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Bimestrale dei corsi di studi in Sociologia e Ricerca Sociale (triennale) e in Sociologia (specialistica interfacoltà) Direzione: Arnaldo Bagnasco, Mario Cardano, Manuela Olagnero, Rocco Sciarrone. Redazione Michele Manocchi .: Scrivi alla Redazione: [email protected]. .: Mandaci i tuoi suggerimenti e segnalaci iniziative interessanti: ne faremo buon uso. .: E se vuoi darci una mano, contattaci: la redazione è sempre aperta! Edizione n.6/2007 – Anno IV – Dicembre 2007 www.newsletterdisociologia.unito.it .: Sommario Professione Sociologo | Intervista a Gaetano Oliva, docente di Animazione Teatrale e Drammaturgia presso l’Università Cattolica di Milano di Diego Garzino | 2 Professione Sociologo | Editoria scientifica, un pozzo di (extra) profitti www.lavoce.info | di Massimiliano Tani, Alberto Franco Pozzolo, Luca Salvatici | 6 Apriamo le porte alla ricerca scientifica | di Giuseppe Tipaldo | 8 Open Access all’Università di Torino. Esperienze e modelli di comunicazione scientifica | di Giovanna Balbi | 9 Open Access all’Università di Torino. Retroscena di organizzazione di un convegno | di Bianca Gai | 10 Teseo | La dimensione identitaria delle cose. I significati attribuiti dai giovani ai loro oggetti | di Stefania Querio | 11 Professione Sociologo | «Meglio i diamanti»: comunicare i rifiuti tra paura e indifferenza. Seconda parte | di Giuseppe Tipaldo | 16 Professione Studente | Trasferimento tecnologico e società: quali i temi in comune? | di Valentina Moiso | 21 Sociologie | Indagine sulla televisione. Tutti la guardano, pochi si fidano La Repubblica | di Luigi Ceccarini e Fabio Bordignon | 23 Sociologie | In quel teatrino si decide il voto | La Repubblica | di Ilvo Diamanti | 24 Sociologie | La struttura delta | La Repubblica | di Ezio Mauro | 25

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Bimestrale dei corsi di studi in Sociologia e Ricerca Sociale (triennale) e in Sociologia (specialistica interfacoltà) Direzione: Arnaldo Bagnasco, Mario Cardano, Manuela Olagnero, Rocco Sciarrone. Redazione Michele Manocchi

.: Scrivi alla Redazione: [email protected].

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.: E se vuoi darci una mano, contattaci: la redazione è sempre aperta!

Edizione n.6/2007 – Anno IV – Dicembre 2007

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.: Sommario

Professione Sociologo | Intervista a Gaetano Oliva, docente di Animazione Teatrale e Drammaturgia presso l’Università Cattolica di Milano

di Diego Garzino | 2

Professione Sociologo | Editoria scientifica, un pozzo di (extra) profitti www.lavoce.info | di Massimiliano Tani, Alberto Franco Pozzolo, Luca Salvatici | 6

Apriamo le porte alla ricerca scientifica | di Giuseppe Tipaldo | 8

Open Access all’Università di Torino. Esperienze e modelli di comunicazione scientifica | di Giovanna Balbi | 9

Open Access all’Università di Torino. Retroscena di organizzazione di un convegno | di Bianca Gai | 10

Teseo | La dimensione identitaria delle cose. I significati attribuiti dai giovani ai loro oggetti | di Stefania Querio | 11

Professione Sociologo | «Meglio i diamanti»: comunicare i rifiuti tra paura e indifferenza. Seconda parte | di Giuseppe Tipaldo | 16

Professione Studente | Trasferimento tecnologico e società: quali i temi in comune? | di Valentina Moiso | 21

Sociologie | Indagine sulla televisione. Tutti la guardano, pochi si fidano La Repubblica | di Luigi Ceccarini e Fabio Bordignon | 23

Sociologie | In quel teatrino si decide il voto | La Repubblica | di Ilvo Diamanti | 24

Sociologie | La struttura delta | La Repubblica | di Ezio Mauro | 25

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.: Professione Sociologo In questo numero pubblichiamo l’intervista che Diego Garzino ha raccolto “in trasferta”, intervi-stando il Professor Gaetano Oliva, docente di Animazione Teatrale e Drammaturgia presso l’Uni-versità Cattolica di Milano. Diego, infatti, segue da tempo il rapporto tra sociologia e teatro, e questo è un ulteriore contributo a tale riflessione. Intervista a Gaetano Oliva di Diego Garzino Il professor Gaetano Oliva ha al suo attivo una lunga esperienza sia come attore di prosa sia come “animatore teatrale” in vari contesti, come quello della scuola, dell’aggregazione giovanile e del disagio sociale. Oggi in particolare si occupa della formazione degli “Educatori alla teatralità”, figure specializza-te che dovrebbero elaborare e gestire progetti specifici, finalizzati a sviluppare l’integrazione sociale, attraverso lo strumento del Teatro. L’esperienza dell’animazione teatrale è nata proprio a Torino nei quartieri periferici, a partire dalla fine degli anni ’60, e Oliva ce ne parla come testimone significativo, aiutandoci a coglierne gli aspetti sociologici più interessanti. Professor Oliva, com’è nata l’esperienza dell’Animazione Teatrale a Torino? A Torino è successa una cosa molto particolare. Il teatro Stabile di Torino, all’epoca diretto da Nuccio Messina, che oggi insegna al Dams, realiz-zò il “Progetto Decentramento”, che consisteva nel mandare alcuni attori professionisti (tra cui Giuliano Scabia con cui io ho iniziato a fare teatro) nei quartieri periferici, con l’intento di portare cultura attraverso il teatro e di entrare in contatto con la fabbrica, con i collettivi politici attivi all’interno di essa, e con il sindacato. La loro base operativa era il Centro Sociale di quartiere, composto da un bar e da un salone per le attività sociali del quartiere. Questa struttura era stata costruita dall’Ente Case Popolari (l’allora IACP) e doveva servire come luogo di aggrega-zione in quei quartieri periferici, allora popolati di immigrati che erano arrivati dal Sud Italia negli anni ’70 per lavorare alla FIAT. Queste persone avevano quindi uno stipendio fisso, ma non avevano case. Era l’epoca in cui i piemontesi affiggevano cartelli con su scritto “Non si affitta ai meridionali”, ed erano sorte intorno alla città delle specie di baraccopoli. Io sono arrivato a Torino con la mia famiglia nel 1966 e abitavo in un’altra realtà periferica che era

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Via delle Maddalene nella Barriera di Milano. In realtà mio padre non era venuto a Torino per lavorare in Fiat, ma lavorava come muratore per una ditta che aveva preso in appalto la costruzio-ne del Politecnico di Torino. In seguito ci si siamo trasferiti a Mirafiori sud in strada del Drosso. Quando è iniziato questo progetto di decentra-mento culturale, io avevo 13-14 anni e sono stato immediatamente coinvolto. Gli attori venivano in quartiere e promuovevano l’attività teatrale, ma l’adunanza era un adunanza spontanea. Ci si ritrovava al Centro Sociale e si creava un collettivo, dei gruppi di base. È difficile per me oggi immaginare una forma di aggregazione totalmente spontanea. Come vi organizzavate voi ragazzi? La scuola aveva un ruolo in tutta questa vicenda? Si andava a vedere cosa succedeva al Centro, ci si incontrava, si discuteva e si cominciava a lavo-rare così, senza un progetto preciso, che poi è l’aspetto più interessante che differenzia l’anima-zione d’allora rispetto a quella di oggi. Animazione significa letteralmente “anima-in-azione” e basta. Non esiste un progetto. Ed era legata al teatro perché i primi che se ne erano occupati erano dei teatranti professionisti. Io ho cominciando da lì e poi sono andato al Teatro Nuovo di Torino dove ho frequentato il corso con Tino Buazzelli, e mi sono specializzato diventando attore. Nello stesso periodo Don Luigi Ciotti (un amico di famiglia: mio padre e suo padre lavoravano insie-me come muratori nella stessa ditta) mi ha pro-posto di cominciare a fare teatro nelle carceri e con i tossicodipendenti e così io avevo la possibi-lità di muovermi tra due ambienti molto diversi: quello ricercato del Teatro Nuovo e quello, decisamente più crudo, del lavoro in strada. Ma non ero l’unico a lavorare così, c’era tutto un gruppo che stava nascendo intorno al Cinema Giovani di Torino, che più tardi arrivò a gestire il primo Hiroschima mon Amour. Di questo gruppo facevano parte anche Mimmo Calopresti (oggi Regista cinematografico) e l’at-tuale responsabile della film Committion Steve della Casa. Erano nati tutta una serie di gruppi, centri e cooperative e si cercava, insieme con il Comune di Torino, di gestire tutto questo all’interno delle circoscrizioni, ma non c’erano fondi sufficienti. Quindi, questa attività di animatori la svol-gevate gratuitamente? Gratis, sì. Talvolta si veniva pagati per qualche intervento nelle scuole ma era l’eccezione.

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E, raramente, si riusciva ad ottenere dei fondi per le attrezzature scenografiche. Gli attori professio-nisti, come Scabia, erano invece pagati con alcuni fondi del Teatro Stabile. Terminata la fase del decentramento, all’inizio degli anni ’80, è iniziata una nuova fase, che si può definire del “rientro nei teatri”. I gruppi che si erano formati con il decentramento si sono cioè ritirati dal territorio e hanno preso in gestione dei teatri veri e propri, andando quindi a occupare delle posizioni più “istituzionali”. Nel frattempo anche la situazione sociale era diventata più complessa, con la diffusione del fenomeno della banda armata e del brigatismo rosso, insieme ad un incrementarsi della tossico-dipendenza e della delinquenza comune. Si può dire quindi che nella prima fase dell’animazione teatrale ci fosse una base ideologica molto forte… Assolutamente sì! Io dico sempre ai miei studenti che l’animazione teatrale è nata fondamentalmen-te come movimento politico, con una precisa connotazione ideologica. L’idea comune era quella di creare una rete, un tessuto sociale integrato. E quindi anche con l’obiettivo di integrare i ragazzini a rischio di devianza… Era sicuramente un progetto che aveva una ma-trice educativa però mancava un progetto preciso. Si partiva dall’idea della questione culturale del teatro come mezzo per prendere coscienza del proprio territorio. Che poi diventi anche educativo è una conseguenza, ma l’idea iniziale era quella di collegare il mondo della scuola con il territorio e con le realtà produttive. Questo perché in seguito, la scuola è diventata un canale di comunicazione importantissimo, perché si colloca a metà tra la famiglia e il territorio. Gli insegnanti partecipavano ai laboratori e lavorava-no con gli animatori ma non avevano la formazio-ne teatrale necessaria. I teatranti, e questa è una cosa che non ho mai condiviso, arrivavano da fuori. Così facendo, anche se si lavorava insieme, poi in realtà ognuno restava chiuso nel proprio mondo, perché mancava un progetto formativo-educativo condiviso. È questo, secondo me, che non ha funzionato, dal punto di vista pedagogico, e forse è per questa ragione che quando i teatranti sono rientrati nei teatri quest’esperienza di condivisione è venuta meno. È molto interessante, dal punto di vista sociologico, il fatto che l’animazione nasca nei quartieri periferici con gli adolescenti… In realtà i partecipanti alle esperienze di anima-

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zione teatrale non erano solo i ragazzi. C’erano anche gli adulti, gli operai e si portavano dietro i figli. Soprattutto all’inizio si trattava di un feno-meno politico-sociale, che poi si è trasformato in una “ricerca-azione” educativa e sociale. Viste le premesse ideologiche, viene da supporre che il lavoro che si svolgeva in quel periodo nei laboratori fosse diverso da quello che si fa oggi… Certo. Quando abbiamo cominciato a ragionare su quest’esperienza, dieci anni fa, abbiamo deciso di abbandonare il termine di “animazione” e di intro-durre quello di “educazione”, cioè una “progettua-lità in azione”. Quindi il mio intervento dentro un laboratorio teatrale oggi, parte prima di tutto dall’esigenza di mettere al centro la persona. Il recupero della persona si basa quindi su di un progetto formativo, sulla consapevolezza del sé e sulla relazione con gli altri. Prima tutto questo non c’era. C’erano solo la lotta politica e l’obiettivo dell’integrazione di carattere territoriale e politico nella realtà sociale. Si voleva portare la gente ad una partecipazione attiva sul territorio. Anche le tematiche affrontate nei laboratori seguivano questo obiettivo… Certo. Si parlava dell’ambiente, della questione della fabbrica, del problema economico, del terrorismo, e di molte altre cose. Avevamo indubbiamente questo indirizzo ideologi-co. Questa caratteristica però ha costituito anche il grande problema dell’animazione teatrale. Alla base della nascita dell’animazione c’era stato un tentativo di recupero dell’esperienza del teatro popolare, teorizzata da autori quali Gian Renzo Morteo (Docente di Storia del Teatro presso l’Uni-versità di Torino). Questa connotazione popolare si è però ben presto esaurita ed è rimasta solo quella politica. Se si immagina il teatro classico come una “scato-la” che contiene vari elementi come l’attore, la regia, la drammaturgia e i vari componenti dello spettacolo, possiamo dire che l’animazione teatra-le volesse prendere questa scatola e cambiarla, per modificarla, ribaltandola completamente. Alla fine invece l’animazione è diventata anch’essa un elemento all’interna della scatola, un pezzo di storia del teatro che va approssimativamente dal 1960 al 1980, quando poi è rientrata nei teatri. Nel corso per Educatori alla Teatralità noi insegniamo la teoria dell’attore-persona e poi associamo a questa teatralità un’idea progettuale. Noi vogliamo insegnare il teatro agli educatori, agli insegnanti, agli assistenti sociali, perché ciò che abbiamo imparato dall’esperienza dell’anima-

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zione è che quel rapporto pedagogico fortissimo, quella situazione culturale che si crea nel ruolo di educatore, è insostituibile. Bisogna quindi abbandonare l’idea che a gestire i laboratori teatrali debbano essere solo gli esperti esterni, perché con loro questo rapporto pedago-gico non si può creare. Anche chi fa teatro senza essere un professionista deve però essere formato e conoscere bene lo strumento che utilizza. A suo parere, quali sono stati i cambiamenti all’interno del contesto sociale che hanno determinato la conclusione dell’esperienza dell’animazione teatrale? In una città operaia come Torino la fabbrica chiude, la gente è in cassa integrazione e la spinta culturale che era venuta dai teatri, per riversarsi nelle strade, ritorna nei teatri. L’intellighenzia culturale, cioè gli attori professio-nisti, che avevano dato la spinta iniziale al movimento, è rientrata nelle istituzioni, andando a ricoprire posizioni di potere. Vengono a mancare quindi i promotori della base e il movimento si affievolisce. Contemporaneamente con il rientro nei teatri, all’inizio degli anni ’80, nasce un nuovo genere teatrale, il teatro per ragazzi… Il teatro per ragazzi nasce in quel momento perché i ragazzi sono un buon pubblico e questa attività garantisce introiti ai nuovi teatri. A volte però non si è tenuto conto delle caratteri-stiche specifiche dell’età evolutiva, e si sono costruiti spettacoli cosiddetti “per ragazzi” para-frasando semplicemente gli spettacoli per gli adulti. A suo parere l’animazione teatrale può avere ancora una funzione nel contesto sociale attuale? Certo che può avere una funzione. Immaginiamo il problema dell’integrazione degli immigrati. Oggi, come allora, il teatro potrebbe costituire nuovamente un collante educativo, uno strumento di recupero delle culture. È fondamentale, però, per chi voglia intraprendere questa esperienza, conoscere bene il linguaggio teatrale, la disciplina di base. Non si può fare l’arte a metà. È necessario conoscere i quattro elementi della comunicazione teatrale: la comunicazione verbale e non verbale, lo spazio e la scrittura teatrale. E poi si deve affrontare un lavoro di base: ad esem-pio il primo anno del nostro corso si lavora sulla consapevolezza del sé. È quello che Stanislavskij chiama “il lavoro dell’attore su sé stesso”.

