ASSOCIAZIONE CULTURALE -...

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ASSOCIAZIONE CULTURALE

t r a d i z i o n i m e t a p o l i t i c a s t o r i a e s o t e r i s m o a t t u a l i t à

n o v e m b r e / d i c e m b r e 2 0 1 3

DIFESA DELLA TRADIZIONE - STORIA E CONTROSTORIA - GEOPOLITICA - RIFLESSIONI- ALTRE VOCI - ALTRA LETTURA

Sommario

bimestrale, anno X

progetto grafico e impaginazioneMarco Linguardo

Immagine di copertinaVeronica Piu

RedazioneGiacomo Tognacci

[email protected]

EditorialeCerchiamo di essere uomini e non rane da bolliredi Gabriele Gruppo 3

Difesa della TradizioneIbis: saggezza e purezza di Monica Mainardi 10I Nibelungitrascr. di Giacomo Tognacci e Sofia Gini 18

GeopoliticaLo Stato-nazione europeo nella crisi del nostro tempodi Gabriele Gruppo 26

Thule SociAmore: il Ricordo e il manifestarsi dell’Idea contro la Decadenzadi Pasquale Piraino 36

Altra Lettura“La razza ventura” di Edward Bulwer-Lytton 44

Editoriale

Cerchiamo di essere uomini e non rane da bollire

L’ultimo numero annuale della rivista di Thule-Italia è, sotto certi aspetti, quello che per noi segna la simbolica chiu-sura di un argomento trattato lungo l’arco dei dodici mesi trascorsi; in cui porre dei punti fermi e passare oltre, tra-endo alcune debite conclusioni da quel che si è trattato nei diversi articoli, e in cerca poi di un nuovo fermento. Rite-niamo, infatti, utile e rigenerativo dare sempre nuovi spunti a noi stessi e a coloro che ci seguono, soprattutto nella parte della rivista da noi curata e che, con lungimiranza, è stata con il tempo battezzata dall’editore “Riflessioni”.

L’argomento del 2013 ha avuto come cardine due parole: resistenza e reazione.

Il nostro intento era quello di capire se, in una fase storica così critica, sussistessero forme ben definite di resistenza e di reazione ancora vive in Europa occidentale, e in particolare nel popolo italiano, nella sua cultura, nella politica antagonista, financo nelle dinamiche del sistema al potere vigente. Cercando di toccare un po’ tutti i punti che rite-nevamo nevralgici.Arduo sarebbe affermare che siamo riusciti nell’intento. Proprio in ragione della natura particolarmente sfuggente del nostro contemporaneo, ci siamo ritrovati a dover spesso scrivere nell’incalzare di eventi che non permettevano di stabilire con chiarezza nessun tipo di tesi, o di formulare una sintesi esaustiva. Inoltre, sarebbe stata necessaria una polifonia di voci, anche confliggenti, che potessero far pesare su di un piatto di bilancia oggettivo le differenti visioni del mondo, per compensare magari vicendevoli manchevolezze, o fornire un’impronta ideologica meno uni-direzionale dell’argomento trattato, in ragione della sua complessa natura multiforme. Ma ormai sembra non essere più necessario questo tipo di approfondimento, per noi invece necessario, in un’epoca di comunicazione veloce e superficiale come l’attuale.Tuttavia, consideriamo un nostro punto di forza il non aver inflazionato l’esposizione delle nostre riflessioni con cap-ziosità superflue, che avrebbero deviato dalle due parole poste in oggetto; finalità che c’eravamo comunque posti fin da principio.

Per prima cosa resta nostro punto fermo il quesito con cui partimmo all’inizio: “Alle mutate condizioni di stabilità strutturale e di crescita organica dell’Occidente ci si pone di fronte un quesito: Esiste ancora una capacità di reazione?”.

In linea di massima potremmo ben dire che il concetto di reazione al sistema, a oggi, non ha avuto nessuna manife-stazione nel complesso dell’Occidente che possa rendergli onore, tranne forse che in qualche raro esempio.

Editoriale

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Stiamo per entrare nel 2014 in condizioni peggiori rispetto a 365 giorni fa, e nulla sembra presagire che qualche cosa possa smentire le nostre ormai quotidia-ne previsioni sul collasso imminente.In Italia addirittura viviamo tutti noi come in un micro cosmo particolaristico, spesso incomprensibile all’este-ro. Siamo presi da uno strano ingranaggio esistenzia-le, come se partecipassimo tutti noi a un gigantesco reality-show, in cui a ogni gruppo organiz-zato, o nicchia socia-le, corrisponde una parte da recitare nel modo più sguaiato e appariscente possibi-le, ma nei fatti incon-cludente, mentre la grande maggioranza del popolo italiano fa da spettatore più o meno passivo.C’è un’immagine em-blematica di quanto vi stiamo dicendo: un uomo, in maniche di camicia e cravatta, osserva dall’alto di una finestra, al sicuro da ogni coin-volgimento diretto, degli scontri tra forze dell’ordine e dimostranti, durante una recente manifestazione a Roma. L’uomo sembra bere o mangiare qualche cosa, tranquillo, come se stesse comodamente a osservare proprio questo reality-show dal vivo, di cui egli è spet-tatore e nulla più. Tranquillo, appunto, in ragione di uno status quo che, forse, lo rende refrattario a qualsiasi sconvolgimento epocale, o che vada semplicemente al di là del suo raggio d’azione esistenziale.

Saprà quell’uomo cosa sta succedendo?

Avrà maturato un suo pensiero in merito?

I dimostranti è anche per quell’uomo alla finestra che si battono con le forze dell’ordine?

Oppure prestano semplicemente il fianco al “gioco del-le parti”, voluto dal sistema?

Domande semplici, banali, ma che rappresentano il fulcro della questione. Domande che hanno delle ri-sposte purtroppo immediate e in parte sconfortate, vi-sto il corso degli eventi che stanno avendo questi anni difficili.Infatti, potremmo scrivere dottissimi distillati del no-

stro pensiero, riguardo alle risultanze che potevamo svi-scerare dal tema in oggetto. Eppure, ci siamo accorti che è drammaticamente molto più significativo farvi com-prendere quanto una foto possa rendere di più, rispetto a mille analisi hegeliane. Qui non si tratta più di capire quanto ancora siano presenti nel nostro popolo i concetti di resistenza e di reazione, bensì se essi abbiano ancora un senso o un esistere di fronte a un fattore umano/occi-

dentale, non solamen-te italiano quindi, che è succube di talmente tanti stimoli eterodi-retti, da essere ormai diventato praticamen-te composto di un materiale refrattario all’etica dell’azione, corroborando invece un’esistenza grigia e artefatta, capace di farlo vegetare fino alla fine dei suoi giorni.

Un’altra metafora em-blematica, che può far comprendere l’insen-

satezza che ci circonda, è per noi rappresentata da una piccola notizia; rimbalzata giusto su qualche quotidiano emiliano nell’ottobre di quest’anno:

“Nuova protesta dei collettivi studenteschi di Bologna che, verso mezzogiorno, hanno occupato simbolicamente la mensa universitaria di piazza Puntoni, da loro definita «la più cara d’Italia». Gli attivisti hanno allestito dentro i locali una mensa «alternativa», offrendo un pasto completo (pa-sta con sugo di peperoni, insalata e pane), al prezzo di un euro, contro i quasi sette di quella «ufficiale». All’ingresso e all’interno sono stati affissi striscioni: «Occupymensa, pran-zo sociale a un euro». In breve tempo si è formata una coda di studenti per consumare il pranzo preparato dai ragazzi dei collettivi”.

Fonte Ansa

In tempi non molto lontani da quello in cui viviamo, le università erano il laboratorio di sintesi di idee nuove, ra-dicali e rivoluzionarie, capaci d’innestarsi nella società, e dell’innestarsi di tali idee in una categoria umana molto recettiva alla volontà di compiere mutamenti epocali.Oggi le università sono come quel monastero benedet-tino descritto mirabilmente da Umberto Eco nel suo li-bro “Il nome della rosa”. Luoghi in cui il sapere è fine a se stesso, dove l’erudizione è solamente interpretata come il

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prolisso ripetersi di cose statiche e immutabili, in cui il si-stema vigente ha un controllo presso che totale, assoluto, e in cui v’è spazio solamente per un teatrino dell’assurdo dove si coltivano immaturità etica e infantilismo politico.Potranno sicuramente esserci dei “fiori nel deserto”, tutta-via essi sono di fatto soverchiati numericamente da una compagine umana massificata, che si balocca in una con-dizione d’estraneità alla vita reale e agli eventi che stanno sconvolgendo questo inizio di secolo.L’esempio che vi abbiamo portato è per noi emblematico, significativo di una totale assenza di reazione all’attuale situazione storica, e di rifugio in pseudo giochi di ruolo, da parte di quella che dovrebbe essere, invece, un’avanguardia sociale e culturale di primo livello, così come lo era un tem-po. Con particolare atten-zione all’Italia, possiamo ben dire che l’università non è più un vivaio di fermenti creativi, ma uno dei tanti luoghi d’intrat-tenimento che il sistema utilizza per addomesti-care le masse, e porle in una condizione di statici-tà esistenziale.Quello che costatiamo è che, nonostante il perio-do sia potenzialmente propizio per l’avvento di idee rivoluzionarie, esse sono poste nell’im-possibilità di attecchire proprio dal fatto che il potere vigente ha creato i presupposti perché esse non possano attecchire in nes-sun luogo. Non esiste più connessione vera tra comunità e uomo, tra diverse categorie sociali o culturali: siamo so-lamente di fronte a tanti recinti, divisi tra loro per settori e circondati da muri di gomma impermeabili.Nonostante la comunicazione e la diffusione d’informa-zioni siano ormai invasive, esse risultano pilotate abil-mente dall’alto, come da una sapiente regia che nulla lascia al caso.Non è paranoia la nostra, e non coltiviamo certo le specu-lazioni sul “grande fratello”. Tuttavia ci riesce impossibile pensare che il sistema non abbia la capacità di operare scientificamente una sorta di apartheid individualistica, finalizzata al controllo della massa in ogni suo livello. Pro-prio le tecnologie di comunicazione, diffuse nel quotidia-no delle singole persone, rappresentano lo strumento

principe del controllo diffuso e capillare; in quanto ormai indispensabili per un gran numero di attività. Non rite-niamo poi di nessuna utilità quelle manifestazioni di re-sistenza e di reazione al sistema vigente che non abbiano come fine l’abbattimento dei suoi princìpi universalistici e progressisti. O che vogliano utilizzare certi strumenti per innescare un processo rivoluzionario.Non esisterà mai una “rivoluzione”, nel senso genuino del termine, che ponga tra i suoi obbiettivi la preservazione di aspetti dell’ideale fondativo del sistema contro cui si è rivolta. Questo è il problema principale: attualmente non esiste una sola alternativa al regime imperante, che ponga

in essere l’abbattimento di ogni suo pilastro ide-ologico. Per questo mo-tivo, pur nell’abbondan-za di premesse storiche, non vediamo fin qui né in Italia, né in gran par-te dell’Occidente euro-peo, un solo esempio di reazione significativa al sistema.

Detto questo, che in sintesi ha rappresen-tato il corpo principale delle nostre riflessioni in quest’ultimo anno, abbiamo comunque tratto delle conclusioni non soltanto negative, ma decisamente in con-trotendenza rispetto a quello che potrebbe sembrare il nostro ap-proccio critico, e anche

velatamente pessimista.

Per far comprendere il nostro pensiero, utilizzeremo ini-zialmente una metafora già nota a chi ci legge; quella del-la rana bollita.

La nostra società occidentale è da decenni immersa come una rana in una pentola che s’è fatta via via sempre più calda. Una condizione subdola, che se da una parte ha fornito i presupposti per il benessere diffuso negli anni d’oro tra i due secoli, dall’altro sta mostrando il suo ri-svolto pericoloso. Il sistema ha compreso da tempo che il graduale aumento della temperatura, che sta facendo venir meno gli aspetti positivi di questo “bagno”, non tro-va contrasti diffusi in chi c’è immerso, in quanto la società mostra palesemente riflessi intorpiditi, e sovente teme

Alla finestra.

Cerchiamo di essere uomini e non rane da bollire

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addirittura che il cam-biamento possa signifi-care la perdita di quelle prerogative che hanno reso unica nel suo ge-nere (in senso negativo, ovviamente) la civiltà del consumismo. I po-poli occidentali sen-tono ormai il pericolo imminente, ma sperano ancora che esso possa non presentarsi a chie-dere il conto. Il paradosso di questa metafora sta proprio nell’avere tutti gli ele-menti ben visibili e ben percepibili, ma dove il sistema al potere ha saputo abil-mente annichilire la rabbia che normalmente sarebbe sfociata in una reazione, con la paura dell’ignoto che atta-naglia la nostra società borghese.Questo dato di fatto ineccepibile ci ha però fatto molto riflettere, in quanto restiamo convinti che nulla sia già scritto, e che la storia dell’Europa occidentale non possa essere soltanto ridotta a una mattanza di rane al vapore.

Siamo uomini, siamo esseri senzienti, e, pur nei limiti o nelle condizioni in cui s’è trovata la civiltà di cui siamo an-cora gli eredi, non riteniamo che possano esistere condi-zionamenti talmente efficaci da poter a lungo impedire un capovolgimento delle nostre sorti.Siamo uomini, non siamo rane.Il sistema vigente potrà anche ambire a estirpare nell’Oc-cidente europeo ogni capacità di resistenza al declino che ci ha colpiti, e di reazione a coloro che hanno spinto perché ciò avvenisse. Tuttavia crediamo fermamente che l’europeo abbia ancora in sé i nervi capaci di ribellarsi a un destino che non deve essere accettato come inelut-tabile.Molti dei nostri (apparentemente) simili potranno anche aver abbandonato ogni istinto di conservazione della propria stirpe, e della Kultur da essa scaturita: essi sono già condannati al destino della rana bollita; ma esisterà sempre, ne siamo certi, chi anche all’ultimo momento avrà la forza di ridestarsi dal torpore, seguendo chi, forse, in ragione di un fato imperscrutabile ha sempre sentito come perverso e pervertito questo sistema. All’apparen-za così potente e incontestabile, ma in realtà già sulla via del fallimento, in quanto, come sosterremo sempre con forza e ragione, esso non è frutto della forza divina, bensì poggiante su gambe umane, molto umane, che potran-no essere fermate.

Serve solamente un errore, uno soltanto, e tutto quello che oggi sembra impossibile o utopistico potrà con-cretizzarsi, diventare reale, muovere i pro-pri passi, magari in-certi in principio, ma che saranno solamen-te l’inizio di un nuovo cammino. Magari per pochi, ma quelli ba-steranno.La storia non è fatta sempre di grandi nu-meri.La storia è anche so-

stanza e valore.

Cerchiamo di essere uomini, e non semplicemente rane da bollire.

Il futuro si decide in mensa.

Editoriale

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Difesa della Tradizione

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Difesa della Tradizione

Difesa della Tradizione

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Ibis: saggezza e purezza

Monica Mainardi

La famiglia degli ibis comprende un numero abbastanza ampio di varietà. La specie più nota è certamente l’ibis sa-cro (Threskiornis aethiopicus), così denominato a motivo del culto religioso di cui era fatto oggetto presso gli anti-chi Egizi: in Egitto, dove questa specie si è praticamente estinta, l’ibis sacro era simbolo di Thoth, il dio della sag-gezza e della scrittura (l’ibis è raffigurato in molte pitture murali e geroglifici, e se ne trovano numerosi esemplari mummificati nei luoghi di sepoltura; in un solo gruppo di tombe furono trovati oltre un milione e mezzo di que-sti uccelli). Ampiamente distribuito nell’Africa orientale e sudorientale, in Madagascar e in Arabia meridionale, l’ibis sacro è lungo 70 cm circa, ha zampe sviluppate ed è caratterizzato dal lungo becco a lieve convessità su-periore, nonché dal collo e dal capo neri, privi di penne, contrastanti con il piumaggio completamente candido.

La simbolica degli antichi ten-ne conto di questi due colori dell’ibis sacro – il bianco e il nero – così come pure di alcuni suoi atteggiamenti famigliari (Fig. 1). Gli egizi portavano grande rispetto a questo animale, basti pensare che i sacerdoti utilizza-vano per i loro bagni solo acqua in cui si fosse abbeverato un ibis sacro. Questo gesto ha all’origi-ne il fatto che l’ibis si ciba pre-valentemente di serpenti, rettili o carogne (e ciò lo rendeva un animale utile e anche un essere purificatore, in quanto ripuliva l’ambiente non solo dalle caro-gne ma anche dai serpenti e dai rettili, da sempre simboli nega-tivi); ma quando ha necessità di bere sceglie solo l’acqua più lim-pida (e questo lo rendeva anche

assolutamente puro). La sua alimentazione particolare ha portato inoltre a considerare quest’animale anche qua-le simbolo dell’uomo che si sbarazza della sua parte più bassa e infima, materiale: sottolinea il passaggio dalla na-tura materiale a quella spirituale.Simbolo della Saggezza, del Discernimento e della Purez-za, le credenziali dell’ibis sacro come simbolo cui tribu-

tare gli onori divini erano: (a) le sue ali nere, che hanno attinenza con l’oscurità primordiale, il caos; (b) la forma triangolare di esse, poiché il triangolo è la prima forma geometrica e il simbolo del mistero trinitario. Ancor oggi alcune tribù Copte che vivono sulle rive del Nilo consi-derano l’ibis un uccello sacro. Con il cigno, l’oca, il cocco-drillo, il loto, esso è consacrato all’Unità androgina, al di sopra della quale era il Celato di Kneph. Essi, infatti, sono il simbolo dell’Aria e dell’Acqua. L’ibis sacro possedeva poi proprietà magiche. Khonsu, il terzo elemento della triade tebana, veniva rappresenta-to con la fronte incoronata da una testa di ibis, decorata dal disco lunare e da un diadema. Durante la cerimonia d’iniziazione, uno degli ierofanti portava un cappuccio a forma di ibis, che stava a simboleggiare Thoth, quale dio della Sapienza e dell’Insegnamento Segreto. Un particolare curioso di quest’uccello è che, quando na-sconde il collo e la testa, egli assume una forma che ras-somiglia a quella del cuore umano. Inoltre il suo passo è lungo esattamente un cubito (la lunghezza utilizzata per costruire i templi egizi).Simile all’ibis sacro, troviamo l’ibis bianco (Threskiornis melanocephalus), che è diffuso in India. L’ibis eremita, o ibis calvo, (Geronticus eremita) vive invece in zone montagnose dell’Africa settentrionale e dell’Asia Minore, e occasionalmente in Spagna. Un tempo era am-piamente diffuso anche in alcune zone dell’Europa, tra cui l’Italia nordorientale; ma si è però estinto nel sec. XVI in Baviera e nel sec. XIX in Turchia. Esso si distingue per il piumaggio nero a riflessi verdi, contrastante con il rosso vivo della cute nuda del capo e con il bianco del collo. An-che l’ibis eremita è stato considerato un uccello sacro, o comunque tenuto in grande considerazione in numerose culture. Nell’Antico Egitto, era adorato, al pari dell’ibis sa-cro, come reincarnazione di Thoth, lo scriba degli dèi; e la stessa parola Akh – termine che esprimeva la potenza e la forza del dio attraverso il suo aspetto luminoso e trascen-dente – veniva rappresentata nei geroglifici con un ibis eremita stilizzato, probabilmente in virtù dei riflessi me-tallici del piumaggio di questo uccello. Un collegamento, questo con l’Akh, che in qualche modo gli fa assumere la veste di simbolo della forza interiore che porta l’uomo a percorrere il suo cammino iniziatico che lo induce a la-vorare su se stesso e sul mondo che lo circonda fino ad arrivare all’illuminazione, quindi al tornare a essere parte

Fig. 1 – L’ibis sacro degli antichi Egizi (da un’incisio-ne fornita da Jules Trousset sul Nouveau Dictionnai-re encyclopédique, Vol. III, pag. 332).

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Ibis: saggezza e purezza

della divinità. Probabilmente erano ibis eremiti (o forse anche ibis sacri) pure gli uccelli del lago Stinfalo di cui parla Erodoto: mu-niti sulle ali di piume metalliche, che potevano lanciare come dardi verso le proprie vittime, essi furono protago-nisti di una delle dodici fatiche di Eracle, che liberò da essi il lago Stinfalo. Nell’area della città di Bireçik sussiste invece la tradizione che vuole che l’ibis eremita sia stato uno dei primi uccelli che Noè lasciò scendere dall’Arca e pertanto viene consi-derato un simbolo di fertilità, anche alla luce del fatto che il ritorno di questi uccelli dalle proprie migrazioni coin-cide con l’arrivo della bella stagione e quindi con la ma-turazione dei frutti della terra. L’ibis eremita viene inoltre raffigurato sui francobolli di numerosi Paesi: Austria, Ma-rocco, Algeria, Sudan, Siria, Turchia, Yemen (luoghi dove l’animale ha vissuto o vive tuttora, oppure che frequenta durante le migrazioni), isola di Jersey (dove è presente una piccola popolazione di questi uccelli).Tornando alle varie specie di ibis, troviamo poi l’ibis ha-deda (Bostrichia hagedash), dal piumaggio bruno e dal becco scuro, con ramo superiore rossastro, che è comu-nissimo in tutta l’Africa a sud del Sahara. L’ibis rosso (Gua-ra guara=Eudocimus ruber), che abita le zone acquitrino-se dell’America meridionale e che si differenzia per il bel piumaggio di colore rosso scarlatto. Altre specie america-ne sono: l’ibis bianco (Eudocimus albus), con piumaggio interamente bianco e faccia, becco e zampe rosse; e l’ibis faccia bianca (Plegadis chihi), molto simile al mignattaio. Come animale totemico, l’ibis insegna la socievolezza, la comunicazione e a lavorare in gruppo. Stimola la saggez-za e mostra come trovare la conoscenza. Porta illumina-zione, ispirazione, intuizione, comprensione e chiarimen-to. La medicina dell’ibis insegna la pazienza e il suo potere archetipico trasmette elementi protettivi. È annunciatore di nuova ricchezza e di fertilità, favorisce l’abilità nel lavo-rare con incantesimi. E in alchimia quest’uccello è il mes-saggero delle fasi lunari: negli scritti alchemici egli venne dipinto come una sorta di conciliatore dopo le avvenute trasmutazioni.

L’ibis nell’Antico Egitto

L’ibis ha avuto una parte piuttosto piccola nella simbo-lica medievale dell’Occidente. E con un significato deci-samente non positivo. In compenso, in Medio Oriente ha rappresentato uno dei più nobili emblemi religiosi dell’Antichità. A promuoverlo al ruolo glorioso che ha ricoperto nell’em-blematica dei popoli antichi furono i sacerdoti dell’Anti-co Egitto, al pari di quanto accadde con la fenice. Nella teologia dell’Antico Egitto, un dio degli dèi – Amon-Ra-

Phta – regna sull’universo, e il suo volto è il sole. Gli egizi chiamavano questo dio Amon, quando lo vedevano nei panni del dominatore e del padrone sovrano del mon-do; lo chiamavano Ra, quando ne volevano celebrare la gloria; e lo chiamavano Phta, nel momento in cui lo consideravano padre degli altri dèi, degli uomini e di tutti gli altri esseri viventi. Amon-Ra-Phta aveva creato tutto attraverso il suo Verbo, ma nell’opera di questo Verbo divino si distinguevano due parti: quella del pensiero creatore, che era il cuore divino, sede del pen-siero e dell’intelligenza eterne; e quella dello strumento di creazione, che era la lingua divi-na. Il cuore divino era incarna-to nella figura di Horus, il dio dalla testa di falco. Mentre la lingua divina, che realizzava attraverso la parola i concetti divini, era rappresentata da Thoth, il dio dalla testa di ibis. Il falco divenne così il geroglifico rappresentati-vo di Horus, mentre l’ibis lo fu di Thoth; e l’insegna sacra di Thoth venne sormontata da un ibis (Fig. 2).Come divinità, Thoth comparve già nel periodo pre-di-nastico, anche se il suo massimo culto verrà sviluppato a Ermopoli (la “Città degli Otto”), capitale del 15° distretto dell’Alto Egitto. Nella teogonia di Ermopoli, Thoth assun-se un ruolo di grande rilevanza ed era considerato una delle divinità creatrici del mondo: quale dio demiurgo fu lui che depose l’uovo dal quale nacquero poi le altre di-vinità. Dio della scrittura, della scienza, della magia, della conoscenza, della matematica, della geometria, fu lui che inventò la divisione dell’anno in 365 giorni e giocò ruoli molto importanti nella mitologia egizia: era, infatti, l’ar-bitro delle contese fra bene e male (venne anche posto a presiedere il rito della pesatura del cuore, che doveva sta-bilire se il morto poteva o meno avere accesso all’aldilà), inoltre aiutò Iside a riportare in vita Osiride, insegnandole

le giuste parole magiche.Come divinità lunare (egli por-tava sempre sul capo una luna crescente, e probabilmente era un misto di almeno due divi-nità lunari precedenti – Fig. 3) era associato con il “sole morto”, in quanto la luna com-pare raramente nella teologia egizia. Come i cicli della luna regolavano molti dei rituali religiosi ed eventi civili della società egiziana, così Thoth fu considerato anche il primo re-golatore di tali attività. In que-

Fig. 2 – L’insegna del dio Thoth-Ibis (da Alexandre Moret, Mystères égyptiens, A. Co-lin 1913).

Fig. 3 – Thoth con la testa di ibis incoronato con il disco e la mezzaluna lunare. Tempio

di Ramsete II ad Antinoe.

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sto contesto, vi era un legame simbolico anche con l’ibis sacro, in quanto si credeva che questo uccello impiegas-se tanti giorni a covare le uova quanti la luna ne impiega per compiere ogni ciclo delle sue fasi. Poiché inoltre la luna scompare per poi ricomparire periodicamente, l’ibis sacro fu considerato anche il simbolo della rinascita e di una nuova vita dopo la morte.Il dio Thoth era, come abbiamo visto in precedenza, an-che il Verbo, e si narrava che fosse stato lui a inventare la scrittura. Sua compagna era la dea Seshat, la dea della Sa-pienza, che con lui divideva il compito di scrivere i nomi e le imprese dei defunti, nonché i nomi dei sovrani, sulle foglie dell’albero ished (secondo altre tradizioni, sposa di Thoth fu anche la dea-rana Heket, la dea della fertilità e della rigenerazione, che proteggeva le nascite ma anche la rinascita del sole, vegliandolo durante il suo viaggio notturno nell’Oltretomba). In questo senso l’ibis assunse il ruolo di mediatore celeste, con l’incarico di fornire ai sacerdoti l’interpretazione delle cose divine, ai sovrani la saggezza e la moderazione e ai comuni mortali le ispira-zioni positive. In pratica l’ibis-Thoth assunse il significato di Parola-creatrice.

L’ibis, distruttore di serpenti

Al di là di ogni rappresentazione simbolica, l’ibis faceva parte di quella schiera di animali che gli Egizi tenevano in grande considerazione in funzione dei servigi che rende-vano. Come riferiva lo stesso Plutarco: “L’ibis è onorato in Egitto perché distrugge i serpenti il cui morso è mortale” (1).Pomponio Mela racconta che ogni anno dei piccoli e vele-nosissimi serpenti si dirigevano verso l’Egitto, ma, all’en-trata nel Paese, venivano uccisi e divorati dagli ibis (2).E allo stesso modo parlano di questi eventi Erodoto, Dio-doro Siculo, Marcellino e altri autori antichi. Eliano scrive, nel suo Della natura degli animali: “L’ibis è per natura un uccello molto aggressivo, oltremodo vorace, che mangia schifosissimi cibi, se è vero, come dicono, che si nutre di serpenti e di scorpioni. Ma quelli li digerisce senza diffi-coltà e questi li può defecare molto agevolmente. È molto raro vedere un ibis malato. Questo uccello ficca il becco dappertutto, non bada al sudiciume ma vi si aggira so-pra, andando in cerca persino là di qualcosa da mangiare. Quando però torna nella sua dimora prima si lava e si pu-lisce accuratamente”. E Plinio il Vecchio aggiunge che, du-rante il periodo in cui i serpenti uscivano dalla fanghiglia del Nilo, gli Egizi invocavano religiosamente gli ibis (3) e giungevano al punto di addomesticare questi uccelli (4); e riporta anche il fatto che più volte i sacerdoti fermarono epidemie di peste immolando agli dèi un ibis sacro(5).

Tale considerazione si è mantenuta fino ai giorni nostri. Tanto che l’ibis bianco ancora oggi viene considerato, tra i contadini del Medio Oriente e del Nord Africa, un uccel-lo benefico e benedetto, la cui presenza protegge e fa-

vorisce l’agricoltura. E la sua uccisione viene considerata degna di disappro-vazione.Lo storico ebreo Flavio Giuseppe narra che Mosè, recandosi in guerra contro l’Etiopia, fece trasportare dalle sue ar-mate un gran numero di ibis, al fine di opporli ai moltissimi serpenti che infe-stavano quelle zone. E una scultura oggi conservata ai Musei Vaticani glorifica questo ruolo dell’ibis quale distruttore di serpenti, mostrando l’uccello con la testa, rivolta verso il cielo, che tiene nel becco il suo nemico sconfitto e morto (Fig. 4). E l’ibis è anche nemico dei rettili. Una scultura egizia mostra un ibis che di-vora una lucertola e, secondo quanto

narra Orapollo, era diffusa la credenza che si riuscisse a immobilizzare un coccodrillo solo toccandolo con la piu-ma di un ibis (6). Oltre al fatto che quest’uccello faceva strage delle uova di coccodrillo, salvando così il Paese dal rischio che il Nilo venisse eccessivamente infestato da questi rettili. Anche per questi motivi nelle case dell’An-tico Egitto era uso comune porre l’immagine venerata di un ibis (Fig. 5).

L’ibis, Thoth ed Ermete Trismegisto

Un altro aspetto delle concezioni religiose dell’Antico Egitto metteva l’ibis sacro in relazione con Osiride, e fa-ceva di lui uno dei simboli dell’idea di resurrezione di cui anche la luna era emblema, in virtù del fatto che cresce, risplende, decresce e sparisce, per poi riapparire ancora. Analogamente, l’uomo cresce durante la sua giovinezza,

Fig. 5 – Ibis amuleto in pasta di ceramica (Museo del Louvre, Parigi).

Fig. 4 – Scultura an-tica rappresentante un ibis (Musei Vati-cani).

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Ibis: saggezza e purezza

risplende di vigore nell’età adulta, decresce nella vecchia-ia e infine muore, per rinascere in seguito a nuova vita. Ma al defunto resuscitato necessita un ruolo definitivo. Ecco così che l’ibis sacro – al pari dell’aquila, del grifone e della pantera in altri Paesi – interviene per aiutare l’anima a guadagnare il soggiorno permanente della Divinità. È, infatti, sull’ala di Thoth-Ibis che gli dèi venuti sulla terra e le anime dei giusti salgono verso il cielo. Egli era il veicolo sacro e sicuro sulla strada della felicità eterna.Presso i Greci questo ruolo psicopompo fu caratteristico del dio Hermes, che gli alessandrini ellenizzati hanno av-vicinato all’egizio Thoth, al punto da identificare l’uno con l’altro. Hermes è il messaggero di Zeus, Thoth è lo scriba di Osiride; Ermete è il dio della parola e Thot è il dio della parola e della letteratura; entrambi accompagnano le ani-me dei defunti nell’oltretomba. Sia Hermes sia Thoth sono inoltre, nelle loro rispettive culture, gli dèi della scrittura e della magia. E a entrambi è collegato Ermete Trismegi-sto (dal greco antico Ἑρμῆς ὁ Τρισμέγιστος - l’aggettivo “Trismegisto” è riferito alla triplice natura di Ermete: Dio, Re e Filosofo), il personaggio leggendario dell’età elleni-stica – esperto in magia, astronomia, astrologia, alchimia e filosofia –, che fu venerato come maestro di sapienza; e che fu ritenuto l’autore del Corpus hermeticum, una colle-zione di scritti (tra i quali il cosiddetto Libro di Thoth e la Tavola Smeraldina) che rappresentò poi la fonte d’ispira-zione del pensiero ermetico e neoplatonico rinascimenta-le. Le opere attribuite a Ermete Trismegisto furono molto popolari anche tra gli alchimisti, che ritenevano il loro au-tore un “sapiente” realmente esistito e vissuto nell’Antico Egitto. Secondo la modalità dell’evemerismo, Trismegisto sarebbe stato il figlio del dio Hermes, mentre nella caba-la, che fu ereditata dal Rinascimento, si immaginava che fosse un personaggio contemporaneo di Mosè e che co-municasse ai suoi adepti una saggezza parallela a quella del patriarca biblico. Per questo l’etimologia occultista ha connesso i due personaggi creando il termine Thothmo-ses (Thoth + Mosè). Ermete Trismegisto avrebbe lasciato, secondo Clemente di Alessandria, circa una quarantina di libri; Giamblico attribuiva a Ermete decine di miglia-ia di opere, di grande antichità e immensa importanza, anteriori persino a Pitagora e Platone, che avrebbero at-tinto da questi testi. Nei dialoghi Timeo e Crizia lo stesso Platone riferisce che nel tempio di Neith a Sais vi fossero stanze segrete contenenti registrazioni storiche possedu-te per novemila anni. E secondo Cirillo di Alessandria e Marsilio Ficino, Platone avrebbe conosciuto in Egitto una sapienza antica – quella di Ermete Trismegisto – risalente all’epoca di Mosè. A questa figura leggendaria sembrano essere attribuibili con una certa sicurezza: Il cratere della sapienza, I Misteri Eleusini e la già citata Tavola Smeraldina, chiamata così perché il testo era inciso su una lastra di smeraldo. La tradizione vuole che Ermete avesse inciso

le parole della Tavola su una lastra verde di smeraldo con la punta di un diamante e che Sara, moglie di Abramo, l’avesse rinvenuta nella sua tomba (altre versioni indica-no come scopritore Apollonio di Tiana oppure Alessan-dro il Grande). Il testo fu tradotto dall’arabo al latino nel 1250, e apparve in versione stampata per la prima volta nel De Alchemia di Johannes Patricius (1541). Questo il te-sto della Tavola Smeraldina:

“È vero senza errore, è certo e verissimo. “Ciò che è in basso è come ciò che è in alto, e ciò che è in alto è come ciò che è in basso, per compiere i miracoli della cosa-una (di una cosa sola).“Come tutte le cose sono sempre state e venute dall’Uno, così tutte le cose sono nate per adattamento di questa cosa unica.“Il Sole ne è il Padre, la Luna è la Madre, il Vento l’ha por-tato nel suo ventre, la Terra è la sua nutrice. Il Padre di tutto, il Telesma di tutto il Mondo è qui; la sua potenza è illimitata se viene convertita in Terra.“Tu separerai la Terra dal Fuoco, il sottile dallo spesso, dol-cemente, con grande industria. Ei rimonta dalla Terra al Cielo, subito ridiscende in Terra, e raccoglie la forza delle cose superiori e inferiori.“Tu avrai con questo mezzo tutta la Gloria del Mondo, ep-perciò ogni oscurità andrà lungi da te. È la forza forte di ogni forza, perché vincerà ogni cosa sottile e penetrerà ogni cosa solida.“È in questo modo che il Mondo fu creato.“Da questa sorgente usciranno innumerevoli adattamen-ti, il cui mezzo si trova qui indicato.“È per questo motivo che io venni chiamato Ermete Tri-smegisto, perché possiedo le tre parti della filosofia del Mondo.“Ciò che ho detto dell’operazione del Sole è perfetto e completo”.

