E-book_L'enigma della lingua albanese
description
Transcript of E-book_L'enigma della lingua albanese
Il libro
Archivio blog 2009
L’enigma della lingua
albanese
Il libroIl libroIl libroIl libro
Archivio blog anno
2009
Questo e-book è proprietà del blog: L’enigma della L’enigma della L’enigma della L’enigma della
lingua albaneselingua albaneselingua albaneselingua albanese (http://www.eltonvarfi.blogspot.com).
Tutte le traduzioni dalla lingua albanese sono di Elton Varfi
©©©©----2010201020102010---- L’enigma della L’enigma della L’enigma della L’enigma della lingua albaneselingua albaneselingua albaneselingua albanese
3
Qui la tragedia di una razza che ha donato gli elementi migliori, i soldati, i pensatori, gli uomini di Stato, i santi, a tutti i suoi dominatori slavi e latini, greci e turchi e che reclama finalmente i suoi figli, poveri e maltrattati, per educarli a sé ; che tende a ricostruirsi, fra tante difficoltà d'ogni genere, una coscienza nazionale. Di questo anelito collettivo è stato testimone per lungo tempo un sintomo solo ma possente : la conservazione e l'unità del linguaggio nazionale. Eugenio Vaina De Pava , " Albania che Nasce ", Catania ,1914 Gli Albanesi parlano una delle più antiche e più belle lingue del mondo. Le lingue affini e coeve all’albanese si sono estinte da millenni e non si parlano più in nessun posto della terra. La lingua albanese ha molte affinità con il greco antico, il latino e il sanscrito, l’antica lingua dell’India, con la lingua zend, che era la lingua dell’antica Persia, e infine con la lingua celta e con quella teutonica. Queste sono tutte lingue morte, mentre la nostra lingua, l’albanese, che fra queste è quella più antica, è viva e si parla ancora oggi come ai tempi dei Pelasgi. Sami Frashëri "Shqipëria ç'ka qënë, ç'është e ç'do të bëhet" Bucarest 1899
4
Besa: la parola-impegno Di Adele Pellitteri
Quando parliamo con qualcuno che non conosciamo bene
ascoltiamo quello che dice, ma le sue parole non bastano.
Iniziamo dunque ad osservare i movimenti del suo volto per
cercare di capire quanto possiamo fidarci. In questi casi è
interessante come la parola non sia abbastanza per decidere di
credere.
Se si pensa al significato di “parola”, ci sono espressioni che
rendono complessa la riflessione e ardua la possibilità di una
conclusione definitiva.
Per esempio l’espressione “Vogliamo fatti, non parole” lascia
pensare ad una parola che si contrappone al fatto, al possibile,
al fattibile. La parola diventa quasi un ostacolo e certamente
non garantisce affatto sulla veridicità di quello che si dice. I
significati di “parola” riportati dal dizionario De Mauro
5
confermano questo aspetto, in particolare il punto 3, nel quale
si legge “spec. al pl., ciò che si dice, in contrapposizione a ciò
che si fa”.
Tuttavia riflettendo ancora un po’, viene in mente l’espressione
“Ti do la mia parola” che è usata per confermare che quello
che dico di fare o di aver fatto corrisponde alla verità. Sembra
una definizione completamente diversa dalla precedente perché
è una parola che garantisce, conferma, tutela. In realtà le cose
sono molto più semplici di come sembrano.
La parola non è vera o falsa in sé, ma neutra. Tutto dipende da
come si usa. Niente può garantire sulla veridicità di quello che
dico, se non il fatto che sia io a dirlo.
Anche se, per certi versi, le parole sono il mezzo per giungere
al significato delle cose, per affermare la verità, in italiano non
abbiamo un termine che indichi una parola che è certamente
vera. In albanese, invece, esiste una parola che indica che ciò
6
che si dice coincide con ciò che si fa, con ciò che si pensa, con
ciò che è vero: besa.
La besa, uno dei principi fondanti il Kanun, un insieme di leggi
consuetudinarie trasmesse oralmente in Albania, è molto più
della parola, è un giuramento, è garanzia del vero. Nel Kanun
la besa è descritta come l’autorità più importante ed è
strettamente legata al concetto di onore.
La besa in particolare, il Kanun più in generale, è il prodotto
della storia dell’Albania. In essa si ritrovano i principi fondanti
maturati grazie al contatto con altre realtà storico-culturali.
Eppure, in questi principi, si riconosce il febbrile tentativo di
definire l’identità albanese. Ad esempio, se da un lato alcuni
principi della chiesa cattolica sono facilmente individuabili tra
le idee portanti del Kanun, dall’altro, attraverso questo codice,
l’Albania ha tentato di forgiare la sua identità per rendersi
7
meno vulnerabile agli attacchi imminenti che si profilavano
all’orizzonte.
Questa questione è trattata molto dettagliatamente in uno
straordinario libro di Ismail Kadarè “Chi ha riportato
Doruntina?”. È la storia di una donna albanese, Doruntina, che
in seguito al suo matrimonio è costretta a trasferirsi in una
cittadina dell’Europa centrale, lontana dalla madre e dai suoi
fratelli. La madre, contraria al trasferimento della figlia in un
posto così distante da lei, si acquieta solo quando arriva la
promessa e la besa del figlio Costantino di portarla indietro
tutte le volte che la madre avesse avuto il desiderio di rivedere
la figlia. Purtroppo in seguito ad una grave epidemia,
Costantino muore. Eppure, dopo tre anni dalla morte,
Doruntina riesce a tornare a casa accompagnata da un
misterioso cavaliere. Il capitano Stres viene incaricato di
8
occuparsi di indagare sulla vicenda. La sua verità finale è
scomoda per tanti, ma suggestiva e allettante per altri:
“… affermo e ribadisco che
Doruntina non è stata riportata da
altri che dal fratello Costantino, in
virtù della parola data, della sua
besa. Quel viaggio non si spiega né
potrebbe spiegarsi altrimenti. Poco
importa che Costantino sia uscito o
no dal sepolcro per compiere la
propria missione, poco importa di
sapere chi fu il cavaliere che partì
in quella notte scura e quale
cavallo sellò, quali mani tennero le
redini, quali piedi poggiarono sulle
staffe, di chi erano i capelli
9
ricoperti dalla polvere del
cammino. Ciascuno di noi ha la
sua parte in questo viaggio, poiché
la besa di Costantino, colui che ha
riportato Doruntina, è
germogliata qui fra noi. E dunque,
per essere più precisi si può dire
che, attraverso Costantino, siamo
stati noi tutti, voi, io, i nostri morti
che riposano nel cimitero accanto
alla chiesa, a riportate Doruntina
(…) Nobili signori, non ho ancora
finito. Vorrei dirvi – e vorrei dirlo
soprattutto agli invitati giunti dalle
regioni lontane – che cos’è questa
forza sublime in grado di
10
infrangere le leggi della morte (…)
Ogni popolo, di fronte al pericolo,
affila i suoi strumenti di difesa e –
questo è essenziale – se ne crea di
nuovi. Bisogna avere la vista corta
per non comprendere che l’Albania
si trova di fronte a grandi drammi.
Presto o tardi, giungeranno fino ai
suoi confini, se già non vi sono
arrivati. Allora, si pone la
domanda: in simili nuove
condizioni di aggravamento dello
stato generale del mondo, in
quest’epoca di sfide, di crimini e di
odiose perfidie, quale sarà il volto
dell’Albania? Sposerà il male o vi
11
si opporrà? In breve, cambierà
volto per adattarsi le maschere
dell’epoca, onde assicurare la
propria sopravvivenza, o manterrà
un volto immutato, col rischio di
attirare su di sé la collera dei
tempi? L’Albania vede avvicinarsi
l’era delle prove, della scelta fra
quei due volti. E, se il popolo
albanese ha cominciato a elaborare
nel più profondo di sé delle
istituzioni tanto sublimi come la
besa, ciò sta a indicare che
l’Albania è sul punto di fare la sua
scelta. È per portare questo
messaggio all’Albania e al mondo
12
che Costantino è uscito dalla
tomba.”
Il capitano, nel suo discorso finale, invita tutti gli albanesi a
riconoscersi attori dell’evento che ha coinvolto la nobile
famiglia dei Vranaj. Si tratta di un impegno che “esigerà
pesanti sacrifici dalla generazioni a venire”, ma è l’impegno di
una nazione nel riconoscersi in una identità precisa, della quale
il concetto di besa diventa elemento portante.
La besa non è una promessa, è molto di più; è la garanzia che
quello che dico è vero, è uno straordinario tentativo di fuggire
all’ambiguità del linguaggio. Attraverso la parola puoi
comunicare qualsiasi cosa, non importa che sia vero o non lo
sia. Attraverso la besa comunichi il vero, prometti qualcosa che
dovrai mantenere a qualsiasi costo, assumi un impegno.
13
Ururi e gli Arbëreshë: come valorizzare il dialogo multiculturale
Di Adele Pellitteri
L’indagine sulla storia del popolo a cui si appartiene, sulle
tradizioni e sulla lingua che si parla è sempre molto
stimolante, ma poco praticata. Fino a che un individuo si trova
nella sua comunità e nella sua cultura, non percepisce il
profondo significato della sua identità etnica.
Tutto cambia in seguito ad un fenomeno migratorio. Il
ritrovarsi in una società diversa, dove è diversa la storia, le
tradizioni e la lingua. È allora che il senso della propria identità
si rafforza e si riscopre una nuova energia che spinge il
desiderio di scoprirsi appartenenti ad una comunità che ha
precise connotazioni storico-culturali.
14
All’interno di questo quadro così suggestivo di scoperta e di
esplorazione si inseriscono le iniziative dell’istituto tecnico
comprensivo “Gravino” di Ururi, provincia di Campobasso,
tutte legate al desiderio di valorizzare la lingua e la cultura
della comunità arbëreshë.
Ururi è un paese di origine albanese e la comunità ha sempre
cercato di preservare la propria identità etnica; tuttavia è
consapevole dei rischi che comporta il fatto che questo
passaggio alle nuove generazione avvenga oralmente. Ad
aumentare la necessità di progettare iniziative finalizzate alla
consapevolezza della propria identità, ci sono le recenti
immigrazioni provenienti dall’Albania. Si è quindi resa
necessaria una riflessione sul tema dell’identità arbëreshë. In
particolare, uno dei progetti attivati si articola in due fasi: la
prima è destinata all’anamnesi storica e più specificatamente
culturale, mentre la seconda fase si concentra sulla lingua.
15
Vale la pena ricordare che gli arbëreshë sono albanesi costretti
alla fuga perché decisi a non sottostare al dominio turco. Erano
perlopiù benestanti che non volevano accettare
l’islamizzazione forzata. Il loro nome deriva dal fatto che
prima che lasciassero la loro terra, questa aveva il nome di
Albanë o Arbër, mentre dopo l’invasione turca gli albanesi
rimasti in Albania presero in nome di Shqiptar.
Il progetto della scuola di Ururi è interessante non solo perché
muove dal rispetto per una comunità che ha un’identità
complessa e composita, ma anche perché è realizzato attraverso
il contatto con la tradizione. Agli alunni coinvolti è stato
chiesto di intervistare gli anziani, ascoltare le loro storie,
fotografare oggetti tipici del passato. In tal modo la scuola
invita i propri alunni a investigare sul proprio passato e sul
passato dei loro compagni, facendo due operazioni positive: la
prima consente
16
al bambino di origine arbëreshë di costruire una doppia identità
etnica e lavorare sull’appartenenza ad entrambe le culture
(quella italiana e quella arbëreshë); la seconda consente al
bambino italiano di apprezzare il privilegio del dialogo
multiculturale come generatore di uomini e donne inclini
all’ascolto e capaci di apprezzare il valore della differenza.
17
Due nomi di piante che ci legano agli Albanesi1
Di Alberto Areddu
1 Questo articolo è scritto dal professore Alberto Areddu in esclusiva per il
blog L’enigma della lingua albanese
18
E’ dal mondo agricolo e della terminologia delle piante che
vengono le maggiori sorprese riguardo la verosimile origine
illirica della civilizzazione in Sardegna; cosa in sé ovvia
giacché l’isola pur avendo subito una notevole afflusso di
termini latini nel campo agricolo, ha comunque lasciato
sopravvivere altri termini, qui e là, che coll’ impianto
grammaticale del latino non si spiegano affatto. I registri
lessicali e le raccolte fitonomastiche ci consegnano due nomi di
pianta per i quali si è sospettata fin dai tempi del Wagner una
loro sostraticità. Il riparlarne qui mi dà modo di ritrattare la
questione della loro etimologia, da altri e da me proposta nel
saggio. Le piante sono il rethi/retti/rettiu 'cirro, viticcio'
(clematis vitalba) e il carcuri/craccuri/curcuri/curcuriu
'giunco, saracchio' (ampelodesma mauritanica) (utilizzate
entrambi perlopiù per fare legacci e corde).
19
Secondo lo studioso Paulis che agli inizi degli anni '9o ha
predisposto un vocabolario etimologico per i molteplici nomi
di pianta della Sardegna, in un caso si tratterebbe di una
retroformazione (cioè una forma abbreviata) del lat.
RETIOLUm 'piccola rete', nel secondo caso del verbo latino
CALCARE 'premere, calcare', intervenuto non si sa bene e in
quale maniera su una qualche forma prelatina. Come abbiamo
detto entrambe le piante (stelo e rami) servono ad avvolgere,
legare, circondare oggetti di uso comune: basi di sedie, scarpe,
baracche e come dicemmo in un altro studio, quello sulla serpe
d'acqua, l'albanese conosce un suffisso -çi/-thi col quale si
demarca il diminutivo maschile. Tale suffisso ha una peculiare
presenza sopratutto nelle comunità italo-albanesi, che sono
perlopiù d'origine tosca e che hanno preservato un certo tratto
arcaico dell'albanese medievale. Orbene io trovo nel
vocabolario del Giordano le forme rripthi e rrypthi 'cirro,
20
viticcio' che derivano dal sostantivo rip 'laccio', e questo dal
verbo rrjep 'strappare'. Questo verbo viene fatto derivare (cito
per tutti Orel) da un protoalbanese *repa, connesso alla radice
ie. *rep- 'strappare', tra i cui derivati si annoverano il greco
ereptomai 'strappo', il latino rapere 'rapire', il lit. ap-repti
'fassen, ergreifen, begreifen'. E' ben evidente che la forma sarda
deriva da un illirico *rep-thi 'il piccolo strappo, il piccolo
laccio > il cirro, il viticcio', nel quale il nesso -pt- nel passaggio
al latino di Sardegna si è naturalmente assimilato in -tt- (sette
< SEPTEm; rettulia < REPTILEm), con preservazione della
forma interdentale -th- nelle aree centrali (come barbaricino
thiu 'zio' a petto del logudorese tiu, dal greco-latino THIUm), e
assimilazione -tt- nell'area logudorese. Questa ipotesi, di una
provenienza da un illirico *repthi 'il cirro' mi pare più
soddisfacente di quella velocemente affacciata nel mio saggio
di un influsso del sostantivo rethi 'cerchio' su rrip-thi.
21
E ora veniamo al secondo fitonimo: carcuri e varianti, per il
quale mi sono espresso per una connessione coll'albanese
kërcuri (leggi: kertzuri]) 'ceppo', che pone in realtà grossi
problemi fonetici e semantici. Vedo invece ora che nel
22
sostantivo qark (leggi:[kjark]) 'cerchio' potrebbe trovarsi una
soluzione. Tale voce viene però ricollegata dai vari studiosi al
latino CIRCUm come prestito, anche se riconosce l'Orel la
fonetica fa difetto (da CIRCUm otterremmo: *kirke, o *kjërke).
In effetti è probabile che sia voce indigena in relazione con il
greco arkus 'arco, cerchio' di variegata interpretazione (il
Pokorny lo colloca sotto due basi diverse: *ar- e *arqu), con
in aggiunta il ben noto prefissuale kë- 'questo, ciò'
dell'albanese, altamente produttivo nella formazione di
elementi lessicali e aggettivi (rimando a Camaj anche per
la palatalizzazione di K- iniziale col suo esempio di kem, qem
'incenso' da un *ke anem; ma si potrebbe ipotizzare anche una
metatesi di -i- in prima sillaba da un *karki-os, con successiva
palatalizzazione; o ancora: visto che il nome del popolo illirico
dei Japidi si presenta colla forma alternativa Apudi/Apuli, si
può pensare a una tendenza già antica, come nelle lingue slave,
23
di palatalizzazione della vocale iniziale, per cui potremmo
sospettare un *kë jarkos originario). Il tutto deve avere quindi
indicato in origine "questo cerchio, tale arco". Possiamo dire
che in questo caso è la forma sarda carcuri (leggi: [karkuri]),
con la sua -a- iniziale, che dà sostanza e giustificazione
all'indigenato dell'albanese qark, mentre l'uscita in -uri del
sardo, che non è affatto latina, trova invece risposta nell'illirico
e nell'albanese, dove ha verosimilmente avuto valore
aggettivale per cui "il cerchiante, quello del cerchio, quello che
cerchia, quello che gira a cerchio" è divenuto
professionalmente nel gergo dei contadini, il nostro saracchio.
Possiamo aggiungere in conclusione un'altra osservazione:
diversi nomi di piante sarde terminanti in -i, presentano anche
delle forme con -u aggiunta: così abbiamo eni/eniu; retti/rettiu;
carcuri/curcuriu. Secondo me è lo stesso fenomeno che
24
distingue in albanese njerì e njeri-u, e di cui ho parlato nel
saggio.
Bibliografia utilizata:
Areddu A.G., Le origini albanesi della civiltà in Sardegna, Napoli
2007
Camaj M., Albanische Wortbildung, Wiesbaden 1964
Giordano E., Fjalor e arbëreshvet t'Italise, Bari 1965
Landi A., Gli elementi latini nella lingua albanese, Napoli 1989
Orel V., Albanian etymological dictionary, Leiden-Boston-
Köln, 1998
Paulis G., I nomi popolari delle piante in Sardegna, Sassari
1992
25
Pokorny J., Indogermanisches etymologisches Wörterbuch,
Heidelberg 1959
Wagner M.L., Dizionario etimologico sardo, iii volumi 1960-
62
26
Le origini Illiriche di Oristano
Di Alberto Areddu
Il poleonimo di Oristano appare in antico in una forma
(:Aristianis limne, nel geografo bizantino Giorgio Ciprio) che
si ripresenta tuttoggi nel dialetto comune: Aristanis; la
deformazione in Oristano è successiva (a partire da geografi
toscani del xii sec.).
27
L’interpretazione che ne fa un toponimo africaneggiante per
l’uscita in -an (TERRACINI), come quella che lo vorrebbe un
indimostrabile prediale da tale Aristius (DE FELICE; PITTAU)
hanno poco fondamento; un suff. -anis ritorna infatti nel
sostrato (cfr. ad es. Lesanis).
Lo spiritus loci dovrebbe indirizzarci a fornire invece un etimo
confacente alle caratteristiche, abbastanza particolari, del
territorio. Oristano sorge a pochi km. dalla costa all’interno
dell’omonimo golfo, in vicinanza dello stagno di S. Giusta, ma
la denominazione di “portu” nel Medioevo fa presumere una
sua maggiore prospicenza alla costa. Una prima nostra
interpretazione ci potrebbe spingere a vedere nelle forme
riportate dei geografi toscani: Arestagno, Aristanno un indizio
di una durevole continuità dal lat. stagnum (cfr. SPANO
sull’individuazione da ‘stagno’); ma se l’interpretazione è
motivata topograficamente, non lo è altrettanto
28
linguisticamente: dal lat. stagnum avremmo ottenuto nel sardo
*stannu, e non vedendosi il motivo della perdita della
geminata, meno ancora si comprenderebbe un Ari- iniziale
romanzo.
La chiave illirica può invece darci maggiori risposte; qui, come
nel celtico, esiste un prefissuale ar- 'presso' (celt. are-, ari-
‘presso’; cfr. anche umbro ar- per ad-) che ritorna peraltro in
altri toponimi sardi; “presso”, dunque di che cosa? La risposta
più confacente: un’ ‘imboccatura’: cfr. all’uopo antico indiano
ustha- ‘labbro, bocca’, così anche avestico aošta-, aoštra-
(<*əus), lat. ōstium ‘entrata, imboccatura sul fiume’ (= slavo
*ustьje); antico slavo usta ‘bocche’; slavo *ustьje
'imboccatura'; antico slavo ustьna, slov. ûstna ‘labbro' (dalla
stessa base si confrontino le città tracie di Ostaphos,
Ostudizos).
29
Discorso solidale credo vada fatto per la località turistica
olbiese di Porto Ìstana (così dal xiv sec: ad portus Istani
stationem, PANEDDA).
Anche qui verosimilmente ritroviamo un *usta ‘imboccatura’
che originariamente doveva apparire isolatamente come *Ust-
ana ‘luogo dell’imboccatura’ -> ‘porto’, poi replicato
tautologicamente con la definizione di Porto. Secondo lo
30
SPANO, un altro Aristani/Aristanno si sarebbe trovato nel
territorio di Olbia (forse in reg. Astaina si recepisce il
documentato Aristana).
Dunque sia Oristano “che sorge presso un porto”, sia Porto
Istana ci possono testimoniare che la forma *Ùstana indicasse
nella lingua nuragica il ‘porto largo’ (cfr. lettone uosts m.,
uōsta f. ‘porto’). La resa i<u si inserisce in quegli
adeguamenti fonetici di u esotici, verosimilmente [ü], della
latinità coi prestiti, e nel successivo passaggio del segmento
iniziale us- poco frequente a quello logudorese is- (: i-stare, i-
schire).
