(e-Book - ITA) Oliver Sacks - Il caso di Anna H.

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Oliver Sacks IL CASO DI ANNA H. Traduzione di Isabella Blum Adelphiana www.adelphiana.it 24 gennaio 2003

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Oliver Sacks

IL CASO DI ANNA H.

Traduzione di Isabella Blum

Adelphianawww.adelphiana.it24 gennaio 2003

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Nel gennaio del 1999 ricevetti questa lettera da unadonna che qui chiamerò Anna H.

Caro dottor Sacks,in estrema sintesi, e senza usare termini medici, ilmio problema (decisamente insolito) è il seguente:non riesco a leggere. Non riesco a leggere la musi-ca – ma neppure il resto.Dall’oculista leggo le singole lettere sul tabellone$no all’ultima riga. Ma non riesco a leggere le pa-role, e la musica mi pone lo stesso problema. Holottato con questa situazione per anni, sono anda-ta dai migliori specialisti, ma nessuno è stato in gra-do di aiutarmi.Le sarei molto riconoscente se potesse trovare iltempo per visitarmi – mi farebbe davvero felice.Distinti salutiAnna H.

Chiamai la signora H. al telefono – in circostanzenormali avrei risposto per iscritto, ma nel suo casosembrava più opportuno parlarle, infatti, sebbene

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in apparenza non avesse alcuna dif$coltà a redige-re una lettera, mi aveva detto di non essere assolu-tamente in grado di leggere. La chiamai e le diediappuntamento alla clinica neurologica della NewYork University, dove lavoro.Subito dopo, Anna H. – una donna di sessantaset-te anni, vivace e affascinante, con un forte accentopraghese – arrivò in clinica e mi raccontò la suastoria in modo assai dettagliato. Era una pianista,mi disse, e il primo segno di qualcosa che non an-dava si era presentato nel 1991, durante un con-certo. Doveva eseguire al pianoforte musiche di Mo-zart, e poco prima dell’inizio, per un cambiamen-to di programma, il diciannovesimo concerto erastato sostituito con il ventunesimo. Aperto lo spar-tito di quest’ultimo, però, la signora H. l’aveva tro-vato, con suo gran stupore, totalmente inintelligi-bile. Sebbene vedesse, chiari e ben de$niti, penta-grammi, linee e singole note, nulla di tutto ciò lepareva coerente, né aveva per lei la minima logica.Quale che fosse il suo problema di vista – aveva da-to per scontato che la dif$coltà dovesse avere a chefare con gli occhi –, Anna H. non si perse d’animoed eseguì il concerto a memoria, in modo impecca-bile; quanto allo strano incidente, fu liquidato co-me una tipica «cosa che capita». Diversi mesi dopo il problema si ripresentò, e la si-gnora H. constatò che la sua capacità di leggere u-no spartito fluttuava. Se era stanca o febbricitante(subito prima del concerto, per esempio, aveva avu-to un brutto episodio influenzale) la cosa le riusci-va quasi impossibile; quando si sentiva riposata, in-

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vece, era in grado di suonare un brano a prima vi-sta con la rapidità e la spontaneità di sempre. Ingenerale, tuttavia, il suo problema peggiorò, e seb-bene continuasse a insegnare, a dare concerti in gi-ro per il mondo e a registrare dischi, Anna H. do-veva fare sempre più af$damento sulla memoria esul suo vasto repertorio musicale – giacché ormaile era impossibile imparare nuovi brani leggendouno spartito. «Prima ero bravissima,» mi disse «po-tevo suonare facilmente un concerto di Mozart aprima vista, ma ora non ci riuscirei più».A volte, durante i concerti, Anna H. soffriva di vuo-ti di memoria che tuttavia, da abile improvvisatri-ce, riusciva quasi sempre a mascherare. Quando eraa suo agio, in compagnia degli amici o degli allievi,sembrava suonare bene come sempre. E così – perinerzia, per paura, o forse per una sorta di compen-sazione – poté ignorare una dif$coltà che sembra-va riguardare solo gli spartiti, anche perché nonaveva altri disturbi visivi, ed era comunque in gra-do di condurre ancora un’intensa vita artistica gra-zie alla memoria e all’ingegno.

Nel 1994, quando ormai erano passati circa tre an-ni dal momento in cui si era accorta dei suoi pro-blemi di lettura musicale, Anna H. cominciò ad ave-re dif$coltà con le parole. Anche qui, c’erano gior-ni buoni e giorni meno buoni, e per$no casi in cuila capacità di leggere pareva cambiare da un mo-mento all’altro: sulle prime, una frase poteva sem-brarle strana «come [se fosse stata scritta] in alfa-beto cuneiforme o in gerogli$ci»; e poi, all’improv-

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viso, tutto si schiariva, e la lettura procedeva spedi-ta. («Alessie» simili, che a volte durano solo qualchesecondo, possono aver luogo nel corso di un’emi-crania – ne ho sofferto, a volte, io stesso). La capa-cità di scrivere, tuttavia, era rimasta assolutamenteintegra, e Anna H. continuò a mantenere una $ttacorrispondenza con ex allievi e colleghi sparsi intutto il mondo, anche se doveva appoggiarsi sem-pre di più al marito sia per leggere le lettere che ri-ceveva, sia per rileggere le proprie.La conservazione della capacità di scrivere, a dispet-to di un’alessia, non è poi così insolita. Recente-mente ho ricevuto la lettera di un romanziere ca-nadese, Howard Engel, il quale mi raccontava diavere un problema in qualche modo simile, emer-so in seguito a un ictus. «A essere colpita» mi spie-gava Engel «è stata la mia capacità di lettura. Possoscrivere, ma non mi riesce di leggere ciò che ho ap-pena scritto ... Quindi posso scrivere, ma non rie-laborare ciò che ho scritto ... In linea di massima,la vista funziona bene – $nché non guardo un te-sto. In quel momento, qualsiasi cosa io stia osservan-do, si trasforma in blocchi di caratteri tipogra$ciche a un primo sguardo potrebbero anche essereserbo-croato. Parole familiari, compreso il mio stes-so nome, diventano insiemi di caratteri dall’ariaaliena, e se voglio capirle sono costretto a sillabar-le. Ogni volta che in un articolo o in una recensionericorre un nome, esso torna a colpirmi per quellasua aria di estraneità: ogni volta come fosse la pri-ma ... Ho appena cominciato [a scrivere] un ro-manzo giallo in cui il protagonista ha un problema

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simile». Come mi raccontò poi, Engel era un buonesecutore a prima vista, ma non presentava alcunsegno di alessia musicale.Anna H., invece, stava cominciando a sviluppare ul-teriori problemi visivi. Si accorse che tendeva a la-sciarsi «sfuggire» gli oggetti che si trovavano alla suadestra e così, dopo qualche incidente di poco con-to, decise che fosse meglio rinunciare alla guida.A volte Anna si era chiesta se il suo strano proble-ma con la lettura non potesse avere un’origine neu-rologica, invece che oculare. «Com’è che riconoscole singole lettere, per$no quelle minuscole dell’ul-tima riga del tabellone dell’oculista, e però non rie-sco a leggere|» si domandava. Poi, nel 1996, comin-ciò a compiere errori sporadici ma imbarazzanti –per esempio le capitò di non riconoscere alcuni vec-chi amici – e si scoprì a pensare a uno dei miei pa-zienti, un caso di cui aveva letto anni prima, nell’Uo-mo che scambiò sua moglie per un cappello. Una primalettura, nel 1986, l’aveva fatta sorridere; ora peròcominciava a chiedersi se anche le sue dif$coltà nonpotessero essere misteriosamente simili.In$ne, ad almeno cinque anni di distanza dall’in-sorgere dei sintomi iniziali, Anna H. fu indirizzataa un reparto di neurologia per un esame comple-to. In una serie di test neuropsicologici – sulla per-cezione visiva, la memoria, la fluenza verbale, ecce-tera – la paziente diede prestazioni particolarmen-te scarse al momento di riconoscere alcuni disegni:scambiò un violino per un banjo, un guanto peruna statua, un rasoio per una penna e una pinzaper una banana. Quando le chiesero di scrivere

