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C’era una volta la Bagnoli dell’ILVA, un pezzo della città che viveva il diffuso sentimento di socievolezza dei napoletani in un rassicurante spazio domestico di beni materiali e immateriali. Certo, ad allungare lo sguardo dalla balconata di Capo Posillipo un po’ stonava quel primo piano di ferriere nello splendore del versante occidentale di Napoli. Ma poi bastava fare la discesa del Coroglio e girare verso Cavalleggeri Ao-sta per imbattersi in un altro panorama, quello umano, con un certo suo modo di dare colore alle cose che contano nella vita delle persone. I fumi delle colate ingrigivano i muri delle case degli operai ma l’umore generale era quello di una socialità incline all’ottimismo. Si viveva dell’essenziale che però si sapeva come vestire di innocenti piacevolezze. Le ragazze raccoglievano alla buona con pochi spiccioli le novità della moda, i ragazzi si ritrovavano la sera in Piazza Salvemini dopo una giornata di studio a fantasticare di un lavoro più appagante di quello dei padri. Di punto in bianco tutto questo finì. A rileggere le pagine de La dismissione, l’ultimo libro di Ermanno Rea, con la chiusura della fabbrica subentrò un senso di vuoto, la fine di un assetto sociale fordista e davanti il nulla. Ecco cosa scrisse: “Amavamo Bagnoli perché incarnava ai nostri occhi una salutare controcopertina, introduceva in una città inquinata valori inusuali, la solidarietà, l’etica del lavoro, il senso della legalità, l’orgoglio di chi si guadagnava la vita esponendo ogni giorno il proprio torace alle temperature dell’altoforno”.Delle tristi giornate della dismissione è rimasta qualche traccia in un fondo delle Teche Rai. Mi è capitato di recuperare il registrato della trasmissione in cui raccolsi le voci di alcuni dei duemila operai nel giorno della loro messa in cassa integrazione. Quello che mi dissero andrebbe trascritto e consegnato alla rifles-sione su quel che si intende per tasso culturale di una comunità. Dice uno di loro, con la voce velata della delusione, che a tenerli insieme non era stato solo quel reddito necessario al sostentamento della famiglia: era il contesto generale che si voleva conservare nelle condizioni ottimali per i figli. E poi, aggiunge un al-tro, sapevamo quando bisognava che ci rimboccassimo le maniche per non rinunciare ai servizi sociali che tardavano ad arrivare. Si riferiva alle cose che avevano fatto di tasca propria, un centro sportivo, un altro per la riabilitazione dei disabili, persino una banca del sangue.Accadeva nell’ultimo quarto del secolo scorso. A partire da lì la cultura dei principi e dei valori che il mon-do operaio aveva elaborato in modelli di comportamento sarebbe stata sopravanzata dall’algida cultura postindustriale. Alla modernizzazione dell’universo lavorativo, capace delle più sofisticate applicazioni tecnologiche, veniva a mancare una diffusa corrispondente educazione a saper gestire il bene comune. Tutto ridotto ad un guazzabuglio di opinioni raccattate sulle reti informatiche. In assenza di affidabili mediatori culturali il punto adesso è come venire fuori da una paludosa incultura che dà voce a chi straparla di più sulle piazze dei social network.

Antonio Talamo

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In una significativa intervista a Roberto Roversi , celebre poeta, scrittore, giornalista, Alda Morini chiedeva : “ come definire la cultura ? “. E , Roversi : “cultura è riempire dei vuoti di conoscenza, cercare ciò che non si sa in ogni direzione : nei libri, nei giornali, nei viaggi…”.Ma…, in tempi di consumismo, ci si chiede allora, quale costruttiva progettualità in campo culturale, atteso che una serie di compromessi, di giochi “ politici” ha finito per seppellire sotto cumuli di cenere una cultura che sembra condannata alla clandestinità ? Soprattutto in quali ambiti è possibile esercitarla e dove essa può essere veramente operativa ?La domanda sorge spontanea, dal momento che il sociale sembra

asservito a regole di mercato ove solo ingenti capitali sembrano determinare e decidere dei “ meriti “ di soggetti che , sprovvisti di illuminati mecenati, poco hanno da poter scegliere se non l’asservimento a quei meccanismi che oggi regolano le stesse case editrici o i più rassicuranti sponsor.Lo stesso dicasi per le Università , che sembrano dover fare i conti con tutto ciò che è già codificato , o con cinema e teatro per i quali il vil denaro è sempre alla base di qualsiasi buona intenzione.E’ nelle piccole riviste- ricorda allora in modo illuminante Roversi- che è possibile individuare il sale della terra, il sale della cultura giacchè “…sono molti quelli che silenziosamente se ne occupano, le fanno , e questo fare è già un organizzare la cultura in un certo modo..”.Riviste che non diventeranno mai merce, né avere valore di vendita, quanto piuttosto quello di godere del valore di volontariato culturale, di essere promotrici in molti casi di raffinate iniziative, di rappresentare attraverso la riflessione sugli scottanti problemi della contemporaneità come, anche attraverso il dolore ,si possano elaborare e superare quelle sofferenze comuni a tutti.Importante, allora , anche la forma del comunicare che, affinchè possa agire e avere riscontro pratico sul reale , deve riappropriarsi di quella autenticità che, sola, rende credibile e fruibile un messaggio.Questo “…se vogliamo – ricordava Roversi- che la rabbia dei ” poveri attivi “, non certo dei postulanti, possa considerarsi una rabbia fruttuosa …”.

Silvana LautieriPresidente del Centro Studi E. Fromm

La cultura nel nostro tempo confuso

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Le insidie alla democrazia rappresentativa (1)

Nella sterminata letteratura filosofica, giuridica, politologica sulla democrazia non si avverte, pur con la dovuta attenzione e riflessione, il salto temporale tra la nascita di questa esperienza, ne1l’età antica di Grecia e di Roma, e la sua riemersione nel mondo europeo e americano, nell’età moderna, poco più che due secoli fa. Qual era 1’idea essenziale degli antichi? Il governo ai governati. I cittadini delle repubbliche greche avevano ciascuno il diritto di eleggere i magistrati, di votare le leggi, di giudicare nei tribunali. Ugualmente i cittadini romani nei loro comizi elettorali, legislativi, giudiziari.

In questo autogoverno repubblicano era individuata la libertà politica. Le monarchie erano considerate Stati di servi, non di cittadini. Questa esperienza è travolta dal modello monarchico, quando la dimensione territoriale, etnica e culturale della città e del popolo è soverchiata dalla dominazione di grandi spazi nei quali vivono decine e decine di milioni di esseri umani di diverse etnie, razze e culture. Il governo di realtà estese e disomogenee, dovendosi fondare sulla forza e non sul consenso, non può che appartenere ad un sovrano. La libertà si dissocia dal potere, entra e si relega ne1l’intimità della coscienza e della religione. L’Europa eredita dall’impero romano la forma monarchica, che, con le eccezioni dei comuni italiani e di alcune città germaniche, costituisce il paradigma dominante dell’organizzazione politica della vita.

L’idea del governo ai governati rinasce quando si ricostituiscono le nazioni e con esse quella nozione di cittadinanza, che greci e romani avevano strutturato di diritti, primo tra tutti e fondamento di ogni altro quello di libertà. Se ne può ricavare un’equazione: democrazia e città nel mondo antico, democrazia e nazione nel mondo moderno. Il conio greco del nostro termine evoca il popolo il demos, la comunità dei cittadini. I cittadini sono classificati per sesso, età, censo, mestieri, domicilio, gruppo originario, inquadramento militare. Negli ordinamenti delle assemblee popolari romane, si esercita una democrazia diretta che non prevede la numerazione delle volontà individuali, ma di quelle collettive delle unità elettorali, curie, centurie, tribù in cui i singoli cittadini sono iscritti. Così il potere democratico si scompone e si ricompone in potere, oltre che della sola popolazione maschile dei più anziani rispetto ai giovani, dei più ricchi rispetto ai meno ricchi e ai proletari, degli abitanti delle campagne rispetto a quelli delle città, e via via. Dunque un popolo nient’affatto omogeneo. Nelle democrazie moderne il popolo è il corpo elettorale, cui si è avuto accesso per requisiti stabiliti dalle leggi, dapprima con criteri restrittivi e selettivi, e

solo nell’età contemporanea ampliati a comprendere le intere popolazioni, senza più replicare le discriminazioni originarie del sesso femminile, dell’età maggiorenne, dell’insufficiente istruzione del censo. I corpi elettorali eleggono rappresentanti, e costoro i governanti. Il governo ai governati è nelle democrazie contemporanee una metafora ideologica, perché il governo non è dei rappresentanti, ma della loro maggioranza. Il principio di maggioranza guadagna una sua assolutezza, dal momento che la consultazione elettorale si risolve in un’operazione aritmetica, essendo il voto un’unità astratta in cui si traduce la volontà politica del cittadino. E’ il principio del voto personale ed eguale, libero e segreto, di cui all’articolo 48, 2 ° comma, della nostra Costituzione. A differenza di quella degli antichi, la democrazia dei moderni e ancora quella contemporanea non rispecchiano più la concretezza dei corpi sociali. Le monadi elettorali consentono di dare alla volontà della maggioranza il volto e l’autorità assoluta della volontà generale. Non è per caso che tra le due guerre mondiali del ventesimo secolo alcune democrazie liberali, nel Regno d’Italia e nella Repubblica di Weimar, si siano degradate per vie elettorali in Stati totalitari e liberticidi. Non è per caso che oggi s’invocano democrazie governanti, decisioniste, presidenzialiste, non inceppate da opposizioni e controlli parlamentari, né da poteri neutrali o contropoteri. La logica della maggioranza che si trasfigura a volontà generale non ha nulla a che fare con il governo ai governati.

Ma qual è la causa profonda del processo storico che sembra voler destrutturare la democrazia nella sua ispirazione fondamentale? Il punto di osservazione che abbiamo adottato, dall’antichità al mondo moderno, consente di comprendere che la democrazia classica è restata soccombente dinanzi ad un processo di mondializzazione del potere, così come quella contemporanea, nata negli Stati-nazione, è insidiata dalla globalizzazione. I cittadini sono i primi custodi dell’autogoverno e della libertà politica se essi vivono un patriottismo istituzionale, nella città antica come nella nazione moderna. La nazione, in Europa e in America, è stata una complessa costruzione culturale, cui hanno posto mano guerre, lingue, religioni, tradizioni, stirpi, sentimenti. È la nazione che dissolve le ultime eredità della frammentazione feudale, non solo nell’organizzazione dello Stato, ma anche nella società, dando il primato alle borghesie sulle vecchie aristocrazie, premiando il merito nell’azione individuale, non il privilegio di nascita, assumendo il compito dell’istruzione pubblica, dei trasporti, delle comunicazioni, dell’assistenza e previdenza sociale. E’ la nazione la patria del costituzionalismo

Società

di F. P. Casavola

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liberale, per la sola e buona ragione che in essa nasce il popolo, che tende a togliere la sovranità al re e a trasferirla a se stesso, superando anche la fase intermedia della doppia investitura del sovrano, per grazia di Dio e volontà della nazione. È la nazione a realizzare Io Stato di diritto, con i tre poteri finalmente distinti, legislativo, esecutivo, giudiziario. È la nazione a dar vita e forza ai Parlamenti. Nessuno dei processi di modernizzazione della società, dall’economia alla tecnica e alle scienze, è immaginabile senza la nazione. La crisi di questa costruzione, che in gradi e forme diverse di evoluzione politica e costituzionale tende a non separare, e anzi a congiungere governo e governati, ha inizio con il conflitto sociale, La politicizzazione delle masse conduce al bivio: o l’internazionalismo proletario o il nazionalismo sciovinista e razzista. L’una strada e l’altra convergono negli immani eccidi delle due guerre mondiali. Nella seconda metà del Novecento si consuma il modello di democrazia popolare nell’Est comunista e si rimodella nel welfare-State la democrazia occidentale. Ma la grande sfida «sempre più governo ai governati» non sta ormai nella cornice della nazione, nella quale s’erano svolte le contese tra re e popolo, tra governo e parlamento, tra classi sociali e partiti. La sovranazione Europa, la globalizzazione scientifica, tecnologica, economica, la dimensione intercontinentale, quando non planetaria, di ogni problema ambientale, demografico, energetico, la ricerca disordinata e cruenta di nuovi equilibri geopolitici tra le maggiori potenze del mondo, rimpiccioliscono e fanno apparire provinciali le questioni sottese alle riforme delle istituzioni democratiche. D’altra parte, su scala inferiore alla dimensione nazionale, giuste rivendicazioni di competenze e poteri locali si caricano, distorcendosi, di tonalità antistoriche rispetto ai traguardi raggiunti dall’esperienza dell’unità nazionale, enfatizzando fantasiose diversità etniche, minacciando separatismi e secessioni, diffondendo uno spirito di intolleranza razziale nei confronti di immigrati.

Il fenomeno non è solo nostrano. La fibrillazione di gruppi subnazionali, etnici, linguistici, religiosi è la risposta paradossale ai processi da globalizzazione. La paura della diversità spinge alla solidarietà esclusiva entro le piccole patrie locali, mentre tutt’attorno cresce la mobilità delle persone, delle merci e dei capitali, per la disseminazione del lavoro in ogni luogo del mondo, data la strategia degli investimenti e dell’organizzazione d’impresa fuori delle frontiere politiche. E soprattutto crescono i flussi migratori, dai paesi poveri del sud e dell’est del mondo verso quelli industrializzati e ricchi del nord e dell’ovest. Si ha un bel dire che le società omogenee ordinate entro le Costituzioni degli Stati nazionali stanno cedendo e mutando in società multietniche, multireligiose, multiculturali. Ma con quali leggi e ordinamenti e principi? Quelli dell’integrazione e dell’inclusione, o della tutela delle diversità e dell’esclusione? Che fine starà per fare il

principio dell’eguaglianza dei cittadini, grande conquista civile negli Stati-nazione e fondamento delle loro democrazie, dinanzi a comunità di immigrati che chiedono per gli individui che le compongono l’identità collettiva del gruppo di appartenenza, quasi piccole nazioni in uno Stato ospitante?

L’Europa, nella sua Costituzione, si è data un motto: «Unità nella diversità>>. Ma esistono forze e valori in grado di rendere reale e non utopica tale coppia dialettica? E non solo tra gli Stati, ma all’interno di ciascuno di essi?

Mai come in questo passaggio di secolo la democrazia appare, nelle sue diverse tipologie costituzionali, vulnerabile e inclinante verso oligarchie, strutturate in poteri anche non politici, economici, sociali, mediatici, o verso governi personali. La democrazia, che non sopravvisse alla città antica, potrebbe non sopravvivere alla nazione moderna. Occorre ancorarla a valori imperituri che la salvino anche nei grandi scenari della deterritorializzazione del potere, delle unioni sovranazionali, delle egemonie transnazionali, insomma di quelle forme inedite che andrà assumendo la globalizzazione, ivi comprese quelle città-mondo, in cui sta andando a concentrarsi metà della popolazione del pianeta, che fungono da capitali dei mercati globali.

Proviamo a descrivere tre di questi valori, della vita, della cultura, della coscienza umana. Alle soglie dell’età moderna gli europei perfezionano l’arte della guerra in una scienza. Lo Stato non è solo apparato amministrativo, giustizia, polizia, fisco. È soprattutto esercito ed arsenale. Di conseguenza il pro patria mori diventa l’emblema più alto dell’obbligazione politica. «Quali Sono i soli oggetti che hanno fino a questi ultimi tempi occupato i sovrani d’Europa?” Un arsenale formidabile, un’artiglieria numerosa, una truppa bene agguerrita. Tutti i calcoli, che si sono esami nati alla presenza dei principi, non sono stati diretti che alla soluzione d’un solo problema : trovar la maniera di uccidere più uomini nel minor tempo possibile. Richiamare i sovrani a liberarsi dalla mania militare e ad occuparsi invece della felicità dei popoli era compito invano assolto dalla cultura europea fin dagli inizi di quel XVIII secolo, che vide fiorire le utopie progettuali di una pace perpetua da Sir William Penn all’Abbè de Saint-Pierre, a Immanuel Kant.

Nelle età predemocratiche, lo scarto tra cultura e politica è tanto forte da rasentare 1’incomunicabilità. La filosofia in soccorso dei governi, auspicava Filangieri. Macché! I governi continuavano a preparare guerre, sport regale dei sovrani. Neppure Kant poté più farsi illusioni : le paci somigliavano ad armistizi utili ai preparativi delle prossime guerre. Il secolo XIX si apriva entro il ciclo ventennale delle guerre napoleoniche, che nell’immagine tolstoiana coprirono l’Europa come in due ondate, prima da ovest ad est, e poi da est ad ovest, concludendosi con la battaglia di Waterloo, che da sola lasciò sul terreno cinquantamila morti.

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Il secolo XX ha immolato decine di milioni di vittime, non più soltanto tra gli eserciti, ma anche tra le popolazioni civili, in due guerre mondiali. E guerre sono in corso anche in questo XXI secolo, più irregolari che mai rispetto al passato, di Stati contro terroristi, etnie contro etnie, genocidi. I pacifisti sono irrisi non solo dai guerrafondai, ma anche da quella cultura, che vuole essere realista e pragmatica senza lasciare speranze di salvezza al genere umano. Eppure il cammino della pace è tracciato non solo da guide alte e isolate. Per la pace si mobilitano milioni di persone, in piazze e strade di città di diversi continenti, simultaneamente. Il rifiuto della guerra è entrato in solenni documenti internazionali e costituzionali, quali la Carta delle Nazioni Unite, la Costituzione italiana, quella giapponese, nella legge fondamentale della Germania federale. In Europa, culla della civiltà bellica, si è in pace da più di sessant’anni, e il Trattato costituente impegna 1’Unione Europea per la causa della pace nel mondo. Per quale ragione si è svolta questa rivoluzione nella mentalità collettiva e nel diritto? Per il valore che la vita umana ha assunto nelle sofferenze indicibili di generazioni e generazioni, che hanno smesso la rassegnazione dinanzi alle scelte di morte dei propri governi. Proviamo a leggere 1’articolo 26 della Costituzione di Bonn: «Le azioni idonee a turbare la pacifica convivenza dei popoli, in particolare a preparare una guerra offensiva, e intraprese con tale intento, sono incostituzionali. Tali azioni devono essere perseguite penalmente». Qui non c’è scampo per i “se” e i “ma” del machiavellismo italiano. I guerrafondai sono criminali e vanno tradotti dinanzi al giudice penale. L’articolo 11 della nostra Costituzione è un atto di ripudio della guerra, senza una sanzione esplicita a carico di coloro che direttamente o indirettamente aggirano il dettato costituzionale, interpretandolo non come precetto incondizionato, ma come norma programmatica attuabile secondo le circostanze. E tuttavia la forza universale della ragione che assiste il costituzionalismo contemporaneo non potrà più a lungo consentire pesi e misure diverse per tedeschi e italiani o inglesi che siano, Il valore della pace si rapporta con il valore della vita dell’uomo, e per la vita umana non esistono sistemi metrologici diversificati a seconda dei governi. Se una democrazia si legittima non soltanto con regole e procedure d’investitura del potere, ma anche per i fini che persegue, ebbene la preservazione della vita umana dalla guerra diventerà il valore supremo, su cui giudicare 1’autogoverno dei governati, perché i governati non possono voler morire per una causa ingiusta o illegale.

Ma il valore della vita umana gioca anche un altro ruolo, oltre quello di pegno dell’obbligazione politica. Nel XVI e XVII secolo pensatori protestanti, ma con essi anche taluni gesuiti, legittimavano il regicidio, quando fosse l’estremo rimedio ad una politica oppressiva della libertà religiosa. Nell’antichità

greca e romana il tirannicidio era addirittura azione doverosa ed eroica. In proporzione diretta con il crescere del valore della vita umana nella cultura moderna, il regicidio di Umberto I di Savoia e l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo appaiono quel che sono: omicidii. Tra le generazioni più anziane degli italiani non sono pochi quelli che conservano il turbamento delle immagini di piazzale Loreto, della notizia delle fucilazioni di Verona, dell’esecuzione di Giovanni Gentile. La lotta politica non giustifica più il sacrificio di una vita umana. Così come 1’omicidio di Aldo Moro e della sua scorta, di Vittorio Bachelet, delle centinaia di servitori dello Stato nelle forze dell’ordine, nella magistratura, di docenti universitari, di giornalisti, fino agli ultimi, Tarantelli, D’Antona, Biagi, mirati e colpiti uno ad uno dalle Brigate Rosse, per non ricordare con loro le vittime casuali dello stragismo nero, suscita repugnanza ad accettare un nesso tra politica e spegnimento di una vita. Tra i titoli di legittimazione di una democrazia aggiungiamo anche questo, che sia sventata in radice ogni perversa ideologia di morte in nome della politica. Una democrazia deve legittimarsi anche nel saper correggere tendenze e comportamenti sociali che attentino al valore della vita. È di questi ultimi mesi la cronaca degli incidenti stradali durante gli esodi delle vacanze. In Europa si calcola che mediamente muoiano quarantamila persone ogni anno per disastri stradali, Si contano a centinaia di migliaia I feriti e gli invalidi. Le precauzioni finora disposte non interrompono la crescita di questo imponente fenomeno suicidario della società. (Continua nel prossimo numero)

Francesco Paolo CasavolaPresidente Emerito della Corte Costituzionale

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Pedagogia sociale

Nel corso dei primi mesi del 2018 la figura di Aldo Moro è stata ampia-mente ricordata attraverso tutti i mezzi della comunicazione sociale per la particolare circostanza che il 16 marzo di quest’anno si sono compiuti i quarant’anni dall’eccidio compiuto dalle Brigate Rosse con la morte dei cinque uomini della scorta e il contestuale rapimento del Presidente Moro. Quel momento tragico fu vissuto dagli italiani con sentita partecipazione al dolore dei familiari degli uccisi e con forte angoscia per la sorte di Moro in piena condivisione con la sua famiglia. L’Italia democratica , il mondo cattolico (ripetuti gli inviti di Paolo VI agli “uomini delle Brigate Rosse”) , il mondo politico nella sua interezza, sia pure con prese di posizione di-verse, coralmente rimasero in attesa degli sviluppi di quella drammatica situazione sfociata poi, il 9 maggio, con l’annuncio della barbara uccisione di Aldo Moro. Con questa barbarie compiuta sulla umana vicenda di al-cuni rappresentanti dell’ordine e della sicurezza pubblica e di uno statista dell’altezza etico-politica di Aldo Moro veramente le BR erano riuscite a “colpire il cuore dello Stato” ma, nel contempo, avevano segnato pure l’i-nizio della loro disfatta .Il ricordo dei giorni nostri da varie parti è fondamentalmente puntato su questi avvenimenti e sulle non poche questioni giudiziarie che ne seguirono senza tralasciare la riflessione su alcuni punti che ancora oggi rimangono oscuri. A me , invece, sembra – pur riconoscendo la grandissima rilevanza delle questioni trattate altrove – più opportuno richiamare per tutti, ed in particolare per il mondo giovanile, alcuni fondamenti ideali e valori etici che ispirarono Aldo Moro e che Egli riuscì a fare emergere concretamente in atti e fatti della sua vita pubblica.Per meglio comprendere la tavola dei valori ideali ed etici posti a fonda-mento della vita privata e pubblica di Moro è bene ricordare che nato nel 1916, è all’Università di Bari già dal 1934 quale studente della facoltà di giurisprudenza. Appartiene a quell’ampia schiera di intellettuali cattolici che negli anni trenta si formarono partecipando, con costanza e convin-zione, alle attività della Federazione Universitaria dei Cattolici Italiani - FUCI – e poi al Movimento Laureati di Azione Cattolica. Fu presidente del circolo di Bari della FUCI e, poi, dal 1939 al 1942 ne fu il Presidente Nazionale. Espletato il servizio militare, verso la fine del 1943 viene inca-ricato di costituire l’Ufficio Stampa del Governo Italiano nel Sud e, proba-bilmente su pressione dell’Arcivescovo di Bari Mimmi, si inserisce nelle file della nascente Democrazia Cristiana di De Gasperi , viene candidato alla Costituente dove , in collegamento con gli altri cattolici (soprattutto con il gruppo detto dei “ professorini”: Dossetti, La Pira, Lazzati e Fanfani), offre un prezioso contributo per la redazione della Costituzione della nata Repubblica Italiana. Questo sintetico excursus storico dà ragione di alcuni fondamentali principi ideali e valori etici che si possono certamente ritenere profondamente condivisi e particolarmente ispirativi dell’ opera di Aldo Moro non solo in quegli anni ma per l’intero corso della sua vita pubblica ( Parlamentare, Ministro, Presidente del Consiglio, Segretario Nazionale della D.C., Pre-sidente della D.C. ). Moro è profondamente convinto che la dignità e la libertà della persona umana è il principio etico-politico dal quale debba muovere ogni ordinamento civile. Studioso del personalismo di Maritain e del personalismo comunitario di Mounier, pone la concezione personali-sta anche a base dell’ordinamento costituzionale della nostra Repubblica sostenendo la formulazione degli attuali articoli 2 e 3 della Costituzione a

propria volta ispirativi di una serie di diritti costituzionalmente espressi e garantiti ( libertà religiosa,libertà di domicilio, liberta di associarsi, libertà di espressione del pensiero, libertà d’insegnamento, ecc.) ma anche di una serie di doveri Persona, infatti, non è meramente individuo ma per sua natura dice relazione e, dunque, introduce ad una visione di necessarie for-mazioni sociali idonee a far realizzare pienamente la personalità di ciascun componente, siano esse formazioni intermedie ( famiglia, partiti, sindaca-ti, associazioni, comitati,ecc) siano esse formazioni apicali come Stato e Unione di Stati. In virtù di questa centralità della persona segue il principio che lo Stato, come ogni altra formazione sociale, è per la persona, la quale ha il do-vere di contribuire alla vita e allo sviluppo delle comunità e della più ampia comunità nazionale in spirito di solidarietà e, dunque, adempiendo ai do-veri che a ciascuno impone il proprio status di cittadino (pagare le tas-se, servizio militare o civile, volontariato sociale, prestare osservanza alla Costituzione e alle leggi di Stato e Regioni, ecc.) di lavoratore (medico, docente di ogni ordine e grado, ecc.) di genitore ( mantenimento, istruzio-ne, educazione dei figli nella fedeltà coniugale per la stabilità dell’istituto familiare, base della stabilità sociale) di imprenditore ( sistemi di sicurezza per ogni operaio della propria impresa, profitti non ad esclusivo vantaggio individuale ma investimenti per sviluppo tecnologico e nuove possibilità di lavoro, ecc.) ed ogni altro status. Questa impostazione valoriale induceva Moro ad assumere chiare posizioni in sede politica e in sede culturale e quale profondo conoscitore della vicenda sociale italiana ne intrave-deva gli sviluppi e i cambiamenti ed ammoniva che era indispensabile far seguire alla stagione dei diritti la “ stagione dei doveri” la cui carenza avrebbe portato al declino non solo morale e culturale ma anche sociale ed economico del Paese.Moro ebbe a cuore il valore della “democrazia” nella piena convinzione che il sistema democratico, pur non essendo perfetto, è certamente il meno imperfetto dei sistemi politici che oggi conosciamo. Credeva, per il buon funzionamento dello Stato nella necessità di rendere partecipe del governo della cosa pubblica la più grande parte possibile dell’espressione popolare, così garantendo una alternanza al Governo del Paese. Questa sua apertura dice della dimensione dello statista che guarda lontano e non si accon-tenta di vincere la prossima battaglia elettorale. Guarda lontano e cerca di gestire il cambiamento in modo da non produrre saltus preoccupanti per la collettività nazionale ma di renderlo un fatto quasi naturale nello svilup-po della dimensione democratica. Ecco perché Moro tiene sostanzialmen-te una grande lezione di democrazia (sei ore di discorso al Congresso D.C. di Napoli del 1962 !!) aprendo, nonostante le resistenze interne ed esterne, anche di una parte della gerarchia cattolica, all’ingresso dei so-cialisti di Nenni al Governo. Ecco perché promuove con Berlinguer nel decennio successivi quel cammino di “compromesso storico” e di nuova stagione politica che interrompe il lungo percorso della cosiddetta “ conventio ad excludendum” del PCI, portando quest’ultimo ad una qua-si piena partecipazione al Governo dell’Italia. Dimostrazione di profondo sentire e di ampia visione dell’istituto democratico , sentimento e azione politica che Gli costarono la vita. Questa passione per la democrazia era nella sua vita già dalla giovane età. Nel 1947, giovane Costituente, dà una descrizione della politica assai chiara e puntuale : “ La politica è la delicata tessitura di azioni pubbliche e private volte alla realizzazione

