DOTTORATO DI RICERCA IN PEDAGOGIA E SERVIZIO SOCIALE...

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1 DOTTORATO DI RICERCA IN PEDAGOGIA E SERVIZIO SOCIALE SCUOLA DOTTORALE IN PEDAGOGIA XXVII ciclo IL PADRE TRA NORMATIVITÀ ED AFFETTIVITÀ. Ruolo e funzione paterna in rapporto alla disabilità del figlio: uno sguardo pedagogico. Settore Disciplinare M-Ped 03 Dottoranda Dott.ssa Francesca Maria Corsi A.A. 2013/2014 Docente Tutor Prof. Fabio Bocci Docente Co-tutor Prof.ssa Barbara De Angelis Coordinatore Prof.ssa Giuditta Alessandrini

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DOTTORATO DI RICERCA IN PEDAGOGIA E SERVIZIO SOCIALE

SCUOLA DOTTORALE IN PEDAGOGIA

XXVII ciclo

IL PADRE TRA NORMATIVITÀ ED AFFETTIVITÀ.

Ruolo e funzione paterna in rapporto alla disabilità del figlio: uno sguardo pedagogico.

Settore Disciplinare M-Ped 03

Dottoranda Dott.ssa Francesca Maria Corsi

A.A. 2013/2014

Docente Tutor Prof. Fabio Bocci Docente Co-tutor Prof.ssa Barbara De Angelis Coordinatore Prof.ssa Giuditta Alessandrini

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A te, a noi.

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INDICE

PROBLEMA DI RICERCA .................................................................................................. 6  

INTRODUZIONE ................................................................................................................. 12  

CAPITOLO I - UN BREVE EXCURSUS SULLA FAMIGLIA ...................................... 15  1. CENNI SULLA NASCITA DELLA FAMIGLIA DALL’EPOCA MODERNA AD OGGI .......................... 15  1.2 PRESUPPOSTI PER ELABORARE UN PROGETTO DI COPPIA “SUFFICIENTEMENTE” EFFICACE .. 21  2. LA FAMIGLIA ........................................................................................................................... 30  2.1. IL RUOLO DEI GENITORI NELLO SVILUPPO DELL’IDENTITÀ DEL FIGLIO ................................ 35  2.2 LA FAMIGLIA SEPARATA ........................................................................................................ 38  2.2.2 LE CONSEGUENZE DEL DIVORZIO SUI FIGLI ........................................................................ 43  2.3 IL “TERZO” GENITORE ............................................................................................................ 49  3. LA MATERNITÀ OGGI ............................................................................................................... 52  

CAPITOLO II - C'È ANCHE IL PAPÀ ............................................................................. 58  1. CENNI STORICI SULL’EVOLUZIONE PATERNA .......................................................................... 58  1. 1. LA PATERNITÀ OGGI ............................................................................................................ 62  2. LA FUNZIONE NORMATIVA PATERNA ...................................................................................... 70  2.1. IL PADRE E IL FIGLIO DISABILE ............................................................................................. 78  2.2. IL PADRE E IL FIGLIO DISABILE TRA NORMATIVITÀ E AFFETTIVITÀ ..................................... 88  2.2.1. IL DOPO DI NOI ................................................................................................................... 96  2.2.2. INSETTOPIA: UN FUTURO PER I RAGAZZI/E DISABILI ........................................................ 102  2.3.IL PADRE E IL FIGLIO DISABILE NELLE FAMIGLIE SEPARATE ............................................... 106  

CAPITOLO III - I PADRI NEL CINEMA E IN LETTERATURA ............................. 115  1. IL PADRE NEL CINEMA ........................................................................................................... 117  1.1. I PADRI DI FIGLI DISABILI E LE AUTOBIOGRAFIE ................................................................. 125  

CAPITOLO IV - LA PAROLA AI TESTIMONI: I PADRI DI FIGLI DISABILI SI

RACCONTANO ...................................................................................................................... 151  1. LA RICERCA ............................................................................................................................ 151  1.1. MOTIVAZIONI ED OBIETTIVI ................................................................................................ 153  2. LE INTERVISTE ....................................................................................................................... 156  2.1. I PADRI SI RACCONTANO ..................................................................................................... 160  

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INTERVISTA 1 ............................................................................................................................. 162  INTERVISTA 2 ............................................................................................................................. 164  INTERVISTA 3 ............................................................................................................................. 167  INTERVISTA 4 ............................................................................................................................. 170  INTERVISTA 5 ............................................................................................................................. 171  INTERVISTA 6 ............................................................................................................................. 173  INTERVISTA 7 ............................................................................................................................. 177  INTERVISTA 8 ............................................................................................................................. 180  INTERVISTA 9 ............................................................................................................................. 182  INTERVISTA 10 ........................................................................................................................... 185  INTERVISTA 11 ........................................................................................................................... 186  INTERVISTA 12 ........................................................................................................................... 190  INTERVISTA 13 ........................................................................................................................... 192  INTERVISTA 14 ........................................................................................................................... 193  2.2. ANALISI CON IL SOFTWARE N- VIVO .................................................................................. 195  

CAPITOLO V - VERSO UN FUTURO CON I PADRI ................................................. 218  1. PROPOSTA PEDAGOGICA ....................................................................................................... 218  

BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................. 223  

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Mentre tenevo tra le mie braccia quella cosina minuscola, urlante,

brutta e paonazza, sentivo chiaramente quale mutamento stava

avvenendo in me. Per piccola, brutta e rossastra che fosse la cosa fra le

mie braccia, da essa emanava una forza indicibile. E di più: era come se

in questo povero tenero corpicino si fosse accumulata tutta la mia forza,

come se tenessi in mano me stesso e il meglio di me

J. Roth

La Cripta dei Cappuccini

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Problema di ricerca

La nostra società è stata recentemente caratterizzata da profonde

trasformazioni che hanno condizionato, in particolare, l’evolversi

dell’istituzione familiare.

Il ruolo del padre, ad esempio, sino alla prima metà del ‘900 era

sottovalutato e subordinato alla primaria funzione educativa e di cura

della madre. Proprio per questo si riteneva che i danni causati

dall’assenza del padre nella vita del bambino fossero irrilevanti in

confronto a quelli causati dalla deprivazione materna. Solo dagli anni

’70 in poi, grazie al contributo di alcuni studiosi, si è iniziato a dare

attenzione al ruolo paterno nella vita del bambino e dell’adolescente e

alle conseguenze derivanti dalla sua assenza.

Il lavoro di ricerca prende avvio proprio da questa riflessione: che

ruolo ha il padre nella vita del figlio, oggi? Che funzione svolge ed è

chiamato a svolgere dalla società? Che tipo di evoluzione c’è stata sino

ad oggi in merito alla sua presenza/assenza? La sua funzione normativa

esiste ancora o è venuta a mancare? In particolare, nell’ambito del

percorso dottorale, abbiamo messo in luce cosa, come e se cambia la

funzione educativa paterna in relazione ad un figlio disabile.

Lo sguardo con cui ci si predispone, ora, ad analizzare l’immagine

paterna è quello inerente la prospettiva pedagogica e quindi le ricadute

che, a livello educativo, potremmo riscontrare nel rapporto padre-figlio

e padre-figlio disabile. Tale prospettiva è ovviamente supportata dalla

letteratura scientifica di riferimento che muove i suoi passi anche

all’interno di più discipline umanistiche, quali: la sociologia,

l’antropologia, la psicologia e la filosofia.

7

In questo contesto risulta evidentemente essenziale il ruolo di

genitore, anch’esso influenzato dalle recenti trasformazioni sociali e

culturali, in base alle quali è sempre più chiara la responsabilità

educativa connessa al mettere al mondo dei figli. È dunque importante

domandarsi quale sia il motivo, la spinta propulsiva, il bisogno che

spinge ad interrogarsi sul padre.

Ogni epoca ha avuto un’immagine paterna a cui far riferimento e,

con l’evoluzione culturale e sociale, e quindi familiare, tale figura ha

subito una trasformazione in seno ai ruoli, alle aspettative e agli

immaginari che a questa si attribuivano.

Oggi è sempre più chiaro come la figura e la funzione del padre

siano essenziali nella vita di un bambino nello sviluppo dell’autonomia,

dell’identità, della relazione sociale e del funzionamento cognitivo.

Dunque: chi sono i nuovi padri, oggi? Sono padri assenti o sempre più

presenti nella vita coniugale e familiare? In che ambito intervengono

con maggiore forza e dove, al contrario, tendono a negarsi? Le

profonde trasformazioni sociali e culturali del secolo scorso hanno

condotto al declino dell’immagine paterna tradizionale, che per tanto

tempo ha fornito stabilità espressiva al ruolo del padre: tramonta la

figura autoritaria e normativa del padre forte, che sancisce le regole,

guida la famiglia ed accompagna i figli nel loro processo di

socializzazione. A poco a poco si è venuto ad affermare un modello

parentale di stampo materno, rafforzato da una presenza sempre più

consistente del femminile in tutti gli ambiti della società. I padri di oggi

sono alla ricerca di un ruolo nuovo, adeguato al contesto familiare e

sociale di cui fanno parte.

Appare chiaro come, da siffatte premesse, non sia possibile

tralasciare il discorso che racchiude in sé non solo le modifiche che la

8

famiglia tradizionale ha subito, ma anche, e soprattutto, la nascita e la

presenza delle nuove forme familiari che vanno dalla famiglia divisa,

alla famiglia con un solo genitore, a quella ricomposta.

Il lavoro di ricerca si articola pertanto in tre sezioni teoriche che

hanno lo scopo di avviare il lettore alla comprensione delle dinamiche

relazionali che incidono sui cambiamenti che vivono i padri di oggi

fornendo, pertanto, una panoramica delle pluralità delle forme familiari

implicate negli attuali mutamenti sociali.

La prima parte cerca di definire l’identità della famiglia, prima, e la

pluralità delle famiglie, poi.

La prima questione da porsi riguarda cos’è e come si evolve il

concetto stesso di famiglia. Sicuramente la famiglia come nucleo

sociale è stato da sempre al centro dello sviluppo umano, e ha svolto in

esso una molteplicità di funzioni: luogo di sostentamento e di sicurezza,

ma soprattutto luogo di educazione privata, affettiva, relazionale e

sociale. Senza dubbio, però, l’obiettivo principale che caratterizza la

prima fase del ciclo di vita della famiglia è la costruzione dell’identità

di coppia1. Le forme di relazione tra due persone, che costituiranno, in

seguito, la famiglia, nascono fin dalle origini dell’uomo, come esigenza

primariamente biologica, funzionale alla sopravvivenza della specie2.

La famiglia rimane, pertanto, il punto/momento storico, culturale,

esistenziale, in cui la vita da meramente biologica, diventa umana3.

La seconda parte si occupa prettamente della figura paterna declinata

nelle diverse tipologie di famiglia sin ora citate. Emerge con forza che

1 P. Gambini, Psicologia della famiglia. La prospettica sistemico relazionale, FrancoAngeli, Milano, 2007, p. 118 2 F. Cambi, Dimensioni della pedagogia sociale, Carocci, Roma, 2010, pag. 88 3 P. Donati (a cura di), Identità e varietà dell’essere famiglia. Il fenomeno della “pluralizzazione”, San Paolo, Roma, 2001, pag. 25.

9

il padre assente è l’immagine di oggi. Assente perché si rifiuta di

combattere nei rapporti; il padre non c’è anche quando abita nella

stessa casa. Il padre non fa anche quando agisce4. Il primo quesito è

difatto relativo all’impallidire dell’immagine paterna, per dirla con

Mitscherlich in Verso una società senza padre, che sembrerebbe

trovare la sua causa nell’essenza stessa della nostra civiltà, per quanto

riguarda la funzione educativa del padre che sembra scomparire o

quanto meno venire ignorata5. Fu evidenziato che il disagio della

persona può nascere da un eccesso così come da una carenza della

funzione normativa6. E poi, come scritto precedentemente, il suo ruolo

all’interno della vita familiare. Eugenia Scabini nel 1985 in L’immagine

paterna nelle nuove dinamiche familiari7 sottolineava la complessità

dei connotati della figura paterna esplicando come il padre rimanga il

nodo della normatività coniugale, genitoriale e familiare, ma in modo

latente, nascosto. C’è un bisogno ineliminabile del padre e tuttavia il

suo ruolo esplicito tende ad essere sottaciuto8. La società ha deciso di

spogliare Ettore, come esemplifica in modo illuminante Luigi Zoja,

perché non spaventi il bambino: quest’ultimo non avrà più paura, ma

avrà ancora un padre? La rinuncia dell’armatura lo renderà simile alla

madre, ma il bambino andrà alla ricerca di altre figure maschili dotate

di armi. Forse alla contraddizione del padre non c’è soluzione: essa

corrisponde proprio alla sua identità profonda. Il paradosso del padre,

che illustreremo in seguito, sta proprio in questo: egli può essere con il

4 L. Zoja, Il gesto di Ettore. Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre, Bollingati Boringhieri, Torino, 2003, p. 270. 5 M. Andolfi, Vuoti di padre, in M. Andolfi (a cura di), Il padre ritrovato. Alla ricerca di nuove dimensioni paterne in una prospettiva sistemico relazionale, FrancoAngeli, Milano, 2001, p. 19. 6 C.M. Muttini, La funzione paterna nelle relazioni educative e di aiuto, Arakne, Roma, 2009, p. 16. 7 P. Donati, E. Scabini, L’immagine paterna nelle nuove dinamiche familiari, Vita e Pensiero, Milano, 1985. 8 Ivi, 2009, p. 19.

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figlio quando sa anche stare con l’armatura, può essere padre quando è

anche guerriero. Non può fare una sola delle due cose, come la madre:

se lo vede solo con le armi non lo riconosce, se non lo vede mai con le

armi non lo riconosce come padre9.

La figura del padre cambierà connotati mano a mano che il lettore si

addentrerà nella terza parte del lavoro dove verrà affrontato il delicato

rapporto tra padri e figli disabili. Se, come abbiamo scritto, l’immagine

paterna come tradizionalmente viene intesa tende sempre più ad essere

confusa con quella materna, o ancor più, a scomparire, urge uno

sguardo ancora più analitico e dettagliato in merito al rapporto con un

figlio con esigenze e bisogni speciali. Se risulta scontato affermare che

un buon clima familiare sia la premessa per un buon rapporto genitore-

figli, si sono intensificati, a partire dagli anni ’70 in poi, gli studi e le

ricerche per rilevare le conseguenze che la presenza di un figlio con

handicap possa determinare a livello di vissuto dei genitori e di

dinamiche relazionali che intercorrono tra i membri della famiglia e

che si ripercuotono sulle modalità educative10. È in questo senso che la

ricerca, avvalendosi e arricchendosi di contributi letterari e

cinematografici, sonderà un terreno di difficile aratura.

Inoltre ci soffermeremo sulla pratica della “Pedagogia dei Genitori”11

che, dal 1995, propone di affiancare alla diagnosi la presentazione del

figlio a motivo della presa di coscienza che i genitori che hanno i figli

con disabilità devono essere più genitori degli altri, rispondere a sfide

9 L. Zoja, op. cit., p. 34. 10 S. Di Nuovo, S. Buono, Famiglie con figli disabili. Valori, crisi evolutiva, strategie di intervento, Città aperta Edizioni, Enna, 2004. 11 A. Moletto, R. Zucchi, Con i nostri occhi. Un itinerario di Pedagogia dei genitori, Supplemento Handicap e Scuola, Torino, 2006.

11

speciali, compiere scelte difficili, affrontare una realtà spesso

impreparati12.

È in questo orizzonte prospettico che intendiamo muoverci nei

capitoli appena sopra articolati: chi è il padre? Che ruolo e che

dimensione dovrebbe assumere: normativa o affettiva? Davvero il

padre per esistere deve scegliere se essere un mammo o mantenere

salda l’armatura di Ettore?

Siamo giunti dunque, ancora una volta, di fronte a quello che sarà il

nostro orizzonte di senso per comprendere i meccanismi relazionali e le

dinamiche evolutive connesse alla figura paterna: il paradosso del padre

che esiste solamente nell’abitare continuo tra la normatività e

l’affettività.

12 M. Nussbaum, Giustizia sociale e dignità umana. Da individui a persone, Il Mulino, Bologna, 2002.

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Introduzione

La storia dell’educazione e del costume ci ha abituato, nel tempo, a

differenti figure di padre. Sino a quasi ad una sua latitanza o pressoché

scomparsa, che non solo per suo limite o per difetto, hanno avuto

riflessi profondi e negativi sulla crescita dei figli e sul loro

comportamento quanto anche sulla società nel suo complesso.

Restringendo l’attenzione agli ultimi due secoli, a cominciare da quella

pagina importante che è stato l’avvento della psicanalisi.

Freud, nel sottolineare l’importanza di entrambi i genitori per la

formazione della personalità, lo sviluppo dell’infanzia e le successive

fasi evolutive, ha attribuito ruoli rigidi, pur se complementari, al padre

e alla madre. Con eccessiva enfasi nei confronti del ruolo materno.

Comprensibile per due ordini di motivi.

Innanzitutto, per ragioni squisitamente culturali, anche di matrice

marcatamente pedagogica.

Il XVIII e il XIX secolo hanno segnato il passaggio, in capo alla

donna e alla madre, da avvertenze puramente biologiche, nutrizionali e

di allevamento, al recupero e alla fondazione di un suo forte e incisivo

spessore educativo. L’attribuzione, dunque, alla madre, di un ruolo di

onnipotenza affettiva: la madre, donna e moglie, angelo del focolare,

premurosa verso il marito ed i figli, ottima padrona di casa, vigile

custode dei compiti pomeridiani, mediatrice eccellente tra cuore e

ragione, pensieri, sentimenti e valori, è stata una caratteristica notevole

che ha accompagnato almeno cento anni della nostra storia più recente,

con non pochi sensi di colpa in buona parte del pianeta femminile. Il

padre era tenuto, al contrario, ad incarnare, in questo bozzetto idilliaco

ma severo, la norma, la legge, il dover essere e il dover fare, il castigo e

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la punizione eccellente. Ma sempre un po’ in ombra, distante, lontano.

Si pensi a tutta una generazione, non molto in là nel tempo, che

potrebbe avere ancora nelle orecchie frasi del tipo: “lo dirò a tuo

padre”, “se non fai il bravo lo racconto a tuo padre quando ritorna”, e la

madre al padre “rimprovera tuo figlio che oggi non si è comportato

bene”.

A sottolineare, così, un padre richiamato più al bastone che alla

coccola, non intimo col figlio, e soprattutto assente: un padre che non

c’è, che lavora, sempre in procinto di tornare, ma tardi. Un ruolo (o

un’assenza) che dalla famiglia si sono poi estesi anche al tempo libero e

alla scuola. Giardini affollati di madri con bambini e udienze

scolastiche stracolme di donne con scarsi uomini. Parliamo,

naturalmente dell’Occidente europeo e del mondo capitalista, che tra

l’altro si conosce maggiormente ed è quello più indagato dalla cultura

pedagogica prevalente. Sino ad arrivare alla patologia o alla patogenesi

familiare, in cui il padre “grande assente” era incitato ad intervenire

educativamente, salvo ricacciarlo immediatamente nell’angolo e nella

zona buia tutte le volte che si dava il desiderio o il coraggio di

pronunciarsi, anatemizzando il suo comportamento come foriero di

maggiori disgrazie per le scelte e per l’avvenire dei figli. Dal

matriarcato e dal maschilismo si arriva così alla già citata crisi degli

anni ’60 e all’avvento del primo femminismo. E la scena familiare si

svuota, in molti contesti, di tante madri e di troppi padri, tutti affannati

e protesi verso l’ autorealizzazione di sé, il successo sociale e

professionale, il benessere psicologico. Cucine, figli e udienze

scolastiche, sono un intralcio o un’esperienza da prendere a piccole

dosi. Con un passaggio dall’intimità all’intimismo, dall’educazione al

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permissivismo, da una sana e corretta relazione complementare ad un

rapporto pseudosimmetrico devastante ed iniquo13.

I successivi anni ’70 e ’80 hanno significato, invece, in antecedenza

profetica o scatenante, di un secondo femminismo più quieto e

razionale, e l’entrata in scena di un padre premuroso, coccolone, che ha

deciso di imparare a destreggiarsi tra fornelli e pannoloni, biberon e

compiti pomeridiani, che ama stare con i figli e godere della loro

presenza, in reciproca intimità. Nasce, pertanto, una nuova figura di

padre in sintonia con una ritrovata figura materna.

I figli per crescere bene hanno bisogno di un padre e di una madre

efficaci ed efficienti, entrambi premurosi e cordiali, ma anche sempre

educanti e contrattuali, che propongono stili, scelte e valori, nel dialogo

e nella confidenza, riservandosi in corner il ricorso all’autorità e alla

norma, quando, in quel preciso momento, tutte le possibili parole

sembrano non volere e non poter essere ascoltate.

Sta venendo a galla un padre affettuoso o, come ha scritto Pino

Pellegrino, “un papà salmone”14, che sa andare controcorrente, come i

salmoni appunto.

Un papà, dunque, che sa anche dire di no.

13 P. Watzlawick, J.H. Beavin, D.D. Jackson, Pragmatica della comunicazione umana. Studio dei modelli interattivi, delle patologie e dei paradossi, Astrolabio, Roma, 1971. 14 P. Pellegrino, Torna a casa papà, «Avvenire», 31 gennaio, 1999.

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CAPITOLO I

Un breve excursus sulla famiglia

In questo capitolo ci soffermeremo, in particolare, sull’evoluzione della

concezione di famiglia evidenziandone i tratti salienti che

contraddistinguono quella odierna da quella del passato. In seguito

analizzeremo l’identità di coppia come luogo degli affetti e delle relazioni

primarie, per giungere poi all’analisi della famiglia tradizionale e delle

nuove forme familiari esistenti. In ultima analisi ci soffermeremo,

brevemente, sul ruolo della madre nello sviluppo identitario e affettivo del

figlio, focalizzando l’attenzione sul cambiamento delle madri oggi,

meditando sul pensiero della filosofa Elisabeth Badinter, la quale afferma

che l'istinto materno non è un dato naturale e immutabile, che vive dentro

ogni donna, ma un dato culturale, dettato dall'evoluzione e dalle

organizzazioni sociali.

1. Cenni sulla nascita della famiglia dall’epoca moderna ad oggi

Nel corso del tempo la dimensione coniugale, e poi quella familiare,

hanno subito diverse modifiche a livello sociale e culturale.

La costruzione coniugale ha assunto differenti forme e funzioni rispetto

al periodo storico cui si fa riferimento: l’epoca moderna concepiva la

coppia come una via per creare alleanze tra famiglie, in seguito, con l’avvio

dell’industrializzazione, assume invece le caratteristiche di una sorta di

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impresa privata, per diventare alla fine, uno spazio per la propria

realizzazione personale15.

Il matrimonio non era quindi concepito come una possibilità di

conquistare una vita affettivamente piena, ma come una forma di alleanza

tra famiglie benestanti che potevano pertanto condividere un’ eredità

(compito della famiglia dello sposo) e una dote (compito della famiglia

della sposa). In quest’ottica si comprende quanto e in che misura il

matrimonio possedesse un carattere prettamente economico basato su

strategie di alleanze politiche in cui l’amore aveva ben poco spazio, per non

dire nullo. Naturalmente la ricchezza rappresentava il prerequisito

fondamentale perché l’unione matrimoniale avesse luogo: questo è tanto

più vero se si pensa alle molte famiglie sprovviste di dote (perché una volta

sposata la prima figlia non si aveva più a disposizione per le successive) la

cui conseguenza era quella di non poter far sposare la ragazza. Le famiglie,

pertanto, dovevano appartenere allo stesso ceto sociale per garantirsi,

reciprocamente, una duratura alleanza tra gruppi16.

Tra il XV e il XIX secolo si assiste, dunque, all’instaurarsi di forme

coniugali basate su un rapporto di scambio in cui la famiglia è intesa come

un’unità produttiva in grado di soddisfare il perpetrare delle generazioni:

questo è particolarmente vero per le famiglie contadine e artigiane come

per l’aristocrazia e la borghesia urbana. Il padre, in questo caso, funge da

amministratore sia dell’economia domestica che pubblica e finanziaria.

Per quanto riguarda l’Italia, lo studio di Barbagli17 fa risalire la comparsa

della famiglia moderna, o famiglia coniugale intima, come la definisce

15 P. Gambini, Psicologia della famiglia. La prospettiva sistemico relazionale, FrancoAngeli, Milano, 2007, p. 112. 16 C. Levi- Strauss, Le strutture elementari della parentela, Feltrinelli, Milano, 1984. 17 M. Barbagli, Sotto lo stesso tetto. Mutamenti della famiglia in Italia dal XV al XX secolo, Il Mulino, Bologna, 2013.

17

l’autore, tra gli ultimi decenni del Settecento e l’inizio dell’Ottocento,

prima dell’avvento dell’industrializzazione18. Tale fenomeno guida a un

ridimensionamento della composizione familiare: dalla famiglia estesa si

giunge alla famiglia coniugale- moderna19. Non a caso, dato il fenomeno

dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione, gli spostamenti sono

consentiti con maggiore frequenza amplificando quindi le possibilità di

sposarsi. Si giunge così a denominare i primi anni del Novecento: l’età

d’oro della nuzialità20.

Dunque, nella società post industriale si enfatizza la dimensione privata

della famiglia come luogo di affetto e di cura in cui le relazioni primarie

sono la base per la costruzione della vita coniugale e familiare. Di fatto la

famiglia, intesa non più come unità produttiva basata su un’alleanza

meramente economica e politica, diviene, secondo la definizione di

Parsons21, il luogo degli affetti e dei processi di socializzazione primaria e

secondaria. In questo modo la famiglia inizia ad assumere sempre più la

configurazione cui oggi siamo abituati a pensare: un luogo in cui le

relazioni di cura e di aiuto divengono centrali per il benessere della coppia

e dei figli che comporranno il nucleo familiare.

Per comprendere la famiglia, attualmente, ci si deve predisporre con uno

sguardo focalizzato sulla relazione di coppia, all’interno della quale

entrambi i partner possono sperimentare le proprie potenzialità e trovare

risposte alle proprie attese, a cagione del fatto che la realizzazione e la

felicità personale si realizzano altresì nel rapporto a due.

18 A.L. Zanatta, Nuove madri e nuovi padri. Essere genitori oggi, Il Mulino, Bologna, 2011, p.14. 19 P. Gambini, Psicologia della famiglia, op. cit., p. 114. 20 M. Segalen, Sociologie de la famille, Colin, Paris, 1981. 21 T. Parsons, R.F. Bales, Famiglia e socializzazione, Mondadori, Milano, 1974.

18

Per capire come sia avvenuto questo processo trasformativo di portata

esistenziale è auspicabile rintracciare nel rapporto di coppia la prima vera

legittimazione del matrimonio, inteso come amore romantico.

Di fatto, se dapprincipio il matrimonio era percepito primariamente

come la sicurezza di un’assicurazione economica e il conseguirsi della

naturale nascita dei figli, futura forza lavoro e conferma della prosecuzione

del cognome, adesso la motivazione principale per cui due persone

convolano a nozze è la realizzazione della propria felicità. Così fin da

ragazzi gli individui vengono socializzati ad innamorarsi e a farsi guidare

da questo sentimento nella scelta del coniuge22.

Anche per quel che riguarda la relazione di coppia, senza dovere andare

troppo in là con i ricordi, vi è stata una trasformazione tangibile nel

concepire la relazione: basti pensare che solamente nel secolo scorso i

matrimoni continuavano ad essere combinati, o, nelle migliore delle

ipotesi, il partner veniva scelto non in base a gusti e preferenze personali,

bensì a seconda della posizione familiare di quest’ultimo, alle credenze

religiose e politiche, e non da ultimo in merito alla posizione economica.

Sempre più, come scrive Scabini, il fidanzamento ha perso i suoi connotati

di alleanza ufficiale tra famiglie per divenire uno sfumato patto fiduciario

tra due individui che si scelgono senza la presenza di testimoni23. Questo è

tanto più vero se si pensa in che modo, e in che misura, sia mutato

l’immaginario collettivo rispettivamente all’autonomia spaziale, economica

e sociale dei partner in relazione alla famiglia di origine di ciascuno dei

due. In questo senso si apre, per i giovani d’oggi, una forma d’amore, e di

rapporto, libero e totalmente svincolata dalle famiglie di provenienza

22 W. Goode, The thereotical importance of love, American Journal of sociology, 24:38-47, 1959. 23 E. Scabini, Psicologia sociale della famiglia. Sviluppo dei legami e trasformazioni sociali, Boringhieri, Torino, 1995.

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anche, e soprattutto, per i forti connotati erotici e sessuali che sono inclusi

nell’ideologia dell’amore romantico. Lo spazio della coppia diviene, così,

un luogo autonomo e privo di qualsivoglia forzatura da parte di agenti

esterni, che siano la famiglia di lui/lei e/o fattori sociali e culturali che ne

ostacolano la relazione. Ancora, come caldeggia nuovamente Scabini, la

coppia sembra avere sempre maggiore preminenza sulla coniugalità24. Al

centro di questa viene posto, dunque, il legame di coppia basato sulla

reciprocità, sulla stima e sulla comprensione: le funzioni e i ruoli sono

stabiliti dagli stessi partner senza far entrare in gioco aspetti legati ad una

secolare tradizione. In questo modo la dimensione dell’amore resta l’unica

via privilegiata per accedere al matrimonio, dimensione dicotomica rispetto

a quell’ormai desueto “contratto formale” stipulato tra famiglie.

È evidente come intimità e formalità siano in antitesi tra di loro proprio

perché il polo affettivo viene scisso indiscutibilmente da quello etico:

l’impegno dell’uno nei confronti dell’altra, e viceversa, viene prima di ogni

patto stabilito da famiglie d’origine, comunità o stirpi d’appartenenza.

Non si tratta, però, di incontrare la persona giusta, precisa Montuschi,

ma di disporsi a costruirsi anima gemella, intenti a modificare se stessi per

rendersi adatti all’altro, compatibili per una reale ed efficace interazione

con la persona riconosciuta capace e interessata a condividere la propria

esistenza. Ciò significa imparare a dare e a ricevere con la stessa facilità e

naturalezza; significa sentirsi capaci di pensare, e anche di apprezzare i

pensieri del proprio partner, stimare se stessi e stimare l’altro: nella

reciprocità ciascuno è soddisfatto di com’è ed è soddisfatto di com’è

l’altro25.

24 Ivi, p. 45. 25 F. Montuschi, Costruire la famiglia. Vita di coppia, educazione dei figli con l’analisi transazionale, Cittadella Editrice, Assisi, 2004, p. 19.

20

Quanto emerso, però, non mette in luce uno dei fattori, purtroppo attuale

e in continua crescita, che mette a repentaglio proprio la durata e la stabilità

della coppia: le alte aspettative, facilmente soggette a delusioni, che i

coniugi hanno nei confronti del partner e della relazione; l’accresciuto

bisogno di autorealizzazione, caratteristica pregnante della nostra cultura,

lo sbilanciamento della relazione sul polo affettivo e, quindi, sull’intimità e

l’espressione di sé, non adeguatamente controbilanciato da quello etico,

cioè da un insieme di norme prestabilite, da un certo controllo sociale e da

una maggiore forza del vincolo matrimoniale, rendono più fragile l’attuale

coppia coniugale26. Come dichiara Saraceno,27 già si coglievano i primi

segnali delle separazioni e dei divorzi, in Italia come in altri paesi europei.

E’ chiaro, dunque, che ci sia bisogno, oggi, di una nuova e più attenta

formulazione di politiche sociali volte a garantire quel benessere socio-

economico che rappresenta lo sfondo integratore per una piena

realizzazione personale e, di conseguenza, di coppia.

Siffatta considerazione viene formulata alla luce, però, di una

consapevolezza che dovrebbe essere ben radicata in ognuno di noi: e cioè

che un matrimonio umanamente felice, nel quale ognuno dei due è tenuto a

veder rispettate le proprie esigenze di autonomia, di autoaffermazione e di

crescita personale, non è un matrimonio senza problemi28, ma è quello che

perdura nonostante i problemi. La speranza, intesa come risultato di una

vera e propria decisione- e si ricordi che crisi è uno dei tanti nomi delle

scelte e delle ridecisioni 29 -, di un atto della volontà che precede,

accompagna e segue il modo di sentire e percepire se stessi e la realtà30.

26 P. Gambini, Psicologia della famiglia, op. cit., p. 117. 27 C. Saraceno, M. Naldini, Sociologia della famiglia, Il Mulino, Bologna, 2001. 28 M. Corsi, Il coraggio di educare. Il valore della testimonianza, Vita e Pensiero, 2003, Milano, p.77. 29 Ivi, p 128. 30 F. Montuschi, Costruire la famiglia, op. cit., p. 81.

21

1.2 Presupposti per elaborare un progetto di coppia “sufficientemente”

efficace

In riferimento al concetto appena esposto, e dunque che i matrimoni che

durano non sono quelli senza problemi, ci preme sottolineare e definire in

termini concreti i ruoli e le funzioni che i due partner dovrebbero

auspicabilmene stabilire e negoziare per essere- e diventare- coppia.

Fino a qualche decennio fa non si sentiva il bisogno di concepire, in base

alle esigenze dettate di volta in volta dalla quotidianità, ruoli e funzioni che

non fossero già stati decretati dalla cultura di appartenenza. Alla donna,

angelo del focolare, spettavano la cura della casa e della prole, mentre

all’uomo, lavoratore onesto e stacanovista, il sostentamento economico

familiare. Oggi, invece, l’ideale della parità tra i sessi e l’allargamento

delle opportunità offerte alle donne hanno condotto a generare un nuovo

modo di interpretare la differenza di genere all’interno della coppia.

Sempre meno la costituzione della coppia coniugale è intesa come un

processo insieme fusionale e asimmetrico, in cui il benessere e la riuscita

dell’uomo diventano l’interesse della donna31.

Al contrario, oggi, mantenere intatta la propria individualità è diventato

sempre più un valore fondamentale da tenere a mente. Kalin Gibran, nella

sua celebre poesia sul matrimonio esemplifica egregiamente la strada per

costruire fondamenta solide che diano sicurezza al palazzo che, in questo

frangente, significa costruire la famiglia: riempia ognuno la coppa

dell’altro, ma non bevete da una coppa sola. Scambiatevi il pane, ma non

mangiate dalla stessa pagnotta. L’obiettivo del matrimonio è far risultare

ad 1+1 il numero 3. Neanche 2, ma 3. Non 2 perché altrimenti il tutto si

31 C. Saraceno, M. Naldini, Sociologia della famiglia, op. cit., p. 106.

22

configura come un contratto commerciale o un’impresa dove ciascuno

porta le sue quote e il suo maggior profitto, bensì 3, in cui i coniugi,

mantenendo intatte le proprie radici sino allora cresciute distanti,

svilupperanno, da quel momento in poi, una terza quantità di foglie che si

stringeranno assieme per formare il noi, il terzo 1 di un processo di

autonomia che si nutre di sane distanze e altrettanto sagge e volute

prossimità32.

La coppia, come appena scritto, sperimenta la fase adulta e la pienezza

dell’esercizio della propria libertà quando i singoli membri scoprono il noi:

non più la somma di due singole manifestazioni di libertà, rese compatibili

da accordi e stratagemmi, ma una nuova modalità di esercitare la libertà in

comunione33.

Ma così come non si può improvvisare la costruzione della famiglia, non

si improvvisa neppure l’essere coppia. Essere coppia, come più volte

ribadito in questa sede, prevede una lotta continua tra il resistere e il cedere,

tra il negoziare e il contrattare, rispettivamente a situazioni ed eventi- che

siano essi improvvisi o quotidiani- che la coniugalità tenderà ad incontrare.

L’obiettivo del matrimonio, ribadisce Théry, è quello di concepire uno

spazio in cui ruoli e funzioni, all’interno della diade, vengano sottoposti a

continue modifiche in relazione a situazioni e contesti, così da garantire ad

entrambi i membri la piena espressione e valorizzazione di sè34.

Tuttavia, per la risoluzione di conflitti, passeggeri o profondi, vi è

l’esigenza costante di una comunicazione a tutto campo. È facile

comprendere come un buon dialogo e una comunicazione attiva siano i

32 M. Corsi, Il coraggio di educare, op. cit., p. 121. 33 F. Montuschi, Costruire la famiglia, op. cit., p. 33. 34 C. Théry, L’enjeu de l’égalité. Marriage e diférence des sexes dans la recherce du bonnheur par S. Covell, Esprit, 252, 1991.

23

presupposti cardine per elaborare un progetto di coppia sufficientemente

efficace.

Per approfondire quest’ultimo concetto è utile rifarsi alla teoria

introdotta dal gruppo di Palo Alto e in particolare da Paul Watzlawick e

altri nel libro La pragmatica della comunicazione35. Secondo questi autori

il primo assioma della comunicazione afferma, appunto, che non si può non

comunicare: tutto nell’individuo ha valore di messaggio. Il silenzio e la

postura fisica, che sia essa immobile o in tensione, comunica con l’altra

persona che, a sua volta, non può non rispondere a queste comunicazioni

con altrettanti messaggi verbali e non verbali. Pertanto numerose ricerche

rivelano che le coppie soddisfatte del proprio rapporto hanno un livello di

comunicazione migliore rispetto a quelle insoddisfatte. Per buona

comunicazione si intende la capacità di fare buon uso delle parole:

Montuschi nel suo libro Costruire la famiglia, illustra l’inganno che può

celarsi dietro alla convinzione che il dialogo si costruisca e si esaurisca in

uno scambio di parole, in un inesauribile, ininterrotto parlare36. In alcuni

casi rappresentano solamente un innocuo passatempo per nascondere ed

evitare parole che potrebbero scavare nella profondità di sé e dell’altra

persona causando incomprensioni, senza capire, altresì, che proprio quel

bel giretto di parole vuote ma doppiate, come canta Samuele Bersani in un

suo noto testo musicale intitolato Giudizi Universali37, rappresenterà, a

lungo andare, uno dei motivi che potrebbero rivelarsi letali per la fine di un

rapporto.

35 P. Watzlawick, D.D. Jackson, J. Beavin, Pragmatica della comunicazione umana, Astralabio, Roma, 1971. 36 F. Montuschi, op. cit. p. 45. 37 È il terzo album dell'artista ed è intitolato semplicemente con tre asterischi. Pubblicato nel 1997, l'album contiene Giudizi universali, uno dei brani più intensi ed emozionanti scritti da Samuele Bersani con il quale nel 1998 si aggiudica il Premio Lunezia come miglior testo letterario.

24

Inoltre, la comunicazione non si articola tramite messaggi poco chiari e

fraintendibili: non solo per non correre il rischio di essere travisati, ma

anche per evitare di provare sentimenti frustranti determinati dalla

condizione di non essere compresi dal partner.

Instaurare una conversazione, dunque, è la modalità migliore per

esprimere sentimenti, emozioni, paure e gioie: è proprio nel momento della

condivisione che le parole assumono un significato diverso e l’ascolto non

rappresenterà più un semplice sentire, ma richiederà una partecipazione

cognitiva e affettiva, ricercherà, cioè, un ascolto autentico.

L’ascolto attivo consta, a nostro avviso, di tre dimensioni collegate

imprescindibilmente tra loro e senza le quali non si potrà avviare alcun

processo di comprensione profonda dell’altro. La prima istanza che viene

sollecitata è quella affettiva: è evidente che per contribuire e collaborare

con la persona che sta manifestando un suo vissuto, una sua esperienza o

un suo pensiero la vicinanza emotiva è la prima chiave di volta; l’ascolto

empatico presuppone un’incompatibilità con sentimenti quali la

sopraffazione e la prepotenza, ma agisce attraverso la tenerezza che, illustra

Montuschi, significa condivisione e si conquista, difatti, con la pace, la

comunione, lo scambio affettuoso e paritario dei sentimenti di accettazione,

di valorizzazione, di gratitudine38.

Come seconda dimensione vi è sicuramente quella cognitiva che

prevede, per così dire, un’affinità di testa. Per realizzare una

comunicazione flessibile, non rigida, non egocentrica, è necessario un

decentramento emotivo: la flessibilità cognitiva ci aiuta ad assumere il

punto di vista dell’altro ed è infatti collegata a una disponibilità affettiva

che possa investire in egual misura il sé e l’altro. Per ascolto, pertanto, non

38 F. Montuschi, op. cit., p. 53.

25

intendiamo tacere per permettere all’altro di parlare; l’ascolto attivo è un

atto intenzionale che impegna la nostra attenzione a cogliere quanto l’altro

ci riferisce sia in modo esplicito che in modo implicito 39 . Di fatto

l’elemento centrale affinché l’ascolto possa instaurarsi risiede sempre nella

comprensione: il pregiudizio rispetto a quello che si sta ascoltando o la

volontà di convincere l’interlocutore a cambiare idea non possono- e non

devono- rientrare a far parte di un ascolto autentico. L’ultima dimensione,

che lega indiscutibilmente le prime due, abita nella relazione. La relazione,

come in ogni presa in carico di un soggetto, è la condizione necessaria

affinché si possa creare quel clima di fiducia e di abbandono all’altro che

sono la garanzia per un rapporto vero e umanamente sereno.

È da sottolineare, in ultima analisi che, come ricorda Pati, anche il

conflitto può essere utile allo stabilirsi di un vero rapporto di dialogo,

purchè esso rimanga sempre su di un piano accettabile in cui il rispetto per

l’interlocutore non venga mai meno40.

Ma il fenomeno dell’ “errore di persona” o i tanti impossibili

“imprevisti” della vita coniugale e familiare appartengono alla storia

umana, e talora fragile, delle persone41.

La coppia cova già al suo interno una realtà conflittuale in nome della

sua stessa costituzione: due persone che, giorno dopo giorno, devono

accordarsi sulle scelte e sulle soluzioni da mettere in atto, grandi o piccole

che siano.

La rabbia è un sentimento molto comune che si sviluppa quando uno dei

due partner mette in atto processi di prevaricazione e di prepotenza che,

39 C. R. Rogers, La terapia centrata sul cliente, La Meridiana, Molfetta (BA), 2007. 40 L. Pati, Progettare la vita. Itinerari di educazione al matrimonio e alla famiglia, La Scuola, Brescia, 2004, p. 53. 41 M. Corsi, Saper stare in famiglia: la democrazia come scelta procedurale, in M. Corsi, M. Stramaglia, Dentro la famiglia. Pedagogia delle relazioni educative familiari, Armando, Roma, 2009.

26

solitamente, fanno sperimentare un senso di frustrazione e di inadeguatezza

in che le riceve. Lampante è comunque l’idea che evitare la conflittualità

non comporti un miglioramento della relazione, anzi. Le famiglie che

hanno come mito quello della concordia e dell’unità, nelle quali è

condannato, anche se velatamente, l’alzare la voce o esprimere contrarietà

rispetto ad un dato evento o opinione, non svilupperanno mai un

sentimento che invece risulta utile per tutti gli esseri viventi perché

garantisce la sopravvivenza fisica e psichica42. Inoltre la paura di esprimere

sentimenti di rabbia corrisponde, quasi sempre, ad una comunicazione non

efficace: tacere e accumulare aggressività significherebbe poi esplodere di

fronte all’ennesima questione in cui i due partner litigano senza ricordare

l’oggetto e il motivo della discussione. Si perde così il valore dello scambio

di idee e perciò, ricollegandoci a quanto sinora scritto, il valore che ha il

costruire un progetto di coppia. Non concedersi la possibilità di

testimoniare le proprie emozioni e visioni della realtà elimina, a pieno

titolo, l’ascolto autentico ed empatico, personale e relazionale, mai critico e

pregiudiziale, che non assume mai in alcun modo i panni della condanna e

del rifiuto, nell’accettazione e nell’accoglienza, per discutere e dialogare

tutto il tempo necessario, per essere in grado, insieme, di risalire dai tanti

“tombini” di cui è disseminata la vita di ciascuno e per tornare,

metaforicamente, a “rimirar le stelle”43.

Sperimentare la rabbia, a ben pensarci, può essere anche un modo per

conoscersi meglio, per scavare nell’intimità dell’altro e per potere, in

seguito, attenuare o smussare atteggiamenti che possono risultare poco

piacevoli, per sostituirli, difatto, con comportamenti in cui ciascuno si senta

riconosciuto. Interessante è quindi capire il come affrontare la collera e

42 F. Montuschi, op. cit., p.47. 43 M. Corsi, M. Stramaglia, Dentro la famiglia…, op. cit. p. 56.

27

esprimere il proprio sentimento, anche con forza e determinazione, senza

però minacciare e/o aggredire l’interlocutore.

In linea generale la rabbia è accompagnata, come sostiene Johns44, da

una specifica forma di paura che, se non esplicitata, può avere conseguenze

anche molto distruttive. Nello specifico si configurano quattro tipi di paure:

La rabbia di impotenza, alimentata dalla paura di non essere capaci, da

un senso di inadeguatezza nei confronti dell’altro e da una percezione di

inferiorità e di insuccesso in rapporto alle situazione che si vivono;

• la rabbia di frustrazione è alimentata dalla paura di non riuscire,

di fallire di fronte ad una difficoltà, di non essere all’altezza e

quindi di essere giudicati negativamente dagli altri;

• vi è poi la rabbia di sfida, nutrita dalla paura che nulla abbia

senso e valore: né gli altri né gli eventi che accadono, tantomeno

la propria esistenza;

• in ultimo la paura chiamata di indignazione che risulta la più

costruttiva: è infatti in seguito a torti o ingiustizie che le persone

mettono in moto comportamenti di rivalsa per ristabilire uno

stato di equità, per sé e per gli altri.

La rabbia sana è dunque assertiva e permette ai partner di ascoltare/si per

meglio governare la vita insieme attraverso una democrazia coniugale che

sappia accogliere e rimodellarsi rispetto al nuovo e all’imprevisto che

incalzano, a vantaggio di persone perennemente creative e non rigide.

Inizia così, per mai più interrompersi, tutte le volte che ci si arena

nell’incontro scarsamente improduttivo, la fatica del confronto, del dialogo

44 H. D. Johns, Paura, collera nel quotidiano, Cittadella ed., Assisi, 1994.

28

sincero a tutto campo, della comunicazione interpersonale e della fedeltà

alle sue regole45.

È questa una sfida di vastissime proporzioni in merito tipicamente ai

coniugi, ma che si può, e si auspica deve estendere poi a tutta la famiglia:

avere il coraggio di uscire da una prospettiva autoreferenziale per aprirsi

alla generatività in senso lato46.

Ognuno di noi è un intreccio inesauribile di persone incontrate ed eventi

vissuti, più o meno favorevolmente nel corso dell’esistenza, e da cui siamo

intimamente influenzati.

Elaborare un progetto comune assume, pertanto, un significato

esistenziale di coppia poiché occorre ridefinire l’individuo adulto in nome

delle sue tante scelte personali, a monte pur ottimali, con la speranza che

non si rivelino fallimentari e prive di uno sguardo lungimirante e, in questo

senso, pedagogico. Occorre, cioè, una pedagogia della famiglia che sappia

orientare e promuovere scelte valoriali di senso atte a muovere la riscrittura

di regole, di stili e contenuti a favore di una condivisione di coppia

profonda e totale.

Abitare sotto uno stesso tetto non conduce di per sé a riconoscere una

visione globale d’insieme in cui ogni singolo componente ha la possibilità

di affermarsi e sentirsi sostenuto (quindi riconosciuto) in un’ottica

familiare partecipata e partecipante. Il troppo decantato tempo qualità

rischia, viepiù, di far soccombere, altresì, quella dimensione quantitativa

che invece svolgerebbe la funzione dell’ esserci, della permanenza e della

staticità- senza per questo irrigidirsi nei ruoli- che i coniugi, e i genitori poi,

dovrebbero avviare nell’idea di costruire una famiglia che aspiri al

45 M. Corsi, M. Stramaglia, Dentro la famiglia…, op. cit. p. 57. 46 P. Gambini, Psicologia della famiglia…, op. cit. p. 125.

29

benessere e alla felicità. Tornare, cioè, a scegliere la stanzialità47, intesa

non come immobilismo acritico, come paura del nuovo e del cambiamento,

ma come scelta di benessere personale, dunque: familiare. La stanzialità

percepita come istanza di miglioramento, per sé e per gli altri, e di

allargamento lungimirante che si compie dal me per approdare al noi.

Secondo il pedagogista Pati, nella coppia l’amore non si esplicita solo

come amore passione ma anche, e soprattutto, come amore progetto,

pensiero di una relazione unica e gratuita proiettata alla costruzione di un

nucleo familiare più vasto nel quale ognuno può trovare alimento per la

propria crescita48. L’alterità si trova al cuore del riconoscimento di sé come

soggetto capace: “è la considerazione altrui che creerà la nostra auto-

rappresentazione, cioè l’immagine, la stima che si ha di sé stessi ed è

questa che permetterà al giovane di sviluppare, o meno, i suoi progetti e le

sue aspettative”49. Il riconoscimento è, peraltro, attribuzione di valore,

forma d’amore che apre la strada all’incontro tra soggetti separati ma che

condividono una stessa origine, una medesima appartenenza: l’umanità50.

Oggi, e ci avviamo alla conclusione, per operare autenticamente nel

campo della formazione e dell’educazione si deve auspicare che

l’originalità dei singoli soggetti venga promossa, per ricominciare ad

analizzare e ipotizzare grandi scenari di cambiamento- e miglioramento-

dell’umanità come sistema formativo integrato, iniziando, appunto, dalla

famiglia.

47 M. Corsi, M. Stramaglia, Dentro la famiglia, op. cit. p. 43. 48 L. Pati, Progettare la vita, op.cit., p. 36. 49 J.P. Pourtois, H. Desmet, L’educazione implicita, Del Cerro, Pisa, 2007, p. 154. 50 P. Dusi, Il riconoscimento, in A. Mariani (a cura di), 25 saggi di pedagogia, FrancoAngeli, Milano, 2011, p. 34.

30

2. La famiglia

La realtà particolarmente complessa, che circonda e fa da sfondo al

concetto stesso di famiglia, implica, per chi la studia come fenomeno

sociale, culturale, politico e sociologico, un’attenta disamina a partire

proprio dalla sua identità. Da tempo le ricerche storiche e antropologiche

hanno messo in luce come non sia possibile slegare, dalla definizione di

nucleo familiare, il contesto storico- geografico a cui questo appartiene.

È risaputo, e scientificamente provato, che gli uomini sono esseri sociali

e culturali legati e radicati alla storia e alla tradizione51. Da qui emerge la

difficoltà, velatamente celata, di attribuire valore e riconoscimento alla

comparsa delle nuove forme familiari che caratterizzano, oggi, la società.

In questo paragrafo ci preme pertanto osservare la famiglia in maniera

meno descrittiva e più come sistema di valori poiché il profilo e l’orizzonte

di senso dentro al quale navighiamo rimane quello pedagogico-educativo.

Diamo avvio, dunque, al nostro discorso pedagogico attraverso uno

slogan diffuso velocemente in tutto il mondo: educazione ai valori.

