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1 ELEMENTI DI SOCIOLOGIA, PSICOLOGIA DELL'UTENZA E PATOLOGIE COMUNICATIVE DISPENSA a cura di Rosalia Olivieri Definizioni di modello 1. Termine di riferimento ritenuto valido come esempio o prototipo e degno d'imitazione; cosa o persona assunta come soggetto per un ritratto, un disegno, una costruzione ecc. @ esempio, esemplare, campione: seguire il m.; un m. da imitare; un nuovo m. di sviluppo; un m. di bontà. MODELLI E SERVIZIO SOCIALE: modelli teorici quali schemi teorico-orientativi per: 3.1. l’esplorazione della realtà 3.2. la ricerca di relazione tra dati 3.3. la pratica (conoscere per orientare l’operatività) 2.3 Variabili considerate nei modelli del servizio sociale 1. chi ha il problema/chi è l’utente 2. cos’è il bisogno/problema 3. cause del problema 4. area d’azione del servizio sociale 5. livelli a cui opera il servizio sociale 6. chi e con chi opera l’assistente sociale 7. obiettivi 8. risorse 9. fasi 10. mezzi (attraverso cui opera l’ass.soc)

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ELEMENTI DI SOCIOLOGIA, PSICOLOGIA DELL'UTENZA E

PATOLOGIE COMUNICATIVE

DISPENSA a cura di Rosalia Olivieri

Definizioni di modello

1. Termine di riferimento ritenuto valido come esempio o prototipo e degno d'imitazione; cosa o

persona assunta come soggetto per un ritratto, un disegno, una costruzione ecc. @ esempio,

esemplare, campione: seguire il m.; un m. da imitare; un nuovo m. di sviluppo; un m. di bontà.

MODELLI E SERVIZIO SOCIALE: modelli teorici quali schemi teorico-orientativi per:

3.1. l’esplorazione della realtà

3.2. la ricerca di relazione tra dati

3.3. la pratica (conoscere per orientare l’operatività)

2.3 Variabili considerate nei modelli del servizio sociale

1. chi ha il problema/chi è l’utente

2. cos’è il bisogno/problema

3. cause del problema

4. area d’azione del servizio sociale

5. livelli a cui opera il servizio sociale

6. chi e con chi opera l’assistente sociale

7. obiettivi

8. risorse

9. fasi

10. mezzi (attraverso cui opera l’ass.soc)

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MODELLO PSICO-SOCIALE (Hollis 1964)

1. fonti teoriche in filone scuola “diagnostica” (studio – diagnosi – trattamento) influenzato da

neofreudiani

(A. Freud, Erickson) e psicologia umanistica; riferimenti Hollis a teoria dei sistemi

2. chi ha il problema/chi è l’utente individuo

3. cos’è il bisogno/

4. problema - bisogno = “manifestazione di un problema di adattamento sociale, discrepanza nel

reciproco adattamento tra l’individuo e le altre persone a cui è legato” (ovvero risposta inadeguata a

pressioni ambientali conseguente disfunzioni nel processo di adattamento e integrazione fra

l’individuo e la sua situazione sociale)

5. cause del problema Cause pregresse, spesso risalenti all’infanzia (teorie psicanalitiche)

6. livelli a cui opera il serv.soc.

Trattamento diretto (utente)* e indiretto (ambiente) mediazione, chiarificazione, informazione,

influenza su persone significative

7. con chi opera l’ass.soc.: Individui

8. obiettivi • “cambiamento nell’individuo/i o nella situazione o in entrambi”

• Riflessione sugli aspetti dinamici ed evolutivi dei propri modelli comportamentali +

Cura percezioni distorte di sé e delle situazioni insight (presa di coscienza configurazione

individuo-situazione aiuto a comprensione propri pensieri ed emozioni)

9. fasi 1. f. iniziale (capire ragioni 1° contatto, stabilire rapporto, impegnare utente nel trattamento,

inizio trattamento, studio psicosociale)

2. valutazione dell’utente nella sua situazione (programmazione obiettivi e trattamento)

10. mezzi (attraverso cui opera ass.soc.): Comunicazione (sostegno, influenza diretta, catarsi,

esplorazione, comunicazione riflessiva)*

• esplorazione continua

• verbalizzazione in accettazione

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• considerazione riflessiva su complesso individuo-situazione

• sostegno verbale

• comunicazione di tipo direttivo

11. efficacia : Settore medico e psichiatrico

PSICOLOGIA DEL CICLO DI VITA

''Arco di vita'', ''corso di vita'' e ''ciclo di vita'' sono espressioni centrali nel recente dibattito intorno

alla natura e alle caratteristiche dello sviluppo psicosociale dell'uomo, e vengono a volte usate in

modo intercambiabile. ''Arco di vita'' e ''corso di vita'' sono principalmente impiegate dalla

psicologia dello sviluppo la prima, e dalla sociologia la seconda, come metafore di evoluzione della

vita individuale, mentre l'espressione ''ciclo di vita'' viene usata per indicare l'evolvere nel tempo sia

dell'individuo che della famiglia. In psicologia, questi concetti confluiscono nell'approccio definito

life-span psychology.

I tratti costitutivi della prospettiva life-span sono (Baltes e Reese 1984; Baltes 1987) i seguenti:

l'estensione dello sviluppo ontogenetico a tutta la vita, e non più relegato agli anni dell'infanzia o ad

altre fasce di età; l'esistenza di una notevole variabilità individuale a proposito degli schemi di

evoluzione e cambiamento; l'elevata complessità del processo di sviluppo che trova la propria

formalizzazione non tanto e non più in termini di crescita-maturità-declino, bensì in

un'organizzazione flessibile di fasi o stadi. Secondo questa impostazione, ciascuna fase è

caratterizzata da momenti di crescita e di declino, intesi come processi congiunti, lo sviluppo

psicologico è co-determinato da fattori interni, familiari, ambientali, e assume forme diverse in

funzione delle varie condizioni di vita storiche, sociali, culturali. Ne deriva pertanto l'esigenza di un

approccio interdisciplinare di ricerca in cui vengono privilegiati gli aspetti processuali e di reciproca

interazione delle variabili in gioco. Così, per es., la psicologia dello sviluppo pone attenzione ai

processi evolutivi entro il quadro emotivo-cognitivo e relazionale del soggetto, mentre la sociologia

li colloca nella coorte di appartenenza, anello di congiunzione tra individuo e società, e la

psicologia sociale della famiglia ne studia il plurimo intrecciarsi all'interno delle dinamiche del

gruppo familiare. In questa prospettiva di studio, lo sviluppo è scandito in più fasi evolutive di cui

alcuni autori sottolineano specie gli aspetti di continuità tra l'una e l'altra, mentre altri ne

evidenziano gli elementi di discontinuità. Nel primo caso si privilegiano i fattori maturativi e intra-

individuali, nel secondo si enfatizza l'incidenza delle cause prossimali sul cambiamento e sullo

sviluppo.

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Tra i modelli classici fondati sul concetto di ciclo di vita vanno ricordati quelli di E. Erikson (1951)

e di D. Levinson (1978). Il modello eriksoniano coniuga in modo originale la prospettiva clinica

con quella sociale e si presta perciò all'integrazione di contributi provenienti dall'antropologia, dalla

sociologia e dalla storia. Secondo questo autore, gli stadi del ciclo individuale − primi anni di vita,

prima infanzia, età dei giochi, età scolare, adolescenza, giovinezza, maturità, vecchiaia − sono

caratterizzati da specifiche crisi psico-sociali, veri e propri propulsori e organizzatori della dinamica

evolutiva: infatti, esse sono determinate dalla risoluzione, più o meno adattativa, dell'antagonismo

delle due forze (definite anche qualità) predominanti in quello stadio evolutivo. Così, il primo stadio

della vita umana è caratterizzato dal conflitto tra la fiducia e la sfiducia di base, mentre crescendo il

bambino si trova ad affrontare tematiche centrate sulle polarizzazioni di autonomia e vergogna;

iniziativa e colpa; industriosità e inferiorità. Se supera questi primi conflitti, il bambino,

accompagnato da sentimenti di fiducia, stima di sé e delle proprie capacità, può affrontare la crisi

adolescenziale, al bivio tra identità e confusione d'identità. Le crisi centrali dell'età adulta si giocano

tra capacità d'intimità e pericolo dell'isolamento, e tra capacità di generatività - intesa in senso lato

come tendenza a generare prodotti e idee − e rischio della preoccupazione esclusiva di sé o stasi.

L'età adulta, anello di congiunzione dell'individuo con la generazione passata e quella futura, è così

momento decisivo di trasmissione storica. Una persona è adulta, infatti, quando "è pronta ad

investire le proprie energie per il mantenimento del mondo nello spazio e nel tempo storico". La

vecchiaia, infine, è vissuta sui temi dell'integrità in opposizione alla disperazione.

Interessante è l'apertura del modello eriksoniano alla dimensione sociale, soprattutto in termini

intergenerazionali e storici. Infatti, qualsiasi realizzazione del ciclo di vita individuale s'inserisce nel

"ciclo corrente delle generazioni", il quale è, a sua volta, d'importanza vitale per il mantenimento

delle strutture sociali in evoluzione. A tal proposito, Erikson riprende la considerazione già di S.

Freud (1912-14), secondo cui "l'individuo conduce una doppia vita, come fine a se stesso e come

anello di una catena di cui è strumento contro o comunque indipendentemente dal suo volere". Tale

potenziale apertura del concetto di ciclo di vita alla dimensione sociale emergerà, come vedremo,

nell'interesse per le concettualizzazioni sul ciclo di vita familiare.

Prendendo le mosse da Erikson, anche Levinson ha studiato le fasi della vita, occupandosi in

particolare della vita adulta. Nel suo schema, la struttura di vita evolve secondo una sequenza

relativamente ordinata. Tale struttura consiste in una serie di periodi di stabilità −dedicati alla sua

costruzione − alternati a periodi di transizione, durante i quali essa muta. Quando i compiti evolutivi

che caratterizzano una determinata fase vengono affrontati adeguatamente, allora si perviene a una

struttura ''soddisfacente'', vale a dire appropriata all'individuo e vivibile nel contesto sociale in cui

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egli è collocato, anche se non priva di qualche elemento di disordine e di frammentazione, elementi

che, con il tempo, innescheranno ulteriori cambiamenti.

Levinson sottolinea il fatto che i compiti evolutivi consistono essenzialmente nell'operare delle

scelte, nell'attuarle e nell'accettarne le conseguenze, tenendo conto del passato, del presente e del

futuro di un individuo, ma anche del mondo che lo circonda. In questo senso, le scelte vengono a

essere la componente principale della struttura di vita. Durante i periodi di stabilità, che possono

durare da sei a dieci anni al massimo, un individuo cerca di creare una struttura soddisfacente per

lui, conformemente alle scelte-chiave fatte nel periodo di transizione. Dopo alcuni anni, tuttavia,

questa struttura comincia a dar segni d'instabilità, mostrando così che è venuto il momento di

modificarla, in tutto o in parte. Si entra, in questo modo, in un nuovo periodo di transizione, che può

durare anche quattro o cinque anni, e che mette fine alla struttura di vita esistente ponendo le basi

per una nuova. Levinson distingue così, nell'età adulta, una prima transizione che va dall'età pre-

adulta alla prima età adulta (17÷22 anni), la prima struttura di vita adulta (22÷28 anni), la

transizione dei trent'anni (28÷33 anni), la seconda struttura di vita adulta (30÷40 anni), la

transizione della metà della vita (40÷45 anni), la media vita adulta (45÷50 anni) e così di seguito.

L'ambito nel quale è stato ravvisato il primo passaggio dall'accezione individuale del ciclo di vita a

quella sociale è il nucleo familiare, in quanto contesto primario d'apprendimento e luogo di quella

''trattativa'' che, in qualità d'impresa congiunta tra genitori e figli e altre generazioni contigue, si

deve ingaggiare costantemente per affermare la propria identità. Il concetto di ciclo di vita della

famiglia, di derivazione sociologica, compare in psicologia negli anni Settanta ad opera di J. Haley,

e sottolinea la stretta interdipendenza dei vari cicli vitali individuali dei componenti una famiglia.

Da allora, il concetto ha subito modificazioni e approfondimenti, sia per quanto riguarda le fasi in

cui viene scandito, sia soprattutto nei termini di una sua sempre maggior emancipazione dall'area

sociologica, verso un'identità psico-sociale meglio definita e spesso supportata dall'applicazione

clinica. In particolare, Haley (1973) focalizza l'attenzione sulle crisi di transizione da una fase

all'altra del ciclo vitale familiare e legge l'emergere del sintomo nella generazione dei figli come

una difficoltà della famiglia nel superare la fase di sviluppo.

Recentemente, E. Carter e M. McGoldrick (1986; Carter, Heiman, McGoldrick 1993) ed E. Scabini

(1985) hanno elaborato modelli più sistematici del funzionamento familiare nelle varie fasi del suo

ciclo vitale. Carter e McGoldrick presentano un modello organizzato intorno al concetto di ciclo

vitale della famiglia concepito in termini di connessioni intergenerazionali. Il movimento della

famiglia lungo il proprio ciclo di vita non è certo lineare, essendo soggetto ad avanzate e arresti

continui: da questo fatto deriva la necessità di tener conto delle difficoltà sollevate dall'incrocio di

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desideri, aspettative e movimenti delle tre, o a volte quattro, generazioni che vivono

contemporaneamente.

Le autrici suddividono il ciclo di vita della famiglia in sei stadi: il giovane adulto tra due famiglie,

la giovane coppia, la famiglia con bambini piccoli, la famiglia con adolescenti, la famiglia

''trampolino di lancio'' per i figli, la famiglia in tarda età. Per ogni stadio, vengono individuati i

processi di transizione e i mutamenti di secondo ordine, cioè i cambiamenti più profondi e

strutturali, indispensabili affinché il nucleo proceda adeguatamente verso la fase successiva.

Per es., i cambiamenti di secondo ordine richiesti dalle autrici per attuare la transizione dalla fase

della giovane coppia a quella della famiglia con figli piccoli prevedono: a) la modificazione del

sistema coniugale per ''far spazio'' al bambino; b) l'assunzione dei ruoli genitoriali; c) il

riadattamento delle relazioni nell'ambito delle famiglie estese per includervi i ruoli di genitori e di

nonni. Pertanto, il principale processo sotteso alle dinamiche familiari e che richiede una costante

negoziazione tra i componenti è l'espansione-contrazione-riallineamento del sistema di relazioni, al

fine di favorire l'ingresso, lo sviluppo e l'uscita dei membri della famiglia.

Il modello di Carter e McGoldrick si completa poi con l'esplorazione dei problemi che il divorzio ed

eventuali matrimoni successivi comportano in relazione al ciclo di vita. Un certo spazio è dedicato

anche al ciclo di vita della famiglia povera, a quella appartenente a diversa tradizione, cultura e

religione o a gruppi etnici differenti da quello per il quale è stato pensato il modello.

Scabini (1985) focalizza l'attenzione sull'identità organizzativa della famiglia che viene definita

come un'organizzazione complessa di relazioni di parentela che ha una storia e che crea storia.

L'identità organizzativa della famiglia viene analizzata nei suoi aspetti sia di struttura che di

processo. Tra i primi, gli elementi basilari sono l'ampiezza e i ruoli, e le caratteristiche dei legami.

Essi, dal punto di vista schiettamente psicologico, si presentano come fortemente vincolati,

gerarchicamente strutturati e definiti da diverse modalità di ''attaccamento'' e da vincoli di ''lealtà''

tra le generazioni. Il tempo è una componente fondamentale della famiglia, che, in quanto gruppo

con storia, ha sempre un passato, un presente e una prospettiva futura. Ogni famiglia di nuova

costituzione si colloca infatti all'intersezione di due storie familiari che affondano le radici in un

complesso albero genealogico e, d'altra parte, ogni nucleo familiare si proietta nel futuro che

riempie di aspettative e programmi secondo uno scadenzario in gran parte socialmente normato.

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Le fasi del ciclo di vita sono definite a partire dagli eventi critici prevedibili (nascita dei figli,

adolescenza, pensionamento) e imprevedibili (malattia, problemi economici, ecc.). Essi sono

induttori di crisi e innescano le transizioni da una fase del ciclo vitale della famiglia a quella

successiva; di conseguenza, impongono al nucleo dei compiti di sviluppo tipici, il cui obiettivo

comune è comunque la costituzione e lo sviluppo del tipo di relazione adeguato alla specifica fase

del ciclo vitale familiare.

La natura dello sviluppo familiare risulta quindi peculiare, in quanto procede per successivi

superamenti di crisi, attraverso un costante processo di riaggiustamento, riorganizzazione, momenti

di morfostasi e di morfogenesi. Tra gli aspetti processuali, relativi al funzionamento del sistema

familiare, Scabini sottolinea la regolazione delle distanze, che concerne il tipo di legame e il

dinamismo dei ruoli; le distanze, a cui ogni fase del ciclo impone modificazioni e riadattamenti,

sono quelle interpersonali, quelle della famiglia in rapporto all'ambiente esterno e quelle

intergenerazionali. A un meta-livello, invece, si pone la specifica abilità familiare, definita

sensibilità, di cogliere e rispondere con prontezza, flessibilità e pertinenza, a esigenze e mutamenti

che si presentano sia sul versante dei compiti di sviluppo che su quello del contesto ambientale.

In conclusione, il concetto di ciclo di vita individuale o familiare risponde all'esigenza, diffusasi

recentemente nelle scienze sociali e umane, di dedicare maggior attenzione ai processi che non ai

risultati, alle indagini longitudinali piuttosto che esclusivamente a quelle trasversali, nel

riconoscimento della complessità delle variabili che concorrono a definire lo sviluppo dell'uomo e

dei sistemi umani.

L'invecchiamento fisico

L'aumento della popolazione anziana rappresenta un fenomeno importante della nostra società.

Rispetto al passato non è variata la durata massima della vita umana, ma quello che si è modificato

drasticamente è la percentuale degli individui che raggiungono l'età avanzata. Il numero di anziani

in Italia di età compresa fra i 65 e 74 anni è 8 volte maggiore rispetto l'inizio del secolo scorso,

mentre gli anziani con età superiore a 85 anni sono aumentati di oltre 24 volte. A conferma di ciò

studi compiuti in America, sempre nel secolo scorso, stimavano che solo il 2% della popolazione

superasse i 65 anni, mentre attualmente la percentuale è dell'11%, e questa percentuale è destinata

ad aumentare. Gli anziani sono sempre più numerosi e raggiungono la vecchiaia in migliori

condizioni di salute, merito del progresso sia delle conoscenze scientifiche (riduzione della

mortalità per malattie infettive) che delle condizioni socio-economiche (miglioramento dell'igiene e

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dell'alimentazione). L'aumento della popolazione anziana ha determinato la nascita di nuove

discipline:

Glossario

la geriatria (dal greco geros=vecchio, iatros=medico): branca della medicina che si occupa non solo

della prevenzione e del trattamento delle patologie dell'anziano, ma anche dell'assistenza

psicologica, ambientale e socio-economica.

la gerontologia : scienza che studia le modificazioni derivanti dall'invecchiamento.

la geragogia : scienza che studia tutte le possibilità per invecchiare bene.

Esiste tutt'oggi difficoltà a stabilire l'inizio del processo di invecchiamento, processo caratterizzato

dall'aumento dei processi distruttivi su quelli costruttivi a carico del nostro organismo.

Si usa comunemente considerare le seguenti fasce di età:

età di mezzo o presenile 45-65 anni : gli eventi biologici caratteristici sono la menopausa per la

donna e l'andropausa per l'uomo, importanti per le modificazioni bio-umorali (aumento dei grassi

nel sangue, della glicemia, predisposizione all'ipertensione arteriosa).

senescenza graduale, 65-75 anni : comunemente si indica l'età corrispondente all'inizio della

vecchiaia a 65 anni.

senescenza conclamata, 75-90 anni : in passato individui di età superiore ai 65 anni mostravano

riduzione dell' efficienza psicofisica, ai giorni nostri si assiste alla comparsa di

ultrasessantacinquenni efficienti, e si può ridefinire anziano l'ultrasettantacinquenne. In questo

periodo le malattie che insorgono tendono a cronicizzarsi ed a determinare interventi assistenziali

sociali e riabilitativi.

Biologicamente si assiste ad una generale riduzione del numero delle cellule (atrofia) ed una

diminuzione dell'efficienza funzionale, accompagnata da modificazioni organiche e predisposizione

ad una serie di disturbi.

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FATTORI INDIVIDUALI E AMBIENTALI DELL’INVECCHIAMENTO

L'invecchiamento psichico

La psicologia dell'invecchiamento si occupa dell'anziano nella sua globalità: analogamente ad ogni

fase della vita umana non si può prescindere dall'importanza della componente affettiva che

determina la modalità di risposta agli eventi della vita.

Si è visto che la vecchiaia è caratterizzata da modificazioni in senso peggiorativo, ma si può

affermare che non esiste un parallelismo fra le modificazioni delle funzioni in individui diversi

(eterocronia dal greco eteros=diverso e cronos=tempo).

La modalità di invecchiamento non può prescindere dalla personalità e dalle esperienze, la

vecchiaia rappresenta la sintesi del significato dell'esistenza: è nella vecchiaia che si può

raggiungere la saggezza.

Già nell'antichità si riteneva che la vecchiaia fosse sempre accompagnata da deterioramento

mentale permanente, in particolare dal declino patologico delle capacità intellettuali e dell'adeguato

controllo dell'emotività (demenza). Leggendo S. Antonio da Padova si trova il termine senescere

inteso come perdere la cognizione di sé, mentre personaggi come Cicerone (nel De Senectute),

Catone e Seneca parlando di vecchiaia mostrano una visione più positiva: la vecchiaia non è solo un

processo necessariamente legato al decadimento globale dell'organismo umano. In particolare

Catone e Cicerone sottolineavano l'importanza di coltivare molti interessi, fonte di frutti

meravigliosi.

Recenti ricerche hanno evidenziato la possibilità di sviluppare situazioni creative proprio nella

vecchiaia ; studi condotti con modalità diverse hanno dato risultati diversi rispetto al passato:

l'anziano può mantenere la sua efficienza psichica globale se sfrutta le risorse residue, ad esempio

mediante l'allenamento mentale, e se motivato.

Studi anatomo-patologici sul cervello mostrarono che nell'invecchiamento si ha una sclerosi

progressiva. Eppure esistono dei casi in cui non sono presenti modificazioni cerebrali. Ciò a

conferma della variabilità del processo di invecchiamento (eterocronia) fra gli individui.

Attualmente si ritiene possibile un recupero delle funzioni cerebrali (fenomeno detto sinaptogenesi).

Le numerose scale di invecchiamento, dal 1950 in poi, dimostrarono che con l'avanzare dell'età

diminuiscono funzioni quali la memoria e la capacità di concentramento, frequentemente

compaiono alterazioni dello stato emozionale, come avviene nella depressione. Attualmente si è

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dimostrato che l'anziano è più lento, riflessivo, ma non meno efficiente: i test utilizzati in passato

erano caratterizzati da tempi brevi di risposta, ecco che l'anziano non aveva il tempo di risolvere i

problemi sottoposti. La biografia di personaggi illustri mostra individui con conservata funzionalità

cerebrale anche nella senescenza, anzi molte opere di scrittori, filosofi, artisti, compiute alla fine

dell'esistenza, rappresentano il coronamento di tutti i lavori precedenti.

Da notare anche la diversità dei risultati ottenuti da studi trasversali, in cui si confrontano individui

di diverse età, e studi longitudinali, in cui si controlla un campione di individui per un lungo

periodo di tempo. E' intuitivo comprendere come lo studio longitudinale sia particolarmente

difficile da portare a termine, sia per l'intervallo di tempo sia per la graduale perdita o rinuncia dei

soggetti campione. Gli studi longitudinali confermano che non è la senescenza la condizione

patologica, piuttosto sono gli eventi morbosi a creare le condizioni del rapido declino psicofisico.

Ma quali sono i fattori che influenzano i processi di invecchiamento?

Fattori genetici , anche il sesso può essere un fattore predisponente (il maschio invecchia più

precocemente).

Educazione e livello culturale che consentono di trovare più facilmente delle alternative di vita alla

pensione, di creare delle strategie di sopravvivenza.

Benessere economico

Interazione e comunicazione

Comparsa di malattie invalidanti : l'anziano vive come intrinseca la sua malattia, il suo vissuto è che

la malattia appartenga al suo destino.

Stile personale di vita , cioè subire o vivere la vita.

Appartenenza ad un nucleo socio-familiare, cioè il gruppo, mediante atteggiamenti di conferma o

svalutativi, evidenzia gli aspetti positivi e negativi della condizione di vecchiaia.

Eventi drammatici: ad esempio la scomparsa di figure di riferimento.

Sradicamento dal proprio luogo di origine.

E' evidente l'importanza dei fattori sociali.

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La percezione è la capacità di raccogliere le informazioni esterne attraverso i canali sensoriali. E'

quindi legata a due fattori: l'integrazione delle informazioni che avviene a livello del sistema

nervoso centrale e l'assimilazione legata al sensi (sistema nervoso periferico). La vista e l'udito sono

spesso ridotte e influenzano negativamente la capacità percettiva. Sulla base del principio di

costanza percettiva, che dice che la percezione si mantiene costante nel processo di invecchiamento,

il cervello cerca di compensare la difficoltà percettiva legata ad una perdita sensoriale stimolando i

sensi rimasti integri (principio di conservazione). Con l'avanzare degli anni si affina la capacità di

rispondere alla diminuzione di alcune funzioni psicofisiche utilizzando le conoscenze e le

esperienze apprese nella vita. E' stato dimostrato che l'attività percettiva migliora se migliorano le

condizioni in cui si svolge la stessa: l'ambiente esterno (la società, ma soprattutto il gruppo

familiare) può stimolare l'interesse, dare spazio di espressione, non negare le possibili potenzialità

dell'anziano.

La comunicazione , e quindi le relazioni interpersonali che permettono una vita sociale, dipendono

dalla possibilità di percezione.

Altro elemento fondamentale è la motivazione . La motivazione, in tutte le età, è la spinta

propulsiva fondamentale del comportamento, insostituibile strumento di apprendimento. Persino

l'utilizzo del computer, strumento estraneo alla cultura dell'anziano, può essere appreso qualora

l'anziano sia motivato a farlo.

Il pensiero e il linguaggio possono essere conservati, ma per mantenere l'interazione con l'ambiente

esterno, l'anziano deve essere in grado di comunicare. Perché ciò avvenga non si può prescindere

dall'importanza dell'affettività , del riconoscimento del suo valore all'interno del nucleo sociale in

cui vive. Gli affetti giocano un ruolo essenziale nell'agire quotidiano, nell'essere al mondo.

La depressione, espressione di profondo disagio, sofferenza psicologica più frequente nell'età

senile, comporta la rinuncia alla vita: l'aspettativa di vita è statisticamente limitata, la società invia

messaggi di inutilità, si comprende come la volontà di vita dell'anziano per essere mantenuta

necessita dell'affetto dei propri cari che affermano l'importanza della sua esistenza.

La sessualità dal punto di vista psicologico si può conservare fino ad età avanzata, ma questo è vero

anche dal punto di vista fisiologico.

Ebbene, l'esercizio sessuale è fondamentale, come l'esercizio di qualsiasi altra funzione organica ;

tuttavia appare ancora diffuso il pregiudizio culturale che considera la sessualità in età senile come

indecorosa, come se l'anziano non potesse sentire e vivere le proprie emozioni.

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Creativita': per invecchiare senza sviluppare demenza (vedi sopra) è necessario che l'anziano

mantenga attive le funzioni cerebrali. Per creatività si intende l'espressione di sé stesso, le cui

modalità di esecuzione sono vastissime.

Un esempio storico eclatante è Sofocle che morì a 80 anni: Iofone, figlio legittimo, per avere

l'eredità prima della sua morte lo portò in tribunale dichiarandone l'infermità di mente. Ebbene

Sofocle diede esempio di grande creatività quando, per mostrare la sua lucidità, recitò a memoria

dei versi.

Ancora, si pensi a Giuseppe Verdi, Alessandro Manzoni, che nella vecchiaia produssero le loro

opere migliori, Monet, Picasso, Goja, Rembrandt, Charlie Chaplin. Nel mondo dell'arte è facile

trovare vecchi creativi.

La creatività è caratteristica del mondo evolutivo del bambino. E' fondamentale per la sua crescita.

Ma la creatività diminuisce sempre di più in un società ratiomorfa, come la nostra, che privilegia la

forma, il pensare secondo una logica comune, non il differenziarsi.

Nell'età senile la funzione della creatività si può manifestare nelle piccole azioni quotidiane , come

ad esempio nella creazione di pietanze originali. Questo può valere in diverse condizioni di

aggregazione: all'interno della coppia, del gruppo, ma anche individuale. Al riguardo molto

interessanti sono le iniziative culturali della università della terza età. Lo specialista psicologo può

rappresentare un valido aiuto per l'anziano nel riconoscere e svelare le potenzialità creative. Qualora

vengano evidenziate le capacità creative, la qualità della vita migliorerà radicalmente.

Molto stimolante è il rapporto nonno-nipote . Esiste spesso la difficoltà di esprimersi dei bambini

con i propri genitori impegnati a lavorare; la relazione fra nonno e nipote faciliterà la possibilità di

espressione di entrambi: il nonno è un interlocutore che interagisce raccontando eventi del passato

modificati per facilitarne la comprensione, rendendoli più piacevoli con un pizzico di invenzione. Il

racconto di eventi passati diventa strumento per stimolare la funzione creativa. L'interazione nonno-

nipote diventa un elemento utile ad entrambi. Relegare gli anziano non rappresenta una soluzione

utile.

Le soluzioni per il futuro degli anziani dovrebbero essere concordate e scelte in chiave positiva,

evidenziando cioè le qualità residue utili al fine di esprimere se stessi. L'anziano dovrebbe essere

sempre posto nelle condizioni di sviluppare la creatività, tramite fatti-azioni concreti.

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Speranze e timori

Il timore più grande per l'anziano non è la morte, che magari rifiuta inconsapevolmente, piuttosto la

malattia, l'abbandono, il disprezzo delle persone con cui ha sempre vissuto, il rifiuto da parte del

suo nucleo familiare. Le soluzioni di ieri non sono più attuali, le scoperte scientifiche allungano

sempre più la durata della vita. Nei paesi industrializzati la popolazione anziana rappresenta sempre

più una percentuale importante: è indispensabile che la longevità sia caratterizzata da anni di salute

e non di malattia, invalidità e indipendenza. Bisogna considerare tre aspetti, intimamente collegati

fra di loro:

Preventivo: una buona prevenzione ha il compito di proteggere e mantenere le risorse psicofisiche,

quindi di ridurre le necessità di trattamento (prevenzione medica) e di riabilitazione. E' necessario

stimolare i rapporti con l'esterno, insegnare la geragogia, inserire nel mondo del lavoro la possibilità

di avere l'età di pensionamento flessibile, stimolare il volontariato, non solo verso coetanei della

terza età, ma anche utilizzando l'esperienza dell'anziano utili per l'inserimento dei giovani nel

mondo del lavoro (esperienza già svolta con successo da 5 anni ad Ivrea). Si potrà allora affermare

che invecchiare è un crescere ancora, un recuperare la propria espressione.

Terapeutico: l'anziano presenta spesso la compromissione di più organi, la cui terapia consiste

nella somministrazione di più farmaci. Diversi studi hanno evidenziato un abuso farmacologico, in

particolare di psicofarmaci: analogamente ai bambini irrequieti, agli anziani depressi vengono

somministrati sostanze farmacologiche. Attualmente si è mostrata efficace associare (o sostituire,

quando possibile alla terapia con psicofarmaci) la psicoterapia sistemica , che aiuta a creare forme

di strategie comportamentali più adatte ai bisogni individuali: la depressione è la reazione ad una

situazione che appare senza via di uscita, ed esistono tecniche che vengono proposte per riportare

l'anziano ad una realtà che può ancora arricchire.

Riabilitativo: le strutture di riabilitazione svolgono un ruolo importante nel ridurre i tempi di

degenza nei reparti ospedaliero con sollievo per il paziente anziano e contenimento dei costi per la

sanità. Ogni volta che un anziano si ammala e viene ricoverato si mette a dura prova il suo fragile

equilibrio . L'allontanamento dalle mura domestiche gli fa perdere il senso e i confini della realtà, il

ricovero appare come un evento drammatico che può comportare la morte. Gli anziani che

necessitano di un intervento riabilitativo dopo la fase acuta di una malattia possono venire seguiti a

livello extraospedaliero mediante il servizio dell'Assistenza Domiciliare Integrata ; nel caso di grave

compromissione psicofisica negli istituti di lungodegenza riabilitativa e nelle residenze sanitarie

assistenziali.

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I DISTURBI COGNITIVI

I DISTURBI COGNITIVI sono tutte le alterazioni o disfunzioni nelle funzioni cognitive di cui si

occupa il neuropsicologo.

Le funzioni cognitive sono: attenzione, memoria, percezione, ragionamento.

Vediamo brevemente le funzioni cognitive di base:

attenzione è la funzione che permette di isolare le informazioni pertinenti e rilevanti rispetto a un

problema da risolvere o a un contesto, considerando le infinite informazioni in arrivo sia da dentro

sia da fuori di noi;

memoria è la funzione che riceve dai sistemi di apprendimento, ordina e archivia, recupera, ogni

tipologia di informazione;

percezione è la funzione che elabora gli stimoli interni e esterni che arrivano dai canali sensoriali;

ragionamento è la funzione responsabile dei processi logici, tra cui importantissimo è il linguaggio.

Da queste funzioni basiche derivano le funzioni cognitive complesse:

orientamento nello spazio, nel tempo, nelle relazioni con sè e con gli altri;

linguaggio come competenza di gestire sistemi logici e simbolici;

abilità prassiche sia come pianificazione, sia come esecuzione di prodotti finiti;

funzioni esecutive che supervisionano tutte le funzioni cognitive dei livelli inferiori, e che, qualora

danneggiate, causano gravi disturbi della intenzionalità;

intelligenza è in realtà molte intelligenze ovvero molte funzioni che risolvono problemi complessi.

Il Q.I. è una misura dell’intelligenza scolastica, e non una misura delle intelligenze artistiche e

tecniche.

Data questa definizione, è chiaro che i disturbi cognitivi sono:

[partendo dalle prime età del ciclo di vita per arrivare infine alla terza & quarta età]

l’autismo, i disturbi specifici dell’apprendimento (es. dislessia), il disturbo da deficit di attenzione e

iperattività, le sequele di incidenti stradali o lavorativi, i comportamenti associati alla dipendenza da

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sostanze o dal gioco d’azzardo, le pseudodemenze a base depressiva, le demenze nelle loro varie

tipologie.

Un interessante caso di disturbo cognitivo – generalmente non considerato tale – è la falsa

testimonianza inconsapevole, che interessa: attenzione, memoria, percezione, ragionamento. Oltre

2.000 studi scientifici (dato del 2013) hanno dimostrato che i resoconti e le identificazioni dei

testimoni oculari sono falsi per un terzo del totale esaminato. Il ricordo e la testimonianza sono

perciò temi delicatissimi in psicoterapia, dove può accadere che il paziente creda vere situazioni

traumatiche che possono benissimo non essere mai accadute. E nel caso di consulenze / perizie

giuridiche è altrettanto importante che lo psicologo sappia valutare i rischi di una falsa

testimonianza inconsapevole ma convincente, dato che la memoria umana è suggestionabile in base

a criteri ben noti alla psicologia cognitiva.

TEORIA DEL DISIMPEGNO E DELL’ATTIVITA’

Chi è l'anziano.

L'anziano è la sua storia,

l'anziano e la sua storia

Premessa

Il presente lavoro si inserisce nel più generale impegno del Cesvol di fornire ai volontari che

operano nei vari ambiti della solidarietà strumenti e competenze per migliorare efficacemente la

propria azione solidale.

"Chi è l'anziano. L'anziano è la sua storia, l'anziano e la sua storia" è il titolo di un interessante

modulo formativo affidato al Dr. Giuseppe Lofrumento all'interno un corso rivolto a volontari

impegnati con gli anziani, realizzato a Bastia nel 2003 in collaborazione con l'Associazione di

volontariato la Zattera.

La spinta a realizzare questo tipo di formazione parte dalla constatazione unanimemente condivisa

che esistono particolari settori di intervento dell'associazionismo (dalla tossicodipendenza fino alla

disabilità ma anche l'infanzia) per i quali non è sufficiente "avere" voglia di fare volontariato, di

dedicare parte del proprio tempo libero a chi vive situazioni di disagio. L'esperienza positiva dei

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gruppi di auto mutuo aiuto, che stanno praticamente proliferando in vari settori (dall'alcol alla

depressione) dimostra che per essere utili a qualcuno è necessario mettersi nei suoi panni. Questi

corsi si pongono proprio l'obiettivo di contestualizzare, definire e caratterizzare al massimo tutti gli

aspetti, i problemi, i conflitti, etc. che fanno parte di un determinato contesto di disagio, al fine di

conoscerli ed affrontarli nel migliore nei modi e, soprattutto, senza traumi per il destinatario finale

(per il disabile o l'anziano non autosufficiente).

Considerato che è compito del centro servizi operare proprio in questa direzione, i corsi di

formazione per figure di volontari rispondono alle seguenti finalità:

• fornire proposte qualificate ed adeguate di formazione rivolte al volontario

• valorizzare la cosiddette buone pratiche e le esperienze già esistenti all'interno

dell'associazionismo

• favorire la messa in rete e la condivisione di tali esperienze nella progettazione e nella

realizzazione dei corsi

• rendere tali corsi accessibili a tutti, anche a chi non sia iscritto o faccia parte delle

Associazioni proponenti

I quaderni del volontariato si pongono l'obiettivo di "mettere per iscritto" una serie di contenuti

trattati ed esposti con la formazione, al fine di renderli disponibili a tutti coloro i quali volessero

intraprendere la strada della solidarietà con livelli di consapevolezza e conoscenza che devono

necessariamente entrare a far parte delle buone pratiche dell'associazionismo.

L'invecchiamento o senescenza consiste nel processo che conduce alla condizione di vecchiaia e

pertanto si connota in termini dinamici. Premesso che convenzionalmente si colloca l'inizio

dell'invecchiamento intorno al 65° anno di età, è importante precisare che in tale processo esistono

tre aspetti non omogenei: biologico (il mutare e il decadere del corpo), psicologico (il modificarsi

dell'adattamento alla vita quotidiana), sociale (il cambiamento del ruolo dell'anziano nella società),

in contemporaneo e non coincidente movimento.

Tradizionalmente, l'invecchiamento implica quasi sempre un significato negativo, di perdita, di

decadimento, tale per cui le conseguenze dell'invecchiamento sono spesso considerate soltanto in

termini deficitari.

In ambito biologico, è stato frequentemente usato il termine di invecchiamento per designare il

processo che implica il modificarsi dell'essere vivente nel periodo compreso fra la cessazione della

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sua attività riproduttiva e la morte. Se riferito all'uomo, il sostantivo viene impiegato a indicare il

complesso delle modificazioni cui l'individuo va incontro, nelle sue strutture e nelle sue funzioni in

relazione al progredire dell'età. Esso assume un significato che ha una base comune con quello di

accrescimento o di maturazione -pure esprimente le modificazioni in rapporto con l'età- ma se ne

distingue per un'implicazione regressiva e distruttiva rispetto a una progressiva e costruttiva.

L'accrescimento viene infatti considerato come il processo attraverso il quale l'individuo aumenta

quantitativamente le proprie strutture e funzioni e perde progressivamente le proprie funzioni.

Anche accettando questo modo di intendere i due processi, si è dovuto riconoscere come essi si

svolgano in due fasi distinte della vita dell'uomo, ma senza presentare soluzioni di continuità,

costituendo le due modalità del processo di sviluppo, che inizia dal momento in cui comincia a

formarsi un essere vivente fino al momento della sua morte.

Il passaggio senza soluzione di continuità dall' accrescimento alla senescenza può avvenire ad età

cronologiche differenti non soltanto per i diversi individui ma anche per le singole funzioni

all'interno di uno stesso individuo.

E ciò in relazione a quella che è stata indicata come l'eterocronia di accrescimento e di senescenza.

L'accrescimento comporta non soltanto aumenti quantitativi e differenziazioni qualitative, ma anche

arresti o diminuzioni quantitative e decadimento di funzioni.

La senescenza implica non soltanto la diminuzione di certe strutture ma anche conservazione di

altre, non solo perdita di certe funzioni, ma anche perfezionamento di altre.

L'invecchiamento umano, anche se generalizzato a tutti gli individui, si svolge con modalità, ritmi,

conseguenze estremamente variabili da individuo a individuo, in relazione a fatti preesistenti e a

condizioni contingenti nonché alle linee che avranno caratterizzato l'accrescimento di ciascuno.

Vita media uomini: 75 anni

Vita media donne: 85 anni

Invecchiamento bio-psico-sociale:

25 anni >inizio declino biologico-psicologico

65 anni > inizio vecchiaia

65/74 anni > giovane -vecchio

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75/84 anni > vecchio - vecchio

84 anni in poi > vecchio - molto vecchio - ultracentenario

Biologia dell'invecchiamento

Le ipotesi biologiche formulate fino a oggi sull'invecchiamento sono numerosissime e propongono

una complessa interazione di fattori genetici, immunitari e neuroendocrini.

Nella sostanza, tuttavia, esse possono suddividersi in due gruppi.

Al primo appartengono tutte quelle che considerano l'invecchiamento come un processo passivo

dovuto all'accumulo di prodotti tossici, o a una sorta di esaurimento funzionale, o, ancora, a un

equivoco biologico, una sommatoria negativa di errori che l'organismo commette dal concepimento

in poi. Ne sono un esempio le teorie biologiche che chiamano in causa fattori genetici, come

alterazioni nella duplicazione del DNA. Si ritiene che il processo di invecchiamento dell'organismo

sia regolato dal sistema nervoso centrale: le alterazioni cerebrali darebbero il via a una cascata di

eventi metabolici e fisiologici che porterebbero, gradatamente, organi e tessuti a una perdita di

efficienza funzionale, per cui questi ultimi resisterebbero sempre meno all'azione disgregatrice

dell'ambiente. Si pensa, in un'ottica biologica, che lo studio dei processi di invecchiamento

cerebrale possa chiarire i meccanismi generali della senescenza, ancora in larga misura ignoti.

Al secondo gruppo fanno capo quei gerontologi per i quali l'invecchiamento sarebbe un processo

attivo, dovuto a un'autodistruzione programmata, che procederebbe silenziosa, dal concepimento

alla morte. Il termine "programmata" viene utilizzato nel senso di "guidata e controllata da geni

particolari", che si attiverebbero quando l'organismo è giunto a maturazione. Tali geni sarebbero

stati conservati nel corso dell'evoluzione, in quanto, accanto agli effetti distruttivi, ne avrebbero altri

utili e attivati precocemente.

In altre parole, le cellule dell'organismo, continuamente esposte ad agenti potenzialmente

danneggianti di origine endogena ed esogena, per mantenere la propria integrità, hanno sviluppato

una serie di meccanismi di difesa, tra cui la morte cellulare programmata (o apoptosi) e finalizzata

ad eliminare cellule gravemente danneggiate e/o mutate e sono in grado di attivare meccanismi di

riparazione del DNA. La loro contemporanea messa in funzione costituirebbe quel "network di

difesa" che rappresenterebbe il principale sistema anti-invecchiamento dell'organismo. Il livello

complessivo della funzionalità ed efficienza del network sarebbe controllato geneticamente ed in

modo quantitativamente diverso nei singoli individui di una determinata specie, rendendo ragione,

almeno in parte, della differente longevità dei diversi individui e della apparente "familiarità" della

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longevità. Quello che determinerebbe la longevità sarebbe dunque il risultato di un bilanciamento,

modificatosi con l'evoluzione, tra meccanismi pro-invecchiamento, che tendono a destabilizzare il

DNA, e meccanismi anti-invecchiamento (in primo luogo quelli del network di difesa), che tendono

a conservare integrità e correttezza dell'informazione genetica, eliminando le cellule e le molecole

alterate e mutate.

Invecchiamento: ipotesi psicologiche alternative

In analogia con le ipotesi biologiche, anche in ambito psicologico si possono individuare due filoni

interpretativi ben rappresentati dalla teoria del disengagement e da quella dell'activity .

La teoria del disengagement (del disimpegno), proposta da Cumming e Henry nel 1961, vede

nell'invecchiamento una riduzione progressiva delle funzioni individuali e interpersonali. Secondo

tale prospettiva, l'invecchiamento comporta inevitabilmente un soggettivo e un obiettivo

disimpegno sul piano fisico, psicologico e sociale, con la conseguente incapacità di rispondere alle

esigenze sempre più rapidamente rinnovate di un mondo in continua trasformazione. È un "lasciarsi

andare alla deriva": conseguenza in parte della reale riduzione delle capacità e delle abilità

preesistenti, in parte di un volontario ritiro dal mondo, favorito e dal pregiudizio soggettivo che

"invecchiare significa morire" e da quello sociale secondo cui il vecchio è "oggetto" residuale e

marginale di un'organizzazione in cui competizione ed efficienza sono i valori dominanti. Alla

perdita del funzionamento biologico, si aggiunge, così, quella del funzionamento psicologico.

Alla teoria del disengagement si contrappone quella elaborata da Havighurst, nota come teoria

dell'activity, secondo la quale il disimpegno non è inevitabile e molti anziani non mostrano di

disimpegnarsi, né sul piano fisico, né sul piano psicologico, né su quello sociale. Havighurst ha

tentato di individuare le caratteristiche "dell'invecchiare con successo", per facilitare in tutti gli

anziani l'insorgere del feeling of happiness e aumentare il loro livello di soddisfazione e di

benessere psicologico. Tali caratteristiche consisterebbero nella capacità di mantenersi attivi fino ad

età avanzata, impegnandosi nelle attività più diverse, a seconda delle differenti opportunità.

Aspetti cognitivi dell'invecchiamento

Come è noto, nell'età senile, al normale decadimento cui vanno incontro tutte le persone viene

contrapposto il deterioramento patologico. Il progressivo deterioramento delle funzioni cognitive

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viene ricondotto principalmente alle modificazioni che il cervello umano subisce nel corso della

vita e che trovano la loro massima espressione psicopatologica durante l'invecchiamento.

Esistono infatti prove certe della stretta dipendenza tra alterazioni strutturali e alterazioni funzionali

del cervello. Tali alterazioni possono essere contrastate o agevolate dalle condizioni ambientali in

cui l'anziano vive. Peraltro non esiste una correlazione diretta fra l'involuzione fisiologica cerebrale

e il mutare psicologico della persona.

La minore interconnessione nel cervello degli anziani (cui sono correlate le alterazioni nei

meccanismi della trasmissione sinaptica) viene evidenziata dalla riduzione della ramificazione

dendritica e dal declino di neurotrasmettitori quali acetilcolina, dopamina e noradrenalina. Più che

lo spopolamento, nei fenomeni dell'invecchiamento cerebrale, sembra avere sempre maggiore peso

il depauperamento dei neurotrasmettitori. Le ricerche condotte post-mortem nell'uomo hanno

evidenziato livelli ridotti di dopamina (DA) e noradrenalina (NA) in rapporto con l'età e in

specifiche aree cerebrali.

In condizioni fisiologiche lo spopolamento neuronale dell'encefalo dell'anziano è ben lontano

dall'inficiare seriamente il suo funzionamento cerebrale. Infatti le "perdite" possono essere in parte

contrastate e compensate dal fenomeno della plasticità neuronale e dalla continua e mirata

stimolazione ambientale.