La mummificazione dell’ibis

Quanto finora esposto basta a giustificare i grandi onori che l’Antico Egitto tributava agli ibis, che venivano mum-mificati dopo la loro morte, al pari di quanto avveniva con i falconi di Horus.Erodoto narra che nessuno poteva uccidere un Ibis, in quanto l’animale era l’incarnazione del dio Thoth, ma che al momento della loro morte questi uccelli venissero sep-pelliti, soprattutto a Ermopoli (7). Ad Abydos essi erano inumati nel tempio di Thoth; a Menfi venivano invece rin-chiusi, sotto forma di mummie, dentro vasi conici. Questa stessa pratica era seguita nei pozzi funerari di Saqqara, noti anche come i “Pozzi degli uccelli”; e tutto ciò per un

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ben determinato motivo, visto che esisteva un legame simbolico tra l’ibis e il vaso geroglifico: entrambi erano

infatti emblema del cuore umano. Nelle scritture sacre degli Egi-zi, il cuore del dio Un e quello dell’uomo erano raffigurati con un vaso (Figg. 6 e 7); e anche l’ibis venne assunto come emblema del cuore. Dice Eliano: “Quando l’ibis pone la testa

e il collo sotto l’ala, assume la sagoma di un cuore, e gli Egizi d’altri tempi per raffigurare in geroglifico l’Egitto usavano la figura di un cuore” (8). Nell’arte si trovano alcune raf-figurazioni di ibis in questo at-teggiamento simbolico, anche se risalgono a un periodo mol-to tardo e non in Egitto: come il gioiello (Fig. 8) del XIII secolo, appartenuto al conte francese Raoul de Rochebrune, che rap-presenta un ibis bianco con la testa reclinata in avanti, in una posizione che gli fa assumere la forma appena descritta da Eliano.Plutarco fece un ulteriore ac-costamento: nel momento in cui si schiude l’uovo, il piccolo ibis ha esattamente il peso che avrebbe il cuore di un bambino appena nato (9). Forse è per questo motivo che a Ermopoli sono stati riportati alla luce anche ibis mummificati contenuti, invece che in vasi, in contenitori a forma di piccoli corpi umani.A questo proposito è importante ricordare che presso gli antichi Egizi il cuore era la sede, la dimora e la fonte dell’Intelligenza e del Pensiero, e quindi della Conoscenza e della Saggezza. Con l’effige di quest’animale venivano così realizzati anche amuleti (soprattutto per auspicare la saggezza); e immagini di ibis venivano poste anche nelle tombe e nei templi.Il fatto che l’ibis fosse sacro, in quanto simbolo di Thoth, non impedì neppure, soprattutto in età tolemaica, che questi animali venissero allevati e uccisi come offerta vo-tiva o per metterli nelle tombe per accompagnare i mor-

ti. Di recente si è infine scoperta una curiosa usanza: quella di nutrire “post mortem” gli ibis sacri. Secondo gli autori di questa ricerca, pubblicata sul Journal of Archaeologi-cal Science, la TAC eseguita sulla mummia di un uccello di 2.500 anni fa mostra che il corpo dopo la morte fu riem-pito di cereali, affinché fosse in grado di affrontare la sua missione ultraterrena di messaggero presso gli dèi. La ri-costruzione tridimensionale basata sulla TAC di un altro esemplare di ibis adulto mummificato trovato ad Abydos mostra che il “pasto” post mortem dell’animale – a base di lumache – venne inserito nel corpo attraverso un’inci-sione. In altre mummie sono stati invece ritrovati cereali e piccoli vertebrati, come pesci.Anche se oggi questi uccelli sono ormai estinti in Egitto, nell’antichità venivano mummificati a milioni. Nel sito di Tuna el-Gebel sono state trovate oltre 4 milioni di mum-mie di ibis. Si trattava di un’industria fiorente nell’Antico Egitto: venivano prodotte come offerte votive e i fedeli pagavano cifre anche molto elevate per procurarsele.

L’ibis nella prima simbolica cristiana

La simbolica egizia di Thoth, che identificava questo dio con il Logos, suscitò grande interes-se nei Greci alessandrini; anche nel momento in cui si formò la grande scuola cristiana di Ales-sandria, il Didascaleion, essa non poté disconoscere gli ele-menti che avvicinavano Thoth-Ibis al Logos ellenico e al Verbo divino fatto uomo (Fig. 9).La caratteristica di simbolo del-la resurrezione attribuita all’ibis, il suo ruolo di vincitore sui ser-

penti, di “purificatore del mondo”, di con-duttore delle anime verso il cielo lo avvi-cinarono alla figura del Salvatore, al pari di altri animali quali il leone, la pantera, l’aquila, la fenice e molti altri. Le rappresentazioni dell’ibis nell’arte oc-cidentale dei primi periodi dell’arte cri-stiana non sono tuttavia molto numero-se. Lo si incontra però in alcuni casi come, per esempio, su un amuleto gnostico (ri-prodotto nella Fig. 10), su un avorio scol-pito della Lombardia e su una lampada

Fig. 9 – Il Thoth-Ibis d’Egit-to, Verbo divino (statuet-ta conservata al Museo del Louvre, Parigi).

Fig. 6 e 7 – I vasi geroglifici egiziani, emble-mi del cuore.

Fig. 10 – L’ibis su un amuleto gno-

stico.

Fig. 8 – Gioiello medievale che mostra l’ibis araldico posizio-

nato a forma di cuore.

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del IV secolo, molto probabil-mente cristiana, rinvenuta a Poitiers nel 1914 (Fig. 11). In varie opere artistiche l’ibis so-stituisce la fenice quale sim-bolo di resurrezione. Una di queste opere di “sostituzione” dovrebbe essere quella che si trova nel grande mosaico della Basilica romana dei san-ti Cosma e Damiano, risalente al pontificato di Felice VI, tra il 526 e il 530 d.C. Il mosaico mostra il Salvatore tra due gruppi di santi; egli è solleva-to sulle nuvole e, accanto alla

sua testa, un grande tram-poliere bianco avanza ver-so di lui in volo: l’uccello è coronato con la stella mo-nogrammatica del nome sacro “Xristsos”, con la let-tera X che si trova sulla cro-ce (Fig. 12). Quest’uccello, inizialmente preso per una fenice, sembra essere piut-tosto un ibis bianco.

L’ibis simbolo del cattivo cristiano nel Medioevo

Ma, dopo un primo periodo di benevolenza, la cristianità non fu orientata positivamente verso l’ibis. E finì per ve-derlo come un simbolo negativo e malvagio: l’emblema del cattivo cristiano. Nel Physiologus si legge infatti: “Se-condo la legge l’ibis è impuro. Non sa nuotare ma ha la propria dimora lungo le sponde dei fiumi e degli stagni, e non può immergersi negli abissi dove nuotano i pesci puri, ma soltanto dove vivono i pesciolini impuri”. E i vari Bestiari occidentali tralasciano gli aspetti positivi del pas-sato simbolico di quest’uccello, vedendo in esso solo l’em-blema di vizi degradanti. Probabilmente questa demonizzazione gli de-rivò – oltre che dalle sue abitudini alimentari non del tutto salutari (tanto che gli autori dei Bestia-ri lo posero a paragone del cristiano che soddi-sfa con gola smisurata e impudicizia i suoi vili ap-

petiti) (Fig. 13) – anche dal fatto di essere stato tanto ve-nerato nella religione pagana, in primis nell’Antico Egitto. E, tra i vari fattori di questa interpretazione simbolica di segno negativo, anche il fatto che il Deuteronomio clas-sifica l’ibis, l’airone, la cicogna e il pellicano tra gli uccelli impuri di cui gli Ebrei non devono mangiare le carni (10). Tenuto per questi motivi in disparte dalla simbologia me-dievale, l’ibis, che nel frattempo si era quasi un po’ ovun-que estinto, viene in un certo senso “riscoperto” nel 1555, allorché Conrad Gessner ne schizza un’immagine sul suo Historia animalium, definendolo però Corvo Sylvatico (Fig. 14).

La riscoperta dell’ibis

Ma è nel Settecento che l’ibis torna in auge, grazie all’“Egit-tomania” che dilaga in quel tempo nella cultura europea, assieme alla prima diffusione delle Logge Massoniche. E che verrà ulteriormente corroborata, alla fine di quel se-colo, dalla spedizione di Napoleone in Egitto. Nel 1721, Jean Terrasson pubblicò un romanzo pseudo-iniziatico, Séthos, falsamente tradotto dal greco, in cui le antiche iniziazioni egiziane erano narrate in modo fanta-sioso, ma che conobbe un autentico successo e popola-

Fig. 11 – Lampada gallo-roma-na (proveniente da Poitiers;

Collezione Fr. Eygun).

Fig. 12 – La stella del mosaico nella Basilica dei santi Cosma e

Damiano (a Roma).

Fig. 13 – L’ibis su una miniatura me-dievale (Biblioteca dell’Arsenale, Pa-

rigi).

Fig. 14 – L’ibis sull’Historia animalium di Conrad Gessner (che lo definì però Corvo Sylvatico).

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rizzò la nozione dei “misteri egizi”. Nel 1728, il composi-tore Jean-Philippe Rameau intitolò uno dei suoi balletti La nascita di Osiride. Nel 1770, i tedeschi Johann Wilhelm Bernhard Hymmen e Karl Friedrich Köppen pubblicaro-no un’imitazione del testo di Terrasson, altrettanto fan-tastica, il Crata Repoa, fondamentale per lo studio della nascita e della simbologia della massoneria egizia. Nel 1777, Antoine Court de Gébelin, erudito e massone, par-lò, nei suoi libri, dell’Egitto e dei suoi misteri. Ignaz Von Borg, il Maestro Venerabile della Loggia di Mozart, nel 1789 fondò il Journal für Freimauer e sul primo numero scrisse un lungo articolo sui misteri egizi, che probabil-mente influenzò il librettista del Flauto Magico mozartia-no, il confratello Emanuel Shikaneder. Nel 1795, il volume L’ Origine de tous les cultes, ou de la Religion universelle di Charles-François Dupuis, formalizzò e sistematizzò una teoria che ebbe grande diffusione, quella della derivazio-ne del rituale massonico da quelli dei Misteri antichi. Infi-ne, nel 1784 a Parigi, avvenne la fondazione della Loggia Madre dell’Adattamento dell’Alta Magia Egizia, da parte del conte di Cagliostro, leggendaria figura di mago e di terapeuta itinerante.Dallo studio dei Misteri esoterici egizi si viene così a sco-prire che “ibis” era la parola d’ordine per accedere al Sesto grado (in totale erano sette) nell’antica società segreta egizia di Crata Repoa, che inizialmente era riservata ai re e ai sacerdoti. Il Sesto Grado rappresentava l’“Astronomo di fronte alla porta degli dèi”, e la parola “Ibis” significava “vigilanza”.E l’ibis lo ritroviamo legato anche a Wolfgang Amadeus Mozart e al suo Flauto magico. Chi si trovò seduto sulle poltrone del Teatro viennese Auf der Wieden la sera della “prima” dell’opera, il 30 settembre 1791, si sarà sofferma-to sicuramente sull’incisione che decorava il frontespizio del libretto (Fig. 15). Opera di Ignaz Alberti, editore del libretto dell’opera e fratello di loggia di Mozart nella “Zur gekrönten Hoffnung”, agli occhi del profano quell’inci-sione sarà sembrata una delle tante riproduzioni di uno scavo archeologico in Egitto, allora molto in voga. In re-altà l’intera opera è immersa in un mondo di simboli che traggono origine dai misteri dell’Egitto e, passando attra-verso gli elementi fondamentali della cosmogonia esote-rica, ci proiettano all’interno del rituale massonico. E quel frontespizio del libretto non faceva eccezione. Sulla sini-stra, una base di obelisco con simboli scolpiti; al centro, una serie di archi che conduce a una parete provvista di nicchie e a un portale immersi nella luce; dall’arco cen-trale pende una catena cui è appesa una stella a cinque punte e sulla base destra campeggia un grosso vaso in stile rococò alla cui base stanno due curiose figure ac-covacciate; in primo piano si vedono una cazzuola, un compasso, una clessidra e frammenti di rovine, nonché la testa di un uomo morto oppure svenuto. Vicino alla base

dell’obelisco è raffigurato un ibis che tiene nel becco un serpente. L’ibis che, in quanto divoratore di serpenti e ca-vallette, ha nella tradizione egiziana un importante ruolo come “liberatore” del Paese da questa piaga, in questo specifico contesto potrebbe alludere simbolicamente a una liberazione dalle pene dell’Inferno. Ma il serpente è anche il simbolo dell’ignoranza nei culti isiaci, e l’ibis che sconfigge l’ignoranza diventa così un “annuncio” dell’ar-rivo della sapienza, il cui archetipo è rappresentato, nelle filosofie esoteriche, dal dio Thoth-Ermete Trismegisto: la filosofia cosiddetta “ermetica” costituisce, infatti, il fonda-mento teorico dell’alchimia.E come richiamo a uno dei significati simbolici che aveva nell’Antico Egitto, nel Settecento l’ibis tornerà ad assume-re anche un significato funerario, venendo utilizzato sui monumenti funebri.

NOTE

(1) Plutarco, Iside e Osiride, Adelphi.(2) Pomponio Mela, De Chorographia, Edizioni di Storia e letteratura.(3) Plinio il Vecchio, Storia naturale, vol. X., Rizzoli.(4) Plinio il Vecchio, Storia naturale, vol. X, cap. 3, Rizzoli.(5) Plinio il Vecchio, Storia naturale, vol. X, cap. 4, Rizzoli.(6) Orapollo, I geroglifici, II, BUR.(7) Cicerone, Sulla natura degli dèi, Mondadori.(8) Erodoto, Le storie, Garzanti.(9) Eliano, La natura degli animali, BUR.(10) Plutarco, Questioni conviviali, IV, 5, 2, in Moralia, Loeb Classical Library.(11) Il Deuteronomio, XIV, 16, San Paolo Edizioni.

Fig. 15 – L’ibis sul frontespizio del libretto del Flauto magico di Mozart (l’incisione, del 1791, era di Ignaz Alberti).

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Ibis: saggezza e purezza

BIBLIOGRAFIA

Mario Tosi, Dizionario delle Divinità dell’Antico Egitto, Ananke.Robert Graves, I miti greci, Longanesi.Ermete Trismegisto, Corpus hermeticum, Rizzoli.

Hahajah, La tavola di smeraldo, in Ibis, rivista bimestrale di studi esoterici, n° 4-5-6 luglio/dicembre 1950.Bestiari Medievali, Einaudi.

L’opera originale di Veronica Piu in copertina.

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I Nibelungi

I NIBELUNGI (Rapsodia germanica)

Edizione Sonzogno Biblioteca Universale databile fra il 1889 e il 1910...

XCome Brunhilt fu ricevuta a Worms

Dall’altra parte del Reno, si vedeva il re, seguito da parec-chi drappelli di cavalieri che si avvicinavano alla riva.Le chinee destinate alle giovinette, che erano in buon nu-mero, venivano condotte per la briglia.Quelli che dovevano riceverle stavano pronti.Quando i guerrieri dell’Islanda e del Nibelungen, cioè gli uomini di Siegfrid, arrivarono sulle loro imbarcazioni, si diressero rapidamente – e le loro braccia erano infaticabi-li – verso il punto in cui si trovavano gli amici del re dall’al-tra parte del fiume.Sentite adesso come la regina Uota, la ricchissima, con-dusse la vergine fuor del castello e ne uscì anch’essa.Parecchi cavalieri e molte giovinette fecero conoscenza in quel giorno.Il margravio Gère conduceva per la briglia il cavallo di Kri-emhilt, ma soltanto fino alle porte del castello. Al di là, Siegfrid, l’uomo prode, la servì affettuosamente. Era una bella fanciulla. In seguito, ne fu ben ricompensato dalla giovinetta.Ortwin l’ardito cavalcava presso dama Uota. Un gran nu-mero di cavalieri e di vergini li seguivano. Giammai, biso-gna confessarlo, non s’erano vedute a simili ricevimenti tante donne riunite.Fino all’arrivo della barca, non pochi brillanti giuochi d’ar-mi – si farebbe male a dimenticarlo – furono compiuti da guerrieri famosi davanti alla bella Kriemhilt.Allora vennero tolte dalla sella parecchie donne ricca-mente vestite.Il re ed i suoi illustri ospiti avevano traversato il fiume. Ah! davanti alle dame quali forti lancie volarono in frantumi! Si udiva il fracasso di molti scudi violentemente urtati. Le loro punte, riccamente ornate, risuonavano da lontano sotto i colpi.Le donne stavano vicino alla riva. Gunther discese dal va-scello co’ suoi ospiti. Egli condusse da se stesso Brunhilt per la mano.Le magnifiche vesti e le splendide pietre preziose brilla-vano a gara.

Con mille graziosi complimenti, la principessa Kriemhilt s’avanzò per ricever dama Brunhilt e il suo seguito.Con le loro bianche mani, si videro gettar da parte le cioc-che dei loro capelli, quando si scambiarono un bacio. Se lo dettero con grande affetto.La vergine Kriemhilt parlò amichevolmente.- “Siate la benvenuta in questo Paese, per me, per mia ma-dre e per tutti coloro che ci sono amici fedeli.”E da una parte e dall’altra s’inchinarono.E le donne s’abbracciarono a più riprese. Giammai si è udito parlare d’una accoglienza tanto affettuosa quanto quella fatta alla fidanzata da dama Uota e da sua figlia. Parecchie volte esse baciarono le sue dolci labbra. Quando le donne di Brunhilt furono tutte discese sulla spiaggia, parecchi giovani guerrieri condussero per la mano molte vergini riccamente vestite. Quelle nobili fan-ciulle circondarono Brunhilt.Prima che tutti i saluti fossero finiti, passò una lunga ora. Durante questo tempo fu baciata più d’una rosea bocca. Le figlie del re stavano sempre una presso l’altra. E un gran numero d’eroi famosi si compiacevano a contemplarle.Essi le seguivano con lo sguardo, ben sapendo che non potevano veder nulla di più bello che quelle due donne; e lo si diceva senza esagerare, perché nella bellezza della loro persona nulla era simulato, nulla era ingannatore.Quelli che sapevano apprezzar le donne e le loro forme graziose lodavano la bellezza della fidanzata di Gunther.Ma i più saggi che le avevano meglio paragonate, diceva-no che Kriemhilt era preferibile a Brunhilt.Donne e vergini si avanzarono le une verso le altre.Quante bellezze magnificamente vestite! Molte bandie-re di seta e un gran numero di tende cuoprivano tutta la campagna davanti a Worms.I parenti del re si stringevano intorno a lui. Le due regine e tutte le dame furono condotte nei punti riparati dal sole. I guerrieri del Paese burgundo le accompagnavano.Tutti gli ospiti erano venuti a cavallo. Si cozzavano brillan-temente le lancie contro gli scudi, e il piano si cuoprì di polvere, come se tutto il Paese fosse stato in fiamme.I veri eroi si riconobbero presto.Le dame guardavano i giuochi dei cavalieri. Credo che Siegfrid passò e ripassò parecchie volte dinanzi ai padi-glioni, cavalcando con la spada in mano. Egli conduceva mille valorosi guerrieri dei Nibelungi.Secondo il consiglio del re Hageno di Troneja, s’avanzò e fece cessare amichevolmente il torneo, onde preservar dalla polvere quelle belle fanciulle. Tutti gli stranieri lo se-

trascrizione di Giacomo Tognacci e Sofia Gini

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guirono subito senza nessuna difficoltà.Il signor Gernot parlò così: - “Lasciate qui i vostri cavalli finché venga il fresco. Noi andremo ad accompagnar le belle dame fino alla reggia, onde quando il re vorrà salire a cavallo siate tutti pronti.”Subito cessarono i passi d’arme. Lasciarono il piano per ritirarsi sotto le tende, dove il tempo passò piacevolmen-te. I guerrieri stavano vicino alle dame da cui speravano ottenere i favori. Così passarono le ore fino al momento della partenza.Prima del tramonto del sole, l’aria incominciò a rinfrescar-si e non si volle tardar di più. Dame e cavalieri cavalcaro-no verso il castello. Gli occhi si posavano con piacere sulle attrattive delle belle donne.Mostrando il loro coraggio, i buoni guerrieri corsero alcu-ne lancie per le vesti, secondo l’uso del Paese, fino a che non giunsero alla reggia, dove il re mise piede a terra. Ivi le dame furono servite dai cavalieri come si conveniva ad eroi di tanto valore.Allora le regine si lasciarono. Dama Uota e sua figlia si ri-tirarono nei loro vasti appartamenti, accompagnate dal loro seguito. Da tutte le parti echeggiavano alte grida d’allegrezza.Prepararono dei sedili. Il re voleva recarsi al banchetto co’ suoi ospiti. Accanto a lui si vedeva la bella Brunhilt. Nel Paese del re, ella portava la corona. Oh! come era ricca-mente vestita!Parecchi seggi principeschi erano collocati intorno a buo-ne e larghe tavole, tutte coperte di vivande, secondo ciò che ci hanno narrato. Non mancava nulla di quanto si po-teva desiderare. Presso il re erano seduti parecchi convi-tati di gran lignaggio.Gli scudieri reali portavano l’acqua nelle coppe d’oro ros-so.Prima che il capo del Reno avesse preso l’acqua, il signor Siegfrid fece quanto aveva diritto di fare. Gli rammentò la fede datagli e la promessa fattagli prima che avessero veduto Brunhilt nella sua Patria, l’Islanda.Egli disse: - “Vi dovete ricordare di ciò che la vostra mano mi giurò: che se giammai dama Brunhilt veniva in questo Paese, mi dareste vostra sorella... Che sono divenuti i vostri giura-menti?... Io ho compiuto per voi in questo viaggio dure fatiche.”Il re rispose al suo ospite:- “Voi mi avete avvertito con ragione, e la mia mano non sarà spergiura. Vi ajuterò del mio meglio a riuscire in que-sto progetto d’unione.”E pregò amichevolmente Kriemhilt d’intervenire al ban-chetto. Essa entrò nella sala seguita da parecchie belle vergini, ma dall’alto di un gradino Giselher gridò:- “Fate tornar indietro coteste giovinette, perché bisogna

che mia sorella comparisca sola davanti al re.”Kriemhilt fu condotta presso il re. Molti nobili cavalieri di diversi Paesi riempivano la vasta sala. Li pregarono di ri-manere ai loro posti. Già Brunhilt s’era recata al suo posto, a tavola.Essa ignorava quanto stava per accadere.Allora il figlio di Dankrat disse al suo più prossimo paren-te:- “Ajutatemi a far sì che mia sorella prenda Siegfrid per isposo.”E tutti ad una voce sclamarono:- “Essa può farlo con onore.”Il re Gunther disse:- “O mia vezzosissima sorella, io spero che per la tua virtù il mio giuramento sarà mantenuto. Io ti ho promessa ad un eroe. Se egli diviene tuo sposo avrai adempito i miei voti con gran fedeltà.”La nobile vergine rispose:- “Mio amatissimo fratello, non c’è bisogno alcuno che mi preghiate. Voglio sempre fare quanto mi comanderete. Sia dunque così. Io amerò volentieri, o signore colui che mi date per isposo.” Siegfrid arrossì di piacere e d’amore. L’eroe offrì il suo omaggio a Kriemhilt.Li fecero avvicinar l’una all’altro, nel circolo dei parenti, e le dimandarono se ella accettava quell’uomo valoroso.Un pudico imbarazzo di giovinetta la rese muta per un istante. Ma per la felicità e la gioja di Siegfrid non lo re-spinse. Ed egli la prese per moglie, il nobile re del Nider-lant.Era fidanzato alla vergine, ed essa a lui. Siegfrid strinse dolcemente fra le sue braccia la leggiadra fanciulla. Quin-di baciò la nobile principessa al cospetto di quell’assem-blea d’eroi. Allora questi si divisero in due gruppi. In faccia all’ospite, si vedevano assisi Siegfrid e Kriemhilt. Parecchi prodi uo-mini la servivano. I Nibelungi accompagnavano Siegfrid.Dall’altro lato stavano seduti il re e Brunhilt. Quando essa vide Kriemhilt accanto a Siegfrid (giammai provò tan-ta afflizione) cominciò a piangere. E lungo le sue rosee guancie si vedevano scorrer le lagrime.Il capo del Paese disse:- “Che avete, sposa mia? Perché oscurar così il brillante splendore de’ vostri occhi? Dovete invece rallegrarvi. Il mio Paese, i miei castelli, e tutti i miei valorosi uomini vi sono sottomessi.”- “Ah! Ho ben ragione di piangere! Rispose la bella vergi-ne. È per causa di vostra sorella che ho il cuore così ama-reggiato. La vedo seduta accanto al vostro uomo ligio, e mi sento costretta a piangere nel vederla abbassata fino a questo punto.” Il re Gunther rispose:- “Acquietatevi. In un altro momento vi dirò perché ho

I Nibelungi

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dato mia sorella a Siegfrid. Ah! che essa possa vivere feli-ce con quest’eroe!”.- “Lo deplorerò eternamente, rispose lei, per la sua bel-lezza e la sua virtù. Se sapessi dove andare, fuggirei vo-lontieri, e giammai mi assiderò a fianco vostro finchè non mi avrete detto il perché Siegfrid è divenuto lo sposo di Kriemhilt.” Il re Gunther le disse:- “Ebbene, ve lo dirò. Sappiate che egli possiede quanto me un gran numero di castelli e un gran regno. Credete-mi, è un re potente. Ecco perché gli ho dato in moglie la bella e graziosa giovinetta.”Qualunque cosa Gunther avesse potuto dirle, essa con-servò sempre il suo fosco umore.I prodi cavalieri lasciarono la tavola. Le loro giostre furono tanto gagliarde che tutto il castello ne echeggiò. E nondi-meno il re si annojava presso i suoi ospiti.Egli pensava alle dolcezze che lo attendevano presso la sua bella moglie. Il suo cuore si schiudeva alla speranza che essa adempirebbe finalmente al suo debito d’amore. E cominciò a guardare affettuosamente Brunhilt.Gli ospiti furono pregati di cessar i tornei perché il re desi-derava condur sua moglie alla camera nuziale. Kriemhilt e Brunhilt s’incontrarono sui gradini della sala. Nessun odio esisteva ancora fra esse.Il loro seguito le accompagnò. I valletti riccamente vestiti portavano le faci. I guerrieri dei due re si separarono. Si vide un gran numero di buone spade accompagnar Sieg-frid.I capi giunsero nei loro appartamenti. Ognuno d’essi pen-sava vincer col suo amore la sua sposa vezzosa.Questa idea rendeva più dolci i loro sentimenti. La felicità di Siegfrid fu completa e senza limiti.Quando fu coricato presso Kriemhilt, offrì teneramente alla giovinetta il suo nobile amore, ed essa divenne come la sua propria carne; certo lo meritava, quella donna tan-to ricca di virtù.Non vi dirò altro, di ciò che egli fece per lei.Ma ascoltate il racconto di quel che successe a Gunther con dama Brunhilt.Più d’un bel cavaliere s’è trovato a più dolce festa vicino ad altre donne.La folla s’era ritirata. Dame e cavalieri erano tornati ai loro alloggi. Il re si affrettò a chiudere la porta perché sperava che quella bella persona sarebbe sua. Ma il momento in cui ella diverrebbe sua moglie non era ancor giunto.Ella si diresse verso il suo letto, con la sola sua bianca ca-micia di lino.Il nobile cavaliere diceva fra sé: “Adesso sto per ottenere ciò che ho per tanto tempo desiderato!”.E certo essa doveva piacergli per la sua splendida bellez-za.Con la sua mano il nobile re, spense il lume, e quindi si

avvicinò alla giovine, il coraggioso guerriero. Poi le si co-ricò accanto. Grande fu la sua gioja! Egli strinse fra le sue braccia la vergine degna d’amore. Stava per prodigarle le più tenere carezze, ma Brunhilt non glielo permise. Essa s’irritò terribilmente; e ciò lo de-solò. Sperava trovar una felicità e non incontrava che ini-micizia e odio.Essa gli disse:- “Nobile cavaliere, dovete rinunziare a quanto avete pro-gettato, perché ciò non si compirà. Sappiatelo: vergine sono e resterò. Fino a che non mi si sveli il segreto che vi ho dimandato.”Gunther cominciò a odiarla.Volle ottener per forza il di lei amore e lacerò la sua ca-micia.La potente donna diè prontamente di piglio ad una cin-tura d’oro e di seta con cui si stringeva la vita. Essa fece gran male al re.Gli legò i piedi e le mani; poi lo afferrò e lo appese ad un gran chiodo infisso nella parete, onde non le turbasse più il sonno; essa gli proibiva d’amarla.La di lei forza era tanta che poco mancò non ne ricevesse la morte.E quello che avrebbe dovuto essere il padrone, incomin-ciò a pregare:- “Scioglietemi, nobilissima vergine. Io non tenterò più di vincervi, o bella dama, e non verrò più a coricarmi tanto vicino a voi.”Ma essa s’inquietò poco del suo soffrire. Era mollemen-te coricata, e Gunther rimase appeso tutta la notte, fino all’indomani quando l’alba venne a rischiarare la camera nuziale.Durante quel tempo, il piacere del re non fu grande.- “Ditemi un po’ signor Gunther, non vi dispiacerebbe punto che i vostri scudieri vi trovassero legato come sie-te, dalla mano d’una donna?”.Così parlò la bella vergine. Ed il nobile cavaliere rispose:- “Ciò non tornerebbe vantaggioso nemmeno a voi. Vi confesso però che ne avrei poco onore. In nome delle vostre virtù lasciatemi venir vicino a voi, e poiché il mio affetto vi spiace, la mia mano non toccherà più le vostre vesti.” Allora essa lo sciolse e lo lasciò libero. Gunther entrò in letto accanto a Brunhilt, ma stava tanto lontano che non le toccava nemmeno la sua finissima camicia, perché nemmen ciò ella avrebbe tollerato.Le sue ancelle giunsero, recandole nuovi ornamenti; ne avevano preparato un gran numero per quella mattinata nuziale.Quantunque tutti fossero allegri, il re rimaneva d’umor cupo, e la generale allegria lo irritava.Secondo l’antico costume che dovettero seguire, Gun-ther e Brunhilt non tardarono a recarsi alla cattedrale, ove

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fu cantata la messa.Anche il signor Siegfrid vi si recò. La folla numerosissima vi si accalcava.Ivi ricevettero gli onori reali loro dovuti; la corona e il man-tello. Quando furono benedetti tutti quattro, si ammirò il bell’effetto che facevano con la corona in testa.Sappiate che un gran numero di guerrieri, seicento ed anche più, ricevettero la spada, in onore del re. Vi furono grandi feste nel Paese dei Burgundi; e si udivano cozzar le lancie dei giovani guerrieri.Le belle vergini stavano alle finestre. Esse guardavano brillar da lungi gli scudi brillanti; ma il re si teneva in di-sparte da’ suoi uomini. Qualunque cosa facessero, lo si vedeva camminar pensoso e triste.Gli umori di Siegfrid e di Gunther erano ben differenti. Il nobile cavaliere sapeva bene ciò che tormentava il re. Si avanzò dunque verso di lui e gli domandò:- “Che vi è mai successo? Fatemelo sapere.”Gunther rispose al suo ospite:- “Con questa donna ho introdotto in casa mia la vergo-gna e la sciagura. Quando ho voluto parlarle d’amore, essa mi ha legato come un capretto. Poi trascinandomi mi ha appeso ad un gran chiodo infisso nella parete. Vi rimasi pieno d’angoscia tutta la notte, e soltanto a giorno mi sciolse. Ed essa se ne stava mollemente coricata. Te lo dico in segreto come ad un amico.”Il forte Siegfrid rispose:- “Ne sono afflitto vivamente. Ma te ne renderò padrone; cessa di fomentare la tua collera. Farò in maniera che essa sia sì strettamente unita teco, che d’ora innanzi essa non ti ricuserà più mai l’amor suo.”Queste parole consolarono Gunther che aggiunse:- “Guarda adesso le mie mani; osserva come sono gonfie. Mi ha domato come se fossi stato un bambino. Il sangue scaturiva dalle mie unghie. Credevo proprio di morire.- “Non temer nulla, gli rispose Siegfrid, tu la vincerai. Le nostre notti non sono state simili. Tua sorella Kriemhilt è ora come la mia carne. Bisogna che stanotte Brunhilt di-venti tua moglie.”Poi aggiunse:“Stanotte, verrò nella tua camera, reso invisibile dall’ef-fetto della mia Tarnkapp, in maniera che nessuno potrà dubitar dell’astuzia. Lascia dunque che i tuoi valletti si re-chino al loro alloggio. Spegnerò le faci in mano ai paggi, e quello sarà il segno che sono arrivato e sono pronto a venirti in aiuto. Costringerò questa donna ad accordarti il suo amore, oppure ci lascierà la vita.”- “Purché tu non le provi il tuo amore, rispose il re, puoi fare ciò che vuoi alla mia cara sposa. Del resto ne sarò contentissimo. Quand’anche tu dovessi ucciderla sarò contento. È una donna terribile.”- “Prometto sulla mia parola d’onore, disse Siegfrid, di non provare amore di sorta. Preferisco la tua bellissima sorella

a tutte le donne che abbia mai vedute.” Gunther credè senza secondi fini alle parole di Siegfrid.In questo tempo i guerrieri si dedicavano ai piaceri ed ai pericoli dei giuochi cavallereschi.Si pose fine ai tornei, onde le donne potessero recarsi nel-la gran sala. I valletti facevano sgombrar la gente dinanzi ad esse.Cavalli ed uomini lasciarono la corte. Un vescovo condu-ceva ciascuna delle due principesse che si recarono alla messa reale. Il seguito dei galanti cavalieri veniva dietro ad esse.Il re stava seduto accanto a sua moglie pieno di speran-za.Egli pensava senza tregua a ciò che Siegfrid gli avea pro-messo. Quel solo giorno parve a lui che durasse un mese almeno.La sua anima era completamente assorta nell’amor di Brunhilt.Aspettò con ansia che i convitati si alzassero da tavola.La bella Brunhilt e Kriemhilt furono condotte verso i ri-spettivi appartamenti. Oh! Quali valenti spade si vedeva-no camminar dinanzi al re!Il signor Siegfrid era teneramente seduto accanto alla sua vezzosissima sposa. La sua gioja era grande e pura. Con le bianche sue mani accarezzava quelle dell’eroe quando ad un tratto questo disparve.La regina ne rimase sbigottita e domandò alle sue ancelle dove era andato il re. Ma niuno seppe dirglielo.Egli era colà dove stavano i valletti con le faci, e cominciò a spegnerle.Gunther capì che Siegfrid era vicino a lui.Il re sapeva quanto stava per succedere. Perciò dette commiato alle dame e alle damigelle. Quando ciò fu fat-to, il nobile principe andò a chiuder da se stesso la porta. Poi mise i chiavistelli per di dentro.Nascose quindi il lume sotto i parati del letto. E allora in-cominciò fra il forte Siegfrid e la bella vergine (così dove-va essere) un terribile giuoco. Ciò faceva pena e piacere al tempo stesso al re Gunther.Siegfrid si coricò accanto alla regina. Essa gli disse:- “Ora, signor Gunther, qualunque possa essere il vostro desiderio statevene tranquillo, se non volete soffrir ver-gogna e dolore. Le mie mani sapranno ben punirvi.”Siegfrid trattenne la sua voce e non rispose verbo.Quantunque non lo vedesse, Gunther sentiva bene che nulla di misterioso accadeva fra loro. Poco riposo si gu-stava su quel letto!Siegfrid finse d’essere il potente re Gunther, e prese fra le braccia la vergine degna d’amore. Ma essa lo gettò fuor del letto, sopra una panca che era non lontano da lì, con tanta forza che la sua testa picchiò con fracasso sopra uno sgabello.Con nuovo vigore l’uomo ardito si rialzò di sbalzo.