Brezinka, teorico tedesco dell’educazione, riflette sul significato – a suo

parere poco chiaro – del termine valore, vocabolo che si presterebbe a

molteplici interpretazioni52. È evidente, comunque, che la famiglia, le

istituzioni e la democrazia rappresentano, nella nostra società, dei valori.

Che cosa si deve dunque intendere con educazione ai valori? E chi deve

educare ai valori?

Le domande, di natura provocatoria, paiono riflettere una crisi culturale

moderna che ci condurrebbe a costatare una crisi a partire proprio dalle

istituzioni. E, nello specifico, dell’istituzione famiglia. Eppure, proprio nel

51 W. Brezinka, Educazione e pedagogia in tempi di cambiamenti culturali, trad.it. Claudia Colombo, Vita e Pensiero, Milano, 2011. 52 Ivi, p.78.

31

momento storico in cui la famiglia raggiunge il punto più basso di stima

sociale, quando viene meno la sua compattezza, quando l’immagine del

nucleo familiare sembra sfilacciarsi sino a comporre trame intricate, ecco

che proprio allora la famiglia si riabilita, disvela la sua virtù53.

Affermare che la famiglia è un valore, dunque, non significa ignorare le

difficoltà a cui deve far fronte o illudersi che l’eterogeneità di

comportamenti che vanno dalla scelta di non fare famiglia, a quella di

interpretarla in forma omosessuale, a quella formata da un solo genitore e

ancora da un terzo genitore, non sia una realtà con cui fare i conti. Annota

Luciano L’ Abate: “Nonostante il fatto che le famiglie intatte stanno

diventando una percentuale sempre più piccola in rapporto ai singoli, ai

conviventi o alle famiglie monoparentali, molti di noi sono vissuti in

famiglia e ne hanno creata un’altra, […] intatta o meno […]”54.

Il permanere della famiglia, afferma Stramaglia, è nella famiglia, a

prescindere dalla morfologia storicamente connotata dalla stessa55. Per

suffragare maggiormente tale tesi appare opportuno non tralasciare

l’elemento che si propone come costante nella definizione di famiglia e

cioè il suo essere relazione specifica e unica tra più persone. Gli studi

psicologici hanno evidenziato che, proprio nella relazione primaria

stabilitasi in famiglia l’individuo riuscirà a soddisfare i fondamentali

bisogni di intimità56, di carezza e di tenerezza. In tale analisi riguardante le

relazioni familiari Scabini57, attraverso un suo contributo, sostiene che la

specificità insita della famiglia consiste proprio nel fatto che essa è

53 C. Xodo, Dopo la famiglia, la famiglia. Indagine sui giovani tra presente e futuro, Pensa Multimedia, Lecce, 2008, p. 23. 54 L. L’Abate, Famiglia e contesti di vita. Una teoria di sviluppo della personalità, trad. it., Roma, Borla, 1995, p. 98. 55 M. Stramaglia, Transitorietà in divenire. Il primato della pedagogia familiare, in M. Corsi, M. Stramaglia, Dentro la famiglia…, op. cit. p. 19. 56 D. W. Winnicott, Dal luogo alle origini, Cortina, Milano, 1990, p. 47. 57 E. Scabini, Psicologia sociale della famiglia., op. cit.

32

un’organizzazione di relazioni primarie tra persone, e non tra individui,

come riesce a sintetizzare, in poche preziose battute, una delle voci più

autorevoli del personalismo: «A volte si contrappongono tra di loro persona

e individuo per distinguerli. […] Persona, infatti, si sviluppa purificandosi

continuamente dall’individuo che è in lei, a ciò perviene non tanto con

l’attenzione continua a sé stessi, ma piuttosto col rendersi disponibile

quindi più trasparente, a sé stessa e agli altri»58.

Nonostante la crisi in cui versa la famiglia, è possibile pensare a

quest’ultima come luogo ancora deputato all’educare59? La risposta è

contenuta in un’espressione assolutamente veritiera: educare richiede

coraggio60. Coraggio nel testimoniare – con il cuore e con la mente – il

sapere, il potere e il volere guardare avanti verso un orizzonte comune,

caratterizzato da sentimenti che hanno il loro centro propulsivo nel bene,

inteso, quest’ultimo, come possibilità di realizzare il proprio progetto di

vita, a partire dal riconoscimento delle situazioni originarie per giungere,

attraverso obiettivi educativi definiti, al loro riconoscimento e, dunque,

raggiungimento.

Ancora: educare è educare a decidere, educare alla maggiore

consapevolezza e alla massima conoscenza delle opzioni esistenti e quindi

percorribili. Ebbene: l’educazione è un sistema di scelte. Il matrimonio non

si improvvisa, così come non si improvvisa un figlio senza prima averlo

accolto dentro di sé come idea e aver accettato il progetto del figlio con se

stessi61.

58 E. Mounier, Il personalismo, AVE, Roma, 1964, p. 47-48. 59 G. Galli, Educazione familiare e società complessa, Vita e Pensiero, Milano, 1990. 60 M. Corsi, Il coraggio di educare, op. cit. p. 29. 61 Ivi, p. 30.

33

Il figlio diventa tale nella misura in cui l’adulto diviene e sa essere

adulto. Lo psicanalista Erickson62 identifica lo status dell’età adulta con

l’emergere di tre virtù: la generatività, la responsabilità, la gratuità. La

generatività è dunque lo spazio privilegiato in cui la coppia si apre al

nuovo, al terzo, al figlio, quando l’egoismo e il benessere personale

vengono post posti per dare luogo alla relazione che sancisce la nascita

della famiglia. Vi è poi la responsabilità, e educare alla responsabilità, che

significa promuovere la capacità di rispondere delle azioni compiute. La

consapevolezza per il bene rivestito dall’educazione muove dalla vita

apprezzata come una risorsa e la possibilità di interpretare la finitezza della

condizione umana rappresenta il principio della responsabilità educativa.63

E poi la dimensione della gratuità: la dimensione del dono, già cara alla

riflessione filosofica di Maritain64, rimane il primo strumento, talvolta

inconsapevole, di sostegno e guida nel processo di costruzione di

un’identità personale filiale che diviene così oggetto di un riconoscimento

autentico e disinteressato65.

I figli interpretati come soggetti della relazione genitoriale sanciscono la

novità essenziale della famiglia moderna: “Noi siamo attaccati alla nostra

famiglia perché siamo attaccati alla persona di nostro padre, di nostra

madre, di nostra moglie, dei nostri figli. Un tempo era totalmente diverso: i

legami che derivavano dalle cose primeggiavano su quelli che derivavano

dalle persone; lo scopo primario di tutta l’organizzazione familiare era

quello di mantenere nella famiglia i beni domestici, e rispetto a questi, ogni

considerazione personale appariva secondaria”66.

62 E. H. Erickson, I cicli della vita. Continuità e mutamenti, Armando, Roma, 1999. 63 P. Malavasi, Vita, educazione, in “25 saggi di pedagogia”, op. cit. p. 50. 64 J. Maritain, L’educazione al bivio, La Scuola, Brescia, 1981. 65 M. Peretti, La pedagogia della famiglia, La Scuola, Brescia, 1969, p. 229. 66 E. Durkheim, Per una sociologia della famiglia, Amando, Roma, 1999, p. 131.

34

È vero che, rispetto al passato, i padri e le madri della contemporaneità

hanno come primo compito genitoriale la socializzazione primaria dei figli,

che consiste appunto nella costruzione della loro personalità attraverso

l’interiorizzazione della cultura della società in cui il bambino è nato67.

Dal pensiero sociologico di Parsons, che vedeva nel compiersi della

famiglia moderna una naturale differenza di funzioni – per cui la madre era

il leader espressivo e il padre il leader strumentale – approdiamo ad anni,

più recenti, in cui la sua teoria viene sottoposta a critiche perché riproduce

in modo assolutamente acritico gli stereotipi di genere considerati come

dati immutabili.

A partire dalla metà del secolo appena trascorso, i grandi cambiamenti

culturali e sociali avvenuti nell’Europa occidentale, hanno, ancora una

volta, coinvolto la famiglia. Tra questi, una particolare riduzione delle

nascite che, a fronte di motivi tipicamente di carattere economico, fa

presagire un radicale mutamento di prospettiva rispettivamente all’idea di

essere genitori: proprio perché avere figli non è più un destino obbligato, si

rileva un forte senso di inadeguatezza e di ansia di fronte alle responsabilità

legate al divenire padre e madre68, suffragate dalla comune sensazione che

stimoli e agenti esterni entrino in conflitto con le norme valoriali che si

cerca di trasmettere in famiglia.

In ultima ratio la genitorialità come scelta appare rischiosa, irreversibile:

senz’altro coraggiosa.

La principale sfida delle moderne famiglie di fronte alla società

complessa è, dunque, quella di legittimarsi quale luogo educativo di

67 A.L. Zanatta, Nuovi padri e nuove madri, op. cit. p. 26. 68 Ivi, p. 35.

35

“transizione”, e di “transizioni” maturative, pur essendo essa stessa

“transitante”69.

2.1. Il ruolo dei genitori nello sviluppo dell’identità del figlio

Un prezioso distillato di idee ed esperienze, maturate nel corso della sua

carriera professionale, provengono da uno dei padri della psicanalisi

austriaca, Freud, attraverso uno dei più celebri volumi sul rapporto tra

identità del bambino e ruolo genitoriale, in cui si afferma il fascino della

quasi perfezione.

Ricollegandoci ad una delle tre dimensioni di cui si narrava poc’anzi, la

gratuità si considera, nuovamente, alla base del progetto educativo e di

amore del genitore verso il figlio.

L’intenzione che sottintende, pertanto, la scrittura di tale paragrafo

muove dalla necessità di comprendere i meccanismi secondo i quali la

scelta di avere un figlio implichi la messa in atto di uno stile relazionale ed

educativo che possono praticare i genitori, che assuma i tratti

dell’autoritarismo, del permissivismo, e/o, di contro, dell’autorevolezza.

Al contempo occorre avere la consapevolezza del diritto di tutti i genitori

a essere sostenuti nel momento in cui iniziano a vivere l’esperienza della

genitorialità e cominciano a sviluppare la relazione con i loro figli. «E

aiutare la normalità significa sostanzialmente educare, educare secondo lo

stile della conoscenza reciproca, della fiducia, della cooperazione e del

coinvolgimento contro lo stile della delega, significa mettere in atto piani

d’azione condivisi contro lo stile onnipotente dell’istituzione che fa tutto da

sé, significa agire in una logica di partenariato, in un contesto di

69 M. Stramaglia, Transitorietà in divenire…, in M. Corsi, M. Stramaglia, Dentro la famiglia, op. cit., p. 20.

36

intersoggettività finalizzato a ridare senso di competetenza ai differenti

attori, che, soprattutto, renda possibili percorsi di promozione e autonomia

delle famiglie».70 In tutti i bambini sono presenti, già al momento della

nascita, le impronte di quella che sarà la loro futura personalità.

Occorreranno anni di vita e di esperienze perché questi primi accenni del

carattere futuro incomincino a emergere come contorni di una personalità, e

altri ancora ne dovranno trascorrere perché essa possa dirsi pienamente e

saldamente formata. La partecipazione attiva dei genitori risulterà pertanto

di fondamentale importanza perché, all’inizio, l’identità del bambino si

forma esclusivamente in relazione a se stessi; la sua identità potrà essere

positiva solamente se è in armonia con l’atteggiamento dei genitori verso di

lui71.

I due stili educativi prima citati ripropongono un’immagine fedele dei

contesti socio culturali di un periodo ormai auspicabilmente passato:

l’autoritarismo si riconnette all’immagine dell’educando e del bambino

come vaso vuoto da riempire o argilla da forgiare, nella negazione

dell’altro come persona con cui lavorare e crescere insieme; la non

discutibilità delle decisioni parentali, e in particolare la figura despota del

padre, si rifà a siffatto concetto. Di contro, in particolare negli anni del

boom del benessere economico, lo stile educativo improntato sul un laissez

faire si incarna bene nel permissivismo, concetto che evidenzia il silenzio

educativo dei genitori nei riguardi delle condotte più o meno responsabili

dei figli72.

70 P. Milani, Vecchi e nuovi percorsi per la pedagogia della famiglia, in «Studium Educationis», n. 1., 2002, p. 20. 71 B. Bettelheim, Un genitore quasi perfetto, trad. it. Adriana Bottini, Feltrinelli, Milano, 1987, pp. 189-190. 72 M. Corsi, Il coraggio di educare, op. cit. p. 158.

37

La storia più recente ha messo in luce il primo comportamento e stile

educativo che, in termini di democrazia familiare, può trovare spazio

nell’autorevolezza che equivale a cercare di comprendere le ragioni dei

propri figli, mettersi nei loro panni, costruire con loro un rapporto di

comunicazione emotiva e affettiva. L’approvazione dei genitori porta il

figlio a viversi come un individuo riconoscibile, diverso da tutti gli altri, e

diventa così l’incentivo per formare la sua personalità individuale73. Lo

stile autorevole contiene in sé anche un altro sentimento che facilita il

processo di crescita individuale, e poi sociale, della persona: l’empatia. Per

comprendere ed entrare nella sfera intima che si cela nel profondo dei figli

-nel caso del genitore, ma potremmo allargare il ragionamento includendo

tutti i contesti in cui si educa,- dobbiamo affidarci alle nostre reazioni di

empatia: mentre con la ragione cerchiamo di tradurre quello che i figli

vogliono dirci attraverso le loro parole e azioni, il nostro inconscio cercherà

di coglierli in rapporto ai nostri vissuti personali, passati e presenti74.

La madre e il padre contribuiscono, in egual misura, al benessere psico-

fisico del figlio. Da Freud, sino agli odierni analisti, l’identificazione con

entrambi i genitori, per il valore delle prime fasi di vita nell’avventura

esistenziale di chiunque, ha assunto un significato di importanza primaria, a

motivo del fatto che sono i gesti e i comportamenti, più che le parole, che

educano, con il loro dire e il loro testimoniare.

Si è venuta delineando, dunque, una tendenza alla simmetria nelle

funzioni legata a modificazioni culturali e sociali come il lavoro femminile

e la maternalizzazione dell’atteggiamento paterno75.

73 B. Bettelheim, Un genitore…, op. cit., p. 190. 74 Ivi, p. 119. 75 C.M. Muttini, La funzione paterna nelle relazioni educative e di aiuto, Aracne, Roma, 2009, p. 14.

38

2.2 La famiglia separata

Di quale famiglia parliamo? La domanda non è oziosa perché dalla

definizione che si fornisce dipendono risorse, aiuti e sostegni economici.

Dal 1950, sia in Italia, sia negli altri Paesi, il numero delle istanze di

separazione è in costante aumento. Secondo l’Istat nel 2011 in Italia si è

separata una coppia su 4, in 35 anni i matrimoni si sono dimezzati. La

separazione è un momento altamente traumatico, ancora di più rispetto al

divorzio: con la separazione avviene la grande rottura, la lacerazione, la

trasformazione del contesto di vita e l’esplosione della rabbia, dei conflitti

e delle paure. Le forme familiari divengono, quindi, sempre più variegate:

crescono i single, le coppie senza figli, le famiglie monogenitoriali, le

coppie non coniugate, quelle ricomposte in cui i coniugi provengono da

precedenti separazioni, le unioni omosessuali 76 . Per dirla con Donati

bisognerebbe parlare ormai di pluralizzazione delle famiglie77.

In crisi non è dunque la famiglia in sé, ma una sua visione monolitica.

Riportiamo, in merito a quanto appena scritto, una riflessione sulla

famiglia condotta da Carlotta Zavattiero78 in rapporto al dramma dei padri

separati. All’interno del volume “Poveri Padri” viene riportato un

contributo del sociologo Pietro Boffi tenuto ad un convegno svolto a

Verona nel 2010 ed intitolato “Sposarsi oggi: perché?”. Boffi ha il compito

di perorare la difesa dell’istituto matrimoniale, sostenendo che

cinquant’anni fa sposarsi “era nella natura stessa delle cose e lo si faceva

per un’unica ragione: fare una famiglia”. Nel corso del convegno lo

studioso ha comunque sottolineato che la famiglia, oggi, non è moribonda,

76 Fonte: ISTAT 2011. 77 P.P. Donati, La famiglia di fronte alla pluralizzazione degli stili di vita: realtà, significati e criteri di distinzione, in P. Donati (a cura di), La famiglia tra identità e pluralità, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2001. 78 C. Zavattiero, Poveri padri. Allontanati dai figli, discriminati dalla legge, ridotti in povertà: la prima inchiesta a tutto campo sul dramma dei padri separati, Salani ed., Milano, 2012.

39

ma tende a nascere sempre più tardi, con sposi che arrivano alle nozze

intorno ai trentadue anni e a quasi trent’anni le spose79.

Per comprendere la ragione di tale rallentamento nel formare una

famiglia, la motivazione economica appare sempre più l’ostacolo che si

contrappone tra i giovani e il matrimonio: spiegazione non plausibile per il

sociologo. Per Boffi è limitativo far ruotare alcune scelte solo attorno a

presupposti di carattere economico. Sarebbe invece lo stallo delle iniziative

coraggiose da parte delle nuove generazioni a fermare i giovani a sposarsi:

«Siamo formati anche dai problemi, che ci danno la voglia di superarli.

Crescere dei figli facendo di tutto per evitare loro difficoltà non crea

persone capaci. Ma è solo un’illusione, in quanto si rimanda più avanti e a

un’età molto elevata il momento in cui inevitabilmente uno andrà a

scontrarsi con i problemi»80.

Dunque, se da un lato il nostro immaginario ci spinge e ci porta ad avere

rappresentazioni positive legate all’idea di famiglia, sul lato pratico viene a

mancare quella spinta propulsiva che ci dà il coraggio di affrontare la vita a

due.

Di fatto dal 1970, anno in cui è stato introdotto l’istituto del divorzio per

la prima volta, stiamo assistendo ad un proliferarsi di separazioni, anche a

poca distanza dal matrimonio.

Pertanto siamo interessanti a capire che tipi di ricadute abbia il divorzio,

primariamente sulla coppia, emotivamente e psicologicamente, per poi

comprenderne le conseguenze sui figli.

Come ben sappiamo, la separazione e il divorzio non sono eventi che si

realizzano in tempi brevi. Essi comportano un vero e proprio percorso, una

successione di fasi, che permetta alle persone implicate di elaborare

79 Ivi, p. 245. 80 Ivi, p. 246.

40

interiormente quanto accade, di ristrutturare le proprie relazioni e di

raggiungere una nuova organizzazione familiare81.

Quando una coppia decide che è giunto il momento di separarsi, non va

incontro solamente ad una trafila burocratica importante dal punto di vista

legale e economico, ma attraversa, soprattutto, una serie di fasi emotive e

psicologiche che, se non superate correttamente, potrebbero comportare

gravi turbamenti per la persona che lo vive.

Paolo Gambini82 esplica, nel suo volume, il punto di vista di tre autori

che hanno descritto come si articola questo processo in ambito psicologico:

il modello di Kaslow (1991), il modello di Emery (1994) e il modello di

Bohannan (1970).

In una prospettiva psicosociale ciò che emerge dai tre modelli a cui si fa

riferimento è il distacco emotivo che si deve compiere dall’altra persona e

che, inevitabilmente comporta il passaggio di diverse fasi, che ad esempio

Kaslow riassume in fase dell’alienazione, fase conflittuale e fase

riequilibratrice. L’alienazione è il momento cruciale del rapporto e avviene

quando i partner constatano la loro incompatibilità: è un processo molto

delicato di riconoscimento della situazione, sia perché inizialmente si

tenderà a negare l’instabilità matrimoniale in nome di un periodo

passeggero di crisi o nervosismo naturale e congenito alla coppia, sia

perché il distacco emotivo può esserci anche quando l’altra persona

continua a rappresentare una fonte di sicurezza personale. I periodi che

sottintendono questa fase sono, per giunta, molto lunghi, dato che il

tentativo di giungere a compromessi e negoziazioni pur di salvare il

rapporto saranno una costante di suddetto momento. Si approda alla fase

conflittuale quando è introdotto l’aspetto legale e dunque, la necessità di ri-

81 P. Gambini, Psicologia della famiglia, op. cit. p. 233. 82 Ibidem.

41

organizzare in modo concreto la propria vita. Vedremo in seguito come, e

in che misura, la presenza dei figli potrà inasprire questo momento già così

denso e cruciale per i coniugi.

Il modello ben evidenziato da Emery, che mette in luce la dimensione

della perdita legata al divorzio, è ricollegabile al modello ciclico di lutto, e

dunque alle tre emozioni provate che vanno dall’amore, alla collera, e

quindi alla fase conflittuale descritta da Kaslow, in cui la frustrazione e la

rabbia verteranno sui sentimenti della colpa e della vergogna, da scaricare

vicendevolmente su l’uno o sull’altra persona. Questo produce una serie di

schieramenti da parte di amici e parenti a favore o contro uno dei due

coniugi che diventa, senza possibilità di appello, il capro espiatorio della

situazione. L’ira offuscherà i sentimenti che sorgeranno, spontaneamente,

all’ottenimento del divorzio: la tristezza, il senso di solitudine, la

depressione e il senso di fallimento costelleranno la mente degli ex sposi.

Affinché il processo del lutto possa dirsi compiuto i coniugi devono

concedersi del tempo per elaborarlo dentro di loro, senza avere fretta di

risollevarsi, ma vivendo a pieno ogni fase. Di fatto non accade sempre

così: «Benché l’esperienza del lutto comporti un’oscillazione tra sentimenti

d’amore, di rabbia e di tristezza, molte persone almeno apparentemente,

rimangono ‘fissate’ su una sola di queste emozioni. Dunque le difficoltà

che qualcuno incontra quando cerca di superare la perdita determinata dal

divorzio, possono essere distinte in base agli stili di risoluzione del

problema adottati. Alcuni, infatti, rimangono fissati sull’amore: sembrano

pertanto negare la realtà e continuano indefinitamente a sperare in una

riconciliazione. Altri, invece, rimangono fissati sulla collera e, senza

conoscere tregua, cercano di ottenere una vendetta o rivendicano a oltranza

42

i loro diritti Altri ancora rimangono fissati sulla tristezza e si attribuiscono

la colpa di tutti i fallimenti della famiglia, diventando depressi»83.

Anche nel modello di Bohannan il divorzio viene visto come un

processo multidimensionale che attraversa sei dimensioni: quella

emozionale, quella legale, quella economica, quella genitoriale, quella

comunitaria e quella psichica. Il mancato superamento di una di queste

potrebbe comportare per gli individui gravi disagi e mettere in crisi l’intero

percorso.

A questo proposito è facile constatare come tutto ciò non sia facile. Nel

loro tentativo di ridefinire la relazione gli ex coniugi vanno dal conflitto, al

tagliare completamente ogni comunicazione, al cercare di mantenere un

rapporto di amicizia, al provare gelosia dell’altro e, a volte, anche, ad

un’occasionale ripresa dei rapporti sessuali84.

Si dà per assodato, in definitiva, che la separazione dal coniuge porta i

partner a ri-definire compiti di sviluppo delicati in relazione anche ai figli.

Le diverse forme di intervento oggi disponibili per accompagnare la coppia

e i membri delle famiglie separate, pur differenziandosi per tipologia di

destinatari o per finalità, hanno come oggetto comune la cura dei legami

familiari e si focalizzano in particolare sulla relazione genitoriale, cioè

sull’anello più debole di tutto l’evento separativo e dal quale dipende la

sana crescita dei figli85

“Non perdere ciò che resta dell’essere stati famiglia, dunque, è una

prospettiva pedagogica che, nonostante il dolore della frattura, salvaguarda

83 R.E. Emery, Il divorzio. Rinegoziare le relazioni familiari, trad.it. FrancoAngeli, Milano, 1998. 84 Ivi, p. 57. 85 I. Montanari, Separazione e genitorialità. Esperienze europee a confronto, Vita e Pensiero, Milano, 2007.

43

per i figli il diritto ad un atteggiamento educativo responsabile e duraturo

da parte dei genitori”86.

2.2.2 Le conseguenze del divorzio sui figli

È stato ampiamente dimostrato che i figli di genitori divorziati o

cresciuti in famiglie altamente conflittuali presentano un elevato rischio di

incorrere in una varietà di problemi nell'età adulta come basso livello

socioeconomico, deboli legami con i genitori, sintomi depressivi e

instabilità nelle relazioni.

Questa ipotesi si basa sulla necessità di vicinanza affettiva dei figli ai

genitori e sul benessere soggettivo dei figli stessi, al fine di stimare gli

effetti del divorzio e del conflitto coniugale sulle relazioni genitore-figlio

tra i giovani adulti, in particolare sulla triade madre-padre-figlio

considerando gli effetti del divorzio e del conflitto coniugale non su ogni

singolo rapporto genitore-figlio, ma sulla vicinanza dei figli a entrambi i

genitori.

Affermando, dunque, che il buon funzionamento della coppia influisce

positivamente sul comportamento che il padre o la madre ha con i figli, e

viceversa87, diventa scontato dichiarare il disagio che procura, per un figlio,

la separazione dei genitori. Il bambino può credere che i genitori annullino

non solo i loro accordi reciproci, ma anche l’amore che hanno per lui88.

Esiste ormai un’imponente letteratura psicologica e sociologica sulle

conseguenze provocate dall’instabilità coniugale, che fanno convergere il

pensiero di molti studiosi sulla portata traumatica dell’evento, sia per i

86 V. Iori, I figli nelle separazioni coniugali e i compiti educativi dei genitori, «La famiglia», XXXV, 2001, p. 48-59. 87 O. Erel, B. Burman, Interrelatedness of marital relation and parent- child relations: A meta- analytic review, Pycological bullettin, 118, 1995, p. 108. 88 F. Dolto, Quando i genitori si separano, trad.it., Mondadori, Milano, 1995, p. 25.

44

genitori che per i figli. In ogni caso, la situazione più difficile da dover

sostenere dalla prole, non è rappresentato tanto dall’improvviso

allontanamento di uno dei due genitori, quanto dall’alta conflittualità che

accompagna spesso la separazione. Talune ricerche confermano, infatti, che

l’adattamento dei figli al divorzio dipende dallo stress subito da questi nella

fase precedente alla separazione, dalla frequenza e dall’intensità dei

conflitti tra i genitori in questo periodo89.

Questo momento è caratterizzato, dunque, da un grande sconvolgimento:

solitamente, mentre la madre può mantenere quasi totalmente immutato il

suo ruolo nel senso che può restare colei che coccola, che abbraccia e

consola, ma anche colei che veglia quotidianamente sulla loro educazione,

il padre è costretto ad assumere ruolo diversi, e a volte non strettamente

collegati a quelli precedenti la rottura dell’unione. Il padre, quindi, al

momento della separazione deve “inventarsi” un nuovo modo di stare con i

figli, non potendo più mantenere solo un rapporto “amicale” o di mera

complicità, né limitarsi solo ad esercitare un ruolo di autorità.

Da qui nasce spesso la difficoltà dei padri nel costruire un nuovo

rapporto con i figli basato anche su quella quotidianità che ora non è più

scontata e visibile, ma spesso lontana e non più veicolata dalla madre90.

Per le coppie con i figli la separazione è senza dubbio molto più faticosa

rispetto alle coppie senza figli, come sostiene Gigli «se le coppie senza figli

possono smettere di vedersi per lasciare ai sentimenti negativi il tempo di

trasformarsi, questo non è concesso ai genitori: contemporaneamente ad

eventuali stati emotivi di disagio essi devono mantenere un’immagine

89 R. A. Thompson, P.R. Amato, The post divorce family: children, parenting, and society, Sage, New Delhi, 1999. 90 L. Pisciottano Manara, La paura di essere padre, Magi, Roma, 2007, p. 148.

45

positiva del partner almeno per ciò che riguarda il suo ruolo genitoriale»91.

Difatti, «i genitori non divorziano dai loro figli e, per questo motivo, non

possono mai divorziare l’uno dall’altro in senso assoluto»92. Ovviamente

accettare che la rottura della coppia non corrisponda alla rottura della

genitorialità non è cosa semplice, soprattutto per i figli perché assistere alla

separazione dei genitori è senza dubbio disorientante in quanto

percepiranno comunque il dissolversi del legame. Le diverse ricerche

svolte sugli effetti del divorzio nei bambini hanno condotto alla

convinzione che le problematiche relative a questi eventi siano molto più

articolati di quanto si credesse all’inizio.

Uno studio autorevole sugli effetti del divorzio è stato condotto dalla

psicologa J.S. Wallerstein negli anni ‘8093 la quale ha indagato due aspetti

molto importanti:

1. la possibilità di un effetto assopito del trauma che potrebbe

manifestarsi manifestarsi nel periodo in cui i figli dovranno

prendere decisioni serie riguardo l’amore, il sesso e la famiglia in

un contesto adulto;

2. l’incapacità dei genitori di ristabilire una vita normale, gravando

molto spesso sui figli che vengono percepiti come contenitori

d’ansia.

È ugualmente importante sottolineare, però, che numerosi studi (condotti

prevalentemente negli Stati Uniti) affermano che inizialmente essi

incontrano serie difficoltà sotto il profilo sia dello sviluppo psicologico sia

del successo scolastico e dell’adattamento sociale, la maggior parte di loro

91 A. Gigli, Famiglie mutanti- pedagogia e famiglie nella società globalizzata, ETS, Pisa, 2007, p. 193- 194. 92 R. Emery, Il divorzio. Rinegoziare le relazioni familiari, in E. Zanfroni, Educare alla paternità tra ruoli di vita e trasformazioni familiari, La Scuola, Brescia, 2005. 93 J.S. Wallerstein, Divorzio: i figli non dimenticano, in E. Zanfroni, Educare alla paternità…, op. cit., p. 198.

46

riesce a riprendere il normale processo di sviluppo in tempi relativamente

brevi94. Difatto, la maggior parte di essi sono dotati di una buona capacità

di resilienza, ossia di mantenersi integri anche sotto stress, di conservare un

buon equilibrio personale nonostante la presenza di avversità e condizioni a

rischio95.

A tal proposito Vanna Iori96 risponde a una domanda cruciale in merito

alle famiglie che si separano: come salvaguardare il bisogno/diritto dei figli

di continuare a ricevere un’educazione da parte di entrambi i genitori. La

gestione del conflitto improntata alla cooperazione è una premessa

fondamentale, anche se non l’unica, per il benessere dei figli. Anzitutto è

necessario che i genitori non si ostinino nel loro conflitto, ad esempio

screditando davanti gli occhi del figlio l’immagine di uno o dell’altra

persona. Se entrambi riusciranno a mantenere un rapporto di stima e

comprensione reciproca, tenendo a mente che non si diviene mai ex-

genitore, la relazione con il figlio sarà salvaguardata. Ora, molti bambini si

sentono colpevoli del divorzio perché la loro esistenza fa pesare sui due

genitori una serie di complicazioni per quanto concerne gli obblighi e le

responsabilità. Questo fatto può diventare per loro una terribile prova.

Dicono: “Non avrei dovuto vivere. Non mi sposerò, così sarò sicuro che

non provocherò sofferenza ai miei figli”. Questo senso di colpa fa la sua

comparsa al momento della pubertà. È il senso di colpa che deriva

dall’essere nato da quella particolare coppia. Non ci si guarda mai

abbastanza dagli effetti deleteri del senso di colpa, non tanto a breve

94 A.L. Zanatta, Nuove madri e nuovi padri, op. cit. p. 73. 95 P. Gambini, op. cit., p. 241. 96 V. Iori, Separazioni…, op. cit.

47

termine, quanto all’epoca dell’adolescenza, cioè nell’epoca in cui il figlio si

impegna in prima persona in una relazione amorosa97.

Vi sono, a tal proposito, tre stili co-genitoriali individuati da Maccoby

che potrebbero essere messi in atto dopo un divorzio: lo stile cooperativo,

lo stile disimpegnato e, infine, lo stile ostile.

Il primo stile ha, naturalmente, le migliori ricadute a livello psicologico,

sia per il figlio che per i coniugi che lo sperimentano: siamo in presenza di

genitori che parlano quotidianamente con il figlio pur mantenendo una sana

comunicazione anche tra di loro, non si svalutano reciprocamente perché si

riconoscono, sempre e comunque, coppia genitoriale. È ben documentata

la correlazione positiva tra co-genitorialità e mantenimento regolare dei

rapporti dei figli con le figure genitoriali e tra questo e l’adattamento dei

figli alla separazione.

Lo stile disimpegnato, con il passare del tempo, tenderà ad essere quello

più comune ed ha come conseguenza quella di provocare nel figlio una

visione schizofrenica del rapporto con i genitori98: gli ex coniugi non

parlano tra di loro, cosicché il ragazzo tenderà a percepire la madre e il

padre come appartenenti a due mondi separati, non collegati e comunicanti

tra loro.

In ultimo, lo stile ostile appare lampante che siffatta dimensione sia

quella maggiormente nociva e dannosa per i figli che si vedranno costretti a

parteggiare per uno o per l’altro genitore e, senza poter amare liberamente

entrambi, saranno coinvolti in conflitti di lealtà. Chi paga, ancora una volta,

il prezzo più alto di una separazione conflittuale sono loro, vittime di quella

che lo psicologo Mario Andrea Salluzzo registra come sindrome di

97 F. Dolto, op. cit. p. 27. 98 F. Montuschi, S. Attanasio Romanini, A. Fornaro, Scoprire di esistere, decidere di vivere. Le molte facce della ingiunzione "non esistere", FrancoAngeli, Milano, 2011.

48

alienazione parentale (PAS), “un fenomeno in crescita, soprattutto negli

Stati Uniti: è la risposta del figlio che si allea con uno dei genitori contro

l’altro, iniziando ad alimentare l’odio verso uno dei due fino ad avallare le

false denunce di maltrattamenti e abusi. Una sindrome ancora

disconosciuta”99.

Di fronte alla crisi di coppia, pertanto, i genitori hanno difficoltà a

distinguere la funzione coniugale da quella genitoriale. Sia che il conflitto e

la rottura avvengano in maniera esplosiva, sia che vengano mascherati

soprattutto ai figli, questi si trovano immersi in un clima di tensioni e di

infelicità dannoso per lo sviluppo della loro personalità. È importante che

entrambi i genitori superino la conflittualità o il rifiuto che segnano la fine

della vita di coppia e possano riconoscersi come una risorsa educativa per i

figli e recuperare così una forma di relazione al di là dei percorsi

individuali che intraprenderanno100.

Inoltre, non bisogna sottovalutare l’importanza del sostegno garantito

dalle famiglie d’origine, dagli amici e, in particolare, dalla scuola.

Quest’ultima può aiutare i figli a superare l’esperienza dolorosa della

marginalità e dell’assenza di un genitore, favorendo l’incontro con figure

educative di riferimento che sopperiscano, in parte, alle carenze verificatesi

in famiglia101. Ancora molto lavoro deve essere compiuto per garantire una

rete di sostegno in grado di promuovere e sviluppare le competenze

genitoriali. Perché questo si realizzi, è auspicabile che ciascuna

professionalità che entra a far parte della vicenda separativa si impegni a

promuovere una cultura della responsabilità genitoriale, a prescindere dalla

fine del legame coniugale, che tuteli la possibilità di vedere i figli ad

99 C. Zavattiero, Poveri padri…, op. cit. p. 137. 100 V. Iori, Separazioni…, op. cit. pp. 34-35. 101 P. Gambini, Psicologia della famiglia…, op. cit., p. 241.

49

entrambi i genitori e soprattutto eviti che il minore divenga oggetto di

contesa, diretta o indiretta, tra i genitori102.

2.3 Il “terzo” genitore

Parlare di famiglie monogenitoriali all’interno del fenomeno della

pluralizzazione delle famiglie non risulta molto appropriato, a motivo del

fatto che le famiglie con un solo genitore non rappresentano una nuova

forma di famiglia. Queste infatti sono sempre esistite, anche in Italia, basti

pensare al caso di genitori vedovi, alle ragazze madri o alle mogli degli

emigrati103. Tutte queste tipologie di famiglie sono oggi molto frequenti e

all’apparenza possono sembrare inadatte per la cura e il benessere della

prole.

Di più difficile interpretazione e denominazione risulta invece il

fenomeno delle famiglie ricomposte dopo i divorzi o le separazioni che,

difatto, non hanno una nomenclatura univoca: si parla, infatti, di famiglia

ricostruita, aperta, estesa o di nuove costellazioni familiari.

Il termine ricostituita rimanda al senso del ricostruire, del riformare una

famiglia sulla base di quella tradizionale, ma con la consapevolezza che

non potrà mai essere uguale alla famiglia d’origine104.

La caratteristica peculiare di questo tipo di famiglia è la convivenza dei

figli con un genitore biologico e un cosiddetto genitore acquisito o genitore

sociale, di solito il secondo compagno o coniuge della madre, senza che

però vengano interrotti i rapporti con l’altro genitore biologico, di solito il

padre105. Se il padre è impossibilitato a occuparsi del figlio, meglio fare

102 B. Colombo, C. Spettu, Sostegno e tutela dei legami familiari durante la separazione dentro e fuori le aule del tribunale, «Psicologia e Giustizia», Anno 13, numero 2, Giugno-Dicembre 2012. 103 Ivi, p. 257. 104 S. Mazzoni, Nuove costellazioni familiari: le famiglie ricomposte, Giuffrè, Milano, 2002. 105 A.L. Zanatta, op. cit., p. 91.

50

ricorso, in sostituzione a modelli maschili della famiglia del padre, che non

a quelli della famiglia della madre e/p all’eventuale nuovo compagno della

madre. E lo stesso vale per la madre incapace o incapacitata: ricorrere a

modelli femminili della famiglia della madre. Perché il bambino posso

continuare a stimare, per questa via, il padre e la madre106.

Si tratta di una famiglia ricomposta proprio perché i nuovi membri che

ne entrano a far parte non si sostituiscono ai precedenti, ma allargano il

complesso di relazioni familiari. Dolto non è neppure contraria, anzi

tutt’altro, per via dei processi di identificazione sessuale dei figli, che il

bambino viva con la madre e il suo nuovo compagno. Così come il padre

viva con un nuova compagna. Del resto, questa nuova scelta di rinnovata

coppia è un messaggio di vita e di piacere per il figlio107.

Questo approccio teorico, in cui l’attenzione viene rivolta all’intero

meta- sistema familiare, nasce attorno alla sociologa francese Irène

Théry108, secondo cui non è più la nuova coppia a determinare la famiglia,

ma i figli. Questa nuova realtà familiare, composta da figli provenienti da

diverse relazioni e intrecci coniugali permette, da un lato, di mettere in luce

una molteplicità di rapporti che possono costituire una risorsa affettiva

molto importante, dall’altro fa sorgere problemi di varia natura. In effetti, i

confini delle famiglie ricomposte sono meno marcati rispetto a quelli della

famiglia tradizionale, per questo il sociologo Donati scrive che, anche se

per le famiglie ricomposte è possibile raggiungere un’identità stabile e

sicura, di fatto, tutto ciò riesce solo ad una minoranza di esse ed è

particolarmente difficile per chi nella sua storia individuale giunge al terzo

106 F. Dolto, op. cit., p. 41. 107 Ivi, pp. 41-42. 108 I. Théry, Familles recomposées: les raison de l’incertitude, in R. Steichen, P. De Neuter, (a cura di), Les familles recomposées et leurs enfants, Academia Erasme, Louvain-la-Neuve, 1995.

51

o quarto matrimonio, visti gli intrecci di parentela che si sommano nel

tempo109.

Dunque, in una prospettiva pedagogica, c’è da domandarsi quale tipo di

ruolo e di funzione venga richiesta a livello genitoriale, dato che questo

compito richiede al genitore di trovare le modalità più congrue per inserire

il figlio in una realtà familiare del tutto nuova.

La situazione è, chiaramente, di difficile accettazione- anche a seconda

dell’età del figlio- che, dopo aver elaborato la separazione dei genitori, si

trova a doversi adattare psicologicamente ed emotivamente ad una vita

familiare con un terzo genitore. La relazione più problematica risulta,

pertanto, essere quella tra il figlio e il genitore acquisito proprio a causa

della mancanza di un suo ruolo chiaro e stabilito sin dall’inizio, a partire

dalla sua definizione. In questo senso, da un punto di vista terminologico,

la lingua inglese ha risolto il problema aggiungendo il prefisso step ad ogni

tipo di parentela acquisita, così avremo step-father, step-mother, e così

via110. In effetti nell’accezione italiana vocaboli come patrigno, matrigna

sorellastra hanno assunto un ruolo talmente dispregiativo che si ricorre

semplicemente al nome di battesimo per rivolgersi al padre o alla madre

acquisiti. A questo proposito, Barbagli sottolinea che, se già il divorzio

mette in crisi l’identità e il senso di appartenenza delle persone, soprattutto

quella dei figli, questo stato di confusione aumenta quando i genitori si

risposano, perché in questo caso decresce il grado di sicurezza e integrità

dei bambini nei confronti dei rischi e delle minacce che il mondo esterno

comporta111.

109 P.P. Donati, Manuale di sociologia della famiglia, Laterza, Roma, 2006. 110 P. Gambini, op.cit., p. 272. 111 M. Barbagli, Provando e riprovando. Matrimonio, famiglia e divorzio in Italia e in altri paesi occidentali, Il Mulino, Bologna, 1990.

52

La difficoltà della famiglia ricomposta di definire i propri confini è

strettamente correlata alla mancanza di norme sociali di riferimento

riguardanti le relazioni tra i suoi membri.

L’inesistenza di normi culturali rappresentano, pertanto, per la famiglia

ricomposta un motivo in più per garantire ai figli una grande flessibilità e

disponibilità ad una continua negoziazione.

Ancora una volta, dobbiamo concludere però che è il funzionamento

familiare, più che la struttura della famiglia, l’elemento responsabile

dell’adattamento dei bambini. La drastica riorganizzazione che ha luogo in

una famiglia in seguito al divorzio dei genitori può anche generare effetti a

breve termine, ma è la qualità dell’ambiente familiare a produrre le

conseguenze più decisive e persistenti112.

È ben documentata la correlazione positiva tra co-genitorialità e

mantenimento regolare dei rapporti dei figli con le figure genitoriali e tra

questo e l’adattamento dei figli alla separazione.

3. La maternità oggi

L’uomo, sin dalla nascita, è un essere di parola e il suo più vitale bisogno

è quello di entrare in relazione con gli altri e di sentirsi riconosciuto da

loro113.

Dall’esame di tutti questi studi sull’influenza delle caratteristiche della

famiglia sullo sviluppo dei bambini emerge chiaramente un dato avvalorato

dalle prove raccolte e cioè che la struttura della famiglia ha un ruolo molto

meno significativo rispetto al suo funzionamento114.

112 H.R. Shaffer, Psicologia dello sviluppo, Raffaello Cortina ed., Milano, 2005, p. 111. 113 F. Dolto, Quando i genitori si separano, trad.it., Mondadori, Milano, 1995. 114 Ivi, p. 106.

53

La maternità e la paternità si presentano da sempre come condizioni

esistenziali profondamente diverse. Mentre il ruolo di madre si radica

nell’identità femminile, è biologicamente determinato e porta ad un

immagine di stabilità, il ruolo paterno nasce invece da un divenire: non si è

padre, ma lo si diventa. L’essere padre non coincide con l’identità

maschile, ma implica l’acquisizione di una funzione ulteriore. La

primissima relazione che un bambino costruisce è, generalmente, con la

madre e risulta particolarmente importante sotto vari aspetti, affettivi e

psicologici. Già con le prime formulazioni sulla teoria dell’attaccamento

Bowlby pone in evidenza come il bambino sia biologicamente predisposto

a interagire con l’ambiente sociale: le relazioni sono un fenomeno

estremamente complesso che implicano e dipendono dalle caratteristiche di

entrambi gli individui coinvolti115.

Tali legami emotivi hanno, sempre secondo Bowlby, una base evolutiva

e una funzione biologica che mirino a garantire la sopravvivenza e una base

sicura nei momenti che il bambino percepisce come pericolosi. Nel corso

del primo anno di vita, quindi, i bambini svilupperanno un attaccamento

emotivo nei confronti di uno o due individui per lui significativi che

saranno chiamati a rispondere positivamente al suo comportamento, così da

dare vita a relazioni sicure con gli adulti e i pari, e ciò permetterà al

neonato di sviluppare un’immagine positiva di sé e dei compiti cognitivi

che gli verranno successivamente richiesti nel gioco e a scuola.

Secondo Ainsworth116, la ragione principale per cui i bambini sono sicuri

o insicuri è da ricercarsi nella reattività e nella sensibilità della madre nei

riguardi del neonato nei primi mesi di vita. In relazione a tutto ciò, secondo

un’ottica socio- costruzionistica, madre e bambino sono impegnati, sin

115 J. Bolwby, Attaccamento e perdita, vol. I: Attaccamento alla madre, Bollati Boringhieri, Torino, 1983. 116 M.D.S, Ainsworth, Patterns of Attachment, Erlbaum, Hillsdale, 1978.

54

dalla nascita di quest’ultimo, in un discorso comune attendendosi,

reciprocamente, una risposta.

La genitorialità, e dunque la maternità, appare, suffragato da quanto

appena scritto, come una scelta che è allo stesso tempo irreversibile e

rischiosa: irreversibile perché, in un contesto in cui molte scelte della vita

individuale sono modificabili, essere genitori è invece per sempre;

rischiosa perché avviene in un contesto caratterizzato da una crescente

complessità e incertezza, che richiede quindi da parte dei genitori la

capacità di valutare l’adeguatezza delle proprie risorse materiali e

relazionali di fronte alle sfide provenienti dalle famiglie117. Le indagini

comparate degli ultimi anni hanno evidenziato uno squilibrio di genere

nell’assumersi le responsabilità familiari che spiegherebbero, difatto, il

perché della bassa fecondità.

Le donne vivono la maternità in un modo che si discosta molto dalla

norma tradizionale, ed è stata oggetto di accesi dibattiti, specialmente nel

caso di bambini molto piccoli. Secondo il sociologo François de Singly vi

sono tre elementi che distinguono l’identità delle donne contemporanee da

quelle delle generazioni precedenti e la avvicinano a quella maschile: il

possesso di un capitale scolastico, l’utilizzazione professionale di tale

capitale e la rivendicazione di un’identità personale118.

Questa ricerca di una nuova identità ha avuto conseguenze complessi, e

per certi versi contradditorie: le donne sono riuscite a conquistarsi un loro

potere e ruolo professionale, ma hanno difficoltà sempre maggiori per

riuscire a conciliare ruolo materno e lavoro fuori casa. L’occupazione della

madre è stata, più volte, non vista di buon grado, tuttavia le prove

attualmente disponibili derivate da numerosi studi indicano che le

117 A.L. Zanatta, op. cit., p. 38. 118F. de Singly, Séparée. Vivre l'expérience de la rupture, Armand Colin, Paris, 2011.

55

conclusioni sugli effetti non possono essere dedotte in modo netto per via

del gran numero di condizioni che esercitano influenze, anche moderate,

sul risultato: come la capacità della madre di affrontare le tensioni implicite

nel ruolo, il supporto offerto dal padre e dai parenti, la motivazione che

spinge la madre a lavorare fuori casa119.

Proprio quest’ultimo concetto richiama l’attenzione su un aspetto molto

importante della relazione madre- figlio, e cioè che la cura offerta

esclusivamente dalla figura materna non è da considerarsi un prerequisito

necessario per uno sviluppo psicologicamente sano del bambino, anche se

alcune ricerche mostrano che tale impegno continua a essere considerato un

compito materno, piuttosto che paterno. La madre è fortemente strutturate

per natura e sa adattarsi più facilmente del padre ai diversi tratti caratteriali

del bambino, modificando se stessa in funzione di tale diversità poiché

concretamente è lei che “fa famiglia”120, per utilizzare le parole di un

grande psichiatra, e i figli lo percepiscono.

Madre e figlio stabiliscono da subito un contatto carnale intimo e privato

e nel primo anno di vita sentimenti ed emozioni saranno l’alimento base

per la futura capacità del bambino di amare e di essere amato. Essere una

madre serena significa lasciare agire, dunque, gli istinti materni, essendo

consapevoli che ogni figlio è diverso e dall’altro e che il clima familiare

differente gioca un ruolo fondamentale per la crescita psichica ed emotiva

del bambino. Bollea ci introduce all’interno del mondo della madre

naturale, come a lui piace definirla, proprio perché sarebbe la perfetta

sintesi tra istinto, tradizione e cultura121. Nel suo celeberrimo volume lo

psichiatra evidenzia nove tipologie di figure materne ognuna delle quali si

119 H.R. Shaffer, op.cit. p. 104. 120 G. Bollea, Le madri non sbagliano mai, Feltrinelli, Milano, 1995, p. 16. 121 Ibidem.

56

caratterizza per peculiari tratti distintivi; ne riporto di seguito alcune delle

principali:

o La madre ansiosa: insicura e costantemente paurosa di

sbagliare, lo abbraccia nervosa pronta a scrutare qualcosa che

non va;

o La madre disforica: alterna momenti di accettazione a

momenti di forte rifiuto del figlio dimostrandosi estremamente

ambivalente nel rapporto con il figlio;

o La madre ossessiva- perfezionista: solitamente è la madre

intellettuale che mette in pratica tutto quello che legge dai libri

seguendo morbosamente ogni consiglio medico; si dimostra

estremamente efficiente, ma molto poco affettiva;

o La madre passiva: permissiva sino ad assumere a tratti

depressivi, lascia che il bambino faccia quello che voglia per

non impegnarsi nel rapporto;

o La madre iperattiva, poco metodica, sempre caotica sino a

prevaricare lo stesso bambino con la sua attività frenetica; si

rivela stimolante, ma il suo atteggiamento può anche creare

estrema confusione: l’istinto e l’immaturità sono sicuramente i

principali fattori di disorganizzazione;

o La madre diva, concentrata su se stessa, non si modifica per

i figli, sono semmai quest’ultimi ad idealizzarla;

o La madre chioccia, disponibile e sempre presente, pensa lei

a tutto/i;

o La madre turbo: positiva, trasmette gioia e volge tutto al

positivo;

57

o La madre saggia: il perfetto connubio tra istinto e cultura:

legge i libri solo per migliorare quello che le ha trasmesso, a sua

volta, e in passato, la madre.

La madre che non sbaglia mai è colei che sa bilanciare le tre componenti

essenziali della cultura materna che ha le radici nella tradizione, si sviluppa

attraverso il tronco della cultura ed esplode nei germogli dell’istinto.

58

CAPITOLO II

C'è anche il papà

Nel secondo capitolo l’attenzione è rivolta, nello specifico, alla figura

paterna. Il periodo che stiamo vivendo ci appare sempre più caratterizzato

dall’evaporazione del padre, che altro non è, che il tempo

dell’evaporizzazione degli adulti. Dando avvio alla riflessione sul ruolo del

padre, e sulla funzione che oggi è chiamato ad esercitare, ci si chiede cosa

significhi la sua presenza per i figli, ma soprattutto in che modo tale figura

si articoli nelle famiglie dove abita la presenza di un figlio disabile. Il padre

funge da mediatore tra la madre, simbolo di protezione e accudimento del

neonato sin dai primi giorni di vita, e la realtà sociale. Cosa può accadere

se il padre rinuncia alla sua funzione di terzo nella diade madre-bambino?

