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Editoriale “Relazioni” Scoperte “Un passato da spia” Riscoperte “Noi” Visioni “Don’t worry” Storie “Racconto di Natale” “Quell’unghia spezzata” “La confidente” “Effetto sorpresa” “Sapevo che saresti venuto” Spazi “Ultima fila, laterale” Inversi “Atlantide” Chi l’ha scritto “…Quella nostalgia di paesi sconosciuti, quell’angoscia della curiosità…” C. Baudelaire Numero uno

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Editoriale “Relazioni”

Scoperte

“Un passato da spia”

Riscoperte

“Noi”

Visioni

“Don’t worry”

Storie

“Racconto di Natale” “Quell’unghia spezzata”

“La confidente” “Effetto sorpresa”

“Sapevo che saresti venuto”

Spazi “Ultima fila, laterale”

Inversi

“Atlantide”

Chi l’ha scritto

“…Quella nostalgia di paesi sconosciuti, quell’angoscia della curiosità…” C. Baudelaire

Numero uno

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Editoriale_________________

Relazioni Rocco Ruggiero

Che cosa accadrebbe se le cellule e gli organi

del nostro corpo smettessero di essere in

relazione tra loro?

E se il nostro organismo non fosse in relazione con l’aria, con il sole, con

l’ambiente che lo circonda?

Che cosa sarebbe la nostra vita senza

“relazioni”? E come cambia, la nostra vita, se

queste sono “buone” o “cattive”, “dinamiche o

stagnanti”, “profonde o distratte”?

Le relazioni sono la vita e ci accompagnano

per tutta la vita: anche quando sembrano

concludersi restano lì, dentro di noi, nella

nostra storia personale, e generano ricordi, nostalgie, rimpianti, gioia o rabbia.

Pensiamo di saperle riconoscerle, di saperle

identificare e classificare: le viviamo, allora,

come pensiamo che siano o come abbiamo

deciso che debbano essere. Poi, un giorno, scopriamo che le cose non stavano come

avevamo pensato e allora le cose cambiano e

cambiano anche gli effetti di quelle relazioni,

anche di quelle ormai lontane nel tempo,

anche di quelle che ci sembrava di aver

cancellato che, invece, sono sempre state lì, ignorate, non capite, rifiutate. Le relazioni

sono onnivore: si nutrono dell’amore come

dell’odio, del desiderio come del rifiuto perché

la vita stessa è così. A volte le cerchiamo

ostinatamente, a volte invano ma mai inutilmente perché per entrare in relazione

con qualcuno o qualcosa dobbiamo solo

volerlo davvero: basterà questo ed essa

entrerà nella nostra vita e produrrà i suoi

effetti, come un gesto mancato o come una

meta non raggiunta o come un desiderio

vissuto fino in fondo, nonostante tutto.

Conviene saperle riconoscerle allora, quelle

relazioni, perché quando faremo questo avremo riconosciuto noi stessi: come scriveva

Anaïs Nin: “Noi non vediamo le cose come

sono ma come siamo”.

Bertrand Russell con i suoi allievi e con i suoi amici

Fonti: eugenicsarchive.ca/scalaarchives.co

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Scoperte________________

Un passato da spia di John Le Carré Scoperto da Paolo Chirafisi

“Onoro la mano che muove il telaio/onoro la forza che muove l’acciaio/esiste lo so!”.

Così salmodiava un allucinato Giovanni

Lindo Ferretti, quando negli anni ottanta,

con i suoi CCCP, cantava l’epica e la mistica

dell’Unione Sovietica, reduce da un tour a Pankow, quartiere operaio di Berlino est.

Le stesse atmosfere cupe e livide ci vengono

restituite da John Le Carré (al secolo David

Cornwell, già membro dello spionaggio

britannico), nella sua ultima fatica letteraria.

È la rievocazione, malinconica e sottilmente nostalgica, di un mondo in bianco e nero, un

mondo pietrificato e crudele ormai

scomparso dove si muovevano, nell’ombra, i

combattenti della guerra fredda.

Un giorno riceve una lettera da Londra: è il suo vecchio servizio, “la ditta”, che lo convoca

nel nuovo quartier generale in riva al Tamigi;

inizia, così, un viaggio a ritroso nell’oscuro e

feroce passato di Peter, irto di meschinità,

bugie, inganni, sotto la cappa di un’ideologia

assoluta, cieca ed implacabile.

La scena si apre nel minuscolo borgo di “Les

Deux Eglises”, in Bretagna, dove Peter

Guillam, spia britannica in pensione, trascorre, in una quiete sospesa, l’ultima

stagione della sua esistenza.

Scorre sotto i nostri occhi la Storia del

novecento, quella con la esse maiuscola, che

ci schiaffeggia la faccia, guardandoci dritta

negli occhi. Il dolore, che ritorna da un passato amaro,

va ingollato tutto, fino all’ultima goccia, fino

all’ultima pagina.

Non c’è scampo, non c’è redenzione.

Ma alla fine del libro ci si riscuote dall’ipnosi e si è grati al buon vecchio John, per averci

regalato ancora una volta, con l’eleganza e la

finezza psicologica che gli sono proprie, il

ritratto di un’epoca irripetibile e di

personaggi leggendari.

E allora possiamo finalmente sederci accanto al nostro Peter Guillam, nella semi oscurità

del suo tavolo preferito, con il cuore

pacificato e gustare insieme a lui un buon

Calvados invecchiato, nel tepore di una

taverna bretone, mentre fissiamo in silenzio l’oceano schiumante.

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Riscoperte__________________________

Noi di Evgenij Zamjatin Riscoperto da Enzo Truppa

Lo sperimentalismo è una caratteristica ben

nota della produzione artistica sovietica dei

primi anni post-rivoluzione d’ottobre,

comune sicuramente a tante avanguardie in

voga anche nel resto dell’Europa occidentale.

