Ecclesiologia appunti

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1 Capitolo Primo: L’ECCLESIOLOGIA DAL VATICANO I AL VATICANO II L’epoca del Vaticano I viene assunta a punto di partenza della nostra breve esposizione storica, sia per la scarsità di tempo a disposizione, sia per il motivo che l’ecclesiologia del Vaticano I costituisce un grande spartiacque fra l’ecclesiologia precedente, di cui essa è in qualche modo il frutto maturo, e quelle tendenze ecclesiologiche riformatrici che prepareranno la sintesi del Vaticano II. Primo periodo: l’ecclesiologia del Vaticano I e il suo sviluppo fino al 1920 1. Il trattato teologico sulla Chiesa nacque e si sviluppò lungo i secoli sotto il segno della controversia e quindi dell’apologetica: - durante le dispute regaliste si dovette difendere la libertà della Chiesa dal potere secolare e questo portò a difendere la potestà del Papa e dei vescovi; - nei confronti delle teorie del conciliarismo, l’ecclesiologia concentrò la sua attenzione sul primato del Papa su tutta la Chiesa; - nei confronti delle tendenze spiritualiste dei movimenti medievali, la cui ala estrema è rappresentata da Wycliff e da Giovanni Hus, si sottolineò l’aspetto visibile e sociale della Chiesa; - nei confronti della Riforma, che accolse le tendenze spiritualiste arrivando a negare l’aspetto istituzionale , sacramentale e gerarchico della Chiesa, l’ecclesiologia cattolica fu indotta a sottolineare l’istituzionalità della Chiesa e il valore della gerarchia; - nei confronti del gallicanesimo e delle varie dell’episcopalismo, si tornò ad insistere sui poteri e sui diritti del Papa; nei confronti dell’assolutismo e del laicismo dello Stato, la Chiesa rivendica di essere una “societas perfecta”, degna di poter stare alla pari, sia pure con strumenti propri, con tutte le altre società giuridiche; - infine, nei confronti del razionalismo e del modernismo, si fissa l’attenzione sull’autorità docente del magistero ecclesiastico. Risulta evidente che l’ecclesiologia si afferma e si sviluppa, dal Concilio di Trento al Vaticano I, prevalentemente sotto il segno dell’autorità. 2. Se l’immagine dominante di Chiesa è quella di società perfetta, governata dal successore di Pietro, dotata di poteri gerarchici e di una autorità conferita da Dio ai suoi rappresentanti, si fa strada anche un’altra corrente, fortemente rinnovatrice, debitrice sia al romanticismo tedesco che al rinnovamento degli studi storici. Questa corrente ha il suo massimo rappresentante in J.A. Moehler (1796-1838) e negli altri esponenti della scuola di Tubinga. Si possono distinguere nell’opera di Moehler tre diversi stadi. Il primo stadio è ancora sulla linea della teologia postridentina. Nel suo corso di diritto canonico, la Chiesa è per lui una forma di società umana, più precisamente una “societas inaequalis”, cioè giuridicamente strutturata in modo gerarchico. Ciò non gli impedisce di intravedere già, accanto ad una Chiesa-società, una Chiesa-comunità, anche se i due aspetti sono ancora legati tra loro in modo piuttosto estrinseco. Il secondo stadio coincide con la sua grande opera giovanile, L’unità nella Chiesa (Die Einheit in der Kirche) , del 1825, ritenuta da Bouyer “il punto di partenza di tutto il rinnovamento

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Dal Vaticano I al Vaticano II

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Capitolo Primo: L’ECCLESIOLOGIA DAL VATICANO I AL VATICANO II L’epoca del Vaticano I viene assunta a punto di partenza della nostra breve

esposizione storica, sia per la scarsità di tempo a disposizione, sia per il motivo che l’ecclesiologia del Vaticano I costituisce un grande spartiacque fra l’ecclesiologia precedente, di cui essa è in qualche modo il frutto maturo, e quelle tendenze ecclesiologiche riformatrici che prepareranno la sintesi del Vaticano II.

Primo periodo: l’ecclesiologia del Vaticano I e il suo sviluppo fino al 1920 1. Il trattato teologico sulla Chiesa nacque e si sviluppò lungo i secoli sotto il segno

della controversia e quindi dell’apologetica: - durante le dispute regaliste si dovette difendere la libertà della Chiesa dal potere secolare e

questo portò a difendere la potestà del Papa e dei vescovi; - nei confronti delle teorie del conciliarismo, l’ecclesiologia concentrò la sua attenzione sul

primato del Papa su tutta la Chiesa; - nei confronti delle tendenze spiritualiste dei movimenti medievali, la cui ala estrema è

rappresentata da Wycliff e da Giovanni Hus, si sottolineò l’aspetto visibile e sociale della Chiesa; - nei confronti della Riforma, che accolse le tendenze spiritualiste arrivando a negare

l’aspetto istituzionale , sacramentale e gerarchico della Chiesa, l’ecclesiologia cattolica fu indotta a sottolineare l’istituzionalità della Chiesa e il valore della gerarchia;

- nei confronti del gallicanesimo e delle varie dell’episcopalismo, si tornò ad insistere sui poteri e sui diritti del Papa;

nei confronti dell’assolutismo e del laicismo dello Stato, la Chiesa rivendica di essere una “societas perfecta”, degna di poter stare alla pari, sia pure con strumenti propri, con tutte le altre società giuridiche;

- infine, nei confronti del razionalismo e del modernismo, si fissa l’attenzione sull’autorità docente del magistero ecclesiastico.

Risulta evidente che l’ecclesiologia si afferma e si sviluppa, dal Concilio di Trento al

Vaticano I, prevalentemente sotto il segno dell’autorità. 2. Se l’immagine dominante di Chiesa è quella di società perfetta, governata dal

successore di Pietro, dotata di poteri gerarchici e di una autorità conferita da Dio ai suoi rappresentanti, si fa strada anche un’altra corrente, fortemente rinnovatrice, debitrice sia al romanticismo tedesco che al rinnovamento degli studi storici. Questa corrente ha il suo massimo rappresentante in J.A. Moehler (1796-1838) e negli altri esponenti della scuola di Tubinga.

Si possono distinguere nell’opera di Moehler tre diversi stadi. Il primo stadio è ancora sulla linea della teologia postridentina. Nel suo corso di diritto

canonico, la Chiesa è per lui una forma di società umana, più precisamente una “societas inaequalis”, cioè giuridicamente strutturata in modo gerarchico. Ciò non gli impedisce di intravedere già, accanto ad una Chiesa-società, una Chiesa-comunità, anche se i due aspetti sono ancora legati tra loro in modo piuttosto estrinseco.

Il secondo stadio coincide con la sua grande opera giovanile, L’unità nella Chiesa (Die

Einheit in der Kirche), del 1825, ritenuta da Bouyer “il punto di partenza di tutto il rinnovamento

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ecclesiologico che sarebbe alfine sfociato nel Concilio Vaticano II” (in La Chiesa di Dio, Assisi 1979, p.113). La Chiesa, sotto l’influsso delle idee romantiche, viene vista come un organismo vivificato dallo Spirito Santo, come la comunità dei credenti che vivono nella forma visibile della Chiesa la vita di fede, speranza e carità. Risulta comprensibile la reazione che tale opera ha suscitato nei teologi del tempo, non abituati ad una impostazione pneumatologia dell’ecclesiologia, nella quale anzi vedevano un cedimento al protestantesimo.

Il terzo stadio è quello dell’opera Simbolik, Simbolica, del 1832, scritta per meglio chiarire

l’ecclesiologia cattolica nei confronti di quella protestante e quindi anche per rispondere alle critiche che gli erano pervenute dopo la prima opera. Nella Simbolik egli integra l’aspetto pneumatologico con quello cristologico. Partendo dal cristocentrismo, M. considera la Chiesa come la continuazione dell’incarnazione di Cristo nel mondo. L’entusiasmo un po’ esaltato e mistico del romanticismo per la comunità cede ora il posto ad un giudizio più lucido e maturo sulla realtà della Chiesa. Ciò che aveva detto nella prima opera a proposito dello Spirito Santo, principio invisibile della Chiesa, la Simbolik lo riferisce a Cristo, Figlio di Dio incarnato, principio visibile di una Chiesa essenzialmente visibile. Così si esprime J.R. Geiselmann: “Nell’una, la Chiesa è una Pentecoste incessantemente rinnovata, mentre nell’altra è una Natività ininterrotta. Nell’una, la Chiesa è anzitutto invisibile, Chiesa del Pneuma; nell’altra, essa è essenzialmente visibile, umana, o meglio, divino-umana (…). Ormai è l’Uomo-Dio Gesù Cristo, cioè la sua natura, in cui il divino e l’umano si uniscono intimamente senza confondersi, nell’unione ipostatica con la persona del Logos, che forma il principale costruttivo analogico a partire dal quale si costruisce la Chiesa” (in AA.VV, L’ecclésiologie au XIX siècle, Paris 1960, p. 162). Da qui M. arriva ad una concezione profonda della visibilità della Chiesa, e recupera in modo più soddisfacente, perché più teologico, la realtà della gerarchia e dell’autorità nella Chiesa, non più assimilabile ad una pura “societas perfecta”, ma corpo storico e visibile di Cristo nella storia. Sta proprio in questo principio incarnatorio il vero punto di divergenza fra ecclesiologia cattolica ed ecclesiologia della Riforma.

3. Un terzo impulso innovatore venne dall’opera ecclesiologica di Newman (1801-1890). La

sua produzione ecclesiologica, anche se non ha mai raggiunto una elaborazione sistematica, deve molto alla sua conoscenza della Sacra Scrittura e dei Padri della Chiesa. Egli, da anglicano, giunse alla fede cattolica perché comprese che lo sviluppo legittimo del cristianesimo primitivo era rinvenibile solo nella Chiesa cattolica. Merito principale di N., in campo ecclesiologico, è stato di aver riscoperto e applicato alla Chiesa il concetto biblico di popolo di Dio, con le sue ricche significazioni di storicità, di sviluppo, di continuità/discontinuità nei confronti dell’antico Israele, di tensione escatologica, di diversificazione ministeriale.

4. Le opere di Moehler e di Newman non sono state prive di seguito. A metà del sec. XIX la

Scuola Romana esprime un notevole rinnovamento ecclesiologico nelle sue figure più importanti: J. Perrone (1794-1876), C. Passaglia (1812-1887), J.B. Franzelin (1816-1886) e C. Schrader (1820-1886). La Scuola Romana assumerà soprattutto da Moehler l’idea di Chiesa come Corpo mistico di Cristo, idea che entrerà nel primo Schema del Vaticano I, e che sarà respinto da poco più di metà dei Padri conciliari, più abituati alla definizione tradizionale di Chiesa come società visibile, derivata sostanzialmente dall’opera del Bellarmino (1542-1621), che paragonava la Chiesa ad “un gruppo di persone tanto visibile e palpabile quanto il gruppo di persone che formano il popolo romano, il regno della Francia o la repubblica di Venezia”. Le opere del Franzelin comunque svilupperanno nel dopo-Vaticano I l’idea di Chiesa Corpo mistico e influenzeranno in tal senso alcuni documenti pontifici in materia ecclesiologica.

5. Il Vaticano I ha prodotto una Costituzione ecclesiologica, la Pastor Aeternus (18

luglio 1870) che si riferisce però soltanto alle prerogative pontificie e che riprende la materia del I Schema conciliare, redatto principalmente da Schrader e che partiva dalla nozione di Chiesa come “Corpus Christi mysticum”. Se la Commissione dottrinale del Concilio sosteneva questa idea, essa non piacque alla maggioranza dei Padri conciliari, perché ritenuta troppo astratta e mistica per fondare una solida ecclesiologia, e troppo vicina alle idee della Riforma protestante. Da questo I Schema, di cui si discusse solo il

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cap. XI, si redasse un II Schema, che non venne mai preso in esame a causa della mancanza di tempo dovuta alle questioni attinenti allo Stato Pontificio. Comunque il Concilio, di fronte alla scelta fra aspetto misterico e aspetto istituzionale come punto di partenza per l’ecclesiologia, fu favorevole al secondo.

Questi i principali punti del testo conciliare. - L’autorità è l’elemento decisivo e il centro di prospettiva. Di fronte al razionalismo

dell’epoca, le due Costituzioni del Vaticano I affermano da una parte l’autorità della rivelazione di Dio cui va prestata l’obbedienza della fede (Dei Filius), dall’altra l’autorità del magistero ecclesiastico, che si concentra nel magistero pontificio (Pastor Aeternus).