Quali conseguenze può avere la presenza di una padre pallido, o ancor più,

assente, nella crescita di un figlio, per giunta in situazione di disabilità? Ci

si interroga a partire proprio dalla sua evoluzione, ovvero dal padre

padrone, detentore della Legge e quindi simbolo normativo per eccellenza,

sino al suo costituirsi alter ego della figura materna che, attraverso compiti

di cura e dedizione, diviene emblema dell’affettività. Diventare padre è

dunque un’esperienza che richiede in sé una complessa e scrupolosa

autoanalisi in rapporto ad una nuova definizione di sé, del proprio ruolo e

della propria funzione.

1. Cenni storici sull’evoluzione paterna

La famiglia nella sua forma può, in realtà, mutare nel tempo e nelle

culture, ma in essa non deve mai venir meno il dovere che la coppia

59

genitoriale ha di fare in modo che ogni figlio, a cui dà l’inestimabile dono

della vita, diventi un adulto autonomo e responsabile122.

Si dice che ogni figlio per poter arrivare, senza troppi problemi, alla

condizione di “adulto”, deve nascere due volte. Una prima volta dallo

sguardo carico d’emozione della madre e una seconda volta dallo sguardo

pieno di fierezza del padre. Dalla madre nascono i bambini, dal padre

nascono gli uomini123.

La storia del padre, racconta Luigi Zoja, inizia dalle tribù, da quando

l’umanità non aveva ancora abbandonato lo stato ominide. È la

differenziazione dei ruoli tra maschio cacciatore e femmina occupata nella

raccolta e nell’accudimento dei figli a istituire la civiltà, con la nascita del

senso della casa, del ritorno al focolare. La curiosità e la voglia di esplorare

del maschio sono limitate dal ritorno. L’uomo che fa ritorno al focolare

domestico non è più semplicemente un maschio, ma padre, capace di

responsabilità, di accudimento, e quindi di adottare il figlio124.

Solo a partire dagli anni Settanta si può parlare di una ricerca continua e

articolata sulla figura paterna. Dapprima si è cercato di dimostrare che i

padri sono figure distanti e periferiche nell’educazione infantile. Anche

nella psicanalisi l’importanza del padre sarebbe stata riconosciuta solo con

notevole ritardo: per Freud la madre e il bambino costituiscono un’unità, e

la figura del padre emerge al compimento del terzo anno di età del figlio125.

Al termine del legame con la madre nascerebbe in lui un’autorità interiore

idealmente riferibile tanto a un dio-padre quanto al padre personale o ad

122 E. Zanfroni, Educare alla paternità…, op. cit. 123 I. Saini, Un senso per il padre. Oltre il clamore di un assenza, Unicopli, Milano, 2005, p. 70. 124 L. Zoja, Il gesto di Ettore. Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre, Bollati Boringhieri, Torino, 2000. 125 K. Gebauer, Padre cercasi, Ma.Gi, Roma, 2006, pp. 19- 20.

60

altre figure gerarchiche126. Melanie Klein ipotizzata, invece, che il super Io

si formi già nel primo anno di vita, all’interno del rapporto con il corpo

della madre. Così sottrae al padre il ruolo di chi insegna il senso morale e

sociale: la radice di ciò che è giusto ed è sbagliato, l’origine della

percezione dell’altro e del rispetto per lui, è fatta risalire ad una fase in cui

il bambino non parla. Mano a mano che l’attenzione veniva spostata dal

padre alla madre, la figura paterna è ridotta sempre più ad una

sovrastruttura sociale. Il padre, inteso come colui che destruttura la diade e

che permette il passaggio obbligato del figlio nella società, sembra aver

perso questa funzione sociale.

È importante, in questa sede, nominare il contributo di Maurizio Quilici

in Storia della paternità127 nel quale l’autore ripercorre l’evoluzione del

ruolo paterno dal pater familias a quello che oggi viene comunemente

definito mammo. La nostra attenzione si focalizza in particolar modo nel

periodo intorno alla metà degli anni ’70, epoca in cui la ribellione contro i

padri si fa sempre più vigorosa. A tal proposito si analizza la posizione di

uno psicanalista francese, Bernard Muldworf, che scriverà riguardo al

fenomeno della violenza giovanile, adducendo come motivazione la crisi

della paternità:

Se c’è una “crisi” della paternità, le sue origini stanno proprio qui: il

problema non sta nella presenza -presunta come coercitiva del padre-, ma

piuttosto nella sua assenza. Questa assenza è tanto più sentita in quanto, per

effetto di un’evoluzione a nostro giudizio positiva, la famiglia è divenuta nel

corso dei secoli un ambiente di arricchimento affettivo e la funzione del

padre è stata fortemente contrassegnata da un elevamento della sua portata

affettiva. […] Gli uomini che lavorano non hanno il tempo di essere “padri”.

126 L. Zoja, Il gesto…, op.cit. 127 M. Quilici, Storia della paternità. Dal pater familias al mammo, Fazi Editore, Roma, 2010.

61

[…] E per ignoranza, ciecamente, o per illusione ideologica, si considera

questa “abiura del padre” come effetto del rifiuto dei giovani a lasciarsi

schiavizzare dai valori delle generazioni passate.128

Da queste poche righe scritte nel 1972 ricaviamo un pensiero che sta

dilagando nelle menti degli studiosi dell’epoca: il padre non ricopre più

il ruolo del detentore della Legge della parola, ma, con il cambiare della

famiglia, è convolto in un radicale mutamento che lo trascina vieppiù

verso un ruolo affettivo, costituito da accudimento e cura nei confronti

dei figli. E la ribellione che i giovani manifestano è il sintomo di un

malessere dato dalla privazione paterna.

A quasi quarant’anni dal libro di Mitscherlich che esprimeva il timore

di una società orizzontale, composta principalmente da fratelli, “un

innumerevole esercito di fratelli rivali e invidiosi”, cui sarebbe mancata

la presenza del “predominio patriarcale” si parla, di contro, di papà.

“Gli uomini” riflette Chantal per mano di Kundera nel libro L’identità

“si sono «papaizzati». Non sono più dei padri, ma solamente dei papà,

ossia dei padri a cui manca l’autorità di una padre”129.

Che cosa è cambiato, dunque, nell’immaginario collettivo, e non solo?

A tal proposito appaiono oggi profetiche le parole del sociologo

Norberto Galli che, nel 1965, interpreta la crisi della figura paterna in

senso positivo, come un modo per aumentarne la dimensione relazionale

in seno alla sua autorità: più razionale, più giusta, meno dispotica130. Un

modo di concepire il padre davvero rivoluzionario che giunge sino a noi,

ovvero al periodo caratterizzato da una delle più radicali trasformazioni

che tale figura abbia mai conosciuto. Sarebbe riduttivo far risalire la

128 B. Muldworf, Il mestiere di padre, Editori Riuniti, Roma, 1976, pp. 172-174. 129 M. Kundera, L’identità, Adelphi, Milano, 1997, p. 20. 130 N. Galli, Educazione familiare e società, La Scuola, Brescia, 1965.

62

genesi di questo fenomeno ad un particolare momento storico e sociale,

consapevoli che sono numerosi i fattori che hanno condotto al

mutamento della concezione paterna.

1. 1. La paternità oggi

L’immagine contemporanea del padre è ambivalente e contraddittoria

allo stesso tempo: da un lato sta emergendo, a livello europeo, una figura di

padre coinvolto affettivamente nella cura e nella gestione dei figli;

dall’altro si sta delineando, con la stessa insistenza, la figura di un padre

assente, debole, privo di qualsiasi autorevolezza (e autorità).

In genere questo fenomeno accade perché il sentimento paterno non ha

la forza primitiva e istintuale propria del materno, non può competere con

le sue radici biologiche, a fronte dell’aspetto sociale che il padre ha

rivestito da sempre all’interno della famiglia: «per questo motivo la crisi

della pedagogia familiare del Novecento, che è essenzialmente una crisi di

autorità, ha investito in particolare il ruolo del padre, scardinando i vecchi

schemi entro i quali si muoveva»131.

Più di sessant’anni fa, però, una filosofa come Simone de Beauvoir132

problematizza l’istinto materno133. «Perché le madri sono donne? Perché la

persona che svolge quotidianamente tutte le attività che costituiscono la

cura della prole non è un uomo?» si chiede di nuovo una psicanalista e

sociologa statunitense, Nancy Chodorow 134 , in riferimento alla

convinzione, assai diffusa, che sia l’istinto a regolare la funzione materna e

che nelle donne vi sia una componente biologica così forte da condizionare

131 G. Bollea, Le madri non sbagliano mai, Feltrinelli, Milano, 1995, p. 18. 132 S. de Beauvoir, Il secondo sesso, Il Saggiatore, Roma, 2008. 133 E. Badinter, Una madre in più, Fandango Libri, Roma, 2012. 134 N. Chodorow, La funzione materna. Sociologia e psicoanalisi del ruolo materno, Milano, La Tartaruga, 1991.

63

tale comportamento umano. Ella sostiene invece che il comportamento

umano non è condizionato dall’istinto, ma è mediato in gran parte dalla

cultura di riferimento ed è proprio a questa che bisogna far riferimento per

capire perché sono proprio le donne a svolgere la funzione materna135.

Occorrerebbe altresì distinguere e chiarire i due concetti di ruolo e funzione

paterna: per quanto concerne il primo, questo viene definito da un contesto

sociale e culturale determinante; la funzione invece «è ciò che il padre

sente di dover fare, è la sua risposta emotiva ai bisogni del figlio, è la

disposizione interiore precedente all’esperienza, che tuttavia si attiva

nell’esperienza. La funzione paterna è precedente all’esperienza e al ruolo,

anche se normalmente si attiva in ambedue»136.

Non esiste, dunque, una prova empirica per dimostrare che solamente

la madre possa compiere tale funzione: anzi, studi antropologici

mostrano che alla cura della prole possano occuparsi madri non

biologiche, nonni, padri. E sentirsi altrettanto adeguati. Vero è, tuttavia,

che tra la madre e il piccolo un legame si instaura sin dall’inizio, sin da

quando “viene portato” con sé nel grembo materno, per l’appunto. E che

il rapporto con il padre avviene sempre “dall’esterno”, quasi di supporto

alla madre, piuttosto che essenziale alla sopravvivenza del bambino137.

Per meglio intendere il significato di un rapporto che giunge

dall’“esterno” chiediamo aiuto alle biografie dei papà che si apprestano a

vivere la gravidanza della loro compagna/moglie:

ogni tanto appoggiando la mano sulla pancia di Monica riesco a sentire i

calcetti di Lisa; è un’emozione strana, del tutto nuova. Penso a che cosa

deve provare Monica che questi movimenti li sente dall’interno; io

135 A. L. Zanatta, Padri e madri, il Mulino, Bologna, 2011. 136 P. Brustia Rutto, Genitori una nascita psicologica, Bollati Boringhieri, Torino, 1996, p. 24. 137 A.O. Ferraris, Padri alla riscossa, Giunti, Firenze, 2012.

64

accarezzo la pancia da fuori, mentre Lisa la accarezza da dentro, strusciando

le pareti dell’utero con mani, piedi, testa o schiena. Cerco di immaginarmi

questa stranissima situazione, ma alla fine rinuncio; credo che in futuro ci

saranno altre cose che farò fatica anche soltanto a immaginare: le

contrazioni, l’uscita della testa, l’attacco al seno e tanto altro. Avverto la

frustrazione di questi miei inutili sforzi, forse sto soltanto creandomi

problemi inesistenti, o forse sono invidioso e non riesco ad ammetterlo.138

La prima fase dell’uomo è di natura sostanzialmente mentale:

compartecipa alla gravidanza condividendo gli stati emotivi della sua

partner 139 . Il nuovo padre ha bisogno di maturare ed esprimere una

paternità che non imita quella materna, ma si mostra sinergica e

collaboratrice. È necessario prendere coscienza del cambiamento che sta

avvenendo sempre più velocemente. Molti studi140 dimostrano che nella

società contemporanea la funzione materna e paterna possa essere svolta da

entrambi i genitori, indipendentemente dal genere. Sembrerebbe che oggi il

padre, dopo aver abbandonato la sua funzione autoritaria che lo vedeva

pater familias e detentore della norma, si identifichi sempre più con la

moglie, ossia con la madre141. Il nuovo padre è cambiato, ma sarebbe

meglio, e probabilmente più giusto, ragionare in merito ad una “rivoluzione

della mentalità maschile”. Dagli anni Settanta del Novecento, dove gli

psicologi stentavano ad attribuire al padre un ruolo poco più che marginale

nella prima fase di vita del bambino, gli psicologi hanno poi cominciato a

modificare alcune posizioni assai radicate nella società, sino a riconoscergli

una rilevanza effettiva nella crescita cognitiva e affettiva del figlio. Oggi si

va via via sempre più affermando che vi è una sostanziale

138 A. Volta, Mi è nato un papà. Anche i padri aspettano un figlio, Feltrinelli, Milano, 2012, p. 37. 139 M. Ammaniti, Pensare per due. Nella mente delle madri, Laterza, Bari, 2008. 140 S. Ciccone, Essere maschi. Tra potere e libertà, Rosenberg e Sellier, Torino, 2009. 141 E. Badinter, op. cit., p. 403.

65

“omogeneizzazione dei ruoli”: la madre assume sempre più su di sé dei

tratti normativi, mentre il padre si avvicina in maniera affettivamente

autentica al mondo del figlio. I sociologi sono oramai concordi

nell’evidenziare il declino del modello parsonsiano in cui le sfere di

competenza erano suddivise rigidamente in “ruoli strumentali” (ruoli

pubblici) e “ruoli espressivi” (ruoli affettivi e privati), per dare spazio alla

grande novità contemporanea: anche i padri possono manifestare affetto.

Le donne non hanno più il monopolio della tenerezza, inversamente i padri

non hanno più quello dell’autorità142.

È proprio in questa fase della storia dell’umanità che si sta assistendo,

quindi, alla nascita di una nuova figura genitoriale: “il mammo”.

Dalla fine degli anni Sessanta ad oggi la figura del maschio ha dovuto

fare i conti con una vera e propria rivoluzione culturale. L’egemonia

culturale e sociale dell’uomo si è confrontata con un’emancipazione

femminile sempre più espressa su vasta scala e su tutti i livelli sociali. Per

secoli la donna è stata subalterna all’uomo in funzione di dinamiche che

apparivano assolutamente radicate nella cultura e nella società dell’epoca, e

di difficile trasformazione. Tale cambiamento ha rappresentato una

trasformazione positiva ma, come per tutti i mutamenti storici e culturali, è

necessario un lungo arco di tempo perché il sistema si assesti su un nuovo

punto di equilibrio in grado di reggere a fisiologici scossoni e cominci a

entrare nella “convenzionalità del tradizionale”143.

Pertanto, da quanto sinora scritto, non sembrerebbe che i padri non

esistano più, semplicemente non sono più gli stessi. La paternità è

un’istituzione in ristrutturazione, come spiega Simone Korf- Sausse, che

risente del periodo di crisi che stiamo vivendo, in cui il vecchio modello di

142 Ivi, p. 405. 143 I. Baldassarre, C’è anche il papà, Erickson, Trento, 2006, p. 33-34.

66

paternità non funziona più144, ma dove gli stessi padri non si riconoscono

più. Il pater familias non rispecchia più i modelli educativi incarnati dai

nuovi padri che vorrebbero invece avvicinarci ad uno stile educativo basato

sull’affettività e sulla protezione, caratteristiche da sempre appartenute alla

madre. Ma allora perché continuiamo a definirli assenti, incorporei, liquidi:

padri ombra, per dirla con una calzante espressione di Maurizio Quilici. O

padri autoritari o papà chioccia: sembrerebbe questa la netta divisione che

si presta a definire la categoria dei padri. Sono percepiti come doppi,

replicanti, quasi dei concorrenti delle madri, oppure si dice che non

esistono.

Si direbbe che l’immagine del padre nella società attuale non dipenda

dalla realtà della sua presenza, ma sia fortemente influenzata dall’ideologia

che la modella. La società post moderna rifiuta da una trentina d’anni

l’onnipotenza paterna, che è stata il suo modello nel periodo della

modernità. Tradizionalmente il padre è colui che impedisce alla follia

materna145 di realizzarsi: introduce un terzo elemento nel mondo fusionale

madre/bambino. Se non conserva questo ruolo di separatore si risveglia il

timore arcaico di una donna onnipotente e di una madre divorante. C’è

l’idea che il padre debba essere presente solo come istanza arbitraria, senza

diventare una madre bis: “beati i bambini del Terzo Millennio, che avranno

due madri per cambiargli il pannolino” scrive Michel Schneider in Big

Mother146, un’opera molto critica verso questa modernità.

Entrambi i genitori fanno parte, quindi, di un processo che li lega

indissolubilmente in quanto «attingono al progetto di coppia e familiare per

dare quotidiana consistenza alla propria funzione educativa di padre e di

144 S.K. Sausse, In difesa dei padri, Alberto Castelvecchi editore, Roma, 2010. 145 Ivi, p. 57. 146 M. Schneider, Big mother. Psychopathologie de la vie politique, Odile Jacob, Parigi, 2002.

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madre: nell’unità degli orientamenti valoriali prescelti e del progetto

educativo elaborato, sono diverse le modalità attraverso cui le informazioni

e i contenuti educativi sono singolarmente offerti»147.

Se volessimo inserire il padre, in una psicologia dello sviluppo, dobbiamo

necessariamente riconoscere l’intero sviluppo del bambino in una diversa

ottica. Il padre non è una qualunque figura di attaccamento, ma è

prioritariamente l’altra figura di attaccamento, altra in quanto

qualitativamente diversa dalla figura materna. Madre e padre non sono

intercambiabili, in quanto sono due differenti dimensioni affettive e

relazionali. Il padre è parte integrante della relazione primitiva del bambino,

anzi è colui che suscita la relazione del bambino con la madre; è l’ombra

che permette al bambino di individuare e di orientarsi, metaforicamente,

verso la luce.148

Lo psicologo Petter sostiene che una qualità fondamentale richiesta ad

entrambi i genitori è quella di «favorire un processo di divergenza nel

favorire nel figlio uno sviluppo personalizzato149», che gli permetta di

diventare “diverso” dagli altri in modo creativo, «se non altro perché

nessuno sceglie mai d’essere figlio. Mentre diventare padre è sempre una

scelta. Anche quando la paternità è il frutto di una distrazione o di un

incidente di percorso, come lo chiamano quelli che adorano gli

147 L. Pati, Padre e madre: chiamati a diventarlo, in R. Bonetti (a cura di), Padri e madri per crescere a immagine di Dio, Città Nuova, Roma, 1999, p. 114. 148 R. Quaglia, Il padre nello sviluppo del bambino, in C. Marocco Muttini, M. Fulcheri, C. M. Marchisio, La funzione paterna nelle relazioni educative e di aiuto, Aracne, Roma, 2009, p. 45. 149 G. Petter, Il mestiere di genitore. I rapporti con i figli dall’infanzia all’adolescenza, Rizzoli, Milano, 1992.

68

eufemismi»150. Una famiglia sana, come la definiscono gli psicoanalisti

Meltzer e Harris, è caratterizzata dall’esercizio di funzioni positive, come:

o generare amore: all’interno del contesto familiare è importante

che i genitori favoriscano un clima di sicurezza e di protezione

capaci di garantire quella serenità e quella tranquillità interiore che

permette ai figli di crescere emotivamente e psicologicamente

sani;

o infondere speranza: ovvero quella capacità di mantenere la giusta

dose di realtà e di equilibrio anche dinnanzi ad eventi

imprevedibili e/o drammatici per garantire ai figli la possibilità di

acquistare sicurezza e voglia di staccarsi dal “cordone ombelicale”

senza paura di fallire;

o contenere la sofferenza: aiutare i figli, tramite l’esperienza diretta,

a comprendere l’esperienza del dolore senza però far si che questa

sconvolga l’esistenza personale;

o aiutare a pensare: compito principale dei genitori è quello di

incentivare sempre e in ogni circostanza la sana abitudine a

pensare, a ricercare la verità, a comportarsi in modo pulito e

trasparente perché questo significa diventare gli uomini e le donne

qualificati da spirito critico e onestà intellettuale151.

In questo orizzonte di senso prende vita, ancora una volta, il concetto del

‘prendersi cura’, «il motto intraducibile dei giovani americani migliori:

‘Me ne importa, mi sta a cuore’. E’ il contrario del motto fascista ‘Me ne

frego’»152. In un rapporto di filiazione madre e padre contribuiscono a

150 M. Verga, Un gettone di libertà, Mondadori, Milano, 2014, p. 34. 151 Cfr. M. Pavone, Genitorialità-filiazione. La famiglia, un sistema relazionale in divenire, in La funzione paterna nelle relazioni educative e di aiuto, in C. Marocco Muttini, M. Fulcheri, C. M. Marchisio (a cura di), op. cit., p. 69. 152 L. Milani, Lettera a una professoressa, Libreria Ed. Fiorentina, Firenze, 1996.

69

facilitare il poter-essere del figlio, la propria unicità e irrepetibilità del suo

essere Persona nel mondo.

La pedagogista speciale Marisa Pavone ci ricorda la reciprocità di

rapporto che si instaura tra genitori e figli sostenendo, in ultima analisi, che

anche i figli educano i genitori: «anche il primo sorriso, il primo balbettio,

il primo successo scolastico, le conquiste di cui strada facendo il figlio fa

provvista, l’esperienza condivisa di trascorrere il tempo in attività di gioco

o nella lettura di un libro per l’infanzia, costituiscono il presupposto e la

base per una comune crescita creativa, e per l’intesa mutualistica presente e

futura»153.

Generare un figlio inscrive, dunque, il giovane adulto nella filiazione in

quanto genitore, proprio perché:

nascendo, un bambino trasforma due adulti in genitori. Si può quindi dire

che è il bambino a creare i propri genitori. A partire dal suo concepimento,

egli li interroga con tutti i mezzi di cui dispone (prima con i movimenti, poi,

dopo la nascita, con crisi, collere, bronci, attacchi di vomito, insonnia…)

domandando loro: “Chi siete? Che cosa ci fate voi insieme? Perché mi avete

concepito?” Molto spesso queste richieste sono inopportune perché

obbligano a rispondere a domande che non sempre uno ha voglia di porsi,

eppure nessun genitore può sperare di sfuggirvi154.

Per diventare un genitore, ma anche e soprattutto un padre, non solo

affettivo, ma anche normativo, è necessario uscire da una modalità

egocentrica, che pensa solo al sé, per avvicinarsi autenticamente al

bambino fondando e radicando solidamente il suo bisogno di senso nella

vita.

153 M. Pavone, Genitorialità- filiazione. La famiglia, un sistema relazionale in divenire…, op. cit. p. 79. 154 F. Dolto, I problemi degli adolescenti, Longanesi, Milano, 1991 e TEA Pratica, Milano, 1998, p. 61.

70

2. La funzione normativa paterna

Dalla letteratura recente sul tema della paternità emerge che i padri sono

molto più presenti di un tempo, mentre la madre ha assunto sempre più

impegni di lavoro e sete di ambizione, cosicché i ruoli e le funzioni

materne e paterne sono maggiormente intercambiabili.

Alcuni autori quali Bowlby, Spitz, Winnicott hanno dato avvio ad

importanti contributi in merito alle relazioni di attaccamento tra la madre e

il bambino, e alle conseguenze patologiche che un attaccamento insicuro

e/o ambivalente avrebbero potuto scatenare. Queste teorie sono state

talmente enfatizzate che nella famiglia, come d’altronde in altri contesti

educativi, l’attenzione alla dimensione affettiva passò in primo piano

rispetto alla dimensione normativa della funzione genitoriale. È bene

ricordare, però, che le esigenze affettive non sono le uniche dimensioni di

cui un bambino ha bisogno per un positivo sviluppo psichico: il

contenimento dell’angoscia risulta efficace solamente tramite l’imposizione

di un limite che aiuta il bambino a separare la realtà esterna dal suo mondo

interiore. Lo sviluppo dell’individuo, a partire dalla nascita fino all’età

adulta, si compie attraverso una serie di relazioni nelle quali affetti e regole

sono parimenti fondamentali155.

Senza limite l’individuo non riesce a costruire un’identità stabile, autonoma,

sicura, rispetto all’angoscia di “andare distrutto”. Si tratta di un problema

basilare nella costruzione della personalità, di livello arcaico rispetto ai temi

edipici. […] Il limite viene imposto dall’esterno, prima che acquisito

autonomamente, viene dato dalle regole o norme, che indicano la linea di

condotta a cui attenersi quando funzioni come la stima di sé a livello

155 C.M. Muttini, La funzione paterna nelle relazioni di aiuto e di cura, op. cit., p. 23.

71

conscio, l’ideale dell’Io e del super- Io a livello inconsci, non sono ancora

consolidate.156

Se questo limite non viene imposto/concesso la possibilità che emergano

problemi clinici, come personalità borderline, cadute depressive,

comportamenti devianti, delinquenza, risulta davvero di facile frequenza:

diviene quindi indispensabile che «la famiglia e le agenzie educative

contribuiscano alla crescita offrendo i due poli di rapporto, affettivo e

normativo157».

Ormai è ben noto che, dopo la seconda guerra mondiale, i giovani non

abbiano più voluto reincarnare il classico modello paterno e l’apice di

questo mutamento lo abbiamo con un’opera fondamentale di

Mitscherlich158 che evidenzia come il disagio della persona può nascere da

un eccesso, come da una carenza della funzione normativa. Numerosi

studiosi riconducono l’insorgenza dei disturbi psichici che si manifestano

in età giovanile alla mancanza di contenimento e dall’impossibilità di

cimentarsi con le difficoltà di verificare le proprie capacità, altrimenti

l’adolescente potrà scegliere delle strade più facili per affermarsi

personalmente nel dubbio di non essere all’altezza dei compiti richiesti.

La realtà odierna è caratterizzata da episodi di cronaca che vedono come

protagonisti giovani che, non potendo più trasgredire, sfidare, opporsi al

padre, ormai diventato “morbido”, non riescono ad interiorizzare il

conflitto: non trovando più il contenimento nelle figure educative prossime

a sé, il giovane andrà a cercare il limite con atti sempre più violenti, come

156 C. Marocco Muttini, M. Fulcheri, C. M. Marchisio, La funzione paterna nelle relazioni educative e di aiuto, op.cit., p. 14. 157 G. Chiosso, (a cura di), Nascere figlio, Utet Libreria, Torino, 1994. 158 A. Mitscherlich, Verso una società senza padre, Feltrinelli, Milano, 1970.

72

se si chiedesse quando sarà fermato e chi ha il potere di contenerlo159. È

certamente da sottolineare come l’immagine di adulto normativo ha subito

una revisione legata alle trasformazioni sociali e culturali:

L’autonomizzazione, come effetto di una socializzazione più libera tra i

pari, è divenuta più precoce; la fruizione di forme di intrattenimento come

quelle offerte da Internet e dai nuovi media avviene da parte dei

giovanissimi in modo svincolato rispetto al controllo degli adulti educanti.

La più prolungata scolarizzazione e soprattutto la cultura tecnologica hanno

creato un divario tra le generazioni assai più accentuato e rapidamente

incrementantesi. Da ciò deriva la necessità di un cambiamento nell’esercizio

della funzione normativa rispetto al passato: agli obblighi e ai divieti deve

subentrare più precocemente la concessione di una libertà sostenuta dalla

responsabilità. La funzione paterna rappresenta una componente prioritaria

dell’ambiente educativo, che deve però essere modulata sulla base di nuove

esigenze e stili di vita, derivanti dai processi di crescita fisica e cognitiva

accelerati e variati come tempi e modalità160.

Diventare padri è quindi un’esperienza profonda e complessa che si

accompagna alla necessità di acquisire un nuovo ruolo e una nuova

consapevolezza di sé. La stessa Maria Montessori, nonostante rimarchi la

preminenza della figura materna, afferma che «l’istinto di maternità non è

collegato solo con la madre, ma è nei due genitori»161.

Il padre, interponendosi tra la madre e il bambino introduce una distanza

simbolica tra loro, «impone una legge, che, da un lato, esprime interdizione

della madre al bambino, dall’altro lato, canalizza il desiderio del bambino

in ordine alla legge. Tutto lo sviluppo morale del bambino si situa

159 C. Marocco Muttini, Funzione paterna e benessere psichico…, op. cit. 2009. 160 Ivi, p. 24. 161 M. Montessori, Il segreto dell’infanzia, Garzanti, Milano, 1989, p. 282.

73

fantasticamente tra un “No!”, limite invalicabile, e il “Tu devi!”, traguardo

ideale»162. Seguendo la teoria lacaniana il padre non può dire “Sì” con il

rischio di screditarsi come figura paterna.

È interessante indagare come negli anni del boom economico la Legge

del pater familias si sia trasformata sia andata a declinare verso una legge

più bonaria a quella delle generazioni precedenti: il padre non si occupava

granché dei figli, si limitava a controllare l’andamento scolastico, a

rimproverare e a punire dove necessario, ascoltare le lamentele della

moglie, per il resto non voleva seccature. Ai figli voleva bene, ma in

famiglia comandava lui ed effettivamente la libertà di moglie e figli non era

molto estesa163.

Negli anni precedenti al boom economico, difatti, nessuno si permetteva

di avanzare un’ipotesi sull’istinto paterno:

Nella relazione genitore- fanciullo, la madre può essere considerata il punto

centrale. Non vi sono indizi nella nostra specie, di qualche cosa come

l’istinto paterno. Il gruppo padre- madre- bambino è tenuto insieme

dall’attaccamento del padre alla madre e dalla dipendenza fisica del

bambino da lei, rinforzata in seguito da legami d’affetto e di dipendenza

emozionale sviluppati durante il periodo infantile. L’associazione padre-

figlio è secondaria, e deriva dal comune interesse verso la madre e dalla

comune residenza con lei.164

Si prefigura qui un padre incline ad un certo tipo di consumismo,

impegnato nel lavoro e di un’autorità puramente formale che tacita i sensi

di colpa non negando mai nulla, soprattutto sul versante economico.

162 R. Quaglia, Il padre nello sviluppo del bambino, in…, op. cit., p. 52. 163 M. Quilici, Storia della paternità. Dal pater familias al mammo, Fazi Editore, Roma, 2010, p. 477. 164 R. N. Ashen, La famiglia, la sua funzione e il suo destino, Bompiani, Milano, 1955, pp. 36-37.

74

Dunque, nel corso degli anni, in un periodo che Giorgio Campanini

definirà “la famiglia a doppia carriera”165- riferendosi ad un femminismo

che rivendica sempre più la parità di diritti tra uomo-donna e padre-madre-

si abbandona definitivamente l’immagine del “padre- padrone” per dare

spazio ad un padre che, oggi, scopre che essere padre non basta, si può

anche fare il padre. Non solo, quindi, esercitare l’autorità e contribuire

economicamente per il sostegno della famiglia, ma anche possibilità di

arricchimento, maturazione, scoperta, gioia condivisa nel prendersi cura del

figlio. Ora i padri amano toccare, abbracciare, stringere, baciare il corpo

del bambino. Questa modalità insolita viene denominata «Fame paterna»

da Moses Herzog, protagonista del celebre e omonimo romanzo di Saul

Bellow:

Gli saliva in piedi sulle ginocchia per pettinarlo. I suoi piedini gli

pesticciavano le cosce. Lui si abbracciava quelle ossicine con fame paterna

mentre l’alito di lei sul suo viso lo commuoveva fin nel profondo.166

Vero è, spiega Quilici167, che il libro di Sellow riporta una realtà

americana degli anni ’60, mentre da noi bisognerà arrivare agli inizi degli

anni Novanta per parlare di “rapporto carnale” tra padre e figli. Sembrano

ormai lontani i tempi del padre autoritario: nascono ora, lentamente, «i

nuovi padri» che, abbandonando la loro virilità- proveniente dal modello

del macho- lasciano emergere la parte femminile, sensibile, tenera che è in

ogni uomo. Ma se il padre- padrone si estingue, ecco giungere all’estremo

opposto: “il mammo”. Il verdetto sembra essersi pronunciato: il padre

165 G. Campanini, Contestazione e riscoperta del padre, in «Famiglia oggi», settembre-ottobre 1992, p.18. 166 S. Bellow, Herzog, in Le Opere, Feltrinelli, Milano, 1987, p. 69. 167 M. Quilici, Storia della paternità…, op. cit., 2010.

75

paterno non ha futuro, può essere solo materno, ovvero un padre che

sostituisce, per brevi periodi, la madre impegnata o assente168.

Quello che importa davvero è il rischio di maternizzazione paterna, una

vera e propria mutazione psicologica di cui dobbiamo tener conto. C’è

bisogno quindi di una nuova definizione paterna che corrisponda meglio al

cambiamento che i padri devono affrontare: sembrerebbe che non si

sopporti vedere padri affettuosi e premurosi poiché diverrebbero

immediatamente “papà chioccia”, replicanti e concorrenti delle madri169.

Il problema effettivo riguarda appunto il concetto stesso della funzione

normativa paterna: l’esercizio dell’autorevolezza è necessario, al contrario,

un’eccessiva maternizzazione dello stile educativo potrebbe protrarre la

dipendenza170 dei figli nei confronti dei genitori. Gli studi di Lamb171

mostrano come ad un ruolo maschile non tradizionale si affianchi un tipo di

padre molto più coinvolto nella cura del figlio, e che sempre di più ciò

accada nelle famiglie dove la madre lavora172, ed è per questo che,

presumibilmente, l’autorità non può più essere solo di competenza paterna.

La psicanalista francese Simon Korff Sausse muove una critica nei

confronti di una visione, per certi versi catastrofica, di una presunta

mancanza di autorità da parte dei padri:

Ci preoccupiamo molto per la mancanza di autorità. Cerchiamo, invano, di

ristabilirla. Molti intellettuali si fanno portavoce di questa inquietudine e di

questa visione allarmista del futuro. Li sentiamo rimpiangere l’epoca in cui

l’autorità veniva esercitata senza riserve, mentre non sembrano rendersi

168 C. Sellenet, Nuovi papà…bravi papà, Fabbri Editori, 2006, Milano. 169 S. K. Sausse, In difesa dei padri, Alberto Castelvecchi editore, Roma, 2010. 170 A. Battaglia, A. Canevaro, M. Chiurchiù, Figli per sempre. La cura continua del disabile mentale, Carocci, Roma, 2005. 171 M.E. Lamb, The emergent american father, in M.E.Lamb, The father’s role, Erlbaum, Londra, 1987. 172 G. Attili, Il padre come contesto di attaccamento nello sviluppo del bambino, in M. Andolfi (a cura di), Il padre ritrovato, FrancoAngeli, Milano, 2001, p. 41.

76

conto che l’autorità può essere condivisa con la madre, e soprattutto che la

ridiscussione della sua forma tradizionale può essere un fatto positivo. In

effetti potremmo essere felici di constatare che la rete relazionale della

famiglia non è più governata da obblighi imposti e che, al giorno d’oggi, le

relazioni all’interno del nucleo si svolgono soprattutto nella modalità del

consenso e della negoziazione.173

Poiché il padre non era il primo referente del bambino, bisognava

trovargli un ruolo: a lui l’autorità e il rapporto con la Legge, a lui il

compito di scindere la madre e il figlio, a lui la responsabilità di aprire il

bambino alla socializzazione, a lui il complesso di Edipo. Alle madri la

teoria dell’attaccamento. “Perché le donne non possono essere garanti della

Legge? Hanno forse coscienza civica insufficiente?” 174 Si chiede la

sociologa e psicologa Catherine Sellenet dissertando in merito alla

funzione normativa paterna.

Michael Schneider critica aspramente «l’aberrazione antropologica»

costituita dalla «paternità interattiva e relazionale» preoccupandosi del fatto

che «il padre paterno stia per essere cancellato simbolicamente» 175 a

beneficio del padre materno.

Oggi parlare di padre assente significherebbe lasciare i figli senza un

polo identificatorio solido, da un lato, e non permettere la scissione

madre/bambino, dall’altro176.

Il padre contemporaneo si trova nella situazione pirandelliana nella

quale il suo ruolo non è uno, si può essere centomila padri, tanto da

sentirsi nessuno177. Viviamo in un’epoca in cui chi decide di fare il padre

173 . K. Sausse, In difesa dei padri, op. cit., p. 43. 174 C. Sellenet, Nuovi papà…bravi papà, 2006, p.119. 175 M. Shneider, Big Mother..., op. cit. 176 C. Sellenet, Nuovi papà… bravi papà, op. cit. 177 International Journal of Psychoanalysis and Educacion- IJPE, n°3, vol. I, anno I, p. 208.

77

acquista un maggiore grado di consapevolezza basata sull’affettività e

sull’attaccamento al proprio bambino, il che porterebbe ad una perdita di

autorevolezza, che non va confusa con il concetto di autorità. I padri

odierni non impongono regole attraverso la minaccia e la punizione, ma

aiutano i propri figli a comprendere il perché di una scelta e la

motivazione ad un “no”.

Nelle prime fasi della crescita, le figure del padre e della madre tendono un

po’ a confondersi, per via del fatto che i padri cercano una comunicazione

più affettiva ed empatica, e si occupano di più della cura. Ma nel momento

dell’adolescenza, i figli si accorgono di aver bisogno di una figura

autorevole e competente che li aiuti sia ad uscire dall’infanzia che a scoprire

il loro vero sé.178

Di seguito riportiamo il decalogo del padre ideale che Bollea

sintetizza nel suo celebre volume “Le madri non sbagliano mai”179 e che,

a nostro parere, rappresenta l’esempio più fulgido di equilibrio e

affettività per un padre che si auspichi non sbagli mai:

• essere se stessi e non “sepolcri imbiancati”;

• essere disponibili nel gioco, nella discussione, nell’ascolto;

• dare esempio di autocontrollo e di intransigenza sul piano morale;

• dimostrare sicurezza nelle piccole e grandi cose, per insegnare

loro a vedere l’essenziale nei fatti positivi e negativi della vita

• non essere padre infallibile, ma padre che “alla fine” troverà una

soluzione ai problemi della vita

178 Ivi, p. 211. 179 G. Bollea, Le madri non sbagliano mai, Feltrinelli, Milano, 1995, p. 25.

78

• mantenere il segreto delle confidenze dei figli dopo i dieci anni,

anche con la moglie, se i ragazzi lo desiderano

• essere autorevole e non autoritario, creando la stima con l’esempio

• controllare il proprio temperamento con i figli, esattamente come

con gli estranei

• mostrare armonia, stima e concordanza pedagogica con la moglie

davanti ai figli

• pensare la cena un punto d’incontro per la famiglia, dove si possa

conversare senza interferenze esterne.

2.1. Il padre e il figlio disabile

Il discorso pedagogico sulla famiglia si distanzia da una visione storica-

antropologica e/o psicologica perché l’intento pedagogico è, appunto,

quello di guardare con una prospettiva che mira ad indagare e promuovere

il ruolo educativo e formativo dei genitori180. Diventare genitori è una

scelta consapevole che trasforma la vita delle persone: implica un’adesione

profonda che inizia dal concepimento, si sviluppa per tutta la gravidanza e

si esprime completamente dopo la nascita.

La nascita di un figlio comporta, indubbiamente, molti cambiamenti che

riguardano diverse sfere della vita quotidiana di coppia, da un lato, ma

anche personale e individuale, dall’altro. Le modalità di risposta sono

diverse da coppia a coppia in quanto quest’ultima deve aprirsi al terzo

arrivato per inserirlo attivamente nello spazio domestico, ma anche, più in

generale, nell’ambiente esterno (parenti, amici, lavoro)181.

180 L. Bichi, Disabilità e pedagogia della famiglia, op. cit. 181 G. Bollea, Le madri non sbagliano mai, op. cit.

79

La riflessione sullo stile educativo risulta particolarmente attuale e

necessario, poi, nel campo della Pedagogia Speciale dove la valorizzazione

della figura paterna non ha sempre avuto il riconoscimento che merita.

Solitamente quando si parla di rapporto simbiotico madre- bambino, e

con maggiore intensità se si tratta di un bambino disabile, si fa sempre e

costante riferimento alla figura materna. A partire dagli anni ’70

l’attenzione dei ricercatori si inizia a focalizzare anche sui padri

dimostrando quanto anche quest’ultimi fossero coinvolti, al pari delle

madri, nel prendersi cura dei figli e della sofferenza che l’handicap del

bambino procurava loro182.

Dunque, nella famiglia di soggetti disabili l’intervento e la presenza

paterna si collocano in una dimensione piuttosto complessa: da un lato

potrebbero riproporre una madre bis, dall’altro avere invece un

atteggiamento troppo frustrante rispetto alle potenzialità del figlio.

Ciò che stabilisce il legame con il bambino è l’attaccamento affettivo che si

attua allo stesso modo in entrambi i genitori. Solitamente si dice che il padre

non si sente legato al figlio come la madre perché non ha portato il bambino

in grembo. […] In realtà l’idea della trasmissione che l’handicap sollecita

fortemente va ampiamente oltre la biologia, poiché mette in gioco una

dimensione fantasmatica che riguarda entrambi i genitori.183

Un modello unico di padre nel passato è esistito, e in questa sede

l’abbiamo evocato più volte: il padre padrone lontano dagli affetti e dalle

responsabilità di cura e di crescita della prole è ormai un ricordo lontano.

Non tutti i padri si somigliano, anzi, imporre un unico modello di paternità

182 S. Sausse, Specchi infranti. Uno sguardo psicanalitico sull’handicap, il bambino e la sua famiglia, Ananke, 2006, Torino. 183 Ivi, p. 45.

80

equivale a fingere che tutte le famiglie si assomiglino, il che non solo è

assolutamente falso, ma rischierebbe di negare il principio innegabile della

diversità, intesa nell’accezione più ampia di creatività. La paternità, ricorda

la Sellenet, «si inventa, si costruisce giorno dopo giorno, si modifica a

seconda dell’età del figlio»184 e a seconda del figlio.

Se per Bowlby 185 , più volte citato in riferimento alla teoria

dell’attaccamento, questo può essere solamente monotropico, con letture un

po’ diverse e con contesti di osservazione differenti, possiamo essere certi

di affermare che il bambino nasce già in una triangolazione186 e dunque

inscritto in una situazione già di per sé più estesa. Molti psicologi

continuano a cavalcare l’onda dell’assoluta superiorità della madre rispetto

al padre, creando ancora una volta una supremazia materna- che coincide

anche con una responsabilizzazione fortissima di quest’ultima in

riferimento alla prima infanzia del figlio- e provocando una serie di

ripercussioni alquanto negative sulla funzione attribuita al padre.

Quello che spaventa in questa gerarchizzazione nelle relazioni di

attaccamento riguarda proprio la predominanza della figura materna,

mentre la relazione con il padre resterebbe comunque secondaria: il ruolo

del padre rimane quello di una madre surrogata. A giudicare da alcune

ricerche, «sembrerebbe che, rispetto alla madre, il padre svolga un ruolo

minore, se non addirittura inesistente, nello sviluppo del figlio»187. Queste

considerazioni spingono Christiane Olivier ad assumere una posizione di

rottura rispetto ad altri psicoanalisti:

184 C. Sellenet, Nuovi papà… bravi papà, op.cit., p. 112. 185 J. Bowlby, Cure materne e sviluppo mentale del bambino, Giunti, Firenze, 2012. 186 S. Sausse, In difesa dei padri…, op. cit. 187 R. Miljkovitch, L’attachement au cors de la vie, Le fil rouge, PUF, Paris, 2001.

81

La bolla madre-figlio, definita primaria e duale, può essere plurale, e il

bambino può attaccarsi sin dai primi mesi alle varie persone che lo

accudiscono, tra cui il padre, se è presente. Perché nessuno vuole

riconoscere pubblicamente che l’introduzione del padre paterno impedisce

al bimbo di attuare una fissazione unica sulla madre, evitando questa

relazione esclusiva e talvolta fobica che fa di lei la sua sola interlocutrice

valida?188

Un’idea che caratterizza la rappresentazione delle famiglie dove è

presente un figlio disabile è quella che il padre svolga un ruolo pressoché

marginale rispetto a quello della madre. Se vogliamo però inserire il padre

nel rapporto con il figlio è necessario fare alcune nuove considerazioni in

merito allo sviluppo stesso del bambino: il padre, spiega Rocco Quaglia,

«non è una qualunque figura di attaccamento, ma è prioritariamente l’altra

figura di attaccamento, altra in quanto qualitativamente diversa dalla figura

materna. Madre e padre non sono intercambiabili, in quanto sono due

differenti dimensioni affettive e relazionali»189.

Anzi, dato che l’handicap evoca sempre un’idea di castrazione, scrive

Sausse, si può pensare che siano maggiormente feriti nella propria

immagine narcisistica, dal momento che l’handicap li attacca ancor più

specificatamente nella loro integrità maschile190.

Innanzitutto ci sembra di fondamentale importanza, per comprendere il

rapporto tra il padre e il figlio disabile, sbarazzarci dei vecchi modelli

imposti da psicologi, psicanalisti e sociologi, non per rifiutarli in blocco,

ma per mettere in luce le debolezze e le contraddizioni che hanno relegato,

per tanto, troppo tempo, i padri in un angolo. L’esigenza di guardare al

188 C. Olivier, Petit livre à l’usage des pères, Fayard, Paris, 1999. 189 R. Quaglia, Il padre nello sviluppo del bambino, in La funzione paterna nelle relazioni di aiuto e di cura, op.cit., p. 45. 190 S. K. Sausse, Specchi infranti…, op. cit.

82

padre come “arricchimento” nasce dall’idea che ognuno di noi è portatore

di esperienze che possono diventare una validissima risorsa per il

cambiamento, «tenendo presente che non si tratta solo di un cambiamento

personale, interiore, ma si tratta di mettere in atto capacità di co-

trasformazione. Di ascolto e di cura di sé, che diventano ascolto e cura

degli altri»191. Da questo assunto è possibile comprendere quanto, e in che

misura, lo studio delle relazioni tra genitori e figli disabili ci hanno

condotto ad un ripensamento sui concetti stessi di funzione, ruolo e istinto

paterno.

Ricerche192 in ambito psicologico confermano ormai da molto tempo che

il confronto con la disabilità traccia un confine temporale nella vita dei

genitori: affiora un sentimento paragonabile alla morte, metaforicamente

parlando, e il sogno del bambino idealizzato e perfetto viene meno.

Infatti la cicogna handicappata ti consegna un tempo che immediatamente si

accorcia. Altro che dilatarsi! Altro che si diventa immortali perché si

diventa padri (o madri)! La disabilità cancella il senso del tempo. A

qualcuno concede l’idea del futuro declinato in speranza. Ma il futuro è lì. E

già domani potrebbe essere troppo tardi.193

Lontani da “Sua Maestà il Bebè” di cui parlava Freud, il bambino

meraviglioso che doveva realizzare tutti i sogni segreti dei genitori e

riparare le loro antiche ferite e delusioni, ciò che segue è un cammino

parentale che può essere paragonato all’elaborazione di un lutto194: un

intenso dolore psichico e fisico, accompagnato da un costante desiderio di

191 L. Formenti, Pedagogia della famiglia, Guerini, Milano, 2000, p. 129. 192 C. Gardou, Diversità, vulnerabilità, handicap, Erickson, Trento, 2006. 193 M. Verga, Un gettone di libertà, Mondadori, Milano, 2014, p. 158. 194 E. Kubler-Ross, Les derniers instants de la vie, Labor et Fides, Ginevra, 1975.

83

morte del figlio: «è disumano, sarebbe meglio che morisse»195; a tal

proposito si trascrive qui di seguito il vissuto autobiografico di uno

scrittore giapponese, Kenzaburo Oe, a cui nasce un figlio con una grave

malformazione cerebrale:

Aveva scommesso sulla morte del suo bambino e l’aveva fissato

chiaramente nella sua coscienza. In quel momento era un autentico nemico

per il suo bambino, il primo e il più grande nemico della sua vita. Avvertì

un senso di colpa e pensò di esserlo, se mai c’era una vita eterna e un dio

che giudica. Ma quel senso di colpa, come la tristezza che l’aveva assalito,

quando nell’ambulanza, aveva immaginato il bambino bendato alla testa

come Apollinaire, gli dava il dolce gusto del miele. Tori-bird affrettò il

passo, come se andasse ad un incontro con l’amante, e camminò alla ricerca

della voce che gli avrebbe comunicato la morte del bambino. Dopo aver

ricevuto la notizia, avrebbe seguito varie pratiche il rifiuto del figlio, […]

quindi avrebbe pianto il bambino in solitudine e il giorno successivo

sarebbe andato a comunicare la disgrazia alla moglie. Le avrebbe detto che

il bambino, morto per un trauma cranico, costituiva un legame carnale tra

loro e che sarebbero riusciti in qualche modo a ricostruire la loro vita

familiare.196

Si percepiscono chiaramente, rispetto al brano appena sopra citato, due

emozioni: l’incredulità per quello che si sta vivendo e la speranza che

questo incubo svanisca per sempre. Si prende coscienza che qualcosa è

cambiato definitivamente e che la vita di prima già non esiste più.

La comunicazione della diagnosi di disabilità rappresenta un momento

delicato in ogni fase dell’età evolutiva poiché, quando viene riferita ai

195 C. Gardou, Diversità…, op.cit., p. 78. 196 K. Oe, Un’esperienza personale, Corbaccio, Milano, 1996, p. 85-86.

84

genitori, questa sconvolge l’organizzazione del ciclo familiare197. I vissuti

più comuni propongono una divisione dei ruoli genitoriali: la madre

diventa il perno della vita della persona con disabilità senza lasciarsi spazi

di libertà, né per sé né per il figlio e, insieme a questo ruolo materno

predominante, lo spazio relazionale tra padre e figlio sarebbe giocato

sempre dal ruolo materno 198 . In questo senso il padre rimarrebbe

intrappolato in un “travestimento materno”199che non gli consentirebbe di

sperimentare un ruolo differente da quello di un padre con una funzione

prevalentemente “curante”.

Nel momento in cui i genitori vengono a conoscenza della disabilità del

figlio si pone il problema di come riuscire a creare un legame tra questa

immagine ideale che per nove mesi ha nutrito la mente dei genitori e la

realtà di un neonato imperfetto, fragile, speciale. L’angoscia e il senso di

colpa sono i principali ostacoli da superare: «Qual è l’origine della

disabilità di nostro figlio? Se fosse colpa nostra? Colpevoli di cosa?200».

Alcuni recenti studi 201 hanno analizzato il rapporto interpersonale,

affettivo e relazionale che si instaura fra il genitore e il bambino con

disabilità. Tali ricerche hanno dimostrato quanto, soprattutto nei primissimi

mesi di vita, il padre e la madre vivano la disabilità del figlio come,

appunto, una colpa personale ed arrivino a creare un rapporto con il figlio o

iperprotettivo, da un lato, o eccessivamente distaccato e freddo dall’altro.

