Evoluzione, cognizione e cultura1 · In A. Lavazza, G. Sartori e M. De Caro (a cura di), Siamo...

19
In A. Lavazza, G. Sartori e M. De Caro (a cura di), Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio. Il Mulino, Bologna 2010. 1 Massimo Marraffa Evoluzione, cognizione e cultura 1 Per alcuni decenni, cioè fra gli anni Venti e gli anni Cinquanta del Novecento, la psicologia è stata dominata da un approccio empiristico allo sviluppo cognitivo. Sia il comportamentismo sia seppur con maggior raffinatezza il costruttivismo piagetiano condividono la tesi secondo cui la mente umana, nello stato iniziale dell’ontogenesi, possiede una struttura estremamente povera. Ciò vuol dire che l’essere umano nasce privo di ogni conoscenza, dotato unicamente di capacità sensoriali e di una capacità di apprendimento generale, che si applica a ogni dominio della realtà. Ogni conoscenza va appresa nel corso della vita, attraverso l’esperienza diretta o per trasmissione culturale. Tale concezione dell’uomo come una tabula rasa si accordava bene con gli orientamenti del culturalismo relativistico statunitense, legati soprattutto ai nomi di Ruth Benedict e Margaret Mead. La psiche umana sostengono queste studiose è totalmente libera da influenze biologiche e intera- mente plasmata, fin dall’infanzia, da fattori storici e ambientali 2 . Questa miscela di psicologia empirista e culturalismo è stata denominata «modello standard delle scienze sociali» [Tooby e Cosmides, 1992]. Modello che, tuttavia, si è cominciato a smantellare negli ultimi tre decenni del XX secolo. Si tratta di un lavoro ancora in corso, che ha tratto origine dall’intrecciarsi di varie vicende teoriche. I §§1-3 ne ricostruiranno concisamente tre: l’avvento della psicologia cognitivista, la teoria razionalistica e innatistica della mente di Noam Chomsky (e il suo impatto sulla psicologia dello sviluppo), la transizione dalla sociobiologia alla psicologia evoluzioni- stica. Nel §4 constateremo che questi sviluppi teorici ed empirici hanno creato i presupposti per l’ap- plicazione di una prospettiva cognitivo-evoluzionistica alle scienze sociali. In particolare, lapplica- zione di tale prospettiva all’antropologia è stata perseguita nella convinzione che la variazione cultu- rale possa essere compresa solo se studiata all’interno di uno spazio di possibilità fissato da fattori neurocognitivi. Tali fattori sono strutture cognitive che operano solo in particolari domini di realtà e che l’evoluzione ha cablato nei nostri circuiti neuronali. Esaminando il caso delle credenze religiose, avremo modo di illustrare come le strutture in questione pongano vincoli sulle rappresentazioni cul- turali, facilitandone l’acquisizione, il ricordo e la trasmissione. Nel §5 si sosterrà che questa sottolineatura dei fondamenti neurocognitivi della cultura non è in antagonismo con una prospettiva culturale sulla cognizione. La cultura influenza non solo il conte- nuto delle nostre credenze ma anche le strategie di elaborazione dell’informazione che impieghiamo 1 Ringrazio Gilberto Corbellini, Andrea Lavazza e Maria Grazia Rossi per utili commenti su una versione precedente di questo capitolo. 2 Nei decenni del suo massimo fulgore (anche qui, fra gli anni Venti e gli anni Sessanta del Novecento) l’idea culturalista e antibiologica fu accettata da tutti: oltre che dagli antropologi culturali americani, dai marxisti, dai movimenti giovanili, dagli psicoanalisti e pedagogisti, infine anche dai politici desiderosi di porsi il più lontani possibili dai fantasmi biologi- stici del razzismo. Su ciò, vedi Jervis [2005: 78-87].

Transcript of Evoluzione, cognizione e cultura1 · In A. Lavazza, G. Sartori e M. De Caro (a cura di), Siamo...

Page 1: Evoluzione, cognizione e cultura1 · In A. Lavazza, G. Sartori e M. De Caro (a cura di), Siamo davvero liberi?Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio. Il Mulino, Bologna

In A. Lavazza, G. Sartori e M. De Caro (a cura di), Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio. Il Mulino, Bologna 2010.

1

Massimo Marraffa

Evoluzione, cognizione e cultura1

Per alcuni decenni, cioè fra gli anni Venti e gli anni Cinquanta del Novecento, la psicologia è stata

dominata da un approccio empiristico allo sviluppo cognitivo. Sia il comportamentismo sia – seppur

con maggior raffinatezza – il costruttivismo piagetiano condividono la tesi secondo cui la mente

umana, nello stato iniziale dell’ontogenesi, possiede una struttura estremamente povera. Ciò vuol dire

che l’essere umano nasce privo di ogni conoscenza, dotato unicamente di capacità sensoriali e di una

capacità di apprendimento generale, che si applica a ogni dominio della realtà. Ogni conoscenza va

appresa nel corso della vita, attraverso l’esperienza diretta o per trasmissione culturale.

Tale concezione dell’uomo come una tabula rasa si accordava bene con gli orientamenti del

culturalismo relativistico statunitense, legati soprattutto ai nomi di Ruth Benedict e Margaret Mead.

La psiche umana – sostengono queste studiose – è totalmente libera da influenze biologiche e intera-

mente plasmata, fin dall’infanzia, da fattori storici e ambientali2.

Questa miscela di psicologia empirista e culturalismo è stata denominata «modello standard

delle scienze sociali» [Tooby e Cosmides, 1992]. Modello che, tuttavia, si è cominciato a smantellare

negli ultimi tre decenni del XX secolo. Si tratta di un lavoro ancora in corso, che ha tratto origine

dall’intrecciarsi di varie vicende teoriche. I §§1-3 ne ricostruiranno concisamente tre: l’avvento della

psicologia cognitivista, la teoria razionalistica e innatistica della mente di Noam Chomsky (e il suo

impatto sulla psicologia dello sviluppo), la transizione dalla sociobiologia alla psicologia evoluzioni-

stica.

Nel §4 constateremo che questi sviluppi teorici ed empirici hanno creato i presupposti per l’ap-

plicazione di una prospettiva cognitivo-evoluzionistica alle scienze sociali. In particolare, l’applica-

zione di tale prospettiva all’antropologia è stata perseguita nella convinzione che la variazione cultu-

rale possa essere compresa solo se studiata all’interno di uno spazio di possibilità fissato da fattori

neurocognitivi. Tali fattori sono strutture cognitive che operano solo in particolari domini di realtà e

che l’evoluzione ha cablato nei nostri circuiti neuronali. Esaminando il caso delle credenze religiose,

avremo modo di illustrare come le strutture in questione pongano vincoli sulle rappresentazioni cul-

turali, facilitandone l’acquisizione, il ricordo e la trasmissione.

Nel §5 si sosterrà che questa sottolineatura dei fondamenti neurocognitivi della cultura non è in

antagonismo con una prospettiva culturale sulla cognizione. La cultura influenza non solo il conte-

nuto delle nostre credenze ma anche le strategie di elaborazione dell’informazione che impieghiamo

1 Ringrazio Gilberto Corbellini, Andrea Lavazza e Maria Grazia Rossi per utili commenti su una versione precedente di

questo capitolo. 2 Nei decenni del suo massimo fulgore (anche qui, fra gli anni Venti e gli anni Sessanta del Novecento) l’idea culturalista

e antibiologica fu accettata da tutti: oltre che dagli antropologi culturali americani, dai marxisti, dai movimenti giovanili,

dagli psicoanalisti e pedagogisti, infine anche dai politici desiderosi di porsi il più lontani possibili dai fantasmi biologi-

stici del razzismo. Su ciò, vedi Jervis [2005: 78-87].

Page 2: Evoluzione, cognizione e cultura1 · In A. Lavazza, G. Sartori e M. De Caro (a cura di), Siamo davvero liberi?Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio. Il Mulino, Bologna

In A. Lavazza, G. Sartori e M. De Caro (a cura di), Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio. Il Mulino, Bologna 2010.

2

per conoscere il mondo. A mo’ di illustrazione, presenteremo alcune ricerche in psicologia e neuro-

scienza culturale che mostrano come vincoli situazionali e culturali possano dar luogo a una diversità

cognitiva fra soggetti «occidentali»3 e «non occidentali».

Concluderemo osservando come lo sforzo di integrare queste due prospettive – la prospettiva

cognitivo-evoluzionistica sulla cultura e la prospettiva culturale sulla cognizione – ha recentemente

condotto alcuni ricercatori a lavorare contemporaneamente nel campo della psicologia evoluzioni-

stica e della psicologia culturale.

1. L’avvento del cognitivismo e il kantismo biologico e plurale di Chomsky

I primi psicologi comportamentisti interpretavano il comportamento animale sullo schema «stimolo-

risposta» e su ipotesi strettamente meccanicistiche di condizionamento, escludendo come antiscien-

tifica ogni ipotesi sulla presenza di una mente animale. Al contrario, i primi studi a impronta cogni-

tivistica degli anni Quaranta, in particolare con E.C. Tolman e K.J. Craik, dimostravano che molti

comportamenti animali non possono venir spiegati se non presupponendo in essi una capacità di co-

stituire mappe della realtà, o modelli, o rappresentazioni mentali.

Questo rappresentazionalismo è il primo elemento fondante di quella che, a partire dalla fine

degli anni Sessanta, è nota come «psicologia cognitivista». Il cognitivista spiega il comportamento

intelligente assumendo che la mente sia un sistema rappresentazionale, ossia sostenendo che la fun-

zione principale degli stati mentali è quella di rappresentare proprietà, oggetti o eventi del mondo (o

eventualmente del sistema rappresentazionale stesso). La nozione di rappresentazione va però intesa

non già come un’entità ricavata dall’introspezione ordinaria, bensì come un costrutto teorico: una

struttura di informazioni, codificata in qualche modo nella nostra testa, che media le risposte di un

agente agli stimoli sensoriali. Lo psicologo introduce questo costrutto per spiegare il comportamento

intelligente, non diversamente da come procede il fisico quando postula entità come spin, charm e

carica.