- La priorità fu data all’aspetto istituzionale e visibile della Chiesa, cioè alla nozione di Chiesa come società perfetta, come era andata in prevalenza svolgendosi negli ultimi secoli e che derivava sostanzialmente dal Bellarmino (“La Chiesa è un gruppo di persone, unito dalla professione della fede cristiana e dalla partecipazione ai sacramenti, obbediente ai legittimi pastori e soprattutto al romano pontefice, unico vicario di Cristo in terra”).

- L’orientamento ecclesiologico è fortemente papalista. L’autorità della Chiesa fu fatta coincidere con un modello sostanzialmente monarchico avente al vertice il successore di Pietro. L’assenza di una dottrina esplicita sulla collegialità episcopale ha sfasato la visione ecclesiologica a vantaggio della sola autorità del Papa.

- Un quarto tratto è dato dalla priorità teorica e pratica conferita alla struttura gerarchica della Chiesa, con il rischio di favorire un’immagine troppo clericalizzata di Chiesa. L’ecclesiologia che ne nacque fu definita da Congar piuttosto una “gerarcologia”. Non trovò molto spazio, nei manuali del tempo, se non in quelli di ascetica, una teologia della comunità e del laicato, che si vide costretto ad una funzione di pura dipendenza dalle direttive provenienti dal vertice della Chiesa.

6. Il dopo-Concilio non fa che sviluppare questi tratti del Vaticano I, mettendo in

rilievo la dimensione esteriore, gli elementi istituzionali e l’immagine piramidale della Chiesa. L’unica opera ecclesiologica che si distacca dalla manualistica e che rappresentò una sorta di eccezione nella teologia dell’epoca fu quello di A. Grea, L’Eglise et sa divine constitution, Paris 1885. In quest’opera la Chiesa viene studiata in una prospettiva storico-salvifica, cioè nel contesto del disegno salvifico di Dio, come opera del Dio Trino. Inoltre la Chiesa viene studiata nella sua realtà comunitaria di assemblea riunita attorno al proprio vescovo e in comunione con tutte le altre comunità, gettando così le basi per una revisione del rapporto fra episcopato e primato e per un rinnovamento della concezione anche locale della Chiesa.

Secondo periodo: lo sviluppo dell’ecclesiologia dal 1920 al 1940 Verso il 1920 si assiste ad un vigoroso risveglio di forse e di idee, sia nel campo

teologico, sia nel campo liturgico-sacramentale e pastorale della vita della Chiesa. E’ diventata giustamente celebre la espressione di R. Guardini, che si trova all’inizio

di un suo libretto, Von Sinn der Kirche (Il senso della Chiesa), del 1922: “Un processo di incalcolabile portata è iniziato: il risveglio della Chiesa nelle anime”. Congar inizia il suo ultimo capitolo della sua opera L’Eglise de saint Augustin à l’èpoque moderne, del 1970, con il titolo: “Il secolo della Chiesa”. E proprio con il risveglio del senso della Chiesa si sperimentò, proprio a partire dal 1920, tutta l’insufficienza della dottrina sulla Chiesa, così statica e così ferma alle categorie sociologiche e giuridiche che sembravano eterne e intoccabili. Le nuove esperienze e un rinnovato ricorso alle fonti fecero sentire il bisogno di uscire da un concetto di Chiesa come società perfetta, obbligando la riflessione teologica ad elaborare nuove sintesi, ad intraprendere nuove strade, che poi troveranno una conferma dottrinale nel Vaticano II.

1. Fra i fattori che hanno promosso il rinnovamento della vita ecclesiale, ancor prima di ogni riflessione teologica, possiamo ricordare:

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- Il risveglio del senso comunitario. Dopo la catastrofe della grande guerra, si reagisce ad ogni forma di isolamento, anche in campo religioso. Sorge fra i cristiani e gli stessi teologi una forte reazione contro una nozione puramente sociologica di Chiesa, che sollevava l’impressione di soffocare una vita comunitaria più viva e più ricca. - Una spiritualità cristocentrica. Decisivo in questo senso è stato il contributo di Pio X, che incrementò la pietà eucaristica, il sacramento comunitario e cristologico per eccellenza. - Il risveglio del laicato. La partecipazione dei laici alla vita e alla missione della Chiesa era stata per diversi secoli messa in ombra da una concezione piramidale della Chiesa. I movimenti di Azione Cattolica, pur se dipendenti dalla gerarchia, hanno certamente promosso un impegno più corresponsabile del laicato nella vita della Chiesa e nella società. Ciò non poteva non condurre ad una graduale declericalizzazione della Chiesa e quindi ad una concezione ecclesiologica che considera il ministero gerarchico e il laicato come strutture chiamate ad integrarsi e ad armonizzarsi a vicenda. - Il rinnovamento liturgico. Se il Movimento liturgico risale agli inizi del sec. XIX, è durante questo periodo, e in quello successivo che va fino ai giorni nostri, che esso si svilupperà fortemente. Si pubblicano messalini per i fedeli, per agevolare tutto il popolo cristiano alla partecipazione alla liturgia della Chiesa. Un’azione molto incisiva fu svolta da R. Guardini (vedi Lo spirito della liturgia, 1918; I santi segni, 1927). - Il rinnovamento degli studi biblici. In campo esegetico-biblico, la Chiesa viene accostata non più con un’ottica giuridica. L’idea di popolo di Dio si è affermata nella riflessione cattolica fra gli anni 1937-42. Si riscoprono le radici storico-salvifiche della Chiesa: non si ricorre più alla Scrittura solo per cercare un appoggio biblico alla dottrina della Chiesa come istituzione, ma per trovarvi le grandi linee del pensiero e dell’agire di Dio verso il suo popolo. Si creano così le condizioni migliori per un rinnovamento profondo della teologia sulla Chiesa, più ancorata alla sua radicazione storico-salvifica e quindi meno debitrice ai modelli giuridici che, al di là delle intenzioni, avevano finito per impoverire e, in certi casi, anche mondanizzare l’ecclesiologia. - Il movimento ecumenico. L’ecumenismo nasce interamente nell’ambiente europeo delle Chiese riformate ed evangeliche nel sec. XIX. Nel campo protestante sorgono due organismi di rilievo, Life and Work (Vita e Azione) e Faith and Order (Fede e Costituzione). Il primo tenne assemblee a Stoccolma (1925) e a Oxford (1937), con prospettive di inserimento del cristianesimo nella vita sociale. Il secondo, avente carattere più dottrinale, si riunì a Losanna nel 1927 e ad Edimburgo nel 1937. In campo cattolico l’atteggiamento dell’autorità della Chiesa verso l’ecumenismo si mantiene negativo. Dal giudizio di Pio X sui riformatori (“Uomini superbi e ribelli, nemici della croce di Cristo, di sentimenti terreni, il cui Dio è il ventre”, in Editae saepe Dei, 1910) a quello di Pio XI che definisce pancristianesimo l’ecumenismo di Losanna, “sotto del quale si nasconde un gravissimo errore, che scalzerebbe dalle basi il fondamento della Chiesa cattolica” (Mortalium animos, 1927), l’atteggiamento negativo deriva dalla particolare ecclesiologia cattolica del tempo e soprattutto da una concezione dottrinale che non ammetteva alcun compromesso e alcun irenismo circa il problema della verità. Ma la tematica ecumenica comincia ad essere affrontata anche da teologi cattolici, fra cui spicca Y. Congar. Egli inizia in Francia la collana Unam Sanctam con il primo volume: Chrétiens désunis. Principes d’un oecuménisme catholique (1937). In Belgio viene fondato un monastero ecumenico a Chevetogne (1926), che pubblica la rivista Irenikon. A Parigi p. Dumont dà vita al centro Istina con la rivista omonima, che ha il compito del dialogo soprattutto con l’ortodossia. - Il movimento missionario. L’avvenimento senza dubbio più importante è la consacrazione di sei vescovi cinesi nel 1926. Si comprende che l’evangelizzazione dei popoli non può essere un’impresa simile ad una colonizzazione e si intravede nell’episcopato autoctono una delle strade in grado di riformare la teologia della missione. Nel periodo fra le due guerre prende corpo il tema della “plantatio ecclesiae”, intesa come l’impegno di incarnare la Chiesa nel terreno delle varie culture e dei vari popoli. Il tema della plantatio ecclesiae è strettamente connesso con quello dell’adattamento delle forme ecclesiali tradizionali (liturgia, teologia, linguaggio religioso, strutture canoniche…) alle nuove situazioni. Il decreto Ad gentes del Vaticano II porterà a compimento questa rinnovata teologia della missione.

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2.Anche la riflessione teologica, dovendo far fronte ai nuovi fattori di rinnovamento, si impegna in un notevole sforzo di approfondimento in tema ecclesiologico. - Si assiste in questo periodo ad una incertezza e talvolta divergenza di metodo per la difficoltà di integrare le nuove tendenze nella dottrina tradizionale sulla Chiesa. Il De Ecclesia era rimasto un trattato profondamente apologetico, mirante a “provare” l’istituzione ecclesiale di fronte alle minacce di un suo possibile dissolvimento. Si comprende la necessità di partire da una visione più teologica sula Chiesa, ossia dal suo “mistero”, per arrivare poi anche a comprendere le sua dimensione istituzionale. Ci si trovò di fronte all’alternativa di scegliere tra la Chiesa-mistero e la Chiesa-istituzione come punto di partenza dell’ecclesiologia. Di fatto le soluzioni di questo periodo finiscono o per giustapporre il trattato apologetico e quello dogmatico come due parti separate dell’ecclesiologia, oppure in un abbandono e in un discredito della esposizione apologetica per privilegiare il trattato dogmatico. - Resta il fatto che prendono consistenza in questo periodo pressoché tutti i temi che determineranno il rinnovamento dell’ecclesiologia e che confluiranno nel Vaticano II. Due sono i concetti-chiave che in questo periodo fanno da perno per il rinnovamento dell’ecclesiologia. Il primo è dato dall’idea di Chiesa come Corpo mistico di Cristo, che prevale su quello di Chiesa come società perfetta. In seno al cattolicesimo questa dottrina finisce per imporsi rapidamente, anche per merito degli studi di E. Mersch (1933) su questo tema. L’idea non era tuttavia priva di qualche ambiguità, che presterà il fianco ad interpretazioni spiritualistiche e mistiche della Chiesa, a danno dei suoi aspetti visibili comunitari. L’idea comunque fu salutare, perché sviluppò la dimensione cristologica e pneumatologia della Chiesa. L’unione della Chiesa con Cristo capo fece dell’ecclesiologia un prolungamento della cristologia. E ciò rendeva ragione della struttura teandrica della Chiesa, cioè del suo aspetto istituzionale e insieme del suo aspetto misterico. Inoltre un’ecclesiologia centrata sulla Chiesa-mistero non poteva ignorare la missione dello Spirito Santo nella Chiesa: una dimensione già sviluppata da Moehler, e che aveva ricevuto una autorevole conferma nella Divinum illud (1897) di Leone XIII. L’altro concetto-chiave è quello di comunità. Esso è logica conseguenza dell’idea precedente. Se la Chiesa è il Corpo mistico di Cristo, gli elementi verticali di grazia e di comunione della Chiesa con Dio attraverso Cristo nello Spirito, implicano la realtà orizzontale della comunità come espressione visibile e necessaria dei legami interiori. L’opera di K. Adam, Das Wesen des Katholizismus (L’essenza del cattolicesimo), del 1924, ha fornito i fondamenti teologici della Chiesa come comunità. La realtà comunitaria della Chiesa è arricchita anche da due nozioni di provenienza sociologica, quella di Gesellschaft (società) e quella di Gemeinschaft (comunità): entrambe si oppongono al concetto di massa ed hanno fra loro legami molto stretti, nel senso che la società visibile è la manifestazione di una comunità di vita, mentre l’organizzazione esteriore è l’espressione di un organismo vivo. Questi due concetti-chiave domandano anche una riformulazione del problema dell’unità della Chiesa e quello riguardante io rapporto tra Chiesa e salvezza. Circa il primo, è evidente che una concezione di Chiesa come società visibile richiedeva una risposta prevalentemente giuridica al problema, perché l’unità della Chiesa doveva essere risolta in termini sufficientemente chiari di uniformità sociologica, anche se rimaneva sempre valida la distinzione, nata al tempo dei Padri, fra una appartenenza alla Chiesa “numero” e “merito”. Con la caduta di questa definizione di Chiesa, e la nascita di una concezione misterica della Chiesa, vengono gettate le basi per un rinnovamento del problema dell’unità della Chiesa e delle frontiere stesse della Chiesa. Circa il secondo problema, se la Chiesa è una realtà teandrica una, significa che l’uomo giunge a salvezza nella e mediante la Chiesa. Da qui il significato da attribuire all’antico assioma “extra ecclesiam nulla salus”. Ma la salvezza che si può ricevere anche al di fuori della Chiesa visibile, in che rapporto sta con questa stessa Chiesa? La risposta tradizionale dell’appartenenza alla Chiesa in re e in voto, se risolveva il problema dell’appartenenza alla Chiesa anche da parte di un pagano, non dava risposta all’interrogativo circa la natura del rapporto fra salvezza e Chiesa. Mentre le affermazioni dei documenti magisteriali, dalla Satis cognitum di Leone XIII (1896) alla Mystici