Una sintesi dei dati più recenti della ricerca in tema di funzioni cognitive documenta l'esistenza di

alcune modificazioni positivamente correlate con l'età, e cioè:

- un crescente e tendenzialmente globale rallentamento sia psicosensoriale, sia motorio, il quale si

traduce in un rallentamento nella elaborazione cognitiva e nella produzione di risposte.

Il deficit sensoriale, così come quello motorio possono causare deficit della stimolazione cognitiva,

sia direttamente, sia tramite l'isolamento. I sensi sono infatti gli indispensabili mediatori per una

gran parte dell'input cerebrale e una loro compromissione comporta inevitabilmente una flessione

delle afferenze sensoriali. Si pensi agli anziani che non possono più leggere il giornale o guardare la

televisione per un deficit visivo; i difetti uditivi producono imbarazzo, vergogna e limitano

conseguentemente le interazioni sociali; anche i difetti motori, molto frequenti negli anziani,

diminuiscono l'autonomia del soggetto, la sua disponibilità esplorativa, la sua probabilità di rapporti

interpersonali. A questo proposito, una riduzione sensoriale e minore efficienza motoria possano

determinare difficoltà di decodificazione degli stimoli e limitazione delle possibilità manipolative

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sull'ambiente. Tutto ciò può portare, a sua volta, a un restringimento dello spazio fisico e quindi di

quello psicologico, con l'aumento della tendenza all'introversione e all'isolamento:

- un aumento della componente cristallizzata (utilizzo del patrimonio di esperienze e di conoscenze)

dell'intelligenza rispetto alla componente fluida (capacità adattiva e creativa di fronte a stimoli

nuovi). Si rileva inoltre una prevalenza di meccanismi di coping (affrontare difficoltà) passivi e

poco mirati.

- una graduale compromissione delle capacità mnesiche. Uno dei segnali di allarme del

decadimento delle funzioni cognitive è la perdita di memoria; in questi casi è opportuno

differenziare se il fenomeno fa parte di un'involuzione fisiologica o è il primo sintomo di una

situazione patologica di tipo demenziale (alla cui base ci sarebbe un abbassamento dell'acetilcolina).

Tuttavia, resta il fatto che per una percentuale di persone, seppur ridotta, il decadimento mentale è

talmente lieve da non compromettere le funzioni psichiche fondamentali.

La prima causa di perdita della memoria è la mancanza di esercizio: "Il cervello deve essere

mantenuto continuamente in allenamento, perché i neurotrasmettitori e le connessioni sinaptiche

funzionino in modo efficiente. Possono, inoltre, interferire con la memoria stati di ansia e di

depressione, disinteresse, mancanza di stimolazione, tutte situazioni che impediscono il lavoro dei

complessi sistemi neurotrasmettitoriali che permettono di fissare, immagazzinare e richiamare le

informazioni. Ma in molti individui può verificarsi una situazione patologica dovuta a deficit di uno

o più neurotrasmettitori, il che comporta più o meno evidenti disturbi della memoria. Tra i diversi

neurotrasmettitori l'acetilcolina è risultata svolgere, anche in tarda età, il ruolo di maggior rilievo

nei processi di apprendimento e di memoria e a una sua sostanziale riduzione sono attribuiti gran

parte dei deficit neuropsicologici caratteristici del decadimento cerebrale patologico".

Oltre a fattori organici si pensa che il calo della memoria possa essere collegato anche a componenti

psicologiche (rimozione, stati confusionali con finalità difensive). Maggiormente colpita sembra

essere la memoria a breve termine, mentre quella a lungo termine appare in genere conservata ed è

comunque l'ultima a venire intaccata dal deterioramento patologico;

- una graduale compromissione delle capacità di apprendimento, soprattutto in funzione della sua

rapidità. A tale proposito, ricerche recenti hanno messo in luce come negli anziani avvenga un

restringimento dello spazio di vita personale e un aumento delle difficoltà di adattarsi a realtà

estranee.

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La capacità mnemonica si ridurrebbe, quindi, non tanto per l'impossibilità di memorizzare, ma

piuttosto per un certo disinteresse verso contenuti che non rientrano in uno spazio vitale noto e

collaudato e che va progressivamente restringendosi. Al contrario, la capacità di apprendere

elementi nuovi e pertinenti alle aree nelle quali il comportamento va sempre più circoscrivendosi si

mantiene e aumenta. La motivazione costituisce pertanto un aspetto fondante la capacità di

apprendimento, non solo negli anziani; accanto ad essa in letteratura si attribuisce, anche per quanto

riguarda gli anziani, un ruolo centrale all'autostima. Rispetto ai giovani, inoltre, è noto come negli

anziani l'apprendimento sia favorito da tecniche fondate sull'azione (by doing), piuttosto che sulla

memorizzazione (by memorizing).

"Vicarianza delle attitudini": un soggetto anziano è in grado di supplire i deficit connessi al

decadimento di alcune capacità, utilizzando altre abilità e funzioni. Alla riduzione della rapidità

senso-motoria, ad esempio, si affianca la conservazione e spesso il miglioramento di precisione e

accuratezza; l'efficienza intellettiva diviene più lenta, ma anche più riflessiva. Con l'avanzare

dell'età, in sintesi, diminuisce la possibilità di fornire prestazioni eccezionali, ma è conservata

quella di ottenere prestazioni medie abituali. Si restringerebbe inoltre la gamma delle attività, ma

non l'efficienza e l'efficacia di quelle possibili.

Un fattore fondamentale per contrastare in parte il deterioramento mentale resta in ogni caso, quello

della stimolazione e dell'esercizio: "per ogni anziano è possibile migliorare il proprio rendimento

pensando, ragionando, leggendo, studiando, giocando, lavorando, ma soprattutto parlando e

rispondendo non solo ai suoi coetanei, ma anche a persone più giovani ".

Nei casi in cui il deterioramento assume entità patologiche, si avranno vari livelli di

compromissione funzionale, fino ad arrivare a conclamati quadri di demenza.

Aspetti fisici dell'invecchiamento

La frequente insorgenza di problemi somatici, handicap estetici, patologie organiche, spesso

invalidanti, può avere come conseguenza l'isolamento o, quanto meno, un grave impedimento alle

relazioni sociali, con un alto rischio di depressione e/o di spegnimento delle funzioni cognitive.

Particolarmente frequenti sono gli equivalenti psicosomatici che spesso si costituiscono come

quadro di allarme neurastenico manifestantesi attraverso cefalee, mialgie, rachialgie, dolori della

nuca, disturbi del sonno, turbe dell'equilibrio, astenia, formicolii, cardiopalmo, poliuria, tachicardia,

estremità fredde e altro.

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In generale, le malattie genericamente intese sono una delle principali fonti di timore per l'anziano,

che già si sente fragile e quindi più esposto al rischio di ammalarsi. La malattia, sia nella sua

attualità, sia nella sua potenzialità, è percepita come qualcosa di ineluttabile e intrinsecamente

connessa all'invecchiamento e può portare con sé angosciosi vissuti di inadeguatezza, di inutilità e

di morte.

Da un punto di vista psicologico, il vivere il proprio Sé e, di conseguenza, con il proprio Sé è

ampiamente condizionato dalle emozioni e dai significati che, con l'inizio del cambiamento

involutivo, possono essere quelli dell'allarme e della costruzione di ipotesi negative sul presente e

sull'immediato futuro. La percezione del decadimento fisico che può accompagnare i disturbi

psicosomatici o seguire ad essi, viene spesso assunta dall'anziano come immagine di un Sé corporeo

che va deteriorandosi e sgretolandosi. Non solo: ma il progressivo venir meno di un'armonica

percezione e integrazione dell'immagine del Sé nella prospettiva e nel ruolo che la realtà esterna

concretamente fornisce alimenta, a sua volta, una comprensibile diminuzione di vitalità, vigore

fisico ed energia psichica ed una maggiore difficoltà ad adattarsi alle richieste ambientali, cioè la

persona reagisce non solo al difetto fisico e/o psichico che l'invecchiamento comporta, ma anche

alle modificazioni che esso determina nel suo operare; o si scoprirà negativamente diverso e sarà

costretto a un più o meno brusco mutamento di ruolo o sarà considerato diverso dall'ambiente nel

quale è inserito e dove, il più delle volte, è insufficiente la valorizzazione degli aspetti positivi legati

all'età anziana.

Il progressivo indebolimento dell'Io e il cedimento dei meccanismi di difesa, fanno sì che

aumentino l'ansia e le attenzioni rivolte al corpo, a loro volta esprimentisi in frequenti e tormentose

richieste di visite mediche e specialistiche. Per converso, il ricorso alla negazione o alla regressione

può far sì che l'anziano adotti meccanismi ipercompensatori fittizi e miri a ostentare con

intransigente cocciutaggine e rigidità una salute e una sanità che invece sono compromesse, o

assuma ruoli infantili che celano il decadimento e il venire meno dell'efficienza.

La malattia, in particolare quella invalidante, comportando una perdita dell'autonomia, costringe

l'anziano alla dipendenza e genera vissuti depressivi o ansiosi. L'ambiente sociale e familiare, a loro

volta, svolgono funzioni positive o negative sui vissuti del paziente, modificando le risposte

soggettive individuali. Pertanto, il quadro finale è unico e irripetibile, non schematizzabile e

generalizzabile, essendo molte le variabili che entrano in gioco e assumendo ognuna di esse

significati differenti, che seguono regole di causalità circolare e non unilineare.

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Aspetti affettivi dell'invecchiamento

Benché la personalità sia un fattore psicologico relativamente "stabile" nel tempo, almeno in

condizioni di normale invecchiamento fisiologico, durante la senescenza anche gli affetti e le

emozioni subiscono degli "aggiustamenti". L'affettività tende a modificarsi sia quantitativamente,

sia qualitativamente. Innanzitutto si riduce l'intensità soggettiva, rispetto a contenuti che in

precedenza suscitavano reazioni intense; ne consegue un'attenuazione dell'aspetto espressivo. In

secondo luogo, l'affettività si concentra su poli circoscritti dal momento che, piuttosto che da

condizioni esterne, l'anziano è coinvolto da quelle personali: in particolare dal suo benessere fisico e

psichico e dal suo status economico e sociale. Il risultato finale è il prevalere di un egocentrismo

sempre più accentuato.

Mentre cioè la personalità del giovane è di tipo prevalentemente centrifugo, proiettata verso

l'esterno e verso il futuro, la personalità dell'anziano è centripeta, ossia rivolta prevalentemente al

proprio Io, con tutto il carico di ricordi, esperienze e sentimenti che lo caratterizza. Gli investimenti

affettivi si rivolgono al proprio presente e al proprio corpo che, come già segnalato, può diventare

oggetto di preoccupazioni ipocondriache o il tramite attraverso cui comunicare all'esterno per

attirare le attenzioni altrui.

Questo tuttavia non significa che per l'anziano i legami affettivi e le relazioni interpersonali siano

insignificanti; al contrario, l'anziano è in grado di amare e ha bisogno di sentirsi amato, di ricevere

attenzioni e affetto. È noto infatti come, a qualsiasi età, rapporti affettivi soddisfacenti favoriscano

un'attività psichica globalmente efficiente e un'adeguata motivazione alla vita.

Anche la sessualità continua a rappresentare in età senile un importante aspetto della vita affettiva.

Aver perso o ridotto in modo consistente la propria capacità procreativa non costituisce motivo di

rinuncia all'atto sessuale, che continua a rappresentare importante espressione psico-fisica di una

relazione matura basata sull'amore. Le modificazioni fisiologiche, tanto funzionali quanto

anatomiche, che si verificano in senescenza non sono per lungo periodo tali da rendere l'anziano

inidoneo ad attività sessuale; tant'è che, secondo recenti statistiche, il rapporto sessuale coniugale

tra le persone anziane è abbastanza frequente.

Tra i fattori che determinano una diminuzione o una sospensione del rapporto sessuale vi sono

motivazioni psicologiche o relazionali. Basti pensare all'alto numero di anziani che sono rimasti

soli, in seguito alla morte del coniuge. Sia per questa categoria di soggetti, sia per gli anziani che

ancora vivono in coppia possono avere un importante effetto inibente i pregiudizi e gli stereotipi

culturali che vedono l'anziano come asessuato, privo di desideri sessuali, immerso nella "pace dei

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sensi". Gli effetti sugli anziani possono essere quelli della vergogna e del senso di colpa per avere

ancora esigenze e pulsioni del genere.

È vero che questo progressivo infragilimento della persona anziana, entro certi limiti, come

abbiamo visto, può essere positivamente compensato dalla possibilità di attingere a risorse ancora

attive e attivabili, ma è altrettanto vero che il discorso finora fatto deve tenere conto dell'impatto cui

l'anziano va incontro quando si trova a dovere affrontare l'immagine, il ruolo, la collocazione che

gli viene oggi riservata nella cultura e nella struttura sociale.

Aspetti socio-culturali dell'invecchiamento: pensionamento

Tre sono le fasi principali del pensionamento:

1.Luna di miele

2.Elaborazione

3.Frustrazione

Con il passaggio all'attuale era post industriale, l'immagine sociale dell'anziano, il suo ruolo

all'interno della società e della famiglia si sono modificati in modo sostanziale. Nella nostra cultura

e nella nostra organizzazione sociale, infatti, la produttività e l'attività lavorativa sono elementi

fondamentali nella definizione dell'identità e del ruolo sociale. L'inizio della vecchiaia viene oggi

sancito (e spesso sanzionato), in modo brusco e repentino, dal pensionamento e dalla perdita dello

status sociale connesso al ruolo di lavoratore. Uscire dall'ambiente lavorativo può significare, per

molti, essere fuori dal mondo. Diminuiscono le possibilità di contatto umano e di relazione;

vengono meno, progressivamente, gli incontri con i compagni di lavoro, con gli amici ancora

produttivi. Allontanarsi dal lavoro può significare anche perdere la necessità di doversi

continuamente occupare degli avvenimenti futuri, degli aspetti organizzativi: perdere, in altri

termini, l'atteggiamento aggressivo verso il presente e costruttivo verso il futuro. Tale passaggio

induce molto spesso vissuti di inutilità, di vuoto, di mancanza di prospettive e di risorse, cui non

sempre l'anziano è in grado di contrapporre nuovi obiettivi e interessi.

Alcuni fattori risultano influire in modo significativo sul vissuto soggettivo:

- la percezione che il soggetto aveva del proprio lavoro e dell'ambiente lavorativo;

- il tempo intercorso dal pensionamento, in quanto è necessario un periodo di adattamento;

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- la possibilità di scelta al momento del pensionamento. Il pensionamento forzato e anticipato

sembra avere peggiori conseguenze sul tono dell'umore, specie in assenza di alternative vissute dal

soggetto come validi sostituti dell'attività perduta.

Inoltre al pensionamento si collegano spesso difficoltà economiche che incidono negativamente

sulla qualità di vita dell'anziano e sul suo equilibrio psicologico. Il disagio del pensionamento è

particolarmente evidente nell'uomo, meno abile nel fare "altri" investimenti, che non siano il lavoro

e l'ambiente in cui svolge le sue attività; la donna, in genere, lo tollera meglio, in quanto la cura

della casa e della famiglia, nonché la maggiore capacità di costruire e mantenere legami alternativi e

integrativi le permette di sostituire e compensare quanto andato perduto. Inoltre, la struttura attuale

della famiglia e il clima culturale non sempre aiutano l'anziano a superare il disagio indotto dal

pensionamento. In una società che insegue il mito dell'eterna giovinezza, della forza, della bellezza

e del successo, l'anziano è evocatore di angosce di morte e disfacimento e pertanto viene

emarginato.

L'equilibrio psicologico del vecchio è messo in difficoltà dall'ambivalenza dell' ambiente, che gli

richiede da una parte aspetto giovanile, prestanza, flessibilità, anticonformismo, autonomia,

dall'altra critica impietosamente ogni atteggiamento che non corrisponda allo stereotipo culturale

della vecchiaia.

Per quanto si riferisce in specie all'ambiente familiare, è noto come la figura dell'anziano possa

essere vissuta come destabilizzante all'interno della famiglia. Per il noto meccanismo della profezia

che si autoadempie, si assiste a comportamenti dei vecchi che diventano palesemente coerenti con

le previsioni del contesto familiare, col risultato dell'avvio di un circolo vizioso, nel quale quanto

più i comportamenti di una persona saranno ridefiniti come espressione delle sue carenze, tanto più

questa metterà in atto comportamenti di quel tipo, in quanto unico strumento comunicativo di cui

dispone. Le possibilità di conflitti, frustrazioni, dissapori all'interno della famiglia sono continue: le

differenze di età portano a concezioni diverse della vita e dei suoi valori, della moralità, della

religione. Si può arrivare a veri scontri generazionali con dinamiche di competitività, di

risentimento, di invidia, di colpevolizzazione verso i figli, i quali reagiscono spesso con rifiuto o

senso di colpa e iperprotezione verso i genitori. Non è infrequente che il genitore anziano diventi il

capro espiatorio delle tensioni coniugali o che si attuino nei suoi confronti più o meno diretti

meccanismi di emarginazione o di esclusione, motivati dai difetti del carattere, dalla trascuratezza,

dagli stessi handicap fisici, e altro.

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A livello socio-culturale la squalifica dell'anziano, vissuto come un peso inutile e privo di risorse,

come un individuo che non ha più nulla da dare, soprattutto (anche se non solo) quando non è più in

grado di gestirsi in maniera autonoma, risulta evidente, se si considera che la quasi totalità degli

interventi rivolti agli anziani sono di tipo socio-assistenziale e relegano pertanto l'anziano in un

ruolo di passività e di dipendenza.

Buon invecchiamento

Negli ultimi anni le ricerche sulla longevità (convenzionalmente collocabile intorno agli 85-90 anni)

si sono intensificate, a causa delle notevoli proporzioni assunte da tale fenomeno, conseguenti al già

segnalato aumento dell'età media: nell'intero territorio italiano, attualmente, si contano più di 1600

centenari. La popolazione italiana è tra le più longeve del mondo e l'attesa di vita è destinata ad

aumentare ulteriormente, sia in Italia, sia nel resto d'Europa.

Ovviamente, i longevi fanno parte del gruppo più generale degli anziani, nel senso che oggi si

trovano tra gli anziani alcuni longevi di domani. Lo studio dei longevi assume pertanto

un'importanza particolare per tentare di mettere a fuoco i fattori che possono favorire un buon

invecchiamento.

Lehr, Boon Beard, Stolar descrivono il soggetto longevo come un individuo che presenta ancora un

concetto positivo di sé, accompagnato da un generale ottimismo verso la vita e un sereno

atteggiamento nei confronti di passato, presente e futuro. Tali caratteristiche sono state riassunte nel

termine: life satisfaction (soddisfazione per la vita), che si è rivelata un importante predittore della

mortalità. Esiste, infatti, una forte correlazione negativa tra il livello di soddisfazione per la propria

vita e la mortalità. Inoltre, la life satisfaction risulta in parte determinata dalla soggettiva percezione

del proprio stato di salute, crescendo con l'aumentare del benessere fisico percepito dall'individuo

(spesso molto differente dallo stato di salute effettivo), e influenza a sua volta l'atteggiamento verso

il mondo e la realtà.

Rispetto ad individui più giovani, gli ultralongevi presentano una maggiore "centratura su se stessi".

Risultano essere, da quanto emerge in questi studi, poco dogmatici, presentando un credo religioso

tollerante che si traduce in filosofia di vita, produttiva di ottimismo, rispetto per gli altri e capacità

di apprezzare ciò che si possiede. Le caratteristiche di personalità proprie anche dei soggetti longevi

consentono di escludere che esista un'unica modalità di invecchiamento comune a tutti questi

soggetti.

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Si esamina ora il ruolo giocato dall'ambiente familiare, in quanto una condizione frequente del

longevo è la solitudine, essendo probabile che questi sopravviva al coniuge, ai coetanei, agli amici e

persino a figli e nipoti. Questo dato è degno della massima attenzione, se si considera che persone

con pochi parenti disponibili a prestare sostegno materiale ed emotivo hanno un tasso di mortalità

da due a quattro volte maggiore di quello di individui della stessa età, che vivono relazioni familiari

gratificanti.

Importante è ricordare che con l'avanzare dell'età e la morte dei coetanei assumono maggiore

importanza le relazioni intergenerazionali: figli e nipoti risulterebbero essere, dai risultati ottenuti, il

principale punto di riferimento nella vita relazionale degli ultralongevi.

Oltre all'importanza di un valido supporto familiare gioca un ruolo altrettanto cruciale l'ambiente

sociale, in particolare le relazioni di amicizia extrafamiliari, in grado di fornire un valido sostegno

emotivo. I contatti sociali con amici intimi, profonde relazioni di fiducia e un'efficace e consapevole

integrazione sociale possono ritardare la mortalità in generale e quella cardiovascolare in

particolare.

Il benessere economico inciderebbe soprattutto come fattore soggettivo, oltre che come realtà

obiettiva.

In ultimo, è stata sottolineata da numerose ricerche condotte sui centenari l'importanza del lavoro. I

risultati hanno evidenziato una forte correlazione positiva tra la longevità e la capacità, nel corso del

pensionamento, di sostituire al lavoro oltre forme di attività e interessi, continuando ad ampliare le

proprie conoscenze.

La morte e l'anziano

L'anziano ha un buon rapporto con la morte. Non ha paura della morte, ma del soffrire, del dolore.

La morte è l'ultima esperienza, l'ultima possibilità per fare un resoconto della propria esistenza.

Spesso ci chiediamo: perché dobbiamo pensare alla morte? Dobbiamo pensare alla morte perché fa

parte della vita: se non si vive non si muore.

La definizione della morte immanente o trascendente nelle varie età della vita si spiega con il rifiuto

che ciascuno di noi ha di immaginarsi vecchio.

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La morte è immanente quando si invecchia o, a volte, anche quando precocemente si prende

contatto e si entra in colloquio con la morte stessa, allora la si comprende come parte della vita. Il

vecchio porta in sé, nell'ultima parte della vita, la convinzione che più vive più si avvicina alla fine

della vita e che quindi muore un po' ogni giorno. Questa è l'immanenza della morte nella vecchiaia.

La morte è una fine della vita biologica, ma chi abbia fede religiosa o una visione della vita che va

al di là della realtà del corpo capisce come la morte del soggetto non sia la fine della vita nel

mondo.

Nella vecchiaia la morte sarà più serena se la vita è stata vissuta nella sua interezza e se le varie fasi

di passaggio si sono concluse naturalmente.

L'importanza della morte è considerata come liberazione dal dolore e dalla sofferenza: l'anziano

pensa alla morte come meta da raggiungere nella pace, nell'assenza di lotta e di frustrazione di tutti i

periodi della vita. Tuttavia l'anziano che può liberarsi dal dolore, dai limiti biologici e psicologici

imposti dalla malattia e dalla vecchiaia, ama la vita e desidera sopravvivere nonostante il travaglio

biologico e psicologico.

Per sintetizzare:

- Il sesso femminile ha nell'età avanzata più presente e costante il pensiero della morte

- Gli anziani hanno una generale tendenza alla rassegnazione e accettano positivamente la

considerazione dell'ineluttabilità della morte.

- Soprattutto nel sesso maschile vi è una prevalenza di soggetti che non temono la morte.

- L'agnosticismo risulta tipicamente maschile, mentre una percentuale abbastanza elevata del

sesso femminile crede nell'aldilà.

La paura della morte è correlata con l'insoddisfazione della vita, mentre non vi è correlazione fra

serenità della vita passata e serenità nell'attesa della morte.

Depressione

- Mimica triste o poco espressiva

- Tono di voce basso e poco modulato (monotonale)

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- Eloquio lento

- Trascuratezza

- Senso di perdita di memoria

- Ridotta attenzione e concentrazione

- Inerzia e irritabilità

- Rimuginazione

- Astenia, adinamia, facile stancabilità

- Rallentamento (o agitazione) psicomotoria

- Ripiegamento su se stessi: chiudersi in se stessi

- Ansia: ci può essere sindrome depressiva con ansia

- Disturbi ipocondriaci

Il sentimento depressivo è caratterizzato da paura, angoscia di perdere qualcosa o qualcuno.

La depressione può essere suddivisa in due categorie:

Depressione mascherata

Depressione mascherante

Depressione mascherata: depressione somatizzata. L'anziano è depresso, non sa di esserlo, ma ne

porta i sintomi (soprattutto fisici). E' molto frequente. La cosa più sbagliata nei confronti di un

paziente con patologia psicosomatica è dirgli che ha problemi psicosomatici.

- Perdita di interesse: l'anziano amava fare tanto un determinata cosa ma ora non gli interssa

più

- Insonnia o iperinsonnia: risveglio precoce costante oppure dormire per evitare di pensare

- Sentimenti di svalutazione: incapacità, inutilità

- Sentimenti di colpa: atteggiamento di chiusura, difficile da superare

- Delirio: rovina, autoaccusa, ipocondriaco

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- Disturbi della percezione : l'illusione è il disturbo più frequente. Depressione con

allucinazione.

- Diminuzione libido, forza vitale

- Perdita di fiducia in se stesso o negli altri

- Perdita di speranza

- Pessimismo

- Pensieri di morte (propositi, minacce, atti)

Depressione mascherante: si presenta con un quadro depressivo. Sorge l'ipotesi che sia una

depressione mascherata, invece è una depressione che maschera un'altra patologia, quale l'inizio del

Morbo di Parkinson, Malattia di Alzheimer, neoplasie cerebrali.

Entrambe le forme di depressione, possono portare l'individuo a tentare il suicidio, azione

distruttiva e violenta, inflitta contro di sé, che ha come risultato la morte.

Suicidio

L'anziano è colui che più tenta il suicidio, soprattutto gli uomini.

Modalità:

-Impulsività (raptus)

-Premeditazione

Dietro ad un atto autolesionistico, c'è sempre una forte sofferenza.

La premeditazione del suicidio porta alla tranquillità (del non esserci!!), al trovare la soluzione per

vivere meglio.

Nella disperazione, che caratterizza i possibili anziani suicidari, c'è solo il presente: "Questa

situazione tra un minuto ci sarà ancora, non sparirà". Forte angoscia.

Caratteristiche del suicidio:

- Sofferenza e dolore

- Disperazione: mancanza di speranza

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- Vicolo cieco: non si può andare ne avanti ne indietro

- Incapacità alla lettura di un possibile cambiamento

- Ripiegamento sulle proprie impostazioni: l'individuo, convinto di un suo parere, si arrocca

su ciò che afferma

- Uscita/fuga dalla sofferenza: la disperazione diventa insopportabile

- Più difficile continuare a vivere: molto semplice ammazzarsi. Più difficile affrontare la vita

per continuare a vivere

Il coraggio è riuscire a portare a compimento la propria vita.

L'anziano può anche mettere in pratica un tentato suicidio (gesto autolesivo che serve per

conseguire dei vantaggi. Non c'è intenzione di morire). Questo si differenzia dal mancato suicidio

(colui che vuole intenzionalmente morire ma per una serie di circostanze il suicidio non viene

portato a termine).

Nel tentato suicidio avremo un anziano con personalità immatura o isterica. La storia psico-

patologica ci può dare delle indicazioni. Qualora l'individuo abbia fatto parecchi tentati suicidi,

bisogna prestare attenzione: potrebbe esserci un caso di suicidio vero e proprio.

Ci sono anche delle modalità attuative: è differente suicidarsi in un posto dove c'è un vasto pubblico

(subito soccorso: tentato suicidio) rispetto a dove non vi è nemmeno una persona.

Come nella depressione, anche nel suicidio si può parlare di

Suicidio mascherato: forma di suicidio che spesso sfugge .

- Incidenti (soprattutto se ripetuti e gravi)

- Negligenze nelle cure: specie se importanti e vitali. A volte si è consapevoli. Altre volte non

si è consapevoli

- Attività pericolose

- Disturbi psicosomatici gravi (tendenza autolesiva)

- Fattori individuali: depressione, senso di vuoto, bassa soglia tolleranza frustrazione

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Comunicazione verbale e non-verbale

L'essere umano è soggetto relazionale. E' impossibile non comunicare. Anche colui che non

comunica ci comunica che non vuol comunicare.

La comunicazione non verbale è un messaggio completo e realistico.

L'aspetto fisico ci da delle indicazioni sulla personalità dell'individuo (abbigliamento, trucco,

pettinatura). L'anziano depresso sarà trascurato sotto tutti punti di vista.

- La mimica: è un potente mezzo di comunicazione. La persona che soffre è attenta. Ha una

sensibilità molto spiccata.

- Tono della voce: serve per richiamare l'attenzione. Importante la modulazione della voce.

- Vocabolario: esprime ciò che sono. Scelta dei termini, inflessione

- Argomentazioni (temi): con queste si ha l'attenzione dell'individuo

- Atteggiamento corporeo (gestualità): postura, modo di camminare. La corporeità è marchio

del nostro comportamento. Parole come maschera.

- Silenzio: vero enigma per la comunicazione. Il silenzio può essere ricco di conoscenza. La

sintesi può esprimersi nel/col silenzio. Bisogna rispettare il silenzio degli altri!!!

- Rappresentazione artistica: capacità di esprimere i propri stati d'animo attraverso il

dipingere, lo scolpire, il comporre

- Logorrea: l'anziano parla. Basta ascoltarlo….saperlo ascoltare. L'anziano vuol far sapere la

propria storia, la sua esperienza di vita. I parenti, gli operatori, gli psicologi sono l'occasione per

parlare. Bisogna aver la pazienza dell'ascolto.

- Comunicazione psicosomatica: l'anziano parla attraverso attraverso il suo corpo. Gli anziani

somatizzano in maggior modo la depressione (si può manifestare con stitichezza, mal di stomaco,

vertigini). Bisogna prima accertarsi se è andato dal medico, poi curarlo con l'analisi psicologica.

L'anziano italiano è restio a chiedere aiuto psicologico.

- Comunicazione ripetitiva: ripete per essere ascoltato; ripete per credere a ciò che dice. La

ripetitività nasce dall'esigenza di essere ascoltati, presi in considerazione

- Difficoltà per malattie organiche: afasia, disartria, difficoltà del linguaggio

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- Comunicazione frammentata: i discorsi degli anziani possono essere considerati come

"insalata di parole"(termine psichiatrico). La persona che ascolta deve avere la capacità di

ricollegare e ricreare la logica della frase

- Comunicazione sussurrata: comunicazione di piena, profonda importanza. C'é desiderio di

intimità

- Comunicazione aggressiva: è la comunicazione di un bisogno. E' una difesa per paura:

angoscia del rapporto con gli altri.

Per avere un buon ascolto dell'anziano, bisogna aver orecchio sensibile, cercare di entrare in

empatia, sintonia con l'altro. Grazie all'empatia si trovano anche le parole per l'altro. L'empatia è

l'incontro tra due anime. Per costruire empatia ci vuole tempo.

La riabilitazione psicologica dell'anziano

La riabilitazione psicologica dell'anziano prende il nome, in Italia come nel resto del mondo, di

Terapia Occupazionale (T.O.).

Questa terapia si può e si deve rivolgere a persone di ogni livello sociale e culturale, di ogni

provenienza regionale, con esperienze di vita e di lavoro differenti, con molteplici interessi e

motivazioni; anzi essa si deve soprattutto rivolgere a persone senza interessi e motivazioni. Può

essere attuata negli istituti e nelle case di riposo, negli ospedali geriatrici, nelle divisioni geriatriche,

nei centri di riabilitazione, nei dispensari geriatrici, negli ospedali diurni per anziani, nei centri

sociali, nei quartieri, nelle comunità ed infine a livello individuale e domiciliare per coloro che

vivono in famiglia o in una propria abitazione.

Per semplificare il discorso è opportuno presentare schematicamente una classificazione di terapia

occupazionale. I vari tipi di TO sono classificati sulla base degli scopi terapeutici che si perseguono

. Tali scopi sono dedotti dai bisogni e dalle situazioni biologiche, psicologiche e sociali dei diversi

anziani.

Terapia occupazionale fisio-attivante

Ha il preminente scopo di facilitare la riattivazione e la riabilitazione funzionale dell'anziano al

quale spesso manca una valida motivazione al recupero in quanto non gli sembra importante

riprendere l'uso di un arto danneggiato da una vasculopatia cerebrale o da una malattia di natura

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traumatica. L'anziano si sente spesso più motivato a compiere dei movimenti che abbiano per lui

uno scopo chiaro ed inequivocabile e che lo conducano a costruire, a produrre qualcosa piuttosto

che a compiere movimenti suggeriti dal fisiocinesiterapista. Questo tipo di TO si può comunque

considerare accessoria o complementare della fisiocinesiterapia.

Terapia occupazionale psico-attivante

Questo particolare tipo di TO è forse quello di più ampio impiego in quanto i bisogni psicologici

degli anziani sono numerosissimi e sicuramente universali. La TO può essere quindi suddivisa in:

Individualizzata

Attraverso essa l'anziano riesce a soddisfare il bisogno di essere attivo che è molto diffuso nella

nostra realtà sociale in cui pochissime sono le occasioni per l'impegno. In particolare viene

sollecitato un impegno intellettuale, possibilmente di tipo creativo che consenta a ciascuno di

esprimersi con linguaggi molteplici, originali e costruttivi.

Ergoeconomica

Il bisogno economico è frequentissimo nella popolazione anziana del nostro paese e condiziona

situazioni di disagio, di inferiorità, di dipendenza, talora di umiliazione. Per quanto riguarda la TO

non debba mai riconoscere come sua preminente motivazione quella economica, questo sottotipo

tiene conto anche del bisogno di essere autosufficienti ed indipendenti; si deve comunque

sottolineare il fatto che, al di là del problema meramente economico, questa TO permette

all'anziano di percepirsi utile e di elevare quindi il proprio livello di autostima.

Medica

Spesso l'anziano sofferente per diverse malattie, tra cui le cardiopatie e le broncopneumopatie

croniche, si ritiene e viene considerato un invalido e rinuncia ogni giorno di più a qualsiasi attività

ed addirittura al movimento. Il tempo trascorre nella noia e nella immobilità che facilitano il

decadimento psico-fisico. Questo sottotipo di TO ha quindi anche riflessi igienici, profilattici e

riabilitativi di notevole importanza oltrechè implicanze psicologiche molto rilevanti.

Semplice

Si propone esclusivamente lo scopo di impegnare il tempo libero con attività assai semplici.

Soddisfa perciò l'esigenza di essere in qualche modo efficienti ed attivi e di passare il tempo in

modo divertente e piacevole.

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Terapia occupazionale socio-attivante

L'anziano è sempre più solo in una società che, dopo averlo posto ai margini, tende ad escluderlo.

Nascono sentimenti di abbandono e di inutilità e la convinzione che nessuno più sia disposto ad

intraprendere con lui un rapporto interpersonale autentico e valido. La TO di questo terzo tipo

soddisfa quindi nell'anziano l'esigenza di essere accettato, compreso e valorizzato in una qualche

misura. Perciò molte delle attività che negli altri sottotipi di TO vengono svolte individualmente

(TO psico-attivante) vengono qui svolte in gruppo. Lo specialista, oltre alle proposte di attività, ed a

funzioni didattiche, deve sollecitare la partecipazione di tutti i componenti il gruppo e controllare

che non si verifichino delle assunzioni di potere autoritaristiche da parte di uno o più anziani.

Anche in situazioni difficili e con carenza di mezzi economici sono possibili alcune centinaia di

attività diverse.

Molte attività possono essere svolte sia individualmente che in gruppo:

- Atelier d'arte (disegno, pittura, scultura, mosaico, bulino, lavoro a china, ceramica)

- Lavori d'artigianato (costruzione giocattoli, soprammobili, mobili in legno, cartonaggio,

lavori in paglia, giunco, lavori in stoffa, ricami vari, lavori di sartoria)

A livello individuale o di gruppo l'anziano può svolgere continuativamente o saltuariamente

qualsiasi attività o mansione di tipo impiegatizio o di tipo normale. Tali attività possono bensì

essere le stesse che ciascuno ha esercitato precedentemente durante la propria attività lavorativa, ma

possono essere anche del tutto diverse in quanto egli è in grado di apprendere nozioni e tecniche

nuove, purchè si rispettino alcuni principi generali.

In rapporto alla situazione di isolamento e agli atteggiamenti di chiusura in se stessi, tanto frequenti

negli anziani, è evidente che la TO si preoccupa soprattutto di stimolare e di proporre le attività da

svolgere in gruppo, più o meno numeroso, anche se rispetta l'eventuale desiderio di "privacy" e di

individualità.

Qualche esempio di attività di gruppo:

- Attività di movimento: passeggiate, gite, soggiorni in località climatiche, visite a musei,

parchi. Programmate e organizzate dagli stessi anziani con l'aiuto dello specialista

- Partecipazione a spettacoli: cinema, teatro, concerti, sport. Discussione critica guidata prima

e dopo gli spettacoli

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- Attività di gioco vario: carte, dama, giochi da tavolo. A carattere competitivo e non

- Attività di moto para-sportivo: bocce, cicloturismo, nuoto, canottaggio pallone

- Attività culturali: audizione di musica classica, lirica, lettura di prosa di ogni epoca, letture

di riviste e giornali. Presentazione e discussione critica guidata

- Organizzazione spettacoli e feste: recite teatrali, spettacoli d'arte varia, feste danzanti.

Programmate, organizzate dagli anziani in collaborazione dello specialista e con la partecipazione

artistica degli stessi anziani

- Corsi scolastici a vari livelli: di aggiornamento, di specializzazione, università della terza

età

Per attuare una ottima TO è necessario che vi sia a monte un ottimo lavoro di equipe a cui debbono

necessariamente collaborare il geriatra, lo psicologo, l'animatore del tempo libero, l'assistente

sociale, l'operatore, il volontario….sempre con la partecipazione degli anziani!!!

La TO non esaurisce certo le possibilità assistenziali a favore dell'anziano, ma dal punto di vista

psicologico essa può assumere un ruolo di notevole rilievo, in quanto favorisce l'impegno ed il

reinserimento sociale che stanno alla base dell'adattamento umano.

Di seguito si evidenziano gli obiettivi, i fini che la TO persegue in un serio programma di

applicazione.

La Terapia Occupazionale:

1. Rappresenta uno dei mezzi più efficaci per rallentare il deterioramento mentale

2. Agevola i processi di socializzazione, di integrazione sociale, di rapporto interpersonale

3. Rappresenta uno strumento per evitare la patologia da immobilizzazione

4. Facilita ed integra i risultati ottenibili con le tecniche specialistiche di riabilitazione motoria,

respiratoria, cardiocircolatoria, del linguaggio

5. Consente la chiarificazione dei bisogni personali e suggerisce a ciascuno una visione di

possibili scelte, pur nelle limitazioni imposte dalla istituzionalizzazione

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6. Favorisce l'assunzione di un ruolo gratificante, riconosciuto nell'ambito dell'istituto e talora

anche fuori istituto, che permette di far superare almeno in parte le frustrazioni dell'età senile e

dell'istituzionalizzazione

7. Rende possibile a molti la soddisfazione del bisogno di essere accettati e valutati

positivamente dagli altri componenti la comunità

Interessante è la realizzazione del programma in ogni situazione in cui la terapia occupazionale si

inserisca e integri altri programmi di riabilitazione fisica.

GLOSSARIO

Eterocronia dell'invecchiamento: degenerazione psico-fisica.

Geragogia: educazione all'invecchiamento.

Geriatria: nata nel 1954, è un ramo della gerontologia che studia i mezzi terapeutici, dietetici e

igienici atti a ritardare il processo di invecchiamento psico-fisico, o a prevenire gli eventuali

processi patologici della vecchiaia.

Gerontologia: studio dei fenomeni, anche patologici, legati alla senilità.

Senescenza: anche invecchiamento. Processo biologico-psicologico involutivo, seguente all'età

matura , caratterizzato da modificazioni strutturali e dal decadimento di varie attività e funzioni

fisiologiche.

Senilità: sin. vecchiaia. Età individuata da caratteristiche proprie, spesso con allusione a uno stato di

decadimento psico-fisico.

Vicarianza attitudini: atto nel quale il soggetto anziano è in grado di vicariale i deficit connessi al

decadimento di alcune capacità con l'utilizzazione di altre capacità e fattori. In questo modo egli

può sopperire alle sue carenze psicomotorie e/o psicosensoriali con la continuità, l'esperienza,

l'impegno, la prudenza.

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TEORIA DI BALTES – LIFE COURSE APPROACH (LIFE SPAN)

Tra le moderne teorie dello sviluppo e dell’invecchiamento il modello di Paul Baltes (1991, 1997)

ben rappresenta la nuova concezione di invecchiamento positivo e di prospettiva psicologica

dell’arco della vita – life-span - ; essa offre nuovi spunti di comprensione e di intervento per la terza

età.

La cultura positiva dell’invecchiamento proposta da Baltes nel suo modello SOC (selezione,

ottimizzazione, compensazione) muove da una premessa fondamentale vale a dire che, come sopra

ampiamente discusso, l’invecchiamento è un processo complesso e differenziato che coinvolge

diversi aspetti dell’individuo e che non può essere affrontato con una prospettiva lineare ed

omogenea; esso integra due facce della stessa medaglia: miglioramento e declino.

Secondo Baltes nelle condizioni di perdita e/o di limitazione una persona impara nuove strategie di

progresso ed acquisisce nuove capacità per far fronte alle perdite. Tale concetto appartiene anche ad

una tradizione psicoanalitica di matrice sociale ed in particolare alla Psicologia Individuale di

Adler.

Per Baltes un buon invecchiamento si fonda sul dominio affettivo e cognitivo del declino fisico

basato su un corretto esame di realtà e non su un rifiuto o sulla negazione di esso. Baltes individua

sette formule chiave che costituiscono la cultura positiva dell’invecchiamento e che sono un

insieme di osservazioni e ricerche empiriche e postulati teorici.

Le sette formule di Baltes sono:

Il corso dell’invecchiamento è eterogeneo.

Questo assunto deriva dagli studi longitudinali sull’invecchiamento che hanno mostrato come esso

si concluda sempre con la morte ma attraverso percorsi e differenze personali psicologiche e

biologiche.

L’invecchiamento normale è diverso da quello patologico.

Baltes individua delle differenze tra invecchiamento normale, patologico ed ottimale:

l’invecchiamento normale consiste nell’invecchiare senza malattie, quello ottimale nell’avere le

migliori condizioni ambientali e personali.

Nell’invecchiamento molte capacità sono di riserva e possono essere sviluppate.

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Baltes individua attraverso studi empirici due qualità che caratterizzano la terza età rispetto all’età

adulta:

Expertise professionale: il cumulo di esperienze

Saggezza: l’incremento dell’intelligenza esperienziale o pragmatica che può compensare la perdita

dell’intelligenza fluida o cognitiva (software vs. hardware); fa riferimento ai Berlin Aging Study

(1999) studi che pongono la saggezza intesa come ricchezza delle esperienze vissute al centro

dell’invecchiamento positivo.

La saggezza per Baltes sarebbe costituita da cinque fattori:

Conoscenze affettive o fattuali delle pragmatiche fondamentali della vita.

Conoscenza strategica o procedurale di esse.

Contestualizzazione di queste informazioni nella storia del proprio tempo e nei cambiamenti sociali.

Relativismo di tali conoscenze

La convinzione che non esiste una conoscenza perfetta (il “sapere di non sapere” di ispirazione

socratica).

Con l’età i meccanismi fluidi della mente evidenziano un decadimento.

Con questo postulato Baltes non nega il decadimento di alcune funzioni cognitive quali ad esempio

la memoria, ma sottolinea, però come l’anziano possa imparare a compensare tali perdite attraverso

ad esempio l’apprendimento di nuove associazioni tra stimolo e ricordo.

Conoscenza e pratica cognitive arricchiscono la mente anziana e possono compensare le perdite.

L’esperienza acquisita rappresenta una capacità compensatoria in grado di modulare le attività e le

abilità quotidiane che subiscono un decadimento nella terza età.

La bilancia tra guadagni e perdite con gli anni diventa meno positiva o decisamente negativa.

Baltes intende contrastare l’idea “ingenua” secondo cui lo sviluppo umano comporta sempre

l’acquisizione di nuove capacità e mai la perdita; in altre parole l’invecchiamento implica la

capacità di accettare le nuove condizioni spesso svantaggiose per l’individuo anziano.

Il Sé nell’invecchiamento costituisce un nucleo psichico forte e stabile, utile come sistema di coping

e di conservazione dell’integrità.

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(Per coping, si intende, l’insieme delle strategie cognitive (o mentali) e comportamentali messe in

atto una persona per fronteggiare una situazione di stress. In altre parole, si riferisce sia a ciò che un

individuo fa effettivamente per affrontare una situazione difficile, fastidiosa o dolorosa o a cui

comunque non è preparato, sia al modo in cui si adatta emotivamente a tale situazione – Bandura,

1997-).

Alcuni costrutti legati al senso di Sé quali ad esempio l’autostima, il senso di controllo personale

(locus of control), la self agency ecc. non mostrano riduzioni con l’avanzare dell’età; questo per

Baltes apre a nuovi orizzonti per l’anziano che può ricorrere a quello che Kohut, in un’ottica

psicoanalitica che origina nella Psicologia del Sé (Kohut, 1971), definisce “senso del Sé integro e

coese”, o a quello che Erikson chiama “integrità dell’Io”, per risolvere ed affrontare situazioni ed

eventi di vita stressanti.

In sintesi il modello proposto da Baltes afferma che adottando una prospettiva positiva

sull’invecchiamento questo può essere padroneggiato dall’individuo e può conferire all’anziano

nuove capacità ed abilità incrementando notevolmente la qualità della sua vita. Tale modello è

chiamato appunto SOC:

Selezione: un pianista può selezionare, riducendo, il repertorio dei pezzi che suona.

Ottimizzazione: deve esercitarsi di più.

Compensazione: deve adottare nuove strategie come il suonare più lentamente i pezzi per poter

creare il senso della velocità nonostante le sue dita abbiano perso rapidità di movimento.

Introduzione:

• È attorno ai primi anni ’70 che, in Italia, gli anziani e la loro condizione cominciano ad

essere oggetto di attenzione e di riflessione.

• I “vecchi” diventano visibili e la loro dimensione quantitativa pone il problema in tutta la sua

“durezza”.

• Questo porta alcuni studiosi (Maderna Burgalassi-Pagani) a riflettere sugli anziani e la

loro condizione, avviando ricerche attente e mirate.

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I problemi e le contraddizioni

• La paura che viene indotta dal numero sempre più crescente di persone anziane impedisce, però,

ai molti di cogliere alcune contraddizioni che, strettamente legate ai mutamenti demografici e a

quelli socioeconomici in atto, assumeranno rilevanza nel corso degli anni ‘70 per poi esplodere

negli anni ’80.

• Ci si riferisce all’allungamento della vita media e allo stesso tempo all’invivibilità della vita

allungata, all’incremento del tempo disponibile e alla non valorizzazione dello stesso, alle conquiste

medico-farmacologiche e all’abbandono sociale, all’espansione dei servizi sociali, assistenziali e

culturali e alla loro disfunzionalità e incapacità di dare risposte efficaci.

• La maggiore longevità evidenzia con puntualità contraddizioni e problemi.

• Si accusano carenze conoscitive e metodologiche; le categorie concettuali utilizzatesi mostrano

sempre più deboli per comprendere i mutamenti che sono in atto nel mondo degli anziani che, a loro

volta, appaiono sempre di più diversi tra loro.

• Si rendono necessari nuovi “concetti” e nuovi “strumenti” per potere entrare e conoscere tale

“mondo”.

