editoriale - Associazione Culturale Thule Italia Italia giu...Rivoluzione e Tradizione 6 Europa dei...

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Rivoluzione e Tradizione

6 Europa dei Popoli? O Europa degli Stati?

Storia e Controstoria

12 Consuetudine giuridica, anima e destino dei popoli

Storia e Controstoria

14 Carlos Castaneda: realtà, surrealtà, irrealtà.

15 Che giudici quei giudici.

16 Psichiatrico

17La religione del Führer: una, nessuna e centomila.

18 Un ebreo traduce il “Mein Kampf”.

19 Rifondazioni

Difesa della Tradizione

26 platone parte prima

Thule Socii

36 La Dea dell’abbondanza e il suo culto a Roma

38 Dal Soratte alla ierofania lupo: tratti di una spiritualità

apollineo-italica

41 Il mistero della Drüggelter Kapelle

45 Lucus Feroniae

Il Pensiero

52 una sintesi per la thule

Recensioni

58 la schiera di igor

60 La Fortezza di Heinrich Himmler

Attualita’

66 Il Rifiuto solido urbano: il prodotto finale del paradigma imperante.

n Manifesto Politico per Th ule?Di Marco LinguardoL’estraneità della

Th ule Italia dall’agone politico e dei partiti come sancito nell’atto costitutivo non è qui messa in discussione ma, è forte l’esigenza di mostrare i campi più nettamente di quanto un articolo dello statuto possa fare. Disseminare il campo da possibili mine poste da un invertito valore delle parole o dal timore del loro uso è per noi un doveroso compito.Innanzitutto ricordiamo i signifi cati e le diff erenze tra l’Arte della politica e la metapolitica. La prima rappresenta - com’è noto - l’arte di governare mentre della seconda ne vediamo più sovente le deludenti conclusioni piuttosto che il senso, risolvendosi spesso nella deprimente “arte degli impotenti” mostrandosi nella costruzione di castelli di carta di stampo teorico fi losofi co prodotti dalla frustrazione di colui che non governa per la semplice ragione che ciò gli è stato – per varie ragioni – precluso. In questo caso il nascondersi dietro il manto della metapolitica è un esercizio che oltre ad essere inutile, visto l’assunta diff erenza tra reale ed immaginario - con conseguente caduta d’ogni astrazione in una presunta fase d’attuazione -, è altresì dannoso perché devia dalla crescita di una vera alternativa politica. Ma veniamo alle defi nizioni ed agli aspetti più elevati della metapolitica.Secondo Althusser, ad esempio, trattasi dell’elaborazione di una politica come processo senza oggetto; una politica non sottoposta alla norma dell’oggettività. Anche in questo caso tuttavia si può facilmente presagire come il concepimento di qualsivoglia pensiero con tali presupposti sia destinato all’aborto nel medesimo atto del parto.

A queste visioni della metapolitica tra fuga dalla realtà e fi losofi a funambolica si può (si deve!) contrapporre quella di un Max Scheler il quale rileva con chiarezza che non può esistere metapolitica senza politica, il che costringe a non pensare a cose inutili, bensì alla trasformazione della realtà odierna “per soppiantare i governanti e chi mantiene la presente condizione” e ciò nel pensiero di Scheler non poteva essere disgiunto da una “rivoluzione culturale”. Il lavoro intensivo nell’ordine culturale quindi come condizione previa e necessaria per la presa del potere politico: è questa una seconda accezione di metapolítica, come mera attività culturale, ma che precede necessariamente l’azione politica (concetto questo ben noto a Gramsci) La metapolítica - thá methá politiká – quindi come disciplina che va oltre la politica, che la trascende, nel senso che cerca la sua ultima ragione di essere, il fondamento non-politico della politica. Disciplina che presenta come brevemente accennato due aspetti: è fi losofi ca e politica contemporaneamente. Filosofi ca mentre studia nelle sue ragioni ultime le categorie che condizionano l’azione politica dei governi di turno ed è politica, non appena cerca col suo sapere di creare le condizioni “per soppiantare i governanti e governatori della presente situazione”, secondo le parole di Max Scheler. Chi non comprende che entrambi gli aspetti debbano essere contemplati vedrà solo e soltanto la metà e non la méta.Come appare chiaro, è impresa improba mantenere il nostro presupposto – molto nobile invero! – di tracciare i campi nettamente a meno di percorrere la strada già battuta dalla Novelle Droite: fare metapolitica senza politica, nel nostro specifi co di fare cultura senza fare metapolitica e quindi politica.

Rimpossessarsi della cultura è un dovere ma non può essere considerato un punto d’arrivo e comunque una tale aspirazione è già di per se politica. Come conseguenza di quanto aff ermato è azione culturale porre rimedio alla sovversione dei Valori tanto quanto sia nel contempo azione politica: nel momento in cui tradizionalmente si viene a parlare ed agire in nome dell’Onore, Fedeltà, Rispetto, Giustizia in una società fondata sul disonore, sull’infedeltà, sull’insolenza e sull’ingiustizia si attua un terremoto politico! Terremoto sotto la cui potenza crollerebbe in un solo istante l’impalcatura di uno stato il cui insegnamento è l’esatto opposto dei cui sopra Valori.Esiste oggi un senso dell’Onore o di Giustizia?Chi osasse rispondere aff ermativamente o è un bugiardo o è uno stupido o è in malafede!Molti sarebbero gli esempi in cui un’azione culturale si potrebbe rivelare immediatamente quale azione politica, ma questo non è il luogo deputato per aff rontare il lungo elenco.Qui si vuole “soltanto” porre l’accento sulla pericolosità di imporre ed auto imporsi dei limiti che vincolerebbero la completa espressione del nostro messaggio. Non bisogna temere le parole ma saperle usare. Non si deve sfuggire dalla responsabilità che è insita nel nostro nome, ma accoglierla come un dono. Non deleghiamo ad altro ciò che è nostro dovere compiere.

Riacquistare la dignità di popolo passando attraverso una cosciente consapevolezza del nostro passato è il primo passo verso un cammino che ha una direzione alta e non altra.Verso Th ule!

Uthule italia

editorialedi Marco Linguardo

bimestraleanno Vgiuno/luglio/agosto 2007distribuzione gratuita internafotocomposto in proprioprogetto grafi co e copertina:Antonello Molella

rivoluzione e tradizione rivoluzion

e e tr

adiz

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Era il 1996 quando, per la prima volta, ci siamo posti questa domanda in maniera approfondita e seria. Il motivo di tale rifl essione fu la notizia (che oggi ho ritrovato in un sito internet) sulla restituzione della Pietra del Destino agli scozzesi da parte della Corna britannica. Ritenendo che la politica sia fatta di gesti simbolici pensai che una tale notizia, dai più archiviata come “folklore” privo d’importanza, fosse in vece un segnale tangibile di una crisi d’autorità che investiva una potere unitario, e fortemente rappresentativo, quale è la monarchia.

“30 Novembre 1996E’ di questi ultimi tempi la notizia sibillina che l’Inghilterra ha restituito alla comunità scozzese la Pietra del Destino, detta “Stone of Scone”, trafugata secoli or sono dopo le sanguinose repressioni in Scozia. La pietra è un macigno di calcare di circa 200 chilogrammi, e fu rubata come trofeo di guerra alla fi ne del 1200 da Edoardo I, re d’Inghilterra. Uno dei tanti tentativi di infi acchire il morale dei coraggiosi Highlanders. La pietra, dopo numerose peripezie, giaceva ormai da lungo tempo sotto il seggio del trono reale conservato nell’abbazia di Westminster.Ma cosa nasconde questo inaspettato gesto di disponibilità reale verso i rivali delle Highlands? E soprattutto, che cosa rappresenta questo insolito oggetto per la tradizione scozzese?La pietra in oggetto ha alle spalle una lunga storia e la sua natura aff onda nella mitologia.Questa strana storia, secondo le leggende, ha inizio non in terra scozzese ma in Irlanda, altra terra magica il cui passato arcaico e i cui trascorsi storici sono spesso intrecciati con quelli della Scozia.La Pietra del Destino fece la sua prima comparsa in Irlanda per mano dei Tuatha De Danann che la regalarono ai Milesi, loro successori, e antenati del popolo che ora chiamiamo irlandesi.I Tuatha De Danann (il Popolo dei Dana) erano, secondo la tradizione irlandese, gli antichi abitatori dell’Irlanda: un’antica stirpe di natura divina dotata di poteri soprannaturali che, secondo quanto narrato dalla tradizione irlandese, giunse in una nuvola magica e, nella nebbia sollevata dai suoi druidi, sparì. Un popolo venuto dal nulla e scomparso nel nulla, quel popolo che lasciò ai druidi venuti dopo di sé imponenti vestigia: i templi megalitici.Si dice che i Tuatha De Danann portarono la scienza, la civiltà, l’arte, ma anche quattro doni con poteri magici che furono destinati a tutti i regnanti successivi: una spada, una lancia, un calderone e un blocco di pietra rozzamente sbozzato. La pietra era in grado di riconoscere il vero sovrano del paese emettendo un alto grido. Divenne proprietà dei primi re d’Irlanda come “Pietra del Destino” e fu installata nella mitica collina di Tara, nella contea di Meath, sede dell’ “Ard Ri”, il re supremo che regnava su tutta l’Irlanda. La pietra fungeva da trono per l’incoronazione ed era il luogo in cui

veniva amministrata la giustizia.Nel VI secolo d.C. Tara fu abbandonata e, in seguito, i miti irlandesi e scozzesi concordano nel dire che fu portata in Scozia, dove ne possiamo trovare le tracce successive. Quello che oggi è un modesto villaggio del Tayside, vicino a Perth, era fi no all’VIII secolo la capitale del regno dei Pitti: ci riferiamo al villaggio di Scone, allora importante centro religioso, oltre che sede dei regnanti, dove veniva conservata la conoscenza druidica e dove i re venivano incoronati su una lastra di pietra che veniva chiamata “la Pietra del Destino”.Nel IX secolo il trono dei Pitti e quello scozzese furono unifi cati e il loro primo re, Kenneth McAlpine, trasportò la pietra nel luogo della sua incoronazione, a Dunnstaff nage Castle, a Perth. Due secoli dopo, il re inglese Edoardo I trovandosi invischiato in un litigio a nord del Border (il confi ne tra Inghilterra e Scozia), colse l’opportunità di trafugarla portandola a Westminster. Incapsulata nel sedile dorato dall’alto schienale, la pietra costituiva il trono su cui sono stati incoronati sin da allora i re e le regine britannici. Ma la sua storia avventurosa continua ancora ai giorni nostri: prelevata dai nazionalisti scozzesi nel 1950, la pietra fu recuperata giusto in tempo per l’incoronazione dell’attuale regina, Elisabetta II, nel 1952.Perché darsi tanta pena per un oggetto obsoleto? E a quale scopo riconoscere tanto valore ad un mito pagano, per giunta della fazione opposta? E’ diffi cile pensare solo ad un signifi cato politico, anche se indubbiamente ha il suo peso. E’ vero che la Scozia, dopo l’ultima battaglia cruenta, quella di Culloden, in cui perse tutti i suoi grandi combattenti delle Highlands, ha recuperato pian piano terreno e ora ha un potere contrattuale, nei confronti dell’Inghilterra, che forse non ha mai avuto prima; è anche indiscutibile il lento ma costante declino dell’impero britannico, e un gesto di disponibilità da parte del regno può essere distensivo in un momento di rinascita indipendentista. Ma sarà tutto qui? Perché tanta importanza per una volgare pietra che non è certo il Koh-i-noor, ma una banale lastra di calcare, senza alcun valore, al di là di quello simbolico?”

Rosalba Nattero

All’epoca dei fatti io frequentavo il IV anno di scuola media/superiore e la mia prof. d’italiano mi propose di partecipare ad un concorso, bandito dal Parlamento europeo di Strasburgo. Si trattava di comporre un tema riguardante quelle che erano le possibilità per l’unità d’Europa; nel titolo si faceva esplicito riferimento a questa frase, che sembrò inerente ai miei dubbi, dell’allora Presidente dell’assise parlamentare (di cui non ricordo più il nome): “No ad un Europa delle regioni, ricettacolo di egoismi!”.

“Europa dei Popoli? O Europa degli Stati?” Gabriele Gruppo (Druido)

rivoluzione e

trad

izIl “perché” di quell’aff ermazione inderogabile era lapalissiano; in quegl’anni c’era il ciclone jugoslavo, che rischiava di far saltare in aria complessivamente i Balcani. Non che tutta una serie di spinte autonomiste, indipendentiste e di micro-nazionalismo che andavano dai Pirenei fi no agli Urali; e che trovavano intere classi politiche, all’interno dei grandi Stati/nazione, completamente incapaci di aff rontare culturalmente, o pragmaticamente, una delle più importanti eredità che il “vecchio continente” si era trovato a dover gestire dal crollo del blocco sovietico; cioè un nuovo corso storico appena al suo inizio.Anche il sottoscritto, nel suo piccolo, era totalmente impreparato. I due retroterra su cui mi ero parzialmente formato, negli anni dell’adolescenza, cioè la dubbia cultura uffi ciale, e quella “schierata”di provenienza neo fascista classica, non potevano essermi di nessun aiuto; visto che gravitavano entrambe in torno al concetto della centralità dello Stato/nazione nella storia moderna. Con Evola stavo cominciando a capire, per sommi capi, i principi dell’imperium, dell’auctoritas e l’importanza di selezionare dell’elite competenti ed eticamente solide, elementi che servivano ad avere una visione d’Europa alternativa, a quella che, invece, da Strasburgo e Bruxelles veniva imposta a suon di trattati castranti e parametri economici grotteschi. Ma anche in questo frangente la domanda principale restava: “Europa dei popoli? O Europa degli Stati?”Il nazionalismo, fi no a non molti decenni fa, faceva coincidere il concetto di Stato unitario con quello di popolo omogeneo; escludendo in questo modo qualsiasi specifi cità regionale profonda all’interno dei grandi Stati dell’Europa occidentale; tutt’al più sminuendone la portata e l’importanza, come avveniva per la Corsica, la Scozia o la Catalogna, o ne valutava solo gli aspetti estremi, come per il terrorismo basco; senza però degnarsi di comprenderne le motivazioni storiche. O semplicisticamente attribuendogli un’importanza marginale, e meramente folkloristica, nella formazione della civiltà europea.Qui stava la cecità culturale.Quello che però mi stupiva in quegl’anni era sentir spesso parlare di “diritto ad uno Stato libero”, quando a chiederlo erano croati o ceceni, mentre si levavano alte grida di disappunto quando, in Italia ad esempio, cominciava a farsi largo l’idea che l’unità della penisola non fosse avvenuta in modo così consensuale ed entusiastica, da parte di molti di quei popoli che, forse, si sentivano più legati al Regno di Napoli o agli Asburgo, anziché ben accogliere la rapace annessione sabauda. Le motivazioni che spingevano questa strana prassi doppio pesistica la compresi qualche tempo dopo avvicinandomi alla geopolitica; l’Europa occidentale e gli U.S.A. puntavano a frantumare l’ex blocco sovietico per predarlo senza pietà.

Mi ricordo, ad esempio, come, su molti “autorevoli” quotidiani, e in molte trasmissioni ed approfondimenti televisivi, venivano azzardati giudizi su quando sarebbe crollata anche la Russia; in particolare certi articoli del “Sole 24 Ore” apparivano quasi compiaciuti della presunta/imminente disgregazione russa che, secondo i “guru” delle strategie da Risiko mediatico, sarebbe dovuta avvenire con l’uscita di scena del Presidente Boris Eltsin. La storia ha puntualmente smentito tali previsioni. La fortuna di questi “signori” è che le persone hanno la memoria corta, e loro possono ancora accreditarsi quali “esperti” di strategia da gioco da tavolo un po’ ovunque.Trascorsa la fase di transizione dal XX al XXI secolo, non sembrano però sparite le problematiche inerenti alla tenuta delle attuali entità statali, anzi col tempo si sono acuite; ecco infatti che, con il nuovo secolo, domina un’incertezza esistenziale profonda e diff usa. L’impatto che la globalizzazione, e le fobie sulla “sicurezza” dal terrorismo, hanno poi avuto sulle genti d’Europa ha prodotto strani eff etti, che vanno ancor più a confondere un quadro già notevolmente complesso.L’Unione Europea sembra covare al proprio interno una vera e propria metamorfosi degli Stati/nazione, in favore di forme d’autonomismo locale impensabili fi no a dieci anni fa. In oltre la sfi ducia generale nelle euro-burocrazie e negli avvoltoi della speculazione fi nanziaria apolide, rendono sempre più riottosi i popoli d’Europa verso le devastanti aperture che il neo liberismo sta producendo a livello mondiale. Il così detto “trattato” dell’Unione,ad esempio, una colossale produzione legislativa senza anima e senza futuro, giace abbandonato insieme ai tanti progetti inutili ed inutilizzabili distillati a Strasburgo; si vocifera che per ratifi carlo dovranno esser utilizzati metodi non proprio limpidi, pur di evitare altre bocciature referendarie come in Francia ed Olanda. In fatti l’idea che circola, nei salotti della politica “democratica”, sarebbe quella di farlo letteralmente calare sulla testa dei riottosi europei tramite semplici ratifi che dei singoli parlamenti nazionali, in cui i giochi sarebbero più facili data la presenza di interessi condivisi tra le varie parti politiche.Qualche d’uno una volta disse:“Siedono divisi per rubare uniti”.Una verità senza ombra di dubbio alcuno.Il processo di omogeneizzazione europea senza identità, poiché di questo si tratta, potrebbe tuttavia trovare numerosi problemi; che giungerebbero da ciò che sta avvenendo in Stati/nazione come la Spagna, o la Gran Bretagna, o il Belgio, dove il processo di dissoluzione del sistema di potere centralista è decisamente in fase avanzata. Con la conseguenza che il “locale” riesce a conquistare sempre più terreno d’autonomia politica.Non sarebbe più conciliabile quindi l’idea di una forzata

saldatura di Stati/nazione ormai deboli, che in molte loro regioni vedono il consolidamento, per contro, di uno spirito identitario nazionale ed etnico, su modello di ciò che è avvenuto nell’Europa orientale, e che in parte dovrà ancora esprimersi nei prossimi anni. L’Europa in oltre si avvia ad essere isolata, da gran parte dei futuri importanti circuiti economici mondiali, con conseguente regressione sociale; la decadenza dei suoi ex alfi eri, Francia e Gran Bretagna, sugli scenari strategici (Africa ed Asia centrale) ne è una palese conferma. Quale attrattiva può avere? A quale prospettiva può puntare dunque un’accozzaglia di burocrazie che tentano di mediare i loro appetiti nelle sedi dell’Unione, mentre non riescono più a gestire i loro territori nazionali? La risposta sta scritta nei lenti, ma inesorabili, processi disgregativi che attanagliano l’Europa occidentale nel suo complesso. Dove solo la Germania sembra apparire più in forma degli altri Stati/nazione, in ragione forse della sua ritrovata unità territoriale, relativamente recente, e nella crescente volontà di riconquistare una forte identità storica, per troppo tempo annichilita dalla scomoda posizione di “eterna sconfi tta” del secondo confl itto mondiale. In oltre il sistema federale tedesco potrebbe garantire, per quella che è la nostra conoscenza in materia, la soddisfazione di eventuali richieste autonomiste provenienti da qualche land, garantendo tuttavia l’unità territoriale nel suo complesso. Ciò fa parte comunque di una consolidata tradizione politica germanica di antico retaggio imperiale. Sarebbe tuttavia inutile tentare strane alchimie costituzionali con il tentativo di percorrer “vie tedesche” per Stati/nazione or mai sul viale del tramonto. Anche perché, ad esempio, le recenti elezioni in Scozia (Maggio 2007) hanno visto la vittoria del partito nazionalista scozzese che reclama piena indipendenza da Londra, non più solo una larga autonomia, di cui questa regione per altro già gode da qualche anno. Tuttavia tale importante risultato elettorale è stato off uscato dalla gran quantità di voti elettronici annullati (quasi 100 mila), che probabilmente sono stati determinanti a ridimensionare la vittoria degli indipendentisti scozzesi; Londra, in qualche modo, si è difesa.La Scozia non rappresenta però un caso isolato, visto che non dubitiamo che in “certi” angoli d’Europa, Italia compresa, sogni indipendentisti vengano coltivati, e che, sempre più spesso, trovino il favore del consenso elettorale. O che lo troveranno a breve, grazie all’umus prodotto dal lento deterioramento delle condizioni economiche, di sicurezza, e della presenza, sempre meno forte e tangibile, del potere centrale nei territori locali. In Italia basti pensare che recentemente si stanno prendendo in considerazione tutta una serie provvedimenti che mirano alla razionalizzazione delle questure e delle prefetture, con in

previsione un sostanziale ridimensionamento numerico di quella che, in buona sostanza, rappresenta la presenza dello Stato centrale, in periferia. Anche questa è una palese dimostrazione di debolezza. In sintesi appare problematico stabilire quali saranno gli sviluppi politici del prossimo futuro; anche se diversi fattori tendono ad indicare una radicale, e forse defi nitiva, crisi del “sogno” d’integrazione continentale che era stato pianifi cato ai tempi della Comunità Economica Europea. Il declino dei grandi Stati/nazione euro-occidentali e lo stano miscuglio d’orgoglio identitario, e di voglia d’integrazione nella U.E., degli Stati ex comunisti può prospettare solo un mutamento del concetto stesso di “Europa”, concetto non più improntato ad una fusione di burocrazie nazionali, tramite un vincolante trattato costituzionale o da regole economiche neo-liberiste; ma da una consapevole adesione di popoli autonomi legati da patti di solidarietà reciproca e di difesa sia delle singole specifi cità, che della più ampia cultura e tradizioni della civiltà europea.Dunque un’Europa di popoli affi ni.

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Quelli che seguono sono i principi generali del codice della vendetta barbaricina, così come riassunti da Antonio Pigliaru (Orune 1922 - Sassari 1969)

1 – L’off esa deve essere vendicata.Non è uomo d’onore chi si sottrae al dovere della vendetta, salvo nel caso che, avendo dato con il complesso della sua vita prova della propria virilità, vi rinunci per un superiore motivo morale. 2 – La legge della vendetta obbliga tutti coloro che ad un qualsivoglia titolo vivono ed operano nell’ambito della comunità.3 – Titolare del dovere della vendetta è il soggetto off eso, come singolo o come gruppo, a seconda che l’off esa è stata intenzionalmente recata ad un singolo individuo in quanto tale o al gruppo sociale, nel suo complesso organico, sia immediatamente sia mediatamente.4 – Nessuno che vive ed opera nell’ambito della comunità può essere colpito dalla vendetta per un fatto non previsto come off ensivo.Nessuno può essere altresì tanto responsabile di una off esa se al momento in cui ha agito non era capace di intendere e di volere, nel caso rispondono i moralmente responsabili.5 – La responsabilità è o individuale o collettiva a seconda che l’evento consegua all’azione di un singolo od a quella di un gruppo organizzato operante in quanto tale.Il gruppo organizzato sia sulla base di un vincolo naturale sia per eff etto di sopravvenuti rapporti sociali, risponde della off esa quando questa è cagionata da un singolo membro del gruppo con iniziativa individuale nel caso in cui il gruppo medesimo, posto di fronte alle conseguenze dell’azione off ensiva, esprima, in modi e forme non equivoci, attiva solidarietà nei confronti del colpevole in quanto tale.6 – La responsabilità di chiunque si trova nella condizione di ospite è solo personale e deriva dalle eventuali azioni di omissioni di lui, in rapporto ai doveri particolari del suo stato.7 – La vendetta deve essere eseguita solo allorché si è conseguita oltre ogni dubbio possibile la -certezza circa l’esistenza della responsabilità a titolo di dolo da parte dell’agente.8 – L’off esa si estingue:a) quando il reo lealmente ammette la propria responsabilità assumendo su di sé l’onere del risarcimento richiesto dall’off eso o stabilito con lodo arbitrale;b) quando il colpevole ha agito in caso di necessità ovvero per errore o caso fortuito ovvero perché costretto da altri mediante violenza cui non poteva sottrarsi. In questo ultimo caso risponde dell’off esa l’autore della violenza.9 – L’applicazione della legge della vendetta viene altresì sospesa nei confronti di chi, pur fondatamente sospettato, chiede e ottiene di essere sottoposto alla prova del giuramento onde essere

liberato.In tal caso il giuramento deve essere prestato secondo formula: “Giuro di non aver fatto né veduto né consigliato; e di non conoscere persona alcuna che abbia fatto veduto o consigliato”.E’ però ammessa previo accordo, l’omissione della seconda parte della formula.Il giuramento liberatorio ha valore identico agli eff etti della presente norma, sia che venga eff ettuato in presenza del solo off eso; ovvero in presenza di terzi convocati in qualità di testimoni; ovvero in forma solennissima, secondo le consuetudini locali.

