Dret e Ledros Dicembre 2012
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DICEMBRE 2012 Anno IX numero 12
Pag.ina 1
dret e ledrôs Scomençant di chi
IGA ora ASP “La Quiete”
Dicembre nevoso,
anno fruttoso!
Dicembre balerin,
ciama in aiuto el vin.
Dicembre variante,
fredo costante.
Il venticinque vien la Pasqua santa,
il venticinque è nato il Redentore,
Stefan, Giovanni e gl’Innocenti
a lato,
prega che questo mese passi presto
e l’ultimo di dicembre è
san Silvestro!
Affresco di ignoto XV sec. Chiesetta di S.Pietro Magredis di Povoletto (UD)
A Nadâl
frêt mortâl.
Madins in tal colm de lune,
an plen di fortune!
A Nadâl un pît di gjâl,
prin da l’an
pît di cjan,
Pifanie
pît di strie.
Nadâl dongje il fûc,
Pasche in ogni lûc.
D’ogni dì al ven Nadâl,
di martars Carnavâl
e di joibe ven la Sense,
son ducj mats cui che la pense!
Dicembre era in assoluto par la canaie, i bambini, il più importante dell’anno:
l’atmosfera che si respirava era molto
particolare.
Né vetrine stracolme di cose spesso
superflue, né luminarie ammiccanti
attiravano la loro attenzione proiettata
verso sentimenti e proponimenti buoni,
in un crescendo di spiritualità, che aveva il
suo apice a Nadâl. Tutto era più caldo, intimo, sereno, bello, fantastico e questa festività, oltre ad
avere in sé il gran valore religioso, faceva rivivere antiche usanze e credenze non
solo cristiane, che si perdevano nella notte dei tempi.
Nel nostro Friuli, fino ad una cinquantina d’anni fa, si usava addobbare l’albero
natalizio solo nella zona di Timau e in quelle zone che, risentendo dell’influenza
nordica, ritenevano l’abete il simbolo della vita, contrapposto all’albero cresciuto
sulla tomba d'Adamo e usato per fare la Croce.
Fin dall’inizio di dicembre, come stregati dall’atmosfera di preparazione alla
nascita del Bambin Gesù, tutti, grandi e piccoli dovevano essere più buoni e la canaie, così erano chiamati i bimbi, cominciavano a fâ il presepi. Farlo era un rito.
La ricerca del muschio e della legna dalle forme più strane, creare grotte o ponti
che univano i monti al mare, impegnava con gioia, ma seriamente, tutti i bam-
bini che, incuranti di qualsiasi legge non solo prospettica, piazzavano le scolorite
e sbeccate figurine di gesso, secondo una logica estetica ed emotiva tutta loro.
La notte di Natale tutto si stabilizzava poiché, finalmente, si poteva posare il
Bambinello tra Maria e Giuseppe, rigorosamente sot dal flât dal mus e dal bo privi, quasi sempre, delle corna o di almeno un orecchio.
Il ventiquattro del mese era una giornata ancora più magica poiché, secondo
una tradizione d’origine forse celtica legata alla sacralità del fuoco, ed un’altra
che lo voleva acceso affinché la Madonna asciugasse i pannolini del Salvatore,
si bruciava il ciocco di Natale, il Nadalin. Il gran ceppo di morâr era stato scelto molti mesi prima perché, ben stagionato, potesse bruciare durante tutta la Santa
Notte.
Nel tardo pomeriggio de Vilie, in cui s’era rigorosamente digiunato come alle
Ceneri ed il Venerdì Santo, la persona più anziana di casa, libera da impegni
faticosi e degna di rispetto per la saggezza dovuta all’età, accendeva il çoc e ne controllava la combustione che doveva essere lenta ma continua “…parcè, se tal doman di matine il Nadalin al à cualchi bore impiade al è ben, ma se al è dut distudât, dentri dal an al mûr il paron di cjase…” Anche i carboni, che l’indomani
si trovavano nel fuoco spento, erano importanti e sacri.
Nell’attesa dai Madins, messa di mezzanotte, quando tutti erano raccolti
attorno al focolare in cui bruciava il Nadalin, un componente della famiglia,
avvolto in scialli che lasciavano fûr dome i voi, bussava alla porta della cucina: “Toc, toc!” “Cui isal?“
“Al è Nadalut, mi fasêso jentrâ?””Jentre, jentre” ed era fatto accomodare vicino al fuoco e gli si offriva un bicchiere di vin brulé o
qualche cibo per compensare la vigilia osservata quel giorno.I bambini con gli
occhi sgranati, pensavano al Bambinello che, invece, giaceva là fuori, al freddo,
nudo e gelato.I fruts erano mandati a letto prima di mezzanotte, “a Madins, fra lis coltris e i cussins!”, con la promessa che Gesù Bambino poverello, avrebbe
portato i doni: zucar di Gurize, un crocant o dôs mentutis o un bastonut di licuiri-zie, une carobule e dôs stracheganassis e simpri… un pôc di cjarbon! Trovare al mattino queste povere cose in un mucchietto tutto tuo, faceva provare
una gioia immensa.
Lis trê danzis, ossia i tre suoni delle campane che suonavano a Madins, erano anche il segnale che si dovevano portare agli animali della stalla altrettante
bracciate di foraggio. Ma bisognava fare molta attenzione a non fare ciò a
mezzanotte, quando le fonti e gli animali, secondo la tradizione, avrebbero
parlato e sentirli sarebbe stato di cattivo auspicio. Si narra, infatti, che un
contadino udendoli, capì che preannunciavano la sua morte. Allora egli, istinti-
vamente, lanciò loro una mannaia che, come un boomerang, lo colpì a morte.
Alla messa di mezzanotte partecipavano solo gli adulti cu lis mudis de fieste o chês gnovis i quali, ritornati a casa, mangiavano una calda e corroborante sope di tripis, magari cui fasui. Ancor oggi quest’usanza è più che mai viva in tutto il Friuli e le osterie dopo
i Madins, si riempiono di avventori che mangiano questa pietanza legata, sin
dalla notte dei tempi, alla sacralità di questa notte.
S E R E N O
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