Tuttavia, le avanguardie russe hanno raggiunto, soprattutto in ambito linguistico,

delle forme che hanno spesso messo a dura

prova anche i parlanti nativi che dovevano

interpretare il linguaggio di determinate

opere, per non parlare poi di coloro che avevano l’arduo compito di imbarcarsi nelle

traduzioni delle stesse (restano storici, e

probabilmente anche tra i pochi riusciti, i

tentativi di traduzione delle poesie di

Chlebnikov da parte di Angelo Maria Ripellino). “Noi” (il titolo originale è “My”) è

stato ultimato da Evgenij Zamjatin nel 1921,

e rientra per l’appunto tra le opere che più

hanno messo in difficoltà i traduttori che

hanno avuto a che farne. Ricordo che correva

l’anno 2007 e tra le letture consigliate per

prepararsi all’esame di Letteratura Russa III presso l’Università di Perugia rientrava anche

il romanzo “Noi” di Zamjatin. Sembra fosse

ieri la lezione in cui mi fu riferito che dei libri

che avevo letto e rientrano ancora oggi tra le

letture che più hanno segnato la mia formazione (mi riferisco a “1984” di George

Orwell e “Il mondo nuovo” di Aldous Huxley)

erano stati influenzati anche dal romanzo

sovietico. Dovevo leggerlo. L’unica copia

disponibile in zona era nella biblioteca

d’Ateneo, una vecchia edizione tradotta da un titano della slavistica come Ettore Lo

Gatto. Eppure, sarà che lo lessi in tutta fretta

per prepararmi all’esame, sarà che non vi

prestai semplicemente la dovuta attenzione,

il romanzo mi sembrò un susseguirsi di

situazioni incomprensibili e talvolta sconnesse tra di loro, tanto che all’esame

successivo non ebbi nemmeno il coraggio di

dichiarare che l’avevo letto, per l’appunto.

Sin da allora ho però considerato il rapporto

con questo libro in sospeso, nel senso che sapevo che aveva influenzato dei libri per me

troppo importanti, ma io non ero stato in

grado di apprezzarlo. Avrei potuto rileggerlo,

ma come spesso mi capita il proposito di

leggere un libro per la seconda volta è

sempre un proposito.

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È passato più di un decennio da allora e

quasi avevo dimenticato del rapporto rimasto

in sospeso, fino a quando non mi sono casualmente accorto che quest’anno la

Mondadori si è lanciata per la prima volta

nella pubblicazione di questo romanzo,

tradotto da Alessandro Niero, professore di

Letteratura Russa presso l’Università di

Bologna, che aveva già collaborato con la Voland (casa editrice sulla quale hanno un

forte ascendente gli autori russi) per la

pubblicazione dello stesso nel 2013.

Non mi sono fatto sfuggire l’occasione:

Zamjatin stava di nuovo bussando alla mia porta ed era mio dovere aprirgli. Rileggerlo a

distanza di più di 10 anni ha avuto tutt’un

altro sapore. Confermo che la lettura non è

semplice, spesso bisogna leggere dei passaggi

più volte per comprendere appieno cosa sta

accadendo e soprattutto è fondamentale conoscere almeno a grandi linee i caratteri

dell’apparato sociale sovietico e la

visionarietà che contraddistingueva la società

dell’epoca. “Noi”, che fu pubblicato per la

prima volta in lingua inglese nel 1924 mentre il popolo russo avrebbe dovuto aspettare il

1988 per leggerlo in originale, si conferma

probabilmente il primo vero romanzo

distopico. La scrittura assume la forma di un

diario, scritto dal protagonista D-503, che

raccoglie su un suo taccuino tutto ciò che è accaduto nella giornata precedente.

D-503 è uno degli ingegneri capo che lavora

alla costruzione dell’Integrale, un razzo

cosmico che deve portare oltre i confini del pianeta Terra, per farla conoscere a tutte le

civiltà dello spazio, la perfezione dello Stato

Unico che gli uomini sono riusciti a creare.

Ma forse è meglio lasciare al lettore la

sorpresa di addentrarsi a poco a poco in

questo mondo e nelle incertezze che si insinuano come un virus nella mente del

protagonista. Perché, leggendo questo tipo di

libri, c’è una sola vera consapevolezza che

lascia il lettore turbato: scoprire come quanto

più si allontana il momento storico in cui questi romanzi sono stati scritti, tanto più

diventano attuali i loro contenuti.

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Visioni___________________

Don’t worry di Gus Van Sant a cura di Roberto Codini

Gus Van Sant (candidato all’Oscar per “Will

Hunting”, genio ribelle”, Palma d’oro e miglior

regia a Cannes per “Elephant”) è una

garanzia. Questo ho pensato mentre, come

ogni mercoledì sera, mi incamminavo, in una tiepida sera di settembre, verso il “Multisala

Tbur”, il mio cinema del cuore. Il tema

trattato, però, mi preoccupava un po’: la

storia (vera) di John Callahan, fumettista

tetraplegico morto nel 2010. Non avrei mai

potuto immaginare che una storia così drammatica – ho sempre un po’ di timore dei

film che raccontano drammi personali – mi

avrebbe lasciato un’incredibile sensazione di

serenità.

John è un ragazzo di Portland dall’infanzia difficile, figlio non voluto che nella ricerca

della madre ha trovato l’alcool (è alcolizzato

dall’età di 13 anni) e che, poco più che

ventenne, durante una delle sue scorribande

alcoliche in compagnia del suo amico Dexter,

rimane vittima di un terribile incidente automobilistico (Dexter era alla guida),

restando completamente paralizzato.