I valori etici nella vita di Aldo Morodi Raffaele Cananzi

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Pedagogia sociale

del bene comune “. Questa descrizione-definizione meriterebbe un ampio commento. Basti qui considerare che la “ tessitura” implica un impegno faticoso e competente ( oggi chiunque si sente in grado di fare politica!) e , in quanto “delicata”, esclude ogni grossolana e confusa visione dei proble-mi sociali e delle questioni economiche che è chiamata a risolvere (quanta superficialità e demagogia nei programmi dei partiti contemporanei!!). Già nel 1947 è chiaro in Moro il convincimento che solo un sano e produttivo rapporto fra “ pubblico e privato” può rendere operosa ed operativa , dunque ricca di opere ed efficace, la gestione dei processi socio-economici e la complessità dei rapporti politici; il pubblico è necessario ma non è mai sufficiente senza il generoso e competente apporto dei privati, il privato da solo non sarebbe in grado di operare quelle compensazioni e quegli inve-stimenti necessari a far crescere l’intero contesto nazionale. La politica non persegue la sua naturale finalità,e dunque perde la sua intima essenza, se non si volge a realizzare il bene comune, che, essendo il bene di tutti, è, contro ogni apparenza, anche il bene possibile per ciascuna delle parti nel contemperamento degli interessi. Democrazia come partecipazione ordinata e rappresentativa del popolo sovrano per il governo dei processi civili e socio-economici nella linea della concreta realizzazione del bene co-mune. Democrazia e bene comune sono due valori cardini nella cultura e militanza politica di Aldo Moro . Egli, poi, ha fatto politica in questo orizzonte “da cattolico” e non “in quanto cattolico” così sottolineando, sia per il partito d’ispirazione cristiana cui ha sempre legato la sua apparte-nenza sia per la propria attività politica, la singolare ed importante categoria della “laicità”, nella linea fatta propria da Luigi Sturzo. Della laicità dello Stato e degli enti ed istituzioni civili non v’è indica-zione espressa nelle disposizioni della Costituzione italiana, a differenza, per esempio, della Costituzione francese dove viene richiamata nei primi articoli. Ma, come ha spiegato una celebre sentenza della Corte Costituzio-nale, i Costituenti che quasi all’unanimità votarono la nostra Costituzione, con le disposizioni di cui agli articoli 2, 3, 7, 8, 18 e 19 Cost. hanno dettato con chiarezza la distinzione – e, dunque, la necessità che la distinzione vi sia e permanga concretamente nel divenire delle vicende storiche con la soluzione dei diversi problemi etici culturali e politici – fra l’ordinamento dello Stato e gli ordinamenti delle Chiese, con la peculiarità concordataria con la Chiesa cattolica, fra l’associarsi per fini essenzialmente di culto e di religione e l’associarsi per fini civili. Tale distinzione, a differenza del sistema francese, non opera una separazione fra i diversi enti né opera il contenimento del culto e della propria fede nell’ambito del solo privato ma fa sì che Chiesa e Stato agiscano ciascuno nel proprio ambito e che le cul-ture d’ispirazione religiosa, ove non contrarie all’ordine pubblico e al buon costume, possano ben ispirare l’azione politica che ha sempre come obietti-vo il bene comune. Questa visione della cosiddetta “laicità positiva” fu ben sostenuta dai Costituenti cattolici che considerarono su piani diversi fede e politica, senza separare e senza confondere ma distinguendo e tenendo presente che l’una e l’altra si rivolgono e sono per le stesse persone, ad un tempo cittadini e credenti. Moro ebbe chiarissima la dimensione della “laicità della politica” e, come Sturzo e De Gasperi, non venne mai meno a questo principio, prima etico e poi giuridico, che in modo particolare curò per la redazione degli articoli 7 e 8 della Costituzione concernenti i rapporti dello Stato italiano con la Chiesa cattolica e con le altre Chiese presenti in Italia.Va pure ricordato che Moro fu Ministro degli Esteri in vari Governi della Repubblica, Ministro di Grazia e Giustizia, Ministro della Pubblica Istru-

zione. Ebbe sempre a cuore la formazione dei giovani . Il valore dell’educazione ci-vile del mondo giovanile ha costituito un singolare impe-gno per Aldo Moro che, no-nostante gli alti e responsabili incarichi politici , sin dai primi anni ’40 fino al sequestro ha insegnato prima nell’Univer-sità di Bari e poi alla “Sapien-za “ di Roma. Egli, per quanto gli è stato possibile, ha tenuto sempre attivo il rapporto con i giovani , futura classe dirigen-te in un mondo che cambia, e nel quale proprio loro devono essere capaci e responsabili protagonisti del cambiamen-to. Per questa formazione, da Ministro dell’Istruzione, riten-ne utile inserire l’educazione civica – essenzialmente rivolta a fare cono-scere ed interiorizzare principi e valori della Costituzione – fra le materie curriculari della scuola media. Di questa importante novità nei programmi scolastici non si è tenuta la dovuta considerazione mentre sarebbe stato opportuno valorizzarla al massimo per trarne maggior beneficio per la dignità e la libertà di ogni studente e nel contempo per la crescita morale e culturale dell’intero Paese.Moro fu Presidente del Consiglio dal 1963 al 1968 e guidò i primi Gover-ni del centro-sinistra. Con la riforma della scuola, andarono in cantiere in quegli anni la riforma sanitaria, lo Statuto dei Lavoratori e l’attuazione delle autonomie regionali . Quali valori civili e sociali intendesse con-seguire Moro appare evidente dalla natura della predisposizione di questi importanti atti legislativi. Di questo eminente statista della nostra Re-pubblica, politico di altissima levatura morale e culturale nonchè mar-tire civile della “notte della Repubblica” , molte altre cose andrebbero dette. Gli oggettivi, peraltro giusti, limiti di un articolo impongono di finire. E’ solo il caso di aggiungere che il quadro chiaro e complessivo dei valori etici e civili che hanno formato la vita e hanno ispirato nel partito e nello Stato l’azione politico-sociale di Aldo Moro si può ben costruire attraverso i suoi scritti ( fu giornalista da giovane scrivendo su “Azione fucina”, su “La Rassegna” rivista barese, su “Studium” rivista del Movimento Laureati; da politico scrisse molto su “Il Giorno”) le sue pubblicazioni scientifiche e i discorsi innumerevoli, impegnativi, di forte pregnanza culturale e politica (per Lui politico il binomio cultura-politica era inscindibile) pronunziati in Parlamento, nel Partito ed in varie e molteplici circostanze pubbliche. Ri-cordare Aldo Moro a quarant’anni dalla morte decretata e barbaramente inflittagli dalle B.R. è importante se di questo statista italiano si riprendono valori etici, capacità di dialogo e di mediazione, apertura politica e chiara visione del cambiamento sociale generando una felice emulazione nella classe politica di oggi.

Raffaele CananziGià Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio

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1. Cambiamento ed evoluzione del ruolo genitoriale Essere genitori nell’era della Complessità sembra rappresentare una vera e propria sfida che va accolta e fronteggiata con consape-volezza e competenza. Un genitore è un adulto che insegna ad un individuo in crescita ad attraversare la vita, aiutando ad interpretare quello che accade e dando significato all’esperienza. Per quanto semplice ed intuitiva, questa definizione, di fat-to disvela un orizzonte molto più profondo di quello che appare, aprendo ad una riflessione che conferisce alla “genitorialità”1 un significato che travalica la dimensione biologica dell’essere -indi-spensabilmente- genitori dei propri figli naturali. Mi piace, infatti, credere che possano, anzi debbano, essere considerati “genitori” tutti quegli adulti che si pongono come “presidio di responsabili-tà” nei riguardi di qualunque individuo che, per la sua condizione di immaturità, abbia tutto il diritto a trovare accanto a sé Adulti capaci di contenere, di limitare, di dare regole, restituendo il sen-so dell’esperienza, a prescindere dal vincolo biologico. L’idea è quella di una “genitorialità sociale”, potremmo dire “diffusa”, che rappresenta la vera trama della comunità. Molti, a giusta ragio-ne, ritengono che lo sfilacciamento del tessuto sociale sia dipeso proprio dalla sgranatura di questa trama, quando cioè si è smesso di sentirsi appartenenti ad una comunità educativamente coesa, all’interno della quale si condividevano un repertorio di regole, di valori, di significati che erano appunto quel collante che teneva unite le famiglie. Questo fenomeno, poi, è strettamente connesso ad un altro che ha generato un ulteriore sfilacciamento, non solo tra famiglie e famiglie, ma anche tra famiglie ed agenzie formati-ve, oggi particolarmente visibile, ad esempio, nella mancata con-divisione del concetto di autorità.Un tempo, ad esempio, il confine tra l’autorità della famiglia e quella della scuola era inesistente. Queste due agenzie formative si collocavano assolutamente lungo un continuum socio-culturale. Oggi le intenzioni di queste due istituzioni appaiono divaricate. La scuola sempre meno riconosciuta nella sua autorevolezza for-mativa e la famiglia sempre meno capace di insegnare il senso del divieto, dell’invalicabile. Ed è forse questa una delle ragioni all’o-rigine della violenza giovanile, espressione diretta di ragazzi igna-ri del senso del limite, sempre meno orientati sul piano cognitivo ed emotivo, sempre più privati di punti di riferimento autorevoli e

1 Per genitorialità si intende una categoria interpretativa ed operativa della relazione di cura parentale e non solo, nel senso che tale relazione viene analizzata nella “genitorialità biologica” ma anche nella “genito-rialità elettiva”. In proposito si veda Iavarone M.L., Iavarone T., Parent Training. Misure di accompagnamento educativo alla genitorialità competente. pp.88-104. In LA FAMIGLIA, vol. 47/257 (2013).

meno capaci di scegliere autonomamente autoregolandosi. Ma la maggiore difficoltà nell’essere genitori, nella nostra epo-ca, dipende dal fatto che un tempo i genitori svolgevano un ruolo chiaro e senza ambiguità: assumevano compiti di cura materiale e prospettavano le coordinate essenziali del rapporto con la re-altà, insegnavano a distinguere il bene dal male, il giusto dallo sbagliato, l’opportuno dall’inopportuno, il permesso dal proibito. Oggi, questo schema, non appare più esplicito. I genitori non ven-gono più ritenuti depositari di modelli, conoscenze ed abilità utili a decodificare il mondo che, dal punto di vista dei nativi digitali, segue altre logiche, molto distanti da quelle dei loro genitori. I giovani si percepiscono molto più dotati ed adatti degli adulti ad abitare la contemporaneità. Con l’avvento delle tecnologie stiamo allevando una generazione che troppo presto, con uno smartphone tra le mani, ha l’illusione di governare autonomamente il rapporto con la realtà da cui i genitori precocemente sono esclusi. In più la dimestichezza e l’efficienza d’uso che i giovani hanno con le tecnologie, assai più significativa rispetto a quella dei loro geni-tori, conferisce l’illusione di esser più capaci dei genitori a vivere in questo mondo e quindi a sostenerne le sfide. Le tecnologie, in realtà, se da un lato facilitano l’accesso all’informazione, apparen-temente agevolando chi è più efficiente nell’utilizzarle, dall’altro sottraggono la capacità di valutare autonomamente perché offrono piste preselezionate, risposte preordinate (emoticons), modalità di scelta guidata (app) ovvero prospettano «corsie preferenziali» che sopprimono la capacità di cercare, il desiderio di esplorare in auto-nomia nuove strade, riducendo sensibilmente la curiosità conosci-tiva. Di fatto, queste modalità, influenzano le forme del pensiero, modificando le capacità di orientamento cognitivo e di giudizio, di scelta e di decisione critica. A questo si aggiunga, poi, una considerazione di tipo più socioe-conomico. Un tempo le relazioni all’interno della famiglia erano profondamente ruolizzate sullo sfondo di una organizzazione ab-bastanza stabile e condivisa: il padre, generalmente unica fonte di reddito familiare, trascorreva la maggior parte del tempo fuori casa e pertanto aveva un ruolo “esterno” riferito al trasferimento delle regole, mentre la madre, figura più stabilmente “interna”, era deputata a coltivarne l’interiorità e, quindi, l’aspetto privato dello sviluppo emotivo della vita dei figli. Questa organizzazione, all’in-terno del sistema familiare, garantiva una estrema chiarezza nella divisione dei compiti, senza interferenze, né equivoci ed i figli era-no, in fondo, profondamente orientati nel sapere “cosa aspettarsi” da ciascuno dei genitori. Tali trasformazioni hanno avuto evidenti ripercussioni sull’organizzazione del sistema familiare, anche per l’emancipazione della donna che, divenuta produttrice di reddito, ha reso la separazione dei ruoli tra i coniugi più blanda e sfumata. Tale fenomeno ha prodotto effetti anche in termini psicosociali sui componenti della famiglia a partire da una profonda ridefinizione

La tras-formazione delle dinamiche familiarinell’epoca della Complessità

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di M.L. Iavarone e S. Maddalena

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dei ruoli e delle dinamiche affettivo-relazionali.

2. Ipermodernità e dinamiche familiariLa diffusa pervasività dei new media nelle nostre vite è ormai sotto gli occhi di tutti e impone una riflessione accurata soprattutto per quanto riguarda le ripercussioni che il loro utilizzo può comporta-re per lo sviluppo emotivo, cognitivo e relazionale delle giovani generazioni.Nel tempo presente i figli rimangono sempre più spesso da soli, lasciati in compagnia di surrogati sociali: prima la televisione, im-perante dalla fine degli anni 70, poi il computer degli anni 80-90, con i video giochi, ed infine gli smartphone della contemporaneità. I genitori trascorrono sempre più tempo fuori casa, per lavoro ma anche perché presi da loro stessi, dal desiderio di autorealizzar-si, anche tardivamente. Egotici e narcisisti, rincorrono impegni e desideri che li vedono bisognosi di protagonismo, rispondendo ai dettami di un tempo che si caratterizza come epoca della ipermo-dernità2, ovvero in discontinuità con l’epoca che l’ha preceduta: la post-modernità. L’ipermodernità va a delineare lo spazio che si è aperto dopo il postmoderno caratterizzato da un lato da quella “liquidità”, ipotizzata da Bauman3, dall’altro da una società che,

2 Il termine ipermodernità nasce prevalentemente in area fran-cofona ad opera di filosofi e sociologi che si interrogano circa il senso del tempo presente. La prima espressione è da attribuire all’antropologo Marc Augè che conia il termine surmodernité nello sviluppo della “teoria dei nonluoghi” e che si potrebbe anche tradurre con l’espressione “super-modernismo”. Augé tuttavia non propone una periodizzazione nella indi-viduazione di tale epoca, ma presenta la surmodernità come «il diritto di una medaglia di cui la postmodernità ci ha rappresentato solo il rovescio – il positivo di un negativo» (M.Augé, Nonluoghi. Introduzione ad una antropologia della surmodernità[1992], Milano,Eleuthera, 2002, p. 32). Successivamente alcuni filosofi, tra cui Lipovetsky e Charles, sviluppano ulteriormente tale concetto coniando l’espressione “ipermodernità” (G. Lipovetsky,S. Charles, Les Temps hypermodernes, Paris, Grasset, 2004).3 Il sociologo Bauman, pur avendo adottato la categoria di post-modernità dalla fine degli anni Ottanta sino a tutti gli anni Novanta, fi-nisce poi per dichiararsene insoddisfatto e a partire dal 2000 conia l’e-

per essere descritta, richiede sempre più l’utilizzo del prefisso iper- collegato ad una quantità di fenomeni contemporanei quali l’iperindividualismo, l’ipernarcisismo, l’iperconsumo, l’ipercapi-talismo, l’iperconnettività4. Tutti fenomeni che descrivono una so-cietà caratterizzata da eccessi, arrivata al suo ακμή di disponibilità di beni e risorse e che forse, proprio per tale ragione, sta sviluppan-do ipertrofismi malati, come a più riprese sottolinea U. Eco nella sua ultima opera postuma5. Tuttavia, il sovraccarico, come sostiene Donnarumma, è sempre pronto a “capovolgersi in privazione, l’esaltazione in angoscia, la smania di dominio in smarrimento. Si tradisce così una logica viziosa: l’ipermoderno, che ha abbandonato la fede moderna nel progresso, non crede sino in fondo alle sue promesse di felicità”6. Spesso si realizza una compulsione nevrotica che neutralizza i suoi stessi idoli (rapidità, novità, efficienza, fattività…) nel momento stesso in cui li innalza e l’attuale crisi ne è, di fatti, lo svelamento: la smania ipercinetica, la rincorsa a profitti sempre maggiori, l’af-fanno per un tempo che deve essere speso in maniera sempre pro-duttiva, possono essere l’espressione del tracollo del senso delle relazioni tra le generazioni e dentro la famiglia, in particolare, che ne assorbe, in maniera più devastante, le ragioni della crisi.Di questo vuoto di presenza familiare e di perdita di ruolo educa-tivo, forse, i genitori sono i primi ad accorgersene ed allora, anche inconsciamente, trovano soluzioni riparatorie al senso di colpa di sentirsi poco presenti nella vita dei figli. La soluzione viene erro-neamente trovata nell’idea che non sia tanto importante la “quan-tità” di tempo trascorso con i figli quanto, piuttosto, la “qualità” di questo. Espediente, evidentemente, teso a giustificare l’inevitabi-le trasformazione dei ritmi del tempo e dell’organizzazione della vita, in un orizzonte socioeconomico che, negli ultimi decenni, si è profondamente modificato. Ed allora il vuoto di tempo viene riem-pito di affettività incondizionata. Un tempo si riteneva che l’affet-tività dei genitori nei riguardi dei figli andasse dosata con misura, ma soprattutto manifestata con pudore. Non esisteva nessun costu-me, né consuetudine socio-affettiva, che legittimasse tenerezze dei padri nei riguardi dei figli. Si usava dire che i figli andavano baciati solo nel sonno.Da questa modalità siamo passati oggi all’opposto. I genitori sono diventati iper-affettivi, iper-protettivi. Fino a configurare veri e propri danni da “ipercura” ovvero attenzioni ed effusioni eccessive rivolte ad un figlio che impediscono di farlo crescere e sviluppare in maniera equilibrata e autonoma. I figli, resi oggetto di attenzioni estreme, crescono iperprotetti, ipercoccolati, sentono di essere il

spressione “Liquid Modernity” per descrivere una società fragile nella quale, mancando ogni punto di riferimento, tutto si dissolve in una sorta di liquidità. (trad. it. Z. Bauman, Modernità liquida, Roma-Bari, Laterza, 2002)4 R. Donnarumma, Ipermodernità: ipotesi per un congedo dal postmoderno, in «allegoria», XXIII, 64, 2011, p. 19.5 U. Eco, Pape Satàn Aleppe, Cronache di una società liquida, Milano, La nave di Teseo, 2016.6 Ibidem, p. 19-20.

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baricentro assoluto della vita familiare, il motore immobile del-le scelte dei genitori, fino a spostare il centro di gravitazione del sistema familiare sui loro capricci e desideri. Molti figli, anche piccoli, imparano a tiranneggiare, sin da subito, i genitori, piegan-do gusti e volontà degli adulti ai loro diktac, spesso confondendo desideri con bisogni. I genitori, dopo una settimana trascorsa pre-valentemente al lavoro, si ritrovano nel week end a dover soggia-cere ad impegni, attività e svaghi dettati prevalentemente dai figli o comunque da loro presunte esigenze. I genitori sembrano travolti dal bisogno di accondiscendere a questi desideri, incondizionata-mente, quasi a compensazione di quella incapacità ad essere nella loro vita in maniera adeguata e, allora, il loro principale obiettivo diviene quello di farsi amare dai figli. Un tempo erano i figli a do-versi guadagnare l’amore dei genitori, dimostrando di essere dei buoni figlioli, in fondo, meritandoselo; oggi, questo schema sem-bra essersi invertito. E forse è anche questo il motivo per il quale il concetto di merito, di valore, di sacrificio oggi è decisamente in crisi. I figli hanno smesso di meritare le cose perché difficilmen-te esercitano il sacrificio di guadagnarsele, manifestando indiffe-renza, disinteresse, scarsa motivazione verso progetti faticosi ed ambiziosi. Questi figli sono definiti “nichilisti” da U.Galimberti e “sdraiati” da M.Serra perché oggettivamente appaiono svogliati, viziati, pigri, velleitari. Hanno con il lavoro un rapporto ambiva-lente: lo vorrebbero ma non vorrebbero faticare troppo. Circostan-za che emerge molto chiaramente dall’esperienza dei professio-nisti in selezione del personale in grandi aziende che riferiscono come, ai colloqui di assunzione, molti di questi giovani candidati prima di interessarsi al tipo di lavoro chiedano della remunerazio-ne, pongano obiezioni all’accettazione di un incarico se la distanza da casa è ritenuta eccessiva, rifiutino apriori turni se valutati trop-po disagevoli, rinuncino ad incarichi se compromettono le ferie e addirittura si presentano al colloquio accompagnati dai genitori.Questo scenario condiziona notevolmente il crescente fenomeno dei NEET7 (Not in Education, Employed or Training), un esercito di giovani compresi tra i 16 e 24 anni che non studia né lavora e che costituisce circa il 20% dei giovani secondo i dati Istat (2016), rendendo, di fatto, il nostro paese la più grande fabbrica di Neet d’Europa.