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Voleva tentar meglio; ma gliene incolse male, quando si provò a domarla. Io credo che alcuna donna non si difese mai sì vigorosamente.Siccome non voleva ritirarsi, la vergine gli gridò:- “Non vi è permesso di lacerar la mia bianca camicia. Sie-te molto tracotante e ve ne pentirete.”Ciò detto afferrò e strinse fra le sue braccia il valido eroe, come aveva già fatto col re, desiderando riposar senza molestia sul suo letto.Voleva vendicarsi terribilmente, perché le aveva straccia-ta la camicia.A che serviva la gran forza di Siegfrid in quel momento, in cui essa spiegava la potenza superiore delle sue mem-bra?Lo trascinò con violenza – egli non poteva resisterle – e lo spinse senza mercé contro un mobile che si trovava a pié del letto.- “Ohimè! pensò il guerriero. Se debbo perder qui la vita per mano d’una vergine, d’ora innanzi le donne mostre-ranno ai loro mariti un umor più feroce di quello che han-no mostrato finora.” Il re sentiva tutto, e tremava per tutte le membra.Ma la vergogna assalì Siegfrid, che incominciò a non aver più riguardo. Respinse Brunhilt con prodigioso vigore e riprese con lei una lotta piena di angoscie.Per quanto essa lo contenesse fortemente, la sua collera ed anche il suo meraviglioso coraggio unito ad una forza straordinaria gli vennero in ajuto.Pervenne a rialzarsi malgrado Brunhilt.La sua ansietà era grande. Di qui e di là si urtarono nella camera chiusa.Anche il re Gunther era in gran tormento. Ad ogni istante egli doveva evitarli, da una parte e dall’altra. Essi lottaro-no così con tanta violenza, che fu veramente miracolo se ne uscirono sani e salvi.Il re gemeva sul pericolo di entrambi; ma temeva assai più la morte di Siegfrid, perché essa aveva quasi tolto la vita al guerriero. Se avesse osato sarebbe corso volontieri in suo soccorso.La lotta durò ancora lungamente e in grandissima furia. Finalmente Siegfrid pervenne a ricondur la vergine sulla sponda del letto, e per quanto gagliardamente ella si di-fendesse, le sue forze finirono per esaurirsi. Il re era agita-to da mille diversi pensieri.Il tempo gli parve lungo prima che Siegfrid potesse vin-cerla. Essa gli strinse le mani con tanta violenza che il sangue gli spicciò fuor delle unghie. Era una tortura per l’eroe. Nondimeno domò la nobile vergine, e la costrinse a mutar l’irrevocabile risoluzione da lei presa.Il re udiva tutto, quantunque non dicesse nulla.Siegfrid la spinse sul letto e ve la calcò tanto fortemente che essa gettò alte grida. Con la sua gran vigoria le faceva terribilmente male.

Allora essa si portò la mano al fianco per prender la sua cintura e legarlo. Ma il braccio dell’eroe la respinse con tanta violenza, che le di lei membra scricchiolarono assie-me a tutto il suo corpo.La lotta era finita. Brunhilt divenne la moglie di Gunther.Essa gli disse:- “Nobile re, lasciami la vita e perdonami ciò che ti ho fat-to. Mai più mi difenderò contro il tuo amore. Ho troppo provato che sai domar le donne.”Siegfrid lasciò la regina coricata e si ritirò, come se voles-se spogliarsi. Le prese dal dito un anello d’oro senza che la nobile regina se ne accorgesse, e le tolse anche la cin-tura.Ignoro se lo facesse per orgoglio. La regalò a sua moglie, e in seguito per causa di quella cintura successero grandi disgrazie.Il re e la bella vergine rimasero coricati l’uno a fianco dell’altra.Egli la trattò con gran tenerezza, e in maniera degna d’en-trambi; ed essa dovette rinunziar alla sua collera e al suo pudore.Le sue tenerezze la fecero leggermente impallidire. Ma, pur troppo, l’amore scacciò la sua gran forza.E d’allora in poi non fu più forte d’un’altra donna; egli ac-carezzò con amore le sue attrattive impareggiabili. Sareb-be stato invano che Brunhilt avrebbe provato a resister più oltre.Ecco ciò che Gunther aveva ottenuto col suo affetto.Rimase così pieno di soave passione vicino alla sua dilet-tissima moglie, fino alla prima luce del giorno.Quanto a Siegfrid, egli era tornato nel suo appartamento, ove fu ben ricevuto dalla sua bella sposa.Indovinando la domanda che ella stava per dirigergli, egli le nascose a lungo ciò che aveva portato per essa, fino a che portando la corona, non fu arrivata nel suo Paese.Al mattino il re si mostrò di molto miglior umore che non era stato fino allora; e molti nobili uomini di diversi Paesi si rallegrarono dell’allegria del re. Egli offrì i suoi doni a tutti coloro che aveva invitati.Le nozze durarono quindici giorni, e per tutto quel tempo non cessò il rumor dei divertimenti ai quali ciascuno si dedicava.Si peserebbero difficilmente i tesori che il re spese in quella occasione.Secondo gli ordini del nobile Gunther, i suoi parenti di-stribuirono, per fargli onore, a parecchi prodi guerrieri, abiti ed oro rosso, cavalli e denaro.I capi che erano venuti si ritirarono soddisfattissimi.E il re Siegfrid del Niderlant dette a’ suoi mille uomini tut-te le vesti che aveva fatto portar seco, e dei bellissimi ca-valli da sella. Potevano oramai viver da signori.Prima che si fossero distribuiti tutti quei ricchi presenti, il tempo parve lungo a coloro che desideravano tornar

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nelle loro terre.Giammai compagni d’armi furono meglio trattati. Così finì la festa delle nozze e molti guerrieri partirono.

Geopolitica

Geopolitica

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Lo Stato-nazione europeo nella crisi del nostro tempo

Il problema della sovranità nazionale

L’Europa occidentale è stata la terra di nascita del mo-derno concetto di Stato-nazione, un fenomeno organico articolato e complesso, che ha avuto la capacità di pla-smare l’identità dei popoli di tutto il Vecchio Continente, rafforzarla, e dargli un ruolo ben preciso in quella grande sequenza di eventi intercorsi tra il XVIII e il XX secolo, ca-paci di segnare la storia mon-diale in modo indelebile.

In un susseguirsi di muta-menti politici, sociali ed eco-nomici profondi, spesso ra-dicali, mai definitivi (la storia in sé non sarà mai definitiva), che hanno visto lo Stato-na-zione strumento protagoni-sta, si può ben dire che esso abbia saputo adempiere a un dovere fondamentale: sviluppare l’identità dei popoli.

Ancora nei tempi nefasti in cui viviamo, pur nella situa-zione a noi più vicina e contemporanea, che vede lo svilimento del concetto di comunità a opera della glo-balizzazione e dell’individualismo, sua base filosofica, lo Stato-nazione europeo sta mostrando caratteristiche di resistenza, anche nel quadro dell’Unione Europea, o dell’affermarsi con sempre maggior chiarezza di un si-stema geopolitico multipolare dove a contrapporsi sono grandi agglomerati continentali, che hanno le sembianze di moderne forme d’impero.

Comprendiamo benissimo le critiche che possono esse-re mosse all’attuale condizione in cui versa il concetto di Stato-nazione euroccidentale, e nella sua applicazio-ne pratica. Esso, infatti, sembra ormai imbrigliato nelle istituzioni comunitarie, e sottoposto, in certi casi, a una tutela imposta dall’alto da precisi organi sovranazionali, Commissione Europea e Banca Centrale Europea, inter-venuti nell’ambito della crisi dei debiti Sovrani, che ha colpito specialmente i cosiddetti PIIGS, quel poco invidia-bile novero di nazioni, facenti parte dell’area euro, le cui condizioni economiche instabili hanno prestato il fianco a un vero e proprio attacco organizzato contro tutta l’UE, perpetrato dalle piazze finanziarie e da soggetti apolidi

che hanno nella speculazione l’unica ragion d’essere.

Noi, quindi, affermiamo la validità di questo strumento identitario, pur nelle sue condizioni a oggi non ottimali.

Mettiamo quindi subito in chiaro una cosa fondamen-tale: la nostra difesa del concetto di Stato-nazione non è né dovuta ad anacronistici sentimenti patriottardi, né tanto meno all’incapacità di porre una critica severa, ma

fondamentalmente co-struttiva, alle devianze che lo Stato-nazione ha intra-preso nell’ultima fase del XX secolo. In particolare al venir meno del suo ruo-lo di difensore dell’identi-tà dei popoli, in nome di quei precetti mondialisti e progressisti, che han-no minato le fondamenta stesse dell’identità delle

genti dell’Europa occidentale, ponendola per giunta al servizio di fenomeni socialmente disgregativi e cultural-mente omologanti, che hanno contribuito non poco allo svilimento delle prerogative dei popoli a tutto vantag-gio dell’economia postmoderna, e sulla sua involuzione nell’ambito dei processi di globalizzazione dei mercati.

Nonostante tutto però, nella nostra visione del mondo, l’Europa occidentale ha ancora nello Stato-nazione un baluardo di resistenza ai gruppi apolidi mondialisti, e uno strumento di reazione al tentativo operato da que-sti poteri di smantellare definitivamente le peculiarità dei popoli, sostituendole con legislazioni universalistiche, che mirano a far prevalere il concetto neutro e astratto di cittadinanza; come nella miglior visione dell’illuminismo giacobino, della filosofia marxista, e della prassi neolibe-rista.L’Unione Europea si sta rivelando, infatti, il peggior ne-mico dell’identità dei popoli europei, e strumento della disintegrazione di una Kultur e di una civiltà che sono sta-te grandiose dominatrici della storia per secoli, e di cui lo Stato-nazione è risultato essere un frutto prezioso.

Per questo motivo riteniamo che il processo d’integrazio-ne comunitaria prima, e soprattutto l’attuale protagoni-smo della Commissione Europea e della banca Centrale

Gabriele Gruppo

La sovranità perduta.

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Europea in questi anni di crisi, abbiano contribuito alla mortificazione delle ultime difese identitarie degli Stati-nazione, con il preciso intento di dissolvere la loro forza, per creare dei semplici burattini eterodiretti.

Proprio l’ingerenza recente degli organismi comunitari, intervenuti per “salvare” nazioni in difficoltà per via della crisi dell’area euro, ha di fatto sancito la cessione di cospi-cue porzioni di sovranità politica ed economica da parte dei governi che hanno beneficiato di questi “salvataggi”, dando l’avvio a un processo di mutamento dello Stato-nazione, che certo non si limiterà al semplice ambito dell’emergenza finanziaria, ma potrà essere applicato apertamente come nor-ma di condotta del po-tere ormai conclamato delle principali istituzio-ni dell’UE. Organismi, è bene ricordarlo, posti al di fuori di qualsiasi con-trollo politico, autorefe-renziali, e animati dalla volontà di cancellare le specificità nazionali, in nome appunto di pre-cetti universalistici e ne-oliberisti.

Attualmente, l’opera di smantellamento delle sovranità nazionali sem-bra essere più marcata proprio presso quegli Stati che hanno beneficiato dei cosiddetti “salvataggi”; Spagna, Grecia, Portogallo e, in misura minore ma non meno pericolosa, Italia e Irlanda. Tuttavia, l’intervento suppletivo della Commissione Europea, della Banca Cen-trale Europea e del Fondo Monetario Internazionale, or-ganismo economico addirittura extraeuropeo, non sem-bra volto a una condizione temporanea, bensì ha tutti i connotati per essere definitivo e irrevocabile. La debo-lezza degli Stati colpiti dall’attacco finanziario, infatti, è ormai cronica e strutturale, se inquadrata nei parametri neoliberisti, quindi essi avranno sempre bisogno di que-sto supporto, che pone però vincoli pesanti alla ripresa sociale e al benessere popolare, in quanto la sua attenzio-ne è rivolta unicamente alla stabilità dei conti pubblici, e alla loro appetibilità per i mercati speculativi.

In pratica, la corda servita per il salvataggio finisce per diventare un cappio, con cui entità sovranazionali deter-minano le politiche interne di una nazione sovrana. Il fine è evidente, se si considerano tutti i fattori e le dinamiche fin qui svoltesi all’ombra della crisi dell’area euro: l’unio-

ne continentale politica, che sembrava difficilissima in tempi normali, si sta profilando sempre più nettamente attraverso interventi emergenziali, dove gli Stati-nazione saranno sempre più costretti a cedere le loro autonomie decisionali principali, al fine di ottenere diverse tranches in miliardi di euro, per la messa in sicurezza della loro cre-dibilità finanziaria e per poter così attirare gli investitori esteri, vitali nell’ambito della globalizzazione, ma letali per la struttura economica di realtà molto indebolite, o private di ogni indipendenza decisionale.

Riteniamo però che in pericolo non sia solamente la so-vranità di nazioni europee strutturalmente deboli, come

nel caso dei PIIGS, ma che il rafforzamento di un certo potere conti-nentale e di sovrastrut-ture politiche e finanzia-rie non controllabili, pro-prio in ragione del loro nuovo ruolo nell’ambito della crisi dell’area euro, potrà, a lungo andare, essere capace di intac-care anche l’autonomia di quegli Stati ancora ri-tenuti solidi; Germania e Francia in primis.

Il nazionalismo eco-nomico tedesco e il ri-schio di logoramento nazionale

Il declino economico dell’Occidente si avvia a un nuovo anno di recrudescenza, con pesanti contraccolpi sistemi-ci. Sia l’America settentrionale sia l’Unione Europea non hanno preso consapevolezza che proprio globalizzazio-ne e finanza apolide hanno posto le fondamenta di que-sta loro fase discendente, e le classi dirigenti al potere tra le due sponde del Nord Atlantico perseguono ancora con ostinazione la via che ha portato al disastro. Questa con-dizione andrà sicuramente ad aggravare il quadro econo-mico generale, e anche di quelle realtà del Vecchio Conti-nente che hanno retto fin qui meglio ai contraccolpi della crisi. In particolare la Germania, sovente tacciata di trarre enormi vantaggi dalle disgrazie delle altre nazioni euro-pee, non potrà reggere ancora per molto nel suo ruolo di solitaria “locomotiva” d’Europa, e le prime crepe nella sua corazza potrebbero a breve palesarsi in modo pericoloso, facendo così diminuire il suo potere contrattuale e il suo primato di nazione indipendente proprio nel confronto con le istituzioni comunitarie.

Lo Stato-nazione europeo nella crisi del nostro tempo

Germania.

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Che Berlino abbia, nell’ambito della crisi dei debiti sovra-ni, fin qui fatto anche i propri interessi nazionali è fuor di dubbio, ed è stata cosa a parer nostro legittima, anche se riteniamo da sempre ingiusta una certa vulgata media-tica, che dipinge la Germania come unica responsabile delle politiche di austerità interne all’Unione Europea, o l’asservimento di intere nazioni ai diktat della troika UE/BCE/FMI, nel quadro delle iniziative di “salvataggio”, sia durante le fasi più acute degli attacchi speculativi sia del successivo ruolo suppletivo per il riordino . La Germania è l’unico Stato-nazione dell’area euro che abbia mantenuto integre gran parte delle proprie prerogative economiche e politiche, e questo, ne siamo certi, rappresenta un fatto-re positivo non solamente per la Germania, ma in grado anche di porre un freno allo strapotere di entità prive di controllo politico e di legittimazione popolare.

L’economia tedesca risulta essere solida, nonostante tut-to, e resta valido quel che scrivemmo nel 2012 nel nostro articolo “La Germania alla conquista dell’Europa”.

“Quale nazione, in questa Europa, può vantare di avere una casa automobilistica (la Volkswagen) leader mondiale, ca-pace di mantenere alto il livello occupazionale in patria, senza tuttavia rinunciare alle sfide dei mercati emergenti? Solo la Germania.

Quale nazione, in questa Europa, ha differenziato il proprio approvvigionamento energetico, rendendosi di fatto indi-pendente dalle eventuali turbolenze mediorientali e norda-fricane? Solo la Germania, grazie alle quote sempre maggio-ri di energia proveniente da fonti rinnovabili, e dall’alleanza con la Russia.

Quale nazione, in questa Europa, può dirsi finanziariamen-te solida? Solo la Germania.

Ecco perché riteniamo stucchevoli le lamentele verso il mo-dus operandi che Berlino adotta nei confronti della crisi dell’area euro.

C’è chi sostiene che, senza l’euro, la Germania cadrebbe a terra, visto che ha beneficiato come nessun altro della mo-neta unica. Sarà pur vero, ma bisogna rammentare che, senza la Germania, l’Unione Europea sarebbe entrata ancor di più nella spirale discendente che sta ridimensionando il ruolo dell’Occidente in tutto il pianeta. Magari immolandosi per gli Stati Uniti, come vorrebbero le tante centrali di potere filo-atlantiche ancora presenti nel Vecchio Continente, e che hanno proprio nel Presidente della BCE un loro rappresen-tante.

Il rapporto di dipendenza tra UE e Germania è sicuramente più favorevole per l’Unione, che può in ogni momento met-tersi sotto le ali dell’aquila prussiana; mai avverrà il contra-

rio.

Siamo consapevoli che, nel caso d’implosione dell’euro, la Germania subirebbe certo un duro colpo, ma non mortale. Per Berlino addirittura si potrebbe profilare un più accen-tuato controllo del Vecchio Continente nel medio/lungo ter-mine, senza più dover rendere conto alle regole imposte dal partenariato comunitario”.

Ciò detto non possiamo negare che il logoramento pro-lungato, che sta caratterizzando questa fase della crisi economica mondiale, possa in qualche modo intaccare la solidità germanica e, quindi, porla in una condizione di pericolosa interdipendenza proprio dai destini dell’area euro.

Questo potrebbe portare, nel medio periodo, a una di-minuita capacità da parte della Germania di contrastare le spinte accentratrici delle istituzioni comunitarie, che vedrebbero così spianata la strada per una riduzione dell’indipendenza e della sovranità perfino di questa fon-damentale nazione europea. Solida economicamente ma politicamente ancora ricattabile per via del suo “passato che non passa”. Lo spauracchio di un’Europa dominata politicamente da Berlino è spesso trapelato proprio in questi anni difficili; in cui, se da un lato la solidità tedesca è stata garanzia per l’area euro, e fonte di rafforzamento per la Banca Centrale Europea, dall’altro è stata mante-nuta in vita l’artificiosa paura dell’espansionismo germa-nico che, a dire degli europeisti più ortodossi, potrebbe essere debellato solamente riducendo l’indipendenza e la sovranità della Germania, e dal suo assorbimento defi-nitivo nell’alveo dei destini dell’Unione e della sua capa-cità di controllo sovranazionale. Per la Germania, quindi, potrebbe non bastare più quella sorta di “nazionalismo” economico che le ha garantito un primato e una concreta importanza continentale in questi anni recenti, e proprio un collasso economico rappresenterebbe un perfetto ca-vallo di Troia per il suo indebolimento come Stato-nazio-ne, a tutto vantaggio dei poteri istituzionali dell’Unione, che avrebbero così una pedina importante tra le mani, da poter utilizzare qualora la crisi sociale europea dovesse in qualche modo aggravarsi per via del prolungarsi della cri-si, e occorresse cannibalizzare una struttura ancora forte, ma non più indipendente politicamente, da utilizzare a mo’ di “gendarme” dell’euro, e di “guardia del corpo” delle tecnocrazie che dominano a Bruxelles e a Strasburgo.

Serve, alla nazione tedesca, non più la semplice nomea di “virtuosa”, bensì un rinnovato orgoglio identitario, capa-ce di liberare quelle forze positive che ancora albergano in essa e nel suo nobile popolo.

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La rivoluzione nazionale ungherese*

A tre anni dalla sua ascesa al governo d’Ungheria Viktor Orban e il suo partito, Fidesz, rappresentano per noi quel modello ideale e serio di resistenza e reazione alla dis-soluzione dei popoli d’Europa, delle loro specificità, dei princìpi su cui si fonda la nostra civiltà.

Dissoluzione voluta dal mondialismo economico apolide e dal progressismo (pseudo)culturale d’ogni sfumatura ideologica.

Avendo noi sempre nutrito simpatie per il movimento politico Jobbik, costatando la solidità di questa realtà nel corso della sua afferma-zione elettorale, vedevamo Orban come una sorta di nazionalista “moderato”, con un passato da libera-le e un programma che ci sembrava poco coraggio-so.

Invece, anno dopo anno, ci siamo dovuti sinceramente ricredere.

La politica espressa dal go-verno monocolore di Viktor Orban ha sterzato sempre più verso iniziative di rottura con un certo tipo di “tradizione” europea, che impone alle nazioni aderenti all’Unione Eu-ropea di seguire certi dettami ideologici ed economici. Una rottura sempre più evidente, e sempre più profon-da, che ha reso l’Ungheria una sorta di macchia nera (è proprio il caso di dirlo) in mezzo al blu insignificante dell’Unione Europea, una nazione ribelle, con un capo demonizzato da tutti i media occidentali, anche oltre At-lantico, che anelano la sua caduta e il ritorno della terra dei magiari nell’alveo della presentabilità democratica.

Problema: Viktor Orban, proprio perché ha osato sfidare molti tabù, e ha di fatto evitato all’Ungheria la fine della Grecia o del Portogallo, ha dalla sua parte il favore di mi-lioni di ungheresi. Ogni tentativo di minare il suo governo o il suo partito, da parte di nemici interni e internazionali, non ha avuto successo fin qui, e il prestigio di cui gode in patria può certo non fargli rimpiangere l’inimicizia di molte cancellerie del Vecchio Continente, o quella dei “fratelli maggiori”.

Fare un bilancio dei risultati ottenuti da questa vera rivolu-zione nazionale è cosa facile. Basta, infatti, non documen-tarsi presso le fonti mediatiche e le gazzette prezzolate, che gridano all’involuzione democratica dell’Ungheria, al

pericolo “fascista” ungherese, al risorgere dell’antisemiti-smo e baggianate simili.

“Orban è un dittatore!”. Tuonano le vestali del progressi-smo europeo.

“Orban sta facendo affondare l’economia ungherese”. Rincarano i tromboni della finanza internazionale.

Eppure questo soggetto pericolosissimo piace al suo po-polo, e da quel che sappiamo le manifestazioni del na-zionalismo ungherese sono nutrite e compatte, mentre i partiti dell’opposizione (socialisti e liberali) e le varie

ONG, che mestano sempre nel torbido, possono van-tare un seguito a dir poco ridicolo.

Il nuovo corso della politi-ca ungherese è chiaro:

- Lotta contro la dipenden-za economica dell’Unghe-ria dai finanziamenti inter-nazionali.

- Nazionalizzazione della Banca Centrale, per poter riavere piena sovranità mo-netaria.

- Iniziative di sostegno alla famiglia (quella normale).

- Pensioni più dignitose.

- Tutela dei lavoratori, in particolare contro gli abusi delle multinazionali.

- Contrasto della criminalità (nomade e autoctona) e del-la corruzione.

Tutto questo è stato ottenuto in tre anni di governo, non con mera propaganda ma con fatti concreti, e in un clima di ostilità da parte dei cosiddetti “partners” europei, che in tutto questo tempo non hanno mai perduto occasione di tentare qualche ingerenza politica, per far deragliare il nuovo corso d’Ungheria.

Noi crediamo che guardare all’esempio che giunge dall’Ungheria sia di gran lunga meglio che non ad altri “fenomeni”, apparsi all’orizzonte dell’identitarismo euro-peo.

Questo perché per creare i presupposti per una VERA ri-voluzione nazionale serve andare a colpire il cuore del liberismo, i suoi templi, i suoi tabernacoli e i suoi servi.

Lo Stato-nazione europeo nella crisi del nostro tempo

Viktor Orban.

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Il Governo Orban, il partito Fidesz e il grande movimento Jobbik hanno potuto conquistare consenso non soltanto con tematiche “facili”, ma soprattutto facendo compren-dere al loro popolo chi è il nemico della nazione e come, soprattutto, combatterlo con dei risultati reali. Serve co-raggio idealista unito al pragmatismo politico, non “sdo-ganamento” delle idee, o corsa all’immagine che piace alla gente che piace.

*Articolo scritto il 17 Ottobre 2013 per StampAlternativa, organo ufficiale del MTN

Il rischio di disintegrazione della Spagna

La Spagna è stata una delle più importanti realtà di Stato-nazione che l’Europa abbia avuto nel corso della storia. L’antica potenza e la sua secolare civiltà rappresentano senza dubbio un punto d’orgoglio per tutta la nostra Kul-tur continentale.

La sua crisi come modello, invece, rappresenta un perico-lo molto serio, e dovrebbe essere avvertito come un se-gnale chiaro di come il mondialismo apolide possa agire anche sfruttando istanze identitarie, magari anche com-prensibili, oltre che finanziarie in senso stretto.

Nata dalla Reconquista contro il dilagare dell’espansione islamica nell’Occiden-te europeo, forgiata dalla guida della Casa d’Asburgo, la Spagna ha subìto un declino lento nel suo essere potenza, continenta-le, durato oltre due secoli, e attutito sola-mente nel ‘900 dalla parentesi di potere di Francisco Franco, che ha sì evitato che prendesse piede una forma di anarco/sta-linismo iberico ma, come negativo risvol-to della medaglia, ha di fatto soffocato con le sue velleità tradi-zionaliste e reaziona-rie, una vera rivoluzione nazionale moderna.

Il nostro pensiero e ammirazione vanno certamente alle splendide figure di José Antonio Primo de Rivera e di Ra-miro Ledesma Ramos; esempi di uno spirito nazionale

spagnolo rinnovato, lontano dalla polvere e dalle calci-ficazioni di uno sterile passatismo, ma rivolto ai fermenti sociali e politici che animavano tutta l’Europa di quel pe-riodo straordinario.

Oggi, invece, la Spagna è sotto attacco su più fronti, me-nomata nella sua identità e nella sua stabilità sociale.

I governi democratici, e l’indegna monarchia borbonica, hanno prostituito per anni la Spagna ai mercati specula-tivi, rendendola succube di un modello economico per-verso che, pur vantando iniziali e temporanei benefici, ha scandalosamente ipotecato il futuro delle prossime ge-nerazioni di spagnoli in modo grave e ancora impunito. Il “miracolo economico” che i politici degli ultimi trent’an-ni hanno dato alla Spagna è stato il frutto di un’illusione drogata di finanza e di un benessere preso a debito.

I Governi Aznar (destra moderata) e Zapatero (sinistra so-cialista) hanno portato la Spagna verso il baratro econo-mico in cui è rovinosamente caduta.

Il “salvataggio” della Spagna, operato dalla ben nota troi-ka nel 2012, ha avuto come contropartita la perdita ormai totale di sovranità nazionale. Madrid, in pratica, non è più libera di decidere del proprio destino, e il suo attuale go-verno è semplicemente un burattino nella mani dell’UE e del FMI, che regolarmente concedono un po’ di aiuto, in cambio di un sempre più accentuato asservimento della

Spagna alle politiche neo liberiste.

Sono ormai lontani i bei tempi della movida, e di quell’immagine di spensieratezza che fa-ceva della Spagna una sorta di giostra piena di opportunità, di oc-casioni per una vita mi-gliore, in una nazione florida, in cui la felicità sembrava a portata di tutti.

Il sogno in pochissimi anni è diventato un vero incubo, fatto di disoccupazione a due cifre, oltre il 26%, di

smantellamento dei diritti sociali, e di sacrifici richiesti solamente al popolo in nome del pareggio di bilancio. Al popolo si richiedono sacrifici, ma non a chi, realmente, ha portato la Spagna in questa indegna condizione d’insicu-rezza e di sudditanza ad agenti esterni.

Manifesto per l’unità della Spagna.

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L’altro fronte vitale per la Spagna, forse quello più im-portante, è rappresentato dalla sua stessa sopravvivenza come Stato-nazione.

Le politiche di decentramento politico e amministrativo, varate in un trentennio di democrazia, accompagnate dalle velleità autonomiste e indipendentiste di popoli interni alla compagine nazionale spagnola, hanno contri-buito al formarsi di spinte centrifughe etnonazionaliste, che attualmente aggravano il quadro già precario dovu-to alla crisi economica. Con sempre maggior veemenza si levano le istanze di gruppi politici organizzati che, in diverse regioni del Regno borbonico, pretendono libertà sempre maggiori, financo l’indipendenza da Madrid.

Al tradizionale (assurdo e violento) separatismo basco, si sono aggiunti con il passare del tempo anche quelli “pit-toreschi” della Catalogna e della Galizia.

La loro pericolosità risiede nell’essersi abilmente inne-stati nel quadro complessivo della crisi economica della Spagna, e nella perdita di credibilità che le principali isti-tuzioni nazionali, governo e monarchia, hanno subito a causa della loro manifesta incapacità di reagire a essa in modo adeguato; risolvendo le piaghe economiche e pre-servando la sacralità dell’indipendenza spagnola dagli interventi di “salvataggio” comunitari e del FMI.

Non è dunque un caso che, con il progredire delle diffi-coltà economiche, la Spagna abbia visto rafforzarsi spinte secessioniste dalle più diverse sfumature; dall’aggressivo indipendentismo basco, fondato su “ragioni” pseudo sto-riche, all’autonomismo catalano, le cui motivazioni sono squisitamente economiche.

Come in una metaforica tenaglia, la crisi dello Stato-na-zione spagnolo sta stritolando questa realtà tra la suddi-tanza alla troika e le spinte centrifughe regionali.

Proprio tali questioni localistiche certo non giovano all’uscita di Madrid dall’attuale difficile condizione storica in cui versa, ma ne incrementano gli effetti negativi, e il rischio di un’implosione della struttura nazionale iberica nel suo complesso.

A nostro giudizio, una Spagna sulla via della liquidazione come entità politica, smembrata in realtà medio/piccole autonome, o addirittura indipendenti da un potere cen-trale unificante, non potrà che essere perennemente sot-to lo scacco degli attacchi finanziari speculativi apolidi, e succube del giogo imposto dagli organismi comunitari, il cui fine è, come già detto più volte in questo articolo, la privazione di sovranità dei popoli europei, in nome di un’unificazione omologante, gestita da strutture autore-ferenziali.

La Spagna potrebbe essere solo il primo di altri Stati-na-zione da dissolvere e frammentare, in modo da poterne controllare i destini. Altrimenti non si spiegherebbe l’am-biguità dell’UE nel trattare il fenomeno del separatismo localistico spagnolo come pericoloso anche per la pro-pria esistenza e stabilità.

Infatti, né la Commissione Europea né il Parlamento Europeo hanno mai levato la loro autorevole voce con-tro i fenomeni disgregativi sorti entro gli Stati-nazione dell’Unione, men che meno per la situazione spagnola, dimostrandosi sempre “dialoganti”. Suggerendo sovente ai governi centrali, come quello di Madrid appunto, di assecondare le manifestazioni di libertà locale e di auto-determinazione interni ai propri Stati. Strano è dunque costatare come proprio in questo frangente storico, deli-cato per l’intero continente, dove è in atto una gravissima congiuntura economica strutturale, non si cerchi di de-bellare fenomeni che potrebbero ulteriormente far dege-nerare le condizioni interne di nazioni già molto fragili. La Spagna vive una condizione a dir poco assurda a livello europeo, e di tutto ha bisogno, men che mai di una frat-tura politica e istituzionale interna, i cui effetti destabiliz-zanti potrebbero sfociare in qualche cosa che gli spagnoli hanno già vissuto in passato e che, forse, necessiterebbe solamente di un ritorno forte alle ragioni dell’Hispanidad per essere scongiurata; quell’Hispanidad di cui proprio l’Europa dovrebbe essere un geloso custode, visto che fa parte integrante del proprio retaggio identitario e di civiltà.