* * *Per comprendere la psicologia di un Popolo occorre studiarne le consuetudini, o tradizioni, che assumono i tratti più caratteristici, e più rappresentativi dell’anima del popolo, in ciò che riguarda gli aspetti più seri della vita. Quegli aspetti che più erano alla base della vita comunitaria. Ecco che il codice della vendetta barbaricina ci appare come un codice comunitario, che pretende la responsabilità dei singoli non solo per quanto riguarda l’assunzione delle colpe ma soprattutto lo svolgersi della giustizia. Agli occhi della mentalità moderna appare impossibile che si potesse essere scagionati con un “semplice” giuramento, questo dovrebbe farci rifl ettere sul valore che davano i nostri padri alla parola data. E’ fi n evidente il contrasto con la legislazione “italiana”, che arriverà a imporsi soprattutto a costo di innumerevoli vittime del controbanditismo di fi ne ‘800. Bisogna evidenziare la caratteristica di considerare come dovere lo svolgersi della vendetta. Dovere virile quindi dovere sociale, ossia dovere comunitario. Non ci si vendica per piacere personale, ma perché dalla difesa del proprio onore dipende allo stesso tempo la salvaguardia della comunità. E che ci sia un netto contrasto tra quello che è stato il banditismo sardo (cioè il darsi alla macchia di chi aveva eseguito la legge della propria comunità, per sfuggire a quella imposta da uno stato estraneo) e qualunque forma delinquenziale tipica del meridione d’Italia, lo dimostra il fatto che non c’è mai stata connessione tra il bandito, il balente costretto alla latitanza e qualunque forma puramente criminale. E’ vero invece che i destini degli uomini portano a volte a incrociarsi con strade che in normali situazioni non si sarebbero percorse, ma che cause di forza maggiore, quasi scherzi del destino portano a verifi carsi. Ma anche in questi casi, non pochi hanno dimostrato di saper sopravvivere in un mondo che la latitanza barbaricina creava intorno a loro distinguendosi restando fedeli a un codice d’onore. Riecheggia il motto jungeriano Meglio delinquente che borghese, anche qui siamo di fronte all’archetipo del ribelle, non alla legge del proprio popolo,

Consuetudine giuridica, anima e destino dei popoli. Avatar (Alessandro Murtas)

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ma a quella dell’occupante, perché braccato dai rappresentanti armati di questa legge, in fondo un perseguitato etnico, colpevole di essere sardo.Tutto ciò ha chiaramente radice nell’artifi ciosità nefasta degli stati nazionali post 1789. Non si spiegherebbe altrimenti come non esista una “lotta al banditismo sardo” prima del Regno “Sardo-Piemontese” e quindi della cosiddetta unità d’italia. Anche nei tempi in cui la Sardegna era sottomessa ad altri stati (ma ci sarebbe qui da fare un distinguo se si sia sempre trattato di sottomissione imperialista o di appartenenza ad un Imperium: due cose radicalmente diverse, per esempio in quanti hanno seriamente studiato il ruolo della Sardegna nel Regno Vandalo?), non è mai stato presente questo elemento. Ecco che la globalizzazione attuale ha le sue radici che si diramano negli ultimi secoli con delle sottoradici nelle storie spesso non conosciute e in popoli altrettanto poco realmente conosciuti, questi sempre vittime sacrifi cali. In Europa sono molti i Popoli che hanno da raccontare ed aff ermare nel presente e nel futuro le loro storie di sangue e lacrime, affi nché ne nasce una coscienza che porti a un radicale cambiamento nella considerazione dell’etnicità: popoli numerosi e meno numerosi, storie più antiche e più recenti, dal Mare del Nord al Mediterraneo, dal Baltico ai Balcani.

Chiudiamo questa nostra breve analisi riportando un passo del libro di Antonio PigliareIl Codice della Vendetta Barbaricina:“Sarà proprio quando il senso quasi cosmico della vendetta come violenza che si oppone all’insolenza, e partecipa così a quella continuità della vita (sociale o anche sociale), che nella guerra, nella lotta, diciamo nel dialetto barbaricino nel chertare , purchè nel chertare secondo certe regole o misure universali, ha la propria o continua generazione; sarà in questo senso cosmico che la violenza come vendetta assume nella repressione di ogni sopraff azione insolente, che il vendicatore penserà alla propria azione come un’azione ontologicamente necessaria e fatale. E sarà in questo stesso senso che la comunità, per intanto, accetterà a sua volta la lotta, la guerra, questo fatale urto di violenze quale condizione necessaria alla legge universale del suo stesso esistere. Vendicarsi, opporre la propria violenza alla altrui insolenza è partecipare alla legge stessa della conservazione dell’ordine e del progresso della vita, è un dovere – è questo dovere anzi di una partecipazione universale e ineluttabile alla vita, a tutto il processo della vita: < solo la malattia fa dolce la salute, il male il bene, la fame la sazietà la fatica il riposo, non si conoscerebbe neppure il nome della giustizia se non ci fosse l’off esa> le parole sono appunto di Eraclito, Frammenti DK 111,23 , ma troveremo anche in dialetto barbaricino questa stessa fi losofi a: questo codice nel suo proprio ambito ne è un documento,

su balente, s’abile, all’uomo che è tutto virtù e che con la virtù colma ogni defi cit della fortuna, che cosa egli è se non l’uomo che nel contrasto – con la natura, con gli altri uomini, con la propria miseria – sa dimostrare e dimostra una forza personale produttiva di bene nella guerra e dalla guerra, nel trattare e nel chertare?”

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“Devo, in primo luogo, sottolineare ancora una volta che questa non è un’opera di fantasia. Ciò che sto per descrivere ci è estraneo, al punto da poter apparire irreale”.

Con queste parole l’antropologo Carlos Castaneda nato il 25 dicembre 1925 a Cajamarca in Perù introduceva alla lettura del “Dono dell’aquila”, uno dei suoi undici libri che hanno aff ascinato intere generazioni di lettori, volumi in cui a partire dal primo “A scuola dallo stregone” lo studioso raccontava di un’esperienza vissuta con uno stregone indiano Yaqui, don Juan, e del suo incontro con alcune sostanze allucinogene, peyote su tutte. Le straordinarie esperienze fatte da Castaneda nacquero quasi per caso, per via del fatto che lo studioso stava preparando una tesi di laurea per l’Università di Los Angeles nella quale avrebbe dovuto condurre nell’estate del 1960 una ricerca su alcune piante medicinali utilizzate dagli indiani della zona tra California e Messico. Il risultato di quelle ricerche andò però molto al di là dello scopo per cui era partito lo studio, tanto che all’uscita del suo primo libro arrivò un successo inatteso e straordinario. Complice senz’altro anche il clima culturale di quegli anni che in piena epoca beat e hippy auspicava il consumo di droghe, soprattutto lisergiche, con la fi nalità di allargare - come si diceva in quel periodo - “gli orizzonti della coscienza”. La prima pubblicazione di Castaneda fu comunque accettata come tesi di laurea dall’Università della California e pubblicata anni dopo nel 1968 con il titolo “A scuola dallo stregone, gli insegnamenti di don Juan”, e gli procurò vere e proprie schiere di sostenitori che ritennero non soltanto di estremo interesse il contenuto dei libri dell’antropologo, bensì anche assolutamente veritiero. L’oggetto dello studio voleva percorrere la possibilità di penetrare una realtà non percepibile in condizioni ordinarie e conseguentemente comprendere l’effi mero del reale. Infatti l’assunzione di alcune piante allucinogene “psilocybe mexicana” su tutte, rivelarono a Castaneda, sotto la guida dello sciamano don Juan una straordinaria verità: il mondo non è soltanto ciò che noi vediamo ma contiene realtà e confi ni inimmaginabili, al di là dell’ordinaria percezione sensoriale e mentale alle quali siamo normalmente abituati. Lo sviluppo della contemporanea cultura psichedelica sembrava una coincidenza fortuita e straordinaria per le ricerche di Castaneda, anche se a partire dagli anni ‘70 con la pubblicazione dei successivi libri in cui egli narrava gli ulteriori risultati del percorso condotto con lo sciamano, l’ambiente accademico cominciò ad allontanarsi e a non condividere più quegli studi ormai ritenuti sempre meno canonici. Le conoscenze acquisite dall’antropologo nel corso di quegli anni facevano comunque parte di un’antichissima tradizione, quella tolteca, sviluppatesi millenni prima della dominazione spagnola. Una ricerca analoga a quella che le SS

Ahnenerbe a cavallo tra gli anni ‘30 e gli anni ‘40 condussero invece in Tibet, per certi versi anticipando la sperimentazione degli eff etti derivati dall’uso di sostanze psicoattive indicative di una corrente che alcuni defi nirono “germanismo psichedelico”. Nel corso di queste esperienze veniva evocato con tecniche sciamaniche il dio Wothan utilizzando in particolare lo yagè, resina estratta da alcune liane mediante un antico procedimento tradizionale tibetano tanto che da queste esperienze furono poi anche realizzati dei documentari per opera del regista Fritz Arno Wagner. Le conoscenze tibetane e tolteche rendevano comunque in eguale misura quegli sciamani come depositari di antichi segreti, uomini assolutamente fuori dal comune all’interno delle loro società: fu perciò questo lo scopo di quelle ricerche, ritrovare quei segreti ma soprattutto il senso di quelle antiche arcane conoscenze. Gli sciamani a cui don Juan apparteneva non erano però stregoni nel senso che utilizzassero poteri sovrannaturali o praticassero rituali o incantesimi, piuttosto lo erano in quanto in grado di superare i limiti che la quotidianità e l’abitudine pongono all’uomo comune. E nei libri di Castaneda questa “realtà separata” emerge con una straordinaria forza narrativa ed insieme evocativa, tanto che i resoconti delle esperienze vissute con don Juan hanno mantenuto nel tempo una forza straordinaria di suggestione e fascino, per quelle realtà “soprasensibili” verso le quali religioni e fi losofi e da sempre, sia pur in forma diversa, comunque aspirano. Indubbiamente qualcosa di simile anche alla pratica yoga, ma con una fi nalità forse più rivoluzionaria: troncare la percezione ordinaria con la quale ci si è abituati a convivere dall’infanzia per accedere alle altre realtà contenute nella stessa realtà, esperienze vissute e narrate da un Castaneda sempre più coinvolto mano a mano che la consapevolezza di quella dimensione ebbe a crescere. Una sorta di battaglia interiore ed esteriore, volta alla comprensione del profondo senso e del mistero della vita e della natura. Castaneda non amava farsi fotografare, infatti di lui restano pochissime e rare immagini; la sua morte avvenuta il 27 aprile 1998 ha destato profonda commozione ovunque, tanto che molti media ne hanno trasmessa la notizia lasciando aperto un quesito che ora più che mai resta irrisolto e che fa tuttora discutere: quello che l’antropologo ha raccontato nei suoi libri fu alla fi ne puro frutto di fantasia o un reale grado di realtà e consapevolezza in qualche modo raggiungibile e sperimentabile? “Devo, in primo luogo, sottolineare ancora una volta che questa non è un’opera di fantasia. Ciò che sto per descrivere ci è estraneo, al punto da poter apparire irreale”: così avrebbe risposto ancora una volta Castaneda.

Carlos Castaneda: realtà, surrealtà, irrealtà. Lodovico Ellena

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Anche il Giappone ebbe il suo “processo di Norimberga”. Si tenne a Tokyo e iniziò il 3 maggio 1946 protraendosi fi no al 14 novembre 1948, era stata presentata una lista di 250 presunti criminali di guerra ma alla fi ne ne furono processati soltanto 28. Capi principali d’imputazione furono l’aggressione alla Cina avvenuta nel gennaio del 1933 con i relativi massacri di civili, ma anche l’attacco a Pearl Harbor che fu nodo centrale del processo. La lettura della sentenza di 1218 pagine iniziò il 4 novembre 1948 e si concluse a mezzogiorno del 14; si ordinarono le esecuzioni a partire dal 25 novembre mentre il 20 per questo annuncio scoppiarono violente proteste popolari. A causa di ciò le esecuzioni furono quindi rinviate al 23 dicembre e furono eseguite tramite la forca americana in legno composta da tredici gradini ed una botola; ai prigionieri fu imposta una tuta da lavoro militare americana priva di gradi o insegne e fu loro consentito di incontrare un monaco buddista. A venticinque minuti dalla mezzanotte del 22 dicembre sei agenti americani andarono a prelevare i condannati a morte e il gruppo si diresse alla “sala della morte” dove era atteso da un uffi ciale inglese, uno americano, uno cinese e uno sovietico, nonché i medici, il tenente colonnello Handwerk e due testimoni giapponesi. Le esecuzioni cominciarono alle 23,55 e terminarono alle 1,47; nella stessa notte i corpi furono trasportati al crematorio di Kubyama e bruciati, dopodiché le ceneri furono disperse in “un luogo segreto”. Nel 1958 un comitato giapponese eresse un monumento sacrario per gli impiccati di Tokyo aff ermando di essere riuscito a recuperare quei resti. Lo scrittore Takeyama Michio, autore de “L’arpa birmana” disse:”Fui spettatore di quel processo. La sentenza di Tokyo non ci convinse mai. Qualcosa ci sembrava sospetto, ma non avremmo saputo precisare cosa. Tuttavia alcune rivelazioni fi nirono per consentirci di formulare un’opinione: il Giappone si era comportato male, certo, ma forse non nel senso indicato dal processo; una grande parte di quegli avvenimenti era conseguenza di un destino ineluttabile, di una crudeltà della storia”. A lui fece eco lo storico Shimizu Hayao: “Proprio quei paesi giudici come Stati Uniti, Unione Sovietica e Gran Bretagna, ebbero negli anni seguenti un comportamento tale che, in altra situazione, non gli avrebbe potuto evitare le stesse accuse di crimini contro la pace e contro l’umanità mosse nel ‘46-’48 al generale Tojo ed ai suoi compagni”. In eff etti solo quattro anni più tardi negli anni tra il 1952 ed il 1960 gli inglesi rinchiusero in Africa un milione e mezzo di civili in una serie di campi di concentramento: l’intera etnia Kikuyu del Kenya fu pressoché spazzata via con il pretesto di fermare la rivolta Mau Mau. Nonostante le autorità britanniche avessero tentato di far sparire tutta la documentazione in merito, lo sconcertante e spaventoso genocidio pensato e realizzato da una delle potenze vincitrici del secondo confl itto mondiale nonché giudicante,

venne egualmente alla luce. Ma non si trattava certo del primo genocidio che li vide protagonisti; infatti già nel 1825 gli inglesi si resero responsabili di un’immane catastrofe poco ricordata sui libri di storia, ossia dello sterminio dell’intero popolo della Tasmania. L’isola da loro conquistata nel 1802, nonostante la cordialità degli indigeni, fu letteralmente “ripulita” senza pietà fi no all’ultimo uomo per gli interessi britannici; l’ultimo tasmaniano morì nel 1876: era una donna di nome Truganini e di quella civiltà non restarono che alcuni ricordi e pochi manufatti. E ancora nel 1903 sempre gli inglesi preoccupati dall’espansionismo russo ed indiano decisero di invadere anche il Tibet; dopo una serie di gratuite provocazioni ai danni dei tibetani (buddisti e non violenti), avvenne un fatto che ancora oggi non cessa di stupire per la gratuita brutalità. Il colonnello Francis Younghusband fece infatti fi nta di far togliere ai suoi soldati le pallottole dai fucili per parlamentare con i tibetani armati di sole pietre e bastoni che ingenuamente uscirono allo scoperto: fu una strage, gli inglesi spararono nel mucchio massacrando oltre mille persone mentre i superstiti si diedero ad una disperata fuga. Seguì la cruenta invasione del paese con indicibili massacri, torture e violenze inaudite al di là di ogni immaginazione. Ma anche i sovietici non furono certo da meno, tanto che sempre nell’immediato dopoguerra le autorità comuniste ordinarono di liberarsi degli ebrei sopravvissuti in Polonia ai campi di concentramento. Fu addirittura realizzato un documentario sulla poco nota vicenda in cui, tra le altre testimonianze, un ex-bidello raccontò di aver personalmente assistito al massacro di 150 ebrei nel paese di Kielce. Che giudici quei giudici.

Che giudiciquei giudici. Lodovico Ellena

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Dopo più di sessant’anni emergono improvvisamente dagli archivi due notizie che riguardano la strage avvenuta a Vercelli all’ex-ospedale psichiatrico di via Trino, grazie alla paziente opera di ricerca dello scrittore Roberto Gremmo. E non si tratta aff atto di notizie secondarie, tanto che lo studioso ha recentemente pubblicato sulla Tribuna Novarese ben quattro pagine dedicate a questa vicenda che fa ancora molto soff rire e molto discutere. I fatti. Com’è noto il 12 maggio 1945 furono prelevati del tutto a caso dal Campo Sportivo di Novara adibito a campo di concentramento provvisorio 75 prigionieri fascisti; l’azione avvenne rapidamente motivata, secondo un verbale del Questore di Vercelli del 29 settembre 1948, dal fatto che i partigiani erano al corrente che il giorno successivo il comando sarebbe passato ad un governatore americano. Fu quindi pianifi cata una rappresaglia da parte di tre capi partigiani: Nino, Giulio e l’emiliano Pietro, che però trovarono l’opposizione di Cino Moscatelli che intendeva invece agire tramite un pubblico processo da tenersi in piazza: i tre riuscirono però egualmente nel loro intento e prelevarono nel mucchio le 75 persone. Ma, dice Gremmo, “fu subito chiaro che non si sarebbe trattato d’un semplice trasferimento: già a Novara, uno dei prigionieri venne alleggerito del portafoglio con più di centomila lire ed un orologio d’oro”. Poco dopo arrivati a Vercelli malconci e ferocemente malmenati anche tutti gli altri furono derubati indi fatti spogliare, furono massacrati di botte dai partigiani della 182^ brigata: “qualcuno morì per le percosse ed in particolare un giovinetto di circa 16 anni fu seviziato in una camerata al primo piano e la sua salma fu buttata per le scale”. Fu poi il cappellano dello psichiatrico, don Francesco Manzo, a raccontare che undici di loro furono addirittura maciullati vivi sotto le ruote di un autocarro che passò più volte sui loro corpi stesi sul piazzale antistante all’ospedale psichiatrico. L’episodio, complice anche il clima d’omertà e di paura creatosi, sembrava destinato ad essere dimenticato, non fosse che un fascista miracolosamente scampato alla fucilazione di un gruppo di sei di quei 75, tre anni dopo raccontò alla Polizia la sua vicenda: si trattava di Enrico Francia. Altri dettagli di quella mattanza quindi riemersero: sevizie, urla di prigionieri che imploravano di essere uccisi sotto le violenze in particolare dei partigiani Lucifero, Pace, Nino, Remo e il Vecchio. Il primo a parlare con coraggio di quell’eccidio era però già stato un partigiano liberale, Tino Mombello, che il 27 aprile 1946 sul suo giornale “La verità” chiese ai partigiani della formazione garibaldina di raccontare quella vicenda: il risultato fu che poco dopo la tipografi a dove si stampava il giornale fu incendiata. L’articolo di Mombello fece però aprire un’inchiesta che venne subito chiusa - ed ecco la prima scoperta di Gremmo inedita e sconcertante -, perché i magistrati vercellesi si trovarono di fronte un documento con tanto di timbro (falso) della “76^

Brigata Autonoma Fiamme Verdi Tito Speri” (di orientamento cattolico e che agivano solo in Lombardia mentre in Piemonte erano del tutto in operative) fi rmato da un certo “Folgore”, nel quale si certifi cava di aver ricevuto parte di quei prigionieri dalla 182^ brigata. Prigionieri che poi sarebbero stati uccisi da qualche parte in Italia o addirittura fuggiti al Sud, ossia un clamoroso falso allo scopo di insabbiare la tragica verità: fu invece l’inattesa ricomparsa di Enrico Francia a far riaprire il caso. Ed ora la seconda clamorosa scoperta di Gremmo, inerente a colui che in tribunale si assunse la responsabilità dell’eccidio: il parlamentare comunista Silvio Ortona, ebreo cugino di Primo Levi e capo partigiano con lo pseudonimo di “Lungo”. Intorno alla fi gura ed al ruolo di Ortona si discute da anni; chi ne escluse il coinvolgimento assicurando che si assunse la responsabilità solo per via dell’immunità parlamentare, chi invece disse che fu informato dell’eccidio e che lo condannò mentre si trovava in tutt’altra parte della città alla Croce di Malta, chi disse fosse invece nel 1952 in procinto di scappare nello Stato d’Israele temendo presto o tardi di dover fare i conti con la legge, e chi infi ne in occasione della sua morte avvenuta nel marzo del 2005 ne elogiò l’alto profi lo politico e morale. Ortona si negò però per ben due volte nel corso dei primi anni del 2000 al tentativo di una ricostruzione storica di quella tragica vicenda, soprattutto alla luce del fatto che i famigliari delle vittime non sapevano (e non sanno) ancora dove siano mai stati sepolti i corpi di quei loro parenti orrendamente maciullati. E’ quindi ancora Gremmo a svelare una notizia inattesa e sconcertante; in un rapporto riservatissimo che il questore Dalogli inviò al capo della Polizia il 6 gennaio 1949, si legge a proposito di un testimone oculare di quell’eccidio, il cappellano degli stessi partigiani don Mario Casalvolone detto Macario: “il Casalvolone si rivolse all’On. Ortona presente alle stragi dell’ospedale psichiatrico invocandone l’intervento ma l’Ortona, con un sorriso sardonico, gli rispose: “Che vuoi? Sono fascisti e bisogna ammazzarli”. Una verità tutta in contrasto con quella fi no ad oggi conosciuta, una verità molto pesante che farà nuovamente discutere.

Psichiatrico Lodovico Ellena

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Per quanto riguarda l’aspetto religioso che Hitler nutrisse forti simpatie per l’Islam lo scrive anche Léon Degrelle: “Hitler aveva un debole, indiscutibilmente, per la religione islamica. Lui, che era di origine cattolica e da ragazzo aveva cantato nel coro della parrocchia, provava un grande interesse per l’Islam e per la sua civiltà”. Lo stesso Führer scrisse in merito nelle “Idee sul destino del mondo”: “Noi non abbiamo alcun lume circa il mistero quando apprendiamo che i preti si raffi gurano Dio sotto le sembianze di un uomo. Da questo punto di vista, i discepoli di Maometto sono di gran lunga superiori ai preti, perché non provano il bisogno di raffi gurarsi Allah fi sicamente!”. Secondo invece lo storiografo Rauschning “la vera idea di Hitler era quella di fondare una religione del “Sangue puro”, il cui dio sarebbe stato il vecchio dio germanico - scandinavo Odino/Wotan, e la cui ideologia sarebbe stata custodita e applicata da un’aristocrazia guerriera, le famigerate SS”. Lo storico Franco Cardini scrive invece che “quello di Hitler era anzitutto un Dio vagamente hegeliano, Weltgeist, “spirito del mondo”. Era un Dio che si manifestava nella natura, nella sorte, nel sangue del popolo. Per Hitler le leggi fondamentali della natura erano la lotta per la sopravvivenza, la selezione delle specie più forti, l’organizzazione razziale del genere umano. Questa fede cieca nella natura e nelle sue leggi razzisticamente interpretate anima le convinzioni più ferme di Hitler, ispirate a un darwinismo abbastanza rozzo ma che aveva il pregio di apparire convincente e di collegarsi a quella continua esaltazione della scienza che, nel nazismo, convive con il mitologismo nordico e con gli impulsi atavici”. Insomma: quale fu - se fu - la vera religione di Hitler: Maometto, Wothan, Hegel, lo svastica? Certo è soltanto un fatto sul quale invitiamo le menti più presenti a cogitare: data la diffi coltà estrema di addentrare certa materia, come resta possibile che tonnellate di “documentari” mediatici abbiano sempre riposte defi nitive, sicure, certissime e inoppugnabili in merito?

La religione del Führer: una, nessuna e centomila. Lodovico Ellena

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Un ebreo traduce il “Mein Kampf”.

E’ poco noto ma il primo traduttore italiano del “Mein Kampf” fu un ebreo, Angelo Treves, di Vercelli. La scoperta di questa singolare e curiosa notizia è stata opera dello storiografo Roberto Gremmo che su di un periodico (Tribuna Novarese, 29 gennaio 2007, pag. 17) scrive: “Nato a Vercelli il 7 ottobre del 1873, Angelo Treves laureatosi con una tesi su Sordello, dopo un iniziale impegno giovanile nella paramassonica “Associazione Generale degli Operai” aveva collaborato per anni alla famosa rivista turatiana “Critica Sociale” fi nché dopo il 1921 aveva pubblicato anche su “Comunismo”, la rivista fi lo-bolscevica dei socialisti terzinternazionalisti di Serrati. Abbandonato l’impegno politico dopo l’avvento del Fascismo, era diventato uno dei più qualifi cati traduttori della lingua tedesca e fu probabilmente per questo che Bompiani gli affi dò il compito di tradurre l’autobiografi a hitleriana. Perché l’ebreo vercellese Treves abbia accettato resta un mistero, ancora tutto da chiarire”. Angelo Treves morì a Milano il 27 dicembre 1937 e la sua salma fu trasferita a Vercelli due giorni dopo presso il cimitero israelita, quando puntuale un periodico locale – la Sesia - ne decantò solenni lodi ricordandone l’impegno culturale, le doti di studioso e la “mitezza dell’animo suo”. Che molti ebrei nella fase iniziale del fascismo fossero stati fascisti non è comunque certamente una novità, ma la scoperta fatta da Gremmo pone indubbiamente alcune domande a cui è diffi cile dare una risposta. Possibile che Treves non si fosse reso conto di cosa stesse traducendo? Possibile che per una mera questione economica si fosse dato disponibile a divulgare – grazie anche al suo impegno – un’opera che non usava eufemismi nei confronti degli stessi ebrei? E possibile che nessuno nella locale comunità ebraica avesse mai sentito parlare del contenuto di quell’opera impedendo pertanto con qualche veto a Treves di realizzarne la traduzione in Italia? Misteri, misteri d’Italia, a cui il tempo forse darà qualche risposta…

Lodovico Ellena

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Sembra che questa sia ormai divenuta l’epoca delle rifondazioni. Prima quella comunista poi quella democristiana, ma a questo appello curiosamente manca ancora quella fascista: almeno considerando con qualche licenza i tre principali orientamenti politici che nel dopoguerra furono vivaci protagonisti per lustri. Non che socialismi o liberalismi così come anarchismi o altri ismi non fossero esistiti, tutti però in qualche modo riconducibili o più o meno gravitanti in una di quelle tre grandi orbite. E tra queste la più ingombrante, la più sconcertante e la più maleodorante fu proprio quella che al fascismo testardamente si richiamava ancora, ossia il Movimento Sociale Italiano. Ma cosa veramente fu alla fi ne questo Movimento Sociale Italiano? Quali furono i suoi reali presupposti ideologici? E soprattutto: cosa resta ancora di quell’esperienza sessant’anni dopo la sua fondazione?