3. Dalla famiglia normativa alla famiglia negoziale-affettiva: nuovi scenari relazionali

Le trasformazioni intervenute negli ultimi lustri in ambito sociale e culturale hanno avuto delle forti ripercussioni anche sull’asset-to delle dinamiche intra-familiari. In particolare il passaggio dalla famiglia patriarcale alla famiglia “nucleare”, composta soltanto da genitori e figli ha comportato dei profondi cambiamenti soprattut-to per quanto riguarda le dinamiche relazioni che si strutturano e vengono messe in atto al suo interno.Siamo passati da una famiglia di tipo “normativo”, basata sull’os-

7 A. Rosina, NEET. Giovani che non studiano e non lavorano, Vita e Pensiero, Milano, 2015

servanza di princìpi e norme stabilite dalla società ad una tipo-logia di famiglia che gli addetti ai lavori definiscono affettiva e negoziale, centrata su “bisogni individuali di benessere emotivo, la cui integrazione dentro il micro-gruppo familiare è frutto di una permanente negoziazione”8. Ci troviamo di fronte ad un sistema familiare in cui i figli sono pre-valentemente abituati dai loro genitori a non fare troppi sacrifici e ad essere destinatari di una dannosa incondizionata cura. Genitori iperprotettivi nei riguardi di figli che sempre più giovani riven-dicano scelte di autonomia eccessiva, come vacanze e week-end da soli con amici coetanei e che dovrebbero essere espressione di un’età più matura e di un progetto di consapevolezza maggio-re. Analogamente, l’età del primo rapporto sessuale, soprattutto per le femmine, si è notevolmente abbassata; il consumo di alcool e droghe, da parte di adolescenti sempre più giovani, costituisce un’altra inquietante sponda di lettura del progressivo abbassamen-to della soglia di accesso a determinate esperienze. I genitori, consapevoli del rischio e della possibilità cui i loro figli possono andare incontro avvicinandosi sempre prima a questo tipo di esperienze, reagiscono provando a trovare forme di dialogo sempre più simmetriche, amicali, talvolta conniventi, nella speran-za di diventare più “efficaci” nella comunicazione. Questo atteg-giamento ingenera l’errata concezione in molti genitori che deb-bano essere “amici” dei propri figli allo scopo di realizzare forme di “apertura” tali da consentire, appunto, maggiore dialogo e com-plicità al fine di migliorare il rapporto ed improntarlo ad una forte sincerità. Il dialogo deve “esistere” ma deve “essere di qualità”: l’errore sul fronte della comunicazione nasce nel momento in cui i genitori si mettono sullo stesso piano dei propri figli, distorcendo-ne il rapporto e le aspettative. In questo modo viene meno il “ruo-lo” che il genitore deve legittimamente avere nei riguardi dei figli: i genitori “troppo amici”, talvolta esteticamente loro troppo simili, anche nei comportamenti e nell’abbigliamento, rischiano, con que-sto atteggiamento, di negare ai figli il riferimento “autorevole” di cui hanno bisogno, ledendo i cardini della stabilità affettiva e rela-zionale del presente e del futuro del figlio. I “ruoli” vanno sempre onorati: “Un figlio non è un amico ma un figlio” e come tale vanno rispettati il suo “bisogno” psicologico e il suo “diritto” morale di avere un genitore che svolga il proprio compito in maniera compe-tente, chiara ed equilibrata. I figli hanno il bisogno, e non lo si può loro assolutamente negare, di percepire i propri genitori come per-sone mature e responsabili, impegnate a perseguire il benessere di tutta la famiglia. La negazione di un “riferimento autorevole” può portare i figli a comportamenti prepotenti e aggressivi che sono la naturale reazione alla mancanza di un modello comportamentale adulto del genitore. Così, in tale tipo di organizzazione familiare, nella quale per varie ragioni non c’è molta differenza tra il padre e il figlio, l’adolescenza, come età un tempo scandita dai tipici riti di passaggio (utili a sperimentare la personale autonomia e potenza,

8 S.Giacobbi, Capitan Uncino. Genitori di adolescenti. Franco-Angeli, Milano, 1998, p.42

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tra cui anche quella di uccidere simbolicamente l’autorità paterna), oggi perde totalmente senso. I giovani, non po-tendo più viversi i conflitti all’interno della famiglia, nella quale regna sovrana l’accettazione incondizionata, la pacifi-ca convivenza e la tolleranza estrema verso qualsiasi forma di espressione e di comportamento, come dice Galimberti “finiscono col fare il loro Edipo con la polizia”9, scatenando allo stadio, nel quartiere e nella società tutta la violenza che non è più necessario esprimere in famiglia. Tale analisi è legittimata da un sistema familiare, la co-siddetta “famiglia negoziale”10, nella quale vige la simme-tria dei ruoli, ovvero un’organizzazione nella quale le deci-sioni e i comportamenti vengono continuamente contrattati, cambiati all’insegna di una tolleranza incondizionata. In questo tipo di impianto educativo il compito del genitore si riduce ad un faticoso lavoro di comprensione e valutazione, nella presa di decisioni, in rapporto al figlio: la relazione educativa viene “sindacalizzata”. Come sostiene ancora Galimberti, «tra adolescenti e adulti si instaura un rapporto contrattualistico, per effetto del quale ge-nitori e insegnanti si sentono continuamente tenuti a giustificare le loro scelte nei confronti del giovane, che accetta o meno ciò che gli viene proposto in un rapporto egualitario. Ma, ancora una volta, la relazione tra giovani e adulti non può e non deve essere simmetrica: trattare l’adolescente come un proprio pari significa non contenerlo, e soprattutto lasciarlo solo di fronte alle proprie pulsioni e all’ansia che ne deriva»11. E quando i sintomi del disagio adolescenziale si rendono evidenti, continua sempre Galimberti, «l’atteggiamento di genitori ed insegnanti oscilla tra la coercizione dura e la seduzione di tipo commerciale di cui la cultura consumi-stica che si va diffondendo è un invito»12. Quello della “famiglia negoziale” è evidentemente un modello educativo debole13, dove la possibilità di negoziazione abolisce l’autorità dei genitori e por-ta al fenomeno attuale della “famiglia lunga”, dove la convivenza di due generazioni di adulti porta la negoziazione alla pari.Negli ultimi tempi assistiamo al delinearsi di un nuovo modello: la cosiddetta “famiglia affettiva” 14 che ne costituisce l’evoluzione e, 9 U. Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano, 2007, p. 29.10 In proposito si vedano le ricerche dell’Istituto iard a cura di C. Buzzi, A. Cavalli, A. de Lillo, Rapporto giovani. Sesta indagine dell’Istituto iard sulla condizione giovanile in Italia, il Mulino, Bologna 2007.11 U. Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, cit., pp. 28-29.12 Ivi, p. 29.13 In proposito si veda la relazione di A. De Lillo al seminario “Adolescenti e adulti: vecchie e nuove relazioni” tenuto nel 2004 alla Casa della Cultura, Milano. Il testo è disponibile in http://www.ambm.it/web_schede/web/cdc/site/materiali/archivio/societa/008_disagio_delillo.html.14 Gambini P., Adolescenti e famiglia affettiva. Percorsi d’eman-cipazione, FrancoAngeli, Milano 2011.

in qualche modo, l’esemplificazione. Alle difficoltà della famiglia negoziale di adeguarsi al mantenimento di principi fissi, la fami-glia affettiva risponde “espandendo l’affettività” verso quello che è, spesso, l’unico figlio della coppia. Il figlio che cresce in questo impianto educativo è investito da una componente affettiva molto forte; i genitori, anche di fronte alla scuola e al sociale, tendono ad assumere un atteggiamento di difesa ad oltranza dei comporta-menti e degli atteggiamenti del figlio rispetto ai quali tutto risulta accettabile e giustificabile.La famiglia affettiva mira ad una sintonia totale con i figli, istituen-do una sorta di amicizia innaturale tra i suoi membri. La relazione genitoriale si mistifica in una sorta di complicità amicale e ciò fa smarrire il proprium della funzione genitoriale. Ma il danno da iperaffettività reca con sè un altro pericoloso corollario: la conni-venza. Le derive di questa dinamica sono note a tutti: i genitori di-ventano sfortunatamente collusivi con i figli con i quali si alleano fatalmente talvolta arrivando addirittura ad aggredire e a picchiare i loro insegnanti pur di dimostrare di essere sempre e comunque dalla loro parte. Un genitore non può stare sempre dalla parte del figlio, il suo ruolo è, al contrario, proprio quello di distanziarsi, di prospettare un altro punto di vista, a volte anche duramente op-posto a suo, scomodo o impopolare. Questo è il faticoso mestiere del genitore. Un Adulto che sa farsi bambino, nel cuore, per com-prendere i figli che, pur tuttavia, non smarrisce mai la cifra del suo essere una guida, un punto di riferimento autorevole lungo il cam-mino verso la costruzione delle loro identità, del loro farsi uomini e donne capaci di abitare consapevolmente e responsabilmente il proprio tempo.

Maria Luisa IavaroneProf. Ordinario di Pedagogia Generale e Sociale

Università Parthenope Napoli

Prof. Stefania MaddalenaSociologa e Pedagogista

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“Il bambino è il padre dell’uomo” è un verso di un componimento del poeta romantico inglese William Word-sworth (!770-1850). Con questo rompicapo estraniante l’autore esprime il concetto che la nostra infanzia modella la vita adulta. L’espressione, ripresa anche da Maria Mon-tessori, viene spesso indicata come un monito a cercare di mantenere da grandi la capacità di meravigliarsi e di entusiasmarsi che si aveva da bambini. Il paradosso però non si limita a richiamare la speranza di una continuità di istinti ma indica il senso dell’educazione come fondamen-to della costruzione di un individuo equilibrato. Tutte le abitudini, i comportamenti, le conoscenze che il bambino apprenderà faranno parte della sua proie-zione di adulto. Quale augurio migliore allora per i ragaz-zi, i loro insegnanti e i dirigenti, all’inizio dell’anno sco-lastico. Tutto quello che di bello e importante fanno oggi i ragazzi alla propria mente e al proprio corpo lo stanno facendo all’uomo o alla donna che saranno. Semplicemen-te. C’è poco altro da pensare. Così come quello che di brutto fanno a sé stessi è un danno che stanno arrecando alla propria identità a venire. Padri e madri del loro futuro, gli studenti decidono come porsi di fronte al percorso che si dipana loro davanti, e ne sono responsabili. Certo, spin-ti, educati, abituati, trascinati, nel bene e nel male, dalle qualità o dai difetti di ciò che li circonda, ma l’ultima de-cisione spetta a loro. Lo studio è uno spazio in cui avviene qualcosa di decisivo: la scoperta di sé stessi attraverso la sco-perta di ciò che sta fuori di noi e che non è il solito recinto di sicurezza della famiglia. Tutto ciò che non conosciamo anco-ra e che quindi non sappiamo ancora di amare o di preferire è quello che conduce verso la scelta di ciò che si vuol fare da grandi. Uno degli spettacoli più disperanti è vedere un ragaz-zo di diciott’anni che non sa che cosa fare della propria vita. E non perché sia sciocco, ma perché non sa che cosa gli pia-ce. Perché, banalmente, non ha mai fatto nulla, o poco che è la stessa cosa; non ha mai capito se gli piaceva la chimica o la filosofia, la matematica o la geografia perché semplicemente non le ha mai studiate, riuscendo a scivolare tra gli interstizi di linee di minor resistenza e sgusciare fuori semi intonso dal percorso formativo, complici leggi e decreti tesi ad allegge-rire sistematicamente ogni responsabilità verso se stessi. Per paradosso dunque, scoprire ciò che piace non deriva da altri

piaceri ma dai doveri, dall’aver accostato, attraverso il “do-vere” dello studio, una serie di ambiti della conoscenza. Nascondersi sembra essere invece, ubiquitariamente, la modalità principale di sopravvivenza di una buona parte degli alunni a scuola. In ogni scuola e quartiere e ceto e gra-do di istruzione. Nascondersi allo studio però non è altro che nascondersi a se stessi. Ed evitare con astuzia oggi equivale a smarrirsi domani. Le forme di resistenza sono tante e variegate, e addirittura passano attraverso lo stesso studio e non il suo evitamento. Analizzarle potrebbe servire a capire alcune delle dinamiche di autoesclusione di tanti giovani che evadono la scuola – e spesso non a caso anche il lavoro, per le stesse logiche. A volte, e specie nei ceti non svantaggiati, lo studente che cerca di proteggersi dal sapere come se fosse il più grave danno che possa ricevere l’integrità del suo Io, si sottrae si-mulando. Viene da chiedersi come mai per evitare di capire si preferisca fare sforzi di gran lunga superiori a quelli richiesti per capire, e come mai ciò avvenga in decenni in cui lo stato mette a disposizione degli alunni decine di ore settimanali, durante l’anno e alla fine delle lezioni, per offrire continui recuperi e approfondimenti. Forse nel non sapere c’è un non volere, o, come dice Banksy “Nell’età dell’informazione l’i-gnoranza è una scelta”. Forse nella comprensione si percepi-sce una minaccia a qualcosa. C’è una partita esistenziale in atto nel processo dell’appren-dimento, diversa da quella di qualche decennio fa. L’istinto sembra quello di proteggersi, di non farsi trovare in fallo, di rifiutare l’errore, di non voler essere giudicati, di respinge-re con insofferenza una posizione psicologica e relazionale che viene percepita come di inferiorità. L’impulso di molti ragazzi sembra quello di attivarsi con ogni fibra di energia per proteggersi dalla comprensione perché se ne ha paura. Si ha paura di essere in prima persona soli davanti a qualcosa di ignoto. E quindi in questa fuga disperata si butta dietro al proprio passaggio qualunque cosa per non “farsi pendere”: finti malesseri, genitori compiacenti, certificazioni attestanti problematiche fisiche, cognitive o sociali di ogni tipo previ-sto dalla sempre più aggiornata legislazione. La manipolazio-ne regna sovrana, come upgrading malevolo della vecchia e innocente bugia, in un clima di conflittualità crescente. Oggi

Il bambino è il padre dell’uomo Un augurio di inizio anno scolastico

Scuola

di Ida Plastina

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Scuola

persino nelle scuole dei ceti alti si possono verificare situa-zioni estreme immaginabili un tempo nelle scuole a rischio, come furti di compiti dai cassetti dei docenti per truccare gli errori o aggressioni di compagni o insegnanti. Simili comportamenti hanno spesso alle spalle la paura della propria insicurezza e vulnerabilità. Il pericolo di uscire allo scoperto con se stessi e col mondo attiva feroci difese della propria identità sociale. I giovani allora cercano di delimitare un territorio a priori a loro estraneo (estraneo alla famiglia quindi nemico) e di dettarvi legge a ogni costo: con ogni nuo-vo insegnante che entra in classe parte non più la negozia-zione ma le proteste affinché le verifiche orali non siano alla cattedra ma dal posto, le interrogazioni siano programmate e concordate non “con” ma “dagli” alunni, la valutazione sia vagliata con sospetto dal pool di parenti e amici pronti a ri-gettarla con violenza, e via dicendo, secondo tutta la casistica che la legislazione prevede come margine possibile di eva-sione per lo studente, che si allarga quanto più si restringe il margine di azione didattica del docente. Che in gioco sia l’immagine sociale nel confronto tra pari e non la preoccupazione di formare se stesso è provato dal ven-taglio di risposte possibili dello studente alla verifica dell’in-segnante. Se corretti, molti ragazzi oscillano – in gradi di intensità diversi beninteso - tra dispetto variamente infantile e/o violento, strafottenza ostentata e infine vittimismo para-noide. In ogni caso risposte di controllo del territorio “nemi-co” e di diminutio dell’autorità dell’adulto ; si tratta di gesti

destinati anche alla classe, a ostentare ruoli che magari sono stati decisi al di fuori della scuola, nello spazio dei social. La chiusura che ne consegue rispetto all’apprendimento è formidabile e difficile da scalfire in un si-stema scolastico in cui non esiste quasi più la continuità didattica. Vale, e forse di più, la controprova. Nel caso opposto, se cioè lodati, la risposta è a volte altrettanto ecces-siva e fuori luogo : parte tutto un circo di autocompiacimento. Vincere è l’obiettivo. Non imparare. Prima di tutto “contro” l’insegnante in quan-to rappresenta l’autorità, la legge, la cono-scenza. E tutto ciò nella scuola di oggi, nella quale le tendenze della didattica, della legi-slazione e delle modalità di relazione sono improntate a tratti tutt’altro che responsa-bilizzanti e impositivi. In una situazione in cui il sistema, con meccanismi di deroghe

sempre più blande, permette a uno studente di essere valutato più che positivamente anche se frequenta di fatto solo appena tre dei cinque anni di scuola superiore, ci si trova di fronte a conflitti che sono diventati perfino fisici. Lo scopo è piuttosto chiaro, ed è l’intimidazione, che ha sempre evidentemente un’ombra criminale. Smarcarsi dalle élite culturali è il primo e l’ultimo comandamento di questi tempi, preservandosi per di più da ogni possibile senso di colpa. Cioè di responsabilità. Impegnato indefessamente per anni in simili attività - che costano ovviamente ben più dell’energia e del tempo che si impiegherebbe a leggere un paragrafo sui Fenici - un simi-le Child si potrebbe ritrovare Father di un Troll, un piccolo mostriciattolo vittimista, culturalmente mediocre, molesto e querulomane. L’augurio di buon inizio d’anno è allora quello di uscir fuori da questo vortice di paura e aggressività, da questa rappre-sentazione fallimentare e degradata della scuola come mo-dello negativo di una prigione-palestra, e di abbracciare la consapevolezza che il tempo di capire e di imparare è adesso. Non nel futuro sempre più rinviato di un Emilio rousseauiano che invecchia nella noia.

Prof. Ida Plastina

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La “spropriatezza” e l’abolizione della famiglia

La società è in preda all’immoralità; la Città del Sole, cioè la comunità ideale concepita da Campanella, deve porre rimedio in prima istanza all’immoralità, per la quale gli uomini sono striscianti, avidi, egoisti, presuntuosi, infidi. Il possesso è causa di questa infermità morale degli uomini. Secondo Campanella la distribuzione ineguale del denaro produce male morale sia tra i ricchi sia tra i poveri. I ricchi diventano presuntuosi e prepotenti, trattano gli altri come oggetti o si danno ai vizi. Campanella, che nella sua permanenza a Napoli aveva conosciuto l’uomo tra i più ricchi del regno, il principe di Bisignano, finito nella follia a causa degli stravizi a cui si era dato dissipando tutte le sue ricchezze, stigmatizza da una parte la decadenza morale che nasce dalla ricchezza, ma dall’altra osserva che i poveri, proprio per la condizione in cui si trovano, diventano ipocriti, striscianti, bugiardi e quindi anch’essi immorali. La proprietà, generata da una distribuzione differenziata e ingiusta della ricchezza, produce corruzione morale tanto tra i ricchi quanto tra i poveri. Rispetto a questa matrice dell’immoralità, della decadenza e del cattivo costume Campanella trova un rimedio nelle stesse consuetudini dell’ordine domenicano e ricorre al cocetto di “spropriatezza”: essere liberi dalla proprietà vuol dire essere più equilibrati: non si ha la preoccupazione della proprietà, come non se ne ha la preoccupazione negli ordini religiosi. L’ordine domenicano era molto severo; i superiori erano attenti a che ogni confratello vestisse con stoffa dello stesso tipo e che nelle comunità monastiche si rispettasse un’uguaglianza assoluta anche negli aspetti più banali. Campanella recepisce il modello della spropriatezza, della mancanza di proprietà di chi ha scelto la vita monastica e lo proietta al livello della società intera: la Città del Sole è felice perché gli uomini sono più liberi in quanto non appesantiti dalla brama di possesso. Grazie alla spropriatezza ognuno agisce per interessi più alti di quello banale del voler accumulare ricchezze e c’è una diffusione spontanea della moralità. « La superbia è ritenuta un gran difetto. L’atto superbo viene punito severamente. Per cui nessuno reputa cosa vile servire a mensa, in cucina o altrove; ma lo chiamano imparare e sostengono che al piede è onore camminare, all’occhio guardare; per cui qualunque lavoro vien loro affidato è inteso come cosa onoratissima e non hanno schiavi perché bastano a se stessi, anzi soverchiano [ognuno all’interno della società ha una funzione, anzi gli abitanti della Città del Sole si scambiano queste funzioni, i lavori manuali non sono considerati inferiori a quelli intellettuali, ogni lavoro è considerato dignitoso]. Da noi questo non succede: vi sono in Napoli 300.00 anime e di queste lavorano solo 50.000 e questi lavorano oltre misura e si distruggono, mentre gli oziosi si perdono, proprio a causa dell’ozio, nell’avarizia, nella lascivia e nell’usura e contaminano e pervertono moltissima gente, tenendoli a servizio di se stessi in povertà, e perciò indotti all’adulazione, e facendoli partecipi dei loro vizi; mancano totalmente i servizi pubblici, le pubbliche funzioni e il campo, la milizia e le arti vengono fatti molto stentatamente e

con molto lavoro di pochi. Invece nella Città del Sole si dividono fra tutti uffici arti e fatiche; ognuno lavora solo quattro ore al giorno poiché tutto il resto s’ apprende giocando, discutendo, leggendo, s’insegna camminando, ma sempre senza sforzo e con gioia. E non hanno uso di giochi che si faccino stando seduti: scacchi, carte o simili, ma piuttosto palla, pallone, rallo, lotta libera, tirar giavellotto, dardo e archibugio». La Città del Sole è una città di persone sane. Le cronache di fine ‘500 descrivono la città di Napoli come abitata da un’umanità ripugnante, in conseguenza delle condizioni igieniche e alimentari. Campanella torna più volte nella Città del Sole sul fatto che i solari sono abituati alla pulizia e che nessuno è sedentario. Ne viene fuori così una stirpe di gente sana e bella. Pur venendo abolita la proprietà, c’è un fattore che potrebbe rimettere in moto la differenziazione: la famiglia. Anche chi è disinteressato riguardo alla propria persona è portato a preoccuparsi per i figli, a voler accumulare per i figli, a voler creare benessere per la sua prole. Se introduciamo la spropriatezza, ma lasciamo la famiglia così com’è si proporrà nuovamente la diffusione differenziata delle ricchezze. La Città del Sole è come una grande famiglia: i bambini vivono in comune, non c’è un vincolo familiare, ogni solare è considerato padre di tutti quelli che hanno un’età inferiore a lui di quindici o più anni; vigono una grande fratellanza e una sorta di paternità e maternità comuni. Colui che racconta è un genovese che sarebbe stato nocchiere di una delle navi di Cristoforo Colombo. Costui è finito nell’Oceano Indiano, ha visitato questa comunità e la descrive a un cavaliere del Santo Sepolcro: «Questa è una stirpe che arrivò dalle Indie e vi erano tra loro molti filosofi che fuggivano le invasioni dei barbari o di altri predoni e tiranni e stabilivano di vivere in una comune secondo norme consigliate dalla filosofia, e sebbene la comunanza delle donne non fa parte del patrimonio di usi e costumi della loro terra di origine, essi l’hanno adottata e si sono organizzati in questo modo: hanno tutto in comune, ma le attribuzioni vengono fatte dagli ufficiali, essi sostengono che il concetto di proprietà nasce da far casa privata e moglie e figli propri e da qui nasce l’egoismo e che per dare ai figli ricchezze e dignità o per lasciarli eredi di molti beni ognuno diventa o approfittatore pubblico, se è potente e non ha paura, o avaro, insidioso e ipocrita se non è potente»

L’eugenetica

Dopo la spropriatezza e l’abolizione della famiglia, Campanella delinea un terzo pilastro della comunità solare: l’eugenetica. Di fronte alle moltitudini abbrutite e malate gli altri utopisti del Rinascimento si ponevano il problema di come mettere fuori della città malati e folli. Campanella invece concepisce l’idea che, abolita la famiglia, bisogna pianificare la procreazione per sviluppare una stirpe bella, pura, forte. Egli propone una buona generazione, grazie alle cure dello Stato. Campanella riflette forse sul levriero napoletano, una razza di cani molto elegante che i nobili

Città del Sole:l’utopia di una comunità armoniosa (2)

Storia

di Antonio Gargano

450 ANNI DALLA NASCITA DI TOMMASO CAMPANELLA

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napoletani avevano prodotto attraverso incroci. Se si provvede ad allevare razze animali in modo che si sviluppino determinati caratteri, Campanella si chiede perché abbandonare invece la generazione umana al caso, per cui nascono persone deformi o malate. Egli era stato per un periodo precettore di Mario del Tufo, marchese di Ravello, una delle persone più ricche del regno, tanto che per arrostire i cibi usava, invece della legna da ardere, le spezie, che a quei tempi erano un bene rarissimo e riservato solo ai nobili, i quali le usavano, in quantità minima, per condire i cibi. Questo ricchissimo marchese aveva creato in Puglia un allevamento di cavalli da cui traeva splendidi esemplari da corsa. Campanella, suggestionato da queste osservazioni sulla società napoletana e meridionale, afferma che la Città del Sole promuove una politica eugenetica, cioè fa in modo che si sviluppi una stirpe umana sempre più forte, bella e sana. A tal fine escogita sistemi un po’ grossolani, ad esempio: una donna di taglia forte si dovrà unire con un uomo magro, una persona euforica si dovrà unire con una più posata, in modo che il nascituro sia una via di mezzo tra la persona alta e quella bassa, tra la persona magra e quella corpulenta, tra la persona estroversa e quella introversa e così via. Soprattutto sostiene che i funzionari dello Stato preposti alle nascite devono scrutare gli astri, che predeterminano le caratteristiche di una persona, in modo da decidere quando uomo e donna si debbano accoppiare per far sì che vengano al mondo individui con attitudini diverse a seconda della configurazione astrale sotto la quale nascono: le nascite si pianificano con l’astrologia. L’eugenetica propone un altro problema: ci deve essere un potere saggio che deve indirizzare tutta la vita della comunità.

Il “Gran metafisico”

Il potere supremo sulla Città del Sole dovrà essere detenuto da un personaggio che Campanella chiama “Sole”o “Gran metafisico”, il più sapiente di tutti, scelto dai sapienti precedenti. In questo senso Campanella si avvicina a Platone in quanto nella Repubblica di Platone i governanti dovevano essere filosofi, dovevano cioè governare i sapienti. «Sole può divenire soltanto colui che conosce le storie di tutti i popoli, religioni e assetti politici o inventori di scienze e arti. È necessario poi che conosca tutte le arti meccaniche e la pittura. Inoltre tutte le scienze matematiche, fisiche ed astrologiche. Non ha importanza che conosca le lingue, ha infatti molti interpreti a sua disposizione e questi sarebbero i grammatici della repubblica. Ma bisogna soprattutto che conosca la metafisica e la teologia perfettamente, le origini, le fondamenta e i limiti di tutte le arti e di tutte le necessità, le uguaglianze e le disuguaglianze delle cose, la Necessità, il Fato e l’Armonia del mondo, la Potenza, la Sapienza e l’Amore delle cose e di Dio, e i gradi degli enti e le loro corrispondenze con le cose celesti, terrestri e marine e studia molto bene nei profeti e astrologia». I solari si lasciano governare dal “Gran metafisico” perché sono certi che un tal sapiente «non sarà mai crudele, né scelerato, né tiranno», a differenza degli ignoranti «nati signori, o eletti da fazione potente». Il Metafisico campanelliano è buon reggitore proprio perché spazia col suo sguardo al di là del fisico, ed è in grado di scorgere le corrispondenze delle cose, la grande unità del tutto e il ruolo che spetta a ogni elemento della totalità. La Città del Sole di Campanella, come la Repubblica platonica, è strutturata in funzione del sapere metafisico: per il fatto di essere pervenuti al vero e supremo sapere

del Bene e dell’Essere i filosofi-magistrati sono degni del governo della città. Con loro la scienza della realtà in tutti i suoi gradi si estende all’intera comunità e da caos di egoismi la rende cosmo ordinato, replica dell’ordine supremo e necessario della natura, costruzione armoniosa e giusta.

L’utopia pedagogica

La Città del Sole si presenta come una grande utopia pedagogica: il magistrato della sapienza ha fatto in modo che tutta la città costituisca una sorta di grande enciclopedia per immagini o per forme viventi nella Città del Sole s’impara tutto dalla nascita. La città è composta di sette cerchia di mura. Per ogni “girone”, in cui i fanciulli vengono condotti dai maestri a passeggio, c’è un regno del mondo naturale o un settore del mondo umano “istoriato”, per cui, dice Campanella, si impara tutto “istoricamente”, cioè attraverso immagini dipinte sulle mura. La seconda cinta, per esempio, presenta fra l’altro i minerali messi in vetrine in cui si possono osservare e toccare. A un più alto livello si vede il mondo dei vegetali e tutto ciò che da essi si ricava. In un altro girone sono dipinti sulle mura gli animali esotici, mentre gli animali domestici sono presenti in gabbie. Fino ad arrivare ai grandi uomini raffigurati al sommo della città. Campanella pensa che la comunità possa prosperare se si coltiva la nuova generazione, prima di tutto nel generarla sana attraverso l’eugenetica, e rendendola pura e disinteressata con la spropriatezza, ma soprattutto gli uomini crescono bene e quindi tendono ad armonizzarsi gli uni con gli altri grazie a un’opera pedagogica continua. Egli pensa che la convivenza, la nascita dello Stato, lo stare insieme nello Stato, sono possibili grazie a un’armonia che si viene a creare tra gli individui, armonia che viene indotta soprattutto dall’educazione. Per Machiavelli invece, come pure per Hobbes, quello che fa stare gli uomini insieme è la coazione: se gli uomini non sono costretti alla pacifica convivenza dalla legge, essi tendono a essere egoisti. Campanella sostiene la presenza nell’uomo di una sorta di istinto gregale: l’individuo sta bene insieme con gli altri, anzi può sviluppare la sua personalità soltanto all’interno della società. Nel pensiero politico dell’età moderna al pessimismo antropologico di Machiavelli e di Hobbes si contrappone l’ottimismo di Campanella: tutta l’umanità è animata dallo spirito gregale,

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tende a raggrupparsi in un’unica ecumene che implicherà pace e prosperità per tutti. Egli si pone quindi in polemica tanto con Machiavelli teorico dello Stato nazionale, quanto con Lutero che ha rotto l’unità dei cristiani.

