Corrado Alvaro - Gente in Aspromonte

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  • 8/10/2019 Corrado Alvaro - Gente in Aspromonte

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    Gente inAspromonte

    di Corrado Alvaro

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    Edizione di riferimento:

    Garzanti, Milano 1978

    Letteratura italiana Einaudi

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    iiiLetteratura italiana EinaudiLetteratura italiana Einaudi

    Gente in AspromonteI 1II 8III 11IV 18V 26VI 33VII 38VII 44IX 47X 52XI 60XII 64XII 69

    XIV 70XV 74

    La pigiatrice d uva 76Il rubino 82La zingara 88Coronata 96Teresita 102Romantica 108La signora Flavia 114Innocenza 121Vocesana e primante 127Temporale dautunno 133Cata dorme 139Ventiquattrore 145

    Sommario

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    VLetteratura italiana Einaudi

    GENTE IN ASPROMONTE

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    I

    Non bella la vita dei pastori in Aspromonte, din-verno, quando i torbidi torrenti corrono al mare, e laterra sembra navigare sulle acque. I pastori stanno nellecase costruite di frasche e di fango, e dormono con glianimali. Vanno in giro coi lunghi cappucci attaccati auna mantelletta triangolare che protegge le spalle, comesi vede talvolta raffigurato qualche dio greco pellegrinoe invernale. I torrenti hanno una voce assordante. Sugli

    spiazzi le caldaie fumano al fuoco, le grandi caldaie neresulla bianca neve, le grandi caldaie dove si coagula il lat-te tra il siero verdastro rinforzato derbe selvatiche. Tut-ti intorno coi neri cappucci, coi vestiti di lana nera, ani-mano i monti cupi e gli alberi stecchiti, mentre laquercia verde gonfia le ghiande pei porci neri. Intornoalla caldaia, ficcano i lunghi cucchiai di legno inciso, ebuttano dentro grandi fette di pane. Le tirano su dal sie-

    ro, fumanti, screziate di bianco purissimo come il lattesul pane. I pastori cavano fuori i coltelluzzi e lavorano illegno, incidono di cuori fioriti le stecche da busto delleloro promesse spose, cavano dal legno dulivo la figurinada mettere sulla conocchia, e con lo spiedo arroventatofanno buchi al piffero di canna. Stanno accucciati allesoglie delle tane, davanti al bagliore della terra, e aspet-tano il giorno della discesa al piano, quando appende-ranno la giacca e la fiasca allalbero dolce della pianura.Allora la luna nuova avr spazzata la pioggia, ed essiscenderanno in paese dove stanno le case di muro, grevidelle chiacchiere e dei sospiri delle donne. Il paese cal-do e denso pi di una mandra. Nelle giornate chiare ibuoi salgono pel sentiero scosceso come per un presepe,e, ben modellati e bianchi come sono, sembrano pi

    grandi degli alberi, animali preistorici. Arriva di quandoin quando la nuova che un bue precipitato nei burro-

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    ni, e il paese, come una muta di cani, aspetta lanimalesquartato, appeso in piazza al palo del macellaio, tra icani che ne fiutano il sangue e le donne che comperanoa poco prezzo.

    N le pecore n i buoi n i porci neri appartengono alpastore. Sono del pigro signore che aspetta il giorno delmercato, e il mercante baffuto che viene dalla marina.Nella solitudine ventosa della montagna il pastore fumala crosta della pipa, guarda saltare il figlio come un ca-priolo, ode i canti spersi dei pi giovani, intramezzatidal rumore dellacqua nei crepacci, che borbotta come

    le comari che vanno a far legna. Qualcuno, seduto su unpoggio, come su un mondo, d fiato alla zampogna, etutti pensano alle donne, al vino, alla casa di muro. Pen-sano alla domenica nel paese, quando si empiono i vico-li coi lor grossi sospiri, e rispondono a loro, soffiando, imuli nelle stalle e i porci nei covili, e i bambini strillanoallimprovviso come passerotti, e i vecchi che non si pos-sono pi muovere fissano lultimo filo di luce, e le vec-

    chie rinfrescano allaria il ventre gonfio e affaticato, e lespose sono colombe tranquille. Pensano alla visita chefaranno alla casa di qualche signore borghese, dove ve-dranno la bottiglia del vino splendere tra le mani avaredel padrone di casa, e il vino calare nel bicchiere chevuoteranno tutto dun fiato, buttando poi con violenzale ultime gocciole in terra. Quel vino se lo ricordano nel-le giornate della montagna come un fuoco dissetante,poveri ed eterni poppanti di mandra.

    Accade talvolta che dalle mandre vicine arrivi qual-che stupida pecora e qualche castrato che hanno perdu-ta la strada. Conoscono gli animali come noi gli uomini,e sanno di chi sono, come noi riconosciamo i forestieri.Si affaccia lanimale interrogativo, e i cani messi in allar-me si chetano subito. Zitti e cauti afferrano lanimale e

    lo arrostiscono. Uno gli ha ficcato un palo in corpo, unaltro lo rivoltola sul fuoco, un altro con un mazzetto

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    derbe selvatiche asperge di grasso lanimale rosolato,teso, solenne come una vittima prima del sacrifizio, pro-pizia al bere. Bevono acqua e si sentono ubbriachi lostesso. Ma serate come queste ne capitano una allanno,se pure, e la vita dura. Almeno, a primavera salgono daloro le massaie. Allora, coi primi agnelli che saltano sullaterra, vagiscono sullerba le creature delluomo, o sidondolano nelle culle attaccate fra ramo e ramo dovebalzano ridesti i ghiri e gli scoiattoli. Poi rinverdisconoperfino le pietre, e la gente comincia a salire la monta-gna col vento dellestate. Cominciano i pellegrini dei

    santuari a passare da un versante allaltro cantando esuonando giorno e notte. I l vinattiere costruisce la suacapanna di frasche presso la sorgente dellacqua, e lanotte, per illuminare la strada si appicca il fuoco agli al-beri secchi. Glinnamorati girano tra la folla per vederelinnamorata; e cani arrabbiati, vendicatori, devoti, lati-tanti e ubbriachi che rotolano per i pendii come pietre.Allora vive la montagna, e da tutte le parti il cielo se-

    minato dei fuochi dei razzi che si levano dai paesi lungoil mare, come segni indicatori che l sono le case, l isanti coi loro volti di popolani che non hanno pi da fa-ticare e stanno nel silenzio spazioso delle chiese.

    Fu appunto in una di queste sere che in montagnaaccadde una disgrazia. Era la vigilia della festa, e nellacapanna di un pastore, lArgir, cera silenzio. I l figliolostava cheto, il pastore suo padre gli diceva scuro: An-tonello, tu verrai con me in paese. Te la senti di cammi-nare? S, padre. Ci sono sei ore di strada. Cam-miner. C la luna, del resto, e si andr bene,freschi. Camminer, disse Antonello, sono forte,io. I l ragazzo era serio serio, con quella forma di parte-cipazione al dolore degli altri per cui i ragazzi diventa-no pensierosi e ubbidienti; aveva il costume di pastore,

    che gli avevano fatto da poco, con la cintura di cuoio al-ta un palmo intorno alla pancia; era contento di andare

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    in paese col vestito nuovo, peloso, per la prima volta.Era nato in montagna, e non si sapeva immaginare unacasa di muro, come gli dicevano. Siccome sent che suopadre rimestava qualche cosa nella capanna, salt su adire: Volete aiuto, padre? Quello non rispose; nellacapanna bassa dove si entrava carponi, stava mettendotutto nella bisaccia: la fiasca, la mantelletta da inverno,il sacco. Portiamo via tutto? Come vuole Dio, figlio-lo. Antonello si mise a frugare sotto lo strame delle pa-reti e tir fuori il fischietto e un pacchetto di figurine disanti tutte gualcite. Volete mettere dentro anche que-

    ste? Il padre le ripose nella bisaccia, e questo rispettoverso le sue cose fece piacere al ragazzo. La bisaccia fumessa sulla soglia della capanna. Il padre si sedette unpoco, si terse il sudore, poi si lev, si caric la bisaccia atracolla: Andiamo. Ma prima di partire chiuse accu-ratamente la porta di frasche assicurandola con un ma-cigno che vi rotol davanti. Si vedeva di lontano il marebalenante nellombra serale, che laggi non era ancora

    arrivata, e davanti al mare una montagna che pareva undito teso, e ancora pi vicino la striscia bianca del tor-rente. La sera girava pei monti in silenzio e ripiegava ilunghi raggi del sole. Le ombre cominciavano ad allun-garsi per la pianura. Volete che vi porti un poco la bi-saccia, padre? I l padre gli accomod la bisaccia a tra-colla, puntandola nel mezzo con un bastone che facevaleva sulla spalla del ragazzo. Il ragazzo era contento diquel peso, e sentiva il bastone che gli faceva un dolcemale. I l padre diede unultima occhiata alla capanna.Appena risalito il monte, si volsero. Videro lalbero ma-gro inclinato sulla capanna, i sassi attorno come bestieche meriggiassero, o come mobili di una casa; l si era-no seduti tante volte. I l grosso cane bianco, accorso co-me se sapesse che si partiva, li segu. Valicata laltura,

    videro la strada lungo il ciglio del burrone popolataduomini e di bestie. Viva Maria! gridarono verso di

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    loro. I l padre lev la mano e disse con un filo di voce:Viva! Grid anche il ragazzo con una voce argentina,lieto di aprir bocca. Si sentiva dietro, sullaltro versante,partire colpi di fucile, una gragnuola di colpi. La folla sisnodava lungo lo stretto sentiero in fila indiana. I bam-bini piangevano nelle ceste che le donne portavano sul-la testa, i muli con qualche signore seduto sopra faceva-no rotolare a valle i sassi, una signora vestita benecamminava a piedi nudi tenendo le scarpe in mano, pervoto. Una donna del popolo andava con le trecce sciol-te. Un popolano portava sulla testa un enorme cero che

    aveva fatto fondere del suo stesso peso, e della lunghez-za del suo corpo, per voto. Antonello stava a boccaaperta. Nella valle lombra era alta, e pareva che lariempisse, col rumore di un torrente che si gettava daun salto del monte. La luna si affacci dalla parte delmare, dietro ai monti, come una guardia. Presso una ca-panna di frasche il pastore e Antonello si fermarono.Luomo che stava dietro al banco tra una fila di botti-

    glie, presso un bottazzo di vino, appena vide il pastorepoggi le mani al banco, si sporse, e disse: O compareArgir, che cosa succede? La mia sfortuna, compareFermo. Che c? Ho perduto il mio bene. I buoiche avevo in custodia dal signor Filippo Mezzatesta, so-no precipitati gi nel burrone. finita. Questa la rovi-na della casa mia. O quando? Oggi stesso, dopo mez-zogiorno. Bella festa della Madonna che per me. Ele avevate a met le bestie? Sissignore, col signor Fi-lippo Mezzatesta. Perch non le comperate voi? Lapelle buona, la carne come macellata oggi. Non so-no morte di morbo. Con tutta questa gente che passa sivende. Carne di bestia morta, sempre. Come macel-lata, vi dico. Questa osservazione non me la dovevatefare proprio voi. Tra di noi... Andiamo a vedere?

