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Eraclito

FRAMMENTI

a cura di Francesco Fronterotta

con testo greco a fronte

c l A s s I c I g R E c I E l A T I N I

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Proprietà letteraria riservata

© 2013 RCS Libri S.p.A., Milano

ISBN 978-88- - -

Prima edizione BUR Classici greci e latini aprile 2013

Per conoscere il mondo BUR visita il sito www.bur.eu

58 64399 0

Prima edizione digitale 2013 da

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IntroduzIone

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A Chiara,

Se non spera, non troverà l’insperato: ne è difficile la ricerca e ardua la via.

(eraclito, fr. 99)

A Dante, eracliteo

e neanche essi fra loro concludono niente, perché ciò che evitano in ogni modo è di lasciare

che nei loro discorsi alcunché sia saldo e sicuro… (Platone, Teeteto 180a7-b1)

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1. Frammento, testimonianza o citazione: il «testo» delle opere

dei presocratici

L’impiego degli strumenti della filologia, la messa a punto di un’edizione, il concetto stesso di testo pongono evidentemente problemi diversi a seconda degli autori e delle opere presi in considerazione. Peculiare, da tale punto di vista, è il caso di autori e opere antiche, e a maggior ragione di quelle che ci sono pervenute per tradizione indiretta, ossia attraverso la citazione di altri autori e opere posteriori, e in una forma frammentaria: è chiaro, del resto, che le due cose, tradizione indiretta e forma frammentaria di un’opera, vanno spesso insieme, dal momento che un’opera trasmessa per tradizio-ne indiretta è quasi sempre frammentaria (perché l’autore che la trasmette ha di solito interesse a citarne alcuni brani selezionati), sebbene, naturalmente, non sia necessariamente vero il contrario, se anche opere trasmesse direttamente possono risultare frammentarie (per esempio a causa delle vicende storiche della loro trasmissione). Considerazioni di questo genere valgono in generale, come è noto, nel caso dei pensatori presocratici, di cui non possediamo che un certo numero di frammenti trasmessi da autori posteriori, e dunque anche nel caso di eraclito in questione qui. Cosa significa, e quali implicazioni metodologiche ha, allora, predisporre un’edizione, cioè restituire il testo, di un frammento o di una raccolta di frammenti, a partire da autori che lo citano anche

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IV IntroduzIone

molti secoli dopo che è stato redatto? Bisognerà ricorrere alle ovvie competenze linguistiche, filologiche e codicologiche (ed eventualmente papirologiche), ma, se il compito appare già arduo quando disponiamo di opere complete e trasmesse direttamente (per esempio i dialoghi di Platone), si rivelerà ancor più problematico di fronte a semplici «porzioni» di opere trasmesse indirettamente, per le quali è legittimo il dubbio che si possa parlare di un testo originale da restitui- re, per la qualità e per la quantità dei brani preservati, che appaiono decisamente opinabili.

Per quanto riguarda la qualità, infatti, la scelta, divenuta canonica con la raccolta di diels e Kranz, di distinguere per ciascuno dei filosofi presocratici fra le testimonianze biogra-fiche o dottinarie (sezione A dK), i frammenti provenienti dall’opera originale (sezione B dK) e i frammenti di dubbia autenticità o le imitazioni dell’originale (sezione C dK) non è esente da difficoltà, giacché in generale, e lasciando da parte i frammenti dubbi o le imitazioni, normalmente riconoscibili per l’introduzione di termini o concetti abbastanza palese-mente estranei all’originale, il frammento viene identificato rispetto alla (o nella) testimonianza per il fatto che il suo citatore lo riporta facendo intendere, in modo più o meno esplicito, che tale citazione è letterale e diretta oppure nella misura in cui ci si trova nella condizione favorevole di indi-viduare estratti originali più o meno estesi dell’autore citato, per esempio in base ad altre sue citazioni indipendenti. In assoluto plausibile e sensata, una simile distinzione appare tuttavia soggetta a notevoli incertezze e oscillazioni, perché nulla impedisce, e in molti casi ne possediamo anzi prove certe, che il testimone, o citatore, manipoli in varie forme, innanzitutto per errore oppure per ragioni «ideologiche», il brano che cita: si tratterà in tal caso ancora di un fram-mento, cioè di un estratto che si presume di poter derivare dall’opera originale, o sarà più opportuno rassegnarsi, più modestamente ma con maggior rigore, a parlare di citazio-

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IntroduzIone V

ne, che, pur trasmettendo un numero più o meno grande di

termini autentici, non sarebbe metodologicamente corretto

accreditare di una fedeltà integrale all’originale, come invece

suppone per definizione il frammento?

ne segue un’analoga difficoltà dal punto di vista della

quantità e, di conseguenza, della disposizione dei frammen-

ti riconducibili all’opera di un filosofo presocratico: quale

posto, e in quale ordine, avranno occupato i brani che si

presume appartenessero all’opera originale nel suo svolgi-

mento d’insieme? tale ulteriore complicazione si presenta

naturalmente con un significativo grado di variabilità, a

seconda della maggiore o minore quantità di dati, letterali

o testimoniali, in nostro possesso per ciascun pensatore ed

è di nuovo difendibile l’opzione, adottata sistematicamente

da diels e Kranz, di proporre, sulla base delle ricostruzioni

delle dottrine presocratiche suggerite dai testimoni antichi,

un assetto coerente dei materiali disponibili, che ne fornisca

cioè una ragionevole sistemazione capace, per quanto con-

getturalmente, di riprodurre in forma schematica il piano

«originale» dell’opera. Va da sé, però, anche al di là del

carattere eminentemente interpretativo ed evidentemente

opinabile di una scelta del genere, che essa risulta ancor più

debole e meno solidamente fondata nel caso di quei pen-

satori, come appunto eraclito, per i quali già nell’antichità

si è dubitato di poter individuare un criterio univoco e pur

minimamente oggettivo e condiviso nella comprensione e

nell’esposizione della loro dottrina: donde la presentazione

dei frammenti eraclitei nella raccolta di diels e Kranz, che

assomiglia a una dichiarazione di resa, secondo l’ordine

alfabetico del nome dei citatori, senza perciò pretendere di

offrire nessuna organizzazione di questi materiali.

Già Hermann diels era d’altra parte consapevole della

difficoltà relativa all’esatta definizione dello statuto proprio

dei frammenti in rapporto alle opere originali dei presocratici,

che doveva tuttavia contemperare con l’esigenza program-

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VI IntroduzIone

matica di realizzare una raccolta possibilmente completa, e a un tempo ragionata in base a criteri di classificazione in qualche misura funzionali, di tali materiali, giacché appare piuttosto chiaro il carattere solo ideale e regolativo del tentativo di recuperare un testo originale del VI o del V secolo a.C. a partire da citazioni di autori vissuti anche un millennio più tardi, le cui intenzioni e il cui contesto teorico, che giustificano la citazione, non sono certo ininfluenti per la citazione stessa. non è dunque sufficiente che un citatore dichiari di riportare un certo brano, più o meno esteso, di un predecessore, ma occorre anche valutare quali siano gli scopi, gli argomenti e la tesi, a sostegno dei quali o contro i quali, egli evoca l’autorità del pensatore citato. e ciò non esaurisce ancora il numero delle variabili incontrollabili, soggettive e oggettive, che si frappongono alla restituzione del testo originale, tanto che si può sospettare che risulti costitutivamente indisponibile un testo originale al quale aspirare, se è vero che, per esempio, accanto a un Simplicio che dichiara di citare un’ampia serie di versi di Parmenide, proprio perché, ai suoi tempi, l’opera parmenidea era diffi-cilmente reperibile – il che parrebbe testimoniare in favore dell’attenzione filologica e della fedeltà testuale di Simplicio all’originale (o a un originale?) in suo possesso – disponiamo invece di un Porfirio, ma il caso rischia di non essere isolato, che riconosce esplicitamente di aver ritoccato i contenuti delle sue citazioni, pur giudicando di non averne compromesso il significato d’insieme, per correggere errori, chiarire alcune espressioni, aggiungere parole per completare il metro di un verso o eliminare termini inutili.1

1 Cfr. Simplicio, Physica 144.25 diels; Porfirio fa questa dichia-razione all’inizio del De philosophia ex oraculis haurienda (oggi perduto, ma di cui si conoscono alcuni frammenti, editi da G. Wolff nel 1856, attraverso le citazioni di eusebio di Cesarea e di Agostino), riferendosi specificamente a certi oracoli di cui appunto corregge il testo per ragioni di chiarezza.

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IntroduzIone VII

negli ultimi decenni è emersa perciò la tendenza a margi-nalizzare la nozione stessa di frammento in favore di un uso più estensivo di quella di citazione, essenzialmente al fine di rendere esplicita così la rinuncia a un testo autorale, originale o ideale, e facendo invece prevalere in modo esclusivo l’esi-genza di ricostruire, sul piano storico e concettuale, il signifi-cato e i limiti delle parole attribuite a un autore citato, anche indipendentemente dall’accertamento immediato della loro autenticità letterale, come necessariamente embedded, ossia in quanto appartengono indissolubilmente al contesto della citazione che ne effettua il citatore, che può essere intervenuto a più livelli nella sua citazione, sulla forma o sui contenuti, volontariamente o involontariamente, consapevolmente o inconsapevolmente: un’esigenza, questa, che evidentemente chiama in causa, oltre ai tradizionali strumenti linguistici e filologici, un’approfondita conoscenza storico-filosofica che non sia limitata all’autore citato, ma che riguardi anche e soprattutto il citatore, per poterne svelare anacronismi o manipolazioni, falsificazioni o reinterpretazioni, perché, se il frammento, in quanto porzione di un testo originale, può teoricamente essere spiegato di per sé e in relazione al suo autore, la nozione stessa di citazione impone di integrare l’esercizio filologico con considerazioni di carattere «ideo- logico», nella determinazione della prospettiva, appunto, ideologica che appartiene al citatore ed eventualmente alla storia e alla tradizione di cui il citatore fa parte.2 un’attitudine

2 Si veda in proposito C. osborne, Rethinking Early Greek Phi-losophy: Hippolytus of Rome and the Presocratics, duckworth, London 1987, p. 10, che sostiene il principio secondo cui «bisogna leggere dei testi calati nel loro contesto (embedded) piuttosto che dei testi frammentari»; ma cfr. pure i rilievi di Pradeau, pp. 21-23, che intitola significativamente una sezione dell’introduzione alla sua raccolta eraclitea: Lire une œuvre manquante. Apparentemente di segno opposto, ma analoga nei suoi effetti, la proposta di A. Laks, Du témoignage comme fragment, ora in Id., Histoire, doxographie,

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VIII IntroduzIone

di questo genere conduce a una significativa riduzione della

quantità di frammenti propriamente detti o, se assunta con

rigore, alla loro completa scomparsa, al contempo ridimen-

sionando, o sciogliendo, il problema dell’accertamento della

loro autenticità, ma comporta un simmetrico ampliamento

della quantità di citazioni o testimonianze, dovendosi con

ciò intendere l’insieme di materiali informativi relativi a un

pensatore presocratico, di valore, pertinenza e attendibilità

estremamente variabili.3

Il criterio adottato nella presente raccolta rappresenta, se

possibile, una mediazione fra le opportune considerazioni

intorno allo statuto dei frammenti embedded nel loro con-

testo, purché non intese come un alibi per un’aprioristica

rinuncia alla ricerca filologica, aperta e sempre soggetta a

revisione, di «estratti» autentici dell’opera originale, e la neces-

sità metodologica di tale ricerca: che si parli di frammento

o di citazione, ciò che giudico irrimediabilmente perduto e

irraggiungibile è il testo dell’opera originale, e con esso la

struttura logica e argomentativa del suo svolgimento, il suo

piano d’insieme e la sua articolazione formale, ma non le sue

singole e specifiche porzioni che, con la dovuta prudenza e

con un grado di maggiore o minore sicurezza, possono essere

a mio avviso, almeno nel caso di eraclito, ragionevolmente

vérité. Études sur Aristote, Théophraste et la philosophie présocra-tique, Peeters, Louvain-La-neuve 2007, pp. 27-55, secondo il quale, se i frammenti dei filosofi presocratici sono sempre embedded nelle testimonianze dottrinarie dei loro citatori, allora anche le testimo-nianze possono assurgere al rango di frammenti o almeno come tali vanno esaminate e utilizzate.

3 Questa è la scelta operata per esempio nell’imponente raccol-ta dei materiali relativi all’atomismo antico curata da W. Leszl, e significativamente intitolata I primi atomisti. Raccolta dei testi che riguardano Leucippo e Democrito, olschki, Firenze 2009, di cui l’au-tore fornisce un’argomentata giustificazione alle pp. XLV-XLVIII e senza con ciò rinunciare al tentativo di identificare, all’interno delle testimonianze, delle vere e proprie citazioni letterali o frammenti.

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IntroduzIone IX

circoscritte. tenterò perciò di servirmi sistematicamente qui dell’analisi del contesto delle citazioni eraclitee raccolte, per ricavarne elementi e indicazioni per la loro comprensione e interpretazione, così traendo positivamente spunto dalla loro condizione embedded e abbandonando di conseguenza il concetto, quasi metafisico, di frammento come sequenza certa di parole autentiche dell’autore estratte da un altrettanto metafisico testo originale di cui sarebbe possibile ricostruire la struttura d’insieme; ma manterrò una scansione grafica e editoriale tradizionale, nell’identificazione e nella numerazione dei materiali eraclitei accolti, tradotti e commentati, rispetto a quelli che, anche in base al confronto critico con le principali edizioni di riferimento, possono essere considerati come i loro rispettivi contesti testimoniali. I frammenti eraclitei qui presen-tati, con l’etichetta usuale che ne consente un più immediato riconoscimento nel paragone con le altre edizioni e traduzioni correnti, sono quindi da me concepiti, come risulterà chiaro via via, come altrettante citazioni verosimilmente molto prossime ai corrispondenti brani dell’opera originale o comunque con-tenenti termini e sequenze di termini possibilmente autentici.

rimane, particolarmente acuta nel caso di eraclito, la seconda difficoltà enunciata poco sopra, relativa alla quantità e alla disposizione dei materiali ammessi come autentici, per l’assenza di un criterio univoco nella ricostruzione e nell’esposizione delle sue dottrine, sia interno (come avviene per esempio per i frammenti di Parmenide, nei quali pare di riconoscere un ordine dottrinario e perfino letterario abbastanza lineare) sia esterno (per quanto, quest’ultimo, eventualmente soggetto all’interpretazione dei testimoni antichi), cui si associa la proverbiale «oscurità» che gli è attribuita.

4 Ciò impone all’editore dei frammenti eraclitei una

scelta congetturale e pertanto, in buona misura, soggettiva, che spazia dall’adozione di una classificazione soltanto alfabetica

4 Su questo punto, cfr. infra, § 5.

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X IntroduzIone

in base al nome dei citatori (così, come già ricordato, nella raccolta di diels e Kranz) fino alla pretesa di ristabilire la disposizione «originale» dell’opera (questo il tentativo com-piuto da S.n. Mouraviev).

5 Fra questi due estremi si collocano

naturalmente una serie di opzioni intermedie: quella da me privilegiata (che riproduce la scelta operata nell’edizione di M. Marcovich) consiste nel raggruppare i frammenti conservati in Sezioni tematiche, costituite, evidentemente su base interpretativa, intorno ad altrettanti capitoli dottrinari che ritengo di poter individuare nella riflessione di eraclito; un’analoga partizione è rispecchiata nel § 4 di questa Intro-

duzione, dedicato all’illustrazione delle dottrine eraclitee.

2. L’immagine di Eraclito

Le difficoltà nella comprensione del pensiero di eraclito, cui riconduce la controversia intorno alla classificazione e al raggruppamento dei frammenti pervenutici della sua opera, sono ben illustrate dai prismi interpretativi moderni, che ne colgono e ne valorizzano gli aspetti più vari.

A Hegel si deve l’evocativa immagine di eraclito come approdo della filosofia, che finalmente tocca terra dopo un’in-certa navigazione e che induce il filosofo tedesco alla nota e impegnativa affermazione che «non vi è proposizione di eracli-to che io non abbia accolto nella mia Logica».

6 La «scoperta»

5 dell’edizione eraclitea di Mouraviev, tuttora in corso, dirò infra, nella Nota al testo, § 1.

6 Cfr. G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Phi-losophie, dunker und Humblot, Berlin 1833, vol. I, erster theil, d: Heraklit (trad. it. Lezioni sulla storia della filosofia, a cura di e. Codignola e G. Sanna, La nuova Italia, Firenze 1932, pp. 306-07); e, in proposito, la sintesi di L. Senzasono, Eraclito in Hegel, in Atti del Symposium Heracliteum 1981, a cura di L. rossetti, vol. II, edizioni dell’Ateneo, roma 1983, pp. 131-48.

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IntroduzIone XI

di eraclito consisterebbe nella concezione dell’assoluto non più come astrazione dell’universale indeterminato, ma nella concretezza del processo dialettico: l’essere in senso proprio non consta di un pensiero immediato e vuoto, ma della deter-minazione del divenire, nel suo svolgimento, che riempie «l’idea filosofica nella sua forma speculativa» realizzando l’unità dei termini opposti. La tesi del divenire e dell’opposizione, o piuttosto dell’originarietà e della primarietà del divenire e dell’opposizione, rappresentano, secondo Hegel, la conquista di eraclito, che svela la funzione essenziale della negazione immanente al processo dialettico: l’unità degli opposti non produce l’annullamento o il superamento della negazione, che sarebbe identico alla negazione stessa, ma una sintesi che tiene insieme, e in tal senso sintetizza, i termini opposti, appunto in virtù della loro reciproca negazione, sicché ogni termine contiene «nel suo concetto ciò che gli è opposto» e «l’identità di ogni cosa consiste appunto nell’essere essa l’altro dall’altro in quanto suo altro».

7 Quanto emerge nell’esposizione hege-

liana della tesi eraclitea del divenire è dunque un’elaborata e fruttuosa descrizione della potenza della negazione, da cui discende, appunto attraverso la distinzione e la separazione dei negativi, la loro totalità concreta e dinamica.

Assai diversa, e tutta incentrata sulle sue implicazioni fisico-cosmologiche, l’interpretazione della tesi del diveni-re suggerita da nietzsche.

8 «ecco l’intuizione di eraclito:

non esiste nulla di cui si possa dire “è”. Conosce solo ciò che diviene, ciò che scorre. Considera la fede nella per-

7 Hegel, Vorlesungen, cit., pp. 312-14.8 Alla più contratta trattazione de La filosofia nell’epoca tragica

dei greci occorre accostare le pagine dedicate a eraclito nelle lezioni su Die Vorplatonischen Philosophen, tratte da una serie di corsi universitari tenuti da nietzsche presso l’università di Basilea negli anni 1872-1873: si veda perciò F. nietzsche, Les philosophes prépla-toniciens. textes établis à partir des manuscrits, présentés et annotés par P. d’Iorio et F. Fronterotta, L’éclat, Combas 1994, pp. 139-62.

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XII IntroduzIone

manenza come un errore e una forma di inettitudine. Ciò che diviene è in un’eterna trasformazione. (...) tutte le qualità delle cose, tutte le leggi, ogni nascita e morte sono la manifestazione continua dell’esistenza dell’uno». La realtà naturale si configura perciò, nella lettura nietzscheana di eraclito, come un grandioso scenario conflittuale, che nel suo procedere incessante e regolare ricorda un mare in tempesta o lo sconvolgimento prodotto dal terremoto: nessun significato prestabilito e preorientato, nessuna teleo- logia, nessun ordine provvidenziale, ma semplicemente l’esplicazione ininterrotta di una giustizia cosmica che si identifica con la regolarità immanente del conflitto e del divenire, fornendo così una feconda ipotesi di partenza, estranea finalmente a qualunque pregiudizio mitologico, alla posteriore riflessione scientifica.

A partire dai molteplici significati del verbo greco lev-gein, «dire» e «parlare», naturalmente, ma ancor prima «porre», «raccogliere» e «riunire», Heidegger intende il lovgoı eracliteo precisamente come l’atto del porre, por-tandolo alla presenza, ciò che è velato o nascosto e che viene così svelato e condotto alla luce. A una simile lettura si trova immediatamente associata la celebre concezione heideggeriana della ajlhvqeia appunto come «svelamento», talvolta paragonata a una «radura» che a poco a poco si scopre nel mezzo di un bosco e ne dirada l’oscurità (con Lichtung, «radura», che deriva dalla stessa radice del termine Licht, «luce»): sarebbe in questa ottica che il lovgoı eracliteo contribuisce a interpretare le ambiguità che avvolgono la comprensione della realtà della natura – che «tende a nascondersi» (come vuole il fr. 60 [123 dK; 8 Marc.]) – e il solo indiretto «significare» del dio Apollo (del fr. 59 [93 dK; 14 Marc.]). L’intreccio, o l’unione, di tutte le cose, lo e{n dei pavnta, è dunque ciò cui si attinge cogliendo l’autentico significato della riflessione di era-clito, ponendosi all’ascolto del lovgoı, che delle cose che

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IntroduzIone XIII

sono non si limita a indicare la dimensione ontica, come altrettanti enti o «oggetti» gettati nel mondo, ma rivela la dimensione propriamente ontologica del loro essere che si manifesta attraverso l’indicazione di una serie di nomi, che sono i nomi della stessa pienezza essenziale, «fulmine», «fuoco», «armonia», «guerra», «contesa», che restituiscono la profonda e autentica identità dell’essere.

9

Filosofo del negativo e della contraddizione, padre di una fisica e di una cosmologia protoscientifiche fondate sul divenire e sul movimento, aurorale pensatore all’ascolto del lovgoı dell’essere, in base alle impegnative letture solo evocativamente ricordate, eraclito oppone resistenza a qua-lunque riduzione interpretativa che tenti di definirne i tratti dottrinari, non solo per il carattere frammentario della nostra conoscenza della sua opera e della sua riflessione o per le suggestioni che il carattere oggettivamente sentenzioso del suo lascito ha ispirato nei suoi interlocutori moderni, ma già per l’immagine unilaterale che ce ne forniscono a loro volta gli «eraclitismi» antichi, con le complesse e raffinate operazioni esegetiche di confutazione o appropriazione cui il pensiero di eraclito è stato sottoposto in alcuni momenti cruciali della tradizione filosofica greca.

9 oltre ai corsi universitari raccolti in M. Heidegger, Heraklit. 1 Der Anfang des abendländischen Denkens. 2. Logik. Heraklits Lehre vom Logos. Freiburger Vorlesungen SS 1943 und SS 1944, a cura di M.S. Frings, Klostermann, Frankfurt 1979 (trad. it. Eraclito. L’inizio del pensiero occidentale. Logica. La dottrina eraclitea del Logos, Mursia, Milano 1993), a eraclito fu dedicato il celebre seminario di Heidegger e Fink dell’inverno 1966-1967 presso l’università di Fri-burgo: M. Heidegger-e. Fink, Heraklit. WS 1966-1967, Klostermann, Frankfurt 1970 (trad. it. Eraclito, a cura di A. Ardovino, Laterza, roma 2010), su cui si vedano J. Bollack-H. Wismann, Heidegger l’incontournable, in «Actes de la recherche en Sciences Sociales» 5-6 (1975), pp. 157-61.

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XIV IntroduzIone

2.1 Il divenire e gli opposti: la dossografia platonico-aristotelica

Platone, infatti, da giovane, fu prima seguace di Cratilo e delle

dottrine eraclitee, secondo le quali tutte le cose sensibili scorrono

sempre, sicché di esse non è possibile scienza, e conservò queste

opinioni anche successivamente; d’altra parte Socrate si interessa-

va di etica, e non della natura nel suo insieme, e nell’etica cercava

l’universale, per primo avendo posto mente alle definizioni. e

Platone accolse questa dottrina, ma ritenne, per via della tesi

eraclitea, che le definizioni si riferiscano non alle cose sensibili,

ma ad altre cose, perché sarebbe impossibile che una definizio-

ne universale riguardi uno dei sensibili che mutano sempre. e

chiamò allora questi altri enti «idee», sostenendo che i sensibili

sussistono accanto a esse e che in base a esse sono denominati,

in modo che le cose molteplici hanno lo stesso nome delle idee

per «partecipazione». (Aristotele, Metafisica I 6, 987a32-b10)

Questa celebre testimonianza di Aristotele intorno alla for-mazione filosofica di Platone costituisce il principale fonda-mento interpretativo per il cosiddetto eraclitismo di Platone e, d’altro canto, ben corrisponde ai numerosi spunti teorici che al nome di eraclito sono associati nei dialoghi platonici e nel corpus aristotelico.

10 tutte le indicazioni pertinenti con-

10 raccolgo e discuto nel loro insieme i passi platonici e ari-stotelici pertinenti nella n. 1 al fr. 25 [12 dK; 40 Marc.]. Gli studi che hanno fornito l’impostazione standard della questione del rapporto di Platone con l’eraclitismo sono, in tempi recenti, quelli di t. Irwin, Plato’s Heracleiteanism, in «Philosophical Quarterly» 27 (1977), pp. 1-13, e di C.H. Kahn, Plato and Heraclitus, in «Pro-ceedings of the Boston Area Colloquium in Ancient Philosophy» 1 (1977), pp. 241-58; mentre un riesame critico del problema, con l’opportuno aggiornamento bibliografico, si trova in M. Adomenas, The Fluctuating Fortunes of Heraclitus in Plato, in Qu’est-ce que la philosophie présocratique?, a cura di A. Laks e C. Loguet, Presses univ. du Septentrion, Villeneuve d’Ascq 2002, pp. 419-47, e in e. Hülsz Piccone, Flujo y logos. La imagen de Heráclito en el Cratilo y el teeteto de Platón, in Nuevos Ensayos sobre Heráclito, Actas del

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IntroduzIone XV

vergono infatti nel riflettere un’immagine di eraclito come pensatore del divenire, la cui tesi può essere riassunta, come Platone fa per esempio nel Cratilo (cfr. solo 401d-402a) e nel Teeteto (cfr. soprattutto 180a-183a) e Aristotele nella Fisica

(cfr. per esempio VIII 3, 253b9; VIII 8, 265a2; ma anche De

caelo III 1, 298b2) e nella Metafisica (IV 5, 1010a7-15), nella nota formulazione del flusso perenne di tutte le cose, da cui deriva l’impossibilità di pensare o dire alcunché di stabile e determinato, così di fatto minando la radice stessa del pensiero e del linguaggio: se «nulla permane» (oujde;n mevnei), ma «tutto scorre» (pavnta cwrei'n) ed è «trascinato via» (fevresqai) nel procedere incessante (ijevnai) di un movimento inarrestabile (kinei'sqai), le cose che sono si trovano assimilate alla corrente di un fiume (potamou' rJoh'/) nel quale «non si può entrare due volte» (di;ı ejı to;n aujto;n potamo;n oujk a]n ejmbaivhı), perché, appunto mutando a causa del divenire che lo caratterizza, da una volta all’altra esso è già altro e di altro aspetto, sicché neanche può andare soggetto a conoscenza, descrizione e definizioni stabili – una conclusione, questa, che gli eraclitei posteriori, fra i quali, nei resoconti di Platone e Aristotele, spicca il nome di Cratilo, avrebbero ulteriormente ristretto, rimproverando a eraclito che, se davvero il divenire del tutto è assunto con rigore, non è possibile fare ingresso nel suo flusso, cogliendone e fissandone le determinazioni, neanche «una sola volta» (oujd ja{pax), così giungendo a un’assoluta rinuncia all’espressione linguistica che avrebbe condannato i seguaci di eraclito all’estrema conseguenza di una comunicazione solo gestuale e al dissolvimento di ogni forma determinata e stabile, comprese dunque quelle di una dottrina stabilita con i relativi maestri, discepoli e scuole.

11 ora, come Aristotele

segundo Symposium Heracliteum, a cura di Id., unAM, Mexico 2009, pp. 361-90.

11 Che venga distinta da eraclito una posteriore generazione di suoi seguaci, che avrebbero difeso una versione più radicale della

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XVI IntroduzIone

precisa (in Metaph. IV 5, 1010a1-12), poiché eraclito, con tutti i pensatori presocratici, non riteneva vi fossero altri enti o generi di enti oltre a quelli sensibili, applicò la tesi del dive-nire appunto all’ambito del sensibile, seguito, su questo punto, da Platone, che avrebbe però a sua volta introdotto, proprio per tale ragione e per sfuggire a un esito «eracliteo» radicale, l’ipotesi di un ambito dell’essere distinto e superiore al piano sensibile cui il divenire è confinato, di natura intellegibile e perciò contrapposto al primo e suscettibile di costituire l’og-getto di riferimento stabile e immutabile del pensiero e del linguaggio, ossia la teoria delle idee. Con ciò eraclito, e Platone nella misura in cui ne accoglie la tesi, avrebbe compromesso la possibilità stessa di una scienza della natura, se nessuno degli enti naturali «è» propriamente, in quanto invece diviene sempre, adottando una prospettiva in cui tutte le cose sono indistinguibili e indistinte e dunque equivalenti le une alle altre o, più esattamente, eternamente mutevoli le une nelle altre, come Aristotele gli imputa particolarmente nei passi citati della Fisica e del De caelo (il che non impedisce ad Aristotele di attribuire a eraclito alcune opinioni di natura cosmologica o psicologica: cfr. infra, rispettivamente, i §§ 4.3 e 4.5).

dottrina del divenire, appare chiaro, nel Teeteto, in 179d, dove si afferma che la tesi del divenire universale si diffonde «in Ionia per ogni dove (peri; me;n th;n jIonivan ... pavmpolu), visto che i seguaci di Eraclito (oiJ ... tou' JHrakleivtou eJtai'roi) si fanno corifei di que-sta dottrina con notevole vigore»; ed è inoltre significativo che tali eraclitei posteriori, se attivi in Ionia, non possano essere identificati con Cratilo, di cui si deve invece arguire, in base alla testimonianza aristotelica, che abbia operato ad Atene, se ha avuto Platone stesso come discepolo (Metaph. I 6, 987a32-b1). Proprio su Cratilo, del resto, non possediamo informazioni affidabili che non provengano essenzialmente dai dialoghi platonici e dai riferimenti aristotelici, che da Platone parzialmente dipendono: per alcune ipotesi relative al suo ruolo nell’elaborazione e la diffusione delle tesi eraclitee, cfr. F. Fronterotta, I fiumi, le acque, il divenire. Su Eraclito, frr. 12, 49A e 91 DK (40, 40c2, 40c3 Marcovich), in «Antiquorum Philosophia» 6 (2012), pp. 71-90, p. 79, n. 2.

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IntroduzIone XVII

un altro gruppo di riferimenti, quantitativamente più limi-tati, ci informano dell’attenzione di Platone e di Aristotele per la dottrina eraclitea dell’unità dei termini opposti, che viene espressa, più esattamente, nella forma della concordanza, o concordia, di termini discordanti, o discordi, che, pur molte-plici, convergono nell’unità, a sua volta rappresentata come una condizione di armonia.

12 Particolarmente, nel Simposio

(187a-b) e nel Sofista (242d-e), Platone attribuisce a eraclito l’affermazione che l’uno (to; e{n) o l’essere (to; o[n) presen-tano tratti «discordanti» e «concordanti», nella misura in cui è appunto «ciò che discorda» (diaferovmenon) che finisce per risultare «concorde con se stesso» (auJtw'/ xumfevresqai), il che permette di considerare eraclito in una posizione eccentrica rispetto alla generale classificazione dei presocra-tici stabilita da Platone fra monisti e pluralisti rispetto alle loro opinioni sulla natura e sulla «quantità» delle cose che sono, giudicandolo, insieme a empedocle ma in forma più rigorosa, sostenitore di una concezione a un tempo monista e pluralista dell’essere, per cui cio che è «è sia molti sia uno» (to; o[n pollav te kai; e{n), per la molteplicità che sorge in esso a causa della sua discordanza da sé e per l’unità che in esso è ristabilita in virtù della sua concordanza con sé; all’esito finale della concordanza, e come compimento dell’opposi-

12 Presento e discuto queste testimonianze nella n. 1 ai frr. 14 [51 dK; 27 Marc.] e 14a [8 dK; 27d1-28b1 Marc.]. La concezione eraclitea degli opposti nelle testimonianze platonico-aristoteliche è ripercorsa ed esaminata da J.J. Wunenburger, La dynamique héraclitéenne des contraires et la naissance du mobilisme universel selon Platon, in «Les études philosophiques» (1976), pp. 29-47, da r. Wardy, The Unity of Opposites in Plato’s Symposium, in «oxford Studies in Ancient Philosophy» 23 (2002), pp. 1-61, e da e. Hülsz, Plato’s Ionian Muses: Sophist 242d-e, in Plato’s Sophist Revisited. Papers presented at the International Spring Seminar on Plato’s Sophist (26-31 May 2009, Centro de Ciencias de Benasque «Pedro Pascual», Spain), a cura di B. Bossi e t.M. robinson, de Gruyter, Berlin (in corso di stampa).

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XVIII IntroduzIone

zione e del conflitto fra i termini che la realizzano, Platone associa inoltre l’immagine dell’armonia musicale, in cui si produce l’equilibrio della melodia a partire dal contrasto, un’armonia che Aristotele, nell’Etica Nicomachea (VIII 1, 1155b4), qualifica come «bellissima» (kallivsthn).

È inevitabile chiedersi a questo punto se vi sia una relazio-ne, e quale sia, fra la dottrina del divenire e la tesi dell’unità o della concordanza dei termini opposti, entrambe attribuite a eraclito da Platone e Aristotele, come abbiamo appena visto, ma senza nessuna connessione esplicita, il che rende ogni ipotesi in proposito essenzialmente speculativa. In un passo del Teeteto (152d), che è stato utilizzato in tale ottica,13 alla tesi del divenire è effettivamente ricondotto l’esito con-clusivo che nessuna cosa, nel flusso perenne, può apparire ed essere una soltanto, univocamente determinata e denominata, perché si rivelerà sempre piccola e grande insieme, pesante e leggera e così via, transitando eternamente dall’una all’altra condizione, in modo che, mutando tutte le cose le une nelle altre, pare lecito supporre che è nell’ambito del divenire, e per suo effetto, che le cose che sono e fra esse i termini opposti e «discordanti» giungono a unificarsi in una prospettiva di indifferenziata «concordia». In tal caso, la tesi dell’unità dei termini opposti si presenterebbe evidentemente come una conseguenza o un corollario ristretto della più generale dot-trina del divenire radicale della realtà.14 Va notato tuttavia che

13 Cfr. Mondolfo-tarán, pp. CXXXIX-CXLII, in cui viene offerta una più ampia disamina dei passi platonici pertinenti, con alcuni riferimenti bibliografici.

14 tornerò infra, nel § 4.2, sul rapporto fra la tesi del divenire e la dottrina dell’unità dei termini opposti, qui considerato rispetto alla testimonianza di Platone, di fatto capovolgendo la conclusione appena delineata e argomentando in favore dell’ipotesi che sia piuttosto il divenire, nella riflessione di eraclito, a rappresentare una conseguenza o un corollario ristretto della più generale tesi dell’unità degli opposti.

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IntroduzIone XIX

l’affermazione del Teeteto pare assumere un profilo e un valore estensivi, perché non si trova limitata al caso degli opposti, che ne sono un esempio specifico, ma viene esplicitamente riferita a tutte le cose, come è confermato dalla conclusione del passo in cui si ribadisce che ogni determinazione può essere attribuita a ogni ente, se «nulla è mai, ma sempre diviene»: non vi è dubbio, naturalmente, che anche i termini opposti siano coinvolti in un simile esito, ma non essi soltanto. Inoltre, occorre osservare che, nell’evocare la tesi dell’unità o della concordanza degli opposti, tanto Platone quanto Aristotele indicano come sua conseguenza una condizione di equilibrio e di armonia che non si vede come potrebbe risultare dal perenne divenire del flusso di tutte le cose, che nega invece ogni identità determinata in un’unità indifferenziata. Infine, quando Aristotele stabilisce la diretta derivazione, dall’assunto eracliteo del divenire, della negazione del principio di non contraddizione, per cui ogni cosa finisce per essere e non essere a un tempo o per essere a un tempo vera e falsa – su cui tornerò subito oltre – non sembra riconoscere nessun esplicito collegamento con la tesi dell’unità degli opposti. nella testimonianza platonico-aristotelica le due dottrine eraclitee del divenire e dell’unità degli opposti sono trattate insomma come fra loro sostanzialmente indipendenti, anzi, a ben vedere, perfino come potenzialmente contraddittorie, se dalla prima discende una prospettiva di generale confusione e indistinzione di tutte le cose (compresi gli opposti), mentre la seconda suscita armonia, ordine e bellezza.

Ciò che d’altro canto emerge con assoluta chiarezza da queste testimonianze è la forte accentuazione delle implica-zioni epistemologiche della tesi del divenire, che conduce a negare la possibilità di ogni forma di conoscenza e di discorso intorno alle realtà che, coinvolte nel flusso, perdono qualun-que profilo determinato per sovrapporsi l’una all’altra (e con esse come detto, ma non in modo peculiare, anche i termini opposti), con una «mossa» espressamente attribuita agli

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XX IntroduzIone

eraclitei da Platone (cfr. soprattutto Theaet. 180a-183a) e da Aristotele (cfr. specialmente Metaph. IV 5, 1010a7-15); e vi è, ancora, la decisiva operazione teorica, compiuta in forma articolata dallo stesso Platone nel Teeteto (cfr. 151e-152e), che porta a stabilire una relazione fra un relativismo epistemolo-gico soggettivo, quello associato alla tesi dell’homo mensura di Protagora, dagli esiti potenzialmente scettici – se ciò che a ciascuno appare è vero, allora tutto è vero e a un tempo nulla è vero –, e un relativismo epistemologico oggettivo, dal marcato carattere dogmatico, ponendo la tesi eraclitea del divenire come ontologia soggiacente all’epistemologia protagorea, vale a dire offrendo un fondamento ontologico relativista (poiché, nel perenne divenire del tutto, nulla è e ogni cosa è identica, perché indifferenziata, a tutte le altre) a un’epistemologia relativista (poiché, nel perenne divenire del tutto, nulla è vero e ogni cosa, di per sé identica a tutte le altre perché da queste indifferenziata, è come appare a

ciascuno), se si afferma che la verità delle apparenze si basa sul fatto che le cose divengono sempre proprio come di volta in volta appaiono. ed è appunto «questo» eraclito, più che il sostenitore dell’unità dei termini opposti che si accordano in armonia, a costituire il bersaglio della polemica di Aristotele, che lo dipinge come uno degli avversari del principio di non contraddizione (cfr. per esempio Metaph. IV 7, 1012a24-26, e 8, 1012a33-b2), anch’egli, non a caso, accostandolo a Pro-tagora. Al di là della pertinenza di questa critica,

15 rimane

però, a mio avviso, il problema di coerenza che si pone, per Aristotele, nel conciliare la negazione del principio di non contraddizione da parte di eraclito, che dipende dall’ammis-sione del divenire radicale e dal conseguente relativismo che

15 Cfr. il resoconto di S. Scolnicov, Eraclito e la preistoria del principio di non-contraddizione, in Atti del Symposium Heracliteum 1981, a cura di L. rossetti, vol. I, edizioni dell’Ateneo, roma 1983, pp. 97-110. Sulla questione tornerò infra, nel § 4.2.

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IntroduzIone XXI

coinvolgono anche i termini opposti, con l’idea, riconosciuta essa pure come eraclitea, che la discordia fra i termini opposti produce invece «bellissima armonia».

A questo eraclito, relativista radicale e negatore del princi-pio di non contraddizione, si attagliano forse i rilievi polemici che Parmenide rivolge ai «mortali», nei frr. 6.5-9 e 7.1 dK, stigmatizzando l’atteggiamento di quanti, con «doppia testa» (divkranoi), giudicano «essere e non essere come un’identica cosa e come una diversa» (to; pevlein te kai; oujk ei\nai taujto;n kouj taujtovn) e non cessano di ripetere che «sono cose che non sono». non è questo il luogo per ripercorrere il vastissimo dibattito su tale controversa questione, né tantomeno di suggerirne una soluzione;

16 rimango però abbastanza scettico

sulla possibilità di allusioni critiche a eraclito da parte di Parmenide: vi sono infatti, quali che siano esattamente le date

16 tale dibattito, basato su una serie di congetture sulle rispettive cronologie di eraclito e di Parmenide e su un esame del linguaggio che quest’ultimo utilizza nella sua condanna delle opinioni dei mortali, e della sua pertinenza in chiave polemica nei confronti di eraclito, ha fortemente oscillato da una convinzione quasi fideistica sull’effettiva relazione fra i due filosofi (che si trova recentemente riecheggiata in Parmenide di elea, Poema sulla natura, a cura di G. Cerri, Bur, Milano 1999, pp. 205-09) alla sua radicale negazione (cfr. per esempio i notevoli argomenti proposti da J. Mansfeld, Die Offenbarung des Parmenides und die menschliche Welt, Van Gorcum, Assen 1964, passim); mentre è noto il tentativo operato da K. reinhardt, Parmenides und die Geschichte der griechischen Philosophie, Cohen, Bonn 1916, passim, di capovolgere la relazione fra i due pensatori, sostenendo cioè che sia eraclito a presupporre e a riferirsi a Parmenide e non viceversa. Per una rassegna presso-ché completa e via via aggiornata delle posizioni sulla questione, si vedano rispettivamente L. tarán, Parmenides. A Text with Translation, Commentary and Critical Essays, Princeton univ. Press, Princeton 1965, pp. 61-72, Mondolfo-tarán, pp. XLVI-LXIV, e, di recente, di nuovo in favore dell’ipotesi di una relazione diretta fra eraclito e Parmenide, d. Graham, Heraclitus and Parmenides, in Presocratic Philosophy. Essays in Honour of A. Mourelatos, a cura di V. Caston e d. Graham, Ashgate, Aldershot 2002, pp. 27-44.

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XXII IntroduzIone

di nascita e di morte di eraclito,17 alcune complicazioni che

dipendono dalle cronologie rispettive, da cui emergerebbe che Parmenide ed eraclito appartengono alla stessa generazione o che eraclito sia addirittura di qualche anno più giovane di Parmenide, il che, anche in ragione delle oggettive difficoltà nella circolazione delle idee e delle opere in età arcaica e a discrete distanze geografiche, rende poco probabile, benché non impossibile, una conoscenza diretta; d’altra parte, sul piano dottrinario, la condanna parmenidea dei «mortali», che dunque, in ogni caso, potrebbe al massimo coinvolgere genericamente anche eraclito, ma non essergli esclusivamente rivolta, pare appunto adattarsi piuttosto all’eraclito delineato in seguito da Platone e da Aristotele, del quale bisognerà più avanti verificare se corrisponda all’immagine ricostruibile dai materiali superstiti, mentre a prima vista, stando alla lettera dei frammenti pervenutici, si trovano in essi affermazioni che non contrastano, ma anzi riecheggiano almeno superficial-mente alcune tesi parmenidee, a partire dall’assunto dell’unità di tutte le cose (e}n pavnta ei\nai, cfr. per esempio i frr. 5 [50 dK; 26 Marc.] e 16 [10 dK; 25 Marc.]; e Parmenide, fr. 8.6 dK). non considero in ogni caso essenziale la questione, che non incide significativamente sulla comprensione delle rispettive posizioni di eraclito e di Parmenide e che rimane comunque indecidibile.

18

17 Cfr. infra, § 3.18 Altrettanto indecidibili giudico le notizie su allusioni a eraclito

e alla sua opera da parte di pensatori suoi contemporanei o comun-que precedenti Platone: è per esempio il caso del poeta epicarmo, a eraclito associato da Platone, Teeteto 152e, poi da Crisippo (cfr. SVF II 762) e ancora da diogene Laerzio, Vitae philosophorum III 9-10; ma anche, e via via con un grado maggiore di verosimiglianza, di altri filosofi presocratici, come empedocle (cfr. per esempio i frr. 17.3 sgg., 22.9, 35.14 sgg. e 135 dK), Ione di Chio (cfr. fr. 4.3-4 dK) e poi assai più diffusamente democrito e Protagora. Anche di Melisso diogene Laerzio dice (IX 24) che avrebbe avuto rapporti con eraclito. numerosi riferimenti, se non vere e proprie imitazioni

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IntroduzIone XXIII

Le testimonianze platonico-aristoteliche qui brevemente evocate dovettero costituire la base di partenza per l’ampia raccolta informativa contenuta nelle fusikw'n dovxai di teo-frasto, che, a loro volta perdute, furono però utilizzate come una delle fonti privilegiate da diogene Laerzio e forse dalla tradizione dossografica che sfocia nei Placita philosopho-

rum di Aezio,19 le cui pur limitate notizie ci permettono di

misurare indirettamente la vastità e l’impegno della ricerca compiuta da teofrasto, dedicata soprattutto alla fisica e alla cosmologia di eraclito, ma con significativi riferimenti alle sue teorie psicologiche.

20

eraclitee, si trovano inoltre in diverse opere del corpus ippocratico, di cui tuttavia è plausibile che alcune siano posteriori a Platone. un ancor utile status quaestionis, ricco e documentato, è predisposto da Mondolfo-tarán, pp. XLII-XLVI e LXV-LXXXIII.

19 Altra spinosissima questione cui posso solo accennare qui è appunto quella relativa all’ipotesi che diels formulò, come base di lavoro per la sua raccolta dei Doxographi graeci, secondo la quale dall’opera perduta di teofrasto sarebbero dipesi i Vetusta placita, testo dossografico del I secolo a.C. anch’esso non pervenutoci, da cui sarebbero derivati i Placita philosophorum dell’altrimenti ignoto Aezio, del I secolo d.C., persi essi pure, da cui proverrebbero infine gli elementi dossografici contenuti soprattutto nella Graecarum affectionum curatio di teodoreto, del V secolo d.C., e negli pseudo-plutarchei Placita philosophorum; appunto a partire da teodoreto e dallo pseudo-Plutarco, diels ritenne di poter ricostruire l’impianto d’insieme e alcune parti dell’opera di Aezio e di giungere, per suo tramite, ai Vetusta placita e, per quanto in modo assai indiretto, alla fonte originale teofrastea. una versione più raffinata, intera-mente rivista e criticamente fondata, dell’ipotesi dielsiana è stata proposta e messa in atto nella ricostruzione della silloge aeziana da J. Mansfeld e d.t. runia, Aëtiana. The Method and Intellectual Context of a Doxographer, 3 voll., vol. I: The Sources; vol. II: The Compendium; vol. III: Studies in the DoxographicalTraditions of Ancient Philosophy, Brill, Leiden 1997-2010.

20 Le testimonianze di Platone e di Aristotele sulla fisica, la cosmo-logia e la psicologia eraclitee, di varia e non facilmente accertabile qualità e affidabilità, sono anch’esse raccolte sistematicamente in Mondolfo-tarán, pp. CXVIII-CXXIX, CXLVI-CLVII e CLXXIV-

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XXIV IntroduzIone

2.2 Il lovgoı e il fuoco: Eraclito fra stoicismo e cristianesimo

Per i tre principali rappresentanti del primo stoicismo greco,

zenone, Cleante e Crisippo, attivi fra l’ultimo scorcio del

IV e l’intero III secolo a.C., la filosofia di eraclito e la sua

stessa figura rappresentano il fondamentale modello da

imitare e riprodurre e a un tempo l’obiettivo di un’appro-

priazione dottrinaria radicale e completa. L’attitudine stoica

nei confronti di eraclito, in altre parole, non consiste nel

confronto critico con le sue tesi o con alcune di esse, come

avveniva, con maggiore o minore fedeltà storica e filoso-

fica o vigore polemico, nel caso di Platone e di Aristotele,

né in un’apertura di credito più o meno ampia rispetto

agli esiti della sua riflessione; piuttosto, e in modo assai

più impegnativo, il pensiero di eraclito è percepito come

un’essenziale anticipazione che, con pieno consenso formale

e di contenuto, viene assunta perciò come parte integrante

del sistema filosofico degli stoici. tanto intima è l’adesione

all’eraclitismo, tanto profonda la convinzione di un’effettiva

identità teorica fra le due posizioni e le due «scuole», che,

pur con la diversa sensibilità propria di ciascun autore e di

ciascuna epoca, secoli di stoicismo, fino a Seneca, epitteto e

Marco Aurelio, fra il I e il II secolo d.C., e poi ancora nella

tradizione posteriore di ambito platonico che ne eredita

le tendenze, si manterranno devoti a eraclito, così di fatto

propagandone l’immagine e la dottrina. naturalmente, una

simile operazione esegetica, che dall’accostamento concet-

tuale transita verso una sintesi quasi simbiotica, ingenera

per l’interprete numerosi problemi, sul piano del linguaggio,

della costruzione del sistema e fino alla determinazione

CXCVIII, accompagnate da alcune pagine dedicate alla discussione della natura e della struttura dell’opera di teofrasto. Fortemente critico rispetto a ogni uso possibile delle testimonianze teofrastee sulla fisica eraclitea rimane Kahn, pp. 290-93.

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IntroduzIone XXV

dell’effettiva citazione, da parti delle fonti stoiche, di brani eraclitei: cosa dell’eraclito «stoico» o dello stoicismo «era-cliteo» appartiene al lontano precursore e cosa invece ai suoi entusiasti posteri? Quale vocabolario, quale apparato concettuale, quali «gesti» è lecito ricondurre all’uno o agli altri? La risposta più plausibile a simili interrogativi si colloca evidentemente a metà strada fra l’ipotesi ingenua di una meccanica «citazione» di eraclito da parte stoica e l’altrettanto fantasioso convincimento di una sua vera e propria «invenzione».

21

dal punto di vista delle fonti delle informazioni e dei materiali eraclitei in loro possesso, non è chiaro se i filosofi stoici disponessero soltanto della dossografia aristotelica e teofrastea, come parrebbe suggerire la constatazione che molti degli spunti dottrinali da essi valorizzati coincidono con la presentazione peripatetica, rispetto alla quale non emergono infatti contraddizioni eclatanti; d’altra parte, è pur vero che nulla impedisce che si avesse accesso, da parte degli stoici e solo pochi decenni dopo Aristotele, a raccolte eraclitee diverse e indipendenti, anche se non necessariamente più complete e affidabili, da quelle utilizzate o costituite in ambito peri-patetico, che si trattasse di antologie di testi o di opere di commento, se non proprio di versioni più o meno parziali del libro di eraclito. A Cleante è attribuito del resto da diogene Laerzio, Vitae philosophorum VII 176, un impo-nente lavoro, in quattro libri, di Esegesi di Eraclito, il che presuppone verosimilmente una documentazione che,

21 Per un utile quadro introduttivo alla questione si veda A.A. Long, Heraclitus and Stoicism, in «Philosophia» 5-6 (1975-76), pp. 133-56 (ora in Id., Stoic Studies, Cambridge univ. Press, Cambridge 1996, pp. 35-57). oltre che nelle note di commento ai frammenti eraclitei pertinenti, tenterò di fornire alcuni elementi per una possi-bile delimitazione di alcuni spunti teorici eraclitei rispetto alla loro ripresa, o reinterpretazione, stoica, infra, nei §§ 4.1 e 4.3.

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XXVI IntroduzIone

almeno in linea di principio, poteva non essere limitata alle ricerche peripatetiche.

22

Comunque sia di ciò, l’appropriazione teorica dell’eracli-tismo da parte dei filosofi stoici è incentrata sulla sostanziale identificazione del lovgoı eracliteo con un principio razionale e provvidenziale che regge l’intero cosmo, non però nella forma di una legge che regola dall’esterno il cosmo stesso, ma come un principio immanente che, del cosmo, determina i processi, innanzitutto sul piano fisico, simile a un «soffio» (pneu'ma) vitale onnipervasivo: donde la coincidenza stabilita fra il lovgoı, appunto, e il fuoco, concepito come l’elemento fondamentale, di natura corporea, che si pone come causa dei fenomeni naturali. In quanto lovgoı, tale principio manifesta i tratti pienamente razionali che caratterizzano tutte le cose; in quanto fuoco, esso produce e, per così dire, «accompagna» ciascuna di esse nel suo ciclo processuale e vitale.

23 da questa

premessa deriva la celebre tesi, che gli stoici ritengono di mutuare anch’essa da eraclito, di una ciclica rigenerazione del cosmo,

24 appunto in coincidenza con le evoluzioni del

22 Indicazioni d’insieme sulle fonti della dossografia stoica, e sulle principali prese di posizioni in materia, si trovano ancora in Long, Heraclitus and Stoicism, cit., e in Pradeau, p. 40, n. 1. Sulla conservazione e la circolazione effettiva del «libro» di eraclito, si veda infra, § 3.

23 L’indicazione di un unico e provvidenziale principio razionale, che regge tutte le cose ponendosi come immanente in esse, nella duplice forma di lovgoı e di «fuoco», e la tesi dell’origine «eracli-tea» di questa dottrina sono ricondotte dalle fonti già al fondatore dello stoicismo, a zenone, e quindi estese all’insieme della scuola: cfr. per esempio SVF I 98 e II 421. Per un esame più approfondito della questione, rinvio a r.W. Sharples, On Fire in Heraclitus and in Zeno of Citium, in «Classical Quarterly» 34 (1984), pp. 231-32.

24 Va segnalato che l’attribuzione a eraclito di una tesi cosmo-gonica della ciclica rigenerazione del cosmo sembra attestata già, prima dei filosofi stoici, in due passi aristotelici piuttosto controversi, nel De caelo (I 10, 279b12-20) e nella Fisica (III 5, 205a3) [= 22 A 10 dK], sui quali tornerò infra, nel § 4.3.

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IntroduzIone XXVII

fuoco, che segue un percorso ascendente cui corrisponde l’incremento dell’intensità del suo calore fino al culmine di una conflagrazione (ejkpuvrwsiı), che segna la distruzione di tutte le cose e la conclusione di un ciclo, cui succede poi un percorso discendente segnato dalla diminuzione dell’intensità del calore del fuoco che, dal culmine della conflagrazione, innesca, raffreddandosi, la costituzione di tutte le cose e l’avvio di un nuovo ciclo. L’idea sottostante a una simile ipo-tesi cosmogonica, e insieme l’esigenza teorica che la spiega, pare essere quella della coniugazione dell’eternità perfetta e compiuta del mondo, derivante dall’ordine razionale che gli è imposto dal lovgoı, che sarebbe incompatibile con il riconoscimento di una sua durata limitata nel tempo, con l’evidenza dei processi di trasformazione da cui il mondo è caratterizzato: in questa ottica, le affermazioni eraclitee relative al conflitto, all’opposizione fra le cose che sono e al divenire che le coinvolge senza eccezione, sono recuperate in una prospettiva unitaria e immutabile, che ne ridimensiona gli effetti collocandoli all’interno di un ciclo cosmico e ne riduce l’estensione all’ambito temporale tracciato da esso, mentre il superiore governo del lovgoı garantisce la fondamentale unità del tutto riconducendo la pluralità e la varietà fenomenica dell’alternanza cosmica all’unico principio immanente del fuoco, che appunto unifica tali pluralità e varietà nel con-testo di ciascun ciclo, che si ripete identicamente per la sua inequivocabile necessità razionale, e più in generale al livello del tutto, che rimane immodificato ed eterno nella regolarità della successione dei suoi cicli.

25

25 Fra le numerose testimonianze relative alla dottrina stoica dell’ejkpuvrwsiı, quelle che vi associano eraclito (e talvolta anche altri pensatori presocratici) come precursore ricorrono tanto nella tradizione dei commentatori di Aristotele, che dunque da quest’ulti-mo verosimilmente dipendono (cfr. la nota precedente), per esempio Alessandro di Afrodisia (= SVF II 594) e Simplicio (= SVF II 576, 603 e 617), quanto nell’esegesi cristiana, che probabilmente attinge

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XXVIII IntroduzIone

La spiegazione cosmogonica e fisico-cosmologica della natura del mondo a partire dal principio fondamentale del lovgoı-pneu'ma-fuoco viene del resto estesa all’insieme dei fenomeni che si producono sul piano psico-fisiologico dell’ori-gine e del funzionamento dei viventi, tanto rispetto ai processi biologici e organici che in essi si verificano e ne determinano la vita, quanto per quel che riguarda l’insorgere dell’anima, per esalazione (ajnaqumivasiı), come una sostanza vaporosa e calda, dall’elemento liquido, secondo un meccanismo che non vi è dunque ragione di limitare all’ambito individuale, nel quale l’anima risulta dall’esalazione dai liquidi corporei, ma che giustifica l’esistenza di un’anima cosmica come esalazione dalle acque dei fiumi o dei mari, di cui l’anima individuale è in qualche modo una porzione derivata e che tendenzial-mente segue l’andamento cosmogonico, dissolvendosi perciò in coincidenza con il picco della conflagrazione del tutto nel fuoco e riproducendosi nuovamente con l’inizio di un nuovo ciclo cosmico; da questo punto di vista, l’anima del mondo, con le anime individuali che le sono affini, fornisce un’ul-teriore garanzia dell’onnipervasività del governo razionale del lovgoı che regge la natura nella forma di pneu'ma o fuoco, non a caso rivelandosi congenere all’elemento igneo per la sua condizione umida e vaporosa.

26

direttamente alle fonti stoiche, per esempio in Clemente Alessan-drino (= SVF II 590 e 630).

26 Anche su questo piano psico-fisiologico la sostanziale identi-ficazione delle posizioni di eraclito e degli stoici pare un dato indi-scusso nelle testimonianze pertinenti: cfr. solo, per quel che concerne l’aspetto propriamente biologico e organico del funzionamento del corpo vivente, SVF II 446; mentre, in relazione alla concezione dell’anima, se già Aristotele, De anima I 2, 405a24, attribuisce a era-clito la tesi dell’origine dell’anima per ajnaqumivasiı (ma si veda, per questa notizia, infra, § 4.5, specie nn. 106 e 107), sono naturalmente e soprattutto le posteriori fonti stoiche ad argomentare in favore di un simile punto di vista: cfr. SVF I 141 = I 519 (che presento con gli opportuni riferimenti nella n. 1 al fr. 25 [12 dK; 40 Marc.]), per

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IntroduzIone XXIX

una compiuta sintesi, filosoficamente assai densa di rife-rimenti, ma anche letterariamente felice, dell’appropriazione simbiotica dell’eraclitismo realizzata nella scuola stoica è rappresentata dall’Inno a Zeus di Cleante (= SVF I 537), nel quale compaiono, in forma esplicita o implicita, tutti gli elementi caratteristici di questa operazione esegetica. A zeus, tradizionale figura del padre degli dei della religione greca, è infatti ricondotto da Cleante il potere supremo su tutte le cose, che si concretizza in un piano razionale articolato sulla base di un lovgoı universale e comune che è legge invincibile per l’intera realtà ed è garantito dal fulmine, simbolo del fuoco cosmico e arma propria di zeus, al cui controllo e giudizio sono sottomessi tutti i viventi:

zeus, il più nobile degli immortali, dai molti nomi e sempre

onnipotente, / che governi la natura e dirigi ogni cosa secondo

la legge (novmou mevta) / salve! (…) / A te risponde l’intero nostro

mondo (pa'ı o{de kovsmoı) che ruota intorno alla terra, / ovunque

lo guidi, volentieri si sottomette a te, / perché hai nelle tue mani

invincibili un’arma: / il fulmine pungente, focoso e sempre vivo

(puroventa, ajeizwvonta keraunovn). / Al suo colpo si compiono

tutte le opere della natura (uJpo; plhgh'ı fuvsewı pavnt je[rga) /

e con esso reggi il lovgoı comune, che penetra / in tutte le cose,

mescolandosi ai raggi piccoli e grandi; / per esso sei divenuto

re supremo nel tutto (u{patoı basileu;ı dia; pavntwn). (…) /

Ma tu, zeus, che doni ogni cosa e addensi le nubi, dal fulmine

luminoso, / sciogli gli uomini dall’ignoranza nociva, / allontanala

dall’anima, padre, permettendo di giungere / all’intelligenza

(gnwvmhı), confidando nella quale tu stesso dirigi con giustizia

l’insorgere dell’anima individuale, e SVF I 495; II 397, 774 e parti-colarmente 821, in riferimento all’anima cosmica, la cui ammissione da parte di eraclito è sostenuta da Aezio IV 3.12 (= dox. 389). Si vedano pure le osservazioni puntuali di M. Colvin, Heraclitus and Material Flux in Stoic Psychology, in «oxford Studies in Ancient Philosophy» 28 (2005), pp. 257-72.

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XXX IntroduzIone

ogni cosa (h/| pivsunoı su; divkhı mevta pavnta kuberna 'ı). (...)

/ Perché non vi è altro maggior riconoscimento per i mortali /

né per gli dei che innalzare inni con giustizia alla legge sempre

comune (koino;n ajei; novmon).

non è possibile esaminare a fondo versi di tale complessità e dalle numerose implicazioni linguistiche e concettuali, dal punto di vista della storia della letteratura come della filosofia greche; ma non è difficile constatare l’impiego, costante e insistito, di una terminologia immediatamente riconoscibile dai materiali eraclitei pervenutici e così caratteristica della loro reinterpretazione stoica delineata fin qui: in primo luogo rispetto all’indicazione del lovgoı come legge comune (koino;n novmon) del tutto ed espressione della sua disposizione intelli-gente (gnwvmh), cui si trova associato un principio operativo focoso, simboleggiato dal potere del fulmine (puroventa … keraunovn) di zeus, da intendere, in forma letterale o meta-forica, come immagine, tratta dalla tradizione religiosa di matrice omerica, del dio sovrano della natura e del tutto, cui spettano il timone e la guida (su; … kuberna'ı) del cosmo. Il quadro così tratteggiato dell’eraclito «stoico», fin dalle prime generazioni della scuola nel III secolo a.C., rimarrà sostanzialmente inalterato ancora nei secoli dello stoicismo imperiale romano, anche se in tale contesto, per esempio nei richiami ispirati di Marco Aurelio, appaiono sostanzialmente privilegiati gli aspetti connessi allo stile di vita, all’espressione sobria, all’isolamento di eraclito, assunti come indispen-sabili elementi di un modo di vita che i moralisti stoici di quest’epoca considerano fra i più alti esempi di «saggezza», ossia di condotta conforme alla ragione, all’equilibrio etico e alla natura, non senza punte di ascetismo e di misantropia che probabilmente contribuirono alla fama e all’immagine pessimiste dell’eraclito «che piange».

27

27 Cfr. infra, § 5.

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IntroduzIone XXXI

eredi dell’appropriazione stoica di eraclito, che assimilano pressoché integralmente, i testimoni e commentatori cristiani, fra i quali spiccano essenzialmente Clemente Alessandrino e Ippolito, entrambi attivi fra il II e il III secolo d.C., di gran lunga i citatori del maggior numero di frammenti eraclitei pervenutici, compiono una nuova e raffinata operazione esegetica che, pur appunto strettamente dipendente da quella stoica, ne radicalizza le conclusioni in senso cristiano.28 In tale ottica, il riferimento a eraclito è duplice. Innanzitutto, e nella maggior parte dei casi, eraclito è uno dei filosofi greci pagani, come anche Platone, che hanno per certi aspetti anticipato la verità rivelata dal cristianesimo, per allusioni, enigmi, espressioni contorte che occorre decifrare e comprendere, ma che indicano tuttavia senza alcun dubbio il percorso verso la conoscenza della realtà e di dio: fra gli ammiratori cristiani dei filosofi antichi, e in primo luogo per Clemente Alessandrino, l’eraclito «stoico» dal profilo severo, ascetico e isolato dagli uomini e dalle loro deplorevoli inclinazioni, gode a maggior ragione di grande prestigio e rispetto.29 d’altra parte, in un numero appena meno rilevante di casi, ma non senza un certo accanimento, specie, per esempio, da parte di Ippolito di roma, a eraclito, come ad altri pensatori pagani, viene ricondotta l’origine di alcune versioni eterodosse o propriamente eretiche della teologia cristiana, benché non sia del tutto chiaro come ciò possa costituire realmente un

28 È del tutto plausibile, e del resto ampiamente accettata, l’ipotesi che un’influenza significativa sull’esegesi cristiana della filosofia greca sia stata esercitata da Filone Alessandrino, attivo nel I seco-lo d.C., per così dire «all’incrocio» fra platonismo e stoicismo; la documentazione relativa alle testimonianze filoniane su eraclito in particolare è oggi raccolta ed esaminata da L. Saudelli, Eraclito ad

Alessandria. Studi e ricerche intorno alla testimonianza di Filone, Brepols, turnhout 2012.

29 Sulla ricezione di eraclito da parte di Clemente di Alessandria, e sulle sue citazioni eraclitee, rimane fondamentale il lavoro di H. Wiese, Heraklit bei Klemens von Alexandrien, diss., Kiel 1963.

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XXXII IntroduzIone

capo d’accusa nei loro confronti, se, avendo ignorato la rive-lazione divina e l’annuncio di Cristo, essi hanno potuto al più intuire, e di conseguenza manifestare solo per allusioni, la verità della fede.

30 La stessa tesi eraclitea dell’unità dei

termini opposti diviene allora, nell’uno o nell’altro caso, la dichiarazione più esplicita della vanità e del relativismo della conoscenza umana, imperfetta e in fin dei conti improdutti-va, rispetto alla superiore consapevolezza che proviene dal punto di vista unitario e più elevato della sapienza divina del lovgoı;

31 oppure lo svelamento di una pericolosa concezione

eretica che riconduce ogni forma di opposizione e dualismo all’unità indifferenziata del principio, nel quale appunto la pluralità è ridotta all’identità e all’equivalenza sostanziale e funzionale, avvicinandosi così alla posizione monarchiana, difesa per esempio da noeto di Smirne, che negava la trinità delle persone divine nell’unità del padre.

32

All’identificazione stoica del lovgoı eracliteo come prin-cipio razionale e provvidenziale di natura divina di tutte le cose, l’esegesi cristiana aggiunge l’associazione di questo principio al dio creatore dell’universo e al suo verbo, cioè allo spirito che, della creazione, si fa propriamente esecutore

30 Cfr. per esempio Ippolito, Refutatio contra omnes haereses IX 10.1-8 (= 242-44 Wendland), brevemente illustrato nella n. 1 ai frr. 15 [54 dK; 9 Marc.] e 28 [67 dK; 77 Marc.]. Per la ricezione e l’interpretazione di eraclito nell’opera di Ippolito, si vedano soprattutto osborne, Rethinking Early Greek Philosophy, cit., e J. Mansfeld, Heresiography in Context: Hippolytus’ Elenchos as a Source for Greek Philosophy, Brill, Leiden 1992.

31 Si veda solo Clemente Alessandrino, Stromateis IV 141.1-2 (= II 310 Stählin), citato nella n. 1 al fr. 24 [26 dK; 48 Marc.].

32 Cfr. ancora Ippolito, Refutatio contra omnes haereses IX 10.1-6 (= 242-43 Wendland), e la n. 1 ai frr. 15 [54 dK; 9 Marc.] e 28 [67 dK; 77 Marc.], e, in proposito, S.n. Mouraviev, Hippolyte, Héraclite et Noët (commentaire d’Hippolyte, «Refut. Omn. Haer» IX 8-10), in Aufstieg und Niedergang der Römischen Welt, a cura di W. Haase e H. temporini, vol. II 36.6, de Gruyter, Berlin-new York 1992, pp. 4375-402.

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IntroduzIone XXXIII

e garante, talvolta al punto di coincidere con la creazione stessa;

33 mentre all’aspetto immanente del principio nel tutto,

sotto forma di fuoco che regola i processi cosmologici e dà luogo a una cosmogonia basata sulla successione eterna di cicli di accensione e spegnimento del fuoco, cui si ricollega la funzione giudicante e punitiva del fulmine, viene ormai ricondotta la tesi, attribuita appunto direttamente a eraclito, di un giudizio divino finale, portatore di premi per i giusti e di condanna per i malvagi, gli uni consistendo nella resurre-zione, l’altra nell’espiazione delle proprie colpe nell’aldilà.

34

trasfigurato dalla duplice, ma coerente, esegesi stoica e cristiana, eraclito si presenta ormai come un pensatore seve-ro e minaccioso, le cui parole arcaiche, aspre e sentenziose, annunciano l’ineluttabilità del giudizio ultimo e predicano, in previsione di esso, la necessità di una conversione alla verità del lovgoı, quasi rivelazione e promessa divine, più che conoscenza razionale del tutto, il cui accesso è possibile agli uomini. Le dottrine degli opposti e del divenire, come pure la teoria fisico-cosmologica incentrata sull’azione e la

33 Si può rinviare per questa associazione a Clemente Alessan-drino, Stromateis V 115.1-3 (= II 404 Stählin), di cui do conto nella n. 1 ai frr. 2 [34 dK; 2 Marc.] e 10 [32 dK; 84 Marc.]; e a Ippolito, Refutatio contra omnes haereses IX 9.1-4 (= 241-42 Wendland), che presento nella n. 1 ai frr. 5 [50 dK; 26 Marc.], 12 [53 dK; 29 Marc.], 14 [51 dK; 27 Marc.] e 97 [52 dK; 93 Marc.].

34 Per l’attribuzione a eraclito della prospettiva cosmogonica stoica e della dottrina della conflagrazione, si vedano Clemente Alessandrino, Stromateis V 104.1-3 (= II 396 Stählin), e la n. 1 ai frr. 29 [30 dK; 51 Marc.] e 30 [31 dK; 53ab Marc.]; mentre l’interpre-tazione di questa prospettiva nei termini del giudizio finale divino è introdotta, per esempio, in Clemente Alessandrino, Stromateis IV 144.2 (= II 312 Stählin), cfr. la n. 1 al fr. 67 [27 dK; 74 Marc.], e V 9.2-4 (= II 331 Stählin), cfr. la n. 1 al fr. 52 [28 dK; 20+19 Marc.], e soprattutto, in modo ancora più esplicito, in Ippolito, Refutatio contra omnes haereses IX 10.6-7 (= 243.19-244.1 Wendland), per il quale cfr. la n. 1 ai frr. 39 [64+65+66 dK; 79+55+82 Marc.] e 69 [63 dK; 73 Marc.].

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XXXIV IntroduzIone

processualità della sostanza fondamentale del fuoco, non sono più che altrettante manifestazioni dell’assoluta e incontro-vertibile necessità della natura e del suo rigido ordinamento divino, cui sarebbe colpevole e vano sottrarsi per abbracciare le apparenze illusorie e contraddittorie delle credenze e delle opinioni particolari, fonte di errore, di peccato e della conseguente condanna.

2.3 Il lovgoı e la conoscenza: Eraclito, scettico o dogmatico?

dall’interpretazione stoica di eraclito, tuttavia, dipendo-no anche alcune testimonianze che si devono all’ambiente scettico, di cui si fa portavoce Sesto empirico, attivo verso la fine del II secolo d.C., dunque negli stessi anni, o forse poco prima, dei commentatori cristiani evocati sopra. In un ampio brano della sua opera Adversus mathematicos (VII 126-34), nel corso del quale cita i frr. 44 [107 dK; 13 Marc.], 1 [1 dK; 1 Marc.] e 7 [2 dK; 23 Marc.], Sesto afferma infatti che eraclito avrebbe posto un lovgoı comune e divino (koino;n kai; qei'on) come giudice del vero (krith;n th'ı ajlhqeivaı), la cui caratteristica fondamentale è di essere un principio che avvolge ogni cosa e di natura razionale e intelligente (to; perievcon hJma'ı logikovn te o]n kai; frenh'reı).

35 Con

questo lovgoı si entra in contatto per aspirazione e respirando (di jajnapnoh'ı spavsanteı), tramite i canali sensibili, o «pori», che fungono da finestre di accesso alla razionalità circostante diffusa nel tutto (dia; tw'n aijsqhtikw'n povrwn w{sper diav tinwn qurivdwn prokuvyaı kai; tw/' perievconti sumbalw;n

35 Ho presentato le testimonianze di Sesto empirico nel loro insieme nella Nota introduttiva alla Sezione 1 e alla Sezione 4. Analoga informazione in Calcidio, In Platonis Timaeum 251 (= 260.20 Waszink), che associa esplicitamente, su questo punto, era-clito agli stoici.

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IntroduzIone XXXV

logikh;n ejnduvetai duvnamin), la cui comunicazione rende gli uomini intelligenti e partecipi di ragione e verità (noeroiv … logikoiv). Se la contiguità fisica al lovgoı universale rappre-senta il criterio della verità della conoscenza, come nel caso del carbone che conserva calore e incandescenza se rimane prossimo al fuoco, ma si raffredda quando ne sia separato, allo stesso modo, quando gli uomini perdono la loro connes-sione naturale con il lovgoı, per esempio nel sonno, cessano di esercitare la ragione e ricadono nelle semplici percezioni sensibili, che sono inaffidabili perché soltanto individuali (to; dev tini movnw/ prospi'pton a[piston). donde due conseguenze importanti, che Sesto colloca entrambe nell’ambito della con-cezione della conoscenza difesa da eraclito: in primo luogo, egli avrebbe distinto fra la percezione sensibile, inaffidabile e fonte di errore, e la conoscenza razionale, infallibile e vera, sicché ne consegue, sul piano della conoscenza razionale, che va catalogato fra i pensatori dogmatici – il che, per Sesto, significa essenzialmente che non può essere accostato agli scettici, in quanto ammette che è possibile accedere a una conoscenza vera e certa –, e ciò nonostante il fatto che la possibilità e la legittimità di tale conoscenza razionale dipendano da un principio esterno al soggetto e diffuso in natura come sostanza intelligente e pensante, prestando così a eraclito una concezione del lovgoı che sembra senz’altro presupporre la mediazione dell’esegesi stoica.

36

Ma il ruolo di Sesto empirico è significativo anche perché, in un passo di un’altra sua opera, le Pyrrhonianae hypotypo-

36 Anche se, come segnala soprattutto Kahn, p. 295, in VII 133 Sesto empirico pare suggerire improvvisamente una versione più moderata del ruolo del lovgoı, descrivendolo come ejxhvghsiı tou' trovpou th'ı tou' panto;ı dioikhvsewı, dunque piuttosto come un principio esplicativo e illustrativo della disposizione e dell’orga-nizzazione del tutto che non come operativamente e attivamente responsabile di esse.

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XXXVI IntroduzIone

seis (I 209-12),37 egli riporta l’opinione di enesidemo, un esponente dello scetticismo del I secolo a.C., che avrebbe assimilato le dottrine di eraclito a quelle scettiche, chiaman-do in causa la tesi dell’unità dei termini opposti, secondo la quale termini contrari appartengono contemporaneamente a uno stesso soggetto e finiscono così per coincidere l’uno con l’altro (per esempio, il miele è a un tempo dolce e amaro, sicché dolce e amaro sono lo stesso), proprio come gli scet-tici affermano che termini contrari sembrano appartenere contemporaneamente a uno stesso soggetto, finendo così per apparire coincidenti l’uno con l’altro (per esempio, il miele sembra a un tempo dolce a uno e amaro a un altro, sicché dolce e amaro appaiono lo stesso). ora, al di là della confu-tazione che all’argomento di enesidemo è opposta da Sesto – che ha buon gioco nel far rilevare come altro sia dichiarare che i contrari appaiono lo stesso, che è l’atteggiamento dello scettico che rifiuta qualunque affermazione positiva che presuma una conoscenza del reale, altro invece dichiarare che i contrari sono lo stesso, che è invece un’affermazione che discende da una posizione dogmatica che suppone di attingere a una conoscenza oggettiva del reale38 –, è in ogni

37 Cfr. ancora in proposito la Nota introduttiva alla Sezione 1.38 La testimonianza di Sesto relativamente a enesidemo, e di con-

seguenza la questione del rapporto fra enesidemo e l’eraclitismo, è estremamente problematica. Si è supposto che dalle notizie di Sesto si debba dedurre un’effettiva adesione dottrinaria di enesidemo all’eraclitismo (transitando dallo scetticismo all’eraclitismo, dunque passando dall’affermazione che i contrari appaiono all’afferma-zione che i contrari sono nello stesso soggetto, ma senza conside-rare quest’ultima posizione come dogmatica; oppure transitando dall’eraclitismo, percepito come dogmatico, allo scetticismo, secondo una traiettoria inversa) o anche, alternativamente, un semplice uso «dossografico» dell’eraclitismo in funzione polemica contro le dot-trine stoiche, senza che, pertanto, ciò implichi una sua accettazione da parte di enesidemo, come pure, infine, è stato suggerito che potrebbe essere lo stesso Sesto a sottolineare e accentuare alcuni aspetti dell’interpretazione eraclitea di enesidemo, per ridimensio-

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IntroduzIone XXXVII

caso interessante constatare come la rappresentazione della tesi eraclitea dell’unità dei termini opposti che, attraverso Sesto, si può attribuire a enesidemo risulti strettamente connessa alla versione radicalmente relativista che Platone e Aristotele hanno formulato del pensiero di eraclito, da essi presentato, come ricordato in precedenza, come sostenitore del divenire assoluto della realtà e negatore del principio di non contraddizione, per il quale tutte le cose e ciascuna di esse «sono» e «non sono», «possiedono» e «non possiedono» uno stesso predicato a un tempo.

dalla varietà e dalla diversità delle interpretazioni e delle appropriazioni dell’eraclitismo già nell’antichità, fin qui som-mariamente ricostruite, cui fanno da contraltare le suggestioni pure appena evocate di alcune impegnative letture moderne, emerge con chiarezza il problema esegetico sollevato dall’ap-proccio a eraclito e alla comprensione della sua riflessione, che non discende soltanto dalla conoscenza frammentaria, e di frammenti sempre e necessariamente embedded, della sua

nare il rigore della posizione scettica di quest’ultimo e porsi invece egli stesso come autentico erede del pirronismo. Gli studi su tale intricata questione (per la quale ho potuto beneficiare di alcuni chiarimenti da parte di emidio Spinelli e Cristina Viano) sono, negli ultimi anni, numerosi: si vedranno in particolare e. Spinelli, La corporeità del tempo. Ancora su Enesidemo e il suo eraclitismo, in Il concetto di tempo, Atti del XXXII Congresso nazionale della Società Filosofica Italiana, a cura di G. Casertano, Loffredo, napoli 1997, pp. 159-71; C. Viano, «Énésidème selon Héraclite»: la substance corporelle du temps, in «revue Philosophique de la France et de l’Étranger» 192 (2002), pp. 141-58; r. Polito, The Sceptical Road: Aenesidemus’ Appropriation of Heraclitus, Brill, Leiden 2004; B. Pérez-Jean, Dogmatisme et scepticisme. L’héraclitisme d’Énésidème, Presses univ. du Septentrion, Villeneuve d’Ascq 2005; e, in ultimo, M. Schofield, Aenesidemus: Pyrrhonist and «Heraclitean», in Pyr-rhonists, Patricians, Platonizers. Hellenistic Philosophy in the Period 155-86 BC. Tenth Symposium Hellenisticum, a cura di A.-M. Ioppolo e d.n. Sedley, Bibliopolis, napoli 2007, pp. 269-38.

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XXXVIII IntroduzIone

opera, il che costituisce, sì, un’indubbia difficoltà, ma comune a tutti i filosofi presocratici; bensì soprattutto dal fatto che, nel caso di eraclito, le operazioni interpretative condotte dai citatori, e quindi la rielaborazione dei contesti delle loro cita-zioni e delle parole di eraclito in esse embedded, sono state molteplici, stratificate e particolarmente invasive. Converrà allora tentare di ripercorrere gli elementi in nostro possesso, quantomeno per mettere a fuoco le principali questioni che si pongono nell’interpretazione del pensiero di eraclito.

3. Eraclito: la vita e l’opera

Le poche e spesso dubbie informazioni relative alla vita di eraclito provengono dalla biografia che ne ha compilato diogene Laerzio, Vitae philosophorum IX 1-17 [= 22 A 1 dK]. originario di efeso, sulla costa dell’Asia minore a nord di Mileto, e figlio di Blosone (le altre forme del nome del padre date dalle fonti, Blusone, eraconto o erachino, sembrano meno plausibili), avrebbe raggiunto la maturità (ajkmhv) nel corso della LXIX olimpiade, cioè fra il 504-501 a.C., come Parmenide (cfr. diogene Laerzio, Vitae philosophorum IX 23), il che pone l’arco della sua vita in rapporto con il regno di dario in Persia (521-487 a.C.); il riferimento polemico, nel fr. 48 [40 dK; 16 Marc.], alle figure di Pitagora, Senofane ed ecateo, morti verosimilmente fra il 510 e il 480 a.C., fornisce una generica conferma di questa cronologia e un elemento utile per una possibile datazione della sua opera. È difficile però fissare con maggiore precisione le date di nascita e morte: se si accoglie la tesi tradizionale che fa coincidere la maturità di un individuo con un’età di quaranta anni, eraclito sarebbe nato allora intorno al 540 a.C. e morto, forse, intorno al 480 a.C. Sono state suggerite tuttavia datazioni sensibil-mente differenti, collocando la nascita di eraclito intorno al 520 a.C., intendendo la sua maturità, fra il 504 e il 494 a.C.,

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IntroduzIone XXXIX

non all’età di quaranta anni, ma come riferita a un qualche avvenimento importante della sua vita, e la morte intorno al 460 a.C., dunque con uno scarto complessivo di circa venti anni (che appunto di circa venti anni lo renderebbe allora più giovane di Parmenide, il che non è ininfluente rispetto alla possibile conoscenza di eraclito da parte di quest’ultimo),39 ma comunque conservando la durata della vita di circa ses-santa anni indicata da diogene Laerzio (IX 3).40

dell’ampia aneddotica riportata intorno a eraclito, ancora da diogene Laerzio (IX 2-3; ma cfr. anche la Suda, s.v. [= 22 A 1a dK]), è arduo dire quanto sia credibile e quanto dipenda invece da fantasiose ricostruzioni a posteriori:41 per disprezzo dei suoi concittadini, avrebbe rifiutato ogni partecipazione alla vita politica e preso a trascorrere il tempo presso il tempio di Artemide giocando con dei bambini, e allo stesso titolo, o forse come atto di generosità (almeno secondo diogene Laerzio, Vitae philosophorum IX 6, che trae la notizia dalle Successioni di Antistene), avrebbe rinunciato al titolo regale (th'ı basileivaı) in favore del fratello;42 poi, per allontanarsi

39 Cfr. supra, § 2.1.40 La gran parte degli elementi relativi alla cronologia di eraclito

sono raccolti e sinteticamente discussi da S.n. Mouraviev, Héraclite, in Dictionnaire des philosophes antiques, a cura di r. Goulet, Éditions du CnrS, t. III, Paris 2000, pp. 573-617, specie 576-78, cui si deve la seconda ipotesi cronologica citata.

41 Si vedano per l’esame di alcuni aneddoti in particolare, e per una valutazione più generale della natura di queste informazioni e delle vicende che riportano, gli studi di J. Fairweather, The Death of Heraclitus, in «Greek, roman and Byzantine Studies» 14 (1973), pp. 233-39, di G.J.d. Moyal, On Heraclitus’ Mysanthropy, in «revue de Philosophie Ancienne» 7 (1989), pp. 131-48, e di P. Gregoric, The Heraclitus Anecdote: De partibus animalium I 5,645a 17-23, in «Ancient Philosophy» 21 (2001), pp. 73-85.

42 Se la notizia è autentica, ne conseguirebbe l’appartenenza di era-clito alla stirpe di Androclo, figlio del re ateniese Codro, che avrebbe fondato la città di efeso. non sono chiari i motivi di tale rinuncia, se come ulteriore segno di disprezzo nei confronti delle istituzioni della

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XL IntroduzIone

ancor di più dalla comunità, sarebbe passato a vivere fra le montagne nutrendosi di erbe. Ammalatosi così di idropisia, si sarebbe rivolto enigmaticamente ai medici, verosimilmente con totale sfiducia nei loro confronti, chiedendo se fossero in grado di mutare un’inondazione – evidentemente l’ec-cesso di liquidi provocato dall’idropisia – in siccità; ma di fronte all’incomprensione di quelli, si sarebbe da se stesso curato, coprendosi di sterco in una stalla e sperando che il calore contribuisse all’evaporazione dei liquidi, ma senza alcun successo e morendo perciò rapidamente. Secondo altre varianti della storia, invece, eraclito avrebbe chiesto ai medici di far seccare i liquidi in eccesso vuotando l’inte-stino, ma, constatata la loro incapacità, si sarebbe steso al sole e fatto ricoprire di sterco da alcuni fanciulli, giungendo così alla morte; infine, è riportata pure l’ancor più tragica conclusione che, ricoperto di sterco e reso irriconoscibile, sarebbe stato divorato dai cani.

43 A un simile carattere, di

cui diogene Laerzio tiene a sottolineare i tratti polemici, l’asprezza e l’orgoglio, si addice naturalmente, nella biografia antica, l’assoluto isolamento, dai concittadini in primis, come abbiamo visto, ma anche da qualunque maestro o discepo-lo: eraclito sarebbe stato perciò uno dei pensatori isolati (oiJ sporavdhn), autodidatta e privo di seguaci immediati;

44

sua citta e della loro corruzione, per generosità, come suggerisce dio-gene Laerzio, o forse per potersi dedicare, privo di ruoli onorifici, alla carriera politica (così ha ipotizzato Mouraviev, Héraclite, cit., p. 579).

43 diogene Laerzio (IX 5) ricorda in realtà anche un esito meno drammatico, che dichiara di riprendere da Aristone e Ippoboto, secondo cui eraclito sarebbe guarito dall’idropisia e morto per un’altra malattia.

44 A Sozione si deve, secondo diogene Laerzio (IX 5), in forma assai dubitativa, la notizia che eraclito sarebbe stato discepolo di Senofane; ma nessun’altra fonte antica ci offre una conferma indi-pendente dell’informazione. Sulle diverse generazioni di eraclitei cui alludono Platone e Aristotele, fra i quali spicca il nome di Cratilo, si veda supra, § 2.1 e n. 11.

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IntroduzIone XLI

avrebbe composto la sua opera con stile intenzionalmente oscuro, perché solo i più capaci vi si accostassero e i più ne fossero scoraggiati, deponendone l’esemplare nel tempio di Artemide, mentre teofrasto attribuisce l’oscurità di stile e la difficoltà dell’opera alla sua discontinuità, dovuta a sua volta alle inclinazioni melanconiche di eraclito che gli avrebbero impedito di portarla a termine.

da altre testimonianze biografiche, rispettivamente di Clemente Alessandrino, Stromateis II 41.19 (= I 65.4 Stählin) [= 22 A 3 dK] e di temistio, De virtute 40 [= 22 A 3b dK, traduzione dal siriaco in tedesco], si apprende inoltre che eraclito avrebbe persuaso un tiranno, di nome Melancoma (che ci è sconosciuto), a lasciare il potere e, forse per la stessa avversione nei confronti del potere assoluto, respinto ogni invito del re persiano dario a recarsi presso di lui; e che avrebbe salvato i suoi concittadini da un assedio persiano alla città (di cui non abbiamo altrimenti notizia), dando l’esempio di uno stile di vita morigerato in luogo dei loro lus-si sfrenati, che avrebbero rapidamente portato gli assediati alla rovina: constatato questo mutamento di atteggiamento, che avrebbe consentito loro di resistere assai più a lungo, gli stessi assedianti si sarebbero rassegnati a mollare la presa. d’altro canto, è lo stesso eraclito a informarci dell’esilio da efeso del suo amico ermodoro (nel fr. 87 [121 dK; 105 Marc.]), verosimilmente per la sua azione politica, che a quanto pare eraclito avrebbe sostenuto, sotto il regime democratico più volte restaurato, nel 499 a.C., dopo il 492 a.C. e nel 478 a.C., in seguito ai numerosi e alterni conflitti fra i greci di Ionia e i persiani. da ciò parrebbe doversi dedurre l’appartenenza di eraclito all’aristocrazia e la sua avversione nei confronti della parte democratica e della tirannide da essa appoggiata, benché non sia mancato chi ha sostenuto al contrario che la tirannide a efeso si reggesse sulla parte aristocratica e filopersiana, sicché eraclito avrebbe allora piuttosto parteggiato per i democratici anti-persiani e ostili

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XLII IntroduzIone

al tiranno.45 In assenza di dati certi, anche e soprattutto in

relazione al ruolo effettivo, filo-persiano o anti-persiano, giocato di volta in volta dai tiranni al potere in Ionia e dalle rispettive fazioni democratiche e aristocratiche nelle città ioniche, che pare essere stato alquanto mutevole, l’unica conclusione ragionevole sembra consistere nell’attribuzione a eraclito di una posizione certo più prossima alla parte aristocratica, ma favorevole a una serie di concessioni tradizionalmente sollecitate dai democratici, relative per esempio alla oJmovnoia e alla garanzia di leggi scritte; mentre, rispetto al rapporto con i persiani e con il re dario, le uni-che indicazioni esplicite provengono dalle Lettere pseudo-eraclitee (per le quali cfr. brevemente infra, § 4.8), che sono notoriamente piuttosto tarde e banali, se non inaffidabili, per le informazioni che contengono.

nonostante l’isolamento denunciato da diogene Laerzio, e ricordato poco sopra, eraclito mostra un’ampia cono-scenza della cultura tradizionale greca, da omero a esiodo, da Archiloco a talete e Biante di Priene, fino ai più vicini Pitagora, Senofane ed ecateo. Se il fr. 48 [40 dK; 16 Marc.] implica davvero che, mentre eraclito componeva la sua opera, Pitagora era già morto e Senofane ed ecateo erano ancora vivi,

46 ne risulterebbe un arco di tempo piuttosto preciso

per la datazione di questa opera, ossia fra il 499 a.C. (prima datazione possibile per l’espulsione di ermodoro da efeso e comunque vicina alla morte di Pitagora, avvenuta al più tardi verso il 497 a.C.) e il 480-478 a.C. (ultima datazione possibile per l’espulsione di ermodoro e comunque prima della morte di Senofane ed ecateo, avvenuta rispettivamente nel 477-476 a.C. e nel 480-478 a.C.). A proposito dell’opera

45 Cfr. per esempio A. Capizzi, Eraclito e la sua leggenda, edizioni dell’Ateneo, roma 1979, pp. 15-63, ma si veda pure infra, § 4.6.

46 Ma questa ipotesi è contestata, cfr. la n. 5 al fr. 48 [40 dK; 16 Marc.].

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IntroduzIone XLIII

di eraclito, l’esistenza di un «libro» (suvggramma o biblivon), attestata già da Aristotele, Retorica III 5, 1407b11 [= 22 A 3 dK] e poi da diogene Laerzio, Vitae philosophorum IX 5-7, 12, 15-16 [= 22 A 1 dK], pare fuori discussione.47 Le ipotesi dei commentatori sulla sua natura e sulla sua pos-sibile ricostruzione oscillano fra due estremi: se diels, che, come già detto, rinunciò a suggerire un ordine tematico dei frammenti eraclitei, considerava di fatto come carattere proprio dell’originale la forma aforistica, priva di struttura e svolgimento argomentativo,48 S.n. Mouraviev giunge oggi a proporre un’articolata e dettagliata presentazione del libro, presumendo di poterne ricostruire la forma, i contenuti e il piano tematico.49 ora, entrambe queste ipotesi mi sembrano prive di fondamento, l’una per la sua anacronistica unilate-ralità, l’altra per il suo fideismo acritico: non va dimenticato il rilievo che diogene Laerzio attribuisce a teofrasto (IX 6), secondo cui eraclito avrebbe composto il suo scritto «in parte lasciandolo incompiuto, in parte in modo discontinuo» (ta; me;n hJmitelh', ta; de; a[llote a[llwı … gravyai); e potrebbe forse alludere ai tratti della sua composizione anche Plato-

47 Infondata la tesi di Kirk, p. 7, secondo il quale eraclito non avrebbe composto un libro nel senso che si attribuisce abitualmente a questo termine, ma la sua opera sarebbe consistita di sentenze, dapprima pronunciate oralmente e successivamente raccolte da qualche posteriore adepto in forma antologica. nessun elemento induce però ad accogliere una simile proposta.

48 Cfr. H. diels, Herakleitos von Ephesos (1901), griechisch und deutsch, Weidmann, Berlin 19092, pp. VI-XIII.

49 Si vedano S.n. Mouraviev, Titres, sous-titres et articulations du livre d’Héraclite d’Éphèse, in Titres et articulations du texte dans les oeuvres antiques, Actes du Colloque international de Chantilly, a cura di J.-C. Fredouille, M.-o. Goulet-Cazé, P. Hoffmann e P. Petit-mengin, Institut des Études Augustiniennes, Paris 1997, pp. 35-53, e soprattutto, in ultimo, Id., Le livre d’Héraclite 2500 ans après. L’état actuel de sa réconstruction, in Nuevos Ensayos sobre Heráclito, cit., pp. 11-73. del progetto editoriale eracliteo di Mouraviev fornirò una breve descrizione infra, nella Nota al testo, § 1.

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XLIV IntroduzIone

ne, Teeteto 180a, quando denuncia il carattere enigmatico e oracolare delle «frasette» lanciate dagli eraclitei (rJhmativskia aijnigmatwvdh). né siamo meglio informati sull’immediata diffusione dell’opera di eraclito: deposta presso il tempio di Artemide, come indica diogene Laerzio, sarebbe giunta ad Atene attraverso euripide, che avrebbe compiuto il viaggio fino a efeso appunto per recuperare il libro e portarlo a Socrate (IX 11, cfr. II 22; ma l’associazione fra euripide e Socrate, fin dalla commedia antica, pare piuttosto sospetta), oppure attraverso Cratilo, se si deve dare credito al suo ruolo come discepolo di eraclito attivo ad Atene all’epoca della formazione filosofica di Platone.

50

Il fatto che si parli di un «libro» e della sua diffusione esclude a mio avviso che si trattasse di una semplice raccolta di aforismi o detti sentenziosi; ma le lamentele di Plato-ne e di teofrasto sulla linearità e la compiutezza del suo svolgimento e le fantasiose notizie sul suo arrivo ad Atene sollevano dubbi e incertezze su cosa si potesse leggere come opera di eraclito, e in cosa essa consistesse esattamente, già tra l’ultimo scorcio del V e l’inizio del IV secolo a.C. in un ambiente avanzato e colto come quello ateniese, così rendendo vano ogni tentativo di ricostruzione d’insieme che pretenda di ristabilire un originale. non è sufficiente, in altre parole, che Aristotele menzioni il «libro» di eraclito per ricavarne che egli ne avesse sotto gli occhi una copia e che tale copia fosse perfino una versione completa dell’originale, giacché poteva certamente citare a partire da antologie di materiali, eraclitei e presocratici, che probabilmente circo-lavano all’interno dell’Accademia e soprattutto del Liceo, a loro volta estratti dagli originali o da altre compilazioni precedenti; e la convinzione che teofrasto disponesse del «libro» di eraclito come base per la sua presentazione dos-sografica nelle fusikw'n dovxai è tanto incerta quanto lo è il

50 Cfr. supra, § 2.1 e n. 11.

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IntroduzIone XLV

tentativo di ricostruire i contenuti di questa opera, secondo l’ipotesi di diels, attraverso un’assai complessa tradizione e a partire da excerpta posti anche a sette secoli di distanza.51 né, infine, si può addurre come prova della circolazione del «libro» di eraclito fino al III secolo d.C. il fatto che autori di quest’epoca, come Clemente Alessandrino e Ippolito (ma anche, ben prima di loro, Plutarco), ne riportino numerose citazioni e spesso corrette sul piano testuale,52 perché nulla impedisce che costoro disponessero di raccolte antologiche di valore e affidabilità variabili o perfino delle opere di altre fonti intermedie oggi perdute, specie stoiche, a loro volta portatrici di citazioni eraclitee più o meno reinterpretate in chiave stoica.53 È dunque prudente supporre che il «libro» di eraclito, l’opera originale che certamente è esistita e ha posseduto una struttura teorica e uno svolgimento argomen-tativo ben precisi, benché non necessariamente compiuti sotto ogni profilo, non possa essere oggetto di ricostruzione se non in forma estremamente congetturale, sulla base di pochissime informazioni verosimili e di molte ipotesi sol-tanto interpretative, e proponendo un testo da sottoporre a un esame accurato e sempre diffidente, perché in nessuna fase della sua citazione si può documentare con certezza un rinvio diretto all’originale, quantomeno nella misura in cui, anche se il citatore ne dispone, non manifesta alcun interesse, né alcuna intenzione, a trasmetterne più che spunti isolati. rimane perciò soggettivo ogni tentativo di stabilirne l’arti-

51 Per l’ipotesi di ricostruzione dell’opera dossografica teofrastea formulata da diels, si veda supra, n. 19.

52 Così, per esempio, Mouraviev, Héraclite, cit., pp. 595-96, ma cfr. già Kahn, pp. 3-9.

53 Cfr. supra, § 2.2. utili e condivisibili osservazioni metodologi-che sulla trasmissione delle opere dei presocratici, e di eraclito in particolare, nella tradizione antica e tardoantica, si trovano in d. Sider, The Fate of Heraclitus’ Book in Later Antiquity, in Nuevos Ensayos sobre Heráclito, cit., pp. 443-58.

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XLVI IntroduzIone

colazione interna e risulta assai discutibile, perché tributaria di una scansione posteriore di matrice ellenistica, l’unica informazione in proposito, dovuta a diogene Laerzio (IX 5), secondo la quale l’opera di eraclito sarebbe stata divisa (dih/vrhtai) in tre lovgoi, «uno sul tutto, uno politico e uno teologico» (ei[ı te to;n peri; tou' panto;ı kai; politiko;n kai; qeologikovn).

Pure incerto, come del resto è il caso della gran parte delle opere dei presocratici, il titolo del «libro» di eraclito, per il quale ancora diogene Laerzio (IX 12) indica diverse possibilità: dall’usuale peri; fuvsewı, che accomuna appunto, nei resoconti posteriori, molte delle ricerche dei presocratici, intendendo fornirne una descrizione d’insieme,54 a Mou 'sai, le «Muse», che sembra riecheggiare l’allusione di Platone, Sofista 242d, che evoca la dottrina eraclitea facendo riferi-mento alle «Muse di Ionia» (cui si accompagnano le «Muse di Sicilia», vale a dire empedocle),55 alle forme parafrasate «Acuta guida per la linea della vita» (ajkribe;ı oijavkisma pro;ı staqmh;n bivou), «regola dei costumi» (gnw'mon jhjqw'n), «unico ordine della vita di tutti» (trovpou kovsmon e{na tw'n sumpavntwn). Poiché è plausibile che la questione del «tito-lo» non fosse particolarmente avvertita come un’esigenza problematica da parte di eraclito, mi limito a suggerirne una forma puramente convenzionale del genere di lovgoı peri; fuvsewı, sulla base del fr. 1 [1 dK; 1 Marc.], nel quale eraclito introduce la sua dottrina appunto come una pre-

54 Si vedano solo, in proposito, e. Schmalzriedt, Peri Phuseos. Zur Frühgeschichte der Buchtitel, Fink, München 1970, e G. nad-daf, L’origine et l’évolution du concept grec de «phusis», Mellen, Lewiston 1992, pp. 9-58.

55 Mouraviev, Héraclite, cit., p. 597, formula l’ipotesi che lo stes-so Platone possa aver giocato sull’etimologia del termine Mu'sai (cfr. Cratilo 406a), dal verbo mw'sqai («cercare»), così indicando effettivamente un possibile «titolo» dell’opera di eraclito come «ricerche» o «Questioni».

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IntroduzIone XLVII

sentazione del «ragionamento» che illustra le cose che sono kata; fuvsin, «secondo la loro natura». Varie e in ultima analisi indecibili sono anche le valutazioni rispetto alle dimensioni e all’estensione dell’originale e, di conseguenza, alla quantità di esso che i frammenti in nostro possesso ne restituiscono, giacché si va da stime molto ridotte (del 20 per cento circa) a concessioni più generose (fino ai due terzi).56 È discussa infine perfino la forma letteraria dell’originale, nella misura in cui, se vi sono pochi dubbi sul fatto che si tratta di un’opera in prosa ionica fra le più antiche attesta-te, nel senso che si distacca nettamente dalle composizioni poetiche arcaiche caratterizzate dall’accompagnamento musicale e dalla lettura ad alta voce, è stato ampiamente dimostrato che essa presenta una serie di elementi «poetici», specie sul piano del ritmo, sillabotonico e metrico, spesso facilmente riconoscibile nei frammenti e che ne costituisce quindi, almeno al livello di «incrostazioni» profonde, un tratto distintivo;57 qualche incertezza deve essere sorta del resto fin dall’antichità, se diogene Laerzio (IX 16) riporta la notizia che il giambografo Scitino avrebbe trasposto in versi l’opera di eraclito, il che ha fatto supporre che essa consistesse, già di per sé, in una composizione «mista», con

56 Cfr. ancora su questo punto Mouraviev, Héraclite, cit., pp. 598-99.57 Si vedano solo, per un esame delle caratteristiche ritmiche e

poetiche della prosa eraclitea, gli studi di K. deichgräber, Rhyth-mische Elemente im Logos des Heraklit, in «Abhandlungen der Geistes und sozialwissenschaftlichen Klasse der Akademie der Wissenschaften und der Literatur in Mainz» (1962), pp. 477-553, di C.H. Kahn, Philosophy and the Written Word. Some Thoughts on Heraclitus and the Early Greek Uses of Prose, in Language and Thought in Early Greek Philosophy, a cura di K. robb, the Hegeler Institute, La Salle (Illinois) 1983, pp. 110-24, e di A. Iannucci, La «obscuritas» della prosa eraclitea, in «Lexis» 12 (1994), pp. 47-66. una rassegna efficace e sintetica si trova in Mouraviev, Héraclite, cit., pp. 611-13, di cui lo stesso autore fornisce un’applicazione sistematica alla lettura dei frammenti in Mouraviev II.

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XLVIII IntroduzIone

parti in prosa e parti in poesia.58 Molteplici sono pure gli

elementi fonici (allitterazioni, omoteleuti, consonanze) e morfologici (parallelismi, chiasmi), magistralmente sinte-tizzati da Kahn, che ha sottolineato la «densità linguistica» dei frammenti e, a un tempo, la loro reciproca «risonanza», con la prima facendo riferimento al fatto che una «molte-plicità di idee è espressa in una singola parola o frase», con la seconda all’effetto persistente di richiamo per cui sussiste «una relazione fra i frammenti, attraverso la quale un singolo tema verbale o una singola immagine riecheggia da un testo all’altro, in modo che il significato di ciascuno è arricchito dal loro accostamento».

59 La ripetizione di alcuni termini

chiave, letterale (come lovgoı, levgesqai, oJmologei'n, koinovn o xunovn, per non citare che i più ricorrenti) o non letterale (come gnw'siı, novoı, sofiva, frovnhsiı ecc., che fanno riferi-mento a uno stesso ambito semantico), costituisce la trama stessa dell’argomentazione eraclitea, il vincolo formale che ne ricollega i temi principali, che occorre tentare di coglie-re e ricostruire puntualmente per giungere a una almeno approssimativa comprensione dell’insieme; d’altro canto, e per la stessa ragione, ciascuno di questi termini, proprio in virtù della sua frequente ripetizione in contesti diversi, si presenta in ognuno di essi come portatore di un’ambi-guità intenzionale, non dissimile da quella del linguaggio oracolare,

60 che è impossibile sciogliere compiutamente se,

58 Cfr. per esempio Marcovich, p. 358.59 Cfr. Kahn, pp. 87-95, e la rassegna schematica proposta da

Mouraviev, Héraclite, cit., pp. 613-16. utili elementi per l’analisi del linguaggio e dello stile di eraclito sono forniti negli studi seguenti: H. Jones, -sis Nouns in Heraclitus, in «Museum Africum» 3 (1974), pp. 1-13; C.J. Classen, Beobachtungen zur Sprache Heraklits, in «Phi-lologus» 140 (1996), pp. 191-200; A. Bernabé, Expresiones polares en Heráclito, in Nuevos Ensayos sobre Heráclito, cit., pp. 103-37; e F. Casadesús Bordoy, La transposición del vocabulario épico en el pensamiento filosófico de Heráclito, ibid., pp. 139-68.

60 rinvio solo, in proposito, a e. Hussey, Epistemology and Mean-

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IntroduzIone XLIX

essendo appunto deliberata, presuppone un uso consapevole da parte di eraclito, di cui è dunque necessario tenere conto, nonostante l’esigenza di una scelta, ugualmente necessaria, che si impone evidentemente al traduttore dei frammenti, posto di fronte all’obiettivo, spesso irragiungibile, di fornire una resa inevitabilmente univoca della loro irriducibile pluralità semantica.

non è difficile constatare come simili caratteristiche for-mali frappongano altrettanti ostacoli all’interpretazione dei contenuti dottrinari della riflessione eraclitea.

4. La dottrina di Eraclito

La riflessione di eraclito è naturalmente influenzata dall’ere-dità culturale dei poeti e dei saggi della tradizione greca arcai-ca e, d’altra parte, dagli esiti della ricerca fisico-naturalistica della prima filosofia ionica. non è possibile ricostruire qui l’insieme di questi riferimenti,

61 di cui si darà conto, in modo

solo puntuale, nelle note di commento ai pertinenti frammenti eraclitei, ma, per esprimersi in termini molto generali, dalla prima deriva soprattutto a eraclito una certa concezione della virtù aristocratica, specie di ascendenza epica, che esalta l’eccellenza e la superiorità dell’eroe combattente rispetto agli altri uomini, cui si trova associato un ideale, via via più

ing in Heraclitus, in Language and Logos. Studies in Ancient Greek Philosophy Presented to G.E.L. Owen, a cura di M. Schofield e M. nussbaum, Cambridge univ. Press, Cambridge 1982, pp. 33-59; e, infra, al § 5.

61 Per i rapporti con la prima filosofia ionica, si vedano gli studi di M.C. Stokes, One and Many in Presocratic Philosophy, Center of Hellenic Studies, Washington 1971, e soprattutto, oggi, di d. Graham, Explaining the Cosmos. The Ionian Tradition of Scientific Philosophy, Princeton univ. Press, Princeton 2006, e di J. Warren, Presocratics. Natural Philosophers before Socrates, Acumen, Stocksfield 2007.

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L IntroduzIone

diffuso nella poesia lirica e poi in età classica, che identifica la virtù con la swfrosuvnh, quella forma di «moderazione» e di «saggezza» che implica la conoscenza di sé e il rispetto dei limiti, naturali e sociali, a ciascuno assegnati; dall’ambi-to propriamente militare del paradigma dell’eroe omerico una simile concezione transita verso la riflessione sociale e politica cui eraclito presta particolare attenzione (cfr. infra, § 4.6). d’altra parte, dalla ricerca svolta dai primi pensatori ionici, talete, Anassimandro e Anassimene, emerge una nozione unitaria e allo stesso tempo composita del kovsmoı, la cui osservazione conduce a una serie di ipotesi relative all’elemento o agli elementi fondamentali da cui trae origine e di cui si compone, come pure all’indagine empirica dei molteplici aspetti, astronomici, meteorologici, fisici, che ne caratterizzano i processi e i fenomeni. Su entrambi questi pia-ni eraclito prende posizione, approfondendo o opponendosi alle dottrine dei predecessori, per un verso radicalizzando l’approccio fisico-cosmologico alla spiegazione della realtà e dei processi naturali, ai quali viene ricondotta anche la sfera psico-fisiologica della costituzione e delle funzioni dell’anima, per l’altro tratteggiando un metodo di ricerca in una certa misura «sperimentale», che si fonda sulla ricognizione diretta dei fenomeni e sulla loro illustrazione attraverso il ricorso a un insieme di leggi universalmente valide, suscettibili di essere colte razionalmente e concretamente verificate (cfr. infra, §§ 4.3-4.5).

62

date queste premesse, e in virtù delle considerazioni esposte nel paragrafo precedente sullo stato frammentario della nostra conoscenza dell’opera di eraclito e sull’assenza

62 un utile résumé di questo duplice «debito» di eraclito nei confronti della tradizione che lo precede, da cui ho preso spunto, si trova in Kahn, pp. 9-23, ed è approfondito, per quel che riguarda specialmente i pensatori milesii, ancora da d. Graham, Heraclitus’ Criticism of Ionian Philosophy, in «oxford Studies in Ancient Philosophy» 15 (1997), pp. 1-50.

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IntroduzIone LI

di notizie certe in relazione a quasi ogni aspetto di questa opera (titolo, dimensioni, tema e articolazione), ritengo opportuno procedere all’esame della riflessione eraclitea distinguendo ambiti argomentativi diversi, che anticipano del resto le Sezioni in cui raccolgo i frammenti tradotti e commentati; le Sezioni mantengono un carattere in certa misura arbitrario, perché la loro delimitazione dipende evi-dentemente dall’interpretazione dei materiali in esse collocati, e possono eventualmente sovrapporsi: se, per esempio, la dottrina dell’unità dei termini opposti ha, come tale, una sua collocazione specifica in una certa Sezione, nulla impedisce che altri materiali che attengono alla fisica, all’etica o alla teoria della conoscenza di eraclito, e che sono perciò collocati in altre Sezioni, ne richiamino tuttavia i principi e l’applica-zione. una scansione per «gruppi» tematici dei frammenti eraclitei non è di per sé nuova, perché, come già ricordato, è stata adottata nell’edizione di M. Marcovich e rappresen-ta un’opzione intermedia fra la rinuncia a qualunque loro disposizione ordinata (come avviene nell’edizione di diels e Kranz) e la pretesa di ricostruirne più o meno precisamente la disposizione originale (come è il caso di S.n. Mouraviev): tengo però a precisare che, rispetto a Marcovich, che conside-ra i «gruppi» tematici da lui individuati come semplici punti di raccolta di materiali di analogo contenuto, tento invece di proporre con le Sezioni da me stabilite un andamento che, se non intendo certo affermare che corrisponda al «libro» di eraclito, soddisfi però i requisiti di una sequenza argo-mentativa coerente, che può quindi rispecchiare, almeno a mio avviso, una sistemazione plausibile della sua riflessione e fornire di conseguenza un’illustrazione del suo oggetto, così ipotizzando all’interno di ogni Sezione e fra i frammenti che essa contiene, ma anche fra le diverse Sezioni, una sorta di continuità, per quanto ricostruita solo a posteriori. Se alle note di commento è affidato il compito di un’interpreta-zione dettagliata e puntuale dei singoli frammenti e della

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LII IntroduzIone

loro sequenza, ogni Sezione è preceduta da una breve Nota

introduttiva che riassume l’interpretazione dei frammenti che vi sono raccolti, dà conto delle principali testimonianze antiche che li riguardano e suggerisce alcuni spunti biblio-grafici essenziali. nei paragrafi che seguono (4.1-4.6), invece, mi limiterò a una semplice messa a punto delle mie proposte esegetiche dei principali temi della riflessione di eraclito rispetto alle più influenti ipotesi alternative emerse negli studi eraclitei degli ultimi decenni.

4.1 Il lovgoı

L’introduzione del lovgoı, fin dal fr. 1 [1 dK; 1 Marc.], pone un complesso problema di traduzione e di interpretazione, che si riflette poi sulla comprensione della riflessione eraclitea nel suo insieme.

63 Anche indipendentemente dal significato

che il termine lovgoı assume nella letteratura greca arcaica, precedente o contemporanea di eraclito, da cui si traggono comunque indicazioni univoche, pare abbastanza chiaro che lovgoı non possa che essere connesso al «dire» e al «discorso», se il nucleo dell’argomento, di per sé polemico nei confronti degli uomini, consiste nella denuncia dell’incomprensione del lovgoı che permane appunto sia «prima di averlo ascoltato» (provsqen h] ajkou'sai) sia «dopo averlo ascoltato una prima volta» (ajkouvsanteı to; prw'ton). L’invettiva eraclitea colpisce dunque innanzitutto l’insieme degli uomini rappresentati come una massa indistinta di «ascoltatori» svogliati e distratti

63 Fra gli studi introduttivi alla questione, ricordo particolarmente e. Kurtz, Interpretation zu den Logos-Fragmenten Heraklits, olms, Hildesheim 1971; e.L. Miller, The Logos of Heraclitus. Updating the Report, in «Harvard theological review» 74 (1981), pp. 161-76; L. tarán, The First Fragment of Heraclitus, in «Illinois Classical Studies» 11 (1986), pp. 1-15. Si veda pure, in ultimo, e. Brann, The Logos of Heraclitus, Paul dry Books, Philadelphia 2011.

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IntroduzIone LIII

fino all’inettitudine; ma se propriamente degli «ascoltatori» sono i destinatari del lovgoı, risulta non soltanto plausibile, ma perfino necessario, che quest’ultimo sia un «discorso» di qualche genere.

64 non però esclusivamente un «discorso»

pronunciato, per esempio, da un oratore di fronte a un udi-torio, perché non si capirebbe allora il senso del rimprovero di eraclito, se è vero che, mentre è lecito biasimare chi, per distrazione o inettitudine, non comprende un discorso dopo

averne ascoltato l’esposizione, sembra invece insensato rivol-gere questa accusa a chi non lo abbia ancora ascoltato. Se anche tale accusa deve avere un fondamento, come è ovvio che sia, il lovgoı di eraclito farà necessariamente riferimen-to a un «discorso» che può essere pronunciato e ascoltato, donde la questione di accertare se, dopo l’ascolto, esso sia stato compreso, ma che può essere anche colto indipen-dentemente dalla sua esposizione e dal suo ascolto, donde la legittimità della condanna di quanti, appunto prima del

suo ascolto, non lo comprendono: questa possibile, benché evidentemente rara, comprensione del lovgoı, indipendente dalla sua esposizione e dal suo ascolto, suppone senza dubbio una qualche forma di ricostruzione autonoma della struttura e dei contenuti del lovgoı stesso da parte degli uomini; ora, poiché i frammenti descrivono il lovgoı come «comune» a tutti, e a tutti accessibile (xunw'/ pavntwn, cfr. il fr. 6 [114 dK; 23 Marc.]; tou' lovgou d jejovntoı xunou', cfr. il 7 [2 dK; 23 Marc.]), e portatore di una conoscenza unitaria cui si contrappone la comprensione individuale e «privata» di chi non giunge a coglierlo (zwvousin oiJ polloi; wJı ijdivan e[conteı frovnhsin, cfr.

64 ricche ed estremamente precise le osservazioni di carattere storico-linguistico di diano-Serra, pp. 90-104; di carattere più gene-rale l’esame di M. Fattal, Le logos d’Héraclite, un essai de traduction, in «revue des études grecques» 99 (1986), pp. 142-52. Si veda pure, infra, la n. 9 al fr. 1 [1 dK; 1 Marc.], in cui è brevemente presentata la posizione dei principali commentatori dei frammenti eraclitei su questo punto.

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LIV IntroduzIone

il fr. 7 [2 dK; 23 Marc.]; e{na kai; koino;n kovsmon ei\nai, tw'n de; koimwmevnwn e{kaston eijı i[dion, cfr. il fr. 8 [89 dK; 24 Marc.]), se ne deduce che esso è dotato di una struttura argomen-tativa razionale che è appunto data oggettivamente, e non soggetta a «interpretazioni» personali, e che perciò si rivela determinabile anche prima del, cioè indipendentemente dal, suo effettivo «ascolto». Si tratterà quindi di un «ragionamen-to» esplicativo che può essere indifferentemente ascoltato, se pronunciato da qualcuno come «discorso», o ricostruito autonomamente come «spiegazione» oggettiva delle cose che sono, anche se non è esposto, o prima che venga esposto, in un «discorso».

d’altra parte, subito oltre nello stesso fr. 1 [1 dK; 1 Marc.], eraclito afferma che «tutte le cose si verificano» (o «diven-gono», ginomevnwn pavntwn) «in conformità a» o «secondo» questo lovgoı (kata; ton; lovgon tovnde) e proprio tale affer-mazione è evocata come causa dell’incomprensione, da parte degli uomini, della natura delle cose che sono (come è reso esplicito dalla connessione causale stabilita da gavr), sicché al lovgoı pare riservata una funzione essenzialmente illustrativa o esplicativa, che certamente illustra ed esplica l’insieme dei principi normativi che regolano la totalità del reale, ma a cui non appartiene nessun ruolo direttamente operativo o produttivo, che eventualmente si pone a un livello diverso, ossia nell’ambito dei rapporti effettivi fra le cose che sono e delle loro trasformazioni fisiche (per cui si vedano i seguenti §§ 4.2 e 4.3). Infatti, dalla congiunzione delle due premesse – che (1) gli uomini non comprendono il lovgoı e che (2) in conformità a esso si verificano tutte le cose – deriva la conclusione che (3) gli uomini propongono, in parole e azioni (ejpevwn kai; e[rgwn), abbozzi di discorsi e di opere di spiegazione e insegnamento solo simili a quelli del filosofo, che invece, senza dubbio in virtù di una corretta comprensione del lovgoı, è in grado di «distinguere ogni cosa in base alla sua natura» (kata; fuvsin diairevwn e{kaston),

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IntroduzIone LV

cioè non sovrapponendo le cose che sono le une alle altre confondendole grossolanamente, ma riproducendo adegua-tamente l’articolazione del tutto, di ciascuna «dicendo come è» (fravzwn o{kwı e[cei), perciò portandone alla luce la costi-tuzione propria e la collocazione nel tutto. Ciò conferma a mio avviso, oltre ogni dubbio, che la concezione eraclitea del «ragionamento» che manifesta natura e principi delle cose che sono non implica un riferimento all’idea di una «ragione» o di una «mente» che, attivamente o operativamente, produce o determina tali natura e principi, così ponendo fuori gioco, d’emblée, ogni interpretazione, come quella rintracciabile nel-la lettura stoica di eraclito (brevemente delineata supra, nel § 2.2), che faccia del lovgoı il fondamento causale, regolativo e organizzativo del cosmo; ma anche esclude ogni allusione a una «legge» o a una «verità», pur se soltanto latamente, metafisica, che sia data delle cose e nelle cose,

65 giacché il

lovgoı consiste semmai nell’illustrazione della legge in base

alla quale avvengono le cose, dunque nella spiegazione della logica dei processi fenomenici, non identificandosi immedia-tamente con essa, di cui vengono sottolineati a un tempo la dimensione oggettiva e universale e l’accessibilità da parte di qualunque soggetto particolare. Così stando le cose, va pure respinta l’associazione, anch’essa di matrice stoica, ma testimoniata soprattutto da Sesto empirico (cfr. supra, § 2.3), del lovgoı a un principio «comune e divino», diffuso nel tutto, razionale e intelligente (koino;n kai; qei'on ... to; perievcon hJma'ı logikovn te o]n kai; frenh'reı), con il quale

65 Vanno invece in tal senso, recentemente, le conclusioni di t.M. robinson, Heraclitus and Logos, again, in Nuevos Ensayos sobre Heráclito, cit., pp. 93-102; ma già Marcovich, pp. 7-9, adottava, benché con alcune precisazioni e limitazioni, la traduzione di lovgoı con «Verità» (con la maiuscola!), da intendere nel senso di «verità obiettiva (legge, regola)», essendo noto (?) «come il pensiero greco arcaico non avesse ancora bene chiara la distinzione fra aspetti obiettivi e soggettivi della conoscenza (cioè fra Idea-Parola e Cosa)».

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LVI IntroduzIone

il soggetto entra in comunicazione tramite i canali sensibili, per aspirazione e respirazione (di j ajnapnoh'ı spavsanteı). del primo aspetto che emerge da questa testimonianza si è già detto; sul secondo si può osservare che, nei materiali eraclitei pertinenti, l’accesso al lovgoı è sempre introdotto da modalità che sono espresse facendo riferimento all’ascolto e alla conseguente comprensione del sapere che l’ascolto del lovgoı schiude a chi giunga a coglierlo adeguatamente, mentre nulla induce a pensare a una qualche forma di comunicazione sensibile immediata, per esempio per «respirazione», con esso: fenomeni psico-fisiologici connessi alla trasformazione degli elementi e alla trasmissione di determinate proprietà attraverso processi di evaporazione e condensazione, di «esalazione» e «respirazione», sono indubbiamente evocati in relazione alla natura e alla funzione dell’anima, alla sua generazione e alla sua alimentazione vitale, ed eventualmente perfino per quel che riguarda la sua «efficacia» conoscitiva (cfr. infra, § 4.5), ma mai per descrivere l’attitudine individuale nell’accesso al lovgoı.66

È degna di nota, infine, la perfetta simmetria stabilita da eraclito fra le modalità di accesso al lovgoı, che prevedono l’ascolto dei suoi contenuti o la loro ricostruzione autonoma attraverso una procedura razionale non meglio precisata, e gli atteggiamenti speculari che provocano l’errore degli uomini che al lovgoı rimangono estranei, rappresentati non a caso come sordi (nel fr. 2 [34 dK; 2 Marc.]), cioè precisamente incapaci di ascoltare, e come dormienti, cioè, pur svegli, perduti nel sonno (per esempio nell’ultima parte dello stesso fr. 1 [1 dK; 1 Marc.] e nel fr. 8 [89 dK; 24 Marc.]), ossia abbandonati alle fantasticherie dei sogni che impediscono di procedere

razionalmente per l’ottundimento delle facoltà naturali.

66 Cfr. pure Kahn, p. 295, mentre una posizione contraria, di pur prudente accettazione della testimonianza di Sesto empirico, è stata difesa da Kirk, p. 341.

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IntroduzIone LVII

4.2 L’unità degli opposti e il divenire

tratteggiate così, brevemente, l’introduzione del lovgoı e la sua funzione soltanto esplicativa, bisogna precisare adesso i contenuti di tale spiegazione, cioè l’unico sapere oggettivo e universale che illustra la totalità del reale e che, fin dal fr. 5 [50 dK; 26], si trova sintetizzato nella formula che sancisce l’unità del tutto: e}n pavnta ei\nai; oppure, nel fr. 16 [10 dK; 25 Marc.]: ejk pavntwn e}n kai; ejx eJno;ı pavnta. In quest’ultima versione, la tesi dell’unità del tutto è espressa nella forma che meglio la contraddistingue nella concezione eraclitea, perché ne valorizza l’aspetto organico e dina-

mico: l’unità del tutto mantiene un carattere plurale, che ricompone in sé, ma non annulla, la molteplicità delle cose che sono, che a loro volta, pur irriducibilmente molteplici, tendono a ricomporsi in qualche modo come altrettante articolazioni dell’unica totalità delle cose esistenti; analo-gamente, la relazione fra unità e molteplicità implica una connotazione dinamica, se, l’una e l’altra non costituendosi come dimensioni definitive e assolute, suppongono una perenne alternanza e reciprocità.

67 Ciò è quanto si deve

trarre, mi pare, dall’indicazione di povlemoı, la «guerra», come padre di tutte le cose, nella loro opposizione e nella loro conflittuale alternanza, nei frr. 12 [53 dK; 29 Marc.] e 13 [80 dK; 28 Marc.], la cui eterna e ininterrotta succes-sione è caratterizzata da «giustizia» e «necessità» (divkhn e[rin ... kata; crevwn), nel senso che appare necessariamente

inesauribile e inarrestabile e giustamente dispensatrice, per tutte le cose, di posizioni e ruoli di volta in volta speculari, affinché nessuna di esse, nell’economia generale del tutto,

67 Si potrà consultare su questo punto, con ampia documentazione e conclusioni parzialmente diverse da quelle da me sottolineate, lo studio di t. Hammer, Einheit und Vielheit bei Heraklit von Ephesus, Königshausen & neumann, Würzburg 1991.

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LVIII IntroduzIone

si trovi a permanere definitivamente in un certo stato o condizione di prevalenza o minorità assolute.68

«Giustizia» e «necessità», determinando i caratteri di eternità e di esaustività di povlemoı, contribuiscono così a delineare un’immagine della «guerra», autentico fondamento ontologico e principio operativo di tutte le cose, come una condizione di equilibrio conflittuale, tale cioè che, sebbene le singole cose esistenti in essa coinvolte si oppongano irriduci-bilmente le une alle altre, il quadro d’insieme che costruiscono nella loro totalità rimane costante, quantitativamente (perché nessuna delle cose esistenti prevale o soccombe definitiva-mente di fronte alla sua antagonista) e qualitativamente (perché l’alternanza fra le cose che sono non modifica, nel tempo, la loro alterna disposizione); ed è appunto questa condizione di equilibrio conflittuale che eraclito paragona a una forma di armonia basata sulla reciproca compensazione di tensioni opposte (palivntonoı ajrmonivh, cfr. il fr. 14 [51 dK; 27 Marc.]), ossia a un assetto concordante che risulta dalla discordia e dall’opposizione dei suoi elementi componenti.69 È in questo contesto che si può collocare, pur congettural-mente, la celebre tesi dell’unità dei termini opposti, secondo la quale i termini opposti e tutte le cose che sono si impli-

68 una buona ricostruzione critica, con gli opportuni riferimenti bibliografici, della concezione eraclitea di povlemoı, è fornita da A. Schoener, Heraclitus on War, diss., toronto 1993; mentre, per un’acu-ta messa a punto, cfr. J. Frère, Le rôle d’Éris chez Héraclite, in Les anciens savants, Études sur les philosophes préplatoniciens réunies par P.-M. Morel et J.-F. Pradeau, Actes du Colloque international, in «Les Cahiers Philosophiques de Strasbourg» 12 (2001), pp. 37-46.

69 Sulla nozione eraclitea di «armonia», qui appena accennata, si vedano, oltre alle note di commento ai frr. 14 [51 dK; 27 Marc.], 14a [8 dK; 27d1-28b1 Marc.] e 15 [54 dK; 9 Marc.], gli studi di J. McIntosh Snyder, The Harmonia of Bow and Lyre in Heraclitus fr. 51 DK, in «Phronesis» 29 (1984), pp. 91-95, e soprattutto di A. Petit, Harmonie pythagoricienne, harmonie héraclitéenne, in «revue de Philosophie Ancienne» 13 (1995), pp. 55-66.

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IntroduzIone LIX

cano reciprocamente, così dando luogo a una prospettiva unitaria che appunto si regge sulla coimplicazione dei suoi elementi costituenti: secondo il già citato fr. 16 [10 dK; 25 Marc.], infatti, i termini opposti – «intero»-«non intero», «concordante»-«discordante», «consonante»-«dissonante» – producono «congiunzioni» (sullavyieı), che sembrano a loro volta responsabili dell’insorgere, nel tutto, dell’unità (ejk pavntwn e{n), per quanto, come spiegato poco sopra, organica e dinamica (ejx eJno;ı pavnta). tali «congiunzioni», o coimplicazioni, degli opposti dipendono dalla constatazione, che emerge per esempio nel fr. 17 [111 dK; 44 Marc.], che sussiste fra essi un’innegabile relazione che impone di definire ciascuno sempre e necessariamente rispetto al suo opposto, non tanto, e non solo, in termini linguistici e proposizionali, ma innanzitutto per quel che concerne lo statuto stesso di ogni termine, che è propriamente determinato, e di conseguenza definito, dalla relazione con il suo opposto: se «la malattia rende piacevole e buona la salute», ne consegue che la natura stessa della salute come condizione piacevole e felice dipende dal contrasto con la condizione spiacevole e gravosa della malattia, sicché queste due condizioni si delimitano reciproca-mente e solo da tale delimitazione ricevono le loro specifiche determinazioni; inoltre, la percezione stessa della salute come condizione piacevole può essere soggettivamente stabilita solo in base al confronto con la malattia, come pure, infine, l’impiego del termine «salute» con un significato positivo, sul piano linguistico, si definisce in rapporto all’impiego, con un significato negativo, del termine «malattia».

Questo principio generale applicabile alla relazione fra gli opposti sembra esteso anche alla relazione che una coppia di termini opposti intrattiene con un terzo termine: l’«inizio» e la «fine» in una circonferenza o il percorso «ascendente» e «discendente» di una via ne sono altrettanti esempi (cfr. i frr. 19 [103 dK; 34 Marc.] e 20 [60 dK; 33 Marc.]), perché in una figura circolare, nella quale ogni punto può costituire indif-

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LX IntroduzIone

ferentemente l’inizio e la fine del tracciato, «inizio» e «fine» sussistono, si definiscono e sono percepiti come tali solo l’uno in relazione all’altra (la «fine» della circonferenza essendo il punto stesso nel quale si è posto l’«inizio», e viceversa, benché l’«inizio» sia poi di per sé il principio del tracciato, mentre la «fine» ne è la conclusione), come pure in uno stesso percorso, caratterizzato da un certo dislivello, la salita e la discesa sussi-stono, si definiscono e sono percepite come tali solo l’una in relazione all’altra (benché, da un punto di vista unilaterale, chi si colloca nel punto più basso del dislivello percorra la «salita», mentre chi si colloca nel punto più alto percorre la «discesa»), perché il tracciato del percorso rimane identico, indipendentemente dal suo dislivello e dal senso in cui lo si percorre, e la «salita» e la «discesa» non ne sono che aspetti o descrizioni complementari. È infine possibile applicare la tesi eraclitea anche al caso della relazione fra due coppie di opposti (come pare avvenire nel fr. 21 [62 dK; 47 Marc.]), come «immortali»-«mortali» e «vita»-«morte», giungendo a mostrare che la coimplicazione degli opposti si estende ai termini di ciascuna coppia presi in relazione a ciascun termine dell’altra coppia (per esempio, «vita»-«morte», rispettivamente, per gli «immortali» e per i «mortali», sono complementari, se la «vita» eterna degli «immortali» è «morte» per i «mortali» destinati alla morte e la «vita» destinata alla morte dei «mortali» è «morte» per gli «immortali» che sono eterni).70

Vi è però una profonda controversia intorno all’esatta determinazione della natura dell’unità dei termini opposti: ho parlato infatti, fin qui, di coimplicazione o complementarietà degli opposti, intendendo con ciò che sussiste fra essi una relazione che stabilisce la loro unità senza negarne l’opposi-zione e l’alterità, ossia in modo che, pur rimanendo, ciascuno

70 Per una discussione più precisa del fr. 21 [62 dK; 47 Marc.], che presenta un caso assai più complicato dei precedenti e sulla cui interpretazione non vi è consenso, rinvio alla relativa n. 2.

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IntroduzIone LXI

singolarmente preso, opposto al suo opposto, contribuiscono a costruire una prospettiva unitaria, composita e plurale, come i pezzi di un mosaico o di un puzzle che, pur fra loro diversi (o proprio in quanto diversi), sono tutti indispensabili alla realizzazione dell’insieme, come avviene nel caso dell’armo-nia, che risulta dalla combinazione delle diverse note e delle melodie appropriate e come loro sintesi. Questa interpre-tazione è tuttavia ben lungi dall’essere unanime.

71 Secondo

Marcovich vi sono infatti almeno alcuni casi, per esempio quelli poco sopra citati dei frr. 19 [103 dK; 34 Marc.] e 20 [60 dK; 33 Marc.], in cui si possono articolare gradi distinti di unità degli opposti, giungendo fino a una vera e propria coincidentia oppositorum che suppone a certe condizioni la loro identità, così realizzando un’unità metafisica superiore che trascende i punti di vista particolari e solo illusori di chi rimane imprigionato nella falsa dialettica dei termini opposti (per cui «inizio» e «fine», come punti di una circonferenza, sono oggettivamente identici, come anche «salita» e «disce-sa» nel tracciato di un percorso, e appaiono erroneamente

diversi e opposti solo a chi non sappia appunto coglierne l’unità identica).

72 A una simile lettura si possono accostare

forse le implicazioni radicalmente relativiste della dottrina di eraclito sottolineate da Platone, che ne fa il sostenitore del divenire assoluto del reale che impedisce qualunque forma di conoscenza delle cose che sono, appunto per la loro con-tinua trasformazione che le rende di fatto indifferenziate e coincidenti, e da Aristotele, che lo combatte di conseguenza

71 e non lo era, a quanto pare, neanche per le fonti antiche, se già Platone e Aristotele si mostrano in parziale disaccordo su questo punto, come ha argomentato d. o’Brien, Héraclite et l’unité des oppo-sés, in «revue de métaphysique et de morale» 2 (1990), pp. 147-71.

72 Cfr. Marcovich, pp. 111-16; ma si veda per esempio, per un riesame alquanto simpatetico di questa interpretazione, C.J. emlyn-Jones, Heraclitus and the Identity of Opposites, in «Phronesis» 21 (1976), pp. 89-114.

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LXII IntroduzIone

come negatore del principio di non contraddizione.73 d’altro

canto, su un fronte esegetico contrapposto, l’unità dei termini opposti è stata intesa piuttosto nella forma della loro con-

traddizione e reciproca negazione, ossia rispetto all’unità che ciascun termine costituisce di per sé, nella sua particolarità e singolarità, distinguendosi dal suo opposto e da tutti gli altri termini. Questa linea interpretativa, che risale senza dubbio a Hegel e alla valorizzazione che egli compie della «scoperta» eraclitea dell’antitesi e della dialettica negativa (cfr. brevemente supra, § 2), è stata condotta alle sue estre-me conseguenze da Bollack e Wismann, secondo i quali la nozione dell’irriducibilità degli opposti rappresenterebbe la «conquista», sul piano fisico e sul piano logico, di eraclito. Già la figura del filosofo incarnerebbe adeguatamente un simile esito, con il suo orgoglioso isolamento, con l’oscurità dello stile che si esprime per antifrasi e inversioni, cioè costruendo proposizioni che rinviano implicitamente, per opposizione, ad altre proposizioni antitetiche o che, poste in sequenza, si oppongono l’una all’altra con improvvisi capovolgimenti di senso, così adottando come unica forma di unità del suo scritto la discontinuità dell’aforisma. In tale prospettiva, l’unità cui eraclito fa riferimento non sarebbe che quella della singola cosa separata dalle altre, sicché l’universalità si colloca esclusivamente nel particolare universalizzato, mai nell’universale in quanto raccoglie e trascende i particolari: il kovsmoı di eraclito si presenterebbe allora come un mondo

73 Cfr. supra, § 2.1. di qui anche l’«errore logico» che avrebbe compiuto eraclito, secondo J. Barnes, The Presocratic Philosophers, 2 voll., routledge & Kegan, London 19822, vol. I, pp. 57-81, appunto considerando i termini opposti come oggettivamente coincidenti ed effettivamente identici, così violando, ante litteram, il principio aristotelico di non contraddizione; cfr. pure in proposito t. triplett, Barnes on Heraclitus and the Unity of Opposites, in «Ancient Philo-sophy» 6 (1986), pp. 15-23. tornerò brevemente su questo aspetto poco oltre, alla conclusione del presente § 4.2.

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IntroduzIone LXIII

di «cose separate», ciascuna costituendosi in sé e negando le altre cui si oppone, allo stesso titolo in cui il suo linguaggio comporta la negazione delle cose che dice in quanto da esse si allontana e la sua «ragione» non è altro che l’«arte» o la «tecnica» che riconduce ogni cosa al suo opposto attraverso il lovgoı e nel lovgoı.

74

ora, da una simile interpretazione è corretto trarre, a mio avviso, l’opportuno riconoscimento del carattere reale, secondo eraclito, dell’opposizione fra le cose che sono, in primo luogo, naturalmente, a partire dai termini opposti, che fornisce un valido argomento teorico contro la tesi dell’identità degli opposti, che condurrebbe inevitabilmente, a sua volta, ad attribuire a eraclito, in modo anacronistico, l’introduzione di un piano di realtà superiore, eventual-mente di natura metafisica, che si porrebbe come un’unità trascendente oltre la molteplicità apparente e illusoria delle cose che sono, abbandonando tale molteplicità, a questo punto necessariamente coincidente con il cosmo sensibile, a una forma di relativismo ontologico ed epistemologico radicale: di ciò, invece, non mi pare vi sia nessuna traccia nei materiali superstiti, giacché, fra l’altro, eraclito evoca l’unità del tutto sistematicamente segnalandone la dimen-sione plurale (per esempio nel fr. 16 [10 dK; 25 Marc.]: ejx eJno;ı pavnta), indicandone i tratti conflittuali e alterni (per

74 Cfr. Bollack-Wismann, soprattutto pp. 16-24, 28-32 e 46-53, ma anche Kahn, pp. 188-89, approva, pur prudentemente ed entro certi limiti, questa lettura. In effetti, già G. Calogero, Storia della logica antica, vol. I: L’età arcaica, Laterza, roma-Bari 1967, pp. 63-107, aveva identificato come nucleo della riflessione eraclitea l’indicazione del «contrasto», della «diversità» e dell’«opposizio-ne» fra tutte le cose, sicché «ogni cosa è ciò che è solo in quanto è diversa da ciò che le si oppone», l’unità del tutto dovendosi perciò individuare precisamente nel «conflitto», che assume come unica legge quella della diversità che caratterizza eternamente tutte le cose, cui si addice l’ammissione di una forma di divenire perpetuo in cui le cose che sono «si generano per antitesi».

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LXIV IntroduzIone

esempio nel fr. 12 [53 dK; 29 Marc.]: povlemoı pavntwn pathvr) e caratterizzandola come una forma di concordia di ciò che è discorde (per esempio nei frr. 14 [51 dK; 27 Marc.] e 14a [8 dK; 27d1-28b1 Marc.]: diaferovmenon eJwutw'/ oJmologevei; to; ajntivxoun sumfevron), tutte connotazioni che sembrano incompatibili con la tesi di un’unità identica o indifferenziata di tutte le cose, dei pavnta. d’altra parte, da questi stessi e altri frammenti, emerge con altrettanta chiarezza la tesi secondo cui la molteplicità discordante delle cose che sono converge o si raccoglie nell’unità (cfr. i frr. 5 [50 dK; 26 Marc.] e 16 [10 dK; 25 Marc.]: e}n pavnta ei\nai; ejk pavntwn e{n), che equivale a una condizione di armonia (cfr. i frr. 14 [51 dK; 27 Marc.] e 14a [8 dK; 27d1-28b1 Marc.]: ejk tw'n diaferovn-twn kallivsthn ajrmonivan), di cui non vedo davvero come potrebbe essere conciliabile con l’irriducibile separazione

delle cose che sono, ciascuna rinchiusa nella propria partico-larità e singolarità, delimitate dalla loro reciproca negazione o antitesi. Giudico perciò più ragionevole tornare all’ipotesi interpretativa intermedia formulata inizialmente, e conside-rare la tesi dell’unità dei termini opposti, non ammettendo né la loro identità né la loro alterità radicale, nella forma della coimplicazione o correlazione degli opposti nell’unità del tutto, che consiste nel riconoscere una duplicità di punti di vista, secondo la quale il punto di vista dell’unità del tutto non comporta la negazione del punto di vista della molte-plicità e dell’opposizione delle cose che sono, ma ne segnala l’incompletezza e la parzialità, sicché i termini opposti, che sono realmente tali, convergono tuttavia nell’unità, in modo che i due punti di vista si completano reciprocamente. non disponiamo in tal caso di termini opposti complementari e di termini opposti che si identificano propriamente, perché tutti i termini opposti, che siano considerati l’uno rispetto all’altro oppure in coppie assunte in riferimento a un terzo termine o infine in coppie assunte in riferimento ad altre coppie, si coimplicano reciprocamente e completano la

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IntroduzIone LXV

descrizione della totalità del reale. neanche vi è spazio, in questa prospettiva, per il «relativismo» eracliteo (onto-logico ed epistemologico) denunciato da Platone e Ari-stotele e che ancora riecheggia in qualche commentatore contemporaneo:

75 infatti, colui il quale si colloca dal punto

di vista del lovgoı che coglie l’unità del tutto non sembra soggetto a nessuna forma di relativismo, appunto in quanto l’unità del tutto non è indifferente rispetto alla realtà degli opposti, che sono davvero tali e tuttavia si implicano reci-procamente, sicché, pur consapevole della loro autentica opposizione, egli coglie la completa descrizione del reale cui contribuiscono; colui il quale rimane invece vincolato al punto di vista parziale delle singole cose che sono e della loro opposizione, per quanto costretto in un’ottica limitata e incompleta, non è neanch’egli relativista, perché giudica le cose che sono esclusivamente l’una rispetto all’altra e senza comprenderne e valutarne la coimplicazione, dunque come effettivamente e assolutamente opposte.

rimane in ultimo il problema del «divenire» di era-clito che, almeno a partire dalle testimonianze platonico-aristoteliche,

76 è riconosciuto, benché non unanimemente,

77

come un elemento caratteristico (anche se in misura varia-bile) della sua riflessione. Senza entrare nei dettagli della ricostruzione storica e testuale di questa tesi, in base ai materiali eraclitei superstiti e alle pertinenti testimonianze dossografiche, che esaminerò particolarmente nelle note di commento ai frr. 25 [12 dK; 40 Marc.] e 27 [84ab dK; 56ab

75 Cfr. per esempio, in ultimo, Pradeau, pp. 48-50; ma si veda pure Conche, pp. 399-400, 421-22 e passim.

76 Cfr. ancora supra, § 2.1 e, per alcune indicazioni bibliografiche pertinenti, la n. 10.

77 nega per esempio l’attribuzione a eraclito di una tesi del divenire del reale, in qualunque sua forma e non senza argomenti, Marcovich, pp. 147-53.

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LXVI IntroduzIone

Marc.],78 è abbastanza immediato riconoscere la sua connes-

sione teorica con la dottrina dell’unità dei termini opposti appena discussa e con le diverse opzioni interpretative che ne sono state suggerite: infatti, se l’unità dei termini opposti è intesa come loro identità, non è implausibile ricondurla, come suo corollario, all’affermazione di un divenire radicale esteso a tutte le cose che sono (dunque anche ai termini opposti), che stabilisce l’assoluto relativismo ontologico del flusso, nell’ambito del quale l’opposizione, l’alterità e la moltepli-cità delle cose che sono (e dei termini opposti) finiscono per consistere, nonostante l’evidenza della loro sussistenza, in un effetto puramente illusorio e soggettivo, che sfocia in un relativismo epistemologico altrettanto radicale e assoluto e nel conseguente riconoscimento dell’indifferenza reale, nel flusso, di tutte le cose (e dei termini opposti).

79 non mi

sembra casuale, del resto, che i più antichi e decisi sostenitori dell’attribuzione a eraclito di una versione particolarmente forte della tesi del divenire e del conseguente relativismo onto-epistemologico, Platone e Aristotele, non discutano mai diffusamente del lovgoı eracliteo, ossia del livello epi-stemico e del principio esplicativo ai quali eraclito ricollega l’accesso a un sapere certo e vero di cui non si capirebbe, se davvero tutto diviene e ogni cosa è perciò identica alle altre, come potrebbe sfuggire al duplice relativismo, ontologico ed epistemologico, di una simile prospettiva. divenire radi-cale, assoluto relativismo onto-epistemologico e identità

78 Si veda inoltre, per questa ricostruzione, il mio articolo I fiumi, le acque, il divenire, cit., con gli opportuni riferimenti bibliografici.

79 Sulle implicazioni propriamente epistemologiche dell’ontologia del flusso e del divenire attribuita a eraclito, si vedano d. Graham, Heraclitus: Flux, Order, and Knowledge, in The Oxford Handbook of Presocratic Philosophy, a cura di P. Curd e d. Graham, oxford univ. Press, oxford 2008, pp. 169-88, e, senza sostanziali modifiche, Id., Representation and Knowledge in a World of Change, in Nuevos Ensayos sobre Heráclito, cit., pp. 75-91.

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IntroduzIone LXVII

degli opposti costituiscono dunque, nell’ordine, gli anelli successivi e strettamente interconnessi di questa sequenza interpretativa.

d’altro canto, se si intende invece l’unità dei termini opposti, come da me proposto, nella forma della loro com-

plementarietà o coimplicazione, che ne impone la regolare alternanza nel tutto per l’assunzione di povlemoı come prin-cipio conflittuale scandito da «giustizia» e «necessità» o in base al riconoscimento dell’armonia come esito della com-pensazione delle opposizioni fra i termini opposti, ne deriva allora che la tesi del divenire pare introdotta precisamente come giustificazione e spiegazione della regolare alternanza dei termini opposti nel tutto, rappresentandone perciò un indispensabile corollario (e non, come sopra, la sua premessa). non si determina in tal caso nessun relativismo ontologico, perché il divenire delle cose che sono rimane irregimentato all’interno del medesimo e immutabile schema dell’alternan-za degli opposti, da cui non consegue più che «tutto scorre eternamente», ma soltanto che «i termini opposti (e le cose che sono) si scambiano di posto eternamente» (cfr. i frr. 22 [88 dK; 41 Marc.] e 27 [84ab dK; 56ab Marc.]), trattandosi però sempre degli stessi termini opposti, che si scambiano gli stessi posti e nella stessa sequenza.

80 neanche sorge su

questo piano un relativismo epistemologico, perché colui il quale giunge, tramite l’ascolto del lovgoı, alla conoscenza dell’unità del tutto, che non trascende, ma completa, la cono-scenza della molteplicità in esso compresa, non sovrappone l’unità alla molteplicità del tutto (riducendo quest’ultima a

80 Per questa conclusione, sia lecito rinviare ancora, oltre alle note al fr. 25 [12 dK; 40 Marc.], al mio articolo I fiumi, le acque, il divenire, cit.; ma cfr. pure L. Vanoirbeek, Que signifie «entrer dans les fleuves»: le fr. 12 d’Héraclite, in «revue de Philosophie Ancienne» 7 (1989), pp. 149-56, e r. dilcher, Im-Fluß-sein (Heraklit, B 12), in Frühgriechischen Denken, a cura di G. rechenauer, Vadenhoeck & ruprecht, Göttingen 2005, pp. 203-16.

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LXVIII IntroduzIone

un’identità indifferenziata) né dissolve la molteplicità del tutto nell’unità (attribuendo alla prima un divenire radicale che ne compromette la reale pluralità), giacché, al contrario, riesce a comprendere il tutto come uno e come molteplice o, che è lo stesso, ad afferrare la realtà dei termini opposti nella loro irriducibile alterità e particolarità e, a un tempo, la ricomposizione unitaria che, senza negarne l’antitesi, induce a rilevarne la complementarietà, per esempio cogliendo, del tracciato di un percorso in dislivello o dei punti di una circonferenza, tanto la «salita» e la «discesa» dell’uno, come tratti reali che lo caratterizzano in base al senso in cui lo si percorre, o l’«inizio» e la «fine» dell’altra, come punti effettivi da cui comincia e in cui si conclude il suo tracciato, quanto

la descrizione complessiva che deriva all’uno dalla misura del suo dislivello (in cui si congiungono «salita» e «discesa», indipendentemente da come lo si percorra) o all’altra dalla successione dei punti che la compongono (in ciascuno dei quali, qualunque esso sia, si congiungono «inizio» e «fine» di essa).

Ma se i termini opposti non si identificano divenendo

l’uno nell’altro, o se, più esattamente, «salita» e «discesa» o «inizio» e «fine» non appartengono contemporaneamente e sotto lo stesso rispetto (a{ma ... kai; kata; to; aujtov)

81 al

tracciato di un percorso o a una circonferenza, giacché si limitano a completarne la descrizione da diversi punti di vista, scompare ogni traccia, mi pare, di una negazione – pur ante

litteram – del principio aristotelico di non contraddizione da parte di eraclito, e con essa del principale errore (ma anche, in altro contesto esegetico, del principale merito), che gli sia stato storicamente imputato.

81 Mi riferisco naturalmente così alla celebre formulazione del principio di non contraddizione che si trova nella Metafisica di Aristotele, in IV 3, 1005b19-20.

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IntroduzIone LXIX

4.3 Il fuoco, la cosmologia e la concezione della natura

La concezione ontologica di una dinamica unità del tutto, fondata sulla coimplicazione dei termini opposti e sulla loro alternanza, vale a dire sul ruolo di povlemoı come principio operativo e sul divenire come suo esito, pare avere una cor-rispondenza piuttosto precisa sul piano fisico-cosmologico dell’esame e della spiegazione dei fenomeni naturali che hanno luogo nel kovsmoı. Il fr. 28 [67 dK; 77 Marc.], pur afflitto da alcune non trascurabili difficoltà testuali,

82 sembra

infatti attestare un’analogia (o{kwsper) fra la totalità del reale, con le coppie di termini opposti che la compongono nella loro alternanza, e l’elemento fisico del «fuoco» (pu'r), cui è attribuita una capacità di alterazione e mutamento (ajlloiou'tai) che lo conduce a «mescolarsi» (summigh/') alle cose che sono, assumendo il nome proprio della caratteristica di ciascuna di esse (ojnomavzetai kaq jhJdonh;n ejkavstou), ossia, verosimilmente, con ciascuna di esse identificandosi. Se si tratta davvero dell’indicazione di una transizione dall’am-bito ontologico all’ambito fisico-cosmologico, la simmetria fra i due piani appare assai stretta: a povlemoı, fondamento del conflitto fra le cose che sono e che delle cose che sono determina lo statuto e la collocazione nel tutto, fa da con-traltare il fuoco, elemento fondamentale diffuso fra le cose che sono e di esse, in quanto è loro mescolato, produttore; al divenire, che del conflitto fra le cose che sono innescato da povlemoı esplica l’alternanza, corrisponde l’«alterazione», che al fuoco garantisce la possibilità di mutarsi in ciascu-na delle cose che sono assumendone la forma propria; ai termini opposti che, come tali nella loro opposizione e nel loro insieme in virtù della loro coimplicazione, completano la totalità del reale, equivalgono le singole cose che sono nel cosmo fisico, tutte fra loro diverse e dotate di un nome

82 Cfr. in particolare le nn. 4-5 al fr. 28 [67 dK; 77 Marc.].

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LXX IntroduzIone

proprio e tuttavia unificate dalla comune origine dalle mol-teplici alterazioni del fuoco.

83

A tali condizioni e con tali premesse, il fr. 29 [30 dK; 51 Marc.] può stabilire le linee generali della prospettiva fisico-cosmologica eraclitea, prendendo le mosse dalla costituzione e dalla natura del kovsmoı nel suo insieme. Se ne ricava con una certa chiarezza che il cosmo è concepito come una realtà autonoma, indipendente e perfettamente compiuta in se stessa, se è detto ingenerato (da azione divina o umana, si precisa, per fugare ogni possibile dubbio: ou[te tiı qew'n ou[te ajnqrwvpwn ejpoivhsen) e permanente nell’eterna dura-ta temporale (h|n ajei; kai; e[stin kai; e[stai),

84 che è appunto

esplicitamente contrapposta alla possibilità che esso sia stato generato («Questo cosmo … non è opera di nessuno degli dei né degli uomini, ma [ajllav] sempre è stato, è e sarà ...»), sicché, a quanto risulta manifesto, che eraclito alluda qui propriamente al «cosmo», alla «disposizione» dei suoi elementi componenti o a entrambe queste cose,

85 nessuna

generazione o corruzione sembra possibile per una duplice ragione: perché nessun agente la ha causata e perché nessun processo (appunto di generazione e corruzione) si è prodotto in una durata che parrebbe continua e non interrotta. La spiegazione dell’eternità continua del cosmo è fornita dalla sua coincidenza con il fuoco, detto a sua volta «sempre vivo» (ajeivzwon), ossia, verosimilmente, non soggetto a «estinzione»

83 Per un’associazione, più o meno esplicita, fra i due ambiti, da me definiti «ontologico» e «fisico-cosmologico», rispettivamente del «flusso» e del «fuoco», rinvio ai lavori di d. Wiggins, Heraclitus’ Conceptions of Flux, Fire and Material Persistence, in Language and Logos, cit., pp. 1-31, e di t. Buchheim, Feuer und Flüsse. Überlegungen zum Prinzip des Lebens nach Heraklit, in Frühgriechischen Denken, cit., pp. 174-202.

84 Per questa notevolissima espressione a designare l’eterna durata temporale, cfr. la n. 4 al fr. 29 [30 dK; 51 Marc.].

85 Cfr. ancora la n. 4 al fr. 29 [30 dK; 51 Marc.].

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IntroduzIone LXXI

né, conseguentemente, ad «accensione», ma soltanto a una gradazione misurata di intensità (aJptovmenon mevtra kai; ajposbennuvmenon mevtra), che è appunto quella che innesca le sue alterazioni e, con esse, la comparsa delle singole cose esistenti che consistono di altrettante trasformazioni dell’uni-co fuoco originario e fondamentale. di questi processi di trasformazione del fuoco rende conto il fr. 30 [31 dK; 53ab Marc.], che, non senza complicazioni,

86 ne stabilisce i termini,

affermando che dal fuoco, per un fenomeno di condensazione e probabilmente attraversando uno stato aereo o vaporo-so, si genera l’acqua del mare e da questa, per ulteriore condensazione, la terra, mentre, per l’opposto fenomeno di rarefazione o evaporazione, dalla stessa acqua marina si generano pioggia e fulmini, che nuovamente ristabiliscono l’adeguata quantità di fuoco (in forma di fulmini) e di acqua (in forma di pioggia), pure reintegrata dallo scioglimento in essa della terra, secondo un processo che conserva il mede-simo rapporto di misura complessivo (to;n aujto;n lovgon) fra gli elementi nel tutto: queste trasformazioni del fuoco, che dipendono da condensazione e rarefazione, sembrano inoltre determinate dalle alterazioni dell’intensità del suo calore che, diminuendo, suscita appunto una condensazione del fuoco negli elementi via via più solidi (successivamente, dal fuoco, aria, acqua e terra), mentre, aumentando, avvia l’opposto movimento di rarefazione negli elementi via via più sottili e leggeri (successivamente, dalla terra, acqua, aria e nuovamente fuoco), sicché il fuoco è principio causale e produttivo delle cose che sono e degli elementi fisici da due punti di vista, in quanto (1) di tutti costituisce la sostanza fondamentale, trasformandosi in ciascuno di essi, e come (2) legge che di tutti determina la generazione per le alterazioni dell’intensità del suo calore.

87 La stabilità dell’equilibrio

86 Per le quali si vedano le nn. 4-8 al fr. 30 [31 dK; 53ab Marc.].87 Sulla funzione fisico-cosmologica del fuoco come principio

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LXXII IntroduzIone

del cosmo, che si esprime nella regolarità dei processi che in esso si verificano senza discontinuità e discende a sua volta dalla conservazione di un rapporto di misura costante fra gli elementi, è ribadita soprattutto nel fr. 33 [90 dK; 54 Marc.], che sancisce la reciprocità dello «scambio» del fuoco in tutte le cose e di tutte le cose nel fuoco (purovı te ajnta-meivbetai pavnta kai; pu'r aJpavntwn), paragonato (o{kwsper) alla relazione di «conversione», se così si può dire, di tutti i beni con l’oro, assunto come unità di misura universale del loro valore, e dell’oro con tutti i beni (crusou' crhvmata kai; crhmavtwn crusovı): a intenderlo correttamente alla lettera, questo paragone non suggerisce a mio avviso la possibilità di una «conversione» simultanea di tutti i beni in oro (per esempio in base al parallelo con quanto avviene in un moderno sistema finanziario quando, in occasione di una crisi monetaria, si tende a cedere «moneta» in cambio di un bene «rifugio» come l’oro), perché, fra l’altro, una lettura del genere non rende conto del processo inverso, che dovrebbe scaturire dalla simultanea «conversione» dell’oro in tutti i beni; piuttosto, il paragone va assunto anch’esso come indicazione di un processo continuo, che misura e garantisce in modo costante, grazie al riferimento a un’unità di misura stabile (l’oro), le condizioni dello «scambio» di tutti i beni, l’uno rispetto all’altro e ciascuno e tutti rispetto all’oro. Avremmo allora nuovamente confermata la tesi fisico-cosmologica di una serie di trasformazioni misurate e continue del fuoco in tutte le cose che sono, cioè in cia-

fondamentale di tutte le cose attraverso le sue trasformazioni, si vedranno, fra i numerosi studi disponibili, H. Jones, Heraclitus, Fragment 31, in «Phronesis» 18 (1972), pp. 193-97; W.J. Verdenius, Heraclitus’ Conception of Fire, in Kephalaion. Studies in Greek Philosophy and its Continuation offered to Professor C.J. de Vogel, a cura di J. Mansfeld e L.M. de rijk, Van Gorcum, Assen 1975, pp. 1-8; e K. narecki, La fonction cosmologique du feu, in «eos» 81 (1993), pp. 199-211.

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IntroduzIone LXXIII

scuna di esse (come dell’oro in tutti i beni, cioè in ciascuno di essi), e di tutte le cose, cioè di ciascuna di esse, in fuoco (come di tutti i beni, cioè di ciascuno di essi, nell’oro), alle stesse condizioni e in base agli stessi processi di alterazione del fuoco sopra menzionati e ferma restando l’equivalenza complessiva della quantità totale di fuoco con tutte le cose e di tutte le cose con la quantità totale di fuoco (come della quantità totale di oro con tutti i beni e di tutti i beni con la quantità totale di oro).

ora, al di là di una serie di aspetti di dettaglio e di difficoltà puntuali, che lascio alle pertinenti note di commento, il princi-pale problema di questa ricostruzione consiste nell’esclusione che essa suppone della possibilità di attribuire a eraclito una concezione cosmogonica ciclica assimilabile alla teoria, formulata dagli stoici, ma da essi riconosciuta come di origi-ne eraclitea, dell’ejkpuvrwsiı, rapidamente tratteggiata nel § 2.2, che è invece un tema estremamente controverso. non si tratta tanto di stabilire limiti e correttezza dell’appropriazione stoica (e poi cristiana) della riflessione fisico-cosmologica di eraclito, che, come tale, è questione che può essere esami-nata e risolta, in un senso o nell’altro, su base interpretativa, dunque attraverso un’indagine, come quella da me appena proposta, dei materiali eraclitei superstiti: disponendo di una conoscenza solo frammentaria dell’opera di eraclito, ma anche delle fonti stoiche che gli prestano la tesi dell’ejkpuvrwsiı, infatti, l’analisi comparata dell’una e delle altre consente di giungere a una conclusione che, benché non definitivamente accertata e soggetta a divergenze esegetiche, ha comunque un suo grado autonomo di plausibilità.

88 Vi sono però almeno due

88 Sulla questione si sono succedute tendenze esegetiche diverse: fino agli anni Settanta del XX secolo è prevalsa una linea fon-damentalmente contraria all’attribuzione a eraclito della teoria dell’ejkpuvrwsiı: cfr. in proposito l’ampia ricostruzione in Mon-dolfo-tarán, pp. CLXXVII-CXCIII, che vede tuttavia Mondolfo contrapporsi a questa linea. In seguito, specie a partire dall’esame

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LXXIV IntroduzIone

testimonianze aristoteliche, dunque precedenti e indipendenti dallo stoicismo, che sembrano attribuire a eraclito la tesi di una ciclica rigenerazione del cosmo e che pertanto, se accolte, fornirebbero una prova rilevante e difficilmente reversibile in favore dell’origine eraclitea della teoria dell’ejkpuvrwsiı o quantomeno di una sua versione pre-stoica. La prima si trova in un passo della Fisica (III 5, 205a3 [= 22 A 10 dK]), in cui Aristotele, discutendo della questione se l’universo possa derivare da un unico elemento fondamentale, afferma che, anche se l’unico elemento fosse infinito, «è impossibile che il tutto, pur se limitato, sia o diventi uno solo di questi (scil., degli elementi), come dice eraclito che il tutto a volte (oppure: di volta in volta) diviene fuoco» (oppure, in base a una diversa traduzione, che inverte soggetto e oggetto delle proposizioni infinitive: «è impossibile che uno solo di questi [scil., degli ele-menti] sia o diventi il tutto, pur se limitato, come dice eraclito che il fuoco a volte [oppure: di volta in volta] diviene tutte le cose»).

89 Indipendentemente dalla scelta della traduzione,

si trae che, secondo Aristotele, eraclito avrebbe stabilito la

di Kahn, pp. 132-53, si è affermato invece un trend (almeno pru-dentemente) favorevole a tale attribuzione: si vedano perciò, per un aggiornato status quaestionis, C.d.C. reeve, Ekpurosis and the Priority of Fire in Heraclitus. A Discussion Note, in «Phronesis» 27 (1982), pp. 299-305; A. Finkelberg, On Cosmogony and Ekpyrosis in Heraclitus, in «American Journal of Philology» 119 (1998), pp. 195-222; S.n. Mouraviev, Doctrinalia Heraclitea I et II: Âme du monde et embrasement universel (Notes de lecture), in «Phronesis» 53 (2008), pp. 315-58; e ancora A. Finkelberg, The Cosmic Cycle, a Playing Child, and the Rule of the Game, in Nuevos Ensayos sobre Heráclito, cit., pp. 315-36.

89 ajduvnaton to; pa'n, ka]n h\/ peperasmevnon, h] ei\nai h] givnesqai e{n ti aujtw'n [scil., tw'n stoiceivwn], w{sper JHravkleitovı fhsin a{panta givnesqaiv pote pu'r. La traduzione alternativa, che mi pare più con-vincente, è stata suggerita, sulla base di un esame approfondito del contesto di queste parole di Aristotele che è impossibile riproporre qui, da H. Cherniss, Aristotle’s Criticism of Presocratic Philosophy, J. Hopkins, Baltimore 1935, p. 29, n. 108.

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IntroduzIone LXXV

piena convertibilità di un unico elemento, il fuoco, con tutte le cose e di tutte le cose con un unico elemento, il fuoco – il che è per lui impossibile, perché occorre ammettere almeno due principi contrari per spiegare la generazione del cosmo. In questi termini, la testimonianza di Aristotele corrisponde senza difficoltà all’affermazione del fr. 33 [90 dK; 54 Marc.], che pone anch’esso il principio di uno «scambio» di tutte le cose con il fuoco e del fuoco con tutte le cose. decisive sono perciò la comprensione e la resa dell’avverbio povte, che può indicare una scansione piuttosto variabile nell’ambito di un processo, conducendo cioè a intendere o (1) che «il fuoco diviene tutte le cose a volte» e «a volte tutte le cose divengono fuoco», fissando perciò delle scadenze precise in coincidenza con le quali la trasformazione del fuoco in tutte le cose e di tutte le cose nel fuoco è totale e simultanea, così marcando l’inizio e la fine di un ciclo cosmico, con una «conflagrazione» di tutte le cose nel fuoco, che ne segna la fine, e il successivo «raffreddamento» del fuoco che può allora mutarsi in tutte le cose, che ne segna un nuovo inizio; (2) oppure che «il fuo-co diviene tutte le cose di volta in volta» e «di volta in volta tutte le cose divengono fuoco», suggerendo in tal caso l’idea di una successione continua e sempre parziale di trasforma-zioni del fuoco in tutte le cose e di tutte le cose nel fuoco, che si lascia situare allora nell’unica durata eterna del cosmo (che corrisponde all’interpretazione da me suggerita poco sopra del fr. 33 [90 dK; 54 Marc.]). A voler essere prudenti, e trascurando il fatto che, per quanto riguarda l’ipotesi (1), Aristotele si limiterebbe a evocare, del ciclo cosmico, solo il punto iniziale (se «il fuoco diviene tutte le cose») o finale (se «tutte le cose divengono fuoco»), senza menzionare l’altro né fare riferimento a una serie eterna di cicli successivi, questa testimonianza mi sembra essenzialmente neutrale, perché suscettibile di essere interpretata in un senso come nell’altro.

Passiamo perciò alla seconda testimonianza, che si trova in un passo del De caelo (I 10, 279b12 [= 22 A 10 dK]) in cui

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LXXVI IntroduzIone

viene illustrata nelle sue articolazioni la posizione di quanti, fra i cosmologi precedenti, hanno difeso la tesi che il cosmo (oujranovı, «il cielo»), pur essendo (A) generato – convinzione, questa, che Aristotele presta a tutti i predecessori, giudican-dosi egli il primo ad averlo posto (B) come eterno –, sia stato generato (A

1) come eterno oppure (A

2) come destinato alla

corruzione oppure ancora (A3) come «alternativamente ora

in un modo (scil., cioè eterno), ora nell’altro cioè soggetto a corruzione (ejnalla;x oJte; me;n ou{twı oJte; de; a[llwı e[cein fqeirovmenon), e ciò sempre compiendosi così (kai; tou'to ajei; diatelei'n ou{twı), come dicono empedocle di Agrigento ed eraclito di efeso». Senza mettere in dubbio con eccessiva vis critica il valore delle parole di Aristotele, che colloca eraclito fra quanti hanno concepito il cosmo (A-A

3) generato come

eterno e alternativamente soggetto a generazione e corruzione, non si può non constatare in primo luogo come esse contrad-dicano in modo intuitivamente immediato l’incipit del fr. 29 [30 dK; 51 Marc.], che dichiara solennemente che il kovsmoı non è, come vorrebbe Aristotele, (A) generato (genovmenon), e non solo in quanto, pur generato, esso rimane poi eterno (h|n ajei; kai; e[stin kai; e[stai; in A

1, definitivamente eterno,

oppure in A3, per intervalli di tempo), ma precisamente

perché, nessuno avendolo generato (ou[te tiı qew'n ou[te ajnqrwvpwn ejpoivhsen), esso è semplicemente (B) eterno; sicché è fuorviante che Aristotele affermi che esso è stato (A-A

3)

generato come eterno e alternativamente soggetto a genera-

zione e corruzione, e ciò indipendentemente dall’eventuale tesi dei cicli cosmici successivi, se il cosmo deve essere detto, in ogni caso, non anche (A) generato, ma solo (A

3) alterna-

tivamente eterno, rispetto al suo principio fondamentale del fuoco e alla sua «disposizione» elementare, e soggetto a

generazione e corruzione, rispetto ai mutamenti successivi del principio fondamentale del fuoco, che questi mutamenti coincidano con i processi che hanno luogo in un’unica durata eterna oppure con diversi cicli di generazione e corruzione

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IntroduzIone LXXVII

del cosmo. Il che, fra l’altro, è proprio quanto Aristotele precisa poco oltre (280a10), quando, ancora a proposito di chi considera il cosmo come alternativamente eterno e soggetto a generazione e corruzione, ne segnala l’errore che consiste nel non aver colto la differenza fra il kovsmoı come tale, che è la «struttura elementare» (suvstasiı) del tutto che permane eterna, e le sue «disposizioni» (diaqevseiı), che invece si generano e si corrompono: ma ciò è appunto quello che eraclito ha sostenuto, in termini ciclici oppure no, ponendo il fuoco, principio fondamentale del cosmo, come eterno e facendo dipendere la generazione e la corruzione di tutte le cose in esso, ciclicamente oppure no, come altret-tante trasformazioni del fuoco. Comunque sia del carattere quantomeno ambiguo del resoconto aristotelico, non mi sembra che esso neppure ascriva esplicitamente a eraclito la tesi di una cosmogonia ciclica: in primo luogo, non si può escludere che Aristotele associ con una certa forzatura la posizione di eraclito a quella di empedocle, cui certamente appartiene una teoria dei cicli cosmogonici successivi; ma soprattutto la questione è connessa all’esatta comprensione del significato, temporale oppure no, della scansione che Aristotele individua, per il cosmo eracliteo (ed empedocleo), fra eternità e generazione e corruzione, dicendolo «alterna-tivamente ora in un modo, ora nell’altro» (ejnalla;x oJte; mevn ... oJte; dev ...). Infatti, se si attribuisce a tale scansione, come parrebbe opportuno in virtù del senso usuale dell’avverbio oJtev («talvolta», «a volte»), un valore temporale, sorge una difficoltà tanto per un’interpretazione ciclica, quanto per un’interpretazione non ciclica della cosmologia di eraclito, perché il cosmo, che abbia durata eterna o che si generi e si corrompa in una successione ciclica, non si rivela in nessun caso «talvolta» eterno e «talvolta» soggetto a generazione e corruzione, cioè in queste due condizioni in tempi diversi, bensì sempre eterno – in quanto cosmo, per l’interpretazione non ciclica, o in quanto sua disposizione elementare come

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LXXVIII IntroduzIone

fuoco, per l’interpretazione ciclica – e sempre soggetto a generazione e corruzione – rispetto alle cose che sono al suo interno, per l’interpretazione non ciclica, o rispetto al cosmo stesso, per l’interpretazione ciclica. occorrerebbe perciò attribuire all’alternativa aristotelica (ejnalla;x oJte; mevn ... oJte; dev ...) un significato non temporale e intendere allora che il cosmo eracliteo (ed empedocleo) risulta agli occhi di Aristotele «alternativamente, da un certo punto di vista» eterno e «da un certo punto di vista» soggetto a generazione e

corruzione: ma, in tal caso, questa affermazione appare infine compatibile tanto con un’interpretazione ciclica, quanto con un’interpretazione non ciclica della cosmologia eraclitea, se è vero che, nel primo caso, il cosmo sarebbe alternativamente

eterno, dal punto di vista della sua disposizione elementare come fuoco, e soggetto a generazione e corruzione, dal punto

di vista della sua forma compiuta come cosmo; mentre, nel secondo caso, il cosmo sarebbe alternativamente eterno, dal punto di vista della sua forma compiuta come cosmo, e soggetto a generazione e corruzione, dal punto di vista delle cose che sono al suo interno. neanche questa testimonianza mi pare perciò decisiva.

90

Così stando le cose, e in assenza di fondate prove con-trarie, preferisco attenermi all’analisi dei materiali eraclitei pertinenti condotta poco sopra e attribuire a eraclito la tesi fisico-cosmologica dell’eternità del kovsmoı come fuoco «sempre vivo», le cui alterazioni misurate producono l’in-sieme di processi, fenomeni ed enti naturali che in esso si collocano, lasciando alla posteriore ricezione e appropriazione

90 Ampio e dettagliato l’esame di questi passi aristotelici, anche se con conclusioni opposte alle mie, e dunque favorevoli al riconosci-mento dell’attribuzione a eraclito, da parte di Aristotele, della teoria cosmogonica e della tesi dell’ejkpuvrwsiı, in r. Mondolfo, Evidence of Plato and Aristotle Relating to the Ecpyrosis in Heraclitus, in «Phronesis» 3 (1958), pp. 75-82, di fatto riprodotto in Mondolfo-tarán, pp. CLXXVII-CXCIII.

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IntroduzIone LXXIX

stoica di questa dottrina la sua rielaborazione nella forma di una cosmogonia ciclica caratterizzata dall’altrettanto ciclica ejkpuvrwsiı del fuoco.

Il ruolo fisico-cosmologico del fuoco, fin qui descritto rispet-to alle sue trasformazioni, alla loro misura costante e allo stabile rapporto proporzionale fra gli elementi naturali che esse garantiscono, pare esteso da eraclito a illustrare una serie di fenomeni di ambito meteorologico e astronomico, con una particolare attenzione rivolta alla costituzione, al corso e alla funzione del sole (specie nei frr. 34 [0 (3+94) dK; 0 (57+52) Marc.], 35 [99 dK; 60 Marc.], 36 [6 dK; 58 Marc.] e 38 [100 dK; 64 Marc.]). dall’insieme dei materiali disponibili e delle testi-monianze dossografiche, di cui do conto, oltre che nelle note di commento ai relativi frammenti, nella Nota introduttiva alla Sezione 3, emerge infatti uno stretto parallelismo fra il ruolo del fuoco sul piano cosmico e del sole sul piano meteorologico, che, assunto su scala ridotta come esemplare «quotidiano» del fuoco cosmico, procede nel suo corso, dal mattino fino all’apice del mezzogiorno, aumentando l’intensità della propria luce e del proprio calore in base a un duplice processo per cui, all’aumento del calore del sole, si incrementa l’evaporazione, o «esalazione» (ajnaqumivasiı), dall’acqua marina che, alimentan-do a sua volta il sole, contribuisce all’intensificazione del suo calore e della sua luce; mentre, dal mezzogiorno al tramonto serale, il processo si inverte, il calore e la luce solari diminui-scono e diminuisce di conseguenza l’evaporazione dall’acqua marina e con essa il nutrimento del sole, che deperisce fino a spegnersi del tutto durante la notte, per riprendere il suo ciclo ogni giorno rinnovato.

91

91 Per un quadro sintetico di alcuni aspetti dell’astronomia e della meteorologia eraclitee, cfr. C.H. Kahn, On Early Greek Astronomy, in «Journal of Hellenic Studies» 90 (1970), pp. 99-116, e d.P. taormi-na, Eraclito e la meteorologia prearistotelica, in Atti del Symposium Heracliteum 1981, cit., pp. 301-14.

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LXXX IntroduzIone

Pur nell’impossibilità di precisarne i dettagli a causa dello stato frammentario delle informazioni in nostro possesso, anzi nei limiti di una ricostruzione spesso molto generale e schematica, le tesi fisico-cosmologiche di eraclito sembrano tendere, più o meno coerentemente, a una descrizione unitaria e compatta della natura e a una spiegazione coerente e per quanto possibile «economica» dei processi e dei fenomeni naturali, ricorrendo essenzialmente a ipotesi e meccanismi fisici estremamente semplici, ma via via applicabili a ogni livello del reale e a ogni ambito del cosmo.

4.4 Epistemologia e polumaqiva

Parlare di «epistemologia» eraclitea presenta qualche rischio di anacronismo e richiede perciò una giustificazione, se non altro in considerazione del fatto che il termine ejpisthvmh è assente dai materiali eraclitei superstiti: vi si trova però il verbo ejpivstamai (nei frr. 1c [19 dK; 1g Marc.] e 50 [57 dK; 43 Marc.]), appunto con il significato di «sapere» o «conoscere», ed è quindi entro questi limiti, e attenendomi a tale significato di base, che credo si possa individuare nei frammenti «episte-mologici» di eraclito il tentativo di difendere una concezione della conoscenza vera, o appunto di un’«epistemologia», contrapposta ai falsi saperi apparenti degli uomini comuni, pur se nella forma discontinua di una serie di precetti non immediatamente ricomposti in un’unità dottrinaria organica e coerente, in una «teoria».

dai materiali pertinenti si desume innanzitutto una netta condanna di ogni forma di ricezione acritica del sapere, o piuttosto di ogni accumulazione di informazioni, nozioni, opinioni, credenze, che provengano dall’insegnamento altrui e dalla tradizione, ma anche da una ricerca condotta alla cieca o «per sentito dire», ossia in una condizione sostan-zialmente passiva; eraclito esalta al contrario l’indagine

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IntroduzIone LXXXI

che procede attraverso un esame autonomo, purché sulla base di un impiego corretto degli strumenti e delle facoltà naturali che ciascuno possiede: ecco perché viene espressa una preferenza per la «visione» diretta delle cose che sono rispetto all’«ascolto» che recepisce soltanto le parole altrui (nel fr. 41 [101a dK; 6 Marc.]), ma, più in generale, per ogni genere di conoscenza che dipenda dall’esercizio delle atti-tudini proprie di ciascuno (nel fr. 42 [55 dK; 5 Marc.]) e non dall’abbandono a convinzioni casuali e soggettive, che sono simili a uno stato di malessere fisico innaturale (per esempio nei frr. 44a [46 dK; 114 Marc.] e 44b [47 dK; 113 Marc.]). Questa è invece la condizione dei più, che, nel fr. 47 [104 dK; 101 Marc.], è descritta con un tono acceso e polemico: priva di intelligenza e di autonoma capacità di comprensione, la massa degli uomini si adagia nelle opinioni diffuse e segue la folla ignorante e le chiacchiere da strada, elevate al rango di vero sapere, senza coglierne l’infondatezza, l’inconsistenza e i tratti semplicemente ridicoli. da un simile approccio deriva la condanna della polumaqiva, il «molto sapere» che risulta da una raccolta di conoscenze non criticamente vagliata e che, come recita il fr. 48 [40 dK; 16 Marc.], «non insegna l’intelligenza» (novon ouj didavskei), perché non è dalla pura stratificazione quantitativa di informazioni, concetti e teo-rie che sorge la competenza nel decidere del loro valore e della loro pertinenza o, in altre parole, il giudizio critico che può saggiarne l’efficacia e la validità. ed è in tale contesto che eraclito pronuncia una serie di invettive contro altret-tanti esponenti assai rinomati della cultura greca arcaica, precedenti e contemporanei, vale a dire quei poeti, come omero,

92 esiodo e Archiloco (nei frr. 48 [40 dK; 16 Marc.],

92 A rigor di termini, omero non è collocato fra gli esponenti della polumaqiva contro i quali eraclito polemizza, bensì fra i profeti di un sapere ingannevole e degno della semplicità ingenua dei fanciulli (per esempio nel fr. 49 [56 dK; 21 Marc.]); a lui è forse imputata,

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LXXXII IntroduzIone

49 [56 dK; 21 Marc.], 49a [42 dK; 30 Marc.], 50 [57 dK; 43 Marc.] e 50a [106 dK; 59 Marc.]) – da scacciare nientemeno che a frustate dagli agoni, il primo e l’ultimo, secondo il fr. 49a [42 dK; 30 Marc.] –, filosofi, come Pitagora e Senofane (nei frr. 48 [40 dK; 16 Marc.] e 51 [129 dK; 17 Marc.]), e «intellettuali» di più ampio respiro, come ecateo di Mileto (ancora nel fr. 48 [40 dK; 16 Marc.]), ai quali il fr. 52 [28 dK; 20+19 Marc.] riserva l’accusa di trarre immeritata fama da saperi solo apparenti e la fosca previsione di una giusta con-danna come «fabbricanti di menzogne» (yeudw'n tevktonaı), insieme con i loro «testimoni» (mavrturaı), ossia con quanti della (inconsistente) verità dei loro insegnamenti forniscono garanzie. ora, benché la critica eraclitea della polumaqiva abbia fatto versare fiumi di inchiostro ai commentatori, siamo in realtà assai poco informati sulle sue motivazioni effettive e sui suoi contenuti: se i poeti sono genericamente accusati di diffondere idee banali e «popolari», di ignorare o fraintendere i fenomeni più immediati ed evidenti (tw'n fanerw'n), come la natura del giorno e della notte,

93 agli altri

e più vicini pensatori viene imputata la colpa di propagare false opinioni, simulacri di conoscenza incapaci di stimolare l’intelligenza;

94 perfino Pitagora, contro il quale la polemica

inoltre, una sostanziale ignoranza dei fenomeni celesti (cfr. il fr. 49b [105 dK; 63a Marc.]).

93 Sulla condanna eraclitea dei poeti, figure di primo piano della tradizione culturale greca preclassica, si vedano solo d. Babut, Héra-clite critique des poètes et des savants, in «Antiquité classique» 45 (1976), pp. 464-96, e, in ultimo, H. Granger, Heraclitus B 42: On Homer and Archilochus, in Nuevos Ensayos sobre Heráclito, cit., pp. 169-91.

94 Cfr. in proposito gli studi seguenti: r. dupont-roc, Le masque de l’ignorance. Héraclite, fragments 55 et 95 DK, in «Philologus» 116 (1972), pp. 157-66; J. Pórtulas, Heráclito y los maîtres à penser de su tiempo, in «emerita» 61 (1993), pp. 159-76; e H. Granger, Heraclitus’ Quarrel with Polymathy and Historie, in «transactions and Proceedings of the American Philological Association» 134 (2004), pp. 235-61.

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IntroduzIone LXXXIII

è più viva (cfr. per esempio il fr. 51 [129 dK; 17 Marc.]), è dipinto come un infaticabile ricercatore che, forse plagiando gli scritti altrui, si sarebbe costruito un sapere artificiale e fittizio, che potrebbe impressionare per la sua estensione quantitativa, ma che non produce che inganno (… ejpoihvsa-to eJautou' sofivhn, polumaqivhn, kakotecnivhn):

95 nulla più

di queste tutto sommato vaghe denunce è giunto fino a noi. Pare, d’altro canto, che eraclito preveda, e prescriva, una

forma di ricerca positiva, che forse prefigura una versione di buona polumaqiva, se il fr. 45 [35 dK; 7 Marc.] esorta a inda-gare e «fare esperienza di molte cose» (pollw'n i{storaı), e non può certo trattarsi della stessa indagine ed esperienza

che Pitagora «praticò più di ogni altro uomo» (cfr. il fr. 51 [129 dK; 17 Marc.]: iJstorivhn h[skhsen ajnqrwvpwn mavlista pavntwn): i frammenti eraclitei ci propongono due esem-pi che potremmo congetturalmente considerare di buoni polumaqei'ı, Biante di Priene, uno dei sette sapienti, e forse talete (rispettivamente, nei frr. 46 [39 dK; 100 Marc.] e 49c [38 dK; 63b Marc.], ma cfr. n. 3). La condizione di questa buona polumaqiva dovrebbe consistere nell’esercizio critico a qualche titolo ricondotto all’anima, giacché è appunto a un’anima «barbara», cioè incapace di comprendere e inter-pretare i messaggi che da esse riceve, che risultano inutili e anzi ingannevoli le facoltà sensibili della vista e dell’udito (cfr. il fr. 44 [107 dK; 13 Marc.]: kakoi; mavrtureı ... ojfqalmoi; kai; w[ta barbavrouı yuca;ı ejcovntwn), per le quali, invece,

95 La veemente polemica di eraclito contro Pitagora è stata oggetto di studi numerosi e vari: mi limito a ricordare, con un approccio particolarmente attento all’aspetto letterario e formale, J. Lallot, Une invective philosophique (Héraclite, fragments 129 et 35), in «revue des études anciennes» 73 (1971), pp. 15-23; mentre si dedica a un esame dettagliato dei riscontri storici, linguistici e filosofici dell’invettiva eraclitea C. Huffman, La crítica de Heráclito a la investigación de Pitágoras en el fragmento 129, in Nuevos Ensayos sobre Heráclito, cit., pp. 193-223.

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LXXXIV IntroduzIone

eraclito esprime notoriamente, come ricordato poco sopra, un significativo apprezzamento (cfr. il fr. 42 [55 dK; 5 Marc.]); dal che si deduce senz’altro che l’esito della percezione sensibile va sottoposto all’anima che, se non è «barbara», ma invece capace di comprendere e decifrare i contenuti sensibili, può servirsene nel modo più adeguato. È possibile che a questo contesto vadano accostati i due celebri frr. 59 [93 dK; 14 Marc.] e 60 [123 dK; 8 Marc.], che alludono al parziale «nascondimento» dell’oracolo delfico (… ou[te levgei ou[te kruvptei ajlla; shmaivnei) e della natura e delle cose che sono (fuvsiı kruvptesqai filei'), se Apollo simboleggia l’accesso alla verità, che non è né immediato né precluso, ma richiede uno sforzo interpretativo e di comprensione, come anche la reale costituzione delle cose, che non è del tutto manifesta, ma va colta oltre la loro veste superficiale. Mi pare se ne possa ricavare l’idea che la conoscenza e la verità sono, secondo eraclito, di per sé accessibili a tutti, attraverso un’indagine diretta e autonoma, tanto intensa quanto vasta, alla quale è però indispensabile un surplus critico e selettivo, assimila-bile a un esercizio interpretativo o di decifrazione proprio dell’anima, che consente di andare oltre l’immediatezza di una percezione ingenua del reale come pure di non rimane-re imprigionati nella fitta e arida palude della polumaqiva.96 un’ipotesi del genere troverebbe una significativa conferma nell’associazione, di cui non emerge tuttavia nessuna traccia esplicita nei materiali superstiti, di un simile surplus critico e selettivo dell’anima, che verifica e, per così dire, «convalida» i contenuti sensibili della percezione, all’accesso al lovgoı del fr.

96 un esame delle procedure epistemiche che paiono delineate nell’ambito della riflessione di eraclito sulla questione della ricerca e della conoscenza della verità è condotto da Hussey, Epistemology and Meaning in Heraclitus, cit., e da t.M. robinson, Parmenides and Heraclitus on What Can Be Known, in «revue de Philosophie Ancienne» 7 (1989), pp. 157-67 (= Id., Logos and Cosmos. Studies in Greek Philosophy, Academia Verlag, Sankt Augustin 2008, pp. 32-40).

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IntroduzIone LXXXV

1 [1 dK; 1 Marc.], che costituisce anch’esso il superamento di ogni comprensione individuale e «privata» della realtà, dovuta alla rinuncia all’esercizio del pensiero e a un fiducioso abban-dono all’immediatezza della percezione, in una prospettiva universale e comune, quella dell’unico sapere che riguarda tutte le cose e di tutte illustra la natura, verosimilmente su base razionale.

97 Pur ammettendo tanto, nulla autorizza in

ogni caso a parlare di una «teoria» eraclitea della conoscenza, comunque formulata, componendo i pochi e generali rilievi raccolti fin qui in una forma eccessivamente sistematica;

98

né tantomeno ad attribuire a eraclito l’anacronistica tesi di una netta e articolata distinzione fra la percezione sensibile e una conoscenza di carattere propriamente intellettuale, eventualmente ricondotta all’attività di un nou'ı (o novoı), da intendere come «intelletto», vale a dire come una facoltà ben precisa dell’anima, dotata di statuto e funzione propri:

99

il termine novoı, come è chiaro per esempio dai frr. 47 [104 dK; 101 Marc.] e 48 [40 dK; 16 Marc.], allude semplicemente all’«intelligenza», nel senso della capacità o dell’atto della «comprensione» di qualcosa, non all’organo, fisico o psichico, che la esercita né a un’ipostatizzazione della sua funzione.

97 Per la dottrina del lovgoı, cfr. supra, § 4.1.98 Sullo statuto, più o meno nettamente definito, di una «teoria»

eraclitea della conoscenza ed eventualmente dei suoi diversi ambiti, percettivo e intellettuale, si vedano particolarmente: t.H. Lesher, Heraclitus’ Epistemological Vocabulary, in «Hermes» 111 (1983), pp. 155-70; J.M. Moravcsik, Heraclitean Concepts and Explanations, in Language and Thought, cit., pp. 134-52; e J. Mansfeld, Parménide et Héraclite avaient-ils une théorie de la perception?, in «Phronesis» 44 (1999), pp. 326-46.

99 Questa possibilità è stata esaminata soprattutto, pur con esiti diversi, da G. Grammatico, El acto del entendimiento en Heráclito, in «Limes» 1 (1988), pp. 36-76, da J. Wilcox, On the Distinction between Thought and Perception in Heraclitus, in «Apeiron» 26 (1993), pp. 1-18, e da d. rankin, Limits on Perception and Cognition in Hera-clitus’ Fragments, in «elenchos» 16 (1995), pp. 241-52.

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LXXXVI IntroduzIone

In base a queste conclusioni, pare si debba dare ormai torto a enesidemo che, stando alla testimonianza di Sesto empirico, avrebbe sostenuto un accostamento di eraclito allo scetticismo, e ragione a Sesto, che ne dichiara invece, benché per ragioni diverse da quelle emerse qui e con il linguaggio che evidentemente gli appartiene, il carattere dogmatico:

100 per eraclito, la conoscenza vera esiste ed è

accessibile attraverso una serie di procedure, che non siamo più in grado di ricostruire compiutamente, ma che sono alla portata degli uomini o possono quantomeno essere loro insegnate. Per questa stessa ragione, e simmetricamente, non ritengo possa essere accolta l’interpretazione che colloca l’«epistemologia» eraclitea, così definita, in una prospetti-va a qualche titolo relativista, specie sulla base dei frr. 54 [78 dK; 90 Marc.], 55 [79 dK; 92 Marc.] e 57 [102 dK; 91 Marc.] e dei materiali dossografici a questi correlati,

101 in

cui viene stabilita una contrapposizione fra la conoscenza e la verità che sono prerogative della natura «divina» e la sciocca ignoranza che caratterizza invece la condizione «umana», la prima ponendosi come assoluta ed estesa alla totalità del reale nella sua unità, la seconda come appunto soltanto relativa al giudizio individuale degli uomini, che esprimono punti di vista parziali e unilaterali sulle singo-le cose esistenti nella loro particolarità e molteplicità.

102

Come ampiamente argomentato nelle pertinenti note di commento, credo invece che i frammenti citati chiamino in causa due distinte «disposizioni» rispetto al conseguimento della conoscenza, l’una, qualificata come «umana», nel senso che è propria della maggior parte degli uomini e ne

100 Per le testimonianze di Sesto empirico relative a eraclito e all’«eraclitismo» di enesidemo, cfr. supra, §§ 2.3 e 4.1.

101 Cfr. soprattutto la n. 1 al fr. 55 [79 dK; 92 Marc.].102 Cfr. nuovamente, sulla questione del relativismo eracliteo

rispetto ai frammenti citati, Conche, pp. 87-90, e Pradeau, pp. 196-200.

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IntroduzIone LXXXVII

costituisce una sorte di indole acquisita, che consiste nella

cieca fiducia nei saperi trasmessi e nell’insegnamento dei

falsi maestri, l’altra, caratteristica di quanti giungono, attra-

verso la ricerca e la comprensione critica dei suoi risultati,

all’accesso al sapere universale illustrato dal lovgoı, che è

perciò descritta come «divina»: «umano» e «divino» non

delimitano insomma ambiti epistemologici separati, così

confinando costitutivamente la conoscenza umana in una

condizione di minorità rispetto a quella divina, il che, fra

l’altro priverebbe di qualunque significato la stessa opera

di eraclito, con la sua esortazione a volgersi all’ascolto

del lovgoı e al sapere di cui esso è portatore; «umano» e

«divino» contraddistinguono piuttosto, rispettivamente,

due attitudini sul piano «epistemologico», diverse e fra loro

contigue, sicché è teoricamente possibile a tutti, benché

ciò non avvenga di fatto, transitare dall’una all’altra. Si

può allora parlare in tal caso del relativismo banale delle

credenze illusorie di ciascuno degli ignoranti che apparten-

gono alla massa dei più, ma nessun «relativismo» connota

in senso proprio la concezione eraclitea della conoscenza

e della verità.

