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1 Elenco dei temi trattati: a) revocatoria ordinaria e revocatoria fallimentare; b) la revocatoria degli atti a titolo gratuito; c) la revocatoria degli atti a titolo oneroso: gli atti anomali d) la revocatoria degli atti a titolo oneroso: gli atti normali ed i pagamenti; e) le esenzioni da revocatoria. art. 67, comma 3 e art. 67 ultimo comma f) la revocatoria nell'ambito della disciplina dell'amministrazione straordinaria: il divieto di aiuti comunitari. La Corte costituzionale ed il caso Parmalat. * * * Il testo di maggioranza di legge delega approvato dalla Commissione Trevisanato prevedeva l’esenzione da revocatoria per i pagamenti: “i) compiuti nell’ambito di rapporti contrattuali continuativi per i quali siano provati la corretta esecuzione ed il regolare andamento nell’insorgenza e nell’estinzione dei crediti; ii) per prestazioni essenziali alla continuazione normale dell’attività se esse sono acquisite dal curatore ovvero sussistenti nel patrimonio del debitore al momento della apertura della procedura di crisi o comunque necessarie per l’ammissione della relativa domanda “. La relazione osservava che “Per ciò che attiene alla seconda esenzione - stabilita per i pagamenti relativi a prestazioni essenziali alla normale continuazione dell’attività del debitore, sempre che il Curatore abbia potuto acquisire tali prestazioni oppure esse siano comunque sussistenti all’apertura della procedura di crisi oppure ancora riguardino pagamenti effettuati dal debitore per prestazioni di terzi indispensabili alla ammissione del debitore stesso alla procedura di crisi – lo scopo è quello di non pregiudicare il terzo quando il risultato della sua prestazione sia ancora presente e tale da poter essere convogliato al soddisfacimento di tutti i creditori. Così pure la previsione che l’atto sia stato funzionale per consentire l’accesso alla procedura di crisi, assolve all’obiettivo di incentivare solo quei comportamenti del debitore che non siano determinati dalla casualità ma siano, invece, posti in essere in previsione dell’ingresso nella procedura di crisi”. 1. La ratio dell'esenzione sta nella volonta' di tutelare chi, continuando a fornire, consente la prosecuzione dell'attivita' con vantaggio dei creditori. 2. L'interpretazione dell'esenzione deve essere oggettiva, perche' la scientia decoctionis e' un requisito ulteriore. Si prescinde quindi dalla buona fede dell'accipiens. 3. Non ha senso non revocare i pagamenti per la fornitura di beni e servizi e non esonerare anche i contratti a monte. Tramite la revoca di questi ultimi si colpiscono anche i pagamenti che diventano sine titulo. Si sostiene che i pagamenti sarebbero irrevocabili, ma tale tesi non ha fondamento. Piuttosto i contratti in molti casi saranno, diversamente dai pagamenti, al di fuori del periodo sospetto. 4. Poiche' si tratta della fornitura di beni e servizi, rimarrebbero fuori i pagamenti di servizi finanziari, esclusi dalla ratio legis. Non avrebbe infatti senso la revocatoria delle rimesse di conto corrente, se fosse possibile una diversa interpretazione 5. Nel caso di pagamenti non eseguiti nell'esercizio dell'impresa l'esenzione non opera. Ciò vale non solo per l'imprenditore individuale, ma anche per le societa' in liquidazione, almeno quando non si tratti di pagamenti funzionali ad una limitata prosecuzione dell'attivita'. 6. Termini d'uso intesi come riferiti al tempo del pagamento, ma per alcuni anche alle modalita' del pagamento stesso. Per alcuni commentatori sarebbero compresi sia i pagamenti posticipati che quelli anticipati; per altri solo i primi. Termini d'uso avuto riguardo agli usi generalmente praticati su piazza o anche ai soli rapporti tra accipiens e solvens. 7. Secondo Cavalli non ha senso l'interpretazione letterale perchè non si comprende per quale motivo si dovrebbero privilegiare i pagamenti tempestivi nella prospettiva di conservazione dell'impresa rispetto a quelli anticipati o tardivi. Si tenga conto che la buona fede del creditore è

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Elenco dei temi trattati: a) revocatoria ordinaria e revocatoria fallimentare; b) la revocatoria degli atti a titolo gratuito; c) la revocatoria degli atti a titolo oneroso: gli atti anomali d) la revocatoria degli atti a titolo oneroso: gli atti normali ed i pagamenti; e) le esenzioni da revocatoria. art. 67, comma 3 e art. 67 ultimo comma f) la revocatoria nell'ambito della disciplina dell'amministrazione straordinaria: il divieto di aiuti comunitari. La Corte costituzionale ed il caso Parmalat.

* * * Il testo di maggioranza di legge delega approvato dalla Commissione Trevisanato prevedeva l’esenzione da revocatoria per i pagamenti: “i) compiuti nell’ambito di rapporti contrattuali continuativi per i quali siano provati la corretta esecuzione ed il regolare andamento nell’insorgenza e nell’estinzione dei crediti; ii) per prestazioni essenziali alla continuazione normale dell’attività se esse sono acquisite dal curatore ovvero sussistenti nel patrimonio del debitore al momento della apertura della procedura di crisi o comunque necessarie per l’ammissione della relativa domanda “. La relazione osservava che “Per ciò che attiene alla seconda esenzione - stabilita per i pagamenti relativi a prestazioni essenziali alla normale continuazione dell’attività del debitore, sempre che il Curatore abbia potuto acquisire tali prestazioni oppure esse siano comunque sussistenti all’apertura della procedura di crisi oppure ancora riguardino pagamenti effettuati dal debitore per prestazioni di terzi indispensabili alla ammissione del debitore stesso alla procedura di crisi – lo scopo è quello di non pregiudicare il terzo quando il risultato della sua prestazione sia ancora presente e tale da poter essere convogliato al soddisfacimento di tutti i creditori. Così pure la previsione che l’atto sia stato funzionale per consentire l’accesso alla procedura di crisi, assolve all’obiettivo di incentivare solo quei comportamenti del debitore che non siano determinati dalla casualità ma siano, invece, posti in essere in previsione dell’ingresso nella procedura di crisi”. 1. La ratio dell'esenzione sta nella volonta' di tutelare chi, continuando a fornire, consente la prosecuzione dell'attivita' con vantaggio dei creditori. 2. L'interpretazione dell'esenzione deve essere oggettiva, perche' la scientia decoctionis e' un requisito ulteriore. Si prescinde quindi dalla buona fede dell'accipiens. 3. Non ha senso non revocare i pagamenti per la fornitura di beni e servizi e non esonerare anche i contratti a monte. Tramite la revoca di questi ultimi si colpiscono anche i pagamenti che diventano sine titulo. Si sostiene che i pagamenti sarebbero irrevocabili, ma tale tesi non ha fondamento. Piuttosto i contratti in molti casi saranno, diversamente dai pagamenti, al di fuori del periodo sospetto. 4. Poiche' si tratta della fornitura di beni e servizi, rimarrebbero fuori i pagamenti di servizi finanziari, esclusi dalla ratio legis. Non avrebbe infatti senso la revocatoria delle rimesse di conto corrente, se fosse possibile una diversa interpretazione 5. Nel caso di pagamenti non eseguiti nell'esercizio dell'impresa l'esenzione non opera. Ciò vale non solo per l'imprenditore individuale, ma anche per le societa' in liquidazione, almeno quando non si tratti di pagamenti funzionali ad una limitata prosecuzione dell'attivita'. 6. Termini d'uso intesi come riferiti al tempo del pagamento, ma per alcuni anche alle modalita' del pagamento stesso. Per alcuni commentatori sarebbero compresi sia i pagamenti posticipati che quelli anticipati; per altri solo i primi. Termini d'uso avuto riguardo agli usi generalmente praticati su piazza o anche ai soli rapporti tra accipiens e solvens. 7. Secondo Cavalli non ha senso l'interpretazione letterale perchè non si comprende per quale motivo si dovrebbero privilegiare i pagamenti tempestivi nella prospettiva di conservazione dell'impresa rispetto a quelli anticipati o tardivi. Si tenga conto che la buona fede del creditore è

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irrilevante. 8. La risposta sta nel concetto di normalità del pagamento, che si ricava per presunzione quando è effettuato nei termini d'uso, come tali ordinari. Il legislatore avrebbe probabilmente fatto bene a parlare di esenzione nei limiti del risultato utile per i creditori, ma ha invece usato quest'espressione fortemente ambigua. 9. Vero invece che in tal modo si fa discendere l'irrevocabilità dalle scelte del debitore, con dubbi anche di legittimità costituzionale perchè il debitore diventa arbitro. 10. In realtà questi dubbi non hanno ragione di essere se si accetta che il legislatore esonera il pagamento usuale perchè presume che la controprestazione sia ancora nel patrimonio dell'impresa (pag. mano contro mano). Così non è se il pagamento avviene diverso tempo dopo che la prestazione è stata effettuata. 11. Per Cavalli il termine d'uso va riferito all'attività d'impresa come la legge consente di fare. In questo modo chiaramente si rispetta la ratio legis. 12. La tesi può essere sostenuta anche se non convince del tutto perchè forza senza necessità la lettera della norma. 13. Quanto all'applicabilità dell'esenzione al di fuori della revocatoria di cui al secondo comma dell'art. 67, e quindi ai pagamenti con mezzi anormali o ai pagamenti anticipati nella revocatoria ordinaria, mi pare più convincente la tesi che l'esclude, limitando l'operatività delle esenzioni alla revocatoria di cui al secondo comma. In questo senso la disciplina dell'esenzione per i pagamenti dei compensi negli immobili da costruire. “1. Gli atti a titolo oneroso che hanno come effetto il trasferimento della proprietà o di altro diritto reale di godimento di immobili da costruire, nei quali l'acquirente si impegni a stabilire, entro dodici mesi dalla data di acquisto o di ultimazione degli stessi, la residenza propria o di suoi parenti o affini entro il terzo grado, se posti in essere al giusto prezzo da valutarsi alla data della stipula del preliminare, non sono soggetti all'azione revocatoria prevista dall'articolo 67 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, e successive modificazioni. 2. Non sono, altresì, soggetti alla medesima azione revocatoria i pagamenti dei premi e commissioni relativi ai contratti di fideiussione e di assicurazione di cui agli articoli 3 e 4, qualora effettuati nell'esercizio dell'attività d'impresa nei termini d'uso.”

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Tratto da I FALLIMENTI IMMOBILIARI Le esenzioni da revocatoria delle vendite a giusto prezzo degli immobili destinati a costituire l’abitazione principale dell’acquirente o dei suoi parenti (Il testo non è aggiornato con le modifiche della disciplina dei fallimenti immobiliari introdotte dal correttivo, che, peraltro, non riguardano l'esenzione). Omettendo in questa esposizione la considerazione di molte parti della disciplina dettata dal D.lgs. 122/05, va sottolineato che l’art. 10 introduce un’ipotesi di esenzione dalla disciplina dell’azione revocatoria fallimentare in favore dell’acquirente di immobili da costruire. Tale ipotesi di esenzione si sovrappone alla nuova disciplina delle ipotesi di esenzione da revocatoria introdotta dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35, convertito in legge 80/2005. L’esenzione di cui alla lettera c) del terzo comma dell’art. 67, relativa alle vendite a giusto prezzo d'immobili ad uso abitativo, destinati a costituire l'abitazione principale dell'acquirente o di suoi parenti e affini entro il terzo grado, introduce un’eccezione fondata sull’esigenza equitativa di favorire l’acquirente della casa di abitazione, altrimenti esposto al rischio di perderla. A differenza del D.lgs. 122/05 la norma introdotta dal decreto legge non si riferisce soltanto agli immobili da costruire, ma in generale a tutti gli immobili, ivi compresi quelli già edificati, che abbiano destinazione abitativa, purché destinati a costituire l'abitazione principale dell'acquirente o di suoi parenti e affini entro il terzo grado.

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Il decreto legislativo 20 giugno 2005, n. 122, all’art. 10, primo comma, stabilisce: “Gli atti a titolo oneroso che hanno come effetto il trasferimento della proprieta' o di altro diritto reale di godimento di immobili da costruire, nei quali l'acquirente si impegni a stabilire, entro dodici mesi dalla data di acquisto o di ultimazione degli stessi, la residenza propria o di suoi parenti o affini entro il terzo grado, se posti in essere al giusto prezzo da valutarsi alla data della stipula del preliminare, non sono soggetti all'azione revocatoria prevista dall'articolo 67 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, e successive modificazioni. ”. A differenza del D.lgs. 122/05 la norma introdotta dal decreto legge 35/05 non si riferisce soltanto agli immobili da costruire, ma in generale a tutti gli immobili, ivi compresi quelli già edificati, che abbiano destinazione abitativa, purché destinati a costituire l'abitazione principale dell'acquirente o di suoi parenti e affini entro il terzo grado. Il testo dell’art. 10 D.lgs. 122/05 non coincide con quello introdotto dall’art. 67, comma 3, lett. c). Non si parla di immobili ad uso abitativo, ma di immobili da costruire, di abitazione principale, ma di residenza; sono diversi i criteri per la determinazione del giusto prezzo; si fa riferimento a tal fine alla data di stipulazione del contratto preliminare. In conclusione è evidente che il legislatore ha dettato due norme con finalità sostanzialmente equivalenti, dirette l’una ad assicurare la tutela dell’acquirente della casa di abitazione, ancorché si tratti di immobile già costruito, contro il rischio della revocatoria, e l’altra ad assicurare contro il medesimo rischio chi si renda acquirente di un immobile non ancora costruito. Questa seconda ipotesi rappresenta una specie particolare del più ampio genus preso in considerazione dalla prima norma, ma, contro ogni aspettativa, non si è ritenuto di riportare la disciplina ad unità. Rimangono quindi delle differenze sostanzialmente prive di giustificazione. Occorre dunque procedere ad una disanima più accurata delle due fattispecie previste dal legislatore per verificare i punti comuni della disciplina e le differenze. Un primo rilievo riguarda l’ambito di applicazione dell’esenzione da revocatoria. E’ stato rilevato dai primi commentatori che è dubbio, stando alla lettera della legge, se le esenzioni introdotte dal nuovo terzo comma dell’art. 67 l.fall. si riferiscano soltanto alla revocatoria fallimentare disciplinata dalla norma ora citata o a tutti i casi di azione revocatoria, ivi compresa l’azione revocatoria ordinaria. In quest’ultimo senso depone la lettera della norma che premette all’elencazione delle ipotesi di esenzione, l’espressione “non sono soggetti all’azione revocatoria”, formula ampia che potrebbe giustificare l’interpretazione più lata. In senso contrario si è osservato che la collocazione delle diverse ipotesi di esenzione nell’ambito dell’art. 67 esclude che si sia inteso far riferimento alla revocatoria ordinaria e che anzi le diverse fattispecie considerate dal terzo comma della norma costituiscono tutte casi di deroga alla disciplina dettata dal secondo comma, vale a dire ai casi di revoca dei pagamenti e degli atti a titolo oneroso, rimanendo pienamente applicabile la revocatoria fallimentare dei c.d. atti anomali, considerati dal primo comma dell’art. 67. Ora l’art. 10, comma primo, del D.lgs. 122/05 nel disciplinare l’esenzione da revocatoria per gli atti a titolo oneroso che hanno come effetto il trasferimento della proprietà o di altro diritto reale di godimento di un immobile da costruire, regola un’ipotesi che è sostanzialmente affine al caso considerato dall’art. 67, comma 3, lett. c). La norma afferma espressamente che l’esenzione riguarda la revocatoria di cui all’art. 67 l.fall. escludendo quindi la revocatoria ordinaria. Si tratta, all’evidenza, di un forte argomento testuale, non essendo possibile che la sfera di esenzione prevista per le ipotesi disciplinate dall’art. 67, comma 3, lett. c) sia diversa, a favore della tesi che sostiene che tutti i casi di esenzione previsti nel terzo comma dell’art. 67 riguardano esclusivamente la materia della revocatoria fallimentare. Per il resto, se non è dubbio che la ratio legis è identica nel caso considerato dalla lettera c) dell’art. 67, terzo comma, e nella disciplina dettata per l’esenzione degli immobili da costruire, va osservato che qui, a differenza della prima ipotesi, non si parla di “vendite”, ma di atti a titolo oneroso che hanno come effetto il trasferimento della proprietà o di altro diritto reale di godimento di immobili da costruire”. La tipologia di contratti presa in considerazione è più ampia e più ampio è il riferimento ai contratti che hanno ad oggetto anche il trasferimento dei diritti reali di godimento.

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Peraltro, in armonia con l’oggetto della disciplina dettata da tutto il decreto legislativo 122/05, l’oggetto del contratto può essere soltanto un immobile da costruire. Va però detto che anche la nozione di vendita utilizzata dall’art. 67, comma 3, lett. c) può essere oggetto d’interpretazione estensiva, giungendo a ricomprendervi le vendite con efficacia obbligatoria e le permute1. Il nucleo familiare di riferimento è identico nelle due fattispecie. Si guarda infatti all’acquirente o ai parenti ed affini entro il terzo grado. In tutte e due le norme si è omesso di citare il coniuge e si tratta indubbiamente di una lacuna legis. Ben può avvenire infatti che il coniuge non abbia l’abitazione principale o la residenza nello stesso luogo dell’acquirente, come nel caso in cui questi proceda all’acquisto per fornire un’abitazione al coniuge in attuazione degli accordi assunti in sede di separazione. Va ancora sottolineata l’asimmetria rispetto alla definizione di "acquirente", contenuta nell'art. 1 del decreto 122/05, che menziona solo gli acquisti compiuti per conto di parenti entro il primo grado. Evidentemente il legislatore ha qui voluto estendere la tutela a tutti i casi considerati dall’art. 67 lett. c), evitando disparità di trattamento. E’ invece diverso il riferimento all’abitazione principale ( art. 67, comma 3, lett. c) e alla residenza ( art. 10 D.lgs. 122/05), quantomeno quando s’intenda per residenza la residenza anagrafica. A questo proposito, tuttavia, è stato osservato che la residenza va intesa nella sua accezione civilistica di "dimora abituale" (art. 43, comma 2, c.c.)2, il che ne determinerebbe l'identificazione con la destinazione ad abitazione principale. Va peraltro osservato che l’art. 10 dice che l’acquirente deve impegnarsi a stabilire nel termine indicato la residenza nell’immobile, e che si è affermato che l’impegno dovrebbe essere contenuto nel preliminare o quantomeno nell’atto definitivo di vendita, non essendo sufficiente l’avvenuto effettivo trasferimento nel termine di legge. Questo requisito è completamente omesso nella disciplina dettata dall’art. 67. Il solo art. 10 stabilisce che il trasferimento della residenza deve avvenire entro dodici mesi dalla data di acquisto o di ultimazione. L’art. 67, lettera c), invece, prevede che l’immobile sia destinato ad abitazione principale, ma non stabilisce termini di sorta. Si è spiegata la differenza di disciplina con il rilievo che solo nella fattispecie dell'art. 10 si ha un immobile in corso di costruzione, che non può quindi essere adibito ad abitazione immediatamente3. Questa spiegazione peraltro non ci pare pertinente, perché esso giustificherebbe nel caso previsto dall’art. 67 la previsione di un termine più breve, non l’omessa indicazione di qualsivoglia termine. E’ stato poi sostenuto che se è vero che l’art. 10 fa riferimento al "giusto prezzo da valutarsi alla data della stipula del preliminare", mentre l’art. 67 rinvia al "giusto prezzo" senza ulteriori indicazioni, non potrebbe ricavarsene che la seconda norma comporti di far riferimento al prezzo pattuito nell’atto definitivo di vendita. Si è osservato, infatti, che la valutazione del prezzo al momento del contratto preliminare risponde ad evidenti criteri di ragionevolezza, perché in quel momento si perfeziona l'accordo sul prezzo stesso, e si effettua la valutazione di convenienza dell'affare, con la conseguenza che la disposizione dell'art. 10 dovrebbe essere utilizzata come criterio interpretativo per chiarire la portata del più sintetico art. 67 l.f.. In questo modo verrebbe

1 L.GUALANDI, op.cit., 318. Per 1 G. PETRELLI, Gli acquisti di immobili da costruire, Milano, 2005, cap. X, la differenza tra le “vendite” considerate dalla lettera c) dell’art. 67, terzo comma, e gli atti a titolo oneroso contemplati dall’art. 10 del D.lgs. 122/05 potrebbe essere ridimensionata, ove si aderisca alla tesi che, sulla base dell'interpretazione teleologica della prima disposizione, anche alla luce della ratio di tutela dell'acquirente dell'abitazione principale (che non ammette differenziazioni in base alla diversa tipologia negoziale impiegata), ne propone un'interpretazione estensiva riferita ad ogni atto dispositivo del bene. 2 Sull'identificazione civilistica del concetto di residenza con quello di dimora abituale, e sul valore soltanto presuntivo delle risultanze anagrafiche, cfr. tra le tante Cass. 19 settembre 2004 n. 19595, in Foro it., Rep. 2004, voce Separazione di coniugi, n. 30; Cass. 12 novembre 2003 n. 17040, in Foro it., Rep. 2003, voce Notificazione civile, n. 34; Cass. 21 gennaio 2000 n. 662, in Foro it., Rep. 2000, voce Notificazione civile, n. 10; Cass. 10 marzo 2000 n. 2814, in Giur. it., 2000, p. 2246; Cass. 27 settembre 1996 n. 8554, in Foro it., Rep. 1996, voce Domicilio, n. 1; Cass. S.U. 13 aprile 1992 n. 4479, in Foro it., Rep. 1992, voce Giurisdizione civile, n. 55. 3 G. PETRELLI, op.cit.

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superato il contrario indirizzo giurisprudenziale precedente la riforma4. Si è peraltro opportunamente osservato, con riferimento all’art. 10 e quindi ai soli immobili da costruire, che poiché alla data di stipula del contratto preliminare l'immobile non è ancora costruito - la valutazione, da effettuarsi con riferimento a tale momento, non può che tenere in considerazione i valori di mercato di immobili (ultimati) aventi le caratteristiche programmate in contratto, e non certamente il valore dell'immobile nello stato in cui si trova al momento della stipula del preliminare. Resta da stabilire, ed il quesito riguarda tanto la fattispecie di cui all’art. 67, lett. c) che quella di cui all’art. 10, se tra le vendite a giusto prezzo esonerate da revocatoria e le vendite disciplinate dall’art. 67, comma 1, n. 1 l.fall. assoggettate a revocatoria, dopo la riforma, quando la notevole sproporzione tra le reciproche prestazioni sia superiore al quarto, resti una zona grigia suscettibile di revocatoria quale atto a titolo oneroso, ai sensi del secondo comma dell’art. 67. La risposta a nostro avviso deve essere affermativa. E’ infatti evidente che ben possono esservi ipotesi in cui la vendita non avviene al giusto prezzo – da individuarsi rispetto al valore dell’immobile e all’andamento del mercato al momento in cui è stato posto in essere l’atto – senza che per questo vi sia una lesione oltre il quarto e che tale fattispecie rientra pienamente nella previsione dell’art. 67, comma 2, purchè il curatore provi la sussistenza della scientia decoctionis. E’ poi appena il caso di ricordare, con riferimento alla più ampia disciplina introdotta dal D.lgs. 122/05, che essendo questione di immobili da costruire, la disciplina in tema di revocatoria va coordinata con quella ricavabile dagli artt. 72 e 72-bis5 l. fall., introdotto dal decreto stesso6. È vero che la vendita di un immobile da costruire è esente da revocatoria fallimentare se conclusa "a giusto prezzo", ma è altresì vero che - per i contratti preliminari, ed i contratti definitivi ad effetti reali differiti, salvo forse il contratto sospensivamente condizionato - fino al momento in cui la proprietà verrà acquistata vi è la facoltà del curatore fallimentare di optare per lo scioglimento del contratto; il che rende sicuro l'acquisto di immobili da costruire solo a partire dal momento in cui è avvenuto il trasferimento della proprietà. Quanto si è sin qui osservato comporta che l’esenzione da revocatoria disciplinata dall’art. 10 del D.lgs. 122/05 abbia un’importanza forse minore di quanto si possa ritenere ad una prima lettura. Occorre infatti considerare che il periodo sospetto è stato ridotto dalla modifica dell’art. 67 l.fall. da parte del D.L. 35/2005 convertito in legge 80/2005, a sei mesi. Dichiarato il fallimento, i contratti relativi ad immobili da costruire stipulati in tale periodo di tempo saranno verosimilmente in una situazione di pendenza, nella quale il curatore potrà sciogliersi dal contratto secondo la generale disciplina dettata dall’art. 72 l.fall. ed anche l’acquirente potrà provocare lo scioglimento, escutendo la fideiussione. Tuttavia va sottolineato che le Sezioni Unite della Cassazione7, come si è accennato in precedenza, hanno mostrato di accogliere recentemente una diversa nozione di rapporto pendente con riguardo al preliminare, rispetto al passato. Si era affermato dalla giurisprudenza prevalente che le prestazioni dedotte nel preliminare avevano ad oggetto essenzialmente l’obbligo reciprocamente assunto dalle parti di addivenire alla stipula del contratto definitivo, con la conseguenza che anche l’avvenuto trasferimento della proprietà in capo al promissario acquirente, non accompagnato dalla 4 Il contrario orientamento interpretativo, in presenza di una sequenza preliminare-definitivo, riteneva rilevante, ai fini della revocatoria fallimentare, il valore del bene al momento del definitivo: Trib. Bologna 2 marzo 2001, in Foro pad., 2002, I, p. 263; App. Firenze 14 novembre 1997, in Foro it., Rep. 1998, voce Fallimento, n. 467; Cass. 30 marzo 1994 n. 3165, in Fallimento, 1994, p. 1036; Cass. 11 marzo 1993 n. 2967, in Fallimento, 1993, p. 1018; Cass. 4 novembre 1991 n. 11708, in Giust. civ., 1992, I, p. 686 5 L’art. 72 bis, introdotto dall’art. 11 del decreto legislativo, stabilisce che: «72-bis. (Contratti relativi ad immobili da costruire). In caso di situazione di crisi del costruttore ai sensi dell'articolo 2, comma 1, lettera c), della legge 2 agosto 2004, n. 210, il contratto si intende sciolto se, prima che il curatore comunichi la scelta tra esecuzione o scioglimento, l'acquirente abbia escusso la fideiussione a garanzia della restituzione di quanto versato al costruttore, dandone altresi' comunicazione al curatore. In ogni caso, la fideiussione non puo' essere escussa dopo che il curatore abbia comunicato di voler dare esecuzione al contratto.». Il nuovo testo previsto dal D.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, in attuazione della riforma della legge fallimentare non innova sul punto. 6 L.GUALANDI, op.cit., 319. 7 Cass. Sez. Un. , 7 luglio 2004, n. 12505, cit.

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stipula del contratto definitivo, non escludeva che si potesse affermare che il preliminare non aveva ancora avuto esecuzione e che il rapporto era pendente. Il curatore poteva pertanto sciogliersi dal contratto, pur se la proprietà era già stata trasferita o se l’acquirente era già nel possesso dell’immobile. Le Sezioni Unite hanno invece affermato che il compimento di atti che, prima della stipula del contratto definitivo, comportano l’insorgere degli effetti finali dell’operazione programmata, come nel caso in cui sia stata pronunciata sentenza produttiva degli effetti del contratto definitivo, determina, per la parte che l’effettua, l’integrale esecuzione della prestazione dovuta, con la conseguenza che non può più trovare applicazione la disciplina dei rapporti pendenti. Da questo punto di vista l’esenzione da revocatoria del contratto relativo all’immobile da costruire concluso a giusto prezzo, può mantenere rilevanza, anche se è improbabile, nell’esempio che si è prima considerato, che la norma possa avere concreta applicazione ove si confronti il termine di sei mesi del periodo sospetto ed i tempi normalmente necessari alla pronuncia di una sentenza che tenga luogo del contratto non concluso. Va infine ricordato che il secondo comma dell’art. 10 introduce una particolare ipotesi di esenzione da revocatoria che amplia i casi di esonero previsti per i pagamenti effettuati nell’esercizio di attività d’impresa nei termini d’uso dall’art. 67, comma 3, lett. a) nel testo introdotto dal D.L. 35/2005. Sono infatti esclusi dalla revocatoria, i pagamenti dei premi e delle commissioni relativi ai contratti di fideiussione e di assicurazione relativi all’immobile da costruire, qualora effettuati nell’esercizio dell’attività d’impresa e nei termini d’uso.

* * * Corte costituzionale, 21 aprile 2006, n. 172 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Annibale MARINI Presidente - Franco BILE Giudice - Giovanni Maria FLICK " - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Romano VACCARELLA " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 6 del decreto-legge 23 dicembre 2003, n. 347 (Misure urgenti per la ristrutturazione industriale di grandi imprese in stato di insolvenza), convertito, con modificazioni, nella legge 18 febbraio 2004, n. 39, come modificato dal decreto-legge 3 maggio 2004, n. 119 (Disposizioni correttive ed integrative della normativa sulle grandi imprese in stato di insolvenza), convertito, con modificazioni, nella legge 5 luglio 2004, n. 166, promossi con ordinanze del 18 novembre e del 27 dicembre 2005 dal Tribunale ordinario di Parma nei

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procedimenti civili vertenti, rispettivamente, tra Parmalat s.p.a. in amministrazione straordinaria e H.S.B.C. Bank p.l.c., stessa Parmalat s.p.a. in amministrazione straordinaria e Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. ed altre, iscritte al n. 1 e al n. 53 del registro ordinanze 2006 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 2 e 8, prima serie speciale, dell'anno 2006. Visti gli atti di costituzione di Parmalat s.p.a. in amministrazione straordinaria, H.S.B.C. Bank p.l.c., Cassa di risparmio di Savona s.p.a., Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a., Banca Toscana s.p.a., Banca popolare italiana Società Cooperativa, Bipop Carire s.p.a., Credito siciliano s.p.a., Commerzbank AG, Unicredit Banca d'Impresa s.p.a. e Unicredito Italiano s.p.a., nonché gli atti di intervento di Parmalat s.p.a., Sanpaolo-IMI s.p.a., UBS Limited e del Presidente del Consiglio dei ministri; uditi nell'udienza pubblica del 4 aprile 2006 i Giudici relatori Romano Vaccarella e Giuseppe Tesauro; uditi gli avvocati Giuseppe de' Vergottini, Alberto Maffei Alberti, Umberto Trancanella e Giuseppe Lombardi per Parmalat s.p.a. in amministrazione straordinaria e per Parmalat s.p.a., Andrea Pisaneschi, Enrico Castellani e Marcello Clarich per H.S.B.C. Bank p.l.c., Giorgio Villani per Cassa di risparmio di Savona s.p.a., Lorenzo Stanghellini e Duccio Zanchi per Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a., Lorenzo Stanghellini per Banca Toscana s.p.a., Piero Schlesinger e Francesco Carbonetti per Bipop Carire s.p.a., Natalino Irti e Andrea Mora per Credito siciliano s.p.a., Francesco Cerasi per la Commerzbank AG, Cristiana Maccagno Benessia e Mario Sanino per la Sanpaolo-IMI s.p.a., Piero Schlesinger e Andrea Mora per la UBS Limited e l'avvocato dello Stato Massimo Massella Ducci Teri per il Presidente del Consiglio dei ministri. 1.- Il Tribunale ordinario di Parma, con ordinanza del 18 novembre 2005, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 41 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 6 del decreto-legge 23 dicembre 2003, n. 347 (Misure urgenti per la ristrutturazione industriale di grandi imprese in stato di insolvenza), convertito, con modificazioni, nella legge 18 febbraio 2004, n. 39, come modificato dal decreto-legge 3 maggio 2004, n. 119 (Disposizioni correttive ed integrative della normativa sulle grandi imprese in stato di insolvenza), convertito, con modificazioni, nella legge 5 luglio 2004, n. 166, e dal decreto-legge 28 febbraio 2005, n. 22 (Interventi urgenti nel settore agroalimentare), convertito, con modificazioni, nella legge 29 aprile 2005, n. 71, nella parte in cui stabilisce che le azioni revocatorie previste dagli artt. 49 e 91 del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270 (Nuova disciplina dell'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, a norma dell'articolo 1 della legge 30 luglio 1998, n. 274), possono essere proposte anche in costanza di un programma di ristrutturazione dell'impresa sottoposta ad amministrazione straordinaria. 1.1.- L'ordinanza di rimessione premette che la Parmalat s.p.a., in amministrazione straordinaria, in persona del commissario straordinario, adiva il Tribunale ordinario di Parma, esponendo che la società, con decreto del Ministro delle attività produttive del 24 dicembre 2003, era stata assoggettata alla procedura di amministrazione straordinaria, ai sensi del decreto-legge n. 347 del 2003 e del d.lgs. n. 270 del 1999; e che il medesimo Tribunale, con sentenza del 27 dicembre 2003, aveva dichiarato lo stato di insolvenza della società attrice, con estensione della procedura concorsuale a Parmalat Finanziaria s.p.a. ed a quasi tutte le altre società riconducibili alla famiglia Tanzi - comprese quelle operanti nel settore turistico -, alla holding Coloniale s.p.a. e ad una trentina di concessionarie di distribuzione di prodotti Parmalat. L'istante deduceva che il "gruppo" Parmalat aveva intrattenuto un rapporto continuativo con H.S.B.C. Bank p.l.c. (infra: HSBC), la quale aveva prestato in suo favore un'ampia gamma di servizi bancari e finanziari, e chiedeva che il Tribunale dichiarasse inefficaci, ai sensi dell'art. 67, secondo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), le rimesse in conto corrente (per l'importo di euro 542.714,84), i pagamenti a titolo di interessi e commissioni effettuati mediante addebito sul predetto conto (per un importo di euro 90.753,91), i pagamenti a titolo di rimborso per capitale ed interessi dei finanziamenti (per l'importo di euro 1.653.109,04) eseguiti in favore della convenuta nel cosiddetto "periodo sospetto". HSBC, nel costituirsi davanti al giudice a quo, deduceva l'infondatezza della domanda, sostenendo che

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un'interpretazione dell'art. 6 del decreto-legge n. 347 del 2003 conforme agli artt. 3 e 41 Cost. comporta che l'azione revocatoria sia proponibile soltanto nella fase di cessione dei beni aziendali, che, eventualmente, si apre nel caso di insuccesso della fase di risanamento. In linea gradata, la convenuta eccepiva l'illegittimità costituzionale dell'art. 6 del decreto-legge n. 347 del 2003, in riferimento agli artt. 3 e 41 Cost. L'ordinanza di rimessione precisa, inoltre, che HSBC chiedeva che tutte le norme contenute nel decreto-legge n. 347 del 2003, o almeno il solo art. 6, fossero dichiarate incompatibili con gli artt. 87 e 88, terzo comma, o con gli artt. 3, 10 e 82 del Trattato CE. 1.1.1.- Quanto alla rilevanza della questione di legittimità costituzionale sollevata, il rimettente afferma che questa è insita «nella proposizione dell'azione revocatoria» fallimentare anche «in presenza di autorizzazione all'esecuzione del programma di ristrutturazione», ammissibile proprio in virtù della norma impugnata. 1.1.2.- Relativamente alla non manifesta infondatezza, il Tribunale deduce che, allo scopo di accertare l'eventuale violazione del principio di eguaglianza, il quale impedisce di realizzare una diversità di trattamento tra soggetti che versano in situazioni identiche o affini, occorre individuare gli interessi sottesi alle norme poste in comparazione: una differente tutela di interessi omogenei rispetto a quelli oggetto di un'altra disposizione, in mancanza di una esigenza giustificatrice della diversità delle discipline, vulnera l'art. 3 Cost., così come nel caso in cui gli interessi sottesi alle disposizioni in comparazione non siano omogenei e, tuttavia, per le due fattispecie sia posta una identica disciplina, che non tenga conto della diversità delle situazioni. Secondo il rimettente, nella fattispecie in esame devono essere messi in comparazione gli artt. 6 e 4-bis del decreto-legge n. 347 del 2003 (che riguardano la procedura di amministrazione straordinaria cosiddetta "accelerata", introdotta da detto decreto-legge) e gli artt. 49 e 78 del d.lgs. n. 270 del 1999 (che disciplina la procedura di amministrazione straordinaria "ordinaria"). Le procedure, come risulta dall'art. 1 del decreto-legge n. 347 del 2003 e dall'art. 2 del d.lgs. n. 270 del 1999, si differenziano per quanto attiene alle «fasi di ingresso» ed ai requisiti dimensionali concernenti il numero dei dipendenti e l'entità dei debiti, elementi la cui diversità non è sufficiente a far ritenere ragionevole la diversità delle discipline in comparazione. Infatti, nei casi in cui è applicabile il decreto-legge n. 347 del 2003 lo è anche il d.lgs. n. 270 del 1999 e la scelta tra le due discipline è attribuita all'imprenditore insolvente, in quanto detto decreto-legge riserva a quest'ultimo l'iniziativa per l'apertura della procedura, nell'intento di salvaguardare e perseguire con immediatezza quello stesso programma di ristrutturazione economica e finanziaria al quale il d.lgs. n. 270 del 1999 dà ingresso soltanto all'esito della fase di valutazione dell'esistenza di «concrete prospettive di recupero dell'equilibrio economico delle attività imprenditoriali». La circostanza che il decreto-legge n. 347 del 2003 richiami il d.lgs. n. 270 del 1999 rende palese che il primo ha soltanto stabilito un'opzione ulteriore per l'imprenditore insolvente, il cui mancato esercizio non ne preclude l'assoggettamento all'amministrazione straordinaria, mirando il decreto-legge a realizzare, sia pure attraverso una differente modalità, l'identica finalità della «ristrutturazione economica e finanziaria prevista e disciplinata dall'art. 27, comma 2, lettera b)» (art. 1 del decreto-legge citato). In altri termini, le innovazioni introdotte dal decreto-legge n. 347 del 2003 tendono a garantire una maggiore celerità alla fase di ammissione dell'impresa alla procedura, senza alterarne i caratteri, comuni a quelli della procedura disciplinata dal d.lgs. n. 270 del 1999, il quale detta la disciplina generale di riferimento, cui è fatto rinvio. 1.1.3.- Secondo il rimettente, in entrambe le procedure in comparazione è stabilita l'esperibilità dell'azione revocatoria fallimentare, ma in presenza di differenti presupposti. Il Tribunale ricorda che, a seguito di alcuni arresti della Corte di cassazione, il legislatore ha modificato la disciplina dell'azione revocatoria nelle procedure di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi stabilita dal decreto-legge 30 gennaio 1979, n. 26 (Provvedimenti urgenti per l'amministrazione straordinaria delle grande imprese in crisi), convertito, con modificazioni, nella legge 3 aprile 1979, n. 95, escludendone la esperibilità nel corso della fase di risanamento dell'impresa e stabilendo che può essere proposta «soltanto se è stata autorizzata l'esecuzione di un programma di cessione dei complessi aziendali» (art. 49, comma 1, del d.lgs. n. 270 del 1999). Si tratta di una regola coerente con la ratio dell'azione, che, secondo la concezione indennitaria, mira a ricostituire il patrimonio dell'imprenditore, ovvero, secondo la configurazione antindennitaria, tende a distribuire le perdite all'interno di una platea di creditori più ampia rispetto a quella che comprende soltanto i soggetti che sono tali al tempo dell'apertura della procedura. Ad avviso del rimettente, questa duplice finalità, recuperatoria e redistributiva, non è conciliabile con una procedura strumentale alla conservazione dell'impresa, nella quale, in pendenza del risanamento, mancano un patrimonio e perdite da ripartire tra i creditori. La norma impugnata ha irragionevolmente esteso l'ambito di applicabilità dell'azione revocatoria fallimentare, interrompendo «immotivatamente quel legame di continuità [...] tra finalità concretamente perseguita dalla procedura e strumenti alla stessa connessi», con conseguente non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale della norma impugnata. Il d.lgs. n. 270 del 1999 aveva, infatti, realizzato un corretto bilanciamento degli

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interessi coinvolti dal dissesto dell'impresa, escludendo la proponibilità dell'azione nella fase di ristrutturazione, in quanto il sacrificio patrimoniale dei terzi è giustificato soltanto dal fine della ripartizione fra tutti i creditori del patrimonio del debitore insolvente, a tutela della par condicio creditorum. L'ammissibilità dell'azione nella fase di risanamento dell'impresa ha «ampliato il sacrificio dei terzi, ribaltando la scelta consapevolmente operata con l'art. 49» del d.lgs. n. 270 del 1999, in violazione del canone di ragionevolezza, poiché le azioni disciplinate dai succitati artt. 6 e 49 riguardano procedure analoghe, che coinvolgono interessi omogenei e perseguono il medesimo obiettivo. D'altronde, osserva l'ordinanza di rimessione, secondo la Corte costituzionale l'azione in esame introduce una deroga al principio generale della stabilità dei diritti, allo scopo di tutelare le ragioni del concorso tra i creditori e di contemperare l'interesse dei creditori di recuperare al patrimonio del fallito la maggiore quantità di beni, in vista dell'esecuzione concorsuale, con quello al normale svolgimento dell'attività economica ed alla stabilità dei diritti (sentenza n. 379 del 2000). Secondo il rimettente, l'irragionevolezza della norma sarebbe confortata dalla circostanza che la scelta per l'amministrazione straordinaria "accelerata" è sostanzialmente rimessa all'imprenditore insolvente, il quale potrebbe privilegiarla proprio per giovarsi di un eterofinanziamento, insito nell'esercizio delle azioni revocatorie e precluso nella amministrazione straordinaria "ordinaria". La previsione (contenuta nel comma 1 della norma impugnata), quale condizione dell'azione, che essa deve tradursi in «un vantaggio per i creditori» è pleonastica e non permette di escludere l'irragionevolezza della norma, in quanto l'interesse dei creditori costituisce l'unico ed esclusivo bene giuridico alla cui tutela detta azione è preordinata. 1.1.4.- Secondo il rimettente, ad escludere la fondatezza della questione non giova sostenere che l'azione in esame è incompatibile con la ristrutturazione ex art. 27, comma 2, lettera b), del d.lgs. n. 270 del 1999 e con la finalità di prosecuzione e risanamento dell'impresa, nel caso in cui del risanamento benefici l'imprenditore insolvente, mentre è compatibile con la cessione dell'attività d'impresa, anche mediante patto di concordato, ad un soggetto terzo (l'assuntore o una diversa società). Il Tribunale non condivide questa configurazione, osservando che la norma impugnata prevede in linea generale la proponibilità dell'azione revocatoria anche qualora sia stato autorizzato il programma di ristrutturazione, indipendentemente dalla circostanza che questo sia realizzato secondo le modalità ordinarie (art. 4 del decreto-legge n. 347 del 2003), ovvero mediante concordato, che costituisce uno degli strumenti del programma di ristrutturazione (art. 4-bis, comma 1, del decreto-legge citato). L'ordinanza di rimessione conclude nel senso che «le censure di illegittimità si incentrano sulla disciplina generale della procedura» disciplinata dal decreto-legge n. 347 del 2003, «nell'ambito della quale l'epilogo naturale del processo di risanamento è costituito dal ritorno dell'imprenditore all'ordinaria operatività industriale, a conclusione del programma di ristrutturazione con qualunque modalità attuato (artt. 4 e 4-bis), ivi compreso il concordato con assunzione, che costituisce un'ipotesi del tutto eventuale e residuale di conclusione del programma di ristrutturazione dell'impresa, cui il legislatore assegna la sola valenza di determinare l'immediata chiusura della procedura rispetto alla fisiologica durata ed al suo naturale espletamento». 1.1.5.- In ordine alle censure riferite all'art. 41 Cost., il Tribunale osserva che il risanamento agevolato da misure di sostegno finanziario non può considerarsi un vero e proprio risanamento in senso economico e giuridico, in quanto, a suo avviso, risanamento significa recuperata capacità dell'impresa di conseguire ricavi superiori ai costi sostenuti e quindi di produrre ricchezza sì da adempiere nuovamente con regolarità le proprie obbligazioni. Il risanamento dell'impresa mediante l'esperimento dell'azione revocatoria fallimentare costituisce un ingiustificato privilegio per l'impresa ammessa alla procedura e realizza un effetto distorsivo della concorrenza, in quanto le permette di restare sul mercato, sfruttando risorse finanziarie precluse ai concorrenti. Questo effetto è correlato alla continuazione dell'impresa, dato che nelle procedure liquidatorie il ricavato dell'azione revocatoria è esclusivamente destinato al soddisfacimento dei creditori, mentre nel caso in esame questa azione comporta una forma di finanziamento forzoso a favore dell'impresa insolvente ed a carico dei terzi, già censurata dai giudici nazionali e dai giudici europei in riferimento alle norme recate dalla legge n. 95 del 1979. Secondo il rimettente, la previsione dell'azione revocatoria costituisce fattore di distorsione della libera concorrenza tra imprese e si pone in contrasto con l'art. 41 Cost., che tutela la libertà di concorrenza, garantendo quella di iniziativa economica. D'altronde, conclude il Tribunale, l'irragionevolezza e l'illegittimità di una disciplina che determina una discriminazione tra imprese in concorrenza è stata affermata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 443 del 1997, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 30 della legge 4 luglio 1967, n. 580, nella parte in cui vietava alle imprese con stabilimento in Italia di utilizzare nella produzione e nella commercializzazione di paste alimentari ingredienti legittimamente impiegati, in base al diritto comunitario, nel territorio della Comunità europea. 1.2.- Nel giudizio innanzi alla Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha eccepito l'inammissibilità e, comunque, l'infondatezza della questione.

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La difesa erariale premette che l'introduzione nell'ordinamento delle procedure disciplinate dal d.lgs. n. 270 del 1999 e dal decreto-legge n. 347 del 2003 è stata giustificata dalla considerazione che il fallimento non può essere l'unica soluzione alla crisi dell'impresa e dall'esigenza di permettere la ricollocazione sul mercato del relativo complesso aziendale. La procedura disciplinata dal decreto-legge n. 347 del 2003 stabilisce, quindi, che il commissario straordinario può proporre un programma di ristrutturazione economica e finanziaria fondato su di un piano di risanamento, ovvero può predisporre un programma di cessione dei beni aziendali; nel primo caso è possibile prevedere che i creditori siano soddisfatti mediante un concordato che realizza il trasferimento delle attività ad un nuovo soggetto giuridico, che può divenire titolare delle azioni revocatorie proposte dal commissario straordinario. La mancata approvazione dei programmi proposti dal commissario straordinario, ovvero l'insuccesso degli stessi, comporta la conversione della procedura in fallimento. Nella fattispecie oggetto del giudizio principale, è stato approvato il programma di ristrutturazione che prevede il soddisfacimento dei creditori mediante un concordato. Secondo l'interveniente, fine ultimo della procedura è quello di garantire la conservazione delle strutture produttive e la parità di trattamento tra i creditori e, quindi, la norma impugnata si inscrive coerentemente nell'ordinamento, subordinando l'esperibilità dell'azione revocatoria al conseguimento di un vantaggio concreto da parte dei creditori. La finalità della revocatoria è quella di far rientrare nel patrimonio beni che non avrebbero dovuto uscirne e sia la ristrutturazione che la cessione dei beni costituiscono rimedi preordinati a fronteggiare il dissesto dell'impresa, che, tra l'altro, produce anche l'effetto di determinare, in presenza di determinati presupposti, l'inopponibilità alla massa di una serie di atti. Ad avviso dell'Avvocatura, l'ordinanza sarebbe carente sul punto della motivazione della rilevanza della questione, in quanto manca la valutazione degli effetti della azione in relazione alla posizione dei creditori concorsuali, nonché delle conseguenze della eventuale sentenza di illegittimità costituzionale sulla posizione giuridica della banca convenuta nel giudizio. 1.2.1.- Nel merito, secondo la difesa erariale la questione, da ritenersi rilevante limitatamente alla fattispecie della realizzazione del programma di ristrutturazione mediante concordato, è infondata. La norma impugnata prevede, infatti, che l'azione revocatoria può essere proposta nel caso in cui permetta di soddisfare i creditori in misura maggiore, determinando un incremento della massa attiva e, in tal modo, ne risulta chiara la finalità recuperatoria a vantaggio dei creditori, mediante l'eliminazione del danno provocato dagli atti revocati, e cioè il conseguimento dello scopo tipico dell'azione revocatoria fallimentare. Ad avviso dell'interveniente, nella procedura disciplinata dal d.lgs. n. 270 del 1999 il divieto di esperire l'azione revocatoria nel caso di approvazione di un piano di ristrutturazione è giustificato dalla circostanza che, in detta ipotesi, i creditori non subiscono alcuna decurtazione dei loro crediti. Nella procedura introdotta dal decreto-legge n. 347 del 2003 il ricorso al concordato non comporta il soddisfacimento integrale dei creditori e l'azione revocatoria garantisce loro il recupero di una percentuale più elevata di quella altrimenti conseguibile. Infine, la finalità dell'azione di realizzare l'interesse dei creditori fa escludere la denunciata violazione dell'art. 41 Cost., anche in quanto l'azione revocatoria non incide sulla libertà di concorrenza in misura maggiore rispetto agli altri rimedi approntati dal d.lgs. n. 270 del 1999 e dal decreto-legge n. 347 del 2003, allo scopo di garantire il recupero dell'equilibrio economico da parte dell'impresa insolvente. 1.3.- Nel giudizio innanzi alla Corte si è costituita la Parmalat s.p.a. in amministrazione straordinaria, in persona del commissario straordinario (infra: società in amministrazione straordinaria), parte del giudizio principale, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e, comunque, infondata. 1.3.1.- La società in amministrazione straordinaria, in linea preliminare, deduce che l'ordinanza ha censurato l'art. 6 del decreto-legge n. 347 del 2003, senza distinguere tra le norme contenute nel comma 1 e nel comma 1-bis. Il comma 1 stabilisce, infatti, che le azioni revocatorie previste dagli artt. 49 e 91 del d.lgs. n. 270 del 1999 possono essere proposte anche nel caso di autorizzazione all'esecuzione del programma di ristrutturazione; il comma 1-bis dispone che, nel caso in cui la soddisfazione dei creditori avvenga attraverso un concordato, si applica l'art. 4-bis, comma 1, lettera c-bis), il quale, a sua volta, prevede che la proposta di concordato contenuta nel programma autorizzato contempli, come patto di concordato, la cessione delle azioni revocatorie all'assuntore. L'azione proposta nel giudizio a quo è stata, appunto, esperita dopo l'autorizzazione di un programma che, in conformità dell'art. 4-bis, comma 1, lettera c-bis), citato, prevede la soddisfazione dei creditori attraverso un concordato, con costituzione, quale assuntore, di una società; concordato che reca un patto di cessione all'assuntore delle azioni revocatorie. La fattispecie oggetto del giudizio principale non riguarda, quindi, un caso di ristrutturazione con ritorno dell'imprenditore all'attività ordinaria, dato che l'imprenditore originario, attraverso la cessione delle attività all'assuntore, cessa la propria attività. Pertanto, la fattispecie non è comparabile con quella disciplinata dal d.lgs. n. 270 del 1999 per il caso di risanamento attuato mediante un programma di ristrutturazione. Inoltre, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 1, citato, «nella sua generalità» è irrilevante, in quanto la ristrutturazione è stata attuata mediante il

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concordato con assunzione. 1.3.2.- La violazione dell'art. 3 Cost. è stata, invece, prospettata all'esito della comparazione degli artt. 6 e 4-bis del decreto-legge n. 347 del 2003 con gli artt. 49 e 78 del d.lgs. n. 270 del 1999, senza che sia stato dimostrato il contrasto della norma censurata con il canone di ragionevolezza e con i principi che disciplinano l'azione revocatoria fallimentare. Ad avviso della società in amministrazione straordinaria, il Tribunale ha erroneamente comparato la norma impugnata con la disciplina stabilita dal d.lgs. n. 270 del 1999, denunciando la violazione dell'art. 3 Cost., sul presupposto che l'espressione «risanamento finanziario», utilizzata nell'amministrazione straordinaria "accelerata" e nell'amministrazione straordinaria "ordinaria", riguardi «una stessa situazione sostanziale»; senza considerare che principio cardine dell'azione revocatoria fallimentare è che questa non può tradursi in un vantaggio per l'imprenditore insolvente, ma è diretta a regolare il conflitto tra i creditori, come è reso palese dall'art. 124 del r.d. n. 267 del 1942 (legge fallimentare), il quale vieta la cessione delle azioni revocatorie a favore del fallito e dei suoi fideiussori. La cessione dell'azione revocatoria deve, invece, ritenersi ammissibile nel caso di trasferimento dell'attività di impresa ad un imprenditore diverso da quello insolvente, dato che in siffatta ipotesi non si traduce in un vantaggio per quest'ultimo. 1.3.3.- Secondo la società in amministrazione straordinaria, nella procedura disciplinata dal d.lgs. n. 270 del 1999 il «programma di ristrutturazione» è definito come «la ristrutturazione economica e finanziaria dell'impresa, sulla base di un programma di risanamento di durata non superiore a due anni» (art. 27, comma 2, lettera b, del d.lgs. n. 270 del 1999), la cui natura è resa chiara dalla previsione che l'amministrazione straordinaria si converte in fallimento: a) nel caso di autorizzazione del programma di ristrutturazione, qualora, alla scadenza del programma, l'imprenditore non abbia recuperato la capacità di soddisfare le proprie obbligazioni (art. 70, comma 1, lettera b, del d.lgs. n. 270 del 1999); b) nel caso di autorizzazione del programma di cessione, qualora alla scadenza del medesimo non sia avvenuta, in tutto o in parte, la cessione (art. 70, comma 1, lettera a, del d.lgs. n. 270 del 1999). Siffatte disposizioni distinguono il «risanamento su base soggettiva», che realizza un salvataggio dell'imprenditore, ed il «risanamento su base oggettiva», che permette di salvare l'attività dell'impresa mediante il suo trasferimento ad un diverso imprenditore. Il d.lgs. n. 270 del 1999, nel caso del programma di ristrutturazione finanziaria, ha riguardo all'imprenditore, non all'impresa e, quindi, ragionevolmente esclude l'ammissibilità dell'azione revocatoria, in quanto essa costituirebbe un vantaggio per l'imprenditore, permettendone l'esperimento dopo l'autorizzazione di un programma che contempli la cessione del complesso produttivo ad un diverso imprenditore. 1.3.4.- La procedura disciplinata dal decreto-legge n. 347 del 2003 stabilisce che il programma di ristrutturazione finanziaria, che il commissario deve presentare entro 180 giorni dalla nomina, può prevedere la soddisfazione dei creditori mediante un concordato (art. 4-bis), anche con attribuzione ad un assuntore delle attività dell'impresa (art. 4-bis, comma 1, lettera c-bis). In questa ipotesi la ristrutturazione non riguarda l'imprenditore, bensì l'impresa e, in coerenza con siffatta finalità, la norma da ultimo richiamata stabilisce l'ammissibilità di un patto di concordato, avente ad oggetto il trasferimento all'assuntore delle azioni revocatorie promosse fino alla data di pubblicazione della sentenza, stabilendo una disciplina omologa a quella recata dall'art. 124 della legge fallimentare. La norma impugnata ribadisce, dunque, il principio generale, secondo il quale le azioni revocatorie possono essere proposte soltanto a vantaggio dei creditori, richiamando espressamente, al comma 1-bis, la disciplina stabilita per il concordato con assunzione, nel quale è in re ipsa l'impossibilità che l'azione si traduca in un vantaggio per l'imprenditore insolvente, con conseguente infondatezza delle censure sollevate nell'ordinanza di rimessione. Nel caso in esame, le azioni revocatorie sono state proposte dopo l'autorizzazione del programma che prevedeva un concordato con assunzione delle attività e delle passività da parte di una società costituita dal commissario, le cui azioni erano destinate ad essere attribuite ai creditori. Peraltro, se il concordato non fosse stato approvato dal Tribunale o dai creditori il commissario, ex art. 4-bis, comma 11-bis, del decreto-legge n. 347 del 2003, avrebbe potuto presentare nei successivi 60 giorni un programma di cessione dei complessi aziendali, compatibile con l'esperimento delle azioni revocatorie; qualora tale programma non fosse stato approvato, la procedura sarebbe stata convertita in fallimento, sicché nessuno dei possibili sviluppi avrebbe condotto ad un "risanamento soggettivo" e neppure l'azione avrebbe potuto tradursi in un vantaggio per l'imprenditore insolvente. 1.3.5.- Relativamente alla censura riferita all'art. 41 Cost., la società in amministrazione straordinaria osserva che l'art. 49 del d.lgs. n. 270 del 1999 rende proponibili le azioni revocatorie dopo l'autorizzazione di un programma di cessione dei complessi aziendali, cessione che deve avvenire entro un anno dall'autorizzazione del programma (art. 27, comma 2, lettera a, e 57, comma 4, del d.lgs. citato), termine prorogabile per tre mesi se, all'originaria scadenza, risultino in corso iniziative di imminente definizione (art. 66 del d.lgs. citato). Dunque, nel sistema definito dal d.lgs. n. 270 del 1999 non è stabilita alcuna incompatibilità tra prosecuzione dell'attività di impresa ed esercizio delle azioni revocatorie, incompatibilità non prevista nemmeno dalla legge fallimentare, data la esperibilità di dette azioni anche nel caso di esercizio provvisorio dell'impresa. Il Tribunale non ha, invece, considerato, in primo luogo, che la prosecuzione dell'attività inserita in un risanamento su base oggettiva è strumentale rispetto allo scopo di garantire una liquidazione più vantaggiosa, nell'interesse dei creditori.