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una frase, si produsse in un «Questo è ridicolo».Presentava, in modo fluttuante, un’eminattenzionesulla destra, e una scarsissima capacità di riconosci-mento dei volti (che fu misurata chiedendole di ri-conoscere le fotogra$e di personaggi famosi). Erain grado di leggere, ma solo lentamente, una lette-ra per volta. Prima leggeva una c, poi una a, e in-$ne una t, e solo allora, faticosamente, cat , «gatto»,senza riconoscere la parola nella sua interezza. Tut-tavia, quando le si mostravano alcune parole trop-po velocemente perché potesse decifrarle in questomodo, Anna H. riusciva comunque a classi$carle incategorie signi$cative, per esempio «viventi» e «nonviventi», pur non avendo alcuna idea concreta diciò che volessero dire.A dispetto dei gravi problemi di vista, le sue capaci-tà di comprensione del linguaggio, così come quel-le di ripetizione e fluenza verbale, erano tutte nor-mali. Anche la risonanza magnetica cerebrale eranella norma, ma quando fu eseguita una PET – latomogra$a a emissione di positroni, un esame ingrado di rilevare lievi cambiamenti metabolici nel-le diverse aree cerebrali anche quando queste ulti-me appaiono anatomicamente normali – emerseche nella parte posteriore del cervello, a livello del-la corteccia visiva, Anna H. presentava un’attivitàmetabolica ridotta. Tale riscontro era più marca-to sul lato sinistro, il che forse rendeva conto deicasi sporadici in cui le capitava di non vedere og-getti presenti nell’emicampo visivo destro. I neu-rologi che l’avevano esaminata pensavano che An-na H. fosse affetta da una condizione degenerati-

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va, una cosiddetta «atro$a corticale posteriore», chesarebbe andata lentamente e costantemente peg-giorando.La patologia di base non era passibile di alcuna cu-ra radicale (al massimo, si poteva somministrare al-la paziente un farmaco antin$ammatorio come l’i-buprofen, che si ritiene abbia una qualche azioneneuroprotettiva in tali condizioni); i neurologi chel’avevano in cura credevano che Anna H. potessebene$ciare di alcune strategie, per esempio quelladi «indovinare» le parole quando non riusciva a leg-gerle nel modo normale (giacché era chiaro chepossedeva ancora qualche meccanismo che le con-sentiva un riconoscimento inconscio o preconsciodelle parole). Essi ritenevano inoltre che Anna H.potesse avvalersi anche di un’ispezione deliberatae, per così dire, ipercosciente, degli oggetti e deivolti, osservandone in modo particolare gli aspettidistintivi, così da poterli identi$care in futuri in-contri nonostante la compromissione del normalemeccanismo di riconoscimento «automatico».

Nei circa trenta mesi trascorsi fra questo esame neu-rologico e la mia prima visita, Anna mi disse di avercontinuato a dare concerti, sebbene non in modoaltrettanto brillante, né con la stessa frequenza diun tempo. Aveva constatato una riduzione del pro-prio repertorio, poiché ormai non le riusciva più dicontrollare visivamente nemmeno gli spartiti checonosceva bene. «La mia memoria non era più ali-mentata» osservò. Alimentata visivamente: questointendeva dire, poiché credeva che la memoria e

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l’orientamento facenti capo all’udito si fossero in-vece sviluppati, al punto che adesso, molto più diprima, era in grado di apprendere e riprodurre unbrano a orecchio, a volte anche dopo un solo ascol-to. In questo modo, Anna riusciva non solo a ripe-tere un brano musicale, ma anche ad arrangiarlomentalmente. Ciò nondimeno, c’era stato, a contifatti, un impoverimento del suo repertorio e un di-radamento delle sue esibizioni in pubblico. La si-gnora H. continuò a suonare in contesti più infor-mali e a tenere corsi di specializzazione al conser-vatorio.Porgendomi i referti degli esami neurologici ese-guiti nel 1996, Anna H. commentò: «Tutti i mediciripetono la stessa solfa: “atro$a corticale posterio-re dell’emisfero sinistro, molto atipica”. Poi sorrido-no con un’aria di scusa – ma non ci possono farenulla».Quando la visitai, Anna non aveva dif$coltà ad ab-binare colori o forme, né a percepire il movimen-to o la profondità. Mostrava invece seri problemiin altre aree. Ormai non riusciva più a riconosceresingole lettere o cifre (sebbene non avesse ancoranessuna dif$coltà a scrivere intere frasi). Quandole mostrai alcune immagini chiedendole di iden-ti$carle, trovò dif$cile per$no riconoscerle in quan-to immagini, così che a volte $ssava una colonna ditesto o un margine bianco, pensando che si trattas-se dell’illustrazione sulla quale la stavo interrogan-do. Ricordo che di una disse: «Vedo una V, moltoelegante, due puntini qui, e poi un ovale, con al-cuni piccoli punti bianchi in mezzo. Non so che co-

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sa possa essere». Quando le rivelai che si trattava diun elicottero, si mise a ridere imbarazzata. (La V e-ra un gancio di sollevamento; l’elicottero stava sca-ricando aiuti alimentari per un gruppo di profughi.I due puntini erano ruote, e l’ovale il corpo dell’e-licottero). Ormai vedeva solo singoli aspetti di unoggetto o di un’immagine, senza però riuscire a far-ne una sintesi, a coglierli nel loro insieme, e menoche mai a interpretarli correttamente. Quando lemostrai la fotogra$a di un volto, riuscì a percepireche la persona ritratta portava gli occhiali, e nien-t’altro. Alla mia domanda se vedesse chiaramente,la signora H. rispose: «Non è un’immagine sfoca-ta, è una massa informe – una massa informe di sa-gome e dettagli nitidi, puliti, de$niti, ma inintelli-gibili».Osservando i disegni contenuti in una classica rac-colta di test neurologici, a proposito di una pennaAnna disse: «Potrebbe essere moltissime cose. Unviolino ... una penna». Una casa, però, la riconob-be subito. Di un $schietto, ammise: «Non ne ho pro-prio idea». Quando le mostrai il disegno di un paiodi forbici, guardò ostinatamente nel posto sbaglia-to, $ssando lo spazio bianco della pagina, sotto al di-segno.A quel punto le domandai cosa pensasse di se stes-sa e della sua situazione, e la sua risposta fu: «Mipare che io la stia affrontando molto bene ... il piùdelle volte ... sapendo che non migliorerà, ma po-trà solo peggiorare lentamente ... ho smesso di con-sultare i neurologi. Mi sento dire sempre le stessecose ... Ma sono una persona molto elastica. Non

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ne parlo ai miei amici. Non voglio caricarli di unpeso, e la mia piccola storia non è molto promet-tente. Un vicolo cieco ... Ho un buon senso dell’u-morismo. E questo è tutto, in due parole. Se ci pen-so mi deprimo: ogni giorno una frustrazione dopol’altra. Ma ho ancora davanti a me molti giorni – eanni – buoni».Quando se ne fu andata, non riuscii più a trovarela mia borsa nera, che a pensarci bene non eramolto diversa da quelle della mia paziente. E in ef-fetti la signora H. si accorse dell’errore in taxi,quando vide un oggetto con l’estremità rossa spor-gere fuori dalla borsa che aveva preso con sé. Si trat-tava del mio lungo martello per saggiare i riflessi,che aveva attirato la sua attenzione per via del colo-re e della forma, quando l’aveva visto sulla mia scri-vania – ora si rendeva conto dell’equivoco. Torna-ta in clinica, senza $ato, mi disse: «Sono la donnache ha scambiato la borsa del dottore per la sua bor-setta».Le prestazioni di Anna H. nei test formali di rico-noscimento visivo erano state così scarse che nonriuscivo a immaginarmela alle prese con la vita quo-tidiana. Come faceva, tanto per fare un esempio, ariconoscere un taxi| E la sua casa| Come poteva ar-rangiarsi a fare la spesa – cosa che mi aveva raccon-tato di fare – o a riconoscere le pietanze e a servir-le a tavola| Quando suo marito – anch’egli musici-sta – se ne andava in Europa per settimane, AnnaH. affrontava da sola tutto questo e molto di più:conduceva una vita sociale attiva, viaggiava, andavaai concerti e, soprattutto, ne dava lei stessa. Limi-