    Sono qui sotto al burrone del Monaco. Quattro ani-mali, avete detto? S; e cera una giovenca che era

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    una bellezza, tenera come il latte. Tu aspettami qui,disse il padre ad Antonello. Se qualcuno domandadella bottega, aggiunse il Fermo, digli che torno subi-to. Non far toccare niente a nessuno. Che rovina del-la mia vita, compare Fermo!

    Si avviarono. Antonello sedette davanti alla bottega echiam il cane a s tenendolo pel collare. Ma quello glisfugg per correre dietro al padrone. Antonello, rimastosolo, aveva paura. Sentiva lodore del vino, odore nuo-vo che gli piaceva, e guardava quelle bottiglie in fila contanti colori. Rosolio: questa parola gli venne alla

    mente. I pellegrini si facevano pi rari; una comitivasbuc suonando e sparando in aria. Andava avanti unocon una zampogna, e un altro batteva ora il pugno orale cinque dita a un tamburello. Altri li seguivano a pas-so di ballo, per voto, come potevano, uomini e donne.Uomini e donne si davano a tratti, ballando, di grancolpi con le natiche, senza ridere. La luna si faceva pirossa, lombra cadeva come un mantello. Gli alberi,

    quasi tutti col solco e lo squarcio del fulmine, si ingi-gantivano nellombra. La compagnia dei suonatori si al-lontanava. Una ragazza a piedi nudi passava davanti alragazzo. Egli le vide un filo di sangue che le colava sulpiede. Ragazza, le grid; quello sangue. Ella rise:Lo so Unaltra frotta di pellegrini sbuc coi fucili sul-la strada. Avevano accese le fiaccole. Uno si ferm aipiedi di una quercia spaccata in due dal fulmine, giallae morta, le accost una fiaccola di resina ai rami: unafiammata avvolse la quercia che divamp tutta comeuna torcia gigantesca crepitando veloce. Allora il ragaz-zo chiam a gran voce: Fido!. I l cane apparve sul ci-glio della strada coi suoi occhi stupiti. Dalla folla allorapart un colpo, un grido: Eccolo il cane arrabbiato!.Il cane stramazz al suolo guardando allingiro che pa-

    reva parlasse e domandasse perch. I l ragazzo battendoi denti si accovacci sulla soglia della bottega. La com-

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    pagnia era dileguata ridendo. Antonello si tocc la bi-saccia, vi si sedette sopra, e non aveva il coraggio diguardarsi intorno.

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    una civilt che scompare, e su di essa non c da pian-gere, ma bisogna trarre, chi ci nato, il maggior numerodi memorie. La liberazione del reame delle Due Sicilietrov qui un ordine stabilito da secoli. Il parapiglia cheavvenne col riordinamento dei beni demaniali, ingrossalcune fortune gi pingui. I l paese rimase quello che era:un agglomerato di case rustiche composto di una stanzaa terreno, colla terra naturale per impiantito, la rocciaper sedile e per foco lare, intorno a una sola casa nobilecon portici, stalle, cucine, giardini, servi. I l popolo siagitava e si affannava intorno a questa casa che era atti-

    gua alla chiesa, e dove era tutta la ricchezza, tutto il benee il male del paese.Antonello vide questa casa posta in alto, su un pog-

    gio, col suo portico che reggeva una loggia. Egli seguiva,saltando, le orme del padre, e non si stupiva delle case dimuro. Ad alcuni edifizi il sole baluginante faceva brilla-re qualche cosa di lucido, come il ghiaccio, che si infoca-va a mano a mano per poi diventare liscio e chiaro come

    lacqua. Domand soltanto: Quale la casa dove sta lamamma? Non si vedeva la casa. Era confusa fra tante,non dissimile da nessuna. Poi i suoi occhi tornarono allagrande casa col portico, e pens: Quella devessere lacasa dei Mezzatesta. I galli si mandavano la voce, spersirichiami di donne rompevano il silenzio. I l ragazzo conun bastone si divertiva a fare strage di certi cardi coifioccosi fiori rossi bruciati dalla grande estate. Tutto gliparve pi gentile che in montagna. Raggiunta la primacasa, parve che la terra improvvisamente si restringesse.Usciva dalla porta spalancata un fiato caldo come dallabocca di un animale. Una donna si pettinava seduta sul-lo scalino della porta e immergeva il pettine in un catinodacqua. Siccome era festa, il paese era quasi deserto epigro. Le poche persone rimaste stavano sedute sugli

    spiazzi davanti alle case, o sugli scalini, intente alle fac-cende loro, a pettinare i ragazzi, a pulire le verdure pel

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    pasto. Certe ragazze, che andavano scalze e col vestitinoda festa, portavano appesa al petto, legata a un nastrocolorato, la medaglina della Madonna. Una fila di mulisbuc da un vicolo, e davanti la faccia rossa del mercan-te di pelli. Che ce, Argir? La voce dei quattro buoiprecipitati in montagna pass, non si sa come, da portaa porta.

    A casa trovarono la madre sulla soglia. Che c, perlamor di Dio? Argir le raccont tutto in quattro pa-role. Dalle finestre basse le donne si erano affacciate asentire e si passarono la notizia. Una si present con

    unaria maligna e sottomessa, e disse: O Betta, ce lave-te un chilo di questa carne per me? Nessuno le rispose,ma dallinterno della casa la voce dell Argir si mise agridare: Gente maledetta, che vuoi mangiare della miarovina, che non aspetti che finiscano le disgrazie perbuttartici sopra. Lho gi venduta tutta, e tutti ne man-geranno meno che questa gente maledetta. Quando a uncristiano capita qualche cosa di male, tutti intorno a vo-

    lersene profittare come cani! Misericordia, Signore!Puah, puah! Antonello si era seduto sulla cassa dellabiancheria e ascoltava quelle parole come una nenia, at-tentamente. Per la prima volta capiva di essere in mezzoa qualche cosa di ingiusto; il sentimento della sua condi-zione gli si affacci alla mente improvviso e chiaro e sisentiva come un angelo caduto. Guardava fisso limma-gine di San Luca appesa dietro alla porta. Suo padre siera seduto sul letto. La madre gli diede quattro fichi eun pezzo di pane: Mangia, figliolo. Quello sent lemani di sua madre nelle sue per un attimo, calde comese fossero le sue mani stesse. La stanza era segreta e fre-sca. Fuori si sentivano voci e rumori quasi in ritmo, co-me il rumore assiduo della pioggia. Antonello si addor-ment col pane nel pugno, sulla cassa.

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    III

    Non erano le otto quando lArgir entrava nel palaz-zo dei Mezzatesta. I l portone era aperto. Larco del por-tone, di cinque metri daltezza, mostrava la sola pietralavorata che esistesse in paese, e di cui uno scampolo eraservito per lo stipite della chiesa, per i gradini, per ledue magre colonne. Palazzo e chiesa addossati, recantiessi soli i materiali nobili del paese, il ferro e la pietra, ela sola forma nobile, la colonna. Dentro quel palazzo,

    composto di tre edifizi addossati con scale interne edesterne, che partivano tutte da un ampio cortile, a entra-te diverse, sostenuti da contrafforti coi fichi selvatici nel-la massa del muro, sui bastioni, o come ciuffi sullarcodel portone, viveva la grande famiglia dei Mezzatesta,con le scuderie a terreno, i magazzini, le cucine piene diservi, e al piano nobile i padroni con le loro donne dalcapo incerto e vezzoso agitantesi in ritmo di comando.

    Essere servi in quella casa era gi un privilegio. Le serveche in lunghe file tutto il giorno andavano e tornavanocon gli orci e i barili sulla testa ad attingere acqua a trechilometri dal paese, formavano la cupidigia segreta deimaschi, recando esse, fuori di casa, il sorriso della pigiovane padrona nata dalle nozze fra cugini, che annaf-fiava castamente verso sera il garofano elegante sulla ter-razza. Queste serve avevano smesso labito popolare. Inqueste case pochi penetravano senza un segreto timore.Dovunque ci si voltava era terra di questa casa, dalle fo-reste sui monti agli orti acquatici presso il mare. Dovun-que, comunque. Era loro la terra, loro le ulive che vi ca-devano sopra, erano loro le foreste sui monti intorno,loro i campi tosati di luglio quando tutta la terra giallae i colli cretosi crepano aridi. Quanti schiaffi volarono

    sulle facce dei contadini, quanti calci dietro a loro! Leanticamere rigurgitavano di gente misera che aspettava

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    di essere ricevuta, rovinata per un maiale colpito dalmorbo o per un bue precipitato in qualche strapiombo.Qui si discuteva della roba, perch erano di quella casagli animali che pascolavano e gli alberi che davano frut-to. La notte, tappati nelle case, mentre rari passanti si il-luminavano la strada con fiaccole e tizzoni, i ragazziascoltavano le fiabe immaginando che si svolgessero inquella casa, e in quelle scuderie pensavano che la Cene-rentola avesse ballato col Reuccio. I signori, detti anchegalantuomini o calzoni lunghi, erano due tipi di aspettouguale, dai nasi brevi e ricurvi come quelli di certi pap-

    pagalli. Le loro ramificazioni nei paesi vicini si conosce-vano come le discendenze regali. Venendo let del ma-trimonio, si decise che uno di essi, Filippo, sposasse unacugina, per non spartire la roba. Costei arriv dal mare esi seppell nella grande casa. Teneva le chiavi dei magaz-zini. Quando apriva le porte sulla strada assolata, era co-me se si aprisse un paradiso ombroso: il grano vi stava amontagne doro, il granoturco decorava con le sue pan-

    nocchie i soffitti, i formaggi in pile stavano sotto i rocchicolanti delle salsicce, le giare dellolio e le botti davanosonore intonazioni nella profondit. Solo in quella casasi sentivano le voci risuonare come in chiesa. I monelli sisporgevano alle grate delle scuderie e dei magazzini pergridare Ah ! e per sentire il grido diventare cantantenei meandri delle botti.

    Una grande scalinata di pietra grigia, larga come unfiume, sormontata da quattro colonne, su cui erano git-tati tre archi, si apr davanti allArgir. Salirono tenen-dosi al muro come per un luogo troppo stretto. Poi, su-perata la scalinata, una grande porta. Antonello diede lamano al padre. Nellandito buio e sonoro si rispondeva-no segrete pi porte. Un odore di strame, di olio, di fie-no, invadeva l andito su cui si spalancavano le inferriate

    dei magazzini e delle stalle. Quando, traversato landitoe salita unaltra scala si trovarono su un pianerottolo, la

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    luce di un grande finestrone li invest come un torrente.Piccoli, con un senso di freddo, si trovarono davanti atre porte chiuse. Una di queste si apr e una donna at-tempata si affacci a vedere. Ah, siete voi lArgir!Si pu parlare col padrone? A questora? I signoridormono a questora, fece la donna. Se volete aspetta-re... aggiunse aprendo la porta.