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In secondo luogo, ha omesso di valutare che l'organizzazione ha spesso un valore superiore a quello dei beni organizzati, che va salvaguardato anche nel caso di perseguimento di una finalità liquidatoria, tant'è che l'art. 2487 del codice civile, ammette nella fase della liquidazione della società di capitali l'esercizio provvisorio dell'attività, in funzione del migliore realizzo dei beni. In altri termini, l'azione revocatoria è compatibile con la prosecuzione dell'attività d'impresa, purché temporanea e finalizzata a realizzare una migliore liquidazione, come può appunto accadere: nel fallimento, qualora sia autorizzato l'esercizio provvisorio dell'impresa (art. 90 della legge fallimentare), ovvero nel caso di concordato fallimentare (art. 124 della legge fallimentare); nella procedura di amministrazione straordinaria "ordinaria", se sia autorizzato un programma di cessione dei complessi aziendali; nella procedura di amministrazione straordinaria "accelerata", nel caso in cui l'azione revocatoria si traduca in un vantaggio per i creditori, ovvero se sia stato autorizzato un concordato, nei termini sopra indicati. Pertanto, le azioni revocatorie sono finalizzate ad assicurare un vantaggio ai creditori, mentre la considerazione del tempo occorrente per ottenere una sentenza favorevole fa anche escludere che possa ipotizzarsi un effetto distorsivo della concorrenza. Infine, conclude la società in amministrazione straordinaria, il rimettente non ha considerato che l'assuntore del concordato paga un prezzo che viene determinato tenendo conto delle azioni revocatorie e che i creditori, nell'esprimere il loro voto, hanno valutato la convenienza dell'operazione anche alla luce della proponibilità delle azioni revocatorie. Dunque, l'affermazione che la società assuntrice del concordato godrebbe di un ingiustificato vantaggio rispetto alle concorrenti «sembra dimenticare del tutto il costo pagato dai creditori-azionisti, in termini di rinuncia al loro credito». 1.4.- Nel giudizio innanzi alla Corte è intervenuta anche la Parmalat s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, la quale ha svolto argomentazioni coincidenti con quelle della Parmalat s.p.a. in amministrazione straordinaria, sopra riportate, e ha formulato identiche conclusioni. 1.5.- Nel giudizio innanzi alla Corte si è costituita HSBC, parte convenuta nel processo principale, chiedendo che la questione sia accolta. HSBC, premesso un ampio excursus circa la disciplina stabilita dal decreto-legge n. 26 del 1979 e l'orientamento della giurisprudenza di legittimità (secondo il quale l'azione revocatoria non è esperibile nella fase di esercizio dell'attività di impresa, in quanto ispirata a finalità recuperatorie), ricorda che la Corte di giustizia delle Comunità europee ha affermato che l'applicazione del regime stabilito da detto decreto-legge ad un'impresa autorizzata a continuare la sua attività economica, in circostanze in cui tale eventualità sarebbe stata esclusa nell'ambito dell'applicazione delle regole normative normalmente vigenti in tema di fallimento, dà luogo alla concessione di un aiuto di Stato, vietato dalle norme comunitarie (sentenza 1° dicembre 1998, C. n. 200/97; sentenza 17 giugno 1999, C. n. 195/97); ricorda, altresì, che alcune corti italiane, a seguito di dette pronunce, hanno disapplicato le norme del 1979 (cosiddetta "legge Prodi") nel caso di azione revocatoria fallimentare proposta al di fuori della fase liquidatoria di cessione dei complessi aziendali. Il d.lgs. n. 270 del 1999 - prosegue HSBC - è stato emanato allo scopo di porre rimedio ai vizi che inficiavano l'originaria disciplina della procedura di amministrazione straordinaria ed ha previsto due distinti modelli: il primo caratterizzato da una finalità liquidatoria, da conseguire mediante la cessione dei complessi aziendali; il secondo, avente finalità conservativa dell'impresa, mediante la sua ristrutturazione economica e finanziaria. In coerenza con i surrichiamati orientamenti della giurisprudenza, detto decreto legislativo ha stabilito che l'azione revocatoria fallimentare è proponibile soltanto nel caso di autorizzazione di un programma di cessione dei complessi aziendali. Il decreto-legge n. 347 del 2003, come risulta anche dai lavori preparatori - analiticamente indicati - ha inteso assicurare la conservazione dell'avviamento e della posizione di mercato dell'impresa, caratterizzandosi in quanto prevede esclusivamente l'ipotesi della ristrutturazione industriale e non la possibilità della liquidazione dei complessi aziendali, e cioè proprio la fattispecie in relazione alla quale l'art. 49 del d.lgs. n. 270 del 1999 vieta l'esercizio dell'azione revocatoria. 1.5.1.- Secondo HSBC non è possibile dare della norma impugnata un'interpretazione adeguatrice. La tesi della società in amministrazione straordinaria, che sostiene la compatibilità dell'azione con la realizzazione del cosiddetto "risanamento oggettivo" mediante concordato, non è corretta, anzitutto in quanto la norma censurata stabilisce la proponibilità di detta azione in linea generale e, nel caso in esame, essa è stata, infatti, esperita prima della presentazione della proposta di concordato. Inoltre, la questione della legittimità della proposizione dell'azione revocatoria nell'ambito di una procedura con finalità di risanamento è logicamente e giuridicamente preliminare rispetto a quella della ammissibilità del suo trasferimento all'assuntore del concordato. Infatti, secondo alcune pronunce di merito, l'illegittimità dell'esercizio dell'azione revocatoria ex d.lgs. n. 270 del 1999 nella fase di risanamento non è esclusa dal sopravvenire, nel corso del giudizio, della fase liquidatoria, e, analogamente, la successiva proposizione di un concordato nell'ambito del quale l'azione de qua è stata trasferita all'assuntore non legittima un'azione originariamente inammissibile. Ad avviso di HSBC, l'approvazione del concordato non muta comunque la finalità conservativa e di risanamento della procedura in esame, come bene ha sottolineato il Tribunale rimettente nella sentenza del 1° ottobre 2005, che ha

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omologato il concordato in questione. In ogni caso, il concordato disciplinato dal decreto-legge n. 347 del 2003 non sarebbe comparabile con il concordato previsto dall'art. 124 della legge fallimentare, in quanto il primo è strumentale al risanamento dell'impresa, come risulta dalle stesse indicazioni contenute nella relativa proposta e nel prospetto informativo relativo all'offerta di azioni ordinarie e warrant della "nuova" Parmalat s.p.a., redatti dal commissario straordinario, nonché dalla circostanza che non è previsto alcun pagamento da parte dell'assuntore in favore dei creditori chirografari ed i crediti ammessi al concorso sono trasformati in capitale di rischio. Il concordato fallimentare mira, invece, a far cessare il fallimento, mediante il ricorso ad una modalità di liquidazione dei beni più rapida e conveniente per i creditori, come puntualmente hanno osservato giurisprudenza e dottrina. Appunto per questo, è inammissibile un concordato fallimentare mediante cessione dei beni ai creditori, in quanto non garantirebbe il recupero di una percentuale del credito superiore a quella conseguibile mediante la liquidazione fallimentare e che, invece, è proprio quanto accade con il concordato in esame. Inoltre, come ha chiarito la giurisprudenza, nel concordato fallimentare la cessione delle azioni revocatorie è strumentale al soddisfacimento dei creditori, costituendo dette azioni un elemento dell'attivo, che incide sulla misura della percentuale concordataria. Nel concordato in esame - preordinato a realizzare il risanamento e la ristrutturazione dell'impresa insolvente - non sono invece previsti pagamenti in favore dei creditori e, conseguentemente, le azioni revocatorie non sono strumentali al succitato scopo. 1.5.2.- Secondo HSBC, la norma censurata, in violazione dell'art. 3 Cost., realizza una ingiustificata disparità di trattamento tra fattispecie omologhe, in relazione all'art. 49 del d.lgs. n. 270 del 1999. A suo avviso, le due norme: a) hanno identico oggetto, in quanto regolano la procedura di amministrazione straordinaria concernente le imprese di grandi dimensioni che versano in stato di insolvenza; b) hanno identiche finalità, in quanto mirano alla ristrutturazione delle imprese; c) hanno ambiti di applicazione in larga misura coincidenti, dato che la diversità dei requisiti dimensionali per l'ammissione alle due procedure non è influente e dimostra l'identità delle situazioni sotto il profilo soggettivo, risultando applicabile il decreto-legge n. 347 del 2003 nei casi nei quali è applicabile il d.lgs. n. 270 del 1999, in virtù di una opzione rimessa allo stesso imprenditore, mentre la prima è essenzialmente connotata da una maggiore celerità; d) in riferimento all'art. 27, comma 2, lettera b), del d.lgs. n. 270 del 1999, riguardano procedure sostanzialmente omogenee. Le situazioni in comparazione sono quindi omologhe e, conseguentemente, la norma censurata, nella procedura ex decreto-legge n. 347 del 2003, irragionevolmente sacrifica il diritto dei creditori dell'imprenditore insolvente, dato che, secondo la Corte costituzionale, la deroga del principio generale della stabilità dei diritti realizzata dall'azione revocatoria è giustificata esclusivamente dallo scopo di permettere la ricostruzione del patrimonio del fallito e di ripartire tra i creditori eventuali perdite. L'irragionevolezza è confortata dalla considerazione che l'opzione per una delle due discipline è lasciata allo stesso imprenditore insolvente. Sotto un diverso profilo, la norma censurata realizza un'ingiustificata disparità di trattamento anche tra le imprese insolventi, dato che soltanto quelle che accedono alla procedura disciplinata dal decreto-legge n. 347 del 2003 hanno la possibilità di ottenere eterofinanziamenti, mediante l'esperimento dell'azione revocatoria durante la fase di risanamento. Infine, la norma impugnata è viziata da intrinseca irragionevolezza, in quanto l'azione revocatoria fallimentare è inconciliabile con la finalità conservativa della procedura, in considerazione della ratio dell'azione, che va individuata, secondo la giurisprudenza costituzionale, nella realizzazione della par condicio creditorum (sentenze n. 379 del 2000; n. 173 del 1994; n. 100 del 1993; n. 300 del 1986) e che è inesistente qualora essa sia esercitata nel contesto della procedura disciplinata dal decreto-legge n. 347 del 2003, anche nel caso del concordato ex art. 4-bis. 1.5.3.- Ad avviso della HSBC - premesso che la riforma del titolo V della Costituzione ha rafforzato la tutela della concorrenza - la norma impugnata viola l'art. 41 Cost., dato che l'azione revocatoria fallimentare permette all'imprenditore insolvente di rimanere sul mercato, avvalendosi di una sorta di finanziamento forzoso, a costo zero, in danno degli altri imprenditori ed in contrasto con le norme comunitarie, anche in considerazione della somma dei crediti oggetto di dette azioni, che rendono possibili politiche commerciali particolarmente aggressive in danno dei concorrenti. 2.- Con successiva ordinanza del 27 dicembre 2005, il medesimo Tribunale ordinario di Parma ha sollevato identica questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 41 Cost., dell'art. 6 del decreto-legge n. 347 del 2003, e successive modificazioni, nella parte in cui consente l'esercizio delle azioni revocatorie previste dagli artt. 49 e 91 del d.lgs. n. 270 del 1999 anche in costanza di un programma di ristrutturazione dell'impresa sottoposta ad amministrazione straordinaria. 2.1.- In punto di fatto, il giudice rimettente riferisce che il commissario straordinario della Parmalat s.p.a. in amministrazione straordinaria ha convenuto in giudizio la Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. e altre diciassette banche, esponendo che la Parmalat s.p.a., con decreto del Ministro delle attività produttive del 24 dicembre 2003, era stata assoggettata alla procedura di amministrazione straordinaria, ai sensi del decreto-legge n. 347 del 2003; che il Tribunale ordinario di Parma, con sentenza del 27 dicembre 2003, aveva dichiarato lo stato di insolvenza della medesima società, con estensione della procedura concorsuale a Parmalat Finanziaria s.p.a. ed a quasi tutte le altre società riconducibili alla famiglia Tanzi; che, nel dicembre 1998, la Parmalat s.p.a. aveva stipulato con un pool di banche - di cui era capofila la Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. - un contratto di finanziamento per un ammontare

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complessivo di lire 140 miliardi con un piano di restituzione nell'arco dei successivi cinque anni; che i rimborsi alle scadenze venivano effettuati mediante ordini di bonifico; e che, tanto premesso, l'attore ha chiesto che siano revocati, ai sensi e per gli effetti dell'art. 67, secondo comma, della legge fallimentare, i pagamenti eseguiti dalla Parmalat s.p.a. a favore delle parti convenute a titolo di rimborso del predetto finanziamento nel periodo "sospetto" e, conseguentemente, che le medesime convenute siano condannate a restituire alla procedura le somme percepite, oltre agli interessi e al maggior danno da svalutazione monetaria. Riferisce ancora il giudice rimettente che le banche convenute, costituitesi, hanno, in via pregiudiziale, eccepito l'illegittimità costituzionale dell'art. 6 del decreto-legge n. 347 del 2003, e successive modificazioni, in riferimento agli artt. 3 e 41 Cost., nonché la incompatibilità della stessa norma con i principi di concorrenza sanciti dal Trattato CE. 2.1.2.- Quanto alla rilevanza della questione, il giudice a quo osserva che essa è insita nella proposizione dell'azione revocatoria ex art. 67 della legge fallimentare, richiamato dal d.lgs. n. 270 del 1999, resa possibile dalla norma denunciata nell'ambito della procedura di amministrazione straordinaria di cui al decreto-legge n. 347 del 2003, pur in presenza dell'autorizzazione all'esecuzione di un programma di ristrutturazione: la caducazione di quella norma comporterebbe, infatti, il rigetto delle domande attoree. 2.1.3.- Quanto alla non manifesta infondatezza, il medesimo giudice svolge argomentazioni del tutto analoghe a quelle esposte nella precedente ordinanza di rimessione. 2.2.- Si sono ritualmente costituite nel giudizio davanti alla Corte le convenute nel giudizio a quo Cassa di risparmio di Savona s.p.a., Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a., Banca Toscana s.p.a., Banca popolare italiana Società Cooperativa, Bipop Carire s.p.a., Commerzbank AG, Unicredit Banca d'Impresa s.p.a., Unicredito Italiano s.p.a. e Credito siciliano s.p.a., per chiedere che la questione sia accolta. 2.2.1.- Cassa di risparmio di Savona s.p.a. ricorda che la Corte di cassazione, decidendo la questione del contrasto fra la legge n. 95 del 1979, istitutiva della procedura di amministrazione straordinaria, e le regole dei Trattati comunitari, circa i divieti degli aiuti di Stato e dell'alterazione della concorrenza da parte degli Stati membri, ha statuito che nella procedura di amministrazione straordinaria, disciplinata dalla citata legge, l'azione revocatoria fallimentare non rappresenta un aiuto di Stato, e, quindi, non viola la normativa comunitaria, sempre che essa venga promossa dopo che è iniziata la fase di liquidazione; e ha osservato che l'esercizio della revocatoria «si tradurrebbe in un finanziamento forzoso delle imprese in crisi» non in ogni caso, «essendo compatibile una tale affermazione solo con la fase conservativa e non già con quella liquidatoria» (Cass. 21 settembre 2004, n. 18915). Questo principio di diritto è stato coerentemente seguito dal legislatore, quando ha dettato una «nuova disciplina dell'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza» con il d.lgs. n. 270 del 1999, il cui art. 49, comma 1, infatti, stabilisce che «le azioni per la dichiarazione di inefficacia e la revoca degli atti pregiudizievoli ai creditori previste dalle disposizioni della sezione III del capo III del titolo II della legge fallimentare possono essere proposte dal commissario straordinario soltanto se è stata autorizzata l'esecuzione di un programma di cessione dei complessi aziendali, salvo il caso di conversione della procedura in fallimento». Ma, nell'emanare il successivo decreto-legge n. 347 del 2003, il legislatore ha completamente trascurato la necessità che la nuova procedura di amministrazione straordinaria, prevista da tale decreto-legge, fosse resa compatibile con le regole comunitarie, in quanto ha creato una procedura che - come risulta inequivocabilmente da più norme - ha la finalità esclusiva della ristrutturazione economica e finanziaria di grandi imprese in stato di insolvenza. Ciò posto, non aveva senso inserire in essa l'esperibilità delle azioni revocatorie, che sono proprie delle procedure di liquidazione e che, invece, nell'ambito di una procedura di ristrutturazione si risolvono in elementi distorsivi della concorrenza. 2.2.1.2.- La deducente osserva, poi, che la norma denunciata - come sostenuto in dottrina - viola il principio costituzionale di eguaglianza, dal momento che di fronte a due imprese in stato di insolvenza, per le quali sia prospettabile un programma di ristrutturazione, per il solo fatto che per l'una si avvii la procedura di amministrazione straordinaria di cui al d.lgs. n. 270 del 1999 (su iniziativa dei creditori) e per l'altra, invece, si instauri (su iniziativa dello stesso imprenditore) la procedura di cui al decreto-legge n. 347 del 2003, si diversifica il trattamento dei creditori e dei terzi, i quali nella seconda ipotesi sono esposti al rischio dell'esercizio delle azioni revocatorie. E tale disparità di trattamento, non giustificabile e del tutto irragionevole, sussiste, a suo avviso, anche rispetto ai creditori dell'impresa assoggettata ad ogni altra procedura concorsuale. 2.2.1.3.- La deducente passa, quindi, a confutare la tesi secondo cui basterebbe a giustificare l'esperibilità delle revocatorie l'inciso «purché si traducano in un vantaggio per i creditori», inserito nella norma denunciata dalla legge di conversione (del decreto-legge) n. 119 del 2004. Tale aggiunta, a suo avviso, nulla toglie alle censure di cui innanzi, sia sotto il profilo del contrasto con le norme comunitarie, sia sotto quello della violazione dell'art. 3 Cost.: quanto al primo profilo, resta la constatazione che, quand'anche la condizione sia soddisfatta, si tratta pur sempre di azioni revocatorie rese esperibili al di fuori di una procedura o di una fase liquidatoria; quanto al secondo, resta la constatazione della disparità di trattamento fra i creditori delle varie procedure concorsuali, perché, se non vi è liquidazione e distribuzione dell'attivo, quella disparità persiste. Nel caso di specie, poi, la condizione legale della esperibilità delle revocatorie non può verificarsi, ancorché sia previsto

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lo sbocco della procedura di amministrazione straordinaria della Parmalat s.p.a. in un concordato con assunzione delle attività da parte di una società costituita dal commissario straordinario e destinata ad essere totalmente partecipata dai creditori concorrenti. Infatti, la deducente rileva, innanzitutto, che il concordato è stato impugnato. Inoltre, essa argomenta che il «vantaggio per i creditori» non è ravvisabile, in quanto: a) una volta trasferite le azioni revocatorie alla società assuntrice, i proventi andrebbero a incrementare l'attivo della società, che, perè, è destinato al pagamento dei creditori sociali, non dei soci; d'altro canto, poiché la società assuntrice, secondo il programma, proseguirà le attività imprenditoriali di numerose società del gruppo Parmalat, i medesimi proventi delle revocatorie andrebbero a finanziare quelle attività, prima che possano essere distribuiti ai soci ex-creditori di Parmalat s.p.a. sotto forma di dividendi o rimborso di azioni; b) secondo il programma, il concordato dovrebbe riguardare varie società del gruppo Parmalat e il risultato utile delle revocatorie andrà a favore dell'emittente, ossia la società assuntrice, «e, quindi, in modo indifferenziato, indirettamente a vantaggio di tutti i creditori divenuti azionisti dell'emittente stesso, quale che sia, fra le società oggetto del concordato, la società che ha proposto l'azione»; il che vuol dire che le somme ricavate dalla revocatoria di pagamenti eseguiti da una società potrebbero essere destinate alla distribuzione a favore dei creditori di altre società del gruppo. 2.2.2.- Banca popolare italiana Società Cooperativa osserva che, prima dell'emanazione del decreto-legge n. 347 del 2003, era principio consolidato del nostro ordinamento quello che solo la definitiva cessazione dell'attività di impresa ovvero l'esercizio momentaneo di quest'ultima finalizzato alla mera liquidazione dell'attivo consente l'esperibilità delle azioni revocatorie fallimentari e che, perciò, l'esercizio di dette azioni è tassativamente da escludersi in caso di perseguimento di un programma di ristrutturazione. L'art. 6 del citato decreto-legge ha, invece, previsto la possibilità di esperire azioni revocatorie ex art. 67 della legge fallimentare «anche nel caso di autorizzazione all'esecuzione del programma di ristrutturazione, purché si traducano in un vantaggio per i creditori». Tale norma comporta una ingiustificata differenza di trattamento tra creditori di fronte ad analoghe situazioni di dissesto, a seconda che l'impresa debitrice sia sottoposta ad amministrazione straordinaria, ai sensi del decreto-legge n. 26 del 1979 o del d.lgs. n. 270 del 1999, con un programma che contempli la continuazione e il salvataggio dell'impresa; ovvero ad amministrazione straordinaria, ai sensi del decreto-legge n. 347 del 2003, essendo le revocatorie esperibili solo in quest'ultima procedura e non anche nelle prime due. Siffatto trattamento diseguale, pur in presenza di situazioni identiche, contrasta con l'art. 3 Cost. 2.2.2.1.- La deducente osserva, ancora, che la norma denunciata è idonea a falsare la concorrenza, e, quindi, viola l'art. 41 Cost., perché, consentendo che le azioni revocatorie siano esperite anche in caso di prosecuzione dell'esercizio dell'impresa, comporta un aiuto in favore delle imprese in amministrazione straordinaria che perseguono un programma di risanamento e che, perciò, continuano a restare sul mercato, rispetto a tutte le altre imprese presenti nello stesso mercato. Ciò che è decisivo, nel caso di specie, è che l'amministrazione straordinaria della Parmalat s.p.a. prevede un piano di risanamento ai sensi dell'art. 27, comma 2, lettera b), del d.lgs. n. 270 del 1999, ossia la ristrutturazione economica e finanziaria e la prosecuzione dell'attività dello stesso complesso imprenditoriale insolvente, il che non è compatibile con le finalità recuperatorie delle azioni revocatorie. 2.2.2.2.- Tale incompatibilità non viene meno laddove l'impresa insolvente passi di mano, come accade nella specie, in favore di una società partecipata dai creditori in quanto: a) la disciplina delle azioni revocatorie deve essere riferita al debitore e all'eventuale prosecuzione dell'attività del debitore (cioè dell'impresa nel suo complesso), e non agli azionisti del debitore; b) non esiste alcuna norma che possa dar fondamento alla tesi contraria; c) data la ratio dell'azione revocatoria fallimentare, la quale trova giustificazione nell'accettazione, da parte del creditore, del rischio connesso al ricevimento di un pagamento da un'impresa della quale egli conosce lo stato di insolvenza e, quindi, l'imminente cessazione dell'attività, laddove l'attività dell'impresa continua in modo duraturo, non v'è legittimo spazio per le revocatorie. 2.2.2.3.- Infine, la deducente osserva che non ha fondamento l'affermazione avversaria, secondo la quale, poiché i creditori diverranno, all'esito del programma di ristrutturazione, gli azionisti della nuova Parmalat s.p.a., le revocatorie si tradurrebbero in un vantaggio per gli stessi, posto che «le società [...] hanno un'autonomia patrimoniale [...] rispetto ai propri azionisti»; ragion per cui le revocatorie de quibus «andranno a vantaggio di Parmalat s.p.a., e cioè dello stesso complesso imprenditoriale Parmalat dichiarato insolvente e ammesso alla procedura e non dei suoi futuri azionisti, attuali creditori di Parmalat». 2.2.3.- Bipop Carire s.p.a. sostiene, in via preliminare, che nella vicenda della genesi della normativa di cui al decreto-legge n. 347 del 2003, e successive modificazioni, è ravvisabile una fattispecie di «eccesso di potere legislativo», sotto il profilo dello «sviamento (del vizio del fine o della causa)», poiché, in sostanza, le disposizioni, "correttive e integrative" del testo originario, via via emanate, sono state ispirate «al fine esclusivo di legittimazione dei contenuti di un atto amministrativo specifico (il programma di ristrutturazione predisposto dal commissario del gruppo Parmalat) onde consentirne l'approvazione in sede propria». In altri termini, «la normativa considerata, al di là del suo apparente

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contenuto dispositivo, è stata adottata soltanto ex postfacto al fine di sovvenire alle esigenze via via manifestate dall'amministrazione straordinaria di Parmalat, ed è, pertanto, da ritenersi incostituzionale per il fatto di aver perseguito un fine diverso da quello desumibile dal suo contenuto dispositivo». In proposito, cita le sentenze della Corte costituzionale n. 146 del 1996 e n. 195 del 1982 . 2.2.3.1.- Nel merito della questione, come proposta dal giudice rimettente, la deducente ne afferma la fondatezza, argomentando che l'art. 6 del decreto-legge n. 347 del 2003 è costituzionalmente illegittimo sotto diversi profili. 2.2.3.2.- Innanzitutto esso «contrasta con il principio di eguaglianza in senso "tradizionale" come disparità di trattamento di situazioni eguali», poiché i creditori dell'impresa sottoposta alla procedura di cui al citato decreto-legge sono trattati differentemente rispetto ai creditori delle imprese sottoposte alla procedura di cui al d.lgs. n. 270 del 1999; corrispondentemente, anche le imprese sottoposte all'una o all'altra procedura godono di trattamenti differenziati. In entrambi i casi questa disparità di trattamento non è giustificata da un ulteriore interesse costituzionale. 2.2.3.3.- In secondo luogo, la norma denunciata contrasta con il principio di eguaglianza inteso nel senso della ragionevolezza: l'azione revocatoria fallimentare, la cui ratio consiste nella tutela della par condicio creditorum, è, infatti, conciliabile con la finalità di liquidazione dell'impresa, perseguibile con l'amministrazione straordinaria disciplinata dal d.lgs. n. 270 del 1999, non anche con la finalità di risanamento dell'impresa, cui è, invece, indirizzata la procedura introdotta dal decreto-legge n. 347 del 2003. 2.2.3.4.- La deducente - rilevati ulteriori profili di incostituzionalità, non sollevati dal giudice a quo - osserva che la norma in questione contrasta con l'art. 41 Cost., poiché, attraverso l'esercizio delle azioni revocatorie, procura «una forma di finanziamento forzoso a favore dell'impresa insolvente» e consente ad essa di restare sul mercato, così producendo «effetti distorsivi della concorrenza e del mercato», senza che ricorrano «interessi pubblici costituzionalmente protetti che in astratto potrebbero giustificare, secondo principi di proporzionalità, deroghe al principio costituzionale di tutela della concorrenza». 2.2.4.- Commerzbank AG deduce, in primis, la violazione del principio di uguaglianza: il decreto-legge n. 347 del 2003 (come successivamente modificato) rimette all'impresa insolvente, che abbia i requisiti da esso previsti, di scegliere fra la procedura di amministrazione straordinaria disciplinata dallo stesso decreto e quella disciplinata dal d.lgs. n. 270 del 1999, perseguendo nell'uno come nell'altro caso un programma di ristrutturazione economica e finanziaria di cui all'art. 27, comma 2, lettera b), del d.lgs. n. 270 del 1999, ma i terzi, che, nel cosiddetto "periodo sospetto", hanno posto in essere negozi giuridici con l'impresa insolvente o hanno da questa ricevuto pagamenti, nel primo caso, in forza della norma denunciata, sono esposti all'azione revocatoria fallimentare, nel secondo caso, invece, ne sono esenti. Siffatta disparità di trattamento è ingiustificata e irragionevole, posto che entrambe le procedure sono volte a consentire un risanamento aziendale in costanza di una situazione di insolvenza dell'impresa e la previsione dell'esperibilità dell'azione revocatoria all'interno di un procedura di risanamento si pone in contrasto con la funzione e la struttura stessa dell'azione, fondata sul presupposto della lesione del principio di parità di trattamento dei creditori. 2.2.4.1.- La deducente denuncia, inoltre, la violazione dell'art. 41 Cost.: posto che l'amministrazione straordinaria di cui al decreto-legge n. 347 del 2003 è una procedura preordinata alla gestione dell'impresa insolvente in funzione del suo reinserimento nel mercato, la norma denunciata urta contro il principio della libertà di iniziativa economica, giacché essa consente «ad un'impresa operante sul mercato di avvantaggiarsi sul piano patrimoniale, avvalendosi dell'istituto della revocatoria, del quale non si possono avvalere gli altri operatori economici»; di talché «il vittorioso esito delle revocatorie fallimentari non rappresenta altro che una forma di finanziamento forzoso a favore dell'impresa insolvente, diventando uno strumento per sostenere l'impresa, falsando la concorrenza». 2.2.5.- Unicredit Banca d'Impresa s.p.a. e Unicredito Italiano s.p.a. deducono che l'art. 6 del decreto-legge n. 347 del 2003, e successive modificazioni, si pone in contrasto con il principio di uguaglianza di cui all'art. 3 Cost. e con il principio della libera concorrenza e della libertà di iniziativa economica di cui all'art. 41 Cost. 2.2.5.1.- Sotto il primo profilo, infatti, la norma impugnata, prevedendo la possibilità di esperire le azioni revocatorie fallimentari nell'ambito della procedura di amministrazione straordinaria disciplinata dal citato decreto-legge «anche nel caso di autorizzazione all'esecuzione di un programma di ristrutturazione», introduce una irragionevole discriminazione nei confronti delle imprese assoggettate alla procedura di amministrazione straordinaria disciplinata dal d.lgs. n. 270 del 1999, per le quali il rimedio revocatorio è esperibile soltanto ove sia perseguito un programma di cessione e non anche quando sia autorizzato un programma di ristrutturazione. E l'incostituzionalità della norma non può essere lenita dal fatto che il programma di ristrutturazione si attui mediante un concordato che preveda la cessione delle azioni revocatorie ad un assuntore, atteso che «il concordato e il patto di assunzione costituiscono solo una delle modalità di attuazione del piano di ristrutturazione, così da non legittimare un giudizio di costituzionalità generale relativamente all'art. 6»; peraltro, «concordato e patto di assunzione si innestano, comunque, nell'ambito di una procedura di natura risanatoria che persegue, in via diretta, l'obiettivo del rilancio dell'attività industriale dell'impresa e considera il soddisfacimento delle pretese dei creditori come obiettivo subordinato». 2.2.5.2.- Sotto il secondo profilo, la norma impugnata, consentendo di esercitare le azioni revocatorie fallimentari, attribuisce alle imprese sottoposte alla procedura in questione un ingiustificato privilegio rispetto alle altre imprese e

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determina, così, un effetto distorsivo della concorrenza, in quanto permette ad imprese insolventi di restare sul mercato, usufruendo di una sorta di "finanziamento forzoso" a carico di terzi. 2.2.6.- Credito siciliano s.p.a. svolge argomentazioni analoghe a quelle di Bipop Carire s.p.a. 2.2.6.1.- Aggiunge che l'azione revocatoria di cui all'art. 6 del decreto-legge n. 347 del 2003 «nulla ha da vedere con il pagamento dei creditori», i quali vengono soddisfatti, ai sensi dell'art. 4-bis del medesimo decreto-legge, mediante l'assegnazione di azioni della società assuntrice del concordato (la "nuova" Parmalat s.p.a.), società alla quale sono trasferite, insieme con le attività del debitore insolvente, le azioni revocatorie già proposte dal commissario straordinario. Nella logica del citato decreto-legge «l'azione revocatoria non serve, dunque, a ricostituire la garanzia patrimoniale dell'articolo 2740 cod. civ.», essendo, invece, rivolta ad accrescere il patrimonio di un soggetto - la società assuntrice - diverso dal debitore insolvente. «Ma tale scopo è del tutto incompatibile con la natura e le caratteristiche della revocatoria fallimentare» e, perciò, non può giustificare il sacrificio dell'interesse dei terzi alla stabilità dei rapporti giuridici. 2.2.6.2.- La deducente osserva, ancora, che, ai sensi del precitato art. 4-bis, comma 1, lettera c-bis), anche i convenuti eventualmente soccombenti in revocatoria potranno vedere soddisfatti i loro crediti secondo le modalità della "falcidia" concordataria, ossia con attribuzione di azioni della società assuntrice, nonostante, a differenza degli altri creditori, non abbiano avuto modo di esprimere il loro consenso. 2.2.7.- Si sono, altresì, costituite nel giudizio di costituzionalità Parmalat s.p.a., in persona del suo presidente e legale rappresentante, e Parmalat s.p.a. in amministrazione straordinaria, in persona del commissario straordinario, le quali - premesso che la Parmalat s.p.a. è stata sottoposta alla procedura di amministrazione straordinaria in data 24 dicembre 2003; che il commissario straordinario ha adottato un programma di ristrutturazione che prevede la soddisfazione dei creditori mediante un concordato; che tale concordato è stato approvato dai creditori e omologato dal Tribunale ordinario di Parma in data 1° ottobre 2005; che, in forza del medesimo concordato, le azioni revocatorie promosse dal commissario straordinario sono state trasferite all'assuntore - chiedono che la questione di legittimità costituzionale sia dichiarata inammissibile per irrilevanza o, comunque, infondata. 2.2.8.- E' intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, per chiedere, sulla base di considerazioni identiche a quelle riferite in precedenza sub 1.2, che la questione sia dichiarata inammissibile o, in subordine, infondata. 2.2.9.- Sono, altresì, intervenute Sanpaolo-IMI s.p.a. e UBS Limited, società non convenute nel giudizio a quo, ma in altri analoghi giudizi pendenti dinanzi al Tribunale ordinario di Parma, promossi anch'essi dal commissario straordinario di Parmalat s.p.a. in amministrazione straordinaria, nei quali sono state sollevate identiche questioni di legittimità costituzionale dell'art. 6 del decreto-legge n. 347 del 2003. Entrambe le intervenienti chiedono che sia dichiarata l'incostituzionalità della norma denunciata, osservando, in ordine all'ammissibilità dell'intervento, di essere portatrici di un interesse diretto e attuale alla relativa pronuncia, poiché da questa dipende, in via pregiudiziale, anche la decisione delle cause (così come di altre analoghe) delle quali esse sono parti, e che di tali cause è stata disposta la sospensione, non già solo in attesa della decisione della Corte, bensì a seguito del promovimento di identica questione di costituzionalità. 3.- In prossimità dell'udienza pubblica hanno depositato memorie, nel giudizio di cui all'ordinanza n. 1 r.o. del 2006, il Presidente del Consiglio dei ministri, Parmalat s.p.a. in amministrazione straordinaria, Parmalat s.p.a. e HSBC. 3.1.- La difesa erariale sottolinea che il concordato disciplinato dal decreto-legge n. 347 del 2003 realizza lo "spossessamento" definitivo dell'imprenditore insolvente, determinando la falcidia dei crediti, e che tanto rende ragione dell'ammissibilità dell'azione revocatoria. A suo avviso, l'ordinanza di rimessione è viziata da due errori: il primo consiste nel ritenere che il programma di ristrutturazione menzionato dalla norma impugnata debba essere soltanto quello previsto dall'art. 27, comma 2, lettera b), del d.lgs. n. 270 del 1999; il secondo risiede nel ritenere che il concordato sia una mera modalità di attuazione del piano di ristrutturazione. Infatti, il Tribunale non si è avveduto della circostanza che, nell'impossibilità di realizzare il risanamento soggettivo dell'impresa ed il ritorno in bonis dell'imprenditore, è stato necessario procedere allo "spossessamento" dell'imprenditore sottoposto alla procedura concorsuale e soddisfare non integralmente i creditori. Per questa considerazione, la questione è irrilevante nella parte in cui è impugnato l'art. 6, comma 1, del decreto-legge n. 347 del 2003 e non il comma 1-bis, che è, invece, la disposizione applicabile nella specie. Inoltre, è errata la comparazione con la fattispecie disciplinata dall'art. 27, comma 2, lettera b), del d.lgs. n. 270 del 1999, perché in quest'ultima la circostanza che l'imprenditore insolvente continua l'attività e non è spossessato dei beni giustifica l'inammissibilità dell'azione revocatoria fallimentare. Relativamente al parametro dell'art. 41 Cost., una volta ritenuta la legittimità della norma che rende ammissibile l'azione revocatoria fallimentare, l'infondatezza della questione di legittimità costituzionale è evidente. 3.2.- Parmalat s.p.a. e Parmalat s.p.a. in amministrazione straordinaria hanno depositato due distinte memorie, di contenuto sostanzialmente coincidente, allegando la proposta di concordato e la sentenza di omologazione del concordato stesso.

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3.2.1.- La Parmalat s.p.a. deduce che, in quanto assuntore del concordato e cessionaria delle azioni revocatorie, è titolare di un interesse qualificato che legittima l'intervento spiegato nel giudizio di costituzionalità. 3.2.2.- Entrambe le società premettono che il programma di ristrutturazione, il quale prevede che la possibilità di soddisfare i creditori avvenga mediante un concordato con attribuzione all'assuntore delle attività delle imprese interessate dalla proposta, è stato approvato il 23 luglio 2004 e l'azione oggetto del giudizio principale è stata proposta con citazione notificata il 5 ed il 31 gennaio 2005. In base al programma di ristrutturazione il commissario straordinario ha costituito una società propostasi quale assuntore del concordato; le azioni di questa sono state integralmente attribuite ai creditori e, inoltre, quale patto di concordato, è stato previsto: il conferimento da parte dei creditori chirografari di un mandato alla Fondazione costituita dal commissario a sottoscrivere l'aumento di capitale dell'assuntore, compensando i crediti di quelli, ridotti dalla falcidia concordataria, con il debito derivante dalla sottoscrizione delle azioni; la cessione all'assuntore delle attività delle società interessate dalla proposta di concordato, nonché delle azioni revocatorie e delle azioni di responsabilità promosse dal commissario straordinario. Le società reiterano le argomentazioni già svolte negli atti di costituzione e di intervento a conforto del difetto di rilevanza della questione nella parte in cui censura l'intero art. 6 del decreto-legge n. 347 del 2003, senza considerare che, nella specie, la norma applicabile è soltanto quella del comma 1-bis di detto articolo. Inoltre, ribadiscono gli argomenti esposti per censurare il provvedimento di rimessione, in quanto in esso si è omesso di verificare la possibilità di offrire un'interpretazione della norma impugnata conforme a Costituzione, sottolineando che, in riferimento al principio di ragionevolezza, il rimettente neppure ha considerato che detta disposizione realizza in modo equilibrato la tutela dei creditori e l'interesse alla continuità dell'attività dell'impresa. Infatti, l'esercizio dell'azione revocatoria e il suo trasferimento all'assuntore del concordato sono stati correttamente previsti all'interno di un programma di risanamento oggettivo, coerente con l'azione revocatoria, da reputarsi inammissibile solo nel caso di risanamento soggettivo. Peraltro, la norma impugnata è parte di un atto normativo che mira a conservare il valore dell'impresa, principio al quale si è ispirata anche la recente riforma della legge fallimentare, che ha previsto meccanismi idonei ad assicurare il risanamento oggettivo anche riproducendo, in alcune parti, la disciplina introdotta dal decreto-legge n. 347 del 2003 (in particolare, sono richiamate le norme in tema di vendita ed affitto dell'azienda, nonché la nuova disciplina del concordato fallimentare). 3.2.3.- Secondo le società, l'ordinanza di rimessione, nel comparare le discipline recate dal decreto-legge n. 347 del 2003 e dal d.lgs. n. 270 del 1999, fa riferimento all'art. 27, comma 2, lettera b), di quest'ultimo, senza avvedersi che detta norma ha ad oggetto un programma di ristrutturazione strumentale rispetto allo scopo di permettere il ritorno in bonis dell'imprenditore insolvente, mentre l'art. 4-bis del decreto-legge n. 347 del 2003 ha ad oggetto un programma di risanamento relativo all'impresa, e non già all'imprenditore: sicché il riferimento alla proponibilità dell'azione revocatoria soltanto qualora comporti un vantaggio per i creditori vuol dire, appunto, che tale azione non può mai tradursi in un vantaggio per l'imprenditore. Tanto accade nel caso in esame, e di ciò l'ordinanza di rimessione non si è avveduta, in quanto non ha correttamente distinto tra imprenditore ed impresa e tra risanamento concernente il primo o la seconda. 3.2.4.- Questa confusione tra i due concetti permette di evidenziare l'infondatezza della censura riferita all'art. 41 Cost., dato che nel caso del concordato resta sul mercato un nuovo imprenditore, il quale ha pagato un prezzo per l'acquisto dell'azienda, riferito anche alle azioni revocatorie. Nella specie, la società assuntrice è Parmalat s.p.a. che non è la società dei signori Tanzi, ma è una società partecipata esclusivamente dai suoi creditori. Peraltro, anche nell'ordinamento francese è previsto il redressement judiciaire, nel quale è ammissibile l'azione revocatoria nel caso di prosecuzione dell'attività finalizzata alla cessione dell'attività d'impresa ad un nuovo imprenditore. Analogamente, nell'ordinamento tedesco è previsto l'Insolvenzplan, nel quale è stabilita la compatibilità dell'azione revocatoria con la prosecuzione dell'attività di impresa. 3.2.5.- In riferimento alle argomentazioni svolte da HSBC, le società deducono che l'azione revocatoria è stata proposta dopo l'autorizzazione del programma di ristrutturazione e tanto è sufficiente a renderla ammissibile, in quanto ciò che rileva è appunto detta autorizzazione, non l'esecuzione del programma, atteso che è la prima a far imboccare alla procedura una strada obbligata, che può condurre soltanto alla approvazione del concordato, ovvero ad un programma di cessione, oppure al fallimento. Inoltre, a loro avviso, la comparazione con l'art. 124 della legge fallimentare è pertinente, in quanto anche il concordato previsto dal decreto-legge n. 347 del 2003 ha finalità liquidatoria e mira al soddisfacimento dei creditori, sia pure mediante compensazione con il debito di sottoscrizione dell'aumento di capitale dell'assuntore. Infine, le argomentazioni sopra svolte dimostrano l'inesattezza della tesi svolta dalla HSBC, al fine di sostenere che la norma impugnata viola l'art. 41 Cost. 3.3.- HSBC ha depositato memoria nella quale sostiene che Parmalat s.p.a., nonostante la crisi e la riduzione del fatturato, è ancora titolare di rilevanti quote di mercato in riferimento ad alcuni prodotti per i quali, secondo un provvedimento dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato, ha una posizione dominante (provvedimento 30 giugno 2005, n. 14452). L'esperimento delle azioni revocatorie permetterà alla società di incassare somme rilevanti che, in forza dello statuto della società, le consentiranno di rafforzare struttura e competitività.

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3.3.1.- HSBC deduce che la questione è rilevante, sia in quanto il rimettente ha espressamente e plausibilmente motivato sul punto e tanto basta al fine del controllo "esterno" che, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, va effettuato nel giudizio di costituzionalità, sia in quanto la norma applicabile è proprio l'art. 6 del decreto-legge n. 347 del 2003 e non il solo comma 1-bis di detto articolo. Infatti, alla data di proposizione dell'azione, «il concordato non esisteva ancora» ed inoltre il combinato disposto dell'art. 6, comma 1-bis, citato, e dell'art. 4-bis, comma 1, lettera c-bis), dello stesso decreto-legge rende chiaro che la possibilità di trasferimento all'assuntore delle azioni revocatorie implica che dette azioni siano state promosse in base al medesimo art. 6. 3.3.2.- La banca, sintetizzata la giurisprudenza costituzionale in tema di principio di eguaglianza, afferma che essa conforta la denunciata violazione di detto principio sia in riferimento ai principi generali che governano la materia concorsuale, sia in riferimento al tertium comparationis, correttamente individuato nella disciplina dell'amministrazione straordinaria recata dal d.lgs. n. 270 del 1999. A suo avviso, l'azione revocatoria è ammissibile soltanto qualora il relativo provento entri nella disponibilità dei creditori mediante la liquidazione concorsuale dell'attivo dell'impresa insolvente e sia ridistribuito ai creditori secondo le regole della legge fallimentare, mentre non può ritenersi esperibile quando il ricavato sia destinato all'impresa, che continua ad operare sul mercato in vista del proprio risanamento, in virtù di un principio enunciato dalla Corte di cassazione che ha ispirato la formulazione dell'art. 49 del d.lgs. n. 270 del 1999, secondo il quale nell'ambito della procedura di amministrazione straordinaria detta azione è esperibile soltanto in relazione alla fase liquidatoria. Ne discende che il rimettente avrebbe correttamente individuato il tertium comparationis nell'amministrazione straordinaria disciplinata dal d.lgs. n. 270 del 1999, richiamata dalle norme del decreto-legge n. 347 del 2003 ed indicata anche nei relativi lavori preparatori quale disciplina generale di riferimento, senza che la modalità della ristrutturazione realizzata nel caso in esame - mediante concordato - permetta di ritenere che il tertium evocabile sia l'art. 124 della legge fallimentare. Infatti, il concordato concluso all'interno dell'amministrazione straordinaria "accelerata" non muta il carattere conservativo della procedura, nella quale non sussiste un rapporto di funzionalità fra trasferimento delle azioni revocatorie ed incremento della percentuale di recupero del credito, mentre nel concordato fallimentare l'azione è strumentale a consentire il soddisfacimento dei creditori. In altri termini, il concordato previsto dall'art. 4-bis del decreto-legge n. 347 del 2003 non è preordinato al soddisfacimento dei creditori mediante il riparto delle somme ricavate dalla liquidazione dell'attivo e costituisce un elemento accidentale della legge. D'altronde, se la comparazione dovesse essere effettuata sulla base della disciplina del concordato, essa dovrebbe avere riguardo al concordato disciplinato dagli artt. 78 e 74, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 270 del 1999, all'interno del quale, ad avviso della banca, non sarebbe proponibile l'azione revocatoria e la sua cessione all'assuntore, appunto perché il concordato in questo caso si inserisce in un piano di ristrutturazione. 3.3.3.- Secondo la banca, sarebbe erroneo distinguere tra risanamento soggettivo e risanamento oggettivo, in quanto la distinzione rilevante è quella tra conservazione dell'impresa e liquidazione dei beni aziendali allo scopo di pagare i creditori, e con il concordato in esame non è attuata una siffatta liquidazione, ma si realizza il risanamento e la rimessione in bonis dell'imprenditore. Nella specie, che ciò sia accaduto è confermato dai risultati raggiunti dall'assuntore e dalle argomentazioni svolte in un'altra ordinanza dello stesso Tribunale, che ha sollevato una questione di costituzionalità identica a quella in esame. In conclusione, la norma impugnata e l'art. 49 del d.lgs. n. 270 del 1999 disciplinano fattispecie omogenee in modo difforme, realizzando una disparità di trattamento in danno dei creditori ed in contrasto con le linee generali della revocatoria fallimentare, stante l'incompatibilità funzionale tra detta azione ed il programma di ristrutturazione. 3.3.4.- Relativamente al parametro dell'art. 41 Cost., la banca sottolinea che l'effetto distorsivo della concorrenza è correlato alla continuazione dell'attività di impresa ed alla possibilità della stessa di rimanere sul mercato soltanto grazie ai proventi dell'azione revocatoria, come risulta da una relazione economica allegata alla memoria. 4.- In prossimità dell'udienza pubblica hanno depositato memorie - nel giudizio di cui all'ordinanza n. 53 r.o. del 2006 - Parmalat s.p.a. in amministrazione straordinaria e Parmalat s.p.a., Bipop Carire s.p.a., Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. e Banca Toscana s.p.a., Credito siciliano s.p.a., Cassa di risparmio di Savona s.p.a. e il Presidente del Consiglio dei ministri. 4.1.- Parmalat s.p.a. in amministrazione straordinaria e Parmalat s.p.a. svolgono deduzioni in tutto identiche a quelle svolte nel giudizio di cui all'ordinanza n. 1 r.o. del 2006. 4.2.- Bipop Carire s.p.a. mette in evidenza che la norma impugnata, nel prevedere la possibilità dell'esercizio di azioni revocatorie nell'ambito di una procedura di risanamento, si pone «in stridente contraddizione» con la normativa del d.lgs. n. 270 del 1999, la quale vieta tali azioni «quando una parallela procedura di amministrazione straordinaria, in condizioni sostanzialmente identiche, sia autorizzata a svolgere un programma di ristrutturazione». 4.2.1.- La deducente contesta la fondatezza della distinzione fra risanamento "oggettivo" (ovvero "dell'impresa") e risanamento "soggettivo" (ovvero "dell'imprenditore"). Osserva, in primo luogo, che non è «neppure configurabile un siffatto netto sdoppiamento di ipotesi, che, al contrario, si

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configurano necessariamente in una irrilevante pluralità di situazioni che si differenziano tra loro soltanto mediante ipotetiche successive marginali graduali sfumature, che peraltro non sono idonee a delineare alcun tipo di reali contrapposizioni binarie, che viceversa possono agevolmente collocarsi secondo una scala in cui non sono mai individuabili nette situazioni antitetiche». Osserva, in secondo luogo, che la relazione che accompagna il decreto-legge n. 347 del 2003 metteva ab initio chiaramente in luce che lo scopo del provvedimento legislativo «era solo quello di consentire un più rapido avvio e svolgimento della procedura, onde garantire "la efficace e razionale ristrutturazione dell'impresa", così da "conservare l'avviamento e la posizione di mercato dell'impresa" ed assicurando la ristrutturazione di attività "coerenti con l'oggetto principale dell'attività economica svolta"». Osserva, in terzo luogo, che l'esperibilità delle azioni revocatorie era stata prevista e voluta fin dal momento dell'emanazione del decreto-legge n. 347 nel dicembre del 2003, quando nel testo del provvedimento legislativo ancora non era stato inserito l'art. 4-bis (ai sensi del quale «nel programma di ristrutturazione il commissario straordinario può prevedere la soddisfazione dei creditori attraverso un concordato, di cui deve indicare dettagliatamente le condizioni e le eventuali garanzie»). 4.2.2.- La deducente contesta, poi, la fondatezza dell'assunto, secondo cui la «ristrutturazione» prevista dal d.lgs. n. 270 del 1999 e quella prevista dal decreto-legge n. 347 del 2003 non sarebbero fattispecie identiche, rilevando che esso «si scontra con l'inequivoco tenore letterale delle disposizioni poste a raffronto, che non consentono di distinguere fra un risanamento "ex legge Prodi-bis" ed un risanamento "ex legge Parmalat"», come è reso evidente, in particolare, dall'art. 1, comma 1, del decreto-legge n. 347 del 2003, a tenore del quale «le disposizioni del presente decreto si applicano alle imprese soggette alle disposizioni sul fallimento in stato di insolvenza che intendono avvalersi della procedura di ristrutturazione economica e finanziaria di cui all'articolo 27, comma 2, lettera b), del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270». Tale norma dimostra che è proprio la stessa "legge Parmalat" «ad avere fin dalla sua prima formulazione qualificato ed assimilato la procedura di ristrutturazione da essa stessa disposta come null'altro che una species di quella procedura» di cui al d.lgs. n. 270 del 1999. Nemmeno è sostenibile, a suo avviso, che vi sarebbe diversità fra le due procedure, allorché il «programma di ristrutturazione» ex decreto-legge n. 347 del 2003 sia realizzato mediante il concordato previsto dall'art. 4-bis dello stesso decreto-legge. Rileva nuovamente, a tale proposito, che la facoltà di esperire le azioni revocatorie era stata prevista già nel testo originario del decreto-legge n. 347 del 2003, ancor prima, quindi, che venisse aggiunta, ben più tardi, la previsione di una proposta di concordato. Si può, dunque, a suo avviso, affermare che «la distinzione fra risanamento oggettivo e soggettivo (a seconda della presenza o meno del concordato) rappresenta null'altro che una escogitazione a posteriori». Osserva, inoltre, che il concordato con assuntore non è affatto una innovativa peculiarità della "legge Parmalat", ma era già espressamente previsto dagli artt. 74, comma 1, lettera c), e 78 del d.lgs. n. 270 del 1999, sicché la presenza di un concordato «rappresenta un elemento del tutto neutro al fine della qualificazione dell'indirizzo della procedura di amministrazione straordinaria». Sostiene, poi, che non è ammissibile alcuna analogia rispetto al concordato previsto in sede fallimentare dall'art. 124, secondo comma, della legge fallimentare: in detta sede l'esperibilità delle azioni revocatorie «non dipende certo dalla previsione di un concordato, ma dal fatto che il fallimento è, tipicamente, una procedura liquidatoria». 4.2.3.- La deducente, infine, confuta la tesi, secondo cui la ratio del divieto delle revocatorie di cui all'art. 49 del d.lgs. n. 270 del 1999 starebbe nel fatto che con la procedura prevista da tale decreto legislativo l'imprenditore insolvente resterebbe a capo dell'impresa, di talché gli effetti vantaggiosi delle revocatorie sarebbero sempre a suo favore. Essa sostiene che non è vero che la ristrutturazione di cui alla "legge Prodi-bis" consenta all'imprenditore insolvente di restare nella titolarità e nella gestione dell'azienda, poiché simile affermazione non solo non risponde alla realtà, ma è smentita dalla circostanza che anche nell'ambito della ristrutturazione di cui al d.lgs. n. 270 del 1999 è perfettamente ammissibile un concordato per assunzione, «che appunto fisiologicamente comporta lo "spossessamento" del "vecchio" imprenditore insolvente». Osserva, poi, che la ratio del divieto delle revocatorie nelle procedure di ristrutturazione consiste «nell'evitare che la stessa impresa, che resta in vita nella sua oggettiva consistenza e funzionalità, indipendentemente da qualche modifica dei singoli soci, tale e quale a prima, prosegua la propria attività godendo di un vantaggio che è precluso a tutte le sue concorrenti». Da questo punto di vista, appare, a suo avviso, inconferente l'analogia con la cessione all'assuntore dell'azienda nell'ambito del concordato fallimentare: «in questo caso, infatti, la revocatoria è consentita non certo perché l'assuntore si sostituisce al "vecchio" imprenditore insolvente, bensì perché, ovviamente, siamo nell'ambito di una procedura tipicamente liquidatoria (il concordato fallimentare) che persegue l'obiettivo del pagamento dei creditori in concorso, essendo ad essa estranea qualsiasi finalità di risanamento dell'impresa».

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La ristrutturazione della Parmalat «non ha nulla da spartire col concordato fallimentare con assunzione», posto che in essa, «a differenza che nel concordato fallimentare, manca qualsiasi ripartizione dell'attivo a favore dei creditori». Il concordato della procedura in questione «non prevede, infatti, alcun pagamento da eseguirsi da parte dell'assuntore», ma una sorta di datio in solutum, attribuendosi ai creditori azioni ordinarie dell'assuntore, ossia della "nuova" Parmalat s.p.a., la quale, «in realtà, dal punto di vista oggettivo, è identica alla "vecchia"». 4.3.- Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. e Banca Toscana s.p.a. contestano anch'esse la fondatezza della distinzione fra risanamento "oggettivo" (ossia "dell'impresa") e risanamento "soggettivo" (ossia a beneficio dell'imprenditore insolvente), essendo chiaro che l'art. 6 del decreto-legge n. 347 del 2003 prevede l'esperibilità delle azioni revocatorie in ogni caso. 4.3.1.- Tale disposizione è costituzionalmente illegittima, innanzitutto, perché determina «una ingiustificata disparità di trattamento fra fattispecie analoghe»: da un lato, essa «crea un ingiustificato privilegio per l'impresa che si trova in amministrazione straordinaria» ai sensi del medesimo decreto-legge, con finalità di risanamento (l'unica finalità che legittima l'accesso alla procedura), rispetto alle imprese sottoposte all'amministrazione straordinaria disciplinata dal d.lgs. n. 270 del 1999; dall'altro lato, «produce un ingiustificato trattamento deteriore per i terzi che abbiano avuto rapporti contrattuali» con la prima impresa rispetto a coloro che hanno avuto rapporti con le seconde. L'art. 49 del d.lgs. n. 270 del 1999, infatti, consente l'esercizio delle azioni revocatorie «soltanto se è stata autorizzata l'esecuzione di un programma di cessione dei complessi aziendali» e, dunque, solo ove l'amministrazione straordinaria abbia finalità liquidatoria, e non conservativa. Tale differenza di trattamento è irragionevole, atteso che la circostanza che in amministrazione straordinaria si trovino "grandi" imprese (con almeno duecento dipendenti) ovvero "grandissime" imprese (con almeno cinquecento dipendenti) «è del tutto ininfluente circa la funzione demandata all'azione revocatoria, che mai può essere diretta a facilitare - attraverso la deroga alle regole generali - un sostanziale arricchimento dell'impresa che ne beneficia». 4.3.2.- Né la differenza di disciplina può essere giustificata dal requisito del «vantaggio per i creditori» previsto dalla norma impugnata: infatti, la disparità di trattamento non viene meno se i proventi delle azioni revocatorie vanno a beneficio dei creditori, «perché anche in tal caso è violato il principio fondamentale per il quale l'imprenditore deve far fronte alle proprie obbligazioni con i proventi dell'attività di impresa». Peraltro, la locuzione «vantaggio per i creditori» è «priva di autonoma portata normativa», essendo insita nella natura dell'azione revocatoria «la sua strumentalità al vantaggio dei creditori». 4.3.3.- La norma impugnata viola, altresì, il principio di libertà della concorrenza di cui all'art. 41 Cost., atteso che gli altri soggetti economici, che operano in concorrenza con l'impresa sottoposta ad amministrazione straordinaria ex decreto-legge n. 347 del 2003, «non avendo a disposizione il rimedio dell'azione revocatoria per reintegrare il proprio patrimonio, si trovano ingiustificatamente in posizione di inferiorità sul mercato, e di conseguenza non possono svolgere la propria attività in condizioni di parità». Anche sotto questo profilo, il requisito del «vantaggio per i creditori» è irrilevante, poiché sono i creditori dell'impresa insolvente e non le imprese concorrenti che debbono «subire il pregiudizio derivante dall'insolvenza», avendo essi «fatto credito ad un'impresa che non lo meritava». 4.3.4.- Le deducenti prospettano, in alternativa alla dichiarazione di illegittimità costituzionale, una interpretazione costituzionalmente orientata della norma impugnata. Il requisito del «vantaggio per i creditori» può rendere ammissibili le revocatorie solo se interpretato nel senso che «il commissario di un'impresa in ristrutturazione deve distribuire ai creditori, senza trattenerlo a beneficio dell'impresa, tutto quanto incassi dalle azioni revocatorie; oppure, se l'impresa conclude un concordato, è necessario che i proventi delle azioni revocatorie, attraverso l'assuntore che le prosegue, siano integralmente destinati ai creditori, in via immediata e diretta, e quindi in denaro». Inoltre, è necessario che «il riparto di tutti i proventi di ciascuna singola azione revocatoria avvenga a favore dei soli creditori della specifica società che ha compiuto l'atto revocabile». 4.3.5.- Le deducenti osservano, poi, che, nello specifico caso del concordato della Parmalat, in cui si è prevista la cessione delle azioni revocatorie ad una società assuntrice e il soddisfacimento dei creditori mediante attribuzione di titoli azionari di detta società, le azioni revocatorie non sono state considerate nei recovery ratios (ossia nelle percentuali che i creditori avrebbero potuto recuperare dal patrimonio delle società debitrici in caso di liquidazione); e che, comunque, le revocatorie arrecheranno «un vantaggio netto all'assuntore, del quale potranno (eventualmente) trarre beneficio i relativi azionisti, ma soltanto in tale veste ed a prescindere dalla qualità o meno di creditori originariamente rivestita». 4.3.6.- Le deducenti, passando a confutare le argomentazioni dell'Avvocatura dello Stato, osservano che, avendo la parte attrice promosso l'azione revocatoria sulla base dell'art. 6 del decreto-legge n. 347 del 2003, ove tale norma venisse espunta dall'ordinamento, «la domanda diverrebbe inammissibile», donde la indubbia rilevanza della questione ai fini della decisione del giudizio a quo. La questione, inoltre, è rilevante anche con riferimento all'ipotesi di ristrutturazione senza concordato, per il fatto che la sentenza di omologazione del concordato non è ancora passata in giudicato; non è, quindi, possibile escludere che

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l'azione revocatoria, in difetto di omologazione, «sia proseguita dalla sola Parmalat s.p.a. in amministrazione straordinaria, sulla base della legittimazione ordinaria prevista dal primo comma dell'art. 6 in esame», e, dunque, nell'ambito, extraconcordatario, di «una ristrutturazione industriale che ha come traguardo finale il recupero dell'equilibrio economico delle attività imprenditoriali» (come si esprime l'Avvocatura dello Stato), ossia proprio quel contesto in cui, secondo la difesa erariale, l'azione revocatoria sarebbe costituzionalmente illegittima. Nel merito, le deducenti osservano che è infondato l'assunto, secondo cui la norma impugnata sarebbe costituzionalmente legittima limitatamente alla parte in cui ammette l'esperibilità dell'azione revocatoria fallimentare nella procedura di amministrazione straordinaria mediante ristrutturazione industriale definita con un concordato, poiché in tal caso, facendosi luogo ad una "falcidia" concorsuale, l'azione revocatoria manterrebbe le sue tipiche funzioni (recuperatoria e ridistributiva). Tale assunto non è compatibile con l'impianto del decreto-legge n. 347 del 2003, posto che l'assuntore non può autonomamente proporre le revocatorie, ma può solo proseguire quelle promosse dal commissario straordinario. Di conseguenza, si avrebbe una «struttura dell'azione revocatoria davvero anomala», in quanto «unico legittimato a proporla sarebbe un soggetto (il commissario straordinario) che a seguito del concordato non sarebbe legittimato a proseguirla; l'azione proposta dal commissario straordinario sarebbe contraria ai principi costituzionali fino a quando non fosse proseguita dall'assuntore; nonostante l'intervento dell'assuntore a seguito della sentenza di primo grado di approvazione del concordato (come nella specie), la legittimità dell'intervento, e quindi dell'azione revocatoria stessa non sussisterebbe fino al passaggio in giudicato della sentenza stessa». Una volta, poi, passata in giudicato detta sentenza, non si comprenderebbe come l'azione possa divenire ammissibile nel corso del giudizio. D'altro canto, l'asserita compatibilità fra ristrutturazione con "falcidia" dei crediti e azioni revocatorie è smentita dal fatto che anche nell'amministrazione straordinaria di cui al d.lgs. n. 270 del 1999 la ristrutturazione può essere effettuata mediante concordato (art. 56, comma 3, ultima parte, del citato decreto legislativo) e nonostante ciò l'esperibilità dell'azione revocatoria è preclusa: «segno evidente che detta esperibilità non richiede (solo) il mancato integrale pagamento dei creditori, ma presuppone anche l'eliminazione dell'impresa dal mercato», proprio ciò che, invece, il decreto-legge n. 347 del 2003 «si proponeva di evitare». 4.4.- Credito siciliano s.p.a., premesso che l'azione revocatoria - come è stato chiarito anche dalla giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 379 del 2000) - è strumentale al soddisfacimento dei creditori e non può perseguire finalità diverse, osserva che il concordato proposto dal commissario straordinario di Parmalat, sulla base dell'art. 4-bis del decreto-legge n. 347 del 2003, prevede il soddisfacimento dei creditori chirografari mediante assegnazione di azioni della società assuntrice, con il che i creditori «perdono la qualità di creditori ed assumono quella di azionisti». «In questa prospettiva, l'esito favorevole delle domande revocatorie non è più destinato a reintegrare la garanzia dell'articolo 2740 cod. civ. (i debiti delle imprese insolventi sono, infatti, estinti), ma ad attribuire valore alle azioni della società assuntrice». Le azioni revocatorie, dunque, non servono a garantire il pagamento dei creditori, ma rappresentano un diverso beneficio patrimoniale, «un "plusvalore", e, cioè, un vantaggio "ulteriore" e diverso, che nulla ha da vedere con il pagamento dei crediti», il quale «si esaurisce nell'assegnazione dei titoli azionari». I risultati utili delle azioni revocatorie entrano nel patrimonio di un soggetto diverso dal debitore insolvente, la società assuntrice, e di essi beneficiano, in via mediata, i suoi azionisti, i quali, però, «non coincidono necessariamente con i creditori chirografari». Con ciò il decreto-legge n. 347 del 2003, «discostandosi irragionevolmente dai principi che regolano la materia, piega la revocatoria fallimentare ad esigenze del tutto improprie». 4.4.1.- La deducente osserva, poi, che i convenuti soccombenti nei giudizi revocatori, ammessi al concorso per il credito conseguente alla restituzione di quanto avevano ricevuto, saranno anch'essi soddisfatti mediante assegnazione di titoli azionari della società assuntrice e saranno, dunque, costretti a diventare soci di questa, «pur non avendovi consentito», e a differenza di quanto previsto dal d.lgs. n. 270 del 1999 per i soccombenti nelle revocatorie promosse nell'ambito delle procedure da esso disciplinate. Di talché il decreto-legge n. 347 del 2003 determina «una evidente violazione della libertà di iniziativa economica (articolo 41 Cost.) e del principio di uguaglianza (articolo 3 Cost.)». 4.4.2.- La deducente osserva, infine, «come nel caso di specie sia ravvisabile un vizio di eccesso di potere legislativo sotto il profilo dello sviamento dell'attività legislativa; da un lato, infatti, la normativa, al di là del suo apparente contenuto generale, è stata adottata al fine specifico di supportare esigenze proprie dell'amministrazione straordinaria di Parmalat, perseguendo con ciò un fine diverso da quello proprio dello strumento legislativo. Dall'altro essa manifesta, in ogni caso, una altrettanto evidente contraddizione tra fini perseguiti e mezzi predisposti, che si risolve in sviamento rispetto alle attribuzioni che l'ordinamento assegna alla funzione legislativa». 4.5.- Cassa di risparmio di Savona s.p.a., nel ribadire le sue conclusioni, segnala che il Tribunale ordinario di Parma, con ordinanza del 1° marzo 2006, ha sollevato analoga questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, commi 1 e 1-ter, del decreto-legge n. 347 del 2003. 4.6.- L'Avvocatura generale dello Stato, per l'intervenuto Presidente del Consiglio dei ministri, ha anch'essa depositato memoria, di contenuto identico a quello della memoria depositata nel giudizio di cui all'ordinanza n. 1 r.o. del 2006.