Soprattutto nel padre, riferendoci a quanto scritto poc’anzi, la nascita di un

bambino disabile suscita la percezione di sentirsi inadeguato, incapace di

197 Cfr. M. Zanobini, M. Manetti, M.C. Usai, L’incontro con la disabilità: implicazioni pratiche ed emotive, in M. Zanobini, M. Manetti, M.C. Usai (a cura di), La famiglia di fronte alla disabilità. Stress, risorse e sostegni, Erickson, Trento, 2002. 198 L. Bichi, op. cit. 199 P.P. Charmet, Un nuovo padre. Il rapporto padre-figlio nell'adolescenza, Mondadori, Milano, 1999. 200 Ivi, p. 85. 201 P.M. Kearney&T.Griffin, Between joy and sorrow: being a parent of chid with developmental disability, Journal of Advanced Nursing, 34(5), pp. 582-592.

85

proteggere e accudire il figlio: ciò si presenta come uno degli eventi più

stressanti e traumatici nel corso della vita di una persona, tanto da mettere

in crisi l’equilibrio di coppia e, nei casi più gravi, generare violente

rotture202. Il lutto è impossibile:

Perdere questo oggetto, significa perdere una parte vitale di se stessi. La

rinuncia è impossibile, poiché rinunciare al bambino immaginario,

significherebbe rinunciare all’immagine di genitori in grado di mettere al

mondo un bel bambino, attraverso il bambino che hanno concepito viene

messa in gioco la concezione di sé stessi. Il bambino immaginario conserva,

di conseguenza, il proprio posto, come un’ideale inattaccabile o un doppio

malefico. Una presenza pesante, sia per i genitori che per il bambino

handicappato.203

Esplicativa è l’affermazione di un padre che troviamo sempre all’interno

del volume sopra citato: «Mi si dice di elaborare il lutto. Ma lutto, significa

che qualcuno è morto… Il mio bambino non è morto, è vivo; handicappato,

sì, ma qui presente». Continua la perenne dicotomia tra un bambino

immaginario che si dovrebbe cancellare dal proprio presente e l’esigenza di

far spazio al bambino reale che è entrato ormai a far parte della famiglia,

della realtà sociale, del mondo. «In quegli ultimi giorni gli era parso di

vivere al di fuori della sfera del tempo che regolava la quotidianità delle

persone non afflitte dai morsi di un bambino mostro. Nemmeno in quel

momento Tori-bird era rientrato nella sfera del tempo delle persone

normali»204.

202 F. Dettori, Identità smarrite e processi di riappropriazione: affido e adozione, in A. Mura, A.L. Zurru (a cura di), Identità, soggettività e disabilità. Processi di emancipazione individuale e sociale, FrancoAngeli, Milano, 2013. 203 S.K. Sausse, Specchi infranti…, op. cit., p. 39. 204 K. Oe, op. cit., p. 181.

86

Una dimensione ormai nota che coinvolge le famiglie cui nasce un figlio

disabile è senz’altro quella del tempo. È stato più volte ribadito quanto sia

importante la comunicazione della diagnosi proprio perché da quel

momento in poi la vita individuale, di coppia e, di conseguenza, familiare e

sociale subirà un drastico cambiamento. Il tempo si ferma e paralizza ogni

slancio vitale che la gravidanza, e poi una vita che nasce, avrebbe portato

con sé.

Occorre partire dall’assunto che la nascita di un figlio con disabilità

provochi un arresto all’interno del ciclo familiare tanto da modificare

l’intero manage domestico205, a conferma del fatto che la storia di una

persona disabile ha dei tempi e dei ritmi che non possono essere quelli

dell’orologio, delle terapie, delle riabilitazioni. O perlomeno, non può

essere solo questo. L’educazione delle persone disabili si articola lungo le

trame del “tempo vissuto”, lento, ma capace di operare i riconoscimenti che

merita.

Dunque, che ruolo ha il padre nel rapporto, specifico, con il figlio

disabile? Sicuramente i padri tradizionali anche in questo caso hanno

lasciato il posto ai “nuovi padri”: quest’ultimi hanno la possibilità di vivere

momenti di tenerezza e affettività con il bambino partecipando in prima

persona ai piaceri dell’accudimento materiale: cambiare il pannolino, dare

da mangiare, lavarlo, vestirlo. Questo, tuttavia, conduce ad un’eccessiva

maternalizzazione del ruolo paterno per cui l’unica affettività esprimibile

pare essere quella di marca femminile con il rischio che uomini e donne

facciano le mamme e nessuno faccia più il padre206. Nondimeno, l’esercizio

dell’autorevolezza è necessario anche con bambini e ragazzi con disabilità

205 Cfr. B. Farber, Effects of severely retarded child on family integration, «Monographs of the Society for Research in Child Development», n°75, 1960, pp. 67-90. 206 S. Argentieri, Il padre materno da San Giuseppe ai nuovi mammi, Meltemi, Roma, 1999.

87

intellettiva o disturbi psichici: la sollecitazione offerta dal codice paterno

può infatti condurre a notevoli miglioramenti. Al contrario un’eccessiva

maternalizzazione dello stile educativo protrae la dipendenza207.

Secondo Stern il padre diventa «il sostituto materno, fallito o

inadeguato»: sicuramente la polarizzazione sulla figura materna sembra

precludere spazi a quello “specifico paterno” che dovrebbe garantire la

possibilità di definire modelli normativi ed agire più serenamente nei

confronti del figlio 208 . In tal senso l’introduzione scritta da Andrea

Canevaro all’autobiografia di Igor Salomone, in riferimento al rapporto con

la figlia Luna affetta da sindrome de Angelmann in cui si vive un

"itinerario" legato unicamente, o quasi, alle cure ricorsive, ossia a tutte

quelle azioni inerenti alla cura dei/delle figli/e che si ripetono ogni giorno

senza grandi alterazioni.

La tragedia insegna moltissimo, insegna per esempio il valore della cura.

Insegna anche che la cura non è un impegno in vista di un tempo in cui sarà

possibile goderne i frutti. La cura riempie il presente dando senso a un

rapporto.209

La cura rivolta ai soggetti umani, intesa dunque come “aver cura”, si

esprime verso persone con cui si è in un rapporto di reciprocità esistenziale

che rende significativa la presenza dell’altro210. Si continua a sottolineare

l’aspetto della maternalizzazione del padre indicando che entrambi i

genitori sono indotti ad assumere ruoli omogeni e interscambiabili. La cura

207 A. Battaglia, A. Canevaro, A. Chiurchiù M., Figli per sempre. La cura continua del disabile mentale, Carocci, Roma, 2005. 208 P. D’Atena, A. d’Elia, S. Mignani, Padri di famiglie. Ruolo e funzione paterna in terapia, in M. Andolfi (a cura di), Il padre ritrovato, op. cit. 209 I. Salomone, op.cit. p. 56. 210 M. Heidegger, Essere e tempo, trad.it. Longanesi, Milano, 1976.

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non è solo una caratteristica femminile, si delinea infatti «una figura

paterna che ha accesso alla dimensione intima della relazione con il

bambino, che desidera esserci nei momenti importanti della vita e della

crescita del figlio, e forse, proprio per questo, sembra vivere quella

condizione che gli consente di svolgere con maggiore efficacia quella

funzione pedagogica di sostegno e promozione all’autonomia del

bambino»211.

Oggi è richiesto molto ai padri ed è per questo che, in circostanze di

fallimento, «spesso non riescono ad attivare risorse sufficienti di fronte ad

una genitorialità delusa rispetto agli standard di elevate aspettative»212.

La presenza paterna […] arricchisce il mondo esperienziale del bambino,

attraverso un contatto differente da quello offerto dalla madre: il padre ha un

aspetto, un odore, dei suoni diversi, così come diverso è il suo modo di

toccarlo. Questa varietà di esperienze senso-percettive stimola l’apparato

mentale del bimbo che, gradatamente, arriva a distinguere e riconoscere la

persona che in quel momento lo accudisce.213

2.2. Il padre e il figlio disabile tra normatività e affettività

La maternalizzazione della funzione affettiva paterna fa sì che il padre, pur

presente, finisca per essere inglobato nell’area materna e rinforzi quel

“codice materno” dominato dal principio dell’appartenenza. Il codice

materno privilegia la soddisfazione sollecita del bisogno e come tale è

deresponsabilizzante, legato allo stato di indigenza ed inettitudine del

211 C. Bove, S. Mantovani, Padri, bambini e servizi per l’infanzia: esperienze e rappresentazioni, in N. Bertozzi, C. Hamon, Padri e Paternità, Atti del V Convegno Internazionale, 4-6 dicembre 2003, Ed. Junior, Forlì, 2005, pp. 58-59. 212 V. Iori, op. cit., 2006, p. 26. 213 A. Ambrosini, R. Bormida, Lo spazio e il tempo del padre. Funzione e senso della paternità, Edizioni del Cerro, Tirrenia, 1995, p. 43.

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bambino. Il “codice paterno” si fonda sul privilegiare il principio di realtà e

di prestazione e si traduce nella valorizzazione delle capacità e

dell’autonomia, favorendo la graduale separazione del figlio dalla madre

prima e dalla famiglia poi.214

Da anni ormai le ricerche scientifiche si occupano di genitori nel

rapporto educativo con il/la figlio/a disabile: la madre continua ad essere la

principale figura di riferimento nonostante il padre abbia iniziato a farsi

sentire.

Nascono i nuovi padri, come abbiamo più volte ribadito in questa sede:

uomini più capaci e in grado di far uscire la loro parte femminile. Cambiare

pannolini, preparare le pappe, spingere una carrozzina, accompagnare i

figli a scuola sono atteggiamenti a cui siamo già abituati. Una volta il padre

era totalmente, o quasi, assente nell’educazione quotidiana: il padre

incarnava l’autorità, quella a cui si ricorreva per sanzionare un capriccio o

per far valere una punizione. Se un tempo al padre si ubbidiva, ora gli si

obbedisce al pari della madre.

Oggi si riscontra un eccesso di compagnonnage 215 che, all’opposto

dell’autorità, provoca sempre un’educazione il più delle volte sbagliata.

Forse, anche nel campo dell’educazione, occorrerebbe una presenza

paterna con un ruolo diverso e autonomo rispetto a quello della madre, con

il ripristino di una forma di autorità affettuosa che non sconfini mai

nell’autoritarismo chiuso e ottuso, ma che sia comunque autorità216. Nel

corso degli anni viene promulgata l’attenzione all’aspetto affettivo del

rapporto come se fosse l’unica modalità per sviluppare una buona relazione

214 P. D’Atena, A. d’Elia, S. Mignani, Padri di famiglie. Ruolo e funzione paterna in terapia, in F. Fornari (a cura di), Il padre ritrovato, op. cit. p. 198. 215 M. Oggero, Assenza/ presenza, in La funzione paterna nella relazione educativa e di aiuto, op. cit. 216 Ivi, p. 12.

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genitore- figlio217. È importante ricordare che lo sviluppo dell’individuo si

compie attraverso una serie di relazioni in cui affetto e regole hanno lo

stesso peso e valore. Certo, assistiamo ad una minore rigidità dei ruoli e ad

una flessibilità nell’esercizio quotidiano delle capacità genitoriali, in

particolare se ci avviniamo al mondo della disabilità, ma questo non deve

condurre a precludere spazi che sono “specifici paterni” e che dovrebbero

garantire la possibilità di definire modelli normativi per agire più

serenamente di fronte alle difficoltà dei figli.218 La funzione genitoriale, e

quella paterna in particolare, è proprio quella di portare il bambino a

percepire l’importanza di aderire alla realtà e alle sue regole. I “no”

diventano uno strumento di lavoro necessario e importante. Il “no” va

motivato ed espresso in modo chiaro. Un genitore che è in grado di offrire

e porre dei limiti ai propri figli potrà rappresentare una base solida, un

garante che fornisce la giusta unità di misura per interpretare e vivere in

modo sano la realtà.219

I dubbi riguardo l’effettiva positività di un rapporto basato quasi

esclusivamente sulla protezione aumentano, dunque, nel campo della

Pedagogia Speciale. Nelle famiglie in cui sono presenti figli/e disabili

l’intervento del padre può collocarsi in modo assai problematico a fronte di

una sostanziale ambiguità dei ruoli: da un lato eserciterebbe un ruolo

simmetrico rispetto a quello materno, dall’altro potrebbe divenire una

presenza frustrante perché richiederebbe di più al figlio/a rispetto alla sua

effettiva potenzialità. L’esercizio dell’autorevolezza, però, appare

necessario anche in soggetti deboli, come insufficienti mentali e/o psicotici,

217 G. Pietropolli Charmet, A. Maggiolini (a cura di), Manuale di psicologia dell'adolescenza: compiti e conflitti, Franco Angeli, Milano, 2004. 218 P. D’Atena, A. d’Elia, S. Mignani, Padri di famiglie. Ruolo e funzione paterna in terapia, op. cit. p. 194. 219 I. Baldassarre, C’è anche il papà, Erickson, Trento, 2006, pp. 51- 53.

91

al contrario un’eccessiva maternalizzazione dello stile educativo potrebbe

protrarre in loro la dipendenza220. Sicuramente il padre esercita un ruolo

sociale che permette, non solo, un’alternativa al rispecchiamento materno,

ma anzi, attraverso il conflitto e la frustrazione, sosterrebbe

l’organizzazione del pensiero favorendone l’autonomia personale e la

separazione come strumenti per comprendere la realtà.

Soprattutto negli ultimi anni sono emerse un gran numero di biografie

che riguardano storie di vita di papà con un figlio/a disabile. Da un punto di

vista prettamente pedagogico è interessante notare quanto le narrazioni

emerse manifestino un bisogno sempre più urgente di raccontare – e

raccontarsi – dei padri. La paternità che spesso viene bistrattata, riacquista

attraverso le parole dei padri una luce nuova, diversa. Come ricorda Cambi

la narrazione permette all’individuo di essere costantemente un soggetto a

identità aperta221, e questo conduce a mettere in ordine specifici tasselli

della propria esistenza con una consapevolezza maggiore.

Quando riflettiamo sulla disabilità, tuttavia, la carenza della funzione

normativa paterna viene rilevata. In anni recenti studi clinici ed empirici

hanno dimostrato che la relazione del bambino con il padre lo inserisce già

in una diversa relazione, triangolare, e che in questo modo il padre stimola

il bambino a percepire diversi bisogni e a ricercare oggetti diversi per

rispondere a quest’ultimi. Il padre, come si è accennato, favorirebbe quindi

l’indipendenza, ma nel contempo avrebbe una funzione di tipo normativo,

di guida e di limite, senza mai divenire troppo frustrante in quanto ama ed è

amato dal figlio222.

220 A. Battaglia, A. Canevaro, M. Chiurchiù, Figli per sempre. La cura continua del disabile mentale, op.cit. 221 F. Cambi, L’autobiografia come metodo formativo, Laterza, Roma-Bari, 2002. 222 A. Pazzagli, D. Vanni, Psicologia della paternità e funzione paterna, op. cit., p. 35.

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Quando i padri sono ascoltati, hanno molto da dire, a fronte del fatto che

la loro sofferenza non è minore di quella della madri, anzi forse la loro

solitudine è ancora più grande a causa dell’immagine sociale di una virilità

che non avrebbe diritto alle lacrime223. In un racconto autobiografico, Dites

nous comment suivre à notre folie224, Kenzaburō Ōe racconta la relazione

fusionale di un padre di un figlio gravemente disabile di cui si è

completamente fatto carico. La dimensione normativa sembra, quasi direi

scontatamente, venire ignorata. Illuminanti sono alcune pagine scritte da

Massimiliano Verga che, dopo il successo di Zigulì225, ci propone un nuovo

capitolo della sua vita: Un Gettone di libertà, titolo emblematico.

Non voglio dire che Moreno non conosca l’esistenza di alcuna regola. Ma

tolte le pochissime che ci ostiniamo a fargli seguire (tipo: non infilare le

mani nel water o non dondolare quando ci salta in braccio), perfino il giorno

e la notte sono due categorie che gli è consentito confondere (con gli

inconvenienti e le arrabbiature del caso, s’intende). Per certi versi di tratta di

una libertà invidiabile. […] Indubbiamente anche Moreno deve imparare a

rispettare le regole come ogni bambino. Perché altrimenti il mondo

continuerà a guardarlo come un alieno. Lo so… Ma a Moreno è già stato

tolto davvero tanto, credo. Non me la sento di comprimere anche quel poco

che è rimasto. […] Non posso nascondere che nei suoi confronti si debba

essere molto più elastici nelle richieste sul fronte del dovere. […] Moreno è

un bambino completamente non autonomo. Quello che sa fare, può farlo

soltanto se ha qualcuno vicino.226

Il concetto di libertà, legato imprescindibilmente al concetto di

autonomia, imperversa con molta tenacia tra le pagine di diverse

223 S. Sausse, Specchi infranti, op.cit., 2006. 224 K. Oe, Dites-nous comment survivre à notre folie, Gallimard, Parigi, 1966. 225 M. Verga, Zigulì, Mondadori, Milano, 2012. 226 M. Verga, Un gettone di libertà, Milano, 2014, pp. 125- 126.

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autobiografie di papà con un figlio disabile. È chiaro che quando si ha a

che fare con gravi malformazioni fisiche e cerebrali educare alla regola

assume dei connotati paradossali.

Lo scrittore e pedagogista Igor Salomone sottolinea che:

c’è qualcosa che non quadra laggiù, dalle parti del problema autonomia. Ho

detto che sopporto quando mia figlia si rifiuta di fare ciò che le

permetterebbe di scegliere. […] Tu stai facendo qualcosa, e noi ti chiediamo

di fare una scelta, una qualsiasi: vuoi mangiare la pasta rossa o la pasta

verde? Vuoi giocare o fare il bagno? Peggio: vuoi continuare a fare quello

che stai facendo oppure fare questa cosa che ti propongo? In ogni caso

raccogli un’imposizione: quella di dover compiere una scelta, mentre eri lì

che stavi facendo i fatti tuoi. Il problema è che chiederti di scegliere, con il

piglio democratico e partecipativo che ogni manuale del perfetto genitore

consiglia a piene mani, significa impedirti di non scegliere. È questo il vero

paradosso. […] Dover guadagnare un pezzo di libertà rinunciandovi.227

Il libero arbitrio, per usare un «concetto filosofico e teologico secondo il

quale ogni persona è libera di fare le proprie scelte, tipicamente perseguite

tramite volontà, nel senso che la sua possibilità di scelta è liberamente

determinata»228, non funziona per Luna, come non funzione per Moreno o

per Tommaso, e per tutti/e i/le ragazzi/e che come loro sono costantemente

in bilico tra il paradosso esplicitato da Salomone e «immaginare l’autistico

come il prototipo della libertà assoluta»229. Ed è infatti la parola libertà che

si contrappone in maniera quasi, oseremo dire, viscerale, alla parola norma.

Sembrerebbero essere in antitesi, eppure, la condizione stessa dell’essere

disabile prevede di per sé l’attenersi ad una regola, ad una costrizione a cui

227 I. Salomone, Con occhi…, op. cit. pp. 45- 47. 228 http://it.wikipedia.org/wiki/Libero_arbitrio [ultima consultazione: 25/01/2015] 229 G. Nicoletti, Una notte ho sognato che parlavi, Mondadori, Milano, 2013, p. 109.

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non ci si può ribellare. Si legge nel vocabolario online della Treccani230 che

«nell’uso comune, la regola è la norma suggerita dall’esperienza o stabilita

per convenzione». Sicuramente l’esperienza dell’essere disabile obbliga a

un modo specifico di essere, ma nello stesso tempo libera da qualsiasi

condizionamento:

Tommy, e quelli come lui, sono liberi […] a loro non interessa la

dimensione sociale della libertà, sono profondamente e geneticamente spiriti

liberi; forse proprio per questo hanno difficoltà a convivere con noi,

condizionatamente liberi, o meglio, artificiali cultori della libertà. […]

Tommy è sempre oltre la linea gialla che ossessivamente cartelli e annunci

ci ricordano di non oltrepassare, pena la fine della vita. […] Noi siamo stati

educati a rispettare le linee gialle, e quando le oltrepassiamo, lo facciamo

con la consapevolezza di disprezzare delle regole basilari a cui siamo stati

imbullonati sin dal concepimento. […] Tommy è come un daltonico, per lui

la linea gialla non c’è, o meglio, è affogata nel grigio incolore della

banchina. Non c’è la linea gialla e quindi non c’è una zona di sicurezza, non

c’è una regola che salvaguardi.231

Se lo spazio vitale dei figli viene forzatamente invaso dai genitori,

questo spazio si restringe, si avviluppa su se stesso, diviene uno spazio ad

una sola dimensione, non soltanto perché viene fruito nella sua limitatezza

determinata dalla mancata reciprocità di cura tra figli e padre, ma

soprattutto perché viene espropriato dalla possibilità stessa di proiettarsi nel

futuro. L’educazione, che prevede anche l’aspetto normativo, è

essenzialmente un tempo che si dilata in uno spazio, e in più spazi che

costituiscono l’ambiente globale di vita della persona; nella dimensione

230 http://www.treccani.it/vocabolario/norma/ [ultima consultazione: 02/02/2015] 231 G. Nicoletti, Una notte ho sognato…, op.cit., pp. 109- 110.

95

della disabilità, a seconda ovviamente della gravità di quest’ultima,

vengono a mancare i presupposti per esercitare una piena autorità paterna.

Vi è cioè un problema nel «distanziamento educativo»232: la funzione

educativa con le persone disabili sembra non esserci. C’è una sorta di

«troppo vicino» che non finisce mai e che è sempre caratterizzato dalle

stesse carezze, spiegazioni, protezioni, ovvero delle modalità relazionali

che testimoniano un approccio educativo del non allontanamento233. Il

distanziamento, inoltre, non è facilitato dal conflitto adolescenziale che

solitamente conduce nel viaggio verso il mondo dei grandi. Con il figlio

disabile è difficile trovare il giusto distanziamento a motivo della mancata

autonomia. Uno degli impedimenti maggiori per l’evoluzione del figlio

disabile, infatti, è rappresentato dalla fissità, stereotipia e rigidità

comportamentale dei genitori nella cui mente non trovano posto le

prospettive emancipatorie e il cammino del bambino verso l’indipendenza.

Tale ragionamento prevede, ovviamente, la necessità di guardare al tipo di

disabilità del figlio, essendo consapevoli però che:

anche un bambino imperfetto cresce, può crescere, può rinforzare le

funzioni autonome dell’Io, può imparare a dominare le aree impellenti dei

bisogni trasformandola in capacità di desiderare, può creare un’aspettativa

rivolta al futuro e sorreggerla con una migliore autostima. E questo si

verificherà solo se i genitori saranno capaci di sostenere un rifornimento

affettivo costante e orientato verso l’approvazione dei progressi e

l’accettazione degli insuccessi, e non verso l’iperprotezione, la sostituzione

o la negazione.234

232 G. Elia, Questioni di pedagogia speciale, Pregedit, Bari, 2012. 233 Ivi, p. 89. 234 S. Godelli, Il bambino con handicap e la sua famiglia, Laterza, Bari, 2002.

96

È necessario dunque un cambiamento profondo nella prassi quotidiana

«che parta dalla convinzione che devono essere aperte a tutti le possibilità

di crescita e che ogni persona per svilupparsi deve essere innanzitutto

riconosciuta nella propria realtà, con le proprie caratteristiche, le proprie

abilità e anche i suoi limiti: allora ci sarà posto per tutti»235.

2.2.1. Il dopo di noi

La famiglia, come abbiamo più volte ribadito, è il primo ambiente in cui

il figlio/a disabile vive e in cui, parallelamente, manifesta i propri bisogni e

le proprie difficoltà, dunque, è anche il primo ambito in cui si attiva una

risposta all’eventuale problema.

È auspicabile, dunque ragionare, sul significato del termine “sostegno”

dal latino sustinere, tenere in alto, portare sopra di sé. In senso figurativo

potremmo interpretarlo come reggere, proteggere, mantenere. La parola ha

due accezioni significative: da un lato il portare aiuto e il sorreggere,

dall’altro si intreccia all’azione di contrastare e di resistere ad una

avversità. Accanto al vocabolo latino sustinere troviamo quello di projectus

che letteralmente indica l’azione del gettare avanti, di ciò che si ha

intenzione di fare in avvenire. Presuppone pertanto un’idea di futuro e la

motivazione a realizzare qualcosa236.

Negli ultimi anni l’approccio allo studio della famiglia del disabile sta

subendo delle modifiche: si sta abbandonando la logica che si concentra

maggiormente sulle difficoltà, per focalizzarsi invece sui punti di forza, le

competenze e le risorse. Scrive Pati:

235 M.G. Breda, E. Santanera, Handicap: oltre la legge quadro. Riflessioni e proposte, Utet, Torino, 1995, p. 209. 236 C. Gemma, La didattica speciale: il tratteggio per una delineazione, op. cit., pp 83- 93.

97

tra gli ambienti che partecipano alla e della vita dell’uomo, la famiglia

occupa senza alcun dubbio un posto privilegiato. La trama dei suoi legami,

governata da regole, sotto l’aspetto pedagogico si costruisce come archetipo

relazionale, suscettibile o d’incanalare e incrementare o di svilire e

pregiudicare le potenzialità individuali.237

Spesso, in alcune famiglie, le risorse non vengono attivate

spontaneamente: è necessario, talvolta, un intervento finalizzato al

potenziamento e all’uso delle risorse intrafamiliari quali

la conoscenza del problema, la capacità di affrontare razionalmente le

situazioni problematiche, le abilità di risoluzione di specifici problemi nel

rapporto con i figli, come quelli educativi, la fiducia nelle proprie capacità,

le relazioni che permettono di creare un clima di benessere psicologico tra i

vari membri della famiglia.238

Un ambiente familiare supportato e sostenuto dalla rete sociale «mira a

dimostrare che la famiglia con disabilità in molti casi non solo sopravvive

alla situazione continuando a funzionare, seppure a “scartamento ridotto”,

ma la fronteggia attivamente, sviluppando al proprio interno valori positivi,

risorse vitali e coagulando aiuti esterni»239.

Lavorare con la famiglia, con la madre e con il padre, renderà possibile

anche arginare sin da subito l’ansia e la preoccupazione che si installano

nella mente dei genitori relativamente al dopo di noi. Quello che accade

“dopo”, ossia il momento in cui il figlio rimane senza i genitori, si carica di

angoscia.

237 L. Pati, Progettare la vita. Itinerari di educazione al matrimonio e alla famiglia, La Scuola, Brescia, 2004, p. 227. 238 G. Elia, Questioni di pedagogia speciale, op. cit., p. 103. 239 M. Pavone, Progettualità familiare agli inizi difficili della vita, in M. Pavone (a cura di), Famiglia e progetto di vita. Crescere un figlio disabile dalla nascita alla vita adulta, Erickson, Trento, 2009, p. 28.

98

Con il miglioramento delle tecniche e cure mediche l’aspettativa di vita

delle persone disabili diviene sempre più lunga, e con essa però, coincide

l’avanzamento d’età dei loro genitori. La paura per il figlio, visto come

troppo fragile per affrontare autonomamente il futuro, finirebbe solamente

per incrementare un legame iperprotettivo che crea tensione e non produce

cambiamenti. Sarebbe grave pensare che la cura e la responsabilità verso

un figlio disabile sia una questione meramente privata: sarebbe preferibile

che fossero i genitori, insieme alla scuola, ai servizi, al territorio, a

preparare il dopo di loro.

In un contesto di complessità come quello sin ora descritto può assumere

un ruolo centrale, nella promozione della qualità di vita delle famiglie,

l’incontro con altre famiglie e/o nuclei che condividono analoghe difficoltà.

È interessante il paragone tra il ruolo delle associazioni a quello agito dalla

figura paterna:

come il padre favorisce il graduale superamento dell’egocentrismo infantile,

che spinge a concentrarsi esclusivamente sul proprio bisogno, ed insegna ad

aprire lo sguardo sul mondo, così l’associazionismo maturo non svolge un

mero compito di rivendicazione corporativa, ma funge da mediatore sia nei

confronti degli altri portatori di bisogno che nei confronti delle istituzioni.240

Grave sarebbe pensare che la cura e la responsabilità verso un disabile

sia una questione meramente privata. Sarebbe infatti auspicabile che il

tanto sofferto dopo di noi, fosse accompagnato con un programma del

durante noi, perché solamente in questo modo si avrebbe a disposizione un

tempo utile per verificare le scelte, calibrare gli interventi e intervenire

laddove si ritenga necessario.

240 C.M. Marchisio, Associazionismo famigliare e ruolo paterno, op.cit., p. 197.

99

Assai raramente si prende in considerazione il fatto che la persona disabile

oggi è un adolescente, domani diventerà un adulto con tutti i diritti e i

doveri che questo passaggio impone al singolo soggetto, ma con tutte le

responsabilità che una comunità sociale deve assumersi nei confronti delle

persone più deboli […] La famiglia a volte non è in grado di comprendere

l’importanza di comprendere l’importanza di un progetto educativo e sociale

da iniziare a scuola, durante gli anni dell’obbligo, e che deve con

lungimiranza proiettarsi in un futuro prossimo.241

Infatti, per quanto si possa pensare che i genitori seguano il proprio

figlio/a sino agli ultimi giorni della propria vita, è evidente che, prima o

poi, invecchieranno e il disabile sarà curato, inevitabilmente, da qualcun

altro.

Massimiliano Verga, sociologo del diritto e già citato in precedenza,

scrive nel suo primo romanzo autobiografico un commovente e

assolutamente incisivo paragrafo intitolato Ci vediamo alla prossima?, che

vorrei riportare per intero qui di seguito:

se morirai prima di me, soffrirò di meno. Non è un discorso da padre, lo so.

Un padre non dovrebbe nemmeno pensarle certe cose. Ma nel tuo caso è

così. Perché la ferita perderebbe un sangue più dolce, perché potrei soltanto

marcire nel mio dolore, senza però preoccuparmi del dopo di me. Se invece

morirò prima io, al pensiero del dopo si aggiungerà la mia paura per il tuo

dolore, che sarà quello di un figlio abbandonato senza capire perché. Non

trovo le parole per dirti che potrebbero succedere. E se anche le trovassi, tu

non riusciresti a capirle. Allora, me la gioco così, mettendo un po’ di panna

sulla torta della retorica. Se toccherà prima a te, un po’ comincerò a morire

anche io e può darsi che ci incontriamo presto. Se toccherà prima a me, se

241 L. d’Alonzo, Pedagogia Speciale per preparare alla vita, La Scuola, Brescia, 2006, p. 87.

100

credi che valga la pena, fai pure con comodo e tieni duro finché puoi. In

ogni caso, io ti aspetto. Non sei obbligato a venirmi a cercare. Ma se ti gira

di fare così, sarò contento di continuare a incazzarmi con te.242

E ancora:

c’è anche un dopo che prima o poi arriverà, fatalmente. Mi auguro il più

tardi possibile e, tutto sommato, spero che Moreno possa morire prima di

me. Ma non è escluso che sia io ad andarmene prima di lui. Ci sarà bisogno

di qualcuno che continui a dargli la pappa e a pulirgli il sedere. Più o meno,

è questa la mia ansia del dopo. Dico che non ci penso, ma è una bugia.243

Ancora una volta la dimensione del tempo è assolutamente prioritaria.

Così come la famiglia è un sistema di relazioni, anche il tempo in famiglia

e della famiglia è un tempo relazionale, quale sintesi dei tempi che i

genitori dedicano ai figli e di quelli che i figli passano con il padre e la

madre. Può essere utile, allora, pensare sin da quando i genitori sono ancora

in vita ad un progetto che veda i figli quanto più possibili indipendenti: la

famiglia non può essere lasciata sola, anzi, come caldeggia Andrea

Canevaro «l’educazione al distacco e all’autonomia e alla cura personale

dovrebbe cominciare già dall’adolescenza, attraverso periodi residenziali di

respiro per la famiglia e di training intensivo delle abilità del giovane alla

vita sociale e comunitaria»244.

Si va alla ricerca, dunque, di un tempo relazionale, che è anche un tempo

vissuto, e che rimane nella memoria e nei costumi profondi e sociali degli

individui. Negli adulti che sono gli eredi dei bambini che sono stati. Tant’è

242 M. Verga, Zigulì, Mondadori, Milano, 2012, p. 184. 243 Ivi, p. 93. 244 Cfr. A. Canevaro, D. Ianes, Diversabilità, Erickson, Trento, 2003, p. 136.

101

che in moltissimi approcci terapeutici, la spiegazione di molte condotte

recenti viene fatta risalire all’infanzia e si indaga in ordine a quei tempi, a

quegli spazi e a quelle esperienze lontane.

Il tempo relazionale però, non può essere solo un tempo qualità. Non può

darsi, infatti, una qualità specifica del tempo e dell’esperienza che lo

attraversa e lo coinvolge senza la ragionevole e necessaria quantità del

tempo occorrente: il “cosa” e il “quanto”. Il tempo relazionale in famiglia

esige pertanto sia un tempo qualità, sia un tempo quantità: la dimensione

della durata. Ed è proprio la dimensione della durata che, in rapporto al

figlio disabile, ha sicuramente un ruolo molto importante. Per troppi secoli

la grande tradizione culturale, particolarmente di ambito filosofico, ha

ragionato il tempo, in termini di mera soggettività. In opposizione ad una

letteratura naturalistica che lo misurava in secondi, minuti e ore. Come se si

trattasse di due tempi diversi, che toccava poi al singolo individuo ridurre o

riportare ad unità.

Pure in ordine al vissuto c’è da operare una preliminare chiarezza. È

vero che il vissuto è l’espressione di uno specifico ed autonomo

posizionamento del singolo in relazione alle esperienze che compie o a

quelle a cui assiste: una sorta di selezione mnestica ed affettiva o di

ricomposizione delle tante sfaccettature o dei molti reticolati di una storia

personale pure esperita o testimoniata. Ma è altrettanto inoppugnabile che

il vissuto non è il frutto di un’immaginazione individuale, è piuttosto

l’assunzione di un particolare punto di vista parimenti vero da mediare poi,

nel dialogo e nel confronto, con i vissuti di paritarie verità in possesso degli

altri singoli interessati.

Al fondo cioè di ogni interpretazione, e pertanto di ogni vissuto, anche in

merito al tempo, ci sono fatti, misure, concretezze, dati inequivocabilmente

oggettivi, riscontrabili, calcolabili e rapportabili tra loro come con tutti i

102

possibili elementi di realtà. Così come la famiglia è un sistema di relazioni,

anche il tempo in famiglia e della famiglia è un tempo relazionale, quale

sintesi dei tempi che i genitori dedicano ai figli e di quelli che i figli

passano con il padre e la madre245.

2.2.2. Insettopia: un futuro per i ragazzi/e disabili

La progettazione degli interventi viene ovviamente legata alle esigenze

delle persone, tenendo presente, oltre ai problemi contingenti e reali, le

potenzialità e le possibilità di auto- realizzazione dell’individuo disabile. I

servizi dovrebbero, pertanto, assicurare e garantire la presa in carico del

soggetto, definendo di volta in volta, i sostegni da attivare nelle diverse

tappe rivolte all’autonomia.

Occorre, dunque, mettere in atto azioni significative di cambiamento:

cosa può fare un padre per assicurare un futuro al figlio/a disabile? Una

delle tante, troppe, domande che assillano la mente di un genitore che sa di

non poter vivere per sempre accanto al figlio.

Se durante l’intero ciclo familiare l’acquisizione dell’indipendenza da

parte del/della figlio/a permette ai genitori la riconquista dei propri spazi,

nella famiglia con un/una figlio/a disabile si perde il possesso del tempo

«proprio nel momento in cui, una volta cresciuti, avrei pensato di poter

finalmente tornare ad esserne padrone»246.

È così che Gianluca Nicoletti, già autore del successo letterario “Una

notte ho sognato che parlavi” 247 , continua a trascinarci nella sua

vita/vicenda facendoci conoscere, ancora meglio Tommy, il suo ragazzone

245 B. Bettelheim, Un genitore quasi perfetto, tr. It. A. Bottini, Feltrinelli, Milano, 1990. 246 G. Nicoletti, Alla fine qualcosa ci inventeremo, op.cit., p. 42. 247 G.Nicoletti, Una notte ho sognato che parlavi, op.cit.

103

riccioluto. “Alla fine qualcosa ci inventeremo”248 è la nuova autobiografia

del giornalista-papà nella quale, tra realtà e utopia, sintetizza il dramma di

tutti i genitori di ragazzi/e autistici/ autistiche, ma in generale disabili: il

“dopo di noi”. Una domanda che percorre l’intera esistenza dei genitori e

che si fa sempre più angosciante e pressante relativamente al trascorrere del

tempo.

Gli incubi sul “dopo di noi” vengono alimentati dalle piccole cose:

io devo fare i conti con le esigenze di mio figlio anche dopo lo svezzamento

o l’età in cui non si possono lasciar soli. Io avrò sempre bisogno di qualcuno

che faccia da baby sitter di un omone che non può rimanere solo in casa la

sera.249

Da qui nasce l’esigenza del cosa fare e del cosà farà:

finché un giorno, nemmeno lontano, qualcuno noterà per il quartiere un

vecchietto che insegue malfermo un ragazzone spensierato, e non posso

pensare che sarò io. […] Il mio non è pessimismo, solo un’idea realistica di

un mio possibile futuro.250

E quando le giornate trascorrono alla ricerca di uno spazio dove il figlio

possa muoversi senza farsi male, senza fare male, senza “disturbare”

significa che bisogna muoversi in direzione di qualcosa.

L’intento di Nicoletti è far nascere la consapevolezza che l’autismo non

è un mondo di ragazzi silenziosi dalle qualità eccezionali, anzi, l’autismo è

un disturbo che richiede cura costante e infinita:

248 G. Nicoletti, Alla fine qualcosa ci inventeremo, op. cit. 249 Ivi, p. 47. 250 Ivi, p. 189.

104

e a volte è impietosamente necessario fare un punto di chiarezza, proprio

perché non si accenda all’istante la speranza in ogni altro genitore

d’autistico che il proprio ragazzo, magari incapace di dire “mamma”, possa

ambire all’inimmaginabile traguardo della laurea. […] Sarebbe altrettanto

grave del far credere che tutti gli autistici siano come il protagonista di Rain

Man, o come il prodigioso piccolo veggente matematico della serie

televisiva Touch.251

Tutto ciò che può rendere la vita più semplice e, se possibile, felice per

un ragazzo/a autistica risiede nella possibilità di costruire una piccola città

fatta su misura per lui/lei: la città ideale non esiste, Nicoletti però sta

cercando di immaginarla e di avviarne una costruzione. L'ha chiamata

“Insettopia”, la terra promessa degli insetti evocata in Zeta la formica252, ed

è il luogo dell’immaginario sognato da chiunque si prenda cura di ragazzi/e

autistici. È un universo contenuto in altri universi infinitamente più grandi

e quindi incommensurabili per delle povere formichine.

Insettopia rivendica la possibilità di far vivere dignitosamente i/le ragazzi/e

autistici/autistiche, soprattutto quando l’entrare nell’età adulta trasforma

quei ragazzi silenziosi in fantasmi, esseri invisibili e disperati.253

Gianluca Nicoletti, avvalendosi del sostegno di un pool di specialisti in

varie discipline, sta studiando il “format di insettopia”. Qualcosa di molto

concreto:

251 Ivi, p. 29. 252 Z la formica è un film d'animazione del 1998, diretto da Eric Darnell e Tim Johnson. È il primo film in CGI della DreamWorks. 253 http://insettopia.it [ultima consultazione: 05/03/2015]

105

non un modello di segregazione. […] Non è davvero facile immaginare

soluzioni sensate per i propri figli, quando si è sopraffatti dalla difficile

gestione del quotidiano, fatta di contrattempi, di incomprensioni, di

interlocutori sempre troppo distratti per convincerci di avere veramente

intenzione di adoperarsi per assicurare anche solo la dose minima di felicità

possibile ai nostri ragazzi.254

Sta emergendo una novità e una soluzione davvero reale: un modello che

possa consentire a

piccoli gruppi di sette otto famiglie al massimo, con similari problemi di

gestione di un figlio autistico (stessa fascia d’ età simile livello di disabilità)

di organizzarsi come se fossero a tutti gli effetti una piccola azienda,

mettendo in comune risorse pubbliche e personali, educatori, eventuali

seconde case disponibili per costruire un progetto di vita attiva e felice per i

propri figli.255

Come fa notare Donati, quella in cui ci si trova oggi è una rivoluzione

antropologica dell’idea di lavoro, che ne ridefinisce il significato e la sua

intenzionalità e che non può fare a meno di costituirsi non solo come

fattore economico, ma anche e soprattutto come fatto sociale256. Quando si

parla di formazione professionale ci si riferisce, dunque, ad uno dei pilastri

fondamentali per l’integrazione sociale delle persone disabili nel tessuto

della comunità. Certamente il presupposto da cui ripartire è la rivalutazione

del fattore relazionale, quale condizione necessaria alla autorealizzazione

254 G. Nicoletti, Alla fine qualcosa…, op cit., p. 94. 255 http://insettopia.it [ultima consultazione: 05/03/2015] 256 Cfr. P. Donati, Il lavoro che emerge. Prospettive del lavoro come relazione sociale in un’economia post-moderna, Bollati Boringhieri, Torino, 2001, pp. 20-27.

106

della persona e alla riconfigurazione del lavoro come attività propriamente

umana257.

Da dove cominciare allora un percorso significativo che apporti sviluppo

nei soggetti disabili? Sono molte le considerazioni che potremmo fare

intorno all’iniziativa sopra menzionata, e anche in circolarità virtuosa con il

punto da cui siamo partiti, ci consentiamo una constatazione: restiamo

colpiti nel rilevare come, ormai entrati da quasi tre lustri negli anni

Duemila, siano ancora le utopie e i progetti utopici ad aprire varchi ai

bisogni reali (quelli sì) delle persone. A dimostrazione che, come afferma

Filippo Trasatti, l’anelito utopico resta un motore ineludibile della

progettualità pedagogica 258 . Forse, l’educazione creativa 259 può

rappresentare un valido punto di partenza per inserire i soggetti disabili

all’interno del mondo lavorativo, poiché mira al riconoscimento e alla

promozione dell’autenticità del soggetto attraverso l’esaltazione e la

valorizzazione delle emozioni. I ragazzi/e disabili imparerebbero a far

propri stili relazionali positivi e produttivi con la possibilità di trasferire la

padronanza anche in contesti esterni, quali quelli lavorativi.

2.3. Il padre e il figlio disabile nelle famiglie separate

Oggi tutto, o molto, è sicuramente in crisi. La crisi delle persone di

ogni genere, età e fascia sociale. La crisi dei bambini di fronte ai loro,

troppi, genitori che si separano e divorziano. Che vengono sballottati da

molte mani (talora insicure e contraddittorie), in diverse case, da adulti

257 Cfr. P. Donati, Il lavoro e la persona umana, Vicariato di Roma, Roma, 2005. 258 F. Trasatti, Lessico minimo di pedagogia libertaria, Eleuthera, Milano, 2004. Si vedano anche: F. Bocci, Letteratura, cinema e pedagogia. Orientamenti narrativi per insegnanti curricolari e di sostegno, Monolite, Roma, 2005; F. Bocci, Paul Robin. Un pedagogista libertario a cento anni dalla morte, in «Ricerche Pedagogiche», 183, 2012, pp. 23-29. 259 Cfr. B. Rossi, Educare alla creatività. Formazione, innovazione e lavoro, Laterza, Roma-Bari, 2009, p. 79.

107

poco adulti in conflitto tra loro, che li usano, magari inconsapevolmente,

quale merce di scambio, per continuare le proprie sciocche guerre di

posizionamento, facendo loro del male, colpevolizzandoli o

ignorandoli260.

Alla pedagogia e all’educazione, in reciprocità sinergica, è affidato il

compito, precipuo ed essenziale, di portarci fuori dalla crisi,

riconoscendo dunque la necessità di un cambiamento necessario e

ineludibile. Intendiamo quindi una crisi quale katastrofè261 positiva che

ci potrebbe condurre verso una società, diversa e migliore, aprendoci

pure a livelli di maggiore vivibilità umana e di più ampio rispetto

reciproco.

Ci riferiamo ad una famiglia quale tessuto sociale non più unitario, ma

frantumato e diviso, che però ha tenuto nel tempo, nonostante le sue

difficoltà e criticità, nelle differenti fasi storiche, trasformandosi da

patriarcale a nucleare, da autoritaria a progressivamente autorevole, se

non ancora autenticamente democratica, da numerosa, in termini

procreativi, al cosiddetto “figlio unico”: ecco giungere, oggi, alla

“galassia”, disarticolata e disomogenea, con tratti non lievi di conflitto e

di “opposizione” al proprio interno, delle “famiglie” attualmente

esistenti, e al caleidoscopio, talora poco luminoso e brillante, delle

odierne relazioni educative e familiari, ai molteplici “modelli storici”

vigenti in proposito, che le “sottendono” e le giustificano, alla sua crisi.

Che altro non è che la crisi evolutiva di una società in fortissima e rapida

trasformazione, sullo sfondo della globalizzazione e della società-

260 F. Dolto, Come allevare un bambino felice e farne un adulto maturo, Mondadori, Milano, 1992. 261 Cfr. R. Thom, M. Berry, R. Dodson, J. Passet, G. Petitot, G. Giorello, M. Caglioti, J. Mistri, La teoria delle catastrofi, tr. It. FrancoAngeli, Milano, 1985.

108

mondo di Edgar Morin262, dove passano e si contaminano, con una

velocità impressionante valori e disvalori. Ma, dopo la sua “pseudo-

morte”, non sappiamo bene quanto temuta, «non potrà esserci altro che

la famiglia», argomenta la pedagogista padovana263Carla Xodo. Il venire

meno della famiglia comporta, difatti, l’eclissi dell’educazione, di

un’educazione che riguarda sostanzialmente “l’aver cura”.

Nel contempo, e con sempre maggiore forza e insistenza, vi è il

desiderio del padre: non già del padre di ieri, talora autoritario, distante,

rigidamente prescrittivo. Ma di un padre nuovo, presente, dialogico,

tenero. Perché la famiglia non sia più declinata soltanto al femminile, ma

si avvicini al padre che “apre il figlio al mondo”, di contro ad una madre

che freudianamente sembra invece trattenerlo all’interno delle pareti

domestiche264.

Riferendoci alle ricerche ISTAT condotte nel biennio del 2006/2007 si

può osservare come, già da allora, il tempo che i padri trascorrevano

insieme ai figli fosse in aumento. Saremmo tentati di affermare, quindi,

che il padre non solo non è assente, ma anzi, non è mai stato così

presente. Innanzitutto quando si parla di assenza della funzione paterna,

è opportuno precisare che non si parla dei padri in carne ed ossa, ma

appunto di una funzione che può essere presente tanto nel padre, quanto

nella madre. In molte famiglie dunque il padre è molto più presente di un

tempo, anche grazie alla maggiore disponibilità di tempo libero, e le

funzioni materna e paterna sono diventate cosi pressoché

intercambiabili. I due genitori si incaricano di svolgere ambedue compiti

262 E. Morin, Il soggetto ecologico di Edgar Morin. Verso una società-mondo, Erickson, Trento, 2009. 263 C. Xodo, Dopo la famiglia, la famiglia…, op. cit. 264 M. Stramaglia, Dentro la famiglia, Armando, Roma, 2009.

109

di accudimento materiale, e sono entrambi impegnati nel sostegno

affettivo265.

Allo stesso tempo, però, cresce il numero dei divorzi. La separazione

e il divorzio non sono eventi che si realizzano in tempi brevi. Essi

comportano un vero e proprio percorso, una successione di fasi, che

permetta alle persone implicate di elaborare interiormente quanto

accaduto, di ristrutturare le proprie relazioni e di raggiungere una nuova

organizzazione familiare. Il divorzio genitoriale riguarda l’assunzione di

responsabilità nei confronti dei figli. Il divorzio mette fine al

matrimonio, ma non alla genitura. La Legge permette di dividersi dal

coniuge, ma non dai propri figli. E in taluni contesti diviene faticoso

suddividersi precisi compiti nell’accudimento dei figli. In circostanze di

“fallimento” matrimoniale, quindi, la relazione genitoriale potrebbe

precipitare nello scoraggiamento e spesso sono i padri che non riescono

ad attivare risorse sufficienti di fronte ad una genitorialità “delusa”

rispetto agli standard di elevate aspettative. Lo dimostrano chiaramente i

frequenti allontanamenti paterni successivi alla nascita di un figlio con

diagnosi di disabilità.

Si è molto dibattuto sulla questione della paternità dopo il divorzio, a

ragione del fatto che la separazione, almeno sino a pochi decenni fa, non

riguardava soltanto la rottura con la moglie, ma anche con i figli, che

venivano a perdere ogni contatto affettivo e sociale con il padre.

È interessante studiare da cosa viene provocato lo stress familiare e in

che modo si attui il suo eventuale superamento, spiega Eugenia

Scabini266, e ancora, quanto le abilità di coping, inteso come stile attivo e

265 J. Delumeau, D. Roche, Histoire des pères et de la paternité, Larousse, Parigi, 1990. 266 E. Scabini, Psicologia sociale della famiglia. Sviluppo dei legami e trasformazioni sociali, Bollati Boringhieri, Torino, 1995.

110

spontaneo di affrontare ogni aspetto della vita familiare durante le fasi

del ciclo di vita, vengano esercitate da entrambi i genitori.

Come abbiamo più volte ribadito in tale sede, la nascita di un bambino

con un ritardo nello sviluppo o con qualche altro problema è un trauma

che ferma il corso del tempo e, quando il tempo si ferma, si blocca anche

la capacità di andare avanti con l’immaginazione, oltre il presente.

Improvvisamente il futuro diventa imprevedibile, emotivamente

inimmaginabile. Viene cancellato anche il passato, e con esso tutte le

speranze e le fantasie della gravidanza. I genitori diventano così

prigionieri di un presente che non ha mai fine. Si sono intensificati, a

partire dagli anni ’70 in poi, gli studi e le ricerche per rilevare le

conseguenze che la presenza di un figlio disabile può determinare a

livello di vissuto dei genitori e di dinamiche relazionali che intercorrono

tra i membri della famiglia e che si ripercuotono sulle modalità

educative.

Se è scontato affermare che la famiglia, quali che sia la sua natura e la

sua struttura, ricopre un ruolo importantissimo nella maturazione della

persona nel corso del suo sviluppo, quando è presente un figlio con

handicap essere genitori comporta una responsabilità complessa,

impegnativa e particolarmente onerosa.

La prima ricerca che ha indagato la reazione psicologica ed emotiva

dei padri con un figlio disabile è svolta da Santo di Nuovo e Serafino

Buono267 e ha riguardato, per l’appunto, i condizionamenti determinati

dal figlio con ritardo mentale nella struttura e nelle dinamiche familiari.

Le maggiori problematiche emerse riguardavano i ruoli parentali, la

relazione di coppia, i sentimenti dei genitori e quindi una situazione di

267 S. Di Nuovo, S. Buono (a cura di), Famiglie con figli disabili. Valori, crisi evolutiva, strategie di intervento, Città aperta Edizioni, Enna, 2004.