Approccio multidisciplinare integrato

• La complessità della condizione anziana impone un approccio di carattere multidisciplinare

integrato che consente non la sovrapposizione di discipline diverse che rimangono distanti e non

comunicano tra di loro, ma il loro conglobamento in un metodo unitario di lavoro.

• Questo rende possibile un’analisi della condizione anziana sia nei suoi aspetti prettamente

individuali che nei suoi aspetti sociali.

• Questo è l’approccio al quale ha fatto ricorso una parte consistente della ricerca e della letteratura

sociologica, psicologica e, in anni più recenti, gerontologica

Vecchiaia, età e cicli di vita

• Ogni società è caratterizzata da una propria suddivisione della vita in età o in fasi.

• Tali società, per poter gestire il processo di invecchiamento e il ricambio generazionale,

organizza periodi e transizioni, calendari e percorsi che incidono sulla suddivisione delle età e

scandiscono i tempi sociali, per cui l’età ha un peso come principio organizzativo della società.

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• L’età è una costruzione sociale riconosciuta e condivisa che va a connotare il corso della vita e

“gestisce” collettivamente i destini individuali.

• Anche se in passato sono esistite società semplici che proponevano solo due classi di età (bambini

e adulti), la maggior parte delle società ha fissato almeno tre classi di età:

• Bambini

• Adulti

• Anziani

• Anche se, con i cambiamenti che nel tempo hanno interessato la società industriale, questa

tripartizione della vita subisce, all’interno dei suoi segmenti, modificazioni che daranno vita a

nuove “fasi” (o sotto-fasi) rendendo meno rigidi i confini e creando periodi di transizione.

• Ad esempio la prima fase è sempre più caratterizzata da “momenti” che rallentano e spostano in

avanti il passaggio alla vita adulta(es. ricerca del lavoro stabile).

• Si diversificano anche l’età adulta e la vecchiaia.

• Per ciò che riguarda la vecchiaia, si parla di “vecchi-giovani” (old-young) e di “vecchi-

vecchi”(old-old), di terza, quarta e magari anche di quinta età.

Terza e quarta età

• La terza età è un’età caratterizzata da buone condizioni di salute, inserimento sociale, disponibilità

di risorse diverse e realizzazione personale.

• La quarta età è caratterizzata dalla dipendenza e dal decadimento fisico.

• Età incerte, carenti di status sociale, si contrappongono ad età che in passato erano rigidamente

definite.

• Il ciclo di vita, fortemente imposto dalla società e trasformato da individui e gruppi nel loro

percorso esistenziale, assume sempre di più l’andamento di una linea spezzettata.

Il significato di invecchiamento

• L’invecchiamento non è solo un processo attraverso il quale ci si modifica in funzione del tempo

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• “Riferito all’uomo indica il complesso delle modificazioni cui l’individuo va incontro, nelle sue

strutture e nelle sue funzioni, in relazione al progredire dell’età”.

Un doppio significato..

• L’invecchiamento come maturazione o accrescimento è visto come un processo attraverso il quale

l’individuo aumenta quantitativamente le sue funzioni e strutture e le differenzia qualitativamente.

• L’invecchiamento come senescenza è il processo attraverso cui l’individuo diminuisce

quantitativamente le proprie strutture e perde progressivamente le proprie funzioni.

• Questi due processi fanno parte del processo di sviluppo che inizia dal momento in cui comincia a

formarsi un essere vivente, fino al momento della sua morte.

• Nel processo di senescenza tendono a decadere le funzioni scarsamente esercitate, mentre

permangono e migliorano quelle maggiormente utilizzate.

• L’invecchiamento umano comunque, seppur generalizzato a tutti gli individui, si svolge con

modalità, ritmi e conseguenze, variabili da individuo a individuo.

Un fenomeno complesso..

• L’invecchiamento è un fenomeno complesso che non può essere affidato alla sola età cronologica,

si devono chiamare in causa le altre “età”: l’età psicologica, l’età sociale, l’età biologica, ed essere

intese come un insieme compatto.

L’età biologica

• Secondo Cesa-Bianchi (1987), l’età biologica di una persona è la sua posizione attuale nei riguardi

della sua potenziale durata di vita: si avvicina notevolmente all’età cronologica, ma non si identifica

con essa.

L’età psicologica

• L’età psicologica si riferisce alle capacità adattative di una persona che risultano dal suo

comportamento, ma può anche riferirsi alle relazioni soggettive o all’autoconsapevolezza: è

collegata sia all’età cronologica che a quella biologica, ma non è pienamente desumibile dalla loro

combinazione.

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L’età sociale

• L’età sociale si riferisce alle abitudini e ai ruoli sociali della persona in funzione delle aspettative

del suo gruppo e della società: è collegata, ma non completamente definita, all’età cronologica,

biologica e psicologica.

I fattori alla base dell’invecchiamento

• Fattore genetico (definisce il ritmo, le fasi, la durata del processo di invecchiamento);

• Fattore educativo-culturale (influenza significativamente il processo di senescenza, sia pure in

modo diverso a seconda della popolazione di appartenenza. Un buon livello educativo e

un’adeguata situazione culturale sembrano agire positivamente sull’invecchiamento, mentre una

situazione opposta è, spesso, chiamata in causa quale condizione favorente un rapido decadimento

delle funzioni della persona).

• Fattore economico (molte ricerche, fra le quali quelle di J. Birren, documentano una vera e propria

dicotomia nel modo di svolgersi dell’invecchiamento fra gli appartenenti alle classi socio-

economiche più fortunate e quelli appartenenti alle classi più svantaggiate, per questi ultimi la

senescenza si attua molto più frequentemente con modalità esclusivamente negative).

• Fattore sanitario (opera in stretta interdipendenza con il fattore economico.

L’insorgenza di patologie, specie se di carattere cronico e progressivo, influenzano negativamente il

processo di invecchiamento fino a farlo precipitare. Tale influenza negativa diventa più incisiva se

si realizza in un quadro di inadeguate risorse economiche).

• Fattore personalità (bisogna prendere atto della diversità che la senescenza assume negli individui

chiusi e in quelli aperti, negli attivi e nei disimpegnati, nei tenaci e nei labili e così via. A differenti

tipologie caratteriologiche corrispondono diverse modalità di invecchiare. In ogni caso la

personalità è in stretta connessione con l’ambiente, e le modalità adattative della persona dipendono

da questa interdipendenza).

• Fattore famiglia (l’invecchiamento varia notevolmente se un individuo vive solo, in coppia, o in

un gruppo più numeroso. L’influenza di tale fattore si differenzia anche in rapporto al carattere

dell’individuo che invecchia, alle sue condizioni culturali ed economiche, al gruppo di

appartenenza, ecc..).

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• Fattore ambiente (ormai è un dato di fatto che l’invecchiamento è espressione di un’interazione fra

l’individuo e il suo ambiente, interazione nella quale l’individuo modifica continuamente

l’ambiente e l’ambiente modifica continuamente l’individuo).

Invecchiamento e patologia

• Esiste una relazione fra patologia ed età, nel senso che molte malattie prediligono determinate

fasce di età.

• Per quanto riguarda l’età senile è possibile riconoscere che alcune patologie si riscontrano più

frequentemente rispetto ad altre.

• Gli antichi dicevano “senectus ipsa morbus”.

• L’affermazione sosteneva che la vecchiaia comportasse di per sé la patologia; che questa fosse un

evento ineliminabile e irreversibile col passare degli anni.

• Le concezioni e i dati più recenti respingono questo modo di intendere il rapporto tra patologia ed

età.

• Considerano la patologia riferibile ad uno o più fattori estrinseci e le modificazioni connesse

all’età solamente come fattori predisponenti o scatenanti.

• È ancora da sottolineare come nella genesi della patologia nell’anziano è spesso riconoscibile una

causa di carattere sociale, come la perdita del partner, lo sradicamento dalla famiglia, e

l’istituzionalizzazione.

Malattie organiche e malattie psichiche

• La comparsa di malattie organiche e/o psichiche nell’età senile ripropone il problema delle

relazioni esistenti fra queste due forme di malattia.

• È noto che esistono malattie puramente organiche, ma in queste forme morbo se non è possibile

escludere l’interferenza dico-fattori di carattere psicologico.

• Né si può escludere il ruolo svolto dai fattori psicologici nel valorizzare una terapia o nell’influire

sul decorso della malattia stessa.

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Le malattie organiche

• Quelle più frequentemente riscontrate sono le cerebropatie vascolari o degenerative.

• Queste forme possono alterare anche le capacità intellettive e le funzioni sensomotorie.

Le malattie psichiatriche

• Fra queste manifestazioni patologiche ritroviamo l’ansia e la depressione, che possono condurre

anche al suicidio.

• Il numero delle persone anziane che si suicidano è nettamente superiore a quello dei giovani e

degli adulti.

• La solitudine e l’emarginazione possono tradursi in gravi disadattamenti da ricovero psichiatrico.

Tendenze attuali.

• Restituire l’anziano al suo ambiente di origine;

• Permettergli di conservare i legami con il suo ambiente;

• Ritardare l’istituzionalizzazione.

Il vissuto della malattia

• L’anziano si sente più esposto alla malattia e quindi è meno sicuro di sé e delle proprie capacità di

assolvere ai ruoli sociali e familiari.

• La sofferenza e il dolore dell’anziano sono la diretta conseguenza della malattia.

• Gli anziani temono meno la morte rispetto alla malattia, perché la prima porrebbe fine alle

sofferenze, mentre la seconda le aumenterebbe.

1. Essere malato significa per l’anziano essere di peso alla propria famiglia

• Ma la vera giustificazione psicologica potrebbe essere quella che non si sente più in grado di

ricoprire il ruolo sociale e familiare che gli era proprio; oppure sente che gli altri non lo reputano

all’altezza.

2. La malattia induce nell’anziano un certo grado di depressione

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• Lo porta a sentirsi debilitato, creando in lui insoddisfazione e timori.

• Può essere ricondotta al disadattamento.

3. L’anziano vede la malattia come diretta conseguenza dell’età

• Spesso sono le manifestazioni patologiche che inducono la persona anziana a rendersi conto per la

prima volta di essere invecchiata.

4. L’essere ammalato ed il sentirsi inutile non vengono soggettivamente distinti

• La malattia rende meno capaci = l’anziano si sente inutile.

• Sentendosi inutile l’anziano avverte di non essere più capace di usufruire di quei compensi che

derivano dal suo lavoro.

• Vissuto depressivo

• La malattia della persona anziana è collegata strettamente all’età e rappresenta, se non la causa

scatenante, almeno una causa predisponente al verificarsi delle modificazioni psichiche di cui

abbiamo accennato prima.

Non aver paura dell'età che avanza

Confortami nelle difficoltà, dammi la serenità contro l'inevitabile, allunga la brevità del mio tempo,

insegnandomi che il bene della vita non consiste nella sua durata ma nell'uso che se ne fa e può

avvenire, anzi molto spesso avviene, che proprio chi è vissuto a lungo sia vissuto poco (Seneca).

Se a volte ci si rammenta della frase che vuole caro al cielo colui che muore in giovine età,

altrettanto frequente è la consuetudine che spinge ad associare alla giovinezza la salute ed alla

vecchiaia i malanni.

Tanto più che la società occidentale , centrata sul giovane e dominata da un costume culturale che

assume come valori assoluti giovinezza e produttività, auspica di non invecchiare, anzi, di sembrare

(possibilmente sempre) più giovani di quello che si è (Zoja 1983) .

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L'idea di invecchiare diventa, dunque, quasi un anatema

Lo confermano le parole della famosa invocazione di Dorian Gray "Youth! Youth! There is

absolutely nothing in the world but youth" (Wilde 1891) nella quale si appalesa il fine di scindere

dal proprio sé che sta invecchiando quella rappresentazione che paura ed odio procurano (Garner

1998).

Il futuro di colui che comincia a pensarsi vecchio si profila con una prospettiva cupa, quasi

necessita della sapiente regia di un mentore saggio che agevoli la possibilità di attribuire ancora

significato alla propria esistenza quando la vita sta volgendo al termine.

Se nella percezione del proprio invecchiamento l'essere umano conquista progressivamente la

consapevolezza della temporalità della propria vita, il percepirsi vivi è diverso dal sentire di esistere

nella scansione dei propri giorni.

Il termine vita rimanda, almeno in prima istanza, a ciò che "è caratterizzato da processi biochimici

di natura metabolica che, utilizzando ed immagazzinando energia esterna, permettono la

costruzione, il mantenimento e talvolta la demolizione della sua struttura fisica, oltre che il suo

comportamento"(Boniolo 2006).

L'esistenza, invece, possiede valore "perché comporta che vi sia un soggetto" che, ricorrendo a

proprie "credenze filosofiche, religiose e ideologiche ",anche "storicamente contestualizzate", possa

donare senso, conferire cioè " un valore speciale a quel particolare tipo di vita, a quel particolare

periodo ed a quella particolare popolazione di viventi" (Boniolo 2006).

Se l'allungamento della durata media dell'arco di vita è un dato ormai assolutamente

incontrovertibile, la popolazione degli anziani (sempre più numerosa) impegna a tutto campo sul

versante sociosanitario.

Garner(1998) mette in evidenza come ,per una sorta di senso di colpa , usualmente venga data alta

priorità ai bisogni fisici del vecchio e minima considerazione a quelli psicologici .

Negando (o rimuovendo la possibilità di provare) emozioni si allontana la rappresentazione del

dolore che l'essere umano può provare davanti al proprio invecchiamento ed alla propria morte, si

accentra l'attenzione nella cura della malattia , si evita di entrare troppo in contatto col vissuto della

persona anziana.

Eppure l'essere umano ha bisogno di provare senso di vicinanza, di protezione e di sicurezza:

ognuno di noi è guidato dal desiderio di entrare in relazione con gli altri.

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Il senso dell'esistere come persona è strettamente legato alla possibilità di comunicare con gli altri

(Storr 1960), e tutto ciò vale ancora di più quando siamo vecchi.

Soprattutto perché negli anni della tarda maturità e della vecchiaia l'individuo tende

progressivamente a sminuire quei tratti della personalità sui quali hanno pesato precedenti ruoli,

aspettative note, usuali e consolidate interazioni sociali.

L'anziano sposta inesorabilmente la propria attenzione dal mondo esterno a quello interno,

manifestando la convinzione che la propria per così dire condizione ideale coincida desolatamente

con la rinuncia ad una serie di aspirazioni e traguardi, tipici e salienti di altre fasi della vita

trascorsa(Cumming, Henry 1961).

A differenza del bambino e del giovane non ha tutta la vita davanti, quella specie di schermo sul

quale potersi permettere di proiettare sue identificazioni: se l'identificazione richiede una rinuncia

attuale per una soddisfazione che si pregusta futura o potenzialmente futuribile, nel vecchio questa

possibilità risulta progressivamente risicata.

Non resta che aggrapparsi al presente o volgere lo sguardo al passato.

E' questo il motivo per cui sempre più frequentemente una diagnosi secca sembra davvero risultare

un non senso perché potrebbe disarticolare la visione unitaria della persona, "con la sua storia, il suo

bagaglio culturale, il suo assetto relazionale, le sue convinzioni morali ed ideologiche", rendendo

spesso arduo il discrimine "fra patologia dell'invecchiamento, patologia nell'invecchiamento ed

invecchiamento stesso"(Cesa-Bianchi 1996).

Aleggia, al di là della condizione di malattia, una diffusa, spesso profonda, sensazione di malessere,

la percezione di sogni irrealizzati, un vissuto di sconforto e delusione.

Con difficoltà si mantengono e coltivano legami e relazioni, amplificando l'angustia per una

marginalità generata dall'imbarazzo di sentirsi troppo vecchi.

Inquieti, con ridotto grado di autonomia, proprietari di una fragilità poco condivisibile, quasi ci si

sentisse ad un tratto assediati da bisogni di complessa ed al tempo stesso troppo banale decodifica,

si oscilla tra un vissuto di rassegnazione, se pur sofferta, ed una disanima troppo disincantata della

quotidianità, pungolo (ma scomoda testimonianza) dell'inevitabile involuzione fisiologica.

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Ci si ancora e conforta nella speranza di poter possedere ancora un'esistenza desiderabile, per

contrastare la paura che si annida nel proprio mattino .

Al tempo stesso si teme la paura di doversi riconoscere in un corpo biologico depauperato del senso

dell'esistere.

E' il territorio della paura, della paura dell'età che avanza, territorio spesso estraneo alla

malattia(Cesa-Bianchi 1996).

Eppure esistono eccellenti immagini e testimonianze di eccellenti vecchi, tanto da poter affermare

che invecchiamento e creatività non siano affatto estranei l'uno all'altra (Garner 2002).

Pablo Picasso(1881-1973) possedette vigore ed inesauribile talento fino agli ultimi giorni della sua

esistenza.

Henri Matisse(1869-1954) superò negli ultimi anni le limitazioni dovute all'età ed alla malattia con

la creazione dei gouaches decoupees.

Giuseppe Verdi(1813-1901) scrisse il Falstaff, potente evocazione della vecchiaia, alla non

verdissima età di 79 anni.

Compito di colui che invecchia è dunque mantenere un senso di integrità e di coesione del sé ,

nonostante le ricorrenti rappresentazioni negative della vecchiaia.

Così il "diventare vecchi" ci permette di includere anche aspetti positivi di questa fase

dell'esistenza, per quanto la crescita personale, alla quale chi invecchia non può dirsi estraneo, non

rappresenta di per sé e necessariamente un percorso lineare.

Separazioni e perdite costituiscono aspetti inevitabili nella nostra esperienza del vivere, financo

necessari per conquistare più compiuta consapevolezza del nostro essere adulti.

La maturità è insieme "una conquista e una rinuncia, la perdita di un'incertezza, di un'illusione, di

uno slancio, di un vagabondaggio, di un dubbio: mentre lo sguardo apprende a vedere, l'intelligenza

a cogliere il nucleo delle cose, il cuore a sopportare le cose tollerabili e intollerabili"(Citati1998).

E l'elaborazione del dolore può davvero avvicinarci ad aspetti più profondi nella relazione con noi

stessi e col mondo, per aver cuore, partecipi e compenetrati della pienezza del significato del nostro

tempo di vita.

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ASPETTI PSICOLOGICI DELL’INVECCHIAMENTO E DELLA DISABILITA’

Depressione e invecchiamento

Con il termine “invecchiamento” si fa riferimento all’ultima parte del ciclo vitale che va dalla

maturità alla morte e che è caratterizzato da riduzione, indebolimento e regressione delle strutture

organiche e delle relative funzioni. Stereotipi, preconcetti e generalizzazioni hanno disegnato un

quadro psicologico dell’anziano caratterizzato da difetti di memoria, difficoltà nell’apprendimento,

rallentamento delle performance mentali, fragilità emotiva, egoismo, avarizia, ripetitività, caduta

degli interessi, perdita di creatività e progettualità, rigidità, cocciutaggine, permalosità, culto delle

memorie. Bisogna comunque sottolineare che ogni generalizzazione è erronea e che una strategia

opportuna per la comprensione del problema è quella di distinguere gli aspetti più propriamente

cognitivi, quali memoria, attenzione, capacità di apprendimento, da quelli psicologici, quali gli

aspetti emotivi, affettivi e volitivi. Tali aspetti sono tra loro collegati, ma si possono comunemente

osservare sfasature nel loro manifestarsi: tutti conosciamo anziani con memoria ancora perfetta e

nessun segno di deterioramento cognitivo, ma spenti psicologicamente, vuoti, ripiegati in un

vegetare, e viceversa persone che non ricordano più i nomi propri, che sono rallentate

nell’apprendere cose nuove, ma ancora capaci di slanci affettivi, di emozioni, di curiosità e di

creatività.

La componente cognitiva dell’invecchiamento è conseguente all’involuzione della struttura del

Sistema Nervoso Centrale e alla riduzione progressiva del numero di cellule nervose e delle loro

connessioni. La componente “psicologica” è invece quella correlata alla personalità, alla storia

individuale, allo stile di vita, alle interazioni ambientali, agli eventi e all’assetto del tono

dell’umore.

Aspetti cognitivi

Il più classico, conosciuto, lamentato disturbo cognitivo dell’invecchiamento è quello a carico della

memoria. La compromissione della memoria è in genere ben percepita dal soggetto. All’inizio il

difetto non è notato da familiari e amici ma, quando si accentua, risulta evidente anche agli altri.

Due sono le teorie principali sui disturbi della memoria nella vecchiaia: una è quella classica di

Ribot, secondo la quale la perdita dei ricordi avverrebbe sistematicamente dai più recenti ai più

antichi. Associazione per la Ricerca sulla Depressione. La concezione moderna, invece, tende a

valutare l’importanza dell’intera personalità e tiene conto dei molteplici fattori psicologici che

possono più o meno direttamente causare tali disturbi, facilitarne la comparsa e modellarne alcuni

aspetti caratteristici. Accanto ai disturbi della memoria è presente, nell’invecchiamento, il

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rallentamento dei processi cognitivi quali l’attenzione e la capacità di apprendimento, soprattutto in

funzione della velocità.

Aspetti psicologici

Frequentemente nella vecchiaia si accentuano le caratteristiche della personalità e alcuni elementi

positivi possono assumere carattere negativo: ad esempio la prudenza può trasformarsi in avarizia e

diffidenza, l’attenzione alla propria salute in ipocondria. Per contro si moderano alcuni tratti

caratterologici dell’età più giovane, quali l’impulsività, il rigore verso gli altri, l’aggressività.

L’esperienza, l’abitudine alle frustrazioni e un certo distacco dalle passioni contribuiscono ad un

atteggiamento più paziente, un umore più stabile, una certa indipendenza dalle convenzioni e dai

compromessi. Un aspetto abbastanza caratteristico della vecchiaia è l’indecisione,

l’indeterminazione, l’insicurezza. La vecchiaia è l’età dei dubbi, dei forse: la paura di sbagliare è

grande, non solo per l’esperienza degli errori accumulati negli anni, ma anche perché, in caso di

errore, non c’è più tempo per ricominciare. Il soggetto che invecchia elabora una disistima di sé

alimentata da varie componenti, peculiari secondo la personalità: per alcuni sarà la decadenza fisica,

per altri l’insicurezza, per altri ancora la compromessa immagine. I rapporti col passato sono

fondamentali per comprendere l’assetto psicologico dell’anziano. Il passato è ad un tempo la sua

ricchezza e la sua dannazione: ricchezza perché gli dà i vantaggi dell’esperienza e la possibilità di

rifugio ideativo, dannazione perché i ricordi, i rimorsi, i rimpianti, possono soffocarlo.

Nella vecchiaia è frequente la deformazione ottimistica degli eventi passati che si connotano di

sentimenti piacevoli: quelli della prova superata, del traguardo raggiunto, dello scampato pericolo,

della dimostrata capacità di sopportare le avversità. Si formano così accoppiamenti che

costituiscono stereotipi culturali: passato = bene, presente = male, gioventù = felicità, vecchiaia

=dolore. A volte il passato è vissuto con prevalenti sentimenti di rimpianto riferite ad occasioni

perdute, scelte errate, obiettivi mancati, iniziative che si dovevano intraprendere, decisioni che

invece dovevano essere scartate. In molti casi il rimpianto non ha un contenuto preciso, ma assume i

connotati della nostalgia, con la caratteristica miscela di malinconia e dolcezza, di aspetti positivi e

negativi. Strettamente connessi al concetto di futuro sono quelli di speranza e progetto. La speranza

tende ad assumere lineamenti vaghi e incerti oppure è riferita al breve termine e si basa sul

soddisfacimento dei bisogni primari della vita: mantenere valido il proprio corpo, nutrirsi, accudire

la propria persona e le proprie cose. Per quanto riguarda, invece, la progettazione, nell’anziano il

deficit cognitivo non solo ne riduce la possibilità di realizzazione, ma ne compromette anche la

proiezione nel futuro. La mancanza di progetti comporta noia e isolamento che si ripercuotono

negativamente sull’efficienza mentale e sul tono dell’umore. Un altro aspetto abitualmente descritto

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come tipico dell’invecchiamento è l’egocentrismo. L’energia non più impiegata nei rapporti con

l’ambiente esterno è prevalentemente investita nel proprio corpo, che acquista la priorità di cui

godeva nell’infanzia: ne consegue l’accentuazione di tutte le manifestazioni di somatizzazione

l’aumento dell’attenzione per le proprie funzioni corporee. Si scrive molto, in tema di psicologia

della vecchiaia, sul problema dell’adattamento e del disadattamento. Adattarsi significa trovare i

modi più opportuni alla sopravvivenza e il successo della specie umana è dovuto proprio a tale

capacità. La personalità è il fattore più importante nel condizionare il grado di adattamento nella

vecchiaia. L’individuo che ha manifestato problemi psicologici nel corso della vita, li manterrà

anche da anziano: soggetti con caratteristiche psicologiche di rigidità, autoritarismo, egocentrismo o

al contrario persone con stati d’insicurezza, labilità, eccessiva passività, possono avere ugualmente

notevoli difficoltà a adattarsi alla situazione esistenziale della vecchiaia. Lo stretto collegamento tra

l’adattamento e i fattori di personalità conferma l’importanza della preparazione e educazione

all’invecchiamento. Le modalità di adattamento sono certamente diverse da persona a persona,

anche perché diverse sono le ripercussioni dell’invecchiamento. È stato osservato, ad esempio, che

nelle donne il disadattamento è spesso soggettivo, cioè più percepito soggettivamente che reale,

mentre negli uomini avviene il contrario: in alcuni è importante la ricerca di un’occupazione

alternativa dopo il pensionamento, in altri il compenso avviene con meccanismi sostitutivi, come ad

esempio il passaggio da un’attività manuale ad un’attività mentale o viceversa.

Fattori dell’invecchiamento mentale

Alcuni aspetti dell’invecchiamento sono espressione del deterioramento delle strutture cerebrali,

altri sono secondari a fattori esistenziali di vario genere (culturali, sociali, familiari, individuali),

altri ancora possono esser letti come modalità di difesa e tentativi di adattamento ai precedenti. Tra i

fattori cerebrali dell’invecchiamento la perdita neuronale, la riduzione delle connessioni

interneuroniche e le modificazioni dei neuromediatori hanno una diretta ripercussione sull’assetto

cognitivo. I concetti di ridondanza e di plasticità neuronale hanno archiviato le semplicistiche teorie

sul deterioramento conseguente allo spopolamento dei neuroni. La visione attuale è certamente

molto più dinamica e complessa: si riconosce il fatto genetico come timer che programma la durata

in vita di un neurone, ma si considera anche l’importanza di una serie di fattori acquisiti (vascolari,

tossici, dismetabolici) e soprattutto l’intervento determinante della stimolazione. D’altra parte è

ormai certo che esiste una stretta correlazione tra deficit cognitivi e fattori psicologici, quali

l’abbassamento del tono dell’umore e il restringimento delle relazioni interpersonali. Anche i fattori

somatici hanno una ripercussione sull’invecchiamento mentale, tanto negli aspetti cognitivi quanto

in quelli psicologici. Ad esempio il ruolo dell’indebolimento degli organi sensoriali, così frequente

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nella terza età, è rilevante nel contribuire all’invecchiamento mentale tramite il deficit di

stimolazione. I deficit della funzione visiva hanno indubbie ripercussioni dirette sulla vita psichica:

si pensi agli anziani che non possono più leggere il giornale o guardare la televisione. Ancor più

importanti sono i difetti uditivi, sia per la loro frequenza sia per le conseguenze psicologiche:

producono imbarazzo, vergogna, frustrazioni, ma anche sospettosità, ostilità ed impazienza da parte

degli altri. Anche i difetti motori, così frequenti per molte patologie negli anziani, diminuiscono

l’autonomia del soggetto, la sua disponibilità esplorativa, la sua probabilità di rapporti

interpersonali e di situazioni nuove. Infine vanno considerati i problemi somatici, vissuti dai

soggetti come umilianti e vergognosi, e gli handicap estetici, desocializzanti perché inducono al

ritiro o perché possono obiettivamente ridurre il gradimento da parte degli altri. I rapporti

interpersonali, inoltre, possono essere difficili anche perché l’anziano tende a trascurare la pulizia

personale, l’aspetto esteriore, l’abbigliamento, a causa di una diminuita motivazione alla ricerca di

un’immagine personale attraente o di un deficit motorio e sensoriale, come ad esempio il non veder

bene le macchie del vestito o il non avvertire il cattivo odore del proprio corpo o la rinuncia al

bagno per paura di scivolare o alle abluzioni per paura di prender freddo. L’esame dei fattori che

possono causare deficit di stimolazione direttamente o tramite l’isolamento è importante non solo

per una più corretta interpretazione delle modalità d’invecchiamento mentale, ma anche nella

routine quotidiana, per un’opera di prevenzione e per una loro puntuale correzione. E’ certo che i

fattori di personalità svolgono un ruolo rilevante nel condizionare le modalità d’invecchiamento

mentale. Sul piano clinico si può ipotizzare che soggetti con componenti nevrotiche di tipo astenico

e depressivo più facilmente, nella vecchiaia, saranno predisposti ad una progressiva chiusura in se

stessi, ad un impoverimento esistenziale e quindi anche ad un maggiore decadimento intellettivo.

Anche la scala personale dei valori ha una grande influenza sul modo di invecchiare e lo condiziona

positivamente o negativamente. Alcuni di tali valori, quali la forza fisica, la bellezza, sono come un

timer destinato a far esplodere un dramma esistenziale ad una data epoca della vita. Altri invece,

quali il dovere, la religione, la cultura, possono diventare preziosi ausili per un invecchiamento

equilibrato e sereno. I fattori legati agli eventi che possono colpire la persona che invecchia sono

diversi: tra i più costantemente presenti quelli riassumibili nel concetto di perdita, tanto che la tarda

età è stata chiamata la stagione delle perdite. Si perde in campo biologico: la forza, la resistenza, la

rapidità, la motilità, l’acutezza sensoriale; si perde la salute, con disturbi e malattie; si perde in

campo affettivo: muoiono persone-chiave della vita, come il coniuge, i fratelli, gli amici; si perdono

i figli che acquisiscono una loro autonomia e che si allontanano materialmente e affettivamente

dalla nostra vita; si può perdere il lavoro, l’impiego, la capacità produttiva, la sicurezza economica e

quindi il ruolo, il prestigio, il rango, si perde anche, più o meno tardi, l’indipendenza, l’autonomia.

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Altri importanti fattori che intervengono a condizionare l’assetto psicologico della persona che

invecchia sono quelli legati alla situazione esistenziale ed ambientale. Tra le modificazioni

esistenziali più rilevanti che caratterizzano la vecchiaia va certamente segnalata la gran quantità di

tempo libero a disposizione. Non vi sono altre epoche della vita umana, se non i primi cinque anni,

nelle quali la persona possa avere la totale disponibilità del proprio tempo. Il tempo libero può esser

goduto o sofferto, utilizzato bene o sprecato, sicuramente può condizionare la qualità di vita

dell’anziano ed anche determinare situazioni patologiche. Le ripercussioni del nuovo assetto

esistenziale proprio dell’età avanzata sono diverse nell’uomo e nella donna: la tendenza più spiccata

ai legami affettivi, al maternage, all’interiorità, costituiscono elementi favorevoli nell’affrontare la

condizione della senilità e l’invecchiamento per la donna è in linea generale più sereno che per

l’uomo. Notevoli differenze di assetto psicologico si osservano anche tra anziani che vivono in

ambienti e culture diversi: l’anziano che vive in campagna con i propri familiari e riesce a svolgere

piccoli lavori manuali simili a quelli svolti nell’età matura è certamente favorito rispetto a quello

che invece vive in città, dove il tipo di organizzazione del lavoro rende più netta la divisione tra

cittadini produttivi e non produttivi. L’ambiente familiare è tra i fattori più importanti nel

condizionare l’assetto psicologico dell’anziano. Le possibilità di conflitti, frustrazioni, dissapori

sono continue: le differenze d’età portano a concezioni diverse della vita e dei suoi valori, della

moralità, della religione. Si può arrivare a veri scontri generazionali con dinamiche di competizione

e risentimento. Può capitare che il genitore anziano diventi il capro espiatorio delle tensioni

coniugali, il pretesto per malumori di altra natura. Non è infrequente che si attuino meccanismi

d’emarginazione o d’esclusione, motivati dai difetti del carattere, dalla trascuratezza, dagli stessi

handicap fisici, dall’immagine non gradevole. In altri casi, invece, la famiglia ha un effetto positivo

sulle modalità dell’invecchiamento: infatti, è il contesto dove si può mantenere e sviluppare il

mondo degli affetti e dove l’essere-con-gli-altri può assumere una dimensione di massima ricchezza

esistenziale. L’affetto più contenuto e meno possessivo verso i figli, l’amore verso i nipoti, la

partecipazione come elemento equilibratore alle vicende familiari, il sentirsi quasi depositario della

continuità temporale della famiglia e il percepire sentimenti di amore e di protezione costituiscono

elementi positivi per poter vivere la vecchiaia in buon equilibrio. Tra i fattori che influiscono

sull’assetto psicologico dell’invecchiamento contano molto quelli socio-culturali. Certamente se la

società considera la vecchiaia un disvalore, in quanto non produttiva, la ripercussione sull’uomo che

invecchia è grave. In effetti l’equilibrio psicologico dell’anziano è spesso messo in difficoltà

dall’ambivalenza dell’ambiente che da un lato gli richiede aspetto giovanile, prestanza, autonomia,

ma dall’altro critica impietosamente ogni atteggiamento che non corrisponda allo stereotipo

culturale della vecchiaia. In generale possiamo dire che la condizione umana dell’anziano suscita

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sentimenti e pensieri ambivalenti: da una parte è vissuta come una sorta di malattia e dall’altra come

età della saggezza, del superamento delle passioni, della soluzione dei conflitti istintuali. La

prevalenza di aspetti negativi comporta la comparsa di sentimenti d’esclusione che portano a

depressione, sospettosità, inattività, che certamente peggiorano le prestazioni e l’immagine del

vecchio, che può anche divenire inopportuno ed aggressivo, in uno scomposto tentativo di difesa.

Le continue ferite narcisistiche portano l’anziano ad una tendenza centripeta, a preoccuparsi di sé,

quindi ad un egocentrismo, con prevalenza di pensieri ed atti finalizzati alla conservazione. La

malattia può acquistare anche la funzione di controllo, di potere sull’ambiente nei casi in cui

all’anziano non rimane che essere malato per riacquistare un ruolo e potere sugli altri: in tali casi i

sintomi possono essere interpretati come segnali, messaggi, invocazioni di soccorso ai familiari.

Psicopatologia dell’invecchiamento

I confini tra psicologia e psicopatologia dell’invecchiamento non sono netti, ma costituiti da

situazioni che si scompensano e si compensano ripetutamente. Pur senza assimilare vecchiaia a

malattia, è indubbio che l’anziano soffre di una situazione di disagio per i molti fattori che sono stati

ricordati, tra i quali certamente primeggiano le “perdite”. Tuttavia l’invecchiamento è caratterizzato

anche dalla necessità di “cambiamenti”, cioè di una riorganizzazione dell’identità personale. La

vecchiaia, come età di adattamenti e modificazioni, è simile all’adolescenza: sono entrambe i

periodi della vita più critici perché, in quanto momenti di cambiamento, si verificano metamorfosi

psicologiche predisponenti a veri e propri sintomi psicopatologici. Il quadro clinico più importante e

caratteristico, anche se non esclusivo, è quello dell’involuzione cognitiva e della demenza. La

peculiarità della psicopatologia senile consiste nell’importanza dei fattori di personalità, intesi come

biografia personale e individuale risposta di adattamento agli eventi della vita. L’invecchiamento è

il momento degli scompensi, in cui si rivelano gli assetti patologici della personalità: ad esempio un

disturbo narcisistico, fino ad allora in qualche modo mimetizzato, può esplodere proprio in

vecchiaia. I quadri dei disturbi mentali sono, nella vecchiaia, intrisi di contenuti personologici e

questo spiega l’estrema variabilità dei contenuti della sintomatologia, modellati dalla struttura della

personalità individuale. E’ anche vero che la loro psicopatologia si presenta spesso con quadri

minori, nascosti, integrati nell’assetto esistenziale senile tanto da essere facilmente trascurati,

sottostimati, interpretati non come condizione patologica, ma come modalità dell’essere anziani. Il

problema più importante, nell’ambito della psicopatologia è sicuramente quello della depressione,

favorita sia dall’ipofunzione e fragilità dei sistemi noradrenergici e serotoninergici, sia dalla

presenza di malattie fisiche che possono favorire depressioni secondarie, sia dalle “perdite” di cui si

è prima accennato. Si può quindi ritenere “normale” la presenza di elementi depressivi nella

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vecchiaia: si accumulano vissuti di frustrazione e di esclusione che comportano risposte di

abbattimento, d’inibizione, d’evitamento. La depressione nel vecchio è tuttavia sottostimata perché i

suoi sintomi sono scambiati per normale assetto psicologico dell’età avanzata, oppure per patologia

somatica o anche per involuzione demenziale. Nell’anziano sono frequenti le depressioni

mascherate, cioè nascoste da sintomi somatici, e le pseudodemenze, cioè disturbi depressivi che si

esprimono attraverso deficit cognitivi tali da simulare sindromi demenziali. E’ molto frequente

inoltre la confusione tra invecchiamento psicologico e depressione. Le caratteristiche più

costantemente descritte per l’invecchiamento psicologico sono, infatti, la perdita della capacità di

provare piacere, la riduzione degli interessi, la perdita o la coartazione della temporalità,

l’annullamento del futuro e della speranza, l’intuizione della fine del proprio ciclo vitale, il crollo

dell’autostima, il pessimismo, il rallentamento. Ma sono proprio questi i sintomi chiave della

depressione: può allora sorge il dubbio che l’invecchiamento psicologico, in realtà, non esista come

tale, ma sia invece espressione dell’innesto di una patologia depressiva. Si deve quindi considerare

la patologia depressiva, in tutte le sue forme, maggiori e minori, primitive e secondarie, palesi e

mascherate, come uno dei fattori più rilevanti dell’invecchiamento mentale.

INVECCHIAMENTO E DISABILITA’

Il rapporto tra disabilità e invecchiamento può essere considerato da due diverse prospettive. La

prima riguarda il disabile che invecchia, le trasformazioni e i cambiamenti peculiari dovuti

all’avanzare degli anni e sui processi di adattamento che vengono utilizzati per la gestione dei

cambiamenti. La seconda prospettiva guarda alla persona che diventa disabile ad una certa età e si

deve perciò confrontare, per la prima volta, con le limitazioni determinate dalla sua nuova

condizione in un momento particolare del ciclo di vita. Occorre precisare che nell’ambito

dell’invecchiamento il termine utilizzato per descrivere la condizione di disabilità dell’anziano è

quello di non-autosufficenza. Si pone quindi questo parametro al centro della valutazione e

l’accento cade sulla dimensione dell’autonomia da un lato e della dipendenza dell’altro. Si

potrebbero perciò elencare le diverse condizioni che possono essere affrontate durante la vecchiaia.

La prima viene definita come invecchiamento primario e riferito alla condizione in cui si trovano a

vivere le persone con il progredire degli anni, considerando cioè l’effetto età. Accanto alla

dimensione di invecchiamento normale (che richiede tuttora una definizione delle sue peculiarità) è

stato proposto il concetto di fragilità attribuito alla condizione dell’anziano che in sé non è una

condizione problematica ma potrebbe essere un fattore predisponente oppure un indicatore precoce

di una futura perdita di autonomia. Il termine fragile evoca un’idea di maggiore rischio, la presenza

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di un problema, la possibilità di danneggiarsi, di avere una patologia o una limitazione; accanto

all’idea del rischio di avere un problema occorre considerare anche la sfera della vita della persona

che viene interessata: si può quindi parlare di fragilità fisica, organica, psicologica, cognitiva,

sociale. A tale proposito è di frequente osservazione il cambio di attitudine che i familiari o le altre

persone mostrano di fronte alla percezione di fragilità dell’anziano o all’insorgere delle prime

limitazioni. Essi passano frequentemente da una relazione di reciprocità ad una relazione

direzionale in cui l’anziano viene deprivato di alcune sue capacità decisionali che vengono assunte

dagli altri; in ciò questi sono anche favoriti dall’atteggiamento spesso tenuto dagli anziani di fronte

alle limitazioni e caratterizzato dal rifiuto di consapevolezza e della mancata messa in atto di

strategie adattive adeguate alla nuova situazione. Dall’invecchiamento “normale” (incluso i “super

vecchi”), alla fragilità fino alla disabilità è una linea di una possibilità ma non di inevitabilità; la

disabilità inoltre è una condizione connessa con l’autonomia (perdita e riorganizzazione

dell’autonomia) e con la dipendenza(dall’altro per svolgere i propri compiti).Nell’invecchiamento

le condizioni che possono portare ad una condizione di non autosufficienza o perdita di autonomia

appartengono sostanzialmente a due categorie principali a seconda della loro causa. La prima è in

relazione ad una condizione fisica che determina una perdita di inabilità motoria che compromette

l’autonomia di movimento della persona con vari gradi di severità, classificati, come già accennato,

in perdita di funzioni avanzate (hobbies, viaggi, frequentazione di luoghi ecc.), in perdita di

funzioni strumentali (fare la spesa, accudire la casa, gestire gli aspetti finanziari ed altri ancora) e in

perdita o compromissione delle abilità di base quali alimentazione, igiene personale ecc. Le cause

principali sono gli incidenti cerebrovascolari, le patologie cardiovascolari e quelle a carico

dell’apparato muscolo-scheletrico. Le stesse condizioni di perdita di autonomia possono essere

determinate da una patologia a carico del sistema nervoso centrale, di cui la demenza rappresenta il

prototipo ed è una delle cause più frequenti di disabilità comporta una limitazione sempre più

significativa delle capacità di autonomia mentre le abilità motorie possono essere preservate per un

lungo periodo della malattia. Queste due condizioni ad elevata frequenza nella popolazione anziana

e molto anziana, la cui incidenza cumulativa può raggiungere circa il 50%, richiede delle

considerazioni specifiche riguardo al tema della disabilità e della dipendenza in quanto, nel primo

caso, assistiamo ad una dipendenza fisica, con abilità psicologiche e relazionali conservate, che ha

delle ripercussioni sia sul vissuto della persona interessata sia sulle sue relazioni con gli altri e in

particolare con coloro che se ne prendono cura, siano essi dei familiari oppure degli operatori

professionali; mentre nella seconda tipologia la situazione è diversa in quanto vi è una progressiva

perdita di abilità da parte dell’anziano colpito che implica un ruolo e una relazione molto particolare

e diversa da parte di coloro che si prendono cura di lui.

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I punti significativi da cui possiamo trarre una prima conclusione sono dunque :

1. evitare di sovrapporre il pregiudizio sulla disabilità e quello sulla vecchiaia in quanto l’esito è

una negazione significativa della persona dell’altro;

2. riconoscere le potenzialità e le possibilità dell’altro attraverso la costruzione di contesti e realtà

che possono favorire l’espressione delle potenzialità anche della persona anziana;

3. riconoscere i bisogni di considerazione, di rispetto, di azione e di reazione dell’anziano anche se

ciò può essere sentito come conflittuale e fonte di tensione;

4. tener presente che di fronte alla disabilità l’anziano è in grado spesso di operare il cambiamento

necessario in modo da affrontare la nuova situazione nel modo migliore possibile. Si può chiudere

con l’affermazione di Baltes che sottolinea come invecchiare bene non significhi l’assenza di

limitazione ma la possibilità di fare il meglio che si può con quello che si ha.

DAL PENSARE ALL’AGIRE

Si tratta di un problema non facile da risolvere, ma fondamentale, specialmente quando si debba

decidere il tipo di aiuto da fornire all’ anziano per correggere, eliminare, o modificare la sua

dipendenza. Su questi temi si discute moltissimo oggi all’interno del tema generale dello stato

sociale e della sicurezza sociale; e gli interrogativi si pongono a vari livelli:

• che qualità di vita è possibile garantire a un anziano in condizioni di dipendenza;

• quali tipi di aiuto si possono offrire in risposta alla domanda di aiuto;

• in che misura è dovere della famiglia aiutare l’anziano dipendente e quando è compito dei servizi

e della comunità;

• su chi devono gravare gli oneri economici legati agli interventi di aiuto.

Tradizionalmente all’assistenza pensava la famiglia e ciò rientrava nei suoi normali doveri, mentre

l’ «assistito» esprimeva una condizione di «senza famiglia» e la sua sopravvivenza era legata agli

interventi di solidarietà dei membri della comunità. Nessuno sapeva, né pretendeva di sapere, la

qualità di vita che le famiglie riservavano agli anziani o alle altre persone bisognose di assistenza; e

nemmeno erano previste forme di intervento integrativo alla famiglia da parte di enti esterni

(pubblici o privati), se non in casi del tutto eccezionali. L’anziano assistito al di fuori della famiglia

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rappresentava invece una categoria sociale marginale; gli veniva garantito un minimo livello di vita,

ma senza il riconoscimento di precisi diritti. Ben diversa la situazione odierna. Prima di tutto i

servizi di assistenza non sono riservati agli anziani privi di famiglia, ma costituiscono un sistema di

aiuti a cui tutti possono accedere, finalizzato a promuovere obiettivi di salute senza discriminazioni.

Dal canto suo la famiglia continua ad essere il principale riferimento per l’assistenza agli anziani,

ma l’esercizio di tale funzione diventa sempre più problematico. Non soltanto l’allungamento della

vita media ha aumentato il numero degli anziani, ma è diminuita anche la capacità oggettiva della

famiglia ad assistere. Sono diminuiti i familiari in grado di dare assistenza; è cambiata

l’organizzazione del lavoro e del tempo, sono cambiate le modalità di convivenza e i sistemi di

relazione anche nell’ambito familiare. La domanda di assistenza dell’anziano si colloca perciò in

nuovo quadro di riferimento: la richiesta di aiuto nasce nell’ambito della famiglia, ma il dovere di

garantire una risposta coordinata e finalizzata al suo benessere , spetta sia alla famiglia che ai

servizi. Nella pratica questi principi teorici non trovano sempre riscontri coerenti, sia perché

sopravvivono alcuni modelli culturali del passato, ancora in grado di influenzare i comportamenti di

alcuni soggetti; sia per l’inadeguatezza organizzativa dei servizi, incapaci di cogliere le nuove

esigenze e di avviare le relative trasformazioni.

Con queste premesse, si sviluppano alcune dinamiche tra gli anziani, i familiari e i servizi, che

rendono difficile sia la lettura e la valutazione della domanda di assistenza, che la decisione sul tipo

di risposta da offrire; situazioni nelle quali raramente l’anziano ha un ruolo protagonista nella scelta

della soluzione da adottare per il suo problema. Al suo posto intervengono familiari e servizi,

secondo strategie non sempre convergenti. Con molta concretezza allora bisogna prendere atto delle

difficoltà e cercare i modi più efficaci per responsabilizzare servizi e familiari nella corretta lettura

della domanda di assistenza. L’invecchiamento della popolazione, insieme a una più generale

attenzione diffusa ai diritti e ai bisogni dei cittadini, ha portato negli anni a una maggiore

sensibilizzazione nei confronti dei problemi degli anziani e dei bisogni di cui essi sono portatori.

