiti del suo colore: la Albata, candida come la neve invernale nella corta tunica e nel piccolo el-mo dell’auriga – un bruzio tarchiato e scuro di pelle – così come nei fiocchi di lino che ornavano le criniere dei quattro possenti ca-valli grigi pomellati di razza sicula… la Russata, dove il carminio di certi tramonti d’estate vestiva le membra asciutte del numida che impugnava salde le redini di quattro berberi snelli e dal mantello baio… la Veneta, contraddistinta dal pallido ceruleo delle nebbie autunnali, che aveva sul cocchio un agile galata dai lunghi capelli biondi, giunto dal cuore dell’Asia Minore, terra di Ettore, il doma-tore di cavalli; egli teneva le briglie come nastri di seta, morbide e carezzevoli sui dorsi quasi femminei dei suoi magnifici destrieri dal lucido manto argenteo: alti e slanciati al garrese, la testa affusolata ed elegante illuminata da benevoli occhi azzurri, raspavano piano il terreno con i piccoli zoccoli rosati; in epoche lontane, i loro pro-genitori percorrevano in mandrie sterminate le immense pianure partiche a sud del Mare Caspium, da cui cavallai ittiti li portarono

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per rendere invincibili i loro carri da guerra contro gli Egizi: infatti, essi erano veloci e imprendibili come il pensiero, tanto che i loro zoccoli sembravano non toccare terra, e il divino Pegaso le loro forme aveva… la factio Prasina che, invece, nonostante sfoggiasse il quieto colore dei prati in Aprile, aveva il proprio carro squassato da quattro colossali demoni neri della Tessaglia: aspri e terribili come gli aridi monti di quella terra, rozzi e protervi come i Centau-ri che vi nacquero, agitavano la testa massiccia e percuotevano il terreno con grossi zoccoli scuri ricoperti di pelo; chi poteva dubita-re che in loro non scorresse lo stesso sangue selvaggio di Bucefalo, che solo Alessandro il Macedone poté domare? Saldo sulle tozze gambe arcuate stava l’auriga, un trace rosso di capelli e sfregiato in volto: come gli altri, aveva i capi delle redini legate al corpo e un coltello alla cintola per reciderle; sorridendo sprezzante alle smanie furenti dei suoi tessali, soppesava nella mano destra la frusta, lunga quattro cubiti, come pregustando il momento d’usarla.

Erano pronti. E il gran drago in agguato sugli spalti riprese ad agitarsi: a migliaia le sue scaglie bianche, verdi, rosse e azzurre si sollevarono verso chi avrebbe dato il segnale, e altrettante gole in-citarono frenetiche al lancio della mappa, il panno bianco della par-tenza.

Non v’era alcuno, ormai, che non guardasse impaziente verso il pulvinar, la tribuna imperiale: posta sulla gradinata orientale, vi si accedeva direttamente dal Palatium; esso – splendente di marmi e colonne, e lussureggiante di giardini e fontane – torreggiava attiguo al grande Circo, così come accadeva anche a Roma, affinché l’Im-peratore potesse assistere all’amato spettacolo delle corse dei carri senza confondersi con il popolo nemmeno per recarvisi. E però questa uguale brama fra i semidei e gli infimi, questa condivisione di gioia e di tormento, questo ammirare insieme – nello stesso luo-go e nello stesso momento! – cavalli e aurighi, facevano sì che il

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popolo avvertisse più vicino e simile a sé quell’essere altrimenti ir-raggiungibile e alieno.

E quel giorno il pulvinar brillava addirittura di due Augusti! Era-no ambedue figli di Valentiniano I, Imperatore d’Occidente, perito d’un colpo apoplettico una dozzina d’anni prima. A lui era succe-duto il giovane primogenito Graziano – allora di soli diciassette anni – avuto dalla prima moglie, la nobile Marina Severa. Ma Mari-na sarebbe morta prematuramente, per lasciare il posto all’intrigan-te e incantevole Giustina, vedova dell’usurpatore Magnenzio e già entrata da tempo nel cuore e nel letto dell’Imperatore.

Giustina aveva dato a Valentiniano quattro figli: tre femmine, Grata, Giusta e Galla – la cui verde bellezza già rivaleggiava con quella della madre – e, soprattutto, un maschio, Valentiniano II, nato nell’anno del Signore 371. La scaltra Imperatrice avrebbe fat-to in modo – con la collaborazione del Magister Militum Praetorio Galliarum Flavio Merobaude – che questo unico figlio maschio fos-se nominato anch’egli Augusto dalle legioni delle Gallie alla tenera età di quattro anni.