31
Riguardo l'uscita in -is, che parrebbe latina, faccio presente che
la presentano toponimi sicuramente prelatini come
Kalaris/Karalis, Lesanis, Etis, Seunis, Sipontis, e per i quali ho
trovato forti connessioni illiriche. Al momento non ho trovato
tracce di *usta in area illirica, ma non è detto che salti fuori;
foneticamente si adatterebbe la località di Shtanë (anticam.
Stana), registrata dalle carte albanesi, che però non è località
balneare. Riguardo poi la toponomastica odierna albanese essa
ha subito notevoli influssi da quella slava (gli albanesi erano
pastori in continua migrazione per i Balcani), e molto oggi si
discute su quanto sia esterno e quanto sia originario.
bibliografia utilizzata
De Felice E., Le coste della Sardegna, Cagliari 1964
Panedda D., I toponimi dell'agro olbiese, Sassari 1991
32
Pittau M., I nomi di paesi città regioni monti fiumi della
Sardegna. Significato e origine, Cagliari 1997
Spano G., Vocabolario sardo geografico patronimico ed
etimologico, Cagliari 1872
Terracini B., Pagine e appunti di linguistica storica, Firenze
1957
33
Quando a Oliena si parlava albanese
Di Albeto Areddu
Guardate il borgo della Sardegna centrale che vedete qui
fotografato, celebre per i suoi vini, per i suoi formaggi, per le
escursioni montane, per le sue attività culturali e per aver dato i
natali al calciatore sardo più noto all’universo mondo.
Immagino ci siate arrivati da voi (eh già, c'è anche il titolo), se
no ve lo dico io: questa piccola cellula di sardità è Oliena, od
34
Ulìana, come viene pronunciata oggidì. Come quasi tutti i
centri della Sardegna porta un nome che sfugge alle indagini
condotte scientificamente, c’è chi ha pensato all’olio, e
inevitabilmente perché nel territorio ci sono oliveti (ma li han
portati i Pisani, quando il nome Olian c’era già) e in quanti
punti della Sardegna non ci sono?; altri hanno pensato agli
Iliensi (i figli di … Ilio, da cui una parte dei Nuragici diceva di
discendere). La mia indagine, che parte proprio da qui tende
invece a rilevare come il suffisso -ena. -ana sia frequentissimo
nei toponimi del sostrato preromano; e qui la scuola
mediterraneista avrebbe obiettato: “roba africana”, mentre
l’ipotesi orientalizzante, propugnata in Sardegna dal solo
Pittau, di risposta: "roba etrusca". Ma guardiamo il tema (cioè
la parte iniziale), esso è Oli- e per ora fermiamoci qui. Quasi
che i nostri lontani antenati abbiano inteso lasciarci qua e là
qualche voluta traccia del loro passaggio sulla terra, scavando
35
nel sottosuolo di Oliena a metà Ottocento l’archeologo
Giovanni Spano riportava alla luce una statuetta d’epoca
romana che presto veniva ricomposta e prima tributata a
Belzebù, il re delle mosche della tradizione semitica (giacché
di mosche pareva ricoperta), poi si attribuiva a una figura di cui
si aveva avuto sentore fino ad allora solo attraverso le fonti
greche relative alla Sardegna preistorica: quella di Aristeo,
mitico apportatore di tecniche innovative nell’agricoltura, nella
viticoltura e soprattutto nell’apicoltura, venuto, chissà mai
quando, da Tebe in Beozia (il classico ex oriente lux). Le api
incise sul petto indicavano che era una statuetta votiva a questo
antico euretes orientale; non solo, il posto del ritrovamento
parlava chiaro: la località di Su medde (o sa 'idda de su
Medde), che è una variante locale del sardo su mele ‘il miele’
(allotropi dunque del latino Mel(l)e). Ma la cosa che nessuno
approfondì era che la statuetta era stata scavata all'interno di un
36
salto, detto (e così ancora oggi): Dule. Tale parola in chiave
latina non trova corrispondenze confacenti, mentre il lettore
albanofono sa, essa consuona perfettamente con la voce
albanese (propria e non prestito latino, turco o slavo): dyllë che
vuol dire ‘cera’ !!! Orbene questa potrebbe essere una
casualità, il mondo è pieno di corrispondenze casuali: quella
celebre anglosassone e persiana della parola bad che indica la
stessa cosa ‘malvagio’, ma ha origine e percorso etimologico
diverso. Potrebbe dunque essere. Ma nel mio libro di altre
circostanze casuali così, se ne trovano. Anzi, se da una esigua
traccia se ne deve pur trarre un qualche elemento deduttivo, io
ritorno ad Oliena e chiedo retoricamente: "un territorio che ci
consegna dall’antichità una statuetta consacrata a una divinità
dell’apicoltura, potrebbe avere una qualche intima ragione a
definirsi come “luogo di favi”? Mi rispondo di sì, perché il
lettore albanese sa bene, ma sopratutto lo sa bene quello
37
arbëresht (gli albanesi d’Italia), che ha conservato una variante
più pura, il nome del favo nella sua lingua suona: hol-i !!! E
anche questa (ce lo dicono i vari Meyer, Çabej, Demiraj e Orel)
è voce indeuropea, parente del latino alveus, del greco aulos, e
sopratutto dello slavo ulьjь e del lituano aulys che valgono
'favo delle api'. Lo so a questo punto il lettore scettico storcerà
il naso, perché è per natura difficile a convincersi; e ha ragione,
ci vuole ben altro: la toponomastica è sempre argomento
vischioso e si rischia di fare delle scivolate da cui non ci si
rialza più. Va bene, miscredente, eccoti servito. Allora, nel
territorio che vedi indicato (Oliena, Orgosolo e Ogliastra) c’è
una parola che da decenni ha fatto impazzire prima il Wagner
(puoi controllare nel suo celebre DES a pag 489) poi tutti gli
altri glottologi: eni, enis o eniu. Con questa misteriosa parola
in questa plaga di Sardegna si designa l’albero del tasso
(tassonomicamente, è il caso di dirlo, la taxus bacchata). C’è
38
chi ha pensato al basco e chi ha detto: boh. Inutile che lo dica
io: l’albanese lo sa già: perché per la stessa pianta, ha la
denominazione di enjë (che sembra il nome di una cantante
irlandese), ma che è parola misteriosa anche per la lingua
albanese, e che nel mio libro ho cercato di interpretare (in
chiave, inutile dirlo, indoeuropea).
Bibliografia utilizzata:
Angiolillo S., “Aristeo in Sardegna” in Bollettino di
Archeologia 5/61(1990), 1-9
CASTIA S., "Aristeo il protos euretes" in La Sardegna e i miti
classici, Olbia 1996, 19-22
Çabej E., Studime etimologjike në fushë të shqipes, Tiranë
1982
Demiraj B., Albanische Etymologien, Amsterdam-Atlanta
1997
39
Meyer G., Etymologisches Wörterbuch der Albanesischen
Sprache, Strassburg 1891
Orel V., Albanian Etymological Dictionary, Leiden-Boston-
Köln 1998
Pianu G., “Il mito di Aristeo in Sardegna” in Zucca 2004, 96-
98
Pittau M., I nomi di paesi città regioni monti fiumi della
Sardegna significato origine, Cagliari 1997
Sanna S., “La figura di Aristeo in Sardegna”, in Zucca 2004,
99-111
Spano G., “Statuetta d’Aristeo in bronzo” in Bullettino
Archeologico Sardo I (1855) 65-71 [testo in
http://www.comune.oliena.nu.it/conosci_secondo.php?mpos=5
0&id=20&bar=arch]
Spiggia S., Le api nella tradizione popolare della Sardegna,
Sassari, 1997
40
Wolf H. J, Toponomastica barbaricina, Nuoro (1998)
“ “ “La toponomastica preromana in Sardegna”, in Max
Leopold Wagner. Lingua e cultura sarda, Atti Conv. Int. di
ling. sarda (a cura di D. Turchi), Oliena 23-3 2003, 49-58
(2004)
Zucca R, (a cura di) LOGOS PERI THS SARDOUS. Le fonti
classiche e la Sardegna, Roma 2004
41
È di origine illirica l'antica mastruca sarda
Di Alberto Areddu
Uomo in mastruca
42
A lungo abbiamo perlustrato sulla Rete alla ricerca di qualche
immagine recente che supportasse l'estratto che qui
presentiamo, ma poco oramai si trova di uomini col vecchio
costume, forse anche deve esser subentrato un qualche moto di
vergogna, per cui tuttalpiù viene tirato fuori per mascherate e
carnevalate varie. La mastruca o mastruga, secondo antica
parola mai però perfettamente popolare in epoca recente, più
agevolmente dai Sardi odierni resa col sinonimo di best'e pedde
'vestito di pelle', è il tipico indumento di una società di pastori,
che vivono gran parte dell'anno sui monti, adatta (come le
microfibre) non solo per gli inverni ma anche per le estati; essa
apparve agli occhi dei Romani come specifico tratto costitutivo
di una società "regredita", anche perché al tempo di Tolomeo si
vedevano Sardi Pelliti anche a Cornus (che proprio in
montagna non era). Ma qui siamo per occuparci della parola; le
43
indicazioni di "sardità" in questo senso ci paiono precise.
Vediamo pertanto le fonti, tralasciando, come cosa scontata,
quando dicono che i Sardi vestivano genericamente di pellicce:
“Se non riuscì a sedurlo la porpora regale, fu forse la mastruca
dei Sardi a trasformarlo? (Cicerone, Pro Scauro xxi)
“Cicerone, nell’atto di sbeffeggiare (i Sardi), a bella posta
adoperò la parola mastruca” (Quintiliano, I, 5-8)
Sempre Cicerone si rivolge ai “mastrucatis latrunculis” della
Sardegna in De prov. cons. 15
“Mastruga si chiama il saio nella lingua dei Sardi; megalie si
chiamano le case nella lingua degli Afri; cateia si chiama il
dardo nella lingua dei Persiani (P. Mauro, 284)
“Ad ogni nazione appartiene un certo tipo di indumento che
riflette una caratteristica peculiare di ciascuna di queste; …per
i Sardi le mastruche” (Isidoro di Siviglia, XIX, 23-1)
44
“Mastruga è una veste germanica confezionata mediante
piccoli pelli di animali: questo è ciò che si può leggere nel libro
delle differenze” (Codice Bernese, 83)
Fino ad ora riguardo l’origine della parola -che nel sardo
odierno, come detto, pur registrata nei dizionari, non è
popolare- si erano fatte diverse ipotesi: chi era propenso per
una autentica parola indigena sarda (Terracini e Bertoldi) in
ragione del suffisso -uca giudicato però secondo la visuale
mediterraneista come "africaneggiante"; chi per un’origine
semitica (così il celebre vocabolario latino di Ernout e del
Meillet); o ancora chi propendeva per una parola d’origine
gallica o germanica (Dottin). La voce viene nuovamente
considerata un probabile semitismo, visto che la sua prima
apparizione colla forma mastruga, nel Poenulus di Plauto, si
accompagna a un’altra parola semitica, rivolta al cartaginese
45
Annone come offesa, a giudizio dello studioso Martino (il
quale però non adduce forme su cui poter discutere).
Ma la mia ricerca va per altre plaghe. Osservo infatti che in
albanese e nel montenegrino esiste un capo di vestiario detto
strugë/a ‘coperta di lana usata come mantello; mantello di lana
bianco portato da pastori di bestiame in zone dell’Albania
settentrionale’; ‘specie di mantello’; abbiamo strokë
‘giubbetto’ in arbëresht. Non trovo la voce segnalata nei
vocabolari etimologici a mia disposizione. Il Meyer, riporta
solo un vb. struk ‘mascherarsi’, dubbioso se non sia con
italiano stuccarsi; l’Orel accenna a una shtrosë ‘pelle di capra
usata come cuscino’ esito dal verbo shtroj ‘distendere’. E’
interessante invece notare come nelle lingue germaniche si
trovi l’aggettivo strūga (dell'antico islandese) ‘irsuto, ispido,
divenire ispido’ e oggi si abbia l'olandese struik ‘ispido’,
46
imparentati con inglese to struggle ‘combattere’ (secondo il
celebre Pokorny).
Per la parte iniziale della nostra parola, non si può non
richiamare l'attenzione sulla base indoeuropea: *moiso-
s/maiso-s ‘pecora, pelle, otre di pelle di pecora, sacca’, tra i cui
esiti segnaliamo l'antico bulgaro mĕchъ ‘otre’, il russo mĕch
‘pelle, otre, sacca’. La nostra mastruga risalirà quindi
verosimilmente a un chiaro sintagma nominale indoeuropeo:
*maisa struga ‘pelle ispida, pelliccia irsuta’. Ma davvero può
esser stata una parola indigena sarda? Potrebbe esser stato un
germanismo che gli autori latini hanno usato anche per gli
impellicciati sardi? A questa ipotesi vanno opposti due fatti:
all’epoca di Plauto i Germani non erano così ben conosciuti
come lo sarebbero divenuti dopo (nell’epoca di Mario, ad es.) e
d’altra parte il riferimento ai Punici in Plauto è chiaro, segno
che dalle contrade di Sardegna, forse anche per una
47
penetrazione della parola nel punico locale la parola deve
essersi diffusa nel latino; cercando poi nelle lingue germaniche
non ho trovato nulla su una eventuale sostantivazione di struga.
La conclusione da trarsi è che molto probabilmente la voce,
sotto forma di aggettivo, è entrata in prestito dal
protogermanico (ché pelli i Germani usavano per ricoprirsi)
nell’illirico ma poi è andata sostantivandosi, formando in un
rivolo anche sintagma con *masio, e un’originaria *masa
struga ‘pelle/pelliccia irsuta’ (< maisa struga, con -ai- > a
dell’illirico, vs. lituano máišas, máiše) per aplologia: *mas(ë)
struga, è giunta nell’Egeo e da qui in Sardegna a denominare
l’indumento usato dagli indigeni cavernicoli, che l’avrebbero
però poi trasmesso (visti anche i benefici effetti: fresco d’estate
e caldo d’inverno) agli Illiri (si noti come le élites militari
rappresentate nelle statuette nuragiche non indossino mai
48
questo indumento, ma solo una mantellina), come nemesi
storica, o forse, per meglio dire, preistorica.
bibliografia utilizzata:
Giordano E., Fjalor i arbëreshvet t’Italisë, Bari 1963
Leka F.-Simoni Z., Dizionario albanese italiano. Fjalor shqip
italisht, Tiranë 1996-1998
Dottin G., La langue gauloise. Grammaire, textes et glossaire,
Paris 1918
ERNOUT A. - A. MEILLET, Dictionnaire étymologique de la
langue latine, Paris 1967
Bertoldi V. “Sardo-punica” in La Parola del Passato ii (1947)
Meyer G., Etymologisches Wörterbuch der Albanesischen
Sprache, Strassburg 1891
Perra M., ΣΑΡ∆Ω Sardinia Sardegna, III voll. Oristano 1997
49
Martino P., “Il problema dei semitismi antichi nel latino” in
L’Italia e il mondo antico. Atti del Conv. della SIG (a cura di
A. Landi) Pisa 1995
Newmark L., Albanian English Dictionary, Oxford 1999
Orel V., Albanian Etymological Dictionary, Leiden-Boston-
Köln, 1998
Pokorny J., Indogermanisches Etymologisches Wörterbuch,
1959
Hubschmid J., Schläuche und Fasser, Bern 1955 (RH, vol. 54)
Gamkrelidze Th. V. - Ivanov Vj- V., Indo-European and the
Indo-Europeans, Berlin- New York 1995, II voll.
50
Lo scarafaggio sardo dalle tinte balcaniche
Di Alberto Areddu
Forse vi sarà capitato di aver schiacciato per casa, in cucina o
in cantina qualche scarafaggio, bene (anzi male, dotatevi subito
di qualche DDT) è sicuro che nel farlo avrete provato un
qualche estatico piacere nel sentire lo sgranocchiante guscio
sotto le vostre pedate, e chissà quante volte avrete pronunciato
soddisfattamente vittoriosi, l'irriguardosa espressione rivolta al
deceduto: "creba, malaitta sasaja" (o secondo il luogo di dove
siete: sisaja, sesaja, babbasaja, o al maschile babbusau).
Sappiate allora che probabilmente facendo ciò e facendolo per
diverse generazioni, uccidendo quel ripugnante animaletto,
51
abbiamo salvato una nostra antica parola (e ringraziamo il cielo
che gli scarafaggi non si siano estinti, nonostante il nostro
prodigarci, perché neanche avremmo più la parola).
Se diamo una scorsa all'enciclopedico Rubattu vediamo quanti
modi abbiamo per chiamare lo scarafaggio:
scarafaggio sm. zool. (Blatta
orientalis) [cockroach, blatte,
cucaracha, Schabe] carrabusu
(lat. CARRUM + piem. büsa),
babbasau, babbajotzedda f.,
babbasaju, babbasaja,
babborottu, cadalanu,
caddalanu, cadalana f.,
cadelana f., cadenale,
carraffazu, catalana f.,
blapo (gigante) sm. zool.
(Blaps mortisaga) [bug, blatte,
blata, Schabe] sasja f., sasàgia
f., sesàgia f., sesaja f., sisàgia f.,
sisaja f., sisaza f. (prerom.),
babbasau, cadalana f., cadelana
f., cagalanu, grìglia f., melaghe
(L), sisaja f., sasaja f., pretta f.
(sp. prieto), brattedda f.,
sulafigu, candulittu (N),
52
iscortone, paulina f., terriolu,
pabasale, noeddu de
Frantziscu mannu (L),
babbarrottu, babbarrotzu,
bobborrottu, sisaja f., bisasa f.,
babbaluccu, carraffone,
scarraffone, iscrapione,
scarfone, garrappiu (N), pretta
f., prettedda f., scarfajoni,
scraffajoni, scraffioni,
scraffaioi, scarafàcciu,
carrabusu (C), caddarana f.,
sasàia f. (S), babbasàiu,
carrabusu, mangoni (G) //
tintirriolu (L) “specie di s.
babbaiotzedda f., babballotti,
brabetta f., cadelanu, curri-curri,
mùsulu, perta f., perta pùdiga f.,
pettedda f., prattedda f., pretta f.,
prettedda f., sulafigu (C),
caddarana f., sasàia f. (S),
babbasàiu, mangoi (G).
53
alato”
è interessante notare come usiamo cadalana per rilevare che
evidentemente i bruni uomini di Catalogna ai nostri antenati
poco risultavano simpatici (per la supponenza e la falsa nobiltà
d'animo) e come (sempre i nostri antenati) definissero lo
scarafaggio come paulina 'l'animale zozzo da paludi'. In mezzo
a ciò, la nostra sasaja, sisaja, sesaja, che è rimasta
misteriosamente insondata nelle sue origini (infatti il Wagner
nel suo DES dice: "probabilmente prelatino"). Tra le varie
forme riportate si ha anche il logudorese melaghe, che vediamo
è la chiave per comprendere il nostro sasaja. Melaghe deriva
54
dal greco melas che vuol dire 'nero'. Sulla presenza di questo
grecismo (localizzato a Oschiri) nel sardo ci sono diverse
posizioni: secondo il Wagner e il Pittau è un sufficientemente
antico prestito del greco (si intende i greci di Focea che forse
passarono per la Gallura nel vi-v sec. a.C.), secondo me è
parola di origine greco-italica, giunta cioè con le armate
romane che di italici erano perlopiù composte, secondo il pio
studioso Paulis, sarebbe giunta invece con i mistici religiosi
bizantini (quelli che nei Condaghes si spartivano pezzi di
schiavi e schiave, cattolici quanto loro, per lavorargli la terra).
Sta di fatto che la tale parola ci offre la chiave semantica,
perché se abbiamo una forma sarda che si ispira al colore nero
(è il più comune per la blatta, ci sono anche scarafaggi di
colore marrone o verdi), si può presupporre che possano esser
sortite anche altre denominazioni ispirate da tale scontatissimo
tratto. Orbene il mistero può esser sciolto: l'albanese ha per
55
indicare il colore nero la parola: zi, che al femminile fa:
zeza/zezë (leggi: sesa, la z albanese è come la nostra -s- di
"caso", o "kasu", la ë è come la e dei napoletani: quannë
'quando'). La parola è antica: nell'onomastica trace si
troverebbero vari Sis, Zis, che il Georgiev, luminare della
materia, interpretava come indicanti 'Nero'. Il suffisso -aja
nell'illirico è molto frequente, mentre da noi appare solo per
poche parole (inteso nel sardo in generale, perché nel Logudoro
è anche riflesso della palatalizzazione di latino -ACULA), e
tutte perlopiù misteriose. In albanese -ja indica, si aggiunga, la
forma femminile determinata (per posposizione, tipica
dell'albanese e del rumeno), come dire: "nera la" (cioè "la
nera") contrapposta a "nera". Dunque, un aggettivo così
tipicamente albanese, deve esser antico anche da noi, ma non
sappiamo quanto, perché morso dai dubbi e dal fatto che in
Sardegna insieme agli Italici vennero anche i Messapi
56
(sarebbero gli odierni Salentini), i quali erano degli antichi
discendenti degli Illiri, giunti in Italia intorno al primo
Millennio, nel mio saggio ho prospettato l'idea che la parola
possa esser giunta in epoca romana, grazie al travaso
linguistico di parole di costoro nel latino regionale di Puglia.
Ma potrebbe ben esser veramente antica e allora un'altra
circostanza, ci legherebbe a quello straordinario popolo che
abita i Balcani e che sono gli Albanesi (che vi piaccia o meno).
Pertanto la sasaja null'altro è che la "la negra, la negraccia, la
maledetta".
