Emozioni al lavoro -...

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1 Emozioni al lavoro Emozioni al lavoro Relazioni nel mondo del lavoro. Relazioni nel mondo del lavoro. Quale ruolo hanno le emozioni? Quale ruolo hanno le emozioni? 2 Cosa sono le emozioni? Cosa sono le emozioni? “Tutte le emozioni sono, essenzialmente, impulsi ad agire, piani “Tutte le emozioni sono, essenzialmente, impulsi ad agire, piani di azione di cui l'evoluzione ci ha dotato per gestire rapidamen di azione di cui l'evoluzione ci ha dotato per gestire rapidamente te le emergenze della vita. le emergenze della vita. 3 La radice stessa della parola emozione è il verbo latino La radice stessa della parola emozione è il verbo latino moveo moveo , , «muovere», con l’aggiunta del prefisso «e» («movimento da»), «muovere», con l’aggiunta del prefisso «e» («movimento da»), per indicare che in ogni emozione è implicita una tendenza ad per indicare che in ogni emozione è implicita una tendenza ad agire.” […] agire.” […] 4 Queste inclinazioni biologiche a un certo tipo di azione vengono Queste inclinazioni biologiche a un certo tipo di azione vengono poi ulteriormente plasmate dall’esperienza personale e dalla poi ulteriormente plasmate dall’esperienza personale e dalla cultura […] il modo in cui le emozioni sono esibite in pubblico cultura […] il modo in cui le emozioni sono esibite in pubblico o o trattenute è forgiato dalla cultura [...]. trattenute è forgiato dalla cultura [...]. 5 Esse hanno un ruolo ed una funzione importante nella vita, ma Esse hanno un ruolo ed una funzione importante nella vita, ma vanno conosciute, esercitate e controllate nella vita di relazio vanno conosciute, esercitate e controllate nella vita di relazione ne umana.” umana.” ( Sigmud Sigmud Freud Freud, , Il disagio della civiltà Il disagio della civiltà) 6 Le EMOZIONI Le EMOZIONI sono il motore dei rapporti sono il motore dei rapporti attivano l’energia necessaria attivano l’energia necessaria al gioco delle RELAZIONI al gioco delle RELAZIONI 7 Le RELAZIONI sono necessarie Le RELAZIONI sono necessarie Senza relazioni non c’è lavoro Senza relazioni non c’è lavoro 8 Nel mondo del lavoro Nel mondo del lavoro le relazioni strutturano le relazioni strutturano RETI di rapporti RETI di rapporti FORMALI e INFORMALI FORMALI e INFORMALI 9 All’interno della rete dei rapporti All’interno della rete dei rapporti Laboratorio: "Le competenze trasversali: relazioni interpersonali, comunicazione, lavoro in èquipe Dispensa "EMOZIONI AL LAVORO" a cura di Erica Guerraz Pagina 1 di 72

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1 Emozioni al lavoroEmozioni al lavoroRelazioni nel mondo del lavoro.Relazioni nel mondo del lavoro.Quale ruolo hanno le emozioni?Quale ruolo hanno le emozioni?

2 Cosa sono le emozioni?Cosa sono le emozioni?“Tutte le emozioni sono, essenzialmente, impulsi ad agire, piani“Tutte le emozioni sono, essenzialmente, impulsi ad agire, pianidi azione di cui l'evoluzione ci ha dotato per gestire rapidamendi azione di cui l'evoluzione ci ha dotato per gestire rapidamente te le emergenze della vita. le emergenze della vita.

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La radice stessa della parola emozione è il verbo latino La radice stessa della parola emozione è il verbo latino moveomoveo, , «muovere», con l’aggiunta del prefisso «e» («movimento da»), «muovere», con l’aggiunta del prefisso «e» («movimento da»), per indicare che in ogni emozione è implicita una tendenza ad per indicare che in ogni emozione è implicita una tendenza ad agire.” […]agire.” […]

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Queste inclinazioni biologiche a un certo tipo di azione vengonoQueste inclinazioni biologiche a un certo tipo di azione vengonopoi ulteriormente plasmate dall’esperienza personale e dalla poi ulteriormente plasmate dall’esperienza personale e dalla cultura […] il modo in cui le emozioni sono esibite in pubblicocultura […] il modo in cui le emozioni sono esibite in pubblico o o trattenute è forgiato dalla cultura [...]. trattenute è forgiato dalla cultura [...].

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Esse hanno un ruolo ed una funzione importante nella vita, ma Esse hanno un ruolo ed una funzione importante nella vita, ma vanno conosciute, esercitate e controllate nella vita di relaziovanno conosciute, esercitate e controllate nella vita di relazione ne umana.” umana.” ((SigmudSigmud FreudFreud, , Il disagio della civiltàIl disagio della civiltà))

6 Le EMOZIONI Le EMOZIONI sono il motore dei rapportisono il motore dei rapportiattivano l’energia necessaria attivano l’energia necessaria al gioco delle RELAZIONIal gioco delle RELAZIONI

7 Le RELAZIONI sono necessarieLe RELAZIONI sono necessarieSenza relazioni non c’è lavoroSenza relazioni non c’è lavoro

8 Nel mondo del lavoroNel mondo del lavorole relazioni strutturano le relazioni strutturano RETI di rapporti RETI di rapporti FORMALI e INFORMALIFORMALI e INFORMALI

9 All’interno della rete dei rapporti All’interno della rete dei rapporti

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prendono forma prendono forma i GIOCHI SOCIALI i GIOCHI SOCIALI con specifiche con specifiche REGOLE di COMPORTAMENTOREGOLE di COMPORTAMENTO

10 Noi tutti facciamo parte del Noi tutti facciamo parte del GIOCO SOCIALE GIOCO SOCIALE nessuno esclusonessuno escluso

11 Ogni relazione lavorativa Ogni relazione lavorativa è parte di un gioco sociale è parte di un gioco sociale

12 Saper riconoscere Saper riconoscere i giochi sociali i giochi sociali ci permette di capire ci permette di capire come possiamo come possiamo prenderne parteprenderne parte

13 La conoscenza La conoscenza delle regole delle regole e indispensabilee indispensabile

14 Ogni partecipante ha un ruoloOgni partecipante ha un ruolo15 Il ruolo, il carattere ed il comportamento dei personaggi danno Il ruolo, il carattere ed il comportamento dei personaggi danno

vita allevita alleRAPPRESENTAZIONIRAPPRESENTAZIONI

16 Umori, sentimenti ed emozioni Umori, sentimenti ed emozioni caratterizzano i personaggicaratterizzano i personaggie determinano la QUALITA’e determinano la QUALITA’delle relazionidelle relazioni

17 Quando le emozioni sono al servizio delle MOTIVAZIONI del Quando le emozioni sono al servizio delle MOTIVAZIONI del PERSONAGGIO PERSONAGGIO si dicono FUNZIONALI si dicono FUNZIONALI perché sono di aiuto al raggiungimento degli obiettivi del perché sono di aiuto al raggiungimento degli obiettivi del giocatoregiocatore

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18 Quando invece le emozioni sono di ostacolo al raggiungimento Quando invece le emozioni sono di ostacolo al raggiungimento degli obiettivi sono dette DISFUNZIONALIdegli obiettivi sono dette DISFUNZIONALI

19 Non esistono emozioni o comportamenti buoni o cattivi, la Non esistono emozioni o comportamenti buoni o cattivi, la qualità è in rapporto al CONTESTOqualità è in rapporto al CONTESTO

20 Per noi è importante capire Per noi è importante capire quali emozioni, di volta in volta, quali emozioni, di volta in volta, ci sono amiche ci sono amiche e quali ci creano difficoltà e quali ci creano difficoltà nelle relazioni di lavoronelle relazioni di lavoro

21 In questo modo possiamo sviluppare le emozioni che ci In questo modo possiamo sviluppare le emozioni che ci migliorano la vita e diminuire l’influenza di quelle che invece migliorano la vita e diminuire l’influenza di quelle che invece la la peggioranopeggiorano

22 La padronanza della vita emotiva La padronanza della vita emotiva ci permette di gestire meglio ci permette di gestire meglio le rappresentazioni le rappresentazioni

23 La qualità della rappresentazioneLa qualità della rappresentazioneè caratterizzata è caratterizzata

dal modo in cui “fluiscono” dal modo in cui “fluiscono” i rapportii rapporti

24 Il “FLUSSO” dipende dalla MOTIVAZIONE e dall’attenzione Il “FLUSSO” dipende dalla MOTIVAZIONE e dall’attenzione dei giocatori.dei giocatori.

25 Quando viviamo una situazione di eccellenza tutto fluisce senza Quando viviamo una situazione di eccellenza tutto fluisce senza sforzo e siamo totalmente presenti a ciò che avvienesforzo e siamo totalmente presenti a ciò che avviene

26 In ogni compito che svolgiamo la qualità del flusso varia.In ogni compito che svolgiamo la qualità del flusso varia.Con minor flusso aumenta la fatica e la disattenzione, Con minor flusso aumenta la fatica e la disattenzione, con maggior flusso abbiamo più energia e presenzacon maggior flusso abbiamo più energia e presenza

27 I nostri incontri sono l’occasione: I nostri incontri sono l’occasione: per conoscere meglio le modalità di relazione nel mondo del lavoper conoscere meglio le modalità di relazione nel mondo del lavoro,ro,per aiutarci a lavorare in èquipe e a rapportarci con i colleghiper aiutarci a lavorare in èquipe e a rapportarci con i colleghi, con i preposti ed i , con i preposti ed i subordinati.subordinati.

28 Non esiste relazione senza comunicazione Non esiste relazione senza comunicazione

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Tutto il comportamento e non soltanto il discorso, è comunicazioTutto il comportamento e non soltanto il discorso, è comunicazione e tutta la ne e tutta la comunicazione influenza il comportamentocomunicazione influenza il comportamento

29 La nostra vita è l’insieme delle relazioni e delle comunicazioniLa nostra vita è l’insieme delle relazioni e delle comunicazioniche instauriamo in modo consapevole o inconsapevoleche instauriamo in modo consapevole o inconsapevole

30 La mente ha diverse modalità di osservazioneLa mente ha diverse modalità di osservazione31 Le 3 principali posizioni della menteLe 3 principali posizioni della mente

Attenzione a Attenzione a sèsèAttenzione all’altroAttenzione all’altroAttenzione alla relazioneAttenzione alla relazione

32 Al fine di padroneggiare meglio l’aspetto relazionale vi Al fine di padroneggiare meglio l’aspetto relazionale vi propongo di realizzare insieme un film dal titolo:propongo di realizzare insieme un film dal titolo:“Alternanza scuola“Alternanza scuola--lavoro. lavoro. Vita di uno Vita di uno stagistastagista””

33 Ruoli utili allaRuoli utili alla“messa in scena”“messa in scena”

SceneggiatoreSceneggiatoreAttoreAttoreRegistaRegistaSpettatoreSpettatoreCriticoCritico

34 Iniziamo con la sceneggiaturaIniziamo con la sceneggiaturaPer prima cosa dobbiamo definire il contesto, ovvero dove si svoPer prima cosa dobbiamo definire il contesto, ovvero dove si svolge la storialge la storia

dove …dove …quando … quando … con chi …con chi …

35 Individuazione dei personaggi della storiaIndividuazione dei personaggi della storia

36 Definizione delle aspettative Definizione delle aspettative e delle motivazioni dei personaggie delle motivazioni dei personaggi

37 Riconoscimento delle modalità comunicativeRiconoscimento delle modalità comunicative

38 La narrazioneLa narrazione

39 Evento inizialeEvento inizialeDà inizio alla storiaDà inizio alla storia

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Succede qualcosa all’ambienteSuccede qualcosa all’ambienteIl protagonista formula obiettiviIl protagonista formula obiettivi

40 Risposta InternaRisposta InternaI protagonisti pensano e decidono di agire in relazione all’evenI protagonisti pensano e decidono di agire in relazione all’evento inizialeto iniziale

41 TentativoTentativoE’ l’azione manifesta che i protagonisti eseguono per raggiungerE’ l’azione manifesta che i protagonisti eseguono per raggiungere i propri scopie i propri scopi

42 ConseguenzaConseguenzaÈ in relazione al tentativo dei protagonisti e indica o meno il È in relazione al tentativo dei protagonisti e indica o meno il raggiungimento dello raggiungimento dello scoposcopo

43 Relazione Interna Relazione Interna EmotivoEmotivo--CognitivaCognitiva

I protagonisti esprimono sentimenti e pensieri circa i risultatiI protagonisti esprimono sentimenti e pensieri circa i risultati delle loro azionidelle loro azioni

44 Per dare vita ad una narrazione occorre definire:Per dare vita ad una narrazione occorre definire:Il contesto in cui si svolgono gli episodiIl contesto in cui si svolgono gli episodiLe ragioni ed i sentimenti che muovono i personaggiLe ragioni ed i sentimenti che muovono i personaggiGli eventi, ovvero:Gli eventi, ovvero:

le modalità con cui i personaggi entrano in relazionele modalità con cui i personaggi entrano in relazioneed i comportamenti con cui si esprimonoed i comportamenti con cui si esprimono

45 Le emozioni, i sentimenti e gli umori sottendono il Le emozioni, i sentimenti e gli umori sottendono il comportamento dei personaggicomportamento dei personaggi

46 Gli scambi comunicativi fra i protagonisti danno vita agli Gli scambi comunicativi fra i protagonisti danno vita agli eventi narrativieventi narrativi

47 La sequenza degli eventi dà forma alla narrazioneLa sequenza degli eventi dà forma alla narrazione

48 Grazie alla narrazione/sceneggiatura del film abbiamo il Grazie alla narrazione/sceneggiatura del film abbiamo il tema da narrare allo spettatoretema da narrare allo spettatore

49 CiakCiakSi giraSi gira

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SCHEDE SUL SISTEMA AZIENDA.OSSERVAZIONI SULLA DITTA IN CUI HO SVOLTO LO STAGE LAVORATIVO

DESCRIZIONE DELLA DITTA:

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DISEGNA LA STRUTTURA ORGANIZZATIVA

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Lo specchio delle emozioni

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Quale sentimento provo mentre mi reco al lavoro?

Emozioni secondarie

Alla

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Agg

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Emozioni primarie

Paur

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Sorp

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Tri

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Rab

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Ape

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Acc

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1° giorno

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3° giorno

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Quale sentimento provo mentre esco dal lavoro?

Emozioni secondarie

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Durante lo stage ho incontrato il signor?

Nome e cognome Ruolo Posizione gerarchica: Descrizione dei compiti L’umore

Colleghi

Superiori

Sottoposti

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Quale sentimenti ho provato al lavoro con?

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Il signor:

Il signor:

Il signor:

Il signor:

Il signor:

Il signor:

Il signor:

Il signor:

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1 - CHE COS'È1 L'IMPRESA

Proviamo a dare una definizione di "impresa", spontaneamente, come ci viene dal nostro bagaglio culturale, e poi confrontiamola con le tre definizioni riportate sul lucido proiettato. Concorda? Se emergono elementi non previsti, ragioniamoci: potrebbe emergere un aspetto dell'impresa non illustrato nelle definizioni proiettate.

Nell'analisi e nello studio dei rapporti organizzativi, economici, funzionali e sociali, che gli uomini intrattengono tra loro all'interno dell'impresa, non esiste un metodo o una teoria che sia in grado di dare una risposta assolutamente oggettiva ai numerosi e difficili problemi che questi rapporti interumani pongono. Ci sono tentativi soggettivi, e sovente mossi da interessi di parte, di dare delle spiegazioni o di offrire delle soluzioni che soddisfano determinate esigenze e non altre. La via migliore per awicinarsi alla realtà oggettiva consiste nel tener conto di tutti i punti di vista e di verificarne la validità alla luce delle proprie esperienze personali. Esiste sempre una nuova via che ci avvicina maggiormente alla soluzione di un problema.

2 - L'IMPRESA COME SISTEMA

Dire che l'impresa è un sistema è come paragonarla ad un corpo umano vivente. Difatti un corpo umano è un sistema biofisiologico, costituito da organi diversi, che assolvono alle funzioni fondamentali della vita. Questi organi sono indispensabili, interdipendenti ed interagenti. Così nell'impresa. Ma cerchiamo di capire quali sono le funzioni aziendali. In altre parole, quali sono gli "organi" senza i quali un'azienda non è in grado di funzionare.

Facciamo un esempio: immaginiamo che un'azienda sia paragonabile ad un'automobile. Se si pone la domanda: è possibile far funzionare un'auto senza motore o senza freni, o ancora, senza trasmissione? Allora si pensi qual è il motore in azienda, quali i freni, quale la trasmissione e si potrà facilmente trovare la risposta. E1

inimmaginabile che un'impresa possa funzionare, se non funzionano la Produzione, il Commerciale, l'Amministrazione, e il Personale.

Queste funzioni devono tendere tutte ad un unico obiettivo: "assicurare la buona salute dell'impresa". Un'impresa dimostra la sua buona salute quando fornisce nel tempo richiesto buoni prodotti al giusto prezzo ed è in grado di perseguire in modo soddisfacente i propri obiettivi.

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-TI

Per conseguire ciò le funzioni fondamentali devono armonizzare le loro specifiche attività e i loro obiettivi settoriali, sempre tenendo presente l'obiettivo comune.

3-L'ORGANIZZAZIONE

I mezzi di rappresentazione scritta della struttura si propongono fondamentalmente di chiarire i seguenti aspetti dell'organizzazione del lavoro: a) il "chi", cioè quali sono gli organi in cui si articola la struttura aziendale; b) il "che cosa", vale a dire quali compiti ciascun organo è tenuto a svolgere; e) il "come", ovvero le modalità di effettuazione dei compiti.

Organizzarsi significa definire le relazioni, i compiti, i ruoli, l'autorità e le strutture di potere di un dato gruppo di persone, che si uniscono per uno scopo comune. Lo scopo comune è ciò che differenzia una organizzazione, sia essa commerciale o un club di calcio, dalla folla nella strada.

Tracciare degli organigrammi è il passatempo preferito di molti esperti di management e dei dirigenti più importanti. Pensando che un diagramma organizzativo mostra anche la distribuzione del potere - a volte potere esplosivo - viene da chiedersi se tali disegni non siano simili ai bisogni psicologici dei bambini che giocano con i fiammiferi. Tuttavia, pur abbondando letteratura teorica ed organigrammi, manca spesso una loro buona applicazione; al che ci chiediamo: "C'è qualcosa che non va nella teoria dell'organizzazione e nella relativa letteratura?" Probabilmente sì.

Oggi sia gli studiosi del comportamento (i teorici) che i manager (i pratici), mettono in discussione alcuni concetti "sacri" di organizzazione, come la piramide gerarchica, l'ampiezza di controllo, la catena di comando e l'unità di comando. Tuttavia non possiamo ignorare questi concetti discutibili e dobbiamo usarli come base di partenza per il cambiamento dell'organizzazione.

3.1 - Strutture

Non è possibile in un sol colpo trasformare una situazione mal strutturata e mal definita, in una organizzazione flessibile, dinamica. Prima bisogna creare ordine e logica, e riportarli sia in un diagramma (organigramma) che verbalmente (descrizione di mansione). Questi sono gli strumenti manageriali per i quali non è ancora stato inventato nessun sostituto.

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Si può conservare il dinamismo dell'organizzazione imprenditoriale, utilizzando la parte migliore dei metodi della fase meccanicistica. Non c'è bisogno che sia una situazione "questo o quello", ma piuttosto una integrazione di entrambe in una fase dinamica.

La formalizzazione della struttura, cioè il processo con cui i criteri di divisione e coordinamento del lavoro vengono esplicitati in forma scritta e portati a conoscenza dei soggetti che operano all'interno dell'organizzazione, ha come obiettivo principale la riduzione della variabilità dei comportamenti '. Con la formalizzazione si creano alcune premesse affinchè sia chiaro ai membri dell'organizzazione come devono comportarsi in determinate circostanze, a chi debbono rivolgersi per ottenere informazioni, autorizzazioni o assistenza, con chi debbono integrarsi e così via.

3.2 - Tipi di organizzazione

Le organizzazioni sono costruite secondo diversi criteri. Ecco una breve descrizione delle varianti principali.

3.2.1 - Organizzazione plurifunzionale

Questa è la forma più conosciuta e tende a svilupparsi sistematicamente da una piccola impresa unipadronale. La delega dall'alto viene a seconda delle funzioni come produzione, marketing, progetto o ricerca, personale, ecc.

Ciascuna area funzionale ha un proprio oggetto di attività e propri compiti "istituzionali" analoghi in tutte le imprese, ma diversi a seconda di ambiente, giro d'affari, strategie, tecnologie utilizzate.

3.2.2 - Organizzazione di Une+Staff

Questa è solo un miglioramento della forma sopracitata, e può essere adottata assieme ad altri tipi di organizzazione. Le funzioni come produzione, marketing, contabilità, ecc., sono Line (linea); quelle come personale, ricerca di mercato, relazioni pubbliche sono normalmente considerate Staff.

I manager di Line "fanno"; i manager di Staff dovrebbero essere dei "consiglieri". Questa distinzione sta diventando sempre meno popolare in quanto è difficile renderla operativa.

1 Vedi H. Mintzberg, The Structuring ofOrganizations, pag. 83

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Il personale di Staff ha una determinata funzione di linea e di controllo, partecipa ai progetti con i manager di Line e ne condivide le responsabilità, I reparti di Staff stanno diventando reparti di servizio centrale con funzioni di linea e staff che rispondono meglio ai successivi tre tipi di organizzazione.