4.5 La concezione dell’anima e le funzioni psichiche

La psicologia eraclitea va posta in relazione con la concezione

dell’anima, diffusa già nei poemi omerici e nella riflessione

ionica, come «soffio» o sostanza «sottile», che coincide con

un principio vitale connesso al respiro e rappresenta la mani-

festazione visibile del funzionamento di un corpo vivente;

d’altra parte, ben presto questo principio vitale viene assi-

milato a un elemento etereo, dalla consistenza simile all’aria

pura e trasparente delle regioni più alte del cielo, e tuttavia

dotato di calore e soggetto a mutamenti del suo grado di

umidità, che ne condizionano significativamente l’efficacia

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LXXXVIII IntroduzIone

operativa.103 È senza dubbio in questa tradizione che si colloca eraclito, che tenta però di stabilire una stretta analogia fra i meccanismi psico-fisiologici che regolano la generazione e i processi vitali dell’anima e il ciclo delle trasformazioni degli elementi che determinano l’insieme dei fenomeni naturali sul piano fisico-cosmologico, sforzandosi anzi di integrare propriamente gli uni nell’altro.

L’indagine sull’anima, infatti, deve essere correttamente condotta non attraverso un infruttuoso esame che cerchi di delineare i confini della sua estensione, ma individuando il ben definito «rapporto di misura» (lovgoı) fra gli elementi che la compongono, l’unico che coglie il punto di equilibrio che ne innesca la generazione: particolarmente i frr. 61 [45 dK; 67 Marc.] e 62 [36 dK; 66 Marc.] rivelano i termini essenziali del processo.104 Se ne trae che eraclito avrebbe fissato l’origine dell’anima a partire dall’elemento liquido, dall’«acqua» (ejx u{datoı de; yuchv), e la sua morte nel ritor-no allo stesso elemento (yuch'/sin qavnatoı u{dwr genevsqai), riportando inoltre queste trasformazioni psico-fisiologiche nell’ambito del ciclo più generale delle trasformazioni degli elementi naturali, giacché precisa anche che l’elemento liquido, o «acqua», cui conduce la dissoluzione dell’anima, è soggetto a sua volta a un processo di dissoluzione, o morte, in forma di «terra» (u{dati de; qavnatoı gh'n genevsqai), che risulta tuttavia reversibile, se dalla «terra» sorge nuovamente l’elemento liquido, o «acqua» (ejk gh'ı de; u{dwr givnetai), dal quale appunto deriva l’anima. La regolare e ininterrotta successione delle fasi di questo percorso, scandita dalla ripe-

103 Si veda solo, per gli essenziali punti di riferimento di questa ricostruzione, M. Schofield, Heraclitus’ Theory of Soul and its Ante-cedents, in Psychology. Companions to Ancient Thought 2, a cura di S. everson, Cambridge univ. Press, Cambridge 1991, pp. 13-34.

104 non è possibile soffermarsi qui sui problemi interpretativi posti dalla traduzione e dall’esatta comprensione di questi frammenti, per i quali rinvio perciò alle rispettive note di commento.

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IntroduzIone LXXXIX

tizione della particella dev, ne garantisce la continuità e, a un tempo, la conservazione e colloca l’anima, come già suggerito, nell’ambito del processo ciclico che coinvolge tutti gli enti naturali e il cosmo nella sua totalità, quale emerge per esem-pio dal fr. 30 [31 dK; 53ab Marc.], che descrive le «trasforma-zioni» del fuoco, in relazione con l’aumento o la diminuzione dell’intensità del suo calore, che portano alla progressiva condensazione del «fuoco» in «mare», cioè nell’elemento liquido, verosimilmente attraversando uno stato «aereo», poi alla solidificazione del «mare» in «terra», e inversamente, per rarefazione, allo scioglimento della «terra» in «mare», cioè nell’elemento liquido, e all’evaporazione del «mare» in un elemento «aereo» che produce i fenomeni temporaleschi, a loro volta corrispondenti a un ritorno al «fuoco» (con i fulmini) e al «mare» (con la pioggia); e si ricorderà che un processo non dissimile, benché in forma ristretta, è descritto anche nel ciclo meteorologico quotidiano, se il fr. 36 [6 dK; 58 Marc.] suppone di associare all’«accensione» mattutina del sole, e fino all’apice del mezzogiorno, un’intensificazione del suo calore, che produce un’«esalazione» dal mare capace di alimentare la fiamma solare, cui si contrappone una fase discendente di diminuzione dell’intensità del calore solare, che determina il decremento dell’«esalazione» dal mare e del nutrimento della fiamma solare e conduce perciò al suo «spegnimento» serale (cfr. supra, § 4.3).

105

Se sussiste davvero, come pare probabile, un’analogia fra i due ambiti, da essa emergono alcune precisazioni rispet-to alla generazione dell’anima e alla sua natura: come sul

105 Sull’analogia, sostanziale e processuale, fra l’ambito micro-cosmico dell’anima e l’ambito macro-cosmico dell’universo, cfr. in particolare P. Seligman, Soul and Cosmos in Presocratic Philoso-phy, in «dionysius» 2 (1978), pp. 5-17, S. Kihara, The Conception of Psychè in Heraclitus’ Fr. 36, in «Journal of Classical Studies» 50 (2002), pp. 12-23, e G. Betegh, On the Physical Aspect of Heraclitus’ Psychology, in «Phronesis» 52 (2007), pp. 3-32.

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XC IntroduzIone

piano fisico-cosmologico l’elemento «aereo» evapora dal «mare», per effetto di un aumento dell’intensità del calore del fuoco che determina un fenomeno di rarefazione, produ-cendo poi gli eventi temporaleschi, anche l’anima, sul piano psico-fisiologico, è verosimilmente l’effetto di un processo di esalazione dall’elemento liquido, innescato allora neces-sariamente da un aumento di calore nel corpo vivente; ciò è del resto confermato esplicitamente da Aristotele, De anima

I 2, 405a24 [= 22 A 15 dK], secondo il quale, per eraclito, l’anima è appunto un’«esalazione» (ajnaqumivasiı),

106 e divie-

ne un luogo comune nelle posteriori testimonianze stoiche (cfr. supra, § 2.2, n. 26). da ciò consegue inevitabilmente che l’«esalazione» da cui si origina l’anima che in essa consiste si rivela apparentata a una sostanza vaporosa, in quanto appunto proviene dall’evaporazione dell’elemento umido, ossia precisamente a quell’elemento «aereo», o «soffio», caldo, caratteristico delle concezioni dell’anima fiorite nella precedente riflessione ionica, che non può certamente coin-

106 Il passo aristotelico è in realtà più controverso, perché vi si afferma anche che l’anima è, secondo eraclito, un «principio» (ajrchv) dal quale «sono costituite le altre cose» (ejx h|ı ta\lla sunivsthsin), il che, pure fatta astrazione dalla caratteristica terminologia di Ari-stotele, non corrisponde a nessuna indicazione, tratta dai materiali eraclitei superstiti, relativamente a una funzione causale o produttiva dell’anima; inoltre, ne viene affermata l’«incorporeità assoluta» (ajswmatwvtaton), che pare contraddire l’implicito assunto di eraclito che, se l’anima è assimilata a qualunque altro ente naturale e inserita nello stesso ciclo delle sue trasformazioni, deve risultare corporea al pari di tutti gli elementi dalle cui trasformazioni deriva; infine, ammesso che si riferisca a eraclito, Aristotele sostiene pure, in un passo di poco precedente a quello citato (405a5), che «ad alcuni parve» che «l’anima sia fuoco … il più sottile e il più incorporeo degli elementi» (pu'r ei\nai [scil., hJ yuchv] … leptomerevstatovn te kai; mavlista tw'n stoiceivwn ajswvmaton), anche questa un’informazione che, come spiegherò immediatamente, non mi sembra accettabile. Cfr. pure la nota seguente e C. Viano, Aristotele e l’archè-fuoco di Eraclito, in «Archives Internationales d’Histoire des Sciences» 37 (1987), pp. 207-21.

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IntroduzIone XCI

cidere con il «fuoco», come vorrebbero invece, per esempio, Aristotele e alcuni commentatori moderni.107 Inoltre, dalla diversa indicazione dell’elemento liquido, come «mare», sul piano fisico-cosmologico, e come «acqua», sul piano psico-

107 Cfr. la nota precedente; Kirk, p. 342; Marcovich, p. 253; e M.C. nussbaum, Psychè in Heraclitus, in «Phronesis» 17 (1972), pp. 1-15 e 153-70. È probabile che il fraintendimento dipenda dalla sovrappo-sizione meccanica del ciclo fisico-cosmologico della trasformazione degli elementi del fr. 30 [31 dK; 53ab Marc.], che si articola in «fuoco»-(«aria»?)-«mare»-«terra» e «terra»-«mare»-(«aria»?)-«fuoco» (= «fulmine»), al ciclo psico-fisiologico dell’anima del fr. 62 [36 dK; 66 Marc.], che invece stabilisce la successione «anima»-«acqua»-«terra» e «terra»-«acqua»-«anima». Come si vede, infatti, a parte la sostituzione, sulla quale tornerò, del «mare» con l’«acqua», nel primo compare il «fuoco», assente dal secondo, nella posizione in cui nel secondo compare l’«anima», assente dal primo, il che può aver indotto a un’immediata identificazione di «fuoco» e «anima». Va rilevato però, in primo luogo, che una mediazione dell’«elemento aereo» nella trasformazione del «fuoco» in «mare» e soprattutto del «mare» in «fuoco» (= «fulmine»), sul piano fisico-cosmologico, benché non esplicitata, sembra indispensabile (cfr. supra, § 4.3, e le nn. 7-8 al fr. 30 [31 dK; 53ab Marc.]); e che, in ogni caso, se l’«anima» proviene dall’«acqua», sul piano psico-fisiologico, ciò non può avveni-re che per azione del calore del fuoco che ne innesca l’evaporazione, come del resto lo stesso Aristotele attesta, sicché l’«anima» coincide appunto con questa «esalazione» vaporosa, ma non con l’«acqua» né con il «fuoco» dalla cui interazione, invece, essa si produce: se, in altre parole, l’«anima» consistesse direttamente di «fuoco», cosa innescherebbe l’evaporazione dell’«acqua» da cui dovrebbe provenire l’«anima-fuoco»? Sembra se ne debba concludere dun-que che, mentre il fuoco «cosmico», sul piano fisico-cosmologico, è a un tempo condizione e legge del processo di trasformazione degli elementi, per l’aumento e la diminuzione dell’intensità del suo calore, e sua sostanza fondamentale, perché gli elementi sono altrettante alterazioni di fuoco (cfr. ancora supra, § 4.3), l’«anima» non è che un anello transitorio del ciclo della trasformazione degli elementi sul piano psico-fisiologico, che esige per il suo avvio e per la sua conservazione l’intervento «esterno» del principio cosmico del «fuoco», come è del resto il caso di tutti i processi naturali, che produce le variazioni della temperatura del corpo indispensabili all’effettivo verificarsi della sua processualità.

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XCII IntroduzIone

fisiologico, se non dipende da qualche intervento dei citatori,108

possiamo dedurre l’infondatezza dell’attribuzione a eraclito, non a caso suggerita ancora una volta dalle testimonianze stoiche (cfr. di nuovo supra, § 2.2, n. 26), dell’anacronistica tesi di un’anima «cosmica», che, se la generazione dell’anima corrispondesse all’esalazione a partire da qualunque elemento liquido (indifferentemente «mare» o «acqua»), potrebbe sorgere appunto dall’esalazione dal «mare», così come le anime individuali sorgono dall’«acqua» o da un liquido corporeo. La differenza fra i due contesti e fra i due elementi che vi sono segnalati, «mare» e «acqua», va invece senza dubbio mantenuta, perché implica che solo un particolare tipo di liquido, l’«acqua», che rappresenta un genere speci-fico dell’elemento liquido più diffuso sulla terra, il «mare», sottoposto all’opportuno grado di calore, raggiunge il raro punto di equilibrio, o «rapporto di misura» (lovgoı), difficile da determinare con esattezza (baquvı), dal quale si genera l’anima secondo i frr. 61 [45 dK; 67 Marc.] e 62 [36 dK; 66 Marc.], così escludendo l’ipotesi che un’anima onnidiffusa nel tutto si generi dall’elemento liquido più diffuso sulla terra, il «mare».

109

d’altra parte, l’analogia stabilita fra il piano fisico-cosmo-logico (e meteorologico) e l’ambito psico-fisiologico consente anche di tratteggiare una rappresentazione di quest’ultimo sulla falsariga del primo: se la generazione dell’anima, per esalazione, a un certo grado di calore, dal liquido corporeo, dall’«acqua» (a sua volta, forse, derivante dallo scioglimento della materia corporea, dalla «terra»), coincide con la «nasci-ta» di un vivente, il suo progressivo potenziamento fino alla

108 Cfr. ancora la n. 2 al fr. 62 [36 dK; 66 Marc.].109 Ma si vedano in proposito, oggi, S.n. Mouraviev, Doctrinalia

Heraclitea III: Âmes, fleuves et exhalaisons (Notes de lecture), in «revue de Philosophie Ancienne» 26 (2008), pp. 44-77, e G. Betegh, The Limits of the Soul: Heraclitus B 45 DK. Its Text and Interpreta-tion, in Nuevos Ensayos sobre Heráclito, cit., pp. 391-414.

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IntroduzIone XCIII

maturità equivale al pieno dispiegamento dell’anima la cui funzionalità è accresciuta dall’aumento del calore corporeo, cui segue il declino, con la vecchiaia e fino alla morte, nel corso del quale una diminuzione del calore corporeo provoca l’inarrestabile indebolimento dell’anima e delle sue funzioni, che si conclude con il ritorno, per condensazione, nel liquido corporeo da cui era esalata, infine corrompendosi in esso (e quest’ultimo, a sua volta, forse solidificandosi nella materia corporea da cui si era sciolto). Al ciclo vitale dell’anima, che è determinato dalla giusta proporzione dell’elemento umido e del calore che ne produce l’esalazione, corrisponde allora un ciclo funzionale, per cui l’anima esercita al meglio le sue funzioni naturali quanto più è «asciutta» (xhrhv), per la pros-simità all’elemento caldo che ne ha causato la generazione dall’elemento liquido, mentre decade nell’ottundimento quanto più è «umida» (uJgrhv), per la prossimità all’elemento liquido in cui si corrompe, per condensazione, allontanandosi dall’elemento caldo, come indicano i frr. 63 [117 dK; 69 Marc.] e 64 [118 dK; 68 Marc.], l’una e l’altra condizione, del resto, potendosi produrre nell’anima anche in relazione a una certa condotta (per esempio morale o alimentare), che influisca sul suo grado di asciutezza o di umidità, benché ciò non permetta, a mio avviso, di attribuire a eraclito una precisa distinzione di ambiti funzionali o di centri «pulsionali» psichici.

110

L’esito della prospettiva psicologica di eraclito sembra netto ed esplicito: l’anima è inequivocabilmente mortale, non solo in quanto principio vitale di un individuo particolare, ma anche come sostanza naturale inserita nel ciclo di tutte le cose e dunque soggetta all’ineluttabilità delle trasformazioni degli elementi nel cosmo. Ciò spiega l’indissolubile legame della vita e della morte, connesse come i capi di uno stesso filo che

110 rinvio tuttavia, su questo punto, alle osservazioni di S.M. darcus, Thumos and Psychè in Heraclitus B 85, in «rivista di Studi Classici» 25 (1977), pp. 353-59.

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XCIV IntroduzIone

necessariamente si implicano l’uno con l’altro e comportano, al comparire dell’uno, il sopraggiungere dell’altro (cfr. il fr. 66 [48 dK; 39 Marc.]), e la vanità delle speranze degli uomini che perseguono la vita a ogni costo, credendo di prolungarla attraverso i propri figli, senza capire che la vita stessa, per il semplice fatto di sussistere, conduce alla morte (cfr. il fr. 65 [20 dK; 99 Marc.]). non rimane spazio così per nessuna aspettativa escatologica, giacché eraclito denuncia la completa ignoranza che affligge gli uomini e il carattere ridicolo delle loro opinioni in proposito, probabilmente contrapposte ancora una volta all’unico sapere trasmesso dal lovgoı, che consente di accedere alla comprensione della natura del tutto e della necessaria e naturale alternanza della vita e della morte (cfr. i frr. 67 [27 dK; 74 Marc.] e 69 [63 dK; 73 Marc.]) e che porta forse a concepire la condizione della morte come un ritorno dell’anima allo stato primordiale, se il fr. 68 [98 dK; 72 Marc.]

riconduce alle anime collocate nell’Ade una forma di proces-sualità rudimentale basata su una sorta di «traspirazione» o di «osmosi» elementare (aiJ yucai; ojsmw'ntai kaq j {Aidhn).

111

111 Cfr. in particolare la n. 3 al fr. 68 [98 dK; 72 Marc.]. Il dibat-tito sulla concezione, mortale o immortale, dell’anima secondo eraclito è assai vasto e prevede numerose sfumature interpretative, per grandi linee riconducibili a una lettura, che evidentemente condivido, che nega qualunque forma di persistenza individuale e vitale dell’anima dopo la morte, e alla sua concorrente, secondo la quale, invece, è possibile ammettere una sopravvivenza dell’anima, benché a condizioni particolari, per esempio in forma elementare e impersonale oppure solo nel caso degli eccezionali destini degli eroi caduti in battaglia: si vedano perciò soltanto, a puro titolo esemplificativo, il seminal paper di G.S. Kirk, Heraclitus and Death in Battle (fr. 24D), in «American Journal of Philology» 70 (1949), pp. 384-93; quindi M. darcus, What Death Brings in Heraclitus, in «Gymnasium» 85 (1978), pp. 501-10; J. Mansfeld, Heraclitus fr. B 63 D.-K., in «elenchos» 4 (1983), pp. 197-205; e H. Granger, Death’s Other Kingdom: Heraclitus on the Life of the Foolish and the Wise, in «Classical Philology» 95 (2000), pp. 260-81.

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IntroduzIone XCV

4.6 Etica, politica e religione

Sarebbe vano tentare di ricostruire, anche solo per grandi linee, un insieme coerente e articolato di principi ascrivibili all’«etica» di eraclito né tantomeno le sue idee «politiche» e credenze «religiose»: come indicato nel § 3, siamo troppo poco informati, da un punto di vista storico e biografico, per poter suggerire una sistemazione organica dei mate-riali che sembrano appartenere alla sua riflessione etica, politica e religiosa. Vi sono in ogni caso pochi dubbi sul carattere «aristocratico» delle sue concezioni, benché nel senso specifico dell’individuazione di un criterio che porta a distinguere gli a[ristoi, i «migliori», dalla massa degli uomini comuni, dei «più» (oiJ polloiv); rinnovando da questo punto di vista la morale eroica del guerriero omerico, che esalta l’eccellenza del combattente che appunto in batta-glia fa mostra della sua virtù, tale criterio consiste innan-zitutto nella consapevolezza di sé, che deriva dall’esame e dalla conoscenza della propria indole umana (cfr. il fr. 70 [101 dK; 15 Marc.]) e della sua effettiva collocazione nella realtà naturale e sociale (cfr. il fr. 70a [116 dK; 23e Marc.]), cioè nell’«assennatezza» (swfronei'n), che implica una forma di moderazione e di rispetto dei limiti imposti cui bisogna attenersi, fuggendo ogni rischio di eccesso e dismisura (u{briı, cfr. il fr. 71 [43 dK; 102 Marc.]).

112 Sembra

perciò che un simile criterio, che finisce per stabilire una scansione gerarchica fra gli uomini comuni e le rare figure di eccezione, estendendosi dall’ambito più strettamente etico alla riflessione politica e perfino alle forme religio-se, dipenda essenzialmente da un requisito di carattere conoscitivo, analogo a quello che vale rispetto all’ascolto

112 Su tale prescrizione dell’indagine di sé, che eraclito stesso dichiara orgogliosamente di aver condotto, cfr. S. Scolnicov, I Sear-ched Myself, in «Scripta Classica Israelica» 7 (1983-1984), pp. 1-13.

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XCVI IntroduzIone

del lovgoı (cfr. supra, § 4.1) o alla ricerca della verità (cfr. supra, § 4.4): come accade per la conoscenza delle cose che sono e della natura, solo pochi giungono al sapere che fornisce i punti di riferimento valoriali e ideali per orien-tarsi nell’azione individuale e collettiva, e sarà pertanto a questi «pochi» – ciascuno dei quali equivale, per il suo carattere eccezionale, all’intera massa dei «molti», sicché la sua volontà (boulhv) può assurgere al rango di «legge» universale (cfr. i frr. 72 [49 dK; 98 Marc.] e 76 [33 dK; 104 Marc.]) – che dovranno affidarsi docilmente i «più», che rimangono invece imprigionati, per la loro pigrizia, nella banalità della morale popolare diffusa, nei luoghi comuni di una politica «da comizio», nelle pratiche religiose più retrive e tradizionali, che non conservano nessuno spirito religioso autentico, ma soltanto i tratti ridicoli della superstizione.

Gli a[ristoi sono dunque coloro i quali ridimensionano il valore e l’importanza delle cose umane, se consistono nelle inclinazioni a un’immediata soddisfazione degli istinti pri-mari e animali, privilegiando esclusivamente la ricerca della fama e della gloria (klevoı ajevnaon, cfr. il fr. 73 [29 dK; 95 Marc.]), che procurano sorti illustri e onore eterno (secon-do i frr. 74 [25 dK; 97 Marc.] e 75 [24 dK; 96 Marc.]), non però, a quanto pare, nel significato limitato e ristretto della gloria e dell’onore conquistati in battaglia, ma in relazione a qualunque genere di azione o di impresa che oltrepassi l’orizzonte immediato degli impulsi bestiali dei «più»; ed ecco perché, per converso, ai «più» è prescritta l’obbedienza alla legge (nel fr. 77 [44 dK; 103 Marc.]), emendata la volontà (nel fr. 78 [110 dK; 71 Marc.]) e consigliata la continenza, nei limiti del possibile (nel fr. 79 [85 dK; 70 Marc.). Proprio alla vivida descrizione di un’etica della massa allude una serie di frammenti, attraverso l’introduzione di paralleli tratti dal mondo animale, verosimilmente per accentuare i tratti critici e derisori di quella che eraclito giudica piuttosto come un’«anti-etica» da riformulare radicalmente: i «più»

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IntroduzIone XCVII

sono via via paragonati ad asini che si accontentano dello squallido nutrimento della paglia, invece che del materiale prezioso che è l’oro; a maiali che se la godono nel fango, invece di trarre piacere dall’igienica acqua pulita; a buoi che raggiungono il culmine della felicità quando trovano il cibo; in generale ad animali da pascolo il cui unico orizzonte è il pascolo cui sono condotti a bastonate; a cani che abbaiano insensati a tutto ciò che ignorano (si tratta dei frr. 81 [9 dK; 37 Marc.], 82 [13 dK; 36 Marc.], 82a [4 dK; 38 Marc.], 83 [11 dK; 80 Marc.] e 84 [97 dK; 22 Marc.]). L’interpretazione di questi esempi è molto controversa:

113 si è supposto infatti che,

senza necessariamente implicare un immediato giudizio di valore – sulla condotta degli animali, stando alla lettera dei frammenti in questione, o più probabilmente degli uomini comuni che a quelli sono paragonati, intendendo corretta-mente la metafora –, eraclito proponga una presentazione esclusivamente e rigorosamente relativista, eticamente neu-trale, delle preferenze specifiche, e appunto relative, che ogni specie vivente manifesta per natura,

114 una presentazione

che secondo alcuni commentatori dipenderebbe, e concet-tualmente deriverebbe, dallo stesso relativismo intrinseco nella tesi dell’unità dei termini opposti, se è vero che dalle diverse e opposte scelte di ogni specie vivente si ricava di fatto l’indifferenza oggettiva della scelta, cioè l’unità di tutte

113 Per una lucida presentazione della questione e dei suoi elemen-ti essenziali, dei materiali dossografici pertinenti e delle principali proposte esegetiche, cfr. C. Viano, Héraclite et le plaisir des animaux. Relativisme ou jugement de valeur?, in L’animal dans l’antiquité, a cura di B. Cassin e J.-L. Labarrière, direzione di G. romeyer dherbey, Vrin, Paris 1997, pp. 181-206. Secondo Viano, i frammenti eraclitei non forniscono appigli per una scelta interpretativa fondata, che rimane perciò fortemente congetturale.

114 di «relativismo» (in questo caso etico) eracliteo parlano per esempio, ancora una volta, Conche, pp. 416-17 e 421-22, e Pradeau, pp. 201-03.

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XCVIII IntroduzIone

le scelte possibili.115

Contro una simile conclusione si può far valere, in primo luogo, l’assenza di qualunque rapporto fra relativismo e unità degli opposti, come ho tentato di mostrare supra, nel § 4.2; ma bisogna soprattutto constatare che, nel riferimento agli asini, per esempio, che preferiscono la paglia all’oro, oppure ai maiali, che godono del fango e non dell’acqua pulita, mancano proprio i termini opposti e dunque il necessario rapporto di inerenza rispetto a un terzo termine cui siano eventualmente riferiti: paglia e oro, rispetto agli asini, come fango e acqua pulita, rispetto ai maiali, non sono termini opposti né la loro inerenza rispetto agli asini e ai maiali ne determina l’unità, perché gli asini scelgono appunto la paglia, e non l’oro, i maiali il fango, e non l’acqua pulita; mentre le usuali esemplificazioni di questo caso specifico della tesi dell’unità degli opposti implicano l’inerenza di due termini opposti a un terzo, per esempio «inizio» e «fine» rispetto alla «circonferenza», che a qual-che titolo si «unificano» e perciò sono «lo stesso». d’altro canto, e analogamente, perché sussista, in senso proprio, «relativismo» della scelta, non è sufficiente l’indicazione di una specie animale (gli asini e i maiali, per esempio) e della preferenza che essa esprime (per la paglia e per il fango invece che per l’oro e per l’acqua pulita), giacché occorre esplicitare l’indicazione di almeno una seconda specie cui attribuire una scelta differente, così stabilendo, appunto, il carattere relativo di ogni scelta. Si dovrà dunque sottinten-dere che agli asini che aspirano alla paglia, e ai maiali che prediligono il fango, si contrappongono gli «uomini», che invece optano per l’oro e per l’acqua pulita: nuovamente, però, disporremo di una serie di termini («asini» e «maiali» da una parte, «uomini» dall’altra) cui sono ricondotte scelte

115 una posizione del genere, in relazione a questi frammenti «degli animali», è difesa per esempio da Kirk, pp. 80-85, da Marcovich, pp. 132-35, e, appena più prudentemente, da Kahn, pp. 186-89.

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IntroduzIone XCIX

differenti («paglia» e «fango» di contro a «oro» e «acqua pulita»), né i primi né le seconde essendo opposti e senza che le seconde ineriscano a uno stesso termine a un tempo, come implica la tesi dell’unità degli opposti, ma appunto a termini diversi.

una volta escluso ogni riferimento all’unità degli oppo-sti, nulla impedisce di considerare formalmente gli esempi eraclitei come altrettante espressioni di relativismo, nel senso banale che le specie viventi per natura, come i gruppi sociali per indole, abitudine o cultura, operano delle scelte che fondamentalmente corrispondono a, e dipendono da, la loro natura e il loro carattere, rispettivamente; mi pare però che limitarsi a questa valutazione di base non renda conto di una serie di dati di fatto: innanzitutto, agli animali chiamati in causa da eraclito viene sistematica-mente attribuita una scelta «alimentare» o comunque legata alla soddisfazione o alla risposta immediata a un impulso fisico, di cui almeno il fr. 73 [29 dK; 95 Marc.] esprime senza alcun dubbio una condanna sprezzante (oiJ de; polloi; kekovrhntai o{kwsper kthvnea), fra l’altro in opposizione alla scelta degli a[ristoi, che aspirano invece alla «gloria eterna» (klevoı ajevnaon); sarà di conseguenza plausibile immaginare che proprio a una scelta più alta rispetto a quella animale siano esortati gli uomini, con l’indicazione dell’oro o dell’acqua pulita rispetto alla paglia e al fango. non si tratta allora, per eraclito, di esaminare le implicazioni relativiste delle scelte animali e umane, da buon osservatore o curioso naturalista, ma di constatare, come portavoce del lovgoı e critico dei saperi e dei costumi diffusi, che i contenuti delle prime rinviano all’orizzonte immediato e ristretto delle piccole aspettative e aspirazioni quotidiane, mentre solo chi amplia il proprio orizzonte può sperare di realizzare pienamente la natura umana, elevandosi dalla condizione animale. È quindi a una lettura decisamente «etica» di questi materiali che mi

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C IntroduzIone

sembra opportuno tornare;116

ed è assai probabile che, in tale contesto, si debba intendere la metafora «animale» come esempio negativo cui assimilare la massa dei «più» e a cui contrapporre l’esempio dei pochi «migliori» che da quelli si distinguono – anche se, stando alla lettera dei frammenti, sarebbe teoricamente possibile assumere, al contrario, la metafora «animale» come modello positivo di scelta «naturale» (per esempio della paglia, che è cibo, invece di un materiale inutile come l’oro), rispetto alla scelta «innaturale» degli uomini (che preferiscono per avidità l’oro alla più modesta paglia, che funge però da indispensabile alimento) –, se è vero che eraclito (e gli antichi in generale), non molto politically correct su questo piano, si serve normalmente degli animali, e dell’insieme di metafore tratte dal loro mondo, come esempi di esseri inferiori alla (almeno potenziale) perfezione dell’unico vivente superiore, che è naturalmente l’uomo, il che pare esplicitamente confermato dai frr. 73 [29 dK; 95 Marc.], 83 [11 dK; 80 Marc.] e, se autentico, 82a [4 dK; 38 Marc.].

dal paradigma a un tempo «etico-valoriale» e «normati-vo» degli a[ristoi, e dalla speculare condanna dell’anti-etica della massa, discendono forse, da quanto si può giudicare in base ai pochi elementi a nostra disposizione, una concezione innovativa della giustizia e della legge, che, nei frr. 85 [23 dK; 45 Marc.] e 86 [16 dK; 81 Marc.], sembra presupporre un riferimento a un insieme di procedure formali, cui spetta il compito di tradurre in atto i principi universali che le ispirano, a un tempo preventive, valutative e punitive, che traggono la propria forza dal fatto di essere, per così dire, oggettivamente date e codificate, cioè indipendenti dal

116 Si veda per questa conclusione, oltre alle note di commento ai frammenti citati, in cui sono indicate nel dettaglio le diverse posizioni dei commentatori, l’articolo di r. Pecchioli, L’oro di Eraclito 22 B 22, in «elenchos» 2 (1981), pp. 79-108.

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IntroduzIone CI

capriccio di un’istituzione, di un gruppo di potere o di un singolo dominus;

117 e le vivide tracce di una partecipazione

di eraclito alla vita e all’attività politica della sua città, di cui tuttavia non possiamo neanche genericamente indicare le linee: la condanna degli efesini nel fr. 88 [125a dK; 106 Marc.], per l’uso eccessivo della ricchezza che è causa di corruzione dei costumi e di malvagità, di per sé troppo generica, può essere ricondotta alla motivazione che, nel fr. 87 [121 dK; 105 Marc.], avrebbe indotto gli efesini, secondo eraclito, a esiliare ermodoro perché «più capa-ce», dunque, forse, in quanto intenzionato a correggerne la condotta alla luce di principi e valori ostili, o almeno non favorevoli, alla massa e ai principali centri di potere; il che farebbe pensare a una collocazione nella parte ari-stocratica di ermodoro, e conseguentemente di eraclito, possibilmente confermata anche dalla considerazione che la pratica dell’esilio, dell’ostracismo, era lo strumento caratteristico dei regimi democratici delle città greche del V secolo a.C. per allontanare ed eliminare potenziali o effettivi nemici della democrazia. Si vede bene come simili osservazioni non possano rimanere che fortemente ipotetiche; mi pare probabile, al più, che, coerentemente con un’etica dei «migliori», eraclito possa aver difeso un’analoga prospettiva, basata sul governo degli a[ristoi, in ambito politico: è impossibile concluderne però se ciò lo abbia indotto a propugnare una politica di stampo pro-priamente aristocratico o oligarchico, limitando in modo esclusivo agli a[ristoi l’accesso al governo della città, o soltanto a difendere il principio di una qualche forma di

117 Sulla concezione eraclitea della «legge» e della «giustizia», qui appena evocata, rinvio agli stimolanti studi di A.M. Battegazzore, Contributo alla nozione eraclitea di giustizia come limite (frr. B 11 e B 114 DK), in «Sandalion» 2 (1979), pp. 5-17, L. Senzasono, Eraclito e la legge, in «Gerión» 14 (1996), pp. 53-75, e I.G. Kalogerakos, Dikes onoma, in «Hellenica» 49 (1999), pp. 225-43.

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CII IntroduzIone

selezione nell’accesso al governo, eventualmente compa-tibile con un regime formalmente democratico.

118

Ancora più difficile farsi un’idea della concezione eraclitea della religione e dello specifico rapporto che sussiste, o non sussiste, fra l’ambito dell’umano e l’ambito del divino,

119 giac-

ché i materiali superstiti ci informano soltanto della veemente polemica che eraclito conduce contro le pratiche e i riti diffusi, tradizionali e popolari (puntualmente ricostruita nelle note di commento ai frr. 90 [14 dK; 87 Marc.], 92 [5 dK; 86 Marc.], 93 [15 dK; 50 Marc.] e 94 [92 dK; 75 Marc.]), che non si limita in ogni caso ai loro aspetti formali o esteriori, se ne investe radicalmente e criticamente il senso e i contenuti, come nel caso del culto dei morti, da «gettare via più dello sterco», nel fr. 91 [96 dK; 76 Marc.]. Anche su questo tema il dibattito è vasto e variegato;

120

118 un quadro d’insieme delle interpretazioni più recenti della concezione politica di eraclito si può trovare in B. Wisniewski, Héraclite sur la meilleure forme de gouvernement, in «rivista di Studi Classici» 21 (1973) pp. 177-80; F.K. Kessidi, On the Social and Political Views of Heraclitus of Ephesus, in «Voprosy filosofii» 6 (1980), pp. 113-23; t. Kessidis, The Socio-Political Views of Hera-clitus of Ephesus, in «Philosophia» 13-14 (1983-1984), pp. 92-108; J. Frère, Les idées politiques d’Héraclite d’Éphèse, in «Ktèma» 19 (1994), pp. 231-38; e Id., Politique et religion à Éphèse entre 550 et 450, in «Kernos» 9 (1996), pp. 87-94.

119 numerosi studi hanno tentato di suggerire ipotesi più o meno plausibili su questo punto; cito, a titolo di esempio, G. Fatouros, Heraklits Gott, in «eranos» 92 (1994), pp. 65-72; G. Grammatico, El dios de Heráclito, in «Kléos» 1 (1997), pp. 63-88; M. Adomenas, Heraclitus on Religion, in «Phronesis» 44 (1999), pp. 87-113; A. drozdek, Heraclitus’ Theology, in «Classica et mediaevalia» 52 (2001), pp. 37-56; e A. Cherubini, Eraclito e la religione, in «Bollettino della Società Filosofica Italiana» 179 (2003), pp. 45-53.

120 non posso che limitarmi qui a rinviare a d. Babut, Héraclite et la religion populaire: fragments 14, 69, 68, 15 et 5 Diels-Kranz, in «revue des études anciennes» 77 (1975), pp. 27-62; e. Montanari, Eraclito e la religiosità tradizionale, in Atti del Symposium Hera-cliteum 1981, cit., pp. 381-97; M.e. Koutlouka, Logos et croyance religieuse chez Héraclite: fr. 92, 93, in «Kernos» 4 (1991), pp. 259-63; A. Marsoner, La polemica antidionisaca di Eraclito, in «Atti

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IntroduzIone CIII

sembra di poter scorgere nell’atteggiamento di eraclito, più che un’attitudine propriamente e sistematicamente «illuminista», un sostanziale disprezzo per l’incapacità e l’ignoranza degli uomini che non colgono la contraddittorietà delle pratiche religiose che pongono in atto e dunque si accostano a esse, ancora una volta, come «dormienti».

È quindi di nuovo un criterio di carattere conoscitivo, con il discrimine così nettamente fissato fra conoscenza e ignoranza, che dirige la riflessione eraclitea sugli «affari umani»121 ed è solo dalla presa di coscienza della sua verità che eraclito fa dipendere la possibilità, per gli uomini, di accedere a un destino più alto e a una condotta di vita più degna.122

4.7 Frammenti dubbi e imitazioni

Si potrà ricavare dalle Concordanze poste a conclusione del presente volume la corrispondenza fra i frammenti eraclitei classificati come dubbi, falsi o falsificati rispettivamente in dK (dal fr. 126a al fr. 139) e in Marcovich (dal fr. 112 al fr. 125); pure dalle Concordanze si traggono le indicazioni relative alla mia scelta in favore dell’autenticità (anche solo parziale) di alcuni dei frammenti considerati dubbi o spuri in dK o in Marcovich, come anche gli adeguati rinvii alle note in cui giustifico, viceversa, la mia scelta per l’inautenticità di alcuni dei frammenti considerati dubbi o spuri già in dK e/o in

dell’Accademia Pontaniana» 44 (1995), pp. 301-36; d. noël, Du vin et des femmes aux Lénéennes, in «Hephaistos» 18 (2000), pp. 73-102; e a C. osborne, Heraclitus and the Rites of Established Religion, in What is a God? Studies in the Nature of Greek Divinity, a cura di A.B. Lloyd, duckworth, London 1997, pp. 35-42.

121 L’espressione è di Pradeau, p. 70 e passim.122 Mi riferisco così al significato da me attribuito al fr. 99 [18

dK; 11 Marc.], sul quale si veda però in ultimo d. Post, Heraclitus’s Hope for the Unhoped, in «epoché» 13 (2009), pp. 229-40.

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CIV IntroduzIone

Marcovich. rimangono da considerare brevemente i seguenti frammenti, concordemente giudicati dubbi o spuri tanto in dK quanto in Marcovich: 126a dK; 118 Marc., 126b dK; 0 Marc., 130 dK; 124 Marc., 132 dK; 120 Marc., 133 dK; 121 Marc., 134 dK; 122 Marc., 135 dK; 123 Marc., 137 dK; 28c1 Marc., 138 dK; 125 Marc. e 139 dK; 118c Marc. Giudicato possibilmente autentico da Mouraviev III, pp. 146-47, il fr. 126a dK; 118 Marc. fa riferimento, con un notevole grado di complicazione che ne compromette la comprensione, agli interessi astronomici di eraclito, senza però consentire nessuna diretta relazione con i pertinenti materiali autentici; il fr. 126b dK; 0 Marc. stabilisce una farraginosa associazione fra epicarmo e l’eraclitismo (cfr. pure supra, § 2.1, n. 18), in un contesto testuale corrotto e scarsamente comprensibile; i frr. 130 dK; 124 Marc., 132 dK; 120 Marc., 133 dK; 121 Marc., 134 dK; 122 Marc., 135 dK; 123 Marc. e 138 dK; 125 Marc. esprimono una serie di opinioni di carattere morale, assai generiche e banali, che non paiono poter avere nessun rapporto con i materiali eraclitei autentici; il fr. 137 dK; 28c1 Marc. presuppone una mediazione stoica, che attribuisce a eraclito la tesi della coincidenza del lovgoı con il fuoco cosmico, e di entrambi con la divinità eterna che regge tutte le cose e si identifica perciò con il destino (eiJmar-mevnh, con un significato che, inoltre, non è attestato prima di Platone), per la quale cfr. supra, § 2.2; infine, neanche il fr. 139 dK; 118c Marc., che colloca in un contesto di ispirazione cristiana alcune considerazioni relative agli astri, al loro nome e al posto loro assegnato dal creatore, può avere la minima chance di autenticità.

4.8 Le «Lettere» pseudo-eraclitee

un breve cenno va fatto anche alle nove Lettere trasmesse sotto il nome di eraclito, due delle quali, la I e la III, si pre-sentano come scritte dal re persiano dario a eraclito, la II

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IntroduzIone CV

costituendo la risposta di eraclito al re; la IV, la VII, l’VIII e

la IX sono indirizzate da eraclito a ermodoro, la V e la VI ad

Anfidamante, e tutte e sei con un tono fortemente polemico,

nei confronti degli efesini le prime e dei medici le seconde.123

Certamente spurie e di epoca tarda,124

le prime tre Lettere

mirano evidentemente a stabilire un rapporto fra eraclito e la

corte del re dario, mentre le ultime sei si sforzano di imitare

lo stile e il carattere di eraclito, eccedendo in arroganza e

oscurità. nonostante vi compaiano alcuni vaghi accenni ai

frammenti superstiti, il tono goffo e artefatto rende poco

plausibile il tentativo di trarre da queste Lettere informazioni

anche solo genericamente fondate: viene sottolineato, nella

Lettera II, il rifiuto di eraclito a recarsi presso la corte per-

siana, perché egli respinge onori e ricchezze; è stigmatizzato,

nella Lettera III, l’esilio da efeso di ermodoro, amico di

dario, cui seguono le minacce del re persiano agli efesini se

non accetteranno di farlo rientrare in patria. La Lettera IV,

a ermodoro, esprime il disprezzo di eraclito nei confronti

dei suoi concittadini per l’espulsione dell’amico; le Lettere V

e VI, allo sconosciuto Anfidamante, denunciano l’incapacità

dei medici a trattare la malattia del filosofo, l’idropisia, così

accostandosi al luogo comune diffuso del disprezzo di era-

123 Per queste Lettere pseudo-eraclitee si potrà consultare l’ancora ottima edizione, con traduzione italiana ampiamente commentata, di L. tarán, in Mondolfo-tarán, pp. 279-359.

124 Le Lettere I e II sono citate da diogene Laerzio, Vitae phi-losophorum IX 13-14 e appartengono perciò verosimilmente a un periodo che va dal III a.C. e al I secolo d.C.; anche la Lettera III potrebbe essere della stessa mano delle prime due, benché non sia citata da diogene Laerzio. La Lettera IV può essere datata al I secolo d.C., e non si può escludere che le Lettere V e VI, entrambe indirizzate ad Anfidamante, si debbano allo stesso autore della IV. Le Lettere VII, VIII e IX, tutte accomunate dal riferimento a ermodoro e alla sua attività di legislatore, possono anch’esse essere di un’unica mano e forse risalire al I secolo d.C. Si veda su tutto ciò Mondolfo-tarán, pp. 300-02.

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CVI IntroduzIone

clito nei confronti della medicina (cfr. pure supra, § 3) e, più in generale, delle tevcnai reputate fra gli uomini; mentre le Lettere VII, VIII e IX, nuovamente indirizzate a ermodoro, si soffermano piuttosto sul ruolo da eraclito ricoperto, come collaboratore di ermodoro, nella costituzione delle leggi di efeso, sull’irriconoscenza degli efesini nei confronti di entrambi e sul fatto che ermodoro sia ormai in partenza verso l’Italia e infine sul carattere delle leggi che quest’ulti-mo aveva dato a efeso, garantendo l’uguaglianza dei diritti per i liberti e ispirandosi a principi che affermano la parità secondo natura fra gli uomini, secondo un ideale di origine stoica che sancisce la libertà del saggio, l’unico tipo di uomo libero in qualunque circostanza e sotto qualunque regime.

5. Eraclito, l’oscuro

nella ricostruzione via via proposta in questa Introduzione

dei diversi e variegati aspetti della riflessione di eraclito trova conferma, credo, la difficoltà di suggerirne, forse anche per ragioni oggettive che attengono alla natura stessa della sua opera, certamente per il carattere frammentario in cui ci è pervenuta, una chiara ed esplicita linea unificante, che vada oltre l’individuazione di una serie di assonanze, linguistiche e concettuali, costanti e ben riconoscibili; ed è quanto tento di suggerire adottando l’etichetta puramente convenzionale di lovgoı peri; fuvsewı (indicata supra, nel § 3) non come titolo, bensì soltanto a mo’ di descrizione sommaria dei contenuti dell’opera di eraclito, quale egli stesso pare annunciarla nel fr. 1 [1 dK; 1 Marc.], nella forma di un unico lovgoı, di un «ragionamento», che prende in considerazione ogni aspetto della natura del tutto e delle cose che sono, della loro struttura fisica, macro-cosmica e micro-cosmica, e fino al ruolo, nel tutto e nella natura, dell’individuo, con la determinazione delle sue possibilità di accesso, psicologiche e conoscitive, alla realtà di cui

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IntroduzIone CVII

è parte, della sua condotta e del suo destino. non riesco a vedere limitazioni o tratti specifici che permettano di privilegiare in modo particolare una certa area tematica rispetto a un’altra ed è per questo che giudico opportuno attenermi a una definizione così generale dello scritto eracliteo, per come lo possediamo.

una simile difficoltà si adatta del resto alla fama di oscurità di cui eraclito ha goduto, o sofferto, già partire dall’antichità,

125

se diogene Laerzio, Vitae philosophorum II 22 (cfr. IX 11), riporta l’aneddoto secondo cui, avendogli il tragediografo euripide portato ad Atene il libro di eraclito, Socrate avreb-be commentato: «Ciò che ne ho capito mi sembra venire da una buona fonte, ciò che non ho capito anche, direi, ma ci vorrebbe un tuffatore di delo!»; forse alla stessa com-plessità fa ironicamente riferimento Platone, Teeteto 180a, quando denuncia le «frasette enigmatiche» (rJhmativskia aijnigmatwvdh) degli eraclitei; e certamente di un’ambiguità che dipende dalla punteggiatura delle frasi di eraclito si lamenta Aristotele, Retorica III 5, 1407b11 (cfr. la n. 9 al fr. 1 [1 dK; 1 Marc.]). Questa proverbiale oscurità dell’opera eraclitea, che ne ostacola la comprensione, è indubbiamente connessa, per i lettori moderni, allo stato frammentario in cui ci è pervenuta, ma non si può escludere che un problema analogo si ponesse anche per i lettori antichi, in tal caso non tanto per la frammentazione «materiale» dell’opera (in certi contesti comunque possibile già nell’antichità), quanto in ragione della sua stessa fortuna, che la ha resa soggetta a numerose e impegnative reinterpretazioni e appropriazioni (platonica, aristotelica, stoica, scettica, cristiana …), risultan-do di volta in volta sollecitata nei contenuti dottrinari e nel profilo formale dall’esercizio esegetico dei suoi interpreti, che hanno contribuito così a propagarne un’immagine via

125 una raccolta pressoché completa dei testi antichi che evocano il carattere oscuro di eraclito e della sua opera si trova in Mouraviev, Héraclite, cit., pp. 600-04.

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CVIII IntroduzIone

via deformata e sempre meno comparabile con l’originale; d’altro canto, è pure evidente che lo stile tipico dell’opera di eraclito, che nonostante il suo stato frammentario siamo ancora in grado di riconoscere (cfr. supra, § 3), con l’impiego di un linguaggio ricco e caratterizzato da effetti letterari raffinati e complessi, concorre senz’altro ad accentuarne la difficoltà, mentre mi pare meno plausibile dare credito a una forma di volontario esoterismo.

non deve essere stato lungo il passo per attribuire all’oscuro eraclito una sensibilità pessimista sulla natura e sulle cose umane, un’attitudine di sostanziale misantropia, mista a disprezzo e compatimento, nei confronti degli uomi-ni, che viene efficacemente rappresentata nell’immagine del «filosofo che piange»,

126 come la dipinge per esempio,

alla fine del II secolo d.C., Luciano, I filosofi all’asta 14, che mette in scena un’asta di filosofi, a conclusione della quale rimangono «invenduti» democrito, il «filosofo che ride» di ogni cosa e nessuna ne prende sul serio, perché ogni cosa si riduce ad atomi e vuoto, ed eraclito, il «filosofo che piange» lamentando l’infelicità della condizione umana, che così dialoga con un acquirente che gli chiede il motivo del suo pianto:

eraclito: tutte le cose umane credo che siano fonte di dolore e

pena e nulla di esse sfugge alla morte, sicché piango gli uomini

e mi lamento per loro. (…) non vedo che sofferenza nel futuro,

126 Si vedano, per questa celebre rappresentazione di eraclito, Pradeau, pp. 13-16, e gli studi di A. Buck, Democritus ridens et Heraclitus flens, in Wort und Text. Festschrift für F. Schalk, a cura di H. Meier e H. Sckommodau, Klostermann, Frankfurt 1963, pp. 167-86, e di V. Bécares, Heráclito lloraba y Demócrito reía. Fortuna literaria y orígenes de un tópico antiguo, in «Studia philologica Salmanticensia» 5 (1980), pp. 37-49. Ancora a Mouraviev, Héraclite, cit., p. 589, si deve l’indicazione dei testi antichi che si riferiscono a questa rappresentazione di eraclito.

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IntroduzIone CIX

con la conflagrazione e una fine tragica dell’universo; di questo mi lamento e di vedere che nulla rimane, ma tutto si mescola (…) nel gioco dell’eternità. – Acquirente: e cosa è l’eternità? – eraclito: un bimbo che gioca muovendo i suoi pezzi, separan-doli e riunendoli. – Acquirente: e gli uomini? – eraclito: dei mortali. – Acquirente: e gli dei? – eraclito: uomini immortali. – Acquirente: Ma tu fabbrichi enigmi e proponi indovinelli! (…) non si capisce nulla di quel che dici! – eraclito: È perché non mi interesso affatto a voialtri. – Acquirente: ed ecco perché nessuno dotato di buon senso ti comprerà!

FrAnCeSCo FronterottA

ringrazio il dottor Francesco Bearzi per il grande aiuto che mi ha dato nella revisione del lavoro, tanto sul piano formale quanto per i contenuti. Mia rimane naturalmente la responsabilità per ogni errore o imprecisione che tuttavia sussistesse.

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NOTA AL TESTO

1. L’edizione di Eraclito

L’edizione critica dei frammenti di un pensatore preso-cratico implica la preliminare predisposizione di un testo critico, basato cioè sulla consultazione e la collazione dei manoscritti, delle opere in cui tali frammenti sono citati, parafrasati, riecheggiati ecc., un lavoro di amplissimo respiro che sarebbe verosimilmente impossibile compiere per un solo studioso; nel caso di Eraclito, e dei frammenti da me ritenuti autentici, si tratterebbe per esempio, limitandosi solo alle fonti primarie delle citazioni (ed escludendo perciò parafrasi, allusioni ecc.), di una cinquantina di opere per un totale di trentasei autori. Si può dare il caso, naturalmente, che di alcune o molte di queste opere esistano già buone e recenti edizioni critiche alle quali appoggiarsi, sicché i numeri si riducono, anche considerevolmente; d’altra parte però, come si potrà vedere dall’Indice dei citatori posto alla fine del volume, di una certa quantità delle opere che ci trasmettono parte consistente dei frammenti eraclitei le edizioni critiche risalgono ormai alla grande stagione della filologia classica tedesca, fra gli ultimi decenni del XIX e i primi del XX secolo, e ne sarebbe certo opportuna una revisione, se non proprio il rifacimento. Nessuna delle raccolte dei frammenti di Eraclito si basa su un’edizione critica del testo intesa in senso così stretto e rigoroso; nella maggior parte dei casi, il procedimento scientificamente più serio adottato è stato

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CXII NOTA AL TESTO

quello di esaminare e porre a confronto le edizioni critiche esistenti delle opere dei citatori dei frammenti, eventualmente consultandone i manoscritti nei casi dubbi, oltre che, come è ovvio, le precedenti edizioni eraclitee. Applicata con un certo grado di elasticità e sensibilità, questa metodologia standard permette di esprimere una valutazione fondata sulle scelte da compiere per stabilire il testo di un frammento, benché sempre vincolata al lavoro critico svolto da altri editori sulle opere dei citatori che lo trasmettono. La presente edizione è stata da me predisposta sulla base di questi criteri, utiliz-zando innanzitutto le raccolte eraclitee di Diels e Kranz e di Marcovich come punto di riferimento costante, servendomi delle edizioni critiche delle fonti dei frammenti segnalate nell’Indice dei citatori in fondo al volume e consultandone, in un numero assai ridotto di casi, i relativi manoscritti: il testo stampato qui dei frammenti di Eraclito è dunque da me stabilito, anche con alcune proposte originali di emendazione del testo, ma non costituisce a nessun titolo, per le ragioni dette, un’edizione critica.

È noto che S.N. Mouraviev lavora da decenni a un’im-ponente progetto editoriale dedicato a Eraclito, che consta, nell’estensione attualmente prevista, di circa venti volumi, in parte già pubblicati, in parte programmati, presso l’editore Academia (Sankt Augustin). Esso si articola in un volume di Prolegomena; in una sezione di Traditio, che si propone di raccogliere tutte le testimonianze relative a Eraclito, da Epicarmo a Petrarca, in quattro volumi (già pubblicati fra il 1999 e il 2003), cui si aggiungono altri tre volumi di testi, allusioni e imitazioni, con commento, e comprendenti anche la tradizione orientale e rinascimentale; in una sezione di Recensio, che riguarda propriamente i materiali eraclitei superstiti e si divide in un volume di notizie biografiche su Eraclito (pubblicato nel 2003), un volume sulle dottrine attribuite a Eraclito nell’antichità (pubblicato nel 2008), un volume sul linguaggio e la poetica eraclitea (pubblica-

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NOTA AL TESTO CXIII

to nel 2002), tre volumi (pubblicati nel 2006), finalmente, contenenti i frammenti, la loro traduzione, un esame della loro struttura formale e delle note di commento alla tradu-zione, e ancora due volumi, uno di carattere prettamente interpretativo, l’altro dedicato alle fonti di Eraclito; in una sezione di Refectio, che prevede un volume di ricostruzione del «libro» di Eraclito (pubblicato nel 2011) e un volume di commento; degli Indici, infine, chiuderanno l’impresa. Non è difficile vedere l’enormità dell’opera, che certamente potrà contribuire a modificare sensibilmente la prospettiva degli studi eraclitei fornendo agli specialisti (ma, temo, non ai semplici lettori, anche se eruditi) un’enciclopedica raccolta di informazioni, dati e materiali relativi a Eraclito; pur aven-done consultato sistematicamente i volumi che contengono il testo e la traduzione dei frammenti, e il relativo commento filologico-testuale, non ho considerato questo lavoro come riferimento editoriale primario (come ho fatto invece per le raccolte di Diels e Kranz e di Marcovich) né ho ritenuto di doverne attendere la conclusione, del resto non prossima, per esempio sulla base del fatto che ancora mancanti sono proprio i volumi effettivamente «interpretativi», e ciò nella misura in cui nutro nei suoi confronti delle perplessità, relative al metodo come al contenuto.

Sul piano critico-filologico della selezione dei materiali, primari e secondari, vengono spesso ribaditi una serie di principi di fondo (cfr. solo Mouraviev I, pp. XV-XVIII), che consistono, con le parole dell’autore, nella presunzione di

innocenza, per cui, fino a prova contraria, tutti i citatori e i testimoni vanno considerati come intelligenti e onesti; in un principio di precauzione, per cui tutto ciò che è da qualche fonte attribuito a Eraclito va considerato, fino a prova con-traria, come eracliteo; e in un principio di non identità, per cui, ancora fino a prova contraria, tutti i materiali, primari e secondari, pur apparentati ma con contenuti per qualche aspetto dissimili, vanno considerati come autonomi e indi-

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CXIV NOTA AL TESTO

pendenti l’uno dall’altro. Non intendo avviare qui un’estesa discussione di carattere critico e metodologico (mi esprimerò su alcuni aspetti di dettaglio dell’applicazione di simili princi-pi, ove opportuno, nelle note di commento ai frammenti), ma non posso non dichiarare che giudico questi principi molto dubbi e pericolosamente estranei a una metodologia critica, ispirati da un potenziale lassismo filologico e da un neutra-lismo ermeneutico che si rivela esiziale per ogni prospettiva interpretativa di carattere storico. È semplicemente falso assumere che citatori e testimoni siano, per presunzione di innocenza, intelligenti e onesti, perché ogni citatore e testi-mone fornisce al contrario una citazione e una testimonianza, per definizione, a un certo fine e non per un gusto antologico o estetico, il che rende sistematicamente sospetta, sul piano «ideologico», ogni citazione e testimonianza; è metodologi-camente errato sostenere, per precauzione, che qualunque materiale contro la cui autenticità «eraclitea» non sussista-no prove decisive debba essere per ciò stesso considerato autentico, perché ogni materiale, primario o secondario, va di per sé esaminato come tale e giudicato, per autentico o inautentico, in base alle prove, più o meno forti o congetturali, che da esso si traggono e che sono necessarie per giustificare una presa di posizione, sia in favore sia contro l’autenticità; è paradossale, infine, accogliere, per la loro (del tutto) presunta e superficiale non identità, una massa crescente di materiali, primari o secondari, palesemente ripetitivi. Emerge così, al di là del preteso aspetto metodologico, l’obiettivo reale del progetto di Mouraviev, che è quello di giungere a una com-piuta ricostruzione dell’«originale» di Eraclito, della struttura, dello svolgimento e di ampie parti del «testo» vero e proprio di questo «libro».1 Anche su questo punto, devo confessa-

1 Oltre che nel recente volume di Refectio, ricordato sopra, in cui si giunge a 248 brani (pp. 1-30), Mouraviev aveva già proposto diverse versioni della sua ricostruzione del «libro» di Eraclito, l’ul-

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NOTA AL TESTO CXV

re purtroppo la mia sfiducia in un’aspirazione del genere: considero implausibile, allo stato delle nostre informazioni, che difficilmente potranno aumentare in futuro, anche solo ragionare nei termini astratti di un «originale» eracliteo, se non nella forma ideale di un «archetipo» metafisico. Si moltiplichino pure, con Mouraviev, i materiali, primari e secondari, giudicati autentici (anche con gradi di autenti-cità e letteralità distinti) e perciò ricollocati nel «libro» di Eraclito;2 credo però, per parte mia, che l’opportuno riesame delle nozioni di «frammento», «testimonianza» e «citazione», appena accennato all’inizio dell’Introduzione al presente volume, che porta indubbiamente a valorizzare il carattere informativo della citazione rispetto al frammento inteso come unico originale, così di fatto ampliando il concetto stesso di originale a noi accessibile, dovrebbe suggerire allo stesso tempo un’estrema prudenza rispetto all’impiego del concetto di originale, che può essere ampliato appunto per-ché se ne considerano ormai definitivamente perduti e non ricostruibili i confini, la forma, lo svolgimento, la struttura, i contenuti propri. Trascurare questa evidenza significa a mio avviso esporre ogni selezione dei materiali raccolti al criterio puramente soggettivo dell’interpretazione filosofica.

Comunque sia di ciò, l’obiettivo del presente volume è diverso e assai più modesto: consiste soltanto nel fornire un’edizione italiana utilizzabile, cioè corredata da un qua-dro complessivo dello stato attuale della nostra conoscenza delle testimonianze relative a Eraclito, alla sua vita e alla sua riflessione, e delle citazioni pervenuteci della sua opera, precedute da un’introduzione e accompagnate da un appa-

tima delle quali, nell’articolo già citato Le livre d’Héraclite 2500 ans après. L’état actuel de sa reconstruction, pp. 33-61, ne contava 199.

2 In Mouraviev I, si giunge, se non ho contato male, a 201 fram-menti eraclitei, pur, appunto, con gradi di letteralità e autenticità diversi, mentre in DK ci si ferma, per i frammenti autentici, al nr. 126 e in Marcovich, più modestamente, al nr. 112.

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CXVI NOTA AL TESTO

rato di note di commento, al testo greco e alla traduzione, che, delineando anche i tratti essenziali del dibattito critico e bibliografico più recente, permettano di collocare Eraclito nel suo contesto storico e filosofico.

2. La presente edizione italiana

Per le ragioni appena spiegate, la raccolta eraclitea di Mou-raviev, che pure ho consultato costantemente, non è stata da me assunta fra le edizioni di riferimento per una sistematica comparazione rispetto alla presente; né lo sono state le rac-colte indicate nelle Abbreviazioni, che pure ho esaminato con attenzione per il testo, la traduzione e il commento ai frammenti; neanche ho dato conto regolarmente del ricorso alle sezioni eraclitee delle principali raccolte contempora-nee dei frammenti dei pensatori presocratici (per esempio, quelle curate da J. Barnes, G.S. Kirk-J. Raven-M. Schofield, M.L. Gemelli Marciano, D. Graham e J. Mansfeld, per le quali si veda la Bibliografia), utilizzate soltanto per alcune verifiche puntuali, non trattandosi di edizioni critiche né di commentari approfonditi. Mi sono limitato pertanto ad assumere le raccolte di Diels e Kranz e di Marcovich come edizioni di riferimento e solo rispetto a esse ho stabilito concordanze e divergenze nell’ammissione (o nell’esclu-sione) dei frammenti e nella loro numerazione, secondo i criteri seguenti:

(1) Ho numerato i frammenti a mio avviso autentici progressi-

vamente, indicandone la corrispondenza con le raccolte di Diels

e Kranz e di Marcovich, come risulta anche sinotticamente dalle

Concordanze poste alla fine del volume.

(2) Quando l’autenticità di un frammento giudicato autentico

nelle raccolte di Diels e Kranz o di Marcovich potrebbe essere a

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NOTA AL TESTO CXVII

mio avviso solo parziale, in quanto parafrasi o variante di un altro

frammento autentico, ho adottato due strategie complementari:

(2a) se il frammento contiene a mio avviso qualche elemento

significativo, per forma o contenuti, che integra o completa il

frammento autentico di cui sarebbe parafrasi o variante, lo ho

riprodotto nel testo e lo ho indicato lasciandogli lo stesso numero

progressivo del frammento autentico di cui sarebbe parafrasi o

variante, ma aggiungendogli una lettera progressiva (a, b, c ecc.);

(2b) se il frammento non contiene a mio avviso nessun elemento

significativo, per forma o contenuti, che integri o completi il

frammento autentico di cui sarebbe parafrasi o variante (o si

pone perfino, eventualmente, in contraddizione con esso), non

lo ho riprodotto nel testo, ma ne ho motivato l’esclusione nelle

note di commento al frammento considerato autentico di cui

sarebbe parafrasi o variante.

In entrambi questi casi, (2a) di inclusione sub condicione o (2b)

di esclusione di un frammento giudicato autentico nelle raccolte

di Diels e Kranz o di Marcovich, la corrispondenza fra quelle e

la presente edizione si evince dalle Concordanze.

(3) I frammenti concordemente considerati dubbi o spuri già

nelle raccolte di Diels e Kranz e di Marcovich, nessuno dei

quali è stato da me accolto come autentico, come pure le Lettere

attribuite a Eraclito, unanimemente giudicate apocrife, non sono

stati riprodotti nel testo, ma solo brevemente presentati supra,

nei §§ 4.7-4.8 di questa Introduzione.

(4) I frammenti da me accolti come autentici, e assenti dalle

raccolte di Diels e Kranz e di Marcovich (ma si tratta del solo

fr. 34 [0 (3+94) DK; 0 (57+52) Marcovich], derivato dal papiro di

Derveni e del resto già presente nelle raccolte di Pradeau e Mou-

raviev, cfr. la relativa n. 1), risultano anch’essi dalle Concordanze

e la loro aggiunta è motivata nelle relative note di commento.

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CXVIII NOTA AL TESTO

Per le note di commento ho adottato i criteri seguenti:

(1) La prima nota a un frammento indica normalmente i suoi

citatori e presenta, se da me ritenuto utile, il contesto della loro

citazione.

(2) Le note al testo greco presentano le principali varianti tra-

smesse nella tradizione manoscritta e gli interventi suggeriti dagli

editori (se necessario discutendoli e illustrandone il senso), non

però in modo esaustivo, non trattandosi di un’edizione critica, ma

limitatamente a quelli che mi sembrano significativi. In generale,

nel caso di più citazioni dello stesso frammento, fornisco indica-

zioni testuali solo relativamente alla fonte primaria; neanche do

conto in modo sistematico delle varianti derivanti dalle diverse

forme dialettali di uno stesso termine.

(3) Le note alla traduzione italiana intendono giustificare la

traduzione da me proposta, illustrare, quando opportuno, le

principali scelte alternative e fornire una spiegazione immediata

del frammento, rinviando però di norma, per una presentazione

d’insieme in relazione agli altri frammenti da me collocati nella

stessa Sezione tematica, alla Nota introduttiva a ciascuna Sezione

e, per una interpretazione complessiva, a questa Introduzione. Le

note non contengono perciò neanche una dettagliata discussione

della letteratura critica, impossibile in questa sede, ma solo quei

riferimenti indispensabili, tratti dai commenti a mio avviso più

importanti, a suggerire al lettore ulteriori approfondimenti.

Segnalo inoltre che proprio per i frammenti che toccano i temi

giudicati più rilevanti della riflessione di Eraclito o che comun-

que ricorrono più diffusamente nei materiali superstiti, come

per esempio, ma non solo, il fr. 1 [1 DK; 1 Marc.], e in generale

quelli raccolti nella Sezione 1, con la dottrina del lovgoı, le note

di commento sono più immediatamente dirette alla spiegazione

del testo, rinviando ai paragrafi pertinenti di questa Introduzione

per un esame più ampio di carattere interpretativo; mentre spesso

più dettagliate ed estese sono le note di commento ai frammenti

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NOTA AL TESTO CXIX

che affrontano questioni, se non più marginali, quantomeno più

sinteticamente considerate in questa Introduzione.

Infine, come già spiegato supra, nel § 4, ho raccolto i frammen-ti in Sezioni tematiche: queste comportano una breve Nota

introduttiva, in cui sono forniti, molto schematicamente, (1) un quadro riassuntivo degli elementi dottrinari che emergono dal contenuto dai frammenti raccolti in ciascuna Sezione, (2) una presentazione delle principali informazioni dossografiche disponibili al loro proposito in base alle raccolte di Diels e Kranz e di Mondolfo e Tarán e (3) un’indicazione succinta della bibliografia pertinente.

Sono state utilizzate inoltre le convenzioni seguenti:

I segni <...> nel testo originale di un frammento indicano la

presenza di una lacuna, di cui viene dato conto in nota, cui

corrispondono nella traduzione i segni (...).

I segni < > nel testo originale di un frammento, a includere uno

o più termini, indicano un’integrazione, di cui viene dato conto

in nota, derivante dal confronto con altre fonti secondarie della

citazione o da congetture moderne, che viene accolta, ma non

segnalata, nella traduzione.

I segni [ ] nel testo originale di un frammento, a includere uno

o più termini, indicano un’espunzione, di cui viene dato conto

in nota, che riguarda soltanto veri e propri errori (o presunti

tali) o inserzioni esplicative o di commento (o presunte tali)

del citatore nella citazione; nessuna indicazione viene invece

fornita nel testo originale del frammento per l’espunzione di

una o più parole che siano giudicate parte del contesto della

citazione e non di quest’ultima, perché si tratta appunto di una

restituzione al contesto e non di un’espunzione: anche di ciò

viene comunque dato conto in nota. In entrambi questi casi, le

parole del testo originale del frammento espunte o restituite

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CXX NOTA AL TESTO

al contesto della citazione non sono naturalmente accolte né

segnalate nella traduzione.

I segni ( ) nel testo originale di un frammento, a includere un

numero variabile di parole, indicano che queste, pur apparte-

nendo al contesto della citazione e non a quest’ultima, sono

ritenute indispensabili per la sua comprensione; di esse viene

dato conto in nota e sono accolte e segnalate nella traduzione

con gli stessi segni ( ).

Page 125: Eraclito eBook

BIBLIOGRAFIA*

Repertori bibliografici

E.N. Roussos, Heraklit Bibliographie, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1971.

F. De Martino, L. Rossetti e P.P. Rosati, Eraclito. Bibliografia

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L. Paquet, M. Roussel e Y. Lafrance, Les Présocratiques. Biblio-

graphie analytique (1879-1980), vol. I, Bellarmin-Les Belles Lettres, Montréal-Paris 1988, e L. Paquet, Y. Lafrance, Les

Présocratiques. Bibliographie analytique (1450-1879), vol. III, Supplément, Bellarmin, Montréal 1995.

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S.N. Mouraviev, Héraclite, in Dictionnaire des philosophes

antiques, a cura di R. Goulet, Éditions du CNRS, t. III, Paris 2000, pp. 573-617.

B. Sijakovich, Bibliographia Praesocratica. A Bibliographi-

cal Guide to the Studies of Early Greek Philosophy in its

Religious and Scientific Contexts with an Introductory

* Questa bibliografia, pur se non esaustiva, raccoglie in ordine cro-nologico la gran parte degli studi dedicati a Eraclito (con particolare attenzione al periodo 1950-2011), che mi è stato possibile utilizzare, citandoli esplicitamente o comunque esaminandoli direttamente. Per una bibliografia completa, si consulteranno invece i repertori bibliografici qui segnalati.

Page 126: Eraclito eBook

CXXII BIBLIOGRAFIA

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to anni, in Eraclito. Testimonianze, imitazioni e frammenti, a cura di M. Marcovich, R. Mondolfo e L. Tarán (ristampa delle rispettive edizioni eraclitee, dei frammenti, delle testimonianze e delle imitazioni, citate infra), Bompiani, Milano 2007, pp. 829-74.

Edizioni, traduzioni e commenti

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1934-37; ove necessario, le edizioni di questa opera sono indicate con l’aggiunta di un esponente: per esempio, DK4 = quarta edizione).

J. Barnes, The Presocratic Philosophers, 2 voll., Routledge & Kegan, London 19822.

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phers, Cambridge Univ. Press, Cambridge 19832.G. Giannantoni, I presocratici. Testimonianze e frammenti, 2

voll., Laterza, Roma-Bari 19863 (traduzione italiana, con lievi interventi e correzioni del curatore, della raccolta sopra citata di Diels e Kranz).

A. Lami, I presocratici. Testimonianze e frammenti. Da Talete

a Empedocle, BUR, Milano 1991.G. Reale, I presocratici, Bompiani, Milano 2007 (traduzione

italiana integrale della raccolta sopra citata di Diels e Kranz).

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dialettica, in Atti del Symposium Heracliteum 1981, a cura di L. Rossetti, vol. II, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1983, pp. 105-30.

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6 (ristampa della 5

a ed., Berlin

1934-37; ove necessario, le successive edizioni di questa opera sono indicate con l’aggiunta di un esponente: per esempio, DK4 = 4a edizione).

Dox. = H. Diels, Doxographi graeci, Weidmann, Berlin 1879.Kahn = C.H. Kahn, The Art and Thought of Heraclitus,

Cambridge Univ. Press, Cambridge 1979.Kirk = G.S. Kirk, Heraclitus. The Cosmic Fragments, Cam-

bridge Univ. Press, Cambridge 19622.Marcovich (editio maior) = M. Marcovich, Heraclitus. Greek

Text with a Short Commentary (editio maior), Los Andes Univ. Press, Merida 1967 (ristampa: Academia Verlag, Sankt Augustin 2001).

Marcovich, Marc. = M. Marcovich, Eraclito. Frammenti, intro-duzione, traduzione e commento, La Nuova Italia, Firenze 1978 (questo volume contiene una traduzione italiana, con alcune correzioni, della precedente versione inglese; ove non diversamente segnalato, i riferimenti a Marcovich sono da intendersi a questo volume e alla sua paginazione).

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CLIV ABBREVIAZIONI

Mondolfo-Tarán = R. Mondolfo e L. Tarán, Eraclito. Testi-

monianze e imitazioni, La Nuova Italia, Firenze 1972.

Mouraviev I-II-III = S.N. Mouraviev, Heraclitea. Recensio:

Fragmenta, III.B: Libri reliquiae superstites, I: Textus, ver-

siones, apparatus i-iii; II: Apparatus iv-v: Formae orationis;

III: Ad lectiones adnotamenta, Academia Verlag, Sankt

Augustin 2006.

Mullach = F.W.A. Mullach, Fragmenta philosophorum grae-

corum, vol. I, Didot, Paris 1860.

Pradeau = J.-F. Pradeau, Héraclite. Fragments [Citations et

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Teubner, Leipzig 1903-05. Robinson = T.M. Robinson, Heraclitus. Fragments, Univ. of

Toronto Press, Toronto 1987.

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LOGOS PERI FUSEWS

RAGIONAMENTO SULLA NATURA

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SEZIONE 1Il LOGOS

1. Dottrina

All’annuncio del lovgoı (fr. 1), cui si attribuisce come con-tenuto un sapere esplicativo capace di illustrare la natura delle cose che sono e l’insieme di fenomeni connessi alla processualità loro propria, nella forma di un «ragionamen-to» unico e universalmente valido che è in linea di principio accessibile a tutti e di cui il filosofo si dichiara soltanto por-tavoce, si contrappone l’atteggiamento della maggior parte degli uomini che, paragonati ad altrettanti «dormienti», si perdono, da «svegli», nei loro molteplici sogni privati, perché, non riuscendo a entrare in sintonia con il lovgoı e perciò ignorandone il contenuto, propongono, con parole e azioni, spiegazioni che appaiono simili a quelle del filosofo e del suo insegnamento, ma che sono inconsistenti come le immagini oniriche prodotte da chi ascolta come sordo e rimane come assente a ciò che gli è continuamente presente (frr. 1a-4). Ma la conformità al lovgoı, che non implica l’adesione a una particolare dottrina filosofica, conduce ad ammettere una prospettiva esplicativa comune che corrisponde d’altra parte alla comune natura del tutto, nella quale le singole cose esistenti e la loro comprensione specifica convergono in un quadro unitario, analogo a quello disegnato dalla legge che regge la comunità plurale dei cittadini o, più ancora, dalla legge divina che ispira tutte le leggi umane in quanto le trascende (frr. 5-6a). Tale parallelo consente di cogliere

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8 SEZIONE 1

alcune delle caratteristiche epistemiche dell’unico lovgoı, che si distingue per i suoi tratti di universalità, in quanto possesso comune di tutti gli uomini e a tutti potenzialmente disponi-bile, e di unità, in virtù del sapere unitario che trasmette, in alternativa alle molteplici e contraddittorie rappresentazioni di ciascuno (frr. 7-8).

2. Dossografia

Due passi di Sesto Empirico (Pyrrhonianae hypotyposeis I 209-12 e Adversus mathematicos VII 126-34 [= 22 A 16 DK = fr. 116 Marc.]) ci informano della sua attitudine nei con-fronti della concezione eraclitea del lovgoı e, più in generale, dell’accesso al sapere. Nel primo di essi, Sesto presenta una serie di dottrine filosofiche che, apparentemente assimilabili allo scetticismo, ne divergono invece, a suo avviso, sensibil-mente. A questo proposito, egli chiama in causa lo scettico Enesidemo (I secolo a.C.), rimproverandogli di aver difeso il carattere appunto scettico del pensiero di Eraclito per il fatto che questi ha ammesso la corporeità di tutte le cose, compresa l’anima, e soprattutto l’appartenenza dei termini contrari a un unico soggetto, proprio come gli scettici che riconoscono che i termini contrari sembrano appartenere a un unico soggetto; a tale argomento, Sesto obietta che l’affermazione secondo la quale i termini contrari sembrano appartenere a un unico soggetto non è caratteristica degli scettici o di Eraclito, perché risulta come un’evidenza per chiunque, mentre appunto la tesi secondo cui i termini contrari appartengono effettivamente a un unico soggetto manifesta un’attitudine dogmatica di Era-clito, che contraddice esplicitamente la posizione scettica del dubbio e della proclamazione di ignoranza. Nel secondo passo, il solo conservato come testimonianza pertinente in DK (e in Mondolfo-Tarán 16, pp. 145-50), Sesto suggerisce un esame della teoria eraclitea della conoscenza, che giustifica la sua

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SEZIONE 1 9

citazione dei frr. 44 [107 DK; 13 Marc.], 1 [1 DK; 1 Marc.] e 7 [2 DK; 23 Marc.]: Eraclito avrebbe distinto fra l’ambito della sensazione e la sfera del ragionamento, sancendo l’inattendi-bilità della prima e riponendo il criterio di verità nel secondo, a condizione, però, che si tratti del ragionamento «comune e divino». Infatti, secondo Sesto, a Eraclito sarebbe ascrivibile la tesi di una ragione universale e diffusa nel tutto della quale gli uomini, o piuttosto le loro anime concepite come realtà corporee, partecipano in virtù dei «pori» della sensazione, come per un fenomeno di respirazione, che di notte si atte-nua e rende gli uomini irrazionali, mentre si attiva di giorno riconducendo alla vitalità l’intelligenza. Come dei carboni, per prossimità al fuoco, divengono ardenti, e si spengono se ne sono separati, così anche gli uomini comunicano con la ragione comune e diffusa se sono in contatto con essa, risultando invece incapaci di ragionare se se ne distaccano. Ciò giustifica, agli occhi di Sesto, l’introduzione dei frr. 1 e 7, che esprimerebbero la concezione eraclitea di un simile principio razionale universale di contro alle molteplici opi-nioni particolari degli uomini, l’uno costituendo l’unica fonte della conoscenza vera (ed esterna), le altre rappresentando altrettante forme di comprensione individuale e infondata della realtà (cfr. pure Sesto Empirico, Adversus mathematicos VIII 286 [= 22 A 16 DK]).

Sull’accostamento fra il lovgoı eracliteo e un principio trascendente che informa l’intera natura come sua legge necessaria e «destino», a sua volta associato al fuoco che determina e governa i cicli vitali del cosmo e di tutte le cose sul piano fisico-cosmologico, testimoniano Aezio I 7. 22 (= Dox. 303), I 27.1 (= Dox. 322) e I 28.1 (= Dox. 323) [= 22 A 8 DK] e Calcidio, In Platonis Timaeum 251 (= 260.20 Was-zink) [= 22 A 20 DK], secondo il quale, inoltre, la ragione individuale partecipa della ragione divina che regge il mondo, accedendo così alla comprensione delle sue leggi e della sua azione ordinatrice.

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10 SEZIONE 1

3. Studi critici

Utili spunti per un approfondimento della nozione eraclitea di lovgoı nei frammenti raccolti in questa Sezione 1, come pure per la sua traduzione e il suo significato immediato, si trovano, oltre che nei commentatori citati infra, n. 9 al fr. 1 [1 DK; 1 Marc.], negli studi seguenti, che ne suggeriscono alcune messe a punto: M. Marcovich, On Heraclitus, in «Phronesis» 11 (1966), pp. 19-30; E. Kurtz, Interpretation zu

den Logos-Fragmenten Heraklits, Olms, Hildesheim 1971; E.L. Miller, The Logos of Heraclitus. Updating the Report, in «Harvard Theological Review» 74 (1981), pp. 161-76; L. Tarán, The First Fragment of Heraclitus, in «Illinois Classical Studies» 11 (1986), pp. 1-15; C. Eggers Lan, La teoría hera-

clítea del Logos, in «Nova Tellus» 5 (1987), pp. 9-18; e T.M. Robinson, Heraclitus and Logos, again, in Nuevos Ensayos

sobre Heráclito, Actas del segundo Symposium Heracli-teum, a cura di E. Hülsz Piccone, UNAM, Mexico 2009, pp. 93-102; piuttosto da un punto di vista storico-esegetico si colloca invece J. Bollack, Réflexions sur les interprétations

du logos héraclitéen, in La naissance de la raison en Grèce. Actes du Congrès de Nice, a cura di J.-F. Mattéi, PUF, Paris 1990, pp. 165-85.

Sulle testimonianze di Sesto Empirico intorno alla con-cezione eraclitea del lovgoı come ragione universale e della partecipazione a esso da parte degli uomini, come pure sulle implicazioni più generali di questa lettura per la compren-sione della teoria della conoscenza riconducibile a Eraclito, e della sua natura scettica o dogmatica, cfr. il quadro trat-teggiato nell’Introduzione, §§ 2.3 e 4.4; sull’intera questione della presenza (o della vera e propria appropriazione) di Eraclito nell’ambito della tradizione scettica, si dispone ormai di due studi d’insieme, che raccolgono ed esaminano i mate-riali pertinenti: R. Polito, The Sceptical Road: Aenesidemus’

Appropriation of Heraclitus, Brill, Leiden 2004, e B. Pérez-

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SEZIONE 1 11

Jean, Dogmatisme et scepticisme. L’héraclitisme d’Énésidème,

Presses Univ. du Septentrion, Villeneuve d’Ascq 2005.

Per l’associazione, di matrice stoica, del lovgoı eracliteo

con un principio razionale che dirige tutte le cose, eventual-

mente nella forma di un fuoco «cosmico» che ne regola le

trasformazioni e i cicli vitali, qui appena accennata, si veda

l’Introduzione, § 2.2.

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Fr. 1 [1 DK; 1 Marc.]1

tou' de;2 lovgou tou'd jejovntoı3 aijei;4 ajxuvnetoi givnontai a[nqrwpoi kai; provsqen h] ajkou'sai kai; ajkouvsanteı to; prw'ton: ginomevnwn ga;r pavntwn5 kata; to;n lovgon tovnde ajpeivroi-sin6 ejoivkasi, peirwvmenoi kai;7 ejpevwn kai; e[rgwn toiouvtwn, oJkoivwn ejgw; dihgeu'mai kata; fuvsin diairevwn e{kaston kai; fravzwn8 o{kwı e[cei: tou;ı de; a[llouı ajnqrwvpouı lanqavnei oJkovsa ejgerqevnteı poiou'sin, o{kwsper oJkovsa eu{donteı ejpilanqavnontai.

Gli uomini rimangono sempre nell’incomprensione del ragio-namento che sussiste come tale, sia prima di averlo ascoltato sia dopo che lo hanno ascoltato una prima volta;9 infatti, mentre tutte le cose si verificano in conformità a questo ragionamento, essi sono come inetti, anche se tentano discorsi e azioni simili a quelli che espongo io, che distinguo ogni cosa in base alla sua natura e dicendo com’è;10 ma agli altri uomini sfugge ciò che fanno da svegli, così come dimenticano ciò che fanno nel sonno.11

1 Questo frammento è riportato da diversi citatori, di cui la forma stampata qui suppone la combinazione: nella sua versione completa, da Sesto Empirico, Adversus mathematicos VII 132; in una versione parziale, fino a givnontai, da Aristotele, Retorica III 5, 1407b11, che ne fornisce inoltre una parafrasi; da Clemente Alessandrino, Stromateis V 111.7 (= II 401 Stählin) = Eusebio, Praeparatio evangelica XIII 13.39 (= II 214 Mras), fino a to; prw 'ton; da Ippolito, Refutatio contra omnes haereses IX 9.1 (= 241.15 Wendland), fino a o{kwı e[cei (per questa ragione, oltre che in base a una serie di considerazioni di ordine interpretativo, Mouraviev I, pp. 2-6, e III, p. 4, n. 3, isola il seguito della citazione col-locandolo come un frammento a parte, cfr. infra, n. 11); a esso fanno infine allusione numerosi autori antichi e tardoantichi, che è impossibile elencare qui (cfr. Marcovich, pp. 5-7, e Mouraviev I, pp. 3 e 357). Questo frammento si colloca probabilmente all’inizio dell’opera di Eraclito, come testimoniano tanto Aristotele (ejn th/' ajrch/' aujth/' tou' suggravmatoı), quanto Sesto (ejnarcovmenoı [scil., Eraclito] tw'n peri; fuvsewı). Particolare attenzione va dedicata al contesto della citazione di Sesto (VII 126-34), che, esaminando quale criterio di verità abbiano ammesso alcuni dei

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14 FR. 1 [1 DK; 1 MARC.]

filosofi precedenti, afferma che anche Eraclito ha distinto fra sensazione e ragione, condannando la sensazione alla semplice apparenza e facendo del ragionamento, appunto del lovgoı, l’unica fonte di verità. A questo fine, per esporre la condanna eraclitea della sensazione, Sesto cita il fr. 44 [107 DK; 13 Marc.], cfr. n. 1, per proseguire così: «E aggiunge che il ragionamento è ciò che giudica del vero, non tuttavia riferendosi a qualunque genere di ragionamento, ma a quello che è comune e divino. Bisogna illustrare brevemente questo punto, giacché si tratta di uno degli argomenti favoriti di questo naturalista, che sostiene che ciò che ci circonda è dotato di ragionamento e di intelligenza. (...) All’inizio della sua opera Sulla natura, costui dice: ... (Sesto cita qui il fr. 1). E dopo aver affermato esplicitamente, così, che noi facciamo e pensiamo ogni cosa per via di questa partecipazione, egli ha proseguito e dice più oltre che ... (Sesto cita qui il fr. 7 [2 DK; 23 Marc.]); e questa è una spiegazione del modo in cui il mondo è disposto. Sicché, nella misura in cui conser-viamo memoria di questo ragionamento, diciamo il vero, ma, quando torniamo ai nostri pensieri particolari, diciamo il falso. In questo modo, egli dichiara esplicitamente che il ragionamento comune è il criterio, che ciò che appare a tutti è credibile, perché è giudicato attraverso il ragionamento comune, mentre ciò che appare singolarmente a ciascuno è falso». Per le implicazioni di questa citazione, e per l’interpretazione che Sesto Empirico ne suggerisce, che rinvia al complesso dibattito intorno alla concezione eraclitea del lovgoı e alla sua «epistemologia», si vedano, brevemente, la Nota introduttiva alla presente Sezione 1 e alla Sezione 4, e, in termini più generali, l’Introduzione, §§ 2.3, 4.1 e 4.4.

2 tou ' de; è lezione che si trova in Ippolito, mentre Clemente e Ari-stotele hanno solo tou', omesso invece da Sesto.

3 tou'de ejovntoı è lezione dei manoscritti NLE di Sesto (i manoscritti ABVR hanno l’equivalente tou'de o[ntoı), mentre Clemente, Ippolito e i manoscritti AGS di Aristotele hanno tou' deovntoı (i manoscritti QP di Ari-stotele hanno tou' o[ntoı), che darebbe: «... del ragionamento che manca ...».

4 aijei; è lezione che si trova in Clemente, mentre Ippolito ha ajei; e Sesto omette l’avverbio; l’immediatamente seguente givnontai si trova nel manoscritto N di Sesto e in Ippolito, mentre Aristotele, Clemente e gli altri manoscritti di Sesto hanno givgnontai.

5 pavntwn è lezione che si trova in Ippolito, mentre è omesso da Sesto.6 ajpeivroisin è lezione del manoscritto N di Sesto, mentre Ippolito

ha a[peiroi eijsi;n e i manoscritti LEı di Sesto hanno a[peiroi.7 kai; è lezione che si trova in Ippolito, mentre è omesso da Sesto. Per

il seguente toiouvtwn, che è lezione di Sesto, Ippolito porta toioutevwn, accolto dalla gran parte degli editori e dei traduttori dei frammenti eraclitei, corretto in toiouvtewn da Mouraviev I, pp. 3-4.

8 oJkoivwn ... kata; fuvsin diairevwn e{kaston ... o{kwı e[cei è lezione di Sesto, mentre Ippolito ha oJpoi'a e o{pwı in luogo di oJkoivwn e o{kwı e omette e{kaston (diairevwn kata; fuvsin).

9 Il problema principale di queste linee e dell’intero frammento (sulla cui collocazione nell’ambito della prosa greca arcaica, cfr. Kahn, pp. 96-97), problema del resto fra i più complessi dell’interpretazione delle dottrine di Eraclito nel loro insieme, riguarda la traduzione e la

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comprensione del termine lovgoı. Un’amplissima e ragionata disamina del significato e degli usi di questo termine nella letteratura precedente si trova in Diano-Serra, pp. 90-104; mentre una messa a punto più sintetica è offerta da Mouraviev III, pp. 2-3, n. 7, che sceglie tuttavia di lasciarlo non tradotto. Non vi è dubbio che il significato del sostantivo lovgoı (e del corrispondente verbo levgw) sia originariamente quello di «racconto» o «discorso», per assumere poi, nella successiva letteratura filosofica, a cominciare da Parmenide (cfr. i frr. 7.5 e 8.50 DK) e naturalmente con Platone e Aristotele, il più elaborato significato di «ragionamento dimostrativo», «pensiero discorsivo», «calcolo» e infine, per estensione, di «ragione», a indicare, in senso lato, l’ambito conoscitivo razionale o, in senso stretto, l’organo stesso o la facoltà cui compete l’esercizio della conoscenza razionale. È dunque soprattutto per evitare ogni possibile anacronismo che conviene astenersi dal rendere qui lovgoı con «ragio-ne», «legge razionale» o tantomeno con «verità» (come fa Marcovich, p. 7), conservando invece l’idea di un’esposizione capace di cogliere la reale natura delle cose, contrapponendosi ai molteplici discorsi di quanti, affidandosi a impressioni superficiali e fallaci veicolate da un cattivo uso dei sensi (cfr. per esempio il fr. 44 [107 DK; 13 Marc.]), non producono che spiegazioni confuse e contraddittorie: l’esposizione di Eraclito assume invece la forma di un discorso «ragionato», che si adegua cioè a quei criteri argomentativi e di coerenza che verranno via via segnalati, quindi un «ragionamento» di cui si prescrive subito oltre l’«ascolto» (così anche Bollack-Wismann, pp. 62-63, e Robinson, pp. 75-76); questo pare d’altra parte il valore da attribuire a lovgoı negli altri principali contesti in cui il termine compare: cfr. i frr. 5 [50 DK; 26 Marc.], 7 [2 DK; 23 Marc.] e 11 [108 DK; 83 Marc.] (diverso, e più gene-rico, appare invece il significato del termine nelle occorrenze presenti nei frr. 30 [31 DK; 53 Marc.], 40 [87 DK; 109 Marc.] e 46 [39 DK; 100 Marc.]; dubbio, infine, il senso del termine nel fr. 61 [45 DK; 67 Marc.]). Un’ulteriore difficoltà, sottolineata già da Aristotele, che si lamenta della difficoltà di stabilire la punteggiatura nelle frasi di Eraclito, nella sua citazione del frammento, riguarda l’avverbio aijeiv, che si può collegare a ciò che lo precede («Gli uomini rimangono nell’incomprensione del ragionamento che sussiste sempre come tale ...») o, come ho fatto, a ciò che lo segue: la mia scelta si giustifica in base alla constatazione che, nel seguito immediato, si afferma che gli uomini non comprendono il ragio-namento proposto da Eraclito né prima di averlo ascoltato, riflettendovi perciò autonomamente, né dopo, dunque una volta ascoltatolo, e ciò spiega in che senso risultino sempre (appunto, sia prima sia dopo averne ricevuto l’esposizione) nell’ignoranza di esso (così pure Marcovich, p. 10; contra Conche, pp. 32-34; ampio esame di questo punto, in relazione ad alcune caratteristiche dello stile eracliteo, in Kahn, pp. 92-95). Non mi pare inoltre necessario rafforzare con l’avverbio aijeiv il genitivo che apre la citazione, che già contiene di per sé l’affermazione della validità e della certezza stabili e permanenti del ragionamento esposto: «... del ragionamento che è questo ...», cioè intendendo il dimostrativo tou 'de con valore predicativo e come equivalente a toiou'de, a qualificare perciò il lovgoı come un ragionamento che rimane come è, ossia che mantiene

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inalterati la sua struttura e il suo svolgimento (analoga costruzione, pur con una diversa traduzione, propone Kirk, pp. 33 e 35). Si vedano, per alcune opzioni alternative di cui è impossibile rendere conto qui nel dettaglio, Marcovich, pp. 8-9, Diano-Serra, p. 104, e Pradeau, pp. 264-65; e, da un punto di vista interpretativo, l’Introduzione, § 4.1.

10 Il «ragionamento» di cui parla Eraclito, di cui si annuncia fin d’ora che è in grado di spiegare il prodursi di ogni fenomeno, non è compreso dal resto degli uomini non tanto perché particolarmente complesso o troppo elevato, nel qual caso dovremmo attribuire al filosofo, come fa per esempio Conche, pp. 35-39, una sorta di autoproclamazione di assoluta superiorità rispetto alla massa (mentre egli si limita invece a constatare di aver compreso, a differenza dei più, l’esigenza di attenersi al ragionament» nella conoscenza della realtà: da notare a tale proposito l’enfasi introdotta dall’impiego della prima persona da parte del filosofo), quanto piuttosto per l’incapacità dei più di servirsi delle proprie capacità e competenze: pur sperimentandosi in ragionamenti e attività (cognitive) analoghi a quelli proposti da Eraclito, infatti, gli uomini non riescono a «distinguere» (cfr. Kirk, p. 41, e Marcovich, pp. 10-11; del diairei'n Bollack-Wismann, pp. 63-64, sottolineano particolarmente la dimensione formale, capace di far emergere le contraddizioni implicite in ogni discorso umano), cioè a esaminare analiticamente (anche se non propriamente a «definire»: così invece Pradeau, p. 266), ogni cosa per come è (o{kwı e[cei) naturalmente o costitutivamente (kata; fuvsin), ossia secondo una ricognizione della sua composizione che permetta di illustrarne l’effettiva struttura. Anche se non pare opportuno intendere le espressioni kata; fuvsin e o{kwı e[cei in senso eccessivamente tecnico (per esempio a indicare l’essenza nascosta delle cose in opposizione alla loro apparenza manifesta), si ha tuttavia qui un impiego del termine fuvsiı che va ben oltre quello, del resto assai raro, attestato nella precedente letteratura epica, lirica e tragica, in cui normalmente designa l’aspetto o la configurazione esteriore di qualcosa, perché si riferisce più o meno direttamente alla natura «fisica» di tutte le cose (pavnta) e di ciascuna delle realtà in essa contenute (e{kaston), insomma al modo in cui tutte le cose e ognuna di esse sono «fatte» o «costituite», nel contesto di quella riflessione fisico-naturalistica caratteristica del pensiero preplatonico in cui Eraclito si inserisce a pieno titolo (si vedano in proposito Pradeau, pp. 266-69, e i materiali raccolti nella Sezione 3). Vengono così descritti sommariamente le modalità (analitico-descrittive) e l’obiettivo (didattico-esplicativo) del «ragionamento» del filosofo, anche se non ne sono ancora esplicitati i contenuti, che emergeranno nei materiali raccolti nella seguente Sezione 2.

11 In virtù di quanto detto nella nota precedente, risulta evidente che gran parte degli uomini, per inettitudine e incapacità, si comportano come «dormienti», vale a dire che non vigilano, attraverso l’applicazione del ragio-namento, sulla propria condotta, apparendo così come sonnambuli che vagano errabondi e agiscono a caso: sull’opposizione metaforica fra sonno e veglia, cfr. per esempio infra, i frr. 8 [89 DK; 24 Marc.], specie n. 3, 22 [88 DK; 41 Marc.], 23 [21 DK; 49 Marc.] e, se autentico, 1a [73 DK; 1h1 Marc.]. Come ricordato supra, n. 1, Mouraviev I, pp. 2-6, e III, p. 4, n. 3, considera questa conclu-sione come un frammento autonomo, perché rileva una discontinuità fra l’opposizione stabilita in quanto precede, evidentemente fra Eraclito e gli uomini in generale, cui si sovrapporrebbe ora la menzione di «altri»

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FR. 1a [73 DK; 1h1 MARC.] 17

uomini, paragonati ai «dormienti» non per l’incomprensione del lovgoı, ma di «ciò che fanno»: tuttavia, indipendentemente dal fatto, comunque da rilevare, che la citazione di Sesto Empirico non rivela nessuna traccia materiale di tale discontinuità, si può notare che già dall’incomprensione del lovgoı nella prima parte del presente frammento derivano «abbozzi» di «discorsi e azioni» che gli uomini tentano di proporre (peirwvmenoi kai; ejpevwn kai; e[rgwn), manchevoli, benché analoghi, a quelli veritieri di Eraclito (toiouvtwn oJkoivwn ejgw; dihgeu'mai), sicché le azioni che sfuggono ai «dormienti» (oJkovsa ... poiou'sin) nell’ultima parte possono trovarsi ricomprese nella denuncia espressa nella prima (senza che si possa escludere, inoltre, che il poiou 'sin dei «dormienti», nell’ultima parte, non vada inteso esclusivamente in riferimento all’«azione», ma sia ai «discorsi» sia alle «azioni»); in tal caso, la precisazione che si tratta di «altri uomini» ribadisce la loro contrapposizione allo stesso Eraclito: mentre quest’ultimo adotta la corretta procedura per l’esame e la comprensione delle cose che sono, tutti gli «altri» uomini, di cui si è detto poco sopra che non sono in grado di seguire tale procedura, ma solo di tentarne un’imitazione, sono condannati adesso come semplici «dormienti» privi di qualunque consapevolezza.

Fr. 1a [73 DK; 1h1 Marc.]1

ouj dei' w{sper kaqeuvdontaı poiei'n kai; levgein.

Non bisogna agire e parlare come dormendo.2

1 Queste parole, riportate da Marco Aurelio IV 46 in una fitta sequenza di citazioni eraclitee, dopo quelle che considero come reminiscenze dei frr. 62 [36 DK; 66 Marc.], cfr. n. 1 (= 76 DK; 66e3 Marc.), e 63 [117 DK; 69 Marc.], cfr. n. 1 (= 71 DK; 69b1 Marc.), dopo il fr. 4 [72 DK; 4 Marc.] e prima del fr. 89 [74 DK; 89 Marc.], sono ritenute autentiche da DK (ma anche da Diano-Serra, p. 113, e Pradeau, p. 298), ove si aggiunge, come originale, anche il seguito: kai; ga;r kai; tovte dokou'men poiei'n kai; levgein, «infatti, ci pare di agire e parlare anche allora (scil., dormendo)», che credo vada invece escluso come inciso esplicativo introdotto da Marco Aurelio prima della citazione immediatamente successiva del fr. 89 [74 DK; 89 Marc.]: non condivido però la posizione di Mouraviev I, pp. 178-79, e III, p. 83, n. 2, che giudica il presente fr. 1a e il fr. 89 come un’unica citazione continua (cfr. in proposito la n. 1 al fr. 89). Kirk, p. 45, Bollack-Wismann, p. 232, Marcovich, p. 6, Kahn, p. 104, e Conche, pp. 68-69, si esprimono dal canto loro, pur con sfumature diverse, per l’inautenticità, eventualmente nella forma di una reminiscenza parafrasata del fr. 1 [1 DK;

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18 FR. 1b [75 DK; 1h2 MARC.]

1 Marc.] o di un’amplificazione della sua conclusione. Personalmente, se è plausibile dubitare delle stesse modalità di citazione da parte di Marco Aurelio, che formula una sorta di «promemoria» della cui letteralità è lecito sospettare, e se è pure fuori discussione la prossimità di queste parole alla conclusione del fr. 1, mi sembra tuttavia che esse suppongano una generalizzazione lì assente, perché altro è sostenere che agli uomini «sfugge ciò che fanno da svegli, così come dimenticano ciò che fanno nel sonno», altro sancire la necessità del «risveglio» da una simile condizio-ne di «sonno», che è incompatibile con ogni azione o discorso sensati (così anche Mouraviev III, p. 83, n. 1): ne deriva perciò a mio avviso una prescrizione, certamente connessa al fr. 1, ma non coincidente con i suoi contenuti, che, forse riformulata, ha delle probabilità di essere autentica.

2 Se autentico, questo frammento lascia emergere una prescrizione e un’implicita esortazione all’effettivo «risveglio» dal «sonno» metaforico dei più, così sviluppando la condanna eraclitea della maggioranza degli uomini, che si comportano, pur svegli, come dormienti, evidentemente nel senso che, non ascoltando il ragionamento che insegna loro in che modo conoscere e distinguere tutte le cose, rimangono «come inetti» in ogni discorso e conoscenza (cfr. supra, nn. 10-11 al fr. 1 [1 DK; 1 Marc.]). Non è improbabile, come osserva Pradeau, p. 298, che l’associazione dell’«agire» (poiei'n) e del «parlare» (levgein) implichi qui un ulteriore rinvio al lovgoı come fonte di ogni discorso e azione: se, infatti, i «dor-mienti» sono coloro i quali non accedono all’ascolto e alla comprensione del lovgoı, essi rimangono altrettanto inabili nel levgein e, di conseguenza, nel poiei 'n che da esso discende, suscitando una confusione di piani di realtà che è appunto caratteristica della condizione del «sonno».

Fr. 1b [75 DK; 1h2 Marc.]1

tou;ı kaqeuvdontaı ejrgavtaı ei\nai ...

I dormienti sono attori ...2

1 Queste parole, riportate da Marco Aurelio VI 42, sono considerate autentiche da DK, ove si fa seguire la precisazione: levgei kai; sunergou;ı tw 'n ejn tw ' / kovsmw/ ginomevnwn, «... dice (scil., Eraclito) che sono anche collaboratori di quanto avviene nel mondo», di cui Mouraviev I, p. 180, e III, p. 84, n. 1, conserva l’ultima parte, non perché la ritenga originale, ma in quanto indispensabile a illustrare il contenuto dell’affermazione di Eraclito; Marcovich, pp. 6 e 11, pur valutando la citazione come una semplice reminiscenza del fr. 1 [1 DK; 1 Marc.], appare tuttavia pos-sibilista quanto alla sua autenticità; allo stesso modo, Kahn, p. 216, e

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FR. 1c [19 DK; 1g MARC.] 19

Robinson, pp. 129-30, che però la riconducono piuttosto al fr. 8 [89 DK; 24 Marc.], cfr. n. 1. Con Bollack-Wismann, p. 234, e Diano-Serra, p. 112, mi limito a giudicare come eraclitee le scarne parole stampate sopra, attribuendo invece a Marco Aurelio, che si esprime tra l’altro in oratio obliqua e dunque senza pretese di letteralità, un’ampia parafrasi del contesto originale che tuttavia, se si lascia accostare al fr. 1 per la nuova evocazione dei «dormienti», se ne allontana però per quel che riguarda l’indicazione del ruolo «attivo» loro riconosciuto (cfr. la nota seguente).

2 Il senso del frammento, se autentico, pare essere che, poiché gli uomini, anche nella loro condizione «sonnambula», agiscono e verosi-milmente pronunciano discorsi sul mondo (cfr. la nota precedente, e supra, il fr. 1a [73 DK; 1h1 Marc.], specie n. 2), ciò conferma a maggior ragione la necessità di prestare ascolto al ragionamento che può guidare rettamente ogni azione e parola, come era indicato nel fr. 1 [1 DK; 1 Marc.]: cfr. supra, le relative nn. 10-11; così anche Kahn, p. 216, Diano-Serra, p. 112, e, con ampio sviluppo, Conche, pp. 70-71.

Fr. 1c [19 DK; 1g Marc.]1

ajkou'sai oujk ejpistavmenoi oujd jeijpei'n.

Non sanno né ascoltare né parlare.2

1 Queste parole, riportate da Clemente Alessandrino, Stromateis II 24.5 (= II 126 Stählin), nell’ambito di un’illustrazione della differenza fra la fede religiosa e la conoscenza di carattere dimostrativo, sono considerate autentiche da DK, ove viene riprodotta anche la frase che le introduce: ajpivstouı ei\naiv tinaı ejpistuvfwn fhsin, «Rimproverando alcuni di essere increduli, egli dice che ... (Clemente cita qui il fr. 1c)», di cui, a partire da Diano-Serra, pp. 8-9 e 110, si è diffuso l’uso di ritenere, nella forma esclamativa dell’invettiva, il termine a[pistoi («Increduli! Non sanno né ascoltare né parlare») o eventualmente un equivalente (cfr. Mouraviev I, p. 62, e III, p. 27, n. 1; contra già Bollack-Wismann, p. 106). Marcovich, p. 6, giudica invece anche il presente frammento come una reminiscenza del fr. 1 [1 DK; 1 Marc.]; tuttavia, nonostante l’indubbia prossimità concettuale e di contenuti, viene sviluppata in effetti qui l’idea autonoma che l’«incomprensione del ragionamento» del fr. 1, che permane pure «dopo averlo ascoltato», genera una conseguente incapacità di esprimersi che induce una condizione di inebetito ottun-dimento: ciò suggerisce a mio avviso di riconoscere queste parole, forse con una parziale parafrasi del citatore, come verosimilmente autentiche.

2 Se autentico, questo frammento si collega strettamente al fr. 1 [1

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20 FR. 2 [34 DK; 2 MARC.]

DK; 1 Marc.], in quanto pare ribadire l’incapacità degli uomini, che sono come dormienti, di ascoltare il ragionamento e di esprimersi nei loro discorsi in conformità a esso (cfr. ancora supra, n. 10 al fr. 1): così anche Kahn, p. 107, Conche, p. 51, e Pradeau, p. 268; mentre Robinson, p. 89, pensa che la polemica di Eraclito si rivolga qui non agli uomini in generale, in quanto non accedono all’ascolto del lovgoı, ma ad alcuni dei suoi predecessori in particolare, per esempio quelli, resi sordi e muti dai loro falsi saperi, citati con sferzante attitudine critica nei frr. 48 [40 DK; 16 Marc.], 49 [56 DK; 21 Marc.], 49a [42 DK; 30 Marc.], 50 [57 DK; 43 Marc.] e 51 [129 DK; 17 Marc.]. Da notare che Bollack-Wismann, pp. 106-07, Kahn, p. 35, e Conche, pp. 50-51, propongono (seguendo in realtà un suggerimento di P. Rousseau, Les vrais termes de l’antithèse: Héraclite frg. 19, 34, 87, in «Revue des Études grecques» 83 [1970], pp. 283-86) di sottintendere un secondo ejpivstantai, che rende la traduzione più efficace: «Non sapendo ascoltare, non sanno neanche parlare».

Fr. 2 [34 DK; 2 Marc.]1

ajxuvnetoi ajkouvsanteı kwfoi'sin2 ejoivkasi: favtiı aujtoi'sin3 marturei' pareovntaı ajpei'nai.4

Anche dopo aver ascoltato, rimangono nell’incomprensione, come i sordi;5 su costoro testimonia il detto: pur presenti, sono assenti.6

1 Questo frammento è riportato da Clemente Alessandrino, Stro-mateis V 115.3 (= II 404 Stählin) = Eusebio, Praeparatio evangelica XIII 13.42 (= II 216 Mras), dopo i frr. 10 [32 DK; 84 Marc.] e 76 [33 DK; 104 Marc.], nel contesto di un’esortazione agli uomini a rivolgersi verso il vero principio di ogni cosa, con queste parole: «Eschilo, figlio di Euforione, dice solennemente su Dio: “Zeus etere, Zeus terra, Zeus cielo, sì, Zeus è il tutto e anche ciò che è al di sopra di tutto” (= fr. 70 Nauck). So che anche Platone offre una testimonianza (= Cratilo 395e-396b, cfr. infra, il fr. 10, n. 1) in favore di Eraclito che scrive: ... (Clemente cita qui il fr. 10). E ancora: ... (Clemente cita qui il fr. 76). E se si vuole addurre quel detto: “chi ha orecchie per intendere, intenda», lo si troverà espresso così dall’Efesio: ... (Clemente cita qui il fr. 2)”. Il frammento è inoltre riportato da Teodoreto, Graecarum affectionum curatio I 70, e da Aristocrito, Theosophia 67 (25 e 184 Erbse).

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FR. 2 [34 DK; 2 MARC.] 21

2 kwfoi 'sin è lezione che si trova in Eusebio e in Aristocrito, mentre Clemente e Teodoreto hanno kwfoi'ı.

3 aujtoi 'sin è lezione che si trova in Clemente, mentre i manoscritti IO di Eusebio e Teodoreto hanno aujtoi'si e i manoscritti ND di Eusebio hanno aujtoi'ı.

4 ajpei 'nai è lezione di Eusebio, Teodoreto e Aristocrito, mentre Clemente ha ajpievnai («andare via», «allontanarsi»).

5 Il riferimento sembra essere qui a coloro i quali, pur aven-do ascoltato il «ragionamento» evocato nel fr. 1 [1 DK; 1 Marc.], sono tuttavia incapaci di comprenderlo (come indica la ripetizione dell’aggettivo ajxuvnetoi), secondo un concetto già espresso nel fr. 1c [19 DK; 1g Marc.], se autentico. In questo caso, possiamo supporre come soggetto sottinteso di ajxuvnetoi gli a[nqrwpoi dello stesso fr. 1, senza dunque considerarlo come un aggettivo sostantivato («Quelli che non comprendono, anche dopo aver ascoltato, sono come i sordi ...», cfr. Marcovich, p. 12); da notare che Bollack-Wismann, p. 141, e Mouraviev I, p. 93, e III, p. 43, n. 2, pongono un segno di interpunzione dopo ajxuvnetoi, facendone così il definiendum del presente frammento («Sans intelligence: quand’ils écoutent ...», così Bollack-Wismann) o i destinatari di un’invettiva («Les obtus! Quand ils écoutent ...», così Mouraviev). Vi è pure disaccordo sul valore da attribuire al partici-pio aoristo ajkouvsanteı, se, come ho inteso, temporale («... dopo aver ascoltato ...», così Marcovich, p. 12, Conche, p. 48, e Robinson, p. 29) oppure a sottolineare soltanto il rilievo dell’azione («Rimangono nell’incomprensione nell’ascoltare ...», così Bollack-Wismann, p. 141, Kahn, p. 29, Diano-Serra, p. 9, Pradeau, pp. 144 e 257, e Mouraviev I, p. 93). Subito oltre, il termine kwfoiv (sul quale si veda ancora Moura-viev III, p. 43, n. 3, che lo intende nel senso più largo di «sordomuti»), in riferimento agli uomini che vagano nell’ignoranza e nell’inganno, incapaci di cogliere la verità, è utilizzato anche da Parmenide, fr. 6.7 DK («[scil., gli ignari mortali] ... si lasciano trascinare, insieme sordi e ciechi, ebeti, specie incapace di scegliere ...»). Oltre che dormienti, dunque, come precisato ancora nei frr. 1 e 1a [73 DK; 1h1 Marc.], i più si trovano in una condizione analoga a quella dei sordi, che non riescono a udire né tantomeno a comprendere quanto viene espresso nel «ragionamento».

6 Cfr. Aristofane, Cavalieri 1119-20. La condizione della gran parte degli uomini, quindi, è paragonata successivamente a quella (1) dei dormienti, anche se svegli, (2) dei sordi, anche se in grado di udire, e (3) degli assenti, anche se presenti: si tratta in tutti e tre i casi di un’in-dicazione esplicita dell’incomprensione che caratterizza la massa che, pur possedendo le capacità naturali necessarie per intendere i contenuti del «ragionamento» che spiega ogni cosa, non se ne serve tuttavia nel modo corretto; cfr. pure Kahn, p. 101.

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Fr. 3 [17 DK; 3 Marc.]1

ouj fronevousi toiau'ta polloi;,2 oJkoivoiı3 ejgkurevousin,4 oujde; maqovnteı ginwvskousin, eJwutoi'si de; dokevousi.

I più non comprendono proprio le cose in cui si imbattono5 né le conoscono, pur se ne hanno ricevuto l’insegnamento, benche sembri loro così.6

1 Questo frammento è riportato da Clemente Alessandrino, Stromateis II 8.1 (= II 117 Stählin).

2 Non è necessario integrare qui, con Bergk, l’articolo <oiJ> polloiv, giacché, come ricorda Marcovich, pp. 13-14, l’uso eracliteo dell’articolo risulta piuttosto irregolare. Per la stessa ragione, però, non sembra opportuno dubitare di polloiv, come alcuni hanno fatto, considerandolo un’aggiunta di Clemente. Dopo la negazione ouj è presente in Clemente gavr, che considero tuttavia come parte dell’introduzione della citazione e non di quest’ultima (contra, per esempio, Mouraviev I, pp. 57-58).

3 oJkoivoiı (oppure: oJkoivois j) è correzione proposta da Bergk, accolta da buona parte degli editori, della lezione oJkovsoi di Clemente, al nomina-tivo, conservata invece in DK e Diano-Serra, pp. 8 e 110 (cfr. infra, n. 5).

4 ejgkurevousin è correzione di Schuster, accolta da buona parte degli editori (per esempio da Marcovich, p. 13, e da Mouraviev I, pp. 57-58, e III, p. 25, nn. 3-4) della lezione ejgkurseuvousin di Clemente; Diels ha proposto la correzione in ejgkureu'sin (anch’essa recepita da alcuni).

5 Il verbo fronevw significa in generale «riflettere», «ragionare» o anche «pensare», ma in questo caso sembra alludere piuttosto a un processo di comprensione o di consapevolezza, che i più non riescono a porre in atto, rivolto a oggetti e fenomeni dell’esperienza ordinaria e quotidiana, verosimilmente proprio quelli che invece essi avrebbero la capacità di comprendere se, come indica il fr. 1 [1 DK; 1 Marc.], prestas-sero attenzione all’ascolto e all’insegnamento del «ragionamento», che appunto rivela «ogni cosa in base alla sua natura e dicendo com’è»: così Marcovich, p. 14. Anche questo frammento, quindi, va letto in una linea di continuità con i precedenti (e con il seguente fr. 4 [72 DK; 4 Marc.]), di cui prosegue la polemica contro coloro i quali non colgono forme e contenuti della dottrina eraclitea. Subito oltre, si può rilevare come, conservando il nominativo plurale oJkovsoi (cfr. supra, n. 3), avremmo: «Non comprendono queste cose i molti, quanti siano, che vi si imbattono ...»; la correzione nel dativo plurale oJkoivoiı è invece necessaria se, come ho fatto, lo si fa dipendere dal verbo ejgkurevw (cfr. Mouraviev III, p. 25, n. 2); si veda pure, per un’espressione parallela, Archiloco, fr. 68 Diehl (kai; froneu'si toi' joJkoivoiı ejgkurevwsin e[rgmasin), e, in proposito, Bollack-Wismann, pp. 101-02, e Kahn, pp. 103-04.

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FR. 4 [72 DK; 4 MARC.] 23

6 Anche la conclusione del frammento concorda con la diagnosi eraclitea dell’erroneo e inconsapevole atteggiamento della gran parte degli uomini pronunciata nei frr. 1 [1 DK; 1 Marc.] e 2 [34 DK; 2 Marc.], secondo la quale, pur avendo a disposizione l’opportuno insegnamento trasmesso dal «ragionamento» che spiega ogni cosa, e anche dopo esserne stati resi edotti, essi rimangono in una condizione di ignoranza, sebbene credano (dokevousi) di possedere la conoscenza e la verità (cfr. pure in tale direzione Robinson, p. 88). Secondo Conche, pp. 52-54, e Pradeau, pp. 276-77, si avrebbe qui una distinzione sufficientemente esplicita fra l’insegnamento (cui si fa riferimento con il verbo manqavnw), che, trasmesso dal «ragionamento» e dal filosofo che se ne fa portavoce, non è suffi-ciente per l’acquisizione della conoscenza (introdotta attraverso il verbo gignwvskw), e l’applicazione di una supplementare attitudine riflessiva del soggetto conoscente (evocata dal verbo fronevw): l’ipotesi è certamente suggestiva, anche se le parole di Eraclito non consentono a mio avviso di stabilire una così netta e inequivoca scansione teorica ed epistemologica.

Fr. 4 [72 DK; 4 Marc.]1

w|/ mavlista dihnekw'ı oJmilou'si, [lovgw/ tw'/ ta; o{la dioikou'nti,] touvtw/ diafevrontai.

Da ciò con cui hanno maggiore e continua frequentazione essi discordano.2

1 Questo frammento è riportato da Marco Aurelio IV 46 nella sequenza delle sue citazioni eraclitee, dopo quelle che considero come reminiscenze dei frr. 62 [36 DK; 66 Marc.], cfr. n. 1 (= 76 DK; 66e3 Marc.), e 63 [117 DK; 69 Marc.], cfr. n. 1 (= 71 DK; 69b1 Marc.), e prima dei frr. 1a [73 DK; 1h1 Marc.] e 89 [74 DK; 89 Marc.]. Nella sua forma completa («Da ciò con cui hanno maggiore e continua frequentazione, dal ragionamento che dirige la totalità delle cose [lovgw/ tw '/ ta; o{la dioikou 'nti], essi discordano; e le cose in cui si imbattono ogni giorno appaiono loro estranee» [kai; oi|ı kaq jhJmevran ejgkurou 'si, tau 'ta aujtoi 'ı xevna faivnetai]), esso è riportato in DK, come pure da Mouraviev I, pp. 176-77, e III, p. 82, n. 1.3 (che dubita soltanto dell’in-ciso lovgw/ tw '/ ta; o{la dioikou 'nti); mentre Marcovich, pp. 14-15, da me seguito, espunge come aggiunta esplicativa del citatore l’inciso lovgw/ tw '/ ta; o{la dioikou 'nti e considera la conclusione kai; oi|ı kaq jhJmevran ejgkurou 'si, tau 'ta aujtoi 'ı xevna faivnetai come una reminiscenza del precedente fr. 3 [17 DK; 3 Marc.]; è chiaro però che, pur se espunto,

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24 FR. 5 [50 DK; 26 MARC.]

il sostantivo cui si riferiscono i pronomi relativo e dimostrativo (w|/ ... touvtw) non può che essere lovgoı (cfr. anche Diano-Serra, p. 109, e Robinson, p. 129), il che mi induce a respingere una traduzione come quella di Marcovich, p. 15: «Gli uomini sono in disaccordo con colui il quale hanno il rapporto più continuo», che vede qui una sorta di personificazione del lovgoı. Bollack-Wismann, p. 229, Conche, p. 65, e Pradeau, pp. 173 e 297, espungono, come glossa del citatore, il primo inciso, mentre mantengono come autentica la conclusione della citazione. Kahn, p. 104, dubita infine dell’intera citazione.

2 Anche il presente frammento pare ribadire la denuncia, da parte di Eraclito, della condizione della maggioranza degli uomini, già espressa nei frr. 1 [1 DK; 1 Marc.], 2 [34 DK; 2 Marc.] e 3 [17 DK; 3 Marc.], secondo la quale essi non comprendono precisamente ciò che appartiene all’esperienza più immediata di ciascuno, ossia il «ragionamento» che spiega e regola la natura di ogni cosa e il suo verificarsi. Proprio questa incomprensione del «ragionamento» viene espressa adesso nella forma di un disaccordo (diafevrontai, cfr. pure, per l’impiego di questo verbo, i frr. 14 [51 DK; 27 Marc.], specie n. 4, 14a [8 DK; 27d1-28b1 Marc.], specie n. 1, e 16 [10 DK; 25 Marc.]) rispetto a esso, cioè di un’incapacità di coglierne il senso adeguandosi ai suoi contenuti, che sono invece alla portata di chiunque sappia semplicemente prestarvi attenzione. Sulla stessa linea anche, forse con un eccessivo sviluppo teoretico, Bollack-Wismann, pp. 229-31, e Conche, pp. 66-67, e, in forma più moderata e vicina alla lettera di queste parole, Pradeau, p. 297.

Fr. 5 [50 DK; 26 Marc.]1

oujk ejmou', ajlla; tou' lovgou2 ajkouvsantaı oJmologei'n sofovn ejstin e}n3 pavnta ei\nai.4

Non dando ascolto a me, ma al ragionamento,5 è sensato concordare che tutte le cose sono una soltanto.6

1 Questo frammento è riportato da Ippolito, Refutatio contra omnes haereses IX 9.1 (= 241.15 Wendland), subito prima dei frr. 14 [51 DK; 27 Marc.] e 1 [1 DK; 1 Marc.] (citazione parziale), che lo introduce segnalando il carattere unificante, dal punto di vista esplicativo come da quello regolativo, del lovgoı eracliteo, assimilato alla divinità crea-trice (cfr. anche infra, n. 1 al fr. 12 [53 DK; 29 Marc.]): «Eraclito dice dunque che il tutto è divisibile e indivisibile, generato e ingenerato, mortale e immortale, che il ragionamento è eternità, il Padre è il Figlio,

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FR. 5 [50 DK; 26 MARC.] 25

Dio è giustizia: ... (Ippolito cita qui il fr. 5)». Reminiscenze parziali, essenzialmente limitate a variazioni sulla formula e}n pavnta ei\nai, si trovano in Filone Alessandrino, cfr. infra, n. 6. Originale, ma ampia-mente congetturale, ricostruzione in Mouraviev I, pp. 126-28, e III, pp. 60-62, che attribuisce a Eraclito anche buona parte dell’introduzione di Ippolito: ei\nai to; pa 'n diaireto;n ajdiaivreton genhto;n ajgevnhton qnhto;n ajqavnaton [aijw 'na patevra uiJovn] qeovn, divkaiovn, con l’integra-zione <ejsti tou ' dovgmatoı ajkouvsantoı aujtou ' sofo;n dikaiou 'n:> e il seguito del presente frammento: «Che il tutto è Dio, divisibile indivisibile, generato ingenerato, mortale immortale, è giusto <che gli uditori della sua dottrina lo giudichino saggio;> ecc.». Di fronte a una simile ricostruzione, si può rilevare soltanto che essa non tiene conto del fatto che Ippolito cita diversi brani eraclitei, in tale contesto, tutti allo scopo di affermare la tesi dell’unità dei termini opposti e della loro unificazione nel lovgoı, identificato con il Dio creatore, sicché le coppie diaireto;n ajdiaivreton, genhto;n ajgevnhton e qnhto;n ajqavnaton sono appunto chiamate in causa a questo fine; ma nulla, nei materiali eraclitei superstiti, certifica l’autenticità delle prime due, che mi pare anzi assai dubbia.

2 lovgou è correzione, universalmente accolta dagli editori, di Bernays, mentre Ippolito porta dovgmatoı («dottrina», «insegnamento»).

3 e}n è correzione della lezione ejn di Ippolito.4 ei\nai è correzione di Miller, pressoché unanimemente accolta, della

lezione eijdevnai di Ippolito, che darebbe il senso, alquanto paradossale: «... che l’uno conosce tutte le cose», oppure, come costruiscono e traducono Bollack-Wismann, pp. 175-76, e Mouraviev I, pp. 126-27, difendendo la lezione tradita: sofovn ejstin eijdevnai e}n pavnta, «savoir dire en accord toute chose-une» o «... sapience est savoir toutes choses une».

5 La costruzione del frammento implica una contrapposizione solo apparente fra il filosofo che si pronuncia intorno alla verità e il ragio-namento che tale verità espone e dimostra: da un lato, infatti, Eraclito vuole sottolineare come l’ascolto del lovgoı non si configuri necessa-riamente come un’adesione a una dottrina filosofica determinata né passi attraverso l’insegnamento di un maestro, e ciò nella misura in cui il lovgoı rappresenta un principio generale disponibile per chiunque e a chiunque accessibile; dall’altro, però, è chiaro anche che l’insegna-mento di Eraclito si basa sul lovgoı, o piuttosto consiste precisamente nella comunicazione del suo contenuto, senza dunque contrapporvisi in nessun modo (concetto analogo è espresso nel fr. 1 [1 DK; 1 Marc.], in cui vengono distinti la comprensione autonoma del «ragionamento» dall’ascolto dell’insegnamento del filosofo che su di esso si basa). Dal che si deduce che il lovgoı va appunto inteso come un «ragionamento» oggettivo e universale, nel senso che esprime un principio regolatore di natura ontologica e di valore generale, e non certo una spiegazione di carattere soggettivo o parziale, di cui il filosofo che l’ha adeguatamente compreso si fa individualmente portavoce (questo punto è particolar-mente e variamente sottolineato da Marcovich, pp. 77-78, Diano-Serra, p. 111, Conche, pp. 23-24, Robinson, pp. 114-15, e Pradeau, p. 269) – un interessante parallelo rispetto alla relazione stabilita fra l’oggettività del

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26 FRR. 6-6a [114-113 DK; 23-23d1 MARC.]

ragionamento e il soggetto che se ne fa portavoce si trova a mio avviso nel Fedone platonico, in cui si afferma che, poiché la ricerca della verità è in generale un percorso autonomo che ciascuno deve compiere da sé, non occorre un incantatore che produca un convincimento dei propri interlocutori (78a), ed è per questo che si può mantenere vivo il ragiona-mento (si tratta nel caso specifico del lovgoı che mira alla dimostrazione dell’immortalità dell’anima), anche se muore chi lo espone e lo diffonde (89b-c), analizzandone ogni aspetto in modo compiuto: solo così pare possibile seguire efficacemente il lovgoı, e acquisirne definitivamente l’insegnamento senza cercare oltre (107b). Eraclito passa dunque, dopo aver rimproverato quanti non si pongono in ascolto del «ragionamento» (cfr. supra, i frr. 1c [19 DK; 1g Marc.], 2 [34 DK; 2 Marc.] e 3 [17 DK; 3 Marc.]), a prescrivere le forme e i modi di tale ascolto, cominciando pure a fornire alcune indicazioni intorno al suo contenuto di cui si limita per il momento a sottolineare soltanto l’oggettività e l’universalità (cfr. anche infra, i frr. 6 [114 DK; 23 Marc.] e 7 [2 DK; 23 Marc.]); solo in seguito diverrà possibile esporre i concreti contenuti dottrinali del «ragionamento» (cfr. infra, la Sezione 2).

6 Come giustamente sottolineano Kirk, p. 68, Marcovich, pp. 78-79, e Kahn, pp. 130-31, vi è un’assonanza, probabilmente voluta, fra oJmologei 'n («concordare») e il precedente lovgoı, sicché l’accordo qui espresso implica precisamente un’adesione o un’assimilazione al lovgoı (oJmou '-levgein). La formula e}n pavnta ei\nai, che si ritrova leggermente modificata in alcune allusioni di Filone Alessandrino, Legum allego-riae III 7 (I 114 Cohn): e}n to; pa 'n; e De specialibus legibus I 208 (V 50 Cohn): e}n ta; pavnta, riecheggia la tesi parmenidea dell’unità del tutto (accennata nel fr. 8.6 DK), specie rispetto alla presentazione e all’interpretazione che ne dà Platone (cfr. Teeteto 180d-e; 183e-184a; Parmenide 128a-b-d; 137b; Sofista 242d; 244b-c). Lo stesso concetto di una riduzione all’unità della molteplicità delle cose che sono è espres-so, nel fr. 16 [10 DK; 25 Marc.], che si conclude con l’affermazione: ejk pavntwn e}n kai; ejx eJno;ı pavnta. Si tratta in ogni caso della più antica attestazione di una dottrina che riduce la totalità delle cose che si manifestano nell’esperienza ordinaria a un’unità espressa in termini razionali e universali, come ha osservato Kirk, p. 32; bisognerà valutare in seguito se tale unità razionale di tutte le cose espressa attraverso il lovgoı coincida con l’unità fisico-cosmologica garantita dal fuoco, concepito come il costituente fondamentale e primario dell’intera realtà, cfr. infra, la Sezione 3.

Frr. 6-6a [114-113 DK; 23-23d1 Marc.]1

xu;n novw/ levgontaı ijscurivzesqai crh; tw'/ xunw'/ pavntwn, o{kwsper novmw/ povliı, kai; polu;2 ijscurotevrwı: trevfontai ga;r pavnteı oiJ ajnqrwvpeioi novmoi uJpo; eJno;ı tou' qeivou: kratei' ga;r tosou'ton

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FRR. 6-6a [114-113 DK; 23-23d1 MARC.] 27

oJkovson ejqevlei kai; ejxarkei' pa'si kai; perigivnetai.3

xunovn ejsti pa'si to; fronei'n.

Coloro i quali intendono esprimersi4 sensatamente devono fondarsi su ciò che a tutti è comune, come una città si fonda sulla legge, e molto più saldamente, perché tutte le leggi umane si nutrono di un’unica legge, che è quella divina;5 essa infatti dispo-ne secondo il suo volere, a tutte dà ausilio e tutte le sovrasta.6

Il comprendere è comune a tutti.7

1 Questi frammenti sono riportati in sequenza continua da Stobeo III 1.179 (= III 129 Hense), subito dopo i frr. 78 [110 DK; 71 Marc.], 17 [111 DK; 44 Marc.] e 70b [112 DK; 23f Marc.]. Benché considerati da DK come due frammenti distinti, ed entrambi autentici (così pure Bollack-Wismann, pp. 314 e 316, Kahn, pp. 42-43, Conche, pp. 55 e 217, Robinson, pp. 66-67, e Mouraviev I, pp. 288 e 290, e III, p. 135), il secondo sembra in effetti una semplice variante del primo, forse nella forma di una sua parafrasi o reminiscenza (così Marcovich, pp. 61 e 66; significativo, in questa direzione, il fatto che anche Plotino, Enneadi VI 5 [23] 10.11, vi faccia riferimento [to; fronei'n pa'sin o{lon ... xuno;n to; fronei'n] proprio in un contesto in cui evoca almeno un’altra espressione probabilmente spuria di Eraclito [9.23], anch’essa citata in Stobeo III 1.180 [= III 130 Hense], corrispondente al fr. 115 DK, da me considerato, con Marcovich, pp. 257 e 389-90, che lo colloca come fr. 112 fra i dubia, inautentico, cfr. n. 1 al fr. 61 [45 DK; 67 Marc.]: ciò potrebbe indicare il comune ricorso a un’antologia eraclitea comprendente molti materiali di varia origine e natura), anche se non si può escludere che conservi alcune parole di Eraclito (cfr. Diano-Serra, p. 112). Va inoltre segnalato che Marcovich, pp. 60 e 62-68, seguendo fra gli altri Kirk, pp. 48-50, collega questo frammento al seguente fr. 7 [2 DK], facendone una citazione unica e continua e adducendo come prova il fatto che il fr. 7 pare riassumere e concludere (anche dal punto di vista grammaticale e sintattico: dio; dei ' e{pesqai ...) il ragionamento svolto in questo fr. 6. Tuttavia, poiché il fr. 7 è riportato da una diversa fonte e in una diversa sequenza (cfr. infra, la relativa n. 1), preferisco mantenerlo separato dal presente fr. 6: la logica dell’argomento eracliteo è certo la stessa, ma non si può escludere un salto di parole, più o meno ampio, fra i due testi.

2 polu; è correzione, proposta da Schleiermacher e accolta dalla quasi totalità degli editori e dei traduttori, della lezione povliı stampata da Trinca-velli (primo editore del Florilegio di Stobeo, del XVI secolo), che darebbe: «... come una città si fonda sulla legge, e una città più saldamente ...». Questa

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28 FRR. 6-6a [114-113 DK; 23-23d1 MARC.]

lezione, difesa da Bollack-Wismann, p. 316, e Mouraviev III, p. 135, n. 1, che non vedono ragioni per la sua correzione, suppone però che sia la città a doversi fondare sulla propria legge «più saldamente» di quanto «coloro i quali vogliono esprimersi sensatamente» debbano fondarsi «su ciò che a tutti è comune» (verosimilmente, il lovgoı, cfr. infra, n. 5), il che mi pare in contraddizione con il seguito del frammento, che sottopone le leggi umane a una legge superiore, quella divina, che «a tutte dà ausilio e tutte le sovrasta», posta in parallelo con il lovgoı: ne risulta perciò che «coloro i quali vogliono esprimersi sensatamente» devono fare riferimento al principio più elevato, al lovgoı appunto, come la città alla sua legge, ma, a differenza della legge della città, che deriva a sua volta da una legge superiore cui richiamarsi, il lovgoı rappresenta il livello normativo più elevato cui innalzarsi dal punto di vista conoscitivo e sul quale, pertanto, occorre «appoggiarsi» polu; ijscurotevrwı che non la città sulla sua legge, in quanto essa è comunque derivata e «seconda» rispetto alla legge divina.

3 Non mi pare indispensabile integrare qui, con Diels (sulla base di una probabile reminiscenza di questo frammento in Plutarco, De Iside et Osiride 369a), il genitivo plurale <pavntwn>: è vero che il verbo peri-givgnomai regge il genitivo, ma possiamo supporre che il dativo plurale pa'si, retto dal precedente verbo ejxarkevw, funga da oggetto di entrambi i verbi, slittando implicitamente dal dativo al genitivo.

4 Come segnala Marcovich, p. 64, il participio presente ha qui valore di futuro, a indicare l’intenzione o l’annuncio dell’azione che si sta per compiere. Subito oltre, intendo l’espressione xu;n novw/ (di cui va segnalato l’effetto fonetico con l’immediatamente successivo xunw'/) con un senso strumentale, attribuendole però un generico valore avverbiale che implica il riferimento a quello che chiameremmo «senso comune»; fuor di luogo mi pare perciò una traduzione più impegnativa, che consideri qui il novoı come lo strumento specifico per l’ascolto del «ragionamento» (e così traducendo, per esempio, «coloro i quali intendono esprimersi secondo l’intelletto [o: conformementente all’intelletto] ...»), come intendono invece, per esempio, Bollack-Wismann, pp. 316-17, e Conche, p. 217, che lo fa consistere «dans la saisie de l’absolue vérité».

5 L’analogia stabilita da Eraclito fra il fondamento comune sul quale basarsi per procedere in modo corretto nei propri discorsi e ragionamenti e la legge, concepita a sua volta, secondo un’idea piuttosto tipica e diffusa nella cultura greca, come fondamento condiviso di una comunità di cittadi-ni, viene ulteriormente rafforzata dalla precisazione che tale fondamento universale del discorso deve rappresentare un criterio di riferimento ancora più vincolante, dal momento che la legge umana dipende a sua volta da un principio superiore, costituito dalla legge divina: il rapporto enunciato da Eraclito sussiste allora fra l’unico «ragionamento» che guida ogni discorso corretto e l’unica legge divina che è fonte universale delle leggi umane, che a loro volta si pongono come norma comune ai cittadini di una città: così Kahn, pp. 117-18, Conche, pp. 218-19, e Robinson, pp. 155-56. Come avvertono Marcovich, p. 65, e Pradeau, p. 301, ciò non implica che il «ragionamento» risulti identico alla legge divina, ma solo che vi è fra i due termini un’analogia funzionale e regolativa: ai diversi livelli del

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FR. 7 [2 DK; 23 MARCH.] 29

discorso e del reale, pur fra loro distinti, si manifesta quell’unità di tutte le cose espressa nel precedente fr. 5 [50 DK; 26 Marc.].

6 Il verbo perigivgnomai, usato assolutamente, significa «andare oltre», «sopravanzare» (mentre richiede un termine di paragone, espresso al geni-tivo, per acquisire il significato di «sopravanzare qualcosa» = «dominare» o «vincere» su qualcosa), ma ho voluto suggerire con la mia traduzione l’idea che la legge divina «sovrasta» le leggi umane, in quanto appunto le «sopravanza» per la sua maggiore forza e universalità (cfr. anche supra, n. 3), ma non necessariamente esacerbandone le contraddizioni, come vogliono Bollack-Wismann, p. 318. Secondo Diano-Serra, p. 112, il dativo plurale pa'si non si riferisce qui, come ho inteso, al sostantivo sottinteso novmoiı, ma va reso come assoluto: la legge divina «dispone secondo il suo volere, a tutte le cose dà ausilio e tutte le cose sovrasta». Mi sembra tuttavia che si esca così dal contesto delineato qui da Eraclito, che si riferisce costantemente alla funzione normativa di una legge universale e comune (per regolare i ragionamenti, le città, le leggi umane), ricadendo in tal modo in un’interpretazione immediatamente provvidenzialistica che sottopone l’intero cosmo, in tutti i suoi aspetti, all’azione della legge divina: così certamente interpretarono gli stoici, come si evince da una probabile reminiscenza del frammento in Plutarco, De Iside et Osiride 369a.

7 Autentiche oppure no (cfr. supra, n. 1), queste parole ribadiscono un concetto analogo a quello già espresso nel fr. 6 [114 DK; 23 Marc.] e riecheggiato nei frr. 3 [17 DK; 3 Marc.] e 7 [2 DK; 23 Marc.], vale a dire che il fronei'n (sulla cui traduzione si vedano, supra, nn. 5-6 al fr. 3) è una capacità o un’attitudine cognitiva comune a tutti, sicché di tutti è dunque a disposizione, come in precedenza lo si è precisato del lovgoı, purché si apprenda a usarne correttamente, come affermato per esempio fin dal fr. 1 [1 DK; 1 Marc.] e costantemente ribadito da Eraclito, e non ci si perda nelle forme più disparate ed erronee di una comprensione individuale e soggettiva (cfr. infra, i frr. 7, n. 4, e 44a [46 DK; 114 Marc.], n. 2). Non mi pare plausibile che il fronei'n si riferisca invece a un’attitudine inferiore, che si contrappone al novoı e che rimane costitutivamente incapace di cogliere la verità universale, come vogliono Bollack-Wismann, pp. 314-15, e Conche, p. 56; né intendere pa'si, con Kahn, p. 119, e Robinson, p. 155, come un neutro, così traducendo: «Il comprendere è comune a tutte le cose», perché una simile forma di panpsichismo o di ilozoismo risulta ai miei occhi decisamente anacronistica per un pensatore come Eraclito.

Fr. 7 [2 DK; 23 Marc.]1

dio; dei' e{pesqai tw'/ xunw'/2 [xuno;ı ga;r oJ koinovı]:3 tou' lovgou d jejovntoı xunou' zwvousin oiJ polloi; wJı ijdivan e[conteı frovnhsin.

Si deve perciò seguire ciò che è comune; ma, sebbene il

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30 FR. 7 [2 DK; 23 MARCH.]

ragionamento sia comune, i più vivono come se possedessero una comprensione propria delle cose.4

1 Questo frammento è riportato da Sesto Empirico, Adversus mathe-maticos VII 133, subito dopo i frr. 44 [107 DK; 13 Marc.] e 1 [1 DK; 1 Marc.], cfr. supra, n. 1 al fr. 1 [1 DK; 1 Marc.], per una breve presenta-zione del contesto della citazione sestana. Marcovich, pp. 60 e 62-68, lo considera come una continuazione del precedente fr. 6 [114 DK; 23 Marc.], cfr. supra, la relativa n. 1.

2 xunw'/ è correzione di Schleiermacher della lezione koinw '/ di Sesto, come plausibile anticipazione del successivo xunou '. Nel manoscritto N di Sesto dopo koinw '/ si trova lovgw/, omesso invece, credo correttamente, dalla totalità dei codici più recenti e degli editori e dei traduttori dei frammenti eraclitei (contra Mouraviev I, pp. 7-8, e III, p. 5, n. 2), per l’evidente ripetizione che si porrebbe con l’immediatamente seguente genitivo lovgou («Si deve perciò seguire il ragionamento che è comune; ma, sebbene il ragionamento sia comune ...»).

3 Bekker ha proposto la congettura tw ' / <xunw ' /, toutevsti tw ' /> koinw ' /, [xuno;ı ga;r oJ koinovı], ma solo a completare l’espressione tradita («... ciò che è <comune, vale a dire ciò che> è uguale per tutti, [perché ciò che è uguale per tutti è ciò che è comune] ...»), rendendone così manifesto il carattere di glossa esplicativa introdotta da Sesto, che va perciò espunta nel suo insieme (contra, ancora una volta, Mouraviev I, pp. 7-8, e III, p. 5, n. 1). Bollack-Wismann, p. 65, Kahn, pp. 28-29, e Conche, pp. 57-58, omettono come parte del contesto di Sesto l’intero inizio della citazione: dio; ... [xuno;ı ga;r oJ koinovı]; così già Bywater.

4 Come rilevano Kahn, pp. 101-02, e Pradeau, pp. 300-01, il lovgoı non pare direttamente in relazione con la legge, umana o divina, della città o dell’intera realtà, con la quale stabilisce piuttosto un’analogia funzionale o regolativa (cfr. già supra, n. 5 al fr. 6-6a [114-113 DK; 23-23d1 Marc.], ma con la frovnhsiı di ciascuno, che può coglierne il contenuto universale che sancisce l’unità di tutte le cose (cfr. supra, il fr. 5 [50 DK; 26 Marc.]), a condizione di procedere correttamente (cfr. ancora supra, n. 7 al fr. 6-6a) e di non perdersi in un’illusoria ed erronea comprensione particolare e soggettiva (ijdivan ... frovnhsin; cfr. pure infra, i frr. 8 [89 DK; 24 Marc.] e 44a [46 DK; 114 Marc.]); sulla distinzione fra il lovgoı «comune» e la frovnhsiı «propria» o «privata», più che sulla possibilità che la seconda acceda alla cono-scenza del primo, insistono Bollack-Wismann, pp. 65-67, e Conche, pp. 58-59. Non vedo in ogni caso quella «possibile sfumatura teologica» rilevata da Marcovich, pp. 66-67 (che si basa però soprattutto su un’allusione a queste parole da parte dello stoico Cleante, Inno a Zeus, 24 sgg. Zuntz), secondo il quale to; xunovn = qeou ' koino;n novmon, e mi limito a rilevare qui l’aspetto epistemologico della naturale capacità di comprensione degli uomini, di cui Eraclito ribadisce che consente a tutti di porsi all’ascolto del «ragionamento», contrappo-nendo la sua verità universale e comune alle opinioni soggettive,

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FR. 8 [89 DK; 24 MARC.] 31

equiparate a fantasie private di ciascuno; si veda pure per questo l’Introduzione, § 4.1.

Fr. 8 [89 DK; 24 Marc.]1

toi'ı ejgrhgorovsin e{na kai; koino;n kovsmon ei\nai, tw'n de; koimw-mevnwn e{kaston eijı i[dion ajpostrevfesqai.2

Per gli svegli il mondo è uno e comune, mentre, fra i dormienti, ognuno si rivolge a un mondo suo proprio.3

1 Questo frammento è riportato da Plutarco, De superstitione 166c, nel contesto di una critica dei superstiziosi che vengono paragonati ai dormienti: «Si può anche dire al superstizioso: “Perché fai del tuo sonno, che gli dei ci hanno dato come oblio e tregua dai nostri mali, un luogo di sofferenza permanente e dolorosa, mentre la tua misera anima non può rifugiarsi in un altro sonno?” Eraclito afferma che ... (Plutarco cita qui il fr. 8). In effetti, per il superstizioso, non vi è un mondo comune: da sveglio, non si serve della sua intelligenza; da addormentato, non si libera delle sue preoccupazioni, ma in lui è il ragionamento che sogna e il timore che rimane senza sosta in stato di veglia, senza poter fuggire o andarsene altrove». Sono stati avanzati dei dubbi sull’autenticità di parte della citazione (che, in oratio obliqua, è volta in oratio recta da Mouraviev I, p. 229, e III, p. 112, n. 1): in DK viene considerata aggiunta, a mo’ di spiegazione dell’affermazione eraclitea, la seconda parte (tw'n de; koimw-mevnwn e{kaston eijı i[dion ajpostrevfesqai, che però riecheggia abbastanza esplicitamente la conclusione del fr. 7 [2 DK; 23 Marc.]: ... zwvousin oiJ pol-loi; wJı ijdivan e[conteı frovnhsin); mentre Kirk, pp. 63-64, considera invece inautentica la prima parte, fondamentalmente per la presenza del termine kovsmoı, che, nel significato di «mondo», inteso come rappresentazione complessiva della realtà, sarebbe anacronistico in Eraclito. Marcovich, p. 68, ha tuttavia fatto notare che kovsmoı compare, verosimilmente proprio in questa accezione, in Anassagora, fr. 8 DK, Diogene di Apollonia, fr. 2 DK ed Empedocle, fr. 134.5 DK. Nessun elemento decisivo induce perciò a sospettare, a mio avviso, dell’autenticità del frammento, che Bollack-Wismann, pp. 262-63, Kahn, pp. 104-05, e, più dubitativamente, Robinson, p. 138, considerano comunque ampiamente parafrasato.

2 ajpostrevfesqai è lezione dei manoscritti plutarchei preferita alla variante ajnastrevfesqai del solo manoscritto D.

3 Si può facilmente cogliere, con Marcovich, p. 68, e Diano-Serra, p. 112, come il presente frammento riprenda due concetti già espressi in precedenza: (1) l’unità e l’universalità del «ragionamento» e del suo contenuto, che consiste nel riconoscimento di un mondo «uno e

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32 FR. 8 [89 DK; 24 MARC.]

comune», ossia dell’unità di tutte le cose (cfr. soprattutto i frr. 5 [50 DK; 26 Marc.] e 6-6a [114-113 DK; 23-23d1 Marc.], con le relative note di commento; e Conche, pp. 63-64); e (2) la diagnosi dell’errore di chi non gli presta adeguatamente ascolto (nuovamente paragonato a un «dormiente», cfr. supra, i frr. 1 [1 DK; 1 Marc.], 1a [73 DK; 11h1 Marc.], se autentico, e, infra, 22 [88 DK; 41 Marc.], 23 [21 DK; 49 Marc.] e 24 [26 DK; 48 Marc.]), che consiste nell’irriducibile confusione delle opinioni soggettive, qui equiparate ad altrettanti mondi privati che ciascuno si crea a causa dell’infondata fiducia nelle impressioni individuali (cfr. soprattutto il fr. 7 [2 DK; 23 Marc.], con la relativa n. 4; e Pradeau, p. 299). Pare lecito supporre perciò che questo frammento, chiudendo la polemica contro i molti dormienti che non colgono il principio che regola e conserva l’ordine unitario del tutto, avvii una transizione verso l’esame dei contenuti del lovgoı (raccolti nella seguente Sezione 2), che consistono precisamente nell’illustrazione delle forme e dei modi di applicazione di tale principio, ossia nella spiegazione concreta dell’affermazione, del già citato fr. 5, che «tutte le cose sono una soltanto» (e}n pavnta ei\nai).

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SEZIONE 2Il contenuto del LOGOS:

il conflitto e l’unità degli opposti

1. Dottrina

L’indicazione dei contenuti del lovgoı, nei materiali raccolti in questa Sezione 2, è introdotta da una serie di precisazioni relative ai caratteri del sapere in cui essi consistono, che è uno e unico per natura ed estensione, universale e onnicompren-sivo nella sua applicazione e nettamente distinto, per la sua eccellenza ed eccezionalità, da ogni altro genere di conoscenza, sicché esprime il punto di vista più elevato sulla realtà, che lo equipara all’ambito del divino, pur se in forme che non si lasciano confondere con i paradigmi della tradizione culturale arcaica (frr. 9-11). Tale sapere rivela i tratti originari e fonda-mentali del principio che è alla base di tutte le cose e tutte le determina nella loro collocazione nella realtà, ponendosi come «guerra» o «conflitto» inarrestabile che coinvolge nel suo ritmo e nelle sue alterne vicende le cose che sono, fra loro contrapposte come altrettante facce o parti di una perenne contesa, di volta in volta stabilite nel ruolo di vincitori o sconfitti, secondo un’invariabile legge di successione e di alternanza che, nella sua regolarità ed esaustività, è espressione di giustizia e necessità; d’altro canto, proprio la regolarità universale di questo fondamentale processo conflittuale garantisce a un tempo l’armonica ricomposizione del tutto che, formato da elementi fra loro discordanti e a turno prevalenti gli uni sugli altri, si presenta come una totalità quantitativamente e qualita-tivamente omogenea, tale cioè che la diversità e l’opposizione

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34 SEZIONE 2

irriducibili fra le singole cose che sono convergono a costituire un equilibrio dinamico che, senza annullare o trascendere la molteplicità e l’alterità dei suoi elementi costitutivi in una superiore identità indifferenziata, li dispone in una relazione organica, in un’armonia d’insieme che permane costante e invariata nel suo complesso, pur nella mutevolezza dei rapporti di forza fra i suoi componenti, almeno per chi sappia cogliere, al di là del dato immediato e indubbiamente reale dell’oppo-sizione e del conflitto, il punto di vista superiore e altrettanto reale, benché meno immediatamente evidente, dell’unità del tutto (frr. 12-15).

L’illustrazione di questo superiore punto di vista consente appunto di spiegare come, secondo Eraclito, il conflitto origi-nario e fondamentale fra le cose che sono, la loro irriducibile alterità e opposizione, contribuisca all’armonica disposizione unitaria del reale; ed è a questo fine che viene introdotta la tesi dell’unità dei termini opposti (frr. 16-24). Con nume-rosi esempi si mostra in che modo termini tra loro opposti si implichino reciprocamente, nella misura in cui ciascuno sussiste sempre ed esclusivamente in relazione all’altro, come sempre ed esclusivamente in relazione all’altro ciascuno può essere definito e pensato: non si dà «salute» senza «malattia», «sazietà» senza «fame», «riposo» senza «stanchezza», sicché ogni coppia di termini opposti, presi l’uno rispetto all’altro oppure entrambi rispetto a un terzo termine cui si riferisco-no (come «dritto» e «curvo» rispetto allo strumento della cardatura, «inizio» e «fine» rispetto a una circonferenza o «alto» e «basso» rispetto a una via) oppure, ancora, entrambi rispetto ai termini di un’altra coppia di opposti (come «vita» e «morte» rispetto a «mortale» e «immortale»), manifesta la loro necessaria complementarietà o correlazione. A nessun titolo gli opposti possono essere identificati l’uno con l’altro, così giungendo a una vera e propria coincidentia oppositorum e a una prospettiva espressamente relativista, né rimanere separati dalla reciproca e radicale negazione, a causa della

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SEZIONE 2 35

loro irriducibile opposizione, perché emerge piuttosto il duplice punto di vista che constata a un tempo l’alterità e l’opposizione fra i termini di ogni coppia di opposti, e fra tutte le cose che sono, e la loro superiore coimplicazione che dà luogo all’unità del tutto, in modo che il conflitto originario che caratterizza le cose che sono, appunto in virtù della loro necessaria complementarietà, produce l’armonia e l’equili-brio dinamici della totalità, come un’unità plurale e organica che dipende dalla correlazione dei suoi elementi componenti, che esige a sua volta la perenne alternanza di tali elementi perché, fra loro opposti, non potrebbero semplicemente sussistere in un’indifferenziata compresenza di tutte le cose. Per questo motivo, ed entro questi limiti, viene formulata la tesi del divenire, intesa precisamente come spiegazione e giustificazione della successione e dell’alternanza delle cose che sono e dei termini opposti nel tutto, vale a dire in forma di corollario della più generale dottrina dell’unità o della complementarietà degli opposti e senza che il divenire, assunto in assoluto, coinvolga direttamente la stessa totalità del reale e il sapere che la riguarda (frr. 25-28).

2. Dossografia

Le testimonianze platonico-aristoteliche relative alla conce-zione eraclitea della «guerra», o «conflitto», fra le cose che sono e dell’«armonia» cui pur tuttavia essa dà luogo (di cui solo Platone, Sofista 242d, è conservato in DK [= 22 A 10] e in Mondolfo-Tarán 10, pp. 106-08) sono raccolte e discusse infra, n. 1 ai frr. 14 [51 DK; 27 Marc.] e 14a [8 DK; 27d1-28b1 Marc.]. Più ampio l’interesse manifestato rispetto alla tesi dell’unità dei termini opposti, specie, ovviamente, in riferimento alla natura della loro ricomposizione unitaria, che non può prescindere dalla presenza di entrambi gli opposti: perciò Eraclito avrebbe rimproverato Omero per aver sostenuto l’auspicio che svanisca

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36 SEZIONE 2

la «contesa» fra uomini e dei (cfr. Iliade XVIII 107), perché senza di essa, che si produce per il contrasto fra i termini opposti, la totalità stessa del reale verrebbe a mancare (così, per esempio, Aristotele, Etica Eudemia VII 1, 1235a25 [= 22 A 22 DK]); e analogamente Filone Alessandrino, Quis rerum

divinarum haeres 43.214 (III 19 Wendland) [= 22 A 9a DK], secondo il quale, benché in modo non originale e derivato da Mosè, Eraclito avrebbe riconosciuto la necessaria divisione dei contrari a partire dall’uno e quest’ultimo come causa della loro distinzione. Tra tali testimonianze, alcune, aristoteliche (cfr. Aristotele, Metafisica IV 3, 1005b23 [= 22 A 7 DK], cui in Mondolfo-Tarán 7, pp. 97-98, sono aggiunti opportunamen-te Metafisica IV 4, 1006a e IV 7, 1012a24-26), sottolineano particolarmente come la tesi dell’unità dei termini opposti conduca alla negazione del principio di non contraddizione, perché l’affermazione dell’unità degli opposti, intesa in effetti come loro identità, conduce a sostenere che le stesse cose sono e non sono, il che precipita in una prospettiva relativista secondo la quale «tutte le cose sono vere».

In relazione alle numerose testimonianze platonico-aristoteliche sulla tesi del divenire, che, diffuse poi nella dossografia posteriore, esprimono in generale un punto di vista radicale che intende il divenire eracliteo come esteso all’intera realtà e a tutte le cose senza eccezione, cfr. infra, n. 1 al fr. 25 [12 DK; 40 Marc.]; e Aezio I 23.7 (= Dox. 320) [= 22 A 6 DK, in cui si cita soltanto Platone, Cratilo 402a, mentre anche Cratilo 412d-413c, Teeteto 152 d-e, 153a-d e 160d, e Aristotele, De caelo III 1, 298b29, e Topici I 11, 104b21, sono richiamati in Mondolfo-Tarán 6, pp. 80-86].

3. Studi critici

Sulla concezione eraclitea del «conflitto» come fonte di «armonia», si vedano gli approfondimenti di A. Petit, Har-

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SEZIONE 2 37

monie pythagoricienne, harmonie héraclitéenne, in «Revue de Philosophie Ancienne» 13 (1995), pp. 55-66, e di J. Frère, Le rôle d’Éris chez Héraclite, in Les anciens savants. Études sur les philosophes préplatoniciens réunies par P.-M. Morel et J.-F. Pradeau, Actes du Colloque international, in «Les Cahiers Philosophiques de Strasbourg» 12 (2001), pp. 37-46.

Un quadro d’insieme della tesi eraclitea dell’unità dei ter-mini opposti è tratteggiato da M.C. Stokes, One and Many in Presocratic Philosophy, Center of Hellenic Studies, Washing-ton 1971, pp. 86-108, e, più di recente, da T. Hammer, Einheit und Vielheit bei Heraklit von Ephesus, Königshausen & Neumann, Würzburg 1991; mentre, per un’interpretazione «identitaria» degli opposti, si vedrà C.J. Emlyn-Jones, Hera-clitus and the Identity of Opposites, in «Phronesis» 21 (1976), pp. 89-114; un’impostazione più rigorosa è infine quella di D. O’Brien, Héraclite et l’unité des opposés, in «Revue de métaphysique et de morale» 2 (1990), pp. 147-71; alcuni aspetti logici di questa tesi sono discussi da T. Triplett, Bar-nes on Heraclitus and the Unity of Opposites, in «Ancient Philosophy» 6 (1986), pp. 15-23.

Per quanto riguarda la concezione del divenire in Eraclito, oltre alla disamina proposta infra, nn. 1 e 3 al fr. 25 [12 DK; 40 Marc.], si vedano: D. Wiggins, Heraclitus’ Conceptions of Flux, Fire and Material Persistence, in Language and Logos. Studies in Ancient Greek Philosophy Presented to G.E.L. Owen, a cura di M. Schofield e M. Nussbaum, Cambridge Univ. Press, Cambridge 1982, pp. 1-31; L. Vanoirbeek, Que signifie «entrer dans les fleuves»: le fr. 12 d’Héraclite, in «Revue de Philosophie Ancienne» 7 (1989), pp. 149-56; R. Dilcher, Im-Fluß-sein (Heraklit, B 12), in Frühgriechischen Denken, a cura di G. Rechenauer, Vadenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2005, pp. 203-16; D. Graham, Heraclitus: Flux, Order, and Knowledge, in The Oxford Handbook of Presocratic Philosophy, a cura di P. Curd e D. Graham, Oxford Univ. Press, Oxford 2008, pp. 169-88 (e, con poche differenze di dettaglio, Id., Representation

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38 SEZIONE 2

and Knowledge in a World of Change, in Nuevos Ensayos

sobre Heráclito, Actas del segundo Symposium Heracliteum, a cura di E. Hülsz Piccone, UNAM, Mexico 2009, pp. 75-91); e F. Fronterotta, I fiumi, le acque, il divenire. Su Eraclito,

frr. 12, 49A e 91 DK (40, 40c2, 40c3 Marc.), in «Antiquorum Philosophia» 6 (2012), pp. 71-90. Sulla presentazione e l’inter-pretazione platonico-aristoteliche di questa tesi, anche nelle sue implicazioni rispetto alla (presunta) negazione eraclitea del principio aristotelico di non contraddizione, cfr. partico-larmente T. Irwin, Plato’s Heracleiteanism, in «Philosophical Quarterly» 27 (1977), pp. 1-13; C.H. Kahn, Plato and Heraclitus, in «Proceedings of the Boston Area Colloquium in Ancient Philosophy» 1 (1977), pp. 241-58; S. Scolnicov, Eraclito e la

preistoria del principio di non-contraddizione, in Atti del

Symposium Heracliteum 1981, a cura di L. Rossetti, vol. I, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1983, pp. 97-110; F. Fronterotta, REONTES KAI STASIWTAI. Héraclite et Parménide chez

Platon, in Les anciens savants, cit., pp. 131-54; M. Adomenas, The Fluctuating Fortunes of Heraclitus in Plato, in Qu’est-ce

que la philosophie présocratique?, a cura di A. Laks e C. Loguet, Presses Univ. du Septentrion, Villeneuve d’Ascq 2002, pp. 419-47; e E. Hülsz Piccone, Flujo y logos. La imagen

de Heráclito en el Cratilo y el Teeteto de Platón, in Nuevos

Ensayos sobre Heráclito, cit., pp. 361-90.Sulla posterità di questa tesi nella tradizione platonica

antica, infine, rimangono degne di nota le considerazioni di J. Mansfeld, Heraclitus, Empedocles, and Others in a Middle

Platonist Cento in Philo of Alexandria, in «Vigiliae Christia-nae» 39 (1985), pp. 131-36; e ormai soprattutto, rispetto al «platonismo» alessandrino, l’ampia e documentata raccolta di L. Saudelli, Eraclito ad Alessandria. Studi e ricerche intorno

alla testimonianza di Filone, Brepols, Turnhout 2012.

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Fr. 9 [41 DK; 85 Marc.]1

e}n to; sofovn, ejpivstasqai gnwvmhn o{tew/2 kuberna'tai pavnta dia; pavntwn.

Il sapere non è che un’unica cosa: comprendere ciò che dirige tutte le cose attraverso tutte.3

1 Questo frammento è riportato da Diogene Laerzio, Vitae philoso-phorum IX 1, che apre così la sua biografia di Eraclito: «Eraclito (...) fu di spirito elevato, orgoglioso e sprezzante più di ogni altro, come emerge anche dalla sua opera, in cui dice: ... (Diogene cita qui, senza soluzione di continuità, i frr. 48 [40 DK; 16 Marc.], 9 e 49a [42 DK; 30 Marc.])». Le parole ei\nai gavr, che introducono la citazione, non sono certamente eraclitee, ma fanno parte del contesto laerziano (contra Mouraviev I, p. 106, e III, p. 50, n. 1).

2 Il testo laerziano presenta in questo punto una corruzione. I mano-scritti portano le seguenti varianti: oJtevh kubernh'sai (P1), o{te h| kubernh'sai (B), o{t jejnkubernh 'sai (F). Le scelte editoriali sono altrettanto varie; ricordo fra le principali: [o{te] h|/ kuberna 'tai (Bywater) o l’analogo oJtevh/ kuberna'tai (Deichgräber e altri); oJtevh <ej>kubevrnhse (DK); o{kh (oppu-re: o{kh/) kuberna'tai (Gigon, Kirk, p. 389; cfr. anche la nota seguente); conservano oJtevh kubernh'sai, per esempio, Bollack-Wismann, pp. 154-55, e Conche, p. 241 (che tuttavia espunge [oJtevh]); ampia disamina in Marcovich, pp. 311-12, che rinuncia a sua volta a sanare la corruzione, ma dichiara la sua preferenza in favore di oJtevh/ kuberna 'tai (p. 311), e in Mouraviev I, p. 107, e III, pp. 50-51, nn. 3-8, che opta anch’egli per o{teh/, ma seguito da kubernh 'sai (sottintendendo un e[sti a reggere l’infinito aoristo). Queste proposte, salvo o{kh kuberna 'tai, mirano come si vede a collegare il verbo kubernavw, quale che sia la sua forma (attiva o passiva) e comunque alla terza persona singolare (e non all’infinito), al sostantivo gnwvmh attraverso un pronome relativo femminile, al nominativo o al dativo singolare, dando il significato seguente: « ... conoscere la gnwvmh, che dirige (oJtevh <ej>kubevrnhse) tutte le cose ...»; oppure «... conoscere la gnwvmh, dalla quale sono dirette (h|/ kuberna'tai; oJtevh/ kuberna'tai) tutte le cose ...». Considerando che lo oJtevh <ej>kubevrnhse proposto in DK appare improbabile, perché (1) la forma del nominativo singolare al femminile oJtevh non è altrimenti attestata e (2) l’aoristo ha piuttosto un valore pun-tuale, in questo contesto insoddisfacente («la gnwvmh, che ha diretto tutte le cose»; per conservare l’aoristo, Diano-Serra, p. 13, sono infatti costretti a parafrasare: «la gnwvmh, che ha segnato la rotta del Tutto ...»), che non il valore durativo che occorre invece attribuirgli qui («la gnwvmh, che dirige tutte le cose»), pare senz’altro preferibile accogliere la forma passiva kuberna'tai introdotta da un pronome relativo al dativo in funzione di complemento di agente: ma quale? Basandomi su una reminiscenza del

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40 FR. 9 [41 DK; 85 MARC.]

frammento eracliteo presente in Plutarco, De Iside et Osiride 382b (... ejk tou' fronou'ntoı o{tw/ [correzione degli editori di o{pwı dei manoscritti] kuberna'tai tov suvmpan kaq∆ ÔHravkleiton); suggerisco il dativo singolare o{tew/, forma ionica di o{tw/, paleograficamente ineccepibile e inoltre attestato pure nel fr. 93 [15 DK; 50 Marc.], evidentemente al maschile o al neutro e non certo al femminile (che darebbe necessariamente oJtevh/, anch’esso non altrimenti attestato), seguito in tal caso dalla forma passiva kuberna'tai: fornisco una giustificazione della traduzione che ne consegue, e dell’interpretazione che ne propongo, nella nota seguente. Altre ipotesi sono state suggerite dai commentatori. Kahn, pp. 170-71, propone due traduzioni possibili: «... knowing the plan (gnwvmh) by which it steers all things through all (or: how all things are steered through all)», la prima che implica il dativo o{tew/, maschile o neutro nella forma, ma inteso come un femminile (che lo stesso Kahn, p. 321, n. 204, giudica improbabile), e <ej>kubevrnhse, all’attivo (contro il quale, però, si veda poco sopra), che richiede dunque un soggetto diverso da gnwvmh (dando perciò il significato seguente: «... conoscere la gnwvmh, attraverso la quale esso [?] dirige tutte le cose ...»); la seconda che implica invece l’avverbio o{kh o o{kh/ (= o{ph o o{ph/, «come», «in che modo») e kuberna 'tai, al passivo (suggerendo allora il significato seguente: «... conoscere la gnwvmh, in che modo tutte le cose siano dirette ...»). Ma entrambe le proposte mi sem-brano introdurre una certa confusione (nel primo caso: chi o cosa dirige tutte le cose?; nel secondo caso: è plausibile, nella sintassi della lingua greca e di questa proposizione in particolare, una costruzione che pone l’avverbio o{kh come esplicativo del sostantivo gnwvmh?). Infine Pradeau, pp. 280-81, afferma di seguire l’unico manoscritto che porta l’infinito aoristo kubernh 'sai, costruendo così: ... ejpivstasqai gnwvmhn kubernh 'sai pavnta ..., e traducendo: «... reconnaître qu’une pensée gouverne toutes choses ...»; ma nessun manoscritto porta questa lezione (l’infinito aoristo è presente in tutti i manoscritti, ma sempre introdotto da un pronome o da una preposizione, come sopra indicato), sicché dovremmo impli-citamente attribuire a Pradeau una scelta testuale di questo genere: ejpivstasqai gnwvmhn [oJtevh (P1), o{te h| (B), o{t jejn (F)] kubernh 'sai pavnta... (così, infatti, Bollack-Wismann, p. 154, e Conche, p. 241).

3 La traduzione proposta, basata sulla congettura da me formulata nella nota precedente, impone evidentemente di abbandonare ogni connessione fra il sostantivo femminile gnwvmh e la successiva proposi-zione introdotta dal pronome relativo o{tew/, che è un dativo singolare maschile o neutro (in dialetto ionico); ciò induce a intendere gnwvmh esclusivamente in relazione con l’infinito ejpivstasqai e non, in virtù di un pronome relativo al nominativo o al dativo femminile che gli sia riferito (oJtevh o oJtevh/), come soggetto o complemento d’agente (a seconda che si scelga l’attivo <ej>kubevrnhse o il passivo kuberna 'tai) della proposizione successiva. Abbiamo così l’espressione gnwvmhn ejpivstasqai, la cui traduzione sembra obbligata, se si assume il verbo ejpivstamai nel suo significato ordinario di «sapere» o «conoscere» (cfr. la nota precedente). Non va trascurato tuttavia il fatto, banale e gene-ralmente riconosciuto (cfr. per esempio H.G. Liddel-R. Scott-H.S. Jones, A Greek-English Lexicon, Clarendon Press, Oxford 1996, pp. 659 e

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745), che il verbo ejpivstamai rappresenta con ogni verosimiglianza una forma antica del medio del verbo ejfivsthmi, che, di norma seguito da un accusativo e da un dativo, significa «porre» o «stabilire» (qualcuno o qualcosa a/su qualcuno o qualcosa) e conosce varie e frequenti espressioni idiomatiche con l’indicazione di un oggetto interno, per esempio della forma diavnoian o skevyin o nou 'n ejfivsthmi, che valgono semplicemente come «prestare attenzione a», «fissare la mente su», «volgere la riflessione a», e di conseguenza, per immediata estensione, «comprendere», e possono essere seguite dalla preposizione katav con l’accusativo, dalla preposizione periv con il genitivo o dal semplice dativo. Non è impossibile, ma anzi probabile, che il significato ordina-rio del verbo ejpivstamai come «sapere» o «conoscere» derivi appunto da un uso idiomatico di ejfivsthmi nel senso appena indicato. Sarà infatti sufficiente ricordare a questo proposito come siano attestati usi di ejpivstamai tanto (1) con oggetto interno quanto (2) con il senso ordinario di ejfivsthmi («porre» o «stabilire»), dunque in forma medio-passiva, ma con significato attivo (cfr. per esempio [1] Aristotele, Fisica VII 3, 247b11: ... th;n dianoian ejpivstasqai ..., con il significato di «acquistare conoscenza» o «divenire capaci di ragionare», dunque attribuendo, come avviene per ejfivsthmi, un oggetto interno a ejpivsta-mai; e [2] Platone, Leggi VII 802a3: privn... tiı ... tevloı ejpisthvshtai ..., «prima che ... uno ... abbia posto fine ...»). Così stando le cose, l’espres-sione eraclitea ejpivstasqai gnwvmhn può essere intesa – con un uso di ejpivstamai (1) con oggetto interno (così anche Kirk, pp. 388-89, che però congettura o{kh kuberna 'tai dopo ejpivstasqai gnwvmhn: «compren-dere come tutte le cose siano dirette attraverso tutte», cfr. ancora, in proposito, la nota precedente) oppure (2) con il senso ordinario di ejfivsthmi, in forma medio-passiva, ma con significato attivo, o infine (3) ancora con il senso ordinario di ejfivsthmi, ma con forma e signifi-cato medio-passivi – nel senso più ovvio e immediato di «fissare la mente su» o «volgere la riflessione a» e, per estensione, «comprendere», sicché il dativo seguente, al maschile o al neutro, si trova perfettamen-te giustificato: «comprendere (o fissare la mente su o volgere la rifles-sione a) ciò da cui sono dirette tutte le cose» (oppure, se si preferisce intendere ejpivstasqai con il senso ordinario di ejfivsthmi, ma con forma e significato medio-passivi (3), avremo ancora, senza difficoltà, una costruzione sintattica che fa dipendere dalla proposizione principale e}n to; sofovn [ejsti] la proposizione infinitiva ejpivstasqai [= ejfivstasqai] gnwvmhn, con il significato seguente: «... che si comprenda [o che si fissi la mente su = che la mente sia fissata su o che si volga la riflessione a = che la riflessione sia volta a] ciò da cui sono dirette tutte le cose»), da cui, volgendo in forma attiva, la mia traduzione: «comprendere ciò che dirige tutte le cose», vale a dire al principio normativo che regola e governa il tutto, (1) un principio generale e indeterminato, se o{tew/ è un dativo neutro, o (2) lo stesso lovgoı, il «ragionamento» in conformi-tà al quale, come recita il fr. 1 [1 DK; 1 Marc.], «tutte le cose si verifi-cano», se o{tew/ è un dativo maschile (non si può escludere, in tal caso, che la citazione del frammento da parte di Diogene Laerzio comporti un salto di parole o comunque tralasci di citare, in quanto lo precede-

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va, qualche termine importante per la sua comprensione). Si badi che in questa direzione va precisamente l’allusione che al frammento fa Plutarco, De Iside et Osiride 382b, nel contesto di una riflessione intor-no all’esistenza di un principio divino che pervade l’intero cosmo: «la natura che vive e vede e ha da se stessa il principio del proprio movi-mento ... ha ricevuto un flusso di bellezza e una porzione di quell’es-sere intelligente da cui il tutto è diretto, secondo Eraclito» (... ejk tou ' fronou 'ntoı o{tw/ kuberna 'tai to; suvmpan kaq∆ ÔHravkleiton); o (1) Plutarco limita il suo riferimento a Eraclito alle parole o{tw/ kuberna'tai tov suvmpan, che più esplicitamente evocano il nostro frammento, e in questo caso gli attribuisce soltanto la tesi di un principio non meglio precisato che dirige tutte le cose, oppure (2), se intendiamo come riferita a Eraclito anche l’indicazione plutarchea dell’essere intelligente e divino da cui tutte le cose sono dirette (ejk tou ' fronou 'ntoı ... to; qei 'on), l’ipotesi più plausibile è che egli alluda proprio al lovgoı eracliteo, reinterpretando-lo però a sua volta e dal suo punto di vista, nel contesto teorico plato-nico costruito nel De Iside, come una divinità provvidenziale, associa-ta al demiurgo cosmico del Timeo (contra Pradeau, p. 281, che difende invece la sostanziale pertinenza e fedeltà storica della citazione plu-tarchea come testimonianza attendibile della tesi di Eraclito). Se le cose stanno così, nulla induce a fare di gnwvmh, con la grande maggio-ranza dei commentatori e dei traduttori, un termine che evoca una «mente» (Diano-Serra, p. 13), un «Pensiero» o un’«Intelligenza» divi-ni (DK, Marcovich, pp. 311-13), collocandosi così in un contesto di provvidenzialismo razionalistico (così Kahn, p. 171, ma anche Conche, pp. 241-42) o perfino latamente teologico (così ancora Marcovich, p. 313; ma è sintomatico che l’unica interpretazione esplicita in tale direzione sia, nell’antichità, quella, evidentemente ideologica in senso stoico, suggerita dalla probabile allusione di Cleante che, nell’Inno a Zeus, 34 sg. Zuntz, così si rivolge al padre degli dei: «... l’intelligenza, confidando nella quale [... gnwvmhı h|/ pivsunoı] tu stesso dirigi con giu-stizia ogni cosa [pavnta kuberna/ 'ı]»; mentre, per esempio, l’ippocratico De victu I 10.3 [I 185.21] rivela una più sobria identificazione del principio che governa tutte le cose con il fuoco: «il fuoco più caldo e più forte, che domina tutto ... questo dirige tutte le cose attraverso il tutto [tou 'to pavnta dia; panto;ı kuberna ' /]»). Del resto, gnwvmh, dal verbo gignwvskw, ha in greco il significato ordinario di «facoltà conoscitiva» (di un soggetto) oppure di «giudizio» o «conoscenza» (come esito oggettivo dell’esercizio della facoltà conoscitiva di un soggetto), e sicuramente in questo senso esso è utilizzato nell’unica altra sua occor-renza in Eraclito, nel fr. 54 [78 DK; 90 Marc.], mentre gnw 'siı, anch’es-so in relazione con il verbo gignwvskw, compare, nella stessa accezione, nel fr. 49 [56 DK; 21 Marc.], e si tratta in entrambi i frammenti di indicare l’insufficienza e la debolezza della condizione umana, incapa-ce di produrre gnwvmh o, appunto, gnw 'siı. Depurato allora da ogni ingiustificata ipoteca teologica, il senso del frammento risulta piuttosto chiaro: prima di definire nel dettaglio i contenuti del sapere (verosi-milmente proprio quelli trasmessi dal «ragionamento» annunciato fin dal fr. 1), senza dubbio del sapere umano, ossia di ciò che gli uomini

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possono sensatamente conoscere e affermare (cioè di ciò che «è sensa-to» [sofovn ejstin] che essi ammettano, cfr. supra, il fr. 5 [50 DK; 26 Marc.]), in questo e nei due seguenti frammenti (10 [32 DK; 84 Marc.] e 11 [108 DK; 83 Marc.]) vengono indicati caratteristiche e lineamen-ti generali di tale sapere: in primo luogo, l’unità e l’universalità, in quanto la conoscenza prodotta dal sapere rivela l’unica legge o prin-cipio normativo che regola la totalità del cosmo, pervadendolo e penetrandolo interamente, appunto «dirigendo» (il verbo kubernavw, che evoca la metafora della navigazione e del timoniere che conduce o pilota una nave, è piuttosto comune fin dalla letteratura greca arcai-ca, cfr. Diano-Serra, p. 113, e infra, il fr. 39 [64+65+66 DK; 79+55+82 Marc.], specie n. 6, in cui compare, con significato analogo, il verbo oijakivzw) «tutte le cose attraverso tutte» (pavnta dia; pavntwn), vale a dire, in senso strumentale, per mezzo di tutte le cose, e, in senso locale, in tutte le cose, cioè stabilendo, nel cosmo, una stretta correlazione fra tutte le cose, in virtù della quale la loro molteplicità viene ricondotta all’unico principio normativo (cfr. ancora il fr. 5), cui corrisponde a sua volta l’unico sapere comune che lo assume come proprio contenuto (cfr. supra, i frr. 6-6a [114-113 DK; 23-23d1 Marc.]), a cui infine si tro-vano contrapposti i molti saperi apparenti e particolari che gli uomini credono erroneamente di possedere (cfr. supra, i frr. 7 [2 DK; 23 Marc.] e 8 [89 DK; 24 Marc.]), ma che si rivelano ingannevoli e inconsistenti (prodotti da artificiosa polumaqiva, cfr. infra, soprattutto i frr. 48 [40 DK; 16 Marc.] e 51 [129 DK; 17 Marc.]). Ho affrontato più ampiamente i diversi problemi posti dal testo e dall’interpretazione del presente frammento nell’articolo Alcune osservazioni su Eraclito, fr. 41 D.-K. (85 Marcovich), in «Elenchos» 30 (2009/2), pp. 329-36.

Fr. 10 [32 DK; 84 Marc.]1

e}n to; sofo;n mou'non levgesqai oujk ejqevlei kai; ejqevlei Zhno;ı o[noma.

Un’unica cosa, il sapere soltanto,2 non è lecito ed è lecito chiamare con il nome di Zeus.3

1 Questo frammento è riportato da Clemente Alessandrino, Stromateis V 115.1 (= II 404 Stählin) = Eusebio, Praeparatio evangelica XIII 13.42 (= II 215 Mras), che esamina alcuni riferimenti alla divinità suprema presenti nelle opere degli antichi filosofi greci; a questo fine, egli cita in sequenza i frr. 10, 76 [33 DK; 104 Marc.]) e 2 [34 DK; 2 Marc.]. Per il contesto della citazione, cfr. perciò supra, n. 1 al fr. 2; per quanto riguarda invece questo frammento, Clemente lo introduce così: «So che

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44 FR. 10 [32 DK; 84 MARC.]

anche Platone offre una testimonianza in favore di Eraclito che scrive: ... (Clemente cita qui il fr. 10)». La «testimonianza» di Platone si trova nel Cratilo (395e-396b), in cui il nome Zeus (che ha in greco una doppia declinazione: Zeuvı, Diovı) viene ricondotto a due distinte etimologie possibili: Zh'na, connesso al verbo zh 'n («vivere»), e Diva, spiegato come «colui per mezzo del quale» (di jo{n), sicché Zeus sarebbe a un tempo causa e mezzo della vita di tutti i viventi. Clemente cita perciò le parole di Eraclito precisamente in tale ottica, in modo che anche quest’ultimo, come Platone, avrebbe correttamente indicato una divinità suprema come principio e guida di tutte le cose.

2 Sulle diverse opzioni possibili nella costruzione e nell’interpun-zione di questa prima parte del frammento, cfr. soprattutto Kirk, p. 393, e Diano-Serra, pp. 163-64. La contemporanea presenza di e{n e mou'non («un’unica cosa ... soltanto») crea indubbiamente un effetto di sovrabbondanza (che ha indotto Kirk a ipotizzare la soppressione di e{n, forse aggiunto da Clemente Alessandrino), ma non mi pare che ciò comporti particolare difficoltà, giacché potrebbe appunto trattarsi di un effetto voluto, sul piano stilistico e concettuale. Subito oltre, il verbo ejqevlw esprime certamente, in generale, un’intenzione o una volontà, ma, riferito a un soggetto inanimato, indica anche lo stato o la condizione che lo caratterizzano: in questo caso, il sapere «non può e può» oppure «non deve e deve» essere chiamato «con il nome di Zeus».

3 L’interpretazione di questo frammento è strettamente connessa a quella del precedente fr. 9 [41 DK; 85 Marc.] e del seguente fr. 11 [108 DK; 83 Marc.]. Se si adotta l’ottica «teologica» suggerita da Clemente Alessandrino nella sua citazione (cfr. supra, n. 1), o si accentua quan-tomeno il carattere di trascendenza che il nome «Zeus» introdurrebbe nella concezione eraclitea del sapere qui espressa, avremo verosimil-mente che to; sofovn designa l’unico e solo (e}n ... mou'non) essere che sia davvero sapiente – non a caso variamente reso con «Uno», «Saggio», «the wise ... one alone», «the only wise thing», «Une la Chose Sage» (Mouraviev I, p. 90) – identificato a sua volta con la divinità, una divinità che in parte si lascia associare alla religione tradizionale, con il nome di Zeus, e in parte introduce invece una concezione religiosa nuova, di carattere filosofico, cui sarebbe impossibile associare il nome di Zeus (così, con diverse sfumature, Marcovich, pp. 308-09, Kahn, pp. 267-68, Diano-Serra, p. 164, e Conche, pp. 243-44). Se invece si accoglie la lettura fondamentalmente «epistemologica» da me suggerita (cfr. in particolare supra, n. 3 al fr. 9), si dovrà intendere che to; sofovn indica l’unico sapere, che costituisce a sua volta il contenuto dell’unico «ragionamento» vero, il solo, cioè, a poter aspirare a una denominazione comune e universale, come quella tradizionale di «Zeus», sovrano degli dei; con la precisazio-ne, però, che una simile denominazione risulta solo parzialmente lecita o conveniente: lo è, se si vuole stabilire un’analogia fra la superiorità dell’unico sapere sulle molteplici ed erronee opinioni degli uomini e la concezione condivisa dalla cultura greca di una divinità sovrana su tutte le altre; non lo è, invece, se si pretende così di identificare l’unico sapere con una realtà personale e individuale, per quanto divina, dal momento che il sapere è il contenuto di un «ragionamento» a tutti accessibile in

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virtù delle facoltà naturali di ciascuno, e non un possesso riservato della divinità o di qualunque altro essere, sicché, da questo punto di vista, l’eventuale divinizzazione del sapere sarebbe in immediata ed esplicita contraddizione con l’altra tesi eraclitea di un sapere disponibile per chi sappia ascoltarne l’esposizione e coglierne il senso (cfr. supra, i frr. 1 [1 DK; 1 Marc.], n. 9, 5 [50 DK; 26 Marc.], n. 5, 6a [113 DK; 23d1 Marc.], n. 7, e 7 [2 DK; 23 Marc.], n. 3; così anche Pradeau, pp. 257-58). Meno pregnanti divengono in tal caso le osservazioni di Kirk, pp. 392-93, Marcovich, pp. 308 e 310, e Robinson, p. 102, secondo i quali potremmo vedere qui una relazione con la critica dell’antropomorfismo religioso che si trova soprattutto nei frr. 14 , 15, 16 e 23 DK di Senofane; del tutto eccentrica, come di frequente, la lettura di Bollack-Wismann, pp. 137-38, che vedono qui il tentativo, da parte di Eraclito, di far emergere la con-traddizione che, in ciascun nome (in tal caso quello di «Zeus»), oppone significante e significato, rivelando così «la totalité contradictoire et la contradiction de la totalité» (?).

Fr. 11 [108 DK; 83 Marc.]1

oJkovswn lovgouı h[kousa, oujdei;ı ajfiknei'tai ejı2 tou'to, w{ste ginwvskein3 o{ti sofovn ejsti4 pavntwn kecwrismevnon.

Di quanti ho ascoltato i ragionamenti, nessuno5 arriva a capire che il sapere è distinto da tutte le cose.6

1 Questo frammento è riportato da Stobeo III 1.174 (= III 129 Hense), a introdurre una sequenza di citazioni eraclitee che prosegue con una versione del fr. 53 [95=109 DK; 110 Marc.] e con il fr. 78 [110 DK; 71 Marc.].

2 ejı è lezione del manoscritto A di Stobeo (stampata da Trincavelli, primo editore del Florilegio di Stobeo, del XVI secolo), mentre il manoscritto Md porta eijı.

3 ginwvskein è lezione del manoscritto A di Stobeo e di Trincavelli, mentre il manoscritto Md porta gignwvskein. Nell’edizione di Trincavelli compare qui una precisazione del tutto fuori posto, che consiste di una citazione di Aristotele, Politica I 2, 1253a29: h} ga;r qeo;ı h} qhrivon («Colui il quale non fa parte della comunità o non ne ha bisogno per-ché auto-sufficiente si colloca al di fuori della città, trattandosi o di un animale o di un dio»), che sembra non avere nulla a che fare non solo con le parole di Eraclito, ma neanche con la loro citazione da parte di Stobeo (ed ecco perché tale inciso non è stato da me stampato, nean-che fra parentesi quadre, a indicarne l’espunzione come inserzione

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46 FR. 11 [108 DK; 83 MARC.]

del citatore nella citazione). Si tratta verosimilmente di un commento di un copista, forse a mo’ di glossa del termine eracliteo sofovn: «... il sapere (o il sapiente), cioè o un dio o un animale ...». Cfr. in proposito Mouraviev III, p. 133, n. 1.

4 Dopo ejsti<n> è stato congetturato uno <e{n> (West), che pare tuttavia superfluo («... nessuno arriva a capire che il sapere è un’unica cosa, distinta da tutte»).

5 Come rilevano soprattutto Kirk, p. 398, e Marcovich, p. 307, Era-clito rivendica così orgogliosamente l’eccezionalità e la novità della propria dottrina filosofica, dell’unico lovgoı di cui si fa portavoce, che appunto nessuno dei predecessori avrebbe in nessun modo prefigurato, perdendosi invece in una molteplicità di lovgoi inutili e falsi (intenden-do, come mi pare più naturale, oJkovswn come un maschile e non, con Bollack-Wismann, pp. 305-06, come un neutro: «Di tutte le cose su cui ho ascoltato i ragionamenti ...»; e, analogamente, oujdeivı come riferito a uno degli oJkovswn e non, ancora con con Bollack-Wismann, p. 305, a uno dei lovgoi: «... nessuno [scil., dei ragionamenti che ho ascoltato] arriva a distinguere ...»). Tali lovgoi, al plurale, sono concordemente intesi come i diversi discorsi, argomenti o ragionamenti, contrapposti all’unico lovgoı eracliteo, introdotto fin dal fr. 1 [1 DK; 1 Marc.]: come l’ascolto di questo, da parte degli uomini che sanno coglierlo, produce comprensione (cfr. solo, per esempio, supra, il fr. 5 [50 DK; 26 Marc.]), così l’ascolto di quelli, da parte del filosofo, suscita in lui la consapevolezza degli errori dei più (su questo punto, cfr. Kahn, p. 115, e Pradeau, p. 255; contra Bollack-Wismann, pp. 306-07, secondo i quali, se ben capisco, la superiorità del lovgoı di Eraclito rispetto agli altri consisterebbe nella sua capacità «tecnica» di dissolvere la cosa di cui parla appunto nel discorso che ne parla). È inoltre possibile, come vogliono Diano-Serra, p. 170, che la pluralità di lovgoi rimandi a quella molteplicità di specifiche competenze diverse che non si traduce in autentico sapere, quella polumaqiva contro la quale Eraclito polemizza, per esempio, nei frr. 48 [40 DK; 16 Marc.] e 51 [129 DK; 17 Marc.].

6 Interpretato in continuità con i due precedenti (cfr. supra, i frr. 9 [41 DK; 85 Marc.] e 10 [32 DK; 84 Marc.]), e in un’ottica che ho definito «epistemologica», il presente frammento fornisce una precisazione importante: i ragionamenti o lovgoi (al plurale) dei più, contrapposti al ragionamento (al singolare) di cui si fa portavoce Eraclito, conducono a una pluralità di spiegazioni fenomeniche che suppongono a loro volta, in modo esclusivo, l’esistenza reale della molteplicità (di enti, di cose, di individui) nel cosmo (cfr. pure supra, i frr. 7 [2 DK; 23 Marc.] e 8 [89 DK; 24 Marc.]) e mancano perciò di cogliere l’unità del sapere sancita nei due frammenti precedenti, che dipende dall’unico «ragionamento» e che conduce a un’univoca spiegazione fenomenica che suppone a sua volta l’unità di tutte le cose (cfr. ancora i frr. 5 [50 DK; 26 Marc.] e 6-6a [114-113 DK; 23-23d1 Marc.]): ecco in che senso il sapere si trova «distinto da tutte le cose» (intendendo pavntwn come un neutro), cioè dalla plu-ralità apparente dei fenomeni di cui fornisce una spiegazione unitaria, oppure, meno probabilmente, da «tutti i ragionamenti» (intendendo pavntwn come un maschile, con sottinteso lovgwn, presente all’inizio della

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proposizione). Non c’è spazio, in tal caso, per un’interpretazione anche latamente «teologica», che faccia del sapere un possesso divino o lo renda perfino coincidente con la divinità stessa (così ancora Marcovich, pp. 307-08, e, appena più prudentemente, Conche, pp. 238-40), considerandolo allora non come «distinto da tutte le cose», ma preferibilmente, poiché il participio kecwrismevnon ha il duplice significato di «essere distinto» o di «essere separato», come appunto «separato da tutti <gli uomini>» (intendendo pavntwn di nuovo come un maschile, con sottinteso però ajnqrwvpwn, forse anticipato da oJkovswn in apertura della proposizione), eventualmente facendo inoltre di sofovn un maschile, e non un neutro: «... che il sapiente è distinto (o separato) da tutti <gli uomini>».

Fr. 12 [53 DK; 29 Marc.]1

povlemoı pavntwn me;n pathvr ejsti, pavntwn de; basileuvı, kai; tou;ı me;n qeou;ı e[deixe tou;ı de; ajnqrwvpouı, tou;ı me;n douvlouı ejpoivhse tou;ı de; ejleuqevrouı.

Padre di tutte le cose è la guerra e di tutte è re: gli uni li rese dei, gli altri uomini, gli uni li fece schiavi, gli altri liberi.2

1 Questo frammento è riportato da Ippolito, Refutatio contra omnes haereses IX 9.4 (= 242.5 Wendland), dopo la sequenza dei frr. 5 [50 DK; 26 Marc.], 14 [51 DK; 27 Marc.], 1 [1 DK; 1 Marc.] (citazione parziale) e 97 [52 DK; 93 Marc.] e prima della sequenza dei frr. 15 [54 DK; 9 Marc.], 42 [55 DK; 5 Marc.] e 49 [56 DK; 21 Marc.], con queste parole: «Ascoltiamo Eraclito, che dice che il Padre di tutte le cose generate (scil., il lovgoı era-cliteo, considerato da Ippolito identico al Dio creatore, cfr. supra, n. 1 al fr. 5) è generato e ingenerato, creazione e demiurgo: ... (Ippolito cita qui il fr. 12)». Numerose allusioni a queste parole di Eraclito, compresse nella formula povlemoı path;r pavntwn, si trovano per esempio in Plutarco, De Iside et Osiride 370d, in Proclo, In Timaeum I 174.20 Diehl e in Luciano, Quomodo historia conscribenda sit 2. Degna di interesse la testimonianza dello stoico Crisippo (in Filodemo, De pietate 14.24-25 [= SVF II 636]), che fa riferimento alle parole di Eraclito, fornendone però un’esplicita interpretazione, nella quale emerge con chiarezza la sua prospettiva filosofica (appunto stoica) e di cui si comprende perciò come abbia fatto breccia fra i posteriori citatori cristiani (cfr. per questo la nota seguente): «Filodemo riporta l’opinione di Crisippo il quale sostiene che ... la guerra è la stessa cosa che Zeus, proprio come dice anche Eraclito» (to;n povlemon kai; to;n Diva to;n aujto;n ei\nai, kaqavper kai; to;n ÔHravkleiton levgein).