Campanella e la Controriforma

È da tener presente che Campanella venne imprigionato nel 1599 e liberato nel 1626 dopo ventisette anni di carcere grazie a papa Urbano VIII, che lo apprezzava anche per la sua dottrina astrologica. Per Campanella Lutero aveva sbagliato nel provocare un frazionamento, mentre la Controriforma: che auspicava il ritorno di tutti i cristiani sotto un unico papa, aveva un motivo di validità. Quindi Campanella, pur essendo stato condannato dai tribunali della Controriforma, si può considerare un pensatore della Controriforma. Campanella cerca di conciliare Lutero con la Controriforma, in fondo con la Città del Sole cerca di dire che bisogna accogliere il meglio del luteranesimo, cioè il ritorno al cristianesimo puro, semplice delle origini, e dalla Controriforma bisogna trarre invece la tendenza universalistica propria della chiesa cattolica. Pensa che il cattolicesimo, il protestantesimo e le religioni in generale siano manifestazioni di una religione più profonda che è una religione naturale, raggiungibile cioè con i mezzi della semplice ragione e del buon senso: la religione “solare”. Norberto Bobbio, il più grande studioso di filosofia politica del Novecento italiano, sulla scorta anche di quanto aveva sostenuto Luigi Amabile, suppone che Campanella, scrivendo in carcere nel 1602, abbia inserito per opportunismo l’accenno al cristianesimo in quanto sperava in tal modo di attenuare la terribile condanna che gli sarebbe poi piombata addosso nel 1603. La tesi sostenuta da Luigi Firpo invece afferma la perfetta coerenza di Campanella intorno a una sola grande idea: che il cristianesimo sia manifestazione storica di una religione più fondamentale, la religione che egli ha delineato nella Città del Sole. Si è battuto per tutta la vita nella speranza dell’unità religiosa e politica di un’umanità che potesse realizzare quest’utopia, fino a scrivere poco prima di morire un’elegia al nuovo re solare, Luigi XIV, che stava per nascere, sperando che potesse dare inizio a questa comunità mondiale. Le tesi di Amabile e Bobbio di un Campanella opportunista si fondano su affermazioni come quelle presenti in questo suo sonetto: «Gli astrologi, antevista in un paese, / costellazion che gli uomini impazzire / far dovea, consigliârsi di fuggire, / per regger sani poi le genti offese. / Tornando poscia a far le regie imprese, / consigliavan que’ pazzi con bel dire, / il viver prisco, il buon cibo e il vestire. / Ma ognun con calci e pugni a lor contese./ Talché, sforzati i savi a viver come gli stolti usavan, per schifar la morte, / ché ‘l più gran pazzo avea le regie some, / vissero sol col senno a chiuse porte, / in pubblico applaudendo in fatti e norme / all’altrui voglie forsennate e torte». Gli astrologi, i saggi, hanno scorto nei cieli che si sta per verificare una congiunzione astrale per cui gli uomini impazziranno tutti, allora hanno preso la risoluzione di fuggire in modo da non essere colpiti dagli influssi malefici, da non impazzire, per poter poi tornare loro a governare. Passata questa congiunzione nefasta, i savi tornano a fare i sovrani e consigliano il vivere degli antichi, la sanità dei costumi, ecc. I pazzi però, di fronte ai richiami alla saggezza, reagiscono con calci e pugni. I savi, a questo punto, per evitare di essere uccisi dai folli, sono costretti a vivere come questi ultimi, visto che il più pazzo di tutti era diventato re, e si riducono a parlare da persone sane e intelligenti solo in privato, mentre in pubblico applaudono alle scempiaggini e alle voglie forsennate e distorte dei pazzi. Secondo Amabile, Campanella, abbandonato il cattolicesimo

in una prigione dell’Inquisizione, si rende conto che non può esternare la sua vera filosofia, quindi inserisce accenni al cristianesimo nella Città del Sole per salvarsi da pericoli ulteriori: «All’interno della sesta fascia sono raffigurate tutte le arti meccaniche, i loro inventori, e i loro usi nelle diverse parti del mondo; all’esterno sono raffigurati tutti gli inventori delle leggi, delle scienze e delle arti. Vi ho visto Mosè, Osiride, Giove, Mercurio, Maometto e molti altri; in luogo particolarmente degno ho visto l’effige di Gesù Cristo e dei dodici apostoli che sono molto onorati. È da stupire che adorano Dio in Trinità, dicendo che è somma Potenza da cui nasce somma Sapienza e da essi sommo Amore. Non conoscono dunque la Trinità al mondo nostro perché non ebbero la Rivelazione ma sanno che Dio procede da sé e ha relazione di sé a sé; così tutte le cose si compongono di potenza, sapienza e amore in quanto hanno l’essere; di impotenza, d’insipienza e disamore, in quanto hanno il non essere». Campanella sostiene che la Rivelazione, per cui il Cristianesimo si fonda sulla Trinità, è conciliabile con il pensiero razionale, che arriva per vie naturali, senza bisogno di libri sacri, alla concezione di un unico Dio in tre persone; cioè afferma che il Cristianesimo è conciliabile con una religione naturale e infatti in un’altro brano dice: «Per essi infatti questi due punti della generazione e dell’educazione sono di fondamentale importanza e dicono che la pena è la colpa tanto dei padri quanto dei figli si ripercuote sulla città, onde non scorgono alcun bene e pare che il mondo sia retto a caso. Ma chi studia la costruzione del mondo, l’anatomia dell’uomo (come fanno essi con i condannati a morte, anatomizzandoli), delle bestie e delle piante e gli usi delle parti e delle particelle loro, deve necessariamente riconoscere l’opera della divina provvidenza». Campanella, che è un filosofo naturalista, non si sente in opposizione al cristianesimo, in quanto pensa che per vie naturali si possa giungere al concetto di Dio predicato dal cristianesimo; così i solari, attraverso gli stessi metodi di osservazione naturale, pur non avendo ricevuto il Libro Sacro, hanno raggiunto una religione naturale che può essere una religione universale. Come rileva acutamente Germana Ernst: «Il presentare il cristianesimo come l’espressione più alta e compiuta della razionalità e della religione naturale è in verità, più che la constatazione di una realtà esistente, un’implicita esortazione e un’indicazione della via da percorrere, di un compito da realizzare». Campanella conclude la Città del Sole con una decisa affermazione del libero arbitrio dell’uomo, in coerenza con tutto quello che ha operato e sostenuto. Egli è un ottimista: la natura umana è forte, è sana, può dare vita a una comunità armoniosa. Lutero invece nel De servo arbitrio pensa che l’uomo non è libero, bensì è schiavo del peccato originale e quindi tende ad essere cattivo. Anche Machiavelli pensa che l’uomo sia schiavo delle passioni e quindi tendenzialmente cattivo. Il pessimismo di Lutero e di Machiavelli dà luogo a uno Stato fondato sulla coercizione, mentre Campanella, che è un’ottimista e crede che l’uomo sia libero e dotato di libero arbitrio, dà luogo all’ utopia di uno Stato armonioso in cui spontaneamente gli uomini si conciliano tra di loro. Le ultime parole della Città del sole presentano un evidente riferimento autobiografico: «Ma non trattenermi oltre - dice il Genovese - che ho da fare. Sai bene che ho gran fretta. Continuerò un’altra volta. Sappi solo questo ancora: che essi credono sommamente al libero arbitrio e sostengono che se dopo un supplizio di quaranta ore un uomo non si convince a parlare se ha deciso di tacere neanche l’influsso degli astri può forzarlo.

Prof. Antonio Gargano

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Filosofia

“Proprio lui, l’uomo, mi spinge all’ultima sconcertante domanda: Perché c’è in genere qualche cosa? Perché non c’è nulla?” Così Schelling in “Filosofia della Rivelazione” (1858,Darmstadt 1966, vol.1,pag. 71). Dunque, l’essere che si interroga sul proprio essere e sull’essere in generale , è l’essere “Umano”: l’Uomo. Perché, l’uomo, è dopotutto l’unico essere parlante, l’unico cui è possibi-le,per questo, l’accesso a qualcosa come la verità se, la ‘verita’, altro non è se non “l’Essere attraverso la Parola”. Egli è, in un certo qual senso quasi essenzialmente, la domanda dell’essere su se stes-so : “Perché v’è, in generale, l’essente e non il nulla?” ripete ed incalza Martin Heiddeger. Narrano i biografi che Ludwig Wittgen-stein , nei suoi non rari momenti mistici, fosse solito esclamare con aria di sincero stupore e quasi di smarrimento,”com’è strano che qualcosa esista!”. Con ciò, il filosofo austriaco altro non faceva che ribadire, sul piano del vissuto e dell’immediata comunicazione (e della comunicazione “paradossale” dell’esprimibilità dell’inespri-mibile) di questo vissuto , l’assunto con il quale Aristotele inizia la sua “Metafisica”: l’essere,la meraviglia, l’origine di ogni conoscen-za. Lo stesso Wittgenstein aveva a sua volta scritto, nel Tractatus Logico-Philosophicus, che “Non come il mondo è, ma che è , è il mistico”, con il suo consueto stile oracolare, scarno, es-senziale, secco e lapidario e, a volte, tanto pe-rentorio da far dire, al suo ex maestro Bertrand Russell, che egli era solito produrre sentenze filosofiche a mo’ di “proclami dello zar”. “La realtà è meno di niente” sottolinea un altro illu-stre pensatore contemporaneo, S. Zizek. Forse esagera. Forse la realtà è “poco più di niente”. Questa,non vuole essere un’ascetica formula svalutativa di questo mondo a beneficio di un ipotetico mondo altro. Quello che essa esprime è che, l’Essere, semplice-mente si “aggiunge”al niente. Che dunque l’Essere sarebbe una “Aggiunta” al nulla. Cosa, quest’ultima, che doverosamente richia-ma alla mente un’altra domanda: perché, che nulla sia (!) , sembra situazione più ovvia e normale e, quella dell’Essere essendo, l’Es-sere, un “Di Più” dell’essere in quanto tale- eccezionale e straordi-naria? Su questo vale la pena di ritornare pur qui anticipando che, se nulla fosse, neppure sarebbe alcun domandante; neppure potreb-be esserci alcuna domanda dell’essere su se stesso. Certamente, se la filosofia è indagine dell’essere su se stesso, essa è anche indagine sulla sua propria indagine. Essa è fatta di parole. Di conseguenza non c’è da meravigliarsi se, ogni meta filosofia, tenda a risolversi in filosofia del linguaggio, sia di quello in generale sia di quello pro-

prio. Ma, questo, non deve comportare la riduzione della filosofia - che è pensiero dell’essere sull’essere - a filologia e linguistica o anche a logica ed a logica-matematica come “linguaggio formale e preciso”. La filosofia si compone, è vero, di parole. Però, essa non consta soltanto delle parole delle quali essa è fatta così come, una casa, non consta soltanto dei mattoni con i quali essa è costruita. La casa, per restare all’esempio, è “Abitazione” ossia è “il proprio spa-zio dell’abitare”. Detto altrimenti e più generalmente, il significato del composto “trascende” l’in-significanza dei suoi componenti così come quella delle singole lettere si risolve nell’unità significa-tiva della parola. Nei “Principi Razionali della Natura e della Gra-zia” Leibniz scrive: “Adesso è necessario elevarsi alla metafisica , e perciò ci serviremo del grande principio, in genere poco impie-gato: Niente accade senza ragion sufficiente-vale a dire: Niente av-viene senza la possibilità per chi conosce abbastanza le cose, di rendere una ragione che sia sufficiente a spiegare così e non altri-menti. Una volta stabilito questo principio, la prima domanda che si ha il diritto di porre sarà: Perché esiste qualcosa piuttosto che

nulla? Il Nulla infatti è più semplice e facile del Qualcosa” (Leibniz ”Monadologia” trad. it. Bompiani 2008,pag. 47). Qui Leibniz già so-stiene l’essere, Il Qualcosa, cioè un qualsiasi ente, essere, come già si osservò, un “di più” rispetto al Ni-ente…”Perché c’è dell’Essere piuttosto che nulla? Perchè sì risponde, a Leib-niz, Umberto Eco in “Kant e L’Ornitorinco” aggiungendo subito dopo che ”Questa è una

risposta da prendere con la massima serietà, non come motto di spirito” (Umberto Eco “Kant e l’Ornitorinco” Bompiani 2013, pag. 8). “Il fatto stesso che possiamo porci la domanda (che non potrem-mo porci se non ci fosse nulla, neppure noi che la poniamo) -prose-gue Eco- significa che la condizione di ogni domanda è che ci sia dell’essere. L’essere non è un problema di senso comune (ovvero il senso comune che se lo pone come problema) perché è la condizio-ne stessa del senso comune……Che ci sia qualcosa è la prima cosa che il nostro intelletto concepisce, come la più nota ed evidente, e tutto il resto viene dopo. Ovvero, no potremmo pensare se non par-tendo dal principio (implicito) che stiamo pensando qualcosa…..Quindi c’è dell’essere perché possiamo porci la domanda sull’esse-re,e questo essere viene prima di ogni domanda, e quindi di ogni risposta e di ogni definizione …..Dell’essere, obietta Eco, non oc-corre chiedersi perché sia, esso è una evidenza luminosa. Il che non esclude che questa luce non possa apparire accecante, tremenda,

Poco più di nientedi Dario Gazzillo

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Filosofia

insostenibile, mortale-e pare infatti che a molti così avvenga . Porsi domande sul suo fondamento è illusione o debolezza e fa pensare a colui che interrogato se credesse in Dio, aveva risposto “no, io credo in qualcosa di molto più grande”. L’essere, nella cui evidenza ineli-minabile ci apriamo a ogni interrogazione che lo riguarda , è il Fon-damento di se stesso. Porsi domande sul fondamento dell’essere è come porsi domande sul fondamento del fondamento del fondamen-to, in una regressione infinita: quando, estenuati ci fermiamo, siamo di nuovo e già nel fondamento stesso della nostra domanda . La do-manda perché ci sia dell’essere piuttosto di nulla cela caso mai un’al-tra inquietudine, che riguarda l’esistenza di Dio…..”(ivi,pag.8,9,10) -insinua maliziosamente Umberto Eco. Domande “profonde” di que-sto tipo possono risultare anche “irritanti” perché violano le tacite regole della buona comunicazione sociale. In ogni situazione concre-tamente intersoggettiva “Riusciamo ad andare d’accordo con gli altri non perché spieghiamo tutto con chiarezza, ma perché vogliamo ac-cettare la maggior parte delle cose che ci vengono dette senza ulterio-ri spiegazioni – osserva Randall Collins-“Harold Garfinkel , che ha realmente messo in pratica questo esperimento, ha rilevato che in ogni atto di comunicazione sociale esiste un regresso all’infinito di cose che diamo per scontate. Inoltre , alcune espressioni non possono essere spiegate a parole in alcun modo. Garfinkel si riferisce a termi-ni come “tu” o “qui” oppure “adesso”, chiamandoli “indicali”. Biso-gna già conoscerne il significato; non possono essere spiegati”……”-Le persone escono dai gangheri quando si chiede insistentemente a loro di spiegare cose che normalmente danno per scontate. Ciò acca-de perché presto si rendono conto che una spiegazione del genere potrebbe andare avanti all’infinito senza che la domanda trovi la ri-sposta: Se davvero si ha bisogno di una spiegazione completa di tutto ciò che si ascolta , si può interrompere una conversazione alla prima frase……Riconoscono tacitamente che bisogna evitare questo tipo di situazioni. A volte i bambini iniziano a porre una serie infinita di “perché?”, ma vengono presto scoraggiati dagli adulti”.(Randall Col-lins”L’Intelligenza Sociologica”trad. it. Ipermedia Libri, pag. 70,71). Che l’Essere sia un “indicale”? Anche filosofie orientate nella dire-zione del rigore logico-scientifico possono considerarle questioni mal poste se non il frutto verbale di un qualche disordine emotivo maldestramente espresso quasi fosse “sintomo” di un qualche males-sere o persino malattia dello spirito. Prendiamo a mò d’esempio Carl G. Hempel , il quale scrive: ”Come secondo candidato potenziale alla condizione di enigma trascendente consideriamo brevemente una questione che è stata sollevata da diversi filosofi e che appare sia profonda , sia totalmente insolubile con mezzi scientifici “perché c’è qualcosa anziché niente? Un partigiano della scienza che badasse molto alla lettera potrebbe osservare che la scienza spiega,per esem-pio, perché dopo una notte fredda c’è del ghiaccio nello stagno, e che far vedere perché c’è del ghiaccio nello stagno è ipso facto far vedere

il punto essenziale dell’enigma: infatti la spiegazione appena citata rende conto della presenza del ghiaccio in un certo luogo riferendosi al fatto che in quel luogo c’era prima dell’acqua. Dunque essa assu-me già che ci sia qualcosa anziché niente, e non fa la minima luce sull’enigma. Ma quale tipo di risposta sarebbe adeguato? Sembra es-serci bisogno di una spiegazione che non assuma l’esistenza di que-sta o quell’altra cosa. In generale, infatti, quando alla domanda “Per-ché accade A?”si risponde “In quanto accade B”, questa risposta, certamente, può essere adeguata solo che l’asserzione che accade B ci dà un buon motivo per asserire che A accade, per cui è razionale dire “Se c’è B allora si deve prevedere A”. Questa è, chiaramente, una condizione necessaria –benchè non sufficiente- per l’adeguatez-za di una spiegazione. Ma una risposta al nostro enigma che non faccia assunzioni sull’esistenza di qualcosa non potrebbe mai fornire dei motivi per dire “C’è da aspettarsi che esista qualcosa anziché niente”. L’enigma è stato costruito in modo da rendere logicamente impossibile una risposta, e non si può certo considerare limitata la spiegazione scientifica perché non soddisfa un requisito logicamente incoerente. Di più: nessun’altra disciplina o forma di intuizione può rispondere. Una risposta in termini di prima causa, per esempio, pre-suppone che questa esiste e quindi che esista qualcosa. Nessuna teo-ria e nessun schema concettuale può spiegare l’esistenza di qualcosa senza assumere che qualcosa esista”. Tuttavia Hempel concede che ”Qualche volta dei problemi umani la cui natura non è puramente empirica vengono espressi con domande su questioni di fatto, e allo-ra assumono l’aspetto di enigmi insolubili . questo vale, a mio avvi-so, per la domanda “Perché c’è qualcosa anziché niente? Preso alla lettera, come la richiesta di una spiegazione di qualcosa a partire da niente, è una domanda incoerente; ma può anche essere vista come l’espressione di un profondo senso di meraviglia davanti all’universo immenso ed infinitamente vario e complesso nel quale ci troviamo. Questa meraviglia non è un desiderio di conoscenza fattuale, o non è esclusivamente tale; non può essere espressa correttamente come problema empirico, e quindi non ammette risposta scientifica. Come dice Wittgenstein: ”Sentiamo che anche se tutte le domande scienti-fiche possibili hanno avuto una risposta, i problemi della vita non sono stati nemmeno sfiorati. Allora, naturalmente, non resta più nes-suna domanda, e proprio questa è la risposta”. (Carl G. Hempel “Sag-gi e Ricordi” trad. it. Armando Editore 1989, pag.132 e pag. 134). Eppure , anche a rischio di incorrere nei magari giusti rigori dell’uno e dell’altro, osiamo intraprendere e saggiare una diversa strada spe-culativa, magari “classica”. L’essere, come affermazione logica, è il “Non Essere del Non Essere”, il “Nulla del Nulla” , “Il Niente del Niente”: Negazione della Negazione. Il richiamo, qui, alla dialettica è ovvio com’è ovvio quello a Parmenide. Seppure con quest’ultimo ribadiamo (anche nella piena consapevolezza dell’inusualita’ ed ap-parente bizzarria,oggi, di un discorso del genere) –che l’ Essere è ed

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il Non Essere non e’ e se, per assurdo immaginiamo,l’Essere come Non Essere, allora il nulla, il niente sarebbe. Dunque, l’Essere “deve” essere. Qui, il “deve”, esprime una necessità logica ed onti-ca: una necessità onto-logica, di essere e di pensiero. L’Essere “deve” essere e, deve essere perché, onto-logicamente, l’Essere è e “deve” essere ed il “Non Essere non è” è “deve”non essere-perché, ripetiamo, se per assurdo l’Essere non fosse, sarebbe il nulla, cosa onto-logicamente impossibile. Già: ma posto che l’Essere debba parmenidamente essere necessario, perché talvolta esso appare “strano” a se stesso originando Wittgsteiniane perplessita’? Accan-tonando ogni psicologico soggettivismo, contrapposto ad ogni logi-co oggettivismo- la “Stranezza” è qualcosa che, qualcuno, “trova”in qualcosa o che tale “appare” a qualcuno. La stranezza si colloca, a sua volta, sul piano fenomenico ed oggettivo. Essa è l’indice di un’anomalia. Allora, se l’Essere è necessario, perché esso appare, qualche volta a se stesso, come anomalo? Questa anomalia potreb-be configurarsi come possibilità di essere e di non essere ma, in tal caso, contraddirebbe la conclusione per la quale l’essere può non può, ma “deve” essere. Insomma, perché talvolta l’essere appare, a se stesso , il contrario (possibile) di quello che è o dovrebbe essere (necessario)? Se torniamo all’originario interrogativo Leibnizia-no-perché c’è l’essere invece del nulla- questo lo si può esaminare e dal lato dell’essere e del nulla, come abbiamo fatto sino ad ora; oppure sull’ancora in indagato lato del “Perché?”L’analisi del “per-ché” può a sua volta articolarsi a tre livelli: due maggiormente su-perficiali ed un terzo, maggiormente profondo. I primi due sono quelli del “perché” come “Scopo-Fine” e quello del “perché” come “Causa-Effetto”. Il “perché” come “Scopo-Fine” (con il suo corre-lativo concetto di “Mezzo”) si rivela un antropomorfismo non estensibile a quella “Natura” che progressivamente si enuclea ad opera di una graduale e crescente dis-antropomorfizzazione del mondo. E però, così come è illecito applicare il “perché” come “scopo-fine”alla Natura; specularmente lo è, avverte Croce, appli-care il “perché” come “Causa-Effetto”, all’interpretazione della storia dell’uomo essendo, le azioni umane, appunto finalistiche. Una cosa è dis-antropomorfizzare la natura; un’altra è dis-antropo-morfizzare l’uomo. Soltanto umanamente la storia umana è com-prensibile e, quello di causa, ne è un inadeguato strumento di chiara origine naturalistica: naturalismo ed antropomorfismo sono entram-bi errori. Chiedersi il “perché” dell’essere nel suo significato di “Scopo-Fine”è chiedersene il “Senso”. Tale domanda è l’espressio-ne di quell’esigenza di senso che solo è dell’uomo. Ora, o il mondo ha un senso quale che sia; ed allora l’uomo abita a proprio agio quel proprio mondo “umano” che altro non è che “la casa dell’uomo”. Oppure il mondo è “In-sensato”. In quest’ultimo caso l’uomo, por-tatore dell’esigenza di senso, si trova a vivere, da “estraneo”, in un mondo che ne è privo. E, questo, il contrasto cui mette capo il con-

flitto tra Umanesimo e Scientismo .Ma anche il “perché” come Causa-Ef-fetto incontra oggi qual-che difficoltà nel suo stesso dominio. La prima risale alla celeberrima critica Humeana al prin-cipio di causalità che già, molto tempo addietro, ne ha posto in luce perlome-no la problematicità. A questa va aggiunto ,in epoca recente, il suo ridi-mensionamento nel cuore stesso della scienza ad opera della meccanica quantistica. Sia la critica esterna (filosofica) sia quella interna (scientifica) hanno concorso alla diminuzione della causalità come principio sovrano di spiegazione della natura .Ed allora? Allora , pare che tanto il “perché” come “scopo-fine” tanto quello come “causa-mezzo” non godano più di quel potere esausti-vamente esplicativo loro accordato in passato. Il primo è limitato al solo mondo umano. Il secondo non soltanto è limitato alla natura ma limitato anche in quest’ultima. Trasferendoci, anche a motivo di una condivisibile insoddisfazione , al terzo livello di analisi, assu-miamo ,la scomponibilità del “perché”, nelle sue componenti del “Per” e del “Che”: Il “Per” è l’essere “In relazione-rapporto”. Il “Che” è il “Quale Cosa”. La domanda originaria potrebbe riformularsi così: In relazione-rapporto a quale cosa, tutte le cose, sono? (tautologicamente:in rapporto a quale essere, l’essere è?). Questa relazione-rapporto è un “tra” richiedente necessariamente molteplicità e non già più unità –relazione –rapporto “moltepliciz-zante”. Essa costituisce la “Ragione”. La Ragione è quel che rista-bilisce l’unità dell’Essere dopo la sua (inevitabile) frammentazione . L’Essere diviene, da uno, molteplice. Anche come “ragione di se stesso”, esso deve comunque moltiplicarsi come “altro” da se stesso , che è e non è se stesso. L’Essere è la totalità degli esseri in uno o, se si preferisce, è “L’Uno in Tutti” ed il “Tutto in Uno(ciasc-uno). Questo dà ragione al non mistico Eco quando considera l’Essere come auto fondante. Ma dà anche ragione al mistico Wittgenstein cui il non disciolto enigma non può dissolvere lo stupore. Forse perché, tale stupore, nasce dalla “casomai quell’altra inquietudine che riguarda l’esistenza di Dio”, come già Eco suggeriva. Che dire? Che anche qui gli opposti, banalmente, si toccano.