Stato ed enti locali hanno progressivamente ampliato i loro interventi mettendo a punto una politica

in favore della popolazione anziana per dare risposta ai bisogni vecchi e nuovi collegati alle

caratteristiche oggettive (stato effettivo di salute) e soggettive (percezione della propria condizione

marginale) dei destinatari. Si è trattato di una vasta gamma di azioni, differenziate per

caratteristiche, finalità e modalità di realizzazione, ma tutte in qualche modo concorrenti a

promuovere una migliore Qualità della vita. Si tratta di un insieme di interventi che hanno portato a

“impegnare” risorse pubbliche per “risparmiare” risorse utilizzando quelle messe a disposizione

dagli anziani stessi. Tutti questi interventi, accostati e variamente combinati, hanno contribuito a

offrire risposte ai bisogni che sono in relazione al diverso grado di “autosufficienza” dell’anziano

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stesso e alla capacità della sua rete relazionale e familiare di farvi fronte. A partire dagli anni

Ottanta, infatti, con più forza è emerso il problema della “non – o parziale –autosufficienza” degli

anziani, rispetto a una serie di situazioni quotidiane: dalla cura della propria persona a quella della

casa, dall’autonomia di movimento alla capacità di mantenere relazioni proprie e così via. La

compresenza di problematiche di tipo sanitario e sociale ha pertanto richiesto di attivare servizi

integrati, capaci cioè di “lavorare insieme” proprio nel rispetto della correlazione stretta tra i diversi

bisogni dell’anziano. L’integrazione socio-sanitaria è, in tal senso, una delle sfide più importanti

nell’attivazione della rete di servizi in generale e, in particolare, per gli anziani. La politica che ha

portato alla realizzazione della rete di servizi ha messo in campo un altro importante soggetto, le

IPAB, che accanto agli Enti locali gestiscono ed erogano servizi per gli anziani. Tale politica, pur

differenziandosi da Regione a Regione, ha certamente consentito lo sviluppo e il consolidamento

delle rete e dei servizi, rappresentando altresì un “banco di prova” anche per gli altri settori socio-

assistenziali dove tale collaborazione si è sviluppata in tempi successivi.

QUALI SERVIZI ?

La risposta tradizionalmente più diffusa e ritenuta “quasi naturale” era stata per lungo tempo quella

della “casa di riposo” (il cosiddetto “ricovero”). Negli anni Settanta, a seguito e in connessione a

una “atmosfera” politico-sociale che guardava con attenzione nuove soluzioni ed era più del passato

disponibile a sperimentazioni, si fece strada l’idea di poter rispondere ai bisogni della popolazione

anziana in difficoltà anche non ricorrendo all’accoglienza in strutture totalizzanti. Si cominciò, cioè,

a pensare di poter lasciare gli anziani nella propria casa fornendo loro, soprattutto se soli e

parzialmente non autosufficienti, il supporto di un’assistenza domiciliare che li aiutasse sia nei

lavori domestici che non erano più capaci di svolgere, sia soprattutto nella cura della propria

persona. In altre parole, sembrò, a quei tempi, che si sarebbe progressivamente fatto a meno dei

“ricoveri” considerati “istituzioni totali” ossia luoghi che producono esclusione sociale. Il crescente

numero di anziani non-autosufficienti e la scarsità di risorse disponibili indussero l’assistenza

domiciliare a trasformare la tipologia degli interventi che si sono via via specializzati, tralasciando

la cura della casa, l’effettuazione della spesa, l’aiuto nel disbrigo di pratiche burocratiche e

sviluppando invece una più specializzata cura della persona (igiene personale, alzata da letto,

prevenzione di piaghe da decubito ecc.), a cui si sono affiancati interventi domiciliari sanitari svolti

da personale infermieristico. Ciò ha lasciato in parte “scoperti” i bisogni di relazione degli anziani,

primo fra tutti quello di “scambiare due parole”. In anni recenti, raccogliendo l’esperienza

precedente e componendola con le nuove tendenze della domanda di servizi per anziani, la legge

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Quadro 328/2000, dopo 110 anni di attesa, ha posto l’accento sull’assistenza domiciliare come uno

dei servizi che deve essere presente in ogni ambito territoriale. Il “ sistema integrato di interventi e

servizi sociali” deve realizzarsi con il concorso di una pluralità di attori, istituzionali e non, pubblici

e privati. Queste sono le premesse del piano nazionale degli interventi e servizi sociali 2001-

2003,che mira a promuovere la partecipazione attiva di tutti nella realizzazione del benessere

sociale. Il Piano propone un nuovo concetto di domiciliarità come uno dei capisaldi del sistema

integrato di interventi e servizi. In quest’ottica l’assistenza domiciliare è vista soltanto come uno

degli strumenti necessari per la costruzione della domiciliarità. Parlare di domiciliarità, allora, vuol

dire pensare a strategie più complesse che riguardano la vita dell’anziano nella sua casa, nel suo

quartiere, nella città in grado di collegare la scelta di “stare in casa propria” alla possibilità di essere

inseriti in un contesto di vita riconosciuto come luogo di appartenenza più vasto del perimetro del

proprio appartamento, entro cui si possa contare su un minimo di legami sociali e di sicurezza

dell’abitare. Sono anche necessari programmi a sostegno della diffusione di nuove tecnologie quali

il tele-soccorso, la tele-assistenza, e la tele-medicina che raggiungono gli anziani al proprio

domicilio e che sembrano rappresentare oggi anche una risposta all’emergenza “anziani soli”.

Domiciliarità è allora un «processo di aiuto a domicilio» che necessita per la sua realizzazione della

disponibilità di molti soggetti: anziani, famiglie, operatori dei servizi, vicini, volontari, membri

della comunità locale ecc. Esso implica pertanto la costruzione di una rete di supporto sociale in

sinergia tra servizi sociali, sanitari e reti di solidarietà. Il domicilio è inoltre inteso, non come

“contenitore” e limite, ma nei termini più ampi di casa “aperta”, casa delle relazioni sociali e

dell’esperienza, contesto “dotato di senso” per la persona perché rappresenta la sua storia, la sua

cultura, i suoi affetti, le sue abitudini. La rete integrata di servizi rappresenta la risposta concreta in

termini di azioni e interventi ai bisogni degli anziani, soprattutto per coloro che hanno problemi di

non autosufficienza, e ha tra i suoi elementi caratterizzanti:

• L’accesso. In generale, grande cura è data all’informazione che consente al cittadino-utente

(l’anziano e/o la sua famiglia) l’accesso ai servizi. Le Regioni hanno pertanto dedicato a questo

delicato e fondamentale aspetto particolare attenzione, predisponendo ad hoc uffici/sportelli/servizi

con compiti informativi e di indirizzo. Le Regioni inoltre, devono rendere operative sul territorio le

politiche sociali, programmando interventi integrati con quelli sanitari .

• La personalizzazione dell’intervento e l’assistenza sanitaria adeguata. L’operatore che prende in

carico complessivamente l’anziano sottopone il suo caso all’esame dell’Unità di valutazione

generica (UVG), già così definita dal Progetto-obiettivo anziani. Si tratta di una équipe

multidimensionale formata da medico geriatra, infermiere professionale o assistente sanitario,

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assistente sociale. Può essere territoriale (UVGT) o ospedaliera (UVGO). L’UVG si raccorda anche

con il medico di famiglia e con l’assistente

sociale che prende in carico l’anziano (il responsabile del caso). I compiti dell’UGV sono:

− Stabilire in grado di non autosufficienza dell’anziano;

− Stabilire di quali servizi (domiciliari, o residenziali, o una composizione di essi)

l’anziano ha bisogno;

− Definire, sulla base di schede e valutazioni omogenee, il programma assistenziale personalizzato.

Tale programma trova poi una sua concreta attuazione nel Piano assistenziale individualizzato

(PAI) che rappresenta lo strumento di lavoro per l’assistenza all’anziano e che consente di

pianificare l’intervento.

• I servizi. I servizi che costituiscono la rete sono molteplici. In particolare, di seguitosi danno

definizioni di quei servizi socio-assistenziali e socio-sanitari, distinguendoli fra domiciliari,

semiresidenziali, residenziali. In questo senso l’unita’ di base fondamentale risulta essere il

Comune, organo amministrativo che gestisce e coordina le iniziative per realizzare il “ sistema

locale della rete di servizi sociali”. I Comuni infatti, devono coinvolgere e cooperare con le strutture

sanitarie, con gli altri enti locali e con le associazioni dei cittadini. Le azioni, gli obiettivi e le

priorità degli interventi comunali sono definiti dai Piani di Zona. I Comuni devono anche realizzare

e adottare la Carta dei servizi

sociali che illustra le opportunità sociali disponibili e le modalità per accedervi. L’orientamento

condiviso degli attori delle politiche sociali è quello di considerare il ricovero in struttura come

ultima ratio cercando di far rimanere il più possibile l’anziano nel proprio domicilio. Per questo

obiettivo i servizi pubblici devono collaborare con la famiglia dell’anziano, le associazioni di

volontariato, le cooperative sociali, il vicinato, la comunità locale, in ciò promuovendo una cultura

della domiciliarità. Il ruolo degli operatori (pubblici e privati) è quello di cercare di “mettere in

rete” e coordinare il più possibile queste differenti risorse per attenuare il rischio di un inasprirsi del

disagio e della solitudine degli anziani.

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IL LINGUAGGIO E LE EMOZIONI COME FUNZIONI COGNITIVE

Il linguaggio umano, formidabile strumento di comunicazione e polimorfo supporto del pensiero,

rappresenta una complessa funzione cognitiva che ha come substrato l’attività integrata di

numerosissimi circuiti neuronali cerebrali.

Le funzioni cognitive costituiscono le cosiddette funzioni nervose superiori, in quanto elaborano

informazioni che sono a loro volta il prodotto di processazioni più elementari delle interazioni tra

sistema nervoso ed ambiente: ad es., nel caso dei fenomeni linguistici, l’elaborazione cognitiva di

una parola (letta o ascoltata) comporta l’interpretazione del suo significato sulla base della sua

corretta acquisizione sensoriale (visiva o uditiva). Invero, il linguaggio rappresenta una funzione

cognitiva composita, più complessa di altre che ne costituiscono come i presupposti (ad es.

l’attenzione e la memoria): è per questo motivo che solitamente ci si riferisce alle capacità

linguistiche (fasiche) in termini di funzioni cognitive “secondarie” che, per l’appunto, si basano su

altre funzioni cognitive più semplici, dette “primarie”. Pertanto è nella rete (network) cognitiva,

cioè nell’interazione dinamica di numerose funzioni cognitive di diverso livello e complessità, che

si ritrova il substrato anatomo-funzionale del linguaggio.

In caso di danno cerebrale acquisito - a seguito cioè di accidenti cerebrovascolari (ischemici o

emorragici), eventi traumatici cranio-encefalici, tumori cerebrali o malattie neurodegenerative

(demenze) – con interessamento delle cosiddette aree linguistiche si produce tutta una serie di

sintomi e segni clinici che costituiscono le sindromi afasiche: il termine “afasia”, dunque, fa

riferimento alla compromissione linguistica che si verifica in un adulto (un individuo che abbia

quindi già completamente acquisito il linguaggio) a causa di una o più lesioni encefaliche

localizzate in sedi anatomiche coinvolte nell’elaborazione linguistica.

Negli anni si sono avvicendate teorie più o meno esaustive sul funzionamento del cervello, in

condizioni di normalità o di patologia, relativamente ai fenomeni linguistici, basate su approcci

concettuali di diverso tipo e supportate da evidenze sperimentali di varia natura, impiegando sempre

più metodiche d’indagine molto sofisticate quali le tecniche neuroeidologiche (di neuroimaging) “in

vivo” come la tomografia ad emissioni di positroni (Positron Emission Tomography, PET) o la

risonanza magnetica funzionale (functional Magnetic Resonance Imaging, fMRI). Certamente il

punto di vista neurolinguistico è quello che più di tutti interessa il neurologo, proprio per l’assunto

di fondo che non possa esistere linguaggio umano in assenza di un cervello altrettanto umano!

Le emozioni esercitano una forza incredibilmente potente sul comportamento umano. Le emozioni

forti possono causare azioni che normalmente non si eseguirebbero. Ma che cosa sono esattamente

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le emozioni? Che cosa scatena queste reazioni? Ho voluto riassumere in breve alcune delle

principali teorie delle emozioni che sono state proposte dai ricercatori, filosofi e psicologi.

Che cosa sono le emozioni?

In psicologia, le emozioni sono spesso definite come uno stato complesso di sentimenti che si

traducono in cambiamenti fisici e psicologici che influenzano il pensiero e il comportamento.

L’emotività è associata a una serie di fenomeni psicologici tra cui il temperamento, la personalità ,

l’umore e la motivazione. Secondo l’autore David G. Meyers, l’emozione umana comporta “…

l’eccitazione fisiologica, comportamenti espressivi, e l’esperienza cosciente.”

Le teorie sulle emozioni

Le principali teorie delle emozioni possono essere raggruppati in tre categorie principali:

fisiologiche, neurologiche e cognitive.

Teorie fisiologiche suggeriscono che le risposte all’interno del nostro corpo sono responsabili delle

emozioni.

Teorie neurologiche propongono che l’attività all’interno del cervello conduce a risposte emotive.

Le teorie cognitive sostengono che i pensieri e le altre attività mentali hanno un ruolo essenziale

nella formazione di emozioni.

La teoria delle emozioni di James-Lange

La teoria di James-Lange è uno degli esempi più noti di una teoria fisiologica delle emozioni. Lo

psicologo William James e il fisiologo Carl Lange, indipendentemente l’uno dall’altro, proposero

teorie analoghe sulle emozioni. Entrambi vollero sfidare quella che essi definivano la teoria del

senso comune secondo cui quando a qualcuno viene chiesto “perché piangi?” replica: “Perché sono

triste”.

Questa risposta implica la convinzione che prima vengono le sensazioni, le quali, a loro volta,

producono gli aspetti fisiologici ed espressivi delle emozioni. Secondo James e Lange, bisogna

combattere la teoria del senso comune, dal momento che non piangiamo perché siamo tristi, ma ci

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sentiamo tristi perché piangiamo; non tremiamo perché siamo spaventati, ma proviamo paura

perché stiamo tremando. Il cuore non batte più in fretta perché siamo arrabbiati, ma siamo in collera

perché il cuore batte più in fretta.

La reazione emotiva dipende da come vengono interpretate le reazioni fisiche.

La teoria delle emozioni di Cannon-Bard

Walter Cannon nel 1927, pubblicò una critica alla teoria James-Lange che convinse molti psicologi

che era una teoria insostenibile.

Cannon, fece rilevare che le ricerche non avevano affatto dimostrato che le emozioni sono

accompagnate da un unico evento fisiologico. Lo stesso stato generale di attivazione del sistema

nervoso simpatico è presente, in molte e differenti emozioni. Ad esempio, gli stati viscerali che

accompagnano la paura e la rabbia sono esattamente gli stessi che sono associati alle sensazioni di

freddo e alla febbre. Non sembra, dunque, possibile che le modificazioni fisiologiche negli organi

viscerali provochino emozioni riconoscibilmente differenziate.

Questa ipotesi venne in seguito elaborata da Philip Bard (1929), secondo la quale è il talamo a

svolgere un ruolo critico nell’esperienza emotiva. Per Cannon e Bard (teoria di Cannon — Bard),

gli impulsi nervosi che fanno passare le informazioni sensoriali vengono poi ritrasmessi attraverso il

talamo. Ricevendo questo input verso l’alto della corteccia (provocando un’esperienza emotiva

soggettiva) e verso il basso ai muscoli, alle ghiandole e agli organi viscerali (producendo delle

modificazioni fisiologiche).

La teoria delle emozioni di Schachter-Singer

Conosciuto anche come la teoria a due fattori di emozione, la Teoria Schachter-Singer è un esempio

di teoria cognitiva delle emozioni. Questa teoria suggerisce che l’eccitazione fisiologica si verifica

prima, e poi l’individuo deve identificare il motivo di questa eccitazione per sperimentare ed

etichettarlo come emozione.

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Vengono prima i processi cognitivi o quelli emozionali?

In questi ultimi anni sono state avanzate due teorie sulle normali esperienze emotive, teorie che

dedicano un’attenzione relativamente scarsa al ruolo delle modificazioni biologiche e

dell’attivazione fisiologica. La controversia è attualmente centrata su che cosa venga prima, se la

valutazione cognitiva o le sensazioni soggettive.

Quali sono le emozioni principali?

Esistono due tipi di emozioni: le emozioni fondamentali e le emozioni complesse.

Le fondamentali sono dette anche emozioni primarie poiché si manifestano nei periodi iniziali della

vita umana e ci accomunano a molte altre specie animali. Il neonato evidenzia tre emozioni

fondamentali che vengono definite “innate”: paura, amore, ira.

Entro i primi cinque anni di vita manifesta altre emozioni fondamentali quali vergogna, ansia,

gelosia, invidia.

Le 8 emozioni primarie sono:

Rabbia: generata dalla frustrazione e si può manifestare attraverso l’aggressività.

Paura: è un’emozione dominata dall’istinto, ha come obiettivo la sopravvivenza del soggetto ad una

situazione pericolosa

Tristezza: si origina a seguito di una perdita o da uno scopo non raggiunto

Gioia: è un’emozione positiva di chi ritiene soddisfatti tutti i propri desideri

Sorpresa: si origina da un evento inaspettato, seguito da paura o gioia

Attesa

Disgusto: risposta repulsiva caratterizzata da un’espressione facciale specifica

Accettazione

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Le emozioni complesse (secondarie) sono la combinazione delle primarie e si sviluppano con la

crescita dell’individuo e l’interazione sociale: l’invidia, l’allegria, la vergogna, l’ansia, la

rassegnazione, la gelosia, la speranza, il perdono, l’offesa, la nostalgia, il rimorso, la delusione.

LA PSICOMOTRICITA’

La psicomotricità è una disciplina che prende in considerazione l’uomo nella sua globalità ed il suo

obiettivo principale può essere identificato nel consentire un’integrazione armonica degli aspetti

motori, funzionali, affettivi, relazionali e cognitivi.

Nata all’interno dell’ambito medico (neuropsichiatrico), la psicomotricità affida un ruolo

preminente al corpo, al movimento e all’azione considerati gli element i fondamentali per

apprendere e operare sulla realtà ed in relazione costante e significativa con l’ambiente. In

particolare, valorizza il corpo in movimento, con le sue specifiche modalità d’espressione ed il suo

linguaggio. Attraverso esso, il suo agire e il suo relazionarsi, l’individuo esprime la propria identità,

i suoi bisogni e le sue difficoltà. Il corpo in psicomotricità è inteso, dunque, come soggetto di azione

e di relazione con il mondo e, per questo, è importante favorire la sua espressione canalizzando in

modo consapevole e mirato le risorse e gli stimoli spontanei dell’individuo nel corso del suo

sviluppo evolutivo. Tale sviluppo è unitario, essendovi una stretta relazione fra motricità e

intelligenza e fra azione e pensiero: è con il corpo e le sue realizzazioni motorie che l’individuo

struttura il suo Io e acquisisce la sua autonomia; ed è sempre attraverso il corpo che soprattutto il

bambino, ma anche l’adulto, esprime i propri desideri e bisogni.

La stretta relazione fra corpo e mente, valida soprattutto nel bambino, ma non solo, chiarisce come

sia proprio attraverso l’agire corporeo, con tutte le sue modalità espressive e comunicative non

verbali, che i soggetti pensano, imparano, creano e si relazionano. Ecco che la psicomotricità

riguarda l’uomo nella sua totalità, nel suo rapporto con se stesso e con l’ambiente. Per questi

motivi, essa si applica sia a livello individuale che di gruppo e in qualsiasi stadio: età evolutiva, età

adulta, anziano. L’intervento psicomotorio si presenta come un mezzo per favorire e migliorare le

risorse dell’individuo, le sue potenzialità e per creare un’armonia ed una presa di consapevolezza

delle capacità, oltre che dei limiti di ciascun soggetto. La presa in carico psicomotoria mira a

mobilizzare e potenziare ogni possibile risorsa della persona e del suo contesto, oltre che intervenire

sul sintomo, sul disagio o sul deficit nel rapporto con l’individuo, gli oggetti e gli altri. Altro ambito

di applicazione della psicomotricità è quello preventivo-educativo che si realizza soprattutto in

gruppo. In questo caso, l’obiettivo è quello di prevenire o di evidenziare eventuali problematiche

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latenti o a rischio e di favorire, attraverso il lavoro nel gruppo, lo sviluppo del soggetto nella sua

totalità e interdipendenza fra agire, pensare, comunicare, sentire, percepire.

L’intervento psicomotorio, a qualunque livello appartenga, va dunque interpretato secondo il

parametro della qualità, del benessere, del miglioramento conseguito globalmente dall’individuo,

dove il movimento agevola anche la comunicazione e la relazione con l’ambiente che lo circonda.

Ecco che, dunque, l’intervento potrà mirare ad integrare tra loro diverse componenti:

La componente dell'organizzazione dell'attività motoria che si sviluppa nel bambino secondo tappe

predeterminate (il tono muscolare, l’equilibrio, la coordinazione dei movimenti ), che si evolve nel

corso dell’infanzia fino a stabilizzarsi alla soglia dell’adolescenza e che va gradualmente a

deteriorarsi con l’avanzare dell’età e a determinare alcune disabilità quali, ad esempio, goffaggine,

difficoltà nel mantenimento dell’equilibrio o nella lateralizzazione.

La componente emotiva che si manifesta nell’espressione corporea della persona, nel proprio

vissuto corporeo, che si esterna nel linguaggio non verbale (stato tonico, tipo di postura, di

gestualità, autopresentazione, ossia il modo di atteggiarsi) e che comprende i fattori determinanti

della modalità di comunicazione sociale di ciascun individuo. I problemi relativi a questa sfera

riguardano, ad esempio, l’inibizione psicomotoria, alcune forme di maldestrezze, l’alterazione della

percezione del proprio corpo, stati di tensione, depressione…

La componente cognitiva. Questa componente entra in gioco quando il movimento richiede una

programmazione intenzionale dell’ordine della sequenza di singoli movimenti da compiere in

funzione di uno scopo fissato in partenza e del loro controllo cosciente durante la loro esecuzione.

Si tratta di un insieme di azioni definite prassie. Le difficoltà prassiche si possono manifestare nella

pianificazione di un’azione o sequenza motoria, nella riproduzione di modelli (imitazione) o anche

nell’esecuzione delle attività manuali del quotidiano (vestirsi, cucinare,…). L’intervento

psicomotorio permette, pertanto, di intervenire, migliorare e potenziare un’ampia gamma abilità e

competenze quali la respirazione, l’equilibrio, la percezione del proprio corpo, la lateralizzazione.

Parallelamente alle ricerche neuropsichiatriche, fino ai giorni nostri si sono creati diversi metodi

educativi e terapeutico - riabilitativi rivolti sia al bambino che all’adulto. Le tecniche maggiormente

in uso vanno dalla ginnastica a corpo libero e con attrezzi, la ritmica, alcune forme di rilassamento e

di massaggio, il dialogo tonico, il gioco motorio e il gioco simbolico, l’espressione corporea e la

drammatizzazione, l’espressione grafica, agli esercizi di percezione del corpo, di percezione

spaziale e di organizzazione delle azioni finalizzate

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LA SOLITUDINE E L’EMARGINAZIONE

La vita personale del vecchio è troppo spesso ridotta a poche, minime attività prive di contenuto

sociale, la cui validità non è ratificata per di più dalla fascia più ampia dei giovani e degli adulti

socialmente attivi. Questo dono del tempo libero che la società elargisce all'anziano fuori ruolo,

questa età del riposo assoluto o, come si usa dire, della meritata quiescenza, non è altro, a nostro

parere, che una sorta di pietosa ipocrisia, liberatrice forse dal senso di colpa di cui la coscienza

collettiva soffre per l'espulsione coatta dell'individuo dal campo del lavoro e, quindi, dalla vita

attiva. Il tempo libero offerto al vecchio, come abbiamo già osservato, è un tempo di forzata

inattività nella grande maggioranza dei casi, ragione frequente di emarginazione sociale e di

solitudine. Un connotato comune della condizione senile è, infatti, proprio la solitudine che

fatalmente, direi, consegue a tutta una serie di eventi che vanno dalla vedovanza alla cessazione

dell'attività lavorativa, dalla perdita progressiva dell'autonomia alla lontananza dei figli, che, come

sappiamo, può essere geografica o anche semplicemente affettiva. La solitudine del vecchio non si

identifica, comunque, con la condizione o lo stato di chi vive da solo o appartato. Per tale situazione

è da preferire il termine isolamento che indica meglio la condizione di chi, spontaneamente o

costretto da cause esterne, vive isolato, appartato dagli altri, ma non è necessariamente privo di

affetti o amicizie, di appoggi, di persone che l'aiutino o l'assistano.

Quando del resto la vita in isolamento si compie, tanto per fare un esempio, per scelta personale e

volontaria, come nel caso paradigmatico dell'anacoreta, non si può certo parlare di solitudine nel

senso negativo che attribuiamo a questo termine nel nostro discorso. Allo stesso modo non è

appropriato usare tale espressione nel caso non frequente di persone anziane che vivano da sole per

loro elezione, ma conservando volontà e capacità di mantenere vivi i loro rapporti interpersonali ed

il calore degli affetti.

Solitudine vuol dire sentirsi soli e questo accade a chi vive isolato ed appartato, non per scelta

propria, ma per condizione imposta dagli organismi sociali, economici e culturali del proprio

complesso antropologico. In questo senso possono soffrire di solitudine, sentirsi soli, anche i vecchi

che, pur vivendo in famiglia o in qualche comunità di tipo assistenziale, sono comunque ricusati

dall'ambiente o non più approvati dalla collettività. Non deve stupire che una tale situazione si

verifichi anche in famiglia e non soltanto, come sembrerebbe più prevedibile, negli ospizi, nelle

case di riposo o nelle varie strutture protette. La solitudine, infatti, non risparmia nemmeno gli

anziani che, pur inseriti in nuclei familiari numerosi, esperimentano paradossalmente l'isolamento

affettivo e l'emarginazione quando la convivenza con i congiunti crea problemi e frustrazioni

reciproche. Dalla parte del vecchio c'è, infatti, un bisogno continuo e pressante di affetto ed una

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costante esigenza di comunicazione che non trovano sempre corrispondenza nei membri giovani e

adulti della famiglia. Nella maggioranza dei casi figli e nipoti non sono in grado di dare una risposta

completa ai bisogni esistenziali del loro congiunto che finisce per sentirsi un estraneo e quasi un

intruso nel contesto affettivo familiare.

La conclusione di questo breve discorso potrebbe essere che una risposta ai problemi dell'anziano

non può cercarsi soltanto nell'organismo familiare che, nella società odierna, non ha più le

caratteristiche né i presupposti perché il vecchio possa ancora estrinsecarvi la sua personalità e

soddisfare in esso le proprie esigenze di vita, di relazioni interpersonali, di partecipazione. È

indispensabile e urgente, come abbiamo più volte rilevato, un vasto piano geragogico che si

proponga di educare la società in generale, oltre che l'individuo e la famiglia, allo scopo di favorire

la caduta di tutti quei pregiudizi che hanno relegato l'anziano nel limbo dell'incomprensione e della

solitudine.

LA CREATIVITA’ IN ETA’ SENILE

Creatività: le capacità creative rappresentano un aspetto fondamentale dello sviluppo intellettivo,

determinando una scelta innovativa delle migliori modalità possibili fra quelle che assicurano un

buon adattamento all’ambiente. La creatività è un processo che si svolge nel tempo ed è determinato

dall’originalità, dallo spirito di adattamento e dalla possibilità di realizzare concretamente un’idea.

Essa è caratterizzata dal pensiero produttivo che integra il pensiero logico con le proprie

potenzialità dinamiche.

«Creatività significa aver portato a termine la propria nascita prima di morire (...) educare alla

creatività significa educare alla vita», sosteneva Erich Fromm, il quale rimarcava il rapporto fra

creatività e sentimento di sicurezza. Emotività e motivazioni influenzano lo sviluppo, le

caratteristiche e le espressioni del processo creativo. La dimensione creativa necessita di essere

coltivata e spesso sa conservare la propria forza vitale e propulsiva al cambiamento, le proprie

energie di rinnovamento e può protrarsi anche per lunghi anni. La creatività non solo non si

esaurisce con l’età, ma può trovare ulteriori motivi di arricchimento. Vengono talvolta a mancare le

opportunità ambientali e culturali per una reale evoluzione del processo creativo, orientato alla

realizzazione di sé e non disgiunto dal mondo degli affetti, della sensibilità e dei significati.

Antonini e Magnolfi (1991) hanno raccolto in un volume “L’età dei capolavori”, innumerevoli

esempi di illustri personaggi che in età avanzata hanno saputo realizzare importanti opere, lavori e

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progetti di elevato valore nella letteratura, nella pittura, nella scultura, nell’architettura, nella

musica, nel teatro.

L’espressione creativa in età senile può influenzare la qualità della vita, sollecitare nuovi interessi e

impegni, suggerire nuovi sviluppi di senso alla quotidianità e all’immediato futuro, contribuire

all’adempimento di percorsi e progetti individuali. In peculiari situazioni che richiedono un

recupero di motivazioni, il risveglio dell’attenzione e della consapevolezza di sé, la predisposizione

di un programma riabilitativo comprende la facilitazione allo sviluppo della dimensione creativa e

può aiutare meglio il ripristino delle funzionalità.

Lo svolgimento di un’attività creativa è un elemento complesso dell’attività intellettiva che attua un

ruolo fondamentale nei processi di adattamento all’ambiente ed è presente, seppure con

caratteristiche diverse, in ogni fascia di età. Scrive George Minois: «L’età permette spesso di

elevarsi al di sopra delle convenzioni di ogni specie a cui l’adulto deve sottomettersi per fare

carriera; libero da queste costrizioni, il vecchio può espandere la propria creatività, il che permette a

taluni di rivelare il loro genio a settanta o a ottant’anni». Durante la senescenza la presenza della

creatività è un importante correlato predittivo al realizzarsi di una vecchiaia serena. L’attività

creativa non è solo compatibile con livelli avanzati di età cronologica, ma in molti casi si sviluppa

completamente quando l’anziano riorganizza le proprie modalità di relazione con l’ambiente dopo

la crisi di disadattamento sopraggiunta con il pensionamento. La dimensione creativa permette

all’anziano di continuare ad immaginare, ad essere curioso, a comprendere la complessità e

l’intreccio degli elementi che compongono l’esistenza quotidiana, a essere disponibile ad assumere

rischi accettando la sfida del continuare a vivere. L’anziano è ancora in grado di apprendere,

attraverso l’esperienza diretta, strategie che si propongono di potenziare la creatività,

l’indipendenza di giudizio e di finalizzare l’acquisizione per una crescita interiore. I fattori che nel

corso dell’invecchiamento orientano verso la creatività risultano connessi alla struttura personale di

ogni individuo, e soprattutto al suo modo di reagire alle difficoltà che incontra, alla sua capacità di

accettare le trasformazioni che compaiono in rapporto alla senescenza, al suo equilibrio emotivo, al

suo grado di ottimismo o pessimismo.

La creatività in età senile può influenzare la qualità della vita, sollecitare nuovi interessi e impegni,

suggerire nuovi sviluppi alla quotidianità ed all’immediato futuro, contribuire all’adempimento di

percorsi e progetti individuali. La vecchiaia può costituire un rimedio alla creatività dimenticata o

sopita e può apportare energie, esperienze, ispirazioni e forza ai processi della fantasia e

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dell’espressione creativa. Esistono una vita ed un invecchiamento per ogni persona. Esiste una

creatività per ogni individuo e ciascuno riflette l’immagine acquisita del proprio percorso creativo.

In età senile il pensiero creativo può non solo conservare, ma anche incrementare ed arricchire le

capacità esplorative, il desiderio di conoscenza, la concezione di sé e del proprio destino. La

creatività è pertanto una prerogativa presente in tutte le persone che invecchiano e non soltanto nei

grandi artisti; è la qualità che meglio consente alla persona anziana di continuare ad esprimersi, di

conservare, tutelare e consolidare la propria dignità. Numerosi sono gli artisti che durante l’età

senile hanno prodotto alcune fra le loro opere migliori. La longevità creativa è presente

trasversalmente in tutte le forme artistiche. Rembrandt, Goya, Monet e Picasso riuscirono proprio in

età senile a inventare un linguaggio pittorico completamente nuovo. Michelangelo lavorò alla Pietà.

Rondanini fino a pochi giorni prima di morire, a 89 anni, quando ristrutturò il gruppo marmoreo

riscolpendo la testa del Cristo nel ventre di Maria. Donatello ottantenne realizzò i pannelli bronzei

di S. Lorenzo, considerati i suoi capolavori.

Goethe presentò l’ultima versione del Faust a 80 anni e Voltaire quella di Irene a 84, l’anno della

sua morte; Alessandro Manzoni nell’ultimo periodo della sua vita continuò dopo un cinquantennio a

lavorare all’opera “Della Lingua Italiana” ed elaborò un saggio storico sulla rivoluzione francese

del 1789 e italiana del 1859.

La senescenza del musicista può comportare l’evolvere verso una liberazione creativa, in funzione

del suo progressivo distaccarsi dalle rigide regole imparate e rispettate durante gli anni di

formazione. Tra i direttori d’orchestra troviamo esempi significativi di un invecchiamento efficiente

e in larga parte innovativo: si pensi a Rubinstein, Toscanini, Von Karajan, Richter e Arrau. È

significativo rilevare come sia possibile suonare una Polacca di Chopin a 85 anni senza nessuna

perdita di destrezza. E ciò documenta la fondamentale importanza, oltre che dell’esercizio mentale,

anche dell’esercizio fisico per il mantenimento di abilità di tipo fine, che decadono quando non

vengono stimolate di continuo.

Le Corbusier, poco prima di morire a 78 anni ha presentato a Venezia il progetto di un nuovo

Ospedale e Frank Lloyd Wright, a 91 anni, pubblicava “The living City”. I registi hanno spesso

presentato carriere molto prolungate, per oltre 50 anni. Ricordiamo fra gli altri Charlie Chaplin,

Kurosawa, Hitchcok, Bresson, Huston e de Oliveira, ancora pienamente attivo a 94 anni. Ardito

Desio, geologo, famoso per la scoperta del petrolio nel Sahara e per l’organizzazione di prestigiose

spedizioni alpinistiche è rimasto mentalmente valido sino all’ultimo, a 104 anni. Gabriele Mucchi,

ingegnere, scrittore, pittore del movimento di Corrente, impegnato sino alla morte, avvenuta a 103

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anni, ha presentato in una mostra a Milano, allestita in occasione del suo centesimo compleanno,

alcune interessanti opere recenti. Ma anche di personaggi meno famosi rimangono contributi

significativi. Battista Solero, uno scalpellino della Val di Stura, dopo il pensionamento si è scoperto

artista modellando le pietre del fiume. La creatività, come detto, non riguarda solo i grandi artisti.

Essa è potenzialmente presente in ogni persona, in ogni anziano che riesce a trovare la forma più

adeguata di espressione, inattività culturali come la scrittura, la pittura, la scultura, la musica, ma

anche artigianali, come il costruire un oggetto e coltivare un fiore, domestiche, come inventare un

piatto o allevare un animale, relazionali, come organizzare una festa, un viaggio, interagire con i

coetanei o con i più giovani, fotografiche o cinematografiche, fisiche e sportive. Da segnalare in

questo senso le possibilità offerte ad entrambi dal rapporto vecchio-bambino: un rapporto

intergenerazionale nel quale il vecchio integra nella narrazione i ricordi della propria vita e

l’elaborazione di una fantasia ricomparsa dopo anni di obsolescenza, il bambino esprime la sua

personale creatività a un interlocutore disponibile ad apprezzarla.

L’ADATTAMENTO ED IL BENESSERE IN ETA’ SENILE

La psicologia ha da sempre privilegiato ciò che è in evoluzione, come l’infanzia e l’adolescenza, ma

negli ultimi decenni essa ha cominciato ad interessarsi al mondo degli anziani partendo dai dati

demografici che evidenziano l’avanzamento della vita media della popolazione. Ogni indagine

demografica connota una vera e propria rivoluzione, che ha ed avrà in futuro un grosso impatto e

che rimette in discussione la struttura economica, l’organizzazione sociale ed il sistema di relazioni

interpersonali e tra le generazioni.

Per quanto riguarda gli aspetti psicologici dell’età senile, esistono delle rilevanti differenze tra gli

individui che devono essere ben conosciute, per un approccio culturale più aperto e per degli studi

approfonditi sull’idea di invecchiamento. Le capacità intellettuali subiscono un’involuzione quando

la creatività e l’operatività sono meno brillanti che nelle età precedenti, malgrado i numerosi esempi

della gente comune o di poeti, scrittori, scienziati che continuano a lavorare e a produrre anche in

età avanzata. Anche in questi casi risalta un evidente rallentamento delle attività intellettive con la

diminuzione della memoria, dell’attenzione e con una rigidità psichica che impedisce l’adattamento

ad ogni cambiamento sociale. Secondo lo psicoanalista Carl Gustav Jung, negli anni della vecchiaia

gli individui tendono a spostare la propria attenzione dal mondo esterno a se stessi, sarebbero meno

dipendenti dall’influenza esercitata dagli altri e, in generale, tenderebbero a essere più introversi. La

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posizione di Jung non è però condivisa da tutti gli psicologi, soprattutto da chi sostiene la costanza

della personalità nel tempo.

La posizione di diversi psicologi è che vi sia una serie di fattori che non si modificano con l’età,

quelli connessi con l’adattamento e con la tendenza ad orientarsi verso una meta. Questi fattori, che

vengono in genere definiti di “adattamento sociale”, appartengono allo stile comportamentale dei

diversi individui e dimostrano appunto una certa costanza attraverso gli anni, in particolare nella

maturità e nella vecchiaia. Questi stili di vita rimangono inalterati nonostante i cambiamenti di

ruolo e status sociale (come, ad esempio, il pensionamento).

Per altri psicologi è vero che alcuni contenuti della personalità possono essere stabili, ovvero quelli

connessi a fattori di “adattamento sociale”, ma vi sono anche tratti che si evolvono: in parole

povere, l’energia con cui ci si impegna in una serie di azioni proiettate verso l’esterno declinerebbe

con l’età. Perciò, le persone anziane tenderebbero a rispondere maggiormente agli stimoli interni

che a quelli esterni, a ritrarsi dalle situazioni che implicano una compartecipazione e un

investimento emotivo, a evitare i rischi e le sfide piuttosto che a ricercarle.

Attualmente però la maggioranza degli psicologi e dei sociologi ritiene che oggi la condizione

dell’anziano (dai 60 anni in poi) almeno nei paesi sviluppati, sia cambiata. La vita media si è

allungata, il numero degli anziani è sensibilmente aumentato (gli ultra 60enni in Italia sono il 26,2%

della popolazione) e il loro “peso” sociale è più rilevante di prima. Infatti numerose ricerche

dimostrano che oggi vi sono molte persone anziane che hanno livelli di aspirazione simili a quelle

di persone più giovani e che reagiscono in maniera analoga ad altre età alle frustrazioni e agli

insuccessi. Questa impostazione non ha soltanto un significato teorico, ma riveste anche una

notevole importanza sociale nell’individuare il modo migliore in cui l’anziano dovrebbe affrontare e

vivere la propria condizione, e cioè se sia auspicabile che con l’età si abbia un progressivo

disimpegno o se sia più vantaggioso un impegno attivo sia a livello individuale che sociale. Perciò

secondo i sociologi e gli psicologi oggi, nei paesi più avanzati, è necessario non solo che l’anziano

prevenga le malattie degenerative, ma che mantenga vivi anche gli interessi, in specie culturali. È

quindi fondamentale tenere viva la mente e continuare ad aggiornare i propri schemi mentali

facendo, per quanto è possibile, nuove esperienze. Anche se nutriamo il cervello nel modo migliore,

evitiamo gli eccessi legati all’alcol o al fumo, lo proteggiamo dai danni vascolari o tumorali, la

mente si nutre prevalentemente di stimoli, mantiene la sua forma sulla base delle esperienze

quotidiane. I geni stabiliscono un quadro di riferimento sulla cui base si struttura il sistema nervoso,

ma è l’ambiente a stimolare la plasticità del cervello, a dare forma ai suoi circuiti, a rinnovarne la

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struttura e la funzione, persino in quelle età in cui riteniamo, sulla base di luoghi comuni, che la

mente abbia perduto ogni sua capacità di modificarsi.

L’AFFETTIVITA’

L’invecchiamento implica cambiamenti affettivi di natura sia qualitativa che quantitativa, ma non

comporta necessariamente un impoverimento sul piano emozionale: talvolta è proprio nell’età

senile che si osserva un arricchimento delle qualità delle relazioni affettive. La vicinanza della

morte tende a modificare il senso del tempo, e prevale anche nell’affettività il vivere al presente. Il

diventare vecchi pone sicuramente nuovi vincoli, ma apre anche altre possibilità, e sono proprio le

nuove limitazioni o le perdite affettive a stimolare nuove forme di abilità e di sviluppo.

I fattori affettivi esercitano un’indubbia influenza sulle capacità di adattamento e sul processo di

invecchiamento. La necessità di amare e sentirsi amati trascende l’età. Le ricerche testimoniano il

desiderio e l’auspicio degli anziani di essere circondati dagli affetti e di nutrirsi di relazioni positive.

La serenità emotiva facilita l’accesso alla ponderazione, al pensiero prospettico e alla fantasia.

Spesso un declino affettivo coinvolge altre funzioni psichiche. La depressione rappresenta la

sofferenza psicologica più frequente in vecchiaia, conseguente ai maggiori rischi di perdite

intercorrenti che possono accumularsi ed accelerare l’evoluzione negativa di una situazione

affettiva già precaria. Molte persone anziane appaiono più vulnerabili agli “stress” emotivi e le

difese funzionanti per un intera vita sembrano a volte indebolirsi, disperdersi; il vecchio si sente più

fragile, disarmato dagli eventi e non più libero di decidere.

Anche quando sembra disintegrarsi la personalità, l’affettività rimane, ultimo baluardo di una vita,

congiunzione di segmenti di storia. Nell’anziano demente si è persa l’architettura cognitiva, ma

permangono la comunicazione e la risonanza emotiva attraverso modalità informative che

necessitano di attenzione e sensibilità professionale.

La dimensione affettiva dispone verso lo sviluppo creativo, raccoglie l’esperienza e contribuisce a

disegnare la storia individuale, dall’inizio alla fine. Talvolta procedure di riattivazione e

riabilitazione delle risorse emozionali possono consentire anche un recupero o un mantenimento di

peculiari funzioni cognitive e volitive. In situazioni di particolare sofferenza e declino, il vecchio

può ritrovare motivi di serenità e interesse da atteggiamenti di valorizzazione, riconoscimento,

stima e fiducia e dalla compartecipazione a un eventuale programma terapeutico.

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La qualità affettiva delle esperienze e la densità dei significati costituiscono spesso la trama, molte

volte nascosta, di percorsi e profili esistenziali.

LA VALUTAZIONE MULTIDIMENSIONALE GERIATRICA

Che cos'è una Valutazione multidimensionale dell'anziano?

Nel 2008 il problema dell’assistenza agli anziani si fa più pressante, essendo ormai la nostra società

composta da anziani; l’anziano vive da solo, spesso con una badante, ma molteplici sono le sue

esigenze di salute e di assistenza. Si tratta di un processo di tipo dinamico e interdisciplinare volto a

identificare e descrivere, o predire, la natura e l’entità dei problemi di salute di natura fisica,

psichica e funzionale di una persona non autosufficiente, e a caratterizzare le sue risorse e

potenzialità. Questo approccio diagnostico globale, attraverso l’utilizzo di scale e strumenti validati,

consente di individuare un piano di intervento sociosanitario coordinato e mirato al singolo

individuo. Schematicamente, le aree tematiche fondamentali, o ‘dimensioni’, che configurano la

natura multipla della valutazione, sono rappresentate da:

-salute fisica,

-stato cognitivo (o salute mentale),

- stato funzionale,

-condizione economica e condizione sociale. La valutazione, che concretamente si effettua sulla

base della compilazione, cartacea o informatizzata, di liste di quesiti (o item), si avvale dell’uso di

cosiddette ‘scale’ di natura monodimensionale, ciascuna delle quali cioé approfondisce una singola

area o una specifica articolazione di essa (piuttosto conosciute in ambito medico sono le scale ADL

– Activities of Daily Living – e le scale IADL – Instrumental Activities of Daily Living, con i loro

vari indici), o di ‘strumenti’ multidimensionali veri e propri, pensati per caratterizzare il soggetto

nelle diverse aree di interesse: questi ultimi possono evidentemente contenere all’interno scale

monodimensionali.

Gli strumenti attualmente disponibili, descritti nel riquadro in basso, si differenziano in effetti per

finalità, impostazione e capacità descrittiva. In sostanza, tale valutazione consente di apprezzare

l'autosufficienza e le condizioni di salute globali dell'anziano o anche del bambino, se egli necessiti

o meno di assistenza, stante le scarse risorse disponibili. Allo scopo esistono diversi sistemi di

valutazione che si attuano tramite un questionario: La regione Veneto per esempio utilizza una

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complessa scheda, detta “S.VA.M.A.”, ossia la “Scheda per la Valutazione Multidimensionale

dell'Anziano". Essa analizza tutti gli aspetti della vita dell'anziano preso in carico, per quanto

concerne la salute, con riferimento ai vari organi ed apparati, ma soprattutto il suo grado di

autosufficienza, i rapporti sociali, la situazione economica, che oggi col dimezzamento “eurale”

della pensione rappresenta il problema principale nella vita dell’anziano. Così tutti si precipitano a

chiedere l’invalidità civile e l’indennità di accompagnamento, senza tenere conto che spesso non è

di loro spettanza. Allo scopo di chiarire le idee dei nostri navigatori, vi parleremo in breve di quali

sono i concetti di base con cui viene effettuata la valutazione dai diversi componenti della Unità

operativa distrettuale. Vengono qui riportate le parti di S.VA.M.A., che sono in tutto quattro. Si

tratta di sezioni (o "schede") che valutano, ognuna, un certo aspetto della persona presa in carico.

Ogni sezione si suddivide a sua volta in quattro pagine. Tutte le parti di S.VA.M.A. sono state

replicate sulla base della scheda originale S.VA.M.A., accompagnandole con le istruzioni

necessarie alla loro compilazione.

Prospettive assistenziali, n. 99, luglio-settembre 1992

PRENDERSI CURA DELLE PERSONE ANZIANE ANCHE ALLA LUCE DEL

PROGETTO-OBIETTIVO "TUTELA DELLA SALUTE DEGLI ANZIANI"

In Italia si discute molto di anziani, o meglio, si discute di "residenze" per anziani. Da quando la

legge finanziaria 1988 ha previsto la realizzazione di 140.000 posti per «anziani che non possono

essere assistiti a domicilio» si discute soprattutto di "Residenze sanitarie assistenziali". Questo

spostamento di interessi - dalle persone alle istituzioni - è espressivo di un atteggiamento ed ha delle

conseguenze. Molti credono di poter risolvere il problema con risposte di tipo istituzionalizzanti,

costruendo strutture dove confinare le persone dipendenti. Questa scelta è errata e va rigorosamente

contestata. Scegliere prioritariamente per le residenze e solo successivamente per il domicilio è un

errore grave. Si rischia infatti di spendere risorse per costruire strutture nuove, o per riadattare le

vecchie, senza che ce ne sia effettivo bisogno. Se fossero garantiti i servizi domiciliari il numero di

quelli che debbono comunque essere ricoverati sarebbe certamente inferiore. Realizzare solo, o

prioritariamente le RSA vuol dire non risolvere il problema nella sua vera dimensione. II recente

progetto-obiettivo "Tutela della salute degli anziani" contiene, in questo senso, delle indicazioni

decisamente positive.