57
Una serpe davvero illirica nel centro della Sardegna
Di Alberto Areddu
E' sopratutto nel Centro della Sardegna (Barbagia e Ogliastra)
che si sono salvate dall'usura del tempo, alcune denominazioni
spesso risalenti a epoche molto lontane; così non solo alcuni
termini di evidente e perspicua latinità, ma anche qualcuno che
ha preceduto le armate romane. Queste parole diversamente da
58
quelle della toponomastica che sono mute e quindi facilmente
sottoposte all'arbitrio della libera e personale interpretazione,
possono dirci in filigrana se si possa realmente agitare
un'ipotesi a sostegno dell'illiricità originaria dei Sardi Nuragici.
Un retaggio di sicura non-latinità è l'espressione per indicare la
"serpe d'acqua" o natrice (tropinodotus natrix), un rettile di
piccole dimensioni, non velenoso (come tutti quelli che
abitano in Sardegna) che ha come habitat i corsi d'acqua a
corso lento e ricchi di vegetazione, i terreni boschivi o i
margini dei sentieri. Orbene nel paese di Gavoi viene detta:
lircis, a Nuoro: lirtzis, a Ollolai: lortzis, a Olzai pare si abbia
una doppia denominazione: lurtzi e sulurtzi, in alcuni siti
barbaricini: thulurtzis, e infine a Ottana abbiamo: silurtzis (dati
Pittau) Chi si è occupato di tali denominazioni, si è così
espresso: per il Wagner (che riporta nel DES solo la variante
lircis) è parola misteriosa; per lo studioso catalano E. Blasco i
59
Ferrer sarebbe una forma greco-bizantina da un sintagma
nominale: Thiu Leoutis 'zio Leuzzi' (una notte insonne ho
passato chiedendomi chi fosse mai 'sto Leuzzi); per quello
sardo M.Pittau: non si sa da dove venga, ma gli sembra
ricordare qualche toponimo iberico, come Ilurci, così tanto per
dirne una accattivante. Come si vede, direbbero gli inquirenti,
stiamo brancolando nel buio più fitto. Eppure l'acqua in cui la
natrice sguazza non è poi così torbida come si vorrebbe.
Ritorniamo per un attimo al titolo: "una serpe davvero illirica...
ecc. ecc". Illirica: era forse suggestivo l'italics per questa
parola?... Molti forse non lo sanno, e allora glielo diciamo noi,
ma spesso i popoli primitivi assumono una certa loro
denominazione di ethnos, con la precisa funzione di spaventare
i loro vicini e avversari o per votarsi a un qualche animale
sacro all'interno della loro tribù; tutto ciò è chiamato:
totemismo. Così gli antichi Piceni avevano come animale sacro
60
il picchio, la gazza: picus in latino, da cui: Pic-eni, gli Hirpini il
lupo, da hirpus 'lupo'. Ora gli Illiri che vivevano probabilmente
in origine intorno a qualche fiume o lago, come un'altra tribù
illirica, gli Enchelei 'le anguille' (da έγχελυς ), secondo una
ragionevole ipotesi formulata dal grande Anton Mayer, da un
antenato-serpe detto Illuriòs 'serpe' (figlio del celebre Cadmo)
prendevano nome (quello che i linguisti chiamano l'eponimo).
E presso tutti gli Illiri, ma specie quelli meridionali, il serpente
era l'animale ctonio per eccellenza, collegato col culto degli
antenati e col complesso magico religioso della fertilità della
terra e della donna, apparendo con frequenza raffigurato in
bassorilievi, gioielli e sulle polene delle navi.
61
Le radicate credenze in serpi e draghi pare sian state d'ostacolo
all'affermazione del Cristianesimo, come si deduce dalla Vita
di S. Ilarione scritta dall'illirico San Gerolamo; Ilarione dovette
eliminare il terribile Boas che devastava Epidauro, divorando
animali e persone, perché i pagani iniziassero un'opera di
conversione. Detto ciò, osserviamo la forma linguistica. La
radice *il- (dall'indoeuropeo ụel) la ritroviamo in altre lingue
indeuropee, come nel greco dove vale
‘storcere,avvolgere,torcere': illòs 'strabico', perché è della
serpe, non c'è bisogno che ve lo dica io, muoversi in tale
62
maniera. Orbene a una radice il- si è aggiunto un suffisso -ur,
che in area illirica (e come vedo nel mio libro in quella
paleosarda) è assai diffuso; si ottiene così:ilur-, e già qui le
acque sembrano rischiararsi notevolmente. Manca la parte
finale -ci, -tzi: per spiegarla sono ricorso all'albanese, che ci
offre un suffisso -çi, -thi per indicare il diminutivo. La
soluzione che io offro è pertanto che una molto probabile
forma: *ilurci indicasse il "serpentello", e che come tale sia
penetrata nel volgare latino di Sardegna, variamente sfigurata
poi per l'incontro con l'articolo romanzo su 'il, lo' (attraverso il
meccanismo della concrezione/discrezione come succede in
altri casi ben dettagliati dal Wagner nella sua Historische
Lautlehre des Sardischen). Dunque la serpe d'acqua sarda ha
una radice intrinsecamente e formalmente illirica.
bibliografia utilizzata:
63
M.L. Wagner, Dizionario Etimologico Sardo, Heidelberg 1960-
64
M. Alinei, Dal totemismo al Cristianesimo popolare,
Alessandria 1984
M. Pittau, Dizionario della lingua Sarda I-II, Cagliari 2000-
2002
A. Mayer, Die Sprache der alten Illyrier, Wien 1959
A.Stipcevic, "Simbolismo illirico e simbolismo albanese" in
Iliria 5, 1976
M. Camaj, Albanische Wortbildung, Wiesbaden 1966
J. Pokorny, Indogermanisches Etymologisches Wörterbuch,
1959
D. Srejovic, Illiri e Traci, Milano 1996
J. Wilkes, Gli Illiri tra identità e integrazione, Genova 1994
64
E. Blasco i Ferrer,“Etimologia ed etnolinguistica:zoonimi
parentelari e totemismo in Sardegna” in Quaderni di Semantica
xxii, 2001
65
L’etimologia della parola pelasgo (pellazg)
Di Aristidh Kola
Secondo una nota versione la parola pelasgo (pellazg) deriva
dalla parola plasin e pelago. Il mitropolita bizantino Evstathio
chiama gli abitanti dell’Asia minore pelasgi e riconduce
l’etimologia del nome pelasgo a pelas jis che vuol dire terra
vicina, riferendosi per l’appunto all’Asia Minore. Se questa
versione fosse corretta, ci si potrebbe domandare perché
Evstathio ritiene che la terra vicina sia l’Asia Minore e non
l’Italia o, ancora meglio, l’Illiria?
Il geografo e storico dell’antica Grecia, Strabone, collega
l’etimologia della parola pelasgo a pelarg, un secondo
appellativo che gli ateniesi riferivano ai pelasgi.
Myler spiega l’etimologia della parola in questione attraverso
le parole pelin e argo. Quest’ultimo termine è pelasgico e vuol
66
dire campo, invece l’espressione pelin argo ha il significato di
colui che vive nei campi. Omero chiama la Tessaglia argo
pelasgica che vuol dire campo pelasgico. In Grecia esiste, tra
gli altri, il campo (argo) della Thesprotia e del Peloponneso. La
lingua albanese conserva ancora la radice della parola argo (ar)
e la usa nella parola arë che significa campo coltivato.
Il professore Saqelariu afferma che l’etimologia della parola
che stiamo prendendo in esame deriva dalle radici indoeuropee
Bhel (sbocciare) e Osqho (ramo). Secondo questa versione,
resa nota per la prima volta nell’anno 1958, cambiando soltanto
qualche lettera si arriverebbe alla conclusione che pelasgo
significa ramo sbocciato o germogliato. Aristidh Kola non
vede nessun nesso fra il ramo germogliato e il nome pelasgo.
Qual è la versione etimologicamente più esatta?
Kola crede che la spiegazione che danno gli studiosi Strabone e
Myler sia la più esatta, perché esamina sia la parte linguistica
67
sia quella semantica del termine. Strabone e Myler
condividono l’opinione degli antichi ateniesi: i due infatti
riconducono l’etimologia della parola pelasgo a pelargo che in
albanese vuol dire cicogna (lejlek). La parola pelarg deriva
dall’espressione pelin argo che, come abbiamo già detto, ha il
significato di colui che vive nei campi perché è noto quanto le
cicogne gradiscano vivere nei campi.
Inoltre le cicogne costituiscono una similitudine perfettamente
adeguata al popolo pelasgico. Analizziamo per esempio la
questione della migrazione: Aristofane in una sua commedia
dice che i pelasgi migrano come le cicogne.
Un altro motivo per il quale il ricorso alla cicogna è molto utile
per comprendere meglio il pelasgico è il rispetto mostrato ai
genitori, che si traduce in sacrifici di vario genere. Ne “La
storia degli animali” (2,9,13), Aristotele scrive che le cicogne
giovani portano sulla schiena le cicogne anziane per aiutarle a
68
migrare. Questo grande amore e rispetto verso i propri genitori
era uno degli elementi fondamentali della società degli antichi
pelasgi. Si tenga presente che nella Grecia antica esistevano
delle leggi di tutela dei genitori anziani chiamate appunto le
leggi della cicogna.
In conclusione, l’etimologia della parola pelasgo sarebbe
direttamente riconducibile alle dalle parole pelin e argo dalle
quali deriverebbe pelargo. Il fatto che gli antichi elleni
chiamassero i pelasgi pelarg non fa altro che confermare la
nostra teoria.
P.S. In questo blog è stata precedentemente discussa la
questione relativa all’etimologia della parola pelasgo, partendo
da un brano dello studioso Robert d’Angely
69
L’origine delle parole: un interessante confronto
Di Aristidh Kola
Se solo guardassimo una piccola lista di parole albanesi,
confrontandole alle parole del greco antico e moderno,
capiremmo subito che la lingua albanese è direttamente
riconducibile al greco omerico. Non avverrebbe lo stesso se
confrontassimo la lingua greca antica con quella moderna. Per
quanto possa sembrare strano, le cose stanno proprio così.
Tra le parole albanesi che si trovano elencate nella lista che
segue non ci sono solo parole rappresentative della lingua
letteraria, ma anche espressioni dialettali arbëresh.
Nel leggere l’elenco bisogna tenere presente che in greco
manca la y sostituita dalla i, mentre il suono sh è stato
sostituito dalla s. Inoltre è necessario ricordare che la d
albanese in greco antico era dh.
70
ALBANESE GRECO
ANTICO
(OMERICO)
NEO
GRECO
ITALIANO
dor – ë, dor - a ekedeka – dor -
o
màti mano
lesh Lasios qheri lana
mi, miu Mis malå topo
heq, (hekl =
tërheq)
Elko pondåqi levare
marr (mar) mar - pto perno prendere
edhe, dhe idhe, te qe e
arë, ara Arura horàfi terra (da
lavorare)
punë (puna) Ponos dhulià lavorare
71
kalë, kali kelis - tos àlogo cavallo
krye (krie) Kridhen qefali testa, capo
re, retë rea (perëndia e
reve)
sinefo nuvole
vesh, vishem ves – this -
vesnimi
forào vestire
lepur Leporis lagæs lepre
qen, qeni Qion sqilos cane
rronjë (rroj,
jetoj)
ronio, ronimi zo, akmazo vivere
ruaj, rojtar rio, ritor filàso guardiano
iki, ike Iko fevgo andare
lig lig – ios, lig -
æs
adhinatos cattivo
ethe(kam ethe) ethir, ethæ piretos febbre
72
rrah rahso, raso piretos terra
ne (neve) Noi emis noi
rri (qëndroj) e – ri - dhome kathome restare
vend (ved) ved – os, vedh
- os
edhafos,
topos
posto
mend, mendoj mendohem medhome pensare
errët (errësirë) ere - vos sokotos scuro
thërres (thrres,
thrras)
threo, throos fonazo chiamare
para (përpara) Paros mbrostà avanti
për ty par ti ja sena per te
ai që nëm neme – sis,
neme - sao
katara colui che
maledice
van (shkuan) Van pigan andato
hedh Heo rihno, tiro
73
tinazo, sio
dhe, dheu
(tokë)
jea, dhor, dha ji terra
nuk ni uk dhen non
udhë, udha Udhos dhromos strada
verë (stina e
verës)
Vear kaloqeri estate
shkop skipon, skiptro ravdhi legno
torrë Tornoo jiro torre
korr Kiro thiro raccolta
mëri (mëni,
dialekti verior)
Minis thimos essere
litigato
marrë (i marrë) Margos trelæs pazzo
nisem Nisome kseqinæ partire
flas flio, fliaræ milao, parlare
74
omilæ
lehem (lind) leho, lohia jenieme partorire
fryma (frima,
dialekt i jugut)
Frimao fisima alito
shkel skel - os patao calpesto
deti theti – s thalasa mare
krua, kroi Krunos vrisi fonte
dru dris, drimos,
driti
ksilo legno
lutem Litome parakalæ pregare
nuse nisos, nios nifi nuora
ter (thaj) ter – so stegnæno asciugare
dera Thira porta porta
kall (djeg) Kileo qeo bruciare
zien Zei vrazi bolle
75
mjet Mitos nima
hondræ
mezzo
tata, ati, i jati tata, ata, jetas pateras padre
Le parole prese in analisi nella lista si possono ritrovare
nell’Illiade (A 35, 105,189,115, 570) e nell’Odissea (A 409,
E152, 457, ecc.)
76
L’Olimpo: il trono di Zeus
Di Aristidh Kola
Vi siete mai domandati perché proprio sul monte Olimpo si
trova il trono di Zeus e la famosa casa degli dei?
Per rispondere a questa domanda dobbiamo andare alla ricerca
degli antichi sacerdoti provenienti dal nord-ovest dei Balcani,
più esattamente da Dodona, i quali guardavano il sole (Diaw –
Dia – Diell) sorgere in cima all’Olimpo.
I geologi hanno verificato che l’Olimpo, nei tempi antichissimi,
è stato oggetto di un forte terremoto, a causa del quale da una
sola cima altissima vennero a crearsi due cime più basse. La
montagna prese in tal modo la forma in cui è nota oggi.
Un giorno gli occhi straniti degli antichi sacerdoti dell’Epiro
videro quel terribile terremoto e avranno pensato che la
montagna si è abbassata, è diventato più corta. Questa frase,
77
nella loro lingua, sarebbe: “Ulj u bë” (si è abbassata) che si
pronunciava “Uljumb”. Più tardi, con l’aggiunta della
desinenza os si è passati da Uljubes a Ulimbos per giungere
alla forma definitiva Olimbos.
Che ci sia stato un terremoto è evidente, più difficile è datarlo.
Il lavoro dei geologi è prezioso per stabilire il periodo in cui ha
avuto luogo il sisma e, quindi, riuscire a stabilire la data in cui
è stata usata la parola che trae origine dall’albanese, lingua che
in tanti hanno cercato di eliminare dal territorio greco, anche
quando, ancora recente il ricordo degli eroi della rivoluzione
greca del 1821, tutti, in Grecia, parlavano quasi
esclusivamente la lingua albanese.
78
Il faraone Psammetico e la parola
“bek” Di Aristidh Kola
Psammetico affidò due neonati a un pastore; doveva portarli
presso il suo gregge e allevarli senza mai pronunciare parola
davanti a loro […]. In tal modo avrebbe ascoltato quale parola i
bimbi avrebbero emesso per prima […]. Un giorno, dopo che
furono passati due anni, il pastore aprì la porta e i bambini si
gettarono ai suoi piedi e pronunciarono la parola bekos,
tendendo le mani […]. Psammetico scoprì che i Frigi
chiamavano bekos il pane. In tal modo, gli Egiziani […]
ammisero che i Frigi erano più antichi di loro.
ERODOTO, Storie II, 1.
[1]Indipendentemente dal metodo adottato dal faraone, la storia
ci offre un indizio molto importante, cioè che nella lingua
[2]frigia il pane si chiamava becos. Analizziamo meglio la
79
storia. Dizionario: Becos da leggere bekos e da pronunciare
bek. La desinenza os dipende dal ghego della parola frigia bek.
Allora vediamo che la parola bek ha lo stesso significato della
parola albanese buk, che nell’albanese odierno vuol dire
appunto pane. Il racconto non è stato inventato dagli egizi ed è
talmente vero che Erodoto lo ha inserito nella sua opera. Un
altro fatto incontestabile è che nella lingua albanese odierna
sono ancora utilizzate parole di origine pelasgica (lingua che
secondo molti studiosi è stata la lingua universale e primigenia
della razza bianca). Si tratta in particolare di parole che hanno
subito pochi cambiamenti, in alcuni casi nessuno, rispetto alle
parole antiche della lingua pelasgica dalle quali derivano.
80
Le Amazzoni
Di Aristidh Kola
Dal mito delle amazzoni apprendiamo dell’esistenza di un
popolo guerriero legato agli achei da un rapporto di parentela
diretta. Questo popolo è noto principalmente per la presenza di
donne capaci di combattere come gli uomini.
Non analizzeremo le origini geografiche delle amazzoni, ma
piuttosto l’etimologia del nome. Tuttavia è bene precisare che
hanno molto in comune con le donne combattenti albanesi che
guerreggiavano al fianco degli uomini (Bubulina, Xhavelena, le
donne di Scutari ecc).
Ma torniamo alla questione etimologica. Gli antichi studiosi
greci spiegavano l’etimologia riferendosi al termine Mazos
(seno) perché si dice che le amazzoni si amputassero la
81
mammella destra per non essere impedite nel tiro con l’arco e
nel lancio delle frecce.
Louis Benloew, invece, spiega l’etimologia della parola
partendo da un termine ebraico (Amah) e da uno caldaico
(Azen). Entrambe le parole significano arma/i. Karolide ritiene
che l’etimologia della parola amazzone si possa spiegare
attraverso la parola armena Amaduni che vuol dire straniero,
oppure grazie al termine persiano Amadem.
Nessuno di questi studiosi ha provato a spiegare l’etimologia
della parola in questione utilizzando la lingua del popolo
pelasgo.
Cercheremo dunque di spiegare la parola con tutte le riserve
del caso.
In albanese esiste la parola zonjë (signora) utilizzata anche
come titolo. Zonja (la signora) è la prima persona (la più
importante) per la gestione della casa e per la vita dell’uomo.
82
La lingua albanese prevede inoltre espressioni come Zonja ime
(signora mia) oppure Ime zonjë (mia signora). Premesso che
nel greco antico ime è emi, possiamo concludere che
l’espressione Emizonjë (mia signora) è molto vicina a
Amazonë (Amazzoni).
83
L’influenza della lingua albanese in quella sanscrita
Di Elena Kocaqi
Ci sono molte parole che lingua sanscrita e albanese
condividono e che la lingua albanese mantiene in uso tutt’oggi.
A prova di questo forte contatto, esiste una popolazione
dell’Himalaya che denomina le cifre utilizzando le stesse
parole della lingua albanese. Per esempio il numero sette è
shtatë, esattamente come in albanese.
Di seguito un elenco di parole sanscrite utilizzate nell’odierno
albanese.
SANSCRITO ALBANESE ITALIANO
name emri (nga nami që
e ka edhe shqipja)
nome
84
nata nata notte
çlath çlith (pra lëshoj) lasciare
da dha dare
varga varg cresta
viçesa viç vitello
bahra barra peso
giri guri pietra
arita arrita arrivare
vartitum vërtita lanciare, ruotare
peja pija bevanda
ulka yllka stellina
pa pa vedere
trapa trup corpo
krimi krimbi verme
arja ari oro
85
lipsu lipës mendicante
lap llap lingua
ratha reth cerchio
prer prer, prej tagliare
paka pjek cuocere (al
forno)
vrana e vrame nuvoloso
trut tret digerire
tiras thërras chiamare
tila thela pezzo
vasu vash ragazza
vas vesh vestire
kleça kleçka ostacolo,
impaccio
suni çuni figlio
86
nusa nusja nuora
ramja i ramë caduto
supa supa zuppa
fal fal perdonare
man mand, mendoj pensare
gata gota bicchiere
tata tata padre
gatita gatita preparare
bhuta bota mondo
pura para (pra që është
përpara)
avanti
anu anë parte
Per giustificare la presenza delle parole albanesi nella lingua
sanscrita si potrebbero individuare due ragionevoli spiegazioni.
87
La prima è che queste parole potrebbero essere entrate nel
sanscrito grazie alla popolazione pelasgico - albanese che ha
dominato quei territori per migliaia di anni.
La seconda, in voga grazie a studi recenti, è che la lingua
albanese sia la madre di tutte le lingue indo-europee.
In ogni caso non esiste una razza indo-europea, né una lingua
indo-europea. Le parole albanesi che si trovano nella lingua
sanscrita si ritrovano anche in tante altre presunte lingue indo-
europee, ed è proprio la presenza di queste parole che supporta
la tesi secondo la quale esisterebbe una lingua comune e indo-
europea. Se gli studiosi e i linguisti dessero alla lingua albanese
il peso che merita, non commetterebbero mai un simile errore.
88
Un popolo pelasgo - illirico: i troiani
Di Elena Kocaqi
La città di Troia ha un nome che si lega direttamente alla
lingua albanese e per dimostrarlo non è necessario modificare
alcuna lettera. Trojë significa terreno dal quale si erigono case
e costruzioni di ogni tipo. In Albania questa parola si usa anche
oggi. Chi vuole costruire ha bisogno di troje per farlo.
Un altro fatto interessane è che il simbolo dei troiani era
l’aquila che è stato simbolo di Alessandro il Grande, Pirro di
Epiro e Scanderbeg (l’eroe nazionale albanese). A questo punto
è d’obbligo osservare che il simbolo che si ritrova oggi sulla
bandiera albanese è proprio l’aquila e gli albanesi sono noti
come figli dell’aquila (shqiptar).