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2 Come rilevato soprattutto da Marcovich, p. 102, e Diano-Serra, pp. 119-20, il frammento ha una struttura binaria sottolineata dalla ripetizione della clausola mevn ... dev, che inizialmente esprime un concetto generale, individuando cioè nel conflitto un principio «sovrano» (basileuvı), ossia «comune» (cfr. infra, il fr. 13 [80 DK; 28 Marc.], n. 5), dell’intera realtà (come osserva, per esempio, Kahn, p. 326, n. 276, la formula eraclitea potrebbe essere stata influenzata da Pindaro, fr. 153 Bowra, secondo cui novmoı oJ pavntwn basileuvı): intendo perciò il genitivo plurale pavntwn come un neutro, con buona parte dei commentatori (cfr. per esempio DK, Kahn, p. 208, Diano-Serra, p. 115, Conche, p. 441, e Pradeau, pp. 126 e 234), anche basandomi sul parallelo con il seguente fr. 13, secondo cui ginovmena pavnta kat je[rin, dove pavnta è certamente neutro, sicché povlemoı, nel presente frammento, o e[riı, nel seguente, è in entrambi casi il principio che regola la generazione di tutte le cose (a intenderlo come un maschile avremmo, come vogliono Bollack-Wismann, p. 185, Marcovich, p. 103, e Robinson, p. 117, seguendo Kirk, pp. 246 sgg., una rappresentazione attinente alla sfera «sociale» della realtà, divisa fra gli «esseri» o gli «individui» – dei e uomini, liberi e schiavi – di cui il conflitto è padre; così pure Mouraviev I, p. 135, e III, p. 64); di tale principio coincidente con il conflitto si danno subito oltre due esemplificazioni concrete, con la contrapposizione fra «dei» e «uomini» e fra «liberi» e «schiavi». Nel suo significato immediato e letterale, dunque, il frammento spiega come la guerra sconvolga e muti continuamente ogni ordine stabilito, dando vita così a sempre nuove configurazioni della realtà, in quanto consacra i vincitori come «dei» e gli sconfitti come «uomini» (più che un riferimento all’idea che gli uomini caduti in battaglia, in quanto eroi, divengano divinità immortali, come suggerito da Marcovich, p. 104, ritengo plausibile qui un’allusione alla vicenda mitologica della gigantomachia, evocata già nell’Iliade V 385 e nell’Odissea XI 305 sgg., narrata da Esiodo, Teogonia 675-715, e ricordata fra l’altro da Platone, Simposio 190b e Sofista 246a-c, che contrappone Zeus, divinità celeste, ai titani, figli della terra, con la vittoria finale di Zeus, così stabilito nella sua posizione dominante sul trono degli dei, e la sconfitta dei titani, condannati perciò alla condizione subordinata di esseri «terrestri»), o ancora i vincitori come «liberi» e «padroni» e gli sconfitti come «schiavi», secondo l’uso greco arcaico che implicava di frequente la riduzione in schiavitù degli sconfitti in guerra (pur non traducendo i due aoristi e[deixe e ejpoivhse con un presente, come è usuale in questi casi, attribuisco comunque loro un valore esemplificativo o gnomico, in linea con l’idea che la guerra abbia prodotto, e nuovamente o continuamente produca nel tempo, tutte le cose, a esse conferendo di volta in volta ruoli e posizioni alterni). Al di là del suo significato letterale, tuttavia, pare abbastanza immediato attribuire alle parole di Eraclito un senso metaforico o, più esattamente, filosofico, che consiste nell’indicazione del principio che regola e pervade l’intera realtà, un principio conflittuale che, a ogni livello, determina uno stato di permanente contrapposizione a partire dal quale si producono tutte le cose: si tratta di una forma di instabilità elementare che costituisce lo sfondo sostanziale o la base ontologica da cui, in modi e secondo leggi non ancora definite, derivano tutte le cose che costituiscono l’esperienza ordinaria, sicché l’alternanza

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e la diversità fra le cose che sono forniscono la possibilità stessa della loro coesistenza (cfr. pure Kahn, pp. 209-10, Diano-Serra, pp. 115 e 121, Conche, pp. 442-43, e Pradeau, pp. 234-35), senza, però, che tale diffe-renza sia semplicemente depotenziata e ridotta all’indistinzione (come vorrebbero Bollack-Wismann, pp. 186-87); a tale principio, in ragione della sua universalità, si può anche associare il nome di Zeus, considerato tradizionalmente come padre degli dei e degli uomini, purché non si pensi a una sostituzione, reale o soltanto ironica (così ancora Marcovich, p. 103), di povlemoı a Zeus o a una loro identificazione vera e propria, e invece si accolga tale denominazione (cfr. del resto il fr. 10 [32 DK; 84 Marc.], soprattutto la relativa n. 3) come per lo più convenzionale (su questa linea, benché con toni diversi, anche Kahn, p. 208, Diano-Serra, pp. 115-17, e Robinson, p. 118). Si capisce però che le parole di Eraclito si sono prestate a un’operazione esegetica di totale sovrapposizione dei due livelli di senso, letterale e metaforico, così giungendo, in ambito stoico, a una vera e propria personificazione di povlemoı, inteso come una divinità immanente cui è lecito attribuire il nome tradizionale di Zeus e, per questa via, come il fuoco, concepito come il costituente fon-damentale e primario dell’intera realtà (cfr. la nota precedente e, supra, il fr. 9 [41 DK; 85 Marc.], n. 3); non è difficile comprendere inoltre come questa operazione esegetica sia transitata dall’ambiente stoico a quello cristiano, con il principale citatore del frammento, Ippolito, che non esita a far coincidere il lovgoı eracliteo con la Divinità creatrice cristiana, a sua volta identificata con il fuoco inteso come un principio conflittuale (cfr. ancora, in proposito, la nota precedente, e l’Introduzione, § 2.2). Credo invece opportuno tenere distinti, come ho fatto fin qui, (1) il lovgoı, inteso come il «ragionamento» che permette di comprendere la natura della realtà e di cui vengono enunciate le caratteristiche, per così dire, «logico-epistemologiche» (cfr. supra, la Sezione 1), (2) il suo contenuto, che è un sapere comune e universale che fa emergere l’unico principio che regola e domina l’intera realtà (cfr. i tre precedenti frr. 9, 10 e 11 [108 DK; 83 Marc.]), e (3) tale principio, di cui il presente frammento comincia a esporre i tratti fondamentali, introducendo innanzitutto una distinzione di carattere ontologico fra il principio stesso, che è sottostante alle cose esistenti e le produce, e le cose esistenti come tali, che costituiscono invece un livello derivato e in qualche modo solo secondario, se è vero che tutte le cose esistenti (e, fra queste, «dei» e «uomini», «liberi» e «schiavi») sono solo facce o aspetti diversi prodotti da un unico principio originario, la cui natura è espressa per il momento nella forma esclusiva di una conflittualità radicale e perenne, le cui leggi verranno via via precisate nei frammenti seguenti. Solo in una fase posteriore sarà quindi possibile descrivere tale principio in termini funzionali, ossia rispetto alle sue concrete modalità operative sul piano fisico-cosmologico e indicandone infine la natura sostanziale, dal punto di vista fisico, nella forma elementare del fuoco (cfr. ancora infra, la Sezione 3).

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eijdev<nai;>2 crh; to;n povlemon ejovnta xunovn kai; divkhn e[rin3 kai; ginovmena pavnta kat je[rin kai; crewvn.4

Si deve sapere che la guerra è comune, che il conflitto è giustizia e che tutte le cose si producono secondo conflitto e necessità.5

1 Questo frammento è riportato da Celso, in Origene, Contra Celsum VI 42 (= II 119.9 Koetschau), che, nel contesto di una critica alla dottrina cristiana del male, evoca alcuni dei fraintendimenti in cui sarebbero incorsi i cristiani nei loro riferimenti alla filosofia e alla religione greca (cui Origene a sua volta replica). Fra questi, sono citate le parole di Eraclito: «Afferma (scil., Celso) che gli antichi parlano enigmaticamente di una guerra fra gli dei, e che Eraclito dice così: ... (Celso cita qui il fr. 13)». Per una rassegna delle numerose varianti, o delle semplici allusio-ni, che di questo frammento si trovano nella tradizione posteriore, cfr. Marcovich, pp. 93-96 e 99-100, e Mouraviev I, pp. 195 e 364; ma si veda pure infra, n. 1 al fr. 14a [8 DK; 27d1-28b1 Marc.].

2 eijdev<nai> è correzione di Schleiermacher, accolta da buona parte degli editori (fra i quali Kirk, p. 238, e Marcovich, p. 93), della lezio-ne eij de; riportata da Celso; correzione analoga in DK: eijdevnai de;. Mantenendo il testo tradito, si ottiene evidentemente la protasi di un periodo ipotetico («Se è necessario ...» oppure «Se vi è necessità ...», così Bollack-Wismann, pp. 243-44), la cui apodosi risulta tuttavia poco conseguente, o una sorta di premessa discorsiva alla proposizione principale («Se le cose stanno in questo modo ...», così Mouraviev I, pp. 195-96, e III, p. 92, nn. 1-4).

3 e[rin è ancora correzione di Schleiermacher della lezione ejrei 'n di Celso, che, intesa come forma ionica dell’infinito ejra 'in, darebbe: «... che la guerra ama la giustizia ...» (così Mouraviev I, pp. 195-96, e III, p. 92, n. 2); la scelta assume perciò un carattere interpretativo, cfr. infra, n. 5.

4 crewvn è correzione di Diels, che accolgo dubitativamente, sulla base, fra l’altro, del celebre parallelo con l’espressione attribuita ad Anassimandro da Simplicio, Physica 24.13 Diels (= 12 B 1 DK: ... givne-sqai kata; to; crewvn; cfr. la nota seguente), mentre Celso porta la lezione crewvmena, difesa da alcuni commentatori (fra cui Bollack-Wismann, pp. 243-44, Conche, pp. 437-38, e Mouraviev I, pp. 195-96, e III, p. 92, n. 5; rimangono in dubbio, e considerano il luogo corrotto, Kahn, pp. 66-67 e 207, e Robinson, pp. 48-49 e 132). Altre proposte di correzione (katacrewvmena, cwreovmena, krinovmena, crew;n mevta, crew;n kubernwvmena) appaiono meno plausibili. Il significato delle parole di Eraclito non

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muta comunque in modo sensibile: «... e che tutte le cose si producono secondo conflitto e sono sottoposte alla sua costrizione».

5 Mantenendo il testo tradito, salvo la correzione iniziale, eijdev<nai> crh; to;n povlemon ejovnta xunovn kai; divkhn ejrei'n kai; ginovmena pavnta kat je[rin kai; crewvmena (cfr. le note precedenti), avremmo la traduzione seguen-te: «Si deve sapere che la guerra è comune, che ama la giustizia e che tutte le cose si producono secondo conflitto e sono sottoposte alla sua costrizione» (in tal senso la resa di Mouraviev I, p. 195, che mantiene però anche eij dev, cfr. supra, n. 2; curiosamente, Pradeau, p. 233, stampa il testo con le correzioni editoriali indicate, ma la sua traduzione sembra invece supporre il testo tradito: «Il faut savoir que la guerre est ce qui est commun, et qu’elle est éprise de justice; ainsi, toutes choses sont engendrées et rendues nécessaires par la discorde»), che mi pare meno plausibile per almeno due motivi. (1) Innanzitutto, rispetto all’alterna-tiva fra e[rin ed ejrei'n (cfr. supra, n. 3), con la correzione e[rin otteniamo il duplice risultato di (1a) identificare qui la divinità [Eriı, Contesa o Conflitto, condannata nell’Iliade (XVIII 107-10) come fonte di male e lodata invece da Esiodo come principio di tutte le cose (in Opere 11-26, vengono distinte due forme di “Eriı, l’una negativa e apportatrice di discordia e lutti fra gli uomini, l’altra positiva e genitrice di ogni cosa; mentre in Teogonia 225, sembra sia conservata l’originaria concezione negativa, di ascendenza omerica, di “Eriı), un concetto che Eraclito riprenderebbe, correggendolo però in base all’accostamento di e[riı a povlemoı, inteso come il conflitto cosmico che, già nel precedente fr. 12 [53 DK; 29 Marc.], appare come il principio comune all’origine di tutte le cose, e associandolo infine a divkh, alla giustizia, dunque con la preci-sazione che tale conflitto cosmico, che rappresenta una trasposizione onto-cosmologica della divinità tradizionale [Eriı, si produce in base a un’intrinseca norma universale che lo regola in modo equilibrato; otteniamo inoltre così (1b) una migliore corrispondenza fra la prima e la seconda parte del frammento, perché, se la guerra (povlemoı) è un principio comune da cui derivano tutte le cose (in una forma natural-mente meno pregnante e limitata soltanto a designare gli effetti della guerra, la formula si trova già nell’Iliade XVIII 309 e in Archiloco, fr. 38 Diehl), e se il conflitto (e[riı) in cui tale principio consiste si iden-tifica a sua volta con la giustizia (divkh; mi pare indifferente, da questo punto di vista, quale dei due termini, nel sintagma divkhn e[rin, funga da soggetto, perché ciò che viene fatto valere da Eraclito è piuttosto la loro stretta corrispondenza, se non propriamente la loro identità: cfr. Kahn, pp. 205-06), è lecito concluderne che tutte le cose avvengono o si producono (ginovmena pavnta) secondo conflitto e necessità (kat je[rin kai; crewvn), cioè, nuovamente, in base a un principio conflittuale la cui azione ha luogo conformemente a una norma universale invariabile e valida indifferentemente per tutte le cose, in tal senso, quindi, necessaria e giusta (così stabilendo questa sequenza logico-semantica: povlemoı xunovı = e[riı = divkh e, di seguito, e[riı = crewvn, che, in quanto norma universale e invariabile conformemente alla quale si producono tutte le cose, coincide infine con divkh; così pure Kirk, pp. 241-42, contra Marcovich, p. 97). (2) In secondo luogo, rispetto all’alternativa fra crewvn e crewvme-

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na (cfr. la nota precedente), mentre è chiaro, in base a quanto appena detto, cosa significhi che tutte le cose si producono kata; crewvn, mi pare meno immediato associare questa necessità direttamente alle cose che si producono (appunto facendone dei crewvmena; per altri significati, a mio avviso, meno plausibili, di questa forma participiale, cfr. la disamina di Marcovich, pp. 97-98), perché «necessarie» non sono evidentemente le cose che si producono in quanto tali (dal momento che le cose che si producono possono essere indifferentemente quelle che sono o anche diverse e opposte, e ciò nella misura in cui, come precisa il precedente fr. 12, cfr. specialmente n. 2, esse non sono altro che esiti mutevoli e successivamente alternativi derivanti dall’azione dell’unico principio del conflitto), ma «necessario» è piuttosto, quantomeno in prima battuta, il principio stesso in base al quale esse si producono, cioè la guerra o il conflitto, qualificato infatti come comune (povlemoı xunovı) e giusto (e[riı divkh) per richiamare, attraverso il riferimento all’universalità e all’equità, la nozione stessa di necessità. Si noti fra l’altro che questa resa riecheggia significativamente il celebre fr. 1 DK di Anassimandro, che stabilisce un accostamento fra divkh e crewvn e secondo il quale generazione e cor-ruzione (gevnesiı e fqorav), per le cose che sono (toi 'ı ou\si), avvengono secondo necessità (givnesqai kata; to; crewvn), una necessità che si esplica (gavr) appunto nel rispettivo rendersi giustizia di tutte le cose che sono (didovnai aujta; divkhn kai; tivsin ajllhvloiı th'ı ajdikivaı): giustizia e necessità si garantiscono dunque reciprocamente, in quanto la necessità è il principio cosmico della generazione e della corruzione degli esseri e impone loro la giustizia, che, a sua volta, esplica concretamente l’azione normativa della necessità disponendo nel tempo la generazione e la corruzione degli esseri (contro l’accostamento di questo frammento eracliteo alle parole attribuite ad Anassimandro si esprimono, con argomenti ai miei occhi non convincenti, Kirk, pp. 240-41, e, con alcune precisazioni, Kahn, pp. 206-07; cfr. pure Marcovich, pp. 98-99). Costruito e inteso in questo modo, il frammento appare strettamente connesso al precedente fr. 12, innanzitutto dal punto di vista della corrispondenza fra i rispettivi termini chiave: a povlemoı, cui fa da contraltare e[riı, è attribuita nel frammento precedente la qualifica di pathvr e di basileuvı pavntwn, cui corrispondono, in questo frammento, il sintagma ginovmena pavnta (in quanto il pathvr è responsabile della generazione di tutte le cose) e il sostantivo divkh (in quanto il basileuvı rappresenta, in virtù del suo ruolo sovrano, la fonte e la garanzia della giustizia): si vedano pure, su questa linea, Diano-Serra, p. 121, e Conche, p. 440 (contra Bollack-Wismann, pp. 244-45, secondo i quali, anche in virtù delle scelte testuali ricordate nelle note precedenti, Eraclito non suggerirebbe nessuna identificazione fra «guerra» o «conflitto» e «giustizia» o «necessità», ma si limiterebbe a constatare l’evidenza dell’opposizione irriducibile fra le cose che sono e il carattere illusorio e falso di ogni loro possibile ricomposizione uni-taria). In tale ottica, e facendo riferimento all’interpretazione suggerita supra, nella n. 2 al fr. 12, questo frammento avvia la descrizione dei modi concreti in cui il conflitto originario (povlemoı o e[riı) avviene e produce tutte le cose, chiamando in causa «giustizia» e «necessità», ossia una forma di equilibrio inviolabile e di regolare alternanza cosmica, il cui

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sviluppo, tuttavia, non è ancora reso del tutto esplicito. Da questo punto di vista, il crhv iniziale detta il ritmo dell’enunciazione eraclitea, che intende correggere, alla luce di una superiore necessità argomentativa e filosofica, le false opinioni di quanti non colgono la verità del lovgoı: cfr. Marcovich, p. 96.

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ouj xunia'sin o{kwı diaferovmenon eJwutw'/ oJmologevei:2 palivntonoı3 aJrmonivh o{kwsper tovxou kai; luvrhı.

Non comprendono come, discordando, con se stesso con-cordi: un’armonia causata da opposte tensioni, come quella dell’arco e della lira.4

1 Questo frammento è riportato da Ippolito, Refutatio contra omnes haereses IX 9.2 (= 241.18 Wendland), dopo il fr. 5 [50 DK; 26 Marc.] e prima della sequenza dei frr. 1 [1 DK; 1 Marc.] (citazione parziale), 97 [52 DK; 93 Marc.], 12 [53 DK; 29 Marc.], 15 [54 DK; 9 Marc.], 42 [55 DK; 5 Marc.] e 49 [56 DK; 21 Marc.], con queste parole: «E del fatto che tutti ignorano e non convengono su questo (scil., che il lovgoı eracliteo coincide con il Dio creatore, cfr. supra, n. 1 al fr. 5 [50 DK; 26 Marc.]), Eraclito si lamenta così: ... (Ippolito cita qui il fr. 14). E che il lovgoı è sempre il tutto ed è diffuso per il tutto, lo dice così: ... (Ippolito cita qui parte del fr. 1)». Alcune varianti significative delle parole di Eraclito vanno brevemente discusse. Innanzitutto, Platone sembra farvi riferi-mento nel Simposio (187a-b), sostenendo che Eros è il dio che governa la medicina, come la ginnastica e l’agricoltura; lo stesso caso sarebbe quello della musica: a sostegno di questa affermazione, Platone precisa: «Forse è questo che vuol dire anche Eraclito, anche se non si esprime opportunamente: “l’uno”, dice infatti, “discordando in se stesso, con se stesso concorda, come l’armonia dell’arco e della lira”. In effetti, non è affatto ragionevole sostenere che l’accordo consiste in un’opposizione o che risulta da un’opposizione che permane; ma forse Eraclito voleva dire che da un’opposizione precedente fra acuto e grave si realizza in seguito un accordo grazie alla tecnica musicale; dall’acuto e dal grave che ancora si opponessero, infatti, non deriverebbe un’armonia. L’accordo è consonanza e la consonanza è una specie di conciliazione; e la concilia-zione di ciò che si oppone è impossibile, finché l’opposizione permane». Al di là della spiegazione platonica delle parole di Eraclito, su cui tornerò infra, n. 4, la citazione sarebbe la seguente: to; e}n diaferovmenon aujto;

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auJtw'/ xumfevresqai, w{sper aJrmonivan tovxou te kai; luvrhı. A parte il soggetto che Platone attribuisce alla proposizione, to; e{n (per il quale sono state congetturate tuttavia le correzioni o[n oppure pa 'n, avvertiti probabilmente come più consoni alla posizione di Eraclito), che pare fuori posto o quantomeno fortemente interpretativo (se è vero, infatti, che ciò che «discordando concorda» è probabilmente, come tento di mostrare infra, n. 3 al fr. 14a [8 DK; 27d1-28b1 Marc.], sia ogni singola cosa esistente sia la totalità delle cose esistenti, dunque, in ultima analisi, indifferentemente l’«uno», «ciò che è» o il «tutto», va notato tuttavia che i termini to; e{n, to; o[n e to; pa'n non sono utilizzati, nei frammenti eraclitei pervenutici, né in forma sostantivata in posizione di soggetto né a designare un concetto filosofico determinato; cfr. pure in proposito, Diano-Serra, pp. 127-28), la citazione di Platone non fa che ricalcare, in modo palesemente incompleto e lacunoso (e con un’unica variante significativa: xumfevresqai in luogo di oJmologevei, cfr. la nota seguente), il testo riportato da Ippolito da me adottato, il che induce a dubitare che si tratti di un altro frammento originale (come invece pensa Pradeau, pp. 269-70) e suggerisce perciò di privilegiare la citazione di Ippolito (anche se, come crede Marcovich, pp. 85-86, la citazione platonica pro-venisse, come è plausibile immaginare, da un’altra e più antica fonte, di questa Platone deve aver citato solo una selezione). Analogo caso nel Sofista (242d-e), in cui Platone, nel corso di una rapida e allusiva rassegna delle opinioni dei filosofi precedenti intorno alla natura e al numero delle cose che sono, evoca la posizione di Eraclito, secondo cui l’essere è a un tempo uno e molteplice (to; o[n pollav te kai; e{n), perché (gavr) diaferovmenon ajei; sumfevretai: come nel caso citato del Simposio, dunque, è l’essere o la totalità delle cose che sono a costituire il soggetto della citazione eraclitea e nuovamente l’icastica affermazione attribuita a Eraclito è espressa, qui ancora più sinteticamente, in una formula che introduce un’unica variante rispetto al testo citato da Ippo-lito (sumfevretai in luogo di oJmologevei, cfr. la nota seguente); valgono perciò le considerazioni da me svolte sopra (un’ulteriore reminiscenza del frammento eracliteo potrebbe forse trovarsi in Fedone 85e, in cui Platone paragona la natura dell’anima a quella dell’armonia della lira e delle corde, un’armonia «invisibile, incorporea, bella e divina»: aJrmoniva luvraı te kai; cordw 'n; ajovraton kai; ajswvmaton kai; pavgkalovn ti kai; qei 'on, un parallelo che viene tuttavia confutato nel seguito da Socrate); cfr. pure, per questi riferimenti platonici, l’Introduzione, §§ 2.1 e 4.2, e Mouraviev III, p. 63, nn. 1 e 4. Per quella che Marcovich, pp. 82 e 99-100, considera una variante aristotelica di questo e del precedente fr. 13 [80 DK; 28 Marc.], da me giudicato invece come un frammento autonomo, cfr. infra, n. 1 al fr. 14a.

2 oJmologevei è correzione della lezione oJmologevein (all’infinito) di Ippolito, mentre Diels corregge in oJmologei' e}n (ma sull’introduzione di e{n, congetturato pure da Mouraviev I, pp. 130-31, e III, p. 63, n. 3, prima di diaferovmenon, cfr. quanto detto nella nota precedente). Un discorso a parte va fatto per la citazione platonica che, come già ricordato, porta sumfevretai: secondo Kirk, pp. 204-05, Marcovich, pp. 85-86, e Diano-Serra, p. 127, questa lezione andrebbe preferita, perché oJmologevei, nella

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citazione di Ippolito, sarebbe un’eco di oJmologei'n del fr. 5 [50 DK; 26 Marc.], citato da Ippolito subito prima di questo; inoltre, argomenta ancora Marcovich, la citazione platonica sarebbe più vicina all’originale, mentre oJmologevei di Ippolito risulterebbe da «una qualche versione stoica del frammento» (presente anche in Plotino, Enneadi III 2 [47] 16.48). Personalmente, ritengo invece che il testo di Ippolito debba essere qui mantenuto (così pure Bollack-Wismann, p. 178, Kahn, p. 195, Conche, pp. 425-26, e Mouraviev III, p. 63, n. 4), perché l’alternativa oJmologevei/sumfevretai, due verbi entrambi presenti nei frammenti pervenutici di Eraclito senza particolari distinzioni di significato (cfr. il seguente fr. 14a [8 DK; 27d1-28b1 Marc.]), non pone particolare difficoltà: giudico anzi verosimile che Platone, proprio nella misura in cui non cita questo frammento nella sua totalità come Ippolito, ma operandone una selezione concettuale mirante a isolare la tesi eraclitea della concordanza degli opposti trasponendola nel contesto della sua disamina relativa al numero delle cose che sono (particolarmente nel passo del Sofista indicato nella nota precedente), tenda a sintetizzare questa tesi nell’affermazione di una vera e propria unificazione (sumfevretai) degli opposti, al fine di presentare Eraclito come un filosofo a un tempo pluralista (perché ammette una pluralità di cose che sono) e monista (perché riconduce all’unità le cose che sono), piuttosto che in quella della loro semplice concordanza (oJmologevei), che non permetterebbe di farne un monista vero e proprio; in tal caso, la deformazione ideologica introdotta da Platone con questa operazione esegetica lo porterebbe poi a riproporre lo stesso verbo sumfevretai anche nell’altra citazione del Simposio.

3 palivntonoı è lezione presente in alcune varianti della seconda parte del frammento che si trovano in Plutarco, De tranquillitate animi 473f (manoscritto D), De Iside et Osiride 369a-b (mentre in De animae pro-creatione in Timaeo 1026a si trova palivntropoı) e in Porfirio, De antro nympharum 29 (= 76.20 Nauck), mentre Ippolito porta palivntropoı. La divergenza nella tradizione è significativa: con Marcovich, pp. 86-89 (e Diano-Serra, pp. 136-37), scelgo palivntonoı, che mi pare epiteto più adatto e più tecnico per descrivere la tensione unificante «retrograda» propria dell’armonia dell’arco e della lira: si tratta della «tendenza delle due estremità di un arco teso ma inerte a convergere all’indietro rispetto alla linea retta. Grazie a questa duplice spinta all’indietro in opposte direzioni si può ottenere l’effettiva unità dell’attrezzo mediante la corda. La corda viene ad assumere in tal modo il ruolo di un principio più elevato, quello dell’unità o Logos (aJrmonivh), mentre non pare avere importanza la controtendenza o tensione, che essa sviluppa» (p. 88, con illustrazione grafica); mentre palivntropoı (più generalmente accolto: cfr. per esempio Bollack-Wismann, pp. 178-79, Kahn, pp. 195-96, Conche, pp. 426-28, e Mouraviev III, p. 63, n. 5) indicherebbe soltanto l’idea che l’armonia «ritorna su se stessa», nel senso meno perspicuo che essa deriva da una congiunzione degli opposti.

4 Coloro i quali «non comprendono» (ouj xunia'sin) sono evidentemen-te gli ajxuvnetoi dei frr. 1 [1 DK; 1 Marc.] e 2 [34 DK; 2 Marc.], che non colgono, pur avendolo ascoltato, il senso del «ragionamento» che spiega la natura di tutte le cose: ora, se ciò è vero, se ne arguisce che quanto

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viene detto in questo frammento costituisce appunto il contenuto di tale ragionamento, ossia l’illustrazione del sapere comune che pone in luce il principio che regola l’intera realtà, con le sue modalità operative (cfr. in questo senso supra, il fr. 12 [53 DK; 29 Marc.], specie n. 2). Va segnalato che, secondo Diano-Serra, pp. 14 e 16, 127 e 136, andrebbero distinti due frammenti diversi, perché non vi sarebbe «alcun legame formale» fra la prima e la seconda parte, cioè fra l’affermazione che «discordando, con se stesso concorda» e l’indicazione dell’«armonia causata da opposte tensioni». Credo invece, per parte mia, che vi siano sufficienti elementi per difendere, sul piano interpretativo, l’unità del frammento, trovando qui, come pure nei due frammenti seguenti, l’esplicitazione dei modi in cui «guerra» o «conflitto», vale a dire il principio originario e fondamentale dell’intera realtà stabilito nel fr. 12, si manifesta e produce ogni cosa: mentre il precedente fr. 13 [80 DK; 28 Marc.], cfr. n. 5, aveva precisato che tale principio opera secondo «giustizia» e «necessità», che a loro volta richiamano una forma di inviolabile equilibrio e alternanza, dal presente frammento si evince che tale forma di equilibrio e di alternanza consiste in, o si presenta come, una generale armonia, di straordinaria bellezza (come chiarisce il successivo fr. 14a [8 DK; 27d1-28b1 Marc.]) e non immediatamente evidente (come aggiunge il fr. 15 [54 DK; 9 Marc.]), sicché la conflittualità discordante (diaferovmenon), che mi pare innanzitutto quella del principio originario, «guerra» o «conflitto», converge verso uno stato di accordo (eJwutw '/ oJmologevei), che coincide infine con una condizione di armonia determinata dalla composizione unitaria di forze contrastanti, come quella dell’arco e della lira, che risulta dalla tensione di più termini che, pur in reciproca opposizione, convogliano la propria spinta in un’unica direzione (come indicato nella nota precedente, così intendo il senso dell’aggettivo palivntonoı). Ma come si esplica concretamente questo principio, la cui applicazione è certamente universale (come giustamente rilevato da Kirk, p. 205, e da Marcovich, p. 87)? Se ci si attiene alla lettura che ne offre Platone, tanto nel Simposio quanto nel Sofista (per la quale cfr. supra, nn. 1-2), l’armonia sembra rappresentare una condizione di effettivo sciogli-mento o cessazione di ogni contrasto, sicché la molteplicità delle cose esistenti fra loro contrapposte si rivela in ultima analisi solo parziale e apparente rispetto alla reale unità del tutto che risulta dalla sua armonia; a mio avviso, invece, permane una conflittualità reale che si pone fra le singole cose esistenti, che appunto esistono come tali in quanto si distinguono o si contrappongono reciprocamente, con la fondamentale precisazione, però, che tale distinzione o contrapposizione, dal punto di vista della totalità del reale, esprime un accordo universale che consta di una forma di armonia determinata non dall’identità dei suoi elementi componenti, ma dalla loro convergenza, che fa sì che, pur attraversati da diverse tensioni, essi concorrono a costituire un’unità. Se ne può dedurre perciò un progresso nell’esposizione di Eraclito, secondo cui dal principio originario, che si pone come una condizione di perenne instabilità elementare, di per sé, dunque, certamente «discordante», derivano tutte le cose, che sono aspetti successivi o configurazioni alterne dell’unico principio («dei» e «uomini», «liberi» e «schiavi», secondo il

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fr. 12) e sono perciò dominate anch’esse dalla stessa legge di perpetua e reciproca contrapposizione e discordia, che produce però, come esito complessivo, quello di una generale armonia del tutto, cioè di una com-piuta «ricomposizione» (questo è, infatti, il significato proprio del termine aJrmonivh, cfr. Kahn, p. 196, che lo accosta al principio empedocleo della filovthı o filiva, responsabile dell’unificazione di tutte le realtà esistenti) di tutte le cose apparentemente disparate, riportando così all’ordine e alla concordia di un quadro unitario e armonioso ciò che invece appare, se considerato esclusivamente rispetto ai suoi singoli componenti nei loro reciproci rapporti, contrastante e discorde. La forza primordiale che genera tutte le cose, o lo stato originario di assoluta instabilità da cui tutte le cose provengono, determina dunque, per chi sappia prendere in considerazione la totalità del reale, un’armonia generale, che sembra invece, pare lecito dedurne, brutale contrapposizione a chi si limiti a considerare le cose esistenti in modo parziale e da punti di vista solo particolari (cfr. ancora Kahn, pp. 198-99, Conche, pp. 428-29, e Robinson, p. 115; contra Bollack-Wismann, pp. 180-81, che vedono piuttosto, nel presente frammento, l’esaltazione della contraddizione insanabile che sussiste fra le cose che sono).

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to; ajntivxoun sumfevron kai; ejk tw'n diaferovntwn kallivsthn aJrmonivan.

Ciò che è opposto concorda2 e da ciò che discorda deriva una bellissima armonia.3

1 Queste parole sono riportate da Aristotele, Etica Nicomachea VIII 1, 1155b4, nel contesto di un esame delle posizioni dei filosofi prece-denti relativamente all’ammissione del principio secondo cui i simili si attraggono reciprocamente o del principio contrario secondo cui sono invece i dissimili ad attrarsi (per maggiori dettagli, cfr. la nota seguente). Aristotele riporta in effetti, in sequenza, tre brani eraclitei: «Eraclito dice che “ciò che è opposto concorda” e che “da ciò che discorda <deriva> una bellissima armonia” e che “tutte le cose avvengono secondo conflit-to”» (to; ajntivxoun sumfevron kai; ejk tw'n diaferovntwn kallivsthn aJrmonivan kai; pavnta kat je[rin givnesqai). Ora, secondo Marcovich, pp. 99-100 (ma cfr. anche Kirk, pp. 220-21, Kahn, p. 193, e Robinson, pp. 80-81), questa citazione non rappresenta che una variante, leggermente parafrasata, dei precedenti frr 13 [80 DK; 28 Marc.] e 14 [51 DK; 27 Marc.], perché

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Aristotele raccoglierebbe in sequenza, forse attingendo ai dialoghi pla-tonici o comunque agli stessi materiali disponibili a Platone (cfr. supra, nn. 1-2 al fr. 14), (1) la prima parte del fr. 14, che enuncia il principio della concordanza di ciò che discorda, aggiungendovi, in forma esplicita rispetto a Platone (ejk tw'n diaferovntwn), (2) la «bellissima armonia» che ne consegue, e (3) una conclusione che ricalca l’ultimo membro del fr. 13. Ritengo invece che i due kaiv con i quali Aristotele intercala la sua citazione potrebbero indicare che egli non sta parafrasando brani eraclitei (o platonici), ma citando direttamente, e appunto in sequenza, tre distinte proposizioni di Eraclito. Va inoltre osservato (1) che la prima parte della citazione aristotelica contiene una terminologia in parte diversa da quella che compare nel fr. 14, tanto nella versione che ne riporta Ippolito quanto in quella che ne riporta Platone: a fronte del sumfevron, che può dipendere da Platone (cfr. supra, n. 2 al fr. 14), è significativo che to; ajntivxoun, termine assai raro e attestato in Erodoto, in luogo di <to;> diaferovmenon, non si trovi in nessun altro brano appartenente ai materiali eraclitei pervenutici ed è a mio avviso possibile che questa differenza non sia neutrale dal punto di vista dell’interpretazione del frammento (cfr. infra, n. 3, e Diano-Serra, p. 134); (2) che la seconda parte di questa citazione, che associa la concordanza degli opposti a una forma di armonia, tralascia il riferimento, presente invece nel fr. 14, che qualifica in modo specifico il tipo di armonia in questione (quella, palivntonoı, dell’arco e della lira) che, per la sua peculiarità, sarebbe stato facile e immediato ricordare; (3) che nessun altro testimone indipendente associa le prime due parti della citazione alla terza, relativa a e[riı, al conflitto come regola o principio di tutte le cose (questa associazione si ritrova, ancora a opera di Aristotele, in Etica Eudemia VII 1, 1235a25). In base a queste considerazioni, mentre lascio da parte la conclusione della citazione aristotelica pavnta kat je[rin givnesqai, che semplicemente ripete la conclusione del fr. 13 e ne costituisce dunque una variante (conservata invece da Pradeau, pp. 227-28, e, pur con alcune precisa-zioni metodologiche, da Mouraviev I, pp. 33-34, e III, p. 16), mantengo i primi due membri di frase come possibilmente autentici (così pure Diano-Serra, pp. 16-17, e Conche, p. 401; mentre Bollack-Wismann, p. 79, ritengono soltanto il primo membro di frase).

2 Sulla scorta di alcuni traduttori di Aristotele, il participio sumfevron è talora reso con «vantaggioso» o «conveniente» («L’adverse, bénéfique» o «La contrariété est avantageuse», così Conche, pp. 401-02, e Pradeau, pp. 121 e 227-28; oppure, collocando anche ajntivxoun in un’analoga sfera semantica, «Le nuisible, salutaire», così Bollack-Wismann, p. 79), un signi-ficato che effettivamente appartiene al verbo sumfevrw e che consente ai commentatori citati di sottolineare, nelle parole di Eraclito, la valutazione positiva del «conflitto» che è alla base di tutte le cose (Conche, Pradeau) o la sua irriducibilità a qualunque ricomposizione unitaria (Bollack-Wismann); non condivido però questa scelta, soprattutto in ragione del contesto della citazione di Aristotele (cfr. la nota precedente), che evoca il nome di Eraclito a proposito del problema di capire se siano i simili oppure i dissimili ad attrarsi reciprocamente: Eraclito è citato fra coloro i quali sostengono che sono i dissimili ad attrarsi reciprocamente,

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il che mi pare espresso in modo più appropriato affermando non che «ciò che è opposto è conveniente» (oppure «le nuisible, salutaire», che potrebbe rappresentare al massimo un esempio di tale reciproca attrazione dei dissimili), ma appunto che «ciò che è opposto concorda», a indicare che termini fra loro opposti si ricompongono in un accordo unitario. Subito oltre, Aristotele cita Empedocle fra i sostenitori della tesi avversa, secondo cui sono invece i simili ad attrarsi reciprocamente (cfr. per esempio Empedocle, frr. 22.4-6, 62.6 e 90 DK).

3 Il presente frammento, se ripropone un concetto espresso già nel precedente fr. 14 [51 DK; 27 Marc.], introduce però una terminologia e una struttura significativamente diverse che testimoniano, a mio avviso, in favore della sua possibile autenticità (cfr. supra, n. 1). Eraclito potrebbe allora aver espresso la stessa idea fondamentale, cioè quella dell’armonia derivante dall’accordo di ciò che discorda o si oppone (per la quale cfr. supra, n. 4 al fr. 14), in termini parzialmente differenti e da punti di vista sottilmente distinti: mentre il diaferovmenon eJwutw '/ oJmolo-gevei del fr. 14, privo di soggetto esplicito, pare riferirsi alla condizione del principio originario, «guerra» o «conflitto», e alla totalità delle cose esistenti che da esso derivano, così descrivendo da un punto di vista, per così dire, «dinamico-produttivo» l’operatività del principio (che produce, proprio in virtù della sua natura «discordante», tutte le cose esistenti come parti diverse di un puzzle unico e «concordante»), il to; ajntivxoun sumfevron, con l’espressione di un soggetto singolare neutro, potrebbe invece alludere a ciascuna delle cose esistenti, singolarmente presa, che si oppone a un’altra, così descrivendo da un punto di vista «statico» l’esito complessivo dell’azione produttiva del principio originario (che consiste nella totalità «concordante» delle cose esistenti, che pure sono, di per sé, ciascuna opposta a un’altra). Ciò permetterebbe inoltre di spiegare perché la aJrmonivh del fr. 14 sia palivntonoı, in quanto consiste nel rapporto fra opposte tensioni (cfr. supra, nn. 3-4 al fr. 14) che emerge nella dinamica dell’azione produttiva del principio originario, cioè nello svolgimento della sua natura conflittuale, designandola come concorde e armonica; mentre la aJrmoniva di questo frammento è semplicemente kallivsth, in quanto consiste nella composizione appropriata delle cose discordanti (ejk tw 'n diaferovntwn), che risulta come esito complessivo dell’azione produttiva del principio originario, e la descrive staticamente rispetto alla compiutezza e completezza della sua struttura d’insieme.

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aJrmonivh ajfanh;ı fanerh'ı kreivttwn.

Armonia invisibile è migliore di quella visibile.2

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1 Questo frammento è riportato per due volte da Ippolito, Refutatio contra omnes haereses. (1) Una prima volta in IX 9.5 (= 242.10 Wen-dland), dopo i frr. 5 [50 DK; 26 Marc.], 14 [51 DK; 27 Marc.], 1 [1 DK; 1 Marc.] (citazione parziale), 97 [52 DK; 93 Marc.] e 12 [53 DK; 29 Marc.] e prima dei frr. 42 [55 DK; 5 Marc.] e 49 [56 DK; 21 Marc.], con queste parole: «Che il Padre di tutte le cose è invisibile, oscuro e inconoscibile per gli uomini, lo dice (scil., Eraclito) in quanto segue: ... (Ippolito cita qui il fr. 15)». Si veda, per il contesto argomentativo in cui si colloca questa fitta sequenza, supra, n. 1 al fr. 5. (2) Una seconda volta in IX 10.1 (= 242.22 Wendland), prima dei frr. 42 [55 DK; 5 Marc.], 50 [57 DK; 43 Marc.], 96 [58 DK; 46 Marc.], 18 [59 DK; 32 Marc.], 20 [60 DK; 33 Marc.], 31 [61 DK; 35 Marc.], 21 [62 DK; 47 Marc.] e 69 [63 DK; 73 Marc.], nel contesto di una polemica contro l’eresia monarchiana di Noeto di Smirne, che negava la pluralità delle persone divine riunite nell’unico Dio, e al fine di mostrare che anche Eraclito stabilisce, al di là della contrapposizione delle cose che sono, un’unità ultima e sostanziale (cfr. pure, in proposito, infra, n. 1 al fr. 28 [67 DK; 77 Marc.]): «Eraclito ripone la stessa considerazione e lo stesso valore nelle cose visibili e nelle cose invisibili, ritenendo si debba convenire che ciò che è visibile e ciò che è invisibile sono un’unica cosa. Dice infatti: ... (Ippolito cita qui di seguito i frr. 15 e 42), sicché non predilige le cose invisibili». Il frammento è riportato anche da Plutarco, De animae procreatione in Timaeo 1026c, che lo riferisce alla natura dell’anima, che non è mai pura e non mista, ma si configura sempre come una sorta di mescolanza nella quale «la divinità ha nascosto e immerso differenze e diversità».

2 Credo che il presente frammento non possa che essere letto in riferimento ai precedenti frr. 14 [51 DK; 27 Marc.], cfr. n. 4, e 14a [8 DK; 27d1-28b1 Marc.], cfr. n. 3, come suggerito da Marcovich, p. 27, e Diano-Serra, p. 137. L’armonia palivntonoı, del fr. 14, o kallivsth, del fr. 14a, è evidentemente «invisibile» o non manifesta, nella misura in cui richiede, per essere colta, di andare al di là dell’immediata e solo parziale considerazione delle cose esistenti nella loro individualità e nella specificità dei loro reciproci rapporti, per comprendere la natura e le modalità operative del principio originario e universale da cui tutte le cose esistenti derivano: così pure Pradeau, p. 220; anche Conche, pp. 430-32, che pure invita a evitare di parlare di «armonia visibile» e di «armonia invisibile», in favore di espressioni meno impegnative come «ajustement apparent» e «ajustement non apparent», ritiene tuttavia che la «composizione» manifesta corrisponda al legame più immediato, e banalmente riconosciuto dagli uomini, fra le cose che sono, mentre la «composizione» non manifesta, che è «migliore» o «più forte», nel senso di più stabile e autentica (kreivttwn), della precedente, rinvia senz’altro alla connessione fra i termini opposti. Naturalmente, è anche possibile individuare un significato più immediato del frammento, che consiste, come osservano Kahn, p. 203, e Robinson, pp. 118-19, nella constatazione che l’armonia musicale, che risiede nella visibile combinazione di certi toni musicali, è meno apprezzabile dell’armonia invisibile, ossia quella che appartiene alla realtà del tutto (una simile idea potrebbe allora richiamare la celebre tesi pitagorica secondo la

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quale l’armonia della natura si basa su rapporti numerici analoghi a quelli sottesi all’armonia musicale). Non condivido infine la tesi di Kirk, pp. 224-25, che fa coincidere l’«armonia invisibile» direttamente con il lovgoı eracliteo, inteso come la «sottostante unità degli opposti»; come ho avuto via via modo di argomentare in queste note, mi sem-bra piuttosto che l’armonia del tutto manifesti in effetti il contenuto espresso nel lovgoı, vale a dire la condizione che risulta come esito complessivo della concordanza d’insieme di tutte le cose esistenti, che pure sono, singolarmente considerate, fra loro discordanti.

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sullavyieı2 o{la3 kai;4 oujc o{la, sumferovmenon diaferovmenon, suna'/don dia'/don, kai; ejk pavntwn e}n kai; ejx eJno;ı pavnta.

Congiunzioni sono intero e non intero, concordante discor-dante, consonante dissonante,5 e da tutte le cose si produce un’unità e da un’unità tutte le cose.6

1 Questo frammento è riportato nel trattato pseudo-aristotelico De mundo 5 (= 396b20-22 Lorimer), nel contesto di un esame cosmologico che induce l’autore a sostenere che, se il tutto si compone di elementi contrari, occorre tuttavia ammettere che l’armonia del cosmo dipende da un unico principio divino: «Alcuni hanno sollevato una perplessità relativamente al fatto che il mondo, pur composto a partire da principi contrari, come secco e umido, freddo e caldo, non si sia tuttavia corrotto da tempo. (...) Ma forse la natura predilige i contrari ed è a partire da essi che produce l’accordo, e non a partire dai simili, come per esempio il maschio è attratto dalla femmina e non da un altro maschio; la natura ha dunque congiunto la concordia originaria attraverso i contrari e non attraverso i simili. Pare anche analogo il caso della tecnica, che imita la natura: la pittura mescola infatti colori bianchi e colori neri, gialli e rossi, per realizzare immagini che si accordano ai loro modelli; la musica mescola le note acute e gravi, lunghe e brevi, e produce un’unica armonia a partire da questi suoni differenti; la grammatica, mescolando vocali e consonanti, realizza con esse la propria competenza. Ed è precisamente quanto si trova nell’oscuro Eraclito: ... (l’autore cita qui il fr. 16). La stessa cosa si verifica per l’ordinamento del tutto, del cielo, della terra e della totalità del mondo, perché la mescolanza degli elementi in più forte opposizione è stata disposta in un’armonia unica: il secco mescolato all’umido, il caldo al freddo, il leggero al pesante, il dritto al curvo. Tutta la terra e il mare, l’etere, il sole, la luna e l’insieme

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del cielo sono stati ordinati da questa unica potenza che attraversa tutte le cose». Analogo contesto nella citazione del frammento da parte di Apuleio, De mundo 20 (= 156.19 Thomas), un’operetta che costituisce del resto una sorta di rifacimento parafrasato del trattato pseudo-aristotelico; per un esame esemplificativo dei problemi che si pongono per il testo delle citazioni eraclitee riportate dal De mundo, che, oltre che nel rifacimento di Apuleio, è trasmesso in alcune traduzioni siriache, latine e armene, cfr. infra, il fr. 83 [11 DK; 80 Marc.], nn. 1 e 3.

2 I manoscritti dei citatori e gli editori presentano qui un’ampia serie di varianti (cfr. Marcovich, p. 70, e Mouraviev I, p. 40, e III, p. 18, n. 1 e 5), comunque riconducibili a due alternative principali: sullavyieı, da me scelta (seguendo fra gli altri l’editore del De mundo, Lorimer, p. 76, e lo stesso Marcovich, p. 72), e sunavyieı, accolta per esempio in DK. I due termini, suvllayiı (in attico, suvllhyiı) e suvnayiı, hanno comun-que il significato pressoché identico di «congiunzione», «unione» o «collegamento». È possibile che l’autore del De mundo, o qualche sua fonte peripatetica, constatando che il termine suvllhyiı, in Aristotele, ha prevalentemente il senso di «concetto», inteso come «collegamento» o «congiunzione» intellettuale di percezioni sensibili, lo abbia corretto in suvnayiı, che avrebbe meglio espresso ai suoi occhi la tesi eraclitea del congiungimento degli opposti che produce un’armonia di carattere cosmologico (così ancora Marcovich, p. 72); si veda pure, in proposito, Kahn, pp. 281-82, che traduce il termine suvllayiı con «grasping», nel duplice senso fisico della «presa» o della «cattura» reciproca di tutti i termini opposti e cognitivo della loro «comprensione». Mouraviev I, pp. 39-40, e III, p. 18, n. 5, che predilige la forma in sun- sulla base del fatto che il sostantivo ionico suvllayiı non risulterebbe attestato, congettura sunavyei (al dativo) seguito dalla proposizione ejı (del resto già presente in Stobeo nella versione sullavyei ejı), che darebbe: «In congiunzione nell’intero e nel non intero ...», a mio avviso decisamente meno perspicuo.

3 La tradizione manoscritta e gli editori oscillano fra la versione stampata qui, o{la kai; oujc o{la, la variante dialettale ionica, equivalente per il significato, ou|la kai; oujc ou|la e l’improbabile alternativa, anch’essa paleograficamente equivalente, ou\la kai; oujk ou\la («... le cose che ruotano e che non ruotano...»). Da segnalare che Bollack-Wismann, p. 82, espun-gono il seguito della citazione come commento delle parole di Eraclito da parte dell’autore del De mundo, ma, mi sembra, senza fondamento.

4 Zeller ha proposto la soppressione di kai;, per analogia con le suc-cessive coppie di opposti che non sono legate da una congiunzione, ma non c’è fondamento, nella tradizione manoscritta, per questa modifica. Viceversa, e verosimilmente in ragione della stessa possibile analogia, alcuni codici riportano un kaiv rispettivamente dopo sumferovmenon e dopo suna'/don. Anche per la conclusione del frammento kai; ejk pavntwn e}n kai; ejx eJno;ı pavnta la tradizione si divide rispetto alla presenza dei due kaiv, che personalmente mantengo, a rafforzare la simmetria e la complementarità dell’affermazione dell’unità del tutto, ribadendo sia che «da tutte le cose si produce un’unità» sia che «da un’unità si producono tutte le cose».

5 Mentre la coppia o{la kai; oujc o{la pare riferirsi, piuttosto che alla contrapposizione fra ciò che è «continuo» e ciò che è «discontinuo»

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(così Kirk, p. 176), a quella fra gli «interi» e le «parti» (cfr. Marcovich, p. 74), che allude alla struttura di ogni cosa e del tutto, che può essere considerata rispetto alla semplicità dei suoi elementi componenti fra loro diversi e anche opposti oppure rispetto alla complessità del suo insieme che si configura come un intero ben armonizzato (e ciò spiega a mio avviso la presenza del plurale o{la), le due coppie sumferovmenon diaferovmenon e suna'/don dia'/don implicano a un tempo, e senza contrad-dizione, la contrapposizione fra ciò che è «unito», «concordante» e perciò «consonante» e ciò che è invece «diviso», «discordante» e perciò «dissonante» (letteralmente, i participi suna ' /don e dia ' /don alludono al «cantare insieme» e «separatamente»); cfr. l’ampia disamina in Kahn, pp. 282-85. Bollack-Wismann, p. 83, considerano invece la relazione fra i termini opposti, qui come altrove, non nella forma di un’alternanza (di un termine opposto rispetto all’altro) che dipende dal principio conflittuale da cui tutte le cose derivano o dal punto di vista di chi le esamina, ma come una piena coincidenza che «disintegra» l’identità nella negazione (sic), mentre sarebbe soltanto una «speculazione idealista» quella che difende, nella tesi eraclitea, la tendenza alla ricomposizione unitaria di tutte le cose, certo senza negarne l’opposizione reciproca («da tutte le cose un’unità e da un’unità tutte le cose», che non a caso Bollack-Wismann espungono come glossa dovuta al citatore, cfr. supra, n. 3).

6 Dopo aver stabilito che il principio originario di tutte le cose è «guerra» o «conflitto» (cfr. supra, i frr. 12 [53 DK; 29 Marc.] e 13 [80 DK; 28 Marc.]), che tale principio opera in base a determinate norme e leggi di equilibrio e di alternanza (cfr. supra, i frr. 13, 14 [51 DK; 27 Marc.] e 14a [8 DK; 27d1-28b1 Marc.]), sicché produce come suo esito una forma di assoluta armonia fra le cose che da esso derivano, un’armonia che recupera la loro reciproca e opposta tensione (cfr. ancora supra, i frr. 14, 14a e 15 [54 DK; 9 Marc.]), questo frammento introduce un’illustrazione, che sarà via via precisata con numerosi esempi nei frammenti seguenti, delle modalità attraverso cui si realizza concretamente tale armonia a partire dai termini opposti: «intero» e «non intero», «concordante» e «discordante», «consonante» e «dissonante», come tutti gli specifici casi di termini opposti che si possono evocare, di fatto concordano fra loro, implicandosi reciprocamente e perciò congiungendosi per realizzare un’unità che traduce una forma di identità sostanziale coincidente con il conflitto, un’identità instabile, quindi, che è appunto quella del principio originario. In altre parole, tutte le cose particolari fra loro opposte sono di fatto caratterizzate dall’armonia perché, provenendo da un unico principio originario, devono congiungersi le une con le altre andando a comporre la totalità del reale; infatti, se non si congiungessero, ma invece si escludessero reciprocamente, la totalità del reale sarebbe manchevole proprio di quelle cose che, essendo opposte ad altre, ne risulterebbero escluse: a ciascuna delle cose particolari tocca dunque, in virtù del prin-cipio conflittuale da cui deriva, di alternarsi nella vicenda del conflitto cosmico in ruoli e posizioni opposte, in modo che, però, ogni termine di tale opposizione non è che un volto temporaneo e parziale di una più fondamentale unità sottostante, ciascuno di essi risultando indispensabile, insieme con il suo opposto, per completare la totalità. Ecco perché la

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tesi dell’unità del tutto (già evocata, per esempio, supra, nel fr. 5 [50 DK; 26 Marc.], cfr. n. 6) è espressa qui, da un duplice punto di vista, come derivazione del tutto dall’unità e come ritorno del tutto all’unità, in quanto dipende un tempo dalla generazione di tutte le cose dall’unico principio originario («da un’unità tutte le cose») e dalla constatazione che tutte le cose non sussistono che nella forma di facce o aspetti diversi dell’unico principio cui appunto rinviano («da tutte le cose si produce un’unità»), componendo così un quadro unico e armonioso: non si tratta di un’interpretazione cosmogonica o ciclica del tutto, che alternativamente procederebbe dall’uno, generandosi, per corrompersi nuovamente in esso (così, invece, Kahn, pp. 285-86, che vede qui un riferimento ai cicli successivi determinati dalla generazione e dalla conflagrazione del cosmo, cfr. infra, fr. 29 [30 DK; 51 Marc.], soprattutto n. 4, e l’Introduzione, §§ 2.2 e 4.3), ma semplicemente del riconoscimento che unità (del principio) e molteplicità (delle cose esistenti) conservano una reciproca relazione, che fa emergere in ogni caso la verità e la realtà dell’unità (da cui tutte le cose traggono origine e a cui tutte le cose rinviano in virtù del loro congiungimento armonioso) a fronte della manifestazione immediata della molteplicità, che non costituisce che un livello derivato e secondario che solo la massa insipiente o i «dormienti» considerano autentico e reale in modo esclusivo (cfr. per esempio supra, i frr. 7 [2 DK; 23 Marc.] e 8 [89 DK; 24 Marc.]; l’Introduzione, § 4.2; e, su questa linea, Conche, pp. 435-36, e Pradeau, pp. 232-33). Non mi pare perciò sussistere una reale incompatibilità filosofica fra l’interpretazione proposta da Marcovich, pp. 72-75, secondo cui le coppie di opposti evocate qui («intero-non intero», «concordante-discordante», «consonante-dissonante») sarebbero esclusivamente esempi particolari fra tutte le possibili coppie di opposti, e quella difesa da Kirk, pp. 176-78, ma si veda anche Conche, pp. 434-35, secondo cui invece tali coppie di opposti sarebbero piuttosto descrizioni generali o propriamente «categoriali» di ogni possibile suvllayiı, sicché, si dovrebbe intendere, tutti gli opposti sono rispettivamente «interi» e «non interi», «concordanti» e «discordanti», «consonanti» e «dissonanti», facendo intervenire così esplicitamente un punto di vista soggettivo, con l’introduzione delle categorie intellettuali che permettono di catalogare ogni possibile forma di opposizione fra le cose esistenti; non vi è dubbio che, sul punto specifico, vi sia una divergenza fra queste due interpre-tazioni, ma mi sembra che entrambe colgano un aspetto effettivamente presente nel ragionamento di Eraclito (così pure Diano-Serra, pp. 126-27): infatti, per un verso, «intero» e «non intero», «concordante» e «discor-dante», «consonante» e «dissonante» sono davvero alcune delle coppie di opposti presenti in natura di cui Eraclito afferma la reale congiunzione, come vuole Marcovich, ma è altrettanto certo che esse permettono a un tempo di esprimere, come vuole Kirk, una valutazione d’insieme valida su un piano più generale, perché ogni singola cosa esistente e ogni coppia di opposti appaiono anche, a chi non riesca a seguire l’insegamento del lovgoı, come una molteplicità disparata, e perciò «non intera», «discor-dante» e «dissonante», mentre chi abbia appreso l’insegnamento del lovgoı riesce a coglierne l’unità armoniosa, e dunque l’«interezza», la «concordia» e la «consonanza» (cfr. ancora, supra, i frr. 7 e 8). Va infine

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segnalata l’interpretazione proposta da K.M.W. Shipton, Heraclitus fr. 10: A Musical Interpretation, in «Phronesis» 30 (1985), pp. 111-30, che intende l’unità eraclitea di tutte le cose in riferimento all’armonia musicale, che permette di produrre una melodia armoniosa a partire da toni discordanti e dissonanti, il che è in generale plausibile (cfr. pure Kahn, pp. 284-85), anche se forse, come osserva Pradeau, p. 233, troppo limitante come lettura esclusiva del presente frammento e della tesi eraclitea più in generale.

Fr. 17 [111 DK; 44 Marc.]1

nou'soı uJgieivhn2 ejpoivhsen hJdu; kai; ajgaqovn,3 limo;ı kovron, kavmatoı ajnavpausin.

La malattia rende piacevole e buona la salute, la fame la sazietà, la stanchezza il riposo.4

1 Questo frammento è riportato da Stobeo III 1.177 (= III 129 Hense), subito dopo il fr. 78 [110 DK; 71 Marc.] e prima dei frr. 70b [112 DK; 23f Marc.] e 6-6a [114-113 DK; 23-23d1 Marc.]. Kahn, pp. 58-59 e 181-82, ma altri commentatori precedenti hanno formulato un’ipotesi analoga, propone di leggere come un unico frammento la sequenza dei primi due citati da Stobeo (contra Marcovich, pp. 162 e 271-72, e Pradeau, p. 203): cfr. infra, n. 4; e la n. 1 al fr. 78.

2 uJgieivhn è lezione del manoscritto A di Stobeo, mentre il manoscrit-to Md ha uJgeivhn (di cui gli editori hanno suggerito alcune correzioni).

3 hJdu; kai; ajgaqovn è lezione unanime dei manoscritti, di cui alcuni editori hanno tuttavia messo in dubbio l’autenticità, suggerendo alcu-ne correzioni, a mio avviso non necessarie né opportune: <poqeinh;n> ejpoivhsen (Gomperz, «la malattia rende desiderabile la salute») oppure hJduv, kako;n ajgaqovn (Diels, Burnet, «la malattia rende piacevole la salute, il male il bene ...»).

4 L’aoristo gnomico ejpoivhsen conferisce al presente frammento il valore di un’enunciazione di principio, che, attraverso gli esempi delle coppie «malattia-salute», «fame-sazietà» e «stanchezza-riposo» e quelli evocati nei frammenti seguenti, ribadisce la complementarità dei termini opposti e la loro congiunzione, che contribuisce all’unità armoniosa del tutto, stabilita e illustrata nel precedente fr. 16 [10 DK; 25 Marc.], cfr. soprattutto n. 6: ogni termine rinvia al proprio opposto e in base a esso si definisce, in tal senso congiungendovisi, giacché tutti concorrono alternativamente a comporre la totalità delle cose che sono, se deve essere una totalità esaustiva, e tutti derivano dall’unico

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66 FR. 18 [59 DK; 32 MARC.]

principio originario, sicché la presenza di un certo termine impone, nella perenne vicenda del conflitto, l’introduzione del suo opposto, perché, se così non fosse, la totalità delle cose che sono non sarebbe davvero tale, ma risulterebbe manchevole di qualcosa. Per la correla-zione fra i contrari, sottolineata particolarmente da Kirk, pp. 123-31, Marcovich, pp. 161-62, e Pradeau, p. 203, si può rinviare al noto passo del Fedone platonico (60b), in cui Socrate rileva il rapporto di reciproca implicazione fra piacere e dolore; contra Bollack-Wismann, pp. 310-11, secondo i quali, invece, più che un rapporto di coimplicazione si trova nel presente frammento l’idea che solo i termini negativi («malattia», «fame», «stanchezza») rinviano ai rispettivi termini positivi («salute», «sazietà», «riposo»), mentre non è vero il contrario, sicché avremmo dapprima, con l’introduzione dei termini negativi, la negazione di una condizione di indifferenza, poi, con l’introduzione dei termini positivi, la negazione di una negazione, ancora una volta sottolineando così la «potenza» concettuale e linguistica della negazione e del negativo. Leggendo il frammento come un’unica sequenza con il fr. 78 [110 DK; 71 Marc.], che sostiene l’idea che non è conveniente, per gli uomini, ottenere tutto ciò che desiderano, Kahn, pp. 182-83, ne fornisce un’in-terpretazione fondamentalmente etica, secondo la quale proprio il fatto che i termini opposti si implicano a vicenda dimostra che è controprodu-cente ottenere ciò che si desidera, perché la soddisfazione dei desideri piacevoli comporta necessariamente la contemporanea realizzazione dei loro contrari. Il significato complessivo del frammento sarebbe allora che il desiderio come tale appartiene a una sfera irrazionale e radicalmente auto-contraddittoria, estranea alla reale conoscenza del tutto che rappresenta dal canto suo l’unico ambito coerente di appli-cazione delle capacità umane. Per quanto indubbiamente suggestiva, questa interpretazione mi pare tuttavia francamente forzata, se non altro perché il contesto filosofico più naturale nel quale collocare la tesi eraclitea della reciproca implicazione o correlazione degli opposti è certamente quello, delineato in questa Sezione 2, della riflessione sul contenuto del lovgoı come spiegazione della natura (ontologica e fisico-cosmologica) del tutto: così pure Conche, pp. 394-95, Robinson, p. 153, e Mouraviev III, p. 134, n. 2.

Fr. 18 [59 DK; 32 Marc.]1

gnafeivw/2 oJdo;ı eujqei'a kai; skolihv [...] miva ejstiv kai; hJ aujthv.

Il percorso dritto e curvo della macchina per la cardatura è unico e lo stesso.3

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FR. 18 [59 DK; 32 MARC.] 67

1 Questo frammento è riportato da Ippolito, Refutatio contra omnes haereses IX 10.4 (= 243.7 Wendland), dopo la sequenza dei frr. 15 [54 DK; 9 Marc.], 42 [55 DK; 5 Marc.], 50 [57 DK; 43 Marc.] e 96 [58 DK; 46 Marc.] e prima della sequenza dei frr. 20 [60 DK; 33 Marc.], 31 [61 DK; 35 Marc.], 21 [62 DK; 47 Marc.] e 69 [63 DK; 73 Marc.], nell’ambito di un’illustrazione della tesi eraclitea dell’unità dei termini opposti (per una breve descrizione del contesto argomentativo della citazione cfr. supra, n. 1 al fr. 15 [54 DK; 9 Marc.]), con queste parole: «Eraclito afferma così che né l’oscurità né la luce, né il male né il bene sono differenti, ma che sono un’unica e identica cosa (...). E dice che dritto e curvo sono iden-tici, affermando che ... (Ippolito cita qui il fr. 18); infatti, nella macchina per la cardatura, il movimento di rotazione dello strumento chiamato “chiocciola” è dritto e curvo, perché procede contemporaneamente in su e circolarmente» (Ippolito intercala la citazione eraclitea con il suo inciso esplicativo, che va naturalmente espunto: gnafeivw/ oJdo;ı eujqei'a kai; skolihv [hJ tou' ojrgavnou tou' kaloumevnou koclivou ejn tw'/ gnafeivw/ peristrofh; eujqei'a kai; skolihv: a[nw ga;r oJmou' kai; kuvklw/ perievrcetai] miva ejstiv kai; hJ aujthv). Da notare infine che alcuni, per ragioni puramente interpretative, espungono la conclusione della citazione, cioè il riferimento all’unità e all’identità del «percorso dritto e curvo della macchina per la carda-tura» (così Bollack-Wismann, pp. 202-03, Kahn, pp. 62-63, e Robinson, pp. 40-41 e 123; curiosamente, Pradeau, p. 221, stampa un testo greco privo delle parole finali della citazione, che però riporta in traduzione).

2 gnafeivw/ (da gnafei'on, che designa l’«officina» o la «macchina» per la cardatura) è correzione di Bernays, accolta da numerosi editori posteriori (fra gli altri DK, Diano-Serra, p. 18, e Conche, pp. 404-06), della lezione grafevwn di Ippolito, difesa per esempio da Kirk, pp. 97-103, Bollack-Wismann, p. 202, Robinson, pp. 40 e 122, e Mouraviev I, p. 148, e III, p. 68, nn. 1-2 (e, nelle meno probabili varianti gravfwn e grafeivw/, suggerite rispettivamente da Tannery e da Mullach), che darebbe una traduzione a mio avviso inappropriata, in quanto non del tutto perspicua: «Il percorso delle lettere (oppure: della macchina dei pittori, con Bollack-Wismann) è dritto e curvo, uno e lo stesso», e inoltre palesemente in contraddizione con la spiegazione che, delle parole di Eraclito, fornisce Ippolito nella sua citazione, che fa riferimento al procedimento della cardatura (cfr. la nota precedente, e l’esame critico condotto da Marcovich, p. 116; si noti che gnafeivw/, anche nell’inciso di Ippolito, è correzione di Bernays della lezione grafeivw/, ma in questo caso la correzione si impone evidentemente per il contesto ed è accolta da tutti gli editori). Marcovich, pp. 115-16 (seguito da Kahn, pp. 190-91, e Pradeau, p. 221), propone a sua volta la correzione gnavfwn (da gnavfoı, che designa il «rullo» o il «pettine» dei cardatori) che ha il merito di rendere ancor più esplicito il significato del frammento: «Il percorso dritto e curvo dei rulli del cardatore è uno e lo stesso», perché proprio questo sarebbe lo strumento «chiamato “chiocciola”» di cui Ippolito, nel suo inciso, illustra il funzionamento (cfr. ancora la nota precedente); mi pare tuttavia che il genitivo plurale faccia qui qualche difficoltà e che, di conseguenza, ci si possa attenere alla correzione di Bernays stampata sopra.

3 Mentre il significato letterale del frammento appare abbastanza

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chiaro, perché chiama in causa il procedimento della cardatura, messo in atto tramite uno strumento capace di muoversi in una traiettoria lineare e circolare a un tempo per tessere la trama del tessuto (si vedano in pro-posito le precisazioni di Kahn, pp. 190-91, e di Conche, pp. 405-06), è però altrettanto evidente che Eraclito allude di nuovo, con le sue parole, alla questione della correlazione e della reciproca implicazione dei termini opposti, già sollevata supra, nei frr. 16 [10 DK; 25 Marc.], cfr. n. 6, e 17 [111 DK; 44 Marc.], cfr. n. 4, e ripresa con nuovi esempi nei frammenti seguenti. «Il percorso dritto e curvo» è dunque «unico e lo stesso», come infra, nei frr. 19 [103 DK; 34 Marc.] e 20 [60 DK; 33 Marc.], «comune, in un cerchio, è l’inizio e la fine» e «unica e la stessa» è «la via che conduce in alto e quella che conduce in basso», perché «dritto» e «curvo», come «inizio» e «fine» (in un cerchio) e come «alto» e «basso», sono termini opposti che si implicano reciprocamente e si congiungono l’uno con l’altro, come spiegato nelle note appena citate (così pure Kahn, pp. 192-93, Diano-Serra, pp. 138-39, e Pradeau, p. 221). Secondo Marcovich, p. 115, si dovrebbe intendere qui una forma di unità assoluta degli opposti che «sono “uno”, in quanto manifestamente compresenti in un unico, identico oggetto»; personalmente, invece, non credo che l’unità degli opposti sia concepita, in questo e nei seguenti frammenti, in modo più radicale di quanto avviene nei frammenti precedenti, a meno che non si tenti, se questa è l’intenzione di Marcovich, di distinguere fra la «con-giunzione» degli opposti, che ne sancisce la correlazione o la reciproca implicazione (specie nei frr. 16 e 17), e la loro effettiva «identità», che verrebbe invece stabilita qui: ma una simile distinzione mi sembra fuori luogo, perché è piuttosto chiaro che «dritto» e «curvo», come «inizio» e «fine» e come «alto» e «basso», non sono termini fra loro identici, in modo da produrre un’unità indistinta, ma appunto opposti e tuttavia correlati o reciprocamente implicantisi, sicché la traiettoria dritta o curva dello strumento per la cardatura, come il punto iniziale e finale di una circonferenza o come infine il tracciato verso l’alto o verso il basso di una via, rimane la stessa, pur essendo caratterizzata da proprietà oppo-ste che, congiungendosi, ne realizzano armoniosamente la struttura e ne completano esaustivamente la descrizione. Non mi pare insomma, per eprimersi in altri termini, che Eraclito intenda negare la realtà dei termini opposti come tali, riducendoli così all’identità, né, d’altra parte, la possibilità della loro reciproca implicazione, escludendo perciò ogni forma di superiore ricomposizione (così Bollack-Wismann, p. 204); si tratta piuttosto di mostrare che la loro opposizione, considerata dal punto di vista più generale della totalità di ciò che è (cioè dal punto di vista del lovgoı), conduce a una condizione di armonia fondata su un’equilibrata combinazione dei termini opposti, che, appunto in quanto rimangono tali perché tutti provenienti dall’originario principio, che è «guerra» o «conflitto» (cfr. supra, i frr. 12 [53 DK; 29 Marc.] e 13 [80 DK; 28 Marc.]), sono spinti da opposte tensioni che si compongono però nell’armonia del tutto (cfr. supra, i frr. 14 [51 DK; 27 Marc.], 14a [8 DK; 27d1-28b1 Marc.] e 15 [54 DK; 9 Marc.]).

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Fr. 19 [103 DK; 34 Marc.]1

xuno;n2 ajrch; kai; pevraı ejpi; kuvklou [perifereivaı].3

Comune, in un cerchio, è l’inizio e la fine.4

1 Questo frammento è riportato da Porfirio, Quaestiones Homericae ad Iliadem XIV 200 (= 190.6 Schrader), nel corso di un commento a un passo dell’Iliade (appunto XIV 200) in cui vengono evocati i confini della terra, dove si trovano Oceano e Teti, che Porfirio glossa precisan-do che tali confini sono a un tempo principio e fine della terra stessa: «Quando vi sono due punti limite, l’uno è l’inizio, l’altro la fine (...). Ma nel caso dell’intera circonferenza di un cerchio, le cose non stanno così: infatti, quale che sia il punto preso in considerazione, esso è sia inizio sia fine; infatti, secondo Eraclito, ... (Porfirio cita qui il fr. 19)». Alcune interessanti reminiscenze del frammento, limitate per lo più all’afferma-zione della coincidenza fra inizio (ajrchv) e fine (pevraı o teleuthv), e più raramente associate all’analogia con il cerchio, si trovano negli scritti ippocratici: cfr. De locis in homine 1 (= VI 276 Littré); De oss. natura 11 (= IX 182 Littré); De victu I 19 (= DK I 187.23); De nutrimento 9 (= IX 102 Littré); si vedano inoltre i Problemata pseudo-aristotelici 17.3, 916a37, e, per una breve disamina, Marcovich, pp. 123-25.

2 Il gavr presente in questo punto in Porfirio mi pare, nonostante Mouraviev I, p. 258, III, p. 123, n. 1, parte del contesto della citazione e non di quest’ultima.

3 Per l’ultima parte del frammento seguo Marcovich, pp. 123-24 (ma cfr. già Kirk, p. 113), che stampa ejpi; kuvklou [perifereivaı], espungendo perciò, come aggiunta porfiriana, la precisazione relativa alla «circonfe-renza del cerchio» (mantenuta invece da DK, Bollack-Wismann, p. 293, Diano-Serra, pp. 18-19, che la stampano ma non la traducono, Conche, pp. 411-12, e Mouraviev I, p. 258, e III, p. 123, nn. 1-2). Pradeau, p. 223, espunge l’intera conclusione, ma, a mio avviso, senza fondate ragioni; mentre la citazione è considerata nel suo insieme come una semplice parafrasi da Kahn, pp. 74-75 e 236.

4 Il punto di inizio di una linea o di una figura (anche circolare) e quello che ne costituisce la fine coincidono non come tali, cioè in quanto «inizio» e «fine», perché, anzi, sono e restano, in questa otti-ca, due punti che adempiono a una funzione distinta e opposta nel tracciato di una linea o di una figura (anche circolare), ma a seconda della prospettiva che si assume: ogni punto di per sé si distingue da, o perfino si oppone a, un altro diverso, ma, rispetto alla figura che essi compongono, concorrono tutti alla configurazione e alla disposizione dell’insieme, combinandosi e congiungendosi appropriatamente, fino a risultare, nel caso evocato del cerchio, come interscambiabili, ossia come aspetti alternativi di una stessa totalità, definibili l’uno rispetto

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70 FR. 20 [60 DK; 33 MARC.]

all’altro, e nella loro combinazione reciproca, in base al punto di vista dell’osservatore: così Conche, p. 412, e Robinson, p. 149. Come rileva Kahn, pp. 235-36, l’esempio potrebbe avere diversi ambiti di applicazione, vale a dire in ogni contesto in cui prevalga una scansione ciclica, che si tratti dell’alternanza delle stagioni, della trasformazione successiva degli elementi fisici o della generazione delle cose che sono. Rinvio perciò ancora, per questa interpretazione della tesi eraclitea dell’unità degli opposti, come loro congiunzione o correlazione di cui il presente frammento fornisce una nuova esemplificazione, alla n. 6 al fr. 16 [10 DK; 25 Marc.], alla n. 4 al fr. 17 [111 DK; 44 Marc.] e alla n. 3 al fr. 18 [59 DK; 32 Marc.].

Fr. 20 [60 DK; 33 Marc.]1

oJdo;ı a[nw kavtw miva kai; wJuthv.

La via che conduce in alto e quella che conduce in basso è unica e la stessa.2

1 Questo frammento è riportato da Ippolito, Refutatio contra omnes haereses IX 10.4 (= 243.11 Wendland), dopo la sequenza dei frr. 15 [54 DK; 9 Marc.], 42 [55 DK; 5 Marc.], 50 [57 DK; 43 Marc.], 96 [58 DK; 46 Marc.] e 18 [59 DK; 32 Marc.] e prima della sequenza dei frr. 31 [61 DK; 35 Marc.], 21 [62 DK; 47 Marc.] e 69 [63 DK; 73 Marc.], per fornire un’ulteriore illustrazione della tesi eraclitea dell’unità dei termini opposti (cfr. già supra, n. 1 al fr. 15 [54 DK; 9 Marc.]), con queste parole: «E l’alto e il basso sono una sola cosa e la stessa: ... (Ippolito cita qui il fr. 20)». Fra le numerose reminiscenze o allusioni a questo frammento (per le quali cfr. Marcovich, pp. 117-21), occorre ricordare almeno, per la loro rilevanza esegetica, quella di Diogene Laerzio, Vitae philosophorum IX 8-9, probabilmente dipendente da Teofrasto: «... il cambiamento è una via che conduce in alto e una che conduce in basso, e il mondo si genera in base a esso. Il fuoco, condensandosi, diviene infatti liquido e si trasforma in acqua, l’acqua si solidifica e diviene terra: questa è la via che conduce in basso. In senso inverso, la terra si liquefà e si trasforma in acqua e dall’acqua proviene tutto il resto, poiché Eraclito riconduce quasi tutto all’esalazione del mare: questa è la via che conduce in alto»; e quella di Plotino, Enneadi IV 8 [6] 1.11, che evoca Eraclito, citando-ne o parafrasandone le parole, in relazione al problema della discesa dell’anima dall’intellegibile nella realtà materiale dei corpi: «Eraclito, che ci impone di esaminare tale questione, ponendo dei necessari scambi fra i termini contrari (cfr. infra, il fr. 33 [90 DK; 54 Marc.]) o parlando

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FR. 20 [60 DK; 33 MARC.] 71

di una via che conduce in alto e di una che conduce in basso e dicendo che, “mutando condizione, permane: è penoso operare alle stesse con-dizioni ed esservi sottoposti” (= fr. 27 [84ab DK; 56ab Marc.], cfr. n. 1), ci ha lasciati nel dubbio, non avendoci chiarito il senso del suo discorso, forse perché bisogna che ciascuno indaghi se stesso, come lui stesso ha indagato e trovato (cfr. infra, il fr. 70 [101 DK; 15 Marc.])». In un analogo contesto teorico-interpretativo fisico-cosmologico (per il quale cfr. la nota seguente), si collocano i numerosi riferimenti da parte dei filosofi stoici, fra i quali ricordo per esempio Cicerone, De natura deorum II 84; Filone Alessandrino, De aeternitate mundi 109 (= VI 106 Cohn); Epitteto, fr. 8 (= 460 Schenkl = Musonio Rufo, fr. 42 Hense); Massimo di Tiro 41.4i; e Marco Aurelio VI 17 e IX 28.1.

2 Intendo il presente frammento, in linea con i precedenti frr. 17 [111 DK; 44 Marc.], cfr. n. 4, 18 [59 DK; 32 Marc.], cfr. n. 3, e 19 [103 DK; 34 Marc.], cfr. n. 4, come una nuova illustrazione della tesi eraclitea dell’unità degli opposti (per la cui formulazione più generale, cfr. supra, n. 6 al fr. 16 [10 DK; 25 Marc.]): un percorso in salita e un percorso in discesa, per quanto condividano il medesimo tracciato, non sono fra loro identici, ma appunto opposti (per esempio per chi li percorra esclusivamente in un senso o nell’altro), pur convergendo o congiungendosi a costi-tuire una descrizione completa dell’unica via (per chi sappia valutare, indipendentemente dal senso in cui la percorre, la natura propria della via in questione); analogamente, nella totalità del reale, tutti i termini di per sé opposti, se considerati rispetto alla loro specificità di realtà particolari, manifestano nel loro insieme, dal punto di vista del lovgoı che esprime l’unico sapere che fa emergere l’unico principio del tutto, la completezza armoniosa ed esaustiva che essi vanno a comporre. Questa mi pare la lettura più immediata del frammento (così pure Kirk, pp. 109 e 111, Marcovich, p. 121, Conche, p. 409, e Robinson, p. 123), sia per il contesto della citazione di Ippolito, che non appare soggetto a dubbi (cfr. la nota precedente), sia per la presenza dell’espressione miva kai; wJuthv, già utilizzata in riferimento all’unità degli opposti supra, nel fr. 18, e che riecheggia plausibilmente lo xunovn del fr. 19. Invece, come illustrato nella nota precedente, la questione in relazione alla quale Diogene Laerzio e i citatori stoici evocati richiamano le parole di Eraclito, di carattere eminentemente fisico-cosmologico (anche Plo-tino, che vi fa riferimento rispetto al problema della discesa dell’anima dall’intellegibile nel corpo, che di fatto percorre un cammino «verso il basso», appunto entrando nei corpi, pur restando in certa misura sempre presente nell’intellegibile, così rimanendo in cammino «verso l’alto», colloca la citazione eraclitea in un contesto onto-cosmologico), suggerisce una lettura «cosmica» del frammento, con l’indicazione dei percorsi alternativi di trasformazione di tutti gli elementi, che sono fra loro opposti e contrari e conducono rispettivamente dalla generazione alla corruzione di tutte le cose e, viceversa, dalla loro corruzione a una nuova generazione, che questa riguardi il cosmo nella sua totalità, perciò alludendo a una sorta di cosmogonia ciclica, oppure, specificamente, la mutazione reciproca degli elementi fondamentali, per esempio del fuoco in acqua e dell’acqua in terra e poi, di nuovo, della terra in acqua

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72 FR. 21 [62 DK; 47 MARC.]

e dell’acqua in fuoco (così interpreta, per esempio, Kahn, p. 240; contra, con ampia disamina critica, Marcovich, pp. 121-23).

Fr. 21 [62 DK; 47 Marc.]1

ajqavnatoi qnhtoiv, qnhtoi; ajqavnatoi: zw'nteı to;n ejkeivnwn qavnaton, to;n de; ejkeivnwn bivon teqnew'teı.

Immortali mortali, mortali immortali: la vita dei primi è la morte dei secondi, la vita dei secondi è la morte dei primi.2

1 Questo frammento è riportato da Ippolito, Refutatio contra omnes haereses IX 10.6 (= 243.16 Wendland), dopo la sequenza dei frr. 15 [54 DK; 9 Marc.], 42 [55 DK; 5 Marc.], 50 [57 DK; 43 Marc.], 96 [58 DK; 46 Marc.], 18 [59 DK; 32 Marc.], 20 [60 DK; 33 Marc.] e 31 [61 DK; 35 Marc.] e prima del fr. 69 [63 DK; 73 Marc.], ancora nel contesto dell’il-lustrazione della tesi eraclitea dell’unità dei termini opposti (cfr. già supra, n. 1 al fr. 15 [54 DK; 9 Marc.]), con queste parole: «Secondo la sua dottrina, Eraclito dice pure che l’immortale è mortale e il mortale immortale, in questi termini: ... (Ippolito cita qui il fr. 21)». Numerose allusioni al frammento si trovano in ambienti stoici o influenzati dallo stoicismo, come del resto è verosimilmente il caso dello stesso cristiano Ippolito: cfr. per esempio Eraclito Omerico, Quaestiones homericae 24.3, Massimo di Tiro 4.4h e 41.4i, e Clemente Alessandrino, Paedago-gus III 1.5 (= I 236.24 Stählin), che identificano immediatamente gli «immortali» e i «mortali» evocati da Eraclito con gli dei, o con la sfera del divino in generale, e con gli uomini, o con la sfera dell’umano in generale; e in ambienti piuttosto platonizzanti o pitagorizzanti: cfr. per esempio Filone Alessandrino, Legum allegoriae I 107 (= I 89 Cohn), Numenio, fr. 30 des Places (= Porfirio, De antro nympharum 10, 63.19 Nauck) e Ierocle Platonico, In Carmen aureum 24 Mullach (= Fragmenta philosophorum graecorum I 470ab), che intendono invece il frammento nell’ottica di una contrapposizione fra la vita immortale dell’anima e la vita mortale del corpo.

2 Tentando di fare astrazione dalle interpretazioni posteriori (cfr. la nota precedente; e Pradeau, p. 222), intendo il presente frammento come una nuova testimonianza relativa alla tesi della complementarità dei termini opposti (cfr. supra, il fr. 16 [10 DK; 25 Marc.], specie n. 6), che ne determina l’unità (già evocata attraverso numerosi esempi supra, nei frr. 17 [111 DK; 44 Marc.], 18 [59 DK; 32 Marc.], 19 [103 DK; 34 Marc.] e 20 [60 DK; 33 Marc.]), con il riferimento alle coppie di opposti «immor-

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FR. 21 [62 DK; 47 MARC.] 73

tali-mortali» e «vita-morte», che si congiungono a costituire un’unità armoniosa, come facce o aspetti distinti della stessa vicenda cosmica del conflitto. Mentre i frammenti precedenti, però, trattavano i termini opposti nella loro reciproca implicazione o correlazione (come nel caso delle coppie «malattia-salute», «fame-sazietà» e «stanchezza-riposo», nel fr. 17) e/o rispetto a un terzo termine cui ineriscono (come nel caso delle coppie «dritto» e «curvo» in un percorso, «inizio» e «fine» in una circonferenza e «alto» e «basso» nel tracciato di una via, nei frr. 18, 19 e 20), questo frammento pone l’accento su ciascuno dei termini opposti singolarmente considerato, cioè sottolineando la funzione e il significa-to alternativamente opposti che ciascuno di essi assume in relazione ai termini di un’altra coppia di opposti (il termine «vita», che ha opposti significati a seconda che sia riferito ai mortali o agli immortali, la vita degli uni essendo morte degli altri; il termine «morte», che ha a sua volta opposti significati a seconda che sia riferito ai mortali o agli immortali, la morte degli uni essendo vita degli altri): cfr. pure l’Intro-duzione, § 4.2. Così interpretato, il frammento conserva una rigorosa simmetria fra le sue parti e fra i membri che lo compongono (ben mes-sa in luce, dal punto di vista stilistico e metrico, da Mouraviev II, pp. 93-94): 1.

1-2 immortali-mortali/mortali-immortali, per cui a-b = b-a; 2. la

vita dei primi (rispettivamente, in 1.1 e in 1.

2, degli immortali e dei

mortali) è la morte dei secondi (rispettivamente, in 1.1 e in 1.

2, dei mor-

tali e degli immortali), per cui c (a-b) = d (b-a); 3. la vita dei secondi (rispettivamente, in 1.

1 e in 1.

2, dei mortali e degli immortali) è la mor-

te dei primi (rispettivamente, in 1.1 e in 1.

2, degli immortali e dei mor-

tali), per cui c (b-a) = d (a-b); se ne deduce che la vita, rispettivamente, degli immortali e dei mortali è morte, rispettivamente, per i mortali e per gli immortali, come, analogamente, la morte, rispettivamente, degli immortali e dei mortali, è vita, rispettivamente, per i mortali e per gli immortali: ciò è possibile nella misura in cui (1) la vita degli immortali, che è per definizione una forma di vita eterna che non conosce nascita e morte, si rivela invece come una forma di morte per i mortali, che appunto non hanno accesso all’eternità degli immortali e sono dunque come «morti» rispetto a essa, mentre (2) la vita dei mortali, che è solo temporanea perché limitata da nascita e morte, si configura come una condizione di morte per gli immortali, che appunto, partecipando della vita eterna, rimangono estranei alla vita mortale e come «morti» rispet-to a essa; simmetricamente, (3) la morte degli immortali, da intendere precisamente ed esclusivamente come estraneità alla vita mortale, è la condizione ordinaria di vita per i mortali, in quanto essi vivono una vita mortale, mentre (4) la morte dei mortali, che consiste nell’impossibilità di accedere alla vita immortale, è la condizione ordinaria di vita per gli immortali, che invece vivono una vita eterna. In questa misura, nell’eco-nomia del tutto e dal punto di vista della totalità derivante dall’unico principio originario, i termini «vita» e «morte» si oppongono fra loro, manifestando inoltre tale opposizione ciascuno al proprio interno e come «scambiandosi di ruolo» (cfr. infra, il fr. 22 [88 DK; 41 Marc.], specie n. 6), e a un tempo si congiungono, componendosi in un’unità. Traduco quindi i participi zw'nteı e teqnew'teı (il primo al presente, in

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quanto allude alla continuità e alla durata della vita, il secondo al per-fetto, in quanto evoca la condizione puntuale e «conclusa» della morte) con l’indicazione di uno stato o di una disposizione («vita» e «morte», così anche Diano-Serra, p. 128), piuttosto che nella loro resa letterale, a mio avviso meno perspicua: «... i primi vivendo la morte dei secondi e morendo [oppure: essendo morti rispetto alla] la loro vita». Pertanto, se concordo con l’identificazione più ovvia e immediata degli «immor-tali» e dei «mortali» con gli dei e gli uomini (ma non invece, come suggeriscono Marcovich, p. 171, e Robinson, p. 124, con gli «eroi» mor-ti sul campo di battaglia, e così divenuti immortali, in opposizione ai sopravvissuti, che rimangono invece viventi mortali), giudico tuttavia questa coppia di soggetti come puramente esemplificativa dello stato o della condizione di immortalità o di mortalità che caratterizza la tota-lità delle cose che sono, a seconda della prospettiva in cui sono collo-cate: si può verosimilmente ritenere, per esempio, che, dal punto di vista degli elementi che compongono tutte le cose, la loro eterna sussistenza rappresenti invece, per le cose che temporaneamente compongono, una condizione di assenza o di «morte» (quando gli elementi fondamentali del tutto si trovano nel loro stato elementare, le cose che di essi sono composte non sussistono e sono dunque «morte»), mentre la loro tem-poranea composizione a costituire le cose esistenti rappresenta plausi-bilmente, per la loro natura specifica di singoli elementi distinti, una condizione di negazione e di «morte» (quando gli elementi fondamen-tali del tutto si trovano uniti a comporre le cose esistenti, essi non sus-sistono più, singolarmente, come specifici elementi e sono dunque come «morti»): questa interpretazione fisica o fisiologica del frammento, a mio avviso possibile purché non intesa in modo esclusivo, è difesa per esempio da Bollack-Wismann, pp. 210-11, e da Kahn, pp. 218-20, che ne esaminano dettagliatamente le conseguenze. La maggior parte dei commentatori tende invece a leggere il frammento di fatto rompendo-ne la simmetria, cioè attribuendo alla sua seconda parte due soggetti distinti e reciprocamente esclusivi, ciascuno per ogni membro di frase: sarebbero allora soltanto gli immortali a «vivere la morte» dei mortali (e non anche i mortali a «vivere la morte» degli immortali) e, simme-tricamente, sarebbero soltanto i mortali a «morire la (oppure: a essere morti rispetto alla) vita» degli immortali (e non anche gli immortali a «morire la [oppure: a essere morti rispetto alla] vita» dei mortali), e ciò, manifestamente, perché risulterebbe impossibile ammettere una «mor-te» per gli immortali (così, per esempio, Diano-Serra, p. 129, soprattut-to sulla base di un parallelo in Pindaro, Nemee 6.1 sgg., e Conche, pp. 370-71), anche se, nel senso da me appena indicato, la «morte», per gli immortali, consiste semplicemente nell’estraneità a quella forma limi-tata e temporanea di vita che appartiene ai mortali. Posizione diversa assume infine Marcovich, pp. 170-71, che attribuisce un unico soggetto ai due membri di frase della seconda parte del frammento: sarebbero allora gli immortali, intesi come gli dei (o meglio, secondo Marcovich, come gli «eroi» morti in battaglia), a «vivere la morte» dei mortali, appunto perché, immortali, le sopravvivono, ed eventualmente a «mori-re la (oppure: a essere morti rispetto alla) vita» dei mortali (dando però

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al participio teqnew'teı una sfumatura di potenzialità: «i primi vivono la morte dei secondi e morirebbero la loro vita»), perché, se gli immortali vivessero soltanto una vita mortale, sarebbe per loro come una forma di «morte» (oppure, più sottilmente, perché, se anche i mortali, cioè gli uomini o i sopravvissuti in battaglia, vivessero una vita immortale, sareb-bero allora gli immortali, gli dei o gli «eroi» morti in battaglia, ad abdi-care alla condizione di immortalità in nome dell’equilibrio cosmico): questa interpretazione, che è in parte difesa anche da Robinson, pp. 124-25, mi pare tuttavia, per quanto ingegnosa, francamente improbabile.

Fr. 22 [88 DK; 41 Marc.]1

taujtov2 t je[ni3 zw'n kai; teqnhko;ı kai; [to;] ejgrhgoro;ı kai; [to;] kaqeu'don4 kai; nevon kai; ghraiovn: tavde ga;r metapesovnta ejkei'nav ejsti kajkei'na pavlin metapesovnta tau'ta.5

Come una stessa cosa sussistono il vivo e il morto, lo sveglio e il dormiente, il giovane e il vecchio, giacché questi, scam-biandosi di ruolo, sono quelli, e quelli, di nuovo scambiandosi di ruolo, sono questi.6

1 Questo frammento è riportato nello scritto pseudo-plutarcheo Con-solatio ad Apollonium 106d-f, a sostegno della sua argomentazione che mira a mostrare che non bisogna disperarsi per la propria morte, perché si tratta di un evento necessario: «Quando, infatti, la morte non è in noi (ejn hJmi 'n)? E, dice Eraclito, ... (l’autore cita qui il fr. 22). Come infatti, dalla stessa argilla, si possono fabbricare dei viventi e poi distruggerli, e di nuovo fabbricarli e distruggerli, e così via senza sosta, così anche la natura ha fatto sorgere, con la stessa materia, i nostri antenati, poi li ha distrutti, producendo i nostri genitori, poi noi stessi, poi altri e altri ancora in un ciclo. Il fiume della generazione, che scorre senza fine, mai si fermerà, e ugualmente il suo contrario, il fiume della distruzione, che i poeti chiamano Acheronte o Cocito».

2 A. Maddalena, Sulla cosmologia ionica da Talete a Eraclito, CEDAM, Padova 1940, p. 220, n. 3, ha congetturato qui <e}n> taujtov, evidentemente per rafforzare l’idea dell’unità degli opposti (come supra, nei frr. 18 [59 DK; 32 Marc.] e 20 [60 DK; 33 Marc.], in cui compare, appunto in riferimento ai termini opposti, l’espressione miva kai; wJuthv), il che è possibile, ma non necessario.

3 t je[ni è lezione dei manoscritti FP, accolta per esempio da DK, Kirk, p.

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135, e da Marcovich, p. 156, rispetto a g je[ni del resto della tradizione mano-scritta. Altri (Wilamowitz, Gigon, Snell, Walzer) hanno corretto in [gevnei], espungendolo però come glossa del citatore («La stessa cosa [per genere] sono il vivo e il morto ...»); meno incisive correzioni propongono Reinhardt (ge dh;: «La stessa cosa, appunto, sono il vivo e il morto ...»), Schleiermacher e Bywater (rispettivamente taujtov t jejsti; e tau[t jei\nai: «La stessa cosa sono il vivo e il morto ...»), Bernays (taujtw/' t je[ni: «Nella stessa cosa sono il vivo e il morto ...») e Zeller (taujto; to;: «La stessa cosa il vivo e il morto ...»). Mou-raviev I, pp. 225-26, e III, p. 111, n. 1, propone invece g<e> eJni;, traducendo di conseguenza: «Même chose sont pour Un le vivant et le mort... ».

4 La seconda coppia di opposti evocata da Eraclito, ejgrhgoro;ı kai; kaqeu'don, è introdotta in alcuni manoscritti dall’articolo tov (to; ejgrhgoro;ı, garantito da tutti i manoscritti, e to; kaqeu'don, solo da alcuni: non si tratta perciò, come afferma Pradeau, p. 229, di una congettura di Marcovich). Credo in primo luogo che i due to; debbano necessariamente essere mantenuti o espunti entrambi, per ovvie ragioni di simmetria; ora, nonostante la tradizio-ne manoscritta farebbe propendere per il mantenimento dell’articolo (così, per esempio, Kirk, p. 135, Bollack-Wismann, p. 259, Marcovich, pp. 155-56, Conche, p. 372, e Robinson, p. 52), preferisco espungerlo, perché avremmo altrimenti un’unica coppia di opposti, fra le tre evocate da Eraclito, introdotta dall’articolo (cfr. su questo punto Diano-Serra, pp. 130-31). Mouraviev III, pp. 225-26, e III, p. 111, n. 2, ritiene che il primo tov nasconda una ripetizione del dimostrativo taujtov: «... même chose l’éveillé – l’endormi ...».

5 La conclusione del frammento, da tavde a tau'ta, è espunta da alcuni editori (Schleiermacher, Wilamowitz; cfr. Diano-Serra, pp. 131-32) come un’aggiunta, forse non del citatore stesso, ma di un’altra fonte più anti-ca, anche se, come rileva per esempio Kirk, pp. 139 sgg., essa sembra restituire contenuti autenticamente eraclitei (cfr. la nota seguente); pur mantenendola, la mia scelta rimane tuttavia dubitativa, soprattutto in base alla considerazione, fatta valere da molti commentatori, che la sequenza logica dell’argomento, fondata su gavr che stabilisce una con-nessione fra l’affermazione iniziale della coincidenza di alcune coppie di opposti e la spiegazione di tale coincidenza, appare un unicum nei materiali eraclitei ed è assai rara nella letteratura arcaica in generale. Secondo Kirk, p. 139, e Marcovich, p. 155, invece, va espunto, come non eracliteo, il solo avverbio pavlin.

6 La preposizione e[ni (da ejn) ha evidentemente, in questo caso, un valore avverbiale e indica la presenza o la sussistenza di qualcosa «in» o «dentro» qualcos’altro: considerando il verbo «essere» sottinteso, intendo perciò che «il vivo e il morto (come lo sveglio e il dormiente o il giovane e il vecchio)» vi sono o si danno «come una stessa cosa», nel senso che sono termini opposti che sussistono o si pongono nella realtà come un’unità. Hanno perciò ragione Kirk, pp. 137-38, e Marcovich, p. 156, a sottolineare questa resa, forse esplicitata eccessivamente, ricorrendo alla spiegazione del citatore nell’introdurre le parole di Eraclito, come ejn hJmi'n (cfr. supra, n. 1): «Come una stessa cosa sussistono in noi il vivo e il morto ...», mentre manca, nel frammento, l’indicazione del luogo figurato in cui si manife-stano i termini opposti, il che mi fa propendere per una traduzione più generale come quella proposta (nonostante Kirk, p. 142, ricordi che e[ni

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richiede normalmente un soggetto di inerenza preciso). Nella seconda parte del frammento, è cruciale il verbo metapivptw (sul cui significato e impiego, cfr. Kirk, pp. 146-47 e 329), perché illustra le modalità concrete di questa nuova esemplificazione della tesi dell’unità dei termini opposti, che, «capovolgendosi» o, appunto, scambiando reciprocamente la propria posizione o il proprio ruolo, di fatto si congiungono nella totalità che vanno alternativamente a comporre, secondo un meccanismo teorico già ampiamente esaminato supra, n. 6 al fr. 16 [10 DK; 25 Marc.], n. 4 al fr. 17 [111 DK; 44 Marc.], n. 3 al fr. 18 [59 DK; 32 Marc.], n. 3 al fr. 19 [103 DK; 34 Marc.], n. 2 al fr. 20 [60 DK; 33 Marc.] e n. 2 al fr. 21 [62 DK; 47 Marc.]. Con sfumature diverse, questa interpretazione è condivisa da Kirk, pp. 142 e 145-48, Marcovich, p. 157, Diano-Serra, p. 132, Conche, pp. 373-76, e Pradeau, p. 229; contra Bollack-Wismann, pp. 260-61, che sottolineano piuttosto la catena inarrestabile delle negazioni dei termini opposti, che mai giungerebbero a coincidenza. Kahn, pp. 221-27, seguito da Robinson, p. 137, pur esprimendosi anch’egli in favore di questa lettura, ne opera tuttavia una significativa restrizione all’ambito psichico o psico-fisiologico, attribuendo a Eraclito una sorta di dottrina panpsichista che implica la reversibilità del processo della generazione e della corruzione, estesa a tutte le cose esistenti e alla realtà nel suo insieme (in tal senso, dunque, «il vivo e il morto sono una stessa cosa», in quanto dall’uno si genera sempre l’altro, così conferendo allo «scambio» di posizione o ruolo fra i termini opposti un significato propriamente generativo o derivativo), esaminando inoltre ampiamente i possibili rapporti di questa tesi con le teorie pitagoriche dell’anima e con la presentazione che ne offre Platone. Per quanto riguarda infine l’opposizione fra «svegli» e «dormienti», qui e nei seguenti frr. 23 [21 DK; 49 Marc.] e 24 [26 DK; 48 Marc.], l’immagine è frequente nei materiali eraclitei: si vedano supra, i frr. 1 [1 DK; 1 Marc.], n. 10, e 8 [89 DK; 24 Marc.], n. 3.

Fr. 23 [21 DK; 49 Marc.]1

qavnatovı ejstin oJkovsa ejgerqevnteı oJrevomen, oJkovsa de; eu{donteı u{pnoı.2

Morte è quanto vediamo da svegli, sonno è quanto vediamo dormendo.3

1 Questo frammento è riportato da Clemente Alessandrino, Stromateis III 21.1 (= II 205 Stählin), che esorta gli uomini a rimanere «svegli» al richiamo di Dio: «Nell’Epinomide (= 973d-974a), Platone spiega la sua

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78 FR. 23 [21 DK; 49 MARC.]

lamentela e dice: “fin dall’inizio, l’esistenza è difficile per ogni essere vivente, perché bisogna passare innanzitutto dallo stato embrionale, poi nascere, essere nutrito e allevato, e tutto ciò non senza pene infinite, come dicono tutti”. Ma anche Eraclito non chiama forse la “morte” nascita, come anche Pitagora e Socrate nel Gorgia (cfr. 492e-493a), quando dice: ... (Clemente cita qui il fr. 23)». Cfr. anche Stromateis V 105.2 (= II 396 Stählin).

2 u{pnoı è lezione unanime dei manoscritti, che Marcovich, p. 174, propone di correggere in u{par (che traduce con «vita»): questa corre-zione, che contribuirebbe forse a definire in modo più soddisfacente il senso del frammento (cfr. la nota seguente), non ha tuttavia, a mio avviso, un sufficiente fondamento, perché nessuna delle ragioni addotte da Marcovich, p. 175, che riporto di seguito, mi pare cogente: (1) «quanto vediamo dormendo», non potrebbe essere il «sonno» (u{pnoı), che risulterebbe allora qui fuori luogo, ma eventualmente un «sogno» (ejnuvpion); (2) Clemente non sarebbe una fonte del tutto affidabile e potrebbe aver lui stesso corretto u{par in u{pnoı, giacché è manifesto il suo interesse per l’associazione e la corrispondenza fra qavnatoı e u{pnoı. Ora, per quanto riguarda (1), il termine u{pnoı indica in generale la condizione del «sonno» e credo possa dunque alludere, senza contraddizione, a tutto «quanto vediamo dormendo» («sogno», «visione», «apparenza» o «allucinazione» onirica); per quanto riguarda (2), l’argomento di Marcovich mi pare piuttosto debole e comunque controverso: è vero, infatti, che Clemente associa abitualmente la morte a una condizione di «sonno», ma altrettanto abitualmente egli invita, alla luce della dottrina cristiana, al «risveglio» dal «sonno» della morte alla vita eterna, considerando così, come dichiara apertamente, che la morte non consiste che in una nascita a una nuova vita. Clemente cita dunque le parole di Eraclito come attestazione del fatto che la nostra condizione abituale si riduce all’«apparenza» o all’«allucinazione» onirica, mentre l’uscita da tale condizione, con la morte, coincide con un «risveglio» alla verità; non a caso, accanto a Eraclito, Clemente fa riferimento a un passo del Gorgia (cfr. la nota precedente) in cui il Socrate platonico evoca precisamente la difficoltà di capire se il «vivere», quello che noi consideriamo «vivere», non sia in realtà un «essere morti», e se l’«essere morti», quello che noi consideriamo un «essere morti», non sia in realtà un «tornare alla vita». Anche ammettendo perciò che Clemente si riferisca al «sonno» (mantenendo il tradito u{pnoı), ciò non esclude, ma anzi suggerisce la possibilità di identificare tale «sonno» dei dormienti con la «vita» ordinaria (senza dover necessariamente accettare la correzione u{par proposta da Mar-covich), così come il riferimento alla «veglia» («quanto vediamo da svegli») risulta direttamente associato alla «morte» o a quella che noi, ordinariamente, consideriamo «morte», che invece, per Clemente, per Eraclito come è compreso da Clemente e infine ancora per il Socrate platonico del Gorgia, rappresenta una più alta forma di «vita» cui ci si risveglia dopo il «sonno» della vita mortale. Si noti infine che il ter-mine u{par proposto da Marcovich non significa propriamente «vita» (che Eraclito avrebbe reso, plausibilmente, con i termini bivoı o zwhv,

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assai più perspicui nella loro opposizione a qavnatoı), ma appunto lo «stato di veglia» contrapposto al «sonno» (u{pnoı), la «realtà» che si oppone alla parvenza del sogno, il che implica che, se Clemente avesse davvero lui stesso modificato le parole di Eraclito (da u{par a u{pnoı), si tratterebbe di una modifica assai sospetta, in quanto suppone un completo capovolgimento di senso. La tradizione manoscritta, l’in-terpretazione del contesto del citatore del frammento, il significato proprio delle parole di Eraclito citate: nessuna delle ragioni addotte da Marcovich consente a mio avviso di accogliere la sua proposta. Altri editori e commentatori (cfr. per esempio Robinson, pp. 20 e 90-91) hanno supposto una lacuna o una corruzione nel frammento, il che è possibile, ma non probabile; mentre Diels ha congetturato, dopo u{pnoı, <oJkovsa de; teqnhkovteı zwhv>: «... e quanto vediamo da morti, vita».

3 Questo frammento, per ammissione pressoché unanime dei commentatori, non sembra consentire un’interpretazione lineare e chiara. Leggendo nel secondo membro di frase il termine «vita» (bivoı o zwhv o, a mio avviso meno plausibilmente, u{par congetturato da Marcovich, che significa però piuttosto «stato di veglia» o «realtà»: cfr., per l’intera questione, la nota precedente) in luogo del termine «sonno» (u{pnoı), otterremmo una piena simmetria formale fra le due parti del frammento («morte è quanto vediamo da svegli, vita è quanto vediamo dormendo»), che potrebbe allora essere interpretato come una nuova variante sul tema dell’unità dei termini opposti (soprattutto in linea con la prospettiva costruita nei precedenti frr. 21 [62 DK; 47 Marc.], cfr. n. 2, e 22 [88 DK; 41 Marc.], cfr. n. 6, e, verosimilmente, nel seguente fr. 24 [26 DK; 48 Marc.], cfr. n. 5): «morte-vita» e «veglia-sonno» (stabilendo una relazione fra la prima e la seconda parte del frammento) sono evidentemente coppie di termini opposti che si congiungono, alternandosi nella vicenda del cosmo, nella totalità delle cose che sono; mentre «morte-veglia» e «vita-sonno» (restando all’interno di ciascuna delle due parti del frammento) sono invece coppie di termini complementari che si implicano reciprocamente, sicché la vita ordinaria dei più si riduce di fatto a una condizione di sonno («vita è quanto vediamo dormen-do»), che, verosimilmente dal punto di vista del sapiente, è analoga alla morte, mentre la condizione del risveglio da questo sonno, che, verosimilmente dal punto di vista dei «dormienti», coincide con la morte («morte è quanto vediamo da svegli»), dovrebbe rinviare invece a una forma superiore e più consapevole di vita. Dunque, in base ai diversi punti di vista, la «vita» dei «dormienti» si congiunge con quella che gli «svegli» chiamano «morte», mentre quella che i «dormienti» chiamano «morte» si congiunge con la «vita» più autentica degli «svegli» (sostanzialmente così interpreta Marcovich, p. 175). Mantenendo invece, nel secondo membro di frase, il termine «sonno» (u{pnoı; cfr. ancora la nota precedente), il frammento appare certamente più goffo e asimmetrico, perché che il «sonno sia quanto vediamo dormendo» sembra un’affermazione, talmente ovvia da apparire banale, che imporrebbe allora, nel primo membro di frase, l’affermazione altrettanto banale che «quanto vediamo da svegli» non

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80 FR. 23 [21 DK; 49 MARC.]

sia altro che la condizione stessa di «veglia», mentre abbiamo invece l’introduzione della «morte», come contenuto della visione degli «svegli», per fare posto poi al sonno, come contenuto della visione dei «dormienti» (la constatazione di una simile asimmetria conduce Kahn, p. 213, e Robinson, p. 90, a una resa di fronte all’oscurità del frammento). Ora, se si rifiuta un’interpretazione escatologica come quella di Clemente Alessandrino (evocata nella nota precedente), non rimangono che due opzioni esegetiche: si può accogliere un’inter-pretazione fisiologica del frammento (per esempio con Kirk, p. 341), secondo la quale la «morte» consiste nel processo di trasformazione degli elementi fondamentali di cui gli uomini possono acquisire cono-scenza, da «svegli», tramite la comprensione intellettuale del lovgoı, del «ragionamento» che fa emergere il principio che regola tutte le cose, mentre il «sonno» coincide, da un punto di vista psicologico, con la condizione di ignoranza dei «dormienti»; oppure, approfondendo questa linea di lettura in modo più radicale, si potrebbe giungere a sostenere che il «sonno» (u{pnoı) manifesta la condizione di confusione, di apparenza e di incertezza caratteristica dei «dormienti», mentre la «morte» rivela la prospettiva colta dagli «svegli», che, come è noto, sono appunto coloro i quali riconoscono l’unità del tutto (cfr. supra, il fr. 8 [89 DK; 24 Marc.], specie n. 3), cioè l’armonia dei termini opposti che si realizza a partire dal conflitto (povlemoı o e[riı, secondo i frr. 12 [53 DK; 29 Marc.], 13 [80 DK; 28 Marc.], 14 [51 DK; 27 Marc.] e 14a [8 DK; 27d1-28b1 Marc.]): qavnatoı alluderebbe allora al princi-pio originario del conflitto e all’unità armoniosa che esso produce attraverso la congiunzione dei termini opposti, laddove u{pnoı evo-cherebbe invece la molteplicità dei mondi privati e contraddittori che i «dormienti» assumono, erroneamente, come dotati di verità e realtà (ancora diversa la lettura di Diano-Serra, p. 133, secondo la quale il «sonno» corrisponderebbe alla condizione confusa dei «dormienti», alla quale si contrapporrebbe implicitamente la condizione «lucida» e «veritiera» della veglia; allo stesso modo, ma a un livello ulteriore, la «morte» rappresenterebbe la condizione di quanti, pur «svegli», rimangono tuttavia nell’ignoranza, cui si sovrapporrebbe infine la vera vita di chi è realmente «sveglio» alla conoscenza del tutto). Così interpretato, questo frammento, come anche il seguente, riproporrebbe allora senz’altro, come vuole Marcovich, la tesi dell’unità dei termini opposti, ma in una forma che ne valorizza specialmente gli essenziali tratti di verità in contrapposizione alle fallaci conoscenze dei più (cfr. infra, n. 5 al fr. 24); superficiale mi sembra un’interpretazione di carattere etico, suggerita invece da Pradeau, p. 302, a indicare la denuncia di Eraclito della condizione umana, paragonabile a quella di «dormienti» e di «morti», incapaci di cogliere il senso della vita. Sull’opposizione fra «svegli» e «dormienti», qui, nel precedente fr. 22 e nel seguente fr. 24, cfr. ancora supra, i frr. 1 [1 DK; 1 Marc.], specie n. 10, e 8, specie n. 3.

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Fr. 24 [26 DK; 48 Marc.]1

a[nqrwpoı ejn eujfrovnh/2 favoı a{ptetai3 eJautw'/ [ajpoqanw;n]4 ajposbesqei;ı o[yeiı, zw'n de; a{ptetai teqnew'toı eu{dwn [ajposbesqei;ı o[yeiı], ejgrhgorw;ı a{ptetai eu{dontoı.

Nella notte, l’uomo accende a se stesso una luce, quando si sono spenti i suoi occhi; da vivo tocca, dormendo, il morto; da sveglio tocca il dormiente.5

1 Questo frammento è riportato da Clemente Alessandrino, Stro-mateis IV 141.1-2 (= II 310 Stählin), che esorta ancora gli uomini a rimanere svegli, anche durante la notte, per rivolgersi dai sogni alla luce dell’intelletto (cfr. già supra, n. 1 al fr. 23 [21 DK; 49 Marc.]): «Noi che apparteniamo al contrario al giorno, siamo sobri e indossiamo la corazza della fede e dell’amore con l’elmo della speranza della salvezza (cfr. Paolo, Lettere ai Tessalonicesi I 5.8). Ma ciò che si dice del sonno, bisogna estenderlo anche alla morte, perché l’uno e l’altra indicano la separazione dell’anima, la seconda più del primo, come si evince anche dalle parole di Eraclito: ... (Clemente cita qui il fr. 24)». Il testo trasmesso da Clemente è stato oggetto di molti tentativi di correzione e di modifica di cui è impossibile rendere conto qui nel dettaglio (cfr. Marcovich, p. 172, e soprattutto Mouraviev I, pp. 74-75); mi limito a indicare nelle note seguenti gli interventi da me accolti.

2 eujfrovnh/ è correzione di Sylburg della lezione eujfrosuvnh di Clemente (difesa oggi dal solo Mouraviev I, p. 76, e III, p. 34, n. 3, ma con lo stesso significato di «notte»; cfr. in proposito infra, i frr. 28 [67 DK; 77 Marc.], n. 2, e 35 [99 DK; 60 Marc.], n. 2).

3 a{ptetai è lezione che si trova in Clemente, che non occorre cor-reggere, con Schleiermacher, in a{ptei.

4 [ajpoqanw;n] come, subito oltre, [ajposbesqei;ı o[yeiı] sono espunti da Wilamowitz, il primo come una glossa esplicativa, il secondo come un errore di copiatura determinato dalla presenza dello stesso sintagma nella linea precedente: questi interventi sono accolti dalla quasi totalità degli editori e dei commentatori. La loro conservazione (difesa per esempio da Bollack-Wismann, p. 120, Conche, p. 363, Pradeau, p. 302, e soprattutto Mouraviev I, pp. 73-76, e III, p. 34), o anche la conservazione di uno dei due, produce a mio avviso un effetto ridondante: «Nella notte, l’uomo accende a se stesso una luce, quando, morto, si sono spenti i suoi occhi; da vivo con gli occhi spenti tocca, dormendo, il morto; da sveglio tocca il dormiente».

5 Anche questo frammento, come il precedente, è di difficile com-prensione; la costruzione e la conseguente traduzione sono, fin dalla

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scelta della punteggiatura, controverse. Mi pare tuttavia che possa essere collocato alla conclusione della sequenza dei materiali eraclitei relativi alla tesi dell’unità dei termini opposti, se interpretato come segue. La «notte», in quanto rinvia all’oscurità, sia a quella reale della notte, sia a quella metaforica determinata dall’insufficienza dei sensi (ossia, concretamente, dalla vista «spenta»: ajposbesqeivı, nominativo singolare maschile del participio aoristo passivo di ajposbevnnumi, non può che riferirsi al soggetto a[nqrwpoı, come anche il riflessivo eJautw '/, mentre l’accusativo plurale o[yeiı può essere o complemento oggetto, se si attribuisce al participio un valore transitivo: «avendo spento [scil., l’uomo] i suoi [= a se stesso] occhi», oppure accusativo di relazione, se si attribuisce invece al participio, più plausibilmente, un valore intransitivo: «essendosi spento [scil., l’uomo] quanto ai suoi [= a se stesso] occhi»), si oppone e a un tempo si congiunge alla «luce», che a sua volta allude sia alla fiamma reale, che si accende di notte per illuminare l’oscurità, come vogliono Diano-Serra, p. 135, sia, metaforicamente, al lume del «ragionamento», del lovgoı, che interviene a un livello di superiore comprensione, per sopperire alla limitatezza dei sensi, come mi pare suggerisca Marcovich, p. 173 (in questo caso, poiché il verbo a{ptomai, forma al medio di a{ptw, significa tanto «toccare» quanto «accendere», si potrebbe anche intendere che «l’uomo» non «accende», ma «tocca una luce nella notte», una luce, dunque, che di fatto già sussiste, perché si tratta, metaforicamente, della luce del «ragionamento» che interviene per sopperire all’insufficienza dei sensi); come anche il «vivo», che pure si oppone al «morto», è tuttavia in contatto con esso nella condizione del sonno che assomiglia alla morte; e come infine lo «sveglio», che pure si oppone al «dormiente», è tuttavia in contatto con esso, perché veglia e sonno sono due condizioni opposte che caratterizzano alter-nativamente uno stesso soggetto: si tratta, come si vede, delle stesse coppie di termini opposti evocate supra, nei frr. 21 [62 DK; 47 Marc.], cfr. n. 2 («vita-morte»), 22 [88 DK; 41 Marc.], cfr. n. 6 («vivo-morto», «sveglio-dormiente»), e verosimilmente 23 [21 DK; 49 Marc.], cfr. n. 3 («morte-veglia», «sonno/vita-sonno»). Secondo questa interpretazione, condivisa nelle sue grandi linee da Marcovich, p. 173, Diano-Serra, pp. 135-36, e Conche, pp. 365-66, l’uomo è in grado di giungere alla com-prensione della totalità, cogliendo l’unità dei termini opposti, grazie alla luce del «ragionamento» che illumina l’oscurità dei sensi (come la luce della fiamma illumina l’oscurità della notte), se appunto supera le contraddizioni e le apparenze solo parziali in cui i sensi lo avvolgono (per quanto attiene alla diagnosi eraclitea della debolezza dei sensi, in contrapposizione alla forza e all’affidabilità del «ragionamento», si vedano infra, la Sezione 4 e, per esempio, il fr. 44 [107 DK; 13 Marc.]): in tale ottica, è plausibile ritenere che, dopo aver introdotto la dottrina dell’unità degli opposti e illustrato la sua articolazione attraverso una lunga serie di esempi nei frammenti precedenti, Eraclito descriva infi-ne, dal punto di vista epistemologico, le condizioni di verità di questa dottrina e le possibilità di accesso alla sua comprensione. Vanno almeno menzionate le interpretazioni concorrenti di Kirk, p. 148, che difende una lettura fisiologica del frammento, accostando al «sonno» una condizione

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di quasi completa estinzione del fuoco cosmico e dunque concependolo come uno stato intermedio fra la «vita» (che è alimentata dal fuoco cosmico) e la «morte» (che è determinata dall’estinzione del fuoco cosmico e dal conseguente prevalere di uno stato di umidità): ma si veda, contra, Marcovich, p. 174; di Kahn, pp. 213-16, che sostiene invece una lettura psicologica del frammento, che evocherebbe appunto gli stati psicologici che si succedono nel «sonno», con i sogni e le visioni oniriche, e nella «veglia», con la visione cosciente della realtà, che si oppongono e si susseguono circolarmente per tornare sempre al punto di partenza; e di Pradeau, pp. 302-03, secondo cui il frammento avrebbe un significato eminentemente etico, indicando l’intima connessione fra la vita umana e la morte, come fra la «veglia» e il «sonno», a meno che l’uomo non sappia risvegliarsi alla luce, verosimilmente, del «ragionamento»; a una lettura di carattere escatologico, che in linea con il contesto del citatore (cfr. supra, n. 1) evocherebbe il destino dell’anima dopo la morte del corpo, allude infine, a mio avviso alquanto confusamente, Robinson, pp. 93-94. Sull’opposizione fra «svegli» e «dormienti», qui e nei precedenti frr. 22 e 23, cfr. ancora supra, i frr. 1 [1 DK; 1 Marc.], specie n. 10, e 8 [89 DK; 24 Marc.], specie n. 3.

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potamoi'si toi'sin aujtoi'sin ejmbaivnousin2 e{tera kai; e{tera u{data ejpirrei'.

Per coloro i quali entrano negli stessi fiumi, sempre diverse scorrono le acque.3

1 Questo frammento è riportato da Cleante in Ario Didimo, citato da Eusebio, Praeparatio evangelica XV 20.2 (= II 384 Mras = Dox. 470-71 = SVF I 519), nel contesto di una presentazione della dottrina di Zenone sull’origine e la natura dell’anima: «Riguardo all’anima, Cleante, esponendo le opinioni di Zenone in relazione a quelle degli altri fisici, afferma che Zenone sostiene che l’anima è un’esalazione sensibile, proprio come Eraclito, il quale, infatti, volendo mostrare che le anime, per esalazione, divengono sempre nuove, le paragonò ai fiumi, esprimendosi così: ... (Cleante cita qui il fr. 25), anche le anime, dal canto loro, sono esalazioni dagli elementi umidi (kai; yucai; de; ajpo; tw 'n uJgrw'n ajnaqumiw'ntai). Alla maniera di Eraclito, dunque, Zenone dichia-ra che l’anima è un’esalazione e dice che è sensibile perché la sua parte dominante può essere modificata dalle cose esterne attraverso gli

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organi sensibili e può ricevere impressioni, giacché queste sono le proprietà dell’anima». Seguendo un’attestata tradizione interpretativa (a partire da Bywater e fino a Kirk, pp. 367-69, a Marcovich, p. 147, n. 1, a Kahn, pp. 52-53 e 166, e a Robinson, pp. 16-17 e 84), non considero autentica l’ultima parte della citazione (kai; yucai; de; ajpo; tw 'n uJgrw 'n ajnaqumiw'ntai; ma si vedano, contra, DK, Bollack-Wismann, pp. 87-88, Diano-Serra, pp. 26 e 155-56, Conche, pp. 452-53, Pradeau, pp. 103 e 213, e soprattutto Mouraviev I, p. 43, e III, p. 20, n. 2, che, per stabilire una più stretta connessione fra le due parti della citazione, propone di sottintendere un soggetto femminile, nella prima parte, che anticipe-rebbe il riferimento alle anime contenuto nella seconda parte, così intendendo che a entrare nei fiumi e a essere investite da acque sempre diverse sarebbero appunto le anime che, infatti, derivano dall’esalazio-ne di effluvi umidi, cfr. pure infra, n. 3): in primo luogo perché, come fatto valere da Kirk e Marcovich, ajnaqumiw 'ntai è certamente sospetto in quanto verbo che non risulta attestato prima di Aristotele (cfr. tut-tavia Mouraviev III, p. 20, n. 4); in secondo luogo, mi pare si tratti di un’aggiunta esplicativa, da parte del citatore, che si ricollega al suo esame della dottrina zenoniana dell’anima più che alla citazione era-clitea come tale e che tende di conseguenza a stabilire un legame, non altrimenti presente nei materiali eraclitei superstiti, fra la dottrina del conflitto (o del divenire, cfr. ancora infra, n. 3), esposta attraverso l’im-magine dei fiumi, e la teoria dell’anima come esalazione dalle acque (una teoria che, del resto, è qui attribuita esplicitamente dal citatore allo stoico Zenone, ma che richiama un’opinione che sembra effettiva-mente consistente con la psicologia eraclitea, cfr. l’Introduzione, § 4.5, e infra, la Sezione 5, e soprattutto il fr. 62 [36 DK; 66 Marc.]; così pure Kahn, pp. 259-60). Qualche considerazione va svolta rispetto alle varian-ti di questo frammento o alle allusioni a esso, già numerose nella tradi-zione platonico-aristotelica e che hanno particolarmente contribuito alla fortuna della metafora eraclitea del fiume e dello scorrere delle acque (si veda in proposito l’esaustiva rassegna di Marcovich, pp. 137-47, e, per una presentazione più sintetica, l’Introduzione, § 2.1). Ricordo innanzi-tutto i riferimenti del Cratilo (401d-402a; 411b-c; 439c-440d) e del Teete-to (152d-e; 156a; 160d; 177c; 179d; 180a-183a, passim), ripresi più allusi-vamente in alcuni passi del Fedone (90b-c), del Sofista (249b) e del Filebo (43a), dai quali emerge fondamentalmente la tesi seguente: pavnta (o ta; o[nta o ta; pravgmata) cwrei'n (o rJei'n o metapivptein o ijevnai o fevresqai o kinei'sqai) e, per converso, oujde;n mevnei, sicché le cose che sono vengono paragonate alla corrente di un fiume (potamou' rJoh'/ ajpeikavzwn ta; o[nta, Crat. 402a), o direttamente ai flussi delle sue acque (oi|on rJeuvmata, Thea-et. 160d), e tale corrente e il suo movimento resi equivalenti al divenire, alla generazione e alla corruzione (ta; pravgmata ... mesta; ei\nai fora'ı kai; genevsewı ajeiv, Crat. 411c), in modo che «non potresti entrare due volte nello stesso fiume» (di;ı ejı to;n aujto;n potamo;n oujk a]n ejmbaivhı, Crat. 402a); a questa radicale prospettiva ontologica Platone contrappone, partico-larmente nei passi citati del Cratilo, la ben nota ipotesi di un ambito dell’essere distinto e superiore al piano sensibile cui il divenire è confi-nato, di natura intellegibile, caratterizzato da stabilità e immutabilità.

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Sulla stessa linea, e ricorrendo alle medesime formule, le numerose allusioni aristoteliche (cfr. Topici I 11, 104b21; De anima I 2, 405a28; De caelo III 1, 298b29; Fisica V 4, 228a7; VIII 3, 253b9; e Metafisica IV 8, 1012b26), fra le quali emergono particolarmente quelle di Fisica VIII 8, 265a2, e di Metafisica I 6, 987a32, e XIII 4, 1078b13, in cui la tesi del movimento perenne di tutte le cose si trova esplicitamente limitata al caso delle realtà sensibili (pavnta ta; aijsqhta; kinei'sqai ajeiv; aJpavntwn tw'n aijsqhtw'n ajei; rJeovntwn), e infine e soprattutto di Metafisica IV 5, 1010a7-15, in cui Aristotele riporta il celebre rimprovero rivolto da Cratilo a Eracli-to, per aver detto che (eijpovnti o{ti) «non è possibile entrare due volte nello stesso fiume» (di;ı tw'/ aujtw/' potamw'/ oujk e[stin ejmbh'nai). Si constata innanzitutto che l’immagine del fiume e dell’ingresso in esso, certamen-te originale di Eraclito, rimane in un solo passo platonico (Cratilo 402a) e in un solo passo aristotelico (Metafisica IV 5, 1010a7-15, che probabil-mente dipende da Platone, di cui Aristotele ripete praticamente le stesse parole), che sono fra l’altro gli unici passi assimilabili a citazioni vere e proprie (ÔHravkleitoı levgei; ÔHrakleivtw/ ... eijpovnti). Ora, in questi due passi è riportata l’affermazione secondo la quale non si può entrare due volte nello stesso fiume, che mi pare sostanzialmente equivalente alla versione riportata da Cleante, da me assunta come originale, o almeno pienamente coerente con essa: se infatti, «per coloro i quali entrano negli stessi fiumi, sempre diverse scorrono le acque», risulta abbastan-za ovvio che sia impossibile «entrare due volte nello stesso fiume», perché un fiume comprende in sé correnti in continuo movimento che, dunque, non rimangono identiche nello stesso punto di entrata di un eventuale soggetto, sicché tale soggetto, nella stessa estensione di tem-po in cui penetra nel fiume oppure penetrando una seconda volta nello stesso fiume (sulla distinzione fra una concezione progressiva e una iterativa dell’ingresso nel fiume, cfr. infra, n. 3), sarà toccato da acque via via diverse. Dall’una all’altra versione dell’affermazione eraclitea, muta soltanto, a mio avviso, il punto di vista che viene assunto: nella versione riportata da Cleante, infatti, i fiumi appaiono come unità in sé permanenti di acque sempre diverse e mobili, mentre nella versione platonico-aristotelica è il fiume stesso a mutare, ma solo in quanto somma di acque sempre diverse, cioè rispetto alla sua configurazione o composizione d’insieme e non certo suggerendo che si tratti di un «altro» fiume; mi pare insomma che in nessuna delle due versioni si attribuisca a Eraclito la tesi secondo cui il fiume resta identico sotto ogni profilo (né quella, simmetrica, secondo cui il fiume muta sotto ogni profilo), perché, essendo composto da acque sempre diverse, esso muta necessariamente la disposizione dei suoi elementi e delle sue parti componenti, senza però che mutino, dal punto di vista del fiume nella sua totalità, la quantità e la qualità delle acque in esso presenti (diver-samente, ma a mio avviso meno plausibilmente, interpreta Kahn, pp. 166-69, per il quale, mentre la versione riportata da Cleante lascia emergere la tesi della stabilità e dell’unità del fiume nel suo insieme rispetto alla mobilità e alla mutevolezza delle diverse acque che in esso scorrono, la versione platonico-aristotelica rappresenterebbe di per sé una radicalizzazione di questa tesi, perché implicherebbe che a mutare,

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dalla prima alla seconda volta in cui vi si entra, sia lo stesso fiume come tale). Ammettendo la compatibilità fra le due versioni dell’affermazio-ne eraclitea, o quantomeno la coerenza dell’una rispetto all’altra, mi pare poco probabile, benché non impossibile, che siano entrambe autentiche; ma perché scegliere la versione di Cleante a scapito di quella platonico-aristotelica? Suggerisco fondamentalmente due ordi-ni di considerazioni, per quanto solo congetturali e inoltre, come giu-stamente avverte Pradeau, pp. 208-09, di carattere necessariamente interpretativo: per un verso, (1) i due passi di Platone e di Aristotele implicano apparentemente, e nonostante tutto, una parafrasi delle parole di Eraclito (Crat. 402a: «[Eraclito] ... paragonando le cose che sono alla corrente di un fiume, dice che ...»; Metaph. IV 5, 1010a7-15: «[Cratilo] ... rimproverando perfino Eraclito di aver detto che ...»); per altro verso, e soprattutto, (2) tanto Platone quanto Aristotele conosco-no la versione semianeddotica della dottrina del divenire, che gli era-clitei posteriori (cfr. Theaet. 180a-c) o forse Cratilo (cfr. Metaph. IV 5, 1010a7-15) avrebbero professato, radicalizzando la tesi originale di Eraclito e sostenendo che, se il principio del divenire è assunto con rigore, si rende impossibile pronunciare sensatamente qualunque paro-la o anche discendere una volta soltanto (oujd ja{pax) nello stesso fiume: attendibile oppure no, questa posteriore rielaborazione della dottrina eraclitea lascia trasparire l’interesse pressoché esclusivo di Platone e di Aristotele per la tesi del divenire della realtà, di cui essi si sforzano di stabilire una gradazione, individuando una forma di divenire assoluto (difesa dagli eraclitei posteriori e/o da Cratilo), che non consente nean-che un primo e unico (a{pax) riconoscimento immediato o istantaneo della realtà da parte del soggetto, e una forma di divenire più modera-to o, per così dire, di «secondo grado» (difesa da Eraclito), che consen-te invece tale riconoscimento, ma ne sancisce pure l’immediatezza o l’istantaneità, sicché, a un secondo tentativo (divı), la realtà è già muta-ta e non corrisponde più alla descrizione che il soggetto ne ha fornito la prima volta. Come si vede, l’intento che emerge dalla citazione pla-tonico-aristotelica è in ogni caso quello di «tradurre» la dottrina eracli-tea dal punto di vista della definizione dello statuto logico-epistemolo-gico del soggetto di fronte a una realtà in divenire, vale a dire delle sue possibilità di conoscenza e di designazione delle cose esistenti, se que-ste sono sottoposte a un mutamento perenne – un intento palesemente estraneo alla riflessione di Eraclito che, stando almeno ai materiali autentici in nostro possesso, non pare stabilire nessuna connessione esplicita fra la tesi del divenire e considerazioni di ordine epistemolo-gico o epistemico; mentre, altrettanto evidentemente, la citazione pla-tonico-aristotelica prescinde da qualunque riferimento alla tesi, questa sì certamente eraclitea, della distinzione e dell’opposizione fra le acque rispetto all’unità e alla permanenza dei fiumi che le comprendono, una tesi che è invece al centro della citazione riconducibile a Cleante e per la cui interpretazione nel contesto del pensiero di Eraclito si veda ancora infra, n. 3. Così stando le cose, ipotizzo che quella platonico-aristotelica sia in effetti una riduzione scolastica, utile a illustrare la posizione di Eraclito e, a un tempo, dei suoi seguaci, rendendola intel-

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legibile nel quadro concettuale predisposto da Platone e da Aristotele e compatibile con i loro interessi e con la loro impostazione di ricerca, una riduzione che, precisamente per queste ragioni, si trova in seguito ampiamente diffusa nella dossografia posteriore, per esempio in Sim-plicio, Physica 77.30 e 1313.8 Diels (a Simplicio, che riporta una volta la versione platonica, con il verbo alla seconda persona singolare, e una volta la versione aristotelica, con il verbo all’infinito, possono essere accostate le allusioni di altri commentatori come Olimpiodoro e Filo-pono). A questa tradizione considero pure appartenente la versione della tesi eraclitea presente in Eraclito Omerico, Quaestiones homericae 24.5 (= fr. 49a DK), di cui, con Kirk, pp. 373-74, e Marcovich, p. 142 (fr. 40c2), non accetto dunque l’autenticità (come fanno invece, per esempio, DK, Bollack-Wismann, pp. 173-74, Diano-Serra, pp. 12 e 121-23, Conche, pp. 455-58, Robinson, pp. 112-13, e Mouraviev I, pp. 124-25, e III, p. 59; mentre in dubbio rimane Kahn, pp. 288-89): potamoi 'ı toi 'ı aujtoi 'ı ejm-baivnomevn te kai; oujk ejmbaivnomen, ei\mevn te kai; oujk ei\men, che mi pare rifletta la posizione più radicale degli eraclitei posteriori e/o di Cratilo ricordata da Platone e da Aristotele, secondo la quale non è possibile penetrare neanche una sola volta negli stessi fiumi, sicché in essi si entra e a un tempo non si entra (perché nell’istante medesimo in cui vi si entra, i fiumi sono già mutati e quindi, di fatto, non sono già più gli stessi in cui si sta entrando), da cui Eraclito Omerico pare trarre una conferma dell’opinione aristotelica che Eraclito vada annoverato fra i negatori del principio di non contraddizione (perché, «negli stessi fiumi, siamo e non siamo» allo stesso tempo); si noti fra l’altro che una posi-zione come quella che emerge dalle parole di Eraclito Omerico, se risulta in linea con la ricostruzione generale ascrivibile a Platone e Aristotele, sarebbe però in contraddizione con la posizione che, in tale ricostruzione, viene da Platone e Aristotele attribuita a Eraclito, il quale avrebbe sostenuto l’impossibilità di penetrare una seconda volta (divı) nello stesso fiume, dunque ammettendo implicitamente la possi-bilità di penetrarvi almeno una prima volta (a{pax), una possibilità, questa ultima, negata invece dagli eraclitei posteriori e/o da Cratilo. Tornando brevemente alle altre testimonianze platonico-aristoteliche evocate sopra, non è difficile constatare come esse provvedano a estrar-re dal suo contesto la tesi eraclitea del movimento e del flusso (espres-sa variamente con i verbi cwrei 'n, rJei 'n, metapivptein, ijevnai, fevresqai, kinei'sqai), per lo più astraendola dall’immagine originale del fiume e riducendola, tanto seccamente quanto scolasticamente, all’affermazio-ne del divenire (gevnesiı) e della continua generazione e corruzione della realtà, di cui Platone e Aristotele si premurano di precisare insi-stentemente che si tratta della realtà sensibile, e ciò senza dubbio al fine di giustificare l’introduzione (da parte di Platone) di una realtà intel-legibile immobile e immutabile, distinta e separata dalla sfera sensibile: ecco perché le acque dei fiumi vengono intese come metafora di tutte le cose che sono (potamou ' rJoh' / ajpeikavzwn ta; o[nta, Crat. 402a) e rese come pavnta (ta; aijsqhtav), sicché la tesi del divenire del tutto, presa assolutamente, finisce per essere pura e semplice dottrina eraclitea. In questa intera collezione di riferimenti o allusioni cade perciò ogni

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riferimento alla dottrina eraclitea dell’unità e della composizione armo-niosa dei termini opposti e di tutte le cose che sono, e rimane esclusiva la tesi del divenire perenne applicata all’ambito sensibile e articolata in un quadro eminentemente epistemologico: emergono allora in sin-tesi (1) la metafora del fiume come immagine del divenire e del muta-mento perenne delle acque (più che della distinzione e dell’opposizio-ne fra acque diverse negli stessi fiumi) e (2) l’accento posto sul soggetto che vi entra in quanto è coinvolto in tale flusso e avvolto nel relativismo radicale che esso produce (invece che sul soggetto in quan-to è capace di comprendere come, in base a punti di vista diversi, l’ef-fettiva distinzione e opposizione fra acque diverse si ricomponga nell’uni-tà del fiume); ma su questi aspetti dottrinali tornerò infra, n. 3. Il solo Pradeau, pp. 98-102 e 104-13, 206-11 e 214-19 – con Mouraviev I, pp. 209-11, e III, p. 99, ma limitatamente ai passi seguenti: Platone, Cratilo 402a; Simplicio, Physica 887.1 e 1313.8 Diels; e Luciano, Vitarum auctio 14, da cui Mouraviev estrae, come frammento, questo collage di senten-ze: pavnta cwrei ' kai; oujde;n mevnei. pavnta rJei '. e[mpedon oujdevn –, accetta queste testimonianze platonico-aristoteliche come contenenti materia-le eracliteo autentico o comunque un suo fedele resoconto. Da quanto precede risulterà chiaro che considero pure come una semplice varian-te del presente fr. 25, con Marcovich, pp. 142-44 (fr. 40c3) e 148-52, la citazione di Plutarco, De E apud Delphos 392a-b (= fr. 91 DK): potamw'/ ga;r oujk e[stin ejmbh'nai di;ı tw'/ aujtw'/, kaq jÔHravkleiton oujde; qnhth'ı oujsivaı di;ı a{yasqai kata; e{xin ajll jojxuvthti kai; tavcei metabolh 'ı skivdnhsi kai; pavlin sunavgei, ma 'llon de; oujde; pavlin oujdÆ u{steron, ajll ja{ma sunivstatai kai; ajpoleivpei kai; provseisi kai; a[peisi, di cui talvolta si distinguono due parti: «(a) “Non è possibile entrare due volte nello stesso fiume”, secon-do Eraclito, e neanche è possibile toccare due volte l’essenza mortale nella stessa condizione, ma per l’acutezza e la rapidità del suo cambia-mento, (b) “si disperde e di nuovo si riunisce” – o piuttosto non “di nuovo” né “successivamente”, ma “allo stesso tempo” – “si costituisce e si disfa, si avvicina e si allontana”». Gli editori e i commentatori sono divisi: Kirk, pp. 382-84, e Robinson, pp. 139-42, accettano la seconda parte della citazione plutarchea (b), perché costruita su una sequenza di coppie di verbi che sarebbero assai insoliti in Plutarco e dunque possibilmente autentici, con Kirk che suggerisce di collocarla come seguito del presente fr. 25 (potamoi'si toi'sin aujtoi'sin ejmbaivnousin e{tera kai; e{tera u{data ejpirrei': skivdnhsi kai; sunavgei, sunivstatai kai; ajpoleivpei, provseisi kai; a[peisi); al contrario, Kahn, pp. 168-69, considera la cita-zione plutarchea, almeno nella sua prima parte (a), come una parafra-si dell’originale eracliteo, il quale a sua volta doveva essere connesso al presente fr. 25, costituendone la premessa o la conclusione; Diano-Serra, pp. 12 e 124-25, giudicano invece la prima parte della citazione plutarchea come una variante deteriore del fr. 49a DK, riportato da Eraclito Omerico e discusso poco sopra, e la seconda parte (b) come autentica; Bollack-Wismann, pp. 268-69, Conche, pp. 459-62, e Pradeau, pp. 102-03 e 211-12, ritengono autentica dal canto loro solo la prima parte della citazione (a), mentre giudicano il linguaggio della seconda parte come non originale; infine, Mouraviev I, pp. 233-36, e III, pp. 114-

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15, ricava dalla citazione plutarchea due distinti frammenti, entrambi a suo avviso autentici. La mia scelta si trova ampiamente giustificata, credo, dalla precedente disamina: Plutarco riporta infatti, nella prima parte della sua citazione (a), l’immagine del fiume attraverso la media-zione platonico-aristotelica ed esattamente con le stesse parole (si veda perciò in proposito quanto detto sopra), mentre, nella seconda parte (b), mi pare fornisca una spiegazione che si riferisce piuttosto al caso della composizione dell’«essenza mortale» di cui sta trattando che non all’immagine del fiume, che Plutarco richiama come metafora di una realtà mutevole appunto analoga all’«essenza mortale»; aggiungerei inoltre, a titolo di ipotesi, che, diversamente dal movimento delle maree e in generale delle acque del mare, di cui si può sostenere che si muo-vono di movimenti opposti di flusso e riflusso, di unione e divisione, ben illustrati dalle coppie di verbi utilizzati da Plutarco e associabili alla condizione che lo stesso Plutarco riconosce per l’«essenza mortale», le acque di un fiume si dispongono in correnti senza dubbio mobili, mute-voli e sempre diverse, ma di cui mi sembra arduo negare che procedano esclusivamente in un’unica direzione e non certo «avanti» e «indietro». Sull’intera questione dei frammenti eraclitei «del fiume», si veda recen-temente l’analisi svolta, pur con esiti in certa misura diversi da quelli proposti qui, da L. Tarán, Heraclitus: The River Fragments and their Implications, in «Elenchos» 20 (1999), pp. 9-52 (Tarán considera auten-tica, oltre al presente fr. 25, anche la citazione plutarchea appena esa-minata); mentre ho approfondito e ampliato io stesso l’esame dei materiali in questione, e delle diverse versioni che ne sono tramandate nella tradizione antica, nell’articolo I fiumi, le acque, il divenire. Su Eraclito, frr. 12, 49A e 91 DK (40, 40c2, 40c3 Marcovich), in «Antiquorum Philosophia» 6 (2012), pp. 71-90.

2 Per ragioni puramente interpretative, alcuni commentatori (Rivier e Fränkel) hanno proposto di espungere il participio ejmbaivnousin, sul quale tuttavia non sussiste esitazione nella tradizione manoscritta, evidentemente per rendere più esplicito il riferimento alla nozione di un divenire perenne di tutte le cose («Negli stessi fiumi scorrono sempre diverse acque»), facendo cadere così il richiamo al punto di vista di «coloro i quali entrano» in essi, che ridimensiona a mio avviso il «divenire» delle acque riconducendolo appunto al punto di vista di chi vi entra (cfr. anche la nota seguente).

3 Come si comprenderà dalla traduzione proposta, collego il dimo-strativo toi'sin aujtoi'sin al sostantivo potamoi'si e intendo ejmbaivnousin come un participio presente al dativo plurale: in questo modo, diviene manifesto il riferimento all’unità e alla permanenza come caratteristiche attribuite ai fiumi nel loro insieme, nonostante la diversità e la mobilità delle acque che scorrono in essi (do conto poco oltre, più nel dettaglio, delle implicazioni esegetiche di questa lettura). Sarebbe grammatical-mente possibile, tuttavia, connettere toi'sin aujtoi'sin con ejmbaivnousin (o perfino, ma più difficilmente, l’articolo toi'sin con il sostantivo potamoi'si e il dimostrativo aujtoi'sin con il participio ejmbaivnousin), suggerendo così che unità e permanenza siano caratteristiche che appartengono ai sog-getti che entrano nei fiumi («Per gli stessi che entrano nei fiumi ...»

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oppure, più esplicitamente, «per coloro i quali, rimanendo gli stessi, entrano nei fiumi ...»), nonostante siano coinvolti nel movimento e nello scorrimento di acque sempre diverse. Questa seconda opzione determina un sostanziale mutamento di prospettiva e di punto di vista delle parole attribuite a Eraclito, perché si rinuncia a stabilire un rap-porto esplicito fra il fiume come totalità composita delle diverse acque che comprende in sé e le acque stesse che invece si succedono e si sovrappongono le une alle altre, mentre si pongono piuttosto in risalto la condizione del soggetto e la sua identità di fronte al divenire perenne delle acque dei fiumi nelle quali si immerge come un’unità. Non è inve-rosimile che, proprio in base a una lettura di questo genere, una parte della tradizione esegetica e dossografica antica, e precisamente quella risalente a Platone e ad Aristotele, sia giunta, per un verso, ad accentua-re la tesi del divenire in modo esclusivo («... sempre diverse scorrono le acque»), cioè indipendentemente da qualunque riferimento alla dottri-na dell’unità dei termini opposti che è invece conservato se si mantiene l’indicazione della permanenza e dell’identità dei fiumi («... negli stessi fiumi, sempre diverse scorrono le acque»), e, per altro verso, a sottoline-are in modo altrettanto esclusivo il ruolo e la funzione del soggetto («Per gli stessi ... sempre diverse scorrono le acque»), specie rispetto alle sue possibilità di conoscenza e di designazione della realtà in divenire (come ampiamente argomentato supra, n. 1). Meno naturale mi sembra la resa preferita da Mouraviev I, p. 43, e III, p. 20, n. 2, che considera ejmbaivnou-sin non come un participio, ma come la terza persona plurale del pre-sente indicativo («Essi [o esse, cfr. supra, n. 1] entrano negli stessi fiumi ...»); come pure non del tutto pertinente trovo la precisazione di Mar-covich, pp. 147-48, che distingue, ancora nel participio ejmbaivnousin, fra un senso progressivo o corrente, che starebbe a indicare un unico ingres-so nei fiumi nella sua estensione temporale («Per coloro i quali avanza-no il passo [oppure: si accingono ad entrare] ...»), e un senso iterativo, che segnalerebbe invece diverse e successive entrate nei fiumi («Per coloro i quali entrano parecchie volte ...»): mi pare infatti che le parole di Eraclito si prestino a entrambe le interpretazioni, che non sono peraltro fra loro concorrenti, ma senz’altro complementari, se è vero che le acque dei fiumi sono sempre diverse sia per chi compia un unico ingresso in esse, nel corso della durata di tale ingresso, sia, a maggior ragione, per chi compia tale ingresso più volte e successivamente. Pas-sando all’interpretazione complessiva del frammento, e alla sua collo-cazione nel contesto del pensiero di Eraclito, ho già esposto supra, n. 1, alcune considerazioni sulle sue varianti platonico-aristoteliche e sulla loro posterità. Ritengo che il presente frammento possa essere colloca-to, insieme con i seguenti frr. 26 [125 DK; 31 Marc.], 27 [84ab DK; 56ab Marc.] e 28 [67 DK; 77 Marc.], a conclusione di questa Sezione 2, conte-nente la sequenza di materiali eraclitei relativi alla dottrina del conflit-to e dell’unità dei termini opposti, che costituisce il contenuto proprio del lovgoı annunciato fin dal fr. 1 [1 DK; 1 Marc.]. Infatti, dopo aver introdotto nei suoi termini generali il contenuto del lovgoı, descritto come un sapere universale e comune, ben distinto dalle fallaci apparen-ze degli uomini (frr. 9 [41 DK; 85 Marc.], 10 [32 DK; 84 Marc.] e 11 [108

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DK; 83 Marc.]), che individua in povlemoı, la guerra, il principio origina-rio di tutte le cose (frr. 12 [53 DK; 29 Marc.] e 13 [80 DK; 28 Marc.]), nella forma di un conflitto inesauribile e fondamentale che si ricompo-ne tuttavia in un’armonia generale (frr. 14 [51 DK; 27 Marc.], 14a [8 DK; 27d1-28b1 Marc.] e 15 [54 DK; 9 Marc.]), che sancisce l’unità del tutto (fr. 16 [10 DK; 25 Marc.]) in virtù della ricomposizione unitaria dei termini opposti, esaminata attraverso numerosi esempi e da diversi punti di vista (frr. 17 [111 DK; 44 Marc.], 18 [59 DK; 32 Marc.], 19 [103 DK; 34 Marc.], 20 [60 DK; 33 Marc.], 21 [62 DK; 47 Marc.], 22 [88 DK; 41 Marc.], 23 [21 DK; 49 Marc.] e 24 [26 DK; 48 Marc.]), vengono descrit-te adesso, in questo e nei tre successivi frammenti, le modalità concrete della ricomposizione unitaria dei termini opposti e di tutte le cose, con il riconoscimento di una forma di processualità che assume il profilo di un eterno movimento e mutamento di tutte le cose esistenti che, come le acque di un fiume, si succedono e si alternano continuamente, pur appartenendo allo stesso fiume e lasciandone perciò inalterata la strut-tura e la natura complessiva. In tale ottica, l’ammissione del divenire pare funzionale a giustificare la possibilità e i modi del conflitto fonda-mentale alla radice della reciproca alternanza di tutte le cose e dei ter-mini opposti, che si colloca tuttavia a sua volta, dal punto di vista uni-versale del lovgoı, nella superiore prospettiva dell’unità del tutto; in altre parole, secondo questa interpretazione del frammento, il divenire si configura come la legge del mutamento e della successione di tutte le cose, senza che, tuttavia, il sapere che insegna l’unità del tutto e tale stessa prospettiva unitaria siano affetti nel loro insieme dal divenire, giacché, invece, lo riassumono nell’economia generale della ricomposi-zione di tutte le cose di cui il divenire è appunto condizione e a un tempo semplice modalità concreta. Si capisce allora come, più che un processo di alterazione confinato all’ambito propriamente fisico, cosmo-logico o fisiologico, il divenire descriva un generale mutamento ontolo-gico come alternanza e variazione delle cose che sono nell’ambito dell’essere. Mi sembra che un simile quadro esegetico trovi una signifi-cativa conferma nel fr. 22 [88 DK; 41 Marc.], cfr. soprattutto la relativa n. 6, che indicava già nel reciproco scambio di posizione e di ruolo fra i termini opposti (metapesovnta ... pavlin metapesovnta), da intendere come una forma di mutamento e di movimento, la causa e la spiegazione della loro unità e reciproca implicazione (taujtov); e particolarmente nel fr. 27 [84ab DK; 56ab Marc.], cfr. soprattutto la relativa n. 3, rispetto al quale è possibile stabilire un parallelo pienamente compiuto: alla cor-relazione introdotta nel presente fr. 25 fra gli «stessi fiumi» e le «sempre diverse acque» corrisponde infatti quella, che apre il fr. 27, fra «perma-nenza» e «mutamento di condizione» (ajnapauvetai – metabavllon), sicché la stabile condizione di unità del tutto (che, come il «fiume» del presen-te fr. 25, rimane «lo stesso» e, come il soggetto inespresso del fr. 27, «permane») si fonda propriamente sul conflitto sottostante fra i termi-ni opposti singolarmente presi e sul divenire di tutte le cose (che, come le «acque» del presente fr. 25, sono «sempre diverse» e, come il sogget-to inespresso del fr. 27, «mutano condizione»); infine, pure analogo, benché di segno opposto, mi sembra il senso dell’indicazione, nel pre-

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sente fr. 25, di «coloro i quali entrano negli stessi fiumi» e, nel fr. 27, dei soggetti, ancora una volta non esplicitati, che «operano alle stesse con-dizioni», un’indicazione che introduce evidentemente la distinzione fra i punti di vista di chi giunge a cogliere l’unità del tutto al di sopra del divenire e del mutamento delle cose particolari, nel caso del presente frammento, e di chi invece, nel caso del fr. 27, dell’irriducibile opposi-zione statica fra le cose particolari rimane prigioniero, incapace di innalzarsi alla superiore prospettiva dell’unità del tutto. Ciò consente inoltre di precisare lo statuto e i lineamenti ontologici del tutto rispetto alle singole cose che lo compongono (come pure del fiume rispetto alle diverse acque che comprende in sé), giacché l’unità e la permanenza del tutto non costituiscono un superamento o una negazione delle differen-ze fra le singole cose che lo compongono, ma, al contrario, è proprio in quanto rimangono sempre diverse e perciò coinvolte in un movimento di reciproca implicazione e alternanza, in virtù del divenire che le carat-terizza, che le cose particolari possono contribuire esaustivamente a completare la totalità del reale; l’«identità» del tutto non va dunque intesa nel senso dell’assoluta indiscernibilità delle sue parti o dei suoi componenti, ma piuttosto come l’identità «organica» di ciò che non muta rispetto alla quantità e alla qualità delle sue parti o dei suoi componen-ti, perché nessuno di essi viene a mancare o ad aggiungersi, ma solo a modificare il proprio ruolo e la propria collocazione nel tutto. Del resto, se le singole cose esistenti, e fra esse anche i termini opposti, giungesse-ro a una condizione di piena identità e coincidenza, non sarebbero più, evidentemente, cose diverse o termini opposti, ma si ridurrebbero a un’unica realtà; l’affermazione eraclitea dell’unità del tutto pare sup-porre invece la reciproca implicazione di tutte le cose, sicché, come facce o aspetti distinti dell’unica realtà e pur conservando la propria opposizione, tutte le cose concorrono, da un punto di vista più generale, all’unità e all’identità «dinamica» del tutto; donde l’importanza della tesi del divenire, indispensabile per giustificare tale dinamismo di tutte le cose nella loro alternanza e nella loro successione, sempre tuttavia nel contesto della dottrina dell’unità del tutto e a questa subordinata. Ne concludo perciò, tornando alla testimonianza platonico-aristotelica, che essa non deve essere considerata inattendibile in quanto richiama la tesi del divenire, ma soltanto nella misura in cui assume questa tesi in un’ottica radicale che, trascurando il contesto eracliteo originale, porta a innalzare il principio del divenire a legge fondamentale ed esclusiva del mondo sensibile, al fine esplicito di contrapporgli un mondo intelle-gibile dotato di stabilità e immutabilità. Ciò produce, nella tradizione posteriore, una progressiva distinzione fra le due dottrine eraclitee dell’unità degli opposti e del divenire, quest’ultima eventualmente connessa all’ambito psicologico, che conquistano una reciproca autono-mia, mentre appaiono invece, stando almeno ai materiali presumibil-mente autentici di Eraclito, così strettamente connesse che la seconda ricade nell’ambito più generale della prima, di fatto come un suo corol-lario. Questa mi sembra la massima concessione possibile relativamen-te all’attribuzione a Eraclito di una dottrina del divenire della realtà; sulla stessa linea le conclusioni di Kirk, pp. 377-78 (che si limita però ad

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FR. 26 [125 DK; 31 MARC.] 93

applicare la tesi del divenire all’ambito fisico-cosmologico), di Kahn, pp.167-68, di Robinson, pp. 83-84, e soprattutto di Tarán, Heraclitus, cit., che tuttavia interpreta il presente fr. 25 piuttosto nell’ottica di un’illu-strazione della contrapposizione fra i mondi «privati» dei singoli uomi-ni (in riferimento alle acque «sempre diverse» che scorrono nei fiumi) e l’unico mondo «comune» descritto dal lovgoı (in riferimento ai fiumi che rimangono gli «stessi», nonostante le acque «sempre diverse» che scorrono in essi), con evidenti ricadute nell’ambito della psicologia eraclitea; a un contesto psicologico o psico-fisiologico alludono anche Bollack-Wismann, p. 88, Diano-Serra, p. 156, Conche, pp. 453-54, e Pra-deau, p. 213, mentre Marcovich, p. 153, propende per un’interpretazione del frammento nell’ambito della dottrina dell’unità dei termini opposti, negando decisamente ogni connessione con la tesi del divenire, di cui egli dubita che possa essere considerata come autenticamente eraclitea. Per un esame più approfondito della questione, sia lecito rinviare anco-ra al mio articolo I fiumi, le acque, il divenire, cit., e, più sinteticamente, all’Introduzione, § 4.2.

Fr. 26 [125 DK; 31 Marc.]1

kai;2 oJ kukew;n diivstatai <mh;>3 kinouvmenoı.

Anche il ciceone, se non viene rimescolato, si decompone.4

1 Questo frammento è riportato da Teofrasto, De vertigine 9 Wimmer, nel contesto di una spiegazione della «vertigine», o «vortice», che si produce quando le parti pesanti dell’occhio sono in quiete e, facendo pressione sulle altre parti, determinano il fenomeno: «Decomposte e separate, le parti pesanti pesano e producono la vertigine. Infatti, le parti che, per natura, si muovono a una certa andatura sono anche tenute insieme in virtù di tale movimento: altrimenti, come dice Eraclito, ... (Teofrasto cita qui il fr. 26)». Con lievi varianti, il frammento è evocato anche da un certo numero di testimoni antichi (cfr. Marcovich, pp. 107-08 e, infra, n. 3).

2 Il kai; che apre la citazione è sospetto: secondo Marcovich, p. 108 e n. 2, potrebbe appartenere al contesto teofrasteo, come introduzione della citazione di Eraclito.

3 La negazione <mh;> è congettura di Bernays, effettivamente suggerita dal contesto teofrasteo (secondo il quale, come si evince supra, n. 1, è il movimento delle parti pesanti a garantirne l’unità e la continuità) e si trova inoltre confermata dalla citazione dello stesso brano eracliteo nei Problemata attribuiti ad Alessandro di Afrodisia

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94 FR. 26 [125 DK; 31 MARC.]

(IV 42 = 11.16 Usener): oJ de; kukevwn ... eja;n mhv tiı taravtth, <di>ivstatai; ed è di conseguenza accolta dalla quasi totalità degli editori (si veda, contra, Bollack-Wismann, p. 340, e soprattutto Mouraviev I, pp. 316-17, e III, p. 143, nn. 1-3, che è costretto tuttavia a adottare così un’interpretazione, a mio avviso poco plausibile, di carattere «ironico» del frammento, che conterrebbe una sorta di dimostrazione per assurdo svolta da Teofrasto: è il movimento a tenere insieme gli elementi che si muovono, «altrimenti anche la mistura del ciceone, a forza di rimescolarla, finisce [ma occorrerebbe piuttosto: finirebbe] per decomporsi»).

4 Il ciceone, una bevanda composta di acqua e farina d’orzo, era probabilmente utilizzata nell’ambito dei misteri di Eleusi (cfr. Diano-Serra, pp. 125-26, e Conche, pp. 450-51), ma, in questo contesto, pare alludere a una qualunque pozione che deriva dal mélange di più ingredienti, che rimangono uniti a condizione di essere conti-nuamente «rimescolati» (proprio a questo movimento circolare fa riferimento il verbo kinevw), mentre, fermandosi, si separerebbero l’uno dall’altro (l’elemento solido andandosi a depositare sul fondo). Mi pare abbastanza chiaro che il significato più plausibile di questo frammento, come del seguente fr. 27 [84ab DK; 56ab Marc.], sia quello di spiegare che il movimento e il divenire a esso connesso vanno intesi come la modalità concreta attraverso la quale si realizza l’unità di tutte le cose a partire dall’opposizione e dalla tensione reciproca fra termini distinti che, pur rimanendo tali di per sé, si lasciano tuttavia ricomporre nella superiore unità del tutto (si veda, per questa inter-pretazione, il precedente fr. 25 [12 DK; 40 Marc.], con la relativa n. 3). Non avverto perciò la difficoltà segnalata da Marcovich, p. 109, che in certa misura contrappone la tesi del movimento o del mutamento in generale all’ipotesi, peraltro da me condivisa, che sia invece in gioco qui l’idea di un’interazione fra gli opposti, intesa come causa dell’unità del tutto: come infatti argomentato supra, ancora nella n. 3 al fr. 25, non giudico possibile attribuire a Eraclito una dottrina del divenire o del movimento perenne di tutte le cose, se non appunto come subordinata alla tesi generale dell’unità dei termini opposti, cioè nella forma di un’illustrazione dei modi in cui tale unità effet-tivamente si realizza come equilibrio dinamico di singoli elementi distinti che, nella mutevole vicenda del reale, concorrono a comporre una totalità organica e armoniosa. Così pure Kirk, p. 256, Kahn, pp. 194-95 (che considera comunque queste parole come una parafrasi dell’originale), Conche, p. 451, e Robinson, pp. 162-63, che valorizzano tuttavia in modo particolare il significato cosmologico del frammento.

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Fr. 27 [84ab DK; 56ab Marc.]1

metabavllon ajnapauvetai: [kai;] kavmatovı ejsti toi'ı aujtoi'ı mocqei'n kai; a[rcesqai.2

Mutando condizione permane: è penoso operare alle stesse condizioni ed esservi sottoposti.3

1 Questo frammento è riportato da Plotino, Enneadi IV 8 [6] 1.13-15, che evoca Eraclito, citandone o parafrasandone le parole, in relazione al problema della discesa dell’anima dall’intellegibile nella realtà materiale dei corpi: «Eraclito, che ci impone di esaminare tale que-stione, ponendo dei necessari scambi fra i termini contrari (cfr. infra, il fr. 33 [90 DK; 54 Marc.]) o parlando di una via che conduce in alto e di una che conduce in basso (cfr. supra, il fr. 20 [60 DK; 33 Marc.], n. 1) e dicendo anche che ... (Plotino cita qui il fr. 27), ci ha lasciati nel dubbio, non avendoci chiarito il senso del suo discorso, forse perché bisogna che ciascuno indaghi se stesso, come lui stesso ha indagato e trovato (cfr. infra, il fr. 70 [101 DK; 15 Marc.])». Si è sospettato che i due kaiv dai quali è intervallata la citazione plotiniana del presente frammento (eipw;n kai; metabavllon ajnapauvetai kai; kavmatovı ejsti toi 'ı aujtoi'ı mocqei'n kai; a[rcesqai) suggeriscano che Plotino stia richiamando due contesti distinti e separati dell’originale eracliteo; prevale tuttavia la scelta di collocarli in stretta sequenza (così, per esempio, DK, Kirk, p. 252, Marcovich, p. 213, Diano-Serra, pp. 21 e 144, Pradeau, pp. 117 e 224, e Mouraviev I, p. 216, e III, p. 102; contra, per esempio, Bollack-Wismann, pp. 250-52, Kahn, pp. 53 e 169-70, Conche, pp. 295-96 e 396-97, e Robinson, pp. 50-51 e 133-34, che considerano i due brevi passi come due distinte citazioni, forse in parte parafrasate, benché possibilmente collegate, dell’originale eracliteo), talvolta indicandone i due membri come «a» e «b», perché la seconda parte del testo sembra contenere un’illustrazione o una spiegazione dell’enunciazione generale di un principio introdotto nella prima parte (si veda infra, n. 3). Non si può naturalmente escludere che Plotino operi una sintesi, parzialmente parafrasandoli, fra materiali tratti da una raccolta precedente, di cui sarebbe impossibile valutare la consistenza e l’attendibilità; ma la con-tinuità della citazione mi pare sufficientemente garantita, sicché ritengo che il primo kaiv debba essere restituito al contesto plotiniano, mentre il secondo può essere espunto in quanto intervento del citatore nella citazione. Anche altre fonti antiche, però posteriori a Plotino e dunque verosimilmente da lui dipendenti, conservano una stretta connessione tematica fra le due parti del frammento (cfr. per esempio Giamblico, De anima in Stobeo I 49.39 [= I 378.21 Wachsmuth]). Sicura parafrasi della prima parte del presente fr. 27 mi sembra l’altro riferimento di Plotino, Enneadi IV 8 [6] 5.6-7: ajnavpaula ejn th ' / fugh ' / («la quiete è nella

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96 FR. 27 [84ab DK; 56ab MARC.]

fuga»), che solo pochissimi editori (si veda soprattutto Mouraviev I, p. 218, e III, p. 103) considerano come un frammento autonomo.

2 Benché la tradizione manoscritta delle Enneadi non mostri esita-zione, l’infinito a[rcesqai è stato oggetto di dubbi: sono state proposte le correzioni a[gcesqai (Creuzer, con significati diversi: «indietreggiare», «ricominciare») e ajrkei 'sqai (Mouraviev I, p. 217, e III, p. 102, nn. 4-5, con il significato di «trovare soddisfazione», «accontentarsi»).

3 L’interpretazione di questo frammento, fin dalla sua sintassi, appa-re controversa. In primo luogo, non disponiamo evidentemente di un soggetto esplicito del primo membro di frase, il che ha indotto alcuni a suppore che si debba sottintendere un riferimento al fuoco, concepito come elemento fondamentale del cosmo che, attraverso le sue successive trasformazioni, produce ogni cosa e ogni stato di cose esistente (così Marcovich, p. 213, Conche, p. 296, e, più prudentemente, Pradeau, p. 224); a mio avviso, invece, non è necessario sottintendere alcun soggetto, perché mi pare plausibile ritenere che la condizione di mutamento o di mobile alternanza fra stati diversi e opposti (metabavllon, da porre in parallelo con il metapesovnta del fr. 22 [88 DK; 41 Marc.], che adempie alla medesima funzione), dalla quale derivano equilibrio e stabilità, possa applicarsi a ogni cosa e alla totalità del reale (questa, con diverse sfumature, la posizione difesa anche da Kirk, pp. 252-54, Kahn, pp. 169-70, e Diano-Serra, p. 144). In secondo luogo, è disputato il senso del dativo toi'ı aujtoi'ı, che può essere maschile, alludendo perciò a persone più o meno determinate («...è penoso operare per gli stessi padroni ...», così, per esempio, Marcovich, pp. 213-14, secondo il quale l’allusione sarebbe alle diverse leggi cui obbediscono i mutamenti successivi del fuoco che conducono, nel loro insieme, a una condizione di quiete o di assenza di fatica, e Diano-Serra, pp. 21 e 144), o, secondo l’opzione da me preferita, neutro, evocando allora cose o situazioni non meglio precisate (cfr. Kahn, p. 170, Pradeau, p. 224, e Mouraviev I, p. 216, e III, p. 102, n. 4); occorre inoltre ricordare che il verbo mocqevw con il dativo sembra indicare piut-tosto la causa dell’azione compiuta o l’oggetto in relazione al quale è compiuta che non la persona per la quale, o al servizio della quale, tale azione è compiuta, ed è in questo senso che ritengo si possa cogliere, con la traduzione proposta, un riferimento alla «pena» o alla «fatica» che derivano dall’operare sempre «alle stesse condizioni», cioè agendo in base a obblighi immutabili ai quali si è tenuti, cui si contrappone invece lo stato positivo di alternanza e di mutamento delle condizioni nelle quali e alle quali si verificano l’operare e l’agire di qualunque cosa, uno stato di alternanza e mutamento che contribuisce a produrre il generale equilibrio del tutto. Si noti infine che il verbo a[rcw può significare tanto «comandare» o «assoggettare», che è la resa da me adottata, quanto «cominciare» o «dare inizio» a qualcosa (nel qual caso avremmo: «...è penoso operare alle stesse condizioni e da esse cominciare»). In virtù delle scelte sintattiche e di traduzione compiute, si comprenderà che l’interpretazione del frammento da me suggerita tende a collocarlo, in linea con i precedenti frr. 25 [12 DK; 40 Marc.], cfr. n. 3, e 26 [125 DK; 31 Marc.], cfr. n. 4, nell’ambito della spiegazione eraclitea del divenire. Le due parti del frammento, infatti, si completano vicendevolmente:

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FR. 28 [67 DK; 77 MARC.] 97

nella prima parte si trova enunciato un principio generale che indica nel mutamento e nel movimento, cioè in una condizione dinamica associabile al divenire, la causa che sottostà alla stabilità e all’equilibrio del tutto e che, a un tempo, ne determina la composizione unitaria; nella seconda parte, invece, viene fornita un’illustrazione di questo principio, mostrando come sia «gravosa» ogni forma di azione che si verifichi a sempre iden-tiche condizioni date e a esse risulti perciò ineludibilmente vincolata, evidentemente in opposizione allo stato dinamico di movimento e di mutamento che produce l’equilibrio del tutto. In altre parole, credo che Eraclito intenda sostenere che soltanto l’ammissione del movimento e del mutamento di tutte le cose esistenti può giustificare, come suo esito, una prospettiva generale unitaria e armoniosa che realizza, nell’unità del tutto, la reciproca composizione dei termini opposti e la loro non conflittuale compresenza (si veda ancora quanto affermato supra, nel fr. 22, cfr. specialmente n. 6, in cui si argomenta appunto che «... questi [scil., i termini opposti], scambiandosi di ruolo [metapesovnta], sono quelli e quelli, di nuovo scambiandosi di ruolo [pavlin metapesovnta], sono questi»), di fatto, dunque, indicando nel divenire la causa della composizione e della stabile unità dei termini opposti (così soprattutto Kirk, p. 253, e Pradeau, p. 224); mentre, d’altro canto, se l’intera realtà si trovasse in una condizione statica, sempre sottoposta alle medesime leggi o ai medesimi obblighi (toi'ı aujtoi'ı), tutte le cose esistenti rimarrebbero in uno stato «gravoso» o «penoso» di reciproca irriducibilità e opposizione, che mai potrebbe risolversi in un quadro superiore davvero unitario. Chi giudica le due parti del presente frammento come fra loro distinte e autonome (cfr. supra, n. 1), tende a fornire della prima una lettura, non dissimile da quella da me difesa, connessa alla tesi del divenire e dell’unità dei termini opposti, e, della seconda, un’interpretazione, per così dire, «sociologica», a sottolineare la monotonia della condizione degli schiavi (così Conche, pp. 296 e 397, e Robinson, pp. 133-34).

Fr. 28 [67 DK; 77 Marc.]1

oJ qeo;ı hJmevrh eujfrovnh,2 ceimw;n qevroı, povlemoı eijrhvnh, kovroı limovı [tajnantiva a{panta, ou|toı oJ nou'ı]:3 ajlloiou'tai4 de; o{kwsper <pu'r o}>5, oJkovtan6 summigh'/ quwvmasin, ojnomavzetai kaq jhJdonh;n eJkavstou.

Il dio è giorno notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame; si altera come il fuoco che, mescolandosi alle spezie, viene chiamato a seconda del gusto di ciascuna.7

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98 FR. 28 [67 DK; 77 MARC.]

1 Questo frammento è riportato da Ippolito, Refutatio contra omnes haereses IX 10.8 (= 244 Wendland), nella forma di un résumé conclusivo dell’insieme di citazioni eraclitee fin lì raccolte (corrispondenti ai frr. 15 [54 DK; 9 Marc.], 42 [55 DK; 5 Marc.], 50 [57 DK; 43 Marc.], 96 [58 DK; 46 Marc.], 18 [59 DK; 32 Marc.], 20 [60 DK; 33 Marc.], 31 [61 DK; 35 Marc.], 21 [62 DK; 47 Marc.], 69 [63 DK; 73 Marc.] e 39 [64+65+66 DK; 79+55+82 Marc.], per i cui contesti si vedano le relative note di commento) e per mostrare come l’eresia monarchiana di Noeto di Smirne, che negava la trinità in favore dell’unità delle persone divine, non risale all’insegnamento di Cristo, ma appunto a Eraclito e alla sua dottrina dell’unità dei termini opposti (cfr. già supra, n. 1 al fr. 15): «In questa sezione, Eraclito ha espresso tutto insieme il suo intendimento, che è anche quello dell’eretico, di cui ho in breve mostrato che non è discepolo di Cristo, ma di Eraclito. Egli dice così, infatti, che lo stesso mondo creato si trova a essere demiurgo e creatore di se stesso: ... (Ippolito cita qui il fr. 28)».

2 eujfrovnh è correzione di Miller della lezione eujfravnqh (termine che richiama Eufranta, dea «che rallegra», corrispondente al latino Laetitia) di Ippolito, che deriverebbe invece, secondo Mouraviev I, pp. 164-65, da una corruzione da eujfrosuvnh («gioia», «allegria», che Mouraviev traduce tuttavia ugualmente, ricollegandolo al sostantivo eujfrovnh e all’aggettivo eu[frwn, con «notte», facendo riferimento al sintagma che si trova negli Inni orfici hJ eujfrosuvnh [nuvx], «la benefica [notte]»). Il senso della prima coppia di opposti chiamata in causa, comunque, non muta.

3 Con la quasi totalità degli editori, ritengo ovvio espungere queste parole, presenti in Ippolito, come un evidente inciso esplicativo («questo è il senso [scil., dell’affermazione eraclitea]: tutti i contrari»).

4 ajlloiou 'tai (che ha suscitato il sospetto di alcuni commentatori: si vedano in proposito Kirk, pp. 189-91, che ne difende l’autenticità, e, contra, Diano-Serra, p. 142) è equivalente, dal punto di vista paleogra-fico, ad ajll joijou'tai (dal verbo oijovw), che darebbe la resa seguente: «... ma rimane solo (oppure: unico) ...», non impossibile, ma, a mio avviso, meno perspicua (cfr. però Mouraviev I, pp. 164-65, e III, pp. 76-77, n. 5).

5 Il testo di Ippolito non presenta in questo punto alcuna lacuna e procede continuativamente da o{kwsper a oJpovtan, risultando perciò privo di coerenza, in mancanza del termine di paragone da porre in relazione con il qeovı iniziale: «Il dio è giorno notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame; si altera come ..., quando si mescola alle spezie, viene chia-mato a seconda del gusto di ciascuna» (solo Bollack-Wismann, p. 220, e Kahn, pp. 84-85, fra i traduttori e i commentatori recenti, mantengono il testo tradito e ne difendono perciò, a mio avviso senza successo, la relativa traduzione). Questa mancanza, acutamente spiegata da Marco-vich, p. 289, come una distrazione del copista, che avrebbe omesso (per aplografia), come fosse un’erronea ripetizione, <pu'r> dopo o{kws<per> e <oJ> prima di <oJ>povtan, ha dato luogo a varie ipotesi (per le quali si vedano ancora Marcovich, p. 288, n. 5, e Mouraviev I, p. 165, e III, p. 76, nn. 3-4): il testo qui stampato corrisponde alla correzione suggerita inizialmente da Diels (<pu'r>) e ulteriormente integrata da Marcovich, pp. 287-88 (<pu'r o}>).

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6 oJkovtan è correzione di oJpovtan di Ippolito (mantenuto però da Bol-lack-Wismann, p. 220, Conche, p. 379, Robinson, p. 44, e Pradeau, p. 322).

7 Il frammento si costruisce sull’analogia stabilita fra il soggetto della prima parte, oJ qeovı, concepito come natura o realtà propriamente «divina» che si colloca su un piano di universalità e di onnicomprensi-vità al di là della particolarità e delle contraddizioni della dimensione umana (qui espresse nella forma di una serie di coppie di termini opposti, cfr. pure Conche, p. 383), e il soggetto della seconda parte, «il fuoco», anch’esso descritto come elemento fondamentale e unico, e in tal senso in sé comprensivo di tutte le cose in quanto tutte le pervade, dalle cui successive trasformazioni derivano tutte le cose di cui dunque è produttore e con cui di conseguenza di volta in volta si identifica (con il riferimento alle «spezie», evidentemente a rappresentare le singole cose esistenti che non sussistono se non come alterazioni del fuoco). Tale analogia si fonda su un parallelismo fra (1) l’ambito ontologico, nel senso più immediato che, nella considerazione del reale, si affiancano la constatazione «umana» della presenza di termini fra loro opposti che esauriscono la totalità di ciò che è («giorno-notte», «inverno-estate», «guerra-pace», «sazietà-fame») e il superiore punto di vista «divino», coincidente con il contenuto del lovgoı delineato in questa Sezione 2, che colloca i termini opposti in una prospettiva unitaria, come altrettante facce o aspetti della totalità del reale, e (2) l’ambito fisico-cosmologico, nel quale si individua un elemento originario unico, il fuoco, che tuttavia, in virtù delle sue alterazioni e dei suoi mutamenti, giustifica l’esistenza di tutte le singole cose particolari con cui si identifica: in entrambi i casi, quindi, e su entrambi i piani, ontologico e fisico-cosmologico, viene ribadita la tesi dell’unità e della composizione di tutte le cose, e particolarmente dei termini opposti, concepite, nel primo caso, come sintesi equilibrata e «divina» dei due termini di ogni coppia di opposti derivante dalla loro alternanza e, nel secondo caso, come esito delle successive trasformazioni dell’unico fuoco, che, pur rimanendo ciò che è in se stesso, cioè fuoco, di ogni cosa assume la forma, in quanto subisce alterazioni che lo portano ad accogliere, nella propria unità, le proprietà e l’aspetto di ciascuna (adottando via via il nome corrispondente alla sua «essenza», visto che il «gusto», come ho reso il termine hJdonhv, rap-presenta effettivamente la proprietà essenziale o specifica delle diverse spezie, ossia il loro «aroma», cfr. Marcovich, p. 290). Secondo questa interpretazione (difesa già, almeno nelle sue linee essenziali, da Kirk, p. 201, e da Pradeau, pp. 322-23; ma si veda, contra, Marcovich, p. 290, che colloca invece il frammento in un contesto eminentemente teologico, con l’indicazione dell’immanenza della divinità nel mondo, esemplifi-cata dall’azione fisico-cosmologica del fuoco; come descrizione della struttura «divina» del cosmo, dunque assumendo un’ottica «teologica» in questo senso limitato, intendono il presente frammento anche Kahn, pp. 277-80, e Robinson, pp. 127-28), troviamo nuovamente sancita la stretta connessione, posta nei precedenti frr. 25 [12 DK; 40 Marc.], cfr. n. 3, 26 [125 DK; 31 Marc.], cfr. n. 4, e 27 [84ab DK; 56ab Marc.], cfr. n. 3, fra la tesi dell’unità del tutto, e specificamente dei termini opposti, e la dottrina del divenire e del mutamento, che ne costituisce la causa

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sottostante (l’«alterazione» del fuoco, espressa qui da ajlloiou 'tai, e valida, per analogia, come spiegazione dell’alternanza dei termini opposti, corrisponde al metabavllon del fr. 27, che richiama anch’esso la condizione di mutamento e di trasformazione che caratterizza l’intera realtà e ne determina l’equilibrio unitario). L’introduzione del fuoco, come elemento fondamentale della costituzione fisica e del mutamento di tutte le realtà naturali, mi induce perciò a collocare questo frammento alla conclusione della sequenza di materiali eraclitei dedicati all’esame dei contenuti del lovgoı, che consistono nella tesi dell’unità di tutte le cose e dell’armoniosa composizione dei termini opposti e nell’indicazione di una legge di alternanza, fondata sull’ammissione del divenire e del mutamento come modalità concreta della realizzazione dell’unità del tutto; il fr. 28, in quanto riprende tali dottrine, estendendone tuttavia l’ambito di applicazione sul piano fisico-cosmologico attraverso il rife-rimento, per analogia, al fuoco, fornisce una naturale transizione verso la seguente Sezione 3. Del tutto in controtendenza rispetto a ognuna delle interpretazioni citate, Bollack-Wismann, pp. 221-22, sottolineano invece il carattere soggettivistico e relativistico che emergerebbe nella concezione del divino della religione tradizionale (per ciascuno «il dio» assume un aspetto e un nome diverso), di cui Eraclito si proporrebbe qui una critica radicale: non sono personalmente persuaso da una simile lettura.

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SEZIONE 3Il fuoco

1. Dottrina

Il sapere che costituisce il contenuto del lovgoı, delineato nei materiali raccolti nella precedente Sezione 2 in termini ontologici, cioè in relazione alla natura delle cose che sono e del tutto, si trova esteso adesso all’ambito propriamente fisico-cosmologico del cosmo e degli elementi che ne determinano i fenomeni e la processualità. Viene stabilito innanzitutto che il cosmo nel suo insieme, da intendere come l’universo nella sua totalità, è eterno e dunque ingenerato e incorruttibile, per mano degli dei o degli uomini, e coincide con un «fuoco» altrettanto eterno, che ne è principio ed elemento fondamen-tale, alle cui misurate e costanti alterazioni, di diminuzione e aumento di intensità, sono ricondotti i processi che in esso hanno luogo (fr. 29). Tali alterazioni spiegano perciò le trasformazioni elementari di tutte le cose, verosimilmente in base all’associazione di fenomeni di condensazione e rarefazione alla diminuzione e all’aumento dell’intensità del calore del fuoco, per cui dalla fiamma, per la condensazione che si produce in rapporto con il suo misurato spegnimento, si genera l’acqua del mare, possibilmente passando attraverso uno stato umido e aereo, e ancora dall’acqua, per ulteriore condensazione, la solida terra; a sua volta la terra, all’aumento dell’intensità del calore del fuoco, per rarefazione si scioglie in acqua e l’acqua evapora in cielo causando i fenomeni atmosferici temporaleschi, che nuovamente riconducono

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all’acqua, sotto forma di pioggia, e al fuoco, come tempesta di fulmini, in modo tale che l’equilibrio del tutto, e i rapporti di misura fra gli elementi che lo compongono, rimangono invariati e costanti (fr. 30). Anche a questo livello fisico-cosmologico sembra valere la tesi dell’unità dei termini opposti, per cui ciascun elemento è complementare al suo opposto e contribuisce così alla completezza e all’ordine del tutto, pur configurandosi di per sé, dal punto di vista della sua costituzione elementare, semplicemente per quello che è (per esempio «caldo» o «secco» o «acqua di mare»), benché sempre in relazione al suo opposto (per esempio «freddo» o «umido») e producendo effetti opposti rispetto a un terzo termine cui si riferisce (per esempio l’«acqua di mare», che è potabile per i «pesci», ma mortale per gli «uomini»), sicché il cosmo nel suo insieme risulta equilibrato e completo, in virtù del fuoco che, di tutte le cose e degli elementi fondamentali, è principio e misura universale (frr. 31-33).

Questo schema esplicativo generale si applica inoltre all’illustrazione di una serie di fenomeni meteorologici, connessi alla natura, alla posizione e al corso degli astri e in particolare del sole, che esemplifica, appunto sul piano meteorologico «quotidiano» dell’alternanza del giorno e della notte o «annuale» della successione delle stagioni, la funzione cosmologica del fuoco (frr. 34-38): nutrendosi delle esalazioni provenienti dal mare per l’aumento dell’in-tensità del calore del fuoco nel corso della giornata, il sole avanza nel suo corso fino all’apice del mezzogiorno, per poi progressivamente spegnersi fino al tramonto notturno in corrispondenza con la diminuzione dell’intensità del calore del fuoco, così riproducendo ogni giorno, ugualmente e necessariamente, il suo ciclo nel cielo. Anche l’ambito meteorologico è quindi disposto e spiegato in relazione all’azione del fuoco, che tutte le cose penetra in quanto di tutte costituisce la sostanza fondamentale e di cui il fulmine rappresenta esso pure, come il sole, un esemplare atmosferico,

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SEZIONE 3 103

cui è di conseguenza attribuita, per analogia, una funzione direttiva (fr. 39).

2. Dossografia

Per quanto riguarda la natura del cosmo, eterna o generata, Aristotele, De caelo I 10, 279b12-20, e Fisica III 5, 205a3, sembra prestare a Eraclito la tesi di una ciclica rigenerazione che continua eternamente, in corrispondenza con altrettanti cicli di accensione e spegnimento del fuoco, mentre Simplicio, De caelo 94.4 Heiberg riconosce esplicitamente la prossimità di questa tesi alla cosmologia stoica della «conflagrazione» [= 22 A 10 DK]. Secondo una testimonianza di Aezio II 32.3 (= Dox. 364) [= 22 A 13 DK = fr. 65 Marc.], Eraclito sarebbe giunto a calcolare la durata di un ciclo cosmico in 10.800 anni solari, dati da 360 cicli o «giorni» della durata di 30 anni solari ciascuno, per cui 360 x 30 anni = 10.800.

Diogene Laerzio, Vitae philosophorum IX 9-11 [= 22 A 1 DK = fr. 61 Marc.], che cita Teofrasto fra le sue fonti di informazione, fornisce un’ampia testimonianza intorno alla funzione da Eraclito attribuita al principio del fuoco, dal punto di vista fisico-cosmologico e meteorologico. Egli associa in primo luogo alla diminuzione e all’aumento del calore del fuoco i due processi di condensazione e rarefazione (cfr. pure, anch’egli probabilmente dipendente da Teofrasto, Physicorum

opiniones, fr. 1 [= Dox. 475], Simplicio, Physica 23.33 Diels, Aezio I 3.11 [= Dox. 283] e Galeno, De elementis secundum

Hippocratem I 443 Kühn [= 22 A 5 DK]; e Aezio III 3.9 [= Dox. 369] [= 22 A 14 DK]), che innescano rispettivamente le sequenze di trasformazione elementare «fuoco-umido-acqua-terra» e «terra-acqua-umido-fuoco», attribuendo inoltre a Eraclito la tesi di una doppia esalazione (ajnaqumivasiı), dalla terra e dall’acqua del mare, l’una, più limpida e luminosa, che alimenta il sole e ne aumenta l’intensità, così producendo il

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giorno, nel ciclo quotidiano, e l’estate, nel ciclo stagionale, l’altra, più densa e oscura, che alimenta gli astri notturni e ne determina il prevalere, così producendo la notte e l’inverno (cfr. anche Aezio II 13.8 e II 17.4 [= Dox. 342 e 346] [= 22 A 11 DK]). Gli astri sarebbero stati concepiti da Eraclito come piccole «ciotole» o «catini» (skavfai), che, per la loro forma concava, raccolgono tali esalazioni che si accendono come fiamma luminosa e calda, il cui grado di luce e calore percepiti sulla terra dipendono dalle loro maggiori o minori distanze; come anche i fenomeni delle eclissi e i periodi degli astri dipenderebbero dalla rotazione di queste «ciotole» e dalla posizione che assumono rispetto alla terra (cfr. ancora Aezio II 20.16 [= Dox. 351], II 22.2 [= Dox. 352], II 24.3 [= Dox. 354], II 27.2 [= Dox. 358], II 28.6 [= Dox. 359] e II 29.3 [= Dox. 359] [= 22 A 12 DK]) (per una sintetica discussione dei diversi aspetti della testimonianza di Diogene Laerzio in relazione ai materiali eraclitei pertinenti, si veda infra, n. 4 al fr. 34 [0 (3+94) DK; 0 (57+52) Marc.], n. 3 al fr. 35 [99 DK; 60 Marc.] e n. 3 al fr. 36 [6 DK; 58 Marc.]).

3. Studi critici

Per quanto riguarda l’indicazione, da parte di Eraclito, del fuoco come principio fisico-cosmologico fondamentale di tutte le cose, si possono consultare gli studi seguenti: H. Jones, Heraclitus, Fragment 31, in «Phronesis» 18 (1972), pp. 193-97; W.J. Verdenius, Heraclitus’ Conception of Fire, in Kephalaion. Studies in Greek Philosophy and its Continua-tion offered to Professor C.J. de Vogel, a cura di J. Mansfeld e L.M. de Rijk, Van Gorcum, Assen 1975, pp. 1-8; I. Labriola, Il fuoco, lo scambio e l’unità degli opposti, in Atti del Sympo-sium Heracliteum 1981, a cura di L. Rossetti, vol. I, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1983, pp. 241-50; M. Bartling, Feuer, Seele und Logos. Untersuchungen zu einigen Heraklit-Fragmente,

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Junghans, Cuxhaven 1990; e K. Narecki, La fonction cos-mologique du feu, in «Eos» 81 (1993), pp. 199-211. Per la delicata questione dell’attribuzione o meno a Eraclito della tesi, successivamente formulata in ambito stoico, della ciclica «conflagrazione» del cosmo, in corrispondenza con i picchi periodici dell’intensità del calore del fuoco, oltre ai rilievi da me formulati infra, n. 4 al fr. 29 [30 DK; 51 Marc.] e n. 1 e 7-8 al fr. 39 [64+65+66 DK; 79+55+82 Marc.], e soprattutto supra, nell’Introduzione, § 4.3, utili contributi rimangono quelli di R. Mondolfo, Evidence of Plato and Aristotle relating to the Ecpyrosis in Heraclitus, in «Phronesis» 3 (1958), pp. 75-82, di C.D.C. Reeve, Ekpurosis and the Priority of Fire in Heraclitus. A Discussion Note, in «Phronesis» 27 (1982), pp. 299-305, di C. Viano, Aristotele e l’archè-fuoco di Eraclito, in «Archives Internationales d’Histoire des Sciences» 37 (1987), pp. 207-21, di A. Finkelberg, On Cosmogony and Ekpyrosis in Heraclitus, in «American Journal of Philology» 119 (1998), pp. 195-222, e di S.N. Mouraviev, Doctrinalia Heraclitea I et II: Âme du monde et embrasement universel (Notes de lecture), in «Phronesis» 53 (2008), pp. 315-58; mentre piuttosto a una ricostruzione dei rapporti fra la dottrina stoica e la sua «fonte» eraclitea su questo aspetto sono dedicati gli studi seguenti: A.A. Long, Heraclitus and Stoicism, in «Philosophia» 5-6 (1975-76), pp. 133-56 (ora in Id., Stoic Studies, Cambridge Univ. Press, Cambridge 1996, pp. 35-57); R.W. Sharples, On Fire in Heraclitus and in Zeno of Citium, in «Classical Quar-terly» 34 (1984), pp. 231-32; e J. Bels, Le thème de la grande année: d’Héraclite aux Stoïciens, in «Revue de Philosophie Ancienne» 7 (1989), pp. 169-83.