Prof. Dario Gazzillo

Shelling

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“La violenza della positività” secondo il filosofo Byung-Chul Han

Filosofia

di Bruno Russo

Il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han, teorico della cultura, docente universitario a Berlino, in un testo breve ma denso di contenuti, mette in luce le criticità del sistema sociale e politico internazionale. In precedenti saggi come ‘Nello sciame’, o ‘Visio-ni del digitale’, si era soffermato sui cambiamenti che le tecno-logie digitali hanno portato nel nostro modo di vivere, mentre in ‘Psicopolitica’ affronta le conseguenze dei cambiamenti sul piano politico, perché la tecnologia digitale contribuisce a potenziare meccanismi di controllo psichico che si basano sulla nostra vo-lontaria adesione. Byung-Chul Han inizia dal concetto di libertà e dalle sue evolu-zioni nella storia, arrivando al rapporto tra neoliberismo e libertà; perché oggi il concetto di libertà è molto ambiguo in quanto l’es-sere, pur svincolato da alcune costrizioni esterne, resta vincolato a quelle interiori, meno visibili. L’essere, attraverso il suo libero modus operandi arriva ad esercitare l’autosfruttamento, in quanto imprenditore di se stesso; arriva all’isolamento con la prima con-seguenza che la costruzione di una collettività politica è pratica-mente impossibile, tranne che in quei casi in cui può esprimere con una collettività i buoni principi di comunanza. Il sistema neolibe-rale doveva eliminare il classismo, in nome delle nuove catego-rie imprenditoriali: “Nella società della prestazione neoliberale chi fallisce, invece di mettere in dubbio la società o il sistema, ritiene se stesso responsabile e si vergogna del fallimento. In ciò consiste la speciale intelligenza del regime neoliberale: non lascia emergere alcuna resistenza al sistema.” L’effetto non è solo politico e sociale ma anche individuale e soggettivo perché l’aggressività non può essere rivolta verso uno sfruttatore, ma “si rivolge, invece, contro noi stessi: quest’aggressività indiriz-zata contro se stessi non rende gli sfruttati dei rivoluzionari, bensì dei soggetti repressi”.Il digitale è nato ed è imperversato nel mondo con parole chiavi come ‘trasparenza’ e ‘conformità’, ma se la libertà era intesa per esempio da Microsoft come ‘ Where do you want to go today?’, successivamente si è rilevata un’illusione, perché la grossa mole di dati immessi e gestiti dalla rete ha creato i concetti di ‘controllo’ e ‘sorveglianza’ che sono oggi molto comuni nelle grosse aziende: “La trasparenza, che oggi si esige dai politici, è tutt’altro che una pretesa politica. Non si rivendica la trasparenza politica nei pro-cessi decisionali, ai quali nessun consumatore s’interessa. L’im-perativo della trasparenza serve soprattutto a mettere a nudo i politici, a smascherarli o a suscitare scandalo. La richiesta di tra-sparenza presuppone uno spettatore che si scandalizza: non è la richiesta di un cittadino impegnato, ma di uno spettatore passivo. La partecipazione avviene come reclamo e lamentela: la società della trasparenza, popolata da spettatori e consumatori, dà vita a

una democrazia di spettatori.”Quindi il cittadino resta un consumatore passivo anche in politica: “reagisce solo passivamente alla politica, criticando, lamentan-dosi, proprio come fa il consumatore di fronte al prodotto o a servizi che non gli piacciono.” A questo punto si capisce bene perché l’esamina di Chul Han sia fondamentale: al giorno d’oggi la civiltà occidentale e soprattutto europea , ha creato un sistema particolare noto come ‘globalizzazione’ al quale si contrappone la struttura di molte civiltà emergenti , soprattutto nell’Asia che hanno un potere oligarchico, che al momento giusto sa reagire. E’ il caso della Corea, della Cina e di altre. Queste realtà basate su una dittatura di base riescono ad ottenere di più ad ogni minimo cambiamento, quando quelle liberali e democratiche non riescono minimamente a fare. Anche partendo da una democrazia indiretta al minimo diverticolo falliscono inesorabilmente, correndo anche il rischio di innescare dei processi molto pericolosi. Quanto al concetto politico di potere, si può manifestare o con la negazione della libertà o con il clamore silente del neolibe-rismo, in cui il soggetto sottomesso non è cosciente della sua sottomissione: “Seduce, invece di proibire… Il potere intelligente si plasma sulla psiche, invece di disciplinarla o di sottoporla a obblighi o divieti.” Nella società neoliberale gli spazi sono aperti e l’animale simbolo è il Serpente, che simile all’imprenditore, si fa spazio con il solo movimento; quindi parliamo di psicopolitica per il sistema liberale, o biolitica per quello disciplinare e punitivo fisicamente. Quando l’oggetto di sfruttamento diventa la psiche dell’uomo, ba-stano metodi molto sottili o subdoli, per ricavare il massimo van-taggio. Per esempio nel consumo, siamo spinti a farlo secondo un principio di positività, per cui i bisogni sono stimolati, e ciò diven-ta una vera seduzione dell’anima che porterà al collasso mentale se non controllata dalla psiche stessa; in sintesi la VIOLENZA DELLA POSITIVITA’ è la condizione in cui per tendere alla po-sitività si nega il dolore, e si raggiunge la patologia negativa della psiche: “La violenza della positività è distruttiva quanto la violen-za della negatività”. L’obiettivo diventa controllare il futuro, ma non sverniamo le reminiscenze Orwelliane in quanto in ‘1984’ il controllo del pensiero viene esercitato con l’annientamento delle parole, mentre nell’era digitale lo si ottiene con un incremento delle parole, e nessuno si sente sorvegliato o minacciato, ma si denuda volontariamente e così la piena comunicazione coincide con l’autocontrollo totale. Cosa può portare tutto ciò? Se il do-lore veniva sfruttato come coercizione, adesso siamo in presen-za di un sistema che sfrutta l’emozione per arrivare alla psiche, mentre l’economia neoliberale introduce cambiamenti, instabili-tà, trasformazioni e usa l’accelerazione della comunicazione per

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arrivare a una “dittatura dell’emozione”. Possiamo comprendere la potenza di uso delle emozioni se consideriamo che sono gover-nate dal sistema limbico, dove si trovano anche gli istinti. È un livello pre-riflessivo e semi-cosciente. La psicopolitica neolibera-le facendo leva sulle emozioni influenza quindi le azioni proprio sul piano pre-riflessivo, primario, non controllabile dalla persona. È un efficace modo di controllare gli individui senza bisogno di oppressione e catene. E arriviamo ai Big Data, l’enorme massa di dati che permettono una forma di controllo superiore perché, rispetto al panottico benthamiano, la ‘prospettiva digitale’ non ha angoli ciechi ed è in grado di scrutare sin dentro la psiche. Una nuova fede li accompagna: il Dataismo, un secondo illuminismo. Il primo illuminismo prestava fede nella statistica, la riteneva un “sapere oggettivo, fondato su cifre, condotto su base nume-rica” secondo i canoni della ragione. Il secondo illuminismo, quello nella nostra epoca, ha come parola chiave la trasparenza: tutto deve diventare dato e informazione. È un totalitarismo dei dati e i big data guidano il sapere e lo liberano dall’intuizione. Si registrano dati, che però non rispondono alla domanda: Chi sono? Il limite del Dataismo è infatti la rinuncia al senso, perché dati e cifre non sono narrativi e il senso si fonda sulla narrazione. “Per quanto sterminati possano essere, da dati e numeri non si ricava alcuna conoscenza di sé. I numeri non raccontano nulla del Sé. Contare non è raccontare; il Sé, infatti, deriva da un racconto. Non il contare, ma il raccontare conduce alla scoperta o alla conoscenza di sé”. I big data rendono leggibili, forse, i nostri desideri, dei quali noi stessi non siamo espres-samente coscienti; ad essi si affiancano i Data Mining, ovvero l’insieme di tecniche e metodologie che hanno per oggetto l’estra-zione di una informazione o di una conoscenza a partire da grandi quantità di dati – attraverso metodi automatici o semiautomati-ci. I big data possono promuovere modelli collettivi di compor-tamento e diventa così accessibile l’inconscio collettivo, che si può chiamare anche inconscio digitale. “La psicopolitica digitale sarebbe dunque in grado di impadronirsi del comportamento delle masse su un piano che si sottrae alla coscienza”: I big data sono innanzitutto un grande affare perché i dati personali sono oggetto di commercio e di guadagno: “L’azienda statunitense di analisi dei big data Acxiom commercializza i dati persona-li di circa trecento milioni di cittadini statunitensi – dunque, di quasi tutti i cittadini. In questo modo, Acxiom sa più cose sui cittadini statunitensi di quante non ne sappia l’FBI: nel suo catalogo, i cittadini sono offerti come merce. Per qualsi-asi bisogno c’è qualcosa da comprare: le persone con un bas-so coefficiente economico sono indicate con il termine waste, ‘spazzatura’. I consumatori con un elevato valore di mercato si trovano nel gruppo shooting star: tra i 36 e i 45 anni sono dinamici, si svegliano presto per andare a correre, non hanno figli pur essendo sposati, fanno volentieri viaggi e guardano Seinfeld”!!!. Quindi i big data catalogano, informano e creano una società digitale di classi dove gli uomini vengono identificati

per il loro valore di consumatori (i dati vengono usati da banche e assicurazioni per dare o negare prestiti, ad esempio). E anche sul piano politico i big data sono un grande affare: “Nelle campagne elettorali statunitensi, big data e data-mining, si dimostrano nei fatti l’uovo di Colombo. Da fonti diverse vengono raccolte, anzi comprate, immense masse di dati, poi connesse tra loro in modo da produrre dei profili estremamente precisi degli elettori. Si ricorre al micro-targeting per rivolgersi ai votanti in modo mirato, con messaggi personalizzati, per influenzarli. Il micro-targeting come prassi della microfisica del potere è una psicopolitica basata sui dati…“. La nostra vita si riflette completamente nella rete digitale. Le nostre abitudini digitali offrono una copia esatta della nostra persona, del nostro ani-mo, forse persino più precisa o completa dell’immagine che anche noi ci facciamo di noi stessi”. A fronte di questa visione che spiazza e meraviglia, di controllo e dipendenza, Han cerca, alla fine, di trovare spiragli dai quali sfuggire; uno di questi è la filosofia, con la quale riflettere sul fatto che una mente allenata alla democrazia è esautorata da essa, se il liberismo economico è fon-dato sul controllo della psiche. “La storia, il futuro umano non sono determinati dalla probabilità statistica, ma dall’impro-babile, dal singolare, dall’evento. Così i big data sono anche ciechi verso il futuro”. Come disarmare la psicopolitica e non assoggettarsi al controllo psicologico? L’arte di vivere deve assu-mere la forma della de-psicologizzazione creando il vuoto, come scrive Han. Vale la politica del silenzio contro la psicopolitica ne-oliberale di una comunicazione e condivisione totali: Oggi non c’è scelta libera ma solo una selezione tra le scelte rese disponibili dal sistema e si può scegliere unicamente tra le opzioni offerte. Solo il vuoto non si lascia psicologizzare né soggettivizzare, e il silenzio stesso espresso da alcune dittature in momenti terribili, è valso a smorzare i peggiori intenti.

ing. Bruno RussoGiornalista

Byung-Chul Han

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“L’uomo è misura di tutte le cose” (Pitagora)

Sintomo, dal greco SYMPTỒMA, propr. Coincidenza che viene dalla radice SYMPIPTEIN: coincidere.

Fatto morboso che coincide con un altro fatto, che ne è l’effetto o il segno.

Fenomeno che accompagna una malattia e non soltanto una malattia e quindi generalmente Indizio, Circostanza che accompagna qualsivoglia cosa o soggetto.

In medicina si distinguono:

“Sintomi idiopatici” per designare malattie o processi patologici che si instaurano in modo apparentemente primitivo, senza cause note o dimostrabili .

“Sintomi simpatici” quando si osservano in un organo più o meno distante apparentemente.( Fenomenologia proiettiva).

“Sintomi subiettivi” o sensibili per il soggetto.

“Sintomi obiettivi” o sensibili per il medico.

Occorre a questo punto stabilire il concetto di “malattia”. Di solito viene operata, in medicina, una differenza tra stato morboso (o patologico) e malattia.

Lo stato morboso indica una condizione anormale, una deviazione della normalità, di una parte o di una funzione dell’organismo, mentre il rimanente organismo resta in condizione normale.

Per malattia, invece, si intende sempre la rottura del normale equilibrio di una struttura o di una funzione: si constata il passaggio dallo stato di salute allo stato patologico.

In genere, quando gli stimoli (trasmissione neuro-energetica) sono intensi e i meccanismi di regolazione non riescono a mantenere l’ apparente equilibrio strutturale e funzionale, allora origina la malattia, la quale, dunque, non è dovuta alla comparsa di meccanismi nuovi, ma piuttosto è il risultato di una alterazione delle condizioni dell’apparente equilibrio.

Equilibrio apparente poiché, in natura, il concetto di equilibrio è sempre in rapporto alle condizioni ed alle neuro-energie che lo consentono, per cui tale concettualità resta sempre astratta e al soggetto e all’ osservatore.

E’ chiaro che questa concettualità statica, nella concezione di equilibrio, ha permesso di coniare un altro concetto astratto: omeostasi, che indica la costanza dei valori con cui si esprimono le svariate funzioni vitali. Questo termine, quindi, significa la costanza di una data funzione come risultato dell’intervento di una serie di fattori regolatori che la mantengono a quel determinato livello ( Cannon WB.,Physiol. Rev.,1929,399).

A tal punto non possiamo non considerare i vari fattori che in medicina vengono considerati predisponenti, che vengono classificati in intrinseci ed estrinseci.

Ogni singolo individuo, quindi, reagisce in modo proprio ad un qualsiasi evento patogeno. Esso può anche essere refrattario o anche predisposto.

Naturalmente, in questa indagine va tenuto presente la Specie, la Razza, l’ Età ed il Sesso Maschile o Femminile, l’ Alimentazione, l’appartenenza ad un determinata Regione Geografica ( GEOANTROPOMORFISMO), etc..

Il rapporto tra struttura o costituzione e malattia è stato sempre tenuto presente nello studio della disciplina medica.

I concetti di robustezza e di debolezza sono, infatti, nozioni rudimentali.

Il comportamento di differenti individui di fronte ad una stessa causa patogena è differente. Questo dipende da una sensibilità strutturale diversa. Sotto questo aspetto, si può affermare che ogni organismo ha una sua propria individualità.

In medicina a questa condizione è stato dato il nome di costituzione e da noi meglio definita STRUTTURA BIOLOGICA, alla quale sottende l’ORGANIZZAZIONE BIOENERGETICA per l’Uomo, FITOENERGETICA per le piante, e così per ogni Rappresentazione Morfologica.

Il Di Giovanni A., Commentari clinici dedotti dalla morfologia del corpo umano,1907, iniziò ad usare il metodo morfologico basato sulla antropometria anatomica per determinare una tipologica costituzionale. Egli stabilì, in tal modo, che vi sono individui che hanno arti lunghi e statura elevata e tronco esile ( 2° combinazione); altri hanno gli arti corti e quindi bassa statura e ronco tozzo (3° combinazione ); altri infine occupano una posizione intermedia per

La Sintomatologia quale epifenomento dell’organizzazione biologica strutturale

Psicoanalisi

di Enrico Venga

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una giusta proporzione fra la lunghezza degli arti, la statura e i diametri del tronco ( 3° combinazione).

Il suo allievo Viola G., Gli abiti costituzionali fondamentali e la legge universale che li determina,1926, prese come misura basale il volume del tronco o valore del tronco, determinando col metodo statistico tale valore. Stabilì ed individuò, in base a questi parametri statistici, i microsplancnici, i megalosplancnici ed i normosplancnici.

Le caratteristiche biologiche costituzionali furono già studiate da Ippocrate e Galeno (Scuola ippocratica).

Kretschmer E., Korperbau und Charakter,1921,si avvalse della dottrina dei quattro temperamenti che risale alla medicina di Ippocrate (V-IV sec.a.C.) e Galeno (II sec. d.C.). Essa deriva dalla concezione filosofica di Empedocle (V secolo a.C.) secondo cui la natura è costituita da quattro elementi fondamentali: terra, acqua, aria e fuoco.

Lo stesso neuropsichiatra tedesco Kretschemer scrive:“Ciò che noi chiamiamo anche, in prosa più descrittiva, tipi costituzionali (…) Un tipo vero può essere riconosciuto dal fatto che esso conduce a sempre maggiori connessioni d’importanza biologica. Dove vi sono molte e sempre nuove correlazioni con i fattori biologici fondamentali (…) abbiamo a che fare con punti focali della più grande importanza”. E considera la presenza nell’organismo umano di quattro liquidi o “umori” fondamentali corrispondenti, rispettivamente, ai quattro elementi: bile nera (terra), flegma (acqua), sangue (aria) e bile gialla (fuoco). Alla sua tradizione viene ricondotta la suddivisione della struttura somatica in due tipi principali di soggetti: - longilinei ed esili; - tarchiati e corpulenti. Salute e patologia che dipendono dalle caratteristiche della mescolanza organica dei quattro umori in associazione con diverse condizioni interne ed esterne (es.: calore, umidità, stagioni, clima,

ambiente).

La predisposizione ad alcuni disturbi (es.: circolatori o polmonari) dipendono dal tipo di temperamento, umore predominante e caratteristiche individuali . Le osservazioni si inquadrano in un sistema concettuale in cui tendenzialmente predominano i fondamenti deduttivi. La tipologia somatica e quella temperamentale sono riconducibili a categorie discontinue, chiuse, a base qualitativa. Questa concezione è stata tramandata in ambito filosofico sino a Kant e, successivamente, è stata ripresa dalla psicologia.

E. Kretschmer (1888-1964) studiò i rapporti tra il fisico ed il temperamento.

Classificò i Tipi fisici (1921) in: Picnico: pronunciato sviluppo periferico delle cavità del corpo (testa, torace ed addome) e tendenza all’accumulo del grasso corporeo; Atletico: forte sviluppo dello scheletro, dei muscoli e delle spalle. Astenico o leptosomo: deficienza di spessore unita ad una notevole lunghezza media; Displasico con caratteristiche somatiche fuori dalla norma.

Sheldon W.H., The varieties of human physique,1940, identificò tre principali tipi costituzionali: endomorfo, mesomorfo ed ectomorfo.

Ad ogni modo, quando si parla di costituzione e di tipi costituzionali si considera la variazione fisiologica dai caratteri normotipici.

In tal caso si parla di status patologici e possono essere: costituzione astenica di Stiller B. (1837-1922) ; la costituzione presente, nella quale le alterazioni corporee tendono a comparire fin dai primi anni di vita; la costituzione ipoplasia, nella quale si ha un arresto dello sviluppo in toto e condizioni di infantilismo.

Per quanto riguarda il ruolo dell’eredità come fattore predisponente, nella maggior parte dei processi o status patologici si assiste ad un’ interazione di varia proporzione e misura fra l’influenza della costituzione genetica e quella dell’ambiente, cioè del duplice e combinato intervento della nature e nurture degli AA. inglesi.

A tal uopo bisogna precisare che qualsiasi ambiente od organizzazione comunitaria o sociale sia esso individuale o sociale è sempre e soltanto riferito all’Uomo (SOCIOANTROPOMORFOLOGIA).

Bisogna, altresì, tener presente che questa possibilità Mutazionale-Trasformazionale non è volontaria, ma è determinata ed indotta dallo stesso Universo .

Uno sguardo va rivolto anche all’ Inquadramento Neurovegetativo Omotossicologico, sintesi del concetto costituzionale occidentale che considera sia la struttura fisica, rifacendosi ai grandi

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costituzionalisti Italiani e Francesi quali Nicola Pende (1880-1970) e Martiny Marcel con la sua tipologia divisa in quattro tipi: endoblastico, mesoblastico, cordoblastico o ortoblastico e ectoblastico, sia alla reattività psichica, basandosi sui lavori di psichiatri quali Jung C.G. (1875 -1961) e, soprattutto, Heysenck Hans (1916-1997) con la sua Teoria dei tre super-fattori: estroversione-introversione e nevroticismo, ai quali successivamente aggiunge lo psicoticismo. Questi tre fattori sono posti all’apice di un’organizzazione gerarchica nella quale ogni superfattore ( es. estroversione) somma un insieme di tratti più specifici ( es. socievolezza, impulsività, vivacità ed eccitabilità) che a loro volta sommano configurazioni comportamentali abituali ( es. divertire le persone), che organizzano una varietà di comportamenti specifici al livello più basso della gerarchia ( es. raccontare barzellette).

Secondo alcuni AA. la struttura corporea di un individuo é strettamente influenzate dalla funzione endocrina; pertanto, l’inquadramento del paziente nello schema Neurovegetativo Omotossicologico (che considera costituzione fisica e personalità) permette di risalire all’eziopatogenesi del disturbo endocrinometabolico. La novità di questo approccio risiede nel fatto che le ghiandole endocrine non vengano più considerate strutture isolate, bensì in stretta relazione tra loro. Da questo equilibrio e dalla prevalenza funzionale dell’una sull’altra, pur nell’ambito della variabilità fisiologica, si determina l’espressione di una precisa tipologia costituzionale. – Si distinguono due grandi gruppi di costituzioni, quelle ipermetaboliche-cataboliche e quelle ipometaboliche-anaboliche, in relazione alla funzione della Tiroide e del Corticosurrene. Un ulteriore fattore di distinzione è l’espressione di una reattività organica di tipo stenico o astenico che dipende dal rapporto funzionale tra Epifisi ed Ipofisi. Si vengono, in tal modo, a configurare quattro costituzioni, peraltro coincidenti con il classico bio-costituzionalismo Ippocratico, che corrispondono a quattro atteggiamenti endocrini che condizionano, a propria volta, il metabolismo dei quattro diversi tipi costituzionali.

Alcuni AA. distinguono, tra le cause dei sintomi, quelle patogenetiche (che provocano fenomeni) e quelle patoplastiche (che solo danno loro forma).” (Jaspers K., Psicopatologia generale (1913 – 1959), 1964, 493).

«La teoria della comunicazione giudica un sintomo come un messaggio non verbale. Non sono io che non voglio (o che voglio) far questo, è qualcosa che non posso controllare, p.e. i nervi, la malattia, l’ansia, un difetto della vista, l’alcool, l’educazione che ho ricevuto, i comunisti o mia moglie» (Watzlawick P. – Beavin J. H. – Jackson D. D.).

Nel mondo psicologico la concettualità sintomatica viene ascritta a determinati processi inconsci che, tutto sommato, rientrano nella nostra univoca ricerca.

“ In questa dimensione il sintomo non viene più definito un compromesso tra una difesa e un impulso inconscio, ma un modello di interazione in un certo contesto interpersonale, un tentativo per manipolare, affrontare e disarmare gli altri. «Per esempio, accade spesso che un sintomo, rimasto refrattario alla psicoterapia malgrado l’analisi intensiva della sua genesi, riveli d’improvviso la sua importanza se lo si considera nel contesto di una interazione coniugale in corso tra un individuo e sua moglie (o suo marito). Il sintomo può allora assumere l’aspetto di un vincolo, di una regola del loro particolare ‘gioco’ di interazione, anziché essere la conseguenza di un conflitto irrisolto tra forze intrapsichiche puramente ipotizzate. In genere, riteniamo che il sintomo sia un comportamento i cui effetti influenzano profondamente l’ambiente del malato. A questo proposito si può enunciare una regola empirica: dove resta oscuro il perché? di un comportamento, la domanda a quale scopo? è possibile che dia una risposta valida” (Watzlawick P. – Beavin J. H. – Jackson D. D.).” (Hinsie E. Leland, Campbell J. R., Dizionario di Psichiatria, 1979, 713)

Secondo lo psicoanalista Lacan “Il sintomo qui è il significante di un significato rimosso dalla coscienza del soggetto. Simbolo scritto sulla sabbia della carne e sul velo di Maia, esso partecipa del linguaggio attraverso l’ambiguità semantica da noi già posta in rilievo nella sua costituzione.”( Lacan J., Scritti, vol. I, 1966, 274).

“Nell’ambito della medicina, la psichiatria si occupa bensì di descrivere i disturbi psichici osservabili e di raggrupparli in determinati quadri clinici, ma nei loro momenti di sincerità gli stessi psichiatri dubitano che le loro esposizioni puramente descrittive meritino il nome di scienza. I sintomi che compongono questi quadri morbosi sono sconosciuti per quanto riguarda la loro origine, il loro meccanismo e i loro reciproci legami; ad essi non corrisponde alcuna dimostrabile alterazione dell’organo anatomico della psiche, oppure vi corrispondono alterazioni dalle quali non si può trarre alcun chiarimento. Questi disturbi psichici sono accessibili a un influsso terapeutico solo quando possono venire riconosciuti come effetti collaterali di una qualsiasi altra rappresentazione organica. Ecco la lacuna che la psicoanalisi si sforza di colmare. Essa vuole dare alla psichiatria il fondamento psicologico che le manca; spera di scoprire il terreno comune sulla cui base divenga comprensibile la convergenza del disturbo fisico con quello psichico.” (Freud S., Opere 1915 – 1917, vol. VIII, 1976, 204).

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Psicoanalisi

“Non solo, di norma, il senso dei sintomi è inconscio; esiste anche un rapporto di interscambiabilità fra questa inconsapevolezza e la possibilità di esistenza dei sintomi stessi. Capirete subito che cosa voglio dire. Affermo, con Breuer, che ogniqualvolta ci imbattiamo in un sintomo possiamo inferire che nell’ammalato esistono determinati processi inconsci, i quali contengono appunto il senso del sintomo. Ma è anche necessario che questo senso sia inconscio, affinché il sintomo si instauri. Processi consci non danno luogo a sintomi; non appena i processi inconsci in giuoco sono divenuti consci, il sintomo scompare. (” Freud S., Opere 1915 – 1917, vol. VIII, 1976, 441).

“Noi siamo troppo propensi a credere che la formazione del sintomo ponga termine al conflitto che sta alla base della nevrosi. In realtà la lotta prosegue anche dopo in larga misura. Da entrambe le parti compaiono nuove componenti pulsionali che la fanno continuare . Lo stesso sintomo diventa l’oggetto di questa lotta; certe tendenze che mirano a conservarlo si scontrano con altre tendenze che si sforzano di sopprimerlo e di ripristinare la situazione precedente. Spesso si cercano dei modi per neutralizzare il sintomo, e cioè altre vie di accesso attraverso cui riguadagnare ciò che è stato perduto e che il sintomo impedisce di ottenere. Tutto questo contribuisce a chiarire l’affermazione di Carl Gustav Jung secondo cui l’elemento fondamentale che determina la nevrosi è una particolare ‘inerzia psichica’ che si oppone al cambiamento e al progresso. In effetti quest’inerzia è qualcosa di assai peculiare; non è affatto generale, ma altamente specializzata ; non ha un potere assoluto neanche nel suo ambito, anzi lotta con tendenze che mirano al progresso e alla guarigione e che restano attive anche dopo la formazione dei sintomi nevrotici. Se cerchiamo qual è il punto di partenza di questa particolare forma di inerzia, scopriamo che essa è la manifestazione di legami difficilissimi da sciogliere che si sono instaurati in epoche assai remote fra determinate pulsioni e impressioni e gli oggetti collegati ad esse; questi legami hanno bloccato lo sviluppo ulteriore di queste stesse componenti pulsionali. Oppure, in altri termini, quest’ ‘inerzia psichica’ specializzata è solo un’espressione diversa e probabilmente non migliore per indicare ciò che in psicoanalisi siamo abituati a chiamare ‘fissazione’. (” Opere 1915 - 1917, vol. VIII, 1976, 167).