Una rappresentazione mentale (una struttura portatrice di informazioni) è però una struttura

psicologica inerte, che dà luogo a un comportamento solo se elaborata da un qualche tipo di mecca-

nismo. Dunque, per spiegare un qualunque processo cognitivo (dalla visione di una scena alla com-

prensione di una frase, dalla rievocazione di un evento alla pianificazione di un’azione, e così via), il

cognitivista deve teorizzare l’esistenza di meccanismi in grado di manipolare le rappresentazioni in

accordo con regole. Questa idea, per cui la cognizione è un processo di trasformazione di rappresen-

tazioni guidato da regole, è il secondo elemento costitutivo della psicologia cognitivista4.

Negli anni Sessanta la nascente psicologia cognitivista è in forte sinergia con il programma di

ricerca della linguistica generativa. Chomsky [1965] è convinto che esista un cospicuo numero di

3 Ossia membri di società occidentali, caratterizzate da un buon livello di istruzione, industrializzate, ricche e democrati-

che (cfr. Henrich, Heine e Norenzayan, 2010). 4 Sono stati Miller, Galanter e Pribram [1960] i primi a mostrare come la psicologia poteva avvalersi del linguaggio

teorico dell’informatica (in particolare, delle nozioni di algoritmo, computazione e struttura dati) per chiarire tanto la

natura delle rappresentazioni mentali che l’essenza dei processi che su di esse operano [cfr. Marraffa, 2008: cap. 1].

Page 3: Evoluzione, cognizione e cultura1 · In A. Lavazza, G. Sartori e M. De Caro (a cura di), Siamo davvero liberi?Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio. Il Mulino, Bologna

In A. Lavazza, G. Sartori e M. De Caro (a cura di), Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio. Il Mulino, Bologna 2010.

3

universali linguistici, che denomina «grammatica universale» o «facoltà del linguaggio»5. Si tratta di

un insieme di principi che è rappresentato dentro la testa del parlante/ascoltatore, si applica esclusi-

vamente al dominio del linguaggio (è «specifico» di tale dominio) ed è codificato nel genoma. In

quest’ottica, la sintassi di una lingua non è oggetto di apprendimento, bensì, al pari di un organo

fisico, è l’esito di un processo di «maturazione». Un meccanismo (il Language Acquisition Device)

assume in ingresso i dati dell’ambiente linguistico e, attraverso la fissazione di alcuni parametri as-

sociati alla grammatica universale, produce in uscita la competenza linguistica adulta. In questa pro-

spettiva, un bambino ha bisogno dei dati empirici per fissare i parametri e per acquisire informazioni

sul lessico: tutto il resto è innato.

Questo innatismo rappresentazionale non è limitato al linguaggio ma trova la sua piena artico-

lazione in una concezione modularistica della mente umana. All’immagine tradizionale della vita

psichica come un campo omogeneo e gerarchicamente ordinato, retto dalla coscienza e la razionalità,

Chomsky contrappone la visione di una mente meno unitaria, meno omogenea e meno gerarchica-

mente ordinata: la sua struttura è modulare, costituita da un insieme di sottosistemi distinti, che ese-

guono funzioni molto specifiche indipendentemente gli uni dagli altri6. Quel che la linguistica gene-

rativa ha scoperto nel caso del linguaggio vale anche, secondo Chomsky, nel caso della visione, del

riconoscimento delle facce, della comprensione della realtà fisica e psicologica, e altro ancora. In tutti

questi casi, vi sono «moduli», ossia strutture psicologiche specifiche di dominio e innate. La nostra

esperienza in ciascun dominio (linguistico, visivo ecc.) è costruita per mezzo dei moduli caratteristici

di quel dominio. Si tratta insomma, spiega efficacemente Marconi [1999], «di una specie di kantismo

biologico e plurale: biologico, perché le strutture a priori in questione sono imputate in ultima analisi

al cervello, e anzi a regioni specializzate del cervello; plurale, perché non c’è un unico apparato a

priori, ma tanti quante sono le specifiche competenze identificate».

Con la nozione di modularità Chomsky prende posizione contro Piaget. Secondo il costruttivi-

smo epigenetico, nello stato iniziale dello sviluppo cognitivo la struttura della mente è estremamente

povera: a partire da un insieme di riflessi innati (succhiare, osservare, afferrare ecc.), tre meccanismi

(assimilazione, accomodamento ed equilibrazione) danno luogo al progressivo potenziamento della

capacità di risolvere problemi in qualsivoglia dominio, fisica, psicologia, matematica, e così via (in

tal caso, si parla di strutture «generali per dominio»). Invece, nella prospettiva modularistica lo svi-

luppo cognitivo è un processo che segue traiettorie distinte in domini differenti, traiettorie corrispon-

denti ai diversi ritmi di maturazione dei moduli che strutturano tali domini.

2. Il trionfo del metodo darwiniano: dalla sociobiologia alla psicologia evoluzionistica

5 Si noti però che a partire dagli anni Ottanta il repertorio di conoscenze grammaticali innate si restringe gradualmente ad

alcuni principi generalissimi [Paternoster, 2008: 242]. Attualmente la facoltà del linguaggio innata si riduce essenzial-

mente al meccanismo ricorsivo [Hauser, Chomsky e Fitch, 2002]. 6 Chomsky [1980; 1988] e David Marr [1982] sono stati i primi a introdurre la nozione di modularità in scienza cognitiva

sulla scorta, fra l’altro, degli studi di R. Mountcastle e di D. Hubel e T. Wiesel sulle specializzazioni dei neuroni. Succes-

sivamente Jerry Fodor [1983] ne ha esplorato alcune dimensioni filosofiche.

Page 4: Evoluzione, cognizione e cultura1 · In A. Lavazza, G. Sartori e M. De Caro (a cura di), Siamo davvero liberi?Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio. Il Mulino, Bologna

In A. Lavazza, G. Sartori e M. De Caro (a cura di), Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio. Il Mulino, Bologna 2010.

4

Negli anni Sessanta la tradizione di ricerche etologiche inaugurata da Konrad Lorenz e, soprattutto,

da Niko Tinbergen, si propone come un’alternativa ben fondata empiricamente allo studio compor-

tamentista dell’intelligenza animale. Comportamenti specie-specifici, sia negli animali sociali sia

nella specie umana, vengono visti come il prodotto di meccanismi che sono adattamenti innati.

Vi è però un problema. Fin dall’epoca di Darwin i teorici dell’evoluzione si erano trovati in

difficoltà quando avevano provato a spiegare alcuni comportamenti sociali animali in chiave adatta-

mentista. Tra questi il più enigmatico appariva l’altruismo, un atto che comporta svantaggio per sé e

vantaggio per l’altro: come potevano essersi evoluti animali disposti a mettere a repentaglio le proprie

prospettive di riproduzione a tutto vantaggio della probabilità di riprodursi di altri animali? L’enigma

sarà risolto dal lavoro di W.D. Hamilton [1963] sulla kin selection, la selezione di parentela, e

dall’opera di R. Trivers [1971] sull’altruismo reciproco, due pietre miliari di una stagione di straor-

dinaria vitalità teorica in biologia evoluzionistica.

Dai concetti di selezione di parentela e altruismo reciproco derivano le dottrine sociobiologiche.

Negli anni Settanta, prima nell’ultimo capitolo di Sociobiology e poi, più estesamente, in On Human

Nature, E.O. Wilson lancia una sfida al modello standard delle scienze sociali, proponendo spiega-

zioni evoluzionistiche del comportamento sociale dell’uomo contemporaneo. E però l’approccio è

pieno di difetti, tanto è vero che viene criticato non solo dall’ampia maggioranza degli scienziati

sociali, che ha gioco facile nel denunciare come riduzionistico e ingenuo il tentativo di estendere i

modelli sociobiologici allo studio del comportamento sociale umano, ma anche da studiosi del com-

portamento animale e biologi evoluzionisti7.

Inoltre, alla fine degli anni Ottanta la sociobiologia si trova di fronte un nuovo avversario: la

psicologia evoluzionistica [Adenzato e Meini, 2006; Griffiths, 2008]. Gli psicologi evoluzionisti so-

stengono che le difficoltà della sociobiologia possono essere superate integrando il neodarwinismo

con la psicologia computazionale e modularistica. Dunque, è vero ‒ come afferma la sociobiologia ‒

che i geni influenzano il comportamento, ma questo avviene solo in virtù della costruzione di cervelli

popolati da una miriade di meccanismi computazionali specifici per dominio: una tesi nota come

«ipotesi della modularità massiva» [Carruthers, 2006]. Questi moduli «darwiniani» sono adattamenti,

ossia algoritmi forgiati dalla selezione naturale al fine di risolvere i problemi posti ai nostri antenati

dall’ambiente fisico e sociale del Pleistocene8.

Tale impostazione consente alla psicologia evoluzionistica di uscire dalle secche in cui si era

incagliato il progetto della sociobiologia. Il comportamento dell’uomo contemporaneo non può essere

spiegato come l’esito diretto dell’evoluzione adattiva. L’ambiente fisico e sociale contemporaneo è

infatti radicalmente differente dall’ambiente ancestrale: nel corso dei circa diecimila anni trascorsi

dall’invenzione dell’agricoltura, l’ambiente in cui l’uomo vive è stato trasformato radicalmente dalla

sua stessa attività. È dunque assai probabile che l’odierno comportamento dell’homo sapiens sapiens

assomigli assai poco a quello dei suoi antenati ancestrali ‒ il comportamento cioè sui cui si sono

esercitate le pressioni selettive. Questa difficoltà era stata già segnalata da alcuni critici della socio-

biologia [vedi per esempio Kitcher, 1985], ma ora la psicologia evoluzionistica propone un rimedio.

7 Per una ricostruzione del dibattito sulla sociobiologia, vedi Segerstråle [ 2000]. Opportunamente Jervis osserva che

Wilson, grande studioso degli insetti sociali, «non è generalmente considerato né il più importante, né sempre il più

equilibrato fra i nuovi teorici del comportamento» [2003: 144]. 8 Un’epoca geologica iniziata circa 1,8 milioni di anni fa e terminata circa 11000 anni fa con la fine dell’ultima grande

glaciazione, da cui sono emersi i nostri diretti ascendenti.