Sulla posizione della riflessione fisico-cosmologica di Eraclito in relazione alla precedente cosmologia ionica, tratteggiano un efficace e assai informato quadro generale J. Kerschensteiner, Kosmos. Quellenkritische Untersuchungen zu den Vorsokratikern, Beck, München 1962, G. Naddaf, L’origine et l’évolution du concept grec de «phusis», Mellen,

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Lewiston 1992, e D. Graham, Explaining the Cosmos. The

Ionian Tradition of Scientific Philosophy, Princeton Univ. Press, Princeton 2006; più direttamente alla posizione di Eraclito fanno riferimento A. Lebedev, The Cosmos as a

Stadium: Agonistic Metaphors in Heraclitus’ Cosmology, in «Phronesis» 30 (1985), pp. 131-50, e D. Graham, Heraclitus’

Criticism of Ionian Philosophy, in «Oxford Studies in Ancient Philosophy» 15 (1997), pp. 1-50.

Rispetto all’estensione delle tesi fisico-cosmologiche era-clitee all’ambito astronomico e meteorologico, si possono consultare gli studi d’insieme di C.H. Kahn, On Early Greek

Astronomy, in «Journal of Hellenic Studies» 90 (1970), pp. 99-116, e di D.P. Taormina, Eraclito e la meteorologia pre-

aristotelica, in Atti del Symposium Heracliteum 1981, cit., pp. 301-14; per alcuni approfondimenti su aspetti specifici: F. De Martino, Eraclito e l’«astronomo» Omero, in Studi di

filosofia preplatonica, a cura di M. Capasso, F. De Martino, P. Rosati, Bibliopolis, Napoli 1985, pp. 63-69; E. Montanari, Eraclito e il tramonto delle stelle (fr. 62 M. = B 120 D.-K.), ibid., pp. 71-86; W. Burkert, Heraclitus and the Moon, in «Illinois Classical Studies» 18 (1993), pp. 49-55; P. Lévêque, Héraclite et l’Ourse, in Tradizione e innovazione nella cultura

greca da Omero all’età ellenistica. Studi in onore di Bruno

Gentili, a cura di R. Pretagostini, vol. II, Gruppo Editoriale Internazionale, Roma 1993, pp. 765-71; D. Sider, Heraclitus

on Old and New Months, in «Illinois Classical Studies» 19 (1994), pp. 11-18; A.C. Bowen-B.R. Goldstein, Aristarchus,

Thales, and Heraclitus on Solar Eclipses, in «Physis» n.s. 31 (1994), pp. 689-729.

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Fr. 29 [30 DK; 51 Marc.]1

kovsmon <tovnde>,2 to;n aujto;n aJpavntwn,3 ou[te tiı qew'n ou[te ajn-qrwvpwn ejpoivhsen, ajll jh\n ajei; kai; e[stin kai; e[stai: pu'r ajeivzwon, aJptovmenon mevtra kai; ajposbennuvmenon mevtra.

Questo cosmo, lo stesso per tutti, non è opera di nessuno degli dei né degli uomini, ma sempre è stato, è e sarà; un fuoco sempre vivo, che in uguale misura si accende e si spegne.4

1 Questo frammento è riportato da Clemente Alessandrino, Stro-mateis V 104.1-3 (= II 396 Stählin) = Eusebio, Praeparatio evangelica XIII 13.30 (= II 208 Mras), poco prima del fr. 30 [31 DK; 53ab Marc.], nel contesto di un esame delle opinioni dei filosofi greci relativamente all’eternità del mondo e/o ai suoi successivi cicli di generazione e corruzione: «Eraclito di Efeso difende nel modo più esplicito questa opinione, considerando che il mondo in un certo senso è eterno, ma in un altro senso è soggetto a corruzione, sapendo che, rispetto alla sua disposizione, esso non è che una modificazione del mondo eterno. Ma egli sapeva che, in quanto tale, il mondo che comprende l’intera realtà è eterno, e lo si vede quando dice così: ... (Clemente cita qui il fr. 29)». Fra le numerose varianti del frammento che tralascio di indicare (si vedano in proposito Marcovich, pp. 185-90, e Mouraviev I, pp. 85 e 360), alcune delle quali si presentano come semplici allusioni o reminiscenze, altre, invece, come vere e proprie citazioni di parti di esso, ricordo solo quelle riportate da Plutarco, De animae procreatione in Timaeo 1014a (che cita la prima parte del frammento, fino a ejpoivhsen), e da Simplicio, De caelo 294.4 Heiberg (che cita la prima parte del frammento, fino a ajll jh\n ajeiv, e parafrasa leggermente la sua conclusione: mevtra aJptovmenoı kai; mevtra sbennuvmenoı), che appaiono particolarmente rilevanti per la costituzione del testo (cfr. le due note seguenti).

2 tovnde, assente da Clemente, è integrato qui, e accolto dalla gran parte degli editori (contra Bollack-Wismann, p. 131, Kahn, pp. 44 e 133, e Robinson, p. 24), in base al confronto con le citazioni plutarchea e simpliciana (cfr. la nota precedente). È possibile che si tratti di una distrazione del copista, che avrebbe omesso (per aplografia), come fosse un’erronea ripetizione, <tovnde> prima di to;n aujto;n.

3 to;n aujto;n aJpavntwn (pavntwn, nella versione di Eusebio), che si trova in Clemente, è invece assente dalle citazioni plutarchea e simpliciana. Ciò ha indotto alcuni editori a espungere l’inciso come una glossa esplicativa dovuta a Clemente (si vedano per esempio Kirk, pp. 307-09, e Diano-Serra, pp. 20 e 145), al fine di precisare che il kovsmoı cui si riferisce Eraclito è precisamente quello che Clemente ha evocato poco prima, ossia «il mondo che comprende l’intera realtà» (to;n ejx aJpavshı th'ı oujsivaı kovsmon,

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cfr. supra, n. 1; in tal caso, ovviamente, il genitivo aJpavntwn dovrebbe essere neutro, e rinviare a tutte le cose esistenti, oppure femminile, e rinviare a tutte le possibili «disposizioni» [diakosmhvseiı] temporanee dell’unico mondo eterno). Come ha tuttavia spiegato convincentemente Marcovich, p. 191, è improbabile che tale inciso possa dipendere da un intervento di Clemente, sia per la forma, che pare diversa da quella che gli è abituale, sia per il contenuto, giacché, se originale, il genitivo aJpavntwn si lascia intendere più agevolmente come un maschile («Questo cosmo, lo stesso per tutti gli uomini ...»), che risulta assai più consono al contesto (cfr. in proposito la nota seguente).

4 Questo frammento presenta numerosi problemi di comprensione e di interpretazione, in gran parte fra loro connessi, a cominciare dal significato esatto che conviene attribuire ad alcuni termini ed espres-sioni chiave. Innanzitutto, è stato discusso in che modo si debba inten-dere il termine kovsmoı, che è attestato nella lingua e nella letteratura greca nel significato più arcaico di «ordine» o «bella disposizione», di carattere morale o estetico, di qualcuno o di qualcosa, ma che natural-mente, proprio nel contesto della riflessione filosofica e fisico-cosmo-logica presocratica, acquisisce via via il significato tecnico e moderno di «struttura» del mondo o di «mondo» tout court (rinvio su questo punto all’ampia disamina di Kahn, pp. 133-38, che presenta una sche-matica rassegna ragionata di alcune delle occorrenze rilevanti del ter-mine); a questo problema appare inoltre strettamente connessa la questione seguente, che investe l’intero frammento: è possibile ricono-scere in queste parole di Eraclito, e più in generale nella sua riflessione come si lascia ricostruire a partire dai materiali superstiti, la formula-zione di un’ipotesi cosmogonica o, più ancora, di una vera e propria cosmogonia, cioè di una dottrina che, alla maniera della filosofia della natura fiorita in Ionia (che a sua volta prendeva le mosse dai più antichi miti dell’origine del mondo riportati in modo più o meno conseguente nella poesia epica omerica e nella Teogonia esiodea), proponga una descrizione dell’origine della realtà e della disposizione del mondo a partire dal disordine e sulla base di un’azione causale determinata dalle modificazioni di uno o più elementi o principi fondamentali? Pare abbastanza plausibile, dalla semplice lettura della prima parte del frammento, che, se (1) si intende il termine kovsmoı nel significato moderno di «mondo» o di «struttura» del mondo, non rimane spazio per nessuna ipotesi cosmogonica relativamente all’origine del mondo o della sua disposizione, perché del kovsmoı si dice senza ambiguità che non è prodotto (ejpoivhsen) da nessuno, divinità o essere umano, e a questa affermazione fa subito seguito l’altra, che si combina con la prima e la completa, secondo cui esso è eterno nella durata temporale («sempre è stato, è e sarà»): ora, non solo una realtà eterna è, per defi-nizione, ingenerata e incorruttibile, ma, per fugare ogni eventuale dubbio residuo, Eraclito si premura di escludere la possibilità stessa di qualunque intervento attivo e di qualunque azione causale, da parte di qualunque agente, nella vicenda cosmica, fatta coincidere direttamente con gli alterni e misurati mutamenti di un’unica sostanza fondamenta-le, il fuoco, che sussiste e persiste altrettanto eternamente (ajeivzwon);

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viceversa, risulta ugualmente plausibile che, se (2) si intende invece il termine kovsmoı nel significato arcaico di «bella disposizione» o «ordine», l’affermazione di Eraclito si presta alla concorrente interpretazione cosmogonica secondo la quale la forma ben disposta e perfettamente ordinata del tutto viene giudicata, sì, indipendente dall’azione di dei o uomini, ma tuttavia derivante dall’unico principio del fuoco e coinci-dente con le sue evoluzioni successive, caratterizzate da stati ciclici di «accensione» e «spegnimento»: eterno, in questo caso, non sarebbe necessariamente il mondo come tale o la sua struttura costitutiva, ma l’ordine o la disposizione degli elementi che dipendono, in ogni momen-to della loro eterna durata, dalle trasformazioni del fuoco, anch’esso eterno. Diviene a questo punto cruciale, per sciogliere il dilemma fra la (1) e la (2), prendere posizione rispetto all’espressione mevtra ... mevtra che descrive, nella seconda parte del frammento, i processi di «accen-sione» e di «spegnimento» del fuoco: tale espressione può avere infat-ti (1) un valore quantitativo, per indicare la misura costante in base alla quale il fuoco «si accende» e «si spegne», con la conclusione che esso, «accendendosi» e «spegnendosi» sempre di uno stesso quantum, mai «si accende» o «si spegne» del tutto, ma si limita, per così dire, a un’oscil-lazione moderata o, appunto, «misurata» (cfr. per esempio Kirk, pp. 317-18, Bollack-Wismann, p. 133, Marcovich, p. 193, e Conche, p. 285), così avvalorando l’ipotesi cosmologica dell’eternità del mondo, che, coincidendo con il fuoco, condivide le sue alterazioni e trasformazioni, ma non è soggetto a nessuna generazione o corruzione totale, come appunto neanche il fuoco «si accende» o «si spegne» mai totalmente; oppure (2) un valore temporale, per indicare gli intervalli di tempo entro i quali il fuoco «si accende» e «si spegne», con la conclusione opposta che esso «si accende» e «si spegne» in tempi costanti e per periodi di uguale durata, dando luogo così a cicli successivi di «accensione» e di «spegnimento», assimilabili a una fase di «conflagrazione» (innescata dall’«accensione» del fuoco), che pone termine a un ciclo cosmico, e a una fase di «raffreddamento» (determinata dallo «spegnimento» del fuoco), che consente l’avvio di un nuovo ciclo cosmico (così Kahn, pp. 134-36, e, più dubitativamente, Diano-Serra, pp. 146-47; rimane incerto Robinson, p. 97). In quest’ultimo caso, Eraclito avrebbe anticipato, almeno nelle sue linee generali, quella caratteristica dottrina cosmogo-nica della «conflagrazione» (ejkpuvrwsiı) elaborata dai filosofi stoici, secondo la quale il mondo, che è prodotto per azione di un lovgoı divi-no immanente e coincidente con l’elemento igneo, attraversa cicli di generazione e corruzione successivi e corrispondenti all’«incendio» cosmico determinato dall’«accensione» del fuoco e al «raffreddamento» derivante dal suo «spegnimento» (cfr. in proposito l’Introduzione, §§ 2.2 e 4.3). Ora, al di là del rischio evidente dell’anacronistica attribuzio-ne a Eraclito di una dottrina elaborata soltanto molto tempo dopo di lui, la principale difficoltà di un’interpretazione del genere mi pare connessa all’esatta comprensione dell’espressione mevtra ... mevtra: infat-ti, a intenderla nel senso (2) di un’indicazione degli intervalli di tempo dei successivi cicli di «accensione» e «spegnimento» del fuoco, come sfuggire alla contraddizione, segnalata ancora da Kirk, pp. 317-18,

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Marcovich, p. 193, e Conche, p. 285, che sorge rispetto alla qualifica dello stesso fuoco come ajeivzwon? Se il fuoco è «sempre vivo», come potrebbe accendersi e spegnersi di volta in volta oppure a intervalli di tempo costanti o ancora a scadenze regolari? Ciò mi induce a adottare una traduzione e un’interpretazione che, ripercorrendo a ritroso gli interrogativi via via formulati, attribuiscono all’espressione mevtra ... mevtra un valore propriamente quantitativo, che ho tentato di rendere esplicitando il senso della ripetizione («di misura si accende e di misu-ra si spegne» = «in uguale misura si accende e si spegne»), così esclu-dendo la possibilità di un’«accensione» o di uno «spegnimento» totali e assoluti del fuoco e con essa, per analogia, di una generazione e di una distruzione del kovsmoı, il quale allora, concepito come eterno e descritto come strutturalmente alieno da qualunque intervento, divino o umano, deve essere inteso nel significato di «mondo», o di «universo», e della sua «costituzione» fisico-cosmologica; di questa, pertanto, Era-clito propone qui un’illustrazione e una spiegazione, appunto di natura strettamente fisico-cosmologica, che rinunciano all’adozione di qualun-que ipotesi cosmogonica, che affondi cioè le proprie radici in una mitologia dell’origine o nel suo corrispettivo protoscientifico delle dottrine dei più antichi fisiologi ionici, benché la tesi cosmogonica, nella sua versione «ciclica» della vicenda cosmica, gli sia stata di fre-quente attribuita già nell’ambito della dossografia aristotelico-teofrastea, poi soprattutto di quella stoica (su questa linea Kirk, pp. 336-37, Bollack-Wismann, pp. 132-33, Marcovich, pp. 193-94, Conche, pp. 285-86, e Pradeau, p. 241, che avanzano inoltre alcune ipotesi intorno all’origine del fraintendimento «ciclico» della cosmologia eraclitea attraverso un’analisi delle principali testimonianze di Aristotele e Teofrasto, cui successivamente attingerà la scuola stoica; cfr. ancora, in proposito, l’Introduzione, § 4.3). Suggerisco anzi, constatando il tono solenne e privo di sfumature o di incertezze, se non perfino ironicamente sprez-zante, della prima parte del frammento, che Eraclito intenda consape-volmente polemizzare con i suoi predecessori, poeti e filosofi, sosteni-tori di ipotesi cosmogoniche intorno all’origine del mondo, con l’affermazione perentoria che il kovsmoı non è l’esito o il prodotto di un’azione o di un intervento di nessun genere (un’affermazione che, come giustamente rilevano ancora Kirk, p. 315, e Marcovich, p. 192, non suppone tanto la negazione di una creatio ex nihilo del kovsmoı, concet-to del tutto estraneo al pensiero greco, quanto piuttosto della possibi-lità che la sua disposizione sia opera di un qualunque agente o principio), e ciò, in primis, perché esso è eterno nel tempo, non ha avuto origine in un momento del passato e non avrà mai fine in un momento del futuro, appunto in quanto «sempre è stato, è e sarà» (notevole la for-mula h\n ajei; kai; e[stin kai; e[stai, da porre in parallelo con l’analogo costrutto di Parmenide, fr. 8.5 DK, che tuttavia pare limitarsi a contrap-porre la coniugazione verbale al passato e al futuro a quella al presen-te: oujdev pot∆ h\n oujd∆ e[stai, ejpei; nu 'n e[stin, e soprattutto con l’icastica indicazione dell’atemporalità dell’essere rispetto alla realtà in divenire fornita da Platone, Timeo 37e-38a, con la contrapposizione delle forme h\n e[stin te kai; e[stai proprie della durata temporale all’espressione di

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un presente fuori dal tempo: to; e[stin movnon). Così stando le cose, è ragionevole supporre che, nella seconda parte del frammento, Eraclito intenda fornire una giustificazione della precedente affermazione dell’eternità del kovsmoı, che sia in grado di conciliare l’esigenza della sua unità, permanenza e onnicomprensività (espressa nell’inciso secon-do cui «questo cosmo», cioè quello in cui viviamo, è «lo stesso per tutti», forse a ribadire, sul piano fisico-cosmologico, la sua verità rispetto ai mondi plurali e «privati» che ciascuno costruisce in base alle proprie fallaci opinioni: cfr. supra, i frr. 7 [2 DK; 23 Marc.] e 8 [89 DK; 24 Marc.]; e Marcovich, p. 191) con l’immediatamente ovvia constatazione della molteplicità, della mobilità e della mutevolezza delle cose esistenti in esso: tale giustificazione è fornita precisamente dall’introduzione del fuoco che, in quanto unico e inestinguibile principio sostanziale di tutte le cose, garantisce l’unità e l’eternità del kovsmoı, mentre, in virtù delle incessanti oscillazioni della sua intensità, stabilisce un ben preciso intervallo quantitativo entro il quale si producono le sue trasformazio-ni, che danno luogo alla pluralità e al mutamento delle cose esistenti. In questa prospettiva, mi pare lecito dedurne che kovsmoı e fuoco siano di fatto sinonimi dal punto di vista sostanziale (non però sul piano grammaticale e sintattico, giacché intendo il sostantivo pu 'r non come parte nominale della predicazione che ha in kovsmoı il soggetto e in h\n kai; e[stin kai; e[stai la copula [«Questo cosmo ... sempre è stato, è e sarà un fuoco sempre vivo ...»], bensì come un’apposizione del soggetto kovsmoı, collocando dunque un segno di interpunzione forte dopo e[stai, a marcare la transizione dalla prima alla seconda parte del frammento), almeno nella misura in cui il cosmo nel suo insieme consta fisicamente di fuoco, come pure tutte le singole cose esistenti nel cosmo constano a loro volta di alterazioni del fuoco, derivando dalle diverse forme e disposizioni che il fuoco assume nelle sue incessanti trasformazioni. Interpretato così, questo frammento può essere posto, mi sembra, all’inizio della sezione dei materiali eraclitei superstiti dedicati a una riflessione di carattere cosmologico, di questa, anzi, segnando forse l’atto di nascita nell’ambito del pensiero presocratico (cfr. pure, su questo punto, il seguente fr. 30 [31 DK; 53ab Marc.], con le relative note di commento). Ciò permette fra l’altro di sciogliere un’ambiguità che, anche per il carattere allusivo di alcune espressioni di Eraclito o quan-tomeno per lo stato frammentario in cui ci sono pervenute, oltre che, senza alcun dubbio, per le complesse stratificazioni della loro vicenda esegetica, avvolgono tradizionalmente la concezione eraclitea della natura del principio (o dei principi) della realtà e, conseguentemente, le relazioni fra i termini e i concetti di lovgoı, di povlemoı, la guerra, o il conflitto, designata come «padre» di tutte le cose, e di fuoco (si veda anche, in proposito, l’Introduzione, §§ 4.1-4.3). Mi pare a questo punto che nessuna indebita sovrapposizione sia fra essi possibile: il lovgoı, come è via via descritto nei materiali raccolti nella Sezione 1 (si vedano particolarmente i frr. 1 [1 DK; 1 Marc.], 2 [34 DK; 2 Marc.], 5 [50 DK; 26 Marc.] e 7), non è infatti a nessun titolo un principio in qualche misura operante o operativo, né sul piano ontologico né tantomeno su quello fisico-cosmologico, ma è appunto un «ragionamento» o una

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«spiegazione», a tutti accessibile per il suo carattere razionale e univer-sale, che argomenta e veicola un sapere che verte sulla totalità del reale; come emerge dai materiali raccolti nella Sezione 2, il sapere che costituisce il contenuto del lovgoı consiste fondamentalmente nella tesi dell’unità del tutto (cfr. per esempio il fr. 16 [10 DK; 25 Marc.]), che viene giustificata attraverso l’indicazione di un unico principio orgina-rio di tutte le cose, che è povlemoı, la guerra o il conflitto, che gioca tuttavia un ruolo sul piano ontologico, cioè dal punto di vista dei rap-porti fra le cose esistenti prese di per sé e rispetto alla totalità che esse compongono (cfr. soprattutto i frr. 12 [53 DK; 29 Marc.] e 13 [80 DK; 28 Marc.]); l’introduzione del fuoco come principio sostanziale del kovsmoı invece, nella presente Sezione 3 (ma già a partire dal preceden-te fr. 28 [67 DK; 77 Marc.]), risponde a un’esigenza esplicativa di natu-ra fisico-cosmologica o propriamente fisiologica, vale a dire quella di illustrare la costituzione fisica o sostanziale del cosmo nel suo insieme e di tutte le cose particolari in esso comprese, esclusivamente su questo piano dunque, appunto fisico-cosmologico o fisiologico, assumendo il ruolo e la funzione di principio. Bisogna perciò astenersi da ogni iden-tificazione grossolana fra lovgoı, povlemoı e fuoco, come pure, per altro verso, fra la tesi dell’unità del tutto, argomentata attraverso la dottrina dell’unità dei termini opposti, e la dottrina del fuoco come principio unico e unificante del mondo e di tutte le cose esistenti: mentre povlemoı e fuoco sono entrambi considerati come principi fondamentali, rispet-tivamente, e senza reciproche sovrapposizioni, sul piano ontologico della totalità del reale e sul piano fisico-cosmologico della totalità del kovsmoı, il lovgoı appare collocarsi a un livello superiore, come uno strumento o un ambito universale e potenzialmente condiviso di com-prensione piuttosto che come un principio sostanziale cui si attribui-scano funzioni operative di qualche genere o da qualunque punto di vista. Questa opportuna distinzione non impedirà di cogliere, d’altra parte, l’analogia che dai materiali eraclitei emerge con una certa chia-rezza e insistenza fra le diverse tipologie di principi e di contesti appe-na illustrati: infatti, benché operanti su piani diversi, povlemoı come il fuoco si configurano come un principio autenticamente unitario, tanto originario quanto inesauribile, capace tuttavia di giustificare la sotto-stante molteplicità e diversità delle cose esistenti; come pure analoghe si rivelano le leggi che governano le modalità operative di tali principi, essenzialmente riconducibili al divenire e al mutamento come spiega-zione della transizione dalla molteplicità delle cose esistenti all’unità del tutto che le comprende: tale forma di divenire si presenta, sul piano ontologico, come un’alternanza, nel senso dello «scambio» di posizione o di ruolo (ben esemplificato dall’impiego del verbo metapivptw nel fr. 22 [88 DK; 41 Marc.]), fra le cose esistenti o come loro mutamento di condizione (reso per esempio dall’uso del verbo metabavllw nel fr. 27 [84ab DK; 56ab Marc.]), perché evoca la prospettiva concettuale o astratta delle relazioni reciproche di opposizione e implicazione fra le cose che sono; mentre si pone, sul piano fisico-cosmologico, come un effettivo processo di alterazione o di trasformazione (cui allude parti-colarmente il verbo ajlloiovw nel fr. 28), perché chiama in causa in

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questo caso la prospettiva concreta del mutamento fisico delle cose esistenti nel cosmo.

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puro;ı tropaiv:2 prw'ton qavlassa, qalavsshı de; to; me;n h{misu gh', to; de; h{misu prhsthvr. <...>3

<gh'>4 qavlassa diacevetai kai; metrevetai eijı to;n aujto;n lovgon, oJkoi'oı provsqen h\n h] genevsqai gh'.5

Rovesciamenti del fuoco:6 dapprima mare, del mare, poi, una metà è terra e una metà è tempesta di fulmini.7 (...) La terra si scioglie in mare e si mantiene nello stesso rapporto di misura in cui si trovava prima di divenire terra.8

1 Questo frammento è riportato da Clemente Alessandrino, Stro-mateis V 104.1-3 (= II 396 Stählin) = Eusebio, Praeparatio evangelica XIII 13.31 (= II 208 Mras), poco dopo il precedente fr. 29 [30 DK; 51 Marc.], dunque proseguendo l’esame delle opinioni dei filosofi greci, e nel contesto specifico di Eraclito, relativamente all’eternità del mondo e/o ai suoi successivi cicli di generazione e corruzione (cfr. anche supra, n. 1 al fr. 29): «Che egli (scil., Eraclito) ritenesse invece che il mondo sia soggetto a generazione e corruzione, lo mostrano le parole seguenti: ... (Clemente cita qui la prima parte del fr. 30). Dice infatti che il fuoco, per azione del principio razionale (lovgoı, coincidente, secondo Clemente, con il verbo divino), vale a dire del Dio che provvede a ogni cosa, si trasforma nell’elemento umido passando attraverso lo stato di aria, e questo elemento umido è come il seme della disposizione cosmica ed egli lo chiama “mare”; da questo di nuovo si producono terra e cielo e le cose in essi comprese. Come questo processo si inverta e si riproduca una conflagrazione di fuoco, lo mostra chiaramente così: ... (Clemente cita qui la seconda parte del fr. 30). E, analogamente, lo stesso avviene per gli altri elementi». Da segnalare l’allusione a queste parole di Eraclito da parte di Diogene Laerzio, Vitae philosophorum IX 9, sia perché il riferimento di Diogene risulta utile, se non perfino fondamentale, per il chiarimento del significato della seconda parte del frammento (cfr. infra, n. 4), sia, soprattutto, in quanto l’allusione di Diogene, nella misura in cui dipende verosimilmente da Teofrasto, risale all’unica fonte antica che non presupponga una mediazione stoica (per le altre varianti o semplici reminiscenze del frammento riconducibili a

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fonti stoiche, si veda l’esaustiva rassegna di Marcovich, pp. 197-99, e di Mouraviev I, pp. 88 e 360).

2 tropaiv è la forma, al nominativo plurale, che si trova in Clemente, mentre nella versione di Eusebio si trova l’accusativo plurale tropa;ı, meno appropriato al contesto sintattico.

3 È piuttosto ovvio porsi il problema della continuità del presente frammento, dal momento che Clemente Alessandrino interrompe la sua citazione delle parole di Eraclito con alcune considerazioni esplicative e di commento (cfr. supra, n. 1), il che ha indotto alcuni editori a distinguere più nettamente una parte «a» e una parte «b» del frammento (così, per esempio, Marcovich, p. 197, e Mouraviev I, pp. 87-88) oppure anche a considerarle come due frammenti autonomi (così Kahn, pp. 46-47, Diano-Serra, pp. 22-23, e Robinson, pp. 26-27). Non è impossibile, in effetti, che si verifichi qui un salto di un certo numero di parole da parte del citatore, ma, allo stato attuale delle nostre conoscenze, la continuità del frammento sembra sufficientemente garantita dalla sequenza logica della sua argomentazione e dei suoi contenuti: lascio perciò nel testo greco l’indicazione di una possibile lacuna, ma, considerandola eventualmente come non troppo significativa, traduco e commento il frammento nella sua unità. Cfr. pure Bollack-Wismann, p. 134, e Conche, p. 289.

4 <gh'> è congettura di Burnet, fondata, per un verso, sul contesto della citazione di Clemente Alessandrino, che, dopo aver spiegato come, secondo Eraclito, si giunga dal fuoco, attraverso le sue trasformazioni, all’acqua e alla terra, descrive il processo inverso, indicando perciò come al fuoco e alla sua conflagrazione si torni a partire dalla terra e dal mare (cfr. ancora supra, n. 1); per altro verso, tale congettura pare in linea con la comprensione delle parole di Eraclito che emerge dall’allusione di Diogene Laerzio, Vitae philosophorum IX 9: «Di nuovo la terra si scioglie (th;n gh 'n cei 'sqai) e da essa si produce acqua e da questa le altre cose rimanenti ...» (così, a titolo di esempio, Kirk, p. 332, Marcovich, pp. 197, n. 4, e, con ampia disamina delle posizioni emerse nel dibattito critico, 200-02, Diano-Serra, pp. 22-23, Conche, pp. 289-90, e Pradeau, p. 239; anche Kahn, pp. 46-47, e Robinson, pp. 26-27, traducono la congettura gh', senza però stamparla nel testo, ma cfr. infra, n. 8). Mouraviev I, p. 89, e III, p. 39, n. 2, propone una congettura alternativa, che conserva tuttavia lo stesso significato d’insieme delle parole di Eraclito: qavlassa d jai\a(= gai 'a, «terra») cevetai, basandosi anch’egli sullo stesso passo citato di Diogene Laerzio: ... th;n gh'n cei 'sqai ... Mentre Burnet traeva spunto da queste parole per correggere il testo di Clemente con l’inserimento del soggetto <gh'>, Mouraviev tiene fermo il verbo cei'sqai e corregge il prefisso diav, per individuare qui, attraverso la sua correzione in d jai\a, il riferimento alla terra. Meno probabile mi pare infine l’ipotesi, comunque sulla stessa linea delle precedenti dal punto di vista della comprensione d’insieme della proposizione, di M.L. West, Early Greek Philosophy and the Orient, Clarendon Press, Oxford 1971, pp. 114 e 131, n. 2, che corregge qavlassa, giudicato come una glossa erronea del copista, in kai; hJ me;n, che sottintende gh ': «E questa (scil., la terra) si scioglie ...». Difendono contro ogni logica interpretativa il testo tradito Bollack-Wismann, p. 134.

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5 La conclusione del frammento si presenta come segue. In Clemente abbiamo: ... prw 'ton h\n h] genevsqai gh', mentre nella versione di Eusebio troviamo: ... provsqen h\n h] genevsqai. Trovo personalmente preferibi-le mantenere provsqen (di Eusebio), che rende più adeguatamente il senso della scansione o della priorità temporale («prima di ...»), ma con l’inserimento di gh ' (di Clemente), che, riprendendo la congettura proposta per l’inizio della proposizione (cfr. la nota precedente), ne completa coerentemente l’argomento e la sequenza logica («La terra si scioglie in mare e si mantiene nello stesso rapporto di misura in cui si trovava prima di divenire terra»), e non considero perciò queste parole come una glossa esplicativa, come da alcuni supposto (cfr. per esempio Bollack-Wismann, p. 134, e Diano-Serra, pp. 22-23): in questo caso, la resa migliore si otterrebbe, mi pare, conservando il testo tradito della seconda parte del frammento, senza la congettura iniziale <gh '>, e con-siderando allora la proposizione come un frammento sostanzialmente indipendente dalla prima parte: qavlassa diacevetai kai; metrevetai eijı to;n aujto;n lovgon, oJkoi 'oı prw 'ton h\n («Il mare si espande e si mantiene nello stesso rapporto di misura in cui si trovava inizialmente», che è il testo stampato da Bollack-Wismann, p. 134), cfr. ancora la dettagliata discussione di Marcovich, pp. 200-03. Mouraviev I, p. 89, e III, pp. 39-40, nn. 4-5, propone dal canto suo una ricostruzione tanto brillante quanto, a mio avviso, troppo sofisticata per essere probabile. Il testo originale del frammento, che egli stampa e traduce, sarebbe stato il seguente: ... oJkoi'oı purovqen provsqen h\n h] genevsqai gh'n («La terra si scioglie in mare e si mantiene nello stesso rapporto di misura in cui si trovava, provenendo dal fuoco [purovqen], prima che nascesse la terra»); la somiglianza fra i due termini vicini purovqen e provsqen avrebbe indotto, nella trasmissione del testo, a glossare provsqen con prw'ton, che a sua volta, inteso succes-sivamente come una correzione e non più come una glossa esplicativa, sarebbe stato inserito nel testo al posto del raro purovqen, producendo così questa sequenza: oJkoi 'oı prw 'ton provsqen h\n h] genevsqai gh 'n («La terra si scioglie in mare e si mantiene nello stesso rapporto di misura in cui si trovava inizialmente [prw 'ton], prima che [provsqen h]] nascesse la terra»); in ultimo, la prossimità fra prw 'ton e provsqen sarebbe stata percepita come inappropriata e avrebbe indotto a operare una scelta esclusiva in favore dell’uno o dell’altro (che si riflette nella corrispon-dente alternativa presente in Clemente e in Eusebio).

6 Il termine tropaiv, e la sua stessa collocazione nel frammento, pongo-no alcuni problemi di comprensione. Esso indica infatti, originariamente, i «rivolgimenti» o le «rivoluzioni» delle stagioni, con riferimento specifico ai solstizi e agli equinozi, ma anche i «capovolgimenti di fronte», per esempio di un esercito che appunto volge in fuga di fronte al nemico; a questi significati si associa via via l’idea del «cambiamento» e del «mutamento», nel contesto specifico di un processo di alterazione, anche se è abbastanza naturale supporre che una qualche forma di mutamento generale sia implicata già nei significati più antichi del termine (si veda, per un esame di questi significati, Kahn, p. 140): non è facile valutare perciò in che senso Eraclito lo impieghi esattamente. La principale difficoltà consiste nello stabilire se le tropaiv del fuoco

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alludano semplicemente a (1) un processo di alternanza, dunque a «rivoluzioni» del fuoco nel senso di periodi ciclici successivi e distinti, o se invece (2) comportino una qualche forma di mutamento qualitativo del fuoco stesso. La prima opzione è difesa particolarmente da quanti vedono in questo frammento una conferma dell’attribuzione a Eraclito di un’ipotesi cosmogonica, che prevede cioè successivi e distinti cicli di generazione e corruzione dell’universo in corrispondenza di altrettanti cicli di «accensione» e «spegnimento» del fuoco (precisamente quelli chiamati in causa nel precedente fr. 29 [30 DK; 51 Marc.], cfr. n. 4); la seconda da quanti, opponendosi a una simile interpretazione, ritengono invece che i «mutamenti» del fuoco siano piuttosto quelli che, all’in-terno dell’unico cosmo eterno ingenerato e incorruttibile che consta appunto di fuoco «sempre vivo», spiegano e giustificano la presenza di tutte le diverse cose esistenti come esito delle successive trasformazioni fisiche del fuoco stesso (in base a una differente comprensione dello stesso fr. 29, cfr. ancora la relativa n. 4): si veda in proposito infra, n. 8. Personalmente, come tenterò di argomentare nelle note seguenti, credo che i due significati non siano necessariamente in contraddizione fra loro, giacché intendo le tropaiv del fuoco nel senso (1) di «rivolgimen-ti» o «percorsi» circolari, e in questa misura, volendo, «ciclici», che, come quelli delle stagioni, implicano un tragitto di andata e ritorno (si noti il parallelo con Parmenide, fr. 6.9 DK, che definisce palivntropoı, «a ritroso» o «che ritorna su se stesso», quel kevleuqoı che designa il percorso dei mortali che, incapaci di compiere la scelta necessaria fra essere e non essere, intraprendono una via «cieca» e che «non conduce da nessuna parte», in quanto appunto riconduce circolarmente al suo stesso punto di partenza); ma non credo che tali «tragitti» circolari o ciclici implichino successive fasi di generazione e distruzione del cosmo, in quanto si collocano (2) nell’ambito della processualità, appunto circolare o ciclica, interna all’unico cosmo eterno a illustrare forme e modi della molteplicità di elementi, fenomeni e stati di cose in esso presenti. In altre parole, mi sembra che Eraclito descriva le modalità di trasformazione e di alterazione di tutte le cose nel contesto dell’unico cosmo eterno che, coincidendo dal punto di vista sostanziale con il fuoco, dipende, per le trasformazioni e alterazioni che in esso hanno luogo, dai processi «circolari» del fuoco stesso, che disegnano l’arco comples-sivo delle possibili mutazioni degli elementi, senza insomma che ciò dia luogo alla successione di più cicli cosmici, perché l’attribuzione di un’andatura circolare o ciclica alle trasformazioni del fuoco non impone necessariamente l’esistenza di più cicli successivi e fra loro distinti, ma suppone esclusivamente l’idea di un processo completo e compiuto in se stesso, all’interno del quale, appunto in virtù della circolarità o ciclicità dei mutamenti del fuoco, si mantiene costante l’economia del tutto. Quanto alla collocazione dell’espressione puro;ı tropaiv, essa pare esigere un segno di interpunzione forte che la distacchi dal seguito del frammento, quasi a indicare il suo titolo o il suo argomento (così Marcovich, p. 201) e senza entrare perciò necessariamente in relazione causale con quanto segue, che dovrebbe rappresentare allora il punto di partenza (sottolineato dall’avverbio prw 'ton) dell’illustrazione della

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dottrina eraclitea: in questo caso, si dovrebbe intendere che, nel quadro generale delle tropaiv del fuoco, la spiegazione prende le mosse dal mare e dalle sue trasformazioni. Ma si può anche intendere, per esempio con Mouraviev I, p. 87, che tropaiv funga da soggetto, prima esplicito, poi implicito, dell’intera prima parte del frammento e che la spiegazione di Eraclito prenda perciò le mosse dalle tropaiv del fuoco, per esaminare in seguito quelle degli altri elementi, traendone cioè che, dalle tropaiv del fuoco, «dapprima» (prw'ton) si produce «mare» e «poi» (dev), dalle tropaiv del mare, si producono «terra» e «tempesta di fulmini» (anche se, come fa notare Marcovich, p. 204, sarebbe più appropriato in questo caso un testo del tipo: puro;ı troph; [prw'ton] qavlassa, qalavsshı de; ...). Per questa scelta, si veda ancora infra, n. 8.

7 Il termine prhsthvr è di difficile resa (tanto che, per esempio, Marco-vich, p. 200, e Mouraviev I, p. 87, si limitano a traslitterarlo). Esso indica originariamente, nella lingua greca, i fenomeni temporaleschi e, più pre-cisamente, i fulmini; ma può applicarsi anche, per estensione, a un’ampia gamma di immagini e riferimenti di carattere atmosferico e meteorologico (di «venti carichi di tempesta» o «carichi di fuoco», prhsthvrwn ajnevmwn, parla Esiodo, Teogonia 846), tutti connessi allo sprigionarsi di calore e incandescenza, al punto che, successivamente, prhsthvr si trova applicato a designare per esempio un torrente di lacrime, le vene del collo e perfino un serpente (cfr. Liddel-Scott-Jones, A Greek-English Lexicon, cit., s.v.), evidentemente in connessione con l’idea del calore delle lacrime o del sangue e del bruciore provocato dal morso del serpente. Sembra dunque chiara la connessione con il calore e lo scoppio della fiamma, ma in rela-zione con l’aria e con l’acqua, resa esplicita dal riferimento al fulmine e alla tempesta di pioggia: si tratta perciò verosimilmente di un’indicazione delle alterazioni del fuoco, secondo un processo nel quale dall’acqua di mare si produce, per evaporazione, aria (calda) che, a sua volta, si addensa fino a produrre nel cielo nubi e tempeste di fuoco (i fulmini) che, infine, si riversano nuovamente, in forma di pioggia, nell’acqua del mare. Si noti del resto che Clemente Alessandrino, nella sua citazione del frammento, parla proprio di una derivazione, dal mare, della terra e del cielo (ejk de; touvtou au\qiı givnetai gh' kai; oujranovı, cfr. supra, n. 1) e delle «cose in essi comprese» (kai; ta; ejmperiecovmena), cioè presumibilmente, rispetto al «cielo», dei fenomeni atmosferici; cfr. pure in proposito Kirk, pp. 330-31, Marcovich, p. 204, Kahn, pp. 141-42, e Mouraviev III, p. 39, n. 3. Risulta perciò assai arduo proporre una traduzione del termine prhsthvr, nelle lingue moderne, che tenga conto di questa ampia area semantica: «lightining storm» o «burner» (Kahn, p. 47, e Robinson, p. 27), «fiamma in cielo» (Diano-Serra, p. 23), «vent qui brûle» o «souffle brûlant» (Bol-lack-Wismann, pp. 134-35, Conche, pp. 289-90, e Pradeau, p. 130). Come si vede, le scelte operate si muovono lungo una linea sostanzialmente analoga, tuttavia ponendo l’accento sull’una o sull’altra sfumatura di significato; tento personalmente di mantenere un comune riferimento a tutti gli elementi implicati nel fenomeno: l’aria e l’acqua, coinvolte nella «tempesta», e il fuoco, sprigionato dai «fulmini», anche se la traduzione proposta può apparire così meno perspicua e in certa misura artificiosa. Un’altra difficoltà è stata sollevata rispetto all’espressione to; me;n h{misu

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... to; de; h{misu: se una «metà» del mare corrisponde a (o si trasforma in) terra e l’altra metà corrisponde a (o si trasforma in) tempesta di fulmini, bisognerà intendere che la totalità del mare finisce per esaurirsi in que-sto processo? Evidentemente no, perché in tal caso lo stesso processo cosmico implicherebbe l’esistenza, di volta in volta, soltanto di alcuni degli elementi a scapito degli altri (quando vi fossero terra e tempesta di fulmini, per esaurimento del mare, non vi sarebbe appunto mare, che invece tornerebbe a esistere, a scapito della terra e della tempesta di fulmini, quando appunto la terra nuovamente si sciogliesse in esso e la tempesta di fulmini vi si riversasse come acqua piovana); per evitare una simile conclusione paradossale, Marcovich, p. 204, suggerisce di intendere l’espressione to; me;n h{misu ... to; de; h{misu non in senso letterale, ma come generica indicazione dell’uguaglianza delle parti di mare coinvolte nel processo di trasformazione in terra e in tempesta di fulmini («... del mare, poi, in parti uguali, una parte è terra e una parte è tempesta di fulmini»), oppure come riferita esclusivamente alla scansione della parte di mare coinvolta in tale processo («... <della parte> di mare <assegnata a questi cambiamenti>, poi, metà è terra e metà è tempesta di fulmini»). Credo tuttavia che la difficoltà possa essere evitata, se si intendono le tropaiv del fuoco come un processo circolare e continuo (cfr. la nota precedente), sicché la trasformazione di un elemento in un altro non determina mai l’esaurimento del primo né la piena affermazione del secondo, perché, dello stesso quantum di cui un elemento «a» diminuisce, per trasformarsi in un elemento «b», l’elemento «b» diminuisce per trasformarsi in un elemento «c», che, ancora dello stesso quantum, a sua volta diminuisce per trasformarsi nell’elemento «a» (e viceversa). Il ciclo è dunque inin-terrotto e ogni elemento è reintegrato della quantità che perde in favore dell’elemento cui dà luogo con la sua trasformazione, in modo che, anche se, «del mare, una metà è terra e una metà è tempesta di fulmini», il mare continua a esistere sempre nella stessa quantità, perché la parte di esso che si trasforma in terra e in tempesta di fulmini (quand’anche si trattasse della sua totalità) è in pari misura colmata dalla contemporanea prosecu-zione del processo di trasformazione, con la conclusione che gli elementi si mantengono, nell’economia del tutto, in un rapporto proporzionale che resta invariato (come indica l’espressione eijı to;n aujto;n lovgon, per la quale si veda la nota seguente).

8 I problemi connessi alla seconda parte del frammento (che non toccano tuttavia la questione della sua continuità, cfr. supra, n. 3), lasciando da parte le difficoltà relative alla costituzione del testo (cfr. ancora supra, nn. 4-5), riguardano soprattutto il significato del verbo diacevetai. Il verbo diacevw può significare tanto «diffondersi» o «espan-dersi», quanto, per estensione, «dissolversi» o «sciogliersi»: ora, questo secondo significato si impone se (1) si ammette, come ho fatto (cfr. supra, n. 6), che le tropaiv del fuoco, enunciate all’inizio del frammen-to, implicano una trasformazione di carattere qualitativo, e se, inoltre, (2) si accoglie, come soggetto della proposizione, l’integrazione <gh '>, perché, mentre è immediatamente chiaro cosa voglia dire che la «la terra si scioglie in mare [letteralmente: si scioglie come mare, cioè: si liquefà come mare]», così trasformandosi in acqua, mi pare invece assai

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meno immediato comprendere l’affermazione concorrente secondo cui «la terra si espande come mare» (per una scelta analoga a quella da me compiuta, cfr. per esempio DK, Marcovich, pp. 200-02, Diano-Serra, p. 23, Conche, p. 289, e Pradeau, p. 131); accettando quest’ultimo significato, invece, diviene preferibile (2) rinunciare all’integrazione <gh '>, così facendo di qavlassa il soggetto del verbo diacevetai («il mare si espande») e, contestualmente, (1) a ogni allusione a un mutamento di carattere qualitativo del fuoco e degli altri elementi (così Kahn, pp. 47 e 143-44, e Robinson, p. 27: «sea pours out», che sottintende però: «from earth»); oppure infine, (2) mantenendo l’integrazione <gh'> e facendo lievemente violenza alla sintassi, si può intendere che «la terra si espande in mare», vale a dire che si riversa in esso, ancora una volta, dunque, (1) ridimensionando il riferimento a un mutamento di carattere qualitativo della terra (così Mouraviev I, p. 88: «terre en mer s’épanche»). In ogni caso, e comunque si concepiscano le tropaiv del fuoco (come alterazioni e mutamenti qualitativi oppure no), resta inteso che le rispettive quantità degli elementi che da esse derivano si trovano in un rapporto proporzionale che rimane costante: il caso evocato è quello della terra che, pur sciogliendosi in mare, conserva tuttavia la stessa misura o, letteralmente, «si misura nello stesso rap-porto proporzionale» (metrevetai eijı to;n aujto;n lovgon; il termine lovgoı non chiama evidentemente in causa qui il «ragionamento» introdotto fin dal fr. 1 [1 DK; 1 Marc.], ma ha il significato comune di «rapporto» o «proporzione», anche se è significativo che tale «rapporto» o «pro-porzione» esprima nel presente contesto la misura stabile che garan-tisce l’equilibrio e l’ordine complessivo degli elementi nel cosmo, pur se soggetti a continue trasformazioni) che la caratterizzava «prima di divenire terra»; vale a dire che, per quanto la terra si sciolga in mare, una certa quantità di mare (che corrisponde allo stato in cui la terra «si trovava prima di divenire terra»; per la determinazione di tale quantità, cfr. la nota precedente) si trasforma in terra, sicché la rispet-tiva proporzione di terra e di mare rimane invariata, dal che si deduce, per estensione, che tutti gli elementi, pur nelle loro successive trasfor-mazioni, si conservano nella stessa quantità percentuale nel tutto e gli uni rispetto altri, probabilmente riecheggiando la conclusione del precedente fr. 29 [30 DK; 51 Marc.], cfr. la relativa n. 4, con l’indicazio-ne di una misura costante (mevtra ... mevtra) nei processi di «accensione» e di «spegnimento» del fuoco (cfr. pure Marcovich, p. 205). Si giunge così, infine, al problema dell’interpretazione d’insieme del frammento. Facendo riferimento all’appena citato fr. 29, e particolarmente a quan-to sostenuto nella relativa n. 4 (ma cfr. anche supra, n. 6), non ritengo che sia prefigurata qui un’ipotesi cosmogonica, articolata attraverso l’indicazione di cicli successivi del cosmo che, in accordo con l’alterna vicenda dell’«accensione» e dello «spegnimento» totali del fuoco, prevedano altrettante fasi di generazione e corruzione di tutte le cose. I non numerosi sostenitori contemporanei di questa interpretazione intendono naturalmente le tropaiv del fuoco annunciate all’inizio del frammento come appunto corrispondenti ai cicli successivi segnati dalla sua «accensione», che produce una conflagrazione distruttiva del

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cosmo, e dal suo «spegnimento», che produce il raffreddamento neces-sario per la generazione e l’esistenza di tutte le cose (così Kahn, pp. 139-40); conseguentemente, nel seguito, Eraclito non chiamerebbe in causa, nell’ambito di ciascun ciclo cosmico, vere e proprie mutazioni o alterazioni qualitative del fuoco o degli altri elementi, ma piuttosto una loro alternanza, che ripropone, sul piano fisico-cosmologico, la tesi della reciproca tensione dei termini opposti e della loro ricomposizio-ne unitaria: il passaggio da fuoco a mare, come da mare a terra e a prhsthvr (e viceversa), evocherebbe in tal caso non dei processi di trasformazione, ma una tendenza dinamica che coinvolge tutti gli elementi, che si alternano in corrispondenza dei successivi cicli cosmi-ci del fuoco (cfr. in questo senso Kirk, p. 330, e soprattutto Kahn, pp. 140-44, e Robinson, pp. 99-100); e ciò, fra l’altro, perché sarebbe diffi-cile spiegare, in termini di alterazione qualitativa o di mutamento fisico, il passaggio da un elemento all’altro e particolarmente quello iniziale da fuoco a mare. Come detto poco sopra, invece, credo che proprio questo genere di processualità e di trasformazione fra gli elementi sia in gioco nel presente frammento, con l’introduzione di una dottrina fisico-cosmologica che si fonda precisamente sulla misu-rata «accensione» e sull’altrettanto misurato «spegnimento» del fuoco di cui tratta il precedente fr. 29 e che rappresenta, come suggerito nella relativa n. 4, una trasposizione della dottrina ontologica dell’uni-tà dei termini opposti appunto sul piano fisico-cosmologico. Questa interpretazione può essere difesa in una forma più moderata, in base alla quale il fuoco è l’elemento cosmico che fornisce la cornice o il quadro generale dei processi di trasformazione degli altri elementi: in tal caso, le tropaiv del fuoco definiscono l’argomento del frammento, che indicherebbe nel mare la prima tappa (prw 'ton) del processo di trasformazione; dal mare si produce da un lato, per evaporazione, l’aria calda, che a sua volta si riversa in mare sotto forma di fulmini e pioggia, dall’altro, per solidificazione o condensazione, la terra, che a sua volta si dissolve nuovamente in mare; mentre il fuoco cosmico, estraneo a questo mutamento qualitativo, ne rappresenterebbe tuttavia la condi-zione, appunto aumentando e diminuendo l’intensità del proprio calore e così verosimilmente determinando i diversi fenomeni di eva-porazione e di condensazione del mare e i simmetrici fenomeni di sprigionamento dei fulmini e di scioglimento della terra (cfr. soprat-tutto Marcovich, pp. 200 e 203-05, e Pradeau, pp. 240-41). Personalmen-te, propongo invece di riformulare questa interpretazione in una ver-sione più radicale, suscettibile cioè di includere anche il fuoco nel processo ciclico di trasformazione degli elementi, come sua sostanza primaria e fondamentale: in questo caso, si può intendere che il fuoco, «accendendosi» e «spegnendosi» «in uguale misura» (cfr. ancora il fr. 29), appunto determina i successivi mutamenti degli elementi e di tutte le cose, nel senso più proprio che esso stesso, «accendendosi» e «spegnendosi», si trasforma negli altri elementi e in tutte le cose (così mi pare intenda anche Conche, pp. 291-92). Infatti, diminuendo l’in-tensità della propria fiamma e del proprio calore, il fuoco genera aria calda e vapore, che a loro volta si mutano in mare (l’introduzione

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dell’aria come elemento mediano nel processo di trasformazione dal fuoco al mare pare suggerito dalla citazione di Clemente Alessandrino: pu'r ... di jajevroı trevpetai eijı uJgrovn, cfr. supra, n. 1; e, infra, n. 2 al fr. 62 [36 DK; 66 Marc.]); il mare, per aumento del calore del fuoco, evapora nuovamente e si trasforma in aria calda, che a sua volta si addensa producendo tempeste di fulmini e, per diminuzione di calore, pioggia che si riversa ancora in mare; ma lo stesso mare, per la diminuzione del calore del fuoco, si condensa e si solidifica sotto forma di terra, che a sua volta, per l’aumento del calore del fuoco, si scioglie in mare. Si noti come, con la diminuzione del calore del fuoco, cioè quando esso di misura «si spegne», si determinano processi di generazione dell’aria, dal fuoco, dell’acqua, dall’aria, e della terra, dall’acqua, mentre simmetricamente, con l’aumento del calore del fuoco, cioè quando esso di misura «si accende», si determinano i processi di generazione inversi dell’acqua, dalla terra, dell’aria, dall’acqua, e nuovamente del fuoco, dall’aria: il ciclo è dunque completo e onnicomprensivo (come sembra indicare ancora la conclusione della citazione di Clemente: «E, analogamente, lo stesso avviene per gli altri elementi»), con il fuoco che ne rappresenta a un tempo l’elemento sostanziale unico (perché gli altri elementi non sono altro che trasformazioni del fuoco) e la condizione (perché il fuoco si trasforma negli altri elementi attraverso una misurata e costante varia-zione dell’intensità del proprio calore); di questo ciclo il presente fram-mento esplicita, se si accoglie l’interpretazione proposta, tutte le diverse tappe dei successivi mutamenti del fuoco, salvo forse quella, che resta implicita (o che è stata saltata dal citatore, cfr. supra, n. 3), relativa alla trasformazione dell’aria calda evaporata dal mare che, producendo tempeste di fulmini, si scarica di nuovo in mare in forma di acqua (anche se Clemente Alessandrino non tralascia di segnalare, nel contesto della sua citazione presentata supra, n. 1, che, dal mare, au\qiı givnetai gh' kai; oujranovı kai; ta; ejmperiecovmena, di fatto precisando che sia la terra sia il cielo, con le «cose in essi comprese», derivano dal mare, anche se poi cita le parole di Eraclito soltanto a illustrazione della prima parte della sua affermazione, cioè quella relativa alla derivazione della terra dal mare). Va ribadito in conclusione che, come unanimemente riconosciuto dai commentatori, quali che siano precisamente la natura del processo cui Eraclito allude e i suoi attori, rimane fermo il principio fondamentale della conservazione dell’equilibrio del cosmo, garantito dal manteni-mento di rapporti proporzionali stabili, e costanti nel tempo, nella quantità totale degli elementi e di tutte le cose.

Fr. 31 [61 DK; 35 Marc.]1

qavlassa u{dwr kaqarwvtaton kai; miarwvtaton: ijcquvsi me;n povti-mon kai; swthvrion, ajnqrwvpoiı de; a[poton kai; ojlevqrion.

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122 FR. 31 [61 DK; 35 MARC.]

Il mare è l’acqua più pura e la più contaminata: per i pesci è potabile e salutare, mentre per gli uomini è imbevibile e porta la morte.2

1 Questo frammento è riportato da Ippolito, Refutatio contra omnes haereses IX 10.5 (= 243.12 Wendland), dopo la sequenza dei frr. 15 [54 DK; 9 Marc.], 42 [55 DK; 5 Marc.], 50 [57 DK; 43 Marc.], 96 [58 DK; 46 Marc.], 18 [59 DK; 32 Marc.] e 20 [60 DK; 33 Marc.] e prima dei frr. 21 [62 DK; 47 Marc.] e 69 [63 DK; 73 Marc.], nell’ambito di un’illustra-zione della tesi eraclitea dell’unità dei termini opposti (per una breve descrizione del contesto argomentativo della citazione cfr. supra, n. 1 ai frr. 15 e 28 [67 DK; 77 Marc.]), evocata attraverso numerose esem-plificazioni successive: «Eraclito afferma ancora che l’impuro e il puro sono una stessa e unica cosa, come pure lo sono ciò che è potabile e ciò che non lo è: ... (Ippolito cita qui il fr. 31)». Analoga spiegazione delle parole di Eraclito, benché in un diverso contesto teorico che ne sottolinea il carattere relativistico, se non propriamente scettico, nella variante presentata da Sesto Empirico, Pyrrhonianae hypotyposeis I 55.

2 I citatori di questo frammento lo intendono evidentemente nel quadro della dottrina eraclitea dell’unità dei termini opposti, illustrata attraverso una nuova esemplificazione (cfr. la nota precedente), come pure fa la gran parte dei commentatori contemporanei: si vedano in proposito Kirk, pp. 75-76, Marcovich, p. 128, Diano-Serra, p. 144, Kahn, pp. 186-89, con ampia disamina, e Robinson, p. 123. Infatti, viene intro-dotto un determinato oggetto, l’acqua del mare, che, in base a punti di vista diversi, quello dei pesci e quello degli uomini, risulta in possesso di proprietà diverse e opposte, cioè, rispettivamente, quella di essere potabile e salutare per gli uni e quella di essere invece imbevibile e mortale per gli altri; più esattamente, tali proprietà non dipendono come tali dal punto di vista di chi le sperimenti, perché appartengono oggettivamente all’acqua del mare, in quanto è dotata di una certa struttura fisica, ed è esclusivamente la manifestazione della loro oppo-sizione che viene chiamata in causa dall’intervento di soggetti diversi che vi si accostino, senza che, in altre parole, entrino in gioco eventuali implicazioni relativistiche, o perfino scettiche, delle parole di Eraclito, giacché non si tratta di mostrare che lo stesso oggetto appare dotato di proprietà opposte a diversi soggetti che lo considerino, ma che esso è effettivamente in possesso di tali proprietà (cfr. soprattutto Conche, pp. 414-15, e Pradeau, p. 204). Nonostante l’indubbia plausibilità di questa interpretazione, che indurrebbe a collocare il presente frammento nella sequenza di materiali relativi alla dottrina dell’unità dei termini opposti contenuta nella precedente Sezione 2 (cfr. i frr. 17 [111 DK; 44 Marc.], 18 [59 DK; 32 Marc.], 19 [103 DK; 34 Marc.], 20 [60 DK; 33 Marc.], 21 [62 DK; 47 Marc.], 22 [88 DK; 41 Marc.], 23 [21 DK; 49 Marc.] e 24 [26 DK; 48 Marc.]), le seguenti considerazioni mi spingono invece a situarlo in questa Sezione 3, fra i materiali relativi alla dottrina fisico-

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FR. 32 [126 DK; 42 MARC.] 123

cosmologica del fuoco e delle sue trasformazioni e particolarmente, in relazione al precedente fr. 30 [31 DK; 53ab Marc.], cfr. soprattutto n. 8, della sua trasformazione in acqua di mare: innanzitutto, a differenza delle numerose esemplificazioni precedentemente discusse, che fanno riferimento a una serie di concetti astratti per illustrare la tesi dell’unità degli opposti («malattia-salute», «fame-sazietà», «dritto-curvo», «inizio-fine», «alto-basso» e così via), viene evocato in questo caso un elemento fisico, l’acqua (del mare), di cui si precisa, appunto nel precedente fr. 30, che deriva da un’alterazione dell’unica sostanza fondamentale, il fuoco, dai cui mutamenti sorgono tutte le cose esistenti; in secondo luogo, e di conseguenza, l’acqua possiede una struttura fisica data, in quanto proveniente da una trasformazione del fuoco, che la rende oggettiva-mente e semplicemente ciò che è, ossia acqua, ma che risulta produrre, altrettanto oggettivamente, effetti opposti nell’interazione con soggetti e specie diversi (che derivano anch’essi, d’altra parte, da trasformazioni del fuoco). Mi sembra insomma che l’indubbio riferimento all’unità degli opposti si collochi questa volta in un contesto piuttosto diverso dai precedenti, perché applicato all’ambito fisico-cosmologico delle trasformazioni del fuoco, che, pur ponendosi in un rapporto di analogia rispetto all’ambito ontologico di povlemoı, la guerra o il conflitto da cui derivano tutte le cose, ne è tuttavia sensibilmente distinto, come spiegato nella n. 4 al fr. 29 [30 DK; 51 Marc.], sicché anche la dottrina dell’unità dei termini opposti, benché si basi sulle stesse leggi generali, prevede tuttavia ambiti di applicazione differenti, con modalità ed esiti che è opportuno tenere distinti.

Fr. 32 [126 DK; 42 Marc.]1

yucra; qevretai, qerma; yuvcetai, uJgra; aujaivnetai, karfaleva notivzetai.2

Gli elementi freddi si riscaldano, quelli caldi si raffreddano, gli elementi umidi si seccano, quelli secchi si inumidiscono.3

1 Questo frammento è riportato da G. Tzetzes, Exegesis in Homeri Iliadem 126 Hermann, nel contesto di un paragone fra l’oscurità delle parole di Eraclito, considerata leggendaria, e dei versi omerici, che sarebbero invece caratterizzati da un intento allegorico: «Il vecchio Eraclito di Efeso era giudicato valente per l’oscurità delle sue parole: ... (Tzetzes cita qui il fr. 32)».

2 Il testo stabilito da Hermann per questo passo di Tzetzes, accolto

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124 FR. 32 [126 DK; 42 MARC.]

dalla gran parte degli editori e traduttori, anche recenti, dei frammenti eraclitei – come per esempio Bollack-Wismann, pp. 344-45 (che ne respingono tuttavia l’autenticità), Marcovich (editio maior), pp. 220-21, Kahn, pp. 52 e 165-66, Robinson, pp. 72-73, e Pradeau, pp. 133-34 e 246-47 –, recita così: ta; yucra; qevretai, qermo;n yuvcetai, uJgro;n aujaivnetai, karfalevon notivzetai. Ora, gli studi di G.L. Calabrò, Ad Heracl. B 126, in «Bollettino del Comitato per la preparazione dell’edizione nazionale dei Classici greci e latini» 12 (1964), p. 68, e di F.H. Sandbach, Five Textual Notes, in «Illinois Classical Studies» 2 (1977), pp. 49-70, hanno dimostrato, in modo definitivo, che il testo di Hermann si basa su alcuni errori di lettura (è il caso dell’articolo iniziale tav e dei singolari uJgrovn e karfalevon in luogo dei rispettivi plurali) o su lezioni corrotte (è il caso del singolare qermovn da correggere nel plurale qermav): il testo corretto del frammento è stampato invece da Marcovich, p. 157 (che mantiene però una traduzione corrispondente al testo stabilito da Hermann), Diano-Serra, pp. 22 e 149, Conche, p. 377, e Mouraviev I, pp. 320-21, e III, p. 145.

3 Colloco il presente frammento, altrimenti piuttosto enigmatico o quantomeno privo di un’esplicita indicazione del suo riferimento (questo, del resto, il significato più ovvio del contesto della citazione di Tzetzes, che contrappone alle parole di Eraclito, di cui non è appunto chiaro il contenuto, i versi omerici, che hanno invece un’immedia-ta funzione allegorica), in stretta relazione con i frr. 29 [30 DK; 51 Marc.], cfr. n. 4, e soprattutto 30 [31 DK; 53ab Marc.], cfr. n. 8, come un’esemplificazione delle reciproche mutazioni degli elementi, che derivano tutti da altrettante trasformazioni del fuoco nel ciclo eterno dei suoi «rovesciamenti» (così pure Pradeau, p. 247): in tal caso, non è lecito dedurne, come mi pare suggerisca Conche, p. 378, l’indicazione di quattro elementi fondamentali («caldo», «freddo», «umido» e «sec-co»), giacché Eraclito allude a processi di trasformazione da elementi freddi a elementi caldi, da elementi umidi a elementi secchi e viceversa, ponendo appunto l’accento sul processo di transizione dagli uni agli altri e non sulla definizione della loro natura, né tantomeno dei quattro elementi fondamentali tradizionali, «aria», «acqua», «terra» e «fuoco», che non sembrano affatto in questione qui. Altri sottolineano invece la connessione fra i processi di reciproca trasformazione dei termini «freddo-caldo» e «umido-secco» e la dottrina dell’unità degli oppo-sti, situata nell’ambito fisico-cosmologico dei fenomeni naturali (così Marcovich, p. 158, Conche, p. 378, e Robinson, p. 164), forse anche con un riferimento all’ambito psicologico della riflessione sulla struttura e la composizione dell’anima, fatta coincidere con le (transizioni fra le) rispettive coppie di opposti degli elementi fisici (così Kahn, pp. 165-66). Per le ragioni spiegate supra, nella n. 2 al precedente fr. 31 [61 DK; 35 Marc.], pur cogliendo l’evidente richiamo presente in questo frammento alla dottrina dell’unità dei termini opposti, la sua collocazione propria-mente fisico-cosmologica, cioè in relazione ai processi di trasformazione degli elementi naturali, mi induce a porlo piuttosto in rapporto con i materiali relativi alla dottrina del fuoco illustrati in questa Sezione 3. Come osserva infine Kirk, p. 150, i verbi utilizzati da Eraclito sono

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FR. 33 [90 DK; 54 MARC.] 125

particolarmente rari e ricercati: per una rassegna ragionata delle loro occorrenze, cfr. Diano-Serra, p. 149.

Fr. 33 [90 DK; 54 Marc.]1

purovı te2 ajntameivbetai3 pavnta kai; pu'r aJpavntwn o{kwsper4 crusou' crhvmata kai; crhmavtwn crusovı.

Tutte le cose si scambiano con il fuoco e il fuoco con tutte, come i beni con l’oro e l’oro con i beni.5

1 Questo frammento è riportato da Plutarco, De E apud Delphos 388d-e, nel contesto di un esame della numerologia pitagorica, e partico-larmente del significato attribuito al numero cinque, con queste parole: «Ecco perché questo numero riproduce il principio che dispone tutte le cose. Come infatti esso, a partire da se stesso, dà forma al cosmo e poi, a partire dal cosmo, di nuovo produce se stesso, Eraclito dice che ... (Plutarco cita qui il fr. 33); così la combinazione del numero cinque con se stesso non produce naturalmente nulla che sia incompiuto o che gli sia estraneo, ma si caratterizza per mutamenti fissi, giacché o si riproduce da se stesso o produce il dieci, giungendo così o a un numero del suo stesso genere o a un numero perfetto». Va rilevato che Kirk, p. 345, ha proposto di considerare come materiale eracliteo autentico anche una parte del contesto plutarcheo precedente la citazione (e precisamente da «Come infatti ...» a «... di nuovo produce se stesso»); non mi pare però che vi siano elementi cogenti a favore di questa ipotesi. Numerose allusioni o reminiscenze di questo frammento, specie relativamente alla sua prima parte, si trovano nella tradizione antica: come segnala Marcovich, pp. 205-07, esse si raccolgono attorno a due linee di trasmis-sione principali, l’una risalente a Teofrasto (cfr. Simplicio, Physica 23.33 Diels = Teofrasto, Physicorum opiniones, fr. 1 [= Dox. 475.14]; Diogene Laerzio, Vitae philosophorum IX 8; Eusebio, Praeparatio evangelica XIV 3.8 [= II 262 Mras]), nella forma seguente: puro;ı ajmoibh;n pavnta («tutte le cose in cambio del fuoco»); l’altra invece riconducibile allo stoicismo (cfr. per esempio Eraclito Omerico, Quaestiones homericae 43.7; Filone Alessandrino, Legum allegoriae III 7 [I 114 Cohn]), nella forma seguente: puro;ı ajmoibh/' ta; pavnta («tutte le cose in cambio di fuoco»).

2 te (oppure t j) è presente nei manoscritti plutarchei XBg, mentre è assente dagli altri.

3 ajntameivbetai è lezione dei manoscritti plutarchei (i manoscritti X1F1D hanno invece ajntamoivbhtai), dal verbo ajntameivbomai; di questa

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lezione sono state proposte alcune correzioni: l’infinito ajntameivbesqai (da Wyttenbach, accolto da Pradeau, p. 241, che dichiara però di con-servare il testo tradito) e soprattutto il sostantivo ajntamoibh; ta; (da Diels, accolto per esempio da Kirk, p. 345, Marcovich, p. 205, Kahn, p. 46, Diano-Serra, p. 22, Conche, p. 287, e Robinson, p. 54; analoga correzione, ma all’accusativo [ajntamoibh;n ta;], è stata proposta da Bernardakis e Schwartz). Il significato rimane in ogni caso lo stesso, ma, come rileva Mouraviev III, p. 113, n. 1, mantenendo il testo tradito (come fanno pure Bollack-Wismann, p. 264), si evita l’ulteriore integrazione dell’articolo tav davanti a pavnta; inoltre, l’unico elemento in favore della correzione di Diels sembra essere la presenza di un sostantivo, e non di un verbo, nella tradizione dossografica (ajmoibhv, cfr. supra, n. 1): tuttavia, anche a prescindere dal fatto che la tradizione dossografica riporta il sostantivo ajmoibhv, e non ajntamoibhv (tav) suggerito da Diels, è più plausibile supporre che siano stati appunto i dossografi (forse lo stesso Teofrasto) ad aver sostituito il verbo con un sostantivo per concettualizzare la nozione dello «scambio» del fuoco (e dell’oro) con tutte le cose (o con i beni).

4 o{kwsper è correzione di Bernardakis della lezione ejk w{sper dei manoscritti X1F1D di Plutarco (gli altri manoscritti portano semplice-mente w{sper), accolta quasi unanimemente.

5 Il presente frammento si colloca, a mio avviso, in continuità con i precedenti, nell’ambito della dottrina fisico-cosmologica del fuoco e delle sue trasformazioni. La seconda parte è particolarmente esplicita: l’oro, infatti, rappresenta un’unità di misura, o di scambio, rispetto a qualunque bene o merce (questo il significato più plau-sibile del sostantivo crhvmata, che non pare avere, nella lingua e nella letteratura greca dell’epoca, il senso corrente che acquisterà in seguito di «cose» o di «monete», cfr. Mouraviev III, p. 113, n. 3), che appunto si misura, o si scambia, in base a quantità prefissate di oro, sicché una certa quantità di oro vale, o può essere scambiata con, una certa quantità di beni e, viceversa, una certa quantità di beni vale, o può essere scambiata con, una certa quantità di oro (così Diano-Serra, p. 147), senza che, tuttavia, ciò consenta di isolare in modo esclusivo il ruolo di questa «unità di misura» come strumento che, ponendosi come equivalente di tutte le cose, tutte le cose unifica negandone la specificità e la singolarità, come vogliono, con l’eccesso di sofisticazione che ne caratterizza la lettura, Bollack-Wismann, pp. 266-67. Se questo esempio deve essere posto in parallelo con quanto viene detto nella prima parte del frammento, se ne deduce che il fuoco produce tutte le cose, mutandosi in esse o con esse «scambiandosi», come pure, in senso contrario, tutte le cose ritor-nano al fuoco, mutandosi in esso o con esso «scambiandosi», nella misura in cui il fuoco costituisce la sostanza fondamentale di tutte le cose esistenti e il principio unico che tutte le genera. Così inteso, il frammento ripropone la tesi di fondo che costituisce la base della fisica e della cosmologia eraclitee: il fuoco, in quanto elemento unico, onniestensivo e onnipervasivo, costituisce e produce, attraverso i suoi mutamenti, tutti gli elementi e tutte le cose esistenti, che a loro

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volta, come altrettanti esiti delle sue trasformazioni, non sono che alterazioni di fuoco e, di conseguenza, a esso riconducono. Inoltre, poiché il verbo ajntameivbomai (o il sostantivo ajntamoibhv, cfr. supra, n. 3) indica uno scambio «alla pari» o di esatta «reciprocità» (così Kirk, p. 346), è verosimile che il frammento richiami pure la misura costante delle alterazioni del fuoco e dunque delle sue trasformazioni (così riecheggiando l’«accensione» e lo «spegnimento» misurati del fuoco, evocati, con l’espressione mevtra ... mevtra, nel fr. 29 [30 DK; 51 Marc.], cfr. n. 4), che si susseguono garantendo la conservazione dello stesso rapporto proporzionale fra tutte le cose esistenti (ossia to;n aujto;n lovgon, come sostiene il fr. 30 [31 DK; 53ab Marc.], cfr. n. 8); cfr. pure Marcovich, pp. 207-08, Conche, pp. 287-88, e Pradeau, p. 242. Non concordo perciò con l’interpretazione suggerita particolarmente da Kahn, pp. 145-47, e Robinson, pp. 138-39, che, ricollegandosi ai frr. 29 e 30, intendono gli «scambi» del fuoco con tutte le cose (e, viceversa, di tutte le cose con il fuoco) come «totali» e «simultanei», vale a dire che, in momenti prefissati e a cadenze stabilite, il fuoco si muta «in blocco» nella totalità del cosmo e delle cose in esso esistenti e, simmetricamente, tutte le cose esistenti e il cosmo nel suo insieme si mutano «in blocco» nel fuoco, così richiamando di nuovo i cicli alterni e successivi delle «accensioni» (o «conflagrazioni») del fuoco, che segnano la distruzione del cosmo, e i suoi «spegnimenti», che, in virtù del «raffreddamento» prodotto, determinano la generazione del cosmo. Non solo non credo, come argomentato nelle nn. 4 e 6-8 ai citati frr. 29 e 30, che una dottrina cosmogonica che prevede successivi e distinti cicli di generazione e corruzione dell’universo sia in generale ascrivibile a Eraclito; ma soprattutto, restando al presente frammento, non mi pare che l’esempio citato della corrispondenza fra l’oro e i beni incoraggi una lettura del genere, perché il senso non è, evidentemente, che l’oro nella sua totalità è convertibile in «tutti» i beni, presi «in blocco» (questo è piuttosto il caso, oggi, della quantità complessiva di oro depositata presso le riserve di una banca centrale a garanzia del valore della massa totale di moneta in circolazione), bensì che l’oro costituisce l’unità di misura o di scambio per ottenere i singoli beni, considerati in quantità discrete o uno per uno, sicché a una certa quantità di oro corrispondono determinati beni che si possono ricevere in cambio; se vale l’analogia, rispetto al fuoco, sembra più plausibile intendere che ogni singola cosa esistente, o gruppi discreti di cose esistenti, derivano da, o corrispondono a, uno «scambio» di fuoco, ossia «valgono» tanto quanto determinate quantità di fuoco, per cui sussiste un principio di equivalenza stabile e costante che regola le trasformazioni del fuoco (o, più esattamente, di quantità discrete di fuoco) nelle singole cose esistenti (o, più esattamente, in singoli gruppi o generi di cose esistenti) e, viceversa, delle singole cose esistenti (o, più esattamente, di singoli gruppi o generi di cose esistenti) in fuoco (o, più esattamente, in quantità discrete di fuoco).

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h{lioı, <...> ou| kata; fuvsin ajnqrwphivou eu\roı podovı2 <...>, tou;ı ou[rouı oujc uJperbavllwn: eij gavr ti eu[rouı eJwutou' ejkbhvsetai, ∆Erinuveı nin ejxeurhvsousi, divkhı ejpivkouroi.3

Il sole, (...) la cui larghezza è per natura di un piede umano (...), non oltrepassa i suoi confini, perché, se uscirà dall’arco del suo corso, le Erinni, che amministrano la giustizia, lo sorprenderanno.4

1 Questo frammento, che risulta dalla combinazione di due frammenti già precedentemente noti (sul primo dei quali, però, gravavano dubbi tanto rispetto all’autenticità quanto rispetto al significato), è stato iden-tificato in un papiro rinvenuto a Derveni, nella Grecia settentrionale, nel 1962, nel sito di una tomba; la sua datazione presunta, forse perfino al IV secolo a.C., ne fa un unicum fra i ritrovamenti effettuati in Europa (per esempio, i materiali papiracei emersi nei pressi di Ercolano sono certamente più tardi). Il papiro di Derveni contiene ventisei colonne di testo, con citazioni di un poema cosmogonico orfico e con relativi commenti, nell’ambito dei quali si trovano più o meno estese citazioni di altri autori antichi, fra cui queste parole di Eraclito, che ci erano appunto già note, ma divise in due proposizioni distinte e prive perciò di ogni collegamento, trasmesse per tradizione indiretta rispettiva-mente in Aezio II 21.4 (= Dox. 351-52) e in Plutarco, De exilio 604a: si vedano in proposito le due note seguenti. Il papiro di Derveni è stato finalmente pubblicato nel 2006: T. Kouremenos, G.M. Parássoglou e K. Tsantsanoglou, The Derveni Papyrus, Studi e testi per il «Corpus dei papiri filosofici greci e latini», vol. 13, Olschki, Firenze 2006, ma ne erano state effettuate alcune edizioni parziali, a partire da vere e proprie ripro-duzioni fotografiche (non sempre autorizzate e perciò talora anonime) realizzate durante il periodo in cui il papiro è stato esposto al pubblico, fino a circa due decenni fa, nel Museo archeologico di Salonicco: fra queste anticipazioni, incomplete ma comunque utili dal punto di vista delle congetture proposte per un testo che presenta gravi lacune, ricordo K. Tsantsanoglou, The First Columns of the Derveni Papyrus and their Religious Significance, in Studies on the Derveni Papyrus, a cura di A. Laks e G.W. Most, Clarendon Press, Oxford 1997, pp. 93-128; R. Janko, The Derveni Papyrus: An Interim Text, in «Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik» 141 (2002), pp. 1-62; e G. Betegh, The Derveni Papy-rus: Cosmology, Theology and Interpretation, Cambridge Univ. Press, Cambridge 2004. Ne risulta dunque che, fra le edizioni e traduzioni dei frammenti eraclitei da me considerate e discusse nella presente raccolta,

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solo Pradeau (p. 260, che si limita a stampare la ricostruzione del testo proposta da Tsantsanoglou) e Mouraviev (I, pp. 9-10, che propone una sua versione congetturale del testo) hanno potuto tenerne conto, benché entrambi questi lavori precedano la pubblicazione effettiva del papiro nel 2006. Il testo del papiro contenente il brano eracliteo in questione si presenta come segue (col. IV):

[ÔHravkleitoı ... e[fh]:7. h{li<...>tou kata; fuvsin ajnqrw<...> eu\roı podovı <...>

8. tou;<...>ı oujc uJperbavllwn: eij <...>rouı e<...>9. <...>k<...>i ∆Erinuve<...> nin ejxeurhvsou <...>

Ora, le congetture di Tsantsanoglou, Janko e, con appena maggior prudenza, di Betegh convergono nell’attribuire alle parole di Eraclito un significato sostanzialmente analogo: h{lioı ejwutou ' (Betegh: h{lioı <...>tou) kata; fuvsin ajnqrwphivou eu\roı podovı ejsti // tou;ı ou[rouı oujc uJper-bavllwn: eij gavr ti eu[rouı eJwutou' (Betegh: ei <...>rouıe<...>) // ejkbhvsetai, ∆Erinuveı nin ejxeurhvsousi, Divkhı ejpivkouroi («Il sole, la cui larghezza è per natura di un piede umano, non oltrepassa i suoi confini; perché, se uscirà dall’arco del suo corso, le Erinni, che amministrano la Giustizia, lo sorprenderanno»); Mouraviev propone invece la ricostruzione che segue, anche a partire dal confronto con il testo tradito dei due frammenti già noti (cfr. le due note seguenti): h{lioı d jo{de ou| kata; fuvsin eu\roı podovı ajnqrwpeivou // tou;ı proshvkontaı oujc uJperbhvsetai ou[rouı: eij d jejx eu[rouı eJxivhi // ∆Erinuveı min Divkhı ejpivkouroi ejxeurhvsousin («Questo sole, che per natura ha la larghezza di un piede umano, non oltrepasserà i confini appropriati: se esce dall’arco del suo corso, le Erinni che amministrano la Giustizia lo sorprenderanno»). Per quanto mi riguarda, come si può constatare dal testo stampato sopra, tento di attenermi al minor numero di integrazioni possibili, e alle più largamente condivise, compatibilmente con una comprensione minimale del frammento come è trasmesso nel testo del papiro; si noti peraltro che, come osserva ancora Mouraviev III, p. 6, nn. 1-2, non è del tutto sicuro né il senso complessivo del materiale papiraceo né la sua coerenza interna né, soprattutto, il rapporto della citazione contenuta nel papiro con quelle trasmesse per tradizione indiretta dalle altre fonti antiche: diverso è l’ordine di alcune parole e, particolarmente, mentre la citazione contenuta nel papiro sembra difficilmente riducibile alla struttura metrica e ritmica riconoscibile negli altri materiali eraclitei superstiti, le due citazioni indipendenti precedentemente note si adeguano invece a questi criteri, sicché sembra che si abbia a che fare con materiali in certa misura parafrasati.

2 La citazione presente in Aezio II 21.4 (= Dox. 351-52 = Eusebio, Praeparatio evangelica XV 24.3), catalogata, prima del rinvenimento del papiro di Derveni, come fr. 3 DK; 57 Marc., suona così: eu\roı podo;ı ajnqrwpeivou (dunque, rispetto al testo trasmesso dal papiro, con una semplice variazione nell’ordine delle parole: «La larghezza [scil., del sole] è di un piede umano»). In Aezio, le parole di Eraclito sono ripor-tate nel contesto di una sequenza dossografica che riferisce le opinioni intorno alla natura e alle dimensioni del sole di Anassimandro (per il quale il sole è di dimensioni simili alla terra), di Anassagora (che invece lo riteneva di molte volte più grande del Peloponneso) e di Epicuro

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(per il quale, infine, potrebbero essere vere tutte le opinioni precedenti oppure il sole potrebbe essere un po’ più grande o un po’ più piccolo di quanto affermato dai predecessori).

3 La citazione di Plutarco, De exilio 604a, catalogata, prima del rin-venimento del papiro di Derveni, come fr. 94 DK; 52 Marc., suona così: h{lioı gavr oujc uJperbhvsetai mevtra: eij de; mhv, ∆Erinuveı min Divkhı ejpivkouroi ejxeurhvsousin (dunque, rispetto al testo trasmesso dal papiro, con la presenza del termine mevtra in luogo di eu\roı: «Il sole non oltrepasserà le sue misure; altrimenti, le Erinni, che amministrano la Giustizia, lo sorprenderanno»). Appena diversa la variante riportata dallo stesso Plutarco, De Iside et Osiride 370d, nel contesto di un insieme di allusioni e reminiscenze eraclitee, particolarmente dei frr. 12 [53 DK; 29 Marc.] e 13 [80 DK; 28 Marc.]: h{lion de; mh; uJperbhvsesqai tou;ı proshvkontaı o{rouı: eij de; mhv, Klw'qavı min Divkhı ejpivkourouı ejxeurhvsein (questa versione del frammento introduce a sua volta il termine o{rouı, accompagnato dal participio proshvkontaı, in luogo di mevtra, della precedente, e del termine eu\roı, del papiro: «[Eraclito dice che] il sole non oltrepasserà i limiti appropriati; altrimenti, le Parche, che amministrano la Giustizia, lo sorprenderanno»).

4 La prima e forse maggiore difficoltà nella comprensione di questo frammento riguarda l’inciso relativo alle dimensioni del sole, che molti interpreti considerano inverosimile, se interpretato letteralmente (si vedano in proposito la rassegna proposta da Kirk, pp. 281-82, e Pradeau, p. 261), suggerendo perciò di intenderlo, per esempio, come una polemica di Eraclito contro l’immotivata fiducia degli uomini nelle apparenze ingannevoli che risultano ai sensi e che sono diffuse dalle opinioni fallaci (cfr. ancora Kirk, p. 282, e Robinson, pp. 77-78): si osservi, del resto, che in tale direzione punta un’indubbia allusione a queste parole di Eraclito da parte di Aristotele, De anima III 3, 428b3-9, che contrappone la verità della conoscenza intellettuale di qualcosa (del sole, concepito come più grande della terra) alla fallacia delle sue apparenze sensibili (del sole, che sembra alla vista della dimensione di un piede, podiai 'oı). Partendo dal medesimo presupposto (o pregiudizio?) esegetico, Pradeau, pp. 261-62, formula l’ipotesi, a mio avviso alquanto artificiosa, che il rapporto fra la misura del sole e il piede umano costituisca un richiamo del principio delle misure relative di tutte le cose esistenti e dell’ordine cosmico nel quale si inseriscono, o più esattamente, in altre parole, del rapporto proporzionale costante che, nell’ordine cosmico, viene mantenuto fra le rispettive misure di tutte le cose. Non va dimenticato, tuttavia, che la citazione eraclitea proposta in Aezio (cfr. supra, n. 2) si colloca in una sequenza che riporta le opinioni di alcuni filosofi sulle dimensioni effettive (e non apparenti) del sole; credo quindi, soprattutto con Bollack-Wismann, pp. 68-69, Marcovich, p. 219, e Conche, pp. 97-98, che questo inciso vada preso alla lettera: mentre, però, Bollack-Wismann e Conche lo intendono come una denuncia, forse in parte ironica, del capovolgi-mento che va operato rispetto al senso comune, quando si consideri che un «oggetto» come il sole, che può essere facilmente nascosto alla vista da un piede che gli sia opposto da un uomo steso al suolo, è poi fonte di luce, calore e vita per tutte le cose (eventualmente giungendo, con

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Bollack-Wismann, a fare dell’esempio concreto del piede un simbolo della funzione della negazione, che produce un ridimensionamento radicale capace di rivelare la realtà delle cose), Marcovich sottolinea da canto suo, a mio avviso più ragionevolmente, come dal materiale dossografico riportato da Diogene Laerzio, Vitae philosophorum IX 9 (raccolto come semplice testimonianza da DK in 22 A 1 e catalogato invece da Marcovich, pp. 230-35, come fr. 61), illustrato supra, nella Nota introduttiva a questa Sezione 3 (ma cfr. anche infra, il fr. 36 [6 DK; 58 Marc.], specie n. 3) e relativo alle principali dottrine meteorologiche di Eraclito, emerga che il sole e i corpi celesti in generale sono da lui concepiti come oggetti concavi (skavfai, forse una sorta di «ciotola» o di «piatto» ricurvo) capaci di raccogliere le esalazioni di umidità provenienti dall’acqua del mare, innescando così una fiamma luminosa e calda in virtù di un processo assimilabile alla «messa a fuoco» di uno specchio o di uno strumento ottico, sicché non sarebbe impossibile supporre che tale «ciotola» abbia davvero le dimensioni di un piede umano (si noti che il termine eu\roı, che può indicare tanto la larghezza quanto la lunghezza di qualcosa, evoca certamente, in questo caso, la larghezza del sole, o della «ciotola» – giacché si tratta di un oggetto sferoidale che non ha lunghezza –, di cui si afferma che corrisponde alla lunghezza di un «piede», che è un’unità di misura universalmente condivisa). Passando alla seconda parte del frammento, con l’introduzione delle «Erinni, che amministrano la giustizia», non mi pare che ciò permetta di stabilire una relazione con tesi o insegnamenti pitagorici (così invece Kirk, pp. 64 e 285; contra Marcovich, p. 195), giacché si tratta di una formula tradizionale che esprime l’inviolabilità di una legge naturale o cosmica, custodita dal vincolo divino sancito dalle Erinni (divinità corrispondenti alle «Furie», che appunto «amministrano la giustizia» in quanto ne garantiscono la conservazione, impedendo ogni violazione umana dell’ordine cosmico e divino, cfr. Kahn, p. 161, e Diano-Serra, p. 151) – una formula tradizionale utilizzata tuttavia da Eraclito nel contesto della sua spiegazione «scien-tifica» della regolarità del percorso del sole. Parole chiave, da questo punto di vista, sono certamente ou\roı ed eu\roı, presenti nel testo del papiro, e soprattutto mevtron (oppure o{roı), nella versione riportata da Plutarco (cfr. la nota precedente): si tratta probabilmente delle «misure» (mevtra) del sole, in primo luogo nel senso dell’arco o dell’ampiezza (eu\-roı) del suo tragitto o dei limiti o confini di questo tragitto (ou[rouı; cfr. il dettagliato esame di Kahn, pp. 159-60), che determinano pertanto, di conseguenza, l’equilibrata e altrettanto misurata emanazione, dal sole, di luce e calore per tutte le cose (si vedano in proposito i due seguenti frr. 35 [99 DK; 60 Marc.] e 36 [6 DK; 58 Marc.]), sicché tali «misure» si lasciano intendere tanto come misure spaziali (dell’orbita solare), quanto come misure d’intensità (di luce e calore), in ottemperanza al principio universale di una misura costante e invariabile in tutte le cose che soddisfa l’esigenza di un equilibrio cosmico capace di governare e mantenere l’ordine del tutto (si veda la convincente analisi di Kirk, pp. 287-88, e Marcovich, pp. 195-96; cfr. pure Robinson, p. 144, e Pradeau, p. 262). È dunque plausibile che questo frammento introduca la sequenza di materiali eraclitei espressamente dedicati, nell’ambito della dottrina

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fisico-cosmologica del fuoco come fondamento sostanziale ed elementare della natura e di tutte le cose, alla descrizione e alla spiegazione di alcuni fenomeni propriamente meteorologici, e particolarmente in relazione al sole e ai corpi celesti, alle loro dimensioni ed evoluzioni, al loro ruolo di fonte di luce e calore (così anche Conche, p. 194). Nonostante ciò, rimane problematica, o almeno soggetta a dubbi, la connessione stabilita nel papiro di Derveni fra le due parti del presente frammento, che non a caso la tradizione indiretta trasmetteva separatamente e trattava di fatto come due citazioni autonome e indipendenti (cfr. supra, n. 1): se appare piuttosto chiara, nelle parole di Eraclito, l’intenzione di associare (1) la «larghezza» (eu\roı) del sole, che è determinata (1a) dalla sua natura propria (kata; fuvsin), e (2) l’«ampiezza del suo corso» (eu\roı), che è garantita (2a) dalle divinità che custodiscono la stabilità della natura stessa, concepita a sua volta come una forma di giustizia, vigilando sul rispetto, per ogni cosa, dei propri limiti e confini (tou;ı ou[rouı oujc uJperbavllwn) e disponendosi a «cogliere sul fatto» (ejxeurhvsousi), e pre-sumibilmente a punire, ogni loro trasgressione, non sembra emergere però nessun’altra più stretta, o filosoficamente più profonda, relazione fra l’indicazione delle dimensioni «naturali» del sole e il tracciato del suo percorso difeso dalla giustizia divina; ciò suggerisce evidentemente l’esercizio di una certa prudenza esegetica.

Fr. 35 [99 DK; 60 Marc.]1

eij mh; h{lioı h\n, e{neka tw'n a[llwn a[strwn eujfrovnh2 a]n h\n.

Se non vi fosse il sole, in virtù delle altre stelle sarebbe notte.3

1 Questo frammento, nella forma stampata qui, risulta dalla combina-zione di due citazioni provenienti da materiali plutarchei. Innanzitutto, Plutarco, De fortuna 98c, evoca le parole di Eraclito nel contesto di un esame delle facoltà conoscitive umane: «E così come, se non vi fosse il sole, in virtù delle altre stelle non avremmo che notte (hJlivou mh; o[ntoı e{neka tw'n a[llwn a[strwn eujfrovnhn a]n h[gomen), come dice Eraclito, allo stesso modo, in virtù delle sensazioni, se non vi fosse l’intelletto, l’uo-mo non avrebbe neanche ragionamento e non si distinguerebbe, come genere di vita, dalle belve»; una seconda citazione si trova nello pseudo-plutarcheo Aqua an ignis utilior 957a, nell’ambito di un’illustrazione e di una comparazione dei diversi vantaggi derivanti dall’acqua e dal fuoco: «Eraclito sostiene dunque che, se non vi fosse il sole, sarebbe notte (eij mh; h{lioı h\n, eujfrovnh a]n h\n), come a dire che, se non vi fosse il mare, l’uomo sarebbe l’animale più selvatico e più bisognoso». Come si vede, l’unica

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differenza sostanziale fra le due citazioni consiste nell’inserzione, nella prima, dell’inciso e{neka tw'n a[llwn a[strwn, per alcuni sospetto in quanto appartenente a un contesto, quello del De fortuna, giudicato formalmente e sintatticamente meno fedele all’originale eracliteo (particolarmente, in apertura, rispetto all’impiego del genitivo assoluto hJlivou mh; o[ntoı, in luogo dell’ipotetica eij mh; h{lioı h\n, e, in conclusione, della prima persona plurale h[gomen al posto della terza persona singolare del verbo essere h\n). Ma, come rileva Marcovich, p. 228, il fatto che una citazione risulti formalmente e sintatticamente preferibile non implica anche che sia completa, e nulla dunque impedisce di integrarla con l’inciso e{neka tw 'n a[llwn a[strwn; Kirk, pp. 163-64, suppone che tale inciso sia stato introdotto da Plutarco, per ragioni di corrispondenza con il seguito del suo esame («... allo stesso modo, in virtù delle sensazioni, se non vi fosse l’intelletto ...», e{neka tw 'n aijsqhvsewn, eij mh; nou 'n ...), ma, ancora con Marcovich, p. 228, può essere vero il contrario, che cioè Plutarco abbia aggiunto il suo inciso e{neka tw'n aijsqhvsewn appunto per farlo corrispondere alle parole originali di Eraclito e{neka tw'n a[llwn a[strwn (Kahn, pp. 50-51, considera entrambe le versioni come una parafrasi dell’originale eracliteo; mentre accettano lo stesso testo da me stampato Diano-Serra, p. 24, Conche, p. 313, Robinson, pp. 58-59 e 146-47, pur dubitativamente, e Mouraviev, pp. 248-49, con l’unica differenza segnalata nella nota seguente). Da ricordare fra l’altro la citazione di Clemente Alessandrino, Protrepticus 113.3 (= I 80 Stählin), che, pur verosimilmente dipendente da Plutarco, conferma anch’essa l’associazione, già nell’antichità, fra i diversi membri del frammento: hJlivou mh; o[ntoı e{neka tw'n a[llwn a[strwn nu;x a]n h\n (di fatto con la semplice sostituzione del più «moderno» termine nuvx in luogo dell’arcaico eujfrovnh; si noti che Bollack-Wismann, p. 99, preferiscono appunto questa citazione, salvo la restituzione di eujfrovnh in luogo di nuvx).

2 eujfrovnh è lezione dei manoscritti di entrambi i passi plutarchei citati nella nota precedente. Come già nel caso dei precedenti frr. 24 [26 DK; 48 Marc.] e 28 [67 DK; 77 Marc.] e del successivo fr. 50 [57 DK; 43 Marc.], Mouraviev I, pp. 248-49, e III, p. 120, n. 2, suggerisce la correzione in eujfrosuvnh («gioia», «allegria», che Mouraviev traduce tuttavia ugualmente, ricollegandolo al sostantivo eujfrovnh e all’aggettivo eu[frwn, con «notte», facendo riferimento al sintagma che si trova negli Inni orfici hJ eujfrosuvnh [nuvx], «la benefica [notte]»). La correzione di Mouraviev non è di per sé implausibile, tenendo conto del fatto che, nel caso dei citati frr. 24 e 50, i manoscritti riportano la lezione eujfrosuvnh (ed eujfrovnh è correzione degli editori); ma, nel fr. 28, eujfrovnh risulta da una correzione dell’improbabile eujfravnqh (cfr. la relativa n. 2) e, nel caso del presente frammento, la tradizione manoscritta non manifesta esitazioni su eujfrovnh. Sulla base di questi elementi di valutazione, la proposta di Mouraviev non mi sembra indispensabile.

3 Il problema principale sollevato da questo frammento, una volta accolto il testo nella sua forma completa (cfr. supra, n. 1), riguarda il significato che conviene attribuire alla preposizione e{neka, che ha abitualmente un valore finale, o di argomento, o un valore causale. La traduzione adottata da Marcovich, p. 227, e Pradeau, p. 247 (che tuttavia pare espungere l’intero inciso come inautentico), mi sembra da questo

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punto di vista piuttosto ambigua: «Se non ci fosse il sole, per tutte le altre stelle sarebbe notte (perpetua)»; anche a prescindere dall’aggiunta di parole assenti nel testo («... per tutte le altre stelle sarebbe notte perpe-tua»), non è chiaro infatti quale significato tale traduzione conferisca a e{neka: un significato finale («per le altre stelle» = «in vista delle altre stelle») o di argomento («per le altre stelle» = «per quanto riguarda le altre stelle»)? Comunque sia, ne deriva un’affermazione (1) assai banale, giacché è ovvio che, se non vi fosse il sole, da cui derivano la luce e il calore del giorno, le altre stelle non potrebbero godere della sua luce e del suo calore e si troverebbero perciò nell’oscurità della notte, se non (2) propriamente contraddittoria, perché le altre stelle si trovano effettivamente nell’oscurità notturna, visto che brillano pre-cisamente quando il sole è assente o spento (cfr. il seguente fr. 36 [6 DK; 58 Marc.], specie n. 3). Credo perciò necessario, anche in ragione del contesto della citazione plutarchea (cfr. supra, n. 1), attribuire a e{neka un esplicito valore causale (con Bollack-Wismann, p. 284, Diano-Serra, pp. 25 e 150-51, Conche, p. 314, e soprattutto con Mouraviev I, p. 248: «Si soleil n’y avait, du fait des autres astres, nuit y aurait»): come infatti, «in virtù (soltanto) dei sensi, se non vi fosse l’intelletto, l’uomo non avrebbe ragionamento», analogamente, se non vi fosse il sole, che è la fonte principale della luce e del calore del giorno, ma vi fossero soltanto le altre stelle, di giorno sarebbe notte, perché le altre stelle non sono altrettanto luminose e calde e non sono pertanto in grado di trasformare la notte in giorno (così pure Diano-Serra, pp. 150-51, e Conche, p. 314). Da questa comparazione fra il potere luminoso e calorifero del sole e delle altre stelle, così stabilita da Eraclito, sembra si debba dedurre che, accanto al sole, vi sono di giorno, seppur meno luminose e calde e perciò di fatto invisibili, anche le altre stelle; si noti peraltro che, nelle testimonianze dottrinarie riportate da Diogene Laerzio, Vitae philosophorum IX 10 (raccolte da DK in 22 A 1 e cata-logate invece da Marcovich, pp. 230-35, come fr. 61), illustrate supra, nella Nota introduttiva a questa Sezione 3, che presentano le principali dottrine meteorologiche di Eraclito, vengono suggerite alcune ragioni della maggiore intensità della luce e del calore del sole rispetto alle altre stelle: il sole si trova più vicino alla terra; il sole si muove in regioni di aria più pura; il sole si mantiene a un’opportuna distanza dalla terra. Non vi sono però, nei materiali eraclitei autentici e nel resto della tradizione dossografica, conferme indipendenti alle ipotesi evocate, sicché conviene limitarsi alla constatazione che, in base alla spiegazione fornita ancora da Diogene Laerzio, Vitae philosophorum IX 9, il meccanismo dell’«accensione» della fiamma solare e delle altre stelle sembra essere lo stesso e dipendere dalle esalazioni di umidità provenienti dal mare per l’aumento di calore (cfr. nuovamente il fr. 36, specie n. 3): l’unica plausibile motivazione della diversa intensità della fiamma solare rispetto a quelle delle altre stelle è allora con-nessa non alle loro rispettive posizioni o distanze dalla terra, ma alla quantità di umidità esalante dal mare che le innesca e le alimenta (si veda in proposito l’ampia disamina proposta da Marcovich, pp. 228-30). Sorge infine, e di conseguenza, il problema di capire come le altre

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stelle possano essere accese e brillare nell’oscurità della notte, cioè quando il sole è assente o spento, se appunto, in ragione del comune meccanismo della loro «accensione», essa si verifica necessariamente di giorno e non con il raffreddamento notturno: si può forse avanzare l’ipotesi che le altre stelle siano alimentate da un’umidità residuale notturna, di per sé insufficiente a mantenere accesa la fiamma solare, ma sufficiente ad alimentare accese le altre stelle, come se, per così dire, «consumassero» meno energia.

Fr. 36 [6 DK; 58 Marc.]1

oJ h{lioı nevoı ejf jhJmevrh/ ejstivn.2

Il sole è nuovo ogni giorno.3

1 Questo frammento è riportato da Aristotele, Meteorologica II 2, 354b33, nel contesto di un’illustrazione polemica e alquanto irridente delle opinioni di quanti, fra i suoi predecessori, hanno sostenuto che il sole trae alimento dalle esalazioni umide: «L’acqua circonda la terra, così come intorno all’acqua si trova la sfera dell’aria e intorno all’aria la sfera detta del fuoco, che, secondo l’opinione comune e nostra, è la più esterna di tutte, mentre il sole si sposta nel modo che si è detto ed è per questo che si producono mutamento, generazione e corruzione; la parte più leggera e più dolce dell’acqua è attratta ogni giorno e condotta in alto divisa e trasformata in vapore e, da lì, è di nuovo condensata dal freddo e ridiscende a terra. Così la natura vuole sempre che avvenga, come si è già detto prima. Pertanto, sono ridicoli anche tutti coloro i quali, fra i predecessori, ritennero che il sole si nutre dell’umidità: alcuni sostengono anche che è questo che spiega i suoi capovolgimenti di direzione, perché gli stessi luoghi non possono fornirgli nutrimento senza sosta, ed è necessario che così avvenga o che si corrompa; infatti, il fuoco che vediamo sopravvive finché ha nutrimento e l’elemento umido è l’unico nutrimento del fuoco, come se la parte dell’elemento umido che si innalza giungesse fino al sole o come se il suo sorgere fosse paragonabile a una fiamma che si accende, sicché, difendendo verosimilmente questa opinione rispetto all’accensione di una fiamma, sostennero pure la stessa opinione riguardo al sole. Ma non è la stessa cosa: la fiamma è il prodotto di una successione continua di passaggi dall’umido al secco e non è nutrita né infatti rimane mai, per così dire, la stessa nel tempo; quanto al sole, invece, non è possibile che avven-ga ciò che costoro dicono, perché, se è alimentato allo stesso modo (scil., della fiamma), è evidente che non solo, secondo quanto afferma

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Eraclito, ... (Aristotele cita qui il fr. 36), ma è sempre continuamente nuovo. Peraltro, l’attrazione dell’elemento umido da parte del sole è analoga a ciò che avviene quando l’acqua è riscaldata dal fuoco: se dunque il fuoco che brucia sotto l’acqua non è alimentato, neanche è verosimile ritenere che ciò avvenga al sole, pur se si scaldasse sino a trasformare in vapore tutta l’acqua». Il significato della citazione è abbastanza chiaro: in primo luogo, Aristotele riconduce l’affermazione eraclitea del quotidiano «rinnovamento» del sole alla tesi relativa alla natura della fiamma solare, che sarebbe alimentata dall’elemento umido continuamente esalante per effetto del calore prodotto dallo stesso sole sulle acque marine, in modo che, subendo così una perma-nente integrazione della propria struttura e composizione sostanziale, il sole di fatto si rinnova al punto da risultare «nuovo ogni giorno»; a questa tesi, inoltre, Aristotele oppone alcune obiezioni, negando, dapprima, che l’esalazione di umidità da terra possa giungere fino al sole e precisando, subito oltre, che il sorgere del sole non ha nulla a che fare con l’accensione di una fiamma, sicché non si configura come un processo che determini, quotidiamente, lo sprigionarsi di una nuova fiamma. L’allusione di Aristotele all’accensione di una fiamma come illustrazione del sorgere del sole è particolarmente rilevante, giacché si trova riecheggiata da analoghi riferimenti presenti in alcune varianti o reminiscenze del frammento riportate dai testimoni antichi: si vedano soprattutto Alessandro di Afrodisia, In Meteorologica 72.31 Hayduck; Olimpiodoro, In Meteorologica 136.6 Stüve; e uno scolio a Platone, Repubblica VI 498a (= 240 Greene), che intendono il sorgere e il tra-montare del sole, dunque appunto il suo giornaliero «rinnovamento», come un successivo processo di «accensione» e di «spegnimento» ([ejx]a{ptesqai ... sbevnnusqai) della sua fiamma, stabilendo così un’analo-gia, forse presente già nell’originale eracliteo (cfr. Kirk, p. 279), con l’«accensione» e lo «spegnimento» misurati del fuoco evocati nel fr. 29 [30 DK; 51 Marc.]: pu 'r ... aJptovmenon mevtra kai; ajposbennuvmenon mevtra (cfr. la relativa n. 4), anche se, nel caso del sole e diversamente dal fuoco, «accensione» e «spegnimento» si devono concepire come totali, perché, ogni giorno, il sole si accende e si spegne del tutto, cfr. infra, n. 3 (più generiche le allusioni a queste parole di Eraclito in Platone, Repubblica VI 498a, che Kahn, pp. 50-51, considera invece come un possibile frammento a parte, benché nella forma di una parafrasi lar-gamente rimaneggiata dell’originale eracliteo, e in Plotino, Enneadi II 1 [40] 2.8). È infine oggetto di discussione se Aristotele, riferendosi a «tutti coloro i quali, fra i predecessori, ritennero che il sole si nutre dell’umidità», alluda esclusivamente, o almeno principalmente, a Eraclito (ed eventualmente ad alcuni suoi seguaci) oppure, più in generale, ad altri e non meglio identificati fusikoiv presocratici, fra i quali si troverebbe compreso anche Eraclito (cfr. in proposito l’esame proposto da Marcovich, pp. 221-23): solo nel primo caso, infatti, diviene plausibile attribuire specificamente a Eraclito non soltanto la tesi del «rinnovamento» quotidiano del sole, ma anche la spiegazione che Aristotele ne fornisce attraverso il ricorso alla teoria dell’esalazione dell’umidità dall’acqua marina (to;n h{lion trevfesqai tw/ ' uJgrw/ '), che

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pare in effetti compatibile con la dottrina fisica e meteorologica di Eraclito, cfr. ancora infra, n. 3.

2 Il testo di questo frammento, nella versione riportata da Aristotele accolta dalla quasi totalità degli editori, non presenta particolari dif-ficoltà. Mouraviev I, p. 28, si basa invece su una versione riportata da Proclo, In Timaeum III 311.4 Diehl, che presenta una leggera variazione nell’ordine delle parole che non incide tuttavia sul significato d’insieme: nevoı ejf jhJmevrh/ (ejstivn) oJ h{lioı. Bollack-Wismann, pp. 74-76, intendono la locuzione ejf jhJmevrh/ non in senso temporale («ogni giorno»), ma a esprimere il «prezzo» di uno scambio («Il sole è nuovo a prezzo del giorno»), che è appunto quello fra il «sole», che vive alimentandosi del «giorno», cioè delle esalazioni umide, e il «giorno» che, consumato dal «sole», lascia perciò il posto alla «notte».

3 Il significato di questo frammento mi pare piuttosto chiaro, come pure la sua collocazione nell’ambito della dottrina fisico-cosmologica di Eraclito, che si articola, qui e nei frammenti precedenti, come una spiegazione di alcuni fenomeni meteorologici, particolarmente in relazione alla natura e alle evoluzioni del sole. Il sole infatti, di cui, nel fr. 34 [0 (3+94) DK; 0 (57+52) Marc.], sono state indicate la dimensio-ne e le misurate variazioni di posizione e d’intensità e, nel fr. 35 [99 DK; 60 Marc.], la capacità di irradiare luce e calore, viene adesso paragonato a una fiamma che si accende (di giorno) e si spegne (di notte), sicché risulta ogni giorno sempre nuova: si può verosimilmente intendere, in base alla spiegazione fornita da Aristotele (cfr. supra, n. 1), che, se il sole è alimentato dalle esalazioni di umidità provenienti dall’acqua di mare, la sua «accensione» mattutina produce, con il pas-sare delle ore e il procedere del suo corso, un aumento di calore e, conseguentemente, delle esalazioni suscitate, che a loro volta, appunto alimentando la fiamma solare, determinano un sempre maggiore incremento della sua intensità fino al culmine del mezzogiorno (momen-to nel quale, forse, proprio in quanto si trova «a picco» rispetto alla superficie terrestre, il sole la investe pienamente, producendo il calore più intenso e le più consistenti esalazioni di umidità); via via che il sole procede ancora nel suo corso, e con il diminuire pomeridiano del suo calore, anche le esalazioni di umidità diminuiscono e con esse l’alimen-tazione della fiamma solare (forse in quanto, allontanandosi dal suo «picco» rispetto alla superficie terrestre, il sole la investe solo parzial-mente e sempre più debolmente, producendo un calore progressiva-mente meno intenso ed esalazioni di umidità meno consistenti), finché, cessando del tutto tali esalazioni di sera, il sole si spegne interamente e tale rimane durante la notte per riaccendersi l’indomani. Così inter-pretato, il frammento completa le indicazioni relative al ciclo delle alterazioni del fuoco, concepito come il fondamento fisico-cosmologi-co degli elementi che costituiscono tutte le cose esistenti, fornite dai precedenti frr. 29 [30 DK; 51 Marc.], cfr. n. 4, 30 [31 DK; 53ab Marc.], cfr. n. 8, e 32 [126 DK; 42 Marc.], cfr. n. 3: (1) «accendendosi» e «spe-gnendosi» «in uguale misura» (fr. 29), infatti, (2) il fuoco dà luogo ai suoi successivi «rovesciamenti», dapprima trasformandosi (presumi-bilmente) in umidità e in acqua di mare e da questa, rispettivamente,

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in terra e «tempesta di fulmini» (fr. 30), adesso aggiungendosi che dalle esalazioni del mare, determinate da un aumento di calore, trae nutrimento anche la fiamma solare, che a sua volta – come la terra e la «tempesta di fulmini» che si riversano in mare (fr. 30) – si muta probabilmente di nuovo in umidità e quindi in acqua, quando si spegne di notte, a causa della diminuzione di calore (questo fenomeno evoca-no forse le allusioni di Olimpiodoro e soprattutto dello scolio alla Repubblica di Platone, cfr. supra, n. 1, secondo cui il sole di Eraclito ejn th/ ' dutikh '/ qalavssh/ ... kataduvı ... sbevnnutai, cioè «si spegne, tuffandosi nel mare occidentale», plausibilmente non nel senso che estingue nell’acqua la sua fiamma, ma piuttosto in quanto, appunto spegnendo-si per la cessazione delle esalazioni di umidità provenienti dal mare, esso torna a trasformarsi in umidità e dunque in acqua di mare); si comprende perciò (3) come le coppie «freddo-caldo» e «umido-secco» (fr. 32) rappresentino, per la concreta attuazione di questi processi di alterazione, delle essenziali condizioni di possibilità. Di conseguenza, accanto a tali processi di trasformazione, che definirei «cosmici» perché riguardano e descrivono il quadro d’insieme dei diversi possibili muta-menti del fuoco negli altri elementi, azzarderei a questo punto, pur in forma largamente congetturale, la seguente ricostruzione di una ver-sione «meteorologica» di simili processi e della loro scansione quoti-diana nella vicenda dei fenomeni naturali: al mattino, l’«accensione» misurata del fuoco comporta un generale e progressivo aumento di calore fino al mezzogiorno, che produce lo scioglimento della terra in mare e la contemporanea esalazione, dall’acqua di mare, di umidità, in modo che i vapori vanno a innescare e ad alimentare, da un lato, la fiamma solare, che si presenta come un primo «esemplare» meteoro-logico del fuoco, dall’altro, i corpi nuvolosi atmosferici, che, addensan-dosi, determinano fulmini e fenomeni temporaleschi, che del fuoco sono verosimilmente un altro «esemplare» meteorologico; dopo il mezzogiorno, e sempre più nelle ore pomeridiane e serali, nella stessa misura in cui si è «acceso», il fuoco via via si «spegne», sicché diminui- sce altrettanto progressivamente il calore generale, producendo così, in virtù del raffreddamento dell’ambiente, la solidificazione del mare in terra, da un lato, e dall’altro, per la diminuzione e infine la cessazio-ne delle esalazioni di umidità dall’acqua di mare, lo spegnimento del sole, la cui fiamma spenta lascia il posto a vapori che si condensano forse nuovamente in acqua di mare, come pure in mare, sotto forma di pioggia, si riversano le «tempeste di fulmini». Come si vede, l’equilibrio della natura e del cosmo è mantenuto costante dalle regolari oscilla-zioni del fuoco «sempre vivo», che mai si «spegne» né si «accende» del tutto (giacché, se così fosse, il ciclo dei fenomeni sarebbe interrotto ogni volta e ogni volta dovrebbe ricominciare ex novo, cfr. ancora supra, i frr. 29, n. 4, e 30, n. 8), mentre il sole, pur rinnovandosi gradatamente per le esalazioni di umidità che costantemente gli giungono di giorno dal mare, di sera finisce per estinguere interamente la sua fiamma, che rimane spenta nel corso della notte perciò determinando l’oscurità notturna, per poi riaccendersi al mattino come una fiamma nuova: in tal modo mi pare necessario intendere la tesi eraclitea del quotidiano

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rinnovamento del sole in base alla confutazione che ne propone Ari-stotele, perché non si capirebbe altrimenti la ragione per cui lo Stagi-rita le contrappone l’idea di un rinnovamento continuo del sole (ouj movnon ... ejf jhJmevrh/ ... ajll jajei; nevoı sunecw 'ı, cfr. supra, n. 1); si vedano in proposito la messa a punto di Marcovich, p. 223, e di Mouraviev III, p. 14, e, contra, soprattutto Kirk, p. 267, e Conche, pp. 306-08, che attribu-iscono invece a Eraclito appunto la tesi del rinnovamento continuo del sole che Aristotele gli oppone e non quella dell’effettivo e quotidiano spegnimento e accensione della fiamma solare. Il quadro proposto, in questo e nei due precedenti frr. 34 e 35, è ampiamente compatibile con il materiale dossografico riportato da Diogene Laerzio, Vitae philoso-phorum IX 9-11 (raccolto come semplice testimonianza da DK in 22 A 1 e catalogato invece da Marcovich, pp. 230-35, come fr. 61), illustra-to supra, nella Nota introduttiva a questa Sezione 3, che presenta le principali dottrine meteorologiche di Eraclito, tutte basate sul princi-pio delle alterazioni del fuoco, e particolarmente dei diversi gradi di esalazione dell’umidità dall’acqua di mare (th;n ajnaqumivasin ... th;n ajpo; th 'ı qalavtthı), che esso produce attraverso le variazioni dell’intensità del proprio calore (IX 9). Per quanto riguarda il sole, e i corpi celesti in generale, Eraclito li avrebbe concepiti come oggetti concavi (skavfai, forse una sorta di «ciotola» o di «piatto» ricurvo), con la parte interna, appunto concava, rivolta verso il basso, cioè verso il mare, e capace di raccogliere le esalazioni marine che, per un processo assimilabile alla «messa a fuoco» di uno specchio o di uno strumento ottico, innescano la fiamma in cui consistono il sole e ogni corpo celeste (IX 9: ... skavfaı ejpestrammevnaı kata; koi'lon pro;ı hJma'ı, ejn ai|ı ajqroizomevnaı ta;ı lampra;ı ajnaqumiavseiı ajpotelei 'n flovgaı, a}ı ei\nai ta; a[stra; questa anche l’in-terpretazione di Marcovich, pp. 234-35). Allo stesso modo, verrebbero spiegate le eclissi di sole e di luna, che si producono quando le rispet-tive skavfai, capovolgendosi, presentano verso terra la parte convessa, quella che appunto rimane oscura dal momento che la fiamma accesa in ogni skavfh si colloca nella sua parte concava, come pure i cicli lunari che corrisponderebbero ai movimenti di rotazione della skavfh lunare; e perfino l’alternarsi di giorno e notte e delle stagioni dipen-derebbe dal diverso grado di calore del fuoco e della conseguente esalazione di acqua di mare (IX 10-11). È assai probabile, come segna-lano fra gli altri Kirk, pp. 277-78, e Marcovich, pp. 223-24, che la con-cezione eraclitea del sole e degli altri corpi celesti intrattenga una relazione di dipendenza da quella di Senofane, che avrebbe sostenuto che essi constano di fuoco derivante da nubi di umidità, che si spengo-no ogni giorno e si accendono la sera come tizzoni di brace ardente che diffondono la propria luce nell’oscurità notturna (cfr. Aezio II 20.3 [= Dox. 348 = 21 A 40 DK] e II 13.14 [= Dox. 343 = 21 A 38 DK]).

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Fr. 37 [120 DK; 62 Marc.]1

hjou'ı kai; eJspevraı tevrmata hJ a[rktoı kai; ajntivon th'ı a[rktou ou\roı2 aijqrivou Diovı.

Limiti del mattino e della sera: l’Orsa e, di fronte all’Orsa, il confine3 di Zeus luminoso.4

1 Questo frammento è riportato da Strabone, Geographia I 1.6, nel contesto di una difesa di Omero come astronomo, specie rispetto alla determinazione dei confini della terra (cfr. Iliade XVIII 489; Odissea V 275); proprio a Omero, secondo Strabone, può essere accostato Eraclito con le sue parole: «Più efficace Eraclito, e più vicino a Omero, quando nomina analogamente l’Orsa (th;n a[rkton) al posto del circolo artico (ajnti; tou' ajrktikou'): ... (Strabone cita qui il fr. 37)».

2 Per ragioni interpretative, Snell ha proposto di correggere ou\-roı, dei manoscritti, in <∆Arkt>ou'roı, a indicare la stella Arturo: anche indipendentemente dall’assenza di motivazioni filologiche e testuali in favore di questo intervento, considero soprattutto improbabile l’inter-pretazione che esso presuppone (cfr. la nota seguente).

3 Il termine ou\roı possiede diversi significati, e la sua traduzione in questo frammento, di per sé oscuro, pone perciò non poche difficoltà. Innanzitutto, può avere il senso di «vento» (o «vento propizio»), che pare qui fuori luogo, perché questo termine non implica di per sé nessun riferimento geografico o astronomico, che invece sembrerebbe richiesto dal contesto (cfr. Kirk, pp. 290-91, Marcovich, p. 238, e Mouraviev III, p. 138); può significare inoltre «montagna» (eventualmente, ma non necessariamente, con un’allusione all’Olimpo), ma il riferimento geo-grafico sarebbe in tal caso piuttosto ambiguo, giacché non si vede in che modo una montagna possa trovarsi «di fronte», o «in una posizione opposta», all’Orsa, che coincide certamente con la costellazione dell’Orsa Maggiore (cfr. ancora Kirk, p. 291, Marcovich, p. 238, e Mouraviev III, p. 138); può indicare infine la «pietra terminale» che segna l’estremo limite di qualcosa (cfr. Diano-Serra, p. 151), nel duplice senso di «baluardo difensivo», o «posto di guardia», e di «confine», per esempio di una regione. Nel primo caso, avremmo che, «di fronte all’Orsa», si pone «il guardiano di Zeus luminoso» – appunto posto come «baluardo» dell’Orsa dal padre degli dei – da identificare presumibilmente con la stella Arturo (così Kahn, p. 162, Conche, pp. 195-96, e Mouraviev I, p. 302, e III, p. 138), il cui nome in greco, ∆Arktou 'roı (del resto proposto come correzione del testo del frammento, cfr. la nota precedente), significa appunto, secondo la spiegazione fornita da Arato, Phaenomena 92, «guardiano dell’Orsa», ma anche, forse meno perspicuamente, suo «confine», giacché Arturo, che si colloca lungo una linea tracciata a partire dalle ultime due stelle del timone dell’Orsa Maggiore, può essere pure

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considerato come la «coda» o, appunto, il «confine» dell’Orsa (contra Marcovich, p. 237): ora però, in base a questa traduzione, poiché la stella Arturo si colloca nell’emisfero settentrionale, come l’Orsa Maggiore, bisognerebbe intendere che il frammento faccia riferimento a tre punti cardinali (est = mattino, ovest = sera, nord = Orsa) e a una stella, Arturo, che, invece che implicare un’indicazione geografica o astronomica del quarto punto cardinale, avrebbe piuttosto la funzione di assicurare il «controllo» dell’equilibrio cosmico e cosmologico dei cicli solari e astrali simboleggiati dall’alternanza del «mattino» e della «sera» (questa è l’interpretazione complessiva del frammento suggerita da Kahn, pp. 161-63, e Robinson, p. 161, secondo i quali, mentre l’Orsa designa il Polo Nord, il «mattino» e la «sera» indicano l’alba e il tramonto, cioè il sorgere e il tramontare del sole a est e a ovest, e Arturo, il cui sorgere e tramontare sono posti da Esiodo, Opere 566 e 610, come inizio della primavera e dell’autunno, è visto perciò come guardiano del regolare sorgere e tramontare del sole, ogni giorno, dunque al «mattino» e di «sera», e in generale nel corso dell’anno, in corrispondenza degli equino-zi); risulterebbe inoltre insolito, in tale contesto, l’appellativo di ai[qrioı («pulito» o «sereno», abitualmente in riferimento al cielo) a qualificare Zeus, se inteso propriamente come la suprema divinità che stabilisce il «guardiano» dell’ordine cosmico e della sua regolarità. Nel secondo caso, traducendo il termine ou\roı con «confine», avremmo d’altro canto che, «di fronte all’Orsa», cioè simmetricamente rispetto a essa, si pone «il confine di Zeus luminoso», da intendersi questa volta come una vera e propria indicazione geografica e astronomica verosimilmente riferita al sud, se «il confine di Zeus luminoso» si colloca dalla parte opposta rispetto all’Orsa, che si trova a nord, nell’emisfero settentrio-nale: questa interpretazione, da me (pur congetturalmente) preferita, sarà argomentata nella nota seguente; si noti soltanto, per il momento, che l’espressione ai[qrioı Zeuvı si troverebbe così meglio giustificata in quanto riferibile, più che al dio Zeus, alla regione celeste illuminata dal sole, il cui «confine», nel massimo del suo splendore, si colloca a mezzogiorno, dunque in una posizione opposta e simmetrica rispetto al nord che potrà allora ragionevolmente designare il sud (così Kirk, pp. 291-93, e Marcovich, pp. 237-38, che raccoglie una serie di testimonianze antiche in favore di questa interpretazione dell’espressione ai[qrioı Zeuvı).

4 Se pare indubbio che il «mattino» e la «sera» designino in questo frammento l’est e l’ovest come luoghi geografici e astronomici del sorgere e del tramontare del sole, sono invece problematici, come spiegato nella nota precedente, i riferimenti all’Orsa e soprattutto al «confine di Zeus luminoso», anche se è del tutto chiara l’interpreta-zione che Strabone intende suggerire della sua citazione di Eraclito, associando quest’ultimo a Omero nell’identificazione dell’Orsa (hJ a[rktoı) con il circolo artico (oJ ajrktiko;ı kuvkloı) e, di conseguenza, nell’indicazione del circolo artico a nord, e, simmetricamente, del circolo antartico (che sarebbe perciò designato dal «confine di Zeus luminoso») a sud, come limiti (tevrmata) entro i quali risultano visi-bili l’alba e il tramonto e delimitabili l’est e l’ovest. Tuttavia, questa interpretazione suscita notevoli difficoltà, in primo luogo perché

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non appare verosimile che Eraclito potesse conoscere il circolo antartico, né risultano costellazioni meridionali a qualche titolo associate al nome di «Zeus luminoso» (Kirk, pp. 289-90, fa notare, aggiuntivamente, che, se è accettabile che l’Orsa e il «confine di Zeus luminoso» indichino rispettivamente, e genericamente, il nord e il sud, è poco probabile invece che vadano riferiti, come vuole Stra-bone, al circolo artico, cioè al Polo Nord, e, per simmetria, al circolo antartico, cioè al Polo Sud, perché ciò supporrebbe una concezione sferica della terra di cui non abbiamo evidenza nei materiali eraclitei superstiti né nella contemporanea cosmologia ionica); non è chiaro, infine, se e quanto il presente frammento consenta di attribuire a Eraclito, come vorrebbe evidentemente Strabone, un apprezzamento sostanziale delle conoscenze, astronomiche in particolare, di Omero (si vedano, su questo punto, i frr. 49a [42 DK; 30 Marc.] e 49b [105 DK; 63a Marc.], con le relative note di commento). Al di là delle indebite sovrainterpretazioni di Strabone, però, è plausibile che si debba tenere fermo il senso generale della sua citazione delle parole di Eraclito, traendone perciò almeno l’indicazione dei quattro punti cardinali, il nord (l’Orsa), il sud (il «confine di Zeus luminoso», da intendere come culmine dello splendore del sole a mezzogiorno, cfr. la nota precedente), l’est (il mattino) e l’ovest (la sera), di cui vengono fissati i «limiti» (tevrmata), cioè appunto il reciproco confine (ou\roı): i «limiti» dell’est e dell’ovest coincidono infatti con il «confine» che essi incontrano, rispettivamente, a nord e a sud, sicché il sole, dal suo sorgere mattutino, a est, procede fino al suo culmine a mezzogiorno, a sud, per poi declinare fino al tramonto serale, a ovest, e scomparire del tutto nella notte, a nord, quando domina la visione dell’Orsa (così pure Kirk, pp. 292-93, Marcovich, pp. 237-38, Diano-Serra, p. 151, e Pradeau, p. 252). Così inteso, il frammento può essere collocato nella sequenza di materiali fisico-cosmologici eraclitei di questa Sezione 3, e particolarmente fra quelli dedicati all’illustrazione dei processi meteorologici e astronomici: dopo aver esaminato, specie nei tre precedenti frr. 34 [0 (3+94) DK; 0 (57+52) Marc.], 35 [99 DK; 60 Marc.] e 36 [6 DK; 58 Marc.], la natura e la condizione del sole (sottolineando, specie nel fr. 34, la rigorosa delimitazione dei suoi «confini» [ou[rouı] e dell’«arco del suo corso» [eu[rouı]: la stretta relazione, anche terminologica, fra i due frammenti è ben segnalata da Pradeau, p. 252), Eraclito si esprimerebbe qui sulla posizione delle costellazioni e sull’indicazione dei quattro punti cardinali, sempre in riferimento al sole (e al percorso del suo sorgere e tramontare), mentre i seguenti frr. 38 [100 DK; 64 Marc.] e 39 [64+65+66 DK; 79+55+82 Marc.] estenderanno queste considerazioni all’alternanza ciclica delle stagioni e di tutte le cose.

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Fr. 38 [100 DK; 64 Marc.]1

(... w||n [scil., mevtron kai; peivrata kai; periovdouı] oJ h{lioı ejpistavthı w]n kai; skopo;ı oJrivzein kai; brabeuvein kai; ajnadeik-nuvnai kai; ajnafaivnein metabola;ı kai;) w{raı ai} pavnta fevrousi.

(...di cui [scil., di misura, limiti e rivoluzioni] il sole, che ne è produttore e sorvegliante, delimita, controlla, fa conoscere e apparire i mutamenti e) le stagioni che portano ogni cosa.2

1 Questo frammento è riportato da Plutarco, Quaestiones Plato-nicae VIII 4. 1007d-e, nel contesto dell’ottava «questione» platonica da lui esaminata, relativa alla «semina» delle anime che, secondo il Timeo (37c-39e; 41d-42e), sono distribuite negli astri al momento della produzione del cosmo, di cui Plutarco sottolinea il carattere e la struttura perfettamente razionali: «Il tempo quindi, in quanto ha una connessione e un accordo armonioso con il cielo, non è semplicemente un movimento, ma, come si è detto, un movimento disposto secondo un ordine che implica misura, limiti e rivoluzioni, di cui il sole ... (Plutarco cita qui il fr. 38), secondo Eraclito, e risulta (scil., il sole) come collaboratore del dio sovrano e primo, e non in compiti minori e insignificanti, ma in quelli più grandi e importanti». Il problema principale, che incide sensibilmente sull’interpretazione del frammento (cfr. la nota seguente), riguarda quale e quanta parte della citazione plutarchea possa essere considerata come materiale eracliteo autentico. Tradizionalmente, viene conservata come autentica soltanto l’ultima parte della citazione (così per esempio, DK, Marco-vich, p. 240, Diano-Serra, pp. 24-25, e Conche, pp. 198-200), mentre Pradeau, pp. 245-46 (ma cfr. già A. Lebedev, The Cosmos as a Stadium: Agonistic Metaphors in Heraclitus’ Cosmology, in «Phronesis» 30 [1985], pp. 131-50, specie 136-39), non vede ostacoli nell’estendere all’intera citazione il riferimento di Plutarco a Eraclito, come pure Mouraviev I, pp. 250-51, e III, p. 120, che tuttavia considera autentica una versione abbreviata e lievemente rimaneggiata della citazione plutarchea: oJ h{lioı skopo;ı tw 'n periovdwn metabola;ı kai; w{raı oJrivzein ai} pavnta fevrousi («Le Soleil est l’arbitre des révolutions chargé de borner les changements et les saisons qui tout apportent»), entrambi basandosi su argomenti forniti per lo più da Lebedev: la sintassi della citazione, che manifesterebbe le tracce caratteristiche della «durezza» della lingua greca arcaica, e la sua terminologia «agonistica», che sarebbe riecheggiata in altri materiali eraclitei superstiti, andreb-bero ad aggiungersi alla constatazione che la sola conclusione («le stagioni che portano ogni cosa»), se considerata di per sé, appare talmente banale nel suo significato generale e immediato, forse

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proverbiale, da non richiedere, da parte del citatore, un richiamo all’autorità di Eraclito. Ora, quest’ultima considerazione è sensata, ma non decisiva, giacché, per esempio, proprio la proverbialità di un’espressione potrebbe riportare alla memoria del citatore le parole dell’autore «classico» citato, senza che ciò implichi un riferimento particolarmente impegnativo, sul piano teorico, alle sue dottrine; d’altra parte, la conclusione della citazione è la seconda parte di un esametro, che non si accorda perciò, dal punto di vista metrico, con quanto la precede, il che obbliga Pradeau, p. 246, a dubitare appunto dell’autenticità della forma esametrica oppure a giudicare tale con-clusione come una citazione che Eraclito a sua volta riprenderebbe dalla poesia epica (così, congetturalmente, già Kirk, pp. 294-95) – il che, per inciso, mi pare francamente improbabile. Osservo inoltre che la struttura, sintattica e argomentativa, del brano di Plutarco non favorisce l’attribuzione a Eraclito dell’intera citazione: oJ h{lioı è introdotto infatti da un pronome relativo al genitivo (w||n), che certamente si riferisce al passo platonico del Timeo che Plutarco discute nelle linee precedenti (con la definizione del «tempo» come movimento ordinato «che implica misura, limiti e rivoluzioni»), come pure al Timeo (39b-c) è riconducibile l’indicazione del sole come responsabile della conservazione delle metabolaiv stagionali e cosmiche (resa, nel brano plutarcheo, con gli infiniti oJrivzein kai; brabeuvein e, in Timeo 39b2-5, con il riconoscimento al sole della fun-zione di mevtron ejnargevı delle rivoluzioni degli astri) e soprattutto, assai significativamente, della loro manifestazione (resa, nel brano plutarcheo, con gli infiniti ajnadeiknuvnai kai; ajnafaivnein e, in Timeo 39b4-6, con la precisazione che il sole è stato fissato dalla divinità come «un lume [fw 'ı] ... in modo che potesse illuminare [faivnoi] quanto più possibile tutto il cielo», perché, così illuminato, esso risultasse più immediatamente accessibile ai viventi e comprensibile nei suoi movimenti); si rilevi infine come, subito dopo aver evocato il nome di Eraclito, Plutarco torni a collegare il riferimento al sole al Timeo (e non, appunto, a Eraclito), qualificando il sole, in sintonia con Timeo 39b4-c1, come qew ' / sunergevı. Da tutto ciò sono indotto a ritenere certamente ascrivibile a Eraclito, nel brano di Plutarco e nell’intenzione della sua citazione, soltanto l’espressione w{raı ai} pavnta fevrousi, pur senza escludere che la sezione che la precede, specie rispetto all’indicazione del sole come garante del ciclo dei movi-menti cosmici e dell’alternanza delle stagioni, implichi quantomeno una parafrasi di elementi riconducibili a materiali eraclitei autentici (così pure, mi sembra, Kahn, p. 155; mentre Bollack-Wismann, pp. 286-87, tendono piuttosto a respingere l’insieme della citazione), che per questa ragione propongo fra parentesi tonde nel testo. Un problema a mio avviso minore è rappresentato dal fatto che un altro brano plutarcheo (De defectu oraculorum 416a) riporta una versione leggermente differente di queste parole di Eraclito: oujk ejniauto;ı ajrch;n ejn auJtw ' / kai; teleuth;n oJmou ' ti pavntwn w|n fevrousin w|rai gh ' de; fuvei perievcwn, oujd jajnqrwvpwn ajpo; trovpou genea; kevklhtai... («Non è l’anno che contiene in sé principio e fine insieme di tutte le cose

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che le stagioni portano e che la terra fa nascere, e non è chiamato, secondo l’uso degli uomini, “generazione”?»). Il nome di Eraclito non è menzionato qui da Plutarco (ma lo era stato poco prima, in 415e, corrispondente al fr. 108b1 Marc. [= 22 A 19 DK], da me con-siderato come una semplice testimonianza dossografica, cfr. infra, n. 1 al fr. 66 [48 DK; 39 Marc.], e in 415f, in riferimento alla dottrina stoica della «conflagrazione») e il contesto appare molto diverso, perché, privo di qualunque riferimento cosmologico, in esso si pone piuttosto la questione del ciclo annuale delle stagioni, da accostare, forse non del tutto perspicuamente, al ciclo della vita umana e alla sua durata (che pare in questione anche nel citato fr. 108b1 Marc., che gli è contiguo dal punto di vista testuale): perciò, nonostante l’eventuale contributo esegetico che dal confronto con queste linee del De defectu oraculorum può derivare (si veda la nota seguente), continuo a giudicare più affidabile il passo delle Quaestiones Plato-nicae come fonte del presente frammento.

2 Nella sua versione più immediata e ristretta, cioè in riferimento alle sole parole che credo si possano con certezza attribuire a Era-clito, il senso del frammento è piuttosto chiaro ed effettivamente banale nella sua proverbialità, perché si limita ad affermare che le stagioni, intese nella loro ciclica alternanza nel corso dell’an-no ed eventualmente come metafora delle diverse età della vita umana, sono responsabili di tutto ciò che accade e degli eventi che toccano l’esistenza di ciascuno (così Diano-Serra, p. 151): sarebbe perciò assai difficile, se non impossibile, ipotizzare una collocazione tematica e dottrinaria adeguata, nell’ambito dei materiali eraclitei superstiti, per il presente frammento, se ci si attenesse a questa sua lettura minimale, alla quale il riferimento al secondo passo plutarcheo di De defectu oraculorum 416a che forse lo evoca (cfr. la nota precedente) non aggiunge nulla di significativo, in quanto si limita a indicare nell’anno, visto come un’unità di misura superiore e comprensiva delle stagioni, «principio e fine insieme di tutte le cose», paragonandolo pure a una «generazione» umana. Invece, se la parte precedente della citazione plutarchea contiene almeno una parafrasi di spunti teorici eraclitei autentici, specie in relazione al sole come principio e garante di una ciclica alternanza cosmica e naturale (si veda ancora la nota precedente), emerge allora una tesi più impegnativa e ricca di implicazioni, secondo la quale è il sole, che è posto (o piuttosto in quanto è posto) come astro principale da cui dipendono tutti gli altri movimenti celesti nella loro immutabile regolarità, a determinare ogni forma di alternanza nel cosmo e nella natura (come quella esemplificata dalle stagioni), attraverso la quale si giustifica la presenza, nel cosmo e nella natura, di tutte le cose (cfr. anche Kahn, p. 156, Conche, pp. 199-200, e Pradeau, p. 246; mentre non mi pare pertinente, perché da collocare in un diverso contesto esplicativo, il riferimento di Marcovich, p. 241, alla dottrina dell’esalazione marina – th;n ajnaqumivasin ... th;n ajpo; th 'ı qalavtthı –, illustrata supra, nella Nota introduttiva a questa Sezione 3, di cui si trova notizia nel materiale dossografico riportato da Diogene Laerzio,

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Vitae philosophorum IX 9-11, raccolto come semplice testimonianza da DK in 22 A 1 e catalogato invece da Marcovich, pp. 230-35, come fr. 61). Così interpretato, il presente frammento entra a pieno titolo in questa Sezione 3, dedicata alla dottrina fisico-cosmologica del fuoco come fondamento sostanziale di tutte le cose e, in tale ambito, alla descrizione più specifica di alcuni fenomeni propriamente meteo-rologici, in relazione ai corpi celesti e particolarmente al sole, che del fuoco pare assunto come «esemplare» appunto meteorologico (cfr. già, su questo punto, supra, il fr. 36 [6 DK; 58 Marc.], specie n. 3), alle sue dimensioni e al percorso che segue nel cielo (nel fr. 34 [0 (3+94) DK; 0 (57+52) Marc.]), alla funzione cui adempie di fonte di luce e calore (nel fr. 35 [99 DK; 60 Marc.]), alle fasi successive della sua «accensione» mattutina e del suo «spegnimento» notturno (nel fr. 36) e infine al suo ruolo come punto di riferimento astronomico e geografico che, nel percorso giornaliero dall’alba al tramonto, consente di fissare i quattro punti cardinali (nel fr. 37 [120 DK; 62 Marc.]). Kirk, pp. 299-300, e Kahn, p. 155, sulle orme di K. Reinhardt, Vermächtnis der Antike, Vandenhoeck und Ruprecht, Göttingen 1960, pp. 75-86, propongono invece di leggere il frammento in stretta relazione con il passo plutarcheo di De defectu oraculorum 416a illustrato nella nota precedente, da cui traggono l’indicazione che Eraclito avrebbe stabilito un parallelo fra l’«anno» (ejniautovı), che comprende in sé le «stagioni», e una «generazione» umana (geneav); ora, poiché in un passo di poco precedente della stessa opera (De defectu oraculorum 415e, corrispondente al fr. 108b1 Marc. [= 22 A 19 DK], per il quale cfr. infra, n. 1 al fr. 66 [48 DK; 39 Marc.]), Plutarco pare attribuire a Eraclito l’opinione che una generazione umana ha una durata di 30 anni (e[th triavkonta poiou 'si th;n genea;n kaq j JHravkleiton), avremmo una corrispondenza fra un anno solare (composto da 4 stagioni di 3 mesi, ciascuno dei quali conta 30 giorni = 4 x 3 x 30 = 360 giorni), una generazione umana (composta da 30 anni solari di 12 mesi, ciascuno dei quali conta 30 giorni, sicché ogni generazione conta 30 anni x 12 mesi = 360 mesi e 360 mesi x 30 giorni = 10.800 giorni) e il Grande Anno (il ciclo temporale «maggiore» che scandisce la vita del cosmo e che, secondo la testimonianza di Aezio II 32.3 [= Dox. 364 = 22 A 13 DK] – catalogato invece da Marcovich, pp. 241-44, con ampia disamina, come fr. 65 –, Eraclito avrebbe considerato della durata di 10.800 anni solari, dati da 360 cicli o «giorni» della durata di 30 anni solari ciascuno, per cui 360 x 30 anni = 10.800), in modo che un anno solare di 360 giorni, con l’alternanza delle sue stagioni, corrisponderebbe a uno dei 360 mesi di cui consta la durata di una generazione umana di 30 anni, che a sua volta corrisponderebbe a uno dei 360 cicli o «giorni» del Grande Anno di 10.800 anni solari. Questa ingegnosa ricostruzione, di per sé non implausibile, mi pare tuttavia eccessivamente laboriosa e, più ancora, trovo artificioso e non sufficientemente giustificato l’accostamento fra i diversi brani plutarchei da cui si ricava (cfr. in proposito Marcovich, p. 241, e Diano-Serra, p. 152).

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Fr. 39 [64+65+66 DK; 79+55+82 Marc.]1

1. ta;de2 pavnta oijakivzei keraunovı. <...>3

2. crhsmosuvnhn kai; kovron. <...>4

3. pavnta to; pu'r ejpelqo;n krinei' kai;5 katalhvyetai.

1. Il fulmine governa tutte queste cose.6 (...)2. Mancanza e sazietà.7 (...)3. Il fuoco, che è diffuso attraverso tutte le cose, tutte le

disporrà separatamente e tutte le afferrerà a sé.8

1 Questo frammento è riportato da Ippolito, Refutatio contra omnes haereses IX 10.7 (= 243.22-244.1 Wendland), dopo la sequenza dei frr. 18 [59 DK; 32 Marc.], 20 [60 DK; 33 Marc.], 31 [61 DK; 35 Marc.], 21 [62 DK; 47 Marc.] (che Ippolito cita, in un contesto omogeneo, come esemplificazioni della tesi eraclitea dell’unità degli opposti, cfr. supra, n. 1 ai frr. 15 [54 DK; 9 Marc.] e 28 [67 DK; 77 Marc.]) e 69 [63 DK; 73 Marc.] (che invece appartiene a un diverso contesto teorico, almeno in base all’interpretazione che ne suggerisco, cfr. infra, la relativa nota 1) e prima del fr. 28 [67 DK; 77 Marc.] (che conclude l’insieme delle sue citazioni eraclitee, cfr. supra, le relative nn. 1 e 7), con queste parole: «Eraclito afferma ancora che il giudizio del mondo e di tutto ciò che si trova in esso si realizza tramite il fuoco, dicendo così: ... (Ippolito cita qui il fr. 39.1), vale a dire che le dirige con giustizia, ed Eraclito chiama così “fulmine” il fuoco eterno. Afferma di questo fuoco che è intelligente e che è causa dell’ordinamento del tutto; lo chiama ... (Ippolito cita qui il fr. 39.2): la disposizione ordinata del mondo è a suo avviso “mancanza”, mentre la conflagrazione è “sazietà”. Infatti, dice che ... (Ippolito cita qui il fr. 39.3)». Il contesto della citazione è, con ogni evidenza, forte-mente unitario e suppone una duplice reinterpretazione della dottrina eraclitea del fuoco, innanzitutto (1) in chiave stoica, identificando nel fuoco un principio razionale che pervade e domina il tutto, scandendo ciclicamente la sua generazione, intesa come ordinamento della materia (diakovsmhsiı), che si produce in corrispondenza di un raffreddamento del cosmo per lo spegnimento del fuoco, e la sua distruzione, dovuta a una «conflagrazione» di fuoco (ejkpuvrwsiı) che dissolve l’ordine cosmico (una dottrina che, come spiegato supra, nella n. 4 al fr. 29 [30 DK; 51 Marc.], non ritengo possa essere ascritta a Eraclito; e non è un caso che la prima e la seconda parte del frammento, corrispondenti ai frr. 64 e 65 DK; 79 e 55 Marc., siano evocate, in numerose varianti e reminiscenze, essenzialmente da testimoni di ambiente stoico o che presuppongono un’interpretazione stoica: cfr. rispettivamente Cleante, Inno a Zeus, 10-12 Zuntz; Filone, Legum allegoriae III 7 [I 114 Cohn]; Id., De specialibus legibus I 208 [V 50 Cohn]; e Plutarco, De E apud Delphos 389b-c); in

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secondo luogo, altrettanto chiaramente, (2) in chiave cristiana, associando il governo del mondo da parte del fuoco, e la sua «conflagrazione», a una sorta di giudizio universale che esplicita l’esercizio della giustizia divina, a sua volta dipendente da un disegno provvidenziale e intel-ligente (per questa duplice operazione interpretativa, cfr. supra, n. 2 al fr. 12 [53 DK; 29 Marc.] e l’Introduzione, § 2.2). Nella citazione di Ippolito vengono abitualmente identificati tre frammenti distinti e fra loro separati, corrispondenti del resto alle tre parti da me numerate; ritengo tuttavia che proprio l’estrema coerenza e univocità del contesto suggeriscano invece di trattarle come un’unità tematica, le cui parti dove-vano essere intervallate da qualche parola di spiegazione, di cui tuttavia Ippolito ci fornisce, se letto correttamente, gli elementi di connessione (che, congetturalmente, propongo infra, nn. 3-4; poiché tali elementi di connessione non costituiscono però, a mio avviso, né una citazione letterale né una parafrasi dell’originale eracliteo, ma appunto una sua spiegazione, non è opportuno stamparli nel testo, neanche fra parentesi tonde, come ho fatto nel caso del precedente fr. 38 [100 DK; 64 Marc.], cfr. n. 1). Anche Kahn, pp. 271-76, Robinson, pp. 126-27, e Pradeau, pp. 237-38, nel loro commento, sembrano considerare questi frammenti, nell’ordine trasmesso da Ippolito, come strettamente connessi (Kahn, p. 271, vi associa in realtà anche il fr. 70a [16 DK; 81 Marc.]), ma senza giungere ad assimilarli in un unico contesto e di fatto mantenendone la distinzione (cfr. Kahn, pp. 82-83, Robinson, pp. 42-45, e Pradeau, pp. 129 e 237); mentre Diano-Serra, pp. 50-51 e 189-90, congiungono il secondo e il terzo (= fr. 39.2-3) e lasciano il primo indipendente (= fr. 39.1). Occorre fare infine brevemente cenno all’intervento di Marcovich, pp. 296-97, che (accogliendo una congettura di H. Fränkel comunicata privatamente a W. Kranz) propone una riorganizzazione del testo di Ippolito nella forma seguente: «Eraclito afferma ancora che il giudizio del mondo e di tutto ciò che si trova in esso si realizza tramite il fuoco: infatti, dice che “il fuoco, che è diffuso attraverso tutte le cose, tutte le disporrà separatamente e tutte le afferrerà a sé” (= fr. 39.3). Afferma ancora di questo fuoco che è intelligente e che è causa dell’ordinamento del tutto, dicendo così: “Il fulmine governa tutte queste cose” (= fr. 39.1), vale a dire che le dirige con giustizia, ed Eraclito chiama così “fulmine” il fuoco eterno. Lo chiama “mancanza e sazietà” (= fr. 39.2): la disposizione ordinata del mondo è a suo avviso “mancanza”, mentre la conflagrazione è “sazietà”». Questa riorganizzazione, che è basata su ragioni di carattere formale a mio avviso non irresistibili (in particolare si avrebbe così una simmetrica ripetizione della formula levgei dev, a introdurre le prime due citazioni di Eraclito, che cominciano entrambe, a loro volta, con pavnta) e non modifica né il senso né l’interpretazione della citazione, è accolta da Mouraviev I, pp. 159-63, e III, pp. 73-75, che, pur sottolineando anch’egli la continuità del contesto, individua in esso una serie di frammenti distinti, corrispondenti a quelli sopra discussi o in aggiunta a essi: innanzitutto, frovnimon to; pu 'r («intelligente è il fuoco»), dapprima riconosciuto come autentico da Reinhardt, che Mouraviev III, p. 73, accoglie invece, dubitativamente, come semplice reminiscenza e la cui matrice stoica (e, nella lettura di Ippolito, cristiana) mi pare tanto

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evidente da denunciarne irrevocabilmente l’origine tarda; quindi, ta;de pavnta oijakivzei keraunovı, kalei' de; aujto;<ı> crhsmosuvnhn kai; kovron, che non solo stabilisce una connessione fra le due parti della citazione (= frr. 39.1 e 39.2), come da me pure ipotizzato, ma suppone autentico, nel testo di Ippolito, anche l’inciso kalei ' de; aujtov (solo corretto, dal neutro aujtov, che andrebbe riferito a pu'r, al maschile aujtovı, che sarebbe invece riferito a keraunovı): «Il fulmine governa tutte queste cose ed è lui a suscitare mancanza e sazietà»; infine, pavnta to; pu'r ejpelqo;n krinei' kai; katalhvyetai, corrispondente al fr. 39.3 e senza variazioni testuali.

2 ta;de è correzione, proposta da Boeder (e accolta fra gli altri da Marcovich, pp. 295-96, Kahn, p. 82, e Mouraviev I, p. 160, cfr. III, p. 74, n. 4), della lezione ta; de; di Ippolito, che propone l’articolo (ta;) davanti a pavnta, inusuale nel linguaggio di Eraclito.

3 Come spiegato supra, n. 1, propongo qui, in base alla citazione di Ippolito, una connessione esplicativa di questo genere, a completare la sequenza logica come poteva apparire, secondo la ricostruzione da me suggerita, nell’originale eracliteo: ... kerauno;n to; pu'r levgwn: kalei' de; aujto; ... («... con “fulmine” intende il fuoco, che chiama ...»), sicché avremmo ta;de pavnta oijakivzei keraunovı. <kerauno;n to; pu 'r levgwn: kalei ' de; aujto;> crhsmosuvnhn kai; kovron.

4 Come spiegato supra, n. 1, propongo qui, in base alla citazione di Ippolito, una seconda connessione esplicativa, questa volta estrema-mente semplice perché basata sullo spostamento di gavr, a completare la sequenza logica come poteva apparire, secondo la ricostruzione da me suggerita, nell’originale eracliteo: ... ga;r ... («... infatti ...»), sicché avremmo crhsmosuvnhn kai; kovron: <ga;r> pavnta [ga;r] to; pu 'r ejpelqo;n krinei' kai; katalhvyetai.

5 krinei' kai; è lezione di Ippolito, che alcuni editori (Gigon, Walzer, Diano-Serra, p. 50) hanno proposto di espungere come glossa esplica-tiva; ma non vi sono ragioni cogenti in favore di questo intervento che, anzi, renderebbe a mio avviso incompleto il significato delle parole di Eraclito (cfr. infra, n. 8).

6 Che possa essere associato oppure no alla caratteristica arma di Zeus (come vogliono Marcovich, p. 297, Diano-Serra, p. 117, Kahn, pp. 271-72, e Robinson, p. 126; contra Kirk, p. 355, Conche, p. 302, e Pradeau, p. 238, che fanno notare come un’identità letterale fra il «fulmine» e Zeus non sia attestata prima dell’età ellenistica), keraunovı richiama direttamente il termine prhsthvr che, nel fr. 30 [31 DK; 53ab Marc.], cfr. n. 7, allude al calore e allo scoppio della fiamma, in relazione con l’aria e con i vapori di acqua che a loro volta scatenano fulmini e tempesta di pioggia (donde il significato più comune e diffuso di prhsthvr come appunto «fulmine»), in un contesto in cui vengono illustrate le altera-zioni del fuoco, secondo un processo nel quale dall’acqua di mare si produce, per evaporazione, aria (calda) che, a sua volta, si addensa fino a produrre nel cielo nubi e tempeste di fuoco (i fulmini) che, infine, si riversano nuovamente, in forma di pioggia, nell’acqua del mare. Si vede bene come, in questa ottica complessiva, il fulmine rappresenti, nell’ampiezza della sua accezione semantica, una sintesi o un raccordo fra gli elementi fondamentali della natura nella loro reciproca trasfor-

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mazione, perciò manifestandosi, come il sole nel fr. 36 [6 DK; 58 Marc.], cfr. n. 3, e, verosimilmente, nel precedente fr. 38 [100 DK; 64 Marc.], cfr. n. 2, come un altro «esemplare» meteorologico del fuoco (non mi pare che l’esplicito rilievo di Ippolito su questo punto – kerauno;n to; pu 'r levgwn, cfr. supra, n. 1 – possa essere messo in dubbio, perché ciò implicherebbe necessariamente una sconfessione dell’attendibilità della sua citazione nell’insieme); ed è appunto per tale ragione che al fulmine è attribuito il governo di tutte le cose, sul piano fisico-cosmo-logico come «esemplare» del fuoco, che, in virtù delle sue alterazioni, produce e mantiene l’ordine del tutto (cfr. anche, in proposito, la nota seguente), e sul piano propriamente meteorologico come keraunovı, o prhsthvr, che determina e sintetizza la reciproca trasformazione degli elementi naturali nel ciclo giornaliero e nell’alternanza annuale delle stagioni (non è inverosimile ipotizzare che tavde pavnta rinviasse allora, in quanto precedeva nell’opera di Eraclito, proprio all’insieme di materiali, da me collocati immediatamente prima di questo come frr. 34 [0 (3+94) DK; 0 (57+52) Marc.], 35 [99 DK; 60 Marc.], 36, 37 [120 DK; 62 Marc.] e 38, che estendono all’ambito meteorologico dei fenomeni connessi all’azione del sole, alla disposizione delle costel-lazioni e all’alternanza delle stagioni la dottrina fisico-cosmologica del fuoco). È in tal senso particolarmente efficace il verbo oijakivzw, non precedentemente attestato nella letteratura greca, per esprimere carattere e modalità del governo del cosmo attraverso la metafora della navigazione e del timoniere che la conduce (illustrata, con gli opportuni riferimenti testuali, da Kahn, pp. 271-72), giacché un timo-niere, come il fulmine che determina i processi naturali attraverso la trasformazione degli elementi che sintetizza in sé, è egli stesso coinvolto nella navigazione che pure dirige. Non mi pare lecito, invece, trasporre questa interpretazione, sostanzialmente condivisa da Kirk, pp. 356-57, Conche, pp. 304-05, e Pradeau, p. 238, in base a una più o meno letterale associazione del «fulmine» a Zeus (e di conseguenza, nell’interpreta-zione di Ippolito ricostruita supra, nella n. 1, al fuoco cosmico nella sua funzione cosmogonica caratteristica della dottrina stoica) come simbolo di direzione e giustizia universali, su un piano teologico: nessun riferimento significativo, nei materiali eraclitei autentici, permette di accostare al nome di Zeus, in un’ottica anche solo latamente religiosa, il governo del tutto, come vorrebbero invece Marcovich, p. 297, e Kahn, p. 272 (il nome di Zeus compare anzi, nel fr. 10 [32 DK; 84 Marc.], cfr. n. 3, in un quadro sostanzialmente diverso, se non propriamente critico, rispetto alla concezione religiosa tradizionale); né, viceversa, il governo del tutto si trova mai a qualche titolo associato a un’azione propriamente divina: per esempio, rispetto al fr. 9 [41 DK; 85 Marc.], in cui compare fra l’altro un linguaggio che evoca la metafora della navigazione (con l’uso del verbo kubernavw), ho mostrato nella relativa n. 3 che il contesto non favorisce affatto l’ipotesi di un riferimento alla divinità o a un «intelletto» divino comunque inteso, come pure, nei frr. 12 [53 DK; 29 Marc.], cfr. n. 2, e 29 [30 DK; 51 Marc.], cfr. n. 4, gli unici principi universali, espressamente riconosciuti e designati come tali, sono la «guerra» e il «fuoco», rispettivamente, e senza reciproche

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sovrapposizioni, sul piano ontologico della totalità delle cose che sono e sul piano fisico-cosmologico della totalità del cosmo.

7 Va segnalato nuovamente (cfr. già supra, nn. 1 e 6, e la nota seguente) che anche questa seconda parte del frammento suppone evidentemente, da parte del citatore, l’attribuzione a Eraclito della dottrina stoica della «conflagrazione», e nel modo più esplicito, giacché Ippolito spiega che «mancanza» e «sazietà» corrispondono rispettivamente a diakovsmhsiı ed ejkpuvrwsiı, la seconda coincidendo con l’eccesso di fuoco che segna la fine di un ciclo cosmico e la prima con il suo raffreddamento, che invece inaugura un nuovo ciclo di ordinamento del tutto (un’interpre-tazione, del resto, accolta nel suo insieme da Kahn, p. 276, e Robinson, pp. 126-27). Ora, facendo astrazione da questa tesi, che, come a più riprese spiegato qui, non ritengo plausibile, resta tuttavia ben saldo il collegamento stabilito da Ippolito fra crhsmosuvnh e kovroı, da una parte, e il fuoco, dall’altra, non però inteso, quest’ultimo, come un genitivo oggettivo (come pare supporre, pur dubitativamente, Marcovich, p. 210, con la sua traduzione: «Mancanza e sazietà [di fuoco?]») – che sugge-rirebbe l’idea (ancora una volta in accordo con la dottrina stoica della «conflagrazione») di fasi contrapposte di «assenza» e «pienezza» del principio –, quanto piuttosto con l’immediata identificazione di questi termini come altrettanti «nomi» del fuoco (kalei ' de; aujto; [scil., to; pu 'r] crhsmosuvnhn kai; kovron), senza che, a mio avviso, ciò induca a considerare questa parte del frammento, alla luce della dottrina eraclitea dell’unità degli opposti (i cui materiali sono raccolti supra, nella Sezione 2), come un nuovo esempio di unità (nel fuoco o rispetto al fuoco) di termini appunto opposti («mancanza» e «sazietà»), come invece sembrano supporre Diano-Serra, p. 189, e, più prudentemente, Pradeau, p. 237. Un’interpretazione del genere mi pare improbabile per diverse ragioni: innanzitutto, come rileva Marcovich, p. 210, Ippolito è di solito molto abile nel riconoscere e catalogare i materiali eraclitei che, a suo avviso, presentano esempi di unità degli opposti, che, non a caso, egli raccoglie in quantità consistente e senza soluzione di continuità in un passo della sua opera di poco precedente a quello che contiene invece il presente frammento (si tratta in particolare dei frr. 18 [59 DK; 32 Marc.], 20 [60 DK; 33 Marc.] e 21 [62 DK; 47 Marc.], riportati in IX 10.4-6); inoltre, se non vi è dubbio che «mancanza» e «sazietà» costituiscano di per sé una coppia di termini opposti, ciò non risulta sufficiente per arguirne che proprio in tale ottica essi siano qui richiamati: il fr. 28 [67 DK; 77 Marc.], che evoca anch’esso kovroı e limovı, oltre che altre coppie di termini, come i diversi e opposti aspetti che, nella prospettiva superiore del divino, risultano unificati (cfr. la relativa n. 7), mostra efficacemente come la dottrina ontologica dell’unità degli opposti corrisponda, al livello fisico-cosmologico, alla dottrina del fuoco e delle sue alterazioni, sicché l’unità degli opposti sul piano del divino equivale all’unità del fuoco che «si altera» (ajlloiou'tai) in una molteplicità di esemplificazioni particolari, in modo che, come i termini opposti risultano tali solo da un punto di vista parziale e unilaterale, mentre appaiono unificati nella prospettiva «divina» dell’universalità del sapere, così, sul piano fisico-cosmologico, tutte le cose esistenti e tutti i fenomeni naturali appaiono distinti e

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differenziati, mentre, da un punto di vista sostanziale, essi sono unificati dalla comune origine nel fuoco e nelle sue alterazioni. «Mancanza» e «sazietà», introdotti nel presente frammento come «nomi» del fuoco, vanno perciò compresi in quanto determinazioni propriamente fisico-cosmologiche (cfr. anche, in tal senso, Marcovich, p. 210-11, Conche, p. 294, e Pradeau, p. 238), a indicare, in accordo con i frr. 29 [30 DK; 51 Marc.], 32 [126 DK; 42 Marc.] e 33 [90 DK; 54 Marc.], le misurate alte-razioni del fuoco, che producono altrettanto misurati mutamenti a un tempo meteorologici (così scandendo, per esempio, la ciclica alternanza dei giorni e delle stagioni) e fisico-cosmologici (così facendo emergere, a partire dagli elementi fondamentali della natura, che corrispondono alle «trasformazioni» del fuoco, tutte le cose esistenti).

8 Ho reso i verbi ejpevrcomai, krivnw e katalambavnw, ancora in base alla ricostruzione del contesto della citazione di Ippolito proposta supra, n. 1, e con l’interpretazione d’insieme che ne suggerisco poco sotto, facendo riferimento a una sfera semantica eminentemente fisico-cosmo-logica e astenendomi invece da ogni indebita implicazione teologica o escatologica, che dipenda dalle categorie ideologiche (cristiane) del citatore o dalla sua rilettura delle parole di Eraclito alla luce della dottrina stoica della «conflagrazione» (che Ippolito associa a sua volta qui all’azione divina, che opera ciclicamente una sorta di universale giudizio dell’intera realtà). Il verbo ejpevrcomai, che indica un movimen-to locale (di moto verso luogo o attraverso luogo), con l’idea aggiunti-va di un avvicinamento («accostarsi a», «sopraggiungere» oppure «per-correre», «attraversare»), talvolta anche in senso ostile («assalire», «invadere»), è da me assunto qui a esprimere la mobile condizione del fuoco che «attraversa» tutte le cose, in quanto le «penetra» o le «per-vade» interamente nella misura in cui costituisce la sostanza fondamen-tale da cui tutte si generano (cfr. per esempio, supra, il fr. 33 [90 DK; 54 Marc.], specie n. 5), sicché si distribuisce in ciascuna di esse e tutte le «raggiunge». Il verbo krivnw significa originariamente «discernere» o «distinguere», tanto nel senso più concreto di «separare» o «disporre», quanto nel senso derivato e astratto di «scegliere» e perciò «giudicare», anche in riferimento all’esercizio della legge nei tribunali; mentre il verbo katalambavnw esprime infine in generale l’atto di «cogliere» o «afferrare» qualcuno o qualcosa, e perciò di «impadronirsene», sia materialmente sia metaforicamente, per esempio facendo riferimento alla «comprensione» di qualcosa (concepita come un «afferrare con la mente») o alla «condanna» di qualcuno (intesa come un «costringere» o «imprigionare»): secondo la lettura fisico-cosmologica che propongo di questo frammento, intendo perciò gli ultimi due verbi nel loro senso più concreto (1) di «separare» e (2) di «afferrare» (con la sfumatura ulteriore, determinata dalla forma media di katalambavnw, di «afferrare a sé»), a indicare rispettivamente (1) la costituzione di tutte le cose da parte del fuoco che, diffuso fra di esse, tutte le produce come fra loro singolarmente distinte e individualmente separate (e in questo senso le «dispone separatamente») e contemporaneamente, dal punto di vista dell’unità sostanziale che il fuoco rappresenta, (2) la loro comprensio-ne nel fuoco stesso (che, appunto in questo senso, le «afferrà a sé»); ne

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risulta ben giustificata anche la scansione temporale dei verbi: il parti-cipio aoristo ejpelqovn indica un’azione puntuale, con la simultanea dif-fusione del fuoco nel tutto, mentre i futuri krinei ' e katalhvyetai indi-cano la posteriorità, logica e temporale, (1) della costituzione da parte del fuoco e (2) della comprensione nel fuoco di tutte le cose, che avvie-ne in seguito alla, o in virtù della, simultanea diffusione del fuoco nel tutto (non troppo distante, anche se con esiti interpretativi diversi, la resa di Bollack-Wismann, pp. 218-19). Tale ricostruzione mi pare inoltre pienamente corrispondente all’articolazione della dottrina fisico-cosmo-logica che attribuisco a Eraclito nella presente Sezione 3, con il ricono-scimento del ruolo del fuoco, specie nel fr. 29 [30 DK; 51 Marc.], cfr. n. 4, che, in quanto unico e inestinguibile principio di tutte le cose, garan-tisce l’unità e l’eternità del cosmo, mentre, in virtù delle incessanti oscillazioni della sua intensità, stabilisce un ben preciso intervallo quantitativo entro il quale si producono le sue trasformazioni, che danno luogo alla pluralità e al mutamento delle cose esistenti, di cui si dà conto, in relazione agli elementi fondamentali, nel fr. 30 [31 DK; 53ab Marc.], cfr. le relative note di commento, sicché il cosmo nel suo insieme consta fisicamente di fuoco, come pure tutte le singole cose esistenti nel cosmo constano a loro volta di alterazioni del fuoco, derivando dalle diverse forme e disposizioni che il fuoco assume nelle sue incessanti trasformazioni; come ribadito nel fr. 33, cfr. n. 5, infatti, il fuoco produ-ce tutte le cose, mutandosi in esse o con esse «scambiandosi», come pure, in senso contrario, tutte le cose ritornano al fuoco, mutandosi in esso o con esso «scambiandosi», nella misura in cui, nuovamente, il fuoco costituisce la sostanza fondamentale delle cose esistenti, cioè il principio unico che tutte le genera nella loro distinzione e a un tempo le unifica nella loro totalità. Si comprende come invece, più o meno esplicitamente influenzati dal condizionamento ideologico del contesto della citazione di Ippolito (cfr. ancora supra, n. 1), la gran parte dei traduttori e dei commentatori non riesca a evitare una resa che lascia emergere, nelle parole di Eraclito, l’idea di un giudizio, e di una con-danna, di tutte le cose da parte del fuoco (attribuendo rispettivamente a ejpevrcomai il senso di «balzare su», «to come on», «survenir»; a krivnw di «giudicare», «to judge», «juger»; e a katalambavnw di «condannare», «to catch up», «s’emparer»), favorendone perciò un’interpretazione di segno teologico o escatologico, con il fuoco cosmico assimilato a una divinità suprema che pone in atto una sorta di giudizio universale forse non estraneo a una concezione folklorico-popolare (così soprattutto Marcovich, pp. 303-04, che si spinge a suggerire di intendere il neutro plurale pavnta, oggetto del giudizio cosmico, come pavnta ta; zw ' /a: «Il fuoco ... giudicherà e condannerà tutti gli esseri viventi»; contra, corret-tamente, Diano-Serra, p. 189), oppure, in base a un’analoga interpreta-zione, negandone simmetricamente l’autenticità come parafrasi o rilet-tura, in senso cristiano, elaborata da Ippolito (così K. Reinhardt, Vermächtnis der Antike, cit., pp. 65-67, e, sulle sue orme, Kirk, pp. 351 e 359-61; mentre, dubitativamente, Diano-Serra, pp. 189-90, oscillano fra un’interpretazione escatologica del frammento, traendone la tesi stoica della «conflagrazione», evocata dall’«avvento del fuoco giudicante», e,

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meno probabilmente, la denuncia della sua inautenticità); dal canto loro, infine, Kahn, pp. 272-75, Conche, pp. 300-01, Robinson, p. 127, Pradeau, pp. 237-38, e Mouraviev III, p. 75, che difendono in modo convincente l’autenticità del frammento, pur privilegiandone un’inter-pretazione fisico-cosmologica, si attengono tuttavia alla sua più tradi-zionale traduzione escatologica e vi leggono perciò l’indicazione di un giudizio, da parte del fuoco, da intendersi come azione di governo e di conservazione dell’equilibrio del tutto che presuppone l’esercizio, da parte del principio fondamentale, di una giustizia cosmica capace di punire ogni trasgressione dell’ordine stabilito (eventualmente in rap-porto con il celebre fr. 1 DK di Anassimandro, secondo il quale gene-razione e corruzione avvengono, per le cose che sono, kata; to; crewvn, una necessità che si esplica nell’esercizio di divkh, posta a garanzia dell’equilibrio cosmico: cfr. specialmente Kahn, pp. 272-73, che, come già ricordato, presta inoltre a Eraclito la tesi stoica della «conflagrazio-ne» e associa perciò il giudizio «cosmico» del fuoco alla ciclica «confla-grazione» e rinascita del cosmo stesso a opera del fuoco). In base alle considerazioni svolte in questa e nelle note precedenti, colloco il pre-sente frammento nel suo complesso a conclusione della Sezione 3, che raccoglie i materiali eraclitei relativi alla dottrina fisico-cosmologica del fuoco, di cui sono qui riassunti gli aspetti principali, che sintetizzerei nella forma seguente: (1) il fulmine, che unifica e simboleggia gli ele-menti fondamentali della natura e le loro trasformazioni, governa perciò tutti i processi meteorologici; ma, come si evince dall’esame della citazione di Ippolito e dalla connessione esplicativa da me propo-sta (cfr. supra, n. 3), il fulmine è, appunto sul piano meteorologico, un «esemplare» del fuoco che, a sua volta, tutto governa sul piano cosmico e che Eraclito chiama pure (2) «mancanza» e «sazietà», alludendo così alla misurata variazione in virtù della quale, con un aumento e una diminuzione di intensità sempre costante e regolare, esso determina l’ordine stabile dei fenomeni naturali, esempi dei quali sono, nel ciclo giornaliero, l’alba e il tramonto o, nel ciclo annuale, l’alternanza delle stagioni; e, ancora attenendoci alla citazione di Ippolito e alla seconda connessione esplicativa da me proposta (cfr. supra, n. 4), ciò è reso possibile dal fatto che (3) il fuoco, come principio di tutte le cose, in tutte è diffusamente e simultaneamente presente e, tutte pervadendole, è responsabile della loro esistenza individuale e, a un tempo, della loro unità sostanziale.

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SEZIONE 4Epistemologia

1. Dottrina

Il percorso che conduce al sapere e alla verità del lovgoı è certo accessibile a tutti gli uomini, purché si attengano a determinate prescrizioni epistemiche e non si arrendano, come lo sciocco, a un’ebete e stupita ammirazione di fronte a qualunque comunicazione o ascolto, indipendentemente dai suoi contenuti e dal loro valore, perché chi si volge alla ricerca della conoscenza deve fondarne l’apprendimento su una ricognizione diretta e autonoma, dunque non affidandosi acriticamente alla testimonianza altrui, ai discorsi via via riportati e trasmessi di bocca in bocca; a ogni uomo sono infatti naturalmente disponibili gli strumenti appropriati per tale autonoma ricerca, vale a dire in primo luogo gli organi della sensazione e la capacità di giudizio necessaria per vagliarne criticamente l’esito, senza la quale le opinio-ni individualmente formulate sulle cose e sulla realtà non sarebbero altro che vaghe credenze, ipotesi casuali simili a trastulli fanciulleschi (frr. 40-44c). Con un approccio del genere, chi intenda cercare il sapere e la verità deve prepararsi a un’indagine, oltre che diretta e autonoma dall’opinione comune, instancabile e vasta, con l’obiettivo di acquisire la conoscenza positiva di molte cose che produce legittima fama, verosimilmente come avvenne al «sapiente» Biante di Priene, l’unica figura cui Eraclito accenni, nei materia-li superstiti, con sicuro apprezzamento (frr. 45-46). Ma la

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156 SEZIONE 4

nozione stessa di una conoscenza «positiva» di molte cose si presta più facilmente all’equivoco cui vanno soggetti i più, la massa degli uomini ingenui e ignoranti, che da ogni forma di sapere, purché sia quantitativamente «molto», si lasciano impressionare e influenzare, senza valutarne l’effettiva con-sistenza qualitativa e semplicemente accogliendo ammirati, con primitiva meraviglia, la fama presunta e la notorietà che la tradizione e la folla del popolo attribuiscono ai principali esponenti di tale, infondato, «molto sapere»: che si tratti di Omero ed Esiodo, di Archiloco e Pitagora o ancora di Senofane ed Ecateo, la loro polumaqiva rimane estranea all’«intelligenza» (novoı), come appunto l’«intelligenza» è ciò che manca ai loro molti seguaci, da intendere, in entrambi i casi, come la capacità critica di selezionare, mettere alla prova e infine giudicare i contenuti di questo «molto sapere», per verificarne la pertinenza dal punto di vista della ricerca della verità, ma anche per giungere alla condanna, secondo giustizia, delle menzogne e delle falsificazioni dei presunti sapienti e di quanti ne sostengono e diffondono l’ingannevole insegnamento (frr. 47-52).

Proprio il carattere solo apparente e ingannevole del sapere della tradizione apprezzato dai più degenera in ultima analisi in una forma di ignoranza di cui occorrerebbe vergo-gnarsi, ma che appartiene invece all’abituale atteggiamento degli uomini, la cui pigrizia e superficialità finiscono per costituire un’indole acquisita, da cui pochi soltanto riescono a liberarsi, così risaltando rispetto alla massa ignorante come figure divine rispetto agli uomini comuni (frr. 53-56): «divino», del resto, in quanto nettamente distinto da ogni prospettiva di comprensione ordinaria «umana», è il punto di vista sul reale che assume chi accede al vero sapere, riuscendo a cogliere la natura e la condizione del tutto nella sua unità e completezza, e non limitandosi alla confusa percezione frammentaria di suoi singoli e specifici aspetti, che non ne restituiscono una conoscenza adeguata, ma un’immagine

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SEZIONE 4 157

disparata e disarticolata, simile a un ammasso di elementi privi di ordine e di armonia (frr. 57-58). Verosimilmente nella stessa ottica vanno intesi i riferimenti ai tratti «allusivi» della comunicazione dell’oracolo delfico come pure alla tendenze «mimetiche» attribuite alla natura (frr. 59-60): senza chia-mare in causa enigmi, inganni o volontari nascondimenti, l’autentico sapere, simbolicamente associato al nome del dio Apollo, e la verità sulla natura delle cose, pur accessibili alla comprensione degli uomini, esigono tuttavia di essere adeguatamente «decifrati», e ciò nella misura in cui coloro i quali si propongano di giungere a essi devono necessa-riamente attenersi a ben precise prescrizioni epistemiche, cioè appunto quelle che emergono nei materiali raccolti in questa Sezione 4.

2. Dossografia

La testimonianza di Sesto Empirico (Adversus mathematicos VII 126-34 [= 22 A 16 DK = fr. 116 Marc.]), già citata nella Nota introduttiva alla Sezione 1, va qui ricordata per le due informazioni che ci fornisce in relazione alla teoria eraclitea della conoscenza. Innanzitutto, secondo Sesto, Eraclito avreb-be stabilito una distinzione fra sensazione e ragionamento, la prima, inattendibile e fallace, che si attua naturalmente attraverso gli organi di senso di cui ciascun individuo dispone, il secondo, unica e autentica fonte di verità, che l’individuo può realizzare comunicando, attraverso canali di trasmis-sione anch’essi sensibili, con la natura circostante, dotata a sua volta di un carattere razionale universale e divino. In secondo luogo, quindi, e in virtù di una simile distinzione, l’epistemologia eraclitea avrebbe carattere dogmatico, in quanto egli ammette, almeno sul piano del ragionamento, la possibilità di un accesso alla verità, benché «esterno», e non «interno», al soggetto conoscente (analoga, almeno nei

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158 SEZIONE 4

suoi termini generali, la testimonianza di Calcidio, In Platonis Timaeum 251 (= 260.20 Waszink) [= 22 A 20 DK], essa pure già in precedenza citata). Non è un caso che l’introduzione, da parte di Sesto, del fr. 44 [107 DK; 13 Marc.], sia giustificata espressamente da una svalutazione complessiva e radicale della sensazione, di contro alla verità che, a suo avviso, Era-clito avrebbe riposto nel lovgoı, evocato dalla citazione dei frr. 1 [1 DK; 1 Marc.] e 7 [2 DK; 23 Marc.].

Più sobriamente in favore dell’esigenza di una ricogni-zione diretta ai fini dell’apprendimento, e contro il ricorso a informazioni di seconda mano, testimonia Polibio, Historia IV 40 [= 22 A 23 DK], benché il nome di Eraclito non sia espressamente menzionato.

3. Studi critici

Sulla teoria della conoscenza ascrivibile a Eraclito e, più in generale, sui tratti «epistemologici» della sua riflessio-ne, vanno considerati come punti di riferimento gli studi seguenti: E. Hussey, Epistemology and Meaning in Hera-clitus, in Language and Logos. Studies in Ancient Greek Philosophy Presented to G.E.L. Owen, a cura di M. Schofield e M. Nussbaum, Cambridge Univ. Press, Cambridge 1982, pp. 33-59; T.H. Lesher, Heraclitus’ Epistemological Vocabu-lary, in «Hermes» 111 (1983), pp. 155-70; J.M. Moravcsik, Heraclitean Concepts and Explanations, in Language and Thought in Early Greek Philosophy, a cura di K. Robb, The Hegeler Institute, La Salle (Illinois) 1983, pp. 134-52; G. Grammatico, El acto del entendimiento en Heráclito, in «Limes» 1 (1988), pp. 36-76; più specificamente dedicati all’esame di una possibile distinzione fra conoscenza sensibile e conoscenza intellettuale nell’epistemologia eraclitea sono J. Wilcox, On the Distinction between Thought and Perception in Heraclitus, in «Apeiron» 26 (1993), pp. 1-18; K. Narecki,

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Le rôle des sens et de l’âme humaine dans la théorie de la connaissance d’Héraclite d’Éphèse, in «Eos» 82 (1994), pp. 17-30; J. Mansfeld, Insight by Hindsight, in «Bulletin of the Institute of Classical Studies-Univ. of London» 40 (1995), pp. 225-32; D. Rankin, Limits on Perception and Cognition in Heraclitus’ Fragments, in «Elenchos» 16 (1995), pp. 241-52; e J. Mansfeld, Parménide et Héraclite avaient-ils une théorie de la perception?, in «Phronesis» 44 (1999), pp. 326-46; mentre alle implicazioni linguistico-discorsive della tesi di Eraclito si interessa D.J. O’Meara, «Dire le vrai» chez Héraclite, in La Vérité. Antiquité-Modernité, a cura di J.-F. Aenishanslin, D.J. O’Meara, I. Schüssler, Payot, Lausanne 2004, pp. 11-17.

Sulla testimonianza di Sesto Empirico intorno alla teo-ria della conoscenza riconducibile a Eraclito, cfr. il quadro tratteggiato nell’Introduzione, § 2.3, e gli studi di C. Viano, Énésidème kata ton Herakleiton: les phénoménes et le koinos, in Ionian Philosophy, a cura di K.J. Boudouris, Internatio-nal Association for Greek Philosophy and International Center for Greek Philosophy and Culture, Athens 1989, pp. 403-11, di E. Spinelli, La corporeità del tempo. Ancora su Enesidemo e il suo eraclitismo, in Il concetto di tempo, Atti del XXXII Congresso Nazionale della Società Filosofica Italiana, a cura di G. Casertano, Loffredo, Napoli 1997, pp. 159-71, ancora di C. Viano, «Énésidème selon Héraclite»: la substance corporelle du temps, in «Revue Philosophique de la France et de l’Étranger» 192 (2002), pp. 141-58, e, per una messa a punto d’insieme, M. Schofield, Aenesidemus: Pyrrhonist and «Heraclitean», in Pyrrhonists, Patricians, Platonizers. Hellenistic Philosophy in the Period 155-86 BC. Tenth Symposium Hellenisticum, a cura di A.-M. Ioppolo e D.N. Sedley, Bibliopolis, Napoli 2007, pp. 269-38.

La polemica contro la polumaqiva, o contro alcuni dei polumaqei'ı in particolare, è approfondita soprattutto da J. Lallot, Une invective philosophique (Héraclite, fragments 129 et 35), in «Revue des études anciennes» 73 (1971), pp.

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160 SEZIONE 4

15-23; D. Babut, Héraclite critique des poètes et des savants, in «Antiquité classique» 45 (1976), pp. 464-96; R. Rethy, Heraclitus, Fragment 56. The Deceptiveness of the Apparent, in «Ancient Philosophy» 7 (1987), pp. 1-7; J. Pórtulas, Heráclito y

los maîtres à penser de su tiempo, in «Emerita» 61 (1993), pp. 159-76; H. Granger, Heraclitus’ Quarrel with Polymathy and

Historie, in «Transactions and Proceedings of the American Philological Association» 134 (2004), pp. 235-61; Id., Hera-

clitus B 42: On Homer and Archilochus, in Nuevos Ensayos

sobre Heráclito, Actas del segundo Symposium Heracliteum, a cura di E. Hülsz Piccone, UNAM, Mexico 2009, pp. 169-91; e C. Huffman, La crítica de Heráclito a la investigación de

Pitágoras en el fragmento 129, ibid., pp. 193-223.

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Fr. 40 [87 DK; 109 Marc.]1

bla;x a[nqrwpoı ejpi; panti; lovgw/ ejptoh'sqai2 filei'.

È lo sciocco che usa provare stupore di fronte a ogni discorso.3

1 Questo frammento è riportato da Plutarco, De audiendis poetis 40f-41a, nel contesto di un esame delle modalità in cui ci si deve disporre ad ascoltare i discorsi altrui, con queste parole: «Opponendosi a un atteggiamento di disprezzo, l’atteggiamento di ammirazione deriva chiaramente da una natura più generosa e cortese, ma è evidente che esige anch’esso non piccole precauzioni, anzi forse ancora più grandi. Se infatti chi è presuntuoso e sprezzante trae minor profitto dalle parole che ascolta, chi è invece incline all’ammirazione ed è privo di senso critico subisce danni maggiori, dando conferma delle parole di Eraclito: ... (Plutarco cita qui il fr. 40)». Identica citazione (solo con l’inversione dei verbi conclusivi: filei ' ejptoh 'sqai) ancora in Plutarco, De audiendis poetis 28d, in cui però non è fatta menzione del nome di Eraclito: Bollack-Wismann, p. 257, Kahn, p. 56, Conche, p. 262, e Mouraviev I, p. 224, e III, p. 109, n. 1, essenzialmente per ragioni di ritmo, prediligono questa seconda citazione plutarchea come fonte del frammento.

2 ejptoh 'sqai è correzione, proposta da Xylander sulla base della citazione parallela in Plutarco, De audiendis poetis 28d (i cui manoscritti DZ portano appunto ejptoh 'sqai, mentre gli altri hanno pepoih 'sqai), della lezione paideuvesqai presente qui.

3 Il significato del frammento mi pare nell’insieme piuttosto chiaro. Lo «sciocco», di cui tuttavia non è reso esplicito, per il momento, in quale contesto ed entro quali limiti sia definito come tale, è colui il quale si mostra sempre ammirato e stupito (questo il significato principale del verbo ptoevw, che indica la sorpresa profonda – potremmo dire il «tremito» – suscitata in qualcuno da un evento improvviso, eventualmente in senso negativo, evocando così «terrore» o «panico», o in senso positivo, chiamando in causa perciò «meraviglia» o «eccitazione»; cfr. in proposito Mouraviev III, p. 109, n. 3) da ciò che ascolta, vale a dire rispetto a qualunque discorso o opinione (ejpi; panti; lovgw/) cui gli capiti di prestare attenzione, appunto perché, per la sua ignoranza e superficialità, non è in condizione di giu-dicare, da un punto di vista critico più consapevole, forma e contenuti di argomenti ed esposizioni cui assiste: questa, del resto, l’intenzione più ovvia della citazione di Plutarco, cfr. supra, n. 1 (diverse, e a mio avviso meno probabili, costruzione e traduzione, in Bollack-Wismann, p. 257: con blavx come apposizione di a[nqrwpoı, ejpi; pantiv separato da lovgw/ e ejptoh'sqai con il significo negativo dell’«essere preso dal timore»: «Indolent, l’homme se laisse épouvanter par la raison en toute chose»; ampia disamina in Mou-raviev III, p. 109, n. 3). Se ne deduce in altre parole che chi non sottopone al vaglio del proprio senso critico le diverse e contrastanti opinioni che

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162 FR. 41 [101a DK; 6 MARC.]

apprende si trova perciò in balia di altrettanto diversi e contrastanti giudizi e convinzioni, sicché, dal punto di vista della verità del sapere, si pone alla stregua dei «dormienti» più volte denunciati da Eraclito, per esempio nei precedenti frr. 1 [1 DK; 1 Marc.], cfr. n. 11, 8 [89 DK; 24 Marc.], cfr. n. 3, 22 [88 DK; 41 Marc.], 23 [21 DK; 49 Marc.] e 24 [26 DK; 48 Marc.] (si vedano pure, per questa interpretazione, Kirk, p. 39, Kahn, pp. 175-76, Conche, pp. 262-63, Robinson, p. 136, e Pradeau, p. 306). Marcovich, pp. 385-86, che attribuisce invece al termine lovgoı il senso più impegnativo di «argomento» o «insegnamento», evidentemente in relazione con il «ragionamento» annunciato fin dal fr. 1, suggerisce così che lo «sciocco» evocato qui corrisponda a colui il quale, ammirato eppure ignaro, porge inutilmente orecchio alla dottrina eraclitea, sicché il frammento farebbe riferimento all’esperienza effettiva dell’esposizione, da parte di Eraclito, della propria filosofia di fronte a un pubblico inconsapevole – un’ipotesi sottile, questa, anche da Kahn, p. 176, considerata non inverosimile, ma in fin dei conti indimostrabile. In base all’interpretazione proposta, colloco perciò il presente frammento in apertura di questa Sezione 4, dedicata all’«epistemologia» eraclitea (per l’impiego di questa «etichetta», si veda l’Introduzione, § 4.4), vale a dire all’insieme di indicazioni che si traggono dai materiali superstiti relativamente alla natura e al carattere della sua critica dell’ignoranza dei più e alla forma e alle modalità delle prescrizioni che egli fornisce per elevarsi all’ascolto dell’unico lovgoı (cui, non a caso, vengono qui contrapposte la contraddittorietà e la pluralità di pa'ı lovgoı) e alla comprensione dei suoi contenuti universali (per i quali si vedano rispettivamente i frammenti raccolti supra, nella Sezione 1 e nella Sezione 2).

Fr. 41 [101a DK; 6 Marc.]1

ojfqalmoi; tw'n2 w[twn ajkribevsteroi mavrtureı.

Gli occhi sono testimoni più affidabili delle orecchie.3

1 Questo frammento è riportato da Polibio, Historia XII 27.1, che evoca Eraclito nel quadro di un esame delle qualità che deve possedere lo storico: «Dei due strumenti di cui, per così dire, disponiamo naturalmente e grazie ai quali conosciamo e acquistiamo informazioni su ogni cosa (scil., l’udito e la vista), quest’ultima è non di poco la più veritiera; infatti, secondo Eraclito, ... (Polibio cita qui il fr. 41)». L’autenticità dell’attribuzione a Eraclito di queste parole, che non sarebbero altro che una forma proverbiale diffusa, è negata da Bollack-Wismann, p. 290 (contra Conche, p. 271); mentre, come indicato infra, n. 3, altri lo considerano come una semplice parafrasi di cui sarebbe difficile determinare esattamente contesto e limiti.

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FR. 42 [55 DK; 5 MARC.] 163

2 tw'n è lezione dei manoscrittidi Polibio, di cui è stata proposta l’espun-zione (da Reinhardt) o la correzione in toi (da Diels). Subito prima com-pare nel testo l’esplicativo gavr, che considero tuttavia come appartenente al contesto polibiano e non alla citazione delle parole di Eraclito.

3 Se ci si attiene a un’opinione tradizionale e diffusa nella cultura greca, e particolarmente fra gli storici (cfr. Erodoto I 8.2; Tucidide I 22, 73.2; e, per ulteriori riferimenti, Marcovich, p. 19, n.1), ogni forma di conoscenza diretta – «a vista» – risulta più affidabile di quella riportata o trasmessa da altri – «per sentito dire» –; se ne deduce, relativamente all’interpreta-zione del presente frammento, una prima indicazione «epistemologica» da parte di Eraclito, che prescrive agli uomini, come strumento di accesso alla verità, l’esercizio autonomo del giudizio critico, più che l’acritico abbandono alle opinioni udite da altri (così, pur congetturalmente, Marcovich, p. 20, e soprattutto Conche, p. 271; cfr. anche il seguente fr. 42 [55 DK; 5 Marc.], specie n. 3), che forse ricorda l’atteggiamento dello «sciocco» in balia di ogni discorso stigmatizzato nel precedente fr. 40 [87 DK; 109 Marc.], cfr. n. 3; ciò sarebbe fra l’altro in accordo anche con l’invito che Eraclito rivolge a non prestare ascolto neanche a lui stesso, ma direttamente e immediatamente al lovgoı, al «ragionamento» che illustra e trasmette l’unico sapere (cfr. particolarmente supra, il fr. 5 [50 DK; 26 Marc.], nel quale, tuttavia, la contrapposizione fra la com-prensione immediata del lovgoı e l’ascolto del filosofo che lo comunica sembra solo apparente, cfr. la relativa n. 5). Secondo Diano-Serra, p. 160, invece, la preferenza accordata qui alla vista implicherebbe piuttosto una condanna, da parte di Eraclito, del sapere trasmesso oralmente, cioè delle forme tradizionali di educazione e di trasmissione della conoscenza caratteristiche del mondo greco arcaico. Forti dubbi sulla trasmissione del testo, che potrebbe provenire da una fonte scettica intermedia, e di conseguenza sull’autenticità del frammento, sono espressi da Marcovich, pp. 18-20, Kahn, p. 106, Robinson, p. 148, e Pradeau, p. 278; contra, a mio avviso in modo convincente, Mouraviev III, p. 121, n. 1.

Fr. 42 [55 DK; 5 Marc.]1

o{swn2 o[yiı ajkoh; mavqhsiı, tau'ta ejgw; protimevw.

Tutto ciò di cui vi è visione, ascolto e apprendimento, questo io prediligo.3

1 Questo frammento è riportato per due volte da Ippolito, Refutatio contra omnes haereses. (1) Una prima volta in IX 9.5 (= 242.13 Wend-land), dopo i frr. 5 [50 DK; 26 Marc.], 14 [51 DK; 27 Marc.], 1 [1 DK; 1

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164 FR. 42 [55 DK; 5 MARC.]

Marc.] (citazione parziale), 97 [52 DK; 93 Marc.], 12 [53 DK; 29 Marc.] e 15 [54 DK; 9 Marc.] e prima del fr. 49 [56 DK; 21 Marc.], con questa premessa: «Che invece il Padre di tutte le cose è visibile e non introvabile per gli uomini, lo dice (scil., Eraclito) in quanto segue: ... (Ippolito cita qui il fr. 42), vale a dire (scil., predilige) le cose visibili rispetto a quelle invisibili». Si veda, per il contesto argomentativo in cui si colloca questa fitta sequenza, supra, n. 1 al fr. 5. (2) Una seconda volta in IX 10.1 (= 242.22 Wendland), dopo il fr. 15 [54 DK; 9 Marc.] e prima dei frr. 50 [57 DK; 43 Marc.], 96 [58 DK; 46 Marc.], 18 [59 DK; 32 Marc.], 20 [60 DK; 33 Marc.], 31 [61 DK; 35 Marc.], 21 [62 DK; 47 Marc.] e 69 [63 DK; 73 Marc.], con queste parole: «Eraclito ripone la stessa considerazione e lo stesso valore nelle cose visibili e nelle cose invisibili, ritenendo si debba convenire che ciò che è visibile e ciò che è invisibile sono un’unica cosa. Dice infatti: ... (Ippolito cita qui di seguito i frr. 15 e 42), sicché non predilige le cose invisibili». Si veda, per una sintetica descrizione del contesto argomentativo di questa seconda citazione, supra, n. 1 ai frr. 15 e 28 [67 DK; 77 Marc.].

