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CREMS Centro di Ricerca in Economia e Management in Sanità e nel Sociale EVIDENCE BASED NURSING Master di 1° Livello per Funzioni di Coordinamento delle Professioni Sanitarie - CoPS Anno Accademico 2011/12 Dispensa didattica Università Carlo Cattaneo LIUC Castellanza 2012

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CREMS Centro di Ricerca in Economia e

Management in Sanità e nel Sociale

EVIDENCE BASED NURSING

Master di 1° Livello per Funzioni di Coordinamento

delle Professioni Sanitarie - CoPS Anno Accademico 2011/12

Dispensa didattica

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Università Carlo Cattaneo LIUC Castellanza 2012

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INDICE INTRODUZIONE 3 1.0 EVOLUZIONE STORICA DELL’EBM 4 1.1 Evidenze Scientifiche e la Legislazione 8 1.2 Evidence Based Practice 9 1.3 Evidence Based Nursing 10 2.0 LA LETTERATURA BIOMEDICA 12 2.1 Le pubblicazioni e gli Articoli Scientifici 13 2.2 Il Processo di Pubblicazione 17 3.0 IL FATTORE D'IMPATTO 19 3.1 Il Fattore d'Impatto Normalizzato 21 4.0 RESPONSABILITÀ DEL COORDINATORE 22 CONCLUSIONI 23 BIBLIOGRAFIA 24

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INTRODUZIONE Fin dai tempi dell’antichità si parla del termine evidenza. Personaggi noti quali gli epicurei, filosofi, matematici (tra cui Renè Descartes, chiamato in Italia Cartesio, fondatore della filosofia moderna e padre della matematica dei giorni nostri) utilizzarono questa parola nel loro lessico quotidiano, facendola diventare fondamentale per la conoscenza vera. Nel 1700 il termine evidenza viene tramandato da Giambattista Vico, filosofo italiano, e da Francesco Bacone, politico e saggista inglese, il quale affermò che la ricerca doveva sempre partire dall’esperienza e doveva essere effettuata con ordine e metodo. Possiamo affermare che fin dall’inizio della filosofia moderna i filosofi pensanti ritennero che l’evidenza avesse origine nello spirito dell’uomo quale unico designato per individuare l’evidenza razionale, mentre altri pensarono che la ragione fosse fonte di errore e che solo l’evidenza sensibile potesse portare alla verità.

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1.0 EVOLUZIONE STORICA DELL’EBM Il primo promotore del pensiero riguardante le prove di efficacia e della medicina dell’osservazione, fu un medico parigino Pierre Charles Alexandre Louis (1787-1872) che nel 1830, fu il promotore del movimento secondo il quale i medici non avrebbero dovuto affidarsi solo ed esclusivamente all’esperienza individuale o alle speculazioni delle cause di malattia, ma avrebbero dovuto agire su basi sperimentali in grado di fornire una stima quantitativa degli effetti terapeutici. Louis incontrò forti resistenze tra i suoi contemporanei quando affermò che

“i medici non dovevano basarsi su teorie e ipotesi circa la causa delle malattie e neppure su esperienze derivate da casi singoli, ma piuttosto dovevano contribuire ad accumulare informazioni (esperienze collettive) basate su caratteristiche ampie, raccolte con criteri metodologici espliciti e definiti, solo così si può capire quali trattamenti sono realmente efficaci e quali no”.

Cinque anni più tardi e dopo aver sperimentato sul campo, pubblicò nel 1835 il primo saggio riguardante il trattamento della polmonite per mezzo della tecnica del salasso, gettando le basi per quella che ai giorni nostri si definisce epidemiologia. All’interno del trattato comparivano sperimentazioni di casi e confronto tra casi e casi controllo. La conclusione a cui giunse fu quella che il trattamento tramite salasso non otteneva tutta quella utilità che comunemente le veniva attribuita, anzi al contrario era perfettamente inutile, mettendo in forte crisi una delle pratiche più in uso a quell’epoca. Attraverso lo studio effettuato il medico poté affermare che il decorso della polmonite non veniva influenzato da variabili quali il giorno d’inizio del trattamento tramite salasso, né dalla frequenza delle ripetizioni dello stesso, né dal quantitativo di sangue prelevato. La medicina dell’osservazione scomparve però poco dopo la sua nascita a causa di una forte reazione negativa da parte della classe medico-scientifica del tempo e dell’assenza di condizioni socio-culturali di contesto che potessero garantire la permanenza di una dialettica così radicale. Nello stesso periodo storico ma di nazionalità diversa possiamo trovare altri due personaggi che si sono occupati di evidenze: nel campo medico l’ungherese Ignaz Philipp Semmelweis che nel 1844 esercitò come assistente la professione medica presso la Clinica Universitaria Ostetrica austriaca di Vienna, studiò le cause di morte dovuta a febbre puerperale (tredici madri su cento morivano per infezioni contratte dopo aver partorito). Egli mise a confronto i due reparti esistenti all’interno della clinica universitaria evidenziando il numero di decessi del primo reparto con il secondo, dove il numero delle morti era minori. Il dottor Ignaz notò che le morti erano nettamente inferiori per le madri che partorivano per strada, ambiente sicuramente meno sicuro dell’ospedale, eppure non contraevano l’infezione. Confrontando i tempi