    Era una cucina vasta e nera. Lungo le pareti erano di-sposti i sacchi gobbi del grano. Al soffitto era appesa unalunga decorazione di salsicce attorcigliate attorno a unacanna. In un angolo era elevato un lettuccio su due tre-

    spoli di ferro, coperto dun candido lenzuolo sotto ilquale sindovinavano le forme del pane fresco appenaimpastato come una teoria di mammelle tagliate a moltesante martiri. Tre donne stavano sedute in terra, e unal-tra, presso il forno che era in uni canto come un mostrofamiliare, gittava dentro rami secchi che avvampavanosubitanei. Una delle ragazze accosciate in terra faceva gi-rare un tubo di ferro su un fornello acceso, e un fumo

    gentile, greve, inebriante, si sprigionava di l. Questo lodore del caff disse il padre ad Antonello. Antonellostava a guardare, in piedi, accanto a suo padre appoggia-to alla porta. Di tratto in tratto la ragazza che tostava ilcaff lo guardava di sotto in su per poi abbassare repen-tinamente gli occhi sui suoi piedi nudi. vostro fi-glio? disse la pi vecchia. S. solo? Ce n un al-tro che deve arrivare. Salute e pace Le altre donnesorrisero come per ripetere laugurio. Perch non vi se-dete? Essi presero posto lungo la panca, e non sapeva-no dove metter le mani. Antonello cercava di scoprirechi fosse tra quelle donne la padrona. Guardava la don-na che introduceva le fascine nel forno, e il ritmo dellasua veste che in quel moto continuo si levava e si abbas-sava sulle sue anche facendo strane figure che storceva-

    no la bocca e il naso. Lodore del pane che lievitava eratenero come quello del latte e aspretto come il sudore.

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    Padre, qual la signora Dolores? Non qui; questesono tutte le sue serve. Allora egli si mise a guardarequella che tostava il caff e che aveva una medaglina del-la Madonna puntata sul petto, sopra la mammella sini-stra, e gli parve che si avvicinasse a lui come fatta del suostesso sangue, sentimento vago e nuovo. Una voce tuonnellandito, una voce strascicata e nasale, ma imperiosa:

    Annunziata!

    La donna pi vecchia si precipit al fornello gridando:Subito il caff. Parve che si accorresse da tutta la casa

    verso un punto, come se uno stormo di topi fuggisse.LAnnunziata usc col vassoio e le tazze e il bricco e ilbianchissimo zucchero. I l forno si era chetato: caldo edolce, grigio dun grigio lontano, simile a un cielo nuvo-loso, la sua profondit era segreta e sovrana. Lodore delpane cominci a diffondersi mentre a mano a mano la pa-la infornava, e i pani stavano in quella profondit comecreature vive, o come semi nellurna dun fiore. Una delle

    donne si accost al ragazzo e gli mise fra le mani qualcosadi caldo e morbido: Una ciambella. Mettila in tasca.Antonello sentiva il calore di quella forargli i panni, posa-re calda sullo stinco con un senso piacevole e nuovo. pane bianco gli disse il padre tentando di sorridere.

    Filippo Mezzatesta non era ancora vestito che volleparlare con lArgir. Appoggiandosi alle spalle di duerobuste donne, aveva camminato soffiando, sulla punta

    dei piedi scalzi, in una stanzetta accanto alla camera daletto e si era buttato di schianto su un sofa. Ora poggia-va sul tappetino il calcagno nudo, tenendo in alto rag-gricciate le dita del piede. Era coperto appena della ca-micia e di un paio di mutande che si allacciavano allacaviglia. Carmela, Teresa, presto, bagasce, altrimentipiglio uninfreddatura andava dicendo. Oh Dio santo,o Madonna del Carmine! Le donne accorrevano di quae di l, portando glindumenti. Una glinfil le calze

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    mentre quello continuava a soffiare e a inveire. Poi sichet perch era arrivato allesercizio pi pericoloso:quello dinfilarsi i pantaloni. Alto, grosso, enorme, sipuntellava con la mano alla testa di una delle due donnecome su un bastone, mentre laltra lo abbottonava e gliaffibbiava la cintura di cuoio. Le sue grosse mani cospar-se di peli rossicci sentivano la testa ben pettinata di Car-mela coi suoi capelli neri, e la forma del cranio femmini-le, tondo tondo. Laltra li aveva impresso nella schiena,nella furia di vestirlo, la forma delle sue dure mammelle.Si butt di nuovo sul divano mentre gli calzavano le

    scarpe. Piano, piano, con garbo! Gli stavano infilandola scarpa sinistra ed era intento a soffiare nella tazza delcaff quando entr lArgir. Poggi il piede coperto del-la calzetta rossa in terra, spalanc i piccoli occhi color ci-liegia, socchiusi fra le guance grosse e gonfie coperte dipeli dorati, e disse: Che c, Zuccone?

    Antonello, che seguiva il padre come unombra, sentper la prima volta questo soprannome. Vedeva ora suo

    padre avanzare a capo chino, ripiegare la berretta nera emettersela in tasca, stare in piedi con le bracci ciondolo-ni, appoggiato alla porta come chi sia sul punto di scap-pare. Che successo? grid il signore. successo, successo che io sono rovinato. Raccont dun fiato ilfatto delle bestie, e, come se abbandonasse un animalevivo, mise sulla sedia tre biglietti da cento lire e uno dacinquanta che si muovevano infatti aprendo gli angoli ri-piegati, lentamente, come insetti che allunghino le aluc-ce dopo aver finto di essere morti. Ah birbante! Ahmascalzone! Tu lo hai fatto apposta, tu mi vuoi rovina-re. Ma ti rovino io, invece. Gridava e pareva sul puntodi soffocare. Si mise a tossire, e ne era tutto scosso e tra-ballante nel corpo gigantesco. Le donne si erano messein agitazione e gli stavano intorno, e chi gli diceva buo-

    no buono, e chi gli batteva con la palma della mano laschiena. Si affacci, senza rumore, attraverso la porta

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    socchiusa, un ragazzo che stette a guardare lAntonello.Gli si avvicin, gli mise una mano in tasca e gli disse:Hai qualche animalino da darmi, portato dalla monta-gna? I l ragazzo tir fuori della tasca del pastorello laciambellina, la guard, si mise a sbocconcellarla. Anto-nello divenne rosso che pareva di fuoco e non sapevadove guardare.

    Io dico, signore, gridava lArgir, che quandoqueste cose succedono, per la disgrazia di noi poveripastori. I signori se ne infischiano. Essi hanno la tavolapronta sempre. Ma noialtri... Ce ne infischiamo? Il

    Mezzatesta si era piegato a raccattare qualche cosa manon ci riusc, impedito comera dal suo voluminoso ven-tre. In un secondo tentativo riusc ad afferrare la scarpache gli stava davanti, e la scaravent contro il pastore.Questi la ricevette in pieno petto, e la vide cadere ai suoipiedi chiodata, gialla, enorme. Tu dici che ce ne infi-schiamo? Perch? Rubiamo noi forse? Non dico que-sto. Dico che voi siete il padrone di mezzo paese, il pa-

    drone nostro, e della nostra ventura. Ma io che facevoaffidamento sulla vendita della fiera per avere la mia par-te, per me un disastro. Io sono rovinato, io, non voi.Che interesse avevo a rovinarmi con le mie mani? lamia cattiva stella. Nossignore, lo hai fatto apposta. Tusei una zucca, proprio come ti chiamano. Va via, ora, enon mi comparire pi davanti. Dicendo cos contava ildenaro che quello gli aveva lasciato, e in quellatto, colvolto chino, parlava, come chi prosegue distrattamenteun discorso e pensa ad altro. Le donne stavano lungo laparete con le mani conserte, ed era come non sentissero,perch pi volte lArgir, guardandole come per cercareaiuto, aveva veduto i loro occhi lontani e che non voleva-no vedere. Ma signore mio io faccio il pastore della vo-stra casa fin dalla nascita, fin da quando voi eravate ra-

    gazzo. Sono come questo ragazzo che vedete, anche luicreatura innocente, pastorello vostro. Questa volta m

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    IV

    La porta era aperta, e sulla porta, seduta in terra, sta-va una donna, immobile, col gomito puntato sul ginoc-chio, col pugno chiuso sul mento. Intorno a lei lo strido-re delle api era continuo, ed ella stentava a tenere gliocchi aperti nel caldo di settembre. Quando lev la te-sta, due occhi imperiosi e pungenti si puntarono sul visi-tatore, e la voce di lei, aspra e dura, disse: Che cosavuoi? Volevo parlare col signor Camillo Mezzatesta.

    Puoi parlare con me. Io sono un pastore, lArgir,quello soprannominato lo Zuccone. A servizio di chistai? Stavo al servizio di Filippo Mezzatesta. La don-na si lev di scatto, travers la porta e disse: Entra.

    Ora si era levata desta e pronta. Era una bella donna,piena, del colore dellalabastro; i suoi occhi ammiccava-no continuamente e sembrava che volessero dire pi diquanto non dicesse con la bocca sinuosa e grande. I ca-

    pelli spartiti in mezzo alla fronte le davano un aspettodocile, ma i suoi occhi focosi e inquieti smentivano subi-to questa prima impressione. Scalza, con laiuto delledonne del popolo, era difficile scambiarla per una di es-se, perch i segni di unagiatezza e di una mollezza sco-nosciute alle altre erano disegnati nella sua figura. I lmento rotondo, le mani fini, che cavava di quando inquando di sotto il grembiule come unarma, la dicevanotuttaltro che comune. Tanto vero che lArgir si levla berretta dicendo: Mi scusi tanto la vostra signoria.Ella parve lusingata di questo fatto perch sorrise lieve-mente sollevando gli angoli della bocca. L Argir laguardava incuriosito con lo sguardo delluomo che capi-sce, ma ella ridivenne fiera e ermetica, e parve che gli di-cesse: Bada con chi hai da fare.

    Fu introdotto in una stanza illuminata a malapena dauna finestrella volta a mezzogiorno, su cui alcune piante

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    di zenzero e di basilico mettevano una nota fresca diverde, come se di l vi fosse un giardino. Un uomo nelfondo, seduto su una poltrona, stava assorto a guardarein terra con una specie di smarrimento fisso e continuo.Lev appena la testa, e disse con una voce smorzata incui strascicava leesse: Siete voi, Pirria? Che cosa c?Ma levando il capo apparve un uomo dalla fisionomialunga e patita, con due baffetti radi e sfilacciosi sul lab-bro superiore, i fili della barba non rasata da qualchegiorno sulle guance di cui sottolineavano il pallore. Por-tava sulla testa, legata con un filo di cotone rosso, una

    specie di corona di foglie di limone. Di quando in quan-do si portava la mano alla fronte per raggiustarsela. Ladonna disse allArgir: Ha il mal di testa. In questat-to sorrise appena con un lampo degli occhi. Difatti quel-lo tirava lunghi sospiri. Parlagli, aggiunse la donna, esbrigati. LArgir non sapeva pi di dove cominciare.Cominci a dire delle bestie, per poi tornare indietro araccontare dei suoi primi rapporti col Mezzatesta, e in

    mezzo vi mescolava sua moglie, suo figlio, i ricordi pilontani e pi disparati, fino a che la donna lev la voceper gridargli: Insomma, che cosa vuoi? Allora lAr-gir, sempre annaspando, si mise a dire: Capisce bene,vostra eccellenza, che io con una famiglia, cos, dico condue persone, e una terza che deve arrivare, e linvernoche viene, e io non ho niente... Non lo lasciarono finire.La donna gli tronc la parola e gli disse

    Noialtri qui non abbiamo niente da darti. Hai capi-to? Luomo non sapeva pi che fare. Camminandoallindietro voleva infilare la porta ma urt contro unasedia. I l signore non aveva aperto bocca, e soltanto ave-va guardato di quando in quando ora lui ora la donna,chinando il capo, non si sa se in segno di approvazione odi stanchezza. Solo quando il visitatore stava per infilare

    la porta fece un cenno con la mano, come per richiamar-lo indietro. Ti vuol dire qualche cosa disse la donna.