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tandomi a osservare le sue disastrose prestazioninell’ambiente arti$ciale e impoverito di una clini-ca, non potevo proprio farmi un’idea di come riu-scisse a tanto. Dovevo vederla muoversi nel suo spa-zio familiare, nel suo contesto.Il mese dopo la visitai nel bell’appartamento in Up-per Manhattan, dove lei e il marito vivevano da piùdi quarant’anni. Josef era un uomo affascinante emolto simpatico, all’incirca della stessa età della mo-glie. Si erano conosciuti quasi cinquant’anni prima,quando studiavano musica, e avevano poi avuto duecarriere indipendenti, anche se parallele. Nell’ap-partamento si respirava un’atmosfera colta e acco-gliente – c’era un pianoforte a coda, moltissimi li-bri, fotogra$e di amici e parenti, quadri astratti al-le pareti, e ricordi di viaggio disseminati su ognisuper$cie disponibile. Era un luogo sovraccarico:

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certo ricco di storia e di signi$cati personali, maanche – immaginavo io – un vero incubo, un caostotale per chi soffrisse di agnosia visiva. Questo, perlo meno, era stato il mio primo pensiero appena e-ro entrato, mentre mi facevo strada fra i tavolini pie-ni di soprammobili. E invece quella confusione noncreava alcun problema ad Anna, che si muoveva si-cura fra gli ostacoli. Giacché aveva avuto tante dif$coltà con il test per ilriconoscimento dei disegni, avevo portato con mediversi oggetti solidi, per vedere se con quelli se lacavasse meglio. Cominciai mostrandole la frutta egli ortaggi che avevo appena comprato. Con miagrande sorpresa, superò brillantemente la prova. Ri-conobbe senza esitazione, da un capo all’altro dellastanza, «un bel peperone rosso», e poi individuò u-na banana; ebbe un attimo di incertezza nello stabi-lire se il terzo oggetto fosse una mela o un pomodo-ro, ma poi decise subito, correttamente, per la pri-ma ipotesi. Quando le mostrai il modellino in pla-stica di un lupo (la mia borsa è sempre piena di og-getti simili, che uso per i test sulla percezione) escla-mò: «Ma che stupendo animale! Cos’è, un elefanti-no, forse|». Quando la esortai a guardare meglio, de-cise che dovesse trattarsi di «una specie di cane».Il suo relativo successo nel nominare gli oggetti so-lidi, al contrario dei disegni che li raf$guravano, mispinse a chiedermi se Anna non potesse essere af-fetta da un’agnosia speci$ca per le rappresentazio-ni. Il riconoscimento di queste ultime deve essereappreso: oltre al codice necessario per il riconosci-mento degli oggetti, occorre infatti saper interpre-

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tare un secondo codice, altamente formalizzato.Può accadere talvolta che individui appartenenti apopolazioni primitive, che non hanno mai visto fo-togra$e o disegni, risultino incapaci di compren-dere che si tratta, appunto, di rappresentazioni diqualcos’altro; in un dipinto alcuni di loro vedonosolo una super$cie colorata. Per riconoscere le rap-presentazioni, il cervello deve costruire un sistemaspeci$co e complesso, e quella capacità può anda-re perduta in seguito a lesioni di tale sistema con-seguenti a un ictus o a una malattia – proprio comepuò andare perduta la comprensione della scrittu-ra, o qualsiasi altra abilità acquisita. La sua dif$col-tà di riconoscimento era dovuta solo al fatto che i di-segni erano «schematici», bidimensionali, poveri diinformazione, oppure Anna aveva sviluppato un’a-gnosia speci$ca per tali rappresentazioni visive|La seguii in cucina, dove andò a togliere il bollitoredal fornello e a versare l’acqua calda nella teiera.Sembrava orientarsi bene in quella stanza ingom-bra di oggetti, così come sembrava sapere che pen-tole e padelle erano appese con dei ganci a unaparete e che tutte le provviste erano al loro solitoposto. Quando le indicai una scatola di cartone ci-lindrica che conteneva sale da cucina, mi disse: «Sobenissimo che cos’è, ma se non lo sapessi pensereia una scatola – non a un libro». Aprimmo il frigo ele chiesi cosa vedeva: «Aranciata, latte e burro sulripiano di sopra – e, se le interessa, una splendidasalsiccia, una di quelle cose austriache ... e formag-gi». Riconobbe le uova nello sportello del frigo, equando le domandai di contarle lo fece senza com-

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mettere errori, spostando l’indice da un uovo al-l’altro. A me era bastato un colpo d’occhio per ve-dere che erano otto – due $le di quattro – ma cre-do che Anna non riuscisse a percepire l’ottuplicità,la Gestalt, con un’occhiata, e fosse costretta a con-tarle una per una. Quanto alle spezie, le de$niva«un disastro». E infatti erano tutte confezionate inbottigliette identiche col tappo rosso, bottigliettedelle quali lei, naturalmente, non riusciva a legge-re l’etichetta. E quindi: «Le annuso! ... E qualchevolta mi faccio aiutare». Del forno a microonde,che usava spesso, ammise di non vedere i numeri.«Devo andare per tentativi: lo faccio andare, assag-gio, vedo se ci vuole un po’ di più».Sebbene in cucina non riuscisse a riconoscere qua-si nulla servendosi della vista, Anna aveva organiz-zato l’ambiente in modo tale da ridurre al minimogli errori, utilizzando una sorta di sistema di clas-si$cazione informale in luogo di una gnosi percet-tiva diretta. Gli oggetti erano pertanto categorizza-ti non in base al loro signi$cato, ma per colore,dimensione, forma, posizione, contesto, associazio-ne – proprio come un analfabeta potrebbe dispor-re i volumi di una biblioteca o identi$care in baseal suo aspetto $sico un brano all’interno di un li-bro. Ogni cosa aveva il suo posto, e Anna lo cono-sceva a memoria.Vedendo come deduceva la natura degli oggettiche aveva intorno, e cioè servendosi principalmen-te del colore, mi chiesi come potesse cavarsela conoggetti di aspetto simile, per esempio le posate dapesce e i coltelli da bistecca, che sembravano qua-

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si uguali. Anna mi confessò che si trattava effetti-vamente di un problema, e che spesso li confonde-va. Forse, suggerii io, avrebbe potuto usare un mo-do arti$ciale per contrassegnarli, per esempio unpiccolo punto verde per le posate da pesce e unorosso per i coltelli da bistecca, così da cogliere ladifferenza a colpo d’occhio. Mi disse di averci giàpensato, ma di non essere tanto sicura di voler«sbandierare» agli altri le sue dif$coltà. Che cosaavrebbero pensato i suoi ospiti di piatti e posate –se non di un intero appartamento contrassegnatocon i colori| («Come in un esperimento di psicolo-gia» commentò «o in un uf$cio»). L’«innaturalità»di questa idea la disturbava, tuttavia ammise che sel’agnosia fosse peggiorata avrebbe potuto essere ne-cessario farvi ricorso.In alcuni casi, quando il sistema di categorizzazio-ne di Anna faceva cilecca, per esempio con il mi-croonde, poteva sempre procedere per tentativi.Tuttavia, se gli oggetti non erano al loro posto, onon si prestavano a conoscenza e previsione, pote-vano sorgere grosse dif$coltà. Il che accadde in mo-do sorprendente alla $ne della mia visita. Tutti etre – Anna, Josef ed io – eravamo seduti al tavoloda pranzo. Dopo aver apparecchiato e tirato fuoribiscotti e dolci, Anna si presentò con una teiera fu-mante. Mentre noi mangiavamo, lei chiacchierava,senza però allentare una certa vigilanza – control-lando posizione e movimenti di ogni piatto, seguen-do gli spostamenti di ogni oggetto (me ne resi con-to in seguito), in modo da non «perderlo». Finito iltè, si alzò per portare i piatti vuoti in cucina lascian-

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do sulla tavola solo i biscotti, che mi aveva visto gra-dire particolarmente. Spinto in mezzo il vassoio, Jo-sef e io chiacchierammo per qualche minuto – fu lanostra prima conversazione a quattr’occhi.Quando tornò, e io presi la borsa accingendomi adandare, Anna mi disse: «Deve assolutamente por-tare via i biscotti avanzati» – che però, stranamen-te, non riusciva più a trovare, cosa che la agitò $nquasi a farle perdere il controllo. I biscotti eranoproprio lì, sulla tavola, nel loro vassoio – ma poi-ché quest’ultimo era stato spostato, Anna non sa-peva più dove fossero, né dove cercarli. Sembravache non avesse alcuna strategia per trovarli. Rimasepoi assolutamente sorpresa nel vedere il mio om-brello sul tavolo, sebbene non riuscisse a coglierlocome tale, ma percepisse solo la comparsa di unoggetto curvo e ritorto – e si chiese, per un istantequasi sul serio, se non si trattasse di un serpente.Prima di andarmene, pregai Anna di mettersi alpianoforte e di suonare qualcosa per me. Lei esitò.Era chiaro che aveva perso gran parte della sua si-curezza. Attaccò splendidamente, con una fuga diBach, ma dopo qualche battuta si fermò, con un’a-ria di scusa. Vedendo una raccolta di mazurche diChopin sul pianoforte le chiesi di suonarmi quel-le, e Anna, incoraggiata, chiuse gli occhi e ne ese-guì due, tratte dall’Opera 50, senza incertezze, an-zi con brio e sentimento.In seguito mi disse che la musica stampata era sem-plicemente «lì in giro», e poi aggiunse: «Mi distraevedere lo spartito, la gente che volta le pagine, lemie mani sulla tastiera»; in tali circostanze, mi spie-