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dell’insorgenza della febbre, il numero di professionisti che effettuavano le esplorazioni uterine e le modalità di effettuazione giunse alla conclusione che erano i medici stessi a trasmettere la malattia. Le puerpere sviluppavano questa patologia definita febbre puerperale perché gli operatori sanitari dell’epoca non effettuavano il lavaggio delle mani prima dell’esplorazione uterina, e non solo: si recavano in Unità Operativa dopo aver eseguito a mani nude autopsie su cadaveri anche infetti, naturalmente senza dispositivi di protezione, trasmettendo quindi inconsapevolmente la malattia a quei tempi mortale. Dagli studi effettuati, Ignaz suggerì al Direttore della Clinica l’adozione di procedure che potessero diminuire la trasmissione di microrganismi, eliminare il cattivo odore e diminuendo la carica batterica sulle mani tramite il lavaggio con clorina liquida, sostanza allora rara e molto costosa che successivamente fu sostituita da un prodotto definito cloruro di calcio più facilmente reperibile e meno costoso. Mettendo in atto questo accorgimento le morti calarono allo 0,5%. Purtroppo per il carattere poco loquace e per le continue discussioni e scontri con il Direttore della Clinica i suoi studi non furono apprezzati a volte sottovalutati, si ritrovò senza lavoro e la sua fine non fu delle migliori: morì in preda alla pazzia. Anni dopo fu Louis Pasteur biologo francese ad affermare che il responsabile della trasmissione della febbre puerperale era un batterio. Altra figura, dal profilo professionale diverso e considerata la mamma dell’infermieristica, è Florence Nigthingale. Di nazionalità inglese infermiera presso l’ospedale di Londra osservò e annotò tramite la metodologia statistica le percentuali delle insorgenze delle febbri puerperali e dei tassi di mortalità, che risultavano essere più elevati nelle donne che partorivano all’interno delle struttura ospedaliera rispetto alle donne che partorivano a domicilio. Gli indici di mortalità venivano notevolmente influenzati dal numero delle gravidanze, dalla condizione sociale, dallo stato nutrizionale, dall’età materna, dalla durata del travaglio e dallo stato di salute. Dopo l’attenta analisi statistica concluse che l’indice di mortalità era influenzato dall’effetto negativo dell’istituzione quale la presenza di molti medici e studenti. Si ricorda inoltre che è stata la creatrice del diagramma di Coxcombs utilizzato per registrare i tassi d’incidenza e di mortalità dei soldati in guerra di Crimea e Bulgaria. Possiamo affermare che è un primitivo metodo dell’ evidence based. Nel 1972 Archibald Cochrane, di nazionalità inglese, medico epidemiologo, sostenne che i risultati della ricerca avevano un impatto molto limitato sulla pratica clinica. All’interno di un elaborato scritto “Effectivenes and Efficiency” espresse la consapevolezza della limitatezza delle risorse economiche, suggerendo di rendere disponibile a tutti i pazienti/persone solo gli interventi sanitari con documentata efficacia. Inoltre affermò che meno del 20% di ciò che i medici nella quotidianità fanno, possiede uno studio clinico ben costruito a sostegno della sua utilità all’interno della pratica clinica. Fu il creatore della banca dati che prese il suo nome e l’approvazione delle sue idee portarono alla fondazione del Centro Cochrane Collaboration nel 1992 a Oxford, un network internazionale nato per preparare, aggiornare e disseminare

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revisioni sistematiche degli studi clinici controllati sugli effetti dell’assistenza sanitaria e, laddove non sono disponibili studi clinici controllati, revisioni sistematiche delle evidenze comunque esistenti; risale invece al 1993 la diffusione ed apertura di altri centri in altre nazioni, nel 1994 nasce il centro italiano presso l’Istituto Mario Negri a Milano. Nel 1981 i ricercatori canadesi della Mc Master Medical School, pubblicarono all’interno della rivista scientifica The Jurnal of the American Medical Association alcuni articoli in merito alle strategie di approccio critico alla letteratura biomedica, articoli che vengono tra i più stampati e tradotti in sette lingue. Nel 1992 a novembre, definito battesimo ufficiale del termine evidence-based medicine, viene pubblicato su JAMA l’articolo che presenta l’EBM come paradigma emergente per la pratica clinica, creato ed implementato dagli stessi ricercatori che anni prima avevano creato l’epidemiologia clinica. Nel 1986 David Lawrence Sackett, padre spirituale dell’Evicence Based Medicine sottolinea l’utilizzo della letteratura biomedica nel processo decisionale in ambito clinico per la risoluzione dei problemi clinici della singola persona risultanti dall’integrazione tra l’esperienza del medico, l’utilizzo delle migliori evidenze disponibili e dalle preferenze della persona coinvolta. Questo passaggio è fondamentale per comprendere il cambiamento d’interesse che dal come leggere la letteratura biomedica esistente si passi all’utilizzo della stessa nella pratica quotidiana per risolvere problemi di natura clinica. La definizione che può essere data a questo movimento è di un processo di autoapprendimento in cui l’assistenza erogata alla persona deve essere da stimolo per la ricerca nella letteratura di informazioni valide, rilevanti ed aggiornate che possono consentire al medico di colmare i gap di conoscenza. All’interno di questo processo si possono individuare sei momenti:

1. Convertire il bisogno di informazione in quesiti clinici definiti. 2. Ricercare con la massima efficienza, le migliori evidenze disponibili. 3. Valutare criticamente le evidenze. 4. Integrare le evidenze nelle decisioni cliniche. 5. Determinante fondamentale delle decisioni clinico assistenziali è il contesto

clinico – assistenziale. 6. L’esperienza professionale è l’unico elemento che integra le evidenze, le

preferenze ed il contesto. Nel 1996 questo tipo di metodologia si estende e si apre ad altre professioni, nel 1997 si assiste alla nascita del termine Evidence-based Health Care (EBHC), l’estensione della metodologia alla pianificazione della salute delle popolazioni (o gruppi di pazienti). L’EBN e l’EBHC si possono ricondurre all’interno della CLINICAL GOVERNANCE .