2 o{swn è correzione di Miller, unanimemente accolta, della lezione o{son di Ippolito, che non darebbe senso.

3 La traduzione di questo frammento, stante la costruzione supposta da entrambe le citazioni di Ippolito, è obbligata e impone di riferire tau'ta al precedente o{swn, così sollevando la questione di identificare il termine di paragone implicito rispetto al quale Eraclito esprime la sua preferenza per le cose di cui si danno «visione, ascolto e apprendimento» (o[yiı, ajkohv, mavqhsiı; quest’ultimo termine, a completare la sequenza dei due precedenti, indica qui necessariamente una forma di conoscenza o, appunto, di «apprendimento», che suppone un’acquisizione personale, cioè non derivata dall’insegnamento altrui, di ciò che si vede e si ascolta e che, pertanto, a ciò che si vede e si ascolta segue naturalmente, cfr. Marcovich, p. 18, Pradeau, pp. 278-79, e Mouraviev III, p. 65): si tratta, verosimilmente, di ogni opinione diffusa, indipendentemente da uno specifico riferimento polemico, che sia accolta senza il necessario eser-cizio di critica prescritto già nei precedenti frr. 40 [87 DK; 109 Marc.], cfr. n. 3, e 41 [101a DK; 6 Marc.], cfr. n. 3, cui si contrappone perciò, come condizione «epistemologica» fissata da Eraclito, l’esame rivolto diretta-mente all’insieme delle cose che sono – appunto a ciò che si «vede», si «ascolta» e si «apprende» – che conduce naturalmente a comprendere, solo che vi ci si accosti correttamente, la verità del sapere che costituisce il contenuto regolatore e universale dell’unico lovgoı (così pure Marco-vich, p. 18, Kahn, p. 106, Conche, p. 265, e Robinson, p. 119), non però nel senso, suggerito da Bollack-Wismann, p. 191, che tale esame diretto sveli, delle cose esaminate, l’identità particolare, che consisterebbe a sua volta nel rinvio al suo contrario e perciò nella sua negazione. Non credo neppure plausibile riconoscere qui l’indicazione di una gerarchia o di una contrapposizione, comunque intesa, fra una forma di conoscenza sensibile, cui alluderebbero o[yiı e ajkohv, e una forma di conoscenza razionale o intellettuale, associata a mavqhsiı (come vorrebbe soprattutto Pradeau, p. 279), perché non vedo nessun elemento, nella successione continua dei tre termini, che ne segnali in qualche modo la distinzione;

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FR. 43 [7 DK; 78 MARC.] 165

né mi pare possibile intendere, con Diano-Serra, p. 158, che il termine di paragone rispetto al quale Eraclito manifesta la sua preferenza si trovi espresso da un genitivo touvtwn sottinteso, o piuttosto implicito in o{swn, cui il tau'ta andrebbe allora contrapposto: «Più che le cose di cui (touvtwn o{swn) vi è visione, ascolto e apprendimento, queste (tau 'ta) io prediligo»: in tal caso, la preferenza manifestata da Eraclito andrebbe a ciò di cui non si dà «visione, ascolto e apprendimento», cioè alle cose invisibili (cui si farebbe pure riferimento nei frr. 15 [54 DK; 9 Marc.] e 60 [123 DK; 8 Marc.], che, tuttavia, ho collocato in una diversa prospettiva interpretativa). Quanto si trae con ragionevole certezza dal presente frammento è perciò esclusivamente, a mio avviso, la contrapposizione fra una conoscenza condotta in autonomia di giudizio (di cui non ha senso, per il momento, precisare i tratti epistemici, sensibili o intellettuali) e rivolta alle cose che sono (visibili o invisibili che siano) e l’inconsistenza delle opinioni diverse e mutevoli di chi si limita ad affidarsi agli altrui argomenti e discorsi senza sottoporli all’opportuno vaglio critico.

Fr. 43 [7 DK; 78 Marc.]1

eij pavnta2 kapno;ı gevnoito, rJi'neı3 a]n diagnoi'en.

Se tutte le cose divenissero fumo, le narici le distinguereb-bero.4

1 Questo frammento è riportato da Aristotele, De sensu 5, 443a23, che evoca Eraclito, nel contesto di un esame delle diverse sensazioni, con queste parole: «Alcuni credono che l’esalazione di fumo, comune alla terra e al mare, consista nell’odore stesso. Ecco perché anche Eraclito si è espresso così, affermando delle cose che sono che ... (Aristotele cita qui il fr. 43), <e tutti tendono a seguire questa opinione sull’odore>, alcuni considerandolo come un vapore, altri come un’esalazione, altri ancora come le due cose insieme. Ma il vapore è qualcosa di umido, mentre l’esalazione di fumo, come detto, è comune all’aria e alla terra, e ciò che si produce a partire dalla prima è acqua, mentre ciò che si produce a partire dalla seconda è una specie di terra». Di senso analogo la ripresa del detto eracliteo in Alessandro di Afrodisia, In librum de sensu 92.22 Wendland.

2 Con buona parte degli editori (a partire da Diels, ma cfr. partico-larmente Kirk, p. 233; contra, per esempio, Robinson, pp. 12-13 e 80, e Pradeau, p. 279), considero appartenente al contesto aristotelico, e non alle parole di Eraclito, ta; o[nta, che si trova in questo punto (tanto nella citazione aristotelica, quanto nella ripresa di Alessandro, cfr. la nota precedente) a completare il nominativo plurale pavnta.

3 La lezione dei manoscritti EMYP di Aristotele è, in questo

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166 FR. 43 [7 DK; 78 MARC.]

punto, o{ti rJi 'neı, che non dà senso: donde la soppressione di o{ti in Alessandro (cfr. supra, n. 1) e da parte della quasi totalità degli edi-tori. Mouraviev I, pp. 30-31, e III, p. 15, n. 2, suggerisce di conservare [o{]ti rJi 'neı, che darebbe la seguente traduzione dell’insieme del frammento: «Se qualcosa (ti) divenisse interamente (pavnta) fumo, le narici lo distinguerebbero» oppure «Se tutte le cose divenissero fumo, le narici distinguerebbero qualcosa (ti)» (eventualmente in forma interrogativa: «..., cosa (ti) distinguerebbero le narici?»). Questa ipotesi si basa esclusivamente, tuttavia, sulla convinzione che l’interpretazione del frammento, nella forma in cui è stampato qui, risulti particolarmente banale (cfr. Mouraviev III, p. 15, n. 1), tesi che cerco di confutare nella nota seguente.

4 La comprensione di questo frammento si basa tradizionalmente piuttosto su ciò che in esso risulta omesso che non su quanto effetti-vamente pare sostenere. Facendo astrazione dai tecnicismi propri del contesto aristotelico, che si propone un esame della natura dell’odorato e della sua affinità rispetto al proprio oggetto, a mio avviso implau-sibile come resoconto, anche soltanto interpretativo, dell’intenzione di Eraclito (così Marcovich, p. 292; contra Pradeau, pp. 279-80, che ritiene invece di poter trarre da queste parole un’articolata dottrina sensista, o «empirista», fondata sul principio della conoscenza del simile da parte del simile, ossia del «fumo» da parte dell’«odorato» che gli sarebbe congenere, cui si aggiungerebbe perfino una dottrina psichica, in quanto all’anima sarebbe affidato il compito di discernere le diverse informazioni sensibili provenienti dai diversi organi di sen-so), si tende a leggere qui una nuova rappresentazione della dialettica dell’unità di tutte le cose e della loro molteplicità (quale emerge per esempio supra, nel fr. 28 [67 DK; 77 Marc.]; cfr. Diano-Serra, p. 159), contrapponendo (1) l’unico fumo alla pluralità di odori che in esso è possibile distinguere, e (2) la vista, che è il senso che coglie il fumo nella sua indistinzione, all’odorato, che invece percepisce la pluralità di odori in esso presenti: come l’unità (del fumo) esemplifica il punto di vista superiore e più universale rispetto alla molteplicità sottostante (dei singoli odori), così la vista, generalmente considerata nella cultura greca come più efficace degli altri sensi, rinvia a una comprensione più alta rispetto alla particolarità e alla parzialità dell’odorato (cfr. per esempio Kirk, p. 235); oppure intendendo, attraverso l’immagine dell’unico fumo, (1) l’unità fisico-cosmologica, non immediatamente manifesta nell’esperienza comune, garantita dal fuoco nonostante la molteplicità, invece manifesta nell’esperienza comune, delle cose esistenti, e contestualmente (2) il punto di vista unitario che la vista restituirebbe, se tutto si trasformasse in fumo, nonostante la pluralità e la particolarità di odori restituiti dall’odorato, che a loro volta allu-derebbero, in un quadro più generale, alla contrapposizione fra (1) la capacità razionale dell’anima di cogliere l’unità del tutto di contro (2) alle testimonianze molteplici, e perciò parziali e contraddittorie, dei singoli organi di senso (così particolarmente Marcovich, pp. 292-93, che si serve a questo fine del parallelo con il fr. 28, cfr. n. 7, in cui effettivamente vengono illustrate, tanto su quello ontologico quanto su

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quello fisico-cosmologico, l’opposizione e a un tempo la complemen-tarità della superiore prospettiva dell’unità – del lovgoı, che esprime la verità universale dell’unità del tutto, e del fuoco, che sancisce l’unità sostanziale di tutte le cose – e della prospettiva solo apparente della molteplicità – dei singoli punti di vista connessi alla valutazione unila-terale dei diversi termini opposti e delle cose particolari che esistono come altrettante alterazioni del fuoco). Non mi è chiaro tuttavia come i commentatori possano individuare in queste parole di Eraclito (e anche, eventualmente, nel contesto aristotelico in cui sono riportate) un riferimento alla «vista», di cui non si fa menzione né esplicita né implicita, a fungere da contraltare rispetto all’«odorato», che è invece apertamente chiamato in causa, e tantomeno all’«anima», intesa come unità psichica cui ricondurre la conoscenza razionale che organizza e trascende la percezione sensibile: di tutto ciò, infatti, non si trova traccia qui né, a mio avviso, nei materiali eraclitei superstiti, e occorre dunque astenersi da ogni interpretazione così fortemente congetturale e priva di riscontri testuali. Credo perciò che il significato del presente frammento sia, assai più semplicemente, il seguente: ciascun individuo, solo che sappia far uso degli strumenti naturali che gli appartengono, può giungere alla conoscenza delle cose che sono, in modo che, quale che sia di volta in volta la configurazione che esse assumono o che eventualmente potrebbero assumere (in questo caso, «fumo»), egli dispone dell’adeguata via d’accesso alla loro comprensione (in questo caso, il senso dell’odorato, così pure Conche, pp. 274-75, e Robinson, p. 80) – sicché risulta in ultima analisi indifferente se alla proposizione ipotetica vada attribuita una sfumatura concessiva: «Anche se tutte le cose divenissero fumo, comunque le narici le distinguerebbero», come vuole Marcovich, p. 292, oppure soltanto potenziale: «Se tutte le cose divenissero fumo, sarebbero le narici a poterle distinguere», come invece preferisce Pradeau, p. 279. Sarebbe allora ribadita, in queste parole, l’esortazione a non affidarsi alle opinioni diffuse, ma a contare esclusivamente sull’autonomia funzionale e critica delle proprie capa-cità conoscitive e di giudizio nella ricerca della verità – un’esortazione, questa, già ripetutamente formulata nei precedenti frr. 40 [87 DK; 109 Marc.], cfr. n. 3, 41 [101a DK; 6 Marc.], cfr. n. 3, e 42 [55 DK; 5 Marc.], cfr. n. 3, in base al principio secondo il quale la testimonianza diretta, «con i propri occhi», vale di più dell’opinione accolta acriticamente, «da sciocchi», e ciò nella misura in cui, quale che sia di per sé la confor-mazione delle cose che sono («visibili», «udibili», «odorose» ecc.), ogni individuo possiede naturalmente lo strumento appropriato per coglierle per come sono (la «vista», l’«udito», l’«odorato» ecc.). Da notare che Kahn, pp. 256-57 (che tuttavia giudica il presente frammento come una parafrasi dell’originale eracliteo), suggerisce di intendere alla lettera, e non come una mera (e forse paradossale) ipotesi paragonabile a un «gioco mentale», la trasformazione in fumo di tutte le cose, chiamando in causa l’immagine della pira funebre e dunque evocando il destino degli uomini nell’aldilà, di cui non resterebbe traccia se non nella forma di un’esalazione di vapore.

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Fr. 44 [107 DK; 13 Marc.]1

kakoi; mavrtureı ajnqrwvpoisin ojfqalmoi; kai; w\ta barbavrouı yuca;ı ejcovntwn.2

Cattivi testimoni sono occhi e orecchie per gli uomini che hanno anime barbare.3

1 Questo frammento è riportato da Sesto Empirico, Adversus mathematicos VII 126, prima dei frr. 1 [1 DK; 1 Marc.] e 7 [2 DK; 23 Marc.], nell’ambito di un ampio esame relativo al criterio di verità ammesso da alcuni dei filosofi precedenti, fra i quali anche Eraclito (cfr. Adversus mathematicos VII 126-34), per mostrare come tutti abbiano posto una distinzione fra sensazione e ragionamento e condannato la sensazione come fonte di semplice apparenza, con queste parole: «Quanto a Eraclito, poiché egli pure ritiene che l’uomo è provvisto di due organi destinati alla conoscenza del vero, la sensazione e la ragione, ha considerato con gli altri fisici già menzionati che, di questi due organi, la sensazione non è affidabile e ha stabilito la ragione come criterio. Egli condanna la sensazione dicendo letteralmente che ... (Sesto cita qui il fr. 44), il che consiste nell’affermare che credere nelle sensazioni prive di ragione è proprio di anime barbare». Per alcune osservazioni sul contesto scettico della citazione si veda la Nota introduttiva a questa Sezione 4 e, soprattutto, l’Introduzione, § 2.3; un certo numero di reminiscenze e varianti di queste parole di Eraclito si trova nella tradizione dossografica: cfr. per esempio Stobeo III 4.54 (= III 233 Hense); e, in proposito, Mar-covich, pp. 31-32, e Mouraviev I, p. 270, III, p. 127. Si veda inoltre, per una sua possibile versione parafrasata, il seguente fr. 44a [46 DK; 114 Marc.], con le relative note di commento.

2 Non occorre correggere qui il genitivo plurale ejcovntwn nel dati-vo plurale e[cousin (come supposto da Ritter e altri), per accordarlo con il precedente ajnqrwvpoisin (o viceversa, per la stessa ragione, il dativo plurale ajnqrwvpoisin nel genitivo plurale ajnqrwvpwn), giacché sono attestati usi analoghi (con un genitivo partitivo che si riferisce a un dativo di interesse, che dà letteralmente quanto segue: «Cattivi testimoni sono per gli uomini occhi e orecchie di coloro i quali hanno anime barbare») fin dai poemi omerici: cfr. soprattutto Marcovich, p. 32, Mouraviev III, p. 127; contra Bollack-Wismann, pp. 302-04, che, pur mantenendo il testo tradito, mantengono separati il dativo ajnqrwvpoisin dal genitivo ejcovntwn («Per gli uomini sono cattivi testimoni gli occhi e le orecchie di quelli che hanno anime barbare»), così intendendo le parole di Eraclito come una denuncia di ogni forma di «testimonianza» o conoscenza riportata da altri.

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FR. 44 [107 DK; 13 MARC.] 169

3 Il significato più lineare del presente frammento è ovviamente limitativo: non è in assoluto che i sensi (qui collettivamente rappresen-tati dalla vista e dall’udito) rappresentano la causa di un indiscriminato errore in ambito conoscitivo (va dunque respinta l’attribuzione a ejcovntwn di un valore causale, che implicherebbe una generalizzazione della condanna eraclitea della sensazione: «Cattivi testimoni sono occhi e orecchie per gli uomini, poiché hanno anime barbare», che è invece quanto la tradizione scettica vuole trarre da questa citazione, cfr. supra, n. 1; e Pradeau, p. 289), ma appunto in quanto, se utilizzati in modo puramente ricettivo, cioè senza che l’anima comprenda o discrimini le informazioni da essi provenienti (questo, evidentemente, il significato dell’aggettivo bavrbaroı, utilizzato, come è noto, in riferimento ai «bar-bari», cioè a coloro i quali non comprendono la lingua greca, cfr. solo Marcovich, p. 32, e Diano-Serra, pp. 161-62), i sensi costituirebbero, alla stregua delle opinioni diffuse, una fonte di acritica ricezione di dati semplicemente «registrati»; mentre è piuttosto chiaro che Era-clito prescrive l’adozione di un giudizio critico, ricondotto all’anima, che passi al vaglio, verosimilmente confrontandole e reciprocamente «incrociandole», le informazioni che i sensi forniscono, in accordo con i precedenti frr. 41 [101a DK; 6 Marc.], cfr. n. 3, 42 [55 DK; 5 Marc.], cfr. n. 3, e 43 [7 DK; 78 Marc.], cfr. n. 4: così pure Kirk, pp. 61, 281 e 376, Marcovich, pp. 32-33, Conche, pp. 267-68, Pradeau, pp. 288-89, e Mouraviev III, p. 127. Kahn, p. 107, e Robinson, p. 151, ritengono che si manifesti qui un’esplicita attestazione del ruolo dell’anima come fonte di una forma di conoscenza distinta da quella immediatamente ricavata dai sensi, e dunque di carattere a qualche titolo razionale o intellettuale, espressa inoltre in termini di comprensione linguistica; personalmente, non giudico invece plausibile attribuire a Eraclito la formulazione di una vera e propria dottrina psicologica o epistemologica razionalista o intellettualista, perché, se ci si attiene alla lettera della citazione, quanto se ne può trarre è, più che il riconoscimento dell’anima come vero e proprio soggetto «epistemologico» autonomo dagli, e superiore agli, organi di senso, la tesi di un’identificazione dell’anima con una capacità di comprensione delle informazioni ricavate dai sensi, quindi con una sorta di «intelligenza» o di «interpretazione» in grado di catalogare e discriminare i dati sensibili come tali. Disponiamo così di una seconda indicazione «epistemologica» che pare caratterizzare la concezione eraclitea della conoscenza: dopo aver affermato che alla verità si accede per proprio conto, e non affidandosi acriticamente alle opinioni altrui (soprattutto nei già citati frr. 41, 42 e 43, cfr. ancora le relative note di commento), viene ora precisato che tale accesso alle cose che sono, e alla verità del sapere che le riguarda, esige, al di là della primaria attività dei sensi, l’intervento di una facoltà di giudizio che, dei dati sensibili, consente la valutazione e, per così dire, la «composizione» unitaria, in virtù di un’attitudine astrattiva che, oltrepassando la parzialità del punto di vista singolare della percezione, conduca a una prospettiva di comprensione universale di tutte le cose.

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Fr. 44a [46 DK; 114 Marc.]1

thvn te oi[hsin iJera;n novson.

La credenza è un morbo sacro.2

1 Queste parole sono riportate da Diogene Laerzio, Vitae philosophorum IX 7, dopo il fr. 61 [45 DK; 67 Marc.], in oratio obliqua, con una precisa-zione supplementare: e[lege (scil., Eraclito) kai; th;n o{rasin yeuvdesqai («... e diceva anche che la visione inganna»), giudicata dal solo Mouraviev I, p. 117, e III, p. 55, nn. 1 e 5, come contenente elementi (pur mediati dalla tradizione dossografica) plausibilmente riconducibili a materiali eraclitei originali, anche se senza relazione diretta con la proposizione che la precede. Il dibattito sull’autenticità del frammento è assai vivace, e particolarmente Marcovich, p. 393, enumera una serie di argomenti che inducono a consi-derarlo come una semplice reminiscenza del precedente fr. 44 [107 DK; 13 Marc.] o comunque come una parafrasi, elaborata in ambito dossografico, che riporta tesi più o meno direttamente ascrivibili a Eraclito (di questa opinione Robinson, pp. 32 e 110, e Pradeau, p. 277; più nettamente contro l’autenticità si esprimono Bollack-Wismann, pp. 165-66, Kahn, pp. 288-89, e Conche, pp. 232-33): in primo luogo, il termine oi[hsiı non è attestato almeno fino a Platone (sicché in DK2-4 si trovavano stampate come autentiche sol-tanto le parole iJera;n novson, di per sé tuttavia incomprensibili e comunque non contestualizzabili); contra Mouraviev III, p. 55, n. 2, che non esclude che possa trattarsi appunto di un neologismo eracliteo. In secondo luogo, queste parole sono evocate in alcune citazioni ulteriori – e talvolta in una forma rimaneggiata di origine manifestamente differente (in Gnomologium Parisinum 134. 209 Sternbach: th;n oi[hsin prokoph'ı ejgkophvn, «La credenza è un ostacolo al progresso», una versione considerata come riconducibile a Eraclito solo in DK, benché collocata fra i dubia, come fr. 131, e invece unanimemente respinta dagli editori e dai commentatori, cfr. per esempio Marcovich, p. 392 (fr. 114d1), e Mouraviev III, p. 153, n. 1) –, senza relazione con il nome di Eraclito (in Clemente Alessandrino, Stromateis VII 98.5 [= III 69 Stählin]) oppure con riferimento a Bione di Boristene (nello stesso Diogene Laerzio, Vitae philosophorum IV 50, e in Stobeo III 4.87 [= III 239 Hense]) e perfino a Epicuro (in Gnomologium Vaticanum 753.294 Sternbach), attraversando inoltre la tradizione stoica (cfr. nel dettaglio le varianti segnalate da Marcovich, pp. 392-93); di tali argomenti Mouraviev III, p. 55, nn. 2 e 4, sottolinea il carattere non decisivo, senza però fornire a sua volta, a mio avviso, elementi cogenti in favore dell’autenticità del fram-mento. In base a quanto precede, e in assenza di dati assolutamente certi, ritengo si possano comunque accogliere queste parole come testimonianza, eventualmente parafrasata, che riporta, se non qualche termine autentico, almeno opinioni coerenti con i materiali «epistemologici» eraclitei raccolti in questa Sezione 4 (cfr. la nota seguente), mentre giudico come un’aggiunta

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FR. 44b [47 DK; 113 MARC.] 171

puramente esplicativa del citatore, per quanto non indifferente dal punto di vista dell’interpretazione, la precisazione che la segue nel contesto laerziano: e[lege (scil., Eraclito) kai; th;n o{rasin yeuvdesqai.

2 Se autentico, almeno nei suoi contenuti, il presente frammento esprime un’ulteriore condanna della semplice credenza o opinione (al termine oi[hsiı si deve senz’altro attribuire un significato peggiorativo, in relazione con la supposizione fondata sull’apparenza, dovkhsiı), considerata alla stregua di una malattia e inoltre associata, se si dà qualche credito al contesto esplicativo del citatore (cfr. la nota precedente), all’inganno dei sensi (qui simboleggiati dalla «visione», o{rasiı), così verosimilmente sostenendo che l’opinione è paragonabile a una malattia, se e quando derivi da una percezione acritica, cioè realizzata indipendentemente dall’intervento di un giudizio valutativo e discriminante; mentre, come emerge soprattutto dal precedente fr. 44 [107 DK; 13 Marc.], cfr. n. 3, occorre che la sensazione sia vagliata criticamente per giungere a una selezione, operata da una facoltà riconducibile all’anima, delle informazioni che essa raccoglie intorno alle cose che sono: così, pur dubitativamente, Robinson, p. 111. La iJerh; novsoı è naturalmente, e tradi-zionalmente, l’epilessia («morbo sacro», perché, come suggerisce Platone, Timeo 85b, aggredisce la parte più nobile dell’anima che risiede nella testa, posta a guida del corpo: cfr. Diano-Serra, pp. 160-61, per una ricognizione dei principali contesti, innanzitutto ippocratici, che ne riportano una descrizio-ne), ma è probabile che l’espressione sia impiegata qui in un significato più ampio, a indicare una malattia dalle serie implicazioni e conseguenze. Non mi pare lecito, invece, tentare di ricavare da queste parole, come vorrebbe Pradeau, pp. 277-78, una vera e propria dottrina psico-fisiologica che associa le facoltà conoscitive, qui rappresentate dalla «credenza» che ne è l’esito, alla costituzione elementare dei corpi, con l’indicazione che una credenza erronea si produce a causa del rigonfiamento provocato dall’accumulo di liquidi organici nell’area del cervello (questa la più diffusa interpretazione del fenomeno dell’epilessia): la «credenza» (intesa perciò come una cono-scenza errata o comunque puramente soggettiva) coinciderebbe con, o dipenderebbe da, l’epilessia, vale a dire un malfunzionamento delle facoltà psichiche determinato da un’occlusione di alcune parti del cervello.

Fr. 44b [47 DK; 113 Marc.]1

mh; eijkh/' peri; tw'n megivstwn sumballwvmeqa.2

Non dobbiamo formulare opinioni casuali sulle cose più importanti.3

1 Queste parole sono riportate da Diogene Laerzio, Vitae philoso-

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172 FR. 44b [47 DK; 113 MARC.]

phorum IX 73, nel contesto di una presentazione del pensiero di Pir-rone nell’ambito della tradizione scettica, fatta risalire agli albori della letteratura greca (fino all’epica omerica e alla tragedia) e considerata diffusa fra le diverse «scuole» filosofiche presocratiche, a intercalare una serie di citazioni di Senofane, Zenone, Democrito ed Empedocle. Marcovich, p. 391, segnalando il carattere insolito nella prosa arcaica dell’impiego della prima persona plurale del verbo (sumballwvmeqa) e l’uso non altrimenti attestato di sumbavllomai, nel senso qui appropriato di «congetturare», seguito dalla costruzione con la preposizione periv e il genitivo, dubita dell’autenticità di questo frammento, giudicato invece in un’ottica più possibilista, ma esclusivamente per mancanza di argomenti a loro avviso cogenti in favore dell’inautenticità, da Bollack-Wismann, p. 167, Conche, p. 251, e soprattutto Mouraviev III, p. 56; esitanti appaiono Diano-Serra, p. 169, Kahn, p. 106, e Robinson, p. 111. Come nel caso del precedente fr. 44a [46 DK; 114 Marc.], cfr. n. 1, la condizione di sostanziale incertezza dei dati a nostra disposi-zione mi induce ad accogliere queste parole come (almeno in parte) possibilmente autentiche e comunque, se non altro ipoteticamente, in rapporto con i materiali «epistemologici» eraclitei raccolti in questa Sezione 4 (cfr. infra, n. 3).

2 sumballwvmeqa, congiuntivo presente del verbo sumbavllomai, è lezione di Diogene Laerzio, che non occorre correggere in sumbalwv-meqa, congiuntivo aoristo, come proposto da Schleiermacher, e da pochi altri editori ammesso, per dare maggior forza al valore gnomico di queste parole.

3 Il significato del presente frammento, se autentico, appare piuttosto chiaro e costituisce un nuovo invito a esprimere un giudizio ponderato «sulle cose più importanti», vale a dire, presumibilmente, sulla totalità delle cose che sono e sull’universalità del sapere che ne rende esplicite la natura e le leggi; in caso contrario, la formulazione di opinioni «a caso» (eijkh/'), cioè l’espressione di semplici congetture o supposizioni soggettive e senza costrutto che prescindono da un vaglio critico dei dati provenienti dalla sensazione, non può che determinare quella «credenza» equiparata a una «malattia», nel precedente fr. 44a [46 DK; 114 Marc.], cfr. n. 2, o a un «gioco infantile», nel seguente fr. 44c [70 DK; 92d Marc.], cfr. n. 3, e appunto derivante dalle acritiche percezioni che finiscono per rappresentare soltanto, «per gli uomini che hanno anime barbare», dei «cattivi testimoni», come evidenziato supra, nel fr. 44 [107 DK; 13 Marc.], cfr. n. 3. Meno probabili mi sembrano le ipotesi di Bollack-Wismann, p. 168, che leggono qui un’esortazione di Eraclito a non accontentarsi di una «reciproca comprensione» (questo il senso che attribuiscono al verbo sumbavllomai) solo superficiale e casuale fra gli uomini, e di Conche, p. 252, secondo il quale sarebbe possibile supporre invece una polemica nei confronti delle precedenti cosmologie ioniche, e particolarmente di Anassimandro.

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Fr. 44c [70 DK; 92d Marc.]1

paivdwn ajquvrmata (scil., ta; ajnqrwvpina2 doxavsmata).

Giocattoli di bambini (scil., le opinioni degli uomini).3

1 Questo frammento è riportato da Giamblico, De anima, in Stobeo II 1.16 [= II 6 Wachsmuth], nel contesto di una radicale svalutazione dell’opinione come fonte di conoscenza attendibile. La gran parte degli editori e dei commentatori giudicano queste parole come una variante o una reminiscenza del fr. 55 [79 DK; 92 Marc.], cfr. Bollack-Wismann, p. 227, Marcovich, pp. 338-39, e Kahn, p. 174, mentre Pradeau, p. 305, le considera piuttosto come una parafrasi esplicativa del fr. 97 [52 DK; 93 Marc.], in ogni caso nel quadro di una comparazione fra le diverse sfere del divino e dell’umano (evidentemente a detrimento dell’umano rispetto al divino) e, nell’ambito dell’umano, fra le diverse sfere della condizione adulta e della condizione infantile (nuovamente a detrimento della condizione infantile rispetto a quella adulta). Fra quanti invece si esprimono in favore dell’autenticità del frammento, vi è comunque una tendenza piuttosto netta a escludere l’espressione ta; ajnqrwvpina doxavsma-ta, mantenendo come eraclitea soltanto l’espressione paivdwn ajquvrmata (anche se verosimilmente riferita, quanto al contenuto della condanna di Eraclito, proprio alle «opinioni degli uomini»: così DK e Diano-Serra, p. 161): infatti, ajnqrwvpina è una forma attica (rispetto al dialetto ionico di Eraclito che darebbe ajnqrwvpeia, ma cfr. la nota seguente) e il termine dovxasma non pare attestato prima di Euripide, Tucidide e Platone, anche se Conche, p. 76, e Mouraviev III, p. 80, n. 1, che difendono l’autenticità della citazione nel suo insieme, rilevano come il verbo doxavzw, da cui dovxasma appunto deriva, sia già utilizzato da Eschilo, contemporaneo di Eraclito, il che potrebbe suggerire di giudicare il termine dovxasma come un neologismo eracliteo. Ancora una volta (si vedano i precedenti frr. 44a [46 DK; 114 Marc.], cfr. n. 1, e 44b [47 DK; 113 Marc.], cfr. n. 1), accolgo questo frammento come una parafrasi contenente forse qualche termine autentico (ma certamente non eraclitea, benché riferibile a Eraclito nei suoi contenuti, mi pare per le ragioni indicate l’espressione ta; ajnqrwvpina doxavsmata, che pongo perciò, pur nel testo, fra parentesi tonde), da collocare però, a differenza dei commentatori sopra citati, in relazione con i precedenti frr. 44 [107 DK; 13 Marc.], 44a e 44b, che si esprimono sullo scarso valore delle opinioni infondate rispetto alla conoscenza critica che occorre perseguire (cfr. infra, n. 3).

2 ajnqrwvpina, dei manoscritti, è una forma attica inconciliabile con la lingua di Eraclito, cui corrisponde la forma ionica ajnqrwvpeia, che Mou-raviev I, p. 171, e III, p. 80, n. 1, suggerisce di ripristinare qui, essenzial-mente nel tentativo di difenderne l’autenticità (cfr. la nota precedente).

3 Se autentico, il presente frammento ribadisce nuovamente il carat-

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174 FR. 45 [35 DK; 7 MARC.]

tere illusorio, ondeggiante e dunque privo di valore dal punto di vista conoscitivo, delle opinioni diffuse, almeno ammettendo, come mi pare plausibile fare, che l’espressione ta; ajnqrwvpina doxavsmata, pur spuria, evochi però l’oggetto che effettivamente Eraclito qualificava alla stregua di «giochi infantili» (cfr. supra, n. 1): in tal caso, risulta particolarmente felice l’immagine impiegata qui, che giustifica la condanna delle opinioni infondate paragonandole ai giocattoli cui i bambini si accostano per sbarazzarsene subito con leggerezza e passare a nuovi trastulli; analo-gamente, le opinioni derivanti dalle percezioni non vagliate criticamente possiedono la stessa (in)consistenza dei temporanei e vacui passatempi dei fanciulli, in linea con quanto argomentato nei precedenti frr. 44 [107 DK; 13 Marc.], cfr. n. 3, 44a [46 DK; 114 Marc.], cfr. n. 2, e 44b [47 DK; 113 Marc.], cfr. n. 3. Cfr. pure in questo senso Conche, p. 76.

Fr. 45 [35 DK; 7 Marc.]1

crh; pollw'n i{storaı ei\nai.

Bisogna fare esperienza di molte cose.2

1 Questo frammento è riportato da Clemente Alessandrino, Stromateis V 140.5 (= II 421 Stählin), nel contesto di una ricognizione dei rapporti fra la filosofia greca e il pensiero «barbaro», con queste parole: «Ciò che abbiamo detto ci consente tuttavia di osservare in che modo si debbano leggere le opere dei greci, a condizione che si sia capaci di navigare in questo mare agitato. “Felice l’uomo che ha ottenuto la ricchezza di un cuore divino, disgraziato colui il quale cela sugli dei opinioni tenebrose”, secondo le parole di Empedocle (= fr. 132 DK). Egli ha mostrato così in modo divino che la conoscenza e l’ignoranza sanciscono i termini di felicità e infelicità; infatti, secondo Eraclito, ... (Clemente cita qui il fr. 45), per gli uomini che intendono divenire veri sapienti (eu\ mavla ... filosovfouı a[ndraı), ed è necessario che “davvero molto abbia errato qua e là chi cerca di essere perfetto” (= Focilide, fr. 13 Diehl)». Con Marcovich, pp. 20-21, e Robinson, p. 104, credo si possano attribuire a Eraclito, nella citazione di Clemente, solo le parole crh; pollw 'n i{storaı ei\nai (escludendo così gavr che, posto dopo crhv, giudico parte del contesto della citazione, e non di quest’ultima, ed eventualmente sottintendendo un soggetto generico come ajnqrwvpouı), che restituiscono una costruzione sintattica e stilistica familiare nei materiali eraclitei superstiti (si vedano per esempio, per il valore esortativo o propriamente imperativo impresso alla proposizione dal crhv iniziale, i frr. 6 [114 DK; 23 Marc.] e 13 [80 DK; 28 Marc.], che hanno anch’essi crhv, e 7 [2 DK; 23 Marc.], che ha

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l’analogo dei', a comandare la seguente proposizione infinitiva; e Kirk, p. 238) e contengono una terminologia congruente con il dialetto ionico di Eraclito e coerente, nel suo significato, con le indicazioni che emergono dai materiali raccolti nella presente Sezione 4 (per il termine i{stwr, in particolare, cfr. la nota seguente). Difficile mi pare invece accettare come autentico eu\ mavla ... filosovfouı a[ndraı – che darebbe questa traduzione: «Bisogna che facciano esperienza di molte cose gli uomini che intendono divenire veri sapienti (rendendo con questa perifrasi il termine filosovfouı e a esso riferendo eu\ mavla)» –, perché tradisce un uso linguistico e una scelta lessicale considerati comuni in Clemente e caratteristici della sua prosa e dunque meno verosimilmente riconducibili a Eraclito (cfr. ancora Marcovich, p. 21). La citazione è invece giudicata autentica nel suo insieme, oltre che in DK, da Bollack-Wismann, p. 143, Kahn, pp. 32 e 105, Diano-Serra, pp. 38 e 170-71, Conche, p. 99, e soprattutto da Mouraviev I, pp. 95-96, e III, pp. 44-45, i cui argomenti si lasciano riassumere come segue: innanzitutto, per quanto riguarda eu\ mavla, la constatazione che si tratta di un costrutto frequente nella prosa di Clemente non esime dal riconoscere l’altrettanto significativa evidenza che esso è già ampiamente attestato nella lingua epica (cfr. per esempio Iliade XXIII 761; Odissea IV 96 e XXIV 123) e può quindi teoricamente appartenere allo stile eracliteo; mentre, rispetto al termine filovsofoı, impiegato come aggettivo nel sintagma filovsofoı ajnhvr dato da Clemente, risulta dirimente stabilire se fosse corrente all’epoca di Eraclito: infatti, se è vero che esso si trova riferito già a Pitagora (ma in base a Eraclide Pontico, fr. 87 Wehrli [= Diogene Laerzio, Vitae philosophorum I 12], perciò oltre un secolo più tardi) e attestato in Erodoto I 30.2, tali elementi appaiono insufficienti per giungere a una conclusione certa, sicché bisognerebbe al massimo dedurne che non sussistono impedimenti assoluti a ritenere che il presente frammento documenti un uso, quantomeno arcaico, di questo termine. Mi sembra perciò che gli argomenti di Mouraviev, che fra l’altro solleva a sua volta alcuni dubbi sulla forma metrica e sulla struttura ritmica della citazione (che lo inducono a proporre una modifica del plurale i{storaı filosovfouı a[ndraı, dei manoscritti, nel singolare i{stora a[ndra filosovfon, cfr. I, pp. 95-96, e III, pp. 44-45, n. 4), si rivelino in ultima analisi non decisivi e fondati piuttosto su un principio di prudenza metodologica che valuta l’assenza di prove certe contro l’autenticità di un frammento o di una sua parte come prove a favore dell’autenticità (III, p. 44, nn. 2-3) – lo stesso principio di prudenza metodologica che mi porta invece a dubitare qui, per le ragioni dette, delle parole eu\ mavla ... filosovfouı a[ndraı e di conseguenza a escluderle. Una posizione intermedia difende infine Pradeau, p. 272, che, se considera inautentico e introdotto da Clemente il soggetto della proposizione infinitiva filosovfouı a[ndraı, tende invece a conservare eu\ mavla come riferito a i{storaı («Bisogna essere soprattutto buoni ricercatori di molte cose»).

2 Il significato esortativo o imperativo conferito a queste parole dal crhv iniziale pone evidentemente in luce il carattere di difficoltà, e a un tempo di necessità, della ricerca che Eraclito prescrive (in forma gene-rica oppure agli «uomini», se si sottintende qui ajnqrwvpouı o si accoglie

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comunque il riferimento, nella citazione di Clemente Alessandrino, agli a[ndraı [filosovfouı], cfr. la nota precedente), ragionevolmente al fine di giungere alla conoscenza delle cose che sono, per la quale risultano insufficienti, se non propriamente fuorvianti, le semplici opinioni dif-fuse, che siano ricavate dall’ascolto di altri o prodotte da un’ingenua convinzione determinata dall’immediata percezione sensibile: questa la sfumatura introdotta dal termine i{stwr, che indica la ricerca «sul campo», basata sulla testimonianza visiva che produce un’esperienza diretta delle cose, contrapposta alla conoscenza «di seconda mano» riportata da altri (ben noto, in questo contesto, l’uso erodoteo del ter-mine iJstorivh, a qualificare il tipo di indagine «storica» condotta nella sua opera: cfr. per esempio II 99.1 e 119.3). Così inteso, il presente fram-mento si colloca in una linea di continuità con i precedenti frr. 41 [101a DK; 6 Marc.], cfr. n. 3, e 42 [55 DK; 5 Marc.], cfr. n. 3, che suggerivano un’esplicita valorizzazione della vista e dei sensi in generale come fonte di conoscenza diretta delle cose (in particolare, la sequenza o[yiı, ajkohv, mavqhsiı del citato fr. 42 corrisponde compiutamente all’«esperienza diretta» prescritta qui tramite il termine i{stwr) rispetto alla passiva ricezione delle opinioni diffuse (cfr. in proposito Diano-Serra, p. 170); d’altro canto, all’autonoma ricerca intorno alle cose che sono occorre che si accompagni una selezione delle conoscenze acquisite messa in atto dal giudizio critico, come indicato pure nei precedenti frr. 44 [107 DK; 13 Marc.], cfr. n. 3, 44a [46 DK; 114 Marc.], cfr. n. 2, e 44b [47 DK; 113 Marc.], cfr. n. 3, in modo che tale ricerca non si limiti a un’acritica accumulazione di nozioni, a quella polumaqiva che, di per sé e rispetto ai suoi ingiustamente famosi rappresentanti, si trova irrisa a partire dal fr. 48 [40 DK; 16 Marc.]: non vi è dunque nessuna contraddizione fra l’«esperienza di molte cose» (pollw 'n) positivamente prescritta qui e la simmetrica condanna del «molto sapere» meramente erudito cui negativamente la polumaqiva appunto rinvia (così pure Marcovich, p. 22, Diano-Serra, p. 171, Kahn, p. 105, Robinson, p. 104, e Pradeau, p. 273), al punto che, anzi, mi sembra lecito ipotizzare che quella illustrata nel presente frammento si configuri come una sorta di polumaqiva positiva, di cui fra l’altro il seguente fr. 46 [39 DK; 100 Marc.] parrebbe individuare un illustre esponente in Biante di Priene (contra Conche, pp. 99-101, che, appunto per evitare tale presunta contraddizione, suggerisce una resa del presente frammento che esclude ogni riferimento all’«esperienza di molte cose», costruendo, con la conservazione del testo tradito, l’avverbiale eu\ mavla come assoluto, filosovfouı a[ndraı come soggetto dell’infinitiva e soprattutto attribuendo a i{stwr il significato, a mio avviso improbabile, di «giudice»: «Il faut, oui tout à fait, que les hommes épris de sagesse soient les juges des nombreux»). Si osservi infine che, se si ammettesse come autentico il termine filovsofoı nella citazione di Clemente Alessandrino (cfr. la nota precedente), ciò comporterebbe notevoli conseguenze sull’interpretazione del frammento, a seconda che gli si attribuisca un significato simile a quello platonico di «amante della sapienza», in opposizione al sofovı, come certamente lo intende con approvazione Clemente (così Mouraviev I, p. 95, ma anche, in tutt’altro e ben eccentrico contesto interpretativo, Bollack-Wismann, pp.

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143-44), oppure con il significato dispregiativo di «(presunto) cercatore di sapienza», allora, forse, con un’allusione a Pitagora, che per primo sarebbe stato così denominato e contro il quale Eraclito polemizza a partire dal fr. 48, riconoscendolo come uno dei rappresentanti più reputati del falso sapere in cui consiste la polumaqiva; in questo caso, avremmo un ironico gioco di parole in relazione a Pitagora, proclama-tosi filovsofoı in quanto «amante della sapienza» e chiamato invece da Eraclito filovsofoı in quanto «(presunto) cercatore di sapienza» (così Kirk, p. 395, e Diano-Serra, p. 171): su tutto ciò, però, ritengo impossibile formulare più che semplici congetture, principalmente in ragione del sospetto di inautenticità che, come spiegato nella nota precedente, mi porta a escludere questa porzione della citazione di Clemente.

Fr. 46 [39 DK; 100 Marc.]1

ejn Prihvnh/ Bivaı ejgevneto oJ Teutavmew, ou| plevwn2 lovgoı h] tw'n a[llwn.

Di Priene era Biante,3 figlio di Teutame, che ebbe fama maggiore degli altri.4

1 Questo frammento è riportato da Diogene Laerzio, Vitae philoso-phorum I 88, nell’ambito di una presentazione dei «sette sapienti», e particolarmente di Biante (cfr. infra, n. 3) di cui vengono riportati alcuni detti, con queste parole: «E il poco compiacente Eraclito lo ha lodato più di ogni altro, scrivendo: ... (Diogene cita qui il fr. 46). E il popolo di Priene gli ha dedicato un luogo riservato, chiamato Teutameo. Il suo detto: “I più sono cattivi” (oiJ plei'stoi a[nqrwpoi kakoiv)» (cfr. il seguente fr. 47 [104 DK; 101 Marc.], con le relative note di commento). Alcuni editori (precedenti Schleiermacher) attribuiscono a Eraclito anche la frase di Diogene Laerzio che segue nella citazione, fondamentalmente per l’unica ragione che essa spiegherebbe il motivo, altrimenti ignoto, per cui Biante abbia goduto di «fama maggiore degli altri»; tra l’altro, la dedica a Biante di un «luogo riservato», da parte dei suoi concittadini, contrasterebbe con il trattamento che Eraclito stesso avrebbe ricevuto invece dagli efesini (cfr. in proposito l’Introduzione, § 3) e che dunque, indirettamente, egli potrebbe voler stigmatizzare: ma nessun elemento, stilistico o di contenuto, autorizza questa attribuzione (cfr. Marcovich, p. 361, e Mouraviev III, p. 49, n. 2).

2 plevwn è lezione dei manoscritti FP di Diogene Laerzio, mentre il manoscritto B porta pleivwn.

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178 FR. 47 [104 DK; 101 MARC.]

3 Biante di Priene faceva parte, secondo Diogene Laerzio, Vitae phi-losophorum I 13 e 40-44, dei «sette sapienti» – intellettuali e legislatori, considerati talvolta come coloro i quali avviarono, nel mondo greco arcaico, la riflessione filosofica propriamente detta – insieme con Talete, Solone, Periandro, Cleobulo, Chilone e Pittaco (altre fonti aggiungono al gruppo anche Anacarsi, Misone, Ferecide ed Epimenide, altre ancora Pisistrato). Nel corso del libro I della sua opera, Diogene Laerzio espone di costoro le tesi principali, espresse in forma di sentenze, e dedica a Biante i capitoli 82-88, sottolineando lo straordinario apprezzamento di cui godette presso i suoi concittadini e in generale presso i greci, al punto che, come Diogene riporta in forma aneddotica, al ritrovamento in mare di un treppiede con incisa la scritta «al Sapiente», fu deciso di consegnarlo a Biante, il quale a sua volta lo avrebbe donato ad Apollo (o comunque ad altri: cfr. I 82-83).

4 Intendo il presente frammento come un esempio di polumaqiva positiva (cfr. il precedente fr. 45 [35 DK; 7 Marc.], particolarmente n. 2), giacché il detto attribuito a Biante da Diogene Laerzio, Vitae philosophorum I 88 (cfr. supra, n. 1), si trova citato, ed evidentemente approvato, nel seguente fr. 47 [104 DK; 101 Marc.], che costituisce l’unico caso certo di apprezzamento, da parte di Eraclito, di un suo contemporaneo o predecessore. Bisogna perciò comprendere che Biante, in virtù della sua ricerca, abbia effettivamente realizzato l’ideale eracliteo di un’indagine, a un tempo autonoma e critica, rivolta alle cose che sono. Non c’è ragione di intendere qui il termine lovgoı, con Kahn, pp. 176-77, Conche, p. 138, Pradeau, p. 312, e Mouraviev I, p. 102, come riferito al «discorso» o alla «parola» di Biante, ed eventualmente in relazione anche con il lovgoı eracliteo introdotto fin dal fr. 1 [1 DK; 1 Marc.], piuttosto che, nel suo significato usuale e comune (cfr. Erodoto II 89.1, III 146.3 e IX 32.1), a indicare semplicemente la «fama» o la «nomea» del personaggio, pur senza dubbio connessa, a sua volta, alle parole o ai discorsi che egli ha pronunciato (così pure Marcovich, p. 361, Diano-Serra, pp. 42-43, e Robinson, p. 106). Neanche mi pare si debba necessariamente pensare al ruolo politico di Biante, che (secondo Erodoto I 169-70) avrebbe consigliato ai suoi compatrioti della Ionia, dopo la sconfitta con i persiani, di riunirsi per fondare una colonia in Sardegna (consiglio peraltro non seguito, che portò a una nuova sottomissione ai persiani).

Fr. 47 [104 DK; 101 Marc.]1

Tivı aujtw'n novoı h] frhvn... dhvmwn2 ajoida;ı hjpuvonteı3 kai; dida-skavlw/ creivwntai4 oJmivlw/, oujk eijdovteı o{ti oiJ5 polloi; kakoiv, ojlivgoi de; ajgaqoiv.6

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Che razza d’intelligenza è la loro, che razza di comprendo-nio? Cantando sguaiatamente motivetti popolari, prendono pure la folla a maestro, senza capire che «i più sono cattivi, i buoni pochi».7

1 Questo frammento è riportato da Proclo, In Platonis Alcibiadem I 255.15 Creuzer (= 117 Westerink), che condanna le opinioni della moltitudine come inaffidabili per l’acquisizione della vera conoscenza, con queste parole: «Il nobile Eraclito ha perciò ragione ad allontanare la moltitudine, perché priva di intelligenza e di ragione; dice infatti: ... (Proclo cita qui il fr. 47). Questo per quanto riguarda Eraclito; ed ecco perché il sillografo (= autore di suvlloi, “poesie satiriche”) lo ha chiamato “fustigatore della folla” (= Timone di Fliunte, fr. 43 Di Marco = Diogene Laerzio, Vitae philosophorum IX 6)». Con alcune sensibili differenze, queste parole sono riportate (in oratio obliqua, dunque senza essere introdotte come una citazione letterale di Eraclito) da Clemente Ales-sandrino, Stromateis V 59.4 (= II 366 Stählin), poco prima del fr. 73 [29 DK; 95 Marc.], ma è evidente, e pressoché unanimemente riconosciuto, che si tratta di due versioni di uno stesso testo originale (contra Prade-au, p. 307, che giudica inoltre entrambe le citazioni come parzialmente spurie e probabilmente parafrasate): poiché tanto il passo di Proclo, che questi introduce come una citazione letterale, quanto, soprattutto, quello di Clemente presentano non poche difficoltà testuali, è inevitabile tentare di ricostituire l’originale a partire da una comparazione fra i due, pur mantenendo la citazione procliana come fonte primaria. Vediamo innanzitutto come si presentano i due passi: (1) ga;r ... fhsiv ... tivı aujtw'n novoı h] frhvn... dhvmwn ajidou'ı hjpiovwn te kai; didaskavlw/ creivwn te oJmivlw/, oujk eijdovteı o{ti oiJ polloi; kakoiv, ojlivgoi de; ajgaqoiv – questo il testo di Proclo, che solleva almeno due problemi: in primo luogo, la difficoltà di tenere insieme due participi al nominativo singolare (hjpiovwn e creivwn) che devo-no poi accordarsi con un participio al nominativo plurale (oujk eijdovteı) in relazione allo stesso soggetto, cfr. anche la nota seguente; in secondo luogo, e soprattutto, l’incongruità del costrutto ajidou'ı hjpiovwn, perché il verbo hjpiovw, che è intransitivo, significa «sentirsi meglio», «stare bene», e non si vede come possa assumere come complemento oggetto l’accu-sativo ajidou'ı, comunque già di per sé problematico (tra l’altro, anche se si ipotizzasse di mantenere hjpiovwn, ma preceduto dal dativo ajoidoi 'sin, traendolo dalla citazione di Clemente qui sotto riportata, occorrerebbe intendere questo verbo con il senso peggiorativo di «essere rammollito da», che richiede però la forma passiva, cfr. Mouraviev III, p. 124, n. 4); la traduzione sarebbe in tal caso la seguente: «dice ... infatti: “che razza d’intelligenza è la loro, che razza di comprendonio? Sentendosi meglio ... e vaticinando (participi al nominativo singolare), come un maestro per la folla, non capendo (participio al nominativo plurale) che ‘i più sono cattivi, i buoni pochi’”»; (2) levgousi (scil., le Muse di Ionia = Eraclito, cfr. Platone, Sofista 242d) tou;ı me;n pollou;ı kai; dokhsisovfouı dhvmwn

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ajoidoi'sin e{pesqai kai; † novmoisi † crevesqai, eijdovtaı o{ti polloi; kakoiv, ojlivgoi de; ajgaqoiv – questo il testo di Clemente, che solleva a sua volta almeno tre problemi: innanzitutto, manca la proposizione interrogativa che apre la citazione di Proclo e che fornisce, seppur genericamente, un soggetto «polemico» alla proposizione seguente, perché sono coloro la cui «intelligenza» e il cui «comprendonio» si trovano posti in questione all’inizio della citazione di Proclo, che non sembrano poter coincidere con «i molti autoproclamati sapienti» (tou;ı pollou;ı kai; dokhsisovfouı) di Clemente, a non capire, presumibilmente per la loro immotivata fiducia nella folla, che «i più sono cattivi, i buoni pochi» (se, infatti, il soggetto della proposizione fossero appunto dei «sapienti», benché «autopro-clamati» tali, perché dovrebbero «seguire» la folla e affidarsi alle sue opinioni e credenze, e non, viceversa, porsi essi stessi come maestri della folla, a maggior ragione in considerazione della conclusione, secondo la quale «i più sono cattivi, i buoni pochi»?); in secondo luogo, l’evidente corruzione che riguarda il termine novmoisi, che non dà senso; infine, la conclusione della citazione, che è, per come si presenta, contraddittoria, giacché Eraclito deve aver voluto collegare l’errore dei molti (che si tratti degli «autoproclamati sapienti» o degli uomini in generale) all’af-fermazione che «i più sono cattivi, i buoni pochi», dal che consegue che i primi non possono «sapere che “i più sono cattivi, i buoni pochi”», ma devono appunto ignorarlo, in modo che proprio l’ignoranza di questo assunto si ponga come causa del loro errore (questa banale constatazio-ne di controsenso ha indotto a correggere qui il testo di Clemente con l’integrazione della negazione <oujk>); la traduzione sarebbe in tal caso la seguente: «affermano che i molti autoproclamati sapienti “seguono i cantori popolari e si basano † sulle leggi †, <non> sapendo che ‘i più sono cattivi, i buoni pochi’”». Data la problematicità di entrambe queste versioni, di cui segnalo le varianti e le proposte di correzione che mi appaiono rilevanti nelle note seguenti, editori e commentatori hanno tentato di ricavare, dal confronto fra di esse, un testo corretto nella sua struttura grammaticale e sintattica e coerente nei suoi contenuti; la costruzione più diffusa (per esempio in DK, Marcovich, pp. 361-62, Kahn, p. 56, Diano-Serra, p. 36, Conche, p. 135, e Robinson, pp. 60-62) è la seguente: (1) tivı aujtw'n novoı h] frhvn... dhvmwn ajoidoi'si peivqontai (cfr. infra, n. 3) kai; didaskavlw/ creivwntai (cfr. infra, n. 4) oJmivlw/, oujk eijdovteı o{ti oiJ polloi; kakoiv, ojlivgoi de; ajgaqoiv (che dà questa traduzione: «Che razza d’intelligenza è la loro, che razza di comprendonio? Si lasciano persuadere dai cantori popolari e prendono la folla a maestro, senza capire che “i più sono cattivi, i buoni pochi”»); la principale alternativa alla costruzione tradizionale è proposta da Mouraviev I, pp. 260-61, e III, p. 124: (2) tivı ga;r aujtw'n (cfr. la nota seguente) novoı h] frhvn... dhvmwn ajoida;ı hjpuvwn te (cfr. infra, n. 3) kai; didaskavlw/ creivwn te (cfr. infra, n. 4) oJmivlw/, oujk eijdovteı o{ti oiJ polloi; kakoiv, ojlivgoi de; ajgaqoiv (che dà questa traduzione: «Che razza d’intelligenza è infatti la loro, che razza di comprendonio? L’uno che canta sguaiatamente motivetti popolari, l’altro che vaticina, come un maestro, per la folla, senza capire che “i più sono cattivi, i buoni pochi”»). La scelta da me compiuta, in certa misura a metà strada fra l’esigenza giustamente manifestata, soprattutto

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da Mouraviev, di attenersi il più possibile al testo della fonte primaria e il ricorso, a mio giudizio inevitabile, ad alcune correzioni ispirate alla variante di Clemente, si trova giustificata qui di seguito.

2 dhvmwn, di Proclo, è stato espunto da Bywater (seguito da alcuni), come glossa esplicativa del precedente aujtw'n («Che razza d’intelligenza è la loro [scil., dhvmwn, “delle folle del popolo”] ... ?»), ma l’intervento pare inopportuno. Mouraviev III, p. 124, n. 3, intende il genitivo plurale aujtw 'n come un duale (aujtoi 'n), a introdurre i due participi seguenti (hjpuvwn te kai; ... creivwn te) come un’enumerazione dei due deprecabili atteggiamenti, distinti e paralleli (te ... te), di coloro i quali fanno mostra di non possedere vera intelligenza («Che razza d’intelligenza è la loro [scil., dei due tipi seguenti], che razza di comprendonio? L’uno che canta sguaiatamente ..., l’altro che vaticina ...»): per quanto non impossibile, e inoltre con il pregio di mantenere la massima vicinanza possibile al testo procliano (cfr. le due note seguenti), trovo questa ipotesi non del tutto persuasiva sul piano grammaticale e sintattico, per il passaggio, compiuto in assenza di articoli o pronomi, dai due participi al nomi-nativo singolare (appunto hjpuvwn e creivwn) al participio al nominativo plurale che li segue e dovrebbe riassumerli in sé (oujk eijdovteı, «L’uno che canta sguaiatamente ..., l’altro che vaticina ..., senza capire, né l’uno né l’altro, che ...»), perché ci si aspetterebbe in tal caso una sequenza del genere: aujtoi'n ... oJ me;n ..., oJ de; ..., oiJ de; ... Il gavr iniziale (tivı ga;r aujtw 'n ...) fa parte a mio avviso dell’introduzione della citazione eraclitea e non di quest’ultima.

3 Proclo ha qui ajidou'ı hjpiovwn te, un costrutto indifendibile (cfr. supra, n. 1), mentre Clemente porta ajoidoi'sin e{pesqai, da cui Bernays ha tratto il dativo plurale ajoidoi'sin (dal nominativo ajoidovı, «cantore» o «aedo») e Diels congetturato peivqontai (con consenso pressoché unanime, ma lo stesso Bernays aveva mantenuto e{pesqai di Clemente, solo volgendolo alla terza persona plurale: e{pontai), donde la lezione più comune ajoidoi'si peivqontai (cfr. Marcovich, pp. 361-62, e, per la traduzione che ne deriva, supra, n. 1). Mouraviev I, pp. 260-61, e III, p. 124, n. 4, trae da Clemente il termine ajoidoi'sin, che ipotizza però di ricondurre al femminile ajoidhv («canto») e di conservare, come in Proclo, all’accusativo plurale: ajoida;ı (in luogo di ajidou'ı), da intendere a questo punto come complemento oggetto di un participio attivo: egli congettura perciò hjpuvwn te (dal verbo hjpuvw, «cantare ad alta voce»), che pare in effetti molto vicino a hjpiovwn te di Proclo (cfr. ancora, per la traduzione che ne deriva, supra, n. 1). La lezione da me scelta, ajoida;ı hjpuvonteı, si basa essenzialmente sugli argomenti di Mouraviev, ma se ne discosta per l’ipotesi del participio al nominativo plurale dello stesso verbo, hjpuvonteı (in luogo di hjpiovwn te di Proclo e di hjpuvwn te di Mouraviev), che dipende dal fatto che, per le ragioni spiegate nella nota precedente, ho difficoltà ad accettare una costruzione che suppone due participi al nominativo singolare (hjpuvwn e creivwn), seguiti da, e correlati a, un participio al nominativo plurale (oujk eijdovteı).

4 Proclo ha qui didaskavlw/ creivwn te, mentre Clemente porta † novmoisi † crevesqai, evidentemente corrotto. Diels, sulla base di entrambe le cita-zioni, ha congetturato didaskavlw/ creivwntai (con consenso pressoché

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unanime, cfr. Marcovich, p. 362, e, per la traduzione che ne deriva, supra, n. 1). Mouraviev I, pp. 260-61, e III, p. 124, n. 5, tenta invece di difendere come tale il testo di Proclo, attribuendo al participio creivwn, conside-rato come secondo termine dell’enumerazione hjpuvwn te ... creivwn te, il senso di «vaticinare» o «profetizzare» e intendendo didaskavlw/ come un dativo di modo (cfr. ancora, per la traduzione che ne deriva, supra, n. 1). Mi sembra però che vedere qui didaskavlw/ come un dativo di modo sia piuttosto innaturale, dal momento che parrebbe più immediato connetterlo al seguente dativo oJmivlw/ come sua apposizione; se è così, la congettura di Diels, creivwntai, risulta ai miei occhi la più plausibile, per tre motivi: essa fornisce all’insieme della citazione un verbo prin-cipale di modo finito (mentre Mouraviev III, p. 124, n. 3, è costretto ad attribuire ai due participi hjpuvwn e creivwn un valore predicativo con e[sti sottinteso); inoltre, come spiegato nelle due note precedenti, evita la difficoltà, suscitata a mio avviso dalla resa di Mouraviev, di una costruzione che suppone due participi al nominativo singolare (hjpuvwn e creivwn), seguiti da, e correlati a, un participio al nominativo plurale (oujk eijdovteı), perché introduce una sequenza coerente che si apre con un participio al nominativo plurale (hjpuvonteı), seguito da una terza persona plurale del presente (creivwntai), e si chiude con un secondo participio al nominativo plurale (oujk eijdovteı), consentendo così di sottintendere uno stesso soggetto della citazione, verosimilmente coincidente con gli aujtoiv, la cui «intelligenza» e il cui «comprendonio» sono messi in questione nell’interrogativa iniziale; infine, dal punto di vista del senso complessivo della citazione, mentre è chiaro il significato polemico dell’affermazione didaskavlw/ creivwntai oJmivlw/, a condannare l’atteggia-mento di chi «prende la folla a maestro», in quanto non capisce che «i più sono cattivi, i buoni pochi», meno perspicua risulta la resa derivante dal testo adottato da Mouraviev, didaskavlw/ creivwn te oJmivlw/, perché non è immediatamente chiaro quale sia il rapporto fra la condanna di chi «vaticina, come un maestro, per la folla» e il fatto che costui non capisce che «i più sono cattivi, i buoni pochi» (cfr. anche infra, n. 7). Nel costrutto da me proposto, il kaiv che precede l’espressione didaskavlw/ creivwntai ha ovviamente un valore rafforzativo («anche», «pure», «per di più») piuttosto che di semplice congiunzione.

5 L’articolo oiJ, di Proclo, assente nella citazione di Clemente, è stato per questo espunto da Bernays; ma ha probabilmente ragione Mar-covich, p. 362, a suggerire l’intervento inverso e a congetturare perciò l’integrazione di oiJ nella citazione di Clemente.

6 Le parole oiJ polloi; kakoiv, ojlivgoi de; ajgaqoiv sono evidentemente una citazione, solo leggermente variata, del detto che Diogene Laerzio, Vitae philosophorum I 88, attribuisce a Biante nella forma oiJ plei 'stoi a[nqrwpoi kakoiv (cfr. le nn. 1 e 4 al precedente fr. 46 [39 DK; 100 Marc.], e la nota seguente).

7 I termini novoı e frhvn, che indicano la capacità conoscitiva e di comprensione critica di coloro ai quali Eraclito rivolge la sua invettiva, si trovano posti in una sequenza disgiuntiva («quale intelligenza o comprendonio è il loro?»), mentre non mi pare plausibile intendere, secondo una scelta recentemente piuttosto diffusa (cfr. per esempio

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Bollack-Wismann, pp. 295-96, Conche, 135, e Pradeau, pp. 307-08), la particella h] con valore comparativo (= nisi), introducendo così, in que-ste parole, un vero e proprio giudizio di valore in relazione al novoı di costoro, ridotto soltanto a frhvn («che novoı è il loro, se non frhvn?»), e comprendendo il termine frhvn nel suo significato, abituale nei poemi omerici, di «cuore» o «animo», nel senso della «personalità» di un individuo, o eventualmente nel significato fisiologico di «diaframma», sicché Eraclito giudicherebbe l’intelletto o l’intelligenza di coloro ai quali si rivolge in questo frammento alla stregua della loro (mediocre) «personalità» o perfino di un organo puramente meccanico come il diaframma: una scelta del genere è tuttavia infondata, perché non emerge nessun segno di asimmetria che consenta di stabilire una com-parazione fra i termini novoı e frhvn (cfr. Mouraviev III, p. 124, n. 2); ciò non toglie però che sia possibile cogliere fra di essi una sensibile diffe-renza di significato (seguendo Marcovich, p. 363; contra Diano-Serra, pp. 169-70), giacché frhvn pare indicare, in un quadro più generale, il «senno» o la capacità di comprensione di un individuo, il suo «buon senso» o, come ho reso in una forma più colorita, «comprendonio», mentre novoı sembra possedere il senso più specifico di un’attitudine critica o di giudizio, appunto di «intelligenza» (si veda pure, per questo impiego del termine novoı, la n. 5 al seguente fr. 48 [40 DK; 16 Marc.]), che discrimina le informazioni a sua disposizione, così producendo vera conoscenza, e che verosimilmente coincide con quella facoltà dell’ani-ma che, se non è «barbara», ha il compito di selezionare e giudicare i dati acquisiti tramite le sensazioni, come indicato supra, nel fr. 44 [107 DK; 13 Marc.], cfr. n. 3 (anche se non mi spingerei a ritenere che novoı rinvii propriamente all’«intelletto», inteso come un organo distinto dai sensi e perciò produttore di una conoscenza radicalmente altra da quella sensibile, cfr. per esempio, su questo punto, supra, n. 4 al fr. 6 [114 DK; 23 Marc.] e ancora n. 3 al citato fr. 44; e Kahn, p. 175). Fatta questa premessa, si pone di seguito il problema dell’identificazione degli aujtoiv, su cui Eraclito si esprime qui: a mio avviso (cfr. pure Conche, pp. 136-37, e, più prudentemente, Robinson, p. 149), non può che trattarsi della grande maggioranza degli uomini, genericamente considerati (non dunque tou;ı me;n pollou;ı kai; dokhsisovfouı, «i molti autoproclamati sapienti» della citazione di Clemente Alessandrino, cfr. supra, n. 1, né di conseguenza, almeno in prima battuta, i polumaqei'ı, irrisi a partire dal seguente fr. 48, cfr. n. 5, perché né gli uni né gli altri «prendono la folla a maestro», giacché, al contrario, della folla si pongono essi stessi come maestri; né infine i dirigenti politici di Efeso, come suggerisce Marcovich, p. 363, che paiono qui fuori contesto), eventualmente gli stessi a[lloi sovrastati per fama da Biante (una connessione con il pre-cedente fr. 46 [39 DK; 100 Marc.], con la contrapposizione fra la giusta fama di Biante e l’errore della maggioranza di tutti gli altri uomini, sembra esplicita, dal momento che la conclusione del presente fram-mento non soltanto cita un suo detto – in una forma leggermente variata, cfr. la nota precedente –, ma considera l’ignoranza di tale detto come la causa dell’errore dei più: oujk eijdovteı oiJ polloi; kakoiv, ojlivgoi de; ajgaqoiv), che sono da condannare nella misura in cui confidano nelle

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opinioni diffuse e acriticamente recepite: infatti, chi «canta» (perfino «sguaiatamente», cioè in modo sgraziato e inappropriato) «motivetti popolari» coincide evidentemente con colui il quale si limita a ripetere pedissequamente parole e discorsi della folla, che dunque assume come propria guida; del resto, come ricordano opportunamente Diano-Serra, p. 169, cantori e poeti, le cui composizioni erano recitate nelle piazze e di fronte alla folla, rappresentavano la forma più comune e più influen-te, in età arcaica, di educazione «popolare» e di trasmissione dei saperi della tradizione, e non è certo casuale che proprio alcuni di costoro si trovino fra quanti, a partire dal seguente fr. 48, Eraclito condanna con veemenza come polumaqei'ı – se ne deduce allora, a parziale precisazio-ne di quanto indicato poco sopra, che anche i polumaqei 'ı, pur non essendo i destinatari immediati dell’invettiva di Eraclito, di fatto rica-dono nella sua condanna, evidentemente perché adottano una procedu-ra di ricerca superficiale, acritica ed esclusivamente erudita, che li assi-mila di fatto alla maggioranza degli uomini di cui essi vorrebbero invece porsi come maestri. Ecco la ragione della svalutazione, da parte di Eraclito, delle capacità di conoscenza e di comprensione critica (novoı h] frhvn) dei più, che, affidandosi ai «motivetti popolari», si collocano allo stesso livello di cantori o poeti di piazza, di menestrelli e cantastorie, e seguono l’uso della folla di apprezzare la mera accumulazione acritica delle opinioni diffuse, senza provvedere né a una ricerca autonoma e personale (prescritta fin dai frr. 41 [101a DK; 6 Marc.], cfr. n. 3, e 42 [55 DK; 5 Marc.], cfr. n. 3) né alla selezione critica delle conoscenze acqui-site (così producendo quelle opinioni che si pongono come «malattia», formulazioni «a caso» o «giochi» infantili, come denunciato rispettiva-mente nei frr. 44a [46 DK; 114 Marc.], cfr. n. 2, 44b [47 DK; 113 Marc.], cfr. n. 3, e 44c [70 DK; 92d Marc.], cfr. n. 3); causa fondamentale di que-sto errato atteggiamento è l’ignoranza dell’assoluta inaffidabilità dei più e, simmetricamente, della rarità di quanti, invece, costituiscono un esem-pio da imitare nella ricerca, difficile e faticosa, che conduce a una polu-maqiva positiva, cioè perseguita criticamente, come indicato nel fr. 45 [35 DK; 7 Marc.], cfr. n. 2, di cui Biante, stando al precedente fr. 46, rappre-senta un modello. Si noti infine che le divergenze segnalate supra, nn. 1-4, relativamente alle scelte testuali compiute da editori e commenta-tori nella costruzione e nella traduzione di questo frammento, non incidono significativamente sull’interpretazione che ne ho suggerito, salvo nel caso della proposta di Mouraviev, secondo la cui costruzione e traduzione gli aujtoiv potrebbero invece effettivamente coincidere con i polumaqei'ı, fra i quali avremmo «l’uno che canta sguaiatamente moti-vetti popolari» (così limitandosi a ripetere pedissequamente opinioni diffuse), «l’altro che vaticina, come un maestro, per la folla» (così ponen-dosi a maestro per la folla, e non viceversa), «senza capire che “i più sono cattivi, i buoni pochi”» (così rivelandosi, l’uno e l’altro, ignoranti del fatto che la massa non è una fonte affidabile dal punto di vista conosci-tivo). Come si potrà arguire da quanto precede, una simile resa non mi pare pertinente, innanzitutto perché non vedo che parallelismo possa essere stabilito fra chi assoggetta il proprio giudizio alle mode dominan-ti e chi invece si pone al di sopra della massa, come un profeta, che si

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tratti oppure no di polumaqei'ı; come neanche e soprattutto capisco che nesso causale possa sussistere fra questi due tipi e la loro ignoranza dell’inaffidabilità dei più, giacché, mentre è logico che chi «canta sgua-iatamente motivetti popolari» sia indotto in questo errore appunto in quanto non sa che le opinioni dei più sono inconsistenti, pare del tutto incoerente che chi invece si presenta come un maestro per la folla lo faccia in quanto ignora che la folla è una fonte inaffidabile dal punto di vista conoscitivo (a meno che non si debba intendere, del tutto implau-sibilmente, che costui erra perché compie un’azione inutile, cioè preci-samente quella di dedicarsi a un compito impossibile, perché la folla non può essere ammaestrata neanche dal migliore dei maestri).

Fr. 48 [40 DK; 16 Marc.]1

polumaqivh2 novon3 ouj didavskei: ÔHsivodon ga;r a]n ejdivdaxe kai; Puqagovrhn au\tivı te Xenofavneav te4 kai; JEkatai'on.

Il molto sapere non insegna l’intelligenza, perché l’avrebbe allora insegnata a Esiodo e Pitagora, come anche a Senofane ed Ecateo.5

1 Questo frammento è riportato da Diogene Laerzio, Vitae philo-sophorum IX 1, immediatamente prima dei frr. 9 [41 DK; 85 Marc.] e 49a [42 DK; 30 Marc.], introducendo la sua notizia biografica relativa a Eraclito; si veda perciò, per il contesto della citazione, la n. 1 al fr. 9. Per le numerose varianti o reminiscenze di queste parole di Eraclito, cfr. Marcovich, pp. 42-44, e Mouraviev I, pp. 104 e 361.

2 La grafia del termine polumaqivh è piuttosto varia nella tradizione manoscritta (polumaqh', polumaqeivh), ma ciò non incide, né dal punto di vista sintattico né dal punto di vista del significato, sulla comprensione del frammento.

3 In alcune citazioni parziali di questo frammento (cfr. particolarmen-te Clemente Alessandrino, Stromateis I 93.1 (= II 59 Stählin]) compare qui l’espressione novon e[cein, che pare tuttavia non indispensabile e che anzi interrompe il ritmo della proposizione (si vedano soprattutto Marcovich, p. 44, e Mouraviev III, p. 49): essa è tuttavia ammessa in DK.

4 Per quanto riguarda i due te, la tradizione è divisa: essi si trovano infatti nei manoscritti BP di Diogene Laerzio, mentre il manoscritto F porta dev, in luogo del primo te, e omette il secondo te. Sembra tuttavia opportuno mantenerli entrambi, per una corretta scansione delle due coppie di polumaqei'ı enumerate da Eraclito (cfr. la nota seguente).

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186 FR. 48 [40 DK; 16 MARC.]

5 Il significato del presente frammento pare strettamente correlato a quello del precedente fr. 47 [104 DK; 101 Marc.], cfr. particolarmente n. 7, fin dall’impiego, evidentemente parallelo, del termine novoı, utilizzato a indicare un’attitudine critica o di giudizio, appunto l’«intelligenza», che seleziona le informazioni a sua disposizione e perciò rimanda alla facoltà dell’anima che, se non è «barbara», ha il compito di giudicare i dati acquisiti tramite le sensazioni, come indicato supra, nel fr. 44 [107 DK; 13 Marc.], cfr. n. 3 (cfr. pure Marcovich, p. 45, e Diano-Serra, p. 172). In contrasto con la polumaqiva positiva, cioè perseguita criticamente, evocata nel fr. 45 [35 DK; 7 Marc.], cfr. n. 2, di cui Biante, stando al fr. 46 [39 DK; 100 Marc.], cfr. n. 4, rappresenta un modello – e senza nessuna contrad-dizione con tale concezione – vengono dapprima criticati, nel precedente fr. 47, tutti coloro i quali (genericamente intesi), appunto in quanto privi di «intelligenza», si affidano alla folla e alle opinioni della maggioranza; mentre questo frammento fornisce la simmetrica precisazione che non è dal «molto sapere» che derivano «intelligenza» e giudizio critico, indubbiamente perché il molto sapere è inteso adesso, negativamente, come un sapere puramente quantitativo, una forma di mera erudizione che si basa sull’accumulazione di molte nozioni, cioè proprio quelle che provengono dalla tradizione «diffusa» della massa ignorante: a tale sfera semantica rinvia certamente il termine polumaqiva, la cui condanna è del resto ampiamente testimoniata nella letteratura greca contemporanea e di poco posteriore (si vedano soltanto Eschilo, fr. 390 Nauck; Timone, fr. 20 Diels; Anassarco, fr. 1 DK; Democrito, frr. 64-65 DK; e Platone, Leggi VII 811a e passim). A dimostrazione dell’inutilità della polumaqiva ai fini del conseguimento della conoscenza critica (questo il senso della connes-sione causale, fra la prima e la seconda parte del frammento, espressa da gavr, da me reso, in modo più esplicito, con «perché»), vengono addotti, con un ricercato gusto del paradosso, i casi di alcuni personaggi, la cui reputazione di sapienti era certo ampiamente accreditata presso i greci, qualificati invece come semplici polumaqei'ı privi di «intelligenza», sicché l’evidenza (agli occhi di Eraclito) della soltanto millantata sapienza che appartiene loro diviene una prova del fatto che il sapere non consiste in una multiforme e nozionistica erudizione, sprovvista di per sé di qua-lunque valore di verità, ma appunto in una fondazione critica, vagliata dall’«intelligenza», delle conoscenze acquisite (così pure Marcovich, pp. 44-45, Kahn, pp. 107-08, Robinson, pp. 106-07, e Pradeau, pp. 273-74; mentre Bollack-Wismann, pp. 152-53, e Conche, pp. 92-94, suggerisco-no che il difetto dei quattro polumaqei'ı citati consisterebbe piuttosto nell’ignoranza specifica della dottrina eraclitea dell’unità dei termini opposti, cioè non tanto nell’accumulazione di saperi, ma nell’incapacità di coglierne la connessione essenziale): saranno i frammenti seguenti a motivare la condanna di Esiodo, Pitagora, Senofane ed Ecateo e di altri polumaqei'ı loro accostati. La scansione per coppie – Esiodo e Pitagora da una parte, Senofane ed Ecateo dall’altra –, rafforzata dall’iterazione te ... te (cfr. la nota precedente), potrebbe dipendere dal fatto che i primi due erano già morti nel momento in cui Eraclito scrive (così Marcovich, p. 45) e gli ultimi due, invece, ancora viventi, anche se Diano-Serra, p. 172, fanno giustamente rilevare come la distanza cronologica fra Esiodo

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FR. 49 [56 DK; 21 MARC.] 187

e Pitagora sia molto maggiore di quella fra lo stesso Pitagora, Senofane ed Ecateo, il che indurrebbe piuttosto a credere che l’accostamento di Pitagora a Esiodo non dipenda da ragioni cronologiche, ma dall’essere entrambi considerati da Eraclito come rappresentanti dei falsi insegna-menti mitologici intorno agli dei, mentre Senofane ed Ecateo sarebbero invece assunti come simbolo degli altrettanto falsi insegnamenti critici nei confronti della mitologia tradizionale (si noti incidentalmente che la stessa indicazione del nome di Ecateo, che difficilmente avrebbe potuto godere di una fama paragonabile a quella degli altri tre polumaqei'ı prima del 490, fornirebbe una pur vaga datazione dell’attività di Eraclito, cfr. in proposito l’Introduzione, § 3).

Fr. 49 [56 DK; 21 Marc.]1

ejxhpavthntai oiJ a[nqrwpoi pro;ı th;n gnw'sin tw'n fanerw'n paraplhsivwı JOmhvrw/, o}ı ejgevneto tw'n ÔEllhvnwn sofwvteroı pavntwn. ejkei'novn te ga;r pai'deı fqei'raı katakteivnonteı2 ejxhpavthsan eijpovnteı: o{sa ei[domen kai; ejlavbomen,3 tau'ta ajpo-leivpomen,4 o{sa de; ou[te ei[domen ou[t j ejlavbomen, tau'ta fevromen.

Gli uomini si ingannano nella conoscenza delle cose evidenti, come Omero, che pure era più sapiente di tutti i greci; proprio lui, infatti, ingannarono dei ragazzini che, mentre uccidevano delle pulci, gli dissero: tutto ciò che abbiamo visto e preso, lo gettiamo via, e tutto ciò che non abbiamo né visto né preso, lo portiamo con noi.5

1 Questo frammento è riportato da Ippolito, Refutatio contra omnes haereses IX 9.5 (= 242.16 Wendland), a conclusione della sequenza dei frr. 5 [50 DK; 26 Marc.], 14 [51 DK; 27 Marc.], 1 [1 DK; 1 Marc.] (citazione parziale), 97 [52 DK; 93 Marc.], 12 [53 DK; 29 Marc.], 15 [54 DK; 9 Marc.] e 42 [55 DK; 5 Marc.]; si veda, per il relativo contesto argomentativo, supra, n. 1 al fr. 5 [50 DK; 26 Marc.]. Come ampiamente argomentato da Kirk, p. 158, Marcovich, p. 55, e Mouraviev III, p. 65, il frammento appare pienamente garantito nella sua autenticità tanto sul piano linguistico e terminologico, quanto sul piano della sua struttura ritmica. Si tratta, vale la pena notarlo, di uno dei brani eraclitei giudicati autentici più lunghi che ci siano pervenuti.

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188 FR. 49 [56 DK; 21 MARC.]

2 katakteivnonteı è lezione di Ippolito, sufficientemente attestato nella lingua ionica per essere mantenuto nonostante la congettura katakwivsanteı proposta da Deichgräber.

3 kai; ejlavbomen è correzione proposta da Bernays, e accolta dalla grande maggioranza degli editori posteriori, della lezione kai; katelavbo-men di Ippolito, difficile per ragioni di struttura ritmica (cfr. Mouraviev III, p. 65, n. 1).

4 ajpoleivpomen, al presente, è lezione di Ippolito, che non è necessario correggere, con Cruice, nell’aoristo ajpelivpomen.

5 Il significato del presente frammento è di per sé abbastanza chiaro: come gli uomini, nella loro generalità, si ingannano (perfino) in ciò che vi è di più manifesto ed evidente (fanerovn), cioè, presumibilmente, in relazione alle cose che sono e che si trovano alla portata di tutti coloro i quali si servano rettamente dei propri strumenti conoscitivi (si vedano per esempio supra, i frr. 42 [55 DK; 5 Marc.], cfr. n. 3, e 43 [7 DK; 78 Marc.], cfr. n. 4) e che non abbiano «anime barbare», incapaci di giudi-care e discriminare le informazioni provenienti dalle sensazioni (si veda ancora supra, il fr. 44 [107 DK; 13 Marc.], cfr. n. 3), così anche Omero, pure considerato come il maggiore sofovı della cultura greca, venne in realtà ingannato da semplici ragazzini con un indovinello, banalmente svelato dalla precisazione che essi, nel pronunciarlo, stavano ucciden-do delle pulci (in modo che risulta del tutto conseguente che le pulci viste e prese siano uccise e gettate via, mentre le pulci non viste e non prese non possono essere uccise e rimangono perciò in chi le ospita). A questo titolo, Omero è presentato come il primo dei polumaqei 'ı di cui il precedente fr. 48 [40 DK; 16 Marc.], cfr. n. 5, esprime in generale una condanna, veementemente ribadita, rispetto a Omero in particolare, nei seguenti frr. 49a [42 DK; 30 Marc.], cfr. n. 3, e 49b [105 DK ; 63a Marc.], cfr. n. 2, in quanto si configura come un campione di quel sapere molteplice ed erudito, ma privo dell’adeguata fondazione critica, che lo abbassa al livello di coloro i quali si conformano alle opinioni dei più e i più assumono come guida (come denunciato già nel fr. 47 [104 DK; 101 Marc.], cfr. n. 7), così rivelandosi in possesso di un sapere inefficace e inautentico. Con Marcovich, p. 56, non credo si debba attribuire un eccessivo valore all’indovinello dei ragazzini (per esempio ipotizzan-do che il paradosso giunga fino all’estremo di attribuire a Eraclito un apprezzamento della loro capacità di comprensione, in quanto «fanciulli», superiore allo stesso Omero, come invece vorrebbe Robinson, p. 120; ma si vedano, per la considerazione generalmente negativa dei «fanciulli» o dei «ragazzini» che emerge nei materiali eraclitei superstiti, i frr. 44c [70 DK; 92d Marc.], cfr. n. 3, 55 [79 DK; 92 Marc.], cfr. n. 2, 63 [117 DK; 69 Marc.], cfr. n. 2, e 87 [121 DK; 105 Marc.], cfr. n. 9, e 97 [52 DK; 93 Marc.], cfr. n. 3), né mi pare vi si possa individuare un riferimento alla dottrina eraclitea del lovgoı (che rappresenterebbe quanto vi è, per gli uomini che sappiano porsi all’ascolto di esso, di più fanerovn, così Marcovich, p. 56) o dell’unità degli opposti (che sarebbe implicitamente richiamata dalla struttura antitetica dell’indovinello: «tutto ciò che [1] abbiamo visto e preso, [2] lo gettiamo via, e tutto ciò che [2] non abbiamo né visto né preso, [1] lo portiamo con noi», così Diano-Serra, p. 173, e Conche, pp.

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FR. 49a [42 DK; 30 MARC.] 189

114-15). Notevole è invece la ripresa, da parte di Eraclito, dell’aneddoto riferito a Omero già nelle numerose Vite del poeta e riportato da non poche fonti posteriori (cfr. in proposito l’ampia disamina di G.S. Kirk, The Michigan Alcidamas-Papyrus: Heraclitus fr. 56 D. The Riddle of the Lice, in «Classical Quarterly» 44 (1950), pp. 149-67, e le indicazioni di Kahn, pp. 111-12), che solleva il problema di capire perché Eraclito lo abbia giudicato così significativo da citarlo espressamente. Al di là dell’interpretazione più ovvia, sopra suggerita, è verosimile che si possano sospettare ragioni più profonde: nelle altre versioni dell’aned-doto, infatti, viene abitualmente sottolineata la cecità di Omero che, incapace di risolvere l’indovinello propostogli dai ragazzini, sarebbe morto per l’angustia provocata dalla sua mancanza di comprensione, sicché Eraclito potrebbe aver voluto indicare come appunto la sua falsa sofiva rappresenti un esempio dell’incomprensione degli uomini di fronte alle conoscenze più immediate; è inoltre possibile che vi sia un gioco di parole fra il sostantivo fqeivr («pulce») e il verbo fqeivrw («distruggere»), sicché ciò che i ragazzini fanno sarebbe, letteralmente, «distruggere i distruttori», che è appunto quanto sfugge invece a Omero, che, di conseguenza, sarebbe morto, e perciò a sua volta «distrutto», per la sua incomprensione (così, per esempio, Bollack-Wismann, pp. 194-95).

Fr. 49a [42 DK; 30 Marc.]1

tovn ge2 {Omhron a[xion ejk tw'n ajgwvnwn ejkbavllesqai kai; rJapiv-zesqai kai; jArcivlocon oJmoivwı.

Proprio Omero merita di essere scacciato a frustate dai concorsi, e Archiloco allo stesso modo.3

1 Questo frammento è riportato da Diogene Laerzio, Vitae philo-sophorum IX 1, subito dopo i frr. 48 [40 DK; 16 Marc.] e 9 [41 DK; 85 Marc.] e prima del fr. 71 [43 DK; 102 Marc.], in apertura della sua notizia biografica relativa a Eraclito; si veda perciò, per il contesto della citazione, la n. 1 al fr. 9. Il dibattito intorno all’autenticità del frammento è ampio, innanzitutto perché, a differenza dei frr. 48 e 9, che Diogene evoca immediatamente prima, esso è introdotto in oratio obliqua, apparentemente nella forma di una citazione parafrasata (che tuttavia Mouraviev I, p. 109, e III, p. 52, tenta, a mio avviso senza fondate giustificazioni se non quella di guadagnare così una forma più verosimilmente autentica, di restituire in oratio recta, seguendo Snell: o{ ge {Omhroı a[xioı ... kai; ∆Arcivlocoı ..., dunque volgendo al nominativo

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190 FR. 49a [42 DK; 30 MARC.]

i due soggetti della proposizione infinitiva di Diogene e sottintendendo e[sti, terza persona singolare del verbo essere); inoltre, si è dubitato di kai; e oJmoivwı (DK) o del solo oJmoivwı (Bywater), ma senza motivazioni cogenti. Credo in ultima analisi, con Marcovich, p. 105, che, tenendo conto del contesto laerziano, sia opportuno considerare questo frammento come una (più o meno ampia) parafrasi contenente però terminologia e concetti eraclitei molto probabilmente autentici.

2 ge, da intendere come un rafforzativo e da me conservato, è lezione dei manoscritti BP1QF di Diogene Laerzio, mentre il solo manoscritto P4 porta il connettivo te, tuttavia preferito dalla maggioranza degli editori moderni (cfr. Mouraviev III, p. 52, n. 2). Non mi pare opportuno, come fanno per esempio Bywater, Marcovich, p. 105, Diano-Serra, pp. 38-39, Conche, p. 116, e Pradeau, p. 275, attribuire a Diogene Laerzio, piuttosto che alla sua parafrasi eraclitea, l’articolo to;n (ge o te) che apre il brano (cfr. ancora Mouraviev III, p. 52, n. 2).

3 Pur forse nella forma di una (parziale) parafrasi (cfr. supra, n. 1), questo frammento esplicita con ogni probabilità le ragioni della condanna eraclitea di Omero, già espressa nel precedente fr. 49 [56 DK; 21 Marc.], cfr. n. 5, e da accomunare a quella degli altri polumaqei 'ı che si trova supra, nel fr. 48 [40 DK; 16 Marc.], cfr. n. 5: significativamente, è «dai concorsi» (ejk tw 'n ajgwvnwn), vale a dire dalle gare pubbliche che, in occasione di feste cittadine, prevedevano la presentazione di poemi, che Omero va «scacciato a frustate» (così ho reso la sequenza dei due infiniti presenti ejkbavllesqai e rJapivzesqai, che indicavano fra l’altro la cacciata degli attori dalla scena, talvolta accompagnata da frustate, da parte del pubblico); se ne deduce che, al di là della condanna «personale» di Omero, siano tutti quei can-tori e poeti che ne recitano i versi a dover subire la stessa sorte, in modo che ogni insegnamento omerico risulti bandito dalle pubbliche celebrazioni e dai saperi delle città greche. È inoltre verosimile che l’accostamento di Archiloco a Omero, ma a un gradino inferiore segnalato dalla clausola aggiuntiva che chiude la citazione, dipenda dal suo stile e dalla sua poetica, ispirati a una sostanziale imitazione di Omero (cfr. per esempio Platone, Ione 531a; e Marcovich, p. 105). La ragione della svalutazione di Omero (e di Archiloco accanto a lui in quanto poeta omerico), da tw 'n JEllhvnwn sofwvteroı pavntwn a semplice cantore di false opinioni e perciò a cattivo maestro dei più (cfr. supra, n. 5 al già citato fr. 49), non si discosta perciò certamente da quanto rilevato a proposito degli altri polumaqei 'ı, che si limitano ad accumulare acriticamente e nozionisticamente una vuota erudizione, che nulla insegna sulla realtà delle cose che sono, cui occorrerebbe invece accostarsi attraverso una ricerca a un tempo autonoma e critica (cfr. soltanto supra, n. 5 al fr. 48; e Marcovich, p. 106, Kahn, p. 111, Diano-Serra, p. 173, e Pradeau, p. 275). Mi pare invece impossi-bile andare oltre questa interpretazione, con Marcovich, p. 106 (ma cfr. pure Conche, pp. 118-19), tentando di individuare il particolare insegnamento omerico contro cui Eraclito polemizzerebbe, facendo per esempio riferimento alla denuncia della contesa e della guerra (cfr. Iliade XVIII 107) come fonte di ogni male per uomini e dei

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FR. 49b [105 DK; 63a MARC.] 191

(«contesa» e «guerra», e[riı e povlemoı, che Eraclito invece valorizza, ma in tutt’altro contesto, come principio di tutte le cose: cfr. supra, i frr. 12 [53 DK; 29 Marc.] e 13 [80 DK; 28 Marc.]).

Fr. 49b [105 DK; 63a Marc.]1

ajstrolovgon to;n {Omhron.

Questo Omero, che si occupa di astronomia ...2

1 Queste scarne parole sono riportate negli Scholia A-T in Iliadem XVIII 251 (= II 159 Dindorf; VI 255 Maass) e riecheggiate da Eustazio, In Iliadem XVIII 251. Il riferimento a Iliade XVIII 251, e alle compe-tenze astronomiche (o astrologiche, cfr. la nota seguente) di Omero, ha a che fare con l’affermazione del poeta secondo la quale Ettore e Polidamante, pur essendo nati nella stessa notte, differivano molto fra loro, e ciò, precisano gli scoliasti, per la diversa ora in cui erano nati; ma viene aggiunta inoltre una seconda considerazione, in relazione a Iliade VI 488-89: le competenze astronomiche (o astrologiche, cfr. la nota seguente) di Omero sarebbero attestate pure dalle parole che egli fa rivolgere da Ettore ad Andromaca: «Nessuno degli uomini sfugge alla Moira (scil., al destino), che sia vile o valoroso, dal momento che è nato». Per entrambe queste ragioni, Eraclito avrebbe chiamato ajstrolovgon ... to;n {Omhron. Lo stato disperatamente vago e incerto di questi riferimenti non consente naturalmente di misurare la loro eventuale prossimità a materiali eraclitei autentici: nel migliore dei casi, essi vengono giudicati come reminiscenze di cui è impossibile valutare la pertinenza, il con-testo e la verosimiglianza, se non nell’attribuzione a Omero, da parte di Eraclito, della qualifica di ajstrolovgoı (quale che sia il significato esatto di questo aggettivo, cfr. la nota seguente: così DK, Diano-Serra, pp. 173-74, Marcovich, pp. 239-40, Kahn, pp. 112-13, e Robinson, p. 150; la citazione è invece del tutto esclusa, tanto come frammento quanto come semplice parafrasi o reminiscenza, da una parte degli editori e dei commentatori moderni, cfr. per esempio Kirk, p. 158, Bollack-Wismann, p. 298, Conche, pp. 111-12, e Pradeau, pp. 309-10). Anche Mouraviev I, pp. 263-64, e III, p. 125, che pure riporta entrambi i contesti omerici della citazione e ritiene possibile che Eraclito abbia inteso la qualifica di Omero come ajstrolovgoı, presumibilmente in tono ironico e critico, proprio in relazione a uno di questi due passi, esclude la possibilità di una citazione letterale. Sulla base di quanto precede, mi limito a mia volta a considerare come possibilmente autentico, pur se parafrasato, il riferimento a Omero come ajstrolovgoı.

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192 FR. 49c [38 DK; 63b MARC.]

2 La natura scarna e vaga di queste parole ne impedisce a mio avviso ogni interpretazione eccessivamente articolata e specifica. L’unica conside-razione fondata che può essere fatta valere riguarda il termine ajstrolovgoı, da intendere qui nel senso di «astronomo», plausibile nella cultura, e nella lingua, greca arcaica, che manifesta un notevole interesse per l’osservazione e gli studi «astronomici» (relativi alle posizioni e ai movimenti degli astri), piuttosto che di «astrologo», un significato che diviene più frequente a partire da quando, specie in età ellenistica e in ambiente stoico, assumono progressivamente maggiore importanza gli studi propriamente «astrologici» (relativi al rapporto fra le posizioni e i movimenti degli astri e le vicende umane che ne sono influenzate): è probabile perciò che Eraclito si espri-messe qui sulle competenze «astronomiche» di cui Omero darebbe prova nei suoi versi, mentre gli scoliasti, forse proprio attraverso una mediazione stoica, sarebbero eredi e testimoni dell’interpretazione concorrente (così Marcovich, pp. 239-40, Kahn, p. 113, Diano-Serra, pp. 173-74, e Robinson, p. 150; contra Mouraviev III, p. 125, nn. 1 e 4, che ritiene possibile retrodatare la nascita di una scienza «astrologica», quella degli oroscopi, fino al VI secolo, così attribuendo al termine ajstrolovgoı, già in Eraclito, entrambe le sfumature di significato). Altrettanto impossibile sarebbe, sulla base di queste poche parole, valutare, in termini positivi o negativi, il giudizio di Eraclito su Omero; tuttavia, se si ci si attiene alla sferzante condanna che egli pronuncia del poeta nei precedenti frr. 49 [56 DK; 21 Marc.], cfr. n. 5, e 49a [42 DK; 30 Marc.], cfr. n. 3, pare necessario concluderne che tale giudizio dovesse essere negativo e che Eraclito ironizzasse sulla radicale incapacità e incompetenza di Omero nell’occuparsi di astronomia (o, eventualmente, di astrologia), probabilmente considerando quanto in proposito si trova nei suoi versi alla stregua di inconsistenti opinioni e di credenze popolari, piuttosto che di teorie «scientificamente» fondate (implausibile perciò, ai miei occhi, l’ipotesi di Marcovich, p. 240, che non esclude che Eraclito potesse manifestare un qualche apprezzamento di alcune delle tesi astronomiche presenti nei poemi omerici, per esempio in Odissea V 272-75, in riferimento alla posizione dell’Orsa cfr. supra, il fr. 37 [120 DK; 62 Marc.], nn. 3-4).

Fr. 49c [38 DK; 63b Marc.]1

(scil., Qalh'ı) [prw'toı ?]2 ajstrologh'sai.

(scil., Talete) [per primo?] si è occupato di astronomia.3

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FR. 49c [38 DK; 63b MARC.] 193

1 Queste parole sono riportate da Diogene Laerzio, Vitae philoso-phorum I 23, nel contesto della biografia di Talete e presentando le sue diverse competenze: «Secondo alcuni, sembra essere stato (scil., Talete) il primo a occuparsi di astronomia e ad aver predetto le eclissi solari e i solstizi, come dice Eudemo nella sua Storia delle conoscenze astronomiche (= fr. 144 Wehrli); ecco perché Senofane lo ammira, come anche Erodoto. Pure Eraclito gli rende testimonianza (marturei '), come anche Democrito». Ancora una volta, come nel caso del precedente fr. 49b [105 DK; 63a Marc.], cfr. n. 1, lo stato estremamente vago di que-sta testimonianza rende pressoché impossibile l’accertamento di una citazione letterale di materiali eraclitei originali (che si servirebbe, per introdurla, di un verbo alquanto generico come marturei', certo inusuale, se non francamente inappropriato a questo scopo), sicché coloro i quali pure ammettono la veridicità della notizia riguardante il riferimento di Eraclito a Talete si limitano a riconoscerle lo statuto di una semplice reminiscenza (forse in un contesto analogo a quello del giudizio eracliteo sulle competenze «astronomiche» di Omero, cfr. ancora il precedente fr. 49b: così Marcovich, p. 239, Kahn, pp. 112-13, e Robinson, p. 106; poco oltre si spingono Conche, p. 109, e Mouraviev III, p. 48, n. 1, che giudicano certamente autentica quantomeno l’indicazione eraclitea di Talete come «astronomo»; mentre Bollack-Wismann, p. 148, Diano-Serra, p. 174, e Pradeau, pp. 309-10, considerano la citazione troppo esigua e confusa perché sia possibile anche solo verificarne l’attendibilità; in DK, infine, queste parole sono curiosamente stampate, in greco, con caratteri spaziati, il che dovrebbe segnalarne l’autenticità, mentre la traduzione tedesca è stampata in corsivo, come avviene normalmente per le parole giudicate non autentiche). Per parte mia, considero possibilmente autentico, pur se in un contesto ampiamente parafrasato, il riconoscimento da parte di Eraclito a Talete, fra le sue attività e competenze, di ajstrologh 'sai.

2 L’unico problema testuale che ci si può sensatamente porre riguardo a queste parole ha a che fare con l’indicazione di Diogene Laerzio che Talete sia stato «il primo (prw 'toı) a occuparsi di astronomia». L’at-tribuzione (da parte di Eraclito) a Talete dell’inizio di una riflessione «astronomica» parrebbe contraddire il fatto che, nel precedente fr. 49b [105 DK; 63a Marc.], cfr. n. 2, anche Omero, che certo precede cronolo-gicamente Talete, venga qualificato come «astronomo»: ciò ha indotto alcuni editori a considerare il termine prw 'toı come appartenente al contesto laerziano, ma non riconducibile a Eraclito (così, per esempio, Marcovich, p. 239, e Mouraviev I, p. 101, e III, p. 125, n. 2; contra, forse senza l’opportuna prudenza, Conche, pp. 109-10), il che è possibile, visto che, nel contesto laerziano, vengono effettivamente menzionati almeno quattro ammiratori di Talete come «astronomo» (Senofane ed Erodoto, quindi Eraclito e Democrito), sicché non è facile stabilire, oltre al contenuto specifico della loro ammirazione (verosimilmente, le competenze astronomiche di Talete), se e quanto del resto della citazio-ne (per esempio, che sia stato il primo a occuparsi di astronomia o che abbia predetto eclissi solari e solstizi) vada attribuito a ciascuno di loro, a tutti o allo stesso citatore (e alla sua fonte, Eudemo di Rodi). D’altro canto, si potrebbe invece intendere come riconducibile a Eraclito anche

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194 FR. 49c [38 DK; 63b MARC.]

il riconoscimento che Talete «per primo si è occupato di astronomia», proprio in quanto i suoi predecessori, e innanzitutto Omero, hanno fatto mostra di possedere soltanto conoscenze vaghe e infondate (cfr. pure la nota seguente).

3 Nello stato in cui queste parole e il loro contesto si presentano (cfr. supra, n. 1), ci si deve attenere ad alcune scarne osservazioni di merito: Eraclito, insieme ad altre eminenti figure della cultura greca del V e del IV secolo (Senofane, Erodoto e Democrito), avrebbe riconosciuto, fra le attività e gli interessi di Talete, anche l’astronomia, cioè l’osservazione degli astri, delle loro posizioni e movimenti. Il solo Erodoto I 74.2, però, offre un’indicazione certa e diretta, indipendente da quella di Diogene Laerzio, di tale apprezzamento, perché ricorda la predizione dell’anno di un’eclisse solare da parte di Talete. Nulla più di questo si può desumere dal passo di Diogene Laerzio e, particolarmente, dal fatto che Eraclito (e Democrito) avrebbe così «reso testimonianza» (marturei') a Talete; poiché il nome di Talete non si trova altrove menzionato nei materiali eraclitei autentici, diviene in tal caso difficile, se non impossibile, proporre una collocazione di questo giudizio di Eraclito (se non sulla base, assai labile e comunque non ulteriormente precisabile, di un’associazione puramente congetturale dell’ajstrologh'sai di Talete all’ajstrolovgoı che qualifica Omero nel precedente fr. 49b [105 DK; 63a Marc.]) né tantome-no una valutazione del suo significato – positivo, come prudentemente suggeriscono Marcovich, pp. 239-40, Kahn, p. 113, e Mouraviev III, p. 48, n. 1, come si potrebbe dedurre dal fatto che il nome di Talete non si trova mai evocato fra quelli dei famigerati polumaqei 'ı, oppure nega-tivo, se il suo ajstrologh'sai andasse invece associato appunto a quello dell’ajstrolovgoı Omero, presumibilmente condannato nel precedente fr. 49b. Personalmente, propendo pur dubitativamente per l’ipotesi di una valutazione positiva delle ricerche astronomiche di Talete da parte di Eraclito, specie se si accetta come parte del riferimento di quest’ultimo a Talete anche il termine prw'toı che si trova nel contesto di Diogene, sicché avremmo che egli fu, secondo Eraclito, «il primo a occuparsi di astronomia» (cfr. la nota precedente), appunto nel senso che Talete per primo si sarebbe occupato di astronomia in modo serio, a differenza di Omero, che, cronologicamente primo rispetto a Talete, non acquisì però vero sapere, in ambito astronomico come in altri campi, ma soltanto la vuota e superficiale erudizione proveniente dalla sua polumaqiva. In tal caso, le parole di Eraclito si troverebbero qui collocate in una linea di continuità perfettamente coerente, a seguire la condanna di Omero «astronomo» (nel precedente fr. 49b) e come suo contraltare positivo, e Talete diventerebbe allora l’unico altro esempio, oltre a Biante di Priene (cfr. supra, il fr. 46 [39 DK; 100 Marc.], specie n. 4), di una ricerca del sapere seriamente condotta e criticamente fondata: così pure Conche, p. 110.

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Fr. 50 [57 DK; 43 Marc.]1

didavskaloı de; pleivstwn JHsivodoı: tou'ton ejpivstantai plei'sta eijdevnai, o{stiı hJmevrhn kai; eujfrovnhn2 oujk ejgivnwsken: e[sti ga;r e{n.

Maestro dei più3 è Esiodo: credono che sapesse moltissime cose, proprio lui che non conosceva il giorno e la notte, che sono infatti un’unica cosa.4

1 Questo frammento è riportato da Ippolito, Refutatio contra omnes haereses IX 10.2 (= 242.26 Wendland), dopo i frr. 15 [54 DK; 9 Marc.] e 42 [55 DK; 5 Marc.] e prima dei frr. 96 [58 DK; 46 Marc.], 18 [59 DK; 32 Marc.], 20 [60 DK; 33 Marc.], 31 [61 DK; 35 Marc.], 21 [62 DK; 47 Marc.] e 69 [63 DK; 73 Marc.], al fine di mostrare che Eraclito pone, al di là della contrapposizione delle cose che sono, un’unità ultima e sostanziale coincidente con il lovgoı che, secondo Ippolito, si identifica con l’unico Dio (tale concezione unitaria, che Ippolito attribuisce a Era-clito, viene successivamente articolata attraverso la sua citazione di una serie di brani eraclitei che forniscono diverse esemplificazioni della tesi dell’unità dei termini opposti, per la quale cfr. i materiali raccolti supra, nella Sezione 2): «Eraclito afferma così che né l’oscurità né la luce, né il male né il bene sono differenti, ma che sono un’unica e identica cosa. Per questo rimprovera a Esiodo di non conoscere il giorno e la notte, affermando che giorno e notte sono un’unica cosa ed esprimendosi in questo modo: ... (Ippolito cita qui il fr. 50)». Si veda, per una sintetica descrizione del contesto argomentativo di questa citazione, supra, n. 1 ai frr. 15 e 28 [67 DK; 77 Marc.].

2 eujfrovnhn è correzione, proposta da Miller (e accolta dalla quasi totalità degli editori), di eujfrosuvnhn di Ippolito, difeso invece, come già nel caso dei precedenti frr. 24 [26 DK; 48 Marc.], 28 [67 DK; 77 Marc.] e 35 [99 DK; 60 Marc.], cfr. n. 2, da Mouraviev I, pp. 143-44, e III, p. 66, n. 3, che lo intende tuttavia ugualmente, in collegamento con il sostantivo eujfrovnh e con l’aggettivo eu[frwn, con il significato di «notte», facendo riferimento al sintagma che si trova negli Inni orfici hJ eujfrosuvnh [nuvx], «la benefica [notte]». Questa scelta, di per sé non implausibile, non modifica comunque il senso complessivo del frammento.

3 pleivstwn potrebbe essere un genitivo plurale neutro, e non maschile come da me inteso, e avremmo in tal caso che «maestro in moltissime cose è Esiodo ...», ma, come nota Mouraviev III, p. 66, n. 1, ciò provo-cherebbe una certa ridondanza con il successivo plei'sta («maestro in moltissime cose è Esiodo: credono che sapesse moltissime cose ...»). Proprio questi plei'stoi, al maschile, considero, con Marcovich, p. 159, come soggetto logico della proposizione seguente («maestro dei più è Esiodo: [essi] credono che sapesse moltissime cose ...»).

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196 FR. 50 [57 DK; 43 MARC.]

4 La conclusione del frammento pone un lieve problema gramma-ticale, perché e[sti è una terza persona singolare, mentre il soggetto sottinteso della proposizione dovrebbe essere, ad sensum, il plurale hJmevrhn kai; eujfrovnhn; si può tuttavia supporre, con Mouraviev III, p. 66, n. 2, un tou'to sottinteso (o equivalente) che, in base a un costrutto logico e sintattico non innaturale nella lingua greca, contrae in sé la coppia «giorno-notte». Il riferimento polemico a Esiodo è giustificato dalla distinzione, di origine e natura, che il poeta stabilisce fra notte e giorno (Teogonia 123-24), da Eraclito considerati invece, nel fr. 28 [67 DK; 77 Marc.], cfr. in particolare n. 7, come termini solo da un certo punto di vista opposti e alternativi – nella dimensione limitata e contradditto-ria delle valutazioni umane – che contribuiscono a costituire – nella prospettiva dell’universalità e della verità del sapere – una superiore unità: il rapporto che la polemica contro Esiodo pare intrattenere con la tesi eraclitea dell’unità dei termini opposti, i cui materiali sono stati da me raccolti supra, nella Sezione 2, ha indotto alcuni commentatori a interpretare il presente frammento essenzialmente come una nuova esemplificazione, in termini appunto polemici, di questa dottrina (così soprattutto Kirk, p. 156, Marcovich, p. 159, Diano-Serra, p. 174, e Conche, pp. 102-03). Ora, che tale riferimento sia effettivamente plausibile non consente comunque, a mio avviso, di trascurare l’evidenza che obiettivo polemico di queste parole di Eraclito sono innanzitutto, prima ancora che il loro contenuto specifico, le reali competenze di Esiodo, al pari di Omero (tw'n ÔEllhvnwn sofwvteroı pavntwn, cfr. supra, il fr. 49 [56 DK; 21 Marc.]) considerato maestro dei greci (didavskaloı de; pleivstwn ... ejpivstantai plei 'sta eijdevnai), che Eraclito invece denuncia come uno dei famigerati polumaqei 'ı, con Pitagora, Senofane ed Ecateo, già dal fr. 48 [40 DK; 16 Marc.], da condannare per il «molto sapere» di cui si dichiarano possessori e maestri, che consiste però di semplici opinioni di facile penetrazione e diffusione fra i più e che non si basa su un adeguato giudizio criticamente fondato (si vedano in proposito supra i frr. 47 [104 DK; 101 Marc.], cfr. n. 7, e 48, cfr. n. 5): così pure Pradeau, p. 206 (più benevolmente Bollack-Wismann, pp. 197-98, non considerano quella di Eraclito come una critica nei confronti di Esiodo, ma piuttosto come una constatazione di fatto che attiene alle modalità educative e della trasmissione dei saperi, e delle loro fonti, di cui Eraclito rileva l’insufficienza senza tuttavia imputarla a tali fonti stesse); a metà strada fra un’interpretazione del frammento in termini polemici nei confronti della polumaqiva dei falsi sapienti della cultura greca arcaica e il rico-noscimento, nel suo contenuto, di un riferimento alla dottrina eraclitea dell’unità degli opposti, si colloca Kahn, pp. 108-10, che rileva fra l’altro opportunamente il «crescendo» dei tre verbi «cognitivi», a indicare, il primo (ejpivstantai), la semplice credenza dei più, il secondo (eijdevnai), il falso sapere che i più attribuiscono a Esiodo, e il terzo (ejgivnwsken), il vero sapere che Esiodo, a giudizio di Eraclito, non possiede. A Esiodo, come pure a Omero, nei precedenti frr. 49, 49a [42 DK; 30 Marc.] e 49b [105 DK; 63a Marc.], e a Pitagora, nei seguenti frr. 51 [129 DK; 17 Marc.] e 51a [81 DK; 18 Marc.], vengono inoltre riservati da Eraclito, in questo e nel seguente fr. 50a [106 DK; 59 Marc.], un trattamento a parte e alcuni

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FR. 50a [106 DK; 59 MARC.] 197

argomenti ad hominem, forse perché si tratta delle figure di polumaqei'ı di maggior rilievo e dunque maggiormente dannose.

Fr. 50a [106 DK; 59 Marc.]1

(scil., JHsiovdw/ ... ajgnoou'nti) fuvsin hJmevraı aJpavshı mivan.

(scil., Esiodo ... che ignora) che una sola è la natura di ogni giorno.2

1 Questo frammento è riportato da Plutarco, Camillo 19.3, che lo introduce così: «Per quanto riguarda i giorni infausti, ho discusso altrove se bisogna considerarli tali o se fece bene Eraclito a rimproverare Esiodo, che ammette che alcuni giorni sono buoni, altri cattivi, in quanto ignora che ... (Plutarco cita qui il fr. 50a)». Analoga la citazione di queste parole da parte di Seneca, Epistulae ad Lucilium 12. 7-8, ma nel ben diverso contesto di una riflessione intorno al pensiero della morte – che a suo avviso non riguarda il vecchio più del giovane – in cui vengono evocati il nome di Eraclito e il suo detto: unus dies par omni est («ogni singolo giorno è uguale a tutti gli altri»), da interpretare, secondo Seneca, o in relazione all’uguale durata quantitativa di ogni giorno oppure all’unità qualitativa che il giorno rappresenta rispetto a ciò che si verifica, nella lunga durata, al livello del cosmo, sicché tutti i fenomeni cosmici si trovano in certa misura riprodotti all’interno dell’equilibrio sempre identico di una giornata, che sarà allora da vivere comunque, per il giovane come per il vecchio, come se fosse l’ultima. Molti sono i problemi posti da questo frammento, che incidono significativamente sull’interpretazione che se ne può suggerire: (1) in primo luogo, vi sono fondati dubbi sulla sua letteralità, giacché Plutarco lo introduce in oratio obliqua e, inoltre, con un verbo e un costrutto che certo non favoriscono l’ipotesi di una citazione diretta: ÔHravkleitoı ejpevplhxen ÔHsiovdw/ ... wJı ajgnoou'nti ... ou\san («Eraclito rimproverò Esiodo ... in quanto ignorante del fatto che ...»), che non è sufficiente volgere, artificiosamente, in oratio recta, per sperare di conquistare un testo originale (come invece propone Mouraviev I, p. 267, e III, p. 127, n. 1: ÔHsivodoı ... wJı ajgnow'n o{ti ... ejsti) – tesi, questa, condivisa, pur con diverse sfumature, per esempio da Kirk, pp. 159-61, Marcovich, p. 224, Kahn, pp. 36-37, e Pradeau, pp. 229-30; (2) in secondo luogo, fra quanti ammettono comunque l’autenticità di almeno alcune delle parole riportate da Plutarco, vi è ampia discussione su quali di esse possano essere ascrivibili a Eraclito: personalmente credo, con Bollack-Wismann, p. 299, Marcovich, pp. 224-25, Conche, p. 384, e Robinson,

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pp. 62-63, che ci si debba limitare, comunque dubitativamente, a fuvsin hJmevraı aJpavshı mivan (parole del resto riportate pure da Seneca: unus dies par omni est), anche se (contro lo stesso Marcovich, p. 225) ritengo plausibile, pur se in forma di parafrasi (e perciò stampato fra parentesi tonde), il riferimento a un «rimprovero» di Eraclito a Esiodo su questo argomento, se non altro in ragione del fatto che il precedente fr. 50 [57 DK; 43 Marc.] propone una critica allo stesso Esiodo, di analogo tenore, rispetto alla sua conoscenza della natura del giorno e della notte (benché sia più difficile valutare se tale rimprovero riguardi qui proprio la distin-zione fra giorni fausti e infausti, che effettivamente si ritrova in Esiodo, Opere 765 sgg., o se invece questa indicazione si debba a un’aggiunta esplicativa di Plutarco), mentre Diano-Serra, p. 175, seguendo DK, considerano direttamente ascrivibili a Eraclito anche le parole ÔHsiovdw/ ... ajgnoou'nti ... ou\san, e Mouraviev I, p. 267, in ragione di quanto detto sopra, una sequenza ancora più ampia; (3) infine, e di conseguenza, questione decisiva è quella di stabilire se, anche indipendentemente dal suo esatto contenuto, sia ammissibile in assoluto un riferimento di Eraclito a Esiodo oppure no, perché questa è, fra l’altro, la principale differenza fra le citazioni di Plutarco e di Seneca: se infatti, come a me pare verosimile, si ammette tale riferimento, in questo caso certamente polemico, a Esiodo, un qualche collegamento con il precedente fr. 50 diviene probabile e un richiamo alla (errata) distinzione esiodea fra giorni fausti e infausti possibile, mentre, se lo si esclude (con il solo Marcovich, p. 225, mentre in dubbio rimangono Bollack-Wismann, pp. 299-300), si rende allora più plausibile un’interpretazione di segno diverso, piuttosto fondata sulla citazione di Seneca, che ha che fare con un esame della natura del «giorno», dal punto di vista del ciclo meteorologico quoti-diano, rispetto al ciclo fisico-cosmologico del tutto. Sull’impatto di tali difficoltà e divergenze nell’interpretazione della citazione, che in base a quanto precede ammetto come possibilmente e parzialmente autentica, benché in un contesto ampiamente parafrasato, cfr. la nota seguente.

2 I diversi problemi indicati nella nota precedente in relazione all’au-tenticità di questo frammento, eventualmente di una sua parte e/o in forma parafrasata da parte del citatore, e di conseguenza rispetto alla costituzione del testo di cui si compone, hanno un immediato riflesso in sede d’interpretazione. Occorre valutare, innanzitutto, cosa consegue, per la comprensione delle parole attribuite a Eraclito, dall’ammissione o dall’esclusione di un riferimento polemico a Esiodo: se si lascia cadere tale riferimento, diviene ovviamente meno cogente anche la connessione stabilita da Plutarco con la distinzione fra giorni fausti e infausti (cfr. la nota precedente) e l’unica interpretazione plausibile rimane allora quella che riconduce la costante identità della natura di ogni giorno affermata qui nelle sole parole che risalirebbero a Eraclito (fuvsin hJmevraı aJpavshı mivan) alle regolari trasformazioni del fuoco, che scandiscono incessantemente e immutabilmente il ciclo cosmico in generale e, tra-mite il sole che ne è un «esemplare» meteorologico, il ciclo giornaliero in particolare (si vedano solo, in proposito, supra, i frr. 30 [31 DK; 53ab Marc.], con le relative note di commento, e 36 [6 DK; 58 Marc.], cfr. n. 3), indipendentemente dal fatto, a questo punto secondario, che la tesi

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FR. 50a [106 DK; 59 MARC.] 199

(fisico-cosmologica e meteorologica) eraclitea dell’identità di ogni giorno sia utilizzata, da Plutarco, contro l’opinione popolare (rappresentata fin da Esiodo) che distingue i giorni in fausti e infausti: così Marco-vich, p. 225, i cui argomenti mi appaiono però assai dubbi, perché, se è indiscutibile che l’effetto di contrasto fra la tesi eraclitea e l’opinione testimoniata da Esiodo possa dipendere da un accostamento prodotto ad arte da Plutarco, è pur vero che, per confutare la diffusa opinione popolare della distinzione fra giorni fausti e infausti, non sarebbe stato necessario ricorrere, da un lato, all’autorità di Esiodo, né, dall’altro, alla fisica eraclitea; inoltre, il costrutto che Plutarco impiega (ÔHravkleitoı ejpevplhxen ÔHsiovdw/ ... wJı ajgnoou 'nti ...) mi sembra così impegnativo da indicare, più che una connessione stabilita da lui autonomamente, una sua parafrasi di quanto poteva trovarsi in un orginale eracliteo. Se ciò è plausibile, bisogna chiedersi ancora se la parafrasi plutarchea si estenda, al di là di un semplice ed eventualmente generico riferimento polemico a Esiodo, anche alla sua distinzione fra i giorni fausti e infausti e, di conseguenza, se vi sia una relazione con il precedente fr. 50 [57 DK; 43 Marc.]: coerentemente con la posizione cui ho fatto cenno poco sopra, Marcovich, p. 225, risponde negativamente a entrambi gli interrogativi, sottolineando come, nel precedente fr. 50, Eraclito condanni l’ignoran-za di Esiodo a proposito del giorno e della notte «che sono un’unica cosa», mentre qui si esprime esclusivamente sulla «natura del giorno» o, eventualmente, sull’erronea credenza popolare della distinzione fra giorni fausti e infausti, in ogni caso confutata sulla base della tesi dell’identità (fisico-cosmologica e meteorologica) di ogni giorno e non invece sulla base della tesi dell’unità di giorno e notte (apparentemente connessa, nel fr. 50, cfr. n. 3, alla dottrina dell’unità dei termini opposti); questa lettura, limitatamente alla sua conclusione di una diversa com-prensione (rispettivamente fisico-cosmologica e come esempio di unità degli opposti) del presente frammento e del precedente, è condivisa da Kahn, p. 110, e Diano-Serra, pp. 175-76 (che dunque ammettono qui un riferimento a Esiodo e, pur prudentemente, alla sua distinzione dei giorni fausti e infausti, ma senza nessuna relazione con il fr. 50); mentre Robinson, p. 150, Pradeau, pp. 206 e 229-30, e Mouraviev III, p. 127, n. 3, non solo si pronunciano a favore di un riferimento a Esiodo e alla sua distinzione fra giorni fausti e infausti, ma interpretano quest’ultima come una nuova esemplificazione di termini opposti (i giorni fausti e i giorni infausti) di cui occorre invece riconoscere l’unità (nella costante identità di ogni giorno), in stretta relazione, perciò, con il precedente fr. 50 (non troppo diversamente Kirk, pp. 159-61, che giunge però, sulla base dello stesso argomento, a considerare il presente frammento come una parafrasi distorta del precedente, dovuta a Plutarco, che avrebbe inteso hJmevrhn kai; eujfrovnhn del fr. 50 – «il giorno e la notte, che sono un’unica cosa» – come corrispondenti a hJmevraı aJpavshı del presente frammento – «l’intero giorno» di ventiquattro ore, dunque comprensivo del giorno e della notte, la cui natura è unica e non, appunto, duplice –, così erroneamente stabilendo un collegamento con la distinzione esiodea fra i giorni fausti e infausti). Di fronte a un così ampio dissenso esegetico, preferisco attenermi ad alcune considerazioni di carattere generale sui

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diversi aspetti della questione: innanzitutto, ritengo verosimilmente autentiche le parole fuvsin hJmevraı aJpavshı mivan (eventualmente, ma non certamente, estratte dall’oratio obliqua: fuvsiı hJmevraı aJpavshı miva), ma, per le ragioni indicate sopra, giudico anche probabile, benché mediata da una parafrasi di Plutarco, la collocazione di queste parole nel con-testo di una polemica di Eraclito nei confronti di Esiodo; ora, ciò mi pare sufficiente per stabilire una connessione con il precedente fr. 50, perché in entrambi Eraclito si rivolge contro Esiodo, già condannato, come uno dei polumaqei'ı, supra, nel fr. 48 [40 DK; 16 Marc.], per il suo falso sapere e per il suo ruolo di (presunto) maestro dei più: nell’ambito della generale accusa di polumaqiva, inoltre, Eraclito contesta in parti-colare a Esiodo, tanto in questo quanto nel precedente frammento, di avere cognizioni confuse relativamente alla natura del giorno e al ciclo meteorologico del giorno e della notte. Mi sembra invece più difficile prendere una posizione più dettagliata rispetto al contenuto specifico dei due frammenti, cioè precisando se (1), come pure è possibile, il pre-cedente fr. 50 chiami in causa anche, per quanto in seconda battuta, la dottrina eraclitea dell’unità dei termini opposti (cfr. la relativa n. 3), se (2) nel presente frammento sia autentico il riferimento alla distinzione esiodea fra i giorni fausti e infausti e infine, nel caso di una risposta affermativa su (1) e (2), se (3) possa esservi una relazione più o meno stretta fra il riferimento alla tesi dell’unità degli opposti, nel fr. 50, e la polemica contro la distinzione fra giorni fausti e infausti, in questo frammento. Si potrebbe forse, ancora congetturalmente, sostenere che la critica contenuta nel fr. 50 abbia un valore più sostanziale e generale, perché tocca la questione dell’origine e della natura del giorno e della notte nel quadro cosmogonico della Teogonia esiodea (123-24), mentre la polemica sollevata nel presente frammento ha piuttosto il carattere di un’ironica correzione di un’opinione diffusa di cui Esiodo si rivela in tal caso semplicemente un «cantore» (e che, contro Kirk, pp. 158-59, non ha nulla a che fare con una revisione razionalistica di primitive concezioni magiche o perfino astrologiche, perché attiene piuttosto a una messa in ridicolo delle credenze popolari di una società arcaica e contadina, cfr. Diano-Serra, p. 176): avremmo allora un accostamento a mio avviso molto significativo fra i due frammenti, senza tuttavia poterne sancire l’unità né tantomeno l’identità tematica.

Fr. 51 [129 DK; 17 Marc.]1

Puqagovrhı Mnhsavrcou iJstorivhn h[skhsen2 ajnqrwvpwn mavlista pavntwn kai; ejklexavmenoı tauvtaı ta;ı suggrafa;ı3 ejpoihvsato eJautou'4 sofivhn, polumaqivhn, kakotecnivhn.

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FR. 51 [129 DK; 17 MARC.] 201

Pitagora di Mnesarco praticò la ricerca più di ogni altro uomo5 e, fatta una scelta di scritti di questo genere, si fabbri-cò la sua sapienza, che è un molto sapere, una competenza ingannevole.6

1 Questo frammento è riportato da Diogene Laerzio, Vitae philo-sophorum VIII 6, nel contesto della biografia di Pitagora, in relazione alla notizia, giudicata controversa, che Pitagora avrebbe composto diverse opere scritte, con queste parole: «Alcuni dicono, per prendersi gioco di lui, che Pitagora non ha lasciato nessuno scritto. Comunque, il fisico Eraclito, quasi urlando, afferma: ... (Diogene cita qui il fr. 51). Si esprime così per ciò che Pitagora dice all’inizio dell’opera Sulla natura ...». Benché collocato in DK fra i frammenti dubbi o falsificati, non sussistono elementi cogenti in favore dell’inautenticità di queste parole (forse riecheggiate anche da Ione di Chio, fr. 4.3-4 DK): come rilevano soprattutto Marcovich, p. 47, e Mouraviev III, p. 151, nn. 1-2, tanto il linguaggio quanto lo stile della citazione corri-spondono bene a quelli caratteristici dei materiali eraclitei autentici. Il problema che si pone riguarda piuttosto, da un lato, la ragione che induce Diogene a citare le parole di Eraclito (per confermare o per smentire l’esistenza di scritti di Pitagora?) e dall’altro, di conseguenza, il significato esatto da attribuire alle parole ejklexavmenoı tauvtaı ta;ı suggrafa;ı ejpoihvsato eJautou ' sofivhn, che si prestano ad almeno due costruzioni e interpretazioni, a seconda di come si collochino i segni di interpunzione: (1) ejklexavmenoı tauvtaı ta;ı suggrafa;ı ejpoihvsato: eJautou ' sofivhn ... oppure (2) ejklexavmenoı (scil., fra gli oggetti della sua iJstorivh), tauvtaı ta;ı suggrafa;ı ejpoihvsato: eJautou ' sofivhn ..., con le rispettive traduzioni: (1) «fatta una scelta di scritti di questo genere, si fabbricò la sua sapienza, che è ...» oppure (2) «fatta una scelta (scil., fra gli oggetti della sua ricerca), si fabbricò questi scritti: la sua sapienza è ...». Su tutto ciò, si veda infra, n. 6.

2 iJstorivhn h[skhsen è lezione dei manoscritti BP di Diogene Laerzio, mentre il manoscritto F porta iJstorei'n i[scusen («fu valente nel cercare»), evidentemente meno perspicuo.

3 L’inciso ejklexavmenoı tauvtaı ta;ı suggrafa;ı è stato espunto (o, più esattamente, estratto dalla citazione eraclitea e attribuito a Diogene Laerzio) da Schleiermacher e corretto da Zeller in ejklexavmenoı tauvta («avendo fatto una scelta fra queste cose [scil., fra gli oggetti della sua ricerca] ...»; di analogo segno la congettura di Wilamovitz ejkdexavmenoı, «avendo preso questi scritti [scil., di altri] ...»), l’uno e l’altro seguiti da alcuni editori e traduttori e in entrambi i casi per eliminare dal riferi-mento di Eraclito a Pitagora ogni allusione agli «scritti» di quest’ultimo (cfr. supra, n. 1, e infra, n. 6).

4 ejpoihvsato e eJautou' si trovano, rispettivamente, nei manoscritti BP e BP1F di Diogene Laerzio, mentre i manoscritti F e P4 portano l’attivo ejpoivhsen (meno appropriato del medio ejpoihvsato, che indica bene il

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carattere soggettivo e solo autoreferenziale della «sapienza» che Pitagora «fabbricò per sé») e la forma ionica eJwutou'.

5 Si potrebbe intendere iJstorivh come riferito ad ajnqrwvpwn, attribuen-dogli in tal caso il senso di «interrogazione», e traducendo: «... praticò l’interrogazione degli uomini più di ogni altro ...», ma ciò implicherebbe una limitazione dell’estensione del termine iJstorivh, che invece sembra utilizzato da Eraclito con significato più ampio e generale (come indagine rivolta alle cose che sono e dunque anche, eventualmente, agli uomini e alle loro opinioni): la «ricerca» di Pitagora va assunta allora come contraltare negativo, da condannare per la sua farraginosità, di quella positiva, indispensabile per la conquista della vera conoscenza, prescritta nel fr. 45 [35 DK; 7 Marc.], cfr. n. 2, di cui Biante di Priene è giudicato come un esempio nel fr. 46 [39 DK; 100 Marc.], cfr. n. 4.

6 Il senso generale del presente frammento è decisamente chiaro e si evince senza difficoltà soprattutto in base all’effetto di contrasto fra il suo principio e la sua conclusione: la iJstorivh cui Pitagora si è dedicato al di sopra di tutti gli altri è quella che produce una sapienza artificiosa e completamente autoreferenziale, una sofiva che ci si fabbrica da se stessi e per se stessi (ejpoihvsato ... eJautou'), che si rivela in effetti sem-plice polumaqiva, cioè accumulazione acritica di vuota erudizione, e che consiste a sua volta in kakotecniva, ossia in una sorta di arte o tecnica mal costruita e mal finalizzata, dunque in una forma di incapacità e ciarlataneria destinate a ingannare i creduloni che le prestano fiducia (un significato, questo, che ben si attaglia alla versione polemica che Eraclito tratteggia qui della figura di Pitagora, completamente capovolta rispetto all’immagine trasfigurata della sua personalità e del suo carisma, così diffusa fra i suoi discepoli ma anche all’esterno della sua setta da farne un modello di vita da imitare, cfr. Kahn, p. 114; mi pare invece più difficile determinare, con Marcovich, pp. 48-49, e Diano-Serra, pp. 177-78, l’esatta natura della kakotecniva di Pitagora e i suoi contenuti, se avessero a che fare con arti magiche o sciamaniche o piuttosto con insegnamenti fisici o perfino matematici, da Eraclito in ogni caso disprezzati come soltanto pseudoscientifici): se a tale ricerca che produce una sofiva solo erudita, ingannatrice e inefficace, Pitagora si è consacrato «più di ogni altro uomo», da ciò consegue che di tutti i polumaqei'ı, irrisi e condannati, in generale, fin dai frr. 47 [104 DK; 101 Marc.] e 48 [40 DK; 16 Marc.] e, rispetto ad alcune figure in particolare, nei frr. 49 [56 DK; 21 Marc.], 49a [42 DK; 30 Marc.] e 49b [105 DK; 63a Marc.] (Omero) e quindi 50 [57 DK; 43 Marc.] e 50a [106 DK; 59 Marc.] (Esiodo), egli è il peggiore e il più pericoloso, per la vastità delle sue competenze ingannevoli e per l’ampiezza della sua malsana influenza nella cultura greca. Su questa lettura d’insieme mi pare sussista un accordo sostanzialmente unanime fra i commentatori: cfr. Marcovich, pp. 47-48, Kahn, p. 114, Diano-Serra, pp. 176-78, Conche, pp. 107-08, Robinson, p. 164, Pradeau, pp. 274-75, e Mouraviev III, pp. 152-53, n. 6 (contra, con la consueta eccentricità, Bollack-Wismann, pp. 351-54, che leggono nel presente frammento un elogio di Pitagora, che ricalcherebbe la sua diffusa reputazione fra i greci, nella prima parte, cui seguirebbe, nella seconda parte, un improvviso capovolgimento di giudi-zio, a svelare il carattere fittizio non tanto delle competenze di Pitagora,

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quanto dell’aspirazione enciclopedica di ogni sapere). Più complesso, invece, prendere posizione sulla questione specifica dell’attribuzione o meno, a Pitagora, di alcune opere scritte, questione che a sua volta si pone tanto rispetto al contesto della citazione di Diogene Laerzio, quanto, in essa, rispetto alle parole di Eraclito: Diogene può infatti chiamare in causa Eraclito a testimonianza del fatto che egli conoscesse delle opere di Pitagora, nella misura in cui polemizza con esse, oppure, al contrario, che egli ne negasse l’autenticità e l’originalità, in quanto dichiara che derivano da opere precedenti, che Pitagora avrebbe soltanto raccolto insieme operando una «scelta» di materiali preesistenti. Comunque stiano le cose, però, risulta ovvio dedurne che, secondo Diogene (o secondo la sua fonte) opere attribuite a Pitagora – autentiche e originali, autentiche ma non originali o perfino inautentiche – circolassero nel V secolo, ed è certamente a questo fine che egli evoca la testimonianza di Eraclito (così Diano-Serra, pp. 176-77, Pradeau, p. 274, e Mouraviev, pp. 151-52, nn. 3, 6 e 8). Per quanto riguarda le parole di Eraclito, invece, in base a quanto indicato supra, n. 1, la costruzione (1), da me adottata, non implica necessariamente un riferimento a opere scritte di Pitagora, ma solo al fatto che egli avrebbe operato una selezione, nell’ambito della sua vastissima iJstorivh, anche di libri altrui (egli, infatti, «praticò la ricerca più di ogni altro uomo» e fece «una scelta di scritti di questo genere», cioè, verosimilmente, di opere in prosa – questo il significato usuale del termine suggrafaiv – a lui precedenti che avevano come oggetto le sue stesse ricerche, da intendere come rivolte alle «cose che sono» o a «tutte le cose» in generale; che si tratti specificamente di trattati orfici o matematici, con Marcovich, p. 48, che fossero riconducibili ai nomi di Anassimandro, Anassimene, Ferecide, Ecateo o di altri ancora, con Kahn, pp. 111-12, o entrambe le cose, con Conche, p. 106, rimane completamente indimostrabile), a partire dai quali «si fabbricò la sua sapienza», di cui resta imprecisato se avesse forma scritta, in un libro, o orale; la costruzione (2), invece, implica l’attribuzione a Eraclito di un esplicito riconoscimento di opere scritte di Pitagora, che egli si sarebbe «fabbricato» attraverso una selezione dei risultati della sua iJstorivh, ancora una volta, eventualmente, riprendendo analoghe opere prece-denti: è impossibile compiere una scelta fondata fra queste due opzioni e non si può escludere che l’ambiguità sia consapevole e deliberata (così Mouraviev III, pp. 151-52, n. 6).

Fr. 51a [81 DK; 18 Marc.]1

(scil., oJ rJhvtwr? ... Puqagovrhı?) kopivdwn ajrchgovı.

(scil., Il retore? ... Pitagora?) è maestro di bugiardi.2

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204 FR. 51a [81 DK; 18 MARC.]

1 Queste parole, nella forma in cui sono stampate qui, derivano dalla combinazione di due fonti indipendenti. Diogene di Babilonia, in Filodemo, De rhetorica I 57.3 e 62.1 (= I 351-52 e 354-55 Sudhaus = SVF III 105), lo introduce così: «Tutti i precetti dell’insegnamento dei retori mirano a questo fine, a ingannare, e, secondo Eraclito, è... (Diogene cita qui il fr. 51a)». Uno scolio anonimo a Euripide, Ecuba 131 (= I 26.1 Schwartz), attribuisce invece allo storico Timeo di Tau-romenio l’affermazione secondo cui: «... (il bugiardo) non sembra essere Pitagora, che ha scoperto i veri bugiardi, né quello accusato da Eraclito, ma Eraclito stesso». L’invettiva riportata da Diogene di Babilonia, che prende di mira i retori e la retorica in generale, e non Pitagora (né, del resto, risulta dalle fonti antiche nessun accostamento del nome di Pitagora alla retorica), viene così collegata al commento dello scoliaste, in virtù del comune riferimento a Eraclito e all’impiego del medesimo linguaggio (o, più esattattamente, del medesimo e uni-co termine kovpiı). La combinazione mi sembra talmente incerta da imporre di considerare queste parole, nella migliore delle ipotesi, come una parafrasi di materiali eraclitei autentici, forse contenente un’unica espressione effettivamente riconducibile a Eraclito (kopivdwn ajrchgovı) e solo congetturalmente riguardante Pitagora, il cui contenuto rimane comunque estremamente vago e indeterminato (cfr. la nota seguente): così pure Bollack-Wismann, pp. 246-47, Marcovich, pp. 49-50, Kahn, p. 114, Conche, p. 211, Robinson, pp. 50-51, e Pradeau, p. 275; mentre Diano-Serra, pp. 40-41 e 178, e Mouraviev I, pp. 204-05, e III, p. 97, n. 1, sembrano accettare come certo il riferimento a Pitagora.

2 Se autentico o, più esattamente, limitatamente a quanto vi si può ammettere di autentico, il presente frammento si riduce essenzialmente a un’invettiva rivolta contro un maestro di «bugiardi», eventualmente, con l’impiego del termine ajrchgovı, un vero e proprio «caposcuola» di impostori. Naturalmente, nella forma assai generica in cui si presenta, questa invettiva può senza dubbio adattarsi a uno dei polumaqei 'ı che spacciano la propria acritica erudizione per un vero sapere, dunque anche a Pitagora, sulla scorta di quanto affermato nel precedente fr. 51 [129 DK; 17 Marc.], cfr. n. 6, ma nulla più di questo mi pare possibile arguire. Il termine ajrchgovı potrebbe effettivamente alludere ironicamente a una «scuola» di impostori (cfr. Marcovich, p. 50, Kahn, p. 114, e Conche, p. 212), mentre kopivdwn va ricondotto a kovpiı («bugiardo», «impostore») e non a kopivı («inganno», «menzogna»), perché sarebbe a mio avviso meno perspicuo accusare un singolo individuo, fosse pure lo stesso Pita-gora, di essere il «maestro» o il «caposcuola» di ogni «menzogna» (così Marcovich, p. 50; contra Diano-Serra, pp. 41 e 178, e Mouraviev I, p. 204, e III, p. 97, nn. 3-4, che fa notare inoltre che kopivı – ma l’accentuazione è incerta – non indica soltanto la «menzogna», ma anche il «pugnale sacrificale», sicché Pitagora sarebbe accusato da Eraclito, con consapevole ambiguità, di essere «maestro di bugiardi» e, a un tempo, «di pugnali», forse con un’allusione alla sua retorica ingannatrice).

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Fr. 52 [28 DK; 20+19 Marc.]1

dokevonta oJ dokimwvtatoı2 ginwvskei, fulavssei.3

<...>4 divkh katalhvyetai yeudw'n tevktonaı kai; mavrturaı.

Il più reputato di tutti conosce e ritiene solo credenze appa-renti.5 (...)La giustizia condannerà i fabbricanti di menzogne e i testi-moni a loro difesa.6

1 Questo frammento è riportato da Clemente Alessandrino, Stromateis V 9.2-4 (= II 331 Stählin), che esorta gli uomini ad affidarsi alla fede, che è una forma di conoscenza divina contrapposta alla conoscenza umana, e mostra come alcuni filosofi greci abbiano presagito la vera natura del Dio cristiano e il giudizio finale che attende tutte le cose: «Perciò anche l’apostolo raccomanda che “la nostra fede non si basi sulla sapienza degli uomini”, che annunciano un’opera di persuasione, ma “sulla potenza di Dio” (= Paolo, Lettere ai Corinzi I 2.5), che, da sola e senza ricorrere a dimostrazioni, conduce alla salvezza con la semplice fede. Infatti, ..., ed è certo che (kai; mevntoi kai;) ... (Clemente cita qui, intervallandolo con un breve inciso, il fr. 52), dice l’Efesio. Anche lui conosce dunque, per averlo appreso dalla filosofia barbara, la purificazione attraverso il fuoco di coloro i quali hanno vissuto male, che gli stoici chiamarono in seguito “conflagrazione”; secondo lui, anche costoro sostengono che tutti quelli che ne avranno le qualità saranno riabilitati, sicché apprezzano la resurrezione». Due considerazioni almeno vanno svolte relativa-mente al contesto della citazione: la prima, di carattere generale, ha a che fare con la duplice operazione esegetica compiuta da Clemente in relazione alle parole citate di Eraclito, lette dapprima in un quadro di riferimento teorico stoico, con l’attribuzione a Eraclito della tesi della conflagrazione (ejkpuvrwsiı; una tesi che, come spiegato supra, nella n. 4 al fr. 29 [30 DK; 51 Marc.], e soprattutto nell’Introduzione, § 4.3, non ritengo possa essergli ascritta), a sua volta ricondotta alla prospettiva cristiana del giudizio finale (associando il governo del mondo da parte del fuoco, e la sua «conflagrazione», a una sorta di giudizio universale che esplicita l’esercizio della giustizia divina, a sua volta dipendente da un disegno provvidenziale e intelligente: cfr. in proposito supra, n. 2 al fr. 12 [53 DK; 29 Marc.] e l’Introduzione, § 2.2); la seconda considerazione riguarda invece le modalità della citazione di Clemente, che propone le parole di Eraclito in una sequenza pressoché continua e, ai suoi occhi, evidentemente coerente sul piano logico, a testimonianza del fatto che

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non è sulla sapienza umana che si può fare affidamento, giacché essa non consiste che di opinioni e credenze apparenti, i cui autori e soste-nitori saranno smascherati e condannati dalla giustizia (divina). Ora, il nesso logico così riconosciuto fra le due proposizioni sembra sensato e possibilmente riconducibile allo stesso Eraclito, anche se non si può escludere fra l’una e l’altra un salto di parole, più o meno ampio, segnalato dall’inciso kai; mevntoi kaiv (a mio avviso dovuto a Clemente, cfr. infra, n. 4); per tale ragione, riconosco questo brano come un unico frammento, benché con una possibile lacuna che ne interrompe la continuità narrativa (ma non, appunto, concettuale): così pure Bollack-Wismann, p. 126, e Conche, pp. 213-14, mentre DK, Pradeau, pp. 153-54 e 272, e Mouraviev I, pp. 79-80, e III, p. 35, nn. 5-6, ammettono pure come eracliteo l’inciso kai; mevntoi kaiv (dunque sottolineando l’unità non solo concettuale, ma anche narrativa, del frammento); d’altra parte, invece, Marcovich, pp. 50-52 e 52-54, Kahn, pp. 68-69, Diano-Serra, pp. 46-47, e Robinson, pp. 24-25, mantengono la distinzione fra due diversi frammenti, pur riconoscendone la probabile connessione logica (cfr. Marcovich, p. 51, Kahn, p. 211, e Diano-Serra, pp. 184-85).

2 Clemente porta qui dokeovntwn oJ dokimwvtatoı, che si presta a due costruzioni diverse: (1) oJ dokimwvtatoı dokeovntwn ginwvskei, fulavssei [oppure ginwvskei fulavssein, cfr. la nota seguente] (dokeovntwn va inteso in tal caso come un genitivo plurale al maschile: «Il più reputato di tutti gli uomini in vista [oppure: che appaiono] conosce e ritiene ... [oppure: sa ritenere ...]»), che manca però del necessario complemento oggetto; (2) oJ dokimwvtatoı ginwvskei fulavssein (cfr. ancora la nota seguente) dokeovntwn (dokeovntwn va inteso in tal caso come un genitivo plurale al neutro, eventualmente con valore partitivo: «Il più reputato di tutti conosce [oppure: sa] come [oppure: cosa] preservare dalle [oppure: delle] credenze apparenti»): questa costruzione, adottata da Bollack-Wismann, p. 126, Pradeau, pp. 271-72, e soprattutto da Mouraviev I, p. 79, e III, p. 35, nn. 1 e 3, implica che si intenda il verbo fulavssw, nel significato, del tutto plausibile, di «preservare» o «proteggere», non alla terza persona singolare dell’indicativo (fulavssei), ma all’infinito (fulavssein), che è effettivamente la lezione di Clemente (ma cfr. la nota seguente), e soprattutto impone di considerare il genitivo plurale neutro dokeovntwn come retto direttamente dall’infinito fulavssein (che Mouraviev III, p. 35, n. 1, interpreta come un genitivo «di separazione» = ajpo; tw'n dokeovn-twn): salvo errore, però, non sono stato in grado di individuare casi che attestino con certezza una simile costruzione (fulavssw, all’attivo, pare esigere sempre un accusativo oppure una costruzione del tipo: fulavssw mhv ... o o{pwı mhv ..., «[mi] preservo da ...», mentre la costruzione con il genitivo pare esigere la forma media fulavssomai, per esempio wJkeanoi'o ajnevmwn, «mi preservo [oppure: sto in guardia] dai venti dell’oceano», o altrimenti, come del resto Mouraviev sottintende, la preposizione ajpov seguita appunto dal genitivo). Se si lascia cadere questa costru-zione (2), che tra l’altro pone anche un problema dal punto di vista dell’interpretazione (cfr. infra, n. 5), la (1) può essere difesa al prezzo della correzione (dovuta a Schleiermacher, ma accolta da molti editori, fra cui DK, Marcovich, p. 53, Kahn, p. 68, Diano-Serra, p. 46, Conche,

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pp. 213-14, e Robinson, p. 24) di dokeovntwn in dokevonta, all’accusativo plurale neutro, per individuare così il necessario complemento oggetto della proposizione: «Il più reputato di tutti conosce e ritiene ... (oppure: sa ritenere ... [cfr. la nota seguente]) <solo> credenze apparenti». Del tutto improbabile intendere oJ non come articolo, ma come pronome relativo al neutro (= o}), correggere dokimwvtatoı in dokimwvtaton, al neutro, e costruire, per esempio con Gomperz, Früchtel e Wilamovitz, dokeovntwn o} dokimwvtaton ginwvskei, fulavssei(n) (con un crhv sottinteso oppure attribuendo all’infinito valore di imperativo): «bisogna ritenere (oppure: ritieni) ciò che, fra le cose apparenti, si conosce (tiı ?) come più apparente» oppure «conosce e ritiene quella che, fra le cose apparenti, è la più apparente». Si noti infine che un’analoga simmetria fra dokevonta e dovkimoı si trova in Parmenide, fr. 1.31-32 DK: ... wJı ta; dokou 'nta crh 'n dokivmwı ei\nai ... («... come le cose apparenti dovessero essere realmente ...»), con l’indicazione di un polo di valore semantico (almeno apparen-temente) positivo (dovkimoı) e di un polo di valore semantico negativo (dokevonta), fra loro, dunque, in opposizione: si veda ancora infra, n. 5.

3 Clemente porta qui ginwvskei fulavssein che impone di intende-re l’infinito fulavssein come sostantivato, a fungere da complemento oggetto di ginwvskei. Questa costruzione, che è difesa, ancora una volta, da Bollack-Wismann, p. 126, Pradeau, pp. 271-72, e soprattutto da Mou-raviev I, p. 79, e III, p. 35, nn. 1 e 3, con la traduzione (2) indicata nella nota precedente, mi pare però improbabile, se congiunta con il genitivo dokeovntwn, innanzitutto per la già segnalata difficoltà del costrutto fulavs-sein dokeovntwn (= ajpo; tw'n dokeovntwn), ma anche per ragioni interpre-tative, cfr. infra, n. 5. Con la correzione di dokeovntwn in dokevonta (e con l’attribuzione a fulavssw del significato di «custodire in sé» o «ritenere» e non di «preservare» o «proteggere», cfr. ancora la nota precedente), invece, il costrutto ginwvskei fulavssein dokevonta potrebbe forse essere mantenuto (con questa traduzione: «Il più reputato di tutti sa ritenere <solo> credenze apparenti»), per quanto, a mio avviso, piuttosto aspro. D’altro canto, sulla base di un parallelo con lo scritto ippocratico De victu acutorum morborum 11 (= II 308 Littré) – tovde ... kai; fulavssousi kai; ginwvskousin ... – Diels ha proposto la correzione ginwvskei, fulavssei[n], dunque trasformando l’infinito fulavssein nella terza persona singolare dell’indicativo, così determinando un asindeto, non infrequente nello stile caratteristico dei materiali eraclitei superstiti (cfr. Marcovich, p. 52), che potrebbe non essere stato compreso dal copista che lo avrebbe a sua volta corretto. Questa intervento, accolto dalla grande maggioranza degli editori, pare anche me, pur con l’opportuna prudenza, del tutto plausibile.

4 L’inciso kai; mevntoi kaiv appartiene a mio avviso a Clemente, non soltanto perché si tratta di un’espressione assente nella prosa arcaica e piuttosto caratteristica dello stile di Platone, e a questo titolo vero-similmente apprezzata da Clemente (cfr. soprattutto Marcovich, p. 51; contra Mouraviev III, p. 35, nn. 5-6, secondo cui nulla impedisce di attribuirne l’introduzione proprio a Eraclito), ma soprattutto in quanto, come il gavr iniziale, mi sembra impiegato da Clemente per scandire le due proposizioni che intende citare («Infatti (ga;r), ... , ed è certo che (kai; mevntoi kai;) ..., dice l’Efesio»).

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5 Il senso di questa prima parte del frammento sembra essere, coe-rentemente con le intenzioni del citatore (cfr. supra, n. 1), quello di una condanna del falso sapere che, sulla base dell’opinione dei più, viene riconosciuto a chi, fra gli uomini, ottiene un consenso e una reputazione universali (dokimwvtatoı), guadagnando perciò una generale approva-zione che non è basata però su una forma di conoscenza autentica e criticamente fondata, ma esclusivamente su «ciò che appare» (dokevonta), ossia su delle «credenze» che, soggettivamente, a ciascuno «appaiono» e che, oggettivamente, consistono di semplice «parvenza» delle cose che sono, ma nulla hanno a che fare con le cose che sono come tali (facendo emergere così la polarità del contrasto fra dokimwvtatoı e dokevonta, su cui gioca anche Parmenide, cfr. supra, n. 2, a designare la «fama» – reale, perché diffusa fra i più, ma appunto infondata – di chi possiede soltanto un’«apparenza» di sapere): in tale ottica, queste parole richiamano da vicino la polemica nei confronti dei polumaqei'ı e della loro vuota erudizione, condotta fin dai frr. 47 [104 DK; 101 Marc.] e 48 [40 DK; 16 Marc.]; se inoltre, come sembra evidente, l’obiettivo di tale accusa è qui «il più reputato» degli uomini (oJ dokimwvtatoı), non è impossibile un riferimento a uno dei polumaqei'ı in particolare, forse Omero (tw 'n ÔEllhvnwn sofwvteroı pavntwn, cfr. supra, il fr. 49 [56 DK; 21 Marc.]), Esiodo (didavskaloı de; pleivstwn, cfr. supra, il fr. 50 [57 DK; 43 Marc.]) o lo stesso Pitagora (che «praticò la ricerca» ajnqrwvpwn mavlista pavntwn, cfr. supra, il fr. 51 [129 DK; 17 Marc.]). La sequenza ginwvskei-fulavssei esprime allora, assai efficacemente, l’escalation polemica del frammento, perché indica, da un lato, l’apprendimento o la conoscenza infondati che la falsa ricerca produce e, in successione, la conservazione o la «custodia» in sé, sotto forma di semplice opinione o credenza, dell’esito di tale ricerca, cioè la «sedimentazione», in un apparato concettuale organico, benché solo apparente, di ciò che acriticamente si accumula tramite l’indagine erudita: con questa interpretazione concordano Marcovich, p. 54, Kahn, p. 211, Diano-Serra, p. 185, Conche, p. 215, e Robinson, p. 95. Se si accolgono invece la costruzione e la traduzione proposte da Pradeau, pp. 271-72, e soprattutto da Mouraviev I, p. 79, e III, p. 35, nn. 1 e 3, anche al di là delle difficoltà testuali segnalate supra, nn. 2-3, emerge un non lieve problema di senso, perché si finisce per attribuire un valore positivo al dokimwvtatoı di Eraclito, che «conosce (oppure: sa) come preservare dalle credenze apparenti», dunque assumendo la funzione e il ruolo dell’autentico sapiente, capace di «mettere in guardia» contro le opinioni infondate dei più, e così contraddicendo il significato più ovvio di dokimwvtatoı, che pare da intendere, più perspicuamente, come colui il quale brilla per la fama riconosciutagli dai più e gode perciò di una reputazione «di massa», di cui Eraclito indica la fragilità e la falsità, consistente appunto nel semplice accumulo di «credenze apparenti» (a meno di non intendere, un po’ tortuosamente, che quella del dokimwvtatoı è una funzione che questi si attribuisce da sé o che gli è attribuita dalla massa, ma che Eraclito a sua volta sottopone al superiore giudizio di divkh, così Bollack-Wismann, p. 127): come la gran parte dei materiali raccolti in questa Sezione 4 argomentano, il «vero» sapiente, secondo Eraclito, si contrappone, decisamente e senza eccezioni, ai molti «reputati» sapienti

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celebrati dalla massa (e perciò dokimwvtatoi), conducendo una ricerca autonoma, critica e nella maggior parte dei casi estranea alla «fama» autentica che invece a pieno titolo meriterebbe.

6 La seconda parte del frammento sembra sviluppare e completare l’idea articolata nella prima: se «il più reputato di tutti» limita il pro-prio apprendimento e il proprio sapere alle semplici apparenze e alle credenze infondate, non può che rivelarsi come uno dei «fabbricanti di menzogne» che, come Pitagora e, verosimilmente, gli altri polumaqei'ı, costruiscono, da sé e per sé, una conoscenza del tutto autoreferenziale e dunque priva di valore (sicché agli yeudw'n tevktoneı si adatta quanto di Pitagora è detto supra, nel fr. 51 [129 DK; 17 Marc.], cfr. n. 6, che ejpoihvsato eJautou' sofivhn, con una chiara allusione, nell’impiego del termine tevktoneı, all’aspetto «artificiale», perché artefatto e quindi, a un tempo, artificioso, della sofiva così prodotta, che è solo menzogna). Mi pare plausibile, di conseguenza, che il riferimento non sia tanto qui a uno dei polumaqei'ı in particolare, ma innanzitutto, come nella prima parte del frammento, alla categoria in generale (o quantomeno ai più «reputati» della categoria), qualificata nel suo insieme dalla comune attitudine a fabbricare un sapere che non è che vuota erudizione, alla quale si accompagna l’ampia schiera di mavrtureı, contemporaneamente sostenitori e seguaci, adulatori e cantori (così Bollack-Wismann, p. 127, e Diano-Serra, p. 184, mentre Marcovich, pp. 51-52, e Kahn, p. 212, giudi-cano comunque più probabile un’allusione a Pitagora come «fabbricante di menzogne» e alla setta dei pitagorici come suoi «testimoni»). Tutti costoro vanno condannati «secondo giustizia»: così intendo l’espres-sione divkh katalhvyetai, con il termine divkh e il verbo katalambavnw, oltreché, naturalmente, mavrtureı, che attengono al linguaggio giuridico e richiamano perciò metafore e immagini processuali e giudiziarie, più che alludere a un contesto cosmogonico o teologico o perfino a una prospettiva connessa alla dottrina fisico-cosmologica di Eraclito: non è infatti la giustizia «divina» evocata da Clemente Alessandrino, nella sua reinterpretazione cristiana della ejkpuvrwsiı stoica, a essere eviden-temente in questione qui (cfr. supra, n. 1), ma neanche, pur al di fuori di ogni riferimento a un giudizio finale, la «dea» della giustizia della religiosità tradizionale che punisce ogni trasgressione umana, come vuole Marcovich, p. 52, né, infine, la giustizia «cosmica» amministrata dalle Erinni che, come annunciato supra, nel fr. 34 [0 (3+94) DK; 0 (57+52) Marc.], cfr. n. 4, controlla e preserva il corso del sole, come suggeriscono Kahn, pp. 211-12, Conche, p. 216, Robinson, p. 95, e Pradeau, p. 272; si tratta invece, a mio avviso, della giustizia esercitata in tribunale, che conduce appunto a una giusta condanna del colpevole (questo il senso del verbo katalambavnw), smascherato tramite un processo nei suoi inganni e nelle sue menzogne, insieme a quanti gli fanno, per così dire, da testimoni a discarico, confermando ed eventualmente diffondendo come vere le sue false credenze.

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Fr. 53 [95=109 DK; 110 Marc.]1

ajmaqivhn kruvptein a[meinon.

L’ignoranza è meglio nasconderla.2

1 Questo frammento è riportato da Plutarco, An virtus doceri possit 439d, con questa premessa: «Nessuno tuttavia metterebbe mano a una tela, a un libro, a una lira, senza averlo imparato, anche se non gliene venisse un gran danno: teme semplicemente di coprirsi di ridicolo: infatti, dice Eraclito, ... (Plutarco cita qui il fr. 53)». Le stesse parole di Eraclito sono citate da Plutarco, con lievi variazioni, in De audiendis poetis 43d (tavca ... oujde; ajmaqivhn kruvptein a[meinon, w{ı fhsin ÔHravkleitoı, ajll jeijı to; mevson tiqevnai kai; qerapeuvein: «forse ... neanche “è meglio nascondere l’ignoranza”, come dice Eraclito, ma portarla alla luce e curarla», riecheggiato da Stobeo III 1.175 [= III 129 Hense]: kruvptein ajmaqivhn krevsson h] ejı to; mevson fevrein, «l’ignoranza è meglio nasconderla piuttosto che portarla alla luce»); ancora in Quaestiones Conviviales III 1, 644e-f (ajmaqivhn ga;r a[meinon, w{ı fhsin JHravkleitoı, kruvptein: e[rgon de; ejn ajnevsei kai; par j oi\non: «Come dice Eraclito, infatti, “l’ignoranza è meglio nasconderla”; ma è un’impresa quando si è indolenti e presi dal vino», riecheggiato nuovamente da Stobeo III 18.31 [= III 521 Hense]: ajmaqivhn, w{ı fhsin JHravkleitoı, kruvptein e[rgon ejstivn, ejn oi[nw/ de; calepwvteron, «È un’impresa “nascondere l’ignoranza”, come dice Eraclito, ma è ancora più difficile quando si è presi dal vino»). Con DK, Bollack-Wismann, p. 277, Marcovich, p. 387, Kahn, p. 76 (che però nutre sospetti sulla letteralità della citazione), Diano-Serra, p. 36, Conche, p. 258, Robinson, pp. 56-57, e Pradeau, p. 179, accolgo come verosimilmente eraclitee solo le parole ajmaqivhn kruvptein a[meinon (o, nell’ordine della citazione plutarchea di Quaestiones Conviviales III 1, 644e-f, ajmaqivhn a[meinon kruvptein), che ricorrono pressoché identicamente nei diversi passi, accompagnate da quelle che a me appaiono piuttosto come precisazioni e spiegazioni dettate dal contesto della citazione che non come ulteriori riferimenti ad altre parole di Eraclito; mentre altri (per esempio, Schleiermacher e Gomperz) accolgono come autentico anche il seguito fornito da Stobeo h] ejı to; mevson fevrein, che sembra però una risposta alla citazione plutarchea di De audiendis poetis 43d; altri ancora (per esempio, Bywater, Burnet e di nuovo Gomperz) accolgono invece il seguito e[rgon de; ejn ajnevsei kai; par j oi\non della citazione di Quaestiones Conviviales III 1, 644e-f, che pare piuttosto un commento di Plutarco al detto di Eraclito. Mouraviev I, pp. 241-42, e III, p. 118, tenta infine una ricostruzione ancora più ampia, che raccoglie insieme le parti provenienti da quasi tutti i contesti citati: ajmaqivhn ga;r a[meinon kruvptein: kruvptein ajmaqivhn krevsson h] ejı to; mevson fevrein, e[rgon de; ejn ajnevsei kai; par j oi\non, tutte considerate autentiche, per ragioni essenzialmente metriche e

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FR. 53 [95=109 DK; 110 MARC.] 211

stilistiche e indipendentemente dall’evidente effetto di ridondanza che ai miei occhi suscitano.

2 Contrariamente a quanto sostenuto da Marcovich, p. 387, il signi-ficato del presente frammento mi pare piuttosto chiaro, se connesso ai materiali «epistemologici» raccolti nella presente Sezione 4, e parti-colarmente ai frammenti, a partire da 47 [104 DK; 101 Marc.] e 48 [40 DK; 16 Marc.], che esaminano lo statuto solo apparente del sapere che caratterizza la polumaqiva che, come tale, non è altro che una forma di ignoranza che converrebbe piuttosto mantenere dignitosamente nascosta che non spacciare pubblicamente, come appunto fanno i polumaqei'ı, con la pretesa di essere riconosciuti come autentici maestri di verità (così Diano-Serra, p. 170, e Conche, p. 259, mentre Kahn, p. 244, Robinson, pp. 144-45, e Pradeau, p. 306, considerano le parole di Eraclito rivolte, gene-ricamente, contro gli uomini che ignorano la verità e la conoscenza che pure sarebbero alla loro portata; eccentrica la resa di Bollack-Wismann, p. 278, che fanno di ajmaqivhn il soggetto di kruvptein e traducono: «Il est mieux que l’ignorance cache», da intendere come negazione falsa di un falso sapere, se ciò che l’ignoranza nasconde, falsamente in quanto ignoranza, non è appunto che un falso sapere). Suggerisco anzi, pur congetturalmente, che questo frammento concluda la sequenza dei materiali eraclitei in cui vengono delineate alcune «prescrizioni» di carattere epistemologico: se infatti (1) il conoscere deriva, in opposizione alle opinioni dei più, dall’uso diretto e autonomo dei propri sensi rivolti alle cose che sono (come è affermato particolarmente nei frr. 41 [101a DK; 6 Marc.], 42 [55 DK; 5 Marc.] e 43 [7 DK; 78 Marc.]), e dal vaglio della comprensione critica delle informazioni da essi acquisite (cfr. il fr. 44 [107 DK; 13 Marc.]), così configurandosi come una ricerca vasta e difficile cui bisogna però necessariamente dedicarsi, come il solo Biante di Priene sembra aver fatto (si vedano rispettivamente, in proposito, i frr. 45 [35 DK; 7 Marc.] e 46 [39 DK; 100 Marc.]); e ciò in quanto (2) lo statuto delle opinioni dei più si riduce a semplice apparenza, a motti popolari e favole di menestrelli, cioè a credenze fallaci che hanno radice in una forma di erudizione vuota e acritica, in un «molto sapere» che nulla ha a che fare con l’«intelligenza» (come spiegato, in generale, nei frr. 47, 48 e 52 [28 DK; 20+19 Marc.] e, in riferimento ad alcune parti-colari figure di polumaqei'ı, nei frr. 49 [56 DK; 21 Marc.], 50 [57 DK; 43 Marc.]) e 51 [129 DK; 17 Marc.]); se ne potrà agevolmente concludere qui che dell’ignoranza (indifferentemente, propria o altrui), che non sia riconosciuta come tale e in tal caso auspicabilmente corretta, ma che sia invece camuffata da (falsa) sapienza (come avviene ai polumaqei 'ı), occorre invece vergognarsi, nasconderla e guardarsi bene dal diffonderla pubblicamente (come fanno, ancora una volta, i polumaqei 'ı). Se tutto ciò è plausibile, avremmo una significativa transizione terminologica e semantica dalla mavqhsiı concepita come una forma di apprendimento che consiste nella ricerca diretta delle cose che sono (fr. 42), cioè in una iJstorivh pollw'n di segno positivo (fr. 45), se il suo esito è criticamente vagliato da una facoltà di giudizio riconducibile all’anima (fr. 44), cui fa seguito, e si contrappone, una polu-maqiva intesa come un falso apprendi-mento, perché basato esclusivamente su un’accumulazione quantitativa

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(poluv) di nozioni non selezionate criticamente (frr. 47-52), che infine si riduce qui, con un voluto paradosso, da polu-maqiva ad aj-maqiva, cioè appunto a una privazione di ogni forma di mavqhsiı, che non si può che condannare e nascondere. I seguenti frr. 54 [78 DK; 90 Marc.], 55 [79 DK; 92 Marc.], 56 [86 DK; 12 Marc.], 57 [102 DK; 91 Marc.] e 58 [124 DK; 107 Marc.] collocheranno la contrapposizione fra queste due forme di sapere – l’una falsa e solo apparente, per quanto apprezzata dai più, l’altra invece autentica e portatrice di verità, per quanto possesso di pochi – nel quadro di una comparazione di valore che assimila la prima all’ordinaria condizione della massa degli uomini, che colgono la realtà in modo parziale e confuso, e la seconda allo stato eccezionale di coloro i quali assurgono a una conoscenza divina, in quanto onnicomprensiva e infallibilmente vera.

Fr. 54 [78 DK; 90 Marc.]1

h\qoı ajnqrwvpeion me;n oujk e[cei gnwvmaı, qei'on de; e[cei.

All’indole umana non appartengono conoscenze, ma a quella divina sì.2

1 Questo frammento è riportato, in una sequenza continua con il seguente fr. 55 [79 DK; 92 Marc.], da Celso, in Origene, Contra Celsum VI 12 (= II 82.18 Koetschau), che avrebbe attribuito ai cristiani la tesi di una radicale svalutazione del sapere umano di fronte a quello divino; Origene, nel replicare a Celso, sottolinea come questi avrebbe inoltre sostenuto che una simile convinzione risale in realtà ad alcuni degli antichi filosofi: «Ha anche inteso mostrare (scil., Celso) che questa tesi è stata da noi riprodotta e ripresa dai sapienti greci, che affermano che altra è la sapienza umana, altra la sapienza divina. E richiama le frasi di Eraclito, quella che dice infatti: ... (Celso cita qui il fr. 54); e l’altra: ... (Celso cita qui il fr. 55). Cita inoltre l’opera di Platone, l’Apologia di Socrate ... (= Apologia 20d)». Alcuni dubbi, con le conseguenti proposte di correzione, sono stati avanzati sulla struttura ritmica di queste parole, ma senza reale fondamento (cfr. solo, in proposito, Marcovich, pp. 330-31, e Mouraviev I, p. 192, e III, p. 91, n. 1): inverosimile la congettura di Heidel di e[qnoı in luogo di h\qoı, perché darebbe, nella seconda parte della proposizione, il sintagma qei'on e[qnoı, di assai difficile comprensione (la «stirpe divina»?) perché non altrimenti attestato. Il gavr che compare nel testo di Origene dopo il termine h\qoı appartiene, a mio avviso, al contesto introduttivo della citazione e non a quest’ultima.

2 Il termine h\qoı indica qui, verosimilmente, i tratti che, in virtù del

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FR. 54 [78 DK; 90 MARC.] 213

comportamento usuale e abitudinario degli uomini, finiscono per costi-tuirne il «carattere», la «natura acquisita» o, appunto, l’«indole», nello stesso senso in cui, nel fr. 98 [119 DK; 94 Marc.], tali tratti «caratteriali» verranno evocati a spiegarne il «destino» o la «condotta»; mentre al termine gnwvmh attribuisco il significato, corrente nella lingua greca, di «facoltà conoscitiva» (di un soggetto) oppure di «giudizio» o «conoscen-za» (come esito oggettivo dell’esercizio della facoltà conoscitiva di un soggetto), come già nel caso del fr. 9 [41 DK; 85 Marc.], cfr. n. 3: il presente frammento risulta allora strutturato sulla base di una contrapposizione, di carattere essenzialmente «epistemologico», fra un h\qoı, qualificato come umano, incapace di produrre conoscenze o giudizi, da intendere, in termini generali e senza ulteriori precisazioni, come fondamenti del sapere, e un h\qoı, detto invece divino, che possiede al contrario tale capacità. La gran parte dei traduttori e dei commentatori, evidente-mente influenzata dal contesto del citatore (cfr. la nota precedente), ritiene che sia in gioco qui, con l’impiego di h\qoı, una distinzione, di carattere propriamente «ontologico» (se non perfino teologico), fra la natura «propria», «essenziale» o «innata», rispettivamente degli uomini e degli dei, alla prima delle quali, in quanto priva di efficaci facoltà conoscitive, è precluso l’accesso alla vera conoscenza che risulta invece immediatamente disponibile alla seconda: è evidente come, attribuendo al termine h\qoı un significato ben più forte di quello da me ammesso, si finisca per riconoscere nelle parole di Eraclito una radicale svalutazione di ogni forma di sapere umano, e a un tempo di ogni attitudine umana all’acquisizione del sapere, rispetto al sapere divino e all’attitudine ad acquisirlo che sarebbe propria esclusivamente degli dei (così soprat-tutto Marcovich, pp. 331-32, e Diano-Serra, p. 167; mentre Kahn, p. 173, e Pradeau, p. 200, sottolineano piuttosto il carattere relativistico dell’affermazione di Eraclito, l’uno attribuendo al verbo e[cei il senso «attenersi a» o «mantenere» [sicché avremmo che la «natura umana» riesce, sì, a realizzare giudizi o conoscenze, ma, diversamente da quella «divina», non ad «attenervisi» o a «mantenerli saldi»], l’altro di fatto interpretando il presente frammento alla luce del seguente fr. 55 [79 DK; 92 Marc.], cfr. n. 2, e perciò leggendovi non tanto una negazione delle possibilità di accesso dell’uomo al vero sapere, quanto piuttosto la distinzione gerarchica o di grado che separa il sapere umano dal sapere divino). Una simile interpretazione mi sembra tuttavia trascurare l’evidenza, che si trae in generale dai materiali raccolti nella Sezione 1 e nella presente Sezione 4, dell’accessibilità del vero sapere che, secondo Eraclito, è certamente alla portata di coloro i quali sappiano elevarsi al di sopra delle opinioni dei più e delle credenze solo apparenti, formulate autonomamente o accolte da altri, attraverso l’esercizio della propria capacità critica (si veda in proposito, per un sintetico riepilogo dei diversi riferimenti evocati, la n. 2 al precedente fr. 53 [95=109 DK; 110 Marc.]), giungendo così all’ascolto del lovgoı, che, come indicato fin dal fr. 1 [1 DK; 1 Marc.], argomenta e veicola un sapere, a tutti accessibile per il suo carattere razionale e universale, che verte sulla totalità del reale. Così stando le cose, ritengo più verosimile intendere l’opposizione fra l’h\qoı ajnqrwvpeion e l’h\qoı qei'on in tale contesto, come riferita a due distinte

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214 FR. 55 [79 DK; 92 MARC.]

«disposizioni» nei confronti della conoscenza: l’una, che appartiene ordinariamente agli uomini e ne rappresenta perciò il «carattere» più diffuso e abituale, segnata dalla pigrizia e dall’incapacità a volgersi alla ricerca, e dunque dal totale abbandono al (falso) sapere della tradizione e della folla; l’altra, la cui qualifica di «divina» ha a che fare esclusivamente con la connotazione della sua superiorità epistemolo-gica, e non con l’indicazione di una sfera di infallibilità e onniscienza trascendente rispetto all’umano, che invece corrisponde all’attitudine dei pochi, appunto «divini» per le loro capacità di comprensione, che riescono ad elevarsi alla conoscenza di tutte le cose (avviando perciò, con il seguente fr. 55, e dopo la sequenza dei frammenti da 40 [87 DK; 109 Marc.] a 53, in cui tali «disposizioni» sono ampiamente esaminate e descritte, una comparazione di valore fra di esse; cfr. anche, con diversi toni e sfumature, Bollack-Wismann, p. 240, Conche, pp. 81-83, e Robinson, p. 131). In altre parole, e più semplicemente, non si tratta qui di due categorie, distinte ed esclusive, che comprendono «soggetti» di conoscenza di diversa e opposta natura, ma di due atteggiamenti differenti che a tutti gli uomini può di volta in volta capitare di tenere, salvo che, la maggior parte di loro trascorre la propria vita nel primo di essi, cioè nell’indolenza e nell’ignoranza, mentre solo pochi riescono a adottare la corretta attitudine alla conoscenza della verità, che per questa ragione merita l’attributo di «divina», a indicare la rarità di quanti vi accedono e a sottolinearne a un tempo la superiorità e il pregio.

Fr. 55 [79 DK; 92 Marc.]1

ajnh;r nhvpioı h[kouse pro;ı daivmonoı o{kwsper pai'ı pro;ı ajndrovı.

Un uomo fa la parte dello sciocco di fronte a un demone, proprio come un ragazzino di fronte a un uomo.2

1 Questo frammento è riportato, in una sequenza continua con il pre-cedente fr. 54 [78 DK; 90 Marc.], da Celso, in Origene, Contra Celsum VI 12 (= II 82.23 Koetschau): si veda perciò, per il contesto della citazione, la n. 1 al fr. 54. Da segnalare quella che a me pare, con Bollack-Wismann, pp. 248-49, e Marcovich, pp. 336 (fr. 92b) e 338, come una semplice reminiscenza, ampiamente rimaneggiata, del presente frammento in Platone, Ippia maggiore 288e-289b, di cui si possono distinguere due parti (= frr. 82-83 DK): (a) piqhvkwn oJ kavllistoı aijscro;ı a[llw/ [a[llw/ è lezione dei manoscritti platonici, che Bekker ha proposto di correggere in ajnqrwvpwn] gevnei sumbavllein, «la più bella delle scimmie è brutta in confronto a un’altra specie (oppure: al genere umano)»; (b) ajnqrwvpwn oJ sofwvtatoı pro;ı qeo;n pivqhkoı fanei 'tai kai; sofiva/ kai; kavllei kai; toi 'ı

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a[lloiı pa 'sin, «il più sapiente fra gli uomini si rivela come una scimmia di fronte alla divinità, per sapienza, bellezza e ogni altra caratteristica». Giudicato possibilmente autentico quanto al suo contenuto, anche se non nella forma di una citazione letterale, e considerato come un unico frammento a parte, ma tematicamente connesso al presente fr. 55, da Kahn, pp. 54-55 e 174, Diano-Serra, pp. 34-35 e 167-68, Robinson, p. 133, Pradeau, pp. 91-93 e 196-99 (che però non esclude non solo una parafrasi, ma anche l’introduzione di possibili incisi esplicativi da parte di Platone), e particolarmente da Conche, pp. 87-90, e da Mouraviev I, pp. 212-13, e III, p. 100 (che si basano su un’analisi dettagliata, ma a mio avviso non convincente, del passo platonico), mi sembra invece che il brano dell’Ippia maggiore non solo risulti difficilmente riconducibile, anche solo concettualmente, a un presunto originale eracliteo, che si tratti delle stesse parole stampate qui come fr. 55 o di altre a queste prossime, ma ho soprattutto l’impressione che esso susciti una seria contraddizione teorica: in primo luogo, dal punto di vista terminologico e tematico, Platone introduce in (a) e in (b), come termine di paragone inferiore rispetto all’uomo adulto, la scimmia (pivqhkoı) in luogo del ragazzino (pai'ı) della citazione di Celso; in secondo luogo, tale paragone è costruito in (a) e in (b), conformemente all’argomento del dialogo, in riferimento alla bellezza (kavlloı, to; kalovn) più che alla conoscenza o alla sapienza (sofiva), introdotta da Platone solo in seconda battuta, in (b), e come esemplificazione ulteriore e generica (... kai; toi 'ı a[lloiı pa'sin) dell’inferiorità dell’uomo, e della scimmia cui l’uomo è assimilato, rispetto al dio, il che giustifica presumibilmente, nel contesto platonico, (1) la sostituzione con la scimmia del pai 'ı di Celso, di cui si può dire che è nhvpioı, ma non aijscrovı, e (2) la conseguente marginalizzazione della sofiva rispetto a to; kavlloı, in quanto è in relazione alla bellezza, ma non alla sapienza, che può valere il paragone con la scimmia; infine, e soprattutto, Platone sostituisce, in (b), il daivmwn della citazione di Celso con qeovı, così giungendo, almeno stando al significato ordinario di questi due termini nella lingua greca, a stabilire, o quantomeno a radicalizzare, la reciproca separazione di due sfere distinte, quella dell’a[nqrwpoı e quella del qeovı, fra cui viene posta la comparazione, mentre il daivmwn di Celso pare designare piuttosto una dimensione intermedia fra il divino e l’umano, cui l’a[nqrwpoı (o ajnhvr) può accedere, almeno in certi casi – e proprio su questo punto, sulla possibilità di accesso dell’uomo a una sfera superiore alla condizione umana ordinaria, e perciò apparentata al divino o qualificabile come tale, si gioca a mio avviso l’interpretazione del frammento e l’esatta determinazione della tesi difesa da Eraclito (cfr. la nota seguente). Non vi è dubbio, invece, che il fine perseguito da Platone sia quello di attribuire a Eraclito una forma di relativismo: nell’Ippia maggiore, infatti, si cerca la vera natura del bello (dell’idea intellegibile del bello) e a Ippia, che non coglie il senso della questione e propone una serie di esempi particolari di specifiche cose belle, Socrate oppone due argomenti, entrambi ricondotti al nome di Eraclito, il pri-mo a dimostrare che ogni cosa, perfino una scimmia, può essere bella, ma solo relativamente, cioè in relazione a qualcos’altro che sia meno bello, mentre sarà brutta in relazione a qualcos’altro che sia più bello;

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il secondo a precisare che tale visione relativistica porta a concludere, contraddittoriamente, che ogni cosa può essere bella e brutta allo stesso tempo, appunto rispetto a termini di paragone diversi. Diverso è dunque, nel contesto platonico, il tema generale (la natura del bello), diversa la strategia argomentativa (che ricorre al presunto relativismo eracliteo per confutare la posizione di Ippia, prima relativizzando la sua tesi – perché ogni cosa particolare può essere, da qualche punto di vista, bella –, poi negandone la verità – perché ciò che è solo relativamente bello sarà anche, sotto lo stesso rispetto, relativamente brutto), diverso, infine, l’ambito teorico (appunto quello di una contrapposizione fra il presunto relativismo eracliteo e la dottrina platonica delle idee); pro-prio sul tema del relativismo, in rapporto con la dottrina del divenire che Platone ascrive, a mio avviso in modo forzato, a Eraclito, mi sono lungamente espresso supra, nelle nn. 1 e 3 al fr. 25 [12 DK; 40 Marc.], e nell’Introduzione, §§ 4.2 e 4.4, cui rimando per un esame della questione: solo Conche, p. 88, e Pradeau, pp. 198-99, oltre a considerare il brano discusso dell’Ippia maggiore, per quanto parafrasato, coerente con il presente fr. 55, nella versione riportata da Celso, e con il precedente fr. 54, non esitano ad assumere anche come sostanzialmente pertinente il resoconto platonico del relativismo eracliteo che esso presuppone.

2 L’aoristo h[kouse (dal verbo ajkouvw, «ascoltare») ha evidentemente un valore gnomico e va reso qui come «si sente chiamare», «fa la parte di» (cfr. Mouraviev III, p. 91, nn. 2-3). Nel presente frammento si è voluto leggere uno schema rigorosamente proporzionale che sarebbe caratteristico delle modalità argomentative e dimostrative dello stile eracliteo (secondo un’interpretazione originariamente proposta da Petersen e Fränkel, discussi in Marcovich, pp. 337-38, e sostanzialmente approvata da Kirk, pp. 78 e 302): avremmo cioè che, come il «dio» sta all’«uomo», così l’«uomo» sta al «ragazzino» (A : B = B : C), sicché, assunti come noti i termini estremi della proporzione – l’ambito del divino, come esemplificazione comunemente accettata della perfezione, e, all’opposto, la figura del ragazzino, come altrettanto evidente esem-plificazione dell’imperfezione e dell’incompiutezza dell’età infantile (designata dalla «semplicità» o dalla «superficialità» dello «sciocco», nhvpioı, che Conche, p. 77, forse a ragione, assimila al bambino ancora incapace di esprimersi correttamente) –, diviene possibile collocare rispetto a essi, e determinare, il termine medio «uomo», che risulta di per sé ignoto o quantomeno meno chiaro, appunto nella misura in cui appare talvolta «sciocco» (rispetto al dio), talvolta no (rispetto al ragazzino). Si tende così a stabilire una rigida scansione fra i tre termini, «ragazzino», «uomo» e «dio», con le rispettive sfere di competenza, che consente di definire l’«uomo», distinto tanto dal «ragazzino» quanto dal «dio», come in possesso di una forma di sapere (rispetto al «ragazzino» che è «sciocco») che però non ha reale valore (rispetto all’autentica sapienza del «dio», di fronte alla quale l’«uomo» è a sua volta «sciocco»), al punto da contrapporre in modo esclusivo le due sfere conoscitive del divino e dell’umano, a sua volta caratterizzata, quest’ultima, dalla contrapposizione fra l’ambito infantile e l’età adulta: così intendono Kahn, p. 174, e Diano-Serra, p. 167, alla luce, fra l’altro,

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dell’analoga interpretazione che essi propongono del precedente fr. 54 [78 DK; 90 Marc.], cfr. n. 2, oltre che del brano platonico dell’Ippia maggiore esaminato nella nota precedente, i cui contenuti considerano come possibilmente autentici; mentre Marcovich, p. 338, pur nutrendo dubbi sullo schema proporzionale sopra indicato, e particolarmente sulla sua pertinenza come rappresentazione caratteristica dello stile argomentativo di Eraclito, ne condivide tuttavia il contenuto, indi-viduando perciò in queste parole, coerentemente con la sua lettura del precedente fr. 54, cfr. ancora n. 2, la tesi di una netta separazione «epistemologica» fra la natura umana e quella divina. Una simile inter-pretazione incontra però, a mio avviso, due insormontabili difficoltà, giacché, innanzitutto, essa trascura il fatto che, per designare l’ambito del divino, viene impiegato qui non il termine qeovı, ma il termine daivmwn, che non mi sembra equivalente al primo, dal momento che il daivmwn indica, già in età postomerica, una dimensione intermedia fra il divino e l’umano che, se certamente oltrepassa la condizione ordinaria degli a[nqrwpoi e si apparenta perciò alla condizione dei qeoiv, non coincide però con quest’ultima (così Conche, pp. 77-78; con-tra Marcovich, p. 337); e tale rilievo si trova soprattutto confermato dalla constatazione che, mentre il «ragazzino» e l’«uomo» si pongono in una sequenza continua, poiché il «ragazzino», crescendo, diviene necessariamente «uomo», sarebbe paradossale che la continuità fosse interrotta al livello superiore, sancendo l’assoluta inaccessibilità, per l’«uomo», della condizione del «demone» e pronunciando di fatto un’assoluta condanna di ogni possibile sapere «umano», destinato a essere confinato, sulla base di una radicale minorità rispetto a quello «divino», in una sfera di semplice apparenza e superficialità, appunto quella di chi è soltanto nhvpioı; mentre Eraclito giudica evidentemente e notoriamente accessibili agli uomini, almeno a certe condizioni, il sapere e la verità (cfr. solo, in proposito, il sintetico résumé proposto supra, nella n. 2 al precedente fr. 54). Credo perciò che il senso del presente frammento, strettamente connesso al precedente, sia piut-tosto che l’uomo comune, cioè quello che, in virtù della sua «indole» acquisita dall’abitudine, non ha gnwvmai (fr. 54), può soltanto apparire sapiente ed esclusivamente al ragazzino (che è «sciocco»), ma senza esserlo realmente (e perciò risultando «sciocco» di fronte al daivmwn), laddove solo quei pochi fra gli uomini che assurgono a una dimensione conoscitiva superiore all’ordinario e apparentata al divino, simili a daivmoneı, acquisiscono un vero sapere, cioè gnwvmai «divine» (fr. 54) o «demoniche» (fr. 55), in confronto al quale il sapere apparente degli uomini comuni si rivela come un intreccio di sciocche credenze: cfr. pure l’Introduzione, § 4.4, e Conche, pp. 79-80; anche Pradeau, p. 200, che pure considera questo frammento come un esempio di relativismo eracliteo sostanzialmente coerente con le testimonianze platoniche discusse nella nota precedente, suggerisce un’interpretazione analoga, con l’indicazione, qui, di una scala gerarchica che non produce una delimitazione di ambiti conoscitivi separati, dell’umano e del divino, ma stabilisce diversi gradi di conoscenza percorribili da parte dell’uomo che si adegui alle opportune prescrizioni epistemologiche.

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Fr. 56 [86 DK; 12 Marc.]1

(scil., ajlla; tw'n me;n qeivwn ta; pollav) ajpistivh/2 diafuggavnei mh; gignwvskesqai.

(scil., La maggior parte delle cose divine) sfugge alla cono-scenza per incredulità.3

1 Questo frammento è riportato da Plutarco, Coriolano 38.6-7, che lo introduce così: «In nulla e in nessun modo, infatti, la divinità assomiglia al genere umano, né per la sua natura, né per il suo movimento, né per la sua competenza, né per la sua per forza, né è assurdo che faccia e architetti cose che noi non siamo in grado di fare o di architettare, ma piuttosto, molto differendo sotto ogni aspetto, è soprattutto per le opere che è diversa da noi e si distingue. Ma la maggior parte delle cose divi-ne, secondo Eraclito, ... (Plutarco cita qui il fr. 56)». Identica citazione, ma con una premessa apparentemente di segno opposto, in Clemente Alessandrino, Stromateis V 88.4 (= II 334 Stählin): «Ma nascondere le profondità della conoscenza (scil., divina), secondo Eraclito, dipende da una forma positiva di incredulità (ajpistivh/ ajgaqh/'; mentre Ramnoux ha proposto la correzione in ajgaqovn, al neutro, che darebbe: “Ma è bene nascondere le profondità della conoscenza all’incredulità, secondo Era-clito, ...”), giacché ... (Clemente cita qui il fr. 56 nella stessa forma data da Plutarco)». Se ci si limita, come ritengo opportuno (con DK, Bollack-Wismann, p. 255, Marcovich, p. 30, Kahn, pp. 68 e 211, Diano-Serra, p. 165, Conche, p. 260, Robinson, pp. 52-53, e Pradeau, pp. 143 e 256), a considerare autentiche soltanto le parole che i due citatori attribuiscono concordemente a Eraclito (ajpistivh/ diafuggavnei mh; gignwvskesqai, ma, per il termine ajpistivh/, cfr. la nota seguente), si ricava, da entrambe le citazioni, che Eraclito avrebbe sostenuto che l’«incredulità» costituisce un ostacolo alla conoscenza più alta, quella che riguarda le «cose divine», anche se, secondo Plutarco, egli avrebbe considerato negativamente tale umana «incredulità», mentre Clemente pare ascrivergli invece, meno perspicuamente, l’opinione secondo cui l’«incredulità», intesa come mancanza di fede, presenta un aspetto positivo, che è quello di preservare «le profondità della conoscenza» appunto dagli increduli (sulle diverse possibilità di comprensione del contesto della citazione di Clemente, si veda tuttavia Mouraviev III, pp. 107-08, nn. 6-7). Il soggetto della pro-posizione riconducibile a Eraclito è dato da Plutarco e da Clemente in forma a mio avviso corretta, benché parafrasata (e per questo è da me stampato fra parentesi tonde), mentre è sottinteso, ma immediatamente evidente, il riferimento polemico presupposto: tw 'n me;n qeivwn ta; pollav, «la maggior parte delle cose divine» (di Plutarco) / ta; me;n th 'ı gnwvsewı bavqh, «le profondità della conoscenza (scil., divina)» (di Clemente)

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sfuggono agli uomini (cfr. ajnqrwpivnw/ e hJmi'n di Plutarco) / agli increduli (cioè a chi fa prova di «una forma positiva di incredulità», cfr. ajpistivh/ ajgaqh/ ' di Clemente), che, appunto per la (loro) «incredulità», mancano di conoscerle: così anche Diano-Serra, p. 165, e Robinson, pp. 52-53 e 136, mentre, secondo Marcovich, p. 31, si deve piuttosto ipotizzare qui un soggetto con connotazioni «epistemologiche» (come il lovgoı era-cliteo) e non teologiche (come il «divino» o la conoscenza «divina»), ma su questa distinzione, in sede interpretativa, cfr. infra, n. 3; diversa costruzione in Bollack-Wismann, p. 255, Kahn, p. 68, Conche, p. 260, e Pradeau, pp. 143 e 256 (cfr. la nota seguente). Il solo Mouraviev I, pp. 222-23, e III, pp. 107-08, nn. 3-5, propone come autentica una porzione più ampia della citazione e si pone di conseguenza il problema di quale dei due citatori privilegiare; ora, poiché considera ajlla; tw'n me;n qeivwn ta; pollav di Plutarco come stilisticamente non riconducibile a Eraclito, opta per la versione di Clemente Alessandrino e costruisce il testo seguente: ajlla; ta; me;n th 'ı gnwvsewı bavqea kruvptei(n) ajpistivh/ ajgaqh/ ' (oppure, al nominativo: ajpistivh ajgaqhv): ajpistivh/ ga;r diafuggavnei mh; gignwvskesqai, che rende: «Ma nascondere le profondità della conoscenza dipende da una forma positiva di incredulità (oppure: è una forma positiva di incredulità che nasconde le profondità della conoscenza); infatti, per incredulità sfuggono alla nostra conoscenza». Tuttavia, come indicato sopra, pur se a mio avviso plausibile nei suoi contenuti, giudico l’intro-duzione della citazione di Clemente (come anche di quella di Plutarco) come ampiamente parafrasata e inoltre sottoposta, linguisticamente e concettualmente, a una revisione in chiave cristiana, ciò che, del resto, lo stesso Mouraviev III, p. 107, nn. 4-5, non nega affatto, ma considera insufficiente per escludere che possa risalire, mutatis mutandis (cioè, ovviamente, al di fuori di ogni riferimento al cristianesimo), all’origi-nale eracliteo.