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Tu sai perché Stanislavskij ha scritto questo libro? Era andato a vedere l’Otello di Tommaso Salvini (famoso attore della seconda metà dell’800) a Mosca. Erano le quattro del pomeriggio e Salvini, fino all’inizio dello spettacolo (in genere intorno alle 20.30), fece per tutto il tempo la spola tra il palco, dove aiutava i tecnici nel montaggio delle scenografie, ed il suo camerino. Lo spettacolo fu un grande successo. Incuriosito da questo strano comportamento, Stanislavskij andò ad intervista-re un collega di Salvini, l’attore Ernesto Rossi, e gli chiese quale metodo avessero seguito per prepararsi per lo spettacolo. Lui rispose “prima di tutto si cerchi un maestro, ma se non lo dovesse trovare si ricordi che il miglior maestro è lei”. Stanislavskij capì che Salvini, comportandosi in quel modo, stava sì preparando il suo personag-gio, ma che si trattava di una preparazione interna, non esterna ma emotiva. Uscendo ed en-trando dalla scena pian piano, Salvini preparava il ritmo interiore del suo personaggio. La consapevolezza del sé è importantissima. Se tu non sei padrone di te stesso, del tuo linguag-gio, della tua dimensione, non puoi fare teatro in modo efficace. Questa maggiore auto-consapevolezza aiuta an-che a decidere consapevolmente sulle scelte della vita quotidiana. È per questo che l’esperienza dell’animazione teatrale è stata così importante per noi ragazzini di allora. In un contesto sociale come quello, farsi coinvol-gere in esperienze pericolose era facilissimo, per una questione di sfida con la società e col mondo. Quello che ti salvava dalle esperienze negative allora, era proprio questo senso di consapevolez-za che tu acquisivi su di te, corpo, anima e intelletto. Coupeau, attore, regista, critico e drammaturgo francese, vissuto a cavallo tra ’800 e ’900 scrive: “Si può fare teatro ovunque purché si trovi la condizione fondamentale per il teatro: deve esserci cioè qualcuno che ha individuato qualcosa da dire e deve esserci qualcuno che ha bisogno di starlo a sentire. Quello che si cerca dunque è la relazione, occorre che ci siano dei vuoti. Non nasce teatro là dove la vita è piena. Il teatro nasce dove ci sono delle ferite, dei vuoti, delle differenze, ossia nella società frantumata e dispersa, in cui la gente è ormai priva di ideolo-gie, dove non vi sono più valori (e pensa a cosa erano allora e sono oggi alcuni quartieri di Torino, al vuoto che li pervade). In questa società il teatro ha la funzione di creare l’ambiente in cui gli individui riconoscano di avere dei bisogni, a cui gli spettacoli possono dare delle risposte. Quindi ogni teatro è pedagogia”. Questo brano mi sembra importante, e mi pare che abbia anche molti

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spunti di carattere sociologico. All’opposto, ma forse sono in apparenza, possia-mo collocare Vachtangov, attore, regista e pedagogo russo, contemporaneo di Coupeau. Vachtangov scrive: “Chi intende frequentare lo studio (il metodo Stanislavskij) deve farlo con convinzione, persuaso di avere la forza e il corag-gio di difendere la propria scelta fino in fondo. Gli allievi devono cominciare a rispettare la massima coniata dal loro maestro: un buon attore deve cominciare con l’essere un uomo buono. Il centro è concepito prima di tutto dal fondatore come luogo di formazione etica prima che teatra-le. Una scuola in cui educare l’uomo e non solo l’attore. Il legame che unisce i membri del gruppo non è tanto di tipo artistico quanto umano. Retti-tudine, coerenza e solidarietà sono virtù tassati-vamente richieste. Il vero allenamento consiste nell’educare l’attore a sviluppare la socialità del gruppo a partire dalle risorse interiori di ciascun ragazzo prima ancora che dai singoli esercizi”. Pensiamo poi al valore inestimabile che compa-gnie teatrali di base rivestono per il loro territorio, per il modo con cui mettono in relazione la comu-nità. Il senso profondo dell’animazione allora, era quello di realizzare una socializzazione dei mezzi di produzione, e quindi anche la socializzazione della cultura. Partita dal territorio, questa significativa esperien-za sociale, è poi sfociata nella scuola ed ha creato una cosa molto buona perché l’ha arricchita di nuovi strumenti. Ciò che è mancato però è stata una formazione degli insegnanti. Molti di loro improvvisano nel fare teatro con le loro classi. Il problema oggi resta quello di intervenire sulle figure professionali, sugli educatori: dobbiamo dare loro una formazione, per creare una coscienza legata al luogo e alle persone che vi lavorano, così da creare un luogo pedagogico. È evidente nella realtà sociale attuale come le persone che si trovano ad affrontare delle situazioni di vita problematiche siano molto più sole di una volta, prive cioè di una rete sociale in grado di sostenerle. Mi pare di capire che allora la situazione fosse diversa. Allora esisteva indubbiamente una rete di comunità nei quartieri. La cultura, e con essa l’animazione teatrale, hanno certamente contri-buito a creare questo tessuto. Nell’animazione c’era questa socialità, perché alla base c’era quel teatro popolare di cui parlava Coupeau, quello basato sulla ricerca dei bisogni. Ritengo che oggi esista un nuovo bisogno di integrazione. Pensiamo ad esempio ad una tematica di grande attualità come il bullismo.

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Questa tematica si presterebbe ad un laboratorio teatrale... Anche questo problema ricade sulla persona, sulla sua mancanza di consapevolezza. Oggi la tendenza è quella di lavorare su tematiche specifiche: bullismo, tossicodipendenza, e altre, ma ciò, a mio parere non è sufficiente. Se non si agisce prima sulla consapevolezza della persona e poi di conseguenza sul tessuto sociale il problema non si risolve. In una situazione ideale l’intervento teatrale do-vrebbe iniziare possibilmente alla scuola materna e finire con la scuola superiore. E poi non ci si dovrebbe fermare solo alla scuola. Con la rassegna teatrale per gruppi di base “La Rana Crespa”, all’inizio degli anni ’80, avevamo messo intorno allo stesso tavolo le comunità parrocchiali, i circoli Arci, il Comune, le scuole, le fabbriche: così si creava una continuità tra la scuola e la realtà del territorio. Il bambino che usciva dalla scuola allora poteva trovare una realtà sociale che continuava l’intervento educati-vo. Così si ricrea il tessuto sociale. Oggi molti ragazzi vivono in famiglie disgregate, o ricostruite. Questi ragazzi hanno un esempio continuo di individualismo, e per difendersi dalla loro disgregazione interna attaccano insegnanti, educatori ed istituzioni. Noi stiamo portando avanti un progetto che pre-vede una serie di laboratori teatrali con i bambini della scuola dell’infanzia, gli insegnanti e i genito-ri. Ma per fare un lavoro simile di formazione con gli adulti ci vuole una formazione teatrale seria e professionale. Si parla quindi di un processo educativo-teatrale, dove il teatro ha una funzione educativa, non solo di animazione. I primi animatori erano dei veri attori che cono-scevano il teatro. Quindi anche oggi è indispensa-bile che gli educatori che decidono di usare lo strumento del teatro siano adeguatamente forma-ti. A questo scopo esistono numerosi corsi di perfezionamento e anche Master universitari sull’educazione alla teatralità. Io credo che nella realtà attuale il teatro possa avere un ruolo fondamentale nel recupero della persona.

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.: Professione Sociologo In questo numero della Newsletter riportiamo parte del dibattito che, ultimamente, si sta svi-luppando attorno al tema della comunicazione scientifica, e più in particolare all’editoria e all’accesso libero alla documentazione scientifica prodotta anche in ambito accademico. Di seguito, riportiamo un contributo tratto dal sito www.lavoce.info, in grado di darci alcune coordinate sulla questione, e poi, introdotti da Giuseppe Tipaldo, due articoli che riportano e commentano i contenuti del convegno tenuto a Torino lo scorso 6 dicembre, presso l’Aula Magna del Rettorato, dal titolo Open Access all’Università di Torino – Esperienze e modelli di comunicazione scientifica.

Editoria scientifica, un pozzo di (extra) profitti Tratto da www.lavoce.info del 28-08-2007 di Massimiliano Tani, Alberto Franco Pozzolo, Luca Salvatici. Lo sviluppo delle tecnologie informatiche ha modi-ficato radicalmente il mercato dell’editoria scienti-fica, rendendo disponibile in formato elettronico quasi il 90 per cento delle pubblicazioni periodi-che e imponendo una sostanziale riorganizzazione delle biblioteche universitarie e dei principali istituti di ricerca. Processo di concentrazione del settore La digitalizzazione dell’editoria scientifica è stata però accompagnata da una fortissima crescita dei prezzi. Secondo un recente rapporto della Commissione europea (Study on the economic and technical evolution of the scientific publication markets in Europe), il prezzo medio delle pubblicazioni degli editori scientifici commerciali è cresciuto tra il 1975 e il 1995 a un tasso superiore di oltre 300 punti percentuali rispetto al tasso di inflazione; tra il 2001 e il 2005 la crescita è stata superiore all’inflazione del 26 per cento negli Stati Uniti e del 29 per cento in Europa. Ciò mentre l’innovazione tecnologica permetteva agli editori di scaricare una parte crescente dei propri costi sugli stessi autori, ai quali viene comune-mente richiesto di inviare lavori già impaginati e correggere le bozze di stampa. L’innovazione tecnologica e la sempre più intensa globalizzazione delle conoscenze hanno determi-nato un forte processo di concentrazione nel settore dell’editoria scientifica, dove operano oggi poche multinazionali di grandissime dimensioni (1). Sempre secondo il rapporto della Commis-sione la quota del numero totale di citazioni la

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principale misura quantitativa della rilevanza di una pubblicazione scientifica, detenuta dai primi tre editori è superiore al 50 per cento in ben sette aree scientifiche su ventidue. Il settore è poi caratterizzato da barriere all’entrata difficilmente eliminabili, per l’impor-tanza che la reputazione di una rivista può avere sulla carriera di chi vi pubblica, e gli editori commerciali sfruttano le nuove tecnologie per rafforzare il loro già elevato potere di mercato, imponendo contratti pluriennali che prevedono l’acquisto dell’intero catalogo (il cosiddetto big deal, in sostanza un gigantesco bundling), impedendo alle biblioteche di acquistare soltanto i titoli di effettivo interesse e fissando tassi di crescita dei prezzi normalmente vicini al 5 per cento all’anno, tre punti in più rispetto al tasso di inflazione. Le biblioteche sono così costrette a ridurre i fondi a disposizione per gli abbonamenti a riviste di editori più piccoli e per le monografie. (2) I risultati economici delle principali case editrici sono ovviamente floridi. L’evidenza disponibile mostra però che non c’è alcuna correlazione tra la qualità di una rivista e il costo dell’abbonamento. Le pubblicazioni degli editori senza fini di lucro, spesso le principali associazioni scientifiche statunitensi e britanniche, hanno mediamente un numero di citazioni più elevato di quelle degli editori commerciali e prezzi significativamente più bassi. (3) La risposta è nel coordinamento Diverse soluzioni sono state proposte per ridurre il potere di mercato degli editori scientifici commerciali: il sovvenzionamento del mercato dell’editoria scientifica senza fini di lucro; il san-zionamento di pratiche anticoncorrenziali come il bundling; la creazione di riviste scientifiche ad ac-cesso gratuito (open access) gestite direttamente dalle università e dagli istituti di ricerca; la creazione di archivi informatici pubblici e ad accesso gratuito (open archives) dove depositare la produzione scientifica di ciascuna istituzione; un maggiore coordinamento tra gli acquirenti, università e istituti di ricerca, in modo da controbilanciare la concentrazione dal lato dell’offerta. (4) Il movimento internazionale a sostegno delle pubblicazioni ad accesso aperto è assai attivo (per esempio, in Italia, il progetto Pleiadi) e i suoi principi, enunciati nella Dichiarazione di Berlino, sono stati sottoscritti dalla maggioranza degli atenei italiani con la firma della Dichiarazione di Messina. (5) Ma nel breve periodo si possono ottenere risultati concreti soprattutto attraverso un maggiore coordinamento tra gli acquirenti.

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Le biblioteche accademiche italiane si sono riunite già da alcuni anni in gruppi di acquisto, per condurre le trattative con gli editori su una base maggiormente equilibrata. Da un anno, una convenzione tra la Crui e i tre principali consorzi (Ciber, Cilea e Cipe) ha portato alla costituzione di Care, un gruppo di coordinamento per le politiche di accesso alle riviste elettroniche e la stipula dei contratti di acquisto per conto delle università, che ha già avviato una trattativa per il rinnovo unico a livello nazionale dei contratti con l'editore Elsevier, il cui valore per le istituzioni accademiche era stimabile in circa 27 milioni di euro all’anno. Come sempre quando numerosi agenti devono delegare i loro interessi a un unico rappresentan-te, il problema principale è quello del coordina-mento. Care ha bisogno che tutte le istituzioni interessate all’esito della trattativa siano consape-voli del valore della posta in palio e siano disposte a rinunciare a eventuali benefici individuali in nome dell’interesse collettivo. Gli editori, primo tra tutti Elsevier, cercano infatti di spezzare il potenziale fronte comune con offerte ad hoc rivolte alle singole istituzioni. Per garantire un maggiore coordinamento, sarebbe assai utile un impegno esplicito da parte del ministero dell’Università. L’abbandono del formato cartaceo comporta un aumento del 20 per cento del costo degli abbonamenti, perché le risorse elettroniche non godono dell’esenzione dal pagamento dell’aliquota Iva. Per i conti pubblici non si ha ovviamente alcun beneficio, perché alle maggiori entrate fiscali corrispondono maggiori spese per l’università. L’effetto è però distorsivo, perché riduce gli incentivi ad adottare una tecnologia più moderna, efficiente e che riduce i costi di catalogazione e archiviazione. Se il ministero decidesse di devolvere la quota del maggiore onere Iva a un fondo nazionale per la contrattazione collettiva degli acquisti di risorse elettroniche, oltre a dare un significativo segnale di sostegno all’iniziativa, creerebbe un forte incentivo per tutti i partecipanti a superare gli eventuali problemi di coordinamento.

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NOTE (1) Elsevier ha acquisito nel 2001 Harcourt e con essa il marchio Academic Press; attualmente pubblica oltre duemila riviste scientifiche. Wiley, una delle principali case editrici scientifiche statu-nitensi, che nel 2006 pubblicava oltre duemila-quattrocento riviste scientifiche e professionali, nel novembre dello scorso anno ha acquistato per oltre 850 milioni di euro l’editore Blackwell, che nel 2005 pubblicava oltre ottocento riviste. Springer Scientific+Business Media, proprietaria di alcuni marchi storici dell’editoria scientifica come Kluwer (675 riviste, tra cui l’intero catalogo dell’italiana Ipsoa), Springer (oltre settecento riviste) e Lippincott (specializzata nel settore medico, con oltre duecento titoli), è nata dalla fusione dell’olandese Wolters Kluwer e della tedesca BertelsmannSpringer, decisa da Candover e Cinden, i due fondi britannici di private equity proprietari delle società. Taylor and Francis, parte del gruppo Informa, e proprietaria del marchio Routledge, pubblica oltre duemila riviste scientifiche. (2) I medesimi grandi editori commerciali stanno inoltre ampliando l’offerta di pacchetti di mono-grafie in formato elettronico, estendendo il bundling anche a questo settore. (3) Vedi Bergstrom T.C., 2001, "Free Labor for Costly Journals?", Journal of Economic Perspectives, 15, pp. 183-198. E il già citato rapporto della Commissione europea. (4) Tra le recenti iniziative volte a sensibilizzare le Autorità antitrust sul problema dell’editoria scientifica, si segnalano la petizione alla Commis-sione europea per un libero accesso ai risultati della ricerca scientifica finanziata con fondi pubblici (http://www.ec-petition.eu/) e la lettera inviata in occasione dell’acquisto di Blackwell da parte di Wiley dai rappresentanti di numerose associazioni di biblioteche scientifiche europee al direttore generale per la concorrenza della Commissione europea (www2.kb.dk/liber/news/PhlipLowe.pdf). (5) La quinta conferenza fra i firmatari della Dichiarazione di Berlino, "Berlin 5 Open Access: From Practice to Impact: Consequences on Knowledge Dissemination", si svolgerà quest’anno presso l’università di Padova, dal 19 al 21 settembre.