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Figura 1: rappresentazione a torta dell’Evidence

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1.1 EVIDENZE SCIENTIFICHE E LA LEGISLAZIONE A livello legislativo compare traccia di evidence nel Decreto Legislativo 229 del 1999 (Riordino della disciplina in materia sanitaria) riforma Bindi o definita riforma Ter “Norme per la razionalizzazione del SSN”, in cui si stabilisce che in condizioni di risorse limitate bisogna dare priorità ad interventi di prova di efficacia, evidenze scientifiche di significato benefico, escludendo quelle che non soddisfano il principio dell’efficacia e dell’appropriatezza. Si può inoltre affermare che nel corso degli anni come movimento innovativo ed assolutamente giovane ha trovato grossi ostacoli quali lo sbilanciamento culturale nei meccanismi di produzione delle conoscenze, resistenza all’utilizzo da parte dei cittadini e delle persone malate friutrici dello strumento, forte resistenza da parte della componente medica al cambiamento ed al sottoporre il proprio operato a verifica esterna. Altra interferenza dovuta al ritardo culturale e pratico dei sistemi sanitari nel cogliere l’importanza della ricerca nel coinvolgimento della cittadinanza in modo attivo. Tutto ciò ha generato l’utilizzo di risorse per migliorare la qualità delle prove di efficacia degli interventi sanitari troppo basati sulla convinzione che il miglioramento degli standard metodologici fosse un requisito sufficiente per una crescita della capacità di dare risposte rilevanti. Negli anni a questo movimento sono stati attribuiti molteplici obiettivi quali la risoluzione dei quesiti di tipo terapeutico, confronto tra scienza e progresso, creazioni di ricette, acronimi a discapito dei veri obiettivi. Oggi l’EBM opera in un contesto caratterizzato da scienze mediche di base dotate di forte background sperimentale. Nella professione infermieristica italiana vi è stato un cambiamento rivoluzionario quale l’eliminazione della dicitura “professione sanitaria ausiliaria” definita ancillare all’attività del medico come definito dal DPR del 14 marzo 1974 n.225 “Modifiche al R.D. 2 maggio 194, n.1310 sulle mansioni degli infermieri professionali e infermieri generici”, quando si pensava che l’assistenza infermieristica fosse un atto di misericordia erogata da religiosi o considerata una missione/vocazione, piuttosto che una professione. Gli infermieri imbrigliati in un elenco della spesa dovevano costantemente interpretare il loro ruolo definendo ogni giorno il proprio specifico professionale, periodo che vedrà per un decennio impegnati i professionisti per il riconoscimento della responsabilità e riconoscimento della dirigenza (sfocerà con la Legge del 10 agosto 200 n. 251 “Disciplina delle professioni Sanitarie infermieristiche, tecniche, della riabilitazione, della prevenzione nonché della professione ostetrica”), con l’effettiva abrogazione del mansionario attraverso la Legge n. 42/99 “Disposizioni in materia di Professioni Sanitarie” affermando il concetto che la professione infermieristica per il cittadino deve essere riconosciuta in modo chiaro ed inequivocabile quale professionisti che si prendono cura del singolo. In un contesto sociale, culturale e sanitario in continuo mutamento le competenze che l’infermiere deve possedere e sviluppare per la pratica clinica devono coniugare la propria esperienza con lo sviluppo delle conoscenze scientifiche in modo da saper rispondere alla domanda di salute con prestazioni di qualità ai bisogni e problemi della persona.

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1.2 EVIDENCE BASED PRACTICE È stata definita un approccio interdisciplinare iniziato in medicina come medicina basata sulle evidenze e si diffonde in altri campi come la cura, la psicologia, la fisioterapia, l’ostetricia, la psichiatria etc. I principi base ribadiscono che tutte le decisioni pratiche dovrebbero essere basate su studi di ricerca selezionati ed interpretati secondo norme specifiche (prende in considerazione solo gli studi quantitativi e non studi teorici e studi qualitativi) caratteristiche dell’EBP. La pratica basata sulle evidenze comporta una ragionamento complesso che si basa sulle prove disponibili in questo momento, sulle caratteristiche della persona presa in carico, sulla situazione in cui ci troviamo e le preferenze dell’assistito, perché la cura è personalizzata ed è un processo dinamico per tutta la durata della presa in carico assistenziale. La pratica basta sulle evidenze si sviluppa attraverso l’implementazione di linee guida delle migliori pratiche, migliori scelte di trattamento basato non solo sulla ricerca dell’esito, ma anche sull’esperienza dell’infermiere od operatore sanitario, sui valori della famiglia e le preferenze del soggetto preso in considerazione. È un processo di sviluppo di decisioni dopo aver effettuato una rigorosa raccolta dati ed appropriata pianificazione degli interventi e la valutazione dell’efficacia dopo l’applicazione. Le fasi della pratica basata sulle evidenze si possono declinare in cinque tappe quali:

1. Formulazione della domanda che sia ben costruita/strutturata. 2. Identificazione di articoli e risorse basate sulle evidenze che rispondano alla

domanda formulata. 3. Valutazione critica delle prove e delle aree di miglioramento. 4. Applicazione delle prove. 5. Rivalutazione dell’applicazione delle prove e delle aree di miglioramento.

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1.3 EVIDENCE BASED NURSING Che cos'è l'Evidence-Based Nursing e come possiamo definirla?

"L'EBN è un processo per mezzo del quale le infermiere e gli infermieri assumono le decisioni cliniche utilizzando le migliori ricerche disponibili, la loro esperienza clinica e le preferenze del paziente ..." (Di Censo, 1998).

L’EBN è autoformazione autogestita e autoapprendimento. Come professionisti, quante volte nella nostra vita quotidiana professionale, ci siamo trovati nelle condizioni di dover rispondere a domande scaturite dal caso stesso: è giusto quello che sto facendo in questo momento? Potrei farlo in un altro modo? Ci sono alternative a questo trattamento? Che cosa può avere provocato questo problema? Come posso migliorare il mio intervento? Quale potrebbero essere le reazioni della persona che sto assistendo? Devo tenere in considerazione altri elementi? Ci si trova, quindi, in una condizione di dubbio e come ben sappiamo, nel dubbio non si può agire. Sono i dubbi che permettono di innescare i meccanismi per apprendere, per conoscere, per ricercare. L'EBN fornisce una strategia, una metodologia operativa per trovare le risposte ai bisogni di sapere che nascono dalla nostra attività assistenziale “domanda o quesito clinico”, ci mette nelle condizioni di formulare nel modo corretto un quesito per cui si può trovare una risposta. Ma, attenzione a non confonderla con la ricerca scientifica! Che è la metodologia per accrescere le conoscenze di una disciplina. La ricerca è un indagine sistematica intrapresa per scoprire fatti o relazioni e raggiungere conclusioni usando un metodo scientifico, mentre nell'EBN la ricerca è bibliografica ed è basata sulla identificazione e sul recupero più o meno sistematico della letteratura su uno specifico tema o per uno specifico obiettivo, quale la risposta o la risoluzione del problema di salute/assistenziale della persona presa in carico. Quando si è in presenza di casi clinici vi è la necessità di annotare e ratificare i dati raccolti per decidere quali informazioni sono importanti per lo sviluppo del processo assistenziale. Risulta fondamentale costruire o meglio formulare la domanda/quesito clinico che deve contenere per essere correttamente formulato la tipologia della persona, il disturbo o la malattia, l’intervento o la ricerca in esame, l’intervento confronto se applicabile, non necessariamente sempre presente ed il risultato. La costruzione del quesito di Foreground PICO, acronimo che aiuta a ricordare i passi, è un modo sistematico per identificare i concetti importanti in un caso e formulare la domanda di ricerca come di seguito, P = paziente o problema I = intervento C = confronto O = risultati