3.2.3 - Organizzazione multidivisionale

a - Geografica , Ove il modello organizzativo debba privilegiare la diffusione sul territorio, creando diversi "centri di responsabilità" in corrispondenza di ciascuna area; in tal caso tutte le funzioni operative sono rappresentate in ciascuna area geografica.

b - Orientata al prodotto Questo è un concetto divisionale ben conosciuto: invece di divisioni operanti a livello nazionale, abbiamo divisioni operanti per gruppi di prodotto. Si crea, di conseguenza, un certo numero di divisioni, ognuna delle quali produce e vende i propri prodotti. I reparti dei servizi centrali di direzione rimangono come nel modello geografico.

e - Orientata al mercato Qui distinguiamo le divisioni operative per tipo di cliente. Perciò una grande industria chimica potrà avere le seguenti divisioni: materie prime industriali, agricole, veterinarie, farmaceutiche, cosmetiche. I prodotti sono simili, ma vengono usati in maniera diversa e quindi le divisioni sono orientate al cliente. In questo caso la produzione può essere - e spesso è - centralizzata. La Ricerca e lo Sviluppo possono anche essere unificati, benché ci siano dei vantaggi nel divisionalizzare lo sviluppo del prodotto.

3.2.4 - Organizzazione a matrice

Dal project management all'organizzazione a matrice c'è un passo solo. Nell'organizzazione a matrice un impiegato del reparto A (dove il suo capo è il capo reparto) riceve tutte le direttive orientate a un solo prodotto dal produci manager X o Y; oppure tutte le direttive orientate a un progetto dal project manager Y o Z, perciò può essere responsabile verso 3 o 4 manager contemopraneamente. Questo tipo di organizzazione si è sviluppato, in modo abbastanza naturale, in quelle aziende che forniscono beni e servizi di continuità, prevalentemente orientate al progetto. Seguono questo modello anche le società di consulenza, di software o di informatica, aziende

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edili, aziende appaltatrici di grandi lavori. Così pure alcune aziende di ingegneria pesante che producono singole attrezzature su ordine specifico del cliente. In altre parole l'organizzazione a matrice è una variante semipermanente dell'organizzazione per progetto.

Alcuni, ottimisti ad oltranza, prevedono che quasi tutte le organizzazioni si trasformeranno in strutture orientate al progetto; ma occorre domandarsi se ciò funzionerebbe bene nelle industrie di processo o in altre come quelle minerarie. Certo non funzionerebbe bene in quelle aziende che hanno una estensione geografica molto vasta.

Dall'esperienza di progetto è emerso un utile insegnamento: non è sempre necessario avere un potere gerarchico sulle persona purché il lavoro e la cooperazione awengano efficacemente. Questo punto è anche rilevante per la successiva discussione sullo Sviluppo Organizzativo. Più un'organizzazione funziona efficacemente attraverso lo Sviluppo Organizzativo, minore è la necessità di strutture di potere gerarchico. Tali strutture sono necessarie soltanto se il lavoro viene svolto sotto l'intimidazione di minacce e di punizioni; infatti più la gente è motivata più lavora indipendentemente e quindi minore è la necessità di una gerarchla rigida..

Il riformatore entusiasta deve però stare attento. Troppi manager sono cresciuti con le vecchie idee ed a queste hanno adattato la propria mentalità ed il proprio comportamento. Ci vorrà del tempo per abituarli a vivere e lavorare efficacemente con i nuovi sistemi. Un modo per realizzare il cambiamento è lo Sviluppo Organizzativo a trasformazione graduale.

Le varianti dei criteri organizzativi ora esposti sono innumerevoli. Non ci sono regole fisse o valide per mantenere la "purezza" di un criterio, però più si mischiano e si combinano tra di loro tali criteri, più difficile diventa il problema della comunicazione tra i reparti.

3.3 - Alcuni concetti base sullo studio dell'organizzazione aziendale

3.3.1 - II potere

Un'ulteriore dimensione dell'organizzazione, che non è mai rappresentata in nessun organigramma né descrizione di mansione (job description) è quella del Potere. L'organigramma suggerisce che il potere venga delegato dall'alto verso il basso, però

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non indica quanto ne viene delegato. Rispetto a due organigrammi, all'apparenza identici, è possibile che in un caso ne sia delegato molto, nell'altro quasi niente.

La distribuzione di potere inganna ed ha bisogno di analisi . E' proprio a causa di questo fattore, non facilmente riconoscibile, che troviamo a volte tanta insoddisfazione nelle aziende, nonostante abbiano in apparenza tutti i requisiti di una buona organizzazione.

3.3.2 - / ruoli

Utilizziamo qui la parola "ruolo" nel senso franco/inglese di Role. Essa non deve essere confusa con "mansione" che si riferisce ai compiti da svolgere, alle responsabilità ed all'autorità. Alla "mansione" è dedicato il paragrafo 3.3.6. Il ruolo è invece una dimensione diversa, più psicologica e meno organizzativa. Ad ogni singola casella dell'organigramma corrisponde un ruolo specifico che però non viene dettagliato nelle due dimensioni, ma ha un profondo significato per l'interessato, i suoi superiori, i dipendenti e collaboratori.

I ruoli sono l'insieme dei comportamenti che si aspetta da noi e che stabilitamo per noi stessi come nostra propria immagine desiderabile. I ruoli possono essere in armonia o in conflitto con le aspettative e l'effettivo comportamento. Tale dissonanza nei ruoli è spesso considerata come un "problema organizzativo". Naturalmente i ruoli sono comuni a tutti gli aspetti della vita, quelli di capo, impiegato, marito, padre e amico. Non è insolito per un manager dover ricoprire tutti questi ruoli nel breve spazio di poche ore. C'è pericolo di confusione. I ruoli però non sono soltanto specifici al compito, ma anche all'azienda. Ogni azienda ha stabilito certi modi di comportamento per suoi dirigenti, capi di reparto e operai. Il comportamento del ruolo non viene influenzato soltanto dall'azienda, ma anche dall'ambiente culturale in cui l'azienda opera.

Se dovessimo creare una consociata in un nuovo paese, si verificherebbe in poco tempo un conflitto fra quello che i residenti si aspettano dal nuovo manager ed il ruolo da lui sviluppato in patria. Un buon esempio di tale difficoltà è spesso citato da coloro che cercano di effettuare un management partecipativo in un paese sottosviluppato. Qui la gente si aspetta che coloro che sono in una posizione di autorità si comportino in modo autoritario. Così quando il manager nuovo arrivato richiede delle idee o dei suggerimenti agli operai che sono in fondo alla piramide aziendale, li confonde: il suo comportamento viene interpretato di solito come debolezza o come follia. Sono stati riferiti di recente, in aziende americane a Puerto Rico, parecchi casi di questo genere.

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Ne è nata una vignetta piuttosto intelligente su "Business Week" del gennaio 1973, dove gli operai uscendo da una riunione con il capo americano si dicevano l'un l'altro: "Non vogliamo lavorare per un capo che sia così ottuso da accettare i nostri consigli"

3.3.3 - Ampiezza di controllo

Quanti dipendenti dovrebbe avere un manager? Non è una domanda facile. L'ampiezza di controllo ottimale dipende in ultima analisi dalla quantità di contatto diretto di cui necessitano i dipendenti. Di conseguenza il presidente di un grosso complesso industriale può avere una vasta ampiezza di controllo, poiché ogni dipendente è in realtà autonomo. All'altra estremità della piramide dell'organizzazione 20 o 30 ragazze sulla linea di montaggio con un lavoro strutturato chiaramente, che richieda pochi interventi o tempo, possono essere sorvegliate da un solo caposquadra. Non sarebbe lo stesso caso, in un'officina, con 30 operai specializzati. In un grande magazzino dove le funzioni sono simili e solo la mercé è diversa, è praticabile una larga ampiezza (da 10 a 15 dipendenti per capo). In una azienda manifatturiera, i manager dei vari reparti sono interdipendenti e hanno bisogno del coordinamento e di decisioni prese dal livello superiore. Ne segue che l'ampiezza di controllo di livelli di vertice dovrebbe essere limitata. Come regola generale, da 4 a 7 dipendenti sarebbe un'ampiezza ragionevole, supponendo sempre che ogni manager svolga un compito effettivamente diverso ed abbia a sua volta dei dipendenti. Ampiezze di controllo di 20, 30 o più persone non sono insolite in Europa.

3.3.4 - Catena di comando

Nella piramide organizzativa l'ampiezza di controllo viene rappresentata dalla dimensione orizzontale; la catena di cornando descrive l'aspetto verticale, cioè quanti livelli sono compresi dal vertice alla base. E' owio che per un dato numero di manager possiamo ridurre l'ampiezza di controllo soltanto aumentando i livelli. Viceversa, possiamo ridurre i livelli soltanto aumentando l'ampiezza di controllo. Naturalmente sono utilizzabili metodi di emergenza per uscire dalle strettoie del sistema.

Un'ampiezza di controllo molto stretta con troppi livelli, nella catena di comando, cera problemi di comunicazione. Più sono i livelli e in altre parole le persone che devono elaborare l'informazione, più la comunicazione diventa alterata e distorta. Un ulteriore inconveniente di una catena di comando lunga con un'ampiezza di controllo stretta, sta nel fatto che il dirigente ha troppo da fare o perde la pazienza a causa dei ritardi creati dal passaggio dell'informazione attraverso gli appositi canali. Comincia

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così a cortocircuitare il sistema rivolgendosi alle persone dei livelli inferiori. Da tali metodi, come è noto, hanno origine vari giochetti aziendali. Evitare il capo intermedio, non informarlo, o addirittura dare direttive in conflitto con le sue, è il modo più certo per renderlo confuso e insicuro e rendere ancora più insicuro il suo collaboratore diretto. Perciò costruire un organigramma in modo sbagliato è il miglior sistema per mettere la gente sulla difensiva, per creare mancanza di fiducia e di sicurezza sprecando tutto sommato un sacco di tempo e di energie. Si costringono allora le persone ad evitare i canali organizzativi formali e a creare un'organizzazione informale.

3.3.5 - Organizzazione informale

Quando il potere e le funzioni non sono ben definite o l'organizzazione formale non è adeguata, possono facilmente formarsi delle strutture organizzative che non appariranno sugli organigrammi. Tutti gli interessati però sapranno che le decisioni, le azioni, le informazioni scorrono in gran parte attraverso canali diversi da quelli formali. Questa situazione crea spesso una rottura fra l'autorità e la responsabilità, oltre alla inevitabile confusione per i profani. L'autorità è rappresentata dall'organigramma informale, la responsabilità da quello formale. Può capitare allora che il titolare formale rinunci alla propria autorità di decisione a favore di una persona più forte, ma di fatto continui a prendere le colpe per ciò che va male e il merito per ciò che va bene. Solo in questo modo possono essere spiegate tante promozioni di manager ritenuti incompetenti. Esiste anche il ben noto problema delle cricche. I canali di comunicazione informale che esistono tra i membri di tali cricche non sono molto visibili, ma costituiscono una vera e propria distribuzione di potere. Conta poco se il raggrupparsi awiene perché si è stati assieme ai vecchi tempi - "lavoravamo tutti assieme 20 anni fa quando le cose erano ben diverse" - o perché associati al circolo aziendale di bocce - sede perfetta per le voci di corridoio - o perché provenienti dallo stesso ambiente educativo o geografico. Porsi contro un solo membro di tale gruppo informale darebbe come risultato la compatta resistenza di tutti. Tali fattori non appaiono negli organigrammi, ma anche dì questi occorre tenere conto.

3.3.6 - Produci Management

La zona di marketing è quella dove si trova cori maggior frequenza un esempio di scostamento dalla situazione tradizionale. Un venditore è responsabile verso il direttore regionale delle vendite, e lo è anche verso un Produci Manager della sede centrale, che gli fornisce i dati tecnici e di marketing su come, dove e a chi vendere il prodotto che promuove.

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3.3.7 - Project Management

Un secondo caso è quello dei gruppi di Progetto. Qui, pur senza cambiare le normali relazioni gerarchiche, una persona che lavora con altre ad un progetto specifico è responsabile verso il capo progetto per tutti gli aspetti del progetto stesso. Questa persona ha in questo caso un capo permanente ed uno temporaneo. Ciò generalmente funziona abbastanza bene, nella misura in cui il capo gerarchico conosce esattamente i termini ed i tempi di permanenza del suo collaboratore nel team di progetto.

3.3.8 - Mansionari

La nuova tendenza verso l'abolizione della gerarchla mette indubbio anche il valore della descrizione delle mansioni. Nei riguardi della descrizione delle mansioni sono state avanzate diverse critiche valide; però nessuno ha finora escogitato un metodo con il quale sia possibile sviluppare senza una chiara descrizione della mansione i tanti e diversi strumenti della gestione del personale, tuttora così necessari per gestire efficacemente un'organizzazione. Inutile dire che il documento di descrizione della mansione deve adeguarsi alle condizioni attuali. Sono del tutto fuori moda (benché diffuse in alcuni paesi europei) descrizioni delle mansioni lunghe e macchinose, che si concentrano sulle attività e non sugli obiettivi.

Una descrizione della mansione dovrebbe essere: • breve - non più di due o tre pagine; • orientata all'obiettivo - dire ciò che si deve realizzare piuttosto che le attività che

devono essere eseguite; • informativa - abbastanza specifica da individuare il lavoro da eseguire.

Tali descrizioni sono necessarie: • per determinare il tipo di persona che occorre assumere; • per poter spiegare al nuovo assunto qualcosa del suo lavoro; • per aiutare la pianificazione del personale a selezionare, trasferire e promuovere

sostituti; • per sviluppare piani di addestramento che si adeguino ai compiti; • per servire come base alla valutazione delle mansioni e, di conseguenza,

determinare le fasce sindacali e retributive; • per servire come base agli standard di prestazione; • per servire come base per fissare gli obiettivi; • per servire come base alla valutazione della prestazione.

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Se abolissimo la descrizione delle mansioni avremmo bisogno di una fonte alternativa per ottenere le informazioni in essa contenute. Fin d'ora, in sostituzione non è stato proposto niente di valido.

Alcuni considerano limitativa la descrizione delle mansioni, ma ci si può domandare "limitativa per chi?". I dirigenti rispondono sempre "limitativa per i dipendenti". E c'è chi asserisce che un dipendente si sentirà limitato nell'usare la propria iniziativa e, da bravo burocrate, farà solo ciò che è scritto. Ciò può essere vero; ma l'inconveniente può essere evitato se useremo descrizioni delle mansioni orientate all'obiettivo. Esiste però un'altra forma di limitazione, generalmente non menzionata dai dirigenti, ma probabilmente presente nel loro subconscio, cioè quella che restringe la libertà di decisione del capo. La descrizione della mansione limita infatti la libertà di assegnare compiti secondo l'umore, di rimproverare le persone per errori od omissioni dovuti non proprio a loro colpa, di dare lo stesso compito a due o tre dipendenti sperando cosi di aumentare la competitivita o per essere sicuro che almeno uno di essi trovi la soluzione migliore. La descrizione delle mansioni può essere una vera limitazione per un dirigente cresciuto alla vecchia scuola di comando ed obbedienza, portato a prendere decisioni improwise e ad offendersi con chi gli fa presente che un certo compito è in conflitto con la sua descrizione.

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Il flusso, ossia la neurobiologìa del l'eccellenza

Ecco come un compositore descrive i momenti in cui da il meglio di sé nel proprio lavoro:

Ti trovi in un tale stato di estasi che ti senti quasi come se non esistessi. L'ho sperimentato diverse volte di persona. La mia mano sembra non avere lega-mi con me, e io non ho nulla a che fare con ciò che sta accadendo. Me ne sto semplicemente seduto lì a guardare, in uno stato di timore reverenziale e meraviglia. E tutto questo poi scorre via dileguandosi.25

Questa descrizione è eccezionalmente simile a quelle di centinaia di altri uomini e donne - scalatori, campioni di scacchi, chirurghi, gio-catori di pallacanestro, ingegneri, dirigenti, e perfino archivisti -quando parlano di un momento nel quale hanno superato se stessi in un'attività che amano. Lo stato che essi descrivono è stato definito «flusso» da Mihaly Csikszentmihalyi, lo psicologo della Chicago Uni-versity che nel corso di vent'annì di ricerche ha raccolto molte di que-ste descrizioni di prestazioni ad alto livello.26 Gli atleti conoscono questo stato di grazia come «thè zone» - la zona - là dove l'eccellenza non richiede sforzo, e la folla e gli awersari spariscono in uno stato di beato e costante assorbimento nell'attimo presente. Diane Roffe-Steinrotter, la sciatrice che colse un oro alle Olimpiadi invernali del 1994, dopo aver terminato la sua gara disse di non ricordarne nulla, tranne di essere sprofondata in uno stato di rilassamento: *Mi senti-vo come una cascata».27

Riuscire a entrare nel flusso è la massima espressione dell'intelli-genza emotiva; il flusso rappresenta forse il massimo livello dì imbri-gliamento e sfruttamento delle emozioni al servizio della prestazione e dell'apprendimento. Nel flusso le emozioni non sono solamente contenute e incanalate, ma positive, energizzate e in armonia con il compito cui ci si sta dedicando. Essere intrappolati nella noia della depressione o nell'agitazione dell'ansia significa essere fuori dal flus-so. Ciò nonostante il flusso (o forse una sorta di microflusso) è un'e-sperienza che quasi tutti di tanto in tanto sperimentano, soprattutto quando le prestazioni uguagliano o superano i limiti personali. Il modo migliore per descrivere questo stato è forse quello di ricorrere alla metafora di due persone che fanno l'amore e sono colte dall'e-stasi - la fusione di due individui in un'unica entità, al tempo stesso fluida e armoniosa.

Questa esperienza è stupenda: la caratteristica del flusso è una sensazione di gioia spontanea, perfino di rapimento. Poiché il flusso ci fa sentire così bene, esso è di per se stesso gratificante. Si tratta di uno stato in cui la consapevolezza si fonde con le azioni e nel quale gli individui sono assorbiti in ciò che stanno facendo e prestano atten-

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zione esclusivamente al loro compito. In verità, riflettere troppo su ciò che sta accadendo - lo stesso pensiero «sto facendo un lavoro fan-distico» - può interrompere la sensazione del flusso. L'attenzione è talmente concentrata che gli individui sono consapevoli solo della ri-stretta gamma di percezioni immediatamente legate a ciò che stanno Tacendo, e perdono ogni cognizione dello spazio e del tempo. Un chi-rurgo, ad esempio, ricordava una difficile operazione nel corso della quale era entrato in uno stato di flusso; una volta terminato l'inter-vento, notò delle macerie sul pavimento della sala operatoria e chie-se che cosa fosse accaduto. Rimase sorpreso nel sentire che mentre era intento al suo lavoro, parte del soffitto era crollata: al momento non ci aveva minimamente fatto caso.

Il flusso è uno stato in cui l'individuo si disinteressa di sé, l'oppo-sto del rimuginare e del preoccuparsi. Invece di perdersi nella preoc-cupazione e nel nervosismo, gli individui sono talmente assorbiti da quanto stanno facendo che perdono completamente la consapevolez-za di se stessi e si spogliano delle piccole preoccupazioni della vita quotidiana - salute, conti, e perfino l'ansia di far bene. In questo sen-so, i momenti di flusso sono privi di ego. Paradossalmente, l'indivi-duo in stato di flusso mostra un controllo magistrale su ciò che sta fa-cendo e le sue risposte sono perfettamente sincronizzate con le mu-tevoli esigenze della circostanza. Sebbene l'individuo in uno stato di flusso dia prestazioni al massimo livello, non è mai preoccupato di far bene, non indugia a pensare al successo o al fallimento: il puro e sem-plice piacere dell'atto in se stesso basta a motivarlo.

Ci sono diversi modi per entrare nel flusso. Uno è quello di con-centrarsi esclusivamente e intenzionalmente su ciò che si sta facendo; uno stato di profonda concentrazione è l'essenza stessa del flusso. Al-l'ingresso di questa zona, sembra esserci un circuito afeedback; forse, per trovare la calma e la concentrazione indispensabili per cominciare è necessario uno sforzo considerevole, un primo passo che richiede una certa disciplina. Ma una volta che la concentrazione comincia ad affermarsi, essa si autoalimenta, sia offrendo un sollievo dai turba-menti emotivi, sia consentendo di eseguire il compito senza sforzo.

L'individuo può entrare in questa «zona» anche quando trova un'attività nella quale è abile e vi si impegna a un livello che gli ri-chiede un leggero sforzo. Come mi disse Csikszentmihalyi: «Gli indi-vìdui sembrano concentrarsi in modo ottimale quando si richiede lo-ro qualcosa in più del solito, ed essi sono in grado di darlo. Se si pre-tende troppo poco, si annoiano. Se devono tenere sotto controllo troppe cose, diventano ansiosi. Il flusso è possibile in quella fragile zona che si trova fra la noia e l'ansia».28

Il piacere spontaneo, la grazia e l'efficacia che caratterizzano il flusso sono incompatibili con i «sequestri» emozionali, nei quali gli impulsi provenienti dal sistema limbico tengono sotto sequestro, ap-

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punto, il resto del cervello. Nel flusso l'attenzione è rilassata pur es-sendo altamente concentrata. Si tratta di una concentrazione molto diversa da quella che si ottiene quando, stanchi o annoiati, si cerca di prestare attenzione a qualcosa; diversa da quando la nostra mente è messa sotto assedio da sentimenti invadenti e importuni quali l'ansia o la collera.