Page 5: Evoluzione, cognizione e cultura1 · In A. Lavazza, G. Sartori e M. De Caro (a cura di), Siamo davvero liberi?Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio. Il Mulino, Bologna

In A. Lavazza, G. Sartori e M. De Caro (a cura di), Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio. Il Mulino, Bologna 2010.

5

La teoria dell’evoluzione ci serve per congetturare quali comportamenti possano essere stati selezio-

nati in ambienti ancestrali ipotetici; e il comportamento contemporaneo va visto come il prodotto di

un cervello che, progettato per produrre comportamenti adattivi in quegli ambienti ancestrali, si trova

ora a operare in un ambiente radicalmente differente. Adattamenti che si evolvono lentamente pos-

sono avere effetti comportamentali neutri o addirittura «maladattivi» in un ambiente culturale che

muta rapidamente.

Il compito dello psicologo evoluzionista è dunque quello di formulare e sottoporre a controllo

ipotesi concernenti gli algoritmi darwiniani. In una prima fase si esaminano gli apporti di varie disci-

pline (biologia evoluzionistica, paleoantropologia, studi sui cacciatori-raccoglitori, ecologia compor-

tamentale, botanica, medicina, scienza dell’alimentazione, e molto altro ancora) per costruire ipotesi

concernenti i problemi di elaborazione di informazioni posti ai nostri antenati dall’ambiente ance-

strale ‒ essenzialmente le esigenze di riproduzione e di sopravvivenza di piccoli gruppi tribali di

ominidi dediti alla raccolta e alla caccia. Questi problemi sono adattivi in quanto la loro soluzione

può aver contribuito direttamente o indirettamente alla fitness. Una volta definito un problema adat-

tivo ricorrente nell’ambiente del Pleistocene, si procede a ipotizzare un modulo dedicato alla sua

soluzione.

3. Quattro, forse cinque sistemi di base

Una nota di cautela riguardo l’ipotesi della modularità massiva. Questa ipotesi respinge molto giu-

stamente la tesi sottesa al modello standard delle scienze sociali, secondo cui le capacità cognitive

comuni a tutti gli esseri umani sono limitate a pochi istinti e a una capacità di apprendere «generale

per dominio» (o general purpose). Contro questa visione, gli psicologi evoluzionisti sostengono che

la psiche umana ha un struttura lussureggiante, essendo popolata da uno straripante repertorio di strut-

ture psicologiche innate e specifiche di dominio: «La nostra architettura cognitiva assomiglia a una

confederazione di centinaia o migliaia di computer dedicati funzionalmente (spesso chiamati “mo-

duli”), deputati a risolvere problemi adattivi endemici per i nostri antenati cacciatori-raccoglitori»

[Tooby e Cosmides, 1995: xiv].

È legittimo sospettare, però, che nella loro polemica antiempiristica gli psicologi evoluzionisti

si siano fatti prendere un po’ la mano. Fra le due visioni dell’architettura cognitiva umana sin qui

proposte – l’empiristica e l’ultramodularistica ‒ è probabile che la verità stia nel mezzo. È probabile

che la mente umana possa contare su un piccolo numero di sistemi di conoscenze innati e specifici

per dominio. Un gran numero di ricerche sulle origini ontogenetiche e filogenetiche della conoscenza

umana fornisce prove in favore dell’esistenza di quattro ‒ forse cinque ‒ «sistemi di base» (core

systems) [Carey e Spelke, 1996; Spelke, 2000; Spelke e Kinzler, 2007]. Ognuno di questi sistemi

rappresenta solo un piccolo sottoinsieme delle entità che un agente percepisce. Esempi di queste entità

sono gli oggetti inanimati e le loro interazioni meccaniche (fisica intuitiva), gli agenti conspecifici e

le loro azioni rivolte a uno scopo (psicologia ingenua), i luoghi nel continuo spaziale e le loro relazioni

geometriche (cognizione spaziale), gli insiemi e i loro rapporti numerici di ordinamento, addizione e

sottrazione (matematica ingenua). Un quinto ‒ più controverso ‒ sistema rappresenterebbe i membri

dell’in-group, cioè «il noi», in quanto distinti dai membri dell’out-group, «gli altri».

Page 6: Evoluzione, cognizione e cultura1 · In A. Lavazza, G. Sartori e M. De Caro (a cura di), Siamo davvero liberi?Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio. Il Mulino, Bologna

In A. Lavazza, G. Sartori e M. De Caro (a cura di), Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio. Il Mulino, Bologna 2010.

6

Ciascuno di questi sistemi s’impernia su un insieme di principi che individua le entità apparte-

nenti al suo dominio e rende possibili le inferenze concernenti le interrelazioni e il comportamento di

tali entità. Ogni sistema è condiviso con altri animali, è conservato nell’età adulta e varia pochissimo

in relazione a parametri quali la cultura, il linguaggio e il sesso. Infine, lo sviluppo concettuale con-

siste in un processo di graduale arricchimento di questi sistemi.

Chiariamo con qualche esempio. Piaget riteneva che la conoscenza di proprietà fondamentali

di oggetti fisici fosse acquisita lentamente attraverso un’interazione sensomotoria col mondo fisico e

certamente non prima della fine del primo anno di vita. Tuttavia alcuni studi condotti con la tecnica

dell’abituazione/disabituazione9 hanno dimostrato l’esistenza di principi innati, specifici per il domi-

nio del mondo fisico, che guidano i processi percettivi e inferenziali di bambini ben prima dei 12

mesi.

Le principali entità del dominio della fisica ingenua o intuitiva sono gli oggetti fisici di medie

dimensioni. La percezione di questi oggetti da parte di bambini molto piccoli è guidata innanzitutto

dal principio di coesione: gli oggetti si muovono mantenendo una coesione fra le parti che li compon-

gono; essi non si spezzano né si fondono con altri corpi. Vi è poi il principio di continuità spazio-

temporale, secondo il quale gli oggetti non scaturiscono dal nulla (né vi scompaiono). Pertanto, se un

oggetto si sposta dal punto A al punto B, deve farlo descrivendo una traiettoria continua nello spazio;

e si è in effetti constatato che bambini di 4 mesi si «stupiscono» (il che – come si è detto nella nota 9

– indica la violazione di un’aspettativa) quando vedono una pallina in caduta libera raggiungere un

piano orizzontale passando attraverso un mezzo solido. Infine, il principio esplicativo più profondo

della fisica intuitiva è quello del contatto (o dell’assenza dell’azione a distanza), secondo il quale un

oggetto può influenzare il comportamento di un altro oggetto solo se entra (direttamente o indiretta-

mente) in contatto con quell’oggetto [cfr. Surian, 2009: cap. 5].

Dunque, riassumendo, bambini di pochi mesi «sanno»10 che gli oggetti fisici, non animati, sono

coesi, si muovono lungo traiettorie continue e possono agire l’uno sull’altro solo per contatto fisico.

Questa fisica intuitiva è un sistema di conoscenze specifiche per il dominio degli oggetti manipolabili

(i corpi di medie dimensioni) e dei loro movimenti.

Accanto alla fisica intuitiva esisterebbe un core system concernente la conoscenza del mondo

psicologico. In questo caso, le entità del dominio sono agenti intenzionali (in modo particolare per-

sone e animali) e i principi esplicativi più profondi sono aspetti della causalità intenzionale.

Innanzitutto, il bambino possiede precocissimamente la capacità di discriminare fra le entità di

natura fisica, inerti e quelle di natura psicologica, animate. I principi della fisica intuitiva non si ap-

plicano alle rappresentazioni degli agenti. Questi non devono essere coesi, né muoversi lungo traiet-

torie continue; e nemmeno devono conformarsi al principio di contatto [cfr. Spelke e Kinzler 2007:

9 Per studiare il comportamento di bambini di pochi mesi si usa di norma la tecnica di disabituazione. In un test di abitua-

zione un bambino è ripetutamente esposto allo stesso stimolo in modo da produrre una riduzione dell’attenzione per lo

stimolo – definita, per l’appunto, «abituazione». Nel caso di uno stimolo visivo, l’attenzione viene di solito misurata in

base alla durata dello sguardo che il bambino rivolge spontaneamente allo stimolo. Superata una certa soglia di abitua-

zione, si somministra un nuovo stimolo e si osserva se questo produce un recupero dell’attenzione. Tale recupero indica

che il bambino ha notato la novità dello stimolo e, dati gli opportuni confronti fra diverse condizioni sperimentali, ciò può

confermare o confutare ipotesi relative alle sue capacità cognitive. In alcuni casi lo stimolo test non solo introduce infor-

mazioni nuove, ma viola anche alcune aspettative che il bambino si è formato nella fase di abituazione. 10 Non si tratta, evidentemente, di un «sapere esplicito (know) bensì del possesso di una «conoscenza tacita» (cognize),

nel senso proposto da Chomsky [1980].

Page 7: Evoluzione, cognizione e cultura1 · In A. Lavazza, G. Sartori e M. De Caro (a cura di), Siamo davvero liberi?Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio. Il Mulino, Bologna

In A. Lavazza, G. Sartori e M. De Caro (a cura di), Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio. Il Mulino, Bologna 2010.

7

90]. Uno studio di Woodward, Phillips e Spelke [1993] ha mostrato che bambini di 7 mesi non appli-

cano il principio di contatto alle persone. Nella fase di abituazione un gruppo di bambini osservava

alcuni eventi videoregistrati. Nella condizione «con oggetto inanimato», vi erano due figure geome-

triche senza senso: una scatola rossa interamente visibile e un cilindro blu parzialmente nascosto da

uno schermo centrale, ambedue forniti di piccole ruote. La scatola si muoveva verso il cilindro e

scompariva dietro lo schermo. Dopo una breve pausa il cilindro cominciava a muoversi lungo la stessa

traiettoria della scatola, fino a uscire di scena. Lo schermo nascondeva l’eventuale contatto fra i due

oggetti. Nella condizione «con persona», un altro gruppo di bambini osservava lo stesso evento di

abituazione ma con due persone (un uomo e una donna) al posto delle due figure geometriche. Nella

fase test, lo schermo veniva tolto e i bambini potevano osservare le due figure o le due persone entrare

in contatto prima che il cilindro o la donna iniziassero a muoversi (evento test con contatto); oppure

osservavano le due figure o le due persone non collidere prima che il cilindro o la donna si mettessero

in movimento (evento test senza contatto). Ebbene, questo secondo caso, nel quale viene violato il

principio di contatto, è risultato sorprendente solo quando riguardava le figure; quando la donna co-

minciava a muoversi senza un preventivo contatto con l’uomo, i bambini non erano affatto sorpresi.