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4.7.- Ha, altresì, depositato memoria Sanpaolo-IMI s.p.a., non costituita nel giudizio a quo, ma intervenuta nel giudizio di costituzionalità. 5.- In data 31 marzo 2006, Parmalat s.p.a. in amministrazione straordinaria e Parmalat s.p.a. hanno depositato una ulteriore memoria della quale, per la sua tardività, è stato disposto lo stralcio dagli atti. 1.- Il Tribunale ordinario di Parma dubita della legittimità costituzionale dell'art. 6 del decreto-legge 23 dicembre 2003, n. 347 (Misure urgenti per la ristrutturazione industriale di grandi imprese in stato di insolvenza), convertito, con modificazioni, nella legge 18 febbraio 2004, n. 39, come modificato dal decreto-legge 3 maggio 2004, n. 119 (Disposizioni correttive ed integrative della normativa sulle grandi imprese in stato di insolvenza), convertito, con modificazioni, nella legge 5 luglio 2004, n. 166, assumendone il contrasto con gli articoli 3 e 41 della Costituzione, nella parte in cui consente l'esercizio delle azioni revocatorie, previste dagli articoli 49 e 91 del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270 (Nuova disciplina dell'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, a norma dell'articolo 1 della legge 30 luglio 1998, n. 274), in costanza di un programma di ristrutturazione dell'impresa sottoposta ad amministrazione straordinaria. In proposito va precisato che né il decreto-legge 28 febbraio 2005, n. 22 (Interventi urgenti nel settore agroalimentare), né la relativa legge di conversione 29 aprile 2005, n. 71, hanno inciso, contrariamente a quanto si afferma nel dispositivo delle ordinanze di rimessione, sulla norma censurata (ma soltanto sull'art. 4-bis, comma 6, ultimo periodo, del decreto-legge n. 347 del 2003). Va, altresì, precisato che, nei giudizi a quibus, non si pone in concreto alcuna questione concernente le azioni revocatorie cosiddette "infragruppo" di cui all'art. 91 del d.lgs. n. 270 del 1999. 2.- L'identità delle argomentazioni svolte dalle ordinanze di rimessione impone la riunione dei giudizi. 3.- Preliminarmente, deve essere ribadito quanto statuito con ordinanza - della quale è stata data lettura in udienza e che viene allegata alla presente sentenza - circa l'ammissibilità dell'intervento spiegato da Parmalat s.p.a. nel giudizio di cui all'ordinanza n. 1 r.o. del 2006 e l'inammissibilità dell'intervento spiegato, nel giudizio di cui all'ordinanza n. 53 r.o. del 2006, da Sanpaolo-IMI s.p.a. e da UBS Limited. 4.- Le questioni sollevate in riferimento all'art. 3 Cost. non sono fondate. 4.1.- La violazione dell'art. 3 Cost. è ravvisata dai rimettenti nella irragionevole disparità tra il trattamento riservato all'impresa che abbia in corso un programma di ristrutturazione, da un lato, dall'art. 6 del decreto-legge n. 347 del 2003, e successive modificazioni (cosiddetta "legge Marzano"), e, dall'altro lato, dalle disposizioni di cui al d.lgs. n. 270 del 1999 (cosiddetta "legge Prodi-bis"); ciò in quanto l'una consente e le altre escludono - anche nel caso di concordato autorizzato ex art. 78 del d.lgs. n. 270 del 1999, nonostante oggetto di disciplina sia sempre la procedura di amministrazione straordinaria di grandi imprese in crisi, ed anzi il d.lgs. n. 270 del 1999 costituisca la «normativa generale di riferimento cui la "legge Marzano" fa espresso riferimento» - l'esperimento delle azioni revocatorie fallimentari, quando sia perseguita «la ristrutturazione economica e finanziaria» dell'impresa insolvente. Ricordato che l'art. 49 del d.lgs. n. 270 del 1999, prevedendo che le azioni revocatorie «possono essere proposte dal commissario straordinario soltanto se è stata autorizzata l'esecuzione di un programma di cessione dei complessi aziendali» e rilevato che «detta previsione normativa ha reso il nostro ordinamento nuovamente in linea con le finalità connaturate all'azione revocatoria fallimentare» (di ricostruzione del patrimonio del debitore ovvero di ripartizione della perdita tra tutti i creditori), le ordinanze de quibus escludono che procedure miranti alla conservazione, e non già alla liquidazione dell'impresa, siano compatibili con le funzioni - recuperatoria e ridistribuiva - dell'azione revocatoria. Irragionevolmente la norma censurata avrebbe «ribaltato la scelta consapevolmente operata con l'art. 49 della legge "Prodi-bis"», e tale irragionevolezza «risulta amplificata, ove si consideri come l'opzione a favore della "Marzano" sia sostanzialmente rimessa dal legislatore all'unilaterale iniziativa dell'impresa insolvente, la quale potrebbe essere opportunisticamente motivata dalle possibilità di eterofinanziamento insito nell'esercizio di azioni revocatorie». Del tutto pleonastico ed inconcludente sarebbe l'inciso per cui occorre che le azioni «si traducano in un vantaggio per i creditori» ed irrilevante sarebbe la circostanza che, nel caso di specie, il «risanamento» abbia ad oggetto l'impresa - ceduta, a seguito di concordato, ad un assuntore - e non già l'imprenditore: ed infatti, osservano i rimettenti, il concordato costituisce solo una delle modalità del programma di ristrutturazione (laddove l'art. 6 «assicura lo strumento revocatorio alla procedura di amministrazione straordinaria in quanto tale»), sicché «le censure di illegittimità si incentrano sulla disciplina generale della procedura [...] nell'ambito della quale l'epilogo naturale del processo di risanamento è costituito dal ritorno dell'imprenditore all'ordinaria operatività industriale, a conclusione del programma di ristrutturazione con qualunque modalità attuato, ivi compreso il concordato con assunzione che costituisce un'ipotesi del tutto eventuale e residuale di conclusione del programma di ristrutturazione dell'impresa, cui il legislatore assegna la sola valenza di determinare l'immediata chiusura della procedura rispetto alla sua fisiologica durata ed al suo naturale espletamento». 4.2.- Deve osservarsi, in primo luogo - e salvo quanto diffusamente si osserverà circa gli sviluppi e gli esiti della procedura (rectius: delle procedure) di cui alla "legge Marzano" -, che è priva di riscontro normativo la tesi secondo la

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quale «l'opzione a favore della "Marzano" sia sostanzialmente rimessa dal legislatore all'unilaterale iniziativa dell'impresa insolvente», se con ciò si intende affermare - come sembra presupporre il riferimento al fine di giovarsi di eterofinanziamenti altrimenti preclusi - che la scelta in favore della procedura speciale sia rimessa all'impresa insolvente. Se è vero, infatti, che l'impresa insolvente è legittimata a proporre l'istanza (art. 1, comma 1, del decreto-legge n. 347 del 2003), è anche vero che l'istanza stessa, «motivata e corredata di adeguata documentazione», deve essere vagliata dal Ministro, prima (ai fini dell'emissione del decreto), e dal tribunale, poi (ai fini della dichiarazione dello stato di insolvenza), e che l'intervento del tribunale deve essere sollecitato con «contestuale ricorso per la dichiarazione dello stato di insolvenza» (art. 2, comma 1, del decreto-legge n. 347 del 2003) e con immediata comunicazione del decreto del Ministro (comma 3). L'ammissione alla procedura de qua, quindi, è subordinata ad una verifica - dapprima in sede amministrativa, e quindi in sede giurisdizionale - della sussistenza dei requisiti "dimensionali" previsti dall'art. 1 del decreto-legge n. 347 del 2003; alla stessa verifica, cioè, alla quale è subordinata - ma in ordine inverso - l'ammissione alla procedura di amministrazione straordinaria disciplinata dal d.lgs. n. 270 del 1999. È del tutto evidente che tale iter - che mira ad «accelerare la definizione dei relativi procedimenti, assicurando la continuazione ordinata delle attività industriali senza dispersione dell'avviamento» (così la premessa del decreto-legge n. 347 del 2003) - non altera, rispetto alla procedura "ordinaria" di cui al d.lgs. n. 270 del 1999, le garanzie di controllo commesse dalla legge all'autorità giudiziaria ed a quella amministrativa, discendendo l'applicazione dell'una o dell'altra procedura esclusivamente dai requisiti "dimensionali" che ne costituiscono il presupposto. 4.3.- Muovendo dalla corretta premessa - avallata anche da questa Corte (sentenza n. 379 del 2000) - secondo la quale il sacrificio che l'azione revocatoria impone ai terzi «trova adeguata giustificazione nelle esigenze di tutela della par condicio» e che, pertanto, di essa non può giovarsi l'imprenditore insolvente, le ordinanze di rimessione fanno di tale premessa, attraverso un'interpretazione angustamente letterale del combinato disposto dell'art. 1, comma 1, e dell'art. 6, comma 1, del decreto-legge n. 347 del 2003, un'applicazione inaccettabile. Ed infatti, poiché la prima norma fa riferimento alle imprese «che intendono avvalersi della procedura di ristrutturazione economica e finanziaria di cui all'art. 27, comma 2, lettera b), del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270» e la seconda norma consente «le azioni revocatorie previste dagli articoli 49 e 91 del decreto legislativo n. 270 anche nel caso di autorizzazione all'esecuzione del programma di ristrutturazione», se ne deduce che l'art. 6 del decreto-legge n. 347 del 2003 consente all'imprenditore insolvente di ristrutturarsi - e di tornare in bonis - a spese dei terzi assoggettati a revocatoria: ciò che, da un lato, l'art. 49 del d.lgs. n. 270 del 1999 esclude e ciò che, dall'altro lato, non sarebbe impedito dall'inciso finale - "pleonastico", si dice - dello stesso art. 6, comma 1 («purché si traducano in un vantaggio per i creditori»). In realtà, deve escludersi che quella appena riferita non solo sia l'unica possibile, ma anche che essa sia la corretta interpretazione delle norme in questione, e cioè che la "legge Marzano" abbia attribuito all'azione revocatoria, in spregio delle sue funzioni recuperatoria e redistributiva, il compito di consentire all'imprenditore insolvente di ristrutturare l'impresa a spese dei terzi assoggettati - per atti in sé legittimi, ma posti in essere nel periodo sospetto - alle revocatorie esperite (sostanzialmente, anche se non formalmente) dal debitore per consentirgli di tornare in bonis. L'erroneità dell'interpretazione adottata dai rimettenti è rivelata, in primo luogo, dal costante uso promiscuo - quasi si trattasse di sinonimi - delle locuzioni «imprenditore insolvente» e «impresa insolvente»; commistione di termini (e di concetti) dalla quale deriva, in secondo luogo, l'asserita indifferenza delle «modalità» attraverso le quali si può realizzare il «risanamento» (considerato in sé) e, ancora, la pretesa di censurare «la disciplina generale della procedura», prescindendo dall'esame delle singole disposizioni di cui si compone la "legge Marzano" e acriticamente assimilando gli esiti (ben diversi) della procedura ed i contenuti che può assumere il programma di ristrutturazione. 4.4.- In realtà il decreto-legge n. 347 del 2003 introduce una procedura speciale, che si articola in vari sub-procedimenti, nell'ambito di quella prevista dal d.lgs. n. 270 del 1999, della quale condivide la natura («concorsuale») e le finalità («conservative del patrimonio produttivo»), enunciate dall'art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 270 del 1999. Tale decreto legislativo persegue quelle finalità (art. 27) attraverso due strumenti alternativi: il programma di cessione, nel quale la finalità conservativa è associata ad una modalità liquidatoria, che di quella finalità sia rispettosa (l'art. 63 chiarisce che, ai fini della scelta dell'acquirente, sul criterio dell'ammontare del prezzo offerto prevale quello dell'affidabilità ai fini della prosecuzione dell'attività e del mantenimento dei livelli occupazionali), ed il programma di ristrutturazione, nel quale la finalità conservativa dell'impresa mira a far sì che l'imprenditore recuperi «la capacità di soddisfare regolarmente le sue obbligazioni», come prevedono gli artt. 70, lettera b), e 74, lettera b). La "legge Marzano", a sua volta, indica tra i «requisiti per l'ammissione» alla procedura (così la rubrica dell'art. 1) l'intento dell'impresa insolvente di «avvalersi della procedura di ristrutturazione economica e finanziaria di cui all'articolo 27, comma 2, lettera b), del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270» (e cioè del programma di ristrutturazione che, nella "Prodi-bis", è alternativo rispetto a quello, liquidatorio-conservativo, di cessione), ma non esclude affatto che la procedura si evolva - fin dalla redazione del programma, o anche successivamente - verso programmi aventi un indirizzo ed un esito diversi da quello indicato nella sua istanza dall'impresa insolvente. Ed infatti, l'art. 4, comma 4, del decreto-

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legge n. 347 del 2003 chiarisce inequivocabilmente che il programma di ristrutturazione di cui all'art. 27, comma 2, lettera b), del d.lgs. n. 270 del 1999 può essere sostituito - se è possibile adottarlo - da uno di cessione ex art. 27, comma 2, lettera a), del medesimo decreto legislativo, e che, ove questo non sia adottabile, può farsi luogo alla dichiarazione di fallimento: dove è evidente che il requisito indicato dall'art. 1, comma 1, del decreto-legge n. 347 del 2003 connota l'istanza di ammissione, e non già (e tanto meno indefettibilmente) la procedura, la quale può evolversi verso esiti conservativo-liquidatori (cessione) ovvero liquidatori tout court (fallimento). In questo contesto - che esclude alla radice la correttezza del sillogismo secondo il quale, non essendo ammissibili azioni revocatorie nelle procedure conservative ed avendo sempre la procedura de qua carattere conservativo, sarebbe illegittima la norma che quelle azioni consente - si inserisce il disposto dell'art. 4-bis della "legge Marzano", la cui specificità sta in ciò, che esso prevede che il concordato possa far parte, ed anzi costituire elemento essenziale, del programma approntato dal commissario straordinario. Il tenore letterale della norma, peraltro, rende evidente che il concordato può essere con assunzione ovvero senza, e cioè o con l'intervento di un terzo al quale sia ceduto l'intero patrimonio dell'imprenditore insolvente e che «si accolla l'obbligo di adempiere il concordato», ovvero senza alcun intervento di terzi e con la previsione, al più, che un terzo garantisca l'adempimento delle obbligazioni assunte, con il concordato, dall'imprenditore insolvente. È del tutto evidente che le due possibili modalità del concordato - individuate nel citato art. 4-bis, comma 1: quello senza assuntore alla lettera c) e quello con assuntore alla lettera c-bis) - rispondono, l'uno (senza assuntore), all'indirizzo conservativo di cui alla lettera b) dell'art. 27 del d.lgs. n. 270 del 1999 e, l'altro, all'indirizzo di «cessione dei complessi aziendali» di cui alla lettera a) della medesima norma (quale liquidazione forfetaria del patrimonio del debitore). In sintesi, un esame dell'intero sistema normativo delineato dalla "legge Marzano" rende chiaro come questo, muovendo sempre da un proposito (dell'impresa insolvente) di conservazione del patrimonio produttivo in vista del ritorno in bonis, consenta, da un lato, di dare attuazione a tale proposito attraverso il programma di ristrutturazione (e, nell'ambito di questo, valendosi anche dello strumento del concordato, nel quale un terzo può assumere, al più, il ruolo di garante) ovvero, dall'altro lato, di evolversi verso la liquidazione (pur sempre conservativa) del patrimonio produttivo, attuabile o con la cessione ex art. 27, comma 2, lettera a), del d.lgs. n. 270 del 1999 o con il concordato con assuntore ovvero, ancora, verso esiti esclusivamente liquidatori con il fallimento. È appena il caso di rilevare come le due modalità del concordato previste dall'art. 4-bis del decreto-legge n. 347 del 2003 corrispondano perfettamente a quelle già previste dall'art. 124 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), il quale consente la cessione delle azioni revocatorie «già proposte dal curatore» all'assuntore («a favore del terzo che si accolla l'obbligo di adempiere il concordato»: comma secondo) e la esclude (comma terzo) «a favore del fallito e dei suoi fideiussori» (e, quindi, anche nel caso di concordato con garanzia del terzo); così come è agevole rilevare che il medesimo art. 124 - come modificato dal decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell'articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80) - ammette modalità di soddisfazione dei creditori del tutto identiche a quelle previste dalla "legge Marzano". Quanto all'argomento che le ordinanze di rimessione tentano di trarre dall'art. 78 del d.lgs. n. 270 del 1999, è agevole osservare che il concordato al quale tale norma fa riferimento certamente non prevede, né può prevedere, cessione alcuna di azioni revocatorie se esso è conclusivo di una procedura di ristrutturazione ex art. 27, comma 2, lettera b) (essendo evidente che tali azioni non potevano essere esperite dal commissario, per il divieto di cui all'art. 49), mentre altrettanto certamente esso può prevedere una tale cessione se, avendo il commissario iniziato azioni revocatorie prima della proposta di concordato, questo intervenga a chiusura di una procedura con programma di cessione dei beni ex art. 27, comma 2, lettera a), e l'obbligo di adempiere le obbligazioni derivanti dal concordato sia stato assunto da un terzo: il carattere "neutro", insomma, dell'art. 78 non consente di affermare l'estraneità della cessione delle azioni revocatorie al "concordato", monoliticamente considerato, della "legge Prodi-bis". 4.5.- Il quadro normativo che si è appena delineato, quale risulta dall'esame dell'intero contenuto del decreto-legge n. 347 del 2003, comporta l'infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata dal giudice rimettente esclusivamente sulla base della locuzione con la quale, nell'art. 1, comma 1, del medesimo decreto-legge è definito il programma nel momento in cui è proposta l'istanza di ammissione alla procedura speciale. Una adeguata considerazione di quel quadro normativo, infatti, non consente certamente di qualificare "pleonastico" l'inciso finale dell'art. 6, comma 1, ma, al contrario, di attribuirgli valore e significato ben precisi, idonei a fugare i dubbi di legittimità costituzionale sollevati: è evidente, infatti, che quell'inciso - in una norma la cui prima parte (derivante dall'originaria stesura del provvedimento normativo) sembra ammettere sempre ed in ogni caso l'esperibilità delle azioni revocatorie - ben può (e deve) essere inteso nel senso che quelle azioni sono ammissibili solo quando la procedura si sia evoluta in senso liquidatorio, e cioè o verso la cessione di cui all'art. 27, comma 2, lettera a), del d.lgs. n. 270 del 1999 o verso il concordato con assunzione ovvero, ancora, verso il fallimento. L'infondatezza della questione, come sollevata dai rimettenti, è confermata non solo dall'oscurità dell'affermazione, apodittica, per la quale sarebbe "dubbio" il parametro costituito dall'art. 124 del r.d. n. 267 del 1942 (legge fallimentare), ma anche, e soprattutto, dall'affermazione

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finale secondo la quale «le censure di illegittimità si incentrano sulla disciplina generale della procedura, nell'ambito della quale l'epilogo naturale del processo di risanamento è costituito dal ritorno dell'imprenditore all'ordinaria operatività industriale, a conclusione del programma di ristrutturazione con qualunque modalità attuato (artt. 4 e 4-bis)»: passo dal quale emerge limpidamente come l'asserita irrilevanza dell'indirizzo assunto in concreto dalla procedura discenda dall'impostazione "nominalistica" della questione, fondata sulla sola lettera dell'art. 1, comma 1, della "legge Marzano", e comporti l'arbitraria attribuzione alla procedura, quali che siano le «modalità» attraverso le quali si svolge, di un «epilogo naturale» («ritorno dell'imprenditore all'ordinaria operatività industriale») che è estraneo proprio alla «modalità» (e non solo ad essa) assunta nell'ipotesi oggetto dei giudizi a quibus. Tanto poco il «ritorno dell'imprenditore all'ordinaria operatività industriale» costituisce l'«epilogo naturale» della procedura de qua che, ove il concordato con assuntore non fosse stato approvato dai creditori o non fosse stato omologato dal tribunale, sarebbe stata possibile - ex art. 4-bis, comma 11-bis, del decreto-legge n. 347 del 2003 - la presentazione di un piano di cessione ex art. 27, comma 2, lettera a), del d.lgs. n. 270 del 1999 e, in caso di mancata presentazione o di mancata approvazione, la dichiarazione di fallimento; sicché una «modalità» liquidatoria segue, sempre e necessariamente, non solo alla (iniziale) impraticabilità del piano di ristrutturazione (art. 4, comma 4), ma anche alla mancata approvazione del concordato, conservativo se con garanzia, o liquidatorio se con assuntore. 5.- Le questioni sollevate in riferimento all'art. 41 Cost. non sono fondate. 5.1.- Premesso che «il risanamento agevolato da misure di sostegno finanziario non può considerarsi un vero e proprio risanamento né in senso economico né giuridico», i giudici rimettenti deducono che «il risanamento dell'impresa mediante l'esperimento dell'azione revocatoria costituisce un ingiustificato privilegio [...] e determina un effetto distorsivo della concorrenza», in quanto le somme riscosse a seguito delle revocatorie non sono destinate alla soddisfazione dei creditori, ma ad «una forma di finanziamento forzoso a favore dell'impresa insolvente»; sicché «l'esercizio dell'azione revocatoria fallimentare nell'ambito di una procedura di ristrutturazione aziendale determina una forte e strutturale distorsione della libera concorrenza tra imprese con conseguente violazione dell'art. 41 Cost.», il quale «garantisce che ogni operatore economico possa operare sul mercato in una situazione di parità con gli altri imprenditori e che il profitto, e quindi il successo, dell'impresa dipenda dal giudizio insito nelle dinamiche di mercato». 5.2.- Le considerazioni in precedenza svolte circa l'incomparabilità dell'impresa (rectius: dell'imprenditore) oggetto di «risanamento» a norma del d.lgs. n. 270 del 1999 e di quella "risananda" a mezzo di concordato con assuntore ex art. 4-bis della "legge Marzano" sono sufficienti per dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale, laddove questa sembra prospettare una irragionevole disparità di trattamento tra fattispecie sostanzialmente identiche, e in particolare - secondo quanto sottolineano le parti private convenute nei giudizi a quibus - nei confronti dei terzi assoggettabili a revocatoria per aver posto in essere atti revocabili nel periodo sospetto ove coinvolti nell'una ovvero nell'altra procedura. Ora, a parte la considerazione che la censura è estranea all'art. 41 Cost., la lamentata disparità di trattamento tanto poco è irragionevole che essa può verificarsi - ma anche stavolta per la decisiva ragione che nel primo caso, se esse fossero esperibili, beneficiario delle azioni revocatorie sarebbe l'imprenditore insolvente - anche nelle ipotesi di concordato fallimentare con garanzia del terzo e di quello con assunzione. 5.3.- Non fondata è anche la questione sollevata sotto il profilo del turbamento alla concorrenza ed alla parità di condizioni tra imprenditori sul mercato per la possibilità, che l'esperimento di azioni revocatorie consentirebbe, per l'impresa insolvente di giovarsi del «finanziamento forzoso» costituito dal recupero di somme erogate ai terzi nel periodo sospetto. 5.3.1.- Occorre premettere, in proposito, che la "legge Marzano" costituisce una procedura speciale rispetto a quella, generale, disciplinata dalla "legge Prodi-bis": specialità, si è già sottolineato, consistente in una diversa modulazione della fase iniziale e nella previsione di una maggiore articolazione degli strumenti utilizzabili - e del momento in cui sono utilizzabili - per conseguire il (comune) fine conservativo del «patrimonio produttivo». La constatazione - condivisa, ovviamente, dai rimettenti - che, per tutto quanto non esplicitamente derogato, trova applicazione la "legge Prodi-bis" (ed in particolare le norme - profondamente innovative rispetto a quanto prevedeva il decreto-legge 30 gennaio 1979, n. 26, "Provvedimenti urgenti per l'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi", convertito, con modificazioni, nella legge 3 aprile 1979, n. 95 - di cui agli artt. 55, comma 2, e 58, comma 1) rende evidentemente inconferenti i cenni dedicati dalle ordinanze di rimessione a problematiche sorte nei confronti della normativa del 1979. In ogni caso, va ribadito che i presupposti per l'ammissione al concordato sono gli stessi - nulla disponendo in proposito la "legge Marzano", se non (come poi ha fatto, in generale, il d.lgs. n. 5 del 2006) che la proposta può essere avanzata anche prima che sia ultimato l'accertamento del passivo - previsti dalla legge fallimentare per l'ammissione del fallito al concordato fallimentare; che identica è la disciplina, quanto alla cedibilità delle azioni revocatorie, dei concordati fallimentari con e senza assuntore; che identica è la disciplina procedimentale - ed in particolare, quella relativa al voto dei creditori e alla loro approvazione della proposta, costituente condicio sine qua non - per la sua omologazione da parte del tribunale. 5.3.2.- Ciò precisato, è agevole rilevare l'inconferenza - a prescindere dalla correttezza dell'affermazione - di quanto i

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rimettenti sottolineano circa la mancata destinazione del ricavato dalle azioni revocatorie alla ripartizione tra i creditori: dimenticando che, nel concordato (anche fallimentare) con assunzione, i creditori chirografari - a differenza di quelli muniti di cause di prelazione, che devono essere (come anche nel caso di specie) integralmente soddisfatti - vedono estinto il loro credito con la corresponsione di quanto previsto nella proposta (da loro accettata) di concordato omologato dal tribunale. Sicché la circostanza che il ricavato delle revocatorie non sia oggetto di riparto - nel senso, di cui agli artt. 113 e 117 della legge fallimentare, di distribuzione di somme di danaro - tra i creditori è un naturale del concordato, e cioè rispecchia il fatto che la proposta solutoria avanzata dall'assuntore - così come l'accettazione dei creditori - è misurata anche, ove il patto sottoposto all'approvazione dei creditori preveda la cessione a lui delle revocatorie, sul prevedibile esito di tali azioni, costituendo esse parte del corrispettivo del prezzo pagato dal medesimo assuntore. Nel concordato con assuntore, peraltro, le azioni revocatorie assolvono la loro tipica funzione redistributiva, assoggettando al medesimo trattamento dei chirografari i creditori integralmente soddisfatti nel periodo sospetto, e recuperatoria, in quanto concorrono a comporre il patrimonio in relazione al quale viene determinato il quantum da corrispondere ai creditori chirografari e, conseguentemente, a ridurre la falcidia del loro credito; ciò che deve a fortiori affermarsi quando i creditori chirografari accettino, come nella specie, di essere pagati con azioni della società assuntrice, e pertanto con la prospettiva, a parziale riduzione della falcidia subita, di ricevere "vantaggio", quali azionisti, dall'esito vittorioso delle revocatorie. Dal che discende l'irrilevanza dell'argomento - sul quale insistono le parti private convenute - secondo cui il ricavato dalle revocatorie andrebbe a beneficio non già dei creditori, ma degli azionisti: argomento che trascura la decisiva circostanza che la destinazione dei proventi dalle revocatorie va considerata al momento dell'approvazione della proposta, in quanto i creditori, approvando il concordato con la falcidia dei loro crediti, hanno accettato di diventare azionisti di una società nel cui patrimonio sarebbe confluito il ricavato dalle azioni revocatorie, puntualmente individuate, promosse dal commissario straordinario, dopo la formulazione della proposta ma prima della sua approvazione. A loro volta, i terzi assoggettati a revocatoria - il cui credito, è appena il caso di rilevare, risorge ex tunc ai sensi dell'art. 71 della legge fallimentare per effetto della restituzione a seguito dell'accoglimento della revocatoria - non altro diritto possono vantare, in base ai principi generali propri delle procedure concorsuali, se non quello di essere trattati paritariamente rispetto ai creditori concorsuali, e pertanto di essere soddisfatti in modo identico ai primi e subendo la medesima falcidia. Questo, e null'altro che questo, discende - analogamente a quanto previsto in via generale dalla legge fallimentare per il concordato con assuntore - dalla "legge Marzano"; la cui disciplina, pertanto, si sottrae anche sotto questo profilo alle censure di illegittimità costituzionale sollevate dai giudici rimettenti. Inizio documento LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 6 del decreto-legge 23 dicembre 2003, n. 347 (Misure urgenti per la ristrutturazione industriale di grandi imprese in stato di insolvenza), convertito, con modificazioni, nella legge 18 febbraio 2004, n. 39, come modificato dal decreto-legge 3 maggio 2004, n. 119 (Disposizioni correttive ed integrative della normativa sulle grandi imprese in stato di insolvenza), convertito, con modificazioni, nella legge 5 luglio 2004, n. 166, sollevate, in riferimento agli articoli 3 e 41 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Parma, con le ordinanze in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 aprile 2006. Allegato: Ordinanza letta all'udienza del 4 aprile 2006 ORDINANZA Rilevato che nel giudizio di cui all'ordinanza n. 1 del 2006 (R.O.) è intervenuta la Parmalat s.p.a. e che nel giudizio di cui all'ordinanza n. 53 del 2006 (R.O.) sono intervenute la U.B.S. Limited e la s.p.a. San Paolo IMI; considerato che nel giudizio di cui all'ordinanza n. 1 del 2006, promosso dalla Parmalat s.p.a. in amministrazione straordinaria, la Parmalat s.p.a. - pur non avendo assunto, ai sensi dell'art. 111, comma terzo, cod. proc. civ., la qualità di parte, la quale allo stato compete esclusivamente alla Parmalat s.p.a. in amministrazione straordinaria (comma secondo) - è destinataria diretta, ai sensi del comma quarto dell'art. 111 citato, degli effetti della emananda decisione di questa Corte (sentenza n. 345 del 2005); che le società U.B.S. e San Paolo IMI sono parti convenute in altri giudizi, nel corso dei quali è stata sollevata questione

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di legittimità costituzionale analoga a quella oggetto dei presenti giudizi; che tale circostanza non è idonea, secondo la giurisprudenza di questa Corte, a rendere ammissibile l'intervento, in quanto «la contraria soluzione si risolverebbe nella sostanziale soppressione del carattere incidentale del giudizio di legittimità costituzionale» (sentenze n. 179 del 2003 e n. 270 del 2002), impedendo a questa Corte il suo doveroso controllo sulla rilevanza della questione; che tale rilievo non può essere superato in considerazione del vulnus che si assume recato al diritto di difesa, in quanto nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale il thema decidendum - con i relativi parametri costituzionali - è fissato esclusivamente dall'ordinanza di rimessione e le parti del giudizio a quo, così come il Presidente del Consiglio dei ministri, non possono che illustrare, in senso adesivo o contrario, le loro posizioni in relazione a quanto dedotto dal giudice rimettente. per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara ammissibile l'intervento di Parmalat s.p.a.; dichiara inammissibili gli interventi di U.B.S. Limited e di San Paolo IMI s.p.a. DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 21 APR. 2006.

* * * Cassazione civile , sez. I, 25 maggio 2007 , n. 12313 LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. LOSAVIO Giovanni - Presidente - Dott. PLENTEDA Donato - rel. Consigliere - Dott. PANZANI Luciano - Consigliere - Dott. DEL CORE Sergio - Consigliere - Dott. SALVATO Luigi - Consigliere - ha pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso proposto da: INTESA GESTIONE CREDITI SPA (già Cassa di Risparmio Salernitana - CARISAL), in persona dei funzionari pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA A. FLEMING 55, presso l'avvocato FABRIZIO PIETROSANTI, rappresentata e difesa dall'avvocato TUCCI GIUSEPPE, giusta mandato a margine del ricorso; - ricorrente - contro C.C.R. CASE di CURA RIUNITE SRL IN AMMINISTRAZIONE STRAORDINARIA; - intimata - e sul 2^ ricorso n. 04116/05 proposto da: CCR CASE di CUBA RIUNITE SRL IN AMMINISTRAZIONE STRAORDINARIA, in persona dei suoi commissari e legali rappresentanti pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA LISBONA 3, presso l'avvocato D'ALESSANDRO PLORIANO, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato RICCARDI NICOLA VITTORIO, giusta procura a margine del controricorso e ricorso incidentale; - ricorrente - contro INTESA GESTIONE CREDITI SPA, quale rappresentante di Banca Intesa

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s.p.a., società incorporante Caripuglia s.p.a., in persona dei funzionari pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA A. FLEMING 55, presso l'avvocato FABRIZIO PIETROSANTI, rappresentata e difesa dall'avvocato TUCCI GIUSEPPE, giusta mandato a margine del controricorso; - controricorrente al ricorso incidentale - avverso la sentenza n. 1152/03 della Corte d'Appello di BARI, depositata il 26/11/03; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 13/03/2007 dal Consigliere Dott. Donato PLENTEDA; udito per il ricorrente l'Avvocato PIETROSANTI, per delega, che ha chiesto l'accoglimento del ricorso principale ed il rigetto di quello incidentale; udito per il controricorrente e ricorrente incidentale l'Avvocato D'ALESSANDRO, che ha chiesto il rigetto del ricorso principale e l'accoglimento del ricorso incidentale; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SCHIAVON Giovanni, che ha concluso per il rigetto del primo, del secondo e del terzo motivo, per l'inammissibilità o, in subordine, per il rigetto del quarto motivo, per il rigetto del quinto motivo e per l'inammmissibilità e comunque per il rigetto per quanto di ragione del sesto motivo del ricorso principale; per l'inammissibilità o in subordine, per il rigetto del ricorso incidentale. Fatto Con atto 22.1.1996 la società Case di Cura Riunite s.r.l. in amministrazione straordinaria convenne dinanzi al Tribunale di Bari la Caripuglia s.p.a. e chiese che fosse dichiarato inefficace ai sensi dell'art. 67 L. Fall., comma 1, n. 2, il pagamento di L. 22.646.967.050, effettuato in suo favore, unitamente al mandato irrevocabile all'incasso per L. 26.643.490.678 rilasciato il 9.4.1993 di cui la Case di Cura era creditrice verso la Regione Puglia per prestazioni relative ai mesi di gennaio - marzo 1993. Dedusse che il mandato era stato rilasciato ai sensi dell'art. 1723 c.c., con esclusione espressa di qualunque corrispettivo e con l'intesa che la somma sarebbe stata accreditata sul c/c n. (OMISSIS) non affidato e con saldo negativo e che la somma riscossa sarebbe servita ad estinguere o ridurre la esposizione per diversi miliardi di Lire verso Caripuglia; aggiunse che quest'ultima aveva arbitrariamente accreditato parte di tale importo sul conto corrente (OMISSIS), affidato e con saldo negativo di 13 miliardi e parte su due libretti di risparmio, costituiti in pegno a garanzia di una fideiussione per L. 43 miliardi rilasciata dall'istituto di credito in favore di Isveimer per la esposizione debitoria dei CCR e che Caripuglia aveva subito dopo "girocontato" le somme sul c/c (OMISSIS), per evitare la revocatoria dei pagamenti. La convenuta eccepì la genericità della domanda e la sua infondatezza; contestò la natura solutoria del mandato, che aveva avuto funzione di garanzia e negò di essere stata a conoscenza dello stato di decozione. Precisò che il mandato era stato rilasciato contestualmente ad una anticipazione per L. 1.534.585.270 e ad una per L. 3.800.000.000, rispettivamente in data 7 e 9.4.1993, nell'ambito di un affidamento specifico e rotativo di L. 15 miliardi e che era a garanzia, perchè contestuale allo svincolo di un pegno di danaro e perchè destinata al suo reintegro, finalità adempiuta con l'incasso e l'accredito sui libretti indicati della somma di L. 11.681.264.350. Quanto alla somma di L. 10.965.720.200 affermò che la stessa società CCR aveva chiesto il 9.4.1993 che fosse utilizzata, anzichè per il reintegro della garanzia reale, per ridurre la esposizione del conto anticipi, contenuta peraltro nei limiti del fido di L. 15 miliardi, creando disponibilità per consentire una nuova anticipazione. Il tribunale con sent. 13.7.1998 rigettò la domanda rilevando che erano mancati i riscontri probatori alla tesi della natura solutoria del mandato all'incasso. Aggiunse che il versamento delle somme riscosse sul c/c e sui libretti in violazione dell'incarico ricevuto avrebbe potuto legittimare una azione di rendiconto ex art. 1173 c.c. ma non l'azione revocatoria, essendo mancato un atto del debitore inteso ad estinguere il debito in violazione della par condicio creditorum, l'effetto solutorio dipendendo da un atto unilaterale quanto illegittimo del creditore. L'Amministrazione straordinaria impugnò la decisione e produsse gli estratti dei vari conti correnti con Caripuglia, la quale, incorporata da Banca Intesa s.p.a., rappresentata da intesa Gestione Crediti, resistette alla impugnazione.

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La Corte di Appello di Bari con sent. 26.11.2003 ha accolto l'appello ed ha dichiarato inefficace il mandato del 9.10.1993, condannando l'appellata a restituire la somma di Euro 1.035.812,54, oltre agli interessi dalla domanda e alle spese del doppio grado, compensate per 1/3.. Preliminarmente ha disatteso la eccezione di preclusione sollevata dalla appellata, in riferimento al giudicato formatosi sulla sent. 13.7.1998 n. 3153 resa inter partes, rilevando che era stata proposta in termini tali da non consentire di apprezzare le ragioni per le quali essa costituiva un presupposto logico - giuridico della controversia, posto che la vicenda relativa ad altro mandato irrevocabile all'incasso di crediti nessuna connessione poteva manifestare con la fattispecie in esame. Ha quindi respinto la eccezione di inammissibilità dell'azione, proposta in quanto incompatibile con gli scopi conservativi della amministrazione straordinaria essendo esperibile solo nella eventuale fase liquidatoria, dal momento che altrimenti si tradurrebbe in un meccanismo di finanziamento forzoso da parte dei creditori alla società, così ponendosi in contrasto con la disciplina comunitaria, che vieta gli aiuti di Stato alle imprese in crisi. Ha rilevato la corte di merito che alla stregua delle decisioni della Corte di giustizia della Comunità Europea, intervenute sul tema della compatibilità della L. n. 95 del 1979 con la normativa comunitaria, ad essere incompatibili sono i benefici erogati a norma dell'art. 2 bis della legge e le diverse ipotesi di agevolazione fiscale sui trasferimenti di azienda contemplati dall'art. 5 bis e non la intera legge, priva del carattere selettivo laddove rinvia ai meccanismi e alle procedure della legge fallimentare; sicchè l'azione revocatoria non può essere considerata agevolati va, se esercitata da imprese in amministrazione straordinaria durante la fase conservativa, atteso che la continuazione dell'attività non è fine a se stessa, ma è giustificata dalle esigenze di liquidazione unitaria dell'azienda, senza compromettere l'avviamento, o di riorganizzazione attraverso la moratoria. Ha comunque osservato che nella specie la procedura aveva superato la durata massima di quattro anni prevista dalla legge ed era avviata alla fase liquidatoria, ragione che ancor più aveva svalutato il rilievo della inammissibilità, costituendo l'inizio di tale fase una condizione dell'azione, che giova anche quando sopravvenga all'inizio della lite. Quanto alla natura del mandato, ha anzitutto rilevato che ad essere oggetto dell'azione era stato quel negozio e non il successivo pagamento ed ha rinvenuto il carattere della solutorietà, al pari di ogni cessione di credito, nelle espressioni usate nel contratto - conferito nel reciproco interesse e relativo al credito verso la Regione Puglia, da accreditare sul conto corrente non affidato n. 1801/13326/45 delle Case di Cura Riunite - utili ad evidenziare l'intento della CCR di conferire alla Banca cessionaria dei crediti la autorizzazione ad utilizzare le somme per abbattere la sua esposizione. Ha poi disatteso la tesi difensiva della banca, secondo cui il mandato era stato conferito a Caripuglia contestualmente ad una duplice operazione di credito, per L. 1.534.585.270 e per L. 3.800.000.000 dell'aprile 1993, così svolgendo funzione di garanzia. Ha infatti osservato che, dovendosi valutare le rimesse al fine di stabilirne il carattere solutorio o ripristinatorio, in relazione al loro concreto atteggiarsi nell'ambito del conto, e dovendosi tale accertamento compiere non ex ante, ma solo alla luce della effettiva evoluzione del rapporto di c/c, la indagine di consulenza tecnica aveva consentito di stabilire che l'incasso di L. 10.965.702.200, relativo all'85% delle prestazioni sanitarie effettuate nel gennaio 1993, era stato versato il 6.8.1993 sul conto anticipi (OMISSIS) affidato per 15 miliardi, con un saldo passivo di poco inferiore; mentre l'accredito dell'85% delle prestazioni relative al marzo successivo, pari a L. 9.315.537.261 era affluito l'1.10.1993 sui due libretti di risparmio intestati a CCR ma in possesso di Caripuglia, perchè concessi in pegno con saldi uno di L. 684.462.739 e l'altro di L. 1.199.423.082. Da tale accertamento la corte territoriale ha argomentato che le iniziali operazioni eseguite sul conto (OMISSIS) e sui libretti non avessero carattere solutorio, mentre lo avessero quelle successive di giroconto dirette ad estinguere situazioni debitorie su conto non affidato o fuori del fido, in quanto il giroconto del 14.10.1993 di L. 10.000.000.000 dai libretti era passato al c/c (OMISSIS), che presentava un saldo a debito di L. 1.426.674.597, dal quale poi nella stessa data era stato girocontato l'importo di L. 38.033.228 sul c/c (OMISSIS) non affidato e con un saldo a debito di L. 1.009.854.093, nonchè quello di L. 540.908.437 sul c/c (OMISSIS), che presentava un saldo debitore di L. 15.540.904.937, oltre il fido per L. 540 milioni circa. Ha concluso che ad essere revocate dovessero essere le somme di L. 2.005.612.762 (1.426.674.597 + 38.033.228+ 540.904.937), pari ad euro 1.035.812,54. Quanto alla scientia decoctionis, ha premesso la corte territoriale che, sebbene possa assumere rilievo la circostanza della inesistenza dello stato di insolvenza, l'onere probatorio a riguardo fa capo all'accipiens, che deve dimostrare di non avere avuto la possibilità di cogliere lo stato di decozione, potendosi, a tal punto, giovare della inesistenza della insolvenza; e tale onere, ha concluso, non era stato soddisfatto, che, anzi, in senso contrario vi erano le elevate esposizioni debitorie, i numerosi conti intrattenuti con la Caripuglia dalle CCR, che aveva dovuto concedere fideiussioni a firma delle controllate, pegni in danaro, mandati irrevocabilità l'incasso. Propone ricorso per cassazione con otto motivi la soc. n Intesa Gestione Crediti s.p.a.", già Cassa di Risparmio Salernitana, quale procuratore di " Banca Intesa, già Banca Intesa Banca Commerciale Italiana s.p.a.". Resiste con controricorso la soc. CCR in amministrazione straordinaria, che propone ricorso incidentale con un motivo,

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al quale ha resiste la ricorrente principale. Entrambe hanno depositato memoria. Diritto Col primo motivo Intesa Gestione Crediti denunzia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 249, 87, 88,89 e 234 del Trattato UE (già artt. 149, 92, 93, 94 e 117) con riferimento all'art. 1 L. 95/1979, agli artt. 195 ss., 237 ss, 203 e 67 L. Fall. e del D.Lgs. 8 luglio 199,9 n. 270, art. 106; la mancata considerazione e comunque la violazione e la falsa applicazione del D.L. n. 18 del 2000, art. 1 conv. nella L. n. 90 del 2000, in tema di disposizioni urgenti per assicurare le prestazioni sanitarie della CCR; motivazione insufficiente e contraddittoria. Richiama le decisioni della Corte di Giustizia dell'1.12.1998 in causa Ecotrade s.r.l. Altiforni e Ferriere di Servolo s.p.a., con cui, interpretando la nozione di aiuto di Stato ex art. 4, lett. c) del Trattato Ceca, essa ha dichiarato che un regime, quale quello introdotto dalla L. n. 95 del 1979, da luogo ad un aiuto di Stato incompatibile con la disposizione predetta, se si dimostri che l'impresa sia stata autorizzata a continuare la sua attività economica in circostanze tali che sarebbe invece esclusa, ove si applicassero le norme in tema di fallimento; ovvero quando l'impresa benefici di più vantaggi, quali garanzie di Stato, aliquote ridotte di imposte ecc., di cui l'impresa insolvente non potrebbe fruire nell'ambito di applicazione delle norme fallimentari; e del 17.6.1999 in causa Industrie Aeronautiche e Meccaniche Piaggio/ Dornier ed altri, nel senso della disapplicazione totale della Legge Prodi, qualificata come aiuto di Stato, a prescindere da ogni accertamento di fatto sulle concrete modalità di erogazione dei singoli aiuti; e ciò in quanto il provvedimento di ammissione alla procedura non era stato previamente notificato alla Commissione. Richiama il D.L. n. 18 del 2000, di proroga sino al 14.5.2000 del termine di scadenza della autorizzazione alla continuazione dell'esercizio dell'impresa, emanato per evitare la interruzione delle prestazioni sanitarie assicurate in Bari dalle strutture della società CCR, a riprova della circostanza che la eventualità dell'esercizio provvisorio sarebbe rimasta esclusa nell'ambito della applicazione delle regole vigenti in materia fallimentare, posto che nella specie quell'esercizio era stato autorizzato per legge e non era dipeso da valutazioni discrezionali degli organi fallimentari. Con il secondo motivo si denunzia la inammissibilità della conversione delle procedure di amministrazione straordinaria in liquidazione coatta amministrativa, disposta dalla L. n. 273 del 2002, art. 7. Lamenta la ricorrente che nulla abbia detto la corte territoriale in merito alle questioni sollevate in riferimento al regime introdotto dal D.Lgs. n. 270 del 1999, art. 106 per il fatto che l'art. 7 ha previsto la ultrattività della Legge Prodi, in contrasto con le decisioni degli organi comunitari, che ne hanno sanzionato la inapplicabilità per il suo contrasto con le norme del Trattato Cee; ha disposto la contemporanea applicazione alle vecchie procedure di a.s. sia delle norme sulla l.c.a. sia della Legge Prodi e che tali procedure proseguano in forma liquidatoria, prospettando una confusa conversione delle prime nelle seconde, in violazione del principio che riserva la liquidazione coatta a specifiche imprese ove rileva l'interesse pubblico. A tale riguardo solleva dubbi di costituzionalità della norma in relazione all'art. 3 cost. Con il terzo mezzo la ricorrente denunzia la violazione e la falsa applicazione dell'art. 67 L. Fall. con riferimento al L. n. 95 del 1979, artt. 1, art. 195 ss. L. Fall., art. 237 ss. L. Fall., art. 203 L. Fall. D.Lgs. n. 270 del 1999, artt. 49 e 106 e dell'art. 112 c.p.c.. Deduce la società ricorrente che, come rilevato da Cassazione 11519/1996, l'istituto dell'amministrazione straordinaria regolato dalla L. n. 95 del 1979 si connota per la sua preordinazione alla organizzazione delle strutture produttive delle imprese in crisi, in vista del loro risanamento, e consente l'apertura della fase liquidatoria solo nell'eventualità che esso non sia realizzabile. Ciò comporta che l'azione revocatoria fallimentare, ispirata a finalità recuperatoria, è estranea alla fase conservativa, nella quale risulta essere stata esercitata, sia per quanto emerge dal D.L. n. 18 del 2000 sia perchè l'atto di citazione è del 15.1.1996, quattro anni prima della cessazione di tale fase. Contesta a tale riguardo l'affermazione della Corte territoriale secondo cui, costituendo l'inizio della fase liquidatoria, alla stregua della L. n. 270 del 1999, non un presupposto processuale ma una condizione dell'azione, perchè attinente alla legittimazione ad agire, essa può verificarsi anche nel corso del giudizio sino al momento della pronuncia; e osserva, all'uopo richiamando Cass. SS.UU. 437/2000, che " il momento della proposizione dell'azione revocatoria deve ritenersi vero e proprio presupposto processuale come tale rilevabile d'ufficio". Con il quarto motivo la ricorrente denunzia la mancanza di motivazione in ordine al precedente giudicato, prospettato nel giudizio di merito, e la violazione degli artt. 2909 c.c. e art. 324 c.p.c.. Deduce che in sede di appello aveva rappresentato la esigenza che si tenesse conto del giudicato formatosi inter parte sulla sentenza 13.7.1998 del Tribunale di Bari, che in fattispecie tutto identica aveva stabilito che il mandato irrevocabile all'incasso costituisce mezzo anomalo di pagamento, quando l'apertura di credito sia preordinata a ridurre una pregressa esposizione passiva e non a consentire all'obbligato disponibilità di danaro. Con il 5^ e il 6^ motivo si denunziano omessa e comunque insufficiente motivazione sul presupposto oggettivo

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dell'azione revocatoria e, rispettivamente, violazione dell'art. 67 L. Fall., con riferimento alla identificazione dell'oggetto dell'azione e dell'art. 2697 c.c. e art. 61 c.p.c., circa la utilizzazione delle risultanze della consulenza tecnica. Lamenta la società ricorrente che la corte territoriale, dopo avere identificato l'oggetto del mandato irrevocabile all'incasso, abbia poi esteso la revoca anche alle rimesse, che avrebbero dovuto essere impugnate a norma dell'art. 67 L. Fall., comma 2 e sulle quali non era mai stato accettato il contraddittorio. Con riguardo ad esse, contesta la natura solutoria e preliminarmente eccepisce la inammissibilità della produzione in appello della documentazione bancaria dei conti correnti, finalizzata ad accertare tale natura; documenti peraltro inidonei in quanto contenenti i saldi per valuta e contabili, non anche quello disponibile, la cui ricostruzione avrebbe dovuto essere onere della parte e non affidata ad una consulenza di ufficio, la quale non è mezzo sostitutivo dell'onere della prova. Addebita comunque alla corte di merito di non avere tenuto conto di quanto segnalato in ordine alle rimesse, avendo richiamato altro giudizio pendente in cassazione, attinente all'incasso delle notule dei mesi di maggio e luglio 1993,in cui nella ricostruzione dei movimenti contabili la CCR aveva ritenuto revocabile l'importo di L. 9.992.0001.000 in quanto anticipazione della notula del luglio 1993, mentre in questo giudizio quell'importo aveva riferito ad una delle operazioni di giroconto, avvenute il 10.8.1993 e affluite sul c/c (OMISSIS) non affidato, con saldo disponibile a debito di L. 732.742.047, modificato in appello in L. 3.192.752.628. Contesta anche la ricostruzione fatta dalla amministrazione straordinaria del giroconto dai libretti di risparmio al conto (OMISSIS), con riguardo alla notula del marzo 1993, richiamando altro giudizio nel quale erano stati sottoposti a revoca i medesimi prelievi dei libretti di risparmio. Con il 7^ motivo si denunziano violazione e falsa applicazione degli artt. 2740 e 2741 c.c. 1362, 1363, 1366, 1367 c.c, con riferimento alla funzione economico sociale del mandato irrevocabile all'incasso; dell'art. 61 c.p.c. e dell'art. 67 L. Fall., comma 1, n. 2 e comma 2; motivazione insufficiente e contraddittoria. Addebita alla corte territoriale di avere ritenuto solutorio il negozio intervenuto il 9.4.1993 (datato erroneamente in ricorso 4.8.1993), avendo desunto dalle espressioni usate l'intento della CCR di conferire alla Banca una esplicita autorizzazione ad utilizzare senz'altro le somme che avrebbe ricavato per abbattere una parte della sua esposizione; in realtà il consulente di ufficio aveva fornito alla corte di merito una ricostruzione della natura dell'operazione bancaria del tutto conforme a quanto sostenuto dalla banca, confermando che la riscossione delle notule dedotte in giudizio non servì a ricostituire in tutto o in parte la provvista disponibile sul conto n. (OMISSIS) e non servì neppure a fare rientrare nei limiti dell'affidamento il conto anticipi n. (OMISSIS). Con l'ultimo mezzo intesa Bei Gestione Crediti denunzia violazione e falsa applicazione dell'art. 67 L. Fall. in ordine alla presunzione della scientia decoctionis della banca; e la insufficienza e contraddittorietà della motivazione. Lamenta errori di diritto e vizi motivazionali commessi dalla corte territoriale, sia nella astratta configurazione dell'art. 67 L. Fall. comma 1, sia nella valu-tazione concreta delle prove. Premesso che, diversamente da quanto affermato dalla sentenza impugnata, è prioritaria rispetto alla prova della inscientia decoctionis - che grava sul convenuto - quella della esistenza dello stato di insolvenza al momento dell'atto impugnato, e che manca nella legge la presunzione assoluta di insolvenza nel periodo sospetto, considerata dall'art. 67 L. Fall., rileva che l'attore aveva mancato di dare la prova della insolvenza. Nega poi la esistenza di prove della effettiva scientia decoctionis della banca e deduce la mancata valutazione della corte territoriale della circostanza che essa aveva continuato a far credito all'impresa per tutto il 1993 ed aveva anzi ampliato l'ambito della concessione del credito. Con il ricorso incidentale la CCR denunzia violazione e/o falsa applicazione artt. 1362 c.c. e 67 L. Fall. e vizio di motivazione. Con riferimento all'affermazione della corte territoriale secondo cui le iniziali operazioni sul conto (OMISSIS) e sui libretti di deposito in possesso della banca non avevano avuto carattere solutorio, mentre lo avevano avuto in parte le successive operazioni di giroconto, l'amministrazione straordinaria osserva che erano state revocate le sole somme girocontate dai libretti e non quelle dal conto su indicato. Premesso che l'accredito relativo alle prestazioni rese da CCR nel gennaio 1993 pari a L 10.965.702.200 era stato effettuato il 06.08.1993 sul conto corrente (OMISSIS) e non sul c/c (OMISSIS), come previsto dal mandato, osserva che l'indagine avrebbe dovuto a norma dell'art. 1362 c.c. estendersi oltre, per accertare la finale destinazione solutoria, dovendo la revoca del mandato conseguire alla valutazione del risultato finale della complessa operazione posta in essere dalle parti. E infatti il versamento sul conto (OMISSIS) era poi affluito, attraverso due successive operazioni di giroconto, sul conto (OMISSIS) non affidato, che presentava alla data dell'accredito un saldo a debito di L. 732.742.047 e dal quale era passato l'08.09.1993 nella misura di L. 200.000.000 sul conto (OMISSIS), in quella data non coperto per L. 200.000.000. Ha pertanto concluso perchè con decisione a norma dell'art. 384 c.p.c., questa corte condanni la ricorrente principale a