Lo stesso Jung C. G. nel suo scritto “Tipi Psicologici” basa tutto sulla distinzione tra introversione ed estroversione. E definisce il tipo “ come un modello che ripropone in modo peculiare il carattere di una specie o di una collettività. Nel senso più ristretto del presente lavoro, il tipo è il modello caratteristico di

un atteggiamento generale che ricorre in molte forme individuali” (1921,491).

La teoria di Jung si basa sulla distinzione tra introversione ed estroversione. Nella nostra cultura il termine introversione tende ad avere un significato leggermente negativo. Non è così nella teoria junghiana. L’introversione non è né meglio né peggio dell’estroversione. Questa dimensione ha infatti a che fare con l’orientamento dell’energia psichica. Un introverso tende ad orientare la sua energia psichica verso il mondo interiore (pensieri ed emozioni) mentre l’estroverso orienta la sua verso il mondo esteriore (fatti e persone). Ciascuno di noi utilizza questi due orientamenti ma generalmente uno tende a prevalere sull’altro in maniera più o meno marcata. La prima finalità del test è di capire quale è il nostro orientamento prevalente. In secondo luogo, Jung distingue quattro funzioni psichiche che sono il pensiero, il sentimento, la sensazione e l’intuizione. Ciascuna di queste funzioni ci consente di adattarci al mondo e alla vita. Il pensiero utilizza dei processi logici, il sentimento utilizza dei giudizi di valore, la sensazione percepisce i fatti e l’intuizione percepisce le possibilità presente dietro i fatti.

Alla luce di quanto esposto,noi riteniamo che l’ ORGANIZZAZIONE BIOENERGETICA individuale, che supporta la Struttura Biologica con le sue continue Mutazioni-Trasformazioni rappresentative-morfologiche, è la sola che può determinare un Epifenomeno sia fisiologico sia fisiopatologico: ed è in tal senso che le apparenti diverse rappresentazioni sintomatiche coincidono.

prof. Enrico Venga Psichiatra

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«L’universo non ha un centro, ma per abbracciarsi si fa cosí: ci si avvicina lentamente eppure senza motivo apparente, poi allargando le braccia, si mostra il disarmo delle ali, e infine si svanisce, insieme, nello spazio di carità tra te e l’altro».(Chandra Livia Candiani La bambina pugile ovvero la precisione dell’amore Einaudi 2014) “Roma- Zurigo solo andata” edizioni goWare, è un viaggio on the road, quasi un diario, che pone al centro della riflessione

l’evolversi di una malattia devastante come la SLA e il diritto a morire di un uomo. Il protagonista, un formatore senior, ripercorre la sua vita con estrema lucidità e decide di programmare un viaggio attraverso l’Italia fino a Zurigo, per affrontare, in compagnia dei figli, quella che potrebbe essere la prova finale. Il viaggio diventa occasione per ritrovarsi, per parlarsi, per affrontare argomenti “scabrosi” con una modalità del tutto inaspettata. Non mancano

sorprese, imprevisti e colpi di scena… Questa in sintesi la trama del bel romanzo di Stefano Talamo, presentato nello Spazio Guida dal Centro Studi Erich Fromm. Ha detto la Presidente Silvana Lautieri: ”Occorre saper gestire le perdite per crescere e il libro una mano la dà con serena introspezione. Sa cogliere quel soprassalto di umanità e di residue energie vitali anche nelle fasi più devastanti della SLA”. Ha fatto seguito la relazione di Luigi Caramiello docente di Sociologia. Il libro di Stefano diventa spiraglio narrativo su un approccio al paziente e alla malattia di cui oggi si parla con sempre maggior insistenza: la medicina narrativa. La medicina narrativa, nata proprio per colmare la distanza tra la Medicina Basata sull’Evidenza e la necessità di prendere in considerazione per la cura gli aspetti personali del malato, arricchendosi di un dispositivo universale, la scrittura. Tra la medicina basata sull’evidenza e la medicina narrativa

persiste però una forma di relazione gerarchica, ancillare. Difatti a quest’ultima le si riconosce unicamente una funzione di aiuto, di sussidio, al più, di integrazione a quella tradizionale Per rigore procedurale e protocollare la medicina evidente ha il suo statuto, le sue evidenze, mentre quella narrativa viene assorbita all’ambito dell’arte, della letteratura, della poesia, della pedagogia. Ha, se si può dire, uno statuto integrativo… Per provare a disturbare (che secondo Didier Anzieu è il ruolo del filosofo) si possono introdurre alcuni interrogativi. Ad esempio: “qual è lo statuto epistemologico della scienza medica?”Partendo dalla descrizione di Ippocrate, il cui giuramento è ancora oggi riconosciuto e condiviso, è possibile intercettare 3 dimensioni:1) Anamnesis, comprende i ricordi, la storia individuale del paziente2) Diagnosis, la descrizione dello stato attuale del paziente mettendo insieme la sintomatologia3) Prognosis, la previsione della malattia nel futuro. Da qui è possibile fare tre osservazioni:a) Queste tre dimensioni fanno riferimento a tre dimensioni temporali (Passato, Presente, Futuro)b) Ippocrate evidenzia che sia la dimensione Anamnesis che Prognosis non sono riferite alla malattia in astratto. Il riferimento deve essere fatto su quel paziente, su di lui e nessun altro.c) Tutte e tre le dimensioni fanno riferimento a tre narrazioni: storica, del presente, del futuro che verrà (reale o ipotizzato). E’ dunque possibile asserire che la base della medicina scientifica è una base narrativa? Ed è possibile asserire inoltre che sia stata la medicina tradizionale ad essersi allontanata dalla sua definizione originaria?Un altro interrogativo riguarda la posizione che afferma la superiorità della medicina tradizionale rispetto a quella narrativa. Se andiamo a guardare il presupposto intorno alla nozione di Terapia, si nota che la parola deriva dal greco Terapeia e significa Servizio. Patroclo, così come ce lo presenta Omero, è il terapeion di Achille. Non gli somministra farmaci ma è totalmente a sua disposizione, presente, sollecito.Si limita ad ascoltarlo, lo riprende, gli suggerisce opzioni. Achille sa che c’è qualcuno al suo servizio, completamente disponibile. L’equivalente latino è la parola Cura - l’importanza delle parole - il cui significato è preoccupazione, sollecitudine. Cura è un verbo intransitivo. Sono in cura, sono in ansia, ho cura di, nei confronti della persona. Il termine semantico riguarda la persona. Nel tempo abbiamo assistito ad un graduale passaggio da una dimensione soggettiva ad una oggettiva: la Cura è passata dall’essere un verbo intransitivo ad uno transitivo. Per cui

Approccio al paziente: la narrazione curativa

di Matilde Cesaro

Psicologia Clinica

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il presupposto reggente sembra essere diventato: attraverso la somministrazione della cura (altro da me) me ne libero. Quando rendo la cura (somministrazione diagnosi, farmaci, …) il compito del medico si esaurisce. E la parola “Cura” viene rovesciata dal suo significato originale. Un ultimo interrogativo potrebbe riguardare il cosa si intende per medicina scientifica: “Qual è dunque il suo statuto?”. Già Ippocrate provò a dare una risposta. La medicina non può pretendere di raggiungere la certezza assoluta proprio per la materia di cui tratta. La materia umana è imprevedibile (essendo diversi gli uni dagli altri) ed è caratterizzata dalla non predicibilità degli eventi (vedi i km di precauzioni ed effetti collaterali noti e non noti nel bugiardino di molti farmaci). La deduzione è che la medicina se da un lato non procede a caso, dall’altro però non può definirsi pienamente empirica. Allora la domanda finale è: “Cos’è?” La risposta potrebbe trovarsi in un altro termine greco: Techné, che significa Tecnologia e Arte (vedi l’occhio clinico). Quindi se la medicina è un’arte, il modello a cui tendere è quello per assimilazione delle due medicine, delle due arti, tenendo conto che quando si parla di pazienti, di cura, di malattia si fa riferimento a:- Questa persona qui- Con questo coinvolgimento, col prendere in cura- Con la modalità del buon nocchiere, che in presenza di burrasca sa individuare la direzione e la rotta da percorrere. Il punto di vista della medicina narrativa è concentrarsi sulla persona, su quella particolare persona malata, caratterizzata da una storia individuale originale e unica che ha subito una frattura nella trama esistenziale individuale, un evento inatteso, che ha interrotto la quotidianità e al quale si fatica ad attribuire un senso. La narrazione, in forma orale o scritta, può offrire uno strumento prezioso per riconoscere significati in questa esperienza traumatica, e facilitare il ricostruirsi delle nuove identità che ne scaturiscono. Narrare l’esperienza di malattia è una strategia che può aiutare il malato a “rimettere insieme i pezzi”, le parti di quel sé che la malattia ha prepotentemente frammentato. Sarebbero possibili alcune modalità tra cui la realizzazione di un “diario” che riporti:· Ricordi legati all’esperienza di malattia· Idee, pensieri su quanto accade · Emozioni in relazione all’esperienza di malattia (il malato si aspetta di essere ascoltato, ma soprattutto compreso, non solo sul piano biologico, ma anche su quello esistenziale.)· Sogni che svelano aspetti della malattia a volte taciuti· Desideri· Aspettative Per valorizzare la storia del paziente, per diventare tessitori di storie, per creare una trama il cui fine è l’alleanza terapeutica. Sarebbe dunque auspicabile nel tempo parlare di narrazione curativa al posto di medicina curativa.

Matilde CesaroEsperta in metodologie narrative e storytelling

Programma Fromm 201811 dicembre 2017: Cerimonia inaugurale del 28^ anno di attività socio culturale: Circolo Uff. Marina Militare: Concerto di L. Porcelli e A. Longarzo

5 febbraio 2018: Salotto Teresa Rossi: “ Dispersione scolastica e povertà educativa: quale rimedio ?” Intervento di M. Rossi Doria. Introduce G. Boccarello

28 febbraio 2018: Salotto Teresa Rossi: “ Vesuvio “ le liriche di D. Vajatica. Intervento di R. Sinno. Voce di L. Palermo. Alla chitarra E. Baldascino

27 marzo 2018: Circolo Nautico Posillipo: “ Maria la Bailadora” di A. Parisi. Intervento di M. Giancaspro. Alla chitarra E. Baldascino e S. Petrucci.

13 aprile 2018: Istituto Salesiano Sacro Cuore.“ La verità scientifica alla luce del rapporto tra fede e ragione”.Interventi di R. Sinno e Don A. RussoModeratore Don Pasquale D’Angelo

19 aprile 2018: Circolo Nautico Posillipo.“Il dito “ di Rino Carone.Interventi di G. Boccarello e B. Russo. Lettura di T. Rossi

7 maggio 2018: Editore Guida –Via Bisignano.“Roma – Zurigo, solo andata” di Stefano Talamo.Intervento di Luigi Caramiello.

15 maggio 2018: Circolo Nautico Posillipo.“ Canto ed incanto della musica e della poesia: percorso storico – poetico dal 1200 al 1900 “ ,con gli autori stranieri più significativi dell’ arte, della parola e della musica.Con Raffaele Piscopo. Tecnico musicale G. Navarra.

3 ottobre 2018: In collaborazione e presso la Comunità ebraica di Napoli “ Il Giorno dell’ Uomo” 4^ edizione.Intervento di L. Caramiello sul tema: “Il nuovo umanesimo come frontiera della libertà”.con la partecipazione del prof. Alfredo Tedeschi al quale si consegna “Il Cavallo lavico” dell’ Erich Fromm.

8 novembre 2018: Circolo Posillipo. In collaborazione con il Centro Studi Michele Prisco: “Mente biologica e mente artificiale” verso una nuova alleanza Uomo - macchina: applicazioni nelle geo scienze ed in altre discipline Scientifiche. Interviene, con l’autore P. dell’Aversano, M. Fede

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Psicologia sperimentale

Vi sono di certo, nel nostro corpo e nel nostro cervello, molecole capaci di costringerci a comportamenti che in qualche caso possiamo controllare e in qualche altro caso, no e ne restiamo soggiogati. L’”ossitocina” è una di siffatte molecole, un ormone peptidico composto di 9 aminoacidi che il nostro organismo normalmente produce e che ha l’effetto simile al leggendario elisir. Quello di Tristano e Isotta. La loro vicenda è imperniata su una trasformazione della relazione tra i due protagonisti: Isotta chiede alla fedele ancella Bagamia di prepararle un filtro di morte, ma Bragamia prepara invece un filtro d’amore, che sia Tristano sia Isotta bevono, ignari degli effetti che esso produrrà. La misteriosa pozione scatena in entrambi la passione più profonda e porta l’uno e l’altro a uno stato di rapimento che nulla può infrangere. L’ossitocina influenza un’intera gamma di comportamenti, materni, sessuali, di locomozione, di cure personali, facilita le interazioni sociali, induce legami tra i partner dell’accoppiamento. Secondo una recente ricerca dell’Università di Maryland of school of medicine, di Maryland, l’ossitocina aiuta a contrastare l’ansia e lo stress. L’ossitocina configura l’ormone della felicità, ed è con essa che la mente parla al corpo e il corpo alla mente, e la vita parla alla vita. A livello emotivo, questo mediatore chimico ha enormi benefici sulle persone, con ricadute positive nell’ambito non solo della coppia, ma delle relazioni interpersonali in genere e della socializzazione in senso lato. Oggi, a questo insieme di proprietà ormonali, si aggiunge una proposta choc di trasformare l’ossitocina in droga, allo scopo di manipolare la mente. Un qualcosa che ricorda molto da vicino il leggendario filtro di amore. L’idea è di Giliberto Corbellini, storico della medicina e bioeticista, per il Cnr (Consiglio Nazionale delle Ricerche) e l’Università Sapienza di Roma. che su Wired, ha pubblicato un suo articolo “Come si possono combattere razzismo e xenofobia con la scienza?” molto critico nei confronti, soprattutto, del leader della Lega Matteo Salvini e di tutto quel popolo verde, e non solo, che lo vota, In esso l’autore parla della concreta possibilità di drogare tutti gli italiani facendo loro inalare l’ossitocina artificiale, allo scopo di guarirli dal razzismo, portandoli all’accettazione degli immigrati. Corbellini, a sostegno della sua proposta, rilancia una ricerca realizzata, circa un anno fa, da un gruppo di studiosi

dell’Università ospedaliera di Bon in collaborazione con il Laureate institute for brain reaearch di Tulsa (Stati Uniti) e con l’Università di Lubecca, nel quale si è documentato quanto segue: i tedeschi cui è stata somministrata ossitocina, tramite spray nasale, e che hanno ricevuto contemporaneamente un condizionamento mentale positivo, sono apparsi prodighi verso i profughi. Forte di questo riferimento, Corbellini sentenzia di somministrare alla gente l’ossitocina per abbattere “l’innata tendenza” verso gli immigrati. E così riassume la sua conclusione: “ Lo stimolo combinato e influenza dei pari sembra dunque diminuire le motivazioni egoistiche, potenziando il comportamento altruistico verso gli immigrati.”. Capito? La soluzione del problema del razzismo esiste! Dunque, nello specifico: “Basta drogare la popolazione, con i suoi tantissimi analfabeti funzionali, facendo inalare ossitocina e condizionandola con apposita propaganda. In conclusione. “ Che farne di queste scoperte?”, si chiede Corbellini. “Ci si potrebbe ragionare, ma nessun politico ha mostrato interesse.” Bhè, grazie al cielo, non sono arrivati al punto “ridicolo”. di volere trasformare fare gli italiani un popolo di yes. Il tentativo di Corbellini è stato definito folle, ma certamente può considerarsi riprovevole e inaccettabile sul piano etico. Di fatto, la psicologia sperimentale mette a disposizione tecniche di manipolazione della mente che avvengono attraverso buone modalità comunicative, con cui si riesce a veicolare messaggi semplici, anche se profondi e sorprendenti, concreti e credibili, facendo leva sui fattori emotivi. Questa è la strada da seguire. Se dovesse occorrere.

Prof. Dott. Pasquale Perrotta

L’ossitocina, l’ormone della felicità e dell’amore: tentativi folli di trasformarla in droga per manipolare la mente.

di Pasquale Perrotta

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Psicosociologia

È il concetto cardine del pensiero di Socrate, maestro di Pla-tone e primo dei tre grandi filosofi greci (assieme allo stes-so Platone e ad Aristotele). Ma cosa significa, precisamente, questa frase? Un suo amico, Cherefonte, si era recato a Delfi. Qui aveva parlato con l’oracolo alla sacerdotessa di Apollo se esistesse qualcuno più sapiente di Socrate. Questa aveva risposto che non c’era nessuno più sapiente del suo amico Socrate. Cherefonte ,ovviamente, riferì del suo colloquio a Socra-te, che subito iniziò a interrogarsi. Il pensatore greco non si riteneva certamente un sapiente. Gli pareva, anzi ,che tutti attorno a lui sapessero molte cose che egli ignorava comple-tamente.Per questo decise di cominciare a dialogare con gli uomi-ni più stimati di Atene, per cercare di verificare le afferma-zioni dell’oracolo. Soltanto che la dialettica con i sapienti dimostra che queste sagge persone, in realtà, non sapevano nulla e non riuscivano nemmeno a centrare la vera essenza dell’argomento che si dovesse trattare ed usavano la loro insipienza oratoria soltanto per dimostrare ciò che non sa-pevano e né avevano la possibilità e la capacità di conoscere. Infatti, tuttora, si usa la stessa dialettica per meglio “sapersi” rappresentare, al di là della vera e profonda analisi della co-noscenza.

Tramite questi dialoghi, Socrate andò infatti delineando il suo metodo. Un metodo che permetteva di far capire all’in-terlocutore che le sue certezze erano in realtà superficiali e poco fondate.

Socrate, infatti, poneva alla persona, che aveva di fronte, una serie di brevi domande, spesso ingenue. In questo modo chiedeva spiegazioni su cose apparentemente banali, ma che banali in realtà non erano.

Così facendo, Socrate arrivò a formulare la frase che potete leggere all’inizio di questo articolo. Nessuno dei suoi inter-locutori, messo alla prova, si dimostrava in effetti sapiente. Tutti, illusoriamente, credevano di sapere, ma in realtà non sapevano, perché fondavano le loro conoscenze su concetti acquisiti.

Essi, quindi, non erano in grado di affrontare a fondo l’ar-gomento di cui si discuteva, proprio come Socrate. Socrate,

però, in compenso, almeno una certezza l’ aveva: egli fin dall’inizio sapeva di non sapere. Questa certezza costituiva la conoscenza più alta e importante: la consapevolezza della propria ignoranza, che, purtroppo, manca nella nostra cosid-detta società civile. Forse,viene da chiedersi: la stessa orga-nizzazione “civile” è sinonimo di ignoranza dell’ Uomo ? così com’è stata concepita e strutturata ? ma, come potrebbe essere strutturata diversamente, se i presupposti dell’ Uomo sono questi ? I sofisti della peggiore Specie esisteranno sem-pre ?

Tuttavia, questa consapevolezza di non sapere può essere considerata un PARADOSSO SOCRATICO, che ha, però, un unico significato:

a) Se conosco,consapevole, so anche di non poter co-noscere tutto anche se riferito ad un semplice e banale argo-mento;

b) Se non conosco,consapevole, so anche di non poter conoscere tutto, anche se riferito ad un semplice e banale ar-gomento.

Questa consapevolezza, a mio avviso, rappresenta la base di ogni processo cognitivo, per cui essere esperto o colto o non essere esperto o colto, come dir si voglia, di un qualsiasi ar-gomento si parte sempre dalla stessa certezza. Tali modo, soltanto la ricerca è d’obbligo per la eventuale conoscen-za-non-conoscenza, come opportunamente sostiene lo stesso Socrate: “Una vita senza ricerca non è degna per l’uomo di essere vissuta”.

dott. Daniela Venga

Il paradosso socratico nell’organizzazione della logica“So di non sapere”

di Daniela Venga

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Memorie

Erano già tre anni che avevo il permesso di andare a scuola da solo (500 metri da casa). E anche, qualche volta, di scendere a giocare al pallone, in una specie di campetto che era nei dintorni del mio con-dominio. Insomma, potevo allontanarmi dal perimetro dell’abitazione, ma non troppo. Per capirci, fino a piazza Mercato, senza nessuno che mi ci accompagnasse, tenendomi per mano, non ci ero arrivato mai. Quel giorno di aprile del 1967 invece decisi di provarci. Avevo letto sul giornale di papà, il titolo, a caratteri cubitali, sulla morte di Totò, con la notizia sui funerali e sentii il bisogno di andare a vedere, da solo. Come facevo quando mi concedevo certe passeggiate fino alla “piccola velocità”, lo stazionamento dei treni merce, affianco alla stazione vera e propria, e poi, attraversando un piccolo tunnel, arrivavo alla fontana della Sirenetta, che sta ancora lì, davanti all’ultimo binario della grande ferrovia di Napoli Centrale. Mi ricordo l’ansia che avevo addosso, mentre mi allontanavo da casa. Ma andavo. Così passai davanti al Cinema “Italia”, una sala di proiezione del dopolavoro FS, una platea da oltre 1000 posti, con anche l’arena scoperta, per vedere i film d’estate. Questo era un cinema di ter-za visione (allora esistevano ancora le classi, erano ben quattro, l’ultima si chiamava “altre visioni”) ed il biglietto costava 50 lire. L’Italia, che ora è una sede municipale del Comune di Napoli, era il mio limite “ter-ritoriale”, oltre il quale non dovevo mai andare, in qualunque direzione e per nessuna ragione. Quello era il confine. Arrivato lì dovevo tornare indietro, ripassando davanti ad un’altra stazione ferroviaria, che oggi si chiama “Terminal” della Circum, ma allora era solo la “Vesuviana”. Era proprio in quel cinema che avevo visto tante volte i film di Totò. Con i miei cugini, o con amici d’infanzia più grandi, che si can-didavano ad accompagnarmi, anche perché papà pagava il biglietto a tutti. E ci dava pure i soldi per le patatine, la Coca Cola, i pop-corn, i biscotti all’amarene. Certo, a volte Totò compariva pure alla TV, ma per me Totò era in quella sala cinematografica di pomeriggio, gremita di ragazzini, che ridevano, sghignazzavano, saltavano sulle sedie, fino a che non arrivava la “maschera” a rimettere ordine. E le pellicole che si spezzavano sul più bello. I fischi, le urla, gli strepiti. Il rumore del-le poltroncine. Con la seduta reclinabile, usata ritmicamente, come un tamburo. Le luci che si riaccendevano. Le proteste. Poi il guasto veniva riparato. Fine dell’interruzione, e Totò ricompariva sullo schermo con le sue smorfie. E ora Totò, proprio lui, stava arrivando, in carne ed ossa, a poche centinaia di metri da quel cinema, dove mi aveva fatto sganasciare dal-le risate tante volte. Ma per giungere lì alla Chiesa della Madonna del Carmine, dovevo, oltrepassare il “confine” stabilito, attraversare una strada molto trafficata, arrivare dall’altra parte , e camminando per una via stretta, che non avevo mai percorso da solo, raggiungere la piazza. Papà non sapeva niente. E se glielo avessi detto, certamente, non mi avrebbe permesso di andarci. E invece ero lì, in mezzo a una fiumana di gente che si dirigeva nella mia stessa direzione. Quando arrivai nella piazza capii che stavo partecipando a qual-cosa di grande, oggi direi di epico. Credo di non aver mai più visto un addensamento di gente così. Cominciai ad avere paura. Mi avrebbero

schiacciato. Ero piccolo, non mi vedevano neanche. E allora mi arram-picai su un muretto che cingeva la cattedrale e mi attaccai alle inferriate più in alto. Sono rimasto lì non so quanto tempo. 2 ore, 3 non lo so. Mentre la folla si faceva sempre più fitta. Si diceva che il feretro stesse per arrivare, ma non arrivava. E come avrebbe potuto fendere quella marea di gente? Poi, finalmente, la macchina arrivò. Non posso descrivere la scena, quello che accadeva sotto i miei occhi era veramente troppo, per la comprensione di un bambino che non aveva ancora 10 anni. Era sem-plicemente sconvolgente. Il carro funebre non poteva muoversi, la gen-te si pigiava da tutte le parti, alcuni rimanevano schiacciati, svenivano ed erano salvati a stento, sollevati a braccia sulle teste della folla. La gente sudava, l’aria era irrespirabile, i volti di persone adulte, segnati dalla vita, erano rigati di lacrime. Non ho mai visto niente del genere. Eppure, in quella calca, allucinante, inconcepibile, non c’era un gri-do, non si sentiva una parola, vi era un silenzio assurdo, e sotto solo un brusio greve, il respiro della folla, un rumore di fondo, la colonna sonora di un evento eccezionale, uno spettacolo di massa, la messa in scena spontanea di un dolore collettivo, ma in un clima di compostezza assoluta. Allora, che io ricordi, gli applausi ai funerali non si usavano. La folla riempiva l’enorme piazza, fino alla grande via Marina e le strade adiacenti, compresi tutti i vicoli che portavano al Corso Garibal-di, al Rettifilo. Una massa infinita, una marea. Non ho mai più veduto nulla di simile, neppure durante la festa per il primo scudetto del Na-poli. Quanti erano? 100mila? 300mila? Di più? Non lo so. Non credo si sia mai capito. E finalmente il feretro riuscì ad entrare nella chiesa. Quello che accadde dentro, durante la funzione, lo sanno in pochi. Io non riuscii ad entrare. Neppure ci provai, a dire il vero. Ma non ci po-teva riuscire nessuno. Non sarebbero bastate cento navate a contenere quella folla. Aspettavano tutti fuori. Ma la bara non uscì mai. Ho sco-perto poi che la fecero sortire da una porta posteriore, perché non era, letteralmente, possibile rifare il percorso all’inverso. Tornai a casa scosso, senza dire niente a nessuno, non potevo, chiaramente, confessare una violazione così grave dei miei obblighi di bambino, dissi che avevo fatto tardi perché ero rimasto a giocare a pin-gpong, nella saletta dei giochi, all’oratorio della Chiesa di Sant’Anna, che Don Mario Alfarano aveva messo in piedi, col cineforum e tutto il resto, per tenere un po’ a bada i ragazzi della zona. Ma quell’esperienza mi aveva scosso, tremendamente e, allora, non ne comprendevo la ra-gione. In effetti le mie conoscenze in fatto di partecipazione ad eventi di massa erano parecchio limitate, si risolvevano, in sostanza, nel fatto di accompagnare, ogni anno, mio padre, mano a mano, al corteo del 1° maggio, che partiva da piazza Mancini e si dirigeva su per il Corso Umberto. Basta. Ma quella era una passeggiata festosa, con tutti che si incontravano e si scambiavano saluti, almeno con il mio papà, che mi presentava tutti. E poi c’era spazio fra la gente, si camminava spediti, c’erano i coretti, gli slogan, striscioni, bandiere e le canzoni, al suono delle bande musicali. Ai funerali di Totò era stata tutta un’altra storia, c’era, intanto, mol-ta, ma credo molta più gente e soprattutto vi era una intensità, un senti-