111

più complessa gestione. Relativamente ai ruoli parentali si deduce

chiaramente che le madri hanno un particolare protagonismo nella cura

del figlio/a disabile.

Secondo l’ipotesi di Olson268, poi, quanto più un individuo, una

coppia, una famiglia, un gruppo di lavoro privilegiano, nei momenti di

stress, gli aspetti di vicinanza emotiva e di flessibilità circa le regole e le

strutture di potere e sviluppano una buona comunicazione, tanto più

l’evento o la situazione stressante hanno la possibilità di essere superati.

Un maggior coinvolgimento del padre, almeno come coscienza di

ruolo, se non certamente come impegno effettivo, è collegato al vivere in

città e/o a un buon livello culturale. Santo di Nuovo e Serafino Buono269

hanno indagato le trasformazioni che avvengono nella vita di coppia

dopo la nascita di un figlio/a con ritardo mentale e si domandano se il

divorzio potrebbe essere consequenziale alla nascita del figlio disabile.

La via di fuga più seguita, soprattutto dai padri, consisterebbe nel farsi

assorbire sempre di più dal lavoro extra familiare. Altro metodo di

allontanamento dalla situazione dolorosa è quello di trasferire su altri

(servizi, operatori, istituzioni, società) le colpe e il dovere di dare

risposte adeguate. O ancora, il sentimento emerso è la vergogna.

Dalla ricerca, condotta attraverso un colloquio con le famiglie, emerge

una netta suddivisione delle figure parentali: infatti, per il 75% erano

mamme, per il 17% vi erano entrambi genitori, per il 7% padri e infine

per l’1% altri, (fratelli maggiori) e come principali motivazioni che

andavano a giustificare un allontanamento paterno, spiccavano:

• l’impegno lavorativo del padre, vissuto come realtà o come fuga,

da non poter essere derogato neanche in momenti importanti come

268 P. Gambini, Psicologia della famiglia, op. cit., p. 245. 269 S. Di Nuovo, S. Buono, op. cit.

112

quello della valutazione delle difficoltà e delle potenzialità del

proprio figlio;

• l’idea che dei figli si debba interessare la madre in modo quasi

esclusivo;

• un eventuale atteggiamento di rifiuto, che si manifesta più nei

padri che nelle madri, a causa della delusione provata perché il

figlio non corrisponde alle proprie aspettative.

Norberto Galli nel suo volume Pedagogia della famiglia ed

educazione degli adulti definisce un ruolo genitoriale presente

fisicamente, ma assente emotivamente:

Molti, anche se fisicamente presenti in famiglia, non sono vicini ai figli

sotto i profili affettivo ed empatico. Non condividono le loro gioie e pene,

non s’interessano dei loro problemi, trascurano le loro attività, non

partecipano alla loro vita né scolastica né extrascolastica. Sono convinti che

occorra proteggere la loro salute fisica, ignari come sono che c’è una salute

psichica, sociale, spirituale da tutelare in pari misura per attingere il pieno

benessere.270

Ed è la stessa questione a cui fa riferimento Vanna Iori271 quando

scrive del “prendersi cura incurante”, ovvero quando i genitori cucinano

per i figli, li vestono, li aiutano a fare i compiti, ma sembrano compiere i

gesti meccanicamente senza accompagnarli da un sorriso, da una parola,

da un contatto corporeo.

In questi casi la madre sembrerebbe avere, ed esercitare, una posizione

di forza nei confronti della figura paterna, la quale, a volte viene

270 N. Galli, Pedagogia della famiglia ed educazione degli adulti, Vita e Pensiero, Milano, 2000, p. 197. 271 V. Iori, Separazioni…, op. cit.

113

addirittura screditata e denigrata proprio per evitare ogni contatto tra

padre e figlio/a. A causa di questi comportamenti sono nate molte

associazioni di padri separati che rivendicano il diritto di esercitare la

paternità dopo la rottura dell’unione di coppia.

Elio Cirimbelli, direttore dell’ ASDI (Associazione separati e

divorziati), centro istituito a Bolzano nel 1986, spiega che:

l’importanza del padre nello sviluppo del bambino va ricercata nella sua

capacità di mantenere sempre il suo ruolo di coniuge per evitare l’instaurarsi

di un rapporto privilegiato tra madre e figlio. Nel contempo una madre

orientata verso il marito può permettere al figlio di liberarsi di lei, cioè ex-

sistere, essere fuori. In maniera speculare il padre è una figura la cui

genitorialità può essere influenzata dalla caratteristiche della moglie e dalla

qualità della relazione che ha con lei.272

Il contributo paterno è un elemento costruttivo essenziale per

l’educazione e la crescita sana di un figlio. La difficoltà maggiore che

riscontrano i padri di oggi risiede proprio nel ridisegnare una figura

educativa opposta e lontana dai vecchi modelli patriarcali, ma che non ha

ancora acquisito del tutto i nuovi tratti caratterizzati, in primis, dalla

dimensione della tenerezza.

In conclusione, si può affermare che si delinea una prima importante

differenza nella rappresentazione dei padri, rispetto alle rappresentazioni

tradizionali che si sono appiccicate loro addosso (l’autorità, la distanza,

la superiorità). I padri di oggi si sono liberati dalle costrizioni e dalle

aspettative imposte loro. La novità sta, perlopiù, nell’espressione della

paternità: i nuovi padri osano manifestare le loro emozioni, ma anche, e

272 C. Zavattiero, Poveri padri, op. cit.

114

soprattutto, viverle con i figli, il che conferisce loro una nuova

immagine, quella di padri affettivi.

115

CAPITOLO III

I padri nel cinema e in letteratura

La cinematografia, insieme alla letteratura e alle autobiografie, ha

proposto nel tempo numerose figure paterne, più o meno positive, alle

quali è possibile attingere per ricostruire percorsi di riflessione e

discussione. Un filone interessante di ricerche sulla figura paterna

permette di individuare il cambiamento e l’evoluzione positiva che può

apportare il comportamento di un padre per favorire la crescita sana del

figlio/a.

Mario Dal Bello nel suo testo I ricercati. Padri e figli nel cinema

italiano contemporaneo273 si interroga su chi siano davvero i ricercati: i

padri o i figli? Nel mondo occidentale, spiega sempre l’autore, la figura

paterna sembrerebbe aver perso il proprio ruolo e identità, destinando la

società prima, e la famiglia poi, a vivere un senso di orfanezza.

La figura del padre, oggetto di contestazione dagli anni Sessanta e poi di

rimozione, languisce, è vanificata. Oppure, cerca a fatica di ritrovare il

proprio ruolo e di imparare la propria difficile arte274.

In Italia e, ancor prima, in America, si affronta l’indagine sulla figura

paterna attraverso la cinematografia. Attraverso i film, difatti, è possibile

studiare le rappresentazioni della paternità in maniera particolarmente

profonda proprio perché ci forniscono uno spaccato di vita che

rispecchia in maniera fedele i tempi, le abitudini e gli stili paterni.

273 M. Dal Bello, I ricercati. Padri e figli nel cinema italiano contemporaneo, Effatà Editrice, Torino, 2011. 274 Ivi, p. 11.

116

Per diversi pensatori e pedagogisti avvalersi del cinelinguaggio in

ambito educativo, formativo e familiare consente di approfondire gli

aspetti salienti che caratterizzano le dimensioni psicologiche e

pedagogiche proprie dell’esperienza cinematografica. È vero,

effettivamente, che film, cortometraggi, cartoni animati e quant’altro si

possa osservare da spettatore esterno costituiscono un medium

interessante in ambito pedagogico. Si attivano, difatti, nella visione del

film, due meccanismi psicologici fondamentali:

• Il processo di identificazione, attraverso il quale ci si appropria

degli stati d’animo altrui e li si vive come propri;

• il processo di proiezione, in virtù del quale attribuiamo ad altri

sentimenti, impulsi e stati emotivi che sono soltanto nostri.

In effetti il cinelinguaggio è in grado di suscitare nello spettatore

quella modificazione della condizione psichica riscontrabile nelle

persone che si trovano in situazioni di apprendimento. Secondo

Dieuzeide, si tratta di un orientamento aspettante, che genera interesse e

incrementa lo stato di allerta. Per lo spettatore- giovane e adulto-

l’intensità emotiva suscitata dalla partecipazione alla visione del film si

configura, dunque, come un evento significativo e motivante,

pedagogicamente utilizzabile in campo educativo. Questa posizione è

condivisa da Lumbelli, la quale, assumendo la prospettiva di Kracauer,

sottolinea le caratteristiche tipiche del cinelinguaggio che ne

determinano la connotazione psicopedagogica: «il mezzo

cinematografico può favorire una ristrutturazione percettiva della realtà

quotidiana, smembrando le schematizzazioni concettuali attraverso le

quali essa viene banalizzata e ripetitivizzata, e così facendo acquistare

caratteristiche figurali di primo piano ad aspetti che si è abituati a lasciar

passare inosservati: soprattutto operando l’ingrandimento del “piccolo”

117

con primissimi piani o riuscendo a comprendere il “grande” in tutte le

sue angolazioni, non solo con i campi lunghissimi, ma anche e

soprattutto contrapponendo campi lunghi e campi ravvicinati o

sottolineando “aspetti non familiari contenuti nel familiare” mediante

l’uso di angolazioni insolite”. In ultima analisi, si può rilevare come il

cinelinguaggio attivi negli spettatori una modalità piuttosto interessante

di incontrare e di elaborare le informazioni. Seguendo un’intuizione di

Maragliano 275 , tale fenomeno è rappresentabile in questi termini:

inizialmente le persone privilegiano una via corporale per accedere ai

saperi; successivamente a questa prima fase, in cui prevale la

sospensione del giudizio, esse lasciano aperto uno spazio sempre

maggiore a una seconda via d’analisi definita dall’autore cerebrale.

1. Il padre nel cinema

Il cinema occidentale presenta una lunga serie di opere significative in

cui il tema della ricerca paterna viene affrontata ed analizzata. Come si

spiegava nell’introduzione, non si può prescindere dalla cinematografia

americana per diversi motivi. Primo fra tutti per quel che riguarda

l’influenza di pensiero, di comportamento, di ideologia, e non da meno, la

quantità filmica che la produzione americana ha riversato in Europa. È poi

scontato affermare che, su diversi piani e livelli, l’analisi della figura del

padre in America risulta sicuramente diversa dalla figura paterna a cui

siamo stati, e siamo, abituati in Occidente.

Come scrive Fabio Bocci «al pari della letteratura, anche il

cinelinguaggio costituisce un generatore dinamico di conoscenza. Si tratta

di un mediatore narrativo che, in una prospettiva interpretativa dei

275 R. Maragliano, Manuale di didattica multimediale, Laterza, Bari, 1994.

118

fenomeni esistenziali definita da Lurija Scienza Romantica (Rondanini e

Longhi, 2003), favorisce l’attivazione di uno sguardo sottile»276.

Scopo della presente capitolo è quello di offrire una visione d’insieme

dei prodotti filmici che hanno offerto rappresentazioni dell’immagine

paterna nel rapporto con il figlio. Inoltre, sulla base di una ipotesi in merito

alle ragioni che potrebbero aver determinato lo sviluppo della filmografia

sul padre, è presentata una breve analisi dei repertori identificati con

l’intento di porre in rilievo alcuni aspetti apparsi particolarmente

significativi.

Le fonti utilizzate per il reperimento dei dati sono:

• IMDB Internet Movie Data-Base (www.imdb.com) il più noto e

completo motore di ricerca sul cinema.

• My Movies (www.mymovies.it/database/), cineteca on-line con

informazioni sui film dal 1895 ad oggi.

• L’archivio dei film della Mediateca Ledha, specializzata in materiale

filmico sulle disabilità (www.informahandicap.it/mediateca);

• Alcune Video-guide specializzate (Rifilato, 1998), Mereghetti

(edizioni dal 2000 al 2006), Farinotti (2007).

• Altre fonti (schede di film, sinossi, analisi critiche, ecc…)

individuate nella rete per mezzo di Google.

Le parole chiave utilizzate per la ricerca dei prodotti filmici nei motori di

ricerca specializzati sono: father, son, dad, child (per la rilevazione in siti o

portali italiani si è utilizzata la corrispettiva traduzione oppure la parola

chiave “padre e figlio”).

276 F. Bocci, Cinelinguaggio, letteratura e autismo a scuola. Proposte di progetti educativi e didattico-speciali, in A.M. Favorini, F. Bocci, Autismo, scuola, famiglia, FrancoAngeli, Milano, 2008, p. 125.

119

Per quel che concerne l’organizzazione e la sistematizzazione dei dati si

è fatto riferimento ad un sistema già utilizzato da Fabio Bocci, (2005,

2006a, 2008) che comprende le voci: anno; titolo; regista.

L’industria televisiva e cinematografica ha trattato la figura del padre da

vari punti di vista e attraverso prodotti diversi.

Una prima differenziazione utile per comprendere al meglio le modifiche

avvenute nella rappresentazione paterna è la divisione tra cartoni animati

per bambini, trasmessi in televisione, e film per adulti e famiglie nati come

prodotti cinematografici.

Analizzando alcuni cartoons e serie televisive degli ultimi trenta anni, i

ricercatori Coggi e Ricchiardi, hanno elaborato una categorizzazione delle

figure paterne rappresentate. Principalmente la figura del padre è assente, i

bambini sono quasi sempre orfani o comunque soli, altre volte la funzione

del padre viene svolta da altri soggetti (padri sostitutivi), oppure è poco

presente, in altri casi è presente ma poco affidabile (padri pasticcioni), o del

tutto negativi. Infine esiste anche la classificazione di padri positivi, anche

se l’identificazione è stata difficile, in quanto soprattutto nei cartoons, i

bambini non hanno genitori affidabili e presenti proprio per permettere alla

storia di evolversi in modo avventuroso e senza troppi limiti che la

presenza adulta imporrebbe277.

Tra i tanti esempi di cartoons e serie televisive che identificano le varie

tipologie di padre278 troviamo:

! per la categoria “padri assenti”:

• Pippicalzelunghe (1970), ragazzina che vive da sola in una grande casa

senza nessuna figura adulta di riferimento e priva di preoccupazioni.

• Dolce Candy (1979), orfana di entrambi i genitori e affidata ad un

277 C. Coggi, R.Ricchiardi, La figura paterna a scuola, op.cit., p.108. 278 Per la regia si veda la bibliografia.

120

orfanotrofio; verrà adottata da una famiglia che non si occuperà di lei e la

lascerà in balia di sé stessa, fino a quando, grazie ad un misterioso mentore

Candy riuscirà a riprendere in mano la sua vita e a sviluppare un proprio

equilibrio.

• Occhi di gatto (1986), è la storia di tre sorelle rimaste orfane che

conducono una doppia vita, bariste di giorno e ladre di notte. Rubano i

quadri del padre morto cercando così di ricostruire la famiglia distrutta.

Attraverso l’analisi di questi cartoons emerge che l’assenza del padre

non preclude ai protagonisti la possibilità di costruirsi una vita e

raggiungere i propri obiettivi, anche se questo comporta maggiori

difficoltà.

! Per la categoria “padri sostitutivi” troviamo:

• Hello Spank (1982), che racconta di Aika una ragazza rimasta senza

padre che si trasferisce con il suo cagnolino Spank dallo zio, che assumerà

il ruolo paterno.

• Mila e Shiro due cuori nella pallavolo (1984), narra le vicende di Mila,

abbandonata dalla madre e data in custodia al padre che, però, non si

cura di lei a causa del suo lavoro. Mila cerca la figura paterna e normativa

nel suo allenatore di pallavolo, con cui riuscirà progressivamente ad

instaurare un rapporto di stima e di fiducia.

• Holly e Benji (1981), è incentrato sul mondo del calcio. Anche Holly

come Mila non può avere una buona relazione con il padre, in quanto

assente spesso per lavoro, così lo sostituirà con la figura dell’allenatore,

che attraverso le regole dello sport, gli insegnerà le regole della vita.

• Sailor Moon (1992) racconta la storia di un gruppo di ragazze dove la

figura paterna c’è, ma è poco presente o coreografica così come per le

attualissime Winks dove il padre è solo una figura di sfondo. I protagonisti

di questi cartoons cercano la figura paterna che non hanno in famiglia

121

all’esterno, lanciando il monito agli adulti di non trascurare i rapporti con i

propri figli, in quanto un bambino per crescere ha bisogno di adulti di

riferimento e se non li trova in famiglia li cercherà all’esterno.

• Mary Poppins (1964). Nel film una coppia di genitori super occupati

assume una governante per prendersi cura dei bambini. Il padre, in un

primo momento, si mostra rigido nell’imporre norme di buona condotta ai

figli e risulta poco coinvolto nella loro vita quotidiana. Appare, invece,

alquanto preso dagli impegni di lavoro. Impiegato alla banca, pensa di

coinvolgere i figli nelle logiche economiche, facendo aprire loro un conto

per i risparmi. I bambini, però, non si lasciano trascinare dalle ragioni del

capitalismo e a queste contrappongono i valori della cura nei confronti

degli animali e dei bisognosi, principi condivisi e stimolati dalla

governante. Il rifiuto dei bambini di aprire il conto in banca innesca a

catena comportamenti di difesa nei risparmiatori e costa il posto di lavoro

al padre. Il trauma della perdita dell’occupazione e dello status che essa

garantiva, porta l’adulto a ripensare la vita secondo una prospettiva diversa

e a recuperare la relazione con la moglie e con i figli: diventa capace di

dedicare del tempo ai bambini e di divertirsi con loro.

• Tutti insieme appassionatamente (1965), una figura eccezionale è la

novizia Maria che riesce a cambiare lo stile educativo del comandante

austriaco Georg Von Trapp. Quest’ultimo, che utilizzava una disciplina

autenticamente militare nella gestione dei suoi sette figli, assume

progressivamente una forma di relazione con i ragazzi connotata da

maggiore umanità e affetto. La scoperta della paternità avviene anche

grazie alle vicissitudini , alle sofferenze e al timore di perdere la vita

durante la fuga dai nazisti. Nelle difficoltà e nei pericoli il padre si trova

a dover proteggere i figli e ad abbandonare il suo stile militare di

educazione degli stessi e le abitudini consolidate nel tempo.

122

• Una moglie per papà (1994). Grazie ad una governante eccezionale,

Corrina, che il padre impara a comprendere i sentimenti e le difficoltà

della figlia, Molly, dopo la scomparsa improvvisa della moglie. La

bambina, diventata muta dopo la morte della mamma, riconquista la

parola solo quando sente che le persone che le stanno accanto accettano i

suoi ritmi di elaborazione del lutto.

! Alla categoria “padri intrusivi o negativi” appartengono;

• Lady Oscar (1979) ambientato nella Francia del ‘700, narra le vicende

di Oscar, allevata dal padre come se fosse un uomo e che proprio per

questo motivo sarà condannata ad una lotta interiore tra la sua naturale

parte femminile e l’imposizione paterna del comportamento maschile.

• I Simpson (1986), racconta le vicende di una famiglia americana dove

il padre Homer, incarna tutti i difetti possibili di uomo e di padre.

! Per la categoria "padri pasticcioni” troviamo:

• I Flinstones (1960) dove vengono descritte due figure di padri, Fred e

Barney, poco affidabili e decisamente pasticcioni.

• Kiss me Licia (1984) racconta di una ragazzina, Licia, orfana di madre

che vive e lavora con il padre, Marrabbio, confusionario, goffo e

pasticcione, ma sinceramente legato alla figlia.

• L’asilo dei papà, con Eddie Murphy (2003). I due protagonisti, Charlie

e Phil, sono padri che hanno perso il lavoro. Non trovandone uno di

rimpiazzo, decidono di aprire a casa di uno dei due una specie di asilo,

dove si improvvisano baby-sitter. Inizialmente l’esperimento risulta

disastroso, in quanto a dominare sono i bambini che si divertono molto

in condizioni, però, di scarsa sicurezza. Progressivamente, con

l’esperienza, i papà riusciranno a trasformarsi in educatori normativi e

competenti. Questi genitori non solo non riescono ad imporsi sui figli,

ma spesso, necessitano del loro aiuto pur mantenendo saldo l’affetto nei

123

loro confronti.

! Infine alla categoria “padri presenti” appartengono:

• Barbapapà (1978) illustra la storia di una famiglia in cui il padre è

protagonista attivo della cura dei bambini e della protezione della casa e

della famiglia. Come già accennato le figure paterne positive nei cartoons

non sono molte a differenza delle serie televisive dove possiamo trovare:

Beverly Hills 90210, La casa nella prateria e Settimo cielo che narrano le

vicende di famiglie in cui il padre è presente, attivo nella educazione dei

figli e un buon compagno per la moglie.

Un esempio della condizione attuale di molti padri separati o divorziati, ma

desiderosi di provvedere ai figli, è ben rappresentato dal film Un giorno per

caso (1996). Jack è divorziato e si occupa in maniera occasionale della sua

bambina. In una giornata eccezionale, un disguido lo porta a doversene fare

carico senza il supporto della scuola, pur dovendo fronteggiare anche gli

impegni lavorativi. Proprio in questo frangente, però, emerge il grande

affetto e l’attenzione che porterò questo padre, maturato dall’esperienza, a

progettare una maggiore permanenza della bambina presso di lui.

• Ne La vita è bella di Roberto Benigni (1997), è descritta la vicenda di un

padre con il proprio figlio durante la seconda guerra mondiale. Guido, sua

moglie Dora e il figlio Giosuè vengono rinchiusi in un campo nazista. Il

padre riesce a tutelare il figlio dagli orrori del lager, utilizzando la fantasia

e creando intorno a lui un clima ludico. Racconta, infatti, al bambino che si

trovano in un lager per partecipare ad un gioco a premi, dove chi ottiene

più punti vince un carro armato. In questo modo riesce a proteggere il figlio

dal dramma che stanno vivendo.

Per quello che riguarda l’ambito cinematografico è abbastanza palese

come i temi narrati abbiano subito notevoli modifiche in base anche ai

cambiamenti sociali avvenuti. Negli anni cinquanta il cinema racconta

124

principalmente di padri in conflitto con i figli maschi, a causa di uno

scontro edipico mai risolto279.

Con il passare degli anni il cinema ha cercato di modificare l’iconografia

paterna per avvicinarla sempre più al ruolo nuovo che gli uomini

ricoprivano nella società.

Il film Mrs Doubtfire diretto da C.Columbus nel 1993 è certamente il

simbolo del cambiamento e del nuovo tipo di padre che si sta lentamente

imponendo nella società quello che Argentieri definisce “Mammo”280.

Il protagonista non è di certo un buon padre, secondo i canoni classici,

non dedica tempo ai figli e alla moglie e non ha un lavoro fisso, però ama

profondamente la sua famiglia. Mrs Doubtfire è il suo alterego femminile

che verrà da lui creato per rimanere vicino ai figli e alla moglie dopo la

separazione, svolgendo il ruolo di governante. Essa rappresenta tutto quello

che lui non è mai stato, come se il suo essere donna fosse un requisito

essenziale e imprescindibile per occuparsi dei figli in maniera diversa da

quello che faceva come uomo.

Il film non ha un lieto fine, classico o standardizzato, in quanto, scoperto

l’inganno, la famiglia non si ricostituisce ma viene semplicemente sancito

il diritto del padre ad occuparsi dei figli nel modo a lui più congeniale.

Infine il cinema ha proposto anche la figura del padre solo che in modi

diversi impara ad essere padre riscoprendo così una parte della propria

identità fino a quel momento celata.

Nel film Tre Scapoli e un Bebè del 1987, remake di Tre uomini e una

culla del 1985, viene rappresentata la storia di tre scapoli che si ritrovano a

dover crescere un bambino. Dopo lo stupore e il rifiuto iniziale, il regista

del film Leonard Nimoy, è abile nel fare emergere in ognuno dei

279 S. Argentieri, Il padre materno, op. cit. p. 109. 280 Ivi, p. 104.

125

protagonisti la voglia di tenerezza e di famiglia che l’arrivo di questo

bambino aveva provocato.

Ancora più esemplificativo è il film Solo un padre diretto da Luca Lucini

del 2008, tratto dal romanzo di Nick Earls Le avventure semiserie di un

ragazzo padre.

Qui viene narrata la storia di Carlo, professionista trentenne, rimasto

vedovo con una figlia, Sofia, appena nata. Carlo ama profondamente la

figlia e cerca di sopperire alla mancanza della moglie – madre

acquisendone ruolo e funzione, ciò però porta ad una confusione nel suo

stile di vita e ad un’inibizione del suo essere padre.

Solo attraverso l’incontro con una giovane donna che andrà a ricoprire il

ruolo materno, Carlo riuscirà a capire il senso profondo della paternità. In

conclusione posso affermare che sia cinema che televisione sono strumenti

importanti per definire e delineare la trasformazione del ruolo paterno nel

tempo.

La pubblicità con la sua caratteristica di stereotipia dà del padre

un’immagine più superficiale, ma comunque necessaria, mentre il cinema

attraverso i film cerca di definirne gli aspetti più profondi e psicologici.

1.1. I padri di figli disabili e le autobiografie

L’autobiografia come pratica utilizzata per “la cura di sé” ha origini

lontane. Si basa, infatti, sulla scia di una tradizione molto antica e la si può

indagare come un genere letterario con caratteristiche proprie che fanno

riferimento a forme narrative come il diario, le confessioni, le memorie, le

epistole. Diversa dalla biografia, l’autobiografia prevede che sia lo scrittore

stesso a parlare di sé in prima persona ponendo l’accento su particolari e

curiosi aspetti della propria esistenza. La storia, la letteratura, la sociologia,

126

la psicanalisi, la psicologia sociale, e non ultima, la pedagogia si cimentano

senza posa con il discorso autobiografico, rinvenendovi sempre nuovi

confini tematici nonché spunti e materiali molto preziosi per le loro

ricerche281.

Una definizione quanto mai appropriata è sicuramente quella del

saggista Philippe Lejeune che prima di tutto propone una definizione di

autobiografia come "il racconto retrospettivo in prosa che un individuo

reale fa della propria esistenza, quando mette l'accento sulla sua vita

individuale, in particolare sulla storia della propria personalità"282. Lejeune

ha inoltre teorizzato il concetto, appunto, di patto autobiografico che

prevede introspezione da una parte ed esigenza di verità dall'altra: un

diritto all’autobiografia283 che prevede la possibilità per tutti di entrare

nella parte più intima del proprio sé. E’ necessario distinguere la pratica

autobiografica che prevede un uso meramente privato di questa- e quindi

quello di valersi del racconto di sé in senso formativo e autoformativo,

come pratica per crescere, riflettere e migliorarsi- da quella che invece

aiuta il lettore a entrare empaticamente in contatto con una storia diversa

dalla propria, ma nella quale può ugualmente apprendere, valutare e

pensare alla propria condizione. Il pensiero pedagogico, però, si dedica

all’autobiografia non tanto in questo senso, quanto per il suo potenziale

autoformativo, grazie a cui lo scrivente ha la possibilità di pensare

all’esperienza trascorsa e pertanto orientarsi al meglio, così da rinvenire

una nuova direzione e un nuovo slancio per vivere284.

Come ricorda Cambi:

281 M. Zedda, Scrivere di sé: autobiografia e formazione, in 25 saggi di pedagogia, op.cit., p. 74. 282 P. Lejeune, Patto autobiografico, Il Mulino, trad. it., Bologna, 1986. 283 D. Demetrio, Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Raffaello Cortina, Milano, 1996. 284 M. Zedda, Scrivere…, op. cit. p. 75.

127

la narrazione si è manifestata anche, e sempre più, come lo statuto chiave

del soggetto, la sua forma specifica. Un soggetto a “identità aperta” è in

quanto si fa, ma si fa solo nella narrazione: in quel dialogo con il proprio

vissuto che lo riesamina, lo interpreta, lo riorienta. Senza questo lavoro

narrativo di sé, l’io si riduce a puro vissuto e perde identità […] e senso (e

direzione). Solo il narrarsi produce, nel magma, identità e senso, poiché il

narrare implica un dare- ordine (qualunque sia) e fissare nuclei, passaggi se

non traguardi, poiché questo complesso lavoro sta nella narrazione stessa.285

È evidente, quindi, quanto il lavoro autobiografico assuma un valore di

senso e di formazione in quanto si ha l’occasione di riflettere sulla propria

vita nel momento presente ed ha un grande valore catartico e formativo per

chi legge e per chi scrive286.

Le narrazioni autobiografiche non sono da considerare come sfoghi o

semplici testimonianze, ma piuttosto come strumenti pedagogici perché

cambiano il modo con cui osserviamo il mondo diventandone, così,

testimoni privilegiati287. Questo appare tanto più vero se consideriamo i

genitori di figli disabili come persone coinvolte a pieno titolo nella scrittura

autobiografica: le competenze genitoriali elaborate attraverso l’esperienza

diretta vanno infatti ad arricchire le conoscenze tecniche, acquisite

attraverso lo studio e l’interiorizzazione di approcci scientifici288.

Appare chiaro e va posto in particolare evidenza che esperienze

qualitative di integrazione si possono costruire solo attraverso reti di

sostegno e supporto con le principali agenzie educative, quali la famiglia, i

285 F. Cambi, L’autobiografia come metodo formativo, Laterza, Roma- Bari, 2002, p. 81. 286 L. Bichi, Disabilità e pedagogia della famiglia. Madri e padri di figli speciali, Edizioni ETS, Pisa, 2011. 287 A. Moletto, R. Zucchi, Se i genitori salgono in cattedra, “Animazione sociale”, Anno XXXIV, agosto-settembre 2004, n. 185 fascicolo 8/9. 288 E. Barone, E. Cecchini, Pedagogia dei genitori. La metodologia attraverso le esperienze, Ed. ETS, Pisa, 2009, p. 18.

128

servizi specialistici e gli enti locali289. La famiglia, prima di tutti gli altri,

diventa un elemento prezioso proprio perché a contatto quotidiano con la

disabilità e ha la possibilità di sperimentare le migliori strategie e tecniche

efficaci di intervento.

In ultima analisi, l’educazione deve essere intesa come il principale

agente di trasformazione culturale.

Mettersi in relazione con l’altro significa guardarsi allo specchio e

riconoscersi. Riconoscersi in una uguale diversità.

Ricoeur ci insegna che noi viviamo grazie all’altro:

la persona ci appare come una presenza volta al mondo e alle altre persone,

senza limiti […] Le altre persone non la limitano, anzi le permettono di

essere e di svilupparsi; essa non esiste se non in quanto rivolta verso gli

altri, si ritrova soltanto negli altri. La prima esperienza della persona è

l’esperienza della seconda persona: il tu; quindi il noi viene prima dell’io, o

perlomeno, l’accompagna.290

L’educazione è cosa del cuore, affermava Don Bosco291. Amare implica

la capacità di attribuire senso e significato agli eventi, una capacità

fondamentale in ordine al benessere della persona adulta. Nel momento in

cui un adulto, all’interno di un rapporto affettivo, narra al bambino, con il

linguaggio della verità, la sua storia, lo aiuta ad attribuire un significato agli

eventi, che divengono, in siffatta maniera, comprensibili e accettabili. E il

bambino costruisce così la sua identità narrativa, in cui anche i traumi sono

letti attraverso uno sguardo di tenerezza.

289 L. Cottini, L’autismo a scuola. Quattro parole chiave per l’integrazione, Roma, Carocci, 2011. 290 P. Ricoeur, Sé come un altro, Feltrinelli, Roma, 2011. 291 Dall’Epistolario di S. Giovanni Bosco, Torino 1959, 4, 204-205.

129

La famiglia, prima fra tutte, non può essere considerata come entità

disfunzionale intrappolata perennemente nella “crisi”, né in una posizione

di subordine e inferiorità a cagione del suo polimorfismo culturale292. In

termini specifici, la famiglia con persona disabile è a contatto quotidiano

con il problema della diversità, e possiede, quindi, la possibilità di

sperimentare le migliori strategie e le tecniche più efficaci di intervento.

Nota Bruner: “l’educazione non è a sé stante e non può essere progettata

come se lo fosse”293.

Da tali presupposti si evince come la dimensione relazionale sia la

chiave di volta del sostegno alla disabilità.

Don Milani ci ricorda, in un’ottica ecologica, come non si possa fare a

meno di amare la scuola, senza amare il ragazzo, la famiglia del ragazzo e

il mondo che li circonda: “non si può far scuola senza amare e non si può

amare un ragazzo senza amare la sua famiglia e non si può amare la sua

famiglia senza amare il suo mondo”294.

Sembra quasi un gioco di parole, ma esprime, invece, una verità

fondamentale. Quando un bambino compie poi il suo ingresso a scuola

sperimenta, comunque, per la prima volta, l’altro, diverso dalla sua

famiglia.

Troppo poche sono ancora le ricerche relative ai programmi di

educazione prosociale nelle scuole. Indubbiamente, la prosocialità non può

dipendere unicamente dall’applicazione di specifici programmi educativi.

Vi concorrono infatti, diverse variabili di tipo situazionale e personale,

come il modello di comportamento offerto dall’insegnante, il clima

292 Cfr. A. M. Favorini, F. Bocci, Autismo, scuola, famiglia, FrancoAngeli, Milano, 2008. 293 J. Bruner, La cultura dell’educazione. Nuovi orizzonti per la scuola, Feltrinelli, Roma, 2002, pag. 42. 294 J.L,.Corzo Toral, Lorenzo Milani. Analisi spirituale e interpretazione pedagogica, Servitium, Città di Castello, 2008, pag.147

130

emotivo-affettivo della classe, il livello di sviluppo morale e sociale del

soggetto 295.

Il nodo principale della questione è da rintracciare nella fase, per certi

versi critica, in cui gli insegnanti si confrontano con un bambino disabile.

Questa situazione crea disagio, primariamente perchè con la diagnosi si

riesce a rilevare solo l’aspetto deficitario dell’allievo, ma non la persona.

Sono nati, proprio per la ragione che esplicavamo poc’anzi, molti

progetti che hanno lo scopo di aiutare, ascoltare, sostenere e rassicurare i

genitori nel momento in cui viene loro comunicata la presenza di un deficit

nel figlio che sta per nascere.

Vi è, ad esempio, il progetto «A casa con sostegno», frutto a sua volta di

una più ampia progettazione denominata “Superare l’handicap”, promossa

nel 1995 dal Comune di Parma, che prende vita da alcune domande

esistenziali sottoposte ai diretti interessati: i genitori. Una mamma,

intervenendo al convegno che introduceva il progetto, esordì in questo

modo:

Il momento della comunicazione della diagnosi è fondamentale, segna la

vita, le dà un significato diverso da quello che ha avuto fino a quel

momento. Per questo non può essere affidato al caso, alla più o meno buona

volontà, alla sensibilità più o meno marcata del medico.

O ancora un’altra mamma:

Quando nasce una bambina o un bambino e quella nascita viene comunicata

come diversa, perché ne viene diagnosticato un deficit, è importante la

funzione di chi dovrà comunicarlo e degli operatori del territorio

295 Cfr. Lickona T., Moral development in the elementary school classroom. In W.M. Kurtines e J.L. Gewitz (a cura di), Handbook of moral behavior and development, vol. 3, Hillsdale, Erlbaum, 1991.

131

nell’accogliere e nel sostenere le madri e i padri in questo evento.

L’impegno che viene chiesto alle madri, ai padri e alle figure professionali

preposte alla nascita di un bambino o di una bambina, va al di là ed oltre il

loro deficit. A questo impegno viene aggiunto qualcosa in più che significa

attenzione, ascolto, risposte concrete a bisogni altrettanto concreti.

Creare un gruppo di narrazione significa, allora, entrare in contatto non

con il deficit, ma con la persona: si tratta di offrire l’opportunità di

costruirsi persona, come suggerisce Maria Teresa Romanini con questa

efficace e sintetica espressione296.

Persone, infatti, non si nasce, ma si diventa.

Ed è nella famiglia, luogo precipuo degli affetti, come nella scuola, che

la persona sperimenta il proprio valore e la propria rilevanza297.

Nell’ambito di Pedagogia dei genitori, (un volume che racconta le

esperienze di genitori di bambini disabili) è stato concepito, ad esempio,

uno strumento di presentazione “dal vivo”, denominato “Con i nostri

occhi” che, per iniziativa individuale di una mamma, ha subito riscosso un

grande successo per la sua efficacia e valenza. Difatti, le narrazioni, che i

genitori forniscono agli insegnanti, offrono informazioni pratiche, concrete

e emotivamente coinvolgenti, che serviranno, successivamente, alla messa

a punto di piani educativi individualizzati. I genitori, d’altro canto, invitati

a raccontare “il figlio”, si sentiranno parte di un sistema educativo che li

vede, giustamente, protagonisti: fortificati e valorizzati per e nel loro ruolo.

296 Cfr. M.T. Romanini, Costruirsi persona, La Vita Felice, Milano, 1999. 297 Cfr. M. Stramaglia, Amore è musica. Gli adolescenti e il mondo dello spettacolo, SEI, Torino, 2011, pag. 147.

132

Le narrazioni, che adesso riportiamo, sono di due genitori del gruppo

misto di lavoro gentitori/insegnanti, su richiesta del gruppo di lavoro GLHI

dell’istituto comprensivo di Pisa:

Luca ha iniziato a dire le prime paroline verso i nove mesi e poi un

lunghissimo silenzio; quel silenzio che io non giustificavo e non capivo,

forse proprio perché accompagnato da un’assenza di sguardi e da pochissimi

sorrisi. Per fortuna, da questo punto di vista, sono una persona che non si dà

giustificazioni fasulle e di fronte alla frase «tutti hanno i loro tempi poi

parlerà…» ho preferito insistere con il domandarmi perché mio figlio non

mi guardava e non mi sorrideva e ho avuto l’opportunità di far visitare Luca

presso l’istituto. La prima diagnosi è stata «disturbo persuasivo dello

sviluppo», mi hanno parlato di «autismo».

E, ancora:

Ho due bimbi gemelli di 27 settimane: Niccolò è stato operato all’intestino a

soli tre giorni di vita e da qui per lui sono nati problemi. Infatti, nella

crescita, aveva difficoltà nella postura non riuscendo a stare seduto, perché

cascava da un lato. Da neonato non è mai riuscito a gattonare, ma si

trascinava le gambe appoggiandosi sugli avambracci. Per Niccolò, Mattia è

sempre stato il suo punto di riferimento in quanto era più agile e libero nei

movimenti. Ci avevano detto che Niccolò avrebbe presentato problemi nel

camminare e forse non sarebbe mai riuscito a camminare e ciò è durato fino

ai due anni. In seguito gli è stata regalata una macchinina che gli permetteva

di essere più indipendente e, mentre Mattia correva e giocava per la casa,

Niccolò lo rincorreva per la sua macchinina. Niccolò ha camminato molto

tardi: a tre anni e […] con molte difficoltà nell’equilibrio, ma grazie alla sua

133

forza di volontà, alla sua tenacia e all’incoraggiamento, ha migliorato il suo

cammino.298

La Pedagogia dei genitori riconosce pertanto alle narrazioni genitoriali

un consistente “valore aggiunto”.

Vero è che la scuola, difatto, incarna due facce della stessa medaglia: da

un lato, rappresenta il contesto privilegiato per lo sviluppo sociale,

comportamentale ed emotivo; dall’altra, però, può provocare un forte

disagio nel bambino che vi sperimenti un insuccesso sia di tipo relazionale

che prettamente scolastico il quale, nella peggiore delle ipotesi, può indurre

il bambino a rifiutare la scuola.

Perciò, la presenza della famiglia diventa indispensabile.

Anzi è proprio la consapevolezza che non viviamo da soli, che c’è un

altro oltre a noi, e che esiste sempre un qualcuno che ci permette di

diventare Io, nel rapporto con il Tu. E questo, in primis, con i genitori, in

famiglia. E poi nella scuola.

È nostra intenzione, pertanto, dare qui ulteriore spazio al fiorire sempre

crescente di numerose biografie genitoriali, in particolar modo biografie

scritte da padri, che vogliono raccontare la loro esperienza con la disabilità.

Come evidenziano Zanobini, manetti e Usai299 i numerosi ormai studi

sulle relazioni che si instaurano tra genitori e figli disabili evidenziano,

spesso, dati discordanti. Ciò è spesso dovuto al tipo di analisi che si

costruisce: le ricerche quantitative, ad esempio, sono caratterizzate da una

griglia, il più delle volte, ristretta rispetto alla molteplicità delle situazioni e

298 E. Barone, E. Cecchini, Pedagogia dei genitori. La metodologia attraverso le esperienze, Edizioni ETS, Pisa, 2009, pag. 98. 299 Cfr. L. Bichi, Disabilità…, op. cit.

134

delle variabili presenti in ogni singola dinamica, ma anche nel dare per

scontato alcuni vissuti personali di dolore e sofferenza300.

L’enfasi sul dolore che la disabilità porta con sé è dovuta principalmente

all’ottica con cui la affrontiamo: all’opposto della disabilità si palesa la

normalità, ed ecco che, per forza di cose, nella prima viene accentuato il

carattere negativo. Ancora si fatica ad accettare che cambiare il punto di

vista nei riguardi della disabilità, ci aiuterebbe a non focalizzare

l’attenzione sulla malattia, ma su come la società si prepara ad accogliere la

persona disabile. Così, quando la disabilità sopraggiunge in famiglia,

seguendo il senso comune e i pregiudizi ostici a morire, non può che creare

relazioni patologiche. La famiglia con un bambino/a disabile si ritrova,

molto più delle altre, ad essere osservata e studiata: messi sotto i riflettori

sono sicuramente i genitori. E il più delle volte la figura assente o troppo

presente del padre. Ogni decisione dei genitori viene considerata, molto

spesso, come un’accettazione o meno del figlio/a, colpevolizzando in

questo caso padri e madri che non si ritengono all’altezza di costruire un

valido processo educativo. Collegandoci in maniera oserei dire scontata

alla teoria dei Disabilities Studies, secondo i già citati Zanobini, Manetti e

Usai la scissione netta tra disabilità e normalità sarebbe dovuta

prevalentemente «all’analisi di tipo medico con la quale viene affrontato il

deficit301. Non è casuale, difatti, che in questi ultimi anni l’OMS alla

classificazione del 1980 (ICHD) abbia fatto seguire l’ICF per sottolineare il

lato sociale della disabilità, poiché questo approccio parla di salute e di

funzionamento e non di patologie o disabilità»302.

300 Cfr. E. Malaguti, Educarsi alla resilienza. Come affrontare crisi e difficoltà e migliorarsi, Erickson, Trento, 2005. 301 Cfr. M. Zanobini, M. Manetti, M.C. Usai, La famiglia…, op. cit. 302 Cfr. L. Bichi, Disabilità…, p. 55; Cfr. OMS, Classificazione internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute, Erickson, Trento, 2002.

135

L’idea della famiglia normale coincide con l’idea di una famiglia sana

che non presenta problematiche, dunque «tale concezione ci induce ad

abbracciare l’assunto erroneo secondo cui qualsiasi problema è sintomo o

conseguenza dell’esistenza di un contesto familiare disfunzionante»303.

Talvolta questa idea ha prodotto un pregiudizio molto forte nel giudicare le

famiglie con all’interno un figlio/a disabile perché ritenute patologiche, e

dunque bisognose di aiuto e cure costanti.

Dalle autobiografie e dalle interviste condotte con i genitori, ed in modo

particolare con i papà, emerge invece una grande forza, determinazione e

coraggio. Come si scriveva in precedenza, gli studi più recenti

sull’argomento pongono in evidenza il cambiamento di paradigma che non

si basa più sul deficit, ma sulle risorse. Gli studi si sono intensificati e

orientati sull’analisi di alcuni meccanismi che consentirebbero un buon

adattamento della famiglia alla disabilità, anche perché l’organizzazione

familiare che si presenta come nuova dipenderebbe in larga misura dalle

caratteristiche dei genitori e degli eventuali fratelli e/o sorelle che dalla

disabilità della persona. L’attivazione di strategie familiari specifiche

dipendono da diversi aspetti, quali quelli cognitivi, emotivi e relazionali,

infatti i genitori che riescono a dare un nuovo significato all’esperienza che

stanno vivendo sono anche quelli che sul piano cognitivo riescono a fornire

una nuova rilettura di quanto si è verificato. Salvatore Soresi chiarisce che,

all’interno dell’aspetto cognitivo, vi sono sicuramente anche le strategie di

problem solving e di decision making, che si rivelano assai importanti per

una flessibilità di pensiero che permette di trovare sempre nuove e diverse

soluzioni al problema304. Inoltre ricorda sempre Soresi «le famiglie che

ricorrono con elevata frequenza a queste strategie si differenziano da quelle

303 F. Walsh, La resilienza familiare, tr. It. Cortina, Milano, 2008, p. 20. 304 S. Soresi, Psicologia della disabilità, Il Mulino, Bologna, 2007.

136

che vi ricorrono solo sporadicamente per come affrontano le difficoltà sin

dall’inizio, per gli atteggiamenti che intendono assumere nel corso del

tempo, per i valori ai quali sembrano aderire, per le attività che svolgono,

per la partecipazione alla cura del figlio e per come vivono il rapporto

sociale che ricevono […]: questi genitori sembrano più abili nel trovare un

maggior numero di soluzioni e lo fanno insieme, fornendosi sempre

comprensione e supporto reciproco»305. Inoltre questa concezione si lega

indissolubilmente a quello di resilienza che nelle scienze umane ha non

solo il significato di resistere ad un urto, ma anche la possibilità di uscire

da una situazione che potenzialmente poteva risultare paralizzante. È da

considerare, comunque, che la resilienza non è un processo che può

definirsi concluso una volta per tutte: è invece un percorso dinamico ed

operoso dove ogni componente familiare ha il suo ruolo ben preciso. È

chiaro che ogni genitore attribuisce un personale significato all’evento

accaduto, in base alle proprie credenze culturali, religiose, sociali:

i sistemi di credenze rappresentano un nucleo funzionale essenziale in tutte

le famiglie e sono forze potenti in termini di resilienza. Affrontiamo

momenti critici e avversità attribuendo un significato alla nostra esperienza:

connettendola al nostro contesto sociale, ai nostri valori culturali e spirituali,

alla nostra storia multigenerazionale e alle speranze e alle aspirazioni per il

futuro. Il modo in cui le famiglie valutano i problemi e le opportunità

determina la differenza tra la capacità di affrontare e padroneggiare le

difficoltà e il precipitare nella disorganizzazione funzionale e nello

sconforto.306

305 Ivi, p. 231. 306 F. Walsh, La resilienza familiare, op. cit., p. 61.

137

Ogni genitore attribuisce un senso estremamente personale ed intimo alla

nascita del proprio figlio/a disabile e spesso commenti da parte di altri che

si riempiono la bocca di parole solenni che denotano un buon senso,

talvolta stucchevole, potrebbero davvero scatenare reazioni fastidiose.

Perché, per parlare di disabilità, non si può, e non si ha, il diritto di restare

sul cristale dei buoni propositi, dove, dall’alto di una presunta superiorità,

si dettano consigli “per il bene” della persona coinvolta (cosa si intenda,

poi, con il bene della persona non è dato sapere). E si ha il dovere di

“sporcarsi” con il contesto ambientale, sociale, politico, familiare, quando

pensiamo al mondo della disabilità. Un velato egoismo ci induce, invece, a

ritenere lontano da noi tutto quello che non ci tange da vicino. Come se

fossimo immuni da ciò che potrebbe sconvolgere la nostra esistenza.

Eppure è così che, nella maggior parte dei casi, si entra in contatto con un

mondo che, fino all’attimo prima, si stentava persino a riconoscere come

reale e possibile. Riportiamo di seguito poche righe scritte da due genitori

con una figlia disabile:

A volte, ci capita di parlare con persone ipocrite al massimo che ci dicono

frasi del genere: “Siete due genitori bravissimi, Francesca è stata proprio

una bambina fortunata, se fosse capitato a me non so come avrei fatto!”

(della serie per fortuna è capitato a te); oppure: “Ma come siete bravi, la

vestite come una principessa e poi le parlate molto!” (perché un

handicappato non merita niente? Non ha diritto ad essere bene vestito o ad

avere quello che hanno gli altri “venuti bene”?); oppure “Dio vi ha fatto una

grazia!” (sì proprio così. Mi è stato detto anche questo, da un conoscente

molto religioso che ha persino un altare in casa, fa il digiuno due volte la

settimana e a Medjugorje ha pure visto la Madonna! Lui però ha un figlio

138

“venuto bene”, quindi io gli ho domandato a mia volta se per caso mi stesse

invidiando, ma non mi ha risposto.307

Basta leggere, per altro verso, poche righe scritte, ad esempio, da

Massimiliano Verga, per entrare nella mente di un genitore che ha appena

appreso che la sua vita subirà una svolta totalmente inaspettata e rimanerne

sconvolti. La sensazione, cioè, che tutte le speranze, le attese, i desideri, le

aspettative siano tragicamente svanite. E per sempre. Con la scoperta di un

qualcosa di eterno con cui si dovrà, peraltro, convivere: la malattia.

Proponiamo, a questo punto, un passo ripreso proprio da Zigulì, scritto

da Verga:

Che cosa è successo a tuo figlio? Che cos’ha? La risposta dovrebbe essere la

diagnosi. Ma non sempre puoi conoscerla, anche perché non è detto che,

anche volendo, i medici siano in grado di formularla. […] Però la diagnosi

non mi restituisce il futuro che mi è stato rubato. E, in fin dei conti,

comincio a pensare che sia un falso problema. Perché il mondo reale non

cambia. E comunque non è migliore per il solo fatto che qualcuno mi dica

cosa è successo. Il quadro clinico è il mondo reale, non quello diagnosticato.

E il quadro clinico mi dice che Moreno è handicappato.308

«C’è un momento nel corso della nostra vita», asserisce Duccio

Demetrio, «in cui si sente il bisogno di raccontarsi in modo diverso dal

solito. Capita a tutti, prima o poi, da quando forse, la scrittura si è assunta il

compito di raccontare in prima persona quanto si è vissuto e di resistere

all’oblio della memoria...»309.

307 M. Portolani, L.V. Berliri, E’ Francesca e basta, La Meridiana Editrice, 1998, pp. 15-16. 308 M. Verga, op.cit., 2012, pag. 7. 309 D. Demetrio, Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1987, pag.1.

139

Il pedagogista milanese ora citato si occupa da sempre di autobiografia,

intesa quale unica via di fuga da qualsiasi forma di emarginazione: è noto,

ad esempio, il suo intervento nelle carceri. Eppure, non si può ridurre

siffatta necessità nel volersi raccontare, nel volersi liberare da uno stato

d’ansia così pervasivo da paralizzare l’anima, riconducendolo

semplicisticamente a una fase particolare della vita. C’è dell’altro, a nostro

avviso, che trabocca dalle pagine colme di vita che nessuna ricerca potrà

mai sostituire.

Il sottotitolo del libro Zigulì, che abbiamo già preso in prestito per aprire

il saggio, è emblematico: la mia vita dolceamara con un figlio disabile.