Furono sostanzialmente due le componenti che aggregarono migliaia di giovani al Movimento Sociale, il sentimento e la ragione: ma fu la prima a dettare legge per anni. Il sentimento infatti - non scevro da un pruriginoso gusto del confronto fi sico e dell’ebbrezza della scomunica -, fu per alcune generazioni il midollo politico portante di quell’esperienza, mentre la ragione subentrò più lenta quando un ormai inevitabile salto qualitativo imponeva e rendeva necessaria una crescita non soltanto numerica, ma a quel punto anche intellettuale dell’intero movimento. I primi decenni furono necessariamente spesi più per mera sopravvivenza che per coltivare bagagli ideologici, peraltro già costituiti, anche se non mancarono fi gure di spicco; si giunse così ai primi anni ‘70 dopo un lento aggregato di orientamenti che, ripensati al presente, lasciano attoniti per la loro varietà e per il folcloristico assortimento. Nel Movimento Sociale convissero infatti per anni antiamericani e fi loamericani, antimonarchici e fi lomonarchici - (la Destra Nazionale), antisionisti e mezzi sionisti, statalisti e liberisti, antinazisti e fi lonazisti, antimodernisti e modernisti, antidemocratici e democratici, cattolici e pagani, latinisti e celtisti: tutto ciò comprese la grande famiglia del Movimento Sociale. Quali furono pertanto, dato tale pittoresco inventario, le componenti defi nitivamente aggreganti e condivise da tutti? Un’idea più o meno romantica del fascismo, ed un acceso anticomunismo. E fu proprio nei primi ‘70 che una vasta letteratura cominciò a diff ondersi presso la militanza; Evola, Codreanu, Guénon, Gentile, Spengler, Nietzsche, Mishima, Brasillach, Hitler, e più avanti Freda, Prezzolini e Fisichella: un inventario intellettuale multicolore ed abbagliante. Riferimenti culturali spesso esaltati o citati ma altrettanto spesso noti soltanto ad una ristretta elite, letture disordinate che comunque costituirono il nerbo orientativo politico per generazioni di attivisti più o meno aff ascinati da parole sovente inebrianti, via via meno astratte con il passare dei decenni fi no a giungere ad un realismo sempre più esasperato. E il volo cominciò più che con altri con le inebrianti idee di Julius Evola, primo assoluto tra quei maestri:

“Devesi riconoscere poi che la devastazione che abbiamo d’intorno è di carattere soprattutto morale. Si è in un clima di generale anestesia morale, di profondo disorientamento, malgrado tutte le parole di ordine in uso in una società dei consumi e della democrazia: il cedimento del carattere e di ogni vera dignità, il marasma ideologico, la prevalenza dei più bassi interessi, il vivere alla giornata, stanno a caratterizzare, in genere, l’uomo del dopoguerra”. (1)

Di simili concetti quella nuova gioventù missina andava a nutrirsi, e tali parole più di molte altre esprimevano sentire e volere di coloro i quali lentamente crescevano in quegli anni all’ombra dei fondatori del movimento, peraltro ancora necessariamente intrisi più di preoccupazione per sopravvivenza fi sica e quotidiana, prima ancora che alla costruzione intellettuale di una fi losofi a politica adeguata ai tempi che nel frattempo si stavano muovendo. Si giungeva peraltro da un dopoguerra cruento in cui, non soltanto negli anni ‘40, vendette dettate soprattutto da odio di classe avevano insanguinato l’Italia per lustri a caccia di fascisti, presunti, parenti, amici o interlocutori. Ossia tutta un’Italia, più che mai quella schierata e dichiarata: questo era il clima. Ma gli anni si erano mossi e toccava quindi ai nipoti muoversi nel contesto di un paese che, sull’onda del ‘68 americano, viveva una stagione creativa, colorata e confusa nella quale nonostante la pelosa dottrina predicante “pace, amore & libertà” si surriscaldava dando così il via ad una stagione di massacri. Fu a quel punto che divenne chiaro che non si stava aff atto scherzando e che la tessera di un partito come il M.S.I. poteva segnare il destino di un uomo, come infatti fu per i ventuno Sergio Ramelli freddati tra i ‘70 e gli ‘80. Ma se le parole evoliane ponevano l’accento soprattutto sulla questione etica che in eff etti fu certamente un intimo sentire di molti attivisti in quegli anni, presto l’etica avrebbe vissuto una trasformazione che al di là del bisticcio di parole dà l’idea di quello svolgimento intellettuale e politico. Dapprima fu infatti etica, poi teoretica, indi estetica, profetica, ipotetica, patetica, diuretica, peripatetica e bisbetica: e non si tratta di bisticcio semantico bensì di realtà. In breve. Etica fu la fase evoliana già vista; teoretica quella degli astratti anni di piombo in cui teorie rincorrevano altre teorie per il puro gusto del teorico. E venne la profetica con i suoi sacerdoti: Spengler su tutti che già nel 1933 disegnava il futuro europeo con sconcertante lucidità e precisione. Fu poi ipotetica, un Freda lo spiega, ad aff ascinare predicando disintegrazioni di sistemi e successive ipotesi sociali; tutto però sempre pervaso da una militanza sovente patetica tanto fu il condimento di nostalgismi, retoriche e abbigliamenti. E diuretica: Fiuggi. A cui seguì la strada peripatetica ossia del compromesso, della rinuncia, dell’abiura e l’antica fede trasformata in male assoluto. Infi ne la bisbetica, ossia il male endemico: l’eterna, infi nita, sfi brante e inconcludente litigiosità di quella grande famiglia ormai sempre

Rifondazioni Lodovico Ellena

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più sparpagliata in partiti, movimenti, cani sciolti, intellettuali, circoli culturali e bocciofi le.

Codreanu rappresentò perciò in quegli anni un fermo punto etico. Il legionario rumeno con la concezione sacra e fanatica del vivere politico ispirato ad un cristianesimo militare, aff ascinò per la sua intransigenza allergica a qualsiasi compromesso:

“Per molti riuscirà sorprendente il fatto, che oltre seicentomila uomini - poiché a tanto, più o meno, ammontano i seguaci di Codreanu - pratichino sistematicamente non solo la preghiera, ma altresì il digiuno: i legionari sono tenuti a osservare tre volte alla settimana il cosiddetto “digiuno nero”, che signifi ca, non mangiare, né bere, né fumare. […] I capi del legionarismo romeno fanno anche il voto di povertà, essi non frequentano né riunioni, né teatri, né balli, né cinematografi . Un elemento specifi co, che il movimento di Codreanu ha desunto dalla religione ortodossa e che ha già tratti anche politici, si riferisce all’ideale “ecumenico”: si tratta di un sentimento speciale di comunità, che non è soltanto quello di una connessione organica fra gli uomini di un dato popolo, ma anche di un sentirsi, in ciò, uniti con i propri morti e con Dio” (2)

Una defl agrazione morale contro un vuoto vivere borghese accomodante e pantofolaio, un respiro profondo da altezze spirituali prima ancora che politiche. Un humus sul quale il tempo fece germogliare però non il frutto sperato, bensì troppe diff erenti e vaghe aspirazioni a volte anche verso una specie di martirio, anch’esso frutto di un conseguente delirio teorico in cui - complici quegli anni - tutto ed il contrario di tutto ribollivano in un identico calderone ideologico. Se dalla parte culturale opposta si assisteva all’allungata stagione nostrana della “pace, amore & libertà” in cui fi orivano personalità culturali inneggianti a vicine rivoluzioni quali Demetrio Stratos e i suoi Area, erano anche convivenze di movimenti religiosi (Hare Krishna) con teorici dell’ateismo, e ancora convivenze tra comunisti ed anarchici (“i compagni che sbagliano”), via fi no a consumatori psichedelici ispirati da Castaneda o da Leary fi no all’ascesi indù: nella gioventù missina un analogo caos intellettuale germogliava. Un sentire confuso, inebriante, mistico, eretico, irrazionale, una sfi da a grigi tempi alla ricerca di assoluto in cui anche Mishima trovava la sua collocazione:

“Per l’uomo d’azione, le circostanze in cui l’azione è attesa non diff eriscono aff atto dalla legge per cui gli uomini comuni debbono subire “il tempo”. Allorché lo Hagakure aff erma: “Quando si presentano due strade, tu sceglierai quella su cui morirai più presto”. […] Il carattere è come il corpo di una sciabola. Quando lo tieni conservato semplicemente nel fodero si arrugginisce e anche la lama non è più tagliente: è una cosa che devi sempre usare e curare”.(3)

Di tali maestri si cibò quindi per alcune stagioni l’intellighenzia sempre più maledetta e maleodorante missina, che andava già comunque a frammentarsi in rivoli, canali, correnti e paludi che a loro volta avrebbero subito analoga sorte dopo il distacco dalla comune casa madre che, almeno nei tempi almirantiani, riuscì per qualche stagione ad aggregare turbolenti e moderati, intellettuali e manovali, in una comune casa litigiosa ma sensibile alla testarda perdente coerenza, ad esempio, di un Brasillach:

“La Germania, costretta a difendersi, può averci fatto molto male in quest’ultimo anno, può farcene ancora molto, ed io temo le sue nuove armi che sta preparando, ma certo che il suo irrigidimento, forse pazzesco, ha in sé qualcosa di eroico e di sovrumano davanti a cui la storia, qualunque cosa accada, sarà costretta ad inchinarsi. Lo scrivo qui nella mia prigione con la piena coscienza di ciò che dico”. (4)

Un esempio di coerenza prima di tutto estetica sovrumana, un modello da ammirare, un uomo che contro ogni convenienza e contro ogni logica benpensante aveva sfi dato la morte in una forma alla fi ne poco dissimile da quelli che per “rispettare la parola data” scelsero la Repubblica Sociale, arruolandosi per una causa già persa: di tanto si nutrì certa estetica missina per lustri e tanto germogliò.

“Tu non sai, cara Marzia, che molti tra quanti vorrebbero condannare tuo padre, in quanto colpevole di un delitto che gli Italiani diffi cilmente perdonano: quello della coerenza, vi sono coloro che gli furono Maestri e, quindi, coi loro scritti lo spinsero sulla strada che doveva condurlo nella Repubblica Sociale Italiana: e vi sono a migliaia, a centinaia di migliaia, a milioni i suoi compagni di un tempo, quelli cioè che dopo aver militato con lui, nel fascismo e “sotto” Mussolini, si squagliarono, stridendo alla maniera dei topi, non appena la barca incominciò a fare acqua”.(5)

“La dilacerazione era stata, l’8 settembre, dolorosa, violenta, improvvisa: i fascisti si videro e si sentirono d’un tratto come isolati dal resto degli italiani, che applaudivano all’armistizio, minoranza assoluta di contro alle masse di connazionali che volevano la pace ad ogni costo, anche a costo dell’onore”.(6)

Ma non erano ancora giunti gli anni di estremismo in ciabatte, già che dalla casa madre ordini più o meno nuovi derivavano, avanguardie nazionali o nuclei armati, ordini neri e terze posizioni: su tutte però vi fu un’esperienza che convisse clandestina all’interno della grande casa madre, ossia la fuga politica di Freda. Il pensatore maledetto, la primula nera, il carismatico indiziato principale per la strage di Piazza Fontana se contava pochi proseliti aveva invece lettori e non dichiarati discepoli. Intelligenza di razza ed inquietante teorico riuscì per

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lustri ad incantare con ipotetiche idee di uno Stato immaginato, sintesi “nazi-maoista”, peraltro pervase da intuizioni inebrianti:

“Esiste ancora, tuttavia, chi non si lascia possedere dalle seduzioni dell’economia e rimane fermo nella convinzione che compito principale dello Stato non sia quello di garantire l’acquisto o la conservazione del frigorifero, della lavatrice o di maggiori ferie settimanali. Costui ritiene che fi ne dell’uomo non sia quello di mantenersi, vegetando e soddisfatto, nelle migliori condizioni fi siche di esistenza - ma che vi sia dell’altro; che sia, anzi, proprio quest’ altro a dare signifi cato e stile all’esistenza, e che, proprio in virtù di quest’altro valga la pena di sproletizzarsi e di sborghesizzarsi, esaurendo l’ambito di condizionamento determinato dall’esistenza di bisogni fi sici alla parte e alle regioni meno importanti dello spazio umano. E’ a questa razza di uomini veramente liberi - a questi asceti, nel signifi cato classico dell’espressione, della politica - cui noi proponiamo il dialogo intorno al vero Stato e alla funzione dell’uomo giusto e libero nello Stato: con l’intendimento non di presentare un’entità vaga e sentimentale, ma di orientare verso la intuizione sottile del mito - anzi del mistero - dello Stato”(7)

Parole di razza a quel punto sospette all’”ortodossia” di un movimento che ormai necessitava di dover sancire inequivocabili distanze dalla galassia formatasi in quell’orbita e da quei pericolosi militari ideologici. Ma se questa fu una fase ipotetica, sullo sfondo si agitava ancora e mai sopita quella profetica; fi n dal 1933 infatti Spengler dipingeva un’Europa a tinte fosche ispirando in quel modo l’idea - appartenuta ad alcuni ancora in quegli anni - della inevitabile necessità di un fato obbligante ad assolvere un immane compito. Peraltro già il Führer aveva avvertito quel fato, e quell’idea di necessario estremo aleggiava nelle notti militanti di molta gioventù.

“Oggi, qualche membro della razza bianca cura di uno sguardo quello che succede attorno a lui sulla terra? Volge uno sguardo alla gravità del pericolo che incombe minaccioso su questa massa di popoli? Non sto parlando della folla colta o incolta delle nostre città, dei lettori di quotidiani, del gregge che s’ammassa nei giorni delle elezioni - nelle quali da tempo non sussiste più alcuna diff erenza qualitativa tra elettori ed eletti -, ma delle classi dirigenti delle Nazioni bianche, se non sono già state annientate: degli statisti, se ce ne sono ancora, dei veri capi della politica e dell’economia, nel campo militare e nel dominio intellettuale”.(8)

Eccolo quindi il nocciolo della questione: il vero capo. Già che l’anziano Almirante abdicava ormai tragicamente lasciando al suo successore un compito sul cui esito molti poi domandarono se fosse stato concordato, o se invece fosse stata libera opzione di quel nuovo arrivato. Perfetto per tempi plastifi cati in cui ogni

senso aveva perso il suo senso, intriso invece - e con lui un’intera classe - di mediocrità umana volta sempre più all’immediato e sempre più allontanata da qualsiasi idea di vita superiore: ciarpame del passato. Il caos alla fi ne questo aveva prodotto: una corte alla mercé di un capo, non vero ma senza possibili alternative. Piacente, rassicurante, pettinato, moderato, aff abile, educato, di buona famiglia: il chierichetto della porta accanto. Che distanza oramai dall’etica, qui ormai diuretica in direzione peripatetica, che distanza. E cosa restava a quel punto della grande casa madre, di quel confuso inebriante caos, di quei giorni in cui una piccola tessera con una fi ammella incendiava lo spirito? Cosa restava all’indomani del legittimo quesito “testimoniare o partecipare?” posta da alcuni poco prima della cosiddetta svolta che in realtà fu - ormai dati alla mano - una vera e propria manovra in contromano sulla opposta corsia autostradale? Restò la voglia rabbiosa di litigiosi gruppi di non accettare quella mortifi cante abiura, gruppi che unirono in una fi ammata che però subito disperse la sua energia in tanti piccoli fuochi fatui. Fuochi che mai più avrebbero ritrovato la forza di produrre pensiero, conditio sine qua non per qualsiasi movimento intenda esistere, occupati come furono per una miserabile sopravivenza quotidiana, e alla fi ne aggregatisi alla mammella del primo nemico morale. Addio all’estetica, addio a qualsiasi cosa più profonda dell’epidermico quotidiano. Cosa resta. “Non è il superiore che ha bisogno dell’inferiore, ma è l’inferiore che ha bisogno del superiore […] L’essenza della gerarchia sta nel fatto che in alcuni esseri superiori vive, in forma di presenza e di realtà attuata, ciò che negli altri esiste solo come espressione confusa, come presentimento, come tendenza, per cui questi sono fatalmente attratti dai primi, naturalmente a essi si subordinano, in ciò subordinandosi meno a qualcosa di esteriore, quanto a un loro più vero io”.(9)

Che forse queste parole intendessero che anche il “superiore” fosse contingenza? E che forse quel “superiore” fosse alla fi ne il camaleonte politico in grado di orientare nel nome di piccole misere convenienze istantanee intere folle preoccupate soprattutto di quel loro piccolo avvenire? Eppure in tanti nel privato di un tavolo di pub non digerirono quelle scelte micragnose, per ciò rispolverando bagagli culturali antichi e sani, quali irrinunciabili principi. Ormai però polverosi, già che qui ora si parla di anticristo politico.

“Il fatto che le forti razze dell’Europa settentrionale non abbiano respinto da sé il Dio cristiano non va in verità a onore della loro attitudine religiosa - per non parlare del gusto. Avrebbero dovuto farla fi nita con un tale morboso e decrepito prodotto della décadence. Ma il non averla fatta fi nita con quello è per loro una pesante maledizione: esse hanno accolto in tutti i loro istinti la malattia, la vecchiaia, la contraddizione - da allora non hanno più creato alcun Dio! Quasi due millenni e non un solo nuovo

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Dio!”(10)

Nietzsche. Lo si leggeva nelle sedi missine e lo si leggeva ai festival dell’Unità: forse unico caso di saccheggio ideologico di cui resta da chiarire il motivo di tutta quella foga, ma tanto avvenne. Parole scioccanti, un terremoto, una frana di valori: ah, i valori. Eccolo quindi il centro del problema su cosa resta: quali valori restano di quell’esperienza che portò con sé vite, “sogni”, rabbia? Era forma articolata di politica che in sé comprendeva etica, fi losofi a, religione, psicologia, storia, estetica, e non era infatti caso che nelle sedi più centrali insieme al Mein Kampf si trovassero anche i Discorsi sull’arte Nazionalsocialista dello stesso autore: non era certo caso.

“Che non si venga poi a parlare, a questo proposito, di “minaccia alla libertà dell’arte”. Così come non ci si trattiene dal privare un assassino del diritto di uccidere fi sicamente i suoi simili sol perché altrimenti si attenterebbe alla sua libertà, egualmente non è lecito consentire a qualcuno di uccidere l’anima del popolo per evitare di infrenare la sua lurida fantasia e la sua dissolutezza”.(11).

Di simili tematiche - giuste o sbagliate che fossero - ci si andava però a preoccupare: quanta distanza con il presente del “sì, però…”. Anni luce, quasi da pensare che nello spazio di una generazione siano scomparse parentele e sentimenti: spariti, annichiliti, sotterrati. Un ricordo; il volto ispirato di un giovane missino ad un comizio che con mistico sguardo volto a un superiore traguardo ambiva all’immarcescibile destino. Quel volto qualche anno più tardi fece, peraltro con diligenza, il ministro dell’agricoltura: lo sguardo a quel punto più quello della guardinga volpe preoccupata da pensieri ben più radenti. Fu così che dal cilindro del prestigiatore dell’azienda politica spuntò un bel giorno il nome di Prezzolini, l’autore che “tutti dovrebbero tenere sul proprio comodino” come disse. Prezzolini, nulla da eccepire, ma quale lunghezza dai vecchi maestri.

“Gli uomini sono disuguali per salute, per età, per sesso, per apparenza, per educazione, per ingegno, per forza, per coraggio, per bontà, per onestà, e per molte altre condizioni dovute alla ereditarietà ed alla fortuna. Ogni legislazione o costituzione che non tenga conto di questo è da considerarsi non soltanto vana ma dannosa. […] Il vero conservatore riconosce come legge naturale che ogni società lotta per conservare se stessa e naturalmente preferisce il proprio puzzo all’odore degli altri. Il vero conservatore sa che la fonte maggiore del rispetto è l’autorità, che l’esempio vale più dei discorsi.(12).

Se per conservatore si intende la conservazione di privilegi acquisiti, tutto improvvisamente chiarisce. Fuor di facezia comunque, quale distanza. Sessant’anni più tardi quel che resta

di un fascio. Ma cosa vollero quindi quei giovani e quei meno giovani che si avventurarono in quest’appendice di fascismo, a cosa aspiravano, a cosa tendevano? Verso quale società e quale ordine auspicavano? Quel che oggi più sconforta è il fatto che al presente a simili domande potrebbero rispondere slogan da campagna elettorale in quanto - deve imporlo l’onestà - gli alti ideali naufragati nel marasma di un’epoca che ha sostituito frigorifero con telefono cellulare. “Italia agli italiani” “Politica come servizio”, “Dai forza alla protesta”, “Vota Antonio, vota Antonio”. Così. Che forse le “destre radicali” si riconoscano ancora in rivoluzionari concetti quali:

“La violenza è sempre stata l’arma esclusiva con cui gl’individui dapprima, le collettività poi si aff ermano gli uni e le une sugli altri. Nessun pagano proclamò come proclamarono sedicenti cristiani dei nostri giorni la santità, anzi la divinità della guerra”.(13).

Che forse qualcuno oggi sposerebbe ancora simili tesi? O prenderebbe la briga di aff rontare simili discussioni? Eppure furono vissute e discusse, e in qualche modo - checché possa apparire alla folta schiera dei “sì, però…” - condizionarono il pensiero di molti, ché ancora al presente frange di neopagani organizzati e disorganizzati crescono. Ma se il dibattito fi losofi co e religioso langue e latita, rispetto a quel passato ha invece aumentato consistenza quello storico, soprattutto revisionistico. Eccone un buon esempio:

“Si può aggiungere che nel movimento fascista, coacervo di indirizzi culturali e istituzionali variamente assortiti (passatisti e futuristi, Strapaese e Stracittà, monarchici e repubblicani, cattolici e laici, industriali e anti-industriali, conservatori e rivoluzionari, nazionalisti e socialisti), era presente anche una componente di ispirazione e vocazione totalitaria. Se questa componente fosse prevalsa, l’Italia avrebbe probabilmente conosciuto un regime totalitario, con tutti gli immensi costi umani, morali, civili che accompagnano tale forma di dominio politico. La monarchia, però, ha rappresentato un deterrente assai signifi cativo alla trasformazione della dittatura fascista in totalitarismo. […] La Casa regnante ha contribuito a far sì che nel movimento fascista prendessero e mantenessero il sopravvento quei fi loni, quegli orientamenti, quegli uomini meno inclini alla metamorfosi totalitaria, talché il “ventennio” può ben essere defi nito un’esperienza autoritaria, non un regime totalitario. Senza il contrappeso monarchico, la via verso la degenerazione totalitaria sarebbe risultata più sgombra e più facile”.(14).

Queste quindi le nuove preoccupazioni della classe dirigente, peraltro già dimessa, della “grande destra di popolo”. Più che legittime per carità, ed alla fi ne nel loro insieme anche

Rifondazioni Lodovico Ellena

storia e contros

toria

condivisibili, ma quanta polvere sulla lunga strada. Polvere sul percorso di un mondo prevalentemente al maschile che almeno laddove un volto rassicurante ha rassicurato, ha alla fi ne accolto anche il popolo femmineo: eterno problema ereditato con cura ed amore dalla ruspante galassia “radicale”. Forse mancanza di politica in merito, forse di rifl essione, o forse ancora meglio dalla mancanza propria di pensiero: ecco quindi, alla faccia dei “sì, però…”, la carenza farsi vuoto, orrido, lacuna, abisso.

“A Sparta si credeva che una madre sana avrebbe generato fi gli sani, per questo le donne venivano sottoposte ad allenamenti faticosi e ancora una volta la saggezza degli antichi si è dimostrata superiore alla nostra visto che nell’era in cui viviamo si può tranquillamente aff ermare che madri in carriera terrorizzate dall’idea di invecchiare generano fi glie anoressiche. Una donna è bella fi nché la sua immagine esteriore è realmente lo specchio di quella interiore, fi nché mangia con gusto godendo dei sapori, fi nché invecchia consapevole del suo ruolo nel ciclo naturale di tute le cose, non fi nché entra nella taglia 38 solo perché uno stilista ha deciso di far indossare la sua collezione primavera/estate a una serie di scheletri umani”(15).

E ancora invece in termini di storia che storia non fu, ma che per un non tempo fu come lo fosse:

“L’opera di Tolkien appare agli occhi della maggior parte dei lettori come una grande, unica avventura in un mondo diverso, e, forse, migliore. In eff etti Tolkien presenta al lettore moderno fi gure e simboli che solo in parte sono compresi, e le immagini, i simboli e, in particolar modo, i miti, sono essenziali all’uomo in quanto veicoli che conducono ad una dimensione migliore del vivere. Come Tolkien rielabora tramite la fantasia ciò che trae dal suo amplissimo retroterra culturale, cioè lo studio approfondito di forme diverse della Tradizione, così nelle sue opere il riferimento fantastico alla dimensione temporale e, in defi nitiva, storica, risente necessariamente di questa infl uenza, certamente positiva”. (16)

Verità abbaglianti, forse proprio per questo invisibili ad una società che ha perso la capacità di vedere l’invisibile. Ma se tutto quel che resta di quel movimento che regalò a molti settimane di straordinaria ebbrezza metafi sica, discussione, “camerateschi” raduni è ormai solo profondo ricordo, il presente non potrà essere negato nella sua realtà. Quel tempo è fi nito, quegli anni andati, quei giorni sbiaditi; nemmeno coloro che piuttosto che arrendersi al sistema sarebbero andati a Predappio “con una cassa di vino per fi nirla così”, esistono più: nemmeno quelli. E alla fi ne infi nita tristezza perché, ancora oggi come ieri,

“devesi riconoscere poi che la devastazione che abbiamo d’intorno è di carattere soprattutto morale. Si è in un clima di generale anestesia

morale, di profondo disorientamento, malgrado tutte le parole di ordine in uso in una società dei consumi e della democrazia: il cedimento del carattere e di ogni vera dignità, il marasma ideologico, la prevalenza dei più bassi interessi, il vivere alla giornata, stanno a caratterizzare, in genere, l’uomo del dopoguerra”. (17).

Un certo Evola. A cui qualcuno aveva anche creduto.

Appendice.