Un ultimo aspetto degno di nota che dimostrerebbe l’etnicità
pelasgo–illirica dei troiani e dei loro alleati durante la guerra di
89
Troia si trova nell’Iliade. Omero ci fornisce i nomi dei posti,
delle persone e degli dei. Questi nomi si spiegano
perfettamente riferendosi all’odierna lingua albanese:
Festi, era un guerriero che veniva dalla Lidia. In albanese fest
significa festa.
Arna Menest, guerriero della Beozia, si chiamava così perché
combatteva con armi vecchie. In albanese arna significa cosa
vecchia, rattoppata.
Alkatos, nome troiano usato anche nell’ antico Epiro. In
Albania è tutt’oggi in uso come nome proprio.
Kliti, nome troiano. Si usava anche in Illiria e Macedonia. Era
il nome di un re illirico che combatté contro Alessandro il
Grande. Nome proprio in uso tutt’oggi in Albania.
90
Perifati, in lingua albanese sarebbe perri – fati che significa
buona fortuna. Oggi in alcune zone dell’Albania non si dice
“buona fortuna” ma “bella fortuna” (bukur mirë). Perri in
albanese significa stupenda, la più bella.
Aise, dio che sorveglia le azioni degli uomini durante la
giornata. In lingua albanese sarebbe Ai-se, cioè Ai-she (lui
guarda), cioè osserva cosa fanno gli uomini durante la
giornata.
Aretyre, in albanese è aretyre o meglio ancora arë-tyre, in
italiano si traduce con la loro terra (da coltivare).
Erinjet, dio che protegge la vita ed è al suo servizio. In lingua
albanese è e-rin-jetë che significa colui che rigenera la vita.
Hypokanti, nella lingua albanese è hy-po-kan-ti cioè bello
come un dio.
91
Hypodon è un nome troiano che in albanese è hy-po-don che
significa essere come un dio.
Jadet era il nome della dea della pioggia. In albanese è ja-det il
suo significato italiano è pieno di acqua come il mare.
Menti, in albanese mendi oppure menti, significa persona
intelligente, piena di cervello. Nella città di Troia un altro
nome molto usato che deriva dalla stesse radice è Mentore.
Come abbiamo visto, questi nomi, assieme ad altri che si
trovano nell’Iliade, si spiegano molto facilmente tramite la
lingua albanese. Di conseguenza se ne può facilmente dedurre
che la popolazione che abitava l’Asia Minore avesse la stessa
origine degli abitanti dell’Illiria e quindi, da ciò ne deriverebbe
che, la popolazione troiana potrebbe essere illirica.
92
Christòs Anèsti
Di Elton Varfi
Un po’ di anni fa mi è capitata fra le mani una copia di una
rivista per la promozione del turismo in Sicilia. Il titolo era
“ciao Sicilia what’s on…” La copia che è in mio possesso è
dell’aprile del 1987. Sfogliando questa rivista, con grande
sorpresa, mi sono imbattuto in una poesia in lingua arbëresh.
La poesia si intitola “Stosanesi” ed è una storpiatura
dell’espressione Christòs Anèsti, una frase greca che significa
“Cristo è risorto”.
È una poesia di Strollaku, soprannome di Antonino Cuccia,
originario di Contessa Entellina.
È stata scritta ben 92 anni fa e riguarda la visita del Clero
Greco nella Chiesa Latina a Pasqua. Strollaku è una storpiatura
derivata da “Astrologo”. Per gli studiosi di lingua arbëresh, la
93
lettura di questa poesia sarà certamente interessante per rilevare
i cambiamenti e le evoluzioni della lingua.
Arbëresh Me paqe e me harè te kjò bukurëditë Çë ka klënëçelur sa ke çë isht jetë, qi i madh gëzim vjen një herë në vit: kush rron e sheh pametë; kush vdes mbëllin sytë, kundet vete jep te jetëra Jetë, se In Zot, vdekur rrijti tre ditë, me kaqë harè na u ngjall si sot. Luftarët e rruajn me gjak te sytë Kur tundej dheu e luajnë ajo botë, se si vdiqi In Zot ngë u pa më dritë (dritë) luftarët u llavtin me atë tirrimot, rran te dheu e zbëllijtin sytë: njohtin se aì çë vran ish e vërteta In Zot, Shën Mëria Virgjërë rrij vënë më lip, klajti të birin tre ditë me sot, u kallaritin engjulitë e erdhi ajo dritë an’e t’i than Shën Mërisë se u ngjall In Zot. Shën Mëria Virgjërë rriodhi, fshijti vat’e barcarti t’In Zot e pa se te gjiri kish një firitë: atë helm i madhë ndiejt Shën Mëria kur vdiq’In Zot.
94
Mbi dyzet ditat te Parraisi u hip, me flamën te dora u ngjall In Zot. Priftèria na i mbëson këtë i madh shërbes Se për tre ditë hipet me atë “Stosanes” E Litirit vete t’ja thot kini harè se u ngjall In Zot. Këtë rrimë e bëri Strollaku e u jam’e ju i thom sot: me kaqë harè u ngjall In Zot. Antonino Cuccia detto STROLLAKU.
Italiano Con pace e con gioia in questo bel giorno ch’è stato celebrato da quando è il mondo questo gran diletto una volta l’anno viene: chi muore chiude gli occhi e nell’Aldilà il resoconto presenta, perché tre giorni il Signore stette morto con gran gioia risorse come oggi I soldati con occhi insanguinanti lo sorvegliarono mentre il suolo tremava e la terra oscillava poiché quando morì il Signore più luce non si vide
95
i soldati si atterrirono al terremoto caddero al suolo e venne loro la vista compresero che avevano ucciso il Signore. La Santa Vergine Maria stava in preghiera ha pianto il figlio fin’oggi tre giorni vennero giù gli angeli e venne la luce dissero alla Madonna che risorto era il Signore La Santa Vergine Maria corse e si asciugò gli occhi abbracciò il Signore e vide che in petto aveva una ferita tanto dolore provò la Madonna quando morì il Signore Dopo quaranta giorni in paradiso salì con la bandiera in mano risorse il Signore Il Clero ci insegna questa cosa meravigliosa e per tre giorni sale con lo “Stosanesi” ed al Latino dice “gioite ché il Signore è risorto” Questa rima è stata composta da Strollaku e ve lo dico oggi: Con tanta gioia è risorto Nostro Signore.
96
L’iscrizione del mosaico di Mesaplik del VI secolo è in lingua albanese
Di Elton Varfi
Nel museo storico nazionale dell’Albania si trova esposto un
bellissimo mosaico che è stato rinvenuto dalle rovine di una
basilica nel villaggio di Mesaplik, vicino a Valona.
Questo mosaico è datato V o VI secolo d.C. e le sue dimensioni
sono 230x349 cm. Il mosaico in questione ha attirato
l’attenzione degli studiosi che hanno scritto sui pelasgi e sugli
illiri, ma non è mai stata spiegata l’iscrizione che si trova su di
esso. Il mosaico raffigura la testa di profilo di un uomo che
indossa un capello a punta. All’estremità del cappello sono
attaccati due nastri.
Nei tempi antichi, questo tipo di capello veniva indossato da
professori e filosofi illustri.
97
Attorno all’uomo, ci sono dei piatti pieni di frutta e di pesce.
Lo suo sguardo è diretto verso l’iscrizione “A PAK KE T’AÇ”.
Queste lettere appartengono quasi tutte all’alfabeto latino, ad
esclusione della seconda lettera che è la lettera P dell’alfabeto
greco.
Gli studiosi e i linguisti hanno pareri diversi su cosa significhi
questa frase.
Il professore Moikom Zeqo in un suo articolo scrive: “Il
mosaico del V secolo d.C. raffigura la testa di profilo di un
uomo giovane che indossa un capello a punta, come Hermes, e
una iscrizione: “Aparkeas”, che è il nome storpiato del dio
Abraxas, adorato dalla setta monoteista ed eretica dei
“basiliti”, che era così popolare e diffusa da fare concorrenza
al Cristianesimo. Il mosaico con il viso gnostico di
Aparkeas/Abraxas è un mosaico non comune, anche a livello
europeo. Questo mosaico chiude l’epoca della storia degli
98
illiri, per aprire l’epoca della storia degli albanesi.” (Koha
Jonë, 29/06/2001, traduzione mia).
(riproduzione del mosaico di Mesaplik)
Chiaramente la lingua dell’iscrizione, secondo Zeqo, è il greco
antico.
Tuttavia altri studiosi pensano che questa frase sia scritta in
lingua albanese. Se fosse vero, allora dovremmo spostare la
datazione del primo documento scritto in lingua albanese dal
99
XV secolo al V o VI secolo d.C. Naturalmente si tratterebbe di
una scoperta sensazionale.
Il professore Arben Llalla legge la frase: “A ΠΑR ΚΕ ΑC” (A
PAR KE AC) e aggiunge le seguenti considerazioni:
1- gli arbëresh hanno un proverbio che dice: “Ha për
drekë, po lë për darkë” (mangia per pranzo, però pensa
per la cena). Un proverbio molto simile ce l’hanno
anche gli abitanti di Skrapar in Albania: “Ha sot, po
mejto edhe për nesër” (mangia oggi, ma pensa a
domani); invece nel sud dell’Albania dicono: “Ha për
drekë, por lër dhe për darkë” (mangia a pranzo, ma
pensa alla cena).
Non è casuale che nel sud dell’Albania, ovvero il luogo
dove è stato rinvenuto il mosaico, si dica “Ha pak, që të
kesh” (mangia poco, così ti resta). Questo proverbio
100
avrebbe esattamente lo stesso significato della frase
incisa sul mosaico.
(Questi proverbi si possono leggere nel libro “FJALË
TË URTA SHQIPE” (proverbi albanesi) seconda
edizione Prishtinë, 1983, pp. 193.)
2- Quasi tutte le lettere della frase sono latine. Solo la
prima lettera della seconda riga è la lettera P
dell’alfabeto greco. Invece, la terza lettera della seconda
riga è RR e, secondo quanto scrive lo studioso tedesco
J.G. Von Hahn nel suo libro “Appunti sulla scrittura
pelasgica”, apparterrebbe all’alfabeto pelasgico
albanese.
3- La teoria di professore Zeqo verrebbe del tutto
confutata se analizziamo l’ultima lettera dell’ultima
riga, che in realtà è una C e non una S come il
101
professore sostiene. La lettera S in greco è Σ, invece la
lettera ΤΣ in greco si pronuncia C.
4- La forma stessa di questa frase è particolare. È scritta
dall’alto verso il basso e rispetta tutte le regole
dell’ortografia. Questo consentirebbe di avvalorare la
tesi secondo la quale non si tratta di una sola parola,
bensì di quattro parole diverse.
5- Attorno all’uomo raffigurato nel mosaico ci sono
piatti pieni di frutta e di pesce; inoltre, lo sguardo
dell’uomo è diretto verso la frase incisa. Perciò è molto
probabile che la frase faccia riferimento al cibo e
potremmo ragionevolmente pensare che sia un
ammonimento al risparmio.
Lo studioso greco di origini albanesi Niko Stylos, assieme
all’esperto Ilir Mati, non hanno nessun dubbio: la frase è in
102
lingua albanese e letteralmente vuol dire mangia poco, hai da
mangiare.
I due studiosi, secondo me, forniscono prove più che
convincenti per pensare che la lingua sia proprio quella
albanese.
Illir Mati contraddice sia la teoria del professore Zeqo, sia la
lettura che il professore Llalla fa della terza lettera del secondo
rigo (R). Per Mati la lettera è K.
Per confermare questa sua teoria, Illir Mati porta come prova
un vaso antico greco dove sono raffigurati Patroclo, Achille e
sua madre, Teti. La sesta lettera del nome di Patroclo è identica
alla prima lettera della seconda riga del mosaico, ed è proprio
la lettera K. (vedi la foto in basso)
103
Un altro fatto interessante è la somiglianza del capello
indossato dall’uomo del mosaico e il
Qeleshe, che è un berretto tradizionale portato dagli uomini
albanesi (vedi foto in basso)
104
Ora basta che anche gli albanesi provino a credere nella
possibilità che la loro lingua abbia una storia molto più antica
rispetto a quella che la storia ufficiale ci racconta e, in tal
modo, le ricerche saranno animate da un maggiore entusiasmo
e da un forte desiderio di conoscere la verità.
105
La stele di Lemno
Di Elton Varfi
La stele funeraria di Lemno è stata ritrovata nel 1886 a
Karminia, un villaggio che si trova nell’isola di Lemno,
prefettura di Lesbo.
Questa stele è stata recuperata da due soci della Scuola
Archeologica di Atene. La scoperta è stata pubblicata nello
stesso anno nella rivista della Scuola (G. Cousin et F.
Durrbach, Bas-relief de Lemnos avec inscriptions. Bull. d. corr.
Hellën. 1886, 1).
106
Sin dal suo ritrovamento l’iscrizione che si trova sulla stele è
stata oggetto di numerose attenzioni. La maggioranza degli
studiosi sostiene che la lingua dell’iscrizione sia quella degli
antichi etruschi. Sulla stele è intagliato il profilo di un guerriero
che tiene in mano una lancia. Attorno al guerriero si legge
un’incisione le cui lettere apparterrebbero a un alfabeto che gli
studiosi farebbero risalire al VII secolo a.C.
La stele di Lemno
107
Per decenni in tanti hanno cercato di decifrare l’iscrizione che
si trova sulla stele, utilizzando il latino e il greco antico, ma
senza pervenire ad alcun risultato.
In questo articolo proporrò alcune ipotesi di studiosi che hanno
cercato di tradurre ricorrendo alla lingua albanese.
Lo studioso francese Zacharia Mayani, nel suo libro “Fundi i
misterit etrusk” (La fine del mistero etrusco, Tirana 1973)
legge l’epigramma nella maniera seguente:
1. holaiez naphoth, 2. maras mav, 3. sialXveiz, aviz, 4.
evisth zeronaith, 5. zivai, 6. aker tavarzio, 7.vanalasial
zeronai morinaial.
“Holaiez, nipote di Ziazi, è morto quando aveva 39 anni.
Durante tutta la sua vita, vicino a Zerona, è stato sacerdote del
tempio di Zerona di Miriana.”
108
Holaiez, dice lo studioso, è il nome dell’eroe (raffigurato sulla
stele), Zerona era una dea adorata a Lenmo, invece Miriana è
un nome di città.
La studiosa Nermin Falaschi Vlora nel suo libro “L’etrusco
lingua viva”, Roma 1989 interpreta l’iscrizione in questo
modo:
(In lettere maiuscole la trascrizione dell’epigramma, fra
parentesi la traduzione in albanese e in italiano).
ZI A ZI (zi a zi – lutto e lutto), MARAZ (maraz - angoscia),
MAF (maf = vello e zezë – velo nero), ZI APKH (zi ape –
lutto hai dato), FEIS A FEIS (fisve a fis – ai parenti o
parente), E FIS TH, H (e fis, th, h – e (il) parente, th, h),
ZER O NAI TH (zer, oh nai,th, zer = me kap – afferrato, oh
noi ha, th), SI FAI? (si faj? – per quale colpa?), AKER
(acër = gropë – una fossa) , TAF (taft = fron – un trono),
AR (ar – d’oro), ZI, TH( zi, th – lutto, th), FAMA (fama –
109
la fama), PA (pa - vide), ZI AP (zi u hap – lutto si è
divulgato), ZER,O (kap është - afferrato è), NAI (për ne – a
noi), MORI (mori – portato via), NA IP (na hip – ci assale),
HOPAIE (hopthi – sul petto), ZI MATH H, TH (zi math, h,
th -lutto grande, h , th), SI FAI? (si faj? – per quale
colpa?).
La Falaschi fa soltanto la traduzione delle parole, lasciando chi
legge libero di interpretare nel modo che ritiene più opportuno.
L’unico elemento che sembra trovare unanimità di giudizio è di
natura contenutistica: l’iscrizione è uno straziante lamento
funebre, con la ripetizione continua dei suoni “TH” e “H” per
rendere il suono del pianto e dei singhiozzi dei parenti
inconsolabili. Si tratterebbe dunque di parole onomatopeiche
utilizzate per rendere al meglio il tema affrontato.
110
Lo studioso francese Robert d’Angely nel quinto libro
secret des epitaphes” della sua imponente opera “
scrive che l’iscrizione sulla stele funeraria di Lemno sarebbe
scritta in pelasgico.
L’epigramma trascritto dallo studioso Robert d’Angely
I
1) O LLAJ QË NJEF ZIT’ E TUA, 2) MARAS MAJ;
3) SIALLI KU QË AVIS 4) VISET E TU: SHËRON AITH
5) SIVA 6) LA MALA SIELL, SHËRON AI MORINASIT
nel quinto libro “Le
“L’enigme”,
ele funeraria di Lemno sarebbe
1) O LLAJ QË NJEF ZIT’ E TUA, 2) MARAS MAJ;
3) SIALLI KU QË AVIS 4) VISET E TU: SHËRON AITH
5) SIVA 6) LA MALA SIELL, SHËRON AI MORINASIT
111
7) AHERE O TAVARAZ.
II
1) O LLAUZ (KUR) SI PHOKJA SOLI (U SUL):
SHPËTONTE AITH VISTHIN E TI
2) DHE TË NDERONTE, RRO ME, O HARALI, SIFAJ (rro
3) EPTE ZI, U ARRATIS PHOKJA, SIVAJ;
4) AVIS, U SUL KY QË, MARAZI IM, AVIS; AH, UMBI
AU.
Sintetizzo di seguito il contenuto: nella prima parte
dell’iscrizione, l’autore racconta del defunto TAVARZI
HARALI, originario di MYRNIA, città dell’isola di Lemno, il
quale viene lodato perché ha salvato la sua patria
dall’invasione dei popoli della vicina Tracia; nella seconda
parte si legge che l’eroe ha salvato il suo popolo anche
dall’invasione dei focesi, però è morto prima che la battaglia
finisse. Inizia a questo punto un’esortazione da parte
112
dell’autore dell’incisione che prima precisa al defunto eroe che
alla fine la sua armata ha sconfitto i focesi, poi però lo informa
che il primo nemico da lui sconfitto, cioè i popoli della vicina
Tracia, hanno costretto in schiavitù la sua amata patria; per
questo motivo invita l’eroe morto a risuscitare per salvare
ancora il suo popolo.
Lo studioso Illir Mati nel suo libro “Një shqiptar në botën e
etruskëve” Tiranë 2000 (un albanese nel mondo degli etruschi)
legge l’incisione sulla stele così:
HOPIAE : S : NA FOTH SIASI
MARAS : MAF SIAPYFEIS . AVIS E FIST:
SERONAITHSIVAI
VAN APA SIAP : SERON AI MO RINAIP AKER:
TAVARSITH
113
Le parole sottolineate, secondo l’autore, sarebbero molto simili
alle seguenti parole albanesi:
HOP AI E (salta, lui), NA (noi), ZI (lutto), A(ËSHTË) (è),
MARAZ (angoscia), SE RON AI ZIVAI (perché vive lui ),
TU VAR ZITH (nella tomba nera).
In albanese:
Hop ai e zë na thotë zia është zi.
Hidhërim të madh si jap né fis, nga fisi né fis se ron ai zivaj.
Van? si jap se ron ai megjithëse ri ai pak te varri i zi.
In italiano:
Salta e lo prende, dice che il lutto è il lutto.
Un grande dispiacere ha dato a tutta la parentela, perché
vivo è il lutto.
Se ne è andato? Però vive, anche se starà per un po’ nella
tomba nera.
114
Secondo lo studioso Ilir Mati, questa interpretazione sarebbe la
più semplice fra le tante prese in analisi.
Tuttavia l’incisione resta un enigma che, se un giorno venisse
risolto ricorrendo alla lingua albanese, allora potremmo dire di
avere raccolto una nuova prova che dimostri che la lingua
pelasgico – albanese veniva regolarmente utilizzata nella sua
forma scritta già nel VII secolo a.C., per di più all’interno del
territorio greco.
115
Teti: la madre del pelasgico Achille
Di Elton Varfi
Già nel leggere il titolo qualcuno potrebbe storcere il naso,
soprattutto i lettori greci i quali ritengono che leggendario sia
sinonimo di greco.
Greci erano gli eroi della guerra di Troia, anche se nell’Iliade
l’esercito che combatteva contro i troiani non era né greco né
elleno. Omero li definisce solo achei. Per Robert d’Angely
l’etimologia della parola acheo è riconducibile alla lingua
albanese e significherebbe “così bello, che piace a tutti”.
Un altro greco famoso? Alessandro Magno. Non si deve stupire
il lettore nel leggere che per i greci anche Alessandro Magno è
greco. Il principio è sempre lo stesso: tutto ciò che sia
riconducibile all’antichità e sia leggendario e famoso, è
necessariamente greco.
116
Ma analizziamo meglio quanto fosse effettivamente greco il
grande condottiero.
Filippo II di Macedonia sposa in seconde nozze Olimpiade (il
suo vero nome era Polissena), che in quanto figlia del monarca
dei Molossi d’Epiro, Neottolemo, discende direttamente da
Achille. Per molti questa origine sarebbe alla base del motivo
per il quale Alessandro Magno è stato considerato il nuovo
Achille.
Pertanto la madre di Alessandro Magno era epiriota, cioè
albanese. Se dessimo credito a Georgiu Fineley, autore de “La
storia della rivoluzione greca”, il quale sostiene che gli antichi
storici ritenevano possibile che Alessandro Magno parlasse con
i generali del suo esercito la lingua della madre, quale era
questa lingua? Siamo sicuri che si trattasse della lingua greca?
Perche i greci chiamavano Filippo II di Macedonia, padre di
Alessandro Magno, barbaro?
