Ducato Speciale Guerra

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il Ducato Periodico dell’Istituto per la formazione al giornalismo di Urbino Mensile - 4 aprile 2014 - Anno 24 - Numero 4 Ducato on line: ifg.uniurb.it Distribuzione gratuita Poste Italiane Spa-Spedizione in a.p. - 70% - DCB Pesaro alle pagine 6 e 7 alle pagine 8 e 9 alle pagine 12 e 13 All’assalto della fortezza di Kesselring Linea Gotica Rotondi, l’uomo che nascose Caravaggio Monument Man a pagina 4 Rosina: “Così spiavo tedeschi e fascisti” Partigiani Medaglia d’oro per l’onore riconquistato Brigata Maiella L’EDITORIALE S ettant’anni fa il territorio pesarese, lungo la linea del Foglia (da Sassocorvaro al mare) fu- teatro di una delle più cruente battaglie del- la seconda guerra mondiale. I tedeschi, per bloc- care l’avanzata degli alleati, crearono la Linea Go- tica, un gigantesco sistema difensivo lungo il cri- nale appenninico, 320 chilometri dall’Adriatico al Tirreno, da Pesaro a Marina di Massa. Proprio qui, nel Montefeltro costruirono, sulla sponda si- nistra del Foglia, una fascia fortificata, profonda oltre dieci chilometri, ultimo ostacolo prima del- le grandi pianure. I tedeschi smantellarono linee di comunicazione, distrussero installazioni ed edifici, minarono ogni corridoio di transito e “qualsiasi cespuglio o rilievo che offrisse ma- scheramento o riparo” (Memoria Viva 2004). Questo numero del Ducato è dedicato alla Guer- ra, ai tragici fatti dell’estate 1944. È il numero con il quale i giornalisti praticanti di questo biennio (2012-2014) si congedano dai lettori. La Scuola ri- partirà con trenta nuovi allievi il prossimo otto- bre. Perché, per il numero di commiato, sceglie- re proprio i tragi- ci fatti della Guerra? Perché nonostante le le- zioni della storia l’uomo non ha ancora capito che le controversie non si risolvono con la ferocia e l’irrimediabile irrazionalità del ricorso alle ar- mi. E anche perché non deve mai oscurarsi il sen- so della riconoscenza per i combattenti di varie provenienze ed etnie che, sotto le bandiere allea- te, morirono o rischiarono la vita per aprire la strada alla liberazione dell’Italia. Infine per non dimenticare. I nostri praticanti con questo numero del Duca- to vogliono dare il loro contributo alla memoria. Hanno ricostruito le gesta dei nostri eroi, raccol- to le testimonianze dei sopravvissuti, recuperato le piccole storie di vita di una popolazione ridot- ta alla fame e alla disperazione fra le rappresaglie e i saccheggi dei tedeschi e i bombardamenti de- gli alleati. Piccole e grandi storie, atti di eroismo a volte scaturiti da un sem- plice gesto di altruismo e di solidarietà umana. Il marchigiano per sua na- tura è abituato al sacrifi- cio e alla sofferenza. Ha un forte spirito di soprav- vivenza, ma anche solidi ideali e radicati principi morali. Le sofferenze della guerra, la morte di- ventata abituale compagna di vita, i rastrella- menti, le devastazioni e le ruberie cancellarono l’esaltazione nata dalla propaganda fascista per lasciare il posto all’odio per l’alleato-nemico che ha rovinato l’Italia, all’amore per la pace, pre- messa essenziale per una nuova vita collettiva fondata su democrazia e libertà, valori che solo qualche sprovveduto ritiene consunti . C’è stata, insomma, una scelta di carattere etico, tantocheancheperipartigiani inarmisipuòusa- re la definizione di “resistenza civile”, intenden- dola non solo come partecipazione senza una di- visa militare , ma come impegno per la realizza- zione di valori e di ideali condivisi Ha ragione Italo Calvino quando, nel Sentiero dei nidi di ragno, afferma che “il significato generale della lotta di resistenza era in una spinta di riscat- to umano, anonimo, da tutte le umiliazioni. In tutti coloro che avversavano la guerra (non solo nei partigiani in armi) c’era l’aspirazione a una re- denzione dell’uomo, a una umanità liberata, fi- nalmente espressione dei propri bisogni più in- timi e sempre meno costretta da imposizioni se- colari o ideologiche”. Purtroppo la lezione della storia a volte non basta. Oggi, per giustificare un intervento militare si usano sofismi come “mis- sione di pace”,“guerra giusta”,“umanitaria”,“pre- ventiva” o “per legittima difesa”. Ma nessuna acrobazia linguistica può trasformare uno stru- mento al servizio della morte in una operazione di pace e di vita. Forse ha ragione Bob Marley quando afferma che “la guerra ci sarà sempre fi- no a quando il colore della pelle è più importan- te del colore degli occhi”. Per non dimenticare il tempo del dolore 1944-2014 Foto Biblioteca Archivio Bobbato Pesaro

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Numero speciale per celebrare i 70 anni dalla Liberazione delle Marche.

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il DucatoP e r i o d i c o d e l l ’ I s t i t u t o p e r l a f o r m a z i o n e a l g i o r n a l i s m o d i U r b i n o

Mensile - 4 aprile 2014 - Anno 24 - Numero 4Ducato on line: ifg.uniurb.it

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alle pagine 8 e 9

alle pagine 12 e 13

All’assaltodella fortezzadi Kesselring

Linea Gotica

Rotondi, l’uomoche nascoseCaravaggio

Monument Man

a pagina 4

Rosina: “Cosìspiavo tedeschie fascisti”

Partigiani

Medaglia d’oroper l’onorericonquistato

Brigata Maiella

L’EDITORIALE

Settant’anni fa il territorio pesarese, lungo lalinea del Foglia (da Sassocorvaro al mare) fu-teatro di una delle più cruente battaglie del-

la seconda guerra mondiale. I tedeschi, per bloc-care l’avanzata degli alleati, crearono la Linea Go-tica, un gigantesco sistema difensivo lungo il cri-nale appenninico, 320 chilometri dall’Adriaticoal Tirreno, da Pesaro a Marina di Massa. Proprioqui, nel Montefeltro costruirono, sulla sponda si-nistra del Foglia, una fascia fortificata, profondaoltre dieci chilometri, ultimo ostacolo prima del-le grandi pianure. I tedeschi smantellarono lineedi comunicazione, distrussero installazioni ededifici, minarono ogni corridoio di transito e“qualsiasi cespuglio o rilievo che offrisse ma-scheramento o riparo” (Memoria Viva 2004). Questo numero del Ducato è dedicato alla Guer-ra, ai tragici fatti dell’estate 1944. È il numero conil quale i giornalisti praticanti di questo biennio(2012-2014) si congedano dai lettori. La Scuola ri-partirà con trenta nuovi allievi il prossimo otto-bre. Perché, per il numero di commiato, sceglie-

re proprio i tragi-ci fatti dellaGuerra? Perchénonostante le le-zioni della storial’uomo non haancora capitoche le controversie non si risolvono con la ferociae l’irrimediabile irrazionalità del ricorso alle ar-mi. E anche perché non deve mai oscurarsi il sen-so della riconoscenza per i combattenti di varieprovenienze ed etnie che, sotto le bandiere allea-te, morirono o rischiarono la vita per aprire lastrada alla liberazione dell’Italia. Infine per nondimenticare. I nostri praticanti con questo numero del Duca-to vogliono dare il loro contributo alla memoria.Hanno ricostruito le gesta dei nostri eroi, raccol-to le testimonianze dei sopravvissuti, recuperatole piccole storie di vita di una popolazione ridot-ta alla fame e alla disperazione fra le rappresagliee i saccheggi dei tedeschi e i bombardamenti de-

gli alleati. Piccole e grandistorie, atti di eroismo avolte scaturiti da un sem-plice gesto di altruismo edi solidarietà umana. Ilmarchigiano per sua na-tura è abituato al sacrifi-

cio e alla sofferenza. Ha un forte spirito di soprav-vivenza, ma anche solidi ideali e radicati principimorali. Le sofferenze della guerra, la morte di-ventata abituale compagna di vita, i rastrella-menti, le devastazioni e le ruberie cancellaronol’esaltazione nata dalla propaganda fascista perlasciare il posto all’odio per l’alleato-nemico cheha rovinato l’Italia, all’amore per la pace, pre-messa essenziale per una nuova vita collettivafondata su democrazia e libertà, valori che soloqualche sprovveduto ritiene consunti .C’è stata, insomma, una scelta di carattere etico,tanto che anche per i partigiani in armi si può usa-re la definizione di “resistenza civile”, intenden-dola non solo come partecipazione senza una di-

visa militare , ma come impegno per la realizza-zione di valori e di ideali condivisiHa ragione Italo Calvino quando, nel Sentiero deinidi di ragno, afferma che “il significato generaledella lotta di resistenza era in una spinta di riscat-to umano, anonimo, da tutte le umiliazioni. Intutti coloro che avversavano la guerra (non solonei partigiani in armi) c’era l’aspirazione a una re-denzione dell’uomo, a una umanità liberata, fi-nalmente espressione dei propri bisogni più in-timi e sempre meno costretta da imposizioni se-colari o ideologiche”. Purtroppo la lezione dellastoria a volte non basta. Oggi, per giustificare unintervento militare si usano sofismi come “mis-sione di pace”, “guerra giusta”, “umanitaria”, “pre-ventiva” o “per legittima difesa”. Ma nessunaacrobazia linguistica può trasformare uno stru-mento al servizio della morte in una operazionedi pace e di vita. Forse ha ragione Bob Marleyquando afferma che “la guerra ci sarà sempre fi-no a quando il colore della pelle è più importan-te del colore degli occhi”.

Per non dimenticareil tempo del dolore

1944-2014

Foto Biblioteca Archivio Bobbato Pesaro

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Fu la volta che io giun-si più vicino al nemi-co”, scrive WinstonChurchill, ricordan-do quel 27 agosto1944, quando si tro-

vava sopra Fano, a Montemag-giore al Metauro. Il primo mini-stro del Regno Unito era statoaccompagnato in cima alle col-line marchigiane dopo un in-contro con il generale dell’eser-cito polacco Anders. Ammiravail panorama e con il binocolo os-servava le nuvole di polvere sol-levate dall’artiglieria nei pressidella linea del fronte. Gli alleatiavevano iniziato da pochi giornil’attacco alla linea Gotica.La seconda guerra mondiale,nel pesarese, è scoppiata tardi.Dal giugno del 1940 fino al set-tembre del 1943 il fronte eralontano e le armi erano solo unricordo della Grande guerra.Eppure nel giro di un anno, il1944, Pesaro e tutto il territoriodella provincia si sono ritrovatiad essere il punto nevralgicoprima della strategia tedesca epoi della liberazione dell’interoPaese.

Pesaro, punto di partenzadella linea Gotica

L’esercito tedesco occupò lacittà, senza trovare resistenza,il 13 settembre del 1943. Inquei giorni i tedeschi scelseroPesaro come baluardo orienta-le di una linea difensiva cheavrebbe tagliato in due l’Italia.Si trattava della la linea Gotica.Niente a che vedere con la for-tificata Ligne Maginot, inFrancia. Per rallentare gli allea-ti in Italia, l’esercito tedescocercava di sfruttare soprattuttoil terreno montuoso e gli osta-coli naturali offerti dal territo-rio appenninico, come dirupi,fiumi e torrenti. Ma nel trattofinale ad est, verso la costa, unastriscia di pianura rimanevascoperta. Lì, sulla sponda sini-stra del fiume Foglia, la lineaGotica fu costruita come unavera e propria fascia fortificata.La linea, seguendo il fiume,arrivava fino a Urbino, poi sidirigeva verso il MonteFumaiolo, proseguiva sui passiappenninici a nord, poi a suddelle Alpi Apuane e raggiunge-va il mar Tirreno a Marina diMassa, fra Viareggio e Pisa. Lacostruzione dei baluardi erasotto la supervisione degliingegneri tedeschi dell’orga-nizzazione Todt. Quindicimilaitaliani furono costretti a colla-borare alla realizzazione dell’o-pera. Tra questi, a Montecchio,c’era Umberto Palmetti (apagina 6): con i compagni cer-cava di rallentare i lavori, diorganizzare le assenze perimpedire il completamentodella linea.Dopo il 28 dicembre, con l’iniziodei primi bombardamenti an-glo-americani su Pesaro, iniziòlo sfollamento di massa degliabitanti verso le campagne. Il 3gennaio 1944 sui muri della cit-

tà venne affisso un manifestoche avvisava dello “sgomberodella popolazione della fasciacostiera per una profondità di 10chilometri nel termine di 48ore”. Gli uffici dell’amministra-zione provinciale vennero dis-locati a Fermignano, Urbania,Sant’Angelo in Vado, Pergola,Saltara e soprattutto Urbino,che divenne il crocevia di tuttala provincia.La liberazione di Pesaro avven-ne otto mesi dopo. I primi adentrare nella città e nei comunivicini, tra il 30 agosto e il 2 set-tembre, furono i soldati del IICorpo polacco, con l’aiuto deisoldati canadesi e della BrigataMaiella. Ad aspettare la libera-zione della città c’era ancheOdoardo Barulli (a pagina..).Sfollato in campagna nell’in-verno del ’44, si nascondevacon la famiglia in una grotta aRipe di Talacchio. Per cinquegiorni, con altre 30 persone, ri-mase chiuso nel suo rifugio, so-pravvivendo con pane e acqua.Lo spettacolo che si presentòai suoi occhi, al rientro aPesaro, fu quello di una cittàsventrata. Secondo i dati delComune, dopo i bombarda-menti furono più di 8.000 ivani completamente distruttio gravemente danneggiati eoltre 9.000 gli abitanti rimastisenza casa. Nel 1945 il bilan-cio dei danni bellici nel pesa-rese fu di 30 miliardi di lire: lacifra più alta della regione.L’esercito degli alleati, con laBrigata Maiella, proseguì nellaliberazione del paese, rag-giungendo Bologna il 21 apri-le 1945. Tra le fila del nucleoabruzzese c’erano ancheGilberto Malvestuto (a pagina13), sottufficiale dei mitraglie-ri, e Raffaele Di Pietro (a pagi-na 13), che si arruolò nellabrigata a 18 anni contro ilvolere dei suoi genitori.Quella della Maiella è l’unicabrigata che è stata premiatacon una medaglia d’oro alvalore militare. Ma i protago-nisti della Resistenza sonomolti di più.