I bambini non applicavano il principio di contatto alle persone, essendo queste entità capaci di auto-

propulsione, in grado cioè di iniziare un movimento in modo autonomo.

L’infante non si limita a distinguere gli agenti dagli oggetti in base al movimento auto-prodotto

e la causalità a distanza; è anche in grado di rappresentarsi le azioni in quanto rivolte a scopi. Lo

documenta uno studio di Woodward [1998] in cui bambini di 5 e di 9 mesi osservavano un evento di

abituazione in cui una mano afferra uno di due giocattoli. Ad abituazione raggiunta, i giocattoli veni-

vano scambiati di posto e i bambini assistevano a due eventi test: nel primo mutava la traiettoria

spazio-temporale della mano ma l’oggetto bersaglio (scopo) rimaneva invariato; nel secondo evento

cambiava l’oggetto bersaglio (scopo) ma la traiettoria spazio-temporale della mano restava invariata.

I tempi di durata dello sguardo indicano che i bambini, sia di 5 che di 9 mesi, si sono sorpresi di più

di fronte all’evento con un nuovo scopo. In breve, il lattante ha una comprensione teleologica degli

agenti.

Secondo Leslie [1994] i core systems concernenti il mondo fisico e quello psicologico costitui-

scono basi di conoscenze computate da due differenti meccanismi innati: il meccanismo della teoria

dei corpi fisici (Theory of Body, ToBy) e il meccanismo della teoria della mente (Theory of Mind

Mechanism, ToMM). Il ToBy ha il compito di elaborare informazioni sulla posizione e sui movimenti

degli oggetti e di approntare una descrizione meccanica degli eventi (questa descrizione include la

nozione di forza meccanica e rende perciò esplicite non solo le informazioni spazio-temporali ma

anche le relazioni dinamiche). Il ToMM è invece costituito da due sottomeccanismi: il ToMM1, con-

tenente concetti come META o SCOPO e dedicato all’interpretazione teleonomica delle azioni di un

agente; e il ToMM2, contenente concetti epistemici quali FINZIONE, CREDENZA e DESIDERIO e volto

alla costruzione, a partire da una rappresentazione del comportamento di un agente, di metarappre-

sentazioni, ossia rappresentazioni degli stati mentali intenzionali che spiegano il comportamento in

questione.

4. La cultura in una prospettiva cognitivo-evoluzionistica: come le ontologie intuitive evolute gover-

nano l’epidemiologia delle rappresentazioni culturali

Page 8: Evoluzione, cognizione e cultura1 · In A. Lavazza, G. Sartori e M. De Caro (a cura di), Siamo davvero liberi?Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio. Il Mulino, Bologna

In A. Lavazza, G. Sartori e M. De Caro (a cura di), Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio. Il Mulino, Bologna 2010.

8

Gli sviluppi concettuali e sperimentali fin qui discussi hanno creato i presupposti per l’applicazione

di una prospettiva cognitivo-evoluzionistica allo studio della cultura.

Innanzitutto, gli psicologi evoluzionisti hanno impugnato l’idea di una variabilità culturale

pressoché illimitata. Non si nega di certo che le culture varino sotto molti aspetti; ciò che si vuole

sottolineare è l’esistenza di un gran numero di universali culturali, l’insieme dei quali è definito da

Tooby e Cosmides «una metacultura umana» [1992: 91]. Questo è un dato che è stato ampiamente

trascurato dagli antropologi; un’omissione che può essere in parte spiegata dal fatto che talvolta gli

universali culturali, al pari degli universali linguistici chomskiani, non sono rilevabili in assenza di

una teoria che ci dica dove guardare.

Tuttavia, anche ammessa l’esistenza di una ricca metacultura umana, resta ancora da spiegare

moltissima variabilità culturale. Tooby e Cosmides [1992: 215] hanno messo in evidenza due processi

che offrono una spiegazione cognitivo-evoluzionistica di tale variabilità. Il primo è simile al processo

di fissazione dei parametri della grammatica universale: la cultura può essere «evocata» da stimoli

scatenanti dell’ambiente locale, i quali agiscono sulla medesima architettura cognitiva soggiacente.

Per illustrare il modo in cui opera la cultura «evocata», Tooby e Cosmides propongono il caso della

ricerca del cibo (foraging). L’ipotesi è che i meccanismi che governano la condivisione del cibo siano

sensibili a informazioni concernenti il grado di variabilità del successo nel foraging. Quando tale

successo è molto variabile, i meccanismi in questione promuovono la condivisione del cibo a livello

dell’intero gruppo («banda»), facendo apparire tale spartizione equa e desiderabile. Quando invece la

scorta di cibo è relativamente stabile, tali meccanismi limitano la condivisione del cibo al solo nucleo

famigliare, facendo apparire la condivisione a livello dell’intera «banda» indesiderabile e ingiusta.

Nella cultura «evocata» la fonte delle somiglianze all’interno di gruppi di individui (e delle

differenze fra gruppi) risiede nelle risposte di alcuni meccanismi evoluti all’ambiente fisico e sociale

locale. Da ciò va distinta la cultura «trasmessa» o «epidemiologica», in cui le somiglianze all’interno

di gruppi (e le differenze fra gruppi) nascono dal trasferimento delle informazioni da un individuo

all’altro.

I sistemi cognitivi sono in grado di costruire ed elaborare rappresentazioni mentali e quelli ca-

paci di comunicare sono anche in grado di produrre e interpretare rappresentazioni pubbliche (frasi,

testi ecc.). Un qualunque gruppo culturale è la sede di una vasta popolazione di rappresentazioni

mentali e pubbliche. Ogni membro del gruppo ha dentro la testa un enorme numero di rappresenta-

zioni mentali, alcune effimere, altre immagazzinate nella memoria a lungo termine. Di queste rappre-

sentazioni mentali, alcune ‒ una percentuale molto piccola ‒ sono comunicate ripetutamente e fini-

scono per distribuirsi su tutto il gruppo, insediandosi al suo interno per generazioni. Per Sperber

[1996] le rappresentazioni culturali sono queste rappresentazioni distribuite in modo ampio e stabile

in un gruppo culturale. Non vi è dunque riduzione del culturale allo psicologico: i fatti culturali non

sono rappresentazioni (fatti psicologici) ma distribuzioni di rappresentazioni. Una distribuzione di

fatti psicologici non è un fatto psicologico ma un fatto ecologico.

Secondo questa teoria epidemiologica della trasmissione culturale, spiegare la cultura significa

rispondere al quesito: come e perché alcune catene di rappresentazioni mentali e pubbliche si diffon-

dono e stabilizzano con maggiore frequenza e facilità rispetto ad altre? La risposta di Sperber è questa:

le rappresentazioni che si diffondono e stabilizzano con maggiore frequenza e facilità sono quelle che

Page 9: Evoluzione, cognizione e cultura1 · In A. Lavazza, G. Sartori e M. De Caro (a cura di), Siamo davvero liberi?Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio. Il Mulino, Bologna

In A. Lavazza, G. Sartori e M. De Caro (a cura di), Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio. Il Mulino, Bologna 2010.

9

entrano in risonanza con i sistemi neurocognitivi specifici per dominio discussi nel §3. Queste «cre-

denze intuitive» [Sperber, 1996: 89] o «ontologie intuitive evolute» [Boyer e Barrett, 2005] fungono

da recettori e tendono a fissare specifici tipi di contenuto. In breve, l’architettura cognitiva governa

l’epidemiologia delle rappresentazioni culturali.

Boyer [1994; 2001] ha utilizzato questa teoria epidemiologica della cultura nello studio delle

credenze religiose. Le rappresentazioni mentali dei concetti religiosi – sostiene l’antropologo ‒ con-

dividono tre caratteristiche generali. In primo luogo, i concetti religiosi attivano cinque categorie

ontologiche: PERSONA, ANIMALE, PIANTA, MANUFATTO, OGGETTO NATURALE [Keil, 1994]. Per

esempio, il concetto di «spirito» attiva la categoria PERSONA; se si rivolge una preghiera a una statua

che raffigura la Madonna, ci si sta rivolgendo a un MANUFATTO.

In secondo luogo, i concetti religiosi specificano sempre informazioni che violano aspettative

associate alla categoria ontologica pertinente. Tali categorie sono a loro volta associate a una di tre

ontologie intuitive: fisica, biologia11 e psicologia ingenue. Per esempio, i Fang del Camerun credono

che la foresta che circonda i loro villaggi sia popolata da spiriti chiamati «bekong». Questi esseri sono

invisibili e in grado di passare attraverso i corpi solidi, con conseguente violazione della fisica intui-

tiva. Oppure in alcune religioni troviamo la credenza che taluni manufatti (come le statue di divinità)

siano in grado di ascoltare le preghiere dei fedeli, con violazione della psicologia ingenua12.

Infine, un concetto religioso attiva, fra le aspettative associate alla categoria ontologica perti-

nente, anche quelle che non sono violate. Per esempio, i bekong sono sì invisibili e intangibili ma essi

desiderano che certi rituali vengano eseguiti, sanno che gli esseri umani, qualora colpiti da disgrazie,

si sentiranno in debito nei loro confronti e conseguentemente decidono di affliggerli con malattie. La

psicologia intuitiva è automaticamente estesa (un’inferenza tacita) agli spiriti perché questi sono iden-

tificati come un particolare tipo di PERSONA.