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Apriamo le porte alla ricerca scientifica. Open Access. Ovvero: free, immediate, perma-nent, full-text, online access, for any user, web-wide, to digital scientific and scholarly material (http://en.wikipedia.org/wiki/Open_access ). di Giuseppe Tipaldo Giovedì 6 dicembre 2007 ha avuto luogo nell’Aula Magna del Rettorato dell’Università degli Studi di Torino, in via Verdi 8, il convegno Open Access all’Università di Torino - Esperienze e modelli di comunicazione scientifica, organizzato dal Sistema Bibliotecario d’Ateneo. Proprio quella sera, a fine convegno, ho avuto il piacere di ospitare all’inter-no de Il Comunicattore, la rubrica settimanale che curo per la radio della nostra Università (http://www.110.unito.it/?pubblica=programmi&id_prog=90 ), Franco Bulgaro, responsabile dello staff Sviluppo Collezioni del Sistema Bibliotecario del nostro Ateneo, nonché ideatore dell’iniziativa. Chiacchierando con lui ho scoperto, tra le altre cose, che dal 1975 al 1995 il prezzo dei periodici è aumentato del 300% oltre il livello di inflazione, con riviste – in particolare nel settore della chimica – che raggiungono ormai i 16 mila euro per un abbonamento annuale. “Perché i periodici costano tanto?” – mi è venuto spontaneo chiedergli, con un misto di ingenuo stupore e spontanea indignazione. La risposta, molto più ricca e articolata di quanto non possa rendervi in questa sede (rimando, a tale propo-sito, al blog dello staff Sviluppo collezioni, all’indi-rizzo http://unitosvicol.wordpress.com/) può es-sere così riassunta: il mercato è inelastico. Detto altrimenti, l’offerta dei periodici e delle riviste specializzate non si deve confrontare con nulla, se non con la capacità di acquisto, che è disposta a tutto. Il mercato diventa sempre più inelastico man mano che cresce il prestigio di una rivista. L’esistenza di “core journals”, cioè di quei giornali che per fama, qualità e prestigio sono di fatto diventati indispensabili, rende necessario che le biblioteche se ne assicurino la presenza costi quel che costi. Un grave problema, mi facevo quindi notare Franco, è che chi sente la crisi non sono gli attori che pubblicano: la biblioteca, l’istituzione paga i costi, ma chi fa ricerca non ne percepisce l’au-mento. Questo problema ricade sulle biblioteche che devono pagare. I bibliotecari stessi tendono a non pubblicare open access! Pubblichiamo di seguito due articoli sul tema dell’open access, centrati, più nello specifico, proprio sul convegno del 6 dicembre.

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Nel primo, Giovanna Balbi dello staff Sviluppo Collezioni del Sistema Bibliotecario d’Ateneo (SBA), ricostruisce le principali linee che innerva-no il dibattito sulla questione della pubblicazione in forma gratuita della ricerca scientifica, tratteg-giando un quadro ricco di dettagli ma nel contem-po facilmente “accessibile” (mi si perdoni la battuta) anche ai non addetti ai lavori. Con uno stile asciutto e coinvolgente, e qui passiamo al secondo pezzo, Bianca Gai (pure lei nello staff Sviluppo Collezioni) ci mostra premes-se, finalità, scelte tecniche e promozionali che hanno dato corpo all’incontro del 6 dicembre. Riprendendo parte dei temi toccati nel primo articolo, questo ci porta direttamente nel “dietro le quinte” dell’organizzazione del convengo, offrendo al lettore un interessante spaccato del percorso battuto da chi l’ha ideato e ne ha quindi curato la realizzazione. Non mi resta che augurarvi buona lettura, ringra-ziando gli autori per aver accolto il mio invito a scrivere di questo nuovo progetto d’ateneo, che certamente continueremo a seguire con vivo interesse.

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Open Access all’Università di Torino. Esperienze e modelli di comunicazione scientifica di Giovanna Balbi Università degli Studi di Torino, Divisione Attività Istituzionali, Sistema Bibliotecario d'Ateneo, Sviluppo Collezioni, Catalogazione e Metadati Il 6 dicembre si è tenuta all’Università di Torino una giornata di studio sul tema dell’Open Access. È stata organizzata da uno degli staff del Sistema Bibliotecario d’Ateneo (SBA), che si dedica allo sviluppo delle collezioni bibliografiche. In questa attività, che ci porta quotidianamente a confron-tarci con il grave problema dell’aumento costante dei prezzi dei periodici, la questione dell’Open Access è di fondamentale importanza. Come nel campo del software si parla sempre più frequente-mente di opensource, di riusabilità, così nel cam-po dei contenuti diventa cruciale la possibilità di usare le potenzialità della rete per condividere testi e dati. Tuttavia la questione non è semplice come potrebbe apparire. Infatti, se da un lato sempre di più le tecnologie consentono l’intera-zione tra utenti e rete, nella questione dell’Open Access entrano in gioco molteplici sfaccettature dell’argomento: - sul piano etico (i risultati della ricerca disponibili

in rete possono generare sviluppo e aprire strade anche nelle zone del mondo più svantag-giate economicamente);

- sul piano economico (basti pensare alle implica-zioni per la ricerca brevettata);

- sul pianto giuridico (la questione della proprietà intellettuale);

- sul piano tecnologico (ai materiali in rete deve essere garantita la reperibilità, la preservazione dell’integrità, la conservazione nel tempo);

- sul piano dei servizi (creare punti di accesso certi e di qualità per l’accesso ai dati).

La bibliografia sull’argomento è vastissima, e il nostro staff si è limitato a rendere disponibile sul sito del convegno una selezione di titoli aggiornati all’ultimo anno (2007). La CRUI (Conferenza dei Rettori delle università Italiane) ha aderito formalmente ai principi ell’OA sanciti nella Berlin Declaration, http://oa.mpg.de/ openaccess-berlin/berlindeclaration.html, e l’Ate-neo di Torino ha sottoscritto i principi dell’Open Access con il Convegno di Messina del 2004 (“Dichiarazione di Messina”: http://www.aepic.it/ conf/index.php?cf=1). A metà settembre si è tenuto a Padova il Conve-gno Berlin 5 Open Access. From Practice to Impa-ct: Consequences of Knowledge Dissemination http://oa.mpg.de/openaccess-padua/index.html,

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al quale hanno partecipato alcuni membri del nostro staff. Per condividere i contenuti del congresso, ma soprattutto per creare un’occasio-ne di confronto su questo tema all’interno del no-stro Ateneo, abbiamo organizzato questa giorna-ta. L'evento, il primo interamente dedicato all'Open Access organizzato dal Sistema Bibliotecario d'Ateneo, ha voluto porsi come obiettivi: - creare un'occasione di confronto tra chi lavora

nei diversi campi della Ricerca, tutti toccati dal-la crisi dei prezzi dei periodici e tutti potenzial-mente o di fatto coinvolti nelle temati-che dell’Open Access;

- proporre e/o mettere in discussione le nuove forme di comunicazione scientifica.

I protagonisti della giornata sono stati quindi innanzitutto i ricercatori, appartenenti a varie aree disciplinari: da quelle più tradizionalmente familiari col tema (i fisici in primis, ma anche i biologi, i medici), a quelli per i quali il tema è ancora per certi versi un argomento di punta, come gli economisti, a quelli che svolgono ricerca in modo tradizionale e che quindi, se ragionano in termini di accesso aperto, sono da considerarsi come dei veri pionieri (gli umanisti e i giuristi). Un argomento che ha attraversato tutta la giorna-ta è stata quella dell’accesso aperto dei dati, che, più ancora di quello dei risultati, è cruciale per lo sviluppo della ricerca scientifica. Altri temi approfonditi sono stati quello della peer review, che continua ad essere il filtro che, anche se con modalità da più parti discusse, garantisce la qualità della ricerca. Il SBA (Sistema Bibliotecario d’Ateneo – ndr) in questo contesto, ha il compito di trovare soluzioni efficaci tenendo conto di questioni teoriche: 1. Al momento il SBA ha attivato due sottoscrizio-ni con i principali editori Open Access (di area biomedica, matematica e fisica): BMC e PLoS (le informazioni al sito www.library.unito.it); si tratta tuttavia solo una delle possibili risposte al proble-ma: il modello economico che tali editori propon-gono (“author pays”) è infatti molto criticato. 2. Un altro aspetto della questione riguarda la co-struzione di Archivi Aperti, e il nostro SBA da alcuni anni ha avviato il progetto AperTO (www. library.unito.it) per la pubblicazione di materiali scientifici e didattici. Il progetto riguarda anche, tra l’altro, il deposito delle tesi di dottora-to, secondo le linee guida della CRUI. I materiali su http://e20.unito.it/openaccess/. Inoltre sul blog http://unitosvicol.wordpress.com/ sono riportati alcuni appunti sugli interventi, co-me primo passo (molto) informale di circolazione di comunicazioni intorno a OA.

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Open Access all’Università di Torino. Retroscena di organizzazione di un convegno di Bianca Gai Università degli Studi di Torino, Divisione Attività Istituzionali, Sistema Bibliotecario d'Ateneo, Sviluppo Collezioni, Catalogazione e Metadati L’idea di aprire uno spazio di discussione e con-fronto sul tema dell’Open Access è nata all’interno dello staff Sviluppo Collezioni del Sistema Bibliote-cario dell’Università di Torino sia in risposta a sollecitazioni esterne, sia per il nostro forte desi-derio di concretizzare in qualche modo l’impegno di promozione di questa nuova forma di pubblica-zione scientifica. Dal 19 al 21 settembre alcuni di noi avevano partecipato a Berlin 5, un grande convegno internazionale sullo stesso tema tenuto-si a Padova. L’organizzazione ci era sembrata perfetta. Ma a partire da quella esperienza risulta-va chiaro che cosa il nostro convegno, allora veramente non più che un abbozzo di idea, non avrebbe dovuto essere. Non avrebbe dovuto rivolgersi a un pubblico di soli bibliotecari e non sarebbe stato internazionale. Da qui, dalla percezione della limitatezza del tempo e delle risorse a nostra disposizione, hanno preso forma le due direttrici che ci hanno guidato durante tutta l’attività organizzativa. Da una parte la volontà di dare la parola agli esponenti della ricerca, i principali coinvolti in tema di accesso aperto e i soli in grado di conferire autorevolezza e credibili-tà alle proposte di cambiamento. Dall’altra la necessità di rivolgerci innanzitutto a un pubblico interno all’Università di Torino, per sondare il livello di consapevolezza e proporre soluzioni concrete. La prima è stata una fase di ricognizione delle esperienze di pubblicazione Open Access già attive all’Università e di contatto con i potenziali relatori, individuati in diversi settori disciplinari. Molto varie le reazioni alle prime proposte: chi aveva contribuito a progetti Open Access riteneva utile partecipare per illustrarne le caratteristiche; ma chi, pur riconoscendo l’importanza del tema, non disponeva che della propria esperienza di pubblicazione, non pensava che intervenire avreb-be potuto apportare valore aggiunto al convegno. Fin da subito si è cercata quindi una soluzione per evitare di tralasciare l’apporto di ricercatori che avessero avuto a che fare anche accidentalmente con l’Open Access. Per dare spazio a punti di vista di questo tipo si è concretizzata l’opzione della “tavola rotonda”, pensata come un contenitore poco codificato, destinato ad accogliere spunti discordanti ed eventualmente anche critici. La formula “tavola rotonda” avrebbe avuto il vantag-gio di poter ricevere una precisa definizione anche

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all’ultimo momento. L’attività di comunicazione e promozione dell’e-vento si è svolta a vari livelli. Non solo mediante i canali ufficiali interni, ma anche con una dissemi-nazione selettiva dell’informazione verso tutti gli interlocutori di Sviluppo Collezioni nel mondo della ricerca. È stata poi attivata una collabora-zione con l’Ufficio Stampa e con la web radio d’Ateneo (Centodieciwebradio, www.110.unito. it/), che ha dedicato al convegno tre puntate di diverso taglio. All’esterno, fondamentale si è rivelata la diffusione della notizia sulle mailing list biblioteconomiche specializzate (AIB Cur, OA-Italia, OA-CRUI), la realizzazione di locandine e volantini pubblicitari distribuiti nelle biblioteche e di un sito temporaneo dedicato all’evento (http:// e20.unito.it/openaccess/). In preparazione al convegno sono state condotte anche due intervi-ste a esponenti del mondo accademico di diffe-renti aree disciplinari, poi diffuse attraverso due diversi canali, Centodieciwebradio (http://www. 110.unito.it/), e il blog di Sviluppo Collezioni (http://unitosvicol.wordpress.com/). Ci interessa-va, per così dire, monitorare la situazione all’interno dell’Ateneo prima e dopo il convegno, in modo da confrontare le aspettative con i risultati raggiunti. Sottotitolato ambiziosamente “Prima giornata di studio e discussione”, il convegno ha voluto porsi non come sintesi delle attività di sostegno dell’Open Access già portate a termine dal Sistema Bibliotecario d’Ateneo, ma come punto di partenza per progetti futuri. L’intento sarebbe quello di pianificare, a latere del convegno, incontri più frequenti, brevi e flessibili, magari nella formula del “laboratorio”, probabilmente più accessibili per docenti e ricercatori. Alcune delle scelte organizzative sono state condotte proprio per facilitare le prossime scelte. Il censimento dei partecipanti ci ha permesso di analizzare quanti-tativamente e qualitativamente la loro compo-sizione. Dati che saranno molto utili per l’ideazio-ne di una strategia promozionale più efficace per eventuali ulteriori puntate (sicuramente sarà da potenziare in primo luogo la comunicazione dell’evento tra docenti e ricercatori, la cui partecipazione non ha raggiunto i livelli sperati). Anche la tavola rotonda ha suscitato conclusioni e spunti di tipo organizzativo: dalla discussione sono infatti emersi con forza i temi più sentiti dai ricercatori, certamente da porre al centro di qualsiasi nuovo incontro (centrale ad esempio il problema della peer review). Così come il resoconto del convegno pubblicato sul nostro blog (http://unitosvicol.wordpress.com/), che potrebbe forse offrire suggestioni per consigli e suggeri-menti in vista della prossima edizione.

