eBook Ita Filosofia Lezioni Su Comicita Ironia e Umorismo 1

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  • LEZIONI SU COMICIT, IRONIA E UMORISMO IN SCHOPENHAUER, KIERKEGAARD, BERGSON E PIRANDELLO

    Le parole della filosofia, I, 1998

    Lezioni su comicit, ironia e umorismo in Schopenhauer, Kierkegaard, Bergson e

    Pirandello- Paolo Spinicci -

    Hendrick Ter Bruggen, Democrito che ride

    (1588-1629)

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    Schopenhauer Bergson

    Kierkegaard Pirandello

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  • LEZIONI SU COMICIT, IRONIA E UMORISMO IN SCHOPENHAUER, KIERKEGAARD, BERGSON E PIRANDELLO

    Le parole della filosofia, I, 1998

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  • ARTHUR SCHOPENHAUER

    Le parole della filosofia, I, 1998Ragione e vita nella teoria della comicit di

    Arthur Schopenhauer

    - Paolo Spinicci -

    1. Le fonti. La teoria della comicit e dell'arguzia si trova nel 13 dell'opera principale di Schopenhauer: Il mondo come volont e rappresentazione (1818) a cura di A. Vigliani, Mondadori, Milano 1988. Il Mondo, tuttavia, non ebbe il successo sperato, e Schopenhauer mette mano a una riedizione dell'opera solo nel '44. La mole del libro cresce sensibilmente: Schopenhauer l'arricchisce di molti supplementi. Tra questi vi anche un approfondimento della teoria del ridicolo (Supplementi, cap. VIII), volto pi a chiarire che a correggere le pagine del 1818. Nel corso delle nostre considerazioni ci rifaremo, senza ulteriori indicazioni, alle pagine del Mondo e dei Supplementi.

    2. Una premessa necessaria: intelletto e ragione nella filosofia di Schopenhauer. Le riflessioni di Schopenhauer sul riso si collocano nel primo libro de Il mondo come volont e rappresentazione, e costituiscono una breve digressione volta a far luce su uno dei nodi centrali della sua filosofia: il rapporto tra intelletto e ragione. Di qui la necessit di premettere alle nostre considerazioni una breve esposizione del senso che Schopenhauer attribuisce a queste due facolt che, a partire almeno dalla Critica della ragion pura, diventano centro di interpretazioni contrastanti.

    Per Schopenhauer come per Kant, l'intelletto ha una funzione trascendentale: permette di passare dall'ambito delle sensazioni alla sfera degli oggetti della nostra esperienza. Il rimando a Kant, tuttavia, non deve impedirci di cogliere una differenza sostanziale: per Schopenhauer, e non certo per Kant, l'intelletto fa tutt'uno con l'intuizione e non deve essere inteso alla luce della forma logica del giudizio. L'esperienza non assume validit obiettiva grazie alle categorie della logica trascendentale: se dalle sensazioni come modificazioni della nostra corporeit risaliamo agli oggetti non perch i dati sensibili vengono connessi nell'unit di un giudizio, ma solo in virt dell'interpretazione tanto irriflessa, quanto istintiva che ci costringe a pensare alla causa dei nostri stati psicologici. L'intelletto non allora, per Schopenhauer, la kantiana facolt di pensare i fenomeni, ma ci che permette all'uomo e agli altri animali di orientarsi nel mondo e di intuirlo come una concatenazione di eventi causalisticamente connessi.

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  • ARTHUR SCHOPENHAUER

    Diversamente stanno le cose per la ragione. La ragione , per Schopenhauer, la facolt che ci permette di risalire dalla rappresentazione al concetto e di cogliere le relazioni che tra i concetti sussistono. L'uomo non si limita a operare nell'esperienza, ma riflette anche sull'esperienza: la ragione ci permette di riflettere sulla realt, di raccogliere nell'unit di una rappresentazione di secondo grado (di una rappresentazione di rappresentazioni) una molteplicit di rappresentazioni individuali tra loro per qualche aspetto simili.

    E tuttavia, nella natura mediata del concetto, Schopenhauer non coglie soltanto la definizione logica del pensiero razionale, ma anche la sua pi generale collocazione metafisica:

    come dalla luce diretta del Sole si passa a quella riflessa della Luna, cos ora passeremo dalla rappresentazione intuitiva che si afferma e garantisce da s, alla riflessione, ai concetti astratti della ragione (Il mondo come volont e rappresentazione, op. cit., p. 75)

    - cos scrive Schopenhauer, e di quest'immagine che apre le sue considerazioni sulla ragione non si pu rendere conto solo richiamandosi alla tesi di sapore empiristico secondo la quale il piano concettuale non fa che rispecchiare in forma attenuata la ricchezza del mondo intuitivo. Dietro quell'immagine vi altro: il Sole calore, luce, vitalit, mentre la Luna un valore notturno, e brilla di luce fredda nella sua lontananza dalle vicende umane.

    Sono proprio questi valori immaginativi che Schopenhauer intende proiettare sulla nozione dio ragione. Finch si muove sul terreno dell'intuizione concreta, l'uomo interamente immerso nel presente, ed tutt'uno con la natura e con il mondo e quindi anche con la volont che lo anima. La ragione strappa l'uomo da questo sicuro (e ingenuo) sentimento della vita e lo getta in una nuova dimensione dell'esistenza, pi fredda e priva di colore e di vitalit. In altri termini, la ragione ci distacca dal flusso dell'esperienza, ci permette - per cos dire - di contemplare dall'alto ci che accade. I concetti, proprio perch ci permettono di avanzare previsioni raccordando il presente all'esperienza passata, ci strappano dal dominio che l'attimo esercita su di noi, disponendoci in una dimensione diacronica e quindi storica. La ragione dunque ci che allontana luomo dalla vita, che cancella la sua piena e spontanea adesione al mondo, separandolo dalla natura e dal suo continuo fluire.

    Questa separazione ha il suo suggello nella paura della morte che cos tipica delluomo e che dipende dalla sua razionalit: solo perch la ragione strappa luomo dalla sua immediata e vitale adesione al mondo, solo perch lo toglie dallattimo presente in cui la vita, per disporlo nella prospettiva della storia, solo per questo pu insinuare nel suo animo la paura per ci che ancora non , ma verr - la morte.

    3. Il riso come rivincita della vita: la teoria schopenhaueriana del ridicolo. Sullo

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  • ARTHUR SCHOPENHAUER

    sfondo metafisico che abbiamo delineato si colloca la dottrina schopenhaueriana del ridicolo. Si tratta di una teoria molto semplice che tuttavia pretende di avere validit universale:

    Il riso - osserva Schopenhauer - proviene sempre da unincongruenza subitamente constatata fra un concetto e loggetto reale cui quel concetto, in un modo o nellaltro, ci fa pensare; e non appunto se non lespressione di questa incongruenza (ivi, p. 109).

    facile suggerire degli esempi che mostrino concretamente il senso di questa definizione. Di un predicatore noiosi pu dire "Bav il buon pastore di cui la Bibbia parlava / quando il suo gregge dormiva lui solo vegliava" (ivi, p. 854), cos come nellepitaffio di un medico si pu scrivere "egli giace qui, come un eroe circondato dalle sue vittime" (ivi), ed in entrambi i casi il riso nasce perch ci che si adatta bene al concetto (il pastore che si preoccupa delle sorti di unumanit ignara e il combattente caduto dopo aver fatto strage del nemico) si dimostra invece del tutto incongruente non appena ci poniamo sul terreno delloggetto concreto (ivi).

    Da questa base semplicissima, Schopenhauer muove per caratterizzare ulteriormente il fenomeno che gli sta a cuore. Unincongruenza tra conoscenza astratta e conoscenza intuitiva pu avere luogo in due diverse forme:

    o sono dati nella conoscenza due o pi differenti oggetti reali, due o pi rappresentazioni intuitive che identifichiamo arbitrariamente nellunit di un concetto comune []. Oppure, viceversa, c dapprima nella conoscenza il concetto, dal quale passiamo in seguito alla realt, cio alla pratica: oggetti radicalmente differenti sotto ogni altro aspetto, ma che il pensiero abbraccia sotto un solo concetto, vengono trattati e considerati tutti allo stesso modo; finch da ultimo la grande divergenza che li separa finisce per dare nellocchio con grande sorpresa e meraviglia di chi opera (ivi, p. 109).