Critica ragionata all’etnonazionalismo

L’esempio di quel che sta accadendo allo Stato-nazione spagnolo ci porta ora a fare delle considerazioni più ampie, che coinvolgono un fenomeno che serpeggia in molte zone dell’Europa occidentale, e di cui riteniamo importante la presa di consapevolezza in chi lotta per l’identitarismo.

Qualche anno fa anche noi dell’Associazione Thule-Italia avevamo considerato l’etno-nazionalismo come un fatto-re importante contro l’omologazione culturale dilagante che, attraverso la globalizzazione, aveva trovato nuovi strumenti di disintegrazione del concetto di comunità. Oggi, seppur nella certezza ideologica di un valore intrin-seco dell’identitarismo locale ed etnico/locale, riteniamo molto pericoloso l’affermarsi di un certo tipo di istanze centrifughe entro gli Stati-nazione dell’Europa comuni-taria, in quanto vediamo il rischio di un loro utilizzo stru-mentale al fine dell’indebolimento della resistenza degli Stati-nazione, nel quadro già critico in cui versa l’intero

Lo Stato-nazione europeo nella crisi del nostro tempo

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continente.

Pur non volendo fare della dietrologia spicciola, temia-mo che non sia del tutto sbagliato ritenere che i pote-ri istituzionali dell’UE possano consolidare il loro ruolo proprio attraverso le spaccature degli Stati-nazione prin-cipali: Spagna, come già ampiamente detto, ma anche Gran Bretagna, da sempre nazione scettica nei confronti dell’integrazione politica a colpi di cessione di sovranità, quindi forse da ridurre all’obbedienza, o l’Italia, con le sue fragilità strutturali e il mai risolto problema dell’armoniz-zazione tra settentrione e mezzogiorno.

Questioni poi all’ap-parenza minori, come quella del Tirolo o della Corsica, oppure l’insta-bilità tra le due compo-nenti etniche in Belgio — fiamminghi e valloni —, potrebbero, som-mandosi, rappresentare in un futuro prossimo un grimaldello politico per la cessione di sovra-nità nazionale da parte di governi centrali a isti-tuzioni “super partes”, come quelle dell’UE, che andrebbero così a colmare a modo loro le lacune nella gestione delle criticità politiche territoriali interne agli Stati-nazione.

Durante la scorsa estate fecero molto clamore sia la que-stione catalana, sia il prossimo referendum su di un’ipote-tica indipendenza della Scozia da Londra.

In entrambi i casi, le discussioni in seno alla Commissione Europea e al Parlamento Europeo non vertevano tanto sul contrasto a questi fenomeni disgregativi, quanto su come si potessero armonizzare i processi d’integrazione di un eventuale neo Stato catalano o scozzese nell’ambi-to dell’UE o dell’area euro. Fatto salvo un certo legittimi-smo di facciata, le istituzioni comunitarie non sembrano escludere, e non giudicano nemmeno destabilizzante, l’eventuale disgregazione di uno Stato membro.

Sembra incredibile, ma è la verità. Basta leggere dietro le righe dei comunicati ufficiali, o seguire i dibattiti su tali questioni per avvertire una certa ipocrisia di fondo.

Ecco quindi motivata la nostra critica nei riguardi dell’et-nonazionalismo: esso potrebbe essere una medicina

peggiore del male che vorrebbe andare a curare.

Un’Europa piegata dalla crisi economica, in cui gli Stati-nazione tradizionali fossero ulteriormente indeboliti nel-le loro prerogative unitarie, aprirebbe la strada alla com-parsa di tanti “nanetti da giardino”, incapaci di compiere scelte realmente indipendenti, che non andassero al di là della toponomastica, e quindi bisognosi di protezione “dall’alto”.

Ogni gruppo politico localista, infatti, pone come prio-ritaria l’adesione di una eventuale neo/micro nazione

regionale all’UE. Condi-zione evidentemente indispensabile per po-ter reggere il confron-to con un mondo mul-tipolare competitivo, dominato da potenze le cui dimensioni sono continentali (Cina, Sta-ti Uniti, Russia, ecc.). Questo dato di fatto, se si concretizzasse, con-ferirebbe alle istituzioni comunitarie un primato indiscusso sia sulle neo/micro nazioni regiona-li, sia su quel che resta degli Stati-nazione già esistenti, orbati di por-zioni rilevanti del loro territorio. Fatto ancor

più grave, e perfettamente realistico, sarebbe che le neo/micro nazioni si vedrebbero costrette ben presto ad af-fidare all’UE molta della loro conquistata sovranità, per ragioni di sopravvivenza economica, in quanto realtà così fragili sarebbero facile preda della speculazione apolide; quindi avrebbero bisogno di una copertura sovranazio-nale, abbastanza autorevole politicamente e, per giunta, detentrice dell’emissione di moneta.

Il trionfo dell’etnonazionalismo sarebbe quindi effimero, in quanto verrebbero magari sciolte le sedicenti “cate-ne” che opprimono la libertà dei popoli a vantaggio dei governi centrali nazionali, ci sarebbe la vittoria del re-gionalismo in nome dell’identità locale e dell’autodeter-minazione, ma si conferirebbe, per contro, una capacità di manovra politica alle istituzioni dell’Unione unica nel suo genere, e in grado di poter far aumentare il proprio potere decisionale autoreferenziale, senza più il rischio di doversi scontrare con soggetti forti, in una dialettica alla pari.

Etnonazionalismo.

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Il motto “Divide et impera” non potrebbe essere più cal-zante in un simile scenario.

Per uno Stato-nazione forte in un’Europa nuova

In conclusione, possiamo dire che l’attuale condizione complessiva in cui versa il Vecchio Continente è irta di pericoli, che pendono sulla testa di ogni europeo come una spada di Damocle.

Il male sta all’origine; l’aver creato i presupposti per la na-scita di un organismo sovranazionale privo di controllo diretto dagli Stati-nazione, che ha dimostrato di essere in grado di prendere consapevolezza del proprio ruolo, ormai importante e incontestabile, nella fase di crisi eco-nomica e di declino strutturale che ha colpito l’intero Oc-cidente.

L’Europa delle grandi realtà nazionali è oggi a rischio, così come quel processo di unificazione identitaria che ha avuto nello Stato-nazione il suo strumento principale.

Senza che le classi politiche continentali avessero co-scienza del pericolo incombente hanno proseguito cieca-mente in questi anni del XX secolo nello smantellamento delle loro difese, privandosi della capacità di poter essere artefici del proprio destino, ed esponendo i loro popo-li a quel che è successo fin qui. In nome di un’ideologia omologante e individualistica, sono state poste all’indice tutte quelle forze e quelle caratteristiche peculiari che in passato resero grandi le nazioni dell’Europa occidentale.

Serve, e serve subito, una concreta inversione di rotta.

Le forze disgregatrici che dominano le istituzioni dell’UE possono ormai contare sulle criticità economiche degli Stati-nazione per poter proseguire nella loro opera. Addi-rittura, secondo noi, potrebbero anche utilizzare fenome-ni d’identitarismo locale per fiaccare le ultime resistenze dei singoli governi centrali. Purtroppo non vediamo nell’immediato, tranne che in qualche caso isolato, la ca-pacità di coagulare i popoli verso nuove forme di patriot-tismo e di comunitarismo nazionalista. Tuttavia la nostra speranza in un mutamento nel corso degli eventi resta immutata, e l’azione politica che svolgiamo con abnega-zione cerca, nel suo piccolo, di mantenere viva una certa idea di nazione e di Europa.

Un’idea di nazione che non ha nulla di nostalgico o di re-trivo.

Un’idea di Europa lontana da tutto quello che è stato re-alizzato da classi dirigenti orbate di qualsiasi legittimità e prive di fede identitaria.

Noi siamo per uno Stato-nazione forte, in un’Europa rin-novata nello spirito, prima che nelle sue articolazioni po-litiche, economiche o sociali.

Tuttavia, come già scrivemmo in altre occasioni, gli ideali devono concretizzarsi in modelli organizzativi, capaci di dare risposte certe a problematiche concrete. E saranno solamente i popoli a decidere se è tempo di cambiare radicalmente il corso della storia d’Europa, o diventare semplici oggetti del nuovo potere apolide che si sta im-ponendo a discapito della nostra grande civiltà.

Lo Stato-nazione europeo nella crisi del nostro tempo

Thule Soci

Céline secondo Céline

Thule Soci

Céline secondo Céline

Thule Soci

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Amore: il Ricordo e il manifestarsi dell’Idea contro la Decadenza

(ultima parte)

Pasquale Piraino

Giulio Cesare Andrea Evola nasce a Roma, il 19 Maggio del 1898. Fu una personalità estremamente poliedrica e versata in ogni ambito dello scibile umano. Secondo la storiografia ufficiale fu un fascista “nudo e crudo”, intellet-tuale influente negli ambienti del Fascismo italiano e del Nazionalsocialismo tedesco. Nulla di più falso, a detta dello scrivente. Basta avere la pazienza di leggere qual-che fonte dell’epoca per vedere che il nostro pensatore fu una personalità di spicco nell’epoca dei “fascismi”, ma co-munque molto scomoda: gli ambienti culturali italiani lo guardavano con sospetto e quasi sopportandolo: proba-bilmente gli fu permesso di operare solo in virtù della sua amicizia con il Duce Benito Mussolini, il quale certa-mente ammirava e condivideva alcu-ni aspetti del suo pensiero. In Germa-nia invece, Evola, per via delle sue idee filolatine, fu da subito mal visto, tanto che il Brigadeführer SS Karl Ma-ria Wiligut lo definì un “romano rea-zionario”, consigliandone al contem-po l’allontanamento dal suolo tedesco, riconoscendo non solo come non conforme agli standard culturali nazionalsocialisti la sua dottrina, ma addirittura come nociva e pericolosa. Documenti ufficiali confermano quanto scritto. Evola quindi, lungi dall’essere un propagandista o un so-stenitore dei due regimi, fu innanzi-tutto un libero pensatore, le cui idee collimavano in parte con gli standard dei due sistemi culturali, ma che spes-so prendevano direzioni non gradite e diverse. Nel corso della sua vita produce un’opera culturale immensa ed estremamente varia, oggi purtroppo dimenticata: nelle scuole si studiano i rigurgiti intellettuali partoriti da men-talità distorte (e storicamente disturbate) quali quelle di Feuerbach o di Engels e non si dedica nemmeno un mi-nuto per analizzare gli scritti di questo eclettico filosofo, che è stato letteralmente divorato dall’Industria Culturale adesso vigente. Vive nel secondo dopoguerra una vita da intellettuale ignorato e recluso, arrivando comunque a fondare la “Fondazione Julius Evola per la difesa dei valo-ri di una cultura conforme alla Tradizione”, con lo scopo di

proseguire quella lotta etica e morale da lui cominciata. Muore nel 1974 e, pur costretto sulla sedia a rotelle, vuole morire in piedi, pieno nello spirito di quella dignità e co-raggio che l’Uomo mantiene pure davanti a Dio: alcuni amici lo tengono eretto durante gli ultimi minuti della sua vita di fronte alla finestra della sua stanza che guarda il colle Gianicolo. Esponiamo quindi alcuni capisaldi del suo pensiero che si riagganciano al tema di questo scrit-to. Evola prende ispirazione dai testi vedici indù e dalla scuola dello yoga tantrico, ampliandone però i contenuti e fondendoli insieme con i capisaldi teorici e metafisici

della filosofia idealista europea. Egli crede fermamente in uno scorrere temporale ciclico e non lineare: il tempo e gli sviluppi storici non han-no un inizio ed una fine, ma seguono invece un andamento circolare, cicli-co, del tutto simile a quello delle sta-gioni; in particolare Evola riconosce come corretta la visione indù delle quattro ere dell’umanità: Età dell’Oro (Satya Yuga), Età dell’Argento (Treta Yuga), Età del Bronzo (Dvapara Yuga) ed infine Età del Piombo (Kali Yuga). Queste quattro ere si susseguono all’interno della Grande Era (Mahayu-ga). Il succedersi di queste ere rap-presenta un lento decadere della ci-viltà umana, che parte dalla migliore condizione, quella più vicina alle di-vinità, nell’età dell’oro, per scivolare lentamente, ma inesorabilmente, verso condizioni di stato animalesco

e di depravazione morale man man che ci si avvicina all’era finale, all’età del piombo. Secondo i testi indù, l’età attuale è quella del piombo, la più bassa in assoluto, quel-la nella quale gli dèi, sconcertati dalla condizione bestiale nella quale gli uomini sono scesi, si ritirano in luoghi se-greti lasciando l’essere umano in balìa di se stesso. Da qui parte l’analisi di Evola: secondo il pensatore italiano, l’uo-mo originario non era un essere derivato dalla scimmia, ma un dio caduto, un semidio, dotato di un’altissima componente spirituale che gli donava doti intellettive e poteri “magici” fuori dal comune. Ma con il proseguire dei tempi e il precipitare delle ere (dall’oro verso il piombo)

Julius Evola.

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egli perse la componente spirituale, aumentando invece quella materiale, sprofondando nella terra invece di ascendere al cielo, e impantanandosi in cose “umane, troppo umane”. Così il primo popolo di divini “dimenticò” il proprio retaggio (proprio come gli angeli del Graal pri-ma descritti) e dovette abbandonare la propria patria po-lare, nordica, a causa di un cataclisma che sconvolse il mondo. È la diaspora degli Arii, dei Puri, degli abitanti dell’Ultima Thule. Il cataclisma fu attirato dalla loro stessa caduta, dall’avere abbassato il loro spirito puro come il Fuoco al livello della materia: non più dèi, divennero ani-mali. Evola espone quindi un’analisi storica che verte su queste basi teoriche, dimostrando la falsità dell’evoluzio-nismo darwiniano e della teoria etnologica dell’ex oriente lux, analizzando inoltre le fasi di ascesa e caduta (sincro-niche al ciclo delle ere) di tutti quei popoli che manifesta-no sintomi di un antico retaggio ancestrale Ariano, o per meglio dire Iperboreo. Evola spinge molto sul fatto che il dimenticare la propria origine divina, il non curare il pro-prio spirito, fa precipitare ancora di più nel regno della materia, rendendo l’uomo di fatto un animale, fisicamen-te ed intellettualmente. Questa caduta dell’Uomo (con la maiuscola per distinguere l’Uomo-Dio dall’uomo-bestia) è comunque inevitabile, poiché implicata dal susseguirsi delle ere. Come uscire allora da questa spirale degenera-tiva? Evola trovò risposta nei testi tantrici. Essi illustrano una pratica di Yoga sessuale, basato sull’unione di uomo e donna, di elemento maschile e femminile, al fine di ri-creare l’Uno-Tutto, di riscoprire il divino all’interno del sé. Questi testi trovano una fortissima simbologia nell’unio-ne di Shiva e della sua consorte Parvati (due divinità vedi-che). Tale scuola yoga si scisse in due distinte correnti di pensiero che pur partendo da idee originarie uguali arri-vavano a metodologie pratiche molto diverse, anzi oppo-ste, ma complementari: il Tantrismo della Mano Destra raccomandava un’unione esclusivamente spirituale e animica, ma non fisica, tra Uomo e Donna; quello della Mano Sinistra invece consigliava un’unione fisica, carna-le, regolata però da alcune tattiche e precetti fondamen-tali. Evola ritenne come vincente la via della Mano Sini-stra. Egli riteneva infatti che era tanto grave la caduta nelle profondità della materia che essa poteva essere combattuta solo mediante i suoi stessi mezzi materialisti-ci e lontani dalla dimensione spirituale originaria. Egli crede che tanto per l’Uomo quanto per la Donna, la Pu-rezza Divina originaria possa essere conquistata solo an-dando “a cavallo di una tigre”; l’energia sessuale sviluppa-ta durante l’amplesso è effettivamente potentissima (proprio come una tigre) e permette ai due di aprire una sorta di via di fuga dalla materia e dal mondo sensibile, ma il rischio è molto elevato: chi cade dal dorso della ti-gre finisce sbranato dalla belva ed eguale fine (a livello animico) attende chi dimentica i precetti del tantrismo

sinistro per godere dei semplici piacere fisici; il fine ulti-mo è utilizzare le pulsioni materiali per ridare salute allo Spirito e la spinta sessuale è come un fuoco che scioglie l’Animo dai ghiacci della materia che lo intrappolano. La fiamma va comunque domata, affinché non bruci chi la usa. L’ Uomo e la Donna capaci di seguire fino in fondo questa via (che potrebbe ricordare la cerimonia simboli-ca dell’Asag prima descritta) riottengono l’Egoità Assolu-ta, guadagnando la via d’uscita da questo mondo o piano e restaurando il proprio spirito: tornano nell’Iperuranio, insieme. Il fatto che Evola abbia del tutto perso ogni trac-cia di poesia o di sentimento d’Amor che prima si trova-vano in tutte le espressioni dell’Idea non deve stupire il lettore: secondo il filosofo, la condizione in questi tempi è tanto critica che solo mezzi estremi possono dare a Uomo e Donna una possibilità di salvezza da questa terra deso-lata. Non c’è quindi più spazio per nessun sentimento, la lotta è tale che risulta necessario usare qualsiasi arma. Da qui l’importanza dell’amore fisico, seppur debitamente regolato e canalizzato.Si è descritto a grandissime linee il pensiero evoliano, fo-calizzando sulla parte che interessa il nostro scritto. Pro-seguiamo quindi con Miguel Serrano, il pensatore che a detta dello scrivente ha portato la teoria d’Amor al livello più alto che ci sia permesso apprendere in questa buia fase storica che l’Uomo è costretto ad affrontare.Miguel Serrano Fernández nasce a Santiago del Cile il 10 Settembre 1917. Da giovane simpatizza per l’estrema sinistra cilena, ma subito si appassiona al Nazionalsocia-lismo, iscrivendosi poi al Movimento nazionalsocialista cileno. Durante la seconda guerra mondiale vorrebbe partire per la Germania come soldato volontario, ma la partenza gli è negata. Dopo la sconfitta della Germania inizia l’attività diplomatica per il suo Paese che lo porte-rà a essere ambasciatore cileno in India, in Jugoslavia e in Austria. Lavorò inoltre presso l’Agenzia per l’energia atomica dell’ONU. Ma tutto questo , per quanto manife-stazione di un intelletto finissimo, è nulla in confronto a quello che egli realizzò nel suo percorso di vita : dotato di una conoscenza immensa in tutti i campi dello scibile umano, viaggiò in Antartide alla ricerca delle misteriose oasi di acque temperate, strinse amicizia con personaggi di spicco dell’epoca: Léon Degrelle, Otto Skorzeny, Hans-Ulrich Rudel, Saint-Loup, Hanna Reitsch, Julius Evola, Her-mann Wirth, Wilhelm Landig, Ezra Pound, Indira Gandhi, Hermann Hesse, C.G. Jung e il Dalai Lama; fu scrittore, fi-losofo, esoterista, ricercatore, archeologo. La realtà è che egli visse la sua vita nel segno della Ricerca continua e del lavoro di perfezionamento interiore. Testimonianze di tutte le sue avventure in giro per il mondo e dei suoi numerosi studi rimangono nei suoi libri, testi di altissimo valore intellettuale e culturale, tradotti in decine di lingue europee e asiatiche. Nonostante fosse un fervente nazio-

Amore: il Ricordo e il manifestarsi del’Idea

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nalsocialista e hitleriano dichiarato, fu tanto grande la sua statura intellettuale che mai nessuno poté fermarlo o mettergli il bavaglio per via della sua visione del mondo. Purtroppo neanche lui è sfuggito all’opera di insabbia-mento che il sistema culturale vigente applica a tutti co-loro che hanno un punto di vista eterodosso. Ma a Serra-no non interessava parlare alle masse, nella maniera più assoluta: egli condivideva appieno la visione fortemente aristocratica ed elitaria degli studi filosofici e culturali in generale; era fermamente convinto che chiunque sentisse la Vocazione interiore alla Verità avrebbe trova-to la strada per la Conoscenza in-dipendentemente dal fango intel-lettuale e morale nel quale si vive. Miguel Serrano morì il 28 febbraio 2009 a Santiago del Cile, lottando per i propri ideali aristocratici ed elitari in un mondo che, secondo lui, si avvicina sempre più a una fine irrevocabile. Muore mentre nella città infuriava una grandiosa tempesta: pur nel silenzio degli uo-mini, la Natura pianse la scomparsa di un Grande Maestro. Esponiamo quindi la visione co-smologica di Serrano in relazione alla dottrina d’Amor finora analiz-zata, tenendo a mente che il suo pensiero rappresenta una summa non solo degli argomenti sinora esposti, ma in generale di miti, leg-gende, tradizioni e religioni mon-diali di ogni tempo: Serrano, infatti, nei suoi viaggi en-trò in contatto con diverse personalità religiose e studiò praticamente tutti i miti e le religioni umane, cercando il filo comune (la Catena Aurea) che dietro le leggende collegasse tutte le manifestazioni del sapere umano. Nel pensiero di Serrano si ritrovano quindi tracce dei miti indù, ma anche greci, norreni, mithraici, ecc. Il sapere di Serrano inoltre è refrattario alla ragione meccanicistica, alla fredda razionalità: esso privilegia l’intuizione, che es-sendo personale non è spiegabile. Il lettore tenga sempre a mente queste informazioni.La visione cosmologica di Serrano implica una fortissima lotta tra Bene e Male, che assume i tratti di una vera guer-ra, con eserciti e schieramenti opposti. Secondo il poeta, in un originario universo incontaminato dalle leggi della fisica attuale (le leggi della meccanica classica, per inten-derci) e dalla Materia, esistevano degli Dèì formati da una sostanza prettamente spirituale; queste divinità erano degli androgini, chiamati LuiLei e LeiLui a seconda che all’interno dell’essere prevalesse il principio maschile o

quello femminile. Erano delle monadi o purusha (in san-scrito), delle uova orfiche: degli esseri rotondi, circolari, nel senso di completi in sé e per sé. Ma un’entità mali-gna, il Demiurgo, cominciò a plagiare l’universo degli Dèì, l’Iperuranio o Iperborea Celeste, utilizzando la Materia per imitarlo; facendo questo creava un universo finito (ma-teriale e corpuscolare) all’interno di un universo infinito (spirituale ed etereo) che fosse l’esatta copia del prece-dente, ma vuota e senza vita. Nelle monadi però accade

qualcosa che portò alla separazione degli androgini: Lei abbandona Lui-Lei e Lui abbandona LeiLui, cadendo all’interno dell’universo maligno del Demiurgo: questo corrisponde esat-tamente alla distruzione dell’andro-gino nei miti platoniani. Il Maligno crea inoltre degli esseri esternamen-te simili agli Dèi, ma fatti di Materia (come il dio del vecchio testamento creò Adam impastando il fango) e animaleschi, privi di Spirito. La parte caduta dell’Androgino si innamora di questi corpi fatti di materia e vuo-ti, perdendosi così nell’universo de-miurgico (traccia di qualcosa di simi-le si trova nella Genesi, dove è scritto: “I figli di Dio si innamorarono delle figlie dell’Uomo”). Che cosa succede all’altra parte della Monade Origina-ria? Incalzata dall’Amore (non fisico, ma spirituale) per la parte persa da una parte e attaccata dall’avanza-re della Corruzione del Demiurgo

dall’altra, si incarna anch’essa nel mondo sensibile per prendere parte a una guerra che da un lato è condotta contro le forze maligne disgregatrici che plagiano l’Uni-verso Originario, dall’altro verso il ricongiungimento con il sé mancante, al fine di raggiungere di nuovo la comple-tezza originaria. Ricercando però la parte persa, l’Andro-gino “mutilato” crede di trovarla nelle opere materiali del demiurgo: questo accade a causa del fatto che il princi-pio originale che scappò dalla monade si mischiò con i primi “golem d’argilla” del maligno. Inizia a procreare con loro, generando così una razza bastarda, per metà divina e per metà animale, menomata dalle capacità spirituali di partenza: è la razza degli Eroi, essere umani dotati di capacità eccezionali: sono Adone, Achille, i Vira dei poemi epici indiani, ma anche Siegfried, Parzifal e altri ancora. Ma l’imbastardimento proseguì, poiché il semidivino per-sisteva nel seguire l’amore fisico per le creature del De-miurgo, dimenticandosi della sua origine divina e della sua Vera Compagna o del suo Vero Compagno, che è la parte dell’Androgino lasciata nell’altro universo. Secondo

Miguel Serrano.

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Serrano, questo imbastardirsi porta da un lato all’abbas-samento delle capacità intellettuali dell’individuo, che di-venta sempre più un guscio vuoto, un animale nella man-dria, dall’altro fa dimenticare le proprie origini divine. Egli non sente più il proprio spirito interiore, ma si riconosce come un ammasso materiale, un sacco di carne. Altro ef-fetto collaterale è la trasformazione del proprio desiderio di cercare la completezza perduta del suo Io, che è il vero amore, nella ricerca all’infuori di sé, all’esterno: egli vede negli altri il riflesso della sua parte perduta. Così continua a perdere se stesso, imbastardendosi sempre più; il pro-cesso è eguale a quello della diluizione di una soluzione: si parte da una fase concentrata ricca in costituenti per arrivare a una diluita e povera rispetto alla concentrazio-ne originale.Così Serrano spiega la teoria delle ere umane che anche lui come Evola approva pienamente. Il continuo imba-stardimento provoca la decadenza delle civiltà, arrivando a un punto tale che da un’epoca perfetta si arriva a una estremamente corrotta.Miguel Serrano non si ferma a queste analisi, ma va molto oltre, analizzando come dovrebbe essere il rapporto otti-male tra Lui e Lei (scritte con le iniziali maiuscole, per indi-care le parti divine originarie), affinché si possa restaurare la completezza del proprio Spirito, ritornando allo stato di gloria iniziale. Egli nota come in tutti i Miti del patri-monio culturale umano ci siano delle costanti che si ripe-tono periodicamente. In particolare, spesso le leggende raccontano di un Eroe che parte alla ricerca di qualcosa, ma non riesce a completare la sua missione sino a quan-do una donna non viene in suo aiuto. Esemplificativa è l’analisi prima esposta del Parzifal e della ricerca del Gra-al; non torneremo su questo, preferendo analizzare sin-teticamente il mito di Giasone. Egli parte alla ricerca del Vello d’Oro, e non è casuale che egli ricerchi un oggetto costituito dall’aureo metallo: questo è l’oro alchemico del quale abbiamo trattato prima. Giasone non riesce a conquistare il Vello sino a quando non incontra Medea, che, innamorata di lui, gli dona gli strumenti e i mezzi per superare le prove che lo porteranno alla conquista del mitico oggetto. Ma il mito prosegue: Giasone procrea dei figli con Medea, tradendola in seguito per un’altra don-na e abbandonandola: qui comincia la definitiva caduta dell’Eroe, consumandosi la sua tragedia che lo porta alla perdita di tutto ciò che aveva conquistato (regni, ricchez-ze, finanche i propri figli). I nuclei principali del mito di Giasone, appena esposti, sono comuni a moltissimi Miti facenti parte del patrimonio culturale mondiale. Cambia solo il finale: se l’Eroe riesce a mantenere la propria casti-tà e la fedeltà verso la donna che lo aiuta il suo successo è totale (è il caso del Parzifal), ma se fallisce rompendo la castità o tradendo la donna la sua rovina è immediata (è il caso della coppia Giasone-Medea, oppure di Siegfri-

ed-Brunhild). Secondo Serrano questi Miti esprimono in chiave simbolica alcuni concetti fondamentali:- l’Eroe non è un uomo qualunque, ma spesso è figlio di divini o vanta discendenza divina: questo indica che il Viaggio che egli intraprende non è per tutti, ma solo per coloro che hanno sangue divino nelle vene, per i discen-denti di quell’antica razza di divinità che giunsero sulla terra. È quindi un Cammino altamente aristocratico, anti-democratico in senso lato.- Il Viaggio e la ricerca rappresentano il cammino di puri-ficazione che l’Eroe deve affrontare per riscattare il pro-prio sangue imbastardito nella materia e riconquistare la sua condizione divina, esattamente come visto nel caso dell’Opus Alchemico.- L’Eroe da solo fallisce sempre: questo perché è incom-pleto, come incompleto era il Dio dal quale discende. Solo il rincontro con la sua controparte lo salva, o meglio con l’involucro materiale che la contiene. Essa gli dona i mezzi per riuscire nelle prove: in altre parole, gli dona la forza spirituale che deriva dalla completezza.Serrano nei suoi libri illustra vari esempi simili a questo, al lettore il compito di approfondire. Secondo lui comunque la castità va mantenuta, perché l’unione deve essere di tipo animico, spirituale. Continuando a generare figli ma-teriali si continua a perdere la propria matrice originaria nel mondo dei sensi. Ma come raggiungere questa unio-ne spirituale? Egli identifica il Tantrismo indiano come la via maestra, propendendo però, a differenza di Evola, per la Via della Mano Destra, quella simbolica, dove il contat-to fisico tra amanti, tra Lui e Lei, non esiste, ma ognuno crea nella propria mente la propria controparte perduta. In altri termini la riscopre dentro il proprio sé. Non quindi tramite i mezzi della Materia, tipici della Via Sinistra, ma tramite il più potente mezzo Spirituale, ovvero l’Immagi-nazione Creativa, si riesce a creare l’Io Assoluto, l’Andro-gino Assoluto. Amore secondo Serrano è quindi una via eroica di combattimento, perché ricreando dentro il sé la completezza assoluta si recupera la perduta divinità, si recupera la Lei (o il Lui) che fu irretito dal Demiurgo, vin-cendo così la battaglia contro il maligno. Gli ostacoli per la propria redenzione sono però ovunque: in particolare è facile che si cada nell’errore di scambiare una persona qualsiasi per la propria metà perduta. L’Eroe in questo caso rischia di perdersi, cercando di interiorizzare una persona che non è la sua Compagna Originaria. L’unica sua fortu-na può essere quella di accorgersi dell’errore compiuto. Per dimostrare quanto questi ragionamenti metafisici siano in realtà “più reali di qualsiasi cosa esistente” (per utilizzare le parole di Serrano), riporto un brano tratto da Michael, diario di un destino tedesco, scritto da Joseph Go-ebbels. Questo racconto fortemente autobiografico illu-stra il sentimento che Goebbels provò quando colei che egli credeva essere l’amore della sua vita in realtà si rivelò

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come una delle tante informi (o deformi) figure femminili che compaiono alla vista dell’uomo, distraendolo dalla vera ricerca e facendolo inabissare ancora di più nel pe-sante mondo materiale. Ecco il brano: “Ho molto amato Herta Holk. L’amo ancora e l’amerò per sempre. Ma non era la compagna che ti permette di resistere contro tut-to. Credo che io non la troverò mai. […] Herta Holk è at-tratta dal nuovo, ma è ancora troppo legata a pregiudizi meschini, a vecchie concezioni. […] Lei si accontenta di una situazione intermedia. Fa compromessi, tiene più alla pace dell’anima che alla lotta e alla prospettiva di essere un vincitore invece che un vinto” (Michael, diario di un de-stino tedesco, Editrice Thule Italia).L’uomo che riesce a essere fedele alla propria Lei, alla par-te di sé perduta, guadagna l’Egoità Assoluta, riconquista l’Io Totale o, per usare termini platonici, “mette le ali e tor-na nell’Iperuranio”. In questo modo si smaterializza il cor-po che torna a essere Spirito puro e si torna nell’Antica Pa-tria. E, secondo Serrano, nel mondo metafisico, in quello non sensibile, l’Uomo Assoluto (o Donna Assoluta) riesce a ritrovare la propria parte perduta che egli immaginò. Questo perché in realtà immaginare è ricordare: secondo il pensatore l’immaginazione creativa non fa altro che ri-portare alla luce una parte del sé precipitata nei meandri dell’io incosciente, che viene riportata al livello cosciente mediante la “scorciatoia” del finto crearla dal nulla. Si ri-esce a riscattare dal mondo della Materia la parte che il Demiurgo irretì, riportando poi entrambi (riuniti all’Inter-no dell’Io-Assoluto, completo, totale, dato dall’unione di maschile e femminile) nella patria originaria e incontami-nata dalla meccanica demiurgica. Si chiude il cerchio e si vince la guerra. Quindi si capisce il senso altamente sim-bolico dell’amore cortese o dello stilnovismo dantesco: non importa chi sia realmente la donna fisica incontrata, ma semplicemente quello che lei rappresenta per il poe-ta, quello che risveglia in lui: il ricordo della sua Vera Com-pagna. Serrano in questi termini spiega anche l’amore dei Minnesӓnger, svelando chi è l’Amata che il poeta crea con i suoi scritti. La fedeltà verso Lei non è quindi solamente lealtà verso la donna che ispira, ma verso se stessi, ovvero verso la parte perduta del sé che una volta riconosciuta (ricordata) va coltivata interiormente nel proprio Spirito, così da ridarle vita nel senso ontologico del termine. Me-diante le idee di Serrano si capisce meglio anche la tra-sformazione alchemica dell’androgino, come processo di raffinazione che implica la nascita del maschile e femmi-nile all’interno dell’Io dell’alchimista. Risulta infine chiara anche la natura della forza incredibile che sostiene Parzi-fal nella sua ricerca o che salva Faust da dannazione cer-ta: la presenza di Qualcuno che lottava per Lui, dandogli forza e valore anche da lontano, anche se sperduto come un diamante in mezzo a un deserto di sabbia. Lo Spirito potente di questi eroi vinceva i vincoli della materia, che

ingabbia e limita. La visione serranesca abbraccia e incor-pora in sé tutte le manifestazione dell’Idea d’Amore sino a ora analizzate, dando spiegazioni a tutti i lati oscuri in-spiegati. Il cerchio è chiuso, credo di avere fornito al lettore tutti gli spunti per delle future ricerche personali, magari per rivedere conoscenze pregresse sotto un’ottica diversa. Si è voluto creare questo scritto per dimostrare come, nonostante la macchina mediatica ci bombardi costante-mente con una certa visione delle tematiche sentimentali e amorose che abbassano l’uomo e la donna al livello be-stiale, in realtà le cose non stiano così. Amore non è puro sesso o libido, ma altro, moltissimo altro. Amore è energia che ridà vigore e forza alla fiamma divina latente nell’uo-mo. Si può chiamare Teomorfosi, Iperuranio, Paradiso o in qualsiasi altro modo: la realtà è unica, cambia solo il nome del luogo mitico dal quale i Primi Divini vennero ed al quale l’uomo lotta per potere ritornare. Abbiamo at-traversato qualche tappa saliente dello sviluppo storico e dialettico dell’Idea, dimostrando il moto spiraliforme del suo manifestarsi; si è partiti dall’amore in senso stretto (patetico, non nel significato dispregiativo del termine), per investire tutti i campi dello scibile umano: religione, filosofia, letteratura, storia, sino ad arrivare alla visione dicotomica dello scontro tra bene e male. Lo scrivente vuole infine sottolineare alcune cose. Per quanto la visio-ne metafisica sin qui esposta può avere, per certi versi, dell’assurdo o del fantascientifico, la realtà delle teorie è fortemente sostenuta da prove scientifiche, matematica-mente dimostrabili. Sull’esistenza di più universi paralleli la fisica quantistica si è già espressa: gli universi (il nostro per esempio) nascono quando due onde energetiche si scontrano, creando una interferenza sul piano dell’esi-stenza: per rendere più chiaro l’enunciato, l’esistenza è come un immenso mare in movimento; ogni volta che due onde si scontrano nasce la spuma marina, con an-nesse bolle: ecco, il nostro universo è solo una delle infini-te bolle esistenti, ciascuna allocata in una dimensione in base al proprio livello energetico (il livello energetico può essere misurato in base alla lunghezza d’onda dell’ener-gia, per esempio). Un essere, quindi, cambiando livello energetico potrebbe effettivamente cambiare dimen-sione. Sul processo alchemico della trasmutazione della Materia in Spirito invece la realtà è molto più semplice. Prendiamo l’esempio dell’elettrone, la più piccola parti-cella subatomica nel sistema atomico classico. Esso è un corpuscolo dotato di massa propria (e carica elettrica) che possiamo immaginare come un piccolo pianetino in orbita attorno al nucleo atomico (questo è il modello ato-mico classico, ormai ritenuto superato, ma di immedia-ta comprensione per tutti, utile inoltre ai fini del nostro ragionamento). Esperimenti hanno dimostrato che basta fornire sufficiente energia all’elettrone (tramite campi