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Corporis di Pio XII (1943) tendevano ad identificare la Chiesa visibile col Corpo mistico di Cristo, le opere dei teologi sottolineavano la non piena coincidenza fra le due realtà. Terzo periodo: dal 1940 al Vaticano II 1.Questo periodo è inizialmente dominato dall’enciclica Mystici Corporis di Pio XII (1943). Più che segnare un orientamento per il futuro, l’enciclica coronò l’impegno compiuto da due decenni per rimettere l’idea di Corpo mistico al centro dell’ecclesiologia, rispondendo anche alle ambiguità che questa idea aveva contribuito a far sorgere, ambiguità che portarono o alla tendenza spiritualistica, o a quella, opposta, di immaginare una presenza fisica permanente di Cristo nel cristiano. La tesi centrale è che ciò che Paolo chiama “corpo di Cristo” non designa una realtà puramente spirituale, ma un organismo sociale, visibile, gerarchicamente ordinato e strutturato. Pio XII intendeva infatti eliminare due errori in campo ecclesiologico: quello del razionalismo, da cui deriva una certo “volgare naturalismo”, “il quale non vede né vuole riconoscere altro nella Chiesa all’infuori dei vincoli puramente giuridici e sociali” (n.9); e quella del falso misticismo, del falso spiritualismo. Il grande merito dell’enciclica è stato il superamento definitivo di una pura e semplice assimilazione della Chiesa ad una società umana. La prima parte, la più importante delle tre che la compongono, spiega analiticamente la definizione di “Corpus Christi mysticum”. La Chiesa è un corpus: unico, indiviso, visibile, organico, dotato di “organi” vitali (sacramenti) e formato da “membri” determinati, i quali sono tutti coloro che sono battezzati e professano la vera fede; Christi: Cristo viene descritto come il fondatore, il capo, il sostentatore, il conservatore del Corpo; mysticum: si tratta di un corpo reale, ma nel senso che si oppone sia ad una visione organico-fisicista dei rapporti fra Cristo e il suo Corpo, sia ad una visione puramente spirituale e morale. Pio XII critica ogni opposizione fra una Chiesa del diritto e una Chiesa della carità. L’identificazione fra il Corpo mistico di Cristo e la Chiesa cattolica romana portò a risolvere in modo obbligato la dottrina dell’appartenenza a questo corpo: solo i cristiani cattolici sono, di per sé, membri della Chiesa, mentre “quelli che sono tra loro divisi per ragioni di fede o di governo, non possono vivere nell’unità di tale Corpo e per conseguenza neppure nel suo divino Spirito” (n.20). Circa tutti gli altri, il Papa li esorta “a far di tutto per sottrarsi al loro stato in cui non possono sentirsi sicuri della propria salvezza, perché, sebbene siano ordinati al Corpo mistico del Redentore da un certo inconsapevole desiderio e anelito (“etiamsi inscio quodam desiderio ac voto ad mysticum Redemptoris Corpus ordinentur”), tuttavia sono privi di quei tanti doni ed aiuti celesti che solo nella Chiesa cattolica è dato di godere” (n.102). L’enciclica segnò comunque una tappa importante nello sviluppo dell’ecclesiologia cattolica. Se da una parte essa poteva favorire la tendenza ad assolutizzare l’istituzione gerarchica e a fare del Papa stesso una specie di Capo secondario del Corpo mistico, dall’altra il documento poneva l’istituzione ecclesiale sotto la signoria di Cristo. 2. Dopo la pubblicazione della M.C. gli orientamenti ecclesiologici si moltiplicarono dietro le spinte di nuove situazioni e di nuovi studi. L’acquisizione più significativa della M.C. – ossia la riscoperta del mistero della Chiesa (sia pure in una prospettiva ancora prevalentemente istituzionale) – ha permesso alla riflessione teologica successiva di far ritorno alla realtà visibile della Chiesa, scoprendo in essa non più una semplice istituzione da comprendere secondo modelli prevalentemente mondani, ma una comunione di persone, un popolo operante nella storia e mescolato ad altri popoli, vivente dunque la medesima vicenda storica di tutti, ma con la coscienza di adempiere ad una missione sui generis. Il problema della visibilità della Chiesa non è più risolto in termini di pura struttura giuridica o secondo categorie puramente sociologiche, ma si è arricchito di due categorie teologiche che hanno richiamato l’attenzione degli ecclesiologi: la sacramentalità e la cattolicità. La categoria di “sacramento”, che si imporrà anche al Vaticano II, si rivela fecondo per esprimere il rapporto del visibile con l’invisibile e dunque per evitare ogni opposizione tra la realtà spirituale della Chiesa e il segno esterno rappresentato dalla sua vita empirica e istituzionale.

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Definendo la Chiesa come “sacramento primordiale” (così O. Semmelroth, Die Kirche als Ursakrament , 1953), la si intende in rapporto alla sua essenziale bipolarità, che la pone fra il mistero di Dio, che si è rivelato agli uomini mediante Cristo nello Spirito Santo, e la sua realtà storica, che fa della Chiesa una comunità visibile di persone, organizzata e strutturata in istituzioni, in confessioni di fede, in testimonianze storiche, in gesti liturgici. La sacramentalità permette di vedere la Chiesa come evento misterioso che non è adeguatamente riducibile nelle sue strutture visibili e nello stesso tempo consente di individuare nella vita sociocomunitaria del popolo credente il segno indispensabile dell’evento nascosto e lo strumento necessario per rendere storicamente efficace questo stesso evento. “L’ecclesiologia sacramentaria supera così decisamente ogni tentazione di giuridismo e di sociologismo e allo stesso tempo non permette fuggitive divagazioni nel mistero dell’invisibile che svuoterebbe di senso la comunità storica e tutte le sue componenti strutturali” (S. Dianich, Ecclesiologia, in Dizionario di Teologia Interdisciplinare, vol. 2, p. 23). La prospettiva sacramentale è quella prevalentemente adottata dagli ecclesiologi odierni, ed è quella presente, sia pure in modo molto variegato, nelle opere di teologi come Semmelroth, Rahner, Schillebeeckx, Ratzinger, Balthasar, Congar, De Lubac. Anche la categoria di “cattolicità” è stata profondamente studiata e rinnovata, anche dietro la sollecitazione di fatti storici ben determinati. Il problema Chiesa-mondo è diventato sempre più acuto con la presa di coscienza della “secolarità” del mondo; la riscoperta stessa del mistero della Chiesa provoca una certa relativizzazione delle sue strutture storiche; il riconoscimento di molte sensibilità religiose in seno al cristianesimo ha causato una caduta dell’uniformità a tutti i livelli; le giovani Chiese missionarie hanno presentato esigenze di rinnovamento fino a ieri ritenute dannose; lo stesso movimento ecumenico ha ridato alla nota della “cattolicità” un impulso rinnovatore. 3.In questo periodo nascono in seno alla Chiesa nuove sensibilità e nuove esperienze che richiesero ai teologi un supplemento di riflessione. Un primo settore è quello dell’evangelizzazione. Ci si rende sempre più conto che “evangelizzare” non significa semplicemente annunciare la buona notizia del regno, ma ha bisogno di un lavoro previo e accompagnatorio che, tenendo conto dei destinatari dell’annuncio, incarni la salvezza cristiana dentro l’orizzonte culturale e dentro l’opera di promozione umana. La Chiesa si rende conto che non può servire se stessa, né può accontentarsi di una “pastorale dirimpettaia” nei confronti del mondo, ma evangelizza il mondo se si pone al servizio integrale degli uomini e dei popoli, condividendo e certo anche purificando l’opera umanizzatrice. Un secondo settore è la presa di coscienza della assemblea eucaristica locale: è tale assemblea che introduce al mistero della Chiesa universale. Ciò pone in discussione la struttura rigidamente piramidale della Chiesa e introduce una dimensione di circolarità dinamica fra le diverse Chiese locali. Non viene messo in discussione il ministero gerarchico come tale, ma il suo effettivo esercizio, che viene dislocato da una visione gerarchico-piramidale e inserito in un altro modello, quello della comunione gerarchica. Il ministero è visto non più al vertice della Chiesa, ma come il suo centro, che assicura l’unità dell’intero popolo di Dio. Un terzo settore è quello del laicato. Nel 1953 Congar pubblica un’opera diventata fondamentale, Jalons pour une théologie du laicat, la quale, facendo leva sulla condizione battesimale, ridà ai laici cristiani un ruolo attivo nella Chiesa e nello stesso tempo ne sottolinea l’importanza per l’impegno di evangelizzazione nel mondo. La soluzione però non è ancora raggiunta in modo soddisfacente, in quanto il laico si sente diviso tra l’essere membro della Chiesa e l’essere cittadino cristiano nella città secolare. Si comprende certo che fra le due appartenenze c’è un legame indiscutibile, ma tale legame è difficile da esplicitare. Nascono allora le grandi questioni: si tratta per il laico di annunciare Cristo esplicitamente là dove il prete non può arrivare? Si tratta di “battezzare” le strutture temporali? Come collaborare all’apostolato gerarchico mantenendo la propria specificità di laico, impegnato soprattutto nel campo temporale? Non c’è il rischio di cadere in una forma sottile di clericalismo? A tali interrogativi si tenterà di dare risposta al Vaticano II.

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Un quarto settore è quello del ministero ordinato. La vita della Chiesa e quella dei sacerdoti sono sempre state profondamente legate. Dopo la fine della II guerra mondiale in Francia si fa strada un’esigenza missionaria particolare, quella del sacerdote che intende rimanere solidale con gli uomini del proprio tempo: i poveri e gli operai sono le categorie di persone verso le quali questa esigenza è maggiormente avvertita. L’esperienza dei preti operai è l’espressione più radicale di questo nuovo stile missionario. Questo nuovo orientamento presenta una questione di fondo che direttamente coinvolge la teologia del ministero e l’ecclesiologia. Dal concilio di Trento la figura del prete era strettamente legata al culto e alla celebrazione eucaristica. Tale concezione del prete era diretta conseguenza di una certa idea di Chiesa, centrata sul culto e sulla liturgia. Al prete centrato sull’eucaristia si oppone ora il prete destinato alla missione, così come ad una Chiesa centrata sul culto si oppone una Chiesa il cui asse portante è la missione verso il mondo. Evidentemente la soluzione non poteva essere data da una contrapposizione fra culto e missione, ma la tensione che nacque e si acutizzò soprattutto in Francia spinse ad approfondire e a rinnovare lo stretto legame esistente fra queste due dimensioni dell’esperienza cristiana. Infine, si sono moltiplicati i legami e gli scambi fra i cristiani di diverse confessioni. Già la settimana di preghiere per l’unità dei cristiani era da tempo entrata nel mondo cattolico e ufficialmente approvata da Benedetto XV nel 1916. Nel 1938 i due organismi “Life and Work” e “Faith and Order” progettarono la loro unione, che si attuò ad Amsterdam nel 1948 e prese il nome di “Consiglio Ecumenico delle Chiese” (World Council of Churches: WCC). Dopo la seconda guerra mondiale si intensificò il dialogo fra i teologi delle diverse confessioni cristiane. Per iniziativa di mons. Willebrands si formò nel 1952 la Conferenza internazionale per i problemi ecumenici, il cui lavoro sfociò nel “Segretariato per la promozione dell’unità dei cristiani”, creato nel 1960 da Giovanni XXIII e presieduto dal card. Bea. Il Segretariato divenne poi Commissione Conciliare durante i lavori del Vaticano II ed ebbe un ruolo determinante per la stesura del Decreto conciliare sull’ecumenismo Unitatis redintegratio.