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.: Teseo Come sapete, Teseo riporta sunti delle tesi compilate dagli studenti e dalle studentesse per la laurea triennale o magistrale. In questo numero abbiamo chiesto ad una nostra redattrice, neo-laureata, di riassumere ed illustra-re il suo lavoro. Si tratta di una dissertazione finale del Corso di Laurea Triennale in Sociologia e Ricerca Sociale dal titolo: La dimensione identi-taria delle cose. I significati attribuiti dai giovani ai loro oggetti. di Stefania Querio I tre protagonisti della mia prova finale sono i giovani, le cose e l’identità. Ho analizzato la relazione tra queste tre componenti tentando di cogliere le dinamiche sociali e le attribuzioni di senso che presiedono alla costruzione di un rapporto identitario con le cose da parte dei giovani. Ho cercato di costruire il mio elaborato appoggiandomi a solide basi teoriche per gettare uno sguardo all’attualità e alle nuove forme della cultura. L’ambiguità e la riflessività caratterizzano sia la gioventù sia l’identità: la prima sta al confine tra infanzia ed età adulta, tra ruolo responsabile e ruolo irresponsabile nella società; la seconda è in bilico tra sé ed altri, tra interiorità ed esteriorità. Anche i due di oggetti che ho preso in considerazione per l’analisi – il cellulare e l’abbigliamento – hanno dei caratteri ambigui. Il cellulare è un oggetto tecnologico esterno all’individuo che però, talvolta, sembra diventare una protesi del soggetto stesso; che rafforza la connessione tra luogo e luogo, ma d’altra parte annulla l’importanza dei luoghi. L’abbigliamento è un prodotto esterno al corpo, ma così denso di significato da diventare come una seconda pelle di stoffa, un elemento che riguarda l’esteriorità della persona, ma la cui scelta rivela aspetti intimi, di interiorità. È innanzitutto necessario definire qual è il percor-so di crescita che conduce i giovani a divenire adulti e come questo processo sia intrecciato con la costruzione di un’istanza identitaria. Comunemente, il raggiungimento dell’età adulta è individuato nel superamento di cinque soglie (1): la conclusione del percorso formativo, l’otteni-mento di un’occupazione relativamente fissa, lo spostamento in una residenza autonoma, la costruzione di un legame affettivo stabile e la procreazione. Negli ultimi cinquant’anni ci sono stati consistenti innalzamenti delle età nelle quale si varcano que-

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ste soglie, con la conseguenza di una sorta di allungamento dell’età giovanile. Questo muta-mento è dovuto a una molteplicità di fattori, tra cui spiccano l’aumento della probabilità di vita, la diffusione della scolarità di massa e le trasforma-zioni economiche, ma anche la tendenza dei giovani alla valorizzazione del sé. La gioventù, nella società contemporanea, si presta sempre più ad essere considerata in senso statico, come una condizione, anziché come un processo in divenire: la dilatazione della fase giovanile nel ciclo di vita consente l’anticipazione e la sperimentazione di ruoli e comportamenti adulti, in un clima di temporanea sospensione di responsabilità. Le fasi del corso di vita, nei tempi passati, erano spesso scandite da riti di passaggio collettivi che segnavano il mutamento dall’appartenenza ad uno status a quello successivo e che legavano le svolte biografiche di un individuo a quelle di una generazione, rendendole riconoscibili dal mondo adulto. I riti danno una dimensione collettiva ad uno stato individuale, ma oggi sono meno formalizzati e perdono popolarità. I riti odierni sono costruiti in un ambito sociale minimale (2): si perde la centralità del legame con la collettività e con il mondo adulto, e i riti diventano individuali, di coppia o al limite amicali, come ad esempio compleanni e anniversari. Tutto questo determina la nascita di una moltepli-cità di situazioni intermedie e ambigue tra la condizione adolescenziale e quella adulta che possono mantenersi per diversi anni. La maggior parte dei giovani manifesta una preferenza verso il presente e un atteggiamento pragmatico verso il futuro (3). Molti giovani infatti sottolineano il rischio di scelte troppo rigide che possono imbrigliare gli scenari futuri e la necessità di prendere sempre decisioni il più possibile reversibili. Si manifesta un’accentua-zione dell’interesse per la capacità di controllo del proprio percorso, per la coscienza nella vita quotidiana, per l’apertura a diverse possibilità di scelta e per la progettualità anche nelle pratiche routinarie, cosicché emerge un orientamento riflessivo verso l’esistenza. In un clima di impedi-menti alla realizzazione nell’ambito esterno si assiste ad un ripiegamento verso l’interno della propria identità che poggia sullo sviluppo di relazioni e contatti in campi in cui le proprie decisioni hanno un’influenza maggiore: il tempo libero, le relazioni affettive e amicali, la quotidia-nità. Nessuna appartenenza è totalizzante o irreversibi-

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le: è il percorso intrapreso che assume un significato totale. Il vivere nel presente non significa dunque rinun-ciare alla dimensione futura e alla pianificazione tout court, ma significa ridimensionarla agendo secondo una logica incrementale, obiettivo per obiettivo, nel perseguimento di una coerenza e di un fine ultimo che appare sfumato e suscettibile di continue modificazioni con il progredire dell’es-perienza. Data l’importanza assunta della quotidianità, ana-lizzare il rapporto con gli oggetti permette di addentrarsi nell’ambito più profondo della dinami-ca di attribuzione di senso, spesso inconsapevole. Nella società postindustriale l’identità è sempre più basata sullo stile di vita e sui modelli di consu-mo, cosicché le cose si inseriscono in un comples-so sistema di identificazione fatto di molteplici segni. Il consumo, in analogia con la lingua, è uno strumento flessibile: si adatta alle esigenze della società che deve interpretare. I beni non sono più soltanto mediatori tra diverse realtà, ma diventa-no, in quest’ottica, elementi in grado di interagire e comunicare per e con il soggetto che li utilizza (4). Gli oggetti sono neutri in sé, ma hanno una valenza sociale per cui possono essere usati come ponti o barriere per le relazioni sociali. Molte analisi considerano il consumo come riflesso e processo di legittimazione e riproduzione della struttura sociale, ma la mia analisi vuole essere centrata sulla dimensione identitaria dei giovani e delle attribuzioni simboliche rispetto ai loro ogget-ti di uso quotidiano prescindendo dalla dimensione di classe che intersecano in vario modo. L’importanza degli oggetti è proporzionale alla loro capacità di incorporare significati, di essere simboli di rapporti, per questo le persone sono così dipendenti dalle cose e le cose sono così potenti. Il legame tra beni e sé emerge se consideriamo la sofferenza e il disagio che provoca la privazione improvvisa di un oggetto cui si è affezionati. Un concetto utile per pensare al rapporto tra cose e identità è quello di feticcio. Si parla di feticcio quando l’oggetto si reifica come puro segno, è autonomo rispetto alla relazione sociale, quindi la abolisce, la nega. Il feticcio è l’unico destinatario del processo e può assumere forme ossessive e allontanare l’attenzione da ciò che nasconde, cioè dal rapporto con l’altro (5). La parte non rappresenta il tutto, ma se ne rende indipendente e autonoma. Un esempio di come le cose possano annullare le relazioni sociali è riportato da Leonini (6): “ci si fa un regalo per alleviare la propria depressione o,

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per ragioni opposte, ci si premia perché si è riusciti a superare un ostacolo, una difficoltà. Questo è in un certo senso un fenomeno di sdoppiamento della personalità: si è allo stesso tempo il destinatario e il donatore, e in questo scambio non vi è il rafforzamento di rapporti personali”. Si può contrapporre all’idea di feticcio il concetto di oggetto transizionale di Winnicott (7) che può essere abbandonato e sostituito, al contrario del feticcio, e consente la progettazione di un am-biente amico, di sicurezza affettiva, nel quale si qualifica come riferimento e elemento consolato-re, di difesa dall’angoscia del mondo circostante. Si tratta di oggetti ricchi di significati e carichi di simboli, perché richiamano fasi cruciali del per-corso biografico. Questi oggetti avranno sia una funzione omeosta-tica, per ritrovare un equilibrio turbato, sia una funzione ana-omeostatica, ossia quella di creare una tensione, una spinta al cambiamento. Un rapporto con gli oggetti troppo esclusivo, però, può essere il segnale di un’identità vacillante, che sostituisce il rapporto con le persone con il rap-porto meno problematico con le cose, che non giudicano, ma riflettono semplicemente i signifi-cati in esse proiettati. È il caso dei feticci, che non evocano nulla della propria storia, non sono stati elaborati e anziché svelare, coprono porzioni della propria memoria autobiografica. Considerando la dimensione temporale del rap-porto con gli oggetti si incontrano concetti inte-ressanti. Un’analisi particolarmente originale degli oggetti nel tempo è quella promossa dall’antro-pologo Kopytoff secondo cui la qualità di merce non è statica e immutabile, ma si susseguono momenti in cui una stessa cosa è considerata merce oppure no (8). Con questo sguardo diacro-nico l’antropologo propone di studiare le cose a partire da un approccio biografico: gli oggetti attraversano un ciclo di vita, simile a quello delle persone, segnato da eventi e passaggi e l’acqui-sto è solo una di queste tappe. Un altro concetto utile all’analisi degli oggetti nel tempo ha origini orientali ed è quello di patina, in giapponese nare. Questo termine rimanda alle impronte che i possessori lasciano sugli oggetti manipolandoli, giorno dopo giorno, ma anche al tempo che passa e che su di essi si stratifica. Occuparsi degli oggetti per i quali la patina è significativa, permette di osservare alcune dina-miche del processo di singolarizzazione per cui si estrapolano le cose dal mondo delle merci per conferire loro un significato che le ricolloca nella vita quotidiana, ossia le personifica. Alla biografia delle cose si intreccia quella delle persone: la capacità di riflettere su se stessi e

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ricostruire una propria biografia può essere un aiuto per il giovane per superare un blocco del suo percorso vitale. In particolare Birindelli individua alcuni oggetti che definisce funzionali a ispirare questa narrazione che chiama oggetti–ricordo: sono oggetti che mettono in comunicazione il soggetto con il proprio passato, con il proprio presente, con i propri progetti e desideri. Questi oggetti possono essere ulteriormente specificati come segue. Gli oggetti-passaggio ricordano un’importante svolta biografica e la loro presenza favorisce la rievocazione di un cambiamento avvenuto con successo. Gli oggetti-monito possono essere collegati ad avvenimenti più o meno traumatici. Ad esempio è un oggetto-monito la chiave di una macchina distrutta in un incidente conservata per ricordare gli insegnamenti derivati da quella esperienza. Spesso non sono messi in un punto casuale della stanza: gli oggetti-passaggio si trovano in primo piano, in un punto ben visibile, mentre gli oggetti-monito sono sullo sfondo, in punti difficilmente accessibili. Il ricambio degli oggetti può avvenire gradual-mente o in maniera brusca in prossimità di mo-menti di svolta. Non sono facili delle generalizza-zioni in questo campo, ma, con il supporto degli autori di riferimento, si può ipotizzare che, ad esempio, se la stanza rimane invariata per molto tempo, il passato potrebbe non essere stato rielaborato in modo adeguato e la camera potrebbe trasformarsi in museo per l’incapacità di chi la abita di creare uno stacco. La tendenza ad accumulare e conservare moltissimi oggetti, invece, potrebbe essere collegata ad un senso di insicurezza e rappresentare un tentativo di difesa dall’imprevedibilità e dall’incertezza del futuro. La stanza spoglia, infine, potrebbe indicare la volontà di non esporsi, di non voler farsi conoscere dagli altri. Passo ora ad esaminare due esempi di oggetti che mi sembrano particolarmente fecondi per rivelare il rapporto tra cose, giovani ed identità. L’uso dei cellulari nella definizione del sé dei giovani. Il cellulare è un esemplare emblematico della famiglia degli oggetti nomadi, che può essere un ottimo esempio per pensare a quanti significati incorporano gli oggetti quotidiani e a quanto siano determinanti nella definizione dell’identità. Gasparini considera i cellulari «arredamento dell’attesa» (9). Il cellulare deterritorializza il pro-cesso di comunicazione, legandolo all’individuo e non al contesto spaziale: permette al soggetto di muoversi all’esterno pur portando sempre con sé

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abitudini e relazioni che appartengono al mondo privato, alla propria bolla comunicativa. Il cellulare diviene così una protesi del corpo che permette l’estensione del proprio privato all’ester-no e l’ingresso della dimensione pubblica nel domestico. Richiamando il concetto di biografia delle cose di Kopytoff, è possibile delineare storie molto diver-se per un telefonino dell’inizio degli anni Novanta e per un prodotto del 2007. Originariamente il cellulare aveva delle caratteri-stiche tecnologiche, un costo ed un’immagine di mercato tale per cui risultava essere un oggetto destinato a consumatori di estrazione sociale medio-alta e si presentava come risolutore di problemi nella gestione del tempo, soprattutto nella sfera degli affari. Questa dimensione elitaria è stata rapidamente superata: il cellulare ha raggiunto tutte le età e tutti i gruppi sociali, dimostrando una flessibilità nelle interpretazioni e negli usi che era difficile prevedere. La funzione di segno distintivo risiede oggi forse solo in alcuni modelli all’avanguardia nel design o nelle prestazioni, che incorporano le ultime microtecnologie applicate, oppure in un atteggia-mento di continuo acquisto, nella perenne rincor-sa verso l’ultimo modello. Altra dimensione di prestigio sembra essere la possibilità di fare a meno del telefonino, come indicatore di una vita libera dal ritmo stressante della società contem-poranea, come possibilità di restare slegati da una rete sociale che può diventare controllo, o come capacità di non temere la perdita di una qualche occasione, che deve poter essere comuni-cata sempre e ovunque per la sua importanza. Cresce, invece, la valenza di oggetto intimo, “peluche tecnologico”, oggetto transizionale: il cellulare può essere uno strumento importante per il giovane come difesa dall’angoscia del mon-do circostante; nel distacco dalla famiglia funzio-na come un riferimento certo e continuo ai gen-itori. In un certo senso il cellulare può essere inteso come una protesi del corpo (10), perché sempre disponibile, “indossabile”, capace di creare una bolla comunicativa che permette al soggetto di aprirsi ad una sfera di relazioni diversa da quella a cui è legato per tempo e spazio. Bisogna tenere presente che il telefono è un mezzo polimorfo che può produrre effetti in più direzioni contemporaneamente: ad esempio, comporta una riduzione della privacy perché rende sempre reperibili, ma la aumenta perché permette di discutere di questioni riservate nel luogo che riteniamo più sicuro; permette una maggiore autonomia nelle comunicazioni, ma

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anche un controllo costante, ad esempio, dei genitori sui figli; fa circolare rapidamente informa-zioni, ma riduce la sicurezza della fonte (11). La scrittura degli SMS e l’uso degli squilli sono esempi evidenti dell’intervento della creatività simbolica nelle pratiche quotidiane. Nella scrittura / lettura di sms si delinea un nuovo metalingua-ggio che deve fare i conti non solo con la com-prensibilità, ma anche con la lunghezza. Nel caso degli squilli l’utenza ha ideato un servizio che il gestore neppure immaginava di poter offrire: si fa suonare il telefono della persona che si desidera contattare e appena si sente il segnale di attiva-zione della chiamata, si stacca la comunicazione. Lo squillo può anche essere letto come un dono e funzionare come una comunicazione rituale: lo squillo comunica il fatto che si sta pensando a qualcuno e spesso richiede di essere contraccam-biato instaurando così un vincolo di reciprocità (12). È importante mantenere vivo il contatto indipendentemente dai contenuti trasmessi: esiste un codice tra due persone che serve a conservare un legame a distanza e permette lo scambio di affettività senza troppo coinvolgimento. Le fotografie sul telefonino o la registrazione di una voce come suoneria possono assumere la funzione di oggetto memoria. Ma questa funzione può riguardare il cellulare stesso nel suo hard-ware come oggetto vecchio, ormai rivestito di una patina che ricorda al soggetto i passaggi bio-grafici nei quali il cellulare lo ha accompagnato. Ciò risulta vero soprattutto per le ragazze, che intrattengono una relazione più emotiva con il telefonino. Come gli abiti vestono l’identità giovanile. Altro esempio di cose altamente significative nel processo biografico e identitario sono gli abiti, oggetti da una spiccata dimensione sociale, ma riguardanti allo stesso tempo l’intimità dell’indi-viduo. Un fenomeno importante in merito è la moda: essa esprime ruoli o distanza da ruoli, bisogni di conformità ed identificazione con i gruppi sociali, il genere, le generazioni, le diverse forme di subcultura, ma anche trasgressione ed unicità (13). Si tratta di un consumo trasformativo, che punta alla rielaborazione materiale e simbolica delle merci. I beni si trasformano in segni: gli oggetti vengono separati dal loro valore intrinseco e usati come segni che rimandano alla cultura, ai valori, agli atteggiamenti di chi li utilizza. Il fatto che esistano più stili di vita implica l’esistenza di una pluralità di mode.