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restituire Euro 501.155,25, pari a L. 970.371.895, somma delle tre rimesse in giroconto. Il tema discusso con il primo ed il terzo motivo di ricorso principale - che vanno dunque esaminati congiuntamente - è stato più volte sottoposto all'esame di Questa Corte (Cass. 18552/2006; 4206/2006; 21083/2005; 21823/2005; 2534/2005; 13165/2004; 18915/2004) ed ha trovato soluzioni univoche, nel senso della legittimità della azione revocatoria di cui si tratta, in quanto non incompatibile con la normativa comunitaria di cui si è dedotta la violazione; e le ragioni poste a sostegno di tali pronunzie reputa il Collegio di dover condividere, per Quanto appresso si dirà. La censura muove dalla premessa che il Trattato Ce all'art. 87 (già 92) dichiara incompatibili con il mercato comune gli aiuti concessi agli Stati membri, nella misura in cui incidono sugli scambi tra tali Stati, ed equipara agli aiuti qualunque risorsa statale sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza. Richiamate le pronunzie della Corte di Giustizia e della Commissione, rileva che è mancata la indagine sulla effettiva concessione di aiuti, dalla cui positiva verifica sarebbe derivata la disapplicazione del decreto di apertura della procedura; denunzia il vizio di motivazione della impugnata sentenza e nega, infine, che sia possibile distinguere tra fase conservativa e fase liquidatoria, di cui solo la prima sarebbe illegittima, sia perchè anche la seconda da luogo ad aiuti di Stato - come la imposta fissa sui trasferimenti di azienda - sia perchè estende il divieto di cui all'art. 51 L. Fall. ai debiti verso l'erario. Ognuna delle questioni dibattute è stata oggetto di analitico esame nelle richiamate decisioni di questa Corte, la quale ha osservato che le pronunzie della Corte di Giustizia - da cui non si era discostata la Commissione - hanno affermato che la applicazione ad una impresa di un regime derogatorio alle regole in materia fallimentare da luogo ad aiuti di Stato: a) se l'impresa è stata autorizzata a continuare la sua attività economica in circostanze in cui tale eventualità sarebbe stata esclusa nell'ambito della applicazione delle regole normalmente vigenti in materia di fallimento; b) se ha beneficiato di uno o più vantaggi, quali una garanzia di Stato, un'aliquota di imposta ridotta, una esenzione dall'obbligo di pagamento di ammende o altre sanzioni pecuniarie o una rinuncia effettiva, totale o parziale, ai crediti pubblici, dei quali non avrebbe potuto usufruire un'altra impresa insolvente, nell'ambito dell'applicazione delle regole normalmente vigenti in materia di fallimento. Da tali statuizioni ha desunto il convincimento che non la legge in sè, nella sua totalità, è incompatibile con le disposizioni comunitarie, ma solo laddove preveda un regime di aiuto nei termini precisati; ed ha considerato, in particolare con riguardo alla azione revo-catoria fallimentare nell'ambito della procedura di amministrazione straordinaria di cui alla L. n. 95 del 1979, che nessuna delle due istituzioni comunitarie si è occupata in modo specifico del problema. Ha quindi rilevato che, una volta risultato mancante qualunque collegamento della azione revocatoria con la continuazione dell'attività di impresa, in quanto esercitata nella fase liquidatoria, ancor più da escludere sia la configurabilità come aiuto di Stato, conforme essendo alle norme generali in materia di fallimento; come pure ha escluso la sua riconducibilità a qualcuno dei vantaggi considerati in via esemplificativa dall'art. 87 del Trattato. Ha infine negato che l'esercizio della revocatoria nel procedimento di amministrazione straordinaria si traduca in un finanziamento forzoso dell'impresa in crisi, tanto potendosi ipotizzare, semmai, con riferimento alla fase conservativa, ed ha conseguentemente escluso qualunque rilevanza alla mancata notifica della legge alla Commissione, essendo questa necessaria solo in presenza di situazioni inquadrabili come aiuto. I passaggi argomentativi sinteticamente richiamati meritano piena adesione. Va anzitutto osservato che l'art. 87 (già 92) del Trattato Ce fa divieto agli Stati membri di concedere aiuti alle imprese, sotto qualsiasi forma, che incidano sugli scambi tra gli Stati, alterando le regole della libera concorrenza. Il divieto conseguentemente comporta effetti sulle disposizioni che quegli aiuti prevedono e non sulle leggi in cui sono contenute, essendo tale risultato da un lato eccedente la finalità della norma comunitaria e dall'altro improponibile, perchè irragionevolmente limitativo del potere legislativo dello Stato. Alla luce di tale fondamentale premessa va compiuta la lettura delle sentenze della Corte di Giustizia - che è istituzione chiamata ad assicurare il rispetto del diritto nella interpretazione del Trattato ed è competente a pronunciarsi in via pregiudiziale su di essa (art. 234, già art. 177 del Trattato) - la quale, dopo avere osservato, con la decisione dell'1.12.1998 surrichiamata, che alcune caratteristiche della L. n. 95 del 1979, se confermate dal giudice nazionale, potrebbero configurare la esistenza di aiuti di Stato - come la sua applicazione selettiva in favore di grandi imprese industriali di rilevante esposizione debitoria, nei cui confronti risultassero presenti tra i principali creditori lo Stato od Enti pubblici; la continuazione dell'attività economica che potrebbe comportare un onere supplementare per i pubblici poteri, se fosse dimostrato che lo Stato o Enti pubblici sono tra i principali creditori; la presenza di garanzie di Stato, di rinunzie effettive a crediti pubblici, ecc. - ha concluso, con riferimento all'art. 4, lett. c) del Trattato Ceca, che il divieto è ipotizzabile se l'impresa è stata autorizzata a continuare l'attività economica in deroga alle norme comuni in materia fallimentare, ovvero ha beneficiato di uno o più vantaggi specifici, di cui sopra, dei quali altre imprese, nell'ambito predetto, non avrebbero potuto fruire. Con la successiva sentenza del 17.6.1999 la Corte suddetta, richiesta di stabilire se con la L. n. 95 del 1979 - ed in

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particolare con le provvidenze da essa previste - lo Stato italiano ha concesso a talune imprese aiuti contrastanti, questa vola, con l'art. 92 del Trattato, è pervenuta alle medesime conclusioni, considerando che le imprese in amministrazione straordinaria sono sì assoggettate alle norme generali della legge fallimentare, ma fruiscono di alcune deroghe, come quella della sospensione di qualsiasi azione esecutiva, anche per debiti fiscali, ovvero quella prevista dalla L. n. 965 del 1979, art. 2 bis ecc. E dopo avere premesso che la Corte non è competente ad interpretare il diritto nazionale o a statuire sulla compatibilità di una misura nazionale con il diritto comunitario, mentre sulla compatibilità dei provvedimenti di aiuto con il mercato comune la competenza è della Commissione, ha affermato - in linea con la precedente sentenza del 1998 - che è derogatoria alle ordinarie regole in materia fallimentare e da luogo alla concessione di aiuti di Stato l'applicazione di un regime come quello istituito dalla Legge Italiana 3 aprile 1979, n. 95, solo allorchè si dimostri quanto più sopra rilevato. Infine la Commissione con la decisione 16.5.2000, dopo avere anch'essa premesso che il suo compito era di individuare, nell'ambito del regime giuridico dell'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, le misure che non rivestono carattere di generalità e pronunziarsi sul fatto se ricadono o meno nell'art. 87 par. 1 del Trattato Ce; ed avere rilevato che tale legge riprende alcuni aspetti della procedura fallimentare, ma contiene un certo numero di elementi di aiuto, ha concluso che essa "introduce un regime di aiuti di Stato in favore delle imprese in crisi, illegittimamente posto in essere dall'Italia in violazione degli obblighi ad essa incombenti ai sensi dell'art. 88, par. 3 del Trattato"; regime incompatibile con il mercato comune, così finendo per statuire (art. 2 del dispositivo) che tale regine "è illegittimo e incompatibile con il mercato comune". Dall'esame congiunto delle citate decisioni non si appalesa conseguente l'assunto che la legge di cui si tratta sia illegittima nel suo intero articolato, ma che illegittimi siano, in quanto esistenti per essere stati in concreto accertati, gli specifici elementi deroga tori della disciplina generale sul fallimento, nei quali non è dato rinvenire l'azione revocatoria di cui all'art. 67 L. Fall., che è di applicazione estesa a tutte le procedure concorsuali che presuppongono la insolvenza, non essendo dato comprendere la ragione della estensione della illegittimità all'intero istituto concorsuale, che per molti versi si conforma a quelli di diritto comune, una volta che la norma del Trattato fa, come si è visto, espresso divieto di specifici aiuti e dunque sancisce la illegittimità del "regime" di cui è costituito, non anche della sede normativa in cui è collocato, nella sua totalità. Nè può condividersi il rilievo della ricorrente che la illegittimità della intera legge - per come accertata e dichiarata dalle istituzioni comunitarie - derivi dal fatto che non sia mai stata notificata alla Commissione, posto che, anche per tale aspetto, illegittimo deve ritenersi "il regime" degli aiuti di Stato in essa introdotto, nella parte in cui lo contempla; sicchè è indifferente, in relazione alla questione di cui si tratta, che investe esclusivamente la ammissibilità della revocatoria fallimentare nella amministrazione straordinaria, stabilire se siano in discussione aiuti nuovi o esistenti, sfuggendo tale azione in via assoluta alla categoria degli aiuti in questione. Nè ha, del pari, rilievo la distinzione tra fase conservativa e fase liguidatoria (Cass. 574/2007; 18552/2006; 21823/2005), donde ricavare che l'azione, solo in quanto esercitata in quest'ultima, non comporta aiuti alle imprese, sebbene la ricorrente abbia ritenuto di individuare aiuti anche in essa; e ciò in quanto la revocatoria non favorisce altri che la generalità dei creditori. Va preliminarmente osservato che, come già rilevato da autorevole dottrina, sebbene nella amministrazione straordinaria possa ritenersi prevalente la finalità del risanamento dell'impresa sui profili liquidatori, l'azione revocatoria, nella previsione della L. n. 95 del 1979, non era affatto preordinata alla continuazione dell'impresa e alla attuazione del programma di risanamento, ma anche a produrre risorse da destinare alla espropriazione forzata a fini satisfattori, di tutela degli interessi dei creditori, costituendo comunque il fine della procedura, tant'è che sia nel primo che nel quarto comma dell'art. 2 della legge citata l'apprezzamento di quegli interessi è considerato fondamentale per la continuazione dell'impresa e per il programma di risanamento dell'azienda, e dunque anche all'interno della fase di esecuzione di esso. Ed è irrilevante che il bene recuperato con l'azione revocatoria non sia destinato immediatamente alla liquidazione e al riparto tra i creditori, essendo sufficiente che concorra con gli altri beni a determinare il patrimonio ripartibile al termine del tentativo di risanamento, dal momento che nella legge speciale non vi è nulla che autorizzi a limitare l'applicazione di tale azione in ragione di diverse utilità. Tali rilievi portano a non condividere le affermazioni della decisione 27.12.1996 n. 11519 di questa Corte, che ha considerato centrale nella amministrazione straordinaria della L. n. 95 del 1979 la funzione conservativa dell'impresa, al punto che l'azione di cui si tratta, per le sue finalità recuperatorie, può essere ritenuta coerente solo con la fase liquidatori a e dunque esercitabile non prima del momento in cui inizia la liquidazione dei beni. Se con il richiamo dell'art. 1, ultimo comma della legge agli artt. 195 ss. - e dunque anche all'art. 203 L. Fall. - la revocatoria trova piena, indistinta ed immediata possibilità di esercizio nella procedura di amministrazione straordinaria, non essendo dato distinguere fasi di risanamento da fasi di liquidazione e tanto meno rinvenire preclusioni, come nella L. n. 270 del 1999, che le due fasi contempla e l'azione revocatoria ammette solo "se è stata autorizzata la esecuzione di un programma di cessione dei complessi aziendali, salvo il caso di conversione della procedura in fallimento", ai sensi dell'art. 49 - che, non avendo natura processuale, non può trovare applicazione retroattiva (Cass. 8539/2000),

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considerato il disposto della L. 270 citata, art. 106, secondo cui, salvo quanto previsto dal comma 3, le procedure di amministrazione straordinaria in corso alla data di entrata in vigore del decreto continuano ad essere regolate dalle disposizioni anteriormente vigenti - non trova adeguato sostegno giuridico la tesi che suppone limitazioni temporali all'esercizio dell'azione di cui si tratta, all'interno della procedura in questione e nel vigore della L. n. 95 del 1979. Giova in tal senso il rilievo che la finalità del risanamento e quella satisfattiva non corrispondono a due distinti periodi della procedura, potendo le attività liquidatoria e di ripartizione dell'attivo essere svolte anche durante la prosecuzione dell'esercizio dell'impresa, come dimostra la duplice circostanza che l'attività diretta alla formazione dello stato passivo la legge stabiliva che fosse avviata subito dopo l'apertura della procedura (art. 209 richiamato), conformemente ai tempi previsti per le altre procedure concorsuali di natura liquidatoria, e che a norma dell'art. 2 il programma predisposto dal commissario dovesse prevedere, n tenendo conto dell'interesse dei creditori", un piano di risanamento coerente con gli indirizzi della politica industriale, con indicazione specifica degli impianti da riattivare e di quelli da completare, nonchè n degli impianti o complessi aziendali da trasferire"; attività liquidatoria quest'ultima, il cui realizzo il citato art. 2 stabiliva che fosse impiegato per la distribuzione di acconti ai creditori o ad alcune categorie di essi. Nè può costituire ragione limitativa dell'esercizio della azione in questione la probabilità che il programma di risanamento consegua risultati positivi, senza far luogo alla liquidazione, perchè quel programma è pur sempre mirato, come si è visto, al pari della continuazione dell'esercizio dell'impresa (L. n. 95 del 1979, art. 2, comma 1 e 5), alla tutela dell'interesse dei creditori e dunque con funzione anche satisfattiva; mentre la possibilità che le passività siano estinte con il realizzo di quella azione, senza far luogo alla liquidazione, non contraddice la natura della procedura seguita alla insolvenza e destinata a regolarla con criteri di concorsualità, cui non è affatto estranea tale azione, rivolta come è ad assicurare risorse per estinguere le passività, così come non contraddice la natura decisamente liquidatoria del fallimento l'esercizio provvisorio dell'impresa, che ne consente la conservazione nel mercato, al pari del concordato fallimentare remissorio con pagamento, il quale non vanifica l'esito positivo di azioni revocatorie già esperite e concluse e ne consente persino l'ulteriore loro corso, una volta che siano state cedute all'assuntore eventuale. Nell'area di applicazione della L. n. 95 del 1979, non trova dunque la revocatoria fallimentare ostacoli nella eventualità che la ristrutturazione dell'azienda sia conseguita senza che si faccia luogo alla liquidazione, come non le trova nel fallimento - anche alla stregua della recente riforma, introdotta con la L. 14 maggio 2005 ed il D.Lgs 9 gennaio 2006, n. 5 - per il fatto che la procedura possa chiudersi con la estinzione totale delle passività o con un concordato, senza che sia stata preceduta da atti liquidatori. Alla luce di tali considerazioni la conclusione che mancano ragioni per ritenere che nell'amministrazione straordinaria regolata dalla L. 95/1979 sussistano specifici elementi derogatori della disciplina generale del fallimento tali da integrare aiuti di Stato, allorchè viene consentito l'esercizio della revocatoria fallimentare, non ha motivo di essere circoscritta alla così detta fase liquidatoria, come ha ritenuto questa Corte in fattispecie nelle quali l'azione era stata esercitata in siffatta situazione (Cass. 4206/2006; 21083/2005) e nelle quali, dunque, l'argomento è apparso assorbente della questione; e ciò in quanto non è rilevante, al fine della individuazione dell'aiuto di Stato, che l'azione sia esercitata prima o durante la liquidazione di beni aziendali, quanto che sia direttamente ed esclusivamente destinata alla conservazione dell'impresa nel mercato, piuttosto che all'estinzione delle sue passività, la quale, pur consentendone la sopravvivenza, non realizza quell'aiuto, dal momento che la continuazione dell'attività si compie in circostanze in cui non sarebbe interdetta nell'ambito di applicazione delle regole vigenti in materia fallimentare. Ed è irrilevante che dell'esercizio provvisorio sia stata autorizzata con legge la continuazione per ciò che attiene alla società ricorrente, tale circostanza, non essendo idonea a svalutare le considerazioni che precedono in ordine all'equiparazione, per tale aspetto, delle norme della L. n. 95 del 1979 alla disciplina generale del fallimento. Infondato è anche il secondo motivo quanto il dubbio di incostituzionalità con esso espresso. Infatti è del tutto inconferente il richiamo alla L. n. 273 del 2002, art. 7, atteso che la cessazione della funzione dei commissari delle procedure di amministrazione straordinaria al sessantesimo giorno dall'entrata in vigore di tale legge non è in alcun modo idonea a rendere improcedibili le azioni già avviate, la cui validità e proseguibilità sono addirittura espressamente confermate dalla norma; e apodittico è l'assunto che l'azione, una volta che la procedura è convertita in liquidazione coatta amministrativa, non gioverebbe più alla massa dei creditori, ma solo a soddisfare i debiti sorti durante la continuazione dell'esercizio dell'impresa, avendo la ricorrente mancato di fornire adeguate argomentazioni a sostegno della doglianza. Il quarto mezzo non ha pregio alcuno. La corte territoriale, dopo avere rilevato che la eccezione era stata "proposta in maniera laconica e non esaustiva", ha osservato che essa " non consente neanche di apprezzare per quali ragioni le motivazioni della suddetta pronuncia costituirebbero presupposto logico giuridico della presente fattispecie che si troverebbe, per modo di dire, in un rapporto indissolubile di dipendenza con la citata decisione". Ed ha aggiunto "che la delibazione di un altro mandato irrevocabile all'incasso di crediti, intercorso tra le parti, non ha nulla a che vedere nè direttamente nè indirettamente con la delibazione della concreta fattispecie oggetto di questo giudizio". La ricorrente, che nella epigrafe del motivo ha dedotto la "assoluta e completa mancanza di motivazione", pur a fronte

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delle ragioni della decisione dal giudice di merito esplicitate, ha poi insistito nel valorizzare il precedente che assume esserle favorevole, dello stesso tribunale, in una fattispecie identica e tra le stesse parti, mancando però di criticare quelle ragioni, che fanno leva su pacifici principi di diritto, e ancora in questa sede omettendo di giustificare l'assunto, che pure ribadisce, ovvero giustificandolo con la generica enunciazione del principio che c'è un giudicato implicito quando tra la questione risolta espressamente e quella risolta implicitamente esiste un rapporto indissolubile di dipendenza, nel senso che l'accertamento contenuto nella motivazione della sentenza cade su questioni che si presentano come la necessaria premessa o il presupposto logico giuridico della decisione; assunto del tutto inconferente rispetto a quanto la sentenza impugnata ha osservato, e che lascia in termini del tutto apodittici la conclusione successiva, secondo cui n il principio espresso dal Tribunale di Bari e contenuto in una sentenza oramai passata in giudicato, resa tra le stesse parti, relativamente ad una identica fattispecie sostanziale, doveva e deve pertanto ad ogni effetto ritenersi vincolante". I motivi successivi, quinto, sesto e settimo, non possono avere sorte migliore. Quanto al rilievo che oggetto della azione fosse stato il mandato irrevocabile all'incasso, che non aveva avuto natura solutoria e che comunque la dichiarazione di inefficacia sia stata estesa alle rimesse, deve osservarsi che la corte di merito ha accertato quella natura del negozio in relazione alle finalità che esso aveva avuto, di fare incassare cioè tutte le somme riguardanti il credito che ne formava oggetto, "da accreditare sul c/c n. (OMISSIS)"; espressione che si è ritenuto costituire la prova dell'intento di CCR di cedere alla banca il credito mediante la esplicita autorizzazione ad utilizzare le somme ce avrebbe ricevuto. Ciò posto, non merita censure, perchè adeguatamente motivata e conforme a principi di diritto, l'affermazione che il mandato abbia avuto funzione solutoria, essa emergendo dal risultato finale dell'operazione, attraverso l'utilizzazione delle rimesse successive acquisite dalla banca; ed altrettanto esente da censure è la valutazione in ordine alla conseguenza che se n'è tratta, in ordine alla revoca delle rimesse, la cui inefficacia non poteva che conseguire in via immediata e diretta alla inefficacia del mandato. Quanto alla entità delle rimesse, la corte territoriale ha fatto riferimento alla indagine disposta in sede di appello, attraverso una consulenza tecnica di ufficio, che ha avuto la funzione di ricostruire le operazioni esistenti in relazione al giudizio di inefficacia che era stato proposto e non anche di accertarle, la cui ammissione è stata dunque conforme a legge ed i cui risultati la sentenza impugnata ha condiviso; sicchè a nulla rileva che essa sia stata compiuta su documenti prodotti in appello, dal momento che quella attività è servita solo a semplificare l'indagine e che gli elementi di giudizio il giudice ha desunto da atti che avrebbe potuto, ove non fossero stati mezzi a disposizione dalla parte appellante, il c.t.u. acquisire direttamente. Nè giova dedurre che i documenti erano inidonei perchè contenenti saldi per valuta o contabili e non saldi disponibili, in quanto il giudizio della corte di merito è stato riferito alla indagine del consulente, alla quale non viene mosso alcun addebito in termini di corrispondenza ai saldi considerati idonei. Quanto infine alla affermazione che nel presente giudizio sia stata ripetuta una richiesta di inefficacia oggetto di altri giudizi, relativa all'incasso di notule del periodo maggio e luglio 1993, la deduzione, resistita dalla controricorrente - che ha richiamato le difese iniziali con le quali il giudizio è stato introdotto, che hanno riferimento alle notule delle prestazioni dei mesi di gennaio e marzo 1993 - è improponibile in questa sede, supponendo errori di fatto. L'ultimo mezzo è privo di consistenza giuridica. La sentenza impugnata ha non solo rilevato che nessuna prova la convenuta aveva dato della sua inscientia decoctionis, dovendo trovare applicazione l'art. 67 L. Fall., comma 1, n. 2, ma che i numerosi conti intrattenuti da CCR presso Caripuglia avevano raggiunto esposizioni talmente elevate che "la società era stata costretta in epoca precedente al mandato per cui è causa ad offrire fideiussioni a firma di società controllate, garanzie, pegni in danaro e su quote sociali, cessioni di crediti, mandati irrevocabili all'incasso e quant'altro", sicchè nessuna ragione ha di dolersi la ricorrente, sia laddove nega che siano esistite prove della esistenza dello stato di decozione - accertate ad abudantiam, sebbene quello stato, in quanto riferito al periodo sospetto, fosse presunto - sia laddove afferma di non averne avuto conoscenza. Infondato è anche il ricorso incidentale, con cui è censurato il punto della decisione che ha escluso dalla pronunzia di inefficacia le operazioni iniziali, che erano state eseguite sul conto (OMISSIS) e sui libretti di deposito in possesso della banca, in quanto prive di carattere solutorio. La corte di merito ha rilevato che le operazioni iniziali effettuate su tale conto affidato per L. 15 miliardi, sul quale venivano concesse le anticipazioni sui mandati presentati per l'incasso, non fossero solutorie, quanto quelle sui libretti di deposito, trovando le prime idonea e completa copertura ed essendo quindi meramente ripristinatorie e le altre essendo insuscettibili oggettivamente di essere revocate.; mentre di segno contrario e dunque solutorie ha valutato le successive di giroconto, che avevano consentito alla banca di estinguere situazioni debitorie di conti correnti non affidati o con esposizioni extrafido. Ha pertanto dichiarato inefficaci le rimesse eseguite con giroconto dai libretti di deposito sul conto (OMISSIS), nella misura della scopertura pari a L. 1.426.674.597; quella di L. 38.033.228, passata da tale conto all'altro n. (OMISSIS) non

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affidato e con saldo debitorio di oltre L. un miliardo e quella di L. 540.908.437 dello stesso conto (OMISSIS) al conto (OMISSIS) che nel momento dell'accredito presentava un saldo extrafido per tale importo. L'assunto della ricorrente incidentale - che anche le rimesse sul conto (OMISSIS) dovessero essere revocate, nella misura ulteriore di Euro 501.155,25, essendo finalisticamente anch'esse solutorie, in quanto oggetto di successive operazioni di giroconto, sul n. (OMISSIS) e da questo sul conto n. (OMISSIS), l'uno e l'altro con saldi debitori, e ancora dal conto (OMISSIS) a quello n. (OMISSIS), intanto divenuto con saldo debitorio ultrafido di L. 200.000.000 - non può essere condiviso, in quanto la deduzione suppone l'accertamento in fatto di volontà negoziali, con riguardo a siffatti passaggi, che è mancato nei giudizi di merito ed è stato affidato ad una mera supposizione di ordine logico, improponibile in sede di legittimità. La reciproca soccombenza è motivo di compensazione delle spese processuali. P.Q.M. La Corte rigetta i ricorsi riuniti e compensa le spese processuali. Così deciso in Roma, il 13 marzo 2007. Depositato in Cancelleria il 25 maggio 2007 Cassazione civile , sez. I, 03 maggio 2007 , n. 10208 LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. LOSAVIO Giovanni - Presidente - Dott. PLENTEDA Donato - Consigliere - Dott. PANZANI Luciano - Consigliere - Dott. DEL CORE Sergio - Consigliere - Dott. SALVATO Luigi - rel. Consigliere - ha pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso proposto da: Capitalia s.p.a. (nuova denominazione assunta dalla Banca di Roma s.p.a.), anche quale successore a titolo universale del Banco di Sicilia s.p.a., per intervenuta fusione per incorporazione con atto del Notaio Gennaro Mariconda di Roma del 18 giugno 2002, Rep. N. 41724, racc. n. 11058, in persona degli avv. Giusti Francesco Saverio e Palazzolo Francesco, che congiuntamente la rappresentano giusta delibera del Consiglio di amministrazione del 13 giugno 2002, depositata agli atti del notaio Gennaro Mariconda in data 1 luglio 2002, Rep. N. 41808, racc. n. 11092, elettivamente domiciliata in ROMA, via G. Rossini n. 9, presso l'avv. prof. Irti Natalino, dal quale è rappresentata e difesa disgiuntamente agli avv. Tristano Giuseppe, Leonini Antonio e prof. Leonini Fernando, in virtù di procura in calce al ricorso; - ricorrente - e Banco di Sicilia società per azioni, in qualità di successore a titolo particolare di Capitalia s.p.a., in quanto beneficiarla del conferimento dell'azienda bancaria già di pertinenza del cessato Banco di Sicilia s.p.a., in virtù di atto per notaio Gennaro Mariconda di Roma del 21 giugno 2002, Rep. N. 41753, racc. n. 11066, in persona dell'avv. L.G.P., elettivamente domiciliata in

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ROMA, via G. Rossini n. 9, presso l'avv. prof. Irti Natalino, dal quale è rappresentata e difesa disgiuntamente agli avv. Tristano Giuseppe, Leonini Antonio e prof. Leonini Fernando, in virtù di procura conferita con atto per notaio Ugo Serio di Palermo del 16 dicembre 2003, Rep. N. 63524; - ricorrente - contro Micoperi s.p.a. in amministrazione straordinaria, in persona dei commissari straordinari avv. C.B. e prof. Dr. L. M., elettivamente domiciliata in ROMA, viale di Villa Grazioli n. 20, presso il prof. Avv. Brancadoro Gianluca, dal quale è rappresentata e difesa, in virtù di procura a margine del controricorso e ricorso incidentale; - controricorrente e ricorrente incidentale - e San Paolo Imi s.p.a.; - intimata - Capitalia s.p.a (nuova denominazione assunta dalla Banca di Roma s.p.a.), anche quale successore a titolo universale del Banco di Sicilia s.p.a., in persona degli avv. Giusti Francesco Saverio e Palazzolo Francesco, elettivamente domiciliata in ROMA, via G. Rossini n. 9, presso l'avv. prof. Irti Natalino, dal quale è rappresentata e difesa disgiuntamente agli avv. Tristano Giuseppe, Leonini Antonio e prof, Leonini Fernando, in virtù di procura in calce al ricorso; - controricorrente e ricorrente incidentale - e Banco di Sicilia società per azioni, in qualità di successore a titolo particolare di Capitalia Società per azioni, in persona dell'avv. L.G.P., elettivamente domiciliata in ROMA, via G. Rossini n. 9, presso l'avv. prof. Irti Natalino, dal quale è rappresentata e difesa disgiuntamente agli avv. Tristano Giuseppe, Leonini Antonio e prof. Leonini Fernando, in virtù di procura conferita con atto per notaio Ugo Serio di Palermo del 16 dicembre 2003, Rep. N. 6352 4; - controricorrente e ricorrente incidentale- E R.G. n. 1510/04; SANPAOLO Imi s.p.a. (ora spa Intesa Sanpaolo), in persona del Presidente dr. M.R. e per esso del procuratore speciale avv. B.E., in virtù di procura speciale per notaio Daniele Buzzoni di Torino del 10 ottobre 2001 - elettivamente domiciliata in Roma, piazza di Pietra, 26, rappresentata e difesa, anche disgiuntamente dagli avv.ti. Magnifico Antonio e Magrone Giandomenico, in virtù di procura a margine del ricorso e di procura speciale con atto per notaio Carlo Boggio di Torino del 23 gennaio 2007, Rep. N. 113322, rilasciata dal dr N.P., in forza di procura conferitagli dall'amministratore delegato della Sanpaolo Imi s.p.a., confermata nell'atto di fusione tra Banca Intesa S.p.a.- Sanpaolo Imi s.p.a., a rogito notaio Ettore Morone di Torino (Rep. N. 109563, racc. n. 17118), in ragione del quale si è costituita Intesa Sanpaolo s.p.a., incorporante il Sanpaolo Imi s.p.a.; - ricorrente - contro Micoperi s.p.a. in amministrazione straordinaria, in persona dei commissari straordinari avv. B.C. e prof. dr. L. M., elettivamente domiciliata in ROMA, viale Liegi n. 28, presso

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lo studio dell'avv. Pierallini Laura, dalla quale è rappresentata e difesa, in virtù di procura a margine del controricorso; - controricorrente - e Capitalia s.p.a (nuova denominazione assunta dalla Banca di Roma s.p.a.), anche quale successore a titolo universale del Banco di Sicilia s.p.a., per intervenuta fusione per incorporazione con atto del Notaio Gennaro Mariconda di Roma del 18 giugno 2002, Rep. N. 41724, racc. n. 11058, in persona degli avv. Giusti Francesco Saverio e Palazzolo Francesco, che congiuntamente la rappresentano giusta delibera del Consiglio di amministrazione del 13 giugno 2002, depositata agli atti del notaio Gennaro Mariconda in data 1 luglio 2002, Rep. N. 41808, racc. n. 11092, elettivamente domiciliata in ROMA, via G. Rossini n. 9, presso l'avv. prof. Irti Natalino, dal quale è rappresentata e difesa disgiuntamente agli avv. Tristano Giuseppe, Leonini Antonio e prof. Leonini Fernando, in virtù di procura in calce al controricorso; - controricorrente - avverso la sentenza della Corte d'appello di Milano depositata il 22 novembre 2002, n. 2797; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 13 marzo 2007 dal Consigliere Dott. Luigi SALVATO; uditi (ric. 782/04 e n. 4383/04)per la ricorrente Capitalia s.p.a. gli avv.ti G. Tristano e A. Leonini, i quali hanno chiesto l'accoglimento del ricorso ed il rigetto del ricorso incidentale della Micoperi s.p.a. in a.s.; per la Micoperi s.p.a., controricorrente e ricorrente incidentale, l'avv. Giorgio Romano, su delega, che ha chiesto il rigetto del ricorso e l'accoglimento del ricorso incidentale; uditi (ric. n. 1510/04) per la ricorrente Sanpaolo Imi s.p.a. l'avv. G. Magrone che ha chiesto l'accoglimento del ricorso; per la controricorrente Micoperi s.p.a. l'avv. L. Pierallini, che ha chiesto il rigetto del ricorso; per la controricorrente Capitalia s.p.a. gli avv.ti G. Tristano e A. Leonini che hanno chiesto l'accoglimento del primo motivo ed il rigetto del secondo, come da controricorso; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dr. SCHIAVON Giovanni, che ha concluso per il rigetto dei ricorsi, principale e incidentale. Fatto 1.- La Micoperi s.p.a., in amministrazione straordinaria (infra, Commissario straordinario), con cinque atti di citazione notificati a far data dal 23 marzo 1995 (dei quali soltanto tre rilevano nel presente giudizio), conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Milano la Banca di Roma (anche quale successore della Cassa di risparmio di Roma e dsl Banco di Santo Spirito), l'Istituto S. Paolo di Torino (poi San Paolo-IMI) ed il Banco di Sicilia, chiedendo che fossero dichiarati inefficaci alcuni pagamenti effettuati dalla Micoperi s.p.a. nell'anno anteriore all'ammissione della società al concordato preventivo. L'istante deduceva che la Micoperi s.p.a. aveva stipulato un contratto di finanziamento con la Banca di Roma, in pool con il Banco di Sicilia, S. Paolo di Torino, Banca commerciale italiana e Banca Nazionale del Lavoro, ricevendo la somma di L. 40 miliardi, non onorando l'obbligo del rimborso alla prima scadenza. La Banca di Roma aveva acquisito l'importo di L. 4.250.000.000 affluito sul conto della debitrice, quale pagamento effettuato da un debitore estero, distribuendo la somma, pro-quota, tra le banche creditrici, in ragione di L. 850 milioni ciascuna. Il Commissario straordinario chiedeva che fossero revocati detti pagamenti, nonchè le rimesse effettuate sul conto della Micoperi s.p.a. acceso presso il Banco di Santo Spirito - per l'importo di L. 1.515.448.507 e di L. 330.972.371 (somma quantificata in forza del criterio dei versamenti per saldo di valuta)- nonchè sul conto aperto presso la Cassa di risparmio

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di Roma per L. 17.217.833. L'istante chiedeva, inoltre, la revoca del giroconto con il quale il Banco di Sicilia, dopo l'apertura della procedura di concordato preventivo, aveva acquisito la somma di L. 965.228.443, proveniente da terzi, a titolo di parziale compensazione con il credito derivante dal citato finanziamento. La domanda nei confronti dell'Istituto Bancario S. Paolo di Torino era limitata alla somma di L. 850 milioni. Nei giudizi si costituivano tutti i convenuti; la Banca di Roma interveniva volontariamente nei giudizi promossi contro il Banco di Sicilia e l'Istituto S. Paolo di Torino. L'Istituto S. Paolo di Torino eccepiva: la carenza di legittimazione, in quanto il contratto di finanziamento in questione era stato stipulato dalla sola Banca di Roma; la compensazione ex art. 1853 c.c. ed opponeva l'inscientia decoctionis. Il Banco di Sicilia eccepiva l'inammissibilità dell'azione revocatoria, sostenendo di avere operato legittime compensazioni e, comunque, contestava di avere avuto conoscenza dello stato di insolvenza della debitrice. La Banca di Roma eccepiva la compensazione in riferimento all'operazione relativa al finanziamento concesso in pool con le altre banche; in relazione alle rimesse, osservava che erano state effettuate su conto non scoperto e che il computo avrebbe dovuto essere effettuato in forza del criterio dei saldi disponibili e, comunque, contestava la conoscenza dello stato di insolvenza. L'attrice, a seguito delle contestazioni sollevate dalla Banca di Roma, rettificava l'importo richiesto, riducendolo a seguito del riferimento al criterio del saldo disponibile. Le tre cause che in questa sede interessano erano riunite ed il Tribunale, con sentenza del 25 marzo 1999, così provvedeva: 1) sulla domanda di revoca dei pagamenti dell'importo di L. 850 milioni in favore di ciascuna delle tre banche convenute, riteneva che la Banca di Roma aveva agito quale banca agente in rappresentanza delle altre che avevano concesso il finanziamento e, conseguentemente, reputava effettuato in favore di tutte, pro-quota, il pagamento di L. 4.250 milioni ed accoglieva l'eccezione di compensazione limitatamente alla Banca di Roma, alla quale la Micoperi s.p.a. aveva conferito un mandato irrevocabile all'incasso, escludendo tuttavia la revocabilità del versamento, poichè tra la prima e la seconda non sussisteva un rapporto di conto corrente; riteneva, inoltre, che "la Banca di Sicilia non aveva provato di essere debitrice della somma a credito della Micoperi derivante da un bonifico effettuato dall'Ente Porto di Trieste, perchè non vi era corrispondenza tra l'importo di L. 925.250.235 accreditato dall'Ente Porto di Trieste sul conto presso la filiale di Trieste ed il giroconto di L. 964.671.563 dal predetto conto a quello presso la filiale di Milano a decurtazione del maggior debito per finanziamento"; 2) dichiarava infondata la domanda di revoca dei pagamenti di L. 1.515.448.507 e di L. 330.972.371 in favore del Banco di S. Spirito (incorporata dalla Banca di Roma); 3) dichiarava revocabili per l'importo di L. 15.730.993 i pagamenti in favore della Cassa di Risparmio di Roma (incorporata dalla Banca di Roma); 4) riteneva che dal bilancio della società sottoposta ad a.s. alla data del 31.12.1988 si ricavavano elementi a conforto della scientia decoctionis; dunque il Tribunale accoglieva la domanda proposta contro la Banca di Sicilia quanto al pagamento di L. 850 milioni, nonchè quella nei confronti del Banco di Sicilia, in relazione al versamento di L. 1.814.671.563. 2.- Il San Paolo-IMI ed il Banco di Sicilia spa proponevano distinti appelli; nel giudizio si costituivano gli appellati ed il Commissario straordinario proponeva appello incidentale nei confronti della Banca di Roma. La Corte d'appello di Milano, con sentenza del 22 novembre 2002, riunite le cause, in riforma della impugnata sentenza, così provvedeva: a) dichiarava inefficaci i tre pagamenti per l'importo di L. 850 milioni ciascuno effettuati in favore della Banca di Roma, del S. Paolo-IMI e del Banco di Sicilia, condannandoli a pagare le relative somme, oltre interessi legali dalla domanda al saldo; b) dichiarava inefficace il pagamento di L. 964.671.563 in favore del Banco di Sicilia, condannandolo a pagare la relativa somma, oltre interessi legali dalla domanda al saldo; c) dichiarava inefficace il pagamento di L. 139.082.234 in favore della Banca di Roma (quale incorporante del Banco di S. Spirito), condannandola a pagare la relativa somma, oltre interessi legali dalla domanda al saldo; d) condannava il Banco di Sicilia, il S. Paolo-IMI e la Banca di Roma a pagare le spese processuali del primo grado, nonchè quelle del secondo grado, limitatamente ad un terzo. 2.1.- Per quanto qui interessa, la sentenza della Corte territoriale: A) dichiarava inammissibile, perchè tardiva, in quanto sollevata in comparsa conclusionale, l'eccezione di incompatibilità delle norme della L. 3 aprile 1979, n. 95, con le norme comunitarie; B) rigettava l'eccezione di inammissibilità dell'appello incidentale sollevata dalla Banca di Roma, nonchè quella del S. Paolo-IMI, di difetto di legittimazione passiva, ritenendo sussistente un rapporto di mandato tra S. Paolo-IMI, Banco di Sicilia e Banca di Roma, essendo le prime due mandanti della terza e, in accoglimento dell'impugnazione incidentale, accoglieva la domanda di revocatoria dei pagamenti in favore delle tre banche, per l'importo di L. 850 milioni,

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escludendo l'applicabilità della compensazione anche in riferimento alla Banca di Roma; C) rigettava l'appello del Banco di Sicilia in relazione al pagamento di L. 964.671.563, affermando che i documenti prodotti dimostravano il versamento da parte dell'Ente Porto di Trieste sul conto corrente della Micoperi acceso presso la filiale di Trieste, nonchè il giroconto di maggior importo dal predetto conto a quello presso la filiale di Milano, "a decurtazione maggior debito per finanziamento in pool" e che, tuttavia, non operava la compensazione, "non trattandosi di riscossione di un mandato, ma di accredito di un bonifico ordinato da un terzo, che costituisce sempre pagamento revocabile del correntista alla banca; D) in relazione al pagamento di L. 1.863.638.711 in favore del Banco di S.Spirito e della Cassa di Risparmio di Roma, premetteva che l'appellante incidentale aveva lamentato: a) l'applicazione del criterio del saldo disponibile; b) la ritenuta novità della domanda di revoca svolta in riferimento al criterio del saldo disponibile; c) la considerazione, ai fini del saldo disponibile, del solo versamento di L. 2.154.681.688, ritenuto non solutorio, mentre per L. 33.593.786 comportava un rientro da scoperto, senza considerare il versamento di L. 500 milioni, comportante un rientro da scoperto di L. 139.082.234. La sentenza riteneva l'appello infondato quanto al primo accredito e fondato quanto al secondo, osservando: in ordine al punto a), che andava condiviso l'orientamento consolidatosi nella giurisprudenza sin dal 1994; in relazione al punto b) che, allo scopo di accertare la novità della domanda, correttamente il Tribunale aveva avuto riguardo ai singoli versamenti e non all'importo complessivo, con la conseguenza che "quando, mutato il criterio (da saldo per valuta a saldo disponibile), la procedura, pur chiedendo un importo totale minore, fa valere un versamento nuovo non indicato nell'atto di citazione, la domanda di revoca di quel versamento è nuova e inammissibile in mancanza (come nella specie) di accettazione del contraddittorio"; in riferimento al punto e) riteneva solutoria la rimessa limitatamente all'importo di L. 139.082.234. Relativamente alla scientia decoctionis, la pronuncia osservava che nel caso della azione revocatoria fallimentare ai sensi della L. Fall., art. 67, comma 2, il curatore fallimentare deve provare, anche mediante presunzioni, la conoscenza effettiva dello stato di insolvenza. Nella specie, il contratto di finanziamento prevedeva l'obbligo della Micoperi s.p.a. di inviare tempestivamente la copia del bilancio e, quindi, risultava comprovato l'interesse dei finanziatori, contrattualmente tutelato, ad averne conoscenza, che costituisce "circostanza grave e precisa che da sola induce logicamente a ritenere che le banche hanno ricevuto copia del bilancio". In riferimento al momento della conoscenza, la sentenza condivideva la valutazione prudenziale del Tribunale, che l'aveva fatta risalire al 1 ottobre 1989, mentre con riguardo alla valutazione dei dati di bilancio non occorreva certo l'attenzione e l'intelligenza proprie di tre grandi istituti di credito (...) per ritenere in stato di insolvenza la Micoperi, il cui bilancio presentava una perdita di esercizio di L. 23.522.939.767, escludendo la "violazione del divieto della praesumptio de praesumpto. La Corte territoriale rigettava infine l'eccezione della Banca di Roma diretta a sostenere che i pagamenti erano stati effettuati prima della data di conoscenza dell'insolvenza - fissata al 1 ottobre 1989 - e cioè il 19 luglio 1989. 3.- Per la cassazione della citata sentenza hanno proposto ricorso, con un unico atto, Capitalia s.p.a (nuova denominazione assunta dalla Banca di Roma s.p.a.), anche quale successore a titolo universale del Banco di Sicilia s.p.a., per intervenuta fusione per incorporazione, nonchè il Banco di Sicilia società per azioni, in qualità di successore a titolo particolare di Capitalia s.p.a., in quanto beneficiarla del conferimento dell'azienda bancaria già di pertinenza del cessato Banco di Sicilia s.p.a., affidato ad otto motivi; ha resistito con controricorso la Micoperi s.p.a. in amministrazione straordinaria, che ha proposto ricorso incidentale articolato su di un motivo, al quale hanno resistito con controricorso le ricorrenti principali, proponendo con tale atto, in relazione al motivo proposto dalla Micoperi, ricorso incidentale condizionato; non ha svolto attività difensiva S. Paolo-Imi s.p.a. In prossimità dell'udienza fissata per il 24 ottobre 2006, hanno depositato memoria le ricorrenti e la Micoperi s.p.a. in a.s.. 3.1.- Per la cassazione della citata sentenza ha altresì proposto ricorso la SANPAOLOIMI s.p.a., affidato a due motivi; hanno resistito con controricorso la Micoperi s.p.a. in amministrazione straordinaria e Capitalia s.p.a. 3.2.- All'udienza del 24 ottobre 2006, la Corte, disposta la riunione dei ricorsi, ha rinviato la causa a nuovo ruolo. In prossimità dell'udienza del 13 marzo 2007 hanno depositato memorie Capitalia s.p.a., SANPAOLOIMI s.p.a. (ora spa Intesa Sanpaolo) e Micoperi s.p.a. in amministrazione straordinaria; la prima ha altresì depositato note di udienza. Diritto 1. - I ricorsi, principale ed incidentale, nonchè il ricorso proposto da SANPAOLO Imi s.p.a., come è stato dato atto nella narrativa, avendo ad oggetto la stessa sentenza (art. 335 c.p.c.), sono stati già riuniti. Il ricorso proposto dalla SANPAOLO IMI s.p.a. è stato peraltro irritualmente proposto in forma autonoma, in quanto,

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avendo Capitalia s.p.a. ed il Banco di Sicilia società per azioni impugnato la sentenza con ricorso notificato alla predetta il 31 dicembre 2003, quest'ultima, in virtù degli artt. 333 e 372 c.p.c. avrebbe dovuto proporre la propria impugnazione nella forma dell'impugnazione incidentale. Tuttavia, poichè detto ricorso è stato proposto entro il termine di quaranta giorni dalla notificazione dell'impugnazione principale, sussistono i presupposti per ritenerlo convertito in impugnazione incidentale (Cass. n. 20593 del 2004; n. 9232 del 2002; n. 8906 del 1999). Peraltro, il ricorso è stato notificato soltanto a Capitalia non al Banco di Sicilia società per azioni che, in virtù delle indicazioni recate in epigrafe, è beneficiaria del conferimento dell'azienda bancaria già di pertinenza del cessato Banco di Sicilia s.p.a. Tuttavia, in riferimento a quest'ultima, vertendosi in tema di impugnazione relativa a cause scindibili, poichè detta parte deve ritenersi decaduta dalla facoltà di proporre impugnazione incidentale in riferimento a detto ricorso, per decorso del termine di cui all'art. 327 c.p.c., non deve essere ordinata l'integrazione del contraddittorio, ai sensi dell'art. 332 c.p.c.. 2.- Le ricorrenti che hanno proposto il ricorso R.G. n. 782 del 2004, con il primo motivo, denunciano "violazione e falsa applicazione dell'art. 113 c.p.c., del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, della L. 3 aprile 1979, n. 95, del D.Lgs. 8 luglio 1999, n. 270, art. 67 (art. 106), dei principi generali sulla prevalenza delle disposizioni comunitarie sulle norme interne, degli artt. 92 e 93 del Trattato CE (ora 87 e 88), della decisione 16.5.2000 della Commissione della Comunità Economica Europea, dell'art. 234 del Trattato CE, dell'art. 3 della Costituzione della Repubblica (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3). Omessa insufficiente e contraddittoria motivazione sui prospettati punti decisivi della controversia (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5". Ad avviso delle istanti, la sentenza impugnata ha erroneamente configurato quale eccezione la deduzione diretta a far valere il contrasto della disposizione nazionale con il diritto comunitario che, secondo la giurisprudenza costituzionale, comporta il potere del giudice di disapplicare la prima (sent. n. 170 del 1984) all'esito di una verifica che, come ha affermato questa Corte, va svolta anche d'ufficio, in virtù di un'indagine ammissibile anche nel giudizio di legittimità, purchè l'applicabilità del diritto interno sia ancora controversa, in quanto abbia costituito oggetto del dibattito introdotto con i motivi di ricorso (Cass. n. 17564 del 2002), non essendo detta verifica, in sede di legittimità, neppure condizionata dalla formulazione di uno specifico motivo (Cass. n. 7909 del 2000). Le decisioni e le direttive comunitarie, qualora contengano una statuizione chiara e precisa, non condizionata e perfetta, idonea a far sorgere in capo ai privati una situazione giuridica suscettibile di essere tutelata innanzi ai giudici nazionali, comportano il potere- dovere del giudice nazionale di disapplicare la norma interna che contrasti con esse. La sentenza di questa Corte n. 17564 del 2002 - peraltro conformandosi alla Corte di giustizia delle comunità europee (sentenza 6 ottobre 1970, C. n. 9/70) - ha quindi affermato che le decisioni adottate dalla Commissione delle Comunità europee vincolano il giudice nazionale e quella in materia di aiuti di Stato ha efficacia diretta e prevalente rispetto ad una collidente norma di diritto interno, che deve essere disapplicata, e ciò anche nel vigore del testo dell'art. 117 Cost., comma 1, come novellato dalla Legge costituzionale n. 3 del 2001. Le ricorrenti deducono che la L. n. 95 del 1979 è stata giudicata in contrasto con l'art. 92 del Trattato CE, in quanto ha disposto "aiuti di Stato" e appunto per questo è stata abrogata dal D.Lgs. n. 270 del 1999. La Commissione delle comunità europee ha statuito che "il regime di cui alla L. n. 95 del 1979, di conversione del D.L. n. 26 del 1979, è illegittimo ed incompatibile con il mercato comune", precisando, in motivazione, che detta incompatibilità discende "dal regime in sè ed in particolare dai suoi meccanismi, senza che sia necessario nè giustificato analizzare individualmente i singoli casi di applicazione per pronunciarsi su di esso". Il D.Lgs. n. 270 del 1999, art. 106, non si sottrae a questa censura in quanto, attraverso il rinvio alle norme apparentemente abrogate, ha confermato la concessione di un aiuto di Stato, con la conseguenza che nessuna modificazione è stata introdotta, per le procedure in corso, rispetto alla normativa dettata dalla L. n. 95 del 1979, che resta incompatibile con le norme comunitarie, in virtù di un principio espressamente affermato dalla Corte europea nell'ordinanza 24 luglio 2003, C. n. 297/01. Inoltre, "autonomamente, la coesistenza di due distinte procedure di amministrazione straordinaria interessanti la medesima categoria di soggetti economici sarebbe comunque costituzionalmente illegittima per violazione quanto meno del principio di uguaglianza (art. 3 Cost.)". In conclusione, erroneamente la sentenza impugnata non ha rilevato l'incompatibilità originaria della L. n. 95 del 1979 con gli artt. 92 e 93 (ora, artt. 87 ed 88) del Trattato CE ed il permanere di detta incompatibilità anche dopo l'entrata in vigore del D.Lgs. n. 270 del 1999, inesattamente ritenendola rilevabile soltanto su istanza di parte. Inoltre, con motivazione perplessa e contraddittoria ha ritenuto che incombeva alla parte l'onere di offrire la prova concreta dei c.d. "aiuti di Stato", non avvedendosi "che nessuna ulteriore prova occorreva, per essere gli aiuti di Stato chiaramente e ripetutamente enunciati negli articoli della legge e, quindi, per essere connaturali al sistema dell'amministrazione straordinaria, ma che era intervenuta una pronuncia definitiva della Commissione". In ordine al D.Lgs. n. 270 del 1999, art. 106, la Corte d'appello non poteva pronunciarsi in difformità dalla sentenza della Corte di giustizia delle comunità europee del 24 luglio 2003 e, se non fosse incorsa negli errori denunciati, avrebbe dovuto disapplicare la L. n. 95 del

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1979, art. 3, comma 3, che ha legittimato il Commissario straordinario ad esercitare l'azione revocatoria fallimentare. 2-1.- La SANPAOLO Imi s.p.a., con il primo motivo del ricorso R.G. n. 1510 del 2004, denuncia "violazione e falsa applicazione dell'art. 113 c.p.c., degli artt. 87 e 88 (ex artt. 92 e 93) e dell'art. 234 del Trattato CE; della decisione 16 maggio 2000 della Commissione della Comunità Economica Europea, dei principi generali sulla prevalenza delle disposizioni comunitarie rispetto alle norme interne; del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 67, comma 2; della L. 3 aprile 1979, n. 95; del D.Lgs. 8 luglio 1999, n. 270, art. 106, della L. 12 dicembre 2002, n. 273, art. 7, in relazione al disposto dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5". L'istante sostiene di avere eccepito nel giudizio di secondo grado che la decisione della Commissione della CE del 16 maggio 2000 - la quale ha statuito l'illegittimità ed incompatibilità con il mercato comune del regime di cui alla L. n. 95 del 1979 - doveva considerarsi automaticamente estesa al D.Lgs. n. 270 del 1999, art. 106 poi "ribadito nella L. 12 dicembre 2002, n. 273, art. 7". La Corte territoriale ha invece erroneamente ritenuto che detta decisione non sia direttamente applicabile nel giudizio, in quanto obbligherebbe soltanto lo Stato destinatario, violando il principio enunciato dalla sentenza di questa Corte n. 17564 del 2000 e non considerando che, in virtù del principio enunciato da Corte cost. n. 170 del 1984, in virtù della prevalenza dell'ordinamento comunitario, la norma nazionale che con questo contrasto non può essere applicata nelle controversie innanzi al giudice italiano. Inoltre, la sentenza impugnata ha inesattamente qualificato la sua deduzione come eccezione inammissibile, senza considerare che, secondo l'orientamento di questa Corte, la compatibilità della norma nazionale con l'ordinamento comunitario deve essere verificata dal giudice anche di ufficio (Cass. n. 17564 del 2000; n. 7909 del 2000). Infine, ancora erroneamente, la Corte d'appello ha ritenuto applicabile la c.d. Legge-Prodi, in quanto essa istante non avrebbe provato che la Micoperi si sia avvalsa della facoltà consentita da detta legge di continuare l'attività d'impresa al di fuori delle regole previste dalla legge fallimentare, o comunque abbia beneficiato di uno o più vantaggi dei quali non avrebbe potuto beneficiare un'altra impresa insolvente nell'ambito delle regole applicabili in caso di fallimento. La sentenza impugnata ha infatti malamente richiamato le sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee del 1 dicembre 1998, C-200/97 e del 17 giugno 1999, C-295/97, dato che la seconda ha affermato che detta Corte è competente esclusivamente in ordine all'interpretazione dell'art. 92 (ora 87) del Trattato CE, al fine di determinare se determinate norme nazionali costituiscano "aiuti di Stato" (principio ribadito dall'ordinanza 24 luglio 2003), in quanto la valutazione della compatibilità degli stessi con il mercato comune spetta alla Commissione CE e, quindi, non può essere attuato prima di una decisione di quest'ultima che riconosca sussistere detta compatibilità. L'illegittimità della L. n. 95 del 1979 è stata quindi dichiarata dalla Commissione CE con la decisione del 16 maggio 2000, che ha investito l'intero complesso delle norme dalla stessa recate, puntualizzando come neppure fosse necessario analizzare singolarmente i singoli casi e pronunciarsi in ordine ai singoli casi di applicazione. 2.2.- I motivi, da esaminare congiuntamente in quanto pongono la stessa questione, con argomentazioni in larga misura coincidenti, sono infondati e devono essere rigettati. 2.2.1.- In sintesi, le ricorrenti deducono che: a) la questione della disapplicazione della norma nazionale che contrasta con una disposizione comunitaria vincolante non è condizionata dall'eccezione di parte ed è rilevabile d'ufficio, dovendo ritenersi disposizione comunitaria vincolante: la norma contenuta in un regolamento, ovvero in una direttiva, quando rechi una statuizione sufficientemente chiara, precisa e non condizionata; le sentenze della Corte di Giustizia; le decisioni della Commissione CE rese in materia di aiuti di Stato; b) il D.L. n. 26 del 1979, convertito nella L. n. 95 del 1979 è stato ritenuto in contrasto con il divieto degli "aiuti di stato" stabilito dall'art. 92 del Trattato CE - perciò la legge è stata abrogata D.Lgs. n. 270 del 1999, dall'art. 1 - e, in particolare, la Commissione CE, con decisione del 16 maggio 2000, ha stabilito che il relativo regime è incompatibile con il mercato comune, discendendo detta incompatibilità dal "regime in sè ed in particolare dai suoi meccanismi, senza che sia necessario nè giustificato analizzare individualmente i singoli casi di applicazione per pronunciarsi su di esso"; c) il D.Lgs. n. 270 del 1999, art. 106 non si sottrae alla non applicazione, avendo la Corte di giustizia affermato che il regime transitorio previsto da quest'ultima norma è immune dalla censura che aveva colpito il D.L. n. 26 del 1979, se non ritualmente notificato, come del resto è accaduto (ord. 24 luglio 2003, C- 297/2001), comportando peraltro la coesistenza di due procedure di amministrazione straordinaria concernenti la medesima categoria di soggetti una violazione dell'art. 3 Cost.. In definitiva, la sentenza impugnata è stata censurata nella parte in cui ha ritenuto che l'incompatibilità in esame fosse rilevabile soltanto su eccezione di parte (peraltro formulata) ed ha contraddittoriamente e con motivazione perplessa affermato che incombeva "alla parte di fornire la prova concreta dei c.d. aiuti di stato che costituivano la ragione di incompatibilità con le norme del Trattato CE, senza accorgersi non solo che nessuna ulteriore prova occorreva per essere gli aiuti di stato chiaramente enunciati negli articoli di legge e, quindi, per essere connaturali al sistema

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dell'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi", essendo anche intervenuta sul punto una decisione della Commissione CE. 2.2.2.- La questione posta in questi termini dalle istanti, nei suoi differenti profili, è stata più volte sottoposta all'esame di questa Corte ed è stata univocamente decisa, dando luogo ad un orientamento ormai consolidato al quale il Collegio reputa di dovere dare continuità, condividendo le argomentazioni che lo fondano (Cass. n. 26171 del 2006; n. 26935 del 2006; n. 18552 del 2006; n. 5301 del 2006; n. 4214 del 2006; n. 4206 del 2006; n. 21823 del 2005;n. 21083 del 2005; n. 2534 del 2005; n. 18915 del 2004; n. 13165 del 2004). 2.2.3.- Relativamente al profilo sub a) (2.2.1.), va ribadito che la questione della compatibilità della L. n. 95 del 1979 con l'ordinamento comunitario è rilevabile d'ufficio, in base al principio iura novit curia, come accade nel caso dello ius superveniens e della modifica normativa determinata dalla dichiarazione d'illegittimità costituzionale (Cass. n. 4206 del 2006; n. 21083 del 2005; n. 18915 del 2004). Tuttavia, occorre distinguere a seconda che l'incompatibilità comporti o meno accertamenti di fatto (Cass. n. 21083 del 2005; n. 2534 del 2005; n. 5561 del 2004; n. 5241 del 2003). Nel caso in cui sia dedotta l'incompatibilità dell'intera disciplina della L. n. 95 del 1979, ovvero di una o più norme, prospettando che la prima, ovvero le seconde, costituiscano di per sè aiuti di Stato non occorre alcun accertamento di fatto e, quindi, nessun impedimento si frappone all'esame della questione d'ufficio, con la conseguenza che la questione può essere rilevata in ogni stato e grado. Nel caso in cui l'incompatibilità della citata disciplina sia dedotta in relazione alla applicazione concreta ed alla concreta fruizione di un aiuto di Stato, il giudice non può conoscere dell'eccezione se non sono allegati e provati i fatti su cui essa si fonda. 2.2.4.- In ordine alla questione della incompatibilità dell'intera L. n. 95 del 1979 con le norme che regolano il mercato comune, devono essere richiamate le argomentazioni già svolte da questa Corte, per escluderla. Al riguardo, va ricordato che su detta questione la Corte di Giustizia della Comunità Europea è intervenuta con tre pronunce (sentenze 1 dicembre 1998, C-2000/97, Ecotrade; 17 giugno 1999, C- 295/97, Piaggio; ordinanza 24 luglio 2003, C-297/01, Sicilcassa); la Commissione Europea ha reso una decisione (decisione 16 maggio 2001, 2001/21/CE). Si tratta di pronunce che si impongono al giudice nazionale, in quanto l'immediata efficacia del diritto comunitario nell'ordinamento nazionale va riconosciuta anche alle pronunce interpretative rese dalla Corte di giustizia e ad ogni altra pronuncia del giudice comunitario che, nell'applicare od interpretare una norma dotata di effetti diretti, risulti comunque dichiarativa del diritto comunitario (Corte cost. n. 168 del 1991). Secondo l'espressa affermazione della Corte europea, "nell'ambito di un procedimento instaurato ai sensi dell'art. 234 CE", ad essa non spetta "interpretare il diritto nazionale o statuire sulla compatibilità di un provvedimento nazionale con l'art. 92 ora, art. 87 del Trattato" (sentenza Piaggio, 39 e 50). In coerenza con questi limiti della competenza, quali individuati dallo stesso giudice europeo, questi non ha qualificato come aiuto di Stato l'intera L. n. 95 del 1979, ovvero sue singole norme, ma ha offerto l'interpretazione della nozione di aiuto di Stato, anche se con riferimento alla fattispecie sottoposta al suo esame, tant'è che ha riferito la pronunzia Piaggio non direttamente alla legge, ma ad "un regime come quello istituito dalla L. n. 95 del 1979" (sent. cit., 33 e 50). Le due sentenze in esame hanno preso in considerazione "un regime come quello istituito dalla L. n. 95 del 1979", ma non per questo si sono pronunciate su questa legge, "come è dimostrato dal fatto che in entrambe le sentenze le conclusioni della Corte sono espressamente subordinate ad una verifica da parte del giudice nazionale della portata della normativa nazionale" (sentenza Ecotrade, par. 37; sentenza Piaggio par. 35 con formulazione identica) e sono contenute "prudenti affermazioni della salvezza dell'accertamento riservato al giudice nazionale (sentenza Ecotrade, par. 411 se fosse effettivamente dimostrato che lo Stato o enti pubblici figurano tra i principali creditori; par. 43: se fosse dimostrato che - non hanno effettivamente comportato un onere; par. 441 spetta al giudice nazionale verificare queste affermazioni Sentenza Piaggio, par. 401 come par. 41 sent. Ecotrade; par. 42: coma par. 43 sent. Ecotrade; par. 491 qualora sia dimostrato che e idoneo di per sè a generare la concessione di aiuti di Stato)". Identica è la formula con la quale le due sentenze hanno affermato che la concreta applicazione ad un'impresa di un regime come quello istituito dalla legge in esame da luogo alla concessione di un aiuto di Stato allorchè è dimostrato che "questa impresa - è stata autorizzata a continuare la sua attività economica in circostanze in cui tale eventualità sarebbe stata esclusa nell'ambito delle regole normalmente vigenti in materia di fallimento, - o ha beneficiato di uno o più vantaggi" (sentenza Ecotrade par. 45: sentenza Piaggio par. 50). Peraltro, la seconda decisione, nell'esaminare la questione dell'attuazione di un regime di aiuti di Stato senza la previa notifica alla Commissione, ha concluso che, "qualora sia dimostrato che un regime quale quello istituito dalla L. n. 95 del 1979 è idoneo, di per sè, a generare la concessione di aiuti di Stato ai sensi dell'art. 92, n. 1 del Trattato, il detto regime non può essere attuato se non è stato notificato alla Commissione e, in caso di notifica", prima di una decisione della Commissione ovvero prima che siano decorsi due mesi dalla notifica senza che sia stata presa una decisione (sentenza Piaggio: par. 49 e 50). Orbene, come ha osservato questa Corte, benchè "su tale considerazione dell'idoneità del regime di per sè taluno in dottrina ha costruito la tesi della declaratoria di incompatibilità dell'intera L. n. 95 del 1979 con l'ordinamento