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Capitolo Secondo: INTRODUZIONE ALLA LETTURA DELLA LUMEN GENTIUM La promulgazione della Costituzione dogmatica Lumen Gentium (LG), avvenuta il 21

novembre 1964 da parte dei Padri conciliari, è stato uno degli atti più salienti del Concilio Vaticano II. Questo documento dottrinale, definito da Paolo VI “monumentale”, non è nato in un giorno. Ci sono voluti 4 anni di intenso lavoro, che ha impegnato vescovi e teologi nella maturazione della sintesi più vigorosa della dottrina sulla Chiesa. Essa andrebbe letta e compresa alla luce di tutti i documenti del Vaticano II, in modo particolare alla luce delle altre tre importanti Costituzioni emanate dal Concilio, ossia la Sacrosanctum Concilium sulla liturgia, la Dei Verbum sulla divina rivelazione e la Gaudium et spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. La Costituzione De Ecclesia è comunque il cuore del Vaticano II, l’espressione più compiuta dello spirito che lo ha animato e il testo dal quale prendono significato gli altri documenti. Grande è il suo valore per la storia della Chiesa: per la prima volta un Concilio ecumenico tratta ampiamente il tema ecclesiologico nella visuale più ampia della rivelazione. Certo, la LG non offre un’ecclesiologia completa. Un Concilio non è una scuola di teologia e i documenti conciliari non intendono essere trattati teologici, bensì dichiarazioni magisteriali che esprimono la fede cattolica del popolo cristiano nell’ora presente, una fede da una parte sostenuta dallo Spirito Santo sempre operante nella sua Chiesa, e dall’altra sempre aperta a nuovi sviluppi per giungere alla verità tutta intera.

Più che di nuove idee si tratta di prospettive e di accentuazioni che si distinguono dal passato pur essendo fondamentalmente ad esse conformi. Frutto di una reinterpretazione o di una rinnovata ripresa delle fonti bibliche, patristiche e liturgiche sulla Chiesa, la LG riscopre aspetti dimenticati, anche se mai disconosciuti. Vale anche per la LG quanto Benedetto XVI asseriva per l’interpretazione di tutto il Vaticano II nel celebre discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005:

“Tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio o – come diremmo oggi – dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione. I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L'una ha causato confusione, l'altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti. Da una parte esiste un'interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rottura”; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. Dall'altra parte c'è l'“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino. L'ermeneutica della discontinuità rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare”.

In questo modo la Chiesa resta fedele alla sua missione: mantenere sempre nuova e

appetibile per gli uomini di tutti i tempi la perenne novità di Cristo sempre rinascente e mai appassita. La LG non ha definito nessun dogma e non ha condannato nessuna eresia. Il suo valore sta nella visione organica del proprio mistero, che la Chiesa ha tentato di decifrare, per distinguere gli elementi essenziali da quelli secondari, i mutevoli da quelli immutabili. La LG espone le dimensioni interiori del mistero della Chiesa, e che sono anteriori alle sue strutture esterne e alle sue incarnazioni storiche. Ha ricercato quel è l’essenza della Chiesa, per ripresentarla a tutti e per essere così fedele alla sua missione di sempre.

Già lo snodarsi dei suoi capitoli fa emergere chiaramente qual è il disegno di fondo che i Padri conciliari hanno voluto delineare. I primi due capitoli – che sono i capitoli fondamentali da quali deriva tutto il resto – espongono il “mistero della Chiesa” che si radica nello stesso mistero trinitario (cap. I) e la sua incarnazione storica come “popolo di Dio” (cap. II). Il cap. III espone la “costituzione gerarchica della Chiesa”, soprattutto

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l’episcopato. Il cap. IV tratta dei “fedeli laici”. Il cap. V parla della “universale vocazione alla santità nella Chiesa”. Il cap. VI si sofferma sui “religiosi”. Il cap. VII illustra “l’indole escatologica della Chiesa pellegrinante” e il cap. VIII è dedicato alla figura della “beata Vergine Maria nel mistero di Cristo e della Chiesa”.

1.LA CHIESA NEL DISEGNO DI DIO La LG ha rinunciato ad una definizione sintetica della Chiesa e ha preferito una

descrizione che tenesse conto, il più possibile, di tutti gli aspetti della Chiesa. Essaha operato un recupero significativi, reintegrando il mistero della Chiesa nel contesto generale della storia salvifica. In tal modo la Chiesa è stata ricollocata nella sua sede più propria mediante due serie di recuperi:

- l’ecclesiologia classica aveva favorito una specie di idolatria della Chiesa, la quale appariva come il termine finale del disegno salvifico di Dio, identificando in tal modo la Chiesa visibile con il regno di Dio. Il Vaticano II ha respinto questa identificazione, recuperando una distinzione fra Chiesa e regno di Dio che si era attenuata, senza per questo arrivare ad una sorta di estraneazione o di opposizione. La Chiesa viene presentata come l’inizio, il germe storico del regno di Dio, che prepara la sua venuta finale;

- l’ecclesiologia classica, anche nella sua sintesi della Mystici Corporis, aveva identificato Chiesa visibile e corpo di Cristo, con la conseguenza di leggere la Chiesa come il Cristo stesso che prolunga la sua incarnazione nella storia. Il Vaticano II, anche qui senza arrivare ad una opposizione, sfuma questa identificazione: la Chiesa è concepita come strumento al servizio di Cristo e della sua opera salvifica.

La Chiesa, in conclusione, non è più il centro e il fine del disegno salvifico di Dio, ma è essa stessa messa al servizio – come sacramento indispensabile – di questo progetto divino, che è più grande della Chiesa, ma che non può giungere al suo compimento senza di essa.

a.La Chiesa è opera della Trinità divina. Se la Chiesa è il capolavoro storico dell’intera Trinità, essa ha con le tre divine Persone un rapporto singolare che la LG mette in evidenza. Da oltre quattro secoli la Chiesa era definita come la società dei fedeli, fondata da Cristo, professanti l’unica fede, partecipanti ai medesimi sacramenti e obbedienti ai legittimi pastori. Se i documenti magisteriali precedenti avevano già orientato la riflessione verso il mistero trinitario come il mistero fontale di tutta l’opera salvifica, mai il magistero ecclesiastico aveva esposto con tale forza il legame tra il mistero della Trinità e il mistero della Chiesa. I numeri 2-3-4 di LG sono la esposizione di questa radice trinitaria della Chiesa: essa è opera del Padre, è opera del Figlio, è presenza santificata dallo Spirito Santo. b.Il piano di salvezza dell’eterno Padre La volontà salvifica universale di Dio è un dogma della nostra fede. Dio ha attuato questa sua volontà anzitutto creando l’universo e l’uomo, e poi destinando l’uomo a partecipare alla sua vita divina. Questa sua volontà è stata più forte anche del peccato umano. Il che porta a concludere che la grazia di Dio è all’opera da sempre e ovunque. Lo strumento di questa sua volontà salvifica è un popolo, prefigurato all’inizio del mondo, preparato e in parte attuato nella storia di Israele, costituito da Cristo mediante l’effusione del sangue, e che troverà il suo compimento alla fine dei tempi. Al di là delle varie tappe con cui il disegno di Dio va attuandosi nella storia, è rilevante l’affermazione che il progetto di Dio si attua mediante un popolo, come sin esprime la LG: “In ogni tempo e in ogni nazione è accetto a Dio chiunque lo teme e opera la giustizia (cfr. At 10,35). Tuttavia Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo, che lo riconoscesse secondo la verità e lo servisse nella santità. Scelse quindi per sé il popolo israelita, stabilì con lui un'alleanza e lo formò lentamente, manifestando nella sua storia se stesso e i suoi disegni e santificandolo per sé. Tutto questo però avvenne in preparazione e figura di quella nuova e perfetta alleanza da farsi in Cristo, e di quella più piena rivelazione che doveva essere attuata per mezzo del Verbo stesso di Dio fattosi uomo” (n.9).

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La Chiesa è prefigurata fin dall’origine dell’umanità ed è destinata ad estendersi a tutti i popoli della terra. Se volessimo indagare ulteriormente le ragioni di questa strutturazione sociale della salvezza, potremmo addurne almeno due: - una ragione di ordine antropologico: Dio salva l’uomo concreto , che è strutturato secondo una dimensione storica e personale-comunitaria. Se Dio vuole entrare in dialogo con l’uomo, non può non entrare nella sua storia e non salvare l’uomo secondo la totalità delle sue dimensioni, comprese quelle comunitarie. Questa considerazione elimina alla radice ogni interpretazione spiritualistica e ogni riduzione intimistica e individualistica dell’esperienza religiosa e fonda l’ecclesialità della fede cristiana; - una ragione storico-salvifica: Dio di fatto ha intessuto relazioni con un popolo particolare, il popolo ebraico: non in senso esclusivistico, ma nel senso inclusivo, ossia includendo, attraverso un popolo particolare, tutti i popoli del mondo. In questo senso il giudaismo trasmette al cristianesimo la sua concezione sociale e comunitaria della salvezza.

2.LA CHIESA, OPERA DEL FIGLIO INCARNATO, MORTO E RISORTO Tutti i trattati ecclesiologici mettono in rilievo il legame che unisce Cristo e la Chiesa, ma si è andati oscillando tra una concezione “giuridicista” di Chiesa, tendente a separare eccessivamente Cristo dalla sua Chiesa, e una concezione “organicista” che tendeva alla totale coincidenza fra Cristo e la Chiesa. Nella prima concezione la Chiesa è rapportata a Cristo in termini di semplice fondazione: la Chiesa viene sì istituita da Cristo, ma poi viene affidata sul piano spazio-temporale alla gestione della gerarchia, sua legittima rappresentante che governa la Chiesa “al posto di” Cristo. In tale concezione il rapporto fra Cristo e i fedeli passa attraverso alla comunione con la gerarchia della Chiesa, ma Cristo rimane per così dire sullo sfondo. Nella seconda concezione si propone una specie di identità biologica fra Cristo e la Chiesa: “La Chiesa è Gesù Cristo sparso e comunicato” diceva Bossuet (1627-1704), con un’espressione per lo meno ambigua. La stessa Mystici Corporis condannò ogni teologia del Corpo mistico che affermasse una identità nell’essere tra Cristo e le sue membra. Se la prima concezione favorisce un certo nestorianesimo ecclesiologico (una certa separazione fra Cristo e la Chiesa, analogamente alla separazione, in Cristo, fra la natura divina e quella umana), la seconda genera una sorta di monofisismo ecclesiologico (divinizzazione della Chiesa) altrettanto dannoso quanto quello cristologico. L’ecclesiologia conciliare permette di impostare i rapporti fra Cristo e la Chiesa mediante tre espressioni: Chiesa e Regno di Dio; Chiesa popolo di Dio; Chiesa Corpo di Cristo. - Chiesa e Regno di Dio Se il progetto di Dio Padre è di radunare tutti gli uomini nel Figlio, Cristo ha storicizzato questo disegno inaugurando sulla terra il Regno dei cieli, presente in mistero nella Chiesa: “Cristo, per adempiere la volontà del Padre, ha inaugurato in terra il regno dei cieli e ci ha rivelato il mistero di lui, e con la sua obbedienza ha operato la redenzione. La Chiesa, ossia il regno di Cristo già presente in mistero, per la potenza di Dio cresce visibilmente nel mondo” (LG 3). La LG non specifica quando Cristo ha istituito e fondato la Chiesa; afferma però che “il Signore Gesù diede inizio ad essa predicando la buona novella, cioè l'avvento del regno di Dio da secoli promesso nella Scrittura: « Poiché il tempo è compiuto, e vicino è il regno di Dio » (Mc 1,15; cfr. Mt 4,17). Questo regno si manifesta chiaramente agli uomini nelle parole, nelle opere e nella presenza di Cristo” (n.5). Si pone dunque una correlazione, che non è identità ma neppure estraneità, fra Regno e Chiesa. Nel corso della storia i teologi ora hanno accentuato la continuità fra Regno e Chiesa, ora ne hanno sottolineto la distanza. La teologia post-tridentina sottendeva un’ecclesiologia che identificava Chiesa e Regno. In tal caso il rischio è di far coincidere le forme storiche della Chiesa con la manifestazione piena del Regno stesso, cadendo in una sorta di trionfalismo che non sa più accettare l’assioma