Il flusso è uno stato privo di interferenze emotive - se si esclude un leggero sentimento di estasi, irresistibile, e altamente motivante. Quell'estasi sembra essere un prodotto collaterale deìla concentra-tone, quella stessa concentrazione che è un prerequisito del flusso. In verità, la letteratura sulle tradizioni contemplative classiche de-scrive stati di assorbimento mentale sperimentati come pura beatitu-dine: un flusso indotto da nulla più che un'intensa concentrazione.

Osservare qualcuno che si trova nello stato di flusso da l'impres-sione che i compiti difficili siano facili; la prestazione ad altissimo livello sembra naturale e comune. Questa impressione riflette ciò che ac-cade nel cervello, dove si ha un paradosso simile: i compiti più difficili sono eseguiti con un dispendio di energia mentale minimo. Il cervello in stato di flusso è «freddo»; Io stato di attivazione e di inibizione dei circuiti neurali è in perfetta armonia con quanto è richiesto dalle cir-costanze. Quando l'indivìduo si impegna in attività che attirano senza sforzo la sua attenzione mantenendola poi concentrata, il suo cervello si «calma», nel senso che si ha una riduzione dello stato di attivazione cerebrale.29 Questa scoperta è notevole, dal momento che lo stato di flusso consente agli individui di affrontare le imprese più difficili, sia che si tratti di giocare contro un maestro di scacchi, sia che si debba ri-solvere un complesso problema matematico. Ci si aspetterebbe che queste imprese così impegnative richiedano una maggiore attività cor-ticale, non il contrario. Ma uno degli aspetti chiave del flusso è pro-prio che esso si manifesta solo nell'intorno dell'eccellenza, là dove le capacità sono ben esercitate e i circuiti neurali più efficienti.

Una concentrazione forzata - alimentata dalla preoccupazione -produce un aumento dell'attività corticale. Ma la zona del flusso e della prestazione ottimale sembra essere un'oasi di efficienza cortica-le, nella quale viene consumato un minimo indispensabile di energia mentale. Questo è logico, forse, se si pensa al tipo di attività magi-strale che consente all'individuo di entrare nel flusso: avendo la pa-dronanza delle mosse necessarie per compiere una data impresa - di tipo fisico, come scalare una parete di roccia, o di tipo mentale, come programmare un computer - il cervello può essere più efficiente. I movimenti ben esercitati richiedono uno sforzo cerebrale molto infe-riore dì quelli appena appresi o ancora troppo difficili. Allo stesso modo, quando il cervello sta lavorando in modo meno efficiente a causa dell'affaticamento o del nervosismo, come accade, ad esempio, alla fine di una giornata lunga e stressante, si ha una riduzione della

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precisione corticale, accompagnata dall'attivazione di troppe aree; uno stato neurale che a livello soggettivo viene percepito come una notevole distrazione.30 Lo stesso accade nel caso della noia. Ma quan-do il cervello funziona al massimo dell'efficienza, come nel flusso, c'è una precisa relazione fra le aree attive e le esigenze del compito che si sta svolgendo. In questo stato, anche il lavoro più gravoso invece di sfinirci sembra darci piacevolmente la carica.

Apprendimento e flusso: un nuovo modello di educazione

Poiché il flusso emerge nella «zona» in cui un'attività stimola l'indivi-duo ad esprimere al meglio le proprie capacità, con l'aumentare di queste ultime, per entrare nel flusso saranno necessari maggiori sti-moli. Se un compito è troppo semplice, risulta noioso; se è troppo difficile, genera ansia invece di guidarci nel flusso. Si può sostenere che la maestria è stimolata dall'esperienza del flusso - in altre paro-le, che la motivazione a fare qualcosa sempre meglio, si tratti di suo-nare il violino, di ballare o di compiere ricerche di genetica moleco-lare, consiste, almeno in parte, in uno stato di flusso durante l'ese-cuzione. In effetti, in uno studio compiuto su duecento artisti a di-stanza di diciott'anni dal momento in cui avevano lasciato la scuola d'arte, Csikszentmihalyi scoprì che erano diventati artisti veri solo quelli che da studenti avevano assaporato la gioia pura e semplice del dipingere. I soggetti che ai tempi dell'accademia avevano attinto le loro motivazioni nei sogni di fama e di denaro, in massima parte abbandonarono l'arte una volta preso il diploma.

Csikszentmihalyi conclude: «I pittori devono desiderare, sopra ogni altra cosa, dipingere. Se di fronte alla sua tela l'artista comincia a chiedersi a quanto potrà venderla, o che cosa ne penseranno i criti-ci, egli non riuscirà ad aprire nuovi orizzonti. La realizzazione creati-va dipende dalla dedizione totale a un unico scopo».31

Proprio come il flusso è un prerequisito per raggiungere l'eccel-lenza in un mestiere, in una professione o in un'arte, lo stesso vale anche per l'apprendimento. In modo assolutamente indipendente diillc potenzialità misurate dai test di rendimento scolastico, i giovani (he quando studiano entrano in uno stato di flusso riescono meglio. (Ili studenti di una scuola a indirizzo scientifico di Chicago - i cui al-lievi, sottoposti a un test avanzato di matematica si erano tutti classì-lì< .ili fra i migliori, e cioè in quel 5 per cento che costituiva la fascia supcriore - vennero classificati dai loro insegnanti come soggetti ad ulto o basso rendimento. Poi venne monitorato il modo in cui essi < i .mo soliti passare il loro tempo; ogni studente portava con sé un ci-c .limo che suonava a caso in diversi momenti della giornata; in corri-spondenza del segnale gli studenti dovevano mettere per iscritto l'at-

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ùvità nella quale erano impegnati e specificare di quale umore fosse-ro. Non deve sorprendere il fatto che i soggetti a «basso rendimento» passassero solo circa quindici ore alla settimana studiando a casa, molto di meno delle ventisette totalizzate dai loro compagni ad «alto rendimento». I soggetti a basso rendimento passavano la maggior parte delle ore non dedicate allo studio impegnandosi in attività di socializzazione, frequentando amici o familiari.

Quando si passò ad analizzare i loro stati d'animo, emerse un ri-sultato significativo. Tutti i soggetti, a «basso» o «alto rendimento», passavano moltissimo tempo durante la settimana in attività che tro-vavano noiose, e che non stimolavano in alcun modo le loro capacità, ad esempio guardando la televisione. Questo, dopo tutto, è il destino dei teenager. Ma la differenza fondamentale stava nel loro modo di vi-vere l'esperienza dello studio. Ai soggetti ad «alto rendimento», esso procurava la stimolazione piacevole e coinvolgente tipica del flusso nel 40 per cento del tempo che vi dedicavano. Ma nel caso dei sog-getti a «basso rendimento», lo studio produceva uno stato di flusso solo nel 16 per cento del tempo che vi veniva dedicato; molto spesso, invece, esso generava ansia, e l'impresa si rivelava superiore alle loro capacità. I soggetti a «basso rendimento» non provavano piacere né entravano nello stato di flusso mentre studiavano, ma quando si de-dicavano alle attività di socializzazione. In breve, gli studenti che ot-tengono risultati pari o superiori al loro potenziale vengono attratti dallo studio perché questa attività li guida in uno stato di flusso. Pur-troppo, i soggetti a «basso rendimento», non desiderando impegnar-si nelle attività che li avrebbero guidati al flusso, vengono privati della gioia dello studio e corrono il rischio di veder limitato il livello in-tellettuale delle attività che troveranno piacevoli in futuro.32

Howard Gardner, lo psicologo di Harvard che ha sviluppato la teoria delle intelligenze multiple, ritiene che il flusso, e gli stati posi-tivi che lo caratterizzano, facciano parte del modo più salutare di in-segnare ai bambini, quello cioè di dar loro una motivazione intcrio-re, invece di spronarli con le minacce o con la promessa di una ri-compensa. «Dovremmo usare gli stati mentali positivi dei bambini per attrarli verso l'apprendimento negli ambiti in cui essi possono sviluppare delle competenze» mi disse Gardner. «Il flusso è uno stato intcriore che indica che il bambino è impegnato in modo corretto. Essi devono trovare qualcosa che gli piaccia, e farla. Quando si an-noiano, i bambini diventano aggressivi e fanno capricci, mentre quando sono sopraffatti da un compito diventano ansiosi sul proprio rendimento scolastico. Ma quando c'è qualcosa che ci interessa vera-mente e riusciamo a trarre piacere dall'impegno che essa ci richiede, allora impariamo al meglio.»

La strategia adottata in molte scuole dove si sta mettendo in pra-tica il modello delle intelligenze multiple di Gardner è imperniata

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sull'identificazione del profilo di competenze naturali del bambino, facendo leva sui suoi punti di forza e puntellando i suoi lati deboli. Un bambino che abbia un talento naturale per la musica o il movi-mento, ad esempio, entrerà in uno stato di flusso più facilmente in quegli ambiti che non in altri nei quali è meno capace. La conoscen-za del profilo del bambino può aiutare l'insegnante a presentargli un argomento nel modo a lui più congeniale, così da fornirgli una sti-molazione ideale, sia che ci si trovi al livello di un corso di recupero, che a quello di un corso avanzato. In questo modo l'apprendimento diventa più piacevole, ben lontano dal risvegliare paure o dal susci-tare la noia. «La nostra speranza è che, riuscendo a entrare in uno stato di flusso mentre apprendono, i bambini siano incoraggiati ad accettare sfide anche in altre aree» afferma Gardner, aggiungendo che, stando all'esperienza, effettivamente avviene proprio così.

Più in generale, il modello del flusso indica che il raggiungimen-to dell'eccellenza in una qualunque capacità o campo dì conoscenze dovrebbe, in linea ideale, avvenire in modo naturale, quando il bam-bino viene attratto nelle aree che suscitano spontaneamente il suo in-teresse - essenzialmente in quelle che gli piacciono. Quando il bam-bino comprende che l'impegno in quel campo - non importa se si tratta della danza, della matematica o della musica - è fonte del pia-cere assicurato dallo stato di flusso, questa passione iniziale può rap-presentare il punto di partenza per raggiungere elevati livelli di pre-stazione. E poiché il mantenimento dello stato di flusso comporta che si superino i limiti delle proprie abilità, ecco una motivazione fonda-mentale per fare sempre meglio - qualcosa che rende il bambino fe-lice. Quello che abbiamo appena delineato, naturalmente, è un mo-dello dell'apprendimento e dell'educazione più positivo di quello con cui la maggior parte di noi si è scontrata a scuola. Chi non ricor-da la scuola, almeno in parte, come una serie di noiosissime intermi-u.ihili ore disseminate qua e là da momenti di grande ansia? Cercare lo stato di flusso attraverso l'apprendimento è un modo più umano, n.iiurale e probabilmente anche più efficace per mettere le emozioni al servizio dell'educazione.

In generale, tutto questo conferma quanto sia fondamentale la capacità di incanalare le emozioni verso il raggiungimento di un fine produttivo; essa può manifestarsi nel controllo degli impulsi e nel rinvio delle gratificazioni, nel regolare i nostri stati d'animo in modo e he essi facilitino invece di ostacolare il pensiero razionale, nel trovare la motivazione per insistere e provare - provare ancora - nono-ii.mie gli insuccessi, oppure nel trovare i modi per entrare nello stalo di flusso e dare quindi prestazioni ottimali: in ogni caso, tutti questi comportamenti indicano che, applicata ai nostri sforzi, l'emozione può rivelarsi un motore potente, capace di dare loro maggiore effi-i.n LI.

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LA STRUTTURA DEL LINGUAGGIO

II linguaggio utilizzato dagli esseri umani presenta tre aspetti

1. l'aspetto sintattico: riguarda il rapporto fra i segni, cioè come viene costruita la frase, le regole con cui le parole vengono strutturate in frasi. I parlanti di una lingua hanno conoscenza della grammatica che consente di generare senza uno sforzo e nello stesso tempo possono capire quello gli altri dicono;

2. l'aspetto semantico: riguarda il significato che la frase porta con sé. Emerge dalla strutturazione dei vari significati delle singole parole della frase stessa.

Nel linguaggio il significato si caratterizza secondo due modalità: un significato denotativo ed un significato connotativo.

Il primo corrisponde al significato convenzionale delle parole, quello che troviamo nei dizionari e che si riscontra nella cultura generale delle persone. Il secondo, invece, si riferisce agli attributi che ciascun parlante attribuisce ad un dato segno linguistico (significato aggiunto personale). Es. "squalo" può significare pesce (denotazione) ma se lo attribuiamo ad una persona gli attribuiamo un /significato aggiunto (connotazione, in questo caso anche metafora) vorrà dire che costui sarà un approfittatore che non ha riguardo per nessuno. La parola "amore" ha forse significati diversi per quanti sono gli esseri della terra; i sostantivi e gli aggettivi sono solo "etichette" che attribuiamo a dei suoni (parole). Ognuno da loro la connotazione che crede, e da qui nascono gli equivoci della

comunicazione Vedi Principio della comunicazione di Warren G Bennis 3. L'aspetto pragmatico: ^ Q ^ la pragmatica riguarda lo scopo per cui la frase è emessa, il contesto, nonché l'intenzionalità comunicativa del parlante nei confronti dell'ascoltatore. Non si comunica solo per informare l'altro di qualcosa, ma si comunica anche per convincere l'altro a fare qualcosa, o per esprimersi, o per stabilire un contatto sociale.

Secondo un'ottica psicosociale, la comunicazione viene definita in base a due caratteristiche fondamentali, che la distinguono dal semplice comportamento:

a) innanzi tutto un certo livello di consapevolezza e quindi un certo grado d'intenzionalità nel soggetto parlante, nell'emittente, necessari per codificare gli elementi di un messaggio, qualunque sia il canale usato, verbale o non verbale.

In alcuni casi l|jnteriziona|ità può essere ridotta, come ad esempio nelle comunicazioni routinarie e meccaniche quali il saluto, le formule di cortesia, oppure, in altri casi, può essere molto evidente come nell'inganno, nella cattiveria.

b) in secondo luogo, l'aspetto processuale, il fatto cioè che la comunicazione sia un sistema che coinvolge più soggetti sociali in una serie d'eventi^L'anialisi non va fecalizzata sui singoli elementi di un atto comunicativo, né sui singoli attlcomunicativi e isolati nel contesto spazio-temporale e sociale in cui si verificano, ma sull'interazione < e sulla relazione tra gli interlocutori considerati come soggetti attivi, sulla ^ costruzione e condivisione dei significati che si realizzano tra le persone nei vari ambiti sociali, informali o istituzionali, della vita quotidiana

Nella letteratura psicosociale troviamo definizioni diverse se non opposte del processo comunicativo. Watzlavick, Beavin, Jackson (1967) sostengono invece che non esiste distinzione tra questi due aspetti, cioè comunicazione è qualsiasi comportamento che accade in presenza di un'altra persona: non occorre l'intenzione di comunicare. Dal punto di vista della pragmatica non esiste all'interno del sistema d'interazione la possibilità di non comunicare: "Tutto il comportamento e non soltanto il discorso, è comunicazione e tutta la comunicazione influenza il comportamento". Il più importante gruppo di studiosi di comunicazione interpersonale al mondo, cioè quello che fa capo alla Scuola di Palo Alto (Watzlavick, Beavin, Jackson). L'attenzione di questi studiosi riguarda sia l'effetto della comunicazione sul ricevente, sia l'effetto che la reazione del ricevente (feedback) produce sull'emittente. Gli autori, basano la loro elaborazione teorica su alcune proprietà semplici della comunicazione che hanno natura di assiomi, cioè affermazioni basilari, non dimostrabili dalla teoria e che servono ad illustrare il funzionamento della comunicazione interpersonale.

1. Il primo assioma sostiene che

non si può non comunicare

qualsiasi comportamento, le parole o i silenzi, l'attività o l'inattività hanno valore di messaggio, influenzando gli altri attori che non possono non rispondere a queste comunicazioni. Il semplice fatto di non parlare, o di non prestare attenzione all'altro non costituisce un'eccezione a quanto affermato. Ne è un esempio il passeggero che decide di stare seduto con gli occhi chiusi o tenendo ben saldo un giornale davanti ai suoi occhi, costui sta chiaramente comunicando di non voler parlare con nessuno o di non voler essere disturbato.

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Anche dormendo potremmo comunicare soltanto che stiamo dormendo. Il comportamento è l'unica cosa che non ha un suo opposto, Non esiste un qualcosa che è un "non comportamento", non è possibile non avere un comportamento. Ora, se si accetta che l'intero comportamento in una situazione di interazione ha valore di messaggio, vale a dire è comunicazione, ne consegue che comunque ci si sforzi, non si può non comportarsi e non si può non comunicare.

Nell'uomo, ogni comportamento è una trasformazione di processi neurologici interni, sui quali pertanto reca delle informazioni. Ogni comportamento è quindi, in qualche modo, comunicazione sull'organizzazione neurologica di un individuo, perciò, di nuovo...

NON SI PUÒ NON COMUNICARE 2.

Con il secondo assioma si afferma che

ogni comunicazione ha un aspetto di relazione, di modo che il secondo classifica il primo ed è quindi metacomunicazione

(cioè comunicare sul modo in cui si sta comunicando e informarne sul senso con i quale interpretare correttamente le parole).

SPERIAMO CHE QUESTO TIZIO USUALE A ME STIA ZITTO... OGNI COMUNICAZIONE AVVIENE SU DUE LJVELLI:

SUL PIANO DEL CONTENUTO

(PAIKX.E. OGflALE. DANNO INFORMA2OM)

SUL PIANO DELLA RELAZIONE •LINGUAGGIO CORPOREO. ANALOGICO.

INFORMAZON! SUUE INFORMAZIONI]

Ogni atto comunicativo non trasmette soltanto informazioni,

ma al tempo stesso impone un comportamento: ha cioè aspetto di notizia, un contenuto che riguarda i dati della comunicazione e uno d: comando, che si riferisce a come deve essere assunto quel dato messaggio, e quindi in definitiva alla relazione esistente tra i partecipanti. Ad esempio, incontrando un vecchio amico dopo tanti anni gli possiamo dire: "Come sei invecchiato" e subito dopo aggiungere "Come me del resto", chiarendo così che il contenuto deve essere considerato all'interno di una relazione amichevole. Lo stesso può essere espresso dall'atteggiamento e dal comportamento non verbale. Comunicazioni costituite da un solo aspetto sono impossibili, così come un computer per funzionare ha bisogno di dati (informazioni) e di un programma per elaborare i dati stessi (informazioni sulle informazioni).

L'informazione sulla informazione è chiamata metacomunicazione, ed in un certo senso esprime "ecco come io ti vedo". La relazione può essere definita anche in modo non verbale: il tono di voce, l'atteggiamento del corpo, l'espressione del viso possono trasmettermi in maniera immediata e pregnante "come tu mi vedi". Non sempre contenuto e relazione "marciano" sulla stessa direzione: è possibile ad esempio che due persone abbiano notevoli contrasti di opinione ma che si stimino e si capiscano sul piano umano, o viceversa. L'importante è che i due livelli vengano tenuti distinti.

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La situazione più confusa è, infatti, quella in cui i due piani si sovrappongono ed i comunicanti si sforzano di risolvere un problema di relazioni sul piano dei contenuti. per esempio discutono su un problema specifico di lavoro, non per giungere ad una soluzione, ma per stabilire chi è il migliore. I metamessaggi (quelli sul livello della relazione) possono essere raggruppati in tre classi: messaggi di conferma, di negazione, di disconferma.

3. Il terzo assioma introduce il concetto di punteggiatura, afferma che

la natura di una relazione dipende dalla punteggiatura delle sequenze di comunicazione tra i comunicanti.

Le Triangolazioni Un effetto particolare della "patologia della punteggiatura" sono le "triangolazioni"; vi è una forte tendenza all'interno di ogni gruppo a creare sub-unità relazionali costituite da "triangoli", che possono essere costituiti dalle seguenti situazioni relazionali:

l'amico del mio amico è mio amico

Ciò significa che i nostri scambi comunicativi non costituiscono una sequenza ininterrotta, ma sono organizzati proprio come se seguissero una sorta di punteggiatura: è possibile in tal modo identificare le sequenze di chi parla e di chi risponde, definire ciò che si considera come causa dì un comportamento distinguendolo dall'effetto. Prima del suo pezzo di comunicazione c'è un punto o c'è un punto dopo, l'emittente apre o chiude l'evento comunicativo - per questo si parla di punteggiatura. Il problema è che il processo comunicativo va invece visto come una spirale teoricamente infinita, dove ciascuno dei comunicanti mette i suoi punti e le sue virgole - che spesso non coincidono affatto con quelli degli altri attori della comunicazione: quella che per me è la mia risposta allo stimolo altrui, può essere per l'altro lo stimolo in se e per se. Il topo che ha detto: "ho addestrato il mio sperimentatore, ogni volta che premo la leva, mi da da mangiare" stava tranquillamente contestando la punteggiatura delle sequenze del suo sperimentatore.