Da Erivo Ferri alla V BrigataGaribaldi di Pesaro

Nel novembre del 1943, men-tre iniziavano i lavori dicostruzione della linea Gotica,l’esercito fascista cercavanuove leve a Pesaro. Sui muridi tutte le città della provinciavennero affissi i bandi perl’arruolamento nell’esercitodella Repubblica SocialeItaliana. Ma alla federazionefascista si presentò solo il 10per cento del totale dei giova-ni idonei. Di questi, la mag-gior parte abbandonava lecaserme dopo aver ricevuto ilcompleto militare.Negli stessi giorni, la resisten-za armata provinciale entravain una nuova fase. Un repartodi polizia tedesca aveva cir-condato Ca’ Mazzasette, unafrazione di Urbino, per arre-stare il comunista Erivo Ferri,punto di riferimento dellalotta antifascista della valledel Foglia. Tina Cecchini

Il 1944, Pesaro e UrbinoIl pesarese era di importanza strategica per l’esercito tedesco. Ma i partigiani

DIANA OREFICE

Corbucci (a pagina 5), cheall’epoca aveva 17 anni, rac-conta che Erivo riuscì a scap-pare dopo una violenta spara-toria. Persero la vita un solda-to tedesco e tre civili, tra cuiun giovane di 19 anni, unaragazza incinta e un’anziana.Una volta a Cantiano, Erivocostituì i primi nuclei dellalotta partigiana nelle Marche:i distaccamenti Picelli eGramsci. Nel giro di qualchemese i ribelli marchigiani simoltiplicarono, sempre piùgiovani partirono per i boschiappenninici e i due nuclei die-dero vita alla V BrigataGaribaldi di Pesaro, una delleprime d’Italia. Le brigate

piani di costruzione tedeschi aigenerali degli eserciti alleati.Ma tra le fila della Resistenzac’erano anche tante donne. Tradi loro, Rosina Frulla (a pagina4). Aveva 17 anni ed era unastaffetta partigiana. Raccontache usciva di casa con il pepe intasca per tirarlo sul viso dei fa-scisti durante le adunate. Nonaveva paura, perché lottava perla libertà.

Le tragedie di Urbania eMontecchio

Uno dei luoghi più caldi del ’44pesarese era Urbania. Il 23 gen-naio del 1944 gli aerei america-ni rasero al suolo il centro stori-

“d’assalto” Garibaldi eranoprevalentemente legate alPartito Comunista e al Partitod’Azione. Nelle Marche si con-centravano nella fascia inter-na, quella più montuosa. Sullacosta, invece, i Gruppi di azio-ne patriottica compivano ope-razioni di sabotaggio e direcupero di armi e materialeutile per le bande armate.Nel pesarese, sia nella fascia in-terna che in quella costiera, laResistenza ebbe soprattutto ilruolo di impedire o rallentare ilavori di costruzione della lineaGotica. Ciro Renganeschi (apagina ..), di Pesaro, si era infil-trato nella manovalanza. Nel1944 rischiò la vita per portare i

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sotto lebombe la libertàe tutta la popolazione cercarono di impedire la costruzione della linea Gotica

Uno Sherman mentre entra a Pesaro durantela liberazioneA destra, in alto,tre B26 Maraudersorvolano la città nel 1944 In basso, alcunicivili si nascondonoin un tunnel vicinoIsola del Pianodurante un bombardamento (Foto: BibliotecaArchivio BobbatoPesaro)

co della città. Erano le 12,45 didomenica. Gran parte dellapopolazione era andata amessa e stava uscendo dalleparrocchie in quel momento.Le vittime furono 250, interefamiglie morirono sotto lemacerie, furono centinaia gliorfani e gli sfollati. AngelaBifaro (a pagina 10), napole-tana, si era rifugiata a Urbaniaper fuggire alle bombe nellasua zona, ma quel giornoperse tutta la famiglia. PietroPaci (a pagina 10), che oggi ha97 anni, si salvò per caso: abi-tava nel centro storico e almomento del lancio dellebombe si trovava fuori casa.Ha ricostruito la sua abitazio-

no un gruppo di partigiani,che non sapevano che gliesplosivi fossero stati ammas-sati in tale quantità.

Resistenza passiva e coraggiomarchigiano

Tutto il territorio provincialeaveva una forte tradizioneantifascista. I civili mettevanoin discussione le autoritàassaltando i silos di grano,lasciando fuggire i confinati eorganizzando propagandaantiregime. I soldati tedeschie le autorità fasciste rispon-devano con minacce, arresti orastrellamenti.Uno dei protagonisti del

tigiani, sfollati, prigionierifuggiti dalle forze tedesche edebrei internati.Altro punto nevralgico dellalotta era Montecchio, dovepassava la linea Gotica. Itedeschi avevano trasportatonella cittadina il deposito dimine di Pesaro, con tutto ilmateriale necessario per lacostruzione dei baluardi didifesa. Il 21 gennaio, alle21.30, la polveriera esplose,provocando 30 morti e oltreun centinaio di feriti. GinoRicci (a pagina 11) all’epocaaveva 22 anni: racconta che lapotenza dell’esplosione losollevò dal suolo. A far scop-piare le oltre 8000 mine furo-

ne sul punto esatto dove erauna volta.Don Sergio (a pagina 10)ricorda un altro evento tragi-co nel comune di Urbania. Il 6luglio, 14 persone vennerouccise per rappresaglia dallaWehrmacht a San Lorenzo inTorre, una frazione a sudovest della città. In tutta lazona di Urbania infatti, fin dagennaio, i partigiani e i mem-bri del Comitato di liberazio-ne nazionale sabotavano leoperazioni tedesche e impe-divano il reclutamento nell’e-sercito fascista. La popolazio-ne stessa si opponeva alleautorità fornendo armi, vive-ri, rifugio e protezione a par-

coraggio marchigiano, oltrequello della Resistenza, fuPasquale Rotondi. Sua figliaGiovanna (a pagina 8) rac-conta di come suo padre,sovrintendente ai beni cultu-rali di Urbino, nascondevacentinaia di opere d’arte pro-venienti da tutta Italia perproteggerle dai bombarda-menti. Tra la fortezza di Francesco diGiorgio Martini, a Sassocorva-ro, e il Palazzo dei Principi aCarpegna, nelle Marche eranoconservati oltre diecimila ca-polavori. Tra di essi opere diCaravaggio, Tiziano, Piero del-la Francesca, Rubens, Bellini eGiorgione.

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Rosina Frulla è natail 30 novembre1926. A 17 anni hainiziato a fare lastaffetta partigia-na. Antifascista e

comunista convinta è rimastauna “ragazza del secolo scor-so”.Nel 1944 lavoravo alla mensadella scuola a Pesaro e ogniquindici giorni dovevo andarea prendere la paga in un ufficiodi via Passeri dove, appena sientrava, bisognava fare il salu-to al duce. Un giorno entronell’ufficio e trovo un coman-dante fascista con la faccia damaialone che mi dice: “Salutail duce!” e iozitta. Alloralui ha ripetu-to “Saluta ilduce!” e io“dov’è?”. “Lì”mi ha rispo-sto lui, indi-candomi unafoto incorni-ciata diMu s s o l i n iappesa soprala sua testa.Allora io hopreso la cor-nice e gliel’-ho rotta intesta.Lui si è arrab-biato molto ma non mi hannofatto nulla perché ero piccola:avevo 17 anni ma ne dimostra-vo meno.I fascisti non pensavano cheuna ragazzina così piccolapotesse fare la staffetta parti-giana e quando mi vedevanofare su e giù con la mia bicisgangherata senza copertoni,mi lasciavano sempre passare. Solo una volta quando stavoportando una pistola Berettaai partigiani della brigataBruno Lugli, sono stata ferma-ta a un posto di blocco. Lapistola era chiusa nel porta-pacchi della bici. Era la primavolta che ne trasportavo una enemmeno sapevo che si chia-

SILVIA PASQUALOTTO masse “beretta”. All’inizioquando mi hanno detto cosadovevo trasportare avevocapito “berretto”. Comunquel’ho ficcata nel mio portapac-chi, come facevo con le letteree gli ordini, e l’ho coperta congli attrezzi per riparare le bici-clette che usava mio fratelloche era meccanico. I fascisti,quando mi hanno fermata,per farmi un dispetto, hannobuttato la bici in un fosso esono uscite tutte le cose dalportapacchi ma io ho fattofinta di niente. Ho raccoltotutto e me ne sono andata.Ho sempre avuto una grandefaccia tosta io. Ricordo che miero fatta un bastone con inci-so sopra “viva il comunismo,viva i partigiani”. Lo portavo

sempre conme e ne erop r o p r i oorgogliosa.Un giornoperò unfascista l’hav i s t o .R i c o r d oche si èavvicinatocon fareminaccio-so, me l’hapreso dallemani e,senza direuna parola,l’ha spezza-to. Poi mi

ha chiesto: “ma ti rendi contocosa c’è scritto su questobastone?”. E io: “No, sonoanalfabeta!”. Poi sono tornataa casa e me ne sono fatta unaltro uguale. La mia lotta partigiana ècominciata portando il pane ela minestra che rimanevadalla mensa ai soldati prigio-nieri dei tedeschi adAlberghetti. Me li aveva fatticonoscere Luigi Fabi, il miovicino di casa. In famiglia mianon si parlava né di fascismoné di comunismo: la lotta par-tigiana me l’ha insegnata Fabicon il suo esempio. Ogni serausciva di casa, faceva un ruttoenorme e poi urlava – perchè

Rosina, staffettasenza pauraLa storia di una leggendaria partigiana di Pesaro che tirò il pepe in faccia ai fascisti

“Volevano che salutassi a braccio teso la foto del duce incorniciata. L’ho staccata dal muro e gliela ho rotta in testa”

53 km in una notte per aiutare i canadesi

Maratoneta per la libertàCiro ha 91 anni e durante la seconda guerra

mondiale ha combattuto, ventenne, con ilComitato di Liberazione di Pesaro. Ricorda

i nomi dei suoi compagni, le date delle azioni, lecittà dove è passato. “Dopo l’armistizio dell’8 set-tembre noi giovani ci siamo arruolati sponta-neamente nell’esercito voluto dal governo dellaRepubblica sociale guidato da Mussolini – rac-conta Ciro – così siamo riusciti a occupare postichiave negli uffici per sabotare i piani dell’eserci-to e aiutare i nostri compagni ”. E continua: “So-no stato io a portare, fino a Pergola, a piedi, i pia-ni delle fortificazioni del Foglia e istruzioni suilanci agli alleati”.Il 4 ottobre del 1943, dopo l’ar-mistizio e l’occupazione da parte dei tedeschi, aPesaro fu istituito il Comitato di Liberazione conle rappresentanze di 4 partiti: il partito d’azione,il partito comunista, il partito democristiano e ilpartito socialista. Tra i promotori, il padre di Ci-ro, Juarez Renganeschi, partigiano e convintoantifascista. La prima vera azione dei giovani pe-saresi, incaricati dal Comitato, fu di andare nellacaserma “Del Monte” a prendere dei fucili e del-le munizioni abbandonate. Li portarono a Mom-baroccio dove un colonnello italiano aveva co-stituito il primissimo gruppo di partigiani dellaprovincia.“Uno camminava avanti e l’altro stavadietro coi fucili – continua Ciro – così, se ci fosse-ro stati dei rastrellamenti, chi aveva i fucili in ma-

no avrebbe potuto gettarli”. Ma lo sguardo si fafiero e intenso quando inizia a raccontare quelloche è avvenuto qualche mese dopo, la missioneper la quale è stato scelto lui. “Bisognava aiutarele forze alleate a passare il Foglia – spiega – e ser-viva che portassimo i piani dei tedeschi con ipunti dove avevano intenzione di costruire le for-tificazioni e dove erano segnate le basi di lancio”.Le forze alleate stavano accampate a più di 50chilometri da Pesaro, a Pergola. “Sono partito lasera del 17 agosto e la mattina dopo ero a Pergo-la, 53 chilometri in un notte, a consegnare i piania Piero, un esponente del partito d’azione. Avevoarrotolato i fogli e li avevo inseriti in una canna dibambù, all’estremità. Così, se fossimo caduti inun rastrellamento, sarebbe bastato rompere lacanna in fondo e gettare l’ultima parte”. Ma per-ché è stato scelto proprio lui? “Io ero un atleta ve-ro – dice orgogliosamente – insegnavo nuoto edero un campione di corsa. Sono stato anche giu-rato internazionale di scherma alle Olimpiadi diRoma. Bisognava farseli a piedi tutti quei chilo-metri…”. Ciro ha portato a termine la missione eha aiutato i canadesi a passare sul Foglia con re-lativa sicurezza (i morti furono soprattutto neipressi di Montecchio dove i tedeschi avevanoistallato nuove difese non inserite nei piani). Lospirito battagliero di Ciro è lo stesso del1944. Equando viene il momento di congedarci, salutacosì: “Se avete dei nipotini o dei figli, portateli dame quest’estate che gli insegno a nuotare”.

lo sentisse tutto il quartiere -“Questo è per Mussolini, chegli venga un cancro!”.Quella si che era una famigliadi antifascisti “quadrati”. Cihanno insegnato tutto a me e amio fratello. Noi eravamo pic-coli ma non avevamo pauraperché stavamo lottando perla libertà e quando lotti per lalibertà non puoi avere paura. Io con i fascisti non c’ho avutomai a che fare. Mai andata alsabato fascista. Mai andata ailoro raduni. Anzi si: una voltasono andata a una manifesta-zione a Pesaro dove parlava unprete fascista. Ricordo che misono fatta largo tra la folla e,essendo piccolina, sonoriuscita a intrufolarmi nelle

prime file. Sono stata buonaper un po’ e poi, quando nes-suno se l’aspettava, ho tirato ilpepe in faccia ai fascisti e sonoscappata via. È stata dura; però se tornassiindietro rifarei tutto, dall’ini-zio alla fine. Io dovevo lottareperché ero e sono un’antifasci-ta. Ed è per questo che ogniprimo maggio continuo a met-tere una bandiera rossa inquell’angolo lì del giardino. Prima la issavo con mio maritoFerruccio che è stato anche luiun partigiano. Ci siamo sposa-ti nel 1952 in Comune aPesaro. Allora era uno scanda-lo ma noi abbiamo deciso cosìperché il prete mi aveva ricat-tata: “se non rinunci alla tesse-

ra del partito comunista non tisposi in chiesa”. E io ho detto“senza la tessera mai!”. Ora cheFerruccio è morto e io non civedo più tanto bene, la ban-diera la metto con i miei nipo-ti. Forse dovrei smetterla. Ognianno mi dico “questo è l’ulti-mo”. Che senso ha oggi, conquesta politica qui, quellabandiera sventolante? Chesenso ha vestirsi sempre dirosso?Io so solo che il rosso è il colo-re della mia passione, dellamia vita. E che anche que-st’anno la mia bandiera rossasarà lì, nell’angolo sinistro delgiardino, perché tutta la viasappia che qui vive un’antifa-scista vera.