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    LArgir si avvicin, e quello, con una voce strascicata,lontana, pronunzi: Tu puoi andare da Ignazio Lisca.Quello che ci ha i denari e li d in prestito. Allung an-cora la mano e disse: Digli che ti ci mando io. Sorrisedebolmente. Poi, con uno strillo inatteso disse: Ohi,ohi la mia testa! Ma la donna non gli diede retta e uscinsieme col visitatore. Questi ringraziava e si metteva laberretta. Sulla porta ritrov suo figlio seduto sullo scali-no, che giocava con una bambina.

    La bambina era la Saveria, la figlia di Camillo Mez-zatesta. Poteva avere la stessa et di Antonello: tonda,

    nera in viso, con una treccina annodata alla sommitdel capo, aveva laria assonnata e materna che distinguele bimbe meridionali. Era su di lei quasi unesperienzadi razza, e malgrado la sua tenera et aveva le labbra tu-mide e lo sguardo esperto delle donne grandi, ma inno-centemente, e non era colpa sua. E poi queste eranosoltanto apparenze, perch a contemplarla mentre fa-ceva i suoi giochi, ci si accorgeva che faceva tutto posa-

    tamente, con un raccoglimento infantile. Molte bambi-ne del suo paese erano precoci e quasi portavano in sle colpe dei loro genitori, malgrado la loro innocenza.Ma Saveria recava in viso le tracce della sua discenden-za, e particolarmente la bocca della madre, come seunape cattiva la morsicasse ed ella non riuscisse a scac-ciarla. Costei giocava col figlio dellArgir che le de-scriveva la vita della montagna, le pecore, il cane, il lu-po. Si era chinato in terra e simulava negli atti gliatteggiamenti di quegli animali. La bambina stava at-tenta come se fosse vero, e a stento tratteneva le risa,soltanto per non distrarlo dal gioco e per seguitare lil-lusione di quella finzione. Ma quando usc il padre,Antonello si lev prestamente in piedi come a un co-mando e gli fu accanto. La bambina gli raccomandava

    che tornasse. Si avviarono, e quando stettero per svol-tare langolo della strada si volsero tutti e due indietro.

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    La madre e la bambina li guardavano ancora. LArgirsorrise mostrando i denti forti e bianchi. Caspita cherazza di donna! brontol.

    La casa dIgnazio Lisca consisteva in due stanze basseche davano da una parte sulla strada e dallaltra guarda-vano su una casa diroccata sul piano inferiore della stra-da; la casa diroccata dovette ai suoi tempi essere unabi-tazione ampia, con qualche ornamento, come si vedevadalla scanalatura di pietra della porta. Abbandonata nonsi sa da quanti anni, forse in seguito a un terremoto, iltetto era sprofondato, il terriccio aveva coperto il pavi-

    mento, un grosso fico era cresciuto nel mezzo, vasto edritto. Finestre senza balconi davano su questa rovina.Ignazio viveva con la moglie, una donna vecchia primadel tempo, e con la figlia, una bambina di dieci anni. Lasua parentela era molto intricata. Suo padre lo aveva ge-nerato da una che non era sua moglie, e che un giornoera fuggita non si sa dove. Rimasto solo, il padre si eradato alle pratiche di piet, frequentando la chiesa tutti i

    giorni e cantando con voce di capra accanto allorgano.Suo figlio si era sposato con una donna nata da un mi-sterioso signore lombardo, che si era ritirato nel paesedopo aver combattuto con Garibaldi, dicevano per cau-sa di un suo disgraziato e non corrisposto amore al suopaese, dove non voleva tornare e dove non torn. Costuisi era tenuta in casa una donna senza volerla mai sposa-re, e che gli diede questa figlia. Ignazio era tuttaltruo-mo da suo padre. Aveva i capelli ricci color rame, riccicome quelli di suo padre che ora portava una ricciutabarba bianca come un vecchio dio pagano. Ma contra-riamente al padre, Ignazio era furbo e sottile, come unarivincita contro la sensualit che aveva dominata la suacasa. Si era messo a dare denaro a prestito appena avuti iprimi spiccioli. Cos allarg il suo commercio e la sua in-

    fluenza, e ben pochi non erano debitori suoi. Inoltregiocava a carte con chi poteva, dalla mattina alla sera.

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    Giocava anche in quel giorno che era la festa della Ma-donna.

    Era suo compagno di gioco il Labbrone, un giovaneche, da quando aveva fatto il soldato, aveva smesso il co-stume da pastore, e siccome aveva imparato a leggereaspirava al posto di fattorino comunale. I due avversaridi gioco erano: il Pazzo arrivato in paese con la mogliedi uno di Palermo e con tre figli di costei cui aveva ag-giunto altri due suoi, e un forestiero, Giovanni Milone.Si vedeva bene che era forestiero. Era di un paese vicinodove la gente aveva fama di essere la pi furba della con-

    trada. Una vecchia rivalit fra i due paesi, narrata dallefavole, si dimostrava quel giorno aver fondamento. Undisprezzo reciproco regnava fra il Milone e gli altri tre.Milone, vestito pulitamente, con un odore di saponettaaddosso, guardava con disprezzo i tre nei loro abiti sudi-ci e rattoppati, il pelo del petto fuori della camicia sbot-tonata. Ignazio aveva contato su questo giorno in cui ilMilone sarebbe sceso dal Santuario con le tasche piene

    doro. Milone era un parente del priore del Santuario, etutti gli anni, alla festa, stava al banco della chiesa. Da-vanti ai suoi occhi, sul tappetino del banco, i fedeli but-tavano anelli e orecchini per voto alla Madonna. Egliaveva veduto, fin da ragazzo, la sera, trasportarequelloro in un sacco, un sacco pieno doro. Da due an-ni, da quando aveva conosciuto donne e carte, si facevascivolare in tasca qualche cosa di quelloro. Poi, com-piuta questoperazione, si sentiva troppo ricco, e gli pa-reva che non dovesse finir mai quella ricchezza sacrile-ga. Sembrava che avesse una gran fretta di liberarsi diquel peso. Ignazio, che sapeva che cosa il denaro, loaveva agguantato come un brigante allo svolto di unastrada. Rivalit, disprezzo, puntiglio, si erano ben me-scolati fra loro. Il fatto che quegli rubasse era pubblico,

    ormai, e sembrava quasi senza importanza, come unabricconata di ragazzo.

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    Fa vedere, fa vedere quello che hai portatoquestanno Non mi seccate si difendeva GiovanniMilone. Gli occhi di tutti erano puntati sulle tasche delsuo vestito nuovo, non ancora slabbrate dalla frequenzadi mettervi le mani. Ma quelli non si davano per vinti.Aspettavano con gli occhi spalancati, e, adocchiandogliun anello al dito, dicevano: Fa vedere. Ma Miloneammucchiava, senza darsene per inteso, monete davantia s e le faceva suonare una contro laltra. Ignazio sapevache quando avrebbe finito il denaro, avrebbe tirato fuorialtro. Infatti, quello, perse alcune partite, butt sul tavo-

    lo un paio dorecchini. Erano di quegli orecchini ben no-ti fra le donne del popolo, rappresentanti un intrico difiorellini doro raggelati nella fonditura, con qualchesbavatura, fiori dunestate inoltrata. Fiori lontani daquelli che offrono i campi, fiori dun giardino artificiale.Due straordinari fiori di smalto splendevano nel mezzo,freschi. Stranamente loro pareva consunto come se gliorecchini si fossero schiacciati durante il sonno, come gli

    anelli che si consumano alle dita delle spose, durante lefaccende domestiche. I l Milone li pes un poco nel cavodella mano. Ora quelli che gli stavano intorno non ardi-vano di allungare la mano, ma aspettavano che li facessevalutare. Silenziosamente il Milone, dopo averli soppesa-ti, li pass agli altri. Socchiudendo gli occhi, Ignazio fecelo stesso. Quanto dici che pesano? Credo che valga-no sessanta lire disse il Milone Sessanta lire? feceIgnazio e glieli ricacci in mano frettolosamente. I l Lab-brone che non era stato consultato li aveva presi fra ledita e li studiava, mentre il Pazzo inghiottiva silenziosa-mente un po di saliva che gli faceva andare su e gi peril magro collo il pomo dadamo. Lascia stare, lascia sta-re, fece il Milone togliendoli bruscamente dalle manidel Labbrone con disprezzo. Non ve li mangio mica.

    Si riprese loggetto mettendolo davanti a s, e lo battevasul tavolo come per fissargli un posto.

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    Era irritato daver perduto. Guard Ignazio negli oc-chi e gli disse: Vuoi giocare con me da solo a solo que-sto paio dorecchini? Non valgono sessanta lire, ma ligioco lo stesso. Si distribuirono le carte, e Milone nepizzicava gli angoli scoprendo lentamente le figure chegli erano venute in sorte. Perse. Ignazio si prese gli orec-chini delicatamente, e se li mise in tasca dopo avere stu-diato come funzionava la chiusura. Poi, guardando ilsuo avversario di sotto in su, con gli occhi freddi e fissi,mentre gli tremavano i baffi, diceva accennando con ledita della destra unite: Qua, qua, tira fuori qualche al-

    tra cosa. Allora cadde sul tavolo una spilla doro dellastessa forma degli orecchini, ma con tre piccoli diaman-tini nel mezzo. Se hai qualche cosa di pi grosso tiralofuori. Io gioco per qualunque somma. Allora il Miloneammucchi sul tavolo davanti a s, cavandole da tutte letasche, varie cose: Ne ho qui per settecento lire alme-no! Le hai settecento lire da giocare? I l Labbroneguardava e gli pareva che la camera sprofondasse. Respi-

    rava a bocca aperta, con un lieve sibilo. I l Pazzo, inquie-to, si ravviava i baffi che gli tremolavano come una gros-sa farfalla grigia. Ignazio and nellaltra stanza, e tornpoco dopo con un pugno di cartemoneta ben piegate equasi nuove. Le mostr davanti, di dietro, in trasparen-za: Io non guardo se la tua roba vale davvero. Ma mivoglio cavare il gusto di vincerti. Queste sono settecentolire. Il Labbro ne con una voce roca disse: Loro valepi di settecento lire. Toss per schiarirsi la voce. Gliavversari si avvicinarono al tavolo premendovi contro ilpetto. Ognuno si accomodava la sua roba davanti. Sistringevano le carte sul petto, se le accostavano alla boc-ca. Ignazio scopr le carte risolutamente: Ho vinto: inutile che continui a giocare Seguito a giocare con lecarte scoperte, se vuoi. Milone batt il pugno sul tavolo

    quando ebbe provato a seguitare la partita, e grid: Tuconosci le carte, tu le hai segnate. O Milone, tutti gli