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comunitario", la considerazione sopra svolta in ordine ai limiti della competenza della Corte di giustizia, impone di mantenere fermo che resta "rimesso al giudice nazionale lo stabilire se le caratteristiche che possono integrare gli estremi di aiuti di Stato siano connaturate a specifici aspetti della disciplina, per tale ragione di per sè idonei a generare aiuti di Stato, ovvero siano conseguenza necessaria dell'apertura della procedura cosicchè la stessa procedura, in considerazione dei suoi effetti necessari, debba considerarsi di per sè un aiuto di Stato. Il fatto, quindi, che gli aiuti di Stato siano costituiti dalla concreta applicazione di una disciplina ovvero che una disciplina sia idonea di per sè a generare aiuti di stato non muta i termini del problema" (Cass. n. 21083 del 2005). La conclusione è che le sentenze sopra richiamate recano indicazioni interpretative, vincolanti per il giudice nazionale, sulla nozione di aiuti di Stato ed il riferimento alla L. n. 95 del 1979 ha la funzione di contestualizzare la pronunzia in relazione alla fattispecie all'esame del giudice nazionale, essendo stata esclusa l'incompatibilità con le norme comunitarie dell'intera L. n. 95 del 1979 ed essendo stata lasciata al giudice nazionale - come hanno precisato le pronunzie richiamate supra - la decisione di stabilire se l'applicazione concreta di una misura ovvero la stessa misura in sè integrino gli estremi di un aiuto di stato così come, con interpretazione vincolante, individuata dalla Corte di giustizia. 2.2.5.- La portata ed il contenuto della decisione della Commissione, presa ai sensi dell'art. 88 n. 2 del Trattato, ha invece ad oggetto direttamente la compatibilità della misura con l'ordinamento comunitario e la decisione, poichè è stata pronunciata nei confronti dello Stato italiano, è dotata di effetto diretto nei confronti dell'ordinamento nazionale (Corte di giustizia, 6 ottobre 1970, n. 9; 10 novembre 1992, n. 156; Cass. n. 4214 del 2006; n. 23269 del 2005; n. 21083 del 2005; n. 4760 del 2005; n. 17564 del 2002), sia pure limitatamente ai rapporti giuridici intercorrenti tra privati e pubblici poteri (c.d. efficacia verticale), non è suscettibile di essere sindacata dal giudice nazionale e, qualora si tratti di decisione negativa che non ha effetti diretti nei rapporti tra privati, il giudice nazionale, comunque, difficilmente può negare natura di aiuto di Stato ad una misura nazionale cosi qualificata dalla Commissione Europea con decisione divenuta inoppugnabile. La decisione 16 maggio 2001, 2001/212/CE ha concluso nel senso che "il regime, di cui alla L. n. 95 del 1979 di conversione del D.L. n. 26 del 1979 è illegittimo e incompatibile con il mercato comune" e, tuttavia, nella motivazione, ha chiaramente riferito il dictum al regime introdotto da specifiche disposizioni. In tal senso, come ancora ha sottolineato questa Corte, è significativo che "la Commissione afferma, al par. 48, che occorre innanzitutto individuare, nell'ambito del regime giuridico dell'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, le misure che non rivestono carattere di misura generale e pronunciarsi sul fatto se ricadano le misure non l'intera legge o meno nell'art. 87, par. 1 del Trattato CE; al par. 50, che la L. n. 95 del 1979 rinvia per vari aspetti alla legge italiana sul fallimento e, laddove prevede l'applicazione in condizioni non derogatorie ai meccanismi di quest'ultima, tali meccanismi e procedure si configurano come misure generali prive di qualsiasi carattere selettivo. Tale legge prevede invece applicazioni particolari, che comportano la concessione di taluni vantaggi specifici e che implicano risorse pubbliche, a favore di beneficiari individuabili; al par. 58, che i diversi vantaggi (n.d.r. che non esauriscono il contenuto della legge) derivanti dalla L. n. 95 del 1979 costituiscono un aiuto di Stato ai sensi dell'art. 87, par. 1 del Trattato CE"; infine, ai par. 74 b, nelle conclusioni, che la L. n. 95 del 1979 introduce un regime (n.d.r. senza assumere che in legge si esaurisca in tale regime) di aiuti di Stato illegittimamente posto in essere dall'Italia". In ogni caso la Commissione ha deciso di non ingiungere all'Italia di procedere al recupero presso le imprese beneficiario degli aiuti concessi" (Cass. n. 21083 del 2005). 2.2.6.- Il contenuto delle citate sentenze e della decisione della Commissione CE comporta che il giudice nazionale, chiamato a pronunciarsi su una azione revocatoria promossa da una procedura di amministrazione straordinaria apertasi nel vigore della L. n. 95 del 1979 deve accertare se la disciplina della L. Fall., art. 67, costituisca un aiuto di Stato, per come è chiamata ad operare nel contesto della procedura e, in caso di risposta negativa, deve chiedersi se la stessa apertura della procedura, senza la quale neppure è prospettabile l'esercizio dell'azione revocatoria, rappresenti un aiuto di Stato perchè comporta necessariamente l'applicazione di norme che rappresentano aiuti di stato. Ad entrambi gli interrogativi, come sopra è stato ricordato, questa Corte ha dato risposta negativa, che va qui ribadita. La disciplina dell'azione revocatoria da parte di una procedura di amministrazione straordinaria non può essere qualificata come aiuto di Stato perchè non ha il requisito di specificità, sotto i due profili della selettività e della discrezionalità, che, alla stregua delle decisioni della Corte di giustizia sopra richiamate, caratterizzano gli aiuti di Stato (sentenza Ecotrade par. 38 e 40). L'azione revocatoria esercitata da una procedura di amministrazione straordinaria nella fase liquidatoria ha infatti identità funzionale - sia essa di reintegrazione del patrimonio del debitore o di redistribuzione delle perdite - con quella esercitata in sede fallimentare, di generale applicazione, e manca il requisito dell'impiego di risorse pubbliche. Quest'ultimo è stato infatti individuato dal giudice europeo in una misura che "comporta necessariamente vantaggi concessi direttamente o indirettamente mediante risorse statali o che costituiscono un onere supplementare per lo Stato o per gli enti designati o istituiti a tal fine" ovvero, in altre parole, in una misura che comporta "un onere finanziario supplementare sostenuto direttamente o indirettamente dai pubblici poteri e destinato a concedere alle imprese

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interessate un vantaggio determinato" (CGCE, in caso Ecotrade, par. 35 e 36), ritenendo che lo stesso ricorra, oltre che in relazione a specifici vantaggi concessi con onere a carico dello Stato, quando la continuazione dell'attività economica dell'impresa e consentita con il sacrificio dei creditori anteriori, cui sono inibite azioni esecutive, quando questi creditori, tenuto conto dei requisiti per l'ammissione alla procedura, possono identificarsi principalmente nello Stato o enti pubblici (par. 36 e ss.). Siffatti caratteri difettano nell'azione revocatoria. In primo luogo, in quanto questa azione può essere esercitata soltanto dopo la cessazione della fase conservativa della impresa e l'inizio della fase liquidatoria (Cass. n. 5301 del 2006; n. 4214 del 2006; n. 21083 del 2005; n. 6192 del 2005; n, 12936 del 2005; n. 12936 del 2003). Tuttavia, occorre anche considerare che un'effettiva destinazione liquidatoria della procedura può manifestarsi anche prima del formale avvio del procedimento di alienazione dei beni, in quanto un'attività di conservazione dei beni può risultare funzionale anche alla tutela delle ragioni dei creditori, che hanno interesse all'alienazione di un complesso produttivo efficiente; l'eventualità di una destinazione liquidatoria va dunque accertata con riguardo al momento della decisione sull'azione revocatoria e la stessa cessione dell'intero complesso ha funzione di liquidazione (Cass. n. 5301 del 2006; n. 4214 del 2006). In tal senso, va ricordato che la Corte costituzionale nello scrutinare le censure sollevate in riferimento al D.L. n. 347 del 2003, art. 6 convertito nella L. n. 39 del 2004 - nel testo novellato dal D.L. n. 119 del 2004 - che ha introdotto nell'ordinamento la c.d. amministrazione straordinaria accelerata, ha sostanzialmente sottolineato come l'azione revocatoria sia incompatibile con programmi di ristrutturazione e di conservazione del patrimonio aziendale in vista del ritorno in bonis dell'imprenditore insolvente e che, in definitiva, finiscono con l'avvantaggiare quest'ultimo, non con una conformazione della procedura il cui esito sia la liquidazione dei beni, al fine di realizzare al meglio l'interesse dei creditori e di tutelare la par condicio (sentenza n. 172 del 2006; ordinanza n. 409 del 2006). Peraltro, questa Corte ha anche già sottolineato che come nel fallimento è ammesso l'esercizio provvisorio dell'impresa ai sensi della L. Fall., art. 90, (nel testo originario; non interessa in questa sede esaminare la disciplina come innovata dal D.Lgs. n. 5 del 2006), nella amministrazione straordinaria disciplinata dalla L. n. 95 del 1979 la continuazione dell'attività era pur ammissibile, "tenendo anche conto dell'interesse dei creditori", dunque in una prospettiva non estranea alle esigenze liquidatorie, così come, sia nella amministrazione straordinaria disciplinata dalla Prodi-bis che dalla Legge Marzano le azioni revocatorie sono ammissibili anche nel caso di autorizzazione alla esecuzione del programma di ristrutturazione, purchè si traducano in un vantaggio per i creditori, ossia nel caso di evoluzione in senso liquidatorio (Cass. n. 21823 del 2005; v. anche Corte cost. n. 172 del 2006). In secondo luogo, in quanto Stato ed enti pubblici non possono considerarsi naturali soggetti passivi dell'azione revocatoria, nel senso che non vi sono elementi per affermare che vi sia un'alta probabilità che essi siano tra i principali destinatari dell'azione. Relativamente al secondo interrogativo posto dalla Corte europea, esso richiede di accertare se continuazione dell'impresa, con sacrificio di creditori principalmente pubblici, ed altri vantaggi, con oneri supplementari a carico dello Stato o di enti pubblici, conseguissero necessariamente all'ammissione alla procedura di amministrazione straordinaria prevista dalla L. n. 95 del 1979. Ebbene - ha sottolineato questa Corte - "nella disciplina dell'amministrazione straordinaria dettata da questa legge, la continuazione dell'impresa, seppure conseguenza normale, non era conseguenza necessaria (art. 2, comma 1 "può essere disposta la continuazione dell'impresa") dell'apertura della procedura; inoltre, gli altri vantaggi a carico di risorse pubbliche individuati dalla Corte di giustizia (par. 41 della sentenza Piaggio) possono essere disapplicati senza incidere sulla possibilità di una gestione liquidatoria" della procedura (Cass. n. 21083 del 2005). In conclusione, se è vero che il divieto di aiuti di Stato impone al giudice nazionale di disapplicare quelle norme che di per sè comportano vantaggi non consentiti, la disapplicazione di alcune disposizioni, quand'anche i più qualificanti dalla legge, non comporta la disapplicazione di quella disposizioni che non presuppongono un regime di vantaggi. La ridotta utilità di una procedura così ridimensionata nella disciplina o il venire meno delle ragioni per l'apertura e la prosecuzione di una diversa procedura non sono ovviamente sufficienti per la disapplicazione e giustificano semmai un intervento correttivo del legislatore. 2,2.7.- Siffatto intervento, peraltro, non è mancato, come ha ancora precisato questa Corte, con argomentazioni che è opportuno qui riportare (Cass. n. 21083 del 2005; in senso sostanzialmente analogo, Cass. n. 4206 del 2006), in quanto sono condivise dal Collegio. Nel descritto contesto, dopo la disciplina transitoria dettata dal D.Lgs. n. 270 del 1999, il cui art. 106 aveva prorogato la vigenza della L. n. 95 del 1979 per le procedure di amministrazione straordinaria in corso, è infatti sopravvenuta la L. 12 dicembre 2002, n. 273, art. 7. L'art. 7 cit. ha disposto: "i commissari straordinari nominati nelle procedure di amministrazione straordinaria disciplinate dal D.L. 30 gennaio 1979, n. 26, convertito, con modificazioni, dalla L. 3 aprile 1979, n. 95, cessano dall'incarico il

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sessantesimo giorno successivo dalla data in vigore della presente legge" (comma, 1; e cioè alla data del 27 febbraio 2003); "nei dieci giorni successivi al termine di cui al comma 1 e cioè, entro il 9 marzo 2003 il Ministro della attività produttive nomina, con proprio decreto, un commissario liquidatore che prosegue, sotto la vigilanza del Ministero delle attività produttive, la gestione liquidatoria secondo le norme della liquidazione coatta amministrativa (...), Continua a trovare applicazione, salvo che per quanto concerne nuovi assoggettamenti alla procedura di amministrazione straordinaria, la disciplina di gruppo di cui al D.L. 30 gennaio 1979, n. 26, art. 3 convertito, con modificazioni, dalla L. 3 aprile 1979, n. 95; continuano altresì ad applicarsi le disposizioni di cui al D.Lgs. 8 luglio 1999, n. 270, art. 106, comma 1. Sono fatti salvi gli effetti dei provvedimenti e degli atti legalmente adottati nel corso della procedura. Il commissario liquidatore subentra nei giudizi in corso in sostituzione del commissario straordinario" (comma 3). Il legislatore ha dunque preso atto della possibilità di una gestione soltanto liquidatoria delle procedure in corso ed ha rimosso l'incongruenza della previsione di un organo, quale il commissario straordinario, rispetto ad una procedura che ormai non può più avere una gestione conservativa dell'impresa, secondo le modalità già previste dalla L. n. 95 del 1979. In relazione a tale intervento del legislatore nazionale, la Corte di giustizia, dopo avere dichiarato, con riferimento al D.Lgs. n. 270 del 1999, art. 106 del che la proroga di un regime di aiuti di Stato costituisce esso stesso un regime nuovo di aiuti di Stato, con la richiamata ordinanza 24 luglio 2003 ha invitato il giudice nazionale a prendere atto della decisione della Commissione di rinunciare al recupero degli aiuti erogati prima del D.L. n. 270 del 1999 (decisione 16 maggio 2001, 2001/212/CE) ed a tenere conto della disciplina della L. n. 273 del 2002, art. 7. Dunque, in buona sostanza, rispetto alle procedure pendenti si considera illegittima solo l'erogazione di nuovi aiuti (par. 42 ordinanza del 24 luglio 2003) e la soluzione indicata non è quella di una disapplicazione, ma quella di "una interpretazione quanto più possibile conforme al diritto comunitario", alla quale viene invitato il giudice nazionale che sia chiamato a stabilire, "se del caso alla luce della L. n. 273 del 2002, art. 7", se il D.Lgs. n. 270 del 1999, art. 106 possa ancora essere interpretato nel senso di consentire alle imprese assoggettate a procedure in corso di "beneficiare in futuro di nuovi aiuti di Stato in base alla L. n. 95 del 1979, oggi abrogata" (par. 43-44). Pertanto, dall'ordinanza in esame emerge con chiarezza che: a) non sono recuperabili gli aiuti di Stato concessi in base alla L. n. 95 del 1979 sino al momento della sua abrogazione pertanto, anche ammettendo - ma lo si è escluso - che la disciplina della L. 95 del 1979 costituiva di per sè un regime di aiuti di Stato, il beneficio dell'apertura della procedura non potrebbe essere "recuperato", ma dovrebbero essere soltanto esclusi nuovi benefici nell'ambito della procedura; b) la proroga della disciplina della L. n. 95 del 1979 non rappresenta di per sè un regine di aiuti se può essere interpretata in modo da escludere nuovi aiuti di Stato alle imprese che vi sono sottoposte; il che è quanto si impone per le considerazioni sopra svolte. Nel quadro di questi principi, è chiara l'infondatezza, nel merito, dei motivi in esame. Pertanto, solo per completezza va peraltro osservato che, benchè la sentenza impugnata abbia erroneamente affermato l'inammissibilità dell'eccezione di incompatibilità in questione, in quanto tardivamente proposta nella comparsa conclusionale, ha anche precisato: "comunque, le due citate sentenze della Corte di giustizia Piaggio ed Ecotrade hanno dichiarato che l'applicazione della "Legge Prodi" da luogo ad un aiuto di Stato ai sensi dell'art. 92, n. 1 non senz'altro, ma "allorchè è dimostrato che l'impresa è stata autorizzata a continuare la sua attività economica in circostanze in cui tale eventualità sarebbe stata esclusa nell'ambito dell'applicazione delle regole normalmente vigenti in tema di fallimento, o ha beneficiato di uno o più ... vantaggi dei quali non avrebbe potuto usufruire un'altra impresa insolvente nell'ambito di applicazione delle regole normalmente vigenti in materia di fallimento". La pronuncia ha quindi affermato che, nella specie "non vi è nemmeno l'assunto della sussistenza di uno dei due presupposti alternativamente richiesti per la disapplicazione della Legge Prodi". Al riguardo, va ricordato che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, la parte che alleghi il contrasto della norma nazionale con una norma comunitaria, ha l'onere di allegare e di dimostrare la ricorrenza nel caso concreto di un aiuto di stato (Cass. n. 4206 del 2006; n. 5561 del 2004; n. 5241 del 2003) e, in relazione ad un fatto specifico, qual è la pendenza della fase conservativa della procedura, "il giudice non può conoscere dell'eccezione se non sono allegati e provati i fatti su cui essa si fonda" (Cass. n. 4206 del 2006). Pertanto, nella specie, l'eccezione, nella parte non concernente il contrasto con la norma comunitaria dell'intera L. n. 95 del 1979, soggiaceva anche al principio secondo il quale, qualora l'incompatibilità comunitaria dell'azione revocatoria esercitata nell'ambito della procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, ai sensi di detta legge, non venga dedotta in astratto, ma in relazione ad un fatto specifico (l'essere stata detta azione promossa in pendenza della fase conservativa della procedura e prima dell'inizio della fase liquidatoria) il giudice non può conoscere dell'eccezione se non sono allegati e provati i fatti su cui essa si fonda, mentre il potere di allegazione della parte interessata va esercitato nei tempi e nei modi previsti dal codice di rito, soggiacendo alle relative preclusioni e decadenze (Cass. n. 4206). Infine, manifestamente infondata è l'eccezione di illegittimità costituzionale dell'intera L. n. 95 del 1979, sollevata in

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modo sostanzialmente apodittico, con l'affermazione che la coesistenza di due procedure di amministrazione straordinaria concernenti la medesima categoria di soggetti si porrebbe in contrasto con l'art. 3 Cost. Al riguardo, ed allo scopo di dimostrare la manifesta infondatezza del dubbio così prospettato, è sufficiente ricordare, in primo luogo, che, secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale - indipendentemente da ogni valutazione in ordine ai presupposti di applicabilità delle differenti discipline succedutesi nel tempo - il "fluire del tempo" costituisce, di per sè solo, un elemento diversificatore delle situazioni giuridiche (ex plurimis, Corte cost. n. 276 del 2005; n. 216 del 2005; n. 190 del 2003). In secondo luogo, la considerazione che, per quanto sopra esposto, elemento comune a tutte le procedure poste in comparazione è che l'azione revocatoria è comunque esercitabile soltanto in riferimento alla destinazione liquidatoria delle medesime, nei termini e nell'accezione sopra poste, vale ex se ad escludere la dedotta disparità di trattamento. 3.- Le istanti, con il secondo motivo (ricorso R.G. n. 782 del 2004), denunciano "violazione e falsa applicazione del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 56, dell'art. 1853 c.c. e dell'art. 2909 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3); omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5)". Secondo le ricorrenti, il Tribunale ha affermato che la compensazione opera anche nel caso di fallimento (L. Fall., art. 56) e non può essere ex se impugnata; tuttavia, "ben possono essere impugnati gli atti o i negozi che costituiscono il presupposto della compensazione", ma ha escluso che detta impugnazione fosse stata proposta. Il giudice di primo grado, dopo avere precisato che la compensazione presuppone l'esistenza "di distinti rapporti", ha osservato che le tre banche avevano sostenuto di essere creditrici dell'importo di L. 8 miliardi, erogato a titolo di finanziamento, e di essere detattrici della minore somma di L. 850 milioni, con la conseguenza "che non vi sarebbe stato un versamento di L. 850.000.000 aggredibile con l'azione revocatoria fallimentare, ma solo una decurtazione dell'iniziale credito di L. 8.000.000.000". La sentenza di primo grado ha, quindi, ritenuto che: la prima rata di rimborso del finanziamento doveva essere pagata circa dodici mesi dopo la stipula del contratto, quindi nei primi giorni del novembre 1989; nell'epigrafe del contratto era menzionata la delega irrevocabile conferita alla Banca di Roma, per la riscossione dei crediti della Micoperi nei confronti di clienti stranieri; il mandato all'incasso era opponibile alla procedura; secondo le banche il credito maturato in relazione alla prima rata di rimborso del prestito si era compensato con il debito sorto in riferimento all'esecuzione del mandato; dalla convenzione risultava che alla "Banca di Roma era stata conferita una delega semplice all'incasso (non un mandato in rem propriam, nè una sostanziale cessione del credito), con la conseguenza che la banca, una volta curata e ottenuta la riscossione, avrebbe dovuto trasmettere la somma al cliente; ciò significa che la banca una volta ricevuto il pagamento dal debitore, straniero, diveniva debitore della Micoperi"; tra i due rapporti vi era una sostanziale autonomia che legittimava la compensazione ex art. 1853 c.c., poichè l'esecuzione del mandato da parte della Banca di Roma non aveva comportato il versamento su di un conto corrente del cliente, sicchè "poichè l'effetto compensativo determinato dalla attuazione di un mandato irrevocabile all'incasso non costituisce un atto giuridico autonomo, ma conseguente alla pattuizione, non è esperibile l'azione revocatoria, se il mandato non è impugnato". Il Tribunale aveva quindi rigettato la domanda di revoca del pagamento di L. 850 milioni nei confronti della Banca di Roma. La Corte d'appello ha accolto l'appello incidentale, malgrado che il Commissario straordinario non avesse censurato la motivazione, limitandosi a riprodurre due decisioni non pertinenti di questa Corte: la prima, secondo la quale il mandato in rem propriam conferito per la restituzione del mutuo ha funzione strumentale di una delle due prestazioni del mandato rispetto alla più ampia convenzione di adempimento stipulata tra mutuante e mutuatario che si realizza per mezzo del mandato; la seconda, in virtù della quale le somme riscosse, secondo l'intento delle parti, erano destinate ad essere incamerate dalla banca per soddisfare il credito di questa rimasto insoluto. Ad avviso delle ricorrenti, il Tribunale non ha ritenuto esistente un mandato in rem propriam quale negozio con funzione strumentale nell'ambito di una più ampia convenzione di adempimento ed ha escluso la conclusione di un patto di incameramento da parte della banca delle somme riscosse per soddisfare un credito insoluto. La mancanza di argomentazioni critiche riguardo alla sentenza del Tribunale fa sì che la riforma disposta dalla sentenza di secondo grado è apodittica ed immotivata, dato che non è stata contestata la configurazione della pronuncia di primo grado in virtù della quale nella specie sussisteva "una delega all'incasso, con la conseguenza che la banca, una volta curata e ottenuta la riscossione avrebbe dovuto trasmettere la somma al cliente, l'omissione della qual trasmissione ha fatto divenire la Banca debitore della Micoperi", sicchè all'obbligo della prima di restituire le somme incassate dal terzo si contrapponeva il suo credito di rimborso del finanziamento. Le istanti denunciano inoltre la violazione del giudicato, poichè la Micoperi aveva impugnato la sentenza, in parte qua, deducendo che la pronuncia sulla compensazione era gravata "in quanto pagamento di debito certo, liquido ed esigibile", mentre la Corte milanese ha deciso sul presupposto che nella specie esisteva un mandato in rem propriam - escluso dal Tribunale con statuizione non censurata, quindi passata in giudicato - omettendo peraltro di motivare sulla deduzione con la quale la Banca di Roma - nell'atto di appello - aveva sostenuto che le espressioni riportate nel

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contratto del 3 novembre 1988 evidenziavano la conclusione di una cessione di credito, eseguita con il pagamento da parte della società norvegese in data 19 luglio 1989, "insensibile ad ogni futuro avvenimento della Micoperi", essendo stata notificata la cessione alle committenti estere. Pertanto, la pronuncia è censurabile anche nella parte in cui non ha motivato su detto assunto della Banca, riproposto, nonostante essa fosse stata vittoriosa in primo grado, sicchè la Corte territoriale doveva valutarlo, una volta disattesa la motivazione della pronuncia di primo grado. 3.1.- Il motivo è infondato e va rigettato. 3.1.1.- In linea preliminare, va rilevato che non è meritevole di accoglimento la doglianza relativa alla violazione del giudicato, fondata sulla asserita mancata contestazione da parte della Micoperi della configurazione data dal primo giudice alla fattispecie in esame. La lettura della comparsa di risposta contente l'appello incidentale (ammissibile in questa sede in considerazione della natura del vizio denunciato, costituente error in procedendo, Cass. n. 11322 del 2003) permette di accertare infatti che con tale è atto è stato dedotto che, "se la delega all'incasso (...) non è configurabile quale mandato in rem propriam, nulla autorizzava il mandatario a trattenere le somme incassate" (pg. 14 e 15), osservando che il mandato in rem propriam può avere funzione solutoria e di garanzia e che quest'ultima "è di mero fatto ed empirica", avendo il mandatario la mera facoltà di trattenere temporaneamente l'importo riscosso in funzione di garanzia" (pg. 15 dell'atto richiamato). Dunque, risulta chiaro che l'appellante incidentale, in buona sostanza, ha contestato la legittimità della configurazione offerta dal Tribunale, sostenendo la revocabilità del pagamento; quindi, la censura investiva integralmente la correttezza della decisione di primo grado, conferendo al giudice del gravame il potere- dovere di riesaminare la fattispecie senza il limite invocato dalle ricorrenti. La sentenza impugnata ha quindi precisato nella narrativa che, secondo il giudice di primo grado, la Banca di Roma "aveva ricevuto un mandato irrevocabile all'incasso" (pg. 19) e, tuttavia, il pagamento non era revocabile esclusivamente in quanto tra le parti non vi era un rapporto di conto corrente e detta circostanza era stata reputata sufficiente a far ritenere esistenti due contrapposte ragioni di credito, aventi diverso titolo, con conseguente applicabilità della compensazione. Le stesse istanti, nella narrativa del ricorso, espongono che il Tribunale ha ritenuto fondata l'eccezione di compensazione della Banca di Roma, in quanto "questa aveva ricevuto dalla Micoperi un mandato irrevocabile all'incasso", ritenendo operante la compensazione per l'inesistenza di un rapporto di conto corrente. Nell'esposizione del motivo in esame, le ricorrenti ribadiscono che il giudice di primo grado aveva reputato che alla Banca di Roma fosse stata conferita "una semplice delega all'incasso" (pg. 20), reiterando che la revocabilità era stata negata dallo stesso giudice solo in quanto "l'esecuzione del mandato da parte della Banca di Roma non ha dato luogo al versamento della somma su un conto corrente del cliente", riportando testualmente che da questa considerazione risultava confermato "l'indirizzo per il quale, poichè l'effetto compensativo determinato dalla attuazione di un mandato irrevocabile all'incasso non costituisce atto giuridico autonomo" doveva concludersi per l'avvenuta compensazione (pg. 21 del ricorso). La sintesi delle affermazioni contenute nella sentenza impugnata e delle deduzioni delle istanti rende dunque chiaro che costituisce circostanza accertata che vi era un mandato irrevocabile all'incasso. La Corte territoriale ha quindi anche ulteriormente indicato che "nel contratto di finanziamento in premessa si dà atto che la Micoperi ha avvertito le committenti estere che i pagamenti sono stati irrevocabilmente delegati come da notifiche in fattura al Banco di Roma", che era dunque "delegataria o mandataria per l'incasso" (pg. 30 della sentenza) e, interpretando il contratto, ha affermato che "il mandato-delega irrevocabile all'incasso dei crediti verso i committenti aveva due funzioni: di garanzia e di pagamento" (pg. 46). Inoltre, a conforto di questa ricostruzione ha anche precisato che "coerentemente la Banca di Roma, banca agente, solo in data 21.12.1989 con valuta 15.12.1989 ha accreditato alle altre banche del pool la quota di rimborso di loro pertinenza" (pg. 47 della sentenza), con condotta che rafforzava questa interpretazione. Alla luce di queste puntualizzazioni è chiaro che la Corte territoriale non ha affatto apoditticamente disatteso la qualificazione offerta dal Tribunale, che ha fatto propria per una parte, ma ha avuto cura di identificare ed indicare la funzione del mandato irrevocabile all'incasso e, in tal modo, ha implicitamente, ma chiaramente, rigettato la deduzione della Banca di Roma, volta a sostenere la tesi che nella specie fosse stata stipulata una cessione del credito. Tanto è sufficiente ad escludere, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, il vizio di omessa pronuncia o di difetto di motivazione, che non sussiste quando il rigetto di una domanda o di un'eccezione sia implicito nella costruzione logico-giuridica della sentenza, con la quale venga accolta una tesi con essa incompatibile (tra le più recenti, Cass. n. 10052 del 2006; n. 4079 del 2005). La configurazione offerta dalla sentenza impugnata è, inoltre, incensurabile, posto che l'interpretazione del contratto, riservata al giudice del merito, è sindacabile in questa sede soltanto per vizi di motivazione o per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale (per tutte, Cass., n. 22961 del 2004; n. 5004 del 1999; n. 7611 del 1998; n. 1496 del 1994), non potendo il controllo di legittimità investire il risultato interpretativo in sè, che appartiene all'ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, al quale è esclusivamente riservata l'indagine ermeneutica (ex plurimis, Cass., n.

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11342 del 2004; n. 9091 del 2004; n. 2074 del 2002), occorrendo che la censura sia formulata non mediante l'astratto riferimento a dette regole, ma attraverso la specificazione dei canoni in concreto violati e del punto, e del modo, in cui il giudice di merito si sia, eventualmente, discostato da detti canoni (tra le più recenti, Cass., n. 8296 del 2005; n. 4905 del 2003). Nella specie siffatto onere non risulta adempiuto. Il motivo, in larga misura, consiste nella riproduzione della sentenza di primo grado (pg. 18-21 del ricorso), afferma che la sentenza di secondo grado sarebbe apodittica (pg. 22), denuncia la violazione del giudicato (pg. 23), senza indicare quali canoni ermeneutici sarebbero stati violati, rinviando ad espressioni contrattuali che dovrebbero confortare la tesi delle ricorrenti e che, in violazione del principio di autosufficienza, neppure sono state riportate (pg. 23, penultimo cpv del ricorso). Dalla succitata, e qui non censurabile, qualificazione la Corte territoriale ha correttamente desunto la revocabilità del pagamento. Al riguardo, va ricordato che questa Corte si è occupata più volte del mandato irrevocabile all'incasso, utilizzato con funzione di garanzia per il mandatario, chiarendo che gli atti solutori conseguiti all'esecuzione del mandato sono autonomamente revocabili, indipendentemente dalla revocabilità del mandato il mandato irrevocabile all'incasso, a differenza della cessione di credito, non trasferisce la titolarità del credito, che resta in capo al mandante, ma solo la legittimazione a riscuoterlo e la garanzia si realizza in forma empirica e di fatto, come conseguenza della disponibilità del credito verso il terzo e della prevista possibilità che, al momento dell'incasso, il mandatario trattenga le somme riscosse, soddisfacendo così il proprio credito (Cass. n. 1391 del 2003; n. 16261 del 2002; n. 5061 del 2001; n. 6882 del 1997). Proprio l'interesse del mandatario ad assumere la disponibilità di fatto del credito e della somma, al momento della riscossione e per una finalità solutoria, caratterizza il mandato come irrevocabile e questo si differenzia dalla cessione di credito, in quanto non trasferisce la titolarità del credito, che resta in capo al mandante, ma solo la legittimazione a riscuoterlo. Pertanto, fin quando l'incasso ed il soddisfacimento dei pregressi crediti del mandatario non si realizza - nei termini e con le modalità previsti dal mandato, alla luce della funzione assegnatagli dalle parti -, persiste la titolarità distinta, sempre in testa al mandante, sia della situazione creditoria verso il terzo debitore, sia della situazione debitoria verso il mandatario e gli atti solutori conseguiti all'esecuzione del mandato sono revocabili autonomamente, indipendentemente dalla revocabilità o meno del mandato (Cass. n. 1391 del 2003; n. 16261 del 2001; n. 5061 del 2001) e dall'esistenza di un rapporto di conto corrente. Inoltre, da questa ricostruzione deriva che, come pure ha precisato questa Corte, in seguito all'esecuzione del succitato mandato non si verifica la compensazione, "in quanto la banca, nel riscuotere la somma, non diveniva debitrice della società mandante per l'equivalente importo, ma la tratteneva in pagamento diretto del proprio credito ex mutuo ancora scoperto verso la società mandante" (Cass. n. 3951 del 1983; principio di recente ribadito dalla sentenza n. 1060 del 2006, in motivazione). Ed è appunto l'inesistenza di un'autonoma obbligazione ex art. 1713 c.c. della mandataria verso la mandante che, "da un lato, esclude la possibilità di configurare secondo lo schema della compensazione (che quell'autonoma obbligazione presupporrebbe) la vicenda estintiva del credito ex mutuo della stessa banca, dall'altro, consente di qualificare tale vicenda estintiva in termini di atto solutorio" effettuato dalla mandante alla banca, e ciò anche nel caso di mandato in rem propriam all'incasso, senza riferimento ad un rapporto di conto corrente (Cass. n. 3951 del 1983). 4.- Le ricorrenti, con il terzo motivo (ricorso R.G. n. 782 del 2004), denunciano "violazione e falsa applicazione del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 67, dell'art. 342 c.p.c. e degli artt. 1852 e segg. c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3); omessa, contraddittoria motivazione", deducendo che la sentenza impugnata ha revocato il pagamento di L. 139.082.234 (un rientro su conto scoperto derivante da un versamento di L. 500 milioni) ricevuto dal Banco di Santo Spirito in data 17 ottobre, con valuta del 18 ottobre 1989 - sul presupposto che la conoscenza dello stato di insolvenza fosse riferibile al 1 ottobre 1989. Tuttavia, la stessa Corte territoriale ha precisato che la Micoperi non ha formulato alcun motivo di censura in riferimento alla parte della sentenza di primo grado che aveva escluso la revocabilità di detto pagamento. Secondo le istanti, l'onere della specificità dei motivi di impugnazione (art. 342 c.p.c.) non resta escluso dalla mancanza di motivazione della sentenza impugnata e l'onere di riproposizione delle domande ed eccezioni non accolte stabilite dall'art. 346 c.p.c. riguarda anche le domande non esaminate, perchè assorbite o sfuggite all'esame del giudice. Pertanto, la sentenza impugnata è censurabile "per mancanza di motivo ad hoc nell'atto di appello della Micoperi, per mancata prova della scientia decoctionis in capo al Banco di S. Spirito, erroneamente attribuendogli quella del Banco di Roma, oltrechè per errore nell'ordine dei saldi non disposti correttamente". 4.1.- Il motivo è infondato e va rigettato. 4.1.1.- In linea preliminare va ricordato che il carattere di specificità dei motivi di appello va apprezzato in relazione alla motivazione della sentenza impugnata e deve ritenersi sussistente quando alle argomentazioni svolte nella medesima vengono contrapposte quelle dell'appellante in modo da incrinare il fondamento logico- giuridico delle prime (tra le molte, Cass. n. 20201 del 2005; n. 6761 del 2004; n. 15936 del 2003; Cass. n. 3539 del 2000).

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L'art. 342 c.p.c., stabilendo detto requisito, richiede soltanto che la manifestazione volitiva dell'appellante deve permettere di individuare con chiarezza le statuizioni investite dal gravame e le specifiche critiche indirizzate alla motivazione che le sostiene e non stabilisce l'obbligo di adottare formule o schemi particolari nella esposizione dei motivi e delle domande dell'atto di appello, che restano affidati alla capacità espressiva del difensore (Cass. n. 7769 del 2003). In altri termini, il requisito postula l'indicazione, sia pure in forma succinta, degli errores attribuiti alla sentenza censurata (Cass. n. 875 del 2001), e cioè un'esposizione chiara ed univoca delle doglianze (Cass. n. 9867 del 2000), da correlare con la motivazione della medesima (Cass. n. 3539 del 2000). Infine, secondo il prevalente orientamento di questa Corte, siffatta specificità è verificabile in sede di legittimità direttamente, riconducendo la censura nell'ambito dello error in procedendo, attraverso l'interpretazione autonoma dell'atto di appello (Cass. n. 24817 del 2005; n. 19188 del 2003; n. 2908 del 2001; n. 3712 del 2003), mentre, ai fini dell'individuazione del vizio denunciato, non rileva la correttezza dell'indicazione del riferimento normativo (e cioè l'evocazione dell'art. 360 c.p.c., n. 4), purchè, come nella specie, dal contesto del motivo sia possibile desumere la denuncia di un errore di siffatta natura (Cass. n. 3941 del 2002; n. 4349 del 2000). Nel quadro di questi principi, va osservato che la sentenza impugnata ha precisato, in riferimento al pagamento in esame, che l'accredito era stato "indicato dalla procedura già nell'atto di citazione e pertanto anche di questo va esaminata l'efficacia (solutoria o no)", puntualizzando di ritenere sufficiente la specificazione del motivo in considerazione della mancata valutazione di detta operazione da parte della sentenza di primo grado (pg. 38 della sentenza) e concludendo nel senso che "l'accredito in esame appare solutorio come sostenuto dalla procedura per L. 139.082.234" (pg. 39 della sentenza). L'appellante incidentale, dal suo canto, aveva espressamente dedotto che "il versamento per L. 500.000.000 determina (...) un rientro da scoperto di L. 139.082.234 secondo una ricostruzione per data disponibilità" (pg. 26 della comparsa di costituzione recante l'appello incidentale), cosi da risultare incontrovertibile che la censura aveva espressamente investito anche il pagamento in questione. La doglianza relativa alla sussistenza della scientia decoctionis, che sarebbe stata malamente effettuata in riferimento al Banco di Roma e non al Banco di S. Spirito, è inammissibile. Infatti, la questione, in questi termini, non risulta affatto trattata dalla sentenza impugnata e, quindi, deve ritenersi sollevata, per la prima volta, in questa sede, in violazione del principio secondo il quale i motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena d'inammissibilità, questioni già comprese nel tema del decidere, non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito, tranne che non si tratti di questioni rilevabili d'ufficio. Pertanto, avendo il ricorrente proposto detta questione, aveva l'onere non solo di allegare l'avvenuta deduzione della questione avanti al giudice del merito - negli esatti termini qui posti -, ma anche di indicare, specificamente, in quale atto del precedente giudizio lo avesse fatto, riproducendolo, onde dare modo a questa Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminarne il merito (per tutte, Cass., n. 1063 del 2005; n. 19254 del 2004; n. 5150 del 2003), sicchè dal mancato adempimento di detto onere consegue l'inammissibilità di questo profilo della censura, rinviandosi, per il profilo riferito all'incorporante, alle argomentazioni infra esposte nell'esame dell'ottavo motivo di ricorso. La censura relativa ad un asserito errore nell'ordine dei saldi è inammissibile in quanto, per la sua genericità, si risolve in una mera, non argomentata, critica dell'apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito. 5.- Le istanti, con il quarto motivo (ricorso R.G. n. 782 del 2004), denunciano "violazione dell'art. 2909 c.c. e dell'art. 1184 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3)", osservando che il giudice di secondo grado ha disatteso la sentenza di primo grado nella parte in cui ha accolto la tesi della Banca di Roma, secondo la quale "il pagamento fatto alla Cassa di Risparmio di Roma è del mese di luglio e allora non è revocabile", essendo stata fissata la conoscenza dello stato di insolvenza alla data del 1 ottobre 1989. La Corte territoriale, benchè nella narrativa abbia precisato che "il Tribunale aveva escluso la revocabilità dei pagamenti anteriori al 1 ottobre 1989", non ha tenuto conto del giudicato formatosi sul punto. In linea gradata, le ricorrenti sostengono che la pronuncia ha disatteso la tesi della Banca di Roma, reputando che l'incasso del credito dalla società norvegese avrebbe avuto "funzione di garanzia" fino al 7 novembre 1989, assumendo solo in tale data quella di pagamento, con tesi inesatta. Il pagamento non presuppone infatti l'esigibilità del credito, dato che, ex art. 1184 c.c., il debitore può eseguire la prestazione prima della scadenza del termine di adempimento e costituire in mora il creditore che rifiuti di riceverla (art. 1206 ss c.c.). La asserita funzione di garanzia sino alla scadenza del termine di adempimento ed il mutamento da garanzia a pagamento alla data della scadenza dell'obbligazione sarebbero frutto di una costruzione erronea. La percezione anticipata di una somma non richiede alcuna manifestazione di volontà contrattuale, "mentre la costituzione di una garanzia reale richiede una manifestazione di volontà del garante e del garantito con oggetto la costituzione della

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garanzia". Nella specie non v'è prova di un accordo in tal senso ed i pagamenti sono, comunque, irrevocabili, in quanto effettuati il 19 luglio 1989, quando la Banca di Roma ignorava lo stato di insolvenza della Micoperi e, per quanto esposto nel quinto motivo, ad identica conclusione deve ritenersi per quelli a favore del Banco di Sicilia, poichè questo "era percettore già al momento dell'accredito". 6.- Le ricorrenti, con il quinto motivo (ricorso R.G. n. 782 del 2004), denunciano "violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 113 c.p.c., artt. 1362, 1363, 1366, 1241, 1242, 1243, 1246, 1853, 1388 e 1713 c.c., L. Fall., artt. 56 e 67; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi prospettati dall'appellante, in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5", sostenendo che nel giudizio era stato documentato e provato quanto segue: a) il Banco di Roma, la Banca commerciale italiana, la Banca nazionale del lavoro, l'Istituto bancario S. Paolo di Torino ed il Banco di Sicilia, previa apposita convenzione interbancaria, con contratto del 3 novembre 1988 accordarono alla Micoperi s.p.a. un finanziamento a breve termine in pool, per la somma di L. 40 miliardi. Con la citata convenzione fu conferito al Banco di Roma "l'incarico di agire anche in nome e per conto delle banche finanziatrici per porre in essere gli atti ed esercitare i poteri specificamente indicati nella presente lettera di concessione del finanziamento", precisando che quest'ultima "sarebbe stata inviata dal Banco di Roma in nome e per conto delle banche finanziatrici". A sua volta, la lettera di finanziamento constava: di una premessa nella quale erano indicati i contratti stipulati con alcuni committenti esteri, era precisato che i pagamenti eseguiti dai predetti erano "irrevocabilmente delegati al Banco di Roma-Filiale di Milano" e che il finanziamento era stato erogato dal Banco di Roma quale "Banca agente (...) in proprio ed in nome e per conto delle altre banche partecipanti al pool"; di clausole nelle quali era ribadita quest'ultima modalità del finanziamento ed era convenuto che, alla scadenza, il rimborso sarebbe stato effettuato al Banco di Roma e da questo ripartito tra le banche finanziatrici (art. 7)) e che a detto Banco dovevano essere effettuate le comunicazioni relative al finanziamento. In altri termini, il contratto era stato sottoscritto e gestito dal Banco di Roma in proprio e quale rappresentante delle altre banche partecipanti al pool. b) Il finanziamento fu erogato l'8 novembre 1988 ed il rimborso doveva avvenire in tre tranches, la prima delle quali con scadenza il giorno antecedente il 12 giorno dell'erogazione, e cioè il 7 novembre 1989 (art. 7 del contratto di finanziamento). Il Banco di Roma, in data 19 luglio 1989, aveva ricevuto dalla Verslefrikk Statoli, committente norvegese della Micoperi, espressamente indicata nella premessa del finanziamento, due bonifici per complessive L. 4.250.000.000, ed il 7 novembre 1989 aveva rimesso al Banco di Sicilia ed agli altri istituti del pool l'importo di L. 850 milioni ciascuno "a titolo di parziale decurtazione della prima tranche di L. 10 miliardi". Il Banco di Sicilia aveva ricevuto il pagamento, accreditandolo sul conto corrente speciale acceso a nome della Micoperi per il regolamento del finanziamento in questione; c) Il Banco di Sicilia, con l'atto di appello, aveva censurato la sentenza di primo grado nella parte in cui aveva dichiarato revocabile la compensazione effettuata dalle altre banche finanziatrici, in quanto il mandato all'incasso sarebbe stato conferito esclusivamente al Banco di Roma, deducendone l'erroneità, poichè dal contratto di finanziamento risultava che quest'ultimo svolgeva i compiti in questione anche quale rappresentante delle altre banche del pool. La sentenza impugnata ha affermato che "delegataria o mandataria per l'incasso è solo la Banca di Roma" e non ha motivato sulla citata censura del Banco di Sicilia. Secondo le istanti, la pronuncia è inficiata da vizi interpretativi e della motivazione, in quanto, dopo avere esattamente affermato che il Banco di Roma doveva "assumere l'incarico di banca agente anche in nome e per conto delle altre", ha poi contraddittoriamente concluso nel senso che, "delegataria o mandataria per l'incasso è solo la Banca di Roma". Inoltre, la sentenza sarebbe incorsa in errori di diritto violando i canoni ermeneutici stabiliti dagli artt. 1362 e 1363 c.c., poichè la comune volontà delle parti e l'interpretazione complessiva delle clausole di finanziamento conducono a ritenere che il rapporto di finanziamento doveva essere contratto, amministrato e gestito, fino all'escussione del garante, dal Banco di Roma e, in coerenza con questo intento la stessa era designata quale "banca agente" e "rappresentante comune", non essendo quindi ipotizzabile che la delega all'incasso fosse concessa pariteticamente a tutte le banche, ovvero ad una banca diversa dal Banco di Roma, mentre la coincidenza della banca agente con la banca delegata per l'incasso dimostrava che anche quest'ultima attività era riconducibile alla procura in comune a questo conferito. La conclusione in ordine al conferimento della delega all'incasso dei crediti esteri al Banco di Roma in proprio e quale rappresentante comune di tutte le finanziatrici riguarderebbe un punto decisivo della controversia in quanto: essendo pacifico che il Banco di Roma ha ricevuto L. 4.250 milioni il 18 luglio 1989, in tale data la somma deve ritenersi introitata, pro quota, dalle altre banche; il 7 novembre 1989 si era verificata istantaneamente, exart. 1242 c.c.,art. 1243 c.c., comma 1, e art. 1853 c.c., la compensazione tra i crediti delle banche diverse dal Banco di Roma ed i minori importi incassati dai soggetti esteri debitori di Micoperi, ma fin dall'origine di spettanza di ciascuna banca; non avendo la Micoperi chiesto la revoca del

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mandato all'incasso, in relazione al Banco di Sicilia non vi erano stati atti solutori, ma compensazione tra contrapposti crediti L. Fall., ex art. 56. In conclusione, la sentenza impugnata non avrebbe considerato gli effetti prodotti dal conferimento della delega da parte della Micoperi al Banco di Roma quale rappresentante delle altre banche, benchè il Banco di Sicilia avesse dedotto nell'appello che la loro valutazione avrebbe comportato il rigetto della domanda di revoca avente ad oggetto le somme ad esso versate dal Banco di Roma. 7.- Le istanti, con il sesto motivo (ricorso R.G. n. 782 del 2004), denunciano "violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 113 c.p.c., artt. 1362 e ss., 1241, 1242, 1243, 1246, 1853 c.c., L. Fall., artt. 56 e 67; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi prospettati dall'appellante, in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5", deducendo che la Micoperi, con l'atto introduttivo del giudizio del 30 marzo 1995, in riferimento all'azione revocatoria avente ad oggetto la compensazione operata dal Banco di Sicilia con riguardo al contratto di finanziamento del 3 novembre 1988, aveva chiaramente indicato quale suo oggetto esclusivamente il "pagamento-incasso" di L. 850 milioni eseguito dal Banco di Roma, a decurtazione del maggior credito dipendente dalla scadenza della prima rata di rimborso. La sentenza di primo grado aveva quindi affermato che: la domanda non concerneva i negozi in base ai quali erano stati effettuati i pagamenti; la delega all'incasso conferita al Banco di Roma era opponibile al fallimento e, tuttavia, non poteva ritenersi attribuita a questa anche in nome e per conto della altre banche partecipanti al pool; dunque la Banca di Roma, "una volta curata e ottenuta la riscossione, avrebbe dovuto trasmettere la somma al cliente", nel senso che "la banca una volta ricevuto il pagamento dal debitore straniero, diveniva debitore di Micoperi", con la conseguenza che la contemporanea esistenza dei contrapposti crediti per il finanziamento in pool e debito da restituzione delle somme ricevute dal debitore straniero rendeva ammissibile la compensazione exart. 1853 c.c., stante l'autonomia dei rapporti; diversamente doveva ritenersi per le altre banche, poichè estranee alla delega all'incasso dei crediti esteri, sicchè non sussistevano crediti e debiti nei confronti della Micoperi, ma soltanto un credito per la rata scaduta del finanziamento e perciò le rimesse ricevute dalla Banca di Roma configuravano atti revocabili. La sentenza di secondo grado, alle pg. 12 e 15, ha condiviso siffatta identificazione del petitum e della causa petendi della domanda, affermando che la Micoperi non aveva chiesto la revoca del mandato all'incasso di crediti esteri stipulato il 3 novembre 1988, in quanto "risaliva ad epoca anteriore al periodo sospetto", limitandosi ad insistere per la revoca dei pagamenti eseguiti dal Banco di Roma. Ad avviso delle istanti, la pronuncia avrebbe stravolto il petitum dell'azione proposta, riportando una massima di una sentenza di questa Corte (Cass. n. 3951 del 1983), per desumere che "la revocabilità dell'incasso del mandatario quale pagamento allo stesso vale, poi, come argomento ulteriore per rigettare l'appello della Banca S. Paolo e del Banco di Sicilia ove si ritenesse che anche queste banche erano mandatarie della Micoperi per l'incasso", incorrendo in tal modo in ultrapetizione o extrapetizione, in errori di diritto ed in vizi motivazionali. Secondo le ricorrenti, le domande non avevano ad oggetto il mandato all'incasso di crediti esteri, gli effetti del medesimo e l'incasso di detti crediti avvenuto sul Banco di Roma, bensì "solo ed esclusivamente il momento successivo della utilizzazione delle somme in via di compensazione, unico oggetto dell'azione revocatoria promossa dall'attrice", sicchè il giudice del merito doveva stabilire se il creditore poteva compensare L. Fall., ex art. 56 i suoi crediti con le somme spettanti a Micoperi ed esistenti presso di lui. La sentenza impugnata ha escluso l'applicabilità della L. Fall., art. 56 con argomentazioni concernenti la natura del mandato all'incasso previsto da un contratto di finanziamento, la funzione di garanzia assegnata al medesimo dalle parti, la revocabilità del mandato in considerazione di siffatta funzione, senza avvedersi che nessuno di detti elementi era stato posto a fondamento della domanda di revoca. La pronuncia ha invece omesso di accertare se - ferma la legittimità ed opponibilità dei negozi (di finanziamento e di mandato all'incasso) - fosse legittima la successiva compensazione L. Fall., ex art. 56. La Corte d'appello, se, nell'osservanza dell'art. 112 c.p.c., avesse considerato soltanto il petitum della domanda, avrebbe dovuto ritenere legittima la compensazione. 7.1.- La SANPAOLOIMI s.p.a, con il secondo motivo (ricorso R.G. n. 1510 del 2004), denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 100 c.p.c., della L. Fall., art. 67, comma 2, degliartt. 1241,1242,1243,1246,1268,1269,1362,1363,1364,1368,1369,1372,1387,1388,1392,1703,1704,1705,1708 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), deducendo che nel giudizio di merito aveva sostenuto che la Banca di Roma non aveva agito quale rappresentante delle altre banche, in quanto mancava un formale mandato. Pertanto, essa istante non aveva avuto nessun rapporto diretto con la Micoperi e non poteva rispondere nei confronti di quest'ultima. La Corte territoriale ha invece ritenuto che, in virtù del contratto del 3 novembre 1988, la Banca di Roma ha agito quale rappresentante di tutte le banche del pool; ha affermato che "delegataria o mandataria per l'incasso è solo la Banca di Roma"; ha ritenuto revocabile anche il pagamento di L. 850 milioni conseguente alla distribuzione tra le banche del pool della somma di L. 4.250.000.000, richiamando l'orientamento secondo il quale "il mandatario per l'incasso di un credito

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del mandante deve dare esecuzione all'obbligo di consegnare le somme incassate e non può senza esplicita autorizzazione del mandante portarle a compensazione di un credito di esso mandatario verso il mandante". Secondo l'istante, la Banca di Roma è stata erroneamente ritenuta "delegataria" o "mandataria per l'incasso", dato che nella specie si sarebbe al cospetto di una delegazione attiva, che comporta il sorgere di un nuovo creditore, in sostituzione del primo, o accanto a questo, con la conseguenza che se la Banca di Roma ha agito in qualità di delegataria della Micoperi, ha incassato un credito proprio, non già un credito altrui per il quale era mera mandataria all'incasso. inoltre, anche se si ritenesse la Banca di Roma mandataria, occorre considerare che, secondo l'interpretazione data dalla sentenza impugnata al contratto del 3 novembre 1988, essa istante, nell'impegnarsi ad effettuare pro-quota il finanziamento, ha dato atto che i pagamenti dei creditori esteri della Micoperi dovevano essere irrevocabilmente effettuati presso la Banca di Roma. Detta clausola era per essa ricorrente vincolante, ma non oltre il suo contenuto, quindi, non può essere ritenuta responsabile in ordine all'impiego fatto dalla Banca di Roma dei versamenti effettuati da terzi ed affluiti presso di essa e non può essere ritenuta responsabile per il fatto che la Banca di Roma ha, eventualmente, gestito le somme versate dai debitori esteri della Micoperi, senza essere stata autorizzata a compensarli con debiti della stessa Micoperi. 7.2.- I motivi, da esaminare congiuntamente perchè logicamente e giuridicamente connessi, sono in parte inammissibili, in parte infondati e non meritano accoglimento. 7.2.1.- La doglianza relativa alla eccepita violazione del giudicato, formulata nel quarto motivo, va rigettata, in quanto l'appello incidentale ha investito anche il pagamento in questione (pg. 16 di tale atto) e perchè, in ogni caso, come si precisa di seguito, la sentenza ha ritenuto revocabili i pagamenti effettuati in data successiva al 1 ottobre 1989. Le ulteriori censure svolte nel quarto motivo, in buona sostanza, consistono in una reiterazione di quelle sollevate in ordine al conferimento alla Banca di Roma di un mandato in rem propriam con la funzione sopra indicata. Pertanto, una volta ritenuta incensurabile detta configurazione, per le argomentazioni svolte nella delibazione del secondo motivo (v. 3.1.1.), poichè con quello in esame non ne sono svolte di ulteriori, resta incensurabile l'accertamento operato dalla Corte territoriale, secondo il quale, nella specie, "il mandato- delega irrevocabile all'incasso dei crediti verso i committenti aveva due funzioni: di garanzia e di pagamento" e che "fino al momento della esigibilità del credito la somma di danaro svolge la funzione di garanzia" (pg. 46). Peraltro, come pure sopra è stato esposto, a conforto di questa ricostruzione, la pronuncia ha anche precisato che "coerentemente la Banca di Roma, banca agente, solo in data 21.12.1989 con valuta 15.12.1989 ha accreditato alle altre banche del pool la quota di rimborso di loro pertinenza" (pg. 47 della sentenza). Correttamente, in virtù di questa configurazione - che, è opportuno ripeterlo, nell'esame del secondo motivo si è detto essere incensurabile - il giudice di secondo grado, accertata la volontà delle parti in ordine alla funzione del mandato (secondo quanto ancora indicato nel 3.1.1.) ha ritenuto irrilevante la data di riscossione della somma, stante la previsione che la medesima doveva essere trattenuta soltanto in garanzia ed incassata alla data di scadenza dell'obbligazione della Micoperi (che è incontroverso era successiva al 1 ottobre 1989). Dall'accertata funzione di garanzia sino alla data della scadenza dell'obbligazione consegue che esattamente la pronuncia ha negato rilevanza alla data dell'incasso della somma da parte del creditore della Micoperi. Peraltro, questa conclusione risulta confortata dalla stessa condotta della Banca di Roma che - come è precisato nella pronuncia e non è stato contestato - ha appunto accreditato a tutte le banche del pool le somme solo successivamente al 7 novembre 1989, e cioè dopo la scadenza della prima rata del finanziamento, comportamento che, evidentemente, è compatibile soltanto con la ricostruzione offerta dalla Corte territoriale. 7.2.2.- Le questioni poste con il quinto motivo del ricorso R.G. n. 782/04 e con il secondo motivo del ricorso R.G. n. 1510/04 riguardano, in larga misura, l'interpretazione del contratto di finanziamento. Con il primo di detti mezzi, le ricorrenti sostengono anzitutto che, "se delegato all'incasso fosse stato (...) il Banco di Roma in proprio e non anche in nome e per conto delle altre banche finanziatrici, ne seguirebbe che l'azione di Micoperi avrebbe dovuto essere indirizzata solo contro il Banco di Roma" (pg. 32). Inoltre, reiterano la contestazione della tesi secondo la quale Micoperi conferì il mandato all'incasso soltanto alla Banca di Roma e deducono che la stessa sarebbe in contrasto con la circostanza, pure affermata dalla pronuncia, che detta Banca agiva quale "rappresentante comune" delle altre (pg. 33), affermando che "è innegabile, in conclusione, che la delega all'incasso dei crediti esteri di Micoperi fu conferita al Banco di Roma in proprio e quale rappresentante comune di tutte le banche finanziatrici" (pg. 34). A loro avviso, da questa conclusione conseguirebbe che, essendo state le somme incassate nel luglio 1989, a tale data la somma era stata incassata anche dalle altre banche e che il 7 novembre la compensazione riguardò crediti fin dall'origine di spettanza delle altre banche, sicchè non vi erano atti solutori da revocare. Con il secondo dei succitati mezzi, l'istante deduce, in primo luogo, che la sentenza impugnata ha erroneamente ritenuto