FEDERICA SALVATI

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Nella grotta era-vamo in trenta,stretti uno af-fianco all’altro.Per 4-5 giornisiamo rimasti li,

mangiavamo pane e acquasenza sapere cosa stava succe-dendo all’esterno, sentivamosolo il rumore degli scoppi”. Adistanza di 70 anni OdoardoBarulli ricorda così i momentiinterminabili in attesa della li-berazione di Pesaro avvenuta iprimi giorni del settembre1944 grazie all’intervento del IIcorpo polacco e della BrigataMaiella. “Ogni tanto uscivamodal rifugio per vedere che cosasuccedeva ma gli spari e i bom-bardamenti ci impedivano distare fuori. Una volta è esplosauna mina vicinissimo alla no-stra caverna e una scheggia èentrata dentro, rompendo unatazza”. Il 2 settembre, dopol’attacco decisivo contro i te-deschi, arrivò la liberazionetotale della città e i pesaresi na-scosti nei rifugi poterono fi-nalmente rientrare nelle loroabitazioni. “Non sapevamo see in che condizioni avremmoritrovato la nostra casa. Noisiamo stati fortunati, avevasoltanto qualche vetro rotto”.Ma chi per primo rientrò in cit-tà dopo il passaggio del frontedescrive Pesaro deserta e sven-trata, tutto era da ricostruire.Anche la vita di chi aveva la-sciato la propria casa per sfol-lare in campagna e che im-provvisamente si ritrovò a ri-cominciare da zero. “Molte ca-se erano state demolite e le vieprincipali distrutte. Pesaro erairriconoscibile”. Una volta tor-nati in città si pensava che ilperiodo più brutto fosse allespalle ma la realtà fu che la cit-tadinanza dovette fare i conticon la ricostruzione e soprat-tutto con la fame. “Non c’eracibo e il grano non si potevamacinare. Mia madre lo facevadi nascosto, andava a prendereil grano ogni giorno dai paren-ti che ci avevano ospitato du-rante i bombardamenti, lo na-scondeva in una pancera equando arrivava a casa lo trita-va con un macinino da caffè.Con la farina ci cucinava dellecresce e, con quelle cresce, sia-mo tornati lentamente allanormalità”. Quando OdoardoBarulli lasciò per la prima vol-ta Pesaro insieme alla sua fa-miglia, aveva 14 anni. “Ci sia-mo rifugiati a Talacchio, a casadi una cugina di mio padre. Melo ricorderò sempre, era il gior-no del mio compleanno e io,mia sorella e i miei genitori sia-mo partiti portando con noisolo beni di prima necessità e

un credenza”, la stessa che og-gi mostra orgoglioso nella suacucina. “Pesaro era vuota, lamaggior parte di noi aveva la-sciato anche il lavoro e quindiper sopravvivere ci siamo do-vuti arrangiare. In quel perio-do l’unico modo per guada-gnare qualche soldo era lavo-rare per i tedeschi e scavare lefosse anticarro che servivanoper ostacolare l’arrivo dei ca-nadesi – continua il suo rac-conto Odoardo mentre dise-gna minuziosamente la formache la fossa doveva avere –ogni mattina prendevo la miabicicletta e da Talacchio arri-

vavo fino a Montecchio, lavo-ravo tutto il giorno e poi la se-ra tornavo a casa”. Le giornatedegli sfollati in campagna era-no scandite dal lavoro e dal ru-more dei bombardamenti. Mail 21 gennaio 1944 ci fu “la piùgrande esplosione mai senti-ta” che causò la distruzione diMontecchio. “Da quel giorno –continua Odoardo - ho smes-so di lavorare alla costruzionedelle fosse anticarro”. Abban-donato il lavoro a Montecchio,si dedicò insieme ad altri sfol-lati alla costruzione dei rifugisotterranei che avrebberoptotetto le loro famiglie.

MONICA GENERALI

Pigiati inuna grottacon pane e acqua

Odoardo Barulli ricorda l’occupazione nazista

“Abbandonammo la nostra casa portando solo una credenza”

1° novembre 1943: il rastrellamento a Ca’ Mazzasette

“Mia nonna, vittima dei nazisti”

Mia nonna non ha avuto nem-meno il tempo di capire cosastava succedendo. Ha sentito

degli spari, il verso dei cani, le urla intedesco. Si è affacciata alla porta e lehanno sparato”.Tina Cecchini Corbucci il 1 novembre1943 aveva 17 anni. La strage di Ca’Mazzasette la vede con gli occhi diallora, di una ragazza affacciata allafinestra di casa, la stessa casa dovevive ancora oggi.I poliziotti nazisti erano venuti daRimini a cercare Erivo Ferri, il calzo-laio del paese, comunista e, secondoun informatore dei fascisti, ben arma-to.Ma quello che doveva essere un sem-plice arresto si subito trasformato inuno scontro a fuoco che lasciò a terratre civili e un soldato tedesco.“Ho visto il camion dei tedeschi saliredalla strada provinciale – raccontaTina - la sparatoria è cominciata quasisubito. All’altezza delle Casacce, alleporte del paese, un ragazzo è uscito dicasa correndo, si era spaventatovedendo arrivare il camion carico di

uomini armati. Gli hanno sparato allaschiena mentre fuggiva in direzionedel fiume, al margine del bosco”. Ilragazzo si chiamava Pierino Bernardi,19 anni. Il suo corpo sarà ritrovatouna settimana dopo.Arrivati nel centro del paese, i tede-schi iniziano a sparare in aria: “Noncircondano subito le case, prima sischierano di fronte, poi entrano.Intanto sparano e sembra che sultetto cada la grandine”. Una donna si affaccia alla porta dicasa: è Adele Cecchini, la nonna diTina. I soldati la freddano con unasventagliata di mitraglietta e la stessasorte tocca ad Assunta Guarandelli,30 anni, madre di due bambini e inattesa del terzo figlio. “Assunta si era affacciata dal balconeper chiamare i figli dentro casa dopoaver sentito i primi spari – ripercorrecon la memoria Tina Cecchini – itedeschi l’hanno vista sulle scale el’hanno uccisa. Hanno sparato ai civi-li senza un motivo, indiscriminata-mente”.Ma cosa accade davvero a Ca’Mazzasette? Perché quello che dovevaessere un semplice arresto è diventatoun triplice omicidio, una strage? Lastoriografia ufficiale dice che il primoreparto tedesco, dopo alcune raffichea scopo intimidatorio, tenta di entrarenell’abitazione di Ferri, ma il calzo-laio si difende sparando e lanciandogranate.“Sentivamo Erivo sparare. Anche suocugino, Mario Ferri, prese il fucileappena vide che i soldati volevanoarrestare Erivo. Mario sparò ai tede-schi mentre stavano davanti al porto-ne della casa del cugino, e poi untedesco è morto, credo ucciso da lui”.A quel punto i tedeschi chiamano irinforzi e altri due camion carichi disoldati entrano in paese, ingaggiandouna battaglia a colpi di mitragliatricee bombe da mortaio. “Ci hanno fatto uscire tutti – riprendeTina – ci hanno circondato con le

mitragliatrici e ci hanno detto cheavrebbero bruciato le case. Mia madreimplorava che ci lasciassero vivere eche mi lasciassero finire gli studi. Cihanno portato alle Casacce, dove erastato ucciso il ragazzo, e ci hannotenuto lì mentre sentivamo che inpaese si continuava a sparare, ma nonriuscivamo a capire cosa stava acca-dendo. Dopo hanno portato via tuttigli uomini, 29 persone, compreso miopadre (Zilio Cecchini, arrestato per-ché era rimasto in casa durante ilrastrellamento, Ndr). Li hanno portatia Rimini, ma ne liberarono 25 nellesettimane successive. Mio padre erauno degli ultimi quattro e i tedeschi loobbligavano a togliere le bombe ine-splose dalla ferrovia. Un giorno,durante un bombardamento alleato,un ordigno è caduto è caduto sul car-cere e mio padre e i suoi compagni diprigionia sono riusciti a fuggire ed ètornato a casa. Quando è tornato hadetto ‘È giusto essere tornati oggi, è lafesta degli innocenti’. Era il 28 dicem-bre 1943, sei mesi dopo sono arrivatigli inglesi”.Erivo Ferri, invece, riesce a non farsicatturare. Per qualche giorno rimanenascosto in alcune abitazioni nei din-torni di Ca’ Mazzasette, ma la sua pre-senza rappresenta un pericolo per glistessi abitanti del paese. Il comandopartigiano decide per il trasferimentoin montagna, dove potrà aggregarsi auna banda. Lo stesso Ottavio Ricci, comandanteprovinciale della struttura militare delCnl, si offre per accompagnare Ferriverso Cantiano: lungo la strada, ven-gono fermati da una pattuglia difascisti, ma Ferri apre il fuoco ucci-dendo un milite e ferendo un secon-do. La fuga si conclude in un’abitazio-ne rurale di Cantiano, di proprietà diun certo “Dindiboia”. Da lì, ErivoFerri guiderà il distaccamento d’as-salto “Picelli”, una delle formazionipartigiane impegnate nella lotta con-tro i nazifascisti.

FEDERICO CAPEZZA

Sopra, vecchie fotografie in bianco e nero. In alto, OdoardoBarulli dopo la liberazione. In basso, Tina Cecchini Corbucci

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il Ducato

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Un sabotatore tra i tedeschi Umberto Palmetti, il contadino romagnolo che lavorò alla Gotenstellung

A Montecchio organizzava i “turni” di assenteismo per rallentare il completamento delle fortificazioni

Nel settembre del 1943Umberto Palmetti aveva 20anni. Abitava a San Giovanniin Marignano. È stato costrettoa lavorare alla linea Gotica.

Nella nostra ca-serma, quella diCesena doves t avamo no imilitari dell’Ae-ronautica, l’al-

larme l’hanno fatto suonareverso la mezzanotte del 9 set-tembre. Poche ore prima era-no arrivati i tedeschi e tuttiavevamo pensato “questa vol-ta è la nostra, questa volta ciprendono, ci caricano su untreno e ci spediscono in uncampo di concentramento”.Invece no, i tedeschi hannofatto un gran casino con i no-stri ufficiali e se ne sono anda-ti. Ma non eravamo più sicurie, dopo aver fatto scattare l’al-larme, gli ufficiali ci hannodetto di andare via, di scappa-re. Erano i giorni dei primirastrellamenti di soldati ita-liani. Chi non faceva intempo a togliersi la divisa, adandare al sud o a nasconder-si in montagna, veniva disar-mato e fatto salire su untreno per la Germania. Allafine, si sa, furono 600.000 isoldati italiani portati neicampi di concentramento. Io sono stato fortunato. Con imiei compagni, la notte del 9settembre, mi sono rifugiatonel castello di Montiano. Dalì non sapevamo dove anda-re, c’erano i tedeschi in giro.Abbiamo chiesto aiuto alleragazze che incontravamo

nei vari paesini: ci dicevanose nella zona avremmo tro-vato o meno i nazisti. Ilprimo pensiero era lo stessoper tutti noi: salvarsi, tornarea casa. Abbiamo attraversatoi campi per due giorni e per-corso oltre cento chilometri.Il tempo era buono, la notteabbiamo dormito sotto imeleti carichi di frutta e laluce bianca della luna piena.Abbiamo mangiato le mele el’uva che trovavamo inabbondanza e, dopo 48 ore,sono finalmente arrivato acasa.In quei giorni iniziavano i la-vori della linea Gotica: i tede-schi avevano bisogno di ma-nodopera per costruire le for-tificazioni difensive da MassaCarrara a Pesaro. E i militaricome me, secondo l’ordineche aveva dato Mussolini daSalò, non dovevano più anda-re in Germania. Servivamoqui, per scavare la linea Goti-ca. Appena rientrato a casa, a SanGiovanni in Marignano, erotornato a fare il contadino. La-voravo per l’uomo più riccodella zona, un agrario chepossedeva 50 poderi: si chia-mava Battista Cerri ed era unfascista, aveva persino la stel-la al merito da cavaliere delLavoro. Sua moglie era la figliadi Tirotti, il proprietario diuna ditta che lavorava per laTodt (l’impresa di costruzionitedesca impegnata nella rea-lizzazione della linea Gotica).Presto sarebbe toccato anchea me e Cerri mi consigliò diiniziare a lavorare per la Todta Montecchio, così che - con lascusa che dovevo fare il conta-dino nei suoi poderi - miavrebbe dato spesso il per-messo per assentarmi. Sono stato tra i tedeschi ma

non ho fatto quasi nulla. As-sieme agli altri operai dovevoscavare la terra con le vanghee i badili per creare le fosse an-ticarro. Le dovevamo fare azigzag in modo che il carrista,dopo che il carro armato siimpantanava nel terreno, nonriuscisse a capire dove fosse enon potesse uscire. Se ci ri-usciva, trovava le mine anti-carro e antiuomo. E il filo spi-nato, che avrebbe potuto ta-gliare solo con le tronchesi. Io,con i miei compagni, con ipartigiani, ero lì. Eravamotutti d’accordo: dovevamorallentare i lavori per agevola-re il passaggio degli Alleati.Per sentire più vicina la pace edimenticare l’odore dellamorte. Quando sono diventa-to capocantiere non ho gesti-to i turni delle presenze deglioperai, ma piuttosto delle as-senze. Dovevamo stare atten-ti a non dare troppo nell’oc-chio: i tedeschi non ci con-trollavano molto e proprioper questo dovevamo evitaredi insospettirli. Tutte le sere tornavo a dormi-re a casa a San Giovanni, face-vo il pendolare. Tra aprile emaggio del 1944, quando ilgrano era già alto, i tedeschihanno costruito nel mio pae-se un campo di aviazione. Perfare questo li ho visti appro-priarsi di una parte del nostroterreno, ho visto i fascisti dor-mire nei nostri campi. A Mon-tecchio il primo maggio del1944 abbiamo organizzatouno sciopero. Eravamo circaun migliaio di operai. I lavori della linea Gotica aMontecchio si sono interrottipoco dopo, quando a settem-bre gli Alleati sono riusciti asfondarne il settore adriati-co. Finalmente stava succe-dendo quello che aspettava-

AGNESE FIORETTI

mo, quello per cui avevamosabotato i lavori e rischiatola vita. I tedeschi non sape-vano cosa fare: la mattina del3 settembre 1944 eranoancora a Gabicce Montementre nella notte gli Alleatierano arrivati al fiumeFoglia, a Gradara e Tavullia. Inazisti erano nel panico e neldisordine, uno di loro in fugada Gabicce sparò a un civile.Non sapeva che, sul versanteadriatico, la sua guerra erafinita. Gli Alleati si sono poistabiliti al limite della pianu-ra Padana e fino alla prima-vera del 1945 hanno interrot-to la loro offensiva, a causadella difesa tedesca e delleforti piogge. Dopo la liberazione, volevovivere la ricostruzione del no-stro paese. Volevo viverla sul-la mia pelle. Mi sono iscritto alpartito Comunista, sono statoscomunicato dal prete delmio paese e per un anno hofatto il sindacalista. Ma lapaura non se n’era andata eavevamo tutti un gran terrore

addosso: le mine. Le minehanno ucciso il padre di tre ra-gazzi che conoscevo moltobene: erano stati fatti prigio-nieri e, finita la guerra, il papàera preoccupato . Pensavache tornando a casa avrebbe-ro potuto trovare delle mine.Ha iniziato a sminare un cam-po ed è stato lui a morire. Io volevo tornare a fare il con-tadino, ma il 1 gennaio del1946 una cartolina dell’Aero-nautica mi diceva che dovevorimettermi la divisa. Non eroancora stato congedato e perquesto ho girato l’Italia e lesue caserme. A Bari, in realtà,dovevamo andare in casermasolo per dormire e mangiare.Mancava poco al referendumdel 6 giugno e, con un compa-gno del Pci pugliese, ho giratola regione per fare la campa-gna elettorale a favore dellaRepubblica. Ho votato la miaRepubblica a Bari, mentrequasi tutti al sud preferivanola Monarchia. Era la nostrasvolta, la nostra ricostruzio-ne. Era la pace.