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Edizione n.6/2007 – Anno IV – Dicembre 2007 NNeewwsslleetttteerr ddii SSoocciioollooggiiaa 1144

Il comportamento di consumo della società con-temporanea esprime valori fortemente centrati sul sé, per cui è possibile parlare di “soggettività di massa”. Anche Goffman tratta l’argomento e considera i vestiti come strumenti di scena, elemento fonda-mentale per la decisione dell’attore di imperso-nare l’uno o l’altro personaggio a seconda di quale identificazione privilegia in quel determinato frangente. Ogni individuo ha a disposizione diversi racconti di sé, che utilizza in relazione al pubblico, al luogo o all’occasione; con nessuno di essi mente, ma agisce e rappresenta la parte di sé rilevante in quel contesto. Gli abiti sono un veicolo importante di questi discorsi. Un’altra dimensione del fenomeno è l’apparte-nenza ad una “tribù di stile”, spesso legata ad un genere musicale, accompagnata da una corri-spondente componente culturale, anche se non molto profonda, di rappresentazione del mondo. Ad esempio i capi di abbigliamento hippy, con i loro elementi variopinti, trasmettono l’idea di una visione del mondo felice ed ottimista; viceversa i capi punk, in cui predominano il nero e materiali pesanti come la pelle, sono simboli di una rappresentazione negativa e conflittuale. In alcuni individui la rigidità dello stile viene me-no, si mescolano caratteristiche di diverse tribù nel tentativo di sfuggire ad una classificazione, per cui si verifica un bricolage di elementi diversi che costruisce un look più che un’appartenenza di stile. A proposito risulta molto efficace la meta-fora del supermarket dello stile, per cui gli ele-menti di diverse appartenenze si trovano esposti su di uno scaffale da cui i soggetti prelevano di volta in volta elementi e significati per comporre un mixage che definisce la loro identità. Alcuni soggetti si rifanno consapevolmente alla moda, altri si dicono completamente disinteressati pur definendo il loro look in relazione ad essa, an-che se per contrasto: moda e antimoda comuni-cano continuamente. Spesso i giovani sono crea-tori per eccellenza di antimoda perché la società li ritiene in qualche modo esentati dagli obblighi comuni, in quanto non ancora membri maturi del sistema sociale, persone a cui è permessa una certa dose di devianza e sperimentazione, prima di essere inserite a pieno titolo negli obblighi sociali. La creazione del proprio look implica capacità di adattamento, invenzione e riuso nel tentativo di costruire un proprio percorso identitario. Specifici capi sono compresi da coloro che li usano, ma non necessariamente da coloro che vi si imbatto-no, perché il significato degli abiti può essere di difficile comprensione, in quanto intimo e profon-damente legato al sé.

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La scelta del corpo come veicolo comunicativo è significativa, perché il corpo ha una dimensione ambivalente: è al tempo stesso soggetto e ogget-o e scelte che riguardano la dimensione esteriore si rivelano molto intime, personali e determinanti per il sé nella sua totalità. Come una seconda pelle, servono a dare sicurezza e a presentare noi stessi agli altri, dunque, sono investiti di una forte carica affettiva e simbolica. Come tipico degli oggetti transizionali non abbandonano mai l’individuo. La costruzione dello stile desiderato è spesso il risultato di un notevole investimento di tempo, sforzo e, talvolta, denaro, quindi si sviluppa un forte attaccamento a specifici capi di abbigliamen-to che possono essere indossati per molti anni e conservati con cura. In questo caso i vestiti acqui-siscono il ruolo di oggetti memoria. Da alcune ricerche (14) risulta che le persone attribuiscono ai vestiti preferiti la capacità di influenzare il proprio modo di esprimersi ed interagire con gli altri. La definizione dell’abbigliamento comporta una scelta comunque costosa in termini psicologici per l’individuo, soprattutto se in una fase della vita in cui la sicurezza del sé vacilla o non è ancora stabile: è possibile conformarsi per ottenere l’ap-partenenza ad un gruppo, oppure, dissociarsi per evidenziare la propria individualità. I giovani maturano delle buone capacità di cogliere e gestire le contraddizioni, sviluppano un senso di tolleranza e rispetto di sé e per gli altri, sostenuti da un profondo convincimento: l’impor-tanza della libertà personale e della propria sog-gettività ed originalità, trasmesse anche attra-verso l’abbigliamento. Non assolutizzano il valore della loro esperienza e del loro essere attuale, ma lo difendono come quello autentico in quel momento della loro vita. Conclusioni. Una narrazione di sé che ben si colloca tra passa-to e futuro è quanto mai necessaria in una società in cui tutto sembra in rapido cambiamento, in cui incertezza e rischio sono i principali partner nella costruzione della nostra biografia. Chi non possie-de un rapporto intimo con le cose, è maggiormen-te esposto alle rappresentazioni che gli altri danno di lui, perché non ha a disposizione un luogo, o un gruppo di oggetti, in cui riconoscersi prima tra sé e sé; non ha nulla, o quasi, che racconti a se stesso chi è, in che punto del processo di crescita si trova, perché tutti gli oggetti restano per lui co-se povere, mute, senza legami temporali o sociali.

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All’interno di questi processi complessi gli oggetti devono assumere le stesse caratteristiche delle identità che servono a rappresentare e definire: flessibilità, possibilità cioè di essere manipolati ed utilizzati in situazioni e appartenenze differenti; polisemia, racchiudere in sé significati molteplici e talvolta ambigui; riflessività, essere sempre ele-mento critico, di ragionamento sul mondo, elabo-ratori di emozioni e sentimenti. Considerando le caratteristiche degli oggetti e delle identità appena descritte è semplice notare che gli stessi termini possono essere attributi della società postmoderna nel suo complesso: moltissimi ragionamenti circa l’identità, la giovi-nezza e i rapporti tra cose e persone si rivelano ottimi indicatori per una descrizione delle princi-pali caratteristiche della società contemporanea. È dunque affascinante riflettere su quanto i comportamenti più micro, addirittura la scelta di cosa indossiamo o il significato che ha per noi il nostro oggetto più caro, riflettano processi macro che interessano buona parte della contemporanea società globale. Riferimenti bibliografici (1) A. Bagnasco, M. Barbagli, A. Cavalli, Sociologia. Volume II Differenziazione e riproduzione sociale, Il Mulino, Bologna, 2001. (2) P. Birindelli, Clicca su te stesso. Sé senza l’altro, Bonanno, Roma, 2006. (3) C. Buzzi, A. Cavalli, A. De Lillo, Giovani del nuovo secolo. Quinto rapporto IARD sulla condizione giovanile in Italia, Il Mulino, Bologna, 2002. (4) M. Douglas e B. Isherwood, Il mondo delle cose. Oggetti, valori, consumo. Il Mulino, Bologna, 1984. (5) Nel caso del feticismo sessuale in senso patologico, è particolarmente evidente che il feticcio diventa l’unico focus dell’attenzione, perché la parte del corpo, ad esempio il piede, o l’oggetto, non solo sostituiscono l’altro, ma vengono completamente separati da esso. (6) L. Leonini, L’identità smarrita: il ruolo degli oggetti nella vita quotidiana, Il Mulino, Bologna, 1988, p. 127. (7) D. W. Winnicott, Gioco e realtà, Armando Editore, Roma, 1971. (8) In R. Bartoletti, La narrazione delle cose. Analisi socio – comunicativa degli oggetti, Franco Angeli, Milano, 2002. (9) G. Gasparini, Interstizi. Una sociologia della vita quotidiana, Carocci, Roma, 2002. (10) F. Colombo, Il piccolo libro del telefono, Bompiani, Milano, 2001. (11) D. Borrelli, Il filo dei discorsi. Teoria e storia sociale del telefono, Luca Sassella Editore, Roma, 2000. (12) C. Riva e M. Drusian 2003: http://spaziogiovani.comune.belluno.it//documenti/giovani-saper%20comunicare.pdf (13) L. Bovone (a cura di), Mode, Franco Angeli, Milano, 1997. (14) D. Crane, Questioni di moda. Classe, genere e identità nell’abbigliamento, Franco Angeli, Milano, 2004.

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.: Professione Sociologo Pubblichiamo in questo numero la seconda parte di un articolo comparso sul numero 3 di quest’an-no, ad opera di Giuseppe Tipaldo. «Meglio i diamanti»: comunicare i rifiuti tra paura e indifferenza. Seconda parte. I. Dalla puntata precedente… S’è detto, nella prima parte di questo intervento, pubblicato nel numero 3 della Newsletter di quest’anno, che l’interazione di due fenomeni distinti ma complementari, l’affermazione di quella che potremmo definire la società dei rifiuti da una parte e dall’altra l’opposizione alla costruzione di adeguati impianti per il loro trattamento e lo smaltimento finale, pone i comunicatori ambientali dinnanzi a nuove sfide, il cui esito rimane al momento incerto. L’obiettivo delle pagine che seguono è evidenziare le maggiori criticità degli approcci classici alla comunicazione dei rifiuti che hanno dominato in passato e che tuttora riscuotono enorme successo in molti contesti. Al contrario, si rende ormai necessario ripensare profondamente una serie di ruoli, strategie, metodi e strumenti, affermatisi tra gli anni ’60 e ’70 nel campo della comunicazione d’impresa, che non sembrano più adatti a far fronte alle sfide di un ambiente fortemente eterogeneo, mutevole e turbolento, quale quello in cui viviamo oggi. A questo scopo, verrà presentata una prima, ancorché provvisoria, proposta di revisione a partire da alcuni punti nodali, che per semplicità saranno presentati sotto forma di quesiti: come si costruisce un solido rapporto fiduciario con l’opinione pubblica? Quali requisiti è bene che soddisfi chi dovrebbe occuparsi in prima persona di comunicare? Su quali strumenti di comunicazione puntare? Come contenere distorsioni e disturbi (rumore) che fisiologicamente affliggono qualunque processo comunicativo? Non senza una qualche semplificazione, possiamo dire che un processo di comunicazione si conclude con successo quando il destinatario riceve il messaggio (o testo) (1) inviatogli dall’emittente e lo interpreta, avanzando delle «ipotesi di senso» e sottoponendo queste ultime a un processo di verifica o confutazione testuale (2). Il processo di ricezione e interpretazione di un testo si svolge, dunque, in modo cooperativo, seguendo un andamento tipicamente abduttivo: eventuali casi di anarchia comportano decodifiche aberranti, espongono cioè il processo di comunicazione a sovrainterpretazioni, interpretazioni “cattive”, o,

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ancora, a un uso del testo (Eco, 1992). Perché un processo di comunicazione si svolga in modo cooperativo è necessario un ingrediente fondamentale: la fiducia dei nostri interlocutori. Ecco, dunque, il primo nodo critico. II. Come si costruisce un solido rapporto fiduciario con l’opinione pubblica? La risposta è una sola: coinvolgendo la comunità locale nella pianificazione e realizzazione dei progetti che le stanno a cuore. Semplice? Un osservatore poco accorto sarebbe forse tentato di rispondere positivamente, probabilmente rassicu-rato dai tòpoi verso cui si indirizzano sempre più spesso i discorsi della politica. Sfortunatamente, fatti di cronaca, anche recentissimi, dimostrano che quasi ovunque nel nostro Paese il piano della retorica e quello della pragmatica viaggiano ancora paralleli. Sentiamo sempre più spesso parlare di progettazione partecipata, di coinvolgi-mento dei cittadini negli interventi urbani, infra-strutturali e ambientali che toccano da vicino i territori in cui vivono, modificando – a volte sensibilmente – la loro esperienza quotidiana. La prova dei fatti, tuttavia, ci porta di frequente a constatare la difficoltà a realizzare completamen-te quanto preventivato (3). La fiducia della gente non è un octroyée ma va pazientemente costruita nel tempo, con la consapevolezza che basta un nonnulla a rovinare il lavoro di anni, specie in contesti in cui la diffi-denza è storicamente conclamata, come l’Italia. Limitando al tema di cui qui si discute un argo-mento che investirebbe una pluralità di campi, è bene partire da un punto fermo, una regola di semplice buonsenso: non tutti possono comunica-re. «La comunicazione» infatti «è efficace se l’emittente è credibile» (Bobbio e Zeppetella, 1999: 209). E chi propone i progetti, di consueto, non è ritenuto tale dalla maggior parte dell’opi-nione pubblica. Una comunicazione sul modello di quella aziendale classica, unidirezionale e attuata in prima persona dagli attori pubblici e/o privati incaricati della progettazione e gestione degli interventi a rischio di contestazione, non solo non garantirebbe alcun plus dal punto di vista della fiducia presso l’opinione pubblica (al contrario di quanto succede normalmente per i prodotti commerciali, ove spesso proprio il marchio e il logotipo, ovvero i simboli identificativi del produt-tore, sono diffusamente impiegati come garanzia di qualità e affidabilità del prodotto/servizio cui sono associati) ma avrebbe buone probabilità di peggiorare le relazioni con la comunità, scatenan-

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do effetti boomerang dalle conseguenze difficilmente prevedibili. La norma richiamata poco sopra vede, per la verità, perdere buona parte della propria risolu-tezza in relazione agli interventi comunicativi che, anziché sostenere progetti insediativi o infrastrut-turali (per l’appunto, le cosiddette “grandi ope-re”), intendono promuovere presso l’opinione pubblica comportamenti virtuosi nella tutela dell’ambiente e nella gestione dei rifiuti: incenti-vare la raccolta differenziata, informare sulla raccolta dei rifiuti “porta a porta”, diffondere la cultura del risparmio energetico, e via di seguito. In casi come questi, le attività di comunicazione pubblica e sociale promosse in prima persona da amministrazioni, enti e public utilities, se ben progettate e gestite, hanno buona probabilità di migliorare le relazioni con i cittadini. Che si tratti di costruire un percorso di progetta-zione partecipata con l’obiettivo di prevenire eventuali conflitti con la popolazione residente, o si mettano a punto azioni informative su temi ritenuti di rilevanza sociale (4), gli strumenti comunicativi debbono necessariamente essere tanto numerosi ed eterogenei quanto più la mate-ria è complessa. Pertanto, non si tratta di sentenziare l’esclusione dei tradizionali strumenti di pubbliche relazioni e comunicazione aziendale classica (5) da quelli cui fare ricorso nella comuni-cazione dei rifiuti, quanto piuttosto di suggerirne un uso meno ingenuo e scontato, acciocché non si riversi su di loro il peso di attese che non sono deputati a sopportare. III. Quali requisiti è bene che soddisfi chi dovrebbe occuparsi in prima persona di comunicare? Detto in altro modo: quali doti dovrebbe possedere colui o colei a cui è affidato un ruolo di primo piano nella comunicazione strategica? Alla luce di quanto detto fino a questo punto, ritengo che si possano isolare tre compe-tenze di base che gli attori incaricati di seguire in prima persona un piano di comunicazione strate-gica (per la verità non solo nella gestione integra-ta dei rifiuti) dovrebbero recare in dote, come proprio savoir faire: 1. saper ascoltare; 2. saper gestire le emozioni e gli input cognitivi che arrivano dai propri interlocutori; 3. possedere una buona competenza specialistica nel campo della comunicazione e della negozia-zione dei conflitti. Sebbene non esauriscano lo spettro dei criteri da tenere in considerazione perché le opportunità comunicative si trasformino effettivamente in punti di forza, le doti personali poc’anzi richiamate costituiscono tre requisiti necessari per poter far