Antonio de’ Curtis, in arte Totò:fenomenologia di un Principe democratico

di Luigi Caramiello

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mento corale, una tensione emotiva, potente, chiara, palpabile, persino una rabbia, una voglia di gridare, repressa, tenuta a freno. Si, io me li ricordo così. E mi ricordo la mia sensazione, un misto di fascinazione e stupore, ma anche di paura. Cosa rappresentava, per quel fiume uma-no, il corpo riposto in quella bara. Chi era per loro quell’uomo? Cosa ci facevano lì tutte quelle persone? Intanto, si stavano schiacciando, uno addosso all’altro, a migliaia sulle pareti dei palazzi, ammaccando le macchine parcheggiate. I balconi dei palazzi intorno erano stracolmi, vi era gente da tutte le parti, poteva accadere qualunque cosa. Io non mi muovevo dal muretto sul quale ero riuscito a salire. Da lì vedevo tutto, e mi sentivo meno a rischio. Fu un’esperienza sconvolgente. Poi, col trascorrere del tempo, non ci ho pensato più, almeno per un certo periodo, intanto che passavano gli anni. Anzi, ad essere sincero, nelle fasi successive la mia simpatia per il “principe della risata” cominciò a sfumare. Piano piano iniziai a dimen-ticarlo. Non ci andavo più a vedere i suoi film. Ormai ero ad un altro livello. Poi mi sentivo grande. Avevo raggiunto i 13, 14, 15, 16 anni e non passavo più i pomeriggi al cinema, a sganasciarmi con le gag di Totò al dopolavoro “Italia”, no, ora andavo a seguire le rassegne super impegnate e sofisticate, al cinema “No”, alla cineteca “Altro”, all’Astra. Oppure si andava a vedere Woodstook, 10 volte di seguito, diciamo abbastanza “storditi”, all’Italnapoli, gestito da un greco un po’ fuori di testa. Quando volevamo regalarci una serata cinematografica più “nor-male” allora si andava al Maximum, al Filangieri o all’America. Era il massimo della concessione al sentimento popolare. Non frequentavo più l’Azione Cattolica, ma le assemblee di Potere Operaio, e poi poco dopo, quelle del PCI, della Federazione Giovanile Comunista, le interminabili riunioni della direzione o della commissio-ne cultura. Leggevo l’Unità, Rinascita, Vie Nuove, Critica Marxista e compagnia cantante. E su quelle pagine, salvo eccezioni, le stronca-ture, sistematiche, ai film di Totò si sprecavano. Ma anche su buona parte della stampa “borghese” l’andazzo era lo stesso. Comicità di terz’ordine, battute pronunciate da un guitto di mezza tacca, cretinerie qualunquiste, giochi di parole da terza elementare. Insomma, era roba di infima qualità che aveva fatto, inspiegabilmente, il successo di una macchietta da avanspettacolo. Un preteso principe, di cui si sospettava-no finanche simpatie laurine, monarchiche. Povero Totò. Lui, che aveva sempre messo alla berlina i tiranni, i potenti, i despoti, i “caporali” di ogni tipo, di ogni colore, ora doveva fare i conti con la tirannia della critica, il potere degli stereotipi, il dispotismo ottuso dei colti. Ho sintetizzato in modo brutale quello che era il pensiero e il verbo di una parte considerevole, anzi egemone, dell’intellighenzia nazionale. Ma, vi prego di credermi, è una sintesi efficace e veritiera. Anche se Pasolini aveva fornito, già nel 1966, al povero Totò, una specie di uscita di sicurezza, una sorta di estrema unzione di sinistra e Goffredo Fofi, poi nel 1972, aveva richiamato intelligentemente l’attenzione sull’este-tica di Antonio de Curtis, in realtà era servito a poco, erano state solo lodevoli eccezioni, il resto era tutto improntato alla svalorizzazione si-stematica dell’artista. Io non mi sono mai accanito così, mai lo giuro, ma devo ammettere che il lavaggio del cervello, cui venivamo sottoposti in quella specie di “madrasse”, che erano i collettivi politici, le sezioni, le scuole di partito, aveva prodotto i suoi risultati. A me Totò continuava ad essere simpa-tico, ma sentivo intorno a me che questo non deponeva bene, e così in fondo, mi convincevo, pure io. Era una forma di comicità poco interes-

sante, insomma, questa “marionetta”, non era certo Buster Keaton, né poteva competere coi fratelli Marx, tantomeno si poteva paragonare a Chaplin. Totò mi appariva, ormai, come espressione di un “umorismo banale”, un esempio tipico di quel divertimento triviale e grossolano, primitivo, estraneo a qualsiasi finalità di elevazione morale, quelle cose, in altre parole, che Lukacs (1963) aveva bollato come amusement . In-somma, produzione di infimo ordine, che era sideralmente lontana dalle profonde meditazioni da cinephile cui ormai mi applicavo. E vai con le retrospettive del cinema ungherese, coi seminari su Dziga Vertov, Bu-nuel ecc. ecc. Tutta roba utile, importante e di pregio, non vorrei essere frainteso. Ma se “Picnic ad Hanging Rock” evocava significati così pro-fondi, che io ancora oggi fatico a cogliere, Totò invece niente. Su di lui si poteva sparare ad alzo zero. Bisogna dire che lo stesso Totò non rinunciava a fornire frecce all’ar-co dei suoi detrattori, partecipando a una buona serie di film di discuti-bile impianto e facendo girare parecchia paccottiglia. Tra l’altro anche in cambio di piccoli compensi. Ma il suo argomentare queste scelte, ebbi modo poi di scoprire, era davvero originale e suggestivo, non privo persino di una sua (socio)logica interessante. La sua tesi, in sostanza, era la seguente: Lui pensava di avere, nei confronti del mondo, un com-pito, un dovere, quello di far divertire la gente (che aveva tanti guai), di regalare un po’ di “distrazione”, in un significato forse meno profondo di quello di Bergson (1922), ma con continuità, ed a basso costo, non tanto nelle sale di lusso, ma nei cinema di quartiere, popolari, di perife-ria e aggiungeva che i produttori, se lui avesse preteso poco danaro (del quale ormai ne aveva abbastanza) avrebbero potuto guadagnare di più, e quindi messo in cantiere altri film, facendo lavorare altri attori, registi, comparse, tecnici. Insomma, usava argomenti in cui l’acume dell’economista e dell’a-nalista strategico sullo sviluppo dell’industria culturale (cfr. Morin, 1963), si coniugavano al distacco e alla nonchalance del vero signo-re, dell’aristocratico, per il quale, nutrire poco interesse nei riguardi del denaro è uno dei tratti più tipici: “noblesse oblige”. Insomma, io ho cominciato a non attuare più alcuna autocensura riguardo al piacere di vedere in scena Totò, a non vivere più con senso di colpa il fatto di divertirmi tremendamente a guardare i suoi film, in concomitanza con gli esiti, via via più promettenti, della mia lotta di “liberazione” dagli schermi deformanti dell’ideologia. Ecco, ora potevo finalmente guardare Totò in una luce diversa, po-

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tevo cogliere sfumature che le mie lenti offuscate mi avevano proibito, per molto tempo, di vedere. E così il genio, perché di questo stiamo parlando, cominciava a profilarsi davanti ai miei occhi in tutta la sua evidenza. Come era potuto sfuggire a tanti? Come avevano potuto va-lutarlo mediocre? Come avevano potuto giudicarlo in modo così ingiu-sto? Come si era prodotto, nella mente di tanti esperti e sapienti, questo abbaglio? In realtà si può capire. Riconoscere la maestria, il virtuosismo, il mestie-re, in un “genere” è cosa che, con un po’ di esperienza e applicazione, può riuscire praticamente a chiunque. Insomma, vi è un canone, un si-stema, più o meno codificato, e quello che vi aderisce pedissequamen-te, o semplicemente in modo meno maldestro, burocratico persino, è bravo. Insomma, funziona quello che sta dentro uno schema, magari apportandovi anche qualche piccolo contributo innovativo, ma senza strafare, del resto siamo (dobbiamo essere) dei nani, se appariamo così alti è solo perché ci siamo arrampicati sulle spalle dei giganti. Non è così che si dice? Con questa metodologia truffaldina non è così arduo riconoscere il talento di tante oneste mezze calzette, che riciclano materiali, estetici, scientifici, artistici, anche scadenti, ma di ordinaria amministrazione, galleggiando stabilmente in un mare di luoghi comuni e tipologie del tutto scontate e prevedibili, ordinarie. E’ roba facile da ricondurre a una visione familiare, domestica, rassicurante, che non crea inquietudini e spaesamenti, che rasserena, alla stregua di qualunque “metamorfosi conservativa” (Parlato, 2001), in grado di ricondurre l’emergenza di un fenomeno inedito allo scenario di un possibile deja vu. Insomma, del regolare, del conosciuto, dell’affidabile. Riconoscere cittadinanza al genio, in qualsiasi ambito, è invece assai più difficile, perché il genio, in quanto tale, ha l’inevitabile propensio-ne a destabilizzare le certezze acquisite. A operare perturbazioni degli schemi consolidati. Ed è anche per questo che, spesse volte, riesce a produrre autentiche e radicali innovazioni. Il genio, insomma, in molti casi, non si limita ad eccellere in un “genere”, lui ne inventa proprio un altro, si propone egli stesso come genere, come genere nuovo, originale. Insomma, il genio non si accon-tenta di far bene la sua parte, il genio inventa una parte inedita, che non è immediatamente riconoscibile e codificabile, soprattutto dai fruitori esperti, dai giudici patentati. Paradossalmente, il genio è più facile sia riconosciuto dalle masse, “che poi è la gente che fa la storia”, come di-rebbe De Gregori. Ecco perché Totò ha subito quella forma così becera e ottusa di ostracismo da parte della critica. Mentre i suoi film riscuote-vano enorme successo di pubblico e totalizzavano cifre da capogiro al botteghino. Forse non è un caso che “Uccellacci e uccellini”, uno dei rari mo-menti in cui la critica è stata clemente e persino generosa nei suoi ri-guardi (chissà perché?) è il film che ha, probabilmente, incassato di meno, fra tutti quelli che Totò ha interpretato. L’unica volta che Totò ha seguito le indicazioni del regista, che ha assecondato tutti i vincoli della sceneggiatura, che ha fatto la sua parte nei modi richiesti, che ha ese-guito con diligenza il compitino, è stato “sdoganato” e collocato dalla critica nell’Olimpo dei grandi. Lui, che 9 volte su 10 recitava a braccio, fuori tempo, a volte pericolosamente fuori luogo (cfr. Emerson, 1904) che non pronunciava mai le battute previste, che ne inventava di nuove una dopo l’altra. Con Pasolini, invece, Totò, aveva fatto l’attore, aveva prestato la sua “maschera” (cfr. Pellegrino, 2010). Solo che non era lui,

era solo un vecchio malato, cieco, con difficoltà di deambulazione, qua-si al termine dei suoi giorni, che sentiva addosso il senso della fine e che a breve avrebbe raggiunto Togliatti. Si sarebbero incontrati, in qualche girone del paradiso, immagino. Sì perché per chiunque lo ha conosciuto il Principe de’ Curtis ha lasciato testimonianze che non lasciano molti dubbi in proposito. Pur essendo un uomo con i suoi limiti, le sue responsabilità, i suoi errori, la sua vita è stata punteggiata di buone azioni, in tutti i sensi. Lui che aveva conosciuto la miseria autentica e i disagi più duri della vita, aveva nel suo cuore i poveri, i deboli, gli indifesi, gli ultimi. E a loro, come in un canto di Whitman (1855), dedicava la sua arte. Ma, in tante occasioni, a loro rivolgeva anche la sua solidarietà, concreta. Ho conosciuto qual-cuno che potrebbe testimoniare un’abitudine di Totò, che solo chi ha capito il significato profondo di quel motto “non sappia la destra quello che fa la sinistra”, può comprendere in tutto il suo valore. Quando aveva la possibilità di tornare a Napoli, Totò chiedeva al suo autista, di notte, di accompagnarlo nel suo vecchio quartiere Sani-tà. Giunto lì scendeva dalla macchina, entrava nei vicoli più miserabili e cominciava a infilare banconote sotto le porte dei bassi, quante più poteva, senza che nessuno lo sapesse. Poi si rimetteva in macchina e ripartiva. Ecco Totò era anche questo. Un genio della comicità, un mae-stro autentico della recitazione, dell’interpretazione, dell’umorismo, ma anche un campione di umanità, una figura il cui modo di essere nobilita il genere umano. Oggi che la sua icona è entrata nel mito, oggi che le sue bizzarrie semantiche, il suo non sense, sono divenuti “proverbiali”, oggi che certi suoi modi di dire sono diventati “motti” (cfr. Freud, 1975), evocatori di senso nel significato più compiuto e condiviso dell’espressione, oggi che il suo estro, la sua creatività (cfr., Caprara 2002) sono riconosciu-te da chiunque, si sprecano concetti altisonanti per definire il caratte-re della sua genialità: abile maneggiatore del linguaggio, reinventore del “corpo-comico” (cfr. Scrivano, 2002), creatore dei migliori lazzi e frizzi di memoria futurista, anticipatore di tutte le forme contempo-ranee della demenzialità, campione di surrealismo nazional-popolare, potremmo continuare con le definizioni, non avremmo altro che le diffi-coltà della scelta, ma forse nessuna formulazione stereotipata potrebbe rendere autentica giustizia all’unicità di un personaggio e del suo stile. Già, perché di stile Antonio de Curtis ne aveva da vendere. E non perché fosse di origini aristocratiche, cosa che era anche vera. Ma per-ché era riuscito a conservare un’eleganza nel comportamento e nel ca-rattere, anche quando aveva dovuto convivere con la miseria e confron-tarsi con le peggiori cattiverie che si possono subire nella vita. Totò non aveva mai perso il suo “self control” e il suo contegno, da autentico principe della strada, quale la vita lo aveva costretto ad essere. E quan-do, finalmente, la fortuna gli arrise, si limitò a rinnovare il guardaroba. Perché, in quanto ai modi, era già, da sempre, autentico maestro di ele-ganza. Si è molto discusso della sua “ossessione” per i titoli, per i nobili natali (i suoi lo erano realmente), aveva combattuto per essere ricono-sciuto dal Marchese, suo padre, da cui era stato concepito in modo il-legittimo, e per rivendicare, davanti al tribunale, l’attribuzione di tutti i titoli che gli derivavano dalla sua antica e complessa discendenza. Come tutti, ha immaginato di rispondere alla domanda “Cosa ci faccio qui?” trovando una possibile spiegazione nel risalire alle origini. Senza capire, probabilmente, che siamo tutti “benvenuti”, in questo strano

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posto che è il mondo, anche quando siamo “figli di nessuno” come dice Francesco De Gregori. Forse, almeno all’inizio, Totò, dava l’impressione di non aver com-preso, esattamente e fino in fondo, che siamo, ognuno di noi, per dirlo con le parole di Dawid Bowie, “uomini caduti sulla terra”, venuti dallo spazio, come Ziggy Stardust e destinati ineluttabilmente e tragicamente a ritornarvi, in solitudine, come Major Tom. Ma poi, se si legge una lirica come ‘A livella, allora siamo costretti a ricrederci. Di fronte a quel mirabile manifesto, dedicato all’uomo, all’individuo, alla libertà, all’uguaglianza, di fronte a quel vero e proprio capolavoro di ripulsa e disprezzo verso ogni becera vanagloria (cfr. Berger, 1999), ogni tronfia convenzione (cfr. Bergson, 1922), ogni insopportabile tracotanza, ogni ridicola ipocrisia, ogni stolta supponenza, allora dobbiamo prendere atto, che tutta la messa in scena riguardo ai suoi titoli, sulla sua nobiltà, autentica e pretesa, è forse il pezzo comico più riuscito della sua intera carriera. Una di quelle cose che suscitano, innanzitutto, il “sorriso”, quello che Totò ha provocato per tutta la vita, anche aldilà della risata vera e

propria, che è una faccenda più complessa, perché può essere di di-vertimento, ma anche di scherno, di leggerezza, oppure di aggressività (Ceccarelli, 1988); no proprio il sorriso, quello che annichilisce grado e condizione sociale, che oltrepassa situazioni gerarchiche, posizioni di ruolo, il sorriso, proprio come dispositivo di equilibrio, armonia e compensazione relazionale. Se muoviamo da questa consapevolezza, allora non ci risulta diffi-cile pensare che Totò ci ha preso in giro fino all’ultimo e usando tutti i modi possibili, a partire da quello dell’autoironia. Facendo anche del-la sua biografia un pezzo di umorismo sublime e del tutto volontario, consapevole, deliberato. Pensate un po’, un pezzente che era anche un gentiluomo, un lazzaro che era pure aristocratico. Come glielo si poteva perdonare? Eppure Totò era questo. Era tutto ed il suo contrario. Ma sempre ai massimi livelli, anzi in eccesso, ed in questo senso rappresen-tava, mirabilmente, qualcosa che è nel carattere più profondo della mia città (Cfr. Caramiello, 2017). Per questo Napoli era tutta in piazza Mercato quel giorno, perché la gente, la gente tutta, lo amava, tutti lo riconoscevano come fratello, perché aveva dimostrato ai nobili, quanto potesse essere migliore la po-vera gente, e aveva fatto vedere ai “lazzari”, come si può essere nobili di animo e possedere l’arte del saper vivere, da veri signori. Anche in questo senso Totò era un principe, un nobiluomo autentico, eppure un “Principe democratico”. Profondamente. Sarebbe facile obbiettare che questo è un ossimoro, un paradosso stridente. Tranquilli, l’esistenza umana ne è segnata, sin dal primo attimo in cui veniamo al mondo. E se, nella storia di qualcuno ne individuate parecchi, allora vuol dire che quella persona ha espresso dei significati, ha vissuto una vita autentica ed ha lasciato tracce, che resteranno impresse a lungo nella memoria.

Prof. Luigi Caramiello Università di Napoli Federico II

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“C’era una volta…“Un re, una fata, un uccello parlante? mi chiedete voi, cari nipotini birba.“No, c’era l’acqua”“E che cosa di eccezionale ha l’acqua? C’è sempre stata e anche adesso ce n’è tanta!“Sì, avete ragione, infatti noi vediamo nelle vetrine luccicare rubinetti doppi, cromati, piacevoli nel design e vediamo quelle cassette alte e strette che lavano i panni sporchi, quelle con quell’occhio grande al centro e vediamo anche ca-bine da doccia in vetro e in nichel piene dentro di rubinetti, e altre stranezze…”Non mi lasciano finire “ Certo, nonno, perché abbiamo l’acqua che arriva in casa quando vogliamo e quanta ne vogliamo.“Ma avete in casa secchi di zinco col manico ricurvo, quel metallo leggero che sembra argento opaco?“Secchi di zinco? Non li conosciamo; ma che cosa sono?“C’erano una volta i secchi di zinco che la gente portava alla fontana del paese per attingere acqua .“Perché la gente andava alla fontana, forse l’acqua era mancata nelle case?“Non che fosse mancata, ma l’acqua non arrivava fino alle abitazioni private, né al terzo né al primo piano.La mia affermazione sa di inverosimile come altri ricordi miei di una civiltà e di un costume sociale di quando io ero fanciullo: anche gli studenti liceali non se la sentono di accettare ricordi di cose, di avvenimenti, di usanze che erano consolidate appena cinquanta anni prima che essi diventassero ragazzi.“E allora?“Allora c’era la fontana del villaggio nella piazza, un bella colonnina di ferro con un bel getto robusto che buttava in tutte le ore e gli abitanti andavano con i secchi a prendere quell’acqua per bere, cucinare, lavare i panni e provvedere alla pulizia del corpo.“Che fastidio e che fatica caro nonno santo!“ Sì, fatica certamente ma attorno alla fontana i paesani si ritrovavano, chiac-chieravano, facevano pettegolezzi, le donne si scambiavano notizie, ricette culinarie mentre nello stesso tempo la bella ragazza faceva l’occhiolino all’in-namorato che, anche lui, ma guarda il caso era andato alla fontana alla sessa ora della sua bella. Oh! Sapeste quante cosette avvenivano alla fontana della piazza e quando le ragazze avevano riempito i loro secchi quelli li portavano cavallerescamente loro; così andavano allora le cose e talvolta di questo passo si combinavano matrimoni.I cani erano i maledetti della fontana, a loro infatti erano riservati calcioni quando mettevano il muso nei secchi ricolmi d’acqua poggiati per terra; noi ragazzini che nei mesi caldi inventavamo guerre di acqua spargendola per tutta la piazzetta eravamo maledetti in sordina e più rumorosamente dai venditori ambulanti che ci correvano dietro perché giocando in maniera sfrenata, bagna-vamo la oro merce esposta lì davanti: scarpe, camicie, mutande, coperte e ogni altro ben di Dio.La fontana pubblica … un simbolo oltre che un tubo da cui fuorusciva l’acqua; un mezzo che proclamava al tempo stesso la socialità e l’amicizia che condi-vide un dono del Creatore e della natura. Fin troppo bene il parroco del paese aveva intuito questo benessere umano e sociale creato dal bisogno elementare

di bere: infatti voleva che i Battesimi ve-nissero officiati con l’acqua della fontana comune elevata a rap-presentare uno dei se-gni del Sacramento .“Ora noi bambini – interviene Vanna – giochiamo talvolta con l’acqua in casa quando, prima la babysitter, poi mam-ma sgridandoci per la colpa di aver versato acqua sul pavimento gridano minacce. “Io ricordo, racconta il bidello Giacomo, quando una volta, nel mese di giugno passò il Giro d’Italia: tutti i ciclisti si fermarono alla fontana per rifornire le loro borracce di acqua fresca; ogni ciclista ne portava quattro o cinque per poi passarle ai compagni, i campioni che non si erano fermati e prima di ripartire mettevano la testa sotto l’acqua fresca.“Non vi racconto, cari nipoti quale spettacolo, quale sorpresa fu quella di vede-re in qualche inverno molto freddo la fontana del tutto congelata!Poi venne la guerra, io continuo, soldati, bombe, cannonate e fame. Un giorno alcuni soldati tedeschi ci allontanarono dalla fontana e cominciarono con un tubo grosso e lungo a riempire una loro autobotte e noi a morire di sete perché era estate. Tornarono più volte e si comportarono in modo borioso e presero a calci un vecchio che protestava e dettero un calcio a mia madre che protestava. Allora i giovani più coraggiosi andarono su alla cisterna, in collina e chiusero la chiave di mandata. Non l’avessero mai fatto … i tedeschi presero a caso molti uomini e donne, li misero contro un muro e minacciarono con le armi se non fosse tornata l’acqua. L’acqua ritornò, ma quel reparto tedesco da allora presi-diò il paese con autoblindo. Noi uomini fuggimmo sulla montagna per salvare dalla rappresaglia le donne e i bambini rimasti in paese. Dopo quell’episodio qualcuno battezzò quell’acqua ‘fontana amara’. L’acqua intanto continuò a scorrere, casta et umile et preziosa ancora per alcuni anni fino a quando in quel paese furono impiantate “reti idriche” che fornivano inin-terrottamente acqua a tutte le case e alle loro abitazioni private.Quella fontana, come tante altre, era come il forno comune, il frantoio delle ulive, come le osterie che furono per un lungo tempo luogo in cui si creavano e si stringevano amicizie che davano al vivere un senso di cordialità e di fra-tellanza.… oggi per questo ci sono gli smartphone, gli whatsApp …

Sergio ScisciotFilosofo scrittore

La fontana del mio paese non getta più

di Sergio Scisciot

Schegge di memoria

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Una serie di avvenimenti – a livello mondiale – ha profondamente modifi-cato, negli ultimi sessant’anni, i luoghi, le forme, gli stili architettonici, così come anche i modelli di crescita e di pianificazione della città. Col passare del tempo, il concetto e la rappresentazione della forma urbis della città è andato via via a sgretolarsi per dare origine a delle metropoli, fredde e fre-netiche. La forte crescita demografica ed economica, che ha irradiato princi-palmente tutti i paesi asiatici della sponda pacifica, ha concepito una nuova tipologia di città e di stile di vita. Attualmente in pochi decenni, la maggior parte di queste città asiatiche, sono diventate grandi poli di produzione e di esportazione dell’intero pianeta. Nelle capitali e nelle maggiori città di questi Paesi sono state aperte le filiali di molte banche e multinazionali europee e americane; le borse di Hong Kong, Tokyo e Singapore hanno pertanto assunto un’importanza pari (se non,a volte, addirittura superiore) a quelle di New York, Londra e Francoforte. L’arrivo di ingenti capitali occidentali ha comportato spesso una totale accettazione non solo dei modelli occiden-tali di vita e di organizzazione sociale, ma anche di sviluppo urbano. Più in particolare, nelle città – dove il valore delle aree edificabili è anche cresciu-to a ritmi vertiginosi – è stata largamente utilizzata la tipologia che più di ogni altra incarna, anche simbolicamente, il potere economico-finanziario del capitalismo: il grattacielo. Per comprendere la rapidità e l’intensità di questo fenomeno basti ricordare che oggi sei delle dieci città con il più alto skyline sono asiatiche, e che quello di Hong Kong è complessivamente tre volte più alto di quello di New York.. La nascita del grattacielo come forma economica e finanziaria, delle più grande aziende al mondo, aspira ad un cambiamento che si basa sulla destinazione d’uso: alberghi, appartamen-ti, ufficio. Tutti insieme, integrati. Questo permette una forte condivisio-ne all’interno di un suolo luogo, ma allo stesso tempo una grande perdita dell’orientamento della città e delle politiche urbane che hanno forgiato il carattere e la personalità dei luoghi del mondo,andando a snaturare lo skyli-ne naturalistico che il sistema “mondo” ci ha donato. Per abbattere la forte domanda abitativa della popolazione, in continuo aumento, ed evitare di sprecare ulteriore suolo, si è deciso di percorre l’unica strada percorribile: quella verso l’alto. Lo sviluppo in verticale dei grattacieli (che raggiungono

quasi il km di altezza. Basta vedere il Burj Khalifa di Dubai, il grattacielo più alto al mondo con 828 metri di altezza) aumenta di pari passo con la popolazione. Per sostenere la produzione alimentare e consentire la riproduzione di flora e fauna si richiede pertanto sempre più spazio. Inoltre, fenomeni come l’inquinamento e il pendolarismo risultano oggi in progressiva riduzione, con conseguente risparmio di grandi quantità di ener-gia. Dal punto di vista ingegneristico e architettonico, questi grattacieli hanno saputo rispondere con efficien-za - grazie anche ai progressi tecnologici e all’impiego del computer nel calcolo strutturale e nella modellazio-ne tridimensionale. Ben più complesso, invece, è stato il problema su come intervenire in ambienti completa-mente diversi da quelli occidentali, dove l’architettura moderna era nata ed era stata codificata. L’architettura,

infatti, deve sempre tener conto sia del contesto storico e culturale sia delle condizioni climatiche e ambientali in cui viene a inserirsi, quasi incarnando lo spirito del luogo, cioè il carattere e le vocazioni più veri, radicati e profon-di. In generale, però, in un clima di profonda fiducia nei modelli di sviluppo occidentali, la tradizione è stata vissuta dalle nuove generazioni di architetti (molti dei quali hanno studiato nelle università europee e americane) come un limite al rinnovamento della società: “..per trasformarsi in qualcosa di creativo..”, ha scritto provocatoriamente Tange, per il quale “..la tradizio-ne deve essere rinnegata; anziché farne l’apoteosi…, bisogna profanarla..”. L’accettazione incondizionata dei modelli occidentali ha in effetti spesso ignorato le caratteristiche locali, dando luogo anche a imprevedibili anacro-nismi. Perché tutto questo è successo? Come mai questa grande ondata di cambiamento, veloce, rapida e senza una struttura dell’anima cittadina che è stata messa da parte per colpa dei mercati, dell’economia, del capitalismo? La ragione di fondo sta certamente nel mutato rapporto tra uomo e società che non ha saputo rendere solidale quest’armonia che si sta sgretolando facilmente con un semplice soffio di vento. Cimentarsi nella difficile – e per certi versi forse ormai impossibile – pianificazione urbanistica a grande scala, le amministrazioni delle principali città del mondo sembrano infat-ti interessate ad assicurarsi soprattutto un edificio firmato da un architetto famoso. È un modo di concepire la valorizzazione della città abbastanza limitativo, che si accontenta di disporvi alcuni “pezzi” pregiati con la stessa logica del ricco collezionista al quale non possono mancare un Picasso o un Warhol nel soggiorno. Il linguaggio dell’architettura moderna si è davvero omologato a scala mondiale, forse anche al di là di quanto potevano imma-ginare Le Corbusier e gli altri grandi maestri dell’architettura razionalista. Il futuro di questi edifici sarebbe quello di creare un mondo in cui gli edifici possano considerarsi organismi viventi per rispondere, attraverso materiali e sensori intelligenti, agli stimoli ambientali. Tutto questo per apprezzare l’in-telligenza artificiale e perdere di vista l’emozione di quello che ci circonda.