Le ricerche scientifiche hanno, per ovvie ragioni, un altro obiettivo:

quello di verificare che tipo di vita conducono i disabili, quali e quanti

supporti vengono forniti alle famiglie, qual è il rapporto che intercorre tra

genitori e figli disabili, ma anche tra sorelle e fratelli di disabili. Ovvero, i

topics di ricerca affrontati non possono prescindere da supporti teorici e

metodologici.

Le biografie, d’altro canto, respirano libertà, vivono di emozioni segrete,

di amori esclusivi, di segreti inconfessabili e di realtà, il più delle volte,

drammatiche. E parlare con la voce del cuore risulta davvero complesso,

perché la voce del cuore non è solo quella dei buoni sentimenti e

dell’amore smisurato a tutti i costi. La voce del cuore è anche, e oseremo

dire, soprattutto, quella della verità più antipatica, odiosa, e sicuramente

non politicamente corretta. Mettere nero su bianco la disabilità significa

abbattere i muri dell’ipocrisia e raccontare i sentimenti che inevitabilmente

questa suscita.

Un intimo pensiero, adesso, svelato dal papà di Moreno:

140

è proprio così: sono tuo papà. Ti piaccia o no, mi devi prendere per quello

che sono. Anche tu, del resto, non sei proprio quello che avevo pensato,

prima che nascessi.

Non è vero che i figli sono tutti uguali e che l’importante è che arrivino. Chi

lo pensa mangia tutti i giorni i biscotti del Mulino Bianco e crede anche di

viverci nel Mulino Bianco. Io ti volevo diverso e quei biscotti non mi sono

mai piaciuti.310

Schierarsi è difficile, e spesso schierarsi non ha senso. Non ci si schiera

pro o contro la disabilità, dunque ancor meno ci si può schierare pro o

contro i sentimenti di un genitore. Semmai si può esprimere, più o meno,

un accordo rispetto a ciò che si legge, ma non ci si può sostituire al

genitore, e tantomeno entrare nella sua mente.

Il nostro intento, quindi, è quello di ragionare in un’ottica pedagogica

cercando di trovare una chiave di lettura oggettiva e priva di inutile

retorica.

Molti blog di discussione sul libro presentano commenti, per lo più di

genitori con figli disabili, che puntano il dito contro lo scrittore,

rinfacciandogli una gratuita brutalità. Del resto viene affermato dallo

stesso, con una nota di cinismo, che non si può, quantomeno, volere un

figlio disabile. L’amore è un’altra cosa, il libro trasuda amore, ma non si

può credere che un figlio disabile sia un dono, come dice qualcuno.

Tutti rimangano spiazzati di fronte a una sincerità così disarmante: un

genitore non può permettersi di dirlo? È un affronto nei confronti di tanti

uomini e donne che non possono avere figli? Meglio un figlio disabile

piuttosto che non averli? Sono domande di forte spessore esistenziale, e, si

sa, l’esistenza è un mistero che, per sua natura non dà molte risposte. Però

310 M. Verga, op.cit., 2012, pag. 83.

141

ci si può interrogare se, per dire la verità, sia necessario essere diretti nel

descrivere, ad esempio, un rito fisiologico dell’essere umano:

«nella mia testa «pulire il culo» si accompagna alla dolcezza delle

spiritualità, al ripetersi di un gesto quotidiano che regala sempre una

sorpresa; all’intimità che si crea fra noi due, ogni giorno, più volte al

giorno. Ma non nascondo che ci sia anche l’idea della fatica e del

«preferirei farne a meno, grazie».

Lo scrittore, nel testo, si esprime attraverso un urlo di verità e di

liberazione. I paragrafi sono brevi, concisi; le poche righe scritte per

descrivere squarci di vita quotidiana non possono essere sottaciuti. Per chi

conosce e studia il mondo della disabilità da pedagogista, da operatore

socio-sanitario e da insegnante, è un monito: non lasciare che l’oblio del

tempo e della memoria cada sopra le famiglie con figli disabili, e sugli

stessi disabili.

“Però sai urlare”, si dice di Moreno. Non sa parlare, non vede,

cammina a fatica. Ma urla. Magari sono versi senza senso, è vero, solo per

far rumore, unicamente per destare l’attenzione di qualcuno,

esclusivamente per essere considerato. Moreno urla soprattutto quando ha

fame, ha sete, o il pannolino è sporco da una giornata. È assurdo pensare

che un padre debba urlare nelle orecchie di chi non sa ascoltare per avere

un briciolo di attenzione. Eppure, al mondo che non vuol sentire, o fa finta

di non sentire, o non ha orecchie abbastanza grandi per contenere un dolore

dilaniante, si deve, inevitabilmente, urlare.

142

Sulla stessa linea d’onda troviamo il libro vincitore del prestigioso

premio francese Prix Femina, del 2008, di Jean Louis Fournier: “Dove

andiamo, papà”311?

Alzi la mano chi non ha mai avuto paura di avere un figlio anormale. Non

l’ha alzata nessuno. Ci pensa chiunque, come si pensa a un terremoto, come

si pensa alla fine del mondo, a qualcosa che succede una volta sola. Di fini

del mondo io ne ho avute due.312

Lo scrittore, umorista e autore televisivo, sconvolge il pubblico francese,

ma non solo, facendo della sua vita speciale un caso internazionale.

Nuovamente ci si interroga sui motivi, che più di altri, lasciano interdetti

i lettori. Ritorna il leitmotiv secondo cui per parlare di disabilità sia

necessario assumere un tono greve accompagnato dalla classica “faccia di

circostanza”, altrimenti non è auspicabile affrontare l’argomento, onde

evitare di offendere qualcuno. Forse, la chiave di volta che entrambi gli

scrittori menzionati hanno escogitato per scrivere di handicap è l’ironia.

Prendere in giro la disabilità equivale a esorcizzarla, a renderla vera,

concreta.

Jean Louis Fournier, al contrario di Massimiliano Verga che si concentra

maggiormente nel raccontare la quotidianità di Moreno, introduce un altro

aspetto, rilevante per comprendere l’importanza attribuita alle

autobiografie: Fournier è un uomo di spettacolo e come tale ha una cassa di

risonanza talmente elevata da poter parlare a chiunque abbia la necessità, e

la voglia, di rispecchiarsi in lui, o semplicemente di confortarsi insieme a

lui, finanche a soffrire insieme a lui.

311 Cfr. Jean-Louis Fournier, Dove andiamo, papà?, Rizzoli, Milano, 2008. 312 Ivi, pag. 11.

143

Interessante, a tal proposito, un suo passo all’interno del libro:

In quanto padre di due bambini handicappati, sono stato invitato a

partecipare a una trasmissione televisiva per portare la mia testimonianza.

[…] Ho guardato la trasmissione, era in differita. Avevano tagliato tutto ciò

che avevo detto sul riso. Gli autori, evidentemente, avevano preferito non

rischiare di offendere la sensibilità della gente. Le mie provocazioni

avrebbero potuto sconvolgere qualcuno.313

Una citazione attribuita a Victor Hugo asserisce che la libertà comincia

dall'ironia314.

Ed è solo in un’ottica di libertà che si possono conciliare due mondi

apparentemente molto distanti tra loro: la disabilità e l’ironia, per

l’appunto. Attraverso tale connubio, le parole scritte da Verga e da Fournier

si vestono di un significato ancora più profondo e toccante, incarnano cioè

la possibilità di esprimersi senza dover mantenere un controllo forzato, ma

abbandonandosi puramente alle emozioni.

L’autobiografia, così intesa, non è il risultato di un percorso fatto di

leggerezza, come blandamente si potrebbe credere, ma, parafrasando

Proust, è un percorso fatto di sofferenza, che a sua volta è un bisogno

dell'organismo di prendere coscienza di uno stato nuovo315.

Questo scenario fa riflettere sull’importanza che ricoprono le reti sociali

per lo sviluppo di un percorso di vita di un soggetto che abiterà il futuro316.

313 Ivi, pag. 39. 314 Cfr. V. Hugo, I Miserabili, Raffaello Editore, Cortina, 2010. 315 Cfr. M. Proust, Alla Ricerca del tempo perduto. Dalla parte di Swann, Mondadori, Milano, 2005. 316Cfr. A. Canevaro, Tante diversità per una prospettiva inclusiva, in R. Caldin (a cura di), Alunni con disabilità figli di migranti. Approcci culturali, questioni educative, prospettive inclusive, Liguori, Napoli, 2012, pag. 17.

144

La profonda e autentica sinergia tra famiglia e operatore socio-sanitario,

ricercatore, insegnante, pedagogista, in una prospettiva inclusiva,

favorirebbe il benessere di tutti e di ciascuno.

Tessere una rete sociale tra famiglie e associazioni, in conclusione, non

solo alimenterebbe il sostegno reciproco, ma significherebbe, in primo

luogo, abbattere il muro del pregiudizio che si erge tra il mondo esterno e le

famiglie coinvolte nella disabilità.

Si eviterebbe così il rischio di riempirsi la bocca soltanto di buone

intenzioni. Nella migliore delle ipotesi317.

Come scrivevamo poc’anzi, per sfatare i miti che aleggiano intorno

all’autismo Gianluca Nicoletti prova ad immaginare una nuova strada da

percorrere che possa aprire le porte del futuro a tutti i ragazzi disabili,

Insettopia, per l’appunto.

«Tommy cresce» scrive Nicoletti nel suo ultimo libro «e diventa sempre

più serio, come se iniziasse a pensare: “sto diventando un adulto, e

adesso?”. In verità questo non lo pensa minimante, forse sta solo capendo

che il tempo passa anche per lui. […] Mi serve ancora tempo, devo

costruire qualcosa per lui, perché Tommy è ancora dipendente da me in

tutto e per tutto»318.

Le paure legate al futuro sorgono molto presto nella mente di un

genitore. Uno specifico filone di indagine ha indagato i vissuti genitoriali in

rapporto all’età adulta del figlio: con il miglioramento delle tecniche e delle

strumentazioni mediche l’aspettativa di vita è molto aumentata e questo fa

emergere nuove e sempre più complesse problematiche di gestione del

figlio ormai grande:

317 M. Verga, op.cit., 2012, pag. 105. 318 G. Nicoletti, Alla fine qualcosa…, op. cit., p. 35.

145

i familiari si trovano più spesso di una volta ad interagire con una persona

adulta che, però, solo difficilmente riesce ad organizzare autonomamente la

propria esistenza. Nella maggior parte dei casi queste persone vivono con i

genitori pur continuando a frequentare centri diurni occupazionali o

laboratoriali e cooperative protette e a causa del loro precoce

invecchiamento, tendono a sperimentare più intensi sentimenti di solitudine

e depressione.319

Va da sé che l’invecchiamento dei figli disabili corrisponda

all’invecchiamento anche per i genitori stessi che si trovano, ormai anziani,

a doversi occupare quotidianamente di una persona non autonoma, e che

vivono dunque una situazione di forte stress emotivo e fisico. Vero è che

per proteggere il figlio da un mondo che non è ancora pronto ad accoglierlo

i genitori riducano al minimo ogni possibilità di contatto con l’esterno,

rinchiudendo il ragazzo sotto una campana di vetro da cui non sarà

semplice uscirne. Un importante ostacolo, dunque, lo rappresentano

proprio i padri e le madri che pur di preservare il figlio da difficoltà e

angosce lo privano del rapporto con i coetanei, così che, finita la scuola, i

possibili rapporti saranno solo con altre persone in difficoltà come lui.

La paura per il dopo si contrappone, però, alla convinzione che si

possano costruire delle solide basi su cui fare emergere autonomie

possibili.320

Secondo Ianes è importante analizzare la qualità della vita dei soggetti

adulti e l’analisi degli ecosistemi nei quali vivono, in modo da poter

individuare quali competenze permettono di alzare il livello della qualità

della vita321: ad esempio saper utilizzare il telefono, gestire il denaro, saper

319 S. Soresi, Psicologia delle disabilità, op. cit. p. 227. 320 Cfr. L. Bichi, Padri e madri…, op. cit., p. 59. 321 Cfr. D. Ianes, F. Celi, S. Cramerotti, Il piano educativo…, op. cit.

146

prendere un mezzo pubblico.

Accanto alle ansie e alle paure dei genitori c’è dunque la determinazione

e la consapevolezza di dovere e volere far rispettare i diritti dei figli.

Gianluca Nicoletti è uno di quei padri che non si arrende: tutto ciò che

può rendere la vita più semplice e, se possibile, felice per un ragazzo

autistico sarebbe la possibilità di costruire una piccola città fatta su misura

per lui. La città ideale non esiste, Nicoletti però sta cercando di

immaginarla e di avviarne una costruzione. L'ha chiamata “Insettopia”, la

terra promessa degli insetti evocata in Zeta la formica322, ed è il luogo

dell’immaginario sognato da chiunque si prenda cura di ragazzi autistici. E'

un universo contenuto in altri universi infinitamente più grandi e quindi

incommensurabili per delle povere formichine. «Insettopia rivendica la

possibilità di far vivere dignitosamente i ragazzi autistici, soprattutto

quando l’entrare nell’età adulta trasforma quei ragazzi silenziosi in

fantasmi, esseri invisibili e disperati»323.

Acquisire l’indipendenza tipica dell’età adulta e, come scrive Lisa Bichi,

essere autonomi

non significa soltanto acquisire alcune abilità, ma significa saperle gestire in

prospettiva del superamento dell’età infantile per abbracciare l’età

adolescenziale prima e quella adulta poi.324

Infatti,

322 Z la formica è un film d'animazione del 1998, diretto da Eric Darnell e Tim Johnson. È il primo film in CGI della DreamWorks. 323 http://insettopia.it [ultimo accesso: 02/02/2015] 324 L. Bichi, Padri e madri…, op. cit., p. 167.

147

non basta far le cose da grandi per sentirsi grandi, per educare all’autonomia

è necessario intervenire anche sulla costruzione di un’identità di adolescente

e poi di adulto, sul “saper essere” una persona grande. Per questo è

importante lavorare sul possesso di abilità, ma anche sulla percezione di se

stesso come una persona grande e riconosciuta tale da altri.325

Questo è quello che Nicoletti vorrebbe dimostrare costruendo Insettopia.

Interessante, inoltre, il sito dove il giornalista dichiara apertamente che

Insettopia non ha nessuna fonte di sostegno economico, ma che sia

l’infrastuttura tecnologica che le persone che ci lavorano direttamente sono

il «prodotto di generosità e spirito solidale di cari amici che si impegnano

di persona». Il blog ha diverse sezioni articolate precisamente in: Insettopia

News, Vivere Insettopia, Scelti per noi, I viaggi di Insettopia, Supporta

Insettopia e Insettopia live. Cosi facendo si tenta di creare una sorta di

mutuo aiuto nei confronti di tutte quelle famiglie che con un ragazzo

autistico in casa pensano di non poter più assaporare la libertà di uscire o di

farsi un viaggio. Attraverso “scelti per noi” e “i viaggi” i cittadini della

piccola grande città consigliano ristoranti, agriturismi, località da

frequentare senza sentirsi osservati e giudicati nonostante la certezza che

possa avvenire qualche comportamento bizzarro da parte del figlio.

Per concludere voglio riportare per intero il vissuto scritto da Gianluca

Nicoletti dopo aver accompagnato Tommy ad una gita fuori porta: la

sensazione, mentre si leggono queste righe, è quella di un padre che sente e

vede il proprio figlio crescere.

Forse è giunto il momento di liberarsi dal pregiudizio e dallo stereotipo

che la disabilità sia una trappola da cui l’eterno bambino non possa uscire.

325 A. Contardi, Verso l’autonomia. Percorsi educativi per ragazzi con disabilità intellettiva, Carocci, Roma, 2004, p. 29.

148

Ero partito da casa una settimana fa con un bambino, sono tornato ieri sera

con un uomo. Non è che lo scriva sull’onda emotiva di chi ha seguito di

persona la Grande Cavalcata dei ragazzi autistici. Lo scrivo proprio perché

Tommy è diventato grande, non è certo guarito dall’autismo, ma è fuori per

sempre da quell’area di fragilità presunta che impedisce a un genitore di

ammettere che suo figlio sia cresciuto.

Ho avuto questa certezza quando l’ho visto dormire, sudato e puzzolente,

sopra un mucchio di fieno, usando la sella come cuscino. Aveva cavalcato

più di sei ore, lo aveva fatto assieme ai suoi amici, autistici come lui. Era

stato seguito e accompagnato da persone tutto sommato estranee alle sue

abituali frequentazioni familiari. Soprattutto io non c’ero quella mattina a

dargli una manata ogni tanto, a porgergli la bottiglietta d’ acqua, a

mandargli un saluto e chiedergli come stesse. Tommy ce la faceva anche da

solo, erano quasi le 16, ancora doveva mangiare, faceva un caldo infernale,

accanto a noi c’erano maiali, galline, mucche e altri animali che

sguazzavano nel loro strame. Tommy era indifferente a tutto come se quello

fosse stato da sempre il suo habitat, si riposava perché era giusto che lo

facesse, ma non si lamentava, non chiedeva nulla, aspettava che dopo aver

rifocillato i cavalli, qualcuno facesse girare i panini anche tra i cavalieri.

Dove sono finite le penne rigate? L’unica pasta che sembravo possibile

cucinargli? Dove è finito il sughetto filtrato e senza pellicine che gli

preparavano come unico condimento che sembrava tollerasse? Dove è finita

l’abitudine di stravaccarsi sul divano all’ora dei Simpson? Dove è finito il

suo cuscino? Il suo letto ultra dimensionato? L’aria condizionata nella

cameretta? L’ipad sempre pronto sennò guai…Chissà cosa potrebbe

succedere…

Soprattutto dove sono le crisi oppositive, se qualcuno (che non fossi io) lo

avesse contraddetto, dove è finito quel saltare a perdifiato, il mangiarsi le

mani, il graffiare, mordere e menare? Non dico che sia guarito, non

immagino che tutto questo non tornerà presto a far parte del mio quotidiano.

Da lunedì inizia la penosa domanda: “Cosa facciamo fare oggi a Tommy?

149

Chi può occuparsene? Lo porti tu a fare una passeggiatina? Me lo porto io a

studio? Viene due ore quello del comune e lo mandiamo a prendere il

gelato?” Ordinarie domande di lancinante quotidiano di ogni famiglia

d’autistico che sa di avere in casa un essere umano “da assistere”, perché

non si faccia male, non si innervosisca, perché il suo tempo sia meno atroce

possibile.

Ho visto in una settimana Tommy e i suoi amici passare giornate come non

avrei mai creduto possibile, ma non solo per un ragazzo “disabile”, ma

anche e soprattutto per qualsiasi adolescente neurotipico. Hanno lavorato

tutti assieme consapevoli di far parte di un team, hanno attraversato boschi,

guadato fiumi, cavalcato lungo strade asfaltate sotto al sole, viottoli pieni di

rovi, strade di campagna tra mosconi e insetti d’ogni tipo. Hanno mangiato

quando si poteva, riposato solo a fine giornata. Eppure non ho mai visto un

gruppo di autistici così diligente e reattivo per un tempo così prolungato. I

ragazzi ridevano, evento rarissimo per un autistico, parlicchiavano pure,

erano rilassati, rompevano le palle in percentuale minima rispetto alla

norma.

Non voglio tirare conclusioni, non ne ho gli strumenti necessari per farlo.

Vorrei solo aprire una riflessione sul termine “inclusione” su cui tanto ci

stiamo arrovellando. Premesso che i ragazzi autistici abbiamo una

fondamentale difficoltà a gestire alcune complessità della vita

contemporanea, dei suoi irrinunciabili obblighi di ipersocializzazione, delle

sue evoluzioni sociali, urbanistiche, ambientali. Il recupero di abilità

necessarie ad affrontare queste difficoltà potrebbe avvenire facendo far loro

un cammino a ritroso attraverso modalità di vita quotidiana sicuramente più

arcaiche, ma fondamentali per riallacciare patti sicuri e rassicuranti tra

l’essere umano e l’ambiente in cui vive? E’ possibile che un autistico debba

essere guardato a vista nel corridoio di una scuola, senza altro risultato che

renderlo infelice e spaventato, ma possa invece passare una settimana a

spasso per le campagne cavalcando e faticando come uno stalliere per tutta

la giornata e alla sera sia palesemente raggiante di soddisfazione? Qualcuno

150

che abbia strumenti scientifici dovrebbe cominciare a studiare seriamente su

questa strampalata riflessione.326

326 http://insettopia.it/i-viaggi-di-insettopia

151

CAPITOLO IV

La parola ai testimoni: i padri di figli disabili si raccontano

1. La ricerca

Il contesto all’interno del quale ha preso avvio il progetto di ricerca

coinvolge tre università italiane e una straniera327. Lo sguardo con cui ci si

è predisposti ad analizzare l’immagine paterna è quello inerente la

prospettiva pedagogica con le ricadute che, a livello educativo, sono

possibili riscontrare nel rapporto padre-figlio e padre-figlio disabile.

Seguendo un approccio che va dai modelli educativi generali a quelli

speciali/specifici, il gruppo di lavoro ha sentito l’esigenza di cogliere le

similitudini, piuttosto che le differenze, tra le famiglie con figli disabili e le

famiglie senza figli disabili. Già Séguin affermava: quando funziona il

modello educativo generale, ci sono ricadute/riscontri positive/i anche nel

modello educativo specifico328.

L’immagine paterna come tradizionalmente viene intesa tende sempre

più ad essere confusa con quella materna, o ancor più, a scomparire: urge,

dunque, uno sguardo ancora più analitico e dettagliato in merito al rapporto

tra padre e figlio con esigenze specifiche. Se risulta scontato affermare che

un buon clima familiare sia la premessa per un buon rapporto genitore-figli,

si sono intensificati, a partire dagli anni ’70 in poi, gli studi e le ricerche

per rilevare le conseguenze che la presenza di un figlio con deficit possa

327 Il progetto di ricerca coinvolge i dipartimenti di Scienze dell’educazione di Bologna, Padova, Roma e Lione. Rispettivamente a Bologna con la Professoressa Roberta Caldin e la dottoranda Alessia Cinotti; a Padova con il dott. Simone Visentin; a Roma con il Professore Fabio Bocci e la dottoranda Francesca Maria Corsi; a Lione con la Professoressa Margherita Meucci. 328 R. Caldin, Introduzione alla pedagogia speciale, Cleup, Padova, 2007.

152

determinare nei vissuti dei genitori e nelle dinamiche intrafamiliari che si

ripercuotono sulle modalità educative329. Dando avvio alla riflessione sul

ruolo del padre, e sulla funzione che oggi è chiamato ad esercitare, ci

domandiamo cosa significhi la sua presenza per i figli, ma soprattutto in

che modo tale figura si articoli nella e con la famiglia. Il padre funge da

mediatore tra la madre, simbolo di protezione e accudimento del neonato

sin dai primi giorni di vita, e la realtà sociale. Cosa può accadere se il padre

rinuncia alla sua funzione di terzo nella diade madre-bambino? Quali

conseguenze può avere la presenza di una padre pallido, o ancor più,

assente, nella crescita di un figlio? Ci è apparso significativo interrogarci a

partire proprio dalla sua evoluzione, ovvero dal padre padrone, detentore

della legge e quindi simbolo normativo per eccellenza, sino al suo

costituirsi alter ego della figura materna che, attraverso compiti di cura e

dedizione, diviene emblema dell’affettività.

Pertanto, uno dei temi che ha accompagnato la nostra riflessione

riguarda le declinazioni familiari delle funzioni affettiva e normativa. Quel

che si constata, al giorno d’oggi, è che la funzione affettiva si traduce,

semplicisticamente, in una mera soddisfazione dei bisogni del figlio,

mentre è assodato che il percorso verso la costruzione di un’identità sicura

e autonoma si gioca nel campo dello sperimentare nuove esperienze, nel far

i conti con i propri limiti e con la frustrazione che ne scaturisce330. Dunque,

qual è il ruolo del padre? E qual è il ruolo che la società si aspetta che il

padre giochi?

329 S. Di Nuovo, S. Buono, Famiglie con figli disabili. Valori, crisi evolutiva, strategie di intervento, Città Aperta, Enna, 2004. 330 C. Sellenet, Bravi papà…, op. cit., 2005.

153

1.1. Motivazioni ed obiettivi

Presentiamo in questo capitolo i risultati della ricerca qualitativa sulla

figura del padre nella specifica situazione di una famiglia in cui è presente

un bambino disabile. Due motivazioni principali sono alla base di questo

lavoro: portare evidenze contro i pregiudizi e gli stereotipi ancora presenti

nei confronti delle persone con disabilità e delle loro famiglie; ribadire

l’importanza dell’esperienza come fonte e strumento di conoscenza. Gli

stereotipi e i pregiudizi cui si fa riferimento riguardano soprattutto:

1. l’identificazione della persona disabile con la patologia, che

porta a esaurire l’intero individuo in un nome e nella definizione

corrispondente;

2. la credenza diffusa di un nucleo familiare chiuso e pronto a

nascondere la disabilità del figlio sino a negare il problema,

3. il mito dell’assenza paterna che presenta un uomo non capace

di trovare alternative diverse all’apatia e alla fuga.

Fino ad oggi, e tuttora è così, la nascita di un figlio disabile ha

comportato, e comporta, un grande dolore e una perdita immediata di quel

bagaglio di sogni, aspettative, desideri e immaginari che popolano la mente

di due genitori331. Si fa sempre riferimento al momento della diagnosi come

evento spartiacque che segna un prima e un dopo e che, in maniera

irreversibile, trasforma e sconvolge radicalmente la vita individuale,

familiare e, di conseguenza, sociale di ogni persona.

In tale prospettiva si inseriscono i Disability Studies 332 che hanno

un’area di studio e di ricerca interdisciplinare e che traggono origine

dall’attivismo delle persone con disabilità. In questo senso, favoriscono un

331 C. Gardou, Diversità, vulnerabilità, handicap. Per una nuova cultura della disabilità, Erickson, Trento, 2006. 332 R. Medeghini, S. D’Alessio, A. D. Marra, G. Vadalà, E. Voltellina, Disability Studies, Erickson, Trento, 2013.

154

cambiamento di prospettiva alquanto rivoluzionario, nel senso che se nella

più ampia accezione la disabilità costituisce un campo di ricerca e di

intervento dominato in larghissima parte dal paradigma bio-medico

individuale, la loro prospettiva si basa sul delineare un progetto di vita

all’interno del quale la persona disabile ri-acquisisca la propria dimensione

spazio-temporale ed evolutiva, e con essa la natura sociale che comprende

il diritto all’adultità, all’autonomia e all’indipendenza. Rompere lo

stereotipo significa comprendere che conoscere una patologia non significa

conoscere la patologia di quel bambino; significa inoltre riconfermare e

valorizzare l’unicità di ogni individuo e lo specifico di ogni situazione

familiare.

Nell’approccio empirico alla ricerca si sono seguiti due principali filoni:

quello quantitativo e quello qualitativo. Nello specifico, l’Università di

Bologna ha provveduto alla costruzione di un questionario che è stato

distribuito nel territorio ai papà con un figlio/a disabile in un’età compresa

tra gli 0 e i 6 anni. A Roma, per contro, si è ricorsi all’utilizzo delle

interviste semi strutturate ai padri con figli sempre in situazione di

disabilità, dai 6 ai 10 anni.

L’intervista, nello specifico, è stata scelta per una serie di motivi.

Innanzitutto, a differenza di una conversazione occasionale in cui il

contatto con l’interlocutore non viene preventivamente organizzato,

l’intervista è stata utilizzata miratamente per raccogliere informazioni e/o

opinioni sul particolare argomento, definendo chiaramente i ruoli dei

soggetti in gioco.

La scelta del tipo di intervista da adottare è dipeso da una serie di fattori:

la fase della ricerca, i dati che si volevano raccontare, il tempo, il numero di

persone da intervistare, la facilità nel codificare, analizzare e interpretare le

informazioni raccolte. Difatti, un’intervista semi strutturata ci ha consentito

155

di raccogliere informazioni “nascoste”, ossia non conosciute direttamente e

che nella nostra fase iniziale di ricerca ci hanno offerto un insieme di

variabili su cui indagare, aiutandoci a definire gli obiettivi e consentendoci

di ricavare le informazioni utili per poter mettere a punto un’intervista

maggiormente strutturata.

Attraverso l’impiego di tali strumenti si è voluto dunque registrare le

impressioni che i padri hanno rispetto al loro ruolo all’interno della

famiglia, le proprie personali esperienze e i loro compiti educativi. La

questione sulla quale si pone maggiormente l’accento riguarda le

percezioni che i padri hanno rispetto al proprio ruolo all’interno della

famiglia.

Secondo tale prospettiva non si terrà in considerazione una specifica

disabilità del figlio, a motivo del fatto che non si tratta di una ricerca

compensativa, bensì di un’indagine che intende comprendere in che modo

sostenere e rinforzare le competenze paterne in una situazione di forte

vulnerabilità.

Successivamente al questionario e all’intervista, e in una seconda fase

post ricerca, potrebbe essere interessante procedere con interviste che

chiamano in causa contemporaneamente più persone al fine di raccogliere

valutazioni, giudizi e opinioni arricchite dall’interazione tra i membri del

gruppo, ovvero, i focus group. La filosofia che sta alla base delle interviste

di gruppo risiede proprio nelle stesse dinamiche interne che favoriscono

una maggiore produzione di idee e una maggiore disponibilità a parlare e

ad analizzare in profondità un problema.

Dunque, in riferimento a quanto sopra esplicitato e in merito agli

obiettivi da raggiungere si è prediletta una linea di intervento che ha

permesso di comprendere quali fossero i reali bisogni dei padri e in che

misura e intensità fossero realmente coinvolti nella cura del figlio disabile.

156

2. Le interviste

Per indagare questo argomento si è proceduto con una metodologia

qualitativa attraverso un’analisi lessicale di 14 interviste condotte con padri

di bambini disabili. È stato utilizzato il software N-vivo. Questo

programma ci ha offerto la possibilità di estrarre informazioni relative alla

caratteristiche lessicali di ogni intervista. Si è potuto inoltre condurre

l’analisi su due livelli:

• analisi lessicale e successiva individuazione delle parole

chiave, ossia dei termini maggiormente ricorrenti e significativi

(nodi). Scorrendo la lista delle forme grafiche in ordine di sequenza

si sono eliminate le parole con funzione grammaticale o locuzioni

generiche (ad esempio fatto, cosa) in quanto non indicative delle

tematiche presenti nei testi;

• individuazione delle sequenze di parole caratteristiche di

ciascun testo, attraverso l’analisi dei segmenti ripetuti.

Da quanto emerso dalle interviste si può dedurre che la nascita di un

figlio disabile rimette in discussione una felicità essenziale ed esistenziale

che è quella di dare la vita ad una persona: un bambino con disabilità

colpisce, nella quasi totalità dei casi, una coppia o una famiglia in un

momento del ciclo di vita caratterizzato da “una dinamica espansiva e

gioiosa, generativa appunto, che la rende impreparata alla dimensione del

lutto e della perdita delle aspettative”333.

Nei modelli educativi come quelli che si attuano in situazione di

disabilità, i genitori sono i principali caregiver del figlio: la “disabilità”

sembra comportare un’attenzione accentuata ai “bisogni primari” del

333 A.M. Sorrentino, Figli disabili. La famiglia di fronte all’handicap, op.cit.

157

bambino a scapito di una relazione genitori/figli basata anche

sull’affettività, sulle emozioni, sul gioco e sulle esperienze emancipative

per la crescita e lo sviluppo.

Le attività di cura nei confronti del figlio disabile rivestono una

centralità educativa che, durante la crescita del figlio dovrebbe essere

sostituita anche con altre modalità educative, come quelle volte

all’emancipazione e alla crescita del bambino.

Secondo quest’ottica avere un figlio disabile è un’esperienza che

richiede ad entrambi i genitori una costante attenzione ai bisogni primari,

con il rischio però di cristallizzare il rapporto ad un’età in cui il figlio è

percepito piccolo, anche quando cresce334.

In questo scenario, il padre appare la figura che, in misura maggiore

rispetto alla madre, rischia di rimanere “intrappolato” in un “travestimento

materno”335 che non gli consentirebbe di sperimentare un ruolo differente

da quello di un padre con una funzione prevalentemente “curante”336.

Il padre nelle famiglie con un/una figlio/a disabile rimane, nella

letteratura scientifica, fino a pochi decenni fa, una figura secondaria

rispetto alla madre. A partire dagli anni ’70, i ricercatori hanno iniziato a

focalizzare la loro attenzione anche sulla figura del padre, indagandone la

situazione psicologica, le reazioni alla nascita del/della figlio/a, come era

già stato fatto per la madre.

Inoltre, definire il ruolo del padre, nonché il suo profilo e le sue funzione

educative sembra essere molto più complesso rispetto alla definizione del

ruolo della madre.

334 E. Montobbio, C. Lepri, op. cit.; D. Carbonetti, G. Carbonetti, op. cit., 2004, 1996. 335 P.P. Charmet, op. cit., 1999. 336 A. Cinotti, F. M. Corsi, L’educare dei padri con figli/e disabili. Riflessioni pedagogiche e progetto di ricerca, in “Italian Journal of special education for inclusion”, Vol. 1, n°2, Pensa Multimedia, Lecce, 2013, pp. 133-145.

158

Nei modelli educativi che si sperimentano in situazione di disabilità,

scrive Caldin337, i comportamenti volti alla cura, all’accudimento e alla

soddisfazione dei bisogni, non fanno altro che accrescere la dipendenza del

ragazzo con disabilità ad entrambi i genitori. Sono andate perse, d’altro

canto, le modalità cosiddette paterne – esperienze di frustrazione, spinte

esplorative, valorizzazione delle autonomie, capacità di scelta e di pensiero

critico, ecc. – che risultano enormemente indispensabili per la crescita delle

persone disabili e della loro formazione identitaria338.

Il confronto con la disabilità pone la famiglia di fronte alla difficoltà di

svolgere le proprie funzioni educative: traccia un confine temporale nella

vita dei genitori, il tempo si ferma e il sentimento dell’irrimediabile e l’idea

di un “mai più come prima” assorbono l’esistenza. Proprio per questo le

madri e i padri hanno bisogno di essere accompagnati in questo faticoso

percorso per coltivare la loro “capacità generativa”339, intesa come la

capacità di prendersi cura e legarsi ai figli.

Può seguire, se non correttamente supportati, anche una fase di

disidentificazione e desocializzazione, derivata da un’impressione di

pochezza, crollo psichico e annullamento sociale. Il distacco dal mondo

esterno li porta spesso a ritirarsi in uno spazio protetto, nel quale si

richiudono insieme al bambino per tutelarsi tutti: si mette in qtto, cioè, quel

processo di dis-empowerment nei genitori. Il livello di adattamento dei

genitori di un bambino disabile consiste anche nel saper trovare “uno

spiraglio” di libertà che non li faccia rimanere imprigionati in una nicchia

337 R. Caldin, op. cit., 2007. 338 A. Cinotti, F.M. Corsi, op. cit. 339 A.M. Sorrentino, Figli disabili. La famiglia di fronte all’handicap, Raffaello Cortina, Milano, 2006.

159

familiare chiusa e senza spazio per altre relazioni, coniugali, affettive,

amicali e lavorative340.

Tale processo che Gardou341 definisce come nidificazione è ben descritto

da Primo Levi in Se questo è un uomo:

la facoltà posseduta dall’uomo di scavarsi una nicchia, costruirsi una

conchiglia ed erigere intorno a sé una barriera di protezione nelle

circostanze apparentemente più disperate è assolutamente stupefacente. È un

prezioso lavoro di adattamento, in parte passivo e inconscio e in parte attivo.

Grazie a questo lavoro, nel giro di alcune settimane, si arriva a ritrovare un

certo equilibrio e un certo grado di sicurezza di fronte all’imprevisto. Il nido

è costruito e si è arrivati a superare il trauma causato dal cambiamento.342

In questo scenario, la madre corre il rischio di essere totalmente assorbita

dalla gestione e dalla cura del figlio, e il padre, allo stesso tempo, rischia

una progressiva chiusura in un ruolo che tende ad imitare quello materno.

L’interscambiabilità dei ruoli e dei compiti, oggi, non dovrebbe portare ad

un appiattimento e ad una omogeneizzazione dei ruoli genitoriali, bensì ad

una maggiore valorizzazione di una pluralità di modi di educare e

prendersi cura dei figli da parte della madre e del padre343.

La responsabilità parentale è senza dubbio la più impegnativa e difficile

che gli esseri umani devono affrontare e quella dei genitori di un figlio

disabile è ancora più delicata e complessa: dunque l’importanza che riveste

il padre nella dimensione educativa è ancora più rilevante a motivo delle

ricadute psicologiche e sociali riguardo lo sviluppo e la crescita del figlio.

340 M. Serra, Gli sdraiati, Feltrinelli, Milano, 2013, p. 43. 341 Cfr. C. Gardou, Diversità, vulnerabilità…, op. cit. 342 P. Levi, Se questo è un uomo, Torino, Einaudi, 2005, pp. 62-63. 343 A. Cinotti, F.M. Corsi, op. cit.

160

Come indica Carbonetti “la situazione peggiore può verificarsi quando il

padre fugge dalla situazione di impegno e di sofferenza: allora la madre

resta sola con il suo bambino e accentua il legame di dipendenza con

lui”344.

Riflettere sul ruolo dei padri, da un punto di vista educativo-pedagogico,

significa iniziare a ri-pensare agli interventi educativi tradizionali a

supporto della genitorialità, attraverso uno sguardo critico, attento ai

cambiamenti del contesto e disponibile al confronto delle differenze.

2.1. I padri si raccontano…

Nell’indagare il connubio padri/figli con una menomazione ci si è

avvalsi sia dell’approccio quantitativo sia di quello qualitativo. Nel nostro

caso (Roma Tre) abbiamo scelto di avvalerci dell’intervista coinvolgendo

padri con figli tra i 6 ai 10 anni. L’intervista, infatti, è stata da noi ritenuta

una modalità efficace per attivare un dialogo autentico e dinamico in grado

di consentire un approccio flessibile a un tema così delicato ed intimo. Il

ricorso a tale strumento, poi, ha permesso di raccogliere una notevole

quantità di informazioni e di impressioni che i padri hanno rispetto al loro

ruolo all’interno della famiglia, le proprie esperienze personali e i loro

compiti educativi.

La sfida, che appare una delle più importanti e, allo stesso tempo, più

complesse in ambito socio-educativo, è quella di trasformare la risposta

“specialistica” in “ordinaria”, laddove la focalizzazione sul “bambino

disabile” di stampo bio-medico individuale sembra ancora prevalere a

discapito di un approccio globale alla famiglia e al suo benessere.

344 D. Carbonetti, G. Carbonetti, Vivere con un figlio down, FrancoAngeli, Milano, 1996, p. 54.

161

Anche per questa ragione non si è scelto di “posare lo sguardo” su un

tipo specifico di impairment, a motivo del fatto che lo scopo della nostra

azione di ricerca non quello di fornire supporti compensativi meramente

strumentali (che rinforzano l’azione di delega all’esperto e allo specialista)

ma di co-costruire con i padri l’azione da intraprendere, a partire dai

repertori di competenza di cui sono possessori e portatori, i quali sono

troppo spesso sottaciuti o non valorizzati poiché schiacciati dal peso delle

interpretazioni derivate dai modelli socio-culturali imperanti.

La prima fase di questo lavoro ha visto il coinvolgimento attivo di 14

padri provenienti da diverse zone di Roma (Tor de’ Cenci, Appio-

Tuscolano, Boccea). Nel reperimento delle persone disposte a essere

intervistate e a partecipare all’attività di ricerca-azione è stata fondamentale

la collaborazione di alcune associazioni e Scuole345.

Si è proceduto, poi, all’analisi delle interviste per mezzo di N- Vivo.

Tra i nodi maggiormente interessanti che sono emersi vi sono quelli

inerenti:

o l’elaborazione del “lutto impossibile” (Gardou, 2006) e della

ferita narcisistica (Korff Sausse, 2006).

o il difficile equilibrio tra normatività e affettività;

o la propensione alla funzione di accudimento rispetto a quella

propriamente educativa;

o la differente percezione tra il ruolo (essere padre) e la funzione

(esercitare la paternità) in merito alla qualità e alla quantità di

collaborazione con la madre nell’esercizio della genitorialità;

o i vissuti esperiti in tutte le dimensioni ora indicati

345 In particolare si ringraziano l’associazione “Una breccia nel muro” (Boccea), l’Istituto Comprensivo “Via Santi Savarino” (Tor de’ Cenci), l’Istituto Comprensivo “Rita Levi Montalcini” (Appio-Tuscolana).

162

Di seguito si trascrivono le interviste.

Intervista 1

Forse è un caso un po’ anomalo il mio. Vedendo altri papà le dico che

con mia moglie siamo molto legati, quindi fin da prima che nascesse

Adamo e gli altri figli che abbiamo, avevamo riflettuto sull’ipotesi che il

bambino fosse disabile. “E se dovesse accadere che il bambino non è sano?

mica lo possiamo buttare!” ci dicevamo. Siamo di carattere positivi e

ottimisti. Io lavoro nell’informatica, mi piace la vita molto ordinata,

sistematica. Quando è arrivato Adamo l’abbiamo affrontato pensando

“comunque è tuo figlio”. Il nostro approccio al bambino è stato quello di

volerne capire di più. La diagnosi c’è stata comunicata dal Bambin Gesù

che ha anche aggiunto: “vi ritroverete a vivere il prossimo anno

nell’assenza totale delle istituzioni, c’è un tempo burocratico, la scuola ha

tempi tecnici che sembrano non porre l’attenzione sul bambino, ma sulle

regole, come se l’individuo non venisse prima della regola”.

Dei problemi di Adamo si è resa conto mia moglie. Intorno all’anno e

mezzo si incantava a vedere i film, qualunque cosa gli davi da mangiare

non lo accettava dalle mani di un altro, lo lasciava cadere nel box e poi lo

riprendeva, non guardava negli occhi, non lallava, era schivo. Verso i due

anni abbiamo avuto una visita neuropsichiatrica, una visita per capire se

sentiva, ed effettivamente sentiva, terapia relazionale e logopedia. Terapia

di gruppo con l’intera famiglia. Tre mesi, un po’ una perdita di tempo. Non

aveva, a pelle, simpatia per la logopedista, così siamo andati ad Aprilia e

già la seconda volta che la dottoressa lo visitava ci ha indirizzati al Bambin

Gesù. Abbiamo fatto la visita intramenia, poi attraverso un canale

privilegiato abbiamo preso l’appuntamento dopo poco: disturbo autistico

163

con ritardo psicomotorio, confermata la diagnosi. “Dopo avrete un lutto” ci

dissero. Abbiamo consegnato a scuola la diagnosi, ma a settembre e quindi

stette senza sostegno per un anno. Non siamo stati molto fortunati alla

scuola infanzia: le maestre e l’Aec (Assistente educativa culturale) lo

assecondavano, piuttosto che educarlo: noi a casa cercavamo di evitare che

giocasse con l’acqua, a scuola solamente con l’acqua lo facevano giocare,

poi abbiamo deciso di trasferirlo in una scuola più consona. C’è il sostegno,

ma c’è l’inefficienza della scuola. Ottenuta la 104 e presentate le carte a

scuola, non avevano mandato la comunicazione. Cosi in modo urgente a

settembre gli assegnarono otto ore di sostegno e per il resto c’era l’Aec. Poi

abbiamo avuto storie per inserire mio figlio nel servizio del pulmino per

portarlo a scuola: all’inizio non c’era posto, poi magicamente sì. Ho fatto

ricorso che fu congelato perché il giudice andava in pensione e… scuola

nuova, stesso preside. Assurdo!

Intanto iniziò a fare psicomotricità a due anni e mezzo, il centro dove sta

ora è venuto a fare glh a scuola, e lo psicologo, molto valido, si mise in

contatto con la Breccia nel muro (associazione per bambini autistici).

Adamo ora ha 7 anni e dalla prima elementare ha il sostegno completo,

abbiamo fatto un anno in più di asilo per il suo ritardo psicomotorio e

cognitivo. In quest’anno di “Breccia” ha compiuto un salto enorme, ha

recuperato il ritardo psicomotorio, ed ora lo definiscono “solo autistico”.

Non si relaziona con gli altri, anche se ha la coscienza che esistono, mentre

con i bambini più piccoli entra in sintonia, li tratta con rispetto, con

delicatezza. Lo psicomotricista sfruttava le stereotipie per entrare in

contatto, lo assecondava. Adamo sente le routine e svolge la terapia a casa.

Una settimana al mese veniamo alla “Breccia”: l efficacia nel trattamento

sta nell’inclusione delle famiglie. I primi terapisti sono i genitori, l’anno

scorso dei genitori si sono separati e alla mamma non accettava la terapia,

164

invece credere nella terapia e seguire le indicazioni ha un’efficacia

effettiva. Un giorno fa la terapia mia moglie e un giorno io, anche se a casa,

poi, la fa più lei. La seconda figlia è dislessica e quindi la accompagno a

logopedia. Mia moglie ha deciso di dedicarsi alla casa da quando ci siamo

sposati, dunque io lavoro solo: vado in trasferta per guadagnare di più, però

puoi seguire meno i ragazzi. Avere un bambino autistico ti stravolge i

tempi e i modi con cui ti dedichi anche agli altri. Bisogna trovare gli spazi

anche per gli altri. Con Adamo non si tratta solo di cambiamenti di ritmo:

noi lo consideriamo speciale, ha il suo modo di fare. Ad esempio sono 5

anni che non andiamo in pizzeria insieme, anche perchè ha la fissa degli

ascensori, non glieli devi far vedere. È un continuo cercare strategie nuove,

un continuo adattarsi ai suoi comportamenti. È una limitazione della tua

libertà, pesante, frustrante. Facciamo anche i volontari alla “Breccia. Anche

la suocera è coinvolta. Abbiamo anche organizzato una raccolta fondi su

“ruzzle for autism”. E poi, comunque, ci siamo riservati spazi per noi. Mia

moglie cucina la pasta di zucchero ogni momento in cui Adamo non c’è. Le

cose sono due: o non fai nulla o dedichi del tempo per te.

Intervista 2

Ho un altro bambino, oltre a lui. Il suo è un Disturbo persuasivo dello

sviluppo, con tratti autistici.

Ma per me anche lui è normodotato.

R. Al momento della diagnosi era con sua moglie?

R. In pratica era quello grande che non parlava: nostra suocera lavora qui

a scuola, il grande a iniziato a parlare tardi. Ha iniziato a fare logopedia e

proprio per questo abbiamo scoperto che il piccolo aveva problemi più

importanti. La neuropsichiatra l’ha preso in cura a due anni e mezzo, ha

165

fatto dei test alla clinica Sant’Alessandro collegata con l’università di Tor

Vergata ed è uscito fuori che ha tratti autistici. A un anno e mezzo non

parlava, era sempre agitato. All’inizio pensavo fosse una questione di

carattere. Il momento della diagnosi è cruciale.

In cuor mio penso, prima o poi, di risolvere questo problema.

L’importante è che riesca a fare una vita normale.

Abbiamo anche fatto altre visite mediche per capire se ci sentiva, e

infatti così fu. Ero rimasto più colpito del fatto che forse poteva non

sentire, che per la diagnosi di autismo.

Non mi piace svegliarmi presto, quindi a scuola lo accompagna mia

moglie. Quando sono disponibile faccio quasi tutto, i ruoli sono equiparati

ovviamente. Per mia moglie è più impegnativo perché lo vive nel

quotidiano, ma quando ci sono lo accompagno a nuoto e a logopedia.

Davide è impegnato 4 volte a settimana, andiamo anche privatamente. Ci

sono miglioramenti, sì. Segue il programma normale della classe, bisogna

insistere, non è che non sa fare le addizioni, bisogna entrare nel modo

giusto per farlo concentrare. Io non ho metodo: la logopedista e mia moglie

sono più brave. Io sono bravo a usare il computer, gli ho insegnato ad

andare in bicicletta, gli ho fatto il corso di nuoto e gli ho tolto la paura

dell’acqua: ora sa nuotare.

Sicuramente mia moglie esercita di più la funzione normativa, però

quando poi pure per me si supera il limite, basta. Però, certo, con me ci

provano di più.

Adesso sono molto a casa molto, (cassa integrazione) ed essendo

pensieroso la qualità del tempo che trascorro con i miei figli è peggiore.

Se io mi ricordo come era mio papà, io sono completamente diverso.

Infatti i figli sanno riconoscere quando non riesco ad essere autoritario e

autorevole. Io sono la parte ludica, per la scuola lo segue mia moglie, io per

166

inglese o per il computer. Quello grande è bravissimo. Io sono pigro di

mio, quindi i compiti non mi va di farli, la mamma è più rigida. Io non ho

mai parlato con le insegnanti, io sono più addetto agli spostamenti. Anche

per andare all’Inps… Fa tutto mia moglie, se non ci fosse stata lei sarei

impazzito. Anche io faccio cose che mia moglie non farebbe mai: andare al

parco tutto il pomeriggio, ad esempio. Ci siamo divisi i compiti

naturalmente. Lei poteva fare l’insegnante.

Per quattro volte deve seguire logopedia quindi non sta con gli altri

amici di scuola. Gli altri sport non gli piacciono. Gli piace il nuoto, ma lo

fa con me.

Certo siamo limitati con le vacanze. I primi anni sono stati tosti: lo

chiamavi e non rispondeva, urlava, si buttava per terra, però da qualche

anno a questa parte è bravo. E’ tra i più bravi. Anche portarlo a fare la

visita medica visita audiometrica non è più un dramma. Davide ha unito

ancora di più mia moglie e me. Ogni tanto io provo a dire di fargli fare

sport, ma lei dice che è troppo stressato. Frequentando LM vedo casi di

altri bambini. Io lì sono fortunato, ci sono casi anche più tosti. Davide è

buono, tranquillo, fa progressi. Sicuramente ci sono più donne ad

accompagnare i bambini, ma vedo anche i papà. Poi ci sono i genitori

separati…

Prima c’era mia cognata che ci aiutava. Ora si è trasferita al nord, quindi

tocca a me. Alle tre usciamo e andiamo a logopedia.

Da grande, ho paura per il futuro. Se può avere un lavoro una famiglia

sua, se potrà essere indipendente. Col fratello ha un buon rapporto, quello

maggiore non lo percepisce tanto, sì, ha difficoltà linguaggio, ma non se

rende conto. Sta anche in una classe dove lo trattano bene.

L’unica cosa è che io considero il problema di mio figlio non così grave.

C’è stato un periodo in cui pensavo “potevamo fare diversamente”, però

167

poi io i risultati ce l’ho avuti. Leggendo i forum io penso che ogni caso è a

sé. Un attimo mi è preso lo sconforto e ho avuto un po’ di tensione con mia

moglie, però ora abbiamo rifatto i test e pare migliorato. C’è da lavorare,

ma i progressi ci sono stati. Tutto è abbastanza gestibile.