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gò, poteva compiere qualche errore, specie con lamano destra. (Mi venne in mente il caso di una don-na cieca, pianista straordinaria e contemporanea diMozart, di cui si narra che non fosse più riuscita asuonare dopo il parziale recupero della vista). An-na doveva quindi chiudere gli occhi e suonare co-sì, usando solo la cinestesia, le sue routine motoriee il suo splendido orecchio. Nonostante la perditadella capacità di visualizzare lo spartito, le esecuzio-ni di Anna H. mantenevano intatto il loro smalto.Di lì a qualche giorno Josef sarebbe partito per l’Eu-ropa, dove avrebbe tenuto corsi di specializzazionee fatto parte di alcune giurie – impegni che lo a-vrebbero tenuto lontano da New York per diversesettimane –, ma riteneva di poter lasciare Anna intutta tranquillità, poiché sapeva che lei si sarebbearrangiata benissimo in sua assenza, essendo perfet-tamente in grado, nonostante l’agnosia, di orientar-si in un ambiente familiare.Ma come se la sarebbe cavata in circostanze menofamiliari o imprevedibili| Come avrebbe affrontatole dif$coltà poste da quartieri e strade nuove| Nel-la mia visita successiva mi proponevo di indagareproprio su questo.Che dire della natura e della progressione della ma-lattia di Anna| Chiaramente era in qualche modoavanzata dai tempi del suo primo esame neurolo-gico, nel 1996, e c’erano alcuni indizi – sebbenenulla più di questo – che i suoi problemi ora po-tessero non essere più esclusivamente visivi, nonpiù insomma con$nati alle regioni occipitali del cer-vello. In particolare, le capitava di avere sporadiche

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dif$coltà a nominare gli oggetti; e quando non leriusciva di trovare un termine parlava di un «co-so». Una dif$coltà, a dire il vero, che non sapevobene come interpretare.Le avevo prescritto una nuova MRI per confron-tarla con la precedente; l’esame confermò che a-desso esisteva effettivamente una certa riduzionedelle aree visive in entrambi i lati del cervello. C’e-rano segni di danni reali anche altrove| Non pote-vo dirlo, sebbene sospettassi che potesse essersi ve-ri$cata una qualche riduzione anche a carico del-l’ippocampo – una parte del cervello essenziale perla memorizzazione di nuovi dati. Era tuttavia chiaroin primo luogo che il danno era ancora largamen-te con$nato ai lobi occipitali, sebbene non del tuttolimitato ad essi; e, in secondo luogo, che la pro-gressione della malattia era lentissima.Quando discussi i dati emersi dall’MRI con Josef,egli si raccomandò che nel parlarne con Anna evi-tassi certi termini, dicendomi che soprattutto eraspaventata dall’etichetta del morbo di Alzheimer.«Perché non è Alzheimer, vero|» mi chiese. Era evi-dente che continuavano a pensarci entrambi. «Non ne sono sicuro» dissi. «Non nel senso comu-ne. Bisognerebbe forse pensare a una forma moltopiù rara, leggera e benigna».

L’atro$a corticale posteriore, PCA, così chiamataper via della caratteristica atro$a delle aree visiveassociative nella parte posteriore del cervello, fudescritta nel 1988 da Frank Benson, Jeffrey Davis eBruce Snyder sulla rivista «Archives of Neurology».

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Nei cent’anni precedenti furono probabilmente os-servati casi sporadici di questa patologia, che tutta-via non vennero riconosciuti per ciò che erano. Perriconoscere una malattia o una sindrome non de-scritta occorre un occhio originale: poi diventa tut-to più facile, e la condizione viene individuata sen-za problemi – non a caso, nel corso dei quattordi-ci anni successivi alla descrizione di Benson sonoemerse decine di altri casi di PCA.Inizialmente questi pazienti tendono a presentaredisturbi visivi complessi – dif$coltà nella lettura (a-lessia) o nel riconoscimento di volti e oggetti (agno-sia) –, mentre le forme più elementari di percezio-ne visiva, per esempio quella del movimento e delcolore, sono perfettamente integre. Per quanto neso, Anna H. è la sola paziente che abbia presentato,come primo sintomo di PCA, un’alessia musicale.Le dif$coltà visive possono diventare gravi già a sta-di molto precoci della malattia, e tutti i pazienti o-riginariamente descritti da Benson $nirono per ri-trovarsi sempre più disorientati e persi nel loro stes-so quartiere, o addirittura nelle loro abitazioni.(Benson de$nì tale aspetto «agnosia ambientale»).In genere a queste prime dif$coltà ne seguono al-tre: confusione fra destra e sinistra, problemi nel-la scrittura e nell’esecuzione di calcoli, e per$noun’agnosia circoscritta alle dita delle proprie mani(una tetrade a volte indicata come sindrome diGerstmann). Una paziente, di mestiere dattilogra-fa, perse la capacità di usare la tastiera. Alcuni pa-zienti con PCA possono riconoscere gli oggetti, ma

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non sono in grado di nominarli; tale condizione èchiamata anomia.A dispetto di tutte queste dif$coltà, anche negli sta-di avanzati della malattia, memoria, intelligenza, in-tuito e personalità tendono a essere preservati. Ben-son scrive che tutti i suoi pazienti «riuscivano a rac-contare la propria storia, erano consapevoli deglieventi attuali e sembravano cogliere con assolutalucidità la propria dif$cile situazione».Pertanto, sebbene la PCA sia chiaramente una pa-tologia degenerativa del cervello, la sua natura sem-bra del tutto diversa dalle forme più comuni di Alz-heimer, dove il quadro tende a essere dominato daimponenti alterazioni della memoria, del pensie-ro, della comprensione e dell’uso del linguaggio,e spesso anche del comportamento e della perso-nalità – e dove in genere (forse misericordiosamen-te) il paziente perde, già nelle fasi precoci, la per-cezione di ciò che gli sta accadendo.Nel caso di Anna H., il decorso della malattia sem-brava essere stato particolarmente benigno, giacchéper$no ora la paziente non presentava alcun segnodi agnosia ambientale – insomma, non si perdevanel suo appartamento e nel suo quartiere. Peraltro,in apparenza non presentava alcun sintomo dellasindrome di Gerstmann, giacché riusciva a control-lare a mente i conti del droghiere ed era in gradodi scrivere lettere, non confondeva la destra e la si-nistra e alla tastiera aveva conservato il virtuosismodi sempre.Non potei evitare un paragone – del resto avanza-to dalla stessa Anna – con il dottor P., un altro mio

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paziente, «l’uomo che scambiò sua moglie per uncappello». Sia lui che Anna erano musicisti di pro-fessione, molto dotati; entrambi avevano sviluppatogravi agnosie visive rimanendo, per altri versi, stra-ordinariamente integri; ed entrambi avevano sco-perto o escogitato ingegnosi sistemi per aggirare leproprie dif$coltà, al punto da riuscire a insegnaremusica ad alti livelli nonostante quelle che sareb-bero potute sembrare invalidità assolutamente de-vastanti.I sistemi pratici con i quali Anna e il dottor P. fron-teggiavano la propria malattia erano molto diversi;ciò in parte rifletteva la gravità dei loro sintomi, inparte le differenze di temperamento e formazioneesistenti fra loro. Quando lo visitai per la prima vol-ta, a nemmeno tre anni dalla comparsa dei sintomiiniziali, il dottor P. era già in gravi dif$coltà. Avevaproblemi di ordine non solo visivo, ma anche tatti-le – problemi testimoniati da quel suo afferrare latesta della moglie, scambiandola per un cappello;presentava una sorta di levità o indifferenza, unascarsa percezione della propria malattia, e spessoconfabulava per compensare il fatto di non riusci-re a identi$care ciò che stava vedendo. Tutto que-sto contrastava nettamente con la situazione di An-na, la quale, a nove anni dall’insorgenza dei primisintomi, non lamentava alcun problema sostanzia-le a parte quelli visivi, poteva ancora viaggiare e in-segnare, e mostrava un’acuta consapevolezza dellapropria condizione. Anna era tuttora capace di i-denti$care gli oggetti per inferenza, servendosi del-la percezione del colore, della forma, della consi-