117
Un'altra notazione importante: l’eroe nazionale dell’Albania,
Giorgio Kastriota, noto come il soldato di Cristo, era chiamato
dai turchi Skënderbe che vuol dire il principe Alessandro.
Forse lo chiamarono così in onore del bisnonno Alessandro
Magno?
Ma abbandoniamo questa controversa questione per analizzare
l’argomento principale di questo articolo.
La ninfa Teti era la più bella tra le cinquanta ninfe figlie di
Nereo e Doride. La sua figura è principalmente quella di sposa
di Peleo e madre di Achille. Sia Poseidone che Zeus avrebbero
voluto sposarla. Tuttavia essendo stato profetizzato che il figlio
di Teti avrebbe acquistato maggiore fama del proprio padre,
Poseidone rivolse le sue attenzioni ad Anfitrite, sorella di Teti.
Zeus scelse Era come compagna e impose a Teti di sposare
Peleo, il più nobile degli uomini, il quale però faticò non poco
per farsi accettare da Teti.
118
Teti cercò di rendere immortali i primi sei figli avuti da Peleo,
immergendone i corpi nel fuoco, ma Peleo riuscì a sottrarle
l'ultimo nato, Achille, prima che la dea completasse il rito
magico che avrebbe dovuto renderlo immortale. Uno dei talloni
del bambino si era già bruciato e il centauro Chirone, che
s'intendeva di medicina, sostituì l’osso danneggiato.
Fermiamoci un attimo.
L’etimologia del nome Chirone risale alla lingua albanese.
Abbiamo detto che il centauro Chirone era un medico. Il
compito di un medico è quello di fare in modo che un paziente
guarisca. In albanese il verbo guarire è shëron. A questo punto
lasciamo che il lettore tragga le proprie conclusioni
sull’attendibilità di questa osservazione.
Andiamo avanti con la storia.
Abbiamo detto che Chirone, pregato da Peleo, sostituì l'osso
danneggiato, prendendo quello corrispondente dallo scheletro
119
del gigante Damaso, che da vivo era stato invincibile nella
corsa, ciò spiega le doti di corridore di Achille "pie' veloce".
Fermiamoci ancora.
A proposito Robert d’Angely osserva che in greco il nome di
Achille è Aχιλλευς (Achilleus) e anche in questo caso
l’etimologia può essere spiegata facendo riferimento alla lingua
albanese; Aq-i-lehtë/i che in italiano sarebbe: così
leggero/veloce.
Andiamo avanti.
Nonostante questo intervento, il tallone di Achille rimase
vulnerabile. La madre non aveva fatto in tempo a spalmarlo
con l'ambrosia, che era riuscita a distribuire nel resto del corpo
per renderlo invulnerabile.
Una tradizione più accreditata annovera tra i sostenitori l’artista
Rubens, il quale in un suo dipinto raffigura il momento del rito
compiuto da Teti. Secondo questa versione dei fatti la
120
vulnerabilità del tallone di Achille sarebbe dovuta al fatto che
Teti intendeva renderlo invulnerabile immergendolo nel fiume
Stige e non nel fuoco. La donna reggeva il bambino per un
piede, che quindi rimase asciutto.
Dopo le note vicende della guerra di Troia e la morte di
Achille, Teti raccolse le sue ceneri insieme a quelle di Patroclo
in un'urna che, forgiata da Efesto, le era stata donata per le sue
nozze, e guidò l'anima del figlio alla boscosa isola di Leuca, di
fronte alle foci del Danubio. Poi si recò nel luogo del suo
primo incontro con Peleo e lo portò con sé negli abissi, dove
avrebbe ottenuto l'immortalità anche per lui. Sennonché egli
l'abbandonò per raggiungere la terra dei Molossi, dove sperava
di rintracciare Neottolemo, figlio di Achille, e perse
irrimediabilmente quella possibilità: fece naufragio e morì
presso Eubea.
121
Teti si ritrova in molte altre leggende. Aiutò per esempio agli
Argonauti; accolse nella sua grotta marina Dioniso che,
inseguito dagli uomini di Licurgo, re degli Edoni, si era gettato
in mare; soccorse Teseo che, tuffatosi in mare per ripescare
l'anello gettatovi da Minosse, dimostrò in tal modo di essere
figlio di Poseidone; aiutò perfino Zeus a liberarsi da un crudele
incantesimo.
Dopo avere raccontato in breve la storia della ninfa andiamo
alla questione etimologica relativa al suo nome. In greco
Thétis, in latino Thetis oppure Thelis, Thetidis.
Dalle ricerche che ho fatto, non ho trovato nessuno che
fornisca un’etimologia completa del nome Teti. Pertanto il
punto da cui decido di partire è la spiegazione che dà Bürkert
relativamente al nome della titanessa Teti o Tetide (greco
Τηθύς), moglie del fratello Oceano e nonna della nostra Teti.
122
Bürkert vede nel nome Teti una trasformazione dell'accadico
tiamtu o tâmtu, “il mare”, che è riconoscibile in Tiamat.
Ovviamente se Bürkert avesse potuto ricorrere alla lingua
albanese non avrebbe dovuto necessariamente scomodare la
lingua accadica per trovare l’etimologia del nome della
titanessa. In albanese il mare è det o deti. La somiglianza con
il nome di Teti è notevole.
Ma se il nome della nonna della nostra Teti si spiega
perfettamente con la parola albanese deti, credo che per la
ninfa il percorso etimologico non possa essere lo stesso.
Mi spiego meglio. Teti era una ninfa e come abbiamo già detto
trascorreva molto tempo nelle profondità marine. La parola
profondo in albanese è Thellë e la parola profondità è
Thellësia. Credo che ricondurre il nome della ninfa alla parola
albanese Thellë sia una buona strada da seguire.
123
Questo articolo non ha la pretesa di essere un tentativo di
spiegare una volta e per tutte l’etimologia della parola in
questione, ma piuttosto è un invito a riflettere sulla questione,
partendo dalla riflessione di un attento conoscitore della lingua
albanese che non si è mai arrogato il diritto di essere un
linguista.
124
Parole nelle iscrizioni etrusche
Di Ilir Mati
Zemla
In uno specchio etrusco si trova una scena d’amore i cui
protagonisti sono Apollo, intento a guardare il dio etrusco del
divertimento, Fuflun, mentre bacia una giovane donna, il cui
nome è scritto accanto: Zemla.
Domanda: è possibile che il nome Zemla sia arrivato fino ai
125
giorni nostri tramite la lingua albanese e che sia oggi presente
nella parola albanese zemra (cuore)?
Nota: se si potesse accertare l’attendibilità del collegamento tra
la parola zemla e zemra, così come di molte altre parole
etrusche, si potrebbe affermare con certezza la presenza non
solo di un legame tra la lingua albanese parlata oggi e la lingua
e la cultura etrusca, ma anche del fatto che effettivamente
queste testimonianze siano arrivate fino ai nostri giorni
attraverso questo can
Tin, Ita
Il dio più grande per gli etruschi era Tin oppure Tinia, che più
tardi i romani chiamarono Giove.
In un vaso rinvenuto a Dodona, conservato nel museo di
Louvre, troviamo inciso: THEOZOTO.
Theo in greco è Dio, Zot invece è Dio nella lingua albanese.
126
In Buzuku2 troviamo: Tin Zot.
Gli etruschi: Tin, Tinia.
In etruscologia, il dio Tin tiene in mano tre fulmini, con il
primo avverte – tuona (bubullin, in albanese), con il secondo
appare – lampeggia (vetëtin, in albanese), con il terzo colpisce
– fulmina (shkreptin, in albanese).
Nelle parole albanesi Vetë-tin, Shkrep-tin, Bubull-in forse si
trova il nome del dio Tin, il cui simbolo era il fulmine?
Un altro dio degli etruschi era Ita. Gli albanesi chiamano il
luogo nel quale questo dio è nato Tale oppure Itale.
Dalla necropoli di Durazzo è stata rinvenuta un’incisione col
nome EITALE, datato IV – III secolo a.C.
Cutu
2 Gjon Buzuku è stato un vescovo cattolico albanese, autore del più antico
documento noto stampato in lingua albanese: una traduzione del Messale Romano, in albanese: "Meshari", stampata forse a Venezia attorno al 1555.
127
Nella rivista “Atlante” dell’aprile 1984, gli etruscologi italiani
hanno dato la notizia del ritrovamento della tomba della
famiglia Cutu. Gli etruscologi hanno attribuito il nome Cutu
perché in molte tombe di pietra e in diverse urne è stata
ritrovata incisa la suddetta parola. Le parole incise sulla pietra,
secondo gli etruscologi italiani, sono i nomi dei defunti (il
nome proprio, il nome della famiglia, il nome del padre e della
madre nel caso di frasi composte da quattro parole). In base a
queste informazioni, nella rivista “Atlante” si legge che gli
etruscologi sono riusciti a ricostruire l’albero genealogico dei
defunti.
L’iscrizione sulla tomba è:
ARNO CAIS CUTU FELUSA
(ARTH KAIS KUTU FELUSA)
In un'altra tomba è inciso:
128
AU CUTU FIPIAL
In questo caso, secondo gli studiosi italiani, abbiamo la
rimozione della parola CAI per nascondere l’origine servile
che questa parola indica, lasciando solo il cognome CUTU
della famiglia CAI = KAI che in Albanese si può tradurre
anche con piango (qaj).
Certamente uno studio più approfondito di tutto il materiale
epigrafico potrebbe chiarire se CUTU è effettivamente il
cognome della famiglia oppure più semplicemente si tratta
della parola qui, KËTU o, come viene pronunciata dalla
popolazione çam, KUTU.
Haron
Nel dizionario della lingua etrusca di D’Aversa troviamo:
129
“Harun, Karon nella iconografia etrusca non è colui che
accompagna il defunto nell’altro mondo, ma il testimone ed
esecutore della morte”
Basandosi su questa spiegazione, confermata dagli stessi autori
antichi, possiamo sostenere che:
Harun, Haron può essere Ha Ron (in italiano letteralmente
mangia vita e cioè il mangiatore di vite)
Ron, rnoj in albanese ha il significato Jetoj (vivere)
Ron, rnon in albanese ha il significato Jetë (vita)
Ha in albanese significa mangiare.
Nella mitologia troviamo anche hades cioè il mondo
sotterraneo, il posto dei morti.
Un’interessante coincidenza:
1-Haron = Ha Ron = Ha Jetë (in italiano mangia vita,
mangiatore di vite, la morte)
130
2-Hades = Ha Vdes = Ha të vdekurit (in italiano mangia i
morti)
L’espressione “A RNO” potrebbe corrispondere alla frase
albanese: “asht jetë” che in italiano si tradurrebbe con “è
vita”. La parola Arno, inoltre, con tutte le sue numerose
varianti (Arnth, Arnthi, Arnthial), la troviamo molto spesso
nelle incisioni etrusche.
131
La tomba Golini I
Di Ilir Mati
Nel 1865 in Umbria vengono ritrovate due tombe etrusche
affrescate, oggi note come tombe Golini, dal nome del loro
scopritore.
Nel 1951 gli affreschi, gravemente danneggiati, sono stati
esposti nel museo archeologico di Firenze. Nei magazzini di
questo museo si trovano le copie in scala reale.
Questa tomba ha forma quasi quadrata (5,35 x 5,20m).
Secondo gli studiosi italiani gli affreschi che si trovano dentro
la tomba Golini I raffigurano un banchetto funebre allestito
nell’oltretomba in onore di un nuovo arrivato.
I dipinti si dividono in tre parti: 1. la preparazione del
banchetto, dove sembra che i lavori siano fatti dagli schiavi; 2.
i personaggi per i quali il banchetto è stato allestito; 3. l’arrivo
132
del nuovo abitante della tomba. Vicino ad ogni personaggio ci
sono due parole scritte in nero. L’etruscologo Paolino sostiene
che “queste scritte indicano perlopiù le funzioni degli schiavi
piuttosto che i loro nomi propri”, però non è chiara la funzione
esatta dello schiavo. La cosa più impressionante è la prima
scena della prima parte, dove si sta preparando la carne per il
banchetto.
Appesi ad un tronco ci sono un toro ammazzato, una capra, un
coniglio e altro vario pollame. Vicino a loro si vede il
macellaio con una mannaia nella mano alzata fin sopra la testa,
che sta per colpire il tagliere nel quale si trova la carne. In alto,
nell’immagine, si legge THAR..:KAO.
133
THAR KAO
In tutte e due le parole manca qualche lettera (per esempio,
poteva essere THARNA KAON), ma anche se non si
aggiungesse alcuna lettera, si potrebbe tranquillamente leggere:
THER KAUN. La cosa curiosa è che in lingua albanese questa
frase vuol dire ammazzare il toro, ther = ammazzare,
sgozzare , kau-n = toro.
Accanto all’immagine del macellaio, si trova la figura di una
donna che sembra uscire dal posto in cui si sta preparando la
carne per il banchetto. Tiene nella mano sinistra un bicchiere
134
pieno, invece nella mano destra tiene qualcos’altro. Vicino a
questa donna troviamo scritto THARMA ML.RUNS. Nella
seconda frase manca la terza lettera. Sembra che la donna nella
mano sinistra, dentro il bicchiere, tenga il fomento (in albanese
tharmin) per il banchetto. Nella mano destra invece si trova il
segno del sacrificio fatto in onore degli dei, che potrebbe essere
il fegato del toro ammazzato. Se l’ipotesi fosse giusta
THARMA ML.RUNS potrebbe significare THARMA
MBLEDHUN, che tradotto in italiano sarebbe raccogliere il
fomento.
La sesta figura (se iniziamo il conteggio a partire
dall’immagine del macellaio) è un uomo che sta macinando un
malto particolare. L’uomo non macina colpendo il malto, ma
sbriciolandolo con le mani. Vicino all’uomo troviamo questa
iscrizione: PAZU MULUANE.
135
PAZU MULUANE
Sembra che qui si ritrovi la forma pa zu bukën,(lievitare il
pane,) pa zu kosin,(fermentare lo yogurt) , pa zu djathin
(pastorizzare il formaggio). Se fosse stato scritto paza
muluane si poteva tradurre macinare in silenzio, senza voce =
pa za – senza voce, muluane(bluan) macinare.
Sulle mura della tomba si trovano altre iscrizioni difficili da
tradurre, che però lasciano intuire che il banchetto disponga di
136
tutto il necessario: gli invitati, i servitori, i musicanti, alcuni
animali mitologici, un messaggero, il nuovo arrivato e anche
alcuni esseri sconfitti dell’aldilà.
Uno si chiama KRANKRU e dà l’idea di un animale che
rosicchia i crani, dall’albanese kran – cranio, e kru – aj –
rosicchiare. L’altro animale si chiama KURPU e potrebbe
personificare il disgusto, lo schifo, dalla parola albanese kurpë
– disgusto, schifo. Questi due animali sono sotto una specie di
divano, sconfitti dagli abitanti della tomba.
Ognuno degli abitanti della tomba fa la sua preghiera. Si
rivolgono all’Altissimo, larth (in albanese lart). Pregano di
perdonarli felinies, felth (in albanese fal), perchè con tutta la
parentela me fis (in albanese me fis-in) e i bambini, me fmi (in
albanese me fëmi) piangono klan (in albanese qan), chiedendo
intensamente perdono felusum (in albanese falje shumë).
137
La cerimonia della preghiera è eterna ed è la stessa per ognuno
degli abitanti della tomba, indipendentemente da quando sono
arrivati. Chi ha costruito la tomba comune, decide di dipingere
un tema eterno per tutti coloro che saranno sepolti lì, invece di
dipingere un nuovo tema ogni qual volta un nuovo abitante
della tomba arriva.
138
Achille
Di Mathieu Aref
Il nome Eperios o Epeiros si spiega solo ricorrendo alla lingua
albanese. Il significato del termine è “qualcosa che è sopra, in
alto, oltre” (rispetto alla Grecia). Omero conosceva solo il
nome di Thesprotia, nome che sostituì Pelasgia (Erodoto II,
56).
In verità, secondo alcuni autori antichi, Epiro con Pelasgiotide
erano la pelasgica Argo (Argo è l'eponimo della città di Argos).
La città della Thesprotia, chiamata Dodona, era de del luogo
sacro che i pelasgi avevano dedicato a Zeus Dodoneo e
Pelasgico. Ecco la preghiera che Achille rivolge a Zeus (Iliade
XVI, 236 – 237):
139
"Signore Zeus, Dodoneo, Pelasgico,
che vivi lontano,
su Dodona regni dalle male tempeste e
intorno i Selli vivono,
interpreti tuoi, che mai lavano i piedi,
e dormono in terra;
come ascoltasti una volta la voce del
mio pregare, dandomi gloria,
molto punisti l'esercito acheo;
Questo paragrafo, inspiegabilmente passato inosservato da
parte di molti studiosi, è uno dei più importanti e dei più chiari
dei poemi omerici ed è doppiamente significativo.
Prima di tutto perché lo stesso Omero riconosce l’origine
pelasgica di Achille e la dichiara liberamente. Addirittura lo
140
stesso Zeus, dio pelasgico, avrebbe difeso Achille dalla
minaccia dell’esercito acheo.
La seconda questione vede Omero esprimere chiaramente la
genesi pelasgica della religione, che più tardi con piccolissime
variazioni, diventerà la religione dei greci.
Il nome di Achille si spiega riferendosi alla lingua albanese,
Aspeitos parola che deriva dalla radice A’shpeit che si traduce
con il veloce, il velocista nella lingua dei pelasgi e quindi in
albanese. I greci spiegano il nome di Achille usando
l’espressione il grande indescrivibile, (cfr. Plutarco, Pyrrhos i,
3) o semplicemente: il grande, il pieno, l’ottimo. Tuttavia
questa interpretazione greca non coincide affatto con gli
appellativi che Omero usa riferendosi ad Achille.
La stessa cosa avviene se consideriamo un altro nome attribuito
ad Achille: Achilleys, che i greci traducono con l’espressione
senza labbra. Quest’ultimo nome di Achille si spiega molto
141
meglio attraverso la lingua albanese: Aq i lehtë (così leggero,
veloce). In qualsiasi maniera vediamo la questione del nome di
Achille, la lingua albanese risulta infallibile nella spiegazione.
Grazie alla lingua albanese si spiega perfettamente anche il
nome di Ulisse, il cui significato è viaggiatore (Udhësi).
Di conseguenza i nomi dei due eroi più conosciuti nei poemi
omerici, Achille nell’Iliade e Ulisse nell’Odissea, si spiegano
benissimo ricorrendo alla lingua albanese.
Nei due poemi citati, l’autore dichiara di avere scoperto 58
citazioni relative ad Achille, fra le quali 18 si riferiscono alla
nozione di velocità: Achille piè veloce, Achille con i piedi
leggeri, instancabili; il concetto di divino ricorre 11 volte; 25
ricorrenze mostrano degli appellativi che hanno a che fare con
la sua tribù e la sua parentela: Pelide, figlio di Peleo; e infine
altri 4 appellativi che non sono pertinenti.
142
Il nome di Achille, la sua religione e il suo posto nella
gerarchia delle divinità (era figlio della dea Teti, il cui nome è
pelasgico e in albanese vuol dire mare, det) ci mostrano
chiaramente la sua origine pelasgica. Ecco cosa ci dice Plutarco
(la vita di Pirro 1/3):
“da lì [luogo santo di Dodona,
nelle terre di Molossi, il regno
di suo figlio Neottolemo]
Achille è stato accolto come
una divinità in Epiro, dove,
dalla lingua del luogo, prese il
nome di Aspetos”.
143
Plutarco lo sapeva bene che gli abitanti delle terre dei Molossi
o di Thesprotia, ovvero dei dodonei, parlavano una lingua
diversa da quella greca, parlavano la lingua del luogo.
144
Pirro II
Di Mathieu Aref
Pirro II (319–272 a.C.) regnò in Epiro dal 295 al 272 a.C.
Questo re epirota, con origini traco– illiriche, come Alessandro
Magno, voleva ricalcare le gesta del valoroso generale.
Inizialmente attaccò i romani che sconfisse ad Heraclea nel 280
a.C. e poi ad Asculum nel 279 a.C. Ottenne quest’ultima
vittoria con difficoltà e grandi furono le perdite per il suo
esercito, da questo evento deriva il detto “vittoria di Pirro”,
una vittoria ottenuta pagando un prezzo troppo alto.
Dopo la sconfitta per mano dei romani a Benevento (275 a.C.),
tentò più volte di invadere la Grecia. Durante una di queste
spedizioni morì. Secondo la leggenda ad ucciderlo sarebbe
stato un masso cadutogli in testa.
145
È interessante fare un’annotazione sul famoso elmo celtico con
due corna (di capra o di ariete) che indossava Pirro II, lo stesso
indossato da Alessandro Magno.
Intanto l’elmo in questione è lo stesso indossato dall’eroe
nazionale albanese Giorgio Kastriota, detto Scanderbeg (1405-
1468). Questo elmo diventò anche lo stemma del re albanese
Zog I (1895–1961). Inoltre, Alessandro Magno viene più volte
citato nel Corano come “Alessandro con le due corna - Al
Iskandar Z’ul Karnain”. Queste osservazioni confermerebbero
il fatto che l’elmo con le corna di ariete (o di capra) viene
indossato dai re e in particolare da quelli con origini traco–
illiriche.
Altri esempi ci dimostrano che gli epiroti, soprattutto i Molossi
(Pirro II apparteneva alla tribù dei Molossi come la stessa
madre di Alessandro Magno, Olimpiade), erano pelasgi. Prima
di tutto il nome Molossi in albanese corrisponde alla parola
146
malësorë, in italiano montanari. In verità, le parole malësor,
malësi oppure malës (montanaro, montagnolo) derivano dalla
radice pre-ellenica mal (montagna), usata anche oggi nella
lingua albanese. I malësorët (i montanari), di origine traco–
illirica, erano di statura alta (come sono oggi gli abitanti
dell’Albania del nord) a differenza dei greci che erano più
bassi.