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che la Banca di Roma aveva agito quale mandataria delle banche costituite in pool; in secondo luogo che la pronuncia ha poi ritenuto inesattamente che la Banca di Roma fosse mandataria per l'incasso, in quanto nella specie era configurabile una "delegazione attiva", che aveva comportato "il sorgere di un nuovo creditore, in sostituzione del primo"; in terzo luogo, che essa non poteva essere ritenuta responsabile per l'impiego dato dalla Banca di Roma alle somme riscosse in base al mandato. Peraltro, sono queste le censure scrutinabili - e cioè quelle supra riportate nel 7.1. -, non essendo ammissibili le deduzioni concernenti la data del pagamento svolte nella memoria ex art. 378 c.p.c., destinata esclusivamente ad illustrare e chiarire le ragioni già compiutamente svolte con l'atto di costituzione ed a confutare le tesi avversarie e nella quale non è possibile specificare od integrare, ampliandolo, il contenuto delle originarie argomentazioni che non fossero state adeguatamente prospettate o sviluppate con il detto atto introduttivo, e tanto meno dedurre nuove eccezioni o sollevare nuove questioni di dibattito (Cass. Sez.Un., n. 11097 del 2006; Cass. n. 14570 del 2004). Le doglianze sono dunque sostanzialmente incentrate nella denuncia di un vizio di motivazione e, quindi, in linea preliminare, è necessario ricordare che, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, l'interpretazione del contratto e degli atti di autonomia privata è riservata all'apprezzamento del giudice del merito, censurabile soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale e nel caso di motivazione contraria a logica ed incongrua e cioè tale da non consentire il controllo del procedimento logico seguito per giungere alla decisione (per tutte, Cass. n. 8372 del 2005; n. 8360 del 2005; n. 4063 del 2005; n. 15197 del 2004). Peraltro, per sottrarsi al sindacato di legittimità, quella data dal giudice al contratto non deve essere l'unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili e plausibili interpretazioni, per cui, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni (plausibili), non è consentito, alla parte che aveva proposto l'interpretazione poi disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l'altra (Cass. n. 12123 del 2006; n. 15197 del 2004; n. 11193 del 2003). Il sindacato di legittimità non può dunque investire il risultato interpretativo in sè e, nella formulazione della censura, è imprescindibile la specificazione dei canoni in concreto violati, delle norme ermeneutiche che, in concreto sarebbero state violate, specificando - al di là della indicazione degli articoli di legge in materia (Cass. n. 4948 del 2003)- in quale modo e con quali considerazioni il giudice di merito se ne sia discostato (tra le più recenti, Cass. n. 13717 del 2006; n. 8296 del 2005; n. 4905 del 2003), riportando, nell'osservanza del principio di specificità ed autosufficienza del ricorso, il testo integrale della regolamentazione pattizia del rapporto o della parte in contestazione (Cass. n. 16132 del 2005; n. 8296 del 2005; n. 4063 del 2005; n. 2394 del 2004), anche quando ad essa la sentenza abbia fatto riferimento, riportandone solo in parte il contenuto, nel caso in cui detta riproduzione parziale non consenta, di per sè, una sicura ricostruzione del diverso significato che ad essa il ricorrente pretenda di attribuire (Cass. n. 4063 del 2005). Il vizio motivazionale non può, inoltre, consistere nella difformità dell'apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte (per tutte, Cass. n. 3436 del 2006; n. 15805 del 2005; n. 11936 del 2003; n. 11918 del 2003), diversamente risolvendosi il motivo si risolve in un'inammissibile istanza di revisione delle valutazioni effettuate ed, in base ad esse, delle conclusioni raggiunte dal giudice del merito, al quale neppure può dunque imputarsi d'aver omesse l'esplicita confutazione delle tesi non accolte e/o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio ritenuti non significativi (Cass. n. 15096 del 2005; n. 996 del 2003; n. 3904 del 2000). Nel quadro di questi principi, va osservato che, relativamente alle deduzioni svolte da Sanpaolo Imi in ordine al mandato conferito alla Banca di Roma, la sentenza ha precisato: "in un contratto tra una grande impresa e le prime cinque banche italiane avente per oggetto un finanziamento di 40 miliardi di lire non si vede come l'espressione in nome e per conto possa ritenersi generica e non, invece, precisa e consapevole manifestazione di volontà espressa da soggetti esperti conoscitori del linguaggio contrattuale. Il mandato è poi provato dalla lettera 3.11.1988 (convenzione interbancaria) dalla Banca di Roma alle altre banche del pool dove la banca di Roma conviene con le altre banche di assumere l'incarico di banca agente anche in nome e per conto delle altre" (pg. 29). Inoltre, la sentenza ha precisato che "nel contratto di finanziamento in premessa si da atto che la Micoperi ha avvertito le committenti estere che i pagamenti sono stati irrevocabilmente delegati come da notifiche in fattura al banco di Roma; dopo la premessa la Banca di Roma, anche in rappresentanza delle altre banche, concede il finanziamento. E' chiaro che delegataria o mandataria per l'incasso è solo la Banca di Roma. Proprio per ciò nella coeva convenzione interbancaria le banche convengono che la Banca di Roma sarà banca agente e provvedere, fra l'altro, al riparto pro quota delle quote di capitale rimborsate", (pg. 30 della sentenza). Dunque, conclude la pronuncia, "un rapporto di mandato in capo alla Banca San Paolo-IMI e al Banco di Sicilia c'è, ma in esso queste banche sono mandanti (della Banca di Roma) e non mandatarie (della Micoperi)" (pg. 30), dando poi atto che questo mandato è stato eseguito con l'accredito da parte della Banca di Roma alle altre Banche delle somme di loro pertinenza in data 21 dicembre 1989, con valuta 15 dicembre 1989 (pg. 47 della sentenza). La trascrizione della motivazione rende chiaro che la Corte milanese, procedendo dalla lettera del contratto, e valorizzando anche la condotta successiva delle contraenti, ha argomentatamente concluso ritenendo, in primo luogo,

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che le banche conferirono alla Banca di Roma un mandato con rappresentanza. In secondo luogo, che il mandato in rem propriam all'incasso fu conferito soltanto alla Banca di Roma e, conseguentemente, ha concluso per la qualificazione come atti solutori degli accrediti effettuati in favore delle altre finanziatrici, rispetto alla quale neppure erano ipotizzabili gli ostacoli prospettati dalle istanti (e comunque, per le ragioni svolte nel 3.1.1. incensurabilmente superati in riferimento alla Banca di Roma). Le doglianze concernenti questa parte della pronuncia non sono state formulate nell'osservanza dei principi sopra enunciati e, in buona sostanza, consistono in una mera critica dell'interpretazione offerta dal giudice del merito. Il secondo mezzo proposto da Sanpaolo Imi s.p.a. si risolve infatti nella contrapposizione della propria interpretazione a quella affermata dalla Corte territoriale, non censurata specificamente nell'osservanza dei principi sopra enunciati sia in ordine all'esistenza ed al tipo di mandato conferito alla Banca di Roma, sia in ordine al conferimento a quest'ultima da parte di Micoperi di un mandato all'incasso, che, anche per le considerazioni svolte supra (cfr. 3.1.1.) è stata correttamente affermata dalla pronuncia impugnata. Relativamente alle ulteriori censure svolte con entrambi i mezzi, occorre osservare che le deduzioni con le quali, nel quinto motivo del ricorso R.G. n. 782/04) (pg. 28-30), sono richiamate le circostanze che, con il contratto, i pagamenti erano stato "irrevocabilmente delegati al Banco di Roma" e che questa era stata designata "Banca agente (...) in proprio ed in nome e per conto" prospettano elementi a conforto della correttezza della conclusione della Corte d'appello, in quanto fondata sulla lettera del contratto, la quale rivelava appunto l'esistenza di un mandato tra la Micoperi e la Banca di Roma. Ebbene, non sussiste affatto la denunciata contraddizione tra le affermazioni che la Banca di Roma aveva assunto "l'incarico di banca agente" anche per le altre e che soltanto la Banca di Roma era mandataria per l'incasso (pg. 31) ed è infondata la censura subito dopo svolta, con la quale le istanti lamentano che la sentenza non ha desunto che l'azione doveva essere rivolta soltanto contro la Banca di Roma (pg. 32), sostanzialmente svolta anche nell'ultima parte del secondo motivo del ricorso R.G. n. 1510/04. Infatti, dalla configurazione del mandato alla Banca di Roma quale mandato in rem propriam, con la funzione più volte richiamata, la Corte territoriale ha desunto - correttamente, per quanto precisato nell'esame del secondo motivo (3.1.1.) - l'inesistenza dei presupposti per la compensazione e la qualificazione della natura di atto solutorio della vicenda estintiva nei confronti della predetta, indicando che quest'ultima "solo in data 21.12.1989 con valuta 12.12.1989 ha accreditato alle altre banche del pool la quota di rimborso di loro pertinenza" (pg. 47 della sentenza). Relativamente a questa seconda vicenda, le circostanze che la Banca di Roma non aveva titolo perchè operasse la compensazione in suo favore ed aveva operato quale mandataria "in nome e per conto" delle altre, rendono chiaro che, in virtù del principio secondo cui gli atti compiuti dal rappresentante sono direttamente ed automaticamente imputati al rappresentato, il pagamento - avente natura solutoria, per quanto sopra esposto - deve ritenersi effettuato in favore delle ricorrenti e, quindi, implicitamente, ma correttamente, senza alcuna contraddizione, sono state considerate beneficiarle e l'azione è stata ritenuta bene proposta nei loro confronti, con conseguente infondatezza delle censure svolte da Sanpaoloimi s.p.a. 7.2.3.- Il sesto motivo è inammissibile. Le censure svolte con questo mezzo hanno ad oggetto la motivazione, nella parte in cui la Corte territoriale ha affermato che "la revocabilità dell'incasso del mandatario quale pagamento allo stesso vale, poi, come argomento ulteriore per rigettare l'appello della Banca S. Paolo e del Banco di Sicilia ove si ritenesse che anche queste banche erano mandatarie della Micoperi per l'incasso" (pg. 32), quindi nella parte in cui la pronuncia ha inefficace il pagamento di L. 850 milioni in favore del Banco di Sicilia, anche qualora la stessa fosse stata mandataria per l'incasso. Le ricorrenti svolgono argomenti per contestare che una tale domanda fosse stata proposta e per sostenere che, qualora fosse stata possibile offrire questa configurazione del rapporto, il giudice d'appello avrebbe dovuto esplicitare le ragioni della ritenuta inammissibilità della compensazione in riferimento a detta ipotesi. Senonchè, per quanto sopra esposto nell'esame del quinto motivo, la sentenza impugnata ha ritenuto revocabile il pagamento in questione - confermando sul punto la pronuncia del Tribunale -, escludendo che al Banco di Sicilia fosse stato conferito un mandato all'incasso, con conclusione che, come sopra è stato sottolineato, è incensurabile in questa sede. La Corte milanese, dopo avere deciso della revocabilità dei pagamenti ricevuti dall'unica contraente ritenuta mandataria per l'incasso (la Banca di Roma), ha concluso affermando che detta considerazione "vale, poi, come argomento ulteriore per rigettare l'appello (..) del Banco di Sicilia" (pg. 32). Dunque, è chiaro che, a conforto del rigetto del motivo di gravame fondato sulla negazione del mandato all'incasso, la pronuncia ha aggiunto - appunto come ulteriore argomentazione - la considerazione dell'insufficienza di detta configurazione a rendere il pagamento immune dalla dichiarazione di inefficacia. In relazione al motivo in esame, risulta quindi richiamabile il principio in virtù del quale, quando una sentenza è fondata su una duplice ratio decidendi, il rigetto del motivo che riguarda una di esse rende inammissibile l'esame del motivo

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concernente quella ulteriore, svolta ad abundantiam, in quanto la sua eventuale fondatezza non potrebbe realizzare lo scopo proprio di questo mezzo di impugnazione, il quale mira alla cassazione della sentenza, che non potrebbe invece essere pronunciata, dato che essa rimarrebbe ferma sulla base dell'argomento riconosciuto esatto (per tutte, Cass. n. 12372 del 2006; n. 5493 del 2001). 8.- Le ricorrenti, con il settimo motivo (ricorso R.G. n. 782 del 2004), denunciano "violazione e falsa applicazione degli artt. 1241, 1242, 1243, 1246, 1853 c.c.,L. Fall., artt. 56 e 67; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi prospettati dall'appellante, in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5", premettendo che il secondo oggetto dell'azione revocatoria promossa nei confronti dell'ex Banco di Sicilia era costituito dalla compensazione operata da questo tra il credito sorto dal contratto di finanziamento in pool del 3 novembre 1988 e l'importo di L. 925.250.235, pari alla rimessa effettuata dall'Ente porto di Trieste sul conto accesso dalla Micoperi presso il Banco di Sicilia-Filiale di Trieste. Siffatto versamento fu effettuato il 7 novembre 1989, e cioè il giorno in cui era scaduta e rimasta insoluta la prima rata del finanziamento. Successivamente il Banco di Sicilia trasferì il saldo attivo del conto aperto presso la Filiale di Trieste sul conto aperto presso la Filiale di Milano per il regolamento del contratto di finanziamento in pool, operando la compensazione sino a concorrenza di L. 964.671.563. La sentenza di primo grado aveva rigettato la domanda ritenendo non provato l'effetto estintivo; la sentenza di appello ha reputato provato detto effetto, rigettando l'eccezione di compensazione sull'assunto che non si tratta di "riscossione di un mandato, ma di accredito di un bonifico ordinato da un terzo, che costituisce sempre pagamento revocabile dal correntista alla banca", richiamando a conforto sul punto Cass. n. 12489 del 2000. Secondo le ricorrenti, quest'ultima sentenza riguarda una fattispecie diversa. In quella qui in esame l'Ente porto di Trieste ha effettuato un pagamento mediante rimessa sul conto corrente attivo acceso dalla Micoperi presso la Filiale di Trieste del Banco di Sicilia e, successivamente, il versamento è stato compensato con il debito risultante dal diverso conto accesso presso la Filiale di Milano della stessa banca, a servizio dell'operazione di finanziamento. Pertanto, dalla stessa sentenza di questa Corte n. 12489 del 2000, nonchè da quella delle Sezioni unite n. 775 del 1999 - delle quali sono riportate alcuni brani - risulta la ricorrenza dei presupposti della compensazione: l'esistenza di diversi conti su diverse filiali; il diverso titolo dei contrapposti crediti (da restituzione della prima rata di finanziamento in pool quello della Filiale di Milano e di disponibilità di somme liquide affluite in conto corrente quello verso la Filiale di Milano e di disponibilità di somme liquide affluite in conto corrente quello verso la Filiale di Trieste - conto quest'ultimo coperto); l'inesistenza di artifici sottesi alla compensazione, essendo i crediti contrapposti sorti lo stesso giorno (7 novembre 1989); l'anteriorità dei crediti contrapposti rispetto all'apertura della procedura concorsuale; l'essere i crediti, aventi ad oggetto somme di denaro, liquidi ed esigibili. 8.1.- Il motivo è infondato e deve essere rigettato, anche se la motivazione deve essere integrata e corretta (art. 384 c.p.c., comma 2). Con il mezzo in esame è posta la questione dei presupposti e dei limiti della compensazione tra conti correnti bancari accesi dallo stesso correntista presso la stessa banca. In questi termini, come risulta dalla sentenza impugnata, la questione era stata sollevata in primo grado e risolta negativamente dal Tribunale, in quanto "la Banca di Sicilia non aveva provato di essere debitrice della somma a credito della Micoperi derivante da un bonifico effettuato dall'Ente Porto di Trieste, perchè non vi era corrispondenza tra l'importo di L. 925.250.235 accreditato dall'Ente Porto di Trieste sul conto presso la filiale di Trieste ed il giroconto di L. 964.671.563 dal predetto conto a quello presso la filiale di Milano a decurtazione del maggior debito per finanziamento (così nella narrativa, pg. 20)". La sentenza ha deciso il motivo con cui il Banco di Sicilia aveva contestato di non avere offerto la prova dell'eccezione di compensazione, affermando: "è vero che dai tre documenti prodotti risulta chiaramente l'accredito del bonifico ordinato sul conto corrente presso la filiale di Trieste e il giroconto di maggior importo del predetto conto a quello presso la filiale di Milano a decurtazione maggior debito per finanziamento in pool (docc. 8, 9 e 10 dell'appellante)" (pg. 33). Tuttavia, secondo la Corte d'appello, "in questo caso l'insussistenza della compensazione è ancor più semplice, non trattandosi di riscossione di un mandato, ma di accredito di un bonifico ordinato da un terzo che costituisce sempre pagamento revocabile del correntista alla banca", richiamando Cass. n. 124898 del 2000. Ebbene, quest'ultima sentenza non è stata pertinentemente richiamata, in quanto ha deciso la questione dell'ammissibilità della compensazione in senso tecnico all'interno del conto corrente bancario, considerando la rimessa del terzo direttamente atto idoneo a costituire un deposito in favore del correntista, "ovvero, se il conto abbia affidamento della banca e presenti un saldo passivo, a ricostituire la provvista o ad estinguere il debito immediatamente esigibile - dello sconfinamento del fido con effetto propriamente solutorio". La questione concerne invece i presupposti della compensazione tra i saldi di più conti, ai sensi dell'art. 1853 c.c., non

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essendo stata dedotta l'esistenza di una disciplina convenzionale derogatoria. Al riguardo, va osservato che questa norma stabilisce che, "se tra la banca e il correntista esistono più rapporti o più conti, ancorchè in monete differenti, i saldi attivi e passivi si compensano reciprocamente, salvo patto contrario", con previsione che, pacificamente, condiziona l'operatività della compensazione alla annotazione in conto (Cass. n. 3447 del 1986; n. 18947 del 2005, anche con riferimento alla rilevanza della comunicazione della annotazione) e, in passato, è stata interpretata nel senso della non necessarietà della chiusura dei conti (Cass. n. 6558 del 1997). Tuttavia, una successiva pronuncia ha ritenuto, implicitamente, necessaria la chiusura dei conti (Cass. n. 4735 del 1998 ); una più recente sentenza, decidendo una fattispecie analoga a quella in esame, valorizzando un diverso profilo, e proprio in considerazione della unità dei conti, ha affermato che "se i conti pur distinti vanno considerati unitariamente, i versamenti provenienti da altro conto intestato allo stesso soggetto non possono avere effetti diversi da quelli effettuati direttamente sul conto scoperto" (Cass. n. 6943 del 2004), concludendo in tal modo per l'assimilazione dell'operazione qui in esame ad una rimessa revocabile. In senso sostanzialmente analogo, da ultimo, è stato affermato che qualora ci si trovi al cospetto di "un'ordinaria operazione di giroconto" da un conto indisponibile ad un conto di corrispondenza ordinario, così da aversi che una somma erogata in via di anticipazione sia riaccreditata in un conto scoperto, una tale operazione non assume "una configurazione meramente contabile", ma ha funzione satisfattoria, in quanto "utilizzato e specificamente imputato a parziale estinzione dello scoperto", escludendo che questa compensazione possa "considerarsi frutto di compensazione in senso tecnico giuridico" (Cass. n. 20101 del 2005). Alla luce di questa evoluzione, significativamente diretta ad evidenziare la peculiarità dell'operazione in esame, come bene è stato osservato, l'art. 1853 c.c., non può essere interpretato alla lettera, in quanto darebbe luogo alla continua determinazione di un saldo unico, in contrasto con la circostanza che le parti hanno deciso di dare vita a due rapporti formalmente e contabilmente distinti, ciò vieppiù quando, come nella specie, ci si trovi di fronte a conti aperti in filiali diverse della stessa banca. Dunque, deve ritenersi che la norma non deroghi alla regola generale dell'art. 1243 c.c. in ordine alla esigibilità del credito, che è nozione diversa dalla disponibilità, che esprime la facoltà di uno dei soggetti del rapporto di variare il quantum del credito, mentre l'inesigibilità esprime il reciproco divieto dei due soggetti del rapporto di pretendere l'adempimento e, adempiendo, di porre fine al rapporto. Ciò significa che la compensazione presuppone l'esigibilità dei rispettivi crediti e, quindi, la chiusura dei conti o dei rapporti tra banca e cliente e la norma, come è stato bene osservato, non è in parte qua inutile, in quanto ripetitiva dell'art. 1243 c.c., perchè è stata giustificata dall'intento del legislatore di "rimuovere dubbi interpretativi, tenuto conto delle contrastanti opinioni che si erano manifestate, soprattutto sul punto della compensabilità fra depositi a risparmio e crediti della banca, sotto la previgente legislazione". Pertanto, nella specie, affinchè potesse operare la compensazione, occorreva che la banca deducesse e provasse - come non risulta sia accaduto - l'avvenuta chiusura dei conti, con la conseguenza che, in difetto di prova sul punto, correttamente è stato ritenuto che il giroconto non poteva avere effetti diversi da quelli che sarebbero derivati dal versamento effettuato dal terzo direttamente sul conto presso la filiale di Milano, e cioè essere qualificata come rimessa con effetti solutori. 9.- Le ricorrenti, con l'ottavo motivo (ricorso R.G. n. 782 del 2004), denunciano "violazione e falsa applicazione della L. Fall.art. 5 e art. 67, comma 2, artt. 2697, 2727 e 2729 c.c.; omesso esame dei motivi dell'appello incidentale della Banca di Roma, illogica, perplessa e insufficiente motivazione su punti decisivi prospettati dall'appellante, in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5". A loro avviso, la Corte territoriale ha correttamente affermato che il curatore aveva l'onere di provare la conoscenza dell'insolvenza, e tuttavia: ha dapprima presunto che il bilancio di esercizio relativo al 1988, approvato dall'assemblea il 14 luglio 1989, depositato alla fine dello stesso mese, fosse "chiaramente confessorio" dello stato di insolvenza della società; quindi, ha presunto che le banche finanziatrici lo abbiano ricevuto dalla debitrice (spontaneamente o dietro sollecitazione); infine, ha presunto che le creditrici abbiano valutato il documento contabile, acquisendo conoscenza dell'insolvenza della Micoperi. La pronuncia di primo grado è stata appellata con impugnazione incidentale, allo scopo di vedere affermato che la conoscenza dello stato di insolvenza non poteva essere anteriore alla data della presentazione della domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo (5 aprile 1990) ed i motivi di censura sono stati diffusamente esposti. Secondo le istanti, l'art. 2727 c.c. stabilisce che la presunzione è la conseguenza che il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignoto, sicchè un patto negoziale quale quello richiamato dalla Corte territoriale - avente ad oggetto l'obbligo della Micoperi di trasmettere il bilancio alla banca agente, e cioè alla Banca di Roma - non può fondare la prova della scientia decoctionis quanto meno alla data del 1 ottobre 1989, in difetto di dimostrazione - non offerta - in ordine sia all'avvenuta trasmissione del documento contabile, sia a sollecitazioni in tal senso ad opera della banca agente o

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delle altre, vieppiù in quanto la Banca di Roma ed il Banco di Sicilia avevano espressamente dedotto di non averlo conosciuto e che lo stesso non era stato loro inviato. Dunque, la sentenza ha violato l'art. 2729 c.c., poichè nessuna delle presunzioni è assistita dai requisiti della gravità, precisione e concordanza. Siffatti requisiti difettano, in primo luogo, nella pretesa "natura confessoria del bilancio", in quanto la perdita di oltre la metà del capitale sociale (indizio di difficoltà, non prova dello stato di insolvenza), la natura delle riserva ed il contenimento del fondo svalutazione crediti in una misura civilisticamente inadeguata, ma fiscalmente consentita, non costituiscono manifestazioni gravi, precise e concordanti dell'impossibilità definitiva del debitore di soddisfare le proprie obbligazioni. In secondo luogo, mancano anche gli indizi che dovrebbero confortare la presunzione della trasmissione della copia del bilancio alle creditrici e manca ogni indizio che possa far ritenere grave precisa e concordante la fissazione della conoscenza dell'insolvenza alla data del 1 ottobre 1989. Inoltre, la Corte d'appello ha violato l'art. 2697 c.c., poichè il Commissario straordinario, sul quale incombeva il relativo onere, non ha provato la conoscenza dello stato di insolvenza, non offrendo nessun indizio sul punto, sicchè la domanda andava rigettata. Un ulteriore errore della sentenza consiste nella violazione del divieto della praesumptio de praesumpto e nella conseguente illogicità manifesta della motivazione sul punto in esame. Conoscenza dello stato di decozione significa conoscenza della definitiva impossibilità del debitore di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni, che non poteva essere desunta dal bilancio di esercizio, vieppiù in quanto dallo stesso nessun giornalista o osservatore di fatti macroeconomici aveva desunto elementi in tal senso, offrendo la relativa notizia, come invece sarebbe accaduto se ciò fosse stato possibile, tenuto conto delle dimensioni della Micoperi, non essendovi altresì state neppure manifestazioni di sciopero, nè proclamati "stati di agitazione" del personale, ovvero iniziative dei sindacati. Peraltro, l'insussistente natura confessoria del bilancio ha costituito soltanto la prima presunzione, alla quale è stata fatta seguire la seconda - pure inesistente - avente ad oggetto la prova della conoscenza del bilancio da parte delle creditrici, ed infine la terza, concernente la data della conoscenza, che la sentenza ha cura di indicare che "non è agevole" riferire ad un tempo anteriore al 7 novembre 1989 e costruisce con il ricorso agli avverbi "prudentemente" e con la "considerazione del periodo feriale", fissandola poi "quanto meno all'1.10.1989". La sentenza ha costruito una catena di presunzioni e si tratterebbe di un caso tipico di praesumptio de praesumpto che manifesta l'illogicità della motivazione. Secondo le ricorrenti, sono quindi insuperati gli argomenti svolti nel giudizio di merito, consistenti nella notizia apparsa sul quotidiano "Il Sole 24 ore" del 23 settembre 1989 in ordine alla partecipazione della Micoperi ad una gara di appalto dell'importo di 620 milioni di dollari, sintomatica della sua solidità, mentre le banche, allorchè concedono affidamenti non hanno alcun onere di esaminare i bilanci dei propri clienti e la Micoperi non era cliente della Banca di Roma. Infine, l'indagine sulla scientia decoctionis doveva essere effettuata autonomamente per ciascuna Banca, quindi anche in riferimento al Banco di Santo Spirito. I pagamenti ricevuti da quest'ultimo sono del 1989 e la revoca ha attinto quelli successivi a 1 ottobre 1989, data questa fissata quale rilevante per il requisito soggettivo dell'azione in riferimento alla Banca di Roma. La fusione di queste due banche è stata però perfezionata tre anni dopo, con atto per notaio Gennaro Mariconda del 9 luglio 1992. La Banca di Roma s.p.a. deve rispondere quale successore del Banco di Santo Spirito ed è quindi in riferimento a questo che andava verificata la sussistenza della scientia decoctionis. Analoga conclusione può affermarsi per i pagamenti ricevuti dalla Cassa di Risparmio di Roma, che addirittura ottenne i pagamenti nel luglio 1989, mentre per il Banco di Roma detta conoscenza è stata fissata dalla pronuncia al 1 ottobre 1989. In conclusione, l'argomento utilizzato per il Banco di Roma non poteva concernere le banche che con questo si sono poi fuse. 9.1.- Il motivo è infondato e va rigettato. 9.1.1.- In sintesi, con questo mezzo, le ricorrenti censurano la sentenza anzitutto deducendo che la Corte territoriale ha erroneamente presunto che le banche avevano avuto conoscenza del bilancio, per il solo fatto che il contratto di finanziamento prevedeva l'obbligo della debitrice di trasmetterlo, ritenendo in via presuntiva, altrettanto inesattamente, che detta conoscenza avevano avuto alla data del 1 ottobre 1989. Secondo le istanti, la pronuncia ha erroneamente reputato che il bilancio di esercizio della debitrice fosse valorizzabile allo scopo di desumere la conoscenza dello stato di insolvenza, omettendo di accertare la scientia decoctionis in riferimento a ciascuna banca. In considerazione del contenuto del motivo, occorre preliminarmente ricordare che, secondo un principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, nel nostro ordinamento non esiste un principio di gerarchia, che ponga la prova per presunzione in una posizione inferiore rispetto alle altre; il giudice del merito può dunque fondare, anche in via esclusiva,

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il proprio convincimento su tale prova, nell'esercizio del potere discrezionale, istituzionalmente demandatogli, di individuare le fonti di prova e controllarne l'attendibilità, scegliendo fra gli elementi probatori sottoposti al suo esame quelli ritenuti più idonei (ex plurimis, Cass., n. 3837 del 2001; n. 491 del 2000; cfr. anche Cass., n. 6956 del 1995; n. 4078 del 1995; n. 4833 del 1994). La scelta degli elementi che costituiscono la base della presunzione ed il giudizio logico con cui dagli stessi si deduce l'esistenza del fatto ignoto costituiscono un apprezzamento di fatto, che, se adeguatamente motivato, sfugge al controllo di legittimità (Cass. n. 11906 del 2003; n. 5526 del 2002; n. 12422 del 2000), non essendo proponibili in questa sede le doglianze dirette a porre in discussione la fondatezza della presunzione e la sussistenza dei requisiti di gravità, precisione e concordanza (per tutte, Cass. n. 1216 del 2006; n. 3974 del 2002; n. 9015 del 1999; n. 4406 del 1999). 9.1.2.- La conoscenza dello stato di insolvenza del debitore da parte del creditore, della cui dimostrazione è onerata la curatela ai sensi della L. Fall., art. 67, comma 2. - ancora secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, alla quale va data continuità - sebbene debba essere effettiva e non potenziale, può tuttavia essere provata anche attraverso elementi indiziari aventi i requisiti della gravità, precisione e concordanza, quindi fondata su elementi di fatto che attengano alla conoscibilità dello stato di insolvenza, purchè idonei a fornire la prova per presunzioni della conoscenza effettiva. La relativa dimostrazione può perciò essere indiretta, e cioè offerta mediante la logica concatenazione di circostanze che, in base al criterio di normalità assunto a parametro di valutazione, consente appunto la prova presuntiva della scientia decoctionis (per tutte, Cass. n. 19894 del 2005;n. 13646 del 2004;n. 1719 del 2001;n. 7757 del 1997;n. 7298 del 1997). Questa prova si caratterizza per un intreccio tra il profilo oggettivo della insolvenza ed il profilo soggettivo della sua conoscenza e, non essendo possibile una prova diretta degli stati soggettivi, è imprescindibile fare riferimento, mediante lo strumento delle presunzioni, alla esistenza di segni esteriori dell'insolvenza ed alla loro conoscibilità da parte del convenuto in revocatoria avendo riguardo al parametro astratto del soggetto di ordinaria prudenza ed avvedutezza (Cass. n. 17214 del 2004), accompagnandosi a tale necessità, "quale portato dello strumento utilizzato, l'irrilevanza di tutte le manifestazioni di ingenuità, di sprovvedutezza, di soggettivi errori di percezione attraverso le quali il terzo volesse accreditare, contro ogni ragionevole valutazione delle circostanze e contro ogni evidenza di segno contrario, una condizione di buona fede" (Cass. n. 1719 del 2001). Peraltro, come è stato precisato e va qui ribadito, se, da un canto, nello schema della presunzione non esiste un presunto dovere di conoscere, dall'altro, questo schema permette di valorizzare "regole di esperienze storicamente accertate, e quindi pratiche individuali o collettive realmente seguite in determinati contesti", permettendo di desumere la conoscenza in presenza di "concreti collegamenti" (Cass. n. 13646 del 2004; n. 1719 del 2001; n. 3524 del 2000) tra i sintomi di detta conoscenza ed il terzo, quali, esemplificativamente, la contiguità territoriale con il luogo in cui si manifestano detti sintomi, la occasionalità o la continuità dei rapporti, la loro importanza (Cass. n. 1719 del 2001, ove ulteriori richiami). Questa Corte, ha quindi affermato che in questo ambito si deve dare rilievo anche alla attività professionale esercitata dall'accipiens ed alle regole di prudenza ed avvedutezza che caratterizzano concretamente, indipendentemente da ogni doverosità, l'operare della categoria di appartenenza. In riferimento alla posizione del banchiere, siffatta qualità soggettiva del creditore non è di per sè sufficiente a fondare la presunzione di conoscenza dello stato di insolvenza del debitore, in considerazione delle regole di prudenza ed avvedutezza che dovrebbero caratterizzarne la condotta (Cass. n. 1719 del 2001), in assenza di sintomi che possano fondarla (Cass. n. 10800 del 2006; n. 4765 del 1998). Tuttavia, costituisce dato acquisito alla comune esperienza che le banche, in considerazione dell'attività svolta, delle modalità che la connotano, della circostanza che dispongono di operatori professionali qualificati, possono cogliere i sintomi di un dissesto del soggetto finanziato meglio e più tempestivamente di un soggetto non professionale, avendo a disposizione, più facilmente rispetto agli altri creditori, gli strumenti atti ad interpretarli e valutarli (Cass. n. 19894 del 2005; n. 1719 del 2001). 9.1.3.- Tra gli elementi oggettivi che possono assumere rilievo al fine della conoscenza dell'insolvenza deve essere compreso anche il bilancio di esercizio. La disciplina del bilancio di esercizio delle società di capitali è stata caratterizzata da una evoluzione che permette di affermarne, sotto il profilo giuridico, la funzione informativa in ordine alla composizione ed al valore del patrimonio sociale ed alla capacità economica della società. In estrema sintesi, va ricordato che nel codice di commercio del 1882 la regolamentazione del documento contabile si risolveva nella prescrizione che esso doveva "dimostrare con evidenza e verità gli utili realmente conseguiti e le perdite sofferte" (art. 176, commi 1 e 2), ed espressiva di una concezione ispirata alla rilevanza della disciplina societaria essenzialmente come regolamentazione dei rapporti privatistici, attenta pressochè esclusivamente ai profili interni del rapporto societario.

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Questa disciplina lasciava in ombra, eppure non negava del tutto, la funzione pure già allora propria del bilancio: offrire anche ai terzi una serie di informazioni sullo stato e sull'andamento dell'impresa. L'importanza di siffatta finalità fu colta dal legislatore del 1942, mediante l'introduzione nel codice civile della importante specificazione che il bilancio ed il conto dei profitti e delle perdite avrebbero dovuto esporre con chiarezza e precisione la situazione patrimoniale della società, gli utili conseguiti o le perdite sofferte (art. 2423 c.c.). L'importanza di questa innovazione e l'individuazione della funzione informativa del bilancio era confortata dall'art. 2621 c.c., n. 1 e art. 2435 c.c. che prevedendo, rispettivamente, sanzioni penali a carico di coloro che "nei bilanci o in altre comunicazioni sociali fraudolentemente espongono fatti non rispondenti al vero (...) sulle condizioni economiche della società o nascondono in tutto o in parte fatti concernenti le condizioni medesime" e l'obbligo della pubblicazione del bilancio la rendevano chiara, rivelando come fosse destinata a spiegarsi non soltanto nei confronti dei soci, bensì della generalità dei terzi, essendo preordinata alla tutela di un interesse generale, presidiato dal carattere imperativo dei precetti di chiarezza e precisione. Nel quadro della disciplina stabilita dal codice civile del 1942 potevano residuare margini di dubbio sulla effettiva portata della funzione in considerazione della vaghezza dei precetti concernenti la formazione del documento contabile, che sono stati del tutto superati quando, con la novellazione delle norme del codice civile realizzata nel 1974 (L. 7 giugno 1974, n. 216), mediante l'introduzione di nuovi articoli, è stata puntualmente disciplinata struttura e contenuto del conto dei profitti e delle perdite, nonchè della relazione degli amministratori, che hanno univocamente confermato e rafforzato l'essenzialità della funzione informativa del bilancio. In questa prospettiva, come bene è stato osservato, la direttiva 25 luglio 1978 n. 78/660 CE ha completato il percorso che ha condotto ad attribuire valore centrale alla funzione informativa del bilancio "in quella logica della contestuale protezione tanto dei soci come dei terzi cui espressamente si richiama l'art. 54, p. 3, lett. g) del trattato istitutivo della Comunità". Il recepimento delle direttive comunitarie realizzate con il D.Lgs. 9 aprile 1991, n. 127 ha quindi condotto ad una disciplina peculiarmente puntuale e specifica - ribadita ed ulteriormente specificata, da ultimo, con il D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, anche quanto al contenuto ed alla rilevanza degli adempimenti pubblicitari e delle violazioni delle norme che presiedono la formazione ed il contenuto del documento (artt. 2435 e 2621 c.c.) - in ordine all'informazione che deve essere data con il bilancio, al suo contenuto, alle modalità da osservare nel fornirla. In armonia con questa evoluzione normativa, gli orientamenti della giurisprudenza e della dottrina hanno inizialmente privilegiato il principio di verità ed una concezione del documento come strumentale alla tutela dei diritti a contenuto patrimoniale dei soci, peraltro progredendo dal rifiuto della sindacabilità delle valutazioni all'affermazione del loro controllo, attraverso il parametro della ragionevolezza. L'importanza del principio di chiarezza, la sua autonomia ed imperatività - essenziali in vista dell'affermazione della funzione informativa - non sono state invece prontamente colte, sino a dare luogo ad un contrasto nella giurisprudenza di questa Corte, composto dalle Sezioni Unite, con l'enunciazione di una regula iuris che ha affermato la rilevanza di detta funzione. La sentenza n. 27 del 2000 ha infatti affermato che "la violazione delle disposizioni relative alle modalità di redazione del bilancio (...) rende nulla la delibera di approvazione quando risultino in concreto pregiudicati gli interessi generali tutelati dalla norma" e, per quanto qui interessa, ha fondato siffatto principio proprio sulla essenzialità della funzione informativa non limitata ai soci, sulla sua strumentalità rispetto allo scopo di offrire un'esatta conoscenza della situazione reale della società e di controllare il rispetto sostanziale del principio di verità, appunto perchè "tra le funzioni del bilancio c'è quella di fornire ai soci e ai terzi tutte le informazioni prescritte dalla legge", sussistendo dunque un interesse generale a che sia offerta un'informazione chiara e leggibile sull'andamento e sulla situazione patrimoniale ed economica della società (Cass. Sez. Un. n. 27 del 2000). Il principio secondo il quale la funzione del bilancio di esercizio non è soltanto di misurare gli utili e le perdite dell'impresa al termine dell'esercizio, ma anche di adempiere un compito specificamente informativo in ordine alle condizioni patrimoniali ed economiche della medesima, quindi di fornire sia ai soci sia al mercato tutte le informazioni che il legislatore ha ritenuto al riguardo di prescrivere, ha assunto man mano un ruolo centrale nella disciplina del settore, - affermato anche da successive pronunce (Cass. n. 23976 del 2004; n. 8001 del 2004) - e fonda l'affermazione della idoneità del documento a costituire un elemento in grado di dimostrare la scientia decoctionis, sempre che le risultanze non siano di equivoca interpretazione, ma dimostrino in maniera chiara ed univoca lo stato di insolvenza della società debitrice. In tal senso si è peraltro anche già espressa questa Corte, ritenendo incensurabile l'apprezzamento espresso dal giudice del merito in ordine alla scientia decoctionis dell'accipiens, affermata facendo "leva sui dati del bilancio depositato (...), dai quali emergeva la difficile situazione della società e di cui certamente la banca che aveva concesso alla società medesima ingenti crediti doveva aver preso visione" (Cass. n. 4473 del 1997). 9.1.4.- In applicazione di questi principi, le censure non meritano accoglimento. La sentenza impugnata ha infatti ritenuto provata la conoscenza del bilancio valorizzando la circostanza che "nel

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contratto di finanziamento al punto 11 A è previsto l'obbligo della Micoperi di inviare alla banca agente copia (per essa e per le altre banche) del bilancio entro il termine di trenta giorni dalla approvazione" e che, con questo obbligo, "sono dichiarati l'interesse e il diritto delle banche ad averne conoscenza (...)" e "l'interesse contrattualmente tutelato a conoscere tempestivamente il bilancio della finanziata", ritenuto "circostanza grave e precisa che da sola induce logicamente a ritenere che le banche hanno ricevuto copia del bilancio per averla trasmessa spontaneamente la Micoperi (...) o per esservi stata sollecitata dalle banche". La Corte territoriale, con argomentazioni logicamente coerenti e complete, non si è quindi limitata a valorizzare la mera conoscibilità del bilancio in conseguenza della sua pubblicazione - pure peraltro significativa - ma ha ritenuto che la previsione contrattuale permetteva di desumere ragionevolmente l'avvenuta conoscenza del documento contabile, anche in considerazione dell'importo del finanziamento e della qualità delle parti. La pronuncia ha indicato il criterio di collegamento della conoscenza e le ragioni che - in considerazione della data di approvazione del bilancio e del termine di trasmissione convenuto tra le parti - hanno prudenzialmente fondato la fissazione della data della conoscenza al 31 ottobre 1989, precisando che il contratto prevedeva l'obbligo di trasmissione della copia del bilancio - ed il diritto di ottenerlo - nei confronti di tutte le banche (la copia doveva essere inoltrata alla Banca di Roma "per essa e per le altre banche" è sottolineato a pg. 43), così dimostrando che, contrariamente alla tesi delle ricorrenti, la scientia decoctionis è stata specificamente apprezzata e valutata distintamente in riferimento a ciascuna banca. La scelta dell'elemento posto a base della presunzione ed il giudizio logico con il quale da questo è stata desunta la conoscenza, costituenti apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito, sono stati dunque congruamente e logicamente motivati, sicchè la doglianza finisce con il risolversi nella prospettazione di una diversa valutazione di merito, senza l'indicazione di quei vizi logici idonei ad individuare l'obbiettiva deficienza del ragionamento presuntivo. Inoltre, la sentenza non ha neppure violato il divieto della praesumptio de paesumpto, in quanto, una volta ritenuta provata la conoscenza del bilancio, l'affermazione che da questa conoscenza era evincibile la conoscenza dello stato di insolvenza, perchè palesata dal documento contabile è, in linea generale, corretta, tenuto conto delle considerazioni sopra svolte, e costituisce una mera implicazione della ritenuta conoscenza del documento contabile, sicchè si è al cospetto di un'unica presunzione, sia pure articolata su autonome circostanze di fatto. La sentenza in esame si è quindi data carico di esporre analiticamente le circostanze che rendevano le risultanze del bilancio di univoca interpretazione, indicando che l'esistenza di una perdita di esercizio di L. 23.522.939.767, a fronte di un capitale di L. 44.524.425.250, la presenza di riserve di composizione particolare, nonchè l'adozione di criteri di valutazione di criteri che avevano determinato la costituzione di un fondo svalutazione crediti in una misura civilisticamente inadeguata erano elementi che univocamente potevano determinare in un operatore qualificato la conoscenza dell'insolvenza. La conclusione così raggiunta è frutto di un apprezzamento di fatto, incensurabile in questa sede, in quanto compiutamente e correttamente motivato, fondato su elementi oggettivi, incontroversi, nella cui valutazione, alla luce dei principi sopra sintetizzati, non è riscontrabile alcuna incongruenza, incoerenza o contraddittorietà. Le questioni concernenti la conoscenza dell'insolvenza da parte del Banco di S. Spirito, riferita al tempo dell'incorporazione nella Banca di Roma, così come proposta nei termini sintetizzati nel p. 9, è nuova e non risulta trattata dalla sentenza impugnata. Pertanto, per le argomentazioni svolte nel 4.1.1., avendo il ricorrente proposto detta questione, aveva l'onere non solo di allegare l'avvenuta deduzione della questione avanti al giudice del merito - negli esatti termini qui posti -, ma anche di indicare, specificamente, in quale atto del precedente giudizio lo avesse fatto, riproducendolo, onde dare modo a questa Corte di controllare la veridicità di tale asserzione, prima di esaminarla nel merito, sicchè dal mancato adempimento di detto onere consegue l'inammissibilità di questo profilo della censura. 10.- Il ricorrente incidentale, con un unico motivo, denuncia "violazione e falsa applicazione della L. Fall., art. 67 in relazione agli artt. 1823 e segg. c.c. e art. 183 e 184 c.p.c., contraddittoria ed insufficiente motivazione (art. 360 c.p.c., n. 3 e 5)", deducendo che aveva appellato la sentenza di primo grado nella parte in cui il Tribunale aveva affermato di aderire all'orientamento secondo il quale ai fini della individuazione delle rimesse revocabili occorre fare riferimento al c.d. saldo disponibile. In particolare, con il gravame, aveva sostenuto che, appunto in conseguenza della scelta di detto criterio, il Tribunale aveva rigettato la domanda di revoca dei pagamenti in favore del Banco di Santo Spirito e della Cassa di Risparmio di Roma per L. 1.863.638.711, così quantificato in applicazione del criterio della data valuta. L'istante trascrive quindi le argomentazioni svolte nell'atto di appello, con le quali aveva sostenuto che: a) doveva aversi riguardo al saldo per valuta; b) in linea gradata, applicando il criterio del saldo disponibile, "la ricostruzione dei movimenti del conto ai fini della revocabilità delle rimesse deve essere effettuata anche in relazione al tipo di operazione con la quale la rimessa è stata compiuta" e, stante la difficoltà dell'onere probatorio incombente sul curatore, questo "non deve essere ritenuto soccombente per non aver dimostrato una componente costitutiva della domanda", potendo avvalersi "di presunzioni,

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quale la presunzione che il pagamento coincida o preceda la valuta espressa nel conto"; c) erroneamente il Tribunale aveva ritenuto nuova, quindi inammissibile, la domanda proposta nel corso del giudizio, con la quale aveva chiesto di fare riferimento al saldo disponibile". Il Commissario straordinario osserva che la pronuncia impugnata ha rigettato l'appello incidentale affermando che non erano stati addotti nuovi elementi e che, nella qualificazione della domanda revocatoria come nuova, ovvero come produttiva di una emendatici libelli, occorreva considerare singolarmente i versamenti, non il loro totale. Pertanto, secondo la Corte territoriale, la domanda di revoca del versamento deve intendersi come nuova e inammissibile, qualora la procedura, "mutato il criterio da saldo per valuta a saldo disponibile, (...), pur chiedendo una somma minore, indica un versamento non compreso nell'atto di citazione". Ad avviso del ricorrente incidentale, questa Corte, con la sentenza n. 2744 del 1994 ha affermato che l'attore in revocatoria deve provare il superamento del limite di disponibilità quale presupposto della revocabilità del pagamento e, tuttavia, non può essere ritenuto soccombente, qualora sussista una oggettiva impossibilità di dimostrare una componente costitutiva della domanda (cioè la ricostruzione anche cronologica dei movimenti del conto), dato che l'onere probatorio deve corrispondere ad un criterio di buona fede e non si può richiedere al revocante di dimostrare situazioni a lui sconosciute, laddove possa avvalersi di presunzioni. Dunque, il giudice di secondo grado doveva ritenere inefficaci i pagamenti dell'importo di L. 1.863.638.711 "effettuati nel medesimo giorno, secondo il criterio del saldo per valuta, quale criterio più aderente a situazioni del genere". Inoltre, la richiesta di fare riferimento al saldo disponibile non costituisce domanda nuova, in quanto la modificazione del criterio contabile per determinare gli importi revocabili non comporta innovazione del petitum e della causa petendi, poichè l'indicazione dei versamenti effettuati sul conto, analiticamente riportati negli estratti, fa sì che l'indicazione dell'uno o dell'altro non possa essere configurato in detti termini. La sentenza impugnata ha "in effetti troppo sbrigativamente (...) liquidato il complesso motivo di appello incidentale, ignorando il richiamato dettato del Supremo Collegio e, in particolare, non approfondendo il tema mutatio/emendatio libelli". Il ricorrente incidentale riporta infine una sentenza del Tribunale di Torino, secondo la quale la situazione di conto scoperto va determinata secondo il criterio del saldo disponibile - del quale 0precisa la nozione - sottolineando che, una volta individuate le rimesse revocabili, è irrilevante la provenienza della provvista utilizzata per ridurre lo scoperto. 10.1.- Il motivo è in parte inammissibile, in parte infondato e non merita accoglimento. 10.1.1.- La censura, in larga misura, consiste e si esaurisce nel richiamo del motivo svolto nell'atto di appello, testualmente riprodotto (le pagine da 44 a 52, sino al rigo 11, sono esclusivamente dedicate alla trascrizione dei motivi di appello). In questa parte, il motivo è manifestamente inammissibile, poichè, secondo un principio consolidato, il ricorrente ha l'onere di indicare con precisione gli asseriti errori contenuti nella sentenza impugnata, in quanto, per la natura di giudizio a critica vincolata propria del processo di cassazione, il singolo motivo assolve alla funzione condizionante il devolutum della sentenza impugnata. Siffatto onere non può ritenersi soddisfatto qualora il ricorso per cassazione sia basato sul mero richiamo dei motivi di appello, in quanto tale modalità di formulazione del motivo rende impossibile individuare la critica mossa ad una parte ben identificabile del giudizio espresso nella sentenza impugnata, rivelandosi del tutto carente nella specificazione delle deficienze e degli errori asseritamente individuabili nella decisione (Cass. n. 10420 del 2005;n. 16763 del 2002; n. 14075 del 2002; n. 4013 del 1998; n. 2749 del 1995). Nel merito, in riferimento alle doglianze scrutinabili, va osservato che la Corte territoriale, al fine di identificare le rimesse revocabili ha fatto applicazione del principio secondo il quale i versamenti e le rimesse sul conto corrente dell'imprenditore poi fallito sono legittimamente revocabili tutte le volte in cui il conto stesso, all'atto della rimessa, risulti "scoperto", tale dovendosi ritenere sia il conto non assistito da apertura di credito che presenti un saldo a debito del cliente, sia quello scoperto a seguito di sconfinamento dal fido accordato al correntista. La pronuncia ha affermato che il giudice di primo grado ha accertato il carattere solutorio delle rimesse avendo riguardo al criterio del saldo disponibile - che ha ritenuto corretto e fatto proprio - in virtù del quale, allo scopo di accertare se il versamento o la rimessa sia destinato al pagamento di un debito verso la banca, ovvero solo a ripristinare la provvista sul conto corrente, occorre fare riferimento all'effettiva disponibilità di denaro liquido da parte del correntista nel momento in cui effettua la rimessa, non al "saldo contabile", che riflette la registrazione delle operazioni in ordine puramente cronologico, nè al "saldo per valuta", che è effetto del posizionamento delle partite unicamente in base alla data di maturazione degli interessi. La Corte d'appello ha fatto applicazione di un principio ormai consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, alla quale va data continuità (ex plurimis, Cass. n. 24588 del 2005; n. 24084 del 2005;n. 21083 del 2005; n. 23006 del 2004), non essendo state prospettate ragioni che possano indurre ad una rimeditazione di detto indirizzo o che rendano necessaria una nuova esposizione delle argomentazioni che lo fondano e che il Collegio condivide e fa proprie, essendo palese che asserite ed indimostrate difficoltà probatorie non possono comportare la possibilità di utilizzare un differente criterio che non è idoneo ad evidenziare il carattere solutorio della rimessa.