Le rappresentazioni religiose si diffondono nella misura in cui realizzano un equilibrio fra il

loro carattere controintuitivo e il loro carattere intuitivo. Qui Boyer fa suo il cosiddetto «principio

cognitivo della pertinenza» [Sperber e Wilson, 1995]. Lo scopo di ogni agente cognitivo è quello di

costruire e modificare il proprio sistema di credenze, al fine di migliorare la propria capacità di agire

nel mondo. Una modifica apportata al sistema di credenze può costituire un «beneficio cognitivo»,

ovvero una qualche differenza utile nella rappresentazione del mondo dell’agente. Ma il consegui-

mento di tale beneficio richiede uno sforzo di elaborazione a carico della percezione, della memoria

e del ragionamento. Il principio cognitivo della relevance (la «pertinenza», appunto) ci dice che il

sistema cognitivo andrà alla ricerca di un rapporto ottimale fra i benefici cognitivi e i costi di elabo-

razione. Ne discende che attenzione, memoria e ragionamento saranno automaticamente allocati alle

informazioni che appaiono sufficientemente pertinenti da meritare l’elaborazione.

11 Il riferimento qui è all’ipotesi avanzata da Atran [2001], secondo cui esisterebbe un sistema cognitivo innato e specifico

per il dominio della biologia ingenua, ovvero la capacità di classificare le cose viventi in base alla loro morfologia e di

ragionare su di esse alla luce di principi biologici quali crescita, eredità, digestione e respirazione. L’ipotesi è stata però

criticata da Carey [1995], la quale ha suggerito che l’acquisizione dei principi della biologia ingenua potrebbe avvenire

in base a principi cognitivi inerenti ad altri domini, come quelli della fisica e della psicologia ingenue. 12 Le violazioni sono prodotte per infrazione o per trasferimento. Un’infrazione contraddice le aspettative intuitive asso-

ciate alla categoria ontologica (per esempio un tavolo che improvvisamente scompare, con ciò stesso violando la fisica

intuitiva attivata dalla categoria MANUFATTO). Un trasferimento estende a una categoria informazioni che sono intui-

tivamente associate a un’altra categoria (per esempio un tavolo che respira, che utilizza informazioni biologiche associate

con la categoria ANIMALE).

Page 10: Evoluzione, cognizione e cultura1 · In A. Lavazza, G. Sartori e M. De Caro (a cura di), Siamo davvero liberi?Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio. Il Mulino, Bologna

In A. Lavazza, G. Sartori e M. De Caro (a cura di), Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio. Il Mulino, Bologna 2010.

10

Applichiamo quindi tale principio alle credenze religiose. Se un ente rispetta ogni principio del

dominio cui appartiene, esso genera troppi pochi benefici cognitivi per mobilitare i processi di atten-

zione, memorizzazione e comunicazione. Chi si ricorderà di essersi imbattuto stamane in un cane di

color marrone che abbaiava a un gatto? Di certo a nessuno verrà in mente di raccontarlo. Ma si im-

magini ora un cane che abbaia ed è in grado di passare attraverso corpi solidi. Questa è un’entità

moderatamente controintuitiva: produce benefici cognitivi ma senza eccessivi costi computazionali.

Invece, l’idea di un cane che passa attraverso oggetti solidi, è fatto di parti metalliche, percepisce il

tempo alla rovescia, può leggere le menti e svanisce non appena lo guardiamo costituirebbe un con-

cetto radicalmente controintuitivo, che ha maggiori costi computazionali. Dunque sarà il secondo

cane, non il primo né il terzo, che tenderà a essere ricordato e trasmesso.

Uno studio transculturale ha cercato di misurare il grado di deviazione delle rappresentazioni

religiose rispetto ai principi delle ontologie intuitive [Boyer e Ramble, 2001]. Ne è emerso un livello

ottimale di deviazione (un optimum mnemonico), rispettando il quale alcune semplici storie di carat-

tere religioso sono ricordate meglio. Ogni deviazione significativa da quel livello, nel senso di nor-

malizzazione o di maggiore eccentricità, peggiora le prestazioni. Per questo tali storie vengono ricor-

date e ri-raccontate senza troppe modifiche nel tempo. Modificarle sostanzialmente, infatti, diminui-

rebbe i benefici cognitivi o innalzerebbe i costi computazionali del ragionamento, perché ci si avvi-

cinerebbe alla intuitività caratteristica della vita quotidiana oppure a enti ed eventi eccessivamente

controintuitivi, come agenti che esistono eternamente ma solo di mercoledì [Boyer, 2007: 243].

5. La cognizione in una prospettiva culturale: la variabilità interculturale dei processi cognitivi

Fin qui ci siamo occupati dei fondamenti neurocognitivi ed evoluzionistici della cultura: in partico-

lare, le ontologie intuitive evolute rendono possibili fatti culturali e vincolano la loro variabilità. Ma

è altrettanto necessario occuparsi degli effetti che la variazione culturale esercita sui processi cogni-

tivi. Un modo in cui questo può essere fatto è il seguente. Di norma gli agenti dispongono di

varie procedure e strategie per svolgere una data funzione psicologica (categorizzare, ragionare induttivamente,

prendere decisioni in condizioni di incertezza ecc.). Queste strategie non svolgono le loro funzioni altrettanto bene in ogni

ambiente dato ‒ per esempio, i differenti tipi di orientamento spaziale non operano altrettanto bene in tutti gli ambienti.

Di conseguenza, gli individui possono imparare a ricorrere alle procedure e strategie che sono più efficienti nei loro

ambienti [Fessler e Machery, in corso di stampa].

Ora, dal momento che le norme trasmesse culturalmente plasmano gli ambienti sociali e le pra-

tiche culturali possono modificare radicalmente gli ambienti fisici, la cultura costituisce una potente

fonte di diversità degli ambienti fisici e sociali. Di conseguenza membri di differenti culture possono

ricorrere a differenti procedure e strategie in quanto ciascuna di esse rappresenta il metodo migliore

per svolgere una certa funzione nell’ambiente di riferimento.

Recenti ricerche sulle differenze culturali riscontrabili nei processi percettivi e cognitivi offrono

un buon esempio di questo tipo di diversità cognitiva interculturale. In anni recenti un folto gruppo

di psicologi culturali ha portato avanti uno studio sistematico sulla variazione culturale di due strate-

gie di elaborazione di informazione. Lo stile olistico comporta l’attenzione per il contesto in cui l’og-

getto è collocato (dipendenza dal campo), la focalizzazione sulle relazioni fra gli oggetti, il ricorso

alla somiglianza ai fini della classificazione e del ragionamento. Lo stile analitico comporta invece

Page 11: Evoluzione, cognizione e cultura1 · In A. Lavazza, G. Sartori e M. De Caro (a cura di), Siamo davvero liberi?Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio. Il Mulino, Bologna

In A. Lavazza, G. Sartori e M. De Caro (a cura di), Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio. Il Mulino, Bologna 2010.

11

l’estrapolazione dell’oggetto dal suo contesto (indipendenza dal campo), una tendenza a focalizzarsi

sulle proprietà dell’oggetto piuttosto che sulle sue relazioni, il ricorso a regole ai fini della classifica-

zione e del ragionamento, l’uso della spiegazione causale.

In una prima fase, la variazione culturale delle strategie cognitive analitica e olistica è stata

documentata da studi che hanno posto a confronto popolazioni occidentali (nordamericani, canadesi

ed europei) con popolazioni dell’Asia dell’est (cinesi, giapponesi e coreani). Più di recente, un nu-

mero crescente di ricerche su altre popolazioni non occidentali ha tracciato uno spartiacque non tanto

fra occidentali e asiatici, quanto fra le nazioni occidentali (vedi sopra, nota 3) e la maggior parte del

resto del mondo, inclusi gruppi tanto diversi fra loro come arabi, malesiani e russi [Norenzayan, Choi

e Peng, 2007], contadini dediti all’agricoltura di sussistenza in Cile e in Tanzania e cacciatori-racco-

glitori sedentari [Norenzayan, Henrich e McElreath, 2008].

Esamineremo ora due esempi di queste ricerche: rispetto alle diverse popolazioni di non occi-

dentali, gli occidentali rivolgono l’attenzione più agli oggetti che al campo; e quando classificano gli

oggetti, si affidano più alle regole che alle relazioni di somiglianza.

Innanzitutto, è stata documentata una differenza fra i processi attentivi di soggetti americani e

cinesi: i primi tenderebbero ad astrarre gli oggetti dal contesto, i secondi a collegarli al contesto. Uno

studio di Kitayama et al. [2003] si è avvalso di una tecnica di misurazione della percezione anali-

tica/olistica denominato «Framed Line Test». Ai partecipanti è presentata una cornice quadrata, al

cui interno compare una linea verticale. Viene quindi mostrata una nuova cornice quadrata di dimen-

sioni differenti e si chiede ai soggetti di disegnare una linea identica alla prima in termini di lunghezza

assoluta (compito assoluto) oppure in proporzione all’altezza della cornice circostante (compito rela-

tivo). Gli asiatici si sono rivelati più accurati nel compito relativo, mentre gli americani europei

hanno fornito una migliore prestazione nel compito assoluto.

Uno studio di Hedden et al. [2008], condotto con la risonanza magnetica funzionale, ha inda-

gato i correlati neuronali della variabilità culturale nel Framed Line Test. Negli asiatici orientali si è

riscontrata una maggiore attività prefrontale e parietale (due regioni appartenenti alla cosiddetta «rete

attentiva») nell’atto di formulare i giudizi indipendenti dal contesto (compito assoluto); negli ameri-

cani europei invece questa attivazione si è registrata nel caso dei giudizi dipendenti dal contesto (com-

pito relativo). L’ipotesi è allora che tutti i soggetti di questo esperimento si siano avvalsi della loro

rete attentiva; tuttavia l’esperienza culturale ha influenzato l’entità dell’attività neuronale: una quan-

tità minore di risorse neuronali sono state reclutate per sostenere la modulazione dell’attenzione nei

compiti culturalmente preferiti rispetto a quelli non preferiti.