    Schopenhauer propone di chiamare arguzia il primo genere del ridicolo, per riservare al secondo il nome di buffoneria. Questa classificazione del ridicolo pu essere ulteriormente arricchita, e Schopenhauer si muove in questa direzione quando illustra brevemente la natura del calembour, dello scherzo, dellironia, dellumorismo. Tuttavia, piuttosto che soffermarci su queste nozioni che possono essere desunte facilmente dalle pagine schopenhaueriane e che restano comunque in ombra nella sua teoria, vorremmo soffermarci un poco sulla distinzione principale che Schopenhauer propone: quella tra buffoneria e arguzia. Larguzia, egli osserva, sempre volontaria: sorge quando intendiamo mostrare lincapacit di un concetto di dominare la ricchezza di senso del materiale intuitivo. Al contrario la buffoneria sempre involontaria, e ha la sua origine nella convinzione, che si mostrer poi erronea, di avere nella ragione una guida sicura per le nostre azioni. Cos, seppure da prospettive diverse, buffoneria ed arguzia ci mostrano uno stesso stato di cose: ci che luomo arguto ci fa comprendere e che traspare nel gesto del buffone di fatto

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    lincapacit della ragione con i suoi concetti astratti ascendere fino allinfinita molteplicit e alle infinite sfumature dellintuizione (ivi, pp.860-1).

    Del resto, proprio in questo incrinarsi del dominio della ragione sulla vita che consiste la forma del piacere che proviamo ridendo:

    questa vittoria della conoscenza intuitiva sul pensiero che ci rallegra. Intuire infatti il modo primitivo di conoscere, inseparabile dalla natura animale, un conoscere in cui si presenta tutto ci che d soddisfazione immediata alla volont: lintermediario del presente, del godimento, della gioia []. Con il pensiero accade sempre il contrario: pensare il conoscere alla seconda potenza, che esige sempre qualche sforzo, spesso anche considerevole; suoi sono i concetti, che cos spesso si oppongono alla soddisfazione dei nostri desideri immediati, giacch tali concetti, come intermediari del passato, del futuro e della seriet, fanno da veicoli ai nostri timori, ai nostri rimorsi e a tutte le nostre preoccupazioni. Devessere perci un godimento scoprire una buona volta linsufficienza della ragione, di questa governante severa, instancabile e opprimente. Per questo dunque lespressione del riso e quella della gioia si assomigliano tanto (ivi, p. 861).

    Limmagine della ragione come una governante opprimente e saccente indica del resto la via per comprendere quellaccostamento tra pedanteria e buffoneria che, a prima vista, pu stupire, ma che in realt perfettamente coerente con lapproccio schopenhaueriano. Il pedante ha poca fiducia nelle sue capacit intuitive e teme lurgenza e la complessit dei problemi che il presente gli pone: si arma per questo di un insieme di regole che gli permettono di cancellare la novit del presente, riconducendolo (e quindi riducendolo) a ci che gi stato. Il pedante abbandona la vita in concreto per rifugiarsi nella vita in abstracto, in unesistenza, dunque, nella per ogni problema quale vi gi una soluzione collaudata. Ma il corso della vita e dellesperienza non sono proni ai dettati della pedanteria: il concetto - di cui il pedante fa la sua unica guida -

    Non discende mai fino al particolare e [] la sua universalit e la rigidezza della sua determinazione non gli permettono di esprimere esattamente le sfumature, le svariate modificazioni della realt (ivi, p. 110).

    Per quanto fitta, la rete delle regole non aderisce mai perfettamente alla realt, ed il pedante diviene cos preda del ridicolo. E se le cose stanno cos, il riso non che il gesto liberatorio nel quale la vita si affranca dalle forme morte in cui la ragione la costringeva: sullo sfondo della dottrina schopenhaueriana della comicit si deve dunque leggere una rivendicazione esplicita dei diritti della vita e dellimmediatezza sulle forme astratte e rigide della ragione.

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  • ARTHUR SCHOPENHAUER

    4. Lo spirito della storia e lo spirito della terra. Le nostre considerazioni sulla teoria schopenhaueriana del ridicolo potrebbero chiudersi gi qui. e tuttavia forse opportuna una breve digressione volta a far luce su un passo del Mondo in cui Schopenhauer tocca, seppure di sfuggita, largomento del riso. Si tratta di un passo molto impegnativo dal punto di vista metafisico: Schopenhauer intende infatti liberarsi con poche parole delle concezioni razionalistiche della storia, ed in particolare di quella hegeliana, tutta volta a cercare nella concatenazione degli eventi il dipanarsi necessario dello Spirito. Ora, la prima mossa in questa direzione consiste, per Schopenhauer, nel sottolineare come la storia non sia affatto il processo necessario in cui lo Spirito si rivela, ma sia piuttosto il regno del caso:

    Se, per ipotesi, ci fosse dato di gettare uno sguardo luminoso nel regno della possibilit e sulla completa catena delle cause e degli effetti, lo Spirito della Terra sorgerebbe, e ci mostrerebbe in un quadro gli uomini pi eminenti, i luminari del mondo e gli eroi che furono rapiti dal destino prima che lora delle rispettive missioni fosse suonata. Ci mostrerebbe quindi i grandi avvenimenti che avrebbero cambiato aspetto alla storia del mondo, e arrecato ere di luce e di suprema civilt, se il caso pi cieco e laccidente pi futile non li avessero soffocati sul nascere (ivi, p. 271).

    Ora, di fronte a questo spettacolo, noi uomini abituati a comprenderci come frutto della storia non potremmo probabilmente sottrarci ad un senso di raccapriccio, e ci dispereremmo per le crudeli scelte operate dal caso. E tuttavia alluomo che piange il mancato progresso dellumanit e lamenta lassenza di una Ragione nella storia, lo Spirito della terra potrebbe rispondere con un sorriso (ivi, p. 271), poich a chi ha compreso che i fenomeni nel loro mutevole esserci altro non sono che manifestazioni di unidentica volont, non pu che apparire ridicola la pretesa razionalistica di scorgere nel fluire del tempo il progresso della storia degli uomini.

    Paolo Spinicci

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    Le parole della filosofia, I, 1998

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  • Comico, societ Bergson

    Le parole della filosofia, I, 1998Il riso, la societ e la vita nella teoria della

    comicit di Henri Bergson- Paolo Spinicci -

    1. Le fonti. Le riflessioni di Bergson sulla natura della comicit sono racchiuse in un breve libro, intitolato Il riso. Saggio sul significato del comico (1900), a cura di A. Cervesato, Laterza, Roma Bari 1982 e destinato ad un successo travolgente: ebbe infatti pi di sessanta edizioni in poco pi di quarant'anni, grazie anche alla leggerezza dello stile che rende tanto pi piacevolmente leggibile un'opera che peraltro assai pi impegnativa e ricca di quanto non sembri.

    Quest'opera si situa in una fase importante dell'evoluzione del pensiero bergsoniano: si colloca infatti negli anni in cui da interessi prevalentemente psicologico-filosofici Bergson muove verso una filosofia della vita orientata metafisicamente. Il saggio sul riso accomuna dunque, come vedremo, queste due tendenze della speculazione di Bergson e rappresenta quindi una possibile introduzione al suo pensiero.

    1. Un'idea antica: il riso ha una funzione sociale. Nelle pagine di questo suo libro, Bergson muove innanzitutto da una constatazione di natura generale: se il riso un gesto che appartiene a pieno titolo al comportamento umano, allora deve essere lecito domandarsi qual il fine che lo anima. Ora, per comprendere il fine cui mira un comportamento si deve in primo luogo far luce sulle occasioni in cui accade. E per Bergson vi sono almeno tre punti che debbono essere a questo proposito sottolineati:

    1. "Non vi nulla di comico al di fuori di ci che propriamente umano" (ivi, p.4). Questa affermazione pu lasciarci di primo acchito perplessi: si pu ridere infatti anche di un cappello o di un burattino di legno. E tuttavia, se non ci si ferma a questa constatazione in s ovvia, si deve riconoscere che in questi casi il rimando a ci che umano gioca un ruolo prevalente e comunque ineliminabile: di un cappello ridiamo perch vi vediamo espresso un qualche capriccio estetico dell'uomo, cos come nella marionetta l'immaginazione scorge i gesti impacciati di un uomo sgraziato. Alla massima antica secondo la quale l'uomo l'animale che ride si deve affiancarne dunque una moderna: l'uomo un animale che fa ridere.