UmbertoPalmetti ha91 anni.Ancora oggiva nellescuole a rac-contare lasua testimo-nianzaIn alto il trac-ciato dellalinea fino a Pesaro

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1944-2014

Un museosopra le mine

A Casinina oltre 3.000 reperti

TOMMASO CHERICI

Casinina, un piccolo paese a 15 chilo-metri di Urbino, sfondare la lineaGotica era difficile. Qui l’Appenninomarchigiano è impervio e far passareun esercito non è una cosa semplice.Proprio qui però i tedeschi decisero

di rinforzare la linea, costruendo una doppia seriedi fortificazioni: “I nazifascisti protessero mag-giormente proprio quei punti in cui il passaggiorisultava più difficile. Sapevano – spiega GiovanniTiberi, direttore e fondatore del Museo della lineaGotica di Casinina – che gli alleati avrebbero pun-tato sull’effetto sorpresa e avrebbero provato aforzare quei tratti che a prima vista sembravanomeno accessibili”A poca distanza dal punto in cui la linea Gotica sidivideva in un doppio sistema di fortificazioni, ilprofessor Tiberi ha deciso di aprire il museo, inuna palazzina rossa che sorge proprio dovedurante la guerra era posizionato un campo mina-to. Nel museo sono conservati più di 3.000 repertirinvenuti lungo la linea Gotica. Ci sono le divise ditutti gli eserciti che presero parte alla Campagnad’Italia: da quella con le svastiche dell’esercitonazista a quella degli alpini italiani fino al cappel-lo di cuoio di un ufficiale australiano. Ma ci sonoanche binocoli, borracce e tanti altri oggetti chefacevano parte del bagaglio di un soldato. Il piùimportante era sicuramente la coperta: “I militarinon avevano quasi mai un letto dove dormire –spiega il professor Tiberi – e la coperta era un ele-mento imprescindibile per passare la notte all’ad-diaccio. Con quella i sodati si scaldavano e sidifendevano dalla polmonite e dalla pleurite”.Nel museo sono conservati anche oggetti militariche dopo la fine del conflitto furono trasformati inutensili di uso quotidiano: “La povertà era moltodiffusa – continua Tiberi – e la gente che vivevavicino alle zone del conflitto riciclava per usodomestico tutte quelle cose che la guerra avevalasciato sul terreno. Raccoglievano gli elmetti e litrasformavano in bracieri e in badili; c’è anche chiha usato i codoli delle bombe per creare degliimbuti”.Ma i residui della guerra sono stati trasformatianche in arte. Nel 2004, infatti, nel cortile delmuseo venne eretto un monumento ai caduti,composto da 54 ruote di cingoli dei carri armatidistrutti nelle battaglie lungo la linea Gotica.Intorno al monumento si sviluppa il parco dellamemoria. Qui sono conservati jeep e camion del-l’esercito tedesco e alleato ma c’è anche la rico-struzione di un bunker nazista.

320chilometri. È questa la lunghezza della linea Gotica, una catena di fortificazionidifensive voluta dai tedeschi nel 1943: lo scopo era di rallentare l’avanzata verso ilnord Italia dell’esercito alleato, sbarcato in Sicilia il 9 luglio dello stesso anno. La

linea Gotica tagliava la penisola da est a ovest e si estendeva dalla provincia di Massa e Carrara aquella di Pesaro e Urbino. Partendo dalle Alpi Apuane, proseguiva verso est lungo le colline dellaGarfagnana e poi sui monti dell’Appennino modenese e bolognese. Risaliva la valle dell’Arno e quelladel Tevere fino ad arrivare all’Appennino forlivese. La linea scendeva infine lungo il versante adriaticofino a Pesaro, senza toccare la città ducale. Il progetto originario prevedeva la realizzazione di unafascia di fortificazioni larga circa 35 chilometri: sulla costa adriatica sarebbe dovuta partire dalla spon-da sinistra del fiume Foglia per arrivare fino a Rimini, passando anche sulle valli dei fiumi Conca eMarecchia. I tedeschi, però, non riuscirono a completare l’opera e le fortificazioni si svilupparonoesclusivamente lungo una linea di poche decine di metri di profondità.

10mesi. I francesi impiegarono quasi 12 anni a costruire la linea Maginot, il complesso di for-tificazioni che difendeva i confini orientali della Francia. I tedeschi, invece, ebbero a dispo-sizione solo 10 mesi per dar vita alla linea Gotica. I lavori iniziarono nel settembre 1943,

dopo la liberazione di Benito Mussolini per opera delle forze speciali tedesche e la proclamazionedella Repubblica di Salò. Per la costruzione delle strutture difensive i nazisti reclutarono soldati e pri-gionieri italiani, che finirono così a lavorare per la Todt (una grande impresa di costruzioni creata inGermania da Fritz Todt). Tutti coloro che lavoravano alla creazione della linea Gotica non venivanopagati e avevano il compito di costruire bunker in cemento armato e campi minati, scavare fossi anti-carro e posizionare tralicci di filo spinato. I lavori furono necessariamente interrotti nell’agosto del1944, quando l’esercito alleato sferrò il primo attacco alla linea Gotica. A quella data erano stati rea-lizzati 2375 nidi di mitragliatrici, 479 postazioni di cannoni e oltre 16.000 postazioni per tiratori scelti.I chilometri di fossati anticarro erano quasi 9.000 e quelli di filo spinato 117.

28giorni. I combattimenti tra gli alleati e i nazifascisti, sul versante adriatico della lineaGotica, durarono dal 25 agosto al 21 settembre del 1944: 28 giorni di battaglie che siconclusero con la liberazione di Rimini. Il nome in codice dell’offensiva alleata alla linea

Gotica era “Operazione Olive”: il piano di attacco era stato ideato dallo stato maggiore del generaleHarold Alexander, comandante in capo delle forze armate alleate durante la Campagna d’Italia.L’obiettivo era sfondare le fortificazioni tedesche, in modo da aprirsi una strada per la conquista del-l’intera Pianura Padana entro la fine del 1945. Il 3 settembre gli alleati travolsero tutte le linee di dife-sa tedesca nel territorio marchigiano e arrivarono in Romagna. Il 17 settembre i nazi-fascisti ricevette-ro l’ordine di ritirarsi e gli scontri si spostarono più a nord, nella zona di Rimini. La città fu conquistatada truppe greche e neozelandesi quattro giorni dopo. Sul versante tirrenico, invece, l’avanzata alleatafu più faticosa: nella parte centrale e occidentale la linea Gotica cedette solo nell’aprile del 1945.

72.000morti. Dopo la prima fase dei combattimenti lungo la linea Gotica, icaduti nei due eserciti furono 72.000: secondo le stime redatte dalgenerale Harold Alexander, ci sarebbero state 42.000 morti tra le

linee tedesche e 30.000 tra quelle degli alleati. Le cifre approssimative parlano di 60.000 morti tra icivili: molti morirono per i bombardamenti e, dopo la fine della guerra, per la presenza dei campi mina-ti che circondavano i centri abitati. Gli sminatori, che cercavano di scovare gli ordigni inesplosi lasciatidalla guerra, lavoravano per pochi soldi ma spesso pagavano con la loro vita.

I numeri della linea Gotica

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il Ducato

L’uomo che salvò la bellezzaTra il ‘39 e il ‘43 il soprintendente nascose i tesori a Sassocorvaro e Carpegna, un patrimonio inestimabile

Mio padre nonsi considera-va un eroe,diceva sem-pre che ave-va fatto solo

il suo lavoro di soprintenden-te”. E’ così che GiovannaRo-tondi racconta la figura del pa-dre Pasquale, salvatore del pa-trimonio artistico italiano emedaglia d’oro al valor civile.Rotondi ha salvato dalla guer-ra, dai bombardamenti e dallerazzie naziste oltre diecimilaopere d’arte, tra cui capolavo-ri di Giorgione,Tiziano, Tinto-retto, Piero della Francesca,Correggio, Caravaggio, Ru-bens, Tiepolo, Lorenzo Lotto,Perugino. Quando il 1 settembre 1939Hitler invade la Polonia, l’allo-ra ministro dell’educazioneGiuseppe Bottai capisce chel’Italia, prima o poi, entrerà nelconflitto a fianco dell’alleatotedesco e che quindi il frontepotrebbe arrivare anche sulterritorio nazionale. Si preoc-cupa subito di mettere in salvol’immenso patrimonio artisti-co del Bel Paese con un proget-to segreto che chiamerà “ope-razione salvataggio”. Dellamissione top secret viene in-caricato un giovane studiosodi 31 anni, Pasquale Rotondi,appunto. Rotondi viene nomi-nato soprintendente delleMarche e, un mese dopo loscoppio della guerra, arriva al-la stazione di Urbino, indicata-gli come città aperta dove rico-verare tutte le opere che riusci-rà a radunare. Rotondi si rendeimmediatamente conto che lacosa non è fattibile perché neisotterranei di Urbino è nasco-sto un arsenale dell’aeronau-tica, il che rende lacittà un potenzialebersaglio militare.La rocca di Sasso-corvaro. Il rifugioideale viene quindiidentificato nellarocca di Sassocor-varo. NonostanteRoma gli abbia pro-messo uomini e mezzi, Roton-di ha a disposizione l’autistaurbinate Augusto Pretelli, 4custodi e un paio di carabinie-ri, oltre a un vecchio camionci-no riluttantemente concessodal comune di Urbino. Nel giu-gno del 1940 tutto è pronto:Rotondi comincia a far affluirea Sassocorvaro le opere con-servate nei musei marchigia-ni.Il 10 di quel mese, Mussoliniannuncia l’entrata in guerra.Lo studioso quindi cominciaad allargare il la rete dell’ope-razione: a Sassocorvaro arrivaRodolfo Pannucchini, soprin-tendente di Venezia, che rima-ne impressionato dall’opera-zione e dispone immediata-mente che le opere del capo-luogo veneto vengano ricove-rate nella rocca feltresca. Daimusei veneziani arrivano aSassocorvaro, nell’ottobre del

‘40, opere come “La tempesta”di Giorgione e il tesoro dellabasilica di San Marco compre-sa la preziosissima Pala d’oro.Le opere continuano ad afflui-re costantemente fino al 1942,fin quando la rocca di Sasso-corvaro non è completamentepiena di tesori. Rotondi devecercare un altro ricovero. Carpegna. Incontra perciò ilprincipe di Carpegna che glimette a disposizione il propriopalazzo. Dal maggio 43 inizia-no ad arrivare grandi opere aCarpegna: i tre Caravaggio daSan Luigi dei francesi a Roma,Raffaello, Piero della France-sca e Bramante da Milano, imanoscritti e i cimeli di Rossi-ni da Pesaro. A quel punto, traSassocorvaro e Carpegna, Ro-tondi ha in custodia circa10mila opere, di cui periodica-mente controlla lo stato diconservazione. Durante unodi questi giri di ricognizione hal’idea geniale di staccare dallecasse delle opere l’etichettache ne descrive il contenuto.Un’accortezza banale che sal-

verà le sorti dell’o-perazione. L’8 set-tembre del 1943 ilgoverno Badoglioannuncia l’armisti-zio. L’Italia, adesso,fa parte del frontealleato. Per Rotondiquesto è un proble-ma perché i tede-

schi occuperanno il territorionazionale e i bombardamentialleati si intensificheranno diconseguenza. In più, non hapiù alcuna guida da Roma, de-tiene le opere senza titolo: ècompletamente solo. A Bergamo i tedeschi fondanola divisione italiana del Kunst-schutz, un reparto di “prote-zione dell’arte” che ha comereale scopo la razzia dei tesoriartistici europei da trasferirenel futuro Furhermuseum diLinz e nella collezione privatadel feldmaresciallo HermannGoering. Il 20 ottobre del ‘43: i tedeschiarrivano a Carpegna e occupa-no il palazzo del principe poi-ché pensano vi siano nascostearmi e munizioni. A questopunto la fortuna assiste Ro-tondi: si precipita al palazzo echiede di parlare con il co-mandante della guarnigione,

FRANCESCO CREAZZO

Pasquale Rotondi mise al sicuro nel Montefeltro oltre diecimila opere italiane

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il quale vuole accertarsi delcontenuto delle casse. I solda-ti ne aprono una: dentro ci so-no i manoscritti di Rossini. Ilcomandante tedesco le defini-sce “cartacce”. Dell’esito del-l’operazione si era interessatoanche il patriarca di Venezia, ilquale intercede presso i tede-schi per consentire a Rotondidi ritirare le casse di proprietàdella Chiesa. È qui che l’idea distaccare le etichette ripaga ilsoprintendente: riesce infattia sottrarre al controllo dei te-deschi anche le casse di pro-prietà dello Stato.Giorgione sotto il letto. Aquesto punto Rotondi hapaura: si precipita aSassocorvaro: teme che larocca possa essere occupatadai tedeschi. Giunto allarocca, carica sulla vecchiaBalilla di Pretelli alcuni tra icapolavori più preziosi come“La tempesta” di Giorgione, ilSan Giorgio del Mantegna,quattro madonne del Bellini,una di Cosmè Tura e il ritrat-to Morosini del Tintoretto.Le metterà sotto il suo letto, inuna Urbino occupata dalle SS.“Fu qui - racconta la figlia Gio-

vanna, che poi diventeàlta so-printendente di Genova - cheio e mia sorella ci accorgemmoche c’era qualcosa di strano: cidissero che la mamma era ma-lata e perciò non si muovevamai dalla camera da letto. Evi-dentemente stava benissimoma stava facendo la guardia aquei preziosi quadri”. Qualche giorno dopo, le SS la-sciano Urbino: Rotondi si atti-

va e svuota i ricoveri di Sasso-corvaro e Carpegna, e trasferi-sce tutto nei sotterranei di Pa-lazzo Ducale. Nel frattempo,alcuni studiosi al correntedell’operazione che hanno ri-fiutato di aderire alla repub-blica di Salò, si organizzanoper aiutare l’impresa di Ro-tondi: Carlo Giulio Argan, unodei più grandi storici dell’arteitaliani, si reca in Vaticano do-

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1944-2014

“Monuments Men”, i salvatori USAÈ di quest’anno il film “Monuments Men”, scritto e diretto da George Clooney. La pellico-la, che ha ricevuto reazioni contrastanti dalla critica cinematografica, si basa su una sto-ria vera: quella dei Monuments Men, o meglio della Mfaa (Monuments, fine arts andarchives group) dell’esercito angloamericano. I soldati alleati deputati alla protezione del-l’arte, erano un folto gruppo di oltre 350 persone che salvò dalle razzie dei nazisti mol-tissimi capolavori artistici tra cui la Madonna di Brugges, unica scultura di Michelangeload uscire dall’Italia durante il corso della vita dell’artista.