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dell’”Ecclesia semper purificanda” di cui parla LG 8 e che fa fatica ad aprirsi alle novità del futuro e della storia stessa. Esiste però anche una teologia che da una parte opera una riduzione individualistica e spiritualistica del Regno, nel senso che il luogo della sua presenza viene fatto esaustivamente coincidere con la coscienza; e dall’altra opera una riduzione escatologica del Regno, nel senso che il Regno viene presentato come una realtà soltanto futura rispetto a cui il tempo presente non avrebbe alcuna densità salvifica. In entrambe queste riduzioni il Regno non ha alcun aggancio con la vicenda storica dell’uomo. Ciò è in contrasto con i dati del NT, secondo cui il Regno è in profonda relazione con la storia e dunque deve presentarsi anche secondo una dimensione pubblica e sociale. Durante la crisi modernista. A. Loisy ha scritto con ironia una espressione diventata celebre: “Gesù predicava il Regno ed è invece venuta la Chiesa”. Ponendo le due realtà in opposizione tra loro, Loisy non vedeva nella Chiesa che una società esteriore, sprovvista di qualsiasi prospettiva escatologica, dunque una realtà che avrebbe tradito e oscurato la primitiva predicazione di Gesù. In realtà, Gesù ha predicato il Regno di Dio conferendogli i lineamenti storici della Chiesa. Come dice la LG: “La Chiesa, fornita dei doni del suo fondatore e osservando fedelmente i suoi precetti di carità, umiltà e abnegazione, riceve la missione di annunziare e instaurare in tutte le genti il regno di Cristo e di Dio, e di questo regno costituisce in terra il germe e l'inizio. Intanto, mentre va lentamente crescendo, anela al regno perfetto e con tutte le sue forze spera e brama di unirsi col suo re nella gloria” (n. 5). Dunque, se la Chiesa non può essere identificata con il Regno di Dio, essa però è più di una semplice prefigurazione. La riformulazione di questo rapporto, avviata dalla LG, ha operato due recuperi in campo ecclesiologico: quello della dimensione escatologica e quello della dimensione penitenziale, profondamente intrecciati tra loro. La dimensione escatologica tiene insieme la tensione di due realtà che sembrano in contrasto fra loro. La Chiesa da una parte è il popolo di Dio in cammino su una terra straniera, in attesa di giungere alla pienezza del Regno; dall’altra la Chiesa è già abitata dal Cristo risorto e dunque è già immersa nel secolo futuro. Essa vive tra il già della Pasqua di Cristo e il non-ancora della sua Parusia. In un certo senso la Chiesa è l’escatologia già presente e realizzata, ma nel mistero: i beni del Regno sono già posseduti dalla Chiesa, ancora in modo imperfetto, ma realmente. Tale dimensione escatologica conferisce un grande dinamismo alla Chiesa e all’insieme delle sue strutture, nessuna delle quali può pretendere la definitività. La dimensione penitenziale deriva dalla precedente: proprio perchè la Chiesa non si identifica con Cristo e neppure con la pienezza del Regno, allora essa “è santa e sempre bisognosa di purificazione” e per questo “mai tralascia la penitenza e il suo rinnovamento” (LG 8). Perfino nelle sue istituzione più sante la Chiesa avverte il bisogno di purificazione: “La rinnovazione del mondo è irrevocabilmente acquisita e in certo modo reale è anticipata in questo mondo: difatti la Chiesa già sulla terra è adornata di vera santità, anche se imperfetta. Tuttavia, fino a che non vi saranno i nuovi cieli e la terra nuova, nei quali la giustizia ha la sua dimora (cfr. 2 Pt 3,13), la Chiesa peregrinante nei suoi sacramenti e nelle sue istituzioni, che appartengono all'età presente, porta la figura fugace di questo mondo; essa vive tra le creature, le quali ancora gemono, sono nel travaglio del parto e sospirano la manifestazione dei figli di Dio (cfr. Rm 8,19-22)” (LG 48). - La Chiesa popolo di Dio Con questa espressione entriamo nel cuore dell’ecclesiologia conciliare, insieme a quella di Chiesa Corpo di Cristo. Fra le due definizioni infatti esistono molteplici e dialettiche correlazioni che la teologia postconciliare ha messo in rilievo. Resta il fatto che la LG ha valorizzato l’espressione di “popolo di Dio”. Questa denominazione è presente nel NT. Fin dalle origini la Chiesa si è autocompresa come l’erede legittima del popolo della promessa. Nel tentativo di riscoprire la specificità della Chiesa, la si è trovata in questo: la Chiesa è la continuazione di Israele, è il nuovo popolo di Dio, incaricato di portare a compimento non solo le promesse, ma la realizzazione stessa della salvezza che si è operata in Cristo. Uno dei testi conciliari fondamentali per comprendere la Chiesa quale popolo di Dio (è il titolo stesso del II cap. della Costituzione) è LG 8:

“Questo popolo messianico ha per capo Cristo « dato a morte per i nostri peccati e risuscitato per la nostra giustificazione » (Rm 4,25), e che ora, dopo essersi acquistato un nome che è al di sopra di ogni altro nome, regna glorioso in cielo. Ha per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel cuore dei quali

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dimora lo Spirito Santo come in un tempio. Ha per legge il nuovo precetto di amare come lo stesso Cristo ci ha amati (cfr. Gv 13,34). E finalmente, ha per fine il regno di Dio, incominciato in terra dallo stesso Dio, e che deve essere ulteriormente dilatato, finché alla fine dei secoli sia da lui portato a compimento, quando comparirà Cristo, vita nostra (cfr. Col 3,4) e « anche le stesse creature saranno liberate dalla schiavitù della corruzione per partecipare alla gloriosa libertà dei figli di Dio » (Rm 8,21). Perciò il popolo messianico, pur non comprendendo effettivamente l'universalità degli uomini e apparendo talora come un piccolo gregge, costituisce tuttavia per tutta l'umanità il germe più forte di unità, di speranza e di salvezza. Costituito da Cristo per una comunione di vita, di carità e di verità, è pure da lui assunto ad essere strumento della redenzione di tutti e, quale luce del mondo e sale della terra (cfr. Mt 5,13-16), è inviato a tutto il mondo”.

Sottolineando che il capo della Chiesa è Cristo, morto e risorto e attualmente regnante nella

gloria del cielo, si toglie alla vita ecclesiale ogni strutturazione di tipo puramente mondano. Tutte le obbedienze all’interno della Chiesa sono da collocare all’interno della grande obbedienza che l’intero popolo di Dio deve esercitare verso Cristo, che è il vero capo della Chiesa. La stessa autorità nella Chiesa non è concepibile né descrivibile mediante il ricorso a moduli mondani di qualunque natura essi siano (monarchici, parlamentari, democratici…).

Sottolineando che la condizione di questo popolo è la libertà e la dignità dei figli di Dio nel cuore dei quali abita lo Spirito Santo, il concilio intende appellarsi alla grande tradizione biblico-teologica sull’uomo credente, sull’uomo giustificato, reso libero dalla schiavitù della legge. E’ l’antropologia teologica che viene integralmente recuperata entro una riflessione ecclesiologica, dopo che per secoli il trattato De gratia era concepito come un trattato sull’individuo giustificato, mentre il De Ecclesia era concepito come la descrizione degli aspetti sociali e dei ruoli dell’uomo credente.

Sottolineando che la legge di questo popolo è il nuovo precetto di amare come Cristo ci ha amato, il Concilio suggerisce che i rapporti tra i membri della Chiesa devono ispirarsi non a modelli puramente mondani, sia pure eticamente elevati, ma sono da viversi in termini di risposta all’amore di Cristo verso la Chiesa. Ciò impegna la Chiesa non sul piano puramente morale, ma anche su quello dogmatico. La Chiesa non è puramente una società, ma è una comunione.

Sottolineando infine che questo popolo messianico ha per fine il Regno di Dio, il concilio rimarca l’indole escatologica della Chiesa, che viene fatto oggetto dell’intero cap. VII della Costituzione LG.

Da questa sommaria descrizione della Chiesa come popolo di Dio derivano alcune

conseguenze teologiche. La prima conseguenza è l’esclusione di ogni forma di clericalizzazione della Chiesa. Se la

Riforma protestante del sec. XVI aveva insistito sulla Chiesa come comunità radunata dalla Parola, fino a negare il ministero ordinato, l’ecclesiologia cattolica aveva contrapposto un’immagine di Chiesa dove l’elemento sacerdotale-gerarchico finiva per essere visto come il principale. E così si operò una specie di spaccatura nella Chiesa fra una gerarchia, diretta vicaria di Cristo, e la comunità che le stava di fronte in modo subordinato. Se la Chiesa è popolo di Dio, ne risulta senza possibilità di equivoco che la Chiesa non è mai solamente una determinata classe o gruppo o autorità, ma è sempre l’intero popolo di Dio, composto da membri fondamentalmente uguali tra loro, come afferma LG 32:

“Non c'è quindi che un popolo di Dio scelto da lui: « un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo » (Ef 4,5); comune è la dignità dei membri per la loro rigenerazione in Cristo, comune la grazia di adozione filiale, comune la vocazione alla perfezione; non c'è che una sola salvezza, una sola speranza e una carità senza divisioni. Nessuna ineguaglianza quindi in Cristo e nella Chiesa per riguardo alla stirpe o nazione, alla condizione sociale o al sesso, poiché « non c'è né Giudeo né Gentile, non c'è né schiavo né libero, non c'è né uomo né donna: tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28 gr.; cfr. Col 3,11)”.

Questa fondamentale uguaglianza non significa né deve significare appiattimento delle diversità né egualitarismo massificante, ma è da sottolineare come una realtà ben più significativa di tutte le legittime e doverose diversificazioni, una realtà che si radica nell’evento battesimale. La distinzione istituzionale tra gerarchia e laicato non è il primo aspetto da tener presente quando si vuole considerare debitamente l’essenza della Chiesa.

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La seconda conseguenza da sottolineare è che questo popolo è di Dio, e di nessun altro. La Chiesa non nasce dalla volontà dell’uomo, non è riunita dalla volontà dei suoi membri di mettersi insieme, non è riunita a motivo di affinità psicologiche o culturali, neppure a motivo di condivisione di programmi politico-sociali o di manifesti ideologici; né è riunita per omogeneità “religiose”, rispondenti cioè ai bisogni più profondi dello spirito umano. Il popolo di Dio è riunito da Dio; nasce e cresce per sua volontà, è convocato dalla sua Parola, non dalle nostre parole; dalla sua decisione, non dalle nostre decisioni; è convocato per la lode di Dio, non per la propria; per essere il testimone del suo messaggio, non dei nostri; è convocato per servire gli interessi di Dio, non i propri; per tenere alto nella storia umana il “peso” di Dio, non per servire le potenze mondane. Questo popolo è dunque messo a parte da Dio stesso, distinto e separato da tutti gli altri popoli, non per circoscrivere in se stesso la salvezza di Dio, ma per una missione salvifica universale. Tale diversità non va vissuta in termini mondani di privilegio, ma in termini biblici di testimonianza e di servizio.

Una terza conseguenza mette in rilievo l’idea di storicità. L’espressione popolo di Dio rimanda alla peregrinazione del popolo eletto attraverso il deserto. La LG sottolinea che questo peregrinare caratterizza costantemente il popolo di Dio anche nel tempo neotestamentario: “Come già l'Israele secondo la carne peregrinante nel deserto viene chiamato Chiesa di Dio (Dt 23,1 ss.), così il nuovo Israele dell'era presente, che cammina alla ricerca della città futura e permanente (cfr. Eb 13,14), si chiama pure Chiesa di Cristo (cfr. Mt 16,18)” (n.9). Questa nozione di storicità traduce bene anche l’idea di rischio, di insicurezza, di verifica costante, di permanente riforma. E’ importante, per l’esatta comprensione del mistero della Chiesa, osservare che la Chiesa, fondata da Cristo una volta per sempre e in maniera non riformabile quanto alla sua costituzione fondamentale, è anche immessa nella storia ed è in cammino verso la Città eterna quale sua destinazione finale. In quanto immessa nella storia, significa che essa non può liberarsi dal tempo e dallo spazio dell’uomo. Non malgrado la storia, bensì proprio nella storia questo popolo mette in atto i doni di Dio. L’elemento storico non costituisce né qualcosa di estrinseco, se non di ostile, né uno scenario esteriore nel quale si svolgerebbe un’azione celeste. Se Cristo si è incarnato, significa che l’intera opera di Dio deve prendere forma nella storia e mediante la storia.