2 ajpistivh/, al dativo, è correzione (unanimemente accolta fin da Bywater) della lezione ajpistivh, al nominativo, dei manoscritti UA di Plutarco (mentre il manoscritto N ha pivstin), che si ritrova del resto anche in Clemente (a sua volta corretta al dativo da Stählin); ma il nominativo ajpistivh, conservato per esempio da Bollack-Wismann, p. 255, Kahn, p. 68, Conche, p. 260, e Pradeau, pp. 143 e 256, oltre ad apparire sintatticamente inappropriato al contesto (cfr. Mouraviev III, p. 107, n. 2), determina soprattutto una traduzione il cui significa-to mi pare particolarmente forzato o francamente incomprensibile: «L’incredulità fugge per paura di essere conosciuta (o: di conoscere)» (Bollack-Wismann e Conche), «L’inverosimiglianza (o: incredibilità, incredibility) sfugge alla conoscenza» (Kahn) oppure «L’incredulità sfugge alla conoscenza» (Pradeau); ora, ammesso e non concesso che ajpistivh possa essere inteso nel senso (oggettivo) di «inverosimiglianza» (scil., delle cose divine o della loro conoscenza), piuttosto che nel senso (soggettivo), decisamente più plausibile nel contesto della citazione, di «incredulità» (scil., di coloro ai quali le cose divine o la loro conoscenza appunto sfuggono), va rilevato in ogni caso che non sono certo l’«invero-simiglianza» o l’«incredulità» a «sfuggire alla conoscenza» (o: «per non conoscere»), ma eventualmente gli oggetti da cui l’«inverosimiglianza»

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o l’«incredulità» sono suscitate, così tornando necessariamente a una traduzione che, ad sensum, riproduce quella suggerita dalla correzione con il dativo ajpistivh/.

3 Se, come ipotizzato supra, n. 1, il contesto della citazione di Plutarco (e di Clemente Alessandrino) fornisce, pur se in forma parafrasata, il soggetto sottinteso della proposizione ascrivibile a Eraclito, il senso del presente frammento appare piuttosto chiaro: gli uomini, nella loro generalità, non riescono a giungere alla vera conoscenza, cioè quella che si colloca in un ambito definito come «divino» in quanto ha per oggetto le realtà più alte – ossia, verosimilmente, la totalità delle cose che sono –, «per incredulità», vale a dire che non confidano negli stru-menti cognitivi che pure possiedono (perché, se non li possedessero affatto, risulterebbero «incapaci» di conoscere, e non «increduli») e nella possibilità di utilizzarli adeguatamente per acquisire il sapere e cogliere la verità (per un sintetico riepilogo di tali prescrizioni «episte-mologiche», si veda supra, n. 2 al fr. 53 [95=109 DK; 110 Marc.]). Dopo che nei precedenti frr. 54 [78 DK; 90 Marc.], cfr. n. 2, e 55 [79 DK; 92 Marc.], cfr. n. 2, è stata stabilita una comparazione di valore assoluto fra il sapere ordinario della massa degli uomini e il sapere dei pochi fra essi che assurgono a una conoscenza «divina» (da intendere perciò come tale, come spiegato nelle relative note di commento, non perché possesso esclusivo della divinità o rivolta alla dimensione del divino, ma nella misura in cui conduce chi l’acquisisce a una condizione di assoluta superiorità rispetto ai più), in questo e nei seguenti frr. 57 [102 DK; 91 Marc.] e 58 [124 DK; 107 Marc.], tali forme di sapere sono paragonate, e contrapposte, dal punto di vista dei loro rispettivi contenuti: il sapere ordinario della massa è parziale e incompleto, come si dice qui, perché manca di cogliere la conoscenza delle cose divine (o della «maggior parte» di esse), in quanto non assume il punto di vista della totalità delle cose che sono nei loro rapporti reciproci (fr. 57), che a loro volta garantiscono e reggono l’ordinamento del tutto (fr. 58); il sapere «divino» dei pochi autentici sapienti è invece, per contrasto, onnicomprensivo e completo, perché contempla la totalità delle cose che sono (fr. 58), conoscendole in sé e nelle loro relazioni reciproche (fr. 57), con una significativa assonanza con l’unico sapere che mira alla conoscenza di ciò che governa il tutto, evocato supra, nel fr. 9 [41 DK; 85 Marc.], cfr. n. 3, e che consiste nella comprensione dell’unità al di là della pluralità di tutte le cose, illustrata fin dal fr. 5 [50 DK; 26 Marc.], cfr. n. 6. In tale ottica, di carattere propriamente «epistemologico», l’interpretazione da me suggerita del presente frammento non si allontana troppo da quella proposta da Marcovich, p. 31, ricordata supra, n. 1, pur se in base a una diversa ipotesi rispetto al soggetto sottinteso della proposizione attribuita a Eraclito; con questa lettura concordano sostanzialmente anche Diano-Serra, p. 165, Robinson, p. 136, Pradeau, p. 256, e, in termini più generali, Mouraviev III, p. 108, n. 7; mentre, secondo Kahn, p. 211, il significato del frammento sarebbe piuttosto escatologico e alluderebbe alla prospettiva dell’aldilà che attende gli uomini dopo la morte, per questo apparentata al «divino» e mantenuta nascosta ai più per la loro «incredulità», da intendere allora come una mancanza di fede, se non

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propriamente religiosa, almeno psicologica e teologica, rispetto alla tesi dell’immortalità dell’anima e della supremazia del divino rispetto all’umano; Conche, pp. 260-61, ritiene infine che sarebbe in questione qui il rifiuto che gli uomini colpevolmente oppongono, per la loro mancanza di fede e a differenza del filosofo, di fronte alla «Verità» (la maiuscola è dell’autore).

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tw'/ me;n qew'/ kala; pavnta kai; ajgaqa;2 kai; divkaia, a[nqrwpoi de; a} me;n a[dika uJpeilhvfasin a} de; divkaia.

Per la divinità tutte le cose sono belle, buone e giuste, mentre gli uomini ne considerano alcune ingiuste, altre giuste.3

1 Questo frammento è riportato da Porfirio, Quaestiones homericae, ad Iliadem IV 4 (= 69 Schrader) = Scholia B - T in Iliadem IV 4 (III 194 Dindorf; V 124 Maass; I 445 Erbse), nel contesto di un esame delle accuse rivolte ai poemi omerici per l’inesattezza o l’inverosimiglianza di alcune loro affermazioni, con queste parole: «Dicono che è sconveniente che gli dei apprezzino lo spettacolo della guerra. Ma non è sconveniente, perché sono le opere nobili che gli dei apprezzano. D’altra parte, è a noi che guerre e battaglie sembrano terribili, ma non lo sono per un dio: infatti, il dio compie tutte le cose in vista dell’armonia dell’intero, in modo che siano ben ordinate. Come dice anche Eraclito: ... (Porfirio cita qui il fr. 57)». Dubbi sono stati avanzati sull’autenticità del frammento, che rappresenterebbe una citazione «modernizzata» di materiali eraclitei autentici (si veda Kirk, pp. 180-81, che riassume gli elementi a suo avviso indicativi in questa direzione) e avrebbe dunque, nella migliore delle ipotesi, la forma di una parafrasi (così, per esempio, Kahn, pp. 60-61 e 183, Diano-Serra, pp. 165-66, e Pradeau, p. 204); trovo però persuasivi gli argomenti forniti particolarmente da Marcovich, pp. 333-34, e Mou-raviev III, p. 122, e giudico queste parole verosimilmente autentiche: il verbo uJpolambavnw è già attestato in Erodoto II 55.2, e dunque non può essere denunciato come sospetto in Eraclito; la variatio fra dativo (tw '/ qew'/) e nominativo (a[nqrwpoi), nella prima e nella seconda parte della proposizione, per quanto rara nell’uso eracliteo, non risulta sufficiente come indizio contro l’autenticità, soprattutto in considerazione della compiuta struttura metrica e ritmica dell’insieme, che può giustificare trascurabili irregolarità stilistiche.

2 kai; ajgaqa; è lezione del manoscritto T, accolta dalla quasi totalità

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degli editori, omessa invece dagli altri manoscritti ed espunta da Marco-vich, pp. 332-33, e Robinson, pp. 60 e 149, che considerano improbabile l’espressione, giudicata eccessivamente tradizionale, kala; kai; ajgaqav; Mouraviev III, p. 122, ne difende tuttavia l’autenticità, soprattutto sulla base della struttura metrica e ritmica che contribuisce a conferire alla proposizione.

3 Le interpretazioni del presente frammento sono assai varie e divergenti: vi è chi ha voluto vedervi una nuova esemplificazione della dottrina eraclitea dell’unità dei termini opposti (così, per esempio, Kirk, p. 166, e, più recentemente, Kahn, pp. 184-85, e Pradeau, p. 205), al che si deve obiettare però che, se i termini opposti sono, dal punto di vista umano, il «giusto» e l’«ingiusto», il punto di vista divino, nella sua unità, dovrebbe trascendere tale opposizione e ricomporla in una prospettiva unitaria e non, come pare avvenire qui, scegliere uno dei due termini opposti, di fatto sopprimendo l’altro (se, «per la divinità», pavnta divkaia); vi è poi chi ha supposto un’equivalenza fra divkaia (= to; divkaion) ed e[riı, sulla base di un accostamento al fr. 13 [80 DK; 28 Marc.], cfr. n. 5, e ha suggerito perciò qui un’allusione a povlemoı, alla «guerra», come principio che regola e domina l’intera realtà (si veda in particolare il fr. 12 [53 DK; 29 Marc.], cfr. n. 2; così Robinson, pp. 148-49), anche traendo spunto dal contesto del citatore (cfr. supra, n. 1), che sembra però andare in direzione contraria, perché contrappone il punto di vista umano, che contempla la guerra nella sua tragicità, al punto di vista divino, in cui la guerra diviene invece un trascurabile fattore dell’equilibrio del tutto; vi è infine chi ha letto in queste parole un riferimento polemico al celebre fr. 1 DK di Anassimandro, che indi-vidua nella giustizia (divkh) il principio di necessità in base al quale sono giudicati e regolati i rapporti fra le cose che sono, di per sé dominati dalla reciproca ingiustizia (didovnai aujta; divkhn kai; tivsin ajllhvloiı th'ı ajdikivaı), mentre Eraclito ridurrebbe invece l’ingiustizia (a[dika) all’ambito solo apparente delle convinzioni umane. Per un esame critico di queste interpretazioni, cfr. Marcovich, pp. 334-35, che a sua volta propone una lettura «teologica» del frammento, in base alla quale il disegno divino, in virtù della sua maggiore profondità e verità rispetto alle conoscenze umane, implica un ordinamento del tutto che trascende e integra in sé le apparenti contraddizioni rilevate dagli uomini (così pure, in una forma appena meno impegnativa, Diano-Serra, p. 166, secondo i quali il senso del frammento sarebbe semplicemente quello di sostenere che, mentre gli uomini e le loro azioni sono classificati in riferimento ai criteri del «giusto» e dell’«ingiusto», gli dei si pongono invece al di là di questa distinzione; cfr. pure in tal senso Bollack-Wismann, p. 292, e Conche, pp. 389-90). Avanzo personalmente, e congetturalmente, un’interpreta-zione sensibilmente diversa dalle precedenti e colloco il frammento in stretta relazione con i materiali «epistemologici» ascrivibili a Eraclito e raccolti in questa Sezione 4, e particolarmente con i precedenti frr. 54 [78 DK; 90 Marc.], cfr. n. 2, 55 [79 DK; 92 Marc.], cfr. n. 2, e 56 [86 DK; 12 Marc.], cfr. n. 3, in cui viene introdotta una comparazione fra sapere umano e sapere «divino», cioè di quei pochi fra gli uomini che assurgono a una conoscenza superiore a quella, erronea e fallace, degli

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uomini comuni (frr. 54-55), inoltre esprimendosi sui contenuti rispettivi di tali forme di sapere: il sapere umano è incompleto, perché trascura la «maggior parte delle cose divine» (fr. 56), e confuso, come si dice qui, in quanto si fonda su un’errata identificazione delle cose che sono e delle loro relazioni (esempio di questo errore è la distinzione fra «giusto» e «ingiusto», per la reciproca definizione e comprensione delle cose che sono); il sapere «divino» è invece completo e onnicomprensivo, perché contempla la totalità delle cose che sono (come si trae implicitamente dal fr. 56), e infallibile ed esatto, come ancora si arguisce qui, in quanto sa determinare le relazioni fra le cose che sono, cogliendone la perfetta unità (designata dalla sequenza kala; pavnta kai; ajgaqa; kai; divkaia) al di là delle rispettive differenze e realizzando perciò una conoscenza unitaria e totale (per la quale si vedano i riferimenti evocati nella n. 3 al precedente fr. 56).

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savrma eijkh'/ kecumevnon oJ kavllistoı [oJ] kovsmoı.

Il bellissimo cosmo è spazzatura sparsa a caso.2

1 Questo frammento è riportato da Teofrasto, Metaphysica 15 (= 7a6-18 Usener; 16 Ross), nel contesto di una complessa indagine sui principi delle cose che sono e sulla concezione che ne hanno difeso i filosofi precedenti: «Gli uni pongono dunque che tutti i principi sono formali, altri pongono solo principi materiali, altri ancora gli uni e gli altri, cioè sia principi formali sia principi materiali, considerando che ciò che è completo implica gli uni e gli altri. La totalità di ciò che esiste è infatti costituita di contrari. Ma anche costoro (scil., coloro i quali pongono solo principi materiali) giudicherebbero assurdo che il cielo intero e ciascuna delle sue parti partecipino di ordine e proporzione per quanto riguarda le loro figure, proprietà e cicli, senza che vi sia nulla del genere (scil., ordine e proporzione derivanti da un principio formale) nei principi, ma come ... (Teofrasto cita qui il fr. 58), dice Eraclito». Il testo teofrasteo è stato sospettato di corruzione ed è comunque problematico, fin dalle parole che introducono la citazione (il che ha indotto alcuni, per esempio Diano-Serra, p. 106, n. 1, a considerarlo come una semplice testimonianza e altri, per esempio Kahn, pp. 84 e 287, come una parafrasi di materiali eraclitei autentici); in base ai manoscritti, abbiamo quanto segue: w{sper sa;rx eijkh/' kecumevnwn oJ kavllistoı oJ kovsmoı, che darebbe «... come carne (composta di parti) sparse a caso (è) il bellissimo cosmo, dice Eraclito» (il contesto teofrasteo, introdotto da dovxeien a[n ... [«costoro

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giudicherebbero ...»], richiederebbe naturalmente un ottativo del verbo essere sottinteso [ei[h], da rendere in italiano con un congiuntivo, ma ciò non è evidentemente necessario considerando la citazione eraclitea come a sé stante). In questa forma, però, il costrutto è sintatticamente e concettualmente improbabile, perché: (1) sa;rx eijkh'/ kecumevnwn dovrebbe essere quantomeno corretto, modificando il genitivo plurale neutro in un nominativo singolare femminile, in sa;rx eijkh/' kecumevnh («carne sparsa a caso»); (2) la conclusione oJ kavllistoı oJ kovsmoı si adatta a stento al paragone con la «carne sparsa a caso», sicché potrebbe dipendere da un intervento di Teofrasto, che sta appunto discutendo della natura dei principi del cosmo, mentre è possibile che l’originale eracliteo riportasse o sottintendesse, come sostantivo cui si riferisce il superlativo kavllistoı, qualcosa come a[nqrwpoı (eventualmente in riferimento a una nuova comparazione fra l’umano e il divino – «il più bello fra gli uomini [è] carne sparsa a caso [scil., rispetto alla divinità]» – in analogia con il fr. 55 [79 DK; 92 Marc.]); (3) lo w{sper iniziale appartiene più verosimil-mente a Teofrasto, non però, a mio avviso, a reggere l’inciso w{sper ... fhsin ÔHravkleitoı, da cui è troppo distante, ma a introdurre l’intera citazione («... ma come “carne sparsa a caso [è] il bellissimo cosmo”, dice Eraclito»), anche se non è impossibile il contrario («... ma “come carne sparsa a caso [è] il bellissimo cosmo”, dice Eraclito»): un argo-mento a favore di questa ipotesi (che riprendo da Marcovich, p. 377) è che lo w{sper possa essere stato inserito da Teofrasto per attenuare la brutalità del paragone eracliteo: «... ma, dice Eraclito, “il bellissimo cosmo (è)”, per così dire, “carne sparsa a caso”». Con queste modifi-che si giunge a un testo del genere: sa;rx eijkh'/ kecumevn<h ajnqrwvpwn> oJ kavllistoı, «il più bello fra gli uomini (è) carne sparsa a caso» (così, per esempio, Kirk, pp. 82 e 220; ma, per una ricostruzione completa delle diverse tappe del dibattito critico che ha condotto a questo esito, che non posso ripercorrere qui, si vedano Marcovich. pp. 376-77, e Mou-raviev I, pp. 314-15). Un’alternativa più recente, che si ricollega però alla precedente nel tentativo di mantenersi quanto più possibile vicino al testo tradito, è rappresentata da Mouraviev I, pp. 313-15, e III, p. 142, che ritiene (3) autentico lo w{sper iniziale, corretto in <o{k>wsper (seguendo Schuster); giudica (2) la citazione come riferita senz’altro al kovsmoı (benché consideri il termine non appartenente alla citazione, ma come una spiegazione del citatore), dunque senza l’introduzione di un diverso termine di paragone cui accostare sa;rx (come a[nqrwpoı); e propone (1), per il costrutto sa;rx eijkh '/ kecumevnwn, una lieve correzione del verbo in keku<h>mevnwn (conservando perciò il genitivo plurale del participio, ma del verbo kuvw o kuevw, «generare» o «concepire», e non del verbo cevw, «versare» o «spargere»): <o{k>wsper sa;rx eijkh/' <ei[h ke> keku<h>mevnwn oJ kavllistoı (scil., oJ kovsmoı), «come della carne alla rinfusa <sarebbe> il più bello degli esseri generati» – non potendosi trattare che del «cosmo», come spiega Teofrasto, notoriamente definito come kavllistoı tw'n gegonovtwn anche da Platone, Timeo 29a5, che verrebbe da Eraclito paragonato a della «carne alla rinfusa», da intendere a sua volta come muvlh, «aborto», cioè, ad sensum, come «carne abortita (oppure: marcita) alla rinfusa». Una difficoltà si presenta però di fronte a questa

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traduzione: come definire il kovsmoı «il più bello degli esseri generati», se il fr. 29 [30 DK; 51 Marc.], cfr. n. 4, lo dichiara invece eterno, affer-mando esplicitamente che kovsmon tovnde ... ou[te tiı qew'n ou[te ajnqrwvpwn ejpoivhsen? Mouraviev III, p. 142, nn. 5-6, suggerisce che Eraclito utilizzi qui una formula tratta dal linguaggio orfico-pitagorico o che ricorra a immagini trasmesse dalla mitologia, ma entrambe queste opzioni mi sembrano del tutto insoddisfacenti; ma tornando di consequenza al costrutto sa;rx ... kecumevnwn (o kecumevnh), si rileva (cfr. per esempio Marcovich, p. 377) che esso suppone un accostamento, terminologico e concettuale, di cui non si ha altrimenti conoscenza nella lingua greca ed è perciò sospetto come possibile correzione di matrice cristiana, eventualmente ispirata dal luogo comune del contemptus mundi (e/o corporis): Diels ha proposto pertanto la correzione savrma (accolta da buona parte degli editori), cui riferire allora, al neutro singolare, il parti-cipio kecumevnon (seguendo una correzione di Usener), che rappresenta il termine di paragone di oJ kavllistoı [oJ] kovsmoı, con la soppressione dell’articolo: «Il bellissimo cosmo (è) spazzatura sparsa a caso» (in DK viene conservato in realtà il genitivo plurale kecumevnwn, fatto dipendere da savrma: «spazzatura [oppure: mucchio di spazzatura] di cose sparse a caso», ma la costruzione con il neutro appare indubbiamente più naturale) – si tratta della costruzione e della traduzione da me, pur dubitativamente, adottate, cfr. pure Marcovich, pp. 376-77, e Robinson, pp. 70-71 e 162. Di senso analogo le scelte compiute da Bollack-Wismann, p. 338, e Conche, pp. 276-77, che espungono puramente e semplicemente savrx (o piuttosto lo restituiscono al contesto teofrasteo) e pongono un segno di interpunzione dopo kavllistoı («... come la carne [scil., è fatta di pezzi diversi], “di cose sparse a caso, la più bella disposizione, il cosmo”»), e dai più recenti editori della Metafisica teofrastea, A. Laks e G. Most (in Théophraste, Métaphysique, Les Belles Lettres, Paris 1993, ad 7a6-18), che, per mantenere la costruzione con il genitivo kecumevnwn, correggono però savrx in swrw 'n, al genitivo plurale (da swrovı, che è anch’esso congettura di Usener, alternativa a quella di Diels savrma), cui riferiscono, al nominativo singolare, il superlativo oJ kavllistoı, che rappresenta il termine di paragone di oJ kovsmoı, in tal caso mantenendo il relativo articolo: «Il cosmo è il più bello dei mucchi sparsi a caso» (così anche Pradeau, pp. 145-46 e 259-60). Si noterà che, pur differendo anche in modo notevole nel genere di immagini chiamate in causa, il significato d’insieme attribuito alle parole di Eraclito sembra condiviso: cfr. la nota seguente.

2 Il senso del presente frammento, pur al di là delle difficoltà testuali che esso solleva, sembra essere stato inteso correttamente, in linea generale, anche dal suo citatore (cfr. la nota precedente). Teofrasto evoca infatti le parole di Eraclito in polemica con quanti ritengono che l’ordine e la proporzione che il cosmo nel suo insieme manifesta dipendano esclusivamente da principi materiali, vale a dire da una serie di elementi costituenti privi a loro volta di qualunque ordine e proporzione, e dunque senza l’intervento di un principio formale e razionale, così suscitando il paradosso, testimoniato, agli occhi di Teo-frasto, dall’affermazione di Eraclito, che il mondo, nella sua bellezza e

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perfezione assolute, risulterebbe come un insieme di elementi soltanto materiali disposti alla rinfusa, il cui ordine si rivelerebbe perciò del tutto casuale: la critica eraclitea, e teofrastea, rivolta contro chi non capisce l’assoluta coincidenza dell’(apparente) casualità dell’ordine cosmico e del sottostante piano razionale che invece lo determina è sottolineata particolarmente da Kahn, p. 287, e Robinson, p. 162. Se però, come mi sembra opportuno, si fa astrazione dalla struttura metafisica (di matrice aristotelica) cui si appoggia l’analisi di Teofrasto, con la distinzione fra principi materiali e principi formali del cosmo, è verosimile che Eraclito polemizzi piuttosto qui contro quanti, pur constatando la splendida ed equilibrata disposizione del cosmo nel suo insieme, sono tuttavia incapaci di cogliere, di tale equilibrata disposizione, il carattere unita-rio e universale, tanto sul piano fisico-cosmologico quanto su quello ontologico, così riducendola di fatto a un effetto del caso, come se le cose che sono nella loro particolarità e singolarità, invece di raccogliersi armoniosamente nell’unità del tutto, costituissero in realtà un cumulo di rifiuti sparsi qua e là (o, nella versione più prudente suggerita dalla traduzione di Pradeau, pp. 145-46 e 259-60, un «mucchio» di elementi gettati qua e là; o ancora, nella versione proposta da Mouraviev I, p. 313-15, e III, p. 142, un pezzo di «carne» in decomposizione), la cui immagine d’insieme è solo casualmente bella; e ciò nella misura in cui si limitano a formulare e difendere una conoscenza e un sapere ordinari, basati su un’acritica percezione delle cose che sono, e non su un esame approfondito che dell’esito di tale percezione operi una selezione e un giudizio, come avviene invece ai pochi veri sapienti il cui sapere attinge all’universalità, all’onnicomprensività e alla verità (contra Bollack-Wismann, p. 339, e Conche, pp. 277-78, secondo i quali, invece, l’affermazione di Eraclito andrebbe presa non in termini pole-mici, ma come una positiva constatazione del fatto che la bellezza del cosmo consiste davvero in una disposizione casuale dei suoi elementi, perché «la bellezza emerge dal disordine» [Bollack-Wismann], purché esso non sia puramente caotico, bensì sottoposto al meccanismo onto-logico che ricompone nell’unità del tutto ogni forma di opposizione e di molteplicità [Conche]). Come nei precedenti frr. 56 [86 DK; 12 Marc.], cfr. n. 3, e 57 [102 DK; 91 Marc.], cfr. n. 3, la contrapposizione fra queste due forme di sapere si fonda sull’analisi dei loro rispettivi contenuti: il sapere ordinario dei più, che considerano l’assoluta bellezza del cosmo come casuale e che finiscono perciò per spiegarne la natura come se si trattasse di una massa dispersa e disorganica di enti distinti e disparati, si arresta alle apparenze immediate delle cose che sono, mentre il sapere dei pochi autentici sapienti coglie l’unità del tutto e colloca la sua perfetta armonia come spiegazione efficace e vera della bellezza del cosmo. Che l’obiettivo polemico di Eraclito possa essere identificato con i filosofi della natura a lui precedenti (così Marcovich, p. 378, e Pradeau, p. 260) o con la mitologia dell’origine della tradizione esiodea, vi sono in ogni caso coinvolti, a mio avviso, i polumaqei 'ı irrisi nei precedenti frammenti da 48 [40 DK; 16 Marc.] a 51 [129 DK; 17 Marc.], che del falso sapere della massa sono stati denunciati come i principali produttori e cantori.

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Fr. 59 [93 DK; 14 Marc.]1

oJ a[nax2 ou| to; mantei'ovn ejsti to; ejn Delfoi'ı ou[te levgei ou[te kruvptei ajlla; shmaivnei.

Il signore il cui oracolo si trova a Delfi non dichiara e non nasconde, ma accenna.3

1 Questo frammento è riportato da Plutarco, De Pythiae oraculis 404d-e, nel contesto di un esame dell’ispirazione profetica o divinatoria e, particolarmente, della natura enigmatica degli oracoli delfici, con queste parole: «Prendiamo il caso del sole: nulla ne manifesta un’immagine più somigliante né gli fornisce uno strumento più docile della luna; infatti, lo scoppio e i raggi di fuoco che riceve dal sole, la luna non li trasmette a noi per come sono, ma alterati dal suo contatto, sicché mutano di colore e assumono una diversa qualità; il calore ne scompare del tutto, poiché è troppo debole per accompagnare la luce. Credo che anche tu conosca il detto di Eraclito, secondo il quale ... (Plutarco cita qui il fr. 59)». In un’ottica analoga, cioè in riferimento alla divinazione e come esempio di interpretazione simbolica del linguaggio divino, queste parole sono citate da Stobeo III 1.199 (= III 151.6 Hense) e, in forma leggermente variata, da Giamblico in Stobeo II 2.5 (= II 18.20 Wachsmuth) e De mysteriis III 15 (= 136.4 Parthey; 119 des Places).

2 wJı (appartenente alla citazione plutarchea) oJ a[nax è correzione di Turnebus (accolta dalla totalità degli editori) della lezione w{sq ja[nax dei manoscritti plutarchei.

3 Il senso letterale di questo celebre frammento è chiaro: Apollo, identificato attraverso l’indicazione del suo rango (a[nax, che designava già, nei poemi omerici, i sovrani micenei della coalizione greca che combatté contro Troia), della sua funzione (to; mantei 'on, che allude a un tempo agli oracoli ispirati da Apollo e alla dimora stessa del luogo sacro di tale ispirazione) e della sua collocazione geografica (a Delfi, dove il culto di Apollo aveva una delle sue sedi principali, se non la principale), emette oracoli, tramite la sacerdotessa – la Pizia, appunto –, universalmente noti, nella tradizione religiosa e nella cultura greca, tanto per importanza quanto per ambiguità e, conseguentemente, per la necessità di individuarne la corretta interpretazione. Tale compren-sione letterale delle parole di Eraclito si fonda sulla contrapposizione fra il levgein del dio, da intendersi come un «dire manifesto», cioè, come ho reso, come un «dichiarare» apertamente, e il suo kruvptein, che consiste invece nel «nascondere» i propri intenti o il significato del proprio messaggio, «celandoli» volutamente, sicché la loro con-temporanea esclusione (ou[te ... ou[te) getta luce sull’esatto valore del verbo shmaivnw, che segnala qui la via intermedia fra i due corni della

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contrapposizione: il dio «si esprime per cenni» o, che è lo stesso, «dà shvmata». Questa lettura suggerisce perciò a mio avviso, accanto alla comprensione letterale appena delineata, un’interpretazione «episte-mologica» del presente frammento, a illustrare l’autentica natura del vero sapere (già connotato come «divino», nei precedenti frammenti da 54 [78 DK; 90 Marc.] a 57 [102 DK; 91 Marc.], perché possesso di pochi sapienti in opposizione al sapere ordinario e solo apparente della massa degli uomini comuni, e qui, per ragioni analoghe, associato al nome di Apollo delfico), che ha per oggetto la totalità delle cose che sono e corrisponde dunque, verosimilmente, ai contenuti di verità trasmessi dal lovgoı annunciato fin dal fr. 1 [1 DK; 1 Marc.], di cui il dio Apollo potrebbe rappresentare un simbolo, nella misura in cui i suoi oracoli, come appunto i contenuti del lovgoı illustrati da Eraclito, non sono costitutivamente nascosti né avvolti da enigmi o inganni, perché, al contrario, risultano pienamente accessibili a tutti, ma a condizione che se ne cerchi l’esatto significato, astenendosi da una facile e acritica ricezione immediata e attenendosi invece alle giuste attitudini e prescrizioni, quelle «divinatorie» della Pizia (rimanendo nell’ambito della metafora dell’oracolo delfico) o quelle «epistemo-logiche» (abbandonando tale metafora e collocandosi nell’ambito del problema della ricerca della conoscenza) descritte nei frammenti da 41 [101a DK; 6 Marc.] a 53 [95=109 DK; 110 Marc.]): questa interpre-tazione è condivisa, almeno nelle sue linee generali, da Marcovich, pp. 34-35, Diano-Serra, p. 190, e Pradeau, p. 319 (contra Conche, pp. 152-53, che, riprendendo un’indicazione più generica di Bollack-Wismann, p. 274, suggerisce un’intenzione polemica nei confronti dell’oracolo delfico e della sua attitudine solo parzialmente rivelatrice rispetto all’insegnamento filosofico, quello di Eraclito stesso, che invece sareb-be, concorrente del primo, privo di incertezze e ambiguità); meno plausibile mi sembra infine l’ipotesi di un’«autorappresentazione», in questo frammento, dello stile dello stesso Eraclito, tradizionalmente considerato, fin dall’antichità, come particolarmente oscuro e perciò, in qualche senso, oracolare (cfr. per esempio Kahn, pp. 123-24, e, meno perentoriamente, Robinson, pp. 143-44). Così stando le cose, colloco queste parole, insieme con il seguente fr. 60 [123 DK; 8 Marc.], cfr. n. 2, a conclusione della presente Sezione 4, che raccoglie i materiali eraclitei che riportano l’insieme di indicazioni necessarie a distinguere la vera conoscenza dalla semplice accumulazione erudita dei falsi sapienti, in base alle quali si giunge a una condanna di questi ultimi nel quadro di una più generale contrapposizione fra il falso sapere che rappresenta la condizione ordinaria degli uomini e il sapere dei pochi fra essi che, cogliendo la verità, assurgono a una conoscenza «divina», della quale infine vengono sanciti, qui e nel fr. 60, natura e carattere.

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Fr. 60 [123 DK; 8 Marc.]1

fuvsiı kruvptesqai filei'.

La natura tende a nascondersi.2

1 Questo frammento è riportato da Filone Alessandrino, Quaestiones et solutiones in Genesin IV 1 (tradotto dall’armeno in latino e in francese da C. Mercier), nel contesto di una serie di note di commento e di spie-gazione del testo biblico (in questo caso, si tratta di Genesi 18.1-2). Per stabilire il testo greco della citazione, occorre fare riferimento ad altri passi filoniani (De somniis I 2.6 [= III 205 Wendland]; De specialibus legibus IV 8.51 [= V 220 Cohn]; De fuga et inventione 39.179 [= III 149 Wendland]; De mutatione nominum 8.60 [= III 167 Wendland]), che la riportano a vario titolo, ma senza menzionare il nome di Eraclito. Il fram-mento è inoltre citato, e questa volta attribuito a Eraclito, da Temistio, Orationes 5. 69a-b, e da Proclo, In Rempublicam II 107.5 Kroll, forse entrambi dipendenti da Porfirio. Un dettagliato esame dei diversi contesti della citazione è proposto da Pradeau, pp. 252-54, che sottolinea come, in tutti questi passi, il detto di Eraclito sia evocato a dimostrazione del fatto che la conoscenza delle realtà più alte (la scienza, nel De somniis di Filone; gli dei, nel caso di Temistio; e la verità espressa nel discorso filosofico, secondo Proclo) presenta grandi difficoltà, perché si manife-sta in modo indiretto e talvolta dissimulato e richiede perciò di essere «decifrata» con notevoli sforzi di interpretazione e di comprensione. La complessa vicenda, qui sommariamente ripercorsa, della restituzione del presunto originale eracliteo ha indotto, per esempio, Marcovich, p. 23, a classificare il presente frammento come una sospetta parafrasi di materiale autentico.

2 Come nel caso del precedente fr. 59 [93 DK; 14 Marc.], queste altret-tanto celebri parole di Eraclito sono da me intese, a conclusione della presente Sezione 4, nel quadro di una valutazione d’insieme della natura e del carattere della vera conoscenza delle cose che sono, che è possesso di pochi, di contro ai saperi apparenti che la massa recepisce e diffonde prestando ascolto all’insegnamento dei molti falsi sapienti (si veda, per un riepilogo dei principali riferimenti pertinenti, la n. 3 al precedente fr. 59): infatti, (1) il termine fuvsiı richiama in generale le cose che sono, facendo riferimento al semplice dato della loro esistenza e al modo in cui esistono, (2) il verbo filevw pare indicare in questo caso una tendenza o un’inclinazione, appunto, «naturali» al compimento di una certa azione o alla realizzazione di un certo stato (cfr. in proposito l’ampia analisi di Mouraviev III, p. 140, n. 2), e (3) l’infinito kruvptesqai sembra alludere, più che a un ingannevole e misterioso «nascondimento» della natura – quasi evocando un insuperabile velo che oscura ogni possibile forma di conoscenza di essa –, a una sorta di «mimetizzazione» delle cose che

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sono, che appaiono in un certo modo (per esempio molteplici, fra loro diverse e perfino opposte ecc.), ma che rivelano in realtà, a chi sappia superare l’ambito dell’apparenza, una ricomposizione unitaria, totale e universale. Troveremmo così ribadito, da parte di Eraclito, lo statuto della vera conoscenza, che è di per sé accessibile a condizione di porre in atto le opportune procedure epistemiche, senza le quali, invece, non ci si può che arrestare alla semplice e disparata considerazione delle cose che sono, nella loro contraddittoria particolarità e irriducibile pluralità: è solo da questo punto di vista che «la natura», cioè la realtà delle cose nel suo insieme – la totalità di ciò che esiste – «tende a nascondersi», ossia a rimanere celata agli occhi di quanti non sanno oltrepassarne le semplici apparenze. Questa interpretazione del frammento, fra l’altro piuttosto esplicitamente incoraggiata dal contesto dei citatori ricordati nella nota precedente, è in sostanza condivisa anche da Kirk, pp. 228-31, Marcovich, p. 25, Kahn, p. 105, Diano-Serra, pp. 137-38, Robinson, pp. 161-62, e Pradeau, p. 254.

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SEZIONE 5Psicologia

1. Dottrina

Nei materiali raccolti in questa Sezione 5 emergono alcune indicazioni intorno alla concezione eraclitea dell’anima, della sua costituzione e delle sue funzioni, che mirano abba-stanza esplicitamente a collocarla nel ciclo generale delle trasformazioni degli elementi fondamentali e di tutte le cose a partire dalle alterazioni del fuoco sul piano fisico-cosmologico. È innanzitutto l’esame relativo all’anima come tale a rivelarsi complesso e oscuro, finché ci si limiti a una sua considerazione esteriore, che non conduce che a consta-tare la sua inaccessibilità a ogni descrizione che pretenda di fissarne i «limiti», determinandone con esattezza gli ele-menti costituenti e le loro misure; piuttosto, è il rapporto o la proporzione fra tali elementi che ne stabilisce la reciproca relazione e consente così di giungere a cogliere l’essenza reale, o la vera natura, dell’anima (fr. 61). Tale rapporto o proporzione elementare svela l’analogia che sussiste fra il ciclo fisico-cosmologico della trasformazione degli elementi (per condensazione e rarefazione in base alla diminuzione e all’aumento dell’intensità del calore del fuoco), secondo le serie contrapposte «fuoco-vapore/aria-acqua-terra» e «terra-acqua-vapore/aria-fuoco», e il ciclo psico-fisiologico della generazione e della corruzione dell’anima, che sorge anch’essa per evaporazione dall’elemento umido e dall’acqua in virtù di un aumento dell’intensità del calore del fuoco, si

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mantiene viva ed efficiente fino alla piena maturità in cor-rispondenza di un’adeguata temperatura corporea, e muore per la successiva condensazione nell’elemento umido e in acqua a causa di una diminuzione dell’intensità del calore del fuoco, declinando con l’indebolimento delle sue funzioni nella vecchiaia in corrispondenza di un abbassamento della temperatura corporea. Così concepita, l’anima è assimilata a un ente soggetto alle stesse leggi «di natura» che reggono ogni forma di processualità fisica; essa consiste di una sostan-za aerea o vaporosa, il cui grado di umidità o di secchezza può essere maggiore o minore in base alla minore o mag-giore prossimità al fuoco o, specularmente, alla maggiore o minore prossimità all’acqua e all’elemento umido; percorre un ciclo, appunto psico-fisiologico, che ne fissa la «nascita» dall’elemento umido e dell’acqua, per azione del fuoco, e altrettanto inequivocabilmente la «morte» nell’elemento umido e nell’acqua, secondo gli stessi processi di rarefazione e condensazione che coinvolgono tutte le cose (fr. 62). Ciò spiega per quale motivo un maggior grado di umidità, per esempio dovuto all’ubriachezza, renda l’anima incapace di dispiegare pienamente le sue capacità per guidare il corpo, in quanto la approssima alla condizione della sua morte nell’acqua, mentre quando prevale in essa l’asciuttezza, che la accosta alla condizione della sua nascita come evapora-zione calda dall’acqua, l’anima si rivela migliore e nel pieno possesso delle sue facoltà (frr. 63-64).

Tracciato in questo modo il profilo psico-fisiologico dell’anima, alcune considerazioni sono svolte sull’ordinaria «psicologia» della massa degli uomini, che, ignoranti della reale natura delle cose, vivono nell’inconsapevolezza, cre-dendo di generare figli a proseguire la propria vita e invece condannandoli a nuovi destini di morte, perché è la vita stessa che come suo esito fisiologico produce la morte (frr. 65-66); nonché sulle loro infondate speranze escatologiche, di cui Eraclito si propone di fornire un’innovativa revisione,

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SEZIONE 5 233

verosimilmente basata sulla collocazione dell’anima e del suo ciclo vitale nell’ambito generale di tutte le cose e dei fenomeni naturali: chi giunga a tale conoscenza si erge come un desto «custode» delle sorti degli uomini di cui, solo, è effettivamente consapevole (frr. 67-69).

2. Dossografia

Piuttosto concordi, in ambito peripatetico, le testimonianze fornite sulla generazione e sulla costituzione dell’anima come «esalazione» o «evaporazione» dall’acqua o dall’ele-mento umido (ajnaqumivasiı), fin da Aristotele, De anima

I 2, 405a24, e, con estensione di questo processo all’intera realtà e dunque con l’introduzione di un’anima «cosmica», da Aezio IV 3.12 (= Dox. 389) [= 22 A 15 DK]. All’anima così concepita è inoltre attribuita, in termini fisici più che sul piano individuale, una durata eterna, per esempio in Aezio IV 7.2 (= Dox. 392) [= 22 A 17 DK = fr. 117 Marc.], che tuttavia riconduce esplicitamente questa tesi agli stoici.

A tale contesto psico-fisiologico possono essere accostate le testimonianze riportate da varie fonti, che ho discusso infra, nella n. 1 al fr. 66 [48 DK; 39 Marc.], relative alla maturità sessuale di un individuo, che sarebbe stata fissata da Eraclito intorno ai 14 anni, e alla durata delle generazioni umane, cal-colata in 30 anni, dati dal tempo che intercorre fra la nascita di un individuo e quella di suo nipote oppure fra la nascita di un nipote e il momento in cui questi può divenire nonno.

3. Studi critici

Per quanto riguarda la psicologia eraclitea, tanto in relazione alla costituzione dell’anima, quanto alle sue funzioni vitali ed epistemiche, gli studi seguenti segnano altrettante tappe

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di approfondimento indispensabili, a loro volta contenendo ulteriori indicazioni bibliografiche: W.J. Verdenius, A Psycho-logical Statement of Heraclitus, in «Mnemosyne» 11 (1943), pp. 115-21; J. Mansfeld, Heraclitus on the Psychology and Physiology of Sleep and on River, in «Mnemosyne» 20 (1967), pp. 1-29; T.M. Robinson, Heraclitus on Soul, in «The Monist» 69 (1968), pp. 305-14; M.C. Nussbaum, Psychè in Heraclitus, in «Phronesis» 17 (1972), pp. 1-15 e 153-70; S. Kihara, The Conception of Psychè in Heraclitus’ Fr. 36, in «Journal of Classical Studies» 50 (2002), pp. 12-23; G. Betegh, On the Physical Aspect of Heraclitus’ Psychology, in «Phronesis» 52 (2007), pp. 3-32; S.N. Mouraviev, Doctrinalia Heraclitea III: Âmes, fleuves et exhalaisons (Notes de lecture), in «Revue de Philosophie Ancienne» 26 (2008), pp. 44-77; e G. Betegh, The Limits of the Soul: Heraclitus B 45 DK. Its Text and Interpretation, in Nuevos Ensayos sobre Heráclito, Actas del segundo Symposium Heracliteum, a cura di E. Hülsz Piccone, UNAM, Mexico 2009, pp. 391-414.

Sull’esito escatologico della psicologia eraclitea, o piuttosto sulla sua negazione, si vedranno inoltre J. Mansfeld, Hera-clitus fr. B 63 D.-K., in «Elenchos» 4 (1983), pp. 197-205; L. Senzasono, Il frammento 98 D.-K. e la cosiddetta escatologia eraclitea, in Atti del Symposium Heracliteum 1981, a cura di L. Rossetti, vol. I, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1983, pp. 265-72; e G. Casertano, Piacere e morte in Eraclito (una filosofia dell’ambiguità), ibid., pp. 273-90.

Collocano infine le diverse problematiche della psicologia eraclitea nel contesto della riflessione presocratica sull’anima P. Seligman, Soul and Cosmos in Presocratic Philosophy, in «Dionysius» 2 (1978), pp. 5-17, e M. Schofield, Heraclitus’ Theory of Soul and its Antecedents, in Psychology. Compan-ions to Ancient Thought 2, a cura di S. Everson, Cambridge Univ. Press, Cambridge 1991, pp. 13-34.

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Fr. 61 [45 DK; 67 Marc.]1

yuch'ı peivrata ijw;n2 oujk a]n ejxeuvroio,3 pa'san ejpiporeuovmenoı oJdovn: ou{tw baqu;n4 lovgon e[cei.

Per quanto tu proceda, non riuscirai a trovare i limiti dell’ani-ma percorrendo ogni via: tanto profondo è il ragionamento che la riguarda.5

1 Questo frammento è riportato da Diogene Laerzio, Vitae philoso-phorum IX 7, subito dopo un’allusione al fr. 3 DK; 57 Marcovich (da me proposto supra, come fr. 34 [0 (3+94) DK; 0 (57+52) Marc.]) e prima del fr. 44a [46 DK; 114 Marc.], nel contesto di una presentazione intro-duttiva e schematica delle dottrine di Eraclito e a testimonianza dell’ef-ficacia e della penetrazione del suo stile. Analoga citazione, con l’omis-sione della proposizione conclusiva, in Tertulliano, De anima 2.6 Waszink: terminos animae nequaquam invenies omnem viam ingrediens. L’evo-cazione di un lovgoı dell’anima che, quale che sia l’interpretazione che si formula di questa espressione (cfr. infra, n. 5), è caratterizzato da grande «profondità», da intendere verosimilmente tanto in relazione alla sua «difficoltà» quanto come indicazione della sua «importanza», è stata accostata al fr. 115 DK, secondo cui yuch'ı ejsti lovgoı eJauto;n au[xwn, «l’anima ha un lovgoı (oppure: vi è un lovgoı dell’anima) che accresce se stesso»; personalmente, credo invece, con Marcovich, pp. 257 e 389-90 (che lo colloca, come fr. 112, fra i dubia), Diano-Serra, p. 103, n. 1, e, più dubitativamente, Robinson, pp. 156-57, che quest’ultimo frammento non possa essere considerato autentico, e ciò per le ragioni seguenti: in primo luogo, Stobeo III 1.180 (= III 130 Hense), che pure lo riporta in sequenza con i frr. 6-6a [114-113 DK; 23-23d1 Marc.], lo riferisce a Socrate (benché alcuni editori, a cominciare da Diels, abbia-no supposto qui un lapsus fra i nomi di Socrate ed Eraclito e attribuito a quest’ultimo il detto sulla base di un parallelismo con due luoghi degli ippocratici De victu I 6.3 ed Epidemica VI 5.2 e con Pindaro, Nemee 7.32, che testimonierebbero dell’arcaicità della citazione e dunque della plausibilità della sua attribuzione eraclitea); in secondo luogo, e soprattutto, sussiste a mio avviso una contraddizione fra la tesi, enun-ciata nella citazione di Stobeo, di un lovgoı che «accresce se stesso» – che il termine alluda qui (1) al «ragionamento» dell’anima, che essa sareb-be in grado di cogliere o di realizzare, o (2) alla «misura» dell’anima, che ne caratterizza la composizione e la struttura (su questa distinzione di significato, che si riflette ovviamente anche sull’intepretazione del presente fr. 61, cfr. ancora infra, n. 5) – e l’idea, diffusa nei materiali eraclitei superstiti, che il lovgoı esprima piuttosto in generale un valore costante e non modificabile, in quanto a un tempo oggettivo e univer-

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sale: tanto nel caso del «ragionamento» (lovgoı) annunciato fin dal fr. 1 [1 DK; 1 Marc.], che trasmette l’unico sapere che enuncia e illustra l’unità di tutte le cose, quanto nel caso del «rapporto di misura», sempre «lo stesso» (to;n aujto;n lovgon), che regola la reciproca trasformazione degli elementi fondamentali, per esempio nel fr. 30 [31 DK; 53ab Marc.], pare infatti contraddittorio sostenere che si tratti di un lovgoı che subi-sce una qualunque modificazione, e che dunque «accresce se stesso», giacché, al contrario, sembra rimanere costante e immutabile nel suo equilibrio, come afferma pure il presente fr. 61 che, senza alludere neanch’esso a un suo «accrescimento», lo dice semplicemente «profon-do». Marcovich, p. 390, suggerisce anzi che la tesi di un «autoaccresci-mento» del lovgoı dell’anima si adatti assai meglio all’intellettualismo socratico, sicché sarebbe corretta l’attribuzione di questa tesi, da parte di Stobeo, appunto a Socrate (contra Mouraviev III, p. 136). Prudente-mente a favore dell’autenticità della citazione di Stobeo, o quantomeno dei suoi contenuti dottrinali, appaiono invece Bollack-Wismann, p. 319, Kahn, p. 237, Conche, p. 354, Pradeau, pp. 282-83, e appunto Mouraviev III, p. 136, che giudicano il suo contenuto sostanzialmente coerente con il presente fr. 61, e a un tempo da questo indipendente, nell’attribuzio-ne all’anima di un lovgoı, da intendere certamente in tal caso come «ragionamento», «conoscenza» o «discorso» che l’anima realizza, «pro-fondo» e che «accresce se stesso» nella misura in cui è capace di trarre da se stesso il proprio nutrimento e la propria espansione (ma su que-sta lettura cfr. infra, n. 5). Un discorso per certi versi analogo va svolto in relazione al fr. 67a DK, un brano segnalato da M. Pohlenz nella sua recensione al II volume degli SVF in «Berliner Philologische Wochen-schrift» 31-32 (1903), pp. 971-72, e tratto da Hisdosus Scholasticus (circa 1100), De anima mundi in Timaeo (codex Parisinus Latinus 8624, s. XII-XIII, f. 17v, v. 18 sgg.), che commenta un passo di Calcidio, In Platonis Timaeum 220 (= 233.17 Waszink), in cui questi introduce a sua volta una citazione di Crisippo, De anima (= SVF II 879): vediamone brevemente il contesto. Calcidio, discutendo di Platone, Timeo 34b, in cui si illustra la collocazione dell’anima del mondo, da parte del demiur-go, al centro del cosmo e irradiata ugualmente in ogni direzione così da risultare estesa all’intero universo, evoca l’opinione dello stoico Crisip-po, secondo il quale la parte razionale e direttrice dell’anima (to; hJge-monikovn) si trova posta al centro del corpo, alla maniera di un ragno nella sua tela che percepisce, tramite i fili di cui essa è composta, i movimenti che nel corpo si producono; Hisdosus ricorda a sua volta, in opposizione alla tesi di Crisippo o quantomeno distinguendola da questa (alii autem dicunt...), la posizione di quanti pongono invece il sole al centro del cosmo, stabilendo un’analogia con il cuore, al centro del corpo umano, in cui l’intera anima ha sede, in modo da trasmettere forza, vita e calore al resto del corpo tramite le membra, come fa appun-to il sole con tutte le parti del cosmo in cui spande la propria luce e il proprio calore. A una simile opinione avrebbe aderito Eraclito, dice Hisdosus, paragonando l’anima a un ragno e il corpo alla sua tela: sicut aranea stans in medio telae sentit quam cito musca aliquem filum suum corrumpit itaque illuc celeriter currit quasi de fili persectione dolens, sic

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hominis anima aliqua parte corporis laesa illuc festine meat quasi impa-tiens lesionis corporis, cui firme et proportionaliter iuncta est, «come il ragno, che si trova al centro della tela, avverte immediatamente che una mosca ha rotto uno dei suoi fili e corre rapidamente lì, quasi sofferente per la rottura del filo, allo stesso modo l’anima dell’uomo, quando una parte qualunque del corpo è colpita, subito si precipita lì, come incapa-ce di sopportare la lesione del corpo, al quale è saldamente e propor-zionatamente congiunta». Con Bollack-Wismann, pp. 223-24, Marcovich, pp. 393-97 (che lo colloca, come fr. 115, fra i dubia), e Kahn, p. 288, non considero probabile che questa citazione contenga materiale eracliteo autentico, né rispetto alla sua forma né rispetto ai suoi contenuti dot-trinari. Abbiamo a che fare in primo luogo con una fonte fra le più tarde di cui disponiamo, e dunque posta a enorme distanza tanto da Eraclito quanto dai suoi abituali citatori antichi e tardoantichi, con l’aggravante di un’insidiosa mediazione stoica di cui è difficile stabilire i limiti e la portata e che, anzi, introduce una certa confusione (giacché Hisdosus, per un verso, riprende senza dubbio da Crisippo – teste Cal-cidio –, attribuendola però a Eraclito, l’immagine del ragno al centro della tela come metafora dell’anima razionale al centro del corpo, ma, per altro verso, ne suggerisce un significato diverso, nella misura in cui Eraclito avrebbe utilizzato questa stessa metafora in riferimento all’in-tera anima, e non solo alla sua parte razionale): ciò mi induce a dubi-tare che sia possibile riconoscere qui una citazione a qualunque titolo letterale di parole riconducibili a Eraclito (che sarebbero comunque – dettaglio da non trascurare! – l’esito di un’incerta retroversione dal latino di Hisdosus e di Calcidio al greco di Crisippo e, infine, dello stesso Eraclito), come pure non trovo elementi a favore dell’attribuzio-ne a Eraclito dell’immagine del ragno al centro della tela come meta-fora dell’anima al centro del corpo, perché, che tale metafora sia impie-gata già da Crisippo ne dimostra senz’altro l’antichità, come vuole Mouraviev III, p. 78, n. 1, ma non prova (1) che essa fosse più antica dell’età ellenistica, né (2) che per ciò stesso risalisse a Eraclito, né, infine, (3) può essere evocato il dubbio argomento (tipico dell’approc-cio storico-filologico di Mouraviev, che invoca un «principio di precau-zione» a coprire ciò che, a mio avviso, è in effetti un sostanziale lassismo critico) secondo cui, in virtù della ben documentata ripresa stoica di immagini eraclitee, il semplice fatto che nulla contraddica la possibilità di un’attribuzione di questa immagine a Eraclito diviene un elemento a favore di tale attribuzione; al contrario, in assenza di ulteriori elemen-ti probanti, pare certo che l’immagine del ragno al centro della tela fosse impiegata da Crisippo a rappresentare, in accordo con la psicolo-gia stoica (che ricorre anche ad altre immagini analoghe, come l’albero con i suoi rami o il polipo con i suoi tentacoli), la condizione dell’anima razionale e direttrice al centro del corpo, che Hisdosus a sua volta attribuisce a Eraclito, attingendo a (o fraintendendo?) fonti a noi igno-te, come rappresentazione dell’intera anima. Spostandoci sul piano dell’interpretazione, difficoltà e incertezze, se possibile, aumentano ancora: infatti, riconducibile oppure no a Eraclito, l’immagine del ragno al centro della tela, che accorre ovunque avverta una rottura dei fili di

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cui è intessuta per ripararla, come metafora dell’anima al centro del corpo cui è «saldamente congiunta», che percepisce ogni affezione subita dalle membra nelle quali è proporzionatamente distribuita e si attiva in corrispondenza della regione lesa per offrirle sollievo, suppo-ne una concezione psicologica che implica una serie di assunti: (1) l’anima occupa una posizione centrale nel corpo, presumibilmente nel cuore; (2) avverte le affezioni subite dal corpo e a questo è «saldamen-te congiunta», sicché se ne deduce che ha essa stessa natura materiale o corporea; (3) è distribuita o diffusa nel corpo in modo che, pur aven-do sede al centro, può accorrere immediatamente in ogni sua parte. Ora, gli assunti (1) e (2) sono in accordo con la psicologia stoica, purché applicati non all’anima in generale, ma alla sua parte razionale e diret-trice (to; hJgemonikovn); l’assunto (3) sembra condiviso tanto dagli stoici, se inteso nel senso che l’anima razionale e direttrice invia impulsi in corrispondenza della parti del corpo lese, più che recarvisi essa stessa, quanto dall’interpretazione che della psicologia eraclitea si trova in ambiente scettico (cfr. Sesto Empirico, Adversus mathematicos VII 127-30, e l’Introduzione, § 2.3), secondo la quale l’anima è interamente diffusa nel corpo e, tramite i canali corporei degli organi di senso, si trova in comunicazione con l’esterno, così partecipando, quasi «respi-randolo», del principio razionale divino distribuito nel tutto (donde l’attribuzione a Eraclito, da parte di Calcidio, In Platonis Timaeum 251 [= 260.20 Waszink = 22 A 20 DK], della tesi secondo cui l’anima indivi-duale comunica con l’anima del mondo attraverso i passaggi dei sensi). Invece, a parte l’assunto (2), che può essere ascritto a Eraclito come all’intera psicologia presocratica, almeno rispetto alla sua conclusione relativa alla natura corporea e materiale, o quantomeno non immate-riale, dell’anima, non possediamo elementi, al di fuori di quelli citati qui (di origine molto tarda oppure provenienti da tradizioni filosofiche, stoica e scettica, evidentemente interessate a una comprensione ideo-logica, esclusiva e concorrenziale, del pensiero eracliteo), che dimostri-no che Eraclito accogliesse gli assunti (1) e soprattutto (3); come pure, in generale, mi pare difficile retrodatare a Eraclito un dibattito e una riflessione «tecnici» sulla collocazione della yuchv che non mi sembrano poter precedere il corpus ippocratico e il Timeo platonico. Una difesa dell’autenticità della citazione di Hisdosus è stata invece proposta da M.C. Nussbaum, Psychè in Heraclitus, in «Phronesis» 17 (1972), pp. 1-15 e 153-70, che sottolinea soprattutto l’analogia che il brano presuppor-rebbe fra la yuchv, posta al centro del corpo, e il sole, posto al centro del cosmo, da cui si dovrebbe trarre non tanto la tesi di una diffusione dell’anima nel corpo, quanto piuttosto un’indicazione della sua natura ignea, da associare al fuoco, inteso come principio fondamentale della dottrina fisico-cosmologica di Eraclito (il che non è impossibile, stando per esempio al fr. 64 [118 DK; 68 Marc.], ma a mio avviso fuori questio-ne qui); Diano-Serra, pp. 159-60, Conche, pp. 325-26, e Pradeau, p. 291, considerano ascrivibile a Eraclito, pur prudentemente, almeno la tesi della centralità dell’anima nel corpo e, a un tempo, della sua «circola-zione» nelle diverse parti di esso, mentre Mouraviev I, pp. 167-68, propone, del tutto congetturalmente, una retroversione in greco di

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carattere minimale, che attribuisce anch’essa a Eraclito la tesi della diffusione dell’anima nel corpo e, in sovrappiù, la metafora del ragno al centro della tela, con le parole seguenti: w{sper ajravcnh yuch; ejn mevsw/ ajracnivou: morivou tino;ı aJptomevnou (tou' swvmatoı), trevcei tacevwı ejkei'se, «l’anima è come un ragno al centro della sua tela: appena una parte (del corpo) è toccata, essa corre rapidamente lì».

2 peivrata ijw;n è correzione, proposta da Diels e accolta dalla quasi totalità degli editori, delle lezioni peirataivon, del manoscritto B1 di Diogene Laerzio, peiratevon, dei manoscritti P1B2QD, e peira'tai o}n, dei manoscritti P2F (ma la lettura di alcuni manoscritti è controversa, cfr. Mouraviev I, p. 116). Wilamowitz, sulla scorta di altri editori (seguiti, per esempio, anche da Conche, p. 357), ha espunto qui il participio ijw;n, spostandolo subito oltre in luogo del participio ejpiporeuovmenoı, con-siderato ridondante. Nella complessità della tradizione manoscritta, e delle diverse versioni che risultano già dalle correzioni antiche, il testo stampato qui appare il più perspicuo.

3 ejxeuvroio è lezione dei manoscritti B1P1QD di Diogene Laerzio, generalmente accolta dagli editori; mentre i manoscritti BP portano la lezione ejxeuvroi oJ (accolta per esempio da Bollack-Wismann, p. 163), il manoscritto F eu{roi oJ e i manoscritti B2P4 ejxeuvroiı, tutte grammatical-mente meno adeguate.

4 baqu;n, da accordare, all’accusativo, con lovgon, è lezione del mano-scritto F di Diogene Laerzio, mentre i manoscritti BP1Q portano il nominativo baqu;ı e i manoscritti P4D portano il neutro, rispettivamente singolare e plurale: baqu; e baqh'.

5 L’interpretazione del presente frammento dipende evidentemente dal significato che si ritiene di attribuire ad alcuni termini chiave: innanzitutto, cosa sono esattamente i peivrata dell’anima e quale il suo lovgoı? E ancora: come intendere precisamente il sostantivo oJdovı e l’aggettivo baquvı, che alludono in qualche modo alla struttura dell’ani-ma e ne qualificano perciò la natura? Prendendo le mosse dal termine lovgoı, Pradeau, p. 282, sulla scorta di una distinzione adombrata già da Kahn, pp. 129-30, sostiene che esso può avere qui o il significato (1) di «misura», a indicare allora, in senso oggettivo, la struttura dell’anima, vale a dire il rapporto, appunto di misura, che sussiste fra i suoi elemen-ti componenti (designati come suoi «limiti», peivrata), oppure, come egli preferisce, (2) di «ragionamento», con riferimento alla «conoscen-za» o al «discorso» che, soggettivamente, l’anima è in grado di realizza-re e che ne determina l’estensione (perciò delineandone i «confini», peivrata): nel primo caso, avremmo perciò a che fare con una descrizio-ne dell’anima basata sulla relazione, «profonda» (baquvn) in quanto difficile da cogliere, fra i suoi elementi costituenti, mentre, nel secondo caso, emergerebbe piuttosto il ruolo dell’anima come principio cogni-tivo, capace di produrre una conoscenza assai «vasta» (baquvn). Credo però che questa distinzione esprima un’alternativa infondata, nella misura in cui l’opzione (2), che appunto Pradeau predilige, si rivela ai miei occhi implausibile, se non propriamente contraddittoria: quale sarebbe infatti la connessione logica e argomentativa fra i «limiti» o i «confini» dell’anima, che non si riescono a «trovare ... percorrendo ogni

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via», e la conoscenza che l’anima stessa realizza? O, in altre parole, a che titolo il fatto che la conoscenza di cui l’anima è capace è «vasta» (baquvn) dovrebbe fornire una spiegazione della difficoltà, o dell’impos-sibilità, di cogliere i «limiti» o i «confini» dell’anima stessa? L’unica risposta possibile a queste domande, che Pradeau, pp. 282-83, pur con-getturalmente, suggerisce (seguendo un’indicazione più esplicita di Conche, pp. 358-60), consiste nel fare riferimento al fr. 115 DK (da me considerato inautentico, cfr. supra, n. 1), che, come si ricorderà, evoca un lovgoı dell’anima «che accresce se stesso»; dall’accostamento del presente fr. 61 al fr. 115 DK risulterebbe allora che è difficile, o impos-sibile, «trovare i limiti dell’anima», appunto perché, in virtù della «vasta conoscenza» (baqu;n lovgon) che essa realizza e «che accresce se stessa» (lovgoı eJauto;n au[xwn), l’anima, per così dire, «sposta» sempre in avanti i suoi confini, rendendone impossibile la delimitazione e la scoperta. Questa ingegnosa ipotesi mi pare tuttavia inverosimile, per le due ragioni seguenti: in primo luogo, gli yuch'ı peivrata, se sono davvero tali, alludono intuitivamente a misure fisse, e non incrementabili, dell’anima (che si tratti dei «confini» della sua estensione o dei «limiti» della combinazione di elementi che la costituiscono), come pure il suo lovgoı non implica un rapporto variabile e suscettibile di «accrescersi», ma ancora una volta, come argomentato supra, n. 1, un valore costante e immutabile; in secondo luogo, e soprattutto, il termine lovgoı non sem-bra mai utilizzato, nei materiali eraclitei superstiti, a designare una forma di «conoscenza» a qualunque titolo soggettiva, cioè prodotta da un soggetto nell’esercizio delle sue funzioni cognitive (questo è semmai il caso del termine gnwvmh, cfr. supra, n. 3 al fr. 9 [41 DK; 85 Marc.] e n. 2 al fr. 54 [78 DK; 90 Marc.]), ma sempre in riferimento (1) al «ragio-namento» che, fin dal fr. 1 [1 DK; 1 Marc.], rivela la natura di tutte le cose e che risulta accessibile a chiunque vi si accosti correttamente, non perciò producendolo soggettivamente, ma ponendosi all’ascolto del sapere oggettivo che esso trasmette; oppure (2) al «rapporto di misura», anch’esso oggettivo, che rimane costante nel ciclo continuo della reci-proca trasformazione degli elementi a partire dal fuoco, di cui si trova un’illustrazione nel fr. 30 [31 DK; 53ab Marc.]; o infine, banalmente, (3) alla «fama» o alla «reputazione» di qualcuno, come avviene nel caso di Biante di Priene evocato nel fr. 46 [39 DK; 100 Marc.]. Così stando le cose, e lasciata da parte la (3) che è ovviamente fuori questione, l’alter-nativa che si pone qui, diversamente da quanto suggerito da Pradeau, è fra un lovgoı dell’anima inteso come (2) il «rapporto di misura» fra i suoi elementi componenti, che ne illustra perciò la costituzione, o come (1) il «ragionamento» che, oggettivamente, «la riguarda», vale a dire che ne svela la natura e la composizione (così esplicito l’espressione lovgon e[cei [scil., hJ yuchv], «tanto profondo è il lovgoı che l’anima ha [oppure: che all’anima appartiene]», vale a dire il lovgoı che è dell’anima in quanto appunto, come ho reso, «la riguarda»); sicché la (1) compren-de di fatto in sé la (2), visto che il «ragionamento» che svela la natura e la composizione dell’anima esprime altresì il rapporto di misura fra i suoi elementi componenti (così pure Kahn, pp. 129-30), mentre rimane in ogni caso escluso il riferimento a una forma di «conoscenza» sogget-

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tiva dell’anima. Ne consegue perciò che la trattazione dell’anima non assume qui, almeno in prima battuta, un carattere cognitivo, come vogliono invece Conche, pp. 359-60, e Pradeau, p. 282, benché natural-mente non si possa affatto negare che, secondo Eraclito, l’anima adem-pia in generale anche alla funzione di un principio cognitivo (per esem-pio nei modi stabiliti nel fr. 44 [107 DK; 13 Marc.], cfr. n. 3, che le assegna il compito di valutare e selezionare criticamente le informazio-ni recepite tramite i sensi; o nei frr. 63 [117 DK; 69 Marc.], cfr. n. 2, e 64 [118 DK; 68 Marc.], cfr. n. 2, in cui vengono indicate le caratteristiche fisiologiche che rendono l’anima più o meno efficace dal punto di vista cognitivo), né pare dubbio che proprio in tale ambito la psicologia eraclitea segni un decisivo progresso rispetto alle concezioni predece-denti (cfr. pure Kahn, pp. 126-28); ma, nel presente frammento, l’obiet-tivo sembra piuttosto quello di intraprendere un esame volto alla determinazione della natura dell’anima, attraverso la comprensione del suo lovgoı, cioè del «ragionamento» che fa emergere il «rapporto di misura» fra gli elementi di cui essa è composta o che con questo «rap-porto di misura» direttamente coincide (cfr. anche Robinson, p. 110). In tale ottica, i peivrata dell’anima, evocati nella prima parte del fram-mento, non designano i suoi «confini», come delimitazione della sua estensione o del suo potere cognitivo, bensì, più plausibilmente, i suoi «limiti», cioè le misure degli elementi che la compongono e della loro trasformazione reciproca, che sono a loro volta regolate in base al «rapporto di misura» che le vincola e che si trova espresso nel lovgoı dell’anima, sicché i peivrata psichici, connessi dal lovgoı dell’anima, rappresentano pure i «termini» fissi entro cui si collocano la composi-zione fisiologica dell’anima stessa e la sua definizione. Sussisterebbe perciò, sul piano psico-fisiologico della composizione dell’anima, una stretta analogia formale con quanto si verifica nell’ambito fisico-cosmo-logico e meteorologico, in cui, come spiega soprattutto il fr. 30, cfr. n. 8, il fuoco, per diminuzione di calore, produce (probabilmente) aria o vapore caldo e di seguito acqua (del mare), che a sua volta si solidifica in forma di terra; mentre, all’aumentare del calore, la terra si scioglie nuovamente in acqua (di mare) e questa evapora in aria, che si concen-tra nel cielo dando luogo a tempeste di fulmini e pioggia, che dunque, per un verso, tornano a trasformarsi in fuoco (i fulmini) e, per altro verso, si riversano in mare sotto forma di acqua (la pioggia), in un processo continuo e dalla misura costante. Tale interpretazione, difesa particolarmente da Marcovich, p. 253, trova una significativa conferma nel seguente fr. 62 [36 DK; 66 Marc.], cfr. n. 2, che in questo processo continuo e dalla misura costante di trasformazione degli elementi integra pienamente anche l’anima, che si produce (nei vivi), come una sorta di soffio aereo, in virtù di un’esalazione umida generata dall’acqua (verosimilmente per aumento di calore), e che è destinata (nei morti) a tornare a condensarsi in acqua (verosimilmente per diminuzione di calore). Infine, se tutto ciò è plausibile, avremo un’efficace contrappo-sizione fra la prima e la seconda parte del frammento, con (1) i peivrata dell’anima che designano le misure degli elementi che la compongono, dunque il «profilo» della sua costituzione, e (2) il suo lovgoı che, di tali

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misure, esprime il rapporto, dunque, dell’anima, svelando la natura essenziale; e, con un’immediata corrispondenza dal punto di vista epi-stemologico, un’analoga contrapposizione fra (1) la ricerca condotta intorno al «profilo» dell’anima, che si limita a indagarne i peivrata – percorrendo, per così dire, ogni tratto della sua «superficie» (ijw;n ... pa'san ejpiporeuovmenoı oJdovn) –, che non potrà che risultare fallimentare (oujk a]n ejxeuvroio), e (2) l’accesso al lovgoı dell’anima, che di tali tratti superfi-ciali manifesta il rapporto sottostante e che permette di giungere alla conoscenza della sua natura propria: diviene allora comprensibile che il lovgoı dell’anima sia detto (2) baquvı, «profondo», non perché «nasco-sto» o «impossibile a trovarsi», ma in quanto «non immediatamente accessibile», se non ai pochi che sappiano accostarvisi adeguatamente, allontanandosi dalle modalità conoscitive ordinarie dei più, che condu-cono (1) una ricerca superficiale, limitata a una semplice e acritica osservazione estrinseca del proprio oggetto che, sebbene quantitativa-mente esaustiva (pa'san ... oJdovn), risulta incapace di andare oltre la sua configurazione esteriore: si potrà facilmente constatare come venga ribadito così un cliché epistemologico, fondato sulla distinzione fra l’autentico sapere dei pochi e le opinioni apparenti della massa, più volte esplicitato nei materiali raccolti nella precedente Sezione 4 e di cui è stato fornito un riepilogo nella n. 3 al fr. 59 [93 DK; 14 Marc.] e nella n. 2 al fr. 60 [123 DK; 8 Marc.] (così pure Marcovich, p. 258, e soprattutto Kahn, pp. 129-30). In base all’interpretazione suggerita, il presente frammento è da me collocato ad aprire questa Sezione 5, che raccoglie i non troppo numerosi materiali «psicologici» eraclitei, da cui emergono alcune delucidazioni relativamente alla sua concezione della natura dell’anima (fr. 61), della sua origine e composizione fisio-logica (fr. 62), della sua funzione (frr. 63-64) e del suo destino, nel corso della vita nel corpo (frr. 65 [48 DK; 39 Marc.] e 66 [20 DK; 99 Marc.]) e in seguito alla sua morte (frr. 67 [27 DK; 74 Marc.] e 68 [98 DK; 72 Marc.]). Implausibili le interpretazioni di Bollack-Wismann, p. 164, che leggono nel presente frammento una dichiarazione pura e semplice dell’inconoscibilità dell’anima, che andrebbe concepita come il luogo della contraddizione di per sé non rappresentabile in termini razionali e finiti; e di Diano-Serra, p. 154, che attribuiscono a Eraclito la tesi di un’anima dalla figura circolare – il che spiegherebbe perché i suoi peivrata appaiano introvabili – il cui lovgoı consiste semplicemen-te nel «discorso» che rivela la coincidenza, nel cerchio, del principio e della fine, con un evidente richiamo al fr. 19 [103 DK; 34 Marc.], che si colloca tuttavia, a mio avviso, in tutt’altro contesto teorico (cfr. la rela-tiva n. 4).

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yuch'/sin qavnatoı u{dwr genevsqai, u{dati de; qavnatoı gh'n genev-sqai, ejk gh'ı de; u{dwr givnetai, ejx u{datoı de; yuchv.

Per le anime è morte divenire acqua, per l’acqua è morte dive-nire terra, ma dalla terra viene l’acqua e dall’acqua l’anima.2

1 Questo frammento è riportato da Clemente Alessandrino, Stroma-teis V 17.1-2 (= II 435 Stählin), nel contesto di un esame della tesi dell’immortalità dell’anima, con le parole seguenti: «Orfeo si è espres-so in questi versi: “L’acqua è morte per l’anima, l’anima (oppure: gai 'a, la terra, secondo una correzione di Marcovich, p. 246, n. 2) per le acque. Dall’acqua viene la terra e dalla terra di nuovo l’acqua, e da lì l’anima, che abbandona l’etere intero”(= fr. 226 Kern). Eraclito, che ha ripreso da questi versi i suoi argomenti, scrive così: ... (Clemente cita qui il fr. 62)». Come ricorda Pradeau, p. 284, è probabile che la relazione di dipendenza stabilita qui fra l’orfismo ed Eraclito vada invertita, giacché il frammento orfico citato da Clemente appartiene verosimilmente alle Rapsodie orfiche, databili tra il I e il II secolo d.C. e contenenti mate-riali di varia origine e provenienza. Significative reminiscenze delle parole di Eraclito si trovano in Filone Alessandrino, De aeternitate mundi 111 (= VI 106 Cohn), che ne cita la prima parte (yuch'/sin qavnatoı u{dwr genevsqai, u{dati de; qavnatoı gh'n genevsqai) nel contesto di un’iden-tificazione dell’anima, secondo Eraclito, con lo pneu 'ma stoico e della sua collocazione nel ciclo della trasformazione degli elementi; e in Ippolito, Refutatio contra omnes haereses V 16.4 (= 111.23 Wendland), che ne riconduce la citazione, ma limitatamente alla prima proposizio-ne (yuch'/sin qavnatoı u{dwr genevsqai), a una fonte che non ci è altrimen-ti nota; vanno poi ricordate quelle che appaiono piuttosto come remi-niscenze «dottrinali» o tematiche, che consistono cioè nella semplice attribuzione a Eraclito della dottrina della ajnaqumivasiı dell’anima, ossia della sua origine dalla «esalazione» a partire dall’acqua o comunque da elementi umidi (cfr. l’Introduzione, § 4.5; e, per esempio, Aristotele, De anima I 2, 405a24 [= 22 A 15 DK]; [Aristotele], Problemata 13.6, 908a30; Aezio, IV 3.12 [= Dox. 389 = 22 A 15 DK]; e soprattutto la conclusione della citazione di Cleante in Ario Didimo, citato da Euse-bio, Praeparatio evangelica XV 20.2 [= II 384 Mras = Dox. 470-71 = SVF I 519], del fr. 25 [12 DK; 40 Marc.]: kai; yucai; de; ajpo; tw'n uJgrw'n ajnaqu-miw'ntai, che, per le ragioni esposte nella relativa n. 1, ho espunto come inautentica): valga per tutte queste reminiscenze «dottrinarie» la con-siderazione che, se giudico sostanzialmente plausibile il loro contenuto relativo alla ajnaqumivasiı come resoconto della posizione eraclitea intorno all’origine dell’anima (cfr. in proposito la nota seguente), come

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pure, sul piano meteorologico, della sua spiegazione di una serie di fenomeni atmosferici (si vedano in particolare il fr. 36 [6 DK; 58 Marc.], cfr. n. 3; e la Nota introduttiva alla Sezione 3), il termine ajnaqumivasiı e il verbo ajnaqumiavw non paiono tuttavia attestati prima di Aristotele e trovano particolare applicazione, successivamente, nel contesto della psicologia stoica, il che impedisce, a mio avviso, di ascriverli a Eraclito. Alla storia della trasmissione di questo frammento mi sembra appar-tenere – teste Ippolito che, come indicato, ne isola la prima proposizio-ne – il fr. 77 DK che, con Kirk, p. 340, e Marcovich, pp. 248 (fr. 66d1) e 252, considero come una parafrasi, che tradisce fra l’altro una manipo-lazione del suo citatore, del presente fr. 62: esso è riportato da Numenio, fr. 30.11-17 des Places (= Porfirio, De antro nympharum 10, 63.10 Nauck), che lo introduce affermando che “anche Eraclito sostenne che «per le anime è piacere, non morte, divenire umide” (yuch'/si tevryin mh; qavnaton uJgrh'/si genevsqai), e che il piacere (tevryin) consiste per esse nella cadu-ta nella generazione (th;n eijı gevnesin ptw 'sin); e altrove disse: “noi viviamo la morte di quelle e quelle vivono la nostra morte”». Ora, queste parole si trovano riecheggiate in numerose fonti posteriori (cfr. Aristide Quintilliano, De musica II 17 [= 64.29 Jahn = 89.5 Winnington-Ingram]; Giuliano, Orationes V 165 c-d; Proclo, In Rempublicam II 270.28 Kroll, e In Timaeum I 117.5 Diehl; e Olimpiodoro, In Gorgiam 30.2 e 49.3 [= 155 e 259 Westerink]), con lievi variazioni e senza la menzione del «piacere» (tevryiı), nella forma: yuch'/si qavnatoı uJgrh'/si genevsqai, che, con l’unica modifica da u{dwr a uJgrh'/si, risulta evidente-mente identica alla citazione di Ippolito riportata sopra, che fa coinci-dere la «morte» delle anime con la loro trasformazione in «acqua» (o, appunto, in «umidità»), e va perciò ricondotta puramente e semplice-mente alla prima proposizione del presente fr. 62 come è riportato da Clemente. Resta da spiegare quindi, nella citazione di Numenio, l’in-troduzione del termine tevryiı, che è l’unico elemento che la differenzia dalla prima proposizione del presente fr. 62 e dalla sua tradizione: va innanzitutto ricordato che, per evitare ogni possibile contraddizione fra il testo di Numenio (secondo cui «per le anime è piacere, non morte, divenire umide») e l’affermazione eraclitea riconoscibile nelle altre citazioni (secondo cui «per le anime è morte divenire acqua [oppure: divenire umide]»), e difenderne così l’autenticità, è stata suggerita da Diels la correzione [m]h] qavnaton, che darebbe delle parole attribuite da Numenio a Eraclito la resa seguente: «per le anime è piacere o morte divenire umide» (così Conche, p. 330, e, assai dubitativamente, Robinson, pp. 130-31), mentre Diano-Serra, pp. 28 e 157, seguendo un’ipotesi formulata da Zeller, espungono mh; qavnaton come glossa esplicativa introdotta da Numenio: «“per le anime è piacere” – non morte – “dive-nire umide”»; sicché verrebbe sancita la coincidenza, per le anime, fra il «divenire umide» e la «morte», a sua volta associata al «piacere» (seguendo la versione di Diels), oppure soltanto fra il «divenire umide» e il «piacere», come condizione primordiale dalla quale le anime hanno avuto origine per esalazione, ma non la «morte», come precisa Numenio, giacché tale «piacere», spiega ancora quest’ultimo nel seguito, consiste-rebbe appunto nella «caduta nella generazione», dunque nella nascita

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(seguendo la versione di Diano-Serra). Fra i difensori dell’autenticità della citazione di Numenio, tuttavia, altri hanno tentato di conservarne la versione tradita: yuch ' /si tevryin mh; qavnaton uJgrh ' /si genevsqai (così Bollack-Wismann, p. 236, ma con l’estrosa traduzione: «Plaisir des souffles [scil., delle anime]: que la mort, quand ils sont humides, ne soit pas»; Kahn, pp. 76 e 245, che pure la giudica come una parafrasi di materiali eraclitei autentici; e Mouraviev I, pp. 188-89, e III, pp. 88-89) o perfino di ampliarla all’immediatamente successiva spiegazione: tevryin de; ei\nai aujtai'ı th;n eijı gevnesin ptw'sin (così Pradeau, pp. 162-63 e 285), in entrambi i casi supponendo o (1) che l’associazione, per le anime, fra il «divenire umide» e il «piacere» appartenga a un diverso contesto tematico e dottrinario rispetto all’affermazione del presente fr. 62, secondo cui, invece, «per le anime è morte divenire acqua» (così Kahn, p. 245, e Mouraviev III, p. 88, n. 3); oppure (2) che tale associazione abbia un carattere volutamente paradossale, per denunciare l’errore degli uomini che considerano piacevole il «divenire umida» della propria anima, che invece porta alla «caduta nella generazione», cioè a un destino votato alla morte (così Pradeau, p. 285, e ancora Mouraviev III, p. 88, n. 3). Personalmente, trovo queste ipotesi del tutto prive di fon-damento: in primo luogo, come segnalato poco sopra, la tradizione è compatta (dalla proposizione iniziale del presente fr. 62 alla sua ripre-sa da parte di Ippolito e fino ai suoi più tardi citatori Aristide Quintil-liano, Giuliano, Proclo e Olimpiodoro) nell’attribuire a Eraclito la tesi dell’identificazione fra la trasformazione in acqua (o in umidità) dell’ani-ma e la sua morte, senza nessun riferimento al «piacere», il che indica un’unanimità formale e di contenuti che impone di giustificare in qual-che modo, e non di accettare sic et simpliciter, l’eccezione rappresenta-ta dalla citazione di Numenio; infatti, se si accoglie il testo tradito della citazione di quest’ultimo (yuch '/si tevryin mh; qavnaton uJgrh '/si genevsqai, tevryin de; ei\nai aujtai 'ı th;n eijı gevnesin ptw'sin), avremmo un’evidente correzione, o piuttosto una negazione, della tesi, unanimemente attri-buita a Eraclito, della coincidenza fra il «divenire umide» delle anime e la loro «morte», che Numenio prima capovolge, premurandosi poi di fornirne una spiegazione: (1) «per le anime è piacere, non morte, dive-nire umide», e ciò nella misura in cui (2) «il piacere consiste per esse nella caduta nella generazione» (mi pare ovvio supporre che la spiega-zione di Numenio in [2] sia motivata precisamente dal fatto che egli si vede costretto a difendere il proprio intervento sulle parole attribuite a Eraclito in [1], data appunto la sua incisività). Ora, se si considera che la citazione di Eraclito è introdotta da Numenio, in forma continuativa e consequenziale (o{qen kai; ÔHravkleiton ... favnai) rispetto alla posizione di altri che ricollegano l’origine delle anime all’acqua, che è «intrisa di spirito divino» (tw'/ u{dati ... qeopnovw/ o[nti), e le fanno provenire dall’umi-dità (tw/ ' uJgrw/ '), in quanto destinate a risiedere nel divenire e nella generazione (ta;ı eijı gevnesin katiouvsaı), l’unica spiegazione plausibi-le è che Numenio stia associando, nella sua interpretazione delle paro-le di Eraclito, la proposizione iniziale del presente fr. 62 («per le anime è morte divenire acqua») con quella che la conclude («... dall’acqua viene l’anima»), sforzandosi di mostrare cioè come l’«acqua», o l’«umi-

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dità», costituisca a un tempo l’elemento originario da cui l’anima pro-viene e lo stato finale in cui essa ritorna, dando luogo così a un ciclo compiuto e concluso: come altri evocati subito prima, anche Eraclito, intenderebbe allora Numenio, ha sostenuto la tesi di un’origine delle anime dall’acqua, o dall’umidità (come recita la conclusione del pre-sente fr. 62), associando (1) il loro «divenire umide» al «piacere» della generazione e non, appunto, alla «morte» (tevryin mh; qavnaton); ma, nella misura in cui (2) tale «piacere», che deriva dalla «nascita» delle anime dall’umidità, consiste nella «caduta nella generazione» (tevryin de; ei\nai aujtai 'ı th;n eijı gevnesin ptw'sin), cioè proprio nella «nascita» dell’anima in un corpo mortale, esso implica a sua volta un destino di morte (come recita l’apertura del presente fr. 62), perché la «nascita» in un corpo mortale, ossia la sua «discesa» in esso, consegna l’anima a una vicenda temporanea che si conclude con la «morte» del corpo, sicché l’«acqua», o l’«umidità», da cui l’anima proviene e che è inizial-mente associata al «piacere», e non alla «morte», diviene infine, con un improvviso capovolgimento di fronte, sinonimo di «morte», e non più di «piacere», per l’anima stessa. Tuttavia, mentre nella prospettiva eraclitea la duplice funzione dell’acqua, o dell’umidità, come principio e fine dell’anima, si inserisce verosimilmente in una visione ciclica e continua che riconduce la vicenda psichica nel quadro più generale del ciclo dei fenomeni fisico-cosmologici, della loro regolare alternanza e della trasformazione degli elementi che li producono (cfr. la nota seguente), Numenio ne propone evidentemente un’interpretazione – non ciclica, ma, per così dire, «simultanea» – alla luce della concezione neoplatonica della «nascita», cioè della discesa dell’anima dall’intelle-gibile nel corpo sensibile, vista come una «caduta nella generazione» (cfr. per esempio Plotino, Enneadi VI 7 [38] 1.15-16, secondo cui le anime, quando «divengono anime» o «nascono come anime» [o{te ejgev-nonto yucaiv], eijı gevnesin i[wsi, sono destinate a «entrare nel divenire» e a discendere in un corpo, ciò che rappresenta per esse una «caduta», per quanto necessaria, naturale e perfino volontaria, dalla perfezione dell’intellegibile alla materia e al male; cfr. pure ibid. V 1 [10] 1.1-25): per le anime è perciò «piacere», e non «morte», il «divenire umide», e ciò in quanto, dal loro punto di vista, il «piacere» consiste nella «nasci-ta» in un corpo, che rappresenta però, in realtà, una «caduta nella generazione», che a sua volta introduce a un destino di «morte». Tutto ciò pare confermato dalla conclusione della citazione di Numenio che, parafrasando il fr. 21 [62 DK; 47 Marc.], cfr. n. 1, e applicandone la lezione al presente contesto della vicenda delle anime, attribuisce anche a Eraclito l’opinione secondo cui «noi viviamo la morte di quelle e quelle vivono la nostra morte», evidentemente suggerendo che la «nostra» vita individuale nel corpo, cui l’anima aspira come a un «pia-cere», rappresenta in realtà una condizione di «morte» per essa, che appartiene per natura all’intellegibile, mentre la «nostra» morte come individui sensibili, che l’anima considera come fine della propria vicen-da, la riconduce invece alla condizione di «vita» immortale che le è propria. La manipolazione di Numenio delle parole di Eraclito, che giudico come una prova decisiva dell’inautenticità della sua citazione,

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si pone quindi a un duplice livello: a un livello letterale, egli sintetizza la vicenda della «nascita» e della «morte» dell’anima nell’«acqua» o nell’«umidità» – che il presente fr. 62 propone in una versione artico-lata e ciclica che prevede la mediazione della «terra» (cui l’«acqua» si riduce e da cui nuovamente prende forma) e che, pertanto, stabilisce una relazione fra l’ambito psicologico (dell’anima) e l’ambito fisico-cosmologico (dell’acqua e della terra) – nell’unica affermazione secon-do cui «per le anime è piacere, non morte, divenire umide», giocando sul significato del termine tevryiı, a un tempo piacere della «nascita» (dal punto di vista particolare delle anime) e apportatore di «morte» (dal punto di vista universale della totalità del reale); ma, a un livello teorico, questa sintesi di Numenio rivela chiaramente, e dipende neces-sariamente da, una reinterpretazione della tesi eraclitea in un’ottica neoplatonica, che identifica il «piacere» della «nascita» con la «caduta nella generazione» e, per questa via, con la «morte», sicché si rende possibile giustificare la conclusione che l’«acqua», o l’«umidità», risul-ta contemporaneamente fonte di «nascita» e di «morte» per l’anima: di «nascita», dal punto di vista particolare della generazione dell’anima nel sensibile, e di «morte», dal punto di vista universale della sua cadu-ta dall’intellegibile, in modo che, di fatto coincidendo le due prospetti-ve (perché la «generazione nel sensibile» equivale alla «caduta dall’in-tellegibile»), «nascere» e «morire» dipendono, pur se da punti di vista diversi, dallo stesso principio o elemento. Un discorso appena più semplice va condotto rispetto al fr. 76 DK, che deriva dalla sovrappo-sizione di tre citazioni distinte, tutte collocate insieme in DK, benché fra loro sensibilmente differenti e provenienti da tre diversi autori; innanzitutto da Plutarco, De E apud Delphos 392c, che lo riporta subi-to dopo il fr. 91 DK (che, con Marcovich, pp. 142-44 [fr. 40c3], ho consi-derato a sua volta inautentico, cfr. supra, la. n. 1 al fr. 25): puro;ı qavnatoı ajevri gevnesiı, kai; ajevroı qavnatoı u{dati gevnesiı («Morte del fuoco è generazione per l’aria e morte dell’aria è generazione per l’acqua»); quindi da Marco Aurelio IV 46, che lo introduce in apertura della sequenza dei frr. 71 DK (che, con Marcovich, p. 266 [fr. 69b1], considero come una semplice reminiscenza del seguente fr. 63 [117 DK; 69 Marc.], cfr. la relativa n. 1), 4 [72 DK; 4 Marc.], 1a [73 DK; 1h1 Marc.] e 89 [74 DK; 89 Marc.]: gh 'ı qavnatoı u{dwr genevsqai, kai; u{datoı qavnatoı ajevra genevsqai, kai; ajevroı pu 'r («Morte della terra è divenire acqua e morte dell’acqua è divenire aria e dell’aria fuoco»); infine da Massimo di Tiro 41.4k, che lo evoca dopo il suo riferimento al fr. 21, cfr. la relativa n. 1: zh'/ pu 'r to;n gh 'ı qavnaton kai; ajh;r zh '/ to;n puro;ı qavnaton, u{dwr zh '/ to;n ajevroı qavnaton, gh' to;n u{datoı («Il fuoco vive la morte della terra e l’aria vive la morte del fuoco, l’acqua vive la morte dell’aria, la terra dell’acqua»). Non è difficile riconoscere, nelle tre citazioni, l’indicazione di altrettan-ti cicli di trasformazione degli elementi: in base alle parole che Plutar-co attribuisce a Eraclito, dal fuoco si produce l’aria e dall’aria l’acqua; in base a quelle riportate da Marco Aurelio, dalla terra si produce l’acqua, dall’acqua l’aria e dall’aria il fuoco; infine, in base a quanto riferisce Massimo di Tiro, dalla terra si produce il fuoco, dal fuoco l’aria, dall’aria l’acqua, dall’acqua la terra. È piuttosto ovvio stabilire un raf-

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fronto fra queste indicazioni e ciò che si ricava dal fr. 30 [31 DK; 53ab Marc.], che, stando all’interpretazione delineatane nella relativa n. 8, individua come «rovesciamenti del fuoco», cioè come successive tra-sformazioni a partire da esso e in virtù delle sue misurate alterazioni, che dipendono dalla misura costante della sua «accensione» e del suo «spegnimento» e dall’altrettanto costante «rapporto di misura» che ne deriva fra gli elementi nella loro ciclica trasformazione (si vedano in proposito i frr. 29 [30 DK; 51 Marc.]: pu 'r ... aJptovmenon mevtra kai; ajpo-sbennuvmenon mevtra, cfr. n. 4; 30: ... metrevetai eijı to;n aujto;n lovgon, cfr. nn. 7-8; e 33 [90 DK; 54 Marc.]: purovı te ajntameivbetai pavnta kai; pu'r aJpav-ntwn ..., cfr. n. 5), un processo che, dal fuoco, per diminuzione di calore, determina (probabilmente) lo sprigionarsi di aria calda, o di umidità, e di seguito la condensazione in acqua (del mare), che a sua volta si solidifica in forma di terra; mentre, all’aumentare del calore, dalla terra si produce per scioglimento nuovamente acqua (di mare) e questa evapora in aria calda, o umidità, che si concentra nel cielo dando luogo a tempeste di fulmini e pioggia, che dunque, per un verso, tornano a trasformarsi in fuoco (i fulmini) e, per altro verso, si riversano in mare sotto forma di acqua (la pioggia), in un processo appunto continuo e dalla misura costante. In relazione a questo modello di riferimento, è immediato constatare che la citazione di Plutarco si colloca precisa-mente nel processo ciclico descritto, illustrando la trasformazione, dovuta a diminuzione di calore, dell’aria dal fuoco e dell’acqua dall’aria, omettendo l’indicazione conclusiva della terra, in cui l’acqua si solidi-fica, ed esplicitando il riferimento all’«aria» (ajhvr), che nel fr. 30, rima-neva implicito o comunque ricompreso, sotto forma di «umidità» o di «vapore caldo», nel termine prhsthvr (cfr. ancora le relative nn. 7-8); anche la citazione di Marco Aurelio si pone nel medesimo contesto, ma delineandone il percorso completo (comprensivo dell’indicazione del-la terra) e in direzione inversa, quando cioè, per aumento di calore, dalla terra si produce l’acqua, dall’acqua l’aria e dall’aria il fuoco; men-tre la citazione di Massimo di Tiro, che, come quella plutarchea, va inserita nel percorso ciclico segnato da diminuzione di calore, pone una successiva trasformazione dalla terra in fuoco, dal fuoco in aria, dall’aria in acqua, dall’acqua nuovamente in terra. Se ne deve concludere che, se le citazioni di Plutarco e Marco Aurelio sembrano rispettare, o quan-tomeno non contraddire, il dettato del fr. 30, risulta invece dubbia, se non propriamente errata, la relazione iniziale stabilita da Massimo di Tiro fra «terra» e «fuoco»: innanzitutto, in nessun altro materiale era-cliteo autentico pare implicato un rapporto di trasformazione diretta della «terra» in «fuoco» o del «fuoco» in «terra»; in secondo luogo, non è affatto chiaro che genere di processo potrebbe determinare tale tra-sformazione, se Eraclito chiama in causa in generale meccanismi di aumento o di diminuzione costanti di calore, con il conseguente inne-scarsi di fenomeni di condensazione o solidificazione (dall’aria all’acqua, dall’acqua alla terra) e di evaporazione o scioglimento (dalla terra all’acqua, dall’acqua all’aria); infine, la citazione di Massimo di Tiro sembra supporre un ciclo di trasformazione circolare degli elementi (che dalla «terra», tramite il «fuoco», l’«aria» e l’«acqua», riconduce

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alla «terra»), mentre la spiegazione eraclitea del fr. 30 fa emergere piuttosto l’indicazione di un ciclo di trasformazione alternato, regolato in modo costante dalle misurate alterazioni di «accendimento» e «spe-gnimento» del fuoco (per cui dal «fuoco», per diminuzione di calore, si producono successivamente «aria», o «umidità» o «vapore caldo», «acqua» e «terra»; e a ritroso, per aumento di calore, dalla «terra» si producono successivamente «acqua», «aria», o «umidità» o «vapore caldo», e «fuoco», sotto forma di prhsthvr). Con questa essenziale pre-cisazione, che compromette a mio avviso l’affidabilità della testimo-nianza di Massimo di Tiro (che, non a caso, già F. Tocco, Heraclit. Fr. XXV (p. 11 Bywater), in «Studi italiani di filologia classica» 4 [1896], pp. 5-6, aveva proposto di correggere, invertendo i genitivi gh 'ı e ajevroı, come segue: zh'/ pu'r to;n ajevroı qavnaton kai; ajh;r zh'/ to;n puro;ı qavnaton, u{dwr zh '/ to;n gh'ı qavnaton, gh' to;n u{datoı, ossia: «Il fuoco vive la morte dell’aria e l’aria vive la morte del fuoco, l’acqua vive la morte della terra, la terra dell’acqua», appunto per evitare ogni possibile allusione a una non altrimenti attestata né giustificabile trasformazione diretta della «terra» in «fuoco» o del «fuoco» in «terra»), le citazioni esamina-te appaiono semplicemente riprendere l’illustrazione del ciclo fisico-cosmologico prospettato nel fr. 30, distaccandosene, però, (1) tanto per l’esplicitazione/introduzione di termini lì assenti (qavlassa – per «[acqua di] mare» – del fr. 30, con u{dwr – «acqua» tout court –, come avviene del resto anche nel presente fr. 62; e particolarmente prhsthvr – per la «tempesta di fulmini», in cui si trovano probabilmente ricompresi «umidità» o «vapore caldo» – del fr. 30, con ajhvr – «aria» tout court – di cui invece non si fa menzione nel presente fr. 62, che all’evaporazione dell’acqua associa direttamente la generazione dell’anima, che d’altra parte, in quanto appunto originata come «esalazione» dall’acqua, può essere accostata a un elemento umido o aereo, cfr. la nota seguente); quanto, soprattutto, (2) per l’impiego di un linguaggio che esprime il ciclo di trasformazione degli elementi non in chiave propriamente fisico-cosmologica, come avviene nel fr. 30, presentando le tropaiv del fuoco, o di derivazione reciproca degli elementi (<gh'> qavlassa diaceve-tai ... genevsqai gh'), bensì, in analogia con il presente fr. 62, attraverso la costruzione di un’alternanza, anch’essa ciclica, ma fondata sulla successione qavnatoı-gevnesiı/genevsqai o, nel solo caso di Massimo di Tiro, qavnatoı-zh 'n, cioè associando la «morte» di un elemento alla «generazione», alla «nascita» o alla «vita» di un altro, secondo una terminologia più consona, a mio avviso, al contesto psicologico del presente fr. 62 e perciò non neutrale dal punto di vista interpretativo (cfr. ancora la nota seguente). Per queste ragioni, considero il fr. 76 DK, e le tre citazioni che lo compongono, alla stregua di una semplice remi-niscenza ampiamente rimaneggiata del presente fr. 62, di cui, nella migliore delle ipotesi, si limita a evocare i contenuti, appunto ricondu-cendo con alcune forzature e comunque in modo incompleto il ciclo fisico-cosmologico della trasformazione degli elementi del fr. 30 a schemi e linguaggio «psicologici» del presente fr. 62 (con l’aggiunta, nel caso della citazione di Massimo di Tiro, di indicazioni evidentemente contraddittorie sul piano dottrinale): così pure Kirk, pp. 342-44, Bollack-

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Wismann, p. 235, Marcovich, pp. 250-253 (fr. 66e1-4) e Diano-Serra, p. 157; mentre Kahn, pp. 46 e 153-55, Robinson, p. 130, e Pradeau, pp. 173 e 296, che pure accolgono il fr. 76 DK – il primo nella versione plutarchea (a esclusione delle versioni di Marco Aurelio e soprattutto di Massimo di Tiro, considerate inattendibili), il secondo in tutte e tre le versioni, il terzo in quella di Marco Aurelio –, lo giudicano tuttavia come una parafrasi forse contenente qualche elemento autentico, seppure riadat-tata a un contesto teorico e terminologico di orientamento stoico, in relazione al presente fr. 62 e senza stabilire l’opportuno rapporto con il citato fr. 30; dal canto suo, Conche, pp. 297-98, considera autentica, senza esitazioni, la citazione di Marco Aurelio, che ricollega al fr. 30; infine, Mouraviev I, pp. 182-87, e III, pp. 85-87, non solo difende l’au-tenticità del fr. 76 DK, che ritiene irriducibile al presente fr. 62, ma ne mantiene inoltre distinte le tre versioni come altrettanti frammenti autonomi, in virtù dell’indipendenza dei tre citatori e, a suo avviso, dell’assoluta diversità dei rispettivi contenuti delle tre citazioni (si noti solo, però, a questo proposito, come Mouraviev III, p. 86, n. 2, valorizzi particolarmente l’originalità della citazione di Massimo di Tiro, che stabilisce come detto un collegamento fra terra e fuoco, come possibile accesso a una migliore comprensione della fisica o della cosmologia eraclitee, senza tuttavia fornire ulteriori dettagli interpretativi, in assen-za dei quali tale collegamento rimane, più plausibilmente, un semplice errore o fraintendimento della dottrina di Eraclito).

2 Sulla base dell’ampia disamina e delle precisazioni diffusamente fornite nella nota precedente, pare abbastanza plausibile sostenere che il presente frammento stabilisca una relazione fra la vicenda dell’anima, della sua generazione e della sua morte, e il ciclo fisico-cosmologico della trasformazione degli elementi delineato nel fr. 30 [31 DK; 53ab Marc.], cfr. n. 8, secondo il quale sussiste un processo continuo e dalla misura costante che, dal fuoco, per diminuzione di calore, determina (probabilmente) lo sprigionarsi di aria calda, o di umidità, e di seguito la sua condensazione in acqua (del mare), che a sua volta si solidifica in forma di terra; mentre, all’aumentare del calore, dalla terra si produ-ce nuovamente, per scioglimento, acqua (di mare) e questa evapora in aria calda, o umidità, che si concentra nel cielo dando luogo a tempeste di fulmini e pioggia (prhsthvr), che dunque, per un verso, tornano a trasformarsi in fuoco (i fulmini) e, per altro verso, si riversano in mare sotto forma di acqua (la pioggia). Se tale processo fisico-cosmologico rappresenta il modello macrocosmico standard al quale si rapporta, e nel quale si integra, il processo psico-fisiologico del presente fr. 62 come suo sottocaso, al livello microcosmico dell’organismo vivente individua-le (come rende evidente la comune indicazione, in entrambi i contesti, della generazione dell’acqua dalla terra e della sua dissoluzione nella terra), allora l’origine dell’anima dall’acqua e la sua morte nell’acqua sembrano suggerire che essa vada associata, e a qualche titolo assimi-lata, a una natura «aerea» calda e umida, che appunto si genera per evaporazione dall’acqua, quando è sottoposta a un aumento di calore, e la cui morte consiste in una successiva condensazione in umidità e in acqua, dovuta a una diminuzione di calore: ciò induce a credere in

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primo luogo, per analogia, che Eraclito possa aver concepito, anche sul piano fisico-cosmologico, l’umidità (to; uJgrovn) o l’aria (ajhvr) come ele-mento intermedio fra il fuoco e l’acqua (a partire dal fuoco, e in rela-zione al suo misurato «spegnimento»: fuoco-aria-acqua-terra, corrispon-dente al ciclo psico-fisiologico della morte dell’anima: [diminuzione del calore del] fuoco-[graduale raffreddamento dell’]anima-acqua [= mor-te dell’anima]-terra) e fra l’acqua e il fuoco (a partire dalla terra, in relazione alla misurata «accensione» del fuoco: terra-acqua-aria-fuoco, corrispondente al ciclo psico-fisiologico della generazione dell’anima: terra-acqua-[evaporazione umida dell’]anima-[aumento del calore del] fuoco), benché ciò non sia reso esplicito nel fr. 30, cfr. ancora la relativa n. 8 e la sintesi offerta nella nota precedente, e nonostante Marcovich, pp. 252-53, e Diano-Serra, p. 157, insistano sul fatto che l’introduzione dell’«aria» si debba a una mediazione stoica, a mio avviso senza fonda-te ragioni, giacché non si capisce perché a Eraclito sarebbe stata pre-clusa la conoscenza dei quattro elementi fondamentali, e dell’«aria» in particolare, che, proprio con riferimento ai processi di rarefazione e condensazione, evaporazione e raffreddamento, costituisce notoriamen-te un oggetto privilegiato di riflessione e di speculazione per la fisiolo-gia e la cosmologia presocratiche e particolarmente ioniche – pur essendo manifesto come Eraclito oscilli di frequente da un’evocazione diretta degli elementi (per esempio, nel caso del fuoco e della terra) a un riferimento che li chiama in causa attraverso i loro «esemplari» meteorologici (per esempio il «mare» per l’acqua, o elemento «liquido», il «sole» e la «tempesta di fulmini» per il fuoco, o ancora la «tempesta di fulmini» appunto per l’aria, o elemento «umido», come esalazione di vapore acqueo che produce i corpi nuvolosi e innesca i temporali). In secondo luogo, se l’anima si configura come una realtà assimilabile ad aria calda e umida, prodotta cioè da, e consistente in, un’evaporazione dell’acqua riscaldata per azione del fuoco, ne risulta ancora che, oltre ad avere conferma delle testimonianze di quanti, fin da Aristotele, hanno attribuito a Eraclito la dottrina della ajnaqumivasiı dell’anima, ossia della sua origine dall’«esalazione» a partire dall’acqua (pur con le precisazioni e le limitazioni introdotte nella nota precedente), vanno riconosciuti, anche sul piano psico-fisiologico del ciclo microcosmico dell’anima, «scambi» reciproci o «trasformazioni» successive fra gli elementi, analoghi a quelli che, nel ciclo macrocosmico del tutto, gover-nano ogni fenomeno naturale sul piano fisico, cosmologico e meteoro-logico, a loro volta dipendendo da un rapporto di misura stabile e costante che li conserva e li garantisce eternamente come altrettante «alterazioni» dell’unico principio del fuoco (cfr. ancora le indicazioni fornite nella nota precedente): ciò chiarisce probabilmente il riferimen-to, nel precedente fr. 61 [45 DK; 67 Marc.], cfr. n. 5, al lovgoı dell’anima e ai suoi peivrata, questi ultimi, dunque, da intendere senza dubbio come le «misure» degli elementi che la compongono, acqua e fuoco, ossia quelle «misure» necessarie alla generazione dell’anima in quanto espri-mono il grado di calore del fuoco capace di produrre il riscaldamento e l’evaporazione dell’opportuna quantità di acqua; mentre il lovgoı esprime l’esatto rapporto fra queste «misure», l’unico, quindi, che effet-

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tivamente determina il riscaldamento, da parte del fuoco, dell’acqua, che innesca a sua volta l’evaporazione dall’acqua in cui consiste l’anima. Ne consegue che l’anima può essere descritta in modo appropriato come una realtà mista o intermedia fra acqua e fuoco – appunto come vapo-re, umidità o «aria» calda, che ne manifestano la diretta derivazione tanto dall’acqua, che è riscaldata e portata a evaporazione dal fuoco, quanto dal fuoco, che riscalda e porta a evaporazione l’acqua – la cui combinazione è regolata da un rapporto di misura inviolabile che costi-tuisce e custodisce, nel senso più proprio, la profonda e più autentica natura dell’anima come misurato mélange di acqua e fuoco, l’unico suscettibile di generare, come loro interazione, la realtà vaporosa e calda che è l’anima; ne consegue pure, per contrasto, che l’anima non può essere identificata con nessuno dei due elementi, né con l’acqua, che del resto, dell’anima, rappresenta la condizione di morte, né con il fuoco, come invece vorrebbero Kirk, p. 342, e, appena più prudentemen-te, Marcovich, p. 253 (contra, correttamente, Conche, p. 329); ed ecco pure perché, nei seguenti frr. 63 [117 DK; 69 Marc.], cfr. n. 2, e 64 [118 DK; 68 Marc.], cfr. n. 2, si trovano, rispettivamente, una svalutazione, se non una condanna, dell’anima resa «umida» nel corpo e una simmetri-ca esaltazione, come «la più sapiente e migliore di tutte», dell’anima «asciutta» o «secca»: quest’ultima deve infatti la sua superiorità alla prossimità al fuoco, cioè a quello, fra gli elementi che la compongono, che ne determina la generazione, per aumento del suo calore, dall’acqua; mentre la prima vede sancita la propria inferiorità in base alla sua condizione «umida», che la avvicina all’acqua, cioè a quello, fra gli elementi che la compongono, in cui essa si dissolve quando l’azione del fuoco si inverte e il suo calore diminuisce. Tutto ciò, come subito vedre-mo, non conduce a stabilire un’identità fra l’ambito fisico-cosmologico e l’ambito psico-fisiologico, che, in certa misura paralleli, rappresentano però, il secondo, un caso particolare e ristretto del primo (quantomeno nelle sue linee generali, una simile interpretazione è condivisa da Bol-lack-Wismann, pp. 145-46, Marcovich, pp. 253-54, Kahn, pp. 238-40, Conche, pp. 326-28, Robinson, pp. 104-05, e Pradeau, p. 285): infatti, mentre il fr. 30 chiama in causa, come ricordato, il «mare» (qavlassa), il presente fr. 62 evoca direttamente l’«acqua» (u{dwr), e questa lieve difformità, che potrebbe certo dipendere da un intervento esplicativo del citatore – ed Eraclito si sarebbe forse limitato ad affermare che l’anima si genera a partire da un non meglio precisato elemento «liqui-do» –, appare più semplicemente motivata dal fatto che il termine u{dwr sostituisce qui naturalmente qavlassa, di cui si pone del resto come un’estrapolazione, in modo che, come il mare rappresenta l’elemento «liquido» da cui, al livello meteorologico o fisico-cosmologico, proven-gono l’aria o l’evaporazione, per aumento del calore del fuoco, e che a sua volta, per diminuzione del calore del fuoco, si solidifica in forma di terra, così l’acqua rappresenta l’elemento «liquido» da cui, al livello psico-fisiologico, proviene l’anima, per aumento del calore del fuoco, e che a sua volta, per diminuzione del calore del fuoco, si trasforma in terra. Quanto mi pare senz’altro da escludere è che u{dwr possa esatta-mente e letteralmente corrispondere a, e coincidere con, qavlassa del

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FR. 62 [36 DK; 66 MARC.] 253

fr. 30, perché, in tal caso, dovremmo attribuire a Eraclito la tesi secondo cui la generazione dell’anima a partire dall’acqua va estesa dal piano psico-fisiologico al piano fisico-cosmologico, cioè, su scala macrocosmi-ca, come un’evaporazione che si produce dal mare, così dando vita a una sorta di anima cosmica presente nel tutto (Kahn, p. 238, sembra propendere per una lettura del genere, nettamente respinta, invece, da Marcovich, p. 253). Ora, anche a prescindere dalla constatazione che, prima del Timeo platonico e, con particolare vigore, nel contesto della tradizione stoica, la nozione di un’anima del mondo pare fortemente anacronistica, bisogna soprattutto tenere presente che nessun materia-le eracliteo evoca, esplicitamente o implicitamente, una simile conce-zione «vitale» del cosmo; se, in altre parole, a partire dalla formulazio-ne di una dottrina dell’animazione del tutto (con Platone prima, con gli stoici poi), è lecito sostenere che fisica e psicologia di fatto coincidano, nella misura in cui l’anima e l’animazione del tutto, su scala macroco-smica, si fondano sugli stessi principi operativi che reggono le anime e l’animazione individuali, su scala microcosmica, sicché un unico ele-mento fisico, per esempio il «mare», può spiegare la generazione tanto di un’anima cosmica quanto delle anime individuali, resta invece ben fermo che, per Eraclito, ciò che deriva dall’evaporazione del «mare» non è altro che prhsthvr, «tempesta di fulmini», nel ciclo fisico-cosmo-logico del fr. 30, oppure un’esalazione che alimenta il calore della fiamma solare ed è coinvolta perciò nei fenomeni atmosferici quotidia-ni, nel ciclo meteorologico del fr. 36 [6 DK; 58 Marc.], cfr. n. 3. Occorre chiedersi perciò cosa accada al livello psico-fisiologico, che è parallelo, ma non identico, al ciclo meteorologico o fisico-cosmologico, tentando di precisare da quale genere di «acqua», o di elemento «liquido», eva-pori l’anima per azione del calore del fuoco: non dall’acqua di mare, in base a quanto precede, bensì necessariamente, se l’anima sorge nel corpo, dall’«acqua» a qualche titolo riconducibile al corpo; potrebbe trattarsi del sangue, eventualmente concepito come elemento «liquido» caratteristico del corpo e da contrapporre alla «carne», che sarebbe invece simboleggiata qui dal riferimento alla «terra» (così Marcovich, pp. 254-55; contra Kirk, p. 341, Diano-Serra, pp. 156-57, e Conche, p. 328), ma nessuna testimonianza, diretta o indiretta, può essere addotta in favore di questa ingegnosa identificazione. Si può dunque, congettural-mente, ipotizzare quanto segue: se il ciclo psico-fisiologico dell’anima rappresenta un caso particolare e ristretto del ciclo fisico-cosmologico del tutto, regolato su scala microcosmica dalle stesse leggi che governa-no il macrocosmo, avremo che il corpo (equivalente, ma non identico, alla terra, sul piano fisico-cosmologico), all’aumentare del calore del fuoco, si scioglie in parte in liquidi corporei (equivalenti all’acqua di mare, sul piano fisico-cosmologico, ma di cui è impossibile stabilire se coincidano davvero con il sangue), per produrre in seguito in essi un’esalazione – appunto l’anima – che evapora per il riscaldamento di parte dei liquidi corporei, il che spiega perché l’anima, quanto più si mantiene vicina al calore che è la condizione della sua generazione dai liquidi, rimanendo cioè asciutta, tanto più sia «sapiente» (fr. 64) – e così si configura il ciclo ascendente dalla nascita al culmine della maturità

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dell’individuo e della pienezza della sua anima (che corrisponde, sul piano fisico-cosmologico, all’aumento del calore del fuoco o alla sua misurata «accensione», nei frr. 29 [30 DK; 51 Marc.] e 30, che a sua volta, sul piano meteorologico, produce i fenomeni atmosferici che si determinano con l’aumento del calore solare dal mattino al mezzogior-no, nel fr. 36, cfr. n. 3); ma l’organismo è sottoposto poi a una diminu-zione di calore, che raffredda l’anima e la porta nuovamente a conden-sarsi in umidità e a mutarsi in liquidi corporei (equivalenti all’acqua di mare, sul piano macrocosmico fisico-cosmologico, e di cui è di nuovo impossibile stabilire se coincidano davvero con il sangue) e infine a solidificarsi in corpo (equivalente alla terra, sul piano macrocosmico fisico-cosmologico), il che provoca la morte dell’anima, che era esala-zione calda da liquidi corporei, come condensazione fredda negli stessi liquidi, così giustificando il fatto che la progressiva condensazione che la allontana dal calore, che era la condizione della sua generazione dai liquidi, e la avvicina al freddo, che è la condizione della sua morte, la renda ebbra e priva di sapienza (come quella di un ubriaco, fr. 63) – e così si configura il ciclo discendente dalla maturità alla morte dell’indi-viduo (che corrisponde, sul piano fisico-cosmologico, alla diminuzione del calore del fuoco o al suo misurato «spegnimento», nei frr. 29 e 30, che a sua volta, sul piano meteorologico, produce i fenomeni atmosfe-rici che si determinano con la diminuzione del calore solare dal mezzo-giorno alla sera, nel fr. 36, cfr. n. 3). L’assunzione, nel presente fr. 62, di un’ottica psico-fisiologica, che su scala ridotta riproduce quella fisico-cosmologica, spiegherebbe infine il passaggio da un linguaggio che, nel fr. 30, esprime in termini fisici la ciclica trasformazione degli elementi cosmici a un linguaggio che, invece, sottolinea piuttosto la nascita (gevnesiı/genevsqai) e la morte (qavnatoı) delle anime individuali nei corpi in cui sorgono: in tale prospettiva, il plurale iniziale (yuch' /sin) potrebbe indicare allora la «morte» delle anime, nel senso della loro fine come anime specifiche e particolari di singoli individui mortali, mentre il singolare finale (yuchv) segnalerebbe verosimilmente la gene-razione dell’anima come tale, da intendere come una realtà indistinta e non ancora resa particolare e specifica dall’esistenza nel corpo che deve animare (cfr. Kahn, p. 238).

Fr. 63 [117 DK; 69 Marc.]1

ajnh;r oJkovtan mequsqh'/, a[getai uJpo; paido;ı ajnhvbou sfallovmenoı, oujk ejpaivwn o{kh baivnei, uJgrh;n th;n yuch;n e[cwn.

Un uomo, da ubriaco, è portato per mano da un ragazzino imber-be, perché vacilla e non sa dove va, in quanto ha umida l’anima.2

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FR. 63 [117 DK; 69 MARC.] 255

1 Questo frammento è riportato da Stobeo III 5.7 (= III 257 Hen-se), dopo il fr. 70a [116 DK; 23e Marc.] e prima di una versione del seguente fr. 64 [118 DK; 68a2 Marc.], cfr. n. 1. Con Marcovich, p. 266 (fr. 69b1), considero invece come una sua semplice e piuttosto allusiva reminiscenza il fr. 71 DK (ma già in DK4 viene adombrata l’ipotesi che possa trattarsi di una parafrasi del presente fr. 63), citato da Marco Aurelio IV 46, dopo il fr. 76 DK (che anch’esso ho giudicato, ancora con Marcovich, pp. 250-53 [fr. 66e3], come una reminiscenza del precedente fr. 62 [36 DK; 66 Marc.], cfr. la relativa n. 1), e prima dei frr. 4 [72 DK; 4 Marc.], 1a [73 DK; 1h1 Marc.] e 89 [74 DK; 89 Marc.]: memnh 'sqai de; kai; tou ' ejpilanqanomevnou h|/ hJ oJdo;ı a[gei, «Ricordarsi sempre delle parole di Eraclito ... (Marco Aurelio cita qui il fr. 76 DK). Ricordarsi anche di “colui il quale dimentica dove porta la strada” ...». In effetti, anche a prescindere dalla forma alquanto approssimativa e verosi-milmente contratta della citazione di Marco Aurelio (sottolineata particolarmente da Kahn, p. 104, che ritiene di poter trarre dall’in-sieme del passo non più che un’eco di altri materiali autentici), è il suo contenuto a risultare solo sommariamente comprensibile perché troppo generico per coglierne contesto e riferimenti, se non appunto in riferimento all’«uomo ubriaco» in questione nel presente fr. 63, che «non sa» (perché «dimentica», con oujk ejpaivwn del presente fr. 63 equivalente a tou ' ejpilanqanomevnou della citazione di Marco Aurelio) «dove va» (cioè «dove porta la strada», con o{kh baivnei del presente fr. 63 equivalente a h|/ hJ oJdo;ı a[gei della citazione di Marco Aurelio): così pure Bollack-Wismann, p. 228. Non vedo come Diano-Serra, pp. 32 e 162, e Conche, pp. 72-73, che ammettono la citazione come autentica, possano supporre un’allusione ai «dormienti» che vagano errabondi e agiscono a caso (cfr. per esempio i frr. 8 [89 DK; 24 Marc.], specie n. 3, 22 [88 DK; 41 Marc.], 23 [21 DK; 49 Marc.] e, se autentico, 1a [73 DK; 1h1 Marc.]); o come Pradeau, p. 297, possa leggervi una polemica nei confronti degli uomini che ignorano il «percorso» del ciclo cosmico della trasformazione degli elementi. Lo stesso Mouraviev I, p. 175, e III, p. 81, si limita ad affermare di non trovare ragioni cogenti per escludere l’autenticità della citazione, il che, come è noto, è per lui motivo sufficiente per ammetterla.

2 Benché la contrapposizione costruita fra l’uomo ubriaco e il ragazzino sia tesa a far emergere una svalutazione del primo in favore del secondo, va tuttavia segnalato che ciò non implica in nessun modo un apprezzamento positivo della condizione infantile (come sembrano intendere Diano-Serra, p. 157, Conche, p. 333, e Robinson, pp. 157-58), che invece si trova costantemente paragonata, nei materiali eraclitei superstiti, a una fase di immaturità e di assoluta superficialità (si vedano in particolare i frr. 44c [70 DK; 92d Marc.], n. 3, 49 [56 DK; 21 Marc.], n. 5, e 55 [79 DK; 92 Marc.], n. 2), sicché ne risulta rafforzato il tono ironico e volutamente paradossale del presente frammento, da intendere evidentemente nel senso che perfino un «ragazzino imberbe», che pure esemplifica la forma umana nella sua versione più rozza e primitiva, appare relativamente superiore e più efficace nell’azione di un uomo adulto e maturo che, come un ubriacone, vada

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errando senza meta (sfallovmenoı) né consapevolezza del proprio cammino (oujk ejpaivwn o{kh baivnei), in modo che quest’ultimo si trova doppiamente condannato per la sua condizione, in primo luogo perché incapace di procedere autonomamente e in virtù delle proprie forze e, in secondo luogo, in quanto bisognoso della guida di chi dovrebbe essergli, per natura, inferiore (così Marcovich, p. 267; Kahn, p. 244, che sottolinea inoltre come il paragone potrebbe essere esteso, sul piano etico-politico, alla contrapposizione, stabilita nel fr. 87 [121 DK; 105 Marc.], fra gli indegni cittadini di Efeso e i ragazzini cui essi dovrebbero consegnare la città; e Pradeau, p. 287). Al di là della sua vivida costruzione letteraria, l’aspetto più rilevante, che mi induce a collocare questo frammento nel contesto dei materiali «psicologici» eraclitei raccolti nella presente Sezione 5, è sollevato naturalmente nella sua conclusione, che stabilisce una relazione fra l’«umidità» dell’anima (uJgrh;n th;n yuchvn) e lo stato di stordimento e di assenza di consapevolezza e di comprensione che caratterizza l’uomo ubriaco, così traducendo in termini psico-fisiologici (connessi all’«umidità» dell’anima) una denuncia di carattere genericamente etico (rivolta all’insano eccesso rappresentato dall’ubriachezza), come ben rilevato da Diano-Serra, p. 157, e Conche, pp. 334-35. Che infatti l’«umidità» costituisca per l’anima una condizione di regresso e di decadenza, che ne prefigura il ciclo discendente dalla maturità alla morte dell’indi-viduo, associata all’elemento in cui essa si dissolve, ossia all’«acqua», e ciò in opposizione alla condizione «asciutta» o «secca», che invece, come indica il seguente fr. 64 [118 DK; 68 Marc.], cfr. n. 2, distingue l’anima che è «la più sapiente e la migliore di tutte» e indica il culmine del ciclo ascendente dalla nascita alla maturità dell’individuo e alla pienezza della sua anima, associato a sua volta all’elemento che ne determina la generazione dall’acqua, ossia al «fuoco» – tutto ciò è stato ampiamente illustrato supra, nella n. 2 al precedente fr. 62 [36 DK; 66 Marc.]; si comprende perciò senza difficoltà come l’«umidità» dell’anima venga accostata qui a uno stato di demenza e di impotenza intellettuale, analogo all’ubriachezza. Resta però più arduo precisare se tale relazione fra «umidità» dell’anima e ubriachezza vada assunta in termini soltanto metaforici, l’ubriachezza essendo presa allora come una semplice «immagine popolare» illustrativa della psico-fisiologia dell’anima (così Marcovich, p. 267), o se, al contrario, tale relazione sia da intendere letteralmente, nel senso che l’eccessivo assorbimento di certi liquidi, per esempio di vino, provoca effettivamente un’al-terazione psico-fisiologica dell’anima che ne causa una maggiore «umidità» (così Kahn, p. 244, e Pradeau, p. 287): pur prudentemente, propendo per questa seconda opzione, che mi pare più conforme al tentativo eracliteo di spiegare qui, in chiave integralmente fisica e fisiologica, la natura dell’anima nel quadro delle funzioni psichiche che le sono proprie.

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Fr. 64 [118 DK; 68 Marc.]1

aujgh; xhrh; yuch;, sofwtavth kai; ajrivsth.

Lampo di luce l’anima asciutta, la più sapiente e la migliore di tutte.2

1 Questo frammento è riportato da Musonio Rufo in Stobeo III 17.42 (= III 505.2 Hense = Musonio Rufo, fr. 18a), nel contesto di un esame del nutrimento più appropriato per gli uomini che, in quanto apparentati alla divinità, devono nutrirsi di cibi leggeri e puri, quanto più possibile simili ai vapori che si innalzano dalla terra al cielo e di cui appunto si nutrono gli dei: «In questo modo, la nostra anima sarebbe pura e secca e potrebbe rivelarsi così la migliore e la più sapiente, come pare a Eraclito che dice quanto segue: ... (Musonio Rufo cita qui il fr. 64)». Identiche citazioni di queste parole di Eraclito in Stobeo III 5.8 (= III 257 Hense), dopo il precedente fr. 63 [117 DK; 69 Marc.], in Filone Alessandrino, De providentia II 109 = Eusebio, Praeparatio evangelica VIII 14.66 (= I 477.21 Mras), a più riprese in Plutarco: De esu carnium 995e, Romulus 28.8 e, in forma appena abbreviata, De defectu oraculorum 432f, in Clemente Alessandrino, Paedagogus II 29.3 (= I 174 Stählin), in Galeno, Scripta minora II 47.9 Müller (= IV 786 Kühn), in Ermia, In Platonis Phaedrum 15, in Sinesio, De insomniis 7, 138a, e in Porfirio, Sententiae 29.3; e ancora si trovano riecheggiate in Marsilio Ficino, De immortalitate animorum VIII 13. Anche dal punto di vista tematico, i contesti citati presentano forti analogie, perché evocano le parole di Eraclito in relazione, per esempio, al clima secco della Grecia, che favorisce il pensiero puro e l’esercizio della ragione, o ancora in riferimento alla parentela fra l’anima, e la sua funzione razionale, e le limpide regioni celesti, dunque in ogni caso a suggerire un accostamento fra la costituzione fisiologica dell’anima e una certa condizione climatica o atmosferica. Va inoltre sottolineato che la seconda citazione di Plutarco e quella di Clemente Alessandrino collocano l’aggettivo xhrhv dopo il sostantivo femminile yuchv, evidentemente al fine di precisare che a esso si riferisce («Lampo di luce l’anima asciutta ...»); le citazioni di Sinesio (il cui testo è tutta-via incerto) e di Porfirio, invece, suppongono la lettura contraria, che riferisce l’aggettivo xhrhv al sostantivo aujghv («Lampo di luce asciutto l’anima ...»), che è anch’esso femminile (così pure nella citazione di Marsilio Ficino, che traduce in latino: lux sicca, anima sapientissima); le altre citazioni sembrano lasciare irrisolta l’ambiguità, con la sequenza aujgh; xhrh; yuchv, che si può intendere in entrambi i sensi indicati (cfr. la nota seguente). Un altro gruppo di citazioni (ancora di Porfirio, De antro nympharum 11 [= 64.21 Nauck], di Eustazio, In Iliadem XXIII 261, e dei bizantini Michele Glycas, Annales 141.11 e 219.14 Bekker, e Michele Acominatus, Epistulae 173.6) presenta una versione più scarna

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delle parole di Eraclito, che si limita a sancire la maggiore (o assoluta) sapienza dell’anima «asciutta» (xhrhv) e che si pone perciò, eviden-temente, come una semplice reminiscenza del presente fr. 64. Resta infine da considerare una citazione, il cui testo è assai controverso, di Aristide Quintilliano, De musica II 17 (= 64.29 Jahn = 89.5 Winnington-Ingram), che precede la reminiscenza del fr. 62 [36 DK; 66 Marc.], cfr. la relativa n. 1: Marcovich (editio maior), p. 374, basandosi sull’edizione Jahn, riportava la versione yuch; aujgh; xhrhv sofwtavth, che corrisponde sostanzialmente a una forma abbreviata del testo trasmesso dai citatori precedentemente elencati e stampato qui, verosimilmente nella combi-nazione privilegiata nelle citazioni sopra ricordate di Sinesio e Porfirio, che associano l’aggettivo xhrhv al sostantivo aujghv («L’anima, lampo di luce asciutto, la più sapiente di tutte»), mentre Marcovich, pp. 263-64, basandosi sull’edizione Winnington-Ingram, riporta invece la versione yuch; au[h xhrhv, sofwtavth, con la precisazione, però, che l’aggettivo xhrhv («asciutta») costituirebbe una glossa esplicativa introdotta a illustrare il significato dell’assai arcaico aggettivo au[h (che anch’esso significa «asciutta»); ma, dal canto loro, già Vittore Trincavelli, primo editore del Florilegio di Stobeo, e Henri Estienne (Stephanus), il grande editore dei dialoghi platonici (entrambi del XVI secolo), avevano suggerito che Stobeo III 5.8 (= III 257 Hense), che riporta appunto, come segnalato sopra, il presente fr. 64, dovesse essere emendato, ripristinando au[h in luogo di aujghv ed espungendo xhrhv (entrambi presenti nei manoscritti di Stobeo) come semplice glossa esplicativa, giungendo così alla versione seguente: au[h yuch; sofwtavth kai; ajrivsth, successivamente accolta, come originale eracliteo, dalla gran parte degli editori moderni, per esempio da Schleiermacher, Bywater, DK (che riportano in realtà entrambe le ver-sioni, scandite da una dubitativa precisazione: aujgh; xhrh; yuch; sofwtavth kai; ajrivsth oder vielmehr: au[h yuch; sofwtavth kai; ajrivsth), Marcovich, pp. 259 e 264, e Diano-Serra, pp. 28 e 157-58: la comune diagnosi di questi studiosi, certo risalente a Trincavelli ed Estienne, consiste nel ritenere aujghv come un’assai antica corruzione del desueto au[h, probabilmente dovuta agli stoici Panezio e Posidonio (che avrebbero prestato a Eraclito la tesi stoica dell’anima come una forma particolarmente rarefatta e luminosa di aria, paragonabile a un «lampo di luce»), al quale sarebbe stato accostato successivamente l’aggettivo xhrhv, a illustrare l’originale significato eracliteo di au[h con un aggettivo di significato analogo, ma di più comune comprensione, fino a condurre alla versione ormai cor-rotta aujgh; xhrh; yuch; sofwtavth kai; ajrivsth. In realtà, però, non esiste nessuna ragione filologicamente e storicamente fondata per sostenere una simile, creativa ricostruzione: in primo luogo, il testo di Aristide Quintilliano, De musica II 17, l’unica fonte antica a riportare, almeno stando all’edizione Winnington-Ingram, l’aggettivo au[h, è fortemente sospetto di aver subito correzioni posteriori a Trincavelli (cfr. Mouraviev III, p. 137, n. 1) e dunque da questi plausibilmente influenzate, benché non opportunamente segnalate dai suoi editori; in secondo luogo, se si eccettua appunto il dubbio caso di Aristide Quintilliano, la lezione au[h, in luogo di aujghv, si trova soltanto in due correzioni di mano posteriore nel manoscritto A2 di Stobeo (del XIV secolo), che è probabilmente

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FR. 64 [118 DK; 68 MARC.] 259

quello, giudicato oggi ricco di congetture e correzioni errate, che ha influenzato Trincavelli nella sua edizione di Stobeo (cfr. Kahn, p. 332, n. 344); infine, e soprattutto, la totalità delle citazioni antiche del presente fr. 64, o almeno di quelle che lo riportano nella sua versione più ampia, non manifesta nessuna esitazione nel trasmetterne la versione stampata qui, con la conservazione della sequenza iniziale aujgh; xhrh; yuchv, quali che siano la costruzione e la traduzione che di essa è opportuno ammettere (cfr. ancora la nota seguente): così pure Bollack-Wismann, pp. 325-26, Kahn, pp. 245-46, che propone un ampio ed efficace esame delle fonti, da cui in buona parte dipende la ricostruzione da me proposta, Conche, p. 340, Robinson, pp. 68 e 159, Pradeau, pp. 163 e 285-86, e Mouraviev I, pp. 299-300, e III, p. 137.

2 A differenza della complessa vicenda della sua trasmissione, rico-struita nella nota precedente, il senso del presente frammento è piuttosto chiaro. Innanzitutto, per quanto concerne la costruzione e la traduzione della sequenza iniziale aujgh; xhrh; yuchv, mi pare preferibile riferire l’aggettivo xhrhv al sostantivo yuchv, perché, come sottolinea Kahn, p. 246, il sostantivo aujghv evoca un fenomeno luminoso (per esempio connesso ai raggi del sole o alla luce di un lampo) essenzialmente relativo alla visione, di cui non è chiaro che senso potrebbe avere indi-care l’«asciuttezza» (o, per converso, l’«umidità»); d’altra parte, invece, abbiamo già constatato, in relazione al precedente fr. 63 [117 DK; 69 Marc.], cfr. n. 2, come Eraclito tenti di illustrare la natura e le funzioni dell’anima, appunto basandosi sulla sua costituzione psico-fisiologica, di cui l’«asciuttezza», come pure l’«umidità» nel precedente fr. 63, si presta efficacemente a descrivere il carattere. Si comprenderà perciò come, a mio avviso, il presente fr. 64 vada interpretato come pendant del precedente 63: se quello attribuiva a un maggiore grado di umidità dell’anima, provocato dall’assorbimento eccessivo di certi liquidi, come il vino, uno stato di ottundimento e di incapacità intellettuali, questo individua al contrario, e secondo una logica perfettamente coerente, nella sua asciuttezza la condizione di massimo potere e dispiegamento conoscitivo e operativo dell’anima, e ciò nella misura in cui l’umidità prefigura, per l’anima, la transizione discendente verso l’elemento in cui essa si dissolve, ossia verso l’«acqua», mentre l’asciuttezza la assimila all’elemento che invece ne determina la generazione dall’acqua, ossia al «fuoco» (cfr. supra, n. 2 al fr. 62 [36 DK; 66 Marc.]). È inoltre plausibile che i superlativi sofwtavth e ajrivsth, che qualificano entrambi l’anima «asciutta», alludano rispettivamente, e in modo complementare, tanto alla sua eccellenza «intellettuale», che le permette di accedere al più alto grado di sofiva, che è naturalmente quella che schiude la com-prensione di tutte le cose e dell’unico principio che armoniosamente le governa (si veda solo, in proposito, supra, il fr. 9 [41 DK; 85 Marc.], specie n. 3), quanto alla sua supremazia etica, che la accosta al modello comportamentale degli a[ristoi e alla loro morale aristocratica (cfr. per esempio infra, il fr. 73 [29 DK; 95 Marc.]): una simile interpretazione d’insieme appare piuttosto condivisa, cfr. Bollack-Wismann, p. 327, Marcovich, pp. 264-65, Kahn, pp. 247-48, Diano-Serra, p. 158, Conche, p. 342, Robinson, pp. 158-59, e Pradeau, p. 286. Il significato del parallelo

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260 FR. 65 [20 DK; 99 MARC.]

stabilito in apertura del frammento fra «l’anima asciutta» e il «lampo di luce» (aujghv) mi sembra a questo punto più facilmente ipotizzabile, giacché quest’ultimo è probabilmente evocato a simboleggiare, come puro raggio luminoso e fiammeggiante, il fuoco di cui è una proprietà o un effetto, forse richiamando pure la «tempesta di fulmini» (prhsthvr) del fr. 30 [31 DK; 53ab Marc.], cfr. n. 7, e il «sole» del fr. 36 [6 DK; 58 Marc.], cfr. n. 3, che del fuoco sono altrettanti «esemplari» meteorologici collocati nelle regioni superiori del cielo, il che fornisce un elemento aggiuntivo per giustificare il fatto che «l’anima asciutta» risulti la più efficace dal punto di vista conoscitivo e operativo, appunto in quanto tale sua configurazione psico-fisiologica, dominata dall’asciuttezza e pressoché priva di umidità, è quella che più di ogni altra si accosta, nella forma di una sottile realtà luminosa, rarefatta e purissima – e perciò agli antipodi della pesantezza prodotta dal carattere denso e offuscato dell’acqua – alla natura del fuoco cui deve la sua generazione. Ciò non consente perciò, conviene ribadirlo nuovamente (cfr. già supra, n. 2 al fr. 62), di giungere a un’identificazione diretta dell’anima in generale, né, in tal caso, dell’«anima asciutta» paragonabile al «lampo di luce», con il fuoco, come hanno invece suggerito G.S. Kirk, Heraclitus and Death in Battle (fr. 24D), in «American Journal of Philology» 70 (1949), pp. 384-93, più sinteticamente Kirk, p. 342, e, appena più prudentemente, Marcovich, p. 265 (si vedano ancora Kahn, pp. 246-54, con ampia discus-sione della concezione eraclitea dell’anima nel quadro della psicologia presocratica, e Pradeau, p. 286).

Fr. 65 [20 DK; 99 Marc.]1

genovmenoi2 zwvein ejqevlousi movrouı t je[cein [ma'llon de;

ajnapauvesqai], kai; pai'daı kataleivpousi movrouı genevsqai.

Una volta nati, vogliono vivere e andare incontro a funesti destini, e lasciano figli in modo che si riproducano funesti destini.3

1 Questo frammento è riportato da Clemente Alessandrino, Stroma-teis III 14.1 (= II 201 Stählin), nell’ambito di una polemica con il vescovo Marcione (I-II secolo d.C.), che predicava di astenersi dalla procrea-zione perché peccaminosa, ed evocando a tale proposito le opinioni di alcuni filosofi, compreso Eraclito, che pure avrebbe difeso una tesi non del tutto coerente: «Eraclito pure sembra maledire la generazione, quando dice (ejpeida;n fh/ ', ma cfr. la nota seguente): ... (Clemente cita

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qui il fr. 65)». Con Marcovich, pp. 359-60, Kahn, p. 72, Diano-Serra, pp. 26 e 153-54, e Robinson, pp. 20 e 90, che riprendono del resto una posizione già precedentemente diffusa, considero le parole ma 'llon de; ajnapauvesqai, che Clemente introduce fra la prima e la seconda parte del frammento, come un inciso meramente esplicativo del citatore, teso a spiegare l’espressione eraclitea movrouı t je[cein, precisandone il contenuto («... andare incontro a funesti destini, o piuttosto trovare requie, ...»); fra l’altro, questo uso esplicativo di ma 'llon dev è frequente in Clemente (contra Bollack-Wismann, p. 108, Conche, p. 131, Pradeau, p. 301, e Mouraviev I, pp. 64-65, e III, pp. 29-30, che, oltre a non trovare cogenti le ragioni per l’esclusione, si limita a osservare che il verbo ajnapauvesqai è attestato nei materiali eraclitei superstiti, in particolare nel fr. 27 [84ab DK; 56ab Marc.], nel quale, tuttavia, ha piuttosto il significato di «permanere» o «rimanere immobile», in opposizione al participio metabavllon che indica invece un «mutamento di condizione», che non di «trovare requie» o «addormentarsi», nel senso di «morire», che Clemente evidentemente suppone qui).

2 Vi è un problema testuale che coinvolge l’introduzione della citazio-ne, da parte di Clemente, delle parole di Eraclito e il participio genovmenoi che segna appunto l’inizio di tale citazione. Clemente ha qui ejpeida;n fhsiv, che non è plausibile, perché ejpeidavn richiede il congiuntivo; due soluzioni sono state allora prospettate: correggere ejpeidavn in ejpeidhv, che ammette l’indicativo e conserva la stessa sfumatura di significato temporale o causale (Bywater), oppure correggere l’indicativo fhsiv nel congiuntivo fh/', così mantenendo ejpeidavn (Diels), scelta, quest’ultima, accolta dalla quasi totalità degli editori e dei traduttori (e da me presupposta qui, cfr. la nota precedente). In seguito a un’ampia disamina, Mouraviev III, p. 29, nn. 1-5, ha suggerito invece la seguente ricostruzione: Clemente avrebbe scritto ejpei; dh;n fhsiv, che un copista avrebbe equivocato come ejpeidh;n fhsiv e corretto in ejpeida;n fhsiv, dando origine alla corruzione; questa spiegazione presenta in effetti il duplice vantaggio di giustificare in termini paleograficamente ineccepibili la corruzione prodottasi e di restituire alle parole introduttive di Clemente una sequenza grammatical-mente corretta. Così stando le cose, l’avverbio dhvn dovrebbe appartenere alla citazione eraclitea e non al contesto che la introduce, e avremmo perciò: dh;n genovmenoi zwvein ejqevlousi ..., «una volta nati, vogliono vivere a lungo ...» (cfr. pure Pradeau, p. 301), una resa per nulla implausibile, ma che suscita a mio avviso una lieve incoerenza, perché non è chiaro a che titolo sarebbe introdotta la precisazione che gli uomini «vogliono vivere a lungo», se è vero che, secondo Eraclito, è la stessa volontà di vivere, e non la volontà di vivere a lungo, che conduce a «funesti destini», in quanto vivere significa di per sé «andare incontro» a un destino di morte. Per tale ragione, preferisco attenermi, pur dubitativamente, alla versione ormai tradizionale del presente fr. 65.

3 Il senso più immediato e letterale del presente frammento è chiaro: Eraclito esprime una diagnosi o una critica, o entrambe le cose insieme, della vita umana e della diffusa percezione ordinaria che gli uomini ne hanno (il soggetto inespresso della proposizione è necessariamente generico: oiJ polloiv oppure oiJ a[nqrwpoi), che suscita in essi un impulso

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irriflesso che li porta, una volta che siano stati generati, a persistere in una condizione quasi vegetativa, cioè senza considerare valori, ragioni o scopi del vivere, non capendo che, in tale forma quasi «animale», la vita non rappresenta altro che un ineluttabile percorso naturale che conduce alla morte (certamente così va inteso il termine movroı, che, come i corrispettivi moi'ra e movrion, designa la «sorte» o, propriamente, la «parte» che il fato riserva a ciascuno, e che abitualmente coincide con il destino ultimo di un individuo, cioè con la sua morte, cfr. pure infra, il fr. 74 [25 DK; 97 Marc.], n. 3) e assecondando perciò soltanto l’istinto, anch’esso irriflesso e «animale», alla procreazione di figli, che lasciano dietro di sé come altrettanti viventi destinati a loro volta a riprodurre l’identico destino di morte: ne risulta così, a esaltare l’inconsapevolezza dei più (plausibilmente in opposizione ai pochi, che, invece, comprendono il ciclo della natura e l’ordine delle cose, cfr. Diano-Serra, p. 153), un efficacissimo effetto di contrasto fra la prima parte del frammento, che associa quello che gli uomini giudicano «vivere» all’«andare incontro» alla morte, e la seconda, che svela come l’intento di far proseguire la vita, generando dei figli, non sia in realtà che un rinnovare continua-mente la morte (fuori questione, pertanto, l’interpretazione suggerita da Pradeau, pp. 301-02, secondo il quale Eraclito denuncerebbe qui il timore della morte che assale gli uomini, ostacolandone la vita, e che essi tentano di eludere generando dei figli come continuazione di sé). Ora, se il concetto qui espresso viene posto in relazione con quanto si afferma nel fr. 73 [29 DK; 95 Marc.], che esalta la scelta dei pochi che perseguono una sorte eccezionale, anche a scapito delle soddisfazio-ni materiali della vita mortale, a differenza dei molti che, come una «mandria», si accontentano di soddisfare i propri bassi appetiti, o nel fr. 74, secondo cui è proprio alle «morti più gloriose», cioè quelle in cui incorrono i «migliori», che spettano le «sorti (movroi) più illustri», esso ha un’indubbia portata etica e mira presumibilmente a stabilire una netta contrapposizione fra la morale aristocratica ed eroica degli a[ristoi e la massa degli uomini, che vive appunto la propria vita nella totale inconsapevolezza e nel completo abbandono alle inclinazioni materiali più irragionevoli e insignificanti: così soprattutto Marcovich, p. 360, Kahn, pp. 233 e 235, e Conche, pp. 131-32. Tuttavia, senza in nessun modo sminuire, né tantomeno negare, le implicazioni etiche giustamente sottolineate da una simile interpretazione, attribuisco al presente fram-mento un significato più generale, che consiste nel tentativo di fornire una descrizione (psicologica e biologica) della condizione fisiologica della vita umana, con l’indicazione e la spiegazione della sua vicenda inarrestabile: la vita umana, al livello biologico come a quello psicologico, non rappresenta infatti che un’incessante transizione, di generazione in generazione, dal nascere (genevsqai) al morire (movrouı e[cein), e ciò nella misura in cui si inserisce nell’immutabile ciclo psico-fisiologico della generazione (gevnesiı/genevsqai) e della morte (qavnatoı) dell’anima da cui inevitabilmente dipende e che il fr. 62 [36 DK; 66 Marc.], cfr. n. 2, ha a sua volta integrato nel ciclo fisico-cosmologico della trasformazione degli elementi a partire dal principio fondamentale del fuoco; cfr. pure in tal senso Bollack-Wismann, p. 109, e Robinson, pp. 89-90. Assumendo

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FR. 66 [48 DK; 39 MARC.] 263

una simile ottica, suggerisco una lettura di questo come del seguente fr. 66 [48 DK; 39 Marc.], cfr. n. 2, che ne valorizza piuttosto le implicazioni «psicologiche», a illustrare la condotta e la sorte dell’anima nel corso della vita mortale, e ne suggerisce perciò la collocazione fra i materiali raccolti nella presente Sezione 5.

Fr. 66 [48 DK; 39 Marc.]1

tw'/ ou\n tovxw/ o[noma bivoı, e[rgon de; qavnatoı.

Nome dell’arco è vita, ma la sua opera è morte.2

1 Questo frammento è riportato nell’Etymologicum Magnum, un dizionario bizantino del XII secolo che fornisce, rispetto ai termini riportati, una serie di esempi e di citazioni relativi all’uso degli autori antichi, alla voce bivoı, «vita», con la spiegazione seguente: «Sembra che gli antichi abbiano attribuito lo stesso nome all’arco e alla vita. Sicché Eraclito l’oscuro ... (l’Etymologicum Magnum cita qui il fr. 66). L’arma è chiamata così, certo, per la forza della sua tensione, perché è tesa con forza, oppure perché gli antichi, grazie a essa, si procuravano il necessario alla vita, servendosene a caccia: se lo procuravano, infatti, tirando con l’arco ai volatili o ai quadrupedi». Identica citazione di queste parole in G. Tzetzes, Scholia ad exeg. in Iliadem 101 Hermann, con l’unica differenza della particella dev (tw' / de; tovxw/ ...) in luogo di ou\n dell’Etymologicum Magnum (tw' / ou\n tovxw/ ...). Leggermente diversa, sintatticamente, ma non per il suo contenuto, la citazione che si trova in Eustazio, In Iliadem I 49: tou' tovxou, to; me;n o[noma bivoı, to; de; e[rgon qavnatoı (per un esame di tali lievi divergenze, cfr. la dotta disamina in Mouraviev III, p. 57). Si noti infine il gioco di parole fra bivoı, «vita», e biovı, «corda (dell’arco)», che induce ad attribuire al presente frammento un duplice significato: «Nome dell’arco è vita (bivoı; oppure, letteralmente: corda, biovı), ma la sua (letteralmente: della corda dell’arco, biou'; oppure, metaforicamente: della vita, bivou) opera è morte»; queste diverse sfumature di significato, impossibili da determinare con esattezza dal punto di vista testuale (per-ché l’indicazione degli accenti, come del resto anche della punteggiatura, nei testi antichi e nella storia della loro trasmissione, è una conquista relativamente recente) e da rendere efficacemente nella traduzione, non sono insignificanti dal punto di vista interpretativo, cfr. la nota seguente. Al contesto dossografico del presente fr. 66 accosto le testimonianze riportate da varie fonti (in particolare in Aezio V 23 [= Dox. 434-35], Plutarco, De defectu oraculorum 415e, Censorino, De die natali 17.2 [= SVF I 133], Filone Alessandrino, Quaestiones et solutiones in Genesin II

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5 [tradotto dall’armeno in latino e in francese da C. Mercier], a sua volta frainteso da Giovanni Lydo, De mensibus III 14) e collocate da DK in 22 A 19 e A 18, che Marcovich, pp. 379-84, e Mouraviev I, pp. 201-01, e III, p. 95, catalogano invece, con ampia discussione critica, rispettivamente come fr. 108 e fr. 80B (benché nella forma ampiamente parafrasata di una reminiscenza e non certo di citazione letterale): se ne trae che la durata di una generazione (geneav) sarebbe stata fissata da Eraclito in 30 anni (e[th triavkonta), calcolabili indifferentemente come il tempo intercorrente fra la nascita di un individuo e quella di suo nipote (crovnoı ajpo; th'ı gennhvsewı tou' pavppou e{wı th'ı tou' uiJwnou') oppure come il tempo intercorrente fra la nascita di un nipote e il momento in cui questi diviene nonno (ejn w|/ crovnw/ oJ uiJwno;ı pavppoı givnoit ja[n), cioè quando suo figlio può a sua volta procreare, in ogni caso fissando l’età della maturità sessuale di un individuo a quattrodici anni e il periodo tra il concepimento e la nascita, sommariamente, in un anno (sicché, nel primo caso, abbiamo che, con 0 per la nascita di un individuo, la generazione dura 0 + 15 anni [dati dall’età del concepimento del proprio figlio, a 14 anni, più un anno per la sua nascita] + 15 anni [dati dall’età del concepimento, da parte del proprio figlio, a 14 anni, di suo figlio, più un anno per la sua nascita] = 30 anni; nel secondo caso, con 0 per il momento in cui nasce un nipote, la generazione dura 0 + 15 anni [dati dall’età del nipote quando è a sua volta in condizione di procreare, a 14 anni, più un anno per la nascita di suo figlio] + 15 anni [dati dall’età del figlio quando è a sua volta in condizione di procreare, a 14 anni, più un anno per la nascita di suo figlio] = 30 anni). Mi pare che simili testimonianze, quale che sia il loro grado di affidabilità e di letteralità e comunque si trovassero collocate nell’opera di Eraclito, possano contribuire ad arricchire le informazioni relative alla riflessione eraclitea sulla natura e sul ciclo della vita umana svolta in questo e nel precedente fr. 65 [20 DK; 99 Marc.]; cfr. pure la nota seguente.

2 Come nel caso del precedente fr. 65 [20 DK; 99 Marc.], cfr. n. 3, che spiega la vicenda esistenziale umana come un’incessante transizione, di generazione in generazione, dal nascere al morire, leggo il presente fram-mento nel quadro di un’analoga diagnosi psico-fisiologica che Eraclito formula della vita individuale: simile alla corda di un arco (biovı), che si tende fino alla sua massima estensione, e allora appunto manifesta la sua piena «vitalità», per poi essere rilasciata e scoccare il colpo fatale alla sua preda, allo stesso modo lo svolgimento della vita (bivoı) non è che un percorso che conduce alla morte, ciclicamente rinnovandosi fra i suoi due estremi, appunto nascita e morte, con un tragitto ascendente, fino al culmine della sua massima «tensione» vitale (o della piena maturità dell’anima, cfr. supra, n. 2 al fr. 62 [36 DK; 66 Marc.]), e di lì discendendo progressivamente e inesorabilmente verso la fine (che coincide con la morte dell’anima, cfr. ancora supra, n. 2 al fr. 62), in un contesto analogo a quello, universale, della ciclica trasformazione degli elementi nel cosmo determinata e regolarmente governata dal fuoco. Mi pare pertanto plausibile accostare, pur congetturalmente, al presente frammento il materiale dossografico citato e discusso nella nota precedente (e cor-rispondente a 22 A 18-19 DK = fr. 108 Marcovich), che fornisce alcune

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precisazioni relative alla durata temporale dell’«arco» della vita, ponendo una generazione, di trenta anni, come intervallo di tempo fra la nascita di un individuo e la nascita di suo nipote – o fra la procreazione di suo figlio e la procreazione del suo pronipote – forse associando alla nascita di un nipote, a trenta anni, il momento in cui, essendo ormai garantita una prosecuzione indipendente della stirpe, si è raggiunto il culmine della propria «tensione» vitale e l’«arco» della vita si contrae nella sua fase discendente verso la morte (il che darebbe una durata media della vita di sessanta anni). Nulla impedisce naturalmente che, al di là di questa lettura d’insieme, il frammento si presti anche a essere inteso in riferi-mento alla dottrina eraclitea dell’unità degli opposti, i cui materiali sono stati raccolti supra, nella Sezione 2, attribuendo perciò a bivoı e qavnatoı il ruolo di termini opposti, che si lasciano tuttavia riassumere nell’unità dell’arco, o della sua corda, in una più alta prospettiva unitaria (cfr. per esempio i frr. 21 [62 DK; 47 Marc.] e 22 [88 DK; 41 Marc.], in cui la coppia «vita-morte», o «vivo-morto», si trova esplicitamente evocata): così Kirk, p. 122, Marcovich, p. 136, Diano-Serra, p. 153, Conche, p. 424, e Pradeau, p. 206. Non vi è dubbio, infine, che la corrispondenza stabilita fra o[noma ed e[rgon dell’arco riveli un interesse, del resto già diffuso nella letteratura arcaica, per il rapporto fra «nome» e «cosa» e per la natura della loro relazione: se infatti, a un primo livello, «vita» e «morte» parrebbero far emergere un’apparente contraddizione fra il nome dell’arco e la sua funzione, espresse tramite termini dal significato opposto e contrario, sussiste in realtà fra di essi un duplice legame, innanzitutto superficiale, fra il nome dell’arco, come biovı, «corda», e l’opera che compie, qavnatoı, come «morte» della preda che colpisce; quindi di natura più profonda e autentica, nel momento in cui, associando biovı, «corda», a bivoı, «vita», si coglie l’intima connessione fra o[noma ed e[rgon dell’arco nei termini del rapporto essenziale che svela la complementarità di bivoı e qavnatoı nella loro ciclica e inarrestabile successione e alternanza. Questo punto di vista, valorizzato particolarmente da Bollack-Wismann, pp. 169-70, Marcovich, pp. 136-37, e Kahn, pp. 201-02, colloca certamente Eraclito fra le fonti della sezione etimologica del Cratilo platonico, che mira fra l’altro a stabilire la natura dell’appartenenza, essenziale o convenzionale, del nome alla cosa che denomina, Eraclito collocandosi evidentemente, in tale ottica, nella prospettiva «essenzialista» della naturale corrispon-denza fra nome e cosa.

Fr. 67 [27 DK; 74 Marc.]1

ajnqrwvpouı mevnei ajpoqanovntaı a{ssa oujk e[lpontai oujde; dokevousin.

Gli uomini, alla morte, li attende ciò che non si aspettano né suppongono.2

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266 FR. 67 [27 DK; 74 MARC.]

1 Questo frammento è riportato da Clemente Alessandrino, Stromateis IV 144.2 (= II 312 Stählin), nel contesto di un esame delle opinioni dei filosofi pagani sulla speranza di una buona sorte dopo la morte, per i buoni, e sulla minaccia di una cattiva sorte, per i malvagi, che saranno giudicati, gli uni e gli altri, per la condotta tenuta in vita; dopo aver evocato i pitagorici e Platone, Clemente prosegue così: «Anche Eraclito sembra esprimersi in accordo con questa opinione, per quanto dice quan-do afferma, riguardo agli uomini, che ... (Clemente cita qui il fr. 67)». Le parole di Eraclito sono citate anche, in forme leggermente diverse e per lo più abbreviate, da Teodoreto, Graecarum affectionum curatio VIII 41 (dopo i frr. 75 [24 DK; 96 Marc.], cfr. n. 1, e 74 [25 DK; 97 Marc.], cfr. n. 1), da Plutarco, fr. 178.87 Sandbach (= Stobeo IV 52.49 [= IV 1092.18 Hense]), e nuovamente da Clemente Alessandrino, Protrepticus 22.1 (= I 16 Stählin), prima della sua citazione del fr. 90 [14 DK; 87 Marc.], con l’unica variante maggiore dei participi ajpoqnh/vskontaı o teleuthvsantaı in luogo di ajpoqanovntaı (giustamente preferito dalla quasi totalità degli editori, cfr. Mouraviev III, p. 34). Se Clemente, in entrambi i contesti delle sue citazioni, attribuisce a Eraclito una critica radicale della religione tradizionale greca, e particolarmente dei riti misterici, con la minaccia di un giudizio post mortem esiziale per quanti vi prestano fede, il solo Plutarco evoca invece queste parole con un significato opposto, a esaltare cioè i premi «inimmaginabili» che attendono gli uomini dopo la morte: la divergenza, che dipende essenzialmente dall’ambiguità semantica del verbo e[lpomai («sperare» o «aspettarsi»), è ovviamente cruciale per l’interpretazione del frammento, cfr. la nota seguente.

2 Il problema principale per la comprensione del presente fram-mento ruota, come detto, intorno all’esatto significato da attribuire al verbo e[lpomai, che comprende l’intera gamma semantica connessa alla «speranza» o all’«aspettativa» di qualcosa (cfr. pure infra, il fr. 99 [18 DK; 11 Marc.], n. 3), dunque, come nelle lingue moderne, con un valore innanzitutto positivo («gli uomini ... li attende ciò che non osano neanche sperare [oppure: aspettarsi]» – ma che evidentemente si augurano – «e che neanche riescono a immaginare [scil., quanto sia meraviglioso]»), che mi pare tuttavia fuori questione qui per la ragione seguente: il plurale ajnqrwvpouı suppone che ci si riferisca o alla totalità degli uomini o ai polloiv, i «molti», che invece, per esempio nei mate-riali «epistemologici» raccolti nella precedente Sezione 4, si trovano abitualmente condannati per la loro insipienza, sicché, in entrambi i casi, non sarebbe affatto chiaro che senso possa avere l’annuncio di un premio post mortem, così generalizzato da essere fissato indistintamente per tutti (se riguarda la totalità degli uomini) oppure completamente indifferente rispetto ai meriti e ai demeriti di ciascuno (se riguarda i polloiv). D’altro canto, attribuendo invece al verbo e[lpomai un valore negativo («gli uomini ... li attende ciò che non sperano [oppure: non si aspettano]» – e che evidentemente non si augurano – «e che neanche riescono a immaginare [scil., quanto sia terribile]»), avremmo una sequenza coerente con l’idea di un giudizio, caratterizzato da premi per i giusti e punizioni per i malvagi, che attende l’anima, di cui si sup-pone allora l’immortalità, dopo la morte del corpo, e che, in tal caso

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necessariamente per i polloiv insipienti, non può che rivelarsi come un giudizio dagli esiti nefasti (così Marcovich, pp. 278-79): ora, però, una lettura del genere (1) si scontra a mio avviso con la constatazione che l’unico giudizio «universale» o «cosmico» evocato, comunque allusiva-mente, nei materiali eraclitei superstiti ha un carattere e un ambito di applicazione esclusivamente fisico-cosmologico (chiamando in causa il ruolo del fuoco, come principio inviolabile che determina e garantisce la ciclica trasformazione degli elementi, e la giustizia, come misura o modalità dell’esercizio regolare e immutabile della sua funzione, per esempio nei frr. 34 [0 (3+94) DK; 0 (57+52) Marc.], cfr. n. 4, e 39 [64+65+66 DK; 79+55+82 Marc.], cfr. n. 8; mentre rigorosamente umano, e non «cosmico», e di natura essenzialmente «epistemologica», e non escatologica, pare il «giudizio» cui si allude nel fr. 52 [28 DK; 20+19 Marc.], cfr. n. 6, che riguarda l’esame e la confutazione delle false cre-denze diffuse dai «fabbricanti di menzogne e i testimoni a loro difesa»); e (2) contraddice soprattutto l’esplicita affermazione, di cui non riesco a individuare smentite o restrizioni nei materiali eraclitei superstiti, della «morte» dell’anima, che, nel fr. 62 [36 DK; 66 Marc.], cfr. n. 2, è fatta coincidere con la sua trasformazione in «acqua» o in un elemento «liquido», e il cui ciclo vitale, dalla generazione, per evaporazione o esalazione dall’acqua, alla morte, appunto per condensazione in acqua, corrisponde esattamente, nella sua estensione, alla vicenda della vita umana, come è tratteggiata nei precedenti frr. 65 [20 DK; 99 Marc.] e 66 [48 DK; 39 Marc.], e alla sua durata, cui l’anima non sembra perciò poter a nessun titolo sopravvivere, così privando di ogni significato, mi pare, l’ipotesi di un giudizio post mortem di qualunque genere (cfr. pure l’Introduzione, § 4.5). Non resta allora che intendere il verbo e[lpomai con un valore in qualche misura «neutrale» («gli uomini ... li attende ciò che non si aspettano» – e che evidentemente ignorano del tutto – «e che non suppongono»), che suggerisce fra l’altro una resa particolarmente perspicua del verbo dokevousin, che, coerentemente con l’ignoranza della maggior parte degli uomini – i polloiv – di ciò che li attende dopo la morte, manifesta la loro conseguente incapacità nel formulare «opinioni» o «congetture» (oujde; dokevousin), pure soggettive e non adeguatamente fondate, sull’aldilà, giacché verosimilmente si affidano alle inconsistenti e assurde «credenze» diffuse della tradizione (sicché il loro «opinare», che si riduce alla semplice ricezione delle credenze diffuse e, a un tempo, all’assenza di ogni supposizione criticamente formulata in pro-prio, si apparenta a quello, opposto all’autentico gignwvskein e perciò epistemologicamente fallace, denunciato fin dal fr. 3 [17 DK; 3 Marc.], cfr. n. 6, e soprattutto associato all’attività dei nefasti polumaqei 'ı, per esempio nel fr. 52, cfr. n. 5); se ne deduce allora, in base al carattere «inatteso» e «originale» (in quanto neppure «supposto» dagli uomini) dei suoi contenuti, che Eraclito concepisce come del tutto nuova la sua illustrazione della vicenda dell’aldilà, dunque, in altri termini, come una profonda revisione critica delle credenze tradizionali; mentre, in relazione ai contenuti di questa revisione, che il presente frammento 67 evidentemente tace e su cui i seguenti frr. 68 [98 DK; 72 Marc.], cfr. n. 3, e 69 [63 DK; 73 Marc.], cfr. n. 4, si esprimeranno poco più che

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allusivamente, è verosimile congetturare, pur con la dovuta prudenza e in mancanza di testimonianze certe, che potessero consistere in un tentativo di estendere le tesi psico-fisiologiche esposte nei frr. 61 [45 DK; 67 Marc.], 62, 63 [117 DK; 69 Marc.] e 64 [118 DK; 68 Marc.] (cfr. le relative note di commento), intorno alla natura, alle funzioni e al ciclo vitale dell’anima nel suo rapporto con il ciclo fisico-cosmologico del tutto, dall’ambito della vita umana delineato nei precedenti frr. 65, cfr. n. 3, e 66, cfr. n. 2, alla condizione posteriore alla morte degli individui (resta inteso che, se la revisione eraclitea dell’escatologia tradizionale provocasse negli uomini che ingenuamente credono in quest’ultima una delusione delle proprie speranze di un premio post mortem o perfino dell’immortalità, il senso negativo, sopra discusso, del verbo e[lpomai, a evocare il timore degli uomini per quanto li attende nell’aldilà, rientrerebbe di fatto indirettamente in gioco). Cfr. pure, per una simile interpretazione, Diano-Serra, p. 188, e soprattutto Kahn, pp. 210-11, Conche, p. 368, Robinson, p. 94, e Pradeau, p. 292.

Fr. 68 [98 DK; 72 Marc.]1

aiJ yucai; ojsmw'ntai2 kaq j {Aidhn.

Le anime, nell’Ade, traspirano.3

1 Questo frammento è riportato da Plutarco, De facie in orbe lunae 943d-e, nel contesto di una illustrazione delle diverse regioni celesti e del ruolo degli astri nella costituzione e nel sostentamento dei viventi, che indica nella terra il pianeta che fornisce loro il corpo, nella luna l’astro che fornisce l’anima e nel sole quello che provvede all’intelletto: «Ogni anima, che sia dotata o meno di intelletto, quando è separata dal corpo, va errando nella regione intermedia fra la terra e la luna, per un tempo che non è identico per tutte. Le anime ingiuste e dedite ai piaceri sono punite per le loro ingiustizie, mentre le anime giuste devono trascorrere un certo tempo nella regione più leggera dell’aria, che chiamano le “praterie dell’Ade”, per purgarsi ed eliminare le impurità provenienti dal corpo come pure i miasmi cattivi (...). Come l’etere che è intorno alla luna, da cui ricevono tensione e potenza, (...) sono nutrite così dall’esalazione che le raggiunge (uJpo; th 'ı tucouvshı ajnaqumiavsewı); e fece bene Eraclito a dire che ... (Plutarco cita qui il fr. 68)».

2 ojsmw 'ntai è lezione dei manoscritti plutarchei, pressoché una-nimemente accolta dagli editori e dai traduttori; il solo Mouraviev I, p. 247, e III, p. 119, n. 2, per ragioni essenzialmente interpretative,

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suggerisce la correzione qumiw 'ntai («le anime, nell’Ade, si sostentano di esalazioni»), della quale ojsmw 'ntai sarebbe una banale corruzione: ora, lasciando alla nota seguente il compito di precisare il significato di ojsmw 'ntai in questo contesto, e l’interpretazione del frammento che se ne può ricavare, mi limito a osservare che, giacché nell’introduzione della citazione Plutarco fa esplicitamente riferimento all’ajnaqumivasiı, e alla dottrina dell’«esalazione» dell’anima dall’acqua o da un ele-mento umido (per la quale si vedano per esempio, supra, nn. 1-2 al fr. 62 [36 DK; 66 Marc.]), non riesco a immaginare come un copista, per quanto distratto, abbia potuto trascrivere ojsmw 'ntai, privo di con-nessioni immediate con il contesto, in luogo di qumiw 'ntai, che invece avrebbe dovuto essergli suggerito e confermato, terminologicamente e concettualmente, da quanto precede.

3 Dopo aver annunciato, nel precedente fr. 67 [27 DK; 74 Marc.], cfr. n. 2, una revisione delle tradizionali credenze escatologiche e, con essa, una «nuova» dottrina relativa alla sorte delle anime nell’aldilà, il presente fr. 68 fornisce, per quanto allusivamente, alcune indicazio-ni in proposito. Se è fuor di dubbio che l’Ade rappresenti, secondo la mitologia omerica, il mondo dei morti e verosimilmente, in termini simbolici, la condizione della morte in generale, ne deriva che alle anime, nella condizione della morte, viene attribuita da Eraclito una facoltà, o una funzione, riconducibile al verbo ojsmavomai, che, letteral-mente, rinvia all’impiego dell’olfatto e alla percezione di una sostan-za odorosa (così Marcovich, p. 274, Kahn, pp. 79 e 256, e Diano-Serra, p. 51) e, per estensione, può alludere in generale al fenomeno della respirazione (così Pradeau, pp. 164 e 287-88). Si è supposto in tal caso qui un tentativo di correggere la celebre immagine omerica dell’ol-tretomba, tratteggiata nel libro XI dell’Odissea in occasione del viag-gio che Ulisse vi compie, che attribuisce alle anime dei morti una capacità di rivolgersi ai vivi, e di conservare perciò una qualche forma di vitalità, a condizione di essere alimentate dal sangue delle vittime offerte in sacrificio da chi le interroga, mentre Eraclito preciserebbe che, come le anime dei vivi sorgono e si alimentano per l’evaporazio-ne dei liquidi corporei (si veda supra, il fr. 62 [36 DK; 66 Marc.], cfr. n. 2), così le anime dei morti potrebbero trarre alimento dall’evapo-razione o dall’esalazione del sangue delle vittime sacrificali, che dunque non bevono, ma annusano (cfr. Marcovich, p. 274, e, pur dubi-tativamente, Diano-Serra, p. 188, che non trascurano però la possibi-lità di una messa in ridicolo, da parte di Eraclito, della tradizionale visione omerica delle anime nell’Ade in generale, tesi, questa, difesa soprattutto da Conche, pp. 348-49). Senza escludere una simile ipote-si di lettura, e particolarmente l’intento ironico di prendersi gioco delle false credenze della tradizione, ma approfondendone radical-mente il significato, Kahn, pp. 257-58, e Pradeau, p. 287-88, che fanno entrambi riferimento al fr. 43 [7 DK; 78 Marc.] (da me invece collo-cato nel diverso contesto «epistemologico» dei materiali raccolti nella precedente Sezione 4, cfr. la relativa n. 4), suggeriscono di valo-rizzare il contributo che la psico-fisiologia eraclitea può fornire alla comprensione di questo frammento: se la natura «aerea» o «vaporosa»

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dell’anima si genera per esalazione dall’acqua, come vuole appunto il fr. 62, e all’acqua ritorna per condensazione, con la morte, emerge-rebbe dalle parole di Eraclito che, anche dopo la morte (= nell’Ade), che le priva della contiguità con il corpo e con i suoi strumenti per-cettivi, le anime sarebbero in grado di esercitare una sorta di perce-zione che ne garantisce la relazione con l’ambiente naturale, attraver-so la quale traggono il loro nutrimento, una percezione evidentemente connessa all’olfatto e alla respirazione, vale a dire alla facoltà più affine all’elemento «aereo» di cui esse sono essenzialmen-te costituite; sicché l’Ade, ben lungi dal rappresentare un mondo sotterraneo, si porrebbe invece come una regione dell’atmosfera o del cosmo (come peraltro il contesto plutarcheo della citazione sostan-zialmente suggerisce, cfr. supra, n. 1) che, per le anime dei più, potreb-be essere quella inferiore, più umida e densa di fumi e vapori di cui esse si nutrono «respirando», che sarebbe loro assegnata in virtù della condotta dissennata tenuta in vita, che le ha rese «umide» (come vuole il fr. 63 [117 DK; 69 Marc.]), in contrasto con la regione supe-riore e prossima al sole, la cui purezza e rarefazione sarebbero più consone alle anime degli individui eccezionali o degli eroi, che hanno saputo coltivare con maggior cura la propria anima, mantenendola «asciutta» (come vuole il fr. 64 [118 DK; 68 Marc.]), e a cui spettereb-be perciò un diverso destino post mortem (così particolarmente Kahn, pp. 257-59, ma cfr. anche 251 e 253-64, che ritiene quindi che sussista, se non una forma di immortalità individuale o personale dell’anima, almeno un diverso destino «psico-fisiologico» delle anime che, in base al comportamento tenuto in vita, dopo la morte del corpo vanno a collocarsi nella regione del cosmo più affine all’elemento, «asciutto» o «umido», che in esse prevale, e ciò basandosi fra l’altro sulle indica-zioni che emergono apparentemente dai frr. 69 [63 DK; 73 Marc.], 73 [29 DK; 95 Marc.] e 74 [25 DK; 97 Marc.], per la cui controversa interpretazione si vedano tuttavia le relative note di commento). Pur accogliendo questa linea di interpretazione «psico-fisiologica» del presente frammento, tendo a formularne una versione più radicale, che nega recisamente qualsiasi prospettiva in senso proprio «vitale» dell’anima dopo la morte: se, infatti, facendo ancora riferimento al fr. 62, cfr. n. 2, dell’anima viene senz’ombra di dubbio sancita la «morte» in corrispondenza con la sua trasformazione in acqua o in elemento liquido – e non, si badi, la «morte» dell’individuo cui l’anima appar-tiene come una realtà autonoma, ma la «morte» dell’anima che appun-to anima l’individuo e in esso si è prodotta come esalazione dai suoi liquidi corporei, sicché è da questa che dipendono la vita di quello e la sua morte, e non è di conseguenza pensabile che l’individuo viva, e muoia, se non in relazione alla vita, e alla morte, della sua anima – e se, come pure sembra certo, l’Ade raffigura qui il regno dei morti evocato dalla tradizione, Eraclito deve aver concepito la condizione della morte dell’anima (= l’Ade, indipendentemente dalla collocazio-ne «geografica» che la tradizione gli assegna) come coincidente con il suo stato umido o «acquoso», uno stato in cui per necessità, se val-gono il ciclo fisico-cosmologico della trasformazione degli elementi

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e, in esso come suo sottocaso, il ciclo psico-fisiologico della genera-zione e della morte dell’anima come successive trasformazioni a partire dagli stessi elementi naturali, l’anima «morta», che si è trasfor-mata in acqua o in elemento liquido, non si configura più come «ani-ma», né in termini personali, o individuali, né in termini psico-fisiolo-gici elementari, ma appunto come «acqua» o elemento «liquido», che, di per sé, è tuttavia ancora e sempre soggetto ai processi fisico-cosmo-logici innescati dall’aumento o dalla diminuzione del calore del fuoco e che, pertanto, in questa misura è suscettibile di rarefarsi, dando luogo a vapori umidi, e di condensarsi, producendo, per solidificazio-ne, terra. Ora, poiché rarefazione e condensazione dell’elemento liquido, di cui l’anima «morta» ormai si compone, si verificano in base al mutamento della consistenza in esso dell’elemento «aereo», se questo aumenta per aumento di calore, l’elemento liquido si vaporiz-za per rarefazione, mentre, se diminuisce per diminuzione di calore, l’elemento liquido si solidifica per condensazione, in entrambi i casi secondo un meccanismo di maggiore o minore «traspirazione» dell’ele-mento liquido, che determina in esso l’aumento o la diminuzione di porzioni di elemento «aereo» ed è perciò assimilabile a un «respiro» o, appunto, a un passaggio di aria, efficacemente designato dal verbo ojsmavomai (che dunque va inteso in senso esclusivo, come è del resto ovvio dalle parole di Eraclito, e non, come vuole Robinson, pp. 145-46, nel senso che le anime possiedono nell’Ade anche l’olfatto, accanto agli altri sensi). Se tutto ciò è plausibile, il presente frammento, specie accostato al precedente fr. 62, delinea, in relazione alla vicenda dell’ani-ma, come pure, in generale, alla prospettiva post mortem dei viventi, una visione completamente antitetica rispetto a qualunque escatolo-gia, in quanto annuncia il ritorno dell’anima, alla sua morte, allo stato umido o «acquoso», cioè allo stato da cui, in condizioni psico-fisiolo-giche particolari, è nata come esalazione e di cui riassume, con la morte, la «normale» processualità fisico-cosmologica (e da cui potreb-be nuovamente, al verificarsi delle opportune condizioni, «esalare» come anima). Trasformata infine in acqua, o in elemento umido, l’ani-ma torna così a partecipare al ciclo universale del tutto, sottoposta alle sue leggi, non più, dunque, in forma di «anima», definita come peculiare esalazione che si produce in un corpo che anima, ma alla stregua di un elemento naturale coinvolto nella più generale vicenda di tutte le cose. Il seguente fr. 69, almeno in base all’interpretazione che ne propongo nella relativa n. 4, ricondurrà la prospettiva psicolo-gica fin qui delineata, relativa alla costituzione e alla generazione dell’anima (frr. 61 [45 DK; 67 Marc.] e 62), alle sue facoltà o funzioni nell’animazione del vivente (frr. 63 e 64), al suo ciclo vitale (frr. 65 [20 DK; 99 Marc.] e 66 [48 DK; 39 Marc.]) e al suo destino nell’aldilà (frr. 67 e 68), all’unità del sapere universale trasmesso dall’unico lovgoı annunciato fin dal fr. 1 [1 DK; 1 Marc.] e possesso dei pochi che sono in grado di elevarsi al suo ascolto, così adeguatamente concludendo la presente Sezione 5.

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e[nqa d jejovnti2 ejpanivstasqai kai; fuvlakaı givnesqai ejgerti; zwvntwn3 kai; nekrw'n.

A esso che sussiste si innalzano e diventano, da svegli, custodi dei vivi e dei morti.4

1 Questo frammento è riportato da Ippolito, Refutatio contra omnes haereses IX 10.6 (= 243.19 Wendland), a conclusione della sequenza dei frr. 15 [54 DK; 9 Marc.], 42 [55 DK; 5 Marc.], 50 [57 DK; 43 Marc.], 96 [58 DK; 46 Marc.], 18 [59 DK; 32 Marc.], 20 [60 DK; 33 Marc.], 31 [61 DK; 35 Marc.] e 21 [62 DK; 47 Marc.] e prima dei frr. 39 [64+65+66 DK; 79+55+82 Marc.] e 28 [67 DK; 77 Marc.], che concludono l’insieme delle sue citazioni eraclitee, con queste parole: «Ed egli (scil., Eraclito) parla della resurrezione della carne, proprio di questa carne visibile nella quale siamo stati generati, e sa che Dio è causa di tale resurrezione (to;n qeo;n ... tauvthı th 'ı ajnastavsewı ai[tion), quando dice così ... (Ippolito cita qui il fr. 69)». Se il primo gruppo di frammenti è in generale evocato a illustrazione della tesi dell’unità dei termini opposti (per una breve pre-sentazione del contesto di queste citazioni, cfr. supra, n. 1 ai frr. 15 e 28), e comunque al fine di mostrare che Eraclito pone, al di là della contrap-posizione delle cose che sono, un’unità ultima e sostanziale coincidente con il lovgoı, a sua volta identificato con l’unico Dio (cfr. supra, n. 1 al fr. 50), nell’introdurre il fr. 39 Ippolito propone un’ulteriore, spregiudicata estensione della sua rilettura delle tesi eraclitee, riconducendo inoltre al principio razionale e divino del lovgoı, ora associato al principio cosmico del fuoco, una sorta di giudizio universale, che manifesta la concreta presenza della giustizia divina nel cosmo di cui sancisce a scadenze fisse la fine e il nuovo inizio, di fatto reinterpretando così, in chiave cristiana, la dottrina stoica della conflagrazione del mondo che egli ascrive allo stesso Eraclito (per questa complessa operazione esegetica, da parte di Ippolito, si veda supra, n. 1 al fr. 39, e soprattutto l’Introduzione, § 2.2). Non è strano perciò che, in un simile contesto, Ippolito attribuisca pure a Eraclito la credenza cristiana nella resurrezione (ajnavstasiı) del corpo, verosimilmente connessa alla tesi della rinascita del mondo dopo la sua conflagrazione determinata dal giudizio finale, sicché, come il giudizio finale di Dio comporta la conclusione di un ciclo cosmico, esso getta pure le basi per l’avvio del ciclo successivo.

2 e[nqa d jejovnti è una versione leggermente corretta (secondo una pro-posta di Miller, seguito da Diels), e in questa forma accolta da buona parte degli editori e dei traduttori, della lezione manoscritta e[nqadejovnti, che non è evidentemente difendibile e che ha dato luogo a numerose congetture e ipotesi di correzione (o alla semplice constatazione di una corruzione

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non sanabile, cfr. per esempio Kahn, pp. 78-79 e 254, e Robinson, pp. 42 e 126), che si trovano ampiamente illustrate in Marcovich, p. 275, n. 4, e Mouraviev I, p. 157: la accetto a mia volta, con il significato che preciso infra, n. 4 (ma anche la forma ejnqavd jejovnti sarebbe, per la traduzione e l’interpretazione che ne suggerisco, perfettamente plausibile, giacché ejnqavde non è che un rafforzativo dell’avverbio e[nqa). Il principale e più radicale intervento su questa lezione è stato recentemente proposto da Mouraviev I, pp. 156-57, e III, p. 72, nn. 1-2, che, basandosi su un passo di Ippolito a suo giudizio parallelo (Refutatio contra omnes haereses V 25.5) – in cui viene riportata l’opinione attribuita a Pitagora che le anime provengono dalle stelle, ma sono costrette, all’ingresso nel corpo, a essere imprigionate come in una tomba (ejn tavfw/), dalla quale si liberano, con la morte del corpo, per resuscitare e divenire immortali (ajnivstasqai ... kai; givnesqai ajqanavtouı) –, propone di correggere la lezione e[nqadejovnti in ejn qav<pw/> d jejovnti (qavpw/ essendo la versione ionica di tavfw/), il seguente infinito ejpanivstasqai in ejs<ti;n> (oppure: ejst j) ajnivstasqai e a questo punto congetturando un accusativo singolare per fuvlaka[ı]; ne deriva il testo seguente: ejn qav<pw/> d jejovnti ejs<ti;n> (oppure: ejst j) ajnivstasqai kai; fuvlaka[ı] givnesqai ejgerti; zwvntwn kai; nekrw 'n, «per colui il quale è nella tomba (scil., del corpo) è possibile resuscitare e diventare custode, da sveglio, dei vivi e dei morti». Tuttavia, anche al di là del carattere fortemente congetturale di simili, incisivi interventi, è la tesi stessa di una qualche forma di resurrezione dei morti, che si tratti di una concezione ampia o ristretta a un gruppo limitato di individui, che mi pare difficile attribuire a Eraclito, in virtù dei caratteri peculiari della sua dottrina psico-fisiologica ricostruiti fin qui (cfr. ancora infra, n. 4).

3 ejgerti; zwvntwn è correzione (suggerita da Bernays e accolta dalla quasi totalità degli editori) della lezione manoscritta ejgertizovntwn, anch’essa indifendibile. La conclusione kai; nekrw'n, resa sospetta dal fatto che l’aggettivo nekrovı, non altrimenti utilizzato nei materiali eraclitei superstiti, designa abitualmente i cadaveri, mentre pare indicare qui, con un riferimento a una formula cristiana, la condizione dei morti in attesa della resurrezione, è stata espunta da M.C. Nussbaum, Psychè in Heraclitus, cit., pp. 167-68, seguita da Pradeau, p. 303. In virtù dell’in-terpretazione del frammento proposta nella nota seguente, non giudico indispensabile questo intervento.

4 Il contesto della citazione, esaminato supra, n. 1, induce piuttosto evidentemente a collegare il dativo ejovnti, ad sensum, al precedente sostantivo qeovı, al Dio (cristiano), cui viene attribuita la responsabilità della resurrezione del corpo (tauvthı th'ı ajnastavsewı ai[tion), verosi-milmente in occasione del giudizio finale, sicché l’avverbio di luogo e[nqa dovrebbe plausibilmente alludere, nelle intenzioni di Ippolito, all’aldi-là («laggiù, davanti a lui [scil., al dio] ...» oppure «a lui [scil., al dio], che è laggiù, ...»), prestando così a Eraclito la tesi di una sopravvivenza (se non proprio, in termini cristiani, di una resurrezione) dell’anima (se non proprio, ancora una volta in termini cristiani, del corpo) e di un giudizio che la riguarda, in seguito al quale alcune anime, «risvegliate» o ripor-tate «in stato di veglia» (ejgertiv) dal sonno della morte, assurgono al ruolo superiore, e semidivino, di «custodi dei vivi e dei morti», senza

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che, tuttavia, risulti molto chiaro qui in cosa tale ruolo effettivamente consista. Una simile interpretazione è stata inoltre accostata a Esiodo, Opere 121-23 e 252-55, che evoca i «demoni ... custodi dei mortali» (daivmoneı ... fuvlakeı qnhtw'n ajnqrwvpwn), da identificare con gli uomini dell’età dell’oro, cui Zeus rende onore, appunto trasformandoli in esseri divini e conferendo loro il compito di ergersi a guardiani degli uomini; ora, se vi è realmente un riferimento a questi versi, nel presen-te frammento, bisognerebbe dedurne che, anche secondo Eraclito, alcune anime, forse quelle degli a[ristoi cui spettano i più alti destini, in base ai frr. 73 [29 DK; 95 Marc.] e 74 [25 DK; 97 Marc.] (per la cui interpretazione si vedano però le relative note di commento), vengono innalzate dalla divinità, dopo la morte del corpo cui sopravvivono, a una condizione di immortalità e a una funzione appena inferiore a quella divina, forse come custodi o esecutori della giustizia cosmica: così, pur con diverse sfumature, Marcovich, pp. 276-77, Kahn, pp. 254-56, Diano-Serra, pp. 51 e 189, e Robinson, p. 126; ma anche, benché in base a un testo e a una traduzione sensibilmente diversi (cfr. supra, n. 2), Mouraviev I, p. 156, e III, p. 72. Credo tuttavia che questa lettura non sia accettabile per almeno due ragioni: innanzitutto, si è ampiamente argomentato in relazione ai precedenti frr. 67 [27 DK; 74 Marc.], cfr. n. 2, e 68 [98 DK; 72 Marc.], cfr. n. 3, che nei materiali superstiti, e soprat-tutto in quelli, pertinenti dal punto di vista della psicologia eraclitea, raccolti nella presente Sezione 5, sembra innegabilmente attestata una dottrina dell’anima che ne sancisce la «morte», in coincidenza con la sua trasformazione in acqua, o nell’elemento umido, e che pare perciò incompatibile con ogni ipotesi che ne preveda la sopravvivenza oltre la morte del corpo; in secondo luogo, per quanto il parallelo con i versi citati di Esiodo appaia plausibile, il contesto si rivela decisamente diverso, nella misura in cui, secondo Esiodo, gli uomini resi demoni dopo la morte si vedono esplicitamente affidato il compito di esercita-re la giustizia nel mondo, cioè rispetto agli qnhtoi; a[nqrwpoi, mentre il presente frammento sancisce piuttosto il «risveglio» (ejgertiv) di sogget-ti che rimangono imprecisati in seguito al loro «levarsi» di fronte a un principio, che anch’esso rimane imprecisato, in modo che tale condizio-ne giustifica il ruolo loro assegnato, o da loro conquistato, di «custodi dei vivi e dei morti», dunque con una significativa estensione, appunto dai vivi ai morti, della funzione connessa a questo ruolo – estensione che indebolisce, mi pare, il parallelo con i versi esiodei, perché non è chiaro in che senso l’esercizio della giustizia, di immediata comprensio-ne nei confronti dei viventi e delle loro azioni, possa essere invece applicato ai morti. Di conseguenza, tenendo conto del fatto che, come spiegato ancora supra, n. 1, Ippolito tende in generale a identificare il Dio cristiano con il lovgoı eracliteo, in quanto legge e potenza raziona-le del tutto, che a sua volta fa coincidere con il fuoco, attribuendogli perciò a un tempo un potere normativo e provvidenziale (come lovgoı) e un potere fisico-cosmologico (come fuoco), cui riconduce perfino un giudizio cosmico finale, formulo l’ipotesi che, nell’introdurre il qeovı cristiano come causa della resurrezione del corpo (tauvthı th'ı ajnastavsewı ai[tion), e subito oltre nell’attribuire a Eraclito tale credenza, Ippolito

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stia in effetti riadattando qui ai suoi scopi un’allusione al lovgoı eracli-teo: se infatti, per Ippolito, lovgoı (eracliteo) = fuoco (eracliteo) = Dio (cristiano), è plausibile che egli faccia uso del termine qeovı a rappre-sentare, nel quadro della sua lettura di Eraclito, tanto il principio del fuoco quanto il lovgoı; inoltre, se lovgoı e fuoco sono altrettanti nomi che designano due attitudini diverse dello stesso principio divino, rispet-tivamente quella razionale-normativa e quella fisico-cosmologica, è probabile che, trattandosi qui di illustrare il giudizio divino dopo il quale si verifica la resurrezione del corpo, egli intenda rinviare più propriamente all’aspetto razionale-normativo del principio, cioè alla sua natura di lovgoı, che non al suo aspetto operativo sul piano fisico-cosmologico, come fuoco. Così stando le cose, suggerisco che, dietro l’indicazione di oJ qeovı come responsabile della resurrezione del corpo, da parte di Ippolito e in accordo con la tesi cristiana, si possa supporre, nell’originale eracliteo, un riferimento al lovgoı, come sostantivo cui collegare il dativo ejovnti, con un’espressione che, tra l’altro, riechegge-rebbe l’inizio del fr. 1 [1 DK; 1 Marc.]: tou' de; lovgou tou 'd jejovntoı ... (cfr. pure, un po’ confusamente, Pradeau, p. 304); l’avverbio e[nqa (nella forma e[nqa d jejovnti) o ejnqavde (nella forma ejnqavd jejovnti), ben lungi dal designare l’aldilà in cui si colloca il giudizio divino, comporterebbe allora esclusivamente, e banalmente, una precisazione «locale» del participio ejovnti: «a esso (scil., al lovgoı) che è qui» o «che sussiste»; e l’avverbio ejgertiv (da riferire necessariamente a quanti divengono fuvlakeı, appunto perché si «risvegliano», e non, come vuole Pradeau, p. 303, a zwvntwn, ai «vivi risvegliati», che non dà senso) alluderebbe, sì, a un «risveglio», ma non dei morti giunti alla resurrezione per opera della divinità, bensì dei «dormienti» che si destano per l’ascolto e la comprensione del lovgoı. In base a queste considerazioni, il presente frammento potrebbe certo appartenere alla Sezione 1, che raccoglie i materiali eraclitei relativi alla natura dell’unico lovgoı universale, o alla Sezione 2, i cui materiali riguardano invece i contenuti del lovgoı, giac-ché il suo significato più immediato consiste nell’affermazione secondo cui coloro i quali si innalzano al lovgoı che è loro «presente», o che «sussiste» di fronte a loro, ponendosi al suo ascolto e cogliendone i contenuti, appunto a questo titolo divengono, in quanto «svegli» o «risvegliati» dalla comprensione del lovgoı, «custodi dei vivi e dei mor-ti», verosimilmente in opposizione ai «dormienti» che, ignari del lovgoı, conducono la propria esistenza in base a opinioni e convinzioni infon-date e apparenti (secondo un cliché ampiamente documentato, per esempio, dai frr. 1, cfr. n. 11, 8 [89 DK; 24 Marc.], cfr. n. 3, 22 [88 DK; 41 Marc.], 23 [21 DK; 49 Marc.] e 24 [26 DK; 48 Marc.]). Tuttavia, in quan-to tale conoscenza ha per oggetto qui «i vivi e i morti», è plausibile che Eraclito si riferisca alla parte del sapere trasmesso dal lovgoı che, inve-stendo il ciclo della vita e della morte, propone quella profonda revi-sione delle credenze tradizionali sull’aldilà annunciata fin dal fr. 67 e di cui il precedente fr. 68 ha fornito alcune precisazioni, sicché risulta più opportuno collocare questo frammento, a conclusione della presente Sezione 5, fra i materiali «psicologici» le cui indicazioni dottrinarie Eraclito ricollega infine all’ascolto del lovgoı, che è l’unico strumento

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epistemologicamente adeguato per la loro comprensione: coloro i quali si elevano all’ascolto del lovgoı, infatti, sono appunto quei «vivi» che si destano e, per la conoscenza così acquisita, custodiscono la veri-tà intorno ai vivi e ai morti e, in tale misura, di tale verità divengono i «guardiani». Per quanto senza dubbio congetturale, questa mi pare l’unica interpretazione che si riveli plausibile in relazione ai rigorosi dettami della psico-fisiologia eraclitea, che, come ricordato poco sopra, è a mio avviso incompatible con la tesi dell’immortalità, e tantomeno della «resurrezione», dell’anima, che si tratti oppure no di un’anima individuale e che sia oppure no accompagnata dal corpo; al lovgoı, in quanto trasmette un sapere universale i cui contenuti consistono essen-zialmente nel riconoscimento dell’unità di tutte le cose, conservata nel ciclo alternato e regolare che, di tutte le cose, determina la generazione e la corruzione attraverso l’equilibrata trasformazione degli elementi, appare in tale misura riconducibile, come Ippolito effettivamente segna-la nell’introdurre la sua citazione di Eraclito, una funzione non propria-mente causale, ma normativa e di garanzia dello svolgimento del ciclo cosmico di tutte le cose, in modo che quei pochi fra gli uomini che si innalzano alla sua comprensione, di tale funzione divengono in certa misura partecipi come «tutori» della verità che, nell’ordine del tutto, integra pure la regolare alternanza della vita e della morte. Sulla base di una diversa comprensione e traduzione delle parole di Eraclito (intendendo cioè gli infiniti con valore di imperativo e attribuendo al dativo iniziale ejovnti un senso oppositivo: «Innalzarsi contro ciò che è

là, e diventare vigili custodi dei vivi e dei morti»), Bollack-Wismann, pp. 212-13, e Conche, pp. 133-34, suggeriscono invece che il presente fram-mento si riferisca ai pochi ed eccezionali a[ristoi, che sono tali, even-tualmente, perché hanno avuto accesso all’ascolto del lovgoı, che si sollevano contro la realtà come tale, banalmente e ordinariamente recepita, rendendosene guardiani in virtù della superiore conoscenza acquisita – di fatto non discostandosi troppo, salvo che per una sua generalizzazione, dall’interpretazione da me proposta.