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Il progetto-obiettivo "Tutela della salute degli anziani"

In data 30 gennaio 1992 il Parlamento ha approvato una risoluzione che predispone l'avvio del

progetto-obiettivo "Tutela della salute degli anziani" che infatti prevede:

1. la priorità degli interventi domiciliari;

2. l'istituzione della Unità di valutazione geriatrica (UVG);

3. la creazione di Residenze sanitarie assistenziali (RSA).

Le RSA nel progetto-obiettivo "Tutela della salute degli anziani"

Circa le Rsa, il progetto-obiettivo afferma: «La denominazione di residenza sanitaria assistenziale è

stata preferita rispetto ad altre dizioni perché l'aggettivo "sanitaria" sottolinea che si tratta di una

struttura propria del Servizio sanitario nazionale, a valenza sanitaria, .di tipo extra-ospedaliero

(residenza), la cui gestione è finanziabile con il fondo sanitario nazionale e di cui le USL possono

garantire direttamente la gestione; l'aggettivo "assistenziale" rimarca che la residenza ha anche una

valenza socio-assistenziale inscindibilmente connessa alla valenza sanitaria, il che legittima

l'impiego da parte del Servizio sanitario nazionale di figure professionali di tipo sociale, in assenza

di assegnazione da parte degli enti locali, con l'assunzione degli oneri relativi, sia pure sotto

l'obbligo di contabilizzazione separata».

Le Unità valutative geriatriche nel progetto-obiettivo "Tutela della salute degli anziani"

Tenuto conto delle indicazioni del progetto-obiettivo si ritiene necessario che al più presto vengano

istituite in tutte le USL le Unità valutative geriatriche con i seguenti compiti previsti dallo stesso

progetto-obiettivo:

a) «selezione degli anziani che hanno necessità di assistenza continuativa in regime di assistenza

domiciliare integrata (ADI) o di Day Hospital riabilitativo o di strutture residenziali»;

b) «programmazione e controllo di qualità dell'assistenza geriatrica nella rete integrata dei servizi».

Secondo la risoluzione del Parlamento del 30.1.92 «all'inizio sarà indispensabile poter contare

almeno su una équipe per ogni USL nel cui ambito operi un reparto di geriatria per creare

esperienze formative per il personale».

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Condizione indispensabile per la istituzione e gestione delle UVG l'appartenenza del servizio al

comparto sanitario e non a quello assistenziale.

Ne deriva pertanto che le UVG non possono essere istituite dalle istituzioni pubbliche di assistenza

e beneficenza (IPAB) che, come è noto, non afferiscono al settore sanitario ma a quello della

assistenza. Se assolutamente necessario, può essere ammesso temporaneamente l'utilizzo di opera-

tori che lavorano presso le IPAB. Ciò dovrebbe essere disciplinato da una apposita convenzione

stipulata dalla USL alla quale compete l'istituzione della UVG.

Dagli istituti di ricovero (case di riposo, residenze protette, ecc.) alle RSA La risoluzione del

Parlamento del 30 gennaio 1992 ed il progetto-obiettivo "Tutela della salute degli anziani"

stabiliscono che la RSA è «una struttura propria del Servizio sanitario nazionale». Pertanto occorre

che le Regioni e le USL stabiliscano norme per:

- l'istituzione del servizio di ospedalizzazione a domicilio. Ciò anche al fine di evitare che l'utenza

debba ricorrere al ricovero a causa della mancanza di prestazioni fornite a casa, prestazioni più

valide e meno costose per il Servizio sanitario nazionale. Il servizio di ospedalizzazione a domicilio

potrebbe essere costituito da operatori (medici, infermieri, riabilitatori, ecc.) territoriali o

ospedalieri, ovvero da équipes convenzionate garantendo in ogni caso come servizio, interventi per

10-12 ore al giorno, per 7 giorni settimanali. In tal modo, ospedalizzazione a domicilio e assistenza

domiciliare integrata costituirebbero un insieme organico. Ciò determinerebbe anche un non

indifferente risparmio di personale (soprattutto infermieri) e di denaro pubblico;

- il passaggio dei compiti di istituzione e di gestione delle strutture per anziani cronici non

autosufficienti dal comparto assistenziale a quello sanitario.

Pertanto le domande di ammissione dovranno essere rivolte al settore sanitario e non ai Comuni;

- l'ammissione dovrà essere valutata dalla UVG della USL territorialmente competente in base alla

abitazione del richiedente. La UVG dovrebbe esprimere un parere motivato, a seguito di una visita

diretta del paziente e di idonei accertamenti, circa gli interventi più opportuni, secondo le diverse

modalità (permanenza a domicilio - con o senza l'intervento del servizio di ospedalizzazione a

domicilio, il ricovero in ospedale o in una casa di cura, il day hospital, la RSA);

- l'istituzione (urgentissima) di apposite commissioni mediche con il compito di «provvedere ad una

valutazione collegiale delle condizioni di salute degli attuali ospiti degli istituti comunali e

convenzionati per non autosufficienti, con la conseguente individuazione delle patologie di cui sono

affetti e della loro gravità», e di «effettuare una ricerca atta ad individuare metodologie, criteri,

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strumenti per un concreto indirizzo operativo per il ricovero degli anziani cronici in presidi sanitari

o in RSA, atti al migliore soddisfacimento delle esigenze complessive delle persone interessate»;

oppure -preferibilmente- attribuzione delle suddette funzioni alle UVG. In tale caso la loro

istituzione diviene ancora più urgente.

Prevenire, curare, riabilitare le persone malate, gravemente non autosufficienti

Molti anziani, anche molto anziani, sono indipendenti, godono di buona salute e di una

soddisfacente qualità di vita. Per alcuni però non è così; a causa di una malattia hanno acquisito una

disabilità che ha prodotto un handicap. Alle volte la dipendenza che questa situazione produce è

molto grave e può non consentire all'individuo di gestire in modo autonomo le funzioni necessarie

alla sua sopravvivenza. L'Organizzazione mondiale della sanità si è occupata a lungo del problema

ed ha sottolineato come gli interventi debbano, nell'ordine: prevenire, potenziare, integrare,

sostituire. Ciò vuol dire che:

- affrontare il problema della persona malata in termini funzionali - come l'OMS raccomanda - non

vuol dire nascondere la sua malattia;

- non sempre è possibile guarire tale malattia, come non è sempre possibile recuperare pienamente

le capacità funzionali, ma è sempre doveroso curare e utilizzare, potenziandole, le funzioni residue;

- bisogna riconoscere che una persona non autosufficiente (dipendente secondo il linguaggio

anglosassone) è malata, spesso molto malata, di frequente malata in modo permanente, e che a

motivo di ciò va curata e riabilitata secondo il suo diritto e le sue necessità;

- i servizi sanitari sono tutti quelli rivolti al mantenimento e al miglioramento delle condizioni di

salute e possono essere coadiuvati da iniziative specifiche per il miglioramento delle condizioni e

dello stile di vita;

- la persona deve essere libera di scegliere il percorso terapeutico che più ritiene confacente alle sue

condizioni di vita e di salute. Tale libertà di scelta deve essere garantita in modo effettivo attraverso

l'offerta di servizi specifici;

- la spesa per tali servizi dovrà essere ripartita tra tutti i cittadini e non solo attribuita agli anziani e

ai loro congiunti;

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- la pretesa di dichiarare «di competenza assistenziale» i non autosufficienti non ha più ragion

d'essere. Competente a garantire e migliorare le condizioni di salute dei singoli e della popolazione

generale è infatti il settore sanitario, come previsto dal progetto-obiettivo "Tutela della salute degli

anziani";

- vanno attivate, per garantire la salute, tutte le competenze necessarie a rimuovere cause sociali ed

economiche che aggravano la situa-zione di dipendenza causata dalla malattia.

Il caso delle persone colpite dalla malattia di Alzheimer

Le persone colpite da malattia di Alzheimer sono gravemente malate, ma oltre a subire gli effetti

devastanti della malattia sono anche abbandonate a se stesse o ai servizi socio-assistenziali. Sembra

che più la malattia si presenta in forma grave e devastante, meno deve essere considerata.

Paradossalmente più la malattia è in fase avanzata e meno si è considerati. Si opera una rimozione

pericolosa che lascia il soggetto con la sua malattia privo delle risposte cui avrebbe diritto e di cui

avrebbe bisogno per sopravvivere.

Diritto alle cure sanitarie

È quel che sta accadendo anche per i ricoveri ospedalieri urgenti. Se una persona anziana si presenta

ad un Pronto Soccorso spesso viene respinta.

II ricovero ospedaliero si fa sempre più difficile per chi ha superato certi limiti d'età. Ciò mentre le

dimissioni dagli stessi ospedali vengono fatte senza tener conto delle norme vigenti. II

peggioramento delle condizioni di salute provoca frequentemente un repentino e devastante

consumo delle già ridotte risorse economiche. Ad una ampia ed urgente domanda di servizi

corrisponde una offerta assai scarsa.

Per una equa politica sanitaria

Il recente progetto-obiettivo "Tutela della salute degli anziani" contiene delle chiare indicazioni.

Tali positivi orientamenti richiedono una puntuale attuazione per evitare alcuni rischi estremamente

gravi. Tra questi:

1) il rischio che la durata delle degenze ospedaliere sia ridotta pur permanendo obiettive condizioni

di necessità terapeutica in tale sede;

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2) il rischio che non sia affatto garantita la riabilitazione (la cifra dell'1% di posti letto per la

riabilitazione ogni 1000 abitanti a suo tempo prevista dalla legge 595 è stata poi ridotta allo 0,5);

3) il rischio che le RSA diventino dei meri ricoveri emarginanti per anziani, malati di mente,

handicappati;

4) il rischio di veder smantellati i servizi territoriali.

Occorre inoltre che sia definita una politica del personale che garantisca l'assunzione e la

permanenza in servizio di professionalità qualificate e assicuri i necessari momenti di qualifica-

zione ed aggiornamento. Vanno quindi evitate confusioni sugli standards logistici e gestionali che

determinano servizi inesistenti. Alcune Regioni infatti prevedono in RSA presenze medie dei

medici e degli infermieri assolutamente in-sufficienti.

Circa i diritti nelle Residenza sanitarie assistenziali

Per garantire in modo effettivo il rispetto dei diritti e delle esigenze delle persone gravemente non

autosufficienti è necessario tener conto di che cosa siano le RSA nell'attuale normativa; dei

fondamenti giuridici del diritto alla salute e alle cure sanitarie senza limiti di durata; di quale debba

essere l'utenza delle RSA, gli standard di personale, abitativi e tipologici; di quali debbano essere le

competenze gestionali, i criteri di ammissione/dimissione, la distribuzione degli oneri economici.

Pertanto, agli utenti delle RSA, come ad ogni altra persona, va garantito il diritto alla salute

mediante prestazioni di prevenzione, cura e riabilitazione.

Devono, inoltre, essere garantiti i diritti con-cernenti la dignità nel rispetto della individualità dei

soggetti assistiti (nome, privacy, intimità, libertà di movimento, corrispondenza, visite...). Fra i

diritti da garantire va compreso, inoltre, quello al ricovero ospedaliero, qualora fosse necessario.

Compete al Ministero della sanità definire, nel rispetto della normativa statale, gli standards

quantitativi e qualitativi minimi riguardanti le strutture, il personale e la qualità delle presta-zioni.

Vanno, in questo senso, favorite anche le forme di controllo sociale da parte dei cittadini, ad

esempio nelle forme di commissioni autorizzate. Le convenzioni con le strutture private debbono

prevedere la clausola della trasparenza amministrativa prevista dalla legge 241.

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Garantire una reale priorità agli interventi domiciliari

In base a quanto previsto dall'art. 20 della legge 67/1988, il ricovero in RSA deve essere consentito

esclusivamente nei casi in cui non sia possibile intervenire a livello domiciliare o trami-te presidi

poliambulatoriali e ospedali diurni. Si chiede quindi che la priorità contenuta in questa norma sia

rispettata

Piattaforma per l'attuazione del progetto-obiettivo "Tutela della salute degli anziani"

Il problema degli anziani cronici gravemente non autosufficienti deve essere impostato

riconoscendo la loro condizione di malati. In quanto tali, hanno diritto alle prestazioni sanitarie di

prevenzione, terapia e riabilitazione come gli altri cittadini.

Ciò è sancito dalla Costituzione (art. 32) e dalle leggi attualmente in vigore (legge del 4 agosto 1955

n. 692; legge del 12 febbraio 1968 n. 132; legge del 23 dicembre 1978 n. 833).

Una certa quota di queste persone è dipendente dall'aiuto degli altri per sopravvivere. Giustamente

il progetto-obiettivo evita che a questa necessità si risponda in modo istituzionalizzante.

Vanno infatti privilegiati gli interventi domiciliari che sono preferiti dai cittadini e vantaggiosi per il

sistema sanitario. Tali servizi vanno attivati prima di ogni altra soluzione anche per evitare che

siano ricoverate persone che sarebbero potute restare a casa loro.

Opportunamente quindi, il 30 gennaio 1992, il Parlamento ha approvato una risoluzione che

sancisce l'avvio del progetto-obiettivo «Tutela della salute degli anziani" che, come è già stato

rilevato in precedenza, prevede:

- la priorità degli interventi domiciliari;

- l'istituzione delle Unità di Valutazione Geriatrica (UVG);

- la creazione di Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA).

Pertanto, affinché siano garantiti i diritti dei cittadini è indispensabile che:

1) siano privilegiati gli interventi domiciliari in ogni USL con la creazione di servizi specifici. In

particolare ospedalizzazione a domicilio e assistenza domiciliare integrata;

2) vengano attivate, presso tutte le USL, le Unità di valutazione geriatrica (UVG);

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3) siano realizzate presso tutte le USL servizi di day hospital che svolgano attività preventive,

curative, riabilitative, compresa la funzione di preospedalizzazione e deospedalizzazione;

4) siano avviati dei centri diurni a carattere sanitario specializzati nella cura e riabilitazione delle

persone colpite da malattia di Alzheimer e da altre forme di demenza senile. Quale sostegno alle

persone che intendano contribuire alla cura del malato a casa è necessario prevedere la possibilità di

usufruire di pe-riodi di aspettativa retribuita.

È altresì indispensabile che gli assegni di accompagnamento, cui molti malati hanno diritto, siano

erogati tempestivamente. A questo fine possono essere introdotte delle facilitazioni nel-le procedure

(es. certificazione del primario ospedaliero).

Menomazione, Disabilità e Handicap secondo l’ICIDH

La menomazione indica qualsiasi perdita o anormalità di una struttura o di una funzione fisiologica,

anatomica oppure psicologica (in questo caso si tende a parlare di “disturbo”). Una persona con

tetraplegia ha una menomazione fisica agli arti dalla nascita, una persona senza mano a causa di un

incidente ha una menomazione fisica acquisita nel corso della vita. Una persona con Schizofrenia

ha una menomazione psicologica o disturbo psicologico. A seconda dell’area colpita si possono

riscontrare anche menomazioni linguistiche, auricolari, intellettive, sensoriali, ecc.

La disabilità rappresenta la conseguenza pratica della menomazione e, quindi, indica lo svantaggio

personale che la persona disabile vive espresso in ciò che è in grado di fare o meno. Anche la

disabilità può presentarsi dalla nascita, ma può insorgere anche nel corso della vita. Per fare qualche

esempio, una menomazione fisica agli arti inferiori comporta una disabilità nel camminare, mentre

una menomazione psicologica comporta una disabilità relazionale. A seconda della menomazione si

possono anche riscontrare disabilità comunicative, comportamentali, nella cura personale ecc.

L’handicap indica lo svantaggio sociale vissuto da una persona a seguito di una disabilità o

menomazione. La persona con handicap, nell’incontro con l’ambiente fisico e sociale, può trovarsi

in difficoltà nel muoversi nello spazio in autonomia, nell’essere indipendente nel prendere delle

scelte o nel prendersi cura di sé, oppure nel trovare un’occupazione e un’indipendenza economica.

Lo svantaggio sociale si esprime anche nel non poter rivestire un ruolo sociale considerato

“normale” alla maggior parte. La persona con tetraplegia, ad esempio, può sviluppare una disabilità

nel camminare e un grave handicap negli spostamenti autonomi se l’architettura urbana prevede

solo scalini impossibli da utilizzare con una carozzina e non è, quindi, fornita di scivoli. Un

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bambino con un disturbo dello sviluppo quale l’autismo, può sviluppare un grave handicap sociale

se a scuola non viene assegnato un insegnante o educatore in grado di sostenerlo nelle sue difficoltà

relazionali promuovendo scambi comunicativi e relazionali con i compagni.

Quindi, l’handicap si riscontra solo nel caso in cui le condizioni esterne siano ad ostacolo alla vita

della persona. Una persona non vedente, ad esempio, vivrebbe tranquillamente in un ambiente buio,

contesto che invece costituirebbe un handicap per una persona vedente. Un bambino in carrozzina

supera un possibile handicap negli spostamenti se gli viene fornita una carrozzina magari elettrica

che gli permette di essere autonomo nel muoversi nello spazio, se adatto al passaggio in carrozzina

ovviamente.

I DISTURBI PERVASIVI DELLO SVILUPPO E COMUNICOPATIE

I disturbi pervasivi dello sviluppo si distinguono principalmente in:

Disturbo autistico;

Sindrome di Rett;

Disturbo disintegrativo dell’infanzia;

Sindrome di Asperger

Disturbi generalizzati dello sviluppo non altrimenti specificati.

Disturbo autistico

Secondo recenti stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, interessa un bambino ogni 100.

Colpisce più i maschi che le femmine, con un rapporto di 4 a 1. L’autismo può essere primario o

associato ad anomalie genetiche (fenilchetonuria, sclerosi tuberosa) o cromosomiche (X-fragile), a

malattie infettive prenatali (rosolia, citomegalovirus) o a traumi che colpiscono precocemente il

sistema nervoso. In circa il 60% dei bambini autistici è presente anche un deficit cognitivo, che può

essere di entità variabile. Nel 25-30% di soggetti con autismo si manifestano crisi epilettiche,

soprattutto nei primi anni di vita o all’inizio dell’adolescenza.

Le persone con autismo infantile hanno uno sviluppo anomalo in tre ambiti:

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Interazione sociale, con difficoltà nel relazionarsi con gli altri, nel capirne i bisogni e nel ricercare la

condivisione di gioie, interessi o obiettivi. Chi soffre di autismo non sa interpretare il linguaggio

“simbolico” fatto di gesti, espressioni e posture o capire l’ironia. Soprattutto nei soggetti più piccoli,

c’è uno scarso interesse nel fare amicizia o giocare con altri bambini. L’immaginazione è spesso

assente o comunque compromessa.

Comunicazione, con difficoltà nel parlare e nell’iniziare o sostenere una conversazione e deficit

della comunicazione mediata da gesti. Chi soffre di autismo ha un linguaggio caratterizzato dalla

ripetizione continua di frasi o parole sentite da altri e comprende in modo “letterale” i vocaboli, con

difficoltà nel seguire il filo di un discorso. Nelle persone che sviluppano il linguaggio, questo può

presentare anomalie nell’accento e nell’intonazione della voce, che possono essere inappropriati al

contesto. Anche lo sviluppo della comprensione del linguaggio è spesso ritardato e l’individuo può

avere difficoltà nel capire semplici domande o indicazioni.

Attività e interessi. La persona autistica preferisce svolgere attività solitarie e mostra spesso pochi

interessi, molto ripetitivi, abitudinari o accompagnati da rituali specifici. Inoltre, può manifestare

resistenza o malessere di fronte a cambiamenti, anche banali, della routine. In alcuni bambini può

esservi un eccessivo attaccamento o interesse per determinati oggetti. Sempre presenti, sebbene

molto variabili per intensità, movimenti ripetitivi apparentemente senza senso, come lo

sfarfallamento delle mani.

Le manifestazioni del disturbo variano a seconda del livello di sviluppo e dell’età del soggetto.

Secondo il Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali (DSM – IV), per la diagnosi di

autismo sono necessari almeno sei dei sintomi descritti per tre diverse aree (interazione sociale,

comunicazione, comportamento), con almeno due sintomi nell’area delle interazioni sociali e

almeno un sintomo nell’area del comportamento e uno in quella della comunicazione.

I sintomi descritti sono:

Compromissione dell’interazione sociale:

incapacità di utilizzare adeguatamente lo sguardo, la gestualità o la mimica per regolare

l’interazione sociale;

incapacità di sviluppare rapporti con coetanei;

mancanza di reciprocità socio-emozionale (assenza di modulazione del comportamento in accordo

al contesto sociale);

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mancanza della ricerca spontanea di condivisione di interessi con altre persone.

Compromissione della comunicazione:

ritardo o totale mancanza dello sviluppo del linguaggio verbale, senza tentativo di compensare con i

gesti;

relativa incapacità di iniziare o sostenere una conversazione;

ripetizioni, nel linguaggio, di parole o frasi;

assenza di gioco, sia a livello di imitazione che di invenzione.

Compromissione del comportamento:

preoccupazione per uno o più interessi limitati a particolari oggetti che sono anomali nel contenuto

e nell’obiettivo o per l’intensità dedicata;

adesione apparentemente irrefrenabile a pratiche o rituali specifici;

attività motorie ripetitive come il battere o il torcere le mani o le dita, o movimenti complessi di

tutto il corpo;

preoccupazioni per parti di oggetti o elementi non funzionali dei giochi.

Sindrome di Rett

La sindrome di Rett colpisce essenzialmente le femmine, con un’incidenza di un caso su 10.000 –

15.000 nati. È un disturbo caratterizzato da un periodo di sviluppo apparentemente normale,

seguito, entro il primo-secondo anno di vita, da un rallentamento della crescita della circonferenza

cranica, con perdita delle capacità manuali acquisite, comparsa di movimenti ripetitivi, e

regressione del comporto.

Le bambine affette da questa sindrome hanno, generalmente, disturbi nella comunicazione, specie

verbale, e compromissione delle capacità d’interazione sociale, sintomi che tendono leggermente a

migliorare con la seconda infanzia. Dopo i 10 anni si accentua il deterioramento motorio,

caratterizzato da assenza di coordinazione e andatura instabile. La compromissione delle funzioni

cerebrali è contraddistinta da deficit cognitivi e frequente epilessia. Alla sindrome di Rett sono

spesso associate anomalie del ciclo sonno-veglia e crisi intermittenti di apnea e iperventilazione,

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come anche scoliosi, infezioni delle vie respiratorie e cardiopatie che possono ridurre l’aspettativa

di vita.

Disturbo disintegrativo dell’infanzia

Il disturbo disintegrativo dell’infanzia, o sindrome di Heller, è molto raro ed è caratterizzato da uno

sviluppo, apparentemente normale, fino a oltre i tre anni. Entro i 10 anni, poi, il bambino va

incontro a una perdita delle capacità acquisite. L’esordio può essere acuto (giorni o settimane) o

lentamente progressivo (mesi). Il periodo di regressione è generalmente di 6-9 mesi, seguito da una

fase di stasi e talora da un modesto recupero, soprattutto nell’ambito del linguaggio. Socialità,

comunicazione e comportamento sono analoghi a quelli dell’autismo. Spesso il disturbo si associa a

gravi deficit cognitivi, anomalie elettroencefalografiche ed epilessia.

Sindrome di Asperger

La sindrome di Asperger è caratterizzata da compromissione dell’interazione sociale, dei

comportamenti e degli interessi, analogamente a quanto succede nell’autismo, senza però deficit a

livello cognitivo e soprattutto linguistico.

Compare verso i tre-quattro anni, dopo uno sviluppo apparentemente normale, e colpisce più i

maschi che le femmine. La compromissione dell’interazione sociale si evidenzia alla comparsa di

due tra i seguenti sintomi:

incapacità di utilizzare adeguatamente lo sguardo, la gestualità e la mimica per regolare

l’interazione sociale;

incapacità di sviluppare rapporti con coetanei;

mancanza di modulazione del comportamento in base al contesto sociale;

mancanza della ricerca spontanea di condivisione di interessi con altre persone.

La compromissione del comportamento può comprendere una fissazione per uno o più interessi

limitati quali parti di oggetti, la necessità, apparentemente compulsiva, di compiere pratiche o rituali

specifici e la presenza di movimenti del corpo ripetitivi, localizzati (es. mani o dita) o generalizzati.

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Pur non essendoci ritardo né significativa compromissione cognitiva, il linguaggio è spesso

caratterizzato da ripetizioni di parole o frasi poco comunicative e il pensiero appare talvolta

confuso. Spesso la sindrome si accompagna a uno sviluppo motorio rallentato e/o a difficoltà di

coordinazione dei movimenti.

La diagnosi viene eseguita più tardivamente che nell’autismo. Le caratteristiche distintive restano

pressoché invariate nel corso della vita. Le persone con Sindrome di Asperger possono avere un

impiego, una famiglia e vivere in modo indipendente. Sotto questo aspetto, la prognosi è migliore

anche rispetto al disturbo autistico ad alto funzionamento.

Disturbi generalizzati dello sviluppo non altrimenti specificati

In questa tipologia rientrano tutti i casi di bambini, adolescenti e adulti che, pur presentando una

grave e generalizzata compromissione dello sviluppo sociale e relazionale, della comunicazione

verbale e non verbale e comportamenti stereotipati, non soddisfano pienamente i criteri diagnostici

di nessuna delle categorie descritte. Tra i disturbi non altrimenti specificati è compreso anche

l'autismo atipico.

DISTURBI SPECIFICI DI LINGUAGGIO

Cosa sono / Come si manifestano / Disturbi associati /Trattamento /Cosa fare

I sistemi di classificazione internazionali (ICD-10) definiscono il Disturbo Specifico del Linguaggio

“una condizione in cui l’acquisizione delle normali abilità linguistiche è disturbata sin dai primi

stadi dello sviluppo. Il disturbo linguistico non è direttamente attribuibile ad alterazioni

neurologiche o ad anomalie di meccanismi fisiologici dell’eloquio, a compromissioni del sensorio, a

ritardo mentale o a fattori ambientali. È spesso seguito da problemi associati quali le difficoltà nella

lettura e nella scrittura, anomalie nelle relazioni interpersonali e disturbi emotivi e

comportamentali”.

Cosa sono i DSL

La definizione di ritardo o disturbo del linguaggio in età evolutiva è utilizzata per descrivere quadri

clinici molto eterogenei, in cui le difficoltà linguistiche possono manifestarsi in associazione con

altre condizioni patologiche (deficit neuromotori, sensoriali, cognitivi e relazionali) o isolatamente.

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Nel primo caso si parla di disturbi del linguaggio secondari (o associati al disordine primario),

mentre nel secondo caso si definiscono “Disturbi specifici del linguaggio” (DSL) i ritardi o

disordini del linguaggio “ relativamente puri”, in cui non sono identificabili fattori causali noti.

I DSL hanno emergenza tra i due ed i sei anni e risultano avere una diffusione del 5-7 % in età

prescolare e tendono a ridursi nel tempo con una incidenza dell’1-2% in età scolare.

Va però considerato che i soggetti con Disturbo Specifico di Apprendimento (DSA) presentano un

pregresso disturbo di linguaggio nel 30-40 % e, secondo alcuni, più della metà dei bambini con

DSL presenta difficoltà di apprendimento nei primi anni scolastici.

Come si manifestano

I Disturbi Specifici di Linguaggio (DSL) possono assumere differenti espressioni, in relazione alle

caratteristiche del disturbo.

Nella classificazione dell’ICD 10 (International Classification of Diseases- redatta

dall’Organizzazione Mondiale della Sanità) le principali manifestazione possono essere in sintesi

descritte:

Disturbo specifico dell’articolazione e dell’eloquio

Disturbo del linguaggio espressivo

Disturbo della comprensione del linguaggio

Disturbo specifico dell’articolazione e dell’eloquio

L’acquisizione dell’abilità di produzione dei suoni verbali è ritardata o deviante con conseguente

difficoltà nell’efficacia comunicativa del bambino.

La diagnosi è possibile in presenza di:

intelligenza non verbale nella norma;

abilità linguistiche espressive e ricettive nella norma;

anomalie dell’articolazione non direttamente attribuibili ad alterazioni sensoriali, anatomiche o

neurologiche;

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anomalie nel contesto d’uso colloquiale del linguaggio.

Disturbo del linguaggio espressivo

La capacità di esprimersi tramite il linguaggio è marcatamente al di sotto del livello appropriato alla

sua età mentale, ma con una comprensione nella norma.

La diagnosi è possibile in presenza di:

intelligenza non verbale nella norma;

mancanza di produzione di singole parole intorno a due anni;

piccole frasi di due parole intorno a tre anni sviluppo limitato del vocabolario; espressioni di

lunghezza ridotta;

strutturazione della frase poco evoluta e/o deviante;

difficoltà nella fluidità della frase / racconto;

ritardi / anormalità per i suoni linguistici.

Disturbo della comprensione del linguaggio

La comprensione del linguaggio non è coerente con l’età cronologica.

La diagnosi è possibile in presenza di:

intelligenza non verbale nella norma;

comprensione verbale marcatamente discrepante con l’età mentale non verbale;

capacità di espressione poco evolute e/o devianti

Disturbi associati

Disturbi Specifici del linguaggio sono spesso associati a difficoltà di coordinazione motoria, di

funzionamento cognitivo, e a disturbi dell’attenzione. Un fattore importante è il deficit della

memoria di lavoro fonologica, che tuttavia non sembra essere la causa di tutti i DSL. Alcuni studi

ritengono che fattori importanti siano quelli genetici e quelli ambientali.

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Trattamento

La rieducazione dei disturbi del linguaggio viene effettuata solo dopo un’accurata valutazione

diagnostica. Lo studio delle competenze linguistiche deve essere preceduto da un’attenta anamnesi

familiare volta a verificare la presenza di segni che richiedono valutazioni mediche specifiche (otiti

ricorrenti, deglutizione atipica, ecc..) o che riguardano l’assenza di condizioni patologiche in ambito

neurologico e audiologico.

La valutazione del linguaggio deve comprendere l’utilizzo di materiale testologico validato che

possa evidenziare le singole cadute in ambito linguistico. Come già detto, la presenza di varie

sottocategorie diagnostiche, porta alla necessità di diversificare gli interventi a seconda della

componente deficitaria.

Se il deficit è al livello fonologico è necessario un intervento mirato ad identificare i suoni che non

sono presenti nel repertorio fonetico del soggetto e lavorare sui contesti linguistici in cui la

produzione è corretta o alterata. Inoltre può essere utile, per i casi in cui la produzione non mostra

processi devianti, identificare con quale processo viene sostituita la struttura bersaglio e costruire

materiale linguistico finalizzato all’allenamento di tale struttura. Quando è la componente sintattica

e morfologica ad essere deficitaria, è necessario un intervento finalizzato all’apprendimento delle

regole grammaticali di base o al sostegno della componente narrativa. Esistono training sul recupero

lessicale-semantico o unità di lavoro sulle componenti meta fonologiche.

Diversi studi sull’efficacia del trattamento nei disturbi del linguaggio, hanno dimostrato che un

lavoro specifico sulla consapevolezza fonologica tramite specifiche attività in epoca prescolare,

facilita il bambino con DSL diminuendo significativamente l’emergere di difficoltà di

apprendimento della lettura e della scrittura.

Oltre all’intervento sul bambino sono spesso utili degli incontri di sostegno alla genitorialità al fine

di informare i genitori sulle caratteristiche del disturbo, sostenerli nelle difficoltà comunicative e

sociali che incontrano nell’interagire con il figlio, proporre loro un modello educativo che favorisca

le potenzialità e riduca i comportamenti problematici e fornire valide strategie comportamentali per

fronteggiare le difficoltà.

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Cosa fare

Lo sviluppo del linguaggio è caratterizzato da una grande variabilità individuale, dovuta a fattori

biologici ed ambientali (maggiore o minore stimolazione in ambito famigliare, inserimento precoce

a scuola, ecc).

Mediamente intorno ai 24 mesi il bambino possiede un vocabolario di circa 100 parole ed inizia a

formare le prime frasi che inizialmente sono combinazioni di parole spesso associate ad un gesto

indicativo o simbolico.

Intorno ai 30 mesi avviene generalmente la vera esplosione del linguaggio, il vocabolario si espande

ed il bambino inizia a produrre frasi di tre o più parole.

Un parametro fondamentale da tenere in considerazione è un’adeguata comprensione del linguaggio

dell’adulto: se questa è presente si più attendere siano a 36 mesi prima di fare una consultazione

specialistica. Nonostante ciò, è importante fornire indicazioni alla famiglia circa stili educativi che

favoriscano lo sviluppo di abilità espressive linguistiche.

L’età di tre anni costituisce una sorta di spartiacque tra bambini cosiddetti “parlatori tardivi” e i

bambini con probabile disturbo specifico di linguaggio.

La presenza di una produzione ancora non adeguata secondo i parametri sopra elencati dovrà essere

valutata da una visita medico-specialistica.

È importante fornire ai genitori che si trovano ad affrontare questo tipo di situazione, indicazioni

che possano aiutarli a comunicare e relazionarsi con il loro bambino:

Ascoltare il bambino quando parla, anche se mostra difficoltà, con attenzione e serenità, senza

mostrare fretta.

Lasciare che concluda la frase anche se richiede più tempo.

Favorire l’uso dei gesto a supporto dell’efficacia comunicativa.

Riformulare la produzione “scorretta” del bambino e non correggerla: il impara implicitamente dal

modello verbale dell’adulto e non dall’esercizio della ripetizione.

Parlare molto al bambino in modo rilassato e lento.

Valorizzare altre qualità del bambino per rinforzare la sua autostima e creare un ambiente

famigliare accogliente in cui possa sentirsi sereno di esprimersi anche con le sue difficoltà.

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SINDROMI DEMENZIALI

La prevalenza delle demenze aumenta con l’invecchiamento della popolazione ed è in costante

aumento su scala mondiale. Una sindrome demenziale si definisce come un disturbo delle funzioni

cognitive che evolve per alcuni mesi la cui gravità provoca una ripercussione sulla vita quotidiana

del paziente. La sua valutazione comporta come minimo un colloquio con il paziente e con le

persone a lui vicine, un esame clinico, una valutazione delle funzioni cognitive, una valutazione

ematica e una diagnostica per immagini cerebrale. La causa più frequente delle sindromi demenziali

è la malattia di Alzheimer, che colpisce il 20% dei soggetti oltre i 75 anni. Essa è caratterizzata da

un disturbo mnesico in primo piano, ad aggravamento progressivo, associato a un’alterazione delle

funzioni strumentali, esecutive, del ragionamento e del giudizio. Possono comparire disturbi

psicocomportamentali con l’evoluzione della malattia. La demenza a corpi di Lewy (che associa

una sindrome parkinsoniana e allucinazioni) e la demenza vascolare (caratterizzata da una

disfunzione sotto-cortico-frontale e da disturbi comportamentali precoci) sono altre eziologie

frequenti della sindrome demenziale. Queste diverse patologie sono spesso associate,

particolarmente nei soggetti più anziani, rendendo difficile la diagnosi eziologica. La gestione

pluridisciplinare delle demenze include trattamenti farmacologici (inibitori dell’acetilcolinesterasi e

memantina per la malattia d’Alzheimer e la demenza a corpi di Lewy; trattamenti farmacologici dei

disturbi psicocomportamentali), degli interventi non farmacologici (fisioterapia, ortofonia ecc.) e

l’attivazione di ausili sociali per permettere la permanenza a casa dei pazienti e risparmiare i

collaboratori. Attualmente, il miglioramento delle conoscenze sui meccanismi fisiopatologici della

malattia di Alzheimer permette di sviluppare nuove prospettive terapeutiche a scopo curativo.

IL MORBO DI ALZHEIMER

Il morbo di Alzheimer è il tipo più comune di demenza, un termine generale per le condizioni che si

verificano quando il cervello non funziona più correttamente.

Il morbo di Alzheimer provoca problemi di memoria, di pensiero e di comportamento. Nella fase

iniziale, i sintomi di demenza possono essere minimi, tuttavia, quando la malattia provoca maggiori

danni al cervello, i sintomi peggiorano. La velocità con cui la malattia progredisce è diversa per

ciascuno, tuttavia, in media, le persone che soffrono del morbo di Alzheimer vivono otto anni dopo

che i sintomi si sono manifestati.

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Anche se, attualmente, non esistono trattamenti per fermare la progressione del morbo di

Alzheimer, vi sono farmaci che possono curare i sintomi della demenza. Negli ultimi tre decenni, la

ricerca sulla demenza ha fornito una comprensione molto più approfondita del modo in cui il morbo

di Alzheimer colpisce il cervello. Oggi, i ricercatori continuano a ricercare i trattamenti più efficaci

e una cura, nonché i modi di prevenire il morbo di Alzheimer e migliorare la salute del cervello.

La perdita di memoria e altri sintomi del morbo di Alzheimer

I problemi di memoria, in particolare la difficoltà a ricordare informazioni apprese recentemente,

rappresentano spesso il primo sintomo del morbo di Alzheimer.

Quando invecchiamo, i nostri cervelli cambiano, e possiamo avere problemi occasionali nel

ricordare alcuni dettagli. Tuttavia, il morbo di Alzheimer e le altre demenze causano perdita di

memoria e altri sintomi abbastanza gravi da interferire con la vita di tutti i giorni. Questi sintomi

non rappresentano una parte naturale del processo di invecchiamento.

Oltre alla perdita di memoria, i sintomi del morbo di Alzheimer includono:

Problemi a completare le attività che una volta erano facili.

Difficoltà a risolvere i problemi.

Cambiamenti di umore o della personalità, l‘allontanarsi da amici e familiari.

Problemi di comunicazione, sia scritta sia verbale.

Confusione circa luoghi, persone ed eventi.

Cambiamenti visivi, quali, ad esempio, la difficoltà a comprendere immagini.

I familiari e gli amici possono notare i sintomi del morbo di Alzheimer e di altre demenze

progressive prima che la persona si accorga di questi cambiamenti. Se Lei o qualcuno che conosce

sta soffrendo di possibili sintomi di demenza, è importante chiedere una valutazione medica per

trovarne la causa.

Visiti la nostra pagina web Conosci i 10 primi segni e sintomi del morbo di Alzheimer per sapere di

più sulla differenza tra gli ordinari cambiamenti alla memoria, legati all'età, e il cervello e i sintomi

del morbo di Alzheimer.

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Fattori di rischio per il morbo di Alzheimer

Sebbene non comprendiamo ancora tutte le ragioni per le quali alcune persone sviluppano il morbo

di Alzheimer, mentre altre non ne vengono colpite, la ricerca ci ha dato una migliore comprensione

di quali fattori pongano qualcuno in una fascia di rischio più elevata.

L'età. L'età avanzata rappresenta il massimo fattore di rischio per sviluppare il morbo di Alzheimer.

La maggior parte delle persone cui è stato diagnosticato il morbo di Alzheimer ha 65 anni o più.

Anche se molto meno comune, un'insorgenza del morbo di Alzheimer in un'età più giovane (nota

anche come morbo di Alzheimer a insorgenza precoce) colpisce persone di età inferiore ai 65 anni.

Si stima che fino al 5 per cento delle persone sono affette da Alzheimer a insorgenza giovane.

L‘insorgenza giovane del morbo di Alzheimer è spesso mal diagnosticata.

Membri della famiglia con il morbo di Alzheimer. Se il genitore o un fratello sviluppa il morbo di

Alzheimer, si hanno maggiori probabilità di sviluppare la malattia rispetto a chi non ha un parente

di primo grado con il morbo di Alzheimer. Gli scienziati non riescono completamente a capire che

cosa causi la trasmissione del morbo di Alzheimer nelle famiglie, ma la genetica, i fattori ambientali

e gli stili di vita possono tutti giocare un ruolo.

Genetica. I ricercatori hanno identificato diverse varianti geniche che aumentano la probabilità di

sviluppare il morbo di Alzheimer. Il gene APOE-e4 è il gene a rischio più comune associato con

l’Alzheimer; si stima un ruolo in ben un quarto dei casi di Alzheimer.

I geni deterministici sono diversi da quelli di rischio, in quanto garantiscono che qualcuno

svilupperà una malattia.

L'unica causa nota del morbo di Alzheimer è dovuta all’ereditare un gene deterministico.

L’Alzheimer dovuto a un gene deterministico è raro, e probabilmente si verifica in meno dell'1 per

cento dei casi di Alzheimer. Quando un gene deterministico provoca l’Alzheimer, viene chiamato

"malattia autosomica dominante di Alzheimer "(ADAD, Autosomal Dominant Alzheimer’s

Disease).

Mild Cognitive Impairment (MCI, Deficit cognitivo lieve). I sintomi dell'MCI includono i

cambiamenti nella capacità di pensare, ma questi sintomi non interferiscono con la vita quotidiana e

non sono così gravi come quelle causati dal morbo di Alzheimer o da altre demenze progressive. In

caso di presenza di MCI, particolarmente di MCI che comporta problemi di memoria, aumenta il

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rischio di sviluppare l’Alzheimer ed altre demenze. Tuttavia, l'MCI non sempre progredisce. In

alcuni casi, esso si inverte o rimane stabile.

Malattie cardiovascolari. La ricerca suggerisce che la salute del cervello è strettamente correlata alla

salute del cuore e dei vasi sanguigni. Il cervello riceve l'ossigeno e le sostanze nutritive necessarie

per funzionare normalmente dal sangue, e il cuore è responsabile per il pompaggio del sangue al

cervello. Pertanto, i fattori che causano le malattie cardiovascolari possono anche essere collegati a

un rischio maggiore di sviluppare il morbo di Alzheimer e altre forme di demenza, tra cui il fumo,

l'obesità, il diabete e colesterolo alto e l’ipertensione nella mezza età.

Educazione e morbo di Alzheimer. Gli studi hanno collegato un minor numero di anni di istruzione

formale, con un aumento del rischio di insorgenza del morbo di Alzheimer e delle altre demenze.

Non è chiaro il motivo di questa associazione, ma alcuni scienziati ritengono che più anni di

istruzione formale possano contribuire ad aumentare le connessioni tra i neuroni, permettendo al

cervello di utilizzare percorsi alternativi di comunicazione neurone-neurone, quando si verificano

cambiamenti legati al morbo di Alzheimer e alle altre demenze.

Lesione traumatica del cervello. Il rischio di morbo di Alzheimer e di altre demenze aumenta dopo

una lesione cerebrale traumatica moderata o grave, come un colpo alla testa o una lesione del cranio

che causi amnesia o perdita di coscienza per più di 30 minuti. Il cinquanta per cento delle lesioni

cerebrali traumatiche sono causate da incidenti automobilistici. Le persone che subiscono lesioni

cerebrali ripetute, come gli atleti e chi è impegnato in operazioni di combattimento, sono

egualmente a maggiore rischio di sviluppare demenza e compromissione.

AIUTI PRATICI PER CHI ASSISTE I MALATI DI ALZHEIMER

La RETE SOCIALE costituita da un buon vicinato, da reti amicali, da realtà di volontariato, da una

rete istituzionale di servizi del Comune di appartenenza, soprattutto laddove esiste una RETE

INTEGRATA (assistenza domiciliare, centro diurno, RSA, ricoveri temporanei di sollievo)

dovrebbe essere in grado di rilevare i bisogni della famiglia portatrice del problema demenza e

fornire, oltre che un aiuto fattivo, anche una utile e necessaria informazione per la comprensione e

la gestione delle problematiche connesse alla demenza.

Ciò eviterebbe l'esasperazione estrema delle famiglie ed un utilizzo migliore delle risorse umane e

materiali.

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L'assistenza può essere talvolta molto difficile; tuttavia, vi sono diversi accorgimenti utili per far

meglio fronte alla situazione; ne elenchiamo alcuni, che si sono rivelati utili in diversi casi.

Stabilire una routine e mantenere uno standard di normalità

Lo stabilire una routine, nella vita dell'ammalato, può diminuire il numero di decisioni da prendere

e contribuire a mantenere un ordine e una struttura nella sua vita quotidiana, che sarebbe altrimenti

confusa. La presenza di una routine può infatti rappresentare un punto di riferimento sicuro per la

persona con AD. Sebbene una routine possa essere di aiuto, è importante mantenere le cose, per

quanto possibile, immutate: per esempio, trattare il paziente, per quanto le sue mutate condizioni lo

consentano, come si faceva prima della malattia.

Sostenere l'autonomia del paziente

È necessario che la persona rimanga indipendente il maggior tempo possibile, sia per preservare la

sua autostima sia per diminuire il carico dell'assistenza.

Aiutare la persona a conservare la propria dignità

Occorre tenere in mente che il paziente assistito è ancora un individuo che sperimenta emozioni e

sentimenti; pertanto ciò che viene detto può avere, per lui, un effetto disturbante. Occorre evitare

discussioni circa le condizioni del paziente in sua presenza.

Evitare scontri

Qualsiasi tipo di conflitto causa uno stress inutile sia alla persona che assiste sia al malato. Occorre

evitare di far notare gli insuccessi, mantenendo invece una calma compostezza. L'indisporsi può

solo peggiorare la situazione: occorre infatti ricordare che quanto accade dipende dalla malattia, e

non dal paziente.

Stabilire compiti semplici

È utile proporre compiti semplici al malato di AD; non bisogna porlo di fronte a troppe scelte.

Mantenere il senso dell'umorismo

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Ridere con la persona affetta da AD, ma non di lui. L'umorismo può essere un ottimo modo per

trarre sollievo dallo stress.

Fare attenzione alle norme di sicurezza

La perdita della coordinazione fisica e della memoria accrescono la possibilità di incidenti; pertanto

occorre rendere l'abitazione in cui vive il malato la più sicura possibile.

Incoraggiare il mantenimento di una buona forma fisica e di buone condizioni di salute

In molti casi, questo atteggiamento può aiutare la persona a conservare le proprie abilità fisiche e

mentali più a lungo. Il livello di esercizio più appropriato dipende dalle condizioni individuali.

È opportuno consultare il proprio medico per avere indicazioni più specifiche.

Aiutare il paziente a fare il migliore uso delle abilità esistenti

Lo svolgimento di alcune attività pianificate può rafforzare e promuovere un senso di dignità e di

valore personale, dando uno scopo e un significato alla vita. Una persona che una volta si occupava

di costruzioni, di giardinaggio, o che era nel commercio o negli affari può trarre soddisfazione

dall'utilizzare ancora alcuni tipi di abilità connesse a questi lavori. Occorre ricordare, tuttavia, che

essendo l'AD progressiva, ciò che interessa o non interessa e le abilità possono cambiare nel corso

del tempo; ciò richiederà un'attenzione e una flessibilità particolari nella pianificazione delle

attività.

Mantenere aperta la comunicazione

Con l'avanzare della malattia, la comunicazione con il malato può diventare più difficile. Può essere

d'aiuto per chi assiste il paziente:

accertarsi della integrità dei suoi sensi, come la vista e l'udito (la prescrizione degli occhiali può non

essere più adeguata o l'apparecchio acustico può non funzionare correttamente);

parlare chiaramente, lentamente, viso a viso, e guardando la persona negli occhi;

mostrare affetto e calore attraverso il contatto fisico, se questo è gradito dalla persona;

prestare attenzione al linguaggio del corpo: la persona le cui capacità di linguaggio verbale sono

compromesse può comunicare attraverso messaggi non-verbali;

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essere consapevoli del proprio linguaggio corporeo;

individuare quale combinazione di parole-chiave (parole facili da ricordare che ne possono

suggerire altre), suggerimenti e spiegazioni è necessaria per poter comunicare efficacemente con la

persona ammalata;

assicurarsi che il paziente sia attento prima di rivolgergli la parola.