- La Chiesa, Corpo di Cristo Anche se non è l’idea centrale della LG, in realtà la costituzione le dedica un intero paragrafo, il n.7 e gli ecclesiologi la ritengono una nozione irrinunciabile per la definizione della Chiesa. E infatti l’idea precedente di popolo di Dio mette certamente in evidenza i tratti comuni esistenti fra il popolo dell’antica alleanza e quello della nuova alleanza, ma non sembra adeguata a cogliere la novità e la specificità di quest’ultimo, una novità che va colta a livello cristologico: Cristo infatti non è semplicemente il messia e il profeta escatologico degli ultimi tempi, ma è il Logos, è il Figlio di Dio che si è fatto carne. L’espressione “Corpo di Cristo” riferita alla Chiesa viene dallo stesso san Paolo, che la utilizza e la richiama a più riprese. In Paolo essa ha almeno due significati. Nella 1Cor 12, 12-30 e in Rm 12, 4 ss., l’idea di Corpo di Cristo sembra riferirsi soprattutto la profonda unione fra i membri della Chiesa, i quali, nonostante o in virtù di una grande diversità, conservano una profonda comunione fra loro: si direbbe in senso prevalentemente orizzontale. In qualche modo viene in mente l’apologo di Menenio Agrippa. Le lettere della prigionia invece (cf. Ef 1,23 e Col 1, 18.24) oppongono Cristo come Capo al corpo: si direbbe in senso prevalentemente verticale. Questi due significati hanno potuto dar luogo anche a due diverse, ma non necessariamente opposte visioni della Chiesa: - il primo può fondare una concezione societaria della Chiesa, che si limita alla nozione giuridica di corpo per fondare l’unità, la compattezza visibile; - il secondo può dare origine ad una visione organica e vitale del corpo ecclesiale, che è unito al suo Capo attraverso un legame sacramentale. I teologi contemporanei, sulla scorta anche della Mystici Corporis e della LG, preferiscono aggiungere il termine “mistico”, per affermare che i fedeli, in modo misterioso ma reale, sono in qualche modo incorporati a Cristo. Se il concetto di “popolo di Dio” è ben adatto ad esprimere la storicità e la tensione escatologica della Chiesa (il “non ancora”) e quindi a sottolineare gli aspetti di riforma e di penitenza, quello di

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“Corpo di Cristo” appare necessario e complementare al precedente per fondare la santità della Chiesa, la sua indistruttibile fedeltà, la sua necessità per la permanenza storico-visibile della nuova alleanza che Dio in Cristo ha stretto con l’umanità (il “già”). Ratzinger ha scritto: “In questa prospettiva si potrebbe perciò definire la Chiesa come popolo di Dio in forza del Corpo di Cristo. Il fatto di essere popolo di Dio è cosa che in comune con il popolo dell’Antica Alleanza; ma il suo esserlo nel Corpo di Cristo, questo è per così dire la sua differenza specifica, quale nuovo popolo di Dio; questo caratterizza il suo modo particolare di esistenza e di unità” (Il nuovo popolo di Dio, Brescia 1971, p.107).

3.LA CHIESA MISTERO DI COMUNIONE La LG definisce la “Chiesa in Cristo come un sacramento o un segno e uno strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (n.1). L’idea ritorna anche in altri passi dei testi conciliari. “Mistero” nelle lettere paoline indica il progetto eterno del Padre che, inaugurato con la morte e risurrezione del Figlio, abbraccia nell’unità della Chiesa l’intera umanità, per condurla al suo compimento, quando “Dio sarà tutto in tutti” (1 Cor 15,28). Il mistero è dunque un’economia, ossia un progetto che è diventato realtà, che si sta svolgendo nella storia e che è destinato al suo compimento finale. E’ un progetto che, nascosto nella mente e nel cuore di Dio da sempre, si è fatto visibile nella storia della prima alleanza e poi definitivamente in Gesù Cristo. Gesù anzitutto è “il mistero di salvezza” o, in altre parole, il mistero di comunione tra Dio e l’umanità. Il disegno nascosto nei secoli si è attuato nella storia per mezzo di Lui, che ce lo ha fatto conoscere e l’ha realizzato nella sua vicenda pasquale, e lo ha comunicato ai discepoli nella Pentecoste, inviando lo Spirito Santo. La parola “mistero” fu tradotta in latino con la parola “sacramento” e nel medioevo l’essenza del sacramento fu condensata in una breve formula: “signum efficax gratiae”, oppure, come il conc. di Trento desunse dalla tradizione agostiniana: “Invisibilis gratiae forma visibilis”. Queste definizioni di “sacramento” furono rigorosamente usate solo per i sette sacramenti e bene esprimono l’idea che la grazia invisibile di Dio (la salvezza) viene comunicata a noi mediante i segni visibili che, a partire da Cristo, sono stati costituiti nei sette sacramenti. E’ anche la Chiesa un “sacramento”, un “mistero”? La teologia contemporanea risponde in modo affermativo, per i seguenti motivi. - Anzitutto la Chiesa è segno efficace di Cristo, è la comunità che rende visibile e che comunica la salvezza di Cristo. Non è solo una manifestazione della salvezza di Cristo, ma è un segno-strumento, che opera efficacemente ciò che significa. - Il concetto di segno esclude ogni dualismo tra interiore ed esteriore, fra spirituale e materiale La categoria della sacramentalità permette di articolare rettamente i due aspetti, senza opporli tra loro, senza enfatizzare l’uno a danno dell’altro. Un dualismo fra una Chiesa ideale e una Chiesa reale, fra una Chiesa invisibile e una Chiesa visibile, è in contrasto con i dati del NT. Da qui l’affermazione di LG 8: “Cristo, unico mediatore, ha costituito sulla terra e incessantemente sostenta la sua Chiesa santa, comunità di fede, di speranza e di carità, quale organismo visibile, attraverso il quale diffonde per tutti la verità e la grazia. Ma la società costituita di organi gerarchici e il corpo mistico di Cristo, l'assemblea visibile e la comunità spirituale, la Chiesa terrestre e la Chiesa arricchita di beni celesti, non si devono considerare come due cose diverse; esse formano piuttosto una sola complessa realtà risultante di un duplice elemento, umano e divino”. - La sacramentalità opera anche un recupero della cristologia nell’ecclesiologia, come afferma LG 8: “Per una analogia che non è senza valore, quindi,la Chiesa è paragonata al mistero del Verbo incarnato. Infatti, come la natura assunta serve al Verbo divino da vivo organo di salvezza, a lui indissolubilmente unito, così in modo non dissimile l'organismo sociale della Chiesa serve allo Spirito di Cristo che la vivifica, per la crescita del corpo (cfr. Ef 4,16)”. Esiste dunque una correlazione fra l’unione ipostatica del Verbo e la realtà umano-divina della Chiesa, correlazione che il dettato conciliare esplica in termini di analogia, ma che nella tradizione teologica ha ricevuto approfondimenti notevoli. Come si parla

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di una struttura teandrica di Cristo, così si può, analogamente, parlare di una struttura teandrica della Chiesa, secondo cui la struttura visibile della Chiesa è al servizio dello Spirito Santo, o secondo cui, se si vuole, la comunità è al servizio della comunione. Del resto, la legge dell’incarnazione contrassegna tutta l’economia salvifica di Dio, secondo la quale, nell’AT come nel NT, la salvezza divina ci viene comunicata secondo l’unico modo possibile, connaturale alla nostra struttura umana, che è composta non solo dall’interiorità, ma anche dalla storicità, dalla socialità, dalla visibilità. Non è un caso che tutte le tensioni che sono apparse nella storia della Chiesa a proposito della cristologia - riconducibili nella loro forma evoluta al monofisismo e al nestorianesimo – sono comparse anche e sono tuttora presenti a proposito della ecclesiologia. In tal modo è potuto sorgere un “nestorianesimo ecclesiologico”, che vuole la separazione della Chiesa in due entità distinte: la Chiesa celeste, invisibile, la sola vera e santa Chiesa, e la Chiesa terrena, imperfetta e peccatrice. Al contrario, un “monofisismo ecclesiologico” ha favorito l’idea di una Chiesa essenzialmente divina, dove ogni struttura è ritenuta sacra e intoccabile. La cristologia calcedonese, indirizzando la comprensione del mistero di Cristo su un binario che evitasse i due errori estremi, può essere un punto di riferimento anche per la comprensione della Chiesa.

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Capitolo III LE NOTE DELLA CHIESA: UNA, SANTA, CATTOLICA, APOSTOLICA 1. Credo Ecclesiam Nessun'altra affermazione di fede suscita, come questa ("credo la Chiesa una, santa, cattolica, apostolica), tanta difficoltà. Le riserve nei confronti della Chiesa provengono non solo dai non praticanti, ma anche da non pochi di coloro che abitualmente frequentano la Chiesa. L'affermazione di fede è forte, e provoca interrogativi in tutti noi. Anche noi non facciamo fatica ad essere abbagliati dalla figura straordinariamente libera, unitaria e provocatoria di Gesù di Nazareth; ma abbiamo difficoltà nei confronti della Chiesa, della sua figura storica, delle sue persone e delle sue istituzioni. Eppure l'affermazione di fede "credo la Chiesa" accompagna fin dai primi secoli il cammino dei cristiani. Lo ha ricordato anche Paolo nella lettera agli Efesini: la multiforme sapienza di Dio, apparsa in Cristo, viene conosciuta mediante la Chiesa (cf. 3, 10). Con questa espressione si vuol dire che attraverso l'annuncio del vangelo la realtà del corpo di Cristo si presenta allo sguardo delle Potenze di questo mondo e quindi appare pubblicamente nell'universo. Il corpo di Cristo disteso sulla croce è destinato a protendersi in tutte le direzioni e in tutte le dimensioni ("ampiezza, lunghezza, altezza e profondità") fino ad abbracciare l'intero cosmo. In questo contesto la Chiesa viene confessata come corpo del Capo, da conservare nell'unità, perché l'unico Signore, Cristo, e l'unico Spirito, rimandano in ultima analisi all'unico Dio. L'unità della Chiesa rinvia all'unico Dio che vuol includere nella sua unicità tutti gli uomini. Così l'unica Chiesa è il frutto e il segno dell'unicità di Dio. Non custodire l'unità della Chiesa significa in definitiva rendere indegno di fede questo Dio unico e unificante, significa oscurare la sovranità di Colui che è il Padre di tutti; significa ricadere nelle potenze di questo mondo, che sono divise in se stesse. I cristiani lungo i secoli hanno tenuto vivo questo discorso. Nel Simbolo apostolico confessiamo: credo nello Spirito Santo, la santa Chiesa cattolica... E nel Simbolo nicenocostantinopolitano (sec. IV) affermiamo ogni domenica: credo la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica. In entrambi questi Simboli l'affermazione circa la Chiesa viene subito dopo la confessione dello Spirito Santo, come Signore e datore di vita. Il che significa che la confessione circa la Chiesa è da mettere in stretto collegamento con quella storia dei rapporti fra Dio e l'umanità che al tempo presente è sorretta dallo Spirito Santo e dai suoi doni. E' utile tener presente che il "credo la Chiesa" non va posto sullo stesso piano del "credo in Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo". Nel testo latino non diciamo "credo in Ecclesiam", bensì "credo Ecclesiam". Il termine del nostro atto di fede non è la Chiesa, bensì il mistero di Dio: non di un Dio qualsiasi, ma di quel Dio che, decidendo di comunicare se stesso a tutti gli uomini, si rivela come Padre, Figlio e Spirito Santo. Non solo: ma rivelando se stesso, Dio ha intessuto una storia di rapporti con l'umanità, mediante un popolo particolare ieri, Israele; e mediante quel popolo particolare che oggi si chiama Chiesa. La Chiesa però non è una quarta divinità accanto alle prime tre. E il traduttore italiano ha preferito fare un errore di grammatica o di sintassi (non esiste nel linguaggio corrente: credo la, credo il; bensì: credo in, o credo a...), ha preferito una traduzione molto brutta, ma aderente all'espressione latina, piuttosto che cadere in un grave errore di fede. La fede cristiana non é una fede nella Chiesa, ma una fede orientata verso Dio stesso, e più precisamente verso quel Dio che in Cristo comunica se stesso mediante lo Spirito. Che cosa significa, allora, credo la Chiesa? Vuol dire: credo che il mistero di Dio si è manifestato nel mondo mediante quella storia di rapporti che ha al suo centro la vicenda di Gesù e che ora é presente mediante lo Spirito in un popolo come nel suo sacramento visibile. Dio é entrato nella storia del mondo attraverso una vicenda particolare per donare a tutti la buona notizia della salvezza. Il modo con cui Dio é entrato in rapporto con l'umanità suggerisce a noi il modo con cui possiamo metterci in relazione con Dio. E questo modo non può che essere storico, comunitario, ecclesiale. Non é pensabile secondo la Bibbia una comunione con il Dio dell'alleanza che possa rimanere intimisticamente chiusa nella coscienza del credente o che possa riduttivamente risolversi in esperienze spiritualistiche. Il rapporto con Dio - lo vediamo a partire da Abramo - é chiamato a dilatarsi e a storicizzarsi nel vasto e ricco campo del rapporto con gli altri, con la geografia e la storia di un clan, di una tribù, di un popolo. La fede in Dio assume fin dagli inizi la forma di un evento storico. E il NT porta questa logica al suo compimento. Il vangelo di Gv interpreta la morte di Gesù' alla luce del disegno di Dio di "riunire insieme i figli di Dio che erano