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    anni mi fai la stessa storia. Guarda e vedi se sono segna-te. che so giocare meglio di te. Ah, questo non lodevi dire. Del resto, se non la smetti, io ti denunzio, edico che hai rubato loro alla Madonna. Il Milone, pal-lido, si aggiustava la cintura, si raggiustava la giacca in-dosso, si ravviava il ciuffo, e diceva: Bene, non mi ve-drai mai pi. Ho qui altra roba. Fossi stupido a farmelamangiare da te. Meglio farsela mangiare dalle donne. Eio sono un cretino a venire a giocare da te. Ignazio, in-tento a guardare quelloro che aveva preso nel pugno,replicava: Intanto ti ho vinto, e farai bene a non giocare

    pi perch di carte non te ne intendi. Gran giocatoreche sei! Ah, replic Milone, se dici di nuovo chenon so giocare... Gli afferr il polso mentre quellostringeva il pugno pieno doro. Fu a questo punto cheuna voce nellingresso chiese: permesso? GiovanniMilone lasci la presa mentre il Labbrone lo reggeva ofingeva di reggerlo. I l Pazzo, seduto, giungeva le mani emormorava: Per lamor di Dio, calmatevi, vi volete ro-

    vinare? Ma non lo vedete che ha paura? diceva il Mi-lone. Poi usc brontolando: Me la pagherai!

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    V

    L Argir si era fermato e fingeva di non vedere.Quando quello fu uscito, uscirono tutti gli altri. Il Liscanon aveva mai avuto da fare con lArgir; stette un po asquadrarlo, mentre quello guardava di sotto in su, e fa-ceva girare la berretta fra le dita delle mani congiunte.Poi, risolutamente, gli disse: Che volete da me? Mi hamandato da voi il signor Camillo. Bene. Ho bisognodel vostro aiuto. Gli raccont in poche parole la storia,

    come erano precipitati i buoi, come lo aveva accolto Fi-lippo Mezzatesta, tutto. Di quando in quando Ignazio lointerrompeva Ti ha detto che non ti dava nulla? Ti hadetto di fargli la causa? Se gli fai la causa la perdi. Allafine disse: Vuoi venticinque lire per la semina? Vieni,ecco qua. Gli cont il denaro fra le mani, con un gestodi disprezzo, come se lo cacciasse via. Me lo restituiraiin grano, dopo il raccolto, al prezzo di questanno.

    Quindi, se il grano costa di pi... vostro. Nonavresti un ragazzo che potesse venire tutti i giorni da mead attingermi un orcio dacqua alla sorgente? Un ra-gazzo? disse pieno di gratitudine lArgir. Vi man-der mia moglie. Va bene. Dille che venga domanimattina, le do quanto agli altri, per questi servigi. Le dodue soldi per ogni viaggio. Le date quanto volete. Cbisogno di questi patti?

    Cos lArgir aveva qualche speranza per lavvenire.Egli aveva in mente un pezzo di terra da prendere in fit-to dal Comune, presso il torrente, dove il grano sarebbevenuto bello. I l Lisca, dietro le sue spalle, gli chiesementre usciva: vostro questo ragazzo? S, mio.Come si chiama? Antonello. Senti, Antonello, ec-coti i soldi e va per il paese a sentire se qualcuno ha uo-

    va da vendere. Se no, che mangio stasera? Il ragazzo silev volenteroso, aspett che quello tirasse fuori del ta-

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    schino stretto i denari, li strinse nel pugno. Non li per-dere gli raccomand il padre. I l ragazzo si mise a corre-re per le strade e si sentiva la voce sua dargento gridare:Chi ce le ha le uova? Era contento. Strillava e saltava,guardando le donne davanti alle porte e alle finestre. Glipiaceva di sentire come gridava. La sua voce si sentivaqua e l per il paese, ora soffocata ora squillante. Poi,quando la sera fu alta, se ne torn con quattro uova den-tro la berretta.

    La sera era chiara, cera la luna. Erano intinti di lunagli alberi e la montagna, il mare lontano. Dopo i grandi

    calori era come se una lieve rugiada fosse passata sulmondo a inumidirne la sete. Pareva di sentire la vocedelle fonti ai piedi dei monti, o dei fiumi risecchiti che siricordavano del loro boato. Le ombre delle case per lestrade strette erano dense e nere, e tagliavano a spicchi ea triangoli le strade, come se vi fosse stato disteso qua el un panno scuro. Ma non erano voci di fontane quelleche si udivano, erano le voci delle donne. Giungevano

    dalle soglie delle porte dove stavano raccolte e cantava-no lunghe filastrocche in onore della Madonna. Nei mo-menti di pausa sembrava di udire come si concertavanoper la canzone seguente, poi una voce peritosa si levavalenta, si spiegava appena come un razzo a met del suocammino, poi si librava sicura in una grande nota tenu-ta, fino a che, per sorreggerla, sorgevano le voci dellecompagne, quasi che quella svenisse sotto il peso di unagrande emozione. Poi si riprendeva quella voce, e facevasentire la sua angoscia tra quella delle compagne, ap-punto come una sposa quando accompagnata dalleamiche e dai parenti che le parlano dolce.

    Antonello, seduto sulla soglia della porta del Lisca,ascoltava e cercava di indovinare di dove partissero queicanti. Gli sembrava che si sarebbe addormentato, e la

    tenebra delle ombre dense e la luna lo fasciavano dioblio come in un mondo incantato. Mentre stava cos,

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    due ragazzi con la berretta calata sulle orecchie, scalzi,tozzi, col vestito a brandelli, gli si fermarono davanti. Sitenevano per mano, e presero unaria seria e provocan-te. Chi sei tu? Io sono il figlio dellArgir, il pasto-re. Ah, sei pastore? I due ragazzi si allontanarono.Poi improvvisamente dallangolo di una casa un sassovol sopra di lui e and a battere contro la porta del Li-sca. Una voce, la voce di uno dei ragazzi, disse: Dlli alforese, dlli al pastore, dlli al vestito di pelo! Egli oravedeva le due figure acquattate nel vicolo, e ne scorgevale ombre buttate in terra dalla luna, due grandi berretti

    come una testa di animale. Si lev e si mise a correre. Equelli a inseguirlo. Ma non lo seguirono fino alle case al-te dove dormono i pastori, e dove unaltra compagnia diragazzi stava a confabulare sotto la luna. Qui gli doman-darono Chi sei? Il figlio del pastore Argir. Bene,sei dei nostri! Sta qui fermo. Uno di quelli che avevaparlato aveva sporta la testa, per guardare. Una sassataradente lo sfior. Erano tutti figli di pastori, col vestito

    di lana pelosa, con la cintura di cuoio, per la maggiorparte scalzi. Che cosa successo? chiedeva Antonello.Finalmente uno gli rispose: Quelli dellUniversit civogliono picchiare. E chi sono quelli dellUniver-sit? Quelli che hanno i pantaloni lunghi. I figli dei si-gnori. Quello che aveva detto cos teneva un grossociottolo in mano.

    La compagnia, cos comera, decise di trasferirsi inuna casa diroccata e abbandonata, di cui rimaneva sol-tanto un muro alto, e il quadrato basso delle mura crol-late. Qui un odore acuto di strame li avvolse, e il silen-zio, e la luna che viaggiava alta sopra il cielo. Stavano insilenzio ad aspettare. Poi uno, quello col ciottolo in ma-no, si sporse, tir il sasso appena vide unombra che siavvicinava. Uno strillo gli rispose. Si guardarono tutti in

    viso e si dispersero. Ma Antonello non aveva capito. Enello stesso istante una voce lo chiamava: Antonello !

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    Antonello ! Ol! la voce di sua madre. Ma, mentrepensava di muoversi, si vide aggredito da tre ragazzi, fracui distinse quei due che aveva incontrati prima. Unocon un sasso gli batteva sulla nuca, e un altro gli tenevaferme le mani, mentre il terzo diceva: Di, di, cos im-para. Poi se la diedero a gambe nella notte. Antonellosentiva un gran dolore, e caldo, sulla nuca. Vi pass so-pra una mano, se la guard poi al chiarore della luna.Non cera sangue. Ma gli doleva. Zitto zitto prese lastrada di casa. Non disse nulla a nessuno, sbocconcellil pane e le pere che la madre gli diede nel buio, poi si

    butt in terra su una tela di sacco distesa, come facevalass nella sua capanna, mentre suo padre si era sdraiatoal fresco, dietro la porta. Anche attraverso il tetto di te-gole senza il riparo del soffitto filtrava la luce lunare. Sivedeva, nella casa, dopo un poco, tutto quello che cera:la grande giara dellacqua a un canto, il cestone del paneappeso al soffitto, il focolare che faceva nel buio comeuna macchia grigia, e il letto su cui era stesa sua madre,

    alto alto. Accanto al focolare, lo sprone della roccia, sucui era costruita la casa, stava come unombra inginoc-chiata. Egli sentiva respirare forte suo padre, e sua ma-dre sindovinava dal sonno tranquillo e immobile comese fosse morta. Dalle case vicine giungevano grossi so-spiri, e nelle stalle soffiavano contro glinterstizi dellaporta i maiali e gli asini. Tutte queste voci sentiva Anto-nello per la prima volta, dopo gli assorti silenzi dellemontagne. Il mondo era unonda sonora intorno alla suacasa, e il cielo, e le montagne che lo sostengono con leloro cime e i loro alberi, come un baldacchino, ora pesa-va immenso sul paese e sulla valle. Era come un fiumealto tenuto in un fragile letto, da cui poteva filtrare e ro-vesciarsi. Ma soprattutto era il continuo chiacchiericciodellabitato che gli faceva sentire davere iniziata una vi-

    ta nuova. La vita in comune gli sembrava una curiosa in-venzione e un accordo fra gente che ha paura. Si addor-

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    ment di colpo con un suono di campane nella testa, ldove gli doleva.