Utilizzare dei supporti per facilitare la memoria

Nelle prime fasi dell'AD, alcuni specifici supporti per la memoria possono aiutare la persona a

ricordare meglio e a prevenire la confusione. I seguenti esempi si sono dimostrati efficaci: mettere a

disposizione del paziente delle immagini fotografiche dei suoi congiunti, di grandi dimensioni e

recanti i nomi di questi ultimi, in modo che egli possa tenere a mente chi sono; contrassegnare le

porte delle camere con parole e colori brillanti e differenti.

Va tuttavia precisato che queste forme di supporto per la memoria del paziente non risulteranno

altrettanto utili nelle fasi più avanzate della malattia.

Suggerimenti pratici per affrontare i cambiamenti prodotti dalla malattia

I seguenti suggerimenti derivano dalle esperienze di chi assiste i pazienti affetti da AD: è possibile

che per alcuni di essi riesca difficile metterli in pratica. Bisogna però ricordare che nessuno è

perfetto, e che una persona che ha il compito di assistere può solo fare del suo meglio.

Igiene personale

Il paziente con AD può dimenticare di lavarsi o, più avanti, non rendersi conto di questa necessità, o

può avere dimenticato quello che deve fare in questo campo. In questa situazione, è importante

rispettare la dignità della persona quando gli si offre aiuto.

Suggerimenti:

mantenere nel campo dell'igiene personale, per quanto possibile, le precedenti abitudini;

tentare di rendere il "bagno" una situazione rilassante e piacevole;

la doccia può essere più facile da farsi rispetto al bagno, ma se la persona ammalata non l'ha mai

usata in precedenza, può allarmarsi;

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103

semplificare al massimo il compito in questione;

se il paziente rifiuta di farsi il bagno, provare di nuovo a proporlo più tardi, quando l'umore del

paziente può essere mutato;

permettere al paziente di fare da solo, per quanto possibile;

se il paziente appare imbarazzato, tenere alcune parti del corpo coperte, mentre lo si aiuta a fare il

bagno;

fare attenzione alle norme di sicurezza; può essere utile impiegare punti di appoggio ben fissati

(come delle sbarre) alle quali potersi afferrare, superfici antiscivolamento, o girelli;

se la proposta di fare un bagno crea regolarmente un conflitto, un lavaggio eseguito con la persona

in piedi può risultare più pratico;

se si creano continuamente problemi in questo ambito, può essere utile farsi sostituire da un'altra

persona.

Abbigliamento

Il paziente con AD può dimenticare come si fa a vestirsi e può non riconoscere la necessità di

cambiare i propri indumenti. I pazienti con AD possono talvolta comparire in pubblico con un

abbigliamento inadeguato.

Suggerimenti:

riporre gli abiti nello stesso ordine con cui devono essere indossati;

evitare vestiti con chiusure complicate;

incoraggiare l'indipendenza del soggetto nel vestirsi da solo il più a lungo possibile;

far ripetere gli atti, se necessario;

utilizzare scarpe con suole non scivolose.

Servizi igienici e incontinenza

Il paziente con AD può perdere la capacità di riconoscere il bisogno di andare alla toilette,

dimenticare dove questa si trova o che cosa fare una volta che vi è giunto.

Suggerimenti:

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104

creare uno schema che faciliti il percorso sino al bagno;

contrassegnare la porta di questa stanza con colori brillanti e lettere di grandi dimensioni;

lasciare la porta della stanza da bagno aperta, in modo che per il paziente sia più facile ritrovarla;

utilizzare per il paziente abiti che si possano togliere rapidamente;

limitare le bevande prima che il paziente si corichi alla sera;

lasciare una comoda o un vaso da notte accanto al letto;

chiedere consigli allo specialista.

Cucinare

Per il paziente con AD la capacità di cucinare può venir meno negli ultimi stadi della malattia; ciò

crea gravi problemi, soprattutto se la persona vive sola, e la espone inoltre al rischio di incidenti. La

scarsa coordinazione fisica può portare anche a bruciature e tagli.

Suggerimenti:

valutare se la persona è effettivamente ancora in grado di cucinare;

svolgere questa attività in compagnia del paziente;

installare dispositivi di sicurezza;

rimuovere tutti gli oggetti appuntiti e taglienti;

provvedere a pasti già preparati e sorvegliare che il cibo assunto sia sufficiente da un punto di vista

nutrizionale.

Alimentazione

I pazienti dementi spesso dimenticano se hanno mangiato, o come usare le posate. Nelle ultime fasi

della malattia il paziente può aver bisogno di essere imboccato. Possono poi insorgere altri problemi

fisici, come difficoltà nella masticazione e nella deglutizione.

Suggerimenti:

ricordare al paziente come si fa a mangiare;

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far impiegare le dita per mangiare; questa procedura può facilitare il compito al paziente e può non

risultare particolarmente sconveniente;

tagliare il cibo in piccoli pezzi, per prevenire episodi di soffocamento. Nelle ultime fasi della

malattia può essere necessario triturare il cibo o utilizzare alimenti liquidi;

ricordare al paziente di mangiare lentamente;

essere consapevoli del fatto che la persona può non essere più in grado di avvertire la temperatura

(calda o fredda) degli alimenti, e può scottarsi la bocca quando assume cibi o bevande calde;

quando il paziente ha difficoltà a deglutire, consultare il proprio medico affinché egli suggerisca

delle tecniche volte a facilitare questa funzione;

servire una porzione di cibo alla volta.

Guida di autoveicoli

Può essere pericoloso, per il paziente con AD, guidare un autoveicolo a causa del rallentamento dei

tempi di reazione e della compromissione delle capacità critiche e di giudizio.

Suggerimenti:

discutere gentilmente di questo problema con la persona ammalata;

consigliare di utilizzare i trasporti pubblici, quando possibile;

se non si riesce a dissuadere il paziente dalla guida, può essere necessario consultare il medico o le

autorità competenti.

Alcol e sigarette

Non vi sono controindicazioni a un uso moderato di alcol se non sono presenti interazioni con la

terapia farmacologica in corso. Le sigarette sono invece più pericolose, a causa del rischio di

incendi e di un possibile danno alla salute.

Suggerimenti:

fare attenzione alla persona quando fuma, o scoraggiare il fumo del tutto, anche con l'aiuto di una

prescrizione medica;

valutare le possibili interazioni tra alcol e farmaci con il proprio medico curante.

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Insonnia

Il paziente con AD può essere agitato durante la notte e disturbare la famiglia: questo può

rappresentare il problema più acuto per chi assiste questi pazienti.

Suggerimenti:

scoraggiare il sonno durante il giorno;

indurre il paziente a camminare a lungo o a una maggiore attività fisica diurna;

mettere, per quanto possibile, il paziente a suo agio al momento di andare a letto.

Comportamenti ripetitivi

Il paziente con AD può non ricordare di aver detto una cosa un momento prima: ciò può portare ad

azioni e domande ripetitive.

Suggerimenti:

provare a distrarre il paziente, offrendogli qualcosa da guardare, da ascoltare, o da fare;

scrivere la risposta alle domande poste dal paziente ripetutamente;

rassicurare il paziente con un atteggiamento caldo e affettivo, se questo è per lui utile.

Attaccamento

Il paziente con AD può diventare estremamente dipendente dalla persona che lo assiste e seguirla

ovunque: ciò può essere frustrante, difficile da gestire, e può limitare la propria intimità. Questo

comportamento può derivare dal timore del paziente che la persona in questione si allontani per poi

non tornare più, e quindi essere causato da un sentimento più globale di insicurezza.

Suggerimenti:

fare in modo che durante la propria assenza, l'attenzione del paziente sia occupata da qualcosa;

utilizzare delle persone di compagnia per poter avere del tempo per sé.

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Perdite di oggetti e accuse di furto

Il paziente con AD spesso dimentica dove ha riposto gli oggetti e può accusare gli altri di averli

trafugati. Questi atteggiamenti dipendono dall'insicurezza del paziente, dalla sua sensazione di

perdita del controllo e dalla sua difficoltà a ricordare.

Suggerimenti:

cercare di scoprire se il paziente ha un luogo consueto ove ripone gli oggetti;

avere a disposizione un duplicato degli oggetti importanti, come le chiavi;

controllare che non siano presenti oggetti nei sacchetti dell'immondizia;

rispondere alle accuse della persona gentilmente, e non in maniera difensiva;

convenire con il paziente che l'oggetto in questione è stato perduto e che lo si aiuterà a ritrovarlo.

Deliri e allucinazioni

Non è insolito che pazienti con AD presentino deliri e allucinazioni. Il delirio è una falsa credenza:

per esempio il malato può essere convinto di essere danneggiato o minacciato dalla persona che lo

assiste. Tale pensiero è considerato, dalla persona affetta da demenza, come assolutamente vero e

reale e crea in lui uno stato di paura che può sfociare in comportamenti auto-difensivi inadeguati.

Se il paziente manifesta allucinazioni, può vedere o sentire persone che non ci sono: per esempio,

vedere figure ai piedi del letto o udire persone che stanno parlando nella stessa camera.

Suggerimenti:

non discutere circa la veridicità delle esperienze visive o uditive riferite dal paziente;

quando la persona è spaventata, tentare di rassicurarla; una voce calma o il contatto di una mano

possono servire a tal fine;

distrarre il paziente richiamando la sua attenzione su un oggetto reale che si trova nella camera;

consultare il proprio medico a proposito della terapia farmacologica in corso, che potrebbe

contribuire al manifestarsi del problema.

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CENNI SU DEMENZA VASCOLARE

Inquadramento della demenza vascolare

La demenza vascolare è una forma di deficit cognitivo determinata dall'alterazione della

circolazione sanguigna cerebrale conseguente a eventi acuti, come un ictus o un'emorragia

cerebrale, o a patologie croniche, come l'aterosclerosi.

Come negli altri tipi di demenza, anche in questo caso il deterioramento delle capacità intellettive

dipende da una degenerazione delle cellule nervose presenti nell'area cerebrale colpita, ma a

determinare il danno neuronale in questo caso è principalmente il venir meno di un adeguato

rifornimento di ossigeno e sostanze nutritive (in particolare, glucosio).

Oltre all'età superiore ai 60 anni, il rischio di andare incontro a ictus o patologie cerebrovascolari

croniche e sviluppare secondariamente demenza vascolare è aumentato dalla presenza di diabete,

ipertensione, alti livelli di colesterolo nel sangue, malattie cardiache (in particolare, storia di infarto

miocardico e fibrillazione atriale) e dall'abitudine al fumo. In genere, gli uomini tendono a essere

interessati da demenza vascolare più spesso delle donne, soprattutto dopo i 70 anni.

Sintomi e Diagnosi della demenza vascolare

I sintomi che possono manifestarsi in presenza di demenza vascolare possono variare da paziente a

paziente in funzione della specifica zona del cervello interessata dalla riduzione della circolazione

sanguigna e possono comprendere manifestazioni cognitive/comportamentali e disturbi motori di

varia natura e gravità. La loro insorgenza può essere improvvisa (come avviene dopo un ictus)

oppure lenta e caratterizzata da peggioramento progressivo (ad es., in caso di micro-ictus ripetuti o

in presenza di aterosclerosi diffusa).

I sintomi cognitivi e comportamentali più comuni sono:

Confusione mentale

Difficoltà di concentrazione/facile distraibilità

Difficoltà nel prendere decisioni, nel pianificare attività mediamente complesse

Problemi di memoria/apprendimento

Difficoltà del linguaggio

Disturbi dell'equilibrio

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Aumento del bisogno di urinare o problemi a controllare lo stimolo

Maggior tendenza ad avere reazioni impulsive

Agitazione

Depressione

Ansia e/o irritabilità

Vagabondaggio durante la notte

Nelle demenze vascolari a esordio lento e progressivo la diagnosi differenziale rispetto alla malattia

di Alzheimer può essere difficile. Per questa ragione il medico, oltre alla visita neurologica

prescriverà una serie di accertamenti clinici e strumentali quali analisi del sangue e del fluido

cerebrospinale ed esami neuroradiologici dell'encefalo con risonanza magnetica funzionale (RMf) o

tomografia a emissione di positroni (PET).

Trattamento della demenza vascolare

Attualmente, non si hanno a disposizione trattamenti specifici per contrastare una demenza

vascolare dopo che si è instaurata. Si può, però, cercare di frenare l'evoluzione del danno cerebrale

ed evitare che la situazione peggiori riducendo l'impatto negativo dei principali fattori di rischio,

attraverso buone regole di vita (alimentazione equilibrata, ricca di frutta e verdura, pesce, cereali

integrali, oli vegetali, e frutta secca; attività fisica regolare; pochi alcolici; niente fumo; controllo

del peso corporeo) e terapie mirate (soprattutto, in caso di ipertensione, ipercolesterolemia, diabete

e patologie cardiache).

DEMENZA FRONTOTEMPORALE

La Degenerazione frontotemporale ( FTD) è un processo patologico che provoca danni progressivi

ai lobi temporali e / o frontali anteriore del cervello . Essa provoca un insieme di disturbi molto

simili dal punto di vista clinico. Il segno distintivo della FTD è un graduale , progressivo declino

nel comportamento e / o linguaggio ad esordio spesso precoce (tra i 50 e i 60 ), ma è accaduto anche

a ventenni e a persone con più di 80 anni. Mano a mano che la malattia progredisce, diventa sempre

più difficile per le persone pianificare e organizzare le proprie attività , comportarsi in modo

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appropriato in contesti sociali o di lavoro, interagire con gli altri , e prendersi cura di se stessi , con

conseguente diminuzione dell’ indipendenza…

La FTD rappresenta circa il 10 % -20 % dei casi di demenza ed è riconosciuta come una delle

demenze più comuni fra i giovani . Si stima che la FTD colpisca circa 50.000-60.000 americani. Si

verifica in modo uguale in uomini e donne. In una piccola percentuale di casi, è ereditaria .

Mentre al momento non ci sono trattamenti per rallentare o fermare la progressione della malattia,

la ricerca è in espansione, e aumenta la conoscenza dei disturbi . Prevediamo che questa si tradurrà

in un numero crescente di potenziali terapie in sperimentazione clinica che entrano in vigore nei

prossimi anni.

Caratteristiche cliniche

I lobi frontali del cervello sono associati con il processo decisionale e il controllo del

comportamento, e i lobi temporali, con emozioni e linguaggio. Mentre la FTD è segnata da una

serie di comportamento, personalità, e cambiamenti cognitivi, diversi sottotipi della malattia sono

stati identificati sulla base di sintomi distinti e presentazione clinica.

La Degenerazione frontotemporale è caratterizzata dalla perdita di empatia e da turbe ingravescenti

del comportamento sociale, ed è conosciuta clinicamente come variante comportamentale della

FTD (bvFTD), malattia di Pick, o variante frontale FTD (fvFTD). Quando predominano i problemi

di linguaggio, si definisce Afasia progressiva primaria (PPA). La FTD con malattia del

motoneurone, la sindrome cortico-basale, e la paralisi sopranucleare progressiva sono sottotipi di

FTD caratterizzati da debolezza muscolare, rigidità e / o sintomi parkinsoniani.

MALATTIA DI PICK

La malattia di Pick, o morbo di Pick (da non confondersi con la malattia di Niemann-Pick) è una

malattia cerebrale degenerativa poco comune (10-15 volte meno frequente della malattia di

Alzheimer), clinicamente caratterizzata da demenza. È attualmente considerata una patologia

appartenente ai quadri sindromici delle Demenze Fronto-Temporali (FTD).

Il quadro anatomopatologico è caratterizzato da atrofia dell'area fronto-temporale e dalla presenza

di caratteristiche alterazioni neuronali costituite dai corpi di Pick. I corpi di Pick sono inclusioni

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intracellulari filamentose composte da neurofilamenti, simili alle inclusioni osservate nella malattia

di Alzheimer.

Le alterazioni comportamentali si manifestano come stati di agitazione psicomotoria (wandering o

deambulazione afinalistica: è un po' come se il paziente fosse una tigre in gabbia che cammina

avanti ed indietro). Talvolta i soggetti che ne sono affetti manifestano la loro ansia con crisi di

violenza inaudita ovvero con crisi di panico e di pianto. In genere è alterato completamente il

carattere e la personalità del paziente, il quale presenta persino un bassissimo livello di inibizione.

La sindrome è facilmente confondibile con la malattia di Alzheimer con cui è talora associata. A

differenza del vero demente, il malato di Pick perde le proprie capacità espressivo-espositive molto

più rapidamente, ma non quelle di lettura e di scrittura, che invece sono conservate più a lungo nel

tempo.

La patogenesi è sconosciuta, e le terapie, analogamente a quelle della malattia di Alzheimer, sono a

livello sperimentale. Importantissima, come nelle altre demenze, la terapia di supporto.

MORBO DI PARKINSON

Il morbo di Parkinson è una malattia degenerativa del sistema nervoso centrale. E’ stata descritta

per la prima volta nel 1817 da James Parkinson, un medico britannico che pubblicò un saggio su ciò

che lui chiamava la paralisi agitante; in questo saggio espone i principali sintomi della malattia, a

cui più darti è stato dato il suo nome.

I ricercatori stimano che almeno 500.000 persone nei soli Stati Uniti hanno il morbo di Parkinson,

sebbene alcune stime risultino anche più alte. La società paga un enorme prezzo per il morbo di

Parkinson: il costo totale negli USA è stato stimato eccedere i 6 miliardi di dollari all’anno. Il

rischio di sviluppare il morbo di Parkinson aumenta con l’età, cosi gli analisti si aspettano che

l’impatto finanziario e pubblico sulla salute peggiori con l’invecchiamento della popolazione.

Il morbo di Parkinson appartiene al gruppo di condizioni patologiche che provocano disturbi di

movimento. I quattro principali sintomi sono:

tremito, o tremore nelle mani, nelle braccia, nelle gambe, alla mascella, o alla testa;

rigidità degli arti e al tronco;

bradicinesia, ossia lentezza nei movimenti;

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instabilità di posizione, o equilibrio indebolito.

Questi sintomi iniziano gradualmente e peggiorano con il tempo; poichè si fanno più marcati, i

pazienti potrebbero arrivare ad avere delle difficoltà nel camminare, parlare o completare altre

semplici azioni. Non tutti quelli che presentano uno o più di questi sintomi ha il morbo di

Parkinson, poiché questi sintomi a volte si presentano anche in altre malattie.

Il morbo di Parkinson è cronico, cioè che persiste per un lungo periodo di tempo, progressivo, ossia

si aggrava con il tempo.

Non è contagioso: sebbene alcuni casi di morbo di Parkinson sembrino essere ereditari, e pochi

possono essere attribuiti a specifiche mutazioni genetiche, la maggior parte dei casi sono sporadici e

la malattia non sembra trasmettersi in famiglia. Attualmente molti ricercatori credono che il morbo

di Parkinson derivi dalla combinazione della predisposizione genetica con l’esposizione a uno o più

fattori ambientali concausa della malattia.

Il morbo di Parkinson è la più comune forma di parkinsonismo, il nome di un gruppo di malattie

con caratteristiche e sintomi simili; è anche chiamato parkinsonismo primario o morbo di Parkinson

idiopatico, il termine idiopatico sta ad indicare una malattia per la quale non è stata trovata ancora

nessuna causa. Mentre la maggior parte delle forme di parkinsonismo sono idiopatiche, ci sono dei

casi in cui la causa è conosciuta o sospetta o in cui i sintomi sono causati da un’altra malattia: ad

esempio il parkinsonismo può essere causato da cambiamenti nei vasi sanguigni del cervello.

Cause

Il morbo di Parkinson è dovuto dal punto di vista biochimico alla degenerazione cronica e

progressiva che interessa soprattutto alcune strutture del sistema nervoso centrale, in particolare

dove viene prodotta la dopamina, un neurotrasmettitore essenziale per il controllo dei movimenti

corporei: in altre parole diminuisce la quantità disponibile nell’organismo di una sostanza legata al

controllo dei movimento, la dopamina.

Il morbo colpisce circa per il 50% in più gli uomini delle donne, ma le ragioni di questa discrepanza

non sono chiare; sebbene venga riscontrato in persone di ogni parte nel mondo, numerosi studi

hanno riscontrato una più alta incidenza nei paesi sviluppati. Altri studi hanno riscontrato un

aumentato rischio nelle persone che vivono nelle zone rurali ed in quelle che svolgono certe

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professioni, anche se gli studi fino a oggi non sono conclusivi e le cause alla base dei fattori di

rischio non sono chiare.

Sicuramente può comparire in seguito a traumi alla testa (è molto diffuso tra ex pugili), esposizione

a sostanze tossiche nell’ambiente ed arteriosclerosi cerebrale.

Un causa certa di aumento della frequenza di comparsa del morbo di Parkinson è l’età: l’età media

dei sintomi iniziali è di 60 anni e l’incidenza sale significativamente con l’aumentare dell’età. Circa

il 5-10% delle persone con il morbo di Parkinson presentano i primi sintomi della malattia prima dei

50 anni e spesso queste forme si rivelano ereditarie e, benché non sempre, ricollegati a specifiche

mutazioni geniche.

Le persone con uno o più parenti stretti che hanno il morbo di Parkinson hanno un aumentato

rischio di contrarre anch’essi la malattia, ma il rischio totale è soltanto dal 2 al 5 % esclusi i casi con

una nota mutazione genetica per la malattia. Si stima che dal 15 al 25% di malati ha un parente

stretto con la stessa malattia.

In casi molto rari i sintomi parkinsoniani potrebbero manifestarsi in persone che hanno meno di 20

anni di età, questa condizione è chiamata parkinsonismo giovanile. Si trova più comunemente in

Giappone, ma si conoscono casi anche in altri paesi: di solito inizia con distonia e bradicinesia

(entrambi disordini del movimento) e i sintomi spesso migliorano con l’uso del farmaco levodopa.

Il Parkinsonismo giovanile spesso si trasmette in famiglia ed a volte è collegato ad un gene mutato.

Sebbene esistano molte teorie sulla causa del morbo di Parkinson, nessuna è stata provata. La teoria

prevalente sostiene che uno o più fattori ambientali hanno causato la malattia: sintomi gravi come

quelli di Parkinson sono stati descritti in persone che facevano uso di droghe illegali contaminate da

MPTP chimico e in persone che hanno contratto una particolare e grave forma di influenza durante

un’epidemia agli inizi del 1918. Recenti studi su gemelli e su famiglie con il Parkinson

suggeriscono che alcune persone hanno una predisposizione ereditaria alla malattia che può essere

influenzata da fattori ambientali. La forte ereditarietà familiare del gene cromosoma 4 è la prima

evidenza che un’alterazione genica da sola può portare a sviluppare il morbo di Parkinson.

Sintomi

I primi sintomi del morbo di Parkinson sono lievi e si presentano gradualmente. Le persone affette

potrebbero :

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avvertire lievi tremolii,

avere difficoltà a rialzarsi da una sedia,

accorgersi che parlano troppo piano,

avere una scrittura lenta e che sembra illeggibile o piccola,

perdere il filo del discorso o del pensiero,

sentirsi stanchi, irritabili, depressi senza un apparente motivo

Questo primissimo periodo potrebbe durare molto tempo prima che i sintomi più classici ed evidenti

si manifestino: gli amici o i familiari potrebbero essere i primi a notare dei cambiamenti in qualcuno

con un morbo di Parkinson iniziale. Potrebbero notare che il suo viso appare privo di espressione e

vivacità (faccia amimica) o non più in grado di muovere normalmente un braccio o una gamba.

Potrebbero notare anche che sembra irrigidito, instabile od insolitamente lento.

Col progredire della malattia il tremore che colpisce la maggior parte dei pazienti con il morbo di

Parkinson potrebbe iniziare a interferire con le attività quotidiane: i malati potrebbero non essere

più in grado di tenere utensili fermi o potrebbero rendersi conto che il tremolio rende difficile la

lettura di un giornale.

Il tremore è di solito il sintomo che causa la necessità di cure mediche.

Le persone con morbo di Parkinson spesso sviluppano la cosiddetta andatura parkinsoniana che

comprende:

una tendenza a sporgersi in avanti,

piccoli passi veloci come se si affrettasse in avanti,

ridotta oscillazione delle braccia.

Potrebbero avere anche delle difficoltà ad iniziare un movimento e potrebbero fermarsi

improvvisamente mentre camminano.

Il morbo di Parkinson non colpisce tutti allo stesso modo e il ritmo di progressione differisce tra i

pazienti: il tremore è il principale sintomo per alcuni pazienti, mentre per altri il tremore è

inesistente o molto lieve.

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I sintomi del morbo di Parkinson spesso si manifestano inizialmente in una sola metà del corpo

(sinistra o destra), ma con il tempo colpirà entrambi i lati (anche se spesso i sintomi sono meno

gravi in una parte rispetto all’altra).

I quattro principali sintomi comunque sono:

Tremore. Il tremore associato al morbo di Parkinson ha una manifesta caratteristica: prende la

forma di un movimento ritmico in cui è possibile individuare 4-6 battiti al secondo. Potrebbe colpire

il pollice e l’indice, spesso inizialmente solo in una mano, sebbene a volte un piede o la bocca siano

le prime parti colpite. E’ molto evidente quando la mano è ferma o la persona si trova sotto stress.

Ad esempio il tremore potrebbe diventare più pronunciato pochi secondi dopo che le mani si sono

appoggiate sul tavolo. Il tremore di solito scompare durante il sonno o migliora con movimenti

intenzionali.

Rigidità. La rigidità, o resistenza al movimento, colpisce la maggior parte delle persone con il

morbo di Parkinson. Il principio più importante del movimento del corpo è che tutti i muscoli hanno

un muscolo opposto: il movimento è possibile non solo perchè un muscolo diventa più attivo, ma

perchè l’opposto si rilassa. Nel morbo di Parkinson la rigidità si avverte quando , in risposta ai

segnali dal cervello, il delicato equilibrio muscolare è disturbato. I muscoli rimangono

costantemente tesi e contratti, cosicché la persone avverte dolore o si sente irrigidita e debole. La

rigidità diventa evidente quando un’altra persona cerca di muovere il braccio del paziente, che si

muoverà solo con movimenti a scatti o brevi.

Bradicinesia . La bradicinesia, o lentezza dei movimenti, è particolarmente frustrante perchè può

rendere delle semplici azioni alquanto difficili. La persona non riesce ad eseguire rapidamente

movimenti quotidiani, le attività che prima eseguiva rapidamente e facilmente, come lavare o

vestirsi, potrebbero richiedere tempi molto più lunghi.

Instabilità di posizione. L’instabilità di posizione, o equilibrio indebolito, causa ai pazienti un alto

rischio di caduta. Le persone affette potrebbero anche sviluppare una posizione curva nella quale la

testa è chinata e le spalle sono calate.

Molti altri sintomi potrebbero accompagnare il morbo di Parkinson. Alcuni lievi altri più

invalidanti: la maggior parte può essere curata con farmaci o con fisioterapia, ma nessuno può

predire quali sintomi colpiranno un singolo paziente e con quale intensità. Ricordiamo fra gli altri:

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Depressione. Questo è un problema comune e può manifestarsi presto nel corso nel corso della

malattia, persino prima che vengano notati gli altri sintomi. Per fortuna la depressione di solito può

essere curata con successo con antidepressivi.

Sbalzi di umore. Alcune persone con il morbo di Parkinson diventano paurosi e insicuri. Forse

hanno paura di non riuscire a far fronte alla nuova situazione. Non vogliono viaggiare , andare alle

feste, o socializzare con gli amici. Alcuni perdono motivazione e diventano dipendenti dai loro

familiari, altri possono diventare irritabili o pessimisti.

Difficoltà nell’inghiottire e nel masticare. I muscoli usati per masticare potrebbero funzionare in

maniera meno efficiente negli ultimi stadi della malattia. In questi casi cibo e saliva potrebbero

accumularsi nella bocca e tornare indietro nella gola, causando soffocamento o bave. Questi

problemi potrebbero anche rendere difficile un’adeguata alimentazione. I logopedisti, gli

ergoterapeuti e i dietisti spesso possono essere d’aiuto per questi problemi.

Cambiamenti nel linguaggio. Circa la metà di tutti i pazienti hanno problemi di linguaggio.

Potrebbero parlare troppo piano o in tono monotono, esitare prima di parlare, pronunciare in modo

confuso o ripetere le parole, parlare troppo velocememte. Un logopedista potrebbe riuscire ad

aiutare i pazienti a ridurre alcuni di questi problemi.

Problemi urinari o di stitichezza. In alcuni pazienti i problemi alla vescica e all’intestino possono

manifestarsi a causa dell’irregolare funzionamento del sistema nervoso, che è responsabile della

regolazione dell’attività dei muscoli interessati. Alcune persone potrebbero diventare incontinenti,

mentre altre potrebbero avere dei disturbi urinando. Altri potrebbero avere problemi di stitichezza

perchè l’apparato intestinale funziona più lentamente. La stitichezza può anche essere causata

dall’inattività, scarsa alimentazione o bevendo pochi liquidi. I farmaci usati per curare il morbo di

Parkinson possono anche essere d’aiuto per la stitichezza. Può anche essere un problema persistente

e, in rari casi, può essere abbastanza grave da richiedere il ricovero in ospedale.

Problemi alla pelle. Con il morbo di Parkinson è comune per la pelle del viso diventare grassa,

specialmente sulla fronte e sul naso. Anche il cuoio capelluto potrebbe diventare grasso, facendo

quindi comparire forfora. In altri casi la pelle potrebbe diventare molto secca. Questi problemi sono

anche causati da un irregolare funzionamento del sistema nervoso autonomo. Le cure standard per i

problemi della pelle possono essere d’aiuto. L’eccessiva sudorazione, un altro comune sintomo, è di

solito controllabile con i farmaci usati per il morbo di Parkinson.

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Problemi del sonno. I problemi del sonno, comuni con il morbo di Parkinson, includono difficoltà a

mantenere il sonno di notte, sonno agitato, incubi e sogni emotivi, sonnolenza o improvviso sonno

durante il giorno.

Demenza o altri problemi cognitivi. Alcune persone, ma non tutte, con il morbo di Parkinson

potrebbero sviluppare problemi di memoria e pensiero lento. In alcuni di questi casi i problemi

cognitivi si aggravano portando ad una condizione chiamata demenza di Parkinson nel tardo corso

della malattia. Questa demenza potrebbe colpire la memoria, la capacità si giudizio sociale,

linguaggio, ragionamento o altre abilità mentali. Attualmente non esiste un metodo per fermare la

demenza di Parkinson, ma si ipotizza che un farmaco chiamato rivastigmina potrebbe ridurre

leggermente i sintomi comportamentali in alcune persone con demenza di Parkinson.

Ipotensione ortostatica. L’ipotensione ortostatica è un improvviso calo della pressione sanguigna

quando una persona si alza in piedi da una posizione distesa causando vertigini e, in casi estremi,

perdita di equilibrio o svenimento. Alcuni studi hanno suggerito che, nel morbo di Parkinson,

questo problema deriva da una perdita delle terminazioni nervose nel sistema nervoso simpatico che

controlla la frequenza cardiaca, la pressione sanguigna e altre funzioni automatiche del corpo. I

farmaci usati per curare il morbo di Parkinson potrebbero essere d’aiuto per questi sintomi.

Crampi ai muscoli e distonia. La rigidità e la mancanza del normale movimento associate al morbo

di Parkinson spesso causano crampi ai muscoli, soprattutto alle gambe e alle dita dei piedi.

Massaggi, stretching, calore potrebbero essere d’aiuto per questi crampi. Il morbo di Parkinson può

anche essere associato a distonia, ossia prolungate contrazioni dei muscoli che causano posizioni

forzate o distorte. La distonia nel morbo di Parkinson è spesso causata da oscillazioni del livello di

dopamina nel corpo. Di solito può essere alleviata o ridotta regolando le dosi di farmaci della

persona.

Dolore. Molte persone con il morbo di Parkinson sviluppano dolore ai muscoli e alle articolazioni a

causa della rigidità e posizioni anormali spesso associate alla malattia. La cura con levodopa ed altri

farmaci dopaminergici (che mimano l’azione della dopamina) spesso allevia questi dolori per un

periodo. Nelle persone con il morbo di Parkinson potrebbe anche manifestarsi dolore dovuto alla

compressione delle radici nervose o spasmi dei muscoli relativi a distonia. In rari casi possono

sviluppare inspiegabile bruciore e sensazioni di dolore acuto. Questo tipo di dolore, chiamato dolore

neuropatico, ha origine nel cervello. I farmaci dopaminergici, gli oppiacei, gli antidepressivi e altri

tipi di farmaci possono essere tutti usati per questo tipo di dolore.

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Stanchezza e perdita di energia. Le insolite esigenze di vita con il morbo di Parkinson spesso

portano a problemi di stanchezza, soprattutto verso la fine della giornata. La stanchezza potrebbe

essere associata a depressione o a disordini del sonno, ma potrebbe essere anche causata da stress

dei muscoli o da un’eccessiva attività quando la persona si sente bene. La stanchezza potrebbe

anche essere causata da acinesia, ossia disturbi nelle fasi iniziali o avanzate di un movimento.

Esercizio, buone abitudini di sonno, restare attivi mentalmente e non sforzarsi nel fare troppe

attività in poco tempo potrebbero aiutare ad alleviare la stanchezza.

Diagnosi

Il morbo di Parkinson viene di solito diagnosticato da un neurologo che valuta i sintomi e la loro

gravità. Non c’è un test che può chiaramente identificare la malattia, a volte alle persone con

sospetto morbo di Parkinson vengono dati farmaci anti-Parkinson per verificare la risposta. Altri

strumenti diangnostici possono aiutare il medico nella diagnosi: le microscopiche strutture del

cervello chiamate corpi si Lewy che possono essere viste solo nel corso di un’autopsia , sono

considerate come un segno caratteristico classico del Parkinson. Le autopsie hanno scoperto i corpi

di Lewy in un sorprendente numero di persone più vecchie senza che gli sia stato diagnosticato il

morbo di Parkinson. Di conseguenza alcuni esperti credono che il morbo di Parkinson sia molto più

comune di quanto si pensi e, addirittura, c’è chi sostiene che quasi tutti svilupperebbero il morbo di

Parkinson se vivessero abbastanza a lungo.

Cura e terapia

Non esiste speranza di guarigione per il morbo di Parkinson. Molti pazienti affetti da forme lievi

non hanno bisogno di cure per diversi anni dopo la diagnosi iniziale; quando i sintomi si aggravano

i medici di solito prescrivono inzialmente la levodopa (L-dopa), che aiuta a ristabilire gli equilibri

di dopamina nel cervello.

A volte vengono prescritti anche altri farmaci che hanno effetto sui livelli di dopamina nel cervello:

nei pazienti gravi un intervento chirurgico al cervello conosciuto come pallidotomia è risultato

essere indirettamente efficace nel ridurre i sintomi.

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Prognosi

Il morbo di Parkinson non è una malattia mortale di per sé, ma peggiora con il tempo. L’aspettativa

di vita media di un paziente con il morbo di Parkinson è generalmente la stessa di una persona che

non ha la malattia, tuttavia negli ultimi stadi il morbo di Parkinson potrebbe causare complicazioni

come asfissia, polmonite e cadute che possono portare alla morte.

Il progredire dei sintomi nel morbo di Parkinson potrebbe impiegare 20 anni o più, ma in alcune

persone la malattia progredisce più rapidamente. Non esiste un metodo per predire quale corso avrà

la malattia per ogni singola persona.

CRITERI PER LA DIAGNOSI DI DEMENZA

CRITERI DIAGNOSTICI PER LA DEMENZA - DSM IV

Da "DSM-IV Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali", Masson 1999

CRITERI DIAGNOSTICI PER LA DEMENZA TIPO ALZHEIMER

A. Sviluppo di deficit cognitivi multipli, manifestati da entrambe le condizioni seguenti:

1) deficit della memoria (compromissione della capacità di apprendere nuove informazioni o di

ricordare informazioni già acquisite)

2) una (o più) delle seguenti alterazioni cognitive:

a) afasia (alterazione del linguaggio)

b) aprassia (alterazione della capacità di eseguire attività motorie nonostante l'integrità della

funzione motoria)

c) agnosia (incapacità di riconoscere o di identificare oggetti nonostante l'integrità della funzione

sensoriale)

d) disturbo delle funzioni esecutive (cioè, pianificare, organizzare, ordinare in sequenza, astrarre).

B. Ciascuno dei deficit cognitivi dei Criteri A1 e A2 causa una compromissione significativa del

funzionamento sociale o lavorativo, e rappresenta un significativo declino rispetto ad un precedente

livello di funzionamento.

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C. Il decorso è caratterizzato da insorgenza graduale e declino continuo delle facoltà cognitive.

D. I deficit cognitivi dei Criteri A1 e A2 non sono dovuti ad alcuno dei seguenti fattori:

1) altre condizioni del sistema nervoso centrale che causano deficit progressivi della memoria e

delle facoltà cognitive (per es., malattia

cerebrovascolare, malattia di Parkinson, mallattia di Huntington, ematoma sottodurale, idrocefalo

normoteso, tumore cerebrale)

2) affezioni sistemiche che sono riconosciute come causa di demenza (per es., ipotiroidismo,

deficienza di vitamina B12 o acido folico,

deficienza di niacina, ipercalcemia, neurosifilide, infezione HIV)

3) affezioni indotte da sostanze.

E. I deficit non si presentano esclusivamente durante il decorso di un delirium.

F. Il disturbo non risulta meglio giustificato da un altro disturbo dell'Asse I (per es., Disturbo

Depressivo Maggiore, Schizofrenia).

CRITERI DIAGNOSTICI PER DEMENZA VASCOLARE

A. Sviluppo di deficit cognitivi multipli, manifestati da entrambe le condizioni seguenti:

1) deficit della memoria (compromissione della capacità di apprendere nuove informazioni o di

ricordare informazioni già acquisite)

2) una (o più) delle seguenti alterazioni cognitive:

a) afasia (alterazione del linguaggio)

b) aprassia (alterazione della capacità di eseguire attività motorie nonostante l'integrità della

funzione motoria)

c) agnosia (incapacità di riconoscere o di identificare oggetti nonostante l'integrità della funzione

sensoriale)

d) disturbo delle funzioni esecutive (cioè, pianificare, organizzare, ordinare in sequenza, astrarre).

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B. Ciascuno dei deficit cognitivi dei Criteri A1 e A2 causa una compromissione significativa del

funzionamento sociale o lavorativo, e rappresenta

un significativo declino rispetto ad un precedente livello di funzionamento.

C. Segni e sintomi neurologici focali (per es., accentuazione dei riflessi tendinei profondi, risposta

estensoria plantare, paralisi pseudobulbare,

anomalie della deambulazione, debolezza di un arto) o segni di laboratorio indicativi di malattia

cerebrovascolare (per es., infarti multipli che

interessano la corteccia e la sostanza bianca sottostante) che si ritengono eziologicamente correlati

al disturbo.

D. I deficit non si manifestano esclusivamente durante il decorso di un delirium.

CRITERI DIAGNOSTICI PER LA DEMENZA DOVUTA AD ALTRE CONDIZIONI

MEDICHE GENERALI

A. Sviluppo di deficit cognitivi multipli, manifestati da entrambe le condizioni seguenti:

1. deficit della memoria (compromissione della capacità di apprendere nuove informazioni o di

ricordare informazioni già acquisite)

2. una (o più) delle seguenti alterazioni cognitive:

a) afasia (alterazione del linguaggio)

b) aprassia (alterazione della capacità di eseguire attività motorie nonostante l'integrità della

funzione motoria)

c) agnosia (incapacità di riconoscere o di identificare oggetti nonostante l'integrità della funzione

sensoriale)

d) disturbo delle funzioni esecutive (cioè, pianificare, organizzare, ordinare in sequenza, astrarre).

B. Ciascuno dei deficit cognitivi dei Criteri A1 e A2 causa una compromissione significativa del

funzionamento sociale o lavorativo, e rappresenta

un significativo declino rispetto ad un precedente livello di funzionamento.

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C. Vi è dimostrazione dalla storia, dall'esame fisico, o da reperti di laboratorio, che il disturbo è la

conseguenza fisiologica diretta di una delle

condizioni mediche sotto elencate.

Demenza Dovuta a Malattia da HIV

Demenza Dovuta a Trauma Cranico

Demenza Dovuta a Malattia di Parkinson

Demenza Dovuta a Malattia di Huntington

Demenza Dovuta a Malattia di Pick

Demenza Dovuta a Malattia di Creutzfeldt-Jakob

Demenza Dovuta a altro

D. I deficit non ricorrono esclusivamente durante il decorso di un delirium.

CRITERI DIAGNOSTICI PER LA DEMENZA PERSISTENTE INDOTTA DA SOSTANZE

A. Sviluppo di deficit cognitivi multipli, manifestati da entrambe le condizioni seguenti:

1) deficit della memoria (compromissione della capacità di apprendere nuove informazioni o di

ricordare informazioni già acquisite)

2) una (o più) delle seguenti alterazioni cognitive:

a) afasia (alterazione del linguaggio)

b) aprassia (alterazione della capacità di eseguire attività motorie nonostante l'integrità della

funzione motoria)

c) agnosia (incapacità di riconoscere o di identificare oggetti nonostante l'integrità della funzione

sensoriale)

d) disturbo delle funzioni esecutive (cioè, pianificare, organizzare, ordinare in sequenza, astrarre).

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B. Ciascuno dei deficit cognitivi dei Criteri A1 e A2 causa una compromissione significativa del

funzionamento sociale o lavorativo, e rappresenta un significativo declino rispetto ad un precedente

livello di funzionamento.

C. I deficit non ricorrono esclusivamente durante il decorso di un delirium, e persistono oltre la

durata usuale della Intossicazione o Astinenza da

Sostanze.

D. Vi è dimostrazione dalla storia, dall'esame fisico, o da reperti di laboratorio, che i deficit sono

eziologicamente correlati agli effetti persistenti

dell'uso di sostanza (per es., una sostanza di abuso, un farmaco).

CRITERI DIAGNOSTICI DEMENZA DOVUTA AD EZIOLOGIE MOLTEPLICI

A. Sviluppo di deficit cognitivi multipli, manifestati da entrambe le condizioni seguenti:

1) deficit della memoria (compromissione della capacità di apprendere nuove informazioni o di

ricordare informazioni già acquisite)

2) una (o più) delle seguenti alterazioni cognitive:

a) afasia (alterazione del linguaggio)

b) aprassia (alterazione della capacità di eseguire attività motorie nonostante l'integrità della

funzione motoria)

c) agnosia (incapacità di riconoscere o di identificare oggetti nonostante l'integrità della funzione

sensoriale)

d) disturbo delle funzioni esecutive (cioè, pianificare, organizzare, ordinare in sequenza, astrarre).

B. Ciascuno dei deficit cognitivi dei Criteri A1 e A2 causa una compromissione significativa del

funzionamento sociale o lavorativo, e rappresenta

un significativo declino rispetto ad un precedente livello di funzionamento.

C. Vi è dimostrazione dalla storia, dall'esame fisico, o da reperti di laboratorio, che il disturbo ha

più di una eziologia (per es., trauma cranico più

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uso cronico di alcool, Demenza Tipo Alzheimer con il successivo sviluppo di Demenza Vascolare).

D. I deficit non ricorrono esclusivamente durante il decorso di un delirium.

LA PSICOLOGIA SOCIALE MALIGNA

Sia pure con dolente rassegnazione, spesso nei colloqui dei familiari caregiver di malati di demenza

emergono frasi come: “Non capisce ciò che gli dico”; “Non sa più prendere decisioni”; “E’

diventato pigro”; “Non sa fare più niente”.

Tali convinzioni sono determinate dalle inconfutabili manifestazioni della progressione della

malattia che implica la perdita di molte capacità, fra cui costruire un ragionamento, pianificare le

azioni della vita quotidiana, saper utilizzare correttamente gli oggetti più banali. Quanto basta per

infantilizzare chi ci vive accanto da anni, assumendo nei suoi confronti un tono paternalistico e di

costante correzione, improntato dall’impotenza di un recupero del passato.

Ma, come spiegavamo nel precedente articolo, un atteggiamento di questo tipo non passa

inosservato al malato, assai ricettivo ai toni della voce ed espressioni del volto. Con l’espressione

“psicologia sociale maligna” Tom Kitwood spiega le modalità con cui la condotta assunta verso il

malato nel trattarlo come se non ci fosse, o non capisse, influisca negativamente sulla propria

percezione di sé.

Certi come siamo che la demenza sia una forma totalmente invalidante per chi ne è colpito,

corriamo il rischio di non considerare il piano della soggettività del malato, di come viva la sua

condizione e di come agisca per affrontare i profondi mutamenti che certamente non sono stati

scelti in base alla sua volontà.

In quest’articolo si tenterà pertanto di consigliare alcuni comportamenti da riservare al soggetto

assistito a proposito delle abilità che non si sono ancora smarrite, al fine di contrastare la

stereotipata affermazione “Non è più in grado di fare niente”.

In prima battuta è opportuno chiarire che il termine memoria va declinato al plurale. Diverse sono,

infatti, le forme di memoria da noi utilizzate e, nella malattia, esse subiscono variazioni in funzione

dei vari stadi di gravità: la memoria a breve termine ha una compromissione assai precoce, più tardi

il deficit si estende alla memoria semantica e autobiografica, mentre la memoria procedurale resta

attiva sino a uno stadio avanzato. Quest’ultima, conosciuta anche come “automatica” è una

memoria di tipo implicito, ovvero il suo recupero non prescinde da una consapevolezza. Per meglio

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chiarire il suo funzionamento occorre considerare che ogni nostra azione prevede sequenze

organizzate e sequenziali per raggiungere un determinato fine. Molte di esse, svolte

quotidianamente nell’arco di una vita (lavarsi i denti, allacciare i bottoni, sfogliare un giornale)

diventano superapprese, e possono perciò essere agite senza bisogno di ragionamento.

Il malato di Alzheimer conserva a lungo le abilità del fare controllate dalla memoria procedurale.

Forse non ce ne accorgiamo perché prevalgono altri aspetti psicologici della patologia, quali la

depressione, l’apatia, la passività, o probabilmente perché il fastidio determinato dallo scarso

risultato dell’opera compiuta ci spinge a sostituirci a lui e farlo al posto suo.

Se però il malato non viene stimolato a esercitare le normali occupazioni di tutti i giorni, sarà

destinato a perdere quelle funzioni con maggior velocità.

Quali sono dunque i suggerimenti di supporto?

- darsi tempo: l’organizzazione del quotidiano dovrà perdere l’intensità del ritmo usuale e

assumere tempi lenti, poiché lenta è la reazione del nostro malato alle sollecitazioni date. Spiegargli

passo dopo passo con parole semplici la sequenza dell’attività che si sta svolgendo, ripetendo il

messaggio più volte, avrà un effetto di rassicurazione e di diminuzione dello stato d’ansia.

- scegliere attività senza sconfitta: le azioni richieste devono tener conto delle capacità ancora

funzionanti e dei limiti che nel tempo si sono sviluppati. Ciò significa che non bisogna avere come

riferimento la bravura di chi ci sta accanto prima che si ammalasse, ma che dobbiamo semplificare

le proposte e non demoralizzarci se ugualmente il risultato non corrisponde esattamente

all’aspettativa.

- mantenere una coerenza con la storia biografica: se il soggetto malato non ha mai dimostrato

interesse verso una certa attività, è assurdo presentargliela nella sua nuova condizione di vita e

pretendere che la svolga in forma partecipata.

- manifestare forme di apprezzamento per l’azione compiuta: nonostante gli esiti possano essere

non soddisfacenti, ringraziare e lodare l’impegno poiché questo atteggiamento rinforzerà benessere

e autostima nella persona, restituendole fiducia e soddisfacimento di quei bisogni psicologici che

fanno parte di ognuno di noi (attaccamento, riconoscimento, senso di appartenenza,

autorealizzazione).