In secondo luogo, il nome Pirro (Pirrohs) che nella lingua
albanese è burri (uomo), deriva dal pelasgo–albanese burrë
che vuol dire uomo coraggioso. Se alla parola burrë (uomo) si
aggiunge il suffisso greco os questo ricaviamo burros (burrë–
os) trasformato dai greci in Pirrhos.
Pirrhos è anche uno dei tanti appellativi di Achille. Pirro II è
stato uno degli ultimi re dell’Epiro, i suoi soldati lo
chiamavano l’Aquila (in albanese, shqiponjë), mentre loro si
facevano chiamare Figli dell’Aquila. Ancora oggi,
147
l’espressione è usata per riferirsi agli albanesi (in albanese,
shqiptar); sono gli altri (i non albanesi) che utilizzano le parole
Albanias, Albanian, Albanesi ecc.
148
Alcuni esempi di neologismi inutili della lingua albanese
Di Mathieu Aref
Arrestoj; arrestim – arrestare; arresto
Nella lingua albanese esiste la parola kap (prendere).
La radice di questa parola la ritroviamo in latino
(capere), in inglese (Keep) e in francese (capturer).
Marshim, marshoj, marshon – marcia militare
Non si riesce a comprendere la necessità di questo
neologismo. La lingua albanese ha le parole ecje, eci,
ecim, ecën (cammino, camminare, cammina)
Sukses – successo
La lingua albanese ha diverse parole che hanno tutte
questo significato (mbarëvajtje, mbarësi, mbrodhësi,
ose arritje)
149
Audiencë – udienza
L’albanese ha le parole vëmëndje, pritje, mbledhje che
ovviamente, con leggere sfumature di significato,
vogliono dire tutte udienza.
Aplikim, aplikacion – applicazione
In albanese esistono già le parole, vendosje, vënie,
zbatim, përdorim.
Tendencë – tendenza
La lingua albanese ha la parola prirje.
Procedim – querela
Anche per questa parola già esistono mënyrë veprimi,
sjellje, mënyrë e sjelljes
Protestoj – protestare
In albanese c’è già la parola kundërshtoj.
Abuzim – abuso
In albanese ci sono le parole shpërdorim, teprim, tepri.
150
Egzistoj – esistere
Anche per questa parola si tende ad utilizzare una
parola straniera anche se in albanese c’è una parola che
proviene dagli albori dell’umanità ed è jetoj. Poi ci
sono ancora vazhdon (continua) vazhdon ende
(continua ancora) e hala. Si usa anche jam gjallë (sono
vivo).
Injorant – ignorante
In albanese, i pa ditur, i paditun, nuk di gjë, ose nuk di
gja.
Indipendencë – indipendenza
Esistono le parole albanesi pamvarësi e mëmëvetësi.
Inteligjent – intelligente
Anche per questa parola si usa un termine straniero,
anche se la lingua albanese è molto fornita di termini
151
che significano intelligente. Tra gli altri cito i zgjuar, i
mençëm, i ditur.
Civilizuar – civile
In albanese esiste una parola antichissima che è
qytetëruar, qytetar (civile o cittadino). I latini
ereditarono questa parola dagli etruschi nella forma di
civica (città) dalla quale è nata la parola italiana città e
la parola francese citè (città). È un paradosso che gli
albanesi utilizzino una parola nata tra loro antenati,
storpiata dal latino e rivista dalla lingua francese.
Plazh – spiaggia
Anche per adeguarsi alla modernità, gli albanesi hanno
cominciato ad usare la parola plazh, ma la lingua
albanese aveva già alcune parole antichissime che
indicavano la spiaggia. Tra queste c’è ranishtë che
deriva dalla parola ranë (sabbia) in dialetto ghego e
152
rërë (sabbia) in dialetto tosco. C’è una parola ancora
più antica che ha lo stesso significato ed è la parola
kum. Da questa parola derivano cumes e cumae
153
Thot/Hermes Trimegisto
Di Mathieu Aref
Il verbo “them” in albanese si traduce con dire, ma anche con
raccontare, pensare, giudicare. “Thotë” perciò vuol dire che
qualcuno racconta, pensa, giudica.
Se diamo un’occhiata da vicino agli attributi della divinità
egizia Thot, non potremo fare a meno di notare la grande
somiglianza che questi hanno con la parola albanese thotë
(dice).
Thot è noto come il dio della sapienza e della scrittura. Viene
rappresentato con la testa di Ibis e, molto spesso, nelle sue
raffigurazioni è presente anche Anubi, divinità con la testa di
sciacallo che aveva il compito di accompagnare i defunti
davanti al tribunale supremo degli dei.
Nell’epoca greco-romana, il dio Thot era Hermes Trimegisto, il
Mercurio dei romani. Anche in questo caso nella mitologia
154
cosiddetta greca, il nome di Hermes Trimegisto si spiega
tramite il ricorso alla lingua albanese.
Hermes è “Err mes”, che nel dialetto ghego dell’Albania del
Nord vuol dire: “Io ammazzo l’oscurità” o anche “Colui che
sfida l’oscurità”, err – oscurità, buio, mes – m(b)ys -
ammazzo, uccido.
In principio, prima che i greci facessero la loro comparsa, una
delle funzioni della divinità Hermes era l’accompagnamento
dei defunti nella loro ultima dimora, cioè nell’aldilà (terri,
l’oscurità, il buio pesto).
Anche per spiegare la parola “Trimegisto” dobbiamo affidarci
alla lingua albanese. Questa parola, che i greci ritengono sia di
tipo onomatopeico e dunque facilmente spiegabile come “tre
volte grandissimo”, accompagna quasi sempre la divinità
Hermes. La leggenda narra che Hermes inventò la lira,
utilizzando il guscio della tartaruga come scatola di risonanza e
155
le budella come corde. I pelasgi lo qualificarono come “Err
mys – Kris me gishta” cioè “Hermes che suona con le dita”,
Kris –suona, me – con, gishta – dita. Questo strumento, cioè
la lira, più tardi venne associato ad Apollo.
Chi vuole approfondire l’argomento, può leggere il libro
dell’autore Giuseppe Catapano “Thot parlava albanese”
pubblicato a Roma nel 1984.
156
Il museo archeologico di Viterbo
Di Nermin Vlora Falaschi
Anche il museo archeologico di Viterbo è ricco di reperti di
grande valore, nonché di messaggi epigrafici di notevole
contenuto filosofico.
Entrando, contro la parete destra si nota un sarcofago originale,
con una figura umana completamente distesa sul coperchio. In
corrispondenza dei piedi è incisa questa brevissima iscrizione:
Questa epigrafe estremamente concisa richiede però un lungo
commento, poiché racchiude in se stessa un concetto ampio:
CAE-I nella maniera moderna si potrebbe interpretare nel
senso di “Abbi benevolenza per lui, Signore”.
Il museo archeologico di Viterbo
o di reperti di
grande valore, nonché di messaggi epigrafici di notevole
Entrando, contro la parete destra si nota un sarcofago originale,
con una figura umana completamente distesa sul coperchio. In
questa brevissima iscrizione:
Questa epigrafe estremamente concisa richiede però un lungo
commento, poiché racchiude in se stessa un concetto ampio:
si potrebbe interpretare nel
157
In verità CAE ( qaje in albanese) letteralmente vorrebbe dire
semplicemente “piangilo”, ma il suo significato profondo è
molto più importante. Non lacrime di pianto chiedono al
Signore, ma compassione, misericordia, benevolenza.
Questa si deduce dalla solitaria I che segue la parola CAE, e il
cui significato è DIO.
Nella Divina Commedia (Paradiso, XXVI, 133 – 134) Dante ce
lo conferma in questo modo:
Pria ch’io scendessi all’infernale ambascia,
“I” s’appellava in terra il Sommo Bene…
e Jacopo della Lana, il letterato bolognese del XIV secolo che
per primo commentò per intero la Divina Commedia, annotò:
158
…çoè in soa vita Deo s’appellava “I”. Il primo nome per lo
quale Adamo nominò Iddio fu “I”.
È interessante notare che nella lingua turca come in quella
giapponese e coreana, e forse in altre lingue orientali I significa
bene.
In turco i adam sta per persona buona, perbene.
Perciò è sempre opportuno cercare di analizzare le epigrafi
inquadrandole in relazione all’epoca e alle circostanze in cui di
adoperavano quelle parole, evitando di fermarsi al loro
significato posteriore o addirittura di accettarne accattivanti
assonanze, come sembra sia stato fatto con questa iscrizione
affrettatamente assimilata al nome proprio romano “Caius”.
159
Le tombe “Vend-Kahrun” di Tarquinia
Di Nermin Vlora Falaschi
A Tarquinia tra il verde dei prati, tra colline soavemente
ondeggianti e rese suggestive da ulivi secolari e fiorellini
variopinti, si trovano numerose tombe etrusche.
Si usa dire “muto come una tomba”. Al contrario, quelle tombe
sono loquaci, non solo dove il pensiero è stato fissato con un
commento epigrafico, ma perfino quelle tombe dove un
emblema sostituisce la parola. Un fiore, un disegno
geometrico, un cielo stellato, un animale, esprimono quel
simbolo che rappresenta l’idea e stimola il pensiero.
Una delle più interessanti tombe di Tarquinia, sia per quanto
riguarda la ricca paleografia, sia per l’insieme degli emblemi
floreali che con la loro eloquenza pittorica destano stupore ed
160
emozione, è la tomba di VANTH (in albanese vend è il luogo
per eccellenza, cioè patria).
Per cominciare, leggiamo e interpretiamo questa interessante
iscrizione:
Pelasgo-Etrusco Albanese Italiano
FEL Fal Offerto
ANI Ana Da parte
NAS Nash Di noi
FE Me fe Con fede
161
LUS Lus Prego
CLAN Klanve Ai familiari
AI Ai Egli
I AFRS I afërt Vicino
IU RU Iu ru Si conservò
XXII 22? 22 anni?
Due caratteristiche distinguono questa bella dedica all’amato
scomparso.
La voce (ME) RU in albanese significa conservare. RUNE
sono “cose ben conservate”, ed è noto che le rune sono
iscrizioni incise prevalentemente su legno in Germania,
Norvegia, Islanda, Svezia, Scozia, Danimarca, Romania,
Bosnia e altrove con caratteri simili a quelli etruschi. Pochi
sono gli esemplari rimasti, a causa della deperibilità del legno.
162
Sulle rune riferisce anche lo storico romano Publio Cornelio
Tacito nella sua opera “Germania”.
Una particolarità di questa tomba eccezionale è che accanto
alla dea alata Vend (VANTH), tenuta in grande considerazione
dagli etruschi per la sua missione di accompagnatrice dei
defunti meritevoli al paradiso degli eroi, appare ora anche il dio
alato Kahrun (KHARUN) e cioè kah = verso, run =
conservazione, vale a dire verso l’infinito, l’eternità.
Sempre nella tomba Vend-Kahrun, di fronte all’entrata si trova
una iscrizione murale ornata da un doppio festone, dove
l’alloro si snoda intrecciandosi con una fascia rossa scura:
l’insieme di questa pittura si materializza nel numero 8
orizzontale. Al principio, l’8 appare grande, poi va diminuendo
per terminare con un tralcio rivolto verso l’alto. Com’è noto l’8
è stato sempre simbolo dell’infinito, e questo disegno potrebbe
significare il cammino che il defunto deve seguire per
163
giungere, percorrendo “infiniti” sempre più piccoli, nel finito
del Tutto Universale.
Pelasgo-Etrusco Albanese Italiano
ANI Ana Da parte
NAS Nash Di noi
ARNO Arno Creatore
CE që Che
LUS Lus Prego
THANKHEI Thanje Oralmente
164
LUS Lus Prego
ATI Ati Il padre
A â Che ha
LA La Lasciato
FILS Fisin I parenti
XXXIX 39? A 39 anni?
In questa iscrizione merita particolare attenzione la parola
ARNO, che nel passato stava per Creatore e che forse per
questo ha dato il nome al fiume intorno al quale sono sorte
grandi civiltà come quella di Firenze. Si avrà comunque modo
di osservare successivamente molte altre iscrizioni con questa
parola, tenendo presente che così com’è decaduto il significato
di faber , anche ARNO ha perso in Albania la sua antica
dignità e oggi vuol dire semplicemente restauratore.
165
Alcuni dei dell’Olimpo
Di Robert d’Angely
Zeus
Al primo posto tra tutti gli dei, i pelasgi mettevano Zeus, per i
latini Giove (Jupiter).
Per spiegare l’etimologia del nome Ζευς (Zeus) dobbiamo
prima precisare che gli antichi lo chiamavano tuonante, infatti
era anche il dio del tuono.
L’appellativo tuonante si spiega perfettamente riferendosi alla
lingua pelasgica: Zë – ës (Zë – in albanese vuol dire voce), che
in greco è φωνεις phōneis.
Tuttavia la parola pelasgico – albanese Zë – ës, si adatta molto
meglio al nome di Ζευς (Zeus). Possiamo dire senza ombra di
dubbio che Ζευς (Zeus) è l’evoluzione della parola pelasgico–
albanese Zëës: tuonante o colui che parla a voce alta.
166
Demetra
Demetra era una delle dee più potenti dell’Olimpo. Il suo nome
(in dorico ∆αµατηρ (Damatēr)) secondo un’etimologia molto
antica deriva non dal greco γη (gē) = terra, bensì dal pelasgico–
albanese dhe = δη (dē) = δα (da) = tokë – terra.
Anche la seconda parte del nome, µητηρ (mētēr), deriverebbe
dalla lingua pelasgica motër = mater = µητηρ (mētēr) =
madre. Il significato che gli antichi pelasgi davano alla parola
motër, che in albanese si traduce con sorella, non è
assolutamente quello di madre, ma si tratta di un appellativo
utilizzato per rivolgersi con grande rispetto a una donna che
non è necessariamente giovane ma neanche particolarmente
anziana. Questo stesso significato del termine è ancora in uso
nel sud dell’Albania, soprattutto nella zona di Përmet.
Apollo
167
La forma più antica del nome Apollo è la forma pelasgica
Aπελλων (Apellōn), dalla quale derivano
Aπολουν (Apoloun) e Aπλων (Aplōn), anche queste forme
pelasgiche.
La forma Aπολουν (Apoloun) somiglia molto al nome etrusco
Aplu o Apulu, invece la forma Aπελλων (Apellōn) si avvicina
alla parola osca Apellun che a sua volta si avvicina a tutti i
nomi antichi greci; Aπελλας (Apellas), Aπελλης (Appellēs),
Aπελλις (Apellis), Aπελλικος (Apellikos) ecc.
Basandosi sia sulle forme etrusche Aplu e Apulu, sia sulla
lingua osca Apellun possiamo individuare, con l’aiuto della
lingua pelasgico–albanese, un’etimologia convincente del
nome Apollo.
L’etimologia che proponiamo sulla base di Aplu, Apulu,
Apellun è Aπελλων (Apellōn) ovvero: che fa sorgere la
168
stella. Naturalmente si tratta della stella per antonomasia, il
sole.
Ancora meglio sarebbe ap udhën = që hap rrugën: che apre
la strada (al sole). Per questo motivo i greci chiamavano Delos,
l’isola dove si trovava il santuario di Apollo cioè l’isola dove
sorge il sole.
A partire da questo si spiega molto bene l’ipotesi secondo la
quale Apullen e Apudhën vogliano dire colui che apre la
strada al sole. Per rafforzare questa teoria possiamo ricordare
che Apollo viene raffigurato con una corona e quattro raggi di
sole sulla testa, sempre preceduto da Aurora, sua figlia.
169
διοι Πελασγοι = I Pelasgi sapienti
di Robert d’Angely
Durante il periodo che va dalla subsidenza dell’isola di
Atlantide alla prima spedizione dei pelasgi verso l’India, oltre
ai contatti con gli atlanti che sono rimasti definitivamente in
Europa, i pelasgi hanno avuto diversi altri rapporti con
popolazioni di razza bianca grazie alle migrazioni di
quest’ultime. I legami che di volta in volta venivano sviluppati
hanno fatto sì che si unificasse la lingua pelasgica che si
parlava, e forse si scriveva, a quel tempo. Siamo sicuri che i
pelasgi o ΑΡΓ (arg) grazie alla loro fama, guadagnata grazie
alla battaglia vinta contro gli atlanti, hanno avuto la possibilità,
anche per merito della loro leggendaria sapienza, di diffondere
l’uso della loro lingua pelasgica in Grecia, soprattutto ad
Atene, e in Italia.
170
Abbiamo detto “grazie alla loro sapienza” proprio per
correggere un errore millenario, cioè la parola greca διοι (dioi)
che tutti traducono come divini, come se avesse qualche
legame con la parola θειος (theios), che deriva da θεος (theos),
che vuol dire Dio. Infatti διοι (dioi), che si traduce
erroneamente come divini, deriva dalla parola albanese di-ës
che in italiano vuol dire so, ho conoscenza. Di conseguenza,
l’esatta traduzione di διοι Πελάσγοι (dioi pelasgoi) sarebbe
non “i pelasgi divini”, come è stata da sempre tradotta, ma “i
pelasgi sapienti”.
Prima della prima spedizione dei pelasgi verso l’India, il
termine Pelarg oppure Piellarg che si riferiva a tutte le
popolazioni della razza bianca, è stato semplificato,
rimuovendone la prima parte (cioè Pel oppure Piell che
significa nascere o nato, dall’albanese pjell) e trattenendone la
seconda (cioè ARG in greco ΑΡΓ (arg) che significa bianco,
171
dall’albanese bardhë). Il termine ARG, in greco ΑΡΓ, ha avuto
una grande fortuna perché da esso derivano la parola
mesopotamica ARYA e la parola greca ΑΡΓΕΙΟΣ (argeios);
inoltre, finì con l’alternarsi alla parola ΠΕΛΑΡΓΟΣ (pelargos)
o ΠΕΛΑΣΓΟΣ (pelasgos), senza riuscire, però, a sostituirla
del tutto.
172
La vera etimologia di YTI (il tuo) e βαρβαρ – ος (barbar – os)
Di Robert d’Angely
Una delle parole più interessanti dell’Odissea è il nome che
Ulisse diede a se stesso e che Polifemo usò per chiamarlo, cioè
ουτις (outis). Da come è scritta, o da come hanno voluto
scriverla più tardi, è immediatamente evidente che non si tratta
di una parola greca. Il significato che è stato a lungo attribuito
a questo termine è “nessuno”, che però, in greco, avrebbe
dovuto essere scritto ουδεις (oudeis).
La parola greca che ha il significato di “nessuno” è Ου τις (ou
tis) e si scrive usando due parole distinte come infatti lo
troviamo scritto in tantissime altre parti sia dell’“Illiade” che
dell’“Odissea”.
173
Ουτις (outis) non significa nessuno, ma è la trascrizione esatta
di YTI (il tuo): yti pelasgico. All’inizio YTI = yti si
pronunciava seguendo le regole della lingua pelasgica e
l’uditorio era perfettamente in grado di capire; molto più tardi,
nell’epoca di Pisistrate, quando le opere sono state tradotte in
greco, la parola yti non è stata cambiata, ma semplicemente
trascritta in ουτι (outi). Anche dopo la traduzione in greco, la
parola si pronunciava esattamente yti e l’auditorio gli
attribuiva in automatico il significato originale, cioè il tuo. Più
tardi, quando i testi pelasgi iniziarono a diventare più rari fino a
perdersi del tutto, la vera pronuncia e il vero significato della
parola ουτις (outis) vennero dimenticati e solo in seguito è
stato attribuito il significato che oggi tutti noi conosciamo, cioè
nessuno.
La parola pelasgia yti è in uso anche oggi in Albania e significa
il tuo (yt+i). Lo stesso significato che aveva quando Ulisse la
174
utilizzò per sfuggire a Polifemo. Lo stratagemma di Ulisse era
tanto semplice quanto geniale. Dopo che Ulisse accecò
Polifemo, gli altri ciclopi corsero subito in aiuto del gigante.
Appena arrivati davanti alla grotta, domandarono: “Perché,
Polifemo, sei così afflitto e gridi così nella notte divina? Forse
un mortale porta via le tue greggi e non vuoi? Lui rispose “yti”
cioè il tuo. Loro domandarono di nuovo: “Forse qualcuno ti
uccide con l'inganno e con la forza?" e lui rispose di nuovo
“yti”. Ora, quando gli altri ciclopi sentirono la parola yti
pensarono che Polifemo stesse accusando i loro familiari, le
persone più vicine a loro (servi, cugini, fratelli). Per non avere
problemi con gli altri ciclopi, dunque, decisero di ritornare alle
loro grotte.
In tal modo ουτις (outis) non avrebbe più il significato di
“nessuno”, ma il significato pelasgio “yti”, il tuo. Dal
175
significato originale del temine, si coglie meglio anche la storia
del raggiro di Ulisse ai danni del ciclope Polifemo.
Un’altra parola che dimostrerebbe che la lingua pelasgica era la
lingua universale parlata nell’antichità e che non solo ha
influenzato la lingua greca, ma costituirebbe la materia prima
per la formazione delle parole in quella lingua, è βαρβαρ – ος
(barbar – os).
Nell’antichità, i greci, conoscendo l’etimologia di questa
parola, la usavano solo quando volevano indicare una lingua
differente da quella greca, mai per indicare un’altra razza o
nazionalità. Solo più tardi, e soprattutto con l’influenza latina,
la parola barbaro venne usata per indicare popolazioni incivili,
in particolare coloro che invasero l’impero romano fino a
causarne la distruzione. Ed è questo il significato che è rimasto
fino ad oggi nel nostro immaginario popolare.