All’inizio riesce a muovere solo le mani e, non

senza grandi difficoltà, comincia a disegnare

vignette, a scrivere il suo dolore e il suo disagio. Proprio grazie a questo dramma

scoprirà il suo talento di vignettista, spesso

feroce e politicamente scorretto ma con

un’ironia che lo accompagnerà sino all’ultimo

giorno della sua vita. Quando, su una sedia a

rotelle, parteciperà ad un gruppo di auto aiuto per alcolisti, riuscendo finalmente a

relazionarsi con i suoi compagni e ad

accettare il proprio dramma personale

(perché, come direbbe Woody Allen: “essere

felici è essere vivi”). John diverrà una star e troverà anche l’amore, oltre alla rinnovata

consapevolezza che l’arte può salvare la vita.

L’interpretazione di Joaquin Phoenix

(all’inizio doveva essere Robin Williams,

scomparso prematuramente) è

semplicemente straordinaria e dà vita ad un personaggio che difficilmente potremmo

dimenticare. Una delle vignette più celebri di

Callahan, autobiografica e che dà il titolo al

film, mostra un cow boy all’inseguimento di

un uomo e che, mentre osserva una sedia a

rotelle rovesciata, rivolgendosi ai compagni esclama ”Don’t worry, he won’t get far on

foot!” Non può andare molto lontano. E

invece è arrivato in vetta. Uscendo dalla sala,

tra spettatori visibilmente commossi e un po’

sconvolti, ho avvertito un’incredibile sensazione di benessere, un’inaspettata

gioia. Don’t worry, be happy. Forse è anche

questa la magia del cinema.

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Storie____________________ Racconto di Natale Rita Speranza

Il tassista portava la barba a pizzo su un viso allungato ma proporzionato, dalla pelle

olivastra. I capelli, castani, erano raccolti in

un codino legato con un nastro blu. Era di

aspetto piacevole; non doveva avere più di 35

anni. Lo avresti scambiato per un indiano, se

non fosse che a Roma è ancora difficile trovare tassisti extracomunitari, e,

d’altronde, anche la strada che stava

percorrendo, di fianco alla stazione Termini,

somigliava più a una via di Nuova Delhi che

di Roma, a quell’ora. Certo, era triste stare in giro alle undici di

sera alla Vigilia di Natale, ma a lui non dava

fastidio lavorare di notte, anzi, dal giorno

dell'incidente, chiedeva di fare unicamente

turni di notte. Tanto, non riusciva a dormire

mai più di poche ore e male. E poi, sotto sotto, quasi sarebbe stato

contento se un rapinatore una notte fosse

salito sul taxi e gli avesse sparato un

proiettile alle tempie per rubargli i soldi. O

se, magari, una mattina all'alba, dopo l'ultima corsa, di ritorno verso casa, gli fosse

preso un colpo di sonno e si fosse schiantato

contro un muro.

All’altezza di Piazza Vittorio rallentò e

accostò, nel punto in cui era ferma la sola

persona che dava l'impressione di aspettare qualcuno che la portasse via di lì: non poteva

essere che lei la donna che lo aveva chiamato

con il radiotaxi cinque minuti prima.

Le rivolse uno sguardo sommario e distratto,

che gli bastò, tuttavia, a farsi un'idea più o meno chiara della sua cliente.

Non arrivava ai trent’anni e doveva essere

una nigeriana o, forse, una sudanese. In ogni

caso si trattava di un’africana. Aveva bei

lineamenti, ma gli occhi erano cerchiati, e

non sembrava trattarsi solo di stanchezza. Era alta, e, dal quel poco che si vedeva sotto

quel cappotto senape, largo e sformato, che

le arrivava poco sopra l'altezza delle

ginocchia, si intuivano gambe sottili e

slanciate, fasciate da leggins neri e messe in risalto da un paio di decollété dai tacchi alti.

La ragazza accennò un saluto con il capo e si

lasciò cadere sul sedile posteriore. Si limitò a

dire il posto in cui voleva essere portata: il

parco degli acquedotti.

Il tassista registrò l'informazione e fissò il suo pensiero, ma solo per un istante, sul fatto

che doveva trattarsi di una prostituta.

Cos’altro poteva andarci a fare una ragazza al parco degli acquedotti da sola e a

quell’ora? Con ogni probabilità aveva un

appuntamento già fissato con qualcuno

ancora più solo di lui per andare a puttane la

notte di Natale!

Per tutto il tragitto non scambiarono una sola parola, né uno sguardo attraverso lo

specchietto retrovisore: le loro solitudini

erano troppo grandi e troppo diverse per

trovare un punto di contatto. Sotto un cielo

così basso da sembrare sul punto di cadere sulla terra, del tutto indifferenti alle luci

natalizie ancora accese per le strade di

Roma, arrivarono a destinazione.

La ragazza chiese quanto doveva pagare e

lasciò anche una mancia.

Il tassista le disse “Buonasera e grazie!”, ma lei era già fuori dal taxi e forse neanche lo

sentì.

La vide incamminarsi verso l'entrata più buia

del parco, con un passo incerto e pesante,

quasi portasse sulle spalle tutta la fatica del mondo. Aveva percorso solo poche decine di

metri, eppure lo sterrato era già a punto di

trascinarla fuori dalla vista e inghiottirla.

Il tassista ebbe un brivido, come una

premonizione che qualcosa di terribile stesse

per accadere. E, un attimo dopo, realizzò.

- Che stupido sono stato -

- Come ho fatto a non capire che stava

succedendo?-

Si precipitò fuori dal taxi, corse nella direzione verso la quale l'aveva vista sparire.

Inciampò in un ramo secco ma si rialzò

subito.

In pochi second superò lo svantaggio e

recuperò la vista della ragazza.

Stava lì, appoggiata ad un pino, lo sguardo rivolto a terra.

Le si erano rotte le acque.

Nella mano sinistra aveva un paio di forbici e

un laccio; con la destra si accarezzava la

pancia, ben visibile, ora che aveva spostato il lembo del cappotto.

Non importava quanto tempo sarebbe

passato prima che nascesse, tanto la

decisione era già presa da tempo: una volta

tagliato il cordone avrebbe lasciato il

fagottino nel parco, si, ma non in un punto troppo nascosto.