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magnetici per esempio) per fare in modo che esso esca dall’orbita atomica e viaggi nello spazio. A questo punto l’elettrone è come se perdesse la sua massa iniziale, tra-sformando la sua natura corpuscolare (materiale) in onda elettromagnetica: riesce a passare attraverso gli ostaco-li, vibra come le radiazioni elettromagnetiche, produce luce. D’altronde la materia altro non è che energia “len-tissima”, ovvero con una lunghezza d’onda molto bassa, mentre la luce è energia ad altissima lunghezza d’onda, energia “veloce”. Spirito (Luce) e Materia hanno quindi la stessa matrice di provenienza: Energia. Gli alchimisti con i loro mezzi non erano assolutamente andati tanto lontano rispetto a quanto gli scienziati moderni hanno enunciato grazie ai loro potenti mezzi. Riguardo infine alla doppia natura dell’uomo potrei citare miti o concetti religiosi (come Eva estratta da Adamo, o il Tao), ma prefe-risco richiamare le parole di una persona che mi ricordò come, nell’individuo maschile, i cromosomi sono X ed Y: uno maschile e uno femminile. Termino questo articolo scrivendo che, oltre le spettaco-lari visioni metafisiche che l’ispirazione d’Amore ha dato all’uomo, oltre i capolavori letterari, le dottrine filosofi-che, le opportunità di ontologiche “di altri universi” o di smaterializzazioni delle masse, il messaggio che vorrei rimanesse dentro i cuori dei lettori sia quello di un’astio-sa rivolta contro il degrado etico e morale attuale. Non si nasce per soddisfare poveri piaceri individualisti o per essere consumatori che, tra i tanti beni di consumo, ac-quistano anche il bene sessuale. Non siamo venuti alla vita per seguire oziosi canoni estetici dettati da mentalità contorte e malate. Ogni persona è chiamata a altro, ad una lotta che è perfezionamento morale e fisico, svolta in opposizione all’ambiente ormai sterile e decadente che ci circonda. Nell’analisi seguita resta come costante la com-pagnia della donna per l’uomo e quella dell’uomo per la donna. Insieme si riesce a vincere l’entropia che fa deca-dere l’attuale società umana, da soli non si riesce a con-cludere assolutamente nulla, anzi si accelera la discesa verso l’abisso. Non quindi nella sudditanza nei confronti dell’altro, né tantomeno nell’attuale commistione caotica dei ruoli sociali, ma in un’intima collaborazione che por-ta anche alla corretta divisione dei ruoli, tra maschile e femminile, nel pieno rispetto di entrambi, perché uno è assolutamente inutile senza l’altro. Ogni individualismo è condannato alla rovina assoluta.

Bibliografia A. Oliverio Ferraris, Psicologia, Zanichelli Editore.R. Luperini, La scrittura e l’interpretazione, volume primo, tomo primo, Palumbo Editore.D. Del Corno, La letteratura greca, volume secondo.Principato Euripide, Le baccanti, edizioni BUR.

M. Imbimbo, Viaggio nella filosofia, volume primo, Palum-bo Editore.Platone, Simposio, Einaudi editore.Platone, Fedro, Einaudi editore.N. Sapegno, Antologia della divina Commedia, La nuova Italia.Dante Alighieri, Vita Nova, edizioni BUR.Autore ignoto, Mutus Liber, edizione fuori commercio posseduta dallo scrivente.Arnaldo da Villanova, Rosarium Philosophorum, edizione fuori commercio posseduta dallo scrivente.W. von Eschenbach, Parzival, Einaudi editore.J. W. Goethe, Faust, edizioni BUR.J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, edizioni Medi-terranee.M. Serrano, Adolf Hitler: l’ultimo avatara, volumi primo e secondo, edizioni Settimo Sigillo.J. Goebbels, Michael- Diario di un destino tedesco, editrice Thule Italia.

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Quando io e Taë, lasciata la città, abbandonammo sulla sinistra la via principale e ci addentrammo fra i campi, la strana e solenne bellezza del paesaggio, rischiarato fino all’orizzonte da innumerevoli lampioni, affascinò i miei occhi, distraendomi per qualche tempo dall’ascolto di quanto mi andava dicendo il mio compagno.Dovunque vedevo svolgere le varie attività agricole per mezzo di macchine dalle forme per me nuove, e spesso assai eleganti; tra quella gente l’arte viene coltivata ai fini dell’utilità e si prodiga nell’adornare ed affinare le forme degli oggetti pratici. I metalli preziosi e le gemme sono così abbondanti che vengono profusi su cose dedicate all’uso più banale: e l’amore per l’utilità spinge i Vril-ya ad abbellire gli strumenti, accendendo la loro immaginazio-ne in modo impensabile.In tutti i servizi, al coperto ed all’aperto, fanno grande uso di automi, così ingegnosi e sottomessi alle energie del vril, da sembrare veramente dotati di ragione. Era quasi impossibile distinguere le figure che vedevo intente a guidare od a sovrintendere i rapidi movimenti delle gran-di macchine, dagli esseri umani dotati di intelligenza.Poco a poco, mentre procedevamo, la mia attenzione venne attratta dalle osservazioni acute e vivaci del mio compagno. L’intelligenza dei bambini, in questa razza, è meravigliosamente precoce, forse perché essi sono abi-tuati a vedersi affidati, in così tenera età, gli utensili e le responsabilità dell’età adulta. Conversando con Taë, ave-vo la sensazione di parlare con un uomo superiore del mio mondo. Gli chiesi se era in grado di fornirmi una sti-ma del numero delle comunità in cui si suddivide la razza dei Vril-ya.“Non esattamente”, rispose lui, “poiché si moltiplicano ogni anno, con l’emigrazione della popolazione sovrab-bondante. Ma ho sentito dire da mio padre che, secondo i dati più recenti, vi sono un milione e mezzo di comunità che parlano la nostra lingua e adottano le nostre istitu-zioni e le nostre forme di vita e di governo, tuttavia con differenze di cui ritengo faresti meglio a chiedere precisa-zioni a Zee. Lei conosce queste cose meglio di tanti Ana. Un An s’interessa meno di una Gy alla cose che non lo riguardano direttamente; le Gy-ei sono creature curiose.”“E ogni comunità sì limita allo stesso numero di famiglie, o alla stessa consistenza della popolazione?”.“No. Alcune hanno popolazioni più esigue, altre più nu-merose, a seconda dell’ampiezza del territorio e dell’ec-cellenza dei loro macchinari. Ogni comunità stabilisce il proprio limite in base alle circostanze, badando sempre a far sì che non si crei una classe di poveri a seguito della

pressione della popolazione sulle capacità produttive, e che lo Stato non diventi troppo grande per un governo simile a quello d’una famiglia ben ordinata. Immagino che nessuna comunità dei Vril-ya superi le trentamila famiglie. Ma, in generale, tanto più una comunità è pic-cola, purché vi siano abbastanza braccia per sfruttare le possibilità del territorio, e più è ricco ogni individuo, più grandi sono le somme che versa al tesoro pubblico... e so-prattutto l’intera organizzazione politica è più tranquilla ed i prodotti dell’industria sono più perfetti. Lo Stato che tutte le tribù dei Vril-ya riconoscono come il più elevato, e che ha portato al pieno sviluppo l’energia del vril, è forse il più piccolo. Comprende solo quattromila famiglie, ma ogni spanna del suo territorio è coltivata con la perfezio-ne di un giardino; i suoi macchinari sono migliori di quelli d’ogni altra tribù, e non vi è prodotto della sua industria che non sia richiesto, a prezzi altissimi, dalle altre comu-nità della nostra razza. Tutte le altre tribù prendono a modello questo Stato, ritenendo che potremmo raggiun-gere il più elevato livello di civiltà permesso ai mortali se potessimo unire il più alto grado di felicità permesso a quello più grande delle conquiste intellettuali; ed è chia-ro che questo sarà tanto meno difficile quanto più picco-la è la società. La nostra è già anche troppo grande.”Questa risposta mi spinse a riflettere. Ricordai il piccolo Stato di Atene che aveva solo ventimila liberi cittadini e che ancora oggi le nostre nazioni più potenti considera-no guida e modello nel campo delle attività dell’intellet-to. Ma Atene permetteva rivalità accanite e cambiamenti continui, e certo non era felice. Scuotendomi dalla fan-tasticheria in cui mi avevano gettato queste riflessioni, riportai il discorso sull’emigrazione.“Ma quando”, dissi, “un certo numero di persone, mi sem-bra ogni anno, accetta di lasciare la patria e di fondare altrove una nuova comunità, necessariamente deve trat-tarsi di poca gente, appena sufficiente, anche con l’aiuto delle macchine che porta con sé, per dissodare il terreno, costruire città e formare uno Stato civile, con le comodità ed i lussi cui tutti sono abituati.”“Ti sbagli. Tutte le tribù dei Vril-ya sono in costante comu-nicazione fra loro, ed ogni anno concordano quale per-centuale di ciascuna sua unità si unisca agli emigranti di un’altra, in modo da formare uno Stato di sufficiente gran-dezza; ed il luogo dell’emigrazione viene scelto almeno un anno prima, ed i pionieri di ogni Stato vi si recano per spianare le rocce, imbrigliare le acque, e costruire le case. Perciò, quando gli emigranti si trasferiscono, trovano una città già pronta, ed una campagna almeno parzialmente

“La razza ventura” di Edward Bulwer-LyttonUltima puntata

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bonificata. La nostra dura vita da bambini ci induce ad amare i viaggi e l’avventura. Io stesso intendo emigrare, quando sarò maggiorenne.”“Gli emigranti scelgono sempre località disabitate e spo-glie?”.“In generale sì, poiché rispettiamo il principio di non di-struggere mai, se non quando è necessario per il nostro bene. Certo, non possiamo stabilirci nelle terre già occu-pate dai Vril-ya; e se prendiamo i terreni coltivati delle al-tre razze degli Ana, dobbiamo sterminarne i precedenti abitanti. Talvolta scegliamo zone desolate, e poi scopria-mo che una razza di Ana turbolenta e rissosa, special-mente se amministrata del Koom-Posh o Glek-Nas, s’irrita per la nostra vicinanza, e attacca briga con noi; e allora naturalmente l’annientiamo, perché minaccia il nostro benessere; è impossibile venire infatti a patti con una raz-za così idiota che cambia continuamente la forma di go-verno. Il Koom-Posh”, disse il ragazzino, in tono enfatico, “è già abbastanza negativo, ma possiede ancora un po’ di cervello, e non è privo di cuore; ma nel Glek-Nas il cervello ed il cuore degli esseri si annientano, ed essi diventano tutti zanne, artigli e ventre.”“Ti esprimi con molta energia. Permettimi di informarti che io stesso sono cittadino di un Koom-Posh, e ne sono fiero.”“Non mi stupisco più”, rispose Taë, “nel vederti qui, tanto lontano dalla tua patria. Quali erano le condizioni della tua comunità, prima che diventasse un Koom-Posh?”.“Una colonia di emigranti, come quelle della tua tribù: ma era molto diversa da esse, poiché dipendeva dallo Stato da cui proveniva. Si liberò da quel giogo e, coronata di gloria eterna, divenne un Koom-Posh.““Gloria eterna? Da quanto tempo dura il Koom-Posh?”.“Da circa cent’anni.”“La durata della vita di un An... una comunità molto gio-vane. Tra molto meno di cent’anni il tuo Koom-Posh di-venterà un Glek-Nas.““No: gli Stati più vecchi del mondo da cui provengo han-no tale fiducia nella sua durata che tutti modellano via via le loro istituzioni sulla nostra, e gli uomini politici più seri affermano che, inevitabilmente, tali vecchi Stati ten-deranno a diventare a loro volta Koom-Posh.““I vecchi Stati?”.“Sì, i vecchi Stati.”“Hanno una popolazione molto piccola in rapporto al ter-ritorio produttivo?”.“Al contrario, hanno popolazioni assai numerose, in rap-porto alla terra.”“Capisco! Sono davvero vecchi Stati! Così vecchi che an-drebbero in rovina se non spedissero lontano la popola-zione in eccesso come facciamo noi. Stati molto, molto vecchi! Ti prego, Tish, dimmi: ritieni saggio che i vecchi cerchino di fare le capriole come i bambini? E se chiedessi

loro perché lo fanno, non rideresti nel sentirti risponde-re che imitando i bambini sperano di diventare bambini anch’essi? La storia antica abbonda di esempi del genere, avvenuti molte migliaia di anni or sono: ed in ogni caso, i vecchi Stati che giocavano al Koom-Posh piombavano nel Glek-Nas. Poi, inorriditi, invocavano un padrone, come un vecchio rimbambito invoca l’infermiera; e dopo una suc-cessione di padroni o di infermiere quello Stato vecchis-simo spariva dalla storia. Un vecchio Stato che si affida al Koom-Posh è come un vecchio che abbatte la casa cui è abituato, ma nell’abbatterla esaurisce le sue energie, e invece di ricostruirla riesce solo ad erigere una buffa ca-panna, in cui egli stesso ed i suoi successori non fanno altro che lagnarsi: ‘Come soffia il vento! Come tremano le pareti!’ “.“Mio caro Taë, posso giustificare i tuoi pregiudizi, che qualunque scolaretto educato in un Koom-Posh potrebbe agevolmente contestare, anche senza essere un esperto precoce di storia antica come te.”“Io non sono affatto un esperto. Ma uno scolaretto edu-cato nel tuo Koom-Posh chiederebbe al trisnonno o alla trisnonna di camminare a gambe in aria? E se i poveri vec-chi esitassero, direbbe forse: ‘Di che avete paura? Vedete, io lo faccio benissimo’?”.“Taë, non voglio discutere con un ragazzino della tua età. Ti ripeto, tengo conto della mancanza di quella cultura che solo un Koom-Posh può impartire”.“Ed io, a mia volta”, rispose Taë, con un’aria di soave ma al-tera cortesia, tipica della sua razza, “non solo tengo conto del fatto che non sei stato educato tra i Vril-ya, ma ti pre-go di perdonarmi l’insufficiente rispetto per le abitudini e le opinioni di un così amabile... Tish!”.Avrei dovuto precisare prima che venivo comunemente chiamato Tish dal mio ospite e dai suoi familiari; era un nome cortese, anzi affettuoso, per indicare un piccolo barbaro, e letteralmente significava Ranocchietto. I bam-bini lo usano per le specie domestiche di rana che tengo-no nei loro giardini.Eravamo giunti intanto sulle rive di un lago, e Taë si sof-fermò ad indicarmi le devastazioni perpetrate nei campi circostanti. “Il nemico si nasconde sicuramente in queste acque”, fece. “Osserva i branchi di pesci che affollano le sponde. I pesci più grossi stanno insieme a quelli più pic-coli, che costituiscono la loro preda abituale e general-mente li evitano: tutti dimenticano l’istinto alla presenza di un nemico comune. Il rettile deve appartenere certa-mente alla razza dei Krek-a, una classe più famelica delle altre; si dice sia fra le poche specie superstiti dei più te-muti abitatori del mondo in tempi anteriori alla creazione degli Ana. L’appetito di un Krek è insaziabile... si nutre tan-to di vegetali quanto di animali; ma per le creature velo-cissime come i cervi è troppo lento nei movimenti. Il suo boccone preferito è un An, quando riesce a sorprenderlo

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alla sprovvista, e perciò gli Ana lo uccidono senza pietà ogni volta che penetra nei loro dominii. Ho sentito dire che, quando i nostri antenati bonificarono questo terri-torio, tali mostri ed altri simili erano numerosi, e poiché allora non era stato scoperto il vril, molti esponenti della nostra razza vennero divorati. Fu impossibile sterminare completamente questi animali prima della scoperta che costituisce la potenza della nostra razza e ne sostiene la civiltà. Ma quando imparammo gli usi del vril, tutti gli esseri a noi nemici vennero presto annientati. Peraltro, all’incirca una volta all’anno, uno di questi rettili enormi lascia le zone selvagge e spopolate; ricordo che uno di essi uccise una giovane Gy che faceva il bagno appun-to in questo lago. Se fosse stata sulla riva ed armata del suo scettro, il mostro non avrebbe osato neppure rivelar-si, perché come tutte le creature selvatiche ha un istinto prodigioso, e sta lontano da coloro che sono armati dello Scettro Vril. Come facciano ad insegnare ai piccoli ad evi-tarli, anche se li vedono per la prima volta, è uno di quei misteri di cui devo chiedere la spiegazione a Zee, poiché io non la conosco. Finché resterò qui, il mostro non uscirà dal nascondiglio; ma dobbiamo indurlo a venirne fuori.”“Non sarà difficile?”.“Per nulla. Siediti su quella roccia, a circa cento passi dalla riva, mentre io mi ritiro più lontano. Fra poco il rettile ti vedrà o sentirà il tuo odore e, rendendosi conto che non sei armato di vril, uscirà per divorarti. Appena sarà uscito dall’acqua, per me sarà una facile preda”.“Vorresti dire che io devo fare da esca per quell’orribile mostro che potrebbe inghiottirmi in un istante? Ti prego di dispensarmi.”Il ragazzetto rise. “Non temere”, disse. “Basta che tu stia seduto immobile.”Invece di obbedire, spiccai un balzo e stavo per darmi alla fuga, quando Taë mi toccò leggermente sulla spalla, fis-sandomi negli occhi, e io mi sentii inchiodato sul posto. La forza di volontà mi aveva abbandonato. Docilmente, seguii il ragazzino fino alla roccia che mi aveva indicata, e sedetti in silenzio. Molti lettori conosceranno senza dubbio gli effetti dell’elettrobiologia, autentici o spurii. Nessun professore di questa scienza discussa era mai riu-scito a influenzare i miei pensieri ed i miei movimenti; ma adesso ero una macchina in balìa della volontà di quel terribile ragazzino. Poi Taë spiegò le ali, prese il volo, e at-terrò in un boschetto sul ciglio di una collina piuttosto lontana.Rimasi solo e, volgendo verso il lago gli occhi, con un’in-descrivibile sensazione di orrore, li tenni fissi sull’acqua, affascinato. Trascorsero forse dieci o quindici minuti, che a me parvero secoli; poi la superficie tranquilla e splen-dente sotto la luce dei lampioni cominciò ad agitarsi al centro. Nello stesso tempo i branchi di pesci presso la sponda intuirono l’avvicinarsi del nemico. Li vidi fuggire

precipitosamente qua e là; alcuni si gettarono addirittu-ra sulla riva. Un solco lungo, scuro, ondulato, si aprì nelle acque, muovendosi, avvicinandosi sempre di più, fino a quando emerse l’enorme testa del rettile, con le fauci irte di zanne, gli occhi cupi fissi famelicamente su di me. Posò le zampe anteriori sulla sponda... poi il petto enorme, scaglioso come una corazza ai due lati, ed al centro co-perto da pelle corrugata di un giallo scuro e velenoso; poi salì sulla terraferma in tutta la sua lunghezza, cento piedi o più dalla testa alla coda. Un altro passo di quelle zampe terribili l’avrebbe portato sul punto in cui mi trovavo. Un solo istante mi separava da quella lugubre incarnazione della morte, quando nell’aria balenò un lampo, e per un momento più breve di un respiro, avviluppò il mostro. Quando il bagliore svanì, davanti a me giaceva una mas-sa annerita, carbonizzata, fumante, gigantesca ma infor-me, che si disgregava rapidamente in polvere e cenere. Io rimasi seduto, ammutolito, agghiacciato da una nuova sensazione di paura: quello che prima era orrore era dive-nuto sgomento.Sentii la mano del bambino sulla mia testa, e la paura mi abbandonò; l’incantesimo si ruppe e mi alzai. “Hai visto con quanta facilità i Vril-ya annientano i loro nemici,” fece Taë; e dirigendosi verso la riva, contemplò i resti fuman-ti del mostro e disse tranquillamente: “Ho ucciso animali più grandi, ma nessuno con altrettanto piacere. Sì, è dav-vero un Krek: quante sofferenze deve avere inflitto da vivo!”. Poi raccolse i poveri pesci che si erano gettati sulla spiaggia, e li restituì al loro elemento natio.

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Mentre tornavamo in città, Taë si avviò per un percorso diverso e più lungo, per mostrarmi quella che, usando un termine familiare, chiamerò “Stazione”: gli emigranti ed i viaggiatori usano partire da lì. In precedenza, avevo espresso il desiderio di vedere i veicoli dei Vril-ya. Consta-tai che erano di due tipi: uno per i viaggi di terra, l’altro per i viaggi aerei. I primi erano di ogni forma e dimensio-ne: alcuni non più grandi di una normale carrozza, altri vere e proprie case mobili ad un piano, comprendenti diverse stanze arredate secondo il concetto di lusso e di comodità tipico dei Vril-ya. I veicoli aerei erano di mate-riali leggeri e non somigliavano affatto ai nostri aerosta-ti, bensì alle nostre barche; erano muniti di timone ed avevano grandi ali al posto dei remi, ed una macchina centrale alimentata dal vril. Tutti i veicoli di terra ed aerei sono infatti azionati da quell’energia potente e misterio-sa. Vidi un convoglio in partenza: aveva pochi passeggeri, e trasportava soprattutto merci. Era diretto ad una comu-nità vicina, poiché fra tutte le tribù dei Vril-ya gli scambi commerciali sono molto attivi. Posso osservare, a questo punto, che la loro moneta non consiste di metalli preziosi,

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troppo comuni per venire utilizzati per un simile scopo. Le monete più piccole d’uso ordinario sono ricavate da una particolare conchiglia fossile, residuo relativamente scar-so di qualche antico diluvio, o di altri cataclismi naturali che ne hanno sterminato la specie. È minuscola e piatta come un’ostrica, ed ha una lucentezza gemmea. Questa moneta circola fra tutte le tribù dei Vril-ya. Le transazioni commerciali più consistenti si svolgono, come da noi, per mezzo di accrediti e di sottili lastre metalliche corrispon-denti alle nostre banconote.Approfitto dell’occasione per aggiungere che, nella tribù di cui fui ospite, le tasse erano considerevoli, in confronto alla popolazione. Ma non sentii mai nessuno lamentar-sene, poiché le entrate fiscali venivano devolute a sco-pi d’utilità generale, necessari alla civiltà della tribù. Le spese per illuminare un territorio così vasto, provvedere all’emigrazione, mantenere gli edifici pubblici in cui si svolgevano le varie attività intellettuali del paese, dalla prima educazione dei bambini fino ai Dipartimenti dove il Collegio dei Saggi conduceva sempre nuovi esperimen-ti meccanici, erano molto ingenti e richiedevano conside-revoli stanziamenti statali.Debbo aggiungere poi un particolare che mi sembrò molto singolare. Ho detto già che tutto il lavoro neces-sario per lo Stato viene svolto dai bambini e dai ragazzi fino all’età matrimoniabile. Lo Stato paga questo lavoro, corrispondendo retribuzioni assai più elevate di quelle in uso persino negli Stati Uniti. Secondo la teoria dei Vril-ya, ogni ragazzo, raggiungendo l’età del matrimonio e termi-nando il periodo di lavoro, deve aver guadagnato quanto basta per rendersi indipendente per tutta la vita. Come tutti i bambini debbono prestare servizio, quale che sia il patrimonio dei genitori, vengono del pari pagati egual-mente, secondo l’età e la natura del lavoro svolto. Quan-do i genitori o gli amici decidono di trattenere un ragaz-zino al proprio servizio, sono tenuti a versare all’erario la stessa somma che lo Stato paga ai bambini al suo servi-zio; e la somma viene consegnata al giovane allo scadere del periodo lavorativo. Questa consuetudine, senza dub-bio, contribuisce a rendere familiare e gradita la nozione dell’eguaglianza sociale; e se si può dire che tutti i bam-bini formano una democrazia, è altrettanto vero che tutti gli adulti formano un’aristocrazia. La squisita cortesia e la raffinatezza di modi dei Vril-ya, la generosità dei senti-menti, la libertà assoluta con cui possono seguire la loro vocazione, la bellezza dei rapporti domestici, in cui essi sembrano membri di un nobile ordine privi di diffidenza l’uno nei confronti dell’altro, tutto contribuisce a fare dei Vril-ya la più perfetta nobiltà che un discepolo politico di Platone o di Sidney21 potrebbe indicare quale ideale di una repubblica aristocratica.

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Dopo la spedizione che ho appena narrato, Taë venne a farmi visita spesso. Provava per me una simpatia che ri-cambiavo cordialmente. Anzi, poiché non aveva ancora dodici anni e non aveva iniziato il corso di studi scientifici che in quel paese concludono l’infanzia, mi sentivo intel-lettualmente meno inferiore, nei suoi confronti, di quan-to mi sentissi nei riguardi dei membri più adulti della sua razza, in particolare le Gy-ei, e soprattutto Zee. I bambini dei Vril-ya, su cui pesano tanti doveri e tante responsabili-tà, in generale non sono allegri; ma Taë, nonostante la sua saggezza, aveva quel gioioso buon umore che spesso ca-ratterizza l’uomo di genio. Nella mia compagnia trovava il piacere che nel mondo esterno un ragazzino della sua età trova nella compagnia di un cane o di una scimmietta. Si divertiva a cercare d’insegnarmi le consuetudini del suo popolo, proprio come un mio nipote si diverte ad inse-gnare al suo barboncino a camminare sulle zampe poste-riori o a saltare il cerchio. Mi prestavo volentieri a tali espe-rimenti, ma non ottenevo mai il successo del barboncino. All’inizio tentai di abituarmi alle ali che anche i Vril-ya più giovani usano con l’agilità e la disinvoltura con cui i nostri bambini muovono le braccia e le gambe; ma i miei sforzi furono ricompensati soltanto da contusioni abbastanza serie da indurmi a rinunciare per la disperazione. Le ali, come ho già detto, sono molto grandi; arrivano al ginoc-chio, e quando non vengono usate sono tenute all’in-dietro in modo da formare un elegante mantello. Sono fatte con le piume di un uccello gigantesco piuttosto comune tra le alture rocciose del Paese: il colore è quasi sempre bianco, talora con striature rossicce. Sono fissate intorno alle spalle per mezzo di molle d’acciaio, leggere ma robuste e, quando vengono spiegate, le braccia s’in-filano entro appositi cerchi, formanti una specie di salda membrana centrale. Quando si alzano le braccia, una fo-dera tubolare sotto la tunica si gonfia d’aria grazie ad un congegno meccanico, e l’afflusso aumenta o diminuisce a volontà a seconda del movimento delle braccia, così da conferire galleggiabilità alla persona. Le ali e l’apparato simile ad un pallone sono leggermente caricati di vril; e quando il corpo viene così sollevato verso l’alto, sembra perdere singolarmente di peso.Mi fu abbastanza facile alzarmi dal suolo; quando le ali erano spiegate, anzi, era praticamente impossibile non sollevarmi, ma poi venivano le difficoltà ed i pericoli. Non riuscivo a usare e ad orientare le ali, sebbene tra i miei simili venissi giudicato straordinariamente efficiente ne-gli esercizi fisici, e fossi un nuotatore esperto. Riuscivo soltanto a compiere tentativi di volo goffi e confusi. Ero asservito alle ali, non erano le ali a servire me... non ero capace di controllarle; e quando, con una violenta tensio-ne muscolare, causata, debbo ammetterlo, dalla paura, dominavo le loro evoluzioni e le portavo accosto al cor-po, perdevo l’energia accumulata in esse e nelle vesciche,

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come quando l’aria esce da un aerostato, e precipitavo verso terra; agitandomi freneticamente mi salvavo dallo sfracellarmi, ma non dai lividi e dallo stordimento di una pesante caduta. Avrei comunque perseverato nei miei tentativi, se non fosse stato per il consiglio (o l’ordine) della scientifica Zee, che aveva seguito benevolmente i miei voli e che, nell’ultima occasione, lanciandosi sotto di me, mi aveva sorretto con le ali protese, impedendo così che mi spaccassi la testa sul tetto della piramide da cui eravamo partiti.“Mi rendo conto”, disse, “che i tuoi tentativi sono vani, non per colpa delle ali e dell’apparato, né per imperfezioni o malformazioni del tuo organismo, ma per un’irrimediabi-le carenza nella tua forza di volontà. Sappi che il rapporto tra la volontà e le energie del fluido assoggettato al do-minio dei Vril-ya non fu stabilito dai primi scopritori, né realizzato in una sola generazione; è cresciuto costante-mente come le altre proprietà della razza, ed è stato tra-smesso uniformemente dai genitori ai figli, sino a diven-tare un istinto; ed un infante della nostra razza desidera inconsciamente ed intuitivamente volare, così come de-sidera camminare. Perciò usa le ali artificiali con la stessa sicurezza con cui un uccello usa le sue ali naturali. Non ci pensavo quando ti ho permesso di tentare l’esperimento con me, perché desideravo trovare in te un compagno. Rinuncerò all’esperimento, ora; la tua vita mi è cara”. Il vol-to e la voce della Gy si addolcirono, ed io mi sentii molto più allarmato che durante i voli.Ora che sto parlando delle ali, non dovrei omettere di ricordare una consuetudine delle Gy-ei, che mi sembra molto graziosa e tenera per il sentimento che esprime. Quando è ancora vergine, una Gy porta abitualmente le ali e prende parte agli sport aerei degli Ana, si avventura da sola nelle regioni più selvagge del suo mondo privo di Sole, e supera l’altro sesso per l’ardimento e l’altezza del volo, non meno che per la grazia dei movimenti. Ma dal giorno delle nozze non porta più le ali; le appende sopra il letto matrimoniale, e non le riprende più, a meno che i vincoli coniugali vengano spezzati dal divorzio o dalla morte.Quando Zee addolcì in tal modo la voce e lo sguardo, causandomi un profetico brivido d’apprensione, Taë, che ci aveva accompagnati nel volo ma che, fanciullescamen-te, si era divertito della mia goffaggine anziché mostrare comprensione per le mie paure, volteggiò sopra di noi, librato nell’aria immobile e radiosa sulle ali spiegate, e udendo le parole affettuose della giovane Gy, rise sono-ramente e disse: “Se il Tish non riesce ad imparare l’uso delle sue ali, può esserti ancora compagno, Zee, perché tu puoi appendere le tue.”