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Peraltro, l'indirizzo che qui si conferma ha anche precisato che, sul piano probatorio, poichè non risultano dall'estratto conto l'effettivo saldo disponibile, elementi presuntivi di prova possono desumersi sia dalla data di registrazione in conto delle operazioni - limitatamente a quelle "in avere" del correntista, costituite da versamenti e bonifici in contanti, nonchè ai prelevamenti in contanti o a mezzo assegni -, sia dai dati ordinati "per valuta" -, limitatamente ai versamenti in conto di titoli di credito, dovendosi presumere che l'incasso sia avvenuto, quanto meno, alla data della valuta, salva la possibilità, per la banca, di provare che sia avvenuto anteriormente (Cass. n. 2744 del 1994). Inoltre, è stato anche affermato che l'attore il quale chieda la revoca di rimesse aventi carattere solutorio in relazione al saldo infragiornaliero e non al saldo della giornata ha l'onere di dimostrare la cronologia dei singoli movimenti, che non può essere desunta dall'ordine delle operazioni risultante dall'estratto conto ovvero dalla scheda di registrazione contabile, in quanto tale ordine non corrisponde necessariamente alla realtà e sconta i diversi momenti in cui, secondo la tipologia delle operazioni, vengono effettuate le registrazioni sul conto (Cass. n. 21083 del 2005). 10.1.2.- Relativamente al secondo profilo della censura, occorre precisare che la Corte d'appello ha esposto che "il Tribunale ha correttamente osservato che, nella qualificazione della domanda revocatoria come nuova o no, devono essere considerati singolarmente gli atti di versamento, non il totale dei versamenti, cosicchè quando, mutato il criterio (da saldo per valuta a saldo disponibile), la procedura, pur chiedendo un importo totale minore, fa valere un versamento nuovo non indicato nell'atto di citazione, la domanda di revoca di quel versamento è nuova e inammissibile in mancanza (come nella specie) di accettazione del contraddittorio" (pg. 35-36). Dunque, la sentenza ha affermato che, qualora con l'atto di citazione sia stata chiesta la dichiarazione di inefficacia di alcuni pagamenti (versamenti) puntualmente indicati per cifra e per data, deve qualificarsi come nuova la domanda che abbia ad oggetto pagamenti ulteriori e diversi, con conclusione che si sottrae alle censure proposte dalla ricorrente incidentale. Secondo il costante indirizzo di questa Corte, si ha infatti mutatio libelli quando si avanza una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, introducendo nel processo un petitum diverso e oppure una causa petendi fondata su situazioni giuridiche non prospettate prima e particolarmente su un fatto costitutivo radicalmente differente, di modo che si ponga un nuovo tema d'indagine e si spostino i termini della controversia, con l'effetto di disorientare la difesa della controparte ed alterare il regolare svolgimento del processo; si ha, invece, semplice emendatici quando si incida sulla causa petendi, sicchè risulti modificata soltanto l'interpretazione o qualificazione giuridica del fatto costitutivo del diritto, oppure sul petitum, nel senso di ampliarlo o limitarlo per renderlo più idoneo al concreto ed effettivo soddisfacimento della pretesa fatta valere (per tutte, Cass. n. 7524 del 2005). Nell'identificazione della domanda proposta, occorre quindi considerare quale sia il concreto risultato utile che l'attore intende conseguire tenuto conto dei fatti che lo stesso ha dedotto a fondamento delle sue richieste, in relazione alla ragione ispiratrice della norma che impone all'attore di specificare sin dall'atto introduttivo, a pena di nullità, l'oggetto della sua domanda: ragione che principalmente risiede nell'esigenza di porre immediatamente il convenuto nelle condizioni di apprestare adeguate e puntuali difese (prima ancora che di offrire al giudice l'immediata contezza del thema decidendum). In riferimento alla domanda avente ad oggetto la revocatoria di pagamenti - termine adottato nella L. Fall., art. 67, comma 2, ma che, trattandosi di operazioni che abbiano avuto svolgimento su di un conto corrente bancario, si traduce negli omologhi "versamenti" o "rimesse" - eseguiti nei confronti di una banca, in applicazione del criterio sopra individuato (del saldo disponibile), è in riferimento ad ognuno che va individuato il carattere solutorio, in quanto destinato a colmare un saldo passivo del conto. Pertanto, ciascun pagamento di cui si chieda la revoca forma oggetto di una distinta domanda, anche qualora questa, eventualmente, faccia riferimento alle risultanze complessive del conto (Cass. n. 17023 del 2003), con la conseguenza che, qualora l'attore abbia puntualmente specificato il pagamento di cui chiede la revoca, la indicazione in corso di causa di un pagamento del tutto diverso, comportando la necessità di accertamenti in ordine a circostanze diverse rispetto a quello riferite al pagamento originariamente indicato - e cioè alla data in cui è stato effettuato, all'effettività disponibilità di danaro liquido da parte del correntista nel momento in cui è effettuata la rimessa - determina evidentemente l'introduzione di una domanda nuova, come tale inammissibile se - come è incontestato nella specie - non vi sia stata accettazione del contraddittorio. 11.- Il "ricorso incidentale condizionato" proposto dalle ricorrenti principali (R.G. n. 782/04) con il controricorso al ricorso incidentale della Micoperi, "per violazione della L. Fall., art. 67 in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3 e per omesso esame di punto decisivo (art. 360 c.p.c., n. 5)" in ordine alla scientia decoctionis del Banco di Sicilia (pg. 4 del controricorso al ricorso incidentale), è inammissibile. Al riguardo, è sufficiente ricordare che secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, alla quale va data continuità, il ricorso incidentale per cassazione deve essere proposto, ai sensi dell'art. 371 c.p.c., comma 2, nel termine di quaranta giorni dalla notifica del ricorso principale e non dalla notifica di un primo ricorso incidentale, atteso che avverso il ricorso incidentale l'art. 371, comma 4, prevede solo la proponibilità del controricorso e non anche di un ulteriore ricorso incidentale in questo contenuto, potendo da ciò derivare una serie indeterminata di ricorsi incidentali

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tardivi in contrasto con i principi della proponibilità dell'impugnazione incidentale solo dalle parti nei confronti delle quali è stata proposta l'impugnazione principale e della concentrazione delle impugnazioni contro la stessa sentenza (Cass. n. 26084 del 2005 n. 6282 del 2004; n. 11031 del 2003). 12.- In conclusione, i ricorsi, principale ed incidentale, nonchè il ricorso incidentale proposto con il controricorso al ricorso incidentale della Micoperi ed il ricorso proposto da SANPAOLOIMI s.p.a., devono essere rigettati. In considerazione della reciproca soccombenza e della complessità delle questioni sussistono giusti motivi per dichiarare compensate tra le parti le spese di questa fase. P.Q.M. La Corte rigetta i ricorsi e dichiara compensate tra le parti le spese della presente fase. Così deciso in Roma, il 13 marzo 2007. Depositato in Cancelleria il 3 maggio 2007 Cassazione civile , sez. I, 15 dicembre 2006 , n. 26935 LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. LO SAVIO Giovanni - Presidente - Dott. PLENTEDA Donato - Consigliere - Dott. FIORETTI Francesco Maria - Consigliere - Dott. NAPPI Aniello - Consigliere - Dott. SALVATO Luigi - rel. Consigliere - ha pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso proposto da: S.V., elettivamente domiciliato in ROMA, via Giovanni Nicotera n. 24, presso lo studio dell'avv. Sposato Francesco, dal quale è rappresentato e difeso, giusta procura a margine del ricorso; - ricorrente - contro Case di Cura riunite s.r.l. in amministrazione straordinaria, in persona dei Commissari liquidatori, elettivamente domiciliata in ROMA, via degli Scipioni n. 268/A, presso lo studio dell'avv. Domenico Battista, rappresentata e difesa dall'avv. Riccardi Nicola Vittorio, giusta procura a margine del controricorso; - controricorrente - avverso la sentenza della Corte d'appello di Bari depositata il 26 giugno 2003; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 24 ottobre 2006 dal Consigliere Dott. Luigi Salvato; udito per il ricorrente l'Avv. Francesco Sposato, che ha chiesto l'accoglimento del ricorso e per la controricorrente l'Avv. Nicola Vittorio Riccardi, che ha chiesto il rigetto del ricorso; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Schiavon Giovanni, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

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Inizio documento Fatto 1.- L'ing. S.V., con atto notificato il 13 settembre 2001, proponeva appello nei confronti delle Case di Cura riunite s.r.l., in amministrazione straordinaria (di seguito, Case di Cura), avverso la sentenza del Tribunale di Bari del 20 giugno 2000, che aveva revocato, ai sensi della L. Fall., art. 67, comma 2, il pagamento di L. 689.700.000 effettuato dall'appellata in suo favore, il (OMISSIS), condannandolo a restituire detta somma, oltre rivalutazione monetaria, interessi legali e spese processuali. Nel giudizio si costituiva l'appellata, deducendo l'infondatezza del gravame e chiedendone il rigetto. La Corte d'appello di Bari, con sentenza depositata il 26 giugno 2003, rigettava l'appello, condannando S.V. a pagare le spese del giudizio di secondo grado. Per quanto qui interessa, la Corte rigettava la censura con la quale l'appellante aveva sostenuto l'incompetenza del Tribunale ordinario, osservando che l'azione revocatoria fallimentare è "decisa dal giudice fallimentare per ragioni di mera attrazione ex art. 24 e non perchè appartengano alla competenza funzionale di detto ufficio". La Corte territoriale, sul terzo motivo d'appello, con il quale il S. aveva lamentato che il Tribunale avrebbe dovuto fare riferimento alla L. Fall., art. 201 (che esclude la revocatoria fallimentare), non alla L. Fall., art. 203 e ritenere l'azione revocatoria fallimentare incompatibile con lo scopo di risanamento dell'amministrazione straordinaria, osservava che la questione era stata proposta per la prima volta in appello e, comunque, era infondata, secondo un principio affermato dalla stessa Corte d'appello in fattispecie omologhe. In particolare, sottolineava che "costituisce fatto notorio che da quasi un biennio la CCR in A.S. ha cessato qualsiasi attività di impresa e ha alienato le aziende del gruppo ad altra società, per cui la sua amministrazione ha al momento finalità esclusivamente liquidatoria; ma in ogni caso il connotato liquidatorio costituisce al più una condizione dell'azione presupposto processuale per l'esercizio dell'azione revocatoria)", che può dunque sopravvenire nel corso del giudizio. Peraltro, la procedura in esame aveva superato il termine di quattro anni fissato dalla Legge "Prodi", quindi doveva ritenersi iniziata la fase liquidatoria, con conseguente infondatezza della censura. Relativamente al motivo di gravame avente ad oggetto la prova della scientia decoctionis, la pronuncia premetteva che essa può essere offerta mediante presunzioni e riteneva gli elementi indicati dal Tribunale - e richiamati - idonei e sufficienti a detto scopo. Infine, la Corte d'appello riteneva infondata la doglianza concernente l'esistenza del danno, affermando che questo doveva essere individuato "nella lesione della par condicio creditorum", sussistente nella specie. Per la cassazione di questa sentenza ha proposto ricorso S. V., affidato a tre motivi; ha resistito con controricorso la Case di Cura, che ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c.. Diritto 1.- S.V., con il primo motivo, denuncia "violazione dell'art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione al R.D. 16 marzo 1942, n. 267, artt. 9, 23, 24 (Legge Fallimentare), nonchè in relazione all'art. 50 bis, commi 1 e 2, stesso codice di rito ed art. 25 Cost.", in quanto la sentenza è stata pronunciata dal Tribunale ordinario anzichè dal Tribunale fallimentare di Bari, competente a decidere la domanda diretta ad ottenere la condanna a pagare il saldo attivo, da ammettere in sede di riparto, quindi incidente sul patrimonio della società dichiarata insolvente. Inoltre, a suo avviso, benchè la sentenza non possa ritenersi resa da un giudice incompetente, la domanda doveva essere comunque dichiarata improcedibile, in applicazione del principio costituzionale in virtù del quale nessuno può essere distolto dal suo giudice naturale e in ordine a tale punto era stato proposto uno specifico motivo di gravame (al riguardo l'istante richiama Cass. n. 702 del 1997 e n. 3634 del 1989). Infine, secondo il ricorrente, la sentenza doveva essere pronunciata in primo grado dal Tribunale in composizione collegiale ex art. 50 bis c.p.c. e anche siffatta inosservanza ha comportato la violazione del principio sopra richiamato. 1.2.- Il motivo è infondato e va rigettato. Secondo un principio pacifico in dottrina e giurisprudenza, le "azioni derivanti dal fallimento" che, ai sensi della L. Fall., art. 24 sono attribuite alla competenza del Tribunale fallimentare, sono tutte quelle comunque incidenti sulla procedura concorsuale, intesa nella sua ratio sostanziale, volta a realizzare unitariamente l'esecuzione sul patrimonio del fallito ed assicurare la par condicio creditorum, quindi anche l'azione revocatoria fallimentare, quale azione che deriva dalla dichiarazione di fallimento (Cass. n. 6082 del 1990; cfr. anche Cass. n. 19892 del 2005; n. 7510 del 2002; n. 2117 del 1990; n. 2683 del 1974). In riferimento all'amministrazione straordinaria, secondo l'orientamento della giurisprudenza di questa Corte, al quale va data continuità, il D.L. n. 26 del 1979, art. 6 convertito in L. n. 95 del 1979 (applicabile ratione temporis), stabilendo che, "ai fini di quanto previsto dalla legge fallimentare, relativamente alle imprese per le quali è stata disposta la procedura di amministrazione straordinaria è competente il tribunale che ha accertato lo stato di insolvenza", nell'ambito della procedura di amministrazione

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straordinaria, ha una funzione equivalente ed omologa a quella della L. Fall., art. 24 per il fallimento, avendo creato una vis attractiva, al fine di realizzare la concentrazione in un unico Foro di "tutti gli episodi giurisdizionali che si innestano sul tronco del procedimento amministrativo di straordinaria amministrazione" (Cass. n. 5812 del 1994; n. 7497 del 1987), in essi comprese le azioni revocatorie L. Fall., ex art. 67. Tuttavia, in virtù di un principio del pari pacifico e consolidato, la competenza costituisce un criterio di ripartizione degli affari tra uffici diversi, non evocabile in relazione alla articolazione dell'ufficio giudiziario in sezioni, ai sensi del R.D. n. 12 del 1941, art. 46, ed alla ripartizione degli affari tra le medesime (tra le molte, Cass. n. 19892 del 2005; n. 5368 del 2003; n. 7446 del 2001), salvo che una espressa disposizione di legge attribuisca una competenza funzionale ad alcune sezioni specializzate, in ragione, di solito, della loro composizione speciale. Pertanto, quando il Tribunale che ha dichiarato il fallimento -ovvero il Tribunale che ha accertato lo stato di insolvenza- ed il Tribunale ed. ordinario coincidono nello stesso organo giurisdizionale, poichè la "sezione fallimentare" non costituisce un ufficio autonomo, non è prospettabile una questione di competenza in riferimento alla attribuzione della causa a questa, ovvero ad una sezione ordinaria (Cass. n. 10912 del 2002; n. 2117 del 990; n. 6153 del 1982; n. 307 del 1970; n. 3160 del 1954) e la decisione dell'azione revocatoria da parte di quest'ultima non spiega effetti invalidanti (Cass. n. 2117 del 1990), nè comporta l'improcedibilità dell'azione. La deduzione diretta a sostenere un asserito vulnus dell'art. 25 Cost. è infine erronea, dato che, secondo la giurisprudenza costituzionale, giudice naturale precostituito per legge è l'ufficio giudiziario individuabile in forza dei criteri di competenza previamente stabiliti dall'ordinamento processuale, quindi non è evocabile in riferimento alla relazione tra le sezioni in cui si articolano gli uffici giudiziari complessi, appunto perchè questa non configura una relazione di competenza (Corte cost. n. 271 del 1989). Peraltro, le esigenze di obiettività ed imparzialità dei giudizi sottese alla citata norma costituzionale e che sussistono anche in relazione alla distribuzione degli affari risultano tutelate mediante il ed. sistema tabellare (R.D. n. 12 del 1941, artt. 7 e 7 bis), che realizza un ragionevole bilanciamento tra dette esigenze e quella di un'organizzazione pronta ed efficiente grazie ad una disciplina della materia dell'assegnazione degli affari che risulta idonea a garantire che detta assegnazione avvenga in base a regole e criteri che escludano la possibilità di arbitrio (Corte cost. n. 419 del 1998; v. anche n. 392 del 2000; n. 272 del 1998). Infondata è, inoltre, anche la doglianza con la quale l'istante prospetta che la sentenza impugnata avrebbe erroneamente ritenuto corretta la decisione della controversia da parte del Tribunale in composizione monocratica. Al riguardo, questa Corte ha già affermato che l'elencazione delle controversie per le quali opera la riserva di collegialità, contenuta sia nell'art. 50 bis c.p.c., sia nell'art. 48 ord. giud., nel testo anteriore alle modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 51 del 1998, ha carattere tassativo e costituisce eccezione al principio di monocraticità del giudice di primo grado introdotto dall'art. 50 ter c.p.c. e, anteriormente, dall'art. 48, u.c., cit., nel testo novellato dalla L. n. 353 del 1990, art. 88 (in vigore quest'ultimo fino al 1 giugno 1999). L'azione revocatoria fallimentare non è stata esplicitamente prevista da nessuna delle due norme e non è riconducibile tra i giudizi di revocazione indicati nella medesima, che sono quelli disciplinati dalla L. Fall., art. 102, concernenti i procedimenti diretti a revocare, in presenza di determinati presupposti, l'avvenuta ammissione di un credito al passivo del fallimento, differenti rispetto a quello avente ad oggetto l'azione revocatoria, con il quale non presentano analogie. Ne consegue che, stante la diversità tra le due azioni in esame, va escluso che il legislatore abbia voluto implicitamente comprendere tra i giudizi di revocazione anche le azioni revocatorie. L'interpretazione sistematica e la ratio legis confortano questa conclusione, dal momento che i giudizi riservati al giudice in composizione collegiale sono quelli di opposizione alla ammissione allo stato passivo, di impugnazione dei crediti ammessi allo stato passivo e di revocazione dei crediti in esame nonchè di insinuazione tardiva al passivo, i quali hanno come connotato comune il carattere impugnatorio in ambito endofallimentare in riferimento alla procedura di formazione dello stato passivo. Pertanto, in coerenza con la regola della collegialità del giudice di appello, è ragionevole che analoga composizione sia stata prevista per il giudizio di revisione dell'atto impugnato. L'azione revocatoria fallimentare è invece estranea alla ratio della disposizione in esame, risolvendosi nella domanda proposta dal curatore fallimentare di dichiarazione d'inefficacia di un atto posto in essere dal fallito nel periodo sospetto antecedente l'apertura della procedura concorsuale, priva di ogni carattere sia pur latamente impugnatorio (Cass. n. 14012 del 2002; n. 19892 del 2005). In applicazione dei suesposti principi, che vanno qui ribaditi, non avendo l'istante prospettato argomenti che possano indurre ad una loro rimeditazione, ed integrata nei succitati termini la motivazione della pronuncia, il motivo in esame, in tutti i suoi profili, non merita accoglimento. 2.- S.V., con il secondo motivo, denuncia "violazione dell'art. 360 c.p.c., n. 3 in relazione alla L. Fall., art. 67 ed L. 3 aprile 1989, n. 95, art. 1 (così detta Legge Prodi), nonchè in relazione alla normativa comunitaria ex art. 254, p. 3 ed art. 88, p. 2 del Trattato CE, non potendo applicarsi all'impresa sottoposta ad amministrazione straordinaria la normativa liquidatoria ordinaria disposta nelle procedure concorsuali comuni ad esclusivo scopo di proteggere la par condicio dei creditori".

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Secondo il ricorrente, nel ritenere applicabile la disciplina della revocatoria fallimentare, "il Giudice monocratico non ha tenuto conto" della differenza tra liquidazione coatta amministrativa ed amministrazione straordinaria, che hanno, rispettivamente, il diverso scopo di liquidare l'impresa tutelando la par condicio creditorum, e di risanare l'impresa. Dunque le norme della prima procedura applicabili alla seconda sono soltanto quelle compatibili con lo scopo di quest'ultima, con la conseguenza, che potendo questa essere disposta anche in assenza di insolvenza (D.P.R. 13 febbraio 1959, n. 449, art. 72, per le imprese assicuratrici; Legge Bancaria art. 67, comma 1, lett. a), per gli istituti di credito; art. 2544 c.c. per le società cooperative; L. n. 834 del 1932, art. 6, comma 5, per alcuni tipi di consorzi), nella specie doveva aversi riguardo alla L. Fall., art. 201, che richiama soltanto la L. Fall., art. 66. Inoltre, il D.Lgs. n. 270 del 1999, (art. 109) ha escluso l'applicabilità dell'azione revocatoria fallimentare in caso di ristrutturazione economica e finanziaria dell'impresa con programma di risanamento, ammettendola soltanto in caso di cessione dei complessi aziendali e previa autorizzazione all'esecuzione del relativo programma (D.Lgs. n. 270 del 1999, art. 49). Ne consegue che il pagamento poteva ritenersi revocabile soltanto in caso di sussistenza dei presupposti dell'azione revocatoria ordinaria. Siffatta questione, rilevabile d'ufficio, siccome concernente l'applicazione di una norma, era stata espressamente sollevata in primo grado ed in secondo grado. Infine, il giudice del merito avrebbe "giudicato anche contro la normativa europea che esclude l'applicazione delle regole vigenti in materia di fallimento per le imprese sottoposte a regime di amministrazione straordinaria con continuazione dell'esercizio, come nel caso di specie, prescindendo anche dall'aiuto di Stato ai sensi dell'art. 2, n. 1 del Trattato CE" (sono richiamate Corte di giustizia delle comunità europee 6 ottobre 1979, C-9/70; decisione della Commissione 16 maggio 2000). Ad avviso del ricorrente la L. n. 95 del 1979 si porrebbe in contrasto con le norme comunitarie e perciò doveva essere disapplicata, anche perchè, "come risulta dall'allegata autorizzazione del Ministro per il programma di risanamento del 24.11.98, le Case di Cura Riunite si trovano a tutt'oggi in piena attuazione del programma indicato". 2.1.- Il motivo è infondato e deve essere rigettato. La questione, come posta dall'istante, nei suoi differenti profili, è stata più volte sottoposta all'esame di questa Corte ed è stata univocamente decisa, dando luogo ad un orientamento ormai consolidato al quale il Collegio reputa di dovere dare continuità, condividendo le argomentazioni che lo fondano (Cass. n. 18552 del 2006; n. 5301 del 2006; n. 4214 del 2006; n. 4206 del 2006; n. 21823 del 2005; n. 21083 del 2005; n. 2534 de 2005; n. 18915 del 2004; n. 13165 del 2004). In particolare, è stata decisa nei termini che di seguito si espongono e si condividono, anche in riferimento alla Case di Cura riunite s.r.l., in amministrazione straordinaria (sentenze n. 4206 del 2006; n. 21823 del 2006). Sulla dedotta incompatibilità dell'intera L. n. 95 del 1979 con le norme che regolano il mercato comune, vanno richiamate le argomentazioni già svolte da questa Corte, per escluderla. Al riguardo va ricordato che la Corte di Giustizia della Comunità Europea è intervenuta con tre pronunce (sentenze 1 dicembre 1998, C- 2000/97, Ecotrade; 17 giugno 1999, C-295/97, Piaggio; ordinanza 24 luglio 2003, C-297/01, Sicilcassa); la Commissione Europea ha reso una decisione (decisione 16 maggio 2001, 2001/21/CE). Si tratta di pronunce che si impongono al giudice nazionale, in quanto l'immediata efficacia del diritto comunitario nell'ordinamento nazionale va riconosciuta anche alle pronunce interpretative rese dalla Corte di giustizia e ad ogni altra pronuncia del giudice comunitario che, nell'applicare od interpretare una norma dotata di effetti diretti, risulti comunque dichiarativa del diritto comunitario (Corte cost. n. 168 del 1991). Secondo l'espressa affermazione della Corte europea, "nell'ambito di un procedimento instaurato ai sensi dell'art. 234 CE" ad essa non spetta "interpretare il diritto nazionale o statuire sulla compatibilità di un provvedimento nazionale con l'art. 92 (ora, art. 87) del Trattato" (sentenza Piaggio, pp. 39 e 50). In coerenza con questi limiti della competenza individuati dallo stesso giudice europeo, questi non ha qualificato come aiuto di Stato l'intera L. n. 95 del 1979, ovvero sua singole norme, ma ha offerto l'interpretazione della nozione di aiuto di Stato, anche se con riferimento alla fattispecie sottoposta al suo esame, tant'è che ha riferito la pronunzia Piaggio non direttamente alla legge, ma ad "un regime come quello istituito dalla L. n. 95 del 1979" (sent. cit., 33 e 50). Le due sentenze hanno preso in considerazione "un regime come quello istituito dalla L. n. 95 del 1979", ma non per questo si sono pronunciate su questa legge, "come è dimostrato dal fatto che in entrambe le sentenze le conclusioni della Corte sono espressamente subordinate ad una verifica da parte del giudice nazionale della portata della normativa nazionale" (sentenza Ecotrade, par. 37; sentenza Piaggio p. 35 con formulazione identica) e sono contenute «prudenti affermazioni della salvezza dell'accertamento riservato al giudice nazionale (sentenza Ecotrade, p. 411 "se fosse effettivamente dimostrato che lo Stato o enti pubblici figurano tra i principali creditori"; p. 43: "se fosse dimostrato che - non hanno effettivamente comportato un onere"; p. 441 "spetta al giudice nazionale verificare queste affermazioni Sentenza Piaggio, p. 401 come p. 41 sent. Ecotrade; p. 42: coma p. 43 sent. Ecotrade; p. 491 "qualora sia dimostrato che e idoneo di per se a generare la concessione di aiuti di Stato"). Identica è la formula con la quale le due sentenze hanno affermato che la concreta applicazione ad un'impresa di un regime come quello istituito dalla legge in esame da luogo alla concessione di un aiuto di Stato allorchè è dimostrato che

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"questa impresa" - è stata autorizzata a continuare la sua attività economica in circostanze in cui tale eventualità sarebbe stata esclusa nell'ambito delle regole normalmente vigenti in materia di fallimento, - o ha beneficiato di uno o più vantaggi" (sentenza Ecotrade p. 45: sentenza Piaggio p. 50). Peraltro, la seconda decisione, nell'esaminare la questione dell'attuazione di un regime di aiuti di Stato senza la previa notifica alla Commissione, ha concluso che, "qualora sia dimostrato che un regime quale quello istituito dalla L. n. 95 del 1979 è idoneo, di per se, a generare la concessione di aiuti di Stato ai sensi dell'art. 92, n. 1 del Trattato, il detto regime non può essere attuato se non è stato notificato alla Commissione e, in caso di notifica", prima di una decisione della Commissione ovvero prima che siano decorsi due mesi dalla notifica senza che sia stata presa una decisione (sentenza Piaggio: p. 49 e 50). Orbene, come ha osservato questa Corte, benchè "su tale considerazione dell'idoneità del regime di per se taluno in dottrina ha costruito la tesi della declaratoria di incompatibilità dell'intera L. n. 95 del 1979 con l'ordinamento comunitario", la considerazione sopra svolta in ordine ai limiti della competenza della Corte di giustizia impone di mantenere fermo che resta "rimesso al giudice nazionale lo stabilire se le caratteristiche che possono integrare gli estremi di aiuti di Stato siano connaturate a specifici aspetti della disciplina, per tale ragione "di per se" idonei a generare aiuti di Stato, ovvero siano conseguenza necessaria dell'apertura della procedura cosicchè la stessa procedura, in considerazione dei suoi effetti necessari, debba considerarsi "di per se" un aiuto di Stato. Il fatto, quindi, che gli aiuti di Stato siano costituiti dalla concreta applicazione di una disciplina ovvero che una disciplina sia idonea di per se a generare aiuti di stato non muta i termini del problema" (Cass. n. 21083 del 2005). La conclusione è che le sentenze sopra richiamate recano indicazioni interpretative, vincolanti per il giudice nazionale, sulla nozione di aiuti di Stato ed il riferimento alla L. n. 95 del 1979 ha la funzione di contestualizzare la pronunzia in relazione alla fattispecie all'esame del giudice nazionale, essendo stata esclusa l'incompatibilità con le norme comunitarie dell'intera L. n. 95 del 1979 ed essendo stata lasciata al giudice nazionale - come hanno precisato le pronunzie sopra richiamate- la decisione di stabilire se l'applicazione concreta di una misura ovvero la stessa misura in se integrino gli estremi di un aiuto di stato così come, con l'interpretazione vincolante, individuata dalla Corte di giustizia. 2.2.- La portata ed il contenuto della decisione della Commissione, presa ai sensi dell'art. 88, n. 2 del Trattato, ha invece ad oggetto direttamente la compatibilità della misura con l'ordinamento comunitario e la decisione, poichè è stata pronunciata nei confronti dello Stato italiano, è dotata di effetto diretto nei confronti dell'ordinamento nazionale (Corte di giustizia, 6 ottobre 1970, n. 9; 10 novembre 1992, n. 156; Cass. n. 4214 del 2006; n. 23269 del 2005; n. 21083 del 2005; n. 4760 del 2005; n. 17564 del 2002), sia pure limitatamente ai rapporti giuridici intercorrenti tra privati e pubblici poteri (cd. efficacia verticale), non è suscettibile di essere sindacata dal giudice nazionale e, qualora si tratti di decisione negativa che non ha effetti diretti nei rapporti tra privati, il giudice nazionale, comunque, difficilmente può negare natura di aiuto di Stato ad una misura nazionale cosi qualificata dalla Commissione Europea con decisione divenuta inoppugnabile. La decisione sopra richiamata (16 maggio 2001, 2001/212/CE), ha concluso nel senso che "il regime, di cui alla L. n. 95 del 1979 di conversione del D.L. n. 26 del 1979 è illegittimo e incompatibile con il mercato comune" e, tuttavia, nella motivazione, ha chiaramente riferito il dictum al regime introdotto da specifiche disposizioni. In tal senso, come ancora ha sottolineato questa Corte, è significativo che "la Commissione afferma, al p. 48, che "occorre innanzitutto individuare, nell'ambito del regime giuridico dell'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, le misure che non rivestono carattere di misura generale e pronunciarsi sul fatto se ricadano le misure non l'intera legge o meno nell'art. 87, p. 1 del Trattato CE"; al p. 50, che "la L. n. 95 del 1979 rinvia per vari aspetti alla legge italiana sul fallimento e, laddove prevede l'applicazione in condizioni non derogatorie ai meccanismi di quest'ultima, tali meccanismi e procedure si configurano come misure generali prive di qualsiasi carattere selettivo. Tale legge prevede invece applicazioni particolari, che comportano la concessione di taluni vantaggi specifici e che implicano risorse pubbliche, a favore di beneficiari individuabili"; al p. 58, che "i diversi vantaggi (n.d.r. che non esauriscono il contenuto della legge) derivanti dalla L. n. 95 del 1979 costituiscono un aiuto di Stato ai sensi dell'art. 87, p. 1 del Trattato CE"; infine, al p. 74 b, nelle conclusioni, che la L. n. 95 del 1979 introduce un regime (n.d.r. senza assumere che in legge si esaurisca in tale regime) di aiuti di Stato" illegittimamente posto in essere dall'Italia. In ogni caso la Commissione ha deciso di non ingiungere all'Italia di procedere al recupero presso le imprese beneficiario degli aiuti concessi" (Cass. n. 21083 del 2005). 2.3.- Il contenuto delle citate sentenze e della decisione della Commissione CE comporta che il giudice nazionale, chiamato a pronunciarsi su una azione revocatoria promossa da una procedura di amministrazione straordinaria apertasi nel vigore della L. n. 95 del 1979, deve accertare se la disciplina della L. Fall., art. 67 costituisca un aiuto di Stato, per come è chiamata ad operare nel contesto della procedura e, in caso di risposta negativa, deve chiedersi se la stessa apertura della procedura, senza la quale neppure è prospettabile l'esercizio dell'azione revocatoria, rappresenti un aiuto di Stato perchè comporta necessariamente l'applicazione di norme che rappresentano aiuti di stato. Ad entrambi gli interrogativi, come sopra è stato ricordato, questa Corte ha dato risposta negativa, che va qui ribadita. La disciplina dell'azione revocatoria da parte di una procedura di amministrazione straordinaria non può essere qualificata come aiuto di Stato perchè non ha il requisito di specificità, sotto i due profili della selettività e della

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discrezionalità, che, alla stregua delle decisioni della Corte di giustizia sopra richiamate, caratterizzano gli aiuti di Stato (sentenza Ecotrade pp. 38 e 40). L'azione revocatoria esercitata da una procedura di amministrazione straordinaria nella fase liquidatoria ha infatti identità funzionale sia essa di reintegrazione del patrimonio del debitore o di redistribuzione delle perdite con quella esercitata in sede fallimentare, di generale applicazione, e manca il requisito dell'impiego di risorse pubbliche. Quest'ultimo è stato infatti individuato dal giudice europeo in una misura che "comporta necessariamente vantaggi concessi direttamente o indirettamente mediante risorse statali o che costituiscono un onere supplementare per lo Stato o per gli enti designati o istituiti a tal fine" ovvero, in altre parole, in una misura che comporta "un onere finanziario supplementare sostenuto direttamente o indirettamente dai pubblici poteri e destinato a concedere alle imprese interessate un vantaggio determinato" (CGCE, in caso Ecotrade, p. 35 e 36), ritenendo che lo stesso ricorra, oltre che in relazione a specifici vantaggi concessi con onere a carico dello Stato, quando la continuazione dell'attività economica dell'impresa e consentita con il sacrificio dei creditori anteriori, cui sono inibite azioni esecutive, quando questi creditori, tenuto conto dei requisiti per l'ammissione alla procedura, possono identificarsi principalmente nello Stato o enti pubblici (p. 36 e ss.). Siffatti caratteri difettano nell'azione revocatoria. In primo luogo, in quanto questa azione può essere esercitata soltanto dopo la cessazione della fase conservativa della impresa e l'inizio della fase liquidatoria (Cass. n. 5301 del 2006; n. 4214 del 2006; n. 21083 del 2005; n. 6192 del 2005; n. 12936 del 2005; n. 12936 del 2003). Tuttavia, un'effettiva destinazione liquidatoria della procedura può manifestarsi anche prima del formale avvio del procedimento di alienazione dei beni, in quanto un'attività di conservazione dei beni può risultare funzionale anche alla tutela delle ragioni dei creditori, che hanno interesse all'alienazione di un complesso produttivo efficiente; l'eventualità di una destinazione liquidatoria, in riferimento alla fattispecie in esame, va accertata con riguardo al momento della decisione sull'azione revocatoria e la stessa cessione dell'intero complesso ha funzione di liquidazione (Cass. n. 5301 del 2006; n. 4214 del 2006). In tal senso, occorre ricordare che, di recente, la Corte costituzionale nello scrutinare le censure sollevate in riferimento al D.L. n. 347 del 2003, art. 6 convertito nella L. n. 39 del 2004 -nel testo novellato dal D.L. n. 119 del 2004 che ha introdotto nell'ordinamento la ed. amministrazione straordinaria accelerata, ha sottolineato come l'azione revocatoria sia incompatibile con programmi di ristrutturazione e di conservazione del patrimonio aziendale in vista del ritorno in bonis dell'imprenditore insolvente e che, in definitiva, finiscono con l'avvantaggiare quest'ultimo, non anche con una conformazione della procedura il cui esito sia la liquidazione dei beni, al fine di realizzare al meglio l'interesse dei creditori e di tutelare, la par condicio (sent. n. 172 del 2006). Peraltro, questa Corte ha anche già osservato che, come nel fallimento è ammesso l'esercizio provvisorio dell'impresa ai sensi della L. Fall., art. 90, (non interessa in questa sede esaminare la disciplina come innovata dal D.Lgs. n. 5 del 2006), nella amministrazione straordinaria disciplinata dalla L. n. 95 del 1979 la continuazione dell'attività era pur sempre ammissibile "tenendo anche conto dell'interesse dei creditori", dunque in una prospettiva non estranea alle esigenze liquidatoria, cosi come, sia nella amministrazione straordinaria disciplinata dalla Prodi bis che dalla Legge Marzano, le azioni revocatorie sono ammissibili anche nel caso di autorizzazione alla esecuzione del programma di ristrutturazione, purchè si traducano in un vantaggio per i creditori, ossia nel caso di evoluzione in senso liquidatorio (Cass. n. 21823 del 2005; v. anche Corte cost. n. 172 del 2006). In secondo luogo, in quanto Stato ed enti pubblici non possono considerarsi naturali soggetti passivi dell'azione revocatoria, nel senso che non vi sono elementi per affermare che vi sia un'alta probabilità che essi siano tra i principali destinatari dell'azione. Relativamente al secondo interrogativo posto dalla Corte europea, esso richiede di accertare se continuazione dell'impresa, con sacrificio di creditori principalmente pubblici, ed altri vantaggi, con oneri supplementari a carico dello Stato o di enti pubblici, conseguissero necessariamente all'ammissione alla procedura di amministrazione straordinaria prevista dalla L. n. 95 del 1979. Ebbene ha sottolineato questa Corte "nella disciplina dell'amministrazione straordinaria dettata da questa legge, la continuazione dell'impresa, seppure conseguenza normale, non era conseguenza necessaria (art. 2, comma 1, può essere disposta la continuazione dell'impresa) dell'apertura della procedura; inoltre, gli altri vantaggi a carico di risorse pubbliche individuati dalla Corte di giustizia (par. 41 della sentenza Piaggio) possono essere disapplicati senza incidere sulla possibilità di una gestione liquidatoria" della procedura (Cass. n. 21083 del 2005). In conclusione, se è vero che il divieto di aiuti di Stato impone al giudice nazionale di disapplicare quelle norme che di per se comportano vantaggi non consentiti, la disapplicazione di alcune disposizioni, quand'anche i più qualificanti dalla legge, non comporta la disapplicazione di quella disposizioni che non presuppongono un regime di vantaggi. La ridotta utilità di una procedura così ridimensionata nella disciplina o il venire meno delle ragioni per l'apertura e la prosecuzione di una diversa procedura non sono ovviamente sufficienti per la disapplicazione e giustificano semmai un intervento correttivo del legislatore. 2.4.- Siffatto intervento, peraltro, non è mancato, come ha ancora precisato questa Corte, con argomentazioni che è opportuno qui richiamare integralmente (Cass. n. 21083 del 2005; in senso sostanzialmente analogo, Cass. n. 4206 del 2006), in quanto sono condivise dal Collegio.

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Nel descritto contesto, dopo la disciplina transitoria dettata dal D.Lgs. n. 270 del 1999, il cui art. 106 aveva prorogato la vigenza della L. n. 95 del 1979 per le procedure di amministrazione straordinaria in corso, è infatti sopravvenuto la legge 12 dicembre 2002, n. 273, art. 7. L'art. 7 cit. ha disposto: "i commissari straordinari nominati nelle procedure i amministrazione straordinaria disciplinate dal D.L. 30 gennaio 1979, n. 26, convertito, con modificazioni, dalla L. 3 aprile 1979, n. 95, cessano dall'incarico il sessantesimo giorno successivo dalla data in vigore della presente Legge" (comma, 1; e cioè alla data del 27 febbraio 2003); "nei dieci giorni successivi al termine di cui al comma 1 e cioè, entro il 9 marzo 2003 il Ministro della attività produttive nomina, con proprio decreto, un commissario liquidatore che prosegue, sotto la vigilanza del Ministero delle attività produttive, la gestione liquidatoria secondo le norme della liquidazione coatta amministrativa (...), Continua a trovare applicazione, salvo che per quanto concerne nuovi assoggettamenti alla procedura di amministrazione straordinaria, la disciplina di gruppo di cui al D.L. 30 gennaio 1979, n. 26, art. 3, convertito, con modificazioni, dalla L. 3 aprile 1979, n. 95; continuano altresì ad applicarsi le disposizioni di cui al D.L. 8 luglio 1999, n. 270, art. 106, comma 1,. Sono fatti salvi gli effetti dei provvedimenti e degli atti legalmente adottati nel corso della procedura. Il commissario liquidatore subentra nei giudizi in corso in sostituzione del commissario straordinario" (comma 3). Il legislatore ha dunque preso atto della possibilità di una gestione soltanto liquidatoria delle procedure in corso ed ha rimosso l'incongruenza della previsione di un organo, quale il commissario straordinario, rispetto ad una procedura che ormai non può più avere una gestione conservativa dell'impresa, secondo le modalità già previste dalla L. n. 95 del 1979. In relazione a tale intervento del legislatore nazionale, la Corte di giustizia, dopo avere dichiarato, con riferimento al D.Lgs. n. 270 del 1999, art. 106, che la proroga di un regime di aiuti di Stato costituisce esso stesso un regime nuovo di aiuti di Stato, con la richiamata ord. 24 luglio 2003 ha invitato il giudice nazionale a prendere atto della decisione della Commissione di rinunciare al recupero degli aiuti erogati prima del D.L. n. 270 del 1999 (decisione 16 maggio 2001, 2001/212/CE) ed a tenere conto della disciplina della L. n. 273 del 2002, art. 7. Dunque, in buona sostanza, rispetto alle procedure pendenti si considera illegittima solo l'erogazione di nuovi aiuti (p. 42 ord. del 24 luglio 2003) e la soluzione indicata non è quella di una disapplicazione, ma quella di una interpretazione quanto più possibile conforme al diritto comunitario, alla quale viene invitato il giudice nazionale che sia chiamato a stabilire, "se del caso alla luce della L. n. 273 del 2002, art. 7", se il D.Lgs. n. 270 del 1999, art. 106 possa ancora essere interpretato nel senso di consentire alle imprese assoggettate a procedure in corso di "beneficiare in futuro di nuovi aiuti di Stato in base alla L. n. 95 del 1079, oggi abrogata" (pp. 43,44). Peraltro, ed infine, va ribadito che, se da un canto, la questione della compatibilità della L. n. 95 del 1979 con l'ordinamento comunitario è rilevabile d'ufficio, in base al principio iura novit curia, come accade nel caso dello ius superveniens e della modifica normativa determinata dalla dichiarazione d'illegittimità costituzionale (Cass. n. 4206 del 2006; n. 21083 del 2005; n. 18915 del 2004), dall'altro, occorre distinguere a seconda che l'incompatibilità comporti o meno accertamenti di fatto (Cass. n. 18552 del 2006; n. 21083 del 2005; n. 2534 del 2005; n. 5561 del 2004; n. 5241 del 2003). Qualora sia dedotta l'incompatibilità dell'intera disciplina della L. n. 95 del 1979, ovvero di una o più norme, prospettando che la prima, ovvero le seconde, costituiscano di per se aiuti di Stato non occorre alcun accertamento di fatto e, quindi, nessun impedimento si frappone all'esame della questione d'ufficio, con la conseguenza che la questione può essere rilevata in ogni stato e grado. Nel caso in cui l'incompatibilità della citata disciplina sia dedotta in relazione alla applicazione concreta ed alla concreta fruizione di un aiuto di Stato, il giudice non può conoscere dell'eccezione se non sono allegati e provati i fatti su cui essa si fonda (Cass. n. 4206 del 2006; n. 5561 del 2004; n. 5241 del 2003) e, appunto per questo, in relazione ad un fatto specifico, qual è la pendenza della fase conservativa della procedura, "il giudice non può conoscere dell'eccezione se non sono allegati e provati i fatti su cui essa si fonda" (Cass. n. 4206 del 2006). Nella specie, benchè la pronuncia abbia inesattamente ritenuto inammissibile la prima questione che, comunque, si è visto essere infondata, ha poi motivato, con riferimento alla seconda, affermando che l'amministrazione in esame "ha al momento finalità esclusivamente liquidatoria", con accertamento di fatto insindacabile in questa sede, che neppure ha costituito oggetto di censura sotto il profilo del vizio di motivazione (con il motivo è stata denunciata esclusivamente violazione o falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., n. 3), dovendo ritenersi inammissibile la produzione in questa sede di documenti ulteriori rispetto a quelli previsti dall'art. 372 c.p.c.. Sotto questo profilo, la censura è quindi inammissibile e, comunque, nel quadro dei principi sopra esposti, è infondata. 3.- Il ricorrente, con il terzo motivo, denuncia "violazione e falsa applicazione del combinato disposto di cui alla L. Fall., art. 67, 2 comma, artt. 2697, 2727, 2729 c.c.art. 116 c.p.c., art. 115 c.p.c., 2 comma, nonchè motivazione erronea ed insufficiente su punto decisivo della controversia" in ordine alla ricorrenza di indizi gravi, precisi e concordanti sulla scientia decoctionis, ed omessa,erronea ed insufficiente valutazione di circostanze ed elementi prospettati, e comunque rilevabili d'ufficio, "ai quali era attribuibile valenza contraria" a detta conoscenza, in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5. S.V. deduce che la sentenza impugnata ha motivato in ordine al presupposto soggettivo dell'azione rinviando per

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relationem alla pronuncia di primo grado, la quale, a sua volta, aveva valorizzato l'esistenza di procedure esecutive in danno della Casa di cure negli anni (OMISSIS), la circostanza che egli aveva avuto con questa rapporti professionali per lungo tempo, promuovendo ben 11 procedimenti monitori nell'ultimo periodo dell'anno (OMISSIS), stipulando in data (OMISSIS) una transazione, con la quale aveva accettato una riduzione del credito ed il pagamento in due rate. A suo avviso, la sentenza ha erroneamente applicato un criterio di mera "conoscibilità oggettiva" dello stato di decozione, in contrasto con la giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale occorre provare l'effettiva conoscenza. L'errore nel quale è incorsa la Corte territoriale risulterebbe confortato dalla considerazione degli elementi valorizzati allo scopo in esame, valutati sia analiticamente che complessivamente. Infatti, per le procedure esecutive non è previsto un regime pubblicitario analogo a quello concernente il protesto degli assegni e delle cambiali, sicchè la loro conoscenza da parte di esso istante costituiva un dato non certo, bensì presunto, quindi labile. In tal senso questa Corte, con la sent. n. 4731 del 1997, ha ritenuto che le procedure esecutive sono valorizzabili al fine della prova della conoscenza dell'insolvenza, se siano state promosse dal creditore convenuto in giudizio in revocatoria. Del pari labili sono gli ulteriori elementi consistenti nella circostanza che esso istante risiedeva a (OMISSIS) ed aveva avuto rapporti professionali con le Case di cura e che ciò faceva presumere la conoscenza delle vicende giudiziarie penali nella quali era stato coinvolto il dominus della società. Peraltro, queste ultime, se pure fossero state conosciute, neppure permettevano di inferire, sotto il profilo logico, la conoscenza dell'insolvenza. Ad avviso di S.V., la circostanza che nell'anno (OMISSIS) egli aveva iniziato 11 procedimenti monitori in danno della Casa di cure, convenendo un piano di rientro, non costituirebbe un grave elemento indiziario a conforto della scientia decoctionis, in quanto questa procedura è "tipicamente finalizzata all'accertamento più sollecito del quantum spettante al creditore". Il ricorrente sostiene che sussisterebbe un difetto di motivazione nel ragionamento presuntivo del giudice del merito, il quale non avrebbe considerato che dalla transazione risultava l'espletamento di una serie di differenti ed autonome prestazioni e ciò giustificava il numero e la distinta instaurazione dei citati procedimenti, non essendo sostenibile, sotto il profilo logico (sulla base di un principio di "regolarità causale") desumere dall'inizio di un siffatto procedimento la conoscenza dell'insolvenza, poichè lo stesso è essenzialmente diretto a trasformare un credito non ancora "certo ed esigibile" in un credito avente tali caratteristiche. La valorizzazione della stipula della transazione quale elemento indiziario grave a conforto della conoscenza dell'insolvenza non è poi "sorretta dal riferimento ad un canone di probabilità fondata su di una connessione di avvenimenti possibile e verosimile secondo un criterio di normalità e di regolarità causale", avendo invece carattere neutro, e mancando ogni esplicitazione sulle ragioni della sua rilevanza indiziaria. Secondo il ricorrente, la circostanza che il pagamento della somma di L. 570.000.000 non doveva avvenire contestualmente alla stipula della transazione e che il residuo importo, pari a L. 3.800.000.000, avrebbe potuto essere effettuato dalla debitrice entro il 30 giugno 1996, a rate ed a discrezione di quest'ultima, dimostrerebbero che egli non aveva conoscenza dello stato di insolvenza, ma anzi riteneva affidabile la debitrice. Pertanto, la motivazione della sentenza impugnata sarebbe illogica ed apodittica, poichè sussistevano elementi comprovanti la inscientia decoctionis; in ogni caso, il giudice di secondo grado avrebbe dovuto ammettere la prova articolata nella comparsa di primo grado, sui capi che egli trascrive in ricorso. 3.1.- Il motivo è infondato e va rigettato. In considerazione del contenuto del mezzo, va premesso che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, alla quale va data continuità, la conoscenza dello stato di insolvenza del debitore da parte del creditore, della cui dimostrazione è onerata la curatela ai sensi della L. Fall., art. 67, comma 2, sebbene debba essere effettiva e non potenziale, può tuttavia essere provata anche attraverso indizi aventi i requisiti della gravità, precisione e concordanza, quindi fondata su elementi di fatto che attengano alla conoscibilità dello stato di insolvenza, purchè idonei a fornire la prova per presunzioni della conoscenza effettiva. La relativa dimostrazione può perciò anche essere indiretta, e cioè offerta mediante la logica concatenazione di circostanze che, in base al criterio di normalità, assunto a parametro di valutazione, consente appunto la prova presuntiva della scientia decoctionis (per tutte, Cass. n. 10800 del 2006; n. 19894 del 2005; n. 13646 del 2004; n. 1719 del 2001; n. 7757 del 1997; n. 7298 del 1997). Questa prova si caratterizza per un intreccio tra il profilo oggettivo della insolvenza ed il profilo soggettivo della sua conoscenza e, non essendo possibile una prova diretta degli stati soggettivi, è imprescindibile fare riferimento, mediante lo strumento delle presunzioni, alla esistenza di segni esteriori dell'insolvenza ed alla loro conoscibilità da parte del convenuto in revocatoria avendo riguardo al parametro astratto del soggetto di ordinaria prudenza ed avvedutezza (Cass. n. 17214 del 2004), accompagnandosi a tale necessità, "quale portato dello strumento utilizzato, l'irrilevanza di tutte le manifestazioni di ingenuità, di sprovvedutezza, di soggettivi errori di percezione attraverso le quali il terzo volesse accreditare, contro ogni ragionevole valutazione delle circostanze e contro ogni evidenza di segno contrario, una condizione di buona fede" (Cass. n. 1719 del 2001). Peraltro, occorre qui ribadire che se, da un canto, nello schema della presunzione non esiste un presunto dovere di conoscere, dall'altro, questo schema permette di valorizzare "regole di esperienze storicamente accertate, e quindi

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pratiche individuali o collettive realmente seguite in determinati contesti", consentendo di desumere la conoscenza in presenza di "concreti collegamenti" (Cass. n. 13646 del 2004; n. 1719 del 2001; n. 3524 del 2000) tra i sintomi di conoscenza dell'insolvenza ed il terzo, quali, esemplificativamente, la contiguità territoriale con il luogo in cui si manifestano detti sintomi, la occasionalità o la continuità dei rapporti, la loro importanza (Cass. n. 1719 del 2001, ove ulteriori richiami). La scientia decoctionis può dunque essere dimostrata anche esclusivamente mediante la prova presuntiva; le presunzioni devono essere gravi (riferendosi la gravità al grado di convincimento che sono idonee a produrre), precise (concernendo la precisione la circostanza che i fatti noti, dai quali muove ed il percorso che esse seguono siano ben determinati nella loro realtà storica) e concordanti (nel caso di pluralità di elementi), potendo tuttavia la presunzione essere fondata anche su di un singolo elemento, purchè preciso e grave (Cass. n. 4406 del 1999). Quanto alla "gravità", con essa "non si esige che l'esistenza del fatto (ignoto), dedotta per presunzione, assuma un grado di certezza assoluta, essendo sufficiente (...) una "ragionevole" certezza (anche probabilistica)" (Cass. n. 4168 del 2001; n. 9782 del 1999) ed è possibile "ravvisare ordinaria connessione fra i fatti accertati e quelli ignoti, secondo regole di esperienza che convincano di ciò, sia pure con qualche margine di opinabilità" (Cass. n. 3837 del 2001), non occorrendo che "l'esistenza del fatto ignoto rappresenti la unica conseguenza possibile", poichè è applicabile la regola dell'inferenza probabilistica, non quella dell'inferenza necessaria (Cass. n. 5082 del 1997). La scelta degli elementi che costituiscono la base della presunzione ed il giudizio logico con cui dagli stessi si deduce l'esistenza del fatto ignoto costituiscono un apprezzamento di fatto, che, se adeguatamente motivato, sfugge al controllo di legittimità (Cass. n. 11906 del 2003; n. 5526 del 2002; n. 12422 del 2000), non essendo proponibili in questa sede le doglianze dirette a porre in discussione la fondatezza della presunzione e la sussistenza dei requisiti di gravità, precisione e concordanza (per tutte, Cass. n. 1216 del 2006; n. 3974 del 2002; n. 9015 del 1999; n. 4406 del 1999). Infine, quanto al contenuto dell'onere motivazionale che grava sul giudice di appello, va ricordato che la sentenza di secondo grado deve esplicitare gli elementi imprescindibili a rendere chiaro il percorso argomentativo che fonda la decisione (Cass. Sez. un. n. 10892 del 2001), ma l'onere di adeguatezza della motivazione non comporta che il giudice del merito debba occuparsi di tutte le allegazioni della parte, nè che egli debba prendere in esame, al fine di confutarle o condividerle, tutte le argomentazioni da questa svolte. E', infatti, sufficiente che il giudice dell'impugnazione esponga, anche in maniera concisa, gli elementi posti a fondamento della decisione e le ragioni del suo convincimento, così da doversi ritenere implicitamente rigettate tutte le argomentazioni incompatibili con esse e disattesi, per implicito, i rilievi e le tesi i quali, se pure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la conclusione affermata e con l'iter argomentativo svolto per affermarla (Cass., n. 696 del 2002; n. 10569 del 2001; n. 13342 del 1999); è cioè sufficiente il riferimento alle ragioni in fatto ed in diritto ritenute idonee a giustificare la soluzione adottata, tenuto conto dei motivi esposti con l'atto di appello Cass. n. 9670 del 2003; n. 2078 del 1998). 3.2.- Nel quadro di questi principi, le censure non meritano accoglimento. La sentenza impugnata ha fatto propria la valutazione del giudice di primo grado che aveva attribuito rilevanza ai fini della scientia decoctionis alle circostanze che: a) a carico della società pendevano numerosissime procedure esecutive, avendo di precisare che le stesse erano in corso innanzi alla Pretura di Bari, città dove il ricorrente risiedeva ed operava professionalmente; b) lo stesso istante aveva avviato numerose procedure monitorie, convenendo poi "un piano di rientro che prevedeva una decurtazione del suo credito circa sei miliardi a L. 4.529.076.000 e un pagamento rateale". Siffatte circostanze, così come individuate e valorizzate, sono state ricomposte in un quadro motivazionale immune dai vizi denunciati. La Corte territoriale ha, infatti, in primo luogo, fondato la propria conclusione su elementi che, secondo comuni regole di esperienza, sono idonei ad esprimere lo stato di insolvenza. In secondo luogo, ha avuto cura di indicare i "concreti collegamenti" che hanno permesso di poterle ritenere effettivamente conosciute, individuandoli in circostanze (la contiguità territoriale tra il creditore ed il luogo delle procedure e l'esistenza di rapporti professionali tra questi e la debitrice), che, secondo l'orientamento di questa Corte sopra sintetizzato, permettono al giudice del merito di reputarle note al primo, quindi in grado di dimostrare non la conoscibilità, bensì la conoscenza effettiva dello stato di insolvenza. Gli indizi sono stati quindi correttamente apprezzati in maniera analitica e poi ricomposti in una valutazione complessiva anche alla luce della ulteriore circostanza che erano "notissime le vicissitudini della CCR e del suo dominus" (evidentemente espressive della situazione di palese difficoltà in cui versava la società) al fine di ritenere la loro combinazione in grado di fornire una valida prova presuntiva con motivazione congrua dal punto di vista logico, immune da errori di diritto, rispettosa dei principi che governano la prova per presunzioni (Cass. n. 19894 del 2005). L'istante, contestando l'idoneità delle procedure esecutive a manifestare lo stato di insolvenza e deducendo che la "serie di procedure monitorie" da lui promossa era stata giustificata dal suo intento di "trasformare un credito non ancora certo ed esigibile in un credito aventi tali caratteristiche" e che la transazione nei termini e nei modi nei quali è stata stipulata non aveva la significazione ritenuta dalla Corte territoriale svolge argomentazioni con le quali, benchè abbia denunciato la violazione del criterio normativo di apprezzamento delle presunzioni e vizi della motivazione, in buona sostanza, prospetta invece una mera difformità del giudizio rispetto alle sue attese ed alle sue deduzioni sul valore, ovvero sul

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significato attribuito agli elementi esaminati, e cioè in ordine all'apprezzamento dei fatti e delle circostanze riservato al giudice del merito, insindacabili in questa sede. La censura relativa alla mancata ammissione della prova per testi non merita infine accoglimento per un duplice ordine di ragioni. In primo luogo, in quanto, qualora nel ricorso per cassazione sia denunciata la mancata ammissione di un mezzo istruttorie, è necessario che il ricorrente nell'osservanza del principio d'autosufficienza non si limiti ad una censura generica, ma specifichi sia gli elementi di giudizio dei quali lamenta la mancata acquisizione, sia che, ove si tratti di una prova per testi, indichi anche a quale titolo i soggetti chiamati a rispondere su di esse potessero esserne a conoscenza (Cass. n. 5479 del 2006; n. 10357 del 2005; n. 6461 del 2005), elemento questo del tutto mancante nel ricorso in esame. In secondo luogo, in quanto, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, il giudice di merito non è tenuto a respingere espressamente e motivatamente le richieste di tutti i mezzi istruttori avanzate dalle parti qualora nell'esercizio dei suoi poteri discrezionali, insindacabili in questa sede, ritenga sufficientemente istruito il processo, potendo la superfluità dei mezzi non ammessi implicitamente dedursi dal complesso delle argomentazioni contenute nella sentenza (tra le più recenti, Cass. n. 14611 del 2005; n. 6570 del 2004). Tanto è appunto accaduto nel caso in esame, dato che la sentenza impugnata ha esposto con motivazione incensurabile le argomentazioni in forza delle quali è stata ritenuta provata la scientia decoctionis e che hanno confortato, e fondato, il convincimento del giudice di secondo grado in ordine alla superfluità del mezzo istruttorie. Il ricorso deve essere quindi rigettato; le spese di questa fase seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare le spese di questa fase, che liquida in complessivi Euro 12.000,00, oltre Euro 100,00 per spese, spese generali ed accessori come per legge. Così deciso in Roma, il 24 ottobre 2006. Depositato in Cancelleria il 15 dicembre 2006 Cassazione civile , sez. I, 10 marzo 2006 , n. 5301 LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. PROTO Vincenzo - Presidente - Dott. NAPPI Aniello - Consigliere - Dott. DI AMATO Sergio - Consigliere - Dott. CULTRERA Maria Rosaria - Consigliere - Dott. GIUSTI Alberto - Consigliere - ha pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso proposto da: Industrie Aeronautiche e Meccaniche Rinaldo Piaggio S.P.A., in amministrazione straordinaria, domiciliata in Roma, Viale Giulio Cesare n. 14, presso l'avv. ROMANELLI E., che la rappresenta e difende unitamente all'avv. T. Galletto, come da mandato a margine del ricorso; - ricorrente - contro Ministero della Difesa, domiciliato in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, presso l'avvocatura generale dello Stato, che lo rappresenta e difende per legge; - controricorrente - contro

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Less Costruzioni s.r.l. in liquidazione, domiciliata in Roma Lungotevere Michelangelo n. 9, presso l'avv. BIAMONTI P., che la rappresenta e difende con gli Avv. G. Carretto, A. Lerici, P. Biamonti; - intimato - contro Industrie Aeronautiche e Meccaniche Rinaldo Piaggio S.P.A., in amministrazione straordinaria; - intimato - avverso la sentenza n. 701/2002 della Corte d'Appello di Genova depositata il 17 luglio 2002; Sentita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Aniello Nappi; uditi i difensori avv. Santorelli per la ricorrente, che ha chiesto l'accoglimento del ricorso, e Cerretto e Biamonti per la resistente Less s.r.l., che hanno concluso per l'accoglimento del ricorso incidentale e comunque per il rigetto del ricorso principale. Udite le conclusioni del P.M., Dott. APICE Umberto, che ha chiesto dei motivi 5, 6 e 7, assorbiti gli altri. Fatto Con sentenza n. 12050 del 5 novembre 1999 il Tribunale di Genova rigettò la domanda proposta dalla Industrie Aeronautiche e Meccaniche Rinaldo Piaggio s.p.a. in Amministrazione straordinaria per la dichiarazione di inefficacia L. Fall. ex art. 67, delle cessioni in favore della IBM s.p.a. di crediti per circa due miliardi di lire vantati dalla società attrice nei confronti del Ministero della Difesa italiano. Ritenne il Tribunale che, in quanto sottrae al fallimento e ammette alla continuazione dell'attività un'impresa dichiarata insolvente, la L. n. 95 del 1979, prevede un aiuto di Stato e debba essere disapplicata per incompatibilità con il diritto comunitario, con la conseguenza dell'inammissibilità dell'azione revocatoria fallimentare esercitata. La Corte d'Appello di Genova, chiamata a pronunciarsi sull'impugnazione proposta dalla Industrie Aeronautiche e Meccaniche Rinaldo Piaggio s.p.a., in amministrazione straordinaria, contro la decisione del Tribunale, escluse che la L. n. 95 del 1979, sia radicalmente incompatibile con il diritto comunitario, ma ribadì egualmente il rigetto della domanda, in quanto proposta in pendenza della gestione provvisoria dell'attività imprenditoriale, conclusasi con l'alienazione dell'intero complesso aziendale e quindi con il risanamento dell'impresa. Contro la decisione d'appello ricorre ora per Cassazione la Industrie Aeronautiche e Meccaniche Rinaldo Piaggio s.p.a. in amministrazione straordinaria, proponendo quattro motivi d'impugnazione illustrati anche da memoria, cui resistono con controricorso sia il Ministero della Difesa sia la Less s.r.l., che ha proposto altresì ricorso incidentale. Diritto 1. Va preliminarmente disposta ai sensi dell'art. 335 c.p.c., la riunione dei ricorsi proposti avverso la stessa sentenza. Occorre peraltro esaminare distintamente i motivi proposti con il ricorso principale e con il ricorso incidentale. 2. Con il primo motivo la ricorrente principale deduce violazione e falsa applicazione degli art. 87 e 249 del trattato CE ratificato con L. 3 novembre 1992, n. 455, e dei principi generali del diritto comunitario. Lamenta che i Giudici del merito abbiano erroneamente interpretato la decisione della Commissione 16 maggio 2000 2001/212/CE, che ha escluso l'incompatibilità comunitaria della L. n. 95 del 1979, quando l'amministrazione straordinaria non comporti in concreto misure selettive specifiche con impegno di risorse pubbliche, in particolare quando si tratti di misure che non comportino deroghe all'ordinaria disciplina delle procedure concorsuali. Aggiunge che erroneamente i Giudici del merito hanno ritenuto di poter considerare come aiuto di Stato la stessa autorizzazione alla continuazione dell'attività di un'impresa insolvente, escludendo l'esigenza di ulteriori accertamenti circa l'effettiva incidenza delle singole misure sulle risorse pubbliche. Con il secondo motivo la ricorrente principale deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 95 del 1979, artt. 1, 2, 6 e 6 bis, D.Lgs. n. 270 del 1999, art. 106, L. Fall. artt. 67 e 203, dei principi generali in tema di procedure concorsuali. Deduce che, contrariamente a quanto ritenuto in giurisprudenza, le finalità di liquidazione dell'attivo e di risanamento dell'azienda sono in realtà complementari nella procedura di amministrazione straordinaria, secondo l'originaria disciplina della L. n. 95 del 1979. Sicchè deve ritenersi che l'azione revocatoria fallimentare sia esperibile fin dall'apertura del procedimento concorsuale. Mentre anche la nuova disciplina dettata dal D.Lgs. n. 270 del 1999, conferma che va considerata liquidatoria la cessione dell'intero complesso aziendale.