    2. Il riso scaturisce solo di fronte a ci che appartiene direttamente o indirettamente all'ambito propriamente umano; perch possa tuttavia

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  • Comico, societ Bergson

    scaturire necessario che chi ride non si lasci coinvolgere emotivamente dalla scena che lo diverte. Per ridere di una piccola disgrazia altrui dobbiamo far tacere per un attimo la piet e la simpatia, e porci come semplici spettatori o - per esprimerci come Bergson - come intelligenze pure: "il comico esige dunque, per produrre tutto il suo effetto, qualcosa come un'anestesia momentanea del cuore" (ivi, pp. 5-6).

    3. Il riso - abbiamo osservato - chiede una sorta di sospensione del legame di simpatia che ci lega a colui di cui ridiamo. E tuttavia tutti sappiamo che il riso un'esperienza corale: ridiamo meglio quando siamo insieme ad altri, ed il riso spesso il cemento che tiene unito un gruppo di persone. "Il riso, - commenta Bergson - [...] cela sempre un pensiero nascosto di intesa, direi quasi di complicit, con altre persone che ridono, reali o immaginarie che siano" (ivi, p.6).

    Non difficile scorgere la nota che accomuna queste tre osservazioni generali: il riso sembra essere strettamente connesso con la vita sociale dell'uomo, con il suo essere un animale sociale. Possiamo allora - seguendo Bergson - far convergere i tre punti su cui abbiamo dianzi richiamato l'attenzione in un'unica tesi, che getta appunto la sua luce sul quando del riso: "Il "comico" nasce quando uomini riuniti in un gruppo dirigono l'attenzione su uno di loro, facendo tacere la loro sensibilit, ed esercitando solo la loro intelligenza" (ivi, p.7). E se le cose stanno cos, se il riso come comportamento umano sorge nella vita associata, allora si pu supporre che esso risponda a determinate esigenze della vita sociale.

    3. Il riso ed il diavolo a molla. Per far luce sul motivo che ci spinge a ridere non basta indicare quando ridiamo: occorre riflettere anche su ci di cui ridiamo. Orientarsi in questa seconda parte delle analisi vuol dire innanzitutto lasciarsi guidare dagli esempi, e tra questi uno gode di una posizione privilegiata proprio per la sua estrema semplicit: il gioco del diavolo a molla. "Noi tutti abbiamo giocato [...] col diavolo che esce dalla sua scatola. Lo si schiaccia ed ecco si raddrizza; lo si ricaccia pi in basso ed esso rimbalza pi in alto, lo si scaccia sotto il coperchio ed esso fa saltare tutto" (p. 46) scrive Bergson, e propone subito dopo un'osservazione che ci spiega perch un simile gioco possa far ridere un bambino: "E' il conflitto di due ostinazioni, di cui l'una puramente meccanica finisce ordinariamente per cedere all'altra, che se ne prende gioco" (ivi, p. 47). Del diavolo ci fa ridere la cieca ostinazione, il suo "saltar su" come una molla: dunque il comportamento rigidamente meccanico di ci che pure nel gioco vale come un essere dotato di un'autonoma volont a far ridere il bambino.

    Un comportamento rigidamente meccanico applicato a ci che (o immaginiamo che sia) vivente: su questa tesi dobbiamo riflettere perch per Bergson circoscrive in modo sufficientemente preciso l'ambito del comico.

    Molti esempi di comicit possono esserle immediatamente ricondotti: una marionetta file:///C|/Documents%20and%20Settings/x.X-IOZ9A...Desktop/masterizza/Nuova%20cartella/comico2.htm (2 di 7) [25/11/2003 17.43.38]

  • Comico, societ Bergson

    ci fa ridere perch i suoi gesti sono rigidi e meccanici, ed per questa stessa ragione che ci sembra ridicolo chi - giunto in fondo alle scale - tenta di scendere anche da un ultimo inesistente gradino, con un gesto goffo che non motivato da un fine reale, ma solo dal meccanismo acquisito della discesa. Altri invece ci costringono a disporci nella prospettiva propria dell'immaginazione che con le definizioni non procede con la stessa metodica precisione dell'intelletto: cos, non dobbiamo stupirci se il topos della meccanicit si estende per l'immaginazione fino a coprire campi che non sembrano in senso stretto spettarle. Per l'immaginazione una macchina innanzitutto ripetitiva: di qui la comicit che sorge dalla ripetizione dei gesti, delle azioni, dei pensieri. "Due volti simili, ciascuno dei quali preso isolatamente non fa ridere, presi insieme fanno ridere per la loro somiglianza" - diceva Pascal, e tutti sappiamo come un tic fisico o intellettuale (una frase, sempre la stessa, ripetuta troppo di sovente) sia causa di ilarit. Ma un meccanismo non solo ripetizione: anche - a dispetto del movimento - staticit. Una macchina inchiodata alla sua funzione: cos, chi voglia fare una caricatura, sapr farci ridere solo a patto di ritrarre nel volto una piega espressiva solidificata in un tratto stabile della fisionomia, un'espressione cui la macchina dei lineamenti non sa pi sottrarsi. Nell'immagine della macchina si cela infine anche l'idea dell'ostinazione cieca, del movimento che non sa pi aderire al presente, ma segue una regola tanto fissa quanto sorda alle esigenze del momento. Basta dunque che questa immagine si sovrapponga alla vita umana perch il riso si faccia avanti. Una simile sovrapposizione si ha per esempio

    quando l'anima ci si mostrer contrariata dai bisogni del corpo - da un lato la personalit morale con la sua energia intelligentemente variata, dall'altra il corpo stupidamente monotono interrompente sempre ogni cosa con la sua esigenza di macchina. Quanto pi queste esigenze del corpo saranno meschine ed uniformemente ripetute, tanto pi l'effetto sar vivo (ivi, p. 33).

    Non dunque un caso - commenta Bergson - se i personaggi tragici debbono tenersi lontani da gesti che tradiscano le esigenze della corporeit, mentre il commediografo potr senz'altro ottenere il riso del pubblico rappresentando i suoi personaggi comici in preda a un malanno o ad un fastidioso singhiozzo che interrompe ogni loro discorso.

    Proprio come la vita dello spirito pu essere ostacolata nel suo realizzarsi dalle esigenze della macchina corporea, cos la forma della vita sociale pu soffocarne il senso. La lettera - le regole e le convenzioni sociali - si sovrappone alla sostanza - la vita in comune, e dalla contemplazione di questo travestimento della vita sorge la comicit: il deputato che interpellando il ministro su di un assassinio famoso rammenta che il colpevole, dopo aver ucciso la vittima, sceso dal treno in senso contrario alla sua direzione, violando cos il regolamento, - per Bergson - comico perch in lui l'adesione alla regola ha soffocato la comprensione della vita.

    Potremo soffermarci ancora sulle strade che l'immaginazione comica percorre, e non sarebbe difficile mostrare come a partire dalle poche cose che abbiamo detto

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  • Comico, societ Bergson

    possano comprendersi le ragioni che ci spingono a ridere dei travestimenti o - e su questo punto dovremo in seguito ritornare - dei vizi di natura morale. Per ora ci basta invece il risultato cui siamo pervenuti: ci di cui ridiamo - per Bergson - tutto ci in cui l'immaginazione scorge una sorta di meccanicizzazione della vita.