E lei sarebbe scappata.

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Verso dove non lo sapeva ancora; magari non

sarebbe neanche sopravvissuta al parto. E

magari questa sarebbe stata la sua fortuna.

- Non muoverti e stai tranquilla! – le gridò il tassista.

- Mi chiamo Stefano. E tu? –

La ragazza lo guardò, muta.

- Non te ne puoi andare via come Laura e

Alessandro! –

Lei non capì. Non poteva capire. - Mia moglie e mio figlio -

- Una maledetta sera di nove mesi fa. Ero io

alla guida. Sulla Pontina. Tornavamo da una

cena con amici. Ho provato a sorpassare un

TIR. Ma quello, senza freccia e senza preavviso, si è spostato anche lui sulla corsia

di sorpasso, nello stesso momento -

- Fatimah, mi chiamo Fatimah – disse con un

filo di voce la ragazza.

Allora lui ebbe la certezza che poteva

avvicinarsi.

Lo fece con un po’ di esitazione, quella di chi ha perso l’abitudine ad ogni gesto di intimità.

Ma Fatimah non oppose alcuna resistenza.

Né al braccio che le cingeva le spalle, né alla

mano che, con dolcezza, le portava via le

forbici e il laccio, né, qualche minuto dopo, alla leggera spinta che l’aiutò a sedersi

nuovamente sul sedile posteriore. E via di

corsa verso il Policlinico Casilino.

Questa volta lo specchietto retrovisore

rimandò l’incrocio dei loro sguardi.

Sul viso di Fatimah comparvero le prime lacrime. Poi, un debole sorriso le illuminò il

volto. In quel preciso istante Stefano nacque

una seconda volta, dopo una morte durata

nove mesi.

Anche per Fatimah iniziava una nuova vita. L’ennesima, dopo le tante già vissute e finite

male sino a quella notte. E sperò che davvero

questa potesse essere la vita “giusta”. Tanto

per cominciare, quest’anno avrebbe avuto un

Gesù Bambino tutto per sé!

Illustrazione di Alessandra Lanciotti © 2018

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Quell’unghia spezzata Marco Scarsella

Elena sospirò profondamente, continuando a

osservare la sua mano sinistra, inerte sul bracciolo logorato della poltroncina in pelle.

Quell’unghia spezzata, su una mano così

curata, era inaccettabile per lei. Cercò di non

pensarci: con un movimento fluido accavallò

le gambe e inclinò impercettibilmente a destra la testa e il busto, riuscendo così a

vedersi nello specchio posto alle spalle di

Gabriele, che le sedeva di fronte, immerso

nella lettura di un quotidiano sportivo. Come

era sua abitudine, si soffermò con attenzione

sull’immagine che lo specchio le restituiva: i lunghi capelli, ricadendo sulla spalla destra e

sul seno disegnato dalla blusa di seta,

brillavano sotto la fredda luce dei neon. Così

come brillavano la collana e gli orecchini di

perle che indossava, e le labbra lucide, leggermente increspate dalla concentrazione

che ella poneva nell’osservarsi. “Tutto brilla

in me”, pensava Elena, poi spostò lo sguardo

sui suoi occhi, e sospirando continuò a

fissarne la nera profondità, cercandovi una

luce che non c’era. Li sentiva distintamente i sospiri della donna

che amava e che sedeva di fronte a lui, e

percepiva la sua inquietudine, il suo amaro

nervosismo. Ma Gabriele continuava a

fingere di leggere un articolo su un anonimo evento sportivo, curvo e sprofondato nella

poltrona. Le grandi mani callose stringevano

oltre il necessario i bordi delle pagine del

quotidiano, spiegazzandole, e solo di tanto in

tanto, furtivamente, lui la osservava. Lo

stesso sguardo furtivo che a lungo aveva posato su di lei, prima di conoscerla, quando

elegante e risoluta prendeva un taxi davanti

al cantiere dove lui lavorava come operaio.

Gabriele conosceva bene i sospiri di Elena, i

suoi movimenti armoniosi, che aveva sempre fatto fatica ad associare ad una donna dal

carattere tanto duro e controllato. Spesso in

passato si era sentito ferito e disprezzato,

senza che nulla di specifico avesse generato questo suo sentimento, ma soltanto per il

confronto tra la sua calda semplicità e la

fredda complessità di lei. La odiava così tanto

in quei momenti, la amava così tanto...

Finalmente il medico entrò nella stanza,

Elena e Gabriele per qualche attimo

restarono immobili, ignorandolo e

continuando a ignorarsi. Nel suo camice

immacolato, gli occhiali spessi che rendevano il suo sguardo lontano e imperscrutabile, il

medico si rivolse direttamente alla donna:

“Signora Elena, la sua diagnosi è purtroppo

confermata”. Elena continuava a fissare i

propri occhi nello specchio: “Quanto mi resta, Dottore? Quanto tempo abbiamo

ancora?”

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La confidente Enzo Truppa

Non riesco mai a capire cosa giri per la sua testa. Ogni volta che è ferma lì a fissarmi

sembra chissà quali pensieri stiano

alimentando la sua immaginazione, a me

impenetrabile a causa della insufficiente

empatia che ci lega. Certo, sarebbe

decisamente interessante riuscire ad affondare seppur per un attimo in quel flusso

informe di idee, farsi trasportare e toccare

con la mia stessa mente tutte le assurde

congetture della sua. Molto probabilmente

però ne resterei profondamente deluso. È troppo ebete quello sguardo per riflettere una

certa complessità di pensiero, anzi forse tutto

è ridotto ad una semplice osservazione

passiva di ciò che accade attorno. Sì, perché

lei il più delle volte tende ad essere

completamente isolata dall’ambiente che la circonda. Talvolta la definirei decisamente