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stenza super$ciale e del movimento, rimasta intat-ta insieme alla memoria e all’intelligenza. Il dottorP. non era in grado di fare altrettanto. Non gli erariuscito, per esempio, di identi$care un guanto al-la vista o al tatto (nonostante fosse stato capace didescriverlo in termini quasi assolutamente astratticome «una super$cie continua ... avvolta su se stes-sa. Dotata ... di cinque estensioni cave, se così dipuò dire ... un contenitore|» – $nché, per caso,non se lo ritrovò in$lato sulla mano. Il dottor P.,in generale, dipendeva dall’azione, e $niva perbloccarsi sconcertato se il flusso dell’azione si ar-restava. Era un cantante professionista, per il qua-le il canto era l’attività più naturale, irreprimibilee spontanea. Ciò gli permise di compiere una sco-perta essenziale, quella di poter aggirare in unacerta misura la propria agnosia servendosi di me-lodie; mormorava o canticchiava melodie per ve-stirsi, per radersi, per accompagnare azioni di o-gni tipo. Aveva scoperto che la musica poteva intro-durre uno straordinario livello di organizzazionenella sua attività e nella sua vita quotidiana.Avevo conosciuto il dottor P. nel 1978, dieci anniprima che Benson e i suoi colleghi descrivessero laPCA. Rimasi subito sconcertato dal suo quadro cli-nico, dai paradossi della sua malattia. Era chiara-mente affetto da una patologia degenerativa delcervello, che tuttavia sembrava completamente di-versa da qualsiasi forma di morbo di Alzheimer a-vessi incontrato prima. E d’altra parte, se non diAlzheimer, di cosa poteva trattarsi| Quando, nel1988, lessi della PCA, mi chiesi se quella non potes-

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se essere la diagnosi corretta anche per il dottor P.,che nel frattempo era morto.Del resto, la PCA è solo una diagnosi anatomica;indica la parte del cervello più colpita, ma non cidice alcunché sul processo patologico di fondo –non fa nulla per spiegare perché quelle zone delcervello siano danneggiate. È simile, in un certosenso, a una diagnosi clinica (per esempio di auti-smo) che indica solo la confluenza di segni o sin-tomi o comportamenti caratteristici – una sindro-me – senza fare peraltro riferimento al processopatologico (genetico, chimico, infettivo, e così via)che ne è la causa.Descrivendo per la prima volta, nel 1988, la PCA,Benson non aveva alcuna informazione sulla sua pa-tologia di fondo. Riteneva che i pazienti potesseroavere l’Alzheimer, ma in una forma straordinaria-mente atipica. In alternativa poteva trattarsi delmorbo di Pick, un disturbo degenerativo del cervel-lo che colpisce più comunemente i lobi frontali etemporali. (Si ritiene che Maurice Ravel ne fossestato colpito, al punto da perdere la capacità di par-lare e, tragicamente, di comporre). Una terza e-ventualità, azzardava Benson, era che in quei casiagisse una patologia non tanto di natura degene-rativa, quanto piuttosto vascolare, un sommarsi dipiccole ostruzioni nella zona di con$ne fra i di-stretti serviti dall’arteria cerebrale posteriore e dal-la carotide. Nei primi anni Novanta, altri scienziati stabilironoche il cervello di certi pazienti afflitti da PCA pre-sentava, all’esame autoptico, le placche e i grovigli

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miscoscopici caratteristici del morbo di Alzheimer,concentrati principalmente nelle parti posteriori,visive, della corteccia. Sebbene non tutti i pazienticon PCA abbiano l’Alzheimer, oggi la sindrome ègeneralmente considerata una «variante visiva» delmorbo di Alzheimer. Anna H. potrebbe dunque a-vere – oppure no – questa forma della malattia.Il nome stesso di certe malattie incute terrore. Que-sto vale in modo particolare per il morbo di Alz-heimer, e la sua diagnosi può essere accolta quasicome una sentenza di morte. Questo atteggiamen-to, d’altra parte, non tiene conto dell’enorme va-riazione possibile nella natura e nel decorso delmorbo, né degli adattamenti e delle strategie gra-zie ai quali è possibile conservare e godere la vita adispetto del progredire della malattia. Ho visto for-me maligne di Alzheimer che portano a demenzaprofonda e morte in dodici mesi, mentre altri pa-zienti possono vivere per anni in buone condizio-ni e andare incontro a un declino lentissimo; hovisto pazienti nei quali la perdita intellettuale e lealterazioni della personalità sono assai pronuncia-te $n dall’inizio, e altri nei quali tali cambiamentipossono manifestarsi solo negli stadi terminali del-la malattia. Un declino molto lento, con la conser-vazione dell’intelligenza e della personalità anchein fasi avanzate, sembra una caratteristica della va-riante visiva del morbo di Alzheimer. E nel caso diAnna H. – se è di questo che si tratta – il decorso èstato più lento e più benigno che in qualsiasi altropaziente $nora descritto.

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Nel giugno del 1999, tornai a far visita ad Anna eJosef nel loro appartamento: Josef era appena tor-nato dal soggiorno in Europa e Anna, a quanto ca-pivo, si era mossa liberamente nel raggio di quattroisolati da casa sua, era stata a mangiare nel suo ri-storante preferito, aveva fatto spese, eccetera. Quan-do arrivai, vidi che Anna aveva scritto un certo nu-mero di cartoline ai suoi amici sparsi in tutto ilmondo – disseminate sul tavolo c’erano buste in-dirizzate in Corea, Germania, Australia, Brasile. Erachiaro che l’alessia non aveva limitato la sua capa-cità di tenere una $tta corrispondenza, anche senomi e indirizzi a volte erano scritti sulla busta inmodo disordinato e sghembo.«Usciamo, andiamocene un po’ in giro» proposi io.Anna immediatamente cominciò a cantare Der Wan-derer – le piace molto Schubert – e poi la sua ela-borazione nella Fantasia detta Wanderer.Sull’ascensore salutò alcuni vicini. Non mi era chia-ro se li avesse riconosciuti visivamente; può darsiche fossero stati loro a rivolgerle la parola per pri-mi. Anna identi$cava all’istante voci e rumori di o-gni genere; anzi, in questo sembrava iperacuta, o i-perattenta, così come lo era nei confronti di formee colori. Tutte queste cose erano col tempo diven-tate, per lei, indizi di particolare importanza.Non ebbe alcuna dif$coltà ad attraversare la stra-da. Sebbene non riuscisse a leggere le scritte «Avan-ti» e «Alt», conosceva la loro posizione relativa e sa-peva di che colore fossero; sapeva anche che pote-va attraversare quando il segnale lampeggiava. Miindicò una sinagoga sull’angolo opposto della stra-

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da e riconobbe altri negozi servendosi di geome-trie o colori caratteristici, come nel caso del suo din-er preferito, uno di quei locali che sembrano lacarrozza ristorante di un treno, che aveva piastrel-le bianche e nere alternate. A un certo punto, pas-sammo accanto a un cane enorme, che mi fece pen-sare al Mastino dei Baskerville. All’inizio Anna nonlo notò nemmeno, ma quando riuscii a farglielonotare, trovò che avesse un’aria «dolce e paziente»(io avrei detto micidiale), e se non l’avessi dissuasal’avrebbe accarezzato.Entrammo in un supermercato e prendemmo uncarrello – Anna puntò immediatamente verso lanicchia dove erano riposti tutti in $la. Non ebbealcuna dif$coltà a trovare il reparto frutta-e-verdu-ra, né a riconoscere mele, pere, carote, peperonigialli e asparagi. Di un porro si chiese, inizialmen-te, se fosse simile a una cipolla – e da lì arrivò al no-me. Rimase sconcertata da un kiwi, $nché non glie-lo porsi. (Trovò che fosse «incantevole, tutto pelo-so come un topolino»). Afferrai un oggetto appesosopra la frutta. «Che cos’è|» le chiesi. Anna gli die-de un’occhiata, esitante: «È commestibile| Carta|».Quando glielo feci toccare scoppiò a ridere, un po’imbarazzata. «È un guanto da forno, una presina»disse. «Come ho potuto essere così stupida|».Quando ci spostammo nel reparto vicino, Anna pro-clamò «salse a sinistra, olio a destra» proprio comeavrebbe fatto il ragazzo dell’ascensore di un gran-de magazzino. Era ovvio che aveva l’intero super-mercato in testa. Trovò una certa salsa di pomodo-ro – una fra decine di marche diverse – perché ave-