LA VERSIONE ANGLOAMERICANA

Al centro, “Amore Sacro e amor profano” di Tiziano. Da sini-stra in senso orario la Predella “Corpus Domini” di Paolo

Uccello, La “Madonna del Prato” di Giovanni Bellini, “LaTempesta” di Giorgione e la “Madonna col bambino” di

Cosmè Tura. Sono tutte opere ancora esistenti grazieall’”operazione salvataggio” guidata da Pasquale Rotondi,

ritratto nella foto nel corpo dell’articolo

ve incontra il cardinal Monti-ni, futuro Papa Paolo VI. Il Va-ticano accetta di custodire leopere entro le sue mura, forsel’unico posto sicuro rimastoin Italia. Il 21 dicembre del 1943 unacolonna armata arriva a Urbi-no, carica le opere e riparte al-la volta di Roma, dove arrivadue giorni dopo. L’operazionesalvataggio è finalmente fini-ta. Rotondi ha vinto. L’eroicosoprintendente, terminato ilconflitto, continuerà la pro-pria carriera: sarà soprinten-dente a Genova e salverà altreopere d’arte dall’alluvione diFirenze nel 1963, deumidifi-candole in una struttura dettala “limonaia”. Verrà addirittu-ra incaricato dal Vaticano dipresiedere i lavori di restaurodella cappella Sistina. La sto-

ria dell’operazione salvatag-gio, però, viene dimenticatafino al 1984. È in quell’annoche il sindaco di Sassocorvaroviene a sapere della storia e vaa Roma a incontrare il profes-sor Rotondi che gli risponde:“Era ora che vi ricordaste dime”. Dal 1997 proprio nellacittadina della rocca si tieneogni anno il premio intitolatoalla memoria di Rotondi,scomparso nel 1991, e dedica-to ai “salvatori dell’arte”. Unastoria straordinaria e ancorapoco conosciuta nonostanteal film “La lista di PasqualeRotondi” realizzato da RaiEducational in collaborazio-ne con la comunità montanadel Montefeltro e trasmessoda “La storia siamo noi”. Lastoria di Pasquale Rotondi,l’uomo che salvò il bello.

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il Ducato

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ILARIA BETTI

Arrivavano da tutte leparti d’Italia per ri-fugiarsi qui. Urba-nia sembrava unposto tranquillo, ri-sparmiato dalla

guerra. Le bombe erano lontane,gli aerei, diventati quasi una pre-senza “amica”, sorvolavano lacittà senza destare preoccupa-zioni. Nessuno aveva paura. Fi-no al 23 gennaio del 1944. Alle12.42, mentre i fedeli uscivanodalla messa, gli americani inizia-rono a bombardare la piazza. Suuna popolazione di 6000 abitan-ti, più di 250 persone morirono,spazzate via dallo scoppio o se-polte sotto cumuli di maceri. I fe-riti furono 515. Anche la cittàsubì gravissimi danni: 284 abita-zioni vennero distrutte, oltre1500 danneggiate. “Non erava-mo preparati. Nessuno se loaspettava – racconta Angela Bi-faro, che all’epoca aveva 7 anni –ero scappata da Napoli insiemealla mia famiglia per venire qui.Sapevamo che a Urbania tuttoera tranquillo. Cercavamo un ri-fugio ma trovammo la morte.Persi entrambi i genitori nelbombardamento, morirono an-che i miei nonni e i miei due fra-telli, di 3 e 10 anni. Rimasi da so-la”. Nessun presidio militare, nessu-no snodo ferroviario importan-te, nessuna traccia dei tedeschiin città: ancora oggi il bombarda-mento di Urbania sembra a mol-ti un mistero. E i sopravvissuti,colti alla sprovvista dalle bombe,sono ancora alla ricerca di unaspiegazione. “Si dice che la cittàsia stata bombardata per sbaglioe che il vero obiettivo fosse Pog-gibonsi, in Toscana - affermaDon Piero – i rapporti ufficialidella missione americana nonmenzionano Urbania da nessu-na parte mentre segnalano lapresenza degli aerei su Poggi-bonsi nello stesso giorno e allastessa ora in cui bombardaronola nostra città”. Ma c’è anche chiparla di un errore “umano”: “Ac-canto alla chiesa c’era allora uncirco, una piccola giostrina azio-nata da un asino – racconta ilparroco Don Piero – probabil-mente scambiarono il tendoneper l’accampamento dei tede-schi”. Mentre la paura di un nuovo at-tacco agitava ancora i cuori, gliabitanti di Urbania iniziarono laricostruzione. Gli edifici dan-neggiati del centro storico ven-nero ricostruiti seguendo l’an-damento dei vecchi palazzi. Enella chiesa dello Spirito Santo,colpita in pieno dal bombarda-mento e quasi completamenterasa al suolo, fu eretto nel 1949 unTempio Votivo alla memoria del-le vittime. Una porta in bronzo,una croce con le bombe ai piedie un mosaico di 65 metri quadriricordano la tragedia della guer-ra. E lo fanno anche attraverso iracconti e le fotografie di quelgiorno esposte sulle pareti. Pro-prio in occasione dell’inaugura-zione della porta, nel 2006, il Sin-

daco Luca Bellocchi e il parrocoDon Piero scrissero una letteraper ribadire l’importanza del ri-cordo: “È necessario ravvivare lamemoria di un avvenimentoche, con il passare del tempo edelle generazioni, rischia di affie-volirsi per poi disperdersi tra letante pagine della storia della no-stra città. Ma che non deve acca-dere mai più. Ricordare è fonda-mentale”.Il bacio d’addio. “Avevo 26 anniall’epoca. Quella mattina – rac-conta Pietro Paci - ero uscito per-ché ero inquieto, non mi sentivoal sicuro. A casa c’erano cinquepersone, tra cui mia mamma,malata a letto. Mi ricordo che sce-si le scale e incontrai la mia nipo-tina di nove anni, che stava fa-cendo i compiti. Mi disse: “Zio,mi dai un bacio?”. Io glielo diedi emi incamminai nel vialetto. Feciin tempo a percorrere pochi me-tri prima di sentire lo scoppio.Istintivamente mi misi a correreverso casa ma prima di arrivareincontrai una persona che cono-scevo che mi disse: ‘Pietro, la tuacasa non esiste più’. Persi tutti ecinque i miei parenti ma i lorocorpi non si ritrovarono mai,tranne quello di mia madre,sprofondata nella terra insiemeal letto”Amarsi fino alla fine.“In città si èsempre raccontata la storia tragi-ca di due fidanzatini – raccontaDon Piero, parroco di Urbania -quella mattina lei era andata amessa, lui l’aveva raggiunta persalutarla. Si parlavano separatidal vetro della porta della Chiesa.Ma ad un certo punto arrivaronole bombe. Lei si salvò perché era

L’inferno di fuoco su UrbaniaIl 23 gennaio 1944 gli aerei americani sbagliarono obiettivo: 250 morti

Erano le 12.42. Tutti uscivano dalla messa. La città, senza importanza strategica, era considerata sicura

Una svista, una vendetta, un obiettivo errato. Ancora oggi il bombardamento diUrbania, città priva di bersagli militari, sembra essere senza spiegazione. Molte sonole ipotesi che gli abitanti hanno formulato nel corso del tempo per spiegarsi un simileevento, alcune diventate vere e proprie leggende popolari. C’è chi parla di un circoposizionato accanto alla chiesa: il suo tendone sarebbe stato scambiato per unaccampamento tedesco e per questo bombardato. Altri, invece, parlano di una tragediaannunciata: nei giorni precedenti alcuni aerei avrebbero lasciato alcune scie a forma di“S”, altri avrebbero gettato bigliettini dall’alto con la scritta “sfollate”, a cui la popola-zione non avrebbe dato retta. Che il bombardamento di Urbania sia stato solo una ven-detta? Nel dicembre ’43 la Questura segnala la cattura di un pilota neozelandese. Unmese dopo, la stessa notte della tragedia, un prigioniero a Vienna afferma di averascoltato a Radio Londra questo messaggio: “Abbiamo oggi bombardato Urbania, comerappresaglia per il maltrattamento di alcuni nostri paracadutisti”. Ma la trasmissionenon fu più rintracciata. L’ipotesi più accreditata rimane quella del bombardamento persbaglio: i report americani segnalano la presenza dei loro aerei su Poggibonsi, inToscana, alla stessa ora e nello stesso giorno in cui, invece, venne bombardataUrbania. Secondo la credenza popolare, le bombe non vennero sganciate sulla cittàtoscana perchè c’era troppa nebbia e gli aerei avrebbero deciso di ‘ripiegare’ suUrbania. Ma il nome della città non compare nei documenti ufficiali, né come obiettivoprincipale né come obiettivo secondario. Un unico punto fermo che a pochi basterà mache allontana le ipotesi meno plausibili. Come quella di Lorenzo Baffioni: “Il bombarda-mento di Urbania? Si dice che fu fatto da piloti donne ubriache”. (i.b.)

COME L’ERRORE SPARÌ DAI DOCUMENTI MILITARI

all’interno. Di lui si recuperò soloqualche povero resto nella zonadella piazza. Il suo corpo era vo-lato oltre i palazzi e si era quasidisintegrato a causa dello sposta-mento d’aria. Il riconoscimento,se così si può dire, fu fatto con unpezzo della cintura che indossa-va”Il posto giusto.“Arrivarono gli ae-rei e mi nascosi in una piccolacappella – racconta il diacono

Giuseppe Mangani - ma non misentivo al sicuro così mi spostaiin un altro rifugio poco lontano. Ecosì, per caso, mi salvai. Mi ricor-derò sempre la montagna di coseche volava e le grida della gente.Ma io i morti non li ho visti. Pertantissime notti dopo il bombar-damento, però, continuai ad ave-re gli incubi. Non riuscivo a to-gliermelo dalla mente”I segni del bombardamento.

“Quando arrivarono le bombe,ero con mamma e papà – raccon-ta Itala Spugnin, moglie di Giu-seppe Mangani - mi ricordo chemio padre ci prese e ci mise sottoun arco, che fortunatamente noncrollò. Ma non dimenticherò mail’immagine di mio padre insan-guinato e della sottoveste strac-ciata di mia madre. Ho ancorauna scheggia in testa a ricordar-mi quel giorno maledetto”

Veduta della Piazza di Urbania colpita dalle bombe il 23 gennaio 1944. Sulla destra un palazzo danneggiato. A destra, inalto un’immagine dell’esplosione del deposito di mine di Montecchio. Sotto, soldati tedeschi fucilano dei civili

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1944-2014

I tedeschi bussarono alla portaLa Torre e l’Orsaiola: i martiri innocenti delle rappresaglie

MARTINA ILARI

Montecchio. Èuna sera difine gennaiodel 1944. Ge-lida. Le fa-miglie si sie-

dono a tavola. Poca roba, laguerra deve ancora finire. Alcircolo di Piazza della Repub-blica i soldati tedeschi e imontecchiesi bevono insiemequalche bicchiere di vino. Gino Ricci, 22 anni, è un sol-dato in licenza premio, sta tor-nando in paese con due amici.Quella sera hanno deciso dicenare in casa. Vedono il pae-se da due chilometri di distan-za e i piedi sui pedali delle lorobiciclette iniziano a spingerepiù forte.“Pum. Pum. Pum”. Sentono aun certo punto. Sono le capsu-le delle mine del deposito dipiazza della Repubblica chesaltano in aria una ad una. Poi“boom”. Scoppiano tutte in-sieme. Poi silenzio, poi grida.Una nube di fumo immensainghiotte il cielo di Montec-chio.Il deposito di mine che i tede-schi avevano spostato da Pe-saro a Montecchio è esploso.Sono stati i partigiani. Lo ave-vano detto. “Vi avviseremo”,avevano anche detto. “I tede-schi lo avevano messo lì per-ché tanto c’era la gente e nonlo avrebbero fatto esplodere”,spiega Ricci a 70 anni di di-stanza. Ma bisognava distrug-gerlo lo stesso o l’avanzata de-gli inglesi sarebbe stata moltopiù lenta. Quelle mine avreb-bero fatto saltare i cingoli deiloro carri armati. “La guerra ècosì”, sentenzia il signor Ricci.Placido Gulino, il prigionierovenuto dal sud, il piantone deldeposito, corre da una parteall’altra del paese. “Via, via an-date via”, grida. Qualcuno loascolta e scappa a gambe leva-te. Altri non gli danno retta. “Èun mese che ci dite che scop-pia tutto, non vi crediamopiù”, gli rispondono. Gulinomuore insieme a trenta mon-tecchiesi. Quelli che lo hannoascoltato, tanti, si salvano. Ilfratello e la sorella di Gino Ric-ci scappano da casa in mutan-de. Poi Gino scava e scava: isuoi genitori sono sotto le ma-cerie. Li trova abbracciati nelletto.Gino Ricci, di quella notte ri-corda “un raggio di fuoco altodue o tre chilometri”, i vetrirotti di tutti i paesi del circon-dario, le grida della gente, lecase rase al suolo e una quer-cia alta quattro metri troncatanel mezzo. “Uno spostamento

d’aria catapulta Gino e i suoiamici a decine di metri di di-stanza. “Tutto bene?” si chie-dono l’un l’altro dopo unquarto d’ora. Poi il pensieroalle famiglie e via sui pedali.“Quando hanno bombardatoFiume ho avuto tanta paura”,racconta Ricci. Dopo lo scoppio, dopo quel21 gennaio 1944, Montecchionon fu più la stessa. O forsesarebbe il caso di dire, Mon-tecchio fu per la prima volta.Sì, perché l’evento storicodell’esplosione del depositodi mine divenne elementofondante della memoria col-lettiva dei sopravissuti. “Ho raccolto molte testimo-nianze – spiega Cristina Orto-lani, autrice di Un paese lungola strada – volevo ricostruirela storia di questo paese traPesaro e Urbino, prima e dopolo scoppio. Eppure ogni volta