    4. Il riso come castigo sociale. La comicit morale e la funzione sociale della commedia. Le considerazioni che abbiamo sin qui svolto ci permettono di formulare ora, senza ulteriori indugi, una risposta alla domanda da cui avevamo preso le mosse, - la domanda sul fine che il riso persegue. Il riso - avevamo osservato - deve avere una funzione sociale, e sorge - aggiungiamo ora - dalla constatazione di una sorta di contraddizione: ci che dovrebbe comportarsi in modo libero e vivo sembra assoggettare i suoi gesti a leggi meccaniche, alla cieca ostinazione del meccanismo. Al riso spetta dunque il compito di sanare questa contraddizione, richiamando quella parte della societ (reale o immaginaria) che colpevole di un comportamento rigido e ostinato ad un atteggiamento pi elastico, ad uno stile di vita pi duttile e desto. Il riso quindi un castigo sociale:.

    comico - scrive Bergson - qualunque individuo che segua automaticamente il suo cammino senza darsi pensiero di prendere contatto con gli altri. Il riso l per correggere la sua distrazione e per svegliarlo dal suo sogno. [...]. Tutte le piccole societ che si formano sulla grande sono portate, per un vago istinto, ad inventare una moda per correggere e per addolcire la rigidit delle abitudini contratte altrove, e che sono da modificare. La Societ propriamente detta non procede diversamente: bisogna che ciascuno dei suoi membri stia attento a ci che gli intorno, si modelli su quello che lo circonda, eviti infine di rinchiudersi nel suo carattere come in una torre di avorio. Perci essa fa dominare su ciascuno, se non la minaccia di una correzione, per lo meno la prospettiva di un'umiliazione che per quanto leggera non meno temibile. Tale si presenta la funzione del riso. Sempre un po' umiliante per chi ne l'oggetto, il riso veramente una specie di castigo sociale (ivi, pp. 88-9).

    Di questa funzione sociale del riso, la commedia per Bergson un'espressione esemplare. Tra tutte le forme di comicit una in particolare sembra stringere un rapporto strettissimo con la sfera sociale: la comicit morale. Le passioni spesso si prendono gioco di noi e subordinano tutte le nostre azioni ad un unico meccanismo. E' questo ci che accade ai personaggi comici di molte commedie: lo spettatore chiamato a ridere di un uomo, i cui gesti sembrano quelli di una marionetta, mossa da un burattinaio - la gelosia, l'avarizia, la pavidit, ecc. - che ci ben noto e di cui sappiamo prevedere i movimenti. Di qui la forma di tante commedie che hanno per protagonisti non gi individualit ben determinate, ma personaggi tipici, marionette dietro alle quali traspare la passione che li domina. Ma di qui anche il fine che si prefiggono: correggere, ridendo, i costumi. Alle forme propriamente artistiche, caratterizzate dall'assoluta assenza di finalit pratiche si deve contrapporre dunque

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  • Comico, societ Bergson

    la commedia, che - per Bergson - una forma artistica spuria, proprio perch affonda le sue radici nella vita e perch alla vita ritorna come ad un valore da salvaguardare e cui sottomettere i propri sforzi.

    Vi tuttavia una seconda ragione che spinge Bergson a dedicare tanto spazio alle considerazioni sulla commedia, ed propriamente il carattere per cos dire teatrale della comicit. Possiamo ridere soltanto quando la rigidit di un carattere o di un comportamento si fa gesto e si mostra apertamente agli occhi dell'immaginazione: non ci basta sapere che la paura della morte ha trasformato Argan in un burattino; per ridere dobbiamo vedere i gesti in cui la riduzione dell'uomo a cosa si fa spettacolo. Ma lo spettacolo comico implica uno spettatore che sappia per un attimo guardare alla vita come ad una rappresentazione teatrale:

    Da ci il carattere equivoco del comico. Esso non appartiene n completamente all'arte, n completamente alla vita. Da un lato i personaggi della vita reale non ci farebbero mai ridere se noi non fossimo capaci di assistere alle loro vicende come ad uno spettacolo visto dall'alto di una loggia; essi sono comici ai nostri occhi solo perch ci danno la commedia. Ma d'altra parte, anche a teatro, il piacere di ridere non puro, cio esclusivamente estetico, assolutamente disinteressato. Vi si associa sempre un pensiero occulto che la societ ha per noi quando non l'abbiamo noi stessi; vi sempre l'intenzione non confessata di umiliare e con ci, vero, di correggere, almeno esteriormente" (ivi, p. 89).

    Il riso sorge cos come un gesto che per strappare la vita dalla sua negazione implica una momentanea sospensione della vita stessa: dunque una contemplazione della vita volta a sanare i pericoli che la mettono in forse.

    5. Il riso e la metafisica bergsoniana. Nonostante la sua indubbia coerenza e la sua capacit di far luce su di un aspetto importante del comico, il saggio di Bergson sembra lasciare aperto pi di un problema. Ci che in particolare colpisce il lettore forse il trovarsi di fronte ad un saggio che con tanto vigore sottolinea la funzione sociale del riso, senza tuttavia sfociare in un'indagine di natura sociologica che - tra le altre cose - ci mostri quali sono i processi di apprendimento del riso. Perch almeno questo chiaro: se il riso un gesto sociale che appartiene alla forma di vita propria dell'uomo, allora deve esistere qualcosa come un addestramento al riso, - un addestramento che insegni al bambino quali sono i vizi e i difetti di cui ridere e quando opportuno riderne.

    In realt, basta dare uno sguardo alle brevi considerazioni che Bergson raccoglie intorno a questi problemi per rendersi conto che le sue analisi si muovono in un'altra direzione. Se con Bergson indichiamo quali siano i "difetti" censurati dal riso siamo innanzitutto ricondotti a ci che ci rende non tanto immorali, quanto poco adatti alla societ, ma dobbiamo poi - in secondo luogo - rammentare che troviamo comiche anche le fisionomie buffe nelle quali l'immaginazione pu scorgere un irrigidimento della vita espressiva, ma in cui sarebbe insensato scorgere un problema per la

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  • Comico, societ Bergson

    societ. Se il riso un castigo sociale, allora si deve aggiungere che talvolta sembra castigare anche l dove non ce n' alcun bisogno.

    Non solo: di un vizio morale come l'avarizia o la gelosia, noi non sempre ridiamo, poich - osserva in primo luogo Bergson - il riso chiede che il vizio da castigare non ci coinvolga troppo da vicino e ci permetta di mantenere la posizione dello spettatore.

    In secondo luogo, tuttavia, Bergson attira la nostra attenzione sul fatto che uno stesso vizio - l'avarizia, per esempio - pu talvolta suscitare il riso, talvolta il nostro disprezzo. Ora, la diversit della reazione non dipende solo dalla gravit della colpa, ma soprattutto dal modo in cui questa si palesa. E ancora una volta il cammino da seguire ci indicato dall'esperienza letteraria. Gli eroi tragici ci rivelano il loro carattere nelle azioni, e con azioni Bergson intende i comportamenti volontari della soggettivit. Il personaggio comico invece si rivela nei gesti, e cio in quei movimenti e in quei discorsi nei quali uno stato d'animo si manifesta senza scopo e senza alcuna premeditazione. Nell'azione la persona intera in gioco, nel gesto una parte isolata della persona si esprime all'insaputa o (per lo meno) in disparte dell'intera personalit (ivi, p. 94). Il gesto - potremmo allora esprimerci cos - una sorta di irruzione improvvisa dell'inconscio nella vita desta, ed proprio questo carattere di involontariet e di immediatezza che ci fa apparire comico anche un vizio che detestiamo.

    Ma se il comico si esprime nel gesto, anche il riso a sua volta un gesto sociale (ivi, p. 14) di cui si deve sottolineare l'immediatezza: non bisogna dunque stupirsi se

    non ha tempo di osservare sempre dove tocca [... e se] talvolta castiga certi difetti come la malattia castiga certi eccessi, colpendo gli innocenti, risparmiando i colpevoli, mirando verso un risultato generale, senza preoccuparsi del singolo" (ivi, p. 126).