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va «un rettangolo blu scuro e sotto un cerchio gial-lo» stampati sull’etichetta. «Il colore è essenziale»ribadì ancora una volta. Per lei era l’indizio piùimmediato, riconoscibile anche in assenza di altriaiuti (quindi, temendo che potessimo perderci, miero vestito tutto di rosso, sapendo che così Anna sa-rebbe riuscita a trovarmi subito).Non sempre, però, il colore bastava. Di fronte a uncontenitore di plastica, poteva non avere idea al-cuna del contenuto – burro d’arachidi o cantalu-po| Scoprì che spesso la strategia più semplice con-sisteva nel portarsi da casa una lattina o una scato-la vuota, e nel chiedere a qualcuno di aiutarla a tro-vare lo stesso prodotto. Quando uscimmo dal supermercato, urtò per sba-glio una $la di carrelli per la spesa alla sua destra;questi incidenti, quando accadono, le capitano sem-pre a destra, per via della compromissione dellaconsapevolezza visiva, circoscritta a quel lato.Alcuni mesi dopo diedi appuntamento ad Anna H.nel mio studio invece che in clinica, dove l’avevogià visitata prima. Arrivò subito, districandosi $noa Greenwich Village dalla Penn Station. La seraprima era stata a New Haven, dove suo marito ave-va tenuto un concerto, e l’indomani mattina lui l’a-veva messa sul treno. «Conosco la Penn Station co-me le mie tasche» mi disse, e lì infatti non ebbe pro-blemi. Ma fuori, nella confusione di folla e di tra-f$co «ci sono stati molti momenti in cui ho dovutochiedere».Le chiesi come si sentisse, e mi rispose che l’agno-sia stava peggiorando. «Quando siamo andati insie-

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me al supermercato, riuscivo a riconoscere facil-mente diversi prodotti. Ora, se voglio comprarequelle stesse cose, devo farmi aiutare». In genere,doveva chiedere ad altre persone di riconoscereper lei gli oggetti e, in alcuni casi, di aiutarla in pre-senza di strani gradini, cambiamenti improvvisi dilivello o irregolarità del suolo. Dipendeva sempredi più dal tatto e dall’udito (per assicurarsi, ad e-sempio, di guardare dalla parte giusta). Ancora, di-pendeva sempre di più dalla memoria, dal pensie-ro, dalla logica e dal buon senso per districarsi inquello che altrimenti sarebbe stato un mondo (vi-sivamente) inintelligibile.Nel mio studio, tuttavia, si riconobbe immediata-mente sulla copertina di un CD, mentre suonavaChopin. «Ha un’aria vagamente familiare» dissesorridendo.Le chiesi che cosa vedesse sulla parete. Tanto percominciare, orientò la sedia non verso il muro, main direzione della $nestra; poi disse: «Vedo degliedi$ci». Allora ruotai io stesso la sua sedia, in mo-do da metterla di fronte alla parete. Dovetti accom-pagnarla, passo per passo. «Vede delle luci|». Sì, làe anche là. Ci volle un po’ per stabilire che in real-tà stava guardando un divano, proprio sotto le lu-ci, del quale, peraltro, aveva immediatamente no-tato il colore. Osservò qualcosa di verde abbando-nato sul divano e con mio grande stupore disse cheera un nastro elastico. Aveva ragione. Mi raccontòche il $sioterapista gliene aveva dato uno simile.Quando le chiesi che cosa vedesse sulla parete so-pra il sofà (si trattava di un dipinto con forme geo-

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metriche astratte) mi disse: «Qualcosa di giallo ... edi nero». Che cos’è| – le chiesi. Non so, qualcosache c’entra con il sof$tto, azzardò Anna. O un ven-taglio. Un orologio. Poi aggiunse: «Non ho capitobene se si tratta di una cosa sola o di molte». Inrealtà era un dipinto eseguito da un altro mio pa-ziente, un pittore che non vedeva i colori. Tuttavia,era chiaro che Anna era lontanissima dal pensareche si trattasse di un quadro: anzi, non era nemme-no sicura che fosse un singolo oggetto e pensavapotesse addirittura costituire una parte della strut-tura della stanza. Trovavo tutto questo sconcertante. Com’era possi-bile che non riuscisse a distinguere chiaramente undipinto – molto riconoscibile in quanto tale – dal-la parete, e ciò nondimeno riconoscere all’istanteuna piccola fotogra$a di se stessa sulla copertinadi un CD| Com’era possibile che identi$casse unelastico verde e molto sottile e non riuscisse a ve-dere, o a riconoscere, il divano su cui esso era po-sato| E queste erano solo le ultime incoerenze diuna lunga serie.Mi chiedevo come facesse a leggere l’ora, visto cheportava un orologio da polso. La spiegazione fu chesebbene non riuscisse a distinguere i numeri, si re-golava con la posizione delle lancette. Allora le mo-strai, con una punta di malizia, un mio strano oro-logio da parete, che al posto dei numeri reca i sim-boli degli elementi chimici (H, He, Li, Be, ecc.). MaAnna non se ne accorse neppure, giacché per lei leabbreviazioni chimiche erano inintelligibili, né piùné meno di come lo sarebbero stati i numeri.

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Uscimmo a fare quattro passi e io, per rendermi ri-conoscibile, indossai un cappello dai colori vivaci.Mi fermai davanti alla prima vetrina e chiesi adAnna che cosa vedesse. «Cappelli di paglia» rispo-se. (Le avevo appena mostrato un grande sombre-ro messicano che avevo acquistato a Oaxaca, e chelei aveva riconosciuto all’istante). In quella vetrina,però, non erano esposti cappelli di paglia, ma ce-sti. Anna rimase molto sconcertata (e io con lei)dagli oggetti in mostra nella vetrina adiacente. Eraun negozio di artigianato tibetano – ma si sarebbepotuto benissimo trattare di articoli marziani, vistoil carattere di esotica estraneità di ogni oggetto. Cu-riosamente, Anna riconobbe all’istante il negoziosuccessivo, e mi disse di esserci passata davanti pervenire da me: era un orologiaio, con decine di oro-logi di forme e dimensioni diverse. In seguito miraccontò che suo padre aveva avuto una passioneper gli orologi.In un altro negozio, un lucchetto rappresentò perlei un enigma assoluto, sebbene pensasse che po-tesse trattarsi di qualcosa «da aprire... come un i-drante». Nel momento stesso in cui lo toccò, capìche cos’era.Facemmo una breve sosta per un caffè e poi la por-tai nel mio appartamento, che era lì vicino. Volevoche provasse il mio pianoforte a coda, un Bechsteindel 1894. Come entrò in casa, Anna riconobbe im-mediatamente la pendola nell’ingresso (al contra-rio del dottor P., che aveva cercato di stringerle lamano). Le suonai un paio di mazurche di Chopin

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e Anna commentò: «Ognuna di esse è un mondo asé ... sono miniature ... e sono immense».Poi si sedette al piano e suonò un pezzo – un bra-no che trovai sconcertante, perché per certi versimi pareva familiare, e al tempo stesso no. Quandoglielo dissi, Anna mi spiegò che si trattava di unquartetto di Haydn che aveva ascoltato alla radio edi cui si era innamorata un paio d’anni prima –provando immediatamente il desiderio di suonar-lo. Così l’aveva arrangiato per pianoforte, e lo avevafatto tutto a mente, nell’arco di una notte. In pre-cedenza le era capitato, in alcune occasioni, di farequalche arrangiamento per pianoforte, però usan-do carta da musica e tenendo lo spartito originaledavanti a sé; quando ciò divenne impossibile pervia dell’alessia, scoprì di essere in grado di fare illavoro interamente a orecchio. Anna pensava chela sua memoria e la sua immaginazione musicali fos-sero diventate più forti, più tenaci, e al tempo stes-so anche più flessibili – al punto che adesso riuscivaad ascoltare nella propria mente brani anche mol-to complessi, per poi memorizzarli, modi$carli, ri-arrangiarli ed eseguirli mentalmente, in un modoche sarebbe stato impossibile prima dell’alessia. Lesue facoltà di memoria e immaginazione musicale,che si andavano continuamente rafforzando, eranoeffettivamente diventate essenziali per lei, e le ave-vano consentito di andare avanti $n da quando –nove anni prima – erano insorte le dif$coltà visive.Quando Anna mi parlò di tutto questo, mi ricordaidi una paziente che avevo visitato in ospedale al-cuni anni prima, e che nell’arco di una notte era