Molte cose erano cambiate da allora: nel 378, l’Imperatore d’Oriente Valente, fratello maggiore di Valentiniano I, era stato trucidato dai barbari goti nella la disfatta di Hadrianopolis, in Thracia; a causa di questa sconfitta, Roma ebbe a trovarsi monca dell’intero esercito campale orientale, completamente distrutto dai Goti; Graziano aveva così deciso – su consiglio di Giustina – di porre la corona d’Oriente sul capo di un grande generale, Teodo-sio, detto il Giovane, degno figlio di un altro condottiero di Roma, Teodosio il Vecchio, morto anch’egli prematuramente durante una campagna in Africa. Finalmente, il Doppio Impero sembrava aver trovato un assetto stabile: pacificate le terre danubiane, Teodosio aveva preso possesso della corte imperiale di Costantinopoli; il giovanissimo Valentiniano II – nominalmente monarca delle Pro-

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vincie italiche, africane e illiriche, sotto comunque l’influenza dell’ambiziosa Giustina – risiedeva a Mediolanum, che aveva da tempo sostituito Roma come Capitale d’Occidente; Graziano, in-vece, dimorando ad Augusta Treverorum, in Raetia, governava le Provincie ispaniche, galle e britanne.

Ma Graziano in quel periodo era a Mediolanum: fervente cri-stiano, egli subiva il fascino mistico del suo potente Vescovo, Am-brogio. Questi era giunto a capo di quella comunità cristiana qual-che anno prima, a seguito di un’investitura invero singolare: era in-fatti il Praeses Liguriae et Emiliae, e governava quella Provincia della Diocesi dell’Italia Annonaria – di cui Mediolanum faceva parte – con tale vigore e rettitudine che, quando alla morte del Vescovo Assuenzio le varie fazioni di preti non riuscirono ad accordarsi sul suo successore, il popolo decise per loro indicando proprio il Go-vernatore della Provincia. Inizialmente, Ambrogio si schermì – non era nemmeno stato mai battezzato! protestava – ma, alla fine, l’Imperatore Valentiniano I gli impose d’accettare la carica e lui, dopo una sbrigativa cerimonia battesimale, fu consacrato Vescovo della Capitale dell’Impero d’Occidente. Da quel momento, Am-brogio mise nel nuovo impegno tutta la sua energia e il suo rigore, divenendo un accanito difensore degli interessi della Chiesa e un caparbio nemico del paganesimo. In questo, gli era di grande aiuto la sua straordinaria oratoria, cui sia il popolo che il patriziato si ab-bandonavano ammaliati.

Così, nella basilica sempre gremita, l’ancor giovane Imperatore assisteva incantato alle veementi prediche del nuovo Vescovo, e – facilmente suggestionato – aveva finito per condividerne anche la spietata avversione nei confronti degli antichi Dei: aveva così ri-nunciato solennemente al titolo di Pontifex Maximus, carica istituita anticamente da Numa Pompilio come custode dei sacri riti e che pure i suoi predecessori cristiani avevano preferito conservare; ave-

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va poi ordinato che fosse rimossa dall’atrio del Senato di Roma la statua alata della Vittoria deificata, lì da più di quattro secoli, da quando Ottaviano Augusto ve l’aveva posta a celebrare la vittoria di Azio contro Marco Antonio e Cleopatra.

E se questo, da un lato, gli aveva guadagnato il plauso del Ve-scovo Ambrogio, del Papa Damaso e del clero tutto, da un altro – assieme alla scelta di includere nel suo stato maggiore una prepon-derante presenza di graduati Alani del Mare Caspium – lo aveva reso sempre più inviso alla vecchia guardia del Senato e degli eser-citi romani.

Ma quel giorno, sotto il luccicante tetto dalle tegole dorate, la loggia imperiale lo vedeva – giovane uomo di nemmeno venticin-que anni, dai tratti nobili e dai grigi occhi obliqui ereditati dalla de-funta madre – conversare amabilmente con Valentiniano II, appe-na un ragazzo invece, grassoccio e riccioluto. Cingeva loro la fron-te una lamina d’oro, e il rango supremo splendeva anche nel can-giante color porpora di Tiro della morbida tunica.

Il giovanissimo Imperatore si sporgeva dalla balaustra che dava sulla arena guardando ogni cosa con la meraviglia negli occhi: la folla sterminata e vociante, la pista immensa e ammaliante, gli alti obelischi dalla sfolgorante punta dorata… E i cavalli? Ma quando arrivano i cavalli e le quadrighe? Accanto a lui, l’atletica figura eret-ta come conveniva alla sua maestà, lo sguardo dritto davanti a sé, Graziano gli appoggiava una mano sulla spalla con benevolenza, badando che fossero ben chiare a tutti la loro concordia e la sua indiscussa autorevolezza d’adulto.