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Per formulare la domanda, perché sia una buona domanda bisogna descrivere l’oggetto della domanda “come potrei descrivere un gruppo di pazienti simili a questo”, definire quali interventi si stanno prendendo in considerazione per la specifica persona o popolazione, può essere utile nominare un secondo intervento con cui confrontare il primo come ad esempio un esame a raggi x rispetto ad una risonanza magnetica e come ultimo definire il tipo di risultato che si desidera valutare (variazione di un segno fisico o indicatore prognostico, risultato di un test diagnostico, risposta alla terapia o ad un dato trattamento o efficacia dei costi). Dopo aver formulato il quesito clinico è necessario trovare prove rilevanti attraverso la consultazione di banche dati definite filtrate (Cochrane database of Systematic Reviews), se stai cercando di decidere il miglior corso di azione per la diagnosi, trattamento e desideri incorporare le recenti prove scientifiche affidabili o non filtrate o definita letteratura primaria (MEDLINE, CINAHL), se stai cercando una risposta consultando studi di ricerca all’interno della letteratura/riviste scientifiche. Il PICO può arricchirsi di ulteriore M = metodo e T = Tempo. Dopo aver identificato l’articolo o risorsa che sembra calzare alla domanda formulata è necessario valutare criticamente le informazioni, se lo studio viene da una fonte primaria bisogna eseguire una valutazione critica, una volta determinato che uno studio è valido è necessario decidere come lo studio o altre informazioni contenute si possono applicare alla domanda formulata precedentemente. Per raggiungere le conclusioni si devono interpretare le informazioni basate su una serie di criteri, abilità ed esperienza e poi passare all’applicazione diretta implementazione/sperimentazione se vi è congruenza con il caso che si sta considerando.

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2.0 LA LETTERATURA BIOMEDICA

Negli anni c’è stata una crescita esponenziale dei dati acquisiti, più di 200.000 articoli pubblicati ogni anno in oltre 20.000 riviste. Annualmente vengono aggiunte in media 400.000 citazioni all’interno di Medline, possiamo dire che il volume della letteratura in 19 anni si è raddoppiato. Il ritardo nel progresso scientifico e tecnologico può essere definito come obsolescenza. Gli articoli che trattano lo stesso argomento sono pubblicati in riviste ed annate diverse quindi possiamo affermare che vi è “frammentazione” e la maggior parte della produzione scientifica è irrilevante per la pratica clinica, si può affermare che vi è “basso rapporto/segnale rumore”. Le fonti di informazione per il personale sanitario si possono dividere in tre categorie:

1. tramite esperienza “tradizionali” le nozioni vengono trasmesse dai colleghi esperti;

2. attraverso trattati, dalle riviste, dagli atti di congressi, dai seminari, dalle conferenze inerenti l’argomento preso in esame;

3. tramite banche dati biomediche come MEDLINE, EMBASE, CINAHL, o nuovi strumenti editoriali quali linee guida, pubblicazioni secondarie e revisioni sistematiche.

La letteratura scientifica può essere divisa fondamentalmente i due grandi categorie: la letteratura primaria e la letteratura secondaria. La letteratura primaria è composta da studi che hanno come obiettivo una singola ricerca: in pratica, il focus è centrato direttamente sull'oggetto di analisi, come ad esempio un campione di pazienti, l'azione di un farmaco, una patologia è composta da tutti quegli studi che descrivono le singole ricerche, si basano cioè sugli individui, terapie o malattie studiati (es.: un trial clinico, uno studio osservazionale...) possiamo dire che ci sono tipi di letteratura primaria che sono più importanti di altri, e che quindi producono evidenze di qualità maggiore per la nostra pratica quotidiana, o secondo l’ordine gerarchico delle evidenze. La letteratura secondaria al contrario si basa sulla primaria, ovvero ha lo scopo di riassumere e trarre conclusioni dagli studi primari (es.: una linea guida, una revisione sistematica...); non facciamoci quindi trarre in inganno dal termine secondaria: nella nostra pratica quotidiana hanno entrambe lo stesso valore, in quanto sono da impiegarsi in modo e momenti diversi tra loro. Nel ricercare articoli all’interno delle banche dati, gli articoli spesso vengono forniti solo con titolo dell’articolo e l’abstract e non tutto il testo in toto Full Test, per procedere ad una valutazione critica bisogna procurarsi il testo dell’articolo in modo integrale a volte solo a pagamento con un costo elevato.