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rimasta completamente paralizzata per una mieli-te fulminante. Quando fu chiaro che non ci sareb-be stato alcun recupero, la donna sprofondò nelladisperazione, credendo che la sua vita fosse $nita –non solo i grandi eventi, ma anche tutti quei picco-li piaceri di ogni giorno, ad esempio risolvere le pa-role crociate del «Times», un passatempo per il qua-le aveva sviluppato una sorta di dipendenza. Chie-se che le portassero il «Times» tutti i giorni, in mo-do da poter almeno guardare i cruciverba, com-prenderne la con$gurazione e scorrere le de$ni-zioni. E nel farlo, scoprì che la sua mente si produ-ceva in un’impresa straordinaria – giacché adesso,mentre guardava le de$nizioni, le risposte sembra-vano scriversi da sole nei loro spazi, come in un’al-lucinazione. Nell’arco delle settimane che seguiro-no l’immaginazione visiva della paziente si rafforzò,$no a metterla in grado di tenere a mente l’interocruciverba, con tutte le de$nizioni, dopo un’unica,intensa ispezione; e poi di risolverlo mentalmente,con tutta calma, durante la giornata. Questa diven-ne per lei, ormai paralizzata, una fonte di grandis-simo conforto; in seguito mi con$dò di non avermai sospettato di poter disporre di simili facoltà del-la memoria e dell’immaginazione. (E io ora credoche tali facoltà non siano troppo insolite nei pen-satori visivi; conosco un artista, dotato di pensieroaltamente geometrico, che risolve mentalmente pa-role crociate senza schema manipolando lettere ecaselle a mente, il tutto mentre dipinge).La palese confusione nei confronti degli oggetti pre-senti nel mio uf$cio, come pure nelle stradine e

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nei negozi dei dintorni, mi fece capire in quale mi-sura Anna fosse dipendente da ciò che le era fami-liare e aveva memorizzato; in un certo senso, era co-me se fosse ancorata al suo appartamento e al suoquartiere. Col tempo, tornando più volte a visitareun luogo, avrebbe a poco a poco acquisito una mag-giore dimestichezza; sarebbe comunque stata un’im-presa di complessità quasi inimmaginabile, che a-vrebbe richiesto in$nita pazienza e un enorme in-vestimento di risorse: Anna avrebbe dovuto cate-gorizzare e memorizzare daccapo tutto quanto lacircondava. Dopo quell’unica visita di Anna al miostudio capii chiaramente che in futuro avrei dovu-to attenermi alle visite a domicilio e recarmi io nelsuo appartamento, dove lei si sentiva organizzata,al sicuro, padrona della situazione. Uscire, per An-na, stava diventando un’avventura visiva sempre piùsurreale, piena di percezioni erronee fantastiche ea volte spaventose.

Anna H. mi scrisse di nuovo nell’agosto del 2001,esprimendo una crescente preoccupazione. Spera-va che potessi visitarla presto, e io le proposi il week-end successivo.Anna mi aspettò in piedi sulla porta per darmi ilbenvenuto, ben conoscendo i miei stessi difetti(congeniti) di memoria visiva e topogra$ca, la miaconfusione della destra e della sinistra, e la mia in-capacità di orientarmi negli edi$ci. Mi accolse congrande calore, ma anche con una sfumatura di an-sia che non la abbandonò per tutta la durata dellavisita.

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«La vita è dif$cile» esordì, dopo che mi ebbe fattoaccomodare con un bicchiere di acqua di seltz inmano. Aveva avuto parecchie dif$coltà a trovarel’acqua e, non vedendo la bottiglia, che era «na-scosta» dietro una brocca di succo d’arancia, si eramessa a esplorare il frigorifero con le mani, cercan-do a tastoni un recipiente della forma giusta. «Nonmigliora affatto ... gli occhi vanno malissimo». (An-na sa, naturalmente, che i suoi occhi non hannoproprio nulla, e che a declinare è la funzionalitàdelle parti visive del suo cervello – anzi, fu lei laprima a rendersi conto di questo –, ma trova piùsemplice, più naturale, parlare dei suoi «occhi ma-lati»). Due anni prima, quando eravamo usciti in-sieme a fare la spesa, sembrava che riconoscessetutto quello che vedeva, o per lo meno che l’aves-se comunque codi$cato per forma, colore e posi-zione, al punto che non aveva avuto quasi mai bi-sogno di aiuto. A quell’epoca, inoltre, si muovevasenza intoppi nella sua cucina, senza perdere mainulla e lavorando con ef$cienza. Oggi, invece, ave-va «perso» sia l’acqua di seltz, sia le aringhe – e cioè,oltre a non ricordare dove avesse messo questi og-getti, non riusciva a riconoscerli neppure quandoli aveva sotto gli occhi. Osservai anche che la cuci-na era meno organizzata di prima – e nella sua si-tuazione l’organizzazione è essenziale.Anche l’anomia, la dif$coltà nel trovare le parole,era peggiorata. Riconobbe immediatamente i $am-miferi che le avevo indicato, ma non riuscì a pro-nunciare la parola «$ammiferi», limitandosi a spie-gare «servono per accendere il fuoco». Allo stesso

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modo, quando vide il dolci$cante non riuscì a no-minarlo, ma lo descrisse come «meglio dello zuc-chero». A un certo punto, cercando non so qualecondimento, cominciò ad agitarsi perché non riu-sciva a trovare quelle «cosette rosse» – le botti-gliette delle spezie col tappo rosso. Anna era benconsapevole di queste dif$coltà e delle proprie stra-tegie per affrontarle. «Quando non mi viene il no-me di qualche cosa,» spiegava «tento di circoscriver-la». Tuttavia, a sfuggirle sono solo i nomi degli og-getti visibili, quelli che hanno un aspetto $sico. Coni nomi propri, i nomi astratti, i termini musicali, o inomi che indicano la consistenza super$ciale, l’o-dore, la forma o il colore di un oggetto non ha in-vece alcuna dif$coltà. Né risultano compromessefluidità o organizzazione dell’eloquio, e non sussi-stono altri problemi linguistici di natura più am-pia. L’anomia, a quanto pare, è interamente con-nessa ai suoi problemi visivi, e non a una forma diafasia nel senso consueto del termine.Quando le chiesi di parlarmi dei viaggi e della vitain generale, mi disse che sebbene recentemente sifosse recata con il marito in Ontario, in Coloradoe in Connecticut, non avrebbe più potuto farlo dasola, come qualche anno prima. Aggiunse però diessere ancora perfettamente capace di badare a sestessa a casa, quando Josef era via. E comunque,disse, «quando sono da sola, è uno schifo. Non chemi stia lamentando – è una mera constatazione».A un certo punto, mentre Anna era in cucina, chie-si a Josef come si sentisse riguardo a questi proble-mi della moglie, ed egli espresse comprensione e