    Cos, accanto alla tesi secondo la quale il riso sorge come prodotto di un'antica abitudine sociale, Bergson viene sempre pi chiaramente sostenendo che "il riso semplicemente l'effetto di un meccanismo datoci dalla natura" (ivi, p. 126). Ed in questa prospettiva, il problema di un addestramento al riso non si pone, poich il riso ci appare come una manifestazione diretta della natura, come una difesa immediata della vita che la vita stessa a donarci, armandoci di una sorta di istintiva reazione alla comicit. Se dunque Bergson non si impegna sul terreno delle considerazioni sociologiche proprio perch intende rispondere alla domanda sulle origini del riso sul terreno di una autentica metafisica della vita, che del resto si fa percepire in vari passaggi del saggio bergsoniano. La nostra immaginazione - scrive Bergson -

    ha una sua filosofia ben salda; in tutte le forme umane essa scorge lo sforzo di un'anima che foggia la materia, anima infinitamente agile, eternamente mobile sottratta al peso perch non la terra che l'attira... Con la sua leggerezza alata quest'anima comunica qualcosa al corpo che anima: l'immaterialit che passa cos nella materia ci che si chiama grazia. Ma la materia resiste e si ostina. Essa attira, e vorrebbe

    file:///C|/Documents%20and%20Settings/x.X-IOZ9A...Desktop/masterizza/Nuova%20cartella/comico2.htm (6 di 7) [25/11/2003 17.43.38]

  • Comico, societ Bergson

    convertire la propria inerzia e fare degenerare in automatismo l'attivit sempre sveglia di questo principio superiore [...]. Laddove la materia riesce a far crassa esteriormente la vita dell'anima, irrigidendone il movimento ed ostacolandone la grazia, ottiene dal corpo un effetto comico (ivi, pp. 19-20).

    Non difficile scorgere in queste pagine (o in quelle in cui si deducono le leggi della comicit dalla diretta negazione della nozione metafisica di vita (ivi, p. 58)) il germe di quella filosofia che trover poi nell'Evoluzione creatrice la sua configurazione definitiva. La lotta tra l'urgere dinamico e multiforme della vita e la resistenza cieca e sorda che la materia le impone trova gi qui, nella disamina sul comico, la sua prefigurazione. Cos, non ci si deve stupire se l'abitudine al riso tanto antica da affondare le sue radici in un meccanismo della natura (ivi, p. 126): il riso s un castigo sociale, ma le sue origini non appartengono alla societ, ma alla vita stessa e debbono essere quindi viste sullo sfondo della lotta tra lo slancio vitale e l'inerzia della materia.

    E se ci si pone in questa prospettiva, le considerazioni bergsoniane vengono a collocarsi nell'orizzonte problematico di una filosofia della vita, - un orizzonte cui gi alludevano le pagine di Schopenhauer.

    Paolo Spinicci

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    Le parole della filosofia, I, 1998

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  • IL CONCETTO DI IRONIA IN SREN KIERKEGAARD

    Le parole della filosofia, I, 1998Il concetto di ironia in Sren Kierkegaard

    - Paolo Spinicci -

    1. Le fonti. Kierkegaard affronta il problema dell'ironia nella sua tesi di laurea, pubblicata nel 1841 con il titolo Il concetto di ironia in costante riferimento a Socrate (ed. it., a cura di D. Borso, Guerini, Milano 1989). Si tratta di un'opera ricca di riferimenti al dibattito letterario e filosofico, poich l'ironia - a partire dall'et del romanticismo - era diventata un tema particolarmente vivo ed aveva attirato su di s l'attenzione di autori come Tieck, Schlegel e Solger. tuttavia Hegel l'autore cui il giovane Kierkegaard si sente pi vicino: nelle pagine della sua tesi di laurea, il filosofo danese ha infatti ben chiara davanti agli occhi la riflessione hegeliana sulla valenza soggettiva e negatrice dell'ironia, ed una delle mete cui il suo lavoro approda pu essere forse indicata proprio nell'acquisizione di una prima parziale autonomia del giovane filosofo dalla pagina hegeliana.

    2. L'ironia: una caratterizzazione per contrasto. Il primo passo per venire a capo dell'ironia , per Kierkegaard, di natura descrittiva: occorre infatti cercare di caratterizzare questa forma del comportamento, indicando quali sono le differenze strutturali che ci permettono di distinguerla da altri atteggiamenti della soggettivit.

    Osserveremo allora che, da un punto di vista descrittivo, l'ironia si rivela come quella forma del discorso "la cui caratteristica di dire l'opposto di quello che si pensa" (ivi, p. 192). Parlare significa dare al pensiero un'apparenza sensibile, e ci quanto dire che "mentre parlo, il pensiero, l'opinione l'essenza, la parola l'apparenza" (ivi). Nell'atteggiamento ironico, tuttavia, la parola cessa di essere manifestazione del pensiero: il fenomeno non ci conduce pi alla sostanza che in esso dovrebbe farsi visibile, ma ci vincola apparentemente ad un pensiero che per noi del tutto privo di verit e di sostanza. L'ironia dunque una sorta di sovversione del rapporto tra fenomeno ed essenza, ed appartiene proprio per questo alla famiglia dei fenomeni "doppi": nell'ironia il fenomeno diviene infatti un'apparenza ingannevole che allude ad una realt che deve essere tuttavia negata. L'ironia sembra essere dunque una peculiare forma di ipocrisia: le cose, tuttavia, non stanno affatto cos, perch - come nota Kierkegaard -

    L'ipocrisia pertiene di fatto all'ambito della morale. L'ipocrita si sforza in continuazione di sembrare buono, pur essendo cattivo. L'ironia, per

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    luca manciniEvidenziato

    luca manciniEvidenziato

  • IL CONCETTO DI IRONIA IN SREN KIERKEGAARD

    contro, si situa in un ambito metafisico, e per l'ironista si tratta sempre solo di sembrare diverso da come veramente , sicch, come nasconde il suo scherzo nella seriet, e la sua seriet nello scherzo [...] cos pu anche venirgli di passare per cattivo, pur essendo buono (ivi, p. 199).

    Del resto, la differenza tra ironia e ipocrisia traspare gi nel fatto che l'ipocrita non vuole che il suo pensiero sia colto e lo dissimula quindi interamente, mentre chi fa dell'ironia lascia trapelare nel riso la sua vera opinione. L'ipocrita, dunque, non dice ci che pensa perch non vuole essere giudicato: l'ipocrita dunque nega se stesso perch non intende confrontarsi con la realt che lo circonda, perch non se la sente di contrastare un'opinione che gode di credito nel mondo. L'ironia segue una strada diversa: chi nel sorriso ironico riconosce la distanza che lo separa da ci che ha detto, non nega s, ma la sua adesione ad una realt che appare per qualche verso priva di valore (ivi, p. 102). L'ironia, dunque, permette al soggetto di prendere le distanze da ci che ha detto, liberandosene, tagliando i ponti che lo vincolano ad una realt che riconosciuta priva di valore.

    Ora, proprio in questo suo far "piazza pulita" della molteplicit dei legami che stringono l'uomo alla realt che lo circonda, l'ironia sembra inaugurare un nuovo cominciamento per il soggetto. La battuta ironica, che fingendo di confermarla, nega l'adesione del soggetto ad un mondo dato, libera di fatto l'io da una realt cui non crede, ed proprio questo senso di liberazione che si esprime nel riso dell'ironia:

    Ma quanto in tutti questi casi ed altri simili emerge dell'ironia - nota Kierkegaard - la libert soggettiva che tiene ad ogni istante in suo potere la possibilit di un cominciamento senza l'intralcio di legami anteriori. In ogni cominciamento c' qualcosa di seducente, poich il soggetto ancora libero, e questo il piacere desiderato dall'ironista (ivi, p. 196).

    La funzione di cominciamento dell'ironia, il suo porsi come uno strumento per mettere tra parentesi una realt ritenuta inessenziale, traccia una chiara linea di demarcazione tra l'ironia e l'ipocrisia, ma sembra riconnetterla al dubbio, poich anche nel dubbio - come Cartesio insegna - il soggetto si libera dai vincoli di un sapere tradizionale per inaugurare un nuovo cominciamento.