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2.1 LE PUBBLICAZIONI - GLI ARTICOLI SCIENTIFICI

I dati scientifici e la forma sono gli elementi indispensabili e inscindibili su cui basare l’organizzazione di qualsiasi scritto di medicina, si tratti di un articolo, di una monografia o di un testo per il Web. Gli articoli pubblicati sono il principale mezzo di comunicazione tra i ricercatori, sono la principale forma di comunicazione tra la comunità scientifica rendendo pubblici risultati e metodi dei lavori prodotti. I lavori prodotti possono essere divulgati in forma cartacea o digitale e pubblicati da editori specializzati dopo procedure di accettazione, revisione e valutazione dei requisiti necessari per la pubblicazione. Quando si decide di scrivere o avviare una sperimentazione per poi divulgare i risultati della stessa, bisogna selezionare la rivista a cui indirizzare l’articolo, identificare la tipologia del lettore interessato al contributo che verrà proposto, se si tratta di personale sanitario andranno indirizzate osservazioni con un immediato risvolto pratico, se si rivolge a dei ricercatori gli argomenti devono essere specialistici ad alta valenza tecnica, questo per permettere di restringere il campo delle riviste a cui andrà spedito l’articolo o manoscritto. Le caratteristiche che una articolo deve possedere sono l’accuratezza del disegno sperimentale, l’originalità delle ipotesi, la complessità della metodologia impiegata e la rilevanza clinica o fisiopatologica dei risultati ottenuti. La scrittura in ambito scientifico comprende diverse fasi come avviene nella pianificazione assistenziale, quali:

1. Raccolta dati. 2. Pianificazione. 3. Stesura dell’articolo o manoscritto. 4. Revisione dell’articolo o manoscritto. 5. Proposta dell’articolo o manoscritto ad un editore.

Sarebbe auspicabile che le comunicazioni scritte/contenute all’interno degli articoli si basassero sempre su un’approfondita e diretta conoscenza della materia, ma anche su un’attenta considerazione dei potenziali destinatari dell’informazione e su uno stile che agevoli al massimo la lettura e la comprensione. Possiamo riconoscere diverse tipologie di articoli quali rassegna o reviews che presenta la sintesi di un campo di ricerca, può riguardare o solo una teoria o solo un fenomeno o entrambi commentata criticamente da un esperto del settore. Lettera all’editore: rispecchia l’opinione di un autore su argomenti o articoli precedentemente pubblicati dalla rivista stessa. Non sempre è soggetta a “peer review”, di solito viene considerata come corrispondenza tecnica. Casi clinici: descrizione di casi dove sono state fatte osservazioni originali o introdotti nuovi approcci terapeutici. Editoriale è un breve articolo scritto da un esperto del settore di solito è su invito dell’editore per commentare un articolo pubblicato nello stesso numero della rivista oppure per dare un’opinione circa un argomento controverso.

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L’articolo deve contenere un titolo, gli autori, l’introduzione, i metodi, i risultati, la discussione e la bibliografia, possono esserci inoltre delle appendici/allegati considerati materiale importante da citare. Il corpo centrale dell’articolo deve essere costituito dalle “evidenze” (sintesi della letteratura, metanalisi, revisioni sistematiche, risultati di sperimentazioni cliniche, dati dell’osservazione, descrizioni di casi di particolare interesse...), attorno alle quali verrà articolata l’esposizione della propria tesi e la conferma oppure no delle ipotesi formulate a priori. Quando si vuole scrivere un articolo bisogna organizzare tutto il materiale reperito e dopo aver effettuato un attento studio della letteratura presente in merito all’argomento scelto, formalizzare una scaletta provvisoria che si tramuterà successivamente in indice e deve essere il più dettagliato possibile. L’indice si compone di quattro tappe fondamentali, nella prima si definisce il problema a cui dare risposta e formulare l’ipotesi da verificare, nella seconda viene esaminato in dettaglio l’argomento e le modalità di sviluppo, nella terza si espongono i risultati dimostrando la validità delle argomentazioni tramite prove di sviluppo e come ultima trarre le conclusioni. Il passo successivo potrebbe essere quello di ampliare la scaletta costruita, trasformandola in un indice ragionato. In itinere si può aggiungere accanto a ogni voce individuata una sintetica descrizione dell’argomento e del modo in cui vi proponete di esaminarlo (individuazione di sottocapitoli), magari già prevedendo l’utilizzazione del materiale iconografico. Lo scritto di natura scientifica deve essere lineare e semplice. Bisogna far attenzione alle parole come vengono utilizzate ed al loro esatto significato tralasciando i vizi di forma presenti nella consuetudine della letteratura specialistica, questo vuol dire che le parole possono essere scritte in modo erroneo o improprio perché contaminate da un termine omologo straniero. Esistono diversi tipi di riviste mediche: periodici internazionali indicizzati su database, testate nazionali, dalle riviste di pubblicazione secondaria ai rotocalchi d’informazione per il personale sanitario quelli che in lingua inglese sono stati definiti throughaway journals, pronti per essere eliminati nei cassonetti dei rifiuti per carta. Da segnalare i primi due tipi di periodici sono quelli più utili al personale sanitario perché di qualità elevata e super specialistici. Sono solitamente articolati in una serie di classiche rubriche: articoli originali, rassegne, editoriali, lettere. Di solito sono stati articolati nel rispetto dell’“evidence-based” che sono le conoscenze più aggiornate in tema di linguistica e grafica rilevanti per una comunicazione efficace. Elementi comuni a tutti gli articoli sono titolo, abstract, parole chiave. Il TITOLO è la carta di presentazione del lavoro che verrà presentato successivamente. Ha dei requisiti fondamentali da rispettare quali presentare coerenza e precisione in merito all’argomento scelto per lo studio, deve contenere /deve essere esplicitato almeno un aspetto del tema sviluppato all’interno del corpo del testo, per non deludere il lettore. Deve attirare l’attenzione, deve essere sintetico, informativo, preciso e deve contenere le parole chiave che sintetizzano i contenuti del lavoro. La lunghezza del