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fronte con successo al problema della conquista della fiducia presso l’eterogeneo insieme di inter-locutori con cui chi fa progettazione partecipata deve confrontarsi. A dire il vero, rimanendo su questo piano, occorrerebbe prendere in conside-razione un quarto requisito: la notorietà perso-nale. Negli ultimi anni, infatti, va prendendo piede anche in Italia una soluzione strategica particolar-mente cara al mondo della pubblicità, che consi-ste nel coinvolgere uno o più testimonial nelle iniziative di comunicazione. L’attualità e la crescente portata di questo fenomeno impongono di spendere qualche considerazione in proposito. Per prima cosa, un nodo che andrebbe sciolto contestualmente alla scelta di un personaggio famoso riguarda l’eventuale scarto tra la sua immagine pubblica e il prestigio riconosciutogli dagli addetti ai lavori. Scarti troppo ampi, al di là delle differenze di segno, dovrebbero indurre chi ha la responsabilità della decisione finale a rivedere la rosa dei candidati selezionati, anche a costo di ritornare sui propri passi, se necessario. D’altro canto, è fuor di dubbio che, se opportuna-mente selezionato e impiegato, un volto noto possa contribuire a rendere più efficace l’azione comunicativa. Dunque, chi scegliere? Si parta, anzitutto, dalla fonte: pur non escludendo a priori l’eventualità che in ambito locale possano assu-mere il ruolo di opinion leader anche soggetti che non hanno acquisito la propria notorietà sull’arena mediatica, o per lo meno non quella costituita dai mezzi d’informazione a diffusione nazionale, non c’è molto da discutere sul fatto che, nella quasi totalità dei casi, non solo il pubblico abbia un’esperienza esclusivamente mediata delle per-sonalità più note, ma che proprio l’intervento dei media contribuisca in massima parte a determina-re tale forma di pubblicità (6). Pertanto, non si può negare che la via più comoda per minimizza-re eventuali scarti tra opinione pubblica e opinio-ne “esperta” passi proprio all’interno dell’arena mediatica: è lì che vanno selezionati i possibili candidati. Tuttavia, costituirebbe un gravissimo errore, pagabile a caro prezzo, sottovalutare la complessità del sistema informativo di massa nella scelta dei personaggi che esso propone: infatti «il sistema dei media (al cui interno non sono privi di responsabilità registi, produttori, giornalisti, conduttori) tende a presentare come esperti e/o testimonials cognitivi al più vasto pubblico i ricercatori più anziani e/o i responsabili organizzativi di laboratori, istituti, centri o diparti-menti, anche quando ad età e posizione profes-sionale non corrisponda un’effettiva competenza» (Cannavò, 1995: 29). Errore di segno opposto, ma pur sempre grave, sarebbe non tenere in alcuna considerazione il potere di selezione dei

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media (winnowing effect) (7). Caricare di una enfasi eccessiva l’intervento dei mezzi di informa-zione di massa conduce spesso a «restaurare la vetusta concezione che deriva la validità cognitiva semplicemente ex auctoritate» (ibidem). Si corre così il rischio di sopravvalutare le potenzialità della variabile “testimonial”, confinando ad un ruolo poco più che marginale gli altri aspetti strategici della comunicazione (audit, studio dei target, predisposizione di azioni specifiche in grado di adattarsi dinamicamente a possibili evoluzioni della situazione nel tempo, feedback). All’opposto, non riconoscere il ruolo centrale svol-to dai mass media nelle dinamiche di costruzione della visibilità espone qualunque azione comunica-tiva a gravi impasse, che si traducono il più delle volte nell’incapacità di instaurare concretamente un solido rapporto fiduciario tra emittente e destinatario. La posizione migliore può dunque essere rintracciata ad un’equa distanza da entrambi gli estremi appena delineati: occorre che chi ha il compito di rappresentare l’emittente della comunicazione goda di un’elevata notorietà presso il pubblico; che la sua immagine, diffusa dai mezzi d’informazione, sia connotata in termini fortemen-te positivi; che tale immagine non sia in buona parte una creazione dei media ma che trovi effettivo fondamento nella caratura reale del personaggio (8). IV. Su quali strumenti di comunicazione puntare? Un unico denominatore sembra accomunare le riflessioni condotte negli ultimi anni per risponde-re a questa domanda: comunicare efficacemente impone conoscere a fondo i propri interlocutori. Non c’è altro modo per farlo se non imparare ad ascoltarli sistematicamente. Fermo restando quanto detto nelle pagine precedenti circa poten-zialità e modalità relative all’impiego degli stru-menti canonici della comunicazione d’impresa, la novità si chiama, dunque, ascolto organizzato. In comunicazione il termine ascolto è la somma di due addendi: l’audit, che «serve a conoscere i bisogni di comunicazione esistenti e il contesto di riferimento prima di avviare delle iniziative di relazioni pubbliche» (Invernizzi, 2001, vol. I: 277), e il monitoraggio, una sorta di feedback con cui valutare i risultati ottenuti. Ma cosa significa, concretamente, “ascoltare”? Ascoltare è l’azione comunicativa con cui si mostra al proprio interlocutore la «disponibilità a interloquire, a rivedere il proprio progetto, a riformulare il problema» (Bobbio, 1999: 209). A ben vedere, infatti, il più delle volte a mancare non è tanto la capacità comunicativa, tradotta empiricamente in innumerevoli (non di rado

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caotiche) iniziative ad opera di svariati attori, ma la disponibilità a mettere in discussione le proprie convinzioni, la prospettiva attraverso cui si interpreta il problema, contemplando l’eventualità che anche l’altro possa avere ragione. Pertanto, ascoltare significa disporsi alla comprensione delle istanze del nostro interlocutore. Fallire in questa fase può portare a ricostruzioni lacunose o distorte dell’ambiente in cui si condurranno le iniziative programmate. Il tema dell’ascolto sta conoscendo negli ultimi anni un successo considerevole tra i professionisti di comunicazione e pubbliche relazioni. La consi-derevole abbondanza di ricerche e studi di caso condotti in questo campo contribuisce a rendere particolarmente evidente l’esiguità di autori e testi che pongano l’accento sulla necessità di concepire l’ascolto come una componente costan-te di un piano di comunicazione strategica, capa-ce di adattarsi dinamicamente ai cambiamenti dell’ambiente esterno; al contrario, è di norma confinato agli estremi del processo di comunica-zione, in corrispondenza cioè dei termini a quo (indagine esplorativa) e ad quem (monitoraggio e feedback) delle iniziative pianificate. V. Come contenere distorsioni e disturbi (rumore) che fisiologicamente affliggono qualunque processo comunicativo? Articolerei la risposta in tre punti, che si possono sintetizzare nell’acronimo COSP: COnsistency, Strategy, Practice. La coerenza comunicativa (consistency) investe due livelli complementari ma distinti: il primo è quello della cosiddetta immagine coordinata, ovvero la conformità delle azioni e dei prodotti comunicativi messi a punto nel piano strategico ad uno standard identitario che risulti facilmente riconoscibile e interiorizzabile dai destinatari, cercando di evitare – o perlomeno minimizzare – fenomeni di spiazzamento e dissonanza cognitiva, i cui effetti, spiacevoli e a volte persino irritanti, nel lungo periodo possono compromettere irrimediabilmente l’efficacia della comunicazione. Logo, tagline e pay-off (9), colori e stile delle scritte, packaging, carta intestata, busta coordinata alla carta intestata, biglietto da visita e, negli ultimi anni, sito web sono i principali strumenti attraverso i quali imprese, enti pubblici e istituzioni hanno cercato di affermare la propria identità. Parlando specificamente di gestione dei rifiuti, chiunque può constatare gravi carenze da questo punto di vista: l’(effettiva?) impraticabilità di costruire un coordinamento nazionale della comunicazione sui rifiuti, è aggravata dall’assenza di un’immagine coordinata, almeno su scala locale, per identificare messaggi, strutture e

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servizi di raccolta (quasi ovunque in Italia, ad esempio, mancano colori univoci per identificare contenitori e sacchetti per le diverse categorie merceologiche da raccogliere in modo differenzia-to). La coerenza di processo rappresenta il secondo livello da tenere in considerazione parlando di coerenza comunicativa. Con questa espressione mi riferisco al grado di coesione e logica consequenzialità tra le parti che compongono un piano di comunicazione strategica di lungo periodo. Due fenomeni sembrano minare dalle fondamenta la coerenza di processo, uno di tipo politico, l’altro soprattutto organizzativo. Vediamo il primo. L’elezione diretta del sindaco, del presidente della Provincia e dei rispettivi consigli (L. 81/93), fortemente richiesta dall’opinione pubblica dopo lo scandalo di Tangentopoli, ha avuto tra gli effetti più evidenti sul piano politico il passaggio da un modello di democrazia locale di tipo consociativo a uno puramente maggioritario, garantendo la stabilità e la governabilità a lungo ricercate. Da un punto di vista strettamente comunicativo, questo passaggio ha prodotto sul sistema politico locale un fenomeno noto in comunicazione politica come personalizzazione (o leaderizzazione) della politica (10). Detto altri-menti, l’elettore non affida il proprio voto ad un partito sulla base di un’adesione incondizionata, solitamente motivata da rigide impostazioni ideologiche, ma è attratto in via prioritaria da un nome e un volto con forti capacità di trascina-mento del bacino elettorale, cui è associato un simbolo partitico e un programma di iniziative concrete. Per sopravvivere a questa sorta di liberalizzazione del mercato del voto, quindi, agli amministratori pubblici non resta che elaborare strategie per conquistare e accrescere la propria visibilità. Prende così piede, in molti settori della pubblica amministrazione (e la comunicazione è tra questi), la spesso discutibile pratica del fare tabula rasa delle iniziative progettate e portate avanti dai predecessori, nel tentativo di dare un forte segno di discontinuità con il passato ad ogni nuovo cambio di amministrazione. Una pratica che, oltre a prestare facilmente il fianco a critiche di carattere etico ed economico, mal si concilia con le esigenze di continuità e coerenza nel lungo periodo fisiologicamente imposte da qualunque azione di comunicazione ambisca a produrre effet-ti concreti. Il secondo nodo critico, che, come anticipato sopra, si pone su un piano prettamente organizza-tivo, chiama in causa l’eccessiva atomizzazione degli attori coinvolti a vario titolo nella gestione dei rifiuti. Ogni attore – in qualsiasi anello della catena della gestione del rifiuto si trovi – si

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percepisce come autonomo e in virtù di tale auto-nomia produce la sua comunicazione. L’effetto aggregato consiste in centinaia di iniziative che ogni anno cercano di sensibilizzare i cittadini, senza che chi le finanzi si avveda del fatto che la loro sporadicità, disorganicità e, non di rado, la loro pochezza non solo non è in grado di modifi-care comportamenti ben radicati, ma non riesce neppure a catturare l’attenzione del pubblico. Il passo successivo alla coerenza comunicativa, è la strategia (strategy): quella cui alludo è un’accezione più ampia del termine rispetto a come comunemente viene impiegato nella comunicazione e nel marketing d’impresa. Con strategia mi riferisco alla scelta che gli operatori istituzionali, pubblici e privati, dovrebbero com-piere nella direzione di un progetto di comunica-zione integrata sulla questione rifiuti considerata nella sua interezza. Dal 1997, anno in cui fu promulgato il Decreto Ronchi, si è iniziato a parlare sempre con maggiore frequenza di ciclo integrato dei rifiuti, dalla fonte allo smaltimento finale: orbene, è giunto ormai il momento di prendere atto che non ci può essere gestione integrata dei rifiuti senza un’effettiva ed efficace comunicazione integrata, e agire di conseguenza. Gioverebbe, a questo proposito, una scelta forte che proponesse lo scioglimento di molti ormeggi che ancorano il piano della politica a quello dell’amministrazione e della gestione dei progetti. Certamente una scelta in questa direzione incentiverebbe metodi di affidamento della regia dei progetti comunicativi fondati su criteri meritocratici e professionali, a differenza di quanto si osserva nel contesto italiano, ove il merito è di norma un derivato dell’autorità. L’ultimo aspetto, la pratica (practice), introduce la dimensione dell’esperienza empirica: fissate delle linee di azione coerenti con gli altri criteri (coerenza comunicativa e strategia integrata), occorre fare dei tentativi, “smuovere le acque” concretamente. Il fallimento non potrà mai essere del tutto scongiurato, ma uno studio accorto del fenomeno – arricchito dall’esperienza pregressa – è l’unica via per ridurre al minimo la probabilità che si verifichi. Non è sufficiente, in un ambiente comunicativo dinamico, turbolento e complesso quale quello in cui viviamo oggi limitarsi ad una comunicazione di tipo passivo, garantendo il rispetto di leggi e normative vigenti e assicurando la piena trasparenza degli atti. Questa, in verità, è condizione necessaria ma non sufficiente: bisogna comunicare e saper comunicare in modo propositivo, scegliendo gli strumenti, i canali, i veicoli, le persone e, elemento tutt’altro che secondario, i tempi più appropriati. Il cittadino che protesta, anche se non ha mai letto un

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manuale di comunicazione ha dalla sua un potere fortissimo, quello di chi, ritenendo di non aver altra scelta, intende legittimamente difendere i propri interessi come se non avesse nulla da perdere. “Lottare per ciò per cui si ritiene valga la pena lottare”, al di là del gioco di parole, si traduce in una capacità quasi istintiva di organizzarsi nel modo più efficace per portare avanti le proprie istanze: come ci ricordano la Val di Susa, Acerra, Scanzano Jonico e gli altri casi di opposizione alle cosiddette grandi opere, chi protesta si dota di una solida strategia, pur non essendone sempre pienamente consapevole. Una comunicazione propositiva e attenta verso le istanze che provengono dalla società civile è in grado di anticipare ed evitare la coagulazione di proteste e l’esplosione di veri e propri conflitti. Al contrario, l’amministratore pubblico (o il promoto-re dei progetti contestati, qualora diverso dal primo) che sottovalutasse il potere della protesta, ritenendo ingiustificato studiarne a fondo le for-me, le differenze interne, i tòpoi e le dinamiche, «confida[ndo] eccessivamente sulla bontà dei propri studi tecnici e sulla forza coercitiva della legge» (Bobbio e Zeppetella, 1999: 202), o male interpretando la quiete apparente, secondo quanto prescrive la proverbiale immagine del cane che dorme e non deve essere destato, correrebbe il grave pericolo di collezionare un insuccesso anche in quei casi in cui un approccio meno avventato e superficiale avrebbe con buone probabilità garantito l’esito favorevole della vicenda. Bibliografia Beck, U. (1986). Risikogesellschaft. Auf dem Weg in eine andere Moderne. Frankfurt am Main: Suhrkamp Verlag; trad. it. La società del rischio. Verso una seconda modernità. Roma: Carocci, 2000. Belluati, M. (2004). L'insicurezza dei quartieri. Milano: Franco Angeli. Bobbio, L. e Zeppetella A. (1999). Perché proprio qui? Grandi opere e opposizioni locali. Milano: Franco Angeli. Id. (2002). Smaltimento dei rifiuti e democrazia deliberativa. Working Papers n. 1 2002, Torino: Università degli Studi, Dipartimento di Studi Politici. Borgna, P. (2001). Immagini pubbliche della scienza. Torino: Edizioni di Comunità. Bucchi, M. (1999). Vino, alghe e mucche pazze. La rappresentazione televisiva delle situazioni di rischio. Roma: Rai-Eri.