Io ho voluto continuare, io sto insieme a tutti voi continuando. Sto continuando e continuerò fi no alla fi ne. Nessuno mi potrà distogliere da questo compito, nessuno potrà distogliere - nessuno tra voi - dal compito di continuare. Continuare, badate bene, non imitare! Non limitarsi a rimpiangere. Continuare! Continuare in maniera intelligente, attiva, responsabile! Capire che cosa era stato il fascismo prima del ventennio di governo e di potere, che cosa è stato il fascismo durante il ventennio di governo e di potere, e soprattutto che cosa è stato, è, continua ad essere, continuerà ad essere il fascismo come movimento. Il fascismo come movimento siamo noi! Il fascismo che continua siamo noi!”.Giorgio Almirante, 6 settembre 1987, ultimo discorso.(18)

“No Almirante, no Romualdi, voi non morite, non potete morire. La vostra opera, la vostra vita, sono il vostro messaggio, la vostra consegna a noi […] Ci avete insegnato che un popolo senza radici non ha futuro, così come un albero senza radici muore.. Ma noi vivremo per voi e con voi. Ve lo giuriamo col cuore gonfi o di dolore e con l’animo colmo di fi erezza per essere stati con voi nelle sconfi tte e nelle vittorie […] No, caro Almirante, il testimone non è caduto. E’ in buone mani. In mani giovani, in mani forti, in mani che non cederanno. Lo porteremo avanti anche per te, anche con te. Perché tu Almirante e tu Romualdi, non ci lasciate. Restate tra noi, alla nostra testa, in piedi, come sempre siete vissuti. Grazie per quello che ci avete insegnato.Il suo successore, 24 maggio 1988, in occasione del funerale di Almirante e Romualdi.(19)

(1) Julius Evola, Orientamenti, ed. Settimo Sigillo, Roma, 1987, pag. 18. (2) Julius Evola, La tragedia della Guardia di Ferro, Fondazione J.E., Roma, 1996, pag. 24. (3) Yukio Mishima, Il pazzo morire, ed. Sanno-kai/Ar, Padova, 1979, pagg. 17, 40. (4) Robert Brasillach, Lettera ad un soldato della classe ‘40, ed. Europa, Roma, 1997, pag. 70.(5) Alberto Giovannini, Lettera a Marzia, ed. Tabula Fati, Chieti, 2003, pagg. 14,15.(6) Pino Rauti, Benito Mussolini, ed. Europa, Roma, 1989, pagg. 100,101.(7) F. Giorgio Freda, La disintegrazione del sistema, ed. Ar, Padova, 1980, pag. 45.(8) Oswald Spengler, Anni della decisione, ed. Ar, Padova, 1994, pag. 21.(9) J. Evola - René Guénon, Gerarchia e democrazia, ed. Ar, Padova, 1987, IV di copertina.(10) Friedrich Nietzsche, L’anticristo, ed. Adelphi, Milano, 1982, pag. 22.(11) Adolf Hitler, Discorsi sull’arte Nazionalsocialista, ed. Ar, Padova, !976, IV di copertina.

(12) Giuseppe Prezzolini, Manifesto dei conservatori, ed. Mondadori, Milano, 1995, pag. 36.(13) G. Costa, Apologia del paganesimo, ed. Europa, Roma, 1989, pag. 19.(14) Domenico Fisichella, Elogio della monarchia, ed. Vallecchi, Firenze, 1995, pag. 75.

(15) Argentea, Essere e divenire: guida per l’Uomo di Th ule, Roma, 2006, pag. 23.(16) Alberto Lombardo, Tolkien e il tempo, ed. Terra di Mezzo, Udine, 1995. pag. 65.(17) Julius Evola, Orientamenti, ed. Settimo Sigillo, Roma, 1987, pag. 18.(18) Augusto Fontana, Italia Tricolore, Ravenna, 20 febbraio 2007, allegato n° 7.(19) Ibidem.

difesa della tradizione difesa d

ella

trad

izion

e

dife

sa del

la tradizione

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Dobbiamo innanzitutto dichiarare, per onestà intellettuale, che la nostra “esegesi tecnica” del pensiero platonico attinge completamente dallo studio dell’ottimo ricercatore Franco Trabattoni, sebbene la sua interpretazione verrà da noi reinserita in una visione del mondo originale che egli riterrebbe da sé lontana. In particolar modo, i testi del Trabattoni cui abbiamo attinto sono: “Platone” e “La fi losofi a antica”, editi da Carocci.

Introduzione.Tentare di scrivere un documento “fi losofi co - culturale” è un lavoro che comporta rischi gravi. Si può peccare, nel voler essere precisi ed esaurienti, fi nendo per colmare pagine e pagine di dati e note, teorie e precisazioni che non sono utili né al lettore, che può benissimo approfondire autonomamente tali tematiche, né all’obiettivo dello scritto stesso, cioè il veicolare un’idea.Non intendiamo suscitare noia. Purtroppo però, il preambolo storico che esporremo è assolutamente necessario perché si possano poi comprendere gli sviluppi del nostro articolo nonché le conclusioni che ne trarremo. Per questo motivo siamo stati costretti a suddividere l’articolo: una sola pubblicazione sarebbe stata troppo “ristretta”.Rischio ulteriore è quello di cadere nella pura speculazione, nell’autoerotismo mentale, inutile esercizio narcisistico.Di fronte a tale errore noi dobbiamo opporre una ricerca che sia in grado di produrre una lucida visione del mondo la quale, sempre, ha evidenti ripercussioni pratiche, persino nell’esistenza più quotidiana e contingente. Così, l’articolo che questa volta abbiamo voluto redigere, non vuol essere una semplice ipotesi dossografi ca, ma, al contrario, ha l’ambizione di contribuire a consolidare l’idea che lo studio del pensiero fi losofi co europeo può metter in luce esempi di analogia, tra passate ed attuali “crisi” e tra passate ed attuali possibili soluzioni e reazioni, che i vari autori hanno trovato per approcciarsi in modo creativo al proprio tempo.Rimane comunque fermo il fatto che la nostra liberazione dalle catene della contemporaneità sarà una questione d’azione (nel senso sia dello spirito sia dell’intelletto pratico), e non di speculazione fi losofi ca. Una vera dottrina, quella potrà esser da noi stabilita solo quando saremo tornati ad essere Uomini liberi. Sino allora, ci potremo concedere solo di giocare col pensiero, lasciando trasparire in esso quelle inclinazioni, quegli istinti, quei modi d’interpretare il mondo che, naturalmente, il nostro tipo umano (quello del ribelle, quello dell’antico guerriero in cerca di nuove armi ideali) porta con sé. Ed è quello che farò in questo scritto.L’ipotesi che in questa sede vogliamo sviluppare, oltrepassando

la già di per sé importantissima esegesi platonica dataci dal Trabattoni, non può avere un reale valore nel campo della storiografi a fi losofi ca: si tratta piuttosto del tentativo di “vedere” dietro al pensiero d’un personaggio così importante per il pensiero europeo - Platone - una dinamica particolare di reazione ad un determinato periodo di “zivilizazion” greca. E’impossibile riscontrare nell’opera platonica una prova veramente defi nitiva che confermi le nostre tesi, perciò esse resteranno nell’ambito del semplicemente probabile. Si tratta quasi di rilevare un aspetto “psicologico” che si nasconde dietro la fi losofi a di Platone: una sua reazione, non necessariamente consapevole, all’esaurirsi della forza creativa d’una stirpe. La sua stirpe. Il giovane Aristocle. La decadenza ateniese.Aristocle, secondo Diogene Laerzio, nasce ad Atene durante l’ottantesima Olimpiade, cioè attorno al 428 – 427 a.c. nel mese di Targelione (tra maggio e giugno). Diogene Laerzio non può però rappresentare, come ogni altra fonte biografi ca, un informatore incontestabilmente veritiero e certo. In ogni caso, il dato storico da lui indicato pare essere credibile.Il padre di Aristocle, Aristone, vien ricondotto ad origini leggendarie: tra i suoi ascendenti vengono annoverati il re Codro e, ancor più indietro, il dio Poseidone. Aristocle ricevette lo stesso nome del nonno paterno.Sua madre fu invece Perittione, che aveva tra i suoi antenati Solone. Aristocle ebbe numerosi fratelli, comparsi come personaggi nei suoi dialoghi (Adimanto e Glaucone nella “Repubblica” ad esempio). Sua sorella Potone, sarà poi madre di Speusippo, primo successore di Arsitocle alla testa della sua Accademia.Poco dopo la nascita di Aristocle il padre morì e la madre si risposò con Pirilampe, da cui nacque Antifonte, presentatoci come narratore nel “Parmenide”.Il giovane Aristocle ricevette il soprannome di “Platone”, forse per l’ampiezza dello stile e della conoscenza, forse per la fronte ampia o per la fi sicità imponente (“platys” in greco signifi ca vasto, ampio).Egli venne educato secondo l’uso tradizionale dell’aristocrazia greca: ginnastica, musica e studio “letterario”, istruzione che avrebbe dovuto preparare i giovani ateniesi alla vita politica.Ed il giovane Platone inizia infatti a sentire la vita politica come sbocco naturale della propria esistenza.Talune fonti indicherebbero che Platone fu inizialmente un poeta tragico, sinchè, attorno ai vent’anni, non conobbe Socrate. Negli anni che trascorsero tra la gioventù di Platone e la condanna a morte di Socrate (399 a.c.), periodo che segnò defi nitivamente l’intero pensiero di Platone, la vita politica

“PLATONE”PARTE PRIMA Matteo Mazzoni (Chryso)

rivoluzione

e tra

diz

ateniese attraversò anni di fortissima instabilità: le tragiche vicende conclusive della guerra del Peloponneso, e poi il susseguirsi al governo di Atene di regimi di tipo opposto.In seguito alla sconfi tta di Atene nella guerra del Peloponneso, nel 404 a.c. vi fu il colpo di stato oligarchico dei cosiddetti “Trenta Tiranni” guidato da Crizia. Fu un regime sanguinoso, violento, diremmo “titanico”, che cadde dopo pochissimo tempo sotto i colpi della riscossa democratica.Platone fu parente di Crizia. Nonostante ciò si rifi utò di aderire al regime dei Trenta. Ciò non si produsse però nell’adesione alla parte democratica: la sua visione aristocratica, la sua ostilità al demos (da intendersi però in senso più ristretto rispetto al signifi cato odierno), per istruzione, per appartenenza e per convinzione aristocratica, lo tennero fuori da quegli scontri politici.Tant’è che fu proprio il ristabilito regime democratico a condannare nel 399 a.c., di fronte ad una giuria popolare, il suo maestro Socrate, l’uomo che, agli occhi di Platone, fu il giusto, il buono, il virtuoso per eccellenza.Il susseguirsi di tali fatti politici condussero il giovane Platone alla convinzione che la causa di tali disastri era da rilevarsi nella dissociazione, ad Atene, tra etica e politica.Troppo spesso Platone è stato interpretato superfi cialmente e faziosamente come un nemico della cultura greca tradizionale, cioè di quella cultura omerica che incentrava la propria etica sull’ antico principio dell’onore. La realtà, a nostro parere è, almeno in parte, diff erente. Platone forse si rese conto del fatto che ormai la sopravvivenza di quegli antichi valori risultava essere un qualcosa di svuotato, di non più vitale, di stanco ed interpretato ormai in senso puramente superfi ciale: quei valori erano seguiti, diremmo impropriamente, con un atteggiamento moralistico e superstizioso, ma la loro profondità non era più “vissuta, sentita”. Volendo rinchiudere il tutto in una concezione impropria, ma che mette ben in luce ciò che, a nostro parere, potrebbe essere la motivazione psicologica, cosciente o no, del pensiero platonico, potremmo dire che il nostro ateniese si avvide del fatto che la sua città natale aveva ormai esaurito la sua spinta creatrice:dalla sua kultur, era invece giunta ad una spenta zivilizazion. Ed è da tale tesi, pur azzardata, che intendiamo procedere.

L’attacco alla cultura ateniese.Tenteremo ora di sottolineare quale fu l’erronea interpretazione della sacralità, della giustizia e dell’etica da parte degli ateniesi contemporanei di Platone, e che il nostro fi losofo contestava.Si rende necessaria una premessa: nel mondo greco arcaico non vi era nessuna diff erenza tra poesia “sacra” e poesia “profana”: ne risultò che i testi poetici vennero intesi anche come mezzi

di trasmissione del sapere “religioso” e non solo: soprattutto da Omero ed Esiodo infatti, oltre che indicazioni mitologiche ed etiche, i greci trassero insegnamenti “sociali” e relativi al diritto, nonché anche ai costumi.Non esistendo nella civiltà greca una casta sacerdotale impegnata a trasmettere, insegnare e conservare le discipline e le norme sacre, (anche se ciò non vale per quanto riguarda i culti misterici) la cultura greca fi nì dunque per assimilare alla fi gura del poeta quella del sacerdote.Nel II libro della Repubblica, i personaggi Glaucone ed Adimanto, fratelli di Platone, con lo scopo di costringere Socrate ad ammettere la vantaggiosità della giustizia, sostengono provocatoriamente l’opposto, cioè la vantaggiosità dell’ingiustizia: per Glaucone l’ingiusto sarà colui che, tramite la sua ingiustizia, potrà arricchirsi maggiormente e, data tale ricchezza, potrà off rire agli dei sacrifi ci migliori rispetto a quelli off erti dal povero uomo giusto: in tal senso agli dèi l’ingiusto sarà più caro del giusto. Inoltre, continua Adimanto, l’ingiusto potrà riparare alle sue azioni, oltre che grazie ai sacrifi ci, anche mediante l’arte delle formule magiche. I due rispondono dunque ad una concezione formalistica dell’etica e per la quale gli dèi possono essere condizionati dall’uomo mediante sacrifi ci o formule magiche. Il modo in cui il dialogo tra i due ed il personaggio di Socrate continua, dibattito incentrato sulla natura degli dèi, qui non lo considereremo per ragioni di spazio. Ciò che è interessante è il trasparire, nel discorso di Glaucone ed Adimanto, di una concezione del sacro che non ha nulla a che vedere con quell’idea indoeuropea del divino, del sacro, nonchè della tèchne tèia e del suo valore, perché no, anche normativo, nella vita umana. Direi che vi è, nella loro visione, una componente superstiziosa decisamente mediterranea o comunque del vicino oriente. Va da sé che per Platone, in una società in cui gli individui, nonostante possano ammettere il valore della giustizia (valore inteso in un senso però un po’ utilitaristico), credono che agli dèi possa anche esser caro l’ingiusto, è una società destinata alla disgregazione, alla disintegrazione, cioé alla scissione tra sacralità , etica e politica, volendo noi intendere “etica” in una modalità non propriamente moralistica, nel senso deleterio del termine.E molti altri esempi di tale disordine possono esser riscontrati nell’opera platonica: può essere ad esempio il caso di Eutifrone, nel dialogo omonimo. In tale opera, Socrate, recatosi in tribunale per farsi notifi care l’accusa di empietà (!!!) incontra il “sacerdote” Eutifrone. Costui era là per denunciare il padre, reo d’omicidio, seppur non volontario. Ora, era d’uso presso i greci che, a chieder giustizia e a richiedere la punizione per gli assassini potessero essere solo i parenti delle vittime. Perciò la denuncia da parte di

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“PLATONE”PARTE PRIMA

Eutifrone, oltre ad essere piuttosto strana in quanto rivolta verso il padre, nemmeno fu in linea con il costume ateniese. Eutifrone, con atteggiamento saccente, credendosi portatore d’un sapere più profondo rispetto alla mentalità greca dell’epoca, trasgredisce l’usanza comune, rispetto alla quale pare presentarsi come un anticonformista, un innovatore positivo (…un radical-chic nella Grecia antica?…). Ma come motiva la sua azione? Il suo scopo sta nella volontà di purifi cazione del padre e di chi gli sta vicino, di chi vive sotto il suo stesso tetto, tutti quanti “contaminati” dall’impurità di quell’azione, dell’omicidio…..Concezione quasi “tribale”, superstiziosa. Pur presentandosi come “diverso” dalla cultura greca corrente, in realtà Eutifrone ne condivide dunque appieno l’atteggiamento decadente in campo etico-religioso.Sono davvero molti gli attacchi che Platone muove, dai suoi dialoghi, nei confronti della cultura ateniese del suo tempo.Ai poeti Platone nega non tanto la presuntuosa convinzione d’esser portatori di verità (in alcuni casi Platone ammette che il poeta è ispirato dalla divinità, anche se non necessariamente sempre ciò avviene), ma piuttosto la possibilità d’essere insegnanti di virtù: nell’Apologia di Socrate, Platone sottolinea il fatto che il poeta greco non sa spiegare ciò che recita, e questo è prova della sua ignoranza. Tanto basta a sostenere che nessun ignorante può arrogarsi il diritto d’insegnare ad altri. Non è una tesi che condividiamo del tutto, vi sono aspetti in cui tale tesi è valida, altri in cui è almeno contestabile, ma rimane il fatto che lo scopo di Platone nell’attacco ai poeti sta nella consapevolezza della loro gran distanza dalla Verità, e quindi nella necessità di negar loro l’importanza, anche educativa, che ricoprivano nella società a lui contemporanea.Certamente poco accondiscendente Platone fu anche con i politici ateniesi.Le frecce scoccate verso di essi partono da diverse opere (Menone, Protagora, Gorgia…) e secondo diff erenti criteri. In generale, i politici vengono considerati da Platone tra coloro che, convinti d’esser sapienti e virtuosi, pretendono d’essere in grado d’insegnare la virtù, mentre in realtà, come Socrate dimostra col suo metodo confutatorio, si tratta di personaggi ignoranti (per la verità sarà Platone stesso, nella sua maturità fi losofi ca, a tentare di sottolineare le diffi coltà relative all’insegnamento, per giustifi care i suoi propri insuccessi educativi).Non s’intimorì nemmeno, Platone, quando sentì la necessità, nei limiti del rispetto, di criticare non soltanto i personaggi più illustri della sua Atene, ma anche i più rispettati personaggi politici del passato della polis, considerati comunemente come maestri di virtù, modelli etici da seguire: il personaggio di Socrate nei dialoghi platonici de-divizza tali personaggi, li riconduce

all’interno del limite dell’ignoranza, ignoranza non assoluta, ma relativa alla stessa condizione umana, sottolineandone gli insuccessi, oltre che i successi, nonché l’incapacità educativa.

1.3 I sofi sti. All’epoca di Socrate, cioè nel periodo in cui Platone stava forgiando sé stesso dal punto di vista culturale e fi losofi co, alla cultura tradizionale s’era opposto un diff erente modello fi losofi co: la sofi stica. Non possiamo considerare la sofi stica come una scuola fi losofi ca vera e propria, si tratta piuttosto d’una tendenza, una nuova inclinazione, non monolitica, non unitaria, che proponeva modelli alternativi alla cultura conservatrice ateniese.Nonostante oggi il termine “sofi sta” ha assunto una accezione negativa, originariamente tale termine voleva signifi care al contrario “sapiente” o “esperto del sapere”.Sappiamo che i primi fi losofi considerati tali e come tali studiati furono i “Naturalisti” greci, spesso defi niti “pre-socratici”. Il loro campo d’indagine s’estendeva ai problemi della natura e del mondo: la necessità fu quella di comprendere la strutturazione del cosmo ed il suo funzionamento.Ma fu con la sofi stica che, per la prima volta, l’attenzione si spostò dall’indagine sul cosmo a quella che riguardava più propriamente l’uomo e la sua sfera vitale. Per questo motivo taluni hanno proposto di denominare i “Naturalisti” “pre-sofi sti piuttosto che pre-socratici, poiché la vera innovazione in campo fi losofi co fu attuata, per la prima volta, dalla sofi stica.Platone notò che, nella sofi stica, col susseguirsi delle generazioni, vi fu un generale impoverimento della caratura fi losofi ca ed etica dei diversi personaggi che la costituirono. Alla prima generazione di grandi maestri sofi sti (dei soli quali accenneremo), seguirono discepoli di molto inferiori: innanzitutto i cosiddetti “eristi”, i quali, attraverso il metodo sofi stico ma senza badare assolutamente ai contenuti, costruirono una sterile arte del discorrere, scopo della quale non era la comprensione della realtà, ma molto semplicemente la vittoria nel dialogare. Ciò ebbe chiaramente la sua infl uenza sulla vita politica dell’epoca: il politico d’ispirazione sofi sta, allo scopo d’ottenere il successo professionale, utilizzò tale abilità discorsiva ma senza assolutamente badare ai contenuti della stessa, escludendo del tutto quei limiti etici entro i quali erano invece rimasti i primi maestri sofi sti. Accadde inoltre che taluni uomini politici ateniesi sfruttarono i principi sofi stici allo scopo di teorizzare una rivolta etico-culturale contro ogni tipo di legge costituita, contro l’idea stessa di giustizia, nonché contro la possibilità d’aff ermare qualunque tipo di etica.

Matteo Mazzoni (Chryso)

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I parallelismi con il mondo odierno crediamo non siano nemmeno da sottolineare…I più grandi sofi sti, i maestri della sofi stica, furono Protagora e Gorgia. Giovanni Reale attribuisce a Protagora un atteggiamento relativistico, a Gorgia un atteggiamento nichilistico. Se si accetta tale parere, anche costruendo parallelismi con altri momenti storici, possiamo evidentemente attribuire alla sofi stica un ruolo di naturale, fi siologica manifestazione della critica ai valori costituiti, che sorge esattamente quando tali valori si svuotano della loro forza.Protagora teorizzò la celebre posizione secondo la quale “l’uomo è misura di tutte le cose…”: è l’uomo, per Gorgia, l’unico giudice di ciò che crede e conosce e, essendo diff erenti gli individui, diff erenti saranno le opinioni che questi si formeranno sulle cose. Per Protagora è dunque inutile controbattere all’opinione altrui, poiché l’altro, diverso da me, non può che percepire e concepire le cose in maniera diff erente da me. Altri hanno interpretato la frase protagorea in un senso diverso, agnostico più che relativistico: non esiste una realtà superiore a quella che può essere colta dall’uomo (inteso qui come genere umano e non come individuo).Dalla testimonianza che Platone ci fornisce ( ad esempio nel Teeteto) parrebbe che Protagora sostituì il vero ed il giusto, sui quali i singoli uomini discordano, con il più debole gnoseologicamente, “utile”. Nel disegno Protagoreo dunque, compito del sofi sta è di comprendere qual’è l’utile che la comunità concordemente stabilisce (il quale poi fi niva per corrispondere coi valori tradizionali della società ateniese), mettendo dunque la propria retorica al servizio di tale utile, indicando la via da seguire quando questo non appare del tutto visibile.Gorgia, rispetto a Protagora, si interessa decisamente meno della comunità ateniese o del suo bene, muovendosi piuttosto su territori più teorici ed estetici che “politici”. Il suo scritto “Sul non essere o sulla natura”, del quale abbiamo però abbiamo solo testimonianze indirette, introduce la cosiddetta tesi tripartita: per Gorgia nulla esiste, se esiste è inconoscibile, se è conoscibile è inesprimibile. Tale provocatoria presa di posizione, vuole indicare un atteggiamento scettico nei confronti del metodo deduttivo, in polemica dunque con il procedere fi losofi co degli eleati. Gorgia difatti, con un procedimento che non è il caso in questa sede di spiegare, distrugge la concezione parmenidea, secondo la quale, essendo pensiero ed essere la medesima cosa, attraverso l’esercizio corretto del pensiero sarebbe possibile giungere alla conoscenza degli attributi dell’essere. Gorgia dimostra, al contrario, che la corrispondenza tra pensiero ed essere, quindi tra pensiero e realtà, non è assolutamente certa.

Stabilito ciò, Gorgia stabilisce che, se la parola (connessa al pensiero- logos-) dunque non ha il potere di mostrare all’uomo la verità, possiede però il grande potere della persuasione: può condizionare l’agire dell’uomo, i suoi sentimenti, le sue opinioni. Crollando nel suo pensiero la distinzione tra vero e falso, la persuasione retorica non può esser connotata negativamente in senso etico. L’inganno retorico diviene lecito. Così anche accede oggi, ci par di vedere.

1.4 Socrate. La fi gura di Socrate è diffi cile da determinare storicamente. Risulta infatti complicato distinguere tra il Socrate storico e quello descritto nei dialoghi platonici, oppure da quello descritto dall’altra fonte che possediamo, cioè Senofonte. Meno credibile pare il commediografo Aristofane. Socrate, come sappiamo, non scrisse nulla, dunque ciò che noi conosciamo di tal personaggio deriva solo da fonti indirette. Ciò che sappiamo è che certamente Socrate fu il primo, tra i fi losofi , a spostare il tiro della fi losofi a indirizzandola verso tematiche etiche. Se già i sofi sti avevano fatto dell’uomo il centro della rifl essione, abbandonando l’interesse dei “naturalisti” per il mondo, soltanto con Socrate i problemi etici e le loro relazioni col mondo politico e sociale ateniese divennero il problema preponderante.Sottolineare questa questione apparentemente banale e scontata, ci è invece utilissimo poiché, se si considera che Socrate fu l’amato maestro di Platone, ciò ci aiuterà a comprendere più da vicino il pensiero di quest’ultimo nella contrapposizione con l’interpretazione che tradizionalmente ne viene data.Pare che Socrate nacque nel 470\469 a.c. da Sofronisco, scultore, e da Fenarete, levatrice. Trascorse la sua vita ad Atene, in modeste condizioni economiche. Sposò Santippe, e con lei ebbe dei fi gli.Socrate servì coraggiosamente Atene durante la guerra del Peloponneso come soldato semplice, fu dissidente sia nei confronti del regime democratico sia di quello dei Trenta Tiranni. Di simpatie politiche fi lo-spartane (così come fi lo-spartano sarà poi il suo allievo Platone) fu amico di diverse personalità infl uenti: Crizia (zio di Platone), Carmide, Alcibiade.Nel 399 a.c. fu accusato di corruzione dei giovani e di empietà nei confronti degli dei tradizionali.Rifi utando di confessare la propria colpevolezza, cosa che gli avrebbe valso l’esilio, si avvia dunque consapevolmente alla condanna a morte, forse al di là delle previsioni e dei voleri dei suoi stessi accusatori. Non sappiamo se prima d’essersi occupato di problemi etici, Socrate avesse studiato argomenti “naturalisti”. Vi sono poche informazioni in merito, e pare che Socrate avrebbe in eff etti

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aff rontato simili studi, abbandonandoli però molto presto.Sappiamo che Aristofane, famoso commediografo ateniese, nella sua altrettanto famosa opera “Le Nuvole” ci presenta una visione buff a e negativa del personaggio di Socrate, liquidandolo impietosamente come “sofi sta”.In eff etti considerare Socrate come un sofi sta, se non è esatto, non è nemmeno del tutto dissociato con la realtà. Dai sofi sti Socrate eredita infatti la considerazione dell’importanza del linguaggio e della sua forza. Il metodo Socratico, il suo incedere dialettico, se si discosta nettamente da quello sofi stico perché, al contrario di questi, non è strumento per la semplice vittoria nel dialogo, ma è invece volto alla ricerca della verità, risulta comunque dal semplice punto di vista formale piuttosto simile al metodo sofi stico.Il cosiddetto metodo Socratico ha come suo centro fondamentale l’attività confutatoria. Confutare mediante la dialettica il proprio interlocutore non signifi ca convincerlo della propria opinione di contro alla sua, ma, molto più semplicemente, convincerlo della sua ignoranza. Solo chi ammette di essere ignorante, infatti, può spingersi alla ricerca della verità. In particolar modo, nel Socrate inteso come personaggio dell’opera platonica, il metodo confutatorio è atto a dimostrare all’interlocutore che le tesi da lui sostenute fi niscono per essere tra loro contraddittorie ed incompatibili. Attraverso una serie di domande, Socrate conduce l’interlocutore alla presa di coscienza dell’insostenibilità delle proprie tesi.In particolar modo, il discorso socratico è genericamente incentrato sugli universali. Le sue domande tipiche, come ci sono presentate dall’opera platonica, sono di questo tipo: che cos’è la bellezza? Che cos’è la giustizia?Condotto l’interlocutore alla confutazione ed all’ammissione della propria ignoranza, il metodo socratico punta dunque ad una fase di ricostruzione d’un sapere fondato: si tratta del cosiddetto metodo maieutico. La maieutica è l’arte proprie alle levatrici nel loro atto di far nascere infanti.Allo stesso modo, Socrate farebbe nascere le idee dalla mente dei suoi interlocutori.Ma in tal caso dobbiamo considerare che, se tale atteggiamento è sottolineato nel Socrate platonico, risulta essere un aspetto decisamente molto meno presente nelle altre fonti che, di Socrate, ci danno notizia. Risulta lecito dunque pensare che l’arte della maieutica fu una forzatura platonica, in funzione della dottrina della reminiscenza, che successivamente avremo modo di trattare.Ciò non signifi ca che il Socrate storico ebbe solo e soltanto uno scopo confutatorio: la demolizione delle opinioni false è già di per sé un passo verso la volontà di ricercare la verità. Dunque lo

scetticismo socratico non è lo scetticismo pirroniano che castra la ricerca, ma è piuttosto funzionale all’inizio stesso della ricerca.