L'esempio tipico riportato da Watzlavick, Beavin e Jackson riguarda una coppia di coniugi con problemi di relazione che si riducono allo scambio monotono dei messaggi: "io mi chiudo in me stesso perché tu brontoli" - io brontolo perché tu ti chiudi in te stesso". Ognuno dei due soggetti definisce la realtà sulla base della propria convinzione egocentrica, dimostrando di essere incapace di metacomunicare (cioè chiarire la natura della comunicazione effettuata) in base ai propri modelli di interazione.

io mi chiudo in me stesso perché tu

brontoli io brontolo

perché tu ti chiudi in te stesso

il nemico del mio nemico è mio amico

l'amico del mio nemico è mio nemico>-

il nemico del mio amico è il mio nemico

io mi chiudo in me stesso perché tu brontoli

io brontolo

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Questi triangoli hanno il compito di consolidare la posizione del soggetto sia a livello psicologico che sociale, essi perciò sono stabili e non tendono alla trasformazione. Vi è però anche un altro tipo di triangoli:

l'amico del mio nemico è mio amico il nemico del mio nemico è mio nemico il nemico del mio amico è mio amico

Questi triangoli sono caratterizzati dal fatto che o i loro membri sono tutti nemici oppure compaiono due relazioni positive e una negativa. Essi sono instabili e tendono perciò a trasformarsi in uno dei quattro precedenti. Chi subisce gli effetti della triangolazione (che sul lavoro può dar luogo a mobbing, ossia a vessazione a cui può seguire la condizione di burnouf caratterizzata da stress e demotivazione) tende a risentirne sotto forma di una "sensazione negativa", conseguenza della lettura inconscia della CNV: da essa trasparirà l'atteggiamento che sta dietro la facciata delle verbalizzazioni. In tal modo si crea un rapporto connotato da due livelli: uno di facciata, uno legato all'aspetto emotivo che caratterizza una relazione negativa.

4. Il quarto assioma specifica che

gli esseri umani comunicano sia con il modulo numerico che con quello analogico

II linguaggio numerico riguarda l'uso di "parole", (chiamate anche "segni arbitrari dovuti ad una convenzione semantica"), Ogni volta che si usa una parola per nominare una cosa è evidente che il rapporto tra il nome e la cosa nominata è un rapporto stabilito arbitrariamente. Le parole sono segni arbitrari che vengono manipolati secondo la sintassi logica della lingua. Non c'è alcuna ragione particolare per cui la parola di cinque lettere "g-a-t-t-o" denoti un particolare animale. In ultima analisi è soltanto una convenzione semantica della lingua italiana e fuori di tale convenzione non esiste nessun'altra correlazione tra una parola e la cosa che la parola rappresenta, per cui è lo strumento privilegiato per trasmettere dei contenuti; tuttavia manca di una semantica adeguata nel settore della relazione. Il linguaggio analogico, invece, consiste di tutte le modalità della comunicazione non verbale e paraverbale (gesti, espressione del viso, inflessioni della voce, sequenza del ritmo e cadenza delle stesse parole), che vengono utilizzati soprattutto per trasmettere gli aspetti relativi alla relazione tra partecipanti.

: Letteralmente «corto circuito»: stato di crisi psicofisica ed esaurimento in cui può incorrere chi esercita una professione «di aiuto», come i Counselors o il personale medico e paramedico nel momento in cui non riescono a far fronte ad eventuali eccessive frustrazioni collegate alla loro attività È una perdita di motivazione in seguito anche a mancanza di obiettisi, routine, che in genere si manifesta tra i cinque e i

L'attività di comunicare comporta anche la capacità di coniugare questi due linguaggi, nonché di tradurre dall'uno all'altro i messaggi da trasmettere e quelli ricevuti. In entrambi i casi può essere difficile "tradurre"' e si possono avere vari errori: ad esempio quando si convertono messaggi analogici in numerici, occorre inserire degli elementi mancanti, ma il materiale analogico si presta ad interpretazioni numeriche diverse e spesso incompatibili tra loro. Ogni volta che "la relazione" è il problema centrale della comunicazione, il linguaggio numerico è pressoché privo di significato.

Triangolazioni instabili

E' un fenomeno che non si verifica soltanto tra animali e tra uomo e animale/ma in molte circostanze della vita umana (per esempio: quando si corteggia, quando si ama, quando si reca soccorso, quando si combatte) e naturalmente in tutti i rapporti con bambini molto piccoli e con pazienti che presentino gravi disturbi mentali.

Il linguaggio numerico è estremamente efficace nella comunicazione di concetti, di astrazione ed anche di normali situazioni nelle quali sia importante la logica, cioè il razionale, ma non è sufficiente per esprimere sentimenti o per descrivere azioni che implichino sentimenti.

D'altra parte il linguaggio analogico presenta due grossi "handicap": manca, infatti, della possibilità di esprimere negazioni, alternative, ipotesi, ecc., manca cioè di elementi del discorso come "se... allora, o . . . o, non", ecc. ed inoltre i messaggi analogici sono spesso ambigui, spesso lo stesso messaggio può assumere infatti significati contrastanti: col silenzio si può esprimere approvazione o disprezzo, la riservatezza può esprimere indifferenza o tatto e così via.

5. Il quinto assioma infine sostiene che

tutti gli scambi di comunicazione sono simmetrici o complementari, a seconda che siano basati sull'uguaglianza o sulla differenza delle persone comunicanti '

Si ha interazione simmetrica caratterizzata dall'uguaglianza, quando il comportamento di una persona o gruppo tende a rispecchiare quello dell'altro: per es. nel tentativo di minimizzare le differenze. Le relazioni complementari sono caratterizzate invece dalla differenza esistente tra le persone: un partner assume la posizione superiore o predominante (up) l'altro occupa la posizione corrispondente inferiore o sottomessa (down). Le combinazioni possibili sono pertanto:

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Up / up e down / down

Sono le situazioni che possono chiamarsi di "braccio di ferro", magari elegantemente dissimulate, in cui ciascuno degli attori cerca di avere l'ultima battuta, la parola definitiva.

Si hanno così situazioni di stallo, di stasi - totalmente improduttive dal punto di vista del compito - che si sbloccano solo quando uno cede, o ragionevolmente, accetta di essere down, almeno per un po', o almeno finché gli avvenimenti lo giustificano (l'altro ha più competenze rispetto al problema specifico per esempio; ma non è detto che io non sia più informato rispetto al "prossimo problema; o che non sia più bravo di lui al tennis, . . .").

(simmetria)

Up / down e down /

Appartengono alla seconda categoria non solo i rapporti legati a certe idiosincrasie di una data coppia, ma anche quelli stabiliti dal contesto sociale (ruoli) e culturale, per es. padre-figlio, insegnante-alunno, medico-paziente. In molti casi queste relazioni asimmetriche non vengono imposte in modo esplicito, ma ciascun soggetto si comporta in modo da presupporre il comportamento deH'altro, offrendogli al tempo stesso le ragioni perché tale asimmetria esista e perduri nel tempo.

Simmetria e complementarità non sono in sé buone o cattive, normali o anormali, entrambe svolgono funzioni importanti e sono necessarie nelle relazioni "sane", non sono giudizi di valore ma modelli di interpretazione, infatti essere in posizione "one-up" non significa in se essere debole, cattivo, remissivo, ecc. Quando un partner si irrigidisce in una delle due posizioni, si producono patologie o fallimenti comunicativi. In sostanza, auspicano gli autori, non solo è possibile, ma è anche necessario per i due partner mettersi in relazione in modo simmetrico in certe situazioni, in modo complementare in altre (sapere quando fare da incudine e quando fare da martello...). E' chiaro ormai come la posizione complementare sia "naturale", utile, talvolta indispensabile. E come dunque sia importante instaurarla, saperla accettare anche quando ciò comporti il trovarsi in posizione one-down, in quella situazione.

Sono i casi in cui si può parlare di dipendenza funzionale. A volte tuttavia nessuno accetta di situarsi down e c'è la rincorsa continua alla posizione up.

La comunicazione verbale: i tre meta-presupposti errati

Purtroppo quando pensiamo a come ci organizziamo i pensieri, le parole, i concetti, tutti cadiamo in un naturale errore della percezione, presupponiamo cioè che gli altri capiscano molto di più di quello che in realtà accada. I tre presupposti errati principali sono che:

1. Ogni ricevente il messaggio ha la possibilità di decodificare suoni e segni ossia di comprendere sempre quanto gli diciamo/scriviamo ("cosificazione" o reificazione dei concetti astratti o confusione tra significato e significante)

2. Ogni parola ha un significato univoco, per cui quando rivolgo un messaggio a qualcuno egli lo comprenderà, o per lo meno ha la possibilità di farlo, nell'esatto modo in cui il l'intendo. Ricordiamoci sempre che LE PAROLE SONO DELLE ETICHETTE, a cui ognuno di noi da il significato, o il prezzo che vuole. Per comunicare davvero sarà necessario "tarare" i vocabolari sulla stessa linea.

3. Vi è una precisa distinzione tra la realtà obiettiva e il pensiero soggettivo. La distinzione tra oggetto e soggetto delle ricerche conduce alla ricerca della verità piuttosto che di ciò che è utile. Individuare rapporti di causa-effetto obiettivi nell'uomo comune porta alla lettura del pensiero, ossia a pensare di poter cogliere nella loro "realtà" i pensieri e i sentimenti del nostro interlocutore, nella convinzione che si possa contrapporre realtà e fantasia, reale e irreale. La "realtà oggettiva" è pur sempre il nostro personale modo di rappresentarci la realtà e, quindi, una nostra opinione, a meno che non sia costituita da elementi sensorialmente fondati,

miro PSRÌ stessi si rilevano inaannevolil

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LE 3 POSIZIONI DELLA MENTE

Sono le 3 posizioni mentali fondamentali in cui ci possiamo trovare quando, nel "qui ed ora", mentre i fatti accadono, mentre comunichiamo o pensiamo a quanto sta accadendo. La prima posizione è quella che assumiamo quando siamo interessati solo a noi stessi, non ascoltiamo né ci occupiamo minimamente dell'interlocutore, casomai aspettiamo che lui finisca di parlare solo per dire la nostra (caso della posizione 1).

Quando siamo attenti alle reazioni dell'interlocutore, (al feed-back) lo osserviamo, o semplicemente vediamo con cura (per es. il suo non verbale) ciò che accade ci troviamo in posizione 2. E' il caso in cui ascoltiamo attivamente proprio perché disponiamo di molte informazioni in più, siamo efficienti ma non è detto che il nostro comportamento sia efficace. Cerchiamo solo di fare in modo tale che lo che lo sia.

LE 3 POSIZIONI

ATTENZIONE A SE'

Nel terzo caso facciamo un salto logico importante: ci rendiamo conto di quanto sta accadendo e siamo capaci di metacomunicarlo o semplicemente siamo in grado di visualizzare nella nostra mente l'immagine di noi stessi protagonisti di quello che sta accadendo. E' una posizione molto utile per uscire dai battibecchi, (ci rendiamo conto che stiamo bisticciando per sciocchezze e casomai saremmo pure capaci di riderci su proprio mentre stiamo litigando). Mettersi in posizione tre mentre le cose accadono è difficile ma utilissimo, è un po' come mettersi a vedere dall'esterno, è come se stessimo in un cinema che proietta il film di "noi mentre agiamo". Questa posizione di vedere noi stessi si chiama POSIZIONE DISSOCIATA e tende a diminuire anche l'intensità emotiva delle cose, tende ad "allontanarcene", infatti è usata anche come tecnica per alleviare l'intensità emotiva

<• Nota: "si parla di metaposizione anche come processo di integrazione nelle persone aucuc uu usuivi dissociami per giungere ad una nuova condizione che includa le polarità (due) o parti (più di due) di sé in conflitto tra loro; tale condizione si situa ad un liscilo logico più alto di quello che caratterizzava lo stato di conflitto. In tal modo le diverse polarità o parti cesseranno di costituire roccaforti contrapposte, e quindi alla radice di un problema, per divenire fonte di risorse e fornire un maggior numero di alternative relative al comportamento" (S. Boschi, il potere del cambiamento, 2000)

FORME DELLA COMUNICAZIONE

I tre livelli della comunicazione

Numerose ricerche dimostrano che noi proiettiamo il significato delle nostre idee o i nostri sentimenti sugli altri in queste percentuali: 7 % con le parole, 38 % con il modo di dirle (paraverbale) 55 % con le espressioni del volto e del corpo (non verbale) (Mehrabian & Ferris, 1967]. Secondo lo studioso statunitense Mehrabian, ogni comunicazione umana avviene su tre livelli capaci di veicolare messaggi dal mittente al destinatario; il livello verbale: le parole dette, il contenuto; il livello paraverbale: tono, volume, ritmo, timbro della voce; il livello non verbale: gli atteggiamenti, la postura del corpo, la velocità e la frequenza dei movimenti, la gestualità, la fisiologia corporea, la gestione dello spazio e del territorio. Secondo Bateson la comunicazione digitale (verbale, logica) e il. contenuto coincidono fra loro, così come coincidono la comunicazione analogica, (non verbale ed emotiva) e la relazione (metacomunicazione).

1 LAMETAPOSIZIONE

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LE COMPETENZE DEL BUON COMUNICATORE Ascoltare in modo attivo - Fare le domande giuste - Creare buoni rapporti

Ascoltare non significa udire Significa prestare attenzione a tutte le informazioni che i 5 sensi ci inviano, anche quelle che di solito passano inosservate. (Vediascolto attivo)

Entrare in relazione Significa assicurarsi l'attenzione di qualcuno e guadagnarsi credito e fiducia Implica che si abbia conoscenza, esperienza e desiderio di fornire l'assistenza

necessaria,

Significa capire le pluralità dei RUOLI tra gli interlocutori Quando si entra in relazione si sviluppa una cordiale

comprensione reciproca, come in una danza

Ricalco

Significa riprodurre i comportamenti dell'interlocutore, il suo linguaggio verbale e corporeo in modo discreto. E' l'elemento chiave per entrare in relazione Ricalcare significa rendersi simile all'altro. Rendersi simili significa essergli familiare. Essergli familiare significa attivare il suo sistema parasimpatico. Attivare il suo parasimpatico significa predisporlo all'ascolto, all'accettazione, alle nuove possibilità, (vedi "Programmazione Neurolinguistica").

un buon comunicatore deve sempre tenere conto che:

il buon comunicatore è responsabile al 100% del risultato che ottiene

ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto e*syn aspetto di relazione

Noi comunichiamo attraverso i canali di comunicazion^quali la parola, i gesti, la mimica, il tono, l'espressione del viso ...

Ogni canale di comunicazione ha una sua grammatica: un codice La comunicazione è il complesso di tutti i messaggi inviati tramite tutti i canali Non si può non comunicare

II vero significato della comunicazione sta nel responso che se ne ottiene, indipendentemente dalle intenzioni

Noi agiamo sempre in un sistema, come ci insegna la fisica Un silenzio o una mancata risposta danno comunque dei messaggi di

comunicazione Se le risposte che riceviamo non sono quelle che vorremmo, cambiando i messaggi che inviamo potremo ottenere delle risposte diverse a noi più gradite

Aspetti che influenzano la comunicazione interpersonale

Sicurezza di sé Fiducia in se stessi Personalità Automotivazione

La comunicazione efficace

La relazione con l'interlocutore Scopi e contenuti della comunicazione Ambiente comunicativo Qualità e modalità della relazione16

La relazione

I rapporti interpersonali sono sempre condizionati dai ruoli !

È necessario sensibilizzarsi verso la capacità di discernere le diverse identità che stanno agendo durante una relazione (es: come amico o collega)

La comunicazione è influenzata da

Fattori esterni Fattori ambientali

Dove 'siamo Con chi siamo In quanti siamo

Formalità dell'incontro Uso di linguaggi appropriati Familiarità con il contesto Capacità di adattarsi all'ambiente Che rapporti abbiamo con gli altri

Perché ci incontriamo

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GLI SCOPI DELLA COMUNICAZIONE REGOLE DI COMUNICAZIONE INTERPERSONALE

Alcuni problemi possono essere estremamente importanti, ma può non essere il luogo e il momento per parlarne

Alcuni scopi della comunicazione

Dare informazioni Dare direttive Chiedere informazioni, chiedere direttive Negoziare (si negozia sempre di tutto: idee, azioni, cose, persone, ecc.) Chiedere e dare emozioni Sono tutte attività che risentono della relazione di ruolo, che danno confini a chi e in che modo dare o ricevere messaggi

Quali sono le mosse giuste? Quali sono le mosse sbagliate? Esistono regole valide per qualsiasi relazione?

NO!!!

Esistono alcune regole generali ma esistono soprattutto regole legate ai ruol alla personalità dell'interlocutore

Giochi interattivi Sono situazioni comunicative socialmente riconoscibili"

Scopi nascosti

Ti dispiacerebbe guardare questa cosa per domani?

Questa non è una domanda, ma una richiesta, anche se posta in tono cortese e amichevole (transazione ulteriore: vedi Analisi Transzionale e relazioni disfunzionali)

Difficoltà nelle relazioni

Non riuscire a sintonizzare l'altro sulla nostra lunghezza d'onda (non accettar gioco proposto) Non accettare la sua lunghezza d'onda o il gioco relazionale da altri Cambiare gioco se il gioco attuale non ci piace

Comunicare: significa anche proiettare un'immagine di se

Bisogna essere costantemente consapevoli che ogni rapporto interpersonale influenza la percezione di noi da parte degli altri (vedi finestra di Johari)

Messaggi nascosti

La nostra comunicazione informa l'altro sulla percezione che abbiamo di lui, si tratta di metainformazioni sulla relazione.

Es: superiorità, autorità, sottomissione, sfida, collaborazione.

Sfumature espressive

L'affermazione "hai fatto un buon lavoro" può avere molti significati, es: positivo, di apprezzamento, ironico denigratorio

Regole generali

Rispetto dei turni di parola18

Chiedere chiarimenti Segnalare le non comprensioni Chiarezza negli obiettivi. Di cosa stiamo parlando? Chiarezza dei ruoli nel contesto. In veste di cosa/chi si parla? Dove? Flessibilità e cooperazione

Sintonizzazione emotiva

Calma Attenzione Rispetto dell'obiettivo Comportamento emotivo simile all'interlocutore

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LA GESTIONE DEI CONFLITTI

Un buon comunicatore deve essere in grado di distinguere non solo una comunicazione amichevole da una attacco, ma anche il tipo di attacco o conflitto in corso. Distinguere una comunicazione enfatizzata, teatrale mossa da uno scopo, da una equilibrata (Sedi transa-ion- ulteriori, triangolo drammatico, conflitti di ruolo).

Tipologie di attacco

La lamentela

"Così non si può andare avanti, questo lavoro non riesco più a farlo, non se ne può più"

Questo tipo di lamentela non si rivolge a nessuna persona o soggetto. Non è specifica, è vaga, manca un indice referenziale.

Contro queste violazioni linguistiche ci possiamo difendere con il modello linguistico chiamato "metamodello", preso a prestito dalla grammatica trasformazionale di Chomsky26. Si tratta di una serie di tecniche di domande studiate per smascherare le deformazioni, cancellazioni e generalizzazioni del linguaggio. (Vedi metamodello)

Accusa

L'accusa è una forma di lamentela che individua il colpevole In modo palese "sbagli i calcoli" In modo coperto "in questo ufficio non si'trova mai nulla" (casomai siete solo in due)

La squalifica personale

È una valutazione negativa alla persona non a un suo specifico aspetto o comportamento

Es: "non capisci niente, non vali niente"

La disconferma

Ignorare l'altro come se non ci fosse o non contasse nulla Esempi: non

rispondere alle domande, buttare giù la cornetta del telefono.

Valorizzare il disaccordo

Non tutti i disaccordi sono negativi. Come comunicarlo? Es: "tu non sei d'accordo con questo punto? Interessante, interessante, approfondiamo!" (ristrutturazione del conflitto)

Reazione all'attacco

Imparare la comunicazione assertiva non significa sottomettersi La sottomissione può essere comoda sull'istante, ma negativa in caso di squalifica o disconferma personale, specie se reiterata nel tempo. Usare le tecniche di controargomentazione, ristrutturazione e gli sleights of mouth2'

Non entrare in simmetria

Entrare in simmetria significa reagire all'accusa con un'altra accusa. Questo apre un gioco accusatorio a spirale. La riformulazione dell'accusa denota la comprensione delle ragioni dell'accusatore Es: mi sembra di capire che ti dia fastidio questo punto, il mio punto di vista è un pò diverso, penso che ... Gran parte del successo delle operazioni di riformulazione dipende dai toni: pacatezza, compostezza.

Tempi di reazione all'accusa

Rispondere immediatamente all'accusa, ma nel modo appropriato Teqnica possibile: ampliare il proprio repertorio di risposte automatiche Possedere un repertorio di risposte automatiche significa essere pronti alle gestione di specifiche accuse. Ampliare il repertorio delle proprie risposte significa essere pronti alla gestione di specifiche accuse, un grande "serbatoio" è la miglior dote per dare buone risposte28. Es. come con i girovaghi commedianti dell'arte dal lungo repertorio

In alternativa: posticipazione della risposta

È" il Padre della psicolinguistica. Per approfondimenti vedi N. Chomsky. Languore ami problemi of biowleJge, Massaehusetts mstitute of Technology, Cambridge, 1988 oppure La struttura della magia, Bandler Grinder. Astrolabio

: vedi rispettivi paragrafi: controargomentazione , ristrutturazione, e giochi di abilità linguistica ;' vedi paragrafo: risposte automatiche di contiomanipolazione

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Gestione delle proprie emozioni IL CONFLITTO COME PROCESSO DI PROBLEMI SOLV1NG

.a capacità di non arrabbiarsi e lo sviluppo del self-control sono punti di forza del juon comunicatore.

5e di fronte a un attacco la risposta verbale è divergente da quella non verbale emerge un incongruenza. La cosa migliore NON È NEGARE LE EV DZIONI MA SAPERLE ÌICONOSCERE IN TEMPO, e canalizzarle verso attività produttive. Se necessario, servirsene per rinegoziare gli accordi, ma sempre con educazione e :onsapevolezza.