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titolo è importante deve essere corto, bisogna eliminare parole e frasi non significative, preposizioni o articoli superflui, formule introduttive. Le abbreviazioni non si utilizzano per rendere più corto il titolo, alcune riviste possono chiedere che venga inserito all’interno del titolo stesso il tipo dello studio. L’ABSTRACT è una delle parti più consultate di un articolo, inserito prima del testo, permette al lettore di comprendere subito il contenuto entrando così nel vivo dell’argomento trattato. Eppure, la redazione del riassunto è spesso trascurata dall’autore e il compito di preparare abstract e parole chiave non di rado ricade tra le incombenze del redattore editoriale. Il ruolo dell’abstract è quello di sintetizzare fedelmente il contenuto dell’articolo, fornire alcuni dati numerici, ma non tutti, ma soprattutto deve essere breve. E’ sempre buona abitudine redigere l’abstract anche quando la rivista non lo richiede. L’abstract può essere “strutturato” o “semistrutturato” distribuendo il contenuto tra quattro paragrafi: introduzione, materiali e metodi, risultati e discussione, sintetizzando le iniziali il risultato è (IMRAD). La lunghezza all’incirca dovrebbe essere dalle 200 alle 300 parole non di più (le caratteristiche vengono indicate dall’editore). Nella stesura dell’abstract cercate di rispondere alle seguenti domande, perché avete intrapreso la ricerca? Cosa avete studiato? Con quali metodi? Quali risultati avete ottenuto? Come li interpretate? L’abstract non deve contenere dati aggiuntivi rispetto al full-text, tabelle, grafici e riferimenti diretti ad essi, descrizioni dettagliate degli esperimenti e delle apparecchiature, riferimenti alla letteratura. Le PAROLE CHIAVE vanno individuate tra le più rilevanti e ricorrenti all’interno dell’elaborato, dal riassunto del testo. Sono molto importanti perché il lettore capisca di cosa tratta l’articolo e perché possono essere utilizzate nella compilazione degli indici dei repertori bibliografici. Molte riviste richiedono le parole chiave insieme all’articolo, quale condizione per la pubblicazione. Vi potrà inoltre essere richiesto di sceglierle dalla lista dei Medical Subject Headings (MeSH) utilizzata nell’Index Medicus, o da altre liste, come quelle pubblicate nei Biological Abstracts e Chemical Abstracts. Prima della presentazione dell’articolo bisogna assicurarsi di avere inserito il numero richiesto di parole chiave (in genere da 3 a 10) sulla pagina del titolo o alla fine del riassunto. L’articolo si compone in più parti quali: introduzione, materiali e metodi, analisi dei dati/risultati ottenuti, discussione e conclusioni. Nell’INTRODUZIONE bisogna esporre lo scopo del lavoro, si riassume sinteticamente il contenuto dello studio, si citano solo i riferimenti bibliografici essenziali e soprattutto non si anticipano mai le conclusioni. Nei MATERIALI E METODI si descrivono le perone/pz. osservati o gli animali da laboratorio utilizzati ai fini della ricerca. Caratteristiche dei soggetti in termini di età, genere, livelli pressori, massa corporea. Livelli di inclusione ed esclusione. Inoltre vengono descritte le caratteristiche di un eventuale gruppo di controllo. Si definiscono i metodi e le apparecchiature (indicando il nome del produttore e l’indirizzo). Si illustrano le procedure in modo che possano essere seguite anche da altre équipe. Si comparano eventualmente le nuove metodiche con i procedimenti utilizzati in passato. Esplicitare per l’esecuzione dello studio se vi è stata data l’approvazione da parte del

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Comitato Etico e l’ottenimento del Consenso Informato da parte di ogni paziente reclutato. Si identificano con esattezza i farmaci utilizzati, indicandone il principio attivo (non il nome commerciale), il dosaggio prescelto e la posologia di somministrazione. Dichiarare se i pazienti i ricercatori e gli analisti sono a conoscenza del trattamento assegnato (studio aperto, cieco o doppio cieco).Occorre inoltre indicare se il protocollo prevede un gruppo trattato con placebo. L’ELABORAZIONEDEI DATI STATISTICI descrivere come è avvenuta la selezione del campione se vi è stata randomizzazione , se vi è stata defezione numerica del campione, specificare che software è stato utilizzato per l’elaborazione statistica dei dati ricavati dallo studio, la raffigurazione grafica dei dati rilevati deve essere fatta tramite tabelle a singola - doppia entrata e diagrammi a torta o istogrammi, curve di sopravvivenza e di incidenza. I RISULTATI si presentano in sequenza logica e si pone risalto a quelli di particolare rilievo. Non bisogna presentare gli stessi risultati in testo, tabelle o figure. Occorre corredare le figure/tabelle di titolo e di una legenda chiara e concisa. Si pongono altri interrogativi, si propongono soluzioni o possibili indirizzi da perseguire. Nel caso trial clinico si deve utilizzare un diagramma di flusso e numero pazienti in ogni stadio, tempo di intervallo dedicato al reclutamento e follow-up. Occorre inoltre calcolare le stime dell’effetto atteso = out come. Nella DISCUSSIONE vengono sottolineati solo gli aspetti nuovi e importanti. Non si devono ripetete i dati osservati o i materiali e i metodi utilizzati. Si possono collegare le conclusioni formulate a quelle di altri studi importanti reperiti. Bisogna evitare di trarre conclusioni non completamente supportate dai dati emersi/analizzati con lo studio eseguito. Per i Trial clinici la discussione verte all’interpretazione dei risultati in relazione all’ipotesi formulata, sulle potenziali fonti di errore, sul significato dei risultati nel contesto dell’evidenza disponibile e sulla possibilità di generalizzare i risultati ottenuti ad altre popolazioni. La BIBLIOGRAFIA è l’elenco delle pubblicazioni scientifiche citate nell’articolo e serve per reperire una copia del lavoro citato. Deve contenere: Cognome Nome autori, Anno di pubblicazione, Nome della rivista, Volume ed i numeri di pagina consultati. Per i libri si indica: Cognome e nome autore/i, Titolo del libro, Editore, Edizione, Indirizzo dell’editore. L’uso dei nomi commerciali dei farmaci in un testo biomedico è sconsigliato. Si sono espressi in questo senso tra gli altri il Council of Science Editors e l’Institute for Scientific Information. La denominazione commerciale registrata di un farmaco compare quando è necessario paragonare diversi preparati simili o se si desidera ringraziare un’azienda per aver fornito il farmaco per una sperimentazione (in tal caso dovrete riportare il nome commerciale con l’iniziale maiuscola indicando sempre di seguito, tra parentesi, il nome chimico).