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SEZIONE 6Etica, politica e religione

1. Dottrina

I materiali raccolti in questa Sezione 6 offrono una serie di spunti relativi alle concezioni etiche, politiche e, in senso lato, religiose di Eraclito. Dal punto di vista etico, viene innan-zitutto prescritta, come norma fondamentale, una forma di misura e di equilibrio che si acquisice attraverso l’indagine e la conoscenza di sé e che consiste nell’«assennatezza», cioè nella consapevolezza dei propri limiti e della propria collocazione nella società e nella natura, ostile a ogni forma di «dismisura» e di «tracotanza» (frr. 70-71). Su questa base Eraclito prospetta un’etica degli a[ristoi, appunto dei pochi «migliori» che, in virtù delle proprie qualità, sono assunti come termine di riferimento e criterio paradigmatico sul piano valoriale e normativo: ognuno degli a[ristoi equivale perciò da solo, da questo punto di vista, alla massa indeter-minata dei più e come tale deve essere preso a modello da tutti per le scelte che compie, che lo conducono a intrapren-dere, in nome della gloria che deriva dagli obiettivi più alti e più nobili, azioni estranee all’atteggiamento degli uomini comuni, interessati soltanto al soddisfacimento dei bisogni primari, pur se comportano destini di morte, che i «migliori» tuttavia non temono, giacché sono anzi portatori di onore e fama più grandi (frr. 72-75). A giusto titolo, dunque, un simile paradigma «etico» aristocratico è considerato come fonte della legge nella comunità, a dettare di conseguenza un’etica

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«della massa» che impone ai più l’obbedienza alla volontà degli a[ristoi, svalutando radicalmente le loro inclinazioni naturali che portano irrimediabilmente ad assecondare le passioni più violente e pericolose, contro le quali è difficile combattere e che andrebbero perciò preventivamente estir-pate (frr. 76-79).

Una serie di paralleli, che introducono esempi tratti dal mondo animale, sono evocati a conferma del giudizio formulato sull’inferiorità morale ed etica della massa (frr. 80-84): che Eraclito intenda argomentare in favore del-le scelte «naturali» compiute dagli animali (per esempio degli asini, che preferiscono la paglia all’oro, dei maiali, che prediligono il fango all’acqua, dei buoi, resi felici dalla semplice veccia, o dei cani, che abbaiano aggressivi agli sconosciuti), di contro alle scelte «innaturali» degli uomini, così assumendo il mondo animale come termine positivo di confronto rispetto all’ambito umano, o al contrario, e più plausibilmente, condannare le attitudini e i desideri dei più riducendoli al rango di inclinazioni bestiali (per esempio degli asini, che preferiscono la paglia al più nobile oro, dei maiali, che prediligono il fango disgustoso all’acqua pura, dei buoi, che si accontentano dalla veccia, o dei cani, cieca-mente ostili all’ignoto), il giudizio che se ne trae è comunque netto ed esplicito, giacché la massa è inequivocabilmente accostata a un gregge condotto al pascolo a colpi di bastone, il cui scopo non è altro che la sicurezza del nutrimento e il cui destino consiste in un’irrimediabile sottomissione. Ne deriva una prospettiva che fa dipendere la giustizia e la sua sfera normativa dall’intramontabile paradigma «etico» degli a[ristoi, cui non sfuggono il giudizio e la condanna dei comportamenti indegni dei molti (frr. 85-86). È quindi come conseguenza di un simile approccio etico, oltre che, naturalmente, di puntuali contingenze storiche, che va intesa la violenta invettiva rivolta da Eraclito contro i suoi con-cittadini, certamente motivata dall’espulsione del nobile

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Ermodoro, ma soprattutto dalle nefandezze e dalla miseria morale degli efesini, che darebbero miglior governo alla propria città se la abbandonassero ai fanciulli spensierati (frr. 87-88); ed è forse a questo contesto immediatamente politico che va collegato l’invito del filosofo a respingere usi, costumi e mentalità della tradizione «dei padri», appunto per abbracciare un’etica rinnovata e più vitale (fr. 89).

È in ogni caso in base alla stessa premessa, ossia quella di una critica radicale delle forme della tradizione popolare, anche nelle sue «versioni» contemporanee più diffuse, che Eraclito rivolge un’aspra polemica nei confronti dei riti religiosi praticati, specie dei culti misterici e in particola-re dionisiaci, denunciandone via via l’empietà, il carattere ridicolo e contraddittorio, legato per esempio all’idea della purificazione tramite il sangue o all’uso della preghiera rivolta a simulacri delle divinità, se non propriamente vergognoso e licenzioso, con gli eccessi che hanno luogo in occasione di certe celebrazioni, o infine ancora l’ingenuità, rispetto alla fede in comunicazioni e responsi divini fra gli uomini; né sfugge alla condanna il culto dei morti, se l’invito di Eraclito è di gettare via i cadaveri, senza prestar loro nessun tipo di attenzione o cura (frr. 90-95). Come pure ricadono sotto la stessa veemente censura le pratiche «scientifiche» ricono-sciute, come la medicina, i cui metodi sembrano assimilati a una bassa macelleria priva di scopo (fr. 96).

All’ambito etico, ma nel segno di una valutazione nuo-vamente di carattere generale, appartengono i giudizi che Eraclito esprime sulla vita umana, che i più conducono come un gioco di cui ignorano le regole e il fine (fr. 97), sul carattere individuale di ciascuno, cui è riconosciuto il ruolo di vera e propria guida, interamente umana e non divina, della condotta personale (fr. 98), e sulle aspettative e le speranze degli uomini, che il filosofo esorta a innalzare, dalla mediocrità quotidiana a cui si attiene la massa, verso orizzonti più degni (fr. 99).

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2. Dossografia

Al di là dei contesti dei citatori che riportano i materiali eraclitei raccolti in questa Sezione 6, solo Clemente Ales-sandrino, Stromateis II 130 (= II 184.6 Stählin) [= 22 A 21 DK], sembra fornire una testimonianza relativa all’etica del filosofo, attribuendogli la tesi che il fine della vita consiste nella «soddisfazione» (eujarevsthsiı), da intendere natural-mente non nel senso di un immediato edonismo, che pare senza dubbio fuori luogo, ma piuttosto in riferimento alla realizzazione degli ideali più alti nell’orizzonte valoriale degli a[ristoi.

3. Studi critici

Fra gli studi relativi all’etica «aristocratica» delineata da Era-clito, tanto in relazione alle figure d’eccezione degli a[ristoi, quanto rispetto alle prescrizioni rivolte alla massa dei più, si potranno consultare i seguenti: G.S. Kirk, Heraclitus and

Death in Battle (fr. 24D), in «American Journal of Philology» 70 (1949), pp. 384-93; S.M. Darcus, What Death Brings in Hera-

clitus, in «Gymnasium» 85 (1978), pp. 501-10; R. Pecchioli, L’oro di Eraclito 22 B 22, in «Elenchos» 2 (1981), pp. 79-108; F. Calabi, La saggezza del campo di battaglia (sull’ambiguità

di Eraclito), in Atti del Symposium Heracliteum 1981, a cura di L. Rossetti, vol. I, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1983, pp. 153-62; e H. Granger, Death’s Other Kingdom: Heraclitus on

the Life of the Foolish and the Wise, in «Classical Philology» 95 (2000), pp. 260-81. Una felice ricognizione dei materiali eraclitei che richiamano esempi tratti dal mondo animale è proposta da C. Viano, Héraclite et le plaisir des animaux.

Relativisme ou jugement de valeur?, in L’animal dans l’an-

tiquité, a cura di B. Cassin e J.-L. Labarrière, direzione di G. Romeyer Dherbey, Vrin, Paris 1997, pp. 181-206.

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Sulla nozione eraclitea di «giustizia», e sul dibattito intorno alla sua posizione politica, si vedano rispettivamente: A.M. Battegazzore, Contributo alla nozione eraclitea di giustizia come limite (frr. B 11 e B 114 DK), in «Sandalion» 2 (1979), pp. 5-17; L. Senzasono, Eraclito e la legge, in «Gerión» 14 (1996), pp. 53-75; F.K. Kessidi, On the Social and Political Views of Heraclitus of Ephesus, in «Voprosy filosofii» 6 (1980), pp. 113-23; L. Rossetti, Eraclito (e Solone) sulla stasis, in Atti del Symposium Heracliteum 1981, cit., pp. 347-59; T. Kessidis, The Socio-Political Views of Heraclitus of Ephesus, in «Philosophia» 13-14 (1983-1984), pp. 92-108; J. Frère, Les idées politiques d’Héraclite d’Éphèse, in «Ktèma» 19 (1994), pp. 231-38; e Id., Politique et religion à Éphèse entre 550 et 450, in «Kernos» 9 (1996), pp. 87-94.

Per quanto riguarda la concezione religiosa di Eraclito, in termini generali, cfr. D.J. Valiulis, The Theology of Heraclitus. A Presocratic Pantheism, Diss., Toronto 1980; M. Adomenas, Heraclitus on Religion, in «Phronesis» 44 (1999), pp. 87-113; A. Drozdek, Heraclitus’ Theology, in «Classica et mediaevalia» 52 (2001), pp. 37-56; e A. Cherubini, Eraclito e la religione, in «Bol-lettino della Società Filosofica Italiana» 179 (2003), pp. 45-53; mentre, in riferimento alla polemica che egli conduce contro le forme rituali della tradizione, vanno soprattutto esaminati D. Babut, Héraclite et la religion populaire: fragments 14, 69, 68, 15 et 5 Diels-Kranz, in «Revue des études anciennes» 77 (1975), pp. 27-62; E. Montanari, Eraclito e la religiosità tradizionale, in Atti del Symposium Heracliteum 1981, cit., pp. 381-97; U. Hoelscher, Heraklit zwischen Tradition und Aufklärung, in «Antike und Abendland» 31 (1985), pp. 1-24; A. Marsoner, La polemica antidionisaca di Eraclito, in «Atti dell’Accademia Pontaniana» 44 (1995), pp. 301-36; C. Osborne, Heraclitus and the Rites of Established Religion, in What is a God? Studies in the Nature of Greek Divinity, a cura di A.B. Lloyd, Duckworth, London 1997, pp. 35-42; D. Noël, Du vin et des femmes aux Lénéennes, in «Hephaistos» 18 (2000), pp. 73-102.

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Si vedano infine, sui materiali relativi al «carattere» indivi-duale e all’orizzonte della vita umana, S.M. Darcus, Daimon

as a Force in Shaping Ethos in Heraclitus, in «Phoenix» 28 (1974), pp. 390-407, A. Magris, «Il carattere, per un uomo, è

il suo demone», in Atti del Symposium Heracliteum 1981, cit., pp. 181-90, S. Scolnicov, I Searched Myself, in «Scripta Classica Israelica» 7 (1983-1984), pp. 1-13, L. Couloubaritsis, La notion d’aion chez Héraclite, in Ionian Philosophy, a cura di K.J. Boudouris, International Association for Greek Philosophy and International Center for Greek Philosophy and Culture, Athens 1989, pp. 104-13, e D. Post, Heraclitus’s

Hope for the Unhoped, in «Epoché» 13 (2009), pp. 229-40.

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Fr. 70 [101 DK; 15 Marc.]1

ejdizhsavmhn ejmewutovn.

Ho indagato me stesso.2

1 Questo frammento è riportato da Plutarco, Adversus Coloten 1118c, nel contesto di una difesa del motto socratico «conosci te stesso», che sarebbe stato frainteso dall’epicureo Colote, con le parole seguenti: «Si capisce perciò che Colote non ha mai prestato attenzione alla questio-ne, mentre Eraclito, che la tratta come cosa della massima importanza e serietà, dice ... (Plutarco cita qui il fr. 70), e di tutte le iscrizioni di Delfi il “conosci te stesso” pare la più divina». Numerose reminiscenze e varianti sono attestate nella tradizione antica (cfr. in proposito il puntuale resoconto di Marcovich, pp. 35-38, e Mouraviev I, p. 252), alcune che stabiliscono una relazione fra il detto eracliteo e il socratico «conosci te stesso», individuando allora nel primo un antecedente del secondo, altre che lo interpretano come una più generale esortazione all’indagine introspettiva.

2 I diversi contesti delle citazioni del presente frammento, brevemente evocati nella nota precedente, non sembrano decisivi per la sua interpre-tazione, perché di carattere troppo generico, né, d’altra parte, si può essere certi che il riferimento al motto delfico e socratico del «conosci te stesso» sia originale e non, come è forse probabile, il risultato di un posteriore accostamento da parte dei citatori (contra Bollack-Wismann, pp. 288-89, che leggono invece queste parole come una risposta all’esortazione divina: «Conosci te stesso» – «Io mi cerco», attribuendo all’aoristo ejdizhsavmhn un valore gnomico o paradigmatico, indipendente dalla collocazione temporale nel passato). Mi pare in ogni caso fuor di dubbio che, come vogliono soprattutto Marcovich, pp. 38-39, Diano-Serra, p. 195, e Robin-son, p. 147, Eraclito intenda in primo luogo valorizzare orgogliosamente l’autonomia, e dunque la novità, della propria indagine, che non dipende da nessun maestro (si veda già, in proposito, il fr. 11 [108 DK; 83 Marc.], cfr. n. 5) – né, tantomeno, da una ricerca esclusivamente erudita fondata sulla ricezione delle opinioni altrui o su un’acritica raccolta di informa-zioni (come è il caso dei famigerati polumaqei'ı, contro cui polemizzano soprattutto i frr. 47 [104 DK; 101 Marc.], cfr. n. 7, 48 [40 DK; 16 Marc.], cfr. n. 5, e 51 [129 DK; 17 Marc.], cfr. n. 6) –, ma da lui stesso, in quanto è condotta sulla base degli strumenti cognitivi suoi propri e con l’indipen-denza di giudizio che ne deriva (come prescritto, fra gli altri, dai frr. 41 [101a DK; 6 Marc.], cfr. n. 3, e 42 [55 DK; 5 Marc.], cfr. n. 3) ed è rivolta immediatamente al lovgoı, cui il filosofo si innalza individualmente (come rivendica, per esempio, l’espressione ejgw; dihgeu'mai ... diairevwn del fr. 1 [1 DK; 1 Marc.], cfr. n. 10) e che trasmette un sapere comunque accessibile a tutti coloro i quali si pongano opportunamente al suo ascolto. Tuttavia,

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284 FR. 70a [116 DK; 23e MARC.]

poiché il riflessivo ejmewutovn ha ragionevolmente il valore di accusativo di oggetto diretto («ho indagato me stesso», nel senso di: «ho rivolto l’indagine su me stesso»), oltre che di oggetto interno («ho indagato da me stesso», nel senso di: «ho indagato io stesso») – cfr. Mouraviev III, p. 121 –, non credo si possa escludere che Eraclito intenda pure alludere all’oggetto della ricerca di cui fa menzione qui, che deve essere allora, per lui stesso e per tutti, innanzitutto il proprio sé, la cui conoscenza (ginwvskein eJwutouvı), come indica il seguente fr. 70a [116 DK; 23e Marc.], produce una «sana consapevolezza» della propria natura, una condizione di «assennatezza» (a seconda dell’esatto significato che si attribuisce al verbo swfronei'n, cfr. la relativa n. 4), che è a sua volta fatta coincidere, nel fr. 70b [112 DK; 23f Marc.], con la forma più alta di virtù (ajreth; megivsth), stabilendo così un legame fra l’indagine, e la conoscenza, di sé e la conseguente consapevolezza «etica» dei propri limiti e della propria collocazione nel cosmo in cui consiste la virtù, come avveniva già, dal punto di vista «psicologico», nel fr. 61 [45 DK; 67 Marc.], cfr. n. 5, in cui la conoscenza dell’anima era associata alla comprensione del suo lovgoı, cioè del «ragionamento» che fa emergere il «rapporto di misura» (o che con tale «rapporto di misura» direttamente coincide) fra i suoi peivrata e ne governa perciò i processi di generazione e corruzione (senza che, però, ciò consenta a mio avviso di attribuire qui a Eraclito un’esortazione alla ricerca, e alla conoscenza, del proprio sé come in qualche modo distinto o alienato da se stesso, così prefigurando, alquanto anacronisticamente, una concezione dell’autocoscienza che sarebbe prioritaria rispetto alla conoscenza della realtà, come suggeriscono invece Kahn, p. 116, Conche, pp. 230-31, e Pradeau, p. 281). Ed è appunto a questo titolo che il presente frammento mi pare introdurre in modo adeguato i materiali superstiti raccolti in questa Sezione 6, relativi alla concezione etica, o etico-politica, di Eraclito, che prende le mosse da un’indagine, svolta da se stessi e che ha per oggetto innanzitutto se stessi, destinata a esaltare le norme di azione e comportamento dei pochi a[ristoi che, in contrapposizione alla massa dei più, hanno in sorte una vicenda eccezionale.

Fr. 70a [116 DK; 23e Marc.]1

ajnqrwvpoisi pa'si mevtesti ginwvskein eJwutou;ı2 kai; swfronei'n.3

A tutti gli uomini è dato conoscere se stessi ed essere assennati.4

1 Queste parole sono riportate da Stobeo III 5.6 (= III 257 Hense), prima del fr. 63 [117 DK; 69 Marc.] e di una versione del fr. 64 [118 DK; 68 Marc.], cfr. n. 1. Kirk, pp. 390-92, e Marcovich, pp. 61 e 66-67, riprendendo un’opinio-

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FR. 70a [116 DK; 23e MARC.] 285

ne già diffusa in precedenza, giudicano il presente frammento, insieme con il seguente 70b [112 DK; 23f Marc.], come inautentico, forse nei termini di una parafrasi ampiamente rimaneggiata dei frr. 6 [114 DK; 23 Marc.] e 7 [2 DK; 23 Marc.], soprattutto in ragione del linguaggio utilizzato, che sarebbe estraneo al registro abituale dei materiali eraclitei superstiti (per esempio, il ginwvskein eJwutouvı, che pare da collegare all’«indagine di sé» evocata nel precedente fr. 70 [101 DK; 15 Marc.], suppone però un accostamento, probabilmente non originale, al motto delfico e socratico del «conosci te stesso», cfr. supra, nn. 1-2 al fr. 70), e particolarmente dell’associazione fra il swfronei'n, che richiama una delle quattro virtù «cardinali» evocate nel IV libro della Repubblica platonica, e la conoscenza di sé (ginwvskein eJwutouvı), estesa, nel seguente fr. 70b, alla «virtù più grande» (ajreth; megivsth) – un’associazione che tradirebbe un intervento posteriore, forse di matrice stoica. Anche Pradeau, p. 271, che pure riconosce i contenuti dei frr. 70a e 70b come almeno parzialmente riconducibili a tesi eraclitee autentiche, li considera entrambi apocrifi; mentre essi sono ammessi prudentemente da Diano-Serra, pp. 34-37 e 168-69, e, più convintamente, oltre che in DK, da Kahn, pp. 40-43 e 120, e soprattutto da Mouraviev III, pp. 134 e 136, che sottolinea come nessun argomento decisivo sia stato addotto contro la loro autenticità. Pur dubitativamente, e senza escludere la presenza di termini estranei all’originale, giudico personalmente i frr. 70a e 70b come contenenti elementi, linguistici e dottrinari, possibilmente autentici, anche se in una forma eventualmente parafrasata, e riconducibili al contesto interpretativo del precedente fr. 70.

2 ginwvskein è lezione dei manoscritti LMd di Stobeo (mentre il mano-scritto A e Trincavelli, primo editore del Florilegio di Stobeo, del XVI secolo, portano gignwvskein); eJwutou;ı è lezione, di mano posteriore, del codex Parisinus 1985, generalmente accolta dagli editori (mentre i mano-scritti LMd e Trincavelli portano eJautou;ı, e il manoscritto A ha ajutou;ı).

3 swfronei'n è lezione dei manoscritti di Stobeo, che Diels ha pro-posto di correggere, come pure nel caso del seguente fr. 70b [112 DK; 23f Marc.], cfr. n. 2. in fronei 'n oppure in eu\ fronei'n, ma al solo scopo di evitare un verbo (appunto swfronei'n), che sarebbe estraneo al vocabo-lario eracliteo. Si veda, contra, Mouraviev III, p. 134, n. 2.

4 Nei limiti indicati supra, n. 1, in riferimento alla sua possibile auten-ticità, il presente frammento stabilisce una relazione fra la conoscenza di sé (ginwvskein eJwutouvı), evidentemente da porre in rapporto con l’«inda-gine di sé» evocata nel precedente fr. 70 [101 DK; 15 Marc.], cfr. n. 2, di cui rappresenta l’esito (o forse un’esplicitazione, da parte del citatore, in relazione al motto delfico e socratico del «conosci te stesso», cfr. ancora supra, n. 1), e il swfronei'n, che pare designare a sua volta la condizione che si acquisisce in virtù della conoscenza di sé. Il verbo swfronevw indica infatti, etimologicamente, un «pensare rettamente (o: in modo sano)» (cfr. Mouraviev III, p. 134, n. 2) e allude, come posto in evidenza dal sostantivo connesso, swfrosuvnh, alla «temperanza» o «moderazione», in opposizio-ne alla u{briı, quella forma di «eccesso» o di «tracotanza» che implica il superamento dei limiti imposti per natura o per convenzione a ciascuno e che è del resto espressamente chiamata in causa nel fr. 71 [43 DK; 102 Marc.], cfr. n. 4, sicché l’indagine e la conoscenza di sé producono una retta

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286 FR. 70b [112 DK; 23f MARC.]

consapevolezza della propria collocazione e dei limiti della propria natura, che ho reso facendo riferimento all’«assennatezza». Se ne deduce che la prima e fondamentale norma dell’etica eraclitea consiste essenzialmente nel rigoroso rispetto dei limiti, a sua volta dipendente dal riconoscimento della posizione che a ciascuno compete, nella natura e nella società, e da conquistare attraverso un’adeguata comprensione di sé e della propria funzione naturale e sociale, secondo un concetto comune e ampiamente diffuso nella cultura tradizionale greca (cfr. Diano-Serra, p. 168). L’indica-zione secondo cui l’accesso a tale comprensione di sé, e alla norma etica che se ne trae, è possibile per tutti gli uomini, benché, verosimilmente, da pochi soltanto sia effettivamente realizzato, risulta inoltre coerente con l’abituale polemica da Eraclito rivolta contro la massa degli uomini, che, pur disponendo degli strumenti cognitivi necessari per giungere alla conoscenza del reale, e in primo luogo all’ascolto del lovgoı, del «ragionamento» che è alla portata di tutti, ma che i più non comprendono perfino dopo che è stato loro illustrato (come ribadito per esempio, e a più riprese, fin dai frr. 1 [1 DK; 1 Marc.], 2 [34 DK; 2 Marc.], 3 [17 DK; 3 Marc.], 4 [72 DK; 4 Marc.], 7 [2 DK; 23 Marc.] e 8 [89 DK; 24 Marc.]), rimangono prigionieri delle false opinioni, delle semplici credenze apparenti di cui la folla si bea e che sono fabbricate e propagandate dai nefasti polumaqei'ı, come denunciato nella quasi totalità dei materiali «epistemologici» raccolti supra, nella Sezione 4: è dunque probabile che la conoscenza di sé, e con essa il fondamento dell’etica eraclitea, e la comprensione del lovgoı di fatto coincidano, nella misura in cui la prima ricade nella seconda come parte specifica dell’universale sapere che questa comporta, come anche per l’immediata accessibilità che entrambe manifestano a chi vi si dedichi correttamente e, a un tempo, per il carattere di eccezionalità dei pochi che effettivamente giungono a realizzarle (cfr. pure in tal senso Kahn, pp. 116-17, Conche, p. 228, che sottolinea particolarmente il carattere polemico delle parole di Eraclito, e Robinson, p. 157).

Fr. 70b [112 DK; 23f Marc.]1

swfronei'n2 ajreth; megivsth, kai; sofivh ajlhqeva levgein kai; poiei'n kata; fuvsin ejpaivontaı.

Essere assennati è la virtù più grande, e la sapienza consiste nel dire il vero e nell’agire secondo natura, prestandole ascolto.3

1 Queste parole sono riportate da Stobeo III 1.178 (= III 129 Hense), subito dopo i frr. 78 [110 DK; 71 Marc.] e 17 [111 DK; 44 Marc.] e prima

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FR. 70b [112 DK; 23f MARC.] 287

dei frr. 6-6a [114-113 DK; 23-23d1 Marc.]. Kirk, pp. 390-92, e Marcovich, pp. 61 e 66-67, riprendendo però un’opinione già diffusa in precedenza, giudicano il presente frammento, insieme con il precedente 70a [116 DK; 23e Marc.], come inautentico, forse nei termini di una parafrasi ampiamente rimaneggiata dei frr. 6 e 7 [2 DK; 23 Marc.], in ragione del linguaggio utilizzato, che sarebbe estraneo al registro abituale dei materiali eraclitei superstiti (per esempio, l’espressione kata; fuvsin, che si trova pure nei frr. 1 [1 DK; 1 Marc.] e 34 [0 (3+94) DK; 0 (57+52) Marc.], pare normalmente impiegata da Eraclito a designare la «natura propria» di qualcosa, la sua «costituzione essenziale», e non, come qui, la «natura» in generale, evidentemente da contrapporre agli «usi» e alle «convenzioni» umane), e particolarmente dell’associazione fra il swfronei'n, che richiama una delle quattro virtù «cardinali» evocate nel IV libro della Repubblica platonica, e la conoscenza di sé (ginwvskein eJautouvı), nel precedente fr. 70a, estesa, qui, alla «virtù più grande» (ajreth; megivsth) – un’associazione che tradirebbe un intervento poste-riore, forse di matrice stoica. Anche Pradeau, p. 271, che pure riconosce i contenuti dei frr. 70a e 70b come almeno parzialmente riconducibili a tesi eraclitee autentiche, li considera entrambi apocrifi; mentre essi sono ammessi prudentemente da Diano-Serra, pp. 34-37 e 168-69, e, più convintamente, oltre che in DK, da Kahn, pp. 40-43 e 120, Conche, p. 234, Robinson, p. 154, e soprattutto da Mouraviev III, pp. 134 e 136, che sottolinea come nessun argomento decisivo sia stato addotto contro la loro autenticità. Pur dubitativamente, e senza escludere la presenza di termini estranei all’originale, giudico personalmente i frr. 70a e 70b come contenenti elementi, linguistici e dottrinari, possibilmente auten-tici, anche se in una forma eventualmente parafrasata, e riconducibili al contesto interpretativo del fr. 70 [101 DK; 15 Marc.].

2 swfronei 'n è lezione dei manoscritti di Stobeo, che Diels ha propo-sto di correggere, come pure nel caso del precedente fr. 70a [116 DK; 23e Marc.], cfr. n. 3, in to; fronei 'n, ma al solo scopo di evitare un verbo (appunto swfronei 'n), che sarebbe estraneo al vocabolario eracliteo. Si veda, contra, Mouraviev III, p. 134, n. 2.

3 Per quanto riguarda il significato del verbo swfronevw, si veda supra, n. 4 al precedente fr. 70a [116 DK; 23e Marc.]; nella seconda parte del frammento, collego poiei'n a kata; fuvsin (giacché, come osserva Marco-vich, p. 67, la costruzione alternativa ajlhqeva levgein kai; poiei'n non dà un senso soddisfacente e non pare avere paralleli nella letteratura greca pervenutaci), lasciando il participio ejpaivontaı assoluto (da intendere con un aujth 'ı sottinteso, riferito a th'ı fuvsewı): diversa costruzione in Bollack-Wismann, p. 312. Come rilevato già supra, n. 1, alcune espres-sioni utilizzate qui non sembrano avere molte chances di autenticità: in particolare, l’associazione di swfronei'n e ajreth; megivsth e il sintagma kata; fuvsin, ma pure dubbia è l’identificazione fra sofiva e ajlhqeva levgein; se ciascuno di questi termini, preso singolarmente, non appare di per sé impossibile come originale eracliteo (salvo forse ajrethv, non altrimenti attestato nei materiali certamente autentici), è la loro combinazione a supporre, a mio avviso, una concezione etica (basata su una gerarchia delle virtù, la più alta delle quali consiste nell’«assennatezza», o nella

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288 FR. 71 [43 DK; 102 MARC.]

«padronanza di sé», derivante dalla consapevolezza dei propri limiti – swfronei 'n –, a sua volta coincidente con la forma più eminente di sapere – sofiva – che accosta il «dire il vero», cioè «ciò che è», all’«agire secondo natura», cioè «conformemente a ciò che è») piuttosto apparen-tata a un paradigma teorico e pratico di matrice ellenistica, o comunque postaristotelica, che non presocratica (per quanto, come rilevato da Diano-Serra, p. 169, si tratti di precetti radicati nella cultura tradizionale greca). Kahn, pp. 119-23, che difende l’autenticità del frammento, e ne propone una traduzione diversa, dettata da una diversa punteggiatura («thinking well is the greatest excellence and wisdom: to act and to speak what is true, perceiving things according to their nature»), suggerisce di intendere il swfronei 'n come l’attitudine «epistemologica», propria di Apollo («il signore il cui oracolo si trova a Delfi ...», come recita il fr. 59 [93 DK; 14 Marc.]), a non nascondere la verità (presumibilmente quella trasmessa dall’unico lovgoı universale), ma a manifestarla agli altri con le parole (levgein) e con le azioni (poiei 'n), sicché la forma di virtù e di sapere più alta consisterebbe nella comunicazione e nella condivisione del sapere acquisito. Più prudentemente, credo invece ci si debba limitare a cogliere, in queste parole, una nuova affermazione dell’assoluta priorità del swfronei'n, cui si accede tramite l’indagine e la conoscenza di sé (secondo il precedente fr. 70a, cfr. n. 4), dal punto di vista etico, riconoscendo come l’«assennatezza», che conduce all’indivi-duazione dei limiti della propria natura e della propria funzione, debba rappresentare per gli uomini il modello di comportamento privilegiato, perché spinge ad agire in conformità con le leggi del reale e in rigorosa sintonia con il ciclo cosmico di cui tutte le cose sono partecipi (così pure Conche, pp. 235-36).

Fr. 71 [43 DK; 102 Marc.]1

u{brin crh; sbennuvnai2 ma'llon h] purkaihvn.3

Bisogna estinguere la dismisura più di un incendio.4

1 Questo frammento è riportato da Diogene Laerzio, Vitae philoso-phorum IX 2, dopo la sequenza dei frr. 48 [40 DK; 16 Marc.], 9 [41 DK; 85 Marc.] e 49a [42 DK; 30 Marc.], che apre la sua notizia biografica relativa a Eraclito (per la quale si veda la n. 1 al fr. 9), e prima del fr. 77 [44 DK; 103 Marc.].

2 sbennuvnai è lezione dei manoscritti BP1QD di Diogene Laerzio, accolta dalla gran parte degli editori, mentre i manoscritti P4 e F hanno rispettivamente sbennuvein e sbennuvhn.

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FR. 72 [49 DK; 98 MARC.] 289

3 purkaihvn è lezione dei manoscritti PF di Diogene Laerzio, mentre i manoscritti BD hanno invece purkaiavn.

4 Il significato del termine u{briı, che chiama in causa una nozione cruciale nell’etica individuale e sociale caratteristica della mentalità greca antica, allude a una forma di «eccesso» o di «tracotanza» che conduce all’oltrepassamento della condizione a ciascuno imposta per natura o per convenzione, e dunque al superamento dei suoi limiti o confini, così configurandosi precisamente come un atteggiamento, individuale o collettivo, di «dismisura», da porre in opposizione all’«assennatezza», al swfronei'n, celebrata supra, nel fr. 70a [116 DK; 23e Marc.], cfr. n. 4, come esito dell’indagine e della conoscenza di sé. «Estinguere la dismisura» (u{brin sbennuvnai, secondo un’espressione del resto assai comune, cfr. solo Erodoto V 77.4 e VIII 77.1; Platone, Leggi 835d; e l’amplissimo esame condotto da Conche, pp. 187-88) significa perciò sopprimere la minaccia che deriva, nell’individuo come nella città, dallo sconvolgimento e dalla devastazione, paragonabili allo scoppio di un incendio (si tratta, come rileva Kahn, p. 241, dell’unico riferimento negativo al potere distruttivo del fuoco nei frammenti eraclitei superstiti), determinati dalla sommossa, cioè dal sovvertimento dell’ordine stabilito, tanto sul piano politico e sociale, come vogliono particolarmente Marcovich, p. 366, Diano-Serra, p. 186, e Robinson, p. 109, quanto però, a mio avviso, sul piano dell’etica individuale (così pure Bollack-Wismann, pp. 159-60, Conche, pp. 188-89, e Pradeau, p. 294). Se ne ricava un’indicazione complementare alla prima e fondamentale norma dell’etica eraclitea tratteggiata nei precedenti frr. 70a e 70b [112 DK; 23f Marc.], che prescrive il rigoroso rispetto dei propri limiti, cui viene associata qui la simmetrica esortazione a soffocare ogni tendenza a infrangerne la misura. Da notare invece che, secondo Mouraviev III, p. 52, n. 3, il presente frammento si presenta come un aforisma isolato di difficile collocazione tematica.

Fr. 72 [49 DK; 98 Marc.]1

ei|ı ejmoi; muvrioi, eja;n a[ristoı h\/.

Uno solo vale per me diecimila, se è il migliore.2

1 Questo frammento, nella forma in cui è stampato qui, deriva dalla combinazione di una citazione del poeta bizantino del XII secolo Teo-doro Prodromo, Epistulae 1 (= Patrologia Graeca 133, col. 1240 Migne), che lo riporta a illustrazione dell’attesa del ritorno della rondine, come metafora dell’aspettativa di un evento positivo, con queste parole: «Se infatti, per Eraclito, ... (Teodoro cita qui il fr. 72), anche un’unica ron-

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290 FR. 72 [49 DK; 98 MARC.]

dine ne varrà senz’altro diecimila, se è la migliore»; e di una citazione parziale delle stesse parole di Eraclito da parte di Galeno, De digno-scendis pulsibus VIII 773 Kühn (e di un’ampia serie di testimoni, cfr. Marcovich, pp. 355-58, e Mouraviev I, p. 122), che si limita a richiamare la prima parte del frammento, sostituendo però l’espressione indiretta «per Eraclito» di Teodoro (ei|ı muvrioi par∆ JHrakleivtw/, eja;n a[ristoı h\/), propria dell’oratio obliqua, con l’espressione diretta del pronome personale al dativo (ei|ı ejmoi; muvrioi), come si conviene a un’enuncia-zione in prima persona; contra Kahn, pp. 56-57 e 178, e Robinson, pp. 34 e 112, che, seguendo Bollack-Wismann, pp. 171-72, ritengono invece inappropriata l’inserzione del pronome personale ejmoiv, che sarebbe scarsamente attestato e porterebbe a ridimensionare l’affermazione di Eraclito al livello di un’opinione personale («per me»): ma entrambe queste osservazioni sono infondate (cfr. Mouraviev III, p. 58, n. 2). La seconda parte del frammento riportata da Teodoro (eja;n a[ristoı h\/) è riecheggiata da Aurelio Simmaco, Epistulae IX 115: ... secundum Heraclitum physicum, qui summam laudis arbitratur placere uni, si esset optimus ...; Mouraviev I, pp. 122-23, e III, p. 58, n. 4, suggerisce di integrare la citazione eraclitea, sulla base di un epigramma celebrativo contenuto nell’Anthologia Palatina VII 128 (= Diogene Laerzio, Vitae philosophorum IX 16), con la seguente conclusione: ... oiJ d jajnavriqmoi oujdeivı, «... e gli innumerevoli (scil., la massa dei diecimila) non (scil., ne valgono) uno solo», che costituirebbe il pendant dell’affermazione precedente, sicché «uno» equivale a «diecimila» e «diecimila» non ne fanno «uno», se si tratta di «uno» degli a[ristoi; benché non implausibile, l’integrazione mi pare tuttavia ridondante e basata su una fonte che tende evidentemente a parafrasare e ricontestualizzare le parole di Eraclito, esaltandone l’asprezza e la misantropia. Secondo Marcovich, p. 358, il frammento avrebbe il ritmo di un trimetro giambico, che potrebbe risa-lire all’originale – in modo che l’opera di Eraclito sarebbe stata allora, almeno parzialmente, composta in versi – oppure a una posteriore resa poetica (di cui dà notizia Diogene Laerzio, Vitae philosophorum IX 16): ciò solleva l’irrisolta questione della natura e dello stile dello scritto del filosofo, per la quale cfr. l’Introduzione, § 3.

2 Il significato di questo frammento sembra, nelle sue linee gene-rali, inequivocabile: gli a[ristoi, benché numericamente inferiori, sono equiparati per valore alla massa innumerevole dei più (evocata qui dal numerale muvrioi), cioè degli uomini comuni da cui si distinguono perciò nettamente; ne consegue altrettanto inequivocabilmente che tali a[ristoi sono, rispetto alla massa dei più, tanto rari quanto natural-mente disposti a una posizione di preminenza. Così formulata, una tesi del genere si trova ampiamente diffusa e frequentemente ribadita nei materiali eraclitei superstiti, che si ponga nel contesto della critica dei «molti» o dei «più» (oiJ polloiv) che non riescono ad accedere all’ascolto e alla comprensione del lovgoı, del «ragionamento» annunciato nella Sezione 1 (cfr. per esempio i frr. 1 [1 DK; 1 Marc.], 3 [17 DK; 3 Marc.] e 7 [2 DK; 23 Marc.]), o nell’ambito epistemologico della contrappo-sizione fra i pochi autentici sapienti (come Biante di Priene, cfr. il fr. 46 [39 DK; 100 Marc.]) e i falsi maestri dei più (come Esiodo, cfr. il

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FR. 72a [69 DK; 98g MARC.] 291

fr. 50 [57 DK; 43 Marc.], ma anche gli altri polumaqei 'ı, cfr. il fr. 48 [40 DK; 16 Marc.]) e della simmetrica condanna di chi assume «la folla a maestro» e ignora che «i polloiv sono cattivi, i buoni pochi» (cfr. il fr. 47 [104 DK; 101 Marc.]). Nel caso del presente frammento, tuttavia, mi pare più plausibile intendere l’eccezionalità degli a[ristoi da un punto di vista etico, a introdurre una concezione aristocratica fondata sulla supremazia delle figure di eccezione rispetto alla massa. Saranno però i seguenti frr. 73 [29 DK; 95 Marc.], 74 [25 DK; 97 Marc.] e 75 [24 DK; 96 Marc.] a precisare i tratti distintivi dell’eccezionalità di tali a[ristoi, che non sembrano alludere banalmente a una specifica classe sociale, quella degli «aristocratici» appunto, ma piuttosto alla personalità di chi possiede la conoscenza di sé e, per suo tramite, la consapevolezza della propria collocazione nell’ordine naturale e sociale in cui consistono la virtù e l’eccellenza, come attestano i precedenti frr. 70 [101 DK; 15 Marc.], cfr. n. 2, e, se autentici, 70a [116 DK; 23e Marc.], cfr. n. 4, e 70b [112 DK; 23f Marc.], cfr. n. 3: in questo senso, ed entro questi limiti, si può senza dubbio riconoscere nel presente frammento la rivendicazione di un’etica aristocratica, certo ostile a ogni concezione democratico-egualitaria, che a sua volta legittima come novmoı, sul piano politico, «la volontà di uno solo», come afferma il fr. 76 [33 DK; 104 Marc.], purché appunto, bisogna aggiungere allora, a[ristoı. Così Diano-Serra, p. 168, Robinson, p. 112, e Pradeau, pp. 311-12, mentre Marcovich, p. 359, tende a privilegiare una lettura più immediatamente politica delle parole di Eraclito; non giudico pertinente, infine, l’osservazione di Conche, pp. 147-49, secondo cui occorre distinguere, al di là e al di sopra degli a[ristoi, e dunque pure della massa dei muvrioi cui gli a[ristoi sono a loro volta gerarchicamente anteposti, un’ulteriore figura, quella del filosofo – cioè Eraclito stesso – che può valutare, in virtù delle proprie competenze e del proprio sapere, l’effettiva natura e la rispettiva condizione degli uni e degli altri, quasi un giudice supremo del cosmo e della città: nulla suggerisce a mio avviso una simile articolazione, e complicazione, del quadro teorico qui tratteggiato.

Fr. 72a [69 DK; 98g Marc.]1

... ejf j eJno;ı ... spanivwı.

... per uno solo ... di rado.2

1 Queste parole sono riportate da Giamblico, De mysteriis V 15 (= 219.12 Parthey; 170 des Places), nel contesto di una distinzione fra diversi generi di sacrifici: «Anche fra i sacrifici, dunque, pongo due

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292 FR. 72a [69 DK; 98g MARC.]

specie distinte: quelli degli uomini completamente purificati, che, come dice Eraclito, possono aver luogo ... (Giamblico cita qui il fr. 72a) o per pochi uomini che si contano facilmente, e quelli materiali e corporei, che si producono nel mutamento, e che sono propri di coloro i quali sono ancora impediti dal corpo». Risulta abbastanza chiaro che Giamblico presenta come propri, e non intende attribuire a Eraclito, tanto l’esame della natura dei sacrifici quanto la loro distinzione, come pure a mio avviso, e di conseguenza, il riferimento alla condizione, pura o impura, di coloro i quali li praticano: non restano così che due scarne espressioni di significato avverbiale che è plausibile immaginare fossero citate da Giamblico come effettivamente eraclitee, ma di cui è difficile accertare ragionevolmente, data l’esiguità e la vaghezza del contesto, il senso e il grado di letteralità. Credo ci si debba limitare quindi a supporre nel brano giamblicheo una reminiscenza, più o meno diretta ed eventual-mente parafrasata, dell’originale eracliteo e limitatamente all’impiego di sintagmi che designano l’eccezionalità di un individuo o di un evento e che possono essere ricondotti perciò al contesto interpretativo del precedente fr. 72 [49 DK; 98 Marc.]: cfr. in proposito la nota seguente. DK, Bollack-Wismann, p. 226, Kahn, pp. 288-89 e 339, n. 435, e Diano-Serra, pp. 34-35 e 168, condividono, con diverse sfumature, questo cauto possibilismo, mentre Marcovich, p. 358, Robinson, e Pradeau, p. 311, si esprimono più nettamente per l’inautenticità; contra Conche, pp. 180-81, che invidua invece qui come eraclitea la tesi secondo cui la purificazione individuale, sul piano intellettuale e morale (ma non religioso), si verifica raramente ed eccezionalmente e solo per i pochis-simi individui che accedono alla comprensione del lovgoı, valutando apparentemente la citazione nel suo insieme come autentica, se non letteralmente, almeno nel suo tenore, mentre appena più cautamente si esprime Mouraviev I, p. 170, e III, p. 79, che accoglie come originale soltanto la proposizione ejf j eJno;ı a[n pote gevnoito spanivwı (scil., quvsia kaqarav), «pur venendo da un solo uomo (oppure: pur avendo luogo per un solo uomo), sono rari (scil., i sacrifici puri)», e la giudica del tutto indipendente dal precedente fr. 72, perché effettivamente connessa, come vuole Giamblico cui andrebbe allora concessa fiducia in assenza di evidenza contraria, al tema dei sacrifici.

3 In base alle considerazioni svolte nella nota precedente, e con le limitazioni lì stabilite, non mi pare si possa andare oltre l’ipotesi che queste parole vadano forse accostate, più o meno letteralmente, alla concezione, delineata nel fr. 72 [49 DK; 98 Marc.], cfr. n. 2, di un’etica aristocratica fondata essenzialmente sull’assunto della rarità e dell’eccezionalità delle figure dei suoi protagonisti e sulla loro netta contrapposizione, quantitativa e qualitativa, alla massa dei più.

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Fr. 73 [29 DK; 95 Marc.]1

aiJreu'ntai2 e}n ajnti; aJpavntwn3 oiJ a[ristoi, klevoı ajevnaon

qnhtw'n: oiJ de; polloi;4 kekovrhntai o{kwsper5 kthvnea.

Un’unica cosa scelgono i migliori in cambio di tutte le altre, gloria eterna invece delle cose mortali;6 mentre i più si riem-piono lo stomaco come le bestie.7

1 Questo frammento è riportato da Clemente Alessandrino, Stro-mateis V 59.5 (= II 366 Stählin), subito dopo una versione del fr. 47 [104 DK; 101 Marc.]: «Le Muse di Ionia (scil., Eraclito, cfr. Platone, Sofista 242d) affermano apertamente che i molti autoproclamati sapienti “seguono i cantori popolari e si basano † sulle leggi †, <non> sapendo che ‘i più sono cattivi, i buoni pochi’” (cfr. supra, il fr. 47, n. 1), mentre i migliori perseguono la gloria; dice infatti ... (Clemente cita qui il fr. 73), misurando la loro felicità in base allo stomaco, agli organi sessuali e a ciò che vi è di più basso in noi». A partire da una nota di C.G. Cobet, Heracliti Ephesii locus restitutus, in «Mnemosyne» 9 (1860), p. 437, si riconosce nell’ultima parte del passo (... gastri; kai; aijdoivoiı kai; toi 'ı aijscivstoiı tw 'n ejn hJmi 'n metrhvsanteı th;n eujdaimonivan) una citazione lievemente parafrasata di Demostene, De corona 296 (... th/ ' gastri; mhtrou 'nteı kai; toi 'ı aijscivstoiı th;n eujdaimonivan), il che ha indotto gli editori, da Bywater e senza eccezioni, a negarne la paternità eraclitea (cfr. in tal senso l’analisi più recente di H. Wiese, Heraklit bei Klemens von Alexandrien, Diss., Kiel 1963, pp. 206-13); il solo Mouraviev I, pp. 82-83, e soprattutto III, pp. 36-37, nell’ambito di un’accurata ricostruzione di questa complessa vicenda interpretativa, suggerisce oggi di rivalutare l’ipotesi dell’autenticità dell’intera citazione, basandosi però esclusivamente sull’argomento, a mio avviso estremamente debole, che un «principio di precauzione», in mancanza di prove decisive, deve indurre a pronunciarsi in generale in senso favorevole: tuttavia, se non è possibile escludere che Demo-stene abbia a sua volta ripreso un’espressione eraclitea – o perfino, se si vuole, che entrambi gli autori si siano serviti di un’espressione già proverbiale – tutto ciò pare piuttosto aleatorio, perché di norma l’individuazione della fonte di una citazione è una prova, se non altro indiziaria, del fatto che tale citazione non può essere contempora-neamente ricondotta, in assenza di indicazioni contrarie ed esplicite, a un’altra fonte. Si aggiunga infine che di questo fr. 73 si trova, in Stromateis IV 50.2 (= II 271 Stählin), una seconda citazione, benché sensibilmente abbreviata e con significative variazioni grammaticali e sintattiche (ÔHravkleitoı e}n ajnti; pavntwn klevoı hJrei 'to, toi 'ı de; polloi 'ı ... kekorh 'sqai o{kwsper [correzione di Bernays della lezione

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294 FR. 73 [29 DK; 95 MARC.]

oujc w{sper di Clemente] kthvnesi), che non fa menzione o allusione a nessun elemento dell’ultima parte della prima.

2 Contrariamente a quanto sostenuto da Mouraviev III, p. 37, n. 9, che lo considera indispensabile al ritmo della frase, il gavr presente qui in Clemente mi sembra parte del contesto, come giustificazione dell’introduzione delle parole di Eraclito: «Le Muse di Ionia affermano ... che i migliori perseguono la gloria; dice infatti (gavr fhsivn) ...», e non della citazione stessa.

3 e}n ajnti; aJpavntwn è correzione proposta da Diels (a partire da DK3-4), accolta dalla gran parte degli editori posteriori (compreso Mouraviev I, pp. 82-83, e III, p. 37, n. 9: e}n ajnti; aJpavntwn, con elisione davanti alla vocale aspirata: e}n ajnq∆ aJpavntwn), della lezione ejnantiva pavntwn di Clemente, già variamente emendata (per esempio in e}n ajntiva pavntwn, di Bernays, recepita da Bywater, Zeller e Diels in DK1-2). Nello stesso senso la correzione suggerita da Lassalle e Cobet, e}n ajnti; pavntwn, sulla base della seconda citazione di Clemente (cfr. supra, n. 1).

4 ... ajevnaon qnhtw 'n: oiJ de; polloi; è il testo trasmesso dalla tradizio-ne manoscritta, con l’interpunzione, dopo qnhtw 'n, adottata dalla gran parte degli editori; Cobet ha proposto una modifica dell’interpunzione e l’espunzione dell’articolo: ... ajevnaon. qnhtw'n [oiJ] de; polloi;. In questa forma, difesa oggi da Mouraviev I, pp. 82-83, e III, p. 37, n. 9, la traduzione del frammento muta come segue: «Un’unica cosa scelgono i migliori in cambio di tutte le altre, gloria eterna. Ma, dei mortali, molti (oppure: ma molti fra i mortali) si riempiono lo stomaco come le bestie». In favore di una resa del genere, che non incide particolarmente sul significato complessivo delle parole di Eraclito, si può osservare che viene così eliminata la difficoltà relativa all’interpretazione di qnhtw'n (per la quale cfr. infra, n. 6); a essa fa tuttavia ostacolo la constatazione, a mio avviso non ininfluente, che nei materiali eraclitei superstiti compare più volte la forma sostantivata (oiJ) polloiv, per alludere alla massa dei «molti», o dei «più», che si contrappone ai pochi autentici sapienti (per esempio nei frr. 3 [17 DK; 3 Marc.], 7 [2 DK; 23 Marc.] e 47 [104 DK; 101 Marc.], ma anche nel fr. 72 [49 DK; 98 Marc.], in cui è proprio la connotazione dell’a[ristoı a essere stabilita a partire dall’opposizione fra lo ei|ı e i muvrioi, verosimilmente coincidenti con i polloiv, cfr. la relativa n. 2), mai l’espressione qnhtw 'n polloiv, comunque declinata; inoltre, è mantenuta così una struttura fortemente simmetrica nella prima parte del frammen-to: oiJ a[ristoi aiJreu'ntai (1) e}n ajnti; (2) aJpavntwn / (1) klevoı ajevnaon <ajnti;> (2) qnhtw 'n, «i migliori scelgono (1) un’unica cosa in cambio di (2) tutte le altre / (1) gloria eterna <invece delle> (2) cose mortali», che verrebbe meno adottando la proposta di Cobet e Mouraviev (cfr. in tal senso Marcovich, p. 351).

5 o{kwsper è correzione proposta da Bernays, accolta dalla quasi totalità degli editori posteriori, della lezione tradita o{pwı, sulla base della seconda citazione di Clemente (cfr. supra, n. 1).

6 L’unico problema serio posto dalla costruzione e dalla traduzione del presente frammento riguarda l’interpretazione di qnhtw'n, inteso da alcuni (1) come un genitivo soggettivo riferito a klevoı ajevnaon (dunque nel senso di pro;ı qnhtw 'n: così, per esempio, Diano-Serra, pp. 49 e 187,

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FR. 73 [29 DK; 95 MARC.] 295

Kahn, pp. 73 e 234, Robinson, pp. 25 e 96, e Pradeau, pp. 181 e 308), da altri (2) in parallelo con aJpavntwn (quindi con ajntiv sottinteso a reggere qnhtw 'n, che appunto riprenderebbe direttamente il precedente ajnti; aJpavntwn, con qnhtw 'n e aJpavntwn entrambi neutri: così, per esempio, DK, Marcovich, p. 351, e Conche, p. 120). Nel primo caso, (1) qnhtw 'n si riferisce ai «mortali», «presso i quali» (o «fra i quali») i «migliori» godono di «gloria eterna»: innaturale, e piuttosto confusa, mi pare però l’ulteriore ipotesi di Kahn, pp. 234-35, che si basa sull’analisi di Bollack-Wismann, pp. 129-30, che suggerisce di porre in una relazione chiasmatica i «migliori» con i «mortali» e l’«unica cosa», o la «gloria eterna», che essi scelgono con «tutte le altre» cose che invece trascurano, sicché sussisterebbe un’analogia fra i «migliori» e la stessa «gloria eterna» che sarebbe prodotta da, ed equiparata a, la totalità dei «mortali», così determinandosi una sorta di eterno scambio fra la gloria immortale dei primi e la morte dei secondi. Nel secondo caso, (2) qnhtw'n si riferisce alle «cose mortali», come onori o ricchezze, cui i «migliori» antepongono «gloria eterna», come «unica cosa» che «scelgono ... in cambio di tutte le altre». Fra le due opzioni, entrambe possibili, prediligo la seconda, che, come già detto (cfr. supra, n. 4), mi pare conservare più efficacemente una rigorosa simmetria nell’ambito della scelta dei «migliori», con la precisazione dell’«unica cosa», la «gloria eterna», che essi perseguono e di «tutte le altre», «le cose mortali», che essi disdegnano.

7 Sul piano interpretativo, se il fr. 72 [49 DK; 98 Marc.] annuncia-va, come suggerito nella relativa n. 2, un’etica degli a[ristoi, fondata sull’indicazione della supremazia delle poche figure d’eccezione che sovrastano la massa, verosimilmente in virtù della consapevolezza di sé e della propria natura che li caratterizza (cfr. i frr. 70 [101 DK; 15 Marc.], cfr. n. 2, e, se autentici, 70a [116 DK; 23e Marc.], cfr. n. 4, e 70b [112 DK; 23f Marc.], cfr. n. 3), vengono delineati adesso, in questo e nei seguenti frr. 74 [25 DK; 97 Marc.] e 75 [24 DK; 96 Marc.], i tratti specifici che definiscono l’eccezionalità degli a[ristoi. Innanzitutto, i «migliori» aspi-rano in modo esclusivo alla gloria che deriva dalla grandezza d’animo e dalla realizzazione delle più alte imprese e che assicura fama immortale, disprezzando invece tutto quanto appartiene alla sfera delle esigenze biologiche e dei desideri ordinari dei più, paragonati ad animali ottusi che non mirano che al proprio sostentamento e alla propria sopravvivenza o, più ancora, alla mandria di bestiame che ha per unico orizzonte un eterno pascolo e per sola aspettativa una perenne sazietà (sull’intro-duzione del parallelo con gli animali, sviluppato con diversi esempi nei successivi frr. 81 [9 DK; 37 Marc.], in riferimento agli asini, 82 [13 DK; 36 Marc.], in riferimento ai maiali, 82a [4 DK; 38 Marc.], in riferimento ai buoi, 83 [11 DK; 80 Marc.], in riferimento ai quadrupedi al pascolo, e 84 [97 DK; 22 Marc.], in riferimento ai cani, e sul suo significato, posi-tivo o negativo, cfr. l’Introduzione, § 4.6, e la Nota introduttiva a questa Sezione 6). Non si tratta tuttavia di un’esaltazione superomistica dell’in-sensatezza o dell’incoscienza del folle o del temerario né tantomeno di una celebrazione pseudo-nichilista della morte purificatrice né, ancora, dell’apologia di un’etica e di una civiltà guerriera di stampo omerico: i «migliori» valutano appieno e soppesano adeguatamente i termini della

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296 FR. 74 [25 DK; 97 MARC.]

propria scelta e dello «scambio» che essa implica, eppure decidono, in ragione della conoscenza di sé che possiedono, di rinunciare a ogni altra cosa per ottenere ciò che appunto alla loro natura pienamente umana si addice e conviene – la gloria eterna – mentre sono i più a lasciarsi vivere nell’inconsapevolezza delle bestie. Come ricorda Kahn, pp. 234 e 330, n. 314, la caratterizzazione degli a[ristoi delineata qui da Eraclito ricorda, anche letteralmente, l’encomio composto da Simonide, fr. 26 Page (= 4 Bergk), in onore dei caduti spartani alle Termopili e particolarmente del loro re Leonida, di cui si dice che lasciò ajreta'ı mevgan ... kovsmon ajevnaovn te klevoı, verosimilmente proprio la stessa «gloria eterna», che consiste nell’eccellenza della virtù e del coraggio che dispone al sacrificio di sé in nome dei propri valori e ideali, che le figure rare ed eccezionali protagoniste di questa etica aristocratica perseguono in alternativa alle basse esigenze materiali che animano il «gregge» degli uomini comuni. Anche se l’espressione ajevnaovn te klevoı (o l’equivalente eracliteo klevoı ajevnaon) non sembra ricorrere altrove nella letteratura greca conservata, non è in alcun modo possibile stabilire, neanche congetturalmente, una relazione cronologica fra l’opera di Eraclito e l’encomio di Simonide, ma comune è certo l’idea di una prospettiva etica che garantisca all’eroe, al migliore e al più valoroso fra gli uomini, il premio dell’immortalità della fama che si conquista al prezzo della vita gettata in battaglia.

Fr. 74 [25 DK; 97 Marc.]1

movroi2 mevzoneı mevzonaı moivraı lagcavnousi.

A morti più gloriose toccano sorti più illustri.3

1 Questo frammento è riportato da Clemente Alessandrino, Stroma-teis IV 49.2 (= II 270-71 Stählin), nel contesto di un insieme di citazioni chiamate a illustrare i premi che la divinità riserva agli uomini virtuosi: «Anche Eschilo riprende questa idea dicendo: “A chi soffre spetta la gloria, dagli dei, in cambio della pena sofferta” (= fr. 315 Nauck). Infatti, ... (Clemente cita qui il fr. 74), secondo Eraclito». Il frammento è citato inoltre, pressoché letteralmente, da Teodoreto, Graecarum affectionum curatio VIII 39 e 41 (dopo il fr. 75 [24 DK; 96 Marc.], cfr. n. 1, e prima del fr. 67 [27 DK; 74 Marc.], cfr. n. 1), con l’equivoco, evidente, di movnoi in luogo di movroi, che dà: «Ai più gloriosi soltanto toccano sorti più illu-stri»; e da Ippolito, Refutatio contra omnes haereses V 8.42 e 44 (= 96-97 Wendland), con il lapsus, probabile, del copista di lambavnousin in luogo di lagcavnousin, che non modifica tuttavia sensibilmente il significato: «Morti più gloriose ricevono sorti più illustri».

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FR. 74 [25 DK; 97 MARC.] 297

2 Tutti i citatori del presente frammento ricordati nella nota prece-dente riportano in questo punto gavr, il che consiglierebbe di mantenerlo: così Mouraviev III, p. 34, che aggiunge inoltre in tal senso considera-zioni relative alla struttura ritmica della frase. Mi pare tuttavia, con la gran parte degli editori e dei traduttori, che il gavr fornisca la naturale transizione, nell’esposizione di Clemente, dalla citazione di Eschilo a quella di Eraclito, che dovrebbe rappresentarne un’illustrazione (cfr. la nota precedente), e che sia perciò parte del contesto.

3 Come ha messo bene in luce Kahn, pp. 232-33, la struttura e lo stile del presente frammento sono particolarmente elaborati e raffinati. Se l’evidente gioco di parole fra movroi e moivraı non è certo originale di Eraclito (cfr. per esempio Eschilo, Coefore 911), si constata d’altra parte che quattro dei cinque termini di cui si compone il frammento cominciano con la stessa lettera, m, con indubbio effetto all’ascolto e alla lettura, e che il primo (movroi) e il quarto (moi'raı), in posizione di soggetto e di complemento oggetto, sono fra loro apparentati, in quanto sostantivi, rispettivamente maschile e femminile, derivanti entrambi dal verbo meivromai («ricevere in sorte» o «ottenere la propria parte») ed entrambi con il significato di «sorte» o «parte», anche se, fin dai poemi omerici, il maschile movroı assume piuttosto il senso di sorte «fatale», dunque a indicare la morte (anche nel linguaggio eracliteo, cfr. supra, il fr. 65 [20 DK; 99 Marc.], n. 3, e Robinson, p. 92), il femminile moi'ra quello di sorte, o destino, «personale»; ancora, alla presenza dei due derivati da meivromai fa da contraltare, solo fonetico, il verbo finale lagcavnw, che si colloca nell’ambito della medesima sfera semantica («ottenere in sorte» o «guadagnare la propria parte»); infine, il secondo (mevzoneı) e il terzo (mevzonaı) termine, fra loro adiacenti, sono, declinati al nominativo e all’accusativo, lo stesso, benché ciò non risulti sfortunatamente perspicuo dalla traduzione proposta, nella quale ho tentato di rendere più esplicito, con il riferimento alle morti «più gloriose», il richiamo al klevoı ajevnaon del precedente fr. 73 [29 DK; 95 Marc.]. Dal punto di vista interpretativo, è condivisa in generale la tesi che il presente frammento vada considerato in relazione all’etica degli a[ristoi che Eraclito delinea, specie rispetto all’ideale dell’eroe e del guerriero tipico della civiltà greca arcaica. Più nel dettaglio, tuttavia, suggerisco l’ipotesi che, se il precedente fr. 73, cfr. n. 7, caratterizzava tali a[ristoi, cioè le poche figure d’eccezione che, secondo il fr. 72 [49 DK; 98 Marc.], cfr. n. 2, sovrastano la massa, come coloro i quali scelgono la gloria eterna disprezzando le basse aspirazioni «animali» dei comuni mortali, vengano esplorate adesso le conseguenze di questa scelta etica: è infatti ai «migliori», che vanno incontro a destini di morte più nobili e grandi, che tocca in sorte l’onore più alto di una reputazione gloriosa, appunto quella, universale ed eterna nella fama e nella memoria (cfr. il seguente fr. 75 [24 DK; 96 Marc.], specie n. 2), in nome della quale essi hanno rinunciato a tutto il resto; mentre gli uomini comuni, dominati dalle pulsioni più vili e immediate e impediti perciò dal timore della morte o del pericolo, sono destinati a una fine «minore», ossia quella, ordinaria e della massa, che sopraggiunge senza superiori ragioni e ideali, ma, come nel caso degli animali, per eventi e condizioni, per così dire, «biologiche», sicché a costoro non spettano

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298 FR. 75 [24 DK; 96 MARC.]

che una sorte minore e un esito meno illustre, verosimilmente quello di un completo oblio. Secondo questa lettura, che mi pare sostanzial-mente condivisa, pur se con qualche esitazione, da Kahn, pp. 232-33 – che richiama opportunamente, a questo proposito, i celebri versi in cui il poeta lirico Tirteo esalta il valore dei combattenti che cadono in prima linea in difesa delle mura della città e conquistano perciò una fama (klevoı) che non perisce (cfr. i frr. 10-12 West) – e da Pradeau, p. 315, nessuna prospettiva escatologica sarebbe allora prefigurata da Eraclito né emergerebbe qui nessun riferimento a una possibile forma di immortalità o di ricompensa postuma per gli a[ristoi, come pensano invece Marcovich, p. 355, Diano-Serra, p. 188, e Robinson, pp. 92-93 (che rinviano però a Platone, Cratilo 398b, il quale infatti, evocando Esiodo, ricorda l’opinione tradizionale secondo cui i «buoni» sono attesi dopo la morte da una megavlhn moi'ran e divengono demoni); una simile opzione appare ai miei occhi completamente infondata e, a un tempo, in assoluta contraddizione con gli elementi della dottrina psicologica di Eraclito tratti dai materiali raccolti e illustrati supra, nella Sezione 5: innanzitutto, nell’ambito della descrizione del ciclo generale della trasformazione degli elementi, sul piano fisico-cosmologico e psico-fisiologico, è esplici-tamente e inequivocabilmente prevista, nel fr. 62 [36 DK; 66 Marc.], cfr. n. 2, la morte dell’anima (cfr. pure l’Introduzione, § 4.5); inoltre, di tale condizione Eraclito ritiene probabilmente di fornire un’illustrazione e una spiegazione, che introduce come del tutto originali e contrapposte alle credenze tradizionali (cfr. i frr. 67 [27 DK; 74 Marc.], specie n. 2, e 69 [63 DK; 73 Marc.], specie n. 4), facendo forse riferimento alla condi-zione primordiale ed elementare cui le anime si riducono quando sono nell’Ade (cfr. il fr. 68 [98 DK; 72 Marc.], specie n. 3).

Fr. 75 [24 DK; 96 Marc.]1

ajrhifavtouı qeoi; timw'si kai; a[nqrwpoi.

I caduti in battaglia li onorano dei e uomini.2

1 Questo frammento è riportato da Clemente Alessandrino, Stroma-teis IV 16.1 (= II 255 Stählin), nel corso di un esame, non dissimile da quello condotto nel contesto introduttivo del precedente fr. 74 [25 DK; 97 Marc.], degli elogi riservati agli eroi e agli uomini virtuosi caduti in battaglia, paragonati ai martiri cristiani che consacrano la propria vita, e la propria morte, a Dio: «Così dice Eraclito: ... (Clemente cita qui il fr. 75). E anche Platone, nel V libro della Repubblica (= 468e), scrive: “E dei morti in una campagna militare, chi sia caduto con onore, non diremo

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FR. 75 [24 DK; 96 MARC.] 299

innanzitutto che appartiene alla stirpe aurea?”». Identica citazione anche in Teodoreto, Graecarum affectionum curatio VIII 39 (prima dei frr. 74, cfr. n. 1, e 67 [27 DK; 74 Marc.], cfr. n. 1), con le sole inserzioni di gavr, dopo ajrhifavtouı, e dell’articolo oiJ, prima di qeoi;, respinte dalla quasi totalità degli editori e dei traduttori, che non ne mutano tuttavia il significato. Al presente frammento, come sua reminiscenza, è ricondotto da Marcovich, pp. 352-53 (fr. 96b1), il fr. 136 DK (del resto catalogato, appunto, fra i dubia), che si trova in uno scolio ad Arriano, Commenta-rium de Epicteti disputationibus IV 7.27 (422 Schenkl): yucai; ajrhivfatoi kaqarwvterai h] ejni; nouvsoiı, «Le anime morte in battaglia sono più pure di quelle morte per malattia»; ma, in effetti, solo la ricorrenza del termine ajrhivfatoi richiama qui il presente fr. 75, che non sembra avere di per sé nulla a che fare con una distinzione fra la morte delle anime pure e impure e la natura, o la circostanza, della loro morte, né si vede perciò come potrebbe costituirne, per il contenuto, il modello originale. Non a caso, Kirk, Heraclitus and Death in Battle, cit., che difende l’au-tenticità, almeno dottrinaria, del fr. 136 DK, lo colloca nell’ambito di una complessa teoria psicologica, secondo la quale le anime dei caduti in battaglia, in ragione della virtù che le sostiene, si presenterebbero alla morte allo stato focoso, mentre le anime dei morti per malattia, a causa della condizione di disfacimento in cui si trovano, vi giungerebbero intrise di umidità, donde il grado di maggiore o minore purezza delle une o delle altre (a un’analoga distinzione, ma etica e non psicologica, allude confusamente Conche, p. 130). In primo luogo, però, la psicologia eraclitea associa in generale la condizione di umidità dell’anima alla sua morte (comunque essa si verifichi, cfr. solo, l’Introduzione, § 4.5, e supra, i frr. 62 [36 DK; 66 Marc.], specie n. 2, e 63 [117 DK; 69 Marc.], specie n. 2) e quella di asciuttezza alla sua piena vitalità ed efficienza (e non a una morte virtuosa, cfr. solo, supra, il fr. 64 [118 DK; 68 Marc.], specie n. 2); in secondo luogo, non mi pare comunque che una simile, articolata distinzione si possa trarre dagli scarsi riferimenti del fr. 136 DK, ossia, essenzialmente, dall’indicazione del grado di «purezza» (kaqarwvterai) delle anime. Ciò constatato, e tenuto conto del fatto che: (1) poco prima del presente fr. 75, Clemente Alessandrino, Stromateis IV 14.4 (= II 255 Stählin) evoca, senza ascriverla a Eraclito, l’opinione degli antichi secondo cui le anime separate improvvisamente e brutalmente dal corpo (per esempio in battaglia) conservano parte della loro vitalità; (2) ciò può aver indotto di conseguenza un lettore di Clemente ad associare tali anime agli ajrhivfatoi che «dei e uomini onorano» del fr. 75, la cui morte è certo improvvisa e brutale, e ad attribuire a Eraclito l’opinione che esse conservano parte della loro vitalità dopo la morte (forse proprio in quanto «onorate da dei e uomini»?); (3) il passo di Arriano al margine del quale lo scoliaste annota il fr. 136 DK contiene a sua volta un para-gone fra la morte in battaglia, più rapida e meno sofferta, e la morte per malattia, più lenta e dolorosa; si può allora supporre che: (1) lo scoliaste (forse il bizantino Areta, vissuto fra il IX e il X secolo, buon conoscitore di Clemente e la cui mano si riconosce nel manoscritto di Arriano, il Bodleianus Misc. Graecus 251) abbia inteso commentare (e confermare) le parole di Arriano con un’annotazione di analogo tenore, tratta da

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300 FR. 75 [24 DK; 96 MARC.]

Clemente e a questo punto attribuita senz’altro a Eraclito, relativa alla differenza fra una morte rapida e una morte lenta, secondo la quale le anime ajrhivfatoi, ossia quelle uscite dal corpo improvvisamente e che mantengono parte della propria vitalità, risultano più pure di quelle che invece sono affette e disfatte da una lunga malattia che le corrompe, (2) riprendendo da altra fonte l’idea, identificata come eraclitea, che le anime che abbandonano il corpo con violenza sono appunto le più pure (cfr. Oracoli Caldaici, fr. 159 des Places: bivh/ o{ti sw 'ma lipovntwn yucai; kaqarwvtatai), mentre (3) rimane oscuro da dove possa essere stato ricavato il riferimento alle anime che muoiono per malattia, ammesso che non si tratti di un’osservazione aggiunta di pugno dello scoliaste a completare l’annotazione da lui attribuita a Eraclito a mo’ di commento alle parole di Arriano (benché tale annotazione, cioè il fr. 136 DK, risulti difficilmente scomponibile in membri di frase diversi e di diversa pro-venienza, giacché consta di un esametro completo): questa, in estrema sintesi, la versione, per così dire rivista e corretta, che congetturalmente propongo della diagnosi originariamente formulata da M.L. West, A Pseudo-Fragment of Heraclitus, in «The Classical Review» 18 (1968), pp. 257-58. Rimango perciò persuaso, con la totalità degli editori e dei traduttori a partire da DK, dell’inautenticità di questo frammento; il solo Mouraviev III, p. 155, al quale rimando per una rassegna schematica dell’insieme degli argomenti via via addotti contro l’autenticità, tenta, esaminandoli puntualmente, di contestarne l’efficacia dimostrativa, ridimensionandoli al rango di semplici sospetti, senza tuttavia fornire a sua volta nessuna prova in favore dell’autenticità, anche parziale, del fr. 136 DK, se non un semplice e alquanto paradossale «principio di precauzione», che dovrebbe indurre l’interprete ad accogliere come autentico tutto ciò di cui non si abbia prova che sia inautentico (sic).

2 Il termine ajrhivfatoı (o ajreivfatoı), già presente nei poemi omerici, designa letteralmente «coloro i quali sono uccisi da Ares» e dunque, per estensione, i «caduti in battaglia». In stretta connessione con il prece-dente fr. 74 [25 DK; 97 Marc.], cfr. n. 3, ritengo dunque che si trovi qui un’ulteriore precisazione relativa alle conseguenze della scelta che gli a[ristoi del fr. 73 [29 DK; 95 Marc.] compiono, perseguendo la «gloria eterna» che si accompagna alle «sorti più illustri» che derivano loro da «morti più gloriose»: da tale scelta consegue infatti, come esito delle «sorti più illustri» che spettano alle «morti più gloriose», una fama che ha i tratti dell’universalità e dell’eternità, perché onorata dall’apprez-zamento generale e senza eccezioni degli dei e degli uomini, tanto nel tempo breve della memoria umana quanto nell’eternità del divino che caratterizza la totalità della natura e del cosmo (questo, con Marcovich, p. 352, e Conche, p. 123, mi sembra il significato del riferimento agli «dei» e agli «uomini», ad abbracciare esaustivamente tutti i viventi e l’intera realtà). Artificiosa la suggestione di Kahn, pp. 236-37, che tenta di stabilire una relazione fra Ares, come dio della guerra evocato qui con il termine ajrhivfatoı, e povlemoı, la «guerra», che, nel fr. 12 [53 DK; 29 Marc.], è posto come «padre di tutte le cose», che rende «gli uni ... dei, gli altri uomini», così determinando il destino dei propri «figli» o «prodotti» («dei» o «uomini»), come Ares determina la sorte di quelli

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FR. 76 [33 DK; 104 MARC.] 301

che uccide (che ricevono «onore») a scapito di quelli che muoiono per altra causa (che li abbandona al «disonore»). Neanche nel caso del presente frammento credo si possano rinvenire tracce di una dottrina escatologica di Eraclito né riferimenti a una presunta ricompensa post mortem per i «caduti in battaglia» (cui alluderebbe l’apprezzamento onorifico che gli dei riservano loro), come pensano invece Marcovich, p. 352, e, in termini appena più vaghi, Diano-Serra, pp. 187-88: rinvio ancora, su questo punto, alle considerazioni svolte supra, nella n. 3 al precedente fr. 74; cfr. pure Pradeau, p. 314.

Fr. 76 [33 DK; 104 Marc.]1

novmoı kai; boulh/'2 peivqesqai eJnovı.

Legge è anche obbedire alla volontà di uno solo.3

1 Questo frammento è riportato da Clemente Alessandrino, Stroma-teis V 115.2 (= II 404 Stählin) = Eusebio, Praeparatio evangelica XIII 13.42 (= II 215 Mras), nel corso di un esame dei riferimenti alla divinità suprema e delle esortazioni a rivolgersi al principio di tutte le cose presenti nelle opere filosofiche greche, nell’ambito del quale vengono citati in sequenza i frr. 10 [32 DK; 84 Marc.], 76 e 2 [34 DK; 2 Marc.]: per una sintetica presentazione del contesto della citazione si vedano perciò rispettivamente la n. 1 al fr. 2 e la n. 1 al fr. 10.

2 boulh/ ' è lezione del manoscritto I2 di Eusebio, mentre Clemente e gli altri manoscritti di Eusebio portano il nominativo boulhv, difeso soltanto da Mullach e Bollack-Wismann, p. 139, che dà la traduzione seguente: «Legge e volontà è di obbedire a uno solo (oppure: a un’unica cosa)» (Mullach) o anche: «Legge è anche volontà di obbedire a uno solo (oppure: a un’unica cosa)» (Bollack-Wismann), costruendo l’infi-nito peivqesqai, caso raro ma non impossibile (cfr. Mouraviev III, p. 42, n. 2), con il genitivo (eJnovı) invece che, come di regola avviene, con il dativo (che impone allora la lezione boulh/'). La scelta del dativo, da me adottata con la quasi totalità degli editori e dei traduttori, è discussa e giustificata nella nota seguente.

3 Nonostante le diverse opzioni di costruzione e di traduzione rese possibili dalla grammatica e prospettate dai commentatori (cfr. la nota precedente e soprattutto la rassegna proposta da Mouraviev III, p. 42), l’unica versione plausibile del presente frammento è, a mio avviso, quella, cui corrisponde la resa adottata qui, che costruisce l’infinito peivqesqai con boulh/', al dativo, e intende il genitivo singolare eJnovı come un maschile. Infatti, anche se è possibile trovare peivqesqai con il geni-

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tivo (cfr. la nota precedente) e, ovviamente, considerare eJnovı come un neutro, non si può tuttavia trascurare, nel primo caso, che si tratta di una costruzione molto rara e inusuale e, nel secondo, che, se costruito con peivqesqai, eJnovı è verosimilmente maschile e non neutro (nei rari casi repertoriati l’espressione peivqesqai + genitivo introduce un geni-tivo di persona e non di cosa: «obbedire a qualcuno», come è del resto naturale, e non «a qualcosa»), come pure, e a maggior ragione, se rife-rito a boulh/ ' (nell’espressione boulh/ ' ... eJnovı), giacché, mentre è intuiti-vamente e concettualmente chiaro cosa voglia dire: «obbedire alla volontà di uno solo (oppure: di una sola persona)», non lo è affatto l’alternativa: «obbedire alla volontà di una sola cosa» (ma su questo punto si veda poco oltre; l’opzione che rimane senz’altro esclusa è quella adottata da Pradeau, pp. 144 e 257-58, che traduce: «... obéir à une unique décision», evitando così di rendere manifesta, mascheran-dola nell’ambiguità, la scelta, per il genitivo singolare eJnovı, fra maschi-le e neutro: Eraclito non parla però di un’«unica» decisione, o volontà, ma della volontà, o decisione, di «uno solo», o di «una sola cosa», che è ben diverso). Inoltre, anche prescindendo dalla plausibilità di questi rilievi e tentando percorsi interpretativi sintatticamente meno imme-diati, mi sembra piuttosto evidente che il termine boulhv si trova inten-zionalmente collocato, nel presente frammento, in opposizione al ter-mine novmoı, a introdurre una polarità in qualche misura soggettiva, quella della volontà, della decisione o della deliberazione pianificata, individuale o collettiva – di un gruppo selezionato oppure di un’assem-blea pubblica, se boulhv implicasse un riferimento, per quanto allusivo e ambiguo, come suggeriscono Kahn, p. 181, e Robinson, p. 103, al consiglio così denominato che deteneva poteri legislativi ed esecutivi tanto nei regimi democratici quanto nei regimi oligarchici, cui si con-trapporrebbe la «volontà di uno solo», che può valere come legge tanto quanto la «deliberazione dell’assemblea», attribuendo in tal caso alle parole di Eraclito un significato ulteriore oltre quello esplicito: «Legge è anche obbedire alla volontà di uno solo (scil., e non solo all’assemblea)» – rispetto a una polarità oggettiva e storicamente o naturalmente data, quella della legge e del paradigma normativo codi-ficato e stabile, con la congiunzione delle due polarità a suscitare, almeno a prima vista, l’effetto volutamente paradossale di una tesi controintuitiva – se la «legge» è, per definizione, portatrice di norme universali e universalmente da rispettare, come può coincidere con la volontà di uno solo ed esserne il prodotto, senza che ciò conduca all’esito fatale di una sottomissione dell’oggettività della sfera norma-tiva all’arbitrio soggettivo? – di cui viene tuttavia fornita, come vedre-mo più avanti, la spiegazione. Ora, va da sé che tale effetto paradossa-le svanirebbe se novmoı e boulhv si trovassero, invece che in reciproca opposizione («Legge è anche obbedire alla volontà di uno solo», con novmoı al nominativo e boulh/ ' al dativo retto dall’infinito peivqesqai), collocati in uno stretto parallelismo (con novmoı e boulhv entrambi al nominativo e l’infinito peivqesqai a reggere il genitivo di persona eJnovı), o (1) come soggetti coordinati («Legge e volontà è obbedire a uno solo», che è la traduzione di Mullach, cfr. la nota precedente) oppure (2) come

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soggetto e parte nominale l’uno dell’altro («Legge è anche volontà di obbedire a uno solo», che è la traduzione di Bollack-Wismann, che intendono però inoltre eJnovı come neutro: «... suivre une chose», cfr. la nota precedente). Infine, anche trascurando le considerazioni svolte fin qui e accogliendo come possibili le opzioni di costruzione e traduzione (1) e (2) appena citate, si pone un’immediata questione di senso: se (1) «legge e volonta è obbedire a uno solo», mentre è comprensibile, e per Eraclito a certe condizioni auspicabile, che la legge consista nell’obbe-dienza a un unico individuo, risulta invece semplicemente falso che la volontà consista nell’obbedienza a un unico individuo – falso di fatto, perché Eraclito mostra di conoscere assai bene, e condannare, le incli-nazioni disparate della massa dei più, che senza dubbio non si risolvo-no nell’obbedienza a un individuo (come si evince per esempio dai frr. 73 [29 DK; 95 Marc.] e 78 [110 DK; 71 Marc.]); se (2) «legge è anche volontà di obbedire a uno solo», mentre è possibile la volontà di obbe-dire a un unico individuo, e a certe condizioni auspicabile, come appe-na detto, che in tale obbedienza consista la legge, non si vede invece in che modo la legge possa ridursi a un atto di volontà (sarebbe semmai possibile il contrario, ossia che un atto di volontà assurga al rango di legge: un individuo può trasformare in legge un suo atto di volontà, per esempio quello che gli si obbedisca, ma una legge può spingersi al massimo all’imposizione dell’obbedienza a un individuo, non anche della volontà di obbedirgli, a meno che non si tratti di una volontà così universalmente condivisa da configurarsi come una norma di fatto – una legge di natura? – il che, appunto di fatto, è falso, come visto nel caso precedente). Siamo così ricondotti all’opzione iniziale: «Legge è anche obbedire alla volontà di uno solo». Ma anche «di una sola cosa» (con eJnovı neutro)? Poiché non si vede come riconoscere «volontà» a un oggetto inanimato, a una «cosa», è stata suggerita un’interpretazione, talora descritta come «metafisica» o «cosmologica» (così Kahn, p. 181, e Robinson, p. 103, che si limitano ad accennarvi come mera possibili-tà, e, più convintamente, Bollack-Wismann, pp. 139-40, e Pradeau, p. 258), che, evidentemente influenzata dal contesto del citatore (per il quale cfr. supra, n. 1), chiama in causa un principio primo, forse di natura divina, che governa tutte le cose e coincide con il loro ordina-mento, qui denominato come «uno», e alla cui «volontà», dunque, sarebbe «legge obbedire». Questa interpretazione, tuttavia, ben lungi dall’essere metafisica o cosmologica, risulta semplicemente infondata: vale la pena ribadire innanzitutto (ma cfr. solo supra, n. 6 al fr. 5 [50 DK; 26 Marc.], n. 1 al fr. 14 [51 DK; 27 Marc.] e n. 6 al fr. 16 [10 DK; 25 Marc.]) che il termine (to;) e{n, non è utilizzato, nei materiali eraclitei superstiti, né in forma sostantivata in posizione di soggetto né a desi-gnare un concetto filosofico determinato, ma solo in relazione all’attri-buto dell’«unità» che caratterizza nel loro insieme tutte le cose che, irriducibili le une alle altre, costituiscono appunto nella loro totalità un’unità organica e plurale. Né pare verosimile supporre qui un riferi-mento, sotto le mentite spoglie dell’«uno», a uno dei «principi» di volta in volta chiamati in causa nei frammenti: non al lovgoı del fr. 1 [1 DK; 1 Marc.], che si rivela piuttosto come un principio esplicativo,

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304 FR. 76 [33 DK; 104 MARC.]

privo di una funzione propriamente operativa (cfr. le n. 9-10); non a povlemoı del fr. 12 [53 DK; 29 Marc.], che esercita una funzione opera-tiva sul piano ontologico, ma coincide di fatto con l’eterno e «mecca-nico» processo di alternanza di tutte le cose e dei termini opposti che caratterizza la totalità del reale (cfr. n. 2); non al fuoco introdotto nel fr. 29 [30 DK; 51 Marc.], che si pone come un principio di natura cosmo-logica che opera sul piano della processualità fisica (cfr. n. 4). Nessun principio operativo dotato di volontà pare quindi emergere nella rifles-sione eraclitea, se si colgono adeguatamente e si distinguono lo statuto e le proprietà di ciascuno di essi (si veda pure, in proposito, l’Introdu-zione, §§ 4.1-4.3). Tornando così definitivamente alla traduzione pro-posta, tenderei a sottolineare il valore restrittivo del kai; («Legge è anche obbedire alla volontà di uno solo»), che introduce una precisa-zione e una limitazione, appunto quelle che sciolgono l’apparente paradosso, sopra segnalato, dell’opposizione di novmoı e boulhv: la legge consiste anche, ma non solo (oppure: la legge consiste perfino, ma non usualmente) nell’obbedienza alla volontà di un unico individuo, perché, se per definizione il novmoı rappresenta un paradigma oggettivo che rispecchia valori, principi e norme universali, e certo non l’arbitrio, talvolta esso può coincidere anche con la volontà di un unico individuo (ma non sempre o innanzitutto, come vuole Conche, p. 224, facendo riferimento alla figura del legislatore, per esempio Solone ad Atene o Licurgo a Sparta, come fonte, unica e a cui si deve obbedienza, della legislazione). Ciò si verifica naturalmente quando l’unico individuo cui si deve obbedienza è l’a[ristoı che sovrasta la massa dei più (cfr. il fr. 72 [49 DK; 98 Marc.], n. 2), che persegue la gloria eterna (cfr. il fr. 73 [29 DK; 95 Marc.], n. 7) e a cui toccano perciò sorti illustri (cfr. il fr. 74 [25 DK; 97 Marc.], n. 3) e onore eterno e universale (cfr. il fr. 75 [24 DK; 96 Marc.], n. 2), cioè la figura d’eccezione che fa parte della schiera dei migliori e la cui condotta non è ispirata dall’inclinazione del momento, ma dalla virtù che consta di assennatezza e misura (cfr. il fr. 70b [112 DK; 23f Marc.], n. 3) ed estingue ogni forma di eccesso e dismisura (cfr. il fr. 71 [43 DK; 102 Marc.], n. 4) e perciò incarna il paradigma oggetti-vo che regge la città e ogni comunità umana e vale dunque come «legge» (così pure Marcovich, p. 369, e Diano-Serra, p. 187). Se ne può allora dedurre, nel contesto di un’interpretazione etico-politica del presente frammento, che la prospettiva che Eraclito delinea, senza dubbio di orientamento aristocratico, non giunge però a concedere agli a[ristoi un potere assoluto, perché la loro «volontà» è legge non nel senso che la produce soggettivamente e arbitrariamente, bensì in quan-to le corrisponde pienamente, sicché l’obbedienza all’una e all’altra si equivalgono; di conseguenza, e in un’ottica più generale, ne deriva che, se la legge non dipende necessariamente dalla decisione della maggio-ranza (o dell’assemblea della boulhv, si veda poco sopra), come le fazio-ni democratiche delle povleiı greche di quest’epoca facevano valere, neanche discende dalla volontà di un unico individuo tout court (il tiranno): la legge deve basarsi su un criterio selettivo che non è quan-titativo, ma qualitativo, il cui fondamento può poggiare anche su un unico individuo, purché a[ristoı.

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Fr. 77 [44 DK; 103 Marc.]1

mavcesqai crh; to;n dh'mon uJpe;r tou' novmou2 o{kwsper3 teivceoı.

Il popolo deve battersi in difesa della legge come delle mura della città.4

1 Questo frammento è riportato da Diogene Laerzio, Vitae philo-sophorum IX 2, nell’ambito delle numerose citazioni che, in apertura della sua notizia biografica relativa a Eraclito, sono chiamate a illustrare il suo spirito altezzoso e il suo linguaggio sprezzante, dopo il fr. 71 [43 DK; 102 Marc.] e prima del fr. 87 [121 DK; 105 Marc.].

2 Nei manoscritti BP1FD di Diogene Laerzio si trova in questo punto, dopo uJpe;r tou ' novmou, ciò che appare come un inciso espli-cativo: uJpe;r tou ' ginomevnou (oppure: genomevnou, in base alla lettura del manoscritto F del solo Bywater), invece assente, fra gli altri, dai manoscritti P2 (una versione corretta, e dunque posteriore, di P1) e W (= Vaticanus Graecus 140, del XIV secolo). Poiché uJpe;r tou ' ginomevnou non dà un significato soddisfacente («... in difesa della legge, in difesa di quella che nasce [oppure: che diviene] ...»; gli unici difensori contemporanei di questa lezione, Bollack-Wismann, pp. 161-62, e Conche, p. 220, sono costretti a adottare una traduzione di ginomevnou che non sembra possibile: «... pour défendre sa loi, pour celle qui se fait/pour celle qui existe ...»), sono propenso ad accet-tarne l’espunzione, attenendomi ai manoscritti laerziani più recenti appena citati, che testimoniano evidentemente di una correzione che segue la stessa logica da me ricostruita, e conformandomi così alla quasi totalità degli editori e traduttori moderni (cfr. solo, per esempio, Marcovich, p. 367, e Diano-Serra, pp. 48-49 e 185-86), come ripetizione del precedente uJpe;r tou ' novmou (eventualmente accettando la correzione di Diels in DK3-4, uJpe;r tou ' ge novmou, che renderebbe tale ripetizione ancora più prossima al suo originale e ne giustificherebbe perciò a maggior ragione l’espunzione). Basan-dosi sulla constatazione che uJpe;r tou ' ginomevnou, pur indifendibile come tale, è tuttavia riportato dai manoscritti laerziani più antichi, e che potrebbe trattarsi di un inciso destinato a spiegare quale sia la «legge» in difesa della quale «il popolo deve battersi», Mouraviev I, pp. 112-13, e III, p. 53, nn. 1-3, ha ipotizzato qui una corruzione, che propone di sanare come segue: uJpe;r tou ' ge nomivmou, traducendo allora: «... in difesa della legge, di quella veramente consacrata ...»; benché non impossibile, questa soluzione non mi pare però, per forma e contenuti, né probabile né convincente.

3 o{kwsper è lezione del solo manoscritto W di Diogene Laerzio, accolto dalla maggioranza degli editori e dei traduttori, mentre i manoscritti BPFD hanno o{kwı uJpe;r, conservato per esempio da

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Schleiermacher, Bywater, Bollack-Wismann, p. 161, Kahn, p. 58, Diano-Serra, p. 48, e Conche, p. 220. Il significato dell’espressione non muta affatto, ma, come fa valere Mouraviev III, p. 53, n. 4, pur lievi ragioni legate al significato (o{kwsper sembra possedere una sfumatura comparativa che o{kwı uJpe;r non ha), allo stile (la ripetizione ravvicinata di uJpevr) e al ritmo (o{kwı uJpe;r implica una sillaba in più di o{kwsper) inducono a propendere per la prima opzione.

4 Ritengo che il presente frammento vada considerato in stretta relazione con il precedente fr. 76 [33 DK; 104 Marc.] e in ininterrotta continuità con la sua interpretazione etico-politica: si vedano perciò osservazioni e riferimenti riportati supra, nella relativa n. 3. Se il novmoı, che rappresenta senza dubbio (e senza le ambiguità che Mouraviev III, p. 53, n. 2, adduce a giustificazione della sua proposta di correzione del testo tradito, cfr. supra, n. 2) il paradigma oggettivo che riunisce e codifica i valori, i principi e le norme universali che reggono la città e le comunità umane, può consistere anche nell’obbedienza alla volontà di un unico individuo, se si tratta dell’a[ristoı, suggerisco che proprio tale «legge» sia quella in difesa della quale deve battersi il popolo, dunque curando di mantenersi, a prezzo della vita, nell’obbedienza alla volontà dei «migliori», cui competono ruoli normativi e compiti di governo, pena il sovvertimento dell’ordine costituito, la degenerazione di ogni principio e perfino la perdita della libertà se, prendendo sul serio il paragone con la difesa delle «mura della città», si tiene conto del fatto che la conquista e l’abbattimento delle mura costituivano, per le povleiı greche di quest’epoca, la manifestazione tangibile del-la sconfitta e, talvolta, della riduzione in schiavitù per gli sconfitti, donde l’esigenza, appunto vitale, della loro difesa (sul parallelismo fra la «legge» e le «mura» come simbolo, rispettivamente spirituale e materiale, della città, cfr. Diano-Serra, p. 186; eccentrica, invece, la lettura di Pradeau, p. 314, secondo il quale il senso del presente frammento sarebbe quello di esaltare il valore universale della legge, ridimensionando di fatto la funzione degli a[ristoi rispetto a essa – ma questa contrapposizione non sussiste, se «legge è anche obbedire alla volontà di uno solo» – e riponendo in essa, e non nelle mura, la forza della città – ma o{kwsper introduce un parallelismo, non una grada-zione, nella comparazione fra i due termini). Si riproduce quindi, mi pare, la prescrizione formulata già in precedenza, verosimilmente in termini più generali e dunque applicabili anche all’ambito di un’etica individuale, secondo cui è indispensabile soffocare ogni forma di u{briı, ogni «eccesso» o «dismisura» che conduca all’oltrepassamento della condizione a ciascuno imposta, per natura o per convenzione, e al superamento dei suoi limiti o confini, così inevitabilmente suscitando la minaccia della sommossa contro l’ordine costituito (cfr. il fr. 71 [43 DK; 102 Marc.], n. 4), giacché la difesa della legge esprime anche, oltre che un’immediata tutela dell’ordine costituito, un’indicazione in favore dell’«assennatezza», del swfronei 'n, di contro alla u{briı, se proprio questa è la virtù degli a[ristoi (cfr. il fr. 70b [112 DK; 23f Marc.], n. 3), nell’obbedienza ai quali consiste appunto la legge (così

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Marcovich, pp. 367-68, e Kahn, pp. 179-80). In base a questa inter-pretazione, dopo aver chiuso il cerchio dell’etica degli a[ristoi, di cui sono stati illustrati i tratti caratteriali e la condotta, a giustificarne la posizione di preminenza politica, viene introdotta nel presente e nei successivi frammenti, un’etica «della massa» (con oiJ polloiv che equivale qui a dh 'mon), che raccoglie le esortazioni e le prescrizioni che, in un orizzonte aristocratico come quello delineato da Eraclito, sono rivolte ai più per sollecitarne criticamente i comportamenti: la strenua difesa della legge, nel senso che si è detto, è compito che il popolo trascura, ma che invece dovrebbe coltivare come un assoluto dovere nel quadro politico aristocratico in cui gli è assegnato un ruolo essenzialmente subalterno.

Fr. 78 [110 DK; 71 Marc.]1

ajnqrwvpoiı givnesqai oJkovsa qevlousin oujk a[meinon.

Non è l’ideale, per gli uomini, che vada tutto come vogliono.2

1 Questo frammento è riportato da Stobeo III 1.176 (= III 129 Hense), subito dopo il fr. 11 [108 DK; 83 Marc.] e una versione del fr. 53 [95=109 DK; 110 Marc.] e prima dei frr. 17 [111 DK; 44 Marc.] e 70b [112 DK; 23f Marc.]. Non mi sembra accettabile l’ipotesi di Kahn, pp. 58-59 e 181-82, ma suggerita in precedenza da altri commentatori, di considerare il presente frammento e il fr. 17, che lo segue nella citazione di Stobeo, come un’unità: il loro accostamento «materiale» nella sequenza del citatore non implica di per sé nessuna indicazione rispetto allo loro collocazione originale (cfr. pure supra, nn. 1 e 4 al fr. 17). Il testo non presenta problemi di sorta: le correzioni parallele ajnqrwvpoiı<i> e <ej>qevlousin, proposte come ionismo (la prima) e per conservare di conseguenza il ritmo della proposizione (la seconda), non sono necessarie, cfr. Mouraviev II, p. 147.

2 L’uso del comparativo di maggioranza a[meinon (da ajgaqovı), senza che sia espresso il secondo termine di paragone, suggerisce ovviamente come sottintesa l’idea seguente: «per gli uomini non è meglio che vada tutto come vogliono (scil., è meglio che non vada tutto come vogliono)» o, più chiaramente ancora, «per gli uomini è meglio che non vada tutto come vogliono piuttosto che tutto vada come vogliono». Poiché il termine a[nqrwpoi equivale, qui come in altri casi nei materiali eraclitei superstiti (cfr. già, per esempio, il fr. 1 [1 DK; 1 Marc.]), a polloiv, credo che il presente frammento si col-lochi nel contesto dell’etica «della massa» introdotta dal precedente

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fr. 77 [44 DK; 103 Marc.], cfr. n. 4, cioè nell’ambito delle valutazioni e prescrizioni relative alle inclinazioni e ai comportamenti dei più, in opposizione ai pochi, agli a[ristoi. Eraclito inequivocabilmente conosce voglie e desideri della massa, e li disprezza come bestiali o semplicemente animali, perché dettati dalla biologia e non dagli ideali e dai principi che ispirano invece i «migliori» (cfr. solo, supra, il fr. 73 [29 DK; 95 Marc.]); ne consegue adesso, e di conseguenza, un giudizio quasi tautologico nella sua lapidaria evidenza: se tali sono le cose che «gli uomini ... vogliono», non è certo auspicabile che essi raggiungano lo scopo, giacché è anzi preferibile che i loro bassi istinti e le loro confuse e disparate tendenze rimangano insoddisfatti (così pure Conche, p. 185; contra Bollack-Wismann, p. 308, secondo i quali si dovrebbe sottintendere una premessa del genere: «non è bene che, per gli uomini, le cose non vadano come vogliono», donde la precisazione di Eraclito: «ma che le cose vadano come essi vogliono, non è meglio», giungendo così all’effetto paradossale di una neutralizzazione delle morali comuni). Si può inoltre precisare, sempre in relazione ai due precedenti frr. 76 [33 DK; 104 Marc.] e 77, che, se i molti devono atte-nersi alla legge, che a sua volta consiste nell’obbedienza alla volontà di un unico individuo (purché a[ristoı), ciò impone loro di adeguarsi alla volontà degli a[ristoi, appunto sacrificando la propria: donde una nuova giustificazione del fatto che non è opportuno che sia la volontà della massa a governare gli eventi. Con questa interpretazione con-corda Pradeau, pp. 294-95; mentre Diano-Serra, p. 179 (che rinviano in proposito a un’iscrizione fatta incidere nel tempio di Apollo a Delo e ricordata da Aristotele, Etica Nicomachea I 8, 1099a25; Etica Eudemia I 1, 1214a5-6: «la cosa più piacevole di tutte consiste nell’ottenere ciò che si desidera»), rilevano come non sia da escludere l’intenzione di capovolgere, con tono paradossale, una qualche forma proverbiale che esprima invece l’auspicio più usuale che i propri desideri siano realizzati. Kahn, pp. 58-59 e 181-82, considera questo come un unico frammento con quello che lo segue immediatamente nella serie di citazioni di Stobeo (= fr. 17 [111 DK; 44 Marc.], cfr. la nota preceden-te) e ne suggerisce di conseguenza un’interpretazione unitaria: come argomentato supra, nella n. 4 al fr. 17, una simile ipotesi non mi pare plausibile. Marcovich, p. 271, e Robinson, p. 152, ne hanno proposto invece, sulla scorta di DK, un accostamento al seguente fr. 79 [85 DK; 70 Marc.], cfr. le relative nn. 5-6, riconducendo la svalutazione della volontà e dei desideri degli uomini, qui manifestata, all’idea che tali inclinazioni irresistibili e sfrenate rischiano di compromettere la vita stessa di chi li persegue – il che è certo ragionevole, ma insufficiente, a mio avviso, come spiegazione del presente frammento.

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Fr. 79 [85 DK; 70 Marc.]1

qumw'/ mavcesqai calepovn: o} <ti>2 ga;r a]n qevlh/3, yuch'ı4

wjnei'tai.

È arduo combattere contro la passione che ribolle nel cuo-re,5 perché ciò che pretende lo compra a prezzo della vita.6

1 Questo frammento è riportato, nella forma da me accolta e stam-pata qui, da Plutarco, Coriolano 22.3, nel corso del racconto della fuga di Coriolano, sotto mentite spoglie, ad Anzio, presso l’acerrimo nemico Tullo Aufidio, già sconfitto nella battaglia di Corioli, che aveva opposto i romani ai volsci, e ora potenziale alleato per consentire a Coriolano di prendere la sua vendetta nei confronti dei romani, che lo avevano esiliato come traditore: «Marzio (Coriolano) sapeva di essere odiato da questi (scil., Tullo Aufidio) come nessun altro dei romani, perché spesso si erano minacciati e sfidati in battaglia (...). Ma conoscendo Marzio la grandezza d’animo di Tullo e il suo desiderio di vendicarsi dei romani, più di tutti gli altri fra i volsci, per le sofferenze subite, rese testimonianza a quel detto: ... (Plutarco cita qui il fr. 79). Presi dunque abito ed equipaggiamento, con cui credeva di non essere riconosciuto, come Ulisse, “penetrò nella città dei nemici” (cfr. Odissea IV 246)». Lo stesso Plutarco evoca queste parole, con lievi variazioni (cfr. la nota seguente) o in forma contratta, in De cohibenda ira 457d e in Amatorius 755d; pure Giamblico, Protrepticus 21.8, le cita, a sua volta modificandole leggermente (cfr. le due note seguenti). Una diversa e più sintetica ver-sione del presente frammento si deve invece a due citazioni aristoteliche, la prima in Etica Eudemia II 7, 1223b23, nell’ambito di un’analisi dei modi in cui si possono controllare e moderare i desideri: «Lo stesso discorso vale anche per l’ira, giacché sembra che vi siano intemperanza e moderazione anche dell’ira, come del desiderio, ed è penoso opporsi all’ira e la si può trattenere solo con la forza, sicché, se ciò che si compie con la forza è controvoglia, allora ciò che asseconda l’ira sarà del tutto volontario. Anche Eraclito sembra intendere, prestando attenzione alla violenza dell’ira, che ostacolarla è penoso. Dice infatti: calepo;n qumw '/ mavcesqai: yuch'ı ga;r wjnei'tai»; la seconda in Politica V 11, 1315a30, in seguito a una rassegna dei rischi che corre il tiranno di subire attentati alla propria vita: «Perciò deve guardarsi (scil., il tiranno) in particolare da chi giudica di aver subito un torto, personalmente o in qualcuno che gli sia caro, perché in tal caso non si tira indietro chi aggredisce in preda all’ira, come anche Eraclito ha detto, affermando che calepo;n ... qumw'/ mavcesqai: yuch 'ı ga;r wjnei 'tai» (nell’Etica Nicomachea II 2,1105a7, di nuovo nel contesto di un esame della natura dei piaceri, si trova una reminiscenza delle parole di Eraclito, che vengono di fatto corrette da

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Aristotele, che nota come sia perfino più arduo combattere contro il piacere che non, come sostiene Eraclito, contro il qumovı; solo Mouraviev I, p. 32, e III, p. 15, ma dubitativamente, e Pradeau, pp. 171-72 e 293-94, con un curioso fraintendimento del passo aristotelico, ritengono si abbia qui un frammento eracliteo distinto, che introdurrebbe un approfondimento del precedente: se «è arduo combattere contro il qumovı», «è ancora più arduo combattere contro il piacere»; ma è del tutto evidente che questa è la tesi che sta sviluppando Aristotele, non Eraclito, nei cui materiali superstiti non vi è traccia di una riflessione relativa alla natura e alla «gestione» della hJdonhv). Come si vede l’unica sostanziale differenza fra le versioni di questo fr. 79 riportate da Plutarco (e da Giamblico) e da Aristotele riguarda la proposizione relativa o} <ti> ga;r a]n qevlh/, presente in Plutarco (e in Giamblico) e assente in Aristotele: vi sono dunque, fra gli editori e i traduttori, alcuni che si attengono alla citazione plutarchea e giamblichea (e, fra le due, all’una o all’altra, cfr. infra, n. 3), e si tratta della maggior parte, e altri che invece seguono la citazione aristotelica. Le motivazioni di questi ultimi (cfr. per esempio, di recente, Bollack-Wismann, p. 253, Conche, p. 350, e Pradeau, pp. 170-71 e 292-93) hanno a che fare con la maggiore antichità, e vicinanza all’originale, di Aristotele e con la convinzione che, espungendo o} <ti> ga;r a]n qevlh/ come un’interpolazione (ma cfr. infra, n. 3), il frammento risulterebbe più conciso e perciò più consono allo stile di Eraclito; chi si affida invece alla citazione plutarchea, a mio avviso con ragione, si limita a constatare che Plutarco ripropone per tre volte, in opere diverse, le parole di Eraclito e sempre nella stessa forma, il che fa pensare che egli ne conoscesse un’unica versione, non richiamata estemporaneamente e a memoria, come potrebbe essere piuttosto il caso, del resto non infrequente, di Aristotele, ma sulla base di un testo affidabile; non va trascurato infine il fatto che l’uso assoluto del verbo conclusivo wjnei 'sqai nella citazione aristotelica, senza complemento oggetto, sembra problematico e, per quanto non impossibile, piuttosto inconsueto. A testimoniare l’influenza del presente frammento, o forse, piuttosto, il suo contenuto proverbiale (cfr. infra, n. 5), sta anche Democrito, fr. 236 DK: «È arduo combattere contro il qumovı, ma vincerlo è proprio dell’uomo ragionevole».

2 Il pronome indefinito <ti> è assente da Plutarco, Coriolano 22.3 (e non è dunque accolto, per esempio, da DK, Kahn, p. 76, Diano-Serra, p. 42, e Robinson, p. 52), ma è stato congetturato qui, sulla base delle altre citazioni plutarchee e giamblichea in cui è presente, da Marcovich, p. 267, n. 2, seguito da Mouraviev I, p. 219. Al di là del fatto che si trova in tre citazioni su quattro, il ti non apporta sensibili modifiche al significato della proposizione relativa.

3 qevlh/ (o qelhvsh/) è lezione che si trova nelle tre citazioni plutarchee, mentre Giamblico ha l’equivalente (per significato) crh/vzh/, conservato per esempio da Bywater e pochi altri; l’intera relativa o} <ti> ga;r a]n qevlh/, come segnalato supra, n. 1, è omessa da Aristotele. Nonostante Conche, p. 350, che giudica questa divergenza come una conferma del carattere di interpolazione della proposizione, è piuttosto vero il contrario: come ha lucidamente rilevato Mouraviev III, p. 104, n. 1, infatti, la presenza di due lezioni diverse, ma di senso concordante, per

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lo stesso membro di frase, fornisce senza dubbio una prova in favore dell’autenticità piuttosto che contro.

4 Le due citazioni aristoteliche riportano in questo punto gavr, che è ovviamente assente dalle citazioni plutarchee e giamblichea nelle quali compare poco prima, nell’ambito della proposizione relativa (o} <ti> ga;r a]n qevlh/) che Aristotele omette (cfr. supra, n. 1).

5 Il problema principale che si pone per la traduzione e l’interpreta-zione del presente frammento riguarda l’esatto significato dei termini qumovı e yuchv, fra loro in relazione, che coprono, nella lingua greca arcaica, un’area semantica piuttosto vasta. Il termine qumovı può indicare infatti l’«anima» come sede dell’intelletto e del raziocinio oppure delle passioni (= il «cuore»), ma anche, e direttamente, una delle specifiche passioni che in essa sorgono, dall’«ira», come indubbiamente s’intende nelle citazioni aristoteliche e, in senso appena meno immediato, nelle altre indicate supra, nella n. 1, e fino al «coraggio»; mentre il termine yuchv può alludere tanto all’«anima», in senso tecnico o filosofico, come per esempio nei frammenti «psicologici» raccolti supra, nella Sezione 5, quanto, più genericamente, alla «vita» o alla «forza vitale», di cui l’anima è il principio. La traduzione di quest’ultimo termine è perciò meno problematica, perché «comprare a prezzo della vita», se l’anima è appunto principio vitale, equivale a «comprare a prezzo dell’anima» (o viceversa). Non giungerei però a dedurre dall’impiego del termi-ne yuchv un’interpretazione propriamente «psicologica» del presente frammento, cioè tale per cui l’anima in preda al qumovı, le cui funzioni superiori e di controllo quindi si affievoliscono, transita da uno stato «secco» e «asciutto», quello della piena efficienza intellettuale e opera-tiva dell’anima migliore (cfr. supra, il fr. 64 [118 DK; 68 Marc.], specie n. 2), a uno stato «umido» e «acquoso», quello dell’indebolimento, più o meno reversibile, delle funzioni razionali e coscienti (cfr. supra, il fr. 63 [117; 69 Marc.], specie n. 2), che costituisce un’anticipazione o un avvicinamento alla condizione della morte (che, per l’anima, consiste nel «divenire acqua», cfr. supra, il fr. 62 [36 DK; 66 Marc.], specie n. 2; e l’Introduzione, § 4.5), sicché sarebbe in tal senso, ossia in quanto implica un’«umidificazione» dell’anima, che il sopravvento del qumovı comporta il rischio di perdere la vita: così intendono invece, benché con accenti diversi, Marcovich, p. 270, Kahn, p. 243, e Conche, pp. 352-53. Beninteso, «imporsi» o «cedere» al qumovı chiama in causa certamente l’intervento di una sfera intellettuale e razionale che lo domini o ne sia dominata ed è altrettanto evidente, quasi un luogo comune (di carattere «proverbiale» delle parole di Eraclito parla Marcovich, p. 269, che evoca anche alcuni possibili paralleli nella letteratura arcaica e classica), che un simile conflitto è tanto difficile quanto pericoloso (calepovn) per la sua asprezza, perché produce uno sconvolgimento nell’anima e suscita di conseguenza un rischio per la vita di cui l’anima è il principio – il che spiega, simmetricamente, in che senso il qumovı «ciò che pretende lo compra a prezzo della vita», se il suo impulso smodato di dominio mira a sottomettere le funzioni psichiche superiori e di controllo, sovvertendo così l’equilibrio dell’anima; e non è improbabile, nell’economia della «psicologia» eraclitea, che ciò supponga un grado

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di minore «asciuttezza» (e dunque efficienza, efficacia e pienezza intel-lettuale) e di maggiore «umidità» (e dunque passione, sconvolgimento e morte) dell’anima, ma non credo che questa tesi sia immediatamente presupposta dal presente frammento né che ne costituisca il tema (cfr. pure in tal senso Diano-Serra, p. 180). Per quanto riguarda invece il termine qumovı, nonostante l’inequivoca testimonianza dei citatori (cfr. ancora supra, n. 1), mi pare più plausibile intenderlo in riferimento alle «passioni» che sorgono violente nell’anima e, contemporaneamente, alla «sede» in cui sorgono (= il «cuore»), piuttosto che al più ristretto «ira», perché, fra l’altro, al qumovı è attribuita qui una «pretesa» che scaturisce da un atto di «volontà» (qevlh/) tout court, cioè da un insieme di volizioni e desideri plurali e complessi che appaiono più consoni a un ambito passionale altrettanto plurale e complesso (sulla stessa linea Bollack-Wismann, pp. 253-54, Marcovich, pp. 269-71, Robinson, pp. 134-35, Pradeau, pp. 171 e 292-93, e Mouraviev I, p. 219, e III, p. 104, nn. 2 e 4, che fa notare inoltre che il termine qumovı nel senso di «ira» non pare attestato prima di Sofocle; si vedano, contra, Kahn, pp. 77 e 241-42, che argomenta in favore di qumovı come «anger», ma fornisce tuttavia, come sua traduzione, «passion», e Conche, p. 351). A questo proposito, Kahn, p. 242, ha proposto un’osservazione interessante, ma non convincente: qumovı deve indicare necessariamente l’«ira», e non genericamente la «passione», perché, mentre l’«ira» conduce sempre agli esiti fatali e perciò riprovevoli (come per esempio l’ira di Achille, che determina di fatto la morte di Patroclo) che Eraclito denuncerebbe qui, la «passione» può anche indurre ad azioni nobili e ammirevoli (come per esempio la passione che spinge Achille a vendicare la morte di Patroclo) che certo Eraclito non condannerebbe; si può tuttavia rilevare che Eraclito sem-bra giudicare nel presente frammento la violenza e la pericolosità del qumovı, e la difficoltà di dominarlo o gestirlo, indipendentemente dalla valutazione delle azioni e dei comportamenti che esso suscita, e ciò non impedisce pertanto che vi siano «passioni» che, ispirate e orientate da ideali e principi (per esempio quelli degli a[ristoi del fr. 73 [29 DK; 95 Marc.] o di Achille che, nel vendicare Patroclo, aderisce pienamente a un paradigma etico diffuso e condiviso dagli eroi omerici) e così sottoposte al controllo di una sfera etica e psichica superiore, possono sostenere le imprese più alte e degne.

6 Un’ulteriore difficoltà che si pone, tanto per la traduzione quanto per l’interpretazione del presente frammento, riguarda la sua sintassi. J. Mansfeld, Heraclitus fr. B 85 DK, in «Mnemosyne» 45 (1992), pp. 9-18, ha segnalato infatti che vi sono tre distinte opzioni sintattiche e di comprensione delle parole di Eraclito, a seconda del soggetto, che rimane ambiguo, cui si attribuiscono rispettivamente il qumovı e la yuchv e del valore del dativo qumw/': (1) «è arduo combattere contro la passione <altrui>, perché ciò che pretende lo compra a prezzo della <propria> vita», vale a dire che è pericoloso battersi contro chi è in preda alla pas-sione, perché costui è pronto a sacrificare la propria vita; (2) «è arduo combattere in preda alla <propria> passione, perché ciò che pretende lo compra a prezzo della <propria> vita», vale a dire che chi è in preda alla passione si trova più esposto, in battaglia come in qualunque altra

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impresa, al rischio della vita, perché evidentemente meno lucido e più temerario; (3) «è arduo combattere contro la <propria> passione, perché ciò che pretende lo compra a prezzo della <propria> vita», vale a dire che è difficile battersi contro la propria passione, perché questa suscita turbamenti e sconvolgimento nell’anima. Ora, al di là dell’effettiva legitti-mità da un punto di vista grammaticale e sintattico, l’opzione (2) mi pare attribuire alle parole di Eraclito un significato francamente innaturale; l’opzione (1), teoricamente possibile (e infatti senza dubbio presupposta dalla citazione aristotelica di Politica V 11, 1315a30, cfr. supra, n. 1), fa emergere un significato descrittivo che si rivela a mio avviso plausibile, ma non del tutto soddisfacente (se «è arduo combattere contro la passione <altrui>, perché ciò che pretende lo compra a prezzo della <propria> vita», se ne dovrebbe forse ricavare, prescrittivamente, che è meglio non ingaggiare battaglia con avversari in preda alla passione?), a meno che non si voglia attribuire a Eraclito una sorta di «fenomenologia» della massa, che si limita a denunciare la potenza trascinante e incontrollabile dei molti, che sono guidati soltanto dalle passioni irrazionali e ai quali si rivela difficile opporsi; mentre l’opzione (3) è quella, descrittiva e insieme prescrittiva, più ovvia e sensata (recepita, infatti, in tutte le altre citazioni, cfr. ancora supra, n. 1), sulla quale tornerò fra breve. Mouraviev III, pp. 104-05, complica ulteriormente il quadro moltiplicando le opzioni di lettura: «è arduo combattere (1a) contro / (1b) in favore di o in difesa di / (1c) in una condizione di passione, (2a) propria / (2b) altrui, perché ciò che pretende – ma (3) cosa pretende? – lo compra a prezzo (4a) della vita / (4b) dell’anima, (5a) propria / (5b) altrui». Le complicazioni così sollevate sono eccessive: per quanto riguarda la (1), la (1a) è evidente-mente la più plausibile, perché il dativo d’interesse (1b) introdurrebbe una valorizzazione della passione che è sicuramente fuori luogo e il dativo locativo (1c) condurrebbe a un’interpretazione, come già detto, innaturale; per quanto riguarda la (2), se il presente frammento contiene una prescrizione relativa agli stati passionali, questa deve essere rivolta a chi, recependola, può modificare tali stati passionali, il che è possibile solo se si tratta degli stati passionali suoi (2a) e non di altri (2b); per quanto riguarda la (3), non credo sussistano dubbi sul fatto che «ciò che la passione pretende» consiste evidentemente nel suo soddisfacimento, cioè nella sua realizzazione, cui è difficile opporsi se questo conflitto può costare (4a-b) la vita o l’anima, nel senso del principio vitale, appunto perché la passione, con la sua violenza pervasiva, sconvolge l’individuo a partire (5a) dal suo principio vitale. Che lo stile eracliteo sia volutamente ellittico, e susciti perciò una serie di ambiguità, è fuori discussione; ma lo è altrettanto, credo, il fatto che la lettura proposta sia la più plausibile e naturale né, del resto, alcun editore, traduttore o commentatore contem-poraneo ne difende, almeno esplicitamente, una diversa. Così inteso, il presente frammento implica probabilmente, sulla linea del precedente fr. 78 [110 DK; 71 Marc.], cfr. n. 2, l’espressione di una netta e veemente disapprovazione delle inclinazioni e della volontà della massa dei più che, trascinati alla deriva dalle passioni violente e privi della guida della deliberazione che ispira invece le scelte degli a[ristoi, finiscono per alimentare la sfera irrazionale delle più basse tendenze animali che,

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senza freno né regola, giungono a impadronirsi dell’intera esistenza e a mettere a repentaglio la stessa vita di chi vi si abbandona, mentre Era-clito mira a dare risalto al precetto etico contrario, quello ispirato alla scelta dei «migliori», che può anch’esso condurre al sacrificio della vita, ma non in nome delle passioni, bensì della «gloria eterna» (cfr supra, il fr. 73), delle «sorti più illustri» (cfr. supra, il fr. 74 [25 DK; 97 Marc.]) o dell’onore tributato da «dei e uomini» (cfr. supra, il fr. 75 [24 DK; 96 Marc.]), che, anzi, alle passioni e alle voglie più immediate e basilari della massa si contrappongono decisamente: donde, di nuovo circolarmente, la prescrizione ai molti di dedicare la vita, ed eventualmente rischiare di perderla, non per assecondare le passioni, ma per difendere la legge (cfr. supra, il fr. 77 [44 DK; 103 Marc.]), che coincide con il paradigma valoriale degli a[ristoi (cfr. supra, il fr. 76 [33 DK; 104 Marc.]).

Fr. 80 [22 DK; 10 Marc.]1

cruso;n2 oiJ dizhvmenoi gh'n pollh;n ojruvssousi kai; euJrivskou-

sin ojlivgon.

Quelli che cercano l’oro smuovono molta terra e ne trovano ben poco.3

1 Questo frammento è riportato da Clemente Alessandrino, Stromateis IV 4.2 (= II 249 Stählin), che intende illustrare il carattere vario e in qualche misura antologico della sua opera, con queste parole: «Queste note passano da un argomento all’altro e si richiamano all’uno o all’al-tro svolgimento del nostro discorso, ma ben altro è ciò che rivelano. Come dice infatti Eraclito, ... (Clemente cita qui il fr. 80); ma quelli che appartengono alla stirpe dell’oro autentico e che scavano in cerca di ciò che è loro proprio, questi troveranno molto nel poco e il nostro lavoro avrà almeno un lettore ben disposto». Identica citazione in Teodoreto, Graecarum affectionum curatio I 88.

2 Secondo Mouraviev III, p. 32, n. 2, bisognerebbe conservare, in ragione del ritmo della frase, il gavr presente in questo punto in Clemente, ma omesso in Teodoreto, che altri considerano invece come parte del contesto del citatore e non della citazione eraclitea. Come spesso in casi prece-denti, sono piuttosto incline a condividere quest’ultimo punto di vista.

3 Il presente frammento può essere inteso tanto in senso positivo, a elogiare la fatica che si compie scavando alla ricerca dell’oro, che è premiata dallo straordinario pregio di questo metallo, anche se lo si trova in piccole quantità (che è il significato che gli attribuiscono i citatori, cfr. supra, n. 1),

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quanto in senso negativo, a ridicolizzare invece tale sforzo, questa volta giudicato eccessivo, in quanto consegue un ben misero successo (analoga alternativa di lettura, che coinvolge ancora il valore dell’«oro», si pone nel caso del seguente fr. 81 [9 DK; 37 Marc.], cfr. n. 5). Nel primo caso, avrebbe il valore di un’esortazione a prefiggersi gli obiettivi più alti e più nobili, a qualunque prezzo e indipendentemente dalla loro apparenza o quantità; nel secondo, di una critica rivolta a quanti, per l’incapacità di giudicare correttamente la misura e la qualità dei propri scopi, si perdono in vane imprese, il cui esito è del tutto sproporzionato rispetto alle azioni intraprese. Mi pare che in entrambi i casi sia plausibile collocare queste parole nel contesto dell’etica «della massa» che, fin dal fr. 77 [44 DK; 103 Marc.], cfr. n. 4, raccoglie prescrizioni e valutazioni che Eraclito esprime in relazione alle inclinazioni e ai comportamenti dei più, o nella forma di un invito a emendare desideri e passioni inferiori che li caratterizzano (cfr. i precedenti frr. 78 [110 DK; 71 Marc.] e 79 [85 DK; 70 Marc.]), per scegliere con cura e ponderata deliberazione i traguardi degni di essere perseguiti (presumbilmente aderendo al paradigma degli a[ristoi, cfr. supra, i frr. 73 [29 DK; 95 Marc.], 74 [25 DK; 97 Marc.] e 75 [24 DK; 96 Marc.]), dunque seguendo l’esempio dei cercatori d’oro e dedicandovi ogni sforzo, oppure come una critica sferzante delle deviate inclinazioni della massa e delle sue, di volta in volta ridicole o drammatiche, conse-guenze, che riducono i più in una perenne condizione di affanno e di ricerca vagabonda, in vista di esiti inconsistenti e privi di valore, come i cercatori d’oro, in tal caso da stigmatizzare per la loro infruttuosa avidità. La gran parte dei commentatori propende per un’interpretazione positiva di questo frammento, basandosi soprattutto sul significato di ojlivgon come «piccolo, ma prezioso» (o «poco in quanto raro»), ma in riferimento alle difficoltà (grandi) e ai risultati (solo apparentemente piccoli) della ricerca del sapere: così Marcovich, p. 28, Kahn, p. 105, Conche, pp. 95-96, Robin-son, p. 91, e Pradeau, p. 256 (più sfumata la posizione di Diano-Serra, p. 180). Credo invece che le due opzioni evocate siano entrambe legittime e possibili e che una lettura «etica» del frammento sia la più plausibile.

Fr. 81 [9 DK; 37 Marc.]1

... o[nouı2 suvrmat j3 a]n eJlevsqai ma'llon4 h] crusovn.

... gli asini sceglierebbero la paglia piuttosto che l’oro.5

1 Questo frammento è riportato da Aristotele, Etica Nicomachea X 5, 1176a7, nell’ambito di un’indagine sulla natura dei piaceri e constatando che ogni specifico piacere è proprio di uno specifico soggetto, con queste

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parole: «Si ritiene che ogni animale abbia un piacere proprio, così come ha una funzione propria, perché il piacere è conforme a questa attività. Ciò risulta chiaramente dall’osservazione di ogni animale: il piacere del cavallo è diverso da quello del cane e da quello dell’uomo, come dice anche Eraclito che ... (Aristotele cita qui il fr. 81); per gli asini, infatti, il cibo è più gradevole dell’oro». Citazioni pressoché identiche da parte di alcuni commentatori di Aristotele: cfr. Michele Efesio, In Ethicam Nic. 570.21 Heylbut, e Eliodoro, In Ethicam Nic. 219.13 Heylbut.

2 o[nouı, al plurale, si trova nei manoscritti KbO1 di Aristotele, in Michele Efesio e in Eliodoro, mentre il manoscritto Lb di Aristotele e la versione latina di Eliodoro hanno il singolare e il manoscritto Mb di Aristotele l’implausibile oi|on. La scelta del plurale si giustifica per ragioni paleografiche, supponendo una corruzione dall’originale o[nouı suvrmat in o[nou suvrmat∆, con soppressione del primo s, quindi in o[non suvrmat j, per ripristinare una sintassi corretta, infine in oi|on suvrmat∆, cfr. Marcovich, p. 133; Mouraviev III, p. 17, n. 1, ha fatto tra l’altro notare che tutti i riferimenti agli animali, nei materiali eraclitei superstiti, sono al plurale. Lo stesso Mouraviev I, p. 35, sulla scorta di altri editori e per ristabilire l’oratio recta originale in luogo dell’oratio obliqua della cita-zione aristotelica, propone il nominativo o[noi (e naturalmente, subito oltre, l’ottativo e{lointo invece dell’infinito eJlevsqai).

3 suvrmat j è lezione dei manoscritti di Aristotele e di Michele Efesio, mentre il manoscritto Mb di Aristotele porta a{rmat j(= «carri», da traino o da corsa, evidentemente fuori contesto), di cui Lloyd-Jones e Kirk, pp. 82-83 hanno proposto rispettivamente le correzioni savrmat je surmaiva (che però significano piuttosto, e meno plausibilmente, «spazzatura» e «acqua purgativa»).

4 ma 'llon è lezione che si trova in Aristotele, mentre è omesso da Michele Efesio.

5 Al di là del significato preciso del termine suvrma («paglia», «strame», «fieno», «foraggio»), si tratta evidentemente di un alimento gradito agli asini e non commestibile per gli esseri umani, per gli «amanti dell’oro» che costituiscono l’indubbio, benché tacito, termine di paragone rispetto agli asini (ampia discussione in Conche, pp. 420-21). Nuovamente, come nel caso del precedente fr. 80 [22 DK; 10 Marc.] e nel quadro dell’inter-pretazione «etica» che ne ho proposto (per la quale si veda la relativa n. 3), sono possibili due letture alternative e simmetriche del presente frammento: l’una, positiva, che implica un apprezzamento della scelta «naturale» degli asini, che prediligono il cibo, rispetto alla scelta «contro natura» degli uomini, che aspirano all’oro per avidità; l’altra, negativa e forse più plausibile, che suppone invece una svalutazione della scelta degli asini, che si limitano per meschinità ad accontentarsi del piacere immediato del cibo, rispetto alla scelta più difficile, da parte dei viventi «superiori» come l’uomo, delle cose preziose, dell’oro, che porta alla rinuncia alla soddisfazione immediata delle inclinazioni «naturali». Credo perciò si possa cogliere qui una nuova eco della critica delle scelte dei più che, accecati da false aspirazioni e desideri, fraintendono sistematicamente la corretta gerarchia dei principi e dei valori per i quali vale la pena «mettersi in cerca» (cfr. i frr. 78 [110 DK; 71 Marc.] e 79 [85

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DK; 70 Marc.]) e si riducono perciò, nel primo caso, in una condizione perfino inferiore a quella degli asini, che seguono almeno le tendenze «naturali», e, nel secondo caso, come detto a mio avviso più plausibile, a una condizione analoga a quella degli asini, come animali che non badano che a riempirsi lo stomaco e non mirano a obiettivi più alti e più degni della loro natura umana (con un rimando, ancora, ai frr. 73 [29 DK; 95 Marc.], 74 [25 DK; 97 Marc.] e 75 [24 DK; 96 Marc.]): mi pare che proprio quest’ultima sia del resto l’intenzione di Aristotele, nella sua citazione (cfr. supra, n. 1), quando sottolinea che ogni animale ha il suo piacere appropriato, sicché per gli asini è appropriato «scegliere la paglia piuttosto che l’oro», perché il loro piacere consiste solo nel nutrimento, evidentemente suggerendo che gli uomini dovrebbero invece preferire l’oro, cioè un materiale prezioso per il suo valore, perché il loro piacere e la loro natura consistono nell’aspirare a ideali più elevati, anche sacrificando le esigenze «biologiche» più immediate. Stabilendo un parallelo con il fr. 31 [61 DK; 35 Marc.], in cui è evocato il caso dell’ac-qua marina, potabile per i pesci e mortale per gli uomini (ma per la sua interpretazione, si veda la relativa n. 2), Kirk, pp. 83-84, Marcovich, p. 134, Kahn, pp. 186-88, e Robinson, p. 81, collocano il presente frammento nell’ambito della teoria eraclitea dell’unità dei termini opposti, e come sua nuova esemplificazione: ma se «l’acqua marina è potabile per i pesci e mortale per gli uomini» (fr. 31), si dovrebbe allora intendere qui che «la paglia si adatta agli asini e non agli uomini», mentre «l’oro si adatta agli uomini e non agli asini», così producendo, mi pare, una duplice difficoltà, innanzitutto per l’introduzione di due elementi, in luogo di uno soltanto (la «paglia» e l’«oro» in luogo dell’«acqua marina»), che non sono opposti fra loro né ineriscono a un terzo termine come sue opposte proprietà né, viceversa, si pongono, ciascuno, come soggetto di opposte proprietà (come «potabile-non potabile» e «salutare-mortale» ineriscono a «acqua marina» o, viceversa, «acqua marina» è soggetto di «potabile-non potabile» e «salutare-mortale»), ma che sono sempli-cemente diversi fra loro e in relazione a soggetti diversi, gli asini e gli uomini – il che non determina, in senso stretto, nessuna opposizione o reciproca implicazione di termini opposti, appunto in quanto mancano tanto i termini opposti quanto un terzo termine rispetto al quale essi si pongano come opposte proprietà; in secondo luogo, per il fatto che l’oro, per gli uomini, non vale certo allo stesso titolo della paglia per gli asini, cioè come alimento, al contrario dell’«acqua marina» del fr. 31, che, in quanto «acqua», può fungere da esempio di bevanda per i pesci come per gli uomini (si vedano però, per una ricostruzione d’in-sieme della tesi dell’unità dei termini opposti, l’Introduzione, § 4.2, e la Nota introduttiva alla Sezione 2; e, per un caso analogo, il seguente fr. 82 [13 DK; 36 Marc.], n. 4). Probabilmente in ragione di una simile incongruenza, Bollack-Wismann, p. 81, Conche, pp. 421-22, e Pradeau, pp. 201-02, tendono piuttosto a sottolineare il relativismo, non privo di conseguenze etiche, che emerge da queste parole nell’ambito della riflessione eraclitea, ma cfr. in proposito l’Introduzione, § 4.6. Sull’in-troduzione del parallelo con gli animali, già stabilito in forma generale nel fr. 73, cfr. n. 7, e ulteriormente sviluppato nei successivi frr. 82, 82a

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[4 DK; 38 Marc.], 83 [11 DK; 80 Marc.] e 84 [97 DK; 22 Marc.], e sul suo significato, cfr. ancora l’Introduzione, § 4.6, e la Nota introduttiva a questa Sezione 6.

Fr. 82 [13 DK; 36 Marc.]1

u{eı2 borbovrw/ h{dontai3 ma'llon h] kaqarw'/ u{dati.

I maiali se la godono più nel fango che nell’acqua pulita.4

1 Questo frammento è riportato da Clemente Alessandrino, Stroma-teis I 2.2 (= II 4 Stählin), a illustrare la difficoltà della vera conoscenza e la rarità di quanti riescono ad accedervi: «Se appunto la conoscenza non è di tutti, le opere scritte sono per i più come l’asino e la lira, secon-do il proverbio; per esempio, ... (Clemente cita qui il fr. 82). “Se mi rivolgo a loro in parabole”, dice il Signore, “è perché vedano senza vedere, intendano senza intendere e comprendere”» (l’immagine dell’asi-no e della lira, o più esattamente dell’asino che si colloca lontano dalla lira, simboleggia la lentezza e la scarsa intelligenza che appunto sono estranee alla competenza e all’abilità richieste dalla lira); e di nuovo, senza variazioni, in Protrepticus 92.4 (= I 69 Stählin): né nell’uno né nell’altro passo, però, Clemente menziona Eraclito (ulteriore allusione, ma in termini più vaghi, in Stromateis II 68.3 [= II 149 Stählin]). Per il loro carattere proverbiale (forse già attestato prima di Eraclito e dun-que, in tal caso, da lui piuttosto ripreso che introdotto ex novo, cfr. Marcovich, p. 131), queste parole si trovano evocate da numerosi e diversi autori (per esempio da Democrito, fr. 147 DK) e in contesti altrettanto numerosi e diversi (per esempio nell’immagine, verosimil-mente di origine orfica, della condizione dell’anima che, se non è pura, finisce immersa, dopo la morte del corpo, nel fango, cfr. Platone, Phaed. 69c e Resp. VII 533d; Plotino, Enneadi I 6 [1] 6.3), di cui Marcovich, pp. 129-31, e Mouraviev I, p. 99, forniscono una lista ragionata; l’unica citazione, parziale, in cui compaia il nome di Eraclito si trova in Ateneo, Dipnosophistae V 178f, che a sua volta si appella all’autorità di Aristo-tele (= fr. 100 Rose3): «Sarebbe infatti sconveniente, dice Aristotele, giungere a un banchetto tutti sudati e impolverati, perché la persona educata non deve essere né sporca né sciatta né “godersela nel fango” (borbovrw/ caivrein), secondo Eraclito». Dal confronto fra i passi di Cle-mente Alessandrino e quello di Ateneo si trae dunque l’attribuzione a Eraclito di una citazione di cui il passo di Ateneo riporta soltanto due parole (borbovrw/ caivrein), una delle quali diverge dalla corrispondente di Clemente (caivrein per h{dontai) e costituisce perciò l’unica eventua-

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le alternativa a essa (cfr. infra, n. 3). Al presente frammento, e come sua semplice reminiscenza parzialmente parafrasata e ampliata, riconduco, con Kirk, pp. 76-77, Bollack-Wismann, p. 147, Marcovich, p. 130 (fr. 36c1), Robinson, p. 105, e Pradeau, p. 202, il fr. 37 DK, riportato da Columella, De re rustica VIII 4.4: «... se almeno crediamo a Eraclito di Efeso, che dice sues caeno, cohortales aves pulvere (vel cinere) lavari»; come si vede, parte della citazione di Columella riproduce sostanzialmente, in versio-ne latina, una porzione del testo greco (sues caeno ... lavari, «i maiali si lavano nel fango»), proponendone poi, come inciso, uno sviluppo (cohor-tales aves pulvere [vel cinere], «i volatili da cortile nella polvere [o nella cenere]»). Ora, nonostante a difesa dell’autenticità di questa citazione si siano espressi Kahn, pp. 62-63, Diano-Serra, pp. 44-45 e 183 (entrambi assai dubitativamente), e soprattutto Conche, p. 418, che, accentuandone i tratti peculiari, si è sforzato di marcarne l’autonomia dal presente frammento (sia per lo sviluppo che ne suggerisce in rife-rimento ai «volatili da cortile», sia rispetto alla sostituzione di h{dontai o caivrein con lavari), mi pare invece abbastanza plausibile che Colu-mella, che ha appena raccomandato di deporre polvere o cenere pres-so le pareti dei cortili, per consentire ai volatili di lavarsi le piume e le penne come sono soliti fare, ricordi le parole di Eraclito in riferimento al modus operandi delle specie animali che hanno, ciascuna, un elemen-to preferito in cui dilettarsi, verosimilmente a differenza degli uomini che prediligono l’acqua pulita: a questo scopo gli è sufficiente evocare il caso dei maiali e del loro rapporto con il fango con le sole parole sues caeno ... lavari correttamente riferite a Eraclito, per poi applicarne l’indicazione alla specie dei volatili, e alla polvere o alla cenere in cui si lavano, di cui si stava occupando poco prima; la sostituzione di h{dontai o caivrein con lavari non è neanch’essa significativa: già Eraclito inten-de il piacere tratto dai maiali nel fango, e non nell’acqua, come eviden-temente connesso al loro modo di lavarsi, e la scelta di Columella ha altrettanto evidentemente il fine di risultare più coerente con il discor-so che stava svolgendo, relativo al lavaggio dei volatili, e non al piacere da essi tratto nella polvere o nella cenere. Una ricostruzione alternati-va a quella proposta, e assai più generosa per la quantità di materiali riconosciuti come autentici, è quella che presenta Mouraviev I, pp. 46 e 99-100, e III, pp. 21 e 47: per quanto riguarda il presente frammento, innanzitutto, egli considera le citazioni di Ateneo e di Clemente Ales-sandrino come fra loro indipendenti e di contenuto diverso e individua nel passo di Ateneo non solo le due parole indicate sopra (borbovrw/ caivrein), ma un’intera frase riconducibile a Eraclito per il tramite di Aristotele (catalogata come fr. 13, che in DK corrisponde, più mode-stamente, alle due sole parole giudicate autentiche nella citazione di Ateneo integrate dalla – o a integrare la – citazione di Clemente): <mh;> dei' [ga;r to;n] carievnta [mhvte rJupa 'n mhvte aujcmei 'n mhvte] borbovrw/ caivrein, «la persona educata non deve [infatti essere né sporca né sciatta né] godersela nel fango», che naturalmente, così formulata, si rivela incompatibile con la citazione di Clemente; quest’ultima, a sua volta, viene associata al fr. 37 DK trasmesso da Columella, ritenuto anch’esso autentico nella sua interezza (sues caeno, cohortales aves

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pulvere [vel cinere] lavari), del quale Mouraviev propone inoltre una retroversione in greco cui fa seguire infine, come ultimo membro di frase, la conclusione della citazione di Clemente Alessandrino (ma 'llon h] kaqarw '/ u{dati), con l’esito che segue (catalogato come fr. 37, che in DK corrisponde alla sola citazione di Columella): «I maiali si lavano nel fango, i volatili da cortile nella polvere (o nella cenere), piuttosto che nell’acqua pura». Questo ingegnoso pastiche, tuttavia, poggia a mio avviso su una serie di non sequitur che producono un pericoloso circo-lo vizioso. Sembra infatti che Mouraviev prenda le mosse da una sorta di pregiudizio esegetico che consiste nell’assumere a priori la diversità fra le citazioni di Ateneo e di Clemente Alessandrino, considerate l’una indipendentemente dall’altra, per dedurne l’autonomia, e un’estensio-ne altrimenti immotivata, della prima, invece di procedere in senso contrario, come sarebbe corretto, cioè dalla determinazione dell’esten-sione della citazione di Ateneo, anche in base al confronto con quella di Clemente, all’accertamento della sua eventuale autonomia da quest’ul-tima. Infatti, se Clemente cita per due volte un’espressione compiuta in se stessa e dall’estensione ben definita, della quale in Ateneo com-paiono con ogni evidenza due sole parole, e in un contesto complicato dall’ulteriore passaggio, fra il citatore (Ateneo) e la citazione (Eraclito), di un intermediario (Aristotele) a sua volta citato in esteso, in modo che non è chiaro quali siano i confini fra ciò che va attribuito all’inter-mediario (Aristotele) e ciò che va attribuito alla citazione (Eraclito) – ebbene, non è in tal caso più plausibile utilizzare la citazione di Cle-mente per stabilire i limiti della citazione di Ateneo (e utilizzare la citazione di Ateneo soltanto per la menzione del nome di Eraclito ed eventualmente per la scelta fra caivrein e h{dontai)? D’altra parte, se si prendono invece le mosse dal passo di Ateneo di per sé, indipendente-mente dal confronto con il passo di Clemente, quasi fosse assunto già ciò che va chiarito, cioè la reciproca relazione o estraneità fra due passi, è davvero legittimo, e in nome di quale criterio metodologico, limitarsi alla selezione effettuata da Mouraviev e segnalata sopra, escludendo i termini espunti, con l’argomento alquanto soggettivo e di comodo che essi «ont tout l’air d’être une amplification aristotélicienne» (III, p. 21, n. 2)? E cosa giustifica la doppia sconfessione di Clemente Alessandrino, cui in un caso è preferito Ateneo (la «persona educata», e non i «maiali», «se la gode nel fango») e nell’altro Columella (i «maia-li si lavano», e non «se la godono», «nel fango»), per essere infine recuperato a completare la citazione di Columella? E in ultima istanza, è davvero plausibile che in due diversi contesti della sua opera Eracli-to abbia evocato la stessa immagine dell’immersione nel fango, una volta in riferimento agli uomini e una volta in riferimento ai maiali, una volta per alludere a una qualche forma di godimento e una volta per fare riferimento all’atto del lavarsi, la prima in relazione agli uomini (ma quale sarebbe poi il godimento degli uomini nel fango?) e la secon-da in relazione ai maiali? Anche a esaminare quest’ultimo interrogati-vo, si rivela piuttosto chiaro che entrambe le versioni dell’immagine dell’immersione nel fango, del «godere» e del «lavarsi» in esso, si adat-tano adeguatamente ai «maiali» chiamati in causa da Clemente e da

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Columella, ma non alla «persona educata» evocata da Ateneo; e buon senso suggerisce che il «godere» e il «lavarsi» rappresentino verosimil-mente due varianti sull’unico tema dell’immersione nel fango degli animali che per natura effettivamente vi sguazzano, dai tempi di Era-clito, di Columella, di Ateneo e di Clemente Alessandrino e fino a oggi, cioè, pace Mouraviev, i maiali e non gli uomini, più o meno educati.

2 Nella citazione di Clemente si trova qui la particella gou 'n, che è certamente parte del contesto e non della citazione eraclitea.

3 h{dontai è lezione che si trova in Clemente, mentre Ateneo ha caivrein (in oratio obliqua), da restituire in caivrousi(n) (in oratio recta): questa la scelta, per esempio, di Conche, p. 416; ma ritengo che le due identiche citazioni di Clemente forniscano una prova sufficiente in favore del testo che riportano (cfr. supra, n. 1), né il fatto che, al contrario di Clemente, Ateneo nomini esplicitamente Eraclito rappresenta di per sé un’indicazione della maggiore affidabilità di quest’ultimo (indicato invece in DK come primo citatore del frammento, di cui Clemente sarebbe perciò solo una fonte secondaria).

4 Non è probabile, a mio avviso, un’interpretazione del presente frammento nell’ambito della dottrina eraclitea dell’unità dei termini opposti, accostandolo al fr. 31 [61 DK; 35 Marc.], come suggeriscono Kirk, pp. 80, Marcovich, p. 132, Kahn, pp. 188-89, e Robinson, p. 84-85: infatti, come nel caso analogo del precedente fr. 81 [9 DK; 37 Marc.], cfr. n. 5, se «i maiali preferiscono il fango all’acqua pulita», sottintendendo che, invece, «gli uomini preferiscono l’acqua pulita al fango», mancano evidentemente tanto i termini opposti (come «potabile-non potabile» e «salutare-mortale» del fr. 31), quanto un terzo termine rispetto al quale essi si pongano come proprietà opposte (come l’«acqua marina» del fr. 31), come pure l’indicazione dei punti di vista diversi da cui valutare tale opposizione (dei «pesci» e degli «uomini» del fr. 31), ma avremmo soltanto l’espressione di preferenze opposte («fango-acqua pulita»), da parte di soggetti diversi («maiali-uomini»), in relazione al «liquido» («fangoso-pulito») in cui si immergono, lasciando trasparire perciò, piuttosto che una nuova esemplificazione della dottrina dell’unità dei termini opposti, le sue implicazioni relativiste: così Bollack-Wismann, pp. 90-91, Conche, pp. 416-17, e Pradeau, pp. 202-03 (ma si veda, per la dottrina dell’unità dei termini opposti, l’Introduzione, § 4.2, e la Nota introduttiva alla Sezione 2; e, per le sue eventuali implicazioni etiche, l’Introduzione, § 4.6). Propendo di conseguenza per una lettura in chiave «etica» del presente frammento, nell’ambito della critica che Eraclito rivolge al sistematico fraintendimento di valori e principi da parte della massa dei più, e come sua correzione alla luce del paradigma aristocratico da lui difeso, ipotizzando due possibili esiti alternativi (che dipendono ancora una volta dal significato, positivo o negativo, che si attribuisce al riferimento di Eraclito al mondo animale, per il quale cfr. i precedenti frr. 73 [29 DK; 95 Marc.] e 81 e i successivi frr. 82a [4 DK; 38 Marc.], 83 [11 DK; 80 Marc.] e 84 [97 DK; 22 Marc.]; e la Nota introduttiva a questa Sezione 6): l’uno, positivo, che suppone un apprezzamento della scelta dei maiali, che «se la godono nel fango» e non «nell’acqua pulita», perché in accordo con la loro natura, che deve allora fungere

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322 FR. 82a [4 DK; 38 MARC.]

in generale da modello e da criterio di «selezione» delle inclinazioni, delle azioni e dei comportamenti, verosimilmente specifici e distinti per ciascuna specie vivente (questa comprensione tutto sommato neutrale delle parole di Eraclito è certamente quella che emerge dalla remini-scenza di Columella, cfr. supra, n. 1) e che corrispondono, per gli uomini, all’«acqua pulita», da cui essi sono esortati a trarre diletto piuttosto che dal «fango»; l’altro, negativo, che associa la condizione e le attitudini dei più a quelle dei maiali che si rotolano nel «fango» e si macchiano della sua disgustosa sporcizia, invece che godere del potere purificante dell’«acqua pulita» e del suo effetto igienico e salutare, manifestando così, più che un’esortazione alla corretta «selezione» delle proprie scelte, una sprezzante disapprovazione della gerarchia degli impulsi bestiali e delle infime tendenze che ispirano la condotta della massa. Quest’ultima prospettiva, che mi pare preferibile, è fra l’altro certamente quella adottata nella citazione di Clemente Alessandrino (cfr. ancora supra, n. 1), quando evoca la mediocrità dei più, cui è preclusa la verità e ai quali è tentativo disperato rivolgere argomenti esplicativi, perché prigionieri dell’ignoranza e dell’oscurità naturali che li caratterizzano, come fossero immersi nel fango, a differenza dei pochi che si giovano nell’acqua pura e trasparente della conoscenza. Cfr. pure in tal senso Diano-Serra, pp. 182-83.

Fr. 82a [4 DK; 38 Marc.]1

(Si felicitas esset in delectationibus corporis,) boves felices

diceremus, cum inveniant orobum (ad comedendum).

(Se la felicità consistesse nei piaceri del corpo,) dovremmo dire felici i buoi quando trovano le vecce (da mangiare).2

1 Queste parole sono riportate da Alberto Magno, De vegetabilibus VI 401 (545 Meyer = VI 2.14 Biewer), nel contesto di un esame delle proprietà della veccia (orobus) di cui si nutrono i buoi: «La veccia è un alimento assolutamente prediletto dai buoi, sicché il bue la mangia con grande piacere; perciò Eraclito ha detto che, se la felicità consistesse nei piaceri del corpo, ... (Alberto Magno cita qui il fr. 82a) da mangia-re». Ora, considerata la natura della citazione, la distanza temporale del citatore da Eraclito e l’assenza di ogni riferimento, esplicito o implicito, alla sua fonte, mi sembra arduo sostenerne l’autenticità tout court (come fanno, per esempio, Conche, pp. 345-46, e Mouraviev III, p. 10); è più plausibile pensare che essa conservi traccia di contenuti o

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FR. 82a [4 DK; 38 MARC.] 323

espressioni di Eraclito, anche in virtù della prossimità tematica e con-cettuale ai precedenti frr. 81 [9 DK; 37 Marc.] e 82 [13 DK; 36 Marc.], ma senza che sia possibile stabilirne con esattezza i limiti, tanto per il suo carattere di parafrasi in una lingua diversa dall’originale, quanto per la difficoltà di cogliere cosa precisamente il citatore intenda come parte della sua citazione: se dunque, a partire da I. Bywater, Heraclitus and Albertus Magnus, in «Journal of Philology» 9 (1880), pp. 230-34, si tende a espungere la protasi del periodo ipotetico di Alberto Magno, perché considerata di tono non eracliteo (così Kirk, pp. 84-85, Bollack-Wismann, p. 70, Marcovich, pp. 134-35, e Pradeau, pp. 95 e 203, ma dubbi sono espressi anche da DK e Diano-Serra, p. 183), Mouraviev I, p. 16-17, considera invece come amplificazioni del citatore solo il geni-tivo corporis e il finale ad comedendum. Personalmente, ho ritenuto di isolare graficamente la porzione della citazione che riproduce, benché parafrasata, una sequenza riconoscibile nei precedenti frr. 81 e 82 («gli asini sceglierebbero la paglia ...» = «i maiali se la godono nel fango ...» = «i buoi sono felici quando mangiano le vecce») da quanto invece mi sembra parte del ragionamento che giustifica, nell’argomentazione del citatore, l’introduzione della citazione eraclitea a mo’ di sua premessa (che ho perciò stampato fra parentesi tonde). Kahn, p. 288, e Robinson, p. 78, propendono infine per l’esclusione dell’intera citazione, la cui autenticità giudicano innaccertabile.

2 Da queste parole, se almeno parzialmente autentiche, si ricava un nuovo riferimento al mondo animale, come nella serie dei frr. 73 [29 DK; 95 Marc.], 81 [9 DK; 37 Marc.], 82 [13 DK; 36 Marc.], 83 [11 DK; 80 Marc.] e 84 [97 DK; 22 Marc.] (si veda in proposito, oltre alle relative note di commento, la Nota introduttiva a questa Sezione 6), da cui emerge l’indicazione del piacere che i buoi (o forse tutti gli animali indistintamente, cfr. i frr. 73 e 81) traggono dal nutrimento e del loro alimento prediletto, la veccia. Se ci si limita a considerare la parte della citazione che più direttamente ricorda la lettera e i contenuti dei pre-cedenti frr. 81 e 82 – «i buoi sono felici quando trovano le vecce» – ne consegue ancora una volta la possibilità di una duplice lettura, positiva o negativa, del richiamo alle inclinazioni dei buoi (supponendo un apprezzamento della loro scelta «naturale» oppure una disapprovazione del loro meschino adagiarsi nel piacere del cibo: cfr. su questo punto, rispettivamente, nn. 5 e 4); invece, se si tiene conto delle esplicite inten-zioni del citatore e dell’eventualità che un’eco del contesto originale si trovi in qualche misura anche nella prima parte della citazione (da me stampata fra parentesi tonde) o sia quantomeno rispecchiata dal carattere di irrealtà del periodo ipotetico che la introduce («se la felicità consistesse nei piaceri del corpo, allora dovremmo dire i buoi felici ...», «ma la felicità non consiste nei piaceri del corpo, sicché non dobbiamo dire i buoi felici ...»), l’unica comprensione possibile di queste parole, essa pure anticipata in relazione ai precedenti frammenti appena citati, consiste nel riconoscervi l’inequivocabile svalutazione dei desideri e dei piaceri dei buoi e, fuor di metafora, di tutti gli animali e della massa dei più che alla condizione animale si abbassano, vivendo in stato di abbandono agli istinti biologici primari, e più in generale del sistema

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324 FR. 83 [11 DK; 80 MARC.]

valoriale e dei criteri di «selezione» che portano gli uomini comuni a riporre la felicità e il benessere, o anche, semplicemente, la naturale e quotidiana «realizzazione di sé», nelle tendenze materiali e negli impulsi più bassi del corpo, ignorando o trascurando le aspirazioni più alte e nobili privilegiate dai pochi a[ristoi (così pure Conche, pp. 346-47). Fra i commentatori che, più o meno dubitativamente, ammettono la parziale autenticità della citazione, si delinea la tendenza a collocarla in stretta relazione con i frammenti paralleli e con l’interpretazione di essi proposta, intendendola perciò, Kirk, pp. 84-85, e Marcovich, p. 135, come una nuova esemplificazione della tesi dell’unità dei termini opposti, Bollack-Wismann, p. 70, e Pradeau, p. 203, come un’ulteriore espressione del relativismo eracliteo: rinvio dunque ancora supra, ai frr. 81, n. 5, e 82, n. 4.

Fr. 83 [11 DK; 80 Marc.]1

pa'n2 eJrpeto;n plhgh'/3 nevmetai.

Tutti gli animali che vanno carponi4 sono condotti al pascolo5 a colpi di bastone.6

1 Questo frammento è riportato nel trattato pseudo-aristotelico De mundo 6 (= 401a11 Lorimer), nel contesto di una descrizione della produzione e del governo del mondo da parte dell’unica divinità che ha generato i viventi e le cose che sono: «E gli animali, selvatici e domestici, quelli che vivono nell’aria, sulla terra o nell’acqua, nascono, giungono a maturità e muoiono obbedendo alle leggi della divinità. Infatti, come dice Eraclito, ... (l’autore cita qui il fr. 83)». Come già supra, nel caso del fr. 16 [10 DK; 25 Marc.], cfr. n. 1, il presente frammento si trova citato anche da Apuleio, De mundo 36 (= 172.15 Thomas), in un contesto ovviamente analogo, visto che l’opera di Apuleio costituisce una sorta di rifacimento parafrasato del trattato pseudo-aristotelico; ma vanno considerate anche, per le varianti testuali che propongono (cfr. infra, n. 3), la sua citazione da parte di Stobeo I 1.36 (= I 45 Wachsmuth), che lo riporta nell’ambito di alcuni estratti del De mundo che riproduce, e le traduzioni siriaca (del VI secolo), latine (del XIII secolo) e armena (del XIII secolo) del De mundo (per le quali cfr. Marcovich, p. 298, e Conche, p. 315). Del resto, l’immagine degli animali condotti al pascolo a colpi di bastone (plhgh'/), generalmente come metafora del governo degli uomini da parte degli dei o dei cittadini da parte dei politici o infine della contrapposizione fra gli esseri dotati di ragione e quanti invece vanno trascinati come fossero inanimati, è frequente e quasi proverbiale,

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FR. 83 [11 DK; 80 MARC.] 325

certo indipendentemente dalla formulazione eraclitea: cfr. per esem-pio Platone, Crizia 109b-c; Plotino, Enneadi II 3 [52] 13.14; e l’elenco fornito da Marcovich, pp. 298-300; mentre un più esplicito riferimento alle parole di Eraclito è quello dello stoico Cleante, Inno a Zeus, 5 e 11 Zuntz, non a caso accanto a un’altra reminiscenza eraclitea (cfr. supra, il fr. 39 [64 DK; 79 Marc.], e n. 1), che evoca «... tutti gli esseri mortali che vivono e si muovono (oppure: strisciano o camminano, cfr. infra, n. 4) sulla terra ... » (o{sa zwvei kai; e{rpei qnhvt∆ ejpi; gai 'an) e, subito oltre, «... il fulmine ... al cui colpo sono compiute tutte le opere della natura ...» (tou' [scil., keraunou'] ga;r uJpo; plhgh'ı ...), così associando direttamente il «colpo» che sottomette e controlla tutte le cose al «fulmine» di Zeus, a sua volta notoriamente identificato, in chiave stoica, con il «fuoco» posto a fondamento della prospettiva fisico-cosmologica eraclitea, però reinterpretato come un principio razionale che pervade e domina il tutto, in modo che, à rebours, Zeus rappresenta la divinità suprema che regge il mondo tramite il «fulmine», cioè, fuor di metafora, la potenza ordina-trice e provvidenziale del lovgoı (stoico) che determina e regola l’intera realtà rendendosi immanente a essa sotto forma di una sostanza focosa (per questa complessa operazione esegetica, cfr. l’Introduzione, § 2.2).

2 Nella citazione del De mundo si trova qui, con valore esplicativo, gavr, da considerare perciò, a mio avviso, come giustificazione della citazione eraclitea più che come parte di essa (contra Mouraviev I, p. 41, e III, p. 19, n. 2).

3 plhgh'/ è lezione che si trova in Stobeo e, a quanto sembra, in Apuleio, oltre che, all’accusativo, in un manoscritto della traduzione armena del XIII secolo (l’Ejmiadzinensis, Bibl. Conv., 2093), mentre i manoscritti del De mundo e la sua traduzione siriaca portano concordemente th;n gh'n e le traduzioni latine pa'n gh'/ o pa'n gh'n: le due lezioni implicano naturalmente traduzioni e interpretazioni significativamente divergenti (cfr. infra, n. 6). Per quanto riguarda i manoscritti di Apuleio, di difficile lettura, H. Diels, Zwei Fragmente Heraklits, in «Sitzungsberichte Berliner Akademie» (1901), pp. 188-201, ha suggerito la seguente ricostruzione: la citazione eraclitea, che Apuleio riprende in greco, sarebbe stata trascritta da scribi ignoranti nella lingua greca e per tale ragione si presenta come una sequenza quasi inintellegibile di segni solo alla lontana riconducibili a una deformazione di lettere greche; Diels ne ha tentato tuttavia una decifrazione che darebbe, per il luogo che ci interessa, la lezione plhgh '/ preceduta da un segno O, che egli interpreta come (errata) riproduzione delle lettere QU, che sarebbero a loro volta un’abbreviazione di qeou ', che renderebbe esplicito nelle parole attribuite a Eraclito il riferimento alla divinità dalla cui legge dipendono tutti i viventi (pa 'n eJrpeto;n qeou' plhgh'/ nevmetai) presente nel contesto del citatore. Ora, ripercorrendo a ritroso la dimostrazione di Diels, va osservato innanzitutto che la sua decifrazione dei manoscritti di Apuleio (che peraltro J. Beaujeu in Apulée, Opuscules philosophiques, Les Belles Lettres, Paris 1973, p. 155, dichiara in questo punto «illeggibili») è oggi generalmente respinta: il solo Mouraviev I, p. 41, e III, p. 19, n. 3, ne segue la logica d’insieme suggerendo però, in luogo di O = QU = qeou ', considerato troppo lungo (qeou') oppure anacronistico (perché l’abbreviazione dei nomi della/e

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divinità – QU per qeou' – è un’innovazione cristiana posteriore ad Apu-leio), il nominativo oJ o il genitivo ou| dell’articolo maschile singolare, in funzione di pronome dimostrativo e comunque riferito al qeovı evocato nell’introduzione della citazione, che darebbe allora la resa seguente: «Tutti gli animali che vanno carponi sono portati al pascolo a colpi del suo bastone (oppure: ... egli li porta al pascolo a colpi di bastone)». Tut-tavia, una simile ricostruzione appare piuttosto discutibile e, a un tempo, superflua: che il citatore intenda le parole di Eraclito, e particolarmente il «colpo» tramite il quale si esprime il governo di pa 'n eJrpetovn, come in ogni caso da riferire all’azione divina cui tutti i viventi obbediscono, mi pare fuor di dubbio; che egli le intenda già da Eraclito riferite a tale azione divina è appena possibile, ma non necessario; ma che Eraclito stesso le intendesse così è, oltre che non necessario, perfino implausibile (cfr. Kirk, pp. 258-59, e infra, n. 6). Ciò non toglie che, anche indipenden-temente dalla ricostruzione proposta da Diels a partire dai manoscritti di Apuleio, la lezione plhgh '/ di Stobeo, invece di th;n gh 'n dei manoscritti del De mundo, suggerita già da Bergk e subito accolta da Bywater e Diels, sia stata recepita da Thomas e Lorimer, gli editori, rispettivamente, di Apuleio e dello pseudo-Aristotele, e dalla quasi totalità degli editori e dei traduttori dei frammenti eraclitei. L’unico tentativo recente di difendere la lezione th;n gh'n si deve a J. Lallot, La terre en partage, in «Archiv für Geschichte der Philosophie» 54 (1972), pp. 109-15, seguito da Bollack-Wismann, pp. 84-86, e da Conche, pp. 315-18, e si basa sulla possibilità, a mio avviso insussistente, di interpretare l’espressione th;n gh'n nevmetai in un senso compatibile con il contesto della citazione e con le intenzioni del citatore (cfr. infra, nn. 5-6).

4 Il termine eJrpetovn, dal verbo e{rpw, può indicare tanto gli animali che «si trascinano» o «strisciano» in terra, dunque, in senso stretto, i rettili (cfr. per esempio Euripide, Andromaca 269), ma anche, più in generale, che «camminano» e vivono sulla terra, ossia gli animali «terrestri», in opposizione alle specie degli uccelli e dei pesci, che invece vivono nell’aria o nell’acqua (in base a un luogo comune diffuso e già presente in Alcmane, fr. 89 Page), o infine, e semplicemente, che «si muovono» e «avanzano», in tal caso perciò in riferimento a tutti i viventi, incluso o escluso l’uomo (cfr. per esempio, rispettivamente, Iliade XVII 446-47 e Odissea XVIII 130-31; Odissea IV 418). Solo dall’interpretazione del contesto, delineata nelle due note seguenti, risulta quindi possibile individuare il suo significato più plausibile nel presente frammento.

5 Anche il verbo nevmw possiede molteplici significati e pone pertanto un problema di comprensione e di traduzione analogo al precedente eJrpetovn, che si ricollega inoltre alla questione della scelta fra le lezioni plhgh'/ e th;n gh'n discussa supra, nella n. 3. Nella forma medio-passiva in cui compare qui, può avere il senso di «abitare», «pascersi» o «nutrirsi» o anche «ricevere come parte» o «condividere» seguito dall’accusativo del luogo (in cui si abita) o della cosa (di cui ci si nutre o che si riceve come parte); d’altro canto, il suo significato più usuale di «guidare» o «condurre» (quindi, al passivo, «essere guidato» o «condotto»), se riferito, letteralmente o per metafora, agli animali, si trova di frequente associato all’idea dell’allevamento e del nutrimento e, quindi, del pascolo.

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Pare abbastanza chiaro che, optando per uno dei primi tre significati, avremo che gli eJrpetav di cui è questione nella nota precedente possono coincidere tanto con gli animali che «strisciano» quanto con quelli che «camminano» o «si muovono» sulla terra, cioè con i rettili, gli animali «terrestri» o tutti i viventi indistintamente, di cui si dirà allora che «abitano», «si nutrono di» o «ricevono come parte», necessariamente, «la terra»: queste, infatti, le traduzioni correnti prima della diffusione della scelta di plhgh'/ in luogo di th;n gh'n («... si nutrono di terra», che riecheggia fra l’altro, benché in termini leggermente diversi, l’immagine che emerge dal già citato fr. 89.3 Page di Alcmane: fu 'lav t jeJrpevt jo{sa trevfei mevlaina gai 'a) o fra i pochi che oggi preferiscono quest’ultima lezione («... ricevono la terra come propria parte», cfr. ancora supra, n. 3). Se invece si adotta l’ultimo significato di nevmw, gli eJrpetav vanno più verosimilmente identificati con gli animali «da pascolo», con il verbo e{rpw assunto con un valore intermedio fra «strisciare» e «camminare» o «muoversi» sulla terra, a indicare l’andatura caratteristica degli animali «da pascolo», vale a dire i quadrupedi che procedono «proni» o «carpo-ni», in greggi, di cui si dirà allora che «sono condotti al pascolo», in tal caso, «a colpi di bastone»: questa, del resto, la traduzione oggi corrente dopo la diffusione della scelta di plhgh'/ in luogo di th;n gh'n (cfr. ancora supra, n. 3), benché sia controversa l’identità di colui il quale infligge tali «colpi», se si tratti di un principio supremo e divino cui eventual-mente potrebbe alludere il dio evocato nel contesto del De mundo e dei «colpi» simbolici delle leggi che egli impone o più concretamente, rimanendo all’interno della metafora agreste, del pastore che guida il suo gregge al pascolo e dei «colpi» di bastone con cui lo incalza (si veda in proposito la nota seguente).

6 L’interpretazione del presente frammento non può prescindere da un esame del contesto della sua citazione, riportato supra, nella n. 1. L’autore del De mundo richiama evidentemente le parole di Eraclito a conferma dell’assoluto e inequivocabile dominio della divinità, alle cui leggi sono sottoposti tutti i viventi, senza eccezione (tav te ejn ajevri kai; ejpi; gh'ı kai; ejn u{dati); egli deve dunque comprendere le parole cita-te, anche indipendentemente da un esplicito riferimento alla divinità che non vi è espressamente nominata (cfr. supra, n. 3), nel senso che tutti i viventi (o tutto ciò che «si muove», incluso l’uomo, cfr. supra, n. 4) sono governati (o «condotti al pascolo», cfr. la nota precedente) da un imprecisato «reggitore» (o «pastore») e sotto il controllo e la minac-cia del suo intervento normativo o punitivo (= del suo «colpo di basto-ne», plhgh '/): sarebbe fuori luogo, infatti, che intendesse eJrpetovn come riferito esclusivamente ai rettili o agli animali «terrestri», se ritiene di trovarvi un’esemplificazione comprensiva di tutti i viventi («terrestri», «volatili» e «acquatici»), e che attribuisse a Eraclito la dichiarazione che essi «abitano» o «si nutrono di» o «ricevono come propria parte» th;n gh 'n, se il suo scopo è invece quello di illustrare e rafforzare, ricor-rendo all’autorità eraclitea, l’affermazione della loro sottomissione a un’autorità universale cui nulla sfugge. Mi sembra che il contesto del De mundo richieda perciò necessariamente la correzione plhgh'/ e sia incompatibile con la difesa della lezione tradita th;n gh 'n (cfr. supra, n.

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3); né vale sostenere, come fanno Bollack-Wismann, pp. 84-85, e Conche, pp. 315-18, capovolgendo i termini della questione, che proprio l’in-fluenza del contesto del De mundo e l’esistenza di un’ampia tradizione relativa ai «colpi» divini che dirigono gli uomini (cfr. supra, n. 1) avreb-bero condotto all’introduzione dell’erronea correzione di th;n gh'n con plhgh ' /, forse già a partire da Apuleio e poi nella versione di Stobeo, perché rimane l’insolubile difficoltà che le due opzioni non sono entram-be altrettanto plausibili e il contesto del De mundo esige senza alcun dubbio, come appena argomentato, la correzione plhgh '/ (non persuasi-vo, a mio avviso, il tentativo di Conche di intendere l’affermazione che «tutti i viventi ricevono come propria parte la terra» nel senso che con-dividono un destino mortale, e che proprio tale constatazione, e non il fatto che «tutti i viventi sono governati dai colpi di un’autorità che li dirige», costituirebbe, nelle intenzioni dell’autore del De mundo, una conferma di quanto egli ha poco prima sostenuto, cioè che tutti i viven-ti indistintamente «nascono, giungono a maturità e muoiono obbeden-do alle leggi della divinità»). Se questo è ciò che si ricava dal contesto del De mundo – nella duplice interpretazione determinata dall’assun-zione (1) della metafora agreste: «tutti gli animali che vanno carponi sono condotti al pascolo a colpi di bastone (scil., del pastore)» oppure (2) della prospettiva cosmo-teologica delineata dall’autore del De mundo: «tutti i viventi indistintamente sono governati a colpi di bastone (scil., della divinità)»; e senza che sia chiaro se l’autore del De mundo riconosca come più prossima alle intenzioni di Eraclito la (1) o la (2), visto che anche la (1), certo meno impegnativa nelle sue premesse e nelle sue implicazioni, appare tuttavia sufficiente allo scopo di fornire un’illustrazione della (2) che egli argomenta in proprio, se «gli animali che vanno carponi» (1) possono rappresentare «tutti i viventi indistin-tamente» (2), «condurre al pascolo» (1) essere equivalente a «governa-re» (2) e il «pastore» (1) fungere da immagine della «divinità» (2) – è invece dalla tradizione stoica che si traggono indicazioni più esplicite, benché ideologicamente orientate, in relazione al presente frammento. Nel suo evidente riferimento a queste parole di Eraclito nell’Inno a Zeus (cfr. ancora supra, n. 1), infatti, Cleante riconduce il «colpo ... da cui sono compiute tutte le opere della natura» non, genericamente, a una divinità e come simbolo della sua azione di governo del tutto, come fa l’autore del De mundo e comunque senza ascrivere direttamente a Eraclito tale attribuzione, bensì a Zeus (in base a un topos già diffuso nella letteratura greca arcaica: cfr. per esempio Iliade XII 37 e XIII 812; Esiodo, Teogonia 857; Eschilo, Agamennone 367, Sette contro Tebe 608, Prometeo 681-82; Sofocle, Aiace 137, 278-79) e identificandolo inoltre con la sua arma caratteristica, il «fulmine»; ora, se è soltanto una rein-terpretazione, appunto in chiave stoica, a supporre la complessa asso-ciazione fra il «fulmine» di Zeus, che governa con i suoi «colpi» tutti i viventi, il principio fisico-cosmologico del «fuoco», che a sua volta garantisce, con la sua onnipervasiva diffusione, l’ordine razionale e provvidenziale del tutto, e Zeus, che di quest’ordine, in quanto lovgoı, è principio supremo (cfr. di nuovo, su questo punto, l’Introduzione, § 2.2), non sono mancati però, fra i commentatori, i sostenitori di una lettura

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del presente frammento, che, facendo leva soprattutto sul fr. 39 [64+65+66 DK; 79+55+82 Marc.] e a partire dall’accostamento eracliteo fra il «fulmine» e il principio del «fuoco», con il primo a costituire un «esem-plare» meteorologico del secondo, attribuisce al «fulmine-fuoco» una funzione, oltre che fisico-cosmologica, anche escatologica e latamente teologica, che ne farebbe il sovrano e il giudice di tutti i viventi, carat-terizzato da una natura divina che gli deriverebbe dalla pur simbolica associazione al padre degli dei, Zeus, come mitologico strumento del suo governo e del suo giudizio; sicché l’innominato pastore che condu-ce le sue greggi al pascolo a colpi di bastone non sarebbe che una rappresentazione del principio supremo del fuoco che governa tutti i viventi tramite l’azione, direttiva, giudicativa e punitiva, del fulmine: così interpretano Marcovich, p. 300, Kahn, p. 194, e, dubitativamente, Diano-Serra, pp. 181-82; mentre Robinson, p. 83, e Pradeau, p. 324, optano per una versione più moderata di questa lettura cosmo-teolo-gica secondo la quale Eraclito si riferirebbe piuttosto, genericamente, al governo divino di tutte le cose e alla conservazione dell’equilibrio del cosmo. Ho tuttavia cercato di spiegare supra, soprattutto nelle nn. 6 e 8 al fr. 39, che non trovo elementi plausibili, nei materiali eraclitei superstiti, per attribuire al principio del «fuoco» una funzione che non sia di natura rigorosamente fisico-cosmologica o per individuare in generale i termini di un governo o di un giudizio a qualunque titolo «divini» dei viventi e del tutto (neanche post mortem, cfr. supra, il fr. 69 [63 DK; 73 Marc.], specie n. 4); tutto ciò mi pare piuttosto parte inte-grante della duplice appropriazione del pensiero e delle dottrine era-clitee in ambito stoico e cristiano. Facendo dunque astrazione dall’ap-plicazione al presente frammento della sequenza «fuoco-fulmine-Zeus» in relazione al «colpo» in virtù del quale, o attraverso il quale, sono condotti gli eJrpetav, che è di derivazione stoica, ma anche dall’abusiva introduzione nelle parole di Eraclito di una divinità che di questo «colpo» sarebbe responsabile, in base a un’interpretazione suggerita dal contesto del De mundo, senza però che il suo autore giunga a dichiararne la paternità eraclitea, l’impiego del termine eJrpetovn non si attaglia più necessariamente, a mio avviso, alla totalità dei viventi indi-stintamente (cfr. supra, n. 4), cioè a quanti sono sottoposti al governo divino e alla sua legge simboleggiata dal fulmine, ma, più plausibilmen-te, alla descrizione, letterale o metaforica, di alcuni di essi e particolar-mente di ogni eJrpetovn di cui sia legittimo dire che nevmetai; e nonostan-te la pluralità di significati anche di quest’ultimo termine (cfr. la nota precedente), credo che la combinazione eJrpetovn nevmetai non possa a questo punto che evocare l’immagine concreta di quei viventi che «si muovono» o «avanzano» con l’andatura degli animali «diretti al pasco-lo», cioè i quadrupedi «che vanno carponi», «condotti a colpi di basto-ne» dal loro pastore che li mantiene intruppati nel gregge, a rappresen-tare così, metaforicamente, la massa degli uomini che, come i quadrupedi, vivono in una condizione subalterna, ben illustrata dalla loro posizione perennemente prona e dettata dal desiderio dominante del nutrimento che li riunisce in greggi, resi incapaci, per l’ottusità, di volgersi a diversi e più nobili scopi, sicché è impossibile dirigerli e

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governarli in base al ragionamento e alla persuasione, ma solo ricor-rendo alla forza, preventiva e punitiva, esercitata dai pochi cui spetta, verosimilmente in quanto a[ristoi, il ruolo di «giudice» e «sovrano» che la metafora agreste riserva al pastore: avremmo così un nuovo impiego, in chiave «etica», del riferimento al mondo animale che caratterizza i precedenti frr. 73 [29 DK; 95 Marc.], 81 [9 DK; 37 Marc.], 82 [13 DK; 36 Marc.] e 82a [4 DK; 38 Marc.] e il seguente fr. 84 [97 DK; 22 Marc.] (si vedano perciò le relative note di commento e la Nota introduttiva a questa Sezione 6), nel quadro della pungente valutazione e della critica sferzante delle tendenze e delle inclinazioni «naturali» dei più cui Eraclito contrappone la superiorità del paradigma valoriale dei princi-pi e degli ideali dei «migliori».

Fr. 84 [97 DK; 22 Marc.]1

kuvneı2 kai; bau?zousin o}n3 a]n mh; ginwvskwsi.

Sono i cani che abbaiano a chi non conoscono.4

1 Questo frammento è riportato da Plutarco, An seni sit gerenda res publica 787c, nell’ambito di un esame della natura dell’invidia e delle sue conseguenze nefaste in ambito politico: «Il più grande dei mali che affliggono la vita politica è l’invidia, ma non aggredisce affatto la vec-chiaia; infatti, secondo Eraclito, ... (Plutarco cita qui il fr. 84), e l’invidia si attacca a chi si accosta come alle porte della vita politica e non gli consente l’accesso, ma tollera facilmente la reputazione già coltivata e ormai familiare, senza asprezza o difficoltà». Per il loro carattere probabilmente proverbiale, queste parole si trovano riecheggiate in contesti numerosi e diversi (cfr. Marcovich, pp. 56-57), con o senza la menzione del nome di Eraclito.

2 Il gavr presente in questo punto in Plutarco mi pare, nonostante Mouraviev I, p. 245, e III, p. 119, n. 2, ma con buona parte degli editori e dei traduttori recenti, parte del contesto, a giustificare l’introduzione della citazione eraclitea, e non di quest’ultima.

3 kai; bau?zousin o}n è lezione unanime, e perfettamente coerente, dei manoscritti plutarchei, oggi generalmente accolta dagli editori e dai traduttori. Tuttavia, forse in ragione della presunta sovrabbondanza di particelle (gavr kaiv, che viene meno, però, se gavr è parte del contesto del citatore, cfr. la nota precedente), vi è stato chi ha suggerito la sop-pressione di kaiv (Reiske) o la correzione in katabau?zousin (Koraes), accogliendo la quale, allora, occorre correggere pure il relativo o{n in w|n (Diels) o tw'n (Wilamovitz), perché questo verbo regge il genitivo: «i

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cani abbaiano a quelli che non conoscono», il che è grammaticalmente possibile, ma del tutto immotivato; restano invece da escludere le costruzioni «miste» katabau?zousin o}n (Schuster), perché in contrasto con la grammatica, e kai; bau?zousin w|n (Robinson, p. 58, Pradeau, p. 306), perché infondata, visto che, mantenendo kai; bau?zousin, non ha nessun senso modificare poi o{n in w|n, se appunto era la correzione katabau?zousin a esigere il genitivo w|n.

4 Il contesto plutarcheo evocato supra, nella n. 1, suppone di inten-dere le parole di Eraclito come un’illustrazione dell’attitudine degli invidiosi, che si rivolgono solo contro gli sconosciuti, e non anche contro chi possiede già fama e reputazione, imponendo dunque, per analogia, di attribuire al kaiv un valore restrittivo («i cani abbaiano soltanto a chi non conoscono [scil., come gli invidiosi si rivolgono solo contro gli sconosciuti]») o correlativo («anche i cani abbaiano a chi non conoscono [scil., come gli invidiosi si rivolgono contro gli scono-sciuti]»): così, per esempio, Robinson, p. 59, e Mouraviev I, p. 245, ma soprattutto, in seguito ad ampia disamina, Conche, pp. 60-61. Tuttavia, poiché è evidentemente Plutarco a riferire queste parole all’atteggia-mento degli invidiosi e a contestualizzarle perciò in tale ottica, nulla indica che il kaiv fosse inteso così anche nell’espressione originale di Eraclito, che anzi, presa di per sé, suggerisce a mio avviso di conferirgli piuttosto un valore rafforzativo («sono proprio i cani [scil., e non altri <animali?>, <uomini?>] che abbaiano a chi non conoscono»), come fanno, per esempio, Marcovich, p. 57, e Pradeau, p. 306, mentre Kahn, p. 57, e Diano-Serra, p. 47, lasciano di fatto il kaiv non tradotto. Se la tendenza generale dei commentatori (cfr. Marcovich, pp. 57-58, Kahn, p. 176, Diano-Serra, p. 183, Robinson, p. 145, Pradeau, p. 307, e Conche, pp. 61-62) consiste nel leggere nel presente frammento una polemica, da parte di Eraclito, contro gli uomini in generale oppure contro quelli a lui più vicini cui si rivolge (forse i cittadini di Efeso direttamente, e veementemente, chiamati in causa nei successivi frr. 87 [121 DK; 105 Marc.] e 88 [125a DK; 106 Marc.]?), per il fatto che non comprendo-no il suo insegnamento o l’annuncio del lovgoı e, di conseguenza, vi oppongono un rifiuto inconsulto e aggressivo, come cani che abbaiano, credo si debba tenere presente che, almeno in base all’interpretazione da me via via proposta, i riferimenti al mondo animale contenuti nella serie dei precedenti frr. 73 [29 DK; 95 Marc.], 81 [9 DK; 37 Marc.], 82 [13 DK; 36 Marc.], 82a [4 DK; 38 Marc.] e 83 [11 DK; 80 Marc.] (per i quali rinvio all’Introduzione, § 4.6, e alla Nota introduttiva a questa Sezione 6), che con il presente frammento si concludono, implicano una comparazione, di segno talvolta incerto, fra gli animali di volta in volta evocati e la massa degli uomini, con una valutazione delle rispettive inclinazioni (fr. 73: i «più» e le «bestie» in relazione al «cibo»; fr. 81: gli «asini» e gli «uomini» in relazione alla «paglia» e all’«oro»; fr. 82: i «maiali» e gli «uomini» in relazione al «fango» e all’«acqua pulita»; fr. 82a: i «buoi» e gli «uomini» in relazione al «cibo preferito»; fr. 83: i «quadrupedi» e gli «uomini» in relazione al «pascolo»), di cui mi pare difficile negare il carattere eminentemente «etico». Suggerisco pertanto di collocare in una prospettiva analoga anche queste paro-

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le di Eraclito, che si prestano allora a una comprensione di segno positivo, se si ipotizza un apprezzamento della condotta dei cani che, da vigili e fedeli guardiani, mostrano una «naturale» ostilità verso gli sconosciuti, sottintendendo in tal caso la disapprovazione della mollezza e dell’ingenuità di quanti fra gli uomini sono sistematica-mente soggetti all’inganno, alla manipolazione e alla corruzione cui li espongono l’abbandono a una vita dedita solo ai piaceri immediati e la mancanza di un paradigma valoriale adeguato (come quello degli a[ristoi); oppure di segno negativo, se, più verosimilmente, sono la meschinità e la grettezza di ogni forma di preconcetta ostilità verso l’ignoto a essere biasimate, sottolineando che, mentre è «naturale» che siano proprio (kaiv) i cani a manifestare questa attitudine, una simile ristrettezza mentale e di orizzonti non dovrebbe invece caratterizzare gli uomini, come evidentemente Eraclito constata che avvenga alla massa dei più, sempre ed esclusivamente dediti alla routine quotidiana, regolata dai semplici impulsi biologici, e sordi al richiamo degli ideali e dei più alti obiettivi che sono oggetto della scelta degli a[ristoi. Così interpretato, il presente frammento chiude la sequenza di materiali collocati nell’ambito di quell’etica «della massa» che, fin dal fr. 77 [44 DK; 103 Marc.], cfr. n. 4, raccoglie le prescrizioni e le valutazioni che, in un orizzonte aristocratico come quello delineato da Eraclito, sono rivolte ai più per sollecitarne criticamente i comportamenti.

Fr. 85 [23 DK; 45 Marc.]1

Divkhı o[noma oujk a]n h[/desan,2 eij tau'ta3 mh; h\n.

Non conoscerebbero il nome della giustizia, se non vi fossero queste cose.4

1 Questo frammento è riportato da Clemente Alessandrino, Stro-mateis IV 10.1 (= II 252 Stählin), che esamina il rapporto fra il peccato (o la colpa) e la punizione che ne consegue e, di conseguenza, fra il timore della punizione fissata dalla legge e la legge stessa che, se non vi fosse peccato, non sarebbe necessaria: «Se infatti si sottrae la causa del timore, il peccato, si sottrae anche il timore, e ancor più, di gran lunga, la punizione, se manca la naturale disposizione al desiderio (scil., di peccare): “non è per il giusto, infatti, la legge”, dice la Scrittura (= Paolo, Lettere a Timoteo I 1.9). Bene dice quindi Eraclito ... (Clemente cita il fr. 85) e poi Socrate, che, se fosse stato per i buoni, non sarebbe sorta la legge». L’argomento di Clemente consiste dunque nel sottolineare la

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reciproca implicazione fra la legge (e la punizione che essa stabilisce) e l’ingiustizia (o il peccato) e fra l’assenza di legge (e di punizione) e la giustizia (o disposizione contraria al peccato), perché, se i «giusti» (o i «buoni»), non commettendo peccato, rimangono estranei alla nozione stessa della punizione e possono vivere perciò in assenza della legge, l’esistenza della legge dipenderà invece necessariamente dagli «ingiusti» che, commettendo peccato, suscitano l’esigenza della punizione che essa stabilisce e somministra; sicché è la presenza dell’ingiustizia che impone l’intervento punitivo della legge per ripristinare la giustizia ed è la presenza della legge, e della giustizia che essa garantisce, che, per così dire, «certifica» l’esistenza dell’ingiustizia: di un simile argomento si trova traccia, ma senza riferimento a Eraclito, in Crisippo, De pro-videntia, in Aulo Gellio VII 1.3-4 (= SVF II 1169): «Poiché il bene è il contrario del male, è necessario che sussistano opposti l’uno a l’altro ... a tal punto non può esservi contrario senza il suo contrario. In che modo, infatti, potrebbe esistere il senso della giustizia se non vi fosse l’ingiustizia? E cosa è mai la giustizia se non assenza di ingiustizia?»; e nella pseudo-eraclitea Lettera VII 336.88-90 Tarán (per la quale cfr. supra, l’Introduzione, § 4.8): «Quelli che si considerano massimamente simboli di giustizia (dikaiosuvnhı suvmbola), le leggi, sono invece prova di ingiustizia (ajdikivaı tekmhvrion), perché, se le leggi non esistessero (eij mh; h\san), vi lascereste andare senza freni». D’altro canto, l’argomento di Clemente Alessandrino suppone pure, come sua conseguenza, la tesi ulteriore, illustrata dalle citazioni della Lettera di Paolo e di «Socrate», che i «giusti» (o i «buoni»), che non hanno propensione al peccato, non possono incorrere nella punizione stabilita dalla legge né hanno perciò ragione di temerla, in modo che, per loro, la legge è inutile: ora, in una forma del genere, il topos dell’inutilità della legge per i «buoni» (oiJ ajgaqoi; ouj devontai novmwn), congiunto però alla simultanea affermazione della sua inutilità anche per i malvagi, che non ne sono resi migliori (oiJ ponhroi; uJpo; tou ' novmou oujde;n beltivouı givnontai), si ritrova espresso da Luciano, Demonax 59, ma, ancora una volta, senza menzione del nome di Eraclito. Date queste due opzioni interpretative (argomento [1] della reciproca implicazione di giustizia e ingiustizia, o di legge e assenza di legge, e tesi [2] dell’inutilità della legge per i «giusti», o per i «buoni»), riconducibili, rispettivamente, al contesto di Clemente e alle citazioni che egli vi riporta, fra loro indubbiamente connesse eppure nettamente distinte, la citazione delle parole di Eraclito deve ricadere nell’ambito dell’una o dell’altra, imponendo una scelta esegetica (cfr. infra, n. 4) che, del resto, si riflette nelle soluzioni alternative proposte per il problema testuale discusso nella nota seguente.

2 o[noma ... h[/desan è correzione, proposta da Sylburg e accolta dalla quasi totalità degli editori e dei commentatori, di o[noma ... e[dhsan che si trova in Clemente e che fa problema: e[dhsan, infatti, regge il genitivo («non avrebbero bisogno della giustizia ...») e, in tal caso, o[noma rimar-rebbe fuori contesto; con la correzione in h[/desan, che regge l’accusativo, la costruzione della proposizione è grammaticalmente corretta («non conoscerebbero il nome della giustizia ...») e rinvia all’argomento (1) della reciproca implicazione di giustizia e ingiustizia («non conoscerebbero il

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nome della giustizia, se non vi fossere queste cose [scil., le cose ingiuste, l’ingiustizia]», cfr. la nota precedente), che corrisponde alla resa da me suggerita. L’unica seria proposta alternativa è avanzata da Mouraviev I, p. 69, e III, p. 33, nn. 1-3, e consiste nel mantenere il tradito e[dhsan (forma contratta, attestata nei poemi omerici, di ejdevhsan), a reggere il genitivo divkhı, intervenendo invece su o[noma, da correggere in a[nomoi, che a questo punto funge da soggetto della proposizione («i senza legge non avrebbero bisogno della giustizia ...»), così richiamando la tesi (2) dell’inutilità della legge, o della giustizia, per i «giusti» (cfr. ancora la nota precedente): una resa del genere, però, suscita a mio avviso una nuova difficoltà rispetto alla conclusione della citazione, che diviene incongrua o assai banale, perché a un’unica condizione «i senza legge non avrebbero bisogno della giustizia», e cioè «se non vi fossero queste cose», che non possono allora che coincidere con ta[dika, «le cose ingiu-ste», dal che risulterebbe che gli «ingiusti» non avrebbero bisogno della «giustizia» se non esistesse l’«ingiustizia», cioè se essi non fossero ciò che in effetti sono, ossia «ingiusti», ma «giusti» – un’affermazione che mi pare tanto tautologica da rivelarsi poco sensata (ma per l’interpretazione complessiva delle parole di Eraclito, cfr. infra, n. 4).

3 tau'ta è lezione, che non richiede correzioni, di Clemente; tuttavia, verosimilmente al fine di manifestare il riferimento all’«ingiustizia», o alle «cose ingiuste», che, sussistendo, rendono necessario e universalmente noto «il nome della giustizia» (cfr. la nota precedente), sono state sugge-rite numerose congetture interpretative, ciascuna con il suo seguito, da tajntiva o tajnantiva (a designare le «cose contrarie», scil. al «nome della giustizia»: così, rispettivamente, Diels e Bignone) a ta|lla (a designare le «cose altre», scil. dal «nome della giustizia»: così L. Senzasono, Pro-posta di nuova lezione nel frammento eracliteo 23 DK e considerazioni attinenti ad essa, «Myrtia» 17 [2002], pp. 45-56) e fino all’esplicito ta[dika (a indicare direttamente «le cose ingiuste»: così Kranz), per non citare che alcuni esempi. È stato anche ipotizzato che tau'ta alluda non alle «cose ingiuste», ma, viceversa, alle «leggi», intendendo, sulla base di uno stretto parallelismo con il passo citato della pseudo-eraclitea Lettera VII (336.88-90 Tarán; cfr. supra, n. 1), che gli uomini «non conoscerebbero il nome della giustizia», «se non vi fossero le leggi» (con eij tau'ta mh; h\n = eij mh; h\san [scil., oiJ novmoi] della Lettera VII), appunto perché le leggi sono «simboli di giustizia» (dikaiosuvnhı suvmbola), il che è possibile e sensato, ma ancora una volta piuttosto banale (cfr. in tal senso Kirk, pp. 125-26).