    Il rapporto tra ironia e dubbio ha del resto pi di una ragione per essere istituito: anche il dubbio ci dispone in un atteggiamento di natura negativa rispetto alla realt e ci libera dalle convinzioni cui eravamo precedentemente legati. Anche in questo caso, tuttavia, al momento della somiglianza si deve affiancare quello del contrasto: nel dubbio il soggetto vuole penetrare nell'oggetto, vuole appunto conoscerlo, ma l'oggetto gli sfugge, proprio perch il dubbio non permette mai alla soggettivit di riposarsi e di stare ben salda sulle sue acquisizioni conoscitive. Nell'ironia invece il soggetto non vuole affatto cogliere l'oggetto, non intende penetrare nella sua intima essenza: intende piuttosto prenderne le distanze. In altri termini: chi dubita,

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  • IL CONCETTO DI IRONIA IN SREN KIERKEGAARD

    crede di non conoscere la realt, ma certo che valga egualmente la pena di comprenderla, ed per questo che cerca di farsi presso la natura intima delle cose; chi fa dell'ironia, invece, crede di conoscere la realt, ma certo che non valga la pena di soffermarvisi, e nel sorriso ironico prende commiato da un mondo che gli appare privo di valore.

    L'ironia, infine, deve essere colta anche sullo sfondo della relazione che la lega al raccoglimento religioso. Come l'ironia, anche l'atteggiamento religioso del raccoglimento mette tra parentesi il mondo circostante, riconoscendone la vanit. Tale riconoscimento, tuttavia, si affianca alla negazione del s: il gesto del religioso che allontana da s il mondo colpisce in eguale misura la persona del fedele che riconosce se stesso come "cosa miserrima fra tutte" (ivi, p. 200).

    Nell'ironia, invece - nota Kierkegaard - mentre tutto si fa vano, la soggettivit diviene libera. Quanto pi tutto si fa vano, pi leggera vuota di contenuto e fugace si fa la soggettivit. E mentre tutto diventa vanit, il soggetto ironico, invece di diventare vano a se stesso, salva la sua vanit (ivi, p. 200).

    Dal naufragio del mondo che essa stessa provoca, l'ironia salva lo spettatore - l'io che si fa ironista.

    3. L'ironia: una personcina invisibile. Sin qui ci siamo mossi all'interno di un'analisi prevalentemente descrittiva, volta a chiarire quali fossero i tratti distintivi che caratterizzano l'ironia come comportamento soggettivo. Il compito che dobbiamo ora svolgere diverso: si tratta infatti di comprendere quale sia la funzione generale dell'ironia, quale sia - in altri termini - la funzione metafisica che all'ironia affidata.

    Questa funzione pu essere colta se dall'ironia come gesto occasionale passiamo all'ironia come atteggiamento generale verso il mondo. Proprio come il dubbio da empirico si fa filosofico quando Cartesio lo estende al di l dei limiti cui la quotidianit lo vincola, cos anche l'ironia guadagna una sua dimensione metafisica non appena si solleva al di sopra dei singoli casi empirici per diventare un atteggiamento generale della soggettivit:

    L'ironia sensu eminentiori non si rivolge contro questo o quel singolo esistente, bens contro tutta la realt data in un determinato tempo e sotto determinati rapporti (ivi, p. 197).

    Ora, ci quanto dire che "a essere considerato sub specie ironiae non questo o quel fenomeno, ma la totalit dell'esistenza" (ivi): l'ironia si pone cos come lo stile di vita che colora emotivamente la forma dialettica hegeliana della negativit infinita e assoluta. Scrive Kierkegaard:

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  • IL CONCETTO DI IRONIA IN SREN KIERKEGAARD

    Per il soggetto ironico la realt data ha perso completamente il suo valore, gli diventata una forma imperfetta e intralciante ovunque. Per l'altro verso, per, possiede il nuovo. Sa una sola cosa, che il presente non corrisponde all'idea (ivi, p. 202).

    Di fronte ad una realt nella quale non si riconosce, il soggetto ironico non contrappone una protesta determinata, non contrappone al dato un dover essere che in qualche modo vincoli la sua volont ad un progetto e la sua condotta futura ad un insieme di norme e di convinzioni; tutt'altro: l'atteggiamento ironico non si impegna nel mondo per un mondo nuovo ma - additandone la possibilit - libera il soggetto nel presente, permettendogli di negare in interiore homine quell'adesione al mondo che pure a parole tributa.

    Il sorriso ironico ci permette cos di estraniarci dal mondo, di non riconoscergli alcun valore. Da questa negazione tuttavia non derivano alla soggettivit impegni di nessun genere: la negazione ironica del mondo scompare nell'atto stesso del negare e non si solidifica in un che di positivo. E ci quanto dire che nell'ironia il soggetto guadagna una libert soltanto negativa:

    L'ironia - scrive Kierkegaard - una determinazione della soggettivit. Nell'ironia il soggetto libero in negativo; difatti la realt suscettibile di dargli contenuto assente, e il soggetto libero dallo stato di costrizione in cui lo tiene la realt data, ma libero in negativo e come tale fluttuante, poich nulla v' che lo tenga. Ma proprio questa libert, proprio questo fluttuare trasmette all'ironista un certo entusiasmo, nel senso che si ubriaca degli infiniti possibili [...]. A questo entusiasmo tuttavia non si abbandona, ma nutre in s e ravviva solo quello dell'annientare (ivi, p. 203).

    La libert dell'ironia dunque sempre soltanto libert da qualcosa, mai libert di agire per qualcosa - appunto una libert vuota e soltanto negativa.

    A partire di qui si pu davvero comprendere non soltanto perch Socrate, il filosofo con cui si chiude la stagione della "felice immediatezza" del mondo greco, debba essere per Kierkegaard il vero campione dell'ironia, ma anche la ragione per la quale in un passo del suo libro si parla dell'ironia come di una personcina invisibile: nel sorriso ironico, l'io ritrova e guadagna se stesso proprio nel momento in cui si sottrae ad ogni sguardo che lo cerchi nel mondo. La soggettivit che l'ironia ci consegna paga cos il gesto di diniego che sancisce la sua superiorit sul mondo e sul reale con il suo divenire invisibile, con il suo perdersi in una vuota possibilit: il luogo da cui la soggettivit ironizzante guarda il mondo cos lo spazio vuoto della pura possibilit.

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  • IL CONCETTO DI IRONIA IN SREN KIERKEGAARD

    4. L'ironia dominata. Prima di concludere le nostre analisi sull'ironia in Kierkegaard opportuno dare almeno uno sguardo alle pagine conclusive della sua tesi di laurea. Qui Kierkegaard prende silenziosamente commiato dall'ironia come negativit infinita e assoluta e ne suggerisce una considerazione pi positiva ed urbana. L'ironia pu essere infatti dominata, e ci significa che anche questo atteggiamento negativo della soggettivit pu essere preso con la giusta dose di ironia. Dalla smania ironica che tende a svuotare il reale di ogni valore si deve prendere un ironico distacco; e se l'ironia impedisce all'io di perdersi nel mondo, l'ironia sull'ironia gli impedir di perdersi di l da esso. L'ironia smette cos di essere la lama tagliente che rescinde una volta per tutte il nesso dell'io con il mondo e diviene la coscienza critica che ci impedisce di restare chiusi nei dati di fatto della vita, di idolatrare i fenomeni, cui occorre certo dare peso, ma solo alla luce della consapevolezza della loro insufficienza a racchiudere una volta per tutte la ricchezza di significato della soggettivit.

    L'ironia come stato d'animo sconfina cos in una superiore forma di saggezza che ci insegna a vivere nel mondo senza tuttavia rimanervi impaniati. Ed in questo volto bonario che l'ironia sa assumere e che le permette di essere il viatico in nome del quale l'uomo pu attraversare la vita senza disgustarsi della ripetitivit delle sue forme e della vuotezza delle manifestazioni dello spirito oggettivo, traspare gi un primo indizio di quel rifiuto della filosofia hegeliana che Kierkegaard pronuncer nelle sue opere pi tarde.