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2.2 IL PROCESSO DI PUBBLICAZIONE

Per l’invio del manoscritto bisogna attenersi alle “norme per gli autori” che riportano chiaramente il numero di copie cartacee da inviare e se necessaria anche una copia elettronica/cd. Può essere l’allegato di un messaggio e-mail all’editore o inserendo il manoscritto con le sue tabelle e figure direttamente nel sito web della rivista scelta per la pubblicazione. Nelle indicazioni per gli autori vi sono le indicazioni per come strutturare la lettera di accompagnamento, dove di solito viene specificata a quale sezione della rivista l’articolo è destinato, deve contenere la dichiarazione di autenticità dell’articolo ,in quello stesso momento l’articolo non è soggetto ad altre valutazioni presso altre case editrici e gli autori hanno letto ed approvato il regolamento contenuto nelle indicazioni editoriali. Insieme all’articolo ed alla lettera di accompagnamento bisogna allegare dei moduli firmati in originale dove viene dichiarata la cessione dei diritti di autore alla rivista e la dichiarazione dell’assenza di conflitti di interesse per ciascuno degli autori in relazione ai dati contenuti nell’articolo. Gli autori: selezionano una rivista adeguata per argomento trattato e qualità, producono una bozza di articolo che inviano all’editor della rivista scelta, L’editor della rivista se ritiene l’articolo o manoscritto interessante per la pubblicazione: invia la bozza a due o piú referee (revisori), che possono essere membri dell’editorial board (membri del comitato editoriale) o tra i ricercatori noti per la loro attività in quel campo, per ottenere la cosiddetta peer review, “revisione dei pari”. In base al parere dei referee (report), si decide se pubblicare l’articolo cosi come è, richiedere modifiche, o rifiutarlo. L’articolo accettato entra poi nella coda di pubblicazione e viene preparato tipograficamente. La struttura del Report del Referee contiene/controlla l’attinenza del tema trattato alle finalità della Rivista, l’originalità o rilevanza della trattazione, la coerenza delle argomentazioni, attenzione critica per la letteratura sul tema trattato, livello di comprensibilità da parte dei lettori della Rivista (accademici e professionisti). Il Referee giudica il lavoro come: pubblicabile, oppure non pubblicabile, oppure pubblicabile con modifiche (specificandole). N.B. raramente gli articoli vengono pubblicati senza modifiche è un’eventualità rara inferiore al 5% di tutti i gli articoli/manoscritti inviati a riviste scientifiche. Se i commenti dei revisori sono negativi, l’editore lo deve comunicare all’autore/i che l’articolo non può essere accettato, comunicando inoltre i consigli suggeriti dai revisori per poterlo migliorare e successivamente rispedire magari ad una rivista più appropriata. Comunque potrebbe essere fatto da parte dell’autore, all’editore un appello contro la sua decisione di rifiutare il lavoro presentatogli, ricordo però che risulta essere solo una perdita di tempo. Nella revisione maggiore l’autore viene invitato a rivedere alcune parti dell’ articolo o del manoscritto come da indicazioni dei revisori e rispedirlo al nuovo

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editore, in attesa di giudizio la cui probabilità di pubblicazione dipende dal numero di articoli arrivati in un anno a quella stessa rivista (dipende dalla necessità che l’editore ha di dover incrementare le accettazioni per garantire le uscite dei fascicoli). Di solito le riviste non accettano più del 20-25% degli scritti per i quali è stata richiesta una revisione maggiore. Si parla di revisione minore quando l’autore viene invitato ad apportare delle correzioni definite minori (correzione di un aspetto della discussione oppure chiarire alcuni aspetti metodologici o ridurre le dimensioni perché troppo prolisso o accorpare o togliere tabelle/figure) che possono far sì che l’articolo abbia più possibilità di essere pubblicato.

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3.0 IL FATTORE D’IMPATTO

L’invenzione dell’IF (impact factor, di seguito IF) si deve a Eugene Garfield (che è un bibliotecario chimico, e linguista di formazione) in un articolo del 1955 nella rivista Science. Garfield ha visto nell’IF un modo per

"eliminare la citazione acritica di dati fraudolenti, incomplete o obsolete rendendo possibile per lo studioso di coscienza di essere a conoscenza di critiche dei precedenti lavori."

Garfield originariamente pensò di sviluppare uno strumento in grado di aiutare nella catalogazione delle collezioni di riviste e giornali, a tutto vantaggio di biblioteche e ricercatori. Esso si basa essenzialmente sulle statistiche di citazione, e misura la frequenza con la quale un “articolo medio” viene citato da altre riviste in un determinato periodo (generalmente un anno). Di recente introduzione è il 5-year Journal Impact Factor basato sulle citazioni degli articoli pubblicati nei cinque anni precedenti. Garfield ha scritto delle riflessioni sul fattore di impatto a più di cinquanta anni dalla sua invenzione, si veda il suo articolo di JAMA intitolato "Storia e significato del Journal Impact Factor". IF cerca di misurare l’influenza di un articolo nel proprio settore, è un indice di proprietà di Thomson Reuters. La selezione delle riviste è a sua discrezione, l’approccio da lui seguito è di tipo quali-quantitativo. L’IF viene pubblicato annualmente all’interno del Journal Citation Reports (JCR), viene calcolato per migliaia di riviste scientifiche inserite nelle banche dati di Thomson Reuters che abbracciano più aree disciplinari. L’IF dipende da due fattori principali, la diffusione e notorietà del mezzo di pubblicazione cioè quanto più una rivista è riconosciuta dalla comunità scientifica, tanto più essa diffonderà i prodotti della ricerca pubblicati, la qualità del paper, quanto maggiore sarà l’originalità e la rigorosità metodologica del paper, tanto più il contributo sarà preso in considerazione dalla comunità scientifica. L’ IF non è altro che il rapporto tra il numero totale di citazioni e gli articoli pubblicati da una determinata rivista, riferito ad un anno specifico. Formula per il calcolo del fattore di impatto: al numeratore viene messo il numero medio di citazioni nell'anno in corso per tutto ciò che la rivista scientifica ha pubblicato negli ultimi due anni. Al denominatore il numero di articoli "citabili" pubblicati negli ultimi due anni. Le caratteristiche definenti di una rivista per essere presa in considerazione per la misurazione del fattore d’impatto viene valutata la puntualità nella pubblicazione dei fascicoli, l’applicazione di un processo di valutazione editoriale degli articoli basati