irritante per come riesce a chiudersi in se

stessa ed ignorarmi, o ignorare addirittura

con tale facilità i nostri ospiti, mettendoci a

disagio in quelle tante serate di compagnia organizzate proprio per uscire dalla nostra

monotonia quotidiana. Ma lei ha i suoi amici,

e le bastano quelli. A casa da noi però loro

mai, non mi sembra di averli mai visti. No,

decisamente. E chissà cosa avranno di

speciale per meritarsi tutta la sua stima e attenzione, molta più di quella che abbia mai

potuto dimostrare nei confronti di un Ivan o

un Giulio qualsiasi. Da quando la conobbe

Ivan ne fu entusiasta, pensava fosse davvero

ciò che faceva al caso mio. Eppure, devo ammettere che mi ci volle un po’ per farmi

coraggio e presentarla ai miei amici,

soprattutto per come la storia era iniziata. Ci

tornerò dopo. Fatto sta che lei preferisce

restare nel suo mondo incantato. Anche la

sua assenza mentale mi sembra davvero troppo marcata, a tal punto che ho paura di

restare da solo con lei in determinate

circostanze, non sapendo quali risvolti

potrebbe prendere la situazione. Certo,

qualcosa della nostra convivenza deve piacerle, altrimenti non avrebbe un valido

motivo per continuare a stare qui con me, a

sopportare i miei sfoghi, i miei alti e bassi. La

mia assenza. La mia assenza, che si traduce

in momenti di estrema tenerezza quando si

presenta l’occasione di passare del tempo assieme, o può sfogare in liti fugaci, ma

altrettanto feroci.

Ma tutto questo fa parte della nostra vita assieme, se riesco a sopportarlo io allora deve

riuscire a sopportarlo anche lei, ecco il

motivo per cui continuiamo a stare in casa

insieme nonostante le nostre incolmabili

differenze. Perché non ci capiamo.

È la profonda incomprensione reciproca che ci lega, ma al tempo stesso la coscienza che

nonostante le nostre divergenze, quello che

inconsciamente uno fa, porta direttamente o

indirettamente al benessere del secondo. Non

si tratta di un legame inteso nel senso sentimentale del termine, come profonda

affezione tra due entità. Siamo legati in una

corrente di eventi incontrollati che ci ha

portato a stare assieme e continua a farci

sperare l’uno nell’altra, una serie di azioni

indipendenti nella loro origine ma che si armonizzano in un unico disegno comune.

Questo disegno in tal modo si sviluppa e si

accresce, incorpora le nostre esperienze, sia

comuni che singole, in un quadro che deve

per forza di cose estendersi sempre più per raccogliere al suo interno gli eventi delle

nostre vite.

Abbiamo iniziato a convivere ormai un anno

fa, e già dopo pochi mesi mi rendevo conto

che probabilmente la decisione di condividere

con lei il piccolo appartamento che ho in affitto nella periferia sud di Roma sarebbe

stata la più sbagliata che potessi prendere.

In principio era solo affetto e dolcezza, come

ogni buona storia vuole che inizi, ma sono

poi subito iniziati, con la maturità del rapporto, i primi scontri e incomprensioni. È

bastata la profondità del suo sguardo, la

dolcezza dei suoi occhi, la tenerezza delle

reciproche carezze a trarmi in inganno con

disarmante semplicità. Chi sapeva che

saremmo presto arrivati ad una situazione simile. Il rimpianto di tale decisione è oggi

troppo forte, ogni storia ha i suoi alti e bassi

ma non mi sarei mai aspettato che si potesse

arrivare al punto in cui mi ritrovo oggi, a

rinnegare un amore nato probabilmente troppo in fretta, un amore che in tutta

sincerità era solo passione.

Quando è iniziata la nostra storia, la mia

famiglia non mi ha dato nessun sostegno.

Anzi, penso sia stato praticamente palese il

loro rifiuto della sua presenza nella mia vita, è stato esplicitato più volte di fronte a lei

stessa.

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Eppure, abbiamo deciso di andare avanti, o

piuttosto ho, io, deciso di andare avanti, perché chi ospitava ero io, chi si era messo in

casa mia approfittando della mia situazione

economica particolarmente favorevole era lei,

che teneva vivo in me quel sogno dal quale

più volte la mia famiglia ha provato a risvegliarmi. Uscivo da poco da un’altra

storia, non particolarmente tormentata ma

comunque intensa con l’Altra, la durata di

circa un anno e mezzo, e avevo

pubblicamente annunciato che il mio

desiderio era, all’indomani del commiato dall’Altra, di passare un po’ di tempo libero

da legami sentimentali per fare il punto della

situazione, alla soglia dei 30 anni e con

ancora troppi progetti nel cassetto. Invece lei

l’ho conosciuta solo poche settimane dopo, troppo poco tempo anche solo per rendermi

conto di essere nuovamente libero. Ma non

ho saputo resistere ai suoi occhi, a quelle

gemme di smeraldo purissimo, così

penetranti, così violenti, così sensuali.

Sono quegli gli occhi che mi stregano ogni

volta che sento il bisogno di stringerla a me e passare del tempo con lei e confidarle tutto

ciò che non ho il coraggio di dire a nessuno.

Lei mi ascolta. Probabilmente non capisce,

oppure non le importa assolutamente niente

di quello che ho da dirle, ma almeno mi ascolta e trovare qualcuno che abbia la

pazienza di ascoltare ciò che penso è una

delle più grandi difficoltà della mia vita. Per

questo la tengo con me, perché lei è la mia

confidente e mi sento di poterle dire tutto,

perché lei mi resta vicino nonostante i miei sbalzi d’umore, nonostante la tedii in

continuazione con le mie illazioni mentali e

nonostante io non sia per lei un confidente

pari a quello che rappresenta lei per me. Noi

ci ascoltiamo, e in questi contesti, la necessità di comprenderci passa in secondo

piano. L’importante è ascoltarsi.

Perché comunque io non posso

comprenderla, così come non può

comprendermi lei. C’è poca empatia tra me e

la mia gatta.