La guerra non è solo quella delle trin-cee e dei bombardamenti, ma è an-che quella che viene a prenderti

dentro casa. Che uccide tutti senza crite-rio: donne, anziani e bambini. Nella zona urbaniese è successo tuttonel giro di pochi giorni: dal 5 al 14 lugliodel 1944. La rappresaglia della Torre. Ilcinque del mese i partigiani de-cidono di dar vita a un atto di-mostrativo: vogliono far saltareil ponte di Tre Archi, sulla stradache collega Urbania e Piobbico.In quel momento arriva da Apec-chio un sidecar di un marescial-lo delle SS. I partigiani lo uccido-no, riducendo in fin di vita il sol-dato che è con lui (morirà il gior-no dopo). L’alba del 6 luglio hainizio la rappresaglia tedesca. Araccontarlo è don Sergio Cam-pana, diventato il parroco dellaTorre pochi mesi dopo: “Hannoiniziato a seguire le tracce deipartigiani con i cani ma hannorisparmiato ‘Mamma Cesira’ cheaveva dato da mangiare ai tede-schi – racconta don Sergio – su-bito dopo hanno fucilato quat-tro uomini e dato fuoco alle lorocase”. La risalita tedesca conti-nua dando fuoco a tutte le caseche trovano per strada. In undici si rifu-giano dentro una stalla: vengono stana-ti e fucilati. Francesco Canti viene colpi-to a una gamba. Cade a terra e sviene:“Non per il dolore ma per aver visto lasua casa in fiamme con i figli dentro -

continua ancora don Sergio – i tedeschipassano a dare il colpo di grazia, maFrancesco è coperto da altri cadaveri ecosì si salva”. Intanto Carmela Canti, lamadre di quei bambini, chiede pietà aitedeschi spiegando che lì dentro ci sonoi suoi figli avvolti dalle fiamme, nel letto.I soldati non conoscono l’italiano e noncapiscono quello che dice la donna: ledanno un colpo sui denti col calcio del

fucile. L’unico in grado di salvare i bimbiè il loro fratello maggiore, Giuseppe Can-ti, di 8 anni: “È entrato in casa e ha libera-to la sorellina di un anno e il fratello didue”, continua il racconto di don Sergio.Tra i fucilati c’è anche Biagio Rossi, un

settantenne che abita lì di fronte. DonSergio racconta che l’uomo ha sentito glispari e ha esclamato “vado a vedere, tan-to sono vecchio, cosa ci possono fare i te-deschi con me?”, subendo però la stessasorte degli altri uomini della Torre. Il rastrellamento dell’Orsaiola. Pochigiorni dopo, però, alla storia della guerraa Urbania si aggiunge un nuovo capitolo:il rastrellamento dell’Orsaiola. Quello

che è successo il 7 luglio lo rac-conta un testimone dell’epocache non vuole dire il suo nomeperché l’importante è conoscerei fatti e non chi li riporta: “È suc-cesso a 200 metri da dove stavo iodopo esser fuggito dalla cittàbombardata – racconta chi havissuto quei momenti – i tedeschisono entrati nella chiesa e hannosparato alcuni colpi: ancora oggici sono i bozzi nella chiesa”. Lìhanno preso alcune persone e lehanno portate in una casa: “Han-no fatto merenda insieme, sem-bravano volerli lasciare – spiega ilsignore – loro si sono allontanatie quando erano a circa 50 metri didistanza gli hanno sparato”.“Cinque morti e una giovane ra-gazza che chiedeva pietà in lacri-me, provando a convincere il fra-tello, passato dalla parte dei te-deschi, a risparmiarla”, concludeil suo racconto l’uomo. Altri dueuomini, Venanzio Maccarelli e

Vincenzo Londei, ‘rastrellati’ in queigiorni, sono stati trasportati a Urbino efucilati. Ora una lapide li ricorda nel par-co della resistenza, sulla collina alla finedi via del Popolo che affaccia su PalazzoDucale.

Lo scoppio, la paura,poi una nube inghiottìil cielo di Montecchio

GIUSEPPINA AVOLA

MARIO MARCIS

STEFANO RIZZUTI

21 gennaio, salta la santabarbara tedesca

che chiedevo cosa ci fosse pri-ma del 1944, tutti mi rispon-devano che non c’era niente.Come se l’esplosione avessecancellato tutto, spazzato viala memoria di quello che erastato. Non rappresentava lafine ma l’inizio di una civiltà”. Le parole per descrivere ciòche avvenne si ripetonouguali sulle bocche di chi ave-va sentito come una mazzatal’esplosione della dinamite evisto la nube di fumo levarsialta su piazza della Repubbli-ca. Di chi aveva visto i parentimorire, di chi aveva cercato dirientrare in casa, scavalcandomacerie, polvere, brandelli diquel che restava di armadi,letti, seggiole o che aveva tira-to su baracche di fortuna conquel poco che stavano la-sciando i primi soldati alleatiche già si aggiravano per icampi.

La memoria si è cristallizzata,ha unito la cittadinanza, fa-cendo scomparire le differen-ze: dopo quel momento ca-tartico non ci fu più la camicianera che più nera non si può,né il partigiano, non si distin-se più tra buoni e cattivi. Montecchio non era più ilpaese con l’osteria in cui sifermavano i viandanti cheviaggiavano verso Pesaro, néla cittadina lambita dal Fo-glia, la cui portata spesso tra-scinava via il ponte che la col-legava con Urbino.Era ormai la città dello scop-pio, della fiamma di fuoco cheaveva fatto alzare lo sguardoal cielo degli abitanti dei pae-si vicini: Sant’Angelo in Liz-zola, Monte Gridolfo, Ripe. E da allora tale è rimasta. Nelricordo degli anziani e nei lo-ro racconti ai giovani mon-tecchiesi che ogni anno, il 21

gennaio, si ritrovano a com-memorare i caduti. Di quello scoppio rimane,ora, un monumento: marmobianco al centro della piazza,una corona d’alloro con il tri-colore, due lastre di bronzocon l’elenco dei morti. La città tutto intorno è risortaspinta dall’urgenza: a gen-naio fa freddo e bisognavaprocurarsi un tetto. Ognimontecchiese, soccorsi i feri-ti, seppelliti i morti, ha rico-struito la propria abitazionesulle spoglie di quella venutagiù. Così, una pietra sull’altra nonerano quelli giorni in cui re-stava tempo per pensare. C’era solo la necessità di ri-tornare alla vita di sempre, ri-partendo da se stessi, uniti at-torno al ricordo confuso di unmicrocosmo spazzato via inuna sera d’inverno.

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Èil 19 giugno del 1944quando il tenentecolonnello Lewiki,del secondo corpopolacco, entra aSulmona con tre

autocarri e un carico di viveri escarpe. Ha accettato di mettersia capo della brigata Maiella e direndere ufficiale quel grupposbandato di combattenti italia-ni che, fino a quel momento,aveva contribuito con l’OttavaArmata britannica alla libera-zione dell’Abruzzo. Già conqui-stare la fiducia del comandoinglese, l’anno prima, non erastato facile per la brigata, unicaformazione partigiana oggidecorata con la medaglia d’oroal valor militare alla bandiera.Dicembre 1943. Abruzzo, valledel fiume Sangro, ai piedi deimonti abruzzesi. Dopo la stabi-lizzazione del fronte, l’ avvocatosocialista Ettore Troilo, allaguida di una banda di combat-tenti denominata “Maiella”,parte da Torricella Peligna perconvincere il comando inglesea riconoscerli come “volontariper la Liberazione”.Inutilmente. Il ComandoBritannico si rifiuta di collabo-rare con reduci dell’esercito ita-liano. Nonostante il rifiuto, gliinglesi hanno bisogno dei parti-

giani abruzzesi: le montagne, lecartine topografiche incomple-te, le reti stradali incompiute lirendono indispensabili comeguide, sentinelle e avamposti.Sono gruppi di “combattenti dimontagna” spinti dalla voglia dirivalsa e vendetta, ma anchedall’istinto di sopravvivenza. Il 4 dicembre dello stesso anno,a Gessopalena, un’unità dellaWehrmacht uccide con una raf-fica di mitra la madre diDomenico Troilo, militare allaguida di un’altra banda di parti-giani che, poi, confluirà nellabrigata Maiella. “Avevo 18 anniquando è scoppiata la guerra -ha raccontato Troilo - e inse-gnavo. Poi mi sono arruolato,sono stato in Tunisia e dopo l’8settembre sono tornato a casa.Sono arrivati i tedeschi e hannoiniziato a rubare bestiame,biancheria, tutto quello che tro-vavano. Era il 4 dicembre ehanno distrutto il mio paese,casa per casa.”.Gennaio 1944. Gli alleati libera-no Ortona ed Ettore Troilo con-vince il maggiore inglese LionelWigram a prendere con sé labrigata: la “Maiella” è ricono-sciuta come sezione speciale einizia a combattere sotto ilcomando alleato, reclutandonuovi combattenti tra cui quelliguidati da Domenico Troilo. Il15 gennaio 1944 c’è la primaufficiale operazione congiunta.

La meta da raggiungere èPizzoferrato, una paese in posi-zione strategica lungo il fiumeSangro. L’assedio inizia all’albadel 3 febbraio ma l’attacco falli-sce, forse per l’avventatezza delmaggiore britannico, forse perl’astuzia dei tedeschi. A moriresotto una scarica di mitra è lostesso comandante Wigram.Nonostante la vittoria, i tede-schi abbandonano Pizzoferratonel timore di un secondo attac-co, dopo aver seppellitoWigram e finito a colpi di rivol-tella i patrioti feriti. Febbraio 1944. A Fallascoso,Domenico Troilo guida per unanotte intera venti combattenticontro la divisione tedescaJager, senza perdere neancheun uomo. Dopo questa dimo-strazione di valore, il capo distato maggiore, GiovanniMesse, inquadra la formazionenella 209ª divisione del ricom-posto esercito italiano. La“Banda patrioti della Maiella”,però, mantiene la propria auto-nomia. Ettore Troilo è il coman-dante, Domenico il suo vice. Sulbavero delle loro prime unifor-mi non c’è più la stelletta madue fasce tricolori.Giugno 1944. Dopo una prima-vera di combattimenti, la briga-ta Maiella approda a Campo diGiove e prosegue a ritmo serra-to. Sono i primi a entrare aSulmona. Il 10 giugno, con gli

alleati a Pescara, l’Abruzzo puòdirsi liberato. Inizia la secondafase nella vita della brigata.L’esercito polacco sostituiscequello britannico. Secondo lecronache del tempo, la Maiellaconta 280 uomini. Sono scalzi,affamati e malati. L’armamentoè insufficiente. La “Maiella” nonha mezzi di trasporto propri enon si sa se il secondo CorpoPolacco accetterà il loro contri-buto. Inoltre i partigiani sonoormai lontani da casa, nonconoscono il territorio più deipolacchi. Il tenente colonnelloWilhelm Lewicki è incaricatodallo Stato maggiore di capirese la brigata possa tornare utilealle truppe polacche. A convin-cerlo, nonostante il rischio e ledifficoltà, è lo spirito che animai partigiani a Sulmona. Il 17 giu-gno 1944, in cambio dell’aiuto,provvede al vettovagliamento,alle uniformi e, soprattutto,delle calzature. Il 18 giugnoLewicki diventa ufficialmente ilcomandante. L’avanzata versole Marche si svolge tra mille dif-ficoltà: la brigata si muove apiedi, riempie lo spazio tra letruppe polacche ad est e quelleinglesi a ovest, trasporta viveri emunizioni su carri trainati daibuoi. Cattura un sergente e uncaporale delle S.S. a bordo diuna motocicletta con tanto disidecar, coglie sul fatto un grup-po di tedeschi intenti a piazzare

mine antiuomo, procede senzaintoppi fino al fiume Chienti edè costretta a combattere dinotte. Con la battaglia diMontecarotto, anche l’ancone-tano è libero. La brigata liberaArcevia, aiuta gli alleati a sgom-brare Piticchio e rischia un’in-tossicazione dopo che i nemicihanno dato fuoco a una minie-ra di zolfo a Pergola. E’ agosto,fa caldo ed è impiegata in rico-gnizioni e coperture per glialleati. E’ isolata, può contaresolo sulle proprie forze e non cela fa più. La mancanza di sapo-ne e tempo per lavarsi provocairritazioni sul corpo al 75% deicombattenti, molti hanno ipiedi pieni di vesciche e di ulce-re, il promesso riposo vienerevocato all’ultimo momentoper ben due volte e sostituitodall’ordine di trasferimentoimmediato nel settore maritti-mo. I partigiani sono demotiva-ti e stanchi, ma non si fermano.A Pesaro si uniscono all’esercitoalleato e liberano la città, perpoi proseguire verso EmiliaRomagna e Veneto. Entrano coni polacchi a Bologna la mattinadel 21 aprile del 1945. Alcunepattuglie proseguono fino adAsiago. La brigata si sciogliedefinitivamente a Brisighella il15 luglio del 1945. La targa nellapiazza della città è in onore dei54 “maiellini” caduti durante laresistenza.

I partigiani che liberarono le Marche insieme alle truppe inglesi e polacche

Con il loro coraggio, militari sbandati e civili dimostrarono agli alleati che tutto era perduto fuorché l’onore

La Maiella, una brigata d’oroVIRGINIA DELLA SALA

Arduino Federici, 91 anni diMonte San Vito (in provincia diAncona), è uno dei due mar-

chigiani ancora viventi sopravvissutiall’eccidio di Cefalonia.“Il nostro co-mandante, generale Antonio Gan-din, arrivò e ci disse che i tedeschi vo-levano la nostra resa – racconta Ar-duino - ci chiese se volevamo allearcicon il nemico, cedere le armi o resi-stere. Tutti abbiamo scelto di resiste-re”. Dopo una settimana di combatti-menti, il 22 settembre 1943 la divi-sione Acqui fu sterminata e il genera-le fucilato. “I tedeschi hanno bom-

bardato le nostre roccaforti – conti-nua – e noi eravamo sprovvisti di ar-mi. In più i nazisti sono arrivati con icaccia camuffati con i colori italiani.Era un tranello. Ci hanno falciati, e iosono stato ferito. Mi hanno mandatoin infermeria e da lì all’ospedale dacampo di Argostoli”. A Cefalonia i te-deschi uccisero cinquemila soldatiitaliani e quasi 450 ufficiali che, dopoun duro combattimento si arresero.Arduino si salvò grazie ai consigli diun generale: “Mi disse di non dire anessuno la mia nazionalità perchésarebbero arrivati i nazisti. Quandole SS chiesero se c’erano italiani pre-senti non risposi. Davanti ai miei oc-

chi spararono in testa a un medico ea un prete”. A ottobre inoltrato, Ar-duino era prigioniero nel campo del-la cittadina greca e ci è rimasto per unmese: “Ci nutrivamo con ghiande ebacche cadute a terra dagli alberi”. Igenerali nazisti lo costrinsero anchea scrivere una lettera per rassicurarei familiari: “Dissi di star bene, in real-tà pesavo 40 chili”. Una volta uscitodal campo di concentramento, Ar-duino ha passato un anno, dal 1944 al1945, peregrinando di città in città.Nel 1945 arrivai a casa. Tornare e ri-abbracciare gli altri sei fratelli e imiei genitori è stata un’emozioneincredibile” conclude.