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Cannavò, L. (a cura di) (1995). La scienza in Tv. Dalla divulgazione alla comunicazione scientifica pubblica. Torino: Nuova Eri. Curini, L. (2004). Note sulla democrazia deliberativa. Quaderni di Scienza Politica 9(18), 521-552. Eco, U. (1992). Interpretation and overinterpretation. Cambridge: Cambridge University Press; tr. it. Interpretazione e sovrainterpretazione. Milano: Bompiani, 1995. Einsiedel, E. F. (1992). Framing Science and Technology in the Canadian Press. Public Undertanding of Science, 1(1), 89-101. Fabris, G. (a cura di) (2003). La comunicazione d’impresa. Milano: Sperling & Kupfer. Gallino, L. (2001). Introduzione a Borgna (2001). Giddens, A. (1990). The consequences of modernity. Cambridge, Polity; tr. it. Le conseguenze della modernità, Bologna, Il Mulino, 1994. Grossi, G. (2004). L’opinione pubblica. Bari: Laterza. Invernizzi, E. (a cura di) (2001). Relazioni pubbliche. Milano: McGraw-Hill. Lippmann. W. (1922). Public opinion; trad. it. L'opinione pubblica. Roma: Donzelli, 1995. Luhmann, N. (1991). Soziologie des Risikos. Berlino: de Gruyter; tr. it. Sociologia del rischio. Milano: Mondadori, 1996. Mazzoleni, G. (1998). La comunicazione politica. Bologna: Il Mulino. Noelle-Neumann, E. (1980). Die Schweigespirale. Öffentliche Meinung - unsere soziale Haut. Langen Müller: Zürich; tr. it. La spirale del silenzio. Per una teoria dell’opinione pubblica. Roma: Meltemi, 2002. Sclavi, M. (2002). Avventure urbane.Progettare la città con gli abitanti. Milano: Eleuthera. Sciolla, L. (2004). La sfida dei valori. Bologna: Il Mulino. Silverstone, R. (1999). Why study the media?. Londra: Sage; tr. it., Perché studiare i media?. Bologna: Il Mulino, 2002. Viale, G. (2000). Un mondo usa e getta. La civiltà dei rifiuti e i rifiuti della civiltà. Milano: Feltrinelli. Volli, U. (2000). Manuale di semiotica. Bari: Laterza.

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.: Professione Studente Trasferimento tecnologico e società: quali i temi in comune? Nota del workshop “Le politiche del trasferimento tecnologico in Europa: esperienze e progetti”, Moncalieri, 4-5 ottobre 2007. di Valentina Moiso Si è tenuto a Moncalieri (Torino) il 4 e 5 ottobre 2007 il workshop “Le politiche del trasferimento tecnologico in Europa: esperienze e progetti”, a cura del Consiglio italiano per le Scienze Sociali e del CERIS-CNR (Istituto di ricerca sull’impresa e lo sviluppo). L’incontro era finalizzato a riunire figure nazionali ed internazionali che a vario titolo, dagli operatori agli scienziati sociali, ai rappresentanti di enti di ricerca, del mondo della finanza o della Pubblica Amministrazione, portassero la loro esperienza in merito al trasferimento tecnologico. Per trasferimento tecnologico si intende l’applicare in un dato settore produttivo delle tecnologie studiate e implementate originariamente in un altro settore. Ad esempio, una tecnologia svilup-pata in ambito spaziale può essere altrettanto utile per aumentare la sicurezza nel settore dei trasporti, oppure addirittura essere trasferita nel mercato dei beni di consumo: si vedano i casi di applicazione di nuovi materiali nella produzione di lattine di bibite o nuovi processi per aumentare l’efficienza nel packaging delle patatine. Il trasferimento tecnologico è un processo che può essere innescato all’interno di avanzate attività di ricerca e sviluppo, in quanto richiede una spinta apertura all’innovazione e un’ottica intersettoriale; è inoltre desiderabile perché promuove l’innova-zione diminuendo i costi di ricerca e sviluppo di nuove tecnologie. Può venire attivato dalle impre-se stesse o dal technology push degli enti di ricer-ca che si pongono come punto di incontro fra im-prese di settori differenti. Non stupisce dunque che negli ultimi anni siano nate sempre più orga-nizzazioni che si propongono l’obiettivo di pro-muovere il trasferimento tecnologico: società di consulenza private, consorzi fra imprese e centri di ricerca, enti pubblici, e che gli scienziati sociali studino il fenomeno e i suoi fattori di successo o insuccesso in termini di sviluppo. Tutti questi elementi hanno trovato posto nel workshop, un ricco e articolato programma in due sessioni e una tavola rotonda finale, di cui in seguito si riportano pillole degli interventi per fornire alcuni riferimenti a chi fosse interessato ad approfondire il tema. Il materiale completo del

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workshop, comprese le slide delle presentazioni, si trova sul sito del CSS www.consiglioscienze sociali.org nella sezione “IN EVIDENZA”. Prima però vorrei accennare ad un piccolo spunto di rifles-sione. Il tema del trasferimento tecnologico è stretta-mente correlato ad alcune questioni “calde” dell’economia e della società globalizzata: da un lato, il problema di come promuovere l’innovazio-ne nell’economia della conoscenza, che passa anche dalla tutela dei diritti di proprietà intellet-tuale; dall’altro la questione della libera circola-zione della conoscenza e della sempre più profon-da invasione dell’economia nella scienza, tema a cui, per citare alcuni esempi, il professor Luciano Gallino sta ultimamente dedicando i suoi studi e che vede in Torino l’attività del centro Agorà Scienza. Questo ultimo organizza summer school e seminari chiamando studenti e dottorandi di ogni disciplina a discutere dei complessi rapporti fra scienza e società: www.agorascienza.it. Tornando al workshop, nella prima sessione, coordinata da Massimiano Bucchi, professore di Sociologia della Scienza all’Università di Trento, si presentano diversi modelli per il trasferimento tecnologico. Jan E. Bandiera e Georg Herdrich portano l’esperienza della tedesca “Steinbeis Stiftung”, ente privato del Baden-Württenberg che offre consulenza alle imprese in merito ai processi di innovazione, supportandole dal punto di vista tecnico e giuridico (ad esempio per la commercializzazione di brevetti). La società non riceve alcun sussidio pubblico e si professa sostanzialmente contraria alla logica del technolo-gy push: la domanda di innovazione deve prove-nire dalle aziende stesse, per volontà di cambia-mento o per risolvere un problema, e non deve essere fatta loro convogliare dall’esterno. Mark Mawhinney, al contrario, presenta un caso di technology push: ISIS Innovation Limited, società dell’Università di Oxford che punta a valorizzare la ricerca delle Università mediante un diretto contatto con le imprese. Tale organizzazione uni-sce ricerca accademica, finanziamenti statali, servizi di consulenza erogati a imprese private e creazione di brevetti. In un simile caso è partico-larmente delicata la gestione della proprietà intellettuale: l’università di Oxford mantiene la proprietà delle ricerche, mentre i ricercatori rice-vono compensi per il risultato ottenuto. Guardando al caso italiano, Mirano Sancin illustra l’esperienza di “Kilometro Rosso”, il parco tecno-

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logico situato presso Bergamo, totalmente finan-ziato da privati: 60 imprese tra cui Brembo e Daimler-Chrysler che cooperano fra loro e con enti di ricerca e Università esterne a progetti di trasfe-rimento tecnologico. Sancin sostiene che l’innova-zione e i conseguenti processi di trasferimento richiedono una cultura del cambiamento, e dipen-dono fortemente dal contesto in cui è situato il sistema produttivo. A tal proposito, Paolo Zanen-ga presenta Product Development and Manage-ment Association SE e TWG lab, due organizza-zioni finalizzate a promuovere tale cultura del cambiamento assistendo le imprese nei processi di innovazione di prodotto, mettendo loro a dispo-sizione nella fase iniziale una serie di professioni-sti di differente estrazione ma che possiedono uno strato culturale comune di fronte alle questioni dell’innovazione. Infine, oltre ai privati e agli enti di ricerca, anche gli enti locali intervengono nei processi di trasferi-mento tecnologico: ad esempio, la Fondazione Torino Wireless, oppure l’ARTI della Regione Puglia (Agenzia Regionale per la tecnologia e l’innovazione), un ente pubblico regionale che si propone di collegare le Università con le imprese di tre distretti tecnologici individuati mappando i punti di forza delle attività produttive regionali: il settore hi-tech e nanotecnologie, quello dell’agro-alimentare e quello della meccatronica. La seconda sessione del workshop sposta l’attenzione sulle cosiddette componenti abilitative del trasferimento tecnologico, ovvero la ricerca e la finanza. Vengono dunque presentati casi di trasferimento tecnologico in tre settori particolarmente attivi su questo fronte, ovvero la ricerca medica, astrofisi-ca e spaziale. Per citare un caso, Gabrio Boerci porta l’esperienza dell’Agenzia Spaziale Europea, fornendo numerosi esempio di tecnologie di area spaziale applicate al settore dei trasporti, dell’au-tomobile, dell’edilizia, delle applicazioni satellitari per monitorare l’ambientale e il territorio e del campo diagnostico e medico. Per quanto riguarda il lato del finanziamento del trasferimento tecnologico, le esperienze sono molteplici: i programmi finanziati tramite partner-ship pubblico-privato (es. il Programma Galileo per la costruzione e la gestione di satelliti euro-pei), il ruolo della Fondazioni bancarie nel finan-ziare singole imprese o nel promuovere coopera-zioni in progetti di trasferimento tecnologico di più ampio respiro, fino alla recente esperienza dei fondi sui mercati finanziari volti a finanziare le imprese nascenti ad alto contenuto di innova-zione. In questo ultimo campo si presentano le esperienze di E-Synergy, una SGR (Società di

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gestione del Risparmio) inglese; del fondo Next di Finlombarda Sgr promosso dalla Regione Lombar-dia; di Quantica, una SGR a capitale ridotto (100 mila euro) autorizzata dalla Banca d’Italia e costituita per il 51% da Enti di ricerca; e infine della torinese Venture capital hub, una rete di undici finanziatori che periodicamente si riunisco-no e valutano insieme le opportunità di investi-mento. Il workshop termina con una tavola rotonda finale, coordinata da Piero Bassetti (Fondazione Bassetti, Milano) ed introdotta da Andrea Bonaccorsi (Università di Pisa), in cui sono fissati alcuni punti emersi durante le sessioni. Fra questi, le difficoltà riscontrate in Italia in merito al trasferimento tecnologico, che riguardano la ricerca poco avanzata, la lenta crescita delle imprese che investono poco in ricerca e sviluppo, i bassi finanziamenti alla ricerca, i mancati collegamenti fra università e imprese. Il trasferi-mento tecnologico, inoltre, non ha ancora trovato un posto stabile all’interno delle politiche per l’innovazione, in cui la molteplicità di attori consi-derati e delle differenti istanze da loro portate non facilita la creazione di reti a supporto del trasferimento, quanto piuttosto una sorta di “concorrenza fra i territori”. Inoltre, molte struttu-re di ricerca creano i loro uffici di trasferimento tecnologico dotandoli di pochissimo personale o con competenza scarsa. Un tema cruciale è inoltre quello del credito alle imprese dedite all’innovazione, esperienza invece già ampiamen-te sviluppata in paesi come Francia, Regno Unito, Germania: la Merry Lynch, ad esempio, ha una sezione specializzata per finanziare il trasferimen-to tecnologico spaziale della Nasa. Infine, si riportano le osservazioni di Bucchi, che rileva come il trasferimento tecnologico sia un fenomeno problematico dal punto di vista sociolo-gico: essendo un trasferimento di conoscenza fra attori, può generare problemi nella comunicazione e comprensione fra più soggetti anche molto differenti, quali ad esempio le imprese, gli enti di ricerca, le Università e gli attori locali. In realtà non esiste un vero e proprio trasferimento della conoscenza ma, piuttosto, una condivisione e trasformazione della medesima, poiché la cono-scenza non si trasmette lasciando invariati i propri contenuti. Il trasferimento tecnologico, in fondo, si fa attraverso le persone.

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.: Sociologie Indagine sulla televisione. Tutti la guardano, pochi si fidano Il piccolo schermo è la principale fonte di informa-zione, ma nella classifica di credibilità è surclas-sato da radio, Internet e giornali di Luigi Ceccarini e Fabio Bordignon La Repubblica, 26 novembre 2007 LA TELEVISIONE: in cima alla classifica del “pubblico”; in coda a quella della credibilità. È il principale strumento di informazione per i cittadini: la vedono tutti, tutti i giorni. Ma, in quanto ad attendibilità, è superata da vecchie e nuove fonti: da Internet, ma anche dai giornali e, soprattutto, dalla radio. Vuoi per le polemiche (politiche) che in modo ricorrente la investono. Vuoi per la politica, che arriva a colorare programmi di approfondimento e conduttori. Vuoi per il conflitto di interessi, questione ancora scottante, agli occhi del cittadino-spettatore. Lo confermano i dati del 16° Osservatorio Demos-Coop sul Capitale sociale, che in questa edizione si concentra sul rapporto tra informazione e società. La televisione (94%), i quotidiani (63%) e la radio (61%) rappresentano mezzi “tradizionali” e, ancora oggi, ampiamente utilizzati per informarsi. In particolare, quasi la totalità della popolazione apprende le notizie dallo schermo televisivo. Ma anche i nuovi media, come la tv digitale (29%) o Internet (39%) sono un’esperienza quotidiana per una parte considerevole di cittadini. Del resto, l’istantaneità dell’informazione è oramai un tratto che segna il modo di comunicare. In questo scenario, sembra resistere il quotidiano: sei persone su dieci affermano di consultarlo almeno qualche volta alla settimana. L’indagine Demos-Coop fa osservare, inoltre, come la radio (60%), cui va il primato della credibilità, ma anche Internet (36%) e i quotidiani (38%) siano ritenuti più affidabili della televisione (30%). Il classico “l’ha detto la Tv” sembra assumere un diverso significato. Tanto più per i giovani, fra i quali la fiducia verso la radio, Internet e i quotidiani è più elevata rispetto a quanto si osserva fra adulti e anziani. Ma il Tele-giornale resta, ad oggi, la principale sorgente informativa, e alle testate maggiori va comunque un gradimento piuttosto esteso. A suscitare la fiducia dei telespettatori è innanzitutto il Tg3 regionale, che con il 72% dei consensi conferma l’attenzione per l’informazione locale. Seguono, nell’ordine, Tg1 (69%), Tg3 nazionale (63%), Tg2 (63%) e Tg5 (59%). Il grado di fiducia varia, sensibilmente, in relazione all’orien-

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tamento politico. Il Tg3 viene apprezzato soprat-tutto dagli spettatori di sinistra. Mentre i tutti i notiziari di Mediaset (Tg5, Tg4, Studio aperto) si caratterizzano per un profilo di (centro) destra. Tg1 e Tg2, infine, si collocano più vicini al “centro”: leggermente spostato a sinistra, il Tg di Riotta, un po’ più verso centro-destra, quello di Mazza. Equidistante dalle due aree ideologiche appare, invece, il profilo dei Tg regionali. Non sono però solo i Tg a connotarsi politicamen-te, ma anche i principali programmi di approfon-dimento (e i rispettivi conduttori): Annozero e Ballarò risultano i più apprezzati dall’elettorato di centro-sinistra, mentre Matrix e Porta a Porta hanno maggiore seguito a centro-destra. Nel complesso, i punteggi più elevati vanno alle trasmissioni di Floris (57%) e Mentana (52%). Anche se molti di questi programmi di approfondi-mento sono superati dalla satira giornalistica: le Iene (50%) e, in particolare, Striscia la notizia, cui va in assoluto l’apprezzamento più convinto (64%). Greggio e Iacchetti, le veline e il Gabibbo, ma anche Luca Bizzarri, Paolo Kessisoglu e Ilary Blasi, protagonisti dell’“informazione alternativa”, sembrano fare concorrenza ai grandi nomi del giornalismo. Questa la fotografia dell’informazione televisiva, scattata dal sondaggio alla vigilia dell’ennesimo terremoto sulla Tv scatenato dal caso Rai-Mediaset. Una vicenda che riporta l’attenzione su un tema particolarmente sentito dall’opinione pubblica: il conflitto d’interessi, ritenuto problema grave e “urgente” dal 66% dei cittadini. La proprietà del polo televisivo privato da parte del leader dell’opposizione, Silvio Berlusconi, secondo la metà degli intervistati danneggia la libertà di informazione (52%) e condiziona la politica (55%). Un dato che cresce sensibilmente tra gli elettori del centrosinistra, dove è quasi l’80% a condividere questa opinione.