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Effetto sorpresa

Giulia Ciccotti

Era sempre stato solo nel suo mondo e si

sentiva a suo agio nell’elemento dell’acqua, i

suoi capelli biondi e radi erano

perennemente inzuppati e le gocce verdemare

aderivano sul suo corpo nudo solcandone

ogni muscolo. Non era mai stato un problema mangiare perché a nutrirlo ci

pensava sua madre, l’unico essere umano

con cui aveva un simbiotico rapporto. Non

aveva molti interessi, fatta eccezione per la

musica classica che adorava ascoltare poggiando l’orecchio a coglierne le

vibrazioni… Sussultava quando sentiva

gridare una voce maschile che rabbiosa

sgridava sua madre e si sentiva impotente,

lui uno scricciolo in confronto a quel timbro

così perentorio, ma poi quando erano finalmente soli, lui e sua madre, allora quasi

la rimproverava dandole dei calcetti ma pieni

d’amore per ricordarle che esisteva e che lei

in quanto sua madre aveva il dovere di farsi

rispettare. Non gli servivano le parole per comunicare con lei, stavano sempre insieme,

spesso si sentiva agitato e il solo udire la

voce dolce di sua madre lo calmava, lo

rasserenava, ma di contro quando lei si

sentiva stanca o nervosa queste sensazioni si

riflettevano a specchio in lui. Detestava quando sua madre singhiozzava e questo lo

turbava nel profondo non facendolo sentire a

suo agio ed arrivava a star male fisicamente

quando lei cercava di annegare i suoi

dispiaceri bevendo alcool e fumando. Per fortuna poi si ravvedeva e dopo due o tre

sorsate o boccate di fumo aiutata da una

voce femminile più bassa nel timbro ma al

contempo saggia e profonda smetteva e si

purificava stando attenta all’alimentazione e

ciò giovava anche alla salute di suo figlio. Lui

amava stare al buio mentre nuotava ma gli

capitava di accorgersi in alcuni frangenti del

chiarore e della trasparenza dell'acqua, ma questa sensazione non durava a lungo e

frequentemente l'acqua si spegneva, la

penombra tornava ad avvolgerlo e tutto

ritornava come prima e si domandava se la

madre si lasciasse avvolgere dall'oscurità anche lei. Poi tutto cambiò mentre i mesi

passavano lei si sentiva sempre più stanca

mentre lui cominciò a prendere peso e a

trascorrere il tempo sdraiato a testa in giù,

sua madre smise di parlargli e lui la percepì

preoccupata e se ne addolorò forse era arrivato il momento di lasciare il suo nido

sicuro e affrontare anche quella voce

maschile che era tornata a urlare contro sua

madre e di riflesso dunque contro di lui.

Avrebbe dovuto lasciare il suo elemento sicuro, l’acqua e il tepore che l’aveva avvolto

in quei nove mesi, ma si fece coraggio,

doveva affrontare il suo destino, così

divenendo rosso in volto per lo sforzo, venne

alla luce e pianse liberatorio per salutare sua

madre con la quale aveva diviso gioie e preoccupazioni per tutta la durata della

gravidanza. Soprattutto gridò la sua

esistenza a quella voce maschile che si

spaventò vedendo quel figlio non voluto e non

desiderato gridare con quanto più fiato aveva in corpo meravigliandosi di come un esserino

così piccolo potesse avere così tanta forza di

dichiarare il suo stare al mondo. Quel

vigliacco se ne andò lasciandoli finalmente in

pace e lui crebbe grazie all’amore ed ai

sacrifici di sua madre e di sua nonna che gli cantava la ninna nanna con quella voce

bassa, saggia e profonda che aveva imparato

a conoscere fin da quando era nella pancia

quando lei consigliava a sua madre di non

bere e non fumare per il bene di lui. Ora che

è un ometto di tre anni ama ancora nuotare ma con il costumino, ascoltare musica

classica con sua madre che si è risposata

felicemente con un uomo che lui ha imparato

a chiamare papà e non ha più bisogno di

lavorare di notte, così entrambi possono finalmente passeggiare e parlare fino allo

sfinimento alla luce del sole, proprio come

piaceva a lei.

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Sapevo che saresti venuto Federica Parillo

Lacrime calde le riempivano gli occhi chiari,

scivolavano silenziose sulle guance aprendosi un varco sulla pelle nivea come avrebbe fatto

una muta valanga lungo le pendici di una

montagna. La stanza era avvolta da una

penombra spessa e quasi tangibile, le spire

sottili dei raggi lunari illuminavano solo il profilo del letto di quell’anonimo albergo in

cui stava alloggiando. Aveva provato a

dormire ma gli occhi non ne avevano voluto

sapere di chiudersi, fissavano il soffitto e,

senza motivo, si riempivano di lacrime.

“Che stupida” Sussurrò all’oscurità mentre con la mano

destra carezzava l’elsa di Veleno del Cuore, la

sua fedele compagna, l’arma che non l’aveva

mai abbandonata nonostante l’avesse vista

vacillare nel buio delle tende sul campo di battaglia. Ora era sempre quella spada che le

faceva da spettatrice mentre il suo cuore

sembrava sul punto di crollare, esplodere e

abbandonarla. Cosa la spingeva a

sopravvivere? La vendetta. Ed era

abbastanza? No. C’erano stati giorni in cui solo l’odio e la

rabbia le avevano permesso di mettere i piedi

a terra e ora questo non le bastava più.

Nonostante non le fosse facile ammetterlo

aveva bisogno di qualcuno che le ricordasse di non essere soltanto una macchina da

guerra, aveva bisogno di qualcuno che le

ricordasse cosa volesse dire amare ed essere

amata.