Quella ferita che mi salvò la pelleArduino Federici, urbinate scampato a Cefalonia

TEODORA STEFANELLI

Arduino Federici. In alto, la brigata Maiella.Nella pagina accanto, a sinistra GilbertoMalvestuto. A destra Raffaele Di Pietro

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1944-2014

Settant’anni dopo, ormai vecchi, parlano gli ultimi testimoni di quei giorni

Il tenente Malvestuto era alla liberazione di Sulmona. Il caporale Di Pietro fu ferito in combattimento

Avevamo soltanto vent’anniLa storia della“Brigata Maiella” èdiventata teatro.Laracconta in 45 minutila compagnia deiGuasconi, con lo spet-tacolo Banditen, diret-to da Nicola Pitucci erappresentato per laprima volta il 4 marzo2012 al Piccolo TeatroGuascone di Pescara.“Da quel momento-dice Orazio di Vito,attore - è iniziata lanostra esperienza,umana e teatrale, suquesta formazionepartigiana. E non si èpiù interrotta. E’ statoun lavoro lunghissimodi documentazione,fra gli archivi e i testidegli storici ci sonovoluti mesi e ci sareb-be molto altro da leg-gere e studiare”. Interpretato da AndreaMaria Costanzo,Orazio Di Vito ePierluigi Amadio, lospettacolo si regge suuna scenografia sem-plice e un linguaggiovariegato: s’ inizia invernacolo abruzzesee si finisce con l’ ita-liano.In questi 2 anniBanditen ha fatto let-teralmente il girod’Italia e il prossimo24 aprile lo spettaco-lo sarà replicato aVasto, il 25 aBologna. Un modo originale dicelebrare la resisten-za, che rende orgoglio-si i Guasconi: “Ancheparlare dellaLiberazione rischia didiventare retorico, sesi ricorre a cerimoniee parole vuote.Attraverso una storiavera, il nostro spetta-colo cerca di andareoltre, di raccontarequegli ideali chehanno davvero guidatoi partigiani in difesadegli ultimi”. (s.c.)

EROI IN SCENA“Al futuro il nostropassato glorioso”

“Giovani, studiatee ribellatevi”

Classe 1921, Gilberto Malvestuto è stato ufficiale delplotone mitraglieri della brigata Maiella. Sulle pare-ti di casa primeggia il diploma d’onore, insieme aldiscorso di Pietro Calamandrei, alla foto della mo-glie scomparsa e all’elenco dei nomi di tutti i giovanipartigiani che componevano il reparto. Il suo rac-

conto inizia con uno dei giorni più tragici della storia d’Italia: l’8settembre. “L’esercito si era sciolto, era il caos. Io ero un ufficialea Roma. Saputo dell’armistizio, insieme ad altri commilitoni, de-cisi di rientrare a casa, ma a Sulmona c’erano i tedeschi. Rimasinove mesi in clandestinità, in attesa di capire cosa fare. Avevo 23anni”.All’8 settembre è legato uno degli episodi più tristi rimasti nei ri-cordi del tenente Malvestuto: “Avevo un carissimo amico, era si-ciliano. Il giorno dell’armistizio ci separammo perché lui, non po-tendo tornare in Sicilia, decise di restare a Roma. Alla fine dellaguerra venni a sapere che si era arruolato con la Repubblica di Sa-lò ed era morto, con quella divisa, in una battaglia contro i parti-giani”.Dopo nove mesi di occupazione, a Sulmona arrivarono gli allea-ti e con loro anche la banda partigiani della Maiella. “E’ allora chescelsi di essere un partigiano”, racconta il tenente spiegando che,anziché aderire al ricomposto esercito italiano, raggiunse Reca-nati. Lì la brigata si fermò per ricostituire l’organico, ad ognunovenne assegnato un ruolo ben preciso e il tenente Malvestuto fumesso a capo del plotone mitraglieri: “Eravamo responsabili mo-ralmente verso i genitori che ci avevano affidato i loro figli, la mag-gior parte di loro non aveva prestato servizio militare e dovevamoinsegnare a loro tutto, dalla difesa all’uso delle armi”. Ne ha vistitanti cadere al suo fianco sotto i colpi dei tedeschi, come OscarFuà, 17 anni, di Sulmona, arruolatosi volontario per combattereaccanto ai suoi amici e morto nella battaglia di Brisighella il 4 di-cembre 1944.La voce tremolante e lo sguardo lucido esprimono un’emozioneche non può essere cancellata, quando ricorda l’avanzata del plo-tone lungo la via Emilia, affiancato dalla seconda divisione delletruppe polacche: “I tedeschi ci sparavano addosso dalla retro-guardia, avevano il compito di bloccare la nostra avanzata”. Ma ilplotone del tenente Malvestuto, il 21 aprile 1945, riuscì a rag-giungere Bologna e a liberarla dall’occupazione tedesca. “E’ sta-to senza dubbio il momento più bello per me, - racconta abban-donandosi a un sorriso - la folla urlava di gioia, dal cielo cadeva-no i volantini. Una giovane donna corse verso di me, mi abbrac-ciò e mi disse grazie. Poi se ne andò”. La storia della brigata Maiel-la è la storia di un gruppo di 1500 giovani che, dopo la liberazionedell’Abruzzo, scelse di continuare a combattere in autonomianon legandosi mai all’esercito regolare né a partiti politici. L’uni-ca brigata partigiana decorata con la medaglia d’oro al valor mi-litare. Nella motivazione si legge: “Lungo tutto il cammino unascia luminosa di abnegazione e di valore ripete e riafferma le ge-sta più epiche e gloriose della tradizione del volontarismo italia-no. 54 caduti, 131 feriti di cui 36 mutilati, 15 medaglie d’argento,43 medaglie di bronzo e 144 croci al valor militare, testimonianoe rappresentano il tributo offerto dai Patrioti della Maiella allagrande causa della libertà”. Gilberto Malvestuto, che di anni oggine ha 92, dice: “Abbiamo consegnato al futuro il nostro passatoglorioso, perché non vada disperso il nostro sacrificio è necessa-rio che i giovani conoscano la nostra storia”.

Raffaele di Pietro, 90 anni, mentre combatteva nella bri-gata Maiella ha perso l’uso del braccio sinistro e delginocchio destro. Era il 3 febbraio 1944, sul fiume Se-nio: “Avevo un fucile mitragliatore che serviva d’as-salto, ero al servizio dei due comandanti Dubai e Fi-letti, che mi avevano promosso caporal maggiore. Fi-

letti una mattina mi ordinò di sparare su un mezzo della CroceRossa perché mi disse che conteneva munizioni e non farmaci.All’inizio mi opposi, ma poi eseguii l’ordine: il camion saltò, qual-cuno morì, qualcun altro si stese a terra per evitare i colpi. Fu ilgiorno successivo, quando i tedeschi spararono per rappresaglia,che rimasi ferito. Mi portarono in ospedale e quando venne a tro-varmi il comandante mi disse che avevo fatto bene a sparare per-ché avevano ritrovato le munizioni”.Il caporal maggiore Di Pietro in poche settimane viene portato intre ospedali: Forlì, Cesena, Loreto. “Ho subito varie operazioni,ma non sono bastate a farmi recuperare il braccio e il ginocchio.Dopo mi hanno portato anche a Bari per un ultimo intervento.Sono tornato a casa il 2 giugno 1945”.Raffaelle di Pietro non è né il primo, né l’ultimo invalido di guer-ra nella sua famiglia. Il padre aveva combattuto la prima guerramondiale e si era opposto con forza alla scelta del figlio di entra-re nelle fila della brigata Maiella, tanto da mentire agli ufficiali chesi occupavano dell’arruolamento: “Io e mio cugino, stufi dei so-prusi tedeschi, ci presentammo dall’ufficiale di zona che stavacostituendo il gruppo. Ma mio padre ci aveva seguiti e disse cheeravamo minorenni. Quella volta tornammo a casa. Poco dopo,durante un blitz in casa mia, un tedesco mi puntò una pistola al-la testa. Sento ancora il freddo della canna. Dopo quell’episodiodecisi di combattere”.A Recanati Raffaelle Di Pietro entra nella brigata Maiella, insie-me a suo cugino, che muore dopo pochi mesi. Uno dei momen-ti più brutti di quell’esperienza, insieme alla battaglia di Brisi-ghella: “ Tre giorni di disastri. Facevo parte della compagnia po-lacca del generale Anders. Prima della battaglia venne l’ordine diattaccare la roccaforte tedesca, così l’artiglieria iniziò il bom-bardamento. Era già sera quando la fortezza tedesca venne di-strutta. Quindi arrivò il nostro turno. Ci arrampicammo lungo ildorsale della collina e andammo avanti così per ore. Era gennaioinoltrato, pioveva e nevicava. Si combatteva a pochi passi dai te-deschi”.Ma il caporal maggiore di Brisighella ricorda soprattut-to la mattina successiva:”Oscar Fuà aveva 17 anni, uno meno dime. Quando in mattinata diedero il segnale iniziammo a retro-cedere a pancia in giù , come i serpenti, senza alzare la testa. Fuàera a pochi metri da me e fece per alzarsi. Gli spararono subito”.Il calore delle persone aiutava i partigiani ad andare avanti, non-ostante le difficoltà: ”Appena ci vedevano uscivano a salutarci.Non ne potevano più di stare in casa. Ci offrivano sempre acquacalda e cibo a volontà. Le ragazze erano splendide e gentili. Ap-pena siamo arrivati a Modigliano, tutti insieme abbiamo canta-to Bella ciao”. Prima di salutare Di Pietro conclude lucidamente : “Mi fa piace-re raccontare la Resistenza e invito i giovani a studiare meglio lastoria del Novecento. La nostra formazione non aveva apparte-nenze politiche, siamo riusciti a conservare anche la nostra au-tonomia dall’esercito. Ma prima di tutto eravamo giovani e la ri-bellione alle ingiustizie fu un gesto spontaneo, naturale” (inter-viste a cura di Maria Gabriella Lanza).

MARISA LABANCA SILVIA COLANGELI

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STEFANO CIARDI

Guardando le colli-ne ricoperte difiori alle porte diMontecchio è dif-ficile immagina-re che 70 anni fa

quei prati verdi siano stati uncampo di battaglia. Nel 1944,poco prima della liberazionedal nazi-fascismo, quelle colli-ne erano solcate da barricate,campi minati, fortini in ce-mento armato e filo spinato.Prima dell’estate i soldati tede-schi avevano rimosso cannonida 88 millimetri da carrarmatimorenti e li avevano posizio-nati sulle torrette che correva-no lungo le fosse delle trincee. A sfondare quelle linee furonoreggimenti canadesi e inglesi,che però subirono molte perdi-te. Guardando l’erba tagliatacorta è ancora più difficile pen-sare che un tempo, su quellecolline, inermi nel fango comei bossoli dei loro fucili Thomp-son, giacevano i corpi di solda-ti poco più che adolescenti. A ricordare quelle battaglie cisono le lapidi bianche del cimi-tero militare di Montecchio,costruito proprio sul crinale incui gli alleati sfondarono le pri-me fortificazioni nemiche. Letombe sono così composte dasembrare un reggimento sul-l’attenti: insieme allo stemmadella propria nazione, ogni la-pide riporta nome ed età deicaduti. In pochi superano i 24anni tra i non ufficiali; uno diloro, C. Radtke, aveva solo 20anni quando è venuto a morirea diecimila chilometri di di-stanza da casa. “Rest in peace”è inciso sulla sua lapide. Ma in

altre tombe ci sono anche dedi-che personali fatte dai parenti.Una di loro recita in inglese“tanto amato in vita, quantorimpianto in morte”. In mezzoal cimitero c’è una piccola cap-pella che al suo interno conser-va il diario delle visite. Tanti i ri-cordi lasciati da studenti, visi-tatori e parenti dei soldati mor-ti. “Gone but never forgotten”.Morti ma mai dimenticati hascritto R.Klein. Mentre AnneBell ha lasciato una breve dedi-ca con cui ha voluto ricordare ilsuo “amato nonno”. Quasi ogni anno i reduci deiWest Nova Scotia, dei Cape Bre-ton Highlanders, dei Perth e ditutti gli altri battaglioni cana-desi che parteciparono allaguerra in centro Italia vengonoa commemorare i compagnicaduti in battaglia. Il loro ricor-do vola ogni volta all’operazio-ne più sanguinosa, quella chesfondò la crosta della linea go-tica sulla collina che dominaMontecchio. L’obbiettivo diquell’attacco era conquistarel’altura di Ca’ tramontana, chedurante la seconda guerramondiale era chiamata ‘Quota120’. Alla fine di agosto il generaleBertram Hoffmeister, coman-dante delle forze canadesi, or-dinò di attaccare dai tre lati aipiedi dell’altura, sicuro chel’offensiva avrebbe avuto esitopositivo. Ma non andò così: ilreggimento West nova Scotia,nel tentativo di scalare la colli-na a destra, dovette ritirarsi do-po aver perso 63 uomini sotto ilfuoco delle mitragliatrici ne-miche e lo scoppio delle mine;a sinistra, i Cape Breton High-landers furono respinti pocoprima di giungere alla vetta. Ilreggimento Perth conquistò

diverse postazioni nemichepassando dalla cittadina diMontecchio ormai rasa al suo-lo, ma venne bloccato prima diraggiungere la cima e si fermò aQuota 111. I Perth passarono lanotte a guardare in cielo i colpidei carrarmati dell’ottava divi-sione New Brunswick Hussarsche passavano sopra le loro te-ste. In quei giorni l’inviata di guer-ra che testimoniò lo sfonda-mento della linea gotica, Mar-tha Gellhorn, moglie di ErnestHemingway, descrisse cosìquei giorni: “È terribile morireverso la fine dell’estate quandosi è giovani e si è combattuto alungo. Quando si ricordanocon tutto il cuore la casa e chi siama. Quando si sa che la guer-ra è comunque vinta. È terribi-

le, e sarebbe da bugiardi osciocchi se non si vedesse esentisse tutto ciò come unasventura. In questi giorni lamorte di un uomo si avverte piùdolorosamente perché la finedi questa tragedia sembra cosìvicina”. Il 31 agosto, il giornoseguente il primo attacco, i ca-nadesi riescono a conquistareQuota 120: dopo il forte bom-bardamento della notte da par-te dei carrarmati dell’ottava di-visione dei New BrunswickHussars, il capitano Southbyguidò due compagnie degliIrish of Canada e degli High-landers fin dentro le trincee ne-miche. L’attacco dei canadesisorprese i tedeschi all’internodei loro fortini, portando allacattura di 117 soldati e 4 uffi-ciali. Una dura sconfitta per il

comandante tedesco AlbertKesselring. Poco lontano dal cimitero, suun promontorio vicino Tavul-lia, sorge il monumento dedi-cato ai soldati canadesi chesfondarono la linea gotica. Illuogo non è casuale. Nel puntoesatto in cui è stata edificatal’opera morì uno dei protago-nisti, il tenente colonnelloChristopher Vokes. Il tenentecolonnello fu colpito dalleschegge di una granata nemicapoco dopo aver conquistatoQuota 204, ma continuò ad im-partire ordini ai suoi uomini fi-no alla morte. Al centro del mo-numento c’è un cannone pre-levato dalle vecchie fortifica-zioni, mentre intorno si sta-gliano verso il cielo delle lancedi metallo che cingono l’opera.