Ing. Emmanuele Lautieri

Come i grattacieli hanno cambiato lo skyline delle città

di Emmanuele Lautieri

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Il contributo femminile alle battaglie risorgimentali nel Nord Italia fu patrimonio delle più disparate classi sociali, ma fu certamente preminente il contributo che fu dato da alcune donne dell’aristocrazia, che si avvalsero della propria condizione socio-economica per sostenere i vari movimenti insurrezionali. Tra di esse, la milanese marchesa Cristina Trivulzio, coraggiosa e vulcanica, oltre che bellissima, ricchissima e corteggiatissima. In uno dei suoi primi balli la quindicenne Cristina aveva incontra-to un giovane aitante e un po’ scapestrato, il ventiquattrenne principe Emilio di Belgioioso, ben noto alla polizia per le sue frequentazioni co-spiratorie e al pubblico milanese per la sua vita dispendiosa e galante. Il bell’Emilio s’invaghì all’istante della bella e ricca fanciulla e le chiese di sposarlo, dopo averle giurato di rinunciare alle sue arcinote avventure di tombeur de femmes. Si sposarono nel 1824, ma subito dopo la luna di miele, la sa-lute della giovane sposa cominciò a guastarsi e le fu conces-so, dalla polizia austriaca, di espatriare alle terme di Recoa-ro solo alla condizione che il marito non l’avrebbe seguita. Emilio, rimasto solo a Milano, tornò immediatamente alle sue scorrerie sentimentali, senza neppure farne mistero, fino al punto in cui Cristina non poté tacere oltre e chiese la separazione, cui il marito diede tacito consenso, in cambio di una cospicua rendita annuale. Ma le sue preoccupanti condizioni di salute le suggerirono di optare per una località marina, Genova, dove dovette constatare di essere af-fetta da sifilide, di cui dovette ovviamente incolpare il marito, non aven-do mai avuto relazioni con altre persone. A Genova Cristina si iscrisse alla Carboneria, ma riuscì a riparare a Roma prima di essere arrestata, poi scese a Napoli e nel 1829 era a Firenze, che era certamente la città più libera e più intellettuale d’Italia, dove finanche il console austriaco frequentava i bei salotti del marchese Capponi o del Viesseux, cenacoli in cui si discuteva con la stessa animazione di rivoluzioni e di musica. Furono suoi amici, nonché spasimanti, i poeti Poerio e Tommaseo, affascinati dalla sua intelligenza, mentre Gino Capponi non volle mai conoscerla, temendo di rimanerne stregato, e preferendole la meno ri-schiosa Giuditta Sidoli, che era l’amante di Mazzini. Fin quando la Belgioioso fu in Toscana si dedicò all’organiz-zazione dell’invio clandestino di armi a gruppi di patrioti che ope-ravano nell’Italia centrale, ma presto fu costretta, dalla salute e dal suo impegno politico non certo dilettantistico e salottiero, ad emigrare a Lugano, che era ormai diventato un luogo di ritro-vo, tanto per esuli rivoluzionari, quanto per eterni convalescenti. A Lugano Cristina temette di essere rapita dalla polizia austriaca, in quanto Metternich si era fatto un dovere di avere il controllo su “quella donna immorale”, e si risolse di partire per Parigi, pensando alla Francia come il Paese più libero di tutti. Ma, giunta a Genova per l’imbarco, il prefetto piemontese le sequestrò il passaporto per con-segnarlo al console austriaco, e fece in modo che non le venissero concesse carrozze.

La Belgioioso fu messa sotto la sorveglianza di un funzionario pie-montese, tale Venanson, il quale, però, non solo la metteva tempesti-vamente in guardia sulle misure di sicurezza che stavano per scattare ai suoi danni, ma la fece addirittura imbarcare per Marsiglia. Perché Venanson si comportò in tal modo? Per consentire a Cristina di fuggire senza che il governo piemontese si scoprisse con l’Austria, o perché ne era diventato l’amante? Sta di fatto che in tutti i rapporti segreti di polizia si parlava della sua pretesa insaziabilità ses-suale e le si attribuivano relazioni con ufficialetti dell’esercito austria-co, con giovani cospiratori e finanche con “vecchi ragionieri calvi”. Appena arrivata, comunque, in Francia, Cristina si diede ad orga-nizzare l’occupazione della Savoia con la Giovane Italia, e fu invitata dalla Giunta Liberatrice Italiana di Parigi a finanziare i vari governi provvisori che, dopo il 1831, venivano instaurati qua e là. Una volta giunta a Parigi, ebbe alle costole un agente segreto austriaco che, però, forniva informazioni al suo governo più sulle attività “licenziose” del-la principessa rivoluzionaria, che non sulle sue eventuali manovre co-spirative. Il governo austriaco, però, visto che non riusciva a bloccare le attività della Belgioioso, decretò il blocco totale dei suoi beni in Lombardia, per cui ella finì col disporre soltanto di una somma che era riuscita a nascondere in Svizzera e di alcuni oggetti di valore. La nuova situazione fu causa per Cristina di un repentino passaggio da una vita dispendiosa ad un’altra estremamente parsimoniosa, con la difficoltà di essere completamente all’oscuro di come si ordinasse un pasto o di come si cuocesse un uovo, dovendo fare a meno improv-visamente di maggiordomi o di servitù. Ed allora Cristina cominciò a stringere amicizie che la potessero aiutare nel quotidiano, prima con un giovane storico, François Mignet, e poi con il marchese di Lafayet-te, ormai settantacinquenne, ma fortemente attratto dalle grazie della nobildonna milanese, molto toccato dal suo fervore patriottico e de-cisamente commosso dalle sue traversie sentimentali. Quanto ci fu di intimo nella loro relazione? Non era difficile intuirlo, ma certamente il tutto oscillava tra paternalismo, amicizia politica e attrazione sessuale. Dopo pochi anni Cristina riuscì a tornare in possesso del suo patrimo-nio, ed allora ne approfittò Mazzini per ispirare azioni fallimentari il cui onere economico ricadeva tutto su di lei. Nel 1834 partì la già progettata invasione della Savoia che si risolse in un disastro totale soprattutto per l’inefficienza del generale Ramorino, che già aveva dissipato una parte dei fondi destinati all’im-presa, e che fu poi fucilato nel 1849 quale responsabile della disfatta di Novara. Il fallimento, che aveva visto accusarsi reciprocamente tutti i presunti “eroi” dell’impresa, da Mazzini a Buonarroti, da Pellico a Ramorino, da Tommaseo a D’Azeglio, trascinò nel fango anche la Belgioioso che attenuò i contatti con i circoli rivoluzionari, preferendo i galanti intrattenitori da salotto, in luogo dei corrucciati intellettuali e agitatori politici. Ed allora fu il turno di Franz Liszt, che, già legato alla contessa d’Agoult, fece esplodere tutto il mondo parigino in una pubblica ri-

Cristina Trivulzio di BelgioiosoLa “Principessa Rossa”

di Giuseppe Boccarello

Schegge di storia

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valità tra la “contessa splendente” e la “commediante”, come meno elegantemente veniva definita la nobildonna lombarda. Ma presto a Cristina venne a noia Liszt cui successe Alfred De Musset, che era stato intanto tradito da George Sand, scappata con una donna italiana. Ma i corteggiatori erano tantissimi, scrittori, artisti, cantanti, imbroglioni, geni e perdigiorno, i quali speravano più in qual-che concessione economica che non amorosa. Tutto ciò non fece, però, che attirarle l’odio delle altre nobildonne che le scatenarono contro pettegolezzi a non finire, intessendo racconti di perversioni, di ninfo-mania o di frigidità. Intanto nel 1838 Cristina aveva messo al mondo una bambina, Marie. Di chi era figlia Marie, di suo marito Emilio o di François Mignet, la cui madre si chiamava Marie? Sta di fatto che né il principe, né lo storico vollero saperne nulla di questa bambina. Nel 1840 Cristina, dopo aver definitivamente congedato il marito, stufa di mantenere economicamente un uomo che aveva rifiutato di riconoscere la piccola Marie, rientrò a Locate, e, dopo aver trasformato il feudo dei Trivulzio in colonia agricola, creò il primo asilo infantile e una scuola per infermiere, nonché laboratori e scuole varie. La sua opera si svolgeva però tra lo scetticismo degli amici titolati, i quali per anni avevano sentito parlare di lei come di una puttanella d’alta classe o di una lesbica perversa, mentre ora se la ritrovavano nelle vesti di una riformatrice di stampo anglosassone, e il commento reazionario di un Manzoni che si chiedeva “chi mai lavorerà la terra il giorno in cui tutti saranno divenuti dotti?” E allora la Belgioioso, volendo dare alla sua azione un contenuto culturale, affinché non fosse soltanto un gesto caritatevole di un’eccentrica signora, se ne ritornò a Parigi dove, nel 1845, diede vita a un nuovo salotto letterario e mondano. Non l’avesse mai fatto! Le si scatenarono contro le invidie e le ge-losie di tutte le nobildonne parigine, la più acida delle quali, Costanza Arconati vietò a tutti i suoi amici, e in prima linea al suo amante, Gio-vanni Berchet, di frequentare il salotto della principessa. Riallacciaro-no invece con lei i legami Liszt e Mignet, gli innamorati di una volta. Fondò un giornale, la “Gazzetta Italiana”, che dovette però chiudere dopo appena dieci mesi, per le ostilità che le provenivano sia dai rivo-luzionari di professione, troppo legati agli astrattismi della carboneria, sia dai moderati alla Manzoni. Nel 1848 la Belgioioso rientrò a Milano, e, dopo essere entrata in contatto personale con Mazzini e Carlo Alberto, si recò a Napoli, dove armò un gruppo di duecento volontari, appartenenti alle migliori fami-glie, e se li portò a Milano, dove erano già state erette le barricate. Ma a Milano, dove fu accolta con intensi festeggiamenti, il conte Gabrio Ca-sati, capo del governo provvisorio, considerando le sue iniziative come delle indebite ingerenze, mise subito fuori gioco il corpo dei volontari napoletani, mentre Carlo Alberto mise subito in chiaro che non intende-va accettare né la partecipazione di volontari, né l’ausilio di altri sovrani. Dopo la dura sconfitta di Custoza e la vergognosa fuga segreta di Carlo Alberto a Torino, la “Principessa Rossa” corse a Roma per unirsi ai difensori della Repubblica Romana, dopo aver arruolato ben trecen-to infermiere di ogni condizione sociale, e anche in quel caso fu ac-cusata di aver assoldato numerose ragazze procaci e di facili costumi. Con la sconfitta dei repubblicani Cristina riuscì a fuggire, evitan-do la sicura condanna a morte, grazie all’aiuto di un giovane console

americano, Lewis Cass, che si era invaghito di lei, e attraverso Malta, la Grecia, Smirne, giunse sulle alture dell’Anatolia, dove fondò una colonia italiana. Ma il suo spiri-to irrequieto la fece ancora peregrinare in Palestina, ad An-kara e a Damasco tra dervisci, turco-manni e curdi, dove ricercò l’esperienza dell’hascish fuma-to, mangiato e be-vuto. Tornò in Eu-ropa quando il suo cameriere, tale Albergoni, le vibrò quattro pu-gnalate per motivi rimasti sconosciuti, e alternò i suoi soggiorni tra Parigi e Milano, fin quando a Torino, dopo vent’anni, rivide Cavour. Cavour, che già l’aveva ripetutamente indicata come una donna drogata e di facili costumi, quando si avvide che la principessa godeva ancora di un sostegno popolarissimo in Italia e in Francia, dopo averle chiesto pubblicamente scusa, le fece fondare un nuovo giornale, “L’I-talie”, da usare come una bandiera cavouriana in Lombardia, per con-vincere i milanesi a dimenticare le vigliaccherie dei piemontesi e dei Savoia. E addirittura, dopo la guerra del 1859, lo stesso Vittorio Ema-nuele II si recò a farle visita per esprimerle la propria riconoscenza, insieme con Cavour che lo accompagnava. Ma l’improvvisa e miste-riosa morte di Cavour segnò la fine dell’impegno politico di Cristina, che continuò, tuttavia, a scrivere articoli in difesa della donna, che le venivano pubblicati sulla “Nuova Antologia”. Intanto si riacutizzarono i suoi vecchi mali, anche quelli relativi alle pugnalate ricevute, che, avendole reciso un tendine, la costringe-vano a camminare un po’ china, e lei riusciva a trovare sollievo solo nel suo prediletto narghilè riempito d’hascish. Morì a 63 anni, nella sua poltrona, mentre tentava di mettere ordine tra i suoi fantastici istanti di una vita meravigliosa, intensamen-te e poliedricamente vissuta, e carica di magnifici ricordi, tra cui resta veramente memorabile quello di aver anticipato di vari anni le idee del medico Ferdinando Palasciano, dell’inglesina Florence Nightingale e del magnate svizzero Henri Dunant, che porteranno poi alla creazione della Croce Rossa.

Dott. Giuseppe BoccarelloDirettore Generale Emerito Ministero dell’Istruzione,

dell’Università e della Ricerca

Schegge di storia

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A causa della moltiplicazione dei campi di ricerca, la Scienza ha subito un processo di parcellizzazione, da cui la nascita di nuove discipline con la richiesta di competenze sempre più specifiche , motivo che ha aumentato le difficoltà del raccordo dei risultati raggiunti tra le varie componenti a causa della logica richiesta di una convergenza . Se ci soffermiamo a riflettere sulla fonte che ha permesso e permette logiche molto sottili è quanto mai facile dedurre che tutto è in funzione dell’esercizio del più grande dono posseduto dall’uomo : “la ragione umana” che, ad un certo punto, costringe anche la Scienza ad accusare una battuta di arresto cui va ad associarsi un senso di smarrimento a causa della presenza di grandi ostacoli non facilmente superabili come stanno a dimostrare i lunghi tempi non sufficienti a rimuoverli . La possibilità di uscire da questo vicolo cieco impone, di conseguenza, una sola condizione: l’ammissione dell’esistenza di un “elemento” al di fuori della natura stessa che, mentre alcuni definiscono “soprannaturale”, il credente chiama Creatore, cioè Dio . E’ quanto mai opportuno riportare, prima ancora del ricorso alla fede, la definizione di ”ragione umana” fornita dal più grande studioso del Cristo Uomo, dal Papa Ratzinger definito da Padre Lombardi “l’avvocato della ragione”, che così si è espresso di recente in occasione del suo 90esimo compleanno : “la ragione umana ritenuta fondamentale nei tempi burrascosi che stiamo attraversando, per poter trovare terreni comuni anche con persone che non condividono la fede cristiana ma che si pongono semplicemente le domande più urgenti su ciò che è buono e giusto per le persone e per la società. Occorre aggiungere che la ragione umana non deve chiudersi nei limiti imposti dai metodi delle scienze empiriche o dalla rigidità del linguaggio scientifico sia esso fisico, chimico o matematico, ma mantenersi aperta alla riflessione filosofica e morale, al significato della vita e della morte, non restando chiusa, rischiando di non vedere più nulla oltre ciò che è funzionale, guidato soltanto dal potere della dinamica, del potere della tecnica e della sperimentazione che diverranno distruttive “. Ad avvalorare poi il ricorso al concetto “soprannaturale” riporto un episodio indimenticabile, vissuto personalmente nel lontano 27 Maggio del 1952, quando l’Università di Napoli Federico II era ai primissimi posti di tutti i tipi di classifiche , quando in Istituto il tempo che non concedeva riposo veniva diviso tra attività scientifica e didattica . Nel

giorno di San Paganini in compagnia dei colleghi di Via Mezzocannone 8, il più grande matematico del secolo scorso Renato Caccioppoli “obbligava” a mesi alterni , un gruppo fisso dei suoi assistenti , tra i quali ero compreso “per affinità chimica “, ad accettare una colazione offerta in una delle bettole del Mandracchio (una zona del porto ), dove in attesa di una gigantesca zuppa di cozze, si discuteva di tutto. Sempre pronto a fare delle domande imbarazzanti per provare le nostre reazioni, quella di quel giorno ci fu rivolta (come ebbe a dire) al fine di conoscere le risposte di noi cattolici alla domanda di un ateo convinto ed incallito. La domanda fu : “Chi è Dio ?“. Ognuno con disinvoltura espose la propria idea ma di rimando il grande Maestro, sorridendo, disse :” Non avete capito, la vostra risposta doveva essere in chiave matematica ,e sono io a fornirvela : ” Dio rappresenta il limite dell’uomo con la variabile indipendente tendente all’infinito” L’infinito identificato con Dio ! Tutto questo detto da un ateo incorreggibile che richiamò nella mia mente una frase che il grande sismologo, vulcanologo, latinista e filosofo Monsignor Giovanbattista Alfano (1878 -1955) ebbe a suggerirmi congratulandosi per la mia libera docenza :“studia e penetra sempre più nei misteri della chimica che tanto prediligi, metti in luce la complessa attività dei vari processi di minerogenesi che ritieni una manifestazione di vita, poniti sempre alla ricerca della verità, ma tieniti sempre lontano da tre argomenti pericolosi, la nascita dell’universo, la nascita della vita, la nascita della coscienza”. E’ questo il clima nel quale sono stato allevato, per cui mi ritengo privilegiato dalla Provvidenza per essere vissuto all’ombra di tanti giganti con i quali ho avuto l’onore di dialogare, di discutere in tempi che ritengo felici. Considerando ora brevemente le ultime ricerche sull’origine dell’universo, l’assegnazione del premio Nobel 2017 ai tre grandi fisici Weiss, Barish e Thorn, la scoperta delle onde gravitazionali ha aperto nuovi orizzonti all’astrofisica in quanto la scienza nel certificare l’origine di queste onde (già intuite dal grande Einstein ),ha potuto dimostrare la loro origine dovuta alla collisione di due buchi neri,particolari addensamenti della materia oscura ,che si differenzia da quella conosciuta perché incapace di emettere radiazioni elettromagnetiche. E’ appunto dalla collisione tra due buchi neri (collisione convalidata dalla esistenza delle onde gravitazionali ) che dall’universo primordiale, con il

La verità scientifica tra ragione e fede

di Renato Sinno

Schegge di scienza

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noto Bing Bang , venne generato l’universo conosciuto, costituito da varie galassie tra le quali la nostra che comprende il sistema solare con i pianeti ,i satelliti, le stelle e gli altri corpi celesti. Sempre più difficile è apparsa la ricerca della sua età che attraverso le fonti più svariate, tra cui quella del carbonio radioattivo, risulta attestata tra i 4,8 ed i 14 miliardi di anni, valori che appaiono non certamente convergenti . Su questi problemi va quindi ad innestarsi quello della origine della vita ,identificata dai primi chimici con la “vis vitalis “, cioè con quella fonte di energia capace di mettere in moto, l’uomo che, per il suo sostentamento ed il suo sviluppo, si giova della energia prodotta dalle reazioni chimiche dei suoi numerosi componenti primi fra tutti quelli appartenenti al gruppo delle proteine, dei grassi e degli zuccheri . E’ opportuno rilevare che a questa verità scientifica va aggiunta una precisazione: considerando l’equivalenza tra vita e vis vitalis che sono soltanto sinonimi, questi componenti fonte dell’energia favoriscono intanto la permanenza della vita dove la stessa è già presente, ma non sono in grado di ridare la vita a chi l’ha perduta. Se ciò fosse possibile , avremmo anche risolto il problema della resurrezione la cui verità resta ancorata soltanto a quella virtù teologale chiamata fede, per la cui definizione faccio riferimento a quella fornita dal Concilio Vaticano Primo che così si esprime: “é la virtù teologale del cristiano per cui, con l’aiuto della grazia di Dio, egli crede essere vere quelle cose rivelate non a causa della verità intrinseca delle cose stesse esaminate alla luce della ragione naturale, ma con l’autorità del Dio rivelante che non può né ingannarsi né ingannare “. Completando il discorso con la comparsa dell’uomo sulla superficie terrestre, è noto che questo argomento ha da sempre appassionato la Scienza: facendo un grande salto nel tempo è possibile affermare che le teorie più note e le più convalidate da numerose ricerche possono ridursi essenzialmente a due, la “biogenetica”, più conosciuta con il nome di teoria evoluzionistica attribuita al Darwin (1809-1882), e quella, molto più moderna, nota come “abiogenetica “, nata nell’anno 1953 ad opera di Stanley Miller ed Harold Hurey, successivamente convalidata nel

1961 da Jean Orò dell’Università di Huston. Mentre la teoria evoluzionistica di Darwin si avvale dei numerosi studi di geologia stratigrafica, di paleontologia e di paleogeografia tutti concordi sulla sistematica evoluzione delle specie animali e vegetali a partire dai protozoi , organismi unicellulari evolutisi prima in invertebrati ed in seguito in vertebrati per giungere infine all’uomo

(homo di Nenderthal , homo erectus, homo sapiens con forme di cranio sempre più vicine a quelle attuali ). Senza considerare però la provenienza del primo protozoo, quella abiognetica poggia esclusivamente sulla sperimentazione di laboratorio in quanto nel 1953 fu ottenuta la prima proteina l’acido paramminoacetico, tipica sostanza organica, facendo reagire in opportune condizioni di pressione e temperatura tre composti inorganici, precisamente acqua, anidride carbonica ed ammoniaca secondo il seguente schema : CH4 +NH3 +CO2 = H2N-CH2-COOH ed in secondo tempo, nel 1961, partendo da questa proteina non solo furono ottenute tutte le altre più importanti ma addirittura la sua trasformazione in grassi ed in zuccheri, giungendo fino alle molecole molto complesse del RNA e del DNA, la cui grande importanza è universalmente conosciuta. Proprio in virtù di quanto affermato occorre aggiungere che tutte queste conquiste in campo chimico hanno permesso di avvalorare l’ipotesi della provenienza del mondo vivente da una serie di reazioni tra i quattro elementi appartenenti al mondo inorganico (considerato senza vita ), identificabili con azoto, carbonio, idrogeno ed ossigeno, componenti primari e parte attiva dello universo primordiale. L’esposizione molto succinta per ragioni di spazio di uno solo degli argomenti più discussi si pensa possa essere sufficiente per comprendere come la Scienza non si è mai fermata allo scopo di raggiungere la sua verità che pur se confortata dai notevoli risultati ottenuti, pur poggiando sulla solida piattaforma dei vari “alligata et probata“ in chiave chimica, rimane ferma dinanzi a quella realtà indiscussa e che vede nell’uomo il felice connubio fra materia e spirito,che viene incontro al credente con l’ esistenza di un Dio Creatore associato al ricordo dei versi studiati nell’infanzia ed ancora vivi nella memoria: ”ovunque il guardo io giro, immenso Dio ti vedo nell’opre tue, ti ammiro, ti riconosco in me” .

Renato Sinno Già Docente di Minerologia Università Federico II

Schegge di scienza

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E S S E R E

40A cura di Silvana Lautieri

Attività Sociale

“Quando il sole della cultura è basso,

i nani hanno l’aspetto dei giganti”.

(Karl Kraus)

“La società di massa non vuole cultura,

ma svago”.

(Hanna Arendt)

“Gli uomini colti sono superiori agli

incolti nella stessa misura in cui i vivi

sono superiori ai morti”.

(Aristotele)

Il Fromm al Circolo Posillipo

Il FrommCircolo Posillipo

Il Fromm al Salotto Rossi

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