Le Idee. Un Platone diff erente.

Per dare un esempio di quella che è stata la comune interpretazione platonica, prendiamo tra le mani un qualsiasi manuale di storia della fi losofi a, nel nostro caso, “I fi losofi e le opere” di Carlo Sini del 1979:

“La tesi tipica del platonismo (…) è la teoria delle idee. Tutti gli individui reali manifestano l’appartenenza a forme e strutture tipiche; gli animali, le piante, gli uomini , le “cose” in genere, posseggono caratteri tipici, che consentono di riconoscerle e nominarle.(…)Ogni individuo, proprio perché è un individuo, presenta anche aspetti particolari ed accidentali: un uomo può essere desto o addormentato, greco o persiano, alto o basso, giovane o vecchio, ma oltre a questi aspetti transuenti o meramente individuali, è anzitutto un uomo, possiede cioè l’”umanità” come carattere tipico che lo accomuna a tutti gli altri uomini, e lo distingue da un cavallo, da un albero, e insomma da qualsiasi essere diverso. Ora questo carattere comune, questa forma universale e identica, è ciò che Platone chiama idea(…).Platone suppone perciò che gli individui materiali non siano che “copie” plasmate a imitazione delle pure idee o forme essenziali o modelli eterni di tutto ciò che sulla terra nasce, si sviluppa e muore(…).” E via così secondo tale linea esegetica.

Questa visione, ormai piuttosto radicata, della fi losofi a platonica, è condivisa non soltanto da autori contemporanei, ma anche antichi. Ad esempio è celeberrima la critica mossa a Platone dal cinico d’età alessandrina Diogene di Sinope, detto “il cane”:

“Discorrendo Platone intorno alle Idee e usando “tavolinità” e “coppità” invece di “tavola” e “coppa” Diogene disse: -Io, o Platone, vedo la tavola e la coppa, ma le Idee di tavola e di coppa non vedo-“ (Fonte: Diogene Laerzio).

Ora, per smentire questo tipo di esegesi dell’opera platonica, procediamo da una osservazione importantissima, messa in evidenza da Franco Trabattoni ( “Platone” di F. Trabattoni, Carocci, Roma 1998). Leggiamo il dialogo “Parmenide”, dialogo probabilmente scritto dopo la “Repubblica”. La scena è riportata alla mente da un narratore, tale Cefalo, il quale , incontrati Adimanto e Glaucone, racconta d’aver chiesto loro d’accompagnare lui ed i suoi compagni (altri fi losofi ) presso Antifonte, per farsi raccontare da lui il dialogo, a sua volta

“PLATONE”PARTE PRIMA Matteo Mazzoni (Chryso)

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appreso da Pitodoro, che avvenne in occasione delle Grandi Panatee a casa di Pitodoro stesso tra Parmenide, il suo allievo Zenone, e Socrate, in presenza di molti altri.Avviene in breve che, dopo una porzione di dialogo che non stiamo ad esaminare, giunti alla questione della dottrina delle idee, tra gli interlocutori avviene uno scambio di battute per noi molto importante (Parmenide, 130 b-e):

Parmenide: Socrate(…) dimmi: sei stato tu a dividere nel modo che dici, separando da una parte certe idee in sé e dall’altra invece le cose che ne partecipano? E ti pare che sia qualcosa la somiglianza in sé separatamente dalla somiglianza che abbiamo noi, e così l’uno e i molti e tutto quanto hai udito poco fa da Zenone?Socrate: A me almeno sì.Parmenide: Ed anche cose di questo genere, come per esempio una certa idea in sé e per sé del giusto e del bello e del buono e di ogni altra di questo genere?Socrate: Sì.Parmenide: E un’idea di uomo, separatamente da noi e da tutti quelli quali noi siamo, una certa idea in sé di uomo o di fuoco o anche di acqua?

Notate come risponde Socrate:

Socrate: Su queste, Parmenide, mi sono trovato spesso in diffi coltà, se occorre dire come per le altre oppure diversamente.

Ma il passaggio successivo è quello davvero determinante:

Parmenide: Ed anche a proposito di queste qui, Socrate, che potrebbero sembrare ridicole, come capello e fango e sporcizia, o altro di assai spregiato e da poco, ti trovi in diffi coltà se sia necessario o meno aff ermare che anche di ciascuna di queste cose esiste separatamente una idea, che sia da parte sua altra rispetto alle cose che noi aff erriamo con le mani?Socrate: Niente aff atto, anzi queste cose che appunto vediamo, tali anche sono: credere che esista una qualche idea di esse, temo che sarebbe troppo assurdo. Già altre volte mi ha turbato il pensiero che non sia lo stesso a proposito di tutte le cose; quando poi mi soff ermo su questo punto, ne scappo via di corsa, per timore di precipitare in un abisso di sciocchezze e di perdermi. Allora mi dirigo là, verso quegli oggetti che poco fa dicevamo che hanno idee e trascorrono il tempo occupandomi di essi (…).

Invito ora a rileggere il passo sopraccitato tratto dal manuale di Sini. Ci si spieghi dove le tesi li esposte trovano riscontro nell’opera platonica. Si confronti un qualsiasi manuale

tradizionale di fi losofi a con quanto abbiamo appena letto dal Parmenide. Si potrà ben capire perchè le conclusioni che tali esegeti traggono dalla fi losofi a platonica sono vaghe ed imprecise:

“In che modo poi le idee impongano la loro forma alla materia, modellando in concreto gli individui, è un problema che il platonismo ha lasciato aperto, accontentandosi di ipotesi e di soluzioni mitico - immaginarie(…)”. “Resta il fatto che il platonismo è caratterizzato da un irrisolto dualismo fra il mondo delle idee e degli individui, mondo della forma e della materia”. (“I fi losofi e le opere” di C. Sini, Principato editore, Milano 1979).

Le idee immateriali modellerebbero dunque in concreto gli individui? E lo farebbero naturalmente in un modo che quello sbadato di Platone si dimenticò di spiegarci esaurientemente?Con l’aiuto del “Parmenide”, proviamo a discorrerne col Socrate platonico.Ti pare che vi sono, Socrate, idee immutabili, ferme, immateriali, di “cose” etiche quali il bello, il giusto, il buono ecc…?Socrate: A me almeno sì.Esistono invece idee immateriali relative ad oggetti quali l’uomo, l’acqua o il fuoco? (Che già sono ben diff erenti da tavola, cavallo o coppa…nda)Socrate: Su queste (…) , mi sono trovato spesso in diffi coltà.Ed invece, riguardo a quelle cose materiali e concrete che però hanno un carattere ributtante, antiestetico, quali il fango, la sporcizia, un capello caduto ed altre cose di tal genere, per queste, che hanno dunque un connotato etico – estetico negativo, esistono delle Idee?Socrate: Niente aff atto, anzi queste cose che appunto vediamo, tali anche sono: credere che esista una qualche idea di esse, temo che sarebbe troppo assurdo!

Questo è il senso della dottrina delle idee: Platone non volle porre paradigmi immateriali per ogni cosa che materialmente esiste, a Platone non interessò mai il provare l’esistenza della “coppità” o della “tavolinità” o della “cavallinità” che, per dirla con Sini o con chiunque sia sostenitore d’una simile interpretazione, “impongano la loro forma alla materia, modellando in concreto gli individui” dando dunque vita e forma rispettivamente alle coppe, ai tavoli o ai cavalli, in un atto che rimane insondato.Non dobbiamo dimenticare che, sin dalla giovane età, Platone considerò lo sbocco naturale della sua vita l’attività politica. Ad essa rinunciò (anche se solo parzialmente), successivamente alle drammatiche instabilità ateniesi di quel periodo. Tali instabilità,

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come abbiamo visto, sono da imputarsi per Platone ad una scissione tra etica e politica, da inserirsi in un contesto in cui il confronto bifronte tra l’etica “tradizionale” (con la “t” minuscola) e la sofi stica altro non rappresentavano se non la decadenza d’una Atene che non “sentiva” più determinati valori in modo vivo.La dottrina delle idee dunque viene posta da Platone in maniera da dimostrare l’esistenza stabile e certa, immobile, di idee che, pur avendo le caratteristiche dell’ ”Essere” di Parmenide (inteso come fi losofo e non come il personaggio platonico), al contrario di esso non devono essere applicate a tutto ciò che, semplicemente, è, ma piuttosto soltanto a concetti di natura etica. Platone non volle far altro che superare lo scetticismo universale ed il relativismo etico della sofi stica, aff ermando che i valori di giustizia, di bellezza, di bontà, sono unici, eterni e stabili, immutabili ed incorruttibili, ed in quanto tali, non terreni.Nella dottrina delle idee dobbiamo dunque sottolineare in primis l’ esigenza etica di Platone, piuttosto che quella ontologica. Certo, le idee, come Platone in diverse opere sottolinea, esistono veramente, ma possiamo ipotizzare che si tratti d’una conseguenza della loro eticità: per la cultura classica, infatti, ciò che più veramente è, è ciò che corrisponde in sé ai principi di cosmos, di luce ed ordine, di stabilità e di immutabilità. Per questo le idee sono, esistono, ontos on.Problemi teoretici legati all’ontologia non furono il movente principale per Platone, ma soltanto una conseguenza della sua ricerca dei principi necessari ad una vita buona nella polis.

La conferma di quanto evidenziato sinora sta esattamente nel libro VI della Repubblica, ove Platone introduce il concetto dell’idea del Bene:

“Or questo elemento che conferisce la verità alle cose conosciute e la facoltà al soggetto conoscente, dì pure che è l’idea del bene. Ed essa, causa di conoscenza e verità, ritienila a sua volta conoscibile; e pur essendo entrambe, conoscenza e verità, così belle, sarai nel giusto ritenendo questa come cosa da esse diversa ed ancora più bella; mentre la conoscenza e la verità, a quel modo che lì la luce e la vista è giusto ritenerle simili al sole, ma non il sole stesso, così è giusto qui ritenerle entrambe simili al bene, ma nessuna delle due ritener che sia il bene, la cui condizione va tenuta in ancor più alto pregio.” (Repubblica, libro VI, 508 e – 509 a)

Restiamo fuori da tutti i tecnicismi fi losofi ci. Questo concetto platonico infatti crea diverse diffi coltà di comprensione ed esegesi. L’idea del Bene come unità della molteplicità delle altre idee. Che signifi ca? Che dovremmo porre un altro

mondo superiore a quello ideale a sua volta superiore a quello sensibile,dato che l’idea del Bene funge come idea delle idee? E appunto, perché chiamarla idea del Bene e non invece appunto Idea delle Idee?Si tratta di un nodo stretto e contorto che in molti hanno tentato di districare. Non ci interessa: alla luce di quanto detto sinora a riguardo della dottrina delle Idee e sulla loro funzione di anti-relativismo etico, appare lecito seguire Trabattoni ( La fi losofi a antica, Carocci Editore):

“…non mi sembra utile tentare di stabilire con precisione che cosa sono le idee, che cosa è il bene e se vi sia tra di essi una determinata gerarchia ontologica. Ponendo le idee sotto l’egida del Bene, Platone voleva svelare quale fosse la natura dei principi di cui andava in cerca…Platone…ha elevato l’idea del Bene sopra le altre appunto per sottolineare…che la teoria delle idee non ha come suo scopo principale quello di studiare la realtà dal punto di vista logico-ontologico, ma quello di mostrare che la realtà è determinata dal valore: ossia da quel bene che bisogna in qualche modo raggiungere se si vuol tentare di rispondere alle domande socratiche relative alla vita buona.”

( F. Trabattoni, La fi losofi a antica, Carocci Editore).

Sinora dunque, abbiamo evidenziato come Platone, preso atto del decadimento etico della società ateniese, abbia voluto reagire ad esso aff ermando l’esistenza di principi etici immutabili, smentendo dunque ogni tipo di contestazione non tanto riguardo la conoscibilità di stabili principi etici, ma bensì riguardo la loro esistenza. Nella seconda parte del presente articolo, tenteremo infatti, continuando ad analizzare la fi losofi a platonica, di smentire l’esegesi che vuole un Platone dogmatico, per ricondurlo dunque ad una dimensione maggiormente scettica, simile alla posizione di chi, consapevole della degenerazione totale della propria epoca, tenta di aff ermare sì l’esistenza di principi e valori eterni, ammettendo però di non poter giungere mai alla conoscenza razionale piena di essi: pensiero del tutto in linea con il nostro, espresso nei nostri passati articoli per la rivista Th ule.

“PLATONE”PARTE PRIMA Matteo Mazzoni (Chryso)

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Il ritrovamento

Novembre 1999 - gennaio 2000, Piazza Euclide, quartiere “Parioli” a Roma; il progetto non è dei più lodevoli ma sicuramente utile: costruire il parcheggio più profondo d’Europa ma, come spesso accade nella Città Eterna, la decisione di scavare proprio in quella zona spesso ignorata riporta alla luce il culto della Dea in una delle forme più antiche.Per quanto l’essere umano porti in sé la tendenza a dimenticare, è il passato stesso che spesso si rifi uta di restare sepolto e lotta per riproporsi in un tempo che non è più il suo nell’eterno ripetersi del ciclo, dell’essere e del divenire, per sussurrare nelle orecchie di coloro che riescono ad ascoltarlo il racconto dei tempi che furono e delle origini dell’uomo.

Quello che gli scavi in Piazza Euclide hanno riportato alla luce è ciò che resta di una fontana di forma rettangolare nella cui parte anteriore sono murate un’ara e due basi sulle quali spicca un’iscrizione che ai tempi del ritrovamento fece sobbalzare il cuore in petto agli archeologi: Nymphis Sacratis Annae Perenne.

La Signora dai mille NomiMa chi era (è) Anna Perenna?A qualcuno suonerà strano che invece di parlare di Ovidio e dei Fasti (cui accennerò ovviamente in seguito), voglia allontanarmi da Roma in un salto di centinaia di chilometri fi no alla catena montuosa che ospita le più imponenti vette del mondo.Naturalmente sto parlando dell’Himalaya che in sanscrito signifi ca: la dimora delle nevi.L’Himalaya, detta anche tetto del mondo, separa India, Nepal e Bhutan dalla Cina ed è lunga più o meno 2.400 km per una larghezza di circa 100-200 km.Parlando dell’Himalaya non si può non pensare all’Everest, che i tibetani chiamano anche Chomolangma, Madre dell’universo.Loro dicono che la montagna porta in sé l’essenza della Madre, come la Sibilla e la Dea Serpente che anche noi italiani conosciamo bene.Gli Sherpa, le popolazioni trasferitesi a sud della catena himalayana dal Tibet, oggi portatori e guide senza i quali molti alpinisti famosi forse non avrebbero potuto raggiungere la cima nel corso degli anni, la venerano e Lei si rivolgono sempre al femminile.E come l’Everest, un’altra montagna all’interno della catena più famosa del mondo porta il nome di una Dea; si tratta del primo 8000 metri “conquistato” dall’uomo, l’Annapurna, dal sanscrito: Dea dell’abbondanza, la luce che sazia ogni essere.E se, tornando a Ovidio, i più fanno risalire il nome di Anna

Perenna alla formula Annare et Perennare dove Anna è il femminile di Annus, mi sembra cosa logica e tutt’altro che volo pindarico domandarsi il perché di un’assonanza tanto ovvia (la radice sanscrita è la medesima, anna o ana che dir si voglia) fra la divinità induista del pane quotidiano e del nutrimento e la divinità romana dell’abbondanza.

Ovidio la descrive nei fasti come la vecchia di Bovillae (la moderna Frattocchie situata sull’Appia, nella zona dei Castelli Romani), dispensatrice di cibo (focacce) alla plebe povera e rivoltosa (impossibile ignorare il richiamo a Cerere, Dea delle messi).

Ma la Signora dai mille nomi e dai mille volti assume anche le sembianze della sorella di Didone che, alla morte di questa, si rifugia inizialmente a Malta e poi nel Lazio dove Enea decide di ospitarla scatenando le ire di Lavinia.Didone appare quindi in sogno alla sorella esortandola a fuggire gettandosi nelle acque del fi ume Numico ed è allora che il Signore che ne governa la corrente decide di proteggerla accogliendola per sempre fra le sue acque.

Narra l’ultima delle storie su Anna Perenna che Marte, volendo giacere con Minerva, chiede alla Dea di aiutarlo nell’intento.Lei decide però a ragion veduta di ostacolare l’unione della Guerra col Sapere off rendo se stessa al Dio per preservare la purezza della Vergine.

E’ chiaro come la divinità incarni il principio del rinnovamento e dell’eterno susseguirsi dei cicli, non solo per i romani ma anche per le popolazioni indoeuropee pre-romane, un culto ancestrale che trova le sue origini nelle veneri preistoriche adorate dalle nostre madri e dai nostri padri.

La fontana sacra e il culto a RomaSi pensa che la fontana sia stata utilizzata dal I secolo a.C. all’età medievale (XII secolo) ma i reperti e le iscrizioni ritrovate al suo interno sembrano attestare un graduale allontanamento dall’originario signifi cato del culto che ha perso man mano le sue caratteristiche di abbondanza, fertilità e rinnovo per assumerne di più oscure e magiche.A riprova di questo sono state ritrovate venti lamine defi xionum, sottili strisce di piombo sulle quali veniva inciso il nome dell’oggetto della maledizione e le formule magiche del caso prima di metterle vicino una tomba o gettarle nei fi umi o nei pozzi, a diretto contatto con le forze infere.Sono state ritrovate inoltre ben settanta lucerne mai utilizzate,

La Dea dell’abbondanza e il suo culto a Roma Antonella Tucci (Argentea)

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riservate molto probabilmente a scopi magici, nove contenitori di piombo e al loro interno altrettante statuette antropomorfe realizzate in materiale organico (farina, sangue, latte, cera e collanti vari).Sulla parete frontale della fontana troviamo un’ara in posizione centrale la cui iscrizione parla dello scioglimento di un voto fatto alle ninfe.

Buona parte delle lucerne, il caccabus (il calderone in rame trovato nella cisterna adiacente la fontana), i contenitori sopraccitati e molti altri reperti sono esposti nella sezione epigrafi ca del Museo Nazionale Romano, alle Terme di Diocleziano, adiacente alla stazione Termini.

Informazioni pratiche sulla Fonte di Anna Perenna

Il sito si trova a Roma, in Via Guidobaldo del Monte.Per informazioni e prenotazioni è necessario chiamare il numero+39.06.39967700 (lunedì-sabato 9-13.30 e 14.30-17).Il sito è raggiungibile con i mezzi pubblici:

• Autobus linea 910 fermata Piazza Euclide, 200 metri a piedi

• Metro A fermata Flaminio, Tram linea 2 fermata Ankara/Tiziano, 150 metri a piedi direzione Piazza Euclide

• Ferrovia Roma/Civita Castellana/Viterbo fermata Piazza Euclide, 200 metri a piedi

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Le recenti escursioni del Gruppo Laziale, affi ancate dall’articolo del Riccardi nel precedente numero della rivista, gettano le basi per introdurre la complessa questione dell’infl uenza che l’archetipo simbolico del lupo ha ed ha avuto nella spiritualità e nella tradizione indoeuropea e più specifi catamente italica.

La complessità di tale questione è data anzitutto dalla dicotomia che i collegamenti a tale archetipo mostrano in tutti gli ambiti indoeuropei: da una parte, il lupo come ierofania ctonia legata alla fertilità, dall’altra il lupo come ierofania solare o solare-infera legata alla sfera guerriera. I poli di tale dicotomia possono essere tranquillamente esposti con vari esempi: da una parte, la lupa come genitrice di Roma, dall’altra il lupo come ierofania di Marte. Su di un fronte, il lupo dei Lupercalia come forza purifi catrice e fertilizzante, dall’altra, per ampliare l’ambito all’indoeuropeistica, i männerbunde o società marziali giovanili, tra i quali ovviamente svettano su tutti gli scandinavi Ulfedhnar.

Non è casuale il riferimento al Soratte e al culto degli Hirpi Sorani, che in termini comparativi possono fungere da cardine per un’interpretazione più generalmente italica che non prettamente romana, e che si pongono come centro di questa dicotomia, presentando entrambi gli aspetti nel momento in cui ricostruiremo tale culto grazie alla comparazione con l’unico termine a noi oggi disponibile, quello degli Anastenarides traci. Ed è proprio grazie a tale comparazione che individueremo quella caratteristica estatica e mistica di matrice apollinea che in genere viene lasciata da parte a favore di cultualità più spiccatamente dionisiache o semplicemente, più conosciute.

Pur tuttavia, la matrice puramente italica del culto del lupo è da sottolineare. Come ebbe a scrivere il Brelich, infatti, in riferimento ai Lupercalia: “tutto ciò che costituisce la sostanza della festa – disordine rituale, purifi cazione – può essere realizzato senza alcun riferimento necessario ad una particolare divinità; i Lupercalia, come pure diverse altre feste, possono avere radici più antiche dello stesso politeismo romano”1. Del Ponte sottolinea come sia alta la probabilità che le männerbunde – seguendo il ragionamento dell’Alfoldi – siano la base primaria dello stesso Stato romano2. E, se anche non volessimo seguire la teoria dell’Alfoldi, risulta innegabile l’importanza della ierofania lupo nella religio romana tradizionale e prima ancora di quella italica, soprattutto se legata a Marte, come lo stesso Del Ponte ha dimostrato nell’opera in nota, nel capitolo riguardante le veria sacra.

Converrà in questa sede procedere con una breve analisi dei dati

a noi disponibili: certo è che la ierofania lupo è legata in ambito indoeuropeo ed in ambito italico a dei sodalizi ben determinati e chiusi, così negli Hirpi Sorani, così nei Luperci e allo stesso modo negli Ulfedhnar. Questi ultimi sono la veste più palese del lupo come ierofania marziale, che in ambito romano è dimostrata dal fatto che il lupo è non solo sacro a Mars, ma è anche vincolato alla realtà legionaria nel momento in cui i signifer delle centurie e i vexillifer delle coorti si rivestono di pelli di lupo. Di per sé la lupa invece riveste come ierofania femminea l’archetipo della fertilità e della nascita. Ovvia è tale concezione nella leggenda della fondazione di Roma, ma è altrettanto breve ed ovvio il passo che porta ad associare la fi gura della lupa a molte delle fi gure divine del femminile incarnanti l’archetipo della potnia theron, e proprio a tale assimilazione si devono le varie ricerche sull’attribuzione del Nome Segreto di Roma ad una divinità connessa con la ierofania lupo (tra le quali fi gura anche il nome di Feronia).

Discorso a parte è invece l’associazione delle divinità Sorano e Feronia. Se da una parte infatti la vicinanza dei siti di culto del Monte Soratte e del Lucus Feroniae costituiscono, con il sito gemello di Terracina, un’ottima base per tale ipotesi, è vero anche che epigrafi camente non abbiamo testimonianze certe. Già di per sé, poi, delineare le due divinità è arduo e complesso a causa delle già molteplici attribuzioni antiche. Servio associa Feronia a Juppiter Anxurus3, Virgilio ad Apollo Sorano4, ed esistono fonti che a Tremula Mutuesca l’associano a Mars. Dionigi di Alicarnasso la defi nisce Anthophoros, Philostephanos e Phersephone5, mentre Varrone la identifi ca con la dea Libertas6. Insomma, non è semplice nel marasma sintetizzante della religione italica defi nire di per sé Feronia, che abbonda di fonti letterarie, fi guriamoci Apollo Sorano e gli déi ad esso connessi. Purtuttavia, la descrizione di Virgilio nell’Eneide ove è sottolineato il passaggio sui carboni ardenti ottenuti con legno di pino7 funge da base per una comparazione con quello che è l’unico culto sopravvissuto dai tempi antichi che usa una ritualità simile, ovvero quello degli Anastenarides.

Gli Anastenarides, sono una setta – se cosi possiamo defi nirla – situata nella remota regione montuosa della Tracia, da dove, secondo i più, proviene la fi gura stessa di Dioniso. Essi mantengono a tutt’oggi un culto di tipo estatico, non dissimile da quello dionisiaco, almeno per come si confi gura attraverso i dati a noi oggi noti. Prima di tutto è importante defi nire quello che qui vogliamo intendere con il concetto di “sopravvivenza”: non ci riferiamo, infatti, al signifi cato di tipo evoluzionista, bensì defi niamo questo culto come sopravvivenza in quanto

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Dal Soratte alla ierofania lupo: tratti di una spiritualità apollineo-italica

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esso rappresenta una tradizione rituale, fi losofi ca e religiosa che è ancora, a parer nostro, quella originaria della Tracia classica, che nell’arco di duemila anni ha mutato esclusivamente l’aspetto formale esteriore, per motivi di, appunto, sopravvivenza, onde non essere soppressa dalle religioni dominanti. In essa, la pratica iniziatica ed estatica, presenta ben poche diff erenze rispetto al probabile originale dionisiaco o predionisiaco.