    Siccome il pellegrinaggio e le feste erano finiti, Anto-nello conobbe altri ragazzi. La gente che era tornata dal-la festa portava ancora il vestito nuovo per un paio digiorni, e le medaglie della Madonna coi nastri di setaverdi e rossi e gialli e azzurri, stavano appese al collodelle bambine. Avevano vendemmiato. La terra si ripo-sava. Qualche contadino di buonora aveva gi comin-ciato ad andare pei campi a fare quei gesti folli che sem-bra facciano i contadini veduti di lontano, quando

    assaltano la terra come una donna. I pastori avevano ri-presa la strada dei monti, ma non il padre di Antonelloche si era buttato sul campo tolto in fitto e che si eramesso a rivoltolare con la vanga. La madre ora faceva iservigi in casa del Lisca, portava acqua, lavava i panni,andava al mulino per la macinatura del grano. Antonellola segu per qualche giorno come un cagnolino, e si di-vertiva a portarle lorcio piccolo. Ella entrava col suo

    passo scalzo nella casa del Lisca, e per un poco si sentivail suo sospirare trafelato. La signora Lisca, spettinata esciamannata, la guardava fare. Poi le dava un piattello diroba che era avanzata e la mandava via. Quella riprende-va la strada e aveva trovato da lavorare ancora a portarepietre sulla testa per una fabbrica nuova, la fabbrica delprete che si costruiva una casa. Andavano e tornavanolunghe file di donne al sole, una dietro laltra, e non par-lavano. Antonello le segu anche un poco. Gli avevanocambiato il vestito di orbace, ora che non andava pi inmontagna, e gli avevano messo un paio di pantaloni chenon sapeva chi li avesse regalati a suo padre. And a cer-care i compagni della sera prima, ma li vide che andava-no in montagna dal padre, a riprendere la vita delle ca-panne.

    Stava seduto dove sua madre cercava le pietre da por-tare alla fabbrica, in un campo sotto una pianta di mirto,

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    che fingeva di ridere aveva paura, e diceva: C la sco-munica.

    Sbuc dalla fratta e sedette accanto a loro una bambi-na scalza, nera, con un visino piccino e patito dove duegrandi occhi umidi guardavano fra le ciglia nere. Ellachinava la testa, e si metteva a ridere senza ragione. Tittala guardava con aria di protezione, e le disse bruscamen-te: Brava, hai fatto bene a venire. Ella stava compuntae timida, e voleva sentire quello che dicevano. Si guarda-va di tratto in tratto dietro le spalle, in alto, sul ciglio delcolle dove si scorgevano le case basse. Mia madre mi

    cerca. Una voce difatti gridava: Lisabetta, Lisabetta!Io non rispondo, altrimenti mi picchia. Io non voglioandare a casa. Certo sarebbe bello se scappassimo tut-ti, col brigante Nino Martino! Non ci sono pi i bri-ganti in montagna replic convinto Antonello. E tuche ne sai? Vivono nelle caverne, e se ci sono non ven-gono a dirlo a te. La bambina ascoltava. Ma a sentirsichiamare di nuovo, Lisabetta, si lev e corse verso la ca-

    sa dicendo: Son qui. I l Titta esclam: Ora lammazzadi botte. Difatti si sent la bambina che gridava: Basta,basta, non ne voglio pi. Doveri, disgraziata? Conquel mascalzone del Titta? Con quel figlio duna buonadonna? Non ti ci voglio pi vedere. Se ci vai ancora ti le-go mani e piedi. I l Titta ascoltava e rideva: Parla dime: ma se la incontro una sera, quella donna, le spaccola testa con una sassata. Siccome il sole aveva invasa lavalletta a perpendicolo, tornarono a casa. Ne scapparo-no via subito con un pezzo di pane e un pugno di fruttae pranzarono sotto gli archi del loggiato della casa Mez-zatesta.

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    VI

    Stavano in quellombra e discorrevano rado, tra le vo-ci del meriggio, le cicale assordanti, lodore grave e arsodel mondo che era intorno come la cenere rimasta a unincendio. In breve si form una comitiva di ragazzi. IlTitta tir fuori un mazzo di carte, tutte gualcite, e nonpi di venti, e si mise a distribuirle con sussiego. Pi inl un altro gruppo guardava. Distribuite le carte, disse:Giochiamo, e ne tir una. Gli altri fecero lo stesso, ma

    nessuno sapeva giocare. Allora il Titta si prese le carteche erano state tirate e se le accumul davanti. Per-ch? domand Antonello. Perch s replic il Titta enon gli diede altra spiegazione. Ma Antonello insorse:Spiegami perch hai vinto tu. Perch s. Il dialogoand cos avanti un pezzo. Il Titta, raggiustandosi il ber-retto davanti agli occhi, si volgeva agli altri compagni eindicava con unocchiata dintesa lavversario. Poi, met-

    tendo la mano avanti, e puntandogliela sul petto, si misea spingerlo e a dirgli: Va, va, va ! Questatto fece ri-bollire il sangue ad Antonello. Gli altri incitavano i leti-canti con grida di oh, oh, e mettendosi la mano davan-ti alla bocca e battendola in modo da fare un gridomodulato. Alla fine, quando il Titta si fu assicurato des-sere spalleggiato, tir un pugno sul ventre allavversario.Questi non grid n pianse, divenne bianco bianco, siport la mano al ventre, poi sedette in terra e faceva conla mano il cenno: Aspetta, aspetta!.

    Un gruppo di ragazzi che aveva assistito di lontano al-la scena, si raccolse intorno ad Antonello. Erano dei ra-gazzi molto pi miseri di quegli altri, patiti e pallidi, nonerano neppure vestiti del tutto. Attraverso le laceraturedei vestiti si vedevano le loro grosse pance tonde. Uno

    di essi, soprannominato il Sorcio, disse all orecchio diAntonello circondandogli col braccio il collo: Gridagli

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    figlio di una buona donna, perch lo . Davvero?Non sai chi sua madre? No, che non lo so. Tuttiintorno si misero ridere.

    I discorsi che faceva questo secondo gruppo eranomolto diversi da quelli degli altri: essi parlavano di don-ne. Uno descriveva di aver veduto una donna salire unascala a pioli, e tutti ridevano con una specie di oppres-sione e di soffocazione. Sembrava a tutti di sprofondarein un mare di ovatta. Ma ecco che, accolto da grandi gri-da, apparve un altro ragazzo che portava legato a un lac-cio un aquilotto appena piumato. Se ne veniva avanti

    senza voltarsi, e spesso lo trascinava nella polvere comeuna ciabatta. Era vestito con un abituccio pulito, a scac-chi turchini e neri. Era molto diverso dai suoi compagni.Prima di tutto un color gentile e pallido gli era diffusonel viso, e due occhi stranamente azzurri erano tristi co-me certe acque dense nei fossatelli dei campi. Laquilot-to si fermava di quando in quando a inseguire una lucer-tola che traversava la strada. I l ragazzo dellaquilotto

    non era evidentemente come tutti gli altri, perch siferm un poco pi alto degli altri su un mucchio di ter-ra. Aveva la vocazione di fare il prete, lo chiamavano ilPretino, ma il suo nome era Andrea. Il Pretino si sedetteattorniato dai ragazzi. Laquilotto guardava la luce in-torno. Gli batteva presso gli occhi come il palpito dunavena. Gli occhi li aveva coperti duna membrana biancacome se fosse una lieve cenere. I l Pretino si mosse e tut-ti gli altri gli furono dietro. Il sole declinava, e i ragazzidecisero di fare la processione. Il Pretino teneva laquilaal guinzaglio, e andava in testa a tutti con le mani giunte.I ragazzi dietro si erano raggruppati per ordine, e condei sassi che picchiavano uno contro laltro facevano ipiatti della banda, mentre altri che con la bocca andava-no mugolando Piripiripirir facevano le trombe. Solo

    il Titta guardava in disparte con un lieve sorriso di com-patimento. Antonello si era mescolato alla processione e

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    mente stretta in grembo, e di quando in quando la guar-dava fissa allontanandola da s fra le mani giunte. Poi lesi avventava contro e le stampava di quei baci caldi equasi rabbiosi che sanno dare le madri, con una ferocetenerezza. Antonello la consider un poco, poi le si ac-cost. Se la sentiva respirare vicina. Poi si misero a gio-care e stabilirono che Antonello era il marito ed ella lamoglie. Come ti chiami, ragazzina? Teresa, disse el-la indifferente come se dicesse il nome duna pianta.Bene, Teresa, adesso io torno a casa. Allora Teresa fe-ce le viste di aver molto da fare. Stese la bambola in ter-

    ra, e di quando in quando le diceva: Zitta, zitta, adessovengo a darti il latte. Ma appena ebbe detto questo levenne da ridere, e vergognandosi delle sue parole si na-scose con le mani la bocca. Poi si mise a soffiare su unfocolare immaginario, buttata in terra.

    Mentre stavano cos apparve il Pretino. Che fate?Giochiamo. Mi fate giocare anche me? Ma tu nonsei il Pretino che non gioca? Io posso giocare, chi lo

    ha detto che non posso giocare? E poi in tre non sipu giocare, disse la bambina: bisogna essere soli perpoter giocare. Ella diceva queste cose tranquillamente,assorta. Vuoi vedere come si gioca? Vediamo. Mail Pretino deve andar fuori Questa la mia stanza. Al-lora io mi corico e tu ti corichi accanto a me. Il Pretinosi scost un poco fingendo di stare dietro la porta. Inve-ce guardava attento, con gli occhi fissi. Antonello si co-ric accanto alla bambina, e guardava il Pretino. Ella glisi stringeva accanto, e sentiva il suo respiro che era co-me la voce di un insetto nellaria. Anchella faceva colrespiro un ronzio come se avesse unape nel petto. An-tonello scese dopo un poco e non sapeva che dire. Mifai provare anche a me? disse il Pretino. Vieni, disseella stando sdraiata e agitando le mani. Aveva unaria

    assorta e sofferente. Il Pretino le stette accanto un pocoed ella gli carezzava la testa. I l ragazzo tremava. Ella lo

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    baci improvvisamente stringendolo fra le sue bracciamagre, e rideva. I l ragazzo si mise a gridare che volevaandar via.

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    VII

    Il Pretino torn a casa col batticuore. Si mise in unangolo della cucina, accano alla Saveria, che era sua so-rella, e stette a guardare il fuoco che si avvolgeva allapentola nera. Aveva timore di guardare sua sorella, enello stesso tempo gli veniva da ridere. Ella gli si sedetteaccanto, ed egli non tard ad addormentarsi col capopoggiato alla spalla di lei. Nel sonno udiva tornare in ca-sa i fratelli, e la voce gi grave e burbera del Titta, e

    quella maliziosa di Peppino, e quella assennatina di suasorella. Nel sonno gli pareva che sua madre picchiasse laTeresa, nel sonno vedeva la fontana dove le donne si riu-nivano a ciarlare, le strida e i gesti di queste donne, mo-bili e rapidi, e gli occhi lucidi, e gli pareva che fosserointorno a carezzarlo con le loro mani brune e corte, e nesentiva il respiro come quando era pi piccolo. Poi sentche qualcuno amorevolmente lo spogliava, lo metteva a

    letto, e istintivamente chiuse le braccia intorno a una te-sta che respirava sul suo viso un alito dolce e caldo. Erasua madre; e come sempre gli accadeva nel sonno, nesentiva il calore della pelle, e la grana fine e quasi un sa-pore dolciastro. Si addorment su unalta onda di sonnocome se il suo letto si fosse levato smisuratamente e toc-casse il soffitto. Alla mattina il suo risveglio fu dolce epenoso come dopo una malattia. Aveva limpressione,nel dormiveglia mattutino, di avere lasciato alla vigiliaun giocattolo che gli piaceva molto, ma ora destandosinon sapeva pi quale, e finalmente gli venne alla mentelimmagine di Teresa e il suo gioco. Avrebbe voluto tor-narvi ma non vi voleva pensare, e tremava di un tremitoche gli scioglieva il sangue.