Reazioni strategiche

_a reazione impulsiva prevede la non valutazione degli effe*:: che produrrà _a reazione strategica presuppone la valutazione delle produttività nel lungo periodo La ricerca di uno scopo comune, cioè lo spostamento su un livello logico superiore, e solo dopo cercare i comportamenti comuni che lo raggiungano La negoziazione (vedi risoluzione dei conflitti)

Mosse di repertorio

Le mosse di repertorio possono essere centinaia. È possibile stare zitti e subire, far notare con calma una violazione delle regole, evidenziare che è in atto una squalifica personale e che non la accettiamo. Es. "Lei mi ha fatto un attacco personale pesantissimo, e io non lo accetto" alzarsi e andarsene Non è detto che la negazione dell'accordo costituisca sempre una negoziazione perdente

II conflitto sorge ogni volta che si verificano diverse attività incompatibili fra loro^che prevengono, bloccano o interferiscono il verificarsi di altre. Il conflitto può essere piccolo o grande, può nascere in una persona, fra due o più persone, fra due o più gruppi.

La controversia si verifica quando le idee, informazioni, conclusioni, teorie e opinioni di una persona sono incompatibili con quelle di un'altra e le due persone cercano di arrivare a un accordo30.

Il conflitto concettuale accade quando esistono simultaneamente idee incompatibili nella mente di una persona o quando l'informazione ricevuta non sembra adattarsi a quella che già si possiede.

Si ha un Conflitto di interessi quando le azioni di una persona, volte a massimizzarne gli obiettivi, impediscono, bloccano o interferiscono con quelle di un'altra persona che a sua volta cerca di massimizzare i propri personali obiettivi, ("voglio usare il computer ora!") preferenze di attività ("voglio mangiare fuori sulla panca da pic-nic, non dentro nella caffetteria") che danno origine a una gamma di relazioni che spesso danno luogo a insulti, minacce, aggressioni fisiche ("sei un buono a nulla!").

Il Conflitto evolutivo si ha quando si verificano attività incompatibili fra adulto/operatore e bambino/utente basate sulle forze opposte di stabilità e di cambiamento che rientrano nei cicli evolutivi di sviluppo cognitivo e sociale.

Il valore del conflitto I conflitti hanno un alto valore, se gestiti in modo costruttivo possono portare

a risultati altamente desiderabili, come maggiori livelli quantitativi e qualitativi d profitto, di ragionamento complesso, di problem solving creativo; capacità d prendere decisioni (decision making) di qualità superiore; un più sano sviluppo cognitivo, sociale e psicologico creato dall'essere capaci di trattare con lo stress e affrontare le avversità impreviste).

Conflitti ben gestiti possono portare anche ad un miglioramento nelle relazioni e generare maggiori motivazioni ed energie per l'azione, migliore qualitc delle relazioni con gli amici, i colleghi di lavoro e i membri della famiglia; un più forte senso di protezione, impegno, identità comune, coesione con una particolare enfas sul gradimento, il rispetto e la fiducia. Infine conflitti risolti positivamente accrescono I;

N M. Deutsch, The resohttion of conjìict: Consinictive aiid desinane processe!, The University Press. New Haven,CT. 1973 x (D. Johnson e R. Johnson, 1995): D Johnson. R Johnson, OurMeJiation Notebook, Interaction Book Co.. Edina, Mn. 1990: D. Johnson, R. Johnson, Creative Coniroversy: Intellectiial Cltallenge in thè Classroom. Intcraclion Book Co., Edina, Mn, 1987.

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consapevolezza che esiste un problema che deve essere risolto e possono essere un incentivo al cambiamento.

Insegnare a gestire il conflitto in modo costruttivo aiuta a creare organizzazioni orientate al conflitto positivo. A questo fine, gli educatori e gli operatori devono: creare un contesto cooperativo, usare la controversia accademica tra utenti e tra colleghi, insegnare agli utenti ed ai colleghi ad essere pacificatori (peacemakers).

LA RISOLUZIONE DEI CONFLITTI

Non esiste un unico modo di reagire al conflitto. C'è chi cerca ad ogni costo di non rinunciare al proprio punto di vista o posizione e chi cerca, viceversa, di evitare il confronto; chi cerca un compromesso rinunciando a qualcosa a patto che anche l'altro contendente faccia lo stesso; chi, infine, sceglie di ricorrere ad un arbitro esterno o a una votazione. Per risolvere gli scontri è importante saper riconoscere di fronte a che tipo di conflitto ci troviamo:

conflitto cognitivo conflitto di scopi conflitto sulla sostanza o sul compito

I vari modi di soluzione di un conflitto si possono descrivere secondo la modalità Vincente/perdente1, i conflitti che si risolvono con un vincente e un perdente, o con entrambi i contendenti perdenti lasciano in genere insoddisfatti. Chi ha perso tenderà prima o poi a chiedere la rivincita. Combinando le polarizzazioni vincente/perdente, attenzione verso sé/attenzione verso gli altri, competitiva/cooperativa, si definiscono cinque tipi di modalità di superamento del conflitto:

(vincente-perdente) (vincente-vincente) (pendente-vincente) (perdente-pendente) (né vincente né perdente)

La negoziazione è la strategia di risoluzione dei conflitti più efficace. Richiede che ci si metta né in un clima di competizione né di individualismo, ricercando una soluzione dei propri interessi, alla pari e senza pregiudizi, con forte

rispetto reciproco: analizzare apertamente le cause del conflitto, esplicitare chiaramente i propri bisogni, manifestare i propri sentimenti, mettersi nei panni dell'altro. Solo così sarà possibile trovare le soluzioni e gli accordi capaci di risolvere in modo ottimale qualsiasi controversia31.

Le fasi della risoluzione del conflitto

"Whatlwant", "whatlfeel", 'cosa voglio", "cosa provo", owero dichiarare in mode esplicito i propri desideri e sentimenti 'sembra risolvere in ogni contesto, non sole educativo, il conflitto. Una specie di doppia strategia, razionale (problem solving) e espressiva (terapia della parola] capace di mettere in luce i punti di vista de contendenti e di risolvere, quasi magicamente, in modo catartico, il conflitto.

LA STRATEGIA DELLA NEGOZIAZIONE32

1. Individuare i fatti che creano il conflitto (essere disponibili a discutere il conflitto

per superarlo)

2. Identificare i propri bisogni e i propri scopi (chiarire che cosa si vuole dall'altro

3. Essere capaci di confrontarsi (discutere sui problemi, non sulle persone (C. Rogers)

conflitto emozionale Conflitto di interessi Conflitto di valori e credenze 4. Cercare di capire la prospettiva dell'altro (esprimere i propri punti di vista,

sentimenti, emozioni, mantenendo il rispetto reciproco)

5. Proporre soluzioni di reciproco vantaggio (riconoscere gli interessi e i vantaggi anche dell'altro)

6. Ricercare creativamente le soluzioni possibili (proporre diverse possibilità di soluzione, non solo adeguate agli interessi dei contendenti, ma anche rispondenti a criteri oggettivi di razionalità)

7. Trovare un accordo che sia soddisfacente per entrambi i contendenti 1. dominio 2. integrazione 8. Terminare con una forte stretta di mano

• 3eJJ!-fA.4.i, JIKLZX 3. accomodamento4. fuga difensiva 5. compromesso 3111 Cooperative Leaming, con le sue modalità di organizzazione e di lavoro comune, è un metodo che prepai le

abilità sociali richieste per la gestione coerente e responsabile del conflitto. In particolare, attraverso struttura della "controversia educativa", è in grado di inserire la negoziazione come abituale proces: razionale, cognitivo e sociale-civico allo stesso tempo. D Johnson, R. Johnson, Our Medialion .\'oleboo Interaction Book Co, Edina, Mn, 1990. 3"Da\id e Roger Johnson, massimi teorici del Cooperative Leaming. indicano queste come le tasi risoluzione del conflitto

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La procedura di negoziazione

II conflitto termina quando si raggiunge un accordo. L'obiettivo della negoziazione è quello di raggiungere un accordo

ragionevole che vada bene per tutti i contendenti33. Quanto più abili sarete nell'usare la procedura, tanto più facile sarà trovare

un valido accordo. Per diventare abili, non stancatevi di praticate e praticare ancora la procedura, finché non diventa automatica.

/passi della negoziazione sono i seguenti:

PERSONA DUE lo voglio... Io sento ... Le mie ragioni sono... La mia

comprensione dei tuoi desideri, sentimenti e ragioni è... Tre piani/mie proposte per risolvere il problema sono... Scegliamo un piano/proposta e siamo d'accordo.

Le conseguenze della risoluzione del conflitto

IRISUL TA TI POSITIVI, i conflitti consentono ai contendenti di riconoscere di aver sviluppato "apertura e conoscenza reciproca" e una migliore "disponibilità a comunicare apertamente". Essi inducono a modificazioni nel comportamento, a maggiore fiducia nelle situazioni di conflitto. I RISULTATI NEGATIVI: i conflitti riducono la comunicazione e l'interazione fra le parti. Si vive nel timore di nuovi conflitti, che si cerca in tutti i modi di evitare, non ritenendosi all'altezza di risolverli. Si tende a ripiegare su strategie meno impegnative; si riduce la disponibilità alla ricerca di soluzione dei problemi (problem solving).

CONCLUSIONI: a: il conflitto è stimolante dal punto di vista cognitivo b: il conflitto è un'esperienza significativa dal punto di vista sociale. II conflitto - e la strategia cooperativa della negoziazione applicata a risolverlo - educa alla promozione di una relazione più forte e significativa con gli altri.

" La risoluzione del conflitto

Un'esperienza preziosa sia per lo sviluppo cognitivo e metacognitivo sia per lo sviluppo, la conoscenza e la crescita personale.

Quando risolvete un conflitto è importante ricordare che 34.

1. Entrambi siete coinvolti nel conflitto. Dovete lavorare assieme per risolverlo. Risolvete i conflitti come amici, non come nemici.

2. Entrambi avete desideri. PERSONA UNOAvete pieno diritto di esprimerli. Per risolvere il conflitto in modo costruttivo, entramb dovete affermare onestamente quello che volete.

lo voglio... io sento ... Le mie ragioni sono... La mia comprensione dei tuoi

3. Entrambi avete sentimenti. Questi devono essere espressi per consentire che il conflitto venga risolto in mode costruttivo. Tenersi dentro frustrazione, collera, dolore, paura, tristezza non fa altre che rendere più difficile la risoluzione del conflitto stesso.

desideri, sentimenti e ragioni è... Tre piani/mie proposte per risolvere il

problema sono... 4. Entrambi avete ragioni per volere quello che volete e sentirvi come vi sentite Chiedetevi le ragioni dell'altro e assicuratevi di poter vedere il conflitto da entrambe le prospettive.

Scegliamo un piano/proposta e siamo d'accordo.

5. Entrambi avete la vostra prospettiva o il vostro punto di vista. Per risolvere il conflitto in modo cosfuttivo dovete vedere il conflitto da entrambe l< prospettive.

6. Entrambi avete bisogno di generare diversi accordi alternativi che massimizzino benefici di ciascuno di voi. Accordi ragionevoli rendono felici entrambe le persone.

7. Entrambi avete bisogno di scegliere l'accordo che sembra più ragionevole e < suggellarlo con una stretta di mano.

M a soprattutto... mai accettare una soluzione che lasci una persona felice e un infelice.

34 D Johnson, R. Johnson, Teaching Studenti to he Peacemakers, Interaction Book Co., Edina. MN, I9S Otir Mediation Notebook, Interaction Book Co., Edina, Mn, 1990; Creative Controversy: Intellecti Chalìenge in thè Classroom, Interaction Book Co., Edina, Mn, 1987; - C. R Rogers, H. J. Freiberc, Freedt to Leam, Maxwell Mcmillan International. New York 1994; - K. Topping. Tutoring. L'insegnamei reciproco tra compagni, F.rickson, Trento 1997

33

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Gli stili di risoluzione del conflitto

Ognuno di noi tende ad affrontare e a risolvere il conflitto secondo un certo stile, una certa visione del mondo, un suo quadro razionale, un suo mondo di valori, emozioni e sentimenti, chi lo fa irruentemente, chi con calma, chi strategicamente. Di solito, impariamo le strategie di gestione dei conflitti nell'infanzia, in modo tale che più tardi esse sembrano funzionare in modo automatico ma possiamo imparare nuovi e più efficaci modi di gestione dei conflitti.

Per la risoluzione del conflitto sono rilevanti: a. i PROPRI OBIETTIVI personali; b. L'IMPORTANZA DELLA RELAZIONE nella risoluzione del conflitto (quanto è

importante emotivamente l'altro o il gruppo). La combinazione di questi due aspetti da origine a una tipologia di cinque strategie usate per la risoluzione del conflitto: la negoziazione, la mediazione, costrizione, il compromesso, la rinuncia.

/ negoziatori usano la negoziazione di problem solving: se entrambe le dimensioni - obiettivi e relazioni- sono importanti per noi, inizieremo una negoziazione di problem solving per risolvere il conflitto. Cercheremo soluzioni per conciliare i nostri interessi ed obiettivi reciproci che possano risolvere ogni tensione e sentimento negativo fra noi. Questa strategia richiede mosse audaci e rischiose, come rivelare i nostri interessi sottostanti mentre aspettiamo che l'altro faccia lo stesso.

I mediatori usano la mediazione: quando l'obiettivo non è di grande importanza per noi mentre la relazione ci sta molto a cuore, rinunciamo al nostro obiettivo per mantenere elevata la relazione. Quando un collega tiene molto a qualcosa, e noi possiamo farne a meno, la mediazione è sicuramente una buona idea. "Se cedete, fatelo con buon umore"35. A volte, mediare implica il chiedere scusa. Dire 'mi scuso' non significa dire 'ho sbagliato'. Le scuse fanno sapere all'altra persona che siete dispiaciuti della situazione (ibid.).

/prepotenti Costrizione o negoziazione vinco-perdo: quando l'obiettivo è molto importante mentre non lo è altrettanto la relazione, cercheremo di ottenere il nostro obiettivo costringendo o persuadendo l'altro a cedere. Gareggiamo per vincere impegnandoci in negoziazioni vinco-perdo. Quando compriamo un'auto usata, ad

3\} & .1, 1995, 4:3). Johnson D, Johnson R (1990, 1995), Our Mediation Notebook. Edina, Mn., Interaction Book Co. : (1987, 1995), Creative Controversy: Intellecliial Challenge in thè Classroom. Edina, Mn., Interaction Book Co. : (1995), Teaching Studenti to be Peacemakers. Edina, MN. In-.eraction Book Co.

34

esempio, ci concentriamo sullo spendere il meno possibile indipendentemente da quello che prova il venditore. In un match di tennis, cerchiamo di vincere senza preoccuparci di cosa provi l'avversario dall'essere sconfitto. Le TATTICHE possono essere "minacce all'imporre punizioni", che saranno sospese se l'altro scende a compromessi, "compiere azioni preventive" rivolte a risolvere il conflitto senza il consenso dell'altro, "argomentazioni persuasive", "l'imposizione di termini", "impegnarsi in una posizione immutabile" o fare domande che eccedono di gran lunga ciò che è realmente accettabile. Esiste una lunga letteratura sulle tecniche di negoziazione che per questioni di brevità non possiamo trattare36.

I diplomatici usano // compromesso: quando sia gli obiettivi che la relazioni sono moderatamente importanti per noi, ed è abbastanza chiaro che né noi né il nostro avversario siamo in grado di ottenere ciò che vogliamo, possiamo rinunciare a parte dei nostri obiettivi e sacrificare parte della relazione al fine di raggiungere un accordo. Il compromesso può significare incontrarsi a metà in modo che ciascuno ottenga la metà o lanciare una moneta per decidere il vincitore. Il compromesso si usa spesso quando i contendenti desiderano impegnarsi in una negoziazione di problem-solving ma non hanno il tempo di farlo.

I rinunciatari usano la rinuncia: quando l'obiettivo non è importante e non abbiamo bisogno di avere une relazione con l'altra persona, possiamo decidere di rinunciare sia all'obiettivo che ali? relazione perdendoli entrambi. Evitare uno straniero ostile, ad esempio, può essere l< cosa migliore da fare. Talvolta possiamo desiderare di tenerci fuori da un conflittc finché noi o il nostro avversario non ci siamo calmati o abbiamo ripreso il controllo de nostri sentimenti.

37 Regole pratiche utili nella situazione relazionale quotidiana

Non ritiratevi dal conflitto o ignorate il conflitto Non impegnatevi in negoziazioni di tipo Vmco-perdo"

Valutate la mediazione Fate il Compromesso quando il tempo è poco Impegnatevi in negoziazioni di Problem-solving , Usate il vostro senso dì 'humor1.

V - .....^.^ ..... IL_-„....-.-.»,,,54 John Winkler, Guida alle tecniche di negoziazione (1994), F. Angeli. 3 Regole suggente da D. Johnson e R. Johnson. Vedi: Olir Mediation Notebook. Edina, Mn., Interaction Bo Co. : (1987. 1995), Creative Controversi.: ìntellectual Challenge in thè Classroom. Edina, Mn.. Intendi Book Co (1995), Teaching Studente to be Peacfmakers. Edina, MN: Interaction Book Co . A<h'i»ic Cooperative Leaniing, Interaction Book Co . Edina, Mn, 1998; Esopo, Favole. Roma, Editori Riuniti. 1970

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Tratto da: Daniel Goleman, Lavorare con Intelligenza Emotiva, Rizzoli, 1998 pp. 375-376

L'espressione "intelligenza emotiva" si riferisce alla capacità di riconoscere i nostri sentimenti e quelli degli altri, di motivare noi stessi, e di gestire positivamente le emozioni, tanto interiormente, quanto nelle nostre relazioni. Essa descrive abilità che, per quanto complementari, sono distinte dall'intelligenza accademica, ossia dalle capacità puramente cognitive misurate dal Ql. Molte persone intelligenti sui libri ma carenti di intelligenza emotiva finiscono per lavorare alle dipendenze di gente con un Ql più basso ma tali da eccellere nelle capacità dell'intelligenza emotiva. ......questi talenti emotivi si rivelano importanti nella vita lavorativa. L'adattamento comprende cinque fondamentali competenze emotive e sociali: Consapevolezza di sé. Conoscere in ogni particolare momento i propri sentimenti e le proprie preferenze e usare questa conoscenza per guidare i processi decisionali; avere una valutazione realistica delle proprie abilità e una ben fondata fiducia in se stessi. Dominio di sé. Gestire le proprie emozioni così che esse - invece di interferire con il compito in corso - lo facilitino; essere coscienziosi e capaci di posporre le gratificazioni per perseguire i propri obiettivi; sapersi riprendere bene dalla sofferenza emotiva. Motivazione. Usare le proprie preferenze più intime per spronare e guidare se stessi al raggiungimento dei propri obiettivi, come pure per aiutarsi a prendere l'iniziativa; essere altamente efficienti e perseverare nonostante insuccessi e frustrazioni. Empatia. Percepire i sentimenti degli altri, essere in grado di adottare la loro prospettiva e coltivare fiducia e sintonia emotiva con un'ampia gamma di persone fra loro diverse. Abilità sociali. Gestire bene le emozioni nelle relazioni e saper leggere accuratamente le situazioni e le reti sociali; interagire fluidamente con gli altri; usare queste capacità per persuaderli e guidarli, per negoziare e ricomporre dispute, come pure per cooperare e lavorare in team.

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Il laboratorio

Indicazioni di percorso per lo sviluppo dell'intelligenza emotiva

Primo passo: identificare le emozioni Identificare le emozioni vuoi dire essere in grado di dare un nome a ciò che si prova ma anche di sapersi mettere nei panni altrui, cogliendo il significato implicito nelle espressioni, nei movimenti, nella tonalità e nell'inflessione della voce. Per facilitare il riconoscimento dei diversi stati d'animo verrà messo a disposizione materiale iconico di varia natura.

Secondo passo: utilizzare le emozioni Utilizzare le emozioni significa comprendere come queste condizionano la capacità di pensare, di agire, di costruire rapporti affettivi e di lavoro, rendendo i soggetti motivati a sviluppare la capacità di utilizzare le emozioni per facilitare le varie attività e risolvere i problemi che possono presentarsi. In questa fase viene posta l'attenzione alla percezione di sentimenti diversi: gioia, rabbia, apprensione e viene preso in considerazione il vissuto personale come importante fonte di informazione, apprendendo a non essere succubi delle sensazioni emotive.

Terzo passo: comprendere le emozioni Comprendere le emozioni è la capacità di comprendere il dialogo emotivo, di comprendere come determinati comportamenti reattivi siano conseguenza di emozioni che li precedono e condizionano, di come la rabbia, ad esempio inevitabilmente ingenera rapporti conflittuali. Per riconoscere i complessi rapporti che intercorrono fra le emozioni e le reazioni gli studenti saranno coinvolti in giochi di ruolo facendo esperienza delle molteplici situazioni in cui potranno trovarsi coinvolti.

Quarto passo: gestire le emozioni Gestire le emozioni si traduce nella capacità di controllare le manifestazioni che possono determinare situazioni spiacevoli, ma è anche nella capacità di confrontarsi con le altrui emozioni, rapportandosi con queste per facilitare i rapporti interpersonali e di "squadra". E' un dato esperienziale acquisito che i soggetti che meglio entrano in sintonia ed empatia con i loro interlocutori, più facilmente possono assumere posizioni di leadership e di gestione degli eventi, migliorando la propria posizione lavorativa e acquisendo maggiore gratificazione.