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partecipazione, ma aggiunse anche: «A volte mispazientisco, quando ho la sensazione che esaspe-ri qualche sua debolezza. Le faccio un esempio. Micapita di rimanere sconcertato, seccato, per il ca-rattere “selettivo” della “cecità” di Anna. Venerdìscorso ha notato che un quadro era appeso storto,roba di pochi millimetri. Altre volte nota partico-lari di certe espressioni, di certi visi in fotogra$e mi-nuscole. E poi magari prende in mano un cucchiaioe viene a chiedermi: “Che cos’è questo|” oppurecinque minuti dopo guarda un vaso e dice: “Ne ab-biamo uno simile”. Mi è dif$cile scorgere un $loconduttore, una coerenza. Che atteggiamento do-vrei avere quando afferra una tazza e mi chiede“Che cos’è|” – io a volte non le rispondo. Ma puòdarsi che sia sbagliato e che possa avere effetti di-sastrosi. Lei cosa pensa che dovrei dirle|».Questa era, effettivamente, una questione molto de-licata. In che misura il marito sarebbe dovuto in-tervenire quando Anna si scontrava con la propriaconfusione percettiva| In che misura dovremmoimbeccare un amico o un parente quando dimen-ticano un nome| In che misura io stesso – comple-tamente privo come sono di senso dell’orientamen-to – desidero che mi si mostrino i miei errori| Nonpreferisco arrivarci da solo| Fino a che punto ognu-no di noi ha piacere di «sentirsi dire» le cose| Que-sto interrogativo era particolarmente tormentosonel caso di Anna perché, sebbene dovesse risolve-re i problemi e difendersi da sola, le sue dif$coltàsensoriali stavano diventando sempre più gravi, e avolte, come osservava Josef, minacciavano di get-

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tarla in un abisso di sconcerto, in un terrore capa-ce di disintegrarla. Dissi a Josef che non potevosuggerirgli alcuna regola, potevo solo consigliarglidi avere tatto: ogni situazione avrebbe richiesto unasoluzione particolare.Anch’io, d’altra parte, rimasi perplesso quando Jo-sef mi parlò degli straordinari alti e bassi della fun-zionalità visiva di Anna. Alcune di tali variazionisembravano procedere in parallelo alla funzioneridotta e instabile della sua corteccia visiva danneg-giata – proprio come, dieci anni prima, quando e-rano comparsi i primi problemi di Anna, la sua ca-pacità di leggere la musica andava e veniva. Può dar-si che almeno alcune variazioni riflettessero quelledel flusso ematico. Una parte, tuttavia, sembrava as-sociata a una ridotta capacità di compensare nelsolito modo, quali ne fossero le ragioni. Ormai,adesso lo capivo, anche la sua capacità di servirsidella memoria e delle facoltà intellettuali al postodel riconoscimento visivo diretto aveva forse im-boccato la via del declino. Perciò era più impor-tante che mai «codi$care» gli oggetti, fornirle in-dizi sensoriali facili da usare – in particolare il co-lore, al quale Anna era rimasta intensamente sen-sibile.L’aspetto più interessante, per me, era quell’ac-cenno di Josef alle improvvise capacità di Anna: lasua abilità, per esempio, nel riconoscere le espres-sioni del viso in fotogra$e piccolissime, giacché nel-la maggior parte dei casi aveva enormi dif$coltà ariconoscere i volti. Non potevo fare a meno di chie-dermi se si trattasse di un esempio di quelle abilità

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preconsce che aveva mostrato nel corso dei primitest – la sua capacità, per esempio, di categorizza-re istantaneamente le immagini come «viventi» o«non viventi», prima ancora di poterle riconosce-re a livello cosciente (e anche quando poi non sa-rebbe riuscita affatto a riconoscerle). In una certamisura, questo riconoscimento inconscio (la cosid-detta «visione cieca») poteva essere ancora possibi-le nonostante l’agnosia, nonostante il danno corti-cale, giacché faceva appello a meccanismi più pri-mitivi, e presumibilmente ancora intatti, del siste-ma visivo.Fin dagli esordi della sua malattia, undici o dodicianni fa, Anna si è dimostrata intelligente ed elasti-ca. Si è aiutata, in modo assai brillante, con ogni ti-po di risorsa – visiva, musicale, emotiva, intellettua-le. I suoi familiari, gli amici, soprattutto il marito,ma anche i suoi allievi, i colleghi e la gente dispostaad aiutarla al supermercato o per la strada l’hannosostenuta nel fronteggiare la situazione. I suoi adat-tamenti all’agnosia sono stati straordinari – unagrande lezione di quanto si possa fare, a dispettodi gravi dif$coltà percettive e cognitive, per tenerecoesa una vita. Ma è nella sua arte, nella sua musi-ca, che Anna H. non solo affronta la malattia, mala trascende. Questo è palese quando suona il pia-noforte, strumento che al tempo stesso esige ed of-fre una sorta di integrazione superiore, un’integra-zione totale di sensi e muscoli, corpo e mente, me-moria e fantasia, intelletto ed emozione, un’inte-grazione del proprio sé intero, dell’essere vivi. Lefacoltà musicali di Anna sono misericordiosamen-

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te rimaste intatte, risparmiate dalla malattia. («Nes-sun problema con l’orecchio e con le mani, graziea Dio»).Fu proprio per questo che, durante la mia visitanell’estate del 2001, mi prese un gran senso di tri-stezza. Cadendo, Anna si era fatta male alla schie-na e rimanere seduta le causava dolore; così nonpotei chiederle di suonare per me, come facevo disolito. Il pianoforte aveva sempre aggiunto una no-ta trascendente alla mia visita; fatto non meno im-portante, poi, richiamava Anna alla sua identità diartista, mostrandole quanta gioia potesse ancora da-re e ricevere, indipendentemente da quali e quan-ti fossero i problemi che la assediavano.

Quando, non molto tempo fa, tornai a visitare i co-niugi H., trovai l’appartamento pieno di pallonci-ni. «C’è stato il mio compleanno» mi spiegò Anna.«Tre giorni fa». Non aveva l’aria di star bene, e seb-bene la voce e il calore fossero quelli di sempre,sembrava un po’ fragile. Mi raccontò che le sue fa-coltà visive si erano ulteriormente deteriorate, equesto emerse in modo $n troppo evidente quan-do, cercando a tastoni una sedia su cui sedersi, an-dò nella direzione sbagliata; o, ancora, quando siperse nel suo stesso appartamento – qualcosa dicui in precedenza non c’era stato alcun segnale. Ilsuo comportamento, ora, sembrava molto più «cie-co», e rifletteva non solo la crescente incapacità didecifrare ciò che aveva di fronte, ma anche la com-pleta mancanza di orientamento, di ricerca visiva edi $ssazione dello sguardo. Adesso Anna aveva dif-

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$coltà a distinguere qualsiasi tipo di forma, sebbe-ne la percezione del colore e del movimento fosserorimaste acute come sempre. Anna H. è ancora in grado di scrivere lettere; lalettura, però, per$no quella lenta e faticosa, com-pitando una lettera alla volta, che ancora le riusci-va anni fa, è diventata impossibile. Le piace mol-tissimo che qualcuno legga per lei – Josef le recitapassi di libri e articoli – e io le promisi di mandar-le alcune audiocassette. Il rapporto fra loro due èmolto intimo, più intimo che mai, per via dell’in-validità di lei.Ciò nonostante, Anna ritiene che il suo orecchiosia buono come sempre, ed è ancora in grado diinsegnare musica agli allievi che si recano da lei. Aparte questo, mi racconta, suona pochissimo.Tuttavia, quando accennai al quartetto di Haydnche aveva eseguito per me anni prima, il suo voltosi illuminò. «Ero assolutamente incantata» mi disse.«Non lo avevo mai sentito prima. Non lo suonanomai». E tornò a descrivermi come, incapace di le-varselo dalla testa, lo avesse arrangiato per piano-forte, tutto a mente, nell’arco di una notte. Le chie-si di eseguirlo per me un’altra volta. Anna dappri-ma esitò; poi si lasciò convincere, prese coraggio,e fece per dirigersi al pianoforte, ma andò nella di-rezione sbagliata. Josef allora la corresse, con gar-bo. Al piano, Anna in un primo momento annaspò,prendendo le note sbagliate; sembrava ansiosa econfusa. «Dove sono|» si lamentò, e io pensai: Diomio, non ci riesce più. Ma poi, orientandosi sullatastiera, si riprese e cominciò a suonare splendida-

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mente – e la melodia si librò nell’aria, fondendosie avvolgendosi su se stessa. Per$no Josef rimase me-ravigliato, e si commosse. «Sono due o tre settima-ne che non tocca il pianoforte» mi disse in un sus-surro. Suonando, Anna guardava $sso verso l’alto,e cantava la melodia fra sé, a bassa voce. Mise inquella esecuzione tutta la sua arte, tutta l’energia eil sentimento che aveva sempre dimostrato, e poi,quando, Haydn, dopo una furiosa turbolenza, si av-viò agli accordi $nali e risolutivi, una sorta di alter-co musicale, disse semplicemente questo: «Tutto èperdonato».

© 2003 oliver sacksPer le illustrazioni: copyright © 2001 Irving Penn

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