Socchiuse gli occhi incorniciati da ciglia

umide, strinse le labbra riducendole a due linee sottili e secche, la mano accarezzò per

l’ultima volta la spada per poi allontanarsi da

essa e da quel freddo conforto che poteva

darle. Sembrava che non ci fosse niente che

la potesse consolare, mostrarsi debole, perfino con se stessa, non era da lei eppure

non riusciva a contrastare le lacrime.

Era come combattere un nemico invisibile

senza sapere come e dove ferirlo, poteva

continuare a battersi alla cieca ma, mentre i

suoi colpi andavano a vuoto, lei continuava a sanguinare. Si sedette sul bordo del letto

prendendosi il capo tra le mani, continuando

a darsi della stupida mentalmente. Le

mancava Sholto, le mancava quella Chandra

umana che era stata al suo fianco.

Una mano pallida scivolò dai capelli biondi

fino alla guancia cercando di cancellare il segno delle lacrime massaggiandosi la pelle.

Avvertì qualcosa all’interno della stanza.

Era una sensazione strana, sapeva che non

c’era nessuno eppure, allo stesso tempo ne

avvertiva la presenza. La pelle iniziò a formicolarle, il cuore a batterle più forte nel

petto mentre sollevava il capo per potersi

guardare intorno. Vicino alla finestra, in

piedi davanti alle tende chiare si stagliava,

contro la luce lunare, il profilo di un uomo

alto e muscoloso. Non afferrò la spada. Rimase immobile, tutto di lei era

perfettamente immobile tranne le lacrime che

avevano ripreso a rincorrersi. Avrebbe

riconosciuto quel profilo tra mille, anche a

distanza di secoli. “S-sholto…”

L’unica parola che le sue labbra proferirono

era incerta, rotta dalle lacrime e dalla gola

secca. Non riusciva ad alzarsi nonostante il

suo desiderio più grande fosse quello di

abbracciarlo, di sentirlo di nuovo vicino a sé, di sentire il suo odore e il suo sorriso.

Ogni cosa di lui le mancava.

“Chandra, sei bella e forte come il primo

giorno in cui ti ho visto nuda e spaurita in

quel bosco. Ricordi la sera in cui scelsi il tuo nome? Splendevi sotto la luna,

probabilmente ero già innamorato di te.”

Un singhiozzo ruppe il silenzio dopo che

l’uomo aveva proferito quelle parole, la

vichinga non ricordava nemmeno l’ultima

volta in cui aveva sentito il proprio cuore battere per qualcosa.

“Sapevo che saresti venuto, amore mio.”

Rispose con la voce rotta dalle lacrime che

non riusciva ad ingoiare. Ora ricordava

esattamente com’era vivere, com’era respirare e sentire qualcosa. Finalmente

trovò la forza di alzarsi in piedi e raggiungere

l’uomo amato e perduto tanti anni prima. Lo

strinse in un abbraccio disperato, vi si

aggrappò come se fosse l’unica cosa certa in

un mondo di sabbia e menzogne. Non si era resa conto di quanto si sentisse sola finché,

in quel momento, lui non le ricordò com’era

stare insieme. Il mondo sembrava meno

grigio. Poteva avvertire il sorriso di Sholto

che, ora, le posava le labbra tra i capelli.

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“Non sei mai davvero sola, Chandra. Avrai sempre me e Harren a ricordarti chi sei

veramente, non ci saremo fisicamente ma ci

saremo.”

“N-non andare.”

Questa volta l’uomo non sorrideva più, le posò un bacio tra i capelli, le mani le

carezzavano la schiena per rassicurarla.

“Sai che non posso restare.”

Chandra crollò in ginocchio, senza forze per

il pianto prolungato e per quella terribile

verità, Sholto la sorresse per evitare che le scivolasse tra le braccia.

“Ti amo, Chandra ma non vivere ancorata al

passato. Vivi. Smettila di sopravvivere e

basta”.

Non era il solito ti amo, era un ti amo che parlava di addio, di attesa, di pianti, di

dolore, di una felicità negata.

Soffocò tutto quello sulle sue labbra, lo baciò come se fosse la prima volta, come se fosse

l’ultima. Fu un bacio dolce ma umido, le

labbra bagnate delle loro lacrime sembravano

suggellare l’ennesimo addio.

La stanza, ora, appariva ancora più ostile.

Chandra spalancò gli occhi e si sollevò a

sedere sul letto, si guardò intorno alla ricerca

di Sholto. Ma c’era solo lei e la spada,

sdraiata al suo fianco. Aveva le guance rigate

di lacrime, quelle lacrime che raramente concedeva a se stessa perché lei era forte, era

una roccia. Ma anche le rocce si spezzano e

quel sogno, quella visione aveva creato una

piccola spaccatura in lei. Un cuore infranto

non può più essere risanato; e il suo era in

mille pezzi.

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Spazi____________________

Ultima fila, laterale Roberto Codini

Amo il cinema. Nel senso che amo guardare i

film e nel senso che amo la sala, al punto che

per me le due cose non si possono separare.

Nella mia testa il cinema - inteso come sala - è quasi sempre lo stesso: il “Tibur” di Via

degli Etruschi, la ex sala parrocchiale del

quartiere popolare di San Lorenzo, a Roma,

che frequento dai tempi dell’Università.

Un prete assonnato strappava il biglietto

senza quasi vederti e tu ti potevi accomodare in una sala piccola e un po’ decadente, con i

sedili da reparto ortopedico ma guai a

dimenticarti il cuscino!

Con gli anni quel piccolo cinema per me è

diventato un luogo del cuore perché nella mia gioventù ha rappresentato l’agognata

meta, la via di fuga dopo stressanti esami

universitari. Era un luogo nel quale ritrovavo

pace, serenità e amore: mi ci rifugiavo con la

compagna della mia vita, la ragazza che oggi

è mia moglie e che sottoponevo a estenuanti “prove” di resistenza: vere e proprie prove

d’amore!