    Paolo Spinicci

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    Le parole della filosofia, I, 1998

    file:///C|/Documents%20and%20Settings/x.X-IOZ9A.../Desktop/masterizza/Nuova%20cartella/ironia.htm (5 di 5) [25/11/2003 17.43.41]

  • LA TEORIA DELL'UMORISMO IN LUIGI PIRANDELLO

    Le parole della filosofia, I, 1998La teoria dell'umorismo in Luigi Pirandello

    - Paolo Spinicci -

    1. Le fonti. Al nome di Pirandello si lega innanzitutto un'ampia produzione letteraria che abbraccia opere di teatro, racconti e romanzi, e che fa del suo autore una delle figure pi significative del panorama della letteratura europea del Novecento. Tuttavia, accanto al Pirandello letterato, vi anche un Pirandello saggista che approfondisce con gli strumenti della critica e della riflessione filosofica alcuni temi della sua opera letteraria. in questa luce che si colloca L'umorismo (Mondadori, Milano 1986), un saggio pubblicato nel 1908 che raccoglie parzialmente le lezioni tenute da Pirandello all'Istituto Superiore di Magistero di Roma e che si divide n due parti ben distinte: una di carattere storico-letterario, l'altra di natura filosofica. Il libro dedicato alla memoria della buon anima di Fu Mattia Pascal bibliotecario: il Pirandello filosofo si riconnette cos al Pirandello letterato, impedendoci di tracciare un confine troppo netto tra gli ambiti della sua produzione.

    2. L'essenza dell'umorismo. Tra le prime reazioni al saggio pirandelliano vi fu una breve recensione di croce, pubblicata nel 1909 su "La Critica". Croce sembra essere in parte infastidito dallo spettacolo di un letterato che da filosofo affronta un tema - l'umorismo - senza nemmeno soffermarsi su ci che egli aveva a suo tempo scritto su questo argomento. E tuttavia, al di l di queste motivazioni di basso profilo, all'origine della polemica vi una differenza di natura teorica: per Croce, infatti, un'essenza dell'umorismo non vi , poich vi soltanto l'atteggiamento storicamente mutevole che i singoli umoristi assumono nelle loro opere. Vi sono umoristi, ma non l'umorismo: cercare di fissarne l'essenza significa allora, per Croce, perdersi nelle analisi psicologiche tanto care alla cultura positivistica, ma cos lontane dalle prospettive dell'idealismo storicistico verso cui Croce sente di doversi orientare.

    Al contrario, le pagine pirandelliane sono caratterizzate dalla convinzione che un'essenza dell'umorismo vi sia e che debba essere indagata proprio nei termini psicologici suggeriti dalla cultura positivistica ed in particolare da Theodor Lipps - un autore che Pirandello critica, ma da cui almeno in parte dipende. Cos Pirandello si discosta sin da principio da ogni tentativo di rendere conto della natura dell'umorismo nei termini di un'indagine storico-letteraria: a suo avviso, l'umorismo non affatto una forma dello spirito sorta nella letteratura moderna dell'Europa settentrionale, come pure si era pi volte sostenuto. L'umorismo non una categoria

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  • LA TEORIA DELL'UMORISMO IN LUIGI PIRANDELLO

    storica, ma un concetto che circoscrive un comportamento umano relativamente stabile nel tempo e comunque indagabile con gli strumenti dell'indagine psicologica. Su questo punto, dunque, Pirandello vicino allo psicologismo di fine Ottocento, anche se, come vedremo, la riflessione sull'umorismo si staglia su di uno sfondo di natura esistenziale: l'analisi dei meccanismi psicologici dell'umorismo diviene cos una riflessione tipicamente novecentesca su di una struttura di fondo dell'esistenza, su un modo di atteggiarsi dell'uomo rispetto alla propria vita ed al mondo.

    3. Ironia e umorismo: l'Orlando furioso e il Don Quijote. Per venire a capo della natura dell'umorismo, Pirandello segue la via di una caratterizzazione per contrasto: si chiede cio che cosa differenzi l'atteggiamento umoristico da quello ironico. Ora, il materiale che permette di tracciare questa distinzione pu essere ricavato dalla storia della letteratura, e pi precisamente dalla contrapposizione di due grandi opere che affrontano in una differente prospettiva il mondo antico degli ideali cavallereschi: l'Orlando furioso e il Don Quijote. L'Orlando furioso , per Pirandello, il poema ironico per eccellenza. Il sorriso dell'ironia ha una sua funzione negativa: richiama il soggetto dall'oggetto, negandolo, e mostra come l'io non si perda nel mondo che descrive. Questa dunque la funzione del riso cui Ariosto ci invita: Ariosto, scrive Pirandello, descrive infatti un mondo epico cui non crede pi, e lo descrive lasciandoci ogni tanto percepire la sua estraneit ai valori del mondo cavalleresco. Cos, anche senza addentrarsi nella trama dei significati che spettano al concetto ariostesco di finzione, risulta con chiarezza come l'ironia si giochi proprio sul crinale che separa l'illusione della favola dalla sua illusoriet, l'adesione ingenua del lettore alla narrazione dalla sua complicit con l'autore che ne svela la natura fantastica. Pirandello chiarisce bene il suo pensiero con una breve citazione dal poema ariostesco. Ruggiero sull'ippogrifo - questa iperbole della velocit e della leggerezza - e vola alto nelle regioni aeree del cielo. Ma, avverte Ariosto, resta tuttavia un uomo, fatto di greve miscela terrestre: "Non crediate, signor, che per stia / per s lungo cammin sempre sull'ale: / Ogni sera all'albergo se ne gia / schivando a suo poter d'alloggiar male". Nella favola, commenta Pirandello, diviene evidente la realt; il sogno si spezza, poich il sognatore ci avvisa di essere ben desto: il sorriso ironico dell'autore ci strappa alla finzione aerea dell'ippogrifo e ci ricorda la stanchezza dei viaggi e le piccole quotidiane preoccupazioni del viaggiatore.

    Alla funzione negatrice dell'ironia si contrappone la natura intimamente contraddittoria dell'umorismo: dall'Orlando furioso dobbiamo muovere al Don Quijote. Anche le pagine di Cervantes ci fanno spesso ridere, e il riso in questo caso non sorge per ridestarci da qualche finzione, ma per mostrarci nella realt quanto alla realt siano inadeguati i sogni e gli ideali del "cavaliere dalla triste figura". Don Quijote scambia per giganti i mulini a vento, e noi lettori ridiamo per la cecit di quest'uomo imbevuto di favole, per la sua incapacit dio accettare la prosaicit del reale, il suo necessario scarto rispetto ai sogni della nostra immaginazione. E tuttavia il gesto comico del cavaliere che si fa disarcionare da un innocuo mulino a

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  • LA TEORIA DELL'UMORISMO IN LUIGI PIRANDELLO

    vento non solo fonte di riso: ci costringe anche a pensare al nostro rapporto con il mondo, al nostro avere da tanto tempo rinunciato a cercare nel mondo reale il mondo fantasticato.

    Il mondo degli ideali diventato il mondo dei sogni, ed il lettore di Cervantes, non appena si rende conto che ridicola proprio la grandezza e la nobilt di Don Quijote, pu ridere solo di un riso amaro. Il sorriso umoristico pu nascere solo sulle ceneri del riso comico e sorge non appena comprendiamo che nel gesto ridicolo di Don Quijote si fa avanti una critica disperata della realt, una critica che ha nel suo fallimento qualcosa di altamente tragico.

    Di qui possiamo muovere per trarre le prime conclusioni: il riso umoristico non ha la pienezza ingenua della comicit, ma venato da un sentimento contrastante che lo limita e lo contiene. Cos, quando passiamo dalla comicit all'umorismo, il riso si fa amaro: certo, ridiamo ma insieme commiseriamo la sorte di chi pure troviamo ridicolo. Alla base dello stato d'animo che l'umorismo ci procura vi dunque una vera e propria contraddizione emotiva: scherno e compassione si legano insieme e il riso si smorza e si vela di tristezza.

    A questa contraddizione sul terreno emotivo fa da eco e da fondamento la contraddittoriet dei rapporti del soggetto umoristico con il mondo. Per tornare ancora una volta al nostro esempio: come lettori di Cervantes, ridiamo della lotta contro ai mulini a vento perch noi, gente compita, mai ci impegneremmo in un simile sciocco confronto. Eppure, non appena prendiamo le distanze dal mondo di Don Quijote e ci sentiamo cos lontani dalle sue stranezze da poterne ridere tranquillamente, ecco che il suo mondo si fa nuovamente presso di noi: non siamo come Don Quijote, ma siamo pure uomini come lui, siamo forse pi cinici e disillusi, ma egualmente ogni tanto ci abbandoniamo alla dolcezza ingenua dell'incanto. All'ironia e alla sua funzione negatrice si contrappone cos l'umorismo in cui si esprime un atteggiamento apertamente contraddittorio.