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- allestire un ambiente facilitante per compensare i deficit di orientamento: lo spazio di vita del

malato deve essere adattato per mantenere il più a lungo possibile la sua autonomia attraverso

stimoli che aiutino il suo movimento ed eliminando tutto ciò che può arrecargli danno o pericolo.

Queste indicazioni generali ci inducono a riconsiderare lo stereotipo da cui eravamo partiti e a

cercare di immaginare nuove forme di normalità per vivere il tempo con chi non ne riconosce più la

misura.

Tutti concordiamo sul fatto che lo svolgere un’attività o conservare un impegno è positivo per ogni

essere umano, se scelti sulla base delle proprie capacità e interessi.

Anche per la persona malata vale questo principio a condizione che le occupazioni selezionate – che

possono essere veramente molteplici – siano di non eccessiva durata, utili, semplici, conosciute e,

soprattutto, non stressanti.

La regola principale è che le cose si facciano insieme, e non su comando. Attività del quotidiano e

passatempi mantengono così il senso che si è dato loro durante tutta l’esistenza, pur modificandosi

nei tempi e nei modi di esecuzione.

Ecco quindi che per le persone di sesso femminile sarà utile orientare le proposte verso piccoli

lavori legati alla gestione della casa e delle faccende domestiche: apparecchiare la tavola,

spolverare, pelare le patate, sbucciare la frutta per la preparazione della macedonia, sistemare i

cassetti piegando fazzoletti, mutande, calzini, asciugamani, stendere e ritirare la biancheria,

asciugare e riporre le posate. Queste mansioni condotte nella quotidianità possono fare sentire

ancora la malata all’altezza della situazione e utile per la conduzione della casa.

Per i malati di sesso maschile, invece, si può tenere conto della loro professione o dei loro hobby:

piccoli compiti di bricolage, bagnare l’orto, sistemare libri sugli scaffali, ordinare bollette o

documenti, ritagliare immagini, segnare sul calendario appuntamenti o ricorrenze. Naturalmente

non vanno scordate le attività di divertimento e ludiche: giocare a carte, ballare, cantare ritornelli di

canzoni note, fare acquisti, mangiare una pizza, divertirsi con i nipotini, passeggiare nel verde.

La reazione più tipica del caregiver è: “Ma sbaglia tutto, non lo sa fare più!”.

Non importa il risultato. Ai fini del benessere del nostro assistito vale più la sua soddisfazione di

aver contribuito all’ordine domestico piuttosto che la bontà effettiva di quanto prodotto. Forma ed

esteriorità diventano problemi di chi assiste, non certo del malato. Anzi, nel ringraziarlo per l’aiuto

ricevuto, saranno ridotte le possibilità di frustrazione e di rabbia.

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Una volta accettato l’altro per quello che può ancora dare e accantonata l’idea che il “fare” sia una

produzione, sarà giunto il momento di scoprire quante siano le cose che con l’altro possono ancora

accadere e come questo comporti significazione del suo esserci, nonostante tutto.

LA PSICOLOGIA SOCIALE BENIGNA

Premessa

La psicologia, a partire dalla Seconda Guerra mondiale, e' diventata per lo piu' una scienza legata

alla sofferenza. Essa si e' concentrata in prevalenza sul riparare i danni, riferendosi ad un modello di

funzionamento degli esseri umani basato sulla malattia.

I suoi obiettivi principali erano:

curare le patologie mentali;

rendere la vita degli individui piu' produttive e soddisfacenti;

identificare e coltivare i talenti.

I primi tentativi di focalizzarsi su alcuni aspetti della psicologia positiva sono stati effettuati da

Terman nel 1939, con i suoi studi sul dono, la gratuita' e la felicita' coniugale (Terman e coll.,

1938), gli scritti di Watson (1928) sulle cure genitoriali efficaci, i lavori di Jung (1933) sulla ricerca

e la scoperta del senso della vita.

Altri due eventi contribuirono al mutamento della psicologia, al termine della Seconda Guerra

mondiale: la fondazione della Veteran's Administration nel 1946 e del National Institute of Mental

Health nel 1947, che contribuirono a dare credito scientifico agli studi e alle ricerche sulla

psicopatologia.

Se, da una parte, questo produsse notevoli progressi nella diagnosi e nella cura delle malattie

mentali (si divenne in grado di curare o, almeno, di alleviare circa 14 disordini, prima non

trattabili), dall'altra, pero', si dimentico' quasi completamente il terzo obiettivo della psicologia:

l'identificazione e la coltivazione dei talenti.

La necessita' di fondare la psicologia positiva si comincio' ad avvertire durante la Seconda Guerra

mondiale, quando Seligman e coll. notarono che molte persone, in precedenza fiduciose e di

successo, diventarono sfiduciate e depresse, dopo che la Guerra aveva sottratto loro i sostegni

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sociali, il lavoro, il denaro e lo status. Al contrario, invece, nonostante tutto cio', alcune persone

riuscirono a mantenere la loro integrita' e la loro serenita'. Da questa constatazione sorse spontaneo

l'interrogativo: da quali forze erano guidati questi individui?

A giudizio di Seligman, le risposte di Freud e di Jung non erano soddisfacenti. Neppure gli

psicologi umanisti, Maslow, Rogers, May, sembravano essere in grado di dare risposte scientifiche,

basate empiricamente al quesito, nonostante il rinnovato accento sul Se' che essi ponevano.

Seligman ritenne, a quel punto, che i tempi erano maturi per fondare la psicologia positiva.

Lo scopo principale della psicologia positiva e' quello di spostare il focus solo dal "riparare" cio'

che non funziona al costruire anche le qualita' positive. Essa si propone di studiare la forza e la

virtu' che ha a che fare con il lavoro, l'educazione, l'introspezione, l'amore, la crescita, il gioco. Per

fare cio', si propone di adattare cio' che di meglio offre il metodo scientifico all'unicita' dei

comportamenti umani.

La psicologia positiva, sul piano soggettivo, valorizza le esperienze soggettive: ben-essere,

appagamento e soddisfazione in prospettiva passata, speranza e ottimismo in prospettiva futura,

flusso e velocita' in prospettiva presente.

A livello individuale si focalizza sui tratti positivi individuali: la capacita' di amare e di lavorare, il

coraggio, le abilita' interpersonali, la sensibilita' estetica, la perseveranza, la capacita' di perdonare,

l'originalita', l'orientamento al futuro, la spiritualita', il talento, la saggezza.

A livello di gruppo si focalizza sulle virtu' civiche e le istituzioni che spingono l'individuo ad essere

un buon cittadino: la responsabilita', l'educazione, l'altruismo, la civilta', la moderazione, la

tolleranza e il lavoro etico.

Cio' che e' alla base di questo approccio e' il concetto di prevenzione. Partendo dalla constatazione

che il modello basato sulla malattia, che consisteva nel lavorare solo sui punti deboli, non era

efficace in tal senso, si imponeva sempre piu' la necessita' di una scienza basata sulla forza e sulla

resilienza. Gli individui non dovevano piu' essere considerati passivi, ma esseri attivi, in grado di

scegliere, di assumersi rischi e responsabilita'. Questo avrebbe permesso agli individui di imparare a

condurre stili di vita piu' sani a livello psicofisico e di ri-orientare la psicologia verso un maggiore

perseguimento del terzo obiettivo: rendere piu' forti e produttive le persone sane e consentire la

messa in atto delle potenzialita' umane piu' elevate.

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LA DEPRESSIONE IN ETA’ SENILE: FATTORI DI RISCHIO, LA VALUTAZIONE ED

IL SUO TRATTAMENTO

Quanto è diffusa la depressione nella popolazione anziana?

La depressione è molto comune negli anziani, anche se non deve essere considerata una

componente “normale” dell’età avanzata. In particolare, la sua frequenza varia a seconda delle

popolazioni considerate. Nel nostro Paese si stima che circa il 20% degli anziani residenti a

domicilio presentano sintomi depressivi clinicamente rilevanti, mentre tra quelli ricoverati in reparti

ospedalieri la percentuale sale a oltre il 30% e negli ospiti delle case di riposo sino al 45%. Tali

differenze sono verosimilmente legate sia ai vissuti di perdita dell’individuo, che abbandona i propri

riferimenti storici (la casa, le relazioni significative), sia alla maggior presenza di patologie fisiche e

di disabilità in coloro che vengono ricoverati o istituzionalizzati. Data l’elevata frequenza nelle

istituzioni per anziani, lo screening per la depressione in queste strutture dovrebbe costituire una

pratica di routine.

Quali sono le cause ? Esistono persone più a rischio di altre?

I fattori che incrementano il rischio di depressione in una persona anziana riguardano aspetti

esistenziali, sociali, psicologici e biologici, variamente intrecciati tra loro nei singoli casi. I fattori

più documentati sono il sesso femminile, essere celibi/nubili o vedovi, la disabilità (ad es. per

malattia), un lutto recente e l’isolamento sociale. Va ricordato che gli anziani sono particolarmente

esposti ad eventi di perdita, quali ad es. la scomparsa di persone care, il pensionamento, la riduzione

del ruolo sociale e delle risorse economiche, ecc. Altre condizioni che predispongono un anziano

alla depressione possono essere la presenza continua di dolore fisico, l’abuso di alcool o una storia

personale o familiare di depressione. Nelle persone che sviluppano per la prima volta un quadro

depressivo in età avanzata, la risonanza magnetica nucleare evidenzia spesso delle piccole

alterazioni che indicano un’insufficienza circolatoria a livello cerebrale. Alcune malattie, quali lo

stroke (ictus), l’ipertensione, il diabete o la demenza si associano alla depressione nel 30 al 80% dei

casi. In particolare, i rapporti tra Demenza di Alzheimer e depressione non sono a tutt’oggi ancora

chiariti, anche se sembra probabile che quest’ultima possa rappresentare sia un fattore di rischio per

l’insorgenza della demenza, sia una sua manifestazione precoce. Da ultimo, ma non certo per

importanza, l’assunzione di alcuni medicinali (ad esempio cortisonici, alcuni antiipertensivi o

sedativi) può o indurre l’insorgenza di un quadro depressivo indistinguibile da quello spontaneo.

Ancor più che negli adulti giovani, la complessità e l’estrema variabilità individuale di tutti questi

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fattori di rischio devono essere considerate sia nel momento diagnostico che nell’elaborazione di

una strategia terapeutica.

Quali sono i sintomi?

I familiari e le persone vicine al paziente dovrebbero essere in grado di riconoscere i sintomi più

comuni della depressione, per poter poi chiedere, se necessario, un aiuto medico. Va segnalato

come, a differenza della depressione dell’adulto giovane, che si manifesta generalmente con un

insieme piuttosto definito di sintomi caratteristici, nel vecchio è frequentissima una forte

espressività di solo due o tre sintomi depressivi, capaci di provocare comunque una grave

sofferenza. I due sintomi fondamentali della depressione sono una tristezza persistente che duri da

due o più settimane e la perdita o diminuzione di interesse e piacere. Le attività quotidiane risultano

compromesse in modo variabile a seconda della gravità del quadro depressivo. Altri segni

importanti possono essere quelli di tipo fisico, quali alterazioni dell’appetito e del peso corporeo,

alterazioni del sonno, stanchezza. Frequente è la presenza di ansia, inquietudine, talora agitazione. I

pensieri sono spesso improntati alla perdita della speranza, al pessimismo, all’ inadeguatezza, talora

a vissuti di colpa non giustificati. L’anziano depresso, più del giovane, può sviluppare sintomi quali

irritabilità, ostilità o anche sospettosità, sino a veri e propri deliri di persecuzione (ad es. di gelosia o

riferito al furto di oggetti personali). Altre espressioni depressive tipiche dell’età avanzata

comprendono lamentele eccessive circa la perdita di memoria o la presenza di dolori vaghi, diffusi,

mutevoli nella sede e nell’intensità, che vengono talora attribuiti a malattie inesistenti (ipocondria),

mentre altre volte si confondono con quelli di una patologia fisica reale. Infine, il vecchio depresso

può percepire la vita come non più meritevole di essere vissuta e, nei casi più gravi, desiderare di

porvi fine.

La depressione senile ha un decorso ed una prognosi peggiori rispetto a quella degli adulti giovani:

gli episodi sono più lunghi (anche anni) e la tendenza alle ricadute ed alla cronicizzazione è due

volte più elevata.

Quali sono le conseguenze ?

La conseguenza più drammatica della depressione è il suicidio. La frequenza dei suicidi nella

popolazione anziana risulta più che raddoppiata rispetto alla popolazione generale ed è massima nei

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soggetti maschi di oltre 85 anni. La depressione è un importante fattore di rischio per il suicidio ed

il 60-70% delle persone anziane che si suicidano presentano una depressione clinica.

La depressione non trattata ha generalmente un impatto negativo diretto sulla salute fisica delle

persone che ne sono affette. Essa incrementa il rischio di sviluppare malattie quali cardiopatie,

stroke (ictus), neoplasie, demenze, ecc. e peggiora la prognosi delle malattie fisiche già presenti. La

moderna psicosomatica ha individuato tutta una serie di modificazioni biologiche correlate alla

depressione che medierebbero questi eventi clinici. Le più documentate risultano una maggior

tendenza alla formazione di trombi e all’insorgenza di aritmie cardiache e un deficit del sistema

immunitario. Alcuni studi condotti in case di soggiorno hanno documentato come le persone

anziane depresse hanno un incremento sostanziale di mortalità per malattie fisiche rispetto ai

coetanei non depressi. Questo dato sottolinea ancora una volta la necessità di riconoscere e trattare

tempestivamente la depressione in questi anziani particolarmente “fragili”.

Perché è difficile diagnosticare la depressione in una persona anziana?

Si ritiene che solo il 50% delle depressioni senili vengano riconosciute correttamente, e di queste

solo il 50% venga curato in modo adeguato. Negli anziani l’identificazione della depressione è

complicata dal fatto che alcuni sintomi chiave, quali astenia, facile faticabilità, disturbi del sonno,

perdita di peso corporeo, accompagnano spesso il processo dell’invecchiamento, così come sono

sintomi di numerose patologie somatiche di cui l’anziano è sovente affetto. Anche il criterio che

prevede che i sintomi della depressione siano in grado di limitare le attività sociali e del vivere

quotidiano è più difficilmente applicabile alla persona anziana, nel quale la frequente presenza di

malattie fisiche rende più incerta la attribuzione delle limitazioni di attività al disturbo depressivo. Il

vecchio depresso tende a sottovalutare la sua depressione e a non riferire spontaneamente sintomi

importanti, quali la diminuzione di interesse o di piacere in tutte o quasi tutte le attività,

richiamando invece l’attenzione del medico sul proprio corpo sofferente, che viene quindi utilizzato

quale “mediatore” della comunicazione del disagio emotivo. La scarsa propensione dell’anziano a

comunicare è racchiusa nell’espressione “depressione senza tristezza”, emblematica del vissuto di

molti anziani depressi. La depressione senile è variamente influenzata dalla presenza di deficit

cognitivi (di memoria, attenzione, concentrazione, ecc.), che possono arrivare fino a simulare un

quadro clinico di demenza e che migliorano dopo trattamento con farmaci antidepressivi. Il termine

“pseudodemenza”, utilizzato in passato per identificare questi quadri clinici estremi, è stato

progressivamente abbandonato. Alcuni studi hanno infatti dimostrato che la maggior parte di queste

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forme evolvono nel tempo in una vera demenza, di cui rappresentano probabilmente degli stadi

molto precoci.

Nella terza età la depressione è da considerarsi inevitabile?

La psicogeriatria è la disciplina medica che raccoglie e integra la cultura e la pratica di diverse

specialità (psichiatria, geriatria, neurologia) per la diagnosi e la cura e dei disturbi emotivi e psichici

degli anziani. La cultura psicogeriatrica non considera appropriato il concetto latino della “senectus

ipsa morbus”, cioè che la vecchiaia stessa sia una malattia, anche se alcune manifestazioni

depressive si sovrappongono a quelle della vecchiaia fisiologica. La letteratura scientifica concorda

sul fatto che, sebbene la depressione interessi un gran numero di persone anziane, essa non va

comunque considerata una conseguenza attesa o necessaria dell’invecchiamento, ma un disturbo

diagnosticabile e curabile, così come nell’adulto giovane. E’ un imperativo per tutti gli operatori

della salute mantenere un approccio positivo nei confronti di un evento così grave e distruttivo per

la vita delle persone che ne soffrono e dei loro cari e contribuire alla diffusione di tale

atteggiamento e alla messa al bando di pregiudizi “ageistici”, come quello che i vecchi depressi non

rispondono alle terapie, pregiudizi peraltro sfatati dalle evidenze scientifiche.

E’ possibile prevenire la depressione in età avanzata? In che modo?

La complessa patogenesi della depressione, così come quella di tutti i disturbi psichici, non ha

permesso sinora di stabilire dei metodi di prevenzione che siano scientificamente provati. Il primo

obiettivo di un approccio preventivo è rappresentato comunque dall’identificazione delle persone

anziane a rischio, che può essere effettuata “pesando” i fattori di rischio per depressione citati in

precedenza. Sono stati proposti interventi di prevenzione a vari livelli e con vari metodi. Ad

esempio, in anziani affetti da malattie mediche croniche, tecniche di tipo cognitivo, abbinate

all’esercizio fisico, sono risultate efficaci nei confronti di iniziali, lievi, sintomi depressivi e ansiosi

ed anche dell’insonnia. Un approccio “primario” di tipo biologico è considerato l’abbassamento dei

fattori di rischio vascolare (ipertensione, dislipidemie, fumo, ecc.). Grande risalto viene dato agli

interventi psicoeducativi, mirati ad informare gli anziani ed i loro familiari circa la malattia

depressiva ed i suoi possibili trattamenti, in modo da ridurre lo stigma ed accrescere il numero di

persone che chiedono aiuto.

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In quale modo si cura la depressione nella persona anziana?

Gli scopi della cura consistono nella riduzione dei sintomi psichici e fisici della depressione, nel

miglioramento delle funzioni cognitive (attenzione, memoria, concentrazione, ecc.) e delle capacità

relazionali, nella prevenzione delle ricadute e dei comportamenti suicidari. Ove risulti opportuno,

va inoltre fornito un aiuto volto a migliorare le capacità della persona di gestire la disabilità, eventi

di vita negativi o situazioni relazionali conflittuali.

I farmaci antidepressivi sono l’intervento di scelta nel caso di una depressione medio-grave, da soli

o in combinazione con una psicoterapia, mentre un intervento di supporto psicologico o una

psicoterapia possono essere indicati, da soli, nei casi di depressione più lieve.

Quali sono i farmaci più indicati nella cura della depressione dell’anziano? Il ricorso ai farmaci può

essere sconsigliabile, specie in presenza di patologie fisiche?

La ricerca ha dimostrato che i farmaci antidepressivi sono efficaci negli anziani così come negli

adulti giovani e che l’efficacia è tanto più evidente quanto più la depressione è clinicamente

importante. Gli antidepressivi maggiormente impiegati negli anziani appartengono ai cosiddetti

composti di “nuova generazione” e vengono definiti con delle sigle quali “SSRI” e “SNRI” a

seconda che incrementino nel Sistema Nervoso Centrale la trasmissione della sola serotonina o

della serotonina e della noradrenalina insieme. Questi antidepressivi rappresentano oggi la prima

scelta terapeutica rispetto ai composti “di vecchia generazione” quali i “Triciclici”. Il vantaggio dei

farmaci più recenti non riguarda tanto l’efficacia terapeutica, quanto la maggiore tollerabilità,

sicurezza e maneggevolezza, caratteristiche molto importanti per l’impiego in una popolazione

“fragile” come quella anziana. I Triciclici riducono la capacità di fissare i ricordi, possono essere

troppo sedativi e determinare brusche cadute della pressione arteriosa. I nuovi antidepressivi, anche

se con alcune differenze, offrono una miglior tollerabilità cardiovascolare e non determinano effetti

negativi a carico dell’attenzione o della memoria, spesso già deficitarie in età avanzata. Alcuni dei

farmaci più recenti sembrano, anzi, migliorare queste funzioni cognitive in modo indipendente dalla

stessa azione antidepressiva. Il profilo di tollerabilità favorevole rende nel complesso più agevole

l’impiego degli antidepressivi “di nuova generazione” anche in persone anziane con malattie

fisiche, soprattutto cardiopatie, o affette da demenza. Al giorno d’oggi, pertanto, la concomitanza di

una patologia fisica non costituisce più una controindicazione alla cura della depressione, ma anzi

un motivo in più per metterla in atto, dato l’effetto negativo che la depressione stessa esercita sulla

prognosi delle malattie.

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Nei pazienti che sono guariti da un episodio depressivo è essenziale un trattamento a lungo termine

con antidepressivi, da soli o in combinazione con una psicoterapia, allo scopo di prevenire le

ricadute. Negli anziani i tempi di trattamento appaiono prolungati rispetto a quelli degli adulti

giovani, per la maggior durata degli episodi e per il maggior rischio di ricadute. Nei casi più gravi il

trattamento deve durare anche per tutta la vita.

E’ importante sottolineare alcuni punti chiave che i pazienti ed i loro familiari dovrebbero

conoscere: gli antidepressivi non danno dipendenza (a differenza, ad esempio, degli ansiolitici),

l’effetto terapeutico non è immediato, ma compare dopo 4 - 6 settimane, i farmaci vanno assunti

con grande regolarità (negli anziani, specie se soli o con deficit cognitivi questo aspetto è altamente

problematico) e non vanno interrotti dopo la guarigione ma proseguiti sotto controllo medico.

La psicoterapia è utile? Le persone anziane non risultano essere scettiche nei confronti di

questo approccio?

Gli interventi di tipo psicologico possono risultare utili nei casi di depressione conseguente, ad

esempio, ad eventi esistenziali negativi e con aspetti di disadattamento e sofferenza. I tipi di

intervento vanno dal coinvolgimento in gruppi di auto-aiuto ad un sostegno psicologico, ad una vera

e propria psicoterapia. Raramente il vecchio richiede spontaneamente un intervento psicologico, in

quanto ha difficoltà a riconoscere la propria sofferenza psichica e può vivere con vergogna (gli

uomini più delle donne) il rimandare ad un estraneo i suoi bisogni di accoglienza e di ascolto. Per

questa ragione la richiesta generalmente proviene da familiari o curanti, rendendo più complessa la

costituzione di un’ alleanza terapeutica. Esistono svariati tipi di psicoterapia, differenti tra loro per

principi teorici, metodi e strategie e obiettivi. La terapia psicoanalitica, con le sue numerose scuole,

rappresenta in ambito psicogeriatrico soprattutto un modello di riferimento teorico, cui molti altri

approcci hanno attinto, ma non ha una sufficiente documentazione scientifica nella sua attuazione

pratica. La psicoterapia più studiata nell’anziano è quella cognitivo-comportamentale, che

presuppone che le difficoltà di adattamento del paziente depresso siano dovute all’utilizzo di schemi

di pensiero negativi e che l'apprendimento di opportune strategie di gestione possa mediare la

vulnerabilità soggettiva agli eventi di vita. L’approccio di tipo cognitivo, con opportuni adattamenti,

si è dimostrato negli anziani efficace come negli adulti giovani. Un’altra psicoterapia che ha

evidenziato la sua efficacia sia nella fase acuta della depressione che nella prevenzione delle

ricadute è la terapia interpersonale, che è focalizzata alla risoluzione di contrasti con persone

significative, al superamento di un lutto o alla ristrutturazione di rapporti sociali. Negli anziani la

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psicoterapia interpersonale, in associazione ad un trattamento con antidepressivi, è risultata più

efficace dei soli farmaci nella prevenzione delle ricadute depressive per un periodo di tre anni.

Si comprende come tutto ciò contraddica decisamente il pregiudizio che l'anziano non possa

giovarsi di un aiuto psicologico e si opponga al fatalismo ed allo scetticismo, sostenendo invece un

approccio terapeutico attivo e positivo all’anziano depresso.

I DISTURBI D’ANSIA NELL’ETA’ SENILE

Disturbi d'ansia nell'invecchiamento.

La personalità è uno dei fattori più importanti nel condizionare il grado di adattamento: soggetti con

caratteristiche psicologiche di rigidità, autoritarismo, egocentrismo o insicurezza, labilità, eccessiva

passività possono avere notevoli difficoltà nell'adattarsi alle nuove condizioni dettate dalla

vecchiaia.

Una carenza nelle abilità di gestione dei rapidi cambiamenti che si verificano, può portare a risposte

ansiose e depressive fino all'instaurarsi di situazioni francamente patologiche.

Ansia.

L'ansia non sempre è uno stato disfunzionale, patologico, da curare. Frequentemente è avvertita

come un senso d'apprensione a fronte di preoccupazioni per eventi imminenti e reali. Questo tipo di

ansia è una reazione normale a una circostanza specifica. L'ansia patologica scatena invece un senso

di pericolo incombente che si associa praticamente a qualsiasi situazione di incertezza: si tratta di

un intenso disagio psichico, generato dalla sensazione di non essere in grado di fronteggiare gli

eventi futuri. Una percezione sottostimata delle proprie risorse rispetto alle richieste ambientali, che

perdura nel tempo può generare un sentimento di continuo allarme, frequentemente accompagnato

da sintomi fisici: tensione muscolare, sudorazione intensa, senso di chiusura o pesantezza allo

stomaco, difficoltà respiratorie, tremori, debolezza, tachicardia, ecc. Situazioni di questo tipo

possono inoltre alimentare pensieri e sensazioni di impotenza che generano risposte

astensionistiche, alimentando circoli viziosi che conducono a depressione.

Nell'anziano i disturbi d'ansia presentano alcune particolarità: ad esempio, riguardo alle fobie,

l'oggetto fobico è frequentemente associato al tema della sicurezza (paura di essere derubati,

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aggrediti, di avere incidenti nel traffico…). Nell'anziano bisogna inoltre tener conto dell'interazione

con alcuni farmaci e degli effetti di alcune malattie, nonché degli effetti paradossi degli stessi

farmaci ansiolitici.

I DISTURBI PSICHIATRICI IN ETA’ SENILE

Disturbi psichiatrici dell'età senile

I disturbi mentali dell’anziano comprendono tutti i disturbi ritrovabili nei giovani adulti e ad essi si

aggiungono i disturbi tipici dell’anziano.

Il termine “geriatrico” deriva dal greco geras, che significa vecchiaia e iatros che significa medico,

quindi, “geriatrico” indica il trattamento medico e la cura del paziente anziano.

La psichiatria geriatrica è un campo in rapida crescita in quanto la popolazione anziana è in

aumento.

La diagnosi e la terapia richiedono conoscenze specifiche date le possibili differenze di patogenesi e

fisiopatologia tra la popolazione anziana e quella giovane.

Negli anziani bisogna anche considerare i fattori complicanti quali la frequente presenza di malattie

mediche croniche coesistenti, l’uso di più farmaci.

La visita psichiatrica deve prendere in considerazione lo stato cognitivo dell’anziano in quanto i

disturbi cognitivi sono spesso presenti.

Inoltre, devono essere escluse tutte le cause organiche responsabili di quadri clinici che possono

essere male interpretati come elementi di invecchiamento fisiologico.

DISTURBI E PERCENTUALI DI INCIDENZA

Tra i disturbi che negli anziani possono aggiungersi a quelli ritrovabili anche nei giovani, si possono

considerare le demenze.

La demenza è una compromissione progressiva ed irreversibile dell’intelletto che aumenta con l’età.

È una patologia che si sviluppa nel tempo e le funzioni mentali precedentemente acquisite vengono

perse gradualmente.

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Le alterazioni di cui e' responsabile coinvolgono la memoria, il linguaggio e i disturbi del

comportamento.

Questi ultimi possono essere agitazione, irrequietezza, vagabondaggio, rabbia, violenza, tendenza

ad urlare, disinibizione, disturbi del sonno e deliri.

Il 75% dei pazienti soffre di deliri ed allucinazioni. Alcune forme di demenza sono secondarie a

patologie organiche trattabili farmacologicamente, come patologie cardiache o renali e disturbi

depressivi.

Si distinguono numerose forme di demenza a seconda della eziopatogenesi. I disturbi depressivi

sono presenti in circa il 15% degli anziani. Sono presenti tutti i sintomi presenti nella depressione

della popolazione non anziana.

Si parla di pseudodemenza quando si deve identificare il deterioramento cognitivo nei soggetti

geriatrici depressi, tale condizione può essere facilmente confusa con una demenza vera.

Si possono enumerare dei casi di depressione secondari a trattamenti farmacologici per patologie di

altri apparati.

I disturbi di tipo bipolare con una evidente presenza di sintomi maniacali si presentano nell’1%

della popolazione anziana, mentre i disturbi psicotici esordiscono difficilmente negli anziani e sono

già stati diagnosticati da qualche anno.

L’esordio di sintomi di tipo psicotico deve indirizzare verso la compromissione cognitiva da

demenza.

I disturbi d’ansia hanno un’incidenza del 5,5%.

Elevata frequenza, invece, hanno le patologie secondarie ad abuso di alcool e da carenza alimentare

conseguente.

Il trattamento per le patologie dell’anziano è lo stesso che per la popolazione più giovane. Lo scopo

principale della terapia farmacologica è quello di tentare di migliorare la qualità della vita cercando

di mantenerlo più a lungo nella comunità.

Unica attenzione particolare riguarda i dosaggi dei farmaci che devojno essere adattati al

concomitante uso di altri farmaci.

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Il dosaggio deve essere adattato progressivamente a seconda della risposta o dell’insorgenza di altre

patologie.

Possono essere utilizzate tutte le classi di farmaci psichiatrici adatti al trattamento della

sintomatologia specifica.

Alcuni farmaci possono non avere un effetto terapeutico in quanto non ben metabolizzati.

È possibile intervenire con trattamenti psicoterapeutici di supporto.

La plasticità della personalità, possibile in età giovane, è meno probabile nell’età senile. Le terapie

di gruppo offrono la possibilità di integrare nuove amicizie di coetanei.

GRIGLIA DI BARTHEL

La scala di Barthel o Indice di Barthel ADL è una scala ordinale utilizzata per misurare le

prestazioni di un soggetto nelle attività della vita quotidiana (ADL, activities of daily living). Ogni

item delle prestazioni è valutato con questa scala attribuendo un determinato numero di punti che

vengono poi sommati determinando un punteggio globale. L'indice analizza dieci variabili che

descrivono le attività della vita quotidiana (ad esempio la capacità di alimentarsi, vestirsi, gestire

l'igiene personale, lavarsi ed altre ancora) e la mobilità (spostarsi dalla sedia al letto, deambulare in

piano, salire e scendere le scale). Ad ogni item viene assegnato un punteggio di valore variabile a

seconda dell'item stesso e del grado di funzionalità del paziente: piena, ridotta o nessuna

funzionalità. Un punteggio globale più elevato è associato ad una maggiore probabilità di essere in

grado di vivere a casa con un grado di indipendenza dopo la dimissione dall'ospedale o da un

reparto di lungodegenza. La scala è sostanzialmente uno strumento di valutazione della funzione

fisica, ed è particolarmente nota in ambito riabilitativo. Se al paziente, durante la valutazione, sono

stati forniti ausili che vanno oltre quelli normalmente disponibili in un ambiente domestico

standard, è necessario descrivere in dettaglio quali ausili siano stati concessi ed allegare la

dichiarazione all'indice di Barthel. Ovviamente il punteggio che potrà ottenere un paziente sarà più

basso se queste condizioni agevolate non sono disponibili.

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La storia

La scala è stata introdotta nel 1965, ed in origine il punteggio poteva variare da 0 a 20. Anche se è

tranquillamente possibile utilizzare la versione originale, questa subì una prima modificazione ed

adattamento nel 1979 ad opera di Granger, quando si ritenne più opportuno includere un punteggio

0-10 punti per ogni variabile analizzata. Ulteriori miglioramenti furono introdotti nel 1989.

Utilizzi

L'indice di Barthel è stato ampiamente utilizzato per monitorare i cambiamenti funzionali nei

soggetti ricoverati in reparti di riabilitazione, soprattutto per prevedere l'autonomia funzionale a

seguito di un ictus. La scala è considerata affidabile, anche se il suo impiego negli studi clinici

medici sullo stroke (ictus) è limitato.La scala trova ampio utilizzo anche per gli individui inseriti

nelle residenze sanitarie assistenziali per valutarne i progressi riabilitativi ed il grado residuo di

autonomia. È stato comunque osservato che l'indice di Barthel può essere meno affidabile quando si

esegua la valutazione di un paziente con decadimento cognitivo.

Item e punteggi

SCALA DI VALUTAZIONE DELLE ATTIVITÀ DELLA VITA QUOTIDIANA

Item A B C

Alimentazione 0 5 10

Abbigliamento 0 5 10

Toilette personale 0 5 10

Fare il bagno 0 5 10

Continenza intestinale0 5 10

Continenza urinaria 0 5 10

Uso dei servizi igienici0 5 10

Trasferimenti letto/sedia0 5 10

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Camminare in piano 0 5 10

Salire/scendere le scale0 5 10

A = dipendente; B = con aiuto; C = autonomo

A titolo di esempio, nell'item numero 1 (alimentazione) al paziente sono assegnati 10 punti se si

alimenta in modo completamente autonomo ed indipendente, 5 punti se invece richiede un certo

grado di aiuto (per esempio per tagliare il cibo), e 0 punti se dipende completamente da chi lo

assiste (deve essere imboccato). Per il controllo della minzione e defecazione il paziente può essere

considerato autonomo (10 punti) se è in grado di gestire con totale indipendenza i propri bisogni

fisiologici. Autonomo con aiuto se necessita dell'aiuto (anche parziale) di chi lo assiste per

utilizzare strumenti come, ad esempio, il pappagallo o la padella (5 punti). Totalmente dipendente

se invece necessita, ad esempio, del catetere o presenta episodi di incontinenza, sia pure saltuari.

LA COMUNICAZIONE INTERPERSONALE

La comunicazione interpersonale è costituita dall'insieme dei fenomeni che veicolano lo scambio di

informazioni tra due o più persone sia attraverso il linguaggio verbale sia quello corporeo.

Componenti della comunicazione

I fattori della c. sono sei oltre al mittente, il ricevente ed il messaggio, sono determinanti nella

genesi e nella percezione della comunicazione:

il codice del messaggio

il contesto in cui si svolge la comunicazione

il canale comunicativo

Modelli di comunicazione interpersonale

Paul Watzlawick e colleghi (1967) hanno introdotto una differenza di fondamentale importanza

nello studio della comunicazione umana: ogni processo comunicativo tra esseri umani possiede due

dimensioni distinte: da un lato il contenuto, ciò che le parole dicono, dall'altro la relazione, ovvero

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quello che i parlanti lasciano intendere, a livello verbale e più spesso non verbale, sulla qualità della

relazione che intercorre tra loro.

Il modello di Friedemann Schulz von Thun: il quadrato della comunicazione.

In epoca recente (1981), lo psicologo Friedemann Schulz von Thun, dell'Università di Amburgo, ha

proposto un modello di comunicazione interpersonale che distingue quattro dimensioni diverse, nel

cosiddetto "quadrato della comunicazione":

Contenuto: di che cosa si tratta? (lato blu del quadrato, in alto).

Relazione: come definisce il rapporto con te, che cosa ti fa capire di pensare di te, colui che parla?

(lato giallo, in basso).

Rivelazione di sé: ogni volta che qualcuno si esprime rivela, consapevolmente o meno, qualcosa di

sé (lato verde, a sinistra).

Appello: che effetti vuole ottenere chi parla? Ciò che il parlante chiede, esplicitamente o

implicitamente, alla controparte di fare, dire, pensare, sentire. (lato rosso, a destra).

Queste quattro dimensioni si possono tenere presenti sia nel formulare messaggi che nell'ascolto e

nell'interpretazione dei messaggi di altri. In questo secondo caso la "scuola di Amburgo" parla delle

"quattro orecchie" (corrispondenti ai "quattro lati del quadrato della comunicazione") su cui ci si

può sintonizzare. Ad esempio, per riuscire a "prendermela", ad offendermi nell'ascoltare la

comunicazione x, dovrò assegnare ad essa significato sintonizzandomi sull'orecchio "giallo", quello

che tende a vedere nella comunicazione degli altri il loro soppesarci, il segno cioè di quanto questi

ci rispettino. Questo modello visualizza come noi si sia sempre liberi di assegnare a qualsiasi

comunicazione un significato oppure un altro, evidenzia così il potere di chi ascolta nel contribuire

a definire la qualità di una interazione. Con un poco di allenamento è possibile, ad esempio,

sintonizzarci sull'orecchio verde, invece che su quello giallo, e chiederci, dentro di noi, di fronte ad

una comunicazione che ci pare irritante (e lo farà solo se siamo sintonizzati sull'orecchio giallo!):

"come si sente, la persona che parla, per sentire il bisogno di parlarmi in questo modo?"

La comunicazione interpersonale, che coinvolge più persone, è basata su una relazione in cui gli

interlocutori si influenzano vicendevolmente come in un circolo vizioso.

La comunicazione interpersonale si suddivide a sua volta in tre parti.

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La comunicazione verbale, che avviene attraverso l'uso del linguaggio, sia scritto che orale, e che

dipende da precise regole sintattiche e grammaticali.

La comunicazione non verbale, la quale invece avviene senza l'uso delle parole, ma attraverso

canali diversificati, quali mimiche facciali, sguardi, gesti, posture.

La comunicazione para verbale, che riguarda in ultima analisi nella voce. Ossia nel tono, nel

volume e nel ritmo. Ma anche nelle pause e in altre espressioni sonore quali lo schiarirsi la voce ad

esempio oltreché nel giocherellare con qualsiasi cosa capiti a tiro di mano.

LA COMUNICAZIONE ASSERTIVA

"L'assertività è la capacità del soggetto di utilizzare in ogni contesto relazionale, modalità di

comunicazione che rendano altamente probabili reazioni positive dell'ambiente e annullino o

riducano la possibilità di reazioni negative".

La comunicazione assertiva è un metodo di interazione con gli altri fondato su alcuni elementi

quali:

Un comportamento partecipe attivo e non "reattivo"

Un atteggiamento responsabile, caratterizzato da piena fiducia in sé e negli altri

Una piena e completa manifestazione di sé stessi, funzionale all'affermazione dei propri diritti senza

la negazione di quelli altrui e senza ansie o sensi di colpa

Un atteggiamento non censorio avulso dall'uso di etichette, stereotipi e pregiudizi

La capacità di comunicare i propri sentimenti in maniera chiara e diretta ma non minacciosa o

aggressiva.

Lo stile assertivo si basa sul diritto di essere trattati con rispetto, di essere sé stessi e di essere liberi

di credere nei propri valori. Ciascuno di noi ha uno spazio personale che gli altri debbono rispettare,

ma quando ne usciamo per muoverci in pubblico, allora dobbiamo rispettare i diritti degli altri.

Un altro importante elemento dello stile assertivo è il senso della responsabilità delle proprie azioni,

da intendersi come affermazione e difesa dei nostri diritti accettando le conseguenze delle nostre

azioni.

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Caratteristiche dello stile assertivo

Il comportamento assertivo si riconosce da alcune espressioni corporali particolarmente aperte,

cordiali e coerenti nei vari livelli della comunicazione.

Presupposto fondamentale dell'assertività è il saper ascoltare ovvero prestare attenzione non solo al

contenuto razionale ma anche a quello emotivo della comunicazione, riassumere e dare feed-back e

chiedere chiarimenti.

La riduzione dell'ansia e l'emergere delle convinzioni positive conseguenti al comportamento

assertivo permettono lo sviluppo e la crescita della fiducia in sé stessi.

La componente verbale

E' bene usare parole che esprimono fiducia in sé stessi e negli altri. A questo scopo è opportuno

descrivere il comportamento altrui in maniera non censoria, vale a dire senza imporsi ed evitando

giudizi ed ordini categorici.

È importante anche evitare di ferire la sensibilità altrui con espressione o giudizio offensivo.

La componente cognitiva

La componente cognitiva comprende tutti i pensieri che condizionano il nostro comportamento.

Esistono persone talmente esigenti nei propri confronti da negarsi una possibilità di essere assertivi

o che rinunciano a farsi valere per mancanza di fiducia in se stessi sconfinando in atteggiamenti

rinunciatari. Sarebbe invece utile l'atteggiamento opposto: credere nella propria capacità di

affermarsi e di immaginarsi nell'atto di riuscire.

La componente emotiva

La componente emotiva comprende il livello di emotività e il tono e il volume della voce. È

importante trasmettere il proprio messaggio al livello emotivo più adatto alla situazione, perché il

tono di voce ha un ruolo decisivo nell'opera di persuasione.

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La componente non verbale

La componente non verbale è estremamente importante. Gran parte della comunicazione avviene

infatti non verbalmente, e la comunicazione non verbale ha un forte impatto sull'interlocutore.

Un'analisi dei vari comportamenti non verbali può essere basata sul contatto visivo, sulle

espressioni del volto, sul silenzio, sul tono, volume e inflessione della voce, sui gesti e sul

linguaggio del corpo.

LA RELAZIONE CON IL PAZIENTE

Un “modo di essere” dell’operatore sanitario nella relazione con i pazienti

Gli operatori sanitari si trovano oggigiorno a lavorare tra mille difficoltà dovute a carenza di

organico, scarsità di risorse, mutato rapporto coi pazienti (Perino, 2002). C’è inoltre una notevole

amplificazione di ciò che accade nel mondo sanitario da parte dei media, che non aiuta chi ci lavora

perché sottolinea quasi esclusivamente aspetti negativi (scandali, malasanità…) o eclatanti(terapie

ultrainnovative, interventi chirurgici molto complessi…). La buona sanità, fatta da migliaia di

operatori che quotidianamente svolgono con serietà, impegno e professionalità il proprio lavoro è

troppo “normale” per fare notizia. Nonostante il diffuso senso di insoddisfazione che spesso

riferiscono, ho comunque l’impressione che la maggior parte degli operatori ami ancora il proprio

lavoro e cerchi di svolgerlo con passione. Questa almeno è l’idea che ho dopo tanti anni di lavoro in

comunicativo per il personale sanitario. A volte ho addirittura l’impressione di condurre corsi di

“sopravvivenza” e forse lo sono, perché aiutare gli operatori ad essere più in contatto col proprio

vissuto, a comunicare meglio con pazienti e colleghi significa aiutarli a vivere meglio, a “resistere”

e a continuare a svolgere il proprio lavoro. Significa anche aiutarli ad acquisire maggiore

consapevolezza delle proprie esigenze, maggiore autostima, più coraggio e determinazione nel

proporre cambiamenti organizzativi. Per raggiungere tali obiettivi ho organizzato i corsi in modo da

dare la possibilità ai partecipanti disviluppare le 3 condizioni individuate da Carl Rogers, necessarie

e sufficienti per instaurare una efficace relazione di aiuto. In questo articolo desidero proporre

alcune riflessioni su quale impatto esse hanno sulla relazione operatore sanitario – paziente.

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EMPATIA

L’empatia è un processo che consiste nel percepire i sentimenti ed i significati personali che l’altra

persona sta sperimentando, anche quelli che si trovano appena al di sotto della superficie cosciente,

e nel comunicare questa comprensione. Nei suoi ultimi scritti Rogers l’ha definita “una capacità

intuitiva di comprensione empatica”, sottolineando l’importanza di sintonizzarsi con l’altro: “il

nucleo interiore di me si relaziona al nucleo interiore dell’altra persona e capisco meglio di quanto

non faccia la mia mente, meglio di quanto non faccia il mio cervello.” (Rogers, 2002,trad. it. pp.

317). Empatia significa assumere il suo punto di vista, “mettersi nei suoi panni”, comprendere i suoi

vissuti: questi concetti sono alla base della medicina centrata sulla persona (Zucconi, 2003).Nella

pratica clinica spesso gli operatori sanitari si focalizzano solo sui sintomi fisici che i pazienti

presentano (febbre, dolore, astenia, vertigini ecc.). Se invece prendono in considerazione anche le

numerose emozioni che questi ultimi provano (paura, preoccupazione, tristezza, impotenza,

speranza, incertezza…) li potranno aiutare a diventarne più consapevoli e ad elaborarle, con

conseguenti migliori outcomes clinici e più efficace coping rispetto alla malattia.

Le emozioni infatti sono strettamente correlate alla salute:

a) hanno effetti fisiologici diretti su sistema cardiovascolare, respiratorio, gastroenterico,

immunitario ecc.,

b) influenzano la selezione, memorizzazione e valutazione cognitiva delle informazioni, quindi la

percezione del rischio, il riconoscimento di sintomi, la ricerca di aiuto,

c) influenzano la mobilizzazione delle proprie risorse personali, cognitive e motivazionali,

d) per evitare emozioni spiacevoli l’individuo può ricorrere ad abuso di alcool, droghe,

psicofarmaci o a comportamenti dannosi per la salute,

e) hanno un ruolo importante per quanto riguarda la socializzazione, che è un fattore protettivo

rispetto a molte malattie.

Le emozioni sono una delle quattro aree della cosiddetta “Agenda” del paziente (Moja, 2000, pp.53-

77) e rappresentano la “chiave” per accedere alle altre 3, che sono: 1) l’interpretazione che il

paziente dà dei suoi disturbi (“la causa sarà una allergia…lo stress….”), 2) le sue aspettative (“mi

faranno fare una TAC…mi prescriveranno un antibiotico….”), 3) il suo contesto famigliare, sociale

e lavorativo.

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Solo esplorando l’agenda del paziente, l’operatore può instaurare una vera alleanza terapeutica e

fornire una assistenza globale, che tenga conto delle sua dimensione bio-psico-sociale.

Ascoltare senza giudicare

Ascoltare con empatia richiede il superamento dei pregiudizi, della naturale tendenza a giudicare,

valutare, approvare o disapprovare ciò che l’altro dice, soprattutto quando esprime forti emozioni

(Rogers, 1988).

Il medico, in particolare, ascolta il racconto dei disturbi del paziente, li interpreta, li organizza in

base alla propria visione di salute e malattia e seguendo un proprio schema mentale (la propria

“agenda”) cerca di arrivare nel più breve tempo possibile ad una diagnosi. Nella maggior parte dei

casi non lascia parlare il paziente per più di 18 secondi consecutivi; interrompe e pone domande per

confermare l’ipotesi diagnostica che ha già formulato dopo sue le prime parole. Questa “rapidità”

può essere dovuta alla esigenza di dover fare molte prestazioni in breve tempo, ma probabilmente

anche alla sua scarsa propensione a dare spazio a ciò che non riguarda strettamente gli aspetti

organici della malattia. In realtà se il paziente non viene interrotto parla al massimo per 2-3 minuti

ed aggiunge molte informazioni utili riguardo la sua “agenda”.

Il suo racconto comprende spesso moltissimi elementi, che il medico interrompendo e ponendo

domande non riuscirebbe a raccogliere. Racconta ad esempio di disturbi precedenti che possono

essere correlati a quelli attuali, di tentativi terapeutici che non sono serviti, di allergie a farmaci,

dell’ambiente sociale in cui vive, dell’attività lavorativa, delle sue aspettative ecc.

Empatia ed autoesplorazione

L’empatia secondo Rogers “è correlata coi movimenti di autoesplorazione ed elaborazione” daparte

del cliente (Rogers, 1980, trad. it. pp. 126, 133-5).

In molte situazioni gli operatori devono aiutare il paziente ed i suoi famigliari a prendere decisioni

importanti, come sottoporsi ad un intervento chirurgico rischioso o demolitivo, iniziare una

chemioterapia con importanti effetti collaterali, eseguire indagini invasive, ecc. In tutti questi casi le

persone possono esprimere il loro assenso (consenso informato) se hanno ricevuto informazioni

chiare e dettagliate ma anche se sono state accompagnate ad esplorare gliaspetti emozionali, oltre

che razionali, della decisione: dubbi, paure, speranze….