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Tratto da: Daniel Goleman, Lavorare con Intelligenza Emotiva, Rizzoli, 1998 pp. 42-43 La

struttura della competenza emotiva

COMPETENZA PERSONALE

Determina il modo in cui controlliamo noi stessi

Consapevolezza di sé Comporta la conoscenza dei propri stati interiori - preferenze, risorse e intuizioni.

• Consapevolezza emotiva: riconoscimento delle proprie emozioni e dei loro effetti

• Autovalutazione accurata: conoscenza dei propri punti di forza e dei propri limiti

• Fiducia in se stessi: sicurezza nel proprio valore e nelle proprie capacità

Padronanza di sé Comporta la capacità di dominare i propri stati interiori, i propri impulsi e le proprie risorse

• Autocontrollo: dominio delle emozioni e degli impulsi distruttivi

• Fidatezza: mantenimento di standard di onestà e integrità

• Coscienziosità: assunzione delle responsabilità per quanto attiene alla propria prestazione

• Adattabilità: flessibilità nel gestire il cambiamento

• Innovazione: capacità di sentirsi a proprio agio e di avere un atteggiamento aperto di fronte a idee, approcci e informazioni nuovi

Motivazione Comporta tendenze emotive che guidano o facilitano il raggiungimento di obiettivi

• Spinta alla realizzazione: impulso a migliorare o a soddisfare uno standard di eccellenza

• Impegno: adeguamento agli obiettivi del gruppo o dell'organizzazione

• Iniziativa: prontezza nel cogliere le occasioni

• Ottimismo: costanza nel perseguire gli obiettivi nonostante ostacoli e insuccessi

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COMPETENZA SOCIALE

Determina il modo in cui gestiamo le relazioni con gli altri.

Empatia Comporta la consapevolezza dei sentimenti, delle esigenze e degli interessi altrui

• Comprensione degli altri: percezione dei sentimenti e delle prospettive altrui; interesse attivo per le preoccupazioni degli altri

Assistenza: anticipazione, riconoscimento e esigenze del cliente

soddisfazione delle

Promozione dello sviluppo altrui: percezione delle esigenze di sviluppo degli altri e capacità di mettere in risalto e potenziare le loro abilità

Sfruttamento delle diversità: saper coltivare le opportunità offerte da persone di diverso tipo

Consapevolezza politica: saper leggere e interpretare le correnti emotive e i rapporti di potere in un gruppo

Abilità sociali Comporta abilità nell'indurre risposte desiderabili negli altri

• Influenza: impegno di tattiche di persuasione efficienti

• Comunicazione: invio di messaggi chiari e convincenti

• Leadership: capacità di ispirare e guidare gruppi di persone

• Catalisi del cambiamento: capacità di iniziare o dirigere il cambiamento

• Gestione del conflitto: capacità di negoziare e risolvere situazioni di disaccordo

• Costruzione di legami: capacità di favorire e alimentare relazioni utili

• Collaborazione e cooperazione: capacità di lavorare con gli altri verso obiettivi comuni

• Lavoro in team: capacità di creare una sinergia di gruppo nel perseguire obiettivi comuni

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L’Intelligenza Emotiva nelle Organizzazioni Tratto da Daniel Goleman "Lavorare con l'Intelligenza Emotiva"

L’organizzazione e’ come un essere vivente:

Attraverso stadi di sviluppo nasce, cresce, raggiunge la maturita’ …sopravviveranno quelle con una robusta dose di i. E.

A) consapevolezza

B) padronanza di se

C) motivazione

D) empatia

E) abilita’ nelle relazioni

“Solitamente siamo consapevoli delle nostre emozioni solo quando traboccano”

“Il flusso emotivo da forma a cio’ che percepiamo e scorre parallelamente al flusso del pensiero”

E’ necessario tendere ad un equilibrio emotivo alimentando ed ottenendo la somma totale degli scambi di Sentimenti

Nelle Aziende non è necessario mettere a nudo i propri sentimenti

Confondere il lavoro con la vita privata equivale ad una Scarsa Competenza Emotiva

A) consapevolezza

- e’ riconoscere le proprie emozioni i loro effetti e la loro influenza su quello che facciamo, sulle decisioni che prendiamo

- e’ esercitarsi all’ascolto dei messaggi provenienti dal nostro archivio interiore di memoria emotiva (sensazioni viscerali ) per avere la possibilita’ d’agire in modo coerente con i propri valori-principi e sentimenti (fidatezza) - e’ essere in grado di rimandare le gratificazioni per riuscire a riflettere sulle potenziali conseguenze di cio’ che si’ sta per fare ed assumersi le responsabilita’ delle proprie azioni.

B) padronanza di se’

- e ‘ capacita’ di dominare gli impulsi e i sentimenti negativi, di smorzare il disagio e soffocare l’impulso (autocontrollo)

- e ‘ non lasciarsi dominare da ansie e paure, ma riconoscere queste sensazioni e lascire che fluiscano per avere la possibilita’ di scegliere come esprimere i sentimenti dando voce alle emozioni in modo efficace e ‘ esercitare una buona flessibilita’ nel percepire le prospettive molteplici che ci sono in un evento, gestire il cambiamento e rispondere agli stimoli (adattabilita’)

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C) motivazione

Interessante è l’etimologia delle parole emozione e motivazione

Emozione – Motivazione dal latino “movere” = “muovere”

Le emozioni spingono a perseguire gli obiettivi ossia alimentano le motivazioni,le motivazioni influenzano il modo in cui vediamo il mondo ossia guidano la percezione e danno forma all’azione

Si individuani tre competenze motivazionali :

1. Spinta alla realizzazione, ossia migliorarsi

2. Impegno, ossia allineamento con gli obiettivi del gruppo

3. Iniziativa ed ottimismo, ossia previdenza a costanza

1- SPINTA ALLA REALIZZAZIONE, (migliorarsi)

Ricordando che la nostra convinzione di ciò che con le capacità siamo in grado di fare dipende dal contesto e non necessariamente corrisponde alle reali capacità (self-efficacy - Bandura)

Per operare efficacemente, oltre ad avere delle capacità bisogna crederci , fare in modo che ci sia coerenza tra Azioni e Valori, OPERARE affinché le persone conoscano i loro valori principi - intenzioni - sentimenti e possano agire in modo coerente con essi (FIDATEZZA)

La discrepanza tra Azioni e Valori crea disagio espresso sotto forma di sensi di colpa- vergogna - dubbi tormentati- rimorsi

2 - IMPEGNO (allineamento con gli obiettivi del gruppo)

Il valore dell’impegno è nel fare dei propri obiettivi e di quelli dell’azienda/organizzazione una cosa sola

Un impegno di natura emotiva che può volere dire sacrificio in prima persona o prendere decisioni impopolari ed avere una visione a lungo termine per operare anche in assenza di una gratificazione immediata

L’affiliazione (legami affettivi) apprezzamento,stima e riconoscimento da parte delle altre persone può essere un fattore motivante positivo MA SE eccessivo diventa una distrazione che fa perdere di vista il compito di manager

Attirare l’attenzione sull’affiliazione di qualcuno ad un gruppo quando quell’identità è irrilevante può evocare nella mente di tutti gli interessati uno Stereotipo su quel particolare gruppo che possono avere un potere emotivo con conseguenze negative sulla prestazione

Quella mancanza di empatia che si manifesta interagendo con gli altri considerandoli stereotipi e non individui unici.

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3 - INIZIATIVA ED OTTIMISMO (previdenza e costanza)

La mancanza di iniziativa è un problema quasi sempre presente nei dipendenti (“…non è compito mio”) ma anche l’iniziativa non equilibrata può essere negativa (l’assenza di delega,l’umiliazione di chi cerca di crescere)

Il modo di interpretare i nostri insuccessi è una competenza fondamentale per la ripresa e la costanza l’ottimismo vede gli insuccessi visti come la conseguenza di un elemento della situazione su cui essi hanno comunque il potere di intervenire

Valutare realisticamente un insuccesso ed ammettere di avervi contribuito

il pessimismo vede nell’insuccesso una conferma di un proprio fatale difetto che non può essere corretto sviluppando sensazioni di impotenza

Le emozioni sono contagiose nel bene e nel male Sono un sistema di segnalazione che non ha bisogno di parole e ci aiuta ad interagire in modo più fluido.

D) EMPATIA

- e’ sapere vedere una situazione dal punto di vista del cliente/utente per aiutarlo a riuscire nel suo intento

- e’ la capacita’ di interpretare le correnti politiche e la realta’ di una organizzazione diversa dalla nostra

- e’ cogliere quello che gli altri provano senza che necessariamente l’esprimano

La mancanza di empatia si manifesta con l’interazione con gli altri considerandoli stereotipi e non individui unici

E) ABILITA’ NELLE RELAZIONI

E’ concentrarsi sulle relazioni fra i membri del team e’ un modo per aiutare gli individui a collaborare meglio - e ‘ lavorare attraverso un team che andando avanti ed indietro, ognuno verso i propri obiettivi e verso quello degli altri, acquisiscano un quadro generale potendo poi i singoli gruppi accettare – accogliere i compromessi “il mio lavoro fa parte di quello degli altri “

Le competenze intese come aspetto personale, quelli insieme di abitudini che conducono a prestazioni lavorative e professionali piu’ efficaci quelle stesse fondamentali per il coordinamento sociale (stringere legami collaborare e cooperare- capacita’ di gruppo)

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Domandiamoci :

L'organizzazione si comporta in modo da alimentare le competenze dell'Intelligenza Emotiva?

· Formare un team

· Adattarsi al cambiamento

· Funzionare da catalizzatore del cambiamento e fare fruttare le diversità

Si ritiene che concentrarsi sulle relazioni fra i membri del team rappresenti una distrazione dagli obiettivi preposti

E cosi’ si’ alimenta l’esaurimento cronico ed il cinismo generando perdita di motivazione entusiasmo e produttivita'

Concentrarsi sulle relazioni fra i membri del team e’ invece un modo per aiutare gli individui a collaborare meglio significa lavorare attraverso un team , attraverso gruppi con identita’ specifica che sentono l’identita’ dell’organizzazione

Per avere successo nel lavoro ci si deve sentire apprezzati e parte integrante dell’organizzazione

Il turn over danneggia il profitto

Gli stati d’animo di chi lavora in azienda sono spesso ignorati, il che limita la comprensione dei fenomeni e le reazioni ad essi

(Così come la teoria dei sistemi ci ricorda ad ogni azione corrisponde una reazione che in una danza di flusso e ri-flusso, flessibilità –accomodamento, rende comprensibili i fenomeni stessi)

Con l' int. Emotiva si’ riconoscono i sentimenti propri potendoli esprimere in modo appropriato con una elevata possibilita’ che riconoscendo ed esprimendo le ragioni alla base delle sensazioni negative si puo’ intervenire su delle decisioni piu’ efficaci in ambito dirigenziale si pensa che addestrare eccelenti individui significa avere anche eccellenti componenti di un team ( di fatto non c’e’ coincidenza lineare)

Secondo il principio di Peter

Le persone sono promosse fino ai max livelli in cui sono competenti di conseguenza hanno a che fare con relazioni umane / gestione di cambiamenti continui per cui le competenze tecniche devono essere affiancate da I. .E. oppure le sole capacità tecniche possono diventare l’ostacolo inoltre l’ I. E. è proporzionale alla complessità del lavoro da svolgere perché ci sono molte più difficoltà da affrontare è quindi è necessario avere il controllo dei sentimenti – riconoscerli per esprimerli in modo appropriato al raggiungimento degli obiettivi cambiamenti /trasformazione/momenti critici necessitano di maggiore I.E.

I momenti in cui il cambiamento delle circostanze trasforma una strategia in un disastro sono cruciali nella vita di una azienda

(La Valle della morte)

· Se un’azienda non è abbastanza pronta a ripensare la propria strategia mentre ha ancora i numeri per farlo e la forza per cambiare ed adattarsi, sarà condannata ad indebolirsi o a chiudere.

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Le competenze da acquisire devono essere considerate un aspetto personale – come l’insieme d’abitudini che conducono a prestazioni lavorative e professionali piu’ efficaci , di fatto abbiamo:

- l’apprendimento intellettuale

che si ha nel contesto scolastico

- la modificazione d’un comportamento

che avviene nella vita stessa, quale contesto d’apprendimento, diventa, allora, indispensabile possedere l’expertise competenza nella vita quotidiana (intelligenza + perizia tecnica + esperienza) va consideranto inoltre che queste competenze sono le stesse fondamentali per il coordinamento sociale, per le capacita’ di gruppo (stringere legami collaborare e cooperare).

“Non è l’assenza di limiti a fare eccellere chi dirige, ma la consapevolezza di questi, con la capacità e la volontà di migliorare e lavorare in tale direzione (ricerca del feedback) ”

Sei comportamenti attraverso cui le oganizzazioini demoralizzano e demotivano

- · sovraccarico di lavoro

- · mancanza d’autonomia

- · gratificazioni insufficienti

- · perdita di legami

- · slealta’

- · conflitti di valori

L’organigramma di un’azienda emotivamente intelligente somiglia più ad una rete che ad una gerarchia, determina uniformità nella distribuzione dei guadagni, nessuno è valutato in base al suo volume di fatturato, a nessuno importa chi si prende il merito del successo c’è un unico centro di profitto nel quale tutti hanno lo stesso interesse.

I. E. Nelle organizzazioni:

- la capacita di risolvere problemi

- raccogliere sfide.

Le competenze organizzative sono le stesse che si riscontrano negli individui :

- abilita cognitive (saper gestire bene le conoscenze)

- expertise tecnico (intelligena+periziatecnica+esperienza)

- gestione delle risorse umane.

Essere emotivamente presenti senza essere incapacitati dall’ansia ed avere un atteggiamento d’apertura verso gli altri nasce dall’autoconsapevolezza dei propri sentimenti che permette di ascoltare empaticamente sentimenti altrui e trasformare le frustrazioni in entusiasmo.

“NESSUNO DI NOI E’ INTELLIGENTE COME TUTTI NOI INSIEME”

(proverbio giapponese)

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EmotivaMENTE Le emozioni costituiscono un aspetto fondamentale della vita dell’uomo: consentono di classificare e valutare le esperienze.

La parola emozione deriva dal latino “ex”, uscire e “motio”, muoversi: “emovus” è il participio passato del verbo “emovere” che significa per l'appunto: “muovere”, “allontanare”, "mettere fuori" (espellere, esperire). “Tutte le emozioni sono, essenzialmente, impulsi ad agire, piani di azione di cui l'evoluzione ci ha dotato per gestire rapidamente le emergenze della vita. La radice stessa della parola emozione è il verbo latino moveo, «muovere», con l’aggiunta del prefisso «e» («movimento da»), per indicare che in ogni emozione è implicita una tendenza ad agire.” […] Queste inclinazioni biologiche a un certo tipo di azione vengono poi ulteriormente plasmate dall’esperienza personale e dalla cultura […] il modo in cui le emozioni sono esibite in pubblico o trattenute è forgiato dalla cultura [...]. Esse hanno un ruolo ed una funzione importante nella vita, ma vanno conosciute, esercitate e controllate nella vita di relazione umana.” (Sigmud Freud, Il disagio della civiltà)

Un parametro efficace per l’identificazione delle emozioni di base nell'essere umano è stato considerato l’espressione del viso.

Verso la fine degli anni ’60 Paul Elkman si reco presso una popolazione sperduta della Nuova Guinea, i Fore, raccontò ad alcuni personaggi alcune storie legate a emozioni particolari, mostrò delle foto simili a quelle riprodotte qua sopra ma di individui americani e chiese ai soggetti di indicare l’immagine che associavano alla storia. Poi tornò in america e fece lo stesso con alcuni soggetti americani cui però mostrò immagini di volti dei Fore. Si accorse che le stesse storie venivano associate a visi che esprimevano la stessa emozione.

1 Estratto da http://www.brunobonardi.it

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Come possiamo vedere le emozioni fondamentali sono poste a metà della figura tridimensionale. Se prendiamo un’emozione e guardiamo quella posizionata all’opposto, ci possiamo rendere facilmente conto che la loro sequenza non è casuale ma segue una logica “polare”:

1 Estratto da http://www.brunobonardi.it

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E' così che Ekman ha identificato sei emozioni primarie:

1 Felicità 2 Sorpresa 3 Disgusto 4 Rabbia 5 Paura 6 Tristezza

Invece Plutchik è partito da considerazioni di natura evolutiva. Afferma infatti che le emozioni primarie sono biologicamente primitive e si sono evolute in modo da consentire alle specie di sopravvivere (Plutchik, 1980). Argomenta infatti che ognuna delle emozioni primarie agisce come interruttore per un comportamento con un alto valore di sopravvivenza (es. paura: fight-or-flight response).

Come abbiamo già visto nello schema sopra, secondo Robert Plutchik, vi sono otto emozioni primarie (definite a coppie):

1 gioia -tristezza 2 fiducia - disgusto 3 rabbia - paura 4 sorpresa - anticipazione Abbiamo visto anche come il diagramma a ruota delle emozioni da lui creato, evidenzia gli opposti e l’intensità, via via decrescente, delle emozioni, più i vari stati intermedi (decrescendo di intensità le emozioni si mescolano sempre più facilmente). Plutchik, citando le ricerche di Darwin che hanno ricevuto numerose conferme, sottolinea il ruolo comunicativo delle emozioni (in modo analogo a Ekman, seppure da un altro punto di vista). Riportiamo qui nella tabella che segue schematicamente le risposte ambientali che Plutchik identifica:

Stimolo Percezione Emozione Comportamento Funzione

Ottenere un oggetto Possesso Gioia Trattieni e ripeti Ottenere risorse

Membro di un gruppo Amico Fiducia Collabori Mutuo sopporto

Minaccia Pericolo Paura Fuggi Sicurezza

Evento inatteso Cos’è? Sorpresa Stop Prendere tempo

Perdita di un oggetto Abbandono Tristezza Piangi Riottenere le risorse perse

Oggetto inassimilabile Veleno Disgusto Vomiti Elimina veleno

Ostacolo Nemico Rabbia Attacca Distruggere ostacolo

Nuovo territorio Esamina Anticipazione Mappa Conoscenza del territorio

Le Famiglie delle Emozioni

A proposito delle famiglie delle emozioni ecco cosa scrive Goleman:

“I ricercatori continuano a discutere su quali precisamente possano essere considerate le emozioni primarie – il blu, il rosso e il giallo del sentimento dai quali derivano tutte le mescolanze – o perfino sull’esistenza di tali emozioni primarie. Alcuni teorici propongono famiglie emozionali fondamentali, anche se non tutti concordano nell’identificarle.”

Ed ecco come vengono da lui raggruppate all’interno di otto famiglie principali:

*Collera: furia, sdegno, risentimento, ira, esasperazione, indignazione, irritazione, acrimonia, animosità, fastidio, irritabilità, ostilità e, forse al grado estremo, odio e violenza patologici.

*Tristezza: pena, dolore, mancanza d’allegria, cupezza, malinconia, autocommiserazione, solitudine, abbattimento, disperazione e, in casi patologici, grave depressione.

*Paura: ansia, timore, nervosismo, preoccupazione, apprensione, cautela, esitazione, tensione, spavento, terrore; come stato psicopatologico, fobia e panico.

*Gioia: felicità, godimento, sollievo, contentezza, beatitudine, diletto, divertimento, fierezza, piacere

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sensuale, esaltazione, estasi, gratificazione, soddisfazione, euforia, capriccio e, al limite estremo, entusiasmo maniacale.

*Amore: accettazione, benevolenza, fiducia, gentilezza, affinità, devozione, adorazione, infatuazione, agape.

*Sorpresa: shock, stupore, meraviglia, trasecolamento.

*Disgusto: disprezzo, sdegno, aborrimento, avversione, ripugnanza, schifo.

*Vergogna: senso di colpa, imbarazzo, rammarico, rimorso, umiliazione, rimpianto, mortificazione, contrizione.

Comunque le emozioni possono essere definite come un insieme di processi specializzati per la risoluzione di problemi. Per caratterizzarle in modo più preciso proviamo a classificarle ulteriormente distinguensole in tre diverse tipologie:

1 emozioni fondamentali 2 emozioni cognitive 3 emozioni esperenziali Le emozioni fondamentali (o emozioni elementari) sono processi di tipo reattivo, specializzati dall'evoluzione e aventi ben definiti correlati neuroanatomici.

La tabella seguente affianca ognuna di tali emozioni alle situazioni tipiche a cui fanno riferimento, permettendo di attivare le reazioni di risposta:

EMOZIONE SITUAZIONE

Paura Presenza di un pericolo

Disgusto Reazione nei confronti di sostanze o oggetti potenzialmente nocivi

Gioia Affettività, raggiungimento di scopi

Tristezza Affettività, scopi non (ancora) raggiunti

Rabbia aggressività

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Le emozioni cognitive. Per i 'cognitivisti' le emozioni sono processi di tipo cognitivo (o comunque tali per cui la cognizione svolge un ruolo centrale). L'emozione consisterebbe in un processo in cui, alla percezione di un certo insieme di stimoli, seguirebbe una valutazione cognitiva che consentirebbe all'individuo di etichettarli e di individuare un determinato stato emotivo. A questo punto, seguirebbe la risposta emotiva, sia di tipo fisiologico che comportamentale ed espressivo. La sequenza è illustrata nello schema seguente e nel successivo esempio:

PERCEZIONE

SCELTA DELL'EMOZIONE

SCELTA DELLA RISPOSTA

Dinamica di un generico processo emotivo

*** Esempio di processo emotivo

Il terzo tipo di emozioni, quelle più complesse dette esperenziali, sono i sentimenti quali l'invidia, l'amore o il senso di colpa [Castelfranchi et al. 1994]. In questo caso, per l'instaurarsi di tali emozioni è necessario un individuo che abbia un modello di sé e della relazione tra sé e il mondo.