    4. Il sentimento del contrario. Nella definizione del concetto di umorismo o meglio nella descrizione di "quell'intimo processo che avviene, e che non pu non avvenire, in tutti quegli scrittori che si dicono umoristi" (ivi, pp. 133-4) Pirandello dipende senz'altro da Lipps, e per Lipps l'umorismo affonda le sue radici nella comicit poich appunto un superamento del comico attraverso il comico.

    Ora, per Pirandello come per altri autori, la comicit sorge dalla constatazione dell'inadeguatezza di un comportamento, di un modo di dire, di un gesto o anche soltanto di un viso: ci basta infatti imbatterci in una donna anziana truccata vistosamente, quasi a suggerire l'immagine di una giovinezza ormai inesorabilmente passata, perch - nota Pirandello - il riso si faccia avanti.- di qui la definizione proposta da Pirandello: la comicit nasce dall'avvertimento del contrario. La realt non come ci si vorrebbe far credere, e ridendo esprimiamo il nostro verdetto di

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  • LA TEORIA DELL'UMORISMO IN LUIGI PIRANDELLO

    condanna sulle apparenze e ribadiamo la loro difformit dal vero.

    Dalla comicit passiamo tuttavia all'umorismo quando il contrasto non pi soltanto avvertito, ma per cos dire colto in tutta la pienezza del suo significato: l'umorismo appunto il sentimento del contrario.

    Non si tratta di definizioni ben scelte, anche perch esse illuminano soltanto l'esito finale di quell'intimo processo che Pirandello ha cuore. Tuttavia, se non ci fermiamo alle parole, ma cerchiamo di far luce sul loro significato, il senso della proposta pirandelliana si fa pi chiaro e convincente. L'umorismo poggia sul terreno mobile della comicit: ha origine dunque dall'avvertimento del contrario e dalla condanna che, ridendo, pronunciamo. Ma l'umorismo superamento della comicit: implica dunque la presenza di un operatore nuovo - la riflessione - che ci permetta di lasciare alle nostre spalle la comicit.

    Due sono le funzioni che la riflessione esercita. La prima consiste nel mettere a distanza noi stessi: la riflessione ci permette di infatti di analizzare freddamente i nostri stati d'animo, ci consente di giudicarli, vagliando e soppesando i motivi che li hanno determinati (ivi, p 135). Di qui il secondo compito cui la riflessione assolve: riflettendo sui nostri stati d'animo, impariamo anche a relativizzarli, a cogliere le ragioni di ci che avevamo precedentemente negato.

    Torniamo allora alla situazione comica da cui avevamo precedentemente preso le mosse: dalla vecchia che si maschera da giovane e che, proprio per questo, desta lo spirito critico della comicit. Questa volta tuttavia il riso non riempie per intera la coscienza, ma cede la scena alla riflessione che ci mostra ci che di ingenuo racchiuso nel gesto di negazione della soggettivit: certo, ridicolo chi non sa accettare il trascorrere el tempo, ma ben vero che basta riflettere un poco per scoprire che tutti cewrchiamo di esorcizzare la vecchiaia e la morte. Ridiamo, ma la riflessione ci costringe a scoprire le ragioni di ci che deriso, apre una breccia nello stato d'animo che ci separa dall'altro e riscopre una comunanza che la comicit aveva negato. Continuiamo ad avvertire il contrario che ci fa ridere, ma ora ne avvertiamo le ragioni e impariamo a scorgere nell'inadeguatezza comica una contraddizione insita nella stessa natura umana:

    la riflessione - commenta Pirandello - lavorando in me, mi ha fatto andar oltre quel primo avvertimento, o piuttosto pi addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed tutta qui la differenza tra il comico e l'umoristico (ivi, p. 135).

    5. La riflessione e la letteratura umoristica. Sottolineare il ruolo della riflessione

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  • LA TEORIA DELL'UMORISMO IN LUIGI PIRANDELLO

    nell'umorismo importante anche perch Pirandello muove di qui per indicare alcuni tratti caratteristici dello stile delle opere umoristiche. Lumorismo chiede che il soggetto non sia dominato dalle passioni: lumorista dovr saper raccontare senza "lasciarsi prendere la mano" dalla storia che viene narrando.

    Di qui alcuni tratti caratteristici della letteratura umoristica. In primo luogo la sua tendenza alle digressioni: lumorismo spezza di frequente lunit della trama per inserire un nuovo e differente punto di vista che permetta di relativizzare lintreccio delle passioni e dei sentimenti. Questo stesso obiettivo pu tuttavia essere raggiunto, in secondo luogo, grazie allintervento diretto dellautore che, commentando in qualche modo gli eventi, ci costringe ad abbandonare la nostra posizione di lettori, immersi nella vicenda, per divenire ad un tratto solidali con una posizione ad essa esterna, con una prospettiva che, proprio per essere sita al di l della trama, pu facilmente divenire umoristica.

    Nel raccogliere queste poche osservazioni, Pirandello sembra pensare ad autori come Manzoni o Sterne: nei tratti che abbiamo appena indicato non sarebbe tuttavia illegittimo scorgere anche alcune delle caratteristiche pi tipiche dello stile pirandelliano.

    6. Lumorismo e la filosofia di Pirandello. Prima di concludere le nostre considerazioni vorremmo chiederci quali sono le ragioni che spingono Pirandello a riflettere con tanto impegno su questo tema. Ora, la risposta a questo interrogativo traspare nelle ultime pagine del suo saggio e pu essere formulata cos: lumorismo un tratto essenziale della condizione umana e fa tuttuno con la filosofia della vita che anche in questo saggio Pirandello fa sua.

    La prima significativa opera in cui Pirandello delinea una filosofia dellesistenza e della condizione umana senzaltro Il fu Mattia Pascal, ed proprio alla buonanima di quel bibliotecario che dedicato il saggio sullumorismo. Si tratta di una scelta su cui opportuno riflettere e che ci costringe innanzitutto a far luce sullelemento umoristico del romanzo, un elemento che traspare con chiarezza nellapologo finale che ci presenta Mattia Pascal nellatto di deporre fiori sulla sua tomba.

    Vi un senso in cui questa scena senzaltro comica: quale gesto pu sembrarci pi ridicolo e sciocco che portare fiori sulla tomba di un vivo? E tuttavia lavvertimento del contrario pu facilmente trapassare nel suo sentimento: non solo Mattia Pascal, ma ogni uomo seppellisce se stesso poich rimane impaniato nelle forme morte dellesistenza, in quelle convenzioni ed abitudini che si sedimentano col tempo, rendendo invisibile il fluire continuo della vita che al di l da esse scorre inesorabilmente.

    In questa filosofia della vita, in cui chiara leco di Bergson o di Simmel, non difficile scorgere la genesi di molti temi pirandelliani, ed anche la sua dottrina

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    dellumorismo affonda qui le sue radici. Sostenere che la vita si persa ed arenata nelle sue morte forme vuol dire infatti alludere ad una situazione, in ultima istanza, comica: luomo diventato prigioniero delle convenzioni e le sue azioni rammentano quelle di un burattino - e il burattino un luogo classico della comicit.

    Dalla comicit allumorismo il passo breve: basta rendersi conto che lirrigidimento della vita che ci spinge a ridere di un qualche personaggio in realt un tratto caratteristico della natura umana. Il riso ingenuo e aperto che sorge non appena cogliamo nei gesti di un uomo la meccanica rigidit del burattino, si vena di tristezza e di amarezza non appena impariamo a ritrovare nel burattino luomo. Latteggiamento umoristico si pone cos, in Pirandello, come il frutto cui conduce unamara filosofia dellesistenza.

    Paolo Spinicci

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    Le parole della filosofia, I, 1998

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    Disco localeLEZIONI SU COMICIT, IRONIA E UMORISMO IN SCHOPENHAUER, KIERKEGAARD, BERGSON E PIRANDELLOARTHUR SCHOPENHAUERComico, societ BergsonIL CONCETTO DI IRONIA IN SREN KIERKEGAARDLA TEORIA DELL'UMORISMO IN LUIGI PIRANDELLO