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Alcune malattie (neoplasie, infarto miocardico, ictus, sclerosi multipla ecc.) hanno un impatto

profondo sulla vita delle persone, che devono riorganizzare radicalmente le proprie abitudini, le

relazioni, l’attività lavorativa, devono rivedere la propria scala di valori e cercare nuovo significato

nella propria esistenza (Gordon, 1995, pp. 167-178; Bonino, 2006, pp. 26-30).

I pazienti talvolta chiedono di poter condividere anche aspetti della propria spiritualità

(Perino,2002; Perino, 2003), lanciando dei messaggi che non sempre gli operatori sanitari riescono

a decodificare correttamente: “Ma devo proprio prendere tutte queste medicine? Ormai sono

vecchio….” “Dottore, vedrò crescere i miei figli?”

Gli operatori inoltre ascoltando con empatia possono aiutare i pazienti a riflettere sui propri stili

divita e sullo stress: due elementi oggigiorno all’origine di moltissime malattie (Zucconi, 2003).

Empatia e sostegno

L’empatia permette di creare relazioni caratterizzate da partecipazione, calore e vicinanza, che sono

di grande sostegno al paziente ed ai suoi famigliari nei momenti di particolare difficoltà. Non è raro

che appresa la diagnosi di una malattia a prognosi infausta, ad esempio, il paziente scoppi a

piangere. Dare rassicurazioni, minimizzare, sviare il discorso sono barriere comunicative che quasi

sempre hanno effetto controproducente. Spesso è meglio parlare poco e ascoltare, comunicando con

l’espressione degli occhi e del viso, con un gesto o alcune parole partecipazione e disponibilità,

lasciando così la possibilità al paziente di condividere la propria sofferenza.

Secondo un antico aforisma cinese:

Se basta una parola, non fare un discorso.

Se basta un gesto, non dire una parola.

Se basta uno sguardo, evita il gesto.

Se basta il silenzio, tralascia anche lo sguardo.

La malattia, il dolore cronico in particolare, possono creare solitudine, separare l’individuo dagli

altri. I pazienti talvolta vengono isolati fisicamente a causa della loro malattia, come nei reparti di

rianimazione, ematologia, unità coronarica ecc. In tutti questi casi ogni momento di contatto con

l’operatore ha una valenza importantissima per diminuire il senso di solitudine. Così anche mettere

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una flebo, portare il vassoio col cibo, rifare il letto, possono diventare momenti significativi di

contatto umano.

L’empatia “riconnette” l’individuo agli altri esseri umani, “dissolve l’alienazione “.

L’empatia favorisce inoltre il “raccontarsi” del paziente, promuove la condivisione di forti

emozioni, costituisce una sorta di catarsi costruttiva (Gordon, 1995, pp. 61).

Informare con empatia

Le informazioni che gli operatori sanitari danno, hanno talvolta un notevole impatto emotivo su

pazienti e famigliari, che rende loro difficile o impossibile comprendere cognitivamente ciò che

viene detto. Non è raro che usciti dal colloquio col medico, ad esempio, non ricordino nulla di ciò

che è stato detto, talvolta neanche l’aspetto fisico del loro interlocutore. Se l’operatore si sintonizza

emotivamente con il paziente e “legge” le sue reazioni verbali e non verbali, ha la possibilità di

“dosare” le informazioni, scegliere il linguaggio più adatto, verificare ciò che l’altro ha compreso,

riassumere ed eventualmente riprendere il discorso in un successivo incontro, in modo da lasciare

tempo alla comprensione ed alla elaborazione. Questo modo di procedere viene adottato ad esempio

nei progetti di educazione terapeutica, nei quali, in incontri successivi, si insegna a pazienti e

famigliari, come gestire una malattia cronica quale diabete mellito, asma, malattia reumatica,

eczema atopico ecc. L’empatia è importante anche quando si deve comunicare la diagnosi di una

malattia con impatto importante sulla vita (neoplasia, malattia genetica ecc.). Dal punto di vista

legale il medico ha il dovere di dire la verità al paziente, anche se i famigliari non vogliono. Non di

rado però il paziente stesso non vuole sapere o non vuole sapere “tutto” e questo è un suo diritto: se

non ha le risorse per affrontare una situazione grave, può essere più funzionale (almeno

temporaneamente) una strategia di coping basata sulla negazione (Buckman, 1992, trad. it. pp. 75).

Per questo il medico dovrebbe essere sempre in contatto empatico col paziente e valutare momento

per momento quanto desideri sapere. Si può anche chiedere esplicitamente se vuole conoscere

l’esito di un esame o se preferisce che venga comunicato a qualche altro familiare (Buckman, 1992,

trad. it.pp. 7-11).

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Empatia e giusta distanza emotiva

L’operatore deve essere abbastanza sicuro di sé stesso e non temere di perdersi quando entra nel

mondo dell’altro (Rogers, 1980, trad. it. pp. 123). Deve restare in contatto con le proprie emozioni,

in modo da poter continuamente monitorare l’entità del proprio coinvolgimento. Lavorando con

persone sofferenti esiste infatti il rischio concreto di perdere la “giusta distanza” e di coinvolgersi

eccessivamente o di essere troppo distaccati (freddezza, cinismo…), con il rischio di entrare in

burnout. La consapevolezza invece aiuta l’operatore a correre ai ripari e a ritrovare il giusto

equilibrio.

Empatia ed empowerment

Con l’empatia l’operatore sanitario entra nel mondo del paziente, vede le cose dal suo punto di vista

e può, dandogli fiducia, valorizzare le sue risorse. Anziché assumersi la responsabilità totale della

sua salute potrà promuoverla coinvolgendolo, aiutandolo a prendersi cura di sé e a mettere in atto le

strategie più utili per stare meglio (Zucconi, 2003).

Effetto dell’empatia sugli operatori

Un aspetto forse trascurato è che le relazioni empatiche fanno bene non solo agli utenti ma anche

agli operatori (Larson, 1993, trad. it. pp. 42-46). Chi sceglie il mestiere di helper cerca di soddisfare

il proprio bisogno di aiutare e questo lo può fare sia grazie alle proprie competenze tecniche sia,

soprattutto, a quelle relazionali.

Offrire una relazione caratterizzata da empatia aumenta il grado di soddisfazione per il proprio

lavoro (Larson, 2005). L’ascolto empatico rappresenta anche uno strumento utile per “disinnescare”

forti emozioni di rabbia ed aggressività da parte del paziente, che spesso mettono in difficoltà gli

operatori. Tali emozioni sono di solito collegate alla sensazione più profonda di non sentirsi

rispettato.

La rabbia è una frequente risposta emotiva alla malattia, la quale può costituire una minaccia, reale

o simbolica, alla persona, alla sua autostima ed alla sua dignità (Goleman, 1995, trad. it. pp.84).

I pazienti la possono provare in caso di diagnosi di neoplasia (Buckman, 1992), in caso di handicap

fisico dopo un incidente, un ictus, un intervento chirurgico ecc.

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Comprendere questo permette all’operatore di poter mantenere una certa distanza emotiva, di non

farsi coinvolgere troppo e non vivere le espressioni aggressive del paziente (o dei famigliari) come

un attacco personale.

Prevenzione delle denunce per malpractice. Una relazione medico paziente basata su empatia e

partecipazione reciproca è un forte deterrente contro le denunce per malpractice (Anfossi, 2008,pp.

24; Gordon, 1995, pp. 67-68) che nascono più da difetti di comunicazione che da errori di diagnosi

e terapia.

Comunicare l’empatia

L’empatia per essere efficace deve poter essere percepita dall’interlocutore. Non è una tecnica da

utilizzare ma un processo, un modo di “essere in relazione con il cliente” (Mearns, 1999, trad. it.pp.

56), che si può esprimere in molti modi, in particolare con il linguaggio non-verbale: contatto fisico,

sguardo, posizione e movimenti del corpo, tono di voce (Schmid, 2007). Pertanto ogni azione può

essere fatta con empatia: misurare la pressione, fare un prelievo, visitare, accogliere la persona in

ambulatorio, aiutare un anziano a vestirsi ecc.

Gli ambienti stessi possono essere strutturati in modo tale da mettere a proprio agio l’utente: locali

accoglienti, angolo giochi per i bambini, assenza di barriere architettoniche ecc.

Il paziente di solito non esprime esplicitamente ciò che prova ma utilizza un codice, verbale e non

verbale, che l’ascoltatore deve poi decodificare.

Ad esempio: si isola, diventa taciturno, usa un linguaggio ironico, aggressivo, non mangia il cibo

che gli viene portato, trascura la cura del corpo, arriva tardi agli appuntamenti ecc. Uno strumento

utilissimo è allora l’ascolto empatico o “attivo” (Rogers, 1987), che consiste nell’ascoltare con

attenzione ciò che il paziente comunica, decodificarne il messaggio e rinviare il risultato della

decodifica per verificarne l’esattezza (rimando empatico).

Il cliente ha la possibilità di correggere il feedback dell’ascoltatore. Nasce e si sviluppa così un

processo di influenzamento reciproco, come una danza, in cui si crea una relazione che pian piano si

approfondisce. Il cliente si sente valorizzato, accompagnato con delicatezza e, in un clima di

sicurezza psicologica, può esplorare il proprio vissuto. Secondo Rogers ogni messaggio ha due

componenti, entrambe importanti perché gli danno significato: il contenuto (aspetto cognitivo) e le

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emozioni o attitudini che sottostanno a questo contenuto. Il terapista è più efficace quando risponde

ad entrambe (Rogers, 2002, trad. it. pp. 318).

E’ perciò il significato complessivo del messaggio che va compreso (Rogers, 1987).

Recentissimi studi di neuroscienze hanno scoperto che nel caso dell’empatia emozionale (“sento ciò

che senti tu”) si attivano circuiti neuronali diversi da quelli che si attivano nell’empatia cognitiva

(“comprendo ciò che provi”)

CONSIDERAZIONE (ACCETTAZIONE) POSITIVA INCONDIZIONATA

Questa condizione si riferisce all’accogliere l’altro per quello che è riconoscendogli il diritto di

vivere la vita in base ai suoi valori, senza giudicarlo ma anzi accettandolo incondizionatamente,

valorizzandolo, credendo nelle sue potenzialità (Lietaer, 2001).

E’ un atteggiamento di apertura e rispetto verso chi è diverso da noi, per colore della pelle, etnia,

religione, orientamenti sessuali, stili di vita ecc. Coltivarlo permette all’operatore di potersi centrare

realmente sulla persona e di entrare nel suo mondo senza giudicare. Questo è particolarmente

importante in una società sempre più multiculturale come la nostra.

Autoesplorazione

Nella relazione la considerazione positiva incondizionata favorisce l’autoesplorazione e il

cambiamento. L’assenza di giudizio (e la comprensione empatica) crea un clima facilitante che

permette all’interlocutore di esprimere più liberamente aspetti di sé o affrontare tematiche

imbarazzanti come omosessualità, violenze subite, abuso di farmaci, di alcool, malattie tabù quali

HIV, disordini mentali ecc.

Considerazione positiva incondizionata ed etica

Accettare che gli altri abbiano una visione del mondo diversa dalla propria è diventato un tema

molto attuale in medicina. Gli operatori infatti sempre più spesso vengono confrontati con situazioni

quali eutanasia, manipolazioni genetiche, fecondazione artificiale, cellule staminali ecc. rispetto alle

quali vi sono profonde implicazioni etiche. Il diritto di ogni singolo di decidere per la propria vita,

ricorrendo a ciò che la scienza oggi mette a disposizione, può entrare in collisione con i valori degli

operatori sanitari (Marino, 2009).

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Qualità di vita

Ci sono numerose malattie croniche, nelle quali gli operatori hanno il compito di accompagnare

pazienti e famigliari per molti anni, aiutandoli a raggiungere e mantenere la miglior qualità di vita

possibile.

Non è realistico considerare la salute uno “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale…”

perché questa è una condizione ideale ed irraggiungibile. E’ più funzionale pensare la salute come

una situazione che muta nel tempo, che oscilla lungo un continuum che va da un massimo di

sofferenza a un massimo di benessere (Bonino, 2006, pp. 9-12).

E’ un costante processo di adattamento che le persone cercano, con l’aiuto anche di chi lavora nella

sanità.

La qualità di vita riguarda diverse aree: salute fisica, salute psicologica, indipendenza, relazioni

sociali, ambiente, spiritualità, religione, credenze personali, qualità di vita generale (Delle Fave,

2007, pp. 9-13).

Solo il paziente può decidere cosa rende la sua vita degna di essere vissuta e di cosa ha bisogno

perché sia tale: se l’operatore accetta i suoi punti di vista riesce ad accompagnarlo, mettendogli a

disposizione le proprie risorse professionali ed umane, in modo da aiutarlo ad avere un coping

efficace con la sua patologia.

Considerazione positiva incondizionata e cambiamento

Quando una persona si sente accettata può esplorare i propri vissuti ed entrare in contatto con i

propri bisogni. In tale stato è più probabile che avvenga un cambiamento. Le relazioni caratterizzate

da questa condizione sono pertanto più efficaci quando si cerca di aiutare una persona a cambiare il

proprio stile di vita (fare dieta, smettere di fumare, adottare precauzioni durante i rapporti sessuali

ecc.). L’approccio direttivo e paternalistico in cui gli operatori agiscono il loro potere sgridando,

minacciando, dando ordini ecc., crea invece facilmente resistenze al cambiamento; non produce

empowerment, ma dipendenza.

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CONGRUENZA

La congruenza è uno stato del sé (Mearns, 1999, trad. it. pp. 96), chiamato anche genuinità o

autenticità, che si riferisce alla consapevolezza delle proprie emozioni. Consiste in un grado di

coerenza fra i 3 livelli dell’esperienza organismica: contatto con le percezioni sensoriali e viscerali,

consapevolezza e simbolizzazione di tali esperienze, comunicazione (Rogers, 1980, trad. it. pp.19).

Essa ha quindi un aspetto interno (la percezione) ed uno esterno, la comunicazione verbale e non, di

se stessi, detto “trasparenza” (Lietaer, 2001).

La congruenza è ciò che consente al terapista di entrare nel mondo del cliente senza perdersi, di

gestire le proprie aree di vulnerabilità per poter accettare incondizionatamente l’altro. Congruenza

ed accettazione sono correlate, sono le due facce della stessa apertura di base: non ci si può aprire

all’esperienza dell’altro se non ci si apre alla propria. E senza apertura non può esserci empatia.

Consapevolezza dei propri punti di forza e di vulnerabilità

L’operatore sanitario usa “sé stesso”, la propria persona, per aiutare i pazienti in una miriade di

situazioni difficili. E’ importante quindi che conosca i propri punti di forza ed i propri punti deboli.

Spesso è un “guaritore ferito”, cioè una persona che ha fatto esperienza della sofferenza, l’ha

riconosciuta, elaborata, integrata, sviluppando maggiore sensibilità, apertura e comprensione verso

chi soffre (Brusco, 1997, pp. 85-99).

Le sue ferite sono diventate una risorsa, tuttavia ci possono essere delle tematiche che egli non ha

ancora sufficientemente elaborato, che costituiscono punti deboli, di vulnerabilità. Possono

riguardare paura della morte, lutti, bisogno di controllo, autonomia, dipendenza, timore di essere

ferito, vecchiaia ecc. (Novack, 1997). Se toccati, tali punti scatenano forti emozioni come tristezza,

rabbia, frustrazione, compassione, dolore ecc. e possono compromettere la relazione perché

l’operatore in questi casi tende a coinvolgersi eccessivamente o a essere molto distaccato: è meno

attento nell’ascolto, fa errori nella valutazione del livello emotivo, ha fretta, evita certe tematiche, si

sofferma eccessivamente su altre ecc. (Stewart, 1995, pp. 98).

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Congruenza e benessere dell’operatore

Nelle istituzioni sanitarie c’è stato negli ultimi anni un notevole aumento di stress e disagio degli

operatori. Secondo recenti statistiche il 30% dei medici italiani è vittima di burnout, il 12% soffre di

disturbi psichici e dipendenza da sostanze: 8-10% alcoolismo, 2-3% altre sostanze, 2% disturbi

mentali gravi. L’incidenza del suicidio è 6 volte superiore rispetto a chi esercita un’altra professione

(Villa, 2010, Wallace, 2009).

Il loro malessere si riflette sulla qualità dell’assistenza: molti episodi di malasanità sembrano

esserne una conseguenza. La congruenza è correlata al benessere della persona perché le permette

di essere in contatto con ciò che avviene al suo interno sia a livello fisico che psichico, di percepire

messaggi che indicano distress (palpitazioni, cefalea, tic, sbalzi di umore, tensione…) e porvi

rimedio (Zucconi, 2003, pp. 228-230).

Congruenza, trasparenza e limiti

E’ necessario che gli operatori sanitari siano in contatto con sé stessi anche per poter mettere un

limite al proprio coinvolgimento emotivo. Per molti non è facile, specialmente se sono molto

empatici e sensibili alla sofferenza degli altri; riesce loro difficile ammettere di non poter far fronte

alle aspettative altrui, temono di apparire inadeguati, deboli o poco disponibili. È responsabilità

dell’operatore ascoltarsi, comprendere dove sono i propri limiti, i propri confini, comunicarli e

difenderli (Greggio, 1998, pp. 62-66; Rogers 2002, trad. it. pp. 319-320).

Autorivelazione

Il paziente è la parte “debole”, che necessita aiuto, mentre gli operatori sanitari sono visti come

sani, senza problemi, onnipotenti. In realtà pure loro sono vulnerabili, hanno problemi personali,

familiari, di salute, possono essere stanchi, frustrati, tristi, sentirsi inadeguati, feriti.

Come l’operatore dovrebbe essere disponibile verso il malato ed i suoi famigliari, allo stesso modo

questi dovrebbero avere un po’ di attenzione e comprensione verso il personale sanitario. Tanto più

che negli anni nel mondo sanitario si sono acuiti disagi quali carenze di organico, mancanza di

risorse, aumento dei carichi di lavoro e stress.

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Una reale alleanza terapeutica deve tenere conto della reciproca vulnerabilità e richiede una

comprensione delle reciproche difficoltà (De Hennezel, 2004, trad. it. pp. 180-183).

Nella relazione quindi gli operatori potrebbero essere più trasparenti, rivelando, con modi e tempi

appropriati, almeno in parte il proprio disagio. (McDaniel, 2007). Se un operatore, ad esempio, sta

vivendo un momento di grande sofferenza (lutto, malattia, ecc.) che incide sulla qualità della sua

comunicazione, è utile che lo verbalizzi, senza necessariamente condividere le proprie vicende

personali. Questo momento di condivisione, di sfogo, potrà essergli di aiuto e lo renderà una

persona “reale”, umana agli occhi dei pazienti, che potranno comprendere meglio il suo

comportamento (Gordon, 1995, pp. 93).

«A seconda del paziente e del tipo di relazione, il medico può apertamente riconoscere di essere

esausto e dire al paziente che la visita sarà più breve del solito. Una tale ammissione rende il

medico più umano e permette al paziente di restituirgli alcune delle emozioni di sostegno che in

passato il medico gli aveva dato, migliorando così la relazione di reciproco sostegno e rispetto»

(Quill, 1989)Thomas Gordon ha individuato 4 tipi di messaggi di autoapertura, che l’operatore può

inviare (Gordon, 1995, pp. 94-99):

1) Messaggi dichiarativi: condivisione di proprie credenze, idee, preferenze, opinioni. Alcuni

esempi: “Credo sia importante alimentarsi in modo corretto”, “Quando lei torna al controllo è

importante che sia puntuale, così potremo avere più tempo a disposizione per parlare…”…,

2) Messaggi di risposta: comunicano come ci si sente di fronte ad una richiesta (di ulteriori

analgesici, di potersi assentare dal reparto, di eseguire indagini in realtà inutili ecc.). Ad esempio:

“Questa sua richiesta mi mette proprio a disagio perché….”, “Sono contento che abbia

deciso…”,“Mi spiace che lei rifiuti….”,

3) Messaggi preventivi: comunicano un proprio bisogno all’altro, che così può regolare il suo

comportamento, ed evitano l’insorgenza di un possibile conflitto. Ad esempio informare i pazienti

quando si allunga il tempo di attesa per avere una visita, quando dopo un intervento è verosimile la

comparsa di alcuni sintomi ecc..,

4) Messaggi di confronto. Si inviano quando il comportamento dell’altro interferisce con un nostro

bisogno. Inviare questi messaggi richiede assertività, in particolare quelli dell’ultimo punto.

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Il confronto

Circa il 15% degli incontri con i pazienti viene vissuto come “difficile” da parte dell’operatore

sanitario. Questo dipende non tanto da problemi tecnici, procedure o dal tipo di malattia, ma dalle

“agende inconsce” che entrambe le parti portano nella relazione (Stewart, 1995, pp. 96).

Le difficoltà più frequenti sono con pazienti scontrosi, aggressivi, pretenziosi, non cooperativi,

ipercritici, che arrivano tardi agli appuntamenti, non vogliono attenersi alle regole e alle abitudini

dell’ospedale, non seguono i piani terapeutici.

Gli operatori sanitari trovano inaccettabili tali comportamenti perché interferiscono con lo

svolgimento dei loro compiti professionali (Gordon, 1995, pp. 98-99). Le reazioni emotive che

nascono possono essere di rabbia, irritazione, frustrazione, noia, indifferenza ecc. e rappresentano

l’indizio di un problema che va risolto per non compromettere la qualità dell’assistenza.

La comprensione empatica e la considerazione positiva incondizionata possono senz’altro essere di

aiuto. Si può “decodificare” il comportamento del paziente come espressione di paura, insicurezza,

rabbia, dolore dovuti alla malattia. Ma in alcune situazioni può essere necessario arrivare al

confronto per porre un limite ad un comportamento che ferisce l’operatore, è dannoso per la salute o

compromette l’esito delle cure.

Questo implica il rischio che l’altra persona possa sentirsi attaccata, si arrabbi e il rapporto si

deteriori (Rogers, 2002, trad. it. pp. 319-320). Per questo richiede coraggio ed assertività.

La modalità direttiva di confronto che si fonda sul potere dell’operatore (minacciare, ammonire

ecc.) produce resistenza al cambiamento, fa sentire l’altro non considerato nei suoi bisogni, provoca

forte difensività ed aggressività.

Esistono però altre modalità, più efficaci, che prevedono l’uso della propria congruenza e

trasparenza, in un clima di rispetto ed empatia.

Vi è innanzitutto una auto-confrontazione: quando il paziente ascolta i rimandi empatici si

autoconfronta, si vede come riflesso in uno specchio (Lietaer, 2001a, pp. 99).

Un’altra possibilità è comunicare le proprie impressioni sul paziente ed i sentimenti che ha suscitato

in noi. Questo implica la perdita del principio di attenersi esclusivamente al suo campo

esperienziale, perché il feedback parte dallo schema di riferimento dell’operatore. Questo tipo di

messaggio comunque non costituisce un rifiuto dell’altro come persona (Lietaer, 2001a, pp. 99) se

vengono rispettati i seguenti punti (Lietaer, 2001a, Lietaer 2001b):

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- va inviato quando il terapeuta ha emozioni forti, persistenti, che gli impediscono di focalizzarsi su

quelle del cliente e non rivelarle lo indurrebbe a mettersi una maschera di falso interesse,

- bisogna considerare se il cliente può trarre giovamento, recepire ed integrare in se il messaggio di

confronto. Essere trasparenti quindi con responsabilità, in modo che non sia un acting-out,

- deve riferirsi a situazioni recenti,

- deve riguardare l’impatto che il comportamento del paziente ha sull’operatore, non lui come

persona,

- deve essere esplicito e concreto, descrivere precisamente cosa del comportamento ha creato

problemi e quali sono state le emozioni che ne sono conseguite,

- deve essere inviato in un clima positivo, chiarendo che l’intenzione è di migliorare il rapporto,

approfondirlo,

- non va imposto ma deve essere un atto di congruenza e trasparenza, che esprime un malessere

dell’operatore (e non colpevolizza),

- bisogna essere pronti ad accogliere la reazione del paziente.

CONCLUSIONI

Le 3 condizioni necessarie e sufficienti individuate da Carl Rogers sono un patrimonio che ogni

persona possiede, anche se in misura diversa. Se gli operatori sanitari le implementano, le fanno

diventare parte integrante di sé, le “armonizzano”, possono acquisire un “modo di essere” centrato

sulla persona: in contatto con se stessi, consapevoli delle proprie emozioni, in grado di percepire

quelle dei pazienti e di accettare, senza giudicare, un modo di vedere il mondo diverso dal proprio.

Il loro modo di interagire con i pazienti terrà allora in considerazione la “persona” ed i suoi bisogni

nelle innumerevoli interazioni quotidiane e nei più svariati ambiti, dai più semplici (prelievo

sanguigno, misurazione della pressione ecc.) ai più complessi (comunicazione di diagnosi infausta,

intervento chirurgico ecc.).

In un mondo sanitario complesso, martoriato da grandi problemi (scarsità di risorse, tagli al

personale, scandali, denunce per malpractice, stress, burnout, mobbing…), difficile da migliorare

anche per politici ed amministratori, formarsi e migliorare la propria capacità comunicativa mi

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sembra una strada efficace che gli operatori sanitari possono percorrere, per “resistere” e continuare

a svolgere con soddisfazione un lavoro che in moltissimi hanno scelto per passione.

STRUTTURE RICREATIVE E DI AGGREGAZIONE

Il Centro Diurno Anziani fornisce un servizio di assistenza a carattere integrativo e di sostegno alla

vita domestica e di relazione. Si propone di assicurare agli anziani effettive possibilità di vita

autonoma e sociale, favorendo il rapporto di comunicazione interpersonale e le attività ricreative e

culturali.

Il Centro Diurno Anziani si rivolge a cittadini anziani autosufficienti quale luogo ed occasione di

aggregazione ludica e culturale (bassa soglia), dove vengono organizzate, progettate e realizzate

attività di promozione e di socializzazione per il benessere della condizione anziana.

Il Centro Diurno Anziani provvede alla:

Organizzazione, promozione e sviluppo di attività ricreativo-culturali interne ed esterne al centro,

anche mediante visite di luoghi o strutture nell'ambito urbano ed extraurbano;

Promozione della partecipazione agli avvenimenti culturali, sportivi e ricreativi della vita cittadina;

Promozione di attività ludico-motoria ed espressivo-ricreativa con organizzazione di attività

laboratoriali presso il Centro o presso altri impianti;

Promozione di attività di tipo artigianale anche con l'impiego di utensili vari;

Promozione di corsi di educazione sanitaria, alimentare, di prevenzione ecc., in collaborazione con

le istituzioni competenti;

Promozione e programmazione di attività ricreative e di informazione anche quale strumento di

salvaguardia dei valori culturali e delle tradizioni popolari da realizzare anche con l'impiego di

idonei strumenti quali: proiettori cinematografici, registratori, impianti fonici, giochi vari, televisori,

giornali, quotidiani, rotocalchi, piccoli e medi elettrodomestici, strumenti informatici e

multimediali, ecc.;

Organizzazione di incontri/feste in occasione di particolari festività;

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Offre attività di animazione, ludiche e culturali e la possibilità di usufruire del pasto nei limiti della

capacità recettiva.

LE ATTIVITA’ EDUCATIVE

Prestazione socio-educativa

Definizione

La prestazione socio-educativa consiste di una pluralità di attività di osservazione, di ascolto, di

interazione e di guida sia con la persona disabile o con il gruppo, sia con la rete familiare e sociale

che la circonda; ciò garantisce all'utente l'indispensabile accompagnamento educativo ed affettivo

nel suo processo di socializzazione, di acquisizione della maggior autonomia possibile e di

integrazione sociale.

La presa a carico si basa sul programma di sviluppo individuale e fa leva sulle risorse fisiche,

psichiche, sociali e ambientali (famiglia, istituto, rete sociale) della persona disabile, tutelandone al

contempo i diritti.

Finalità

Educare e accompagnare la persona disabile, compatibilmente con le sue esigenze soggettive

(vissuto personale, età e stato civile, ecc.),nello sviluppo di un'autonomia personale e sociale e

nell'acquisizione e/o mantenimento di competenze comportamentali, cognitive, affettive e

relazionali, finalizzate ad un’adeguata integrazione sociale.

Obiettivi

• Assicurare all'utente accompagnamento e progettualità educative rispetto a tutte le dimensioni

della sua quotidianità (lavarsi, vestirsi, mangiare, ecc.).

• Stimolare lo sviluppo del potenziale dell'utente nella gestione della propria vita.

• Favorire il processo di socializzazione e integrazione sociale della persona disabile.

• Sostenere l’utente nei suoi rapporti affettivi e sociali.

• Favorire e coordinare i contatti con il nucleo familiare di appartenenza e la rete sociale dell'utente.

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Attività

La struttura definisce liberamente una propria strategia di presa a carico dal punto di vista

dell'intervento socio-educativo, programmando in maniera continuativa una serie di attività e

iniziative puntuali e ricorrenti. La prestazione socio-educativa si realizza

Catalogo dei servizi e delle prestazioni

invalidi – adulti – prestazioni – prestazione socio-educativa attraverso la definizione, la

realizzazione e l’aggiornamento del programma di sviluppo individuale che considera i seguenti

aspetti:

• Attività individuali o di gruppo (accompagnamento uscite ricreative; organizzazione corsi,

vacanze e tempo libero; attività ludiche; ecc.).

• Affettività-emozionalità-relazionalità (contatti con compagni e operatori; relazione ospite-

famiglia; contenimento dell'ansia e dell'aggressività; ecc.).

• Autonomia e integrazione (aiuto uso mezzi pubblici e azioni di routine; aiuto negli spostamenti;

aiuto nel vestirsi e svestirsi, bagno ecc.).

• Comunicazione (aiuto nell'uso dei mezzi di comunicazione; aiuto nella comprensione e

codificazione di messaggi; aiuto nella comunicazione verbale e simbolica; ecc.).

• Mantenimento e sviluppo delle capacità cognitive (aiuto nel fare di conto, leggere, scrivere,

nell’orientamento nello spazio e nel tempo; ecc.).

• Gestione dei bisogni pratici (aiuto nella gestione della contabilità, negli acquisti ecc.).

Destinatari e modalità d'erogazione

La prestazione socio-educativa deve essere garantita a tutti gli utenti della struttura. Le attività

socio-educative sono erogate e gestite dal personale dipendente dell'Ente.

Figure professionali

La struttura deve dotarsi di personale adeguato, sul piano quantitativo, della preparazione

professionale, delle conoscenze empiriche e delle capacità relazionali, necessario per poter garantire

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l'erogazione della prestazione conformemente ai livelli di qualità dichiarati, prescritti dalle

normative in materia o specificamente richiesti dell'Ente finanziatore.

Le prestazione socio-educativa è erogata da:

• Educatore diplomato o con titolo equivalente.

• Operatore socio assistenziale.

La definizione, il controllo e l’aggiornamento del programma disviluppo individuale e di

mantenimento e sviluppo delle capacità cognitive, relazionali e affettive competono all'educatore

diplomato o

Catalogo dei servizi e delle prestazioni

invalidi – adulti – prestazioni – prestazione socio-educativa con titolo equivalente, che svolge

queste attività in una logica di lavoro di rete, coinvolgendo le altre figure professionali di

riferimento interne o esterne alla struttura, l’utente stesso e/o il suo rappresentante legale e/o i suoi

familiari.

Specifiche in relazione alla casistica

Le modalità di erogazione della prestazione e l'impiego delle risorse in termini di figure

professionali devono essere relazionati ai contenuti dei programmi di sviluppo individuali, tenendo

conto inparticolare dei livelli di autonomia e dell'età degli utenti.

EMPOWERMENT E QUALITA’ DELLA VITA

Con il termine empowerment viene indicato un processo di crescita, sia dell'individuo sia del

gruppo, basato sull'incremento della stima di sé, dell'autoefficacia e dell'autodeterminazione per far

emergere risorse latenti e portare l'individuo ad appropriarsi consapevolmente del suo potenziale.

Questo processo porta ad un rovesciamento della percezione dei propri limiti in vista del

raggiungimento di risultati superiori alle proprie aspettative. L'Empowerment è un costrutto

multilivello che in base alla tripartizione di Zimmerman (2000) si declina in: 1. psicologico-

individuale; 2. organizzativo; 3. socio-politico e di comunità. Questi tre livelli sono analizzabili

individualmente ma strettamente interconnessi fra di loro.

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Livello Individuale

Il livello individuale rimanda al concetto di self-empowerment e si riferisce al processo di crescita

del singolo individuo che attraverso percorsi di natura diversa (terapeutico, formativo, esperienziale,

ecc.) sviluppa nuove abilità e competenze. Zimmerman (2000) si è occupato di empowerment

psicologico individuale come percorso che porta dalla learned helplessness (cioè la passività

appresa accompagnata da senso di sfiducia e sconforto nell'affrontare problemi quotidiani) alla

learned hopefulness (maggiore fiducia in se stessi e apprendimento della speranza). Tale costrutto

viene scomposto in tre componenti che, considerate insieme, costituiscono un modello di base per la

valutazione dell'empowerment a livello di analisi dell'individuo:

1. La componente intrapersonale - controllo- (corrisponde a controllo e competenza percepiti.

Include caratteristiche di personalità, caratteristiche cognitive e aspetti motivazionali).

2. La componente interpersonale – consapevolezza critica- (corrisponde alla capacità di analizzare il

contesto socio-politico in cui si vive per comprendere il proprio ambiente. Essa si concretizza nella

capacità di individuare le risorse necessarie per raggiungere un obiettivo e nella scelta di un piano di

azione).

3. La componente comportamentale – partecipazione- (corrisponde alle azioni svolte per esercitare

il controllo attraverso la partecipazione attiva).

Rappaport (1981) delinea l'empowerment come un processo sociale multidimensionale che aiuta le

persone a raggiungere un maggior controllo sulla propria vita. Permette, quindi, di incrementare il

potere delle persone, per fare in modo che utilizzino tale capacità nella loro vita, nella loro

comunità, nei loro gruppi. Sono tre gli aspetti in questa definizione che risultano centrali:

processo sociale: processo in quanto è un percorso, un viaggio che si sviluppa e si definisce in

itinere;

multidimensionale: si esprime a diversi livelli (comunità, gruppi, individui) ma anche su diverse

dimensioni (sociologiche, psicologiche, economiche);

controllo: inteso come potere positivo, possibilità di scelta e azione.

Bruscaglioni (1991) introduce il termine “self-empowerment” e sostiene che l'attenzione debba

cadere maggiormente sul polo positivo di questo processo: su una tensione positiva, un desiderio

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piuttosto che su un sentimento di mancanza. Egli parla di “io desiderante” come elemento che avvia

il processo di empowerment; per cui, colui che promuove il self-empowement deve cercare di

attivare fiducia, ambizione e desiderio nell'altro per “l'apertura di una nuova possibilità all'interno

del soggetto” (Dallago, 2008). La possibilità di scegliere è la condizione necessaria per l'assunzione

di responsabilità. L'approccio generale del self-empowerment ritiene che il comportamento sia

causato dalla personale percezione di successo o insuccesso e quindi sia cognitivamente

determinato. Per empowerizzare l'individuo bisognerà intervenire, dunque, sui suoi schemi

cognitivi. Il modello del self-empowerment prende in considerazione quattro dimensioni:

1) Autoefficacia;

2) Collocazione interna della causalità;

3) Speranzosità (la hopefulness in Zimmerman);

4) Pensiero positivo.

Lo specifico percorso formativo di self-empowerment proposto da Bruscaglioni (1991) prevede

diverse tappe:

l'insorgenza di un nuovo desiderio;

capacità di crearsi rappresentazioni mentali positive della situazione desiderata;

acquisizione di consapevolezza delle proprie risorse esterne e interne per poter mettere in atto il

cambiamento;

messa in atto di una prova sperimentale della realizzazione concreta del desiderio;

ulteriore mobilitazione di risorse sulla base del feedback ricevuto dall'azione sperimentale;

messa in atto di un vero tentativo di realizzare il proprio desiderio.

Una criticità della proposta teorica di Bruscaglioni sta nell'aver sottolineato solo l'importanza dello

sviluppo di tali competenze per il benessere individuale, trascurando ,invece, la centralità di una

prospettiva circolare di interazione fra individuo e ambiente, presa invece in considerazione da

Zimmerman. Infatti l'empowerment individuale è necessariamente connesso con il rafforzamento

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della dimensione sociale e della sua esperienza nei contesti di vita quotidiana. Individui

maggiormente empowered sono tasselli di base per il gruppo, l'organizzazione e la società.

Kiefer (1984), invece, si occupa di empowerment individuale in un'ottica completamente

comunitaria. Il suo modello di sviluppo naturale e spontaneo dell'empowerment psicologico viene

elaborato dopo una indagine concretamente compiuta fra individui attivi nella loro comunità e con

un alto livello di empowerment individuale. Il modello si struttura in modo circolare; qui la

partecipazione, l'empowerment psicologico e il vivere in ambienti che favoriscono l'empowerment

può cambiare la minaccia percepita e rafforzare il senso di comunità che, a sua volta, avrà risvolti

positivi sull'individuo. Gli stadi dello sviluppo spontaneo dell'empowerment individuale sono: 1)

Entrata: questa fase si basa su presupposti quali un forte senso di comunità da parte degli individui e

la presenza di una minaccia ai loro interessi. Ciò porta a mettere in discussione l'autorità. 2)

Avanzamento: in questa fase l'individuo si lascia affiancare da una guida che lo aiuta a superare

eventuali difficoltà, che condivide le sue stesse preoccupazioni e cerca con lui possibili soluzioni,

ampliando la comprensione di aspetti sociali, economici e politici della situazione. 3) Integrazione:

momento cruciale in cui le nuove conoscenze ed esperienze vengono integrate con la propria

identità. In questa fase ci si inizia a percepire come leader e a sentirsi bene nel portare avanti tale

ruolo. Contemporaneamente, però, possono emergere dei conflitti legati alle altre sfere della vita e

ad altri impegni. 4) Impegno: questa fase inizia nel momento in cui si riesce a risolvere i conflitti e a

stabilizzare la propria identità. L'individuo si sente in grado di partecipare più attivamente alla vita

di comunità, di avere una maggiore comprensione della realtà e possedere risorse individuali e

collettive.

Strumenti e strategie di sviluppo dell'empowerment

Le strategie messe in atto dagli psicologi di comunità per promuovere lo sviluppo

dell'empowerment, condividono alcune caratteristiche di base (Dallago, 2006):

Lavorare considerando vari aspetti del problema;

Valorizzare il gruppo e gli individui rafforzandone le competenze relazionali e di cooperazione;

Valorizzare le esperienze di vita e di lavoro, attraverso l'uso di metodi e attività coinvolgenti;

Favorire la partecipazione attiva dei soggetti interessati, aumentare la motivazione, creando spazi

per la condivisione di idee e abilità;

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Creare reti di istituzioni e di individui in grado di condividere sforzi, risorse e idee, e di diventare

nuova risorsa per la comunità;

Promuovere la cultura della valutazione, indicando l'importanza della raccolta dei dati sui processi e

sui risultati delle attività,

Fare in modo che il lavoro non si concluda con l'uscita di scena dello psicologo e dell'operatore ma

che continui e diventi patrimonio della comunità.

Livello Organizzativo

L'approccio organizzativo deriva dall'ambizione di superare le dinamiche strettamente individuali

considerando rilevanti anche altre prospettive come i legami tra le persone, le dinamiche relazionali

e la struttura delle organizzazioni. Nonostante questo approccio faccia riferimento a molteplici

contesti e situazioni, gli studi si sono limitati a considerare lo sviluppo dell'empowerment

individuale all'interno dei gruppi, delle organizzazioni e delle associazioni principalmente a livello

aziendale. Esistono due tipi di organizzazione con caratteristiche riconducibili alla definizione di

empowerment di Zimmerman (2000):

a) Organizzazione Empowering:

ha come obiettivo basilare quello di promuovere l'empowerment personale dei suoi membri;

è costituito da strutture e norme orizzontali (controllo);

sono mobilitate risorse interne (consapevolezza critica);

le decisioni sono prese da più membri (partecipazione).

b) Organizzazione Empowered:

ha come obiettivo principale quello di influenzare il contesto in cui è inserita;

nella comunità allargata e nei dibattiti deve riuscire a prendere voce in capitolo (controllo);

sono mobilitate risorse interne e esterne (consapevolezza critica);

è coinvolta in reti di organizzazioni o in attività di governo della comunità (partecipazione).

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Livello di Comunità

A livello di comunità, l'empowerment fa riferimento all'azione collettiva finalizzata a migliorare la

qualità di vita e alle connessioni tra le organizzazioni e le agenzie presenti nella comunità.

Attraverso l'empowerment di comunità si realizza la “comunità competente”, in cui i cittadini hanno

“le competenze, la motivazione e le risorse per intraprendere attività volte al miglioramento della

vita”. Le strategie di empowerment di comunità sono volte a favorire il processo di crescita di

potere nei cittadini tramite la partecipazione di questi ad esperienze significative. In tal senso,

pertanto, questi cittadini costituiranno una risorsa per le altre persone. Secondo Iscoe e Harris

(1984), le comunità competenti sono caratterizzate da tre fattori:

1. Il potere di generare opportunità ed alternative

2. La coscienza di come ottenere risorse ovvero gli strumenti necessari per risolvere un problema

3. L'autostima considerata in termini di orgoglio, ottimismo e motivazione.

Martini e Sequi (1999) ne aggiungono una quarta, ovvero l'identità, che ha il ruolo di collante

affettivo nella comunità. In questo senso, l'empowerment di comunità è inteso come un processo

che conduce i membri a uno sviluppo della propria percezione di potere, del proprio sentimento di

appartenenza e della capacità di prendere decisioni. Contemporaneamente, la comunità può offrire

agli individui opportunità per accrescere il controllo sulle proprie vite oppure favorire alle

organizzazioni la possibilità di influenzare la vita della comunità stessa. D'altra parte una comunità

può influenzare le decisioni politiche o raggiungere in qualche modo i propri obiettivi. Una certa

comunità locale può presentare una sola o entrambe queste caratteristiche. Gli approcci più noti per

accrescere il potere collettivo, inteso sia come controllo di risorse sia come influenza sulla

partecipazione dei cittadini, che come modo di prendere in considerazione e definire i problemi

comuni, sono quattro:

1. Lo sviluppo di comunità tramite la partecipazione attiva dell'intera comunità per creare le

condizioni di progresso sociale ed economico.

2. L'azione sociale che ha lo scopo di accrescere la consapevolezza dei problemi tra coloro che ne

sono afflitti e che possono trarre vantaggio dal cambiamento. Un'efficace azione sociale necessita di

un'organizzazione coesa e di molti cittadini che si oppongono all'ingiustizia in modo legale.

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3. Favorire la consapevolezza dei problemi sociali, ovvero aumentare la comprensione del

significato che alcune condizioni sociali hanno sugli individui.

4. L'advocacy è un approccio che comprende tutti i modi per far sentire la propria voce, per

influenzare le decisioni, le politiche o le leggi.

Nella realtà i quattro approcci spesso si intrecciano in modo da favorire la nascita di una spirale di

cambiamento che ha come fulcro l'ottenimento dell'empowerment. Laverack (2001) individua nove

domini operativi che possono servire come mezzo attraverso cui sviluppare empowerment di

comunità:

1. Partecipazione: tramite il coinvolgimento attivo, gli individui possono influenzare la propria vita

e quella altrui.

2. Leadership: quella condivisa da tutti i partecipanti.

3. Strutture organizzative: tutti i gruppi come le organizzazioni parrocchiali e giovanili che sono

fondamentali per la socializzazione e per la risoluzione dei problemi.

4. Valutazione dei bisogni e dei problemi: spesso comporta l'acquisizione di nuove competenze e

abilità per individuare soluzioni.

5. Mobilitazione delle risorse sia all'interno che all'esterno delle comunità.

6. Chiedersi il perché delle cause sociali, politiche o economiche che provocano il malessere o il

benessere della comunità.

7. Legami con persone e organizzazioni.

8. Agenti esterni che possono fungere da facilitatori, dare supporto o aumentare il livello di analisi

critica.

9. Gestione dei progetti: include il controllo da parte di tutti gli attori coinvolti nelle decisioni.

IL SOCIOGRAMMA

Progettazione di un sociogramma

Il test sociometrico permette di ottenere una dettagliata mappa delle relazioni e di individuare lo

status sociale dei singoli soggetti all’interno del gruppo.

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Può essere utilizzato non solamente in ambito scolastico, ma in qualsiasi contesto dove esiste un

gruppo organizzato e strutturato di cui si vuole approfondire la conoscenza (in fabbrica, nelle

comunità terapeutiche, in caserma, nelle colonie giovanili, in ambiente di lavoro e sportivo, nelle

comunità religiose, ecc…).

In questo articolo sarà utilizzato, a fine esemplificativo, un sociogramma somministrato in una

classe prima di scuola media superiore, composta da 17 maschi e 10 femmine.

Gli allievi saranno individuati con una sigla, perché, in sociometria, è consuetudine indicare i

soggetti esaminati con le iniziali del loro cognome e nome.

Individuazione del criterio di indagine

Il test sociometrico è uno strumento semplice e facile da adattare all’obiettivo che si vuole

raggiungere. L’obiettivo è strettamente collegato all’aspetto della vita di gruppo che si vuole

indagare. L’individuazione del criterio faciliterà l’esatta formulazione delle domande che saranno

presentate ai soggetti componenti il gruppo in fase di somministrazione del test.

I criteri sociometrici maggiormente utilizzati riguardano essenzialmente:

l’aspetto affettivo - relazionale, che ha come contesto di riferimento la vita in comune o lo stare

insieme (esempi: chi vuoi o non vuoi come compagno di gita, di stanza, di banco, di vacanze,

ecc…). La configurazione delle interrelazioni che si ottiene utilizzando questo criterio fa

riferimento a rapporti affettivi che si fondano su affinità psicologiche e non su considerazioni delle

abilità pratiche dell’individuo.

La domanda potrebbe essere formulata così: “Se si dovesse organizzare una gita (oppure una festa)

chi sceglieresti tra i tuoi compagni?”. Per rispondere a questo tipo di domanda, l’allievo terrà in

considerazione questo tipo di ragionamento: ”Scelgo Tizio perché mi è simpatico, mi fa molto

divertire e con lui mi trovo a mio agio”.

l’aspetto relativo alla organizzazione gerarchica del gruppo, che punta ad avere informazioni su chi

può svolgere funzione di guida o di direzione (esempi: chi vuoi o non vuoi come capoclasse,

caporeparto, capo di équipe, ecc..)

l’aspetto relativo alla organizzazione del gruppo finalizzata al raggiungimento di un obiettivo

condiviso (esempi: chi vuoi o non vuoi come compagno in un gruppo di studio o nel tuo lavoro).

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I criteri del tipo 3, e in parte anche quelli del tipo 2 implicano, invece, processi di valutazione delle

capacità e abilità altrui.

Se la finalità del test è collegata alla necessità di indagare e di migliorare la capacità organizzativa

del gruppo, allora la domanda può essere così presentata: ”Chi sceglieresti tra i tuoi compagni per

organizzare dei gruppi di studio (o di lavoro)?”.

Le opzioni che saranno effettuate per questo tipo di domanda non faranno riferimento al costrutto

“Simpatia/Antipatia” utilizzato in precedenza, bensì saranno dettate dalla necessità di individuare

nei compagni da scegliere la disponibilità alla collaborazione, la serietà e la capacità nel portare a

termine i compiti assegnati.