Alle loro spalle, molto meno interessata a quanto tutti stavano attendendo, Leta – la seconda moglie di Graziano, dopo la morte di Costanza, nipote dell’Imperatore Costantino I – stava distesa su di un fianco su cuscini foderati di seta oro e scarlatta: era una gio-vane donna dai chiari occhi malinconici, di corporatura forte, ma

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non pingue, portava i capelli castani – che le contornavano il volto in tanti piccoli boccoli – raccolti in una retina di fili d’oro. Annoia-ta, partecipava – cortesemente, ma a monosillabi – alla fluviale e scoppiettante conversazione sostenuta – invero, autonomamente – dal Gran Ciambellano Calligono: tondo e sgargiante nelle forme e nelle abbondanti vesti damascate, ricciuto di una sorprendente par-rucca bionda, il Praepositus Sacri Cubiculi di Graziano era un eunuco, e – nonostante sembrasse completamente immerso nel compito di intrattenere la giovane Imperatrice – i suoi occhi acuti saettavano intorno, avvezzi a tenere ogni cosa sotto controllo.

Sola, distante, seduta con la schiena dritta sul trono che, al cen-tro del pulvinar, avrebbe dovuto accogliere il figlio o il figliastro, stava Giustina, l’Imperatrice Madre. Il volto, ancora testimone di una passata straordinaria bellezza, era incorniciato da una compli-cata acconciatura dove i lunghi capelli bruni erano raccolti a for-mare una sorta di corona. Allo stesso modo, in alcuni busti mar-morei, si vedeva acconciata Elena, la madre di Costantino I, detto il Grande, Imperatrice deificata cui Giustina mirava ad avvicinarsi. Qualche eunuco della Corte imperiale, bisbigliava ridacchiando che l’unico vero punto in comune fra le due era il concubinaggio, dato che gli Imperatori Costanzo Cloro e Valentiniano I le avevano ri-spettivamente ben frequentate ancor prima di sposarle.

Ma, probabilmente, tale malevola analogia non aveva mai nem-meno sfiorato la mente di Giustina. I grandi occhi a mandorla – scuri e profondi – fissi per lo più verso un punto indefinito, atteg-giava il volto affilato a una rigida consapevolezza della grandezza raggiunta. Anche se, impercettibilmente, un’ombra d’apprensione lo velava, quando – fugace come il bagliore del lampo – posava lo sguardo su Valentiniano e su Graziano, e su quella mano appoggia-ta sulla spalla del figlio, e su quei giganteschi Alani del Mare Ca-spium – tanto apprezzati dal figliastro! – che componevano la

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Guardia Imperiale e circondavano, immobili e massivamente arma-ti, la tribuna.

«Graziano, ti prego!» la voce acuta dell’Imperatore bambino riusciva a malapena a raggiungere le orecchie della madre, nel fra-stuono montante della folla «Lascia che sia io ad agitare la mappa… Non ho mai fatto partire una corsa delle quadrighe! In fin dei conti sono anch’io un Imperatore. Be’, non grande e grosso come te! Pe-rò…»

Graziano, sorridendo, trasse lentamente da una delle grandi ma-niche della tunica purpurea un panno bianchissimo. Mentre le sca-glie del drago più vicine già iniziavano a sollevarsi urlando, sog-guardò l’Imperatrice Madre alle proprie spalle. Chissà se Giustina avrebbe apprezzato che lui lasciasse al ragazzino un tale privile-gio…

«Valentiniano!» la voce di Giustina, sorprendentemente calda e profonda, li interruppe «È diritto di nostro figlio maggiore mostra-re al popolo la mappa della partenza. Inoltre, egli è graditissimo ospite qui nella nostra corte di Mediolanum. Mostra l’affetto che provi per lui, inchinandoti alla sua… età.»

“Nostro figlio maggiore”? “Ospite”? Nella “nostra” corte di Mediolanum?! Inchinandoti alla “sua età”? ripeté fra sé Graziano, mentre il sorriso gli inacidiva sulle labbra.

Senza badare all’inchino imbronciato di Valentiniano, alzò allo-ra il braccio e, sporgendosi dalla balaustra, esibì il candido drappo.

Il drago dalle innumerevoli gole ruggì, esultante. Poi, stavolta guardando ostentatamente negli occhi la matrigna,

l’Imperatore d’Occidente gettò con noncuranza la mappa verso uno dei soldati della propria Guardia Imperiale, giusto sulla punta della lancia, che, affilatissima, la lacerò.

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