Gli immortali che sfondarono la linea Gotica

Le battaglie di Montecchio

Una lapidenel cimiteromilitare diMontecchio: il soldatoRadtke aveva20 anniIn alto,il monumento in memoriadei canadesi,morti combat-tendo sullalinea Gotica

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Una mattina mi son svegliatoLa scarsità di fondi mette in crisi appuntamenti storici come il Premio Rotondi

Da Urbino a Gabicce, numerose iniziative dedicate ai giovani perchè conservino la memoria di quei giorni

Sono tantissime le ini-ziative che i comuni ele associazioni dellaprovincia di Pesaro-Urbino hanno orga-nizzato in occasione

del 70° anno dalla Liberazione,molte delle quali però sono inforse a causa della mancanza difondi.

“Una mattina mi son sveglia-to…”L’Anpi, Associazione NazionalePartigiani d’Italia ha preparato,assieme a comuni e circoli Arci,una serie di incontri ed eventi incollaborazione con la manife-stazione “Una mattina mi sonsvegliato”. Gli eventi sono inprogramma dal 19 marzo al 10maggio in diverse località, daUrbino a Gabicce Mare, pas-sando per Fermignano, Fano ePesaro. “Il nostro obiettivo principale èdi tenere viva la memoria diquei giorni, dei valori della resi-stenza e della Costituzione, so-prattutto tra i giovani ma anchedai 30 in su – afferma CristianaNasoni, presidente dell’Anpi diUrbino –con i partigiani chepiano piano stanno morendo ei giovani che non studiano qua-si più la Seconda Guerra Mon-diale a scuola, è sempre più dif-ficile mantenere il ricordo, ma èaltrettanto importante che i ra-gazzi si avvicinino a questa real-tà e ai sentimenti antifascisti,soprattutto ora che molti estre-mismi stanno tornando alla lu-ce in particolari situazioni co-me in Grecia e in Francia”.Oltre a cineforum, proiezioni emostre fotografiche sono previ-sti anche pranzi sociali e dj set,per sensibilizzare il più possibi-le le nuove generazion. Al Pun-to Macrobiotico di Urbino ognidomenica fino al 27 aprile sitengono degli incontri sui temidella resistenza, la sovranitàalimentare e la tipografia clan-destina. Le donne, protagoni-ste nei loro compiti della resi-stenza, saranno soggetto di

molti incontri, come ad esem-pio quello di sabato 3 maggio“Donne e militanza, da RosaLuxemburg ad Adele Bei” nellasede dell’Anpi di Urbino.

Per famiglie e studentiCon “Tracce di Guerra” la rete diassociazioni ‘Ortopolis arti inrete’ di Pesaro promuove, neiweekend dal 9 fino al 27 aprile eil 2 settembre 2014, una serie diattività dedicate a famiglie estudenti per ricordare gli spazidella quotidianità testimoni deimomenti tragici della SecondaGuerra. La formula è quella delwalkscape, non visite guidatema camminate sociali in cui ilterritorio viene riletto a partiredai reperti urbani, un archiviostorico a grandezza originale.Sempre a Pesaro, se la Festa del-la Liberazione si unisce alla fe-sta del Lavoro del primo maggione nasce il Festival Nazionaledella Liberazione. Dal 24 aprileal 1° maggio, il porto ospiterà at-tività sportive, degustazioni econcerti a tema liberazione, or-ganizzati dall’associazione Sti-le Libero.

Tanti progetti e anniversariL’Istituto di Storia delle Marchenon manca nella lista degli entiche si vogliono distinguere perle attività commemorative:“Quest’anno ricorrono altri an-niversari impegnativi oltre alsettantesimo, come la Settima-na rossa e la morte di Berlinguer– afferma Massimo Papini, di-rettore dell’Istituto – fra le altrecose stiamo organizzando ungrosso convegno con l’Istitutostorico dell’Umbria sulla Resi-stenza nell’Appennino umbro-marchigiano, ma ancora non èstata decisa la data”. “Abbiamo molte idee in pento-la ma finora abbiamo ricevutotante pacche sulle spalle maniente fondi - spiega Costanti-no Di Sante, direttore dell’Isti-tuto di Pesaro – abbiamo pre-sentato vari progetti, fra i qualiuno spettacolo teatrale sullastrage di Fragheto, in collabora-zione con l’Emilia-Romagna,una mostra ‘documentaria’ suimanifesti che hanno celebrato

LAURA MORELLI

UrbinoMercoledì 9 aprile – cinema Nuova Luce, ore 21.15Cineforum “La bicicletta verde”, Germania/Arabia Saudita 2012Sabato 12 – sede A.N.P.I., ore 17Crisi economica e nuovi fascismocon Peter Kammerer e Federico Losurdo.Domenica 13 – Un punto macrobiotico,ore 10.30“La mia vita”: incontro con Marinelli Maffeo, Partigiano combattente, a seguire un pran-zo speciale al prezzo di 5 euro.Mercoledì 16 – cinema Nuova Luce, ore 21.15Cineforum“Jin”, Turchia 2013

Martedì 22 – locale Fuori Tema, ore 18 - inaugurazione mostra Materiali della resistenzae letture tratte da “Lettere di condannati a morte della Resistenza europea”.Mercoledì 23 – cinema Nuova Luce, ore 21.15Cineforum “Va’ e vedi”, URSS 1985Domenica 27 – Un punto macrobiotico, ore 10: “La tipografia clandestina. I caratterinella resistenza italiana”. Relatori: Andrea Vendetti, Miro Flamini e Giuseppe ScherpianiMercoledì 30 – Nuova Luce, ore 21.15 Cineforum“Rosa Luxemburg”, Germania 1986Sabato 3 maggio – sede A.N.P.I. ore 17 “Donne e militanza, da Rosa Luxemburg adAdele Bei”. Con Monia Andreani e Giada Fiorucci.Mercoledì 7 – cinema Nuova Luce, ore 21.15 Cineforum “A unfinished film” Germania/Israele 2010FermignanoVenerdì 25 aprile – Incontro e pranzo con i partigiani, festa “Fiore del Partigiano” emostra ”Bromuro d’argento”, II parte

GLI EVENTI GIORNO PER GIORNO

la resistenza nel dopoguerra evari incontri sul tema del rap-porto fra gli eserciti, la popola-zione e i partigiani nella provin-cia. Sono progetti interessanti,speriamo di poterli realizzare”.Unica idea in cantiere che forsesi realizzerà a maggio-giugno èla ripubblicazione, dopo 10 an-ni, di una rivista dedicata alloscoppio di Monteccchio, allaluce di nuovi documenti sco-perti al riguardo.

Pedalata “Brigata Majella”Dopo il successo dello scorsoanno, i membri Anpi di Pescarastanno pensando di organizza-re per la seconda volta il Giro ci-clistico della Brigata Majella daCasoli (Chieti) a Bologna, unapedalata di 800 km in sei tappe

dedicato a Pasquale Rotondi,storico dell’arte noto per aversalvato dalla distruzione circa10 mila opere d’arte italiane du-rante la guerra . Il premio si tie-ne ogni anno, da 15 anni, a Sas-socorvaro. “Purtroppo nonpossiamo dire con certezza se cisarà anche quest’anno, a causadei tagli ministeriali – ha dettoAlice Ugolini, dell’ufficio cultu-ra del comune di Sassocorvaro -gli unici soldi che potremmousare sarebbero quelli del fon-do comunale ma che sono po-chi e non sufficienti. Purtropponon possiamo garantire niente,anzi il sindaco attuale, Alessan-drini, è scettico. Confidiamonel bando regionale che daqualche fondo alle attività cul-turali, forse a giugno sapremo.”

che attraversa Abruzzo, Lazio,Marche ed Emilia-Romagna. “Èstata un’esperienza meravi-gliosa e vorremmo rifarla per-ché quest’anno sarebbe ancorapiù significativa, visto che sono70 anni – afferma Enzo Fimiani,presidente Anpi di Pescara – madobbiamo trovare i fondi ne-cessari. L’anno scorso siamostati aiutati dai comitati Anpi ditutte le regioni, fra i quali quel-lo di Pesaro è stato fra i più ge-nerosi, ma comunque ci sonovoluti 4.000 euro e non so se ri-usciremo a trovarli anche que-st’anno”.

Il Premio Rotondi In forse è anche uno dei premipiù conosciuti e apprezzati sultema della resistenza, quello

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ASSOCIAZIONE PER LA FORMAZIONE AL GIORNALISMO, fondata da Carlo Bo. Presidente: STEFANO PIVATO, Rettore dell'Università di Urbino "Carlo Bo". Con-siglieri: per l'Università: BRUNO BRUSCIOTTI, LELLA MAZZOLI; per l'Ordine: NICOLA DI FRANCESCO, STEFANO FABRIZI, SIMONETTA MARFOGLIA; per la RegioneMarche: JACOPO FRATTINI, PIETRO TABANELLI; per la Fnsi: GIOVANNI ROSSI, GIANCARLO TARTAGLIA. ISTITUTO PER LA FORMAZIONE AL GIORNALISMO: Direttore: LELLA MAZZOLI, Direttore emerito: ENRICO MASCILLI MIGLIORINI. SCUOLA DI GIORNALISMO: Direttore GIANNETTO SABBATINI ROSSETTI

IL DUCATO Periodico dell'Ifg di Urbino Via della Stazione, 61029 - Urbino - 0722350581 - fax 0722328336 http://ifg.uniurb.it/giornalismo; e-mail:[email protected] Direttore responsabile: GIANNETTO SABBATINI ROSSETTI Stampa: Arti Grafiche Editoriali Srl - Urbino - 0722328733 Regi-strazione Tribunale Urbino n. 154 del 31 gennaio 1991

Piatti neri per l’ospite BenitoMussolini si fermava nella locanda Candiracci, oggi sito di “memorabilia”

Sul monte Pietralata, nel Furlo, fu scolpito un profilo del duce. Una cannonata lo ha reso irriconoscibile

GIOVANNI RUGGIERO

“El’ordine dibomba r -dare ilprofilo diB e n i t oMussolini

sul monte Pietralata, nellagola del Furlo, arrivò diretta-mente da Winston Churchill”.A dirlo è lo storico UmbertoMarini che per anni ha studia-to i fatti convulsi avvenuti apochi chilometri dalla lineaGotica: “Nell’agosto del 1944 -racconta - Churchill era aMontemaggiore al Metauro,piccolo centro nella provinciadi Pesaro-Urbino per studiarel’assalto alla linea Gotica”. Apiazzare quindi le mine cheavrebbero fatto saltare partedel mento e delle labbra diroccia calcarea fu il partigianoBruno Bocchio, della brigataMaiella: “Dovevano essere gliitaliani stessi a colpire quelsimbolo - dice Marini - Chur-chill lo considerava un detta-glio importante in una zonache formalmente era sotto laRepubblica di Salò”.Ancora oggi la punta del Pie-tralata ha mantenuto inbuona parte i lineamenti delvolto del Duce. La costruzioneavvenne nel 1936 ad operadella milizia forestale dellazona e degli operai delle caveche estraevano la pietra rosa.Ideato dallo scultore Oddo Ali-venti, il monumento raffigura-va la fronte ampia, il mentopronunciato e il naso dall’ariamarziale rivolti verso il cielo.Secondo i racconti popolari,Mussolini ebbe da ridire sullaposizione che lo ritraeva stesocome se fosse addormentato.La retorica fascista lo volevasempre vigile sui destini dell’I-talia: “Aliventi voleva celebra-re il dominio del regime anchesui cieli - ricorda lo storicoMarini - tre anni prima c’erastata la traversata atlantica diItalo Balbo”. Da questa parti Benito Musso-lini passava spesso, c’è chidice per 57 volte. Nei viaggi traRoma e Predappio sostava allalocanda del Candiracci: “Glie-lo aveva consigliato il fratelloArnaldo - ricorda la signoraFloride, bambina di dieci anninegli anni dei soggiorni dellafamiglia Mussolini alla goladel Furlo, oggi energicanovantenne - e si fermava quiper riposare, sia da solo checon la famiglia”. Di queglianni, dal 1933 in poi, Florideconserva tanti bellissimi ricor-di fatti di giochi con Romano elunghe passeggiate a racco-gliere fiori con donna Rachele:

“Con le 5 lire d’argento che ciregalava - dice Floride - com-pravamo le prime cose pernoi, come una magliettanuova o un paio di pantaloni”. Della figura di Mussolini, Flo-ride ha conservato solo unricordo affettivo: “Non misono mai interessata di politi-ca - dice - all’epoca mi vestiva-no da piccola italiana e la suaimmagine ha accompagnatotutta la mia infanzia”. Dell’o-spitalità della locanda delFurlo, Mussolini apprezzava disicuro la cucina: “Si facevasempre preparare le tagliatellecon il tartufo - precisa Floride- ma l’evento che ricordo dipiù è stato quando riuscì amangiare una frittata di ben12 uova tutta da solo: arrivatoa Rimini è stato male per tuttala notte e il giorno dopo siamostati anche interrogati e per-quisiti dalla polizia, finchénon siamo riusciti a spiegareche le uova non erano scadu-te, ma troppe!”.Floride ha assistito allacostruzione del profilo diMussolini sul monte Pietrala-ta: “Si fece apprezzare dagliscalpellini della zona - raccon-ta - perché migliorò le stradeche portavano alle cave: ormaiera sua abitudine offrire unavolta all’anno un pranzo insua compagnia”. Sulla distru-zione parziale del profilo adopera dei partigiani, Floridenon è d’accordo: “Ho sempresaputo che a volere l’abbatti-mento sia stata la senatricecomunista Adele Bei”. Lo con-ferma anche Stefano Loren-zetto sul sito de Il Giornale il 5novembre 2006, ma UmbertoMarini ricostruisce in altromodo: “Il governo Parri avevastanziato i fondi per abbatteredefinitivamente quel profilo -dice - ma Adele Bei, sottose-gretario ai lavori pubblici,riuscì a stornare quel finanzia-mento per ricostruire le stradedanneggiate che servivano araggiungere le cave”.La polemica sulla ricostruzio-ne è arrivata fino alla finedegli anni ‘70, quando glieredi Candiracci sono statianche ospiti in tv di Enzo Tor-tora a Portobello. “Periodica-mente qualcuno propone dirifare la faccia di Mussolini -chiosa Marini - chi per motivituristici, chi come qualcuno dimovimenti neofascisti perspinte nostalgiche”. L’idea èanche tornata a circolare nel2006, ma senza conseguenzeconcrete, se non far parlaredel Furlo in tv e sui giornali:“Possiamo anche fare a menodel profilo completo - scherzaMarini - la riserva del Furlo èbella così com’è”.

Floride Candiracci, 90 anni, erede del titolare della locanda del Furlo cheospitava Benito Mussolini nelle sue soste tra Roma e Predappio. In alto,ciò che resta del “profilo imperiale” e del “mento volitivo”

Una volta preparammo una frittata di 12uova per Mussolini e sua moglie. La man-giò tutta lui. Stette male l’intera notte.Sospettarono un avvelenamento. Ma era

solo una pazzesca indigestione”’’’’