Intervista 3

Non nascondo che all’inizio mi sono trovato sprovvisto con due bambine

piccole e da solo. Mi sentivo perso. Mia moglie stava male e inseguito ha

deciso di andare a vivere con un altro uomo. Mia moglie non stava bene da

quando sono nate le bambine. Valentina e Martina si tolgono un anno e

mezzo. Sin dall’inizio sono state affidate a me al 100%. Inizialmente era

molto difficile, poi con l’aiuto dei miei genitori e dei servizi sociali che mi

hanno affidato due educatrici la situazione è migliorata. Entrambe le

bambine hanno una diagnosi. La più grande ha un disturbo d’ ansia di

natura importante causato dalla presenza della mamma. La mamma non era

in grado di prendesi cura di loro. È vero che ora l’affettività materna le

manca, “la mamma è la mamma”, ma quando la vede, ogni due mesi,

cambia. Io la vedo che torna e non è serena. Ora è seguita da una psicologa

infantile e ha il sostegno a scuola. Sta migliorando, ma il suo disturbo

compromette in maniera forte ogni attività quotidiana. La piccola ha lo

stesso tipo di disturbo, ma in maniera più lieve. Anche lei ha il sostegno,

ma sono state le maestre di un’altra scuola a non sapersi relazionare con lei.

Da quando ha cambiato scuola ha tutti 9 e 10, forse l’anno prossimo non

avrà più il sostegno. La grande, invece, ha parecchie problematiche, anche

per addormentarsi la sera, è molto in ansia. Rispetto all’età che ha sta molto

indietro, sembra molto più piccola. Ha quasi undici anni. Ha grandi

problemi di socializzazione, difficoltà ad avere amicizie. A scuola mi

168

dicono che parla e scherza con le compagne. Si inserisce nei lavori di

gruppo. Io la invito a far venire qualche compagna a studiare con lei, ma

non sembra molto contenta. Certo avere l’affetto di papà e di mamma è

un’altra cosa. Nella mia stessa situazione siamo pochi. Su Roma siamo

nove papà ad avere l’affidamento al 100%. Su tutta Roma. Il tribunale dei

minori quando accadono casi del genere o affida i bambini alle case

famiglia o consente l’affido al 50%. Da quello che vedo io i ragazzini con i

genitori separati tutti hanno un problema emotivo. Tutto sta all’intelligenza

dei genitori che devono essere bravi a riconoscere il problema: la psicologa

di mia figlia è andata in classe a seguire Valentina per osservare il suo

comportamento in classe e mi ha riferito che molti bambini, compagni di

mia figlia, avrebbero bisogno di un sostegno psicologico. Ma se i genitori,

per vergogna o per ignoranza, non vogliono accorgersene fanno solo

peggio. Il problema si amplifica, non diminuisce. Io me ne sono accorto in

tempo, per fortuna. Ripeto, è difficile: sono solo. Per fortuna ho mio padre

che è molto serio (ride). Il nonno fa la parte del cattivo: “stai composta,

ferma, quello non si fa, questo si, ecc…”. Viviamo in case separate. Io

devo ringraziare i miei genitori e le educatrici: se non avessi loro! Gli

fanno fare compiti, le portano in piscina… I sevizi sociali funzionano e mi

hanno dato un grandissimo aiuto.

È chiaro, devi sapere quando dare affetto e quando essere duro. Ma a me

riesce difficile essere duro. Capisco la situazione che vivono le mie figlie e

l’affetto di un papà non sarà mai quello di una mamma. Essendo femmine,

poi… se fossero maschietti… Però la mamma serve sempre. Lei, la grande,

me lo chiede perché la mamma non c’è mai. Pensi, alla cena di classe per la

fine della scuola c’erano tutte mamme. “Papà ci sei solo tu!” Sono stato

molto attento in tutto: se la mamma non fa la mamma e fa danni è peggio.

È meglio che non ci sia per niente. È dura, alcune sere vado a letto e mi

169

viene da piangere. Arrivo distrutto dal lavoro: lavoro 12 ore al giorno,

torno a casa alle sette di sera stanco, ma la devi mettere da parte la

stanchezza e dare retta a loro. Devi dare quello che vogliono, mio padre mi

dà una grande mano, ma quando arrivo io vogliono me. Io devo

concedergli i loro spazi. La mamma, quando ci siamo separati, ha

peggiorato la situazione. Prima stavano con lei, poi tramite la segnalazione

al tribunale, sono riuscito a prendermi le bambine. Io gliele faccio vedere

solo tramite i servizi sociali. Secondo la sua ottica sono stato io a

portargliele via, invece non è andata così. Lei le mandava a letto senza

cena, senza colazione per la scuola, non le mandava vestite pulite, non gli

faceva fare i compiti, le faceva mangiare a orari sballati. Non ce la faceva

lei a vivere dignitosamente, si figuri prendersi cura di due bambine.

Io le dicevo: “dalle a me, senza farmi rivolgermi al tribunale, quando stai

meglio le riprendiamo insieme”.

Per ora non ho nessun pensiero. Vorrei che dimostrassero l’età che

hanno. La grande è indietro, quella piccola meno, ma ha bisogno di aiuto.

Sono molto unite, si cercano, si spalleggiano. Hanno molte difficoltà, è

vero. Alla grande manca la mamma, non vede l’ora di vederla. La piccola

meno, anche perché la mamma non la cerca molto. Prima si dispiaceva,

adesso non chiede neanche più di parlarci. Io le spiego che la mamma gli

vuole bene comunque, ma ora sta male e non può stare con loro. Sarebbe

peggio colpevolizzare la mamma, non farebbe bene a loro, ed io cosa

risolverei? Nulla. La grande non vorrebbe il sostegno a scuola, le dà

fastidio. Io neanche avrei voluto, ma la psicologa ha insistito…Infatti è

stata vittima di atti di bullismo: l hanno presa in giro, “sei ritardata

mentale” le dicevano. Siamo andati dalla preside a parlare e ora sembra

vada meglio. Ha dei ritardi nell’apprendimento, ma sta facendo passi da

leone. Il trauma c’è stato e ora va recuperato.

170

Intervista 4

Il dubbio e il sospetto che c’era qualcosa che non andava è arrivato ad

un’età in cui mio figlio avrebbe dovuto parlare e invece non parlava, non

emetteva suoni, o meglio: stava cominciando. La prima parola che ha detto

è stata “Papà”, ma dopo un po’ ha smesso. Il fatto che non parlava era

strano. Poi ci sono i familiari e gli amici che ti dicono: “ah, ma quello pure

ha iniziato a parlare tardi, quello a 5 anni… Figurati”. Si, ok, perfetto: c’è

quello e c’è quell’altro, però poi il dubbio ti viene. Intorno ai 18 mesi

l’abbiamo portato da una parte per farlo visitare, poi ovviamente non

accetti il primo responso e provi da un altro. E poi capisci che il responso

era quello…

Per quanto riguarda la quotidianità allora, è vero, anche nella nostra

famiglia, come tipicamente, è mia moglie che è più attiva perché noi

lavoriamo nello stesso ufficio: cassa assistenza sanitaria. Con le terapie uno

dei due doveva decidere di prendere un part time, nonostante la 104. Lei s’è

presa il part-time ed esce alle tre di pomeriggio. Gioco forza è lei che lo

porta alle visite, a logopedia sulla Tuscolana, impiega un’ora ad arrivare…

A lui piace tutto… E’ fissato con i treni, gli piace prendere la metro…

Siamo stati in America e ha preso l’aereo. Da poco tempo parla. Tutti gli

anni facciamo un test di controllo alla Sant’Alessandro, un distaccamento

di Tor vergata… Da questa serie di test hanno detto che è irriconoscibile.

Lui parla così da un anno, ma fino a un anno fa parlava solo con le

vocali… Ha avuto uno sviluppo velocissimo. Tutti sono rimasti veramente

colpiti: loro, (le educatrici dell’associazione), la neuropsichiatra. Siamo

sempre stati qui a Be&Able: prima faceva la terapia a casa e poi da

quest’anno scolastico ha iniziato a fare laboratorio, forse ha fatto due, tre

171

incontri quando stavano a viale Trastevere… Qui una volta a settimana fa

tre ore, poi lui si diverte, lui è bravissimo… Lunedi judo, martedi

logopedia, mercoledi viene qui, giovedi logopedia, venerdi pomeriggio

libero, sabato nuoto: però gli piace tutto… Si con i compagni sta

benissimo, lo cercano quando non c’è: fa parte del tessuto sociale, è

inserito benissimo all’interno del gruppo, le educatrici sono soddisfatte…

E’ figlio unico, con il tempo che richiede non ce la sentiamo ad avere un

altro figlio. Un aiuto enorme proviene da mia suocera perché abita vicino…

I miei sono lontano e nonna Luigina è la nostra salvezza…

D. futuro? Il dopo di noi?

R. Questo è uno dei punti di dibattito con mia moglie. Lei dice: “un

domani chi penserà a sto ragazzino, magari un fratello o una sorella…”

D. magari il fratello piccolo viene utilizzato come risorsa…

R. Io ho una fiducia enorme che diventi autonomo. E anche prima

quando parlava solo con le vocali, o non parlava proprio… Io non ho mai

avuto un momento in cui dicevo “ma chissà”, poi magari sarò io a essere

troppo ottimista, ma io la penso cosi. Mi è capitato di vedere altre

situazioni in cui mi dico “sono fortunato”. Veramente meglio, sta molto

meglio. E poi, ripeto, io sono convinto che lui abbia le potenzialità per

diventare indipendente, “normale”. Io ho visto che ci sono dei ragazzini

autistici, che se li incontri per strada, manco te ne rendi conto.

Intervista 5

Quando è nato è stata grande festa. Un bellissimo bambino. È figlio

unico. Non aveva nemmeno due anni che ho cominciato a vedere i primi

segni di qualcosa che non andava: non si girava subito quando lo chiamavi,

metteva in atto delle stereotipie. Un papà nella sua mente inizia a dire:

172

“bella mazzata”. Lo stato d’animo di un papà? Tu fai progetti, gli posso

insegnare questo, quello… e poi ti crolla il mondo addosso. Sicuramente

c’è stato un attimo di sbandamento, poi ti devi resettare: con mia moglie il

rapporto si è rafforzato. Noi ci siamo sposati perché ci vogliamo bene, il

rapporto è ottimo e questo anche affinché Francesco possa vivere sereno ed

essere autonomo, il più possibile. Ora ti racconto un pensiero che ho

maturato tramite l’esperienza di amici e colleghi: io sono ferroviere, mi

occupo della manutenzione delle linee elettriche, controllo a distanza le

centrali dove il treno prende la corrente. Siamo cinque colleghi, cinque con

bambini autistici. Secondo me c’è un fattore ambientale forte: l’arco di

tempo in cui sono nati i bambini… Noi abitiamo a Scalea (Calabria). […]

(mi parla di un tasso d’incidenza molto elevato di bambini autistici nel suo

paese).

Francesco è un bambino a basso funzionamento, ha sette anni. Ora si

iniziano a vedere i progressi. Abitiamo una settimana a Roma così

possiamo partecipare ai corsi per bambini autistici della Breccia nel muro.

Mi sono anche preso l’aspettativa per non caricare mia moglie di troppo

lavoro da sola. Mia moglie per forza è casalinga.

Le nostre famiglie ci aiutano molto, da entrambe le parti. Se abbiamo

necessità di spostarci, ci sono gli zii. Pensa, mio fratello ha sposato la

sorella di mia moglie, c’è un vincolo d’affetto molto forte.

Io sono un padre presente, ci sono sempre per tutte le cose che servono a

Francesco.

Scuola? In Calabria non ti fanno ripetere l’asilo, quindi quest’anno

frequenta di nuovo la prima elementare. Ha avuto un’ottima insegnante di

sostegno l’anno prima, quest’anno invece no. La scuola non vuole

collaborare con i terapisti che vengono da fuori, si sentono controllati.

L’insegnante di sostegno è un’ignorante, ma non per colpa sua, ma per

173

come sono fatte le linee guida. Abbiamo bisogno di insegnanti con

formazioni specifiche, almeno per lavorare con l’autismo. A scuola stiamo

attraversando una crisi. Si mettono paletti stupidi per non confrontarsi.

Io, nel mio piccolo, cerco di combatterla sempre l’ignoranza nei

confronti dell’autismo: io intervengo in queste battaglie perché anche con

gli altri genitori abbiamo fondato una nostra associazione.

Noi sappiamo vedere se chi lavora con i bambini autistici, lavora bene.

Abbiamo fatto amicizia tra genitori qui alla Breccia nel muro e siamo

rimasti in contatto anche con gli altri che hanno finito e che non vengono

più qui.

I genitori, e i papà, che collaborano con questa Associazione sono tutti

quanti presenti. La terapia è efficace perché parte da noi. Questa terapia

implica la presenza del genitore: Francesco è cambiato. È vero, non è

verbale, ma qualche parola gli “esce” e a livello cognitivo è migliorato,

come anche il contatto oculare.

Noi pensiamo al domani. Dobbiamo cercare di creare delle situazioni in

cui i nostri bambini dovranno e potranno essere autonomi, anche quando

noi non ci saremo più.

Bisogna crearle ora le condizioni per il futuro, anche a Scalea.

Intervista 6

Claudio ha una sorella più grande, ha sette anni e mezzo e ha una

sindrome genetica non ereditaria: una sindrome orfana. Non si come

succede, ma tutto avviene al momento del concepimento con l’unione del

dna, si chiama cardio facio cutanea. Lui è così dalla nascita.

Anche la sorella soffre di una disabilità congenita di tipo meccanica: è

nata con una deficit ad un braccio, anche lei sta qui nella stessa scuola.

174

Claudio ha un forte ritardo neuropsicomotorio: non cammina, non parla,

non si alimenta da solo, ma artificialmente con alimenti ricomposti. Ero

presente al parto, mia moglie ha avuto una gravidanza perfetta e solo al

momento del parto cesareo si sono resi conto che il liquido amniotico era

scuro. Come genitore ho capito che c’era qualcosa che non andava. Non si

riusciva subito a fare una diagnosi. Claudio è nato a maggio del 2006 e la

scoperta del gene è stata fatta a dicembre dello stesso anno. Non si sapeva

assolutamente da che gene dipendesse. Da lì è iniziato un’odissea. Due

anni dopo abbiamo avuto la certezza della diagnosi. Il bambino ha avuto un

ospedalizzazione molto marcata, è stato molto spesso ricoverato in

ospedale per una malformazione cardiaca. È stato operato al cuore a tre

mesi, dopo un mese è stato ricoverato d’urgenza perché non si alimentava

col biberon, rigurgitava e non cresceva e quindi gli è stato inserito un

sondino nello stomaco. Inoltre ha ipotensioni nella postura e non

deglutisce: non sa che cosa fare con il bolo, soffocherebbe. A tre anni ci fu

il primo esordio di crisi epilettiche molto forte, contestualmente l’altra

bambina stava subendo degli interventi chirurgici per far funzionare la

mano attraverso un trapianto di tessuto muscolare. La bambina è normale,

ma ha questo ispessimento al braccio dovuto alla posizione al momento del

parto in cui rimase schiacciata.

Rapporto con bambina molto attaccata, più coccolata. Con Claudio ci

sono stati molti progressi: è più presente, comunicativo. All’inizio aveva

anche difetto visivo per cui lui vedeva solo al margine, faceva fatica a

riconoscere, ora è molto più partecipe, presente, ride, scherza.

Sicuramente nel rapporto con mia moglie la disabilità di Claudio ha

influito e ha pesato. C’è stata una vera trasformazione. Noi pensavamo di

essere felici. Io non mi sento felice, nonostante abbia molti motivi per

esserlo, ma ora non lo siamo. Per me è cambiato tutto. Mia moglie è più

175

positiva, ci vogliamo bene. Io non mi stancherò mai di dirlo: questo

bambino è nato per amore. Ci ricordiamo quando è stato concepito. È

andata male. Siamo esasperati. I primi mesi non dormivamo e anche i primi

anni, tutto è molto faticoso: da quando è stato operato la seconda volta allo

stomaco non si addormenta spontaneamente, ma solo con i farmaci, ora è

cambiata la terapia e dorme. Adesso dorme un po’ meglio. Il bambino va

molto volentieri a scuola, si trova benissimo con i bambini, soprattutto i

piccolini, c’è una forte empatia con i bambini di tre anni e notiamo piccoli

miglioramenti.

D. Il suo rapporto con Claudio?

R. Adesso la situazione è cambiata. Durante la settimana lavoro. Il

bambino sta fino alle 4 a scuola. La mattina lo prepariamo insieme. Per

motivi personali abbiamo ritenuto più opportuno che fosse lei (la moglie) a

beneficiare per entrambi i figli della 104. Mia moglie ha avuto un tumore

alla mammella, ora sta bene. Poi quando esce da scuola viene preso in

carico da un assistente domiciliare. Sta con lei, fa terapia riabilitativa, una

parte della giornata sta a scuola e una parte a casa. La sera torniamo a casa.

La terapia la svolge quattro volte a settimana e il fine settimana sta o con

noi o con i nonni.

D. rapporto con altri familiari?

R. Da coppia era essenziale viaggiare, ascoltare musica… Tutto questo è

finito. Da due, tre anni abbiamo ripreso a fare le vacanze. Il materiale che ti

devi portare dietro è immenso. Ci trasferivamo a Fregene, ma non in un

albergo. Avevamo paura delle crisi epilettiche, quel primo episodio è stato

traumatico. Siamo andati in Calabria. I viaggi come li facevamo prima non

li abbiamo più fatti, la musica gli da fastidio, alcune frequenze lo

disturbano, su alcune piange. I miei genitori sono molto anziani, e oltre al

dispiacere che hanno avuto, richiedono cure.

176

Da parte della moglie sono affettivi, ma non possiamo contare su di loro,

bisogna contare su aiuti esterni. Non abbiamo supporti familiari pratici,

sono più affettivi, non è un supporto che può risolvere un problema

quotidiano.

D. Funzione normativa?

R. Claudio non ha bisogno di regole, non è questo il caso. Se sta male è

insofferente, non ha altro canale comunicativo. È autolesionista, si dà le

botte in testa, deve superare il momento di crisi poi torna ad essere sereno.

Soffre di problemi respiratori.

D. Futuro?

R. Mi preme molto il suo futuro, sono molto preoccupato. Non c’è

soluzione: né familiare né sociale. Non riesco a immaginare un aiuto e ci

spaventa il non avere soluzioni. La sorella non è neanche propriamente

abile, noi siamo genitori anziani: ci siamo incontrati dopo due matrimoni

falliti. Io ho 55 anni e, ammesso che sopravviva a noi, verrà messo in un

Istituto. Non c’è una soluzione concreta, nel dopo di noi… Sì, ci sono i

fratelli, ma la sorella non è pienamente abile dal punto di vista fisico.

Sostanzialmente chi si occupa di questi aspetti è la famiglia. E noi non

possiamo condizionare la vita della sorella. In passato succedeva che questi

soggetti venivano a mancare prima, o venivano messi in istituto.

D. A lei aiuta legger ei blog?

R. Non mi interessa a stare in mezzo a persone che hanno lo stesso

problema, mi conforta solamente leggere le soluzioni nella gestione pratica

del problema. Per il benessere della sorella cerchiamo di stare con famiglie

normali, non siamo portati a stare con persone con lo stesso problema. Ti

accadono cose per cui, poi, la vita non è più la stessa.

177

Intervista 7

Il suo rapporto con il figlio, la giornata, il suo percorso dalla diagnosi

alla giornata.

Ti premetto che io ho fatto dieci anni di volontariato con i bambini

down. Manuel non è stato accettato, di più. Manuel è un bambino down. Io

sono innamorato di Manuel, Aurora è la prima figlia, poi Manuel… Se mi

togli Manuel… E’ eccezionale! Mi fa arrabbiare, per carità. Fa la quarta

elementare. E’ il classico tipo che ti prende in giro, ma per fortuna ha

un’insegnante di sostegno in gamba… E’ nato il 1 dicembre del 2002.

Quando mia moglie era incinta abbiamo fatto tutto, tranne l’amniocentesi.

Io sono contro l’aborto, quando mi domandano stupidamente: “tu che

avresti fatto?” gli rispondo “a me, se Manuel manca 15 giorni è finita,

nonostante sia pesante”. Io lavoro precariamente, lei (la moglie) lavora

all’ospedale e come orari ha dalle 7 alle 19, o anche dalle 7 alle 21, e

Manuel qualche volta è ingestibile. Io qualche volta gliel’ha do vinta, lo so.

Una volta eravamo a Cinecittà2, vicino c’è quel parco… Siamo stati un

pomeriggio intero e lui stava con la bicicletta… Attraversiamo la strada

“Manuel non togliere i gommini dal manubrio!”. Non le dico: cade con il

manubrio sotto l’occhio, una paura! Fortunatamente passa una signora con

un ghiacciolo, qua sotto, (indica lo zigomo) non le dico il sangue… E qui a

scuola ti fanno le domande… Qualche sculacciata se la prende…

Me l’ha mandato Gesù Cristo, io adesso non saprei proprio… La sera:

“nel lettone, papà?” Adesso è uscito da terapia e non vedo l’ora di tornare a

casa… “Papà? Bici?” Mi vedo il tg alle 8 e mezza e alle nove dormo, anzi

adesso un po’ meno perché lavorando meno assiduamente, io uscivo alle

sei e rientravo alle otto… E poi non mi sono mai tirato indietro. Io e mia

moglie, naturalmente. Adesso lo accompagna più mia moglie a terapia, ci

diamo i compiti…

178

D. Manuel è autonomo?

R. Manuel è molto furbo… Io mi sono trovato un giorno a vedere lui che

mangiava a mensa con gli altri bambini: entro nel refettorio e lui mangiava

solo. “Guarda sto paravento!”, a casa l’altra volta gli ho detto: “o mangi da

solo, o non mangi”. S’è messo là e m’ha guardato. Gli ho tagliato la carne,

“dai mangia!” Nelle sue cose è molto astuto, poi da quello che ho capito

avendo anche avuto contatto con altri diversamente abili, penso che la

sindrome di down sia quella meno “diversamente abile” che c’è, se presa a

cuore… L’altro giorno mi è capitato di stare con un mio amico che ha un

bambino autistico, che adesso sta diventando anche violento. Il mattino

prima- lui (l’amico) fa il falegname e stava a Firenze-, ha chiamato il

fratello perché il ragazzo stava menando la madre. E’ come se adesso io sto

parlando con lei e inizio a menarla… “scusate, scusate” dice il mio amico

“che scusate?! De che ti devi scusare?” Io ho iniziato ad accarezzare

Daniele… Più che grosso, è alto… Hanno una forza… Ma anche Manuel

ha una forza impressionante… Io Manuel me lo porto dappertutto: andiamo

al parco, in bici, andiamo alle giostre, andiamo da qualunque parte voglia

andare lui, se ne approfitta, a volte. A me sente di più, rispetto a mia

moglie: “mo’ basta, mettiti là, stai zitto…”. Come successe due mesi fa:

siamo usciti e gli dico: “sempre con la macchina usciamo, andiamoci a fare

una passeggiata…”, e lui niente, non gli andava… A un certo punto gli ho

detto: “oh, o andiamo a piedi o rimaniamo a casa”. S’è girato! “Benissimo,

ora andiamo a casa, non fai nulla, stai fermo, non ti muovi, adesso

facciamo pranzo, vai a dormire e se mi va…” Il pomeriggio ha aperto la

camera, io facevo finta di dormire, ha preso la bicicletta e l’ha portata

vicino a me, (che poi è raro che dormo il pomeriggio), mi ha fatto così -(mi

fa vedere il gesto del bambino che lo chiama)- “e ‘mo che vuoi?” “Bici…”

“No, stamattina ti sei comportato male…”. Poi mi si compra…

179

Guardi, io sono molto contento di questa maestra, ci sta dando una mano

in tutti i sensi e poi c’è una signora che la accompagna a scuola. Qui in

Italia non siamo gestiti bene: parlando con una dottoressa le ho detto “io

non ho mai conosciuto un bambino sfortunato come Manuel…”. Lui,

nell’arco di un anno, cambia due, tre, quattro, cinque volte maestre, il

bambino, poi, non ci capisce niente. Un giorno ci sta lei, un giorno ci sto

io… Io ho fatto la Giornata Internazionale dei ragazzi down, mio figlio

adesso ha 10 anni e mezzo, nel 2008, lui era piccolino… E ci siamo trovati

con tutti i paesi europei e con i bambini con diverse disabilità e con quel

poco di inglese che so, parlando con altri paesi, Svezia, Norvegia, mi

dissero: “voi non siete da terzo mondo, ma da sesto mondo…”. Mi ha

spiegato questa dottoressa… Tipo lei, bionda, occhi chiari: “da noi, quando

nasce un bambino diversamente abile, è lo stesso ospedale che avvisa il

comune di appartenenza che c’è questo Bes… E già forniscono un percorso

loro…

Le racconto questo episodio: nel 2011 sono venuti alcuni signori dei

servizi sanitari, dopo che nel 2005/2006 ho richiesto i domiciliari. Si è

presentata una signora che mi dice: “siamo venuti a fare un’altra volta la

domanda perché è scaduta” e io “scusi, ma lei quando c’è venuta qua

dentro casa mia?” “Perché non so mai venuta?” “mai!” Io so che c’è un

pulmino che passa e devo dare 500 euro al pullmino che porta a scuola

Manuel, e adesso mi pesa perché la pensione di Manuel me la dividevo:

250 euro per Manuel e 250 euro per Aurora. Adesso non ce la faccio e non

me ne vergogno…

Ora poi gli hanno chiuso il progetto a Villa Fulvia e quindi stiamo

vedendo di farlo riaprire. Non so se lei conosce Albertini del San Raffaele,

un professore che ha studiato da sempre la sindrome di down. Ci ha detto

“guardate che questo ragazzo ha bisogno, da un punto di vista

180

comportamentale, di un supporto psicologico”. Sa da quanti anni è che lo

chiediamo a Villa Fulvia? Ce l’hanno data a pagamento, privato, a Grotta

Ferrata: noi ogni venerdì sera prendiamo e andiamo, 40 euro a seduta… Io

dico, perché tu a qualcuno lo fornisci il servizio e a lui no… “Ah, ma non

ha bisogno”, ci dicevano. Dove mi mandano gli altri non va bene perché

non me l’hai detto tu. Io sono allibito, ma comunque vado avanti perché a

me, mio figlio, non me lo leva nessuno… Finché sto in piedi e c’ho ragione

di essere.

Aurora ha preso psicopedagogia per questo…

Intervista 8

Luca ha otto anni e mezzo. Di lui ce ne occupiamo o io o la madre, ma

più io, perché la madre esce presto. Lo sveglio, gli preparo la colazione, a

lui e alla sorellina di 3 anni e mezzo, lo accudisco nelle mansioni mattutine,

lo aiuto a lavarsi e a vestirsi, vedo se va in bagno. Poi lo accompagno a

scuola, mentre nel pomeriggio se ne occupa il Comune ad accompagnarlo

alle attività extrascolastiche. Nei fine settimana andiamo in bicicletta nei

parchi: quest’anno un po’ di meno perché il pomeriggio è sempre molto

impegnato. O andiamo da soli o con la sorella. Comunque mi prendo cura

di Luca sia da un punto di vista pratico, ma anche in altri modi: ad esempio

con lui gioco e gli insegno ad usare il tablet oppure con la wii, o anche al

gioco dell’ oca. Cerco, cioè, di fargli fare i giochi di socializzazione, così

come li svolge in altri contesti scolastici e non. Non c’è quindi una mia una

funzione specifica: nel nostro caso non c’è una divisione netta dei ruoli.

Ovviamente la mamma ha delle caratteristiche imprescindibili, ad esempio

la mamma organizza di più le cose di casa. Casco bene da questo punto di

181

vista! (ride). Si, si, le regole gliele do continuamente, anche perché le

richieste da parte sua sono sempre di più, quindi bisogna imparare a dire di

no o a convogliare la sue attenzione in altre cose. Cosi come fare i compiti.

Io lo aiuto, senz’altro. Il pediatra dell’asilo ci comunicò che qualcosa non

quadrava. Il pediatra di base pensava che il bambino avesse determinate

caratteristiche caratteriali, ma non credeva altro. E anche noi a casa non ci

rendevamo bene conto. Poi, dopo l estate, il pediatra dell’asilo ce l’ha detto

di nuovo di portarlo a visitare. Quindi ci siamo indirizzati verso una

struttura pubblica e qui hanno fatto la diagnosi. A 2 anni è stato dato

l’allarme e a due anni e mezzo la diagnosi vera e propria. Non

conoscevamo nulla dell’autismo, come qualunque altro. I primi mesi, ma

direi anni, uno non si documenta neanche perché non ti viene detta una

cosa specifica, all’inizio la diagnosi è generica. Dopo ti cominci a

documentare, più avanti, quando il disturbo è permanente e quando la

diagnosi inizia a essere più dettagliata. Uno dei padri che veniva in questa

struttura, disse: “tanto se ne occuperà mia moglie”, però forse non aveva

capito che era un problema generale che avrebbe riguardato lui, la moglie e

l’eventuale fratello o sorella. Penso molto al futuro, ma anche all’oggi:

soprattutto da una certa età in poi si comincia a pensare il futuro, ma non in

negativo, uno inizia a pensare al futuro migliore, però so che ci sono le case

famiglie ed altre si strutturano. Poi dipende anche che adulto sarà, se

acquisirà un’indipendenza o meno. Anche se non ci pensi al futuro, tanto

viene fuori lo stesso.

182

Intervista 9

Lorenzo è un bambino di dieci anni. Fino alla seconda elementare

siamo vissuti a distanza, nel senso che i primi anni della sua vita li ha

vissuti con la mamma, il nonno e la nonna.

Dopo di che, 4 anni fa, abbiamo deciso di riavvicinarci visto che erano

subentrate delle condizioni economiche favorevoli, ma soprattutto perché

abbiamo deciso di stare tutti insieme: io i figli li vivo veramente dagli

ultimi quattro anni perché prima li vedevo dal venerdi, quando scendevo a

Pozzuoli, alla domenica. Ripartivo lunedi mattina presto. Io dal 2000 sono

a Roma perchè prima lavoravo nel nord Italia. Mi sono sposato con Chiara

nel 2001. Nel 2002 è nato Umberto, il nostro primo figlio e nel 2003

Lorenzo. Fino al 2010 siamo vissuti uno a Roma e loro a Pozzuoli. Io

facevo il pendolare: l’ho fatto per dieci anni, poi non ce l ho fatta più.

Il problema di Lorenzo è stato identificato qui a Roma. Nella scuola a

Napoli abbiamo avuto parecchi problemi: per una serie di motivi che mi

hanno portato… Cioè, voglio dire, il bambino veniva indicato come

irrequieto, svogliato, senza voglia di apprendere. Io ho avuto anche uno

screzio molto forte con la maestra. Inoltre continuavano a chiamare in

continuazione mia moglie per andare a prenderlo a scuola perché il

bambino si rotolava in terra e cose di questo genere. Finché un giorno dissi

a mia moglie: vado io a parlare con la maestra al colloquio. Ribadii alla

maestra che io mi occupo dell’educazione di mio figlio al di fuori delle

mura scolastiche, quando lo affido “alle mura scolastiche” per me la

responsabilità dell’educazione e della formazione di mio figlio è delle

insegnanti. Insomma, abbiamo avuto una litigata importante. Io, poi, i

primi tempi ho punito Lorenzo. Mi dicevano che era svogliato: io per

cercare di fargli capire l importanza delle cose lo punivo. Poi ho scoperto…

(momento di commozione). Da quando siamo venuti a Roma abbiamo

183

affrontato questo tipo di problema, ma lo abbiamo capito molto dopo. Da

quando sono a Roma ho orari variabili. Inoltre ho problemi di salute

personale: cerco di seguire il bambino cercando di invogliarlo a lavorare e

a studiare. “Guarda che se vuoi, puoi! Hai visto che dicevi di non farcela e

ora, invece, ce l’hai fatta?” gli dico spesso. Sicuramente è poco il tempo,

però la vita è fatta di mille impegni e responsabilità: lavorare fino a tardi mi

permette di curare Lorenzo. Lori è un bambino dolcissimo che ogni tanto

ha i suoi “momenti no”, ma se impari a prenderlo, lo convinci… Bisogna

giocare un po’ sullo “psicologico”!

Le preoccupazioni di un papà con un bambino come Lorenzo… Anche

io penso cosa succederà nel futuro. Oggi vediamo gente molto brava che fa

fatica ad ottenere un lavoro. Anche perché noi non siamo eterni: è vero noi

siamo giovani, ma io a maggio ho avuto anche… (altro momento di

commozione ricordando l’infarto che lo ha costretto a casa per un po’ di

tempo). Il pensiero c’è. Il non riuscire in qualche modo garantirgli un

futuro sicuro mi dà ansia, anche perché il bambino ha capacità, però

viviamo in una società in cui le cose le vuole subito e tempestivamente.

Non siamo un società di pensiero, anzi. Vogliono tutto e subito, per cui la

mia preoccupazione è questa. Io ora cerco di invogliarlo ad imparare

benissimo una lingua, perlomeno una lingua, perché male che vada, è vero,

si è distanti, io sono distanti 600 km dai miei, però oggi con gli arei, con i

mezzi, si arriva dappertutto. Per cui… Sicuramente penso che Lorenzo sia

un bambino con cui credo di avere un debito.

Io in matematica andavo bene: cerco di trasformare le spiegazioni di

matematica su un piano figurato; cerco di accompagnare le visioni

matematiche: cosa significa da un punto di vista pratico, ma questo lo

faccio in maniera indipendente dalla diagnosi di Lorenzo. E’ la prima volta

che parlo di Lorenzo con tutta la sua storia. Mi sento responsabile perché

184

comunque, indipendentemente dalle parole, io ho un ruolo, esercito un

ruolo, gioco un ruolo e io del problema di Lorenzo non me ne sono accorto.

Punto. Mio suocero me lo diceva: “guarda che forse Lori ha dei problemi,

mi sembra lento” e io pensavo che c’è il bambino più sveglio e quello

meno. Magari Umberto, il fratello, è più “veloce”, poi lui in un colpo

esplode. Non ho ascoltato il segnale che mi è arrivato, ma non collegavo

neanche quello che mi diceva la maestra. Io non conoscevo la malattia fino

a quando non me l’hanno spiegato. Poi ho imparato che ci sono questi

bambini. La cosa che mi faceva incazzare era quando mi “girava” i numeri.

Io non capivo perché mi girava i numeri, allora io pensavo che lo facesse

apposta. Era un attaccabrighe Lorenzo. “E io ti faccio fare un’altra riga”.

Forse gli è servito, ma comunque ha avuto uno stress emotivo incredibile.

Ora Lorenzo ha molto chiaramente in mente quelli che sono i suoi limiti e

le sue difficoltà. Io glielo dissi molto apertamente: “quando sei stanco ti

riposi un attimo, poi si ricomincia”. Non mi aspetto che sia Einstein. Io

vorrei per lui una vita vissuta con dignità, che abbia una famiglia e che sia

felice. Poi se vuole fare il pittore, lo scrittore o il parrucchiere non mi

interessa. Io voglio un figlio contento, non laureato o altro. Mio padre era

autista e mi diceva “studia se non vuoi fare la mia vita”, e poi a volte mi

chiedo a cosa mi sia servito studiare. Poi magari si, ti piace il lavoro, ma

non hai soddisfatto i tuoi sogni. La vita è una, non esiste il rewind. Poi sono

contento se sarà parrucchiere o panettiere, l’importante è che riesca a

vivere la sua vita, coni suoi alti e bassi, ma serenamente. Non in mezzo a

lusso o ricchezza, poi se fosse: buon per lui. “Aiutati che Dio t’aiuta.

Adesso, poi, neanche li inverte più i numeri”.

185

Intervista 10

Fabiano è nato con una malformazione all’occhio e in una parte non

vede. Poi questo ha portato anche a disturbi dell’attenzione ed è iperattivo.

Il rapporto con mia moglie è rimasto invariato anche perché siamo una

famiglia numerosa. Abbiamo cinque figli.

Il suo tipo di disabilità ci permette comunque di dargli regole anche se

siamo molto tolleranti. Ha un carattere molto testardo.

I fratelli hanno un bel rapporto, anche se tra maschi e femmine c’è

sempre qualche discussione. Io sveglio tutti i figli, facciamo colazione tutti

insieme e aiuto Fabiano a vestirsi: devi stargli appresso sennò lui si mette

sul divano. Devi andare lì e motivarlo. Poi io devo andare a lavoro e mia

moglie li accompagna a scuola. Poi lei li riprende e io arrivo alle 18:30. Lui

fa ippoterapia, gli piace molto. Il cavallo fa tanto per chi ha problemi. Va

d’accordo con gli amici, ci gioca a pallone…

Lui non ha un grande handicap, per fortuna, quindi è abbastanza

autonomo e non avrà grandissimi problemi. Uno ci pensa sempre: che farà

un domani quando non ci staremo più noi? Però per fortuna non è un

grande handicap. C’avrà delle disabilità ma qualcuno gli darà una mano.

Grandi preoccupazioni non ce ne sono: tranne pensare a quando porterà

la macchina che avrà qualche problema di vista… ma sennò non abbiamo

grandi preoccupazioni per lui.

Lui la parte affettiva la fa sempre con la mamma. È più abbraccione con

la mamma. Io lo accompagno a terapia, lo porto in giro, eccetera. Ma con la

mamma è più coccolone.

Essendo così tanti, mi dispiace non riuscire a dedicare a ognuno il tempo

che merita. C’è sempre piaciuta la famiglia numerosa. Abbiamo fatto

quello che volevamo. La realtà è questa, ci devi convivere! Bisogna essere

186

intelligenti e non ci si deve nascondere: ognuno c’ha una cosa che Dio gli

dà.

Intervista 11

Mia figlia è nata nel 2003. Ha un fratello di 6 anni più grande. Io ero

molto preoccupato. I primi mesi dalla nascita la bambina sembrava

normale. Poi dopo 3-4 mesi ha cominciato a irrigidirsi, la notte c’erano

pianti disumani… io e mia moglie abbiamo vissuto dei periodi assurdi.

Notti interamente dedicate al pianto. Alla fine siamo andati anche al pronto

soccorso. Lì ci stavano per dimettere ma io mi sono imposto perché non mi

sembrava possibile. Approfondendo hanno visto che c’era un problema

cerebrale molto grave: una distroencefalia. Le cellule che lei dovrebbe

avere nell’encefalo sono sparse per il corpo. Crisi epilettiche…

Lì il mondo è finito. È finito tutto. Io non ne parlavo… aveva già quasi 5

mesi.

Da lì è crollato tutto e abbiamo cercato di portare su le macerie. Il

fratellino non poteva capire fino in fondo. Anche a lui questo ha portato

gravi problemi emotivi che abbiamo sottovalutato.

È imploso dentro ed era naturale che accusasse questo. Il clima in

famiglia era cambiato. Con una bambina così devi rivoluzionare tutto.

Viene tutto concentrato su di lei. E un bambino di 6 anni questa cosa la

digerisce a fatica…

Durante la gravidanza non ci siamo accorti di nulla perché non si vede

nemmeno con l’amniocentesi. Quando l’hanno diagnosticata, abbiamo

visto di tutto... ci avevano detto che la bambina non avrebbe mai provato

emozioni, non avrebbe mai sorriso, niente. Però quello che vedevamo noi

non era questo! Un genitore come fa ad accettare una cosa così?! Era

187

meglio se mi avessero ammazzato. Dire così a un genitore è devastante!

Non sarei capace anche se fossi uno specialista: abbiamo visto le eccellenze

in Italia ma ormai per loro è una routine e non hanno tatto. Tornati a casa ci

siamo messi lì e…

Il rapporto tra di noi è stato ovviamente danneggiato perché la tensione

che c’era in casa si tagliava col coltello. Crisi ripetute, poi una cosa del

genere non la digerisci mai. Io ancora non l’ho digerita. Adesso mi faccio

le stesse domande del 2003: non è possibile, dico! Comunque ci siamo un

po’ appoggiati l’uno all’altro. Addirittura Chiara ora viene a scuola qui, la

conoscono tutti… quando c’ha le crisi gli insegnanti la portano via in

pompa magna… la conoscono tutti! Ha anche insegnanti molto brave,

soprattutto quella di sostegno. Si prestano oltre il loro dovere.

Io non so perché noi non abbiamo ceduto. Io ho sentito gente che ha

detto: io non ce l’ho fatta più e non mi sento neanche di giudicarli perché è

dura. È una cosa che non riesco neanche a descrivere. Non c’è neanche un

discorso da affrontare.

È una bomba che ti capita tra capo e collo. Non so nemmeno per quanti

mesi non ho dormito. Ti porta al limite.

Poi è cresciuto anche l’altro figlio e abbiamo cominciato a rivolgerci

anche a lui come altro soggetto della famiglia. Non è stato trattato come

doveva. Adesso per esempio lo affronta diversamente, ma per lunghi

periodi non accettava la sorella. La rifiutava. La mamma lo forzava ma io

le dicevo che aveva bisogno di tempo per capire. Poi dopo qualche anno

già ci diceva: io come faccio con Chiara quando voi non ci siete più? E

come fai a dire a un bambino… non lo so come siamo riusciti a tirare

avanti.

A parte proprio la programmazione di niente: non abbiamo più potuto

programmare niente. Noi stiamo sul minuto. Anche a scuola, magari dopo

188

mezzora mi chiamano perché le è venuta una crisi. È soggetta a crisi

epilettiche anche abbastanza importanti… stiamo andando avanti.

Tra qualche mese il fratello farà 18 anni. Noi abbiamo sempre fatto

affidamento su mia suocera anche perché mia mamma ci ha lasciati… io ho

anche un sospetto… che non abbia retto a questa cosa. È stata una cosa

devastante. Devastante dentro. Ti cambia il modo di vedere il mondo… ci

sono corse che ora mi fanno ridere e prima… cambia l’ottica, cambia tutto.

Anche dentro casa! Anche il grande, magari è preoccupato per la scuola e

io gli dico stai tranquillo.

La gestibilità della bambina adesso l’abbiamo quasi inquadrata.

Abbiamo dei segni e lei ci comunica delle cose. Quando è nervosa fa delle

cose e ce lo fa vedere. Quindi siamo sull’attenti. Comunica quando ha sete,

fame, sonno: cose che non avrebbe mai dovuto fare. Lei riconosce tutti e

non avrebbe dovuto riconoscere nessuno. Si abbraccia la nonna quando ha

fame e le fa capire che vuole sedersi là. Non parla, ma… ci avevano detto

che non avrebbe potuto mangiare, invece… se ha fame lei si avvicina come

se dicesse “è ora…”.

Si può dire che non le manca mai il sorriso: una cosa inaspettata per il

quadro che ci avevano prospettato. Non lo so, quello che verrà, verrà.

Grandi aspettative non ne posso avere.

Io pensavo di morire in quell’ospedale dopo la risonanza. Usciti dalla

risonanza mi hanno chiamato: mi ricordo tutto, anche i nomi dei medici.

Ero solo e mi hanno detto così: “guardi, questo, questo, questo”. Io stavo lì

e dicevo: non sono io! Non sta parlando di me. Non è possibile! Una

persona non può sopportare una cosa del genere! Un evento tragico nella

vita di una persona c’è sempre, ma così è proprio un... ti strappa… è una

cosa micidiale. Io sono stato per non so quanto tempo seduto. Non sapevo

che fare. Non sai che dire… poi se le dici a una persona che non capisce…

189

ma io alle prime tre parole avevo già capito cos’era. Ho detto: è finito qui.

Mi poteva anche prendere un colpo. Non riuscivo più a parlare. È una cosa

inimmaginabile. Nemmeno una bomba atomica. Mi dà fastidio solo il

ricordo. Però è successa…

Adesso Chiara fa fisioterapia a casa. Fa piscina. Sta seduta, ma non

riesce a stare in piedi perché le gambe non la sorreggono più.

A scuola la fanno anche lavorare: abbiamo un libro e ci fotografano

quello che riescono a farle fare. I bambini la coccolano tutti e lei lo sente.

Sente tutto. Sente anche il cambio di voci. Quando poi lo manifesta, lo fa

con nervosismo. Perché capisce che sta succedendo qualcosa di diverso. Il

fratello adesso la spupazza. Io non sono sicuro fino in fondo che lui la

abbia accettata. Qualcosa mi fa capire di sì, perché più di una volta ha

portato qualcuno a casa: prima la nascondeva.

Io e mia moglie ci siamo presi questo fardello… come fai a spiegare

anche ai nonni che non puoi fare niente?! Non c’è nessuna soluzione. È

così.

Anche con gli amici c’è stata una sorpresa vera: pensavo di essere

circondato da persone diverse. C’è stato l’allontanamento di tutti. Un taglio

drastico. In quei momenti non potevo stare dietro agli amici, ero tramortito.

E non c’è stato l’aiuto che ti aspetti da un amico. Anche per mia moglie è

stato così. Ora c’è gente che non vedo più da anni. Secondo me è una cosa

gravissima. Io me ne vergognerei.

Quando siamo solo io e mia figlia, e lei mi sorride, c’è sempre una parte

di me che dice: “ma com’è possibile?”. Io me la immagino sempre come

sarebbe stata se fosse stata normale… e questo ti dilania completamente.

Questo mi accompagnerà per il resto della mia vita. Non è possibile

accettare. Non è superabile. Tu puoi solamente gestirla, ma non superarla.

190

Mia moglie non lavora anche perché sarebbe impossibile. C’è anche mia

suocera che ci dà una bella mano. È sempre presente.

L’immagine è quella di un albero sotto un temporale: tu stai lì e quello

che arriva ti prendi. Se torna il sole, bene… l’immagine è solo quella.

Io la mattina mi alzo e non so come andrà la giornata. Magari mentre mi

preparo poi non posso più andare in ufficio. Minuto dopo minuto. Ormai ci

sono abituato.

Intervista 12

Emanuele è il più piccolino dell’associazione. Io e Catia, la mia

compagna, anche se il figlio era stato voluto, non avevamo né istinto

materno né paterno. Devo dire che fino ai due anni e mezzo non gli

stavamo molto dietro, lo lasciavamo fare. Stava molto con la baby- sitter.

Poi dai due anni e mezzo con il fatto che ebbe la diagnosi, iniziammo a

seguirlo. A 23 mesi diceva solo mamma, papà e acqua, mi sembra. E poi

abbiamo parlato con la pediatra che ci ha indirizzato dalla neuropsichiatra.

Sì, vedevamo che era solitario. Nel giro di due mesi ha fatto la diagnosi:

disturbo multisistemico di sviluppo, che poi è diventato autismo. Catia è

andata in aspettativa: è stata lei il traino dal punto di vista delle terapie, io

mi sono accodato: prima abbiamo scelto il Teach. Lei ha una marcia in più,

come tutte le donne, e aveva più tempo. Riuscivamo a organizzarci in

questa maniera: lei faceva le ricerche con l’Abba e teneva i contatti con i

terapisti, io mi documentavo, nei ritagli di tempo, e poi quando abbiamo

deciso di andare alla “Breccia nel muro”, va beh lì partecipano i genitori,

cercavamo di dividerci le terapie, anche se faceva più Catia la terapia, sia al

centro che a casa. Poi anche io mi attengo ai target che ci danno: per

chiamarlo sostenendo lo sguardo, e anche dal punto di vista verbale è

191

migliorato. Lei ha fatto di più, poi io sono stato un ottimo collaboratore, ho

supportato sempre, ogni cosa ne discutevamo insieme. Con Emanuele…

Allora praticamente 70% Catia e 30% io, per motivi di lavoro. Oppure ci

alterniamo: martedì lo porto io cosi lei ha la possibilità di riposarsi o fare

qualcosa per casa. Emanuele fa saltare i nervi più a me che a Catia. Lei

riesce ad avere la pazienza necessaria, è più lucida e ha la freddezza e la

calma per rispondere, io invece lo sgrido, e a volte non riesco ad aver un

tono di voce tranquillo affinché il comportamento venga estinto. Ti faccio

un esempio: ha imparato ad accendere il gas. Se io sto giocando con lui e

sente Catia che accende il gas mentre cucina, lui va là che deve spegnere il

fuoco. A me, dopo un po’, mi viene da prenderlo e alzar la voce

chiamandolo “Emanuele cosa stai facendo”, mentre lei ha la pazienza e la

calma per riprenderlo. Non so fino a che punto perché siamo umani. Allora

quando arrivo al massimo ci cambiamo di ruolo. Ci sono varie difficoltà,

ma questa è la linea che ci siamo dati. A scuola si trova bene, ci vuole

andare, la classe è carina soprattutto le compagne lo proteggono, lo

cercano. Inizialmente abbiamo pensato a fare un altro figlio, però poi

abbiamo deciso di no. La percentuale che ricapiti è elevata quindi non

vogliamo intraprendere questa strada. Io del futuro non ne parlo. Non ci

pensiamo e quando ci pensiamo cerchiamo di dirci “vedremo, ora

concentriamoci sul presente”. Speriamo di renderlo autosufficiente: i

presupposti ci sono, le potenzialità dovrebbero esserci. Io non penso

neanche a quando avrà 15 anni, al massimo penso alla prima elementare.

Ho molta speranza che diventi autonomo. Il nostro rapporto, con Catia, è

solido e stabile. Noi abbiamo sempre tutelato il tempo di coppia chiamando

la baby sitter, ma negli anni successivi non è stato possibile. Affidavamo

Emanuele ai nonni dalle cinque alle otto e mezza per un aperitivo, ma poi

di corsa a casa. Però ci manca molto questo tempo per noi. Quest’ultimo

192

mese stiamo cercando di recuperare questi spazi, ci servono. C’è tanta

stanchezza. Abbiamo ricominciato la scorsa settimana con la baby- sitter.

Io sono di natura anaffettivo, quindi, a prescindere dalla diagnosi. I

progressi ci sono stati, questo ci da forza e speranza. C’è un abisso con i

bambini di 4 o 5 anni normali, ma anche più piccoli. Però c’è anche forte

dislivello con bambini autistici dell’età sua. Emanuele è migliore.

Il ruolo della mamma è primario, il mio è altamente collaborativo.

Intervista 13

Appena nata, mia figlia ha rigurgitato sangue ed è stata trasferita in

terapia intensiva al Bambin Gesù. Le hanno diagnosticato un ritardo

psicomotorio. Poi ogni tre mesi andavamo in ospedale per un controllo

all’orecchio e la logopedista ci disse che non indicava.

A due anni, dopo il nido, ha iniziato la logopedia. Nel 2010 a Tor

Vergata e dopo un day hospital le hanno diagnosticato un disturbo

generalizzato dello sviluppo. Da quella diagnosi abbiamo iniziato la

psicomotricità oltre alla logopedia.

Lei ha fatto passi da gigante. Ha iniziato con le parole e da poco anche i

discorsi. È figlia unica.

Con me ha un ottimo rapporto. Quando torno dal lavoro la porto al parco

giochi o ai gonfiabili… lei si relaziona bene con gli altri, è molto solare.

Io sono un po’ elastico con le regole, perché lei non le rispetta molto. Fa

anche una terapia comportamentale e a scuola si trova bene. I primi tempi è

stata dura e ora va meglio. È molto dura riuscire a dirle di no. Ma in linea

di massima ce la faccio. A volte per non sentirla…

Per il futuro di Giulia noi ragioniamo giorno per giorno. Un domani,

casa ce l’ha e cerchiamo di costruirle un futuro. Per ora non ci

193

preoccupiamo più di tanto. L’appuntamento per l’intervista l’ha preso mia

moglie. Ha fatto tutto lei.