La differenza fra schemi attentivi incide sui processi percettivi. Consideriamo lo studio del «pe-

sce del Michigan» condotto da Masuda e Nisbett [2001]. 36 soggetti nordamericani dell’Università

del Michigan e 44 soggetti giapponesi della Kyoto University dovevano osservare per due volte 10

scene animate sottomarine della durata di 20 secondi. Nella prima fase dell’esperimento ai soggetti

venivano mostrate scene in cui pesci focali «salienti» (ossia pesci che erano più grossi, si muovevano

più velocemente e avevano colori più brillanti rispetto agli altri pesci) nuotavano su uno sfondo po-

polato da animali più piccoli, piante, conchiglie e sassolini (il campo o contesto). Il compito era di

rievocazione: i soggetti dovevano dire quello che avevano visto. I nordamericani iniziavano a descri-

vere ciò che avevano visto riferendosi agli oggetti salienti molto più spesso dei giapponesi. Questi

ultimi, invece, menzionavano le informazioni relative al campo (per esempio il colore dell’acqua, il

fondale, gli oggetti inerti) con una frequenza quasi doppia rispetto a quella dei nordamericani.

Page 12: Evoluzione, cognizione e cultura1 · In A. Lavazza, G. Sartori e M. De Caro (a cura di), Siamo davvero liberi?Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio. Il Mulino, Bologna

In A. Lavazza, G. Sartori e M. De Caro (a cura di), Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio. Il Mulino, Bologna 2010.

12

Nella seconda fase dello studio i soggetti osservavano 45 foto di oggetti che erano già apparsi

nella prima fase e 45 foto di oggetti inediti. Gli sperimentatori manipolarono la combinazione fra gli

oggetti e le informazioni contestuali. Ogni oggetto poteva comparire in tre condizioni differenti: sullo

sfondo originale, su un nuovo sfondo, senza sfondo. Il compito era di riconoscimento: il soggetto

doveva dire se aveva già visto l’oggetto. Dal momento che i giapponesi rivolgono l’attenzione agli

oggetti in relazione al campo, la previsione era che la presentazione dell’oggetto sul nuovo sfondo

avrebbe disturbato la loro prestazione in misura maggiore rispetto a quella dei nordamericani. E così

è stato: mentre la prestazione dei nordamericani non è stata influenzata dalla manipolazione dello

sfondo, i giapponesi hanno commesso un numero significativamente maggiore di errori quando ve-

devano l’oggetto sul nuovo sfondo rispetto a quando lo vedevano sullo sfondo originale.

Le differenze interculturali negli schemi attentivi appena discusse danno luogo a differenze a

carico della categorizzazione percettiva. Per esempio, gli asiatici dell’est tendono a raggruppare gli

oggetti sulla base di somiglianze e relazioni fra gli oggetti, mentre i nordamericani tendono a rag-

grupparli in base a categorie e regole. Quando viene chiesto di valutare la somiglianza fra un oggetto

bersaglio e i membri di due categorie differenti, gli est asiatici si affidano alla somiglianza di famiglia

tra l’oggetto bersaglio e i membri di ciascuna categoria, mentre i nordamericani cercano le proprietà

che sono necessarie e sufficienti per l’appartenenza a una delle categorie. In uno studio di Norenzayan

et al. [2002] soggetti est asiatici, americani asiatici e americani di ascendenza europea osservavano

alcuni oggetti bersaglio. Il compito consisteva nel giudicare se l’oggetto bersaglio era più simile a un

gruppo di oggetti con cui condivideva una forte somiglianza di famiglia, oppure a un gruppo di oggetti

a cui poteva essere assegnato in base a una regola. In fig. 1, per esempio, l’oggetto bersaglio è un

fiore schematico che può essere assegnato al gruppo 1, i cui membri condividono con il bersaglio

varie caratteristiche anche se nessuna caratteristica è condivisa da tutti i membri; oppure può essere

assegnato al gruppo 2, i cui membri possiedono tutti un gambo dritto (piuttosto che ricurvo) – questa

è la regola unidimensionale che lega il gruppo al bersaglio.

Figura 1. «A quale gruppo appartiene l’oggetto bersaglio?» Il bersaglio possiede una somiglianza di famiglia con il

gruppo 1, ma può essere assegnato al gruppo 2 in base a una regola [da Nisbett e Miyamoto, 2005].

Page 13: Evoluzione, cognizione e cultura1 · In A. Lavazza, G. Sartori e M. De Caro (a cura di), Siamo davvero liberi?Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio. Il Mulino, Bologna

In A. Lavazza, G. Sartori e M. De Caro (a cura di), Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio. Il Mulino, Bologna 2010.

13

Gli americani europei hanno giudicato il bersaglio più simile al gruppo a cui questo poteva

essere assegnato in base alla regola unidimensionale, mentre gli asiatici dell’est hanno giudicato il

bersaglio più simile al gruppo con cui questo condivideva una forte somiglianza di famiglia. I giudizi

degli americani asiatici si situavano in una posizione intermedia tra quelli degli altri due gruppi.

Quando questi risultati sono confrontati con quelli di Uskul et. al. [2008], che ha utilizzato gli stessi

stimoli con un campione di soggetti costituito da pastori, pescatori e agricoltori che vivono sul Mar

Nero in Turchia, notiamo che gli americani europei si situano all’estremo «analitico» dello spettro

(fig. 2).

Figura 2. Prevalenza relativa di giudizi categoriali basati su regole versus giudizi categoriali basati su somiglianza di

famiglia nel medesimo compito cognitivo. Gli studenti universitari americani europei, americani asiatici e asiatici orientali

erano i partecipanti dello studio di Norenzayan et al. [2002]; i pastori, pescatori e agricoltori della costa del Mar Nero

erano i soggetti della ricerca di Uskul et al. [2008]. I punteggi positivi indicano una tendenza sistematica verso i giudizi

basati su regole, quelli negativi una tendenza verso giudizi basati sulla somiglianza di famiglia. Si può notare che gli

studenti americani europei manifestano la tendenza più forte verso i giudizi basati su regole e sono «dati aberranti» in

termini di deviazione assoluta da zero [da Henrich, Heine e Norenzayan, 2010].

Nel complesso, le prove della variazione culturale della percezione e della cognizione sono

numerose e attendibili: queste differenze emergono da paradigmi e metodologie indipendenti fra loro,

con campioni differenti; inoltre è stato possibile escludere varie spiegazioni basate su artefatti [Ni-

sbett e Masuda, 2003; Nisbett et al., 2001; Norenzayan et al., 2007].

La distinzione tra cognizione olistica e analitica è simile ma non identica alla distinzione, pre-

sente in una grandissima quantità di studi in psicologia del pensiero, psicologia sociale, neuroecono-

mia e neuroetica, fra un sistema neurocognitivo che elabora l’informazione in modo inconscio, ra-

pido, olistico, automatico e un sistema neurocognitivo che funziona in modo relativamente lento,

basato su regole, più controllato [Buchtel e Norenzayan, 2009]. Sebbene entrambi i sistemi cognitivi

siano disponibili in tutti gli adulti normali, ambienti, esperienze e routine culturali differenti possono

incoraggiare il ricorso a un sistema alle spese dell’altro, dando luogo a differenze a livello di popola-

zione nell’uso di queste differenti strategie cognitive per risolvere identici problemi.

Tra i fattori che influenzano la prevalenza della cognizione analitica o di quella olistica, il più

basilare sembra essere il self-concept. Il concetto di sé è una struttura di conoscenza che organizza le

informazioni che una persona ha su se stessa, dirige l’attenzione sulle informazioni che sono percepite

come pertinenti e dà forma alle motivazioni. Markus e Kitayama [1991] hanno sostenuto che i con-

cetti di sé si dispongono lungo uno spettro che ha ad un estremo la concezione di sé «indipendente»

Page 14: Evoluzione, cognizione e cultura1 · In A. Lavazza, G. Sartori e M. De Caro (a cura di), Siamo davvero liberi?Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio. Il Mulino, Bologna

In A. Lavazza, G. Sartori e M. De Caro (a cura di), Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio. Il Mulino, Bologna 2010.

14

e, all’altro estremo, la concezione di sé «interdipendente»13. Queste due forme di concetti di sé si

connettono al classico costrutto individualismo/collettivismo [Triandis, 1994]. Una persona si conce-

pisce come indipendente se rappresenta se stessa come un individuo autosufficiente, come un agente

autonomo costituito in larga misura da attributi interni (atteggiamenti, tratti di personalità, abilità, e

così via). Invece, una persona si concepisce come interdipendente se rappresenta se stessa come un

entità interpersonale, intrecciata ad altri significativi all’interno di una rete sociale e vincolata da

obblighi di ruolo verso gli altri.

Molti studi hanno indicato che i soggetti occidentali hanno concezioni di sé più indipendenti

rispetto ai soggetti non occidentali. Per esempio, le ricerche che si avvalgono della tecnica del TST

(Twenty Statements Test) rivelano che individui provenienti da popolazioni occidentali (per esempio

australiani, americani, canadesi, svedesi) tendono a definire la loro identità in base a caratteristiche

psicologiche quali i tratti di personalità e gli atteggiamenti, piuttosto che in termini di ruoli e rapporti.

La tendenza si inverte in individui appartenenti a popolazioni non occidentali come i nativi americani,

gli abitanti dell’isola di Cook, i masai e i samburu (popoli africani dediti alla pastorizia), malaysiani

e asiatici dell’est [Heine, 2008]. Studi che hanno utilizzato altre misure [Morling e Lamoreaux, 2008;

Oyserman, Coon e Kemmelmeier, 2002] forniscono prove convergenti del fatto che gli occidentali

tendono a possedere concetti di sé più indipendenti e meno interdipendenti rispetto ad altre popola-

zioni.

Uno studio di Zhu et al. [2007] si è proposto di sondare l’ipotesi di una modulazione culturale

della rappresentazione neuronale di sé. A tal fine lo studio si è avvalso di un compito detto «autore-

ferenziale», in cui i soggetti devono tenere in mente una persona (loro stessi o qualcun altro) e giudi-

care se un aggettivo che designa un tratto (per esempio valoroso o infantile) descrive quella persona.