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sulla peer review, la presenza di abstract e bibliografia in inglese, riportate secondo le convenzioni editoriali internazionali. Inoltre viene considerata l’internazionalità degli autori, l’interesse per il contenuto scientifico in merito agli argomenti contenuti di tipo emergente e la presenza di dati citazionali sulla rivista oppure degli autori all’interno del database di citazioni delle riviste già censite da T Reuters. Il fattore di impatto è uno strumento bibliometrico utilizzato per stimare l'importanza delle riviste scientifiche. È calcolato e pubblicato ogni anno su riviste indicizzate dal Institute for Scientific Information (ISI) ed è un riflesso del numero medio di citazioni che ogni articolo riceve durante un certo periodo di tempo. Fin dalla sua creazione è stato utilizzato come criteri in diversi processi decisionali, quali l'acquisto di abbonamenti a riviste. “Maggiore è il fattore di impatto, maggiore è la qualità di una rivista”. Impact Factor dà ai ricercatori una misura quantitativa dell’ influenza delle riviste e dell’indice di impatto. L’Impact Factor inoltre è una metrica semplice, e fornisce un modo coerente di confronto periodico.

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3.1 IL FATTORE D’IMPATTO NORMALIZZATO

L’impact factor normalizzato (NIF) è stato introdotto come un metodo relativamente semplice che consente la valutazione della qualità delle riviste e dei lavori di ricerca nelle diverse discipline. Le costanti sono state calcolate per tutte le 54 discipline del settore biomedicale nel corso degli anni 2005, 2006, 2007, 2008 e 2009. Inoltre la classifica delle 393 riviste in diverse discipline biomediche secondo il NIF può essere utilizzato per la valutazione delle pubblicazioni in diverse discipline. I risultati dimostrano che l'uso del NIF esalta la parità nella valutazione della qualità della ricerca di lavori prodotti da ricercatori che operano in diverse discipline.

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4.0 RESPONSABILITÀ DEL COORDINATORE

Il coordinatore ha la responsabilità di far crescere la propria risorsa umana assegnata. Il gruppo da lui coordinato deve qualitativamente crescere attraverso la possibilità di sperimentare tramite ricerca le migliori evidenze disponibili, deve essere un facilitatore dell’apprendimento di nuove metodologie e promuoverle sul campo per erogare un’assistenza che possa aumentare gli esiti positivi. Deve promuovere la ricerca per aumentare negli operatori sanitari la motivazione ad acquisire nuove conoscenze ed aumentare quelle esistenti. Deve far aumentare negli operatori la visione olistica della persona umana che viene presa in carico. Deve creare le condizioni affinché le ricerche programmate possano essere effettivamente svolte e reperire le risorse di tipo umano, finanziario e strumentale attraverso la contrattazione con la Direzione Strategica. Il Coordinatore deve favorire la pianificazione per obiettivi (è però, solo una delle modalità attraverso le quali è possibile procedere nell’attività perché) è possibile anche far ricorso a strumenti standardizzati come le linee guida, i protocolli e le procedure. Standardizzare, dunque, non significa ridurre la prassi ad una routine indifferenziata che non tenga in giusta considerazione la soggettività della persona che si assiste, ma assicurare tutti coloro che beneficiano di un servizio circa il livello di qualità della prestazione resa. Sono diversi gli strumenti della standardizzazione ma tutti mirano a fare in modo che la prassi assistenziale possa essere sempre più ancorata alla ricerca scientifica. Clinical/critical pathway, denota semplicemente una sequenza di eventi propri di un processo. I critical pathway sono piani strutturati di assistenza multidisciplinari che descrivono in modo dettagliato i passi essenziali nell’assistenza a pazienti con un problema specifico di salute (ad esempio il paziente con infarto miocardico acuto). Tali schemi, da considerarsi comunque flessibili e non statici, presuppongono, perciò, la possibilità di essere impiegati nella maggior parte dei casi in cui si presenta una determinata situazione o patologia.

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CONCLUSIONI Negli anni gli operatori sanitari in generale, e gli infermieri in particolare, hanno acquisito ulteriore consapevolezza in merito all’importanza delle loro decisioni per l’assistenza erogata alle persone prese in carico e gli esiti della stessa sui pazienti. Sempre di più veniamo coinvolti nei processi decisionali che vedono coinvolte le persone nei percorsi assistenziali e ci si augura che gli infermieri/professionisti sanitari accedano, valutino ed inseriscano le evidenze della ricerca all’interno delle decisioni cliniche coniugando le conoscenze derivate dall’esperienza clinica, le preferenze della persona e delle risorse disponibili. Le decisioni basate sulle evidenze rappresentano un approccio obbligatorio per effettuare scelte che si basano sull’individuare la strategia per il miglior utilizzo della teoria e di conseguenza migliorare le decisioni nella realtà pratica. L’utilizzo di un processo rigoroso per l’identificazione, la pianificazione, l’attuazione e la valutazione dell’assistenza alla persona per il soddisfacimento del bisogno di salute richiedono interventi multipli ed articolati presupponendo decisioni che vedono coinvolti sia gli assistiti che i fornitori di assistenza. Possiamo affermare inoltre che vi è una necessità di sviluppo e di valutazione degli interventi di alta qualità che possano essere da guida per i professionisti nella scelte decisionali professionali perché il vero obiettivo è essere un professionista della sanità migliore, per essere utile, essere di aiuto e contare. Per fare la differenza.

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