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In pratica l'emozione è quella complessa catena di eventi che si succedono tra la comparsa dello stimolo scatenante (input), l’attivazione dei tre sistemi di risposta: sensazione soggettiva -comportamento -variazioni fisiologiche e l’esecuzione del comportamento rispondente (output). L’emozione quindi rappresenta il comportamento di risposta ad uno stimolo ambientale di breve durata, che provoca cambiamenti legati alla motivazione la quale si manifesta sui tre livelli che seguono:

� psicologico – Si modifica la sensazione soggettiva, si altera il controllo di sé e delle proprie abilità cognitive: comprende i resoconti verbali relativi all’esperienza soggettiva, come ad esempio: “ho provato una intensa sensazione di rabbia quando ...”; • comportamentale – Cambiano le Espressioni Facciali, la postura, il tono della voce e le reazioni (attacco o fuga, per esempio); riguarda tutte le manifestazioni motorie dell’emozione, come ad esempio il comportamento di evitamento, di avvicinamento, di attacco e la fuga ecc., e le modificazioni dell’atteggiamento posturale e dell’espressione facciale. � fisiologico – ci troviamo di fronte a modificazioni fisiche, fisiologiche, riguardanti la respirazione, la pressione arteriosa, il battito cardiaco, la circolazione, le secrezioni, la digestione, ecc. prevalentemente rappresentato delle modificazioni fisiche: ad esempio negli effettori innervati dal sistema nervoso autonomo, quindi alterazioni della frequenza cardiaca, della pressione arteriosa, dell'irrorazione vascolare facciale (l’arrossire), l’aumento della sudorazione delle mani, o le modificazione del ritmo respiratorio. Tutte queste variazioni sono connesse con, e anche indotte da, modificazioni di tipo endocrino, per esempio del sistema ipofisi-corticosurrenale (ACTH e cortisolo) o della midollare del surrene (adrenalina e noradrenalina). L'emozione, specialmente se intensa, può provocare alterazioni somatiche diffuse: il sistema nervoso centrale influenza le reazioni mimiche (l'espressione del viso), la tensione muscolare; il sistema vegetativo e le ghiandole endocrine, la secrezione di adrenalina, l'accelerazione del ritmo cardiaco e altre risposte viscerali.

Nessuno di questi tre sistemi (psicologico, comportamentale e fisiologico) è prioritario rispetto agli altri, ma piuttosto ognuno risulta strettamente connesso per combinare una risposta emozionale globale. I tre sistemi cioè interagiscono tra loro pur essendo parzialmente indipendenti. Concludendo, l’emozione risulta essere un “insieme di risposte”.

La motivazione alla risposta

Comunemente si pensa di dedurre le motivazioni dal comportamento, in realtà lo stesso comportamento può essere causato da motivazioni diverse. Uno studente può passare tre ore a studiare per interesse verso la materia, per compiacere un genitore o per primeggiare sui compagni e sentirsi importante. Ci sono infatti vari tipi di disaccordo tra attività e obiettivo:

• lo stesso obiettivo può essere raggiunto con diversi comportamenti; � differenti obiettivi possono essere raggiunti con lo stesso comportamento; � un comportamento può essere strumentale al raggiungimento di differenti obiettivi. Le emozioni hanno tre funzioni principali:

motivazione: sono processi motivazionali che predispongono l'individuo verso un certo insieme di possibili comportamenti;

comunicazione sociale: permettono di comunicare informazioni da individuo a individuo (ad esempio, l'abbracciarsi per esprimere affetto o il lamentarsi per richiedere aiuto);

informazione: fanno sì che l'individuo sia aggiornato sui suoi bisogni e obiettivi, che apprenda situazioni ed eventi utili e pericolosi, agendo come misuratori del proprio stato interno e del mondo esterno.

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L’utilità delle emozioni consiste nel permetterci di valutare nell’immediato se uno stimolo ci sorprende, ci piace oppure no, se può esserci utile o dannoso ed infine, se siamo in grado di affrontarlo o è meglio allontanarsi da esso. Le emozioni, quando compaiono in noi, provocano una serie di reazioni a livello somatico, vegetativo e psichico. Le risposte somatiche possono essere direttamente osservate e consistono nell’arrossire, tremare, sudare, respirare più velocemente, la pupilla può cambiare le sue dimensioni. Le risposte vegetative, al contrario, possono essere misurate solo con apparecchiature speciali e consistono in accelerazioni del battito cardiaco, aumento della pressione, alterazioni nella salivazione, nella secrezione da parte delle ghiandole, della conduttanza cutanea. Le risposte vegetative non sono controllabili ed è proprio su questo principio che si basa l’affidabilità della famosa “macchina della verità”. Emozione e sentimento

Citando Antonio Damasio: “Le emozioni consistono in un insieme di risposte chimiche e neurali le quali formano uno schema (pattern)” Questo è assolutamente un punto chiave perché si potrebbero concepire le emozioni come un tipo di riflesso ma sarebbe scorretto. Quando parliamo di emozioni, trattiamo qualcosa di molto complesso che impegna non solo un sistema neurale ma anche un sistema chimico e, quello chimico prima di quello neurale, almeno dal punto di vista della storia degli organismi, poiché queste risposte probabilmente esistevano a livello chimico in organismi molto semplici persino prima che ci fosse un sistema nervoso centrale (S.N.C.) proprio e in grado di produrre una risposta verso una parte del corpo via segnale neurale. L’idea che questi siano schemi (pattern) unita all’idea di una forma di risposta multipla molto elaborata, costituisce il punto chiave della definizione di un’emozione secondo il punto di vista di Damasio. -“Le emozioni giocano un ruolo nella regolazione e portano alla creazione di circostanze vantaggiose per l’organismo che le esibisce “. Quindi le emozioni sono risposte regolatorie che portano ad alcuni tipi di condizioni vantaggiose per l’organismo che produce quelle risposte. - Le emozioni concernono la vita di quell’organismo e lo assistono nel mantenimento della vita e sono anche adattative. -Le risposte emozionali sono responsabili di cambiamenti dello schema corporeo e nello schema cerebrale. Un solo stimolo, di qualsiasi tipo, per esempio uno stimolo che potrebbe spaventarci o renderci felici, una volta attivo e, molto spesso può esserlo persino in modo non conscio, elicita un insieme di risposte che alterano lo stato in cui si trovava l’organismo prima dell’inizio dell’interazione dello stimolo con l’organismo. - L’insieme di questi cambiamenti costituisce il substrato per il sentimento/percezione delle emozioni. Questa è la chiave assoluta per comprendere la distinzione operata tra sentimento ed emozione. Non c’è dubbio che il nostro equipaggiamento genetico includa strategie che ci permettono di performare un’emozione ed eseguirla (vedi attori); questo attraversa tutti gli esseri umani e persino non umani, rendendo così facile la comunicazione attraverso diverse culture e diversi linguaggi. E’ importante ricordare che sebbene noi non impariamo le nostre emozioni, avvengono cambiamenti nelle espressioni che sono appresi e certamente il significato conferito a queste emozioni può essere molto diverso, dipendente dalla situazione. In sintesi Damasio concepisce le emozioni non come qualcosa di indipendente dalla regolazione biologica ma come facenti parti di un continuum. Il primo livello del continuum corrisponde alla regolazione basica della vita, include i processi metabolici i quali avvengono in modo non conscio, istinti e motivazioni che portano alla fame o alla sete, tipi di segnali che permettono di sentire le cose che noi chiamiamo dolore o piacere, o semplici riflessi. Il set di emozioni al livello medio è più complesso, le risposte sono contenute in schemi (pattern). Le risposte sonno connesse a particolari tipi di stimoli, non specifici stimoli ma specifici tipi di stimoli provenienti dall’esterno dell’organismo e quelle stesse risposte attivano uno schema comportamentale che prepara l’organismo ad affrontare un certo problema che si pone. Le emozioni predispongono all’inizio di un comportamento che può condurre a qualcosa di adattativo, per esempio il comportamento di paura permette una condizione di blocco o permette di correre. Le differenti colonne (vie nervose) in una particolare parte del tronco cerebrale controllano un tipo di blocco oppure un altro e, la scelta fra i due tipi è fatta in modo totalmente non conscio così che i due comportamenti possano essere attivati. Tutto questo accade in modo manifesto, dimostrabile e visibile da altri ma c’è qualcos’altro: il livello del sentimento,ed è molto critico perché permette alla mente di prendere nota dell’intero comportamento che le emozioni hanno appena avviato. Questo non significa che c’è una coscienza a quel punto, almeno non nel modo in cui la concepisce l’autore ma, semplicemente significa che alcune rappresentazioni dello stato hanno avuto inizio. Dopo la sperimentazione dei sentimenti, in quanto esseri umani abbiamo la possibilità di sapere che abbiamo i sentimenti, ma tale consapevolezza richiede una coscienza e quest’ultima ci dà la possibilità di influenzare l’intero processo di pensiero attraverso la conoscenza di un particolare sentimento invece di poterne solo prendere nota.

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COSCIENZA

La connessione tra coscienza ed emozioni è molto semplice e molto diretta. L’idea di Damasio è che la coscienza sia al suo livello basico un aspetto aggiuntivo della regolazione della nostra vita. 1Non possiamo arrivare alla comprensione della coscienza studiando solo i sistemi sensoriali. La sfida più urgente consiste secondo Damasio, nello scoprire come passiamo da un neuro-pattern (schema neurale) iniziato nei circuiti neuronali a un’immagine mentale. A questo punto però si presenta un problema strettamente connesso: un problema di qualità. Per qualità si può intendere un qualcosa che noi sentiamo quando siamo coscienti, una sorta di modo nel quale la coscienza sente qualche cosa. Secondo l’autore il modo in cui la coscienza nella mente sente come sente, è dovuto alla presenza del sentimento nell’organismo. Così la questione della coscienza e dei modi nei quali essa sente ha a che fare con la natura dei sentimenti stessi. E’ improbabile che una mente “galleggi intorno” senza connessione alla fondamentale rappresentazione dell’organismo nelle sue multiple dimensioni. Ciò che fa sentire il modo in cui essa sente è esattamente la natura di quella rappresentazione e questo significa che la questione centrale consiste nella conversione delle mappe neurali nelle mappe sensoriali. L’aspetto critico del problema è: la via attraverso la quale voi potete generare in un cervello, ovviamente in un organismo vivente, il senso della descrizione della prima persona. Secondo l’autore è possibile generare ciò senza fare ricorso ad un “Homunculus” o altro simile a questo. Se noi immaginiamo che lo stesso tipo di tessuto, lo stesso tipo di processo che genera il film del cervello genera anche, usando precisamente lo stesso tipo di macchinario, la fondamentale conoscenza che quel film appartiene a quell’organismo abitato da quel film, possiamo ipotizzare che gli organismi siano in possesso di un film multi-dimensionale, non un film di Hollywood, non solo lo schermo perché esso è sullo schermo, è in uno spazio, uno spazio multi-dimensionale che include molti binari sensoriali, visivi, uditivi, somato-sensoriali e dentro al film c’è un messaggio che è in via di costruzione, costruito senza linguaggio ma che può essere tradotto in un linguaggio e il messaggio è: ”Guarda, questo appartiene a te, questo sta succedendo qui, questo che sta succedendo appartiene all’organismo”. E la via nella quale questo messaggio può essere plausibilmente costruito e trasmesso è precisamente quella del linguaggio del sentimento, un linguaggio della rappresentazione del corpo. Così se possiamo ipotizzare rappresentazioni dello stato corporeo e, rappresentazioni di qualsiasi altra cosa che cade nei nostri sistemi sensoriali e se quelle rappresentazioni sono continue, non si fermano mai perché il cervello è una platea “imprigionata” nel corpo, allora abbiamo anche la possibilità di porre in evidenza una notevole quantità di relazioni fra il corpo, i suoi cambiamenti di stato e un oggetto. Avere il sentimento di quel cambiamento potrebbe corrispondere alla fonte della prospettiva della prima persona. Abbiamo visto dunque che le emozioni possono essere descritte scientificamente e tale descrizione trova un valido corrispettivo con quella fatta nel linguaggio comune. Reisenzein (1983) ritiene che le emozioni rappresentino una risposta complessa definita come: “sindrome reattiva multidimensionale”. Ciò significa che in esse si possono individuare diverse componenti:

• Le risposte fisiologiche: si fa riferimento in particolare all’attivazione del sistema nervoso centrale, del sistema nervoso autonomo e del sistema endocrino che producono delle risposte fisiologiche peculiari; come ad esempio l’aumento o la diminuzione della frequenza cardiaca e della pressione sanguigna, la salivazione, le variazioni della pupilla, le modificazioni dell’apparato gastroenterico, che avvengono in concomitanza con lo stato emotivo;

• Risposte tonico-posturali: tensione o rilassamento del corpo nel suo complesso; • Risposte motorie strumentali: ad esempio il mordere, il graffiare, lo scappare, il colpire, anche

nel caso in cui queste reazioni siano solo abbozzate o in prontezza di attuazione, ed in generale irrequietezza motoria;

• Risposte motorie espressive: a questo gruppo si dovrebbero includere la liberazione di sostanze chimiche come i feromoni ma, vista la loro rilevanza, in questo caso vengono considerate in modo particolare la mimica facciale, la gestualità e le vocalizzazioni;

• Componente esperienziale soggettiva: l’ultimo costituente, ma non meno importante, è relativo al vissuto cosciente che non può essere descritto in quanto soggettivo ed inerente a ciò che ognuno di noi prova quando è felice, irato, sorpreso e via dicendo.

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La componente esperienziale soggettiva può essere analizzata secondo diversi aspetti tra i quali sono di particolare rilevanza:

• intensionalità: prerogativa dell’esperienza emotiva è di essere sempre esperienza di un qualcosa e quindi sempre legata ad un fenomeno o ad un avvenimento. Allo stesso tempo però può accadere di essere felici o tristi senza sapere consciamente per via di che cosa o perché; in questo caso l’intensionalità è vuota ma comunque non assente. Inoltre questa componente implica la distinzione tra sé e gli altri ed è considerata da Lewis e Michalson (1983) un prerequisito della competenza emotiva;

• attenzione: nel processo emotivo sono implicati diversi processi cognitivi tra cui quello attentivo; infatti le emozioni permettono l’incremento delle informazioni mobilitando l’attenzione su di esse (Izard 1977, Tomkins 1980), quindi uno stato emotivo coincide con uno stato attentivo;

• percezione: oltre al processo attentivo è coinvolto anche quello percettivo che consente di individuare le qualità totali espressive (Metzger 1966) e fisiognomiche (Werner 1957), per questo motivo la realtà che ci circonda ci può apparire invitante, minacciosa, eccetera;

• recupero: infine entra in gioco anche il processo mnemonico che ci permette di ricordare gli aspetti di situazioni in cui si sono già provate le emozioni (Bower e Cohen 1982). Le diverse componenti delle emozioni sono correlate tra loro da complessi rapporti di interdipendenza. L’emozione intesa come sindrome reattiva multidimensionale costituisce in questo modo l’emozione allo stato più sviluppato ed il prodotto finale dell’evoluzione filogenetica ed ontogenetica (Brady 1975).

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L’intelligenza emotiva Le emozioni ci spingono ad agire per soddisfare i nostri bisogni e desideri. La rabbia ci fornisce la forza per difendere i nostri interessi; la paura dona velocità alla fuga da seri pericoli, o c’induce a chiedere aiuto per fronteggiarli; il dolore ci spinge a trovare una soluzione a ciò che ci affligge ed infine la tristezza ci ricorda che il vuoto lasciato da chi abbiamo amato chiede di essere riempito. Queste emozioni sono importanti ed essenziali, ma non si può affermare che siano esattamente piacevoli. Ora, invece, prendiamo in considerazione un’esperienza dichiaratamente godibile: la gioia. Quest’emozione va considerata – a mio avviso – distinta dallo stato di soddisfazione, che si prova quando un bisogno o un desiderio sono stati soddisfatti. La gioia sollecita, infatti, nuove azioni piuttosto che prendere atto di quelle già compiute con successo. Attiva la mente ed il corpo per "andare avanti". In misura maggiore o minore, tutti noi proviamo emozioni e sperimentiamo quanto i nostri pensieri e comportamenti siano da esse influenzati. Del resto le emozioni svolgono una funzione molto importante per l'individuo e hanno un valore evolutivo per la specie in quanto sono in grado di trasmettere rapidamente un contenuto semplice ma di grande valore adattivo. Se pensiamo alle emozioni fondamentali quali felicità, tristezza, paura, rabbia, disgusto ci rendiamo conto che queste ultime sono attivate da categorie di individui o di oggetti che possiedono un alto significato per l'individuo e la specie: in questo senso, felicità e tristezza sono le tipiche emozioni connesse alla presenza o alla perdita delle figure di attaccamento, quali ad esempio le figure genitoriali, il partner, i figli, i compagni o gli amici. Al contrario la paura e la rabbia sono evocate da concorrenti, da nemici o da eventi nel territorio; infine il disgusto è collegato con il cibo e segnala la presenza di sostanze dannose (D'Urso, 1990). Allo stesso modo anche le emozioni complesse, quali ad esempio l'imbarazzo, la vergogna, il senso di colpa, l'invidia, la gelosia, il disprezzo, hanno un loro valore adattivo. Infatti tali emozioni, essendo strettamente connesse al modo di percepire se stessi e il proprio modo di relazionarsi con l'ambiente esterno, consentono all'individuo di modulare al meglio le sue relazioni sociali. Che ci piaccia o meno, la nostra vita è un “continuum” di Emozioni di intensità molto variabili: dalle più leggere e impalpabili, quasi impercettibili, a quelle più forti, intense, quasi “corpose”. Già da sola, questa è una buona ragione per imparare a conoscerle, riconoscerle, controllarle e gestirle, in modo da esprimere e manifestare al meglio chi siamo, in ogni momento della nostra vita. E’ così che consentiamo a noi stessi di avere a disposizione tutte quelle risorse che ci appartengono, proprio in quanto esseri umani, ma che determinate emozioni fanno andare in black-out. Quando siamo noi a gestire le nostre emozioni – e non viceversa – allora siamo in grado di scegliere consapevolmente quali azioni agire. Nell’altro caso, quando cioè siamo pilotati dalle nostre emozioni, trascorriamo la vita – consapevoli o meno – occupati a tempo pieno a re-agire a tutto e a tutti, senza potere scegliere consapevolmente nulla. Ma non basta, perché è solo conoscendo il nostro mondo emozionale ed accettandolo che siamo in grado di comprendere e di accettare gli altri. In conclusione le emozioni sono parte integrante della vita (sono anche il sale della vita) e non possono essere escluse. L’alienazione delle emozioni anche nel lavoro porta al progressivo isolamento dell’operatore, che arriva a sentirsi più un meccanismo che un

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interprete del lavoro stesso, inizia a perdere iniziativa, diventa sterile con un decadimento complessivo delle capacità cognitive globali. Il momento delle consegne è “un sentire” prima che un ascoltare, è un luogo in cui si sente il collega. Qui si può sentire di non essere soli dal momento in cui si può condividere una esperienza. Se c’è un gruppo di lavoro, con cui si è in contatto anche emotivo, allora, anche nei momenti di maggiore solitudine, si può sentire di non essere troppo soli, si può sentire la fiducia degli altri nella condivisione delle scelte. L'ESPRESSIONE DEI SENTIMENTI E LA COMUNICAZIONE DEI PROPRI BISOGNI Esprimere i propri sentimenti significa identificare e poi dare voce alle proprie emozioni. Comunicare i propri bisogni significa pianificare in anticipo come chiedere "cosa vuoi" e essere assertivo rispetto a ciò, piuttosto che essere passivo o aggressivo. Essere abili in queste competenze migliora la propria relazione di coppia. Spesso ci si abitua a nascondere le proprie emozioni e di conseguenza a non comunicarle, a volte per motivi di natura familiare, l'educazione e le primissime esperienze di vita, a volte per valori culturali e sociali (basti pensare a come tutt'oggi sia denigrato l'uomo che mostra apertamente la sua tristezza). Come imparare ad esprimere con maggior facilità i propri sentimenti: emozione sentimento affetto Per prima cosa è importante imparare a identificarli: Sono buoni o cattivi? Cioè nel momento in cui lo si prova la sensazione è positiva o negativa? Localizzarli nel proprio corpo, misurarli, sentire quanto spazio occupano, dagli una forma e infine un colore. Cosa ci dicono? Provare ad immaginare che il sentimento ci possa parlare. Cosa ci sta dicendo? Come pensiamo di agire? Quale azione questo sentimento ci fa venire in mente? Quale esperienza precedente ci ricorda? Chi c'era quando lo si è sperimentato? In che occasione? Che cosa si è fatto allora? Dargli un nome e per fare questo aiutarsi anche con il vocabolario o con i sinonimi e contrari. Tenere un diario dei sentimenti provati durante la settimana. Le nostre emozioni ci guidano nell’affrontare situazioni e compiti troppo difficili e importanti perché possano essere affidate al solo intelletto, nel senso che ogni emozione ci guida all’azione in modo caratteristico, ci orienta in una direzione già rivelatasi proficua per superare le sfide ricorrenti della vita umana. Ma ciò non significa che dobbiamo lasciar loro il compito di gestire la nostra vita. Le emozioni senza controllo sono come dei cavalli senza briglie: non riescono a condurci in nessun luogo da noi desiderato e possono addirittura farci correre gravi rischi. Il saper gestire le proprie emozioni è alla base del benessere psicofisico. I sentimenti estremi – emozioni che diventano troppo intense o durano troppo a lungo – minano la nostra stabilità. E’ normale e sano provare sentimenti negativi quali rabbia, ansia, tristezza; tali sentimenti possono diventare guide preziose per noi e spingerci a prendere le decisioni più opportune, ma è fondamentale che i sentimenti negativi molto intensi non sfuggano al controllo spazzando via tutti gli stati d’animo piacevoli.