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.: Sociologie In quel teatrino si decide il voto di Ilvo Diamanti La Repubblica, 26 novembre 2007 Da quando Silvio Berlusconi ha annunciato la sua “discesa in campo”, quattordici anni fa, la televi-sione è divenuta una “arena politica”. Anzi: la principale. Luogo di confronto e soprattutto di scontro. Surrogato della partecipazione. Specchio di una società in cui le ideologie sono scivolate via, trasparenti come l’acqua. Quattordici anni, ma sembra essere cambiato poco. Come confermano le polemiche sollevate dalle intercet-tazioni pubblicate su Repubblica nei giorni scorsi. Hanno rivelato l’esistenza di un fitto dialogo fra dirigenti e giornalisti Rai e Mediaset, negli anni del governo Berlusconi. Allo scopo, esplicito, di proporre una “visione” uniforme della politica. E della realtà. Anche i dati dell’Osservatorio di Demos-coop, dedicato al rapporto fra cittadini, media e politica, confermano l’importanza della televisione. Certo, negli ultimi anni, altri “canali” hanno assunto una importanza crescente, come fonti di informazione. Le reti satellitari e internet. A cui si rivolge, con regolarità, una quota molto ampia di persone (fra 30% e 40%). Tuttavia, il rilievo dei media “tradizionali” resta dominante. Visto che il 61% degli italiani, per informarsi, ascolta regolarmente la radio, il 63% legge i giornali e addirittura il 94% si rivolge alla televisione. La totalità, quindi. C’è poi un aspetto ulteriore che rende centrale “l’arena televisiva”. La composizione del suo “pubblico”. Perché i lettori abituali dei giornali, ma soprattutto gli utenti delle reti satellitari e di Internet, sono più competenti e istruiti rispetto alla media. Mentre la televisione raggiunge tutti. Compresi i settori più disincantati. Gli elettori apatici, mobili, incerti. Quelli che decidono se e per chi votare solo alla fine. Le ultime settimane, gli ultimi giorni prima del voto. Talora: il giorno stesso. È per questo che la tivù è “ancora” così importante, politicamente. Non solamente in periodo elettorale. Sempre. Perché, ormai, viviamo in tempi di campagna elettorale perma-nente. I governi e i leader politici sono sottoposti a valu-tazione continua. I sondaggi incombono. E valgo-no quasi quanto le elezioni. Anche perché, dall’a-prile del 2006, il voto è sempre lì, alla porta. Il centrosinistra, diviso. Fragile, al Senato. Berlusco-ni, a cercare la “spallata”, per far cadere il governo e andare a nuove elezioni. Così, la tivù ha non solo mantenuto, ma perfino accentuato il suo ruolo. Resta, infatti, di gran lunga, il mezzo di informazione più utilizzato. E se gran parte dei

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cittadini “diffida” della televisione, tuttavia, “si fida” dei programmi e dei notiziari televisivi. Il 72% degli italiani ha fiducia nei TGR, il 69% nel Tg1; quindi, in ordine, vengono Tg3, Tg2 e Tg5: tutti intorno al 60%. Gli altri Tg ottengono un gradimento più limitato per effetto - talora determinante - del minor grado di “copertura” delle reti da cui vengono trasmessi. Come La7 e i canali satellitari. Grande consenso, infine, è attri-buito ai programmi che incrociano informazione, denuncia e satira (anti) politica. I contro-Tg, come “Striscia la notizia” e “Le Iene”. Gli italiani, quindi, diffidano della televisione, ma hanno fiducia dei Tg (e nei “contro-Tg”). Anche perché vengono usati, anch’essi, come riferimenti politici. Etichette, marchi, in base a cui confermare e rafforzare la propria posizione, i propri orientamenti. D’altronde, l’identificazione con Berlusconi fa di Mediaset una sorta di “ban-diera” dell’appartenenza a Fi e, per estensione, al centrodestra. Destra e sinistra, più che la distin-zione fra mercato e Stato, richiamano, da tempo, in Italia, l’alternativa fra Mediaset e tivù di Stato. Nonostante le “relazioni pericolose” fra giornalisti e dirigenti dei due gruppi, rivelate dalle intercet-tazioni pubblicate da Repubblica. Per cui, come mostra l’indagine Demos-coop, tutti i Tg di Mediaset raccolgono maggior fiducia fra gli elettori di centrodestra. Più di tutti il Tg5. Perché il più autorevole del gruppo. Tutti gli altri noti-ziari, non solo quelli della Rai, riscuotono, invece, maggior credito fra gli elettori di centrosinistra. Anzitutto il Tg3, effettivamente guidato, per tradizione, da un direttore di sinistra. Ma lo stesso Tg1, per definizione il più istitu-zionale, gode di maggiori consensi a centrosini-stra. Non solo oggi, che ne è direttore Gianni Riotta. Avveniva anche quando a dirigerlo era Clemente Mimun. Di certo non ostile al preceden-te governo di centrodestra. Perfino il Tg2, la cui direzione, nella seconda Repubblica, spetta alla destra, viene considerato di “centro”, dagli italia-ni. E, dunque, a sinistra dei notiziari Mediaset. Lo stesso avviene per i programmi di approfondi-mento e dibattito. In modo più esplicito. Da Porta a Porta a Ballarò; da Otto e mezzo ad Anno Zero; da Report all’Infedele. Ogni trasmissione è “fre-quentata”, dagli italiani, in base alle proprie preferenze politiche. Salotti animati da padroni di casa “amici”. Che conducono la serata in modo da renderla interessante. Stimolano discussione. Suscitano la curiosità degli spettatori. E, talora, li coinvolgono, in modo complice. A volte predicatori, altre ancora “vendicatori”, perfino “giustizieri”. Così le trasmissioni di Gad Lerner, Michele Santoro, Giovanni Floris, Milena

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Gabanelli sono seguite con fiducia soprattutto da-gli elettori di sinistra. Mentre a destra apprezzano Enrico Mentana e soprattutto Bruno Vespa. Se Rai1 piace maggiormente agli elettori di (centro) sinistra, Vespa riscuote la stima soprattutto degli elettori di (centro) destra. Più di quanto avvenisse qualche anno fa. Per contro, “Otto e mezzo” viene posizionata, dagli italiani, intorno al “centro”. Mal-grado il conduttore, Giuliano Ferrara, sia aperta-mente simpatetico con il Cavaliere. Un po’ perché bilanciato da Ritanna Armeni. Un po’ perché sta su “La7”, rete esterna al bipolarismo mediatico. Soprattutto perché è autocentrico, ma altrettanto “autonomo”. Per quel che può valere il mio giudizio: “il meglio” sul mercato. C’è, dunque, un “mondo mediatico”, largamente riassunto dalla televisione, che “rappresenta” la politica e le sue divisioni. Se gran parte degli italiani (il 61%) ritiene che la tivù faccia male alla politica e i politici facciano male a rincorrerla, in effetti avviene esattamente il contrario. Perché i “politici” - grandi, medi, piccoli e piccolissimi - concorrono ad avverare la “superstizione” che vede nella televisione la scena principale, se non l’unica, della “politica come spettacolo”. E dello “spettacolo della politica”. Per cui cercano, in ogni modo, di divenirne attori. Protagonisti, se possibile; ma anche comprimari o, almeno, com-parse. E ciò allarga il solco fra la politica – impri-gionata nella “realtà mediale” - e la società - che, invece, vive nella “realtà reale”. Naturalmente, se la politica è racchiusa dentro i media; se il bipolarismo politico e quello mediatico coincidono, allora la questione del conflitto di interessi diviene topica. E la posizione dominante di Berlusconi critica. Come pensa gran parte degli italiani. Ma soprattutto quelli a cui non piacciono né il Cavaliere né le sue reti. Il consumo televisi-vo, invece, abbassa la sensibilità al conflitto di interessi. A coloro che trascorrono più di 4 ore al giorno davanti alla tivù, la proprietà della televisione, il controllo sull’informazione e sui palinsesti risultano meno preoccupanti. Perché la televisione tende a diventare, per loro, la norma-lità. La verità. Il paesaggio nel quale ci si muove. Pensare di modificarlo, intervenendo sulle origini, diviene una questione teologica, più che politica. Perché la “superstizione mediatica” coincide con la realtà. Anche se (in parte) è una “finzione”. In cui tutti fingono di riconoscersi. Voi (noi) davanti allo schermo. Non più cittadini, ma spettatori. Pronti a tifare. Ora coinvolti, ora incazzati. Galvanizzati dal giornalista preferito. Informati dal Tg “di riferi-mento”. Sorridete: siete su “Scherzi a parte”.

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Edizione n.6/2007 – Anno IV – Dicembre 2007 NNeewwsslleetttteerr ddii SSoocciioollooggiiaa 2255

La struttura delta di Ezio Mauro La Repubblica, 22 novembre 2007 Una versione italiana e vergognosa del “Grande Fratello” è dunque calata in questi anni sul siste-ma televisivo, trascinando Rai e Mediaset fuori da ogni logica di concorrenza, per farne la centrale unificata di un’informazione omologata e addome-sticata, al servizio cieco e totale del berlusconi-smo al potere. L’inchiesta di “Repubblica” ha svelato fin dove può arrivare il conflitto d’inte-ressi, che questo giornale denuncia da anni come anomalia italiana, capace di corrompere la qualità della nostra democrazia. Nel pozzo senza fondo di quel conflitto, tutto viene travolto, non soltanto codici aziendali e doveri professionali, ma lo stesso mercato, insieme con l’ indipendenza e l’ autonomia del giornalismo. Con il risultato di una servitù imposta alla Rai come un guinzaglio per un unico padrone, ben al di là dell’umiliante lottiz-zazione tra i partiti, e i cittadini-spettatori truffati e manipolati proprio in quella moderna agorà televisiva in cui si forma il delicatissimo mercato del consenso. Ci sono le prove documentali di questa operazione sotterranea, che ha agito per anni alle spalle dei Consigli di amministrazione, della Commissione di vigilanza, dei moniti del Quirinale sul pluralismo dell’ informazione. Si tratta - come ha documentato “Repubblica” - di un’indagine della magistratura milanese sul falli-mento dell’Hdc, la holding dell’ex sondaggista di Berlusconi (e della Rai) Luigi Crespi, che è stato per un lungo periodo anche il vero spin doctor del Cavaliere. Dopo il fallimento del gruppo, nel marzo 2004, sono scattate perquisizioni e intercettazioni della Guardia di Finanza. E gli appunti dei finanzieri sulle conversazioni telefoniche rivelano un intrec-cio pilotato tra Mediaset e Rai che coinvolge manager di derivazione berlusconiana e uomini che guidano strutture informative, con scambi di informazioni tattiche e strategiche, mosse concor-date sui palinsesti per «coprire» notizie politica-mente sfavorevoli al Cavaliere, ritardi truffaldini nella comunicazione al pubblico di risultati eletto-rali negativi per la destra: con l’aggiunta colorita e impudente di notisti politici Rai che si racco-mandano a Berlusconi, dirigenti Mediaset che danno consigli alla Rai sulla preparazione del festival di Sanremo. E un lamento, perché duran-te le riprese televisive dei funerali del Papa, «Berlusconi è stato inquadrato pochissimo dalle telecamere». Non si tratta, com’ è evidente, soltanto di un caso di malcostume politico, di umiliazione professionale, di vergogna aziendale.

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È la rivelazione di un metodo che mina alle fonda-menta il mito imprenditoriale berlusconiano, per-ché sostituisce la complicità alla concorrenza, la sudditanza all’autonomia, la dipendenza al merca-to. Il tutto in forma occulta, con la creazione di una vera e propria rete segreta che crea un «gio-co di squadra» - come lo chiamano le telefonate intercettate - che ha un unico capitano, un unico referente e un unico beneficiario: Silvio Berlusco-ni. Trasmissioni d’ informazione, come quella di Vespa, per la quale il direttore generale Rai garantisce che il conduttore «accennerà al Dottore ad ogni occasione opportuna», dirigenti della tele-visione pubblica che quando vengono a conoscen-za di un discorso di Ciampi a reti unificate per la morte del Papa hanno come unica preoccupazione quella di organizzare un contraltare di Berlusconi al capo dello Stato, che potrebbe essere messo troppo «in buona luce», serate elettorali in cui si decide di «fare più confusione possibile» nel comunicare i risultati «per camuffare la loro por-tata». In che Paese abbiamo vissuto? La politica - avversari e alleati di Berlusconi, tutti quanti de-fraudati da questa rete sotterranea costruita per portare acqua ad un mulino solo - è consapevole della gravità di queste rivelazioni, che dovrebbero spingerla ad approvare una seria legge sul conflitto d’interessi nel giro di tre giorni? E il Cavaliere, quando sarà sceso dal predellino di San Babila dove le sue televisioni lo hanno inquadrato in abbondanza, vorrà spiegare che mandato ave-vano i suoi uomini (spesso suoi assistenti perso-nali) mandati ad occupare posizioni-chiave in Rai e Mediaset, se i risultati documentali sono questi? La realtà è che in questo Paese ha operato e probabilmente sta operando da anni una vera e propria intelligence privata dell’informazione che non ha uguali in Occidente, un misto di titanismo primitivo e modernità, come spesso accade nelle tentazioni berlusconiane. Potremmo chiamarla, da Conrad, «struttura delta». Un’interposizione arbi-traria e sofisticatissima, onnipotente perché occul-ta come la P2, capace di realizzare un’azione di «spin» su scala spettacolare, offuscando le notizie sgradite, enfatizzando quelle favorevoli, ruotando la giornata nel senso positivo per il Cavaliere.

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Naturalmente con le telecamere Rai e Mediaset che ruotano a comando intorno a questa giornata artificiale, a questo mondo camuffato, a questa cronaca addomesticata. In una finzione umiliante e politicamente drammatica della concorrenza, del pluralismo, dei diritti del cittadino-spettatore, alterando alla radice il mercato più rilevante di una democrazia, quello in cui si forma la pubblica opinione. Lo abbiamo già scritto e lo abbiamo denunciato più volte, ma oggi forse anche la politica più sorda e cieca riuscirà a capire. In nessun altro luogo si è formato un meccanismo «totale», così perverso e perfetto da permettere ad un leader politico di guidare legittimamente la più grande agenzia newsmaker del Paese (il governo) e di controllare insieme impropriamente l’universo televisivo, con la proprietà privata di tre canali e la sovranità pubblica degli altri tre. A mettere in connessione le notizie trattate secondo convenienza politica e i canali informativi, serviva appunto la «struttura delta», ricca del know-how specifico del mondo berlusconiano, specializzato proprio in questo. Da qui alla tentazione di co-struire il palinsesto supremo degli italiani, mani-polando paesaggio e personaggi della loro vita, il passo è breve. E se la mentalità è quella che punta ad asservire l’informazione alla politica, la politica al comando, il comando al dominio, quel passo è probabilmente quasi obbligato. È ora possibile fare un passo per uscire da questo paesaggio truccato, da questa manipolazione della nostra vita. Purché le istituzioni, la libera informazione, il mercato e la politica lo sappiano. Sappiano che un Paese moderno, o anche solo normale, non può sopportare queste deformazioni delle regole e della stessa realtà: e dunque reagiscano, se ne sono capaci. La stessa mano che domani proporrà le larghe intese, è quella che ha predisposto il telecomando con un tasto unico. E truccato.