4 Il presente frammento pone evidenti problemi di interpretazione, perché, anche attenendoci alla ricostruzione del testo delineata nelle note precedenti, emerge così il significato che Clemente Alessandrino proba-bilmente attribuisce alle parole di Eraclito, di cui rimane però difficile stabilire il contesto originale. È senza dubbio plausibile un riferimento alla dottrina dell’unità dei termini opposti, per la quale si vedano i materiali raccolti supra, nella Sezione 2, e le relative note di commento, qui richia-mata rispetto alla reciproca implicazione di «giustizia» e «ingiustizia» e alla definizione dell’una in relazione all’altra (come vogliono per esempio Kirk, p. 129, Marcovich, p. 164, Diano-Serra, p. 184, e Conche, pp. 392-93), che, applicata al caso dei «giusti» e degli «ingiusti», comporta la conseguenza

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che, se mancasse uno degli opposti, verrebbe meno anche l’altro, in modo che i «giusti», se non vi fossero gli «ingiusti», non avrebbero bisogno della «giustizia» e dunque neanche potrebbero dirsi «giusti» (che è parte delle conclusioni tratte da Clemente, cfr. supra, n. 1). Mi sembra tuttavia più verosimile, con Kahn, p. 185, e Robinson, p. 91, collocare il presente fram-mento nell’ambito più strettamente «etico-normativo» che i suoi contenuti immediatamente suggeriscono: infatti, al di là del significato generale e tradizionale di «giustizia» come nozione astratta di un principio di equa ripartizione di premi e punizioni, o come sua personificazione divina (cfr. per esempio Esiodo, Teogonia 902), il termine divkh può alludere alla decisione di un giudice, all’esito, punitivo o compensativo, che ne deriva, ma anche al processo che conduce a tale decisione nel suo insieme, così rinviando piuttosto a un paradigma «giuridico-normativo» che, nelle sue concrete modalità operative, fissa forme e metodi per correggere l’ingiustizia e ripristinare la giustizia; il soggetto sottinteso delle parole di Eraclito saranno allora «gli uomini» nella loro totalità, cui sfuggirebbe completamente «il nome della giustizia», cioè l’intero corpus delle leggi che reggono di fatto le comunità umane – che non esclude, ma precisa, il concetto astratto o l’«idea» della giustizia –, se non sussistesse fra loro l’ingiustizia, che si configura perciò come la condizione generalizzata e diffusa che impone l’intervento correttivo della giustizia e della legge. Ipotizzerei inoltre, congetturalmente, che, se tale condizione di ingiusti-zia è davvero concepita come generalizzata e diffusa, cioè caratteristica della maggior parte degli uomini, l’intervento correttivo della giustizia e della legge dovrà essere ispirato, per contrasto, ai principi e ai valori di quei pochissimi fra gli uomini, gli a[ristoi, cui nell’ambito dell’etica aristocratica tratteggiata nei materiali eraclitei raccolti nella presente Sezione 6 sono assegnati un ruolo direttivo e una funzione «legislativa», se ciascuno di essi «vale diecimila» (cfr. supra, il fr. 72 [49 DK; 98 Marc.]) e se nell’obbedienza alla sua volontà consiste appunto la legge (cfr. supra, il fr. 76 [33 DK; 104 Marc.]), in difesa della quale, infatti, «il popolo deve battersi» (cfr. supra, il fr. 77 [44 DK; 103 Marc.]).

Fr. 86 [16 DK; 81 Marc.]1

to; mh; du'novn pote pw'ı a[n tiı2 lavqoi;;;…

Come si potrebbe sfuggire a ciò che non tramonta mai?3

1 Questo frammento è riportato da Clemente Alessandrino, Pae-dagogus II 99.5 (= I 216 Stählin), nell’ambito di una condanna degli eccessi sessuali degli uomini, che li praticano di notte credendo perciò

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di rimanere nascosti, con queste parole: «Ben misero l’uomo che teme solo gli occhi degli uomini e pensa di sfuggire a Dio! ... Perché, se forse si sfugge alla luce sensibile, è impossibile sfuggire alla luce spirituale oppure, come dice Eraclito, ... (Clemente cita qui il fr. 86)».

2 Le congetture tina (all’accusativo) e ti (al nominativo), in luogo della lezione tradita tiı, rispettivamente di Schleiermacher e Gataker, la prima a capovolgere il senso della proposizione («come potrebbe sfuggire a qualcuno ciò che non tramonta mai?»), la seconda a generalizzarlo («cosa potrebbe sfuggire a ciò che non tramonta mai?»), non sono in nessun modo giustificate né da ragioni interpretative né, tantomeno, da difficoltà testuali.

3 Il presente frammento è di controversa interpretazione e di ancor più incerta collocazione nell’ambito dei materiali eraclitei superstiti. L’immagine di un principio cui nulla sfugge, che vigila sulle nefandezze e sui crimini commessi dagli uomini, da Clemente Alessandrino riadattata al Dio cristiano, è evidentemente ciò che motiva la sua citazione eraclitea (cfr. supra, n. 1); si tratta d’altra parte di una metafora ampiamente diffusa nella cultura greca arcaica, di cui si trovano tracce nei poemi omerici, in relazione al Sole «che vede e sente ogni cosa» (cfr. Iliade III 277; Odissea XI 109), detto perciò ”Hlioı panovpthı (in Eschilo, Prometeo 91), o a Zeus (cfr. Odissea XIII 213-14; ma anche Esiodo, Opere 267-68), a sua volta panovpthı (in Eschilo, Eumenidi 1045), o a un dio (cfr. Pindaro, Olimpiche I 65). Donde, l’ironica osservazione di Platone, Cratilo 413b-c, che è appunto diretta contro tale credenza tradizionale e pare contenere un’allusione al principio eracliteo del «fuoco», secondo cui ci si può chiedere, se è il sole che giudica del giusto e dell’ingiusto, cosa accada della giustizia dopo il suo tramonto (ejpeida;n oJ h{lioı duvh/), al che vi è chi ribatte che non propriamente il sole, ma il «fuoco» (to; pu'r), adempie a tale funzione di controllo. Se quella di Platone è davvero un’allusione a Eraclito, ciò implica che egli ha interpretato queste parole come una revisione critica, appunto da parte di Eraclito, dell’immagine tradizionale del Sole, o di Zeus, «che tutto vede», alla quale Eraclito avrebbe sosti-tuito (o Platone ritiene che lo abbia fatto o, ancora, ironizza su questa possibilità) il principio fisico-cosmologico fondamentale del «fuoco», che regola e dirige il cosmo in virtù delle sue misurate alterazioni (cfr. solo, in proposito, i frr. 29 [30 DK; 51 Marc.], 30 [31 DK; 53ab Marc.], 33 [90 DK; 54 Marc.] e 39 [64+65+66 DK; 79+55+82 Marc.], con le relative note di commento, e l’Introduzione, § 4.3), il che, fra l’altro, sarebbe in accordo con il sostanziale «ridimensionamento» del sole che, ridotto al rango di «esemplare» meteorologico del «fuoco», è sottoposto, secondo Eraclito, a un superiore controllo e a un giornaliero rinnovamento (cfr. supra, i frr. 34 [0 (3+94) DK; 0 (57+52) Marc.] e 36 [6 DK; 58 Marc.], con le relative note di commento): così Kirk, p. 365, Marcovich, p. 302, Kahn, pp. 274-75, e Diano-Serra, p. 184; mentre a una nozione di giustizia «fisica» o «cosmica» più generale, non immediatamente iden-tificabile con il «fuoco», fanno riferimento Robinson, p. 88, e Pradeau, p. 322; laddove Conche, p. 257 (seguendo una suggestione formulata da Bollack-Wismann, pp. 99-100), suggerisce infine un’interpretazione più eccentrica, che sottolinea, del Sole panovpthı, non tanto l’aspetto

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«focoso», ma, prendendo a mio avviso impropriamente alla lettera il contesto della citazione di Clemente Alessandrino, la «luminosità», che sarebbe a sua volta simbolo e metafora della lux intelligibilis (proprio di nohto;n fw 'ı parla infatti Clemente, cfr. ancora supra, n. 1) che il lovgoı eracliteo getta su ogni cosa e sul tutto, in qualità di principio universale di spiegazione e comprensione razionali cui nulla sfugge (sicché il tiı che non può «sfuggire a ciò che non tramonta mai» dovrebbe consistere in qualunque fuvsiı o nella fuvsiı di qualunque cosa esistente, che appunto «non sfugge» alla spiegazione e alla comprensione razionali del lovgoı). Ora, se condivido con i commentatori appena citati l’idea che il presente frammento chiami in causa una qualche forma di giudizio (appunto in quanto sancisce l’impossibilità di sfuggirgli o di sottrarvisi, con il verbo lanqavnw), che non ha apparentemente limiti, né quantitativi (perché nessuno potrebbe sfuggirgli o sottrarvisi) né temporali (perché eserci-tato da ciò che non tramonta mai), e se, inoltre, il «giudice» evocato, ma lasciato anonimo, è inteso, certo intenzionalmente, come sostituto del Sole panovpthı della tradizione, che era concepito precisamente come custode e giudice del giusto e dell’ingiusto, e per ovviare alla sua assenza dopo il tramonto, non ritengo tuttavia possibile attribuire al principio del «fuoco» una funzione che sia non di natura fisico-cosmologica, ma «etico-normativa», né credo si possano individuare in generale, nei materiali eraclitei, i termini di un giudizio, ascrivibile a un principio di giustizia «cosmica» o «fisica», dei viventi e del tutto (come ho spiegato supra, soprattutto nelle nn. 6 e 8 al fr. 39, e ribadito nella n. 6 al fr. 83 [11 DK; 80 Marc.]). Ne deriva perciò a mio avviso un’alternativa ben precisa: o il presente frammento allude davvero, con la menzione di «ciò che non tramonta mai», al «fuoco» e al suo carattere di elemento fondamentale cui tutto si riduce e a cui, in questo senso, nulla «potrebbe sfuggire», ponendosi così più plausibilmente nell’ambito della riflessione fisico-cosmologica di Eraclito e lasciando cadere invece ogni riferimento all’idea di un «giudice» e di un «giudizio», oppure, se si considera tale riferimento come verosimilmente presupposto dalle parole di Eraclito, diviene allora indispensabile rinunciare a identificare «ciò che non tra-monta mai» e la sua funzione giudicatrice con il «fuoco» cosmico e la sua azione fisica come agente della processualità naturale, attenendosi a un quadro interpretativo di carattere eminentemente «etico-norma-tivo». Come si sarà compreso, quest’ultima è appunto la scelta da me compiuta, pur congetturalmente: suggerisco perciò di intendere «ciò che non tramonta mai», in stretta relazione con il precedente fr. 85 [23 DK; 45 Marc.], cfr. n. 4, come coincidente con il paradigma della legge in cui consiste la «giustizia» (o «il nome della giustizia»), che sussiste per correggere l’«ingiustizia» della maggior parte degli uomini e si basa sui principi e sulle norme che ispirano l’etica degli a[ristoi; sono proprio tali principi e norme che, superando l’orizzonte immediato delle aspettative e delle inclinazioni dei più, manifestano quei tratti di eternità e universalità che, ben più del Sole «che tramonta» ogni sera, trascendono «le cose mortali» (cfr. supra il fr. 73 [29 DK; 95 Marc.]) e la stessa morte (cfr. supra, il fr. 74 [25 DK; 97 Marc.]), in modo che non «si potrebbe sfuggire» alla loro valutazione né «ci si potrebbe sottrarre» alla

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loro condanna. Così interpretato, il presente frammento potrebbe anche implicare una concreta allusione agli abitanti di Efeso, per sottolineare come la ricchezza che possiedono, radice della loro miseria morale, non costituisca a un tempo una protezione efficace dalla punizione che meritano nel contesto di un sistema normativo e valoriale che prescinde dalle disposizioni e dai desideri corrotti della massa, ma risponde alle prescrizioni e alle aspirazioni eccezionali dei «migliori», cfr. infra, il fr. 88 [125a DK; 106 Marc.], n. 3.

Fr. 87 [121 DK; 105 Marc.]1

a[xion jEfesivoiı hJbhdo;n ajpavgxasqai2 pa'si3 kai; toi'ı ajnhvboiı th;n povlin katalipei'n,4 oi{tineı ÔErmovdwron a[ndra eJwutw'n ojnhviston5 ejxevbalon favnteı:6 hJmevwn mhde; ei|ı7 ojnhvistoı e[stw, eij de; mhv,8 a[llh/ te kai; met j a[llwn.

Sarebbe il caso che gli efesini adulti si impiccassero tutti e abbandonassero la città ai bambini,9 perché hanno cacciato Ermodoro, l’uomo più capace10 fra loro, dicendo: «Nessuno fra noi sia il più capace o altrimenti che lo sia altrove e con altri».11

1 Questo frammento è riportato in due versioni greche di univoco significato, ma con alcune divergenze testuali di cui si dà conto nelle note seguenti, e in una parafrasi latina, oltre che, limitatamente a espressioni isolate, in numerose reminiscenze. La citazione più ampia è introdotta da Diogene Laerzio, Vitae philosophorum IX 2, in apertura della sua notizia biografica relativa a Eraclito, dopo i frr. 71 [43 DK; 102 Marc.] e 77 [44 DK; 103 Marc.]: «Se la prende anche con gli efesini, perché hanno bandito il suo amico Ermodoro, là dove dice: ... (Diogene cita qui il fr. 87)». La seconda citazione è a opera di Strabone, Geographia XIV 1.25, che accenna alla storia della città di Efeso: «Vi sono nati uomini di grande fama, fra gli antichi Eraclito, detto l’oscuro, ed Ermodoro, del quale Eraclito dice: ...(Strabone cita qui il fr. 87, in una forma più breve di quella di Diogene Laerzio)». La parafrasi latina, infine, si trova in Cicerone, Tuscolanae disputationes V 105: ... universos ... Ephesios esse morte multandos, quod, cum civitate expellerent Hermodorum, ita locuti sint: nemo de nobis unus excellat; sin quis extiterit, alio in loco et apud alios sit («... tutti gli efesini devono essere puniti con la morte, perché,

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cacciando Ermodoro dalla città, hanno parlato così: “Nessuno fra noi sia eccellente su tutti; e se vi è qualcuno che lo è, che lo sia altrove e fra altre persone”»). Espressioni isolate del presente frammento sono citate, come detto, da altri autori: cfr. per esempio Musonio Rufo in Stobeo III 40.9 (= fr. 9 Hense); Giamblico, De vita pythagorica 30.172; Luciano, Vitarum auctio 14, non lontano da alcune allusioni al fr. 25 [12 DK; 40 Marc.], cfr. n. 1; la Lettera XXVIII 6 dello pseudo-Diogene; e le pseudo-eraclitee Lettere III 312.3 Tarán e IX 350.3 Tarán (per una lista completa, si vedano Marcovich, pp. 369-71, e Mouraviev I, pp. 305 e 368).

2 ajpavgxasqai è lezione di Strabone, confermata dai riferimenti di Musonio Rufo, Giamblico e dello pseudo-Diogene e accolta dalla quasi totalità degli editori e dei traduttori, mentre Diogene Laerzio riporta il più neutro ajpoqanei'n, riecheggiato da Cicerone (morte multandos).

3 pa'si, riferito a ∆Efesivoiı, è lezione che si trova in Diogene Laerzio e in Cicerone (universos) ed è confermata da Luciano e dallo pseudo-Diogene, mentre è omessa da Strabone.

4 Le parole da kai; a katalipei 'n, che si trovano in Diogene Laerzio, sono omesse in Strabone e in Cicerone: si tratta della principale diffe-renza fra le due citazioni, anch’essa generalmente risolta, oggi, seguendo Diogene Laerzio.

5 Le parole a[ndra eJwutw'n ojnhviston, che si trovano in Strabone, sono omesse da Cicerone; il solo termine a[ndra è omesso da Diogene Laerzio.

6 favnteı è lezione di Strabone, preferita dalla quasi totalità degli edi-tori e dei traduttori, mentre Diogene Laerzio ha l’equivalente levgonteı.

7 mhde; ei|ı è lezione di Diogene Laerzio, mentre Strabone ha l’equi-valente mhdei;ı.

8 eij de; mhv è lezione di Strabone, accolta da buona parte degli editori e dei traduttori; Diogene Laerzio riporta invece eij dev tiı toiou'toı («... o se vi è uno che sia tale ...»), confermato da Cicerone (sin quis extiterit) e recepito da Conche, p. 143; si veda su questa scelta Mouraviev III, p. 138, n. 2.

9 La contrapposizione stabilita fra «adulti» e «bambini» (hJbhdo;n ... ajnhvboiı), in tal caso fra gli abitanti di Efeso, non è infrequente nei frammenti eraclitei e non implica, come potrebbe apparire a prima vista, un apprezzamento nei confronti dei secondi, giacché la condizione infantile viene generalmente accostata da Eraclito alla superficialità e alla leggerezza di un’età immatura (cfr. i frr. 44c [70 DK; 92d Marc.], n. 3, 49 [56 DK; 21 Marc.], n. 5, 55 [79 DK; 92 Marc.], n. 2, e 63 [117 DK; 69 Marc.], n. 2); ne consegue naturalmente il carattere ancor più sferzante della critica agli efesini «adulti», evidentemente giudicati con tale disprezzo da rivelarsi perfino inferiori alla forma umana più rozza e primitiva, ossia, appunto, ai «bambini». L’effetto ironico che ne deriva risulta così consapevolmente rafforzato.

10 Il termine ojnhvistoı, che ho reso con «il più capace», seguendo fra gli altri Marcovich, p. 372, Diano-Serra, p. 195, e Conche, p. 144, fa riferi-mento a mio avviso all’«utilità sociale» di Ermodoro e al «giovamento» che, secondo Eraclito, gli efesini avrebbero tratto dalla sua persona e dalla sua azione, dunque alle sue «capacità» e competenze politiche; altri lo rendono invece come sinonimo di a[ristoı o di bevltistoı, dunque

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in relazione al valore e all’eccellenza di Ermodoro, a indicare la sua appartenenza ai pochi a[ristoi cui Eraclito attribuisce una posizione di preminenza sul piano etico e politico (cfr. solo i frr. 72 [49 DK; 98 Marc.] e 73 [29 DK; 95 Marc.], con le relative note di commento): così, per esempio, Kahn, p. 178, Robinson, p. 161, e Pradeau, p. 313. In ogni caso, è piuttosto chiaro che le ragioni della cacciata di Ermodoro sono da Eraclito ricondotte alla sua eccezionalità, che contrasta con la volontà di livellamento che invece prevale fra gli efesini ed è necessariamente ostile a chiunque se ne discosti; ciò è senza dubbio compatible con l’usuale rappresentazione di Eraclito e di Ermodoro come alfieri di una concezione politica aristocratica e, di conseguenza, degli efesini come tendenzialmente favorevoli a un regime democratico o, più esatta-mente, all’ijsonomiva, ma non mi pare sia questo l’aspetto da mettere più immediatamente in luce nelle parole di Eraclito (cfr. la nota seguente).

11 Non possediamo notizie significative sul personaggio di Ermodo-ro, anche se Strabone, che ci informa a margine della sua citazione del presente frammento (cfr. supra, n. 1), e Plinio, Historia naturalis XXXIV 21, affermano che, dopo l’esilio da Efeso, avrebbe collaborato, a Roma, alla redazione o all’interpretazione delle leggi delle «dodici tavole» (che risalgono però a non prima del 449 a.C., cioè troppo tardi per un contemporaneo di Eraclito); si può desumere tuttavia dalle parole di Eraclito, e dalla presentazione di Diogene Laerzio nell’introdurle (cfr. ancora supra, n. 1), che si trattasse di un amico del filosofo, impegnato nella vita politica della sua città, forse con competenze nella legislazione (cfr. Diano-Serra, pp. 194-95), e il fatto, denunciato da Eraclito, che sia stato esiliato in base a una procedura, quella dell’ostracismo, comune nei regimi democratici per allontanare le figure di spicco giudicate come «superiori» alla massa, ne fa probabilmente un esponente di parte aristocratica avversato dalla maggioranza democratica (si vedano su questo punto Conche, pp. 143-44, e Pradeau, p. 313), il che, del resto, corrisponderebbe alle preferenze espresse da Eraclito nei confronti degli a[ristoi, per esempio nei già citati frr. 72 [49 DK; 98 Marc.] e 73 [29 DK; 95 Marc.]. In accordo soprattutto con Kahn, p. 179, e Robinson, p. 161, non mi pare però che i contenuti del presente frammento siano imme-diatamente «politici», nel senso di un’illustrazione e di una comparazione concrete fra esponenti aristocratici e democratici efesini né, tantomeno, fra i due regimi opposti dell’aristocrazia e della democrazia; il punto che Eraclito intende sottolineare sembra piuttosto quello dell’inevitabile conflitto che sorge, in assoluto e a maggior ragione nell’ambito ristretto della povliı, e di Efeso che egli ben conosce, fra i pochi a[ristoi e la massa dei più, in ragione dei contrapposti valori e principi che caratterizzano l’etica degli uni e, per così dire, l’anti-etica degli altri, via via delineate nei precedenti frammenti di questa Sezione 6, che inducono necessa-riamente i secondi a espellere i primi come estranei al corpo sociale, anche al prezzo di una consapevole rinuncia al giovamento che da questi potrebbero trarre, un giovamento che sono disposti a lasciare ad altri, purché la loro condizione di eguale mediocrità rimanga indisturbata dal pungolo della critica o dell’azione dei «migliori» (cfr. su questo punto Bollack-Wismann, pp. 333-34). Non credo si possa andare oltre

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questi scarni rilievi né, soprattutto, ritengo plausibile trarre contenuti «filosofici» ulteriori dal presente frammento, che manifesta piuttosto i tratti di un capolavoro polemico (cfr. Marcovich, p. 372).

Fr. 88 [125a DK; 106 Marc.]1

mh; ejpilivpoi uJma'ı2 plou'toı, jEfevsioi, i{n j ejxelevgcoisqe ponh-reuovmenoi.

Non vi abbandoni la ricchezza, efesini, in modo che possiate dare prova della vostra miseria.3

1 Questo frammento è riportato da G. Tzetzes, Commentarii in Aristophanis Plutum 90a (= 31 Massa Positano), che spiega che il dio Pluto, nell’omonima commedia di Aristofane, è stato reso cieco dai suoi eccessi viziosi: «Ecco perché Eraclito di Efeso rivolge anche lui agli efesini questa critica: ... (Tzetzes cita qui il fr. 88)». Una reminiscenza del presente frammento, utile per un confonto testuale (cfr. la nota seguente), si trova nella pseudo-eraclitea Lettera VIII 346.27-28 Taràn: «Non vi abbandoni la buona sorte (tuvch in luogo di plou'toı), in modo che siate umiliati (ojneidivzhsqe in luogo di ejxelevgcoisqe) per la vostra malvagità». Seguendo Marcovich, p. 374, e soprattutto Mouraviev III, p. 144, nn. 1-3, mi pare si possa ammettere l’autenticità di queste parole di Eraclito, anche se in certa misura parafrasate: gli argomenti avanzati in tal senso da U. von Wilamovitz-Moellendorff, Lesefrüchte, in «Hermes» 62 (1927), pp. 276-78, ripresi in seguito da Kirk, p. 151, Kahn, p. 288, e Pradeau, p. 313, consistono sostanzialmente nel segnalare la «modernità» del linguaggio utilizzato, con particolare riferimento ai verbi ejpileivpein, ejxelevgcein e ponhreuvesqai, che non sarebbero attestati nella letteratura greca arcaica e comunque prima del IV secolo: ora, se questo è vero per ponhreuvesqai, che non compare prima di Aristotele, Retorica III 10, 1411a18, e va quindi considerato quantomeno dubbio, ejpileivpein ed ejxelevgcein si trovano rispettivamente in Erodoto (cfr. la nota seguente) e in Pindaro (cfr. Mouraviev III, p. 144, n. 2). In dubbio rimangono invece Robinson, p. 163, e Conche, p. 141, che si limitano ad accogliere come plausibilmente autentico il contenuto, ma non il linguaggio, della citazione.

2 uJma 'ı è lezione dello pseudo-Eraclito, mentre Tzetzes porta uJmi 'n (che non modifica il significato della proposizione). Condivido la scelta della gran parte degli editori e dei traduttori per uJma'ı, perché la costru-zione di ejpileivpein con l’accusativo di persona («sfuggire a qualcuno»)

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sembra attestata già in Erodoto II 174.1 e VII 21.1 (cfr. Marcovich, p. 374), benché Mouraviev I, pp. 318-19, e III, p. 144, n. 2, sostenga invece che non compare prima di Platone e si esprime perciò in favore di uJmi 'n, inteso come un dativo di interesse.

3 Non mi sembra che il presente frammento chiami in causa pole-micamente la «ricchezza» o la categoria sociale dei «ricchi» come tali, quasi a denunciare un disvalore che corrompe necessariamente e per natura chi ne è in possesso, così configurandosi come un giudizio morale astratto che considero, in questa forma, estraneo all’etica eraclitea (con-tra Diano-Serra, p. 194); piuttosto, della «ricchezza» è posto in luce il carattere di potenziale origine di una condotta sconveniente e colpevole, in relazione all’uso che se ne può fare o che effettivamente gli uomini in generale, e i concittadini di Eraclito in particolare, ne fanno; e degli uomini in generale e degli efesini in particolare tale condotta derivante dall’uso della «ricchezza» rivela (il verbo ejxelevgcein richiama l’atto, anche processuale, del «testimoniare», «dare o mettere alla prova», «dimostrare»), con un notevole effetto di contrasto, la «miseria» (il greco ponhrovı, come in qualche misura il termine «miseria» nelle lingue moderne, fa riferimento tanto alla condizione concreta della «povertà» materiale, quanto allo stato d’animo della «meschinità» morale: è cer-tamente in questo secondo senso che Eraclito sottolinea la «miseria» degli efesini, dichiarandoli appunto «miserabili», ma non è casuale che ciò implichi un paradossale rovesciamento degli effetti della «ricchezza», che rende «povero» chi la possiede e ne usa impropriamente, cfr. pure Bollack-Wismann, pp. 342-43, e Mouraviev III, p. 144, n. 4). Che l’invettiva eraclitea comporti l’auspicio che, non venendo loro meno la ricchezza, gli efesini persistano nella sfrenata condotta pubblica e privata che li caratterizza, dando prova di u{briı e incorrendo perciò nella punizione prevista per chi eccede i limiti e per soffocarne la «dismisura» (cfr. supra, il fr. 71 [43 DK; 102 Marc.], n. 4; così Robinson, p. 163), oppure la constatazione che è l’uso depravato della ricchezza che essi fanno a svelare il loro animo malvagio (così Conche, p. 142), è innanzitutto evi-dente la connessione con il precedente fr. 87 [121 DK; 105 Marc.] e con il tono ugualmente aggressivo e violento (con l’esortazione agli efesini a «impiccarsi» e ad «abbandonare la città ai bambini») lì utilizzato per accusare i concittadini della cacciata di Ermodoro e stigmatizzare la loro refrattarietà ai valori e ai principi degli a[ristoi (cfr. la relativa n. 11): mi pare dunque plausibile che, nel contesto di un’analoga interpretazione, queste parole vadano intese come un’altrettanto feroce critica dei bassi comportamenti e delle inclinazioni perverse della massa dei più, qui esemplificati dall’uso smodato e mal orientato della ricchezza da parte degli efesini, che non sanno identificare né comprendono il paradigma «etico-normativo» aristocratico delineato da Eraclito, che invece si nutre di ideali e aspirazioni che trascendono l’orizzonte immediato dei beni materiali e della quotidianità «biologica» della vita della maggior parte degli uomini, ridotti al livello istintuale e primario degli «animali». Se questa lettura è plausibile, non escluderei inoltre una ricostruzione più ampia che si può sintetizzare come segue: la ricchezza (del presente fr. 88) di chi rifiuta l’emendazione morale prodotta dall’obbedienza ai

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«migliori» e li scaccia (come Ermodoro nel fr. 87), a Efeso e in assoluto, diviene prova e manifestazione di malvagità (nel presente fr. 88), che può talora apparire vincente e sovrastare la sorte dei pochi a[ristoi (ancora in riferimento a Ermodoro nel fr. 87), ma non protegge in ultima analisi da «ciò che non tramonta mai», cioè dal giudizio che dipende da valori e norme che oltrepassano il ristretto contesto di una povliı o dei suoi cittadini, perché risponde a una nozione di «giustizia» costruita sul modello della condotta e della volontà eccezionali dei «migliori», quella «giustizia» il cui «nome» è «conosciuto» in fin dei conti da tutti gli uomini (cfr. supra, i frr. 85 [23 DK; 45 Marc.], n. 4, e 86 [16 DK; 81 Marc.], n. 3).

Fr. 89 [74 DK; 89 Marc.]1

(scil., dei' ...) oujd∆ wJı pai'daı2 tokewvnwn3 (scil., poiei'n kai; levgein).4

Non (scil., bisogna agire e parlare) come figli dei propri genitori.5

1 Questo frammento è riportato da Marco Aurelio IV 46 a conclu-sione della serie delle sue citazioni eraclitee, dopo quelle che considero come reminiscenze dei frr. 62 [36 DK; 66 Marc.], cfr. n. 1 (= 76 DK; 66e3 Marc.), e 63 [117 DK; 69 Marc.], cfr. n. 1 (= 71 DK; 69b1 Marc.), e dopo i frr. 4 [72 DK; 4 Marc.] e 1a [73 DK; 1h1 Marc.], con quest’ultimo in una sequenza sintatticamente continua, intervallata da un inciso esplicativo dovuto al citatore (cfr. n. 1 al fr. 1a): «Non bisogna agire e parlare (ouj dei' ... poiei'n kai; levgein) come dormendo (fr. 1a) – infatti, ci pare di agire e parlare anche allora [scil., dormendo]) – né come (oujd jwJı) figli dei propri genitori» (fr. 89). Benché tale unità sintattica spieghi la forma decisamente ellittica del presente frammento (cfr. la nota seguente e infra, n. 4), non credo si possa tuttavia dedurne che esso costituisca un’unità con il fr. 1a, come invece suggerisce Mouraviev I, pp. 178-79, e III, p. 83, nn. 2-3, in primo luogo perché Marco Aurelio utilizza eviden-temente una modalità di citazione «a memoria» e in forma di lista di detti significativi che gli preme ricordare, e che possono dunque indurlo a presentare in serie, per le sue esigenze, estratti di per sé distanti nel loro contesto originale; in secondo luogo, perché, così stando le cose, il senso delle due affermazioni mi pare differente, se i «dormienti» del fr. 1a, che non vanno imitati quanto alle azioni e ai discorsi, sembrano da accostare alla maggioranza degli uomini che non accedono all’ascolto e alla comprensione del lovgoı del fr. 1 [1 DK; 1 Marc.], mentre la distanza

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che il presente frammento esorta a mantenere rispetto ai «propri geni-tori» allude a mio avviso all’ambito comportamentale ed etico, anche se, naturalmente, non è affatto implausibile che, in senso lato, «quanti agiscono e parlano come figli dei propri genitori» coincidano con la stessa massa dei più che Eraclito denuncia come «dormienti». Del resto, è in questa direzione che va la spiegazione offerta da Marco Aurelio, visto che egli chiude la sua citazione con il seguente commento (giudicato come parte integrante dell’originale eracliteo in DK): «... vale a dire semplicemente, come ci è stato tramandato», che indica perciò che «agire e parlare», o in generale «comportarsi», «come figli dei propri genitori» equivale a una pedissequa ripetizione di usi e atteggiamenti considerati inadeguati. Non si può escludere che parte del presente frammento, come altri della serie citata da Marco Aurelio, sia parafrasata (cfr. per esempio infra, n. 4); Bollack-Wismann, p. 233, Kahn, p. 106, e, appena più dubitativamente, Robinson, p. 129, ritengono che lo sia nella sua totalità. Di esso si trovano citazioni parziali, o semplici espressioni allusive, in alcuni epigrammi contenuti nell’Anthologia Palatina VII 79.3-4 e 408.3.

2 La lezione che si trova in Marco Aurelio è l’indifendibile ouj dei ' pai'daı (che lascia la proposizione sospesa: «Non bisogna che i figli dei propri genitori [scil., agiscano e parlino] ...»); l’indispensabile correzione del testo tradito consiste nell’inserzione di wJı (suggerita da Casaubon, seguito dalla gran parte degli editori e dei traduttori), o dell’analogo w{sper (ouj dei' <wJı o w{sper> pai'daı, «non bisogna [scil., agire e parlare] come figli dei propri genitori»), eventualmente con la contemporanea espunzione di dei ' (ipotizzata da Schenkl e accolta da Pradeau, p. 298, e Mouraviev I, pp. 178-79), in tal caso facendo reggere la proposizione dallo stesso dei', di poco precedente in Marco Aurelio, che introduce la citazione del fr. 1a [73 DK; 1h1 Marc.] (ouj dei ' ... oujd jwJı pai'daı, «non bisogna ... né [scil., agire e parlare] come figli dei propri genitori», cfr. la nota precedente). La mia preferenza per la seconda soluzione, che dipende solo dal fatto che essa pare paleograficamente più plausibile, stabilisce senza dubbio una più stretta connessione sintattica fra il fr. 1a e il presente frammento, ma solo nell’ambito della citazione di Marco Aurelio e senza nulla presumere della loro continuità nel con-testo eracliteo originale, che, come detto nella nota precedente, non mi sembra probabile.

3 tokewvnwn, riconosciuto come sinonimo, in dialetto ionico, dell’attico tokeuvı, è correzione suggerita da Headlam e Rendall, accolta in seguito dalla totalità degli editori e dei traduttori, di tokevwn w|n di Marco Aurelio.

4 poiei 'n kai; levgein sono certamente gli infiniti presupposti dal contesto di Marco Aurelio (lì ripetuti per ben due volte, cfr. supra, n. 1) e sottintesi infatti dalla quasi totalità degli editori e dei traduttori; il solo Mouraviev I, p. 179, e III, p. 83, nn. 3-5, sulla base della citazione contenuta nell’Anthologia Palatina VII 79.3-4, suggerisce di sostituire i due infiniti, che giudica banali (sic), con uJlaktei'n («latrare», «abbaia-re»), forse meno banale, ma a mio avviso non molto perspicuo. Non è chiaro, tuttavia, se poiei'n kai; levgein si debba a Marco Aurelio, sicché le parole riconducibili a Eraclito si ridurrebbero in tal caso all’espressione proverbiale pai'daı tokewvnwn (cfr. Marcovich, p. 327, e Conche, p. 74),

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eventualmente accompagnata nell’originale da qualche altra espressione omessa dal citatore.

5 Se, come mi pare plausibile, l’espressione forse proverbiale pai'daı tokewvnwn è correttamente spiegata da Marco Aurelio nella chiusa della sua citazione (cfr. supra, n. 1), essa implica allora un’attitudine decisa-mente critica nei confronti dei «genitori», da cui occorre differenziarsi (indipendentemente dall’ambito specifico nel quale occorre differen-ziarsi da loro, cfr. la nota precedente), con l’introduzione dell’apparente paradosso secondo il quale, pur essendo figli «biologici» dei propri genitori, non si deve però esserne «figli» dal punto di vista delle azioni e dei discorsi, né tantomeno dei comportamenti e dei modi di essere; o ancora, se essere «figli dei propri genitori» esprime un fatto di imme-diata evidenza e necessità, l’esortazione di Eraclito diviene perfino più radicale, perché consiste in ultima analisi nell’invito, o piuttosto nella prescrizione, a «non essere ciò che si è», mettendo in atto una profon-da conversione di sé, abbandonando usi e atteggiamenti tramandati, senza dubbio per abbracciare una condotta più adeguata alla verità e all’autenticità della propria natura. Rimane tuttavia da precisare se tale prescrizione vada intesa in termini generici o se assuma invece conte-nuti e riferimenti ben determinati; ciò, naturalmente, in forma soltanto congetturale, dal momento che né i materiali eraclitei superstiti né il contesto della citazione ci forniscono indicazioni univoche: Marcovich, p. 327, ha supposto per parte sua che la presa di distanza dai propri genitori cui Eraclito esorta alluda alla sua revisione, talora condotta con feroce ironia, delle credenze religiose tradizionali; mentre a una critica più ampia della tradizione e dei saperi tramandati, particolar-mente sul piano pedagogico ed etico, pensano, con toni appena diversi, Kahn, p. 106, Diano-Serra, pp. 180-81, Conche, pp. 74-75, Robinson, p. 129, e Pradeau, p. 298. Ora, che Eraclito sottoponga le forme religiose e di culto popolari e tradizionali a una serrata e spietata valutazione è evidente, per esempio, dai seguenti frr. 90 [14 DK; 87 Marc.], 91 [96 DK; 76 Marc.], 92 [5 DK; 86 Marc.] e 93 [15 DK; 50 Marc.] (per i quali si vedano le relative note di commento), come pure non manca la consapevolezza del carattere innovativo delle tesi escatologiche da lui formulate (cfr. supra, il fr. 67 [27 DK; 74 Marc.], specie n. 2); altrettanto manifesta è infine anche la disapprovazione, di frequente ribadita, dei saperi diffusi e dell’educazione che si ispira ai «maestri» più reputati (cfr. per esempio supra, i frr. 47 [104 DK; 101 Marc.], n. 7, 48 [40 DK; 16 Marc.], n. 5, 49 [56 DK; 21 Marc.], n. 5, 49a [42 DK; 30 Marc.], n. 3, 50 [57 DK; 43 Marc.], n. 4, 51 [129 DK; 17 Marc.], n. 6). Se le ipotesi evocate colgono senza dubbio una serie di aspetti indiscutibilmente presenti e ben attestati nella riflessione di Eraclito, credo però che il riferimento alla relazione «genitori-figli», con quanto essa comporta dal punto di vista dell’eredità e della trasmissione – nella famiglia o nel «clan», ossia appunto «di padre in figlio» – di beni materiali come di valori, di memorie come di costumi sociali, di principi morali come di ruoli politici, suggerisca un’interpretazione più ristretta e specifica del presente frammento, che conterrebbe una sollecitazione e a un tempo un ammonimento ad abbandonare il paradigma etico della tradizione,

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346 FR. 90 [14 DK; 87 MARC.]

ormai svuotato di significati e reso sterile, e perciò incapace di fungere da modello di virtù per i cittadini della povliı «moderna», come ben mostra l’esempio degli efesini richiamato nei precedenti frr. 87 [121 DK; 105 Marc.] e 88 [125a DK; 106 Marc.], in favore dell’etica degli a[ristoi propugnata da Eraclito, che, come emerge nei materiali raccolti in questa Sezione 6 e come si è via via argomentato nelle note di commento, si basa su principi, valori e ideali, che intrattengono una relazione complessa con la concezione tradizionale e mirano al suo rinnovamento, in ogni caso distinguendosi nettamente dall’etica «diffusa» e condivisa dai più e da costoro rimanendo altrettanto nettamente ignorati e incompresi.

Fr. 90 [14 DK; 87 Marc.]1

ta;;2 nomizovmena kat∆ ajnqrwvpouı musthvria ajnierwsti; mueu'ntai.3

È empia l’iniziazione che praticano ai misteri diffusi fra gli uomini.4

1 Questo frammento è riportato da Clemente Alessandrino, Pro-trepticus 22.2 (= I 16 Stählin) = Eusebio, Praeparatio evangelica II 3.37 (= I 85.11 Mras), dopo una variante del fr. 67 [27 DK; 74 Marc.], cfr. n. 1, nel contesto di una veemente critica dei riti religiosi greci e partico-larmente dei misteri di Eleusi: «Riti veramente degni della notte, del fuoco e del “popolo del magnanimo Eretteo” (scil., gli ateniesi, cfr. Iliade II 547) e degli altri greci: ... (Clemente cita qui una variante del fr. 67). Per chi profetizza allora Eraclito di Efeso? Per chi va in giro di notte, magi, baccanti, menadi e iniziati, questi minaccia per ciò che seguirà la morte, a questi profetizza il fuoco (nuktipovloiı mavgoiı bavkcoiı lhvnaiı muvstaiı ... touvtoiı ... to; pu'r): infatti, ... (Clemente cita qui il fr. 90). I riti iniziatici non sono dunque che una tradizione, una vuota presunzione, un inganno di serpente accettato con venerazione; con spirito religioso impuro ci si rivolge a iniziazioni davvero profane, celebrazioni prive di reale religiosità». Vi è disaccordo fra i commentatori sull’esatta esten-sione del brano riconoducibile a Eraclito nella citazione di Clemente: pur dubitativamente, l’enumerazione dei destinatari cui si rivolge Era-clito («...chi va in giro di notte, magi, baccanti, menadi e iniziati ...») è riportata come autentica in DK (= 14a), cui è fatta poi seguire la critica più specifica che riguarda l’«empietà» dell’iniziazione ai riti misterici (= 14b); in questa forma completa, e inoltre restituendo alla prima parte to; pu'r, che rappresenterebbe il contenuto della minaccia da Eraclito

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indirizzata appunto ai suoi destinatari («... a chi va in giro di notte, a magi, baccanti, menadi e iniziati ... il fuoco!»), ma espungendo, come glossa esplicativa di Clemente, nomizovmena kat jajnqrwvpouı («... Infatti, è empia l’iniziazione che praticano ai misteri [diffusi fra gli uomini]»), la citazione è proposta oggi da Mouraviev I, pp. 49-50, e III, p. 22, nn. 1-4, al quale rimando inoltre per una rassegna dell’insieme delle posi-zioni assunte in proposito dagli studiosi. Appena meno «generosi» nei confronti di Eraclito sono Bollack-Wismann, p. 92, e Conche, pp. 161-63 e 167-70, che considerano autentiche entrambe le parti della citazione (14a-14b), volgendo al nominativo i termini elencati nella prima (14a), ma senza la restituzione di to; pu 'r e collocandole, nel caso di Conche, come due frammenti distinti la cui connessione rimane problematica e poco chiara; mentre respingono del tutto l’autenticità della prima parte (14a) Marcovich, pp. 322-24, sulla scorta di Wiese, Heraklit bei Klemens von Alexandrien, cit., pp. 21-24, che denuncia come caratte-ristico del Protrepticus di Clemente Alessandrino l’uso di far seguire una domanda retorica da una risposta che consiste in un’enumerazione di nomi e sostiene che nessuna delle parole di 14a può appartenere a Eraclito (mavgoi, perché attestato solo più tardi nel senso di «incantato-re» o «ciarlatano» oppure fuori luogo, se riferito alla casta persiana dei «magi», nella Efeso del VI-V secolo; nuktipovloi, perché non attestato prima di Euripide e in ogni caso come aggettivo da riferire a bavkcoi; e muvstai, perché più plausibilmente introdotto da Clemente Alessandrino per collegare «baccanti» e «menadi» del culto dionisiaco ai misteri di Eleusi, evocati nella successiva citazione eraclitea con ta; musthvria), e D. Babut, Héraclite et la religion populaire: fragments 14, 69, 68, 15 et 5 Diels-Kranz, in «Revue des études anciennes» 77 (1975), pp. 27-62, che constata invece come queste parole alludano a categorie («... magi, baccanti, menadi ...») più numerose di quelle chiamate in causa dalla successiva allusione ai misteri (così pure Diano-Serra, pp. 52-53 e 191-92). Personalmente, condivido l’ipotesi già formulata, fra gli altri, da Kahn, pp. 80-81 e 262, Robinson, pp. 85-86, e Pradeau, pp. 320-21, secondo la quale la prima parte della citazione (14a) ci fornisce verosimilmente l’adeguato contesto di riferimento da cui Clemente estrae la citazione eraclitea, e forse anche alcune parole originali di esso (per esempio, e soprattutto, lhvnaiı, che richiama il verbo lhnai?zousin del fr. 93 [15 DK; 50 Marc.]), ma così ben inserite, stilisticamente e sintatticamente, nello svolgimento di Clemente da rendere assai incerta l’eventuale precisazione di un’ulteriore citazione letterale. Benché da tenere in considerazione per l’interpretazione del presente frammento (cfr. infra, n. 4), non con-sidero quindi possibile ritenere la prima parte della citazione (14a), o sue porzioni isolate, nel testo stampato e tradotto.

2 Con buona parte degli editori e dei traduttori, considero il gavr presente in questo punto in Clemente come parte del contesto e non della citazione eraclitea.

3 mueu 'ntai è lezione dei manoscritti ONV di Eusebio, mentre il manoscritto B porta mueu 'tai e il manoscritto C ha muou'ntai, adottato, senza che muti però il significato, per esempio da Marcovich, p. 322, Kahn, pp. 80-81, Conche, p. 161, Robinson, pp. 17-18, e Pradeau, p. 320.

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4 Si deve senz’altro intendere ta; ... musthvria all’accusativo, come oggetto interno del verbo mueu 'ntai, e il soggetto della proposizione sottinteso, verosimilmente «gli uomini» o «i molti» (meno plausibile l’ipotesi di Marcovich, p. 324, che pensa si debba sottintendere «gli efesini», perché il rilievo di Eraclito ha un carattere evidentemente generale che non riguarda soltanto i suoi vituperati concittadini, la cui disapprovazione, nei frr. 87 [121 DK; 105 Marc.] e 88 [125a DK; 106 Marc.], è connessa piuttosto a una valutazione di natura etico-politica, cfr. rispettivamente le nn. 11 e 3); la costruzione alternativa, con ta; ... musthvria al nominativo, come soggetto della proposizione, è teorica-mente possibile, ma improbabile («i misteri diffusi fra gli uomini sono praticati in modo empio»). Il riferimento ai «misteri», la cui menzione qui è la più antica a noi nota, è forse riconducibile al culto di Demetra. Secondo Diano-Serra, p. 192, e Robinson, p. 85, la polemica di Eraclito non sarebbe rivolta propriamente ai «misteri» come forma o genere di culto, ma ai modi specifici e concreti in cui gli uomini vi si accostano, che si rivelerebbero «empi» in quanto inadeguati alla profondità spirituale del rito e alla sacralità della sua celebrazione, come potrebbero effetti-vamente suggerire, per esempio, i frr. 92 [5 DK; 86 Marc.] e 93 [15 DK; 50 Marc.], per i quali, però, si vedano le relative note di commento; resta tuttavia che, accogliendo una simile interpretazione, nessun elemento ci fornisce indicazioni precise sulla natura della critica di Eraclito, a meno di non limitarsi a supporre che egli voglia stigmatizzare le falsità e le mistificazioni dei responsabili della celebrazione dei «misteri», che si arrogano un diritto esclusivo al possesso e alla centellinata diffusione di conoscenze sull’aldilà reputate straordinarie, che invece, a un esame disincantato, consistono soltanto di menzogne fabbricate ad arte per ingannare i creduloni. D’altro canto, Bollack-Wismann, p. 94, Marcovich, pp. 324-25, Kahn, p. 263, e Conche, pp. 164-66, considerano la critica di Eraclito come assai più radicale e non tanto relativa alle modalità dell’iniziazione o della pratica dei «misteri», bensì ai «misteri» stessi, come istituzione e culto diffusi e popolari – proprio tale diffusione dei «misteri», secondo Marcovich, p. 325, sarebbe sottolineata con toni sprezzanti dall’espressione ta; nomizovmena kat jajnqrwvpouı, «i misteri ... diffusi fra gli uomini» – una critica che discenderebbe allora verosi-milmente da un’incompatibilità di fondo fra le promesse escatologiche dei «misteri» e la dottrina filosofica dello stesso Eraclito (anche se particolarmente Conche, p. 164, si spinge a mio avviso troppo oltre, tentando di formulare ipotesi specifiche sulle forme dei «misteri» in questione e su un loro eventuale rapporto con la biografia di Eraclito). Sulla stessa linea, Pradeau, pp. 320-21, attribuisce a Eraclito, in base al contesto della citazione di Clemente Alessandrino (cfr. supra, n. 1), l’intenzione di predire a quanti credono in un destino escatologico da guadagnare attraverso le pratiche religiose una ben precisa punizione «fisico-cosmologica», l’estinzione nel fuoco, da concepire tuttavia, senza sfumature morali o religiose, come necessario ritorno all’origine e al fondamento di tutte le cose (il «fuoco»); e questa predizione, rivolta «a chi va in giro di notte», con la conseguente esplicitazione delle figure dei «nottambuli», riguarderebbe la generalità degli uomini, che

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FR. 91 [96 DK; 76 MARC.] 349

sono «dormienti», e perciò appunto «nottambuli», perché incapaci di cogliere, tramite l’ascolto e la comprensione del lovgoı, la verità del suo insegnamento: su tale identificazione dei «nottambuli», come categoria comprensiva di figure appartenenti a o praticanti diversi riti, concorda Conche, p. 170, che considera tuttavia, come ricordato supra, n. 1, la prima parte della citazione (14a) come indipendente dalla seconda (14b), sicché non trae nessun conseguenza per il presente frammento dall’identificazione della schiera dei «nottambuli». Credo per parte mia che questa interpretazione sia in effetti favorita dal contesto della citazione, da cui si deve trarre, con l’enumerazione delle diverse pratiche religiose evocate («... magi, baccanti, menadi e iniziati ...», tutti sprez-zantemente accomunati dall’etichetta di «nottambuli»), una condanna, tanto assoluta quanto estesa, dei loro tratti ridicoli, ingiustificati e quindi perfino empi, se si tiene conto della funzione spirituale che si presume possiedano e del destinatario divino cui intendono rivolgersi. Del resto, che la polemica di Eraclito investa i culti religiosi tradizionali e/o popolari come tali, ponendosi come portatrice di dottrine «nuove» e «inusuali», risulta abbastanza evidente, per esempio, dai frr. 67 [27 DK; 74 Marc.], cfr. n. 2, e 91 [96 DK; 76 Marc.], cfr. n. 3; si può dunque suggerire che il presente frammento si collochi fra le valutazioni e le prescrizioni che, nell’ambito della riflessione etica di Eraclito, sono specificamente dedi-cate agli usi e ai comportamenti degli uomini in materia di devozione e credenze religiose, qui pure supponendo un sostanziale disprezzo delle pratiche tradizionali e popolari, in una prospettiva che, se si esita giustamente a definire propriamente razionalista e «modernizzatrice», appare però certamente finalizzata a una profonda revisione delle credenze trasmesse e diffuse, di cui, con una buona dose di sferzante ironia, vengono sottolineate le incongruenze e i paradossi.

Fr. 91 [96 DK; 76 Marc.]1

nevkueı2 koprivwn ejkblhtovteroi.

I cadaveri bisogna gettarli via più dello sterco.3

1 Questo frammento è riportato, pressoché identicamente, da Stra-bone, Geographia XVI 4.26, Plutarco, Quaestiones Conviviales IV 4, 669a, e Celso, in Origene, Contra Celsum V 14 (= II 15.19 Koetschau), a testimoniare, per un verso, del disprezzo nutrito in generale da Era-clito nei confronti del «corpo», quando sia morto, ma anche, per altro verso, della sua inferiorità rispetto all’anima che se ne allontana alla morte. Numerose citazioni e reminiscenze (per le quali cfr. Marcovich,

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pp. 282-84, e Mouraviev I, p. 243) sono attestate nella tradizione, talora senza menzione del nome di Eraclito (cfr. per esempio Plotino, Enneadi V 1 [10] 2.40), oppure con l’attribuzione a Empedocle (cfr. Eustazio, In Iliadem XXIV 54) o perfino a Democrito (cfr. Michele Acominato, Epistulae 170.1 [= II 335.15 Lampros]).

2 Plutarco e Plotino riportano qui gavr, mantenuto da parte degli editori e dei traduttori, che sembra però appartenere al contesto della citazione più che a quest’ultima: cfr. Mouraviev III, p. 118.

3 Non credo si possa condividere la posizione di Marcovich, p. 284 (ma si vedano pure Kahn, p. 213, e Robinson, p. 145), che, di fatto basandosi sugli argomenti di una parte parte dei citatori del presente frammento (cfr. supra, n. 1), giudica la polemica di Eraclito, frutto di un «ostentato e illuministico radicalismo», come rivolta qui ai riti funebri praticati dagli uomini ed esclusivamente per il trattamento in essi riservato al «corpo» morto, ma non all’anima che, di natura «focosa», rimarrebbe immortale. Mi pare si sia ampiamente constatato come gli elementi della dottrina psicologica di Eraclito tratti dai materiali raccolti e illustrati supra, nella Sezione 5, contraddicano esplicitamente una simile conclusione, dal momento che la «morte» dell’anima, da intendere come un ritorno nel ciclo generale della trasformazione degli elementi, sul piano fisico-cosmologico e psico-fisiologico, è inequivocabilmente descritta, per esempio, nel fr. 62 [36 DK; 66 Marc.], cfr. n. 2 (e l’Introduzione, § 4.5); così stando le cose, e riprendendo una diagnosi già formulata nel precedente fr. 90 [14 DK; 87 Marc.], cfr. n. 4, rispetto ai culti religiosi tradizionali e popolari in generale, ne consegue necessariamente un’interpretazione (questa si davvero «radicale» e «illuminista», se è lecito impiegare tali espressioni anacronistiche) che sancisce una critica netta, forse anche volutamente oltraggiosa (cfr. per esempio Bollack-Wismann, p. 279, e Kahn, p. 212, che fa riferimento, come immagine del senso comune diffuso fra i greci, alla celebre vicenda dell’Antigone), di ogni pratica funebre e di ogni rito che evochi direttamente o indirettamente una dimensione escatologica, chiunque ne sia oggetto, dunque anche i «migliori» fra gli uomini o i più nobili fra gli «eroi», e ciò in quanto, alla morte, l’anima appunto si dissolve nel ciclo generale della trasformazione degli elementi e di tutte le cose, mentre il corpo che resta visibile non è altro che «carne» o «materia» morta, da cui è ormai scomparso ogni processo vitale e che conviene perciò gettare via «più dello sterco» o del «letame» (il termine kovproı può indicare tanto il «letame», nel qual caso l’uso del comparativo ejkblhtovteroı allude all’ancora minor valore dei corpi «morti» rispetto al letame, che possiede almeno il potere di concimare il terreno, ma anche semplicemente lo «sterco», a suggerire quindi che esso ha maggior pregio dei corpi «morti» in quanto prodotto, per quanto infimo, di un essere «vivente»). Su questa linea anche Conche, pp. 319-21, e Pradeau, p. 291; mentre piuttosto a una lettura «politica», secondo la quale il presente frammento mirerebbe a ridicolizzare l’eccesso di lusso dei funerali dei ricchi cittadini di Efeso, rinviano Diano-Serra, p. 182.

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Fr. 92 [5 DK; 86 Marc.]1

kaqaivrontai d ja[llwı ai{mati2 miainovmenoi <oJk>oi'on3 ei[ tiı eijı4 phlo;n ejmba;ı phlw'/ ajponivzoito: maivnesqai d ja]n dokoivh,

ei[ tiı aujto;n5 ajnqrwvpwn6 ejpifravsaito ou{tw poiou'nta.7 kai; toi'ı8 ajgavlmasi de;9 toutevoisin10 eu[contai,11 oJkoi'on12 ei[ tiı

toi'ı13 dovmoisi14 leschneuvoito, ou[ ti ginwvskwn qeou;ı oujd∆ h{rwaı oi{tinevı eijsi.15

Vanamente si purificano con il sangue di cui si macchiano, come se chi si fosse immerso nel fango si lavasse con il fango:16 se un uomo lo vedesse far questo, lo giudicherebbe pazzo.17 Pregano inoltre queste statue, come chi parlasse con le mura di casa, non sapendo chi siano dei ed eroi.18

1 Questo frammento, nella forma in cui è stampato qui, deriva dalla combinazione di due fonti indipendenti, che si lasciano però facilmente integrare fra loro. Si tratta innanzitutto di Aristocrito, Theosophia 68 (= 184 Erbse), che cita le parole di Eraclito a conferma della controversia, che egli sta illustrando, che sussiste fra i greci intorno agli dei, quali si debbano apprezzare, con sacrifici e preghiere, e quali vadano invece trascurati: «Anche Eraclito se la prende con quelli che offrono sacri-fici ai demoni, dicendo: ... (Aristocrito cita qui il fr. 92, da kaqaivrontai a leschneuvoito). E dice pure agli egizi: “Se gli dei esistono, perché li compiangete? E se li compiangete, non li considerate come dei” (= fr. 127 DK; 119 Marc.)»; quindi di Celso, in Origene, Contra Celsum VII 62 (= II 212.3 Koetschau), nell’ambito di una polemica contro i cri-stiani che condannano ogni forma di rappresentazione materiale della divinità: «Non possono (scil., i cristiani) sopportare la vista di templi, altari, statue ... Ed è anche l’atteggiamento dei persiani, come racconta Erodoto: “I persiani, da quanto ne so, osservano queste tradizioni: non innalzano statue né templi né altari; dichiarano anzi pazzi quelli che lo fanno, perché, credo, non hanno mai pensato, come i greci, che gli dei condividono la stessa natura degli uomini” (= Erodoto I 131). Ed ecco, più ancora, quel che dice Eraclito: ... (Celso cita qui il fr. 92, da kai; toi'ı ajgavlmasi a oi{tinevı eijsi). Che cosa ci insegnano costoro di più saggio di Eraclito? Egli in effetti intende dire che è insensato pregare le statue se non si sa chi siano, e di che natura, dei ed eroi: questa è la sua opinione, mentre essi disprezzano apertamente le statue». A partire da kai; toi 'ı ajgavlmasi possediamo dunque due versioni sostanzialmente convergenti del presente frammento (ma cfr. infra, nn. 8-15), la seconda delle quali ce ne fornisce inoltre la conclusione. Fra le numerose reminiscenze, più

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o meno dirette, di queste parole (cfr. in proposito Marcovich, pp. 317-19, e Mouraviev I, p. 22), vanno ricordate almeno due citazioni parziali di Clemente Alessandrino, Protrepticus 50.4 (= I 39 Stählin), da kai; toi'ı ajgavlmasi a leschneuvoito, e di Elia di Creta, In Gregorii Nazanzieni Orationes 25.15, da kaqaivrontai a ajponivzoito. Come si evince dal bra-no sopra riportato, Aristocrito aggiunge come eraclitea un’ulteriore affermazione che non può tuttavia essere considerata autentica: già collocata fra i dubia in DK (fr. 127) e da Marcovich (fr. 119), essa si trova citata, risalendo all’indietro nel tempo, da Epifanio, Ancoratus 104.1, che la attribuisce a Eraclito, da Clemente Alessandrino, Protrepticus 24.3 (= I 18 Stählin), questa volta senza attribuzione, da Plutarco, De Iside et Osiride 379b, De superstitione 171d-e e Amatorius 763c, che la attribuisce a Senofane, dagli pseudo-plutarchei Apophthegmata Laco-nica 26, 228d-e, in cui è attribuita allo spartano Licurgo e indirizzata non più agli egizi, ma ai tebani, e infine da Aristotele, Retorica II 23, 1400b7-9 (= 21 A 13 DK), che di nuovo la attribuisce a Senofane e pone gli eleati come suoi interlocutori; si comprenderà come una simile confusione nell’attribuzione debba essere dipesa da numerosi scambi ed errori delle fonti intermedie (cfr. Marcovich, pp. 403-05) e mi pare inverosimile argomentare, con Mouraviev III, p. 148, n. 2, che Eraclito stesso potrebbe aver evocato l’aneddoto per i suoi fini, ma in relazione a Senofane, donde la falsa attribuzione (appunto a Senofane). Giudico pure inautentica un’altra affermazione che nella Theosophia (74 [= 185 Erbse]) è anch’essa attribuita a Eraclito: «Rivolgono preghiere alle statue (ajgavlmasin eu[contai) dei demoni che non ascoltano, come se ascoltassero, e che non le esaudiscono, come se non chiedessero davvero». Il testo, di per sé tormentato da possibili corruzioni, non mi sembra che una rielaborazione e un approfondimento, probabilmente di ambiente cristiano, del presente frammento e come tale è considerato dalla quasi totalità degli editori e dei traduttori, per esempio in DK (fr. 128, fra i dubia) e da Marcovich, p. 318 (fr. 86g1); il solo Mouraviev III, pp. 149-50, pur dubitativamente, tenta invece di difenderne l’autenticità in ragione della sua complessa e sofisticata struttura.

2 a[llwı ai{mati è lezione di Aristocrito, accolta da buona parte degli editori e dei traduttori, di cui è stata proposta da Fränkel la correzione in a[llw/ ai{mati, dunque riferendo a[llw/, al dativo, a ai{mati («... si puri-ficano macchiandosi con altro sangue ...»), per esplicitare le modalità (del tentativo) di purificazione in questione (appunto «con altro sangue [scil., oltre quello di cui si sono macchiati]»): così, per esempio, DK e, oggi, Diano-Serra, pp. 52-53 e 190-91; mentre Wilamovitz ha proposto l’espunzione di a[llwı basandosi sulla citazione di Elia di Creta che lo omette. Mantenendo il testo tradito e prendendo a[llwı come avverbio, il significato rimane tuttavia altrettanto perspicuo («Vanamente si puri-ficano con il sangue di cui si macchiano [scil., è vana la purificazione attraverso il sangue di cui si macchiano]»).

3 <oJk>oi'on è correzione di Neumann, accolta per esempio da Marco-vich, p. 316, n. 2, e da Mouraviev I, p. 23, della lezione oi|on di Aristocrito e di w{sper a]n di Elia di Creta. Benché il tentativo sistematico di restituire una forma ionica, come qui <oJk>oi 'on in luogo di oi|on, sia in generale,

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nel caso di fonti così tarde come Aristocrito, poco sensato, va tuttavia considerato il parallelo con il secondo oi|on che in Aristocrito compare poco oltre, per il quale Celso e Clemente, che ci trasmettono entrambi quella parte della citazione (cfr. supra, n. 1), portano appunto la lezione oJkoi'on (cfr. infra, n. 12).

4 eijı è lezione di Aristocrito come di Elia di Creta, che Neumann, seguito da alcuni, ha proposto di correggere in ejı, più frequente, ma non indispensabile, quando la preposizione precede una consonante.

5 aujto;n è correzione minimale di Neumann di ajuton di Aristocrito; Snell ha invece proposto di restituire la forma ionica min, accolta per esempio da Marcovich, p. 316, n. 5, Kahn, p. 80, Diano-Serra, p. 52, e Robinson, p. 12.

6 ajnqrwvpwn, al genitivo plurale, è lezione di Aristocrito, di cui Wila-movitz ha suggerito l’espunzione come dittografia, mentre Deichgräber ha proposto la correzione all’accusativo singolare a[nqrwpon. Ma il testo tradito, sospettato di una certa pesantezza e ripetitività («... se uno degli uomini lo vedesse far questo ...»), può essere senza dubbio mantenuto, come fa del resto la quasi totalità degli editori e dei traduttori.

7 Come annunciato supra, n. 3, non mi pare né sensato né plausibi-le, nel caso di una fonte tarda come Aristocrito, tentare di ristabilire eventuali forme ioniche più prossime all’originale, quando non vi siano appigli in tal senso nella tradizione manoscritta di nessuno dei diversi citatori (come invece nel caso precedentemente discusso di <oJk>oi 'on); di conseguenza, mantengo qui le lezioni dokoivh e poiou'nta, trasmesse da Aristocrito, in luogo dei corrispondenti dokevoi e poievonta congettu-rati rispettivamente da Buresch e Neumann, e accolti, per esempio, da Marcovich, p. 316, nn. 4 e 7. Comunque inconseguente la scelta di quanti non si attengono a un medesimo criterio, leggendo per esempio dokoivh e poievonta (così DK e Diano-Serra, p. 52).

8 kai; toi 'ı è lezione di Aristocrito, Celso e Clemente, accolta dalla quasi totalità degli editori e dei traduttori; mentre Deichgräber ha proposto di espungere toi'ı e Wilamovitz kai;; Mouraviev I, p. 23, e II, p. 14, suggerisce la correzione in toi's<in> per ionismo, qui come nel caso che si verifica poco oltre (cfr. infra, n. 13).

9 de; è presente in Aristocrito, mentre è omesso da Celso e Clemente ed espunto di conseguenza da Wilamovitz.

10 toutevoisin (o forse tou ' tevoisin) è lezione di Aristocrito (ma secondo altri Aristocrito ha toutevoisi o tou ' tevoisi), Celso e Clemente, adottata dalla gran parte degli editori e dei traduttori.

11 eu[contai è lezione di Celso e Clemente, adottata dalla totalità degli editori e dei traduttori, mentre Aristocrito porta l’indifendibile e[contai.

12 Come spiegato supra, n. 3, oJkoi'on è la lezione che compare in Celso e Clemente, mentre Aristocrito porta nuovamente oi|on.

13 toi 'ı è introdotto qui sulla base di Celso, mentre è omesso da Aristocrito (anche se non vi è accordo unanime sulla lettura dei mano-scritti) e da Clemente; come supra, cfr. n. 8, Mouraviev I, p. 23, e II, p. 14, suggerisce la correzione in toi's<i>.

14 dovmoisi è lezione di Celso, accolta dalla totalità degli editori e dei traduttori, mentre Aristocrito porta dovmoiı.

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15 Come spiegato supra, n. 1, la conclusione del presente frammento, ou[ ti ginwvskwn qeou;ı oujd jh{rwaı oi{tinevı eijsi, è riportata da Celso e attribuita a Eraclito dalla quasi totalità degli editori e dei traduttori a partire da Bywater e Diels (con l’eccezione, per esempio, di Wilamovitz e Bollack-Wismann, pp. 71-72), mentre è omessa da Aristocrito, che si interrompe con l’infinito quvein («fare sacrifici»). Del participio presente ginwvskwn (correzione di Neumann, universalmente accolta, di gignwvskwn di Celso) sono state suggerite una modifica al plurale (ginwvskonteı, Weil e Heidel) o alla terza persona plurale dell’indicativo (ginwvskousi, Gomperz), da accordare in tal caso con il soggetto sottinteso del prece-dente eu[contai, ma il testo tradito può essere mantenuto senza difficoltà, accordando il participio al singolare con il pronome indefinito tiı che è soggetto di leschneuvoito.

16 Il parallelo stabilito nella prima parte del presente frammento, fra il «sangue» e il «fango», è piuttosto esplicito: così come sarebbe assurdo che chi è intriso di «fango», per esservisi immerso, pensasse di lavarsi con il «fango» (phlo;n ... phlw'/, con l’ottativo ajponivzoito a indicare appunto un comportamento che nessuno adotta), altrettanto assurdo è ritenere di ottenere una purificazione con il «sangue», perché una simile pratica si rivela vana, cioè inconsistente e falsa (a[llwı ai{mati, con l’indicativo kaqaivrontai a richiamare un’usanza effettivamente messa in atto). Tale pratica, che rinvia naturalmente ai sacrifici offerti, con l’uccisione di un animale (normalmente un maiale o un cane), per purificarsi dai delitti di sangue, implica l’idea diffusa dello «scambio» alla pari («sangue» per «sangue») come rituale religioso per conquistare il riscatto dalle proprie azioni di fronte alla comunità e alla divinità – o meglio, per conquistarlo presso la comunità in quanto lo si conquista presso la divinità – un’idea che evidentemente Eraclito intende condannare senza esitazioni come propria della generalità degli uomini, che funge perciò da soggetto sot-tinteso della proposizione e da destinatario polemico della sua invettiva. Il participio presente miainovmenoi allude a mio avviso al «sangue» della vittima sacrificale «di cui si macchiano» coloro i quali offrono i sacrifici, e durante tali sacrifici, appunto per purificarsi dal «sangue» di cui si sono in precedenza macchiati con il loro delitto, e non al «sangue» «di cui si sono macchiati» con il loro precedente delitto e dal quale mirano a purificarsi «vanamente» durante i sacrifici, perché una resa del genere, pur adottata da numerosi commentatori (cfr. per esempio Marcovich, p. 319, Kahn, pp. 81 e 266, Conche, p. 171, Robinson, p. 13, Pradeau, p. 317, e Mouraviev I, p. 22), richiederebbe un participio perfetto (eventualmente con valore perfettivo: «... ogni volta che si macchiano di sangue ...») o, meno probabilmente, aoristo (cfr. in proposito Diano-Serra, pp. 190-91).

17 Non è impossibile supporre qui un gioco di parole fra il precedente participio miainovmenoi e l’infinito maivnesqai, se i «colpevoli» che «si macchiano di sangue» fanno da contraltare ai «pazzi» che pensassero di «lavarsi con il fango»: così Kahn, p. 266; contra Marcovich, p. 320, che obietta, a mio avviso in modo non del tutto congruo, che, mentre miainovmenoi allude a uno stato di cose oggettivo, quello della colpa di chi «si macchia di sangue», maivnesqai svela invece un’intenzione sog-gettiva, del «pazzo» che, appunto «vanamente», immagina soltanto di

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potersi «purificare» o di «lavarsi con il fango». Il verbo ejpifravzesqai, che significa in generale «conoscere» o «comprendere», esprime in tal caso la semplice constatazione di chi «vede» o «coglie sul fatto» il «pazzo» che «si lava con il fango».

18 Le parole conclusive del presente frammento (oujd jh{rwaı oi{tinevı eijsi) costituiscono il secondo emistichio di un esametro: ora, che nei mate-riali eraclitei superstiti compaiano inserti poetici non è infrequente (cfr. per esempio supra, il fr. 38 [100 DK; 64 Marc.], n. 1), mentre è piuttosto controverso se ciò dipenda da un’effettiva scelta stilistica o narrativa e non invece, per esempio, dalla citazione di espressioni tramandate ed eventualmente proverbiali. La polemica di Eraclito contro le pratiche religiose diffuse colpisce adesso, dopo i riti dei sacrifici (cfr. supra, n. 16), le forme della preghiera alla divinità e in generale le opinioni tra-dizionali relative ai rapporti fra l’ambito umano e l’ambito del divino, se è vero che, a causa della loro ignoranza dell’autentica natura di «dei ed eroi», gli uomini finiscono per conversare «a vuoto» con le immagini degli dei, come chi parli alle «mura di casa», cioè, evidentemente, a oggetti inanimati e con atteggiamento insensato; su questa linea, Eraclito approfondisce di fatto, ampliandola alla sfera cultuale, la critica delle opinioni religiose degli uomini svolta da Senofane, frr. 11-12 e 14-15 DK, rispetto alla natura degli dei, alla loro rappresentazione e alle loro azioni. Ancora una volta, come nel caso del fr. 90 [14 DK; 87 Marc.], cfr. n. 4, vi è disaccordo sull’esatta estensione di questa critica: Diano-Serra, p. 191, e Robinson, p. 78, ritengono infatti che la polemica di Eraclito non sia propriamente indirizzata ai culti religiosi come tali, e particolarmente qui alle pratiche dei sacrifici e delle preghiere da rivolgere agli dei, ma alle modalità specifiche e tutte umane che sono erroneamente e colpevol-mente adottate, per incomprensione del loro significato o per ignoranza delle entità cui si rivolgono; mentre, secondo Bollack-Wismann, pp. 72-73, Marcovich, pp. 321-22, Kahn, pp. 266-67, Conche, pp. 173-76, e Pradeau, pp. 317-18, Eraclito esprimerebbe una posizione assai più radicale, che coinvolge in assoluto, e indipendentemente dalle sue modalità specifiche, la concezione dei rapporti fra l’umano e il divino previsti dalle forme religiose tradizionali e popolari, e la stessa possibilità che simili rapporti sussistano, nella misura in cui essi rivelano, a esaminarli attentamente, patenti contraddizioni e incongruenze, giacché sono in ultima analisi incompatibili con la concezione «filosofica» del divino che Eraclito difende, da intendere piuttosto come un «principio» fondamentale che regola e governa tutte le cose che non nei termini di una o più divinità tradizionali. Personalmente, pur concordando con quest’ultima inter-pretazione, tenderei a sottolineare, della critica eraclitea alle pratiche religiose diffuse, nell’ambito della quale il presente frammento va certamente collocato sulla linea dei precedenti frr. 90, cfr. n. 4, e 91 [96 DK; 76 Marc.], cfr. n. 3, non tanto l’esortazione a sostituire alla «fede» popolare una più alta forma di comprensione filosofica, bensì a collocare come modello universale di condotta materiale e di ispirazione spirituale il paradigma etico e valoriale degli a[ristoi, se si tiene presente che «dei ed eroi» rappresentano per così dire, stando almeno ai frr. 74 [25 DK; 97 Marc.], n. 3, e 75 [24 DK; 96 Marc.], n. 2, il «soggetto» e l’«oggetto»

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di un omogeneo e unitario orizzonte di onore e fama eterna; sicché è appunto a tale paradigma che gli uomini devono guardare con fede e dedizione, e non alle pratiche assurde e contraddittorie fra loro diffuse che, per quanto possa apparire a prima vista controintuitivo, si mostrano a ben vedere completamente infondate.

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eij mh;2 Dionuvsw/ pomph;n ejpoiou'nto kai; u{mneon a\/sma3 aijdoivoisin, ajnaidevstata4 ei[rgastai:5 wJuto;ı de; {Aidhı kai; Diovnusoı, o{tew/ maivnontai kai; lhnai?zousin.

Se non fossero per Dioniso la processione che si mettono a fare e l’inno agli organi sessuali che innalzano, le azioni da loro compiute sarebbero le più vergognose; ma una stessa identica cosa sono Ade e Dioniso, per il quale delirano e celebrano baccanali.6

1 Questo frammento è riportato da Clemente Alessandrino, Protrep-ticus 34.5 (= I 26 Stählin), nel contesto di una violenta polemica contro i riti dionisiaci e le pratiche licenziose e sguaiate che li caratterizzano: «È per ricordare in modo misterioso che nelle città si dedicano i falli a Dioniso che, infatti, Eraclito dice: ... (Clemente cita qui il fr. 93), non tanto, credo, per l’ebbrezza del corpo, quanto piuttosto per la vergognosa ini-ziazione all’eccesso». Citazione parziale (limitata a ”Aidhı kai; Diovnusoı wJutovı, o{tew/ maivnontai kai; lhnai?zousin, quest’ultimo derivando da una correzione, basata sul testo di Clemente, di lhraivnousin dei manoscritti plutarchei) in Plutarco, De Iside et Osiride 362a, che condanna l’errata identificazione, che alcuni traggono dalle parole di Eraclito, di Ade con il «corpo» e dell’anima, in quanto è «ebbra» nel corpo, con Dioniso.

2 eij mh; è lezione di Clemente (seguita da gavr, che considero però parte del contesto della citazione e non di quest’ultima), che ha dato luogo a notevoli difficoltà e discussioni. Infatti, se si intende la proposizione eij mh; ... ejpoiou'nto kai; u{mneon ..., ... ei[rgastai come un periodo ipotetico dell’irrealtà, mentre è sintatticamente corretta la protasi con l’indicativo di un tempo storico (con gli imperfetti ejpoiou'nto e u{mneon), fa problema la apodosi, che porta correttamente anch’essa l’indicativo di un tempo storico (con il perfetto ei[rgastai), ma senza la particella a[n, che sarebbe invece richiesta. Per tale ragione, è stata suggerita da Heinse e poi da Schleiermacher, e successivamente accolta da numerosi editori e tradut-

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tori dei frammenti eraclitei (cfr. infra, n. 5), la correzione ei[rgast ja[n, che porterebbe ad avere un periodo ipotetico dell’irrealtà sintatticamente ineccepibile (eij mh; ... ejpoiou 'nto kai; u{mneon ..., ... ei[rgast ja[n, «se non ... si mettessero a fare ... e non innalzassero ..., ... sarebbero compiute»); oppure, da Mouraviev I, pp. 51-52, e III, p. 23, nn. 1-6, l’ipotesi di segno opposto, che non si tratti cioè di un periodo ipotetico dell’irrealtà, ma della realtà, sicché si possono mantenere le forme verbali dell’indicativo, senza la particella a[n, ... ejpoiou 'nto kai; u{mneon ..., ... ei[rgastai, inoltre attribuendo ai due imperfetti ejpoiou'nto kai; u{mneon un valore incoativo. In tal caso, però, emerge un’evidente contraddizione, perché affermare che «se non sono per Dioniso la processione che si mettono a fare e l’inno agli organi sessuali che innalzano, le azioni da loro compiute sono le più vergognose» contrasta manifestamente con il fatto che Eraclito sa certamente che la «processione» e l’«inno agli organi sessuali» sono appunto dedicati a Dioniso, in modo che tale periodo ipotetico non può avere i caratteri della realtà, se non sopprimendo la negazione iniziale (eij mhv) e corregendola in eij mhvn, così capovolgendone il senso: «se sono davvero per Dioniso la processione che si mettono a fare e l’inno agli organi sessuali che innalzano, le azioni da loro compiute sono le più vergognose» (eij mh;n ... ejpoiou'nto kai; u{mneon ..., ... ei[rgastai), nel pieno rispetto della sintassi. Bisogna tuttavia rilevare che la lezione tradita può essere difesa contro entrambe le ipotesi di correzione, perché il periodo ipotetico dell’irrealtà, in greco, prevede anche, per l’apodosi, l’assenza della particella a[n, quando si vuole indicare che l’azione è considerata già conclusa, se non fosse sopraggiunta l’azione espressa nella protasi: «se non fossero per Dioniso la processione che si mettono a fare e l’inno agli organi sessuali che innalzano (scil., se non si producesse il dato “aggiuntivo” che tale processione e tale inno sono dedicati a Dioniso), le azioni da loro compiute sarebbero (= erano o sono state) le più vergognose (scil., erano o sono state già realizzate come tali)». La mia scelta per quest’ultima opzione dipende essenzialmente, al di là della conservazione della tradizione manoscritta, da ragioni interpretative: cfr. infra, n. 6.

3 a\/sma è lezione di Clemente, di cui è stata proposta la correzione nel plurale a/[smata (da Heinse, seguito da Stählin) o a/[smat j(da Mouraviev I, pp. 51-52), che non mi pare tuttavia indispensabile.

4 ajnaidevstata è lezione di Clemente, che, con la gran parte degli edi-tori e dei traduttori, considero come soggetto di ei[rgastai (al passivo); Heinse, seguito da Stählin, ha suggerito invece di riferirlo al precedente a/[smata (per questo plurale, cfr. la nota precedente); analogo il sugge-rimento di Wilamovitz, ma mantenendo il singolare, dunque volgendo ajnaidevı anch’esso al singolare, e ipotizzando una lacuna prima del verbo ei[rgastai: a\/sma aijdoivoisin ajnaidevı, <...> tata ei[rgastai, per la quale sono state formulate diverse ipotesi di integrazione (cfr. soprattutto Mouraviev I, p. 52).

5 ei[rgastai è lezione di Clemente, di cui Heinse e Schleiermacher hanno suggerito la correzione in ei[rgast ja[n, accolta da buona parte degli editori e dei traduttori dei frammenti eraclitei (per esempio Bywater, DK, Kirk ecc.); su questa correzione, sulla scelta da me difesa di mantenere

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il testo tradito e sulle diverse ipotesi formulate in proposito, cfr. supra, n. 2, e infra, la nota seguente.

6 La costruzione del presente frammento è complessa e dalla strut-tura raffinata, tanto dal punto di vista linguistico, quanto per l’intreccio argomentativo che ne complica l’interpretazione. Vi è innanzitutto, e indipendentemente dalle possibili correzioni del testo tradito documen-tate nelle note precedenti, un evidente e consapevole effetto fonico (ben rilevato da Kahn, pp. 265-66, e da Mouraviev III, p. 23, n. 7) pro-dotto dalla ripetizione del tema aid (nelle parole aijdoivoisin, ajnaidev-stata ... {Aidhı), che a sua volta determina un’associazione semantica fra gli «organi sessuali» e la divinità dei morti, Ade, nel loro comune carattere «venerabile» e «sacrale» (aijdoi 'oı), capovolto e reso «vergo-gnoso» (ajn-aidevstatoı), cioè estraneo a ogni forma di sacralità divina, dalle inappropriate pratiche umane. Ma i problemi maggiori si pongo-no naturalmente sul piano della sintassi e, conseguentemente, della traduzione e della relativa interpretazione delle parole di Eraclito. Facendo riferimento alle diverse ipotesi testuali prospettate supra, nella n. 2, si può rilevare intanto, a mo’ di premessa, che la disapprova-zione delle celebrazioni in onore di Dioniso generalmente e diffusa-mente praticate (supponendo perciò un soggetto sottinteso sufficien-temente indefinito della proposizione, come «gli uomini») è evidente: incongrua risulta allora la resa adottata da Marcovich, pp. 177-79, il quale mantiene il testo tradito e costruisce la prima parte del presente frammento come un periodo ipotetico dell’irrealtà, ma intende la negazione iniziale eij mhv come riferita ai verbi ejpoiou'nto kai; u{mneon («se non si mettessero a fare la processione per Dioniso e non innalzas-sero l’inno agli organi sessuali, ...»), il che implica un invito a praticare tali celebrazioni («se non si mettessero a fare la processione ... e non innalzassero l’inno ...», allora «le azioni da loro compiute sarebbero le più vergognose») e non la loro disapprovazione. Ne segue che, poiché la conclusione del presente frammento sancisce che Ade e Dioniso sono la stessa divinità, l’errore degli uomini consisterebbe, per Marcovich, nel celebrare inconsapevolmente anche Ade insieme con Dioniso, da cui però non deriva, come egli vorrebbe, un «rifiuto globale dei riti dionisiaci», ma la loro esclusione condizionata, in ragione dell’identifi-cazione di Ade e Dioniso, in modo che l’ignoranza degli uomini svela-ta dalla conclusione non consegue logicamente dalla premessa: (1) «sarebbe vergognoso non celebrare i riti in onore di Dioniso», dunque (2) «bisogna celebrarli»; ma (3) «Ade e Dioniso sono la stessa divinità», sicché l’implicita conclusione è che (4) «gli uomini sbagliano nel cele-brare anche Ade insieme con Dioniso»; mentre ci si aspetterebbe senza dubbio che, se il «rifiuto dei riti dionisiaci» da parte di Eraclito fosse davvero «globale», l’affermazione che (3) «Ade e Dioniso sono la stessa divinità» introducesse una denuncia radicale e incondizionata di tali celebrazioni in quanto appunto «vergognose» e non, invece, l’esito più debole e parziale che (4) «gli uomini sbagliano nel celebrare anche Ade insieme con Dioniso». Pure incongrua, a mio avviso, la resa di Mouraviev I, pp. 51-52, e III, p. 23, nn. 1-6, che costruisce la prima parte del presente frammento come un periodo ipotetico della realtà

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(per l’assenza, nella apodosi, della particella a[n) e corregge però, come è a questo punto indispensabile, la negazione iniziale eij mhv in eij mhvn, che riferisce al dativo immediatamente seguente Dionuvsw/ (cfr. di nuo-vo supra, n. 2), così capovolgendo il senso della proposizione («se sono davvero per Dioniso la processione ... e l’inno ..., le azioni da loro com-piute sono le più vergognose»): in tal caso, avremmo che (1) «è vergo-gnoso celebrare i riti in onore di Dioniso», dunque (2) «non bisogna celebrarli»; ma (3) «Ade e Dioniso sono la stessa divinità», sicché la necessaria conclusione è che (4) «gli uomini sbagliano nel celebrare Dioniso». Come si vede facilmente, anche in questo caso ci si trova di fronte a un non sequitur, perché la conclusione che (4) «gli uomini sbagliano nel celebrare Dioniso», se (3) «Ade e Dioniso sono la stessa divinità», non deriva dall’affermazione che (2) «non bisogna celebrare i riti di Dioniso», giacché questa dipende a sua volta dalla constatazio-ne che (1) «è vergognoso (e non sbagliato) celebrarli»; in altre parole, dalla resa di Mouraviev emerge che, nella misura in cui Ade e Dioniso sono la stessa divinità, allora in ciò consiste la ragione del fatto che sia sbagliato (ma non vergognoso) tenere le celebrazioni per Dioniso, mentre l’argomento di Eraclito prende le mosse dalla dichiarazione che tali celebrazioni sono vergognose (e non sbagliate) e ci si aspetterebbe perciò che la sua conclusione illustrasse la ragione di una simile dichia-razione – spiegando perché, nella misura in cui Ade e Dioniso sono la stessa divinità, sia allora vergognoso tenere celebrazioni per Dioniso – e non che ne modificasse il contenuto. In base a queste considerazio-ni, risulta più plausibile, a mio avviso, costruire, con Marcovich e contro Mouraviev, la prima parte del presente frammento come un periodo ipotetico dell’irrealtà (e ciò, come spiegato supra, ancora nella n. 2, senza che sia necessario modificare il testo tradito), ma riferendo, con-tro Marcovich e con Mouraviev, la formula ipotetica iniziale eij mhv al dativo immediatamente seguente Dionuvsw/, intendendo così che (1) «i riti che vengono di fatto celebrati sono vergognosi» (che si tratti di azioni già abitualmente compiute spiega l’assenza nella apodosi della particella a[n accanto al verbo ei[rgastai), (1bis) «se non fossero in onore di Dioniso» (che esprime un dato «aggiuntivo», introdotto dalla protasi, a mo’ di giustificazione «irreale» dell’affermazione contenuta nella apodosi), dunque, poiché (2) «tali riti sono certamente in onore di Dioniso», allora (2bis) «non sarebbe (= potrebbe non essere) vergogno-so celebrarli»; ma (3) «Ade e Dioniso sono la stessa divinità», donde la logica conclusione che (4) «gli uomini sbagliano nel celebrare Dioniso», che è questa volta perfettamente conseguente, se l’ignoranza degli uomini e la confusione che li inducono a celebrare inconsapevolmente Ade (la divinità dei morti) tolgono ogni possibile giustificazione al carattere «vergognoso» delle celebrazioni per Dioniso (la divinità che simboleggia la vita). Se, insomma, i riti dionisiaci diffusi fra gli uomini, oggettivamente vergognosi, potrebbero ottenere una potenziale legit-timazione nelle loro pratiche e una possibile giustificazione del loro carattere indecente in virtù del destinatario cui sono indirizzati (Dio-niso) e della sua natura (prorompente e irrefrenabile), la coincidenza di Ade e Dioniso, che gli uomini ignorano e da cui quindi prescindono,

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fa sì che tali riti sfrenati non possano aspirare a nessun (pur parziale) riscatto per l’esclusiva corrispondenza con la sfrenatezza vitalistica di Dioniso in onore del quale sono tenuti da chi li celebra, giacché sono rivolti in effetti anche, e contemporaneamente, a Ade, la cui funzione di divinità dei morti non solo non incoraggia, ma pare anzi incompati-bile con una simile sfrenatezza vitalistica; e ciò svela inequivocabilmen-te i tratti illusori o pretestuosi di ogni potenziale legittimazione e pos-sibile giustificazione di questi riti, che rimangono allora soltanto vergognosi e indecenti, appunto senza remissione (la resa da me adot-tata, con la conservazione del testo tradito, è apparentemente condivi-sa da Kahn, p. 81, Diano-Serra, p. 55, Conche, p. 157, Robinson, p. 17, e Pradeau, p. 315, senza che sia però dato sapere se in base alle stesse valutazioni sintattiche, che i commentatori citati passano sotto silenzio). È noto del resto che proprio le feste in onore di Dioniso, con i diversi generi di celebrazione che prevedevano, potevano offrire uno spetta-colo particolarmente licenzioso: si fa qui riferimento agli inni «agli organi sessuali», cioè ai canti che accompagnavano la processione dei fedeli intorno alla rappresentazione di un fallo eretto come simbolo di fecondità, e alla follia o al delirio (maivnontai), appunto «bacchico», che si impossessava dei partecipanti e li induceva a ogni tipo di eccesso, specie sessuale o legato all’abuso di vino (il verbo lhnai?zousin esprime naturalmente l’azione delle lh'nai, un termine che, sinonimo di bavkcai, designa le «baccanti», cioè le donne che, in preda all’esaltazione dioni-siaca, si davano appunto ai «baccanali»). Ora, se non vi è dubbio che il disprezzo che Eraclito manifesta nei confronti di simili pratiche viene motivato dall’identificazione di Dioniso con Ade (che non rappresenta affatto una «verità generalmente riconosciuta», come vorrebbe Marco-vich, p. 179; contra, correttamente, Babut, Héraclite et la religion popu-laire, cit., p. 48), e dunque, verosimilmente, dalla convinzione che la follia e il furore di cui danno prova i partecipanti ai riti dionisiaci dipen-dono da una forma di esaltazione eccezionale che risulta infine equiva-lente alla condizione della morte di cui Ade è il dio, non mi pare che ciò consenta di supporre qui un esplicito richiamo alla tesi dell’unità dei termini opposti e, per contrasto, alla condizione di quanti, come in tal caso gli ignari partecipanti ai riti dionisiaci, vivono nell’inconsape-volezza della loro reciproca implicazione (così, invece, Bollack-Wisam-nn, p. 97, Kahn, pp. 264-65, Conche, pp. 158-60, Robinson, pp. 86-87, e Pradeau, p. 316); se è davvero, pur allusivamente, evocata dall’associa-zione fra Dioniso e Ade e fra la vita e la morte, questa tesi non costitu-isce infatti a mio avviso il nucleo teorico del presente frammento, né credo tantomeno che l’intenzione di Eraclito sia semplicemente quella di svelare così, attraverso il riferimento alla tesi dell’unità dei termini opposti, il significato più vero e profondo dei riti dionisiaci, ma non per condannarli effettivamente (così Diano-Serra, pp. 192-93). Mi sembra piuttosto che il presente frammento si collochi, senza soluzione di continuità, nella compatta sequenza dei precedenti frr. 90 [14 DK; 87 Marc.], cfr. n. 4, 91 [96 DK; 76 Marc.], cfr. n. 3, e 92 [5 DK; 86 Marc.], cfr. n. 18, e del seguente fr. 94 [92 DK; 75 Marc.], cfr. n. 2, con essi condivi-dendo la sferzante critica che Eraclito rivolge ai culti religiosi tradizio-

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nali e popolari, per il loro carattere falso e ingannevole che favorisce la credulità della massa e mortifica ogni forma di conoscenza autentica della realtà, contribuendo a diffondere comportamenti contraddittori e immorali, che sono fondati su vane aspettative e si rivelano in contra-sto con i valori e i principi etici che, nella prospettiva eraclitea, dovreb-bero ispirare la condotta individuale e collettiva.

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Sivbulla mainomevnw/ stovmati ajgevlasta kai; ajkallwvpista kai; ajmuvrista fqeggomevnh cilivwn ejtw'n ejxiknei'tai th'/ fwnh'/ dia; to;n qeovn.

La Sibilla con bocca delirante pronuncia espressioni cupe, disadorne e aspre e, in virtù della divinità, oltrepassa mille anni con la sua voce.2

1 Questo frammento è riportato da Plutarco, De Pythiae oraculis 397a-b, nell’ambito di una difesa dello stile adottato dalla Pizia, giudicato particolarmente disadorno, nei suoi oracoli: «... noi siamo malati alle orecchie e agli occhi; per eccesso e per mollezza del nostro gusto, siamo soliti considerare e dichiarare bello ciò che ci piace di più. Ma allora arriveremo a rimproverare la Pizia di non emettere suoni più armoniosi di Glauce, la citarista; di discendere nel luogo delle profezie senza pro-fumi né vesti tinte di porpora; di bruciare, invece di cannella, ladano e incenso, lauro e farina d’orzo. Non vedi che grazia hanno i versi di Saffo, che incantano come un sortilegio chi li ascolti? E secondo Eraclito ... (Plutarco cita qui il fr. 94)». Numerose e diverse sono le posizioni difese dagli editori e dai commentatori sull’esatta estensione della citazione eraclitea e dunque su quali e quante, fra le parole riportate da Plutarco, siano effettivamente riconducibili a Eraclito (si vedano in proposito Marcovich, p. 281, e Mouraviev I, p. 238, e III, p. 116, n. 1); ricordo soltanto, a mo’ di esempio, che Marcovich, p. 281, e Robinson, p. 143, accolgono come eraclitee le parole Sivbulla [de;] mainomevnw/ stovmati ajgevlasta [kai; ajkallwvpista kai; ajmuvrista] fqevggetai (così pure Bollack-Wismann, pp. 270-72, e Kahn, pp. 44-45 e 124-25, che tendono però a considerare l’intera citazione come una parafrasi dell’originale); mentre in DK sono omesse solo le parole cilivwn ejtw'n ejxiknei'tai th'/ fwnh'/; accettano invece come autentica l’intera citazione Diano-Serra, pp. 52-53, Conche, pp. 154-55, Pradeau, pp. 189 e 318, e soprattutto Mouraviev I, pp. 237-37, e

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III, p. 116. Non sono mancate inoltre posizioni ancora più radicali fino a quella difesa da K. Reinhardt, Heraklitnotizen aus dem Nachlaß, in Wiese, Heraklit bei Klemens von Alexandrien, cit., pp. 315-21, 317, che si limita ad ammettere le parole mainomevnw/ stovmati, dunque omettendo perfino il riferimento alla Sibilla, perché queste soltanto si trovano in altre citazioni o reminiscenze, benché senza menzione del nome di Eraclito: cfr. per esempio Ippolito, Refutatio contra omnes haereses V 8.6 (= 90.5 Wendland), Giamblico, De mysteriis III 8 (= 117.6 Parthey; 108 des Places), e Plotino, Enneadi II 9 [33] 18.17. Personalmente, ritengo come senz’altro riconducibile a Eraclito il riferimento alla Sibilla, perché Plutarco, che evoca la Pizia, non avrebbe altrimenti motivo di chiamarla in causa, come pure di conseguenza alla sua «bocca delirante», che suppone allora anche una possibile allusione ai contenuti di ciò che la Sibilla dice («espressioni cupe, disadorne e aspre»; non vi è ragione di sospettare degli ultimi due aggettivi, ajkallwvpista e ajmuvrista, come introdotti da Plutarco per contrapporre più compiutamente l’espressione della Sibilla alla «grazia», citata appena prima, dei «versi di Saffo»); più dubbia mi sembra invece la conclusione, e particolarmente il rinvio all’arco temporale di «mille anni» del «pronunciamento» divino della Sibilla, che potrebbe costituire un’amplificazione, da parte di Plutarco, dell’incisività e della potenza del suo messaggio («La Sibilla con bocca delirante pronuncia espressioni cupe, disadorne e aspre», vale a dire che «oltrepassa mille anni con la sua voce, in virtù della divinità»). Si tratta però di semplici supposizioni, che non giungono in questo caso a suggerire prove cogenti in favore dell’esclusione di parole o porzioni specifiche del presente frammento (salvo il dev iniziale che attribuisco a Plutarco), che dunque considero, magari in forma parzialmente parafrasata, come nel suo insieme autentico.

2 I tre aggettivi ajgevlasta ... ajkallwvpista ... ajmuvrista, se tutti autentici (cfr. la nota precedente), non possono che essere al neutro plurale e rinviare così necessariamente ai contenuti delle parole della Sibilla, come del resto si intende comunemente; il solo Conche, p. 155, li considera al nominativo singolare femminile, riferendoli al soggetto della proposizione («La Sibilla, cupa, disadorna, aspra ...»), argomentando che ajmuvristoı in particolare, che significa letteralmente «non profumato», non avrebbe senso in relazione a oggetti inanimati come i contenuti di un discorso: ma questa resa è improponibile, soprattutto perché si tratta di aggettivi a due uscite (-oı, per il maschile e il femminile; -on, per il neutro), di cui dunque non è attestata l’uscita in -a, per il femminile. In ogni caso, il presente frammento rimane di controversa interpretazione, in primo luogo per la difficoltà di determinare la sua esatta estensione (cfr. ancora la nota precedente); non è chiaro, inoltre, se l’evocazione della «Sibilla» implichi un’allusione generica a questa figura, quasi a richiamarne la funzione «istituzionale» di profetessa legata al culto apollineo, oppure a un personaggio specifico noto a Eraclito o comun-que ai suoi contemporanei (di una sibilla di nome Erofila, di Eritrea, città ionica non lontana da Efeso, parla Pausania X 12.1): le diverse possibilità sono esaminate da Kahn, p. 125; resta comunque che questa è la prima menzione a noi pervenuta della «Sibilla», successivamente

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collocata in luoghi diversi e non stabilmente associata a un tempio e a una località fissi (come la Pizia presso il santuario di Apollo a Delfi), ma evidentemente chiamata a rappresentare, nelle sue diverse forme, il fenomeno della profezia religiosa che proviene dal dio, che parla attraverso la bocca del suo profeta, o della sua profetessa, appunto posseduta dal delirio da lui indotto (mainomevnw/ stovmati: si tratta della forma di follia o, potremmo dire, di «alterazione di coscienza», che sorge in coloro i quali entrano in diretto contatto con la divinità, per farsi tramite dei suoi messaggi agli uomini, come in questo caso, oppure per abbandonarsi, più o meno opportunamente, ai riti in suo onore, come nel caso del precedente fr. 93 [15 DK; 50 Marc.], cfr. n. 6). Vi è perciò chi sottolinea particolarmente le modalità comunicative del discorso della Sibilla che, nella sua povertà perfino brutale e priva di inutili orpelli estetici, trae forza dall’ispirazione divina e, sfidando il tempo, affida all’eternità le sue verità, così stabilendo una possibile analogia con la comunicazione del sapere da parte del filosofo, che possiede anch’essa tratti «divini» in quanto si fa portavoce dell’unico lovgoı che rivela, a chi sappia intenderla, la conoscenza di tutte le cose (così, per esempio, Diano-Serra, p. 190, Conche, pp. 155-56, e Pradeau, pp. 318-19, che fanno riferimento in proposito al fr. 59 [93 DK; 14 Marc.], per la cui interpretazione si veda però la relativa n. 3; ma cfr. anche Marcovich, p. 282, che giunge tuttavia a suggerire come contenuto del sapere del filosofo paragonabile alla profezia della Sibilla, in modo a mio avviso poco verosimile, un qualche insegnamento escatologico). Ma vi è anche chi intende le parole di Eraclito in senso opposto, cioè nell’ambito della sua polemica nei confronti delle pratiche rituali e delle credenze religiose diffuse, in tal caso stigmatizzando la natura e la funzione dei pronunciamenti della Sibilla e riducendo la sua presunta ispirazione divina a una forma di «follia», eventualmente, e ancora una volta, ponendo un rapporto, non più di analogia ma di netta distinzione, con il sapere trasmesso dal lovgoı, che, a differenza delle profezie religiose, non consiste certo nelle oscure e incomprensibili tracce di una vaga e incomprensibile allusione oracolare (così soprattutto Kahn, p. 126, e Robinson, p. 142). Nel contesto di quest’ultima interpretazione, che tendo a prediligere, suggerisco però di individuare nel presente frammento una nuova illustrazione della critica che Eraclito rivolge alle credenze e ai comportamenti dei più (cfr. già, per esempio, il precedente fr. 93, specie n. 6), che, invece di dipendere dalle forme assai discutibili ed evidentemente infondate, oltre che, talora, financo immorali (perché assimilate a una condizione di follia falsamente giustificata dall’acco-stamento alla divinità), trasmesse dalla tradizione religiosa e popolare – di per sé indubbiamente contrapposte al sapere filosofico veicolato dal lovgoı, il cui statuto e le cui modalità sono presentate fin dal fr. 1 [1 DK; 1 Marc.] e nei materiali raccolti supra, nella Sezione 1 –, dovrebbero invece uniformarsi al paradigma «etico-normativo» delineato nella presente Sezione 6, che, esso sì legittimamente, è caratterizzato da quei tratti di universalità ed eternità di cui le pratiche religiose producono soltanto una mistificazione ingannevole cui Eraclito esorta a sottrarsi. Le «espressioni cupe, disadorne e aspre» della Sibilla, che pure fanno da

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contraltare all’eccesso di sfarzo, ornamenti ed essenze varie profusi nelle processioni dionisiache evocate nel precedente fr. 93, derivano tuttavia dallo stesso sfrenato «delirio», cui fa dunque difetto qualunque presunta ascendenza divina e a cui non si deve dare di conseguenza alcun credito.

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a[kea (scil., ta; musthvria? ta; fallika; qeavmata?).

Medicine (scil., i misteri? i riti fallici?).2

1 Quest’unica parola è trasmessa da Giamblico, De mysteriis I 11 (= 40.2 Parthey; 61 des Places), che esalta il ruolo dei culti misterici come fonte di purificazione degli individui: «Nel corso dei riti, con la visione e l’ascolto di cose oscene (e[n te toi'ı iJeroi 'ı qeavmasiv tisi kai; ajkouvsmasi tw 'n aijscrw 'n), ci liberiamo dalla colpa che ci causerebbero se le praticassimo. Per curare la nostra anima, per calmare i mali da cui è affetta a causa della generazione, per liberarla e svincolarla dalle sue catene, noi compiamo azioni del genere. Ecco perché Eraclito chiama giustamente le azioni di questo tipo ... (Giamblico cita qui il fr. 95), come se curassero dai pericoli e risparmiassero le anime dai mali della genera-zione». Per quanto ridotto a un’unica parola, l’autenticità del presente frammento non è generalmente contestata (contra Kahn, pp. 288-89, e Robinson), anche se diversi sono i possibili riferimenti del termine in questione: cosa Eraclito avrebbe paragonato a delle «medicine» o a dei «rimedi» (a[kea)? Il contesto di Giamblico allude tanto ai riti misterici in generale (ta; musthvria, così Diano-Serra, pp. 50-51 e 190), quanto ad alcune pratiche specifiche, come quelle, definite «oscene» (aijscrav), che implicavano processioni falliche (così, per esempio, Bollack-Wismann, p. 225, Marcovich, pp. 325-26, Conche, p. 182, e Mouraviev I, p. 169) analoghe alle celebrazioni in onore di Dioniso (cfr. supra, il fr. 93 [15 DK; 50 Marc.]). Benché impossibile da sciogliere, questa difficoltà nella precisazione dell’oggetto cui Eraclito si riferisce non incide tuttavia in modo significativo sull’interpretazione del presente frammento (cfr. la nota seguente).

2 Se il contesto della citazione di Giamblico, ricostruito nella nota precedente, pare incontrovertibile nell’attribuzione di un valore positivo al riferimento eracliteo ai riti misterici in generale o alle processioni falliche in particolare, non si può tuttavia escludere che egli reinterpreti il senso dell’espressione originale a suo uso e consumo, come fa del resto anche in altre occasioni (cfr. per esempio supra, il fr. 72a [69 DK; 98g Marc.], specie n. 1); ciò pare ancora più verosimile se si considerano il

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tono e i contenuti dei precedenti frr. 90 [14 DK; 87 Marc.], cfr. n. 4, 92 [5 DK; 86 Marc.], cfr. n. 18, e 93 [15 DK; 50 Marc.], cfr. n. 6, che non sembrano manifestare nessuna esitazione nella condanna dei «miste-ri» praticati dagli uomini e soprattutto delle celebrazioni dionisiache, degradate, insieme alle tradizioni religiose diffuse e popolari fra i più, al rango di ingannevoli mistificazioni, che producono comportamenti immorali e contraddittori da denunciare e correggere. Pur congettu-ralmente, propendo perciò per una lettura nettamente polemica del presente frammento e ritengo, con Marcovich, p. 326, e Pradeau, pp. 316-17, che il termine a[kea, se davvero riferito da Eraclito a simili pratiche cultuali, non possa che implicare una valutazione ironica del loro – presunto dagli uomini, ma in realtà svelato come falso da Eraclito – potere «curativo». In favore di un’interpretazione più moderata si sono espressi Bollack-Wismann, p. 225, Diano-Serra, p. 190, e Conche, p. 183, che suggeriscono di cogliere nel termine a[kea, nonostante la veemente critica di Eraclito alle pratiche religiose comuni, un riconoscimento, quantomeno antropologico, del loro valore rituale per chi vi si dedica o l’indicazione che, in una versione più appropriata, esse potrebbero recuperare una funzione positiva.

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oiJ2 ijatroi; tevmnonteı, kaivonteı, [pavnth/ basanivzonteı kakw'ı tou;ı ajrrwstou'ntaı,]3 ejpaitiw'ntai mhde;n a[xion misqo;n lambavnein4 [para; tw'n ajrrwstouvntwn,]5 [taujta; ejrgazovmenoi ta; ajgaqa; kai; aiJ novsoi].6

I medici, che tagliano e bruciano, si lamentano di non ricevere un degno compenso.7

1 Questo frammento è riportato da Ippolito, Refutatio contra omnes haereses IX 10.3 (= 242-43 Wendland), dopo i frr. 15 [54 DK; 9 Marc.], 42 [55 DK; 5 Marc.] e 50 [57 DK; 43 Marc.] e prima dei frr. 18 [59 DK; 32 Marc.], 20 [60 DK; 33 Marc.], 31 [61 DK; 35 Marc.], 21 [62 DK; 47 Marc.] e 69 [63 DK; 73 Marc.], nella fitta sequenza delle sue citazioni tese a illustrare in particolare la dottrina eraclitea dell’unità dei termini opposti, in questo caso specifico del «bene» e del «male», e le sue diverse implicazioni: si veda perciò, per una sintetica presentazione del contesto di tali citazioni, la n. 1, rispettivamente ai frr. 15, 28 [67 DK; 77 Marc.], 50 e 69. Una vaga eco di queste parole, ma nella forma di una semplice

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allusione al disprezzo che Eraclito avrebbe manifestato nei confronti dei medici inutilmente intervenuti per curare la sua malattia (cfr. in proposito l’Introduzione, § 3), potrebbe trovarsi in Diogene Laerzio, Vitae philosophorum IX 3-4 e nella pseudo-eraclitea Lettera VI 329.1 Tarán. Il testo è molto tormentato e sospetto di sostanziose interpolazioni da parte del citatore, generalmente a fini esplicativi, di cui darò conto nelle note seguenti, ma limitatamente alle scelte da me compiute e come loro giustificazione (per un quadro completo e dettagliato si vedano, rispettivamente, Marcovich, pp. 164-65, e Mouraviev I, pp. 146-47); basti ricordare fin d’ora che, fra gli editori e i traduttori recenti dei frammenti eraclitei, giudicano autentica l’intera citazione, inoltre attenendosi alla lezione tradita anche per il problematico finale tau'ta ejrgazovmenoi ta; ajgaqa; kai; ta;ı novsouı (per il quale cfr. infra, n. 6), soltanto Bollack-Wismann, pp. 199-200, riferendo pavnth/ a basanivzonteı e kakw 'ı tou;ı ajrrwstou'ntaı a ejpaitiw'ntai, e traducendo di conseguenza: «... torturant de toutes les manières, ont tort d’accuser les malades ...»; Pradeau, p. 220, che denuncia il sospetto di glosse e interpolazioni, senza tuttavia segnalarle, come pure non è chiaro quale scelta compia per la chiusa tau'ta ejrgazovmenoi ta; ajgaqa; kai; ta;ı novsouı, giacché, innanzitutto, porta taujta, con lo spirito ma senza accento, che fa pensare a un errore di stampa per taujta;, correzione del tradito tau'ta – in tal caso, allora, distaccandosi dal testo tradito che dichiara invece di seguire –, ma fornendone poi una traduzione che presuppone invece tau'ta e non la correzione taujtav: «pour leur travail», ossia «per le cose che fanno» o «facendo queste cose» (tau 'ta ejrgazovmenoi), e inoltre propone una resa assai dubbia per le parole conclusive: «... les bienfaits et les maladies (ta; ajgaqa; kai; ta;ı novsouı, all’accusativo, ma tradotti come soggetti) ayant les mêmes effets (che non traduce nessuna parola greca residua, ma corrisponde vagamente alla traduzione suggerita da Marcovich, p. 165, del testo da lui edito, che costruisce taujta; ejrgazovmenoi con [ta; ajgaqa;] kai; aiJ novsoi, laddove Pradeau, che ha costruito e tradotto tau'ta ejrgazovmenoi con quanto precede, non potrebbe che trattare ta; ajgaqa; kai; ta;ı novsouı se non come apposizioni di tau 'ta: «... pour leur travail, [scil., qui consiste en] bienfaits et maladies»)»; e Conche, pp. 398-99, che omette solo la conclusione ta; ajgaqa; kai; ta;ı novsouı.

2 Attribuisco gou'n, che si trova qui in Ippolito con valore esplicativo, al contesto introduttivo della citazione e non a quest’ultima. Per il testo tradito oiJ gou'n ijatroi; (o, eventualmente, ijhtroi;, per ionismo) è stata proposta da Mouraviev I, pp. 145-46, e III, p. 67, n. 3, la correzione oujk ou 'n ijhtroi;, dunque con l’inserimento di una negazione, che capovolge il senso della proposizione, e il mantenimento di [g]ou'n: le motivazioni di questa ipotesi sono essenzialmente di natura interpretativa, cfr. perciò infra, n. 7.

3 Con la gran parte degli editori e dei traduttori (ma cfr. supra, n. 1, per alcune eccezioni recenti), espungo [pavnth/ basanivzonteı kakw 'ı tou;ı ajrrwstou'ntaı,], come il successivo [para; tw'n ajrrwstouvntwn,], come inciso esplicativo, teso a illustrare, nelle intenzioni del citatore, i participi tevmnonteı e kaivonteı: «I medici, che tagliano e bruciano (cioè torturano [basanivzonteı kakw 'ı] i malati in ogni modo) ...». Per un

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verso, infatti, l’idea della «tortura» sembra semplicemente, e piuttosto banalmente, sintetizzare le forme della pratica medica, che consistono di «tagli» e «bruciature»; per altro verso, l’esplicitazione dei destinatari della pratica medica, cioè i «malati», per di più ripetuta due volte, risulta senza dubbio ridondante. Si può forse esitare sul solo pavnth/, attribuito a Eraclito, per esempio, in DK1-4 (ma non in DK5-6) e da Mouraviev I, pp. 145-46, e III, p. 67, n. 2, in tal caso da riferire ai participi tevmnonteı e kaivonteı: «I medici, che tagliano e bruciano in ogni modo ...».

4 Ippolito porta qui ejpaitiw 'ntai mhde;n a[xion misqx ' (misqw 'n?) lambavnein, che è stato oggetto di diverse ipotesi di modifica (per le quali cfr. ancora Marcovich, pp. 164-65, e Mouraviev I, pp. 146-47). Mi limito ad accogliere la correzione misqo;n, all’accusativo singolare, proposta da Wordsworth, e recepita dalla gran parte degli editori e dei traduttori (sia il verbo ejpaitiavomai, o, si veda oltre, ejpaitevw, sia il verbo lambavnw, infatti, reggono generalmente l’accusativo; per mantenere il genitivo plurale misqw 'n bisognerebbe perciò intendere qualcosa del genere: «... si lamentano di non ricevere nessuna cosa degna fra i compensi»). Bernays ha suggerito di correggere il verbo ejpaitiw'ntai in ejpaitevon-tai e l’accusativo singolare a[xion nel nominativo plurale a[xioi, inoltre mantenendo il genitivo plurale misqw 'n, con la resa seguente (così pure, fra gli altri, DK, salvo per misqw'n): «... domandano dei compensi senza essere affatto degni di riceverli (oppure: domandano di ricevere dei compensi senza esserne affatti degni)», essenzialmente per le ragioni interpretative che esaminerò infra, n. 7. È stata inoltre proposta da Wordsworth la correzione di mhde;n, al neutro, nell’accusativo singolare maschile mhdevna (mhdevn j), per dare maggiore continuità sintattica alla sequenza mhdevn ja[xion misqovn («... si lamentano di non ricevere nessun degno compenso ...», così, per esempio, Marcovich, p. 164, Kahn, p. 62, Conche, p. 398, Robinson, p. 40, e Pradeau, p. 220), ma l’intervento non è indispensabile, perché si possono facilmente intendere gli accusativi singolari maschili a[xion misqovn come apposizione del neutro mhdevn («... si lamentano di non ricevere nulla come degno compenso ...») oppure il solo misqovn come apposizione di mhde;n a[xion («... si lamentano di non ricevere nulla di degno come compenso ...»).

5 Per l’espunzione di [para; tw'n ajrrwstouvntwn,], cfr. supra, n. 3.6 Il testo tradito della conclusione del presente frammento tau 'ta

ejrgazovmenoi, ta; ajgaqa; kai; ta;ı novsouı, che lo si attribuisca a Era-clito oppure al citatore, non è difendibile, pace Bollack-Wismann, pp. 199-200, perché, quale che sia l’attitudine che ne emerge nei confronti dei medici, positiva o negativa (cfr. la nota seguente), è semplicemente falso affermare che le azioni compiute dai medici (tau'ta ejrgazovmenoi) consistono in «benefici e malattie» (con ta; ajgaqa; kai; ta;ı novsouı come apposizione di tau'ta), se i medici possono «produrre benefici» o, nella peggiore delle ipotesi, fallire nel loro compito o complicare ulterior-mente un quadro clinico, ma non, certamente, «produrre le malattie». Nonostante alcuni ne abbiano dichiarato l’insanabile corruzione (cfr. Kirk, p. 88, Kahn, p. 62, e Robinson, p. 40), sono stati proposti numerosi e diversi tentativi di intervento su questo passo (cfr. nuovamente in proposito Marcovich, p. 165, e Mouraviev I, p. 147, e III, p. 67, n. 4), in

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generale, però, tutti convergenti nel tentativo di individuare una qualche possibile forma di implicazione reciproca, che rispecchi quella stabilita in ciò che precede in relazione alla pratica medica, di per sé finalizzata alla guarigione dei malati, e perciò «buona», e tuttavia fonte di dolore e sofferenza, e dunque «cattiva»; ora, poiché è qui in questione l’esito della pratica medica (tau'ta ejrgazovmenoi), è parso plausibile che tale implicazione reciproca riguardasse la natura di tale esito, cioè i termini ta; ajgaqa; kai; ta;ı novsouı, da intendere come riferiti ai «benefici», ossia, verosimilmente, alla guarigione, e alle «malattie». Il primo passo, di Sauppe, generalmente seguito, è stato allora di correggere tau 'ta («queste cose») in taujtav (= ta; aujtav, «le stesse cose»), per poi stabilire, Wilamovitz prima, Ramnoux poi, i termini della presunta comparazione: taujta; ejrgazovmenoi ta; [ajgaqa;] kai; aiJ novsoi, perfezionato in: taujta; ejrgazovmenoi [ta; ajgaqa;] kai; aiJ novsoi, «... che producono le stesse cose che (taujta; kaiv) le malattie», accolto fra gli altri da Marcovich, pp. 164-65, e da me pure stampato qui fra parentesi quadre, in base all’ipotesi che [ta; ajgaqav] rappresenti una glossa esplicativa di un copista che, non avendo compreso la comparazione taujta; kai; aiJ novsoi, potrebbe aver voluto ripristinare la polarità «bene-male» rispetto all’attività dei medici nella forma tradita («... che producono queste cose, cioè i benefici e le malattie»); sulla stessa linea, va ricordata infine l’ipotesi più recente prospettata da Mouraviev I, pp. 145-47, e III, p. 67, n. 4, che suggerisce di reintegrare ajgaqav, senza articolo, e riportare nou 'soı, con l’articolo, nella forma ionica del nominativo singolare: taujta; ejrgazovmenoi [ta;] ajgaqa; kai; hJ nou'soı, «... che producono gli stessi benefici della malat-tia». Come si vede, l’idea è, in entrambi i casi, che l’opera dei medici produce conseguenze – oppure, in tal caso con tono ironico, benefici – analoghe a quelle della malattia, cioè, verosimilmente, sofferenza e dolore, eventualmente (ma non necessariamente, cfr. la nota seguente) nell’ambito delle sue positive e apprezzabili finalità curative. Rimane però l’ulteriore difficoltà di accertare a chi appartenga questa idea, se, in altre parole, le parole conclusive del presente frammento vadano ricondotte a Eraclito oppure attribuite a Ippolito, come illustrazione e completamento della sua citazione eraclitea. Anche su questo punto le posizioni sono numerose e diverse (cfr. già supra, n. 1, e, ancora una volta, Marcovich, p. 165, e Mouraviev I, p. 147, e III, p. 67, n. 4): si va dall’intera espunzione (così Diano-Serra, pp. 20-21 e 144-45), all’espunzione di [ta; ajgaqa; kai; ta;ı novsouı], ma con attribuzione a Eraclito di tau'ta o taujta; ejrgazovmenoi (così, per esempio, DK), fino all’attribuzione a Eraclito di un numero maggiore di parole, ma con correzioni, nelle ipotesi appena citate di Marcovich e Mouraviev. La posizione da me assunta, contro l’autenticità dell’intera conclusione, dipende dall’impres-sione che, se la porzione certamente eraclitea del presente frammento appare sostanzialmente autosufficiente, la proposizione conclusiva mi sembra invece essenzialmente esplicativa («I medici ... si lamentano ... essendo quelli che producono ...») e inoltre fortemente interpretativa, o a orientare negativamente il giudizio sulla pratica medica («... che produce gli stessi effetti delle malattie», cioè evidentemente il dolore, sicché non risulta meritevole di nessun compenso), trascurandone così

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l’apporto benefico della cura dei malati, oppure ad accentuarne il carat-tere di nuova esemplificazione della tesi dell’unità dei termini opposti (in tal caso intendendo che i medici, «... che producono gli stessi effetti delle malattie», in questa misura suscitano il beneficio della guarigione, appunto in quanto la «malattia» stessa ha, come termine suo opposto con cui si trova in immediata coimplicazione, la «salute», cfr. supra, il fr. 17 [111 DK; 44 Marc.], specie n. 4, sicché i medici meriterebbero allora un compenso perfino maggiore di quello che ricevono), che è del resto ciò che preme sottolineare al citatore, cfr. supra, n. 1. Anche se non si può escludere che alcune parole aggiuntive nell’originale eracliteo fossero offerte a mo’ di spiegazione e di conclusione, dopo il riferimento alle sue modalità operative, rispetto all’esito della pratica medica, non sono persuaso che si tratti però di quelle, fra l’altro problematiche dal punto di vista testuale, suggerite da Ippolito, che mi appaiono anzi, come detto, piuttosto sospette.

7 I verbi tevmnw e kaivw fanno parte del lessico specialistico della medicina greca (a indicare «incisioni» o «amputazioni» e «bruciature» o «cauterizzazioni») e il loro impiego è di frequente associato all’idea che solo attraverso questi procedimenti dolorosi il medico può otte-nere gli effetti positivi della guarigione e della salute: si vedano per esempio, per alcune occorrenze pertinenti, Eschilo, Agamennone 849; Senofonte, Memorabili I 2.54; Platone, Gorgia 456b e 479a, Politico 293b; Diogene Laerzio, Vitae philosophorum III 85; e, in proposito, Kirk, pp. 89-91, Marcovich, pp. 165-66, e Conche, p. 399. Il problema principale per l’interpretazione del presente frammento si pone natu-ralmente in relazione al modo in cui va inteso il «lamento» attribuito ai medici, se si tratti cioè di una protesta o di una denuncia (1) fonda-te, e in tal caso con quale obiettivo, oppure (2) pretestuose: l’espres-sione ejpaitiw 'ntai mhde;n a[xion misqo;n lambavnein è infatti piuttosto ambigua, perché si limita ad affermare che «(i medici) si lamentano di non ricevere un compenso degno (oppure: di non ricevere nulla come degno compenso o nulla di degno come compenso)» o «di ricevere un compenso per nulla degno», in quanto non adeguato o non commisu-rato (l’aggettivo a[xioı significa propriamente «sufficiente», nel senso di «commisurato a» un certo scopo, dunque «adeguato» in senso oggettivo, o ancora, se in relazione al soggetto dell’azione, «meritato»), evidentemente rispetto alle azioni che compiono, che consistono, certo, in «tagli» e «bruciature», ma, si può supporre, al fine di ristabi-lire la salute. Ora, (1) se si prende sul serio il «lamento» dei medici e si ritiene di riconoscerne la legittimità, non può che trattarsi di una «protesta» o di una «denuncia» per il fatto di non ricevere un compen-so degno o di riceverne uno non degno, ossia in ogni caso diverso da quello considerato commisurato, adeguato o meritato, vale a dire neces-sariamente inferiore a quello considerato commisurato, adeguato o meritato (perché sarebbe ovviamente insensato «lamentarsi» o «pro-testare» per un compenso superiore a quello considerato commisurato, adeguato o meritato), dunque pretendendone, fondatamente e a giusto titolo, uno superiore. Accostandosi allora a quello che pare in effetti un luogo comune diffuso nella cultura greca intorno alla pratica medi-

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ca, dovremmo attribuire a Eraclito una valutazione positiva della figura dei medici e interpretare il presente frammento nei termini di un’approvazione e di una giustificazione delle loro legittime rivendi-cazioni, che rimangono incomprese o inaccolte dai più, che, arrestan-dosi alla constatazione del dolore e della sofferenza che i loro inter-venti causano, non sanno cogliere il bene della salute in vista del quale i medici operano la guarigione: non che, naturalmente, non siano oggettivi e reali i dolori provocati dall’intervento medico, ma lo sono altrettanto, e con ben maggiori benefici, i loro effetti positivi per la salute; sicché il fondato «lamento» dei medici si baserebbe su tale superiore consapevolezza, mentre i pazienti restii a riconoscere loro un più alto compenso si limiterebbero a rilevare la sofferenza subita senza coglierne le opposte implicazioni benefiche – il che corrisponde senza dubbio alle intenzioni di Ippolito, che vuole sottolineare l’unio-ne, se non l’identità, dei termini opposti «bene-male» come significato della sua citazione eraclitea (cfr. supra, n. 1). A questa lettura, difesa particolarmente da Kirk, pp. 90-91, Marcovich, p. 166 (la cui traduzio-ne, però, fa qualche difficoltà rispetto all’inserzione della proposizione conclusiva, da me espunta, perché, se i medici «... producono il mede-simo effetto delle malattie», emerge piuttosto il sospetto che la loro opera non sia del tutto positiva, se appunto produce lo stesso effetto delle malattie, che non la convinzione che tale effetto, della pratica medica come delle malattie, sia il bene della salute), Kahn, pp. 189-90, Diano-Serra, p. 145, e Robinson, p. 122, è stato obiettato tuttavia (da Mouraviev III, p. 67, n. 3), a mio avviso non senza ragione, che l’oppo-sizione fra il «male» provocato dai medici e il «bene» che essi così ristabiliscono sarebbe sufficientemente illustrata dall’analogo contra-sto fra la rivendicazione (da parte dei medici) di un degno compenso e il rifiuto (da parte dei pazienti) di concederlo, in modo che la richie-sta di un più degno, cioè superiore, compenso non solo non incide sulla logica dell’argomento, ma sembra anzi in una certa misura incon-grua. In un contesto esegetico affine, ma appena meno esplicito, si collocano Conche, pp. 399-400, seguito da Pradeau, pp. 220-21, che intende il presente frammento come esempio del relativismo eracliteo, derivante dalla tesi dell’unità dei termini opposti (ma cfr. l’Introduzio-ne, §§ 4.2 e 4.6), con l’espressione del rispettivo punto di vista dei medici (che «si lamentano di non ricevere un degno compenso» in relazione al «bene» che producono nei malati) e dei pazienti (per i quali, invece, il «lamento» dei medici è infondato, perché il «male» che ne ricevono non merita nessun compenso), che suppone in ultima analisi una valutazione positiva dell’azione dei medici, che operano di fatto con la superiore consapevolezza, assente nei pazienti, dell’unità dei termini opposti «bene-male»; e Bollack-Wismann, pp. 200-01, che invece equiparano i punti di vista, entrambi ugualmente parziali e relativi, dei medici e dei pazienti, perché gli uni non possono «lamen-tarsi di non ricevere un degno compenso», visto che producono soffe-renza, e gli altri non possono rifiutare tale compenso, visto che ne ricevono la salute. Comunque sia di queste diverse sfumature, credo tuttavia che, se si ammette (1) la fondatezza del «lamento» dei medici

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e si attribuisce quindi a Eraclito una valutazione positiva, o comunque non negativa, della pratica medica, divenga allora plausibile collocare il presente frammento nel contesto della riflessione etica eraclitea, traendone un efficace esempio dell’azione benefica, incompresa e detestata dai più, di chi, con atti drastici e penosi, impone costrizioni e correttivi ai comportamenti deviati della massa degli uomini, come appunto avviene in generale in ambito medico o igienico, per ottenere l’esito auspicabile e necessario della loro purificazione. D’altra parte, se invece, nonostante l’opinione comunemente positiva sui medici nella cultura greca, che tra l’altro, come si vede dai passi citati poco sopra, si trova attestata specialmente dopo Eraclito e non è certo, in ogni caso, che fosse da lui condivisa (vi è anzi, come ricordato supra, n. 1, una tradizione abbastanza esplicita che va in direzione contraria), si giudica che il «lamento» dei medici nel presente frammento sia da intendere (2) come pretestuoso, l’espressione ejpaitiw'ntai mhde;n a[xion misqo;n lambavnein acquista allora un tono ironico e sprezzante, che implica una veemente accusa ai medici, che «si lamentano di non ricevere un degno compenso», ma non si rendono conto, o pretestuo-samente fingono di non rendersi conto, del fatto che commisurato, adeguato o meritato sarebbe per loro nessun compenso, se non perfino una punizione, appunto a causa delle pratiche brutali o quantomeno inutili di cui fanno uso «tagliando e bruciando»; e si noti che ai fini di una simile lettura, che, capovolgendo la precedente, condurrebbe ad attribuire a Eraclito una critica notevole della concezione diffusa delle tecniche poste in atto dai medici e del loro generale apprezza-mento, non occorre accogliere correzioni al testo tradito (né quella di Bernays, cfr. supra, n. 4: «... domandano dei compensi senza essere affatto degni di riceverli»; né quella di Mouraviev, con l’inserimento della negazione iniziale, cfr. supra, n. 2: «... non si lamentano di non ricevere un degno compenso», che comporterebbe anzi, mi pare, l’ef-fetto indesiderato di riconoscere ai medici un atteggiamento corretto e perciò non criticabile, se appunto, consapevoli della sofferenza che provocano, ritenessero appropriato non ricevere un compenso e dun-que non se ne lamentassero). Questa opzione interpretativa (2) è da me preferita per almeno tre ragioni fra loro connesse: in primo luogo, per quanto indubbiamente appartenenti a una descrizione «tecnica», e perciò a priori «neutrale», degli interventi operati dai medici, i verbi tevmnw e kaivw trasmettono in modo immediato e concreto l’impressio-ne di azioni dannose e violente; in secondo luogo, non si è fin qui a mia conoscenza rilevato che la convinzione che tali azioni siano dai medi-ci praticate per la guarigione del malato, e pertanto in una prospettiva nel suo insieme orientata al bene, pur certamente sensata, si trova senz’altro nell’opinione comune, per la quale ho indicato in preceden-za alcuni riferimenti, e nelle intenzioni di Ippolito (se il «bene» e il «male» sono termini opposti che si unificano, o si identificano, e se le parole di Eraclito devono fornire un esempio di tale unificazione, o identificazione, allora anche nel caso dei medici deve esserci un «male», facilmente riconoscibile nel loro «tagliare» e «bruciare», e un «bene», da individuare con semplice buon senso nella salute cui il medico mira),

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ma è completamente assente dal presente frammento: non si può escludere, naturalmente, che vi sia implicitamente presupposta, ma neanche si può escludere che Eraclito la rifiuti, negando ai medici l’effettiva capacità di ottenere la guarigione dei pazienti, e condanni perciò il loro «tagliare» e «bruciare» come un male che, in quanto privo di fini, rimane soltanto l’inutile frutto dell’azione di ciarlatani falsamente competenti; in terzo luogo, l’idea espressa dal verbo ejpai-tiavomai, ossia quella del «lamentarsi» o anche dell’«accusare», induce a non trascurare il dato soggettivo del «lamento» o dell’«accusa» in questione, che sembra intimamente connesso al punto di vista di chi lo esprime, i medici, appunto soggettivamente. In tale ottica, che quin-di, pur dubitativamente, tendo a considerare più plausibile, il presente frammento si lascia intendere come una denuncia delle pratiche di quanti, solo apparentemente sapienti o stimati per tali nell’opinione dei più, sono in realtà responsabili di azioni insensate e gravide di conseguenze nefaste, possibilmente allo stesso titolo e per le stesse ragioni, benché in un contesto diverso, delle pratiche religiose tradi-zionali e popolari, che inducono a comportamenti malsani e folli privi dell’esito sperato e promesso, condannate nei precedenti frr. 90 [14 DK; 87 Marc.], cfr. n. 4, 92 [5 DK; 86 Marc.], cfr. n. 18, 93 [15 DK; 50 Marc.], cfr. n. 6, e forse 94 [92 DK; 75 Marc.], cfr. n. 2, e accanto alle quali, allora, la polemica nei confronti dei medici si può presumibil-mente collocare.

Fr. 97 [52 DK; 93 Marc.]1

aijw;n pai'ı ejsti paivzwn, pesseuvwn:2 paido;ı hJ basilhivh.

Il tempo della vita umana è un bimbo che gioca muovendo i suoi pezzi: a un bimbo appartiene il potere sovrano.3

1 Questo frammento è riportato da Ippolito, Refutatio contra omnes haereses IX 9.4 (= 241-42 Wendland), dopo la sequenza dei frr. 5 [50 DK; 26 Marc.], 14 [51 DK; 27 Marc.] e 1 [1 DK; 1 Marc.] (citazione parziale) e prima della sequenza dei frr. 12 [53 DK; 29 Marc.], 15 [54 DK; 9 Marc.], 42 [55 DK; 5 Marc.] e 49 [56 DK; 21 Marc.], nell’ambito della sua interpretazione del lovgoı eracliteo, che, coincidente con il Dio creatore e, a un tempo, con il cosmo generato, e perciò configu-randosi come principio unitario di tutte le cose e del loro governo (cfr. pure, supra, la n. 1 ai frr. 5 e 12), finisce per svelare anche la seconda persona della trinità, il Dio figlio, identificato con la creazione di cui è signore: «E che il tutto sia un bimbo, re eterno (aijwvnioı basileuvı)

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di tutte le cose per l’eternità (di∆ aijw 'noı), lo dice (scil., Eraclito) così: ... (Ippolito cita qui il fr. 97)». In forma appena abbreviata (senza le parole conclusive paido;ı hJ basilhivh), il presente frammento si trova citato da Luciano, Vitarum auctio 14; mentre è riecheggiato, in termini allusivi, da numerosi autori di orientamento principalmente platonico (per un quadro completo si vedano Marcovich, pp. 339-40, e Mouraviev I, p. 362): cfr. per esempio Filone Alessandrino, De aeternitate mundi 42 (= VI 86 Cohn), Clemente Alessandrino, Paedagogus I 22.1 (= I 103 Stählin) e Proclo, In Timaeum I 334.1 Diehl; non si può escludere che vi faccia riferimento Diogene Laerzio, Vitae philosophorum IX 3, con il racconto del celebre aneddoto che vede Eraclito ritirarsi sdegnoso a giocare a dadi con dei bambini piuttosto che occuparsi della città con i suoi vituperati concittadini (cfr. l’Introduzione, § 3). Si noti che il termine aijwvn, intorno al cui significato si pongono non facili problemi di comprensione e interpretazione (cfr. infra, n. 3), è inteso da Ippolito in evidente relazione con la dottrina gnostica degli «eoni», emanazioni eterne della divinità prima e strumenti della sua azione, mentre si trova spesso riferito, nelle reminiscenze citate del presente frammento, alla concezione stoica dell’«eone», ossia del «grande anno» che esprime la durata di un ciclo del cosmo, dalla sua (ri)generazione fino alla successiva conflagrazione (si vedano in proposito i frr. 29 [30 DK; 51 Marc.], specie n. 4, e 39 [64+65+66 DK; 79+55+82 Marc.], nn. 1, 7 e 8; e l’Introduzione, § 2.2).

2 pesseuvwn è la forma ionica generalmente accolta, introdotta qui sulla base della citazione di Luciano (cfr. la nota precedente), dell’equi-valente attico petteuvwn di Ippolito.

3 L’interpretazione di queste celebri parole di Eraclito è complicata soprattutto dalla difficoltà di determinare con esattezza il significato del termine aijwvn, che è, per così dire, il loro definiendum, e il riferimen-to del verbo pesseuvw (o petteuvw), che si pone come definiens, visto che dovrebbero essere appunto le caratteristiche di questo «gioco» a chiarire la natura dell’oggetto in esame. Ora, facendo naturalmente astrazione dalla rilettura ideologica, in senso stoico o gnostico (cfr. supra, n. 1), di aijwvn come «eone», il suo impiego nella letteratura gre-ca arcaica sembra designare, in primis, la «forza vitale», intesa come responsabile della «durata» della vita (cfr. per esempio Iliade V 685 e XVI 453; Odissea IX 523), donde il duplice possibile senso di «tempo della vita umana», in relazione al suo corso o eventualmente a una parte di esso (così Marcovich, p. 341, che pensa all’«età matura», ma si veda, contra, Diano-Serra, p. 152) oppure anche, per estensione, di «tempo cosmico», ad alludere al lungo periodo o all’eternità del tutto (cfr. in proposito la rigorosa disamina di Conche, pp. 446-47): con buona parte dei traduttori e dei commentatori recenti, tendo a preferire la prima opzione, che coincide con il significato più usuale del termine nella lingua arcaica, innanzitutto perché la nozione di un «tempo cosmico» o di un’«eterna durata», specie in forma astratta e in relazione alla sua misurabilità o alla sua misurazione, mi pare estranea alla riflessione filosofica greca che precede il Timeo di Platone e il suo grande exposé cosmologico; ma anche, e soprattutto, in quanto il

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paragone con un «gioco» infantile, quale che sia, implica piuttosto, a mio avviso, un rapporto di analogia con la dimensione concreta della vita umana, non necessariamente in riferimento esclusivo a un singolo individuo, ma eventualmente nel senso più ampio dell’«insieme» di eventi che caratterizzano la vita degli uomini in generale. Per quanto riguarda il verbo pesseuvw, gli elementi a nostra disposizione sono ancora più scarsi, perché ci rimane del tutto ignoto il «gioco» chiamato in causa, al punto che, per la sua identificazione, è stato suggerito un parallelo tanto con giochi di strategia, dunque dotati di regole ben determinate (come la dama o gli scacchi, così Kahn, p. 227, Diano-Serra, pp. 152-53, e Conche, pp. 446-48), quanto con giochi basati sulla pura casualità, il cui esito dipende cioè soltanto dalla fortuna (come i dadi, così Marcovich, pp. 340-42, che però traduce con «... giocano a dama ...»), quanto infine con giochi «misti», che appunto fanno intervenire strategia e regolarità e, a un tempo, il caso e la fortuna (come il trictrac, così Pradeau, p. 304), sicché, anche in tal caso, la scelta interpretativa non può che rivelarsi in larga misura congetturale (e vi è, infatti, chi preferisce non operare nessuna scelta, come Bollack-Wismann, pp. 182-83, che traducono: «... un enfant qui enfante, qui joue ...», pur esprimendo poi una preferenza per gli scacchi, intendendo pesseuvw nel senso di «far avanzare i pedoni», e Mouraviev I, p. 133, che si limita a una traslitterazione: «... un enfant qui s’amuse, qui joue aux pessoi»). Tuttavia, se tale «gioco» è quello praticato da un «bimbo», e se la condizione infantile si trova normalmente associata da Eraclito alla superficialità e alla leggerezza di un’età immatura (come risulta abbastanza esplicitamente dai frr. 44c [70 DK; 92d Marc.], cfr. n. 3, 49 [56 DK; 21 Marc.], cfr. n. 5, 55 [79 DK; 92 Marc.], cfr. n. 2, 63 [117 DK; 69 Marc.], cfr. n. 2, e 87 [121 DK; 105 Marc.], cfr. n. 9), suggerisco che l’accostamento del «bimbo» al suo «gioco», particolarmente sottolineato tramite l’insistita allitterazione paivzwn pesseuvwn ... paidovı, induca a concepire tale «gioco», che è illustrazione del corso della vita umana, come un’attività che poggia su procedure le cui regole non sono, sogget-tivamente per il «bimbo» che le pratica e oggettivamente per la natura stessa del «gioco», immediatamente evidenti, a meno che, ovviamente, non si voglia attribuire a Eraclito una concezione dell’esistenza, del tutto anacronistica e, per così dire, «proto-esistenzialistica», come semplice combinazione casuale di eventi. In altre parole, il «tempo assegnato agli uomini» consisterebbe in un «gioco» praticato super-ficialmente, non perché privo di regole e completamente fortuito, ma per la sfortunata combinazione della non immediata evidenza delle sue regole e dell’incapacità a coglierle dei «giocatori», che appunto lo praticano alla maniera dei «bambini»: questa idea, che ho cercato di rendere con l’immagine dello spostamento di «pezzi» o «tessere», per esempio su una scacchiera (ma, appunto per l’impossibilità di deter-minare esattamente di che gioco si tratti, ho evitato nella traduzione ogni riferimento specifico), implica che tale spostamento può essere compiuto secondo le regole del gioco oppure in modo errato e casuale – dunque producendo una combinazione sensata e dotata di una sua disposizione ordinata oppure il semplice caos –; che le sue regole non

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sono di per sé immediatamente evidenti, giacché chiunque, altrimenti, sarebbe in grado di applicarle; e che, di conseguenza, i «bambini», che quelle regole certamente ignorano, non «muovono i loro pezzi» nel modo appropriato, sicché «il tempo della vita umana» va considerato, in base al presente frammento, come una sorta di puzzle le cui tessere sono mal disposte, appunto per l’incompetenza di chi le dispone senza averne appreso la logica e trascurandone perciò gli «incastri» (e non che, naturalmente, tali «incastri» siano noti ai «bambini», ma non agli «uomini», come vogliono incongruamente Diano-Serra, p. 153, né viceversa ignoti ai «bambini», ma noti agli «uomini», bensì, come detto, non immediatamente noti di per sé, e dunque certo ignoti ai «bambini», ma verosimilmente accessibili agli uomini che li sottopongano a un esame adeguato). Il «potere sovrano» (basilhivh) che «appartiene a un bimbo», in quanto «muove i suoi pezzi», è quindi quello che pre-siede a tale movimento e di esso dispone perciò come di un «regno», risultandone però infine strumento, e non certo riuscendone vincitore, se manca della consapevolezza delle sue regole e dei suoi scopi. Così intese, queste parole di Eraclito possono essere accostate ai materiali attinenti alla sua riflessione etica, a esprimere un giudizio sprezzante sulla condizione umana, almeno nella forma in cui essa è vissuta dai più, cioè nell’inconsapevolezza e nell’incomprensione dei principi e dei valori che dovrebbero orientarne il corso che le è assegnato (cfr. pure, per una simile conclusione, Pradeau, p. 305). Meno pertinenti mi sembrano l’interpretazione di Bollack-Wismann, p. 184, che riferiscono i contenuti del presente frammento al ciclo dell’esistenza umana e al perenne scambio di ruoli che in essa recitano il bambino e l’adulto, ciascuno essendo di volta in volta, nel «gioco» della vita, padre e figlio; come anche quella, propriamente «politica», suggerita da Marcovich, p. 342, che ritiene di cogliervi una critica rivolta all’esercizio del potere da parte degli uomini, ridotti appunto al rango di «bimbi». Pure poco plausibile, infine, considero la posizione di Kahn, pp. 227-28, e Robinson, p. 117, che danno una lettura «cosmologica» del presente frammento, stabilendo in particolare un riferimento al fr. 12 [53 DK; 29 Marc.] e al principio del povlemoı, «padre di tutte le cose ... di tutte re», di cui il «bimbo» evocato qui potrebbe essere considerato come il «figlio», che appunto mette in atto l’alternanza di tutte le cose, concretamente muovendo i «pezzi» del suo gioco, tramite lo stesso potere «regale» del «padre»; ma anche di Conche, p. 449, che, in modo analogo, associa il «tempo della vita umana» al «meccanismo» del divenire, che garan-tisce una perenne alternanza nel tutto, con la stessa irresponsabile e implacabile leggerezza del «bimbo» che muove i suoi «pezzi».

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h\qoı ajnqrwvpw/ daivmwn.

Il carattere, per l’uomo, è il suo destino.2

1 Questo frammento è riportato da Stobeo IV 40.23 (= V 925 Hen-se); identica citazione, con ajnqrwvpou al genitivo singolare, in Plutarco, Quaestiones Platonicae I 1. 999d-e; e, con ajnqrwvpwn al genitivo plurale, in Alessandro di Afrodisia, De anima 2, 185.21 Bruns (= De fato 6, 170.16 Bruns). Reminiscenze piuttosto fedeli si trovano nelle pseudo-eraclitee Lettere IX 351.54 Tarán e VIII 346.14 Tarán.

2 Se vi è una generale convergenza nell’ammissione che l’h\qoı evo-cato qui corrisponda al «carattere individuale», nel senso del «modo di essere» che in ciascuno si costituisce sulla base della sua «indole» e del suo «costume» (si vedano in proposito Marcovich, p. 347, e Diano-Serra, p. 178; non convincente, a mio avviso, la posizione di Mouraviev I, p. 301, e III, p. 137, n. 2, che intende h\qoı come «riparo» o «sede» dell’anima e dell’intelligenza), il termine daivmwn fa riferimento alla credenza popolare, del resto riecheggiata, benché in forma originale, dal celebre caso del «demone» di Socrate, relativa all’elemento divino che accompagna gli uomini nel corso della loro esistenza, a mo’ di guida o protezione, e che, di conseguenza, determina e governa la condotta individuale di ognuno, appunto configurandosi come il suo «destino» personale (cfr. per esempio Platone, Leggi V 732c). Ne deriva che, nella versione eraclitea di questa credenza che emerge dal presente fram-mento, il «demone» o il «destino» personale degli uomini non è fatto coincidere con l’elemento divino e con la sua presenza costante e, per così dire, immanente, ma appunto con il «carattere» o la «disposizione» di un individuo, sicché è dalla dimensione più autenticamente umana del temperamento e della personalità che dipendono la direzione nella vita e l’orientamento nell’azione per un uomo, dunque il suo destino propriamente fondato nel suo ethos. Con una lettura «etica» di questo genere concordano Marcovich, pp. 347-49, che tende però a identificare più precisamente l’h\qoı evocato qui con la virtù di cui danno prova gli a[ristoi che aspirano alla «gloria eterna» (cfr. il fr. 73 [29 DK; 95 Marc.]) e alle «sorti più illustri» (cfr. il fr. 74 [25 DK; 97 Marc.]), Kahn, p. 261, Conche, p. 85, Robinson, p. 160, e Pradeau, pp. 310-11. Di segno contrario, e a mio avviso del tutto paradossali, le interpretazioni di Bollack-Wismann, p. 329, che vedono nel presente frammento non l’affermazione della coincidenza del «destino individuale» di ciascuno, del daivmwn, con l’h\qoı, ma la sua contraria, secondo cui l’h\qoı di ciascuno non è altro che il daivmwn, sicché non vi sarebbe «disposizione» umana che sfugga all’identificazione e al controllo del divino, così facendo emergere una nuova manifestazione della dialettica degli opposti; e di

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Diano-Serra, p. 179, che, pur accogliendo i termini dell’identificazione del daivmwn individuale con l’h\qoı di ciascuno, ritengono tuttavia che ciò non implichi una critica o quantomeno una revisione della credenza religiosa tradizionale, ma solo una denuncia della conoscenza inadeguata che gli uomini hanno del divino.

Fr. 99 [18 DK; 11 Marc.]1

eja;n mh; e[lphtai, ajnevlpiston oujk ejxeurhvsei, ajnexereuvnhton ejo;n kai; a[poron.2

Se non spera, non troverà l’insperato: ne è difficile la ricerca e ardua la via.3

1 Questo frammento è riportato da Clemente Alessandrino, Stromateis II 17.4 (= II 121 Stählin), nell’ambito di un argomento teso a mostrare che la fede è a un tempo condizione e fine della conoscenza, con queste parole: «Nulla si rivela più vero del detto del profeta: “Se non avrete fede, neanche comprenderete” (= Isaia 7.9). Ed è parafrasando questo detto che anche Eraclito di Efeso ha affermato: ... (Clemente cita qui il fr. 99)». Analoga citazione in Teodoreto, Graecarum affectionum curatio I 88, con alcune variazioni relative ai due verbi, riportati alla seconda persona plurale (ejlpivzhte in luogo di e[lphtai e euJrhvsete in luogo di ejxeurhvsei).

2 L’unico problema rilevante che si pone in relazione al testo del presente frammento riguarda la punteggiatura, con immediati riflessi sulla sua interpretazione (cfr. perciò anche la nota seguente): perso-nalmente, pongo dei segni di interpunzione dopo e[lphtai ed ejxeurhvsei (così pure, fra gli editori e i traduttori recenti dei frammenti eraclitei, DK, Bollack-Wismann, p. 104, Kahn, pp. 30-31, e Diano-Serra, pp. 32-33); vi è tuttavia chi, seguendo un suggerimento di Gomperz, pone un segno di interpunzione dopo ajnevlpiston, con la resa seguente: «Se non spera l’insperato, non lo troverà ...» (evidentemente sottintendendo un pronome come aujtov: così, a titolo di esempio, Marcovich, pp. 28-29, Conche, p. 245, Robinson, pp. 18-19, e Pradeau, pp. 142 e 254); il solo Mouraviev I, pp. 60-61, e III, p. 26, n. 1, infine, non pone nessun segno di interpunzione, né dopo e[lphtai né dopo ejxeurhvsei, e traduce perciò: «S’il n’espère l’inespéré ne trouvera point ce qui est (o: puisque c’est) introuvable et inaccessible».

3 Il soggetto volutamente inespresso del presente frammento non può che essere l’«uomo», possibilmente lo stesso a[nqrwpoı il cui «desti-

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no» coincide con il «carattere», secondo il precedente fr. 98 [119 DK; 94 Marc.], a fornire così un’indicazione valida per guidare la condotta individuale di ciascuno; poco felice, benché non scorretto, mi pare perciò adottare la forma impersonale («Se non si spera ..., non si troverà ...», così, per esempio, Pradeau, pp. 142 e 254) o la forma del «tu generico» («Se non speri ..., non troverai ...», così, per esempio, Marcovich, p. 28). Come già rilevato in relazione al fr. 67 [27 DK; 74 Marc.], cfr. n. 2, il verbo e[lpomai abbraccia l’intera gamma semantica connessa agli ambiti della «speranza» e dell’«aspettativa» di qualcosa, ambiti che sono del resto, nella lingua greca come in molte lingue moderne, assai prossimi: la mia scelta in favore della traduzione con «sperare» (che è minoritaria, cfr. Bollack-Wismann, p. 104, Marcovich, pp. 28-29, Kahn, p. 31, Robinson, p. 19, e Pradeau, pp. 142 e 254), facendo naturalmente astrazione da ogni allusione alla fede religiosa, che è invece chiaramente presupposta dal citatore (cfr. supra, n. 1), ma anche dall’attribuzione a tale «speranza» di qualunque carattere metafisico, per esempio nella forma di una «verità» suprema e trascendente che sarebbe il contenuto ajnevlpiston di una speranza «essenziale» (questa, invece, l’interpretazione di Diano-Serra, p. 162, e di Conche, pp. 246-47), dipende dalla constatazione banale che, mentre è possibile «sperare ... e trovare l’insperato», da intendere come ciò che non è stato ancora oggetto di speranza oppure come ciò che abitualmente non è oggetto di speranza, mi pare contraddittorio «aspettarsi ... e trovare l’inaspettato», che per definizione, se è tale, cioè inaspettato, rinvia a ciò di cui non è soggettivamente possibile avere aspettativa, perché fra l’altro, se inaspettato, è appunto ciò che oggettivamente, ancora per definizione, sopraggiunge inaspettatamente (nell’ambito semantico della «speranza», invece, la lingua italiana pre-vede una ben precisa distinzione, assente da quello dell’«aspettativa», fra ciò che è insperato, perché non ancora o non abitualmente sperato, e ciò che è insperabile, che è appunto, analogamente all’inaspettato, impossibile da sperare), cfr. pure, su questa linea, Diano-Serra, p. 162. Ne segue che ajnevlpiston significa necessariamente «insperato», e non «insperabile», giacché l’esortazione a «sperare ... e trovare l’insperabile» implicherebbe l’attribuzione a Eraclito di un paradosso che nasconde un’evidente contraddizione, mentre l’invito a «sperare ... e trovare l’insperato» suppone plausibilmente l’idea che bisogna innalzare la soglia delle proprie speranze, se così si può dire, per ottenere ciò che ricade normalmente, o che è ricaduto fin qui, fra le cose non sperate. L’ultima questione da esaminare riguarda la costruzione delle parole di Eraclito, in base alla punteggiatura che si decide di adottare (cfr. la nota precedente): non credo vi sia una differenza sostanziale rispetto alla scelta di porre un segno di interpunzione prima o dopo ajnevlpiston, perché le due affermazioni «Se non spera, non troverà l’insperato ...» e «Se non spera l’insperato, non lo troverà ...» sono del tutto equivalenti, solo che si consideri che la «speranza» «priva di contenuti determinati» della prima, che consente di giungere a «trovare l’insperato», corrisponde pienamente a quella della seconda, cioè di chi, «sperando l’insperato», giunge a «trovarlo», e ciò in quanto «sperare l’insperato» significa rivolgere le proprie «speranze» verso oggetti che, se sono ignorati (e

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FR. 99 [18 DK; 11 MARC.] 379

perciò non sperati), rimangono anch’essi completamente indetermina-ti, sicché «sperare per trovare l’insperato» e «sperare l’insperato per trovarlo» sono affermazioni, da un punto di vista logico, perfettamente coincidenti. Sembra piuttosto che l’accento vada posto sull’esortazione alla «speranza» come tale, e a un innalzamento dei suoi obiettivi, perché possano cioè essere perseguiti obiettivi «insperati», quindi non immediati e usuali, dei quali perciò «è difficile la ricerca e ardua la via» e che per questo richiedono un surplus di «speranza», appunto per l’oggettiva difficoltà di raggiungerli: rendo di conseguenza i termini ajnexereuvnhton (dal verbo ejreunavw, che significa «ricercare») e a[poron, non nel senso originario e letterale di «impraticabile» (in quanto «non ricercabile») e di «inaccessibile» (in quanto «privo di via» o di «accesso»), ma nel senso derivato e già attestato nella lingua greca arcaica di «difficile (e non impossibile) da ricercare» e di «difficile (e non impossibile) nell’accesso», nell’ipotesi che l’impossibilità oggettiva evocata dai primi si lasci tradurre nella difficoltà soggettiva implicita nei secondi. Benché l’inequivoco riferimento alla «ricerca» e alla «scoperta» abbia indotto alcuni interpreti a collocare il presente frammento in ambito episte-mologico, appunto come manifestazione dell’esigenza di volgersi alla dura ricerca della verità attraverso l’ascolto del lovgoı, che impone di andare al di là dell’apparenza immediata della realtà e delle cose che sono (così particolarmente Marcovich, p. 29, Kahn, p. 105, Robinson, pp. 88-89, e Pradeau, p. 255), propendo a mia volta per un’interpretazione di carattere etico, ancora, possibilmente, a richiamare il modello dell’etica degli a[ristoi e simmetricamente a denunciare l’anti-etica della massa, ampiamente delineate e poste a confronto nei materiali raccolti nella presente Sezione 6, e attribuendo a Eraclito un invito agli uomini a innalzare la prospettiva e l’orientamento delle proprie aspirazioni, che è l’unica e decisiva condizione per raggiungere gli obiettivi più ambiziosi ed elevati, come la «gloria eterna» e le «sorti più illustri» dei frr. 73 [29 DK; 95 Marc.] e 74 [25 DK; 97 Marc.], che sono ostici da perseguire, in primo luogo e soprattutto, perché non praticati da quanti tendono soltanto a «riempirsi lo stomaco come le bestie» e in questa misura si rivelano da essi perfino insperati; ma all’uomo che voglia essere l’a[ristoı spetta forgiare il proprio «destino», come prescrive il precedente fr. 98, curando i comportamenti e la condotta che ne costituiscono il «carattere».

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APPENDICE

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CoNCorDANzE

Fronterotta DK Marcovich 1 1 1 1a 73 1h1

1b 75 1h2

1c 19 1g 2 34 2 3 17 3 4 72 4 5 50 26 6 114 23 6a 113 23d1

7 2 23 8 89 24 9 41 85 10 32 84 11 108 83 12 53 29 13 80 28 14 51 27 14a 8 27d1+28b1

15 54 9 16 10 25 17 111 44 18 59 32 19 103 34 20 60 33 21 62 47 22 88 41 23 21 49 24 26 48 25 12 40

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384 APPENDICE

26 125 31 27 84ab 56ab 28 67 77 29 30 51 30 31 53ab 31 61 35 32 126 42 33 90 54 34 0 (3+94) 0 (57+52) 35 99 60 36 6 58 37 120 62 38 100 64 39 64+65+66 79+55+82 40 87 109 41 101a 6 42 55 5 43 7 78 44 107 13 44a 46 114 44b 47 113 44c 70 92d 45 35 7 46 39 100 47 104 101 48 40 16 49 56 21 49a 42 30 49b 105 63a 49c 38 63b 50 57 43 50a 106 59 51 129 17 51a 81 18 52 28 20+19 53 95=109 110 54 78 90 55 79 92 56 86 12 57 102 91 58 124 107 59 93 14

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CoNCorDANzE 385

60 123 8 61 45 67 62 36 66 63 117 69 64 118 68 65 20 99 66 48 39 67 27 74 68 98 72 69 63 73 70 101 15 70a 116 23e 70b 112 23f 71 43 102 72 49 98 72a 69 98g 73 29 95 74 25 97 75 24 96 76 33 104 77 44 103 78 110 71 79 85 70 80 22 10 81 9 37 82 13 36 82a 4 38 83 11 80 84 97 22 85 23 45 86 16 81 87 121 105 88 125a 106 89 74 89 90 14 87 91 96 76 92 5 86 93 15 50 94 92 75 95 68 88 96 58 46 97 52 93

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386 APPENDICE

98 119 94 99 18 11

DK Fronterotta Marcovich 1 1 1 2 7 23 3 34 57 4 82a 38 5 92 86 6 36 58 7 43 78 8 14a 27d1+28b1

9 81 37 10 16 25 11 83 80 12 25 40 13 82 36 14 90 87 15 93 50 16 86 81 17 3 3 18 99 11 19 1c 1g 20 65 99 21 23 49 22 80 10 23 85 45 24 75 96 25 74 97 26 24 48 27 67 74 28 52 20+19 29 73 95 30 29 51 31 30 53ab 32 10 84 33 76 104 34 2 2 35 45 7 36 62 66 37 cfr. fr. 82, n. 1 36c1

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CoNCorDANzE 387

38 49c 63b 39 46 100 40 48 16 41 9 85 42 49a 30 43 71 102 44 77 103 45 61 67 46 44a 114 47 44b 113 48 66 39 49 72 98 50 5 26 51 14 27 52 97 93 53 12 29 54 15 9 55 42 5 56 49 21 57 50 43 58 96 46 59 18 32 60 20 33 61 31 35 62 21 47 63 69 73 64 39 79 65 39 55 66 39 82 67 28 77 67a cfr. fr. 61, n. 1 115 68 95 88 69 72a 98g 70 44c 92d 71 cfr. fr. 63, n. 1 69b1

72 4 4 73 1a 1h1

74 89 89 75 1b 1h2

76 cfr. fr. 62, n. 1 66e1-4

77 cfr. fr. 62, n. 1 66d1

78 54 90

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388 APPENDICE

79 55 92 80 13 28 81 51a 18 82 cfr. fr. 55, n. 1 92b 83 cfr. fr. 55, n. 1 92b 84ab 27 56ab 85 79 70 86 56 12 87 40 109 88 22 41 89 8 24 90 33 54 91 cfr. fr. 25, n. 1 40c3

92 94 75 93 59 14 94 34 52 95=109 53 110 96 91 76 97 84 22 98 68 72 99 35 60 100 38 64 101 70 15 101a 41 6 102 57 91 103 19 34 104 47 101 105 49b 63a 106 50a 59 107 44 13 108 11 83 109=95 53 110 110 78 71 111 17 44 112 70b 23f 113 6a 23d1

114 6 23 115 cfr. frr. 6-6a, n. 1 112 116 70a 23e 117 63 69 118 64 68 119 98 94

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CoNCorDANzE 389

120 37 62 121 87 105 122 0

1 111

123 60 8 124 58 107 125 26 31 125a 88 106 126 32 42 Dubia 126a cfr. Introduzione, 4.7 118 126b cfr. Introduzione, 4.7 0 127 cfr. fr. 92, n. 1 119 128 cfr. fr. 92, n. 1 86g1

129 51 17 130 cfr. Introduzione, 4.7 124 131 cfr. fr. 44a, n. 1 114d1

132 cfr. Introduzione, 4.7 120 133 cfr. Introduzione, 4.7 121 134 cfr. Introduzione, 4.7 122 135 cfr. Introduzione, 4.7 123 136 cfr. fr. 75, n. 1 96b1

137 cfr. Introduzione, 4.7 28c1

1 Il fr. 122 DK; 111 Marcovich è riportato dalla Suda, s.v. ajmfisba-tei'n, con la precisazione che, in dialetto ionico, tale verbo equivale a ajgcibatei'n, donde il termine, attribuito a Eraclito, ajgcibasivhn, di cui si comporrebbe il frammento (analoga attribuzione s.v. ajgcibatei'n). Non altrimenti noto, il termine pare significare, in base alla sua composizione (baivnw, «procedere» o «avanzare», ajgciv, «presso» o «in prossimità di»), «avvicinarsi» o «accostarsi» (così DK, Marcovich, p. 388, Mouraviev I, p. 307, e III, p. 139, che lo giudicano autentico), anche se l’associazione suggerita dalla Suda con il verbo ajmfisbatei'n indurrebbe a intenderlo nel senso di «contestare» o «confliggere», eventualmente sospettando così, in ragione di questa ambiguità, un gioco di parole, da parte di Eraclito, a sottolineare nuovamente l’unità o la reciproca implicazione dei termini opposti («accostarsi»/«discostarsi», «convergere»/«divergere»; cfr. per esempio, in tal senso, Conche, pp. 248-50). Condivido però la posizione di Kahn, p. 288, che fa notare come, trattandosi di un termine isolato, e perciò impossibile da collocare e contestualizzare, e la cui attribuzione a Eraclito risulta fra l’altro cronologicamente tarda (X secolo d.C.) e concettualmente vaga e generica, se nessun argomento appare decisivo per escluderne l’autenticità, neanche ne emergono in favore di essa né della sua valutazione e comprensione in quanto frammento (anche Diano-Serra, p. 202, n. 2, robinson e Pradeau giungono ad analoghe conclusioni).

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390 APPENDICE

138 cfr. Introduzione, 4.7 125 139 cfr. Introduzione, 4.7 118c

Marcovich Fronterotta DK 1 1 1 1g 1c 19 1h1 1a 73 1h2 1b 75 2 2 34 3 3 17 4 4 72 5 42 55 6 41 101a 7 45 35 8 60 123 9 15 54 10 80 22 11 99 18 12 56 86 13 44 107 14 59 93 15 70 101 16 48 40 17 51 129 18 51a 81 19 52 28 20 52 28 21 49 56 22 84 97 23 6+7 114+2 23d1 6a 113 23e 70a 116 23f 70b 112 24 8 89 25 16 10 26 5 50 27 14 51 27d1 14a 8 28 13 80 28b1 14a 8 28c1 cfr. Introduzione, 4.7 137

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CoNCorDANzE 391

29 12 53

30 49a 42

31 26 125

32 18 59

33 20 60

34 19 103

35 31 61

36 82 13

36c1 cfr. fr. 82, n. 1 37

37 81 9

38 82a 4

39 66 48

40 25 12

40c3 cfr. fr. 25, n. 1 91

41 22 88

42 32 126

43 50 57

44 17 111

45 85 23

46 96 58

47 21 62

48 24 26

49 23 21

50 93 15

51 29 30

52 34 94

53ab 30 31

54 33 90

55 39 65

56ab 27 84ab

57 34 3

58 36 6

59 50a 106

60 35 99

61 cfr. Sezione 3, Nota introduttiva A 1

62 37 120

63ab 49b+49c 105+38

64 38 100

65 cfr. fr. 38, n. 2 A 13

66 62 36

66d1 cfr. fr. 62, n. 1 77

66e1-4 cfr. fr. 62, n. 1 76

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392 APPENDICE

67 61 45 68 64 118 69 63 117 69b1 cfr. fr. 63, n. 1 71 70 79 85 71 78 110 72 68 98 73 69 63 74 67 27 75 94 92 76 91 96 77 28 67 78 43 7 79 39 64 80 83 11 81 86 16 82 39 66 83 11 108 84 10 32 85 9 41 86 92 5 86g1 cfr. fr. 92, n. 1 128 87 90 14 88 95 68 89 89 74 90 54 78 91 57 102 92 55 79 92b cfr. fr. 55, n. 1 82; 83 92d 44c 70 93 97 52 94 98 119 95 73 29 96 75 24 96b1 cfr. fr. 75, n. 1 136 97 74 25 98 72 49 98g 72a 69 99 65 20 100 46 39 101 47 104 102 71 43

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CoNCorDANzE 393

103 77 44 104 76 33 105 87 121 106 88 125a 107 58 124 108 cfr. fr. 66, n. 1 A19+A18 109 40 87 110 53 95=109 111 0

2 122

Dubia

112 cfr. fr. 61, n.1 115 113 44b 47 114 44a 46 114d1 cfr. fr. 44a, n. 1 131 115 cfr. fr. 61, n. 1 67a 116 cfr. Sezione 1 e 4, Nota introduttiva A 16 117 cfr. Sezione 5, Nota introduttiva 0 118 cfr. Introduzione, 4.7 126a 118c cfr. Introduzione, 4.7 139 119 cfr. fr. 92, n. 1 127 120 cfr. Introduzione, 4.7 132 121 cfr. Introduzione, 4.7 133 122 cfr. Introduzione, 4.7 134 123 cfr. Introduzione, 4.7 135 124 cfr. Introduzione, 4.7 130 125 cfr. Introduzione, 4.7 138

2 Cfr. la nota precedente.

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INDICE DEI CItAtorI1

(IN orDINE AlFAbEtICo)

[Aezio] (I-II secolo d.C.)Placita philosophorum, ed. H. Diels, in Doxographi Graeci, Weid-

mann, berlin 1879.II 21.4 (= Dox. 351-52 = Eusebio, Praeparatio evangelica XV 24.3)

= fr. 0 [3 DK; 57 Marc.], cfr. fr. 34

Alberto Magno (ca 1205-1280 d.C.) De vegetabilibus, ed. E. Meyer, C. Jessen, reimer, berlin 1867;

cfr. K. biewer, ed., Quellen und Studien zur Geschichte der Pharmazie, vol. 62, Wissenschaftliche Verlagsgesellschaft, Stuttgart 1992.

VI 401 (545 Meyer = VI 2.14 biewer) = fr. 82a [4 DK; 38 Marc.]

Ario Didimo (I secolo a.C.), che cita Cleante (331-232), in Eusebio (265-340 d.C.)

Praeparatio evangelica, ed. K. Mras, Griechischen christlichen Schriftsteller der ersten Jahrhunderte, vol. 43, Akademie Verlag, berlin 1954.

XV 20.2 (= II 384 Mras = Dox. 470-71 = SVF I 519) = fr. 25 [12 DK; 40 Marc.]

1 Questo Indice presenta, in ordine alfabetico, l’elenco dei citatori dei frammenti eraclitei da me raccolti e commentati come autentici o parzialmente/possibilmente autentici (ma non di quelli respinti come inautentici, che naturalmente non risultano numerati nella mia raccolta), con l’indicazione della loro cronologia, delle opere e dei relativi passi da cui tali citazioni sono rispettivamente tratte. Per ciascun citatore, e per la/e sua/e opera/e, sono segnalate le edizioni critiche (a oggi) di riferimento, di preferenza, quando possibile, con traduzione italiana.

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396 APPENDICE

Aristocrito (seconda metà del V secolo d.C.)Theosophia, ed. (iterum) H. Erbse, Theosophorum Graecorum

Fragmenta, teubner, leipzig-Stuttgart 1995.68 (= 184 Erbse) = fr. 92 [5 DK; 86 Marc.]Aristotele (384-322 a.C.)De sensu, ed. W.S. Hett, t. VIII, Aristotle, On the Soul. Parva Natu-

ralia. On Breath, Harvard Univ. Press, Cambridge-london 1975; cfr. P.-M. Morel, trad., Petits traités d’histoire naturelle, GF-Flam-marion, Paris 2000.

5, 443a23 = fr. 43 [7 DK; 78 Marc.]Ethica Nicomachea, ed. F. Susemihl, teubner, leipzig 1880 (terza

ed. o. Apelt, ibid., 1912); cfr. I. bywater, ed., oxford Univ. Press, oxford 1894.

VIII 1, 1155b4 = fr. 14a [8 DK; 27d1-28b1 Marc.]X 5, 1176a7 = fr. 81 [9 DK; 37 Marc.]Meteorologica, ed. P. louis, 2 voll., les belles lettres, Paris

1982.II 2, 354b33 = fr. 36 [6 DK; 58 Marc.]

pseudo-Aristotele (I secolo a.C. ? – I secolo d.C. ?)De mundo, ed. W.l. lorimer, les belles lettres, Paris 1933.5 (= 396b20-22 lorimer) = fr. 16 [10 DK; 25 Marc.]6 (= 401a11 lorimer) = fr. 83 [11 DK; 80 Marc.]

Celso (fine del II secolo d.C.), in origene (ca 185-253 d.C.)Contra Celsum, ed. P. Koetschau, Griechischen christlichen Schriftstel-

ler der ersten Jahrhunderte, vol. 3, Hinrich, leipzig 1899; cfr. M. borret, ed., 5 voll., Cerf, Paris 1967-76.

V 14 (= II 15.19 Koetschau) = fr. 91 [96 DK; 76 Marc.]VI 12 (= II 82.18 Koetschau) = fr. 54 [78 DK; 90 Marc.]VI 12 (= II 82.23 Koetschau) = fr. 55 [79 DK; 92 Marc.]VI 42 (= II 119.9 Koetschau) = fr. 13 [80 DK; 28 Marc.]VII 62 (= II 212.3 Koetschau) = fr. 92 [5 DK; 86 Marc.]

Cleante (331-232), citato da Ario Didimo (I secolo a.C.), in Eusebio (265-340 d.C.)

Praeparatio evangelica, ed. K. Mras, Griechischen christlichen Schriftsteller der ersten Jahrhunderte, vol. 43, Akademie Verlag, berlin 1954.

XV 20.2 (= II 384 Mras = Dox. 470-71 = SVF I 519) = fr. 25 [12 DK; 40 Marc.]

Page 548: Eraclito eBook

INDICE DEI CItAtorI 397

Clemente Alessandrino (150-215 d.C.)Paedagogus, ed. o. Stählin, Griechischen christlichen Schriftsteller

der ersten Jahrhunderte, vol. 12, Hinrich, leipzig 1905. II 99.5 (= I 216 Stählin) = fr. 86 [16 DK; 81 Marc.]Protrepticus, ed. o. Stählin, Griechischen christlichen Schriftsteller

der ersten Jahrhunderte, vol. 12, Hinrich, leipzig 1905; cfr. M. Marcovich, ed., brill, leiden 1995.

22.2 (= I 16 Stählin) = fr. 90 [14 DK; 87 Marc.]34.5 (= I 26 Stählin) = fr. 93 [15 DK; 50 Marc.]92.4 (= I 69 Stählin) = fr. 82 [13 DK; 36 Marc.]Stromateis, ed. o. Stählin, Griechischen christlichen Schriftsteller

der ersten Jahrhunderte, vol. 15, Hinrich, leipzig 1906 (terza ed. l. Früchtel, ibid., vol. 52, Akademie Verlag, berlin 1960).

I 2.2 (= II 4 Stählin) = fr. 82 [13 DK; 36 Marc.]II 8.1 (= II 117 Stählin) = fr. 3 [17 DK; 3 Marc.]II 17.4 (= II 121 Stählin) = fr. 99 [18 DK; 11 Marc.]II 24.5 (= II 126 Stählin) = fr. 1c [19 DK; 1g Marc.]III 14.1 (= II 201 Stählin) = fr. 65 [20 DK; 99 Marc.]III 21.1 (= II 205 Stählin) = fr. 23 [21 DK; 49 Marc.]IV 4.2 (= II 249 Stählin) = fr. 80 [22 DK; 10 Marc.]IV 10.1 (= II 252 Stählin) = fr. 85 [23 DK; 45 Marc.]IV 16.1 (= II 255 Stählin) = fr. 75 [24 DK; 96 Marc.]IV 49.2 (= II 270-71 Stählin) = fr. 74 [25 DK; 97 Marc.]IV 141.1-2 (= II 310 Stählin) = fr. 24 [26 DK; 48 Marc.]IV 144.2 (= II 312 Stählin) = fr. 67 [27 DK; 74 Marc.]V 9.2-4 (= II 331 Stählin) = fr. 52 [28 DK; 20+19 Marc.]V 17.1-2 (= II 435 Stählin) = fr. 62 [36 DK; 66 Marc.]V 59.5 (= II 366 Stählin) = fr. 73 [29 DK; 95 Marc.]V 104.1-3 (= II 396 Stählin) = fr. 29 [30 DK; 51 Marc.]V 104.1-3 (= II 396 Stählin) = fr. 30 [31 DK; 53ab Marc.]V 115.1 (= II 404 Stählin) = fr. 10 [32 DK; 84 Marc.]V 115.2 (= II 404 Stählin) = fr. 76 [33 DK; 104 Marc.]V 115.3 (= II 404 Stählin) = fr. 2 [34 DK; 2 Marc.]V 140.5 (= II 421 Stählin) = fr. 45 [35 DK; 7 Marc.]

Derveni, Papiro di (IV secolo a.C. ? – III secolo a.C. ?)ed. t. Kouremenos, G.M. Parássoglou, K. tsantsanoglou, The Derveni

Papyrus, Studi e testi per il «Corpus dei papiri filosofici greci e latini», vol. 13, olschki, Firenze 2006.

col. IV = fr. 34 [0 (3+94) DK; 0 (57+52) Marc.]

Page 549: Eraclito eBook

398 APPENDICE

Diogene di babilonia (ca 240-151 a.C.), [De rhetorica], in Filodemo (I secolo a.C.)

De rhetorica, ed. S. Sudhaus, vol. I, teubner, leipzig 1892.I 57.3 e 62.1 (= I 351-52 e 354-55 Sudhaus = SVF III 105) = fr. 51a

[81 DK; 18 Marc.]

Diogene laerzio (II-III secolo d.C.)Vitae philosophorum, ed. H.S. long, 2 voll., oxford Univ. Press,

oxford 1964.I 23 = fr. 49c [38 DK; 63b Marc.]I 88 = fr. 46 [39 DK; 100 Marc.]VIII 6 = fr. 51 [129 DK; 17 Marc.]IX 1 = fr. 48 [40 DK; 16 Marc.]IX 1 = fr. 9 [41 DK; 85 Marc.]IX 1 = fr. 49a [42 DK; 30 Marc.]IX 2 = fr. 71 [43 DK; 102 Marc.]IX 2 = fr. 77 [44 DK; 103 Marc.]IX 2 = fr. 87 [121 DK; 105 Marc.]IX 7 = fr. 61 [45 DK; 67 Marc.]IX 7 = fr. 44a [46 DK; 114 Marc.]IX 73 = fr. 44b [47 DK; 113 Marc.]

Etymologicum Magnum seu verius lexicon (graecum) saepissime vocabularum origines indagans exemple pluribus lexicis, scho-liastis et grammaticis anonymi cujusdam opera concinnatum (XII secolo)

ed. t. Gaisford, oxford, Univ. Press, oxford 1848.s.v. bivoı = fr. 66 [48 DK; 39 Marc.]

Eusebio (265-340 d.C.)Praeparatio evangelica, ed. K. Mras, Griechischen christlichen

Schriftsteller der ersten Jahrhunderte, vol. 43, Akademie Verlag, berlin 1954.

II 3.37 (= I 85.11 Mras) = fr. 90 [14 DK; 87 Marc.]XIII 13.30 (= II 208 Mras) = fr. 29 [30 DK; 51 Marc.]XIII 13.31 (= II 208 Mras) = fr. 30 [31 DK; 53ab Marc.]XIII 13.42 (= II 215 Mras) = fr. 10 [32 DK; 84 Marc.]XIII 13.42 (= II 215 Mras) = fr. 76 [33 DK; 104 Marc.]XIII 13.42 (= II 216 Mras) = fr. 2 [34 DK; 2 Marc.]XV 20.2 (= II 384 Mras = Dox. 470-71 = SVF I 519) = fr. 25 [12

DK; 40 Marc.]

Page 550: Eraclito eBook

INDICE DEI CItAtorI 399

Filone Alessandrino (ca 20 a.C.-45 d.C.)Quaestiones et solutiones in Genesin, libri III-IV, ed. (testo armeno)

e trad. (latina e francese) J.b. Aucher, C. Mercier, Cerf, Paris 1979.IV 1 = fr. 60 [123 DK; 8 Marc.]

Giamblico (ca 240-325 d.C.)De mysteriis Aegyptiorum, ed. E. des Places, les belles lettres,

Paris 1966; cfr. G. Parthey, ed., Nicolai, berlin 1857.I 11 (= 40.2 Parthey; 61 des Places) = fr. 95 [68 DK; 88 Marc.]V 15 (= 219.12 Parthey; 170 des Places) = fr. 72a [69 DK; 98g Marc.][De anima], in Stobeo (inizio del V secolo d.C.)Anthologium, ed. C. Wachsmuth (libri I-II), o. Hense (libri III-IV),

5 voll., Weidmann, berlin 1884-1912.II 1.16 [= II 6 Wachsmuth] = fr. 44c [70 DK; 92d Marc.]Ippolito (170-235 d.C.)Refutatio contra omnes haereses, ed. P. Wendland, Griechischen christli-

chen Schriftsteller der ersten Jahrhunderte, vol. 26, Hinrich, leipzig 1916; cfr. M. Marcovich, ed., De Gruyter, berlin-New York 1986.

IX 9.1 (= 241.15 Wendland) = fr. 5 [50 DK; 26 Marc.]IX 9.2 (= 241.18 Wendland) = fr. 14 [51 DK; 27 Marc.]IX 9.4 (= 241-42 Wendland) = fr. 97 [52 DK; 93 Marc.]IX 9.4 (= 242.5 Wendland) = fr. 12 [53 DK; 29 Marc.]IX 9.5 (= 242.10 Wendland) = fr. 15 [54 DK; 9 Marc.]IX 9.5 (= 242.13 Wendland) = fr. 42 [55 DK; 5 Marc.]IX 9.5 (= 242.16 Wendland) = fr. 49 [56 DK; 21 Marc.]IX 10.1 (= 242.22 Wendland) = fr. 15 [54 DK; 9 Marc.] bisIX 10.1 (= 242.22 Wendland) = fr. 42 [55 DK; 5 Marc.] bisIX 10.2 (= 242.26 Wendland) = fr. 50 [57 DK; 43 Marc.]IX 10.3 (= 242-43 Wendland) = fr. 96 [58 DK; 46 Marc.]IX 10.4 (= 243.7 Wendland) = fr. 18 [59 DK; 32 Marc.]IX 10.4 (= 243.11 Wendland) = fr. 20 [60 DK; 33 Marc.]IX 10.5 (= 243.12 Wendland) = fr. 31 [61 DK; 35 Marc.]IX 10.6 (= 243.16 Wendland) = fr. 21 [62 DK; 47 Marc.]IX 10.6 (= 243.19 Wendland) = fr. 69 [63 DK; 73 Marc.]IX 10.7 (= 243.22-244.1 Wendland) = fr. 39 [64+65+66 DK; 79+55+82

Marc.]IX 10.8 (= 244 Wendland) = fr. 28 [67 DK; 77 Marc.]

Marco Aurelio Antonino (121-180 d.C.)Ta; eijı eJautovn, The Meditations of the Emperor Marcus Antoninus,

ed. A.S.l. Farquharson, 2 voll., Clarendon Press, oxford 1944.IV 46 = fr. 4 [72 DK; 4 Marc.]

Page 551: Eraclito eBook

400 APPENDICE

IV 46 = fr. 1a [73 DK; 1h1 Marc.]IV 46 = fr. 89 [74 DK; 89 Marc.]VI 42 = fr. 1b [75 DK; 1h2 Marc.]

Musonio rufo (I secolo d.C.), in Stobeo (inizio del V secolo d.C.)Anthologium, ed. C. Wachsmuth (libri I-II), o. Hense (libri III-IV), 5

voll., Weidmann, berlin 1884-1912; cfr. C. Musonii Rufi Reliquiae, ed. o. Hense, teubner, leipzig 1905.

III 17.42 (= III 505.2 Hense = Musonio rufo, fr. 18a Hense) = fr. 64 [118 DK; 68 Marc.]

origene (ca 185-253 d.C.)Contra Celsum, ed. P. Koetschau, Griechischen christlichen Schriftstel-

ler der ersten Jahrhunderte, vol. 3, Hinrich, leipzig 1899; cfr. M. borret, ed., 5 voll., Cerf, Paris 1967-76.

V 14 (= II 15.19 Koetschau) = fr. 91 [96 DK; 76 Marc.]VI 12 (= II 82.18 Koetschau) = fr. 54 [78 DK; 90 Marc.]VI 12 (= II 82.23 Koetschau) = fr. 55 [79 DK; 92 Marc.]VI 42 (= II 119.9 Koetschau) = fr. 13 [80 DK; 28 Marc.]VII 62 (= II 212.3 Koetschau) = fr. 92 [5 DK; 86 Marc.]

Plotino (204-270 d.C.)Enneades, ed. P. Henry, H.-r. Schwyzer, 3 voll., oxford Univ. Press,

oxford 1964-82.IV 8 [6] 1.13-15 = fr. 27 [84ab DK; 56ab Marc.]

Plutarco (45-127 d.C.)Adversus Coloten, ed. b. Einarson, P.H. de lacy, Moralia, t. XIV,

Harvard Univ. Press, Cambridge-london 1967.1118c = fr. 70 [101 DK; 15 Marc.]An virtus doceri possit, ed. A. barigazzi, Corpus Plutarchi Moralium,

vol. 17, D’Auria, Napoli 1993; cfr. J. Dumortier, ed., t. VII, I Partie, Oeuvres morales, les belles lettres, Paris 1975.

439d = fr. 53 [95 = 109 DK; 110 Marc.]An seni sit gerenda res publica, ed. M. Cuvigny, t. XI, I Partie, Oeuvres

morales, les belles lettres, Paris 1984.787c = fr. 84 [97 DK; 22 Marc.]Aqua an ignis utilior, ed. H. Cherniss, W.C. Helmbold, Moralia, t.

XII, Harvard Univ. Press, Cambridge-london 1968.957a = fr. 35 [99 DK; 60 Marc.]Camillus, ed. r. Flacelière, E. Chambry, M. Juneaux, Vies, t. II, les

belles lettres, Paris 1961.19.3 = fr. 50a [106 DK; 59 Marc.]

Page 552: Eraclito eBook

INDICE DEI CItAtorI 401

Coriolanus, ed. r. Flacelière, E. Chambry, Vies, t. III, les belles lettres, Paris 1972.

22.3 = fr. 79 [85 DK; 70 Marc.]38.6-7 = fr. 56 [86 DK; 12 Marc.]De audiendis poetis, ed. F.C. babbit, Moralia, t. I, Harvard Univ. Press,

Cambridge-london 1969; cfr. r. Klaerr, A. Philippon, J. Sirinelli, ed., Oeuvres morales, t. I, II Partie, les belles lettres, Paris 1989.

40f-41a = fr. 40 [87 DK; 109 Marc.]43d = fr. 53 [95 = 109 DK; 110 Marc.]De E apud Delphos, ed. C. Moreschini, Corpus Plutarchi Moralium,

vol. 27, D’Auria, Napoli 1998; cfr. r. Flacelière, ed., Oeuvres morales, t. VI, les belles lettres, Paris 1974.

388d-e = fr. 33 [90 DK; 54 Marc.]De exilio, ed. r. Caballero, G. Viansino, Corpus Plutarchi Moralium,

vol. 21, D’Auria, Napoli 1995; cfr. J. Hani, ed., Oeuvres morales, t. VIII, les belles lettres, Paris 1980.

604a = fr. 0 [94 DK; 52 Marc.], cfr. fr. 34De facie in orbe lunae, ed. P. Donini, Corpus Plutarchi Moralium, vol.

48, D’Auria, Napoli 2011; cfr. H. Cherniss, W.C. Helmbold, ed., Moralia, t. XII, Harvard Univ. Press, Cambridge-london 1968.

943d-e = fr. 68 [98 DK; 72 Marc.]De fortuna, ed. F. becchi, Corpus Plutarchi Moralium, vol. 47,

D’Auria, Napoli 2010; cfr. F.C. babbit, ed., Moralia, t. II, Harvard Univ. Press, Cambridge-london 1971; r. Klaerr, A. Philippon, J. Sirinelli, ed., Oeuvres morales, t. I, II Partie, les belles lettres, Paris 1989.

98c = fr. 35 [99 DK; 60 Marc.]De Pythiae oraculis, ed. E. Valgiglio, Corpus Plutarchi Moralium,

vol. 10, D’Auria, Napoli 1992; cfr. r. Flacelière, ed., Oeuvres morales, t. VI, les belles lettres, Paris 1974.

397b = fr. 94 [92 DK; 75 Marc.]404d-e = fr. 59 [93 DK; 14 Marc.]De superstitione, ed. l. Senzasono, Corpus Plutarchi Moralium,

vol. 43, D’Auria, Napoli 2007; cfr. F.C. babbit, ed., Moralia, t. II, Harvard Univ. Press, Cambridge-london 1971; J. Defradas, J. Hani, r. Klaerr, ed., Oeuvres morales, t. II, les belles lettres, Paris 1985.

166c = fr. 8 [89 DK; 24 Marc.]Quaestiones Conviviales, liber III, ed. I. Chirico, Corpus Plutarchi

Moralium, vol. 35, D’Auria, Napoli 2001; liber IV, ed. A.M. Scarcella, Corpus Plutarchi Moralium, vol. 34, D’Auria, Napoli 2001; cfr. F. Fuhrmann, ed., Oeuvres morales, t. IX, I Partie, les

Page 553: Eraclito eBook

402 APPENDICE

belles lettres, Paris 1972 (libri I-III), II Partie, les belles lettres, Paris 1978 (libri IV-VI).

III 1, 644e-f = fr. 53 [95 = 109 DK; 110 Marc.]IV 4, 669a = fr. 91 [96 DK; 76 Marc.]Quaestiones Platonicae, ed. H. Cherniss, W.C. Helmbold, Moralia,

t. XIII, Part I, Harvard Univ. Press, Cambridge-london 1976.VIII 4. 1007d-e = fr. 38 [100 DK; 64 Marc.]

pseudo-Plutarco (I-II secolo d.C. ?)Consolatio ad Apollonium, ed. J. Defradas, J. Hani, r. Klaerr, les

belles lettres, Paris 1985.106d-f = fr. 22 [88 DK; 41 Marc.]

Polibio (208-126 a.C.)Historia, liber XII, ed. P. Pédech, les belles lettres, Paris 1961.XII 27.1 = fr. 41 [101a DK; 6 Marc.]

Porfirio (ca 234-305)Quaestiones Homericae ad Iliadem, ed. H. Schrader, 2 voll., teubner,

leipzig 1880-1890.IV 4 (= 69 Schrader) = Scholia b-t in Iliadem IV 4 (III 194 Dindorf;

V 124 Maass; I 445 Erbse) = fr. 57 [102 DK; 91 Marc.]XIV 200 (= 190.6 Schrader) = fr. 19 [103 DK; 34 Marc.]

Proclo (412-485 d.C.)In Platonis Alcibiadem I, ed. l.G. Westerink, North-Holland,

Amsterdam 1954; cfr. A.-P. Segonds, ed., les belles lettres, Paris 1985-86.

255. 15 Creuzer (= 117 Westerink) = fr. 47 [104 DK; 101 Marc.]In Platonis Rempublicam, ed. G. Kroll, 2 voll.,teubner, leipzig

1899-1901.II 107.5 Kroll = fr. 60 [123 DK; 8 Marc.]

Scholia graeca in Homeri IliademA (= Venetus graecus 454), ed. G. Dindorf, Scholia graeca in Homeri

Iliadem, t. II, Clarendon Press, oxford 1875; b (= Venetus graecus 821), ed. G. Dindorf, Scholia graeca in Homeri Iliadem, t. III, Clarendon Press, oxford 1877; t (Townleyanus, british Museum, burney 86 e 88), ed. E. Maass, Scholia graeca in Homeri Iliadem, t. V-VI, Clarendon Press, oxford 1888; cfr. H. Erbse, ed., t. I, De Gruyter, berlin 1969.

ad IV 4 (III 194 Dindorf; V 124 Maass; I 445 Erbse) = Porfirio,

Page 554: Eraclito eBook

INDICE DEI CItAtorI 403

Quaestiones Homericae ad Iliadem IV 4 (= 69 Schrader) = fr. 57 [102 DK; 91 Marc.]

ad XVIII 251 (II 159 Dindorf; VI 255 Maass) = fr. 49b [105 DK; 63a Marc.]

Sesto Empirico (fine del II secolo d.C.)Adversus mathematicos, ed. H. Mutschmann, teubner, leipzig 1914;

cfr. r.G. bury, ed., Heinemann-Harvard Univ. Press, london-Cambridge 1935-49.

VII 126 = fr. 44 [107 DK; 13 Marc.]VII 132 = fr. 1 [1 DK; 1 Marc.]VII 133 = fr. 7 [2 DK; 23 Marc.]

Stobeo (inizio del V secolo d.C.)Anthologium, ed. C. Wachsmuth (libri I-II), o. Hense (libri III-IV),

5 voll., Weidmann, berlin 1884-1912.II 1.16 [= II 6 Wachsmuth] = fr. 44c [70 DK; 92d Marc.]III 1.174 (= III 129 Hense) = fr. 11 [108 DK; 83 Marc.]III 1.175 [= III 129 Hense] = fr. 53 [109 DK; 110 Marc.]III 1.176 (= III 129 Hense) = fr. 78 [110 DK; 71 Marc.]III 1.177 (= III 129 Hense) = fr. 17 [111 DK; 44 Marc.]III 1.178 (= III 129 Hense) = fr. 70b [112 DK; 23f Marc.]III 1.179 (= III 129 Hense) = frr. 6-6a [114-113 DK; 23-23d1 Marc.]III 5.6 (= III 257 Hense) = fr. 70a [116 DK; 23e Marc.]III 5.7 (= III 257 Hense) = fr. 63 [117 DK; 69 Marc.]III 5.8 (= III 257 Hense) = fr. 64 [118 DK; 68 Marc.]III 17.42 (= III 505.2 Hense ) = fr. 64 [118 DK; 68 Marc.] bisIV 40.23 (= V 925 Hense) = fr. 98 [119 DK; 94 Marc.]

Strabone (ca 65 a.C.-25 d.C.)Geographia, liber I, ed. G. Aujac, les belles lettres, Paris 1969.I 1.6 = fr. 37 [120 DK; 62 Marc.]XIV 1.25 = fr. 87 [121 DK; 105 Marc.]XVI 4.26 = fr. 91 [96 DK; 76 Marc.]

teodoreto (ca 393-457 d.C.)Graecarum affectionum curatio, ed. J. raeder, teubner, leipzig 1904.I 88 = fr. 80 [22 DK; 10 Marc.]

teofrasto (ca 372-288 a.C.)Metaphysica, ed. A. laks, G.W. Most, les belles lettres, Paris

Page 555: Eraclito eBook

404 APPENDICE

1993; cfr. W.D. ross, F.H. Fobes, ed., oxford Univ. Press, oxford 1929.

15 (= 7a6-18 Usener; 16 ross) = fr. 58 [124 DK; 107 Marc.]De vertigine, ed. F. Wimmer, Theophrasti Eresii Opera, vol. III,

teubner, leipzig 1862.9 Wimmer = fr. 26 [125 DK; 31 Marc.]

temistio (317-388 d.C.)Orationes, ed. H. Schenkl, G. Downey, teubner, leipzig 1965; cfr.

r. Maisano, trad., UtEt, torino 1995.5. 69a-b = fr. 60 [123 DK; 8 Marc.]

teodoro Prodromo (ca 1115-1160 d.C.)Epistulae, ed. J.-P. Migne, Patrologiae cursus completus. Series graeca,

vol. 133, Petit-Montrouge, Paris 1864.1, col. 1240 Migne = fr. 72 [49 DK; 98 Marc.]

timeo di tauromenio (ca 350-260 a.C.), in Scholia in Euripidemin Hecubam, ed. E. Schwartz, t. I, reimer, berlin 1887.ad 131 (I 26.1 Schwartz) = FGrHist 566 F 132 = fr. 51a [81 DK;

18 Marc.]

G. tzetzes (ca 1110-1185 d.C.)Commentarii in Aristophanis Plutum, ed. l. Massa Positano, Scholia

in Aristophanem. Scripta Academica Groningana, Pars IV, fasc. I, Wolters, Groningen-Amsterdam 1960.

90a (= 31 Massa Positano) = fr. 88 [125a DK; 106 Marc.]Exegesis in Homeri Iliadem, ed. G. Hermann, Weigel, leipzig 1812-14. 126 Hermann = fr. 32 [126 DK; 42 Marc.]

Page 556: Eraclito eBook

I Introduzione di Francesco Fronterotta

CXI Nota al testo

CXX Bibliografia

CLIII Abbreviazioni

ragIonamento suLLa natura

7 sezione 1

33 sezione 2

101 sezione 3

155 sezione 4

231 sezione 5

277 sezione 6

appendICe

383 Concordanze

395 Indice dei citatori

sommarIo