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dispersi" (11, 51). La lettera agli Ef. descrive l'opera di Dio in Cristo come la distruzione del muro di separazione, come la riconciliazione di tutti, giudei e pagani, in un solo corpo (cf. 2, 3-17). L'iniziativa del Padre é di riunire a sé l'umanità dispersa e frantumata, é di radunare ciò che é a brandelli, é di condurre ad unità quel che é diviso. L'esperienza cristiana non chiede che il credente sia orientato solo verso l'interno di sé e tenda solo ad una propria profondità spirituale. L'esperienza cristiana é accoglienza del mistero di Cristo, dunque immersione in un disegno che si realizza nella storia e che chiede a ciascuno di noi una responsabilità che, nel mentre mette in movimento le nostre personali energie, ci apre alla vita di un popolo. La realtà ecclesiale, con tutta la sua concretezza (fatta di ricchezze e di limiti), é un antidoto a quella privatizzazione della fede che facilmente conduce ad un Dio creato sulla misura dei miei bisogni, creato a mia immagine e somiglianza. Dunque il "credo la Chiesa" non é svendere la fede ad un'istituzione: cadremmo nell'idolatria, anche se non siamo immuni da questo rischio. Ma é fede in Dio, che si é rivelato a noi come Padre, Figlio e Spirito Santo e che dimora fra noi attraverso il segno di un popolo, da lui scelto per annunciare al mondo intero la sua signoria. Sul piano educativo questa prima riflessione comporta la rinuncia a percorsi individualistici, la rinuncia a navigazioni solitarie che rinchiuderebbero l'esperienza della fede nel piccolo perimetro della nostra esistenza personale o di gruppo. 2. Le quattro proprietà della Chiesa Il Simbolo enumera poi due o quattro proprietà della Chiesa: la santità, l'unità, la cattolicità e l'apostolicità. Dal tardo medioevo e soprattutto dal tempo della riforma protestante, queste quattro proprietà sono state intese e usate in funzione prevalentemente apologetica, ossia come note di riconoscimento e di distinzione della vera Chiesa in opposizione alle altre comunità cristiane separate da Roma, le quali non potevano ricevere il titolo di "chiese", proprio perché mancanti di almeno una di queste note, o perché intendevano in modo molto diverso il senso di queste proprietà. Ancora al Vaticano I queste note della Chiesa venivano accostate e utilizzate in un senso che si potrebbe definire "trionfalistico". La riflessione teologica e catechistica contemporanea, più' attenta alle dimensioni storiche della Chiesa e della salvezza, coniuga queste proprietà anche con il loro contrario, interpretandole in modo dialettico: la Chiesa é santa, ma è anche peccatrice; la Chiesa é una, ma si presenta divisa; la Chiesa é cattolica, ma é sempre percorsa da tentazioni involutive e settarie; la Chiesa é apostolica, ma che cosa significa propriamente apostolicità? Queste dimensioni, soprattutto, vanno comprese come appartenenti al campo della fede, più' che a quello della apologetica. In altre parole, esse dovranno apparire, fondamentalmente, come dimensioni del disegno di Dio, dovranno anzi scaturire dal mistero stesso di Dio uno e trino, così come lo conosciamo dalla vicenda di Gesù, per poi trovare un'applicazione anche nel campo dell'ecclesiologia. Non solo: queste dimensioni non sono semplici fiori all'occhiello della Chiesa, ma vengono dati alla Chiesa come doni non per la sua gloria terrena, ma perché il mondo creda e, credendo, si salvi. Dunque é la salvezza stessa di Dio a richiedere che il suo disegno sia un disegno unitario (da qui l'unità); il quale renda visibile la natura intima di Dio (la santità) e abbracci l'intero cosmo, l'intera storia (la cattolicità); e infine a richiedere che questo disegno permanga integro evivo fino alla fine dei tempi e non vada soggetto a impoverimenti o a riduzioni sostanziali che possano mettere in questione il dono della nuova e definitiva alleanza (l'apostolicità). Questi quattro attributi non vanno intesi semplicemente come proprietà accatastabili una dietro l'altra, ma si richiamano reciprocamente e circolarmente fra loro. a) La santità Iniziamo dalla santità, sia per il motivo che il Simbolo apostolico la enumera per prima (credo la santa chiesa cattolica), sia perché qui si presenta subito l'autentico paradosso della Chiesa. Prima dobbiamo comprendere che cosa significhi santità nel mistero di Dio. Noi siamo troppo abituati, quando sentiamo parlare di santità, a pensare alla perfezione etica, alla assenza di difetti, alle virtù eroiche. E poi trasferiamo in Dio queste nostre idee di santità, ritenendolo appunto il sommamente perfetto, il sommamente virtuoso. I meno sprovveduti di noi sanno anche andare oltre: santità significa separazione, alterità, trascendenza. In questo senso Dio é l'inaccessibile, é Colui che abita i cieli, é il totalmente altro, é Colui che si distingue dal mondo come il sacro, il santo, si

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distingue da tutto ciò che é profano. E questo risulta vero. Ma la diversità di Dio, la sua inaccessibilità, la sua santità, la sua separazione dall'uomo e dal mondo non é in funzione di una distanza, non è finalizzata ad allargare il fossato fra Lui e noi. Dio é santo, perché non é il mondo, certo. Ma Dio ésanto, perché ama e salva questo mondo, perché dona al mondo una sovranità, una guida, una provvidenza, una comunione che il mondo non può assolutamente darsi. All'inizio del decalogo biblico risulta chiara questa caratteristica di Dio: "Io sono il Signore Dio tuo, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione servile “(Dt 5,6). E a Mosé sul monte Oreb, Dio, che pure gli aveva ordinato di togliersi i calzari, perché stava calpestando un luogo santo, dice: " Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido... Sono sceso a liberarlo, per farlo uscire da questo paese verso un paese dove scorre latte e miele" (Es 3, 7-8). E nel libro di Osea Dio afferma: "Non darò sfogo all'ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Efraim, perché sono Dio e non uomo, sono il santo in mezzo a te e non verrò nella mia ira" (11,9). Il Dio di Israele è santo, perché lento all'ira e grande nell'amore. Gesù' é il santo di Dio, perché, "pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo" (Fil 2, 6-7a). E' soprattutto sulla croce che Gesù mostra la santità di Dio: é lì che appare in che senso il Dio trinitario é santo, ossia é altro dall'uomo, perché si é sacrificato fino a quel punto per l'umanità. La alterità di Dio é finalizzata alla realtà di una sua comunione con noi che il mondo né poteva sognare, né tanto meno produrre. In questo senso, anzitutto, la Chiesa é santa. Lo dice Pietro: "Voi siete una nazione santa" (ossia separata, scelta da Dio, eletta da Dio, analogamente all'antico popolo). Ma santa perché? "Siete il popolo che Dio si é acquistato, perché proclami le opere meravigliose di lui, che dalle tenebre vi ha chiamati alla sua mirabile luce" (1Pt 2, 9). La Chiesa é santa, perché santificata da Cristo, ossia appartenente alla sua signoria, rigenerata da lui non per autogratificarsi o autocompiacersi in questa sua separatezza dal mondo, ma santa perché resa capace di comunicare al mondo la presenza salvante e condividente di Dio. La Chiesa non é santa in funzione di sé, bensì in funzione del mondo. Questa riflessione ci fa comprendere anche il paradosso della santità della Chiesa, che comprende peccatori nel suo seno. E deve risolvere, una volta per tutte, il disagio che tutti proviamo quando confessiamo che la Chiesa é santa. Il disagio é forte, se messo a confronto con una concezione etica della santità. Infatti i secoli di storia della Chiesa sono così zeppi anche di colpe umane di ogni genere, da renderci ben comprensibile la terrificante visione di Dante, che ha veduto seduta sul carro trionfale della Chiesa la grande meretrice babilonese. E i Padri, quando parlavano della santità della Chiesa, usavano espressioni anche ardite. Essi interpretavano ad es. la figura di Rahab, la prostituta, giustificata per il suo gesto di ospitalità, come il simbolo stesso della Chiesa, non infrequentemente chiamata dai Padri la "casta meretrix". La Chiesa é una casta meretrice. Ma l'aggettivo "casto", "santo", applicato alla Chiesa, non intende tanto e in primo luogo la santità morale dei suoi membri; neppure intende in primo luogo coloro, i santi, ai quali è pubblicamente e comunitariamente riconosciuta una risposta certo esemplare, spesso eroica, alla grazia di Dio. Certo la Chiesa é santa anche per questi frutti di risposta esemplare che lungo la storia lo Spirito ha suscitato. Ma la Chiesa é confessata come santa anche nel bel mezzo della sua peccaminosità. Questo é il paradosso. La Chiesa é santa non perché i suoi membri siano esenti da colpe e da peccati. Questo pio sogno, di una Chiesa fatta di puri, di eroi, di gente virtuosa, di gente brava, ogni tanto rispunta nella storia. La Chiesa é santa, perché appartiene a Dio, e non più' alle potenze di questo mondo. La Chiesa é il segno della fedeltà ostinata di Dio alla alleanza nuova che nella pasqua di Cristo ha definitivamente donato all'umanità. La Chiesa é santa perché espressione dell'amore di Dio che non si lascia vincere dall'inettitudine umana. Ed é proprio in virtù di questa dedizione non più ritrattabile di Dio in Gesù, che la Chiesa rimane per sempre il suo popolo, la sua comunità, chiamata a rendere presente per il mondo intero la santità di Dio, non la nostra. Questa è la figura paradossale della Chiesa, che mostra la gloria di Dio nella vergogna dell'uomo. E proprio in questa struttura di santità e di peccato, "santa insieme e sempre bisognosa di purificazione" (LG 8), la Chiesa diventa la configurazione concreta che assume la grazia di Dio nel mondo: la sua grazia é sempre grazia di misericordia, di accoglienza, di perdono. Questa grazia la vediamo all'opera in Gesù, nel suo modo di comportarsi e di entrare in relazione, nella sua parola e nei suoi gesti di potenza. La santità di Gesù non é la santità di uno che si mette a parte dal mondo dei peccatori, non é la santità di chi viene in mezzo a noi senza sporcarsi le mani. Forse noi ameremmo vedere in questo modo la santità, come assoluta lontananza dalla nostra sudicia