    Quando fu desto e vestito, sua sorella pettinata stret-

    tamente e ancora umida dacqua fresca, gli disse che lamamma doveva parlargli. Egli si precipit nella stanza

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    dovera di solito il signor Camillo Mezzatesta, il qualeebbe un lampo di gioia negli occhi a vederlo, e un sorri-so allangolo della bocca, infantile. Era appena rasato. Iservi avevano finito di vestirlo, e stavano ai suoi piedi adallacciargli le scarpe. Egli abbassava di quando in quan-do gli occhi a guardarli, senza fretta e senza impazienze,come un bambino. Quando loperazione fu finita, entrla Pirria e sedette su una sedia bassa. Attrasse a s il ra-gazzo, lo baci sulla guancia con un bacio schioccante, egli domand con pi attenzione del solito: Come state,piccino mio? Quando era tenera gli parlava col voi. Il

    padre lo guardava con attenzione, e sorrideva mentre unfilo di saliva gli scendeva dagli angoli della bocca com-piaciuta. In quel momento una voce nellatrio suon al-legra, la voce del prete. Egli esit un minuto sulla porta,si lev il cappello precipitosamente, e, tirandosi su lesottane, si mise a sedere accanto al padrone di casa. Glibatt la mano sul ginocchio dicendogli: Come va?Ma, veduto il ragazzo acanto a lui, lo prese sulle ginoc-

    chia e carezzandolo gli disse: Ebbene, che cosa voglia-mo fare con questa Comunione? Prima di partire dovrpur farla. Che? parto di gi? chiese il ragazzo convoce smarrita.

    Era da un pezzo che si parlava di mandarlo al semina-rio a studiare per diventare prete; ed egli vi pensavasempre; ma questa mattina non si sapeva che cosa aves-se, perch si mise a piangere e disse: E i miei fratelli, ilTitta e Peppino, che cosa fanno, non vengono con me?Oh, quelli non hanno voglia di studiare. Scese dalleginocchia del prete e si rifugi presso sua madre. Que-sto prete, il Cervolo, era un uomo tozzo e grasso, coicapelli grigi e uno sguardo fugace negli occhi inquietiche non posava mai a lungo in un luogo. Non voletepi andare in seminario, figliolo? disse la madre. I l ra-

    gazzo, col singhiozzo in gola, annu con un cenno del ca-po. Perch, altrimenti, come farete a diventare vesco-

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    vo? Il ragazzo sorrise. Apr la bocca il padre, il qualepronunzi con voce strascicata: Del resto, se non vuo-le, lasciatelo stare. Noialtri non abbiamo bisogno di nul-la. Ma che si fa per il bisogno? Tra i nostri figlioli, sequesto ha volont di studiare facciamolo studiare, in-sorse la madre. Tanto si sa che i suoi fratelli non sonobuoni a niente, e che faranno i vagabondi tutta la vita.Almeno questo... Camillo Mezzatesta abbass il capocon un sorriso puerile e disse: Questo somiglia a me.Questo il mio figliolo. E indicava il ragazzo col ditoteso.

    Questa faccenda della somiglianza lo aveva semprepreoccupato di fronte alla gente. Quando era stato pipiccolo, il Pretino, si ricordava, le donne lo fermavano elo guardavano, quando non gli prendevano il viso fra lemani per dire: Questo s somiglia a suo padre. Ma glialtri... Questo fatto lo aveva messo sempre in una con-dizione di privilegio e non sapeva perch. Anche in casa,il Titta e il Peppino dormivano in una stanza e lui in

    unaltra, e non li vedeva se non quando si trovavano atavola. Sua madre insorse per dire: Che cosa volete direcon questa faccenda della somiglianza? Era divenutapallida e fredda, come non era facile vedere. Luomo ab-bass gli occhi, e vide il ragazzo che guardava fisso oraluno ora laltra. Ma brontol: Niente: dico che questoha preso da me. Va a giocare, figliolo bello, va a gio-care, disse la madre rivolta al ragazzo. I l Pretino non selo fece ripetere due volte e usc come una saetta.

    Appena i passi del ragazzo si sentirono in fondo allescale, la Pirria si lev, e puntando i pugni sui fianchi simise a dire sottovoce ma con un tono sibilante: Biso-gna finirla con questa vergogna del figlio e non figlio,della somiglianza a me o a voi. Tutto il paese ne pieno,e quei ragazzi, i figli miei, i figli vostri, vengono tutti i

    giorni a dirmi che i monelli li insultano come figlioli diuna sgualdrina. Si tapp la bocca con la mano, violen-

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    temente, e in quellatto era bellissima. I suoi capelli ric-ciuti oscillavano alla sommit del capo, come teneri ser-penti, i suoi occhi splendevano, e il sentimento dei dueuomini che assistevano a quella sfuriata era che ella fos-se ancora mirabile. I l prete le ruppe la parola sulla boccaper dirle: Lasciamo andare queste cose, signora Pirria.Lasciate che il paese dica. Ma per questo ragazzo che vaagli studi, che entra in un istituto religioso, che devemettersi al servizio di Dio mi pare che non si possa farea meno di regolare seriamente la vostra posizione davan-ti a Dio. Come volete che vi accolgano un figlio che ap-

    pare come figlio dignoti? E se lo accogliessero sarebbeuna condanna che peserebbe su quel povero innocenteper tutta la vita. Fino a che noialtri siamo qui, in questopaese, ci conosciamo, sappiamo chi siete voi, per quantoi malintenzionati e i monelli si facciano giuoco... Que-sto paese pieno di bastarderia, ed tutta dovuta a que-sti bei campioni dei Mezzatesta. Il prete arricci il nasoa questuscita. I l Mezzatesta aveva levato il capo e le

    puntava due occhi insolitamente stupiti. Ella si mise asedere, e si asciugava le lagrime col grembiule. Io sonoqui, disse il prete, a consigliarvi per il bene dei vostrifigli che sono vostri figli e non della strada, a chiuderequesto capitolo della vostra vita irregolare e a ripararedavanti a Dio lingiustizia caduta su questi innocenti.Essi sono vostri figli, riconosceteli, e cos riparerete unpeccato che pu diventare un delitto. Lo sguardo rico-noscente della donna lo distrasse, ed egli smise aspettan-do la risposta di Camillo Mezzatesta. Quello stava adascoltare immobile, fissando il prete come se non dices-se a lui ma parlasse dal pulpito. Ma si scosse, fece uncenno col capo, e diventando pi pallido di quanto nonfosse, rispose: Io sono disposto a riconoscere per miofigliolo Andreuccio, perch lui mi appartiene. Perch

    mio figlio e ci credo; ma gli altri no. Questuscita nettae secca, che egli pronunzi levando gli occhi con un re-

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    voglia partire. Per un attimo fu un silenzio attento. Era-no rimasti soli il prete e il Mezzatesta, si offrirono del ta-bacco e vi fu un annusare riflessivo, per qualche minuto.Poi fu il Mezzatesta a riprendere il discorso. Ella credeche io sia interamente rimbecillito, ella crede che io nonsappia nulla e non mi accorga di nulla. Io so tutto, e sodi chi sono quei figlioli. Io so che soltanto Audreuccio mio. Sono pur sempre un Mezzatesta, sono uno dellamia famiglia malgrado tutto. Posso essere caduto in bas-so, e certo che sono caduto in basso (il prete fece un ge-sto come per raccattarlo); s, sono caduto in basso, lo so;

    ma non per questo il mio nome deve essere buttato nelfango. Io s, ma il nome dei Mezzatesta, no, quello no!Aveva pronunziate queste parole con la sua calma abi-tuale e con la sua pronunzia incerta. Io sono debole enon posso fare a meno di quella donna; ma il mio nome,quello, quello... Parlava con s, stesso.

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    VIII

    LArgir non se ne vedeva riescir bene una. Primaprov a coltivare il suo pezzo di terra, ma glielo rovin iltorrente. Poi si mise ad allevare un paio di maiali e glielischiant il morbo. Fece molti mestieri fino a quando, es-sendo venuti certi milanesi per i lavori delle baracche,dopo il terremoto, riusc a impiegarsi come sorveglianteai lavori e mise insieme un poco di denaro. Con questopens subito a comperare qualche cosa che gli servisse

    per un suo nuovo mestiere. Comper una mula e si misea fare servizio di trasporto fra il paese e il mare, fornen-do ai bottegai le merci che comperavano negli emporidella marina, e a chiunque servissero. Ora cominciava arespirare e la moglie non andava pi a servire di qua e dil. Certo, le donne che una volta erano mandate a caro-vane per le forniture, in mancanza di bestie, si lagnava-no che quella mula avesse tolto loro un mestiere.

    LArgir fece il passo del viandante e la facciadelluomo che vede paesi diversi. Se ne andava cantandoe dicendo proverbi, non parlava che a sentenze, e talvol-ta diceva pensieri rimati. Faceva tutte le mattine la stra-da fra il paese e il mare, venti chilometri attraverso i tor-renti e i boschi che sono brutti dinverno quandoscendono improvvise le piene, e i fulmini solcano gli al-beri che li aspettano alti levati; partiva alle quattro delmattino e tornava la sera alle quattro; dodici ore in cui siintratteneva coi passanti, con la gente delle casupolesparse pei campi, coi lavoratori delle vigne, coi pastoriquando scendevano al piano, e di tutti sapeva come an-dava la vita. Si cacciava innanzi la mula che era la suacompagna vera, le faceva lunghi ragionamenti, le davaavvertenze, interpretava i suoi sentimenti, la informava

    delle novit. La bestia stava a sentire con quellaria at-tenta delle bestie, che la stessa di chi ascolta una lingua

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    straniera in cui cerca di afferrare qualche parola. Si chia-mava Rosa. Pochi erano i giorni dellanno in cui non fa-cesse questo viaggio: nelle grandi feste e quando piovevatanto che cera pericolo di esser portati via dalla piena.Allora sedeva sotto larco della porta, e guardava il pae-se che era tutto un torrente torbido, e la gente che giravarasente ai muri coi sacchi sulla testa per ripararsi dallac-qua, e la montagna che aveva messo anchessa un cap-puccio di nubi. Dovera la grande vallata, e il torrente,cera la nebbia opaca come il cielo, e il corso dei torrentisi intravedeva lucido come le vie dei fulmini nei cieli nu-

    volosi. Il mare si indovinava nel grande vuoto delloriz-zonte. Quando era fermo, valeva meno di qualunqueuomo, lui che era abituato a vedere i risvegli lungo lastrada, e come andavano i lavori, e come crescevano gliorti, e i danni del torrente giorno per giorno. Arrivava invista del mare quando il treno passava sul ponte (ed eratutte le mattine una novit puntuale) e si piegava comeun organetto alle voltate. Si lamentava, quando non po-

    teva andar via.Gli altri due figli, gli erano nati muti, e lui si ostinava

    a volerne, sperando che quello che avesse parlato dopodi loro avrebbe detto di grandi cose. Quei due, quandoerano venuti, avevano articolato quasi per isbaglio le sil-labe ma-ma. Poi si imbrogliarono, parve, e dicevanosuoni che non si erano mai sentiti, ed era finita. Sar sta-to perch era sempre stanco. La sera, quando rincasava,gli si stringeva il cuore, e le lagrime gli diventavano co-centi dentro il petto. Da tutte le case si strillava, da tuttele case si piangeva, e in casa sua silenzio, i ragazzi sedutiintorno alla madre, che parlava loro con gridi inumanidi tratto in tratto, facendo un urlo nella bocca messa aimbuto, che pareva la madre dei gufi. Questi ragazzierano fuori tutto il giorno, curiosi di vedere e di sapere;

    si appiattavano mentre gli altri giocavano, osservandocome poveri esclusi dal paradiso, e se cera da affrontare