Tale culto, legato profondamente con quello degli “Entusiasti” cristiani di epoca bizantina e post bizantina, è sopravvissuto fi no ad oggi probabilmente e per la sua capacità di mutare aspetto esteriore (probabilmente da pagano a pseudo cristiano) e per la tipica conformazione della regione in cui è situato: sin dall’epoca romana, infatti, la Tracia ha costituito un baluardo montuoso dove piccole comunità potevano scomparire agli occhi della cultura dominante.

Il culto si basa, a grandi linee, nel suo aspetto a noi conosciuto, su due ricorrenze annuali: la prima è la festa di San Costantino, il 21 maggio, mentre la seconda, legata alla pasqua ortodossa, avviene il lunedì precedente il periodo quaresimale. La prima delle due risulta essere quella centrale dal punto di vista estatico musicale, o dionisiaco: durante la festa avviene, infatti, il rituale passaggio sui carboni ardenti, in cui sono espliciti oltre ogni modo l’uso rituale – conoscitivo della musica e l’elemento estatico dionisiaco. È bene qui, in ogni modo, accennare alla piccola diatriba su ciò che, dai pochi antropologi che si sono interessati a tale fenomeno, si è venuto a creare intorno al rituale del passaggio dei carboni ardenti. Infatti, tale pratica, per lo più sconosciuta ai culti dionisiaci, getta una luce particolare sugli Anastenarides, che se da una parte, quella dell’estasi, sembrano originare le proprie pratiche nel substrato dionisiaco, dall’altra, con i carboni ardenti, sembrano aff ondare in un periodo probabilmente, secondo gli antropologi, anteriori.

Oltre ciò, dobbiamo sottolineare che il culto mantiene connotati spiccatamente pagani e dionisiaci ancora anche nelle forme esteriori: sant’Elena, raffi gurate nelle icone sacre mentre balla, costituisce, infatti, uno spiccato richiamo alle baccanti, cosi come Costantino, accostano alla madre Elena, ricorda quella Κωινη religiosa da cui si origina lo stesso Dioniso così come il suo punto di contatto con Apollo, ovvero Orfeo, invero come anche quella della grande madre frigio-lidia e dello sposo-fi glio sacrifi cato, come nel caso di Cibele ed Attis.

Gli Anastenarides sono tutt’ora organizzati come un tiasos dionisiaco, nella fattispecie in una confraternita (Ταγµα) guidata

da una ristretta cerchia di dodici iniziati (∆ωδεχαδα). Il rito ad oggi in uso comprende ancora una sorta di mistica dell’acqua, confermata dalle lunghe e ripetute abluzioni, a cui segue l’acquisto di una vittima sacrifi cale (preferibilmente un toro, ma eventualmente anche un montone o una o più capre). Il 21 maggio, le icone sacre dei due santi sono portate nel Konaki, e, di fronte ad esse, viene eseguito il sacrifi cio. L’animale sacrifi cato è smembrato e diviso in parti uguali per tutte le famiglie degli adepti, mentre una parte viene conservata per il pasto sacro serale. Da questo momento in poi, comincia la preparazione all’estasi che porterà gli Anastenarides a camminare sulle braci, in una condizione stupefacente di invulnerabilità al fuoco.

Per cinque ore gli iniziandi alterneranno, sui pattern musicali ripetitivi e fi ssati, balli, canti e momenti di raccoglimento privati, quasi meditativi. Nel frattempo viene preparato il tappeto ardente, ed è fondamentale notare che le espressioni degli iniziati che si accingono al passaggio, sembrano assenti ed inconsci – come quelle dei satiri e delle baccanti che in un momento di mania sono in grado, senza esserne consce, di smembrare uomini ed animali – fi no a quando non comincia la camminata. Una volta eff ettuato tale passaggio, gli iniziandi si riuniscono in una danza che testimonia la vittoria sul fuoco, ad opera dell’infl uenza e del contatto dei due santi.

La successiva festa è quella del Kalogero – letteralmente “bel vecchio” – tenuta come già detto il lunedì precedente il periodo quaresimale. Essa consiste per lo più in un dramma religioso con valenze ctonie, in cui il protagonista, indossando una maschera di palese aspetto fallico, va incontro ad un rituale di morte e rinascita. La rappresentazione si alterna tra momenti comici e lamentazioni rituali funebri, concludendosi con la sacra aratura ad opera del protagonista risorto, tanto da assicurare un ricco raccolto per l’anno successivo. Non è necessario in questa sede andare oltre con i particolari, in quanto già questi pochi accenni pongono in evidenza ciò che più c’interessa nella nostra ricerca: innanzi tutto, gli elementi di estasi e/o trance, tipici dei culti dionisiaci. Come abbiamo visto, la preparazione musicale è somigliante in modo impressionante a quella descritta nel frammento dianzi citato di Eschilo, e persino le modalità stesse di estasi sono rassomiglianti coi rituali bacchici descritti da Euripide.

Ai lettori più attenti non saranno sfuggite determinate somiglianze nei due culti. Innanzitutto, va sottolineata l’associazione della mistica dell’acqua ad Elena, attribuzione tipica anche di Feronia (di cui ricordiamo sempre la vicinanza

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con delle fonti sia sul Soratte che a Narni). Ma, in particolare, la conformazione iniziatica guerriera (la Vittoria sul fuoco) degli Anastenarides. Seguendo l’analisi iconografi ca poi evidenziata dal Riccardi nell’articolo in riferimento, il passo per l’associazione Apollo Sorano – Costantino è breve. Già di per sé, l’uso di iconografi e apollinee nell’ambito della prima cristianità è piuttosto tipico (un buon esempio, è il corallo rosso apollineo spesso raffi gurato sul Cristo bambino), così come è altrettanto tipica l’associazione degli attributi solari all’Imperator, e da qui all’Imperator cristiano per eccellenza. Il fatto che in due diff erenti luogi, il Soratte e la Tracia, su una base pagana che presenta gli stessi pattern rituali, si sia installato il culto dello stesso Imperator con spiccate attribuzioni solari, ne forza una comparazione che – deve essere chiaro – va al di là della specifi cità culturale dell’età storica (Sorano e Costantino), ma evidenzia una comune origine ed una comune funzione. Tale origine và ricercata nei culti solari, iperborei potremmo dire, dell’indoeuropeità delle origini.

Non ci è sfortunatamente dato sapere se gli Anastenarides in origine fossero dotati di connotazioni attribuibili al culto del lupo. Tuttavia l’atto sacrifi cale è fi n troppo similare a quello dei Lupercalia romani (e ci teniamo anche ad evidenziare l’importanza del numero 12), fi nanche nelle fi nalità purifi catorie e fertilizzanti non solo della comunità iniziatica, ma della comunità intera. Altro momento degno di nota, è l’aratura, che si confà altrettanto bene alla delimitazione dello spazio rituale così come al tipico rito italico-indoeuropeo della fondazione della Città. Di fondo tale comparazione, che andrebbe approfondita in un saggio apposito e che non è possibile approfondire in siff atta sede, getta delle tracce di non poco conto per l’individuazione di quella spiritualità solare che era con forte probabilità alla base della religione delle prime tribù indoeuropee giunte sul suolo italico.

Bibliografi aRouget – Musica e Trance, Einaudi, Torino 1986Colli – La sapienza greca, Adelphi, Milano 1997Kakouri - DIONISIAKA – University of Athens, 1969Villa - Estasi e sacrifi cio nel culto degli Anastenarides in La critica sociologicaVivaldi - Ipotesi per una metafi sica della musica, Università di Tor Vergata, 2005Dumezil - La religione romana arcaica, BUR, Milano 2001Del Ponte - Dei e miti italici, ECIG, Genova 1985Vira Saturnio - Th e path of the Wolf, Ur Heka, Napoli 2005Pasquali - Feronia e Juppiter Anxurus, S.I., 1990Riccardi - Il Monte Soratte, la Montagna Sacra, Rivista Th ule Italia, apr 2007

Note1 A. Brelich, Tre variazioni romane sul tema delle origini, cit., pag. 73 e segg.2 R. Del Ponte, Dei e miti italici, Ecig, pag 142 e segg.; A. Alfoldi, Die troianische urhanen der Romer, in “Rektoratsprogr. D. Un. Basel f. das I, 1956”, p. 243 Serv., Ad Aen, VII 7994 Verg., Aen VII, 7995 Dion. Hal. III, 326 In Serv. Ad Aen. VIII 5647 Verg., Aen, XI

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Il territorio di Möhnesse in Nord Renania-Vestfalia – a sud di Soest – dal XII secolo ospita, incastonata in un agglomerato contadino e lontano da occhi indiscreti, una piccola cappella. Ad uno sguardo superfi ciale può di certo attrarre la sua forma esterna a dodecagono o il lucente tetto in ardesia ma nulla lascerebbe presagire che il suo interno sia uno scrigno dalle mille domande in cerca di risposta. Chi d’indole curiosa ha oltrepassato il portale si è trovato improvvisamente immerso in una particolare atmosfera creata dall’inusuale disposizione interna e dalla sobrietà che vi regna.Il soffi tto di soli 11 metri di diametro è sorretto da due cerchi concentrici di colonne di cui quattro interne e dodici più esterne, queste ultime con i loro stretti pilastri sono tra loro abbracciate da una volta a croce e strettamente legate alle quattro più interne da una volta a botte. Infi ne l’asimmetrico quartetto – due colonne sono, infatti, più grandi e composte in mattoni – sostiene una piccola volta a cupola.Osservando inoltre la pianta della cappella due aggiunte

sembrano irrompere per distrarre l’uniformità della costruzione: la piccola entrata ed il coro, la prima per se asimmetrica, la seconda mancante dell’aggiustamento verso il centro della cappella.E’ sicuramente un’opera insolita per quell’area e molte sono state le ipotesi avanzate per spiegarne l’uso a cui fu destinata e da chi fu edifi cata. Leggiamone qualcuna per aff rontarle in dettaglio nel seguito.

Se nel 1640 il ricercatore storico Stangefol considerò l’edifi cio una “cappella pagana”, il suo collega Tappe (1823) fu propenso ad indicarlo quale “cappella battesimale” risalente al periodo carolingio. Giungiamo quindi alla dichiarazione di Carl Friedrich Schinkel, famoso architetto prussiano (1833), quale “la più antica costruzione del paese a forma di battistero, uno tra i più singolari lavori degli inizi dell’arte germanica” mentre lo storico Giefers (1854) interpretò il tipo ed il metodo di costruzione come una “riproduzione in miniatura del Santo Sepolcro in

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elaborazione grafi ca a cura di Alessandro Riccardi

42Gerusalemme”, ipotesi questa avallata circa quaranta anni dopo dallo studioso Forscher Benkert.

Di certo le prime evidenze scritte sulla cappella risalgono a due documenti pervenutici ed in entrambi è messa in rapporto con la partenza per le crociate in Terra Santa: il primo è del 1217 mentre il secondo documento è del 1226/1227.In uno è così riportato: “La domenica delle palme vicino alla cappella di Drueggelte, sopra il fi ume Mohne sul podere Cruthem nel Kirchspiel Bokum fu portata a termine una donazione in cambio di una somma di denaro destinata al pellegrinaggio in terra santa”. Era l’undici aprile 1226 ed il testo latino riporta: “…tersio Idus Aprilis Sabbato proximo ante palmas super fl uvium Moyne iuxta Capelliam Druchlete”.L’imperatore Federico I - Barbarossa - stava profondendo energie affi nché la terza crociata non ricalcasse il disastro della seconda pretendendo così che ogni cavaliere partecipante alla spedizione avesse due cavalli e almeno 3 marchi d’argento (una piccola fortuna a quei tempi) come auto-sostentamento e fu per questa ragione che il conte Gottfried II di Arnsberg ebbe l’obbligo e il dovere come nobile di fornire ai “suoi uomini” il necessario

e i mezzi richiesti usando a tal scopo i ricavati della cui sopra vendita. Dopo la sopra citazione di Feaux de Lecroix ritroviamo notizie della cappella per mano dello storico Hermann Stangefol che così scrisse nel 1656 nell’Opus Chronologicum Et Historicum Circoli Wephalici in quatuor libros congestum: “Lì nell’antico tempio, che ancora esiste, c’era un ritratto della divinità Trigla, dea dalle tre teste, tenuta in massima considerazione dai pagani che da lei si rifugiavano per avanzare suppliche d’aiuto”.Bisogna attendere circa duecento anni per ritrovare un nuovo interesse verso la costruzione grazie a W. Tappe (1823) che la interpretò come cappella battesimale, assumendo che un tempo al centro dell’edifi cio vi avesse trovato posto per l’appunto una fonte battesimale. Teoria questa riconosciuta valida dagli studiosi sino alla prima metà del XIX secolo allorché W.E. Giefers nel 1853 mostrò le relazioni tra la Drüggelter Kapelle con il Santo Sepolcro: nel periodo delle crociate la cappella si sarebbe quindi sviluppata per poter off rire a chi non poté andare in Terra Santa una riproduzione del più sacro luogo della cristianità. Questa interpretazione ebbe vasta eco sino agli inizi del XX secolo sebbene la grande raccolta di G. Dalmann sulle costruzioni dei

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santi sepolcri (“i santi sepolcri in Germania”) avesse già tentato di contraddirne i punti di forza.Fu durante il nazionalsocialismo che ritornò in auge l’ipotesi che in qualche modo la cappella fosse legata ad un passato pagano: W Muller nel 1937 vide nella cappella un tempio germanico per “il rilevamento del cammino del sole”, teoria avallata anche nel periodo post bellico da G. Walgner dal suo studio “Volksfromme Kreuzverehrung” (I pii ammiratori della croce) avvalendosi anche della comparazione con le scoperte archeologiche venute alla luce nella vicina Paderborn.Nel 1964 si giunse ad un rinnovato interesse per merito di una ricerca condotta da G. Jacobi Buesing che sfociò nella pubblicazione di un volume in cui s’interpretava la cappella come luogo d’incontro della setta dei catari. La modesta costruzione avrebbe quindi indicato “con il suo semplice signifi cato la possibilità di una via di salvezza verso la luce e lontano dal mondo oscuro” e per Jacobi l’insieme architettonico ma soprattutto i capitelli ne sarebbero la prova oltre alla constatazione che il conte Gottfried II di Arnsberg fu “protettore” dell’eresia catara. Tra più dei cento titoli riguardanti Drueggelte ci si trova quindi altalenanti tra ipotesi fi lo-cristiane e quelle fi lo-pagane: P. Huelsmann nel 1965 interpretò l’intera cappella esclusivamente come cristiana mentre nel 1978 apparve un articolo dal titolo “Geheimnisvolle Druggelter cappelle. Ein Einblick in vorgeschichtliche Vergangenheit” di K. Th iell in cui nell’interpretazione del nome Drueggelte si ritorna ancora una volta alla divinità Trigla come anni prima ipotizzato da H. Stangeros. Per Th iell, Drueggelte era da considerarsi un simbolo di quelle “virtù combattive teutoniche riscoperte con la mobilizzazione delle crociate” e come “centro di iniziazione” per i cavalieri dell’ordine teutonico.Nel 1988 nel tentativo di conciliare le diff erenti ipotesi apparve un nuovo lavoro in cui D. Kestermann indicò il percorso della cappella “da tempio pagano a cappella cristiana” ponendo come data di costruzione il 720 come tempio a 12 angoli convertito nel 790 in chiesa cristiana.Chiudiamo la rassegna con gli interessanti studi di Wiemann secondo cui l’edifi cio fu pianifi cato e costruito per mezzo della conoscenza dei mastro costruttori dopo aver riconosciuto la presenza di linee geomantiche e dei loro incroci e/o centri energetici nel sottosuolo di Drueggelte: “qui il rapporto con l’acqua è fortemente connesso come in nessuna altra chiesa da me esaminata. Mentre in altri edifi ci religiosi il centro energetico è formato dall’incrocio di due, al massimo tre vene acquifere, con diff erenti polarità, in Drueggelte ben quattro vene acquifere si incrociano e tutte positivamente polarizzate. Il centro del

44poligono è quindi un centro d’energia”. Strettamente correlato con il discorso energetico - oltre ad essere un importante punto strutturale d’interesse - è il coro con l’abside semicircolare. A riguardo si contrappongono due opinioni opposte: il coro fu aggiunto in seguito dopo la costruzione della cappella oppure fu previsto sin dal principio come proposto dallo stesso Wiemann presumendo che le vene giungessero sin sotto l’altare. Scrive, infatti, a riguardo: “qui si incrociano altre quattro vene sotterranee polarizzate positivamente, di minore intensità e profondità creando comunque un ulteriore centro d’energia. Questo è ciò che gli architetti della cappella ammisero e diede loro la possibilità di costruire l’altare proprio qui, nella nicchia del coro. E’ perciò errato sostenere che la nicchia del coro fu aggiunta solo dopo”.Da quanto esposto sull’isolata Drüggelter Kapelle non vi dovrebbe essere dubbio alcuno che né la scelta del luogo, né

tanto meno la struttura possa essere stata casuale e riteniamo che occorra non sottovalutare nei futuri studi sia la simbologia che si riscontra sull’altare – questo più simile ad una pietra sacrifi cale – e sulle pareti ne tanto meno quanto mostrante dalle raffi gurazioni sui distorti capitelli romanici.

Fonti bibliografi che:Wilhelm E. Giefers: Drei merkwürdige Capellen Westfalens, zu Paderborn, Externstein und Drüggelte. Paderborn 1854, Gisela Jacobi-Büsing: Die Drüggelter Kapelle: Versuch einer Deutung ihrer kultischen Bestimmung. Soest 1964 Dieter Kestermann: Die Kapelle auf den Drüggelter Höfen: vom heidnischen Tempel zur christlichen Kapelle; das älteste Gebäude Westfalens. Horn 1994

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Lucus Feroniae

Il territorio Laziale anticamente era abitato da diverse popolazioni. Esse si distinguevano per lingua, tradizioni, usi e costumi, avevano però spesso in comune la devozione ad una stessa divinità.Tra le popolazioni che risiedevano nel territorio oggetto del nostro studio, possiamo annoverare gli Etruschi, i Sabini,i Latini, i Falisci ed i Capenati.Alcuni siti, legati a Divinità comuni, erano considerati “sacri” e pur trovandosi in territorio “straniero” erano meta di pellegrinaggi e assurgevano a fulcro e luogo di incontro sia per la pratica dei culti sia per attività di scambio commerciale.Tra i più importanti ritrovi di tale specie, nel Lazio, ricordiamo il Lucus Feroniae, sorto su territorio Capenate, quasi al confi ne con il territorio Falisco e distante da Roma solo 18 Km.Questo Santuario sorse infatti sulla Tiburtina, importantissima arteria stradale, costeggiando la quale si varca quello che oggi si chiama Fosso Gramiccia e che anticamente si chiamava Capenas, piccolo tributario del Tevere.Una volta varcato il fosso, sulla sinistra, possiamo vedere il Casale di Scorano con la sua medievale torre merlata e il suo ampio portone che si innesta nelle possenti mura quadrate.Lasciando alle nostre spalle l’antico casale, troviamo subito. sulla sinistra, della strada, l’ingresso al Centro Archeologico del Lucus Feroniae.Il bosco Sacro della dea Feronia, probabilmente una ninfa, venerata nel mondo Italico anche come protettrice di schiavi e liberti e legata al culto delle acque, si trovava certamente in questo luogo che ancora oggi ricorda attraverso il nome la sua antica funzione sacrale e di culto.Secondo alcuni studiosi già l’etimologia del nome Feronia indica una divinità legata alla terra, vista nel suo aspetto selvaggio. Uno dei sui attributi più frequentemente attestato nelle epigrafi è “agrestis”. Esso la connota nel suo aspetto sì selvaggio ma anche momento di passaggio dalla terra incolta alla terra fertile che dona frutti attraverso le coltivazioni, quindi attraverso il lavoro dell’uomo.I luoghi di culto dedicati a questa divinità si trovano spesso fuori dalla città, o nel caso si trovino in città, come il tempio sorto a Roma, sempre in luoghi aspri e selvaggi. Per questo motivo a Feronia è legato spesso anche Silvano altra divinità selvaggia e ferina.Non conosciamo nulla purtroppo dell’attività di protettrice degli schiavi di Feronia.Sappiamo solo che alcune volte si entrava nel suo santuario in condizione di schiavitù e se ne usciva liberti.Questa sua specialità è attestata soprattutto nel Santuario a lei dedicato che si trova presso Terracina.

Solo in un secondo tempo la Divinità prettamente Italica assunse i tratti e le caratteristiche di Demetra e di Giunone vergine, pur mantenendo la caratteristica di guaritrice, come attestano le tante statuette rinvenute a forma di organo umano o di animale.Il lucus Feroniae di Capena è oggi sede di un piccolo museo che è stato allestito con il materiale ritrovato durante gli scavi che negli anni si sono succeduti. Il Santuario è stato rinvenuto, per uno scavo fortuito,eseguito negli anni ’50 sul terreno di proprietà del Principe Vittorio Massimo di Scorano.Dagli anni’60 in poi sono iniziati gli scavi scientifi ci che hanno portato alla luce soprattutto il quartiere del Foro, l’anfi teatro, il tratto urbano delle vie Tiberina e della via Capenate che si intersecavano nei pressi del foro stesso.Prima di parlare della area sacra, descriveremo brevemente il contenuto del museo.Il museo Nazionale di Lucus Feronia è stato ideato e progettato dall’ex Soprindendente Archeologico per l’Etruria Meridionale dottor Mario Moretti.All’ingresso del museo sono posti alcuni pannelli illustrativi dell’attività degli scavi svolti negli anni e l’antica topografi a del sito.Al centro della sala si trova l’Ara Sacrifi cale, circolare decorata con festoni e bucrani (Crani di Bue) di Marmo, dedicata a Feronia. Intorno all’ara sono state poste le statue di Vespasiano, di Sabina moglie dell’imperatore Adriano e dell’imperatore Augusto, tutte ritrovate nella zona circostante o all’ interno dell’aerea del Foro.In alcune vetrine sono esposte le terrecotte votive, le statuine bronzee e materiali ceramici provenienti dagli scavi della stipe votiva di Lucus Feroniae, corredate dalla spiegazione posta su pannelli esplicativi.(Non tutta l’ area sacra è stata scavata ma sono stati fatti dei sondaggi, sopratutto come abbiamo già visto, è stata indagata la stipe Votiva, punto di raccolta per gli ex-voto e per le off erte votive che venivano deposte in buche scavate all’ uopo, una volta che il loro numero divenuto eccessivo, non consentiva più di tenerle nel Tempio).Tra i materiali collocati in questo settore possiamo ammirare una basetta marmorea con dedica a Feronia da parte di due Genucilii e alcune lastre architettoniche di rivestimento del tempio di età ellenistica (III–II secolo a.C.).Nel museo trovano collocazione inoltre molti materiali ceramici e lastre fi ttili iscritte.Da queste iscrizioni si è potuto rilevare la connessione tra schiavi e liberti e il lo legame con il culto alla dea.Anche diversi collegi di età imperiale hanno lasciato testimonianza del loro legame e della loro devozione e in special modo la loro funzione di addetti al culto.