In un caldo pomeriggio primaverile la

convinsi a vedere con me “Sotto gli ulivi”, un

film di un regista iraniano oggi scomparso, Kiarostami, rigorosamente in versione

originale sottotitolata; alla fine del film, dopo

aver contato in sala ben cinque spettatori

paganti, mi rivolsi a Dolores con la domanda

di rito: “Ti è piaciuto?” Lei mi guardo negli

occhi e ripose, senza battere ciglio: “bello…si…forse…un po’ lento…”. Fu in quel

momento che decisi che io quella donna me

la sarei sposata!

Ora è cambiato tutto: i posti sono numerati e

le sale sono diventate due, tecnologiche e insonorizzate, mentre allora durante le

proiezioni pomeridiane sentivi distintamente

le urla dei ragazzini che giocavano a pallone

nel cortile parrocchiale. Certo poter

prenotare e scegliere il tuo posto online è una gran comodità, è vero, ma quel leggero stato

di ansia mista ad eccitazione che

accompagnavano la corsa per arrivare a

scegliere il posto migliore era, però, tutta

un’altra cosa!

Ancora oggi il mio posto è, più meno, quello di allora: ultima fila, laterale, con possibilità

di fuga. Una fuga, naturalmente, solo

ipotetica, perché ho sempre detestato quelli

che se ne vanno prima della fine del film: non

si interrompe un’emozione, anche se

negativa! Continua a piacermi il cinema inteso come

sala, come luogo nel quale si ritrovano

casualmente insieme, per viversi

un’emozione, per guardarsi una storia,

persone mosse dalle esigenze più diverse. Per questo in genere arrivo in anticipo, anche se

ho già il biglietto, e mi guardo il pubblico che

aspetta sulla piazzetta antistante il cinema;

c’è quello che entra deciso, c’è quello che si

ferma e cerca di capire di più perché non ha

idea di che cosa vedere, c’è, poi, quello che entra a prescindere. Il privilegio di essere

spettatori, in fondo, sta anche nel fatto che

non solo puoi guardarti il film ma che puoi

anche osservare le persone, prima, durante e

soprattutto dopo la proiezione: sguardi commossi, sguardi perplessi o arrabbiati o

attoniti, spettatori che rimangono incollati

alla sedia come se non trovassero la forza di

alzarsi, ipnotizzati dai titoli di coda che

scorrono sullo schermo.

Ogni tanto incrocio lo sguardo di qualcuno e capisco se, sul film appena visto, siamo

d’accordo. In ogni caso, sorrido. Anche se il

film mi ha fatto piangere. Anzi, soprattutto se

mi ha fatto piangere.

A volte, mentre ripenso al film che ho appena

visto, mi chiedo se uno dei motivi per cui mi piace così tanto andare al cinema non stia

proprio nel fatto che ne puoi parlare con

qualcuno subito dopo: il mio compagno o

compagna di visione ma anche lo sconosciuto

spettatore seduto vicino a me. Altro che download! Altro che streaming! Il cinema,

inteso come sala, è vita!

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INVERSI__________________

Atlantide Francesco Dettori

Amica mia, rimpiangi ciò ch’hai perso, quel vivere sereno e spensierato,

l’Atlantide nel cuore, il tuo passato oggi irrecuperabile, sommerso.

La vita è il mare e navighiamo verso,

isola o sogno, un ideale innato, e a ognuno la sua rotta, il suo tracciato,

e a ognuno il suo destino, buono o avverso.

È sprofondata quell’antica gioia. Ma in mezzo al nulla spieghi le tue vele,

anche nella bonaccia, nella noia…

Scrivi, dai sfogo alla malinconia,

scrivi d’amore, tra dolcezza e fiele. Soffia la “brezza” della fantasia…

E credi all’utopia:

il corpo tuo malato si risana, riemerge quell’Atlantide lontana!

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Chi l’ha scritto__________ A cura di Rita Speranza

Indovina da quale romanzo o novella abbiamo estratto questo brano: cerca nella memoria e nella tua libreria, parlane con gli amici, fai una ricerca. (Nel prossimo numero troverai,comunque, la risposta)

Indizi Una narrazione strabordante di colori, sapori, suoni e odori. Un romanzo da gustare con tutti i sensi. Il racconto di un amore che, come spesso capita alle passioni difficili, dura tutta la vita.

Un autore da premio Nobel.

“La svegliò dal sortilegio una negra felice

con un drappo colorato sulla testa,

rotonda e bella, che le offrì un triangolo di

ananas infilzato sulla punta di un coltello

da macellaio.

Lei lo prese, se lo mise intero in bocca, lo assaporò, e stava assaggiandolo con lo

sguardo che errava sulla folla, quando una

commozione la prese sul posto. Alle sue

spalle, così vicino al suo orecchio che solo

lei poté sentirla nella confusione, aveva sentito la voce:

«Questo non è un buon posto per una dea

incoronata.» Lei girò la testa e vide a due

palmi dai suoi occhi gli altri occhi glaciali,

il viso livido, le labbra impietrite dalla

paura, così come le aveva viste nel tumulto della messa di mezzanotte la prima volta

che lui era stato così vicino a lei, ma a

differenza di allora non sentì la

commozione dell'amore ma l'abisso del

disincanto. In un istante le si rivelò nella sua completezza la misura del suo stesso

inganno, e si chiese atterrita come avesse

potuto covare per tanto tempo e con tanta

sevizia una simile chimera nel cuore. A

malapena riuscì a pensare: "Dio mio,

pover'uomo!".

Soluzione di Chi l’ha scritto numero

zero: l’autore proposto nel numero scorso è

Ian McEwan ed il brano è tratto dal

romanzo “Nel guscio”

…………………………………………………………………...Coordinamento redazionale Rocco Ruggiero Segreteria di redazione Rita Speranza, Federica Parillo, Fabio Volpe Web designer Agnese D’Ammando

Web master Giulia Ciccotti Ricerca immagini Enzo Truppa Eventi Paolo Chirafisi

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