176
I greci avrebbero attinto a questa parola attraverso la lingua
pelasgica , mantenendo lo stesso significato, cioè që flet belbër
ovvero persona che parla in modo incomprensibile, come un
bambino.
Prendendo in considerazione l’attuale lingua correntemente
parlata e originaria da quella pelagica, ovvero l’albanese, si
possono tentare due spiegazioni etimologiche della parola. La
prima sarebbe riconducibile all’idea di una persona logorroica,
che parla eccessivamente: flet bërbër, si bythë e turtullit. La
seconda, invece, si riferirebbe ad una persona che non parla
correttamente, che storpia le parole, flet belbër si foshnjat, cioè
parla come un bambino. Umberto Eco scrive: “i greci del
periodo classico conoscevano genti che parlavano lingue
diverse dalla loro, ma li denominavano appunto barbaroi ossia
esseri che balbettavano parlando in modo incomprensibile” .
177
Con questa dichiarazione, il professor Eco conferma quello
che si vuole dimostrare.
Tornando all’argomento principale, in entrambi i casi (flet
bërbër e flet belbër) la lingua si distorce a tal punto da
diventare incomprensibile anche per un albanese. Ed è cosi che
è stato per i greci del periodo classico, i quali all’inizio
parlavano tutti la lingua pelasgica, ma col tempo, dal contatto
con gli stranieri e con le loro lingue, nacque la lingua greca;
lingua liturgica, diplomatica, ufficiale e internazionale (per
comunicare con i non pelasgi) e dalla loro parola bërbër
onomatopeica (che è uguale nella lingua albanese odierna
bërbër oppure belbër) venne fuori βαρβαρ – ος (barbar – os).
Questa parola venne usata per indicare sia gli stranieri che
parlavano una lingua diversa dal greco, sia gli elleni che
parlavano male la lingua greca.
178
In conclusione, i greci del periodo classico usavano la parola
βαρβαρ – ος (barbar – os) solo per indicare il modo di parlare
una lingua e non per indicare la razza di qualcuno; questa cosa
faceva sì che i pelasgi venissero considerati barbari esattamente
come gli stranieri. Per comprendere veramente il significato
che la parola βαρβαρ – ος (barbar – os) assunse in seguito,
citeremo qui un sillogismo che coloro che si chiamavano eleni
hanno formulato per distinguere gli elleni dai non elleni: Πασ
µη Ελλην βαρβαρος (pas mē Ellēn barbaros) cioè Tu non
elleno (sei) barbaro, dicevano, usando questa frase come base
del sillogismo. Demostene ha aggiunto: non tutti gli elleni sono
barbari, ora Filippo II di Macedonia il padre di Alessandro
Magno non è elleno, allora Filippo II di Macedonia è barbaro
(conclusione del sillogismo). Se questo è vero, viene spontaneo
domandarsi perché i greci odierni sostengono che Filippo II,
Alessandro Magno, i macedoni, gli epiroti fossero tutti elleni.
179
δουριος ιππ – ος (dourios ipp – os) Oδυσσεια (Odusseia)
di Robert d’Angely
È noto che le lingue monosillabiche sono le lingue più antiche.
Se è vera questa teoria, allora è più antica la parola albanese
kjaj (piango) oppure la parola greca κλαι – ω (klai – ō)?
Hepem, dall’albanese mi incurvo, oppure εποµ – αι (epom –
ai)?
Jam, in albanese io sono, oppure ειµι (eimi), io sono in greco?
Bretkues, rana in albanese, oppure βατρα – χος, rana in greco?
Dru, in albanese legno, oppure δρυ– ς (dru - s), in greco legno
o foresta?
Der- ë, in albanese porta, oppure θυρ – α (thur – a), in greco
porta?
180
Dhallë, in albanese fermento di latte, oppure γαλα (gala), in
greco latte?
Potremmo continuare con altre centinaia di esempi, ma ci
fermiamo qui.
Ora se i poemi antichi come l’Iliade e l’Odissea sono scritti
nella lingua greca, perchè si usa la parola ιππ – ος (ipp – os),
che in greco indica il cavallo oppure lo stare in sella sul
cavallo, che in albanese è hip = shaloj, che vuol dire salire sul
cavallo o sellare il cavallo? E ancora, perché non si usa la
parola greca ξυλιν – ος (zulin – os), di legno, ma la parola
δουριος (dourios), legno?
La spiegazione è semplice.
La parola ξυλιν – ος (zulin – os) non esisteva nella lingua greca
nel periodo della guerra di Troia e tutti usavano la parola δουρι
- ος (douri - os), che deriva dalla parola pelasgica dru – ri = dru
= legno.
181
Questa è un'altra prova tangibile del fatto che i poemi antichi
sono stati scritti nella lingua pelasgica e solo dopo sono stati
tradotti in greco. Questo discorso viene dimostrato proprio
dalla presenza della parola appena esaminata, cioè δουριος ιππ
– ος (dourios ipp – os)= salita di legno.
Passiamo ad un altro termine.
È più antico il nome proprio Penelope (l’origine di questa
parola è stata attestata non oltre il 700 a.C.) oppure la parola
pelasgica pen’e lypi (il cotone chiede) che è stato poi usato
come nome proprio?
La tela di cui si servì Penelope fu uno stratagemma, narrato
nell'Odissea, utilizzato per non convolare a nozze, nella
speranza di poter rivedere il marito Ulisse. La donna comunicò
ai suoi pretendenti che avrebbe scelto il suo prossimo marito
solo dopo aver completato la tela. Per fare in modo che la
scelta si rimandasse, la notte disfaceva ciò che tesseva durante
182
il giorno. Ancora oggi l’espressione la tela di Penelope viene
utilizzata per riferirsi ad un lavoro che non avrà mai termine.
Ne deduciamo che la derivazione del nome proprio Penelope
dal termine pen’e lypi (il cotone ha chiesto) si adatta
perfettamente a questo personaggio.
Ora analizziamo un'altra parola che tutti credono sia greca.
L’interminabile viaggio intrapreso da Ulisse per tornare in
patria è alla base del poema epico noto come Oδυσσεια
(Odusseia), nome che i pelasgi diedero al protagonista. Per la
verità il nome del poema Oδυσσεια (Odusseia) non è il nome
proprio del protagonista, ma il nome che i pelasgi gli
attribuirono per via delle numerose disavventure che fu
costretto ad affrontare per ben dieci anni prima di riuscire a
tornare in patria. Il titolo di questa poema si comprende e si
traduce meglio solo se si utilizza la lingua albanese. Infatti,
l’espressione albanese Udhë s’shêu, che molti secoli dopo è
183
diventata in greco Oδυσσευς (Odusseus) vuol dire colui che
non ha visto la via, non vede la strada. Come nel caso di
Penelope, anche questa spiegazione si adatta perfettamente al
profilo di Ulisse, al quale i pelasgi hanno attribuito anche un
altro nome, che però non è arrivato fino a noi perché è stato
tradotto in greco Πλυµηχαν – ος (Plumēchan – os),
intelligente, astuto.
Dopo queste riflessioni possiamo dire che il dizionario
Omerico di Pandazides non è preciso, visto che fa risalire il
titolo del poema al verbo oδυσσευoµαι (odussenomai), che
vuol dire arrabbiarsi. Adesso abbiamo numerose ragioni per
credere che non è così.
184
L’etimologia del nome della dea Atena
Di Robert d’Angely
L’etimologia del nome della dea Atena è rimasta a lungo
ignota. Max Müller, lo studioso che sostiene che i pelasgi non
sono mai esistiti, ritiene che ΑΘΙΝΑ (Athina) sia una parola
greca, un’evoluzione dal sanscrito ahâna che vuol dire
folgorante, che brucia. Tuttavia Müller non fornisce alcuna
spiegazione che possa giustificare la relazione tra le parole
ΑΘΙΝΑ e ahâna.
Secondo lo studioso Schwartz, Atena è la dea del fulmine e
anche questa spiegazione si collegherebbe al sanscrito.
Secondo altri studiosi invece la parola Atena deriva dalla
radice αιθ (aith). Dalla stessa deriverebbe anche la parola
αιθηρ (aithēr) = etere, o meglio ancora della radice αθ (ath)
185
dalla quale derivano le parole ανθος (anthos) oppure αθηρ
(athēr) = fiore.
Tuttavia ci sono altri linguisti che sostengono che Aθηναια
(athēnaia) oppure Aθηναιη (athēnaiē) sia un nome e non un
appellativo di Παλλας (pallas), pertanto traducono la frase di
Omero Παλλας Αθηναι (pallas athēnai) con Pallas Athinase.
Immaginiamo per un attimo che questa teoria sia sbagliata.
Intanto iniziamo con l’osservare come queste spiegazioni
tocchino solo da lontano la parola Atene e non diano alcuna
spiegazione etimologica approfondita del termine in questione.
Proviamo a riferirci alla solita lingua pelasgo-albanese per
capire se riusciamo a ottenere spiegazioni etimologiche più
convincenti.
In albanese Atena è E THËNA cioè colei che è destinata a
nascere. Solo dopo questa parola è diventata ATHËNA,
ΑΘANA, ATENE, ecc.
186
Partendo da questa definizione proviamo a individuare
l’origine, abbandonando tutte le altre spiegazioni.
Iniziamo dalla leggenda sulla nascita della dea. Zeus ingoiò la
sua prima moglie, Metide, appena rimase incinta, perché Urano
e Gea gli dissero che se fosse nato un maschio questo avrebbe
detronizzato il padre. Quando arrivò il momento della nascita
del figlio che Mentide avrebbe dovuto partorire, Zeus sentì un
dolore insopportabile alla testa dalla quale Prometeo (secondo
altre versioni Efesto, Ermete o Palemone) estrasse la dea
Atena che uscì fuori già adulta e armata, lanciando grida di
gioia. Ecco perché la dea è nota per essere nata dalla testa di
Zeus.
Omero nel suo inno ad Atene descrive con maestria la nascita
della dea e l’impressione che costei fece agli dei immortali
dell’Olimpo. Sul testo greco originale ci si imbatte spesso in un
187
appellativo riferito ad Atene: τριτογενης (tritogenēs). Per
spiegare questa parola gli studiosi hanno concentrato la loro
attenzione sulla prima parte dell’appellativo cioè τριτο (trito).
Eppure nessuno è riuscito a trovare una spiegazione
convincente che chiarisse una volta e per tutte l’appellativo in
questione.
Il dizionario di M. A. Bailly lo spiega scrivendo “nata dal
mare” oppure, secondo gli antichi scrittori, “nata vicino al
lago”. Questa spiegazione deriva dall’errato mito secondo il
quale Atena era nata nei pressi del lago Tritone che si trova in
Africa. Però gli scrittori del tempo che Bailly tira in ballo non
commettevano lo stesso errore di analisi della parola che fa lo
studioso francese in quanto conoscitori della lingua pelasgica,
dunque sapevano che la parola composta τριτογενεια
(tritogeneia) si traduce come nata dal cervello. La prima parte
di questa parola cioè τριτο (trito) deriva dalla parola albanese
188
trutë o truri che in italiano è cervello. Questa spiegazione
dell’appellativo τριτογενεια (tritogeneia) si collega alla
leggenda della nascita della dea Atene dal cervello di Zeus.
Per quando riguarda l’altro epiteto riferito alla dea: Παλλας
Αθηνά (Pallas Athina), anche questo si spiega altrettanto bene
ricorrendo alla lingua albanese. Παλλας (Pallas) in albanese è
“pall – ës” - chi inventa usando l’immaginazione, chi ha
idee. Questa parola deriva dal verbo pall concepire. Ancora
oggi nella lingua odierna albanese si usa la frase të palli tani?
= e kuptove? të ra ndërmend tani? – lo hai capito ora? ti sei
ricordato?. Questo è uno degli appellativi che calza meglio
alla dea. Louis Benloew conferma la nostra spiegazione
etimologica dell’appellativo Παλλας (Pallas) quando nel suo
libro La Grèce avant les Grecs (Parigi 1877, pp 1777-78)
189
scrive:
“[…] i greci hanno intrecciato delle
caratteristiche e delle tradizioni così diverse
per la dea Atena, che alla fine hanno ottenuto
per lei le migliori qualità che sono la fermezza,
il coraggio, la capacità inventiva e
produttiva, delle quali Atena è diventato il
simbolo […]”
190
La vera etimologia del termine Пελαργος (pelargos) o Пελασγος (pelasgos), Argo o Arya
Di Robert d’Angely
È necessario parlare dell’origine della lingua e della civiltà
pelasgica poiché i termini: pellazgë (pelasgi), arias (ariani),
etruskë (etruschi), arbëreshë (albanesi), ecc. sono sinonimi. In
realtà non si tratta di un popolo, ma di un grande gruppo di
popoli che proviene dalla stessa razza e che è riconducibile alla
prima comparsa dell’uomo sulla terra. In passato questo popolo
abitava in Europa, in una parte dell’est asiatico e in nord
Africa. Sebbene ci sia stata una simile estensione e gli autori
antichi abbiano scritto molto in merito a questo popolo, gli
studiosi di oggi ne ignorano l’esistenza e trascurano
l’etimologia esatta della parola pellazgë. Il noto studioso Max
Müller è andato oltre e si è permesso di sostenere che “I pelasgi
191
sono una leggenda dell’antichità.” La categoricità di Max
Müller fa pensare che veda più chiaramente di tutti gli altri
autori antichi quando dichiarano che tutti i popoli conosciuti di
razza bianca dell’antichità erano pelasgi. Tuttavia gli autori
antichi, conoscendo molto bene l’etimologia della parola, non
facevano questo errore e chiamavano pelasgi tutti gli abitanti
dell’Europa che vivevano lungo le coste del Mediaterraneo o
nella parte settentrionale del continente ήπειρος (ēpeiros). Così
pelasgo, Пελαργος (pelargos) o Пελασγος (pelasgos), al
contrario di tutte le spiegazioni etimologiche che hanno cercato
di dare fino ad oggi appoggiandosi alla parola spelunca ovvero
shkemb (roccia), oppure alla parola Пελαγος (pelagos) (mare
interno). Questa parola si spiega solo tramite la lingua albanese
nella quale il suo significato è “nato bianco”. Non c’è dubbio
che la parola Пελαργος (pelargos) è un termine pelasgico-
albanese ellenizzato molto tardi. Analizzando la parola
192
arriviamo facilmente nella sua forma primitiva originale, basta
seguire alcune tappe. Iniziamo dalla parola Пελαργος
(pelargos) e leviamo la desinenza greca ος. Quello che rimane
Пελαργ (pelarg), è il calco dall’albanese al greco “Piellarg” che
nell’ albanese odierno ci dà piell(b)ardh(ë), (nato bianco). La
forma primitiva pelasgico-albanese “Piellarg” (quando la
lingua greca si stava formando sulla base della lingua pelasgica
) si è evoluta ed è venuta fuori la parola greca Пελασγος
(pelasgos) cambiando solo le lettere ρ (r) e σ (s).
193
La lingua pelasgica: lingua universale della razza bianca
Di Robert d’Angely
Nell’antichità la lingua parlata in tutto il mondo conosciuto era
la lingua pelasgica, la lingua universale di tutta la razza bianca.
Quando si parla di tutto il mondo conosciuto si intende da
Costantinopoli, Grecia fino alla costa francese, dall’Albania in
Egitto, dal Danubio a Roma fino in Sicilia, dalle colonne
d’Ercole (lo stretto di Gibilterra) fino al Caucaso. Tutto il
mondo usava la lingua pelasgica per le pubbliche relazioni. La
classe dominante, cioè l’elite, e tutti coloro che sapevano
leggere e scrivere erano bilingue. Sapevano parlare il pelasgico
e sapevano leggere e scrivere il greco. Sia le popolazioni con
vera origine pelasgica, sia gli stranieri assimilati conoscevano
solo il pelasgico. Questo molto tempo prima che si formasse la
194
lingua greca. Gli antichi ci fanno sapere che prima dell'alfabeto
di Cadmo esistevano da molto tempo Πελασγικα γραµµατα
(Pelasgika grammata) le lettere pelasgiche. Infine gli stranieri
non assimilati dalla civiltà pelasgica e che erano arrivati da
poco tempo in Asia minore, in Grecia e in Italia erano bilingue
e secondo i casi parlavano tre lingue, cioè non solo pelasgico e
greco ma secondo la loro nazionalità la lingua egizia, arabica,
aramaica, armena ecc. Tutti questi stranieri per potere
relazionarsi nella vita di ogni giorno con la popolazione
autoctona erano costretti a conoscere, oltre alla loro lingua,
anche il pelasgico. Inoltre quanti volevano istruirsi imparavano
il greco come terza lingua.
Se non fosse stato che la famosa biblioteca di Alessandria
d’Egitto andò distrutta, presumibilmente intorno all'anno 270 o
forse verso l'anno 400, in circostanze misteriose, avremmo una
quantità inimmaginabile di opere scritte nella lingua pelasgica.
195
Un altro fatto incontestabile è che durante i secoli VI, VII,
VIII, IX, X E XI dopo Cristo, si assistette ad una forte crisi del
papiro, per questo vennero cancellati moltissimi documenti
scritti in lingua pelasgica, etrusca e greca, per assicurare la
carta di papiro ai nuovi autori. Se questi due episodi non si
fossero verificati, oggi non solo non ci sarebbero mancati i
documenti scritti nella lingua pelasgica o etrusca, ma non ci
sarebbe posto per gli enigmi linguistici che abbiamo davanti a
noi. Comunque siano andate le cose, oggi possiamo ritenerci
fortunati perché possiamo studiare questa lingua antica e
universale della razza bianca, nella sua forma viva che ci si è
stata fedelmente trasmessa attraverso la lingua albanese.
Il mondo della cultura, gli intellettuali sono da sempre
interessati alla lingua greca antica. Noi faremmo un grande
errore se combattessimo questo sentimento spontaneo scatenato
giustamente dalla qualità del greco antico. Spinti dalle
196
circostanze si impone la citazione di un proverbio greco che
dice: “Ω ουτος κυαµους εφαγες, κυαµους µαρτυρεις !”
ovvero “Ma caro signore chi mangia broccoli, broccoli parla”.
Tutti gli studiosi che adorano la lingua greca e che hanno
studiato solo questa lingua, hanno un deficit da colmare. Se,
infatti, avessero conosciuto e approfondito la lingua albanese in
egual maniera, avrebbero potuto confrontare la copia, cioè il
greco, con l’originale, la lingua pelasgica, erede diretta della
lingua albanese.
In conclusione, possiamo dire che la lingua pelasgica esisteva
prima ancora della lingua greca, la quale si è formata proprio a
partire da questa lingua.
197
Albanologi austriaci scoprono un libro in lingua albanese risalente a prima di Buzuku I professori austriaci Stefan Schumacher e Joachim Matzinger
hanno riportato alla luce un libro che si pensa risalga al XIV
secolo.
Questo libro è scritto in lingua albanese, ma con caratteri latini.
I due professori sono arrivati alla conclusione che la lingua
latina e quella tedesca, insieme alla maggior parte delle lingue
balcaniche, contengono importanti elementi che risalgono
appunto alla lingua albanese.
Questa tesi è supportata dal fatto che una parte dei verbi
principali della lingua albanese si ritoverebbe nelle lingue
sopracitate.
L’obietivo principale della ricerca dei due studiosi è quello di
scoprire l’influenza dell’albanese sulle lingue parlate nella
198
penisola, ma anche sulle lingue morte. Sono proprio loro, gli
austriaci, gli eterni innamorati della lingua albanese, che ci
sorprendono ancora una volta con una scoperta importante che
aggiunge un tassello nuovo alla storia di questa lingua.
I due professori hanno presentato una pagina di una Bibbia
scritta in lingua albanese che risale all’inizio del XVI secolo.
Se questo documento dovesse risultare autentico allora
avremmo a che fare con un libro antecedente al
“messalino”(meshari) che risale al XVI secolo.
La scoperta
Non si sa ancora quanto sia attendibile la scoperta fatta, il
documento però è già stato pubblicato sul sito ufficiale
dell’Accademia Austriaca delle Scienze. Si ritiene che questo
documento contenga brani in lingua albanese risalenti al XIV
secolo. Sapere con esatezza la datazione ci consentirebbe di
capire se il “messalino” di Buzuku è realmente il primo libro
199
scritto che conosciamo della lingua albanese o se invece esiste
un libro che lo precederebbe.
Sulle orme di Jokl
I due albanologi austriaci hanno usato i materiali di Norbert
Jokl che si considera il fondatore dell’albanologia. Jokl è nato
il 25 febbraio del 1887 ed è morto nel maggio del 1942, ucciso
dai nazisti. Jokl dedicò la sua vita alla linguistica. Studiò le
lingue indoeuropee, slave e romene. All’età di 30 anni iniziò a
studiare la lingua albanese. È autore di alcuni libri che hanno
come oggetto privilegiato lo studio della lingua albanese
(“Linguistisch-kulturhistorische Untersuchungen aus dem
Bereiche des albanese, Berlin – Leipzig”)
Le prime testimonianze scritte della lingua albanese
La lingua albanese è una delle lingue più vecchie che si
conoscono. Le prime testimonianze scritte di questa lingua
risalgono al XV secolo. La più importante è una formula di
200
battesimo (Formula e Pagëzimit) dell’arcivescovo di Durazzo,
Paolo Angelo (Pal Engjëlli) del 1462 "Un të pagëzonj pr'emen't
Atit e t'birit e t'shpirtit shenjt ", vale a dire “io ti battezzo nel
nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. La formula si
trova all’interno di una circolare scritta in latino. Paolo Angelo,
durante una visita a Mat, si accorse di numerose irregolarità
commesse dai sacerdoti durante l’esercizio del loro ministero.