Maria Cristina (sowelo)

46Ad esempio l’associazione di donne al di fuori del culto uffi ciale che prendevano il nome di “Mulieres Feronenses”, o ancora il ”Iuvenes Lugo Feronense” associazione di tipo giovanile a carattere ginnico-militare.Infi ne da ricordare i “seviri Augustales”, collegio dedito al culto di Augusto.Nelle vetrine poste lungo un corridoio trovano collocazione materiali ceramici e metallici provenienti dalle Tabernae e ancora corredi provenienti dalla necropoli, o gemme e gioielli provenienti dagli scavi della città.Tutti questi materiali così diversi danno uno spaccato della vitalità e dell’importanza di questo sito.Usciti dal museo si imbocca un sentiero che termina con un tratto basolato dell’antica via Tiberina fi no a giungere ad un incrocio che taglia l’antica via Capenate che portava fi no alla città di Capena.In questo crocicchio si può notare una particolarità. Si tratta della soglia dell’uscio di un entrata, probabilmente antico

ingresso all’area sacra.Due miliari sono ancora posti qui, gli originali si trovano nel museo, a testimonianza dell’importanza di queste due vie.Uno riporta l’indicazione delle manutenzioni e dei restauri relativi ai secondi tetrarchi Costanzo Cloro e Galero(305-311 d.C.) e l’altro relativo all’imperatore Graziano (367-383 d.C.). Questa datazione segna, quindi, l’ultimo restauro eff ettuato nel sito e ha permesso agli studiosi di datare all’incirca il periodo di decadimento del Santuario.Non dimentichiamo infatti che il sito per secoli è stato abbandonato e che presto se ne sono perse le tracce. Fino agli scavi dello scorso secolo che lo hanno riportato alla luce.Entrando nell’area degli scavi archeologici , scendendo al Foro dalla gradinata notiamo sulla sinistra i resti della Basilica, costruita secondo i canoni Vitruviani.Presenta un ampia navata centrale con ambulacri,Deambulatori, laterali delimitati da 12 colonne di cui restano le basi.L’edifi cazione della basilica è da ascrivere al I secolo a.C. anche se ha subito nei secoli rifacimenti e restauri soprattutto in epoca imperiale.Al suo interno vi sono ancora tracce di basi onorarie in muratura, mentre sul lato orientale del basamento una porta nasconde alla vista un ambiente sotterraneo chiuso a saracinesca, probabilmente l’aerarium della colonia. Non va dimenticato che il Santuario di Feronia era un punto nevralgico anche per i commerci che ivi si svolgevano presso l’ emporium e che portavano ricchezza e prosperità alla colonia.A questo punto mi sia permessa una digressione sulla ricchezza di questo santuario. L’ emporio che infatti qui sorgeva era un punto di smercio per produzioni artigianali e per importazione di materiale dal mondo greco e orientale, materiale presente nei corredi funerari Capenati.Queste ricchezze erano dovute anche alla fertilità del territorio capenate che è di bassa collina e quindi adatto alla coltivazione della vite, del grano e dei frutteti e soprattutto dell’olivo, molto richiesto e quindi merce di scambio preziosa.Questa prosperità fu nel 211 a.C. il motivo, per il quale Annibale, attaccò e saccheggiò il Santuario. Recenti scavi hanno trovato riscontri di questo saccheggio.Infatti in località Prato la Corte sono stati rinvenuti i resti di un vasto abitato disposto ad isolati ortogonali con orientamento nord-ovest/ sud- est, orientamento molto diverso da quello della città di epoca romana cresciuta intorno al foro, quindi sicuramente precedenti. Torniamo ora alla struttura ancora visibile del Santuario.Sul lato settentrionale del Santuario troviamo tre edifi ci, un tempietto Prostilo (un tempio con portico solamente sul davanti)

Lucus Feroniae Maria Cristina (sowelo)

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in opera reticolata, a cui si poteva accedere tramite una scalinata.Gli altri due ambienti che si affi ancano al tempietto sono stati aggiunti nel corso del I secolo d. C., un ambiente è quadrato e purtroppo non se ne conosce la destinazione d’uso, mentre l’altro ha un impianto basilicale. Gli studiosi lo hanno identifi cato con il Caesareum o Augusteum, eretto, in memoria di Augusto e della sua famiglia, ad opera del suo successore Tiberio.In questo ambiente sono state trovate nove statue acefale e frammentarie, identifi cate con personaggi appartenenti alla famiglia Giulio-Claudia, e una testa dell’imperatore Vespasiano, oltre a diverse iscrizioni frammentarie che però fortunatamente sono leggibili e che menzionano i fi gli e nipoti di Augusto. Rara e quindi di notevole importanza, una iscrizione che ricorda Agrippa Postuo, fi glio naturale di Agrippa, adottato da Agusto nel 4 d.C. morto da bambino.Il pavimento della basilica è in Opus Sectile e le pareti erano rivestite in origine di lastre marmoree.Proseguendo il nostro itinerario attraverso il foro notiamo tracce del lastricato originale a lastre di calcare locale.Seguendo il tracciato del piazzale possiamo ancora vedere, in un area a circa mezzo metro al di sotto del piano di calpestio, i resti degli isolati di epoca ellenistica che facevano parte del centro collegato al Santuario e di cui ora sono visibili gli alzati delle pareti (30 cm circa) in blocchi irregolari e i pavimenti in coccio pesto.Queste abitazioni si estendevano verso occidente, come si è rilevato grazie agli scavi eff ettuati sotto il portico del foro e sotto le Tabernae.Nel lato est il foro era limitato da un muro in opera reticolata. Ad esso si addossò lo speco dell’ Acqua Augusta, qui si trova

appoggiata al muro una vasca rivestita in opus Signitum, con la funzione di fontana o mostra d’ acqua.Nel muro furono aperte delle porte per mettere in comunicazione il foro con il Temenos (recinto sacro), due di esse sono ancora riconoscibili una si apre in corrispondenza dell’antico altare di epoca repubblicana, l’altra in prossimità di alcuni sacelli.Passiamo ora ad ammirare il quartiere del Foro.Esso comprende due grandi isolati. Il primo ha una forma trapezoidale causata dall’adattamento al percorso tracciato della via Tiberina in direzione Roma. Consta di cinque case con bottega al pian terreno, relativi retrobottega e servizi.Sul lato destro di ogni bottega è riconoscibile la scala che portava al piano superiore qui vi erano le vere e proprie stanze di abitazione.In queste tabernae è possibile vedere ancora le giare da cui probabilmente si mesceva il vino per gli avventori e i banconi in marmo su cui venivano serviti i pasti.La sera le tabernae venivano chiuse con vere e proprie saracinesche di cui ancora oggi si intravedono i cardini e il binario di scorrimento.Il secondo isolato separato dal primo da una strada posta perpendicolarmente rispetto al foro, è formato da nove abitazioni, di cui oggi sono visibili solo quattro, la quinta fa parte ora della struttura delle terme dette del Menandro.Sul lato occidentale del secondo isolato, frontalmente allineata alla strada divisoria dei due isolati, si trova una abitazione del I secolo d.C. con pavimenti in cocciopesto restaurata nel II secolo. A questa fase, infatti, appartengono i pavimenti a mosaico con emblemata policromi, che hanno rialzato l’originale sede pavimentale.

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La Domus e i relativi materiali, ivi rinvenuti, tra i due strati pavimentali, hanno permesso agli studiosi di datare in età Sillana la fondazione della colonia.Questa ipotesi non è ancora confermata, infatti il nome della colonia Iulia Felix Lucus Feroniae, colonia romana che prese il posto dell’ antico centro abitato, sembra legato alla famiglia Giulio-Claudia. In attesa di indizi che potranno provare una o l’altra delle ipotesi o magari confutarle entrambe, continuiamo il nostro percorso attraverso le antiche vestigia.Le terme del Menandro. Sorto su antico impianto di abitazioni, questo complesso termale è quello più ampio della zona. É stato possibile ricostruire la sua pianta e riconoscere i vari ambienti. Gli studiosi infatti hanno rilevato la specifi ca funzione di diversi ambienti, riportandone alla luce una decina.All’ impianto termale attualmente non si può accedere ma camminando lungo il perimetro è possibile vedere diverse stanze.Uno degli ambienti secondari, ha un rivestimento pavimentale in mosaico a tessere bianche nere che formano dei disegni geometrici. Da questa stanza laterale, idealmente, si può accedere alla stanza più grande e centrale anch’essa rivestita in mosaico a tessere bianche e nere con tipologia simile alla precedente.Sulla sinistra della grande sala si aprono la vasca del Frigidarium e altri due ambienti di incerta destinazione. Il primo di essi ha pavimento decorato con una corona d’ alloro in centro costituito da tessere bianche e nere.Il secondo è decorato in opus spicatum.Altri tre ambienti si aprono sulla sinistra. Nel più grande si può riconoscere il calidarium, gli altri due sono rispettivamente un tepidarium ed un secondo calidarium. Di questi luoghi non si è conservato il pavimento ma si può vedere la struttura sottostante degli ipocausti (luogo sotto il pavimento dei bagni o delle case dove si accendeva il fuoco per il riscaldamento ad aria calda).

Tra l’ ambiente del grande calidarium e il tepidarium si trova un altra sala di raccordo di cui è visibile il pavimento in mosaico a tessere bianche e nere a disegni geometrici.Nella parte più meridionale del complesso si può distinguere un ulteriore stanza che probabilmente svolgeva la funzione di apodyterium (spogliatoio). Qui addossati alla parete si distinguono banconi e pavimento in opus spicatum con al centro un foro di scolo. Dai ritrovamenti eff ettuati si è desunto che con il passare del tempo questa stanza si è trasformata in luogo di culto.Infatti le terme dopo aver subito un periodo di abbandono sono divenute luogo di culto cristiano e sede di un cimitero. Fatto questo deducibile dal ritrovamento in situ di diverse tombe a fossa.Il nome che per anni ha connotato queste terme, ovvero terme del Menandro, deriva da un iscrizione trovata graffi ta nell’allettamento di malta di una lastra marmorea. L’incisione è probabilmente riferita ad un bambino ivi sepolto tra la fi ne del V e l’inizio del VI secolo d.C.Le terme come abbiamo già detto sono state costruite su ambienti preesistenti, sulle tabernae che qui si installarono all’epoca della colonizzazione, la loro datazione può essere fatta risalire all’epoca imperiale.Tornando indietro e prendendo la strada che divide i due isolati delle abitazioni, attraverso i campi seguendo un sentiero si raggiunge l’Anfi teatro.Questo è uno dei più piccoli anfi teatri conosciuti, la sua capienza era di circa 1000-1500 persone.Da questo si può dedurre che la colonia non fosse molto più grande.La caratteristica peculiare di questa struttura è la forma che è perfettamente circolare, forma per un anfi teatro molto insolita. Normalmente, infatti, essi sono ellittici.La datazione per nostra fortuna si può desumere da un epigrafe

Lucus Feroniae Maria Cristina (sowelo)

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marmorea la quale indica che la costruzione fu realizzata a spese di M. Silius Epaphroditus, patrono del collegio degli Iuvenas LucoFeronienses. Questo particolare ha permesso di datare l’ epigrafe e quindi l’intero complesso all’ età Giulio-Claudia.L’anfi teatro presenta nella pianta ancora le due porte, la Trionfale e la Libitina, il podio e i vomitoria per l’ingresso e l’accesso alle gradinate, la costruzione è in opera quadrata, le fondamenta sono arrivate fi no a noi praticamente integre.Dalla forma e dalle fondamenta si è potuto rilevare che era adatto solo ai combattimenti tra gladiatori. Mancano infatti nella struttura ipogei (sotterranei, con gabbie), di conseguenza qui non era possibile custodire gli animali per i combattimenti.Un sentiero porta dall’anfi teatro alla via Capenate a questo bivio si può vedere un secondo impianto termale.Una serie di ambienti sono disposti intorno ad una sala centrale. Si possono distinguere lo spogliatoio, il laconicum (sauna), di ampie dimensioni. In origine rivestito di marmo lunense.Di seguito il tepidarium e il calidarium con gli ipocausti ben conservati. Infi ne, dopo il calidarium, si può vedere il forno e altri ambienti di servizio.Probabilmente il complesso termale era connesso originariamente ad una villa privata.Solo in tarda epoca imperiale vennero rese pubbliche e ampliate.Anche in questo edifi cio durante gli scavi vennero ritrovati materiali di risulta e di spoglio.Dalle terme si può raggiungere la porta capena sulla via capenate.Con questo edifi cio si conclude la nostra visita al sito del Lucus Feroniae.

Bibliografi a:Gianfranco Gazzetti, il territorio capenate, Casa editrice Quasar,1992Georges Dumézil,La religione romana arcaica,Bur 2001Http:// spazioinwind.libero.it/popoli_antichi/italici/locus%20Feroniae.html

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Il contesto generale in cui ci troviamo ad operare è caratterizzato da numerosi spazi di potere che si stanno liberando, s’intanto che non vengano occupati da entità pseudopolitiche, quali multinazionali, fanatismi religiosi desertici e altre forme del potere globale: tale occasione non deve quindi essere sprecata.

Per essere all’altezza di tale interregnum occorre proporre validi modelli alternativi, sia a livello locale che nazionale, e sul piano dottrinale deve continuare l’approfondimento dei miti guida incentrati in primo luogo su Th ule, patria originaria e punto di forza, come direzione del nostro processo di selezione ed educazione. E’ evidente però la necessità di operare una sintesi tra questi due importanti poli d’attrazione: dunque tra modello attuale alternativo e modello archetipico, Th ule, deve intervenire un mezzo sintetico, attuale, strategico e duttile nella sua capacità di intrusione nella realtà post moderna.Per quanto attiene dunque questo diffi cile processo di equilibrio tra “Pensiero” e “Azione” si rende necessario dare l’esempio del nostro essere diff erenziato, in termini pubblici, privati, estetici e comportamentali.

Il mito guida di Th uleQuesto altro non è se non l’asse inamovibile, centro archetipico del movimento e al tempo stesso cuore, propulsore dell’attività Rivoluzionaria. Ma al tempo stesso Th ule è il luogo di origine e di arrivo del processo di selezione: origine del sentire europeo e punto di arrivo per il processo di eterno ritorno cui siamo soggetti in qualità di rigeneratori della nostra compagine. Th ule dunque come Origine della Tradizione e come nuovo Inizio di un ciclo di civiltà. Isola al di là delle piccolezze umane, patria e fortezza dove gli ultimi Iperborei coltivano il mito, in un mondo divorato dalle fi amme suscitate dall’ignoranza egualitaria e desertica.

Ma quest’isola è anche luogo in cui l’Uomo e la Natura si rincontrano non più in opposizione, non più alterati dalla modernità ma di nuovo partecipi di un cosmo ordinato.

Th ule come traguardo di un processo di apprendimento iniziatico, che per l’uomo moderno signifi ca coscienza della radice del proprio sé, superamento dei limiti, distruzione delle pulsioni consumistiche, distacco progressivo dai beni materiali.

Il ruolo della metapoliticaQuesta ha la funzione a lei consona di coordinare e dirigere forze, orientandosi verso un principio di ispirazione al mito guida, e quindi proprio per questo meta politica, politica che trae origine da qualche cosa di superiore, di anteposto

metafi sicamente e logicamente. Dunque il fulcro è spostato su di un piano superiore dell’essere, in un principio d’ordine, e la politica diviene così capacità di ordinare e dare senso alla realtà applicano e rendendo visibile ciò che è visibile per ora solo sul piano dottrinario.

L’organizzazione In funzione di tale processo di ritorno, di viaggio simbolico verso l’ultima Th ule, la nostra compagine deve essere in grado di rendersi fungibile per essere infi ne d’esempio. Tale aspetto funzionale deve rifarsi ovviamente alle radici del sentire indoeuropeo, per quanto attiene la tripartizione fondamentale e il riconoscimento dunque delle proprie predisposizioni oltrechè, della propria irripetibilità funzionale, poiché l’organismo Th ule non può crescere se non con un processo di specializzazione e valorizzazione dei suoi membri, insostituibili e irripetibili, fonte di arricchimento se organicamente inseriti nel processo operativo dell’organismo Th ule; dove il merito prende il posto dell’ostentazione del benessere e il cervello subordina gerarchicamente i bisogni consumistici.Questo signifi ca che Th ule deve essere composta dalle più varie competenze strutturate secondo un funzionalismo meritocratico e quindi per questo, autentico.

La Riscoperta dell’IdentitàPer propiziare il ritorno a Th ule e all’origine, è necessario riscoprire il signifi cato delle identità locali nel complesso del più ampio universo della civiltà indoeuropea, vera sostanza radicale (quindi legata alle radici) dell’Europa e unica base per la costruzione di un impianto culturale e politico realmente identitario. Ma identità anche in senso personale, che va spiegandosi anche come predisposizione, destino, che lega mediante la propria funzione e condivisione all’interno della comunità il socio con l’Associazione tutta. Identità di persone che vivono senza appartenervi in una società opposta al loro sentire ma, proprio per questo terreno di cultura ottimale per saggiare tramite le diffi coltà la sincerità e l’aderenza del proprio essere alla causa di Th ule.

Il recupero del disperso socialeTh ule deve risvegliare coloro i quali avvertono il disagio della modernità più a fondo senza saperne però trarre le necessarie conclusioni e dunque rifarsi compiutamente alla propria identità popolare, europea e di destino. Per essere centro catalizzatore di forze altrimenti disperse è necessario però che l’Associazione evochi nel pubblico una immagine/idea di serietà, affi dabilità, e attrazione simpatetica.

Andrea Anselmo (Ans)

Una Sintesi per thuleA cura della Sezione Sintesi della Dottrina

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Il disperso sociale non è necessariamente un reietto o uno scarto della società contemporanea: egli potrebbe essere, a prima vista la persona meglio integrata nella società dei consumi e dell’annichilimento ma al tempo stessere esserne profondamente disgustata ma, non trovando una alternativa realmente opponibile ad essa, la persona del disperso si sacrifi ca accettandone l’egualitarismo, lo sradicamento, l’utilitarismo e la mercifi cazione dell’essere. Per lui dunque la Th ule potrà apparire e rappresentare questa alternativa; ma per fare ciò è necessario affi nare uno stile comunicativo, culturale e comportamentale realmente saldo e in una parola, “superiore”.

FormazioneContro una Società globale che usa gli esseri umani come meri produttori e consumatori, Th ule deve essere continuo centro propulsore di educazione, formazione e selezione. Questa deve avvenire sia in relazione alla conoscenza della realtà in cui viviamo, sia alla conoscenza di quali esperienze passate possono indirizzarci, come ad esempio l’ideologia tripartita e la spiritualità indoeuropea. Ma presente e futuro sono solo due dei poli della trinità temporale: è al terzo elemento infatti, il futuro, che il milite (meta)politico della Th ule Italia deve guardare per progettare e applicare una esperienza realmente d’avanguardia.

Strategia e comunicazioneNon tutti gli argomenti che possono risultare genericamente interessanti all’interno della nostra compagine culturale sono al tempo stesso anche strategici. E’ importante che l’Associazione, nelle occasioni di divulgazione pubblica concentri la propria attenzione e la propria forza propagandistica su temi e argomenti condivisi e considerati realmente strategici, ovvero che evitino accuratamente autogol ideologici quali possono risultare battaglie mal calibrate o maldestre che ricalcando schemi vetusti o peggio ancora condivisi dalla destra radicale; questi infatti potrebbero servire ai nostri detrattori per etichettarci fatalmente.

Dunque è un diverso stile che s’impone: il gusto per una critica serrata ma non grossolana, la capacità di ironizzare e svilire - con il sorriso sulle labbra - i dogmi e i valori da strapazzo di una società sempre in cerca di un modo per lavarsi la coscienza: è il caso ad esempio delle ONG, del buonismo peloso o del nostalgismo resistenziale, feticci degli italioti per giovani e meno giovani, consumisti e terzomondisti .

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Il contesto generale in cui ci troviamo ad operare è caratterizzato da numerosi spazi di potere che si stanno liberando, s’intanto che non vengano occupati da entità pseudopolitiche, quali multinazionali, fanatismi religiosi desertici e altre forme del potere globale: tale occasione non deve quindi essere sprecata.

Per essere all’altezza di tale interregnum occorre proporre validi modelli alternativi, sia a livello locale che nazionale, e sul piano dottrinale deve continuare l’approfondimento dei miti guida incentrati in primo luogo su Th ule, patria originaria e punto di forza, come direzione del nostro processo di selezione ed educazione. E’ evidente però la necessità di operare una sintesi tra questi due importanti poli d’attrazione: dunque tra modello attuale alternativo e modello archetipico, Th ule, deve intervenire un mezzo sintetico, attuale, strategico e duttile nella sua capacità di intrusione nella realtà post moderna.Per quanto attiene dunque questo diffi cile processo di equilibrio tra “Pensiero” e “Azione” si rende necessario dare l’esempio del nostro essere diff erenziato, in termini pubblici, privati, estetici e comportamentali.

Il mito guida di Th uleQuesto altro non è se non l’asse inamovibile, centro archetipico del movimento e al tempo stesso cuore, propulsore dell’attività Rivoluzionaria. Ma al tempo stesso Th ule è il luogo di origine e di arrivo del processo di selezione: origine del sentire europeo e punto di arrivo per il processo di eterno ritorno cui siamo soggetti in qualità di rigeneratori della nostra compagine. Th ule dunque come Origine della Tradizione e come nuovo Inizio di un ciclo di civiltà. Isola al di là delle piccolezze umane, patria e fortezza dove gli ultimi Iperborei coltivano il mito, in un mondo divorato dalle fi amme suscitate dall’ignoranza egualitaria e desertica.

Ma quest’isola è anche luogo in cui l’Uomo e la Natura si rincontrano non più in opposizione, non più alterati dalla modernità ma di nuovo partecipi di un cosmo ordinato.

Th ule come traguardo di un processo di apprendimento iniziatico, che per l’uomo moderno signifi ca coscienza della radice del proprio sé, superamento dei limiti, distruzione delle pulsioni consumistiche, distacco progressivo dai beni materiali.

Il ruolo della metapoliticaQuesta ha la funzione a lei consona di coordinare e dirigere forze, orientandosi verso un principio di ispirazione al mito guida, e quindi proprio per questo meta politica, politica che trae origine da qualche cosa di superiore, di anteposto

metafi sicamente e logicamente. Dunque il fulcro è spostato su di un piano superiore dell’essere, in un principio d’ordine, e la politica diviene così capacità di ordinare e dare senso alla realtà applicano e rendendo visibile ciò che è visibile per ora solo sul piano dottrinario.

L’organizzazione In funzione di tale processo di ritorno, di viaggio simbolico verso l’ultima Th ule, la nostra compagine deve essere in grado di rendersi fungibile per essere infi ne d’esempio. Tale aspetto funzionale deve rifarsi ovviamente alle radici del sentire indoeuropeo, per quanto attiene la tripartizione fondamentale e il riconoscimento dunque delle proprie predisposizioni oltrechè, della propria irripetibilità funzionale, poiché l’organismo Th ule non può crescere se non con un processo di specializzazione e valorizzazione dei suoi membri, insostituibili e irripetibili, fonte di arricchimento se organicamente inseriti nel processo operativo dell’organismo Th ule; dove il merito prende il posto dell’ostentazione del benessere e il cervello subordina gerarchicamente i bisogni consumistici.Questo signifi ca che Th ule deve essere composta dalle più varie competenze strutturate secondo un funzionalismo meritocratico e quindi per questo, autentico.

La Riscoperta dell’IdentitàPer propiziare il ritorno a Th ule e all’origine, è necessario riscoprire il signifi cato delle identità locali nel complesso del più ampio universo della civiltà indoeuropea, vera sostanza radicale (quindi legata alle radici) dell’Europa e unica base per la costruzione di un impianto culturale e politico realmente identitario. Ma identità anche in senso personale, che va spiegandosi anche come predisposizione, destino, che lega mediante la propria funzione e condivisione all’interno della comunità il socio con l’Associazione tutta. Identità di persone che vivono senza appartenervi in una società opposta al loro sentire ma, proprio per questo terreno di cultura ottimale per saggiare tramite le diffi coltà la sincerità e l’aderenza del proprio essere alla causa di Th ule.

Il recupero del disperso socialeTh ule deve risvegliare coloro i quali avvertono il disagio della modernità più a fondo senza saperne però trarre le necessarie conclusioni e dunque rifarsi compiutamente alla propria identità popolare, europea e di destino. Per essere centro catalizzatore di forze altrimenti disperse è necessario però che l’Associazione evochi nel pubblico una immagine/idea di serietà, affi dabilità, e attrazione simpatetica.

Una Sintesi per thuleA cura della Sezione Sintesi della Dottrina

Andrea Anselmo (Ans)

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socii

Il disperso sociale non è necessariamente un reietto o uno scarto della società contemporanea: egli potrebbe essere, a prima vista la persona meglio integrata nella società dei consumi e dell’annichilimento ma al tempo stessere esserne profondamente disgustata ma, non trovando una alternativa realmente opponibile ad essa, la persona del disperso si sacrifi ca accettandone l’egualitarismo, lo sradicamento, l’utilitarismo e la mercifi cazione dell’essere. Per lui dunque la Th ule potrà apparire e rappresentare questa alternativa; ma per fare ciò è necessario affi nare uno stile comunicativo, culturale e comportamentale realmente saldo e in una parola, “superiore”.

FormazioneContro una Società globale che usa gli esseri umani come meri produttori e consumatori, Th ule deve essere continuo centro propulsore di educazione, formazione e selezione. Questa deve avvenire sia in relazione alla conoscenza della realtà in cui viviamo, sia alla conoscenza di quali esperienze passate possono indirizzarci, come ad esempio l’ideologia tripartita e la spiritualità indoeuropea. Ma presente e futuro sono solo due dei poli della trinità temporale: è al terzo elemento infatti, il futuro, che il milite (meta)politico della Th ule Italia deve guardare per progettare e applicare una esperienza realmente d’avanguardia.

Strategia e comunicazioneNon tutti gli argomenti che possono risultare genericamente interessanti all’interno della nostra compagine culturale sono al tempo stesso anche strategici. E’ importante che l’Associazione, nelle occasioni di divulgazione pubblica concentri la propria attenzione e la propria forza propagandistica su temi e argomenti condivisi e considerati realmente strategici, ovvero che evitino accuratamente autogol ideologici quali possono risultare battaglie mal calibrate o maldestre che ricalcando schemi vetusti o peggio ancora condivisi dalla destra radicale; questi infatti potrebbero servire ai nostri detrattori per etichettarci fatalmente.

Dunque è un diverso stile che s’impone: il gusto per una critica serrata ma non grossolana, la capacità di ironizzare e svilire - con il sorriso sulle labbra - i dogmi e i valori da strapazzo di una società sempre in cerca di un modo per lavarsi la coscienza: è il caso ad esempio delle ONG, del buonismo peloso o del nostalgismo resistenziale, feticci degli italioti per giovani e meno giovani, consumisti e terzomondisti .

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Armando Mantuano (Achille)

La Schiera di Igor

Così inizia il poema del Canto della schiera di Igor; il triste presagio del sole che si oscura potrebbe indicare un ammonimento per le future sorti della battaglia che si sta intraprendendo, una battaglia dove la difesa dei valori cede il posto alla fama e celebrità personali.Ma potrebbe signifi care il simbolo di una terra che perde il suo sole, quel sole che si allontana coi suoi raggi, che si oscura come un re senza corona e un albero senza frutti.Allora ben si spiegherebbero le parole fi nali del poema dove si ritrovano la terra di Rus’ e il suo Igor’ come il sole che splende.Il principe Igor’ è l’ emblema di una Rus’, patria mitica della futura Russia, divisa, che cede all’ egoismo di una gloria personale andando contro i nemici: “Di ogni piccola cosa i principi dicevano «è grande!», forgiando tra loro la discordia.”Questo poema epico è aff ascinante proprio perché non si soff erma sulle gesta eroiche del principe, ma anzi critica la sua temerarietà: “Più non risorgerà l’ardita schiera di Igor’.”.Un parallelo potrebbe essere fatto con l’ Achille dell’ Iliade e la divisione che porta tra le schiere greche o con la temerarietà di un Paride travestito da Achille, che muore per mano di Ettore: “O Achille oh mai non mi s’ appigli al cor pari alla tua, l’ ira , o funesto valoroso”.Sembra questo il carattere di fondo del poema epico, l’ eroe come vessillo di una schiera che deve essere compatta.Ma c’è un altro elemento che caratterizza questo Canto ed è il suo situarsi storicamente nel periodo dell’ abbandono dei vecchi Dèi e dell’ abbraccio del Cristianesimo; periodo che coincide con il formarsi del popolo russo e quindi del primo nucleo della futura Russia.Tant’è che i nemici, i nomadi Cumani, sono spesso defi niti pagani proprio perché questo meglio li caratterizza in una lotta che vuole essere di un ordine superiore.E allora le diatribe scatenate per l’ egoismo dei principi russi sono

il preludio all’ irrompere dei barbari nomadi e pagani: “E’ venuta meno la lotta dei principi contro i pagani, chè disse il fratello al fratello: “Questo è mio e anche questo è mio”.La terra di Rus’ sembra partecipare a questo dolore: “Si piega l’erba per il dolore, a terra per il dolore si chinano gli alberi!”.Il poema risulta pregno di una visione del mondo che defi nirei fantastica e incantevole; a cominciare dalla fi gura di Bojan, cantore mitico, vate dei tempi che furono, con un’ ispirazione quasi sciamanica: “Ma Bojan, o fratelli, non dieci falchi lanciava contro lo stormo di cigni: ma posava le sue dita stregate sopra le corde viventi e quelle da sole cantavano ai principi gloria.”.Oppure il sogno di Svjatoslav: “Nella rocca di Kiev, questa notte, mi rivestivano sul far della sera di un nero sudario sopra un letto di tasso, mi mescevano vino fosco mescolato a dolore…Sin dalla sera, per tutta la notte, hanno gracchiato i corvi demoniaci nelle paludi” che apprende così l’ infelice avventura di Igor (“Già il disonore ha sommerso la gloria, la schiavitù ha schiacciato la libertà”)e pronuncia il suo aureo discorso o Zlato Slovo:“O nipoti miei, Igor’ e Vsevolod! Troppo presto cominciaste a off endere con la spada la terra cumana, in cerca di gloria: ma nel disonore vi siete battuti, nel disonore avete versato il sangue pagano.”.E il discorso continua narrando la storia dei principi di Rus’ e le loro imprese per fi nire con la vetta lirica del lamento (il plac o pianto è uno specifi co genere letterario della poesia popolare russa) della giovane sposa del principe Igor’ che chiede al fi ume Dnepr di riportarle il suo sposo “Porta, signore, fi no a me il mio sposo, perché io non gli mandi le mie lacrime sul far del mattino.”, parla col vento, col sole…ed ecco il principe Igor si desta, fugge dall’ accampamento e lungo il fi ume che lo conforta arriva alla sua terra; e se prima la terra di Rus’ senza Igor era come un corpo senza la testa o una testa senza un corpo ora :“Il sole splende in cielo, il principe Igor è in terra di Rus’!”