Di solito a questo compito fa seguito un compito di rievocazione in cui i soggetti leggono una lista di

aggettivi e devono stabilire quali, fra di essi, gli sono già stati presentati. Utilizzando questo para-

digma, alcuni studi hanno rilevato che quando un soggetto occidentale giudica un tratto che si riferisce

a se stesso (piuttosto che a persone famose o altrimenti familiari) si determina un incremento di atti-

vità della corteccia prefrontale ventromediale (CPFVM) e della corteccia del cingolato anteriore pe-

rigenuale. Inoltre, quando la CPFVM è attiva, il soggetto rievoca un maggior numero di tratti che

descrivono se stesso piuttosto che gli altri e fornisce stime soggettive più elevate del numero dei

pensieri su se stesso: ciò fa ipotizzare che la CPFVM svolga un ruolo nella codifica del rapporto che

gli stimoli intrattengono con il self 14. Un’attivazione della CPFVM correlata alla rappresentazione di

sé è stata osservata anche in soggetti cinesi che eseguivano il compito autoreferenziale. Lo studio di

Zhu et al. [2007] ha cercato di stabilire se gli asiatici orientali (che, come sappiamo, possiedono un

concetto di sé interdipendente) usano la CPFVM per rappresentare anche gli altri «significativi» (per

esempio i membri della famiglia). Soggetti occidentali di lingua inglese e soggetti cinesi monolingue

residenti in Cina dovevano formulare giudizi su tratti che descrivevano se stessi, altri significativi (le

madri dei soggetti) e persone pubbliche. Mentre i giudizi su se stessi erano associati a un incremento

13 Sperber e Hirschfeld [1999: cxxviii] osservano correttamente che «diversamente dalla tesi secondo cui la mente è un

prodotto culturale, la tesi che la persona, o l’io, è costituito socialmente e culturalmente è compatibile con una scienza

cognitiva naturalistica, ed è stata difesa da un punto di vista naturalistico, per esempio da Dennett». 14 Jervis [1993: 204-5] osserva molto opportunamente che l’espressione «the self» è un termine intraducibile della lingua

inglese corrente che significa, inscindibilmente, sia «l’identità», sia «la persona». Trattandosi di una nozione esperien-

ziale-riflessiva, neologismi come «il sé», o peggio ancora «il Sé», sono da evitare in quanto tendono a ipostatizzarla.

Page 15: Evoluzione, cognizione e cultura1 · In A. Lavazza, G. Sartori e M. De Caro (a cura di), Siamo davvero liberi?Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio. Il Mulino, Bologna

In A. Lavazza, G. Sartori e M. De Caro (a cura di), Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio. Il Mulino, Bologna 2010.

15

dell’attività della CPFVM e della corteccia del cingolato anteriore perigenuale sia nei soggetti cinesi

che in quelli occidentali, i giudizi concernenti la madre davano luogo a un incremento dell’attivazione

della CPFVM unicamente nei soggetti cinesi. Ciò induce a ipotizzare che nei cinesi tanto il self che

gli altri significativi (in questo caso la madre) sarebbero rappresentati nella CPFVM, mentre negli

occidentali la CPFVM si limiterebbe a rappresentare il self. Questa potrebbe essere la base neuronale

delle differenze culturali fra le concezioni di sé occidentale e asiatico orientale.

Ora, vi sono almeno due tipi di prove che attestano l’influenza di questi differenti concetti di sé

sulla prevalenza della strategia olistica o di quella analitica. In primo luogo, alcune ricerche hanno

mostrato che l’attivazione (priming) del concetto di sé indipendente (per esempio rivolgendo il pen-

siero al pronome «io» piuttosto che al pronome «noi») induce i partecipanti a una temporanea ado-

zione di stili di pensiero e abilità analitiche; l’attivazione del concetto di sé interdipendente facilita

invece l’elaborazione olistica [Kühnen e Oyserman, 2002; Kim e Markman, 2006; Oyserman e Lee,

2008]. In secondo luogo, in regioni geografiche in cui prevale un concetto di sé interdipendente si

riscontra un maggior ricorso a strategie olistiche, come si ricava da studi che hanno posto a confronto

italiani del nord e del sud, giapponesi continentali e di Hokkaido, ed europei occidentali e orientali

[Varnum et al. 2008].

In conclusione, sono da sottolineare due punti. Primo, alla luce di questi dati la variazione cul-

turale delle strategie analitica e olistica va intesa come una differenza fra abitudini di pensiero, e non

come una differenza riconducibile alla disponibilità effettiva dell’una o dell’altra strategia nel reper-

torio cognitivo dell’agente. Secondo, le due strategie possono essere promosse differenzialmente nel

loro sviluppo e impiego da differenti vincoli culturali e situazionali ‒ in primo luogo da differenti

concetti di sé.

6. Osservazioni conclusive

Riassumiamo. Nei §§1-3 abbiamo discusso alcuni dei principali fattori che hanno condotto alla crisi

del modello standard delle scienze sociali. Innanzitutto, la nascita di una psicologia intesa come

scienza dalle rappresentazioni mentali, dei modi in cui queste possono essere manipolate e di come

interagiscono fra loro allorché mediano tra l’input percettivo e l’output comportamentale. Quindi la

critica di Chomsky all’immagine della mente umana come un’intelligenza generale, in favore della

tesi modularistica dell’esistenza di una varietà di sistemi neurocognitivi specifici per dominio. Infine

il progetto di una sintesi fra la psicologia computazionale modularistica e la biologia evoluzionistica.

Tutto questo ha gettato le basi per una prospettiva cognitivo-evoluzionistica sulla cultura. In

quest’ottica, la variazione culturale è spiegabile solo se situata all’interno di uno spazio di possibilità

vincolato da ontologie intuitive evolute. Il caso delle credenze religiose ci ha permesso di illustrare

come queste ontologie pongano vincoli sulle rappresentazioni culturali, facilitandone l’acquisizione,

il ricordo e la trasmissione.

La cognizione è dunque il prodotto dell’evoluzione; ma essa non si riduce a un insieme di si-

stemi specifici per dominio e canalizzati. Del resto, la sottolineatura dei fondamenti neurocognitivi

della cultura non è in antagonismo con una prospettiva culturale sulla cognizione. La cultura influenza

non solo il contenuto delle nostre credenze ma anche le strategie di elaborazione dell’informazione

impiegate per conoscere il mondo. Lo si è visto con la distinzione fra strategie analitiche e olistiche:

Page 16: Evoluzione, cognizione e cultura1 · In A. Lavazza, G. Sartori e M. De Caro (a cura di), Siamo davvero liberi?Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio. Il Mulino, Bologna

In A. Lavazza, G. Sartori e M. De Caro (a cura di), Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio. Il Mulino, Bologna 2010.

16

le prime promosse dalle pratiche individualiste dell’Europa e dell’America settentrionale, le seconde

incoraggiate dalle pratiche collettiviste dell’Asia orientale e di varie altre regioni del mondo.

L’interazione fra scienze neurocognitive e scienze sociali può dunque avvenire sia secondo una

prospettiva cognitivo-evoluzionistica sulla cultura sia secondo una prospettiva culturale sulla cogni-

zione. E l’integrazione fra queste due prospettive è attualmente in cima alle agende della psicologia

evoluzionistica e della psicologia culturale [Norenzayan, 2006; Schaller et al., 2010].

Questa visione interattiva e integrativa del rapporto fra il livello neurocognitivo di spiegazione

e quello culturale si pone agli antipodi del culturalismo relativistico. Quest’ultima prospettiva ci pro-

pone una concezione della cultura come fattore «nobilitante», che consente all’essere umano di com-

piere un salto metafisico rispetto alla propria costituzione animale. Quella che abbiamo proposto in

questo capitolo è invece una visione pienamente naturalistica della cultura che, darwinianamente,

nega l’esistenza di una differenza categoriale, o ontologica, fra la mente umana e quella animale. Il

bisogno di istituire una simile differenza ha radici profonde: nasconde, infatti,

la richiesta di una garanzia di carattere metafisico. In questo senso il culturalismo potrebbe essere visto come

l’estremo tentativo di salvare l’illusione che l’uomo sia caratterizzato dal possesso di un’entità spirituale negata agli ani-

mali: un’entità o diffusa nel corpo, o nascosta nel cervello, o aleggiante fra le persone intente a creare cultura [Jervis,

2005: 85].

La tenacia di questa illusione è la principale fonte delle resistenze che da sempre incontra una visione

naturalistica del mondo umano.

Riferimenti bibliografici

Adenzato M. e Meini C. [2006], Psicologia evoluzionistica, Torino, Bollati Boringhieri.

Atran S. [2001], The case for modularity: Sin or salvation? In «Evolution and Cognition», 7, pp. 46-

55.

Boyer P. [1994], The Naturalness of Religious Ideas. A Cognitive Theory of Religion, Berkeley/Los

Angeles, University of California Press.

Boyer P. [2001], Religion Explained, London, Heinemann.

Boyer P. [2007], Specialised inference engines as precursors of creative imagination? In Imaginative

Minds, a cura di I. Roth, London, British Academy, pp. 239-58.

Boyer P. e Barrett H.C. [2005], Evolved intuitive ontology: Integrating neural, behavioral and devel-

opmental aspects of domain-specificity, in Handbook of Evolutionary Psychology, a cura di D.

Buss, New York, Wiley, pp. 96-118.

Boyer P. e Ramble C. [2001], Cognitive templates for religious concepts: Cross-cultural evidence

for recall of counter-intuitive representations, in «Cognitive Science», 25, pp. 535-564.

Buchtel E.E. e Norenzayan A. (2009), Thinking across cultures: Implications for dual processes, in

In Two Minds: Dual Processes and Beyond, a cura di J. Evans e K. Frankish, Oxford, Oxford UP,

pp. 217-238.

Carey S. [1995], On the origins of causal understanding, in Causal Cognition, a cura di D. Sperber,

D. Premack e A. Premack, Oxford, Clarendon Press, pp. 268-308.

Page 17: Evoluzione, cognizione e cultura1 · In A. Lavazza, G. Sartori e M. De Caro (a cura di), Siamo davvero liberi?Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio. Il Mulino, Bologna

In A. Lavazza, G. Sartori e M. De Caro (a cura di), Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio. Il Mulino, Bologna 2010.

17

Carey S. e Spelke E.S. [1996], Science and core knowledge, in «Philosophy of Science», 63(4), pp.

515-533.

Carruthers P. [2006], The Architecture of the Mind, Oxford, Oxford UP.