Intervista 14

Il mio ruolo non è così ben definito. Francesco ha 7 anni, e abbiamo un

altro figlio di 5 anni e mezzo. La mamma è più morbida con lui. Io con

Francesco sono un po’ più coerente.

La mamma porta a scuola Francesco, poi lo va a prendere e lo porta qui

(in un associazione per bambini autistici Be&Able) perché lei ha il part

time a lavoro e poi io vengo a prendere Francesco all’uscita. La mattina li

prepariamo insieme: lo aiuto a vestire e preparo la colazione. Mentre il fine

settimana lo portiamo a fare una passeggiata, una gita. Non c’è una

divisione netta dei ruoli, ma ci organizziamo così solo per motivi pratici.

D. Cosa intendi quando dici di essere più coerente?

R. Le mamme, come le nonne, cedono più facilmente, sono molto più

morbide, ci sono molte minacce, ma non le mantengono mai.

Con Francesco questa cosa non è percorribile. È affezionato ai bambini

di scuola, ha fatto un anno in più all’infanzia, diciamo che va bene, per

quanto possibile.

D. Momento della diagnosi?

Ha avuto un evoluzione normale fino ad un anno e mezzo. Era un

bambino molto sveglio, lo chiamavano “sorriso”, “raggio di sole” all’asilo.

Stava tendenzialmente più solo, rispetto agli altri bambini. Così abbiamo

parlato con lo psicologo del nido per farlo vedere: siamo andati dal

neuropsichiatra che, all’inizio, non ha detto nulla, poi è scaturita la

diagnosi, anche se il medico era titubante, quindi non lo so, avrà avuto due

anni e mezzo, tre. All’inizio noi ci rendevamo conto, non era cosi evidente,

194

quindi convincerci che effettivamente era così seria la situazione non è

stato facile. Poi è peggiorato. Ha avuto un periodo in cui andava

peggiorando sempre più: perdeva competenze, iniziò a regredire anche il

linguaggio, ma nel frattempo cresceva, quindi anche se le competenze

rimangono uguali, tu dovresti migliorare, visto che cresci. Allora siamo

andati a cercare qualche tipo di riabilitazione. E ti dico che li possiamo

buttare tutti i medici, o quasi, non tutti, ma quasi… Il medico della Asl ci

ha costretti a fare una riabilitazione ridicola per un anno e mezzo, per poi

scaricarci e dirci che non avevano più posto. In seguito siamo andati in un

centro dove facevano ABBA: “La Breccia nel muro”. Lo facevano il loro

lavoro, anche se era uno stress pauroso perché lì è previsto che una

settimana al mese lavorino i genitori. E soprattutto la cosa massacrante e

che sono seguiti dal Bambin Gesù, che per quanto riguarda l’autismo è

assolutamente incompetente. Danno solo i farmaci… Ora siamo a Tor

Vergata… Il primario non l’ho mai visto però è un centro molto

scrupoloso. Io non vedo l’utilità del neuropsichiatra nell’autismo, tanto i

farmaci non li do. Se mi dicessero fai psicomotricità e lascia Abba, io farei

Abba comunque… Si fanno le valutazioni che secondo me lasciano un po’

il tempo che trovano perché sono valutazioni che sono fatte in un

determinato periodo, per cui il bambino può essere annoiato, stanco,

infastidito. La valutazione può essere anche sovrastimata, non

necessariamente sottostimata, anche se dopo ci sono le valutazioni

sistematiche, quelle che fanno loro qui. Se il bambino è agitato me ne

rendo conto anche io. È un bambino oppositivo, furbo… Conta molto chi

trova dall’altra parte, una volta ogni sei mesi ci sono le valutazioni… sono

stressanti… per la mamma…per me no…

D. Pensa al futuro?

195

R. Mica una volta sola. Io non ho una risposta… Pensiamo a mille cose,

al fratello anche come possibile supporto. Speriamo di avere un supporto

dal fratello che ha solo diciassette mesi in meno… Che poi la paura che

riaccada è altissima… L’idea che ho è che se c’è la possibilità di riparare i

danni, il momento è questo. Questa è l’ora. Non crediamo nella

riabilitazione completa, bisogna lavorare e investire adesso.

2.2. Analisi con il software N- Vivo

La letteratura scientifica inerente il tema della disabilità e attinente, in

particolare, il rapporto educativo che intercorre tra padre e figli disabili, ci

rende consapevoli di alcune delle tante supposizioni errate che si hanno

nell’interpretare diversi comportamenti paterni. Innanzitutto, afferma

Sausse, i padri non sono assolutamente meno coinvolti nei confronti dei

loro figli e della sofferenza che comporta la loro disabilità346.

Per quel che concerne l’analisi qualitativa, abbiamo evidenziato

attraverso i nodi le parole chiave rilevanti ai fini della ricerca. La scelta

delle categorie è avvenuta tramite un approccio induttivo, senza griglie

concettuali predefinite. I risultati ottenuti dall’indagine evidenziano dei

padri molto attenti e presenti nella vita dei figli.

La tabella sotto riportata illustra in quante interviste, le sources appunto,

(i materiali di ricerca -documenti word, PDF, set di dati, audio, video,

immagini, tweet-) e in quante frasi ricorrono le parole, secondo la nostra

ipotesi di ricerca, più importanti.

346

S. Korff Sausse, Specchi infranti, Ananke, Torino, 2006.

196

SOURCES REFERE

NCES

regole 7 10

affetto 5 7

crisi 2 9

cura 7 10

diagnosi 8 13

diff icoltà 2 2

disabil i tà 2 4

divisione

ruoli

7 9

domani 1 1

educazio

ne

1 1

famiglia 7 8

f igl io 6 7

fratello 6 7

futuro 9 14

genitori 5 6

ist into

materno e

paterno

1 1

mamma 6 11

moglie 12 24

papà 11 22

presente 1 1

scuola 4 7

197

socializz

azione

1 1

sorella 2 6

sostegno 3 5

stanco 6 8

tempo 3 3

terapia 7 8

vita 4 5

Dall’analisi dei nodi ci accorgiamo che non possiamo continuare a

ridurre l’attaccamento a parametri meramente biologici, per cui la madre,

avendo avuto in grembo il bambino, sarebbe predisposta naturalmente a

prendersi cura in modo simbiotico del/della figlio. Ciò che stabilisce il

legame con la madre e il padre è sicuramente l’attaccamento affettivo che

si attua e si realizza nello stesso modo in entrambe le figure parentali. È

bene ricordare che il figlio nasce già in una triangolazione: la sociologa

Évelyne Sullerot347 si domanda se sia ora di smettere di immaginare i

rapporti madre-bambino su una base duale, escludendo dunque il terzo

elemento. I padri, che definiamo assenti o troppo presenti, replicanti delle

madri, ci sono sin dall’inizio. Pertanto la paternità, ai giorni nostri, scopre

che essere padre non basta, si può anche fare il padre. Non solo ridursi

quindi a principio di autorità o a sostenitore economico, ma vivere la

paternità come tenerezza, empatia, vicinanza fisica ed emotiva.

Se la disabilità provoca una rottura, perlomeno inizialmente

immaginaria, di desideri, sogni e aspettative in entrambi i genitori, 347 É. Sullerot, Aspects sociologiques de la fonction paternelle, Group haut normand de

pédopsychiatrie, Rivages, Parigi, 2000.

198

«l’immagine di castrazione che questa provoca ferisce ancor più i padri

nella loro immagine narcisistica, dal momento che li attacca maggiormente

nella loro integrità maschile»348. Bisognerebbe chiedersi, invece, come mai

i padri vengono lasciati quasi sempre in disparte rispetto alla

considerazione che si ha nei confronti delle madri: potrebbe esservi la

paura per l’aspetto sommerso e inconscio della “maternizzazione” paterna,

la quale scatenerebbe la comparsa del tanto temuto “mammo”349. La donna,

biologicamente e psicologicamente legata ai figli, deve essere attaccata a

loro senza eccezioni, «dato che storicamente sono state le primi nutrici, e

agli occhi di molti sono divenute le principali responsabili dell’educazione

della prole; in altri termini, ciò che era descrittivo è divenuto

prescrittivo»350.

Il ruolo educativo del padre, e del padre con figlio disabile, ha assistito

ad un percorso evolutivo piuttosto lungo che, oggi, si trova al centro di una

ri-scoperta fondamentale. In ambito pedagogico è importante distinguere i

due principali codici, materno e paterno, che hanno modi particolari e

peculiari di esistere: non si tratta di distinguere le due funzioni secondo il

genere maschile e femminile, anzi, si tratta solamente di riconoscere due

modalità differenti di approccio educativo da cui non possiamo

prescindere. Entrambi i codici si rivelano fondamentali per una sana

crescita psichica ed emotiva dei figli. Se inizialmente il bambino ha

bisogno per sopravvivere di cure parentali orientate alla protezione, alla

soddisfazione di bisogni e alla gratificazione immediata, man mano che

cresce e si sviluppa avrà bisogno di regole, limiti e confini entro cui

sperimentarsi ed elaborare la strada verso l’autonomia e l’indipendenza. In

348 S. Sausse, Specchi infranti, op. cit. p. 45. 349 Cfr. M. Quilici, Storia della paternità, Fazi Editore, 2010, Roma. 350 N. Marone, Padri e figlie, Frassinelli Editore, Milano, 1989.

199

questo senso si presenta come altro dalla madre e non come un “fac-simile”

materno.

Di seguito si riporta una tabella 351 nella quale si descrivono

sinteticamente i tratti salienti dei codici materno e paterno:

CODICE PATERNO CODICE MATERNO

Dare responsabilità Compiacenza

Stimolare alla conquista

dell’autonomia

Gratificazione

Dare regole e norme Soddisfare i bisogni

Porre limiti e confini

chiari

Proteggere

La pedagogia speciale ha ben presente la difficoltà che risiede nel

pensare all’educare paterno. Riteniamo che il padre, in base alle evoluzioni

storiche e culturali prima accennate, debba ancora trovare una precisa

definizione. Il cambiamento delle relazioni tra padri e figli disabili ha

condotto dall’istituzionalizzazione alla presa in cura della persona disabile,

comportando quindi una serie di ripensamenti in seno alle tematiche della

disabilità e al lavoro con le famiglie. L’obiettivo che fa da sfondo ad una

nuova idea di pedagogia dei e per i genitori, in riferimento soprattutto al

padre, è quello di rendere il nucleo familiare competente e responsabile nei

confronti del figlio disabile352, poiché «si ha la necessità di far sì che i

membri del nucleo domestico acquisiscano capacità, indipendenza e

351 Z. Formella, A. Ricci, Bambini facili o difficili? Dal carattere all’educazione familiare da 0 a 6 anni, Anicia, Roma, 2013, p. 103. 352 Cfr. L. Bichi, Disabilità e pedagogia della famiglia, op. cit.

200

autosufficienza nelle interazioni esterne ed interne, in modo da poter

soddisfare i bisogni e le mete auspicate»353.

Facendo riferimento ai DS si potrebbe riflettere circa un ulteriore

passaggio che comporterebbe un capovolgimento in seno al concetto di

indipendenza: il movimento per la vita indipendente rappresenterebbe la

risposta positiva per controbattere l’egemonia proposta dal modello medico

per la gestione della disabilità. Tale ribaltamento di prospettiva andrebbe a

scontrarsi con un pensiero, duro a morire, per cui la nascita di un bambino

disabile, soprattutto se grave o gravissimo, condurrebbe i genitori, e nello

specifico il padre, ad abbandonare ogni spinta educativa e propulsiva verso

l’autonomia.

«Ora, ho pochi strumenti per condurre una danza filosofica intorno alle

parole “libertà” e “autonomia”»354 scrive Massimiliano Verga, padre di tre

figli, di cui uno, Moreno, nato sano e diventato gravemente disabile nel

giro di pochi giorni.

C’è un’enorme problematicità nel poter comprendere in che modo una

persona disabile grave possa essere indipendente, eppure per le persone

disabili appare una proposta radicale:

è un concetto radicale perché pone una sfida diretta al pensiero corrente

sulla disabilità e individua una soluzione pratica e ideologica ai problemi

culturali e ambientali che le persone disabili e le loro famiglie si trovano ad

affrontare. Di più, la nozione di vita indipendente manifesta il potenziale

non solo di migliorare la qualità della vita di persone direttamente affette da

disabilità, ma anche di altre minoranze svantaggiate.355

353 R. Viganò, Ricerca educativa e pedagogia della famiglia, La Scuola, Brescia, 1997. 354 M. verga, Un gettone di libertà, Mondadori, Milano, 2014, p. 125. 355 C. Barnes, G. Mercer, Disability, Polity Press, Cambridge, 2003, p. 89.

201

Rispetto a questa analisi, la quale mette al centro le persone con

disabilità che combattono sempre più con le strutture deprivanti la

possibilità di controllare le proprie vite, noi adottiamo il punto di vista

paterno. Cosa significa per un padre educare alla norma se poi la vita del

figlio risulta già, in qualche modo, prefissata all’interno di alcune regole

imposte dall’esterno?

Se le persone disabili dipendono costantemente da altre risultano, loro

malgrado, vittime di un circolo vizioso che le vede costrette a non poter

mai intraprendere una vita indipendente. Come rileva Brindesen: «non

usiamo il termine indipendente per intendere che si deve far tutto da sé, ma

per indicare una persona che abbia preso controllo su tutta la sua vita e

abbia scelto come condurla»356.

D’altronde, questa sarebbe la speranza di ogni padre e di ogni madre

nell’immaginare la vita adulta del/della figlio/a disabile:

«speriamo di renderlo autosufficiente: i presupposti ci sono, le

potenzialità dovrebbero esserci. Io non penso neanche a quando avrà 15

anni, al massimo penso alla prima elementare. Ho molta speranza che

diventi autonomo» 357.

La dichiarazione del padre, che esplica il suo desiderio di autonomia per

il figlio, ci aiuta ad esplorare una dimensione propria dell’essere persona: il

diritto, perlomeno, a poter raggiungere, nella vita di ogni giorno, un

356 S. Brisenden, Disability, Handicap and Society, tr. It. 1986. 357 Dall’intervista a un padre di un bambino disabile. Le interviste riportate in questo contributo sono

tratte dalla ricerca “La figura del padre con un/una figlio/a disabile”. Si tratta di un progetto condotto da chi scrive nell’ambito del Dottorato di ricerca in Teoria e ricerca educativa e sociale svolto presso il Dipartimento di Scienze dell’Educazione di Roma Tre (referente scientifico Prof. Fabio Bocci). La ricerca − tutt’ora in corso – prevede il coinvolgimento dell’Università di Bologna (Dottoranda Alessia Cinotti, referente Prof.ssa Roberta Caldin) e la collaborazione dell’Università di Padova (Dott. Simone Visentin) e dell’Università Cattolica di Lione (Prof.ssa Margherita Merucci).

202

controllo rispetto alle proprie decisioni. «Il grado di disabilità non

determina il grado di indipendenza che una persona raggiunge»358.

L’essere padre comprende ancora funzioni di tipo normativo perché

rappresenta, idealmente, l’autorità, il pensiero razionale e logico essenziali

per la crescita del figlio, sebbene le modalità di tipo emancipativo (come il

fornire regole) continuino ad essere particolarmente difficili, in particolare

rispetto ad alcuni casi di disabili più gravi:

«Claudio non ha bisogno di regole, non è questo il caso. Se sta male è

insofferente, non ha altro canale comunicativo. È autolesionista, si dà le

botte in testa, deve superare il momento di crisi poi torna ad essere sereno.

Soffre di problemi respiratori».

In questo senso il padre non riesce a svolgere le funzioni tipiche del

codice paterno, ma al contrario sarà obbligato ad avvicinarsi a modalità

prevalentemente “curanti” nei confronti del proprio figlio, essendo

coinvolto nella cura, nella protezione e nella soddisfazione dei bisogni

primari, insieme alla madre, sin dalla nascita.

Il padre rimarrebbe, comunque, il centro della normatività, malgrado

ormai i ruoli genitoriali siano bilanciati e considerando poi che l’autorità,

oggi, è sempre più condivisa con la madre:

«A me sente di più, rispetto a mia moglie: “mo’ basta, mettiti là, stai

zitto…”. Come successe due mesi fa: siamo usciti e gli dico: “sempre con

la macchina usciamo, andiamoci a fare una passeggiata…”, e lui niente,

non gli andava… A un certo punto gli ho detto: “oh, o andiamo a piedi o 358

S. Brisenden, Indipendent living and the medical model of disability, op. cit.

203

rimaniamo a casa”. S’è girato! “Benissimo, ora andiamo a casa, non fai

nulla, stai fermo, non ti muovi, adesso facciamo pranzo, vai a dormire e se

mi va…” Il pomeriggio ha aperto la camera, io facevo finta di dormire, ha

preso la bicicletta e l’ha portata vicino a me, (che poi è raro che dormo il

pomeriggio), mi ha fatto così -(mi fa vedere il gesto del bambino che lo

chiama)- “e mo’ che vuoi?” “Bici…” “No, stamattina ti sei comportato

male…”. Poi mi si compra…».

Il modo di incarnare concretamente la funzione paterna dipende in larga

parte dal tipo di relazione vissuta all’interno della coppia genitoriale.

Difatti, uno degli aspetti tipici del mutamento della nostra società sta

proprio nella redistribuzione dei ruoli tipici dell’uomo e della donna: i

padri sconfinano in alcuni campi destinati solitamente alla donna. Le cure

parentali, come abbiamo scritto, in particolare nei confronti del/della

figlio/a disabile, sono sempre più orientate alla soddisfazione dei bisogni

primari del/della bambino/a, a fronte della nuova e sempre maggiore

quotidianità lavorativa della moglie:

«Di lui ce ne occupiamo o io o la madre, ma più io, perché la madre esce

presto. Lo sveglio, gli preparo la colazione, a lui e alla sorellina di tre anni

e mezzo. Lo accudisco nelle mansioni mattutine, lo aiuto a lavarsi e a

vestirsi, vedo se va in bagno. Poi lo accompagno a scuola». (padre)

Il padre, comunque, non può, e non deve, sostituirsi completamente alla

moglie, ma gradualmente deve trovare degli spazi in cui inserirsi nel

rapporto madre-bambino per non permettere a quest’ultima di legarsi

204

simbioticamente al/alla figlio/a. Il padre, afferma Quaglia 359 , non

rappresenta l’elemento opzionale per cui se c’è è un bene, altrimenti se ne

fa a meno, ma ritrae l’altro polo identificativo di cui i figli hanno bisogno

per crescere in modo equilibrato, e la riuscita non sta nell’annullare il

maschile e/o il femminile, ma nella loro comune destinazione.

Al padre è affidato il compito di traghettare il figlio dal territorio

materno, simbolo di protezione e di accudimento, a quello della società in

cui il confronto con la realtà condurrebbe il/la bambino/a a socializzare e

ad emanciparsi sino a diventare autonomo/a.

I padri continuano, anche nei casi più complessi, a fornire al/alla figlio/a

quel bagaglio esperienziale che è prettamente di loro competenza:

«Anche io faccio cose che mia moglie non farebbe mai: andare al parco

tutto il pomeriggio, ad esempio».

La società postmoderna ormai rifiuta la figura del padre onnipotente, per

fare spazio al padre ludico, al padre affettivo. È noto, infatti, come la figura

paterna dagli anni Settanta abbia vissuto una vera e propria rivoluzione

antropologica attraversando diversi stati tra cui la parità dei sessi,

l’affiliazione affettiva che governa la coppia e la possibilità di sposarsi

senza vincoli o obblighi prestabiliti:

«Se io mi ricordo come era mio papà, io sono completamente diverso.

Infatti i figli sanno riconoscere quando non riesco ad essere autoritario e

autorevole. Io sono la parte ludica, per la scuola lo segue mia moglie, io per

inglese o per il computer».

359 R. Quaglia, Il “valore” del padre. Il ruolo paterno nello sviluppo del bambino, Utet, Torino, 2001.

205

Oggi i giovani papà invadono il campo della maternità permettendo

l’affiorare delle critiche rispetto al loro ruolo e alla loro presenza, secondo

un pensiero che li svilisce e li denigra: è possibile pensare che non ci sia

più bisogno del padre e che quindi lui si prenda «cura del/della bambino/a

per non perdere il suo posto? Che, di fronte al nuovo potere delle donne, gli

uomini tentino di impadronirsi di una parte della maternità? »360. E quanto

vale questo tipo di discorso nei confronti di papà di figli/e disabili in

riferimento al fatto che si tende sempre di più a privilegiare il ruolo delle

madri a discapito dei padri?

In tal senso S. K. Sausse si chiede: «Perché gli scritti teorici danno

sempre più importanza alla madre? Perché le pratiche istituzionali si

indirizzano così poco al padre? Nei centri specialisti, ci si lamenta

costantemente di non vedere i padri. Ma li si sollecita veramente? Ci si

regola su orari compatibili con la loro vita professionale? Se i padri sono

meno visibili nelle istituzioni, ci si può chiedere quanto spazio venga loro

concesso da équipe spesso essenzialmente femminili. I padri non si

sentiranno un po’ a disagio in un universo femminile votato all’infanzia?

Quale ascolto si dà al suono di una voce maschile?»361.

Per Cirimbelli362 il ruolo paterno, collocato in un quadro di riferimento

più ampio, nasce proprio all’interno della famiglia dove ciascun membro

può costruire la propria identità, dunque le funzioni padre, madre, figlio

sono di tipo relazionale e sono in continuo mutamento/movimento. Il sano

funzionamento della famiglia deriva dalla coppia e, di conseguenza,

360 S.K. Sausse, In difesa dei padri, op.cit. p. 17. 361 S.K. Sausse, Specchi infranti, op. cit. p. 45. 362 E. Cirimbelli, Divorziati e risposati in cerca di Dio, EDB Edizioni, Bologna, 2003.

206

emerge quanto sia importante per la coesione di un nucleo familiare la

presenza congiunta di responsabilità maschile e femminile363.

La dimensione temporale, che rappresenta uno dei nodi pedagogici più

importanti in ogni situazione educativa364 , viene però a mancare nel

momento in cui si affronta una separazione. Anche in questo caso la madre

sarebbe la favorita, mentre il padre, per avere l’affidamento, deve mostrare

a qualsiasi costo di essere speciale, in particolare nelle situazioni di

famiglie con figli/e disabili. Secondo Ceccarelli, però, sta emergendo una

nuova generazione di padri migliori del passato: «sono sotto i trentacinque

anni e sono più affettuosi, buoni, ci tengono ai/alle figli/e, danno il biberon,

cucinano, stirano, li vanno a prendere a scuola»365.

Insomma, la cura rivolta ai/alle figli/e, ma in generale alla persona,

intesa come l’aver cura significa essere in un rapporto esistenziale con

l’altro366:

«Mia moglie non sta bene da quando sono nate le bambine. Sin

dall’inizio sono state affidate a me al 100%. Inizialmente era molto

difficile, poi con l’aiuto dei miei genitori e dei servizi sociali che mi hanno

affidato due educatrici, la situazione è migliorata. Entrambe le bambine

hanno una diagnosi. La più grande ha un disturbo d’ansia di natura

importante causato dalla presenza della mamma. La mamma non era in

grado di prendersi cura di loro. È vero che ora l’affettività materna le

manca, “la mamma è la mamma”, ma quando la vede, ogni due mesi,

cambia. La mamma, quando ci siamo separati, ha peggiorato la situazione.

363 F. Montuschi. Costruire la famiglia. Vita di coppia, educazione dei figli con l’Analisi Transazionale, Cittadella, Assisi, 2006. 364 Cfr. V. Iori, Separazioni e nuove famiglie, Raffaello Cortina Editore, 2006, Milano. 365 G. Ceccarelli, Soli e sul lastrico, la crisi morde i papà separati, N°1, Anno 11, genn/apr 2012. 366 Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, Tr. It. Longanesi, Milano, 1976.

207

Prima stavano con lei, poi tramite la segnalazione al tribunale, sono riuscito

a prendermi le bambine. Io gliele faccio vedere solo tramite i servizi

sociali. Secondo la sua ottica sono stato io a portargliele via, invece non è

andata così. Lei le mandava a letto senza cena, senza colazione per la

scuola, non le mandava vestite pulite, non gli faceva fare i compiti, le

faceva mangiare a orari sballati».

La cura non è più una caratteristica prettamente femminile. Anche, e

soprattutto, nei casi di bambini/e disabili. Vanna Iori367 ci ricorda che i temi

legati all’educazione e alla presa in carico della persona con disabilità sono

stati largamente trattati da filosofi e psicologi, uomini che non hanno

rinnegato la loro identità maschile per avvicinarsi, invece, a quelle

particolari abitudini che sono, in genere, delegate alla donna.

Paradossalmente, quindi, proprio nel momento della separazione, il

rapporto paterno ha la possibilità di emergere e di esplorare le dimensioni

tipiche della sfera affettiva che gli consente di attivare modalità differenti

da quelle esercitate all’interno della coppia: ogni padre è in grado di

assolvere ai principali compiti educativi per assicurare un benessere

psichico ed emotivo al figlio. Vero è che l’elemento critico nel rapporto

educativo tra il padre e le figlie riguarda il genere, per l’appunto, perché

mancherebbe il lato identificatorio femminile. Sebbene, proprio nel

rapporto padre/figlia, gli uomini sarebbero invogliati a riscoprire il loro lato

femminile, imparando a riconoscerlo, valutarlo e apprezzarlo368.

La necessità che i padri hanno di andare a ricercare nella donna le

modalità tipiche del prendersi cura, ha indotto alcuni studiosi a parlare di

367 V. Iori, Separazioni e nuove famiglie, op. cit. 368 L. Ballabio, Virilità. Essere maschi tra le certezze di ieri e gli interrogativi di oggi, Franco Angeli, Milano, 1991.

208

“maternalizzazione del padre”: in realtà il padre ha delle sue risposte

affettive che riescono a superare il semplice “ricopiare” dalle madri. I padri

stanno riscoprendo e mostrando le loro dimensioni affettive e da soli

ripropongono e recuperano l’istinto paterno che «solo oggi trova spazio

organico nell’identità maschile, meno arroccata monoliticamente attorno a

un Io razionale, più disposta ad accogliere parti di sé diverse ed

eterogenee»369.

«Ripeto, è difficile: sono solo. Per fortuna ho mio padre che è molto

serio (ride). Il nonno fa la parte del cattivo: “stai composta, ferma, quello

non si fa, questo si, ecc…”. È chiaro, devi sapere quando dare affetto e

quando essere duro. Ma a me riesce difficile essere duro. Capisco la

situazione che vivono le mie figlie e l’affetto di un papà non sarà mai

quello di una mamma».

Una riflessione specifica meritano le famiglie patricentriche. Negli

ultimi anni il fenomeno dei padri affidatari è in crescita, sebbene siano

ancora molto pochi in Italia:

«su Roma siamo nove papà ad avere l’affidamento al 100%. Su tutta

Roma. Il tribunale dei minori, quando accadono casi del genere, o affida i

bambini alle case famiglia o consente l’affido al 50%».

I pochi affidamenti paterni sono il risultato di situazioni con origini del

tutto differenziate, spesso legate a motivi di salute mentale e/o fisica della

369 V. Padiglione, Maternità e paternità: note antropologiche in margine al mutamento in atto, in V. Melchiorre (a cura di), Maschio e femmina: nuovi padri e nuove madri, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1992, p. 77.

209

madre, per cui questa è considerata incapace di accudire i figli. In questi

casi la preoccupazione per una sana riuscita emotiva dei figli risulta ancora

maggiore. Spesso i nonni, nel caso delle famiglie separate e/o ricostituite,

rappresentano una ricchezza e un valore inestimabile: riescono infatti,

laddove il genitore da solo non può o non arriva, a sopperire a delle

mancanze di tipo affettivo e/o normativo. I bambini con difficoltà saranno

poi quelli che instaureranno relazioni future più efficaci ed emotivamente

coinvolgenti, proprio per l’intensità dei rapporti stabili con i nonni.

Rivolgersi nei momenti di crisi a questi ultimi significa per i figli trovare il

conforto necessario sia per affrontare l’allontanamento da casa di uno dei

due genitori, sia per ritrovare il limite, la regola, la norma che, a volte, un

solo genitore non riesce a fornire.

Un aspetto particolarmente importante che tra le famiglie con un figlio

disabile ha un’incidenza molto elevata riguarda la presenza di

fratelli/sorelle, delle volte anche più piccoli, che vengono percepiti come

una possibile risorsa per il futuro del/della fratello/sorella con difficoltà. In

molte interviste i padri tendono a sottolineare:

«Pensiamo a mille cose, al fratello anche come possibile supporto.

Speriamo di avere un supporto dal fratello che ha solo diciassette mesi in

meno…».

O invece:

«È figlio unico, con il tempo che richiede non ce la sentiamo ad avere un

altro figlio».

210

La preoccupazione maggiore dei padri esplora proprio la dimensione del

dopo di noi: il pensiero per il futuro talvolta diventa ossessivo, tanto da non

permettere ai padri e alle madri di vivere il presente, giorno per giorno. Di

fronte alla disabilità il futuro assume connotati sfocati e spaventa perché

apre scenari troppo complessi per cui i genitori faticano a vedere i propri

figli intraprendere la strada dell’autonomia.

Per Massimiliano Verga immaginare il futuro del figlio vuol dire fare i

conti con l’idea di quel «per sempre» che non verrà mai sostituito con un

«grazie, ma oggi faccio da me. Come mi diranno i suoi fratelli a

breve»370.

Dunque il discorso autonomia, che va a di pari passo con quello sulla

libertà, per molti padri assume una veste talmente angosciante che rischia

di paralizzare il progetto di vita che, invece, proprio in un’ottica

lungimirante inizia a formarsi proprio nelle prime fasi di vita del figlio e

che vedrà, piano piano, sfumare la presenza della figura genitoriale per

conquistare la sua indipendenza.

Nelle autobiografie dei papà, e nelle interviste, emerge sovente la paura

del futuro, accompagnata sempre dalla consapevolezza che quello che

saranno i bambini un domani dipenderà anche, e soprattutto, da ciò che

sanno apprendere nel presente. Sempre Verga afferma:

«A Moreno ciò non è consentito. Moreno dovrà sempre chiedere. E

dovrà sempre trovare qualcuno che voglia rispondergli. Non sono questi i

vestiti della libertà che può indossare per ripararsi dal freddo. Moreno sarà

370 M. Verga, Un gettone di libertà, op. cit. p. 128.

211

sempre nudo. O avrà vestiti diversi. Che saranno altre persone a scegliere

per lui»371 .

Essere autonomi, comunque, non significa solo acquisire alcune delle

abilità più importanti (provvedere alla propria cura/igiene personale, avere

un lavoro, uno stipendio, crearsi una famiglia), ma anche saper gestire

alcune abilità nell’ottica del superamento dell’età infantile, al fine di

abbracciare serenamente l’età adulta. Molti padri, infatti, guardano il figlio

già con una prospettiva adulta e questo aiuta il/ bambino/a ad immaginarsi

“grande” e a intraprendere, anche solo mentalmente, un percorso

indirizzato al personale progetto di vita.

«Non mi aspetto che sia Einstein. Io vorrei per lui una vita vissuta con

dignità, che abbia una famiglia e che sia felice. Poi se vuole fare il pittore,

lo scrittore o il parrucchiere non mi interessa. Io voglio un figlio contento,

non laureato o altro».

Accanto a padri che con ottimismo e fiducia affrontano il dopo di loro,

pensando ad alcuni movimenti progettuali che contribuiscono a tenere

insieme il presente e il futuro, ve ne sono altri che hanno timori molto forti

riguardo anche agli aiuti provenienti dall’esterno (scuola, servizi

territoriali):

«Mi preme molto il suo futuro, sono molto preoccupato. Non c’è

soluzione: né familiare né sociale. Non riesco a immaginare un aiuto e ci

spaventa il non avere soluzioni. La sorella non è neanche propriamente

371 Ivi, p. 129.

212

abile e noi siamo genitori anziani. Io ho 55 anni e, ammesso che sopravviva

a noi, verrà messo in un Istituto. Non c’è una soluzione concreta, nel dopo

di noi… Sì, ci sono i fratelli, ma la sorella non è pienamente abile dal punto

di vista fisico. Sostanzialmente chi si occupa di questi aspetti è la famiglia.

E noi non possiamo condizionare la vita della sorella. In passato succedeva

che questi soggetti venivano a mancare prima, o venivano messi in

istituto».

La capacità che ogni padre ha di fronte alla disabilità del figlio risiede

nell’attuare strategie di coping, ovvero di individuare delle risorse

individuali, e dunque familiari, per poter affrontare le diverse

problematiche inerenti la vita quotidiana, o di resilienza, ovvero la capacità

di resistere alla nuova situazione stressante e dolorosa. Coping e resilienza

si attuano dopo l’evento traumatico e sta ad ogni famiglia trovare le energie

per orientare tali qualità372.

Oltre alle risorse familiari, da cui ogni individuo dovrebbe attingere, la

famiglia necessita di un supporto più ampio per far fronte a talune

problematiche tipiche della quotidianità. Le associazioni a carattere

informale, ad esempio, rivestono un ruolo assai importante per i/le

ragazzi/e con disabilità perché contribuiscono allo sviluppo autonomo della

persona e la aiutano a gestire in modo ottimale il proprio tempo373. È

fondamentale, per poter avere un confronto e un supporto dal basso, la rete

che si crea tra i genitori che vivono la medesima condizione: il mutuo aiuto

è costituito da «persone che vivono la malattia o una difficoltà, che cercano

da se stessi, attivandosi direttamente e in prima persona, di “aiutarsi”, di

fronteggiare al meglio le situazioni della propria esperienza, di 372 Cfr. L. Bichi, Disabilità e…, op. cit. 373 Ivi, p. 236.

213

autodeterminarla, di umanizzare l’assistenza sanitaria portandola il più

vicino possibile alla realtà dei bisogni, che loro conoscono perfettamente,

vivendola dall’interno. Si tratta quasi di una “riappropriazione” di un ruolo

attivo nei confronti dei problemi, in qualche caso anche in un rapporto di

chiaro antagonismo e rifiuto nei confronti degli esperti ufficiali»374.

Grazie a tali supporti il genitore si rende conto che non è solo ad

affrontare la disabilità del figlio, ma che ci sono molti padri e molte madri

che vivono le stesse emozioni, per cui si passa da uno stato di isolamento,

in cui sembrerebbe di essere soli e abbandonati da società, istituzioni,

servizi territoriali, alla condivisione piena, ricca, e soprattutto, che ciò

avviene al di fuori di ambientazioni prettamente mediche. Per il papà

condividere le esperienze quotidiane con altri padri lo aiuta nel mettere a

fuoco le abilità del figlio:

«ho paura per il futuro. Mi domando se potrà avere un lavoro, una

famiglia sua, se potrà essere indipendente. […]C’è stato un periodo in cui

pensavo “potevamo fare diversamente”, però poi io i risultati ce l’ho avuti.

Leggendo i forum penso che ogni caso è a sé. Un attimo mi è preso lo

sconforto e ho avuto un po’ di tensione con mia moglie, però ora abbiamo

rifatto i test e pare migliorato. C’è da lavorare, ma i progressi ci sono stati».

O ancora:

«I progressi ci sono stati, questo ci dà forza e speranza. C’è un abisso

con i bambini di 4 o 5 anni normali, ma anche più piccoli. Però c’è anche

forte dislivello con bambini autistici dell’età sua. Emanuele è migliore». 374 D. Ianes, Il mutuo aiuto, in M. Tortello, M. Pavone (a cura di), Pedagogia dei genitori. Handicap e

famiglia. Educare alle autonomie, Paravia, Torino, 1999, p. 187.

214

Dunque, il confronto apre la porta alla speranza, sebbene attivare la rete

sociale non sia sempre facile, soprattutto perché la disabilità spaventa e

richiede l’uscita dal proprio isolamento per condividere le difficoltà

individuali: è un atto di fiducia molto grande. Difatti, non tutti i padri

sperimentano positivamente un percorso fatto insieme:

«Non mi interessa a stare in mezzo a persone che hanno lo stesso

problema, mi conforta solamente leggere le soluzioni nella gestione pratica

del problema. Per il benessere della sorella cerchiamo di stare con famiglie

normali, non siamo portati a stare con persone con lo stesso problema».

Il rifiuto da parte del papà nel non voler stare con persone che hanno lo

stesso problema, ci interroga sul lavoro che c’è ancora da fare; il buon

senso e la buona volontà da sole non bastano: «è necessario che le reti

sociali di cittadini e associazioni siano sostenute da un indirizzo di politica

sociale che dia risultati duraturi»375. In un’ottica collaborativa, pertanto,

non basta pensare alla famiglia come possibile risorsa a se stante che grazie

all’aiuto di altre famiglie trova la strada per affrontare i problemi, ma

bisogna coinvolgere anche le agenzie del territorio e la scuola.

L’attivazione dei gruppi di mutuo aiuto è molto complesso e richiede una

forte messa in gioco del padre e della madre, ma anche delle figure

professionali che li accompagnano. Tutto il percorso dipenderà da quanto si

è disposti a rischiare.

375

F. Fortuna, La disabilità. Manuale per operatori socio-sanitari, Carocci, Roma, 2003, p. 91.

215

Certo, per molti versi, i gruppi di mutuo aiuto sembrano ancora essere di

predominio femminile: sarebbero più le madri a trovare un senso profondo

in questo tipo di condivisione:

«Uno dei padri che veniva in questa struttura, disse: “tanto se ne

occuperà mia moglie”, però forse non aveva capito che era un problema

generale che avrebbe riguardato lui, la moglie e l’eventuale fratello o

sorella».

Però, abbiamo visto che la realtà è più complessa e che sotto la cenere

cova in realtà il fuoco.

Avere approfondito la tematica dei padri con un/una figlio/a disabile ci

ha infatti permesso di rilevare che gli uomini nel nostro Paese sono molto

diversi dalla rappresentazione stereotipata con cui sono stati descritti per

decenni.

Oggi è richiesto anche alla prospettiva pedagogica di sperimentare e di

formare nuovi contesti in cui la condivisione, il sostegno reciproco e il

confronto possano contribuire allo sviluppo di una genitorialità sociale e

diffusa che allarga lo spazio educativo familiare, inteso husserlianamente376

come “mondo circostante della vita”, “mondo situazione” al cui centro si

colloca la persona con le sue esperienze comuni e condivisibili.

Le genitorialità, e nello specifico l’educare paterno, preoccupa

corresponsabilmente del benessere di tutti i figli, al fine di costruire una

genitorialità intesa come bene sociale che riguarda tutti377.

376 E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Tr. It. Il Saggiatore, Milano, 1965. 377 V. Iori, Spazio e tempo: fulcri educativi della pedagogia familiare, in L. Pati, Ricerca pedagogica ed educazione familiare, Vita e Pensiero, Milano, 2003, p. 279.

216

Ecco perché ci sembra opportuno concludere con una frase alquanto

emblematica, che rispecchia in modo autentico il sentire paterno con tutta

la sua forza e la sua fragilità:

«Il ruolo della mamma è primario, il mio è altamente collaborativo».

Cosa può fare un padre per assicurare un futuro al figlio disabile? Una

delle tante, troppe, domande che assillano la mente di un genitore che sa di

non poter mai vedere realizzata l’autonomia del figlio.

Se durante l’intero ciclo familiare l’acquisizione dell’indipendenza da

parte del/della figlio/a permetterà ai genitori la riconquista dei propri spazi,

nella famiglia con un/una figlio/a disabile si perde il possesso del tempo

«proprio nel momento in cui, una volta cresciuti, avrei pensato di poter

finalmente tornare ad esserne padrone»378.

È così che Gianluca Nicoletti, autore già del suo primo successo

letterario “Una notte ho sognato che parlavi”379, continua a trascinarci nella

sua vita facendoci conoscere, ancora meglio, Tommy, il suo ragazzone

riccioluto. “Alla fine qualcosa ci inventeremo”380 è la nuova autobiografia

del giornalista- papà nella quale, tra realtà e utopia, sintetizza il dramma di

tutti i genitori di ragazzi/e autistici/ autistiche, ma in generale disabili: il

“dopo di noi”. Una domanda che percorre l’intera esistenza dei genitori e

che si fa sempre più angosciante e pressante relativamente al trascorrere del

tempo.

Gli incubi sul “dopo di noi” vengono alimentati dalle piccole cose: «io

devo fare i conti con le esigenze di mio figlio anche dopo lo svezzamento o

378 G. Nicoletti, Alla fine qualcosa ci inventeremo, Mondadori, Milano, 2014, p. 42. 379 G.Nicoletti, Una notte ho sognato che parlavi, Mondadori, Milano, 2013. 380 G. Nicoletti, Alla fine qualcosa…, op. cit.

217

l’età in cui non si possono lasciar soli. Io avrò sempre bisogno di qualcuno

che faccia da baby sitter di un omone che non può rimanere solo in casa la

sera»381. Da qui nasce l’esigenza del cosa fare e del cosà farà: «finché un

giorno, nemmeno lontano, qualcuno noterà per il quartiere un vecchietto

che insegue malfermo un ragazzone spensierato, e non posso pensare che

sarò io. […] Il mio non è pessimismo, solo un’idea realistica di un mio

possibile futuro»382. E quando le giornate trascorrono alla ricerca di uno

spazio dove il figlio possa muoversi senza farsi male, senza fare male,

senza “disturbare” significa che bisogna muoversi in direzione di qualcosa.

L’intento di Nicoletti è far nascere la consapevolezza che l’autismo non

è un mondo di ragazzi silenziosi dalle qualità eccezionali, anzi, l’autismo è

una malattia che richiede cura costante e infinita: «e a volte è

impietosamente necessario fare un punto di chiarezza, proprio perché non

si accenda all’istante la speranza in ogni altro genitore d’autistico che il

proprio ragazzo, magari incapace di dire “mamma”, possa ambire

all’inimmaginabile traguardo della laurea. […] Sarebbe altrettanto grave

del far credere che tutti gli autistici siano come il protagonista di Rain Man,

o come il prodigioso piccolo veggente matematico della serie televisiva

Touch»383.

381 Ivi, p. 47. 382 Ivi, p. 189. 383 Ivi, p. 29.

218

CAPITOLO V

Verso un futuro con i padri

1. Proposta Pedagogica

Al termine del percorso dottorale si avverte l’esigenza di esprimere delle

riflessioni che guardino al futuro del pensare paterno, ma che, ancora una

volta, emergono sotto forma di domande: cos’è dunque la genitorialità?

Come si colloca il diventare padre o madre nella storia di vita del soggetto

adulto? Quali storie ci racconta il divenire genitore? Quali azioni educative,

soprattutto, sono utili al diveniente genitore? In parte ci siamo risposti, ma

essendo la genitorialità in continua evoluzione, non possiamo permetterci,

in quanto pedagogisti, di accontentarci di una risposta, una volta e per

sempre.

La genitorialità è un’avventura squisitamente umana, appartiene

all’individuo e alla specie. Oggi come ieri è strettamente intrecciata con la

nostra umanità o forse sarebbe più corretto, abbandonando una logica

antropocentrica, parlare della nostra animalità umana.

Come emerso dalle interviste i due codici materno e paterno,

nell’esperienza familiare, passano attraverso il quotidiano, il concreto e

risultano fondamentali per una sana crescita di ciascuno individuo. «Se in

merito allo sviluppo psicoaffettivo si dà per scontato che l’introiezione

positiva del principio paterno e materno permette all’individuo di sostenere

creativamente la tensione tra Eros e Logos, tra le forme del desiderio e la

necessità della ragione, senza che l’una predomini sull’altra e viceversa,

creando quei blocchi nevrotici che impediscono uno sviluppo armonico

219

della personalità, è facile vedere come una figura paterna evanescente sia

causa di taluni tra i più eclatanti malesseri sociali»384.

Ancora oggi la nostra cultura tende a lasciare largo spazio al materno, al

femminile, alla donna, senza capire che creare un’alleanza genitoriale è la

vera svolta per diventare famiglia. Compito della coppia per assolvere al

mestiere di genitore è quello di acquisire nuovi ruoli, far entrare la

dimensione della genitorialità all’interno della coniugalità. Gestire tale

dimensione, scrive Elena Zanfroni, significa negoziare nuovi ruoli materni

e paterni non tanto della madre e del padre, quanto delle funzioni di cura

che «portano alla costruzione della fiducia, ma anche delle funzioni di

contenimento che portano alla costruzione delle dimensioni etiche»385. La

letteratura scientifica sinora studiata ci induce a pensare, non in modo

totalmente sbagliato, che il rapporto privilegiato, in particolare nei primi

mesi di vita del bambino, sia con la madre. Ma bisogna anche fare

attenzione a non privare il padre della giusta considerazione e ad

attribuirgli il giusto ruolo e peso nell’ambito della vita familiare.

In particolare quando parliamo di papà con figli disabili: questo ci

induce, ancora di più, a pensare il padre come elemento assolutamente

insostituibile, sia come parte fondamentale della coppia sia come terzo che

impedisce alla madre e al bambino di fondersi in un’unica entità. Il

profondo cambiamento sociale, culturale, e dunque affettivo del padre,

come sostengono illustri studiosi (Badinter, Gianini Belotti, Ferri, Del Bo

Boffino, Quilici), ci ha resi inclini a vedere come “normali” azioni che

prima venivano affidate esclusivamente alla cura femminile: il cambio del

pannolino, la preparazione delle pappe, l’accompagnare il figlio a scuola.

Significativo risulta, a tal proposito, il contributo di Pati quando afferma

384 I. Saini, op.cit., p.48. 385 E. Zanfroni, op. cit, p. 261.

220

che «padri e madri si diventa non per istinto, per disposizione sentimentale,

o per semplice attribuzione di ruolo, bensì in virtù dell’iter educativo

intrapreso dalla persona alla scopo di precisare e di manifestare la sua

scelta vocazionale»386.

La paternità è già in un divenire: non si nasce padre, lo si diventa. La

paternità è stata, ed è, strettamente collegata al contesto sociale e culturale:

a epoche storiche diverse corrispondono forme di paternità differenti.

Durante il percorso letterario e scientifico che ha visto protagonista la

figura del padre, si è tentato, attraverso la voce dei diretti interessati, di

comprendere alcune delle difficoltà che, in particolare sul piano

psicologico, sono costretti ad affrontare. Non è facile per i papà di figli

disabili trovare un giusto equilibrio tra la necessità di svolgere una

funzione normativa, di imposizione della disciplina, e l’esigenza di trovare

un contatto più intimo, un legame più marcatamente affettivo ed empatico

con i figli.

La trasformazione che ha interessato la paternità sembra deporre per un

indebolimento del ruolo paterno, sia a livello giuridico che sociale. Si

direbbe quasi che l’influenza del materno si estenda a macchia d’olio

assorbendo al suo interno anche il paterno. Ci siamo domandati, al

principio della nostra ricerca, se la funzione normativa abbia ancora

ragione d’essere. La figura del padre autoritario è tramontata, o perlomeno,

una sua visione monolitica: gli uomini oggi vorrebbero svolgere il loro

mestiere di padre in modo differente da quello dei loro genitori, ma spesso

rimangono privi di un modello paterno chiaramente definito. I padri

intervistati sono molto vicini ai figli e si preoccupano di instaurare

un’ottima e soddisfacente comunicazione e relazione con loro. A volte,

386 L.Pati, La funzione del padre, Milano, Vita e Pensiero, 1981.

221

però, si collocano in una dimensione orizzontale che li vede come

compagni di gioco, alla pari, lasciando pertanto la regola esclusivamente

alla madre.

Dati tali presupposti crediamo sia necessario avviare con i padri di

bambini disabili un lavoro educativo precoce che, sin dall’inizio, li

accompagni, attraverso un progetto educativo specifico che li porti a

sentirsi padri. La pedagogia speciale ha il compito di interrogarsi

costantemente sul chi sono i padri di figli disabili? Che aspettative hanno?

Quali interventi e azioni educative sono volti a creare opportunità nella loro

vita quotidiana? Tutto questo in una dimensione attiva dove i padri sono i

reali protagonisti della loro storia. Zanobini e Freggiaro sostengono che i

padri «sono combattuti talvolta tra un iniziale istinto di protezione,

sicuramente esacerbato dalla situazione di minorazione del bambino, e un

eccesso di aspettative, ma i padri hanno ben chiaro che il loro compito è di

favorire lo sviluppo dei propri figli nel senso di una sempre maggiore

autonomia e indipendenza»387.

È inutile pensare che ci sia un modello di padre valido e giusto da

seguire tout court, certo però, si può auspicare ad un modello equilibrato:

non più autoritario, ma autorevole, non brusco, ma fermo, non permissivo,

ma paziente, non sdolcinato, ma dolce.

«Nessun uomo potrà considerare la sua opera conclusa, ma dovrà

pensarsi aperto al possibile, a un ulteriore accrescimento mediante un alter

ego che riprenderà le sue idee per riconsegnarle all’infinità della vita, in

387 M. Zanobini, D. Freggiaro, Una nuova immagine della paternità: autobiografie di padri con figli disabili, In M. Zanobini et al. (a cura di), La famiglia di fronte alla disabilità. Stress, risorse e sostegni, Erickson, Trento, 2000, pp. 149.

222

una perenne dimensione escatologica. In fin dei conti questo è questo

l’unico modo per cui i pensieri diventano immortali»388.

388 I. Saini, op. cit. p. 44.

223

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Film e cartoni d’animazione

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“Mary Poppins”, regia di R. Stevenson (1964)

“Tutti insieme appassionatamente”, regia di R. Wise (1965)

“Pippi Calzalunghe”, regia di O. Hellbom (1970)

“Barbapapà”, regia di A. Takagy (1978)

“Dolce Candy”, regia di T. Imazawa (1979)

“Lady Oscar”, regia di O. Dezaky (1979)

“Holly e Benji”, regia di H. Mitsunobu ( 1981)

“Hello Spank”, regia di S. Yoshida (1982)

“Kiss me Licia”, regia di O. Kasai (1984)

“Mila e Shiro. Due cuori nella pallavolo”, regia di K. Okaseko (1984)

“Tre uomini e una culla”, regia di C. Serrau (1985)

“I Simpson”, regia di J. L. Brooks (1986)

“Occhi di gatto”, regia di Y. Takeuchi (1986)

“Tre Scapoli e un Bebè”, regia di L. Nimoy (1987)

“Sailor Moon”, regia di N. Takeuchi (1992)

“Mrs. Doubtfire. Mammo per sempre”, regia di C. Jones e C. Columbus

(1993)

“Una moglie per papà”, regia di J. Nelson (1994)

“Un giorno per caso”, regia di M. Hoffman (1996)

“La vita è bella”, regia di R. Benigni (1997)

“Z la formica”, regia di E. Darnell e T. Johnson (1998)

“L’asilo dei papà”, regia di S. Carr (2003)

“Solo un padre”, regia di L. Lucini (2003)

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Sitografia

http://insettopia.it

http://treccani.it