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    qualche fatica, se cera da trasportare qualche cosa, secera da fare per gioco da cavalli o da asini, uscivanofuori e si mettevano carponi, contenti, pur di stare incompagnia. Oppure si appiattavano in casa, sotto la sca-la, ad aspettare non si sa che cosa. Le donne, che gene-ralmente coi figli degli altri non sono buone se non perrispetto ai propri, verso questi poveretti erano tenere, eallungavano loro qualche cosuccia da mangiare, chequelli masticavano senza farsi vedere perch avevanovergogna di mostrarsi. Se arrivava qualcuno in paese es-si erano l a guardare, ed entravano nelle case senza che

    li sentissero. Erano come le ombre, e nessuno li cacciavavia, perch non potevano parlare n raccontare quelloche vedevano. Era anzi unopera di carit lasciarli nei lo-ro nascondigli fino a che non si fossero annoiati o ad-dormentati. Giravano in cerca di fatti, osservando conocchi fissi e attenti in cui, insieme con quello che vede-vano, pareva di leggere i ricordi con cui Io raffrontavanoper farsene un giudizio. Ridevano strizzando locchio,

    spandendo intorno una gaiezza irragionevole e innocen-te come se ridesse un passerotto, cosa innaturale. Ledonne dicevano: C il mutolo, come se dicessero: entrata una farfalla. Avevano la lingua, in fondo al sor-riso malizioso, come un coltello chiuso in fondo a unatasca, e pareva davvero che la balia avesse dimenticato,come dice vano, di tagliar loro il filo di carne rosa chegliela teneva imbrigliata al palato.

    LArgir, era come se avesse fatta una scommessa.Gliene nacque uno ancora, e lui era convinto che fossequello buono.

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    IX

    Antonello aveva preso appena sonno che sent la vocedel padre su di lui: Guarda che la mamma ti ha fatto unfratellino. Gli pareva di sognare, e voltandosi dallaltraparte sent un odore che lo riportava allinfanzia prima,come spesso gli accadeva durante il sonno. Poi sent ac-canto a s sul letto, fra le braccia, una forma tenera e ri-gida nello stesso tempo; erano le fasce in cui era costret-to linfante che non poteva muovere mani n piedi, e

    piangeva con la voce dun agnellino. Si svegli e si sentdue, come se lo avessero tratto dai suoi sogni di ieri;quel pianto parlava e diceva: Sono tuo fratello, pi pic-colo di te, e tu ormai sei grande. Era azzurro in faccia esdentato come un vecchino; somigliava al padre, vec-chio e nuovo nello stesso tempo. Ora la casa singrandi-va, Antonello si cacciava sulla sponda del letto per farposto al piccino, il quale pareva sapere qualche cosa di

    misterioso, che si lamentava di qualche cosa che nessu-no riesciva a capire. Antonello gli metteva il dito nel pu-gno per sentirselo stringere, gli toccava le guance e gliparve che rimanesse, dove aveva posato il dito, il segnoduna fossetta. Poi venne il padre a riprenderselo e dice-va: Perbacco, di questo ne faremo un dottorone. An-tonello domand: Come lo chiameremo? Benedet-to. Questo nome divenne pi piccolo e vicino, divenneconosciuto, si rivest di fasce e di cuffie, come compratonuovo al mercato. Il nome di Antonello parve disusato edecaduto.

    Benedetto diveniva un essere privilegiato perch eranuovo, e ad Antonello pareva di esserci sempre stato.Benedetto non rispondeva alle sue domande, ma Anto-nello lo trattava col voi e gli parlava con molto riguardo.

    La mamma glielo dava in braccio e gli diceva spesso:Tienilo per un poco e attento che non ti cada. Anto-

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    nello lo sentiva divenire tutti i giorni pi pesante, comese lo facesse apposta, e lo guardava piangergli in braccioin modo inconsolabile. Antonello sentiva che forse eracolpa sua se piangeva. Eppure il primo sorriso glielo fe-ce a lui un giorno, quando gli mise un dito sul mento pervezzeggiarlo, e quello rise con la bocca sdentata. Anto-nello se lo portava per le strade in braccio, che pesavaassai. Guardava gli altri monelli giocare, e lui seduto interra col fratellino non si poteva muovere. Certe voltetentava di giocare con Benedetto stesso, quando ne ave-va troppa voglia, e faceva ancora dei giochi da ragazzo,

    mentre i suoi coetanei guardavano gi con attenzione ledonne. Poi Benedetto cominci a camminare, le vestinegli si gonfiavano come se volasse, e mise i primi denti colprimo vero sorriso. Antonello era gi grande e si vergo-gnava dei suoi piedi nudi, troppo lunghi e magri, si met-teva a sedere per non mostrare lo strappo dei pantaloniche aveva di dietro, quando passavano le ragazze. I l fra-tello, piccolo e cocciuto comera, cominci a comanda-

    re. Voleva che lo accompagnasse in chiesa dove credevadi cantare e non faceva che unesclamazione lunga e ro-ca. Componeva le prime parole, correttamente, senzasaltare nessuna lettera. Per un poco si era dibattuto fratutte le sillabe del mondo scomposte come per un giocodi pazienza, poi imbrocc la via giusta e venne fuori conuna infinit di parole che parvero straordinarie, e ridevaforse per mostrare che capiva e che non poteva spiegarsimeglio perch era troppo piccolo.

    Perbacco! disse il padre. Ne voglio fare un pretepredicatore, e che parli per tutta la famiglia messa insie-me. Alla prima parola sconcia che gli sent dire, il pa-dre rise sgangheratamente come se fosse un segno certoe violento di vita. Siccome Benedetto era nato nelletmeno matura del padre, aveva in s qualche cosa di pre-

    destinato, col suo colorito pallido e biondastro, gli occhiazzurri. Siccome aveva la memoria pronta, le donne del

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    popolo che cantavano in chiesa lo chiamavano perchripetesse le parole dei canti imparati. Benedetto vi anda-va, e le donne lo tenevano con le loro mani calde, e lostringevano fra le ginocchia perch stesse fermo.

    Antonello, ora che non aveva pi a badargli, si na-scondeva dietro la fratta della fontana per vedere le don-ne attingere acqua, ne sentiva i discorsi e gli strilli, udivala musica del getto nellorcio di creta. Qualche volta siaffacciava, quando vedeva la Teresa, divenuta grande,coi rigonfi del corpetto sul seno, e la chiamava: Schia-vina! Schiavina! Era divenuta bruna in faccia, come di

    cioccolata, e la chiamavano Schiavina di soprannome.Ella si volgeva e diceva levando la mano per ravviarsi icapelli: Mi avete fatto paura. Figuratevi che bugia miha raccontato mio padre, perch non vi cerchi: mi hadetto che vi andato un chicco di grano nellorecchia,che vi rimasto ed ha messe le radici nel cervello, e per-ci siete pazza, dice. Ma io non ci credo pi. Schiavina,pensate a me qualche volta? Via, via, io ho altro da

    pensare. Ma sorrideva, e gli mostrava, mentre si ravvia-va i capelli, la palma della mano nuda coi suoi geroglificiche non gli riusciva di leggere.

    Un giorno lArgir disse ad Antonello: Figliolo, hobisogno di te. Tu vedi quanto intelligente tuo fratello,che certo diverr, se lo facciamo studiare, un granduo-mo, Mi venuta questidea, e me la sogno la notte. Seriesco a fare di lui un prete staremo bene tutti, e anchelui. Io ho pochi soldi da parte, e posso cominciare aprovvedere. Ma poi questo mio mestiere non mi basterdavvero. Sono capace di indebitarmi fino ai capelli, e dilavorare il doppio. Io sono risparmiatore, lo sai, tantvero che non vado mai a cavallo sulla mula, ma a piedisempre, perch cos mi campa di pi. Qui, in questopaese non c scampo per nessuno, con questi mariuoli

    che comandano. Bella rivincita che sarebbe per me, pernoi tutti, che da casa nostra uscisse qualcuno che potes-

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    se parlare a voce alta, e li mettesse a posto. Il prete, civuole. Tu mi devi aiutare. Comincia a lavorare subito e aguadagnare. Che vuoi fare qui, imparare un mestiereche poi non ti serve ad altro che a farti dannare? Ho sa-puto che dalle parti di C... si lavora a ponti e a strade.C lavoro e tu ci devi andare. Prima fai il manovale, poifai loperaio, poi finisci sorvegliante, chi lo sa? se il Si-gnore ti aiuta. Mi mandi la met di quello che guadagni,e il resto te lo spendi per te. Io ci aggiungo il resto, emettiamo insieme quello che ci vuole per mantenere Be-nedetto. A questa gente dobbiamo fare un dispetto che

    se lo ricordino per tutta la vita. Poi viene Benedetto ve-stito da prete, e gli devono fare linchino. Crepate, mise-rabili; zitti, prepotenti. Largo. Calcolo che verso i tren-taquattro anni sarai libero di sposarti. Va bene? Maintanto sta attento alle donne. Non ti invischiare, nontinnamorare, altrimenti siamo perduti. Antonello nonebbe nulla da osservare. Scosse il capo dicendo di s e dis, non capiva bene quello che prometteva, ma gli veni-

    vano le lagrime agli occhi pensando di trovarsi ormaigrande e utile, buono per lavorare; si sent di colpo paria suo padre, e tutti intorno gli ebbero riguardi come aun condannato. Nel suo cuore sorse uni sentimento pa-terno verso quel ragazzo. Fuori, quando si trov a lavo-rare tirando una carretta di terriccio alla costruzione diuna strada, si ricordava di suo fratello, come circondatoda una luce misteriosa, e scriveva raccomandando cheparlasse davvero bene italiano se voleva diventare unbuon predicatore. Questa cosa evidentemente lo preoc-cupava, e pareva che non pensasse ad altro, anche quan-do fu chiamato per soldato e visse nelle citt. Poi trovaltro lavoro, in un paese pi lontano, e si ricordava, do-po una visita a casa, di aver veduto Benedetto gi gran-de, che si preparava a partire per il seminario, che i fra-

    telli mutoli gi gli baciavano la mano per mostrare che loriverivano, che egli non si poteva muovere per la stan-

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