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Con il terzo motivo la ricorrente principale deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 95 del 1979, art. 1 e dell'art. 100 c.p.c.; vizi di motivazione su un punto decisivo della controversia. Censura innanzitutto che i Giudici del merito abbiano ritenuto irrilevante la sopravvenuta apertura della fase liquidatoria al momento della decisione, nel presupposto che fosse irrimediabilmente inam-missibile l'azione revocatoria esercitata durante la fase di gestione provvisoria dell'impresa. E aggiunge che, comunque, l'intero complesso aziendale stato ceduto in data 9 novembre 1998 e la gestione provvisoria si era conclusa il 28 novembre 1998, come riconoscono gli stessi Giudici del merito, sicchè l'azione revocatoria fallimentare risultava fondatamente proposta nel momento in cui intervenne la decisione impugnata. Con il quarto motivo la ricorrente principale deduce violazione e falsa applicazione degli art. 296 e 234 del trattato CE ratificato con L. 3 novembre 1992, n. 455, dei principi generali in tema di rapporti tra Giudici nazionali e organi comunitari, e della L. Fall. artt. 33, 99 e 205, e dell'art. 2700 c.c., dell'art. 234 del trattato CE ratificato con L. 3 novembre 1992, n. 455. Lamenta che erroneamente i Giudici del merito hanno disatteso l'eccezione subordinata di inapplicabilità alle produzioni militari della normativa ordinaria in tema di aiuti di Stato. 3. Con l'unico motivo del suo ricorso la ricorrente incidentale deduce violazione e/o falsa applicazione degli art. 87 (ex 92) e 88 (ex 93) del trattato CE, del D.Lgs. n. 270 del 1999, art. 106, della decisione della Commissione 16 maggio 2000 2001/212/CE. Sostiene, come già il Tribunale, che, in quanto sottrae al fallimento e ammette alla continuazione dell'attività un'impresa dichiarata insolvente, la L. n. 95 del 1979, prevede un aiuto di Stato e deve essere disapplicata per incompatibilità con il diritto comunitario, con la conseguenza dell'inammissibilità dell'azione revocatoria fallimentare esercitata. 4. Risulta preliminare l'esame del ricorso incidentale, che peraltro è infondato. Infatti questa Corte ha già ampiamente chiarito che "il D.L. 30 gennaio 1979, n. 26, conv., con modif., in L. 3 aprile 1979, n. 95, sull'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, contrasta - in base alle sentenze della Corte di Giustizia delle Comunità Europee 1 dicembre 1998 e - 200/1997 e 17 giugno 1999, nonchè alla decisione della Commissione 16 maggio 2000 2001/212/CE, che hanno carattere vincolante - con la normativa comunitaria solo relativamente a quelle disposizioni che prevedono aiuti di Stato non consentiti" (Cass., sez. 1^, 16 luglio 2004, n. 13165, m. 577216, Cass., sez., 1^, 8 febbraio 2005, n. 2534, m. 579315). Sicchè l'accertamento dell'eventuale incompatibilità con il diritto comunitario delle agevolazioni fiscali eventualmente godute dalla Industrie Aeronautiche e Meccaniche Rinaldo Piaggio s.p.a. in Amministrazione straordinaria, potrebbe comportare l'invalidazione di tali aiuti di Stato, ma non certo la caducazione dell'intera procedura e, di conseguenza, non inciderebbe sull'ammissibilità dell'azione revocatoria, che qui rileva. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, invero, per l'azione revocatoria fallimentare si pone solo un problema, di diritto nazionale, attinente alla compatibilità con le finalità di risanamento che può avere la procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi. Ed è questo il problema posto dal ricorso principale. 5. Sono fondati e assorbenti in realtà il primo e il terzo motivo del ricorso principale. Quanto all'ammissibilità dell'azione revocatoria fallimentare nell'ambito della procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, infatti, la giurisprudenza di questa Corte è certamente orientata ormai nel senso che l'azione revocatoria fallimentare, "essendo ispirata a finalità recuperatorie estranee alla fase conservativa dell'amministrazione straordinaria, è esperibile soltanto in relazione alla eventuale fase liquidatoria ed il suo ambito operativo è da riferirsi necessariamente e correlativamente al momento in cui inizia la liquidazione dei beni" (Cass., sez. 1^, 5 settembre 2003, n. 12936, m. 566562, Cass., sez. 1^, 21 settembre 2004, n. 18915, m. 577264, Cass., sez. 1^, 27 dicembre 1996, n. 11519, m. 501523). Nè questa condivisibile giurisprudenza è in contraddizione con il riconoscimento che "nel procedimento concorsuale di amministrazione straordinaria, l'azione revocatoria è esperibile solo dalla data del decreto che dispone l'apertura della procedura e la nomina del commissario, essendo quest'ultimo l'unico soggetto legittimato all'esercizio della suddetta azione, con la conseguenza che il termine di prescrizione della revocatoria fallimentare non decorre dalla dichiarazione dello stato di insolvenza, bensì solo dalla data del decreto di nomina del commissario governativo, ossia dal momento in cui, a norma dell'art. 2935 c.c., il "diritto" può essere fatto valere" (Cass., sez. un., 15 giugno 2000, n. 437, m. 537612). Infatti tra azione revocatoria e fase conservativa dell'amministrazione straordinaria v'è una incompatibilità logica e di fatto, prima che giuridica. Sicchè non rileva ai fini della prescrizione che la destinazione conservativa della procedura escluda la possibilità di agire in revocatoria. E tuttavia un'effettiva destinazione liquidatoria della procedura di amministrazione straordinaria può manifestarsi già prima del formale avvio del procedimento di alienazione dei beni, perchè un'attività di conservazione dell'azienda, nella sua unitarietà funzionale, può risultare destinata, nello stesso ambito della procedura prevista dalla L. n. 95 del 1979, non solo alla salvaguardia dell'unità produttiva bensì anche alla tutela della ragioni dei creditori, che hanno evidentemente interesse all'alienazione di un complesso aziendale efficiente e avviato, piuttosto che alla separata alienazione dei singoli beni aziendali. Ne consegue che l'eventualità di una destinazione liquidatoria della procedura non può non essere accertata con riferimento al momento della decisione sull'azione revocatoria; anche quando, come è avvenuto nel caso in esame, al

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momento della decisione appunto era stato già alienato 1'intero complesso aziendale (Cass., sez. 1^, 22 marzo 2005, n. 6192, m. 580382). Infatti, contrariamente a quanto implicitamente affermato dai Giudici del merito, anche la cessione dell'intero complesso aziendale ha funzione di liquidazione, posto che di un risultato di risanamento, senza liquidazione dei beni, può parlarsi solo quando sia il medesimo originario imprenditore a riprendere l'attività produttiva e/o di scambio (L. n. 270 del 1999, art. 27 e 49). La sentenza impugnata va pertanto cassata con rinvio alla Corte d'Appello di Genova, che si atterrà ai principi su enunciati.

P.Q.M. La Corte, riuniti i ricorsi, rigetta il ricorso incidentale e, in accoglimento del primo e del terzo motivo del ricorso principale, assorbiti il secondo e il quarto motivo, cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese alla Corte d'Appello di Genova in diversa composizione. Così deciso in Roma, il 24 gennaio 2006. Depositato in Cancelleria il 10 marzo 2006 Cassazione civile , sez. I, 24 febbraio 2006 , n. 4206 LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. PROTO Vincenzo - Presidente - Dott. PANZANI Luciano - rel. Consigliere - Dott. CULTRERA Maria Rosaria - Consigliere - Dott. DEL CORE Sergio - Consigliere - Dott. SALVATO Luigi - Consigliere - ha pronunciato la seguente: sentenza Sul ricorso proposto da: BANCA MONTE DEI PASCHI DI SIENA, in persona del suo Presidente e legale rappresentante pro tempore prof. F.L., elettivamente domiciliata in Roma, via Valadier 33, presso l'avv. Marco Annechino rappresentata e difesa dall'avv. prof. COSTANTINO Giorgio, giusta delega in atti; - ricorrente - contro CASE DI CURA RIUNITE s.r.l. in amministrazione straordinaria, in persona dei Commissari e legali rappresentanti pro tempore prof. avv. V.P. e Dott. M.C., elettivamente domiciliato in Roma, via degli Scipioni 268/A, presso l'avv. Domenico Battista, rappresentata e difesa dagli avv.ti RICCARDI Lucio e Nicola Vittorio Riccardi giusta delega in atti; - controricorrente - avverso la sentenza della Corte d'Appello di Bari n. 839/02 del 9 ottobre 2002. Udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 14/12/2005 dal Relatore Cons. Dott. Luciano Panzani; Udito l'avv. Giorgio Costantino per la ricorrente che ha concluso per l'accoglimento del ricorso; Udito l'avv. Nicola Vittorio Riccardi per la controricorrente che ha

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concluso per il rigetto del ricorso; Udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SCHIAVON Giovanni che ha concluso per il rigetto del ricorso. Fatto I Commissari della procedura di amministrazione straordinaria della Case di Cura Riunite s.r.l., procedura aperta ex lege n. 95 del 1979, proponevano azione revocatoria nei confronti della Banca del Salento s.p.a., ex art. 67, comma 1, n. 2, L. Fall. esponendo che la società aveva beneficiato di affidamenti bancari sino all'ottobre 1993; che la Banca di Salento aveva revocato tali affidamenti con raccomandata dell'11.10.1993 chiedendo il rimborso immediato della complessiva somma di L. 4.129.516.999 per scoperti di conto corrente; che il 29.10.1993 era stato regolato il ripiano dell'esposizione mediante rilascio di un mandato irrevocabile all'incasso di tutte le somme che la Regione Puglia avrebbe dovuto corrispondere alla C.C.R.; che in forza del mandato irrevocabile la Banca del Salento aveva incassato la complessiva somma di L. 4.277.091.000, di cui chiedevano l'acquisizione alla massa. Radicatosi il contraddittorio, il Tribunale di Bari con sentenza 13.7.1998 accoglieva la domanda. La Corte d'Appello di Bari con sentenza 9.10.2002 rigettava l'appello proposto dalla Banca del Salento. La Corte rilevava che la proposta azione revocatoria era ammissibile in quanto, se pur era vero che non era ammissibile la proposizione dell'azione revocatoria da parte della procedura di amministrazione straordinaria nella fase di prosecuzione della gestione, per contrarietà all'art. 92 Trattato C.E., ora art. 87 Trattato U.E., doveva ritenersi che in concreto fosse iniziata la fase liquidatoria in ragione dell'intervenuta autorizzazione ministeriale alla vendita di alcuni complessi aziendali e delle notizie acquisite tramite l'audizione del commissario liquidatore della procedura. Aggiungeva la Corte di merito che non poteva ritenersi che l'intera procedura di amministrazione straordinaria fosse contraria ai principi comunitari, perchè la Corte di Giustizia e la Commissione avevano ritenuto contrari a tali principi soltanto l'erogazione di aiuti di Stato che valessero a facilitare la permanenza forzosa sul mercato di aziende in decozione, contrarietà che veniva meno una volta aperta la fase di liquidazione. Ancora la Corte riteneva infondato il motivo con cui la banca appellante aveva sostenuto l'inammissibilità della revocatoria perchè non sarebbe stata dimostrata l'insufficienza dell'attivo a soddisfare le ragioni creditorie. In proposito, affermava la Corte, la declaratoria di insolvenza della società ammessa alla procedura introduceva per i creditori chirografari una presunzione d'incapienza. In ogni caso l'ammontare del passivo e la definitività del provvedimento giudiziario penale di confisca dei beni dell'amministratore erano elementi sufficienti ad escludere che il patrimonio sociale fosse sufficiente a soddisfare tutti i creditori. L'azione revocatoria proposta dalla procedura aveva ad oggetto il mandato irrevocabile all'incasso, come risultava anche dal fatto che si era fatto riferimento all'art. 67, comma 1, n. 2, L. Fall., anche se essa comportava l'inefficacia dei versamenti in denaro effettuati in esecuzione del mandato, in quanto effetti di quest'ultimo. Il mandato era stato concesso non per consentire all'accreditato disponibilità di denaro, come aveva affermato la banca, ma, in ragione della pregressa esposizione debitoria e dell'intervenuta revoca del fido, per ridurre il debito già sorto. Si era trattato quindi, ad avviso della Corte, di vera e propria cessione di credito, destinata a ridurre l'esposizione debitoria. Ad avviso della Corte territoriale era poi infondata la tesi, sostenuta dalla banca, che riteneva non revocabili i versamenti effettuati dalla Regione Puglia sui conti correnti della C.C.R., non più affidati, perchè sarebbe intervenuta compensazione tra il debito della C.C.R. derivante dalla pregressa esposizione debitoria verso la banca ed il credito sorto dall'avvenuto incasso da parte della banca delle somme provenienti dalla Regione, in forza del mandato ricevuto, compensazione non revocabile ex art. 56 L. Fall. La tesi si fondava sull'art. 5 delle condizioni generali di contratto incluse nel contratto di conto corrente, secondo il quale la banca godeva di diritto di ritenzione sulle somme di denaro che dovessero pervenire al correntista anche a seguito di cessione di credito nei confronti di terzi. Poichè i versamenti erano intervenuti sugli stessi conti già affidati, sui quali si era determinata l'esposizione debitoria, non poteva parlarsi di compensazione in senso tecnico e del resto l'applicazione dell'art. 5 delle condizioni generali di contratto non poteva essere compatibile con il principio della par condicio creditorum. Ancora la Corte territoriale affermava che il mandato all'incasso non poteva ritenersi non essere mezzo anormale di pagamento. La tesi contraria, sostenuta dalla banca sulla base del rilievo che era strumento normalmente utilizzato per agevolare l'incasso dei crediti dagli enti pubblici, non teneva conto che si era trattato in concreto di mandato irrevocabile all'incasso in funzione solutoria che, come tale, costituiva mezzo anormale di pagamento. La Corte infine sottolineava per quanto concerne la scientia decoctionis che l'onere di provare l'inscentia era a carico della banca, trattandosi di revocatoria ex art. 67, comma 1, n. 2, L. Fall. e che gli elementi offerti non valevano a vincere la presunzione di legge. Era noto a tutti gli operatori che la situazione di C.C.R. era allarmante, trattandosi di fatto di pubblico dominio che risultava dai giornali. Quasi tutti gli istituti bancari avevano revocato gli affidamenti ed invitato la società debitrice al rientro. Proprio la Banca del Salento aveva indicato nella corrispondenza intercorsa come ragione giustificatrice della revoca del fido l'esistenza di una rilevante esposizione, con la conseguenza che doveva escludersi che essa fosse

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dipesa da altre ragioni tecniche. Ancora la concessione di un finanziamento Isveimer era stata resa possibile da una fideiussione di Caripuglia, non dalla consistenza patrimoniale di C.C.R. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per Cassazione la Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a., subentrata alla Banca del Salento in virtù di atto di fusione per incorporazione, formulando cinque motivi di ricorso. Resiste con controricorso la s.r.l. Case di Cura Riunite in amministrazione straordinaria. Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c.. Diritto 1.1 Con il primo motivo la banca ricorrente deduce violazione della L. 3 aprile 1979, n. 95, art. 1, degli artt. 195, 237 e ss. L. Fall., art. 67 L. Fall., artt. 92 e 93 Trattato CE (ora artt. 87 e 88 Trattato U.E.) e della decisione della Commissione UE del 16.5.2000 nonchè difetto di motivazione. Rammenta che la già ricordata decisione della Commissione U.E. ha stabilito che il regime di cui alla L. n. 95 del 1979 di conversione del decreto L. n. 26 del 1979 è illegittimo ed incompatibile con il mercato comunitario. Richiama le decisioni della Corte di Giustizia U.E. del 1.12.1998 e del 17.7.1999, osservando che le decisioni comunitarie rivolte agli Stati membri assumono carattere generale e normativo, con la conseguenza che il Giudice nazionale deve disapplicare la norma interna contraria alla norma comunitaria. Osserva che la motivazione della Corte d'appello è contraddittoria perchè la C.C.R. in amministrazione straordinaria è stata autorizzata a proseguire l'esercizio dell'impresa sino al 14.5.2000, mentre il compendio aziendale, la cui liquidazione farebbe venir meno l'incompatibilità tra la procedura e la revocatoria, sarebbe stato alienato il 29.6.2000. L'azione revocatoria sarebbe stata proposta in pendenza della gestione provvisoria. Rileva che l'entrata in vigore del D.Lgs. n. 270 del 1999 che ha riformato la procedura di amministrazione straordinaria non ha mutato i termini della questione perchè l'art. 106 del decreto legislativo prevede che le vecchie procedure continuino ad essere regolate dalla L. n. 95 del 1979. 1.2. La banca ricorrente con il primo motivo insiste nel sottolineare l'erroneità dell'argomentare della Corte di merito quando ha affermato che la fase liquidatoria abbia avuto inizio, nella procedura di amministrazione straordinaria, quando i Commissari sono stati autorizzati dal Ministro a vendere taluni cespiti aziendali. In realtà nella procedura sarebbero distinguibili due fasi, cronologicamente e rigidamente ordinate nel tempo, la prima avente carattere prettamente conservativo, e la seconda avente funzione liquidatoria e satisfattiva, cui potrebbe ricorrersi solo quando non vi siano concrete possibilità di risanamento. La sfera di applicabilità della revocatoria non può che essere limitata alla fase liquidatoria. Nella specie l'azione revocatoria sarebbe stata proposta in presenza dell'autorizzazione alla continuazione dell'attività d'impresa. Non potrebbe d'altra parte sostenersi che occorra far riferimento alla situazione in essere al momento della pronuncia del Giudice, si che la proposta azione costituirebbe aiuto vietato. ai sensi dell'art. 87 del Trattato U.E.. 1.3. Ancora la Corte d'appello non avrebbe considerato che la procedura aveva beneficiato di aiuti sia nella fase conservativa sia in quella liquidatoria, come sarebbe emerso dall'interrogatorio libero del Commissario prof. V. (garanzia di Stato, aliquota d'imposta ridotta o altra misura di favore di cui non avrebbe potuto beneficiare un'impresa in fallimento). La Corte con ordinanza collegiale 14.3.2001 aveva affrontato tali questioni, ma di esse non vi è traccia nella sentenza impugnata. 2. Con il secondo motivo di ricorso la banca ricorrente deduce violazione dell'art. 100 c.p.c., degli artt. 2696 e 2729 c.c., art. 67 L. Fall. nonchè difetto di motivazione con riferimento al rigetto da parte della Corte territoriale dell'eccezione di improponibilità dell'azione per difetto d'interesse ad agire del ceto creditore. La Corte ha superato l'eccezione richiamando la presunzione juris tantum di sussistenza del danno conseguente all'atto revocato, che determina un'inversione dell'onere della prova a carico del convenuto in revocatoria. Peraltro, ad avviso della ricorrente, molteplici elementi consentirebbero di superare tale presunzione, in particolare il rilevante valore del compendio immobiliare, l'elevato valore delle partecipazioni societarie, gli ingenti crediti vantati. Gli elementi addotti in senso contrario dalla Corte non sarebbero determinanti. In particolare le dichiarazioni del Commissario prof. V. sarebbero generiche, riferite ai soli crediti chirografari e non corredate da un esame delle voci attive della procedura. Anche il provvedimento di confisca adottato dal Giudice penale sui beni dell'ex amministratore di C.C.R. C.F., non sarebbe rilevante. 3.1 Con il terzo motivo la banca ricorrente deduce violazione dell'art. 67, comma 1, n. 2, L. Fall., degli artt. 99 e 112 c.p.c., degli artt. 2907 c.c., art. 56 L. Fall., art. 1241 c.c., e ss., nonchè difetto di motivazione. La Corte d'Appello avrebbe dichiarato inefficaci sia il mandato all'incasso sia i suoi effetti terminali, costituiti dai pagamenti ricevuti dalla banca provenienti dalla Regione Puglia. In tal modo la Corte territoriale sarebbe incorsa nel vizio di ultrapetizione perchè avrebbe pronunciato sulla revoca del mandato, che non rientrava nella domanda attorea, essendo stata chiesta la revoca dei pagamenti effettuati mediante mandato irrevocabile all'incasso. 3.2. Ancora osserva la ricorrente che la Corte di merito ha ritenuto che tra le parti fosse intercorsa una vera e propria

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cessione di credito. Nel caso di cessione di credito peraltro non potrebbero essere oggetto di azione revocatoria i singoli pagamenti effettuati a favore del cessionario. Anche sotto questo profilo, in ragione della mancata impugnazione del mandato, il Giudice d'appello sarebbe incorso nel vizio di ultrapetizione, perchè soltanto tramite tale impugnazione egli poteva revocare i pagamenti. 3.3. Rileva la ricorrente, sotto diverso profilo, che essa aveva sostenuto che i pagamenti effettuati non erano revocabili perchè in merito era intervenuta compensazione, di per se stessa non revocabile, tra il credito della banca derivante dai finanziamenti concessi e il debito della stessa sorto per effetto dell'avvenuta esecuzione del mandato e dell'incasso di somme di pertinenza della C.C.R. dalla Regione Puglia. Poichè il mandato non sarebbe stato oggetto dell'azione revocatoria, i pagamenti in quanto tali non sarebbero revocabili. Non sarebbe fondata, per altro verso, la tesi sostenuta dalla Corte territoriale secondo la quale non potrebbe parlarsi di compensazione in senso proprio perchè i pagamenti erano affluiti sui medesimi conti cui si riferiva l'esposizione debitoria. Invero, ad avviso della ricorrente, i reciproci crediti deriverebbero da autonome obbligazioni nascenti da titoli diversi e non collegati tra loro e quindi potrebbe parlarsi di compensazione in senso tecnico. 3.4. La Corte d'appello avrebbe affermato, con motivazione contraddittoria ed incompleta, che il rilascio del mandato irrevocabile all'incasso in funzione solutoria costituisce mezzo anomalo di pagamento. La Corte barese avrebbe ritenuto, in contrasto con la documentazione versata in atti, che la C.C.R. non utilizzasse con frequenza lo strumento del mandato irrevocabile all'incasso. Avrebbe poi ritenuto, senza supporto probatorio, che la concessione di mandati all'incasso a tutte le banche creditrici fosse determinata dalla volontà di evitare le azioni revocatorie. Il ricorso al mandato all'incasso irrevocabile sarebbe normale nella prassi bancaria ed sarebbe stato indispensabile per C.C.R. perchè rappresentava l'unico strumento di monetizzazione dei crediti verso Enti Pubblici. La C.C.R. aveva stipulato mandati all'incasso con altri istituti di credito, aveva previsto tale strumento nell'art. 5 delle condizioni generali di conto corrente. Gli stessi commissari, aperta la procedura, avevano stipulato analoghi mandati. La Corte territoriale si sarebbe lasciata andare ad un'affermazione, quella sull'anormalità del mandato all'incasso, non giustificata e frutto di petizione di principio. 4.1 Con il quarto motivo la banca ricorrente lamenta violazione dell'art. 67, comma 1, L. Fall., degli artt. 2697 e 2729 c.c., difetto di motivazione. La Corte avrebbe desunto l'esistenza della scientia decoctionis dalla revoca dell'affidamento, senza considerare i molteplici elementi in senso contrario addotti dalla banca ricorrente. La Corte non avrebbe dovuto fondarsi su una presunzione suffragata da valutazioni prive di una propria identità fattuale. Graverebbe sul commissario l'onere di provare la sussistenza dello stato di decozione e con riferimento a tale requisito la Corte avrebbe dovuto indagare con riferimento all'epoca, 1993, in cui vennero stipulati i mandati all'incasso, non già con riferimento alla data, 1996, dell'adozione del provvedimento di confisca nei confronti dell'amministratore di C.C.R.. 4.2. La revoca degli affidamenti non avrebbe valore sintomatico in ordine alla scientia decoctionis. Essa era dipesa dal fatto che C.C.R. non aveva canalizzato l'incasso dei propri crediti verso Regione Puglia presso la banca, in modo da rendere possibile la riduzione dell'esposizione debitoria, ai fini della sua regolarizzazione. Ciò non avrebbe comportato conoscenza dello stato d'insolvenza. 4.3. La presunzione semplice di conoscenza dello stato d'insolvenza a carico del convenuto in revocatoria avrebbe dovuto essere valutata dalla Corte di merito tenendo conto delle circostanze in senso contrario esposte dalla banca ricorrente ed in particolare del fatto che, al momento della concessione del mandato irrevocabile all'incasso, la crisi economica della società non era nota neppure agli operatori economici qualificati e prudenti. In particolare non vi erano protesti, procedure pendenti, non erano state restituite merci ai fornitori, non vi erano notizie sulla stampa locale e nazionale che lasciassero presagire la crisi, la società godeva di rilevantissimo credito, non risultavano difficoltà economiche secondo gli ultimi bilanci, era stato concesso un rilevante finanziamento per 255 miliardi da Isveimer. 5. Con il quinto motivo la ricorrente deduce violazione degli artt. 112 c.p.c., art. 2907 c.c.. La Corte non avrebbe pronunciato sull'eccezione sollevata dalla ricorrente in ordine alla reviviscenza per facta concludentia dell'originaria apertura di credito. In comparsa di risposta in primo grado la banca aveva dedotto che l'apertura di credito revocata, di fatto aveva continuato ad operare, perchè la revoca non aveva avuto esecuzione. Di conseguenza i pagamenti pervenuti sul conto corrente avrebbero dovuto essere considerati rimesse ripristinatorie della disponibilità, non revocabili neppure ai sensi dell'art. 67, comma 2, L. Fall. L'eccezione, respinta dal Giudice di prime cure, era stata riproposta con l'appello, ma su di essa la Corte di merito non avrebbe pronunciato. 6. Con il primo motivo la ricorrente deduce per un verso la contrarietà della L. n. 95 del 1979 al diritto comunitario, con la conseguente caducazione dell'intera procedura di amministrazione straordinaria della Case di cura riunite s.r.l., per altro verso l'incompatibilità dell'azione revocatoria con la fase conservativa della procedura nel corso della quale l'azione fu proposta, con la conseguente inammissibilità della domanda. Sotto il primo profilo, va rilevato che la questione della compatibilità della L. n. 95 del 1979 con l'ordinamento comunitario è questione rilevabile d'ufficio. Questa Corte ha già avuto modo di osservare che la verifica della compatibilità del diritto interno con quello comunitario non è condizionata alla deduzione di uno specifico motivo, ma, in

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base al principio iura novit curia, può essere conosciuta anche d'ufficio, come accade nel caso dello ius superveniens e della modifica normativa determinata dalla dichiarazione d'illegittimità costituzionale (Cass. 21 settembre 2004, n. 18915; Cass. 28 ottobre 2005, n. 21083). Va sottolineato a questo proposito che, diversamente da quanto avviene quando la questione comporta specifici accertamenti di fatto (e sul punto si dovrà tornare più avanti con riferimento alla diversa questione dell'incompatibilità dell'azione revocatoria con la normativa comunitaria per essere stata la stessa proposta in pendenza della fase conservativa della procedura di amministrazione straordinaria), qualora si deduca l'incompatibilità dell'intera disciplina della L. n. 95 del 1979 o di singole norme, assumendo che tale disciplina o tali norme costituiscano di per sè aiuti di Stato, non è necessario, indipendentemente dalla fondatezza della questione, alcun accertamento di fatto e non vi sono impedimenti all'esame d'ufficio. 6.1. Va ricordato che la questione dell'incompatibilità dell'intera L. n. 95 del 1979 con la normativa comunitaria è già stata risolta negativamente - da questa Corte (Sez. 1, 28 ottobre 2005, n. 21083, cit.; Sez. 1, 8 febbraio 2005, n. 2534, rv. 579317; Sez. 1, 21 settembre 2004, n. 18915, rv. 577264; Sez. 1, 24 agosto 2004, n. 16709, rv, 576190; Sez. 1, 16 luglio 2004, n. 13165, rv. 577216). Sulla questione sono intervenute due sentenze della Corte di Giustizia della Comunità Europea (sentenze Ecotrade, CGCE 1.12.1998, e Piaggio, CCGE 17.6.1999) ed una decisione della Commissione Europea (dec. 2001/21/CE del 16.5.2000). Sul tema la Corte di Giustizia è tornata con l'ordinanza 24 luglio 2003, in causa Sicilcassa s.p.a. - Ira Costruzioni. I giudici nazionali sono tenuti a fare applicazione dei principi sanciti dalla Corte di Giustizia, perchè nell'ordinamento nazionale deve essere riconosciuta l'immediata efficacia del diritto comunitario non soltanto per quanto concerne le fonti normative direttamente applicabili, ma anche per le pronunce interpretative rese dalla Corte di Giustizia ed ad ogni altra pronuncia del Giudice comunitario che, nell'applicare o interpretare una norma dotata di effetti diretti, risulti comunque dichiarativa del diritto comunitario (Corte cost., 18 aprile 1991, n. 168). Va peraltro ricordato che, come ha sottolineato questa Corte con la sentenza 21083/05, nell'ambito di un procedimento instaurato ai sensi dell'art. 234 CE, quali quelli che hanno dato luogo alle sentenze Ecotrade e Piaggio, la Corte di Giustizia non è competente ad interpretare il diritto nazionale o a statuire sulla compatibilità di un provvedimento nazionale con l'art. 92 (ora 87) del Trattato C.E. Sarebbe quindi erroneo ricavare dalle pronunzie della Corte di Giustizia la qualificazione come aiuto di Stato dell'intera L. n. 95 del 1979 o anche soltanto di singole disposizioni della legge. La Corte non statuisce, infatti, sulla L. n. 95 del 1979, ma sull'interpretazione della nozione di aiuto di Stato, sia pure con riferimento alla fattispecie all'esame del Giudice remittente. Sulla base di questa premessa, le due sentenze della Corte di Giustizia, considerando "un regime come quello istituito dalla L. n. 95 del 1979", ma senza prendere direttamente in esame la legge in parola, attività riservata al Giudice nazionale, hanno affermato che la concreta applicazione ad un'impresa di un regime come quello istituto dalla L. n. 95 del 1979 da luogo alla concessione di un aiuto di Stato allorchè è dimostrato che "questa impresa: - è stata autorizzata a continuare la sua attività economica in circostanze in cui tale eventualità sarebbe esclusa nell'ambito delle regole normalmente vigenti in materia di fallimento, - o ha beneficiato di uno o più vantaggi" (sentenza Ecotrade, par. 45; sentenza Piaggio, par. 50). 6.2. Il discorso potrebbe essere diverso per quanto concerne la già ricordata decisione della Commissione Europea (dec. 2001/21/CE del 16.5.2000). Tale decisione ha infatti ad oggetto direttamente la compatibilità della misura con l'ordinamento comunitario e la decisione, come ha ricordato Cass. 21083/05, per quanto priva dei caratteri della generalità ed astrattezza, in quanto pronunciata nei confronti dello Stato Italiano, è dotata, come precisato più volte dalla Corte di Giustizia (ex multis CGCE 6 ottobre 1970, n. 9, in causa Grad; GGCE 10 novembre 1992, n. 156, in causa Hansa Fleisch) ed anche da questa Corte (Cass. 10 dicembre 2002, n, 17564; Cass. 4 marzo 2005, n. 4769, relative entrambe ad aiuti di Stato), di effetto diretto nei confronti dell'ordinamento nazionale, limitatamente ai rapporti giuridici intercorrenti tra privati e pubblici poteri (cd. efficacia verticale) e non è suscettibile di essere sindacata dal Giudice nazionale, che ne resta vincolato (CGCE 9 marzo 1994, n. 188 in causa C-188/92). Ancorchè la decisione della Commissione non abbia efficacia diretta nei rapporti tra privati, quale quello oggetto del presente giudizio, il Giudice nazionale, in virtù del principio di unità dell'ordinamento, difficilmente potrebbe negare natura di aiuto di Stato ad una misura nazionale così qualificata dalla Commissione Europea con decisione divenuta inoppugnabile. Sulla base di questa premessa, Cass. 21083/05, sottolinea che la pronuncia della Commissione, pur concludendo che "il regime di cui alla L. n. 95 del 1979, di conversione del D.L. n. 26 del 1979 è illegittimo e incompatibile con il mercato comune" (art. 2 delle conclusioni), mostra chiaramente nella motivazione di non riferirsi all'intera legge, ma al regime introdotto da specifiche disposizioni e preso in considerazione nella motivazione. E va sottolineato che la Commissione ha deciso di non ingiungere all'Italia di procedere al recupero presso le imprese beneficiarle degli aiuti concessi. 6.3. Resta da stabilire, sulla base della nozione di aiuto di Stato elaborata dalla Corte di Giustizia nelle due già ricordate sentenze, se la disciplina dell'azione revocatoria rappresenti un aiuto di Stato per come è chiamata ad operare nel

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contesto della procedura e, in caso di risposta negativa, se la stessa apertura della procedura, che costituisce presupposto per l'esercizio dell'azione revocatoria, rappresenti un aiuto di Stato, perchè comporta necessariamente l'applicazione di norme che rappresentano aiuti di Stato. Va ricordato che questa Corte ha ripetutamente affermato che nella procedura di amministrazione straordinaria disciplinata dalla L. n. 95 del 1979 l'azione revocatoria può essere esercitata soltanto dopo la cessazione della fase conservativa dell'impresa e l'inizio della fase liquidatoria (Sez. 1, 27 dicembre 1996, n. 11519; Sez. 1, 5 settembre 2003, n. 12936; Sez. 1, 22 marzo 2005, n. 6192). Ora l'azione revocatoria esercitata durante la fase liquidatoria non può essere qualificata aiuto di Stato perchè è priva del requisito di specificità, sotto i due profili della selettività e della discrezionalità, che, alla stregua delle decisioni della Corte di Giustizia sopra richiamate, caratterizzano gli aiuti di Stato (sentenza Ecotrade, par. 38 e 40). E' evidente infatti l'identità funzionale con l'azione esercitata in sede fallimentare, di generale applicazione. Manca inoltre, per poter ritenere di essere di fronte ad un aiuto di Stato, il requisito ulteriore dell'impiego di risorse pubbliche, individuato dalla Corte di Giustizia in "...vantaggi concessi direttamente o indirettamente mediante risorse statali o che costituiscono un onere supplementare per lo Stato o per gli enti designati o istituiti a tal fine" (CGCE in causa Ecotrade, par. 35 e 36). Neppure può ritenersi sussistente il requisito in parola, con riguardo all'azione revocatoria, nel fatto che la continuazione dell'attività dell'impresa sia consentita con il sacrificio dei creditori anteriori, cui sono inibite azioni esecutive, quando questi creditori, tenuto conto dei requisiti per l'ammissione alla procedura, possano identificarsi principalmente nello Stato o negli enti pubblici (sent. citata, par. 36 e ss.). Posto infatti che l'azione revocatoria non può essere esercitata che in pendenza della fase liquidatoria, deve escludersi un vantaggio, derivante dai proventi dell'azione revocatoria, finalizzato alla continuazione dell'attività d'impresa. Va conseguentemente esclusa un'attitudine dell'azione revocatoria o del suo risultato a distorcere la concorrenza, anche perchè lo Stato e gli altri enti pubblici non possono essere considerati naturali soggetti passivi dell'azione revocatoria, sussistendo anzi in materia tributaria e previdenziale ampie ipotesi di esenzione. Quanto al quesito se la stessa apertura della procedura di amministrazione straordinaria possa configurare, con riferimento all'esperimento dell'azione revocatoria, un aiuto di Stato, è sufficiente osservare, come ha rilevato Cass. 21083/05, che i vantaggi a carico di risorse pubbliche individuati dalla Corte di Giustizia (par. 41 della sentenza Piaggio) possono essere disapplicati senza incidere sulla possibilità di una gestione liquidatoria della procedura (cfr. anche Cass. 13165/2004; Cass. 6192/05), gestione liquidatoria che di per se stessa esclude una prosecuzione dell'attività d'impresa con effetti distorsivi sulla concorrenza. Va anzi aggiunto che la L. 12 dicembre 2002, n. 273, art. 7, dopo che il D.Lgs. 8 luglio 1999, n. 270, art. 106, aveva prorogato la vigenza della L. n. 95 del 1979 per le procedure di amministrazione straordinaria in corso, ha previsto la cessazione dall'incarico dei commissari straordinari di tali procedure e la nomina di un commissario liquidatore per proseguire la gestione liquidatoria secondo le norme della liquidazione coatta amministrativa. Il legislatore ha preso quindi atto della possibilità di una gestione soltanto liquidatoria delle procedure in corso. In relazione a questa modifica della disciplina la Corte di Giustizia con l'ordinanza 24 luglio 2003, in causa IRA, dopo aver dichiarato con riferimento al D.Lgs. n. 270 del 1999, art. 106, che la proroga di un regime di aiuti di Stato costituisce essa stessa un regime nuovo di aiuti di Stato, ha invitato il Giudice nazionale a prendere atto della decisione della commissione Europea di rinunciare al recupero degli aiuti erogati prima del D.Lgs. n. 270 del 1999 ed a tenere conto della nuova disciplina dettata dall'art. 7, valutando se con riferimento ad essa l'art. 106 possa essere ancora interpretato nel senso di consentire alle imprese assoggettate a procedure in corso di "beneficiare in futuro di nuovi aiuti di Stato in base alla L. n. 95 del 1979, oggi abrogata". In conclusione la proroga della disciplina della L. n. 95 del 1979 nei termini ora visti non rappresenta di per sè un regime di aiuti, se può essere interpretata, così come si è sopra indicato per quanto concerne l'azione revocatoria, in modo da escludere nuovi aiuti di Stato alle imprese che vi sono sottoposte. 6.4. La ricorrente ha sostenuto che nella vicenda in esame l'azione revocatoria sarebbe inammissibile perchè proposta quando ancora era in corso la fase conservativa della procedura di amministrazione straordinaria, posto che le Case di Cura Riunite sono state autorizzate a proseguire l'esercizio dell'impresa sino al 14.5.2000, mentre l'azione oggetto di causa è stata instaurata con atto di citazione notificato il 20.11.1995. Ancora la ricorrente ha sottolineato che il compendio aziendale è stato alienato il 29.6.2000, aggiungendo che l'avvenuta instaurazione della fase liquidatoria della procedura non costituirebbe una condizione dell'azione, che come tale sarebbe sufficiente che risultasse sussistente al momento della pronuncia del Giudice, ma un presupposto processuale per il quale dovrebbe guardarsi al momento dell'instaurazione del giudizio. In proposito la procedura controricorrente ha eccepito che l'eccezione "comunitaria" era stata sollevata dalla banca ricorrente per la prima volta con la comparsa conclusionale in primo grado ed era stata poi riproposta in appello, senza che sul punto vi fosse stata accettazione del contraddittorio, sì che la stessa doveva ritenersi inammissibile in quanto tardiva. Sul punto, va aggiunto, la sentenza impugnata, pur dando atto dell'eccezione - soprattutto con riferimento al problema

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della rilevabilità d'ufficio del contrasto della disciplina dell'azione revocatoria con la disciplina comunitaria - non ha pronunciato, ritenendo nel merito insussistente il contrasto tra disciplina della revocatoria e diritto comunitario. In proposito occorre osservare che questa Corte ha più volte statuito che la parte che deduce il contrasto di una norma di legge statale con le norme comunitarie in tema di aiuti di Stato ha l'onere di allegare e provare gli elementi di fatto necessari a dimostrare la ricorrenza nel caso concreto di un aiuto di Stato, escludendo che il Giudice di merito debba accertare d'ufficio l'esistenza di tali elementi al fine di valutare l'eventuale disapplicazione (Cass. 19 marzo 2004, n. 5561; Cass. 4 aprile 2003, n. 5241). Ora se l'incompatibilità della revocatoria con la disciplina comunitaria non viene dedotta in astratto (e già si è pronunciato sulla questione nella sua astratta configurabilità), ma in relazione ad un fatto specifico, com'è nel caso di specie la pendenza della fase conservativa della procedura, il Giudice non può conoscere dell'eccezione se non sono allegati e provati i fatti su cui essa si fonda. Questa Corte ha affermato il principio per cui, in relazione all'opzione difensiva del convenuto consistente nel contrapporre alla pretesa attorea fatti ai quali la legge attribuisse autonoma idoneità modificativa, impeditiva o estintiva degli effetti del rapporto sul quale la predetta pretesa si fonda, il potere di allegazione compete esclusivamente alla parte e va esercitato nei tempi e nei modi previsti dal rito in concreto applicabile, pertanto sempre soggiacendo alle relative preclusioni e decadenze (Sez. Un., 3 dicembre 1998, n. 1099, rv. 515986; Sez. 1, 7.4.2000, n. 4392, rv. 535429; Sez. 1, 10.10.2003, n. 15142). La banca ricorrente ha eccepito il difetto del requisito dell'inizio della fase liquidatoria della procedura soltanto nella comparsa conclusionale in primo grado ed ha rinnovato l'eccezione con l'atto d'appello. Le circostanze da cui essa trae la prova che la fase liquidatoria è iniziata dopo l'instaurazione del giudizio emergono dall'interrogatorio libero del Commissario straordinario della procedura, esperito in grado d'appello, e da documenti prodotti in tale fase del giudizio. Ne deriva che nel caso di specie la deduzione che l'azione revocatoria esperita dalla procedura di amministrazione straordinaria era stata proposta quando ancora era in corso la fase conservativa della procedura stessa, deve ritenersi tardiva, alla luce del combinato disposto degli artt. 183 e 345 c.p.c. Sotto questo profilo pertanto il primo motivo di ricorso va ritenuto inammissibile, mentre per il resto esso va rigettato. 7. Con il secondo motivo di ricorso si contestano le conclusioni cui è pervenuta la Corte d'appello in ordine all'eccezione d'improponibilità della domanda, sollevata dalla banca controricorrente, per difetto d'interesse ad agire del ceto creditorio, che avrebbe trovato capienza nel patrimonio della società in amministrazione straordinaria. In proposito la sentenza impugnata ha richiamato la presunzione iuris tantum di sussistenza del pregiudizio per i creditori che è propria dell'azione revocatoria. La ricorrente oltre a contestare la sussistenza di tale presunzione, afferma di aver dedotto, nel corso del giudizio, l'esistenza di molteplici elementi che consentirebbero di superarla, in particolare il rilevante valore del compendio immobiliare costituito dalle cliniche di proprietà della C.C.R. l'elevato ammontare delle partecipazioni societarie detenute, gli ingenti crediti vantati nei confronti, tra l'altro, della Regione Puglia. La sentenza impugnata sul punto avrebbe fatto riferimento ad elementi in senso contrario, che peraltro, ad avviso della ricorrente, sarebbero generici ed irrilevanti, donde la censura di difetto di motivazione. Va anzitutto ribadito che, a differenza della disciplina adottata per l'azione revocatoria ordinaria, nella revocatoria fallimentare la nozione di danno non è assunta in tutta la sua estensione, perchè il pregiudizio per la massa è presunto in ragione del solo fatto dell'insolvenza. Si tratta peraltro di presunzione iuris tantum, vincibile dal convenuto, sul quale grava l'onere di provare che in concreto il pregiudizio non sussiste. Come ha sottolineato Cass. 11.11.2003, n. 16915, quanto all'elemento del danno, il fondamentale elemento di differenza tra la revocatoria ordinaria e quella fallimentare è rappresentato dalla circostanza che la seconda si riferisce sempre ad atti posti in essere quando il debitore si trova in situazione di insolvenza. Nella revocatoria ordinaria il pregiudizio arrecato dal debitore alle ragioni del creditore (art. 2901 c.c.) consiste nella insufficienza dei beni residui del debitore ad offrire la garanzia patrimoniale, mentre è irrilevante una semplice diminuzione della stessa garanzia. Viceversa nella revocatoria fallimentare, che interviene rispetto ad atti compiuti quando già sussiste lo stato di insolvenza, il carattere pregiudizievole dell'atto non può essere valutato in relazione alla sufficienza dell'attivo fallimentare al pagamento del passivo, considerato che tale circostanza, come è noto, non esclude l'insolvenza, ma deve essere valutato in relazione all'aggravamento dell'insolvenza. Inoltre, la previsione, tra gli atti pregiudizievoli, dei pagamenti di debiti scaduti, esclusi espressamente dalla revocatoria ordinaria (art. 2901 c.c., comma 3), presuppone che nella revocatoria fallimentare il danno possa consistere anche nella mera lesione della "par condicio creditorum" (Cass. 16 settembre 1992, n. 10570; Cass. 19 aprile 1995, n. 4408; Cass. 12 gennaio 1996, n. 9908) o, più esattamente, nella violazione delle regole di collocazione dei crediti, dal momento che l'art. 2741 c.c., comma 1, statuisce che i creditori hanno eguale diritto a soddisfarsi sui beni del debitore "salve le cause legittime di prelazione". In tale situazione, sia che si voglia individuare nel danno un requisito dell'azione revocatoria fallimentare, sia che si ritenga, come suggerisce una parte della dottrina, di individuare, attraverso una prognosi postuma, tale requisito nella mera idoneità dell'atto a determinare un pregiudizio, è chiaro che nessun onere probatorio incombe sul curatore. In questo senso, sia pure con accenti diversi sul contenuto e sulla natura della presunzione, è unanime la giurisprudenza di questa Corte (nel senso di una presunzione di danno vincibile dal convenuto, sul quale grava il relativo onere probatorio, cfr. Cass. 19 giugno 1972, n. 1938; Cass. 30 ottobre

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1973, n. 2837; Cass. 7 dicembre 1973, n. 3323; Cass. 14 febbraio 1974, n. 422; Cass. 740/75, Cass. 14 luglio 1975, n. 2780; Cass. 29 novembre 1978, n. 5645; Cass. 26 maggio 1987, n. 4703). La Corte d'Appello ha richiamato la decisione resa dai giudici di prime cure, sottolineando che gli elementi forniti dalla convenuta, ora controricorrente, per sostenere che il patrimonio di C.C.R. fosse capiente ed in grado di soddisfare l'intero passivo accumulato (il patrimonio immobiliare di ingente valore, le partecipazioni societarie di rilevante importo, gli ingenti crediti nei confronti dell'Ospedale Oncologico e della Regione Puglia), erano generici. Ha aggiunto che l'incapienza del patrimonio sociale era dimostrata dallo stato passivo reso esecutivo il 19.4.2000, da cui risultavano debiti per diverse centinaia di miliardi, cui si aggiungeva la confisca penale del patrimonio dell'amministratore. La ricorrente lamenta che queste ultime circostanze siano generiche, ma la ratio decidendi della sentenza impugnata non va individuata nell'indicazione di questi ultimi elementi, ma nel rilievo che, in ragione della presunzione juris tantum di sussistenza del danno per il ceto creditorio, era onere della convenuta in revocatoria dimostrare l'insussistenza del danno in ragione della capienza del patrimonio della società in amministrazione straordinaria a soddisfare l'intero ceto creditorio, e che tale onere non è stato assolto, in ragione della genericità dei rilievi svolti per vincere la presunzione. 8. Con il terzo motivo di ricorso la ricorrente lamenta anzitutto che la Corte territoriale, incorrendo nel vizio di ultrapetizione, abbia pronunciato sulla revoca del mandato irrevocabile all'incasso, mentre la procedura avrebbe richiesto la revoca dei versamenti effettuati sul conto corrente intrattenuto da C.C.R. presso la banca in esecuzione del mandato. In proposito la Corte d'appello ha sottolineato che con l'atto introduttivo del giudizio erano stati richieste la revoca del mandato irrevocabile e del conseguenti pagamenti; che C.C.R. aveva dedotto che l'esposizione debitoria preesistente era stata ripianata mediante il rilascio di un mandato irrevocabile all'incasso che costituiva mezzo anormale di pagamento, revocabile ex art. 67, comma 1, n. 2, L. Fall. in forza del quale la banca aveva incassato la somma complessiva di L. 4.277.091.000 lire. I versamenti in denaro erano stati prospettati quali effetti terminali del mandato, perchè sarebbe stata improduttiva un'azione diretta alla declaratoria d'inefficacia di quest'ultimo, che lasciasse fermi i versamenti che erano stati conseguentemente effettuati. E' principio affermato da questa Corte che l'interpretazione della domanda è compito riservato in via esclusiva al Giudice di merito e come tale resta sottratta, se congruamente motivata, al sindacato di legittimità; ove, tuttavia, da tale interpretazione la parte faccia discendere la violazione del principio di necessaria corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, denunziando quindi un errore "in procedendo", la Corte di Cassazione è investita di un potere - dovere di sindacato pieno, con possibilità di procedere direttamente all'esame e all'interpretazione degli atti processuali e, conseguentemente, delle istanze e delle deduzioni delle parti (Cass. 20.7.2004, n. 13426, rv. 574700). Va aggiunto che ai fini di una corretta interpretazione della domanda, il Giudice di primo grado è tenuto ad interpretare le conclusioni contenute nell'atto di citazione, alle quali si è riportato l'attore in sede di precisazione delle conclusioni, tenendo conto della volontà della parte quale emergente non solo dalla formulazione letterale delle conclusioni assunte nella citazione, ma anche dall'intero complesso dell'atto che le contiene, considerando la sostanza della pretesa, così come è stata costantemente percepita dalle parti nel corso del giudizio di primo grado, tenendo conto non solo delle deduzioni e delle conclusioni inizialmente tratte nell'atto introduttivo, ma anche della condotta processuale delle parti, nonchè delle precisazioni e specificazioni intervenute in corso di causa (Cass. sez. 2, 16.9.2004, n. 18653, rv. 577133) Le conclusioni della Corte d'appello meritano di essere condivise vuoi perchè corrispondono al tenore della domanda proposta con l'atto di citazione in primo grado, con cui era stata chiesta la revoca dei pagamenti - ai sensi e per gli effetti dell'art. 67, comma 1, n. 2, L. Fall. - effettuati mediante mandato irrevocabile all'incasso, vuoi perchè l'inefficacia del mandato irrevocabile all'incasso in forza della spiegata revocatoria, quale mezzo anomalo di pagamento, comporta l'obbligo di restituzione delle somme incassate in forza del mandato stesso, essendo venuto meno il titolo sul quale si fonda la loro percezione. E' appena il caso di sottolineare che su questa conclusione non incide la circostanza che in un passo dell'impugnata sentenza la Corte d'appello abbia fatto riferimento al mandato all'incasso qualificandolo come cessione di credito. Il principio affermato da questa Corte secondo il quale, ove non sia stata impugnata con l'azione revocatoria la cessione di credito, non possono essere autonomamente revocati i pagamenti effettuati dal debitore ceduto al cessionario, in quanto posti in essere in favore di soggetto diverso dal fallito, divenuto titolare del credito in virtù di un atto pienamente efficace, non rileva nel caso in esame, in cui, com'è stato correttamente affermato dai giudici d'appello, oggetto dell'azione revocatoria è stato il mandato all'incasso (cfr. Cass. 4.4.1997, n. 2936, rv. 503494). 9. Ancora con il terzo motivo, sotto diverso profilo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per aver ritenuto che i pagamenti effettuati in favore della banca mandataria si sottraessero alla compensazione con il credito della banca derivante dalla pregressa esposizione debitoria di C.C.R. in ragione del fatto che si trattava di voci attive e passive relative al medesimo conto, per le quali non poteva parlarsi di compensazione in senso tecnico. Obietta la ricorrente che i singoli versamenti non erano revocabili, oltre che perchè eseguiti in esecuzione del mandato non oggetto di revoca (ma già si è detto che tale tesi non è fondata), perchè i reciproci crediti nascevano da autonomi rapporti sì che era possibile la compensazione. Si è già osservato che, revocato il mandato all'incasso, la ricorrente non aveva titolo a trattenere le somme riscosse. La

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pretesa compensazione avrebbe pertanto dovuto avere riguardo al credito di C.C.R. per la restituzione delle somme indebitamente trattenute in forza del mandato ed al controcredito della banca per i finanziamenti effettuati. A prescindere dal rilievo che il credito restitutorio conseguente all'inefficacia del mandato sorge per effetto della sentenza di revoca, che ha carattere costitutivo, ed è quindi successivo all'apertura della procedura concorsuale, la Corte d'appello ha correttamente sottolineato che tutte queste operazioni sono state regolate sui medesimi conti correnti cui si riferiva l'esposizione debitoria ed ha richiamato la giurisprudenza di questa Corte che ha affermato che "in tema di revocatoria fallimentare di pagamenti, l'accredito, da parte di una banca, in un conto corrente assistito da apertura di credito, di somme rimesse da terzi o provenienti da distinta posizione debitoria dell'istituto di credito, costituisce un'operazione che, salvo patto contrario, s'inserisce nell'ambito dell'unitario complesso rapporto di conto corrente e non realizza un'obbligazione autonoma della banca di rimettere al cliente le somme riscosse, suscettibile di compensazione legale con il saldo passivo, in quanto determina una semplice variazione quantitativa del debito del correntista, la quale può configurare, secondo le circostanze, o un atto ripristinatorio della disponibilità del correntista medesimo, ovvero un atto direttamente solutorio del debito di questi, risultante dal saldo contabile" (Cass. 19.11.2002, n. 126261, rv. 558578; Cass. 23.4.1987, n. 3919, rv. 452773). Anche questa censura pertanto deve essere rigettata. 10. Con ulteriore profilo del terzo motivo di ricorso la ricorrente lamenta che la Corte d'Appello abbia erroneamente e contraddittoriamente qualificato il mandato irrevocabile all'incasso come mezzo anomalo di pagamento, alla stregua dell'art. 67, comma 1, n. 2, L. Fall.. Sostiene la ricorrente che la Corte barese avrebbe ritenuto, in contrasto con la documentazione versata in atti, che la C.C.R. non utilizzasse con frequenza lo strumento del mandato irrevocabile all'incasso. Avrebbe poi ritenuto, senza supporto probatorio, che la concessione di mandati all'incasso a tutte le banche creditrici fosse determinata dalla volontà di evitare le azioni revocatorie. Il ricorso al mandato all'incasso irrevocabile sarebbe normale nella prassi bancaria e sarebbe stato indispensabile per C.C.R. perchè rappresentava l'unico strumento di monetizzazione dei crediti verso Enti Pubblici. La C.C.R. aveva stipulato mandati all'incasso con altri istituti di credito, aveva previsto tale strumento nell'art. 5 delle condizioni generali di conto corrente. Gli stessi commissari, aperta la procedura, avevano stipulato analoghi mandati. La Corte Territoriale si sarebbe lasciata andare, insomma, ad un'affermazione, quella sull'anormalità del mandato all'incasso, non giustificata e frutto di petizione di principio. In proposito va ricordato che la Corte di merito, dopo aver richiamato la giurisprudenza di questa Corte sulla natura di mezzo anomalo di pagamento del mandato all'incasso in funzione solutoria, ha sottolineato che la natura solutoria del mandato emergeva dallo stretto collegamento logico e cronologico tra la revoca degli affidamenti, il rilascio del mandato, l'incasso delle somme versate dalla Regione Puglia e la chiusura dei conti correnti. Si tratta di motivazione adeguata e correttamente motivata. Questa Corte, decidendo altra controversia sempre relativa ai mandati all'incasso rilasciati da C.C.R. ha affermato che "il conferimento di un mandato "in rem propriam" all'incasso di crediti nei confronti di un terzo con l'attribuzione della facoltà di utilizzare le somme incassate per l'estinzione, totale o parziale, di un debito verso il mandatario, benchè non ancora sorto, anche attraverso la compensazione delle rispettive ragioni creditorie, producendo effetti sostanzialmente analoghi alla cessione di crediti ha, oltre che uno scopo di garanzia, soprattutto funzione solutoria, risolvendosi nella precostituzione di un mezzo sicuro di pagamento per il mandatario in ordine ai finanziamenti da effettuare a favore del mandante. Ne consegue che, trattandosi di un mezzo satisfattorio diverso dal danaro ed estraneo alle comuni relazioni commerciali, risulta suscettibile di revocatoria fallimentare ai sensi dell'art. 67, comma 1, n. 2, L. Fall., se pattuito nel biennio sospetto, a nulla rilevando che tale pattuizione sia coeva al sorgere del rapporto (Cass. 16.7.2004, n. 13165, rv. 577218). La Corte d'Appello ha sottolineato che pochi giorni prima del rilascio del mandato all'incasso oggetto di revoca fu comunicata a C.C.R. dalla Banca del Salento la revoca degli affidamenti concessi e fu avanzato l'invito all'immediato rimborso della somma a debito, pari a circa L. 4.270.000.000. Ha rilevato la Corte che non poteva non porsi in immediata correlazione il contenuto della richiesta di rientro con il mandato all'incasso relativo a somma sostanzialmente corrispondente a quella richiesta in restituzione. Ha aggiunto che il mandato era stato rilasciato "nel reciproco interesse", era stata espressamente prevista la sua destinazione sul conto corrente scoperto, onde consentire l'estinzione del debito ed era stata esclusa la corresponsione di qualsiasi corrispettivo alla mandataria, anche per il caso in cui avesse dovuto intraprendere azioni giudiziarie per il recupero delle somme a credito, a dimostrazione che il mandato era pattuito nell'esclusivo interesse della banca creditrice. La Corte d'Appello ha dunque evidenziato con ragionamento logico e stringente come il mandato conferito alla banca avesse chiara finalità solutoria. Le ulteriori circostanze evidenziate dalla ricorrente o assumono carattere accessorio nella motivazione della Corte Territoriale o sono desunte dagli atti del giudizio senza un chiaro riferimento all'atto o documento cui si fa riferimento e senza essere riportate nel ricorso, con evidente violazione del principio di autosufficienza dello stesso. Soprattutto si tratta di argomentazioni e rilievi che non toccano la sostanza della

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motivazione della Corte di merito che ha desunto il carattere solutorio del mandato dalla connessione logica e cronologica tra l'esposizione debitoria accumulatasi, la concessione del mandato e l'estinzione delle passività pregresse. 11. Anche il quarto motivo di ricorso non è fondato. Va premesso che nelle ipotesi di revoca disciplinate dall'art. 67, comma 1, L. Fall. il legislatore pone una presunzione semplice di sussistenza della scientia decoctionis, con la conseguenza che è onere del convenuto in revocatoria provare di non essere stato a conoscenza dello stato d'insolvenza. Spetta dunque al convenuto in revocatoria fornirà la prova della "inscientia decoctionis", dimostrando la insussistenza, al momento dell'atto, di elementi rivelatori dello stato di insolvenza, ovvero la prova della ricorrenza di circostanze tali da indurre una persona di normale prudenza e avvedutezza a ritenere che l'impresa si trovasse in situazione di normale esercizio (cfr. ex multis Cass. 23.4.2002, n. 5917, rv. 553960). La Corte d'Appello ha escluso, con adeguata motivazione, che le circostanze esposte dalla banca ricorrente, secondo la quale esistevano numerosi elementi che potevano far fondatamente ritenere che C.C.R. non si trovasse in stato d'insolvenza, potessero essere idonee a vincere la presunzione di conoscenza dello stato d'insolvenza. Ha osservato la Corte barese che a fronte dei dati di bilancio, del provvedimento adottato il 29.1.1996 dalla Corte d'appello di Bari nei confronti dell'ex amministratore di C.C.R., della concessione nel marzo 1993 di un finanziamento Isveimer per L. 255 miliardi, circostanze invocate dalla banca ricorrente, stava la notorietà delle cattive condizioni di C.C.R. presso gli operatori commerciali e la pubblica opinione a seguito di notizie pubblicate sui giornali, la revoca degli affidamenti da parte di tutti gli istituti bancari, la stessa ragione per cui era stato concesso il mandato all'incasso, per ottenere il rientro della pregressa esposizione, ed il fatto infine che l'ingente finanziamento Isveimer era stato concesso in virtù di fideiussione di Caripuglia non delle condizioni economiche di C.C.R.. Nell'esporre queste circostanze la Corte Territoriale non ha violato l'art. 2729 c.c. come sostiene la ricorrente, ammettendo presunzioni fondate su fatti gravi, precisi e concordanti. La Corte infatti non ha in alcun modo tratto il suo convincimento dalla prova presuntiva. Muovendo infatti dall'inversione dell'onere probatorio dettata dall'art. 67, comma 1, L. Fall. essa ha constatato che i fatti dedotti dalla ricorrente non erano idonei a vincere la presunzione dettata dall'art. 67, senza in alcun modo trarre dal fatto noto la prova del fatto ignoto seguendo il parametro logico indicato dall'art. 2729 c.c. In altri termini non era onere del commissario della procedura di amministrazione straordinaria provare la scientia decoctionis, ma della banca ricorrente provare l'inscentia, prova che la Corte ha ritenuto che non fosse stata data. E' pertanto irrilevante l'affermandone della ricorrente che la concessione del mandato all'incasso e la revoca dei fidi non potevano essere viste come prova della sussistenza della scientia decoctionis. Per il resto la ricorrente insiste su varie circostanze (l'assenza di protesti, esecuzioni, istanze di fallimento) non prese direttamente in considerazione dalla Corte d'appello, contesta talune conclusioni nel merito cui questa è pervenuta (non sarebbe vero che le cattive condizioni economiche di C.C.R. erano state oggetto di articoli sulla stampa), afferma che il finanziamento Isveimer era comunque indice della rilevante capacità di credito di cui avrebbe goduto C.C.R. Si tratta all'evidenza di argomentazioni dirette a proporre una valutazione delle risultanze processuali diversa da quella cui è pervenuto il Giudice di merito, inammissibile in questa sede. 12. Con il quinto motivo di ricorso la banca ricorrente lamenta che la Corte d'appello non abbia pronunciato sull'eccezione proposta in primo grado e riproposta in appello con cui la banca ha sostenuto che, alla data di stipulazione del mandato all'incasso, C.C.R. avrebbe continuato a beneficiare dell'apertura di credito, nonostante l'intervenuta revoca del fido. I versamenti effettuati dalla Regione Puglia alla banca pertanto non sarebbero stati revocabili costituendo rimesse di conto corrente su conto affidato nei limiti dell'affidamento. Anche questo motivo non è fondato. Non sussiste il lamentato vizio di omessa pronuncia. La tesi sostenuta dalla banca presuppone che oggetto dell'azione revocatoria fossero i pagamenti effettuati dalla Regione Puglia sul conto corrente intrattenuto da C.C.R. presso la banca ricorrente. Si è però visto che la Corte di merito ha esattamente ritenuto che oggetto della revoca non fossero i versamenti in parola, ma il mandato all'incasso conferito da C.C.R. alla banca e che l'obbligo di restituire i versamenti derivasse dall'inefficacia a seguito dell'intervenuta revoca del mandato. La Corte di merito, pertanto, nel qualificare l'azione promossa da C.C.R. come diretta alla revoca del mandato all'incasso ex art. 67, comma 1, n. 2, L. Fall. ha ritenuto assorbita ed ha implicitamente rigettato la proposta eccezione. 13. Sussistono giusti motivi, avuto riguardo alla complessità della controversia ed al fatto che il giudizio è stato instaurato quando ancora non si era formato l'orientamento giurisprudenziale contrario alle tesi sostenute dalla ricorrente con riferimento al primo motivo di ricorso, per dichiarare integralmente compensate tra le parti le spese di lite.

P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese di giudizio. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 14 dicembre 2005. Depositato in Cancelleria il 24 febbraio 2006