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La Fortezza di Heinrich Himmler

Ciò che ha soggiaciuto alla scelta di portare a conoscenza del pubblico italiano “La Fortezza di Himmler”, è stato anche ma non solo il desiderio di porre termine ad una storiografi a noir che inserendo Wewelsburg nel fi lone del nazionalsocialismo occulto ha considerato necessaria l’introduzione di particolari fantasiosi per nulla consoni a studi che si vorrebbero oggettivi.In questo nostro invito alla lettura desideriamo tracciare i contorni degli accadimenti che hanno portato un castello semi diroccato in Vestfalia a divenire il centro ideologico della Weltanschauung delle SS.Con la presa del potere – il 30 gennaio 1933 - da parte dei Nazionalsocialisti in Germania il comandante delle SS del Reich Heinrich Himmler iniziò ad ampliare e consolidare la posizione appena acquisita. Il numero dei membri delle Schutzstaff el (corpi di protezione, abbreviati in SS) era relativamente modesto ma, dopo la vittoria elettorale conseguita da Adolf Hitler e la sua ascesa al governo, centinaia di migliaia di cittadini, fi no a quel momento indecisi, entrarono nello NSDAP (Partito Nazional Socialista dei Lavoratori Tedeschi) e nelle sue ramifi cazioni. Alla ricerca di un luogo adeguato per la costruzione di una “Scuola per i Reichsführer” (la nuova classe dirigente del

Reich) destinata ai vertici delle SS, si rivelò profi cuo un viaggio elettorale attraverso la regione del Lippland che lo portò in quel di Wewelsburg e quindi al cospetto della fortezza. Martedì 3 novembre 1933, Himmler, accompagnato dall’allora Presidente di una circoscrizione amministrativa minore Adolf Freiherr von Oeynhausen, si accinse a visitare per la prima volta il castello restando immediatamente impressionato dall’imponente costruzione triangolare. Presumibilmente la stessa sera prese la decisione di destinare la fortezza di Wewelsburg a futura scuola dei Führer delle SS. Fu così che, dopo breve tempo, Himmler nominò architetto responsabile dei lavori d’ampliamento e di modifi ca della fortezza, per gran parte in rovina, Hermann Bartels a quei tempi responsabile culturale del distretto Vestfalia del nord. Tuttavia, soltanto dopo complicate trattative con la circoscrizione del Land di Bürgen, il 27 luglio 1934 Himmler riuscì a stipulare il contratto con cui la fortezza fu intestata allo NSDAP fi no al 31 dicembre del 2033 per un importo simbolico di un marco l’anno. Il Ministro del Tesoro del Reich, Xaver Schwarz, convalidò l’atto il 29 settembre 1934.

Riguardo alla decisione di Himmler sul futuro utilizzo della fortezza è doveroso ricordare un personaggio che Rudolf Mund ebbe a defi nire “il Rasputin di Himmler”. Trattasi dell’ex colonnello austriaco Karl-Maria Wiligut (nelle SS si chiamò K.M. Weisthor), uno studioso di storia antica ed in particolare dei Goti, che nel 1933 risiedendo a Monaco entrò in quello stesso periodo in contatto con Himmler. Questi, da sempre interessato agli argomenti attinenti la storiografi a arcaica, sin dall’inizio rimase impressionato dalle ampie conoscenze di Wiligut-Weisthor. Stando a quanto dichiarava Karl Wolff , l’allora capo dello stato maggiore del personale del Reichsführer e futuro generale delle Waff en-SS, fu proprio Weisthor a sensibilizzare Himmler riguardo alla Wewelsburg.Dopo la guerra, specialmente negli ultimi anni, si è tanto detto e scritto sull’infl uenza esercitata da Wiligut-Weisthor. Appena “il vecchio” - com’era amorevolmente apostrofato dai suoi collaboratori e conoscenti - spirò il 3 gennaio del 1941, apparvero nel suo appartamento due uffi ciali britannici che, a seguito di una perquisizione, portarono via alcuni dei documenti con delle annotazioni di Wiligut: evidentemente, le attività di Wiligut-Weisthor, così vicine a Heinrich Himmler, erano ben note a quei due inglesi.

Himmler nominò quale primo capitano della fortezza (Burghauptmann) Manfred von Knobelsdorff , fi no a quel momento direttore generale delle SS per la formazione, e cognato di Walther Richard Darré, guida pro tempore degli agricoltori del Reich e capo dell’Ente per la razza e la colonizzazione dei territori

Marco Linguardo

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(a quei tempi non ancora un ente principale). E’ noto che inizialmente non prevalse una concezione su un’altra per i futuri scopi della “Scuola dei Reichsführer”. Ciò è dimostrato anche dal fatto che nell’estate del 1934 quando von Knobelsdorff chiamò alla fortezza il giovane architetto Walter Franzius quale direttore per la formazione (Schulungsleiter) non diede al nuovo arrivato delle chiare direttive; quel periodo servì in pratica ai soli fi ni della strutturazione organizzativa. Per attenuare la sfi ducia da parte degli abitanti del paese, a maggioranza cattolica, nei confronti della “guardia nera”, Franzius cercò di guadagnare l’interesse della popolazione organizzando molteplici eventi inerenti alla rievocazione ed al risveglio delle usanze tradizionali locali. Dopo un iniziale insuccesso raggiunse poi, parzialmente, i risultati sperati. A seguito dell’ingresso delle SS nella fortezza, nell’ala ovest della Wewelsburg il salone delle feste non fu più disponibile per le manifestazioni o per i pubblici incontri e per tale ragione Franzius propose con successo a Himmler l’acquisizione di un edifi cio sostitutivo. La struttura scelta, piuttosto fatiscente, fu fatta ristrutturare con l’aiuto degli operai locali, appartenenti al Deutschen Jungvolks (Popolo dei giovani Tedeschi) e del Reichsarbeitsdienstes (RAD - Servizio Tedesco del Lavoro), trasformandola in un centro ricreativo per la cittadina (Das Dorfgemeinschaftshaus). Questa struttura - ancora oggi presente nel centro del paese e da alcuni anni ad uso di locanda – rappresenta un eccezionale esempio di tutela del patrimonio locale: gli operai provenienti dal paese e dal circondario diedero prova della loro maestria in tutti i campi. Alla fi ne dei lavori, l’8 maggio del 1937 nel corso di una festa, Himmler in persona consegnò agli abitanti lo splendido fabbricato, nel quale in seguito ebbero luogo anche le Heimatabende (le Serate della patria) degli Jungvolk, delle Jungmädel (le giovani tedesche) e del Bund Deutscher Mädel (la lega delle ragazze tedesche. BDM). La reazione al “segno dei nuovi tempi” da parte della Chiesa cattolica e quindi della diocesi di Paderborn, si fece più netta allorquando, dopo la morte nel 1934 dello stimato parroco Johannes Pöppelbaum, fu nominato a succedergli Franz Josef Tusch, nato il 30 aprile del 1883 ad Altena. Tusch, intelligente e lungimirante, gran letterato e musicista, fu appositamente scelto dall’episcopato, al fi ne di agire – per quanto fosse possibile – contro questo “nuovo ordine”. Tusch cercò quindi di curare e mantenere in vita gli usi, i costumi e le locali tradizioni cristiane, ponendo molta cura nel sostenere la sua comunità. Contrapponeva alle feste nazionalsocialiste, come quella del Primo Maggio (il giorno del lavoro), del 21 giugno e del 21 dicembre (rispettivamente il solstizio d’estate e d’inverno), le usanze ed i riti cattolici. Questa forte contrapposizione durò sino a quando alla guida

della Wewelsburg nella primavera del 1938, von Knobelsdorff venne sostituito da Siegfried Taubert. Tra il prete Tusch ed il nuovo Burghauptmann s’instaurò, infatti, da subito una relazione di buon vicinato. Taubert da parte sua, preoccupato di evitare qualsivoglia controversia tra le SS e la gente del posto, si adoperò nel curare questo rapporto e capitò persino di vedere i due uomini vestiti di nero passeggiare a braccetto nel giardino della fortezza; inoltre, la passione di entrambi per la poesia e la musica portò sovente a mettere in scena simpatiche serate musicali. Tusch non si preoccupò della presenza dei giovani educatori ed uffi ciali delle SS e, pur continuando inalterata la “guerra fredda” tra la Chiesa e le Schutzstaff el, tutto nella Wewelsburg procedette senza attriti. A Wewelsburg, dopo il 1937, il rapporto tra gli abitanti del paese e “quelli della fortezza” migliorò sebbene nel periodo precedente ci fossero state alcune divergenze - storicamente spesso male interpretate - come nel caso della Schützenfestkrawalle (NdT - Festa popolare con gare di tiro al bersaglio).Sovente è stato sottovalutato il ruolo avuto nel paese dagli uomini delle SA (Sturmabteilung, squadre d’assalto): attriti occasionali tra questi e le SS vi furono sia a Wewelsburg che in altri villaggi e la cui causa risiedeva sovente nell’irrequietezza delle SA per l’attesa di una scolta rivoluzionaria in senso sociale del Nazionalsocialismo, soprattutto dopo la repressione del cosiddetto Römputsch (NdT - il tentato colpo di stato nel 1923 in una birreria di Monaco Hofbräuhaus da parte di Hitler e le SA guidate da Ernst Röhm). Negli anni dal 1935 fi no al 1938, il numero del personale della fortezza subì un notevole incremento. Sotto la direzione dell’Hauptsturmführer (capitano) delle SS, dott. Hans Peter des Coudres, ebbe inizio la costruzione di una “Biblioteca delle Schutzstaff el” che giunse a contenere nel 1938 circa 16.000 volumi con annessa una legatoria di libri ed uno tra i più moderni impianti per la produzione di fotocopie. Sotto la guida di Wilhelm Jordan fu avviato l’allestimento di un museo di protostoria e preistoria e dato impulso a numerosi scavi archeologici nei dintorni, mentre Rudi Bergmann, noto ricercatore genealogico, iniziò la preparazione di tavole dinastiche.Per uniformare le diverse defi nizioni utilizzate fi no alla fi ne del 1935 per indicare i diversi uffi ci delle SS nella Wewelsburg, il 6 novembre 1935 Himmler promulgò il seguente ordine:

(Estratto) “1) Il nome della Scuola nella Fortezza di Wewelsburg ha come unica defi nizione la seguente: SS-Schule Haus Wewelsburg. Il direttore responsabile di quest’uffi cio ha la seguente defi nizione di servizio: capo della fortezza di Wewelsburg”.

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La Fortezza di Heinrich Himmler

L’ampliamento della Scuola delle SS, quando Taubert prese servizio, era oramai concluso ed erano disponibili sale per l’intrattenimento, ambienti adibiti alla formazione, la biblioteca con annesso locale per la lettura, un museo e diverse stanze destinate agli ospiti. La cura dei locali – e degli ospiti - era eseguita da alcune giovani donne, le Burgmaiden (fanciulle della fortezza) ed assolta grazie all’ausilio di una moderna cucina, di una lavanderia e di una stanza riservata a stireria e sartoria. Erano tutte sotto l’energica direzione della signora Elfriede Wippermann, che assunse molte giovani appartenenti alla cerchia delle sue conoscenze per svolgere i servizi nella Wewelsburg. Come le ragazze che assolvevano il Landjahr, sovente presso famiglie che avevano molti fi gli (l’anno di “avviamento” o economia domestica con tirocinio che si usava un tempo anche in Italia), le Burgmaiden imparavano non solo la moderna conduzione domestica, la preparazione dei pasti ed i connessi servizi di cucina ma anche l’arte della cameriera e la cura della lavanderia. Ex domestiche della fortezza interpellate dall’autore, unanimemente riferirono che “annoveravano i tempi in cui svolsero i servizi nella Wewelsburg

fra i loro ricordi più belli”. Il 1939 portò nella fortezza, e quindi indirettamente anche nel paese, una ventata di cambiamenti.Il comandante delle SS del Reich, Heinrich Himmler, era consapevole che l’ambiente medievale della fortezza avrebbe causato delle limitazioni ai suoi futuri progetti per uno sviluppo successivo. Incominciò così a discutere con l’architetto Hermann Bartels di un necessario e susseguente ampliamento, per la cui attuazione sarebbe stata necessaria l’acquisizione di terreni confi nanti. Così, dopo due anni di trattative, il 4 luglio 1939, si giunse alla fi rma del contratto per l’acquisto della locale chiesa cattolica. Nella storia del Terzo Reich e delle Schutzstaff el è sicuramente l’unico esempio di chiesa di proprietà delle SS dove quotidianamente si tennero i servizi religiosi sino a lunedì di pasqua del 1945, giorno d’arrivo degli americani. Tra il 1939 ed il 1944, Bartels concepì, supportato in questo dalla sua direzione dei lavori, un progetto che diveniva di volta in volta sempre più ambizioso e che alla fi ne, con un tempo di realizzazione stimato di circa 20 anni, avrebbe previsto l’incredibile spesa di 250 milioni di Reichsmark.

Marco Linguardo

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Fino al 1935, come forza lavoro, furono a disposizione di Bartels gli uomini del Freiwilligen Arbeitsdienst (il FAD – il Servizio di Lavoro Volontario), ed in seguito gli appartenenti al Reichsarbeitsdienst (il RAD – il Servizio di Lavoro del Reich). Nell’estate del 1938, quando il RAD non fu più disponibile giacché trasferito per eseguire i lavori di costruzione della Westwall vicino alla frontiera franco-tedesca, ci fu di conseguenza la perdita di manovalanza a basso costo. Nel maggio del 1939 arrivò comunque un primo contingente di prigionieri che avrebbe continuato i necessari lavori di costruzione. Agli inizi d’agosto del 1940, al confi ne esterno della Wewelsburg (nel territorio comunale di Niederhagen), furono costruite delle baracche fi sse dove i detenuti alloggiarono sino al loro abbandono avvenuto tra il mese d’aprile e quello di maggio del 1943. Sebbene Himmler, già nella sua direttiva del 6 novembre 1935, avesse disposto un divieto per le visite alla fortezza (“Vieto qualsiasi visita alla Wewelsburg. Ho dato al capitano della fortezza le indicazioni più stringenti in questo senso”) voci sempre nuove ed indiscrezioni sul castello giunsero costantemente all’opinione pubblica. Si deve attribuire a questa proibizione un signifi cato non letterale essendo questa per lo più indirizzata alle “iene della stampa”. Numerose testimonianze verbali e fotografi che dimostrano, invero, che lo stesso Himmler portò in visita prominenti personaggi del partito come il Gauleiter dott. Alfred Meyer oppure l’architetto del Führer poi nominato Ministro del Reich, Albert Speer, accompagnandoli fi no alla torre nord della fortezza. Accettò altresì visite di cortesia da parte di Martin Bormann, Sepp Dietrich, Th eodor Eicke, Reinhard Heydrich, Hans Adolf Prützmann, il principe ereditario Josias von Waldeck ed il Gauleiter capo sezione del partito Josef Terboven, ed altri ancora; il tutto ampiamente documentabile.Non solo nella stampa regionale ma persino in pubblicazioni sovra regionali si trovavano indicazioni sugli accadimenti riguardanti il castello e, almeno in uno dei testi scolastici si dava notizia sulla “Scuola dei Reichsführer o Scuola delle SS Haus Wewelsburg”.A seguito dello scoppio della Seconda guerra mondiale e del suo procedere, a partire dal 1943 i lavori di costruzione, si bloccarono quasi completamente e, nonostante il procedere ininterrotto della fase progettuale dimostrata dalla presentazione nel 1945 di ulteriori piani di costruzione, fu infi ne costruita solo una piccola parte della prevista “Città delle SS”. Sabato, 31 marzo 1945, per ordine del Reichsführer, la Wewelsburg fu fatta saltare da un decorato con Croce di Ferro delle Waff en SS ed il centro ideologico per le Schutzstaff el, voluto da Heinrich Himmler, si dissolse in pietre e cenere.

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e-mail: [email protected]: 340 4948046

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Si assiste in questi giorni in certe zone di Italia alla cosiddetta “crisi dei rifi uti”, cassonetti vengono bruciati dopo che ormai da tempo mucchi di sacchi della spazzatura stagnano nelle vie nel più totale abbandono e nell’incapacità da parte delle strutture sociali di far fronte a quello che di fatto e’ diventato uno “stato di emergenza” e per il quale lo stesso Responsabile della Protezione civile, Bertolaso, è stato investito della carica Commissario Straordinario.

Nel mentre abbiamo avuto modo di assistere di recente al fi lm di Al Gore “Una verità scomoda”, una produzione dove il mancato Presidente degli USA descrive l’andamento e le prospettive di ciò che succederà se le emissione di CO2 continueranno a crescere aumentando l’eff etto serra.

Ci sono stati due avvenimenti che ci hanno colpito in merito a questi due fatti: innanzi tutto il contenuto dei sacchetti dei rifi uti; il quale rilevava come non vi fosse alcuna diff erenziazione. In seguito l’intervento del relatore che introduceva il fi lm di Gore, il quale suonava grosso modo come segue:

“…malgrado ciò che ci viene prospettato da questo documentario, la scienza e la tecnologia ci permetteranno di poterci salvare da questo scenario…”.

Successivamente un articolo sul progetto recentemente proposto da una equipe di scienziati al fi ne di poter pompare l’eccesso di CO2 all’interno della crosta terrestre.

Al momento non abbiamo percepito compiutamente il nesso… ovvero quella relazione tale da farci visualizzare l’animale che va sotto il nome di struzzo. Sì, uno struzzo con la testa sotto la sabbia, nota immagine che serve a esprimere un concetto a noi noto: non voler vedere e fare qualcosa per quello che sta succedendo.

Sorge spontanea la domanda retorica sull’identifi cazione dello struzzo negli eventi precedentemente citati. Innanzitutto potremmo dire che sono le Amministrazioni pubbliche che hanno mancato di progettualità previsionale nel gestire una tendenza che pochi e semplici dati potevano già fornire in anticipo: totale della popolazione, produzione di rifi uti Solidi Urbani in aumento, allocazione degli stessi in determinati centri di raccolta, mancata determinazione di una politica di raccolta diff erenziata, ecc. Possiamo poi parlare di ecomafi a e così via ma… qualcuno si e’ chiesto perché in venti anni circa la produzione di rifi uti S.U. pro capite/annua e’ aumentata del

doppio (da circa 350 kg a più di 600 kg in media?

E’ vero che occorre gestire il rifl uito ma occorre anche chiedersi da dove arriva.

La ricerca della felicità attraverso il possesso di denaro (di valore) per ottenere beni e servizi, agi, oggetti, strumenti, è totalmente parte della nostra odierna concezione di vita. I genitori hanno ricercato per i propri fi gli una vita migliore, in questa ricerca hanno perseguito il risparmio, la possibilità economica attraverso lavoro e sacrifi ci: gli stessi discendenti, almeno in parte, hanno fatto loro questa lezione perseguendo lo stesso cammino, forse con un po’ meno di sacrifi cio, sulla strada tracciata precedentemente.La strada della libertà, la strada della libertà nel ricercare individualisticamente la propria felicità materiale.

Cosa c’entra quanto appena riportato con i rifi uti? C’entra in quanto la concezione individualista si pone il problema della soddisfazione nell’immediato di un bisogno che e’ proprio, ma non certo comunitario. Che non guarda oltre il proprio interesse egoistico e nemmeno tutto sommato per quello dei nostri fi gli.

In questo incredibile mondo globalizzato le merci vengono scambiate, spesso le stesse merci, da un luogo ad un altro per fornire un “brand” di prodotti al giusto presso per quel preciso “target”.

Esiste un paradigma dominante, un sistema, una matrice, nella quale la visione del mondo imperante ci promette una crescita ed un progresso illimitato, che ci fornisce un insieme multicolore e sapore di alimenti e svaghi.

Un immaginario ormai mondializzato ha sostituito al simbolo archetipico ancestrale la nuova marca postmoderna come illusione di una diff erenziazione nel globalismo dei valori materiali.

I mezzi di comunicazione di massa hanno raff orzato e consolidato trasversalmente gli pseudovalori di questo immaginario, in forma assolutamente transanzionale.Ciò che Latouche chiama la “megamacchina” e Faye chiama il “sistema”, sorta di “Leviatani” dotati di un principio autorigenerante ed autoaff ermante, si servono di questi gangli comunicativi per poter consolidare ed aff ermare la propria esistenza come unico valore positivo in un’ottica progressista e di “termine della storia” (Fukuyama).

Il Rifiuto solido urbano: il prodotto finale del paradigma imperante. Angriff (Matteo Pastori)

I consumatori allora, pacifi ci e docili componenti di tale sistema positivo, al accadere di una problematica come quella dei rifi uti si ribellano all’ineffi cienza non del sistema di produzione/consumo imperante ma allo “Stato” alle “Istituzioni”, che ormai ridotte ad una sorta di passivi spettatori del meccanismo da loro stessi generato non possono fare altro che cercare di adottare rattoppi a situazione di “emergenza” che vanno di volta in volta a crearsi. La politica e’ ormai asservita al sottoprodotto fi nale dell’economia: il rifi uto.Eppure continuiamo ad assistere a destra e a sinistra, a nord e a sud al contrabbando di fallaci dichiarazioni di fedeltà alla Crescita, all’aumento del PIL, nella falsa concezione che a piramide, tale crescita ricada con benefi cio per tutti sino agli strati più bassi della società e non rimanga invece bloccata ai piani superiori del benessere economico dai veri detentori del potere fi nanziario.

Ritornando al principio del nostro scritto, un’ ulteriore eff etto struzzo lo intravediamo nell’aff ermazione del relatore del fi lm di A. Gore che si abbandona in una dichiarazione fi deistica sull’inevitabile e positivo progresso tecnologico e scientifi co che ci permetterà di vivere tutti insieme allegramente, magari in un mondo tipo “Blade Runner”. Anche qui si corre dietro al problema: prima ancora di avere gli strumenti per risolverlo, lo si dà per risolto. Un vero atto di fede insomma! Fede laica sia chiaro!

Esiste un secondo principio della termodinamica a cui e’ legato il termine ENTROPIA, sebbene nessuno di noi si sia degli scienziati riusciamo ad intuire che non si può produrre ENERGIA e BENI ILLIMITATAMENTE da fonti FINITE. La terra e’ un sistema di fonti fi nite, l’unica fonte da ritenere non infi nita ma in ogni caso disponibile negli anni a venire (ma fi nita in termini di disponibilità) è il Sole.

Ci si dice allora che si può, per esempio, utilizzare l’energia elettrica rinnovabile (sole, acqua) a sostituzione del petrolio: con questo tenore di vita e questa popolazione occorrerebbe consumare 4/5 in meno di energia elettrica, inoltre per costruire un panello solare occorrono in ogni caso materie prime discretamente poco presenti in natura e sopratutto altra energia (energia “grigia”). L’idrogeno bisogna ricavarlo con altra energia (magari ricavata dal petrolio?), in natura l’idrogeno non esiste.

Ma in ogni caso la tecnica ci verrà in aiuto costruendo sistemi

sempre più effi cienti. Il problema e’ che per creare effi cienza ci si e’ basati su sistemi ineffi cienti che hanno già consumato risorse limitate.

Insomma siamo in continua crescita demografi ca e vogliamo crescere nei consumi pro capite. Ciò e’ ASSURDO!

Ma quale può essere la soluzione a tali problematiche evidenziate?

Occorre Decrescere, decrescere nella richiesta di energia e beni, nella crescita demografi ca.

Rivoluzionare il paradigma dominante, rifondare un nuovo immaginario collettivo per il quale esista ancora la possibilità di godere della vita senza essere asserviti allo schiavismo del possesso e dell’immagine, del valore e dell’individualismo.

Noi come Th ule Italia vogliamo essere veicolo attivo e propositivo di un nuovo modello di vita comunitario, elaborare i contenuti della decrescita formulando una proposta organica priva di “archeonostalgismi” storici, per il superamento della postmodernità tramite un nuovo archeofuturismo!

Non più la società al servizio dell’economia ma l’economia al servizio della società!

Per dare un idea di cio’ che intendiamo riportiamo di seguito ciò che Latouche, uno dei pensatori della Decrescita, chiama “le 8R” e che potranno essere, in parte, le linee guida per una formulazione di un modello alternativo di valori e convivenza.

Le 8R

. Rivalutare . Ricontestulizzare. Ristrutturare. Rilocalizzare. Ridistribuire. Ridurre. Riutilizzare. Riciclare

Th ule Italia produrrà nei prossimi numeri contenuti che non siano meramente e sterilmente contestativi o buonisti ma eff ettivamente motore di una nuova rifondazione Europea, di un nuovo immaginario, di un nuovo paradigma.

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