Per questo decise di scrivere alcune importanti direttive che il
clero avrebbe dovuto seguire. Tra esse c’era la formula
sopracitata, la quale poteva essere utilizzata dai fedeli per
battezzare i propri figli nel caso mancasse l’opportunità di
portarli in chiesa oppure non ci fossero sacerdoti a
disposizione.
La formula è scritta in alfabeto latino nel dialetto del nord
(ghego) ed è stata ritrovata nella biblioteca lauteriana di Milano
dallo storico romeno Nicola Jorga, il quale l’ha pubblicata nel
201
1915. Successivamente il filologo francese Mario Rognes
pubblicò lo stesso documento aggiungendo una foto.
Il secondo documento in lingua albanese è un piccolo
dizionarietto scritto da Arnold Von Harf. Il viaggiatore tedesco
Von Harf, originario di Colonia, nell’autunno del 1496 decise
di fare un viaggio di pellegrinaggio in terra santa. Durante il
viaggio attraversò l’Albania, fermandosi a Dulcigno, Durazzo e
nell’isola di Sesano. Per necessità personali, durante la
permanenza in Albania, scrisse 26 parole, 8 frasi e i numeri da
1 a 1000, accostando ad ogni parola albanese la traduzione
tedesca. Questo dizionarietto venne pubblicato per la prima
volta a Colonia nel 1860 e, pur essendo modesto, è molto
importante per la storia della lingua albanese perché contiene
frasi e numeri.
Tra la fine del XV secolo e l’inizio XVI, nella biblioteca
ambrosiana di Milano, venne ritrovato un altro testo scritto in
202
lingua albanese all’interno di un manoscritto greco. Il testo
contiene parti dal Vangelo di Marco, scritto nel dialetto del
sud (tosco) in alfabeto greco. Questo testo è noto come
Vangelo della Pasqua.
Questi documenti sono privi di valore letterario, tuttavia sono
di grande interesse per ripercorrere la storia della lingua
albanese scritta. Già nelle prime testimonianze scritte
dell’albanese, è evidente come siano stati usati tutti e due i
dialetti, quello del nord (ghego) e quello del sud (tosco), e due
alfabeti differenti, quello latino e quello greco.
Il primo libro scritto nella lingua albanese che noi conosciamo
fino ad oggi è Meshari (il Messale) di Gjon Buzuku dell’anno
1555. Di questo libro oggi si conosce una sola copia che si
conserva nella biblioteca Vaticana. Il libro contiene 220 pagine
scritte, divise in due colonne. Meshari è la traduzione in
albanese delle parti principali della liturgia cattolica e contiene
203
le messe delle feste principali dell’anno liturgico, commenti del
libro delle preghiere, alcune traduzioni del Vangelo e parti del
rituale del catechismo. In sintesi, il libro contiene tutte le parti
che consentivano al sacerdote di esercitare il suo ministero. È
chiaro che ci troviamo di fronte al tentativo dell’autore di
introdurre la liturgia cattolica nella cultura albanese, passando
attraverso la lingua. Dunque anche per la lingua albanese, così
come per altre lingue, il periodo della letteratura inizia con le
traduzioni dei testi religiosi.
Meshari è stato ritrovato per la prima volta a Roma da uno
scrittore proveniente dall’Albania del nord, Gjon Nikollë
Kazazi. Il testo venne smarrito per poi essere ritrovato nel 1909
dal vescovo Pal Skeroi, ricercatore e studioso di testi antichi.
Nel 1930 lo studioso originario di Scutari, Jystin Rrota, andò a
Roma, fece tre copie del libro e le portò in Albania. Nel 1968 il
libro venne pubblicato in Albania.
204
Meshari è scritto nel dialetto ghego in alfabeto latino con
l’aggiunta di alcune lettere particolari. Il libro fa uso di un
vocabolario relativamente ricco e di forme grammaticali già
ben definite. Ciò dimostrerebbe che la lingua albanese aveva
già una forte tradizione in lingua scritta.
Altri indizi lascerebbero pensare che la lingua albanese possa
essere stata scritta prima ancora del XV secolo. A fornire tali
indizi sarebbe l’arcivescovo di Tivar, il francese Gurllaume
Adae (1270-1341), il quale fu arcivescovo di Tivar dal 1324
fino al 1341 per questo ebbe la possibilità di conoscere molto
bene gli albanesi. In una sua relazione dal titolo Directorium
ad passagium faciendum ad terrom sanctam, inviata al re di
Francia, Filippo VI di Valù, fra l’altro scrisse: “anche se gli
albanesi hanno una lingua diversa dal latino, loro usano nei
loro libri le lettere latine”. Perciò l’arcivescovo parla di libri in
205
lingua albanese, fornendo così testimonianza del fatto che la
lingua albanese sarebbe stata scritta prima del XV secolo.
Un'altra testimonianza ci viene data da Marin Barleti nella sua
opera De obsi dione scodrensi, pubblicata a Venezia nel 1504.
Barleti, descrivendo la città di Scutari, menziona alcuni
framenti scritti nella vernacula lingua, cioè nella lingua del
paese.
In conclusione
La formula del battesimo del 1462, il dizionario di Arnold Fon
Harf del 1497, il “Meshari” di Giovanni Buzuku 1555 sono i
primi documenti scritti della lingua albanese conosciuti fino ad
oggi. Questo dà la misura dell’importanza della recente
scoperta dei due studiosi austriaci.
Fonte: il giornale Tirana Observer
206
La parola albanese “Gur” si ritrova nei testi biblici sin dai tempi più remoti, a partire da 29 secoli fa
Di Moikom Zeqo
Filologi e studiosi vari hanno dimostrato che nei testi più
antichi dell’umanità puoi trovare briciole di parole di origine
albanese. Sono state rinvenute alcune tabelle di bronzo risalenti
a trentasette secoli fa3 nelle quali si trovano anche nomi illiri
che corrispondono antoponomicamente a nomi illiri come
“Dasi” e “Gent”, ecc. Questi nomi illiri si ritrovano anche in
tempi più recenti, però la loro etimologia è rimasta ignota.
Nelle opere grandiose di Omero, soprattutto nell’Odissea (versi
500, 501, 507), si legge anche un’espressione come “Gyraien
Petren”, che si traduce come “Gurin e gurte:” (la pietra di
3 Si tratta della scrittura lineare B di Creta, tradotto da M. Ventris.
207
pietra). Nell’epopea di Omero si racconta che l’eroe Aiace
d’Oileo4 dopo la caduta di Troia, navigando per mare, giunse in
un’isola chiamata Guras Petras. Poseidone, il dio dei mari,
colpì con il tridente Aiace e una parte dell’isola sprofondò
assieme al malaugurato navigatore. Secondo il filologo e
patriarca Spiro Konda, il nome della suddetta isola era Gur, un
nome che ebbe origine molto prima dei navigatori greci. In
tempi più recenti, i navigatori greci hanno chiamato l’isola con
il nome Guras Petras, facendo così una tautologia; così questo
nome ellenico antichissimo contiene il nome illiro ancora più
4
Nella mitologia greca, Aiace, figlio di Oileo, re della Locride, e
comandante dei locresi durante la guerra di Troia; detto “di Oileo” o
Oilìde, per distinguerlo da Aiace Telamonio, figlio di Telamone. Dopo la
caduta della città, violò il tempio di Atena trascinando via la profetessa
Cassandra dall’altare della dea, la quale implorò il dio Poseidone di
vendicare il sacrilegio. Quando i greci salparono per tornare in patria,
Poseidone scatenò una terribile tempesta; Aiace naufragò, ma riuscì a
salvarsi: si aggrappò a uno scoglio, vantandosi di essere un uomo che il
mare non poteva sconfiggere. Udendo quelle parole, Poseidone spezzò lo
scoglio con il suo tridente e Aiace fu travolto dalle onde.
208
antico Gur, riconducibile ad un periodo storico anteriore
rispetto alle epopee di Omero. Se accettiamo che Omero sia
vissuto nel VII secolo a.C., allora dobbiamo dire che la parola
Gur usata dai Pelasgi e dagli Illiri, e che è tutt’oggi in uso come
una parola essenziale della lingua albanese, si documenta come
la parola più antica della nostra lingua (albanese) in un
monumento letterario grandioso dell’umanità come le opere di
Omero. Anche in tempi più recenti altri autori, per esempio il
grande poeta greco Archiloco, si ritrova la tautologia illiro-
greca nella forma Gurai Petras. Nel 1920 negli scavi
archeologici di Dodona è stata trovata una tabella di bronzo
con il nome Guras, nome proprio di uomo. Questo nome illiro
si trova come toponimo anche a Creta, Kylkade e Tessalia. Lo
storico antico Arriano, nel suo libro su Alessandro Magno
(4,23) dice che: durante la campagna in India “Alessandro
Magno attraversò un paese chiamato Guraioi, nel quale si
209
trovava un fiume avente lo stesso nome”. Leggendo con
attenzione la sacra bibbia abbiamo trovato una testimonianza
unica quasi due secoli più antica dei testi di Omero, nella quale
si trova la parola illiro albanese Gur. La frase si trova nel
secondo libro dei re (9,27). Là si racconta l’episodio di come
Ieu fece una rivolta e uccise Acazia, diventando lui stesso il re
della Giudea e di Israele. Ho consultato alcuni testi della Sacra
Bibbia in albanese. Nella versione stampata a Brindisi
nell’anno 1995 alla pagina 424 si legge “Dhe e gjuajtën
(Akazian) në të përpjetën e Gurit që është afër Iblehamit“5.
Nella versione della Sacra Bibbia stampata a Jongloed,
nell’anno 1993, pagina 398, si legge “pranë vëndit ku rruga
është drejt Gurit e kthen për në drejtim të Jiblamit”6. Nella
5 Trad. bibbia online http://www.laparola.net/testo.php “E lo colpirono alla
salita di Gur, che è vicino a Ibleam.”
6 Ibidem
210
versione della Sacra Bibbia in albanese pubblicata da « The
Albanian Bible Society » a Firenze nel 1995, pagina 722, si
legge : ”E gjuajtën në të përpjetën e Gurit që është afër
Iblemit”7. È interessante leggere come il toponimo Ibleam si
scriva in diversi modi Jiblam oppure Iblami, mentre, in tutti i
suddetti casi, il toponimo del posto chiamato Gur non cambia.
Per verificare ulteriormente il toponimo Gur ho controllato le
traduzioni delle bibbie in greco e in latino. In tutti e due i casi
questo toponino si trova nella forma Gur. Nella “Holy Bible”,
nella “International version”, pubblicato dall”International
Bible Society”, nell’anno 1984 alla pagina 267 il passaggio è
“on the way up to Gur near Ibleam”. Ne “La Bible”, “Nouvelle
edition revue” Parigi, (tradotto dall’originale ebraico e greco),
alla pagina 440 si legge “à la montée de Gour près Yivleim”. È
chiaro che in tutte le versioni della bibbia scritte nelle lingue 7 Ibidem
211
più diffuse il toponino è Gur. Questa è la prova che la parola
albanese Gur è stata tramandata come toponimo ed è rimasta
ferma al secondo libro dei re scritto nel IX secolo a.C..
Leggendo la bellissima traduzione in albanese del vecchio
testamento, fatta da Don Simon Filipaj pubblicato nel 1994,
capolavoro filologico della lingua albanese, alla pagina 448,
alla nota numero 27, di dà la spiegazione geografica del posto
dove Ieu uccise Acazia. Così Ibleam oggi si chiama Tel
Belame e si trova al sud di Jenin, quasi dieci chilometri a sud di
Israele, nella strada verso Gerusalemme. Questo vuol dire che
anche il posto che si chiama Gur non è molto lontano dalla città
santa. Una ricerca fruttuosa potrebbe essere cercare di
verificare se il toponino Gur esiste ancora oppure è stato
cambiato. Quello che è importante per noi albanesi è che la
parola albanese Gur si documenti nei testi biblici di 2900 anni
fa. Questa è la testimonianza più antica di una parola albanese
212
che usata regolarmente oggi. Non è affatto una scoperta
semplice e soprattutto non ci può essere alcuno scetticismo. Il
mio amico Petro Zheji, nel suo libro“ Shqipja Dhe
Sanskritishtja”8, pubblicato nel 1996, tratta ampliamente della
parola Gur e la definisce una delle parole più antiche
dell’umanità, una parola che si ritrova in tante lingue del
mondo, si trova in sanscrito nella forma Giri oppure in latino
Gravis (pesante), in slavo Gora (montagna), Granica (confine),
in tedesco Gral (pietra sacra) e in greco Aguridhe (uva acerba,
dura come la pietra). Petro Zheji crea equazioni etimologiche
che hanno come radice la parola Gur come nel nome di
Gorgona (il cui sguardo trasforma tutto in pietra). Ha anche
scoperto che la tomba di Timurlen in Sammarcanda si chiama
“Gur-i-mire” (pietra buona). Secondo Zheji, la parola Gur si
ritrova a partire dalla vecchia e lontana India fino ai confini del 8 Trad. “L’albanese e il sanscrito”
213
nord d’Europa. È una parola utilizzata dai Pelasgi, l’hanno
ereditata gli Illiri ed è una parola viva solo in un popolo del
mondo: gli albanesi. Gur, parola monosillaba, fa parte delle
prime parole dell’umanità.
È interessante che il capolavoro poetico del grande poeta
romano Lucano (I secolo d.C.) “Pharsalia”, nel libro VI, dove
si racconta la storica battaglia della città di Durazzo fra Cesare
e Pompeo, possiamo leggere il nome di una grande roccia che
oggi si chiama “shkembi i Kavajes” (la roccia di Kavaja).
Lucano dice espressamente che “il taulant9 la chiama Petra”.
Infatti Petra è l’ellenizzazione del toponimo Gur. È talmente
vero che nei documenti medievali si nomina la chiesa di Shen
Kollit (Nikolles)10 che più tardi nella lingua albanese ha dato il
9 I Taulanti (in albanese Taulantët) erano una delle principali tribù illiriche.
Un mito riportato da Arriano racconta che il nome deriva dal capostipite,
Taulas (dal genitivo Taulanti).
10 Trad. “San Nicola”
214
nome al paese “Shkallnur (Shen Kolli i gurit)11. Questo vuol
dire che il fatto che il nome di questa roccia, che si trova a Sud
della città di Durazzo, contenga la radice Gur significa che ha
sopravvissuto negli anni indipendentemente dal fatto che i
cronisti fossero latini o greci o che avessero utilizzato altre
parole o altri nomi. Per questa grande roccia è stato tramandato
il nome originario dei tempi più remoti. Anche il nome
dell’isola di Saseno12, vicino Valona, è legato al latino volgare
“Saso” che vuol dire Gur. Questo significa che, anche nei
tempi più remoti, l’isola è stata sempre chiamata Gur. Il fatto
collega l’isola albanese con quel soggetto omerico di “Guras
Petras” del quale abbiamo già parlato. In conclusione, la parola
Gur è l’emblema linguistico più antico della lingua albanese.
11
Trad. “San Nicola di pietra”
12 In albanese Sazan
215
Ideali nazionali e linguistica: la ricostruzione dell’albanese
Un caso interessante riguarda la relazione che collega gli studi
linguistici degli autori italo albanesi e la formazione degli
ideali nazionali. In particolare, il collegamento fra lingua dei
Pelasgi, greco e latino sarà ampiamente utilizzato dagli autori
arbëreshë per provare l’antichità e l’autonomia dell’albanese. I
legami e le corrispondenze col greco e col latino sancirebbero
anzi una nobiltà e un’importanza non minori rispetto a queste
due lingue. Fra i principali studiosi che misero a punto lo
schema interpretativo della storia linguistica e culturale degli
albanesi che ispirò gli intellettuali della Rilindja, è il Chetta,
che nel Tesoro di notizie su dè macedoni (Chetta 2002[1777])
ricostruisce la storia e l’identità degli albanesi attraverso una
comparazione fra costumi, gli usi, la religione e la lingua degli
216
albanesi e delle popolazioni (i macedoni) che considerava loro
progenitori. Per quando riguarda la lingua, gli indizi e gli
elementi che vengono esaminati mirano ricostruire l’origine
dell’albanese come una lingua nettamente separata dal greco e
dal latino.
Forti implicazioni ideologiche affiorano anche negli scritti
degli studiosi italo albanesi dell’Ottocento, nei quali gli ideali
nazionali influenzano in maniera decisiva la trattazione e
l’interpretazione dei fatti linguistici. Infatti essi mirano a
attribuire un’identità storico-linguistica all’albanese, a
dimostrare l’originaria indipendenza e nobiltà e a stabilire
attraverso le prove linguistiche l’autoctonia e l’antichità della
lingua e quindi del popolo albanese. Anche una questione di
ordine pratico come quella della scelta della grafia è funzionale
alle esigenze di una politica linguistica nazionale. Gli autori
arbëreshë continuano ad utilizzare metodi di analisi e teorie
217
che appartengono alla tradizione illuminista, come il rapporto
fra genio della lingua e genio della nazione e alla tradizione
vichiana. Ad esempio in Dorsa (1862) (cfr. Solano 1975) i
richiami alla letteratura scientifica sull’albanese (sono citati
Hahn, Bopp, Fallemayer, Stier) si combinano appunto con
l’eredità di Vico e degli autori settecenteschi.
[…] far risaltare l’antichità antiomerica dell’idioma albanese,
mettendolo in comparazione col greco e latino primitivi. Le
autorità dei dotti e in special modo di Malte-Brun, Court de
Gèbelin, Mazocchi, ci guideranno per seguire alcun altro
punto di affinità con gli altri idiomi indeuropei, e anche
semitici derivati pure in origine da una madre comune.
Seguiremo lo svolgimento delle parole guidati dalle stesse
leggi onde si svolgono le idee, e invocando da maestro il Vico
218
[…] forse ci sarà dato di tracciare in qualche modo una storia
ideale della lingua albanese […] (pp.8-10)
La pressione delle idealità nazionali e l’illustrazione di una
specificità linguistica e culturale è preminente in Sugli
albanesi. Ricerche e pensieri e in Studi etimologici della lingua
albanese di Dorsa (Dorsa 1847 e 1862). La grande incertezza
metodologica e l’anacronismo di procedure etimologiche di
stampo vichiano e gèbeliniano lasciano emergere un intento di
natura culturale e politica coerente con gli ideali romantici
coevi. Riprendendo la teoria per cui l’albanese continuerebbe
la lingua pelasgica, la Dorsa cerca comunque di provare un
legame genealogico particolare dell’albanese col greco antico
e le lingue italiche. Anche altri autori italo albanesi sostennero
questa connessione, e in particolare De Rada (De Rada 1893).
D’altra parte l’idea che la lingua pelasgica fosse una sorta si
219
sostrato di delle antiche lingue della Grecia e dell’Italia e che
fosse il collegamento con il persiano era diffusa nella
linguistica pre-ascoliana, e compare ad esempio anche in
Cattaneo (1841). Una stessa impostazione caratterizza nel
complesso il Saggio di grammatologia comparata sulla lingua
albanese di Demetrio Camarda. In Camarda (1864) (cfr.Camaj
1984; Guzzetta 1984) l’asseto comparativo, confermato dalla
conoscenza della letteratura tedesca (Bopp, Shleicher, Curtius)
si piega alle esigenze di uno schema precostruito, cioè la
dimostrazione di un rapporto di parentela fra greco e albanese
sia attraverso la comparazione grammaticale, sia in particolare,
attraverso la ricostruzione etimologica.
FIRENZE E LA LINGUA ITALIANA pp. 133-134.
220
Parole derivate dalla lingua Pelasgico-Albanese
Nel 1975, l’Istituto linguistico svedese pubblicò il libro
Webster's New Twentieth Century Dictionary, Unabridged
Second Edition, De Luxe Color, William Collins and World
Publishing Co., Inc.
Nel libro è conservato l’albero dell’origine delle lingue indo-
europee. Secondo l’albero in questione, la lingua albanese
sarebbe la lingua più antica. Di seguito un elenco di parole
riconducibili alla lingua pelasgico-albanese.
221
Italiano
Lingua
pelasgica
Albanese
Spiegazione
Afrodite
Afërdita Afër dita Vicina alla
luce del giorno
Agorà Agora Asht gur Fatto di pietra
222
Atena
Athina A thina /
thena
Il detto
Bylis (Città
albanese)
Bylis Pylli La foresta
Dea
Dea Dhea
(Dheja,
Dheu)
La terra
Demetra
Demetër Dhe motër Sorella terra
Efeso
Efesi Është veshi È l’orecchio
Eschilo
Eskili E shkeli Egli calpestò
223
Era
Hera Era Il vento
Itaca
Itaka I thaka Asciutto
Cassandra
Cassandra Qes anderr Interpreto i
sogni
Lisus (Città
albanese)
Lisus Lis Quercia
Mallakastra Mallakastra
Mal kashtër Paglia /
pagliaio
Menelao Menelau Me ne leu Egli è nato con
noi
Micene Mikena Mik kena Noi abbiamo
amici
224
Pegaso
Pegas Pe gja (gjë) Hai visto
qualcosa?
Penelope
Penelope pen’e lypi La matassa di
cotone chiede
Persefone
Persefoni Përse vonë Perché tardi?
Perseo
Perseu Përse Perché?
Pirro
Pirro Pi rro Bevi e vivi
Poseidone
Poseidon Po, se i don Sì, perché lui
lo vuole
Priamo
Priam Prij jam / I
parë jam
Sono il primo
225
Salamina
(Città greca)
Salamis Sa lamë Quanti ne
Tetide Detis Deti
Thesalia
(Città )
Thesalia Thesa li-ni Sacco di lino
Tiranno Tiranët Të rëndët
Quanti ne
abbiamo
lasciati?
Mare
Sacco di lino
I pesanti
Archivio blog 2009