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condizione di vita. E una certa agiografia ha presentato spesso in questa maniera la santità cristiana. La santità di Dio, che appare in Gesù, si manifesta proprio nella intenzionale convivialità di Gesù con i peccatori. Dal momento del battesimo al Giordano, solidale con il mondo dei peccatori, Gesù lo é fino alla croce, quando muore proprio, secondo il vangelo di Luca, tra due malfattori, portando a compimento quella solidarietà con l'uomo peccatore che ha suscitato scandalo tra i farisei e che farà dire a Paolo che "Dio trattò il Figlio da peccato in nostro favore" (2Cor 5,21). Questa é la santità di Dio: non é isolamento, ma é la diversità di chi condivide fino in fondo, di chi accoglie e accorcia le distanze. E la Chiesa é anzitutto il frutto di questa santità di Dio: é un popolo santo perché in lui appare, continuamente, la misericordiosa accoglienza di Dio. Ogni volta che noi ci scandalizziamo della Chiesa perché peccatrice, volendola più coerente, più fedele, più santa, corriamo il rischio di rimanere fermi ad una concezione etica della santità, come se la santità fosse il risultato di eroici sforzi umani. La santità della Chiesa è anzitutto la santità dei perdonati, dei salvati per pura grazia. A questo punto comprendiamo anche l'impegno di una risposta da parte della Chiesa. La santità é anche un compito, una vocazione. Ma la santità del cristiano é chiamata ad essere, appunto, cristiana, e non altro. Non é una semplice perfezione etica, non é una pura coltivazione della propria interiorità, magari asceticamente anche molto impegnata. Tutto questo é giusto e nobile. Ma la santità cristiana, concepita come risposta della comunione conviviale di Gesù con il mondo dei peccatori: non é mai beatificante contemplazione delle proprie conquiste interiori, che crea farisaicamente una distanza nei confronti degli altri, come nel vangelo del cieco nato, dove i veri ciechi si sono rivelati quelli che ritengono di vedere, e quindi di non essere bisognosi della misericordia di Dio. La poca santità morale della Chiesa racchiude un messaggio consolante, perché ci sarebbe da temere una Chiesa fatta di eroi, di puri, di virtuosi. Sarebbe, in fondo, una Chiesa molto triste, perché incapace di accogliere Dio come misericordia, e quindi incapace di convivere con il mondo dei peccatori, ossia con il mondo degli uomini e delle donne di questo mondo, che tutti conosciamo, che tutti siamo: perché siamo persone, tutte, che hanno bisogno della grazia misericordiosa di Dio per sperare, per vivere, per voler bene agli altri. b) Unità e cattolicità Credo la Chiesa una e cattolica. E di nuovo incontriamo il segno opposto della sua divisione. Ma ancora dobbiamo chiederci: che cosa significa unità per la Chiesa? E qui dobbiamo ancora una volta evitare di sovrapporre le nostre concezioni umane e mondane di unità, pensando all'unità della Chiesa come all'unità di un impero, o di una repubblica, o di una federazione, o di un partito. L'unità della Chiesa é radicata nell'unità stessa di Dio e del suo disegno salvifico. Lo ha detto Gesù nella sua preghiera prima di morire: "prego... affinché siano una cosa sola, come tu Padre sei in me, e io in te" (Gv 17,21). Appunto: l'unità fra i cristiani ha come fonte esemplare il mistero trinitario. L'unità della Chiesa é chiamata ad essere la forma storica di quella unione che esiste nel mondo divino. E poiché in Dio l'unità della natura divina esiste nella trinità delle persone, ecco il motivo per cui anche l'unità della Chiesa può esistere solo come unità cattolica, ossia come unitànella molteplicità, nella pluralità, nella totalità. Senza il dinamismo della cattolicità, l'unità facilmente degenera a uniformità, a massificazione egualitaristica, oppure a una forma di verticismo monarchico. E la cattolicità senza il dinamismo della unità potrebbe degenerare a frammentazione, a spirito di ghetto o di setta, a localismo asfissiante, a gretto particolarismo. Nel mistero di Dio l'unità avviene nella relazione dei distinti, Padre, Figlio e Spirito Santo. La massima unione avviene nella massima distinzione delle persone. Il dinamismo dell'unità non mortifica, anzi potenzia il dinamismo della relazione, della molteplicità relazionale. Anche la Chiesa, in quanto popolo che appartiene a Dio, non può sconfessarne la natura. Unità e cattolicità sono per così dire due caratteristiche chiamate a tradurre, nelle forme storiche del vivere ecclesiale, quel che é Dio nella identità della sua natura. Alla luce di queste riflessioni si comprende il significato dell'unità cattolica della Chiesa. Unità dice un'esigenza di convergenza, esprime l'esigenza di una confessione comune della fede, di un linguaggio comune, di un battesimo comune; esige che tutti i cristiani, sia pure appartenenti a tradizioni e a culture diverse, si possano riconoscere nella stessa fede in Cristo e si riconoscano come appartenenti all'unico popolo di Dio. Ecco il motivo per cui le divisioni profonde tra i cristiani, eresie e scismi, sono sempre state considerate un danno: non solo perché hanno rotto l'unità della Chiesa, ma perché hanno in qualche modo pregiudicato di fronte al mondo il disegno unitario di Dio. Una Chiesa divisa é una controtestimonianza del vangelo. Da qui il compito ecumenico che

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contrassegna ormai tutte le chiese cristiane. Al di là del modo concreto con cui viene pensata o desiderata l'unità fra i cristiani nelle singole confessioni, tutti i credenti avvertono l'esigenza di ricostruire una Chiesa una e quindi unica: che é già tale nel suo volto interiore e sarà certamente tale nella sua immagine finale. Ma questa esigenza di unità e quindi di unicità viene avvertita anche a riguardo della figura storica con cui la Chiesa si presenta davanti al mondo, per la credibilità stessa del disegno di Dio che é universale e unitario. Tale unità non può essere pensata come separata dalla cattolicità. Cattolico vuol dire universale, o meglio "riguardante la totalità", secondo almeno due grandi significati. Il primo significato riguarda la totalità delle Chiese, anzi la totalità del mondo intero. Sotto questo aspetto la Chiesa viene confessata come cattolica proprio per il motivo che nessuna barriera né geografica, né razziale, né culturale, né politica, né sociale può impedirne la nascita e lo sviluppo. La Chiesa non è mai solo un determinato popolo, una determinata classe, un determinato gruppo, una determinata élite. E si capisce anche perché la Chiesa sia fatta di centri concentrici: dal gruppo alla parrocchia, dalla parrocchia alla diocesi, dalla diocesi alle altre diocesi e alla Chiesa universale, mediante un legame particolare con la Chiesa di Roma, chiamata a presiedere l'unità cattolica. E dalla Chiesa al mondo intero: da qui la missionarietà della Chiesa. E si comprende anche il motivo per cui la cattolicità si esprima in una ricchezza di doni, di ministeri, di stati di vita. "L'unico popolo di Dio é presente in tutte le nazioni della terra... In virtù di questa cattolicità, le singole parti portano i propri doni alle altre parti e a tutta la Chiesa, in modo che il tutto e le singole parti si accrescono con l'apporto di tutte... verso la pienezza dell'unità" (LG 13). Un secondo significato riguarda la totalità della verità. Essere cattolici vuol dire non ritagliarsi per sé soltanto una parte della verità, una parte della rivelazione e della fede. La cattolicità esprime dunque la tensione alla pienezza della verità. Lo spirito della cattolicità non vuol dire tendenza all'accomodamento diplomatico, al compromesso dottrinale, all'accordo a qualunque prezzo. Esso vuol esprimere il contrario dello spirito della setta che, radicalizzando un aspetto della verità, finisce per sacrificarne la pienezza. Certo, non esiste un modello storico di unità cattolica che sia perfetto sotto tutti i punti di vista. Questa unità cattolica è sempre da costruire, perciò si tratta di una dimensione dinamica della Chiesa. E qui comprendiamo anche il motivo dell'esistenza di non pochi poli di tensione, che sono comunque necessari per la costruzione della complessa unità del popolo di Dio. Ad es.: la tensione fra Chiesa particolare e Chiesa universale, fra primato del vescovo di Roma e ministero dei vescovi, fra gerarchia e laici, fra unità della fede e pluralismo teologico... Tutte queste tensioni appartengono alla realtà di un popolo che è uno ed è molteplice. Questa unità cattolica, che si radica nel mistero trinitario di Dio, è un dono e anche un compito che la Chiesa è chiamata a vivere non solo al proprio interno, ma in funzione del mondo. Il senso dell'unità e della cattolicità della Chiesa sta nel servizio evangelico al mondo, esso pure chiamato all'unità, ma nella forma del rispetto e della valorizzazione della molteplicità. L'unità cattolica è un segno del Regno, offerto al mondo intero affinché l'unità dei popoli e degli uomini non avvenga mai nella forma di un imperialismo di dominio e di sopraffazione, e neppure nella forma di una frantumazione e di una divisione babelica, ma rifletta il mistero trinitario di Dio, di cui la Chiesa è sacramento. c) L’apostolicità Infine, confessiamo che la Chiesa è apostolica, ossia fondata sugli apostoli. Anche questa dimensione va radicata in Dio e nel suo disegno. Apostolo significa inviato da un altro. Questa dimensione, all'origine, esprime il primato della volontà salvifica di Dio in tutto e su tutto. "L'eterno Padre, con liberissimo e arcano disegno di sapienza e di bontà, ha creato l'universo e ha deciso di elevare gli uomini alla partecipazione della sua vita divina" (LG 2). "E' venuto quindi il Figlio, mandato dal Padre, il quale in lui prima della fondazione del mondo ci ha eletti e ci ha predestinati ad essere adottati in figli" (LG 3). L'apostolicità esprime la gratuita e sovrana decisione di Dio di salvare il mondo. E poi questa decisione si esprime nel Padre che manda il Figlio, e poi nel Figlio che chiama e manda gli apostoli ("Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi", Gv 20,21). Questa è la caratteristica della fede cristiana: è accesa, è originata non da noi, ma da Dio attraverso una storia di messaggeri, fra cui hanno una funzione particolare gli apostoli. L'apostolicità rappresenta dunque il legame della Chiesa di oggi con la Chiesa originaria, la Chiesa apostolica, attraverso il legame con tutte le tappe della Chiesa fino al tempo presente e fino alla fine dei tempi. La Chiesa di oggi non potrebbe essere un segno del Regno che viene, se

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inventasse ad ogni tornante la sua strada, se non vivesse in perenne confronto e in reale continuità con l'evento fondante della morte e risurrezione di Gesù. Ma noi non conosciamo altro Gesù, se non il Cristo, testimoniato da Giovanni, da Pietro, da Paolo, ossia dagli apostoli e dai discepoli di Gesù. In concreto, la dimensione apostolica esige che la comunità cristiana riceva la propria fede dalla Chiesa apostolica. E questo come è possibile? In che modo la testimonianza apostolica può rimanere presente nella Chiesa fino alla fine del mondo? E' una delle domande cruciali del dialogo ecumenico, alla quale qui non possiamo che dare un tentativo di risposta piuttosto semplificante. Anzitutto la Chiesa apostolica vive nella parola ispirata delle Scritture. Accogliendo i libri dell'AT e del NT, la Chiesa accoglie quella parola profetica e apostolica che ci rende presente Cristo stesso, il suo messaggio, la sua vicenda storica, la sua Pasqua. Tutta la Scrittura parla di Cristo: cf. l'episodio dei discepoli di Emmaus. Ecco perché la DV riporta l'espressione di Gerolamo: l'ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo (cf DV 25). E' specchiandosi continuamente nella norma della Scrittura che la Chiesa ha la garanzia di essere in reale continuità con la Chiesa apostolica. In secondo luogo, il legame con la Chiesa apostolica mediante la Scrittura fa scoprire anche un cammino che dal tempo delle origini arriva fino a noi. E' la dimensione della Tradizione, che altro non è se non la storia del popolo di Dio indefettibilmente guidato dallo Spirito lungo il tempo e lo spazio verso la pienezza di Cristo. La dimensione della tradizione mette sotto critica quel mito di volta in volta ricorrente di una specie di radicale ritorno della Chiesa del tempo all'evento delle origini, scavalcando il tempo intermedio, quasi che oggi la Chiesa possa rigenerarsi improvvisamente da un annuncio nuovo che riecheggi, senza intermediari, quello degli apostoli. Noi siamo in relazione con Cristo se siamo legati a tutto un passato che ci precede e che diventa la spinta per affrontare il presente e per preparare il cammino futuro. Le motivazioni di tale legame con la Chiesa del passato non sono di ordine puramente storico, bensì di ordine teologico: e stanno nel fatto che il cammino delle precedenti generazioni cristiane è stato sostenuto dalla presenza dello Spirito, che ha suscitato una risposta positiva, risposta che non può non aver lasciato una traccia significativa anche per noi. Ne sono un esempio i dogmi della Chiesa, che sono appropriazioni e sviluppi di quel seme che Gesù ha piantato nei solchi della Chiesa apostolica e che lo Spirito porta a maturazione. E infine, una parte della missione degli apostoli è stata affidata a coloro che si sono succeduti nel loro ministero, i vescovi. I vescovi non sono nuovi apostoli, ma sono succeduti agli apostoli in quel ministero di guida della comunità, di annuncio autorevole del vangelo e di presidenza nella celebrazione dei gesti sacramentali, che si rivela necessario per il cammino genuino dell'intero popolo di Dio. Tutti i ministeri nella Chiesa, da quello petrino a quello episcopale, da quello dei presbiteri a quello dei diaconi, sono al servizio dell'annuncio del vangelo e quindi non esistono al di sopra del popolo di Dio, ma sono per questo popolo. E' quanto afferma LG 18: "Cristo Signore, per pascere e sempre più' accrescere il popolo di Dio, ha stabilito nella sua Chiesa vari ministeri, che tendono al bene di tutto il corpo. I ministri infatti che sono rivestiti di sacra potestà, servono i loro fratelli, perché tutti coloro che appartengono al popolo di Dio, e perciò hanno una vera dignità cristiana, tendano liberamente e ordinatamente allo stesso fine e giungano alla salvezza". L'intera dimensione apostolica della Chiesa è al servizio del mondo, perché solo quando la Chiesa vive in pienezza il rapporto con Cristo può annunciare credibilmente al mondo il vangelo. La fedeltà della Chiesa al Vangelo, garantita dalla dimensione apostolica che lo conserva nella sua purezza e lo incrementa a vantaggio di tutti, costituisce il senso più' alto della presenza della Chiesa nel mondo, per l'annuncio e la trasmissione di quella comunione di Dio con noi che è la salvezza, il fine, e fors'anche il segreto sospiro dell'intero cosmo.