***

Da qualche tempo nella sapientissima e poderosa figlia del mio ospite, avevo notato quel sentimento gentile e protettivo che, alla superficie come nelle viscere della terra, la saggia Provvidenza ha dispensato alla metà fem-minile della razza umana. Ma l’avevo sempre attribuito a quell’affetto per gli “animali domestici” che una donna umana, a qualunque età, ha in comune con il bambino. Ora mi accorsi invece, dolorosamente, che il sentimento dimostratomi da Zee era ben diverso da quello che ispi-ravo a Taë. Una simile convinzione non mi diede affatto la compiaciuta soddisfazione che la vanità maschile trae solitamente da un lusinghiero apprezzamento dei suoi meriti personali da parte del gentil sesso; al contrario, m’ispirò paura. Eppure, fra tutte le Gy-ei della comunità, Zee non era solo la più sapiente e la più forte, ma anche, per riconoscimento generale, la più dolce, e senza dubbio era anche la più amata e popolare. Il desiderio di aiutare, soccorrere, proteggere, confortare, sembrava pervadere tutto il suo essere. Sebbene nel sistema sociale dei Vril-ya siano ignote le complicate infelicità originate dalla mise-ria e dalla colpa, nessun saggio aveva ancora scoperto nel vril un’energia capace di bandire il dolore dalla vita; e dovunque vi fosse dolore, tra la sua gente, Zee accorreva a svolgere la sua missione consolatrice.Un’altra Gy non riusciva ad ottenere l’amore dell’An per cui sospirava? Zee la cercava e usava tutte le risorse della sua conoscenza e tutte le consolazioni della sua simpatia, per alleviare un’angoscia tanto bisognosa d’una confidente. Nei rari casi in cui una malattia grave colpiva un bambino od un giovane, e in quelli ancora più rari in cui, nel duro e avventuroso apprendistato dei bambini, si verificava un incidente, Zee abbandonava gli studi e gli svaghi, e dive-niva guaritrice ed infermiera. Volava spesso ai confini del territorio, dove i bambini montavano la guardia contro le forze ostili della natura o l’invasione di animali pericolosi, per avvertirli dei pericoli che la sua scienza prevedeva, e per aiutarli in caso di difficoltà.Anche nell’esercizio delle sue attività scientifiche dimo-strava una grande benevolenza. Veniva a sapere di una nuova invenzione che poteva tornare utile al praticante di qualche arte speciale? Allora si affrettava a comuni-cargliela ed a spiegargliela. Qualche vecchio saggio del Collegio era stanco e perplesso per la fatica di uno studio astruso? Zee l’aiutava paziente, risolveva i dettagli, lo in-coraggiava con il suo sorriso speranzoso, l’ispirava con lu-minosi suggerimenti, era per lui un buon genio. Mostrava la stessa tenerezza per le creature inferiori. So che spesso portava a casa animali malati o feriti, e li curava come una madre curerebbe il figlioletto. Molte volte mentre sedevo sul balcone, o giardino pensile, su cui si apriva la mia stan-za, la vedevo innalzarsi nell’aria sulle ali radiose, e dopo pochi istanti gruppi di bambini, scorgendola dalle strade, la raggiungevano lanciandole lieti saluti, si raccoglievano

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e le volteggiavano intorno, facendo di lei il centro di una gioia innocente. Quando passeggiavo con lei tra le rocce e le valli, fuori dalla città, i cervi la vedevano da lontano, o sentivano il suo odore, ed accorrevano premurosi a chiedere le sue carezze, o la seguivano fino a quando lei li congedava con un mormorio melodioso che gli animali avevano imparato a comprendere.Le vergini Gy-ei usano portare sulla fronte un cerchietto ornato di gemme simili ad opali, disposti a quattro pun-te, come stelle. Le gemme sono solitamente opache, ma quando vengono sfiorate dallo Scettro Vril brillano di una limpida fiamma che illumina senza bruciare: è un orna-mento per le feste, ma serve anche come lampada du-rante i vagabondaggi allorché, spingendosi oltre la zona delle luci artificiali, si trovano ad attraversare territori bui. Talvolta, quando vedevo il viso pensoso e solenne di Zee illuminato da quell’alone, faticavo a crederla una crea-tura mortale, e piegavo la testa davanti a lei come fosse un essere celestiale. Ma neppure una volta il mio cuore aveva provato un sentimento d’amore umano per quello splendido, solenne ideale di femminilità. Nella razza cui appartengo, l’orgoglio dell’uomo influenza a tal punto le sue passioni che la donna perde ogni fascino ai suoi occhi se la riconosce in tutto superiore a lui. Ma per quale stra-na infatuazione l’impareggiabile figlia d’una razza che, per la supremazia dei poteri e la felicità delle condizioni, relegava ogni altra nella categoria della barbarie, si era degnata di onorarmi della sua preferenza? Come qualità personali, sebbene fossi ritenuto di bell’aspetto tra la mia gente, anche i più belli fra i miei compatrioti sarebbero apparsi insignificanti e scialbi accanto alla bellezza mae-stosa e serena che caratterizza l’aspetto dei Vril-ya.Era abbastanza probabile che la stessa differenza tra me e coloro che Zee frequentava abitualmente contribuisse a destare la sua fantasia, e come il lettore vedrà più avanti, questa causa potrebbe bastare a spiegare la predilezione accordatami da una giovane Gy, poco più che adolescen-te, e sotto tutti gli aspetti inferiore a Zee. Ma chiunque pensi alle tenere caratteristiche della figlia di Aph-Lin, può facilmente capire che la causa principale della mia simpatia per lei stava nel suo istintivo desiderio di con-fortare, proteggere, aiutare e, proteggendo, sostenere ed esaltare. Perciò, ripensandovi ora, mi spiego l’unica debo-lezza indegna della sua indole regale, che piegava la figlia dei Vril-ya ad un affetto femmineo per un individuo a lei tanto inferiore. Ma, qualunque fosse la causa, la coscienza di avere ispirato tale affetto mi riempiva di sgomento... un timore morale della sua stessa perfezione, dei suoi poteri misteriosi, delle diversità insuperabili tra la sua razza e la mia; ed a quel timore, debbo confessare a mia vergogna, si univa la paura più concreta ed ignobile dei pericoli cui mi avrebbe esposto la sua preferenza.Si poteva immaginare, sia pure per un momento, che i

genitori e gli amici di una simile creatura potessero ac-cettare senza indignazione e disgusto la prospettiva di un legame tra lei ed un Tish? Non potevano punirla, né confinarla o incarcerarla. I Vril-ya non riconoscono le leg-gi della forza, nella vita domestica come in quella politica; ma avrebbero potuto porre efficacemente fine all’infatua-zione di Zee per me liquidandomi con un lampo di vril.In queste circostanze inquietanti, per fortuna, la mia coscienza ed il mio senso dell’onore erano immuni da rimproveri. Se la preferenza di Zee avesse continuato a manifestarsi, sarebbe stato chiaramente mio dovere par-larne al mio ospite, naturalmente con tutta la delicatezza che un uomo ben educato deve osservare confidando ad un altro il favore con cui una donna si degna di onorarlo. Così, in tal caso, mi sarei liberato dalla responsabilità e dal sospetto di aver fomentato i sentimenti di Zee; e la su-periore saggezza del mio ospite avrebbe potuto proba-bilmente suggerire una via d’uscita per il mio pericoloso dilemma. Nel prendere tale decisione obbedii all’istinto normale dell’uomo civile e morale che, per quanto possa sbagliare, di solito preferisce la retta via nei casi in cui è chiaramente contrario ai suoi interessi, alle sue inclinazio-ni ed alla sua sicurezza scegliere la strada sbagliata.

***

Come il lettore ricorderà, Aph-Lin non aveva favorito i miei rapporti con i suoi compatrioti. Sebbene fidasse nel-la mia promessa di astenermi dal dare informazioni sul mondo che avevo lasciato, ed ancor più nell’impegno di non interrogarmi, assunto da quanti mi conoscevano, non era del tutto sicuro che, se mi fosse stato permesso di frequentare gli estranei incuriositi dalla mia presenza, io sarei stato in grado di difendermi dalle loro domande. Quando uscivo, quindi, non ero mai solo; venivo sempre accompagnato da un familiare del mio ospite o dal mio giovane amico Taë.Bra, la moglie di Aph-Lin, si spingeva di rado oltre i giar-dini che circondavano la casa, e amava leggere la lettera-tura antica, più romanzesca ed avventurosa, che presen-tava immagini di una vita estranea alla sua esperienza ed interessante per la sua fantasia, una vita per la verità più simile a quella che noi conduciamo quotidianamente nel mondo esterno, colorata di sofferenze, peccati e passioni. Per lei quelle vicende erano ciò che per noi sono le favole delle Mille e una notte. Ma l’amore per la lettura non im-pediva a Bra di assolvere i suoi doveri quale padrona della casa più grande della città. Ogni giorno faceva il giro del-le stanze, si assicurava che gli automi e gli altri apparecchi meccanici fossero in ordine, e che i numerosi bambini im-piegati da Aph-Lin, nelle sue attività private e pubbliche, fossero scrupolosamente curati. Bra esaminava anche la contabilità patrimoniale, e provava grande gioia nell’aiu-

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tare il marito a svolgere le mansioni di amministratore del Dipartimento dell’Illuminazione; perciò i suoi impegni la trattenevano quasi sempre in casa.I due figli stavano completando gli studi al Collegio dei Saggi, ed il maggiore, che aveva una grande passione per la meccanica, soprattutto per gli automi ed i cronometri, aveva deciso di dedicarsi a questa attività; ora stava prov-vedendo alla costruzione di un negozio, o di un magaz-zino, destinato alla vendita delle sue invenzioni. Il figlio minore preferiva l’agricoltura e le attività rurali, e quando non frequentava il Collegio, dove studiava soprattutto le teorie agrarie, era molto impegnato nel mettere in prati-ca tale scienza nelle terre appartenenti al padre. Si può vedere come presso quel popolo vi è una completa egua-glianza sociale: un negoziante gode della stessa stima di un ricco proprietario terriero. Aph-Lin era il membro più facoltoso della comunità, eppure il suo primogenito pre-feriva aprire un negozio; e questa scelta non era giudica-ta disdicevole da nessuno.Il giovane aveva esaminato con grande interesse il mio orologio, il cui meccanismo era per lui una novità e si era dimostrato felicissimo quando glielo avevo regalato. Poco dopo, però, ricambiò il dono con gli interessi, of-frendomi un orologio fatto da lui, che segnava sia il tem-po del mondo esterno che quello dei Vril-ya. Ho ancora quell’orologio, che è stato molto ammirato dai migliori specialisti di Londra e di Parigi. È d’oro, con le lancette e le ore di diamanti, e suona le ore con accompagnamen-to di una melodia molto in voga tra i Vril-ya; è sufficiente caricarlo una volta ogni dieci mesi, e non si è mai gua-stato da quando lo possiedo. Poiché i due giovani fratelli erano occupati in queste attività, i miei compagni abi-tuali, quando uscivo, erano il mio ospite o sua figlia. Ora, in armonia con le onorevoli conclusioni cui ero giunto, cominciai a trovare pretesti per non uscire solo con Zee, e approfittai dell’occasione in cui lei teneva una lezione al Collegio dei Saggi per pregare Aph-Lin di farmi visitare la sua residenza di campagna. Poiché si trovava piuttosto lontana e Aph-Lin non amava camminare, mentre io ave-vo rinunciato ad ogni tentativo di volare, partimmo a bor-do di una delle barche aeree di proprietà del mio ospite. Il conducente era un bambino di otto anni che lavorava alle sue dipendenze. Il mio ospite ed io prendemmo po-sto sui cuscini; il movimento del veicolo mi parve molto agevole e comodo.“Aph-Lin”, dissi, “spero che tu non sarai irritato con me, se ti chiedo il permesso di viaggiare per qualche tempo, e di visitare altre tribù e comunità della tua razza illustre. Vorrei inoltre vedere quelle nazioni che non adottano le vostre istituzioni e che voi considerate selvagge. M’inte-resserebbe moltissimo notare quali differenze esistono fra loro e le razze considerate civili nel mondo da cui pro-vengo.”

“E’ assolutamente impossibile che ti rechi là solo”, rispose Aph-Lin. “Anche tra i Vril-ya saresti esposto a grandi pe-ricoli. Certe caratteristiche di struttura e di colorito, e lo straordinario fenomeno della pelosità irsuta che ti cresce sulle guance e sul mento, indicandoti come una specie di An diverso dalla nostra razza da quelle barbare ancora esistenti, susciterebbe certo l’attenzione del Collegio dei Saggi in tutte le comunità Vril-ya che potresti visitare; e di-penderebbe dal temperamento di qualche saggio che tu venissi accolto con spirito ospitale, come è avvenuto qui, o finissi sezionato per scopi scientifici. Sappi che quando il Tur ti condusse nella sua casa, subito dopo il tuo arri-vo, e Taë ti fece addormentare perché ti riprendessi dal-la stanchezza e dal dolore, i saggi convocati dal Tur non erano d’accordo sul tuo conto: alcuni ti consideravano un animale innocuo, altri nocivo. Mentre eri inconscio, ven-ne esaminata la tua dentatura, e risultò che eri non solo granivoro, ma anche carnivoro. Gli animali carnivori del-le tue dimensioni vengono sempre uccisi, poiché hanno indole pericolosa e feroce. I nostri denti, come hai senza dubbio osservato, non sono simili a quelli degli esseri che si nutrono di carne. Zee ed altri filosofi sostengono, per la verità, che in tempi antichi gli Ana si nutrivano di car-ne, e dovevano avere dentature adatte allo scopo. In ogni caso, si sono modificate nella trasmissione ereditaria, adeguandosi al cibo di cui ora ci alimentiamo; e neppure i barbari, che ancora adottano le istituzioni turbolente e feroci del Glek-Nas, divorano la carne come belve.“Nel corso della discussione, fu proposto di sezionarti, ma Taë intercedette per te, e poiché il Tur, per dovere d’uffi-cio, è contrario a tutti gli esperimenti che contrastino con la nostra consuetudine di risparmiare la vita quando non sia chiaramente provato che è necessario toglierla per il bene della comunità, mandò a chiamare me che, essen-do l’uomo più ricco dello Stato, ho il compito di offrire ospitalità agli stranieri venuti a lontano. Spettava a me decidere se eri uno straniero che si poteva accogliere senza pericolo. Se avessi rifiutato di accoglierti, saresti stato consegnato al Collegio dei Saggi, e preferisco non pensare a quale sarebbe potuta essere la tua sorte.“A parte i pericoli, potresti incontrare qualche bambino di quattro anni che ha appena ricevuto lo Scettro Vril e che, allarmato dal tuo strano aspetto, nell’impulso del mo-mento, potrebbe ridurti in cenere. Lo stesso Taë stava per farlo, la prima volta che ti ha visto, se suo padre non gli avesse fermato la mano. Perciò ti dico che non puoi viag-giare solo: ma con Zee saresti al sicuro, e sono certo che ti accompagnerebbe volentieri a fare il giro delle vicine comunità dei Vril-ya... degli Stati selvaggi, assolutamente no. Glielo domanderò.”Poiché il mio scopo principale, nel proporre quel viaggio, era sfuggire Zee, mi affrettai ad esclamare: “No, ti prego, no. Rinuncio al mio progetto. Hai parlato abbastanza dei

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pericoli per dissuadermi; e non ritengo giusto che una giovane Gy, affascinante come tua figlia, debba viaggiare in altre regioni senz’altro difensore che un Tish di forza e statura insignificanti.”Aph-Lin emise il sommesso suono sibilante che è quan-to di più simile ad una risata si permetta un An adulto, poi rispose: “Perdona la mia ilarità per la tua osservazione che senza dubbio era intesa seriamente. Mi diverte assai l’idea di Zee, che ama proteggere gli altri al punto di ve-nire chiamata ‘LA CUSTODE’ dai bambini, bisognosa di un difensore contro i pericoli causati dall’audace ammirazio-ne dei maschi. Sappi che le Gy-ei, prima di sposarsi, sono abituate a viaggiare sole fra le altre tribù, per vedere se trovano un An che piaccia loro più di quelli conosciuti in patria. Zee ha già fatto tre di questi viaggi, ma finora il suo cuore è rimasto libero.” Mi si offriva così l’occasione che cercavo e, abbassando gli occhi, dissi con voce esitante. “Mio buon ospite, prometti di perdonarmi se quanto sto per dirti ti offenderà?”.“Basta che tu dica la verità, e non mi offenderò; se mi of-fendessi, toccherebbe a te perdonarmi.”“Bene, dunque, aiutami ad andarmene: per quanto mi sarebbe piaciuto vedere ancora le vostre meraviglie e go-dere della felicità del vostro popolo, lascia che ritorni al mio.”“Purtroppo non posso farlo; o comunque, non senza il permesso del Tur, che probabilmente non lo concede-rà. Tu non sei privo d’intelligenza; e forse, anche se non lo credo, hai tenuto nascosti i poteri distruttivi del tuo popolo, tanto che potresti ben presto attirare su di noi qualche pericolo; e se il Tur la pensasse così, sarebbe suo dovere ucciderti, o rinchiuderti in una gabbia per il resto della tua esistenza. Ma perché desideri abbandonare una società che, come tu stesso riconosci, è più felice della tua?”.“Oh, Aph-Lin! La mia risposta è semplice: perché non vo-glio, involontariamente, tradire la tua ospitalità; perché, a causa del capriccio che nel nostro mondo è proverbiale nel gentil sesso, e da cui neppure le Gy-ei sono esenti, la tua adorabile figlia potrebbe degnarsi di guardarmi come se fossi un An civile, benché io sia solo un Tish, e... e... e...”.“E corteggiarti per fare di te il suo sposo”, concluse gra-vemente Aph-Lin, senza dar segno di sorpresa o d’irrita-zione.“L’hai detto tu.”“Sarebbe una sfortuna”, riprese il mio ospite, dopo una pausa, “e ritengo che tu abbia agito giustamente avver-tendomi. Come hai accennato, non è raro che una Gy nubile abbia gusti che ad altri appaiono capricciosi; ma non c’è nulla che possa indurre una giovane Gy ad un comportamento contrario a quello da lei prescelto. Pos-siamo soltanto cercare di ragionare con lei, e l’esperienza c’insegna che l’intero Collegio dei Saggi contenderebbe

invano con una Gy nelle questioni relative alla sua scel-ta in amore. Mi addoloro per te, poiché tale matrimonio sarebbe contrario all’Aglauran, il bene della comunità, dato che i figli di tale connubio inquinerebbero la raz-za, e potrebbero addirittura venire al mondo con denti da animali carnivori, e questo non è ammissibile. Zee, in quanto Gy, non può essere controllata; ma tu, che sei un Tish, puoi venire distrutto.“Ti consiglio quindi di resistere alle sue insistenze; di dir-le chiaramente che non puoi ricambiare il suo amore. Sono cose che avvengono di continuo. Molti Ana, seb-bene corteggiati ardentemente da una Gy, la respingono e pongono fine alle sue insistenze sposando un’altra. Tu puoi fare la stessa cosa.”“No, poiché non posso sposare un’altra Gy senza dan-neggiare egualmente la comunità ed esporla al rischio di ritrovarsi con figli carnivori.”“È vero. Tutto ciò che posso dire, e lo dico con la tene-rezza dovuta a un Tish, ed il rispetto dovuto a un ospite, francamente è questo: se cedi, finirai incenerito. Debbo lasciare a te la scelta del modo di difenderti. Forse avresti fatto meglio a dire a Zee che è brutta. Di solito questa affermazione, sulle labbra di colui che corteggia, basta ad agghiacciare anche la Gy più ardente. Ma ecco, siamo arrivati alla mia casa di campagna.”

***

Confesso che la mia conversazione con Aph-Lin e l’estre-ma calma con cui si era dichiarato incapace di controllare il pericoloso capriccio della figlia ed aveva prospettato l’idea che la mia persona troppo seducente finisse ridot-ta in cenere a causa della fiamma amorosa di lei, mi tolse-ro il piacere che altrimenti avrei provato nell’ammirare la residenza di campagna del mio ospite e la sorprendente perfezione dei macchinari che provvedevano alle attività agricole.La casa aveva un aspetto diverso dall’edificio massiccio e un po’ cupo che Aph-Lin abitava in città, e che sembrava simile alle rocce da cui era stata ricavata la città. Le pare-ti della residenza di campagna erano formate da alberi situati a pochi metri l’uno dall’altro: gli interstizi erano riempiti dalla sostanza metallica trasparente che presso gli Ana sostituisce il vetro. Gli alberi erano tutti in fiore, e l’effetto era molto piacevole, anche se non d’ottimo gusto. Fummo accolti sulla veranda dagli automi, i quali ci condussero in una stanza quale non avevo mai visto, ma che avevo talora immaginato sognando nei giorni d’estate. Era un pergolato, per metà stanza e per metà giardino. Le pareti erano una massa di fiori rampicanti. Gli spazi che noi chiamiamo finestre erano aperti, poiché le lastre metalliche erano state fatte rientrare. Mostrava-no vari paesaggi: alcuni rivelavano parte dell’ampio pa-

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norama con i laghi e le rocce, altri piccoli tratti limitati, simili ai nostri vivai, pieni di filari di piante in fiore. Lungo i lati della camera c’erano aiuole inframmezzate da cuscini. Al centro c’era una cisterna ed una fontana di quel liquido che presumo fosse nafta. Era luminoso ed aveva un colo-re rosato, e da solo bastava a rischiarare la stanza con un tenue bagliore, senza bisogno di lampade. La fontana era cinta da un soffice tappeto di licheni, non verdi (non ho mai veduto questo colore nelle vegetazione del mondo sotterraneo), ma di un marrone riposante su cui l’occhio si posava con lo stesso senso di sollievo che dà, nel mon-do esterno, la contemplazione del verde. Negli incavi che si aprivano sui vivai fioriti c’erano innumerevoli uccelli canori che, durante la nostra permanenza nella stanza, cantarono quelle melodie per cui vengono meravigliosa-mente addestrati. Il tetto era aperto.L’intera scena era incantevole per tutti i sensi: la musica degli uccelli, la fragranza dei fiori, e la bellezza in ogni suo aspetto. C’era un’atmosfera di serenità voluttuosa. Che posto ideale, pensai, per una luna di miele, se una Gy fosse stata un po’ meno terribilmente armata non solo dei diritti femminili, ma anche dei poteri dell’uomo! Ma quando si pensa ad una Gy, così colta, alta, maestosa, così superiore alla media delle donne com’era Zee... no, anche se non avessi temuto di venir ridotto in cenere, non avrei sognato lei in quel pergolato creato appositamente per i sogni dell’amore poetico.Gli automi ricomparvero, servendoci una di quelle be-vande deliziose che presso i Vril-ya sostituiscono il vino.“In verità”, dissi, “è una residenza deliziosa, e non capisco perché tu non ti stabilisca qui, invece che nelle dimore più tetre della città.”“Nella mia qualità di responsabile dell’amministrazione della luce per la mia comunità, sono obbligato a risiedere soprattutto in città, e posso venire qui soltanto per brevi periodi.”“Ma poiché tu stesso mi hai detto che al tuo incarico non spettano onori, mentre comporta qualche preoccupazio-ne, per quale motivo l’accetti?”.“Ognuno di noi obbedisce senza discutere al comando del Tur; egli ha detto: ‘Si richiede che Aph-Lin sia Com-missario della Luce’, perciò non ho avuto scelta. Ma poi-ché ormai ho coperto questa carica per molto tempo, le preoccupazioni, che all’inizio non mi erano gradite, sono divenute, se non piacevoli, almeno sopportabili. Tutti noi siamo condizionati dalla consuetudine... anche la di-versità tra la nostra razza ed i selvaggi non è altro che la continuità ereditaria delle consuetudini che finisce per entrare a far parte della nostra natura. Vi sono Ana che si riconciliano persino con le responsabilità della magistra-tura suprema; ma nessuno lo farebbe se i suoi doveri non fossero stati resi tanto lievi, o se le sue richieste venissero poste in discussione.”

“Neppure se giudicaste tali richieste inopportune od in-giuste?”.“Non ci permettiamo di pensarla così, e per la verità ogni cosa procede come se tutti si governassero secondo una consuetudine antichissima.”“Quando il magistrato supremo muore o si ritira, in che modo gli trovate un successore?”“L’An che ha assolto per molti anni i doveri di magistrato supremo è la persona più indicata per scegliere qualcuno che possa comprendere i suoi compiti, ed è generalmen-te lui a nominare il successore.” “Magari suo figlio?”.“Molto di rado; infatti non è una carica desiderata e ricer-cata, e naturalmente un padre esita a costringere il figlio. Ma se il Tur rifiuta di compiere la scelta, per timore che si pensi ad un suo motivo di rancore nei confronti del pre-scelto, allora tre membri del Collegio dei Saggi tirano a sorte fra di loro per stabilire chi avrà il potere di eleggere il sommo magistrato. Noi riteniamo che il giudizio di un normale An sia migliore di quello di tre o più, per quanto possano essere saggi; perché fra tre persone potrebbe-ro insorgere dispute, e quando vi sono dissidi le passioni obnubilano il giudizio. La scelta peggiore, compiuta da colui che non ha motivi di scegliere male, è meglio della scelta migliore effettuata da molti che hanno motivi per non scegliere bene.”“Nella politica, voi sovvertite le massime adottate nel mio Paese.”“E nel tuo Paese, siete tutti soddisfatti di coloro che vi go-vernano?”.“Tutti? Certamente no; i governanti che piacciono di più ad alcuni piacciono pochissimo ad altri.”“Allora il nostro sistema è migliore del vostro.” “Per voi può essere così; ma secondo il nostro sistema, un Tish non verrebbe incenerito se una donna lo costrin-gesse a sposarla: e, come Tish, aspiro a ritornare al mio mondo.” “Fatti coraggio, mio caro, piccolo ospite. Zee non può co-stringerti a sposarla. Può solo indurti a farlo. Non lasciarti tentare. Ora vieni a vedere la mia tenuta.”Uscimmo in un recinto fiancheggiato da capanni: infatti, sebbene gli Ana non tengano bestiame da macello, al-levano certi animali per mungerne il latte e per tosarne il vello. I primi non somigliano alle nostre mucche, ed i secondi sono diversi dalle nostre pecore; non credo nep-pure che tali specie esistano nel mondo sotterraneo. I Vril-ya usano il latte di tre varietà di animali: uno somiglia all’antilope, ma è molto più grande, essendo alto come un cammello; gli altri due sono più piccoli e, sebbene sia-no piuttosto diversi fra loro, non assomigliano a nessuna creatura che io abbia veduto sulla superficie. Sono assai snelli e torniti; hanno il colore dei daini, musi molto miti e bellissimi occhi scuri. Il latte di questi tre animali è di-

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verso per ricchezza e sapore. Di solito viene diluito con acqua, e insaporito con il succo di un frutto profumato: è molto nutriente e gradevole. L’animale la cui lana viene usata per gli abiti e molte altre cose, somiglia abbastanza alla capra italiana, ma è parecchio più grande; non ha le corna, né lo sgradevole odore delle nostre capre. Il vello non è fitto, ma lunghissimo e fine; ha vari colori, ma non è mai bianco, di solito ha toni ardesia o lavanda. Per gli indumenti viene tinto nei colori più adatti ai gusti di chi li porta. Questi animali erano molto domestici e venivano trattati con straordinaria premura ed affetto dai bambini (quasi tutte femmine) che li curavano.Visitammo poi immensi magazzini pieni di cereali e frut-ta. Posso osservare che il nutrimento principale di questo popolo consiste innanzi tutto d’una sorta di grano assai più grande del nostro, e che mediante la coltivazione viene continuamente portato a nuove varietà di sapori; ed in secondo luogo di un frutto grosso all’incirca quan-to un piccolo arancio che, al momento della raccolta, è duro ed amaro. Viene poi conservato per molti mesi nei magazzini e diventa saporito e tenero. Il succo, di colore rossocupo, entra nella composizione di quasi tutte le sal-se. Vi sono molte varietà di frutti simili alle olive, da cui si estraggono olii deliziosi. C’è una pianta che somiglia un po’ alla canna da zucchero, ma ha un succo meno dol-ce e dal profumo delicato. Non vi sono api né altri insetti che producono miele, ma i Vril-ya fanno molto uso di una gomma dolce che scaturisce da una conifera non diversa dall’araucaria. Il suolo offre anche radici succulente e ver-dure, che le colture cercano di variare e migliorare al mas-simo. Non ricordo un solo pasto, tra questa gente, anche se limitato ai membri della famiglia, in cui non venisse introdotta qualche delicata novità in fatto di cibo. Come ho già osservato, la cucina è squisita, e così diversificata e nutriente che non si sente la mancanza di cibi animali, e la prestanza fisica dei Vril-ya basta a dimostrare che, al-meno nel loro caso, la carne non è necessaria per favorire la muscolatura. Non esiste l’uva: le bevande estratte dai frutti sono analcoliche e rinfrescanti. Quella più comune, comunque, è l’acqua; nella scelta sono molto schizzinosi, e sanno distinguere subito la minima impurità.“Il mio secondo figlio trova grande piacere nell’aumenta-re la nostra produzione”, disse Aph-Lin mentre visitavamo i magazzini. “Perciò erediterà queste terre, che costitui-scono la parte più cospicua della mia ricchezza. Per il pri-mogenito tale eredità causerebbe fastidio ed afflizione.”“Tra voi vi sono molti figli convinti che ereditare una gran-de ricchezza sia un’afflizione?”.“Certamente; molti dei Vril-ya ritengono che un patrimo-nio superiore alla media sia un pesante fardello. Dopo l’infanzia, noi siamo piuttosto pigri, e non amiamo addos-sarci più preoccupazioni del necessario, ed una grande ricchezza ne dà molte. Per esempio, ci rende eligibili per

le cariche pubbliche, che nessuno ama e che nessuno può rifiutare. Questo ci obbliga a interessarci continuamente degli affari dei compatrioti più poveri, per prevedere le loro esigenze ed evitare che cadano in miseria. Abbiamo un vecchio proverbio che dice: ‘Il bisogno del povero è la vergogna del ricco...’ “.“Perdonami se t’interrompo per un momento. Dunque, ammetti che persino tra i Vril-ya alcuni conoscono il biso-gno e necessitano di aiuto?”.“Se per bisogno intendi la miseria prevalente in un Ko-om-Posh, tra noi non è possibile, a meno che un An, con dissennata prodigalità, abbia perduto tutti i suoi mezzi, non voglia o non possa emigrare, e abbia esaurito l’aiu-to affettuoso dei parenti e degli amici, oppure rifiuti di accettarlo.”“Ebbene, allora, perché non prende il posto di un bambi-no o di un automa, e non diventa un operaio... un servi-tore?”.“No. Noi lo consideriamo uno sventurato dalla ragione menomata e, a spese dello Stato, lo alloggiamo in un edi-ficio pubblico, dove gode delle comodità e del lusso che possono mitigare la sua afflizione. Ma un An non ama es-sere considerato privo di ragione, e perciò tali casi sono così infrequenti che l’edificio pubblico di cui ti ho parlato è oggi un rudere abbandonato; l’ultimo ospite fu un An che ricordo di aver visto nella mia infanzia. Sembrava non si fosse reso conto di aver perduto la ragione, e scriveva glaubs, poesia. Quando ho parlato di bisogni, mi riferivo ai desideri che talvolta un An può nutrire al di sopra dei suoi mezzi: uccelli canori costosi, o case più grandi, o giardini in campagna; e il modo più ovvio per soddisfarli consiste nel comprare da lui qualcosa che egli vende. Perciò gli Ana molto ricchi, come me, sono obbligati ad acquistare molte cose di cui non hanno bisogno, e vivono su scala grandiosa, anche se ne preferirebbero una più modesta. Per esempio, la grandezza della mia casa di città è fonte di grandi fastidi per mia moglie, e persino per me; ma sono costretto a tenere una residenza così grande e scomoda perché, essendo l’An più ricco della comunità, ho il com-pito di ospitare gli stranieri che ci fanno visita, e che ven-gono in gran folla due volte l’anno, quando vi sono certi festeggiamenti periodici, e tutti i parenti sparsi nei vari domini dei Vril-ya si riuniscono lietamente per qualche tempo. L’ospitalità su scala tanto ampia non è di mio gu-sto, perciò sarei stato più felice se fossi stato meno ricco. Ma tutti noi dobbiamo accettare la sorte assegnataci in questo breve transito nel tempo che chiamiamo vita. Do-potutto, cosa sono cento anni, più o meno, in confronto alle epoche che dovremo vivere dopo? Fortunatamente, ho solo un figlio che ama la ricchezza. Rappresenta una rara eccezione alla regola generale, ed ammetto di non capirlo...”.Dopo questa conversazione cercai di tornare sull’argo-

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mento che continuava a pesarmi sul cuore, cioè la pos-sibilità di sottrarmi a Zee. Ma il mio ospite rifiutò educa-tamente di riprendere la discussione e chiamò la barca aerea. Durante il viaggio di ritorno ci venne incontro Zee, che, uscita dal Collegio dei Saggi e scoperta la nostra par-tenza, aveva spiegato le ali per venirci a cercare.Il suo volto maestoso, ma per me non affascinante, s’illu-minò nel vedermi e, accostandosi alla barca ad ali spiega-te, disse in tono di rimprovero ad Aph-Lin: “Oh, padre, ti è parso giusto rischiare la vita del tuo ospite, facendolo salire su un veicolo cui non è abituato? In seguito ad un movimento incauto, potrebbe precipitare: e ahimé, diver-samente da noi, non ha le ali. Se precipitasse, morirebbe. Caro”, aggiunse, rivolgendosi a me con voce più dolce, “non hai pensato a me, rischiando una vita divenuta qua-si parte della mia? Non essere mai più così avventato, a meno che io ti accompagni. Come mi hai spaventata!”.Sbirciai furtivamente Aph-Lin, aspettandomi che almeno rimproverasse indignato la figlia per quelle espressioni d’ansia e d’affetto che, in ogni circostanza, nel mondo esterno sarebbero state considerate sconvenienti sulle labbra d’una giovane donna se rivolte ad uomo che non fosse il fidanzato, anche se appartenente dello stesso rango.Ma nel mondo sotterraneo i diritti femminili sono così ben saldi (soprattutto il privilegio del corteggiamento), che Aph-Lin non avrebbe pensato di rimproverare la fi-glia più di quanto potesse pensare di disobbedire al Tur. In quel territorio, come aveva detto egli stesso, la consue-tudine è tutto.Aph-Lin rispose in tono mite: “Zee, il Tish non ha corso alcun pericolo, e sono convinto che sappia benissimo ba-dare a se stesso.”“Preferirei che lasciasse a me il compito di badare a lui. Oh, cuore del mio cuore, pensando al tuo pericolo ho compreso per la prima volta quanto ti amo!”.Nessun uomo si era mai sentito, credo, in una posizione altrettanto falsa. Quelle parole erano state pronunciate a voce alta, in modo che potesse udirle il padre di Zee ed un bambino che passava di lì in volo. Arrossii di vergogna per loro e per lei, e non seppi trattenermi dal risponde-re indispettito: “Zee, o ti fai beffe di me, e questo non ti si addice poiché sono ospite di tuo padre, oppure le pa-role che hai pronunciato non sono tali che una giovane Gy possa rivolgere ad un An, anche di sua scelta, se egli non l’ha corteggiata con il consenso dei genitori di lei. Ed è tanto più disdicevole rivolgerle a un Tish che non ha mai presunto di sollecitare il tuo affetto, e non potrà mai guardarti con altri sentimenti che reverenza e timore!”.Aph-Lin mi fece nascostamente un cenno d’approvazio-ne, ma non disse nulla.“Non essere così crudele!”, esclamò Zee, sempre con voce sonante. “Come può dominarsi un amore sincero? Credi

che una giovane Gy nasconda un sentimento che l’esal-ta? Da che razza di Paese sei venuto?”.A questo punto Aph-Lin s’intromise gentilmente: “Fra i Tish-a i diritti del tuo sesso non sembrano riconosciuti, ed in ogni caso il mio ospite potrà conversare più libera-mente con te se non sarà frenato dalla presenza di altri.”Zee non rispose ma, lanciandomi un’occhiata di affettuo-so rimprovero, agitò le ali e volò verso casa.“Avevo fatto conto su qualche aiuto da parte del mio ospite”, dissi amaramente, “nei pericoli cui mi espone sua figlia.”“Ti ho dato tutto l’aiuto che potevo. Contraddire una Gy nei suoi affari di cuore significa rafforzare i suoi propositi: non ammette che un consiglio si frapponga tra lei ed il suo affetto.”

***

Quando scendemmo dalla barca aerea, un bambino si avvicinò ad Aph-Lin, nell’atrio, riferendogli che era stato pregato di presenziare alle esequie di un parente morto di recente.Io non avevo mai visto cimiteri o sepolcreti in quel luogo e, lieto di un’occasione sia pure malinconica per procra-stinare l’incontro con Zee, chiesi ad Aph-Lin se potevo as-sistere con lui alla sepoltura del suo parente; a meno che, naturalmente, fosse considerata una di quelle cerimonie sacre cui non sono ammessi gli stranieri.“La dipartita di un An per un mondo più felice,” rispose il mio ospite, “quando, come nel caso del mio parente, ha vissuto così a lungo in questo da perderne il piacere, è piuttosto una festa lieta e tranquilla che non una cerimo-nia sacra: perciò puoi accompagnarmi, se lo desideri.”Preceduti dal bambino messaggero, ci avviammo per la via principale e raggiungemmo una casa poco lontana. Fummo condotti in una stanza al piano terreno, dove tro-vammo parecchie persone radunate intorno al giaciglio su cui stava il defunto. Era un vecchio che, mi dissero, ave-va superato i centotrent’anni. A giudicare dal sorriso se-reno, si era spento senza soffrire. Uno dei figli, che adesso era diventato il capo della famiglia e sembrava nella più vigorosa maturità sebbene avesse passato la settantina, si fece avanti con volto lieto e disse ad Aph-Lin che, il giorno prima di morire, suo padre aveva visto in sogno la sua defunta Gy, ed era ansioso di ricongiungersi con lei, restituito alla giovinezza sotto il sorriso della Bontà Suprema.Mentre i due parlavano, la mia attenzione fu colpita da uno scuro oggetto metallico in fondo alla stanza. Era lun-go circa tre metri, largo in proporzione, e tutto chiuso: ma sul lato superiore c’erano piccoli fori rotondi da cui filtrava una luce rossa. Dall’interno emanava un profumo inten-so e dolce; e mentre mi chiedevo a quale scopo poteva

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servire la macchina, tutti gli orologi della città suonarono i loro melodiosi rintocchi musicali; e quando quel suono cessò, una musica più gioiosa, ma di una gioia sommessa e tranquilla, echeggiò nella camera in uno squillo corale. In sintonia con quella melodia, tutti i presenti levarono la voce in un canto. Le parole dell’inno erano semplici. Non esprimevano dolore né un addio, ma piuttosto un saluto al nuovo mondo in cui il defunto aveva preceduto i viventi. Nella lingua dei Vril-ya, in effetti, l’inno funebre viene chiamato Canto natale. Poi il cadavere, coperto da un lungo sudario, venne sollevato premurosamente da sei parenti stretti e portato verso l’oggetto scuro che ho già descritto. Mi feci avanti per vedere cosa sarebbe ac-caduto. Venne sollevato un pannello scorrevole ad una estremità, il corpo fu deposto all’interno, su di un ripiano; lo sportello si chiuse, venne premuto un pulsante laterale e dall’interno uscì un fruscio improvviso. Ed ecco, lo spor-tello all’estremità opposta della macchina si abbassò, ed una manciata di polvere fumante cadde in una patera pronta ad accoglierla. Il figlio prese la patera e disse, se-condo quella che (come appresi più tardi) era la formula consueta: “Vedete quant’è grande il Creatore: a questa polvere Egli aveva dato forma, vita ed anima. Egli non ha bisogno di questa poca polvere per rendere forma e vita ed anima al nostro caro che presto rivedremo.”Tutti i presenti chinarono il capo, premendosi una mano sul cuore. Poi una bambina aprì uno sportello della pa-rete, ed io vidi in quel vano, i ripiani su cui erano posate numerose patere simili a quella retta dal figlio del morto: quelle, tuttavia, erano coperte. Una Gy si avvicinò al figlio portando un coperchio, e lo posò sulla coppa, facendo scattare una molla. Sul coperchio erano incisi il nome del defunto e queste parole: “A noi prestato” (seguiva la data di nascita) e “Ritolto a noi” (seguiva la data della morte).Lo sportello si chiuse con un suono musicale, e tutto finì.

***

Questa,” dissi io, con la mente piena di ciò che avevo vi-sto, “questa, presumo, è la vostra forma consueta di ese-quie?”.“E’ la nostra forma invariabile,” rispose Aph-Lin. “Presso il tuo popolo, qual è?”.“Seppelliamo il corpo nella terra.”“Come! Degradare la forma che avete amato ed onorato, la moglie sul cui seno avete dormito, abbandonandola all’orrore della putrefazione?”.“Ma se l’anima continua a vivere, che importa se il corpo si consuma nella terra o viene ridotto ad un pizzico di pol-vere da quel terribile meccanismo, senza dubbio alimen-tato dall’energia del vril?”.“La tua risposta è giusta,” disse il mio ospite, “ed è inutile discutere nelle questioni del sentimento; ma per me la

vostra consuetudine è orribile e ripugnante, e serve ad associare la morte a pensieri lugubri ed atroci. Inoltre, a mio parere, è importante conservare il ricordo del nostro parente od amico nella casa in cui viviamo. Così sentiamo meglio che egli vive ancora, sebbene non sia più visibile per noi. Ma in questo i nostri sentimenti, come in tutto il resto, sono dettati dalla consuetudine. Un saggio An non cambia le consuetudini come non le cambia una saggia Comunità, senza la più solenne deliberazione seguita dalla convinzione più ardente. Solo così il cambiamento cessa di essere volubilità, e una volta compiuto rimane per sempre.”Quando tornammo a casa, Aph-Lin convocò alcuni dei bambini al suo servizio e li mandò da vari suoi amici, invi-tandoli per le Ore Tranquille ad una festa in onore del ri-torno del suo parente alla Bontà Suprema. Fu la riunione più affollata e gaia cui ebbi modo di assistere durante il mio soggiorno tra gli Ana, e durò fino alle Ore Silenziose.Il banchetto era stato apparecchiato in una grande sala riservata alle solennità. Era diverso dai nostri, e ricordava piuttosto i banchetti dell’epoca più sontuosa dell’Impero Romano. Non c’era una sola grande tavola, ma numero-si tavolini, ognuno dei quali era apparecchiato per otto ospiti. Si ritiene infatti che, se si supera questo numero, la conversazione languisce e l’amicizia si raffredda. Gli Ana non ridono mai forte, come ho già osservato, ma il suono lieto delle voci intorno alle varie tavole attestava gaiez-za. Poiché i Vril-ya non hanno bevande stimolanti, e sono molto temperati nei cibi pur scelti e squisiti, il banchetto non durò a lungo. Le tavole sprofondarono nel pavimen-to, e cominciarono i trattenimenti musicali per coloro che li gradivano. Molti, tuttavia, si allontanarono; alcuni dei giovani presero il volo, poiché la sala non aveva tetto, e improvvisarono danze aeree; altri passeggiarono per i di-versi appartamenti, esaminando gli oggetti curiosi che vi erano raccolti, o si riunirono in gruppi per dedicarsi a vari giochi: il prediletto è una complicata sorta di scacchi, cui partecipano otto persone.Mi mescolai alla folla, ma la costante compagnia dell’uno o dell’altro dei figli del mio ospite m’impedì di partecipa-re alle conversazioni: i due giovani avevano ricevuto dal padre l’incarico di tenermi lontano dalle domande indi-screte. Gli ospiti, peraltro, mi notarono appena; si erano abituati al mio aspetto, poiché mi vedevano spesso per la strada, e non suscitavo più la loro curiosità.Con mia grande gioia, Zee mi evitava, e cercava di susci-tare la mia gelosia dimostrando una spiccata attenzione per un An giovane e bellissimo che (sebbene rispondesse ad occhi bassi ed arrossendo, secondo il moderno costu-me dei maschi avvicinati dalle femmine, e fosse timido e pudico come le giovanette lo sono in quasi tutto il mondo civile, eccettuate l’Inghilterra e l’America) era chiaramente affascinato dalla Gy, e pronto a balbettare un modesto “sì”

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se lei gli avesse proposto di sposarla. Augurandomi fervi-damente che lei lo facesse, e sempre più avverso all’idea di finire in cenere dopo aver visto con quanta rapidità un corpo umano poteva venire trasformato in un pizzico di polvere, mi divertii ad osservare il comportamento degli altri giovani.Ebbi la soddisfazione di vedere che Zee non era la sola assertrice dei più apprezzati diritti femminili. Ovun-que volgessi gli occhi e gli orecchi, mi pareva che fosse la Gy a corteggiare, mentre l’An era sempre timido e ri-luttante. Le graziose arie d’innocenza che un An si dava nel venire così corteggiato, e la destrezza con cui evitava di rispondere direttamente a dichiarazioni d’affetto, o volgeva in scherzo i complimenti lusinghieri a lui rivolti, avrebbero fatto onore alla civetta più raffinata. I miei due accompagnatori erano spesso oggetto di tali seducenti attenzioni, ed entrambi si destreggiavano con tatto ed autocontrollo ammirevoli.Dissi al figlio maggiore, che preferiva le attività meccani-che alla direzione d’una grande proprietà terriera e che aveva un temperamento eminentemente filosofico: “Tro-vo difficile capire come alla tua età, sotto gli inebrianti effetti della musica, delle luci e dei profumi, tu possa mo-strarti così freddo con quella Gy appassionata che ti ha appena lasciato, con gli occhi pieni di lacrime per la tua crudeltà.”Il giovane An rispose con un sospiro: “Mio caro Tish, la più grande sfortuna nella vita è sposare una Gy quando sei innamorato di un’altra.”“Oh! Sei innamorato di un’altra?”.“Ahimé, sì.”“E lei non ricambia il tuo amore?”.“Non so. Talvolta uno sguardo, una parola me lo fanno sperare; ma non mi ha mai detto apertamente di amar-mi.” “Non le hai sussurrato all’orecchio che tu l’ami?”.“Oh, no! Cosa credi? Da che mondo provieni? Come po-trei tradire la dignità del mio sesso? Come potrei essere così poco mascolino, così svergognato, da dichiarare il mio amore ad una Gy prima che questa l’abbia dichiarato a me?”.“Perdonami: non sapevo che spingessi tanto lontano il pudore del tuo sesso. Ma non accade mai che un An dica ad una Gy ‘Ti amo’, prima che lei l’abbia detto a lui?”.“Non posso affermare che nessun An l’abbia mai fatto: ma quando ciò avviene, lui è disonorato agli occhi degli Ana, e disprezzato segretamente dalle Gy-ei. Nessuna Gy ben educata gli darebbe ascolto; penserebbe che ha violato temerariamente i diritti del sesso più forte, oltraggiando il pudore che si addice al suo. È un vero tormento,” con-tinuò l’An, “perché colei che amo non corteggia nessun altro, e non posso fare a meno di pensare che io le piac-cio. Talvolta sospetto che non mi corteggi perché teme che avanzerei pretese irragionevoli circa le rinunce ai suoi

diritti. Ma in tal caso, non può amarmi veramente, perché quando una Gy ama rinuncia a tutti i diritti.”“E questa giovane Gy è presente?”.“Oh, sì. E’ seduta laggiù, e parla con mia madre.” Guardai nella direzione indicatami e vidi una Gy vestita di rosso vivo: presso quel popolo, ciò indica che preferisce ancora restare nubile. Una Gy si veste di grigio, una tinta neutra, per indicare che sta cercando uno sposo; porpora scuro per far capire che ha già compiuto una scelta; por-pora e arancione quando è fidanzata o sposata; celeste quando è divorziata o vedova e desidera risposarsi. Natu-ralmente, il celeste è un colore che si vede di rado.In una razza dove tutti sono bellissimi, è difficile trovare qualcuno che si distingua per bellezza. La prescelta del mio giovane amico mi sembrò possedesse un aspetto normale; ma sul suo volto c’era un’espressione che mi piacque più di quella delle altre Gy-ei in generale, perché mi pareva meno ardita, meno conscia dei diritti femmini-li. Notai che, mentre parlava a Bra, di tanto in tanto guar-dava di sottecchi il mio giovane amico.“Coraggio,” feci, “quella giovane Gy ti ama.”“Ah, ma se non me lo dirà, a che servirà anche se mi ama?”.“Tua madre sa del tuo affetto?”.“Forse sì. Non gliene ho mai parlato. Sarebbe poco viri-le confessare tale debolezza ad una madre. L’ho detto a mio padre; può che darsi che lui l’abbia rivelato a sua mo-glie.”“Mi permetti di lasciarti per un momento e di accostarmi a tua madre e alla tua amata? Sono sicuro che stanno par-lando di te. Non esitare. Ti prometto che non mi lascerò interrogare fino a quando tornerò da te.”Il giovane An si posò una mano sul cuore, mi toccò leg-germente la testa, e mi lasciò andare. Inosservato, mi por-tai furtivamente dietro sua madre e la sua prediletta, e ascoltai ciò che dicevano.Stava parlando Bra: “Non ci sono dubbi; o mio figlio, che è di età matrimoniabile, si lascerà convincere a sposare una delle molte corteggiatrici, oppure emigrerà lontano e non lo vedremo più. Se davvero gli vuoi bene, mia cara Lo, dovresti dichiararti.”“Gli voglio bene, Bra: ma non so se riuscirò davvero a con-quistare il suo affetto. Ama le sue invenzioni ed i suoi o-rologi. Io non sono come Zee; sono così poco brillante che non potrei occuparmi dei suoi interessi preferiti, e allora si stancherebbe di me, allo scadere dei tre anni di-vorzierebbe, ed io non potrei mai sposare un altro... mai.”“Non è necessario intendersi d’orologi per sapersi rende-re necessaria alla felicità di un An, al punto che lui preferi-rebbe rinunciare agli orologi piuttosto che divorziare dal-la sua Gy. Vedi, mia cara Lo,” continuò Bra, “proprio perché noi siamo il sesso più forte, dominiamo l’altro, a patto che non mostriamo mai la nostra forza. Se tu fossi superiore a

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mio figlio nell’inventare orologi ed automi, dovresti, una volta diventata sua moglie, lasciargli sempre credere che lo ritieni migliore di te in quell’arte. L’An ammette tacita-mente la superiorità della Gy in tutto, fuorché nella sua specifica vocazione. Ma se lei lo supera in questo, o non mostra di ammirarlo per la sua competenza, non l’ame-rà a lungo; forse può arrivare persino a divorziare. Ma se una Gy ama veramente, impara presto ad amare ciò che è caro al suo An.”A queste parole, la giovane Lo non rispose. Abbassò lo sguardo pensosa; poi un sorriso le sfiorò le labbra. Si alzò, in silenzio, e passò tra la folla, fermandosi accanto al gio-vane An che l’amava. La seguii, per discrezione mi fermai però ad una certa distanza, e li osservai. Con mia sorpresa, fino a quando ricordai la tattica della timidezza adottata dagli Ana, l’innamorato parve accogliere le attenzioni di Lo con aria indifferente. Si allontanò persino, ma lei lo se-guì; e poco dopo, entrambi spiegarono le ali e sparirono lassù, nell’aria luminosa.In quel momento, mi si avvicinò il magistrato supremo, che si mescolava alla folla senza divenire oggetto di ma-nifestazioni particolari di deferenza o d’omaggio. Non avevo veduto il dignitario dal giorno in cui ero entrato nel mondo dei Vril-ya, e ricordando quanto mi aveva detto Aph-Lin, circa i suoi terribili dubbi sulla sorte da destinar-mi, mi sentii scosso da un brivido alla vista del suo viso sereno.“Ho saputo molte cose sul tuo conto, straniero, da mio figlio Taë,” esordì il Tur, posando educatamente la mano sulla mia testa. “Ama molto la tua compagnia, e spero che le consuetudini del nostro popolo non ti dispiacciano.”Mormorai una risposta incomprensibile, che voleva esse-re una protesta di gratitudine per le gentilezze che avevo ricevuto dal Tur, e di ammirazione per i suoi compatrioti, ma la visione del coltello sezionatore mi brillava davanti all’occhio della mente e soffocava le mie parole. Una voce più dolce disse: “L’amico di mio fratello deve essere caro anche a me.” Alzai la testa e vidi una giovane Gy, che po-teva avere sedici anni: stava accanto al magistrato e mi guardava con estrema benevolenza. Non aveva ancora finito di crescere, e non era più alta di me (cioè, un metro e ottanta centimetri); grazie a quella statura modesta, mi parve la Gy più incantevole che avessi veduto. Immagino che l’espressione dei miei occhi rivelasse quell’impressio-ne, perché il suo volto divenne ancora più benevolo.“Taë mi ha detto”, proseguì lei, “che non ti sei ancora abi-tuato alle ali. Questo mi addolora, perché mi sarebbe pia-ciuto volare insieme con te.”“Ahimè,” risposi, “non posso sperare di poter mai godere di tale felicità. Zee mi assicura che l’uso disinvolto delle ali è un dono ereditario, e dovrebbero trascorrere intere ge-nerazioni prima che uno della mia razza potesse lanciarsi nell’aria come un uccello”.

“Non addolorarti troppo,” rispose l’amabile principessa. “Infatti, dopotutto, verrà un giorno in cui Zee ed io do-vremo abbandonare le ali per sempre. Forse quando ver-rà quel giorno, saremmo liete se l’An da noi scelto fosse anch’egli privo d’ali.”Il Tur si era allontanato, perdendosi tra la folla. Comincia-vo a sentirmi a mio agio con l’affascinante sorella di Taë, e la sbalordii alquanto con l’ardire del mio complimento, rispondendo che “nessun An da lei prescelto si sarebbe mai servito delle ali per volare lontano”. È così contrario alla consuetudine che un An dica cose del genere ad una Gy se questa non gli ha dichiarato il suo amore e non è stata accettata come fidanzata, che la fanciulla restò sconcertata per qualche istante. Tuttavia non mi parve dispiaciuta. Si riprese, e mi invitò ad accompagnarla in una delle sale meno affollate, ad ascoltare il canto degli uccelli. La seguii, e mi condusse in una stanza quasi de-serta. Al centro, una fontana di nafta lanciava il suo zam-pillo; intorno c’erano soffici divani, e da un lato la parete si apriva su una voliera dove gli uccelli cantavano i loro cori melodiosi. La Gy sedette su un divano, ed io presi posto accanto a lei. “Taë mi ha detto”, esordì, “che Aph-Lin ha stabilito come legge della sua casa, che tu non venga interrogato cir-ca il paese da cui provieni e le ragioni della tua visita. È vero?”.“Sì.”“Posso almeno, senza violare tale legge, chiedere se le Gy-ei del tuo Paese hanno il tuo stesso colorito pallido, e non sono più alte?”.“Non credo, o bella Gy, di violare la legge di Aph-Lin, per me vincolante, se rispondo a domande tanto innocenti. Le Gy-ei del mio Paese hanno un colorito assai più chiaro del mio, e la loro statura media è inferiore alla mia almeno di tutta la testa.”“Allora non sono forti come gli Ana, tra voi? Ma immagino che la loro superiore energia vril compensi questo straor-dinario svantaggio.”“Non usano l’energia del vril come fate voi. Tuttavia sono molto potenti, nel mio Paese, ed un An ha poche possibi-lità di essere felice, se non si lascia più o meno governare dalla sua Gy.”“Tu parli con sentimento,” disse la sorella di Taë, in tono un po’ triste ed un po’ petulante. “Sei sposato, natural-mente?”.“No... certamente no.”“Fidanzato?”.“Neppure fidanzato.”“Possibile che nessuna Gy ti abbia fatto proposte di ma-trimonio?”.“Nel mio Paese non è la Gy a farle: è l’An a dichiararsi per primo.”“Che strana inversione delle leggi di natura!”, esclamò la

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fanciulla. “E che mancanza di pudore nel tuo sesso! Ma tu non ti sei mai dichiarato, non hai mai amato una Gy più di un’altra?”.Mi sentii imbarazzato da quelle domande ingenue e dis-si: “Perdonami, ma temo che stiamo cominciando a vio-lare l’ingiunzione di Aph-Lin. Posso dire solo questo, in risposta, e poi, ti supplico, non chiedermi altro. Una volta, provai quella preferenza di cui parli; mi dichiarai, e la Gy mi avrebbe accettato volentieri, ma i suoi genitori rifiuta-rono il consenso.”“I genitori! Vuoi dire davvero che i genitori possono inter-ferire nelle scelte delle loro figlie?”.“Sì, possono farlo, e lo fanno molto spesso.”“Non mi piacerebbe vivere in quel Paese,” disse la Gy, semplicemente. “Ma spero che tu non vi ritorni mai.”Chinai il capo in silenzio. La Gy mi rialzò con fare gentile, il volto con la destra e mi guardò teneramente. “Resta con noi,” disse. “Resta con noi e lasciati amare.”Tremo ancora oggi al pensiero di ciò che avrei potuto ri-spondere, al pericolo che avrei potuto correre di venir tra-sformato in cenere, quando la luce della fontana di nafta fu oscurata dall’ombra di un paio d’ali; e Zee scendendo dal tetto aperto atterrò accanto a noi. Non disse una pa-rola ma, prendendomi il braccio con la mano possente, mi trascinò via, come fa una madre con il figlioletto ca-priccioso, e mi condusse in uno dei corridoi: poi, salendo su uno dei meccanismi che i Vril-ya preferiscono general-mente alle scale, raggiungemmo la mia stanza. Zee, allo-ra, mi soffiò sulla fronte, mi toccò il petto con lo scettro, e io precipitai immediatamente in un sonno profondo.Quando mi svegliai, dopo diverse ore, e udii il canto degli uccelli nella vicina voliera, il ricordo della sorella di Taë, del suo aspetto dolce e delle sue parole carezzevoli tornò vivido alla mia mente, e per uno nato e cresciuto nella società del mondo esterno è così difficile liberarsi delle idee ispirate dalla vanità e dall’ambizione che mi accorsi di costruire istintivamente arditi castelli in aria.“Anche se sono un Tish,” pensai, “anche se sono un Tish, è chiaro che Zee non è l’unica Gy che la mia persona può attrarre. Evidentemente sono amato da UNA PRINCIPES-SA, la prima fanciulla di questa terra, figlia del Monarca assoluto, la cui autocrazia qui cercano invano di camuf-fare con il titolo repubblicano di magistrato supremo. Se non fosse comparsa all’improvviso quell’orribile Zee, la Dama Reale mi avrebbe fatto una dichiarazione formale; e anche se Aph-Lin, che è solo un ministro subordinato, un semplice Commissario della Luce, minaccia di uccidermi se accetto la mano di sua figlia, un Sovrano, la cui parola è legge, potrebbe costringere la comunità ad abrogare la consuetudine che vieta le nozze con gli appartenenti ad una razza straniera e che contraddice la loro vantata eguaglianza sociale.“Non posso credere che sua figlia, la quale ha parlato con

tanto incredulo disprezzo dell’interferenza dei genitori, non abbia influenza sufficiente sul regale padre per sal-varmi dalla combustione cui mi condannerebbe Aph-Lin. E se avessi l’onore di simili nozze, chissà, forse il Monarca mi sceglierebbe come successore. Perché no? Ben po-chi, in questa razza indolente di filosofi, amano il peso di tanta grandezza. Tutti sarebbero compiaciuti di vede-re il potere supremo nelle mani di uno straniero che ha esperienza di altre e più vivaci forme d’esistenza; e, una volta prescelto, quante riforme potrei introdurre! Quante modifiche alla vita di questo reame piacevole ma troppo monotono potrei apportare! Io amo gli sport all’aria aper-ta. Dopo la guerra, il passatempo preferito dei re non è forse la caccia? Quante varietà di selvaggina abbondano in questi territori sotterranei! Come sarebbe interessante abbattere animali che nel mondo esterno si sono estinti prima del Diluvio! Ma come? Con il terribile vril, che non potrò mai usare efficacemente a causa di una carenza ereditaria? No: con un civile, comodo fucile, che questi meccanici ingegnosi potrebbero non solo costruire, ma anche perfezionare: ne ho visto sicuramente uno nel Mu-seo. Come sovrano assoluto, anzi, rinnegherei completa-mente il vril, tranne in caso di guerra.“A proposito di guerra, è assurdo limitare un popolo così intelligente, così ricco e ben armato, ad un territorio suf-ficiente appena per dieci o dodicimila famiglie. Tale re-strizione è solo un congegno filosofico, in contrasto con le aspirazioni della natura umana, come è stato tentato parzialmente nel mondo esterno, e con insuccesso totale, dal signor Robert Owen. Naturalmente non si fa guerra alle nazioni vicine altrettanto bene armate; ma ci sono le regioni abitate da razze che non conoscono il vril e che, per le istituzioni democratiche, assomigliano ai miei compatrioti americani. Si potrebbe invadere le loro ter-re senza offendere le nazioni del vril nostre alleate, ed estendersi fino alle regioni più lontane del mondo sot-terraneo, regnando così su un impero dove il Sole non tramonta mai. (Nel mio entusiasmo, dimenticavo che in quel mondo il Sole non c’era). In quanto all’assurda idea di non concedere gloria e fama ad un individuo eminen-te perché gli onori causano concorrenza per assicurarseli, suscitano passioni scatenate e guastano la felicità della pace... ebbene, è contraria non solo alla natura umana ma anche a quella degli animali che, se addomesticabili, sono sensibili alla lode ed all’emulazione. Quale fama conquisterebbe un re che ampliasse il suo impero! Verrei considerato un semidio.”Pensando all’adozione delle credenze che, senza dubbio, noi cristiani accettiamo con fermezza ma non prendiamo mai in considerazione, decisi che la filosofia più illuminata mi obbligava ad abolire una religione pagana e supersti-ziosa in netto contrasto con il pensiero moderno e la real-tà pratica. Riflettendo su questi vari progetti, sentivo che

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in quel momento mi sarebbe piaciuto molto ravvivare il mio spirito con un buon bicchiere di whisky-and-water. Non bevo abitualmente alcolici, ma vi sono senza dubbio momenti in cui uno stimolante, accompagnato da un si-garo, accende l’immaginazione. Sì: certamente tra quelle erbe e quei frutti ne esisteva qualcuno da cui si poteva estrarre un piacevole liquido vinoso; e con una bistecca di cervo (ah, che offesa per la scienza rifiutare il cibo ani-male che i nostri migliori medici raccomandano ai succhi gastrici dell’umanità!) l’ora del pasto sarebbe trascorsa in modo certamente più lieto. E poi, al posto degli antiquati drammi rappresentati da bambini dilettanti, quando fos-si divenuto re avrei introdotto la nostra opera moderna e i nostri corpi di ballo, per i quali avrei potuto trovare, nelle nazioni che avrei conquistato, giovani donne di statura meno formidabile e di muscolatura meno tremenda delle Gy-ei... non armate di vril e non intestardite a sposare un uomo contro la sua volontà.Ero completamente assorto nel pensiero di queste ed al-tre riforme politiche, sociali e morali, destinate ad arreca-re al popolo del mondo sotterraneo le gioie della civiltà conosciuta dalle razze del mondo esterno, e non mi resi conto neppure che Zee era entrata nella stanza; me ne avvidi solo quando udii un profondo sospiro e, alzando gli occhi, la vidi ritta accanto al mio giaciglio.È superfluo aggiungere che, secondo i costumi di quel popolo, una Gy può, senza venir meno al decoro, far visita ad un An nella sua camera, mentre un An verrebbe giudi-cato sfrontato e immodesto al massimo se entrasse nella stanza di una Gy senza aver prima ottenuto il permesso. Per fortuna ero ancora completamente vestito come nel momento in cui Zee mi aveva deposto sul letto. Mi sentii tuttavia molto irritato e scandalizzato della sua visita e le chiesi in tono brusco cosa voleva.“Parla dolcemente, carissimo, ti supplico,” disse lei, “per-ché sono molto infelice. Non ho dormito, da quando ci siamo separati.”“Un debito senso di vergogna per la tua condotta nei confronti di un ospite di tuo padre dovrebbe bastare a scacciare il sonno dalle tue palpebre. Dov’è l’affetto che pretendi di provare per me, dov’è la cortesia di cui i Vril-ya si vantano, se approfittando della forza fisica del tuo sesso, e dei detestabili, empi poteri conferiti dalle energie del vril ai tuoi occhi ed alle tue dita, mi hai esposto all’umi-liazione di fronte ai tuoi visitatori, ed a Sua Altezza Reale... voglio dire, la figlia del vostro magistrato supremo, trasci-nandomi a letto come un bambino cattivo e facendomi addormentare senza chiedere il mio consenso?”.“Ingrato! Mi rimproveri le mie attestazioni d’amore? Pensi che, anche se non fossi stata tormentata dalla gelosia che accompagna l’amore fino a quando svanisce nella beata certezza di aver conquistato il cuore del prediletto, avrei potuto essere indifferente ai pericoli cui le audaci propo-

ste di quella sciocca bambina potrebbero esporti?”.“Basta! Poiché sei tu a parlare di pericoli, forse è giusto dirti che quelli più immediati mi vengono da te, o almeno mi verrebbero se credessi al tuo amore ed accettassi la tua corte. Tuo padre mi ha detto chiaramente che in tal caso verrei ridotto in cenere senza alcun rimorso, come se fossi il rettile che Taë ha annientato con un lampo del suo scettro.”“Non devi permettere che queste paure raffreddino il tuo cuore,” esclamò Zee, gettandosi in ginocchio e avvilup-pando la mia destra nella sua grande mano. “E’ vero, certo, che non possiamo sposarci come coloro che appartengo-no alla stessa razza; è vero che l’amore tra noi deve essere puro come quello che, secondo la nostra fede, esiste tra gli innamorati ricongiunti nella nuova vita dopo la fine di questa. Ma non è una felicità abbastanza grande essere insieme, sposati nella mente e nel cuore? Ascoltami: ho appena lasciato mio padre: acconsente alla nostra unione a queste condizioni. Ho abbastanza influenza sul Collegio dei Saggi perché chieda al Tur di non interferire nella libe-ra scelta d’una Gy, purché le sue nozze con l’esponente di un’altra razza siano soltanto un matrimonio di anime. Oh, pensi che il vero amore abbia bisogno di un’unione igno-bile? Io non desidero solo essere al tuo fianco in questa vita, e partecipare alle tue gioie ed ai tuoi dolori; chiedo un legame che ci unisca per sempre nel mondo degli im-mortali. Mi rifiuti?”.Si era inginocchiata, mentre parlava, e l’espressione del suo volto era completamente cambiata: non c’era più se-verità, ed una luce divina, simile a quella degli immortali, s’irradiava dalla sua umana bellezza. Tuttavia m’incuteva timore come un angelo, anziché commuovermi come una donna; e dopo una pausa imbarazzata, balbettai espres-sioni evasive di gratitudine e cercai, con la massima deli-catezza, di farle capire che la mia posizione sarebbe stata umiliante, se fossi divenuto un marito che non avrebbe mai potuto essere padre.“Ma,” disse Zee, “questa comunità non rappresenta tutto il mondo. No: e non tutte le popolazioni sono comprese nella lega dei Vril-ya. Per amor tuo rinuncerò al mio paese e alla mia gente. Voleremo insieme in una regione dove sarai al sicuro. Sono abbastanza forte per portarti in volo attraverso i deserti; sono abbastanza abile per aprire tra le rocce valli in cui costruiremo la nostra casa. La solitudine ed una capanna con te varrebbero per me più della socie-tà e dell’universo. Oppure preferisci tornare al tuo mondo della superficie, esposto all’incertezza delle stagioni, e il-luminato soltanto dalle mutevoli sfere che, a quanto hai detto tu stesso, costituiscono il carattere capriccioso di quelle zone selvagge? In tal caso, parla, ed io aprirò la via al tuo ritorno, per essere la tua compagna lassù, compa-gna, là come qui, solo della tua anima, per giungere con te nel mondo in cui non vi è separazione né morte.”

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Non potei fare a meno di sentirmi profondamente com-mosso dalla tenerezza, così pura ed appassionata, con cui venivano pronunciate quelle parole, e dalla voce che avrebbe reso musicale anche i suoni più rozzi della lingua più rude. Per un momento, pensai che avrei potuto ser-virmi dell’aiuto di Zee per tornare rapidamente e senza rischi al mondo esterno. Ma una breve riflessione bastò a mostrarmi che sarebbe stato un modo ben meschino e disonorevole di ricambiare tanta devozione, se avessi al-lontanato dal suo popolo e dalla sua casa, dove ero stato trattato ospitalmente, una creatura che l’avrebbe trovato orribile, per il cui amore, sterile anche se spirituale, non sarei stato capace di rinunciare all’affetto più umano di compagne meno superiori a me.A questo sentimento di dovere nei confronti della Gy si univa quello nei confronti della razza cui appartenevo. Potevo azzardarmi ad introdurre nel mondo esterno una creatura dalle doti cosi formidabili... un essere che con un movimento dello scettro poteva ridurre New York ed il suo glorioso Koom-Posh in un pizzico di polvere? Se le avessi sottratto lo scettro, con la sua scienza avrebbe potuto facilmente costruirne un altro; e tutto il suo or-ganismo era carico delle folgori mortali che armavano quel sottile strumento. Tanto pericolosa per le città e le popolazioni del mondo esterno, come poteva essere una compagna fidata per me, se il suo affetto fosse cambiato, o fosse stato amareggiato dalla gelosia? Questi pensieri, che richiedono tante parole per venire espressi, mi passa-rono rapidi per la mente e decisero la mia risposta.“Zee,” dissi con tutta la dolcezza possibile, posando ri-spettosamente le labbra sulla mano in cui era sparita la mia, “Zee, non so trovare la parole adatte per dirti quanto sono commosso ed onorato da un amore così disinteres-sato e generoso. Posso ricambiarlo solo con la più asso-luta franchezza. Ogni nazione ha i suoi costumi. Le con-suetudini della tua non ti permettono di sposarmi; quelle della mia sono altrettanto contrarie ad un’unione fra raz-ze così diverse. D’altra parte, sebbene il coraggio non mi manchi tra il mio popolo o tra i pericoli che conosco, non posso, senza un brivido d’orrore, pensare a costruire una casa nel cuore di un tremendo caos, con tutti gli elementi della natura, il fuoco e l’acqua ed i gas mefitici, in guerra tra loro, e con la probabilità che prima o poi, mentre tu fossi occupata a squarciare le rocce o a trasmettere il vril alle lampade, io venissi divorato da un krek che le tue at-tività hanno disturbato. Io sono soltanto un Tish, e non merito l’amore di una Gy così intelligente, dotta e poten-te come te. Sì, non merito tale amore, perché non posso contraccambiarlo.”Zee mi lasciò la mano, si alzò, e distolse il viso per nascon-dere le sue emozioni; poi attraversò in silenzio la stanza e si fermò sulla soglia. All’improvviso, come spinta da un nuovo pensiero, tornò al mio fianco e disse bisbigliando:

“Mi hai detto che avresti parlato con perfetta franchez-za. E allora rispondi con perfetta franchezza a questa do-manda: se non puoi amare me, ami un’altra?” .“Certamente no.” “Non ami la sorella di Tae?” “Non l’avevo mai vista prima di ieri sera.” “Non è una risposta. L’amore è più fulmineo del vril. Tu esiti a dirmelo. Non credere che sia soltanto la gelosia a indurmi a metterti in guardia. Se la figlia del Tur ti dichia-rasse amore, se nella sua ignoranza confidasse al padre la preferenza e lo convincesse delle sue intenzioni di corteg-giarti, egli non avrebbe altra scelta che richiedere la tua immediata eliminazione, poiché ha il compito di vegliare sul bene della comunità, e questo non permette ad una figlia dei Vril-ya di sposare un figlio dei Tish-a, nel senso di un matrimonio che non si limiti ad un’unione delle ani-me. Ahimé, in tal caso non avresti via di scampo. Lei non ha abbastanza forza per trasportarti in volo nell’aria; non conosce la scienza per creare una casa nelle località de-solate e selvagge. Credimi: è la mia amicizia che ti parla, non la gelosia.”Con queste parole, Zee mi lasciò. E ricordandole, non pensai più a salire sul trono dei Vril-ya, né alle riforme po-litiche, sociali e morali che avrei potuto istituire nella mia qualità di Sovrano Assoluto.

***

Dopo la conversazione con Zee che ho appena riferito, caddi in uno stato di profonda malinconia. L’interesse curioso con cui in precedenza avevo osservato la vita e le abitudini di quella meravigliosa comunità era svanito. Non potevo scacciare dalla mente la consapevolezza di trovarmi in mezzo a gente che, sebbene mite e cortese, poteva annientarmi da un momento all’altro, senza scru-poli né rimorsi. La vita virtuosa e pacifica che, sebbene tanto nuova per me, mi era sembrata così santa in con-fronto ai dissidi, le passioni ed i vizi del mondo esterno, cominciò ad opprimermi, a darmi un senso di cupezza e di monotonia. Anche la serena tranquillità dell’aria lumino-sa deprimeva il mio spirito. Aspiravo ad un cambiamento, fosse pure l’inverno, un temporale o l’oscurità. Cominciai a pensare che, quali che siano i nostri sogni di perfezio-ne, le nostre irrequiete aspirazioni ad una sfera dell’essere migliore, più alta e serena, noi mortali del mondo esterno non siamo abituati né adatti a godere a lungo la stessa felicità che sognamo.Ed era curioso notare come la società dei Vril-ya riuscisse a unire ed armonizzare in un unico sistema quasi tutti i fini che i vari filosofi del mondo esterno hanno additato alle speranze umane quali ideali di un futuro utopistico. Era uno Stato in cui la guerra, con tutte le sue calamità, veniva ritenuta impossibile, in cui la libertà di ognuno

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era garantita al massimo, senza quelle animosità che nel mondo esterno fanno dipendere la libertà dalla perpe-tua lotta. Qui la corruzione che degrada le democrazie era sconosciuta quanto i malcontenti che minano i tro-ni delle monarchie. Qui l’eguaglianza non era un nome, era una realtà. I ricchi non erano perseguitati, poiché non erano invidiati. Qui i problemi connessi alle classi lavora-trici, fino a questo momento insolubili nel mondo ester-no, dove provocano tanto risentimento, venivano risolti nel modo più semplice: si faceva completamente a meno di una classe lavoratrice a sé stante. Le invenzioni mec-caniche, costruite in base a principi per me incompren-sibili, azionate da un’energia infinitamente più potente e più agevole da usare di quelle dell’elettricità e del va-pore, guidate da bambini le cui forze non venivano mai sfruttate eccessivamente, e che amavano la loro attività come uno sport ed un passatempo, bastavano a creare una ricchezza pubblica così volta al bene di tutti che non esistevano malcontenti.I vizi che corrompono le nostre città lì non esistevano. I divertimenti abbondavano, ma erano tutti innocenti, non conducevano all’ubriachezza, al disordine, alle malattie. Esisteva l’amore, ardente nel corteggiamento, ma una volta realizzato era fedele. L’adultero, il libertino, la prosti-tuta erano fenomeni ignoti in quella comunità, al punto che per trovare le parole corrispondenti sarebbe stato necessario frugare una letteratura antiquata, composta millenni prima.Coloro che nel mondo esterno studiano le filosofie te-oretiche sanno che tutte queste strane deviazioni dalla via della civiltà realizzano idee esposte, costruite, ridi-colizzate e contestate, talvolta messe parzialmente alla prova, e tuttora esposte in libri fantastici, ma senza mai dare risultati pratici. Né questi erano tutti i passi verso la perfettibilità teorica compiuti dalla comunità. Cartesio ri-teneva che fosse possibile prolungare la vita dell’uomo, non all’infinito almeno su questa terra, ma intanto fino a quella che egli chiamava l’età dei patriarchi e che indi-cava tra i cento ed i centocinquant’anni. Ebbene, anche questo sogno dei saggi lì si era realizzato, al punto che il vigore della maturità durava anche dopo il secolo. A que-sta longevità si univa una benedizione anche più gran-de, la costante salute. Le malattie venivano eliminate con l’applicazione scientifica dell’energia, datrice di vita non meno che distruttrice, tipica del vril. Anche questa idea non è ignota sulla superficie, sebbene sia generalmente condivisa soltanto dagli entusiasti e dai ciarlatani, e pro-mani da nozioni confuse sul mesmerismo, la forza odica, e così via.Trascurando i congegni tipo le ali, che, come ogni sco-laretto sa, nel nostro mondo non sono state realizzate nonostante gli sforzi compiuti fin dai tempi mitici e prei-storici, passo ora ad una questione molto delicata, di re-

cente prospettata come essenziale alla perfetta felicità della nostra specie da due delle influenze più inquietanti e potenti della nostra società: la Donna e la Filosofia. Mi riferisco ai Diritti delle Donne.Ora, i nostri giuristi sostengono che è inutile parlare di diritti se non esistono i poteri corrispondenti per imporli; e nel mondo esterno, per una ragione o per l’altra l’uomo, nella sua forza fisica, nell’uso delle armi offensive e difen-sive, quando giunge ad un contesto personale, può sem-pre dominare le donne, come regola generale. Ma presso questo popolo non vi sono dubbi circa i diritti femminili perché, come ho detto, la Gy, dal punto di vista fisico, è più grande e forte dell’An; e poiché la sua volontà è an-che più risoluta, ed essenziale nell’uso del vril, ella può usare su di lui, assai più di quanto sia possibile il contrario, l’energia mistica che l’arte sa estrarre dalle proprietà oc-culte della natura. Perciò tutto quello che le nostre filoso-fe femministe chiedono nel mondo esterno è accordato normalmente in questo Stato felice. Oltre ai poteri fisici, le Gy-ei (almeno in gioventù) possiedono un’acuta aspi-razione alla cultura che supera quella del maschio; quindi sono loro gli eruditi, i professori... insomma, la parte colta della comunità.Naturalmente, in questa società la femmina, come ho di-mostrato, conferma il suo privilegio più prezioso, quello di scegliere e corteggiare il compagno. Senza tale privile-gio disprezzerebbe tutti gli altri. Ora, nel mondo esterno, noi presumeremmo non a torto che una femmina tanto potente e privilegiata, dopo averci intrappolati e sposa-ti, fosse imperiosa e tirannica. Ma le Gy-ei non sono così; quando si sposano, appendono le ali al chiodo, e nessun poeta potrebbe immaginare, nella sua visione della feli-cità coniugale, compagne più amabili, compiacenti e do-cili, più comprensive, più disposte ad assecondare i gusti ed i capricci relativamente frivoli dei mariti.Infine, tra le caratteristiche più importanti dei Vril-ya, in confronto alla nostra umanità, e più importanti anche per i riflessi sulla loro vita e sulla pace dei loro Stati, vi è la fede universale nell’esistenza di una Divinità benevola e misericordiosa, ed in un mondo futuro in confronto alla cui durata un secolo o due sono momenti troppo brevi per sprecarli inseguendo la gloria, il potere o la ricchez-za; ed a questa concordanza se ne unisce un’altra: poiché non possono conoscere nulla della natura della Divinità, a parte la sua suprema bontà, né del mondo futuro oltre il fatto della sua felice esistenza, la loro ragione impedi-sce le dispute accanite e le domande che non trovano risposta. In tal modo essi assicurano al loro Stato sotter-raneo ciò che nessuna comunità ha mai conseguito sotto la luce delle stelle: tutte le gioie e le consolazioni d’una religione, senza i mali e le calamità causate dalle lotte tra una fede e l’altra.Sarebbe quindi assolutamente impossibile negare che

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l’esistenza dei Vril-ya sia, nel complesso, incommensura-bilmente più felice di quella delle razze del mondo della superficie; realizzando i sogni dei nostri più ardenti filan-tropi, si avvicina piuttosto alla concezione poetica di un ordine angelico. Eppure, se prendeste mille esseri uma-ni, scelti tra i migliori e più filosofi che potreste trovare a Londra, Parigi, Berlino, New York e persino Boston, e li collocaste come cittadini di questa beata comunità, sono convinto che in meno di un anno morirebbero di noia, o tenterebbero una rivoluzione contraria al bene dello Sta-to, e finirebbero ridotti in cenere su richiesta del Tur.Non voglio certo insinuare, con il mio racconto, un di-sprezzo ignorante verso la razza cui appartengo. Al con-trario, mi sono sforzato di chiarire che i principi regolanti il sistema sociale dei Vril-ya vietano loro di produrre que-gli esempi individuali di grandezza umana che adornano gli annali del mondo esterno. Dove non vi sono guerre non possono esservi generali, come un Annibale, un Wa-shington, un Jackson, uno Sheridan; dove gli Stati sono così felici da non temere pericoli e da non desiderare cambiamenti, non possono produrre giuristi quali un De-mostene, un Webster, un Sumner, un Wendell Holmes o un Butler; e dove una società raggiunge un livello morale dove non esistono crimini né affanni da cui la tragedia possa estrarre pietà e dolore, né vizi o follie su cui la com-media possa profondere una gaia satira, perde la possi-bilità di generare scrittori quali uno Shakespeare od un Molière, od una Beecher Stowe.Ma, non intendo disprezzare i miei simili del mondo esterno dimostrando fino a che punto le motivazioni che muovono le energie e le ambizioni degli individui in una società in lotta si placano o si annullano in una società che mira ad assicurare a tutti la calma, innocente felici-tà che noi attribuiamo agli immortali; e neppure, d’altra parte, voglio presentare la comunità dei Vril-ya come for-ma ideale di società politica, cui dovrebbero tendere i no-stri sforzi riformatori. Al contrario, è perché noi nel corso dei secoli abbiamo mescolato gli elementi del carattere umano in modo che sarebbe per noi impossibile adotta-re i modi di vita dei Vril-ya, o riconciliare con essi le nostre passioni, che giunsi alla convinzione che questo popolo, benché in origine non solo appartenesse alla razza uma-na ma, come mi sembra chiaro dalle radici linguistiche, discendesse dagli stessi antenati della grande famiglia ariana da cui, in vari rivoli, è derivata la civiltà dominante del mondo, ed avendo, secondo i miti e la storia, attra-versato fasi sociali simili alle nostre, si fosse ormai evo-luto in una specie distinta con cui nessuna comunità del mondo esterno avrebbe potuto amalgamarsi; e che se i Vril-ya fossero usciti dai loro recessi sotterranei alla luce del giorno, secondo la tradizionale fede nel loro destino supremo, avrebbero annientato e sostituito le nostre va-rietà umane.

Si può dire, siccome più di una Gy poteva concepire una predilezione per un tipo comune della razza del mondo esterno quale io sono, che, se anche i Vril-ya fossero usciti alla luce nel Sole, avremmo potuto salvarci dallo stermi-nio mediante la fusione delle razze. Ma si tratta di una convinzione troppo ardita. I casi di questa mesaillance sarebbero rari quanto i matrimoni misti tra gli emigran-ti anglosassoni ed i pellerossa. Né vi sarebbe tempo per stabilire rapporti di familiarità. I Vril-ya, uscendo alla su-perficie, e indotti dal fascino del cielo rischiarato dal Sole a formare colonie, comincerebbero subito la loro opera di distruzione, s’impadronirebbero dei territori già coltivati, e senza scrupolo eliminerebbero quanti si opponessero all’invasione. E considerando il loro disprezzo per le isti-tuzioni del Koom-Posh o Governo Popolare, ed il valore pugnace dei miei amati compatrioti, credo che se i Vril-ya comparissero nella Libera America (che, essendo la parte migliore della terra abitabile, essi presceglierebbero sen-za alcun dubbio), e dicessero: “Prendiamo questa parte del globo; cittadini di un Koom-Posh, lasciate il posto allo sviluppo della specie dei Vril-ya”, i miei coraggiosi com-patrioti combatterebbero, e nel volgere di una settimana non ne resterebbe vivo uno solo per reggere il vessillo a Stelle e Strisce.Vedevo poco Zee, tranne durante l’ora dei pasti, quando si riuniva tutta la famiglia, e si mostrava sempre riservata e taciturna. Perciò erano svaniti i timori dei pericoli causa-ti da un affetto che non avevo incoraggiato né meritato, ma il mio avvilimento cresceva. Mi struggevo dal deside-rio di tornare al mondo esterno, ma invano mi tormenta-vo il cervello cercando un modo di riuscirvi. Non potevo mai uscire da solo, e quindi non potevo neppure visitare il luogo in cui ero caduto, per vedere se era possibile risa-lire. E nelle Ore Silenziose, quando tutta la casa dormiva, non avrei potuto scendere dal piano dove si trovava la mia stanza. Non sapevo comandare gli automi che sta-vano ironicamente in attesa del mio cenno accanto alla parete, e non sapevo quali molle attivavano le piattafor-me che sostituivano le scale. Oggi sono certo che tutto questo mi era stato nascosto di proposito. Oh, se avessi potuto imparare a servirmi delle ali, di cui poteva dispor-re ogni bambino, allora sarei fuggito dalla finestra, avrei raggiunto le rocce, e sarei salito attraverso il crepaccio che le pareti perpendicolari non permettevano di scalare!

***

Un giorno, mentre ero solo nella mia stanza, rimuginan-do questi pensieri, Taë entrò in volo dalla finestra aperta e si posò sul divano accanto a me. Mi rallegravo sempre delle visite del ragazzo, in compagnia del quale, pur sen-tendomi umiliato, ero meno eclissato di quanto lo ero quando mi trovavo insieme agli Ana che avevano com-

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pletato la loro educazione. E poiché ero autorizzato ad uscire insieme a lui, e desideravo rivisitare il luogo in cui ero sceso nel mondo sotterraneo, mi affrettai a chiedergli se era disposto ad una passeggiata fuori città. Il suo volto mi parve più serio del solito, quando rispose: “Sono venu-to appunto per invitarti ad uscire.”Scendemmo per la strada, e non ci eravamo allontanati molto dalla casa quando incontrammo cinque o sei Gy-ei, che tornavano dai campi con cestelli pieni di fiori, can-tando in coro. Una giovane Gy canta più spesso di quan-to parli. Nel vederci si fermarono, si rivolsero a Taë con l’abituale tenerezza ed a me con la cortese galanteria che distingue le Gy-ei nel loro comportamento verso il nostro sesso debole.Posso osservare che, sebbene una vergine Gy sia così franca nel corteggiare il suo prediletto, non vi è nulla che si avvicini a quella maniera chiassosa con cui le giovani donne anglosassoni indicate con l’epiteto di “fast”, trat-tano i giovani gentiluomini che non dichiarano di ama-re. No: il contegno delle Gy-ei nei confronti dei maschi, abitualmente, è simile a quello degli uomini ben educati del nostro mondo verso le signore che essi rispettano ma non corteggiano: deferente, complimentoso, squisita-mente educato... noi lo definiremmo “cavalleresco”.Rimasi certo un po’ sconcertato dalle molte frasi cortesi rivolte al mio amour propre da quelle giovani e gentili Gy-ei. Nel mondo da cui provengo, un uomo si sarebbe senti-to trattato con ironia se avesse udito, come accadde a me, complimenti per la freschezza della mia carnagione, per la scelta dei colori dell’abbigliamento e per le conquiste che avevo fatto alla festa di Aph-Lin. Ma io sapevo già che tale linguaggio corrisponde a quello che i francesi chia-mano banal; e dimostrava semplicemente, da parte delle Gy-ei, quel desiderio di apparire amabili che, nel mondo esterno, per il costume arbitrario e la trasmissione eredi-taria è tipico degli uomini. E come nel nostro mondo una fanciulla ben educata, abituata a tali complimenti, capi-sce che non può ricambiarli senza sfidare il decoro, e non può trarre una grande soddisfazione nel riceverli, così io, che avevo imparato le buone maniere nella casa di un ric-co e dignitoso Ministro di quella nazione, potevo soltan-to sorridere e declinare graziosamente i complimenti che mi venivano rivolti.Mentre stavamo parlando, la sorella di Taë doveva averci visti dalle finestre’ del Palazzo Reale, situato all’ingresso della città, perché si lanciò in volo e discese al centro del gruppo. Si rivolse a me, pur con l’inimitabile deferenza di modi che ho chiamato “cavalleresca”, ma non senza una certa bruschezza di tono che sir Philip Sidney avrebbe definito “rustica” se usata con il sesso debole, e mi disse: “Perché non vieni mai a trovarci?”Mentre pensavo alla risposta più adatta da dare a tale do-manda inattesa, Taë si affrettò a dire severamente: “Sorel-

la, dimentichi che lo straniero appartiene al mio sesso. E le persone del mio sesso, gelose della loro reputazione e del loro pudore, non possono abbassarsi a correre dietro a voi.”La risposta fu accolta con evidente approvazione dalle giovani Gy-ei; ma la sorella di Taë sembrò molto umiliata. Povera creatura! Ed era una PRINCIPESSA, per giunta!Proprio in quel momento, un’ombra passò nello spazio tra me ed il gruppo; e voltandomi, vidi il supremo ma-gistrato che si avvicinava a noi, con il passo silenzioso e maestoso tipico dei Vril-ya. Alla vista della sua espressio-ne, mi riprese lo stesso terrore che avevo provato quando l’avevo incontrato per la prima volta. Su quella fronte, in quegli occhi, c’era quel qualcosa d’indefinibile che carat-terizzava l’appartenenza ad una razza fatale per la no-stra... la strana aria di serena immunità alle nostre passio-ni ed ai nostri affanni, di cosciente superiorità, pietosa ed inflessibile come quella di un giudice che pronuncia una condanna. Rabbrividii e, inchinandomi profondamente, strinsi il braccio del mio piccolo amico e lo trascinai avan-ti, in silenzio. Il Tur si mise davanti a noi, mi guardò per un istante senza parlare, poi volse tranquillamente lo sguar-do verso la figlia e, con un grave cenno di saluto a lei ed alle altre Gy-ei, passò in mezzo al gruppo... sempre senza dire una parola.

***

Quando Taë ed io ci trovammo soli sull’ampia strada che si estendeva dalla città fino al crepaccio da cui ero caduto in quella regione priva della luce delle stelle e del Sole, dissi sottovoce: “Mio piccolo amico, l’espressione del vol-to di tuo padre mi fa paura. Nella sua spaventosa serenità, mi pareva di aver visto la morte.”Taë non rispose subito. Sembrava agitato, come se si chiedesse con quali parole doveva addolcire una sgradita rivelazione. Finalmente disse: “Nessuno dei Vril-ya teme la morte: e tu?”.“La paura della morte è innata nella razza cui appartengo. Possiamo vincerla per senso di dovere e d’onore, e per a-more. Possiamo morire per una verità, per la terra natia, o per coloro che ci sono più cari di noi stessi. Ma se la morte mi minaccia davvero, dove sono, qui, questi influssi con-trari all’istinto naturale che imprime sgomento e terrore all’idea della separazione tra l’anima ed il corpo?”.Taë mi sembrò sorpreso, ma rispose con grande tenerez-za nella voce: “Riferirò a mio padre ciò che hai detto. Lo supplicherò di risparmiarti la vita.”“Dunque ha già deciso di togliermela?”.“E’ colpa della follia di mia sorella,” rispose Taë, con una certa petulanza. “Ma questa mattina lei ha parlato a mio padre; dopo egli mi ha chiamato, in quanto sono prepo-sto ai bambini che hanno l’incarico di eliminare gli esseri

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pericolosi per la comunità, e mi ha detto: ‘Prendi il tuo Scettro Vril, e cerca lo straniero che ti è divenuto caro. Che la sua fine sia rapida e indolore’. ““Ed è per questo,” balbettai, scostandomi dal ragazzo, “è per assassinarmi che mi hai proditoriamente invitato ad uscire? No, non posso crederlo. Non posso crederti colpe-vole di un simile crimine.”“Non è un crimine uccidere coloro che minacciano il bene della comunità; lo sarebbe uccidere un insetto che non può farci alcun male.”“Se vuoi dire che minaccio il bene della comunità perché tua sorella mi onora della preferenza che un bimbo può provare per un giocattolo strano, non è necessario ucci-dermi. Lasciami tornare al popolo che ho abbandonato, passando per lo stesso crepaccio da cui sono disceso. Con un piccolo aiuto da parte tua potrei farlo anche ora. Tu, grazie alle ali, potresti fissare al cornicione roccioso dello strapiombo la corda che trovasti, e che senza dubbio hai conservato. Fai così: aiutami a raggiungere il punto da cui sono disceso, ed io scomparirò dal vostro mondo per sempre, come se fossi morto.”“Il precipizio da cui sei disceso! Guardati intorno: ci tro-viamo appunto dove si spalancava. Che cosa vedi? Solo roccia compatta. Il crepaccio è stato chiuso, per ordine di Aph-Lin, non appena fra te e lui si è stabilita una comu-nicazione mentre eri in trance, ed egli ha appreso dalle tue labbra la natura del mondo da cui sei venuto. Non ricordi quando Zee m’ingiunse di non chiederti nulla di te e della tua razza? Dopo averti lasciato, quel giorno, Aph-Lin mi disse: ‘Non deve restare aperta alcuna strada fra la patria dello straniero e la nostra, altrimenti il male e la sof-ferenza del suo mondo scenderanno qui. Prendi con te i bambini del tuo gruppo, e insieme colpite le pareti della caverna con gli Scettri Vril, finché i frammenti riempiano ogni varco da cui potrebbe filtrare il chiarore delle nostre lampade’.”Mentre il bambino parlava, io guardavo inorridito le roc-ce davanti a me. Enormi ed irregolari, le masse di granito, che recavano tracce di bruciature dov’erano state stacca-te, si alzavano dal terreno alla volta, senza un interstizio!“Ogni speranza è perduta!”, mormorai, lasciandomi ca-dere sulle pietre. “E non rivedrò mai il Sole.” Mi coprii il volto con le mani, e pregai Colui la cui presenza avevo tanto spesso dimenticato sebbene i cieli attestassero la sua opera. Sentivo la sua’ presenza nelle viscere della Terra, nel mondo della tomba. Levai lo sguardo, traendo conforto e coraggio dalla preghiera, e fissando con un tranquillo sorriso il volto del ragazzo, dissi: “Ora, se devi uccidermi, colpisci.”Taë scosse il capo. “No,” rispose. “La richiesta di mio padre non è formulata in modo così ufficiale da non lasciarmi scelta. Parlerò con lui, e forse riuscirò a salvarti. È strano che tu non abbia quella paura della morte che noi cre-

devamo fosse istintiva nelle creature inferiori, cui non è data la convinzione di un’altra vita. Tra noi, neppure un infante nutre tale paura. Dimmi, mio caro Tish,” continuò dopo una breve pausa, “ti allevierebbe il passaggio da questa forma di vita a quella che sta al di là del momento chiamato morte, se io partecipassi al tuo viaggio? In tal caso, chiederò a mio padre se posso venire con te. Io sono tra gli appartenenti alla nostra generazione destinati ad emigrare, a tempo debito, in regioni sconosciute entro questo mondo. Tanto varrebbe emigrare subito in regio-ni ignote di un altro mondo. La Bontà Suprema è là come qui, poiché è dovunque.”“Figliolo,” dissi, comprendendo dall’espressione di Taë che egli parlava seriamente, “è un crimine se tu mi uccidi; e sarebbe un crimine non meno grave se io ti dicessi: ‘Uc-ciditi’. La Bontà Suprema sceglie il momento per darci la vita, e il momento per togliercela. Torniamo indietro. Se, quando parlerai con tuo padre, desidera di farmi morire, dammi il più lungo preavviso possibile, affinché possa prepararmi.”Tornammo in città, scambiandoci poche parole. Non ri-uscivamo a capire l’uno il ragionamento dell’altro, ed io provavo per quel ragazzo dalla voce dolce e dal bel volto ciò che un condannato prova per il suo carnefice quando si dirige al suo fianco verso il luogo dell’esecuzione.

***

Nelle ore destinate al riposo, che per i Vril-ya rappresenta-no la notte, fui tratto dal sonno agitato in cui ero piomba-to da poco da una mano posata sulla mia spalla. Sussul-tai, e vidi Zee ritta accanto a me.“Taci,” disse in un bisbiglio. “Nessuno deve sentirci. Credi che abbia smesso di vegliare sulla tua sicurezza soltanto perché non ho potuto conquistare il tuo amore? Ho visto Taë. Non è riuscito a convincere suo padre, il quale nel frattempo aveva conferito con i tre saggi di cui chiede il parere quando è in dubbio; e accettando il loro consiglio, ha ordinato che tu perisca quando il mondo si risveglie-rà. Io ti salverò. Alzati e vestiti.”Zee indicò un tavolo accanto al divano, su cui vidi gli abiti che avevo indosso quando avevo lasciato il mondo esterno, e che in seguito avevo abbandonato per por-tare gli indumenti più pittoreschi dei Vril-ya. La giovane Gy si diresse verso la finestra e uscì sul balcone, mentre io, stupito, mi affrettavo a indossare i vestiti. Quando la raggiunsi, il suo volto era pallido e rigido. Prendendomi per mano disse sottovoce: “Guarda come l’arte dei Vril-ya ha illuminato il mondo in cui essi dimorano. Domani il mondo sarà buio, per me.” Mi trasse nella stanza senza attendere la risposta, poi mi condusse nel corridoio, da cui scendemmo nell’atrio. Percorremmo le vie deserte e ci avviammo per l’ampia strada in salite che si snodava

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sotto le rocce. Lì, dove non esiste né giorno né notte, le Ore Silenziose sono indicibilmente solenni... lo spazio immenso illuminato artificialmente non mostra alcuna traccia di vita mortale. Per quanto i nostri passi fossero lievi, il loro suono colpiva l’orecchio, in disaccordo con l’universale silenzio. Sebbene Zee non lo dicesse, capivo che aveva deciso di aiutarmi a tornare al mondo esterno, e che eravamo diretti verso il luogo da cui ero disceso. Il silenzio mi contagiò.Ci avvicinammo al precipizio. Era stato riaperto: non pre-sentava per la verità l’aspetto che aveva quando ne ero emerso, ma attraverso la muraglia di roccia che avevo os-servato insieme a Taë, un nuovo crepaccio era stato pro-dotto, e lungo le pareti annerite brillavano ancora scintille e braci fumanti. Il mio sguardo, però, non poteva penetra-re nella tenebra di quel vuoto, ed io mi fermai sgomento, chiedendomi come potevo compiere la scalata.Zee intuì il mio dubbio. “Non temere,” disse con un lieve sorriso. “Il tuo ritorno è sicuro. Ho cominciato questo la-voro all’inizio delle Ore Silenziose, quando tutti dormiva-no: credimi, non ho smesso prima di aver sgombrato la strada che porta al tuo mondo. Starò con te ancora un poco. Non ci separeremo se non quando dirai: ‘Vattene, perché non ho più bisogno di te’.”A queste parole, il cuore mi tremò per il rimorso. “Ah,” esclamai, “quanto vorrei che tu appartenessi alla mia raz-za, o io alla tua! Allora non direi mai ‘Non ho più bisogno di te’.”“Ti benedico per queste parole, e le ricorderò sempre, dopo che te ne sarai andato,” rispose teneramente la Gy.Durante questo breve dialogo, Zee aveva distolto il viso da me, chinando la testa sul petto. Poi si raddrizzò in tut-ta la sua maestosa statura e mi fronteggiò. Mentre si era sottratta al mio sguardo, aveva illuminato la coroncina che le cingeva la fronte e che adesso sfolgorava come un serto di stelle. Non solo il suo viso e la sua figura, ma tutta l’atmosfera intorno erano illuminati dal fulgore del diadema.“Ora,” disse, “abbracciami per la prima e l’ultima volta. No, così: coraggio, e tieniti saldo.”Mentre parlavo, la sua figura si dilatò e le immense ali si spiegarono. Aggrappato a lei, venni trasportato in alto, attraverso l’enorme crepaccio. La luce stellata della sua fronte rischiarava la tenebra intorno a noi. Rapida come un angelo che vola verso il cielo reggendo l’anima strap-pata alla tomba, così ascese la Gy, fino a quando udii in distanza il brusìo di voci umane ed i suoni dell’umana fa-tica.Ci fermammo sul fondo di una delle gallerie della minie-ra, ed in lontananza vedemmo brillare, rare e fioche, le lampade dei minatori. Mi sciolsi dall’abbraccio. La Gy mi baciò appassionatamente sulla fronte, ma con tenerezza materna, e mentre le lacrime le sgorgavano dagli occhi

disse: “Addio per sempre. Tu non vuoi che ti segua nel tuo mondo... e non potrai mai tornare nel mio. Prima che la mia famiglia si ridesti, le rocce si saranno richiuse su questo precipizio, e non verranno riaperte da me, né da altri, forse per epoche lunghissime. Pensa qualche volta a me, e con bontà. Quando raggiungerò la vita che sta oltre questa, ti cercherò. Anche là, il mondo assegnato a te e al tuo popolo può essere cinto da rocce ed abissi che lo dividono da quello in cui raggiungerò quelli della mia razza che mi hanno preceduta, e forse non avrò il potere di aprirmi la strada per riconquistarti come l’ho aperta per perderti.”La sua voce tacque. Udii il fruscio delle ali, simile al frullo del volo di un cigno, e vidi i raggi del diadema stellato che si allontanavano nelle tenebre.Sedetti e restai immobile per qualche tempo, rifletten-do dolorosamente. Poi mi alzai e mi avviai a passo lento verso il luogo in cui udivo muoversi gli uomini. I mina-tori che incontrai mi erano sconosciuti, e appartenevano ad un’altra nazione. Mi guardarono sorpresi, ma quando constatarono che non sapevo rispondere alle domande rivoltemi nella loro lingua, ripresero il lavoro e mi lasciaro-no passare. Alla fine, raggiunsi l’imboccatura della minie-ra, senza venir disturbato; fui soltanto interrogato da un funzionario che conoscevo, e che per fortuna era troppo indaffarato per parlare a lungo con me. Non tornai al mio alloggio, ed il giorno stesso mi affrettai ad abbandonare la località, dove non avrei potuto sottrarmi a domande cui non potevo dare risposte soddisfacenti. Tornai sano e salvo nel mio Paese, dove mi sono stabilito pacificamen-te ormai da molto tempo, dedicandomi agli affari, fino a quando, tre anni fa, mi sono ritirato con un discreto patri-monio. Ho frequentato poca gente e non ho quindi pro-vato la tentazione di parlare dei viaggi e delle avventure della mia gioventù. Un po’ deluso, come la maggioranza degli uomini, in fatto di amore e di vita domestica, penso spesso alla giovane Gy, quando rimango sveglio a lungo la notte, e mi domando come ho potuto respingere un simile amore, nonostante i pericoli connessi e le condi-zioni che l’avrebbero vincolato. Tuttavia, più penso a quel popolo che, in regioni escluse alla nostra vista e ritenu-te inabitabili dai nostri esperti, sviluppa tranquillamen-te poteri immensamente superiori ai nostri, e virtù cui la nostra vita sociale e politica diviene sempre più ostile via via che - la civiltà avanza, e più devotamente prego il Cielo che trascorrano secoli prima che alla luce del Sole emergano i nostri inevitabili distruttori. Poiché tuttavia il mio medico mi ha detto francamente che sono afflitto da una malattia la quale, pur non essendo molto dolorosa e percettibile, può essermi fatale da un momento all’altro, ho ritenuto doveroso nei confronti dei miei simili mettere per iscritto questi avvertimenti sulla Razza Ventura. fine

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