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Il nostro sistema nervoso non ci consente di "prevedere" quale emozione ci travolgerà e in quale momento ciò avverrà, però ci mette in grado di controllare la durata dell’emozione che ci ha travolto. Innanzitutto, nel momento in cui ci sentiamo travolti da un’emozione è fondamentale riconoscere se siamo in grado di dominarla da soli o abbiamo bisogno di aiuto. Potremmo aver bisogno di colloqui con uno psicoterapeuta, di assumere dei farmaci per un periodo, o di entrambe le cose. Se così fosse, non esitiamo a rivolgerci ad un professionista che possa aiutarci, ne va del nostro benessere attuale e futuro. Se l’emozione che ci pervade è blanda e non interferisce in maniera significativa con lo svolgimento delle nostre attività quotidiane (famiglia, lavoro, tempo libero) probabilmente possiamo cavarcela benissimo da soli utilizzando alcune strategie: - Riconosciamo quanto prima gli episodi che scatenano i nostri stati d’animo negativi. L’ideale sarebbe riuscire a coglierli non appena cominciano a suscitare in noi sentimenti negativi, o al massimo subito dopo. Con l’esercizio costante non sarà difficile riuscirvi. - Se possibile, cerchiamo di intervenire sugli eventi che ci suscitano emozioni negative. Questa strategia può essere utilizzata solo su quegli eventi sui quali esercitiamo una qualche forma di controllo e ai quali possiamo porre rimedio tramite l’azione. - Apprendiamo delle tecniche di rilassamento. Possiamo applicarle nel momento in cui avvertiamo l’insorgenza di stati d’animo sgradevoli per noi. Anche in questo caso è fondamentale l’esercizio costante per poterle utilizzare al meglio nel momento del bisogno. Può essere utile, quando ci esercitiamo a rilassarci, far uso di immagini tranquillizzanti per sprofondare in uno stato di rilassamento completo. Ogni volta che ci esercitiamo utilizziamo la stessa immagine. Alla fine anche se ci troveremo in circostanze particolarmente difficili per noi saremo in grado di utilizzare la nostra immagine tranquillizzante come un modo per riacquistare il controllo. -- Fermiamoci sui pensieri che alimentano i nostri stati d’animo, mettendoli in discussione. Uno scoppio d’ira o un attacco d’ansia possono essere scatenati dalla prima valutazione di un evento; le successive valutazioni, fatte a "mente un po’ più fredda" possono aiutarci a ridimensionare la portata dell’evento e a mitigare il nostro stato d’animo. E’ importante però non lasciar trascorrere troppo tempo tra la valutazione iniziale e quelle successive: gli stati emotivi sono difficili da gestire se superano un certo limite. Quindi concediamoci pure un certo tempo per ripensare all’evento, ma facciamolo prima che l’emozione di cui siamo preda diventi incontrollabile. Dal momento che i pensieri che alimentano i nostri stati d’animo negativi spesso sono automatici e sfuggevoli è bene imparare ad annotarli, magari scrivendoli non appena ne diventiamo consapevoli. Può darsi che i pensieri si manifestino sotto forma di immagini, più che di parole, ma è importante descriverli nella maniera più precisa possibile. - Sostituiamo il lato negativo delle cose con un lato più positivo. Se una volta ci siamo sentiti incompetenti o comunque in difficoltà in una situazione non significa che lo siamo sempre stati o che lo saremo sempre. Pensiamo alle volte in cui abbiamo affrontato situazioni difficili con successo, tirando fuori il meglio di noi stessi. Pensiamo ai nostri punti di forza e non solo alle nostre debolezze. - Siamo possibilisti. Cominciamo con il sostituire parole che non danno possibilità di scampo – del tipo "o tutto o niente"? – con parole più possibiliste, perché ognuno di noi ha punti buoni oppure cattivi, può avere successi oppure fallimenti.

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Appena ci accorgiamo di stare affermando di non essere in grado di fare qualcosa pensiamo a quello che guadagniamo e a quello che perdiamo se non ci diamo una chance. - Attenzione ai pensieri assoluti. Stiamo attenti alle parole "devo, dovrei, sempre, mai"?. Cerchiamo di sostituirle con parole relative quali "a volte, occasionalmente, forse"?. Chiediamoci: "Sto sopravvalutando le possibilità che tutto vada male? Faccio previsioni su cosa succederà in futuro invece di cominciare da zero e verificare ogni nuova situazione quando capita?"?. Nella vita c’è poco di assoluto. Anche nelle situazioni che riteniamo più problematiche potremo comportarci in modo da sorprendere noi stessi. - Distraiamoci. Il "mito dello sfogo"? non è sempre valido. Non è detto che un "bel pianto"? o uno scoppio d’ira ci facciano per forza sentire meglio. Al contrario, dopo potremmo sentirci più tristi e arrabbiati di prima. Le distrazioni invece possono spezzare la catena dei pensieri che perpetuano e alimentano i nostri stati d’animo negativi. Se siamo depressi distraiamoci concedendoci qualcosa che sia veramente piacevole per noi (che sia una mousse al cioccolato o uno spettacolo che tanto desideravamo vedere). Se ci sentiamo ansiosi o arrabbiati cerchiamo qualcosa che riesca a farci sentire "rilassati"? e a scaricare la tensione in eccesso che sentiamo (rilassamento, attività fisica piacevole). Un altro metodo per distrarsi è quello di occuparsi degli altri: pensare per un po’ alle difficoltà delle altre persone può aiutarci a sdrammatizzare i motivi che sono alla base delle nostre sensazioni negative. Inoltre può essere utile pensare che lo stato d’animo negativo che ci ha colpito passerà da sé con un po’ di tempo e di pazienza. - Diciamoci delle cose positive. Parlare fra sé e sé positivamente può aiutare. Quando ci troviamo in situazioni difficili rammentiamoci che possiamo controllarle, che siamo in grado di guardare in faccia il problema mantenendo comunque il controllo. Complimentiamoci con noi stessi ogni volta che siamo riusciti a controllare le nostre emozioni negative in situazioni difficili. - Fissiamoci degli obiettivi a breve e lungo termine. Assicuriamoci che siano delle aspirazioni realistiche e non mete impossibili; ogni obiettivo a breve termine deve essere difficile ma accessibile – il genere di cose che possiamo ottenere, anche se con un serio impegno. Raggiungiamolo gradualmente e facciamo in modo di darci un’adeguata ricompensa per ogni passo che facciamo, magari un bel regalo. - Ricordiamo che non siamo degli oggetti passivi di fronte agli accadimenti della vita. Ognuno di noi è in grado, quasi sempre, di modificare le cose in suo favore. Se lo vogliamo davvero, con pazienza e impegno, possiamo modificare il corso della nostra vita. Non è sempre facile imparare a raccontare le emozioni.

1 Estratto da http://www.brunobonardi.it

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“EMOZIONI DISTRUTTIVE. Liberarsi dai tre veleni della mente: rabbia, desiderio e

illusione”

di D. Goleman, T. Gyatso (Dalai Lama), Mondatori, Milano, 2003

Recensione a cura di ANTONELLA MADIONI

Potremmo definire questo libro come un’insolita raccolta di atti di un convegno di psicologia,

ma sarebbe estremamente riduttivo. Daniel Goleman, psicologo di fama mondiale, grazie

soprattutto al successo del suo libro “Intelligenza emotiva”, ci racconta dapprima il suo incontro

con il quattordicesimo Dalai Lama, Tenzin Gyatso e come da questo sia nata l’esigenza, sentita

fortemente da entrambi, di sviluppare un dialogo scientifico ed umanistico in modo da coinvolgere

esperti di varia formazione.

“Emozioni distruttive” è dunque anche la cronaca di quell’incontro (l’ottavo di “Mind and

Life”), avvenuto a Dharamsala nel marzo del 2000, tra Occidente ed Oriente. Quasi per dare al

lettore la possibilità di non perdersi nulla, Goleman ricostruisce con un’attenzione estrema e

generosa i dialoghi più salienti, le espressioni facciali dei relatori ma anche di coloro che si

trovavano in ascolto, restituendo persino le loro posture. Consapevole che ogni cosa contribuisce

costruire ”il clima”, Goleman non trascura neppure dettagli che potrebbero apparire veramente

‘insoliti’ a chi non è avvezzo a tali attenzioni, eppure imprescindibili, se lo scopo ultimo è quello di

‘rendere presente’ il lettore e quello di fargli capire quanto quelle giornate siano entrate negli animi

dei partecipanti, quello di far comprendere le implicazioni profonde di quel ‘banchetto intellettuale’

su ognuno di loro e sulle loro progettualità future.

Nomi noti come il Dalai Lama, massima autorità del buddismo tibetano, come il Venerabile

Kusalacitto, una delle più importanti voci del buddismo thailandese, ma anche meno noti al grande

pubblico (e per questo non manca una sintetica ma precisa e significativa presentazione per ognuno

dei relatori al termine del volume), neuroscienziati come Francisco Varela, il cui contributo fu

quello di tracciare la via dell’osservazione diretta e quello della misurazione dell’attività cerebrale

durante la meditazione, ma anche psicologi ‘scettici riguardo a quel genere di incontri’, come si

dichiarò poi Paul Ekman, un’autorità assoluta in materia di segni facciali delle emozioni.

Cinque giorni di dibattito fra Scienza e Buddismo. Non visioni contrastanti del mondo ma

semplicemente approcci diversi per il raggiungimento di uno stesso fine: la ricerca della verità.

Goleman, riportando una precisazione di uno dei relatori, offre da subito un chiarimento

importante: non si tratta dell’incontro tra la scienza e una religione, sarebbe un “abbinamento

sbagliato”, in quanto ci si riferisce al buddismo soprattutto come ad un atteggiamento filosofico.

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La reciproca apertura e l’ascolto dei partecipanti permettono un flusso continuo e

sorprendente di reciproche domande nonché di risposte che diventeranno a loro volta stimoli per

nuove ricerche scientifiche.

Da un lato una millenaria pratica di introspezione, dall’altro i più sofisticati strumenti offerti

dalle scienze cognitive: scienza e pratica spirituale sembrano davvero potersi muovere insieme per

comprendere come le emozioni distruttive corrodano il cuore e la mente degli esseri umani.

I Veleni del la mente. Come comprendere la crudeltà? Qual è l’origine della rabbia?

Possono essere considerate anche queste emozioni naturali? E se lo sono, a che servono le emozioni

distruttive? Non poteva che essere questo l’argomento per aprire il dibattito: partire dalla

definizione operativa di emozioni distruttive, indagare la natura di queste emozioni, i motivi che le

rendono tali e che cosa può essere fatto per rimediare.

Ogni emozione che causa danni a noi stessi o agli altri è un’emozione distruttiva. Questa è

sostanzialmente la visione occidentale, mentre nella visione orientale non si parla tanto di ‘danno’,

affettivo, sociale o fisico che sia, quanto di ‘squilibrio’: le emozioni distruttive sono cioè quelle che

disturbano il nostro equilibrio interiore, finendo per influire negativamente sul nostro agire, così

come quelle sane lo favoriscono. Vengono anche definite come “ afflizioni” o “veleni” della mente,

‘Kleshas’ in sanscrito, più specificatamente la rabbia, il desiderio e l’illusione. L’emozione

distruttiva ‘oscura’ la mente in quanto le impedisce di riconoscere la realtà per quello che è.

In presenza di questo tipo di emozioni c’è dunque uno iato tra apparenza ed essenza delle

cose. La rabbia rende ciechi, così come il desiderio ci impedisce di riconoscere l’equilibrio tra che

piacevole e ciò che non lo è più, e l’illusione più che mai non permette di valutare correttamente la

realtà. Ecco cosa sono le emozioni distruttive, quelle che limitano la libertà dell’individuo.

Da una disquisizione prettamente filosofica si entra brevemente nel campo della linguistica,

ciò permette di osservare come anche la semantica possa avere conseguenze decisive sul modo in

cui gli individui fanno esperienza del mondo, è lo stesso Dalai Lama ad evidenziarlo. Insomma, se

la lingua parlata può “creare” la realtà, può anche condizionare le nostre emozioni!

Dalle considerazioni filosofiche emerge quanto, in Occidente, l’interesse per la comprensione

delle emozioni sia soprattutto strumentale per la comprensione dei rapporti interpersonali,

risultando invece mancante, quasi completamente, una tradizione che miri all’armonia interiore

dell’individuo. Non a caso Goleman ricorda un insegnante tibetano che, ad Harvard, negli anni 70,

aveva dichiarato che il buddismo sarebbe arrivato in Occidente in forma di psicologia… E questo

all’epoca pareva un’idea assurda.

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L’universal i tà del le emozioni . Durante la seconda giornata l’attenzione si sposta su

un interrogativo: la rabbia, il panico o la depressione hanno qualche valore? Ci si interroga

sull’utilità o meno di queste emozioni. Per rispondere al quesito si parte da un punto di vista

evoluzionistico darwiniano: la distruttività viene letta come una naturale aggressività che sarebbe

stata necessaria per la sopravvivenza della specie. Questa, in sostanza, la tesi di Ekman e Flanagan,

psicologo americano e docente di neurobiologia: la ’distruttività’ deriverebbe dall’aver raggiunto

‘un punto di eccesso’. Emozioni “quasi sicuramente evolute come adattamenti all’interno di

ambienti nei quali erano necessarie per il valore adattivo”. Ne consegue un altro interrogativo:

dobbiamo accettarle pur non avendone più bisogno? Senza dubbio sarebbe un gran bene poterle

sempre riconoscere, in noi e negli altri.

Le ricerche di Ekman, il più eminente esperto nel modo in cui la faccia esprime le emozioni,

hanno dimostrato che la capacità di leggere le emozioni di un altro può essere imparata e che,

addirittura, ogni emozione può “essere ricostruita a partire dai movimenti dei muscoli coinvolti, e

con una tale precisione che la formula di ogni singola emozione (può) essere trascritta con

accuratezza”, grazie ad un macchinario, il ‘Facial Action Coding System’, oggi utilizzato da oltre

quattrocento ricercatori in tutto il mondo.

Tutto ciò è possibile perché le emozioni sono degli ‘universali’. Questo confermerebbe

addirittura la tesi di Darwin del 1872, secondo il quale le emozioni si sarebbero evolute, ma noi ne

condividiamo sempre alcune con gli animali. Universali così come lo sono i cambiamenti nel nostro

corpo quando proviamo un’emozione: pensiamo all’aumento del battito cardiaco e alla sudorazione

con la rabbia e la paura, alla mano che diventa calda in caso di rabbia o che si fa fredda, se si prova

paura.

La maggior parte delle persone però non sa riconoscere le proprie emozioni e per questo non

le riconosce neppure negli altri. Pensiamo a quanti professionisti questa ‘capacità di lettura’

potrebbe risultare utile se non vitale: magistrati, poliziotti, insegnanti, commercianti… La

comprensione della realtà delle cose non può mai prescindere dagli aspetti emotivi importanti tanto

quanto gli elementi cognitivi.

Secondo la psicologia buddista questa capacità di monitorare i propri stati mentali deriva

dall’intelligenza. Questa è la forma d’intelligenza che Goleman definisce ‘emotiva’, che include la

capacità di riconoscere le emozioni distruttive nel momento in cui iniziano a formarsi e quindi

comportarsi potendo ‘scegliere’, liberi dagli automatismi. Un modo per arrivarci è la pratica della

meditazione; nella psicologia buddista si ritiene infatti che non tutte le emozioni debbano essere

manifestate, la meditazione aiuterebbe a catalizzarle. Eppure anche le emozioni negative possono

risultare appropriate: l’incapacità di sentire compassione per qualcuno, non sentire la tristezza o non

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provare paura potrebbe essere estremamente disumano. La negatività è dunque relativa e legata al

contesto, nonché agli impulsi. Per utilizzare il linguaggio psicoterapeutico, ci si può auspicare,

come per il paziente, che aumenti il tempo tra impulso ed azione, questo sarà il miglioramento,

perché significherà agire senza essere sopraffatti dall’emozione.

Come possiamo educare le nostre emozioni senza diventare buddisti? Goleman risponde, in

accordo con il Dalai Lama, prendendo a prestito intuizioni dalla pratica del buddismo, facilmente

applicabili alla realtà emotiva degli esseri umani, per imparare ad essere più attenti a ciò che

proviamo o sentiamo, più ‘compassionevoli’ nei confronti di noi stessi e degli altri.

La meditazione fa bene al cervel lo . Arrivati alla terza giornata la parola passa ad

un neuroscienziato cognitivista, Richard Davidson che ad Harvard, circa trenta anni prima, aveva

iniziato i primi studi sulla meditazione e sugli effetti benefici contro lo stress proprio insieme a

Goleman. All’epoca immaginare collegamenti fra la corteccia prefrontale e i centri emotivi sarebbe

stato impensabile o almeno fortemente discutibile. Oggi si parla di neuroscienza affettiva, i

collegamenti sono innegabili: cognizione ed emozione sono strettamente connesse, come del resto

lo sono i due termini in tibetano, pensiero ed emozione, come nota curiosamente il Dalai Lama.

La panoramica sulla neuroanatomia del cervello conferma quanto non tutte le emozioni

negative possano essere soppresse: quello che conta è che l’emozione sia appropriata al contesto.

I due lobi frontali sono attivati diversamente dalle emozioni: mentre il lobo frontale sinistro

svolge una funzione importante per le emozioni positive, quello destro la svolge per le funzioni

negative. Reazioni diverse degli individui corrispondono ad attivazioni diverse dei lobi frontali, chi

riesce a controllare le emozioni negative, a ritornare velocemente ad uno stato di tranquillità è anche

molto probabile che abbia vissuto i primi anni di vita in un ambiente stabile, in grado di modellare il

cervello. Sono ormai certi anche collegamenti con il sistema immunitario: le emozioni positive

fanno perciò migliorare anche le nostre condizioni fisiche.

Se un tempo si pensava a temperamento individuale come qualcosa di rigido oggi, la provata

plasticità del cervello ci fa ben sperare: ci conferma che si può imparare a recuperare più

velocemente la calma, si può imparare l’ottimismo, l’allegria e la speranza! Insomma il

temperamento di un individuo può anche modificarsi, anche nell’età adulta. Si può imparare ad

azionare una zona del cervello mettendo a riposo l’altra. Si può imparare a non diventare schiavi

delle emozioni, imparando a riconoscerle nel momento in cui insorgono. E’ stato infatti provato che

l‘esperienza ripetuta modifica il cervello: questa è la sua plasticità. Si tratta di allenamento e la

meditazione, anche senza essere buddisti, può essere vista appunto come una forma di allenamento.

Le ricerche operate da Davidson confermano che le persone con stati d’animo negativi e

particolarmente lunghi hanno una netta predisposizione all’utilizzo della zona prefrontale destra,

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mentre coloro che hanno stati d’animo più positivi hanno una maggiore capacità di sfruttare la zona

sinistra, ma la cosa ancora più sorprendente è che proprio la risonanza magnetica funzionale ha

permesso di avere la certezza che la meditazione aumenta l’attivazione del lobo frontale sinistro.

A scuola di buon cuore. Giunti al quarto giorno, viene presa in considerazione una

visione multiculturale, ad esporla una giovane psicologa di Taiwan, Jeanne Tsai. La chiave culturale

mostra una lettura diversa del vissuto emozionale e questo ci può far comprendere come la

‘negatività’ di un’emozione possa essere letta diversamente in un altro contesto culturale per il

diverso sistema valoriale presente. Ancora una volta ne consegue la ’relatività’ di ciò che può essere

considerato negativo.

Tuttavia anche le divergenze culturali confermano il bisogno di capire e di gestire le

emozioni: occorre intervenire soprattutto nella fase dello sviluppo per offrire agli individui la

possibilità di imparare a gestire le proprie emozioni. Pensiamo a quanto potrebbe utile una buona

educazione emotiva all’interno di un sistema educativo per i bambini: futuri adulti più sani nello

spirito, nella mente e anche nel corpo, meno litigiosi e per questo con minori problemi relazionali!

Goleman non esita a parlare di risparmio di anni di psicoterapie, di consulenza sulle droghe o

addirittura di carcere… Tutte queste discussioni hanno gettato semi per molti progetti, per nuove

ricerche neurologiche, per nuovi programmi educativi. Le focalizzazioni sulle esperienze infantili e

sull’educazione emozionale riportati da Greenberg, un pioniere per la scuola nel campo sociale e

delle emozioni ed esperto in psicologia pediatrica, fanno davvero pensare a qualcosa che cambierà

la nostra consapevolezza, che darà disciplina alla mente e forse, perché no, qualcosa che finirà

sviluppare anche “cuori più buoni”…

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