Chomsky N. [1965], Aspects of a Theory of Syntax, Cambridge (MA), MIT Press.

Chomsky N. [1980], Rules and Representations, Oxford, Blackwell.

Chomsky N. [1988], Language and Problems of Knowledge, Cambridge (MA), MIT Press.

Cosmides L. e Tooby J. [1992], Cognitive adaptations for social exchange, in J. Barkow, L. Cosmides

e J. Tooby (a cura di), The Adapted Mind, Oxford, Oxford UP, pp. 163-228.

Fessler D. e Machery E. [in corso di stampa], Culture and cognition, in Oxford Handbook of Philos-

ophy and Cognitive Science, a cura di E. Margolis, R. Samuels e S. Stich, Oxford, Oxford UP,

website: <http://www.pitt.edu/~machery/papers/Culture&Cognition_fessler_machery.pdf>.

Fodor J. [1983], The Modularity of Mind, Cambridge (MA), MIT Press.

Griffiths P.E. [2008], Ethology, sociobiology, evolutionary psychology, in Blackwell’s Companion to

Philosophy of Biology, a cura di S. Sarkar e A. Plutyinski, Oxford, Blackwell, pp. 393-414.

Hamilton W.D. [1963], The evolution of altruistic behavior, in «American Naturalist», 97, pp. 354-

356.

Hauser M.D., Chomsky N. e Fitch W.T. [2002], The faculty of language: What is it, who has it, and

how did it evolve? In «Science», 298, pp. 1569-1579.

Hedden T., Ketay S., Aron A., Markus H.R. e Gabrieli D.E. (2008), Cultural influences on neural

substrates of attentional control, in «Psychological Science», 19, pp. 12-17.

Heine S.J. [2008], Cultural Psychology, New York, W.W. Norton.

Henrich J., Heine S.J. e Norenzayan A. [2010], The weirdest people in the world? In «Behavioral and

Brain Sciences», 33(2-3), pp. 61-83.

Jervis G. [1993], Fondamenti di psicologia dinamica, Milano, Feltrinelli.

Jervis G. [2003], Individualismo e cooperazione, Roma-Bari, Laterza.

Jervis G. [2005], Contro il relativismo, Roma-Bari, Laterza.

Keil F.C. [1994], The birth and nurturance of concepts by domains: The origins of concepts of living

things, in Mapping the Mind: Domain-Specificity in Cognition and Culture, a cura di A. Hirschfeld

e S.A. Gelman, Cambridge, Cambridge UP, pp. 234-254.

Kim K. e Markman A.B. [2006], Differences in Fear of Isolation as an explanation of cultural dif-

ferences: Evidence from memory and reasoning, in «Journal of Experimental Social Psychology»,

42(3), pp. 350-364.

Kirsh D. [1995], The intelligent use of space, in «Artificial Intelligence», 73, pp. 31-68.

Kitayama S., Duffy S., Kawamura R. e Larsen J.T. [2003], Perceiving an object and its context in

different cultures: A cultural look at new look, in «Psychological Science», 14, pp. 201-206.

Kitcher P. [1985], Vaulting Ambition: Sociobiology and the Quest for Human Nature, Cambridge

(MA), MIT Press.

Kühnen U. e Oyserman D. [2002], Thinking about the self influences thinking in general: Cognitive

consequences of salient self-concept, in «Journal of Experimental Social Psychology», 38(5), pp.

492-499.

Page 18: Evoluzione, cognizione e cultura1 · In A. Lavazza, G. Sartori e M. De Caro (a cura di), Siamo davvero liberi?Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio. Il Mulino, Bologna

In A. Lavazza, G. Sartori e M. De Caro (a cura di), Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio. Il Mulino, Bologna 2010.

18

Leslie A.M. [1994], ToMM, ToBy, and Agency: Core architecture and domain specificity, in Mapping

the mind. Domain specificity in cognition and culture, a cura di L. Hirschfeld e S. Gelman, Cam-

bridge, Cambridge UP, pp. 119-148.

Marr D. [1982], Vision. A computational investigation into the human representation and processing

of visual information, New York, W.H. Freeman.

Marconi D. [1999], Sulla scia di Chomsky, Jackendoff elabora una serie di modelli per le facoltà

umane, in «Il Sole24 Ore», 7 febbraio.

Markus H. e Kitayama S. [1991], Culture and the self: Implications for cognition, emotion, and mo-

tivation, in «Psychological Review», 98, pp. 224-53.

Marraffa M. [2008], La mente in bilico, Roma, Carocci.

Masuda T. e Nisbett R.E. [2001], Attending holistically versus analytically: Comparing the context

sensitivity of Japanese and Americans, in «Journal of Personality and Social Psychology», 81(5),

pp. 922-934.

Miller G.A., Galanter E. e Pribram K.H. [1960], Plans and the Structure of Behavior, New York,

Holt.

Morling B. e Lamoreaux M. [2008], Measuring culture outside the head: A meta-analysis of individ-

ualism-collectivism in cultural products, in «Personality and Social Psychology Review», 12, pp.

199-221.

Nisbett R.E. e Masuda T. [2003], Culture and point of view, in «Proceedings of the National Academy

of Sciences», 100, pp. 11163-70.

Nisbett R.E. e Miyamoto Y. [2005], The influence of culture: Holistic versus analytic perception, in

«Trends in Cognitive Sciences», 9(10), pp. 467-473.

Nisbett R.E., Peng K., Choi I. e Norenzayan A. [2001], Culture and systems of thought: Holistic

versus analytic cognition, in «Psychological Review», 108(2), pp. 291-310.

Norenzayan A. [2006], Evolution and transmitted culture, in «Psychological Inquiry», 17, pp. 123-

128.

Norenzayan A., Choi I. e Peng K. [2007], Cognition and perception, in Handbook of Cultural Psy-

chology, a cura di S. Kitayama e D. Cohen, New York, Guilford, pp. 569-594.

Norenzayan A., Henrich J. e McElreath R. [2008], More Chinese than the Chinese, Vancouver, Uni-

versity of British Columbia, dati grezzi non pubblicati.

Norenzayan A., Smith E.E., Kim B.J. e Nisbett R.E. [2002], Cultural preferences for formal versus

intuitive reasoning, in «Cognitive Science», 26(5), pp. 653-684.

Oyserman D., Coon H.M. e Kemmelmeier M. [2002], Rethinking individualism and collectivism:

Evaluation of theoretical assumptions and meta-analyses, in «Psychological Bulletin», 128, pp.

1773-1775.

Oyserman D. e Lee S. (2008), Does culture influence what and how we think? Effects of priming

individualism and collectivism, in «Psychological Bulletin», 134(2), pp. 311-342.

Paternoster A. [2008], Scienza cognitiva e diversità culturale, in I fondamenti cognitivi del diritto, a

cura di R. Caterina, Milano, Bruno Mondadori, pp. 239-249.

Schaller M., Norenzayan A., Heine S.J., Yamagishi T. e Kameda T. [2010], Evolution, Culture, and

the Human Mind, New York, Psychology Press.

Page 19: Evoluzione, cognizione e cultura1 · In A. Lavazza, G. Sartori e M. De Caro (a cura di), Siamo davvero liberi?Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio. Il Mulino, Bologna

In A. Lavazza, G. Sartori e M. De Caro (a cura di), Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio. Il Mulino, Bologna 2010.

19

Segerstråle U. [2000], Defenders of the Truth: The Battle for Science in the Sociobiology Debate and

Beyond, Oxford, Oxford UP.

Spelke E.S. [2000], Core knowledge, in «American Psychologist», 55, pp. 1233-1243.

Spelke E.S. e Kinzler K.D. [2007], Core knowledge, in «Developmental Science», 10, pp. 89-96.

Sperber D.E. [1996], Explaining culture. A naturalistic approach, Oxford, Blackwell.

Sperber D.E. e Hirschfeld L. (1999), Culture, Cognition, and Evolution, in R. Wilson e F. Keil (a

cura di), MIT Encyclopedia of the Cognitive Sciences, Cambridge (MA), MIT Press, pp. cxi-

cxxxii.

Sperber D.E. e Wilson D. [1995], Relevance: Communication and Cognition, Oxford, Blackwell, II

edizione.

Surian L. [2009], Lo sviluppo cognitivo, Laterza, Roma-Bari.

Tooby J. e Cosmides L. [1992], The psychological foundations of culture, in The adapted mind: Evo-

lutionary psychology and the generation of culture, a cura di J. Barkow, L. Cosmides e J. Tooby,

Oxford, Oxford University Press, pp. 19-136.

Tooby J. e Cosmides L. [1995], Foreword, in S. Baron-Cohen, Mindblindness: An Essay on Autism

and Theory of Mind, Cambridge (MA), MIT Press, pp. XI-XVIII.

Triandis H.C. [1994], Culture and Social Behavior, New York, McGraw-Hill.

Trivers R.L. [1971], The evolution of reciprocal altruism, in «Quarterly Review of Biology», 46, pp.

35-57.

Tversky A. e Kahneman D. [1983], Extensional versus intuitive reasoning: The conjunction fallacy

in probability judgment, in «Psychological Review», 90, pp. 293-315.

Uskul A.K., Kitayama S. e Nisbett R.E. [2008], Ecocultural basis of cognition: Farmers and fisher-

men are more holistic than herders, in «Proceedings of the National Academy of Sciences of the

United States of America», 105(33), p. 12094.

Varnum M., Grossmann I., Kitayama S. e Nisbett R.E. [2008], The origin of cultural differences in

cognition: The social orientation hypothesis, Ann Arbor, University of Michigan.

Zhu Y., Zhang Li., Fan J. e Han S. (2007), Neural basis of cultural influence on self representation,

in «Neuroimage», 34, pp. 1310-17.

Woodward A. [1998], Infants selectively encode the goal object of an actor’s reach, in «Cognition»,

69, pp. 1-34.

Woodward A.L., Phillips A.T. e Spelke E.S. [1993], Infants’ expectations about the motion of ani-

mate versus inanimate objects, in Proceedings of the Fifteenth Annual Meeting of the Cognitive

Science Society